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IL CORPO IN ROMA ANTICA

RICERCHE GIURIDICHE

II

a cura di Luigi Garofalo

Pacini Pacini
Editore
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ISBN 978-88-6995-198-5

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INDICE
Paola Lambrini
Corpo e possessio p. 5

Mattia Milani
La mano destra in Roma antica » 25

Fausto Giumetti
Il corpo eloquente: l’utilizzo retorico della corporeità tra strate-
gie processuali ed evidenza fisica » 123

Carlo De Cristofaro
Riflessioni in tema di rilevanza giuridica del legame omosessuale
nell’antica Roma » 155

Maria Federica Merotto


Il corpo mercificato. Per una rilettura del meretricium nel diritto
romano » 243

Nunzia Donadio
I corpora civitatis inimicorum tra rappresaglia bellica e repressione
criminale. Spunti dalla riflessione storiografica antica » 285

Alberto Ramon
Il rituale della morte: tra pollutio e apoteosi » 335

Marco Falcon
Il corpo di san Babila nelle concezioni ellenica e cristiana » 389

Alberto Zini
Il corpo delle divinità » 411

Roberto Scevola
‘Omnia in unum consentiant’. Alle radici dell’organicismo nella
Roma repubblicana » 491
Mattia Milani

LA MANO DESTRA IN ROMA ANTICA

Sommario: 1. Premessa. – 2. Il culto di Fides a Roma. – 3. Fides e la mano destra. – 4. La mano


come simbolo di potere. – 5. La gestualità della mano in alcuni schemi negoziali e processuali
antichi: la mancipatio, il manu(m) conserere, la manus iniectio. – 6. La mano destra e l’assunzione
di impegni: la clades dextrae di Mucio Scevola, il giuramento e il contatto con il sacro, la devotio
bellica. – 7. La stretta delle mani destre (dextrarum iunctio) nelle relazioni di amicitia, di hospi-
tium e nell’arcaico ‘mandare’. – 8. Considerazioni di sintesi.

1. Premessa.

Fu rapido e per molti aspetti sorprendente il processo di conquista che


portò Roma a controllare l’Italia peninsulare e, non molto più in là nel tem-
po, l’intero bacino del Mediterraneo. Altrettanto eccezionale fu la capacità
di quel popolo di consolidare detta egemonia e di dar vita a un Impero ove
genti con tradizioni culturali, religiose, economiche e sociali distantissime
convivevano e prosperavano1.
Ciò era motivo di grande ammirazione già tra gli antichi osservatori,
che diedero loro stessi vita a un ampio dibattito – sino a oggi mai sopitosi –
circa le ragioni (o per alcuni il segreto) di un tale successo2.

1
Cfr. P. Grimal, La civilisation romaine, Paris, 1960, 17 ss.; C. Nicolet, Rome et la conquête du
monde méditerranéen. II. Genèse d’un empire, Paris, 1978; W.V. Harris, War and Imperialism in
Republican Rome. 327-70 B.C., Oxford, 1979, 54 ss.; P. Desideri, La romanizzazione dell’impero, in
Storia di Roma, a cura di A. Giardina e A. Schiavone, Torino, 1999, 446 ss.; E. Gabba, L’imperialismo
romano, in Storia di Roma, a cura di A. Giardina e A. Schiavone, cit., 203 ss.; G. Clemente, La
politica romana nell’età dell’imperialismo, in Storia di Roma, a cura di A. Giardina e A. Schiavone,
cit., 236 ss.; L. Capogrossi Colognesi, Storia di Roma tra diritto e potere, Bologna, 2009, 127 ss., per
l’espansione nella penisola italica, e 195 ss., per quella nel contesto mediterraneo. Con riguardo alla
romanizzazione dell’Italia settentrionale, rimane imprescindibile il lavoro di G. Luraschi, ‘Foedus,
ius Latii, civitas’. Aspetti costituzionali della romanizzazione in Transpadania, Padova, 1979, 3 ss.,
ma v. anche J.W. Rich, Treaties, Allies and the Roman Conquest of Italy, in War and Peace in Ancient
and Medieval History, a cura di Ph. de Souza e J. France, Oxford, 2008, 51 ss.
2
Si v. ad esempio Dion. Hal. 1.9.4, su cui si sofferma G. Poma, Dionigi d’Alicarnasso e la
cittadinanza romana, in MEFRA, CI, 1989, 187 ss.
26 Mattia Milani

Al di là delle diverse opinioni espresse, si può dire che esso costituisce il


portato di una pluralità di fattori, non di rado legati a congiunture storiche
eccezionalmente favorevoli, ma frutto per lo più di precise scelte politiche
dei ceti dirigenziali, abili nel pianificare ambiziosi programmi di intervento
a lungo termine3.
Occorre rammentare, infatti, che la politica di conquista romana4 fu l’e-
spressione di un popolo che condivideva un saldo nucleo di valori, a partire
dai quali aveva saputo creare la propria unità religiosa, civile, militare e po-
litica. Un popolo che – utilizzando le incisive parole di Giuseppe Corradi
– «aveva preso tutto insieme le armi per lunga vicenda di tempi, aveva cre-
duto e adorato le stesse divinità rustiche, si era temprato al duro lavoro dei
campi, aveva accettato un’unica legge di disciplina e di ordine gerarchico,
aveva esaltato le sue peculiari virtù», ossia «eroismo e frugalità, coesione
fra gregari e capi, fermezza incrollabile della volontà e pietà verso gli dei,
saldezza dello spirito famigliare e coerente costituzione statale, amore della
giustizia e genio e sapienza legislativa»5.
Ma forse, con Pierre Boyancé6, se avessimo chiesto a un cittadino della
Roma imperiale di individuare, tra siffatte virtù, quella che secondo lui
aveva più di ogni altra contribuito a fare la fortuna del suo popolo, questi
l’avrebbe con ogni probabilità scorta nella pietas, ossia in quel rispetto per
gli dèi che si sostanziava nel riservar loro quanto dovuto7. Era in effetti

3
Cfr. E. Gabba, L’impero di Augusto, in Storia di Roma. 2. L’impero mediterraneo. II. I principi
e il mondo, diretta da A. Schiavone, Torino, 1991, 13 s.; A. Schiavone, La storia spezzata. Roma
antica e occidente moderno, Roma - Bari, 1996, 77 ss.; C. Nicolet, Il modello dell’Impero, in Storia
di Roma, a cura di A. Giardina e A. Schiavone, cit., 347 ss.; L. Capogrossi Colognesi, Storia di
Roma, cit., 136, secondo cui l’espansionismo romano «solo in parte è stato il frutto di fattori
meramente militari, fondandosi piuttosto su una sempre più articolata politica di cui la regia
restò essenzialmente nelle mani del senato».
4
C. Nicolet, Il modello, cit., 345, ben evidenzia come fossero le stesse istituzioni e l’organizzazione di
Roma a esigere un «espansionismo pressoché ininterrotto, come una specie di continua fuga in avanti».
5
Così, G. Corradi, Le grandi conquiste mediterranee, in Storia di Roma, III, Bologna, 1945, 439.
6
Cfr. P. Boyancé, Les Romains, peuple de la ‘fides’, in Bulletin de l’Association G. Budé, XXIII,
1964, 419 ss., ultima di quattro ricerche dedicate alla fides arcaica: si tratta di ‘Fides’ et le serment,
in Hommages à A. Grenier, I, Bruxelles, 1962, 329 ss.; ‘Fides Romana’ et la vie internationale, in
Institut de France. Séance publique des cinq Académies. Extrait avec notes, Paris, 1962; La main
de ‘Fides’, in Hommages à J. Bayet, Bruxelles, 1964, 101 ss., che ora sono raccolte in Études sur la
religion romaine, Roma, 1972, 91 ss. (da cui tutte le successive citazioni).
7
È noto, peraltro, che di pietas – autentico ‘Wertbegriff’ della cultura romana e termine di pressoché
impossibile traduzione – si parla con riguardo all’atteggiamento serbato verso gli dèi (la locuzione ‘pietas
adversos deos’ compare, ad esempio, in Cic. fin. 3.22.73 e nat. 1.41.116), ma anche verso altri uomini,
specialmente se uniti da legami affettivi, sociali e soprattutto familiari (cfr. Cic. inv. 2.22.66; 2.53.161;
Planc. 33.80; part. 22.78, e, in letteratura, v. A. Torrent, ‘Patria potestas in pietate non atrocitate
La mano destra in Roma antica 27

radicata la convinzione che l’imperium populi Romani fosse destinato a


estendersi senza incontrare alcun limite temporale o spaziale8, in ragione
della legittimazione divina che l’assisteva. Come se si trattasse insomma
del riconoscimento terreno per la fervente devozione costantemente di-
mostrata dai suoi abitanti9.

consistere debet’, in Index, XXXV, 2007, 159 ss.). La ragione si collega alla struttura dell’antica familia
romana, ove i rapporti tra i membri della medesima assumevano una spiccata dimensione religiosa
(su cui, da ultimo, v. A. Ramon, ‘Verberatio parentis’ e ‘ploratio’, in Sacertà e repressione criminale
in Roma arcaica, a cura di L. Garofalo, Napoli, 2013, 162; Id., Repressione domestica e persecuzione
cittadina degli illeciti commessi da donne e ‘filii familias’, in Il giudice privato nel processo civile romano.
Omaggio ad A. Burdese, a cura di L. Garofalo, III, Padova, 2015, 615 ss.). Con l’avanzare dei tempi, la
pietas viene declinandosi anche in una prospettiva ‘pubblica’ e assume una valenza politica via via più
marcata (v. Cic. rep. 6.16), divenendo, in concomitanza col turbolento periodo delle guerre civili del I
secolo a.C., sinonimo di amor patrio. Essa finisce così col costituire «una delle quattro ‘virtù cardinali’
del paternalistico principato augusteo», come rilevato da A. Traina, voce ‘Pietas’, in Enciclopedia
Virgiliana, IV, Roma, 1988, 93. Sull’argomento, rimangono fondamentali gli studi di G. Wissowa,
voce ‘Pietas’, in Ausführliches Lexikon der griechischen und römischen Mythologie, III.2, Leipzig, 1902-
1909, 2499 ss.; K. Meister, Die Tugenden der Römer. Rektoratsrede gehalten bei der Stiftungsfeier der
Universität am 22. November 1930, Heidelberg, 1930, 7 s.; T. Ulrich, ‘Pietas (pius)’ als politischer
Begriff im römischen Staate bis zum Tode des Kaisers Commodus, Breslau, 1929, 1 ss.; C. Koch, voce
‘Pietas’, in PWRE, XX.1, Stuttgart, 1941, 1221 ss.; H. Dörrie, ‘Pietas’, in AU, IV.2, 1959, 5 ss.; J.
Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la République, Paris, 1963,
276 ss.; J.-P. Callu, ‘Pietas Romana’: les monnaies de l’Impératrice Théodora, in Mélanges de philosophie,
de littérature et d’histoire ancienne offerts à P. Boyancé, Roma, 1974, 141 ss.; H. Wagenvoort, ‘Pietas’,
in ‘Pietas’. Selected Studies in Roman Religion, Leiden, 1980, 1 ss., ma si vedano anche R.J. Fears, The
Cult of Virtues and Roman Imperial Ideology, in ANRW, II.17.2, Berlin - New York, 1981, 844, nt. 67;
F. Sini, Religione e sistema giuridico in Roma repubblicana, in Diritto @ Storia, III, 2004; Id., Diritto e
‘pax deorum’ in Roma antica, in Diritto @ Storia, V, 2006. Di recente, intorno al concetto di impietas
e ai suoi rapporti con la sacertà si è soffermato M. Falcon, ‘Praetor impius’: ‘ius dicere’ nei ‘dies nefasti’,
in Religione e diritto romano. La cogenza del rito, a cura di S. Randazzo, Lecce, 2014, 187 ss., con
censimento della dottrina precedente.
8
‘His ego ne metas rerum nec tempora pono, imperium sine fine’, profetizza Giove, parlando
a Venere del destino di Roma, in Verg. Aen. 1.278-9 (su cui, ex multis, F. Fabbrini, L’impero di
Augusto come ordinamento sovrannazionale, Milano, 1974, 346 ss.; F. Sini, ‘Bellum nefandum’.
Virgilio e il problema del ‘diritto internazionale antico’, Sassari, 1991, 73 ss., con analisi del dibattito
sorto in dottrina circa il significato soltanto temporale o anche spaziale dell’espressione ‘sine fine’
che compare nel passo; Id., ‘Sua cuique civitati religio’. Religione e diritto pubblico in Roma antica,
Torino, 2001, 8 s. e nt. 18; G. Piccaluga, ‘Terminus’. I segni di confine nella religione romana,
Roma, 1974, 209; P. Desideri, La romanizzazione, cit., 446 e nt. 2), ma che emerge altresì in
Verg. Aen. 6.852-53, allorquando Anchise sottolinea come il destino di Roma sia di ‘regere
imperio populos … pacique imponere morem’, o in Vell. 2.103, il quale, con riguardo all’adozione di
Tiberio da parte di Augusto, afferma che ‘spem conceptam perpetuae securitas aeternitatis Romani
imperii’. Questo sentimento diffuso circa la missione universale di Roma attraversa per intero
anche il celeberrimo discorso tenuto da Elio Aristide innanzi alla corte imperiale intorno alla
metà del II secolo d.C., su cui v. per tutti A. Schiavone, La storia, cit., 5 ss.
9
Profili diffusamente analizzati da F. Sini, ‘Sua cuique civitati religio’, cit., 8 ss., ove la
28 Mattia Milani

È un tema che nelle fonti ricorre con una certa frequenza.


Cicerone, nel De haruspicum responsis, sottolinea che è proprio il rispet-
to della pietas e della religio10 ad aver permesso a Roma – grazie a quegli dèi
che ogni cosa dominano e governano (‘deorum numine omnia regi guber-
narique’) – di superare tutte le altre genti e nazioni (‘omnis gentis natione-
sque superavimus’)11. Sallustio, nel De Catilinae coniuratione, contrappone
le scelleratezze e l’ignavia dei suoi contemporanei al fulgido esempio degli
antenati, che, ‘pietate’, rendevano onore ai luoghi sacri e alle dimore degli
dèi12. Pure Valerio Massimo ricorda che tra i principî della ‘nostra civitas’ vi
è il porre ogni cosa in secondo piano rispetto alla religio13.
È Tito Livio, però, che più di ogni altro si fa interprete di questo senti-
mento. Il Patavino si mostra in diverse occasioni animato dall’idea che Ro-
ma sia predestinata all’egemonia mondiale: è attraverso la pratica della pietas,
accompagnata dal rispetto della fides – si legge in un noto passaggio dei suoi
Ab Urbe condita libri – che il ‘populus Romanus ad tantum fastigii venerit’14.

bibliografia fondamentale; Id., Dai documenti dei sacerdoti romani: dinamiche dell’universalismo
nella religione e nel diritto pubblico di Roma antica, in Diritto @ Storia, II, 2003, par. 1; Id.,
Religione e sistema, cit., par. 4; Id., Diritto, cit., par. 3.
10
Sull’evoluzione del pensiero dell’Arpinate circa la distinzione tra pietas e religio, v. H.
Wagenvoort, ‘Pietas’, cit., 7, e, per uno sguardo più ampio, E. Montanari, Categorie e forme
nella storia delle religioni, Milano, 2001, 182 ss. Con specifico riguardo al concetto di religio in
Cicerone (considerata quale cura nel far tutto ciò che compete agli dèi: Cic. nat. 2.28.72), cfr. P.
Defourny, Les fondements de la religion d’après Cicéron, in LEC, XXII, 1954, 241 ss., e R.J. Goar,
‘Cicero’ and the State Religion, Amsterdam, 1972.
11
Cic. har. resp. 9.19: sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine
omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus (ma la stessa visione
si coglie anche in Cic. nat. 2.3.8; 3.2.5; Mil. 30.83), su cui si sofferma F. Sini, ‘Sua cuique civitati
religio’, cit., 14 s.; Id., Religione e sistema, cit., par. 4 e nt. 68; Id., Religione e poteri del popolo in
Roma repubblicana, in Diritto @ Storia, VI, 2007, par. 2; M. Humbert, Droit et religion dans la
Rome antique, in Mélanges F. Wubbe, Fribourg, 1993, 35 ss. Si v. altresì N. Wood, Cicero’s Social
and Political Thought, Berkeley - New York, 1988.
12
Sall. Catil. 12.1-5.
13
Val. Max. 1.1.9.
14
Liv. 44.1.9-11: Paucis post diebus consul contionem apud milites habuit. Orsus ab parricidio
Persei perpetrato in fratrem, cogitato in parentem, adiecit post scelere partum regnum veneficia,
caedes, latrocinio nefando petitum Eumenen, iniurias in populum Romanum, direptiones sociarum
urbium contra foedus. Ea omnia quam dis quoque invisa essent, sensurum in exitu rerum suarum;
favere enim pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit. Dello stesso
tenore anche 1.21.1-2; 1.55.3-4 e 5.51.4-5. Per approfondire temi quali la visione della storia e le
concezioni religiose del Patavino, si rinvia a G. Stübler, Die Religiosität des Livius, Stuttgart - Berlin,
1941, 3 ss.; I. Kajanto, God and Fate in Livy, Turku, 1957, 23 ss.; H. Haffter, Rom und römische
Ideologie bei Livius, in Gymnasium, LXXI, 1964, 236 ss.; M. Merten, ‘Fides Romana’ bei Livius,
Frankfurt am Main, 1965, 10 ss.; M. Mazza, Storia e ideologia in Livio. Per un’analisi storiografica
La mano destra in Roma antica 29

Il nesso tra questi valori – evidentemente radicato nel sentire romano


– emerge anche in un vibrante passaggio del sesto libro dell’Eneide15, ove
l’ombra di Anchise, raggiunta dal figlio e dalla Sibilla Deifobe al termine
della loro discesa nell’Ade, profetizza la prematura scomparsa di Marco
Claudio Marcello. Dapprima il vecchio troiano ne esalta la grandezza d’a-
nimo e l’eroismo (‘nec puer Iliaca quisquam de gente Latinos in tantum spe
tollet avos nec Romula quondam ullo se tantum tellus iactabit alumno’), e
subito appresso, struggendosi, invoca ‘heu pietas, heu prisca fides invictaque
bello dextera’: le virtù che avrebbero fatto del nipote prediletto di Augusto
un degno discendente di Enea16.
Ecco perché ancora Pierre Boyancé fa dire a quello stesso romano da
lui idealmente interrogato che, «dans les rapports avec les hommes»17, un
ruolo chiave era ricoperto da fides18.

della ‘praefatio’ ai ‘libri ab urbe condita’, Catania, 1966, 129 ss.; W. Liebeschuetz, The Religious
Position of Livy’s History, in JRS, LVII, 1967, 45 ss.; W. Flurl, ‘Deditio in fidem’. Untersuchungen
zu Livius und Polybios, München, 1969, 127 ss.; A. Carcaterra, Dea ‘Fides’ e ‘fides’: storia di una
laicizzazione, in SDHI, L, 1984, 205 s.; G. Miles, ‘Maiores’, ‘Conditores’, and Livy’s Perspective on
the Past, in TAPhA, CXVIII, 1988, 185 ss.; T.J. Moore, Artistry and Ideology: Livy’s Vocabulary
of Virtue, Frankfurt am Main, 1989, 35 ss.; B. Feichtinger, ‘Ad maiorem gloriam Romae’. Ideologie
und Fiktion in der Historiographie des Livius, in Latomus, LI, 1992, 3 ss.; D.S. Levene, Religion in
Livy, Leiden - New York - Köln, 1993, 1 ss.; K.-J. Hölkeskamp, ‘Fides - deditio in fidem - dextra data
et accepta’: Recht, Religion und Ritual in Rom, in The Roman Middle Republic. Politics, Religion and
Historiography c. 400 - 133 B.C., Rome, 2000, 223 ss. e 229 (ora anche in Id., ‘Senatus populusque
Romanus’. Die politische Kultur der Republik-Dimensionen und Deutungen, Stuttgart, 2004, 105
ss., con addenda), ove si legge: «als moralische Grundlage und göttliche Legitimation der Größe
Roms und seiner Herrschaft spielt die fides – hier wiederum als abstrakte Wertvorstellung – auch
in Livius’ Geschichte der Stadt ab urbe condita eine zentrale Rolle».
15
Verg. Aen. 6.875-879.
16
Cfr. A. Traina, voce ‘Pietas’, cit., 95.
17
Così, P. Boyancé, Les Romains, cit., 419.
18
F. Casavola, Cultura e scienza giuridica nel secondo secolo d.C.: il senso del passato, in Giuristi
adrianei, Napoli, 1980, 21 (già in ANRW, II.15, Berlin - New York, 1976, 135 ss.), parafrasando
Gell. 20.1.39-40, rileva quanto diffusa fosse la convinzione per cui «il popolo romano deve la sua
grandezza all’aver coltivato tutte le virtù … e più di ogni altra la fides, santa nei comportamenti
pubblici e privati», come risulta peraltro anche da Gell. 5.13.1-6, su cui v. anche quanto si
dirà in nt. 44. In Sil. 1.634 si legge che il populus Romanus è la ‘sacrata gens clara fides’. Sulla
centralità di tale elemento per l’ordinamento romano, v. da ultimo A. Corbino, ‘Fides bona
contraria est fraudi et dolo’, in RIDA, LX, 2013, 114 ss., nonché G. Grosso, voce Buona fede
(premesse romanistiche), in Enc. dir., V, Milano, 1959, 661; B. Albanese, Premesse allo studio del
diritto romano, Palermo, 1978, 115 s.; V. Pöschl, Politische Wertbegriffe in Rom, in Antike und
Abendland, XXVI, 1980, 3 ss.; A. Momigliano, La religione ad Atene, Roma e Gerusalemme nel
primo secolo a.C., in Saggi di storia della religione romana. Studi e lezioni 1983-1986, a cura di
R. Di Donato, Brescia, 1988, 28 ss.; K.-J. Hölkeskamp, ‘Fides - deditio in fidem - dextra data et
30 Mattia Milani

E di questo i Romani erano ben consci: Cicerone, ad esempio, la


considera ‘dictorum conventorumque constantia et veritas’ e, in quanto
tale, ‘fundamentum iustitiae’19, nonché ‘omnium commune praesidium’20;
Quintiliano, d’altro canto, ne parla come ‘supremum rerum humanorum
vinculum’21, e, due secoli più tardi, anche Ulpiano riconosce che ‘grave est
fidem fallere’22.
Ma a trasmetterci con maggior profondità la misura di tale radicata
convinzione sono le parole di un altro giurista, Sesto Cecilio Africano23,
così come ci vengono trasmesse da Aulo Gellio nel ventesimo libro delle
sue Notti Attiche24. Ivi è narrata quella celebre disputa tra Africano, allie-

accepta’, cit., 225 ss.; F. Sini, «‘Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant’»: riflessioni su
‘fides’ e ‘diritto internazionale’ romano (a proposito di ‘bellum, hostis, pax’), in Il ruolo della buona
fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale
di studi in onore di A. Burdese (Padova - Venezia - Treviso, 14-15-16 giugno 2001), a cura di L.
Garofalo, II, Padova, 2001, 493 s. L’importanza di detto valore nel mondo romano è, a contrario,
confermata da questi testi che, ironizzando sulla ‘fides Punica’, dipingono i cartaginesi come il
popolo infido e ingannevole per eccellenza: v. Liv. 21.4.9; 22.6.12; 30.30.27; Sall. Iug. 108.3, su
cui L. Prandi, La ‘fides punica’ e il pregiudizio anticartaginese, in Conoscenze etniche e rapporti
di convivenza nell’antichità, a cura di M. Sordi, Milano, 1979, 93 ss.; D. Nörr, ‘Fides Punica -
Fides Romana’. Bemerkungen zur ‘demosia pistis’ im ersten karthagisch-römischen Vertrag und zur
Rechtsstellung des fremden in der Antike, in Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., II, 497 ss.; M.
de Wilde, ‘Fides publica’ in Ancient Rome and its Reception by Grotius and Locke, in TR, LXXIX,
2011, 462.
19
Così in Cic. off. 1.7.23, testo oggetto delle attenzioni di molti, tra cui W. Waldstein,
Entscheidungsgrundlagen der klassischen römischen Juristen. IV. Die ‘fides’, in ANRW, II.15,
cit., 1976, 73; G. Freyburger, ‘Fides’. Étude sémantique et religieuse depuis les origines jusqu’à
l’époque augustéenne, Paris, 1986, 134 ss.; E.M. Atkins, ‘Domina et Regina Virtutum’: Justice and
Societas in ‘De Officiis’, in Phronesis, XXXV, 1990, 268 ss.; R. Fiori, ‘Fides’ e ‘bona fides’. Gerarchia
sociale e categorie giuridiche, in Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato, III,
Napoli, 2008, 245; M. de Wilde, ‘Fides publica’, cit., 463. Sempre dell’Arpinate, si rammentino
off. 2.24.84: nec enim ulla res vehementius rem publicam continet quam fide, come pure Balb. 34:
magis fide quam aliquo publico vinculo religionis tenetur.
20
Cic. S. Rosc. 38.111.
21
Quint. decl. 343.
22
Ulp. 27 ad ed. D. 13.5.1 pr. Proprio partendo da tale icastica affermazione, T.J. Chiusi,
‘Grave est fidem fallere’: Vetrauensschutz im römischen Recht, in Fundamina, XX.1, 2014, 150 ss.,
riflette circa l’emergere delle prime forme di protezione dell’affidamento.
23
Su cui v. W. Kunkel, Die römischen Juristen. Herkunft und soziale Stellung2, Köln, 2001 (rist.
Graz 1967), 13 s.; P. Cerami, Considerazioni sulla cultura e sulla logica di Cecilio Africano, in Iura,
XXII, 1971, 172 ss.
24
Gell. 20.1.1-55. Su tale confronto dialettico, cfr. F. Casavola, Cultura, cit., 7 ss.; M.
Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, in BIDR, LXXX, 1977, 278 ss.; R.
Fiori, ‘Homo sacer’. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli,
1996, 245 ss.; C. Pelloso, Studi sul furto nell’antichità mediterranea, Padova, 2008, 9.
La mano destra in Roma antica 31

vo di Salvio Giuliano, e il filosofo Favorino di Arelate25 – rappresentanti


di «due concezioni antitetiche di come intendere il rapporto tra ‘diritto’
e ‘antichità’, tra ‘ragione’ e ‘violenza’»26 – concernente il valore che le
XII Tavole potevano ancora rivestire in epoca adrianea, a più di seicento
anni dalla loro redazione27. Orbene, in risposta alle critiche del filosofo
sull’atrocità di alcuni dettami decemvirali (e, in particolare, del precetto
sulla dissezione del cadavere del debitore insolvente verso più creditori28),
ritenuti un inutile e barbaro relitto del passato29, Africano non manca di
riflettere sul corso della storia, esaltando le virtù degli uomini romani, in
grado di condurre ‘populus Romanus e parva origine ad tantae amplitudi-
nis instar’.
E tra queste virtù compeggia proprio fides, tenuta per ‘sanctam’ e invio-
labile tanto nella sfera privata, quanto in quella pubblica30.
Gell. 20.1.39: … Omnibus quidem virtutum generibus exercendis colendisque populus
Romanus e parva origine ad tantae amplitudinis instar emicuit, sed omnium maxime
atque praecipue fidem coluit sanctamque habuit tam privatim quam publice.

Una virtù intimamente romana31, dunque, presidio della convivenza tra


cives ed elemento caratterizzante della relazionalità arcaica, che – sempre
stando ad Aulo Gellio – si manifestava nella scelta di consegnare al nemico
i consoli, ossia i cittadini più eminenti, nella protezione assoluta riservata al

25
Cfr. F. Grelle, L’autonomia cittadina fra Traiano e Adriano, Napoli, 1972, 108 ss.; A.
Barigazzi, Favorino di Arelate, in ANRW, II.34.1, Berlin, 1993, 556 ss.
26
C. Pelloso, Studi sul furto, cit., 9.
27
Cfr. F. Casavola, Cultura, cit., 7 ss.
28
Ne parlano anche Quint. 3.6.84; Dio Cass. 4.17.8; Tert. apol. 4.9: sul tema, cfr., da ultimo,
M. Falcon, Il corpo del debitore, in Il corpo in Roma antica. Ricerche giuridiche, a cura di L.
Garofalo, I, Padova, 2015, 106 ss., anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, ma v. pure R.
Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 246 ss. e nt. 303.
29
Gell. 20.1.19: Nam de inmanitate illa secandi partiendique humani corporis si unus ob
pecuniam debitam iudicatus addictusque sit pluribus, non libet maminisse et piget dicere. Quid
enim videri potest efferatius, quid ab hominis ingenio diversius quam quod membra et artus inopis
debitoris saevissimo laniatu distrahebantur sicuti nunc bona venum distrahuntur?
30
J. Zabłocki, Procedura esecutiva nella legge delle XII Tavole, in Studi in onore di A. Metro, a
cura di C. Russo Ruggeri, VI, Milano, 2010, 516 s.
31
Al punto che P. Boyancé, Les Romains, cit., 135, non esita a definire i Romani, nel suggestivo
titolo della propria conferenza, quale «le peuple de la fides». Una centralità rilevata anche da
A. Momigliano, La religione, cit., 28, e A. Valvo, ‘Fides’, ‘foedus’, ‘per Iovem lapidem iurare’, in
Autocoscienza e rappresentazione dei popoli nell’antichità, Milano, 1992, 115 ss.
32 Mattia Milani

cliente32, nonché nei rapporti di natura commerciale33 e, finanche, in quella


disposizione scolpita dalle XII Tavole che attribuiva al debitore condan-
nato in giudizio un termine di trenta giorni (denominati ‘dies iusti’) per
adempiere all’obligatio iudicati34.
Di talché, era grande il fascino che la forza di fides suscitava nelle genti
straniere: Polibio, in un noto passaggio delle sue Storie, non nasconde l’am-
mirazione per la lealtà e religiosità di un popolo i cui funzionari ammini-
stravano con onestà la cosa pubblica senza che fossero necessari – come in
terra greca – antiscribi, sigilli o testimoni. Bastava soltanto il giuramento da
loro prestato al momento dell’insediamento35.
Questo, però, è solo uno dei profili di fides che le fonti ci tramandano:
come ben noto, tale concetto mal si presta a essere ridotto a nozione unita-
ria, data la sua spiccata ricchezza semantica e la sua complessa fisionomia,
peraltro mutevole nel corso del tempo36.

32
Gell. 20.1.40.
33
Gell. 20.1.41.
34
V. infra, par. 5.
35
Cfr. Pol. 6.56.6-15, su cui C. Bertolini, Il giuramento nel diritto privato romano, Roma,
1967 (rist. 1886), 10; F. Schulz, I principii del diritto romano, trad. it., Firenze, 2005 (rist.
1946), 198 e nt. 36; F.W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius. I. Commentary on
Books I-VI, Oxford, 1957, 741 s.; P. Boyancé, ‘Fides Romana’, cit., 109 s.; Id., Les Romains,
cit., 136; H. Dörrie, Polybius über ‘pietas’, ‘religio’ und ‘fides’ (zu Buch 6, Kap. 56), in Mélanges
de philosophie, cit., 251 ss.; V. Pöschl, Politische Wertbegriffe, cit., 5 ss.; R.J. Fears, The Cult
of Virtues, cit., 864 s.; L. Kofanov, Il carattere religioso-giuridico della ‘fides’ romana nei secoli
V-III a.C.: sull’interpretazione di Polibio 6.56.6-15, in Il ruolo della buona fede oggettiva, cit.,
II, 333 ss. Diversa la lettura di C.A. Maschi, La categoria dei contratti reali. Corso di diritto
romano, Milano, 1973, 116 s., che scorge nel passo dei riferimenti al contratto di mutuo.
Interessante è ricordare quanto scrive Cic. off. 1.124 (… est igitur proprium munus magistratus
intellegere se gerere personam civitatis debereque eius dignitatem et decus sustinere, servare leges,
iura discribere, ea fidei suae commissa meminisse …), su cui v. M. de Wilde, ‘Fides publica’,
cit., 458 e nt. 9. Sulla ‘fides iudicis’, cfr. R. Scevola, La responsabilità del ‘iudex privatus’,
Milano, 2004, 102 ss., che si sofferma su Cic. off. 3.10.43-44, ove l’Arpinate accosta la fraus
e il giuramento alla res publica, mostrando di considerarli talmente importanti che il «iudex,
agendo come bonus vir, non avrebbe dovuto posporre neppure all’amicitia».
36
Sulle diverse ricostruzioni prospettate dalla dottrina, v. L. Fascione, Cenni bibliografici sulla
‘bona fides’, in Studi sulla buona fede, Milano, 1975, 51 ss.; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 16 ss.; A.
Di Pietro, La ‘fides’ pubblica romana, in Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., I, 505 ss.; R. Fiori,
‘Fides’ e ‘bona fides’, cit., 237 ss.; L. Manna, Buona fede e doveri di protezione: tutele processuali, in
‘Actio in rem’ e ‘actio in personam’. In ricordo di M. Talamanca, a cura di L. Garofalo, II, Padova,
2011, 327 s., la quale, dopo aver rilevato come in letteratura siano state individuate «una fides-
virtù (nel senso, anche, di fedeltà e verità), una fides-buona reputazione, una fides vista come
attendibilità di una persona o di una dichiarazione, una fides-garanzia, una fides-protezione del
più forte verso il più debole», sottolinea la difficoltà di ridurre tale concetto a nozione unitaria:
La mano destra in Roma antica 33

E così, intorno alla natura e alle funzioni di fides, molto si è discusso37.


Per alcuni autori, essa coincide con il ‘potere’ di un soggetto nei con-
fronti di un altro – e con la conseguente subordinazione personale di
quest’ultimo al primo –, derivante da atti volontari di sottomissione e af-
fidamento. Si tratterebbe, cioè, di un elemento in grado di dare dinamicità
a un ordinamento altrimenti statico, mediante la creazione di un sistema
di rapporti tendenzialmente asimmetrici: soltanto al termine di una lunga
evoluzione, la sottomissione da ‘reale’ si sarebbe tramutata in ‘virtuale’ e la
nozione di fides avrebbe quindi abbracciato anche le ipotesi di assunzione
di un impegno mediante promessa38.

anche chi scrive rimane convinto che ogni tentativo di individuare un significato originario del
concetto in parola – o, ancor più, di fornirne una definizione che tenga conto del suo intrinseco
dinamismo – è destinato a naufragare o, quantomeno, a ridursi a mero esercizio di stile. Ecco
perché, nel prosieguo, si descriveranno soltanto alcuni ‘profili’ di fides.
37
Per una panoramica ragionata delle ricerche dedicate a fides, si rinvia a I. Ramelli, Studi
su ‘fides’. Premessa alle traduzioni di E. Fraenkel, R. Heinze, P. Boyancé, Madrid, 2002, 13
ss., nonché alla ormai risalente, ma sempre preziosa, raccolta bibliografica di L. Fascione,
Cenni, cit., 51 ss. Senza alcuna pretesa di completezza, e rinviando al prosieguo della ricerca
per l’indicazione di studi di dettaglio, cfr. inoltre W.F. Otto, voce ‘Fides’, in PWRE, VI.2,
Stuttgart, 1909, 2281 ss.; E. Fraenkel, voce ‘Fides’, in ThLL, IV.1, Leipzig, 1913, 661 ss.; Id.,
Zur Geschichte des Wortes ‘fides’, in RhM, LXXI, 1916, 187 ss.; G. von Beseler, ‘Fides’, in
Atti del Congresso internazionale di diritto romano (Bologna e Roma, 22-23 aprile 1933), I,
Pavia, 1934, 135 ss.; W. Kunkel, ‘Fides’ als schöpferisches Element im römischen Schuldrecht,
in Festschrift P. Koschaker, II, Weimar, 1939, 1 ss.; S. Condanari-Michler, Über Schuld
und Schaden in der Anticke, in Scritti in onore di C. Ferrini pubblicati in occasione della sua
beatificazione, III, Milano, 1948, 90 ss.; A. Nicoletti, voce ‘Fides’, in Noviss. dig. it., VII,
Torino, 1961, 293 s.; J. Imbert, ‘Fides et nexum’, in Studi in onore di V. Arangio-Ruiz, I,
Napoli, 1953, 339 ss.; L. Lombardi, Dalla ‘fides’ alla ‘bona fides’, Milano, 1961, passim; J.
Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin, cit., 23 ss.; P. Frezza, ‘Fides bona’, in Studi sulla buona
fede, cit., 3 ss.; W. Waldstein, Entscheidungsgrundlagen, cit., 68 ss.; C. Venturini, voce ‘Fides’,
in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma, 1985, 509 ss.; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 30 ss. e, per la
letteratura, 331 ss.; L. Amirante, L’origine dei contratti di buona fede, in Atti del Seminario
sulla problematica contrattuale in diritto romano (Milano, 7-9 aprile 1987), Milano, 1988, 84;
D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, München, 1989,
102 ss.; Id., Die ‘Fides’ im römischen Völkerrecht, Heidelberg, 1991, 1 ss.; R. Fiori, ‘Homo sacer’,
cit., 148 ss. (su cui v. F. Zuccotti, In tema di sacertà, in Labeo, XLIV, 1998, 436 ss.); K.-J.
Hölkeskamp, ‘Fides - deditio in fidem - dextra data et accepta’, cit., 223 ss.
38
Cfr., ad esempio, la lettura di G. von Beseler, ‘Fides’, cit., 135 ss., il quale attribuisce a fides
il significato di ‘Bindung’, sia in ragione della derivazione etimologica dalla radice indoeuropea
*bheidh (legame), sia con riferimento a un ipotetico contesto precivico in cui il vinto si sottometteva
fisicamente facendosi legare le mani; M. Lemosse, L’aspect primitif de la ‘fides’, in Studi in onore
di P. de Francisci, II, Milano, 1956, 41 ss.; F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, Quellenkunde,
Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur. I. Einleitung, Quellenkunde, Frühzeit und Republik,
München, 1988, 506; ma soprattutto L. Lombardi, Dalla ‘fides’ alla ‘bona fides’, cit., 133 ss., autore
34 Mattia Milani

Una differente impostazione scorge invece in fides, sin dalle sue prime
manifestazioni, il principio di vincolatività della parola data. Ciò, in ragio-
ne del fatto che questa compare spesso accostata al giuramento39, versatile
strumento a disposizione dei privati per rafforzare40, mediante la parteci-
pazione del divino, la forza precettiva degli impegni assunti41. A partire da

che ben scolpisce la nozione potestativa di fides, ripercorrendo anche l’evoluzione storica al termine
della quale la stessa finisce con l’assumere il significato di garanzia, senza potere, legata alla forza
vincolante della parola data; J. Imbert, ‘Fides et nexum’, cit., 345 ss.; Id., De la sociologie au droit: la
‘Fides’ romaine, in Droits de l’antiquité et sociologie juridique. Mélanges H. Lévy-Bruhl, Paris, 1959,
408 s.; V. Bellini, ‘Deditio in fidem’, in RHD, XLII, 1964, 448 ss.; J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire
latin, cit., 27, nt. 9; É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. I. Economia, parentela,
società, trad. it., Torino, 1976, 85 ss.; L. Lantella, Il lavoro sistematico nel discorso giuridico romano
(Repertorio di strumenti per una lettura ideologica), Torino, 1976, 85; L. Peppe, Studi sull’esecuzione
personale. I. Debiti e debitori nei primi due secoli della repubblica romana, Milano, 1981, 210 ss.; D.
Nörr, Aspekte, cit., 146 ss. Non sono poi mancate, in passato, letture ‘magicistiche’ della nozione in
discorso, spesso influenzate dal fiorire di studi etnologici, come quelli dedicati al mana polinesiano
o ad altre nozioni assimilabili: lungo questa linea di pensiero, si è parlato, con riferimento a fides, di
potere magico del capo o di forza magica delle parole. A tal riguardo v. A. Magdelain, Essai sur les
origines de la ‘sponsio’, Paris, 1943, 129 ss.; A. Piganiol, ‘Venire in fidem’, in RIDA, V, 1950, 345 ss.;
C. Gioffredi, Religione e diritto nella più antica esperienza romana (per la definizione del concetto di
‘ius’), in SDHI, XX, 1954, 278; P. de Francisci, ‘Primordia civitatis’, Roma, 1959, 374 ss.
39
Nesso chiaramente individuato da Cic. off. 3.31.111: … nullum enim vinculum ad
adstringendam fidem iure iurando maiores artius esse voluerunt. Id indicant leges in duodecim
tabulis, indicant sacratae, indicant foedera, brano da leggersi tenendo però a mente che per
l’Arpinate la forza vincolante di tale atto non risiedeva più nel timore della punizione divina (il
fulmine di Giove), quanto nei valori della iustitia e della fides, che esigevano appunto il rispetto
della parola data: confermano questa prospettiva pure off. 3.29.104 (su cui non poco indugia G.
Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma - Bari, 2008, 31 ss.) e
Gell. 6.18.1-11.
40
R. Scevola, La responsabilità, cit., 107, nt. 71, ben sottolinea come «l’inquadramento della
fides all’interno di una relazione e la rilevanza del giuramento non … comportano la creazione
di un nuovo rapporto che innova necessariamente l’ordinamento, creandone uno ‘minore’; al
contempo, si tratta di garanzia vòlta a rafforzare quello esistente e ad assicurarne l’effettività sul
presupposto della fides stessa».
41
Per un primo ragguaglio bibliografico: C. Bertolini, Il giuramento, cit., 43 ss.; L. Amirante,
voce Giuramento, cit., 937 ss.; A. Magdelain, Essai, cit., 149 ss., ove si sottolinea l’importanza
del giuramento nell’attività negoziale privata; L. Zurli, ‘Ius iurandum patrare, id est sancire
foedus’ (Liv. 1.24.6), in RhM, CXXIII, 1980, 337 ss.; A. Valvo, ‘Fides’, ‘foedus’, ‘per Iovem
lapidem iurare’, cit., 115 ss.; R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 148 ss. e 209 ss.; B. Albanese, ‘Foedus’
e ‘ius iurandum’; ‘pax per sponsionem’, in AUPA, XLVI, 2000, 54 ss., per il quale ius è appunto
quella «situazione stabile e approvata (e perciò cogente), ritualmente stabilita e proclamata»; A.
Calore, ‘Per Iovem lapidem’. Alle origini del giuramento. Sulla presenza del ‘sacro’ nell’esperienza
giuridica romana, Milano, 2000, 7 ss., con ampia rassegna bibliografica, specialmente in nt. 32;
F. Zuccotti, Il giuramento in Grecia e nella Roma pagana: aspetti essenziali e linee di sviluppo, in
Seminari di storia e di diritto. II. Studi sul giuramento nel mondo antico, Milano, 1998, 1 ss.; Id., Il
La mano destra in Roma antica 35

questo nucleo originario, fides avrebbe poi indicato genericamente l’affida-


bilità di un soggetto agli occhi della collettività: il tutto, in un’affascinante
dinamica ove l’avere fiducia in qualcuno, e il riceverla da altri, si intreccia-
vano sino a divenire un efficace meccanismo di salvaguardia dell’ordine che
potremmo definire a ‘cogenza diversificata’, in quanto non legata ad alcun
sostegno coercitivo esterno42.

giuramento nel mondo giuridico e religioso antico. Elementi per uno studio comparatistico, Milano,
2000, 115 ss.; O. Sacchi, Il tri-vaso del Quirinale. Implicazioni giuridico-cultuali legate alla
destinazione/fruizione dell’oggetto, in RIDA, XLVIII, 2001, 277 ss.; Id., I ‘maiores’ e la teoria della
‘fides’ ciceroniana. Indagine sulla dimensione storico-giuridica del giuramento in età repubblicana,
in Φιλία. Scritti per G. Franciosi, IV, Napoli, 2007, 2383 ss.; L. Manna, La facoltà del giudice di
‘iurare rem sibi non liquere’, in Il giudice privato, cit., I, 570 ss. e 590; S. Rossaro, Genealogia del
giuramento, in Il giudice privato, cit., I, 431 ss.; J.D. Harke, Der Eid im klassischen römischen
Privat- und Zivilprozessrecht, Berlin, 2013, 17 ss.
42
Cfr., per tutti, M. Voigt, Die Begriffe von ‘fides’, in Das ‘jus naturale, aequum et bonum’ und ‘jus
gentium’ der Römer, IV, Leipzig, 1875, 377 ss.; E. Fraenkel, voce ‘Fides’, cit., 661 ss., nonché Id.,
Zur Geschichte, cit., 187 ss., secondo il quale il senso primario di fides è da ricercare nel concetto,
ampio, di ‘garanzia’, come qualcosa su cui si può far affidamento; R. Heinze, ‘Fides’, in Hermes,
LXIV, 1929, 140 ss. (anche in Vom Geist des Römertums, Berlin, 1960, 25 ss.), che in parte critica
la prospettiva fatta propria da Eduard Fraenkel e individua in fides un significato attivo e uno
passivo, comunque all’interno di un ambito semantico afferente più alla sfera morale e religiosa
che a quella giuridica; J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin, cit., 33; G. Freyburger, ‘Fides’,
cit., 37 ss. e 319 ss.; R. Fiori, ‘Fides’ e ‘bona fides’, cit., 240 ss.; A. Corbino, ‘Fides bona contraria
est fraudi et dolo’, cit., 114. Tali teorie si basano anche su quelle ricerche che hanno confermato la
connessione sussistente tra il sostantivo fides e il verbo credo, ossia, A. Pernice, Labeo. Römisches
Privatrecht im ersten Jahrhunderte der Kaiserzeit, I, Halle, 1873 (rist. Aalen 1963), 409 ss. e nt.
9 per una raccolta di fonti ove emerge tale collegamento; A. Meillet, Latin ‘credo’ et ‘fides’, in
Mémoires de la Société Linguistique, XXII, 1920, 215 ss.; É. Benveniste, Il vocabolario, cit., 85 ss.
e 130 ss.; A. Ernout - A. Meillet, voce ‘Credo’, in Dictionnaire étymologique de la langue latine.
Histoire des mots4, Paris, 1959, 148; Eid., voce ‘Fides’, in Dictionnaire, cit., 232 s.; G. Dumézil,
‘Credo’ et ‘fides’, in Idées romaines, Paris, 1969, 47 ss.; J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches
Wörterbuch, I, Tübingen, 1994, 117 e 580. Per vero, già un testo di Ulpiano, in materia di editto
de rebus creditis, individuava una fortissima connessione tra tali due concetti. Si tratta di Ulp. 26
ad ed. D. 12.1.1.1: Quoniam igitur multa ad contractus varios pertinentia iura sub hoc titulo praetor
inseruit, ideo rerum creditarum titulum praemisit: omnes enim contractus, quos alienam fidem secuti
instituimus, complectitur: nam, ut libro primo quaestionum Celsus ait, credendi generalis appellatio
est: ideo sub hoc titulo praetor et de commodato et de pignore edixit. nam cuicumque rei adsentiamur
alienam fidem secuti mox recepturi quid, ex hoc contractu credere dicimur. rei quoque verbum ut
generale praetor elegit, su cui v., tra gli interventi più recenti, E. Chevreau, L’etonnant destin du
‘credere’ edictal. Quelques remarques sur Ulpianus (26 ‘ad edictum’) D. 12.1.1.1, in BIDR, CVII,
2013, 115 ss.; A. Saccoccio, ‘Si certum petetur’. Dalla ‘condictio’ dei ‘veteres’ alle ‘condictiones’
giustinianee, Milano, 2002, 123 ss. e 417 ss.; B. Albanese, Per la storia del ‘creditum’, in AUPA,
XXXII, 1971, 22 ss.; Id., Ancora su D. 12.1.1.1: Celso e il ‘credere’, in AUPA, XXXIV, 1973,
148 ss.; C.A. Cannata, ‘Creditum’ e ‘obligationes’, in Labeo, XX, 1974, 104 ss. È in base a questi
apporti che è sorta la convinzione per cui il termine fides indicasse la propensione di un soggetto a
ricevere un riconoscimento di affidabilità: «(fides mihi est apud aliquem significa, letteralmente,
36 Mattia Milani

A ben vedere, però, le testimonianze utilizzate dalla dottrina per ela-


borare le ricostruzioni di cui poc’anzi si è dato conto ci trasmettono uno
spettro di sfumature troppo ampio per poter avanzare proposte di sintesi.
Ecco perché più fecondo, a parere di chi scrive, è considerare l’elemento
‘minimo’ che accomuna tali prospettive, ossia la dimensione relazionale43 e
l’intrinseca portata normativa di fides, che si sostanziano nella sua naturale
propensione a creare regole44.
E si può certo sin d’ora anticipare che tale prerogativa discende, per un
verso, dall’intima connessione tra la stessa e quel «saldo nucleo di valori ‘for-
ti’ condivisi» dalla civitas Romana, tali per cui «il tradire la fiducia era una
mancanza che andava ben oltre la generica disonestà, per diventare oggetto di
gravissima riprovazione sul piano etico-sociale»45; per un altro verso, deriva
dall’origine sacerdotale della dottrina che su di essa è andata formandosi, an-
corata a un mondo in cui gli elementi ‘giuridici’ si confondevano con quelli
rituali e religiosi, in una forma di esperienza totale46 che molto ha influenzato
anche il successivo riflettere della giurisprudenza laica47.

‘ho credito presso qualcuno’), che a volte – in determinate connessioni: per esempio fidem facere,
fidem habere alicui, propriamente ‘riconoscere a qualcuno la fides che gli spetta’ – può indicare
secondariamente l’atto di ‘fidarsi’», sottolinea R. Fiori, ‘Fides’ e ‘bona fides’, cit., 240 ss. Su tale
duplice valenza si vedano anche le riflessioni di E. Resta, Le regole della fiducia, Roma - Bari,
2009, 23 ss., per il quale «la fides … consiste nel credito goduto presso il partner: legame che
vincola su base volontaria e fideistica», cioè crea una di quelle «‘obbligatorietà paradossali’ che
nascono da vincoli gratuiti e legittimati fideisticamente».
43
Cfr. R. Scevola, La responsabilità, cit., 103, nt. 65.
44
Cfr. D. Nörr, Aspekte, cit., 115 ss. (su cui v. M. Talamanca, Recensione, in BIDR, XCIV-
XCV, 1991-1992, 649 ss.; D. Mantovani, Recensione, in Athenaeum, LXXIX, 1991, 190 ss.); R.
Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 152 ss., che puntualizza come fides fosse naturalmente diretta a creare
relazioni gerarchiche, invero «non solo fra le parti, ma anche fra i rapporti venuti ad esistenza»
(come confermato anche da Gell. 5.13.2-6, il quale illustra un ordine di officia che si snoda
dai doveri verso i pupilli, a quelli nei confronti dei clientes, hospites, cognati e adfines: v. pure P.
Grimal, ‘Fides’ et le secret, in RHR, CLXXXV.2, 1974, 153 s.).
45
R. Lambertini, Testi e percorsi di diritto romano e tradizione romanistica, Torino, 2010, 101 s.
46
Riprendendo le parole di A. Carandini, La nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all’alba
di una civiltà, I, Torino, 2003, 36. Similmente, R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 168 ss., parla di
«ordine cosmico, inteso come ordine a un tempo giuridico, religioso, sociale, naturale». V. anche
C. Gioffredi, Religione e diritto, cit., 260 ss.; M. Piantelli, Una ricerca su ‘ritus’ in epoca arcaica,
in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino, 1974, 237 ss.; A. Schiavone, Linee di storia del pensiero
giuridico romano, Torino, 1994, 4, che allude a un «continuum magico-religioso-giuridico»; A.
Calore, ‘Per Iovem lapidem’, cit., 4; G. De Sanctis, La religione a Roma, Roma, 2012, 24 ss.
47
Cfr. R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 157 ss.; A. Carcaterra, Dea ‘Fides’ e ‘fides’, cit., 200 ss.; L.
Franchini, Osservazioni in merito alla recezione nel ‘ius civile’ dei ‘iudicia bonae fidei’, in ‘Actio in
rem’ e ‘actio in personam’, cit., II, 122 s. (v. ora anche Id., La recezione nel ‘ius civile’ dei ‘bonae fidei
iudicia’. Questioni di metodo e di merito, Napoli, 2015); L. Manna, La facoltà del giudice, cit., 574
La mano destra in Roma antica 37

Ed è intorno al percorso che ha visto emergere fides come elemento di


costruzione e rafforzamento dell’ordinamento giuridico romano48 che il
presente scritto intende indugiare, onde scoprire, in particolare, quale con-
tributo abbiano eventualmente svolto la venerazione per la dea Fides49 e la
tradizione simbolico-rituale a questa collegata50, che nella gestualità della

ss., ntt. 146 ss., ove un’esauriente panoramica delle diverse posizioni emerse in dottrina.
48
R. Fiori, La gerarchia come criterio di verità: ‘boni’ e ‘mali’ nel processo romano arcaico, in
‘Quid est veritas’. Un seminario su verità e forme giuridiche, a cura di C. Cascione e C. Masi Doria,
Napoli, 2013, 206 s., nota peraltro come nel corso del III secolo a.C. la prospettiva sia in parte
mutata, con l’affermarsi di Roma quale potenza nel Mediterraneo e, quindi, con una sempre
maggior diffusione di rapporti commerciali tra persone che – non appartenendo alla medesima
comunità – «non hanno contezza l’uno del ‘credito’ dell’altro»; M. Fuentesca, La ‘fides publica’
romana, in RIDA, 2013, LX, 131 ss., che se ne occupa in relazione alla vendita di beni immobili.
In ogni caso, l’influenza di fides si può scorgere anche nei secoli successivi: basti qui rammentare la
continuità semantica e funzionale che parte della dottrina ravvisa tra la fides arcaica e il concetto
di bona fides. Il dibattito è, a tutt’oggi, particolarmente acceso e vede coinvolti, ad esempio, A.
Corbino, ‘Fides bona contraria est fraudi et dolo’, cit., 118 ss.; W. Kunkel, ‘Fides’, cit., 1 ss.; A.
Magdelain, Les actions civiles, Paris, 1954, 47 s.; L. Lombardi, Dalla ‘fides’ alla ‘bona fides’, cit.,
165 ss. (su cui L. Amirante, Recensione, in Iura, XIII, 1962, 307 ss.; G. Grosso, Recensione, in
BIDR, LXV, 1962, 285 ss.; J. Gaudemet, Recensione, in Labeo, IX, 1963, 239 ss.); F. Wieacker,
Zum Ursprung der ‘bonae fidei iudicia’, in ZSS, LXXX, 1963, 20 ss.; A. Carcaterra, Intorno ai
‘bonae fidei iudicia’, Napoli, 1964, 36 ss. e 206 ss.; A. Schiavone, Nascita della giurisprudenza.
Cultura aristocratica e pensiero giuridico nella Roma tardo-repubblicana, Roma - Bari, 1976,
147 s., per il quale, tra fides e bona fides, vi è «la trasformazione di un ‘valore’ morale in una
‘forma’ giuridica»; D. Nörr, Die ‘Fides’, cit., 42 ss.; M.J. Schermaier, ‘Bona fides’ in Roman
Contract Law, in Good Faith in European Contract Law, Cambridge, 2000, 77 ss.; S. Randazzo,
‘Mandare’. Radici della doverosità e percorsi consensualistici nell’evoluzione del mandato romano,
Milano, 2005, 59, nt. 173, e 154 s., che evidenzia come «la fides arcaica, pur rappresentando un
elemento significativo nella formazione del concetto di bona fides ed accompagnandone la prima
evoluzione, se ne sia ben presto distinta, assumendo la bona fides un significato del tutto opposto
e funzionale ai nuovi ambiti operativi ad essa attribuiti dallo sviluppo della società romana»; R.
Fiori, ‘Fides’ e ‘bona fides’, cit., 238 ss.; L. Lantella, ‘Fides’ e ‘bona fides’ (proiezioni semantiche ed
etiche), in Civiltà Europea, Torino, 2008, 10 ss.
49
In generale, il nome di una divinità rappresenta uno dei principali strumenti per identificare
la relativa sfera di pertinenza e le attribuzioni: esemplare, come è di tutta evidenza, il caso di Fides/
fides. Sull’importanza degli appellattivi delle divinità, cfr. M. Bettini, Il dio elegante. Vertumno e
la religione romana, Torino, 2015, 18, nonché gli studi raccolti in Nommer les dieux. Théonymes,
épithètes, épiclèses dans l’Antiquité, a cura di N. Belayche, P. Brulé, G. Freyburger, Y. Lehmann, L.
Pernot e F. Prost, Rennes - Turnhout, 2005.
50
Di Fides, a volte incidentalmente, si sono occupati in molti: oltre alle indicazioni che si faranno
nel prosieguo, pare sin d’ora il caso di ricordare i lavori di A. Pernice, Labeo, cit., I, 408 ss.; G.
Wissowa, Religion und Kultus der Römer, München, 1912, 133 ss.; U. Pestalozza, voce ‘Fides’,
in DE, III, Roma, 1922, 78 ss.; M. Adriani, ‘Traditio’ romana e culto della ‘Fides’, in Studi Romani,
IV, 1956, 381 ss.; V. d’Agostino, La ‘Fides Romana’, in Rivista di Studi Classici, IX, 1961, 73 ss.; P.
Boyancé, ‘Fides’ et le serment, cit., 91 ss.; Id., ‘Fides Romana’, cit., 105 ss.; Id., La main, cit., 121 ss.;
38 Mattia Milani

mano destra (sua sedes sacrata, come si vedrà) aveva la sua più nota mani-
festazione: è dalla dea in questione, pertanto, che pare opportuno iniziare
l’indagine51.

2. Il culto di ‘Fides’ a Roma.

Le testimonianze che sono giunte sino a noi concordano nell’attesta-


re l’antichità di Fides. Per Tito Livio, Dionigi d’Alicarnasso e Plutarco52
sarebbe stato Numa Pompilio – o, meglio, il «legislatore arcaico ispirato
dalla religione, tipizzato dalla tradizione in Numa»53 – ad averne istituito
il culto, consacrando alla dea un sacello, situato con ogni probabilità sul
Campidoglio54, e organizzando in suo onore una festa annuale. Si sareb-

Id., Les Romains, cit., 135 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino,
1965, 81; C. Becker, voce ‘Fides’, in RLAC, VII, Stuttgart, 1969, 801 ss.; G. Piccaluga, ‘Terminus’,
cit., 185 ss.; Ead., ‘Fides’ nella religione romana di età imperiale, in ANRW, II.17.2, cit., 703 ss.; G.
Dumézil, La religione romana arcaica. Miti, leggende e realtà, trad. it., Milano, 2001, 139 ss., 183 ss.
e 350; B. Albanese, Premesse, cit., 114 ss., spec. nt. 92; R.J. Fears, The Cult of Virtues, cit., 828 ss., che
ricorda, valorizzando Cic. nat. 2.60-2, come la deificazione di idee astratte, tra cui anche la fedeltà,
fosse un fenomeno religioso comune nel mondo romano; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 229 ss., con
copia di riferimenti bibliografici (spec. alle pp. 331 ss.); M.A. Levi, ‘Manus, fides, fides publica’, in La
parola del passato, XL, 1985, 308 ss.; Id., ‘Clientela’ e ‘fides’, in RAL, VII, 1996, 677 ss.; M. Albana,
I luoghi della memoria a Roma in età repubblicana: templi e archivi, in Annali della facoltà di Scienze
della Formazione di Catania, III, 2004, 21 ss.; R.D. Woodard, Indo-European Sacred Space. Vedic
and Roman Cult, Urbana, 2006, 9 ss.; H. Wirth, Die linke Hand. Wahrnehmung und Bewertung in
der griechischen und römischen Antike, Stuttgart, 2010, 126 ss.
51
Si rammenti, a questo proposito, H. Usener, Götternamen. Versuch einer Lehre von der
religiösen Begriffsbildung3, Frankfurt am Main, 1948 (rist. Bonn 1869), 371, per il quale le prime
idee astratte sarebbero la trasposizione di entità demoniche o divine: in altre parole «abstrakte
Gottesbegriffe». In argomento, v. anche J. Scheid, Quando fare è credere. I riti sacrificali dei
romani, trad. it., Roma - Bari, 2011, 46 ss.; C. Pelloso, ‘Themis’ e ‘dike’ in Omero. Ai primordi del
diritto dei Greci, Alessandria, 2012, 54 ss. e nt. 125.
52
Rispettivamente, Liv. 1.21.1-4; Dion. Hal. 2.75.1-4; Plut. Numa 16.
53
Così, L. Peppe, Studi, cit., 214.
54
In questo senso si orienta la maggioranza degli specialisti. Costoro fanno coincidere il sito
dell’originario sacellum numano con quello del tempio d’età storica, rispetto alla cui collocazione
sul Campidoglio non sussistono grossi dubbi, giusta la copia di testimonianze pervenuteci (Cic. nat.
2.23.61; off. 3.29.104; Plin. nat. 35.36.100; CIL XVI.1; 26; 32; 33, ed anche gli ulteriori riferimenti in
U. Pestalozza, voce ‘Fides’, cit., 79). Qualche perplessità desta la lettura di Plut. T. Gracch. 19.3-4 e di
App. bell. civ. 1.16 (su cui v. A.F. Clark, Nasica and ‘Fides’, in CQ, LVII, 2007, 125 ss.): in tali passi,
ove si narrano i concitati momenti che hanno condotto all’uccisione, nel 133 a.C., di Tiberio Gracco
– per una descrizione dei quali si rinvia alle pagine di L. Capogrossi Colognesi, Storia di Roma, cit.,
227 ss. –, viene ricordato come i senatori si fossero riuniti presso il tempio di Fides e da lì avessero
La mano destra in Roma antica 39

be peraltro trattato di un intervento realizzato nell’ambito di quella che si


considera essere stata la ‘rifondazione’ numana – civile e religiosa al tempo
stesso – della civitas, basata sulla pax e sulla concordia55.

raggiunto il Campidoglio, quasi che i due luoghi fossero tra loro distanti. F. Coarelli, Le ‘tyrannoctone’
du Capitole et la mort de Tiberius Gracchus, in MEFRA, LXXXI, 1969, 157, convincendo, spiega
questa (apparente) incongruenza alla luce del fatto che «le temple de Fides était à l’autre extrémité
de l’area Capitolina par rapport au temple de Jupiter, c’est-à-dire dans sa partie meridionale». Sulla
questione si soffermano anche G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 263 ss. e, per ulteriore letteratura, nt. 147,
nonché M. Albana, I luoghi, cit., 21 ss. Dubbi, che però non mutano il convincimento di chi scrive,
in ordine alla corrispondenza tra l’antico sacrario e il successivo templum sono stati espressi da P.
Boyancé, ‘Fides’ et le serment, cit., 91; Id., ‘Fides romana’, cit., 114, nt. 4, sulla scorta di alcuni passaggi
della descrizione liviana della cerimonia annuale in onore di Fides (Liv. 1.21.1-4, su cui s’indugerà nel
prosieguo): per l’antichista francese, la circostanza che i flamines dovessero attraversare, su di un carro,
l’intera città fa presumere che tra il sacellum numano e la «Rome royale» vi fosse una certa distanza.
Siffatta ricostruzione – pur accettata da F.M. Simón, Flamen Dialis. El sacerdote de Iúpiter en la religión
romana, Madrid, 1996, 176 – non è in grado di superare i rilievi critici giù formulati da G. Freyburger,
‘Fides’, cit., 264, a cui pertanto si rinvia. Dal già rammentato Cic. nat. 2.23.61, poi, sappiamo che la
costruzione del tempio si deve al console Atilio Calatino, vissuto intorno alla metà del III secolo a.C.:
dallo stesso testo, peraltro, abbiamo notizia che il figlio di questi, Emilio Scauro, nel 115 a.C. restaurò
e ingrandì l’edificio. Pressoché unanime è l’opinione secondo cui codesta indicazione temporale non
impedisce di ritenere molto più risalente il culto di Fides: così, già G. Wissowa, Religion, cit., 133,
secondo cui tale edificio avrebbe senz’altro sostituito la cappella più antica (opinione condivisa da G.
Dumézil, La religione, cit., 183); C.A. Maschi, La categoria, cit., 109; B. Albanese, Premesse, cit., 114,
nt. 92; S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 72. Cfr., anche, Th. Mommsen, Sui modi usati da’ Romani nel
conservare e pubblicare le leggi ed i senatoconsulti, in Juristische Schriften, III, Berlin, 1907, 306 ss.; K.
Latte, Römische Religionsgeschichte, München, 1967, 237; P. Boyancé, ‘Fides Romana’, cit., 113 ss.;
Id., Les Romains, cit., 141 s.; D. Nörr, Aspekte, cit., 110; C. Reusser, Der Fidestempel auf dem Kapitol
in Rom und seine Ausstattung, Roma, 1993, passim; J. Rüpke, La religione dei Romani, trad. it., Torino,
2004, 64; O. Sacchi, I ‘maiores’, cit., 2409 s. Di tutt’altro avviso G. Piccaluga, ‘Fides’, cit., 714 ss., la
quale reputa inattendibile persino la notizia ciceroniana poc’anzi ricordata: ciò – ma la motivazione
appare alquanto debole – perché in una nota scena dell’Aulularia di Plauto (commedia rappresentata
nel 195 a.C.) l’avaro Euclio decide di affidare a Fides una pentola del tesoro, che viene trasportata nel
‘fanus’ o nel ‘locus’, e non in un tempio, di quest’ultima (Plaut. Aul. 581-681).
55
Cfr. Liv. 1.19.1: Qui regno ita potitus urbem novam conditam vi et armis, iure eam legibusque
ac moribus de integro condere parat (su cui, da ultima, G. Aricò Anselmo, Numa Pompilio e
la propaganda augustea, in AUPA, LVII, 2014, 27 ss., per la quale, in verità, la figura di Numa
Pompilio sarebbe stata utilizzata dalla propaganda augustea, e in particolare da Tito Livio e da
Virgilio, quale paradigma dell’azione politica di Augusto, «programmaticamente impostata sui
due obiettivi del mantenimento della pace e della riforma dell’ordinamento»); Liv. 1.21.5-6; Cic.
rep. 2.26; 5.3; Verg. Aen. 6.809-812; Ov. fast. 3.276-279; Plut. Numa 8, nonché, in dottrina, G.
Dumézil, La religione, cit., 184, per il quale «i regni di Romolo e di Numa furono concepiti come
i due pannelli di un dittico, illustranti ciascuno una delle due zone della sovranità, egualmente
necessarie ma antitetiche: Romolo è un giovane semidio impetuoso, creatore, violento, poco
imbarazzato da scrupoli, esposto alle tentazioni della tirannide; Numa è un vecchio umanissimo,
moderato, organizzatore, pacifico, preoccupato dell’ordine e della legalità» (v. anche J. Bayet,
La religione romana: storia politica e psicologica, trad. it., Torino, 1992, 49); R.M. Ogilvie, A
40 Mattia Milani

L’arcaicità della divinità in discorso – o, a voler essere precisi, del com-


plesso di valori di cui era garante – è poi confermata da Varrone, il grande
erudito della fine della repubblica, secondo il quale essa, sotto differenti
sembianze, era oggetto di devozione già tra i Sabini56, e da Virgilio, che non
esita a definirla ‘cana’57.
Vi è stato anche chi, prospettando ‘miti fondativi’ differenti, ha mostra-
to di reputarla persino più veneranda di Giove (è ‘ante Iovem generata’ per
Silio Italico, oltre che ‘priscis numen populis’58); o chi, come Festo, ha ripor-
tato – attingendo da Agatocle di Cizico – le gesta mitiche di una nipote di
Enea, una tal Rhoma, che avrebbe dedicato a Fides un templum sul monte
Palatino59, prima di fondare la città che, sempre a dire del grammatico lati-
no, le deve il nome.

Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford, 1965, 88 ss.; A. Carcaterra, Dea ‘Fides’ e ‘fides’, cit.,
201 e 206 s.; L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella ‘Storia di Roma arcaica’ di
Dionigi d’Alicarnasso, I, Napoli, 1988, 128 ss.; R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 142 ss. Con particolare
riguardo alle riforme religiose del leggendario sovrano, si rinvia a F. Ribezzo, Numa Pompilio e la
riforma etrusca della religione primitiva di Roma, in RAL, V, 1950, 553 ss.; P. Voci, Diritto sacro
romano in età arcaica, in SDHI, XIX, 1953, 71 ss.; E.M. Hooker, The Significance of Numa’s
Religious Reforms, in Numen, X, 1963, 87 ss.; M.A. Levi, Il re Numa e i ‘penetralia pontificum’,
in RIL, CXV, 1981, 161 ss.; Id., ‘Fides, Terminus, familia’ e le origini della città, in Religione
e città nel mondo antico, Roma, 1984, 361 ss.; J. Martínez-Pinna, La reforma de Numa y la
formación de Roma, in Geríon, III, 1985, 97 ss.; J. Poucet, Les origines de Roma. Tradition et
histoire, Bruxelles, 1985, 194 ss. e 217 ss., che qui, come già in alcuni suoi precedenti lavori, si
mostra scettico rispetto all’intera tradizione numana; G. Capdeville, Les institutions religieuses
de la Rome primitive d’après Denys d’Halicarnasse, in Pallas, XXXIX, 1993, 153 ss.; F. Mora,
Il pensiero storico-religioso antico: autori greci a Roma. I. Dionigi d’Alicarnasso, Roma, 1995, 223
ss.; F. Sini, «‘Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant’», cit., 491 e nt. 32 per ulteriori
indicazioni bibliografiche.
56
Varro ling. 5.74: Feronia, Minerva, Novensides a Sabinis. Paulo aliter ab eisdem dicimus haec:
Palem, Vestam, Salutem, Fortunam, Fontem, Fidem.
57
Verg. Aen. 1.291-3: Aspera tum positis mitescent saecula bellis, cana Fides et Vesta, Remo cum
fratre Quirinus iura dabunt. Il termine ‘cana’ – sulla cui carica polisemica ci si soffermerà tra
qualche pagina – risulta utilizzato dal poeta augusteo anche con riferimento a Vesta, per indicare
quanto fosse antica la sua venerazione: cfr. 5.744 e 9.259.
58
Sil. 1.329; 2.484.
59
Fest. voce ‘Romam’ (Lindsay 328): … Agathocles, Cyzicenarum rerum conscribtor, ait, vaticinio
Heleni inpulsum Aenean, Italiam petivisse portantem suam secum neptem, Ascani filiam, nomine
Rhomen, eamque, ut Italia sint Phryges potiti et [h]is regionibus maxime, quae nunc sunt vicinae Urbi,
prima<m> omnium consecrasse in Palatio Fidei templum; in quo monte postea cum conderetur urbs,
visam esse iustam vocabuli Romae †nomen† causam eam quae priore, unde ea locum dedicavisset Fidei
…, su cui v. M. Adriani, ‘Traditio’ romana, cit., 384 ss.; G. Piccaluga, ‘Terminus’, cit., 185; Ead.,
‘Fides’, cit., 709 s. La notizia festina di un templum in onore di Fides sul Palatino incontra nella
dottrina unanime scetticismo: cfr., per tutti, G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 259 ss.
La mano destra in Roma antica 41

La dimensione leggendaria che pervade i racconti da cui sono tratte le


notizie testé riportate è innegabile: essi costituiscono forse «l’immagine
della protostoria che i Romani si autodelinearono durante il tardo periodo
repubblicano e nell’età augustea»60. Ma ciò non rende del tutto prive di
verosimiglianza le informazioni che ci trasmettono: tali tradizioni, infatti,
presuppongono l’antichità, a Roma, di un culto che aveva al centro i valori
rappresentati da Fides61.
Ed in effetti, se si osservano le realtà religiose delle altre popolazioni
dell’Italia centrale, compaiono molteplici divinità ‘fidie’, che avevano in co-
mune con la dea oggetto di attenzione diversi elementi, come la derivazione
etimologica del nome dalla medesima radice, l’identità di alcuni momenti
cerimoniali o gesti rituali e la condivisione di alcune prerogative (in primis,
la protezione dei patti e dei giuramenti). Questi culti, peraltro, si caratte-
rizzavano per la strettissima connessione con le divinità ‘folgoratrici’ poste
al vertice dei rispettivi Pantheon locali62: il che avveniva anche a Roma tra
Fides e Iuppiter Feretrius, «il più antico Giove ‘romano’ che la tradizione
ricordi»63, il quale prima della sua definitiva istituzionalizzazione possede-
va ancora molteplici caratteri di tipo ‘naturalistico’64.

60
Così, J. Rüpke, La religione, cit., 51.
61
Cfr., ex plurimis, W.F. Otto, voce ‘Fides’, cit., 2281; G. Wissowa, Religion, cit., 134;
U. Pestalozza, voce ‘Fides’, cit., 78; N. Turchi, La religione di Roma antica, in Storia di
Roma, XVIII, Bologna, 1939, 182; L. Lombardi, Dalla ‘fides’ alla ‘bona fides’, cit., 147 s.; G.
Dumézil, La religione, cit., 183, secondo cui «contestare la possibilità stessa della presenza
di un nome astratto personificato durante il periodo più antico di Roma, significa soltanto
irrigidirsi in una forma del postulato primitivistico»; P. Boyancé, ‘Fides’ et le serment, cit.,
91, che apre la sua ricerca affermando che «l’ancienneté du culte de Fides est indubitable»; B.
Albanese, ‘Foedus’ e ‘ius iurandum’, cit., 114, nt. 92; M.A. Levi, ‘Fides, Terminus, familia’, cit.,
367; M. Albana, I luoghi, cit., 23. Critici rispetto alla communis opinio, K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 237; R.M. Ogilvie, A Commentary, cit., 103; G. Piccaluga, ‘Fides’,
cit., 707 ss., per la quale si tratterebbe «di una situazione cultuale non certo arcaica, bensì
quale può essersi ormai cristallizzata in epoche successive, di molto posteriori non solo
alle origini di Roma e al tempo dei re, ma addirittura anche al consolidamento dei quadri
politeistici della religione romana», e reputa ciò il deliberato portato della politica religiosa
augustea; F. Mora, Il pensiero, cit., 269.
62
Cfr. B. Albanese, Premesse, cit., 114, nt. 92; O. Sacchi, I ‘maiores’, cit., 2395 ss., cui si rinvia
anche per ulteriori indicazioni di letteratura.
63
Così, O. Sacchi, I ‘maiores’, cit., 2399. Si rammenti Paul.-Fest. voce ‘Feretrius’ (Lindsay 81):
Feretrius Iuppiter dictus a ferendo, quod pacem ferre putaretur; ex cuius templo sumebant sceptrum,
per quod iurarent, et lapidem silicem, quo foedus ferirent
64
Sul processo di romanizzazione di Iuppiter, v. D. Sabbatucci, La religione di Roma antica:
dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano, 1999, 243 s.; O. Sacchi, I ‘maiores’, cit., 2395
ss., il quale specifica che «per conferire a Giove una realtà esclusivamente romana si sarebbero
42 Mattia Milani

È proprio in ragione di tale separazione che si riesce forse a spiegare come


mai si conservi per lungo tempo a Roma un culto dedicato a Dius Fidius,
autonomo e distinto rispetto a quello del dio sovrano dell’ordine65, pur se

… separate dal dio più antico le sue connotazioni più naturali (ad es.: il cielo e i fulmini) comuni
anche a figure omologhe presenti nelle culture di altri popoli limitrofi».
65
Preziose informazioni si possono ricavare da Varro ling. 5.66: hoc idem magis ostendit
antiquius Iovis nomen: nam olim Diovis et Di<e>spiter dictus, id est dies pater; a quo dei dicti
qui inde, et dius et divum, unde sub divo, Dius Fidius. itaque inde eius perforatum tectum, ut ea
videtur divum, id est caelum. quidam negant sub tecto per hunc deierare oportere. Aelius Dium
Fid<i>um dicebat Diovis filium, ut Graeci Διόσκορον Castorem, et putaba[n]t hunc esse Sanc[t]
um ab sabina lingua et Herculem a graeca. Secondo l’erudito romano, che cita Elio Stilone
Preconiano – famoso grammatico del II secolo a.C., che fu suo maestro ed anche di Cicerone e
della cui attendibilità, secondo D. Sabbatucci, La religione, cit., 244, è pertanto difficile dubitare
–, Fidius starebbe per filius, e così il nome della divinità deriverebbe da un primitivo Diovis-filius,
costruito come il greco Dios-koros; sempre secondo tale fonte, questo figlio di Giove, che tale è
anche per Serv. auct. in Verg. Aen. 8.301, potrebbe forse identificarsi con il Sancus di origine
sabina (Prop. 4.9.71) o persino con l’Ercole greco (Fest. voce ‘Propter viam’ [Lindsay 254]; Paul.-
Fest. voce ‘Medius fidius’ [Lindsay 133]; Tert. idol. 20, identificazione smentita però da Liv.
32.1.10. Sull’ambiguità del culto di Ercole a Roma, v. J. Scheid, Quando fare è credere, cit., 78;
A. Calore, ‘Per Iovem lapidem’, cit., 22 s. e nt. 5). Per Ov. fast. 6.213, il nome completo sarebbe
stato Semo Sancus Dius Fidius: a tal riguardo, K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 127 –
seguito da U. Pestalozza, voce ‘Fides’, cit., 78, e R.M. Ogilvie, A Commentary, cit., 103 – legge
in tale accostamento un’antitesi tra una divinità della terra (Semo) e una del cielo (Dius). Per
una panoramica completa delle varie denominazioni che le fonti ci attestano e dei diversi culti
dell’Italia centrale legati in vario modo a Dius Fidius, v. B. Albanese, Premesse, cit., 114, nt. 92; O.
Sacchi, I ‘maiores’, cit., 2396 s., ove si rammentano figure omologhe presso gli «albani (Fidius?),
iguvini (Fisie Sansie), sabini (Semo Sancus), popolazioni di etnia etrusca (Fith), popolazioni
italiche di etnia greca (Hercules)». Particolarmente interessante si rivela l’analisi delle Tabulae
Iguvinae, che menzionano un antico culto osco-umbro i cui sacrifici rituali sono molto simili
a quelli dedicati a Fides: per un primo approccio, v. P. Boyancé, ‘Fides Romana’, cit., 116 s.;
Id., Les Romains, cit., 141; J. Pfiffig, ‘Religio Iguvina’. Philologische und religionsgeschichtliche
Studien zu den ‘Tabulae Iguvinae’ mit Text und Übersetzung, Wien, 1964, 81; A.L. Prosdocimi,
Le tavole Iguvine, Firenze, 1984. Ad ogni modo, è convinzione comune quella secondo cui la
divinità in parola, attraverso la minaccia della folgore, garantisse il rispetto dei patti sanciti con
un giuramento, che dovevano venir conclusi sub divo, ossia a cielo aperto: è ciò che si ricava dalla
testimonianza varroniana poc’anzi ricordata, nonché dai molteplici testi che contengono formule
di promesse solenni in cui compare l’invocazione alla divinità in discorso, non di rado attraverso
l’espressione ‘me Dius Fidius’ (cfr., oltre ai passi di Festo, Tertulliano e Servio citati poc’anzi,
Plaut. Aul. 23-24: Per Dium Fidium quaeris; iurato mihi video necesse esse eloqui quidquid roges;
Gell. 10.14.3; Non. voce ‘Rituis’ [Lindsay 793], su cui v. G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 290). Pur
a fronte di ciò, L. Lombardi, Dalla ‘fides’ alla ‘bona fides’, cit., 152 ss., non si mostra convinto
che tale divinità fosse garante dei giuramenti, ed anzi propende per «una interpretazione di
Dius Fidius come ‘Dius dell’-impegno’ o ‘della-promessa’ (o della forza che se ne sprigiona)»,
significato al quale «si accorderebbe bene, se antico, il rituale del culto di Fides»; O. Sacchi, I
‘maiores’, cit., 2395 ss., invece, ipotizza il giuramento innanzi a Dius Fidius persino più vetusto
di quello fatto al cospetto di Iuppiter Feretrius. Tale risalenza storica è confermata da quella
La mano destra in Roma antica 43

con esso intimamente legato66, dal quale si potrebbe essere progressivamente


sviluppata la venerazione della dea Fides67.

tradizione secondo cui un primo tempio di Dius Fidius sarebbe stato edificato presso il Quirinale
già durante l’eta dei Tarquini: Dion. Hal. 9.60.8 ricorda, infatti, che Spurio Postumio, console
nell’anno 466 a.C. (v. Liv. 3.2.1 e Diod. 11.75.1), aveva dedicato a Πίστις Διός – traduzione greca
di Dius Fidius – un templum eretto da Tarquinio il Superbo sul monte suddetto. Sui rapporti
tra il concetto di fides e quello di πίστις, cfr. S. Calderone, ‘ΠΙΣΤΙΣ – FIDES’. Ricerche di
storia e diritto internazionale nell’antichità, Messina, 1965, 84 ss.; E.S. Gruen, Greek πίστις and
roman ‘fides’, in Athenaeum, LX, 1982, 50 ss.; A. Momigliano, La religione, cit., 28 ss.; D. Nörr,
Osservazioni in tema di terminologia giuridica predecemvirale e di ‘ius mercatorum’ mediterraneo:
il primo trattato cartaginese-romano, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di
M. Humbert, Pavia, 2005, 177 ss.; R. Martini, ‘Fides’ e ‘pistis’ in materia contrattuale, in Il ruolo
della buona fede oggettiva, cit., II, 438 ss.; S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 70 ss., in part. nt. 219.
Intorno alla divinità in discorso, per maggiori approfondimenti, si rinvia a E. Jannetaz, Étude
sur Semo Sancus Fidius, dieu sabin représentant le feu, et sur l’étymologie d’Hercule, Paris, 1885;
C. Koch, Der römische Juppiter, Frankfurt am Main, 1937 (rist. 1968), 52 s.; G. Dumézil, La
religione, cit., 169 e 184; J. Poucet, Semo Sancus Dius Fidius, une premiére mise au poìnt, in Rec.
Ph. L., III, 1972, 53 ss.; E. Montanari, Categorie, cit., 107, anche per una suggestiva correlazione
tra Dius Fidius e la gens dei Mucii, derivante da Varro ling. 5.52, secondo cui il Quirinale era
detto anche collis Mucialis, su cui v. anche G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 288 ss.; Id., Le dossier ‘Dius
Fidius’, in Images d’origines. Origines d’une Image. Hommages à J. Poucet, a cura di P.A. Deproost
e A. Meurant, Louvain-la-Neuve, 2004, 215 ss.; R.D. Woodard, Indo-European Sacred Space,
cit., 188 s.
66
Il flamine di Giove – la cui istituzione è anch’essa tradizionalmente ricollegata a Numa (cfr.
G. Espérandieu, voce ‘Flamen’, in Dizionario epigrafico, cit., 140; R.M. Ogilvie, A Commentary,
cit., 97) – conserva l’appellativo di Dialis, legato a Dius Fidius, come nota O. Sacchi, I ‘maiores’,
cit., 2396. Sulle molteplici prescrizioni cui doveva sottostare il flamen Dialis, di cui abbiamo
notizia da Gell. 10.15.1-32, v. L. Garofalo, ‘Homo sacer’ e ‘arcana imperii’, in Studi sulla
sacertà, Padova, 2005, 137 ss.; G. Martorana, Osservazioni sul ‘flamen Dialis’, in Philías chárin.
Miscellanea di studi classici in onore di E. Manni, IV, Roma, 1980, 1457 ss.
67
Sono molteplici le posizioni emerse in dottrina: alcuni studiosi identificano Fides e Iuppiter;
altri, invece, scorgono un rapporto di derivazione dell’una dall’altro, legato al processo di
divinizzazione di alcune caratteristiche del dio sovrano (una sinossi dei diversi punti di vista è
rinvenibile in L. Manna, Buona fede, cit., 326 s., nt. 138). Pare comunque qui il caso di ricordare
che R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 155, preso atto della difficoltà di risolvere il problema in discorso,
afferma che «la dea Fides è strettamente legata al sovrano dell’ordine, Iuppiter – direttamene o
attraverso la mediazione di un dio minore ma antichissimo, Dius Fidius – e divide con queste
divinità la funzione protettrice dei patti e dei giuramenti», condividendo quindi le considerazioni
già svolte da G. Dumézil, La religione, cit., 169, il quale, per vero, ritiene la questione non
particolarmente importante; D. Sabbatucci, La religione, cit., 392, invece, afferma che «Fidius
stava al giuramento così come Fides stava all’osservanza della materia giurata»; O. Sacchi, Il tri-
vaso, cit., 305 s.; Id., I ‘maiores’, cit., 2395 s., considera le due divinità l’espressione del medesimo
culto in epoche storiche differenti (posizione simile a P. Boyancé, ‘Fides’ et le serment, cit., 93,
che accorda la precedenza temporale a Dius Fidius rispetto a Fides, come poi ritiene anche G.
Freyburger, ‘Fides’, cit., 288 ss.). Di segno contrario l’opinione di M.A. Levi, ‘Manus, fides, fides
publica’, cit., 308.
44 Mattia Milani

Si tratta, a ogni buon conto, di un problema che all’attuale stato delle


testimonianze appare difficilmente superabile: quel che è certo, però, è che
Fides e i valori a essa sottesi hanno una storia antica, ‘padri’ nobili e potenti,
nonché attribuzioni di primo piano nel panorama cultuale arcaico, tali da
farne una figura cruciale del sistema religioso – e, ovviamente, sociale68 –
della Roma delle origini, in particolar modo con riferimento all’emergere
di questa come collettività organizzata.
Un aspetto, quest’ultimo, che Dionigi d’Alicarnasso, in alcune pagine
tratte dal secondo libro delle sue Antichità romane e dedicate alle riforme
numane (si tratta di 2.75.1-4), dipinge con maestria69.
Ivi lo storico augusteo narra di come Numa avesse affrontato un pro-
blema che evidentemente si presentava con una certa frequenza nella Roma
più antica: il costume di molti cives di non rispettare gli impegni assunti.
In particolare, il sovrano rilevò che gli atti conclusi «in pubblico e con te-
stimoni sono tutelati da un rispettoso timore per le persone che vi hanno
assistito e sono pochi quelli che commettono ingiustizie relative a questi at-
ti, mentre quelli stipulati senza testimoni (che sono anche i più numerosi)
trovano la loro unica salvaguardia nella lealtà dei contraenti»70.
Per il primo gruppo di negozi, l’apparire inaffidabili di fronte alla col-
lettività fungeva da efficace deterrente contro l’inottemperanza dei doveri
assunti; di converso, quando l’adempimento era legato solo all’onestà di chi
ne era gravato71, più facile era che questi non rispettasse quanto promesso72.

68
Si veda quanto già detto supra, in particolare nt. 46.
69
Dion. Hal. 2.66-76. In ordine all’attendibilità delle informazioni ivi raccolte, cfr. L.
Fascione, Il mondo nuovo, cit., 122 ss.
70
Dion. Hal. 2.75.1 (trad. it. F. Cantarelli). Tale brano, come sottolineato da L. Peppe, Studi,
cit., 212, inspiegabilmente non ha mai destato particolare interesse tra gli studiosi, persino tra
coloro che si sono occupati di argomenti affini a quelli su cui indugia Dionigi d’Alicarnasso,
come il giuramento o il valore della fides arcaica: non mancano, invero, alcune preziose eccezioni,
come H.A.A. Danz, Der sacrale Schutz im römischen Rechtsverkehr. Beiträge zur Geschichte der
Entwickelung des Rechts bei den Römern, Jena, 1857, 127 ss.; P. Boyancé, ‘Fides’ et le serment, cit.,
98 ss.; A. Calore, ‘Per Iovem lapidem’, cit., 24 s.; R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 165 s.
71
Ben specifica R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 166, nt. 347, che il vincolo della fides non è
limitato agli ultimi negozi ricordati, giacché la differenza cui si accenna nel testo non concerne
«la presenza o assenza di fides, ma il fatto che i secondi [negozi] hanno questa come unica
tutela».
72
L. Peppe, Studi, cit., 212 s. e spec. nt. 82, ha riconosciuto, nei primi, i gesta per aes et libram e,
nei secondi, la sponsio e il mutuo informale. Dal tenore della testimonianza dionisiana, tuttavia,
il discrimine pare a chi scrive essere di diversa natura e legato esclusivamente a una circostanza di
mero fatto: la percepibilità, da parte della collettività, dell’avvenuta conclusione della fattispecie
negoziale (perché compiuta in pubblico o alla presenza di chi può darne conferma). E così, se per i
gesta per aes et libram questa evenienza costituiva un effetto ‘naturale’ del loro perfezionamento –
La mano destra in Roma antica 45

Alla luce di ciò, ci dice la testimonianza dionisiana, il sovrano decise


di rendere oggetto di religiosa venerazione valori come la correttezza e la
rettitudine, onde incrementarne così la forza cogente: da qui, l’istituzione
del culto di Fides73, l’innalzamento di un tempio in suo onore74 e l’organiz-
zazione a spese della collettività di riti e sacrifici con cadenza annuale75.
Essa, in effetti, «non aveva mai ricevuto onori di tipo religioso, né negli
affari pubblici degli stati né fra i privati»76. E ciò era ancora più sorpren-
dente considerando che non vi era nulla di più sacro tra tutti gli uomini
(‘ἀνθρώπους’), tanto Romani quanto stranieri (e non necessariamente

che esigeva appunto la presenza di testimoni –, lo stesso non poteva dirsi per tutte le altre ipotesi
contrattuali (le quali non si limitavano certo alla sponsio o al mutuo informale).
73
È discusso se la dea di Numa, o comunque quella del Campidoglio, fosse o meno soltanto la
Fides publica: il problema, in questi termini, pare essere male impostato. Non vi sono elementi,
nelle fonti, che permettano di ipotizzare una contrapposizione tra una Fides publica e una Fides
senza ulteriori qualificazioni, quasi si trattasse di due divinità distinte (l’una, si potrebbe supporre,
posta a presidio dei rapporti tra genti o tra la civitas e i suoi abitanti, l’altra che dispiegava la propria
influenza solo tra privati). Anzi, le ‘qualificazioni’ della dea di cui abbiamo traccia sembrano alludere
soltanto a specifici, ma non esclusivi, ambiti d’intervento, all’interno delle vaste prerogative che le
erano proprie: si rammenti, inoltre, che di Fides publica (o ‘populi Romani’) si comincia a parlare
soprattutto dopo l’avvento del regime imperiale, in linea con il rinnovato, e deliberatamente
programmato, interesse per i valori della Roma più antica, tra cui anche la lealtà e la correttezza
tutelate dalla nostra dea (emblematiche, a riguardo, le risultanze numismatiche, ove non mancano
riferimenti a ‘Fides exercituum’, ‘militum’, ‘legionum’, ‘equitum’, ‘praetorianorum’, ‘Augusta’: cfr.
W.F. Otto, voce ‘Fides’, cit., 2284 s.; U. Pestalozza, voce ‘Fides’, cit., 80 s.; P. Boyancé, La main,
cit., 130 ss.; H. Wirth, Die linke Hand, cit., 128 s.). Pare ragionevole supporre che tale uso abbia
influenzato lo stesso Dionigi d’Alicarnasso nella redazione della testimonianza in commento, come
già rilevato da P. Boyancé, ‘Fides’ et le serment, cit., 95, nt. 3, per il quale, significativamente, «mais
la Fides de Numa ou du temple du Capitole est bien une Fides publica dans le mesure où l’Etat, la
glorifiant, voyait en elle celle qui garantissait les serments et les pactes intéressant la cité. Mais elle ne
garantissait pas que ceux là». Sulla rivalutazione imperiale degli antichi culti e valori, v. L. Sacco,
‘Devotio’. Aspetti storico-religiosi di un rito militare romano, Roma, 2011, 23 e nt. 29.
74
V. quanto detto supra, in nt. 54.
75
Cfr. pure Dion. Hal. 5.68, su cui L. Peppe, Studi, cit., 212 ss., anche per i collegamenti con
quanto riportato in 2.75; A.J. Clark, Divine Qualities. Cult and Community in Republican Rome,
Oxford, 2007, 167. Circa i sacra publica (ai quali è certo ascrivibile anche il culto di Fides: cfr. M.
Adriani, ‘Traditio’ romana, cit., 385; C.A. Maschi, La categoria, cit., 110) e sul finanziamento
a carico della collettività dei medesimi, importante criterio per la loro individuazione rispetto ai
sacra privata, v., per tutti, J. Rüpke, La religione, cit., 25 ss., il quale altresì constata che «gli dèi ai
quali si domanda di assecondare con la loro assistenza la struttura sociale chiamata – per esempio
– Roma hanno diritto di essere venerati» e sottolinea che «questa venerazione è garantita
mediante il sistematico allestimento dei sacra publica: ovvero facendo fronte agli impegni che la
collettività deve assumersi come totalità».
76
Dion. Hal. 2.75.2 (trad. it. F. Cantarelli).
46 Mattia Milani

nell’ambito circoscritto dell’Italia centrale77) dei valori protetti da tale di-


vinità.
Attraverso suddetto intervento, Numa aveva così rafforzato, nel co-
mune sentire, la percezione della doverosità derivante dagli accordi basati
sulla fides personale, al punto che questi finivano con l’essere equiparati «a
quelli realizzati con il giuramento più solenne»78. Del pari, tale giuramento
finiva con l’assumere un ruolo di prim’ordine anche in ambito processuale,
giungendo sempre più spesso a essere lo strumento attraverso il quale si
decidevano le controversie inerenti a contratti conclusi in assenza di testi-
moni, di cui era più difficile dar prova in giudizio79.
Si può peraltro notare come il provvedimento numano si inserisse in
una realtà ove le categorie del giuridico e del religioso non erano comple-
tamente distinte, e nemmeno precisamente definite, ma costituivano un’e-
sperienza di ‘controllo’ del tessuto sociale che si potrebbe definire, pur nella
sua complessità, ‘totale’80.
Proprio in tale clima, secondo la leggenda, Numa promosse la nascita
e lo sviluppo di una compagine ‘statale’ retta dalla correttezza e della leal-

77
Come invece ritiene L. Peppe, Studi, cit., 213 s. In verità, se la scelta dello studioso di attribuire a
ἂνθρωποϛ il significato di ‘a tutti gli uomini’ – diversamente rispetto a P. Boyancé, ‘Fides’ et le serment,
cit., 99, per il quale invece vi si dovrebbe leggere solo «autres peuples» – convince appieno (si rammenti,
inoltre, quell’ ‘omnes gentes senserunt’ di Valerio Massimo riferito, anch’esso, a Fides e ai valori di cui è
tutrice), lo stesso non può dirsi circa il limite geografico riconosciuto a tale riferimento. La conclusione
di Leo Peppe, infatti, si fonda su una circostanza che, nel contesto in discorso, non sembra presentare
rilievo decisivo: ossia il fatto che le genti della penisola italica condividevano con Roma (come già visto
in precedenza, nt. 65) alcune divinità protettrici dei patti e dei giuramenti. Dalle pagine dionisiane, anzi,
sembrerebbe emergere proprio una portata ordinatrice ‘cosmica’ di Fides, che nella sua declinazione
‘pubblicistica’ è posta a presidio anche dei rapporti sovrannazionali: cfr. anche infra, nt. 89. Intorno a
questa dimensione di fides si è di recente soffermato M. de Wilde, ‘Fides publica’, cit., 458 ss.
78
Così, A. Calore, ‘Per Iovem lapidem’, cit., 25, il quale sottolinea come dal testo in commento
si capisca che il giuramento nella prassi negoziale arcaica serviva a dare «valore impegnativo alle
promesse», ma v. anche M.A. Levi, Il re Numa, cit., 164; Id., ‘Fides, Terminus, familia’, cit., 366;
G. Diurni, ‘Fides’ e ‘fiducia’ nel dibattito attuale, in La fiducia e i rapporti fiduciari. Tra diritto
privato e regole del mercato finanziario. Atti del Convegno (Bergamo, 22-23 aprile 2012), a cura di
E. Ginevra, Milano, 2012, 1 ss. (ora anche in Historia et ius, V, 2014, 5 s.).
79
Cfr. Dion. Hal. 2.75.3. Per L. Fascione, Il mondo nuovo, cit., 135, l’intervento numano, con
riferimento al giuramento decisorio, deve leggersi anche come «incentivo verso il ricorso alla
giustizia statale, incoraggiata dalla speditezza della soluzione ottenibile».
80
J. Scheid, La religione a Roma, Bari, 1983, 8; Id., Quando fare è credere, cit., 250 s., il quale,
con riguardo all’importanza delle pratiche rituali a Roma, parla appunto di «una religione
sociale», poco incline all’aspetto individuale e introspettivo, mentre G. De Sanctis, La religione,
cit., 29, rimarca come essa fosse «‘politica’ nel senso etimologico del termine, una religione cioè
profondamente radicata nella vita della polis …, fatta di partecipazione, comportamenti collettivi,
prescrizioni condivise», non esente però da un «esasperato ritualismo».
La mano destra in Roma antica 47

tà, quasi a emulare l’armonia familiare, affinché i privati facessero proprie


tali abitudini e si comportassero anche tra loro allo stesso modo81. Grazie
a ciò, nonché attraverso la mediazione del divino, «l’essere rispettosi della
fides fu considerato comportamento così venerando e inviolabile che per
ciascuno il giuramento sulla propria fides fu ritenuto superiore a ogni te-
stimonianza, tanto nella fase di conclusione del contratto quanto in quella
dell’eventuale giudizio»82.
Si è consci che nel testo in analisi vi si potrebbe scorgere soltanto un
‘mito normativo’ di matrice augustea83, epoca in cui, come noto, si svilup-
pa la tendenza a rivisitare (se non proprio a creare) la storia delle origini
di Roma, onde esaltare i valori del nuovo ordine politico-sociale84. Dal
che si dovrebbe giungere a ritenere inaffidabili le informazioni dal mede-
simo ricavabili85.

81
Dion. Hal. 2.75.4.
82
Così si esprime R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 165 s., evidenziando come le norme di quell’ordine
cosmico che anche fides, nella visione romana, era deputata a costruire, «da un lato, ricevono il
carattere di precetti ‘giuridici’ dall’essere cogenti, eteronome e applicabili anche ai soli rapporti
fra homines. Dall’altro, assumono anche il carattere di precetti ‘religiosi’ in virtù di un costante e
necessario rapporto con il divino».
83
Cfr. A. Carcaterra, Dea ‘Fides’ e ‘fides’, cit., 205, per il quale è mito normativo quel
«racconto favoloso del nascere di una norma o di una consuetudine relativa a una condotta di
valore sociale» creato «al fine precipuo di inculcare il rispetto di una certa norma». Molto si è
discusso, nel corso dei decenni, in ordine all’esistenza o meno di una tradizione di miti a Roma
e, tra coloro che davano al quesito risposta positiva, se fosse legata ad un nucleo popolare antico
o se, al contrario, fosse di derivazione esclusivamente greca. A riguardo, pare almeno il caso di
rammentare gli studi di G. Wissowa, Gesammelte Abhandlungen zur römischen Religions- und
Stadtgeschichte, München, 129 ss.; Id., Religion, cit., 23 ss., secondo cui la tradizione mitologica
romana altro non era che una mescolanza di elementi poetici, storici e invenzioni antiquarie,
che nascondevano l’assenza di un originario nucleo popolare antico; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 18 ss. e 164 ss., che giunge a simili conclusioni, partendo però da una
visione primitivistica della fase più antica della religione romana; C. Koch, Der römische Juppiter,
cit., 9 ss., il quale, invece, ipotizza una radicale e consapevole demitizzazione nella religione di
stato; G. Dumézil, La religione, cit., 68 ss., il quale parla di una mitologia perduta e dimenticata, ma
pur recuperabile attraverso l’analisi dei riti e il confronto con le tradizioni religiose indoeuropee;
J. Bayet, La religione romana, cit., 47 ss., che riconosce, nei Romani, una mentalità antimitica,
tale per cui la tradizione mitologica indoeuropea è giunta loro disintegrata. Sul punto, v. anche le
recenti riflessioni di L. Sacco, ‘Devotio’. Aspetti, cit., 17 ss.
84
Cfr. J. Rüpke, La religione, cit., 51.
85
Un percorso tra le diverse opinioni che si sono confrontate nella storiografia moderna è
tracciato da E. Gabba, Dionigi e la storia di Roma arcaica, Bari, 1996, 13 ss. Tra chi legge le pagine
di Dionigi d’Alicarnasso soltanto come un manifesto della propaganda augustea, cfr. G. Aricò
Anselmo, Numa Pompilio, cit., 51, e R. von Healing, Zeitbezüge des T. Livius in der ersten
Dekade seines Geschichtswerkes. ‘Nec vitia nostra nec remedia pati possumus’, Stuttgart, 1989, 1 ss.
48 Mattia Milani

Ma chi scrive è convinto che sia comunque possibile partire dalla te-
stimonianza dionisiana per formulare qualche riflessione in relazione alla
realtà sociale, politica e religiosa del periodo più antico dell’Urbe. Nello
specifico, non soltanto sulla scorta di quegli studi che rivalutano i lavori di
Dionigi di Alicarnasso per la ricostruzione della storia e delle istituzioni più
risalenti86, ma in virtù delle diverse corrispondenze tra quanto ivi riportato
e Liv. 1.21.1-487, su cui si indugerà poco più avanti.
Innanzitutto, emerge subito la stretta connessione tra fides – concepita
qui non come potere di un soggetto su un altro, ma come vincolo nascente
dalla parola data, nonché come valore etico-morale del singolo di fronte alla
comunità88 – e la divinità che ne è personificazione. Il ruolo di quest’ulti-
ma, nella dinamica appena descritta, non è solo quello di esaltare la portata
ordinatrice di fides, ma anche quello di rafforzarne la carica cogente, quasi
che senza un elemento ulteriore – come la presenza di testimoni, la parte-
cipazione del divino o il compimento delle formalità del giuramento – la
stessa non fosse in grado di fungere da criterio normativo in situazioni in
senso ampio ‘contrattuali’. Dal resoconto dionisiano, poi, si percepisce co-
me la dea Fides esercitasse la propria influenza non soltanto nei rapporti
‘orizzontali’ tra cives, ma anche in quelli ‘verticali’ tra il singolo e l’organiz-
zazione pubblica del potere, persino in un’ottica sovrannazionale, a coro-
namento di una visione ‘cosmica’ dell’ordine che, anche da essa, certamente
derivava89.

86
Si rinvia, anche per altre indicazioni bibliografiche, a L. Fascione, Il mondo nuovo, cit., 12
ss., secondo il quale l’opera dionisiana deve conisiderarsi tendenzialmente attendibile per quanto
concerne la descrizione delle istituzioni romane arcaiche; T.J. Cornell, The Beginnings of Rome.
Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars (c. 1000-264 B.C.), London, 1995, 4 ss.,
si attesta nelle medesime posizioni; M. Ducos, Denys d’Halicarnasse et le droit, in MEFRA, CI,
1989, 175 ss.
87
Circa la probabile corrispondenza delle fonti utilizzate dai due storici, v. L. Peppe, Studi, cit.,
21 s., nt. 81; M.A. Levi, Il re Numa, cit., 184 s.
88
Come pare cogliersi da Dion. Hal. 2.75.2. Per L. Peppe, Studi, cit., 215 ss., tuttavia, nel passo
«fides non è né comportamento etico né potere (potestà tutela), bensì fondamento di un atto
formale quale il giuramento decisorio». Tale posizione, invero, non convince appieno: il testo di
Dionigi d’Alicarnasso, infatti, oltre a trattare di giuramento, accenna anche alla mera lealtà di chi
dà la propria parola, la quale fa sorgere un vincolo di natura etico-sociale, che Numa ha voluto
rafforzare proprio con l’istituzionalizzazione del culto di Fides.
89
Per G. Dumézil, Mitra-Varuna. Essai sur deux représentations indo-européens de la
souveraineté, Paris, 1948, 66, «bref la fides de Numa, c’est le fondement de la grande création
romaine du droit», come ribadito anche in Id., La religione, cit., 350, ove si legge che Fides «è
patrona di tutti i rapporti fra persone e gruppi di persone; senza di lei nulla è possibile, ad ogni
livello; da lei dipendono la concordia e la fiducia reciproca dei romani, l’armonia fra i diritti e i
doveri di tutti, ovunque nascano o sorgano, per non parlare della pace duratura o della guerra
La mano destra in Roma antica 49

D’altronde, era questa una concezione tipica del periodo augusteo: Vir-
gilio fa dire a Giove – mentre profetizza a Venere il radioso destino di Ro-
ma – che Fides è generatrice di iura, insieme a Vesta (simbolo delle antiche
virtù) e a Remo cum fratre Quirino (che rappresentano il diritto positivo,
sorto anche dalla conciliazione dei contrasti)90: ritorna l’idea di una divini-
tà «posta a fondamento dei corretti rapporti tra gli uomini e, per ciò stes-
so, produttiva di importanti riflessi così sul terreno dei reciproci obblighi
come su quello, più specifico, dell’interpretazione delle norme positive»91.
Una dimensione ‘pubblica’ di Fides che si coglie, infine, anche da quel
celebre brano di Tito Livio cui poc’anzi si è fatto cenno, ove il Patavino ci
illustra la cerimonia che, ogni primo giorno di ottobre92, veniva celebrata in
onore della dea.

3. ‘Fides’ e la mano destra.

Anche Tito Livio, nel primo libro della sua monumentale storia di Ro-
ma, ci descrive le riforme apportate da Numa alla realtà religiosa e sociale
più antica.
In questo sfondo, lo storico indugia sul culto di Fides, esprimendosi in
questi termini:

giusta con gli estranei, né degli onesti commerci fra gli umani e gli dèi». Cfr. anche M. Adriani,
‘Traditio’ romana, cit., 385 s.; P. Boyancé, Les Romains, cit., 148 ss.; C.A. Maschi, La categoria,
cit., 110; P. Grimal, ‘Fides’ et le secret, cit., 141 e 153 s.; W.V. Harris, War and Imperialism, cit.,
35; L. Peppe, Studi, cit., 217 ss.; V. Pöschl, Politische Wertbegriffe, cit., 4 ss.; A. Carcaterra, Dea
‘Fides’ e ‘fides’, cit., 199 s.; A. Di Pietro, La ‘fides’, cit., 506 ss.; G. Diurni, ‘Fides’ e ‘fiducia’, cit., 6.
90
Cfr. C. Venturini, voce ‘Fides’, cit., 509 s.
91
Così C. Venturini, voce ‘Fides’, cit., 510, che rievoca l’episodio narrato in Verg. Aen. 2.541-
542, in cui Achille, nel restituire a Priamo la salma di Ettore, ‘iura fidemque supplicis erubuit’.
92
Cfr. le testimonianze epigrafiche raccolte in CIL I2, 214 e 242. In letteratura, v. W.F. Otto,
voce ‘Fides’, cit., 2282; J.A. Hild, voce ‘Fides’, in Dictionnaire des Antiquités grecques et romaines,
Paris, 1918, 1116, nt. 14; U. Pestalozza, voce ‘Fides’, cit., 80; C.A. Maschi, La categoria, cit.,
109; K.-J. Hölkeskamp, ‘Fides - deditio in fidem - dextra data et accepta’, cit., 228; S. Randazzo,
‘Mandare’, cit., 72; H. Wirth, Die linke Hand, cit., 127. Sul calendario romano, e sulla centralità
delle feste religiose nella scansione del tempo (la cui individuazione era prerogativa dei sacerdotes:
v. Macr. Sat. 1.12.3; 1.16.11; Liv. 1.19.6-7; 1.20.5-7; Serv. auct. in Verg. Georg. 1.270), cfr. J.
Rüpke, Kalender und Öffentlichkeit. Die Geschichte der Repräsentation und religiösen Qualifikation
von Zeit in Rom, Berlin - New York, 1995, passim; D. Sabbatucci, La religione, cit., passim; W.
Bermann, Der römische Kalender: zur sozialen Konstruktion der Zeitrechnung. Ein Betrag zur
Soziologie der Zeit, in Saeculum, XXXV, 1984, 1 ss.; G. Radke, ‘Fasti Romani’. Betrachtungen zur
Frügeschichte des römischen Kalenders, Münster, 1990, passim; F. Sini, Diritto e ‘pax deorum’, cit.,
par. 4 e ntt. 51 e 52, ove ulteriore letteratura.
50 Mattia Milani

Liv. 1.21.1-4: Ad haec consultanda procurandaque multitudine omni a vi et armis


conversa, et animi aliquid agendo occupati erant, et deorum adsidua insidens cura,
cum interesse rebus humanis caeleste numen videretur, ea pietate omnium pectora
imbuerat ut fides ac ius iurandum pro legum ac poenarum metu civitatem regerent.
[2] Et cum ipsi se homines in regis velut unici exempli mores formarent, tum fini-
timi etiam populi, qui antea castra non urbem positam in medio ad sollicitandam
omnium pacem crediderant, in eam verecundiam adducti sunt, ut civitatem totam
in cultum versam deorum violari ducerent nefas. [3] Lucus erat quem medium ex
opaco specu fons perenni rigabat aqua. Quo quia se persaepe Numa sine arbitris velut
ad congressum deae inferebat, Camenis eum lucum sacravit, quod earum ibi concilia
cum coniuge sua Egeria essent. [4] Et [soli] Fidei sollemne instituit. Ad id sacra-
rium flamines bigis curru arcuato vehi iussit manuque ad digitos usque involuta
rem divinam facere, significantes fidem tutandam sedemque eius etiam in dexteris
sacratam esse93.

Il brano si apre con un’entusiastica constatazione dei risultati positivi


che gli interventi numani avevano generato sulla popolazione romana, or-
mai «distolta … dalle armi e dalla violenza» e «tutta intenta a consultare
la volontà divina e a esercitare le pratiche religiose»94.
In uno sviluppo simile a quello già incontrato in Dionigi d’Alicarnasso,
il Patavino ricorda in particolare come tali abitudini avessero trasmesso ai
concittadini suoi predecessori un sentimento di religiosità tale che erano
sufficienti la fides e lo ius iurandum95, ancora più del timore delle leggi e del-

93
Sulla presunta corruzione della testimonianza liviana, ove compare un inaspettato – e, per tale
ragione, dalla maggior parte degli editori soppresso – ‘soli’ prima di ‘Fidei’, v. P. Boyancé, ‘Fides’
et le serment, cit., 91 e nt. 2, per il quale il testo è «manifestement corrompu», e G. Freyburger,
‘Fides’, cit., 260 s., anche per un ragguaglio circa le differenti ricostruzioni prospettate dalla
dottrina. Non ne accetta l’espunzione, ma senza convincere fino in fondo, J. Heurgon, ‘Soli
Fidei’. Notes critiques sur Tite-Live. I, in Acta Philologica, III, 1964, 183 ss., per il quale il senso
dell’espressione ‘soli Fidei’ si ricaverebbe dalla testimonianza contenuta in Dion. Hal. 2.75.2, su
cui supra, dove risulta affermato chiaramente che Numa – dopo aver notato come in Grecia vi
fossero diverse virtù divinizzate e venerate – introdusse esclusivamente il culto di Fides e non
di altre entità: al medesimo risultato espositivo intenderebbe, secondo lo studioso, arrivare lo
storico patavino attraverso appunto la locuzione ‘soli Fidei’, collocata in apertura del passo in
commento.
94
Per la traduzione attingo da L. Labruna, Tito Livio e le istituzioni giuridiche e politiche dei
romani, Napoli, 1984, 35.
95
Anche Plut. Numa 16.1, dopo aver confermato che fu il secondo re di Roma ad aver
introdotto il culto di Fides nell’Urbe, ricorda come il giuramento fu reso potentissimo dalla dea (v.
A. Carcaterra, Dea ‘Fides’ e ‘fides’, cit., 201). Sulla connessione tra la dea in parola e il giuramento
v. anche Cic. off. 3.29.104, in cui viene ricordato il verso di Ennio ‘o Fides alma apta pinnis et ius
iurandum Iovis’, tratto, a voler seguire O. Ribbeck, Tragicorum latinorum reliquiae, Lipsiae, 1852,
71, dal Thyestes; Petron. 100.5; Plin. nat. 29.8.24-25; Tac. dial. 35. In letteratura, per tutti, A.
Corbino, ‘Fides bona contraria est fraudi et dolo’, cit., 114 ss.; P. Boyancé, ‘Fides’ et le serment, cit.,
La mano destra in Roma antica 51

le sanzioni per la loro violazione, perché l’intera civitas prosperasse in pace


e in armonia (§ 1)96. Una devozione talmente diffusa e così profondamente
radicata che persino le popolazioni confinanti97 – fino ad allora limitatesi
a considerare Roma esclusivamente come una minaccia alla pace e alla sta-
bilità della zona – cominciarono a rispettarla, temendo le conseguenze che
sarebbero potute derivar loro dall’offendere una città «tutta vòlta al culto
degli dèi» (§ 2)98.
Dopo aver fugacemente indugiato sulla consacrazione di un boschetto
alle Camene (§ 3), Tito Livio ritorna a occuparsi di Fides (§ 4): lo storico
conferma la leggenda che riconosceva nel successore di Romolo l’artefice
dell’introduzione a Roma del culto della dea e ribadisce come questi le
avesse dedicato un sacrarium. Il luogo in cui, una volta l’anno, si reca-
vano i tre flamines maiores99, dopo aver attraversato a bordo di un carro

91 ss.; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 195 ss.; C. Bertolini, Il giuramento, cit., 10 s.


96
Cfr. A. Corbino, ‘Fides bona contraria est fraudi et dolo’, cit., 114 s.
97
Si rammenti quanto è stato detto in precedenza, con riguardo alla testimonianza dionisiana
analizzata, in ordine alla condivisione dei valori protetti da Fides anche tra popoli stranieri non
necessariamente entro i confini della penisola italica (cfr., in particolare, nt. 77). Sull’ispirazione
religiosa della pace, cui parrebbe alludere il passo in questione, v. tra gli altri E. Montanari, Il
concetto originario di ‘pax’ e ‘pax deorum’, in Le concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale
di Studi Storici ‘Da Roma alla Terza Roma’, I, Roma, 1988, 49 ss.; nonché i lavori di R. Fiori, ‘Homo
sacer’, cit., 174; F. Sini, «‘Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant’», cit., 528 ss.; Id.,
‘Bellum, fas, nefas’, cit., par. 8; Id., Diritto e ‘pax deorum’, cit., par. 6; L. Sacco, ‘Devotio’. Aspetti, cit.,
27 ss. e, per la letteratura, nt. 42. Sulla connessione etimologica tra il termine pax e le parole pactio e
pactum, v. da ultimo M. Falcon, ‘Praetor impius’, cit., 213 e nt. 94, con richiami di letteratura.
98
Mi rifaccio sempre alla traduzione di L. Labruna, Tito Livio, cit., 35.
99
L’opinione maggioritaria è appunto propensa a riconoscere nella suddetta dicitura il
riferimento ai sacerdoti della triade divina primitiva, ossia quelli di Giove, Marte e Quirino (in
questo senso G. Wissowa, Religion, cit., 133 s.; W.F. Otto, voce ‘Fides’, cit., 2282; V. d’Agostino,
La ‘Fides’ Romana, cit., 74; P. Boyancé, La main, cit., 121; Id., Les Romains, cit., 141; C.A.
Maschi, La categoria, cit., 110; P. Grimal, ‘Fides’ et le secret, cit., 143 s.; A. Carcaterra, Dea
‘Fides’ e ‘fides’, cit., 208 s. e nt. 18; E. Montanari, ‘Mucii Scaevolae’ e «mito della ‘publicatio’»,
in Religione e civiltà. Scritti in memoria di A. Brelich, Bari, 1982, 423 s., nt. 36; G. Freyburger,
‘Fides’, cit., 250 s.; S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 72, nt. 236; R.D. Woodard, Indo-European
Sacred Space, cit., 10; J. Scheid, Il sacerdote, in L’uomo romano, a cura di A. Giardina, Roma - Bari,
2012, 77). Si discosta dall’opinione comune K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 237, nt.
4 (seguito in questo da L. Lombardi, Dalla ‘fides’ alla ‘bona fides’, cit., 148), il quale, nel negare
l’antichità del culto di Fides, ritiene che lo storico patavino abbia in quest’occasione utilizzato il
termine flamines in senso atecnico e come sinonimo di sacerdotes. Siffatta posizione non appare
verosimile a G. Dumézil, La religione, cit., 140, specialmente considerando lo snodarsi della
narrazione liviana: per lo studioso francese, infatti, è «naturale pensare che, in un testo in cui
tutto è preciso e tecnico, i flamines che compaiono in 21.4 siano quelli e solo quelli di cui s’è
parlato fino allora, cioè quelli menzionati in 20.1-2, i tre maiores».
52 Mattia Milani

coperto l’intera città: lì giunti, era loro dovere ‘rem divinam facere’, con
la mano destra velata sino alle dita da un candido panno, a testimonianza
dell’inviolabilità di fides e della sacralità della dextra, sede della dea.
Il rituale testé descritto presenta elementi di indubbio interesse rispetto
a quanto si va qui dicendo100.
In primo luogo, si tratta di uno dei rari casi attestatoci dalle fonti
in cui i tre flamines di Giove, Marte e Quirino compaiono congiunta-
mente101: il che – se messo a confronto con le altre ipotesi in cui ciò
avveniva e col ruolo svolto da ciascuno di essi nel primissimo sistema
religioso di Roma102 – induce a ritenere che la liturgia in commento sia

100
Nella consapevolezza che il rito è comportamento standardizzato in funzione comunicativa
(parafrasando W. Burkert, Die Anthropologie des religiösen Opfers. Die Sakralisierung der Gewalt,
München, 1987, 28), non si può dimenticare, proprio accingendosi a riflettere intorno alla
cerimonia in onore di Fides, la lezione di J. Rüpke, La religione, cit., 120, secondo cui «il sapere
semantico, la presunta conoscenza del significato dei segni trasmessi da chi celebra un rito, è un sapere
incontrollato e incontrollabile che, tradotto in linguaggio, non consente alcuna chiara e univoca
collocazione»: ecco perché, continua lo studioso, nella cornice del sistema religioso romano appare
molto più utile connettere eventuali manifestazioni cultuali sulla base della comunanza di alcuni
segni, anziché fornire un’interpretazione che, pur avvincente, risulta inevitabilmente soggettiva e
indimostrata. Proprio per quest’ordine di ragioni, non è pienamente condivisibile la lettura di A.
Carcaterra, Dea ‘Fides’ e ‘fides’, cit., 208 ss., del passo liviano, principalmente in ordine ai (pur
suggestivi, ma forse troppo fantasiosi) significati simbolici collegati al rituale in discorso.
101
Cfr. A. Carcaterra, Dea ‘Fides’ e ‘fides’, cit., 208; G. Dumézil, La religione, cit., 139, 157, 251
s. e 350; S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 72, nt. 236.
102
Cfr. G. Dumézil, La religione, cit., 137 ss., il quale, come noto, scorge nella triade precapitolina di
Giove, Marte e Quirino la manifestazione di un archetipo di matrice indoeuropea, in cui le divinità in
discorso rispettivamente rappresentavano – in quella che è stata definita l’«ideologia delle tre funzioni»
– la sovranità, con i suoi aspetti magici, giuridici e sacrali, la forza fisica e la violenza, la cui manifestazione
massima era la guerra vittoriosa, ed infine la fecondità e la prosperità, in connessione col ciclo di coltivazione
dei cereali e con la sussistenza alimentare. Che si voglia aderire o meno a tale tesi (su cui v. le pagine di A.
Momigliano, Georges Dumézil e l’approccio trifunzionale alla civiltà romana, in Saggi di storia, cit., 45 ss.;
J. Scheid, Quando fare è credere, cit., 57 ss.), deve comunque segnalarsi come siano rari i casi – tutti già
individuati da G. Wissowa, Religion, cit., 23 – attestateci dalle fonti ove vi è tale compresenza e come, per
alcuni di essi (su cu si tornerà nel prosieguo), vi siano sorprendenti connessioni con la liturgia in onore
di Fides che si sta qui commentando: si tratta della formula della devotio, trasmessaci da Tito Livio (Liv.
8.9.6), della stipulazione di un trattato con l’intervento dei feziali, come risulta da Polibio (Pol. 3.25.6), che
si sofferma sull’accordo concluso tra Roma e Cartagine (dovrebbe trattarsi del terzo, risalente all’anno 278
a.C.: cfr. L. Loreto, È scoppiata la guerra coi Romani. I meccanismi delle decisioni di politica internazionale
e delle decisioni militari a Roma nella media repubblica [327-265 a.C.], in BIDR, XCIV-XCV, 1991-
1992, 263 e nt. 307, ma sui problemi circa il numero e la cronologia dei trattati, v. B. Scardigli, I trattati
romano-cartaginesi, Pisa, 1991, 28 ss.), del rituale dei salii (su cui Serv. in Verg. Aen. 8.663), nonché della
consacrazione degli spolia opima, di cui abbiamo notizia da Plut. Macr. 8, da Serv. in Verg. Aen. 6.860 e
da Fest. voce ‘Opima spolia’ (Lindsay 202 e 204). Rispetto a quest’ultima testimonianza, occorre sin d’ora
puntualizzare come il riferimento a Ianus accanto a Quirinus sia da leggersi, con S. Tondo, ‘Leges regiae’ e
La mano destra in Roma antica 53

testimonianza forte di come la dea Fides presidiasse l’unità dell’intera


civitas Romana103.
Secondariamente, dalla descrizione liviana si coglie come i vari momen-
ti del cerimoniale convergessero nella mano destra dei sacerdoti officianti,
avvolta sino alle dita da un panno di lana bianco per proteggerla e salva-
guardarla104: è attraverso tale «elemento mistico»105, infatti, che emerge

‘paricidas’, Firenze, 1973, 24, come «un’attrazione del primo nell’orbita del secondo», da imputarsi con
alta verosimiglianza a un tardo intervento pontificale: cfr. anche R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 465 ss., per il
quale «la cerimonia degli spolia opima, mostra l’esistenza di una gerarchia ‘graduale’ fra Iuppiter, Mars
e Quirinus – la triade arcaica cui gli Etruschi sostituiranno quella capitolina di Iuppiter, Iuno e Minerva
–, confermata dalla parallela gerarchia della triade umbra di Iov-, Mart- e Vofio- attestata dalle tabulae
Iguvinae». Sul trattato suggellato tra Roma e Cartagine e ricordato da Polibio, v. G. Wissowa, Religion,
cit., 23, nt. 2 e 118, nt. 6; F.W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius, cit., 351 ss.; G. Dumézil,
La religione, cit., 246 ss.; R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 210; A. Calore, ‘Per Iovem lapidem’, cit., 85 s.; O.
Sacchi, I ‘maiores’, cit., 2406 s.
103
Cfr. P. Grimal, ‘Fides’ et le secret, cit., 154, per il quale «la Fides est omniprésente à Rome. Elle
est la source vive de la vie sociale, politique, morale; tout fonction implique une fides de la part de qui
l’assume, magistrat, promagistrat, gouverneur de province, juge». Ruolo in qualche modo ridottosi
con l’istituzione di Concordia, «astrazione in parte equivalente a Fides, ma dalla diversa funzione», in
quanto volta a proteggere «la volontà attiva d’intesa, e non più il rispetto statico degli accordi» (così,
G. Dumézil, La religione, cit., 349 s., che individua in detta introduzione la risposta alle tensioni tra
patrizi e plebei, acuitesi in particolar modo dopo la catastrofe gallica, giacché Fides era troppo legata
a valori aristocratici e quindi incapace di testimoniare il nuovo sentimento di armonia che doveva
costituire la base per la stabilità della civitas. La prospettiva si mostra convincente, soprattutto avendo
a mente quelle manifestazioni che sono state definite ‘potestative’ di fides, in cui una parte si affidava,
sottomettendosi, a un’altra e dava in questo modo vita a rapporti asimettrici: situazione divenuta con
il tempo non più accettabile, giusta la diversa sensibilità frattanto sviluppatasi). Sui rapporti tra Fides
e Concordia, v. P. Boyancé, ‘Fides’ et le serment, cit., 91 s.; Id., La main, cit., 130 ss.; G. Freyburger,
‘Fides’, cit., 312 ss., ove ulteriori indicazioni bibliografiche. In generale, sul culto delle virtù in Roma, si
rinvia al già ricordato lavoro di R.J. Fears, The Cult of Virtues, cit., 828 ss., e, riguardo a Concordia, 840
ss., spec. nt. 67; H. Wirth, Die linke Hand, cit., 129 s.
104
Per H. Wagenvoort, Roman Dynamism. Studies in Ancient Roman Thought, Language and
Custom, Oxford, 1947, 133, si tratterebbe di una misura diretta a preservare la purezza della mano destra
degli officianti, simulacro di Fides stessa; J. Scheid, Il sacerdote, cit., 77, similmente, nota che «il velo
segnalava … la sacralità dell’oggetto coperto che trasforma in signum, in ‘statua’ di Fides, la mano destra
dei flamini», vera e propria «immagine vivente della qualità di Fides». Il particolare della mano velata
dei flamines si ritrova in Serv. in Verg. Aen. 1.292 (‘albo panno involuta manu sacrificatur’) e 8.636 (‘et
Fidei panno velata manu sacrificabatur, quia fides tecta esse debet et velata’), da cui si ricava che il manipolo
doveva essere bianco, e pure in Hor. carm. 1.35.21-22 (‘te Spes et albo rara Fides colit velata panno nec
comitem abnegat’), su cui v. infra. Si tratta di un particolare che ha incuriosito non poco gli studiosi: v.
P. de Francisci, ‘Primordia civitatis’, cit., 320 s.; P. Boyancé, La main, cit., 121 ss.; L. Lombardi, Dalla
‘fides’ alla ‘bona fides’, cit., 147 ss. e nt. 34; P. Grimal, ‘Fides’ et le secret, cit., 141 ss.; A. Carcaterra, Dea
‘Fides’ e ‘fides’, cit., 211; M.A. Levi, ‘Fides, Terminus, familia’, cit., 365 s.; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 250
ss.; A.J. Clark, Divine Qualities, cit., 168 s.; H. Wirth, Die linke Hand, cit., 127.
105
Così si esprime S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 72. Sulla mano quale simbolo divino anche
54 Mattia Milani

l’inviolabilità di fides (e di Fides), nonché di tutti i rapporti da essa ispirati


e disciplinati106.
Sono molteplici le testimonianze che ci confermano questo legame sim-
bolico tra la dea e la mano destra107: Valerio Massimo, in apertura del titolo
De fide publica – nel sesto libro dei suoi Factorum et dictorum memorabi-
lium libri IX – ci dà notizia di come la divinità in discorso (‘venerabile fidei
numen’) venisse raffigurata a Roma con la sua dextra protesa in avanti, ‘cer-
tissimum pignus’ di sicurezza e di prosperità108. E della destra come pegno
di fides, e così con il significato ampio di garanzia109, parlano anche Tito Li-
vio110, Ovidio111, Curzio Rufo112 e Isidoro di Siviglia, che non esita altresì a
rammentare – come invero già fatto dallo storico patavino e da Cicerone113
– il suo essere anche ‘testimone’ di fides114, al punto che violare quest’ultima
era sinonimo di offendere la destra115.
Altri autori si riferiscono a essa come sedes sacrata della divinità: Servio
Mario Onorato, nel commentare il passo virgiliano in cui Anchise porge
la destra al supplice Achemenide – soldato greco e compagno di viaggio di
Ulisse, abbandonato per errore nella terra dei Ciclopi116 –, che temeva di

in altre culture antiche, v. H. Wirth, Die linke Hand, cit., 117 ss., al quale si rimanda il lettore
desideroso di una più ampia informazione.
106
Cfr. H.A.A. Danz, Der sacrale Schutz, cit., 133 ss.; C.A. Maschi, La categoria, cit., 110; A.J.
Clark, Divine Qualities, cit., 168; A. Corbino, ‘Fides bona contraria est fraudi et dolo’, cit., 114.
107
Su cui si sofferma G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 136 ss.
108
Val. Max. 6.6 pr.: Cuius imagine ante oculos posita venerabile fidei numen dexteram suam,
certissimum salutis humanae pignus, ostentat. quam semper in nostra civitate viguisse et omnes
gentes senserunt et nos paucis exemplis recognoscamus. Si noti che anche Valerio Massimo accenna
alla dimensione ‘cosmica’ di Fides, il cui culto era sì fiorito nella civitas Romana, ma la cui forza –
o, meglio, la forza dei valori di cui era garante – era stata percepita anche da tutti i popoli entrati
in contatto con quello romano: su ciò, si rinvia a A.J. Clark, Divine Qualities, cit., 169, oltre a
quanto detto in nt. 89
109
Vedi supra, § 25.
110
Liv. 25.16.13.
111
Ov. met. 6.506.
112
Curt. 8.2.10.
113
Rispettivamente, Liv. 41.25.3-4; Cic. Phil. 11.2.5.
114
Isid. orig. 11.1.67.
115
Liv. 25.18.7; Verg. Aen. 6.613. Collegamento strettissimo, quello tra fides e dextra, che si
riscontra in molte altre testimonianze, come Cic. p. red. in sen. 9.24; Verg. Aen. 7. 365-6. Sull’uso
di dexter (e derivati) nell’Eneide, cfr. R. Scarcia, voce ‘Dexter’, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit.,
38 s.
116
Verg. Aen. 3.588-668, su cui v. anche infra.
La mano destra in Roma antica 55

subire violenza, rievoca l’immedesimazione di cui si discute117, mentre Pli-


nio il Vecchio, nell’accennare alla credenza secondo cui in alcune parti del
corpo si può scorgere una sorta di religiosa presenza118, rammenta appunto
che ‘in dextera’ trova posto Fides119, quasi la prima costituisse un altare de-
dicato a quest’ultima.
Si tratta di una dimensione che potremmo definire ‘statica’ della destra,
intesa quale simulacro di Fides, portatrice di valori in senso ampio positivi
(comunque connessi all’idea di un ‘legame’ o di un ‘vincolo’120) e dotata
finanche di doti taumaturgiche121. Come tale, quindi, una parte del corpo
che andava protetta e nascosta, separata dalla realtà umana in quanto punto
di contatto tra questa e il mondo divino122.

117
Serv. in Verg. Aen. 3.607.
118
Cfr. P. de Francisci, ‘Primordia civitatis’, cit., 265 ss.; P. Boyancé, La main, cit., 121; M.
Le Glay, La δεξίωσις dans les mystères de Mithra, in Études mithriaques. Actes du 2. Congrés
International Téhéran (1-8 septembre 1975), Téhéran, 1975, 290 ss.
119
Plin. nat. 11.103.250. Un nesso che le testimonianze numismatiche confermano: cfr. E.
Babelon, Description historique et chronologique des monnaies de la république romaine vulgairement
appelées monnaies consulaires, I, Paris - London, 1885, 124, n. 17. Rovescia tale rapporto S. Reinach,
Le voile de l’oblation, in Cultes, mythes et religions, I, Paris, 1905, 308, per il quale è Fides a essere «la
personnification de la main droite» e di tutti i valori a essa sottesi, in una prospettiva poi ripresa
(seppur non senza qualche distinguo) da J. Imbert, De la sociologie, cit., 408.
120
V. anche Verg. Aen. 1.408 (‘dextrae iungere dextram’); 4.597 (‘En dextra fidesque’); Cic.
Flacc. 41.103: O mea dextera illa, mea fides, mea promissa, cum te, si rem publicam conservaremus,
omnium bonorum praesidio quoad viveres non modo munitum sed etiam ornatum fore pollicebar,
e fam. 7.5.3, ove l’Aripinate – siamo nel 54 a.C. –, rivolgendosi a Cesare, allora proconsole in
Gallia, per raccomandargli l’amico Trebazio Testa, scrive ‘totum denique hominem tibi ita trado,
de manu, ut aiunt, in manum tuam istam et victoria et fide praestantem’ (che per A. Watson,
Cicero ‘ad fam.’ 7.5.3, in Kilo, LII, 1970, 473, costituisce un «complex legal joke»).
121
Cfr. R. Hertz, La preminenza della mano destra e altri saggi, trad. it., Torino, 1994, 137 ss.;
A.P. Wagener, Popular Associations of Right and Left in Roman Literature, Baltimore, 1912, 13
ss.; P. de Francisci, ‘Primordia civitatis’, cit., 267; S. Curletto, La norma e il suo rovescio. Coppie
di opposti nel mondo religioso antico, Genova, 1990, 68 ss.; B. Paradisi, Rito e retorica in un gesto
della mano, in Scritti in onore di A.C. Jemolo, IV, Milano, 1963, 333 ss., con analisi di altre culture
dell’antichità; S. Bertelli - H. Maxwell, Imposizioni di mani e gesti regali, in Il gesto nel rito e
nel cerimoniale dal mondo antico ad oggi, a cura di S. Bertelli e M. Centanni, Firenze, 1995, 104
ss. Scettico, rispetto al legame in parola, L. Lombardi, Dalla ‘fides’ alla ‘bona fides’, cit., 148 s. e
nt. 34, per il quale la corrispondenza tra fides e destra è una circostanza troppo bella per provare
alcunché. Un’ampia indagine circa il significato delle mani (destra e sinistra) nel mondo greco e
romano è stata condotta, di recente, da H. Wirth, Die linke Hand, cit., 113 ss., cui si rinvia anche
per ulteriore letteratura. Particolarmente interessanti e ricchi di suggestioni si presentano, poi,
gli studi raccolti in All’incrocio dei saperi: la mano. Atti del Convegno di Studi (Padova, 29-30
settembre 2000), a cura di A. Olivieri, Padova, 2004, 11 ss.
122
Famoso l’elogio della mano contenuto in Cic. nat. 2.60.150, ove l’Arpinate esclama ‘quam
vero aptas quamque multarum artium ministras manus natura homini dedit’. Sull’esaltazione
56 Mattia Milani

Solo in quest’ottica si potrebbe spiegare come mai in un altro luogo del


suo commentario all’Eneide, Servio, con riguardo alla mano destra velata
nel cerimoniale di Fides, si esprima nei termini che seguono.
Serv. in Verg. Aen. 1.292: … canam autem Fidem dixit, vel quod in canis hominibus
invenitur, vel quod ei albo panno involuta manu sacrificatur, per quod ostenditur
fidem debere esse secretam: unde et Horatius et albo rara Fides colit velata panno …

L’erudito del IV secolo d.C., illustrando la ragioni sottese alla scelta di


Virgilio di riferirsi alla dea protettrice dei patti e dei giuramenti con l’agget-
tivo ‘cana’, precisa come siffatto termine potesse alludere sia all’antichità
della divinità in parola (‘quod in canis hominibus invenitur’)123, sia al cando-
re del panno utilizzato per coprire la mano destra dei sacerdoti officianti il
sacrificio previsto annualmente in suo onore (‘quod ei albo panno involuta
sacrificantur’): un’‘ambiguità’ pienamente valorizzata dal poeta augusteo.
Ma, a prescindere da questo aspetto, la testimonianza serviana ci conferma
quanto riportato da Tito Livio in ordine alla ‘manus involuta’ dei flamines.
A sorpresa, però, fornisce una spiegazione delle ragioni di tale detta-
glio che pare porsi in disaccordo col racconto del Patavino: per il gram-
matico, infatti, il velo è necessario perché ‘fidem debere esse secretam’, os-
sia nascosta e in questo modo, potremmo dire, protetta124. Il che spiega,
leggiamo ancora nel passo, la scelta di Orazio di ricordarla come ‘albo …
velata panno’125.
Servio, peraltro, ribadisce tale convinzione nel commentario dell’ottavo
libro dell’Eneide.
Serv. in Verg. Aen. 8.636: … et Fidei panno velata manu sacrificabatur, quia fides
tecta esse debet et velata …

Anche se il testo contiene una spiegazione che appare un poco tautolo-


gica – in ragione del ripetersi, a breve distanza, dei due ‘velata’, ove l’uno
dovrebbe chiarire l’altro, stante il ‘quia’ che introduce la frase secondaria –,
esso rievoca l’immagine di una fides occultata e, così, ‘salvaguardata’.

della mano, v. K. Gross, Lob der Hand in klassischen und christlichen Altertum, in Gymnasium,
LXXXIII, 1976, 423 ss.; H. Wirth, Die linke Hand, cit., 114 s.; C. Auvray-Assays, La main du
philosophe, in Corps romains. Textes réunis par Ph. Moreau, Grenoble, 2002, 15 ss.
123
V. supra, nt. 57.
124
Per Liv. 1.21.4, abbiamo visto, dipende dalla necessità che ‘fidem tutandam … esse’: cfr. P.
Boyancé, Les Romains, cit., 141 s.; P. Grimal, ‘Fides’ et le secret, cit., 141 ss.; G. Freyburger,
‘Fides’, cit., 232 ss. e 251.
125
In Hor. carm. 1.35.21-22.
La mano destra in Roma antica 57

Stando ad Alfred Ernout e Antoine Meillet, infatti, il verbo tego, oltre a


significare «couvert», sta anche per «impénétrable, secret»126.
Non sono peraltro pochi i casi in cui la dea compare accostata alla segre-
tezza e il suo intervenire improntato alla discrezione: Silio Italico la defini-
sce ‘arcanis dea laeta’127; Apuleio la invoca come ‘Fidei secreta numina’128; e
non di rado, sia tra i poeti che tra i commediografi, si accenna o si invoca la
fides di chi, con il suo silenzio, custodisce i segreti altrui129.
La contraddizione tra tale aspetto di Fides e il carattere pubblico e so-
lenne del suo culto e dei rapporti su cui incideva è di tutta evidenza e, a un
primo sguardo, difficilmente componibile: si consideri la ‘visibilità’ di una
festa annuale in cui i tre flamines maggiori percorrevano, su di un carro, le
vie di Roma sino al tempio sito in Campidoglio, o ancora la circostanza
per cui il giuramento, cui la dea era indiscutibilmente legata130, per essere
efficace dovesse venir prestato sub divo, in un contatto diretto con Giove
sovrano dell’ordine131.
È Pierre Grimal a proporre una chiave di lettura tesa ad armonizzare tali
prospettive132.
Lo studioso d’oltralpe parte dalla constatazione secondo cui fides opera
su «deux niveaux» differenti: l’uno, generale, riguardante tutte le relazioni
umane all’interno della civitas, rispetto al quale il ruolo della dea si concre-
tizzava in senso ampio nella salvaguardia della solidarietà tra concittadi-
ni; l’altro, più circoscritto, concernente singoli e specifici atti di impegno,
come potevano essere i foedera o i giuramenti, in cui la divinità predetta
fungeva da presidio della doverosità133.

126
Cfr. A. Ernout - A. Meillet, voce ‘Tegō’, in Dictionnaire, cit., 678.
127
Sil. 2.479-482: sic igitur, coepta occultans, ad limina sanctae contendit Fidei secretaque pectora
tentat. arcanis dea laeta polo tum forte remoto caelicolum magnas volvebat conscia curas.
128
Apul. met. 3.26.6.
129
Cfr., per esempio, Plaut. Trin. 141-2; Poen. 890; Catull. 102; Liv. 34.36.4; Hor. epist.
1.5.24-25; carm. 1.18.16, su cui P. Grimal, ‘Fides’ et le secret, cit., 144 e nt. 4, e G. Freyburger,
‘Fides’, cit., 232 ss. Sul rapporto tra fides e segreto, specialmente nelle commedie plautine, cfr.
S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 78 ss. e ntt. 261 e 262, e in generale sul concetto di ‘segreto’ nel
mondo romano, v. R. Orestano, Sulla problematica del segreto nel mondo romano, in Il segreto
nella realtà giuridica italiana. Atti del convegno nazionale (Roma, 26-28 ottobre 1981), Padova,
1983, 95 ss.
130
Cfr. P. Grimal, ‘Fides’ et le secret, cit., 146 ss., nonché gli appunti raccolti supra, ntt. 41 e 65.
131
Cfr. P. Grimal, ‘Fides’ et le secret, cit., 145 s.; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 233; R. Fiori, ‘Homo
sacer’, cit., 107 ss., e le riflessioni già svolte al § 2 e, in particolare, alla nt. 65.
132
P. Grimal, ‘Fides’ et le secret, cit., 141 ss.
133
Cfr., ancora, P. Grimal, ‘Fides’ et le secret, cit., 149 ss.
58 Mattia Milani

E in quest’ottica, non sarebbe stato necessario che Fides si fosse mani-


festata sempre attraverso un atto materiale e intellegibile per riaffermare la
propria presenza134, ben potendo essere «secrète, à la manière, précisément,
d’une source dont la veine est dissimulée sous la terre»135: ragion per cui si
riscontra, nelle fonti, l’oscillare tra le concezioni appena ricordate136.
Orbene, se per un verso il doppio livello di fides teorizzato da Grimal
non pare trovar conferma nelle testimonianze antiche137, per altro verso le
considerazioni circa l’emergere della stessa sia quale elemento di conserva-
zione e stabilità dell’ordine creato (in questo senso ‘statica’), sia quale forza
normativa, ritualizzata e percepibile (così, ‘dinamica’) sembrano, oltre che
suggestive, particolarmente convincenti.
Di questa duplicità sarebbe testimone proprio la mano destra, sede della
dea e strumento in grado di esprimere una volontà a volte appropriativa,
altre volte impegnativa138, ma sempre modificativa della realtà, anche in
virtù del suo legame con la sfera del divino e con l’idea di potenza (e di ma-
terialità del possesso) che le erano proprie139: il tutto, attraverso una vasta
serie di gesti plastici dal maggior o minor formalismo, come, ma non solo,
l’adprehensio di un bene, il contatto con alcuni oggetti ‘sacri’ o l’unione
della mani destre (dextrarum iunctio140).

134
Cic. div. 1.79.
135
Così, P. Grimal, ‘Fides’ et le secret, cit., 154.
136
Ben sottolinea M. Bettini, Il dio elegante, cit., 18, come vi siano «numerosi contesti in cui la
divinità esplica la propria identità senza che questo presupponga minimamente il suo manifestarsi».
137
Sulla pluralità di significati di fides, si veda quanto già detto supra, § 1.
138
Volendo chiarire il significato dell’espressione ‘per hanc dextram’ utilizzata da Terenzio, Donato,
ad esempio, scrive che si tratta di ‘fidei et foederis membrum et manum conventionis’ (Don. Ter. Andr.
289): v. P. Boyancé, La main, cit., 124. Impossibile è poi non andare con la mente all’elogio della mano
di Quint. inst. 11.3.85-6: Manus vero, sine quibus trunca esset actio ac debilis, vix dici potest quot motus
habeant, cum paene ipsam verborum copiam persequantur. Nam ceterae partes loquentem adiuvant,
hae, propest ut dicam, ipsae locuntur. An non his poscimus, pollicemur, vocamus, dimittimus, minamur,
supplicamus, abominamur, timemus, interrogamus, negamus, gaudium, tristitiam, dubitationem,
confessionem, paenitentiam, modum, copiam, numerum, tempus ostendimus?
139
P. Boyancé, La main, cit., 122 s., pone l’accento sul fatto che «il y a entre Fides et la main
droite une liaison toute particulière», e ciò non tanto per la forza magica della stessa, o per l’essere
un gesto che simboleggia la sottomissione del vinto, ma in quanto «la main droit intervenait dans
des gestes ou dans des actes impliquant les notions de la fides». Come notato da L. Capogrossi
Colognesi, La struttura della proprietà e la formazione dei ‘iura praediorum’ nell’età repubblicana,
I, Milano, 279, peraltro, nell’impiego del termine manus «sopravvive una dimensione che
trascende la sfera meramente giuridica e che corrisponde ad un momento anteriore, legato ancora
ad una concezione nella quale viene a giuocare il più immediato valore del termine riferito ad una
parte del corpo umano atta a esprimere significati non meramente materiali».
140
Su cui v. infra.
La mano destra in Roma antica 59

Ed è quindi a questa dimensione ‘dinamica’ che occorre ora rivolgere


l’attenzione, onde verificare peraltro se sia fondata la tesi che riconosce
nell’arcaica fides la convivenza di due orizzonti funzionali – potestativo e
promissiorio – che si sono poi intersecati, fino a confondersi141.

4. La mano come simbolo di potere.

Da tempo, pensatori di eterogenea estrazione hanno messo in risalto


come il termine manus risalga all’esperienza romana dei tempi più anti-

141
È cosa nota che nelle società caratterizzate da una religiosità ritualistica, formalizzata e
spiccatamente legalistica, come quella romana più antica, i gesti non avevano una valenza meramente
espressiva: non erano, cioè, volti soltanto ad amplificare il senso e la portata delle dichiarazioni orali
(cfr. C. Sittl, Die Gebärden der Griechen und Römer, Leipzig, 1890, 81 ss., e, per la rilevanza in
ambito giuridico, 129 ss.). Spesso, invero, erano qualcosa di più (cfr. R. Cantoni, Il pensiero dei
primitivi, Milano, 1966, 47 s.): poteva infatti capitare che alcuni segni mimici divenissero i «simboli
codificati» di una collettività, elementi comunicativi che racchiudevano un significato autonomo
e profondo, nonché una specificità teleologica chiara e percepibile, in grado, secondo alcuni, di
modificare la ‘realtà’ (cfr. A. Calore, ‘Per Iovem lapidem’, cit., 118, da cui è tratta la citazione).
Sulle funzioni dei gesti, sulla loro portata espressiva e simbolica, nonché intorno alle origini e ai
mutamenti della carica comunicativa si è discusso e scritto moltissimo: un interessante e ragionato
itinerario bibliografico si trova in L. Dal Poggetto, Per una bibliografia sul gesto, in Il gesto nel rito,
cit., 311 ss. Pare comunque il caso qui di ricordare, insieme ai contributi confluiti nella raccolta
appena citata, la fondamentale ricerca di M. Mauss, Le tecniche del corpo, in Teoria generale della
magia e altri saggi, trad. it., Torino, 2000, 385 ss., nonché studi più risalenti nel tempo, come G.
Bonifacio, L’arte de’ cenni, con la quale formandosi favella visibile, si tratta, della muta eloquenza, che
non è altro che un facondo silenzio, Vicenza, 1616; A. De Jorio, La mimica degli antichi investigata
nel gestire napoletano, Napoli, 1832 (su cui v. B. Croce, Il ‘linguaggio dei gesti’, in La Critica, XXIX,
1931, 223 ss.), ovvero i lavori di G. Cocchiara, Il linguaggio del gesto, Palermo, 1977 (rist. 1932),
passim; P.E. Ricci Betti, Comunicazione e gestualità, in Comunicazione e gestualità, a cura di P.E.
Ricci Betti, Milano, 1987, 13 ss. Costituisce un argomento di riflessione autonomo sin ab antiquo
quello della valenza della mimica nell’ambito dell’arte retorica (v. Cic. de orat. 3.59.220-223; orat.
17.55-56; Quint. inst. 1.11.3; 1.11.8; 11.3.65-136, e in particolare 11.3.85-120 con specifico
riferimento all’uso delle mani, ove peraltro si consiglia di utilizzare la destra per enfatizzare i passaggi
più importanti; Auct. rhet. ad Her. 3.19; 26-27), su cui cfr. almeno J. Martin, Anthike Rhetorik,
München, 1974, 354; G.S. Aldrete, Gestures and Acclamation in Ancient Rome, Baltimore -
London, 1999, passim; D. Dutsch, Towards a Grammar of Gesture: a Comparison between the
Types of Hand Movements of the Actor in Quintilian’s ‘Institutio Oratoria’ 11.3.85‒184, in Gesture,
II, 2002, 265 ss.; F. Ghedini, L’oratore fra Grecia e Roma: i gesti dell’eloquenza attraverso le immagini,
in Gesto-immagine. Tra antico e moderno. Riflessioni sulla comunicazione non-verbale. Giornata di
studio (Isernia, 18 aprile 2007), a cura di M. Salvadori, Roma, 2009, 47 ss.; F.R. Nocchi, Tecniche
teatrali e formazione dell’oratore in Quintiliano, Berlin - Boston, 2013, 117 ss. e, per le mani, 142 ss.
Sui gesti di saluto e di ossequio in Roma antica, cfr. A.D. Manfredini, Cedere il passo alle signore, in
Fundamina, XX.2, 2014, 586 ss.; Ph. Moreau, Positions du corps, gestes et hiérarchie sociale à Rome,
in Corps romains, cit., 179 ss.
60 Mattia Milani

chi142 e sia immediatamente riferibile all’idea di potere e ad una condizione


di signoria di un soggetto sugli elementi del mondo che lo circondano143,
anche in ragione del collegamento con quella parte del corpo umano (la
mano, appunto) particolarmente adatta ad esprimere simili significati.
Per Ferdinando Zuccotti la nozione di manus «sembra risalire a un’età
pressoché primigenia ed indicare tanto la posizione sovrana del re quanto la
supremazia del paterfamilias, compendiando indistintamente tutti i poteri
che in età storica si esplicheranno sia sul piano dell’ordinamento pubblici-
stico che su quello del diritto privato»144.
Invero, già nella prima metà dell’Ottocento – con la nascita dell’inte-
resse a indagare i fenomeni giuridici della Roma delle origini145, sino ad oggi
invero mai venuto meno146 – diversi studiosi di area germanica, tra cui Ru-

142
Cfr. L. Capogrossi Colognesi, La struttura, cit., 279 ss., nonché già C. Sittl, Die Gebärden,
cit., 129 ss.; J. Gaudemet, Observations sur la ‘Manus’, in RIDA, II, 1953, 330 ss.; C. Gioffredi,
Religione e diritto, cit., 274; P. de Francisci, ‘Primordia civitatis’, cit., 321; e ancora R. Orestano,
I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino, 1967, 81 ss.; M.A. Levi, ‘Manus, fides,
fides publica’, cit., 308 ss., per il quale «manus è un concetto basilare e primigenio nei rapporti più
arcaici ed elementari fra gli essere umani, e quanto di magico e parapsicologico esiste nella mano e
nella sua gestualità, attraverso i millenni, è in parte connesso con tutti i significati di dominium che
si sono attribuiti alle azioni della mano destra»; M. Le Glay, La δεξίωσις, cit., 285 ss.; A. Calore,
‘Tactis Evangeliis’, in Il gesto nel rito, cit., 75 ss.; F. Zuccotti, I glittodonti del diritto romano. Alcune
ipotesi sulle strutture dell’arcaico ordinamento quiritario, in RDR, III, 2003, 2 ss., che nota come il
termine manus si ritrovi «nel suo doppio significato, di ‘potere’ oltre che di ‘parte del corpo’, anche
in lingue come ad esempio l’irlandese e il germanico»; S. Romeo, L’appartenenza e l’alienazione
in diritto romano. Tra giurisprudenza e prassi, Milano, 2010, 48 ss.; L. Franchini, Alle origini di
negozio e processo: l’autotutela rituale, in Il giudice privato, cit., I, 179 s., nt. 43.
143
Basti guardare l’ampio ventaglio di fonti riferibili a tali aspetti: cfr. V. Bulhart, voce ‘Manus’,
in ThLL, VIII, Lipsiae, 1966, 352 ss.
144
Cfr. F. Zuccotti, I glittodonti, cit., 22.
145
Un ampio quadro ci è reso da L. Capogrossi Colognesi, La struttura, cit., 64 ss.
146
Sul tema, come noto, la letteratura è vastissima: qui basti ricordare P. Bonfante, Forme
primitive ed evoluzione della proprietà romana (‘res mancipi’ e ‘res nec mancipi’), in Scritti giuridici
varii. II. Proprietà e servitù, Torino, 1918, 1 ss.; F. De Visscher, ‘Mancipium et res mancipi’, in
SDHI, II, 1936, 263 ss. (ora in Nouvelles études de droit romain public et privé, Milano, 1949,
195 ss.); M. Kaser, Eigentum und Besitz im älteren römischen Recht2, Köln - Graz, 1956, passim;
F. Gallo, Studi sulla distinzione fra ‘res mancipi’ e ‘res nec mancipi’, Torino, 1958, 150 ss. (ora,
con Nota di lettura di F. Zuccotti, anche in RDR, IV, 2004); Id., ‘Potestas’ e ‘dominium’
nell’esperienza giuridica romana, in Labeo, XVI, 1970, 17 ss.; A. Watson, The Law of Property in
the Later Roman Republic, Oxford, 1968; L. Capogrossi Colognesi, La struttura, cit., passim;
Id., Ancora sui poteri del ‘pater familias’, in BIDR, LXXII, 357 ss.; Id., voce Proprietà (dir. rom.),
in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, 160 ss.; G. Diósdi, Ownership in Ancient and Preclassical
Roman Law, Budapest, 1970; A. Corbino, Schemi giuridici dell’appartenenza nell’esperienza
giuridica romana arcaica, in La proprietà e le proprietà (Pontignano, 30 settembre-3 ottobre 1985),
a cura di E. Cortese, Milano, 1988, 3 ss.
La mano destra in Roma antica 61

dolf von Jhering e Moritz Voigt147, avevano ipotizzato che il termine manus
indicasse il potere indistinto e unitario riservato al paterfamilias sugli indi-
vidui e sui beni appartenenti alla famiglia, da cui sarebbero poi derivate le
forme di signoria rese da espressioni quali potestas e dominium148.
Tale ricostruzione, in seguito discussa, criticata e rivalutata, si inseriva
già allora in un dibattito molto accesso, teso a individuare le forme di ap-
partenenza più antiche – e, dunque, volto a decifrare la struttura dell’ordi-
namento quiritario, nel quale si intrecciano problemi concernenti l’orga-
nizzazione politica, economica e sociale della Roma delle origini –, che nel
corso dei decenni ha finito col comporre un affresco di peculiare profondi-
tà e complessità, di cui non è in questa sede possibile dar precisa contezza149.
Ad ogni buon conto, si può qui ricordare come per Riccardo Orestano150

147
R. von Jhering, Geist des römischen Rechts9, II.1, Leipzig, 1894 (rist. Aalen 1968), 157 ss.;
M. Voigt, Über den Bestand und die historische Entwickelung der Servituten und Servitutenklagen
während der römischen Republik, in Berichte über die Verhandlungen der königlich sächsischen
Gesellschaft der Wissenschaften zu Leipzig. Philologisch-historische Classe, XXVI, Leipzig, 1874,
159 ss.; Id., Die XII Tafeln. II. Das Zivil- und Kriminalrecht der XII Tafeln, Leipzig, 1883, 345
ss.; Id., Römische Rechtsgeschichte, I, Leipzig, 1892, 127 ss., ma già prima di loro erano convinti del
carattere unitario dei poteri del paterfamilias E. Gans, Scholien zum Gajus, Berlin, 1821, 138 ss.;
J. Christiansen, Die Wissenschaft der römischen Rechtsgeschichte im Grundrisse, I, Altona, 1838,
134 ss.; A. Rossbach, Untersuchungen über die römische Ehe, Stuttgart, 1853, 26 ss.
148
Come noto, nell’ambito dei rapporti tra marito e moglie, il termine manus continua ad
indicare (in talune ipotesi) il potere esercitato dal primo sulla seconda: cfr. sul punto C. Fayer,
La ‘familia’ romana. Aspetti giuridici ed antiquari. ‘Sponsalia’. Matrimonio. Dote, II, Roma, 2005,
212 ss., ove letteratura; C.F. Amunátegui Perelló, ‘Potestas manus mancipiumque’, in RIDA,
LIX, 2012, 60 ss.; L. Franchini, Alle origini, cit., 179 s., nt. 43, convinto come «anche la coëmptio
traesse origine da antichi atti di apprensione manuale», nel caso di specie di una donna «sulla
quale non a caso si esercitava un potere denominato manus» (già prima di lui aveva ipotizzato
che a fondamento della coëmptio vi fosse un atto di forza fisica E. Cantarella, Sui rapporti fra
matrimonio e ‘conventio in manum’, in RISG, XCIII, 1959-1962, 220, nt. 153).
149
Per un quadro di sintesi delle diverse prospettive ermeneutiche emerse in dottrina cfr., oltre
all’imprescindibile lavoro di L. Capogrossi Colognesi, La struttura, cit., 18 ss., la ricognizione
di recente compiuta da S. Romeo, L’appartenenza, cit., 22 ss.
150
Mentre commentava quel noto frammento di Pomponio ove questi afferma che nei tempi più
lontani della storia di Roma, quando non c’erano una legge e un diritto certi (‘sine lege certa, sine
iure certo’), ogni cosa ‘manu a regibus gubernabantur’: Pomp. lib. sing. ench. D. 1.2.2.1: Et quidem
initio civitatis nostrae populus sine lege certa, sine iure certo primum agere instituit omniaque manu
a regibus gubernabantur. Accostano il regnum alla manus anche Cic. Verr. 2.4.62; Liv. 1.54.10;
5.27.4. Critico U. Coli, ‘Regnum’, in SDHI, XVII, 1951, 127 ss. Sulla figura di Sesto Pomponio
e sul suo Enchiridion, cfr., anche per la letteratura ivi citata, R. Orestano, voce Pomponio Sesto,
in Noviss. dig. it., XIII, Torino, 1966, 271; D. Nörr, Pomponius oder ‘Zum Geschichtsverständnis
der römischen Juristen, in ANRW, II.15, cit., 497 ss. (ora anche nella traduzione in lingua italiana
curata da M.A. Fino ed E. Stolfi, in RDR, II, 2002, 167 ss., e accompagnata da una Nota di lettura
di A. Schiavone e da una postilla di aggiornamento bibliografico); E. Stolfi, Studi sui ‘libri ad
62 Mattia Milani

la manus rappresenti una «categoria fondamentale dell’esperienza primitiva,


cui venivano rapportate le più diverse situazioni, come una specie di asse in-
torno a cui ruotavano le più diverse figure, al fondo delle quali vi era un ele-
mento comune che le dominava, le coordinava, le connetteva, riducendole ad
un unico denominatore, un elemento che era realtà e simbolo al tempo stesso
e in cui sembra esprimersi addirittura una credenza di ordine magico: la pos-
sanza che ha l’uomo di imprimere, attraverso l’imposizione della propria ma-
no, qualcosa di sé in ciò che tocca e di operare attraverso di essa la creazione di
situazioni e di modificazioni permanenti del mondo circostante»151.

edictum’ di Pomponio. I. Trasmissione e fonti, Napoli, 2002; Id., Studi sui ‘libri ad edictum’ di
Pomponio. II. Contesti e pensieri, Milano, 2002.
151
Così R. Orestano, I fatti, cit., 81, ma, sul punto, v. anche F. Zuccotti, I glittodonti, cit., 2 ss.;
S. Romeo, L’appartenenza, cit., 22 ss. È interessante ricordare come nella tradizione indoeuropea il
re dovesse mantenersi integro nel corpo e specialmente conservare la mano destra, giacché era questa
a legittimarne il potere: v. B. Lincoln, Death, War and Sacrifice. Studies in Ideology and Practice,
Chicago - London, 1991, 248 ss. Il che spiegherebbe l’uso, attestatoci da alcune fonti, di mutilare il
cadavere dei condottieri nemici sconfitti in battaglia asportandone la mano destra, come capitò a
M. Licinio Crasso – stando a quanto ci racconta Plut. Crass. 32-33, ma vi sono anche altre versioni,
invero altrettanto macabre (Ov. ars 1.180; Val. Max. 1.6.11) – dopo la sfortunata spedizione contro
i Parti, culminata nel disastro di Carre (cfr. G. Traina, La resa di Roma. 9 giugno 53 a.C., battaglia
a Carre, Roma - Bari, 2010, 87 ss.; Id., La tête et la main droite de Crassus. Quelques remarques
complémentaires, in Corps au supplice et violence de guerre dans l’Antiquité, a cura di A. Allély,
Bordeaux, 2014, 95 ss.). Un’abitudine che si ritrova anche in cornici storiche e culturali punto
differenti: nella Persia del V secolo a.C. – stando a Xen. An. 1.10.1 e Plut. Artax. 13.2, ma rileva
essere un unicum F. Mari, La main infidèle. Le Grand Roi et la mutilation de Cyrus le Jeune, in Corps
au supplice, cit., 81 – si ha notizia della recisione della mano destra dal cadavere di Ciro il Giovane,
morto nella battaglia di Cunassa combattuta contro il fratello maggiore Arsace, assiso al trono
persiano col nome di Artaserse II (sui diversi casi di mutilazione della mano destra, v. A. Allély, Les
Romains, coupers de mains? À propos de quelques mutilations romaines en périodes de guerre à l’époque
républicaine, in Corps au supplice, cit., 151 ss.). Simile la prospettiva nell’ambito della lotta per le
investiture che contrappose, nel corso dell’XI secolo, il Papato e l’Impero. I sostenitori di Enrico
IV di Franconia, quando seppero che il suo rivale Rodolfo di Svevia – eletto da alcuni principi
tedeschi guidati dall’arcivescovo di Magonza – aveva perso la mano destra in battaglia, ebbero gioco
facile a diffondere l’impressione che ciò fosse il segno della volontà divina di escluderlo dal seggio
imperiale, anche perché macchiatosi di spergiuro. Cfr. T.J.H. McCarthy, Frutolf of Michaelsberg’s
‘Chronicle’, the Schools of Bamberg, and the Transmission of Imperial Polemic, in HSJ, XXIII, 2014,
64; I.S. Robinson, Henry IV of Germany, 1056-1106, Cambridge, 1999, 204 s.; U.-R. Blumenthal,
The Investiture Controversy. Church and Monarchy from the Ninth to the Twelfth Century, trad.,
Philadelphia, 1988, 124 s. Scrive J.-P. Baud, Il caso della mano rubata. Una storia giuridica del corpo,
trad. it., Milano, 2003, 104, che «la mutilazione della mano destra è, in qualche modo, una ‘morte
civile corporea’, cioè una situazione intermedia tra la morte fisica del corpo e la morte civile della
persona». Celebre il caso di Cicerone, forse la vittima più illustre delle proscrizioni triumvirali:
quando fu assassinato, nel 43 a.C., venne fatto scempio del cadavere, mutilato della testa e della
mano destra (alcune fonti riferiscono del taglio di entrambe le mani), con la quale aveva scritto le
Philippicae contro Marco Antonio, ma che simbolicamente rappresentava lo strumento di lavoro e,
La mano destra in Roma antica 63

Osservando le testimonianze pervenuteci, infatti, viene facile rilevare


come la gestualità connessa alla mano svolgesse un ruolo preminente e d’al-
tissimo impatto simbolico nella realtà romana più lontana nel tempo.
La cerimonia di proclamazione di Numa quale rex Romanorum – narra-
tici da Livio nel primo dei suoi Ab Urbe condita libri152 – culmina con l’au-
gure che poggia la propria mano destra sul capo del futuro sovrano e prega
Iuppiter affinché mostri ‘si est fas hunc Numam Pompilium … regem Romae
esse’: secondo Frédéric Blaive, quel contatto tra il sacro e l’umano simboleg-
gia un «accroissement dècisif de puissance religieuse, afin de rendre Numa
pleinement capable d’exercer, sur le plan sacral, sa fonction royale»153.
Ma il collegamento tra gesta della mano e parole154 si ritrova, sotto forme
e con funzioni mutate155, anche nella prassi e nel linguaggio giuridici156, in
particolare in alcuni tra gli schemi negoziali e processuali più antichi, che,
pur mutando nel tempo sembianze e funzioni, conserveranno tali tracce.
Nelle pagine a seguire si poserà lo sguardo su alcuni esempi parsi a chi
scrive particolarmente significativi, in una logica invero lontana da ogni
pretesa di completezza.

così, di esercizio del suo ‘potere’ oratorio (cfr. F. Reduzzi Merola, I corpi, cit., 766. Tra le fonti che
ricordano dell’esecuzione dell’Arpinate, v. App. bell. civ. 4.19-20; Liv. perioch. 120; Plut. Cic. 48.6;
Anton. 20.3).
152
Liv. 1.18.6-10: Accitus, sicut Romulus augurato urbe condenda regnum adeptus est, de se quoque
deos consuli iussit. Inde ab augure, cui deinde honoris ergo publicum id perpetuumque sacerdotium
fuit, deductus in arcem in lapide ad meridiem versus consedit. Augur ad laevam eius capite velato
sedem cepit, dextra manu baculum sine nodo aduncum tenens, quem lituum appellarunt. Inde ubi
prospectu in urbem agrumque capto deos precatus regiones ab oriente ad occasum determinavit,
dextras ad meridiem partes, laevas ad septentrionem esse dixit; signum contra, quoad ongissime
conspectum oculi ferebant, animo finivit; tum lituo in laevam manum translato dextra in caput
Numae imposita ita precatus est, «Iuppiter pater, si est fas hunc Numam Pompilium, cuius ego caput
teneo, regem Romae esse, uti tu signa nobis certa adclarassis inter eos fines quos feci». Tum peregit
verbis auspicia quae mitti vellet. Quibus missis declaratus rex Numa de templo descendit.
153
F. Blaive, De la ‘designatio’ à l’‘inauguratio’: observations sur le processus de choix du ‘rex
Romanorum’, in RIDA, XLV, 1998, 63. Sull’argomento, cfr. H.J. Rose, The Inauguration
of Numa, in JRS, XIII, 1923, 82 ss.; R.M. Ogilvie, A Commentary, cit., 91 ss.; P. Catalano,
Contributi allo studio del diritto augurale, Torino, 1960, 562; J. Linderski, The Augural Law. VI.
The Ritual of Inauguration: ‘templum’, ‘auspicium’, ‘augurium’, in ANRW, II.16.3, Berlin - New
York, 1986, 2296 s. e nt. 604; L. Capogrossi Colognesi, Storia di Roma, cit., 34; M. Trommino,
Aspetti di diritto augurale: riflessioni intorno all’‘inauguratio’ delle vestali romane, in RDR, XII,
2012, 7 e nt. 47.
154
Cfr. B. Paradisi, Rito e retorica, cit., 334.
155
Cfr. L. Capogrossi Colognesi, La struttura, cit., 377 s.
156
Su tali aspetti si è soffermato A. Corbino, Il formalismo negoziale nell’esperienza romana2,
Torino, 2006.
64 Mattia Milani

5. La gestualità della mano in alcuni schemi negoziali e processuali antichi: la


‘mancipatio’, il ‘manu(m) conserere’, la ‘manus iniectio’.

Giova ora iniziare l’analisi della mancipatio. Come noto, si tratta di un


negozio le cui origini risalgono ai tempi più remoti della storia di Roma. Con
esso si formalizzava il trasferimento del dominium ex iure Quiritium di res
mancipi da un soggetto, detto mancipio dans, ad un altro, che prendeva il
nome di mancipio accipiens, a fronte del contestuale pagamento di un certo
prezzo157, rappresentato allora dal bronzo definito aes rude, se non lavorato,
o aes signatum, se diviso in pani di varie dimensioni158. Con l’introduzione
della moneta coniata, avvenuta intorno al IV secolo a.C.159, la mancipatio mu-
ta fisionomia e funzione, trasformandosi da vendita a contanti a ‘imaginaria
venditio’160 – come la definisce Gaio161 –, ossia in un atto traslativo del do-
minium di res mancipi non più legato al versamento di un corrispettivo e, in
generale, ormai insensibile alla ragione economica fondante tale spostamento
patrimoniale162. Ed è sulla scorta di ciò, nonché attraverso la valorizzazione
di quel noto precetto decemvirale (pervenutoci tramite Festo163), secondo

157
Giusta una certa incongruenza nei certa verba che compongono la formula mancipatoria
pronunciata dall’accipiente (che prima afferma essere sua la cosa, e poi fa riferimento all’emere: v.
infra), parte della dottrina – come L. Franchini, Alle origini, cit., 174 ss. e nt. 25 – ha ipotizzato
che, in età più risalente, la mancipatio non fosse una vendita a contanti, bensì affermazione di
potere ancora indifferenziato, una «vindicatio sulla cosa (o sulla persona)» a partire dalla quale
l’interpretazione pontificale avrebbe elaborato «i relativi schemi in modo tale da iscriverla in un
contesto ‘processuale’ o ‘negoziale’».
158
Plinio il Vecchio attribuisce a Servio Tullio il merito di aver introdotto tale novità nel
sistema monetario romano: cfr. Plin. nat. 33.13.43.
159
Cfr. C.S. Tomulescu, Les rapports de la ‘mancipatio’ et de la monnaie dans l’ancient droit
romain, in RIDA, XVI, 1969, 345 ss.; F. De Martino, Storia economica di Roma antica, Firenze,
1979, 45 ss.; A. Romano, Economia naturale ed economia monetaria nella storia della condanna
arcaica, Milano, 1986, 95 ss.; W.V. Harris, A Revisionist View of Roman Money, in JRS, XCVI,
2006, 1 ss.; F. Panvini Rosati, Monetazione preromana in Italia. Gli inizi della monetazione
romana in Italia e la monetazione romano-campana, in La moneta greca e romana, Roma, 2000,
79 ss.
160
Cfr. M. Talamanca, voce Vendita (dir. rom.), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 304.
161
Gai 1.113 e 1.119, quest'ultimo riprodotto poco più avanti.
162
Cfr. G. Pugliese, Compravendita e trasferimento della proprietà in diritto romano, in
Vendita e trasferimento della proprietà nella prospettiva storico-comparatistica. Atti del Congresso
Internazionale Pisa-Viareggio-Lucca (17-21 aprile 1990), a cura di L. Vacca, I, Milano, 1991, 42,
nonché S. Romeo, L’appartenenza, cit., 180 ss. e 245 ss.; C.F. Amunátegui Perelló, Problems
concerning ‘mancipatio’, in TJ, LXXX, 2012, 332 s.
163
Fest. voce ‘Nuncupata pecunia’ (Lindsay 176), ma v. anche Varro ling. 6.60 e Serv. in Verg.
Aen. 3.89.
La mano destra in Roma antica 65

cui ‘cum faciet nexum mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto’164,
che la giurisprudenza ha ammesso la facoltà per le parti di una mancipatio di
perseguire tramite tale negozio finalità differenti, e non di rado assai distanti,
rispetto a quella originaria165.
Tracce di questa trasformazione si possono ricavare dalla descrizione del
cerimoniale mancipatorio di età storica, di cui abbiamo notizia attraverso un
celebre passo delle Institutiones gaiane, oggetto di ampie attenzioni in dottri-
na166.
Si tratta di:
Gai 1.119: Est autem mancipatio, ut supra quoque diximus, imaginaria quaedam
venditio; quod et ipsum ius proprium civium Romanorum est, eaque res ita agitur:
adhibitis non minus quam quinque testibus civibus Romanis puberibus et praeterea
alio eiusdem condicionis, qui libram aenam teneat, qui appellatur libripens, is qui
mancipio accipit, rem tenens ita dicit: hunc ego hominem ex iure Quiritium meum
esse aio isque mihi emptus esto hoc aere aeneaque libra ; deinde aere percutit
libram idque aes dat ei a quo mancipio accipit quasi pretii loco.

164
Cfr. M. Kaser, Das römische Privatrecht. I. Das altrömische, das vorklassische und klassische
Recht, München, 1971, 47; O. Behrends, La ‘mancipatio’ nelle XII Tavole, in Iura, XXXIII,
1982, 46 ss.
165
Si pensi, ad esempio, all’ipotesi della mancipatio familiae attestataci da Gai 2.102-106, mediante
cui il pater – in imminente pericolo di morte e senza poter ricorrere ad altre forme testamentarie
– trasferiva ad un terzo fiduciario (chiamato familiae emptor) l’intero patrimonio familiare,
affinché questi lo distribuisse alla morte del mancipio dans: cfr. B. Albanese, Brevi studi di diritto
romano (III). VI. Sul formulario della ‘mancipatio familiae’ in Gai 2.104, in AUPA, XLVII, 2002,
68 ss.; F. Terranova, Ricerche sul ‘testamentum per aes et libram’. I. Il ruolo del ‘familiae emptor’
(con particolare riguardo al formulario del testamento librale), Torino, 2011, 27 ss. In generale, sul
processo di progressiva astrazione di cui si discute, e sulla valorizzazione del precetto decemvirale
riprodotto supra, v. C. Gioffredi, Su XII ‘Tab.’ VI.1, in SDHI, XXVII, 1961, 343 ss.; E. Volterra,
voce ‘Nuncupatio’, in Noviss. dig. it., XI, Torino, 1965, 518; N. Bellocci, La struttura del negozio
della ‘fiducia’ nell’epoca repubblicana. I. Le ‘nuncupationes’, Napoli, 1979, 47 ss., per una visione
in controtendenza rispetto alla communis opinio cfr. S. Randazzo, ‘Leges mancipii’. Contributo
allo studio dei limiti di rilevanza dell’accordo negli atti formali di alienazione, Milano, 1998, 40 s.
Sull’importanza dell’interpretazione giurisprudenziale, pontificale e laica, in questo percorso
evolutivo, cfr. R. Ambrosino, Le applicazioni innovative della ‘mancipatio’. Linee di sviluppo del
diritto sostanziale quiritario, in Studi in memoria di E. Albertario, II, Milano, 1953, 573 ss.
166
Tra gli studi più recenti, si segnalano C.F. Amunátegui Perelló, Problems, cit., 329 ss.; M.
Nowak, ‘Mancipatio’ and its Life in Late-roman Law, in JJP, XLI, 2011, 103 ss.; K. Tuori, The
Magic of ‘Mancipatio’, in RIDA, LV, 2008, 500 ss.; S. Randazzo, ‘Leges mancipii’, cit., 39 ss.; S.
Romeo, L’appartenenza, cit., 123 ss.; S. Cristaldi, Diritto e pratica della compravendita nel tempo
di Plauto, in Index, XXXIX, 2011, 501 ss.; S. Viaro, Corrispettività e adempimento nel sistema
contrattuale romano, Padova, 2011, 217 ss.; L. Franchini, Alle origini, cit., 172 ss. Rimane in ogni
caso imprescindibile M. Kaser, Das römische Privatrecht, cit., I, 41 ss.
66 Mattia Milani

Dopo aver specificato che la mancipatio è una vendita fittizia e costitui-


sce un istituto peculiare del ‘ius proprium civium Romanorum’167, il giurista
dell’età degli Antonini ci dice che essa si perfezionava tramite la pronuncia
di verba e il compimento di gesta, alla presenza di cinque testimoni romani e
di un ‘libripens’, che sorreggeva la stadera sulla quale, in origine, veniva pesato
l’aes rude (poi signatum) costituente il prezzo della res168.
Di fronte a loro, il mancipio accipiens doveva afferrare con la propria
mano il bene che voleva acquistare e, in tale posizione – ‘rem tenens’, secon-
do la lezione paleografica che pare più attendibile (anche alla luce di Gai
1.121; 2.24 e 4.16, su cui ci soffermeremo nelle prossime pagine)169 – era te-
nuto a pronunciare la seguente formula solenne: ‘hunc ego hominem ex iure
Quiritium meum esse aio isque mihi emptus esto hoc aere aeneaque libra’170.

167
Del quale però potevano servirsi anche gli stranieri cui fosse stato concesso il commercium:
cfr., a tal proposito, Tit. Ulp. 19.4-5 (su tale opera, v. infra nt. 177), nonché in dottrina I.
Pontoriero, La nozione di ‘commercium’ in Tit. Ulp. 19.4-5, in AUPA-Revisione ed integrazione
dei ‘Fontes Iuris Romani Anteiustiniani’ (FIRA). Studi preparatori. II. ‘Auctores’ - ‘Negotia’, a cura
di G. Purpura, Torino, 2012, 131 ss.; S. Romeo, L’appartenenza, cit., 173 ss.
168
Quali beni potevano essere oggetto di mancipatio lo dice Gai 1.120: Eo modo et serviles et
liberae personae mancipiantur; animalia quoque quae mancipi sunt, quo in numero habentur boves
equi, muli, asini; item praedia tam urbana quam rustica quae et ipsa mancipi sunt, qualia sunt
Italica, eodem modo solent mancipari.
169
Invero, il punto in questione risulta oggi di difficile lettura: gli apografi del Böcking e dello
Studemund recano la lezione ‘rem tenens’ (ma il primo segnalava già allora di esssere incorso in qualche
difficoltà di comprensione). Alcuni autori, sulla scorta di Boeth. in Cic. top. 5.28, correggono il testo
gaiano sostituendo ‘aes tenens’ a ‘rem tenens’ (così S. Solazzi, Glosse a Gaio, in Studi in onore di S.
Riccobono, I, Palermo, 1936, 73 ss. [ora anche in Scritti di diritto romano, VI, Napoli, 1972, 154 ss., da
cui le citazioni]; P. Meylan, Gaius, Inst. 1.119: ‘rem tenens’ ou ‘aes tenens’?, in Studi in memoria di E.
Albertario, I, Milano, 1953, 227 ss., nonché A. Corbino, Il rituale della ‘mancipatio’ nella descrizione di
Gaio (‘Rem tenens’ in Inst. 1.119 e 2.24), in SDHI, XLII, 1976, 149 ss.; S. Randazzo, ‘Leges mancipii’,
cit., 39 ss.); di diverso avviso (e dunque propensi ad accogliere la lezione ‘rem tenens’), con motivazioni
che appaiono convincenti – anche in ragione di quanto ci riportano Gai 1.121, Tit. Ulp. 19.6, su cui
v. infra – P. Voci, Modi di acquisto della proprietà, Milano, 1952, 27, nt. 2; V. Arangio-Ruiz, La
compravendita in diritto romano, I, Napoli, 1961 (rist. 1954), 31 ss.; F. Gallo, Studi, cit., 144, nt. 236;
L. Capogrossi Colognesi, La struttura, cit., 29, nt. 50; G. Pugliese, Compravendita, cit., 40, nt. 5;
C.A. Cannata, ‘Qui prior vindicaverat’: la posizione delle parti nella ‘legis actio sacramento in rem’, in
Scritti scelti di diritto romano, a cura di L. Vacca, II, Torino, 2012, 86, nt. 17 (già in Mélanges F. Wubbe,
cit., 83 ss.). Sulla questione, v. S. Romeo, L’appartenenza, cit., 244, nt. 192, che propende per la lezione
‘rem tenens’, al pari di S. Viaro, Corrispettività, cit., 220 s., nt. 129.
170
Gai 1.119. Parte della dottrina – tra cui P. Bonfante, Corso di diritto romano. II. La proprietà,
II, Roma, 1928 (rist. Milano 1968), 185 – ha invero ipotizzato che nei verba mancipatori dovesse
venir richiamato anche il prezzo reale dell’alienazione, tramite l’espressione ‘emptus mihi esto
pretio’: scettici, in ordine a questa ricostruzione, già S. Romano, Nuovi studi sul trasferimento
della proprietà e il pagamento del prezzo nella compravendita romana, Padova, 1937, 60, e, più di
recente, S. Romeo, L’appartenenza, cit., 222 s.
La mano destra in Roma antica 67

Quindi, l’acquirente toccava la bilancia171 con un pezzo di bronzo, detto


'raudusculum', che poi consegnava – quale simbolo di un prezzo non ver-
sato, quantomeno in quel frangente (‘quasi pretii loco’) – a controparte, la
quale invece taceva172. Dal punto di vista gestuale, un momento centrale173
– e dall’indiscutibile impatto simbolico174 – della liturgia appena descritta
era rappresentato dall’apprensione manuale della res mancipi. Non solo da
quel manu capere – come ci ricorda poco oltre ancora Gaio – aveva forse
preso il nome il negozio di cui andiamo discutendo175, ma si trattava di un
gesto che doveva necessariamente compiersi proprio perché si realizzasse
l’effetto traslativo.
Basti pensare che, in un primo momento, potevano essere mancipate sol-
tanto le persone (serviles e liberae) o gli animali rientranti tra le res mancipi (in
quanto ‘collo dorsove domantur’, come precisa Gaio in 2.16) presenti durante
il cerimoniale, in modo che l'accipiente potesse esercitare la propria ‘presa’176.

171
Varro ling. 5.163 ricorda – ma si v. anche Fest. voce ‘Rodus’ (Lindsay 320-322) – che in
tale occasione dovevano recitarsi anche le parole ‘raudusculo libram ferito’, probabilmente da
parte del libripens, ma non è escluso che si trattasse del mancipio dans: V. Arangio-Ruiz, La
compravendita, cit., I, 22, ritiene preferibile la prima ipotesi.
172
In Gai 1.122 sono spiegate le ragioni per cui era stato predisposto un simile cerimoniale,
connesse ad un periodo storico in cui il sistema monetario era di tipo ponderale (legato al peso
del metallo) e non nominale: sul punto, cfr. S. Romeo, L’appartenenza, cit., 229 s., oltre alle opere
già ricordate in nt. 159.
173
Cfr. F. Gallo, Studi, cit., 147; J.G. Wolf, Funktion und Struktur der ‘mancipatio’, in
Mélanges de droit romain et d’histoire ancienne. Hommage à la mémoire de A. Magdelain, Paris,
1998, 506 s.
174
Sulla funzione del simbolo nelle forme giuridiche della storia più antica di Roma, cfr. M.
Kaser, Das altrömische Ius. Studien zur Rechtsvorstellung und Rechtsgeschichte der Römer,
Göttingen, 1949, 321 ss. e, rispetto alla mancipatio, 328 ss.; S. Tondo, Aspetti simbolici e magici
nella struttura giuridica della ‘manumissio vindicta’, Milano, 1967, 110 s., nt. 29.
175
In termini analoghi si esprimono Varro ling. 6.85; Flor. 9 inst. D. 1.5.4.3; I. 1.3.3, nonché Paolo
Diacono e Isidoro di Siviglia, nei brani su cui ci soffermeremo in seguito. In ogni caso, va precisato, con
F. Gallo, Studi, cit., 142 ss., che appare «erronea, o almeno imprecisa» la derivazione etimologica che
Gaio prospetta del termine ‘mancipatio’ da ‘manu capere’, anziché dal verbo ‘mancipare’ (similmente
inesatta la notizia per cui la denominazione ‘res mancipi’ derivi da ‘mancipatio’, esposta in Gai 2.22):
invero, questi termini, pur se con percorsi linguistici differenti, derivano tutti – come comunemente
ammesso dai filologi (cfr. A. Ernout - A. Meillet, voce ‘Manceps’, in Dictionnaire, cit., 679 s.) –
dalle medesime radicali, ossia man (manu) e caps-ceps (capere). Sul punto, cfr. anche F. Zuccotti, I
glittodonti, cit., 5, in adesione alla ricostruzione di Gallo; G. Scherillo, ‘Res mancipi’ e ‘nec mancipi’.
Cose immobili e mobili, in Synteleia V. Arangio-Ruiz, I, Napoli, 1964, 86, per cui Gaio è invece nel
giusto, come ritiene anche L. Franchini, Alle origini, cit., 172 s., nt. 20.
176
Sulla distinzione tra res mancipi e nec mancipi (abolita solo da Giustiniano, come risulta
da C. 7.31.1.5) – nodo problematico che si intreccia con altri problemi fondamentali relativi
all’organizzazione politica, economica, sociale e giuridica della Roma delle origini (quali, a titolo
68 Mattia Milani

Ce ne dà notizia sempre Gaio, in:


Gai 1.121: ... quod personae serviles et liberae, item animalia quae mancipi sunt,
nisi in praesentia sint, mancipari non possunt; adeo quidem, ut eum <qui> manci-
pio accipit, adprehendere id ipsum quod ei mancipio datur, necesse sit; unde etiam
mancipiatio dicitur …

Tale regola è ripetuta in un passaggio dei Tituli ex corpore Ulpiani177, ove


per vero si prospetta anche una «curiosa» possibilità178: quella di compiere
una mancipatio di più beni mobili, reggendoli tutti in un unico abbraccio.
Tit. Ulp. 19.6: Res mobiles non nisi praesentes mancipari possunt, et non plures
quam quot manu capi possunt …

La centralità dell’adprehensio nel rituale in discorso, nonché il legame


etimologico tra mancipatio e manu capere prospettato da Gaio in 1.119,
si ritrovano in un passaggio di Varrone e in altri due di Isidoro di Siviglia
– per vero questi ultimi ricchi di incongruenze e inesattezze179 –, dedicati,
rispettivamente, alla mancipatio e al mancipium.

paradigmatico, il ruolo delle gentes e delle familiae in un tale contesto, la natura e l’ampiezza
dei poteri del paterfamilias, l’emersione del concetto di dominium) – sono fioriti molti studi, in
ragione anche del carattere lacunoso dello squarcio gaiano conservato in Gai 2.14a-16, che contiene
l’elenco dei beni appartenenti alla prima di tali categorie: all’interno di questo ricco dibattito, vale
la pena di ricordare almeno P. Bonfante, Forme, cit., 33 ss.; F. De Visscher, ‘Mancipium et res
mancipi’, cit., 263 ss.; F. Gallo, Studi, cit., passim (su cui G. Franciosi, Recensione, in Labeo, V,
1959, 370 ss.); G. Scherillo, ‘Res mancipi’, cit., 83 ss.; L. Capogrossi Colognesi, La struttura,
cit., 18 ss., con discussione anche delle ricostruzioni prospettate dagli interpreti medievali. Sulla
celebre divergenza tra sabiniani e proculiani in ordine al momento nel quale gli animali da tiro e
da soma dovevano essere annoverati fra le res mancipi (dalla nascita, per i primi, dal momento in
cui venivano domati, per i secondi), di cui ci è data notizia da Gai 2.15-16, cfr., ancora, F. Gallo,
Studi, cit., 41 ss., nonché G. Nicosia, ‘Animalia quae collo dorsove domantur’, in Iura, XVIII,
1967, 45 ss.; A. Guarino, Elefanti che imbarazzano, in Pagine di diritto romano, II, Napoli, 1993,
313 ss.; M. Varvaro, La compravendita di animali appartenenti alle ‘res mancipi’ in Varrone e in
Gaio alla luce della corrispondenza fra Baviera, Pernice e Mommsen, in AUPA, LVI, 2013, 298 ss.
177
Lo scritto, noto anche come Epitome Ulpiani (perché così denominato da F. Schulz, Die Epitome
Ulpiani des Codex Vaticanus Reginae 1128, Bonn, 1926), venne pubblicato per la prima volta a Parigi nel
1549 dal vescovo Jean du Tillet. Si ritiene trattarsi di un’opera composta nella prima metà del IV secolo
d.C., con ogni probabilità in Occidente. Circa le fonti utilizzate dall’epitomatore molto si è discusso: per
un prezioso quadro di sintesi, con indicazione della letturatura precedente, cfr. F. Mattioli, Un tentativo
di messa a punto riguardo alla più recente dottrina sui ‘Tituli ex corpore Ulpiani’. Ipotesi e prospettive di
ricerca, in AUPA-Revisione ed integrazione dei ‘Fontes Iuris Romani Anteiustiniani’, cit., II, 85 ss., nonché
S. Romeo, L’appartenenza, cit., 117, nt. 48.
178
Così V. Arangio-Ruiz, La compravendita, cit., I, 35.
179
Già segnalate da F. Gallo, Studi, cit., 176 s.
La mano destra in Roma antica 69

Varro ling. 6.85: … mancipium, quod manu capitur …180

Isid. orig. 5.25.31: Mancipatio dicta est quia manu res capitur. Unde oportet eum,
qui mancipio accipit, conprehendere id ipsum, quod ei mancipio datur.

Isid. orig. 9.4.45: Mancipium est quidquid manu capi subdique potest, ut homo,
equus, ovis …

La medesima prospettiva si scorge anche in due frammenti di Paolo


Diacono, tratti dalla sua epitome al De verborum significatu di Festo, tesi a
chiarire – senza invero riuscirvi181 – il significato di ‘manceps’, ma tra loro in
evidente contraddizione, come notato, tra gli altri, da Filippo Gallo182.
Paul.-Fest. voce ‘Manceps’ (Lindsay 115): Manceps dictus, quod manu capiatur …
Paul.-Fest. voce ‘Manceps’ (Lindsay 137): Manceps dicitur qui quid a populo emit
conducitve, quia manu sublata significat se auctorem emptionis esse.

In una simile ottica, come è stato detto, la manus costituiva la «traspo-


sizione su un piano materiale, dunque linguistico, del potere e dell’atto di
acquisto in una connotazione soggettiva, ossia con riferimento al soggetto ti-
tolare dell’appartenenza, che s’identifica nel paterfamilias dell’epoca arcaica e
nel mancipio accipiens dell’epoca classica»183, in grado di realizzare, nello spe-
cifico, un ‘accrescimento’ della sua sfera di dominio e del suo patrimonio184.
Ed in effetti, il significato più antico del verbo emere, che compare tra i
verba enunciati dall’accipiente durante il cerimoniale (‘mihi emptus esto’),
non è per alcuni ‘comprare’, bensì ‘tirare a sé’, ‘portare via’, ‘ritirare’, e dun-
que pare alludere proprio al gesto di afferrare e prendere con sé185.

180
Non convince la lettura di P. Noailles, ‘Fas et ius’. Études de droit romain, Paris, 1948, 99
ss.; Id., Du droit sacré au droit civil, Paris, 1949, 222 ss., secondo cui ‘quod’ sarebbe qui usato da
Varrone come pronome, anziché nel significato di ‘perché’: sul punto, si rinvia alle persuasive
argomentazioni di F. Gallo, Studi, cit., 147 s., nt. 244.
181
Il significato originario di manceps è avvolto dall’incertezza: cfr. L. Capogrossi Colognesi,
La struttura, cit., 188.
182
F. Gallo, Studi, cit., 45 s., ntt. 164, 165 e 167.
183
Così, S. Romeo, L’appartenenza, cit., 48.
184
Cfr. A. Calore, ‘Tactis Evangeliis’, cit., 76; estremizza il tutto R. Ambrosino, Le applicazioni,
cit., 579, per il quale il sorgere del concetto di proprietà sarebbe legato proprio all’operazione del
manu capere.
185
Cfr. É. Benveniste, Il vocabolario, cit., I, 62; A. Ernout - A. Meillet, voce ‘Emo’, in
Dictionnaire, cit., 346 ss.; A. Magdelain, L’acte ‘per aes et libram’ et l’‘auctoritas’, in RIDA,
XXVIII, 1981, 140 s.; E. Peruzzi, Money in Early Rome, Firenze, 1985, 16, nonché, di recente, S.
70 Mattia Milani

Non è però difficile notare come il toccare la res da acquistare, e il


recitare i certa verba mancipatorii mantenendo la presa sulla stessa, si-
ano difficilmente conciliabili con l’alienazione dei beni immobili, che
– se situati in Italia (‘fondi italici’) – erano pur sempre ascrivibili alle res
mancipi e dunque trasferibili tramite mancipatio, come risulta da Gai
1.120-121. Invero, in questi passaggi, il giurista segnala come le man-
cipationes di tali beni differissero notevolmente rispetto a tutte le altre
mancipationes: i ‘praedia’ – si legge infatti in Gai 1.121 – ‘absentia solent
mancipari’.
Si capisce, quindi, perché quello stesso brano dei Tituli ex corpore Ul-
piani evocato poc’anzi si chiuda ricordando che, a differenza di quanto
previsto per i beni mobili, potevano essere trasferite più res immobiles con
un’unica mancipatio, anche se poste in luoghi differenti.
Tit. Ulp. 19.6: … Immobiles autem etiam plures simul, et quae diversis locis sunt,
mancipari possunt.

Sorprende non poco la prassi così delineata da Gaio e dallo pseudo-Ul-


piano, che riserva un regime meno rigido proprio per i beni dotati di mag-
gior valore e importanza economica e sociale, quali gli immobili. Lasciando
per un attimo da parte questo aspetto – che, d’altronde, esula rispetto al
tema della presente indagine –, tuttavia, viene logico pensare che questo
meccanismo differenziato fosse possibile proprio perché la mancipatio dei
praedia non era legata in alcun modo all’apprensione della res. Il che inde-
bolirebbe non poco il discorso fatto poc’anzi circa la valenza simbolica e
comunicativa della manus nella mancipatio: forse, però, si possono leggere i
dati appena prospettati in un’ottica differente.
Va in primo luogo tenuto a mente che Gaio e i Tituli ex corpore Ulpiani
ci descrivono una mancipatio giunta ormai al termine di una lunga vicenda
di interpretazione giurisprudenziale, che aveva condotto a notevoli muta-
menti della sua forma e delle sue funzioni186.
In secondo luogo, non possono sottacersi quelle ricostruzioni che ipo-
tizzano per il tempo più antico di Roma una intrasferibilità del fondo avito
e della casa familiare187, in quanto beni sottratti al commercio188: ciò sareb-
be comprovato dall’uso del termine ‘heredium’ (Varro rust. 1.10.2 e Plin.

Viaro, Corrispettività, cit., 218 ss. e nt. 127.


186
Cfr. M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 432; L. Franchini, Alle
origini, cit., 172 s., nt. 20.
187
C.F. Amunátegui Perelló, Problems, cit., 348 s.
188
Cfr. P. Voci, Modi, cit., 41.
La mano destra in Roma antica 71

nat. 19.4.19) per indicare tali cespiti, la cui connessione etimologica con
‘heres’ induce a ritenerli trasmissibili soltanto per via ereditaria189.
Sulla scorta di tali considerazioni, è ragionevole pensare – come fatto
in dottrina190 – che la mancipatio fosse in origine funzionale all’alienazione
dei beni mobili: la sua struttura, in effetti, è particolarmente indicata per
tale scopo, anche in un’ottica di ‘pubblicità’ del trasferimento191 di fronte
alla comunità cittadina192.
Ed in effetti, anche Isidoro di Siviglia, in orig. 9.4.45 sopra trascritto, dopo
aver specificato che ‘mancipium est quidquid manu capi subdique potest’, ricor-
da quali esempi di mancipium soltanto gli uomini, i cavalli, le pecore e, in ge-
nerale, gli animali che possono essere domati, senza far riferimento ai praedia.
Con ogni probabilità, allora, soltanto con il superamento delle più
antiche forme di appartenenza193 l’ambito di applicazione del negozio si
sarebbe esteso, ammettendosi così la possibilità di trasferire tramite tale
gestum per aes et libram anche beni immobili194: ciò, tuttavia, non senza

189
Sottolinea F. Gallo, Studi, cit., 157, come le notizie trasmesse da Gaio siano «agevolmente
conciliabili … con la presumibile situazione originaria, secondo la quale la maggior parte del
suolo era ancora in proprietà collettiva (sottoposto, con ogni probabilità, ad un regime analogo
a quello che vigeva ancora in epoca storica per l’ager compascus) e la parte di esso già in proprietà
individuale (essenzialmente le sedi dei gruppi familiari, le quali comprendevano peraltro,
almeno in epoca più avanzata, un piccolo appezzamento di terreno adibito a culture intensive,
in relazione alle condizioni economiche del tempo) era ancora inalienabile, in quanto si riteneva
riservata, verosimilmente in dipendenza di concezioni religiose, nel succedersi delle generazioni,
ai rispettivi gruppi familiari». Sull’heredium, cfr. L. Capogrossi Colognesi, voce Proprietà, cit.,
170 s.; E. Gabba, Per la tradizione dell’‘heredium’ romuleo, in Roma arcaica. Storia e storiografia,
Roma, 2000, 227 ss. (già in Strutture agrarie e allevamento transumante nell’Italia romana, a
cura di E. Gabba e M. Pasquinucci, Pisa, 1979, 55 ss.) e, di recente, C.F. Amunátegui Perelló,
Problems, cit., 348 s.; Id., Las gentes y la propriedad colectiva, in REHJ, XXXII, 2010, 39 ss.
190
Cfr., anche per la bibliografia precedente, M. Kaser, Eigentum, cit., 224 s., ntt. 1 e 7, nonché
P. Voci, Modi, cit., 41; V. Arangio-Ruiz, La compravendita, cit., I, 35; H. Lévy-Bruhl, ‘Praedia
absentia solent mancipari’, in Studi in onore di U.E. Paoli, Firenze, 1956, 481 s.; F. Gallo, Studi,
cit., 157 ss.
191
Cfr. L. Franchini, Alle origini, cit., 169, nt. 10, con dottrina.
192
Cfr. L. Capogrossi Colognesi, La proprietà in Roma, dalla fine del sistema patriarcale alla
fioritura dell’ordinamento schiavistico, in La terra in Roma antica. Forme di proprietà e rapporti
produttivi. I. Età arcaica, Roma, 1981, 139 e nt. 13.
193
O. Behrends, La ‘mancipatio’, cit., 47 ss., individua il momento di cesura – a partire dal
quale «anche il fondo diventa trasferibile», che segna «l’inizio della piena libertà privatistica di
disposizione nel diritto romano» – nell’introduzione della regola duodecimtabulare secondo cui
‘cum nexum faciet mancipiumque uti lingua nuncupassit ita ius esto’: a suo avviso, nexum facere, in
senso tecnico e reale, significa misurare e tracciare i confini di un fondo e si concretizza in un atto
preparatorio collegato al rituale della mancipatio e al lingua nuncupare.
194
L. Capogrossi Colognesi, voce Proprietà, cit., 170 s.
72 Mattia Milani

una qualche modifica del cerimoniale mancipatorio (forse con lo sposta-


mento della parti coinvolte presso il luogo dove si trovava il cespite195,
ovvero con l’utilizzo, in un’evoluzione analoga a quella cui era andata in-
contro la legis actio sacramento in rem, come vedremo tra poco, di un sim-
bolo del bene, quale poteva essere una zolla di terreno per l’intero fondo,
su cui esercitare l’apprensione196: le fonti ci permettono di fare soltanto
congetture197).
Se questa era la probabile fisionomia della mancipatio più antica, il
regime descritto da Gaio per gli immobili è il frutto di una modifica suc-
cessiva, sostanziandosi in un’eccezione198 che non intacca le considera-
zioni svolte sin qui in ordine al ruolo della manus nel rito di cui abbiamo
discusso.
Ed è pure in un altro istituto della realtà giuridica delle origini che si ri-
scontrano tracce di queste concezioni: alludo al cerimoniale poc’anzi men-
zionato della legis actio sacramento in rem.
Vi era un momento, nella più antica procedura vindicatoria romana del lege
agere sacramento in rem199, in cui le parti si sfidavano reciprocamente in ordine
alla titolarità del bene conteso, afferrandolo con le proprie mani di fronte all’or-
gano giusdicente: alcune testimonianze parlano a riguardo di manu(m) conse-

195
Cfr. M. Kaser, Das römische Privatrecht, cit., I, 44, nt. 20.
196
Cfr. V. Arangio-Ruiz, La compravendita, cit., I, 36.
197
Cfr. V. Arangio-Ruiz, La compravendita, cit., I, 36, per il quale comunque «rimane aperto
alle congetture, e praticamente insolubile, il problema di sapere se in materia d’immobili la prassi
sia stata sempre conforme alla descrizione di Gaio e dello pseudo-Ulpiano».
198
Per S. Romeo, L’appartenenza, cit., 48, Gaio «vuole giustificare l’anomalia di un modus
rem adquirendi, la mancipatio, e la sua applicazione anche a res, nella specie i praedia, che non
sono suscettibili di essere afferrati con la mano. L’unde etiam che ricorre in entrambi i passi non
sembra, dunque, nascere da preoccupazioni o velleità filologiche, quanto piuttosto dalla necessità
di meglio motivare, e così rafforzare, una disciplina d’eccezione».
199
Volendo citare solo alcuni lavori all’interno di una letteratura imponente, cfr. G. Pugliese, Il
processo civile romano. I. Le ‘legis actiones’, Roma, 1962, 37 ss.; C.A. Cannata, Profilo istituzionale
del processo privato romano. I. Le ‘legis actiones’, Torino, 1980, 13 ss.; G. Nicosia, Il processo privato
romano. I. Le origini, Catania, 1980, 98 ss.; M. Kaser, Zur ‘legis actio sacramento in rem’, in ZSS,
CIV, 1987, 56 ss.; M. Talamanca, voce Processo civile (dir. rom.), in Enc. dir., XXVI, Milano, 1987,
13 ss.; M. Marrone, voce Rivendicazione (dir. rom.), in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, 1 ss.; M. Kaser
- K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht2, München, 1996, 89 ss., con ulteriore letteratura.
La mano destra in Roma antica 73

rere200 e, per una fase storica successiva, di ‘ex iure manu(m) consertum vocare’201.
Invero, di tali istituti abbiamo notizie scarse e lacunose, che hanno gene-
rato in dottrina differenze interpretative di non poco momento202.
Gaio, infatti, pur dedicando un certo spazio nel suo manuale istitu-
zionale al lege agere sacramento in rem, non accenna mai espressamente al
manu(m) conserere (o all’ex iure in manu[m] consertum vocare): il che ha
sempre destato una certa meraviglia tra gli studiosi. Va però detto che il
palinsesto veronese presenta una lunga lacuna (manca infatti un’intera pa-
gina) in corrispondenza di quella parte del quarto commentario dedicata al
rito vindicatorio qui in esame203: in particolare, risulta del tutto assente la
trattazione relativa alla rivendica dei beni immobili o non facilmente tra-
sportabili in ius, ove forse il giurista antoniniano spendeva qualche parola
in ordine appunto alla consertio manus204.

200
L’espressione ‘manu(m) conserere’ è tratta da un testo di Aulo Gellio su cui ci si soffermerà a breve.
Va subito detto, però, che i manoscritti ci tramandano sia la forma all’accusativo manum, sia quella
all’ablativo manu (cfr. a riguardo B. Albanese, Il processo privato romano delle ‘legis actiones’, Palermo,
1987, 68 s., nt. 237). Su questo istituto, v. C. Gioffredi, Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche
romane, Roma, 1955, 112 ss.; G. Pugliese, Il processo, cit., 41 ss.; R. Santoro, ‘Manu(m) conserere’, in
AUPA, XXXII, 1971, 513 ss., ove l’autore sviluppa alcune considerazione già esposte in Id., Potere
ed azione nell’antico diritto romano, in AUPA, XXX, 1967, 190 ss. (su cui la Recensione di S. Tondo,
in Labeo, XVI, 1970, 83 ss.); G. Nicosia, Il processo, cit., 108 ss.; C.A. Cannata, Violenza fittizia e
violenza reale nelle strutture primigenie del processo privato romano, in Scritti scelti, cit., 387 ss. (già in
Studi in onore di C. Sanfilippo, IV, Milano, 1983, 170 ss.); M. Kaser, Zur ‘legis actio sacramento in
rem’, cit., 56 ss.; M. Talamanca, voce Processo, cit., 14 ss. e nt. 98; J. Zlinsky, Gedanken zur ‘legis actio
sacramento in rem’, in ZSS, CVI, 1989, 118 ss.; A. Guarino, ‘Manum conserere’, in Pagine di diritto
romano, IV, Napoli, 1994, 106 s.; M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 101 s.;
L. Gutiérez Masson, La ritualización de la violencia en el derecho romano arcaico, in Index, XXVIII,
2000, 259 ss.; L. Franchini, La desuetudine delle XII tavole nell’età arcaica, Milano, 2005, 71 ss.; M.
Varvaro, ‘Manu(m) conserere’ e ‘omnibus verbis vindicare’ (Gell. 20.10.7), in Le Dodici Tavole, cit., 267
ss. e nt. 1 per la bibliografia sul tema; J. Platschek, ‘Ex iure manum conserere’: zur symbolischen Gewalt
im frühen römischen Eigentumsprozess, in TJ, LXXIV, 2006, 245 ss.; C. Pelloso, ‘Giudicare’ e ‘decidere’
in Roma arcaica. Contributo alla contestualizzazione storico-giuridica di Tab. 1.8, in Il giudice privato,
cit., I, 70 ss.; M. Falcon, ‘Ipsam rem condemnare’ in Gai 4.48, in Il giudice privato, cit., III, 545 ss.
201
Cfr. M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 298 ss.
202
Di cui dà ampiamente conto M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 271 ss., cui si rinvia
anche per la letteratura.
203
La lacuna è stata in parte colmata attraverso le informazioni ricavate da alcuni frammenti
pergamenacei risalenti alla metà del IV secolo d.C., rinvenuti in Egitto e pubblicati da Vincenzo
Arangio-Ruiz nel 1933: ciò ha permesso di ricostruire la descrizione della legis actio per iudicis
arbitrive postulationem e la prima parte di quella per condictionem, ma non anche quella
sacramento in rem. In ordine a tali questioni, cfr. per informazioni di maggior dettaglio M.
Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 285 s. e nt. 65.
204
Cfr. M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 285.
74 Mattia Milani

In ogni caso, la parte della descrizione gaiana che si è conservata ci ren-


de edotti di quale fosse la procedura – naturalmente relativa ad un periodo
successivo alle XII Tavole205 – prevista per la rivendica di beni mobili o fa-
cilmente trasportabili (‘mobilia … et moventia’)206. Era infatti necessario che
detti cespiti fossero fisicamente presenti avanti al magistrato (ossia ‘in iure’),
in modo che ciascuna delle parti potesse afferrarli con la propria mano, recita-
re il carmen di rito (se si trattava di uno schiavo, come nell’esempio gaiano, la
formula era del seguente tenore: ‘hunc ego hominem ex iure Quiritium meum
esse aio secundum suam causam. Sicut dixi, ecce tibi vindictam imposui’207) e
imporre sopra i medesimi la festuca brandita con l’altra mano208.
A fronte di ciò, il magistrato vietava la prosecuzione della contesa se-
condo le forme violente ‘preannunciate’ da quelle parole e da quei gesti, e
ordinava alle parti di lasciare la res (con la pronuncia, sempre se si trattava

205
Cfr. C.A. Cannata, Profilo, cit., 13.
206
Ecco il tratto d’interesse rispetto a quanto si va dicendo. Gai 4.16: Si in rem agebatur, mobilia
quidem et moventia, quae modo in ius adferri adducive possent, in iure vindicabantur ad hunc modum:
qui vindicabat, festucam tenebat; deinde ipsam rem adprehendebat, velut hominem, et ita dicebat:
hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio secundum suam causam sicut dixi, ecce tibi,
vindictam inposui, et simul homini festucam inponebat; adversarius eadem similiter dicebat et faciebat;
cum uterque vindicasset, praetor dicebat: mittite ambo hominem; illi mittebant; qui prior vindica<verat,
ita alterum interroga>bat: postulo, anne dicas, qua ex causa vindicaveris; ille respondebat ius feci,
sicut vindictam inposui; deinde qui prior vindicaverat, dicebat quando tu iniuria vindicavisti, d aeris
sacramento te provoco; adversarius quoque dicebat similiter et ego te …
207
È nota la tesi di chi – come G. Nicosia, ‘Institutiones’. Profili di diritto privato romano delineati
con l’ausilio delle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano, I, Catania, 1994-1995, 172, nt. 1; A. Corbino,
La struttura dell’affermazione contenziosa nell’‘agere sacramento in rem’ (‘secundum suam cuasam’
in Gai 4.16), in  Studi in onore di  C. Sanfilippo, VII, Milano, 1987, 139 ss. – ha ritenuto che le
parole secundum suam causam non facessero parte del formulario della legis actio sacramento in rem
(nonostante la nota SSCSDETV di Prob. litt. sing. 4.6, che si suole sciogliere ‘secundum suam causam,
sicut dixi …: cfr. M. Marrone, voce Rivendicazione, cit., 2 s., nt. 12). Di diverso avviso, ad esempio,
C.A. Cannata, ‘Qui prior vindicaverat’, cit., 86 s. e nt. 7. Sul problema della «segmentazione» della
formula vindicatoria (ossia il problema se ‘secundum suam causam’ vada collegato alla prima o alla
seconda parte), cfr. M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 298, nt. 99.
208
Cfr. C.A. Cannata, Profilo, cit., 16. Per quanto riguarda la scansione temporale dei due gesti
ricordati, rispetto alla pronuncia delle diverse parti della formula vindicatoria, cfr. M. Varvaro,
‘Manu(m) conserere’, cit., 288, nt. 68: secondo lo studioso, il vindicans avrebbe dapprima
affermato solennemente ‘hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio’, tenendo la cosa con
la mano e impugnando la festuca con l’altra; di poi, avrebbe effettuato l’inpositio e pronunciato
la seconda parte del carmen, ossia ‘secundum suam causam sicut dixi, ecce tibi, vindictam inposui’.
La ricostruzione si mostra convincente (cfr. a riguardo anche R. Santoro, Potere ed azione, cit.,
267 e nt. 3; J.G. Wolf, Zur ‘legis actio sacramento in rem’, in Römisches Recht in der europäischen
Tradition. Symposion aus Anlaß des 75. Geburtstages von F. Wieacker, Ebelsbach, 1985, 5 e 19).
Allo studio di M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 288, nt. 68, si rinvia anche in ordine al
problema dell’inpositio della festuca nell’ambito dell’in iure cessio.
La mano destra in Roma antica 75

di uno schiavo, di ‘mittite ambo hominem’). Seguivano dunque le contesta-


zioni verbali di ciascun vindicans concernenti le causae fondanti le recipro-
che pretese: a questo punto, le parti si sfidavano reciprocamente a prestare
quel giuramento di 500 assi (o di 50, se la lite ne valeva meno di mille) in
ordine alla titolarità della res (il sacramentum) che permettava al magistra-
to, non prima di aver svolto qualche altro adempimento209, di pronunciarsi
circa la sua effettiva spettanza210.
Ebbene, è facile notare come la rivendica descritta da Gaio si componesse di
due aspetti tra loro strettamente connessi: uno di natura verbale (la pronuncia
del carmen), l’altro di carattere gestuale (l’adprehensio della res e il tocco con la
festuca). Rispetto a quest’ultimo, l’elemento più interessante, per quanto si va
dicendo in questa ricerca, è certamente rappresentato dalla (reciproca) impo-
sizione delle mani sul bene conteso211. Sembra quasi che attraverso tale gesto
le parti conferissero plasticità, in presenza del magistrato, alla lite tra loro in-
sorta, manifestando l’esistenza di un conflitto di appartenenza (rappresentato
dall’adprehensio) 212, che erano pronte a risolvere ricorrendo persino ad uno
scontro armato (simboleggiato dall’imposizione della festuca): da questi conte-
gni vicendevoli sorgeva il potere/dovere dell’organo giusdicente di provvedere
alla composizione (non violenta) della controversia.
La medesima dinamica si riscontra in quel manu(m) conserere al quale
si è fatto cenno dianzi e che è giunto il momento di prendere in conside-
razione. Di esso ci informano Aulo Gellio, in uno squarcio del ventesimo
libro della Notti Attiche ove sono riprodotte le parole del versetto delle XII
Tavole ove tale istituto era contemplato213, e in parte più ridotta Cicerone,
in un passaggio dell’orazione pro Murena (Cic. Mur. 12.26) e in un altro
tratto dal de oratore (Cic. de orat. 1.10.41-42).
Vale la pena di partire dalla testimonianze gelliana.

209
Mi riferisco all’assegnazione del possesso interinale della cosa rivendicata e alla conseguente
presentazione delle apposite garanzie: cfr. M. Marrone, voce Rivendicazione, cit., 4 ss.
210
Per ulteriori dettagli circa la procedura in discorso, cfr. C.A. Cannata, Profilo, cit., 15 ss.
211
Si tratterebbe della sinistra, secondo G. von Beseler, Bindung und Losung, in ZSS, XLIX,
1929, 425 s.
212
Cfr. J.G. Wolf, La ‘in iure cessio’, cit., 4, secondo cui è «evidente che nell’imposizione della
mano debba essere vista una conferma visibile del meum esse aio, e che a tale gesto dev’essere di
conseguenza attribuito un significato deittico»; Id., Funktion, cit., 506 ss., nonché M. Varvaro,
‘Manu(m) conserere’, cit., 297, nt. 96, con letteratura.
213
Gli editori, salvo qualche eccezione, sono soliti collocare il versetto gelliano relativo al
manu(m) conserere nella sesta delle XII Tavole: cfr., sul punto, U. Agnati, ‘Leges Duodecim
Tabularum’. Le tradizioni letteraria e giuridica. ‘Tabulae’ I-VI, Cagliari, 2002, 365 ss., e M.
Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 271 ss.
76 Mattia Milani

Aulo Gellio214 sta narrando – siamo in Gell. 20.10.1.6 – di come si fosse


imbattutto, durante la lettura di alcuni versi dell’ottavo libro degli Annali
di Ennio215, nell’espressione ‘ex iure manum consertum’, il cui significato
non gli era risultato affatto chiaro. Sicché, dopo essersi rivolto a un gram-
matico suo contemporaneo di chiara fama (‘celebri hominem fama et multo
nomine’) senza ottenere la risposta che cercava, l’antiquario ne raccolse il
consiglio e interrogò un ‘iuris aliquo perito’216.
Con le informazioni da questi ricavate – e con quelle attinte dalla lettu-
ra di alcuni testi giurisprudenziali (‘quod ex iureconsultis quodque ex libris
eorum’)217 – Aulo Gellio ripercorre nei termini seguenti l’evoluzione stori-
ca dell’istituto di cui andiamo discutendo218.
Gell. 20.10.7-9: ‘Manum conserere’ <est rem e>[N]am de qua <re> disceptatur in
iure <in re> praesenti, sive ager sive quid aliud est, cum adversario simul manu
prendere et in ea sollemnibus verbis vindicare, id est ‘vindicia’. [8] Correptio manus
in re atque in loco praesenti apud praetorem ex duodecim tabulis fiebat, in quibus
ita scriptum est: ‘Si qui in iure manum conserunt’. [9] Sed postquam praetores, pro-
pagatis Italiae finibus, datis iurisdictionibus negotiis occupati, proficisci vindicia-
rum discendarum causa <ad> longinquas res gravabantur, institutum est contra
duodecim tabulas, tacito consensu, ut litigantes non in iure apud praetorem manum
consererent, sed ‘ex iure manum consertum’ vocarent, id est alter alterum ex iure ad
conserendam manum in rem de qua ageretur vocaret atque, profecti simul in agrum
de quo litigabatur, terrae aliquid ex eo, uti unam glebam, in ius in urbem ad praeto-
rem deferrent, et in ea gleba tamquam in toto agro vindicarent.

Si tratta di un passo intorno al quale è sorto in dottrina un vivacissimo


dibattito, i cui principali orientamenti sono stati recentemente ripercorsi

214
Sulla formazione intellettuale di Aulo Gellio, sull’ambiente culturale in cui era immerso e
sugli interessi che ne animavano la ricerca indugia C. Pelloso, Studi sul furto, cit., 1 ss., per vagliare
l’affidabilità delle notizie giuridiche che si ricavano dall’opera gelliana. V. anche H. Nettleship,
The ‘Noctes Atticae’ of Aulus Gellius, in AJPh, IV, 1883, 391 ss.; L. Holford-Strevens, Aulus
Gellius, London, 1988; F. Finocchiaro, Bibliografia gelliana (1931, 1986), Messina, 1989.
215
Ricordati anche da Cic. Mur. 14.30; fam. 7.13.2; Att. 15.7.
216
Non è possibile determinare di chi possa trattarsi: cfr. F. Bona, La certezza del diritto
nell’esperienza giuridica romana, in La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana. Atti
del Convegno di Pavia (26-27 aprile 1985), a cura di M. Sargenti e G. Luraschi, Padova, 1987,
112, nt. 21; M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 271 s., nt. 9.
217
Cfr. O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, Cagliari, 1992, 194 s.
218
Riproduco il testo con le convincenti proposte ricostruttive (relative alla parte iniziale del
§ 7) avanzate da M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 278 ss., attingendo per il resto da G.
Bernardi-Pierini, Aulo Gellio. Le Notti Attiche, II, Torino, 2007, 1424.
La mano destra in Roma antica 77

da Mario Varvaro219, in un contributo che ha costituito per lo studioso l’oc-


casione per proporre una lettura del brano assai convincente.
Secondo l’autore, Aulo Gellio distingue, sempre nell’ambito del cerimo-
niale del lege agere sacramento in rem, tra il regime più antico del manu(m)
conserere e quello più recente dell’ex iure in manu(m) consertum vocare.
Il primo era previsto dalle XII Tavole e riguardava tanto i beni immobili
quanto i beni mobili (‘sive ager sive quid aliud est’)220: davanti all’organo
giusdicente (‘in iure’ e ‘apud praetorem’, si legge nella testimonianza) am-
bedue i contendenti dovevano contestualmente procedere all’apprensione
manuale del bene (‘cum adversario simul manu prendere’) e pronunciare
una formula di rito (‘et in ea sollemnibus verbis vindicare’), sì da concretiz-
zare la ‘vindicia’221. In ragione di ciò, tale procedura doveva necessariamente
aver luogo in presenza della cosa – quando questa era un bene mobile –, o
nel luogo in cui il bene si trovava, se la contesa verteva su un immobile o su
un cespite difficilmente trasportabile (‘in re atque in loco praesenti’)222.
In un’epoca successiva, tuttavia, si derogò tacitamente a questo regime
(‘tacito consensu’) 223, in ragione della sempre maggior difficoltà per i magi-
strati giusdicenti, ormai oberati di richieste, di recarsi nei territori più distanti
da Roma, come era imposto dalla legislazione decemvirale per l’avvio della
controversia224. Si diffuse allora la seguente prassi: i litiganti si invitavano reci-
procamente a recarsi con alcuni testimoni nel luogo in cui il bene si trovava.
Lì, ne avrebbero prelevato – ormai al di fuori del tribunale (‘ex iure’225) – una

219
M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 267 ss., lavoro che si occupa di ogni dettaglio e nodo
problematico concernente il passo (e l’istituto) qui in considerazione: ad esso pertanto si rinvia,
anche in ordine alle indicazioni bibliografiche.
220
Cfr. M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 280, in linea con autori come R. Santoro,
‘Manu(m) conserere’, cit., 529 ss.; B. Albanese, Il processo, cit., 69, nt. 237; altri, invero, ritengono
che il manu(m) conserere concernesse solo i beni immobili: così G. Pugliese, Il processo, cit., 66 s.,
ntt. 73 e 77; G. Nicosia, Il processo, cit., 110 e 118 s.
221
È forte il sapore glossematico della chiusa ‘id est vindicia’: cfr. M. Varvaro, ‘Manu(m)
conserere’, cit., 279.
222
M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 296 ss.
223
Cfr. L. Franchini, La desuetudine, cit., 71 ss.
224
B. Albanese, Il processo, cit., 86, ipotizza che la deroga sia sorta in relazione alla rivendicazione
di eredità composte da immobili dislocati in territori diversi e distanti tra loro.
225
Cfr. C. Pelloso, ‘Giudicare’, cit., 70 s. e nt. 19. Sebbene appaia a chi scrive più convincente la
ricostruzione secondo cui Aulo Gellio, nel passo in analisi, adoperi la locuzione ‘ex iure’ in senso
topologico (cioè nel significato di ‘fuori dal tribunale’: così, da ultimo, C. Pelloso, ‘Giudicare’,
cit., 70 s. e nt. 19, ove ulteriori indicazioni letteratura; contra, tra gli altri, R. Santoro, ‘Manu(m)
conserere’, cit., 540 ss.), in contrapposizione all’‘in re atque in loco praesenti’ del manu(m) conserere
più antico, non si può fare a meno di riscontrare che qualche incongruenza – già messa a fuoco
78 Mattia Milani

parte o un simbolo (una zolla di terreno per un intero fondo o una pecora per
il gregge), onde portarli avanti al magistrato (‘in ius’) ed effettuare su di essi la
vindicatio, anche mediante il consueto manu(m) conserere226.
Ed è rispetto a tale invito che si parla di ex iure manu(m) consertum vo-
care227: si trattò di una deroga al precetto decemvirale che riguardò, sembra
di cogliere dal racconto gelliano e dalle testimonianze ciceroniane ricorda-
te in apertura, solamente le vindicationes di beni immobili228. Per quanto
riguardava invece il lege agere sacramento in rem per mobilia e moventia,
invece, è lecito pensare che il manu(m) conserere ricordato da Gellio non
sia mai venuto meno e non abbia neppure subìto alcuna trasformazione,
coincidendo con quell’adprehensio manuale ricordata in Gai 4.16, su cui

da B. Albanese, Il processo, cit., 79, nt. 270, e M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 280 ss., spec.
nt. 54 – sussista tra la prima parte del brano (Gell. 20.10.7), ove si parla di ‘in iure’, e l’ultima
(20.10.9), in cui compare l’espressione ‘in ius’.
226
Cfr. G. Pugliese, Il processo, cit., 42 s.; B. Albanese, Il processo, cit., 79 s.; M. Varvaro,
‘Manu(m) conserere’, cit., 292; L. Franchini, La desuetudine, cit., 81 ss.
227
L’«ex iure manum consertum vocare [va] inteso come l’invito formale che i due avversari si
rivolgono a vicenda a recarsi sul fondo oggetto della controversia per prelevarvi un simbolo (una
zolla di terra), da trasportare innanzi al pretore, allo scopo di compiere su di essa la vindicatio»,
scrive M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 285, che non manca peraltro di notare come
«l’ex iure manu(m) consertum, in età decemvirale, consistesse nell’invito formale con cui un
litigante intimava all’altro di andare sul fondo controverso, insieme al magistrato giusdicente,
per compiervi il manu(m) conserere, e che solo successivamente, derogando a questo regime
più antico, le parti si recassero sul fondo controverso per ordine del magistrato e con i propri
testimoni, per prelevarne un simbolo (le vindiciae) da addurre in giudizio innanzi al pretore, e
compiere su di esso il manu(m) conserere».
228
M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 285. Cfr. a questo riguardo Cic. pro Mur. 12.26:
Cum hoc fieri bellissime posset: ‘Fundus Sabinus meus est’. ‘Immo meus’, deinde iudicium, noluerunt.
‘Fundus’ inquit ‘qui est in agro qui sabinus vocatur’. Satis verbose; cedo quid postea? ‘eum ego
ex iure Quiritium meum esse aio’. Quid tum? ‘inde ibi ego te ex iure manum consertum voco’.
Quid huic tam loquaciter litigioso responderet ille unde petebatur non habebat. Transit idem iuris
consultus tibicinis Latini modo. ‘Unde tu me’ inquit ‘ex iure manum consertum vocasti, inde
ibi ego te revoco’. Praetor interea ne pulchrum se ac beatum putaret atque aliquid ipse sua sponte
loqueretur, ei quoque carmen compositum est cum ceteris rebus absurdum tum vero in illo: ‘Suis
utrisqve superstitibus praesentibus istam viam dico; ite viam’. Praesto aderat sapiens ille qui
inire viam doceret. ‘Redite viam’. Eodem duce redibant. Haec iam tum apud illos barbatos ridicula,
credo, videbantur, homines, cum recte atque in loco constitissent, iuberi abire ut, unde abissent,
eodem statim redirent ... (il brano è inserito in un quadro di critica a un certo formalismo pedante
dei giuristi, che emerge proprio nel rituale di cui si discute, ove ormai i gesti e le parole che lo
componevano avevano perduto il significato originario, divenendo vuote formule di stile. Il che
induce a ritenere che la descrizione dell’Arpinate trascuri qualche dettaglio: v. G. Nicosia, Il
processo, cit., 114 ss.; R. Santoro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 541 ss.; L. Franchini, La desuetudine,
cit., 84 ss.), nonché Cic. de orat. 1.10.41-42.
La mano destra in Roma antica 79

ci si è in precedenza trattenuti229. A riprova di ciò, si tenga presente che


per tutti i beni che ‘sine incommodo non posset in ius adferri vel adduci’ –
ricorda ancora il giurista antoniniano in Gai 4.17 (ultimo segmento prima
della pagina mancante) – il regime era in parte differente rispetto a quello
appena descritto per mobilia e moventia, essendo previsto che la vindicatio
avvenisse in iure su una parte della res litigiosa, valevole per l’intero230.
Ciò posto, è facile scorgere il ruolo centrale svolto dalla mano nel rituale
del lege agere sacramento in rem, ove era necessario che la controversia cir-
ca la spettanza del bene si concretizzasse anche plasticamente di fronte al
magistrato (non bastavano infatti le contrapposte pretese verbali), secondo
modalità che per alcuni studiosi costituiscono la rappresentazione fittizia
di una lotta violenta231 tra i contendenti232.
Preme inoltre sottolineare che l’apprensione manuale del bene, com-
piuta da ciascun vindicans, svolgeva un ruolo insostituibile nel cerimoniale
appena visto233 perché comunicava la volontà di farlo proprio, di ricondur-
lo entro la propria sfera di controllo, stimolando così (giusta la presenza di

229
Cfr. M. Varvaro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 290.
230
Gai 4.17: Si qua res talis erat, ut sine incommodo non posset in ius adferri vel adduci, veluti si
columna aut grex alicuius pecoris esset, pars aliqua inde sumebatur; deinde in eam partem quasi in
totam rem praesentem fiebat vindicatio. itaque ex grege vel una ovis aut capra in ius adducebatur, vel
etiam pilus inde sumebatur et in ius adferebatur; ex nave vero et columna aliqua pars defringebatur.
similiter si de fundo vel de aedibus sive de hereditate controversia erat, pars aliqua inde sumebatur et
in ius adferebatur et in eam partem perinde atque in totam rem praesentem fiebat vindicatio, velut
ex fundo gleba sumebatur et ex aedibus tegula, et si de hereditate controversia erat, aeque …
231
Non è un caso che l’espressione manu(m) conserere sia usata, in alcune fonti, in relazione alla
colluttazione bellica tra nemici: v. Varro ling. 6.64; Fest. voce ‘Mundus’ (Lindsay 144); Paul.-Fest. voce
‘Mundum’ (Lindsay 145) e soprattutto Val. Fl. 6.539, in cui si trova menzione di un ‘conserere dextram’.
232
Cfr. G. Pugliese, Il processo, cit., 44; R. Santoro, Potere, cit., 194 s.; C.A. Cannata, Violenza,
cit., 388, ove si legge che «colui che aveva interesse a mutare la situazione esistente doveva anzitutto
recarsi presso il possessore della cosa contestata, impadronirsi di essa con un atto di forza reale e
portarla in ius: il possessore, a sua volta, se voleva contrastare questo spoglio, doveva seguire l’attore
in ius, per recitarvi la propria vindicatio col simulacro di lotta»; A. Guarino, ‘Manum conserere’, cit.,
106 s.; J.G. Wolf, Funktion, cit., 507; M. Falcon, ‘Ipsam rem condemnare’, cit., 548. Di opposto
avviso, come noto, H. Lévy-Bruhl, Le simulacre de combat dans le ‘sacramentum in rem’, in Studi in
onore di P. Bonfante, III, Milano, 1930, 84, e P. Noailles, Du droit sacré, cit., 77.
233
Al punto che G. Pugliese, Il processo, cit., 42, e S. Tondo, Recensione a R. Santoro, Potere,
cit., 83 s., hanno intepretato il manu(m) conserere come l’intrecciarsi delle mani dei contendenti
alla presenza della cosa: sebbene l’ipotesi appaia suggestiva – specialmente nella prospettiva
adottata in questa ricerca –, vi sono troppi elementi che ne sconfessano la veridicità, come già
segnalato a suo tempo da R. Santoro, ‘Manu(m) conserere’, cit., 520 ss. Ad ogni modo, tracce
di quella affascinante concezione possono ancora scorgersi in B. Albanese, Il processo, cit., 68,
allorquando mostra di intendere il manu(m) conserere come «un intreccio della mano d’un
litigante con quella dell’altro nel contemporaneo gesto di presa della cosa controversa».
80 Mattia Milani

un conflitto tra reciproche posizioni) l’intervento giudiziale risolutore234.


Ed è significativo che in quella procedura derogatoria delle disposizioni
delle XII Tavole, costituita dall’ex iure manu(m) consertum vocare, si con-
servi intatto il momento della manus consertio, seppur ormai compiuta su
un simbolo di quella res oggetto della contesa.
Elementi e concezioni che si possono scorgere anche in un altro schema
processuale parimenti molto antico, la legis actio per manus iniectionem.
Come oltremodo noto, nel sistema processuale delle legis actiones la
manus iniectio era un’azione di carattere esecutivo, attraverso la quale un
soggetto riconosciuto come creditore – da una sentenza giudiziale (a cui
era parificata una confessio circa la sussistenza di un credito235) ovvero in
dipendenza di determinati fatti costitutivi236 – faceva valere la responsa-
bilità personale del debitore237: ciò, invero, avveniva attraverso l’inflizione
nei confronti di quest’ultimo di una sanzione di carattere afflittivo che solo
eventualmente assolveva ad una funzione satisfattiva238.
Ebbene, in questa sede non interessa indugiare sui vari aspetti proble-
matici che concernono la procedura in parola – rispetto ai quali ferve un
acceso dibattito in seno alla letteratura romanistica –, bensì preme sotto-
lineare i profili di maggior rilevanza con riferimento al discorso che si sta
qui tessendo circa la valenza della mano quale simbolo di potere.

234
Cfr. C. Gioffredi, Diritto e processo, cit., 116; C.A. Cannata, Violenza, cit., 388.
235
Cfr. Gell. 20.1.42-43.
236
A tal riguardo, si suole distinguere tra manus iniectiones iudicati (di cui Gai 4.21) e manus
iniectiones pro iudicato (Gai 4.22), a cui si affiancano quelle forme ‘attenuate’ di manus iniectiones
dette purae (Gai 4.23-24, su cui v. infra): cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 291 ss.; A. Burdese,
Manuale di diritto privato romano, Torino, 2002, 81 ss.
237
Le fonti in nostro possesso circa la procedura in discorso – costituite principalmente dalla
trattazione gaiana raccolta nel quarto libro delle Institutiones (Gai 4.21-25) e da alcuni passaggi delle
Notti Attiche di Gellio (Gell. 20.1.42-52) – ci forniscono un quadro soltanto parziale dell’istituto: per
un verso, infatti, non trattano della manus iniectio per il periodo precedente all’emanazione delle XII
Tavole, in cui, comunque, essa doveva venir utilizzata (anche se non siamo in grado di dire in quali casi,
salvo quello del fur manifestus ricordato in Gai 3.189, su cui v. C. Pelloso, Studi sul furto, cit., 203 ss.;
M. Varvaro, Osservazioni sulla pretesa esistenza di una ‘legis actio per manus iniectionem’ in relazione al
‘furtum manifestum’, in Studi per G. Nicosia, VIII, Milano, 2007, 333 ss.); per un altro verso, tali testi
dedicano primaria attenzione alla manus iniectio esperibile in presenza di una sentenza di condanna (cd.
‘iudicati’), indugiando solo in maniera fugace circa le altre ipotesi in cui era possibile servirsene. In tema,
senza pretesa di completezza, cfr. H. Lévy-Bruhl, Recherches sur les actions de la loi, Paris, 1960, 278 ss.;
G. Pugliese, Il processo, cit., 303 ss.; M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 131 ss.,
con ampia raccolta bibliografica; G. Nicosia, Il processo, cit., 77 ss.; C.A. Cannata, Profilo, cit., 35 ss.;
M. Talamanca, voce Processo, cit., 9 ss.; B. Albanese, Il processo, cit., 35 ss.; A. Salomone, ‘Iudicati velut
obligatio’. Storia di un dovere giuridico, Napoli, 2007, 67 ss.; J. Zabłocki, Procedura, cit., 513 ss.
238
Cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 291.
La mano destra in Roma antica 81

In effetti, già dal nome stesso della legis actio in esame si coglie come al
centro del relativo cerimoniale vi fosse un’imposizione della mano: nel det-
taglio, il creditore era tenuto ad afferrare l’obbligato239, dopo averlo tradot-
to avanti al magistrato una volta trascorsi trenta giorni dalla condanna240, e
pronunciare una determinata formula, come ci rammenta Gaio.
Gai 4.21: Per manus iniectionem aeque de his rebus agebatur, de quibus ut ita ageretur,
lege aliqua cautum est, velut iudicati lege XII tabularum. quae actio talis erat: qui agebat,
sic dicebat: quod tu mihi iudicatus sive damnatus es sestertium x milia, quandoc non
solvisti, ob eam rem ego tibi sestertium x milium iudicati manum inicio, et simul ali-
quam partem corporis eius prendebat …

A fronte di ciò, il pretore non esercitava alcun controllo circa il merito


dell’azione esperita, limitandosi invero a verificare che fossero rispettate le
forme imposte dalle XII Tavole241. In caso di esito positivo di tale controllo di
regolarità della procedura, questi pronunciava l’addictio del debitore a favore
dell’attore242: ciò faceva cadere l'obbligato in una condizione del tutto pecu-
liare (quella di addictus, appunto), che si concretizzava in una subordinazio-
ne nei confronti del creditore, il quale – nel rispetto di alcuni limiti fissati
dalla legge243 – poteva condurlo in casa propria e, in assenza di accordi con
terzi circa l’assolvimento dell’obbligazione contratta, procedere alla vendita
dello stesso trans Tiberim. Peraltro, dopo tre tentativi di cessione andati a
vuoto, il creditore insoddisfatto era autorizzato ad ucciderlo244.
Rispetto alla nostra indagine, è significativo il collegamento che si può
scorgere tra l’imposizione della mano dell’attore e la condizione di addictus
che si veniva a creare: tale gesto è, con tutta evidenza, la rappresentazione

239
M. Talamanca, voce Processo, cit., 9.
240
Gell. 20.1.42, ricondotti dall’antiquario romano alla sospensione determinata dallo iustitium: v. a
proposito M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 136, nt. 36; L. Garofalo, In tema
di ‘iustitium’, in Piccoli scritti di diritto penale romano, Padova, 2008, 65 ss., critico rispetto a chi scorge
nel brano in parola appigli per sostenere che lo iustitium comportasse uno stato di totale anomia (in
questa prospettiva si pongono, ad esempio, A. Nissen, Das Justitium. Eine Studie aus der römischen
Rechtsgeschichte, Leipzig, 1877; G. Kleinfeller, voce ‘Iustitium’, in PWRE, X.2, Stuttgart, 1919, 1339
s.; G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, 2003, 55); J. Zabłocki, Procedura, cit., 517 ss.
241
Cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 292.
242
M. Talamanca, voce Processo, cit., 9 s.
243
Le XII Tavole, ad esempio, fissavano il peso massimo delle catene e imponevano al creditore
di sfamare il debitore con almeno una libbra di farro al giorno, come sappiamo da Gell. 20.1.45.
244
Cfr. Gell. 20.1.46-52. La condizione di addictus è stata di recente oggetto delle attenzioni di
A. Salomone, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 84 ss., e di M. Falcon, Il corpo del debitore, cit., 106
ss., a cui si rinvia anche per quanto riguarda la letteratura nel tempo accumulatasi.
82 Mattia Milani

stilizzata di tale situazione di sottoposizione all’altrui supremazia, la procla-


mazione di un possesso esclusivo.
Ma non è tutto, perché se si guarda alle modalità attraverso cui il debitore
poteva ‘sfuggire’ da tale destino, ritorna la connessione tra la mano e il potere,
che si innerva nel gesto dell’‘afferrare’. Sempre Gaio, infatti, ci informa che il
soggetto che subiva una manus iniectio poteva far intervenire a suo favore un
terzo (vindex), il quale si assumeva la sua difesa in un diverso procedimento,
stavolta di cognizione, nei confronti del creditore245. Il debitore, infatti, mai
poteva difendersi personalmente: ossia, non era legittimato a ‘manum sibi de-
pellere et pro se lege agere’.
Gai 4.21: … nec licebat iudicato manum sibi depellere et pro se lege agere, sed vindi-
cem dabat, qui pro se causam agere solebat. qui vindicem non dabat, domum duce-
batur ab actore et vinciebatur.

La disciplina era parzialmente differente per alcune fattispecie contemplate


da diverse leggi, rispetto alle quali, pur in assenza di giudicato, era ammessa la
manus iniectio246: in tali casi, però, il convenuto poteva difendersi in proprio.
Gai 4.23-24: Sed aliae leges ex quibusdam causis constituerunt quasdam actiones per ma-
nus iniectionem, sed puram, id est non pro iudicato, velut lex Furia testamentaria adversus
eum, qui legatorum nomine mortisue causa plus M assibus cepisset, cum ea lege non esset
exceptus, ut ei plus capere liceret; item lex Marcia adversus faeneratores, ut si usuras exegis-
sent, de his reddendis per manus iniectionem cum eis ageretur. 24. Ex quibus legibus et si
quae aliae similes essent cum agebatur, manum sibi depellere et pro se lege agere reo licebat.
nam et actor in ipsa legis actione non adiciebat hoc verbum pro iudicato, sed nominata
causa, ex qua agebat, ita dicebat: ob eam rem ego tibi manum inicio; cum hi, quibus pro
iudicato actio data erat, nominata causa, ex qua agebant, ita inferebant: ob eam rem ego
tibi pro iudicato manum inicio nec me praeterit in forma legis Furiae testamentariae pro
iudicato verbum inseri, cum in ipsa lege non sit; quod videtur nulla ratione factum.

In seguito, tramite la lex Vallia – di data incerta, ma probabilmente risa-


lente al II secolo a.C.247 –, tale regime assunse portata generale248, dimodo-

245
Ma v. anche Gell. 20.1.45. Qualora il garante fosse risultato vittorioso, la procedura per
manus iniectionem sarebbe stata priva di fondamento. In caso contrario, il vindex era condannato
al versamento a favore del creditore di una somma pari al doppio di quella dovuta dall’originario
debitore: si tratta del cd. fenomeno della litiscrescenza.
246
Cfr. M. Talamanca, voce Processo, cit., 10 s.; A. Salomone, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 94 s.
247
Cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 294.
248
Cfr. G. Nicosia, La ‘manus iniectio’: dal regime originario a quello della ‘manus iniectio pura’, in
‘Praesidia libertatis’. Garantismo e sistemi processuali nell’esperienza di Roma repubblicana. Atti del
convegno internazionale di diritto romano (Copanello, 7-10 giugno 1992), Napoli, 1994, 163 ss.
La mano destra in Roma antica 83

ché al debitore era sempre garantita la facoltà di contestare personalmente


la fondatezza delle pretese del creditore esecutante.
Gai 4.25: Sed postea lege Vallia, excepto iudicato et eo, pro quo depensum est, cete-
ris omnibus, cum quibus per manus iniectionem agebatur, permissum est sibi manum
depellere et pro se agere. itaque iudicatus et is, pro quo depensum est, etiam post hanc
legem vindicem dare debebant et, nisi darent, domum ducebantur. istaque, quamdiu
legis actiones in usu erant, semper ita observabantur; unde nostris temporibus is, cum
quo iudicati depensive agitur, iudicatum solui satisdare cogitur.

Rimase intatta, anche dopo le innovazioni legislative successive alle XII


Tavole, la logica che collegava la manus iniectio alla dinamica mano/pote-
re/subordinazione personale: al punto che il difendersi in giudizio auto-
nomamente da parte del debitore venne costantemente indicato come il
‘sollevare’ la manus del creditore dal suo corpo.

6. La mano destra e l’assunzione di impegni: la ‘clades dextrae’ di Mucio Scevola,


il giuramento e il contatto con il sacro, la ‘devotio’ bellica.

Oltre ad essere simbolo di potere, la mano destra sovente si ritrova acco-


stata ad impegni solennemente assunti.
Già tra le leggende riguardanti la storia più risalente di Roma abbia-
mo notizia di un episodio in cui la mano destra si presenta come elemento
che simboleggia un vincolo: alludo alla nota vicenda della clades dextrae di
C. Mucio Scevola249. Mentre la città era assediata dagli Etruschi guidati da
Porsenna, un giovane aristocratico romano, Caio Mucio (Cordo, secondo
Dionigi d’Alicarnasso250), chiede e ottiene dal Senato il permesso di attra-
versare il Tevere e di penetrare nell’accampamento avversario, onde assassi-
nare il sovrano di Chiusi e porre così fine alle ostilità.
Sennonché, l’audace ‘adulescens’251, abilmente infiltratosi tra le fitte
schiere nemiche, commette un grave errore: anziché colpire a morte il so-

249
Trasmessaci da Liv. 2.12-13 e Dion. Hal. 5.27-31, ma ricordata anche da Sen. dial. 1.3.5.1.
In letteratura, ex multis, G. De Sanctis, Storia dei Romani. I. La conquista del primato in Italia2,
Firenze, 1956, 436 s.; R.M. Ogilvie, A Commentary, cit., 262 ss.; A. Momigliano, Georges Dumézil,
cit., 58 s.; E. Montanari, Identità culturale e conflitti religiosi nella Roma repubblicana, Roma, 1988,
61 ss.; E. Cantarella, I supplizi capitali. Origine e funzioni della pena di morte in Grecia e a Roma,
Milano, 2011, 240 ss.; S. Curletto, La norma, cit., 131 s.; A. Calore, ‘Tactis Evangeliis’, cit., 78;
Id., ‘Per Iovem lapidem’, cit., 70 e nt. 100, soprattutto sulla connessione con Fides.
250
Dion. Hal. 5.25.4, su cui v. R.M. Ogilvie, A Commentary, cit., 263.
251
Così è ricordato in Liv. 2.12.2.
84 Mattia Milani

vrano etrusco – che mai, prima d’allora, aveva visto –, affonda il pugnale
che aveva con sé nel petto di un funzionario di corte, impegnato a distribu-
ire il soldo alle truppe. I ricchi vestiti che questi indossava, infatti, avevano
confuso il giovane coraggioso.
Bloccato dalle guardie mentre tentava di fuggire, Caio Mucio viene
condotto al cospetto di Porsenna e qui non tenta di discolparsi e nemme-
no chiede clemenza: egli, anzi, stende la mano destra, con la quale aveva
giurato di portare a termine il suo incarico mortale, sui carboni ardenti di
un braciere che gli era accanto e, senza cedere al dolore, lascia che la stessa
mano, lentamente, si consumi252.
Tale gesto, a ben guardare, è una palese dimostrazione di coraggio e
d’indifferenza al dolore in primis del giovane – che da quel momento
prenderà il nome di Scevola, ossia ‘mancino’253 –, ma anche della gens ro-
mana tutta.
Non solo: esso è pure la prova dell’altissima considerazione serbata da
quel popolo per gli impegni assunti, che appunto dalla destra sono simbo-
leggiati254. Un’attitudine che poteva giungere sino al sacrificio estremo: Ca-
io Mucio offre infatti tale parte del proprio corpo quale punizione per non
aver portato a termine la missione che si era accollato255. E allora Porsenna,
impressionato da tale audacia, e preoccupato dalla notizia, trasmessagli dal
giovane – peraltro non corrispondente al vero –, che altri trecento romani
erano pronti ad assassinarlo, vacilla e infine cede: rimette in libertà Caio
Mucio e desiste dal conquistare l’Urbe.
Certo, si tratta di un episodio avvolto da un alone di leggenda, che con

252
È in questi termini che Tito Livio narra la vicenda. Differente invece la versione di Dionigi
d’Alicarnasso, per il quale sarebbe stato Porsenna a minacciare Mucio di torturarlo con il fuoco.
Su tali discrepanze, che pur non presentano rilevanza alcuna rispetto alla valutazione dell’episodio
muciano, v. E. Cantarella, I supplizi, cit., 241.
253
Liv. 2.13.1. Cfr. E. Cantarella, I supplizi, cit., 241, la quale, per vero, nella prima edizione
del suo studio accennava a una possibile diversa origine del nome ‘scaevola’, derivante dal
termine usato per indicare – stando a Varro ling. 7.97 – l’amuleto che si metteva al collo dei
bambini per proteggerli dalla cattiva ventura e, forse, anche dal fuoco. Sarebbe stato il carattere
‘modesto’ di questa radice che per G. De Sanctis, Storia, cit., 436, avrebbe poi spinto la fantasia
popolare a elaborare il collegamento ‘scaevola’-‘mancino’ con riguardo all’eroe che aveva perso
la destra.
254
V. supra nt. 115.
255
Cfr. R.M. Ogilvie, A Commentary, cit., 262. Una logica che permane nei secoli, basti
pensare alla leggenda, diffusasi sin dal Medio Evo, secondo cui la ‘Bocca della verità’,
conservata nella chiesa romana di Santa Maria in Cosmedin, tagliasse la mano a chi non
diceva il vero: cfr. J.-P. Baud, Il caso, cit., 103 s.
La mano destra in Roma antica 85

quelli di Orazio Coclite e di Clelia256 tendeva, forse, a eliminare dalla me-


moria collettiva il ricordo di una disfatta militare di Roma257.
Ma l’indagine che si sta conducendo si muove in un’ottica differente
e il mito muciano mostra nondimeno quanto fosse radicata e risalente la
rilevanza della gestualità della destra quale elemento in grado di modificare,
insieme alla parola, l’ordine giuridico e religioso esistente258 o di vincolare
stabilmente le persone.
Proprio come accadeva per i giuramenti.
Vi sono molte testimonianze antiche che ricordano di giuramenti ese-
guiti mediante la pronuncia di certa verba e il compimento di una serie di
gesti solenni, tra cui in alcuni casi anche quello di toccare l’altare della di-
vinità invocata o un oggetto che la richiamasse259. Nel Rudens di Plauto,
ad esempio, Labrax Lano si impegna a corrispondere al servo Gripus una
somma di denaro in cambio di un’informazione afferrando l’ara di Vene-
re260. O ancora: Virgilio, nel narrare l’accordo tra Enea e Latino, descrive
come quest’ultimo avesse suggellato la promessa alzando gli occhi al cielo,
sollevando la mano destra e abbassandola sino al contatto con l’altare, in
modo da fare degli dèi invocati i testimoni e i garanti del suo impegno261.

256
Le cui vicende sono rispettivamente narrate in Liv. 2.10.1-13 e Liv. 2.13.6-11 (su cu v. R.M.
Ogilvie, A Commentary, cit., 258 ss. e 267 ss., ma si rammenti altresì Verg. Aen. 7.651). Già Flor.
1.4.5, invero, mostra di ritenere le gesta di quelli che considera ‘tria Romani nominis prodigia
atque miracula’ delle fabulae, se non fosse per il fatto che risultavano contemplate negli annales.
Sulla questione, cfr. E. Montanari, Identità culturale, cit., 61 ss.; M.B. Roller, Exemplarity in
Roman Culture. The Cases of ‘Horatius Cocles’ and ‘Cloelia’, in CPh, XCIX, 2004, 1 ss.
257
Cfr. A. Alföldi, Early Rome and the Latins, Ann Arbor, 1963, 74.
258
Cfr. C. Gioffredi, Religione e diritto, cit., 275 ss.; A. Calore, ‘Per Iovem lapidem’, cit., 116
ss.; S. Bertelli - M. Centanni, Il gesto, cit., 12 ss.; A. Corbeil, Nature Embodied. Gesture in
Ancient Rome, Princeton, 2004, 20 ss.
259
Cfr. A. Calore, ‘Tactis Evangeliis’, cit., 66 ss.
260
Plaut. Rud. 1332-1344, su cui v. L. Zurli, ‘Ius iurandum patrare, id est sancire foedus’, cit., 342;
A. Calore, ‘Per Iovem lapidem’, cit., 26 ss.; F. Zuccotti, Il giuramento nel mondo, cit., 56 s.
261
Verg. Aen. 12.195-200: Sic prior Aeneas; sequitur sic deinde Latinus suspiciens caelum
tenditque ad sidera dextram: «Hae eadem, Aenea, terram mare sidera iuro Latonaeque genus
duplex Ianumque bofrontem vimque deum infernam et duri sacraria Ditis; audiat haec genitor,
qui foedera fulmine sancit. Per una panoramica delle letture di questa vicenda emerse in dottrina,
cfr. G. Luraschi, voce ‘Foedus’, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., 548 s., il quale non manca di
sottolineare le peculiarità della procedura in parola, in cui il momento del sacrificio segna anche
una sorta di contaminazione tra il mos Graecus e il mos Romanus (ciricostanza già desumibile in
Serv. in Verg. Aen. 12.170). Cfr. anche Dion. Hal. 1.40.6, che ricorda la remota prassi di suggellare
gli accordi conclusi nel Foro Boario mediante un ὅρκος presso l’Ara Maxima. Confermano
che il contatto con l’altare fosse un gesto comune Cic. Flacc. 90, sebbene in un contesto ove
l’espressione è priva di rilievo tecnico-giuridico; Iuv. 13.89; 14.219 e Macr. Sat. 3.2.7-9. Un esame
86 Mattia Milani

Facile, poi, è andare con la mente all’antichissimo262 giuramento per


Iovem lapidem263 – cui si sarebbe ispirato anche Virgilio nel descrivere la
cerimonia appena ricordata264 –, utilizzato per concludere trattati interna-
zionali tra Roma e altri popoli265 o per sancire solennemente impegni tra
privati di particolare rilievo266.
Le fonti che ne trattano appartengono a epoche differenti e ci fornisco-
no delle descrizioni ove alcuni dettagli non coincidono perfettamente: si
tratta, invero, di elementi che in questa cornice hanno scarso rilievo267. Le
testimonianze concordano invece nell’attestare che il rito in parola si rea-
lizzava attraverso la pronuncia di una formula solenne – che comprendeva
un’exsecratio e il contenuto dell’impegno268 – accompagnata dal gesto di
afferrare con la manus il lapis silex269.
Circa l’utilizzo di detta pietra – simbolo del fulmine e quindi oggetto
in cui si concentrava la potenza stessa di Iuppiter, del quale è appunto si-
gnum270 –, i racconti in nostro possesso divergono. Secondo un primo grup-
po di autori271, essa doveva essere scagliata lontano, alludendo tale mimica
all’espulsione dalla comunità del soggetto irrispettoso della parola data;

di tali testi si può trovare in A. Calore, ‘Tactis Evangeliis’, cit., 66; Id., ‘Per Iovem lapidem’, cit.,
21 ss., con ulteriori indicazioni di letteratura; H. Wirth, Die linke Hand, cit., 136. Sul tendere
palmas al cielo nell’Eneide, v. F.A. Sullivan, Gestures in the Aeneid, in CJ, LXIII, 1968, 358 ss.
262
In Apul. Socr. 5.132 compare appunto la frase ‘iurabo per Iovem lapidem Romano vetustissimo
ritu’, mentre per Gell. 1.21.4 è ‘sanctissimum’: v. A. Calore, ‘Per Iovem lapidem’, cit., 93 ss.
263
Sul quale, in dottrina, v. almeno L. Zurli, ‘Ius iurandum patrare, id est sancire foedus’, cit.,
337 ss.; A. Valvo, ‘Fides’, ‘foedus’, ‘per Iovem lapidem iurare’, cit., 117 ss.; A. Calore, ‘Tactis
Evangeliis’, cit., 66; Id., ‘Per Iovem lapidem’, cit., 35 ss., secondo cui «la struttura del giuramento
per Iovem lapidem rappresentò l’archetipo dell’atto giurato solenne nel periodo più antico della
storia di Roma»; F. Zuccotti, Il giuramento nel mondo, cit., 49 ss.; S. Rossaro, Genealogia, cit.,
450 ss., ove ulteriori indicazioni bibliografiche.
264
Cfr. G. Luraschi, voce ‘Foedus’, cit., 548.
265
Come avvenuto con gli Albani o con i Cartaginesi, stando a quanto ci tramandano,
rispettivamente, Liv. 1.24.7-9 e Pol. 3.25.6-9.
266
Cic. fam. 7.12.2.
267
Per un quadro d’insieme, anche in ordine alle linee di tendenza emerse in dottrina, cfr. A.
Calore, ‘Tactis Evangeliis’, cit., 69 ss.; Id., ‘Per Iovem lapidem’, cit., 37 ss. e nt. 9.
268
Pol. 3.25.6-8; Plut. Sull. 10.7; Liv. 1.24.7-9; Paul.-Fest. voce ‘Lapidem silicem’ (Lindsay 102).
269
Sul complesso cerimoniale in discorso, v. ancora A. Calore, ‘Per Iovem lapidem’, cit., 35 ss.
270
Così in Serv. auct. in Verg. Aen. 8.641 (ma v. anche Paul.-Fest. voce ‘Feretrius’ [Lindsay 81]).
Circa tale identificazione si rinvia ad A. Biscardi, Nozione classica ed origini dell’‘auctoramentum’,
in Studi in onore di P. De Francisci, cit., IV, 115; R. Santoro, Potere, cit., 521; A. Calore, ‘Tactis
Evangeliis’, cit., 69 ss.
271
Pol. 3.25.9; Plut. Sull. 10.7; Paul.-Fest. voce ‘Lapidem silicem’ (Lindsay 102).
La mano destra in Roma antica 87

secondo altri, invece, sarebbe stata lo strumento mediante il quale si proce-


deva all’uccisione di un maiale sacro272.
Le discrepanze tra le versioni ricordate non impediscono di riconoscere
la centralità svolta dalla manus nella liturgia di cui si discute. Ed è per noi
un particolare di non poco momento. A seguire il rituale appena descrit-
to, infatti, si ha come l’impressione che proprio grazie al contatto tra tale
attributo umano e il saxum direttamente riferibile a Giove la dimensione
terrena e quella divina entrassero in comunicazione273.
Il gesto, prendendo a prestito le parole di Antonello Calore, «aveva il
compito di intercettare la potenza con la finalità di sacralizzare la volontà
del soggetto»274. Era infatti la partecipazione del sovrano dell’ordine, evo-
cato nei modi visti poc’anzi, che solennizzava il vincolo assunto, come se di-
venisse garante dell’affermazione o della promessa275: e in questa dinamica,
se le parole pronunciate andavano a costituire il contenuto dell’impegno,
era il gesto che ne ‘rafforzava’ la portata precettiva276.

272
Liv. 1.24.9; Paul.-Fest. voce ‘Feretrius’ (Lindsay 81); Serv. auct. in Verg. Aen. 8.641. Per
A. Calore, ‘Tactis Evangeliis’, cit., 70, la differenza tra la notizia liviana e la tradizione festina
o polibiana «potrebbe essere il risultato di alcune modifiche verificatesi nel corso degli anni
per l’influsso di altre culture»; A. Valvo, ‘Fides’, ‘foedus’, ‘per Iovem lapidem iurare’, cit., 123,
considera l’espressione rituale riprodotta dal Patavino «un adattamento della formula del
giuramento per Iovem ricordato da Festo al sacrificio del maiale».
273
Ben puntualizza A. Calore, ‘Per Iovem lapidem’, cit., 66 ss., che «l’uso della mano non
era casuale ma rispondeva ad un preciso codice rituale, che, forte del valore simbolico assunto
dalla manus, prescriveva il contatto con il lapis silex: l’oggetto esterno caratterizzante quel
giuramento». Sul saxum silex, strumento legato a Iuppiter Feretrius, v. anche A. Magdelain,
Essai, cit., 25; P. de Francisci, ‘Primordia civitatis’, cit., 242 s.; R.M. Ogilvie, A Commentary,
cit., 112, secondo cui «the flint, kept in the temple of Juppiter Feretrius, was probably an old
neolithic celt venerated for its antiquity and sacred function, which came to be regarded as a
thunderbolt, a symbol of the god»; G. Turelli, ‘Audi Iuppiter’. Il collegio dei feziali nell’esperienza
giuridica romana, Milano, 2011, 81 e nt. 163 (su cui v. E. Stolfi, Recensione, in SDHI, LXXIX,
2013, 1320 ss.; F. Vallocchia, Recensione, in Iura, LXI, 2013, 409 ss.). Sul contatto tra mano e
oggetti sacri, si rammenti anche Liv. 21.45.8, ove è descritto il giuramento che Annibale compie
attraverso uno schema simile a quello visto in queste pagine; S. Rossaro, Genealogia, cit., 455 ss.,
anche per la letteratura.
274
Così, A. Calore, ‘Tactis Evangeliis’, cit., 73.
275
Per É. Benveniste, Il vocabolario, cit., 371, giurare è «impegnarsi in modo solenne con l’invocazione
di un dio», mentre C. Bertolini, Il giuramento, cit., 10 s., ritiene che «la forza del giuramento riposava
sulla credenza alla partecipazione diretta degli Dei all’atto del giuramento come testimoni e giudici e sul
timore dei mali che essi irritati ed offesi per lo spergiuro impongono indubbiamente in questa vita, come
malattie, fulmini, ferite, infelicità di ogni sorta: lo spergiuro si reputava un oltraggio fatto direttamente ai
loro diritti ed alla loro potenza e la vendetta divina scendeva terribile ed inevitabile».
276
Non lontano da questa logica si pone Cic. Att. 16.15.3, in cui l’Arpinate rievoca la promessa
di un giovane Augusto, compiuta toccando con la destra la statua del padre adottivo Cesare: cfr.
88 Mattia Milani

Si tratta di elementi che si ritrovano anche in un altro rituale molto


antico: la devotio bellica.
La devotio è il mezzo attraverso il quale un magistrato dotato di impe-
rium militiae – e, quindi, un console, un dittatore o un pretore – consacra
se stesso e le forze nemiche agli dèi Mani e alla madre Terra, per propiziare
la vittoria del proprio esercito in un momento in difficoltà277.
Possiamo ricostruirne struttura ed effetti grazie all’accurata descrizione
versata da Tito Livio nell’ottavo dei suoi Ab Urbe condita libri, allorquando
lo storico narra del sacrificio compiuto nel 340 a.C. da Decio Mure durante
la battaglia di Veseris contro i Latini278.

H. Wirth, Die linke Hand, cit., 136 s.


277
Per una prima bibliografia sul tema: G. Wissowa, voce ‘Devotio’, in PWRE, V, Stuttgart, 1905,
277 ss.; L. Cesano, voce ‘Devotio’, in DE, II.2, 1910, 1712 ss.; G. Stievano, La supposta ‘devotio’ di P.
Decio Mure nel 279 a.C., in Epigraphica, XIII, 1951, 3 ss.; K. Winkler - A. Stuiber, voce ‘Devotio’, in
RLAC, III, Stuttgart, 1957, 849 ss.; P. de Francisci, ‘Primordia civitatis’, cit., 312 ss.; O. Schönberg,
Motivierung und Quellenbenützung in der Deciusepisode des Livius (10.24-30), in Hermes, LXXXVIII,
1960, 217 ss.; H.S. Versnel, Two Types of Roman ‘Devotio’, in Mnemosyne, XXIX, 1976, 365 ss.; Id.,
Self-sacrifice, Compensation and the Anonymous Gods, in Le sacrifice dans l’antiquité, in Entretiens sur
l’antiquité classique, XXVII, Genève, 1981, 143 ss.; C. Guittard, Aspects épiques de la première décade
de Tite-Live: le rituel de la ‘devotio’, in L’épopée gréco-latine et ses prolongements européens. Colloque,
Paris, 1981, 41 ss.; L.F. Janssen, Some Unexplored Aspects of ‘Devotio Deciana’, in Mnemosyne, XXXIV,
1981, 357 ss.; A. Carcaterra, Dea ‘Fides’ e ‘fides’, cit., 220 ss.; L. Peppe, La nozione di ‘populus’ e le sue
valenze. Con un’indagine sulla terminologia pubblicistica nelle formule della ‘evocatio’ e della ‘devotio’, in
Staat und Staatlichkeit in der frühen römischen Republik. Akten eines Symposiums (12.-15. Juli 1988,
Freie Universität Berlin), a cura di W. Eder, Stuttgart, 1990, 329 ss.; L. Ceccarelli, La ‘devotio’ a Roma
e un verso di Accio (‘Praet.’ 15 R2), in Studi e materiali di storia delle religioni, LXI, 1995, 219 ss.; G.M.
Masselli, La leggenda dei ‘Decii’: un percorso fra storia, religione e magia, in Aufidus, XXXIX, 1999, 7 ss.
(ora anche in Riflessi di magia. Virtù e virtuosismi della parola in Roma antica, Napoli, 2012, 9 ss.); G.
Dumézil, La religione, cit., 97 s., 157 e 217; L. Sacco, ‘Devotio’, in Studi Romani, LII, 2004, 318 ss.; Id.,
‘Devotio’. Aspetti, cit., 74 ss., con ampia discussione delle fonti e della letteratura; J. Rüpke, La religione, cit.,
128; A. Dubourdieu, Nommer les dieux. Pouvoir des noms, pouvoir des mots dans les rituels du ‘uotum’, de
l’‘evocatio’, et de la ‘devotio’ dans le Rome antique, in Archiv für Religionsgeschichte, VII, Leipzig, 2005, 183
ss.; L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’ di Decio Mure, Napoli, 2011, 18 ss., che nota come la devotio abbia
di recente suscitato un rinnovato interesse in «una vasta ed eterogenea platea di studiosi, che comprende
giuristi, cultori della fenomenologia religiosa, antropologi, filosofi e politologi, tutti fortemente attratti …
dal tema del sacro, inteso prevalentemente come tassello importante dell’esperienza giuridica romana, che
lascerà un’impronta indelebile su non poche delle costruzioni istituzionali e concettuali che connoteranno
l’Occidente cristiano e giungeranno, sia pure non senza mutamenti, fino a noi». Su tali temi, v. altresì le
riflessioni raccolte in Id., Biopolitica e diritto romano, Napoli, 2009, 1 ss.
278
Liv. 8.9.1-10 (la vicenda è peraltro ricordata anche da Plin. nat. 22.9; Val. Max. 1.7.3;
5.6.5). Invero, non è per nulla certo che le pagine dello storico padovano descrivano una devotio
realmente compiuta, nel 340 a.C., da Decio Mure: sembra anzi più probabile che essa costituisca
la riproposizione del medesimo atto compiuto dal figlio di questi nel 295 a.C., durante la battaglia
di Sentino avverso i Galli e i Sanniti (trattata in Liv. 10.28.29, ma ottimamente documentata
La mano destra in Roma antica 89

Ecco, in breve, i momenti salienti di tale episodio279.


L’esercito romano, schierato alle pendici del Vesuvio, è agli ordini dei
consoli Tito Manlio e P. Decio Mure: al primo, in particolare, è affidato
il comando dell’ala destra, al secondo di quella sinistra. Entrambi si pre-
parano allo scontro dopo aver ricevuto, nella notte, un oscuro presagio:
un’imponente figura umana, infatti, aveva nel sonno comunicato loro che
la vittoria sarebbe stata possibile solo se uno dei due si fosse offerto in sacri-
ficio agli dèi inferi280.
Per placare la loro ira, e per conoscerne meglio la volontà281, poco pri-
ma dell’assalto i due comandanti compiono dei sacrifici animali, che danno
presagi propizi per Tito Manlio ma non per Decio Mure.
E infatti, già nelle prime fasi dello scontro, il fianco dell’esercito agli
ordini di quest’ultimo comincia a soffrire la pressione e l’ardore dei Latini,
rischiando di cedere282. A fronte di tale pericolo, il condottiero romano,
memore della visione notturna, sceglie di compiere il gesto supremo che
l’ha reso celebre ai posteri: si vota, insieme alle schiere nemiche283, agli dèi e
chiede, quale ‘corrispettivo’284, che questi diano al popolo romano la forza

anche da altre fonti, raccolte da L. Sacco, ‘Devotio’. Aspetti, cit., 85 s.). È questa, infatti, la
posizione della dottrina più attendibile. Non è mancato chi ha ricollegato il tutto addirittura a
un ulteriore discendente della famiglia dei Decii, che si sarebbe reso devotus nel 279 a.C., durante
la guerra contro Pirro ad Ascoli Satriano (su cui v. Cic. fin. 2.19.61). Nonostante tali incertezze,
una devotio deve pur essere avvenuta ad opera di uno dei Decii, poc’anzi ricordati: non si può,
infatti, che esser d’accordo con L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit., 19, allorquando afferma
che «a fondamento di quella tradizione poteva sì esserci una falsificante rielaborazione dei dati
provenienti dalla concreta esperienza di matrice annalistica, ma non così estesa da sconfinare
nella pura invenzione». Su tali questioni, v. anche G.M. Masselli, La leggenda, cit., 11 s.; L.
Peppe, La nozione, cit., 338; L. Sacco, ‘Devotio’, cit., 318 ss.; Id., ‘Devotio’. Aspetti, cit., 84 ss., con
raccolta e commento delle testimonianze concernenti le tre devotiones cui si è appena fatto cenno.
279
Mirabilmente rappresentato da Peter Paul Rubens in un ciclo di otto tele, su cui si è posata
l’attenzione di L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit., 5 ss.
280
Liv. 8.6.9-10.
281
Liv. 8.6.11.
282
Liv. 8.9.2-3.
283
Questa duplice consacrazione ha indotto W. Soltau, Die Devotion der Decier, in
Philosophisches Wörterbuch, XXX, 1910, 1461 ss., a ipotizzare una fusione, operata da Livio, dei
rituali della devotio ducis e della devotio hostium (di cui abbiamo notizia da Macr. Sat. 3.9): dette
procedure, invero, trovavano applicazione in contesti e per scopi diversi, pur avendo in comune
alcuni elementi di non poco conto. Ciò è stato ben messo in luce da L. Sacco, ‘Devotio’, cit., 333;
Id., ‘Devotio’. Aspetti, cit., 103 ss.; L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit., 27. Circa le differenze
tra i due riti, v. H.S. Versnel, Two Tipes, cit., 365 ss.
284
In realtà, da Liv. 8.10.11 sappiamo che il magistrato cum imperio poteva anche non
consacrare se stesso, ma un qualsiasi soldato del suo esercito (sempre insieme alle forze nemiche):
90 Mattia Milani

per raggiungere la vittoria, diffondendo al contempo sul nemico terrore e


morte285.
Il cerimoniale della devotio, tuttavia, è complesso e articolato, tanto che
solo la memoria pontificale è in grado di conservarne il ricordo: ecco che il
console chiede a gran voce l’aiuto del pontifex publicus populi Romani, Mar-
co Valerio, affinché lo guidi nell’esecuzione del rituale286. In base alle istru-
zioni ricevute dal sacerdote, e sotto il suo sguardo vigile, Decio Mure porta
a termine le formalità richieste: nel dettaglio, indossata la toga praetexta e
posati i piedi su un giavellotto, declama il carmen di rito – che si apre con
un’invocazione a una pluralità di dei, tra cui la triade precapitolina compo-
sta da Iuppiter, Mars e Quirinus, prosegue con la richiesta di intervento e
si chiude con l’offerta di se stesso alle divinità infere287 – e contemporanea-
mente, ‘velato capite’, fa scorrere la propria mano al di sotto della veste sino
toccarsi il mento288.
L’eroe, divenuto devotus, si lancia quindi in sella al proprio destriero tra
le fila dei Latini, e ne fa strage. Il suo aspetto è superbo e nulla pare in grado
di abbatterlo: semina il panico e lo sgomento tra le fila nemiche e soltanto
una pioggia di dardi lo fa cadere a terra esanime, interrompendo così la sua
carneficina289.
Ma i Latini anziché risollevarsi per la morte del condottiero, riman-
gono talmente impressionati e atterriti dalla sua azione che abbandonano
parte del campo di battaglia, dandosi alla fuga. Ecco allora che i Romani,
galvanizzati e con l’animo liberato dal terrore religioso (‘exolutis religione
animis’), ridanno slancio al loro assalto290 e, grazie anche alle abili manovre

v. G. Wissowa, voce ‘Devotio’, cit., 277 s.; L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit., 24.
285
Liv. 8.9.6-9.
286
Liv. 8.9.4, secondo uno schema che si ripete anche nel compimento della devotio di Decio
Mure figlio, del 295 a.C., al quale la formula viene ricordata dal pontefice Marco Livio, in
10.28.14 (v. L. Cesano, voce ‘Devotio’, cit., 1713).
287
Liv. 8.9.6-8: ‘Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, divi Novensiles, di Indigetes,
divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, dique Manes, vos precor veneror, veniam
peto oroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani
Quiritium terrore, formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupavi, ita pro re publica populi
Romani Quiritium legiones auxiliaque hostium mecum deis Manibus Tellurique devoveo’. Circa
l’importanza di tale passo – invero non scevro di imprecisioni e ammodernamenti (cfr. L.
Peppe, La nozione, cit., 337, e L. Sacco, ‘Devotio’. Aspetti, cit., 88 s., nt. 87) – per lo studio della
religione romana, v. G. Dumézil, La religione, cit., 97, e H.S. Versnel, Two Types, cit., 396, ove
un suggestivo accostamento del carmen deciano alle formule delle maledizioni.
288
Tito Livio non specifica se la destra o la sinistra: sul punto v. infra.
289
Liv. 8.9.9-14.
290
Liv. 8.9.13.
La mano destra in Roma antica 91

del console superstite, hanno la meglio sugli avversari, che ripiegano presso
la città di Minturno291. Il corpo di Decio Mure, stando ancora al Patavino,
verrà trovato solo il giorno seguente, sepolto dalle frecce e dai cadaveri dei
nemici: è solo a questo punto, in presenza di Tito Manlio, che gli vengono
resi gli onori funebri che si merita292.
Grazie alla narrazione liviana, e in particolare in virtù dell’accurata de-
scrizione del rituale eseguito dal devovens, possiamo svolgere alcune rifles-
sioni lungo la linea d’indagine che qui si sta seguendo.
Sono infatti molti gli elementi simbolici che compaiono nell’esecuzio-
ne dell’«atto di crisi»293 in discorso, di cui occorre individuarne ragione e
significato.
Innanzitutto, la toga praetexta294 e il capo velato sono elementi caratte-
ristici delle cerimonie sacrificali e delle consacrazioni svolte secondo il ritus
Romanus295, usati specialmente in quelle in cui il soggetto officiante instau-
ra un rapporto diretto con gli dèi. La velatura, infatti, oltre ad assicurare la
«massima libertà da ogni disturbo esterno»296, umano o di altro tipo che
sia, pare alludere all’isolamento delle cose ‘sacre’ dal mondo, riservate agli
dèi297. Un particolare già incontrato osservando il rito annuale svolto in
onore di Fides, durante il quale la mano destra dei flamines, nel ‘rem divi-
nam facere’, era avvolta da un panno bianco298.
E anche nella liturgia della devotio bellica tale parte del corpo si pre-
senta, se non proprio ‘ad digitos usque involuta’, almeno coperta: è ‘subter

291
Liv. 8.10.9.
292
Liv. 8.10.10. Sui riti funerari romani, v. J. Scheid, Quando fare è credere, cit., 140 ss.
293
Espressione ripresa da J. Rüpke, La religione, cit., 128.
294
Indumento assai scomodo, utilizzato in occasioni eccezionali: v. J. Rüpke, La religione, cit.,
105; L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit., 28.
295
V. Verg. Aen. 3.403-409; Fest. voce ‘Saturnia’ (Lindsay 432); Cic. nat. 2.3.10. In letteratura,
cfr. P. De Francisci, ‘Primordia civitatis’, cit., 312; S. Tondo, Aspetti, cit., 149 s.; G.M. Masselli,
La leggenda, cit., 19; L. Sacco, ‘Devotio’, cit., 336 ss.; Id., ‘Devotio’. Aspetti, cit., 124, e nt. 6 per una
ricca raccolta di bibliografia, anche in ordine alle differenze rispetto al ritus Graecus; J. Rüpke, La
religione, cit., 105; L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit., 28.
296
Così, J. Rüpke, La religione, cit., 105.
297
Cfr. S. Tondo, Aspetti, cit., 149 s.; G.M. Masselli, La leggenda, cit., 20. Secondo L.
Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit., 28, la velatura deve collegarsi alla sola romanità del rito,
mentre P. De Francisci, ‘Primordia civitatis’, cit., 312, ravvisa la ragione di tale dettaglio nel
fatto che il devovens è la vittima del sacrificio. Non convince la congettura di L. Sacco, ‘Devotio’.
Aspetti, cit., 128 – che si pone sulla scia di G. Cressedi, ‘Caput velatum’ e ‘cinctus gabinus’, in RAL,
V, 1950, 453 ss. – secondo cui le espressioni caput velatum e cinctus Gabinus, allorché collocate
una vicino all’altra, si devono considerare equivalenti.
298
Liv. 1.21.4.
92 Mattia Milani

togam’, infatti, che l’officiante doveva avvicinarla al mento, mentre pro-


nunciava il carmen di rito. Sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare il
perché di tale dettaglio: per Pietro de Francisci sta a significare che proprio
sull’agente ricadeva la consacrazione299; Hendrik Wagenvoort vi vede un
segno di magia da contatto300; mentre Leonardo Sacco legge un «completo
affidarsi agli dèi da parte del comandante romano in contrasto con la posa
del soldato semplice che, invece di ricorrere a un gesto rituale di questo
tipo, avrebbe brandito vigorosamente le proprie armi»301. Queste opzioni
ricostruttive presentano profili di verosimiglianza, ma nessuna sembra in-
vero cogliere nel segno.
A parere di chi scrive, infatti, per penetrare il senso di tale elemento occor-
re determinare se la mano utilizzata fosse la destra o la sinistra: Livio, a tal ri-
guardo, tace. Deve invero escludersi che si trattasse della sinistra302: la relazio-
ne dicotomica tra celeste/ctonio e destra/sinistra, pur addotta a suffragio di
tale tesi, non presenta rilevanza decisiva, giustificando tutt’al più la formula-
zione di una suggestiva congettura303; a nulla di piu, inoltre, conduce la circo-
stanza secondo cui, stando al racconto liviano, entrambi i Decii (il padre nel
340 a.C. e il figlio nel 295 a.C.) comandavano il lato sinistro dell’esercito304.
È, invece, riflettendo sui movimenti compiuti dall’officiante, in rela-
zione all’abbigliamento portato, che si comprende come debba con ogni
probabilità essersi trattato della destra. Abbiamo visto che il devovens
doveva indossare la toga praetexta, un grande drappo ovale, da portare
– ripiegato in due per la lunghezza – appoggiato sulla spalla sinistra305,
dimodoché il braccio opposto rimanesse libero306. E non poteva così che

299
P. De Francisci, ‘Primordia civitatis’, cit., 312.
300
H. Wagenvoort, Roman Dynamism, cit., 34, ove si legge che «the chin is naturally the most
convenient place for a contact which transfers divine strenght».
301
Così, L. Sacco, ‘Devotio’. Aspetti, cit., 132 ss., che ivi ricorda le altre teorie proposte dalla dottrina.
302
Come pur sostenuto da L. Sacco, ‘Devotio’. Aspetti, cit., 133; G.M. Masselli, La leggenda,
cit., 29 ss. Non prende posizione C. Sittl, Die Gebärden, cit., 196.
303
Cfr. G.M. Masselli, La leggenda, cit., 27 ss., ripresa da L. Sacco, ‘Devotio’. Aspetti, cit., 134.
304
Cfr. L. Sacco, ‘Devotio’. Aspetti, cit., 134.
305
Cfr. Quint. inst. 11.3.141.
306
Il riferimento al cinctus Gabinus (un drappo legato in vita che lasciava ambedue gli arti
superiori scoperti, forse per favorire il combattimento corpo a corpo: v. Serv auct. in Verg. Aen.
5.755 e, in dottrina, G. Dubordieu, ‘Cinctus Gabinus’, in Latomus, XLV, 1986, 3 ss.), che nel
testo liviano compare poco oltre il richiamo della toga praetexta, infatti, non deve generare
confusione: in maniera del tutto convincente, G.M. Masselli, La leggenda, cit., 25, puntualizza
che l’officiante, vestito inizialmente con l’abito proprio della dignità consolare, «successivamente,
per lanciarsi contro i nemici, … ‘passava’ alla moda gabina».
La mano destra in Roma antica 93

venir utilizzato quest’ultimo, nel nostro rito, per afferrare un lembo del
tessuto e coprire il capo del consacrante, come prescritto a Decio Mure
dal pontefice Marco Valerio: a questo punto, se la mano deputata a tocca-
re il mento fosse stata la sinistra, vi sarebbe stato un goffo incrociarsi degli
arti superiori; meno difficile è immaginare, quindi, che fosse la dextera a
compiere tale gesto307.
Vi è poi un ultimo dettaglio che è possibile invocare a sostegno della
ricostruzione proposta, e concerne la postura del devovens con i piedi sopra
il telum: oggetto che – stando a William Warde Fowler308 – richiama di-
rettamente la potenza di Marte, di cui è appunto simbolo. Trovandoci così
di fronte a un’ulteriore ipotesi – analoga a quelle già viste in precedenza
(si rammenti il lapis silex nel giuramento per Iovem lapidem) – di collega-
mento tra dimensione umana e ultraterrena attuato tramite il contatto di
una parte del corpo con un oggetto che richiama una divinità, verrebbe da
chiedersi perché il giavellotto si trovi a terra e non venga brandito dall’offi-
ciante. Il che, ipotizzando che fosse proprio la mano sinistra a venir portata
al mento, è ancora più assurdo se si considera che quella opposta era del
tutto libera309. Da questi elementi, dunque, discende la convinzione che sia
stata proprio la destra ad esser utilizzata nel cerimoniale di cui si discute.
Acquisito questo dettaglio, è possibile spiegare le ragioni del perché Decio
Mure dovesse recitare la formula ‘manu subter togam ad mentum exserta’. In
tale sfondo, infatti, la destra – che simboleggia, come già ricordato, il vincolo
e il rispetto della parola data – posta in prossimità della bocca pare volta a te-
stimoniare la serietà della promessa fatta dal celebrante alle divinità ctonie310.
Dal che, il sorgere del ‘dovere di risposta’ in capo a queste ultime, tenute a
propiziare col loro intervento la vittoria dell’esercito romano311.

307
Come afferma, invero un po’ apoditticamente, A. Carcaterra, Dea ‘Fides’ e ‘fides’, cit., 226.
308
W. Warde Fowler, The Religious Experience of Roman People. From the Earliest Times to the
Age of Augustus, London, 1922, 208 e 220, e seppur in una prospettiva in parte differente, L. Sacco,
‘Devotio’. Aspetti, cit., 135, che vede nel telum un templum simbolico e provvisorio, utilizzato in
questo modo data l’urgenza del momento, che impediva di procedere all’inaugurazione di un
luogo: condivide questa impostazione L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit., 29, il quale peraltro
dà conto delle varie opinioni emerse in dottrina.
309
Anche Peter Paul Rubens rappresenta Decio Mure con la dextera portata al mento, nel
quarto dipinto del ciclo pittorico dedicato all’eroico condottiero: v. L. Garofalo, Rubens e la
‘devotio’, cit., 23, nt. 47.
310
A. Carcaterra, Dea ‘Fides’ e ‘fides’, cit., 227, che forse esagera nel vedere in ciò la presenza di
Fides nella devotio, la quale non è ricordata tra le divinità invocate dal devovens.
311
Cfr. J. Rüpke, La religione, cit., 183, che parla di un autosacrificio «per imporre alla divinità
l’onere di esaudire il desiderio».
94 Mattia Milani

È infatti convinzione di chi scrive che gli effetti del rituale devozionale
non si esaurissero nell’ingresso del magistrato cum imperio – ovvero del sol-
dato consacrato al suo posto – nella sfera di spettanza degli dèi Mani o della
Terra312, ma generassero obblighi in un certo qual modo reciproci in capo
ai ‘soggetti’ coinvolti. L’intervento divino, infatti, si contrapponeva all’im-
pegno del comandante di ‘abbandonare’ il mondo terreno: e il modo più
naturale, nel corso di una battaglia, perché ciò avvenisse era che questi si lan-
ciasse, solitario e in sella al suo destriero, nel folto delle schiere avversarie313.
Non sempre, però, ciò si realizzava: se il devotus fosse uscito indenne dallo
scontro, ci narra ancora Tito Livio, era infatti necessario che venisse fatta un’of-
ferta agli dèi, dimodoché si ristabilisse nuovamente l’equilibrio tra questi e la
realtà terrena. In particolare, se sopravviveva il civis designatus, occorreva sep-
pellire un fantoccio di almeno sette piedi e celebrare un piaculum314; se, invece,
era il magistrato cum imperio a rimanere in vita, questi doveva donar le proprie
armi – che costituivano una parte di sé315 – a uno degli dèi, preferibilmen-
te Vulcano316, onde sfuggire a quella «morte civile cui si era consegnato»317.
Accedendo, pertanto, alle ricostruzioni che avvicinano – pur senza identi-
ficarli – la devotio bellica al votum, soprattutto in virtù della loro dimensione
in senso ampio pattizia o bilaterale318, si può notare come anche in tale rito la

312
Cfr. L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit., 29, e, in termini generali sul significato e sulla
portata della nozione di sacertà, v. Id., Sulla condizione di ‘homo sacer’ in età arcaica, in Studi sulla
sacertà, cit., 43 ss. (già in SDHI, LVI, 1990, 223 ss., e in Appunti sul diritto criminale nella Roma
monarchica e repubblicana, Padova, 1997, 1 ss.), nonché il recente Id., Opinioni recenti in tema di
sacertà, in Sacertà e repressione, cit., 1 ss.
313
Cfr. J. Rüpke, La religione, cit., 183.
314
Liv. 8.10.12.
315
Cfr. G. Dumézil, La religione, cit., 285; L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit., 38.
316
Liv. 8.10.13-14.
317
Sono parole di L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit., 39.
318
Cfr. L. Sacco, ‘Devotio’, cit., 315 ss.; Id., ‘Devotio’. Aspetti, cit., 9 e 45 ss., per il quale la
devotio presenta caratteristiche peculiari che l’avvicinano sia al sacrificio sia al votum: più
nel dettaglio, «pare fondarsi sul pactum stabilito fra l’uomo e la divinità, volto a ristabilire e
a mantenere la pax deorum». V. anche L. Cesano, voce ‘Devotio’, cit., 1712 s.; O. Diliberto,
voce ‘Voveo’, in Enciclopedia Virgiliana, V, Roma, 1990, 630; J. Rüpke, La religione, cit., 183.
Non mancano, tuttavia, autorevoli opinioni dissenzienti: L. Garofalo, Rubens e la ‘devotio’, cit.,
29 ss., in particolare, considera «incolmabile» la «distanza che separava la devotio dal votum,
accorciabile solo a pena di snaturare troppo la fisionomia della seconda figura, cancellandone
il tratto saliente ravvisabile nell’esecuzione della prestazione dovuta dal vovens posteriormente
all’eventuale concessione della grazia da lui impetrata alla divinità». Per una ricostruzione del
votum, specialmente sotto il profilo giuridico-religioso, v. K. Visky, Il ‘votum’ in diritto romano
privato, in Index, II, 1971, 313 ss.; G. Firpo, voce ‘Votum’, in Noviss. dig. it., XX, Torino, 1975,
1059 ss.; O. Diliberto, La struttura del ‘votum’ alla luce di alcune fonti letterarie, in Studi in onore
La mano destra in Roma antica 95

gestualità della mano destra avesse una funzione di non poco momento. Essa
infatti contribuiva, all’interno di un cerimoniale complesso e fortemente evo-
cativo, a far sorgere dei vincoli che potremmo definire ‘reciproci’ tra le ‘parti’
coinvolte. Di questa bilateralità abbiamo traccia in un altro atto mimico che
ritorna con una certa frequenza nel mondo romano: la dextrarum iunctio.

7. La stretta delle mani destre (‘dextrarum iunctio’) nelle relazioni di ‘amicitia’,


di ‘hospitium’ e nell’arcaico ‘mandare’.

A Roma, stringersi le destre era un segno dotato di una forte carica sim-
bolica e comunicativa, risultando sovente legato a fides319 e riservato a mo-
menti importanti della vita di relazione320.

di A. Biscardi, IV, Milano, 1983, 297 ss.; F. Sitzia, voce Promessa unilaterale (storia), in Enc. dir.,
XXXVII, Milano, 1988, 29 ss.
319
Per citare solo alcune testimonianze, rinviando al prosieguo per ogni ulteriore dettaglio,
v. Liv. 23.9.3: dextrae dextras iungentes fidem obstrinximus; Ov. epist. 2.31: Iura, fides ubi
nunc commissaque dextera dextrae; met. 14.297: inde fides dextraeque datae, nonché Cic. Verr.
2.5.58.153: ‘cui civi supplicanti non illa dextera invicta fidem porrexit et spem salutis ostendit’;
Deiot. 3.8; Curt. 6.10.14; Liv. 1.58.7; Sall. Iug. 10.3; Nep. Them. 8.4: cfr. a riguardo M. Le Glay,
La δεξίωσις, cit., 293 ss.; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 136 ss. Sulla scorta di testi quali Nep. Dat.
10.1-2 e Diod. 16.43.4 possiamo peraltro arguire che pure nel mondo persiano attraverso la
stretta delle destre si solennizzavano gli impegni: v., intorno a tale argomento, F. Mari, La destra
del re, in Sileno, XXXVIII, 2012, 181 ss.
320
Cfr. J. Michel, Gratuité en droit romain, Bruxelles, 1962, 170 s.; P. Boyancé, La main,
cit., 127. Su tale segno simbolico, che ha suscitato molto interesse nella letteratura, v. C. Sittl,
Die Gebärden, cit., 137 ss.; G. von Beseler, ‘Fides’, cit., 160 ss.; A. Piganiol, ‘Fides’ et mains de
bronze. ‘Densae dextrae’, Cic. ‘ad. Att.’ VII.1, in Droits de l’antiquité, cit., 471 ss.; B. Kötting,
voce ‘Dextrarum iunctio’, in RLAC, III, Stuttgart, 1957, 881 ss.; P. Grimal, ‘Fides’ et le secret,
cit., 141 ss.; M. Le Glay, La δεξίωσις, cit., 292 ss. e nt. 57; A. Momigliano, La religione, cit.,
28, che ricorda come fosse un gesto già noto anche in terra Greca, come risulta da Xen. Anab.
2.4.1; R. Stupperich, Zur ‘dextrarum iunctio’ auf frühen römischen Grabreliefs, in Boreas, VI,
1983, 143 ss.; A. Carcaterra, Dea ‘Fides’ e ‘fides’, cit., 199 ss.; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 136
ss., 251 ss. e 277 s.; D. Nörr, Aspekte, cit., 37; K.-J. Hölkeskamp, ‘Fides - deditio in fidem - dextra
data et accepta’, cit., 228 s. e 235; A. Di Pietro, La ‘fides’, cit., 508, ove si legge che «la unión
mutua de las manos derechas entre dos personas no era un mero intercambio de saludo, sino que
la dextrarum iunctio servía para demostrar que mediante ella las dos personas se ligaban por el
vinculum Fidei»; S. Knippschild, «Drum bietet zum Bunde die Hände». Rechtssymbolische Akte
in zwischenstaatlichen Beziehungen im orientalischen und griechisc-römischen Altertum, Stuttgart,
2002, 39 ss., che dedica alla stretta delle destre un’indagine ad ampio spettro nell’ambito di
diverse realtà del mondo antico; S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 8 ss. e 67 ss.; M. De Simone, Una
congettura sull’arcaico ‘filiam abducere’, in AUPA, LV, 2012, 342 ss. e nt. 73; L. Nováková - M.
Pagáčova, Dexiosis: a meaningful gesture of the Classical antiquity, in ILIRIA International
Review, I, 2016, 208 ss. La stretta delle destre è un tema costante dell’iconografia romana,
96 Mattia Milani

Gli esempi che le fonti ci trasmettono sono molteplici321: su alcuni di


essi è il caso di soffermarsi.
In un primo gruppo di testimonianze, la dextrarum iunctio viene men-
zionata nell’ambito dei rapporti di amicitia tra privati322. Abbiamo notizia,

soprattutto numismatica, sebbene non sempre connessa in via esclusiva a Fides, ma anche a
divinità a essa molto vicine come Concordia o Pietas: cfr. W.F. Otto, voce ‘Fides’, cit., 2284 s. e,
intorno alle ragioni di tale commistione, P. Boyancé, La main, cit., 133 ss.; G. Freyburger, ‘Fides’,
cit., 278. Con riguardo alle raffigurazioni di tale rituale, si rinvia a L. Reekmans, La ‘dextrarum
iunctio’ dans l’iconographie romaine et paléochrétienne, in BIBR, XXXI, 1958, 23 ss.; Id., voce
‘Dextrarum iunctio’, in Enciclopedia dell’Arte Antica, Classica e Orientale, III, Roma, 1960, 82
ss.; C. Walter, The ‘dextrarum junctio’ of Lepcis Magna in Relationship to the Iconography of
Marriage, in Antiquités Africaines, XIV, 1979, 271 ss., il quale rileva altresì come a partire dal
turbolento periodo delle guerre civili il tema della stretta delle destre si trovi spesso accostato al
contesto militare, «with the desire to propagate the notion that military unity was a condition of
civil peace»; D.E.M. Nash, voce ‘Fides’, in LIMC, IV.1, 1988, 136 s.; S.D. Ricks, ‘Dexiosis’ and
‘Dextrarum Iunctio’. The Sacred Handclasp in the Classical and Early Christian World, in The
Farms Review, XVIII.1, 2006, 432 ss.; J. Ferrer Maestro - J. Benedito Nuez, La ‘dextrarum
iunctio’ y su representación en el registro arqueológico romano: la lucerna de Sant Gregori (Burriana,
España), in Millars, XXXV, 2012, 26 ss. Sulla stretta di mano nel mondo greco, v. G. Herman,
Ritualised Friendship and the Greek City, Cambridge, 1987, 50 ss., e F. Mari, La destra, cit., 181
ss., mentre sull’introduzione – avvenuta nel corso del XIII secolo – delle mani giunte quale gesto
di preghiera, accanto a quello più antico dell’orante con le braccia aperte, v. G. Ladner, The
Gesture of Prayer in Papal Iconography of the XIIIth and early XIVth Century, in ‘Didascaliae’.
Studies in Honour of A. Albareda, a cura di S. Prate, New York, 1961, 153 ss.; A. Chastel, Il gesto
nell’arte, trad. it., Roma - Bari, 2010, 28 ss., ove se ne rilevano le similitudini con la reccomandatio
feudale, su cui si sofferma pure J. Le Goff, Il corpo nel Medioevo, Roma - Bari, 2013, 144 s.
321
Si v. H. Rubenbauer, voce ‘Dexter, (dext[e]ra)’, in ThLL, V, Leipzig, 1910, 927 ss.; B.
Albanese, Premesse, cit., 117 s., nt. 96; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 134 ss.
322
Intorno all’amicitia e all’importanza che rivestiva nella vita sociale di Roma antica molto
è stato scritto. Tra le diverse ricerche condotte, pare il caso quantomeno di ricordare – senza
proposito di completezza –, F. Schulz, I principii, cit., 202 ss.; F. Senn, La notion d’amitié et ses
applications dans le domaine du droit (à partir de discours de Cicéron), in Annales Universitatis
Saraviensis, IV, 1955, 299 ss.; B. Albanese, La struttura della ‘manumissio inter amicos’.
Contributo alla storia dell’‘amicitia’ romana, in AUPA, XXIX, 1962, 51 ss.; Id., L’‘amicitia’
nel diritto privato romano, in Jus, XIV, 1963, 130 ss. (entrambi ora anche in Scritti giuridici,
I, Palermo, 1991, rispettivamente 217 ss. e 313 ss.); L. Lombardi Vallauri, Amicizia, carità,
diritto. L’esperienza giuridica nelle tipologie delle esperienze di rapporto, Milano, 1969, 63 ss.;
J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin, cit., 41 ss.; D. Nörr, ‘Mandatum, fides, amicitia’, in
‘Mandatum’ und Verwandtes. Beiträge zum römischen und modernen Recht, a cura di D. Nörr
e S. Nishimura, Berlin - Heidelberg, 20 ss.; L. Pizzolato, L’idea di amicizia nel mondo antico
classico e cristiano, Torino, 1993, 89 ss.; R. Raccanelli, L’‘amicitia’ nelle commedie di Plauto.
Un’indagine antropologica, Bari, 1998; C. Williams, Friends of the Roman People. Some Remarks
on the Language of ‘amicitia’, in Freundschaft und Gefolgschaft in den auswärtigen Beziehungen
der Römer, a cura di A. Coskun, Frankfurt am Main, 2008, 29 ss.; G. Finazzi, ‘Amicitia’ e doveri
giuridici, in ‘Homo, caput, persona’. La costruzione giuridica dell’identità nell’esperienza romana.
Dall’epoca di Plauto a Ulpiano, a cura di A. Corbino, M. Humbert e G. Negri, Pavia, 2010,
La mano destra in Roma antica 97

in particolare, di due vicende323 ove pare costituire un atto formale e solen-


ne attraverso cui, superando una precedente rivalità, sorgeva un rapporto
riconducibile all’area delle relazioni amicali324.
Il primo episodio si colloca intorno al 187-184 a.C.325 ed ha per pro-
tagonisti P. Cornelio Scipione Africano e Tiberio Sempronio Gracco, il
futuro padre dei ben più celebri Gracchi326. Un’inimicizia antica divideva
questi due illustri personaggi, i quali, come ci ricorda Aulo Gellio, ‘dissen-
serunt saepenumero de republica, et ea sive qua alia re non amici fuerunt’327.
In occasione di un banchetto in onore di Giove – organizzato dai senatori
presso il monte Campidoglio, proprio nel giorno del processo degli Scipio-
ni e dell’intercessione tribunizia da parte di Tiberio Gracco contro l’arresto
del fratello dell’Africano, Lucio Scipione328 –, tuttavia, costoro si vengono
a trovare l’uno accanto all’altro. Leggendovi quasi un segno della volontà
divina, i due politici e militari romani si stringono reciprocamente le destre
e, stando ancora al racconto gelliano, ‘repente amicissimi facti’329.

633 ss.; M.T. Nicotri, ‘Amicitia’ e ‘dignitas’ familiare tra politica e diritto (Cic. ‘ad fam.’ 5.1-
2), in Scritti di comparazione e storia giuridica. Ricordando G. Crisciuoli, a cura di P. Cerami
e M. Serio, II, Torino, 2013, 193 ss.; M. De Simone, Una congettura, cit., 334 ss. e nt. 45; C.
Rollinger, ‘Amicitia sanctissime colenda’. Freundschaft und soziale Netzwerke in der späten
Republik, Heidelberg, 2014, passim, ove un ricchissimo apparato bibliografico. Si soffermano
sulla dimensione politica dell’amicitia M. Gelzer, Die Nobilität der römischen Republik, Leipzig
- Berlin, 1912, 54 ss.; R. Syme, The Roman Revolution, Oxford, 1939, 12 ss.; R.P. Saller, Personal
Patronage under the Early Empire, Cambridge, 1982, 7 ss.; Id., Patronage and Friendship in
Early Imperial Rome: Drawing the Distinction, in Patronage in Ancient Society, London - New
York, 1989, 49 ss.; P.A. Brunt, ‘Amicitia’ in the Late Roman Republic, in The Fall of the Roman
Republic and Related Essays, Oxford, 1988, 351 ss.; E. Narducci, Le ambiguità della ‘amicitia’, in
Modelli etici e società: un’idea di Cicerone, Pisa, 1989, 79 ss.; D. Konstan, Patrons and Friends, in
AJPh, XC, 1995, 328 ss.; Id., Friendship in the Classical World, Cambridge, 1997, 122 ss.
323
Ma v. anche Plaut. Capt. 439-450, su cui si indugerà poco oltre.
324
Vi allude, peraltro, anche Serv. in Verg. Aen. 3.611: dextrae manus coniunctione, qua
firmantur amicitiae. Sul concetto di inimicitia, cfr. J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin,
cit., 186 s.; C. Rollinger, ‘Amicitia sanctissime colenda’, cit., 122 ss. Un altro accostamento tra
amicitia e dextera, seppur non nella logica formalizzante in esame, emerge da Val. Max. 4.7.3.
325
Cfr. C. Fayer, La ‘familia’, cit., II, 46, nt. 96.
326
Di essa abbiamo notizia da Liv. 38.53-57; Gell. 12.8.1-4; Val. Max. 4.2.3 e un breve cenno in
Sen. contr. exc. 5.2.
327
Gell. 12.8.1.
328
Liv. 38.57.3-5, su cui v. C. Fayer, La ‘familia’, cit., II, 45 s.
329
Gell. 12.8.3. Invero, su esortazione dei senatori, Publio Cornelio Scipione l’Africano,
nell’occasione, promette in sposa a Tiberio Gracco la giovane figlia secondogenita di nome
Cornelia, generando qualche attrito con la moglie Emilia, che a tal proposito non era stata
consultata: è quello che si legge in Liv. 38.57.5. Sulla figura di Cornelia, assurta a simbolo della
98 Mattia Milani

La seconda vicenda attiene anch’essa a una riconciliazione tra personaggi


illustri: M. Fulvio Nobiliore e M. Emilio Lepido330. Nell’anno 179 a.C., i due
uomini politici – di nobile stirpe e con alle spalle già un cursus honorum di un
certo prestigio – si trovano a esercitare congiuntamente la censura. Li divide,
tuttavia, un odio profondo e un’antica rivalità (‘odio inter sese gravi et simultate
diutina conflictati sunt’, si legge in Gell. 12.8.5), che sarebbero stati un ostacolo
di non poco momento per l’assolvimento dei doveri inerenti alla loro carica.
Entrambi, quindi, guidati dal profondo rispetto per le istituzioni repubblicane,
decidono di abbandonare le incomprensioni e il feroce astio di un tempo: al
cospetto del comizio centuriato che li ha appena eletti, effettuano quindi una
depositio inimicitiae in campo331. Ecco allora che, scambiandosi una stretta di
mano e una reciproca promessa di fedeltà (‘dexteras fidemque dedere’, scrive Ti-
to Livio332), suggellano la nascita di un nuovo legame di amicizia, cui forse fa
pure seguito – stando ancora al Patavino – la celebrazione di un rito in Campi-
doglio (‘deinde conlaudantibus cunctis deducti sunt in Capitolium’).
I punti di contatto tra gli episodi narrati, com’è agevole constatare, so-
no molteplici: in ambedue i racconti, infatti, i soggetti sono divisi da una
precedente, profonda e conclamata inimicizia; del pari, sono ragioni atti-
nenenti alla buona gestione della cosa pubblica che li portano a superare
detti attriti333. Il che avviene di fronte a un vasto gruppo di persone – ossia
i senatori riuniti in convivio per P. Cornelio Scipione Africano e Tiberio
Sempronio Gracco e il comizio centuriato per M. Fulvio Nobiliore e M.
Emilio Lepido –, in occasione di un giorno speciale e, non a caso, mediante
un gesto quale la stretta delle destre.
E in effetti, tali elementi – più che indicare l’esistenza di «una specie
di formalismo esplicito nella costituzione dei rapporti di amicitia»334 – di-

perfetta matrona romana, v. C. Petrocelli, Cornelia, la matrona, in Roma al femminile, a cura di


A. Fraschetti, Roma - Bari, 1994, 21 ss.; S. Dixon, Cornelia, Mother of the Gracchi, London - New
York, 2007 (su cui v. anche la Recensione di A. Valentini, in Rivista di cultura classica e medievale,
LI, 2009, 196 ss., anche per ulteriori indicazioni bibliografiche); E. Cantarella, Dammi mille
baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma, Milano, 2012, 65 ss.
330
Trasmessaci da Liv. 40.45-46; Cic. prov. 9.21; Gell. 12.8.5-6, che erroneamente riporta il
nome di Fulvio Flacco, al pari di Val. Max. 4.2.1, dal quale forse ha attinto (invero è possibile
anche che i due abbiano ricavato le informazioni dalla medesima fonte).
331
Cfr. A. Burdese, Manuale di diritto pubblico romano3, Torino, 1987, 70.
332
Liv. 40.46.15.
333
Tra gli studi sull’amicitia attenti alla prospettiva politica, v. E. Lepore, Il ‘princeps’ ciceroniano
e gli ideali della tarda repubblica, Napoli, 1954, 306 ss.; J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin,
cit., 48 ss.; D. Konstan, Friendship, cit., 129 s.
334
Così, B. Albanese, La struttura, cit., 57, il quale, come noto, ha avanzato l’ipotesi secondo cui
La mano destra in Roma antica 99

mostrano come in certe situazioni fosse necessario fugare ogni dubbio circa
l’intervenuta riappacificazione, sì da rendere socialmente riconoscibile la
natura e le caratteristiche del rapporto venutosi a costituire335.
In questo contesto, la dextrarum iunctio svolge perfettamente tale fun-
zione: è un atto bilaterale, perché al manum dare di una parte deve necessa-
riamente far seguito un gesto speculare di apprensione dell’altra, che mani-
festa una reciprocità di intenti e l’incontro delle volontà336.
Ma si tratta, inoltre, di un segno permeato di valori anche trascendenti,
legati alla dimensione del divino: abbiamo visto in precedenza, infatti, che la
destra è sedes sacrata di Fides, la quale attraverso tale parte del corpo irradia
la sua forza ordinatrice. Non solo. Le riconciliazioni su cui abbiamo indugia-
to poc’anzi presentano una connessione spaziale con il monte Campidoglio,
ove il tempio della divinità di cui si discute era ubicato, proprio accanto a
quello di Giove Ottimo Massimo337: P. Cornelio Scipione Africano e Tiberio
Sempronio Gracco, infatti, hanno deposto la loro inimicizia durante un ban-
chetto in onore di Iuppiter che ivi aveva avuto luogo338; M. Fulvio Nobiliore
e M. Emilio Lepido, invece, vi furono condotti subito dopo la riconciliazione
eseguita presso il Campo Marzio, per compiere forse un rito sacrale339.
Il legame tra fides e amicitia, inoltre, rappresenta una costante nel sentire
romano, già dai tempi di Plauto340: il che non deve soprendere poi molto, se
si rammenta come da tale rapporto scaturissero una serie vastissima di officia
– e così di beneficia – reciproci341, la cui forza cogente era rappresentata dal

nel mondo romano l’amicizia privata presentava un significato tecnico ben preciso ed era tipizzata
in senso sia formale (tanto nel suo sorgere quanto nel suo venir meno), sia causale (in quanto legata
a elementi oggettivi rilevabili, quali i vincoli di cognatio, di adfinitas, di vicinitas, di necessitudo, di
mutua officia o analoghe situazioni, su cui v. anche Id., L’‘amicitia’, cit., 130 ss.). Connotazione,
peraltro, presupposta a suo dire in alcuni importanti fenomeni giuridici, come la fiducia cum amico,
la manumissio inter amicos, la mancipatio familiae, gli interdicta uti possidetis, unde vi, itinere actuque,
quod vi aut clam, gli istituti tutelari, la negotiorum gestio, il mandato e diversi altri ancora. La tesi
dello studioso palermitano, pur condivisa da alcuni (cfr. S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 22 ss.), è stata
sottoposta a severe (e convincenti, per chi scrive) critiche: cfr., in particolare, J. Michel, Gratuité,
cit., 502 ss.; R. Raccanelli, L’‘amicitia’, cit., spec. 189 ss.; G. Finazzi, ‘Amicitia’, cit., 648 ss.
335
Cfr. G. Finazzi, ‘Amicitia’, cit., 660.
336
Cfr. S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 8.
337
V. supra, nt. 54.
338
Gell. 12.8.2-3; Liv. 38.57.5.
339
Liv. 40.46.15. Cfr. G. Finazzi, ‘Amicitia’, cit., 649.
340
Cfr. R. Raccanelli, L’‘amicitia’, cit., passim; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 177 ss.; C.
Rollinger, ‘Amicitia sanctissime colenda’, cit., 107 ss.
341
Cfr. J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin, cit., 152 ss., nonché D. Konstan, Friendship,
cit., 122 ss.; C. Rollinger, ‘Amicitia sanctissime colenda’, cit., 92 ss.
100 Mattia Milani

vincolo morale e sociale che intorno a tale coppia di valori si era andato crean-
do, specialmente in assenza (o al di fuori) di specifiche sanzioni giuridiche342.
Uno schema analogo a quello già visto in Dion. Hal. 2.75.1-4, ove lo
storico discuteva circa il rafforzamento delle promesse e dei giuramenti me-
diante l’introduzione a Roma del culto di Fides.
Lo stesso Cicerone, peraltro, in un passaggio del Laelius, conferma che
nel sentire antico era diffusa la convinzione che vi fosse un legame tra la
sfera del divino e l’amicizia, descritta come ‘omnium divinarum humana-
rumque rerum cum benevolentia et caritate consensio’, e, quindi, riconosciu-
ta quale uno dei doni più preziosi fatti dagli dèi agli uomini343.
A Roma, tuttavia, si parlava di amicitia non solo con riguardo ai
rapporti tra privati, ma – almeno a partire dal III secolo a.C. – anche
nell’ambito delle relazioni intrattenute con reges o con comunità stranie-
re344. Ed è pure in tale ambito che la dextrarum iunctio fa la sua comparsa.
La dottrina si è molto impegnata nel tentativo di individuare i caratteri
e il contenuto dell’amicitia internazionale in Roma antica.
Le divisioni, tuttavia, non mancano.
Pur potendosi ormai dire superata la nota teoria mommseniana – che
ampio seguito ha avuto in passato –, secondo cui l’amicitia, rimuovendo lo
stato di ‘naturale ostilità’ tra Roma e i popoli circostanti, doveva discendere
da uno specifico trattato, permangono a oggi non poche incertezze intorno
alla fisionomia e alla natura del fenomeno in questione345.

342
In Cic. Lael. 65 si legge appunto che ‘firmamentum autem stabilitatis constantiaeque est
eius, quam in amicitiam quaerimus, fides’. Cfr. J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin, cit., 152
ss.; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 177 ss.; L. Pizzolato, L’idea, cit., 90, per il quale «l’amicizia a
Roma parteciperà sempre dell’ambito della fides, proprio per via della sua natura di relazione
reciproca»; G. Finazzi, ‘Amicitia’, cit., 653 ss.
343
Cic. Lael. 20.
344
Cfr., da ultima, M.F. Cursi, ‘Amicitia’ e ‘societas’ nei rapporti tra Roma e gli altri popoli
del Mediterraneo, in Index, XLI, 2013, 197 ss., anche per la bibliografia più risalente. Circa le
sorprendenti analogie tra istituti pubblicistici e privatistici del periodo più antico di Roma, v. su
tutti U. Coli, Sul parallelismo del diritto pubblico e del diritto privato nel periodo arcaico di Roma,
in SDHI, IV, 1938, 68 ss.
345
Cfr. Th. Mommsen, Römische Staatsrecht, III.1, Leipzig, 1887, 590 ss., la cui ricostruzione dei
rapporti di amicitia sulla scorta della ‘natürliche Feindschaft’ tra genti è stata ripresa ed esasperata,
ad esempio, da E. Täubler, ‘Imperium Romanum’. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen
Reichs. I. Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse, Leipzig - Berlin, 1913, 1 ss. Grazie agli studi
di A. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen der römischen Außenpolitik in republikanischer Zeit,
Aalen, 1963 (rist. Leipzig 1933), 25 ss.; P. Catalano, Linee, cit., 8 ss. e 51 ss.; F. De Martino, Storia
della costituzione romana2, II, Napoli, 1973, 13 ss.; M.R. Cimma, ‘Reges socii et amici populi Romani’,
Milano, 1976, 11 ss.; F. Sini, ‘Bellum nefandum’, cit., 28 ss.; M.F. Cursi, ‘Amicitia’, cit, 195 ss. e nt.
2, la tesi della naturale ostilità può ormai dirsi appartenente al passasto. In materia, si v. anche B.
La mano destra in Roma antica 101

Ciò, perché le fonti di cui disponiamo, quasi esclusivamente letterarie346,


lo presentano, nelle sue linee generali, in maniera tutt’altro che unitaria.
Come ben rilevato da Maria Rosa Cimma347, l’espressione amicitia viene
in alcuni luoghi utilizzata in senso ‘generico’, per alludere semplicemen-
te al clima di buone relazioni tra Roma e altri popoli, indipendentemente
dall’assunzione di qualsivoglia impegno formale; in altre situazioni, invece,
acquista un significato diverso, più tecnico, e indica il rapporto «giuridica-
mente definito da obblighi reciproci» instaurato mediante un trattato348.
Non è certo questa la sede, e nemmeno l’occasione, per addentrarsi in
un dibattito che ancora oggi appassiona una vasta platea di studiosi349.
Preme qui invece porre l’attenzione sul fatto che in relazione alla nasci-
ta di tali rapporti – «generalmente tendenti ad assicurare un trattamento
di reciproco riguardo, all’interno del proprio stato, ai membri del populus
alleato»350 – compare il riferimento alla dextrarum iunctio351.
È Tito Livio che, più di ogni altro, ci trasmette queste notizie: nel libro
che apre la sua opera monumentale è descritto il primo incontro tra Enea e

Paradisi, L’‘amicitia’ internazionale nella storia antica, in ‘Civitas maxima’. Studi di storia del diritto
internazionale, I, Firenze, 1974, 296 ss.; C. Baldus, Regelhafte Vertragsauslegung nach Parteirollen
im klassischen römischen Recht und in der modernen Völkerrechtwissenschaft. Zur Rezeptionsfähigkeit
römischen Rechtsdenkens, I, Frankfurt am Main, 1998, 260, nt. 27; Id., ‘Vestigia pacis’. The Roman
Peace Treaty: Structure or Event, in Peace Treaties and International Law in European History. From
the Late Middle Ages to World War One, a cura di R. Lesaffer, Cambridge, 2004, 114 ss.; A. Zack,
Studien zum ‘Römischen Völkerrecht’, Göttingen, 2001, 1 ss. (su cui v. anche L. Loreto, Recensione,
in Gnomon, LXXV, 2006, 85 ss.), che, distaccandosi dalla dottrina maggioritaria, recupera la teoria
‘volontaristica’ del diritto internazionale.
346
Testimonianze che peraltro risultano ben più sensibili al dato politico, anziché a quello
giuridico, rispetto alle situazioni descritte (non di rado mediante un linguaggio non propriamente
tecnico: cfr. M.R. Cimma, ‘Reges socii et amici populi Romani’, cit., 28).
347
M.R. Cimma, ‘Reges socii et amici populi Romani’, cit., 84 ss.
348
Cfr. F. De Martino, Storia, cit., 30 ss.; M.R. Cimma, ‘Reges socii et amici populi Romani’,
cit., 28 ss. e 84, da cui la citazione; F. Lamberti, Alle origini della Colonia Agrippina. Notazioni
sul rapporto fra gli ‘Ubii’ e il ‘populus Romanus’, in MEFRA, CXVIII, 2006, 109 ss., anche per le
connessioni tra amicitia e deditio in fidem; Ead., Percorsi della cittadinanza romana dalle origini
alla tarda Repubblica, in Derecho, persona y ciudadanía. Una experiencia jurídica comparada,
a cura di B. Periñán Gómez, Madrid - Barcelona - Buenos Aires, 2010, 38 e nt. 113; M.F.
Cursi, ‘Amicitia’, cit., 199 ss. Per una panoramica sul punto, si rinvia a V. Ilari, voce Trattato
internazionale (dir. rom.), in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 1335 ss.
349
Cfr. M.F. Cursi, ‘Amicitia’, cit., 195 ss.
350
Così, F. Lamberti, Percorsi, cit., 38.
351
Collegamento già presente nel mondo greco, come da ultimo evidenziato da v. F. Mari, La
destra, cit., 181 ss.
102 Mattia Milani

Latino, di cui già allora si tramandavano due differenti versioni352. In parti-


colare, secondo una di queste, il sovrano italico – spinto da profonda ammi-
razione per quel popolo, e quell’uomo, così nobilmente preparati alla guerra
e alla pace (‘nobilitatem admiratum gentis virique et animum vel bello vel paci
paratum’) – avrebbe concluso con i forestieri un accordo di futura amicizia
tramite una stretta di mano (‘dextra data fidem futurae amicitiae sanxisse’)353.
Uno schema che ritorna in un altro luogo liviano354, allorquando il Pata-
vino è concentrato nel descrivere gli eventi principali del conflitto scoppia-
to nel 170 a.C. tra Egitto e Siria per il controllo della Celesiria, meglio noto
come sesta guerra siriaca355. Le parti avevano più volte invocato l’aiuto – o
comunque l’intervento – di Roma: in un primo momento, il Senato decise
di non assumere alcuna iniziativa. Solo in seguito alle pressioni di ambedue
i contendenti, l’assemblea tentò di favorire una mediazione: dapprima, in-
viando il console Q. Marcio Filippo; di poi, durante l’assedio di Alessandria
da parte del re seleucida Antioco IV, nominando un’apposita commissio-
ne. Entrambe le iniziative non raggiunsero lo scopo desiderato. A fronte
dell’ennesima richiesta, dunque, il Senato inviò G. Popilio Lena, affinché
convincesse il sovrano siriano ad abbandonare l’Egitto. L’incontro avvenne
a Eleusi e il legato riuscì nel suo intento: questi, stando al racconto liviano,
dopo aver consegnato ad Antioco IV il testo del senatoconsulto contenente
gli ordini dell’assemblea, gli proibì di confrontarsi con i propri consiglieri
e gli intimò di non uscire da un cerchio tracciato intorno a lui prima di
aver preso una decisione. Il sovrano, stupefatto, accettò ogni condizione
contenuta nel dispaccio: Popilio Lena, allora, gli porse la mano destra, per
suggellare così l’acquisito stato di socio e di amico del popolo romano da
parte di quest’ultimo (‘tum demum Popilius dextram regi tamquam socio
atque amico porrexit’356).
Da Tacito sappiamo, inoltre, che il nostro gesto poteva essere utilizzato
per rinnovare un rapporto di amicizia già esistente: nel secondo libro degli
Annales, infatti, si ricorda l’ambasciata inviata da Artabano, sovrano dei
Parti, a Germanico Giulio Cesare – mentre si trovava presso il re dei Na-

352
Liv. 1.1.8.
353
Cfr. G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 182; K.-J. Hölkeskamp, ‘Fides - deditio in fidem - dextra data
et accepta’, cit., 235; C. Rollinger, ‘Amicitia sanctissime colenda’, cit., 229.
354
Liv. 45.11-13.
355
Cfr. J.D. Grainger, The Syrian Wars, Leiden, 2010, 291 ss., anche per la letteratura; D.
Gera, Judaea and Mediterranean Politics. 219 to 161 B.C.E, Leiden, 161 ss.; M.R. Cimma, ‘Reges
socii et amici populi Romani’, cit., 139 ss. e nt. 94.
356
Liv. 45.12.6.
La mano destra in Roma antica 103

batei – per ‘amicitiam ac foedus memoraturus, et cupere novari dextras’357.


Altre fonti, pur senza parlare di amicitia, insistono nel ricordare la con-
nessione tra la stretta delle destre e il sorgere di rapporti di collaborazione o
di non belligeranza tra Roma e genti straniere358.
Ancora Tito Livio, ad esempio, con riguardo alle relazioni intrattenute
da Roma col sovrano numidico Massinissa, accenna a un ‘dextra fidem sanci-
re’359. Ma anche Virgilio vi allude in alcune occasioni360: quando Latino riceve
Ilioneo, l’emissario inviatogli da Enea appena sbarcato nella penisola, oltre a
mostrarsi favorevole ad accogliere i troiani, gli rende noto che ‘pars mihi pacis
erit dextram tetigisse tyranni’361; oppure, Venulo, cercando di convincere l’e-
roe greco Diomede ad allearsi alle popolazioni del Lazio nella guerra contro i
troiani, lo esorta affinché i due condottieri ‘coëant in foedera dextrae’362.
Anche dalle testimonianze su cui si è poc’anzi indugiato363 si coglie co-
me il nostro gesto servisse a manifestare pubblicamente una volontà impe-
gnativa bilaterale364: e ciò doveva essere ancor più importante nelle ipotesi

357
Tac. ann. 2.58. Sulla vicenda ivi narrata, si rinvia a B. Gallotta, Germanico, Roma, 1987,
178, nt. 70.
358
Cfr. Sil. 11.149, Nep. Dat. 10.1, nonché v. il censimento fatto da C. Sittl, Die Gebärden, cit.,
137, nt. 3, rammentando al contempo come tale gesto compaia spesso anche nelle testimonianze
numismatiche: v. S. Knippschild, «Drum bietet zum Bunde die Hände», cit., 42 ss. e 211 ss.,
la quale peraltro ricorda come «der Handschlag [wird] verbunden mit den althergebrachten
Leitbegriffen der römischen Politik – mit ihren ‘staatstragenden Ideen’».
359
Liv. 28.35.1.
360
Nell’Eneide il termine amicitia compare soltanto in due occasioni, sempre nel significato di
‘amicizia tra popoli’ e in connessione con i foedera: si tratta di Verg. Aen. 7.546 (ove peraltro il
poeta augusteo usa espressioni che ricordano da vicino lo stringersi le mani: ivi infatti si legge ‘dic
in amicitiam coëant et foedera iungant’) e 11.321. Ne sottovaluta la portata M. Bellincioni, voce
Amicizia (‘amicitia’), in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma, 1984, 135 ss., suscitando la critica, del
tutto condivisibile, di F. Sini, ‘Ut iustum conciperetur bellum’: guerra ‘giusta’ e sistema giuridico-
religioso romano, in Seminari di storia e di diritto. III. ‘Guerra giusta’? La metamorfosi di un concetto
antico, a cura di A. Calore, Milano, 2003, 41 ss. Si veda anche G. Luraschi, voce ‘Foedus’, cit., 546 ss.
361
Verg. Aen. 7.266.
362
Verg. Aen. 11.292.
363
Ma si rammentino pure Liv. 29.24.3: quibus etiam atque etiam monet eum, ne iura hospitii
secum neu cum populo Romano initae societatis neu fas, fidem, dextras, deos testis atque arbitros
conventorum fallat; Sil. 11.252-4: en dextra! en foedus! nondum tibi curia necdum templorum
intrati postes; 13.76-77: dextras iungamus inermis: foederis en haec testis erit; Val. Fl. 5.491-4:
tibi gratia nostri sit, precor, haec meritique loco, quod iussa recepi teque alium quam quem Pelias
speratque cupitque promisi et meliora tuae mihi foedera dextrae.
364
Giuridicamente rilevante anche in ragione della presenza di fides, cardine pure dei rapporti
internazionali di Roma (si rammenti che molti trattati venivano affissi presso il tempio di Fides,
come evidenzato da M. Albana, I luoghi, cit., 24 ss. e nt. 76, e da M. de Wilde, ‘Fides publica’,
104 Mattia Milani

di rapporti inter populos che – per i più diversi motivi – rimanevano privi di
trasposizione formale e il cui contenuto poteva ridursi a un semplice patto
di non prestare aiuto al nemico o di riconoscere la proprietà e la libertà ai
rispettivi cittadini365.
Non è l’unico esempio di stretta delle destre come forma di manifesta-
zione del consenso nell’instaurazione di relazioni internazionali.
Tale segno compare anche in alcune fonti attinenti all’ambito dei rap-
porti di hospitium, su cui occorre indugiare brevemente.
Come noto, nel suo significato originario il termine appena ricordato
designava «l’atto mediante il quale, accogliendo lo straniero, si veniva ad
assumerne la protezione» e, solo in seguito, andò a indicare il vincolo da
questo derivante366.
La storia di tale istituto, tuttavia, è difficile da tracciare, considerata la scar-
sità del materiale in nostro possesso. Possiamo comunque affermare che le
sue origini – legate forse ad alcuni schemi di ospitalità diffusi nella Grecia an-
tica367 – sono assai risalenti nel tempo, al punto che non si esita a considerarlo

cit., 462). Intorno al tema della fides quale «Grundlage des römischen Völkerrechts», cfr. K.-J.
Hölkeskamp, ‘Fides - deditio in fidem - dextra data et accepta’, cit., 235, da cui la citazione; P.
Boyancé, La main, cit., 144 s.; K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in ANRW,
I.2, Berlin - New York, 1972, 68 ss.; F. De Martino, Storia, cit., 35 ss.; D. Nörr, Aspekte, cit., 102
ss.; Id., Die ‘Fides’, cit., 1 ss.; F. Sini, «‘Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant’», cit.,
492 ss.; F. Lamberti, Alle origini, cit., 112 e nt. 41. Non manca di sottolineare G. Luraschi, voce
‘Foedus’, cit., 548, che proprio sulla fides si fonda l’istituto del foedus, come diversi indizi lasciano
ragionevolmente supporre: tra di essi, vale la pena di ricordare la circostanza per cui la dea Fides
è talvolta associata a Iuppiter nella salvaguardia dei foedera (Sil. It. 6.466 ss.), nonché proprio il
fatto che la stretta delle destre «ricorra spesso in occasione della conclusione dei foedera, allo scopo
di sottolineare i legami personali, oltre che pubblici, che con l’atto si venivano instaurando». In
ordine al problema, ampiamente discusso in dottrina, circa l’esistenza di un diritto ‘internazionale’
nell’antichità, v. K.-H. Ziegler, Kriegsverträge im antiken römischen Recht, in ZSS, CII, 1985, 40
ss.; V. Ilari, voce Trattato, cit., 1335 ss.; C. Baldus, ‘Vestigia pacis’. Der römische Friedensvertrag als
Struktur und Ereignis, in Historia, LI, 2002, 303 ss.; G. Turelli, Polisemia di un gesto: l’‘emittere
hastam’ dei ‘duces’ e dei feziali, in RIDA, LV, 2008, 524 s., nt. 5, per ulteriori indicazioni di letteratura.
365
Cfr. A. Burdese, Manuale di diritto pubblico, cit., 99.
366
Cfr. M. Marchetti, voce ‘Hospitium’, in DE, III, cit., 1044. Sull’origine del termine ‘ospite’,
si rinvia a S. Randazzo, Lo statuto giuridico dello straniero e l’‘hospitium’ nel diritto romano
arcaico, in Lo straniero e l’ospite. Diritto. Società. Cultura, a cura di R. Astorri e F.A. Cappelletti,
Torino, 2003, 56 s.; É. Benveniste, Il vocabolario, cit., 64 ss.; P. Balbín Chamorro, ‘Ius hospitii’
y ‘ius civitatis’, in Gerión, XXIV, 2006, 216 ss.
367
Cfr. M. Marchetti, voce ‘Hospitium’, cit., 1046, pur cauto; L.J. Bolchazy, Hospitality
in Early Rome. Livy’s Concept of its Humanizing Force, Chicago, 1977, 17 ss.; A. Maffi, voce
Straniero (dir. rom.), in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, 1140; J. Nicols, ‘Hospitium’ and Political
Friendship in the Late Republic, in Aspects of Friendship in the Graeco-Roman World, a cura di M.
Peachin, Portsmouth, 2001, 99 ss.; S. Randazzo, Lo statuto, cit., 58 s.; S. Knippschild, «Drum
La mano destra in Roma antica 105

il primo modello di rapporto internazionale romano368. Dalle fonti appren-


diamo che esso era privatum o publicum, a seconda che la protezione venisse
accordata da un privato o dalla civitas Romana: la distinzione non alludeva
infatti ad alcuna differenza dal punto di vista strutturale o contenutistico369.
Esso importava per lo straniero, accolto dalla civitas, una serie di vantag-
gi quali la facoltà di risiedere liberamente nel territorio romano e di allog-
giare presso una familia dell’Urbe, l’assistenza giudiziaria o le cure in caso
di malattia e finanche una degna sepoltura al momento del trapasso370.
All’hospes erano così garantite forme di protezione variamente articolate
che, seppur non attribuendogli uno stato paragonabile a quello di civis371, esten-
devano notevolmente le sue possibilità di relazionarsi nell’ambito delle società
romana più antica. Ed era proprio quell’ambiente – ove una spiccata centralità
avevano i gruppi familiari, e la presenza del ‘pubblico’ era ancora embrionale –
che costituiva il terreno ideale perché si sviluppasse l’istituto di cui si discute372.
Con il progressivo aumentare dell’incidenza della civitas nella regola-
mentazione dei rapporti interindividuali, e con l’estendersi dell’egemonia

bietet zum Bunde die Hände», cit., 155; M.F. Cursi, ‘Amicitia’, cit., 218 e nt. 133; L. Capogrossi
Colognesi, Da sì piccoli inizi …, in Fundamina, XX.1, 2014, 103 s.
368
Dal quale peraltro sarebbe andato a formarsi anche lo ius gentium: cfr. M. Marchetti, voce
‘Hospitium’, cit., 1044 ss. Sull’istituto, senza pretesa di completezza, v. P. Frezza, Le forme federative
e la struttura dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in SDHI, IV, 1938, 398 ss.;
K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht, cit., 85 ss.; F. De Martino, Storia, cit., 23 ss.; F. De Martino - R.
Degl’Innocenti Pierini, voce ‘Hospes/hospitium’, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., 546 ss.; V. Ilari,
L’interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo,
Milano, 1981, 11 s.; M. Lemosse, ‘Hospitium’, in ‘Sodalitas’. Scritti in onore di A. Guarino, III, Napoli,
1984, 1269 ss.; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 185 ss.; A. Maffi, voce Straniero (dir. rom.), cit., 1140 s.;
S. Randazzo, Lo statuto, cit., 51 ss., anche per ulteriori indicazioni di letteratura (spec. alla nt. 15); P.
Balbín Chamorro, ‘Ius hospitii’, cit., 207 ss.; Ead., ‘Hospitium’: una herramienta de acceso a los recursos
intercomunitarios, in El territorio de las ciudades romanas, a cura di J. Mangas Manjarrés e M.Á Novillo
López, Madrid, 2008, 73 ss.; M.F. Cursi, ‘Amicitia’, cit., 2198 s. e nt. 135.
369
Il primo veniva istituito tra privati, mentre il secondo derivava o dalla concessione fatta dal
Senato a favore di un singolo straniero, o da un accordo tra Roma e una comunità indigena: v.
E. Täubler, ‘Imperium Romanum’, cit., 402 ss.; M. Marchetti, voce ‘Hospitium’, cit., 1044 ss.;
K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht, cit., 86; A. Maffi, voce Straniero (dir. rom.), cit., 1140, il quale
corregge la ricostruzione di F. De Martino, Storia, cit., 23 ss., sulla scorta di Liv. 5.28.5.
370
Così, F. De Martino, Storia, cit., 26 s., ma v. anche M. Marchetti, voce ‘Hospitium’, cit.,
1046 s.; S. Randazzo, Lo statuto, cit., 54.
371
S. Randazzo, Lo statuto, cit., 58, il quale individua nell’hospitium una reciprocità di rapporti
connessa al meccanismo del ‘dono’ (su cui, in generale, v. il fondamentale lavoro di M. Mauss,
Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Teoria generale della magia,
cit., 155 ss., nonché E. Resta, Le regole, cit., 43 ss.).
372
S. Randazzo, Lo statuto, cit., 58 s.
106 Mattia Milani

romana nel bacino del Mediterraneo – Roma infatti non cercava più rap-
porti di collaborazione con le altre genti, sostituiti da quelli di dominio
diretto –, peraltro, l’istituto perdette la sua configurazione e i suoi carat-
teri più tipici, finendo sempre più col confondersi con l’amicitia, dato che
questa aveva oramai «assunto la forma della concessione unilaterale con
privilegi analoghi a quelli dell’hospitium»373.
Fatta questa breve premessa, è giunto il momento di soffermarsi su quei
frammenti che collegano il sorgere dell’hospitium alla stretta delle destre.
Una prima testimonianza si rinviene nell’orazione che Cicerone, nel
novembre del 45 a.C., pronuncia in difesa del vecchio tetrarca della Galazia
Deiotaro, accusato dal nipote Castore di aver tramato per assassinare Cesare
durante un soggiorno di quest’ultimo presso di lui. Nonostante il ricorso a
un’eloquenza meno concitata del consueto – in ragione del fatto che il pro-
cesso si svolgeva presso la dimora privata del dittatore e in presenza di pochi
testimoni –, l’Arpinate, nella battute iniziali dell’arringa, non esita a prega-
re Cesare ‘per dexteram istam … quam regi Deiotaro hospes hospiti porrexisti,
istam inquam dexteram non tam in bellis neque in proelis quam in promissis
fidem firmiorem’ di liberarli dalla paura di una sanzione per un’accusa falsa
come quella mossa al re dell’Asia Minore, sempre fedele ai romani374.
Un altro riferimento è presente nelle pagine che Tito Livio dedica
alla descrizione dei rapporti diplomatici intrattenuti da Roma con il re
Siface durante gli eventi della seconda guerra punica375. I Romani, infatti,
erano ben consci dell’importanza di tale collaborazione militare per un
buon esito della campagna contro Cartagine ed ebbero – in maniera as-
sai disinvolta – una pluralità di contatti e di rapporti con il sovrano dei
Numidi Masesili376. Tra di essi377, lo storico menziona anche una relazio-

373
Così, M.F. Cursi, ‘Amicitia’, cit., 219. L’intreccio pare emergere anche in Pomp. 37 ad Q. Mucium
D. 49.15.5.2, ove Pomponio, occupandosi di postliminium, enumera una serie di situazioni in cui esso
risulterebbe superfluo, in ragione delle relazioni già esistenti con la comunità straniera, rappresentate
dall’amicitia, dall’hospitium o da un foedus amicitiae causa factum. Sul tema, cfr. Ead., La struttura del
‘postliminium’ nella Repubblica e nel Principato, Napoli, 1996, 153 s.; S. Randazzo, Lo statuto, cit., 62 s.
In generale, sull’hospitium v. anche M. Marchetti, voce ‘Hospitium’, cit., 1050 ss.; F. De Martino, Storia,
cit., 28 ss.; M.R. Cimma, ‘Reges socii et amici populi Romani’, cit., 21 s.
374
Cic. Deiot. 3.8. Sulla vicenda, v. E. Narducci, Cicerone. La parola e la politica, Roma - Bari, 2009, 387.
375
Liv. 30.13.8. Si rammenti il cenno che vi si dedica anche in 25.18.7.
376
Cfr. A. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen, cit., 29 s.; A. Dahlheim, Struktur und
Entwicklung des römischen Völkerrechts im dritten und zweiten Jahrhundert v. Chr., München,
1968, 229 ss.; M.R. Cimma, ‘Reges socii et amici populi Romani’, cit., 43 ss.; A. Zack, Studien, cit.,
184 ss.; M.F. Cursi, ‘Amicitia’, cit., 200.
377
Di un vincolo di reciproca amicitia col sovrano si parla già in Liv. 24.48.2-13.
La mano destra in Roma antica 107

ne di hospitium privato perfezionato ‘dextraque data et foedus publice ac


privatim iunctum’.
In Virgilio vi si allude con pari disinvoltura378: quando Enea racconta
del suo incontro, insieme ad Anchise, con il re Anio, ricorda che prima di
entrare nella dimora di quest’ultimo avevano unito ‘hospitio dextras’379; la
scena si ripete nel momento in cui Anchise accoglie il greco Achemenide,
rassicurandolo circa la sua incolumità (si è già visto in precedenza che Ser-
vio, commentando la scena, scorge la presenza della dea Fides nella mano
tesa del vecchio troiano)380. Anche Pallante, figlio di Evandro, re degli Arca-
di, dopo aver invitato Enea a sbarcare e a entrare nella sua dimora come ‘ho-
spes’, lo accoglie con la destra protesa, pronto per la stretta381. E così pure lo
stesso Evandro, accasciato sul cadavere del suo discendente appena caduto
in battaglia per mano di Turno, lo piange, senza imputare la responsabilità
della morte né ai Teucri, ‘nec foedera nec quas iunximus hospitio dextras’382.
Il tema delle mani congiunte383 compare accostato all’ospitalità anche in Ta-
cito: questi, nel primo libro delle sue Historiae, ricorda di come i Legoni avess-
sero inviato all’esercito romano, quale ‘hospitii insigne’, due destre di bronzo tra
loro intrecciate384. Com’è agevole constatare, il gesto della dextrarum iunctio

378
Cfr. F. De Martino - R. Degl’Innocenti Pierini, voce ‘Hospes/hospitium’, cit., 858 ss.,
secondo i quali la stretta delle destre è il ricordo di un uso assai remoto, al pari dell’antichissima
tutela di ordine religioso che assisteva l’hospitium (cfr. Verg. Aen. 1.731; Plaut. Poen. 958; Cic. Ad
Q. fr. 2.10.12; Tac. ann. 15.52.1; Gell. 5.13.5, ove si ricorda di come Masurio Sabino ritenesse che
i doveri di ospitalità precedessero, per importanza, anche quelli di clientela): sul punto v. anche R.
Leonhard, voce ‘Hospitium’, in PWRE, VIII, 1913, 2494 s.
379
Verg. Aen. 3.83.
380
Verg. Aen. 3.610-611: Ipse pater dextram Anchises haut multa moratus dat iuveni atque
animum praesenti pignore firmat. Si rinvia poi a Serv. in Verg. Aen. 3.607, su cui già supra.
381
Verg. Aen. 8.124: excepitque manu dextramque amplexus inhaesit. Tema che riecheggia, poco
più avanti, nelle parole di Evandro: dapprima, quando rievoca il momento in cui vide Anchise per
la prima volta e non nasconde come il suo spirito giovanile di allora ardesse dal desiderio di parlare
con l’eroe e di stringergli la destra (8.163-164: mihi mens iuvenali ardebat amore compellere virum
et dextrae coniungere dextram); di poi – in 8.170 – quando a Enea dice ‘ergo et quam petitis iuncta
est mihi foedere dextra’, e ancora in 8.467: Congressi iungunt dextras mediisque residunt aedibus et
fictio tandem sermone fruuntur (non pare cogliere nel segno, qui, la spiegazione che fornisce Serv.
Auct. in Verg. Aen. 8.467: iungunt dextras sic enim se antiqui salutabant).
382
Verg. Aen. 11.164-165.
383
Che compare anche in Val. Fl. 6.13: quos malus hospitio iunctaque ad foedera dextra; Ov. met.
6.447-448: dextera dextrae iungitur; Liv. 25.18.7: ne hospitali caede dextram violet.
384
Tac. hist. 1.54.1: Miserat civitas Lingonum vetere instituto dona legionibus dextras, hospitii
insigne (v. anche, nella stessa opera, 2.8.3: dextras, concordiae insignia). I ritrovamenti archeologici
confermano trattarsi di una prassi che aveva una certa diffusione: v. A. Piganiol, ‘Fides’, cit., 472;
P. Boyancé, La main, cit., 132; G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 191 ss.
108 Mattia Milani

non sta qui a indicare il momento di perfezionamento del rapporto, ma – attra-


verso una metonimia – direttamente quest’ultimo. Un effetto identico a quello
raggiunto dalle tesserae hospitales, ossia quelle tavolette di bronzo, di varia foggia
e misura, comprovanti lo stato di hospes di un privato385, alcune delle quali raffi-
guranti la stretta di cui si discute386, altre, spezzate in due parti (conservate l’una
dall’ospitante, l’altra dall’ospitato), recanti ciascuna l’effige di una mano387: si
rammenti che in caso di hospitium publicum le tessere in tavolette di bronzo si
esponevano sul monte Campidoglio, nella aedes Fidei Populi Romani388.
Rispetto all’hospitium, dunque, la iunctio è sia elemento di manife-
stazione del consenso, sia simbolo dell’affidarsi di una parte all’altra, col
mantenimento di una diversità di ‘potere’ tra le stesse389, finendo così con il
toccare il cuore della relazione di ospitalità stessa.
Una duplicità che si scorge per vero anche in un altro fenomeno della Roma
più antica, che pur trovando spazio anche nell’ambito del diritto pubblico390,

385
Cfr. M. Marchetti, voce ‘Hospitium’, cit., 1056 ss.; F. De Martino - R. Degl’Innocenti
Pierini, voce ‘Hospes/hospitium’, cit., 859; S. Knippschild, «Drum bietet zum Bunde die Hände»,
cit., 155 ss.; H. Wirth, Die linke Hand, cit., 134.
386
Cfr. S. Knippschild, «Drum bietet zum Bunde die Hände», cit., 155 ss., nonché la
riproduzione fotografica alle pp. 208 s. Fanno notare S.M. Sherwin-White, Hand-Tokens and
Achaemenid Practice, in Iran, XVI, 1978, 183, e, da ultimo, F. Mari, La destra, cit., 190 ss., come
anche in Persia – e specialmente presso la corte di Artaserse II (cfr. Xen. An. 2.4.1; Ages. 3.4) –
fosse comune inviare per mezzo di ambasciatori oggetti a forma di destra, o raffiguranti la stessa,
quali simboli della fedeltà del re agli accordi internazionali suggellati.
387
Cfr. Plin. nat. 33.1.10 e L. Capogrossi Colognesi, Da sì piccoli inizi …, cit., 103 e nt. 18.
388
Cfr. F. De Martino - R. Degl’Innocenti Pierini, voce ‘Hospes/hospitium’, cit., 859.
389
Cfr. R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 162 s.; S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 8; Id., Lo statuto, cit., 59. In
realtà, autorevoli studiosi come J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire, cit., 27, nt. 9, hanno ravvisato anche
nell’amicitia, specialmente nella sua declinazione internazionale, la preminenza di una parte sull’altra.
390
Cfr. S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 32 ss., secondo il quale alcune peculiarità pubblicistiche
dell’antico mandare – declinato nel significato di atto di comando idoneo a vincolare alla volontà di
un soggetto l’attività di un altro soggetto – si possono scorgere, seppur sfumate, anche in età imperiale,
con riferimento ai mandata e agli iussa del principe. A tal proposito, v. A. Dell’Oro, ‘Mandata’ e
‘litterae’. Contributo allo studio degli atti giuridici del ‘Princeps’, Bologna, 1960, 7 ss. (su cui L. Labruna,
Recensione, in Labeo, VIII, 1962, 264 ss.); V. Marotta, ‘Mandata principum’, Torino, 1991, passim;
Id., Liturgia del potere. Documenti di nomina e cerimonie di investitura fra principato e tardo impero
romano, in Ostraka, VIII, 1999, 145 ss. Preme rilevare come nella ricerca da ultimo menzionata, lo
studioso si soffermi su quello che definisce ‘ritus manus velatae’, un cerimoniale «affermatosi sin
dall’età tetrarchica» – peraltro uno «tra i tanti che disciplinavano l’etichetta della corte» –, durante
il quale i funzionari imperiali, pronti a ricevere qualche cosa dall’imperatore (doni, denaro, o persino
un’investitura), coprivano le proprie mani con un panno o un lembo della propria veste. Uno schema
che ritorna sovente anche nella tradizione iconografica paleocristiana, come si può notare osservando
le raffigurazioni della traditio legis di Cristo (su cui v. I. Foletti - I. Quadri, Roma, l’Oriente e il
mito della Traditio Legis, in Opuscula Historiae Artium, LXII, 2013, 16 ss., anche per la letteratura).
La mano destra in Roma antica 109

ha avuto maggior diffusione con riguardo ai rapporti di natura privatistica: mi


riferisco all’arcaico mandare.
Ad esso, ultimo momento di riflessione della presente indagine391, pare
dunque opportuno rivolgere l’attenzione.

Resta in chi scrive qualche dubbio circa l’esistenza – o quantomeno l’asserita ampia diffusione – di
suddetto rituale in epoca tardoantica, nonostante autorevoli studiosi siano fermamente convinti
del contrario: cfr., oltre al lavoro già ricordato di Valerio Marotta, anche A. Dietrich, Der ‘ritus’ der
verhüllten Hände, in Kleine Schriften, Leipzig - Berlin, 1911, 440 ss.; F. Cumont, L’adoration des
mages et l’art Triomphal de Rome, in MPAA, III, 1932-1933, 93 ss.; A. Alföldi, Die monarchische
Repräsentation im römischen Kaiserreiche, Darmstadt, 1970, 33 ss.; H. Gabelmann, Antike Audienz-
und Tribunalszenen, Darmstadt, 1984, 204 s. Dalle uniche due testimonianze in nostro possesso che
la dottrina è solita riferire a detto cerimoniale non mi pare infatti possibile trarre conclusioni così nette.
Nella prima, Ammiano Marcellino ricorda lo sdegno dell’imperatore al cospetto di uno degli ‘agentes
in rebus’ raccolti ‘in consistorium’ che, nel ricevere da lui un’elargizione, anziché aprire il mantello, si era
alzato con le mani protese (‘utraque manu cavata suscepit’ si legge in Amm. 16.5.11). Nell’altra – che
è costituita dalla copia ad acquerello di un dipinto parietale, andato perduto, originariamente visibile
nel recinto sacro del Tempio di Ammone a Luxor (riprodotto in V. Marotta, Liturgia, cit., 185) – si
nota soltanto la processione, al cospetto di due tetrarchi seduti su di un trono, di una fitta schiera di
funzionari imperiali, alcuni dei quali con le mani coperte da un drappo: dettaglio certo non secondario,
ma che non mi sembra in grado di giustificare le ricostruzioni prospettate dalla dottrina maggioritaria.
391
Per altre situazioni in cui compare la stretta delle destre, oltre a quelle viste sin qui, si rinvia a H.
Rubenbauer, voce ‘Dexter, (dext[e]ra)’, cit., 934, e G. Freyburger, ‘Fides’, cit., 136 ss. e 167 ss. Pare
comunque qui il caso di indugiare sul rito nuziale (stante anche il noto collegamento tra la manus
maritale e il relativo potere). Sappiamo, infatti, che tra i diversi momenti che andavano a comporre il
cerimoniale nuziale, i futuri sposi – dopo aver preso gli auspici alle prime ore dell’alba e redatto le tabulae
dotales o nutiales – venivano condotti l’uno di fronte all’altra dalla pronuba, una donna generalmente
anziana, che poneva la mano destra della fanciulla su quella del ragazzo, suggellandone l’unione. Rituale
cui si allude, ad esempio, nella famosa scena di Ter. Andr. 285-298, in cui l’etera Criside, in punto di
morte, affida la giovane Glicerio a Panfilo congiungendo le loro mani (su cui v. infra), o che riecheggia
nelle strazianti parole che Virgilio fa proferire a Didone, mentre la nave che trasporta Enea si allontana
dalla costa (v. in particolare Verg. 4.307-308: nec te noster amor nec te data dextera quondam nec moritura
tenet crudeli funere Dido?; 314-316: … per ego has lacrimas dextramque tuam te [quando aliud mihi iam
miserae nihil ipsa reliqui], per conubia nostra, per inceptos hymenaeos), o nelle oscure minacce di suicidio
pronunciate da Fillide per la paura di non rivedere l’amato Demofonte (Ov. epist. 2.31-34: Iura, fides
ubi nunc commissaque dextera dextrae, quique erat in falso plurimis ore deus? Promissus socios ubi nunc
Hymenaeus in annos, qui mihi coniugii sponsor et obses erat?), senza dimenticare Serv. in Verg. Aen.
4.103. In dottrina, anche per letteratura e fonti, v. per tutti C. Fayer, La ‘familia’, cit., II, 505 ss. e 660
s., secondo cui «il momento culminante del rituale nuziale era rappresentato dalla dextrarum iunctio, il
gesto che simboleggia la volontà degli sposi di essere marito e moglie, di voler condurre vita in comune»;
H. Wirth, Die linke Hand, cit., 131 s.; R. Fiori, La struttura del matrimonio romano, in BIDR, CV,
2011, 229 s. (ora anche in ‘Ubi tu Gaius’. Modelli familiari, pratiche sociali e diritti delle persone nell’età del
principato. Relazioni del Convegno Internazionale di Diritto Romano [Copanello, 4-7 giugno 2008], a cura
di F. Milazzo, Milano, 2014, 323 ss.). Le raffigurazioni, nell’arte romana pagana e cristiana, specialmente
sepolcrale, di due coniugi nell’atto di stringersi le mani destre sono molteplici: v. a tal proposito i lavori di
L. Reekmans, La ‘dextrarum iunctio’, cit., 38 s.; Id., voce ‘Dextrarum iunctio’, cit., 82 ss.; G. Davies, The
Significance of the Handshake Motif in Classical Funerary Art, in AJA, LXXXIX, 1985, 627 ss.
110 Mattia Milani

Alcune recenti ricerche392 hanno fatto luce intorno alle modalità attra-
verso cui, nell’età più antica di Roma, veniva soddisfatto il bisogno di ser-
virsi dell’altrui collaborazione per il compimento di un affare o l’esecuzione
di un’attività giuridica, prima che il mandatum, come figura contrattuale,
venisse riconosciuto e tutelato393. Anche all’interno di un sistema econo-
mico chiuso e orientato all’autosostentamento, infatti, poteva accadere che
vi fosse l’esigenza per il pater familias di invocare l’intervento di terzi per il
disbrigo di alcuni affari394, specialmente qualora alle necessità della familia
non fossero riusciti a provvedere i membri della stessa, pur se riuniti nel
consortium ercto non cito395.

392
Cfr. soprattutto S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 7 ss. (su cui C. Cascione, Recensione, in Iura,
LVI, 2006-2007, 265 ss.); M. De Simone, Una congettura, cit., 334 ss., in ordine all’atto con cui
il pater dava in sposa la propria filia. Ma cfr. anche F. Terranova, Ricerche, cit., 159 ss., con
riguardo alla mancipatio familiae e alla presenza, nella relativa formula (attestataci da Gai 2.102),
della terminologia riconducibile al mandare.
393
Come noto, la dottrina è profondamente divisa intorno alla genesi del contratto in parola (per una
panoramica sulle diverse posizioni espresse, cfr. G. Provera, voce Mandato [storia], in Enc. dir., XXV,
Milano, 1975, 312 s., e per un ragguaglio sulla letteratura più recente, M. De Simone, Una congettura,
cit., 334 s., nt. 44). Ad ogni modo, secondo l’opinione a lungo dominante – facente capo a C. Sanfilippo,
Corso di diritto romano. Il mandato. Parte prima, Catania, 1947, 19 s. (ora anche in RDR, IV, 2004, 1
ss., con un’introduzione di G. Nicosia), V. Arangio-Ruiz, Il mandato in diritto romano. Corso di lezioni
svolto nell’Università di Roma. Anno 1948-1949, Napoli, 1949, 44 ss., e P. Frezza, ‘Ius gentium’, in
RIDA, II, 1949, 259 ss. – il mandatum, come gli altri contratti consensuali, sarebbe stato riconosciuto
e tutelato nell’ambito dello ius gentium intorno al III secolo a.C., in concomitanza con l’incremento dei
traffici commerciali di Roma nel bacino del Mediterraneo. La prassi sviluppatasi nei rapporti tra cives e
peregrini si sarebbe col tempo stabilizzata e avrebbe così trovato riconoscimento e protezione all’interno
del sistema romano. Di segno contrario le ricostruzioni – che invero maggiormente persuadono chi scrive
– prospettate da autori come A. Watson, Contract of Mandate in Roman Law, Oxford, 1961, 18 ss.;
M. Talamanca, Istituzioni, cit., 604; S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 102 ss.; G. Coppola Bisazza, Brevi
riflessioni sulla gratuità del mandato, in Studi in onore di A. Metro, a cura di C. Russo Ruggeri, I, Milano,
2009, 484 s., per i quali l’essenziale gratuità connaturata dell’istituto mal si concilia con le esigenze del
traffico commerciale internazionale. Da qui la convinzione che il mandatum sia sorto in seno alla civitas
Romana come «rapporto praticato tra amici o comunque tra soggetti legati da particolari legami che,
almeno all’inizio, non è escluso ricomprendessero pure quelli di natura potestativa», utilizzando le parole
della studiosa appena ricordata.
394
Cfr. S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 15 s., il quale dissente rispetto a V. Arangio-Ruiz, Il
mandato, cit., 3 ss., allorquando questi esclude che l’esigenza in discorso fosse avvertita nel quadro
più vetusto della Roma repubblicana. Ma v. anche G. Coppola, Dalla gratuità alla presunzione di
onerosità. Considerazioni sul contratto di mandato alla luce di recenti studi, in TSDP, III, 2010, 13 ss.
395
Cfr. C. Fayer, La ‘familia’ romana. Aspetti giuridici ed antiquari, I, Roma, 1994, 24 ss.; G.
Aricò Anselmo, ‘Societas inseparabilis’ o dell’indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, in AUPA,
XLVI, 2000, 79 ss. (ma anche in ‘Iuris vincula’. Studi in onore di M. Talamanca, Napoli, 2001,
151 ss.); L. Monaco, ‘Hereditas’ e ‘mulieres’. Riflessioni in tema di capacità successoria della donna in
Roma antica, Napoli, 2000, 31 ss. e nt. 5 per le indicazioni di letteratura.
La mano destra in Roma antica 111

In quel quadro multiforme di relazioni e legami tra singoli e gruppi,


infatti, vi era tutto un insieme di rapporti – da taluni ritenuti «giuridica-
mente fondati e rientranti in un contesto di doverosità»396 – in cui la gra-
tuità degli stessi si combinava con una loro decisa connotazione unilate-
rale e autoritaria. Il nucleo essenziale di detta fenomenologia, definita nel
suo complesso con l’espressione ‘mandare’, ruotava intorno al «concetto
indifferenziato di atto di comando»397, mediante il quale un soggetto in-
caricava qualcun altro di eseguire un certo compito. La cogenza di detta
richiesta poggiava su quel nucleo di valori forti che erano rappresentati
dalla fides, dall’amicitia e dagli officia da queste discendenti398.

396
Così, S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 100, ma contra G. Finazzi, ‘Amicitia’, cit., 759 ss.,
secondo cui, «prima dell’introduzione del iudicium bonae fidei, il mandato trovava la sua esclusiva
sanzione al livello morale e sociale, potendo dalla mancata o scorretta esecuzione dell’incarico,
ove ingiustificata, discendere unicamente, se esso si inseriva nell’ambito di un rapporto fra amici,
la rottura o l’attenuazione dell’amicitia e, qualunque fosse il rapporto sottostante, la riprovazione
sociale nei confronti dell’inadempiente».
397
Così, ancora, S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 37.
398
Cfr., ex multis, D. Nörr, ‘Mandatum, fides, amicitia’, cit., 13 s. e 20 ss.; T. Rundel, ‘Mandatum’
zwischen ‘utilitas’ und ‘amicitia’. Perspektiven zur Mandatarhaftung im klassischen römischen Recht,
Münster, 2005, 163 ss.; G. Finazzi, ‘Amicitia’, cit., 752 ss. Ciò ben si nota in Cic. S. Rosc. 38-39.111-
114, testo in cui l’Arpinate ricorda come la violazione di un incarico ricevuto, anche se compiuta per
neglegentia, fosse al tempo dei maiores punita con singolare severità – ‘turpis culpa’, ivi si legge –, in
quanto violava due res sanctissimae: la fides e l’amicitia (sul testo, v. anche le riflessioni di F. Schulz,
I principii, cit., 204 s.; V. Arangio-Ruiz, Il mandato, cit., 47 s.; E. Narducci, Mobilità dei modelli
etici e relativismo dei valori: il ‘personaggio’ di Attico, in Società romana e produzione schiavistica. III.
Modelli etici, diritto e trasformazioni sociali, a cura di A. Giardina e A. Schiavone, Bari, 1981, 161;
R. Raccanelli, L’‘amicitia’, cit., 97 s. e nt. 59; G. Coppola Bisazza, Dalla gratuità, cit., 20 ss.). Una
caratterizzazione del rapporto che ritorna, senza invero sorprendere poi molto, anche in epoca più
avanzata: in un frammento tratto dal suo commentario all’editto del pretore, Paolo ricorda le origini
del contratto di mandatum e ribadisce che esso ‘ex officio atque amicitia trahit’ (Paul. 32 ad ed. D.
17.1.1.4, su cui da ultimo D. Schubert, Die Mandatarhaftung im römischen Recht, Berlin, 2014,
117 ss.). A partire da tale frammento, G. Coppola Bisazza, Brevi riflessioni, cit., 487 s., afferma che
«non può essere messo in dubbio che il mandato sia un istituto tipicamente romano, sviluppatosi in
concomitanza col mutamento economico subito dalla società romana a partire dalla fine del IV-III
secolo a.C. Sin da quell’epoca e con sempre maggiore prepotenza si dovette infatti avvertire l’esigenza
di avvalersi di uomini di fiducia, come potevano esserlo, a parte i sottoposti, anche i liberti e gli amici,
per l’espletamento di affari che il dominus negotii era impossibilitato a eseguire personalmente.
E fu appunto il particolare legame esistente tra le parti: potestativo, di patronato o di amicizia a
determinare il caratterizzarsi del rapporto come essenzialmente gratuito». Anche in ragione di ciò,
sono costantemente sorte difficoltà in ordine alla configurazione dogmatica e all’inquadramento
sistematico del contratto di mandato, peraltro conservatesi – seppur sotto differenti declinazioni –
sino ai nostri giorni: v. a tal riguardo le riflessioni di L. Garofalo, Gratuità e responsabilità contrattuale,
in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, a cura di L. Garofalo, Padova, 2011,
58 ss., nonché, intorno alla natura bilaterale perfetta o imperfetta del mandatum di epoca classica, S.
112 Mattia Milani

Ma quella volontà d’imperio doveva essere recepita dal destinatario:


ciò, non di rado, avveniva mediante lo stringersi delle mani destre, gesto
che costituiva «il momento in cui il rapporto si istituzionalizza, in cui il
consenso si formalizza»399.
Attraverso alcuni passaggi tratti dalle commedie di Plauto e Terenzio,
in particolare, possiamo notare come la dextrarum iunctio costituissse un
punto di equilibrio tra le dimensioni relazionali appena viste: amicitia, fides
e mandare s’intrecciavano in un unicum a tratti indistinto, ove il gesto in
parola assumeva «il valore di vincolare permanentemente una persona» a
un’altra, in quanto «manifestazione plastica di un potere che si innerva nel
gesto e si completa con una dichiarazione che ne precisa il significato»400.
Non solo: la stretta di mano era anche manifestazione pubblica, e così
percepibile dall’intera comunità401, dell’assunzione di un impegno che – pur
non costituendo obbligazione in senso tecnico – si posizionava in quell’area
di rapporti intersoggettivi ove i doveri morali, la fiducia, la buona reputazio-
ne e l’onore rafforzavano (se non proprio costituivano) la doverosità402.
Partiamo da un passaggio del Mercator di Plauto.
Plaut. Merc. 147-159: Ac. Nescio ego istaec: philosophari numquam didici neque
scio. Ego bonum, malum quo accedit, mihi dari haud desidero. Cha. Cedo tuam

Viaro, Il mandato romano tra bilateralità perfetta e imperfetta, in Scambio e gratuità, cit., 331 ss.
399
Sono parole di S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 9. Di ciò, peraltro, abbiamo traccia in quella
suggestiva, sebbene non poco fantasiosa, ‘etimologia’ riportata da Isid. orig. 5.24.20, secondo cui
‘mandatum dictum quod olim in commisso negotio alter alteri manum dabat’ (cfr. sul punto F.
Serrao, Il ‘procurator’, Milano, 1947, 109 s.; J. Michel, Gratuité, cit., 170; R. Martini, voce
Mandato nel diritto romano, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., XI, Torino, 199 s.).
400
Così, S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 12 e 38 ss. Circa l’attendibilità delle testimonianze
plautine per la ricostruzione della fenomenologia giuridica dell’evo più antico, v. C. Venturini,
Plauto come fonte giuridica: osservazioni e problemi, in Plauto testimone della società e del suo
tempo, a cura di L. Agostiniani e P. Desideri, Napoli, 2002, 113 ss. Per qualche spunto in ordine
all’importanza di fides nell’opera plautina, cfr. W.M. Owens, The Third Deception in ‘Bacchides’:
Fides and Plautus’ Originality, in TAPhA, CXV, 1994, 387 ss.
401
Il problema dell’assenza d’indici da cui desumere la doverosità dell’impegno di compiere una
certa attività per conto di altri era già al tempo percepito, e invero si conserva anche nel momento
in cui trova riconoscimento e protezione la figura contrattuale del mandatum: v., a tal proposito, i
rilievi di L. Garofalo, Gratuità, cit., 48 ss., anche con riguardo alla mancata indicazione esplicita
di tale istituto all’interno della celebre tripartizione labeoniana, conservata in Ulp. 11 ad ed.
D. 50.16.19. Per lo studioso, in particolare, il giurista repubblicano «qualificava come gesto il
mandato, negozio in effetti privo di un indice capace di rivelare nitidiamente l’appartenenza al
piano del diritto dell’accordo in cui si sostanziava, risolvendosi appunto esso nell’impegno del
mandatario di agire, materialmente o giuridicamente, per conto del mandante».
402
Cfr. G. Finazzi, ‘Amicitia’, cit., 752 ss.; G. Coppola Bisazza, Brevi riflessioni, cit., 487 s.
La mano destra in Roma antica 113

mihi dext<e>ram, age[n]dum, Ac[h]anthio. Ac. Em dabitur: tene. Cha. Vin tu te


mihi obsequentem esse an nevis? Ac. Opera licet experiri, qui me rupi causa currendo
tua, ut quae scirem scire actutum tibi liceret. Cha. Liberum caput tibi faciam <cis>
paucos mensis. Ac. Palpo percutis. Cha. Egon ausim tibi usquam quicquam facinus
falsum proloqui? Quin iam prius quam sum elocutus scis, si mentiri volo. Ac. Ah,
lassitudinem hercle verba tua mihi addunt: enicas. Cha. Sicine mi obsequens es? Ac.
Quid vis faciam? Cha. Tun? Id quod volo. Ac. Quid <id> est igitur quod vis? Cha.
Dicam. Ac. Dice.

La scena vede come protagonisiti il giovane ateniese Carino che, ritor-


nato da un viaggo per mare, chiede l’aiuto del servo Acanzione per celare al
padre la bella cortigiana Pasicompsa, portata con sé dopo la visita a Rodi e
nascosta a bordo dell’imbarcazione403.
Per assicurarsi che lo schiavo rispetti gli ordini lui impartiti, il giovane
gli chiede di cedere dextram attraverso l’uso dell’imperativo arcaico cedo: la
stretta che ne consegue – ‘tene’, gli risponde subito Acanzione – solenniz-
za la sottomissione di quest’ultimo (a formare un tipico schema narrativo
plautino, in cui il servus tendenzialmente ‘riottoso’ deve venir ‘costretto’ a
dare ascolto al padrone). Carino chiarisce subito la situazione venutasi a
creare, ribadendo la propria supremazia e chiedendo per ben due volte in
breve tempo allo schiavo se sarà finalmente obbediente nei suoi confronti
(‘Vin tu te mihi obsequentem esse an nevis?’ e ‘Cha. Sicine mi obsequens es?
Ac. Quid vis faciam? Cha. Tun? Id quod volo. Ac. Quid <id> est igitur quod
vis? Cha. Dicam. Ac. Dice.’)404.
Una situazione analoga a quella testé descritta si rinviene nei Captivi.
La trama della commedia è nota, ma conviene brevemente ricordare alcuni
suoi passaggi fondamentali: Egione, vecchio e ricco uomo etole e padre di
due ragazzi – uno rapito in tenera età e mai ritrovato, l’altro, Filopolemo,
catturato dagli Elei in battaglia – acquista una coppia di prigionieri nemici,
schiavo e padrone (rispettivamente Tindaro e Filocrate), nel tentativo di
scambiarli con il proprio figlio.
Sennonché, i due giovani eliati ingannano il vecchio e invertono i ri-
spettivi ruoli: Filocrate, fingendosi servo, viene così inviato da Egione in
patria per provare a riscattare Filopolemo; Tindaro, nelle vesti di padrone,
rimane sotto la custodia del ricco etole.

403
Sono invero numerose le connessioni tra il mandare e l’amicitia che vengono in rilievo nella
commedia in parola: v., in particolare, Plaut. Merc. 385; 463-468; 495-498; 629-632, su cui cfr.
R. Raccanelli, L’‘amicitia’, cit., 89 ss.; S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 49 ss.
404
Contra L. Lombardi, Dalla ‘fides’ alla ‘bona fides’, cit., 149 s., che nel gesto in considerazione
scorge nulla più che una manifestazione di amicitia.
114 Mattia Milani

Ma quest’ultimo, scoperto l’inganno, mette Tindaro in catene e lo co-


stringe ai lavori forzati: lo salva soltanto l’arrivo di Filocrate, che non solo
porta con sé il figlio di Egione, Filopolemo, ma colui che tanti anni prima
aveva rapito l’altro figlio, ancora in fasce, Stalagmo: e sarà proprio quest’ul-
timo a riconoscere in Tindaro il bambino sottratto.
Ciò detto, ecco il primo brano su cui è opportuno soffermarsi
Plaut. Capt. 838-848: Erg. Cedo manum. He. Manum? Erg. Manum, inquam, cedo
tuam actutum. He. Tene. Erg. Gaude. He. Quid ego gaudeam? Erg. Quia ego impe-
ro: age gaude modo. He. Pol maerores mi antevortunt gaudiis. [Erg. Noli irascier]
<Erg.> Iam ego ex corpore exigam omnis maculas maerorum tibi: gaude audacter.
He. Gaudeo, etsi nihil scio quod gaudeam. Erg. Bene facis: iube. He. Quid iubeam?
Erg. Ignem ingentem fieri. He. Ignem ingentem? Erg. Ita dico, magnus ut sit.

L’episodio si apre con Egione che, a fronte della richiesta del parassita
Ergasilo, pronto a comunicargli l’arrivo in porto della nave col figlio cattu-
rato, gli porge la mano in segno di sottomissione e affidamento.
Ergasilo comincia immediatamente a dar disposizioni al vecchio, espres-
se attraverso la forma verbale dell’imperativo: nel dettaglio, prima gli ordi-
na di gioire (‘gaude’), e, alla richiesta di spiegazioni, si limita ad affermare
che deve far ciò perché è lui a comandarglielo (‘quia ego impero’). Poi, impo-
ne a Egione di incaricare i suoi schiavi di accendere un grande fuoco per un
banchetto: il tutto semplicemente perché è lui a chiederlo (Erg. Bene facis:
iube. He. Quid iubeam? Erg. Ignem ingentem fieri. He. Ignem ingentem?
Erg. Ita dico, magnus ut sit.’)405.
È però un altro brano dei Captivi – invero precedente rispetto a quello poc’an-
zi visto, ma su cui vale la pena indugiare in seconda battuta – che meglio di ogni
altro riesce a evidenziare la connessione non solo tra potere e dextrarum iunctio,
ma anche tra questa e il mandare arcaico, nell’alveo della fides e dell’amicitia406.
Si tratta della terza scena del secondo atto.
Plaut. Capt. 439-450: Tyn. fac fidelis sis fideli, cave fidem fluxam geras. Nam pa-
ter scio faciet quae illum facere oportet omnia. Serva tibi in perpetuom amicum me

405
La dinamica si ripete poco più avanti nel testo plautino, precisamente in Plaut. Capt. 857-
867: He. Tum tu mi igitur erus es. Erg. Immo benevolens. Vin te faciam fortunatum? He. Malim
quam miserum quidem. Erg. Cedo manum. He. Em manum. Erg. Di te omnes adiuvant. He. Nihil
sentio. Erg. Non enim es in senticeto, eo non sentis. Sed iube vasa tibi pura apparari ad rem divinam
cito, atque agnum afferri proprium pinguem. He. Cur? Erg. Ut sacrufices. He. Quoi deorum? Erg.
Mi hercle: nam ego nunc tibi sum summus Iuppiter, idem ego sum Salus Fortuna Lux Laetitia
Gaudium: proin te deum hunc saturitate facias tranquillum tibi. He. Esaurire mihi videre. Erg.
Miquidem esurio, non tibi. He. Tuo arbitratu: facile patior.
406
Cfr. G.F. Franko, ‘Fides’, ‘Aetolia’, and Plautus’‘Captivi’, in TAPhA, CXXV, 1995, 160 ss.
La mano destra in Roma antica 115

atque hunc inventum inveni. Haec per dexteram tuam te dextera retinens manu
opsecro, infidelior mihi ne fuas quam ego sum tibi. Tu hoc age: tu mihi nunc erus
es, tu patronus, tu pater: tibi commendo spes opesque meas. Phil. Mandavisti satis.
Satin habes mandata quae sunt facta si refero? Tyn. Satis.

Tindaro, accomiatandosi dal suo falso dominus Filocrate – pronto a


partire per l’Etolia –, si raccomanda di svolgere correttamente il compito
affidatogli: ossia tornare in patria, dar notizia al padre e ai parenti della sua
attuale condizione, del suo stato di salute e di quanto convenuto con Egio-
ne intorno allo scambio di prigionieri.
Ma l’inversione di ruoli determinata dall’inganno al vecchio etole crea
non poche ambiguità in ordine all’affidamento dell’incarico: è infatti il
vero padrone che deve, sotto le mentite spoglie di schiavo, adempiere
all’incombente407. Ecco allora che i due ricorrono alla dextrarum iunctio,
per conferire «una sorta di consacrazione istituzionale ad un legame di
fides» – la quale è evocata e ‘celebrata’ dall’allitterazione che occupa un
intero verso408 – e per suggellare «una promessa di fedeltà, in base alla
quale Filocrate si impegna a tornare ad affrancare colui che gli ha donato
la libertà»409.
Non mancano, poi, riferimenti a queste dinamiche anche nelle comme-
die di Terenzio.
In un passaggio dell’Heautontimorumenos si può constatare come la for-
za della dextrarum iunctio, nel momento in cui veniva affidato un compito
da svolgere, ponesse in secondo piano persino la verbalizzazione dell’obiet-
tivo voluto dall’incaricante.
Ter. Heaut. 491-497: Ch. Somnum hercle ego hac nocte oculis non vidi meis, dum id
quaero, tibi qui filium restituerem. Me. Cedo dextram: porro te idem oro ut facias,
Chremes. Ch. Paratus sum. Me. Scin quid nunc facere te volo? Ch. Dic. Me. Quod
sensisti illos me incipere fallere, id ut maturent facere: cupio illi dare quod volt, cupio
ipsum iam videre. Ch. Operam dabo.

La vicenda vede protagonisti il vecchio Menedemo e il suo vicino Cre-


mete: l’antefatto è noto. Menedemo, pentitosi per l’atteggiamento trop-
po duro serbato nei confronti del figlio Clinia in ordine alla relazione da

407
Circa tale peculiare atteggiarsi del rapporto tra servo e padrona, v. le preziose pagine di R.
Raccanelli, L’‘amicitia’, cit., 144 ss., che concentra non poche attenzioni intorno alla commedia
di cui si discute.
408
Plaut. Capt. 339.
409
Così, R. Raccanelli, L’‘amicitia’, cit., 158, ma v. anche G. Freyburger, La morale et la ‘fides’
chez l’esclave de la comédie, in REL, LV, 1977, 125 s.; S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 45
116 Mattia Milani

questi intrattenuta con la straniera Antifilia (tale da averlo indotto ad


abbandonare la dimora paterna), chiede al vicino Cremete di convincere
il ragazzo – che presso di lui aveva trovato rifugio – a ritornare sulla pro-
pria decisione.
Ed è questo incarico che, nella scena riprodotta, viene suggellato dalla
stretta delle destre, gesto evocato ancora mediante il cedere dexteram nella
forma dell’imperativo arcaico cedo, su cui già ci si è imbattuti in prece-
denza.
Ma il dettaglio che più interessa concerne la scansione temporale tra
le azioni descritte: prima, in effetti, Cremete e Menedemo si stringono
le rispettive destre, e – soltanto dopo – quest’ultimo precisa il contenuto
dell’impegno assunto da controparte410.
Un’inversione che conferma come la gestualità di cui si discute pre-
sentasse un’autonoma rilevanza, come elemento di manifestazione della
volontà, rispetto anche alle formalizzazioni verbali degli impegni che pur
erano a essa connaturati.
Per certi aspetti simile è quanto riportato in un altro passaggio tratto da
una commedia di Terenzio, l’Andria.
Ter. Andr. 285-298: Pa. …‘mi Pamphile, huius formam atque aetatem vides, nec
clam te est, quam illi nunc utraeque inutiles et ad pudicitiam et ad rem tutandam
sient. Quod per ego te dextram hanc oro et genium tuom, per tuam fidem perque
huius solitudinem te optestor, ne abs te hanc segreges neu deseras. Si te in germani
fratris dilexi loco sive haec te solum semper fecit maxumi seu tibi morigera fuit in
rebus omnibus, te isti virum do, amicum tutorem patrem: bona nostra haec tibi per-
mitto et tuae mando fidei’. Hanc mi in manum dat: mors continuo ipsam occupat.
Accepi: acceptam servabo.

L’ateniese Panfilo sta spiegando alla schiava Miside per quale ragio-
ne egli non abbia ancora abbandonato l’idea di unirsi in matrimonio
con la bella Glicerio, stante in particolare la netta contrarietà del padre
Simone, che lo vorrebbe veder sposato con Filumena, figlia del vicino
Cremete.
In tale contesto, il giovane rievoca un episodio particolarmente si-
gnificativo: egli ricorda le parole e i gesti compiuti dalla vecchia e fedele
serva di Glicerio, Criside, sul letto di morte. Quest’ultima aveva pregato
Panfilo di star vicino alla sua padrona e di non abbandonarla nemmeno
nei momenti di difficoltà, in ragione del grande amore che questa aveva
sempre saputo dar lui, ma anche per lo stretto legame tra la morente e il

410
Cfr. S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 75 s.
La mano destra in Roma antica 117

giovane ateniese. E mentre dava queste istruzioni – che si presentano, a


ben vedere, come un vero e proprio incarico, seppur dal contenuto del
tutto peculiare – Criside aveva preso la mano destra di Panfilo, per la
quale lo supplicava di assolvere l’impegno (‘per ego te dextram hanc oro’),
e l’aveva posata su quella di Glicerio411.
La scena è fortemente evocativa e dall’intensa carica poetica: ciò che pe-
rò più preme evidenziare rispetto alla linea d’indagine qui percorsa è come
si susseguano a brevissima distanza due momenti gestuali che hanno al cen-
tro il congiungersi delle destre. Il primo, tra Criside e Panfilo, a suggellare
l’impegno di quest’ultimo di accudire Glicerio (e quindi assimilabile a un
mandare arcaico); il secondo, tra Panfilo e Glicerio, il quale rievoca nello
spettatore la cerimonia nuziale, tra i cui momenti vi era anche la dextrarum
iunctio tra gli sposi412.
A dimostrazione, ancora una volta, della pluralità di usi e funzioni del
gesto in esame che, in particolare rispetto al mandare arcaico, era sia testi-
mone dell’asimmetria tra le parti della relazione, sia elemento di manifesta-
zione della loro volontà tesa a far sorgere un vincolo.

8. Considerazioni di sintesi.

È giunto il momento di fare il punto sui risultati raggiunti nel corso di


questo itinerario di ricerca.
Esso è invero partito da lontano. Si è infatti rilevato come la coesione
della società romana poggiasse su un saldo nucleo di valori condivisi, che
si conserva, pur non senza qualche mutamento, nel corso della sua lunga
e complessa storia. Tra questi, in particolare, vi è una coppia di virtù il cui
rispetto ha giocato un ruolo fondamentale nello straordinario processo che
ha condotto Roma alla conquista dell’egemonia mediterranea: pietas e fides
. E se l’ambito di riferimento della prima sembra essere maggiormente le-
gato alla sfera dei rapporti tra gli uomini e gli dèi – sostanziandosi in quel
‘riservar loro quanto gli spetta’ che costituisce un tratto peculiare della re-
ligiosità romana –, la seconda, quasi a suo completamento, illumina e go-

411
Non convince la lettura del passo di S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 76 s., secondo cui «la
mano del giovane non viene stretta dalla schiava durante il colloquio, ma evocata, come simbolo
di un impegno solenne, insieme alla fides (‘per hanc te dextram’… ‘per tuam fidem’), affinché
Panfilo non abbandoni la giovinetta». Sembra anzi vero il contrario: inducono a pensarlo il fatto
che Criside invochi ‘hanc dextram’, e non semplicemente la destra di Panfilo, nonché il ‘hanc mihi
in manum dat; mors continuo ipsam occupat’ che chiude l’episodio.
412
Cfr. nt. 391.
118 Mattia Milani

verna larga parte delle relazioni tra homines, in ambito tanto interno alla
civitas, quanto sovrannazionale.
Questa portata ‘cosmica’ di fides non è altro che una particolare decli-
nazione di un concetto che mal si presta a essere ridotto a nozione unitaria,
nonostante i numerosi tentativi fatti in tal senso dalla dottrina. Siffatto ele-
mento, centrale della cultura romana, racchiude in particolare due prospet-
tive che, ad un primo sguardo, paiono difficilmente compatibili tra loro.
Fides compare infatti talvolta calata in una dimensione potestativa (come
affidamento di una parte a un’altra, che è al contempo anche una sotto-
missione), talaltra si esprime in una prospettiva promissoria (nel senso di
rispetto della parola data). Una duplicità che la pone al centro del compo-
sito panorama della vita relazionale arcaica, come la lettura di autori quali
Dionigi d’Alicarnasso ha permesso di constatare . Non stupisce dunque che
già in un momento storico assai risalente fides sia stata divinizzata in una
dea che porta il medesimo nome, festeggiata pubblicamente e solennemen-
te il primo giorno di ottobre di ogni anno, con i tre flamines maggiori tenuti
a ‘rem divinam facere’ con la propria mano destra velata .
Come si è visto, non si tratta di un dettaglio di poco momento. La ma-
no destra è ‘certissimum pignus’ di sicurezza e di prosperità (Val. Max. 6.6
pr.), sedes sacrata della divinità e sua testimone. Tito Livio e Servio Mario
Onorato si dilungano sulle ragioni per cui la mano dei sacerdoti, durante
suddetto cerimoniale, doveva essere cinta da un panno bianco: proprio sul-
la scorta delle loro spiegazioni è stata tracciata una linea di contatto tra le
due dimensione di fides poc’anzi ricordate e i significati simbolici connessi
alla gestualità della mano destra.
Anche quest’ultima, infatti, pare essere testimone della suddetta dupli-
cità, in quanto sede della dea (e così simbolo di fedeltà e di affidamento),
ma al tempo stesso strumento in grado di esprimere una volontà a volte
appropriativa, altre volte impegnativa, ma sempre modificativa dell’ordine
esistente .
Ciò posto, si è scelto di approfondire queste dimensioni, dando il via ad
un percorso di indagine che ha interessato diverse manifestazioni gestuali
con al centro la mano, le quali presentano una più o meno accentuata ri-
levanza nell’ambito dell’esperienza giuridica dei tempi più risalenti della
storia di Roma.
Si è così avuto modo di riscontrare come sovente la mano e i suoi gesti
(principalmente di apprensione o di contatto) siano riferibili all’idea di un
potere che essa incarnerebbe. Del resto, è oltremodo noto come il termine
manus individuasse anticamente proprio quella potestas indistinta e unita-
ria del pater sugli individui e sui beni della familia.
All’interno di questo orizzonte simbolico, si è indugiato su tre schemi
negoziali e processuali assai antichi: la mancipatio, la legis actio sacramen-
La mano destra in Roma antica 119

to in rem e la legis actio per manus iniectionem. Si è constatato come tra le


formalità che caratterizzano tali fenomeni giuridici un ruolo chiave fosse
rivestito anche dai gesti eseguiti con le mani ad opera dei soggetti prota-
gonisti, al punto che tali istituti – o alcuni momenti del relativo cerimo-
niale, come nel caso del lege agere sacramento in rem – ne risentirono non
solo in ordine alla denominazione, ma anche con riguardo alla disciplina
loro riservata.
Basti pensare al fatto che l’adprehensio della res, necessaria per il com-
pimento della relativa mancipatio, comportava che i beni mobili da aliena-
re dovessero essere presenti durante il cerimoniale (Gai 1.121 e Tit. Ulp.
19.6): al punto che la giurisprudenza dovette trovare una soluzione per
rendere possibile l’alienazione degli immobili, nel momento in cui venne
concessa anche tale facoltà ai cives romani (è lecito infatti credere che la
mancipatio fosse nata per dare pubblica testimonianza dell’avvenuto trasfe-
rimento delle cose mobili, in un contesto però in cui probabilmente beni
quali il fondo avito e la casa familiare non potevano essere ceduti).
Analoghe considerazioni sono state svolte rispetto alla legis actio sa-
cramento in rem: anche qui, in relazione alla necessità che le parti afferras-
sero reciprocamente in iure il bene conteso (si tratta, come visto, del cd.
manu[m] conserere), si intervenne per rendere meno complessa e soprat-
tutto più rapida la rivendica degli immobili, ammettendo – persino in de-
roga rispetto a quanto previsto dalle XII Tavole (‘contra duodecim tabu-
las’, si legge in Gell. 20.10.9) – la figura dell’ex iure in manu(m) consertum
vocare, che si componeva di una rappresentazione fittizia della consertio
delle mani. È peraltro interessante notare come proprio il formalismo ge-
stuale della mano costrinse ad uno sforzo di astrazione non indifferente
– forse tra i più antichi di cui si ha notizia con riguardo all’esperienza
romana –, onde adattare gli strumenti giuridici appena esaminati a situa-
zioni in parte differenti.
Dopo qualche cenno ancora circa il legame tra mano e potere nella legis
actio per manus iniectionem, sono stati presi in considerazione i casi in cui la
mano destra si ritrova accostata all’assunzione solenne di impegni, sia pur
variamente configurati.
Lo sguardo si è allora posato sulla clades dextrae di Mucio Scevola e sulle
formalità connesse agli atti di giuramento, in cui sovente le fonti serbano
il ricordo di mani che toccano oggetti sacri, come un altare o il lapis silex
(nel giuramento per Iovem lapidem), gesti indispensabili per la produzione
di effetti vincolanti. Inoltre, si è indugiato sulla liturgia della devotio belli-
ca, evidenziando come pure in tale complesso cerimoniale la mano – che
doveva essere posta in prossimità della bocca, mentre il devovens pronun-
ciava il carmen di rito (Liv. 8.9.5-8) – testimoniasse la serietà della promes-
sa fatta alle divinità ctonie, le quali a loro volta assicuravano all’officiante
120 Mattia Milani

aiuto in battaglia, dando vita ad un rapporto reciprocamente impegnativo.


In quest’ultimo rito, la componente gestuale che ruota intorno alla mano
diviene lo strumento per esprimere pubblicamente una volontà seria ed im-
pegnativa. Lo stesso capita nell’ultimo atto mimico analizzato nelle prece-
denti pagine: la dextrarum iunctio.
Si tratta, come visto, di un segno dotato di una forte carica simbolica e
comunicativa, accostato a diversi fenomeni e istituti della realtà giuridica
e sociale romana. La stretta delle destre compare nell’ambito dei rapporti
di amicitia, ove è strumento volto a manifestare plasticamente, avanti alla
comunità cittadina, la riappacificazione tra personaggi un tempo divisi da
un’antica rivalità. Ma lo stesso in parte avviene con riferimento alle relazio-
ni di natura internazionale: qui, con la dextrarum iunctio, le parti danno
vita a legami di amicitia (che come è noto si declina anche in tale prospet-
tiva) o a relazioni di ospitalità (hospitium). In quest’ambito è ancor più
marcata la funzione comunicativa (si potrebbe quasi dire universale) del
gesto in considerazione, uno schema in grado di superare le varie differenze
territoriali e culturali, adatto a mettere in contatto – secondo forme in un
certo senso procedimentalizzate – soggetti appartenenti a contesti sociali e
politici eterogenei.
Ciò detto, non è stato comunque possibile affermare che la stretta delle
destre avesse portata costitutiva del rapporto, nel senso che la sua assenza
precludeva il sorgere di dette relazioni: la volontà impegnativa doveva esse-
re presente e poteva essere manifestata attraverso la dextrarum iunctio, ma
non solo suo tramite.
Il che vale senz’altro pure rispetto all’ultimo fenomeno analizzato, quel-
lo che parte della dottrina individua facendo ricorso all’espressione ‘man-
dare’. Soffermandosi su diversi testi di Plauto e Terenzio si è visto come
l’esigenza di servirsi dell’altrui collaborazione per il compimento di un af-
fare o per l’esecuzione di un’attività giuridica – prima che il mandatum
venisse riconosciuto e tutelato dall’ordinamento – era assolta da relazioni
interpersonali (riconducibili ad un generico ‘mandare’/incaricare) basate
sulla fides, sull’amicitia e sugli officia da questa discendenti. Il loro sorgere
veniva talvolta solennizzato mediante la dextrarum iunctio, segno mimico
forte, testimone dell’asimmetria tra le parti ed elemento di manifestazione
della reciproca volontà impegnativa.
Rispetto a quanto detto, si può concludere questo studio rilevando co-
me quella appena vista sia una concezione della gestualità della mano (spe-
cialmente della destra), che ha percorso i secoli, sino a giungere ai giorni
nostri. Pure nel diritto barbarico, ad esempio, l’impegno giuridico sorge-
va in relazione a una certa mimica della dextra, alzata nell’atto di giurare,
ovvero poggiata tra le palme di un altro contraente o garante. E lo stesso
capita ancora nei mercati o nelle fiere moderne, ove la ‘certezza’ in ordine
La mano destra in Roma antica 121

alla conclusione di un affare passa attraverso la stretta di mano, quale gesto


(universale) più affidante delle sole parole .
Si tratta di un percorso in cui il corpo e le sue parti divengono strumenti
di comunicazione, in grado persino di sostituire le componenti verbali (o
più spesso di aggiungersi ad esse): fattori di cui il diritto, in varia misura e
con varia incidenza, ha sin dai tempi alquanto remoti della storia di Roma
mostrato di tenere in altissima considerazione.

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