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L’autore

Michel Pastoureau è direttore della École pratique e titolare della cattedra di


Storia del simbolismo in Occidente. È riconosciuto a livello internazionale
come il massimo esperto di Storia dei colori. Con Ponte alle Grazie ha
pubblicato: Blu. Storia di un colore (2002), Il piccolo libro dei colori (con
Dominique Simonnet, 2006), Nero. Storia di un colore (2008), I colori del
nostro tempo (2010), Verde. Storia di un colore (2013), Il maiale (2014),
Rosso. Storia di un colore (2016), Figure dell’araldica (2018), Il lupo
(2018).
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Ponte alle Grazie è un marchio


di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Titolo originale:
Une couleur ne vient jamais seule

In copertina: progetto grafico di Laura Dal Maso / theWorldofDOT

© Éditions du Seuil, 2017


Collection La Librairie du XXIe siècle, dirigée par Maurice Olender
© 2019 Adriano Salani Editore s.u.r.l. – Milano
ISBN 978-88-3331-310-8

Prima edizione digitale giugno 2019


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Cogli i tuoi giorni come cogliessi un fiore
e dà a ciascuno il suo più bel colore.

Orazio, Odi, I
(tradotto liberamente e messo in musica
da Étienne Du Chemin, 1661)
Introduzione

Le relazioni che intercorrono tra le società e i colori sono sempre state al


centro delle mie ricerche, del mio insegnamento e delle mie pubblicazioni.
Anche se ho lavorato soprattutto sul Medioevo in Occidente, non mi sono
mai disinteressato dell’era contemporanea, al contrario: attore e spettatore
al tempo stesso, ho cercato di portare la mia testimonianza sull’evoluzione
delle prassi e delle sensibilità del nostro tempo nei diversi campi in cui
entra in scena il colore. Sono molte, coinvolgono tutti e sembrano oggi
suscitare l’attenzione di industriali, designer, pubblicitari e giornalisti molto
più di quanto accadesse in passato. Probabilmente per questo, negli ultimi
anni, sono stato spesso invitato a intervenire sulla stampa e a tenere
conferenze per commentare quella che potremmo chiamare ‘l’attualità
cromatica’.
Ho tuttavia voluto parlare dei colori dei nostri tempi in molti dei miei
libri, in particolare nel 2010 in un’opera intitolata I colori dei nostri ricordi,
pubblicata dalla stessa casa editrice e nella stessa collana di questo Diario,
che ne è in certo qual modo la continuazione. Il libro fu apprezzato e gli
furono attribuiti due premi letterari molto diversi: il prix Médicis essai
2010, e il grand prix France Télévisions 2011. L’argomento principale del
libro era una storia dei colori in Francia e in Europa occidentale che copre
più di mezzo secolo: 1950-2010. Non una storia erudita ma una storia
vissuta, costruita o ricostruita a partire dalle mie personali esperienze,
osservazioni, ricordi, avventure e disavventure. Non si trattava tanto della
mia autobiografia a colori quanto di quella (mi sia concesso dirlo) dei miei
contemporanei, o almeno degli uomini e delle donne della mia generazione
– quella del baby boom. L’idea era di attirare l’attenzione su tutti i
cambiamenti intervenuti nell’ambito dei colori dal dopoguerra fino all’alba
del XXI secolo. O meglio: cosa era cambiato e – lo si dimentica troppo
spesso – cosa non era cambiato. Per farlo, mi sono avventurato su vari
terreni: il vocabolario e le invenzioni grammaticali, la vita quotidiana e lo
spettacolo della strada, l’abbigliamento e i fenomeni di moda, gli emblemi e
i simboli, l’arte e la letteratura, i musei, il cinema, la pubblicità, i campi
sportivi.

Volendo dare un seguito a I colori dei nostri ricordi, propongo oggi, nello
stesso spirito, un ‘diario cromatico’ – il mio diario cromatico – riferito non
più a mezzo secolo ma solamente agli ultimi cinque anni. Non si tratta più
in questo caso di ricordi raggruppati e messi per iscritto in una redazione
successiva allo scopo di costruire una raccolta organizzata, ma proprio di
appunti presi sul campo, per settimane e mesi, e lasciati nell’ordine in cui
sono stati stilati. Ne deriva una raccolta volutamente a briglia sciolta, che
salta da un argomento all’altro, serio o frivolo, istruttivo o narcisista, ludico
o aneddotico, senza logica apparente. Ma non è esattamente questo lo scopo
di tutti i diari? Riorganizzare il mio discorso, classificare queste note per
tema sarebbe magari stato meglio, senza dubbio più pedagogico, ma il libro
avrebbe perso il suo carattere spontaneo. Non era quello che volevo.
Naturalmente ho riletto i miei testi, talvolta li ho riscritti per sgrezzarli ed
eliminare qualche ripetizione, ma non li ho né trasformati né soprattutto
attualizzati tenendo conto di quel che so oggi e che non sapevo allora (per
esempio sulla vita politica, i risultati sportivi, le mode o le vicende di
cronaca). Inoltre, ho volontariamente conservato la loro successione
cronologica. I miei appunti sono stati veramente redatti in maniera
progressiva, a caldo, il giorno stesso dell’avvenimento di cui parlano, a
volte il giorno dopo, spesso in luoghi insoliti, o perlomeno diversi da un
ufficio o da una biblioteca: treno, metropolitana, bar, giardinetti, spiaggia,
camera d’albergo, riva di un lago o di un fiume, sala d’attesa di un medico
(luogo particolarmente ansiogeno), oppure museo, chiesa, stadio,
supermercato, se non semplicemente in mezzo alla strada, in piedi sul
marciapiede o seduto su una panchina. Fin da quando ero studente, non mi
muovo mai senza due o tre fogli di carta e una matita, non solo per
disegnare – cosa che faccio di continuo – ma anche per prendere appunti,
frutto delle mie osservazioni o delle mie riflessioni. Le persone del mio
entourage mi prendono spesso in giro: «Annoti ancora le tue idee
poetiche!» Non sono idee poetiche, ma è vero che mi piace sedermi nei
luoghi pubblici, prendermela comoda, guardare e disegnare ciò che mi
circonda, osservare come sono vestite le persone che passano, ascoltare
quello che dicono, fare collegamenti con quello che conosco delle società e
delle sensibilità del passato (impossibile sbarazzarmi completamente della
mia veste di storico). E poi, certamente, pensare, sognare, ricordare. Per
questo non mi annoio mai. Proprio in quanto specialista dei colori, trovo
sempre e dappertutto, nella vita quotidiana, in ogni momento e in ogni
circostanza, occasioni per osservare, confrontare, riflettere. Sono un
privilegiato: grazie ai colori, ignoro cosa sia la noia.

Rileggendo l’insieme dei miei testi, due cose mi hanno colpito: la prima,
l’abbondanza di aggettivi; la seconda, il carattere a volte brontolone della
mia prosa. Vorrei spiegarmi.
Mi sono sempre piaciuti gli aggettivi. Già al liceo, uno dei miei professori
di francese, che mi faceva spesso i complimenti per la chiarezza della mia
scrittura, aggiungeva comunque una riserva: «Pastoureau, non abusi degli
aggettivi, i lettori maligni potrebbero credere che servano a nascondere il
suo vuoto mentale». Da giovane, prestavo attenzione a questa critica e
cercavo di essere parco in aggettivi. Con l’età non più: mi lascio andare alla
predisposizione naturale della mia scrittura. Del resto, gli aggettivi
nascondono veramente il vuoto mentale? Non credo. Sono utili, hanno una
funzione descrittiva, aiutano a classificare esseri e cose, a differenziarli e a
identificarli; inoltre, come gli avverbi (di cui, devo confessarlo, abuso in
ugual misura), apportano sfumature e precisazioni e danno allo stile un
aspetto visivo, a volte pittorico. Del resto, come si può parlare di colori
senza utilizzare numerosi aggettivi? È impossibile.
Nel rileggermi, invece, rimango perplesso di fronte alle critiche frequenti
che rivolgo all’epoca attuale, alle novità inutili e sconfortanti,
all’ostentazione dei personaggi famosi e dei media, alla simbologia e alla
psicologia spicciola, alla mancanza di cultura generalizzata. Sul momento,
mentre redigevo questi testi, non me ne sono reso conto. Ma rileggendoli…
Con l’età, sono diventato amaro? brontolone? senile? seguace dell’‘era
meglio prima’? Effettivamente una volta ero giovane e magro, avevo tutti i
capelli, potevo chiudere la giacca, ero in buona salute, e a volte piacevo
addirittura alle donne. Oggi non è più così. Per quanto mi riguarda, è
evidente che ‘era meglio prima’, e visto che il mio libro è un diario – un
genere necessariamente narcisista (un diario che non lo sia non è un diario)
– questo traspare dalla mia penna. Chiedo venia al lettore. Ma devo
precisare che quando ho l’aria di canzonare o di prendere in giro le mode
dei nostri giorni, l’imbecille beatitudine di fronte a tutte le novità,
l’ossessione di apparire, il falso sapere e la psicologia da supermercato che
lo accompagna, tutto ciò è limitato a un unico ambito: il colore.
Mi sembra infatti che in questo campo, rispetto alla mia infanzia e alla
mia adolescenza, ci sia un’innegabile perdita di appetito, di conoscenza, di
creatività e di sogno. Come se troppi colori uccidessero il colore, per
utilizzare una formula facile. In effetti i bambini non imparano più a
mescolare due colori per ottenerne un terzo; i giovani artisti figurativi non
lavorano più i colori quando li estraggono dai barattoli o dai tubetti; e la
maggior parte degli adulti confonde continuamente ‘colori’ e ‘sfumature’.
Pubblicitari, informatici, designer, creatori di campionari e anche fisici, tutti
magnificano i milioni, addirittura le decine di milioni di colori ormai
accessibili o che ci circondano. Che cosa possono mai essere milioni di
colori? L’occhio non può distinguerli e il linguaggio non può dar loro un
nome. Affermazioni simili mi fanno arrabbiare. Come mi irritano gli errori
lessicali: una sfumatura non è un colore, ma una semplice colorazione più o
meno stabile, che deriva dalla declinazione di un colore di base. Che lo si
voglia o no, nelle società occidentali ci sono solo undici colori; sei di base:
bianco, rosso, nero, verde, giallo, blu; e cinque secondari: rosa, arancione,
viola, grigio e marrone. Al di là di questo non c’è altro, solo sfumature e
sfumature di sfumature, che non hanno né storia né simbologia proprie, e
variano continuamente a seconda dell’illuminazione, della tecnica, del
supporto, dell’occhio dello spettatore e dell’ora del giorno. Non sono colori,
vale a dire categorie mentali che esistono senza aver bisogno di essere
materializzate; sono solamente variazioni di colore.
Prima di essere luce o materia, prima di essere sensazione o percezione,
un colore è un’astrazione, un’idea, un concetto. È senz’altro per questa
ragione che, nelle prassi sociali come nella creazione artistica e nel mondo
della simbologia o dell’immaginario, il colore non esiste realmente e
acquista tutto il suo significato solamente quando è associato o
contrapposto a uno o più colori diversi. Qualunque sia il campo in cui sta
agendo, un colore tira l’altro.
giugno 2017
2012
Dal verde al giallo
Colore reale e colore designato
(gennaio 2012)

Che i miei cari mi perdonino: mi rendo conto che con l’età qualche volta
divento noioso a parlare solo di colori, o quanto meno a dedicare ai colori
gran parte della mia conversazione. C’è così tanto da dire su un argomento
come questo, che riguarda tutti nel quotidiano e che tocca ogni aspetto della
vita sociale. Come si fa a non prenderli sempre come punto di riferimento?
Nel corso di decenni, tra osmosi e conversioni, ho quindi costituito una
piccola rete di ‘simpatizzanti cromatici’ che, pur non essendo ossessionati
dai colori come me, sono comunque attenti a ciò che li riguarda, a quello
che possono leggere, capire o osservare, e dopo, in un modo o nell’altro, lo
condividono con me. Sono in un certo senso i miei ‘informatori’, come si
dice nella polizia, o meglio i miei segugi, come quando si caccia. Di certo
non sono numerosi e dimenticano spesso le loro ‘missioni colorate’, ma a
loro devo senz’altro un buon numero di considerazioni, di testimonianze o
di documenti importanti. Che siano ringraziati affettuosamente con un
bell’arcobaleno di gratitudine.
La mia amica Perrine, mia complice da più di mezzo secolo, mi ha
inviato stamani una fotografia fatta l’estate scorsa in Bretagna, dove in una
bella pineta, con il mare sullo sfondo, si vede un grande contenitore per i
rifiuti un po’ insolito che ci fa riflettere sul colore degli oggetti e il modo di
determinarne i nomi. Il contenitore è verde, di quel verde indefinibile che
da molti decenni veste le nostre spazzature, ma davanti, a lettere
gigantesche, c’è una scritta che dice: ‘CONTENITORE GIALLO’. In
questo caso la differenza fra il colore reale e il nome del colore è clamorosa
e divertente. Perché una differenza simile, esibita in un modo così rozzo e
ingenuo?
Probabilmente perché le parole che indicano i colori non sono altro che
etichette, non hanno come funzione principale il descrivere, ma il
classificare. Almeno per come la società percepisce i colori. Dire che il
contenitore verde è verde sarebbe pleonastico e non servirebbe a niente: lo
possono vedere tutti. Dire invece che è giallo dà un’informazione molto più
utile: ovvero che appartiene alla categoria dei recipienti municipali gialli,
cioè quelli che possono contenere solo certi rifiuti (di solito rifiuti
riciclabili) e non altri. Ora, ciò che gli conferisce quest’identità non è il
colore del materiale, una plastica dura e spessa, ma quel che c’è scritto
sopra: il contenitore è verde ma deve essere considerato come giallo. La
parola vince sempre sul colore. Un esempio semplice ce lo dà il vino: noi
tutti diciamo, quotidianamente e da tempi molto antichi, ‘vino bianco’ per
indicare un liquido che non ha proprio nulla di bianco; è giallo, verdastro,
paglierino, più o meno dorato o ambrato, ma di certo non bianco. E
nonostante tutto non ci disturba per niente chiamarlo bianco. Dare un nome
ai colori delle cose non è tanto descriverle, quanto classificarle, ordinarle,
metterle in relazione con altre o contrapporle, talvolta tradurre le sensazioni
che ci suscitano e i significati che le accompagnano. Le parole sono sempre
più forti dei colori.
Potremmo moltiplicare gli esempi, anche in quei settori nei quali non ci
aspetteremmo di trovarne, come nella realizzazione artistica. Posso citare
qui la testimonianza esemplare di un responsabile del reparto pitture del più
grande negozio parigino di prodotti per pittori, la Maison Sennelier, che ha
sede da più di un secolo sulle rive della Senna, davanti al Louvre. Il
commesso propone al cliente che desidera acquistare tubetti di tempera,
pigmenti in polvere o pastelli, un campionario senza nome, codice o
numero di riferimento, che dispone solo di placchette di colori diversi.
Quando il cliente ha fatto la sua scelta e ha indicato sul campionario il
colore che vuole comprare, il commesso gli dà un nome e, a titolo
comparativo, dice anche come si chiamano i colori accanto, che nel
campionario sono o più a sinistra o più a destra. Ora, quando il cliente – che
è un pittore! – ha sentito il nome del colore che ha scelto e quello dei colori
vicini, quasi sempre modifica la sua scelta e dice una frase come: «Allora
piuttosto prenderei quel colore lì» mettendo il dito su un’altra placchetta. Il
nome detto dal commesso ha un potere decisionale ben più forte del colore
riprodotto. Anche per un pittore, i colori sono lessico, prima di essere
tavolozza.
La prima qualità di un colore è quindi il suo nome. Più della sua
sfumatura, più delle sue caratteristiche ottiche, fisiche o chimiche, è il nome
che determina e crea i nostri gusti e le nostre scelte, i nostri usi e i nostri
codici, i nostri simboli e i nostri sogni.
Civiltà nel paese dei Grigioni
(febbraio 2012)

Restiamo sui contenitori per la spazzatura, è una compagnia istruttiva, ma


lasciamo la Bretagna per la Svizzera. Oggi mi trovo a Coira, vivace capitale
del Cantone dei Grigioni, e aspetto il postale che deve portarmi a Zillis per
visitare la chiesetta parrocchiale e il suo famoso soffitto affrescato all’inizio
del XII secolo. L’avevo già visto e studiato una ventina d’anni fa, ma
siccome si tratta di uno dei monumenti più importanti e spettacolari della
pittura romanica, vorrei rivederlo. In Svizzera, grazie ai postali,
riconoscibili per il famoso colore giallo – quel giallo della posta, che
cominciò con la famiglia Thurn und Taxis – si possono raggiungere i paesi
di montagna più remoti e si può contare su orari sicuri. Probabilmente un
caso unico al mondo. Paese felice, invidiato da tutti gli altri!
Zillis si trova a circa mille metri d’altitudine, non lontano dalle sorgenti
del Reno, ma per andarci bisogna prendere la temibile ‘via mala’, un passo
stretto e tortuoso, che costeggia e sovrasta l’ansa del fiume, che in questo
punto conserva la sua natura di torrente selvaggio. Eccomi quindi ad
aspettare il bus, seduto su una panchina sotto un tiglio centenario, ancora
col suo vestito invernale. Mi piacciono i tigli, i miei alberi preferiti, le cui
foglie a primavera hanno la forma di un cuore; era anche l’albero preferito
dei Romani e dei Germani e lo è restato durante tutto il Medioevo. Davanti
a me ci sono la piazza della stazione e alla mia destra, tutti ben allineati,
nove contenitori per la spazzatura di diversi colori, ognuno destinato a un
certo tipo di rifiuti. L’insieme forma una bellissima tavolozza. Qui, come in
altri Paesi, la prima funzione del colore è di classificare, distinguere,
organizzare. Detto questo, nove cassonetti per i rifiuti, non uno di meno…
Non c’è nessuno in piazza, in questo primo pomeriggio freddino, tranne
un uomo apparentemente molto vecchio, vestito con un cappotto troppo
grande per lui e con in mano il resto di un ombrello strappato e sventrato.
Cammina lungo la fila dei cassonetti, sembra esitare, torna indietro, ritorna
sui suoi passi, esita ancora. Dove si butta un vecchio ombrello? Dove
abbandonare una simile reliquia che è tutto un insieme di metallo, plastica,
stoffa e sicuramente di altri materiali assurdi, sconosciuti ai comuni
mortali? La scritta bilingue (tedesco e romancio) su ogni cassonetto è
minacciosa, messa in risalto dal gioco di colori per evitare ogni equivoco, o
multa (ma chi commette infrazioni in Svizzera?): giallo per la plastica e gli
imballaggi; verde per le bottiglie e il vetro; grigio per i metalli, le lattine e i
rottami; marrone per i rifiuti vegetali e organici; arancione per i tessuti, gli
stracci e il cuoio; blu per la carta, il cartone e i vecchi giornali; nero per le
macerie; rosso per gli oggetti pericolosi e i prodotti tossici; e bianco per i
normali rifiuti domestici. Il caso di oggetti compositi non sembra essere
stato contemplato, oppure bisogna smontarli e separarne i diversi elementi.
È impossibile dedicarsi a una simile operazione nella piazza della stazione.
Cosa fare? Un ombrello è un oggetto indiscutibilmente composito.
Il vecchio sembrava disorientato. Ripassa davanti alla fila educatamente
policroma dei cassonetti, studia attentamente le istruzioni scritte sopra. Per
un momento sembra sul punto di gettare le spoglie dell’ombrello nel
contenitore grigio, quello dei metalli. Ma si ferma subito, esamina
un’ultima volta i resti del povero arnese fuori uso, poi rinuncia al
contenitore grigio. Da qui riparte una nuova camminata da un colore
all’altro, avanti e indietro. Senza alcun successo. Ci vorrebbe un cassonetto
arcobaleno per gli oggetti compositi! Alla fine il vecchio si arrende e se ne
va dalla piazza della stazione, vinto, ma civile. Non ha fatto il gesto che
ogni cittadino francese avrebbe fatto in un caso simile: buttare
rabbiosamente l’ombrello in un cassonetto qualsiasi maledicendo
l’inventore della raccolta differenziata e fregandosene delle esigenze
comunali. No, l’uomo dei Grigioni ha mantenuto la sua dignità ed è
rientrato a casa, con il suo ombrello defunto in mano.
In Svizzera si rispettano spazzatura e colori.

Il verde di Babar
(febbraio 2012)

Ritrovare un libro che abbiamo amato da bambini procura sempre un


piacere particolare. È quello che mi è successo poco tempo fa rimettendo
mano ai libri illustrati della mia infanzia: le avventure di Babar, raccontate e
disegnate da Jean e Laurent de Brunhoff. A dire la verità, non ci sono
capitato per caso, ma li ho cercati a lungo nel seminterrato dell’Institut de
France dove erano stoccati in vari cartoni che non aprivo dal mio ultimo
trasloco, circa vent’anni fa. Ritrovare Babar al primo colpo, nello scantinato
dell’Institut de France, è stato un colpo da maestro! Il motivo di
quest’insolita ricerca era la stesura di un articolo destinato al catalogo di
una mostra dedicata al simpatico elefante, mostra che si è inaugurata
recentemente a Parigi, al Museo delle Arti Decorative. I miei sforzi nel
seminterrato sono stati coronati da successo, e in questi libri, malandati, ma
riconquistati con gioia, ho trovato l’ispirazione necessaria per scrivere il
testo promesso: ‘Il verde di Babar’.
La mia relazione con Babar è iniziata molto presto. A cinque anni
possedevo già i suoi primi libri e provavo una particolare tenerezza per
quest’eroe diverso da tutti gli altri: era grasso, grigio, tranquillo, bonario,
poco chiacchierone e soprattutto vestito di verde. Questo lo rendeva diverso
da tutti i personaggi animali dei libri per bambini, in particolare quelli che
appartenevano al mondo di Walt Disney, volubili e scomposti. Babar non
aveva nulla d’americano! Probabilmente ecco perché nella mia famiglia,
dove generalmente tutto quello che proveniva dagli Stati Uniti era
considerato volgare o rimbecilliva, abbiamo avuto subito il culto di Babar.
All’inizio degli anni Cinquanta non era così scontato. Nessuno dei miei
conoscenti, a parte mia cugina Catherine, leggeva le storie di Babar. I
bambini del ceto medio avevano altri eroi, a cominciare da Topolino. Ma le
avventure di questo topo dalle grandi orecchie, poliziotto ausiliario sempre
vincente su tutti i suoi nemici, non mi seducevano per niente; alla fine,
preferivo Paperino, scontroso, arrabbiato, nervoso, perdente ma ‘meno
stupidamente americano’, per citare una famosa frase di Vladimir Nabokov.
Di Babar mi piacevano in particolar modo due cose: prima di tutto era un
elefante; e poi era vestito di verde. Il mio bestiario preferito era composto
perciò da quattro animali: un orso, un maiale, un ippopotamo e un elefante,
quattro figure dalle forme rotonde. Avevo una preferenza per gli animali
grassi ed ero un po’ dispiaciuto che nelle avventure di Babar i rinoceronti
fossero nemici degli elefanti: anche loro erano animali che mi piacevano
tanto. In ogni caso quello che mi faceva veramente felice nei libri di
Brunhoff erano i colori: schietti, vivi, piatti e racchiusi da linee di contorno
disegnate in modo netto e chiaro. Fra i colori, quelli degli abiti del re degli
elefanti vincevano su tutti gli altri: Babar era vestito quasi sempre con un
completo verde, una camicia bianca e un papillon rosso. Solamente durante
le cerimonie ufficiali era vestito in modo diverso.
Il verde del completo, che io non mi ricordavo più e che ho ritrovato con
un piacere vagamente proustiano, non è un verde qualsiasi. È un verde
tenero e gentile, una sorta di ‘verde primavera’, una tinta unita perfetta che
non vira né al giallo, né al blu. Distingue il nostro eroe da tutti gli altri
personaggi – solo lui è vestito di verde – e ciò aiuta a rendere decisamente
più allegre le sue avventure. Questo colore ‘babarantesco’ mi ha sempre
affascinato e senza dubbio ha contribuito, fin dalla mia infanzia, a fare del
verde il mio colore preferito. Più tardi, divenuto storico dei colori, ho
trovato spesso, in alcuni testi popolari della fine del Medioevo, la graziosa
espressione ‘verde allegro’ (il contrario di ‘verde perduto’, un verde triste e
slavato). A volte mi sono chiesto se la traduzione più precisa di
quest’espressione incerta e controversa non potesse essere semplicemente
‘verde Babar’.
Una delle caratteristiche particolari dei libri di Babar, rispetto alla
maggior parte dei libri per bambini degli anni Cinquanta, mi pare essere la
completa assenza di volgarità, cioè di ogni concessione ai gusti e ai modi
troppo semplici di quegli anni. Specialmente per la scelta dei colori. Nei
libri di Jean e Laurent de Brunhoff hanno un ruolo fortemente deittico.
Sono elementi ricorrenti da una storia all’altra. Tutti gli elefanti sono grigi
ma ognuno ha un vestito di colore diverso: abito rosso per Celeste; giacca
nera e pantaloni rossi per Cornelio; completo alla marinara rosso e bianco
per Arturo; abito blu o rosa per Pom, Flora e Alexander; e, chiaramente,
completo verde, camicia bianca e corona gialla per Babar. Alla gamma di
colori del guardaroba degli elefanti, bisogna aggiungere l’immancabile
camicia gialla della scimmia Zefiro e l’abito nero della Vecchia Signora.
Fra i personaggi principali, solo lo scultore Podular – un nome che mi è
sempre piaciuto: avrei tanto voluto chiamarmi ‘Podular’ – e il giardiniere
Poutifour cambiano vestito a seconda di quello che stanno facendo.
Purtroppo questa simpatica tavolozza di colori è durata poco. Nei libri più
recenti, quelli pubblicati negli anni Sessanta, così come nei cartoni animati
realizzati in un secondo momento per la televisione, si vedono tanti piccoli
cambiamenti e, quel che mi dispiace, dei colori nuovi: Arthur ha in
dotazione un completo blu; Zefiro ha una camicia rossa; Celeste indossa
vestiti di tutti i colori; la Vecchia Signora ha abbandonato il suo abito nero
in favore di un’orribile tenuta viola; e soprattutto Babar, il re degli elefanti,
è ormai molto meno fedele di prima al suo celebre e magnifico completo
verde.
Qui come altrove, come spesso accade, il cambiamento ha ucciso il
sogno.
Divorare Marilyn
(marzo 2012)

Viaggio a Lubecca, graziosa città della Germania settentrionale i cui


monumenti e musei testimoniano il ricco passato medievale. Fu, in altri
tempi, capitale della Lega Anseatica; oggi è quella del Marzipan, versione
tedesca del marzapane. È un dolce succulento a base di pasta di mandorle,
la mia leccornia preferita. Nel centro storico, molti negozi, frequentatissimi,
vendono solo Marzipan. Mi fermo nel più grande, la celebre pasticceria
Niederegger, inaugurata nel 1806, e le dedico quasi lo stesso tempo che ho
dedicato al principale museo della città, il Museumsquartier St. Annen.
Cosa comprare? Mi attira tutto. Sono circondato da figure di Marzipan di
tutte le forme, di tutte le grandezze, di tutti i colori: animali, frutta e
verdura, oggetti di tutti i giorni, personaggi storici e mitologici, scene di
vita quotidiana. Esito tra un orso e un maiale, i miei due animali preferiti.
Poi vedo un tacchino enorme, pollame ridicolo, ma in questo caso molto
appetitoso, con le sue piume scure e il suo gozzo rosso. Sto per optare per il
tacchino quando mi accorgo di una Marilyn Monroe, nascosta da una
stupenda Porsche verde. È in costume da bagno, in posa da pin-up, come in
un calendario degli anni Cinquanta, e disponibile in tre formati e due colori:
rosso o giallo. Al diavolo il tacchino e il suo gozzo mostruoso, mi regalo
una Marilyn in costume rosso e scelgo la misura media, una quindicina di
centimetri. È cara, ma è Marilyn: seno generoso, fianchi nobili, viso
abbastanza ben fatto. Pago, esco e, non appena fuori, divoro questa
leccornia davvero speciale. Pudico, comincio dai piedi, sperando che
nessuno mi veda quando passerò alle ‘zone a rischio’. È squisita, siamo
d’accordo, ma sono un po’ deluso. Ho divorato Marilyn troppo in fretta?
Avrei apprezzato di più il costume giallo invece del costume rosso, il gusto
di limone invece del lampone? Ho sempre pensato che il giallo non stesse
bene alle bionde…
Sazio e appiccicoso, vengo assalito da un senso di colpa passeggero: alla
mia età e con la mia stazza, mangiare per strada, davanti a tutti, una
celebrità tentatrice in Marzipan! Non dovrei vergognarmi? E invece no, non
mi vergogno! E lo rifarei. Oltretutto provo anche invidia per Marilyn e mi
dico che essere immortalati in Marzipan è meglio che vedersi consegnare il
Nobel, meglio ancora che far parte del Pantheon per l’eternità. Anch’io
vorrei un destino simile, possibilmente da vivo: un Michel Pastoureau in
costume da bagno a strisce bianche e blu, scolpito in una pasta di mandorle
di alta qualità, muscoloso e appetitoso dappertutto, disponibile in tutte le
pasticcerie di Francia e d’Europa in tre formati e in quattro colori: blu,
rosso, giallo e verde (in ogni caso non viola, colore che odio). Essere
‘marzapanizzato’ è un po’ come essere proclamato santo, quasi divinizzato.

Un giorno allo stadio


(marzo 2012)

Era tanto tempo che non mi sedevo sulle tribune di un grande stadio per
assistere a una partita di rugby, credo mezzo secolo, forse anche di più. Non
avrei mai immaginato di tornarci. Alla mia età e nelle mie condizioni…
Eppure questo pomeriggio, invitato da un amico grande tifoso di questo
sport, sono andato allo Stade de France, a Saint-Denis, per assistere a una
partita del torneo delle Sei Nazioni: Francia-Irlanda. Perché io abbia
accettato, lo ignoro. Pigrizia da parte mia, senza dubbio, io che non so mai
dire ‘no’ ma solo ‘forse’, che poi è sempre percepito come ‘sì’? O forse la
voglia di rivivere le forti emozioni della mia adolescenza, quando di tanto
in tanto frequentavo gli stadi di rugby con mio zio Henri? Non saprei. Fatto
sta che mi sono ritrovato nell’immenso Stade de France, per me fin troppo
moderno, e che mi ci sono sentito frustrato, o quanto meno deluso; niente
era più come prima, né in campo, né sulle tribune. Era tutto finto e fuori
misura, nessuna somiglianza con l’atmosfera da bravi ragazzi che avevo
vissuto all’inizio degli anni Sessanta, quando i giocatori erano dilettanti; gli
spettatori venivano dalla campagna; il protocollo ridotto alla sua
espressione più semplice e il risultato della partita senza importanza.
Adesso, più folclore prima della partita, in campo troppi galli nel pollaio,
nessuna allegria sulle tribune e il silenzio assoluto delle cornamuse
irlandesi. Ecco come il professionismo ha trasformato uno sport che un
tempo era bello. Ma lo sport da professionisti si può ancora chiamare sport?
Ne dubito.
Nonostante la mia delusione ho seguito la partita con interesse. Una
partita giocata con accanimento e finita con un pareggio: 17 a 17. Un
punteggio rarissimo, che mi ha fatto felice perché questo numero mi piace
molto, è il giorno in cui sono nato. Ma quello che mi ha consolato davvero
non è stato il risultato della partita, né le azioni di gioco, men che mai la
rimonta complicata della squadra francese rimasta a lungo indietro di 11
punti, ma il contrasto dei colori in campo: i francesi giocavano con la
maglia blu scuro, pantaloncini neri e calzettoni blu; gli irlandesi con la
maglia verde – un bel verde abbastanza chiaro – calzoncini bianchi e
calzettoni dello stesso verde. Con la divisa bianca e rossa dell’arbitro, la
sinfonia di colori era quasi perfetta. Mancava solo il giallo. La mia
preferenza, ovviamente, andava agli irlandesi, vestiti col mio colore
preferito. Ma per una volta devo ammettere che il blu della maglia francese
non era così orribile come spesso succede (e in ogni sport). Era piuttosto
elegante: blu Savoia all’altezza delle spalle, che assumeva discretamente
toni sempre più scuri man mano che scendeva. Può darsi che i fornitori che
si occupano delle divise stiano facendo degli sforzi? Che abbiano letto
finalmente le pagine istruttive che Michel Pastoureau ha consacrato alla
storia del blu sui campi sportivi?

Il verde dell’Irlanda
(marzo 2012)

Rimaniamo alla partita di ieri e parliamo un po’ di storia dei colori e dei
simboli dell’Irlanda, un Paese che ha tutta la mia simpatia. Chi, come me,
ama la pioggia, il vento, il mare e il colore verde non può non amare
l’Irlanda.
Sui campi da rugby, il verde è stato per molto tempo meno presente del
rosso, del blu o del bianco. Eppure, l’Irlanda lo ha fatto diventare subito il
colore simbolo della sua maglia. Dal 1875, quando le regole del rugby
moderno non erano ancora state stabilite, gli irlandesi, durante le loro prime
due partite contro gli inglesi (perdono 4 a 0, poi 8 a 0), giocano con la
maglia e i calzettoni a righe bianche e verdi. In quel periodo le righe erano
molto in voga sui campi sportivi e quasi sempre abbinavano il bianco a un
altro colore. In seguito, negli anni 1890-1900, la maglia irlandese diventa
verde tinta unita abbinato ai calzoncini bianchi. Ancora oggi è la divisa
ufficiale. L’Irlanda, più di ogni altra squadra, è rimasta fedele al suo colore
originario, e anche a una sua particolare sfumatura. Il tono del suo verde
non si ritrova di sicuro in un classico campionario di colori, ma una
tradizione vuole che sia relativamente chiaro – più chiaro di quello
dell’Australia o del Sudafrica, per esempio – forse per evocare i verdi
pascoli fecondi dell’isola cari al grandissimo poeta e drammaturgo John M.
Synge (autore di un’opera teatrale che mi piace particolarmente: The
Playboy of the Western World / Le Baladin du monde occidental, 1907).
A essere sinceri, i verdi pascoli non sono stati decisivi nell’adozione di
questo colore simbolico. Voler vedere il verde nazionale dell’Irlanda come
un’allusione all’erba che in questo Paese è dappertutto non è inverosimile,
ma è un po’ forzato: non è così che nascono gli emblemi e i simboli di una
nazione. D’altronde, la testimonianza più antica del verde irlandese non
riguarda tutta l’Irlanda, ma solo la contea di Leinster, a est dell’isola. Un
documento della fine del XIII secolo le attribuisce uno stemma con la croce
bianca in campo verde. L’isola stessa, conquistata dai re Plantageneti alla
fine del secolo precedente, dipende dalla Corona inglese, dove compare già
allora come stemma uno scudo rosso a tre leopardi d’oro.
Durante le prime lotte per l’indipendenza, nel XVII e XVIII secolo, il
verde è diventato a poco a poco il colore dei movimenti nazionalisti
irlandesi. Cattolico e insurrezionale, questo verde si oppone quindi
violentemente al rosso dei soldati britannici. Le lotte sono sanguinose e,
com’è noto, continueranno fino al XX secolo. Non appena raggiunta
l’indipendenza (1921) e approvata poi definitivamente la bandiera
nazionale irlandese (1937), il verde si trova ovviamente al suo posto; ma
deve spartirsi la stoffa con l’arancione dei protestanti (contrariamente a quel
che si crede, in effetti, esiste una forte comunità protestante nell’Irlanda
cattolica, soprattutto a Dublino), dal quale lo divide il colore della pace: il
bianco.
La nazionale irlandese di rugby non rappresenta soltanto l’Eire, la parte
indipendente dell’isola. Fra i suoi ranghi conta anche giocatori venuti
dall’Ulster, cioè dell’Irlanda del Nord, rimasta fedele alla Corona britannica
e quindi parte integrante del Regno Unito. Questa situazione insolita – ma
esemplare sul piano sportivo – pone certamente qualche problema
protocollare nell’utilizzo degli emblemi. I giocatori venuti dal Nord sono
fieri di portare la maglia verde, simbolo che precede la ripartizione
dell’isola, ma non accettano l’inno della Repubblica d’Irlanda, l’Amhrán na
bhFiann, e vorrebbero sentire il God Save the Queen, cosa davvero
impensabile a Dublino come nel resto dell’Eire. Ecco perché, nel 1995, fu
composto e adottato un inno speciale per la squadra di quest’Irlanda
rugbisticamente unificata, l’Ireland’s Call. In modo analogo, per quanto
riguarda le bandiere, non sono né il tricolore irlandese (bianco-verde-
arancione) né l’Union Jack britannica a rappresentarla, ma una bandiera
specifica, divisa in quattro quarti, che riunisce gli stemmi delle quattro
province dell’isola: Ulster, Leinster, Munster e Connacht. Quattro stemmi
diversi per dar vita a una bandiera in comune accordo, ma un unico colore
nazionale per la maglia: il verde, colpito in pieno petto da un trifoglio dello
stesso colore, una sorta di logo insulare che fa eco all’antico ‘Torneo delle
Cinque Nazioni’ con il cardo scozzese, il porro gallese, la rosa inglese e il
gallo francese.

Un trifoglio sul cuore


(marzo 2012)

Nonostante sia spesso chiamato col suo nome gaelico (shamrock), il


trifoglio irlandese non è un simbolo molto antico. Nel Medioevo è l’arpa il
simbolo dell’Irlanda ed è presente negli stemmi. Il trifoglio appare solo alla
fine del XVIII secolo, sulle uniformi dei militari di alcuni reggimenti
irlandesi che combattono per il Regno Unito. Sostituisce quindi una croce
dai rami trilobati che gli assomiglia nel disegno. Un secolo dopo, il trifoglio
diventa, insieme al colore verde, il simbolo preferito dai movimenti
indipendentisti, poi, una volta raggiunta l’indipendenza, diventa l’emblema
ufficiale dell’Eire. Tutti gli sportivi irlandesi, prendendo esempio dai
rugbisti, lo portano sul petto. Ma non ne hanno il monopolio: molte altre
istituzioni e società irlandesi hanno scelto il trifoglio come simbolo, come
la famosa compagnia aerea Aer Lingus. Una leggenda abbastanza recente
associa il trifoglio al grande San Patrizio, patrono dell’Irlanda. Venuto dal
Nord dell’Inghilterra nel VI secolo per evangelizzare l’isola, avrebbe avuto
molte difficoltà a spiegare agli autoctoni pagani il dogma cristiano della
Trinità. È per questo che si è avvalso dell’immagine del trifoglio – un solo
gambo ma tre foglioline – per far comprendere il dogma di un Dio trino.
Voglio precisare che un trifoglio non ha bisogno di avere quattro lobi per
portare fortuna. È l’essere raro (circa uno su diecimila) che ha attribuito
questo ruolo al trifoglio a ‘quattro foglie’. Ma già nell’Antichità, soprattutto
ai tempi dei Romani, questa pianta, qualsiasi fosse il numero delle sue
foglie, era famosa per portare fortuna e proteggere dai pericoli. Per tutti gli
altri, in tutta Europa, il tre era ed è ancora un numero molto più positivo del
quattro. Quindi è un grazioso trifoglio verde ‘a tre foglie’ che i rugbisti
irlandesi portano sul loro cuore. Auguriamo loro che continui a portare
fortuna.

Chi è il cittadino L’Arancione?


(aprile 2012)

Mio padre Henri Pastoureau è morto nel 1996 e non ho ancora finito di
sistemare i suoi libri, i documenti, le carte. È un archivio importante di cui
una buona parte riguarda la sua attività ‘surrealista’ tra il 1932 e il 1951,
periodo in cui fu grande amico di Breton, d’Aragon, d’éluard, di Dalí, di
Max Ernst e di tanti altri poeti e artisti. Tranne gli anni della guerra, che
passa prigioniero a Berlino, in questo periodo partecipa a tutte le attività del
gruppo surrealista di Parigi. Contrariamente a molti altri, lui litigò piuttosto
tardi con André Breton, nel 1951, per motivi essenzialmente ideologici. Il
documento che ho appena ritrovato oggi nelle carte di mio padre – un
grande volantino rosa –riguarda proprio questa separazione, rimasta nella
storia del surrealismo come ‘l’affare Pastoureau-Carrouges’. Il testo,
piuttosto irriguardoso, riassume gli avvenimenti di febbraio, marzo e aprile
del 1951 e ha come titolo, a grandi lettere, la strana formula scritta come
fosse un motto: ALL’OMBRA DI LEONE DIFFAMATO E
INCORONATO, LATORE DI UNA VALIGIA D’ARGENTO. Chiude poi
con un’altra formula, ancora più enigmatica: LASCIATE PASSARE IL
CITTADINO L’ARANCIONE AL SERVIZIO DELLA REPUBBLICA.
Proviamo a far luce su cosa possa significare. All’inizio del 1951, dopo
qualche mese, una parte del seguito di Breton gli contesta un certo
‘appannamento ideologico’ e una ‘deriva esoterizzante’. Alcuni gli
contestano anche la frequentazione di numerosi intellettuali cattolici e di
essere influenzato dal filosofo cristiano Michel Carrouges, introducendo
così in seno al movimento surrealista ‘idee mistiche’ e ‘soggetti
controrivoluzionari’ noti per essere ‘gli strilloni di Dio’.
Nonostante la lunga e solida amicizia con Breton, mio padre Henri
Pastoureau si mette a capo dei ribelli. Calunnie, volantini, intimazioni,
citazioni, querele, assemblee generali, dibattiti infiniti, processi ed esoneri
sono all’ordine del giorno. L’affare Pastoureau-Carrouges dura più di tre
mesi e si conclude, nella primavera del 1951, con la scissione del gruppo
surrealista. Gli ultimi vecchi seguaci di Breton (quelli di prima della guerra)
abbandonano la nave; ormai una nuova generazione attornia il papa che sta
invecchiando. Solo Benjamin Péret rimane un fedele servitore… In seguito,
tutti i numerosi tentativi di riconciliazione falliranno.
Il grande foglio rosa che ho sotto gli occhi è il volantino più importante
pubblicato dai ribelli durante l’affare. È stato scritto da mio padre e dai suoi
amici Adolphe Acker e Marcel Jean. Il titolo allude a Breton, vecchio leone
che è ormai solo l’ombra di se stesso, diffamato per le sue derive esoteriche
e ‘incoronato’ dai suoi nuovi amici papisti. La valigia d’argento che porta
evoca forse la presenza nella sua nuova cerchia di qualche ricco discepolo.
Ma chi è il misterioso ‘cittadino L’Arancione’ che bisogna lasciar passare
‘per rendere servizio alla Repubblica’? Lo ignoro e, nonostante tutti i miei
sforzi per saperlo, resto con un pugno di mosche in mano. Si tratta del
soprannome di un membro del gruppo? È forse un’allusione letteraria? Di
sarcasmo anti-Breton, la cui avversione per l’arancione allora era nota a
tutti? Chi è in grado di rispondere? Questo antroponimo cromatico è
particolarmente intrigante.

Un’elezione senza copricapo


(aprile 2012)

Scena grottesca stamani nei seggi elettorali del sesto arrondissement di


Parigi dove sono andato di buon’ora. Era il primo turno delle elezioni
presidenziali e c’era già molta gente. Nonostante la posta in gioco
l’atmosfera era conviviale e il luogo piacevole: una scuola elementare con
gli alberi, in una via tranquilla a due passi dalla Senna, smagliante con la
sua pittura fresca gialla, bianca e verde. Mi sono detto che i bambini di
questo quartiere privilegiato erano davvero fortunati a passare le loro
giornate in un posto così. Do molta importanza ai colori delle scuole: alcune
incitano ad applicarsi davvero; altre no. Fosse per me, metterei del rosso in
tutte le scuole materne, del giallo nelle scuole elementari, del verde nelle
scuole medie e del blu nei licei. Ma nessuno chiede il mio parere. Di sicuro
è meglio così.
È lunga la fila per mettere la propria scheda nell’urna, un voluminoso
cubo in plexiglas la cui trasparenza futurista e minacciosa sembra davvero
fuori luogo in questo contesto rassicurante. Prima di me ci sono ancora
quattro persone quando succede quel che succede. Nel momento stesso in
cui un uomo di mezz’età sta per depositare la sua busta, il presidente del
seggio fa tremare tutti con un tonante «Signore, ci si toglie il cappello
davanti all’urna della Repubblica!» Stupito, il quasi votante non capisce e
vuole portare a termine il suo gesto elettorale. Ancora un grido: «Signore, si
tolga il cappello!» Effettivamente, il pover’uomo ha in testa un vecchio
cappello sformato più o meno verdognolo, forse un vecchio Borsalino, e un
impermeabile triste di un beigiolino che lo fa assomigliare a una spia
sovietica degli anni Cinquanta. L’elettore colpevole è agghiacciato, non sa
più cosa fare. Le persone hanno stati d’animo diversi. Sono un po’
preoccupato perché, per proteggere la mia calvizie dal freddo e dalle forze
del male, porto un berretto grigio scuro. Per fortuna tocca a me fra un bel
po’: la fila si è bloccata. Un assessore, probabilmente di un partito diverso
da quello del presidente, fa notare che non esiste un codice elettorale che
obblighi a scoprirsi il capo davanti all’urna.
Inizia una discussione abbastanza accesa. Alla fine, il presidente del
seggio, in minoranza, dichiara di rinunciare al suo incarico. Una
sconosciuta, con una gonna bianca e una giacca rossa, uscita da non si sa
dove, prende il suo posto. Dopo qualche chiacchiera, il rito civico riprende
ma il buonumore è scomparso. Molti elettori scontenti se ne vanno senza
aver votato, mormorando commenti non proprio amichevoli nei confronti
della Francia e della sua Repubblica, seguace del capo scoperto. In un
angolo della sala, noto una bandiera tricolore sporca e consunta, appoggiata
al muro, in procinto di cadere. La persona incaricata di esporla l’ha
dimenticata. Un atto simbolico.

Daltonismo
(maggio 2012)
L’avanzare dell’età, insieme a un’inevitabile stanchezza, fa sì che non mi
piacciano più i convegni. Ce ne sono troppi (la famosa ‘convegnite’
universitaria), durano troppo e non s’impara più granché. I ricercatori
invecchiano parlando senza dire nulla o ripetendo quel che hanno già detto
comunque. I più giovani, a volte intimiditi, leggono velocemente un foglio
dove le idee più interessanti annegano in un fiume di esempi e di dettagli.
Nessun oratore rispetta più il proprio tempo di parola e lo spazio destinato
alla discussione è ridotto all’essenziale, se non puramente e semplicemente
eliminato. L’assurdità arriva al punto che ormai si chiede ai partecipanti di
fornire ancor prima dell’incontro il testo che sarà pubblicato in seguito negli
atti del convegno. Quindi, a cosa serve tenere un convegno, tanto vale
pubblicare direttamente un’opera collettiva sullo stesso soggetto; si
risparmierebbe tempo e denaro.
In questo quadro un po’ nero (ma lucido) di un rituale diventato ormai
sconfortante si trovano tuttavia delle eccezioni: a mio avviso sono i
convegni che trattano un argomento che io conosco male o per niente,
nemmeno la gentilezza mi costringe a essere presente a tutte le sessioni. È
stato il caso di oggi all’Accademia Nazionale di Medicina, un luogo
prestigioso che mi è estraneo, dove non conosco quasi nessuno, ma dove,
venuto ad assistere, ho passato una mattinata particolarmente istruttiva. Il
tema era il daltonismo, argomento in cui le mie conoscenze non superano
quelle della gente comune, il che è sorprendente per uno storico dei colori.
In tre ore e sei dissertazioni – i dottori e gli oftalmologi sono meno prolissi
degli specializzati in discipline umanistiche – le ho potute arricchire. Non
posso riassumere qui tutto quello che ho imparato, ma desidero riportare
qualche commento fondamentale ed esternare anche le mie perplessità. È
consuetudine definire daltonismo il disturbo della vista che impedisce di
distinguere tutti i colori l’uno dall’altro (acromatopsia) o più esattamente
solo certi colori, come il rosso e il verde, ovvero riconoscere solo certi rossi
e certi verdi (dicromatopsia o daltonismo vero e proprio). È stato il fisico e
chimico John Dalton (1766-1844), uno dei più grandi scienziati di tutti i
tempi e uno degli inventori della moderna teoria atomica, che per primo ha
messo in evidenza e studiato questo disturbo della vista di cui anch’egli
soffriva. Oggi, si concorda sul fatto che colpisca direttamente o
indirettamente il 2% degli uomini (molto meno le donne). Di norma è
congenito o ereditario, molto raramente è acquisito. Allo stato attuale delle
nostre conoscenze, avrebbe origine da una incompleta differenziazione tra i
coni e i bastoncelli della retina, o meglio dalla loro cattiva connessione con
alcune fibre del nervo ottico (va ricordato che i coni reagiscono alle
vibrazioni più lunghe – rosse, arancioni – e i bastoncelli alle vibrazioni più
corte – verdi, blu). Il daltonismo non è una malattia ma una ‘anomalia’ che,
malgrado non sia grave, non permette d’esercitare certe professioni, in
special modo quelle dove si utilizzano spesso segnali colorati (Aviazione,
Marina, Ferrovie eccetera).
Riguardo al daltonismo, lo storico – sempre diffidente – s’interroga su
una questione: che cosa sono realmente le ‘anomalie nella percezione dei
colori’, espressione che ho sentito spesso tutta la mattinata? ‘Nella visione
dei colori’ mi sarebbe sembrato più pertinente. La percezione è un
fenomeno complesso, in parte neurobiologico, e in parte culturale; varia a
seconda delle epoche e delle società e difficilmente può sottostare a leggi o
regole universali. Inoltre, è difficile definire questo o quel ‘colore’ senza
affidarsi alla parola: il nome è parte integrante del colore, almeno per le
discipline umanistiche. Un colore che non ha un nome è pur sempre un
colore? Ne dubito, è solo una tinta. D’altro canto però, i nomi dei colori
variano da una lingua all’altra e non sono traducibili con precisione.
Qualsiasi sia la lingua, non c’è mai una corrispondenza precisa fra il colore
reale, il colore percepito e il colore detto.
Perciò, come scoprire le presunte ‘anomalie’ di percezione? Basterebbe
parlare di differenze o di peculiarità. L’ho fatto timidamente notare, ma
questo non ha suscitato alcuna reazione. Probabilmente perché non era la
sede giusta.
Eppure, non ero l’unico in sala a rappresentare le discipline umanistiche.
Un sociologo è intervenuto dopo di me per far presente che il daltonismo
può essere anche una ‘moda’. Negli anni Cinquanta, ha detto per fare un
esempio, certi pittori avanguardisti consideravano una cosa molto ‘chic’ far
credere di essere daltonici per vendere più cari i loro quadri (?). Ha
aggiunto anche che un po’ di tempo dopo fu il turno degli adolescenti di
buona famiglia, che, per attirare l’attenzione, dicevano di soffrire di questo
disturbo che sembrava essere di ‘gran classe’ negli ambienti aristocratici.
Una simile osservazione ha lasciato il pubblico incredulo, me compreso.
Può darsi che questi adolescenti confondessero John Dalton, l’illustre
scienziato inglese morto nel 1844, con i fratelli Dalton, famosi banditi e
perdenti spassosi, eroi del fumetto franco-belga Lucky Luke, nato dal talento
di Morris e Goscinny. I quattro fratelli Dalton – Joe, William, Jack e
l’indescrivibile Averell – sono quasi sempre vestiti con una camicia a righe
gialle e nere, da carcerato. La riga ha sempre disturbato la vista e turbato gli
animi, perché confonde il viso con lo sfondo. Ma ce ne vuole a confondere
delinquenti e daltonici…

Non vedere i colori


(maggio 2012)

Ritorno su quel che ho imparato ieri mattina durante questo convegno sul
daltonismo. Una frase pronunciata dal primo oratore mi ha particolarmente
colpito: «Giunto all’età adulta, un non vedente dalla nascita possiede più o
meno la stessa cultura cromatica di un vedente; ciò che non è assolutamente
il caso di un daltonico». Avevo già letto molte volte, su riviste specializzate,
articoli che sottolineavano come alcuni non vedenti dalla nascita potessero
acquisire negli anni conoscenze approfondite riguardo ai colori, per il solo
fatto di condividere la propria vita con dei vedenti. In questo campo, ciò che
riguarda i colori non è diverso dagli altri campi del sapere: l’essere umano
non vive solo, vive in società, vedenti e non vedenti tutti insieme. Vedere i
colori non è indispensabile per pensarli, nemmeno per parlarne. Anch’io
faccio spesso quest’esperienza alla radio: parlo per un’ora di colori eppure
non faccio vedere nulla; questo non disturba assolutamente gli ascoltatori.
Perlomeno quando parlo della relazione fra colori e società, o meglio della
storia e del simbolismo di un’epoca o di un’altra. Evidentemente, se
partecipo a una trasmissione che parla dei colori di Vermeer o Matisse, non
vedere nulla, non far vedere nulla è frustrante e fa perdere una parte
dell’informazione.
Che i non vedenti dalla nascita possano perfettamente ‘parlare colorato’
con chi è vedente invita a chiedersi che cosa siano in realtà i colori.
Spiegarli è un esercizio difficile: le definizioni suggerite non sono mai né
complete, né univoche, né pienamente soddisfacenti. Ne abbiamo la prova
consultando un semplice dizionario: l’autore o gli autori fanno molta fatica,
in una nota di poche righe, a dire che cos’è il colore. Frazione di luce?
Pigmento o colorante? Sensazione che coinvolge la relazione occhio-
cervello? Fenomeno percettivo complesso? Tutte queste cose insieme? Di
sicuro, ma sono anche altro. Prima di essere luci o materia, prima di essere
sensazioni o percezioni, i colori sono categorie mentali, una sorta di caselle
di preconcetti, pronte a essere attivate, riempite, applicate, pensate,
nominate, catalogate, semantizzate, organizzate, strutturate. Riuscire a
vederli contribuisce a una parte di questo riempimento e di questo processo,
ma solo a una parte.
Io questo lo sapevo già e a volte ne ho discusso con linguisti o fisici,
questi ultimi non sempre d’accordo con il relativismo attribuito alla
definizione dei colori dalle discipline umanistiche. Ma sapere che la cultura
cromatica di un daltonico è più modesta di quella di un non vedente per me
è stata una scoperta. Distinguere male i colori sarebbe, per pensarli e
metterli in ordine, un handicap più grande di non vederli per niente? Ecco
che si aprono nuovi scenari di riflessione.

Sulla spiaggia
(luglio 2012)

Luglio finalmente è arrivato, con il suo corteo di gite estive e di piaceri


balneari. Prima di tutto per me, che ritrovo la mia cara Bretagna e una riva
che si addice alle mie malinconie. Fin da quando ero bambino, passo tutte le
mie vacanze (o quasi) nella stessa piccola località balneare della costa nord:
Le Val-André, vicino a Saint-Brieuc, dove mia sorella Isabelle ha una villa
e dove ogni estate mi aspettano i ricordi d’infanzia. Visto che non mi
piacciono né il sole, né il caldo, né l’acqua tiepida, non mi verrebbe mai in
mente di sdraiarmi su una spiaggia del Sud, né d’immergermi nelle acque
sconosciute e sospette del Mediterraneo. Del resto, anche se mi piace fare il
bagno, non mi fermo mai a lungo su una spiaggia, dove quasi subito mi
prende un dolce torpore. I miei soli piaceri consistono nel guardare il mare,
spettacolo dai colori indefinibili, in continuo mutamento, e nell’osservare
come sono vestiti i vacanzieri. In modo particolare m’interessa la gamma
cromatica dei costumi perché è diversa da quella della vita di tutti i giorni.
Sono rari, oggi, infatti, i luoghi dove si possono vestire colori vivaci. I
campi sportivi e le piste da sci, per esempio. Anche le spiagge. Al mare,
durante i mesi estivi, osiamo sfoggiare colori sgargianti che di solito non
porteremmo mai in ufficio, per strada e nemmeno a casa nostra. Sulla
spiaggia, però, la gamma di colori dei costumi è meno variopinta di quello
che si potrebbe pensare. Chi osserva attentamente i colori – come faccio io
ogni estate –può constatare che non cambiano affatto da un anno all’altro.
Almeno sulle spiagge bretoni, le uniche o quasi che io abbia mai
frequentato. Lì i costumi durano abbastanza a lungo e i colori che
dovrebbero essere di moda si vedono a malapena o quasi mai. Sono colori
di finzione, discorsivi o onirici, colori adatti alle spiagge dei mari esotici,
ma i normali bagnanti non li portano proprio.
È per questo che quest’anno, come l’anno scorso e come gli anni prima, i
colori dominanti rimangono, come sempre, il blu e il rosso. Il blu in special
modo per gli uomini; il rosso per le donne. Queste ultime preferiscono una
gamma di colori un po’ più varia: di sicuro il rosso e il blu, ma anche il
rosa, il giallo, il nero e pure il viola, colore che in spiaggia mi sembra
particolarmente fuori luogo. Il verde, che mi piace tanto, purtroppo si vede
meno; il bianco ancor più raramente. Nei costumi dei bambini, i blu e i rossi
abbondano. Succedeva già allora, quando, da piccolo, passavo i tre mesi
estivi con mia nonna su questa magnifica spiaggia di Le Val-André: rosso –
talvolta giallo – per le bambine, blu per i bambini; gli altri colori invece
erano inconsueti.
Oggi, come allora, solo due colori sembrano essere davvero assenti dalle
spiagge bretoni (come del resto sono assenti anche da ogni campo sportivo):
il grigio e il marrone. Chi saprebbe spiegarne il motivo? Queste due tonalità
sembrano troppo sbiadite o troppo sporche alla luce del sole? Fanno subito
venire in mente i colori della vita di tutti i giorni?

Che fine hanno fatto le righe?


(luglio 2012)

Da qualche anno mi colpisce anche la quasi totale scomparsa delle righe.


Non si vedono praticamente più, nemmeno sulla costa della Manica. A me
dispiace perché le righe facevano parte del paesaggio estivo della mia
infanzia e per tanto tempo sono state un simbolo ludico e allegro del mare e
delle vacanze. Ce n’erano già in abbondanza durante il Secondo Impero e
nella Belle Époque (si pensi ai quadri di Boudin e dei suoi successori) ed
erano molto presenti anche nel 1950. Per me erano il primo segnale
dell’inizio delle vacanze. C’erano tanti tessuti a righe, spesso associavano il
bianco a un altro colore: i costumi e i teli da mare; le cabine e gli
ombrelloni; i giocattoli da spiaggia, i palloni, gli aquiloni; per non parlare
delle camicette alla marinara e dei golf dei bambini, le vele delle barche e
tutto ciò che evocava direttamente o indirettamente il mare e i marinai.
Verso la fine della mia adolescenza, poi le righe si sono fatte più rare,
vittime degli anni Settanta, dei colori chiassosi e delle fantasie esotiche o
psichedeliche. Per quel che mi riguarda, ho vissuto male la moda di quegli
anni: una gamma cromatica aggressiva, volgarità becera e discorsi sciatti
per tentare di spiegarne il simbolismo pretenzioso. Non sto esagerando. Era
l’epoca in cui l’arancione, il verde mela, tutte le sfumature del senape e le
grandi peonie variopinte avrebbero dovuto rallegrarci l’esistenza.
Il legame fra il mare e le righe è antico. Dalla fine del XVI secolo, molti
testi illustrati ci mostrano ‘gente di mare’ coi vestiti a righe. Tre secoli
dopo, sono i marinai semplici (le ‘zebre’, termine dispregiativo che si usava
allora in Marina) a essere riconoscibili per le loro righe, visto che gli
ufficiali non ne portavano. Nello stesso tempo a poco a poco le righe
passano dal largo alla riva: già verso il 1880-1900, in spiaggia se ne fa un
uso sfrenato. Ma si trovano anche altrove, su tutti i tessuti e i vestiti a
contatto con il corpo: camicie, biancheria intima, lenzuola, materassi,
cappelli e camicie da notte; in seguito anche su boxer, pigiama,
asciugamani, costumi interi. Per molti secoli, ogni tessuto a contatto col
corpo doveva essere bianco, per questione d’igiene e di moralità. Dalla fine
del XIX secolo, si è passati lentamente dal bianco al colore, in due momenti
diversi: prima le tinte pastello e poi le righe, che hanno conosciuto l’apice
del successo tra il 1880 e il 1960. Le spiagge erano il luogo più adatto per
mettersi in mostra, oggi, invece, le righe fanno la loro comparsa solo sui
campi sportivi. Quanto durerà?

Tatuaggi
(agosto 2012)

Quest’anno le Olimpiadi si svolgeranno a Londra, il fuso orario sarà quasi


uguale a quello di Parigi, potrò quindi guardare diverse gare senza stare
sveglio tutta la notte. Saranno trasmesse nelle fasce orarie degli onesti
cittadini: prima al mattino e poi fra le 17 e le 23; purtroppo a Rio, tra
quattro anni, non sarà più possibile. Quando guardo i vari programmi
televisivi sono colpito dal grande numero di sportivi tatuati, uomini e
donne. Vale per quasi tutte le discipline sportive. Solo in quelle dove
l’estetica del corpo ha un ruolo importante – a volte evidente – i tatuaggi
non vengono tollerati (tuffi, ginnastica ritmica, nuoto sincronizzato, per
esempio), confermando anche in questo caso come qualsiasi tatuaggio sia
una bruttura. A proposito di nazioni, gli americani, i canadesi e gli inglesi
sembrano detenere il record del corpo tatuato: a dar credito alle immagini
trasmesse in differita, quasi uno sportivo su quattro proveniente da questi
Paesi ne ha almeno uno. E non si tratta di semplici figure temporanee, a
base di henné, di adesivi come le ‘decalcomanie’ (una delle parole magiche
di quando ero bambino), ma proprio di disegni dai colori indelebili che
resteranno per sempre.
Che tutti i tatuatori e i tatuati mi perdonino: i tatuaggi non mi piacciono!
A dire il vero li trovo proprio orribili. Come si può volontariamente e in
modo definitivo imbruttire il proprio corpo con colori così immondi, con
scritte così semplicistiche, con disegni a volte davvero osceni? Non lo
capisco proprio. Fra le mie conoscenze nessuno, proprio nessuno è tatuato.
È una questione generazionale? Di ceto sociale? Dell’immagine che
vogliamo dare di noi stessi? Certe persone vogliono farsi notare,
valorizzarsi, distinguersi; altre no. Io faccio parte della seconda categoria; e
anche i miei amici. Per me, il mistero del tatuaggio resta irrisolto.
A mio avviso la bruttezza dei tatuaggi è da imputare soprattutto ai colori.
È vero anche che molti disegni sono infantili (soprattutto quelli che
riguardano l’amore), macabri o semplicemente grotteschi; altri rivelano un
simbolismo da fiera di paese, vagamente mistici e più o meno
‘disneycizzati’ (quando non sono ‘harrypotterizzati’); altri ancora sono
decisamente trash o pornografici. Ma i colori mi sembrano peggio delle
figure: a volte sono di una bruttezza insostenibile. La colpa non è da
imputare solo agli artisti o ai tatuatori, piuttosto agli inchiostri utilizzati.
Non solo certi pigmenti sono tossici o cancerogeni, ma una volta iniettati
sotto pelle, fra l’epidermide e il derma, la maggior parte vira in un modo
sgradevole alla vista: sporchi, deteriorati, come se l’inchiostro fosse andato
a male per il solo fatto di essere stato messo in un posto che non gli
appartiene proprio. Qualsiasi tatuaggio mi sembra nocivo.
Questa umiliazione cromatica riguarda del resto più il riempimento delle
forme e il gioco variopinto dei colori che i tratti di contorno o i soli motivi
monocromi. Se si sente proprio il bisogno di tatuarsi il corpo – ciò che lo
degrada al ruolo di quello degli ex detenuti, o anche del bestiame – almeno
lo si faccia con un colore solo accontentandosi dei tratti di contorno. La
violenza inflitta allo spettatore alla vista di una pelle così profanata potrà
forse essere più accettabile.

Quando il colore mitiga i tabù


(agosto 2012)

Si può far vedere tutto al cinema o alla televisione? Sembrerebbe di sì,


almeno per quel che riguarda la violenza, il crimine, il sesso e tutte le scene
che ne derivano. Basta accompagnarle con eventuali avvisi imposti dalla
legge. Ipocrisia, certo, ma le nostre società contemporanee non ne sono
certo immuni. Falli in erezione, personaggi che defecano, animali sgozzati,
popoli massacrati non sono più immagini inconsuete sui nostri schermi.
Tuttavia c’è ancora un ambito in cui sopravvivono gli ultimi tabù:
l’handicap.
Ne ho avuto la conferma oggi alla televisione mentre guardavo in diretta
diverse prove di atletica delle Olimpiadi di Londra. Come succede sempre
in caso di forte audience, il reportage era frammentato da innumerevoli
pubblicità. Fra loro, una pubblicità inconsueta di un prodotto destinato alla
pulizia degli apparecchi dentali. Si vedeva sullo schermo un grande
bicchiere trasparente pieno d’acqua nel quale una mano anonima faceva
cadere due pastiglie bianche effervescenti: nel bicchiere si formavano delle
bolle graziose. Poi la stessa mano metteva nel prezioso liquido
l’apparecchio da pulire. A essere sinceri, non l’apparecchio vero e proprio
ma le lettere della parola APPARECCHIO, scritte in blu, maiuscole e
saldate fra loro come si trattasse di una parte di dentatura.
C’è molto da imparare da una simile sequenza. A cominciare dal fatto che
un apparecchio dentale è assolutamente un oggetto impresentabile sullo
schermo: troppo intimo, troppo indecoroso, troppo angosciante. Si può
filmare un pene turgido o una vagina spalancata, ma non un apparecchio.
Bisogna sostituirlo col suo nome. Non col suo nome d’uso corrente:
‘dentiera’ – termine altrettanto tabù di ciò a cui fa riferimento – ma col suo
sinonimo più decoroso, quello che si utilizza negli studi odontoiatrici e
nelle pubblicazioni specializzate: ‘apparecchio’; termine spesso seguito
dall’aggettivo che ne precisa l’utilizzo: ‘dentale’. Ma in questo caso
l’aggettivo è stato messo da parte, probabilmente perché ricordava troppo la
parola ‘dentiera’.
Per confezionare il tutto e far passare meglio questo spot costruito su un
gran numero di divieti, hanno scelto il blu, colore tranquillo e positivo. Non
un blu qualsiasi, ma un bel blu cielo che diffonde calma, silenzio e serenità.
Bravi! Di sicuro, di un prodotto detergente rappresentato così delicatamente
se ne venderanno milioni di pezzi.

Una valigia insolita


(settembre 2012)

Scena bizzarra osservata ieri sera all’aeroporto di Roissy 2.Sono le 21.30,


torno da Amburgo e aspetto la mia valigia davanti al nastro dei bagagli
numero sei, insieme a una trentina di altre persone. Quest’ultima attesa alla
fine di un viaggio in aereo sembra familiare a tutti quelli che sono intorno a
me: sono calmi e pazienti. Non è il mio caso. Odio l’aereo e ancor di più gli
aeroporti: a parte la sala d’attesa di un dottore e il pronto soccorso di un
ospedale, non conosco luoghi che mi rendano più ansioso. Tenere d’occhio
il sopraggiungere ipotetico della mia povera valigia su un nastro
trasportatore è sempre angosciante per me e, lo dico proprio come lo sento,
anche un po’ umiliante. Se io fossi veramente libero, o veramente ricco,
viaggerei con un semplice bagaglio da cabina e potrei sottrarmi a questo
rituale irritante di fine percorso.
Oggi l’attesa è lunga, quando il Terminal F dell’aeroporto sembra invece
deserto. Finalmente i primi bagagli che arrivano dalla Germania del Nord
‘cadono’ sul nastro. In testa, qualche valigia nera, grigia o blu navy; poi più
in là, solitario, un oggetto barocco e chiassoso, mai visto nella mia modesta
vita di viaggiatore: un’enorme valigia; di un giallo abbagliante, stretta da
una larga cinghia marrone, simile a quelle che usano i traslocatori di
pianoforti, e con la maniglia ornata di due grossi pompon rossi di plastica,
come quelli dei berretti dei marinai. Di certo, il proprietario di un simile
bagaglio lo riconosce da lontano. Non come me, con la mia valigia troppo
discreta, grigio scuro, uguale a miliardi di altre nel mondo. Quante volte ho
dovuto guardare attentamente l’etichetta per essere certo che fosse proprio
la mia? Ma l’idea di comprare una valigia di un colore appariscente non mi
entusiasma per niente: per i vestiti e per i bagagli sono rigoroso, fedele ai
colori neutri. Calvino, Zwingli e Melantone sarebbero orgogliosi di me.
Però, l’idea dei pompon rossi come segno di riconoscimento mi piace
molto. A pensarci bene, forse sostituendo i ridicoli pompon con frutti,
palline o animaletti.
Tutti sono rapiti dalla valigia gialla, anch’io come gli altri. Chi può essere
quindi il proprietario di un oggetto così stravagante? Chiunque sia non mi
pare abbia fretta di recuperare la sua roba poiché la valigia continua il suo
iter esibizionista sul povero nastro che scorre con un’insopportabile
lentezza. Sono furibondo perché il mio bagaglio non arriva, e io ho
l’impressione di essere prigioniero di questa ridicola messa in scena. Del
resto, ho notato che in tutti gli aeroporti, ogni volta che la mia valigia era
destinata al nastro numero sei, arrivava sempre fra le ultime. Il sei non è un
numero che fa per me; d’altronde il suo simbolismo medievale è abbastanza
negativo.
La valigia gialla ha fatto un giro completo, poi ancora uno, sparendo
dentro la misteriosa caverna dei bagagli che si trova dietro il muro e
riapparendo rumorosamente all’ingresso del nastro. Il mostro giallo tarda a
trovare un proprietario. Finalmente, uscito da non si sa dove, un uomo di
mezz’età le va incontro, piccolo, paffuto, tutto vestito di beige, di quel
brutto beige troppo chiaro chiamato a volte ‘burro fresco’: per un uomo
della sua stazza – e della mia – non c’è nulla di più tremendo e che faccia
sembrare più grassi. Con i suoi baffi e la sua borsa a tracolla, sembra il
gioviale venditore da strapazzo ‘senhor Oliveira da Figueira’, un
personaggio dei fumetti di Tintin, che impersona uno scaltro commerciante
famoso in tutta l’Africa nera come ‘il Bianco-che-vende-tutto’. Coi suoi
piedini che calzano orribili mocassini bicolori, quest’uomo ora si affretta
verso la sua amata valigia, con un’espressione di sollievo e quasi di
compiacimento. L’afferra, la toglie dal nastro, la sposta di qualche metro e
poi si dirige verso l’uscita sotto lo sguardo divertito dei pochi spettatori
rimasti. Tuttavia, colto da un dubbio improvviso, si ferma, si china, guarda
l’etichetta e, avvilito, se non addirittura disgustato, torna indietro a rimettere
la valigia gialla sul nastro: non era la sua.
Stupore e perplessità generali: la mostruosa valigia gialla a pompon rossi
non era un unicum; un’altra, identica o quasi, era attesa da un uomo
grassottello vestito con un completo beige troppo chiaro per lui. Chi era?
Uno straniero che si era perso? Un attore dilettante? Un attore
professionista? Un esibizionista? Si trattava di una messa in scena? Di uno
scherzo divertente? Di una scommessa idiota?
Non l’ho mai saputo. La mia valigia è arrivata. Perplesso e agitato, sono
scappato via.

Il camaleonte
(ottobre 2012)

Riletta ieri mattina una bella frase di François Cavanna (che ne ha scritte
centinaia) nella sua gustosa raccolta intitolata Lo sapevate? (1971). Questa
riguarda i colori e dà le vertigini: ‘Il camaleonte ha il colore del camaleonte
solo quando si posa su un altro camaleonte’. Una battuta simile non solo
mette in difficoltà la logica, ma invita a leggere o a rileggere tutto quello
che la zoologia ci può insegnare su quest’animale. In effetti solo il
camaleonte ha un sistema cromatico a parte e questo deve interessare
principalmente lo storico dei colori. Quel che spiega la scienza a questo
proposito non è chiarissimo, tutt’altro.
Sembra infatti che solo da oggi s’inizi ad abbandonare l’idea un po’
approssimativa – ma che ha attraversato i secoli – che questa lucertola
arboricola assuma il colore della superficie sulla quale si posa. Il fenomeno
è al tempo stesso diverso e più complesso. Almeno per quanto riguarda la
pelle del camaleonte, fatta da vari strati, ognuno con proprie cellule
specializzate, che reagiscono alla luce in modo specifico. Se cambia colore
quindi, non è tanto per dove si posa, ma per la luce che riceve. Questo varia
a seconda della sua posizione e del suo orientamento. Inoltre, questa
mutazione cromatica quasi immediata non sarebbe tanto un modo di
mimetizzarsi quanto il voler tradurre le proprie emozioni o comunicare con
i suoi simili. Le tinte scure esprimerebbero collera o aggressività; le tinte
chiare intenzioni più pacifiche; quanto alla policromia di cui si adornano i
maschi, si tratterebbe solo di una strategia per sedurre le femmine. Questi
sono i recenti studi della ricerca che riguarda questa strana creatura.
È lecito domandarsi se queste nuove teorie siano più fondate delle
precedenti. Che la pace sia associata a un colore chiaro e la guerra a un
colore scuro mi sembra metta in luce un simbolismo abbastanza ordinario e
non un dato scientifico prestigioso. Quanto al farsi belli per sedurre le
signore… Di certo abbiamo ancora tanto da imparare sulle variazioni di
colore del camaleonte. Come del resto sulla sua strana anatomia: fronte e
muso cornuti. Dita delle zampe a forma di pinza, coda prensile fatta a
spirale, occhi convergenti e indipendenti l’uno dall’altro, e soprattutto una
lingua lunga più del suo corpo che srotola in una frazione di secondo per
catturare gli insetti. Che un simile sauro stia diventando un animaletto da
compagnia in certi ambienti particolarmente ‘in’ mi lascia perplesso e mi
suggerisce di riassumere quello che gli autori di bestiari medievali scrivono
su di lui. Le loro argomentazioni sono senz’altro molto diverse da quelle
degli zoologi di oggi ma, tutto sommato, sono solo un po’ più strane.
Per molti autori del Medioevo, il camaleonte è un quadrupede mostruoso,
nato dall’accoppiamento fra un cammello e una leonessa, come indica il suo
nome. Per altri, è solo un animaletto ibrido che possiede il corpo di una
lucertola, la testa di un maiale o di una scimmia, le unghie di un rapace e,
sul dorso, una cresta che assomiglia alla pinna di un pesce. La sua lingua è
molto lunga e si allunga come fanno i serpenti; gli permette di catturare da
lontano tutto quel che vuole. Cosa che non gli serve granché perché non
mangia e non beve: del resto è per questo motivo che è sprovvisto di
sangue. Visto che non assomiglia a nessuno, il camaleonte ha paura di tutto
e si nasconde cambiando costantemente colore. Il suo grande nemico è il
corvo perché quando il camaleonte diventa nero, il suo nero è più bello e
più luminoso di quello dell’uccello. Così tanto da ingelosire il corvo, che si
avventa sul camaleonte e lo costringe a cambiare colore. Per farlo, i nostri
autori ci rivelano due modi: l’animale secerne un liquido interno che molto
rapidamente gli colora il corpo, la testa e addirittura gli occhi; oppure
guarda l’oggetto o la pianta più vicini a lui e s’impossessa del colore.
Di sicuro, la zoologia medievale fa sognare molto più della zoologia
moderna.

I capricci dell’oro
(novembre 2012)
In trentacinque anni di carriera universitaria, ho partecipato a più di un
centinaio di giurie di dottorato e letto tesi dai soggetti più disparati, dal
bestiario del Paleolitico fino all’arte più contemporanea, passando per il
lessico latino, i sigilli medievali, la letteratura su Re Artù, la storia del gioco
degli scacchi o quella del Tour de France. Tuttavia, i soggetti che
riguardano il Medioevo sono stati molto più numerosi; io sono e resto
soprattutto un medievalista.
Oggi, prima della discussione di tesi che avverrà fra qualche settimana,
leggo (o piuttosto rileggo) la tesi di una delle mie dottorande. Marie, che ha
lavorato sui colori del corpo nei codici miniati medievali. Ha avuto
l’autorizzazione – accordata raramente – a fotografarli personalmente in
alcune biblioteche, soprattutto quella dell’Arsenal, a Parigi. Che i
responsabili siano ringraziati vivamente. Tanto più che grazie a questo ho
potuto vivere un’esperienza non comune: scorrendo l’album delle stampe
che accompagnano il testo di Marie, trovo la foto di una miniatura su fondo
oro, fondo sul quale la si può vedere chinata, vestita con una maglietta
rossa, mentre sta facendo la foto! L’oro ha fatto da specchio, e la giovane
fotografa amatoriale è finita involontariamente nella sua foto, accanto a un
imperatore e a due vescovi ottoniani vissuti più o meno nell’anno Mille!
Questo prova che, per ottenere quest’immagine, Marie non è stata ostaggio,
come la maggior parte dei dottorandi in storia dell’arte, di qualche istituto o
archivio fotografico. Prova anche che la macchina fotografica può essere
una macchina ideale e insospettabile per entrare clandestinamente nelle
immagini che i secoli passati ci hanno tramandato.
Questa storia potrebbe essere solo un aneddoto personale, sottolinea
invece come l’oro, onnipresente nell’arte medievale, sia difficile da
fotografare. La sua resa cromatica nell’immagine, sia in un libro o sullo
schermo di un computer, è sempre deludente: troppo giallo, troppo rosso,
troppo luminoso, o meglio, al contrario, vagamente verdastro, leggermente
scuro e più o meno sporco. Come la vetrata, che si anima seguendo il sole e
il ciclo delle stagioni, l’oro medievale è dinamico, sempre in movimento, in
ogni momento fa parlare la luce in modo diverso. E come la vetrata, non è
fatto per essere studiato sullo schermo di un computer e nemmeno sulla
carta patinata di una comune fotografia. Lo scatto fissa un solo istante:
fotografare l’oro, che è contemporaneamente materia, luce e colore, vuol
dire sempre tradirlo. L’oro è ‘infotografabile’. (È corretta un’ortografia
come questa? Ci vuole veramente una N e non una M prima della F? Non
sarebbe meglio scrivere ‘in-fotografabile’ o ancora meglio ‘non
fotografabile’?)

Umiliazione in giallo
(novembre 2012)

Soggiorno a Dresda, una città che non è fatta per i pedoni. I viali immensi
di stampo sovietico, nonostante siano stati occidentalizzati e oramai
costellati di negozi di un lusso pacchiano, conservano qualcosa di
sgradevole, quasi d’impenetrabile. La città sembra troppo grande per i suoi
abitanti, e il contrasto fra i quartieri per turisti – rinnovati e americanizzati –
e le zone abitate dai più poveri – spesso lasciate in uno stato pietoso – qui
sembra essere più forte che nelle altre città della Germania orientale che ho
visitato. Anche se Magdeburgo o Dessau…
Invitato da un collega, terrò in università una serie di cinque lezioni di
due ore ciascuna sul bestiario medievale. Lezioni in tedesco, una prova
faticosa per me. Di sicuro, ho una buona conoscenza di questa lingua, la
leggo correntemente, la scrivo senza fare troppi errori, ma all’orale le cose
vanno diversamente. Appartengo a una generazione che ha imparato le
lingue vive come si imparavano le lingue morte. Ora, per piacere o per
necessità, nella mia vita ho letto e tradotto tanto di quel latino che non ho
proprio trovato il tempo di fare del mio tedesco una vera lingua viva.
La prima lezione, davanti a una quarantina di studenti, trascorre in ogni
caso abbastanza bene. Parlo lentamente ma non faccio fatica a trovare le
parole. Quel che cerco, invece, è il collega che mi ha invitato. Non c’è.
Malato, senza dubbio. Secondo giorno, seconda lezione. Miglioro, faccio
meno errori, parlo un po’ più velocemente. Ma il professore che mi ha
invitato è sempre assente. Alla fine del corso, chiedo a uno dei suoi
assistenti cosa gli sia successo. Sta male? Ha sbagliato settimana, orario,
aula? Si è semplicemente dimenticato di me? Il giovane collega ha un’aria
molto imbarazzata e mi spiega, timido e confuso, in un tedesco contorto,
che il mio corso è stato classificato come gelb (‘giallo’) e non rot (‘rosso’),
e che quindi il grande Herr Professor Doktor non può assistervi.
Al momento, non ci capisco nulla, ma durante il pranzo (orribile) alla
mensa universitaria, le cose si fanno più chiare e i colori assumono tutto il
loro significato. Un altro assistente, più a suo agio, mi spiega che i corsi
all’Università di Dresda, almeno quelli di discipline umanistiche, si
dividono in quattro categorie, ognuna contrassegnata da un colore: blu per i
primi due anni, giallo per i corsi di laurea, rosso per il dottorato e verde per
i corsi aperti al pubblico. Il mio corso sul bestiario medievale è stato
considerato come un corso di laurea e quindi classificato come ‘giallo’. In
tal modo, il collega che mi ha invitato, arrivato in cima alla gerarchia della
docenza – è Professor Doktor erster Klasse! –, non può né partecipare, né
assistere: non è un corso di dottorato, non è un corso degno di lui.
Sono sconcertato. Sconcertato e umiliato, vittima della rigidità cromatica
dell’università sassone e costernato dalla maleducazione del mio collega.
Farmi venire da così lontano, obbligarmi a sforzi linguistici dolorosi, e non
venirmi a sentire! Mi sfogo coi due assistenti che, pur senza colpa,
avrebbero dovuto capire la mia rabbia. Così non è stato. Senza dubbio in
imbarazzo, ma leali nei confronti del loro maestro, mi spiegano che il
regolamento vale per tutti e in ogni circostanza, e che era davvero
impossibile al loro illustrissimo professore assistere al mio piccolo corso di
laurea, un ‘corso giallo’. Resto senza parole, ma non insisto. Pusillanime
come mi capita troppo spesso di essere, porto la conversazione sulla
gerarchia dei colori che si complica via via sempre più, come a judo o su
una pista di sci!
Queste peripezie universitarie e colorate non hanno avuto luogo nella
Prussia di fine Ottocento, né nella Repubblica Democratica Tedesca degli
anni Sessanta, bensì nella Germania del 2012, libera, aperta, moderna.
2013
Dal rosso al blu
Banana split
(gennaio 2013)

Niente di meglio di una banana split per festeggiare l’inizio di un nuovo


anno cromatico. Bisogna sempre cominciare dal dolce, non si sa mai cosa
verrà dopo. In questo caso, un dessert policromo che ci darà il tono
dell’anno che verrà, di volta in volta tranquillo, dolce, nostalgico,
folgorante, sfortunato, fragile ma sempre colorato intensamente.
Il dolce che ho davanti oggi, in questo lugubre giovedì 3 gennaio, fa parte
del menu del giorno suggerito dal ristorante, rinomato per essere chic, di un
cantone della profonda Normandia. Il ristoratore è un poeta perché le
pietanze proposte alla carta hanno nomi molto più accattivanti di quel che
viene presentato nel piatto. L’antipasto si chiama quindi ‘Prolegomeni alla
mia maniera’ (modesto assortimento di verdure crude); il secondo ‘Pollame
del capocaccia’ (scaloppina di tacchino accompagnata da qualche fungo
annegato in una salsa misteriosa); e il dolce ‘Banana reale rivisitata’. Non
vedo cosa abbia di tanto reale la banana – visto che in questo caso si tratta
solo di una mezza banana, poco curva – ma ritrovo una ghiottoneria che
non assaggio da almeno mezzo secolo: una banana split, appena un po’
curva, composizione di gelato arrivata qui dagli Stati Uniti e che ai tempi,
negli anni Sessanta, ha avuto il suo momento di celebrità, ma che oggi
viene mangiata di rado. Nella ricetta americana originale bisognava tagliare
una banana nel senso della lunghezza, e disporre le due metà da una parte e
dall’altra di tre palline di gelato: vaniglia, fragola, cioccolato, con una
glassa di caramello, salsa di fragole e cioccolato caldo. Sopra a tutto
c’erano delle pastiglie di crema Chantilly, e ‘sopra al tutto del tutto’ – come
dice molto graziosamente la lingua araldica – scagliette di mandorle e
zuccherini colorati.
Ho mangiato la mia prima banana split a tredici anni, nel sala da tè
vecchio stile di una piccola località balneare bretone cara ai miei ricordi e di
cui ho già parlato. Sulla costa nord della Bretagna a quei tempi era una
novità. Niente mi è sembrato più così buono come quella mia prima banana
split. Oggi sono un po’ meno illuso, ma aver ritrovato questo dessert ha
qualcosa di proustiano (anche perché il Grand Hôtel di Balbec-Cabourg non
è molto lontano). È stato ‘rivisitato’ utilizzando una sola glassa (una salsa di
frutti di bosco), e le palline di gelato vanno dal rosa al viola: fragola,
lampone, ribes nero. Nel mio piatto formano una sinfonia di toni purpurei e
un paesaggio effimero che presto sprofonderà per trasformarsi in una palude
marroncina. Ma, per il momento, questo dolce è una gioia per gli occhi e
sollecita felicemente i miei ricordi.
Ecco un anno cromatico che inizia bene.

Il rosso in qualche frase


(gennaio 2013)

Molte settimane fa mi è stata fatta una strana domanda da un editore


italiano: riassumere in non più di una pagina la storia e il simbolismo di
ognuno dei sei colori ‘più importanti della cultura occidentale’, vale a dire il
rosso, il bianco, il giallo, il blu, il verde e il nero (citati in quest’ordine la
cui logica mi sfugge). Questi testi avranno lo scopo d’introdurre le sei parti
di un enorme libro che riproduce più di trecento fotografie fatte in diversi
Paesi d’Europa (alcune anche in altri continenti) e classificate ‘per colore
dominante’. Questo libro, destinato a essere un oggetto molto bello,
dovrebbe avere come titolo Croma e uscire simultaneamente in sei lingue in
sei Paesi diversi.
Il progetto mi è parso curioso e poco scientifico (come definire un ‘colore
dominante’?), ma le fotografie che mi hanno fatto vedere erano originali e
di qualità. Ho accettato perciò la sfida, anche se fin dall’inizio sapevo che
sarebbe stata una prova difficile: non solo non più di una pagina per colore
non è ben calibrato (cinque righe o cinque pagine sarebbero più facili o
verrebbero meglio), ma redigere i miei testi, come mi hanno chiesto, ‘in uno
stile accessibile e limitandosi alle linee generali della storia e del significato
di ogni colore’ costituisce un ostacolo in più. Fare delle frasi corte, scrivere
semplicemente in generale non mi crea problemi – quante volte mi hanno
stupidamente chiesto di scrivere in ‘stile dizionario’? – ma ‘limitarsi alle
linee generali’ obbliga a lasciare da parte molte domande, peculiarità,
esempi e contro esempi. Non è tradire il colore, già ribelle di suo a ogni
valutazione, volerlo riassumere in una pagina?
Tuttavia mi sono dedicato a questa prova. Oggi ho concluso il testo
dedicato al rosso. Non ne sono molto soddisfatto ma mi dico che una volta
tradotto perderà forse un po’ della sua natura da tema di scuola. Giudicherà
il lettore.
Parlare di ‘colore rosso’ è quasi un pleonasmo. Il rosso è il colore per
eccellenza, il colore archetipo. In molte lingue, è la stessa parola che
significa ‘rosso’ e ‘colorato’. In altre, c’è sinonimia fra ‘rosso’ e ‘bello’.
Ovunque, dire che una cosa è rossa è dire molto di più del fatto che la sua
colorazione rientra nella zona di lunghezza d’onda corrispondente nello
spettro a questo colore. ‘Rosso’ è il più connotato di tutti i nomi dei colori,
più ancora del ‘nero’ o del ‘bianco’. Ci sono delle ragioni per questo, sia
naturali che culturali, che risalgono a molto tempo addietro e che si
riscontrano in molte società.
Nella pittura come nella tintura, è proprio nella gamma dei rossi che
l’uomo ha dato subito il meglio di sé. La natura gli ha fornito pigmenti e
coloranti che ha saputo mettere a frutto molto presto: terre argillose ricche
di ossido di ferro per dipingere e disegnare sulle pareti delle caverne; il
rosso acceso, il porpora, il glicine e il rosso di kermes per tingere le stoffe e
i vestiti. In tal modo, la gamma dei rossi si è creata molto prima di quella
degli altri colori e per molto tempo è stata la più varia. In molte lingue, la
ricchezza di vocabolario dei toni di rosso attesta l’anteriorità e la
supremazia di questo colore.
Il suo simbolismo fa il resto.
Miti diversi raccontano come, alle origini del mondo, la Terra fosse rossa;
o anche come il primo uomo – Adamo, per esempio – è stato creato con
argilla di questo colore. Il rosso è il sangue della Terra diventato quello
degli uomini. Ma è anche il fuoco, creatore e distruttore allo stesso tempo.
Ecco il perché di un simbolismo sempre ambivalente che può significare
vita, amore o carità, ma anche violenza e morte. Il rosso è il colore degli
dei, dei re e dei guerrieri e anche quello del diavolo e dell’inferno, le cui
temibili fiamme bruciano senza illuminare. Certi rossi portano fortuna, altri
suscitano grandi paure.
Nelle società contemporanee, visto più positivamente, il rosso è anche e
soprattutto il colore delle feste, della gioia, dell’amore e della bellezza. Un
tempo maschile, fortemente associato al potere e alla guerra, il rosso è
diventato poco a poco un colore femminile, simbolo di splendore e di
piacere. Infatti la cosmesi, per quasi tutte le sue collezioni, s’ispira molto
alla gamma dei rossi, per valorizzare la bellezza femminile e suscitare il
desiderio maschile. Più di ogni altro colore il rosso attira lo sguardo. Forse è
questo il motivo per cui è onnipresente nel mondo degli emblemi e delle
bandiere come in quello delle marche e dei segnali. Da una parte, attira
l’attenzione, segnala un pericolo, corregge un errore, vieta di passare.
Dall’altra, sottolinea la forza di un’idea, mette in valore la bellezza di un
viso, fa felici gli occhi e il cuore. Sempre e ovunque, da vicino e da lontano,
il rosso si vede e si nota: è il primo di tutti i colori.

Lo schermo in bianco e nero


(febbraio 2013)

Mi piacciono i vecchi film e sono un assiduo frequentatore di cineteche. A


Parigi, il Forum des images mi appare come una sorta di paradiso dove si
può vedere, da soli o in gruppo, un considerevole numero di film. Questo è
il mese dedicato a Bergman, e io ne approfitto per rivedere molti dei suoi
primi film in bianco e nero, a mio parere più validi di quelli della fine della
sua carriera, pesanti macchine a colori che però hanno fiaccato la sua gloria
internazionale. Ai miei occhi, Un’estate d’amore (1950), Una vampata
d’amore (1953), Il posto delle fragole (1957), Il settimo sigillo (1957) sono
dei capolavori. Non sono sicuro che Sussurri e grida (1972), Scene da un
matrimonio (1973) o Fanny e Alexander (1982) lo siano. Bergman non è un
regista adatto al colore; sembra che attenui la sua forza drammatica e la sua
fredda originalità.
Oggi ho rivisto Una vampata d’amore, capolavoro fra i capolavori
bergmaniani. La proiezione era in versione originale (svedese) – come tutti i
cinefili, non mi verrebbe mai in mente di essere lo spettatore di un film
doppiato – ma per la prima volta ho avuto l’impressione di non riuscire a
leggere tutti i sottotitoli. Eppure lo schermo era abbastanza grande, niente di
paragonabile a quello di una televisione o di un computer. Ma con l’età la
mia vista si è abbassata, e i sottotitoli con le lettere bianche messi sopra le
immagini in bianco e nero non sono sempre leggibili. Soprattutto laddove il
bianco delle lettere appare su una zona bianca dell’immagine. Oggi, per
fortuna, i sottotitoli erano in francese, e più che leggerle, le frasi le ho
indovinate. Ma se fossero stati in tedesco o in italiano, lingue che conosco
bene ma che leggo lentamente, avrei probabilmente fatto più fatica. Questo
mi ha fatto venire in mente il cineclub del mio liceo, luogo iniziatico dove
ho imparato i primi rudimenti di cultura cinematografica (sia ringraziato il
professore principale, di cui ho dimenticato scandalosamente il nome, un
nome che cominciava con una T…). Non era raro che, per la proiezione di
un film russo o giapponese, il liceo avesse a disposizione solo una copia che
arrivava dal Belgio, sottotitolata in olandese. Ce la facevamo andar bene…
Ho visto così il film che per me continua a essere il più bello di tutta la
storia del cinema. I racconti della luna pallida d’agosto di Kenji Mizoguchi
(1953), in giapponese e sottotitolato in olandese!
Non so nulla della tecnica che si usa per sottotitolare un film. Ma sarebbe
troppo complicato, per i film in bianco e nero, fare i sottotitoli in giallo o in
arancione e non bianchi? Forse sono ingenuo, ma secondo me oggi
dovrebbe essere relativamente semplice. Ma mi sbaglio forse? In ogni caso,
anche se fosse dispendioso e complicato, farebbe un grande favore agli
spettatori che come me invecchiano e cominciano a vederci meno.

Il colore confiscato
(marzo 2013)

È la terza volta in una settimana che i giornalisti chiedono il mio parere su


una nuova moda seguita da molte grandi aziende specializzate nella
produzione e nella vendita di oggetti di lusso: scegliere una sfumatura di
colore su un campionario internazionale di riferimento (Pantone, Munsell),
appropriarsene come una sorta di ‘logo cromatico’, infine addolcire il tutto
con un discorsetto pubblicitario accattivante, sottolineando il ricco
simbolismo della sfumatura scelta.
Una pratica tale mi sembra bugiarda, scandalosa e assurda nel contempo.
Bugiarda perché il colore adottato e certificato viene sempre qualificato
come ‘colore’ quando si tratta di una semplice sfumatura. Il rosso mattone,
il verde smeraldo, il giallo limone, il blu pervinca non sono colori, sono
solo sfumature di colori. A maggior ragione il rosso Pantone 185 C o il
Munsell blu 3/24 F. Ma per questi marchi parlare di ‘sfumatura’ invece di
‘colore’ sminuirebbe molto il discorso pubblicitario; meglio allora evitare
questa parola. Specialmente quando le sfumature di colore non hanno un
proprio simbolismo. Sicuramente esiste un simbolismo molto ricco per il
rosso (simbolismo fortemente culturale, che varia da una cultura all’altra),
ma non esiste per il rosso mattone, il rosso ribes, per il magenta o lo
scarlatto.
Quanto al simbolismo del Pantone 185 C…
Scandalosa poi perché il colore è di tutti e cercare di monopolizzare
l’utilizzo di una colorazione, anche se si tratta di una colorazione
determinata con precisione, è un comportamento immorale. Da una parte,
vuol dire appropriarsi di qualcosa che non appartiene a nessuno ma che è di
proprietà di tutta l’umanità, ovvero un bene comune inderogabile. Dall’altra
vuol dire impossessarsi di un oggetto estetico, poetico, onirico – il colore! –
per far soldi ed esibire la propria cupidigia.
Infine assurda perché una sfumatura di colore, anche se definita molto
precisamente e con un riferimento scientifico, varia in modo considerevole
da un supporto all’altro, da una tecnica all’altra, da uno sguardo a un altro.
Quel rosso Pantone 185 C o quel blu Munsell 3/24 F non sarà lo stesso sulla
carta, sulla stoffa, sul cuoio o sul metallo, e avrà un aspetto ancor più
diverso sullo schermo di un computer. Inoltre, varierà enormemente a
seconda del momento della giornata, del tempo, della luce che c’è e,
soprattutto, a seconda dell’occhio dello spettatore che lo guarda. Davanti
allo stesso rosso papavero registrato sotto la referenza Pantone 185 C,
Pierre vedrà una certa colorazione, Jean ne vedrà un’altra e Marie-Françoise
una terza. Il colore si ribella a ogni regola, a tutte le gabbie di norme e
criteri.
Non me ne rammarico, bisogna esserne felici.

La macchina gialla
(aprile 2013)

Ieri, in Bretagna, per la prima volta nella mia vita, sono salito su una
macchina gialla che non era né un taxi, né un postale. L’esperienza è stata
fantastica: mi è sembrato di essere in una specie di enorme gadget, vistoso e
sfavillante come un giocattolo svizzero, e di dover partecipare a una gara di
vetture eccentriche dove il colore avrebbe dovuto conquistare la giuria e il
pubblico. La macchina era nuova e di un bellissimo giallo: vivo, carico,
denso, quasi grasso. Una tinta davvero insolita nelle nostre regioni dove, se
una macchina gialla è ferma in un grande parcheggio, tutti la guardano.
Alcuni l’ammirano, altri vorrebbero averla, altri ancora, più perversi,
vorrebbero rigare o sporcare la carrozzeria. Gli indifferenti al giallo-
macchina sono rari.
Bisogna dire che in Francia, diversamente dalla Germania o dalla Svezia,
per esempio, le auto gialle sono insolite. Soprattutto per quel che riguarda i
privati. Se capita, si tratta generalmente della terza o della quarta auto di
una famiglia benestante – molto benestante – che può permettersi il lusso di
una piccola macchina sportiva dal colore strano poiché ha già una macchina
nera e due grigie (è più o meno il caso della famiglia che ieri mi ha ospitato
a bordo di una macchina così). Le classi meno abbienti non circolano in
giallo; nemmeno il ceto medio. In questo ambiente, questo giallo insolente è
sempre segno di opulenza.
Non si può dire altrettanto del giallo dei taxi e dei postali che si vedono in
molti Paesi. Qui il colore ha la funzione di distinguersi e di sottolineare lo
status sociale di questo genere di veicoli, come il rosso del camion dei
pompieri. Ma perché giallo e non rosa, arancione o viola, tre colori che
sono poco diffusi e che si noterebbero altrettanto bene? La risposta ci è data
in parte dalla storia: il giallo è il colore della dinastia della famiglia Thurn
und Taxis, signorotti lombardi divenuti poi baroni tedeschi, poi prìncipi del
Sacro Romano Impero. Sono loro che hanno fondato e strutturato la posta
europea nel XV e XVI secolo, e poi, più tardi, in Germania, hanno
inventato gli antenati dei nostri ‘taxi’. Il giallo simbolico di questa famiglia
– oggi una delle più ricche al mondo – divenne il colore delle loro poste e
delle loro compagnie di trasporto di veicoli trainati da cavalli. Per quanto
riguarda i taxi moderni, negli Stati Uniti molte compagnie scelsero il giallo
abbastanza presto: a Chicago dal 1915, a New York negli anni Venti; forse
come riferimento o omaggio ai vecchi ‘ippotaxi’ dei Thurn und Taxis ma
con l’idea che fosse il colore che si vedeva meglio da lontano nel grigiore
della città. Non era sbagliato. Piano piano, altre città, altri Paesi hanno
imitato l’esempio americano, al punto che oggi, in buona parte del mondo,
un taxi è un veicolo di colore giallo. Non è il caso della Francia. Ma la
Francia, a cui piace dare lezioni a tutto il mondo, si è sempre considerata
come un ‘Paese a parte’, anche e soprattutto in materia di colori.
La maggior parte dei dizionari etimologici spiega l’origine della parola
‘taxi’ con il fatto che questo veicolo è equipaggiato da un ‘tassametro’,
dispositivo che serve a calcolare la ‘tassa’ che il cliente deve pagare per il
trasporto. Spiegazione ingegnosa, che deriva dal greco antico taxis
(‘accordo, disposizione’), ma che non considera i Thurn und Taxis,
inconfutabili inventori dei primi ‘taxi’ tirati dai cavalli. Il nesso mi sembra
comunque evidente fra il nome proprio e il nome comune. Nel cognome, la
seconda parola, ‘Taxis’, all’origine è un toponimo, qualche volta scritto
‘Tassis’ e costituito probabilmente dal nome del ‘tasso’ (latino taxus;
italiano tasso). Il più antico castello di questa famiglia era stato infatti
costruito in Lombardia, vicino a Bergamo, sul monte Tasso (da leggere
come ‘la collina dei tassi’). Cosa che ci allontana di sicuro dalle macchine
gialle.
Rimaniamo prudenti, dunque, e andiamo piano: la velocità è sempre
volgare.

Il colore del destino


(aprile 2013)

Alla fin fine l’esercizio tentato in gennaio a proposito del rosso mi è


piaciuto: scrivere un testo di una pagina cercando di riassumere la storia e il
simbolismo di un colore. Mi viene voglia di fare un altro esempio, azzardo
e istrionismo sono spesso correlati. Oggi affronto lo stesso compito con il
verde, colore che pone allo storico problemi complessi e i cui significati
sono molto cambiati nel corso dei secoli. Ecco quel che ho scritto finora.
Ai giorni nostri, è difficile evocare il verde senza pensare subito alla
vegetazione, alla campagna e sicuramente all’ecologia e ai movimenti
politici che se ne fanno portavoce. Per merito della clorofilla, il verde è
onnipresente in natura, al punto da esserne diventato a poco a poco il colore
emblematico. Non è sempre stato così. In Occidente, bisogna aspettare il
Romanticismo perché la natura sia definitivamente associata al colore
verde. Prima di allora, la natura non viene spesso identificata come il
mondo vegetale bensì come l’insieme dei quattro elementi: aria, terra,
acqua e fuoco. Per questa stessa ragione, ha quattro colori: il bianco
dell’aria, il nero della terra, il verde dell’acqua, il rosso del fuoco. Il verde
dunque non è che un colore fra gli altri, quello dell’acqua, che è stata
percepita come verde per tanto tempo, almeno in Europa. È solo a partire
dalla fine del Medioevo che l’acqua è passata progressivamente, fra il XV e
il XVII secolo, dal verde al blu. Questo cambiamento è da attribuire
soprattutto al ruolo essenziale che hanno avuto i portolani e le carte
nautiche.
Nelle regioni secche o aride, il verde è raramente il colore della natura. È
gialla, rossa o marrone, ma non verde, visto che la vegetazione è scarsa o
del tutto assente.
Per il resto, ovunque, anche nelle zone temperate e piovose, i pigmenti e i
coloranti naturali verdi utilizzabili dall’uomo sono stati sempre rari o
insufficienti. Da qui la difficoltà di dipingere o tingere con questo colore: la
malachite e qualche terra verde per i pigmenti; praticamente nulla di solido
per i coloranti. Di sicuro molte piante (felce, ortica, porro, ontano eccetera)
possono produrre una leggera tintura verde, ma questa è sempre pallida e
ombreggiata e non resiste agli effetti del sole e nemmeno a quelli dei
lavaggi. Ecco perché, in pittura come in tintura, l’uomo ha imparato a
mischiare il blu e il giallo per ottenere il verde. Ricette, procedimenti,
tradizioni e competenze variano molto da una cultura all’altra, ma quasi
ovunque, in queste misture, c’è sempre più blu che giallo. Di conseguenza,
il verde è stato spesso considerato il cugino del blu, al punto che molte
lingue hanno una sola parola per definire questi due colori.
Le difficoltà nel produrre il colore verde, e ancor più nel fissarlo,
spiegano ugualmente perché, sul piano simbolico, è stato spesso associato a
tutto ciò che è mutevole, a tutto quel che non dura, a tutto quello che gira
come la ruota della dea Fortuna: la gioventù, l’amore, la buona sorte, la
speranza, il gioco, il caso e anche il denaro (ben prima che il dollaro sia
stampato su un biglietto verde…). Colore chimicamente instabile, il verde
in Occidente è stato per tanto tempo associato simbolicamente a tutto ciò
che era instabile. Così facendo, è stato tenuto a volte in buona
considerazione, a volte in cattiva. Se nei Paesi dell’Islam ha sempre una
valenza positiva – in paradiso, gli eletti porteranno degli abiti verdi, simili a
quelli che indossava Maometto quando gli è apparso l’angelo Gabriele – e
se in molte società è segno di forza, di salute o di fertilità, altrove si dice
porti sfortuna – così come in Francia, a teatro e sulle navi – oppure veste
strane creature (geni, folletti, marziani) o malviventi. Spesso il diavolo
preferisce il verde al nero o al rosso.
Difficili confessioni
(maggio 2013)

Conferenza a Nizza, al Museo Chagall (un pittore che non mi piace affatto):
parlo ancora del verde, della sua storia, del suo simbolismo, del suo posto
nella storia della pittura. Come accade spesso, il mio intervento è seguito da
una cena di cui farei volentieri a meno ma che per educazione non posso
rifiutare. È un passaggio obbligato al quale sfuggo di rado nelle città di
provincia. Purtroppo! Perché obbligare un conferenziere stanco a una cena
interminabile, a una conversazione spesso inutile, a mondanità stucchevoli;
le autorità cittadine, assenti alla conferenza, sono sempre presenti a tavola!
Perché, tra l’altro, prenotarmi una camera in un hotel di lusso dove arriverò
solo a mezzanotte e che dovrò lasciare alle sette del mattino per prendere un
treno? È assurdo e stancante.
Questa sera, tuttavia, i discorsi che si svolgono a tavola sono meno
ridicoli del solito. I rappresentanti delle autorità non sono presenti, e gli
invitati, più a loro agio, non si dilungano sulla politica locale ma su quel
che ho detto sui sondaggi d’opinione: colori preferiti e colori detestati. Un
uomo anziano, simpatico, il classico vecchio ingegnere, racconta come
venne intervistato una volta, durante una promozione pubblicitaria in una
via di negozi del centro città, e come alla domanda: «Qual è il suo colore
preferito?» abbia risposto con una bugia. Accompagnato da amici e da
colleghi, non ha osato dire che il rosso era il suo colore preferito, per paura
– lo cito – «di passare per comunista», e in un soffio ha menzionato il blu,
«come tutti o quasi».
La testimonianza di quest’uomo mi ha interessato particolarmente. Da un
lato, perché è la prima volta che incontro qualcuno che dice di essere stato
intervistato per strada a proposito dei colori (è successo anche a me una
volta) e che ammette di aver dato una risposta falsa (quanti sono quelli che,
per diverse ragioni, mentono ai sondaggisti, soprattutto durante i sondaggi
manipolatori prima delle elezioni: 10%? 15%?). Dall’altro, perché questa
confessione ricorda i legami molto forti – troppo forti? – che hanno avuto
luogo per decenni fra il rosso e i partiti politici di estrema sinistra,
relegando in secondo piano tutti gli altri aspetti simbolici di questo colore:
l’infanzia, l’amore, la passione, la bellezza, la gioia, la festa, il piacere,
l’erotismo, il potere e anche la giustizia. Un’unica corrente di pensiero ha
fatto suo il rosso che in tal modo ha smesso di essere un colore per
diventare un’ideologia. Al punto che, come sottolinea la testimonianza di
quest’uomo, per tanto tempo non si è potuto ammettere di preferire il rosso
agli altri colori, senza sembrare subito un autentico comunista.
Oggi, dopo la scomparsa dell’URSS e l’indebolimento delle ideologie,
questo legame forzato si è molto indebolito. Ma, fra i colori, il verde
sembra aver preso il sopravvento: è diventato quasi impossibile ammettere
di preferire il verde agli altri colori senza passare subito per un paladino
dell’ambiente, per un fautore delle energie rinnovabili o dell’agricoltura
biologica, oppure per un fervente militante ambientalista. Non ho nulla
contro gli ambientalisti, né contro i comunisti, ma come combattere simili
associazioni d’idee semplicistiche e riduttive che finiscono per snaturare i
colori, privandoli di ogni dimensione affettiva, poetica, estetica o onirica?

Nessun gergo per il colore


(giugno 2013)

Ho dedicato uno dei miei seminari alla storia simbolica dei frutti e da
qualche tempo m’interesso all’uso figurativo dei termini che li designano,
soprattutto nelle espressioni gergali e in quelle popolari, del tipo: «Poi,
l’amico ciliegia mi fa: ‘Al contadino non far sapere quanto è buono il cacio
con le pere’. È stato proprio allora che sono caduto come una pera cotta».
Una simile ricerca mi ha portato a consultare vari dizionari di francese
definiti pudicamente come ‘non convenzionali’. Ce ne sono di notevoli, in
special modo quelli che fanno lo sforzo di datare la comparsa di questo o
quel vocabolo in gergo (o dell’uso distorto di una parola comune) e che
provano a capirne l’origine e il significato.
Oggi ho lavorato alla biblioteca dell’Institut de France, molto ricca per
tutto quello che riguarda la storia della lingua francese. Ho consultato un
gran numero di archivi, ho raccolto molti dati e ho provato un piacere
immenso nel fare questa ricerca. Poi, approfittando dell’essere in questo
luogo colto e ovattato, ho abbandonato un momento il mondo dei frutti e ho
cercato di capire che ne era stato dei colori e del loro rapporto con il gergo.
Mi sono accorto subito che il rapporto era quasi inesistente: i colori e il
gergo sembravano ignorarsi. Anche se può sembrare strano, la langue verte
è molto poco colorata. Non solo il lessico dei colori entra solo
marginalmente nella creazione di parole o espressioni gergali (citiamo due
rari esempi in francese: la blanche per indicare l’eroina; avoir la rougeole
per portare la Legion d’Onore), ma anche e soprattutto non esistono quasi
parole in gergo che possano sostituire questo o quel colore. Anche la
semplice gergalizzazione di vocaboli ordinari per suffissazione (noircif,
verdasse, rougedingue) o per giavanese (blaveu, per blu, gravis per grigio)
non è un procedimento comune, tutt’altro. I rari esempi si trovano in
qualche romanzo popolare degli anni Cinquanta e riguardano la mafia.
Quanto al verlan – procedimento di gergalizzazione poco originale e
linguisticamente molto povero –conosce appena gerou (rosso) e renoi
(nero), visto che queste due parole sono più o meno frequentemente
pronunciate dai verlangueurs.
L’espressione langue verte sembra inadeguata per qualificare questo stato
della lingua che indichiamo anche con argot. È vero che in origine, a
cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la langue verte indicava solo la lingua
esplicita, se non volgare, dei giocatori di carte. Il verde, colore della fortuna
e della sfortuna, dei soldi e del caso, era in effetti associato al gioco dalla
fine del Medioevo; e questo, ovunque in Europa. In Italia, per esempio, a
metà del XV secolo, i tappeti di gioco erano già di questo colore. E lo sono
rimasti fino a oggi.
Una simile scarsità di rapporti fra il gergo e il colore si nota nella
maggior parte delle lingue europee. C’è ben poco anche in inglese dove il
vocabolario cromatico sembra avere qualche forma ed espressione gergale:
a yellow dog, ‘un fifone’; a green ass, ‘un novellino’ (‘una matricola’); to
paint the town red ‘divertirsi’; to give the pink slip, ‘licenziare’; to dream
about green horses, ‘fantasticare’. Non trovo niente di simile in tedesco,
lingua che non usa molto il gergo, e nemmeno in italiano (ma la mia
conoscenza dell’italiano popolare e dei suoi derivati è rudimentale).
L’indagine prosegue.

Il clown del plotone


(luglio 2013)

Sulle strade del Tour de France si nota solo lui. Non quello che indossa la
maglia gialla, ma quello della maglia bianca a pois rossi, ovvero il primo
della classifica del ‘Gran Premio della Montagna’. Questa classifica fu
istituita ufficialmente nel 1933 ma si è dovuto aspettare il 1975 perché il
suo leader si potesse distinguere dagli altri ciclisti con una maglia speciale.
Non una maglia in tinta unita come il primo della classifica generale (gialla)
o della graduatoria a punti (verde), ma una maglia particolarmente vistosa e
un po’ comica: bianca e costellata di grandi – molto grandi – pois rossi.
Impossibile non distinguere un ciclista così in mezzo al plotone.
Chi ha avuto l’idea di una tenuta così appariscente, e perché? Una
leggenda inossidabile racconta che fu la marca del cioccolato Poulain,
allora sponsor di questa formazione di montagna, a imporre questa maglia.
Fondata a Blois nel 1848, famosa non solo per il suo cioccolato ma anche
per le immagini educative che accompagnavano le tavolette, questa marca
ha avuto in effetti per lungo tempo il rosso come colore emblematico.
Tuttavia, il suo logo non era un insieme di pois ma un cavallino, figura
simbolica ‘parlante’ – come dice il linguaggio araldico – ovvero che dà
luogo a un gioco di parole con il nome della marca. La teoria Poulain per
giustificare la stravagante maglia a pois non sembra essere plausibile.
L’affermazione secondo la quale fu Félix Lévitan, giornalista sportivo e
in seguito direttore del Tour de France dal 1962 al 1987, il promotore di
questa maglia sembra più veritiera. Gli si devono in effetti molte novità
volte a modernizzare il Tour, soprattutto il traguardo dell’ultima tappa sugli
Champs-Élysées (che a mio parere sminuisce l’aspetto sportivo del Tour de
France, dando più rilievo allo spettacolo che alla gara). È forse Félix
Lévitan l’autore della maglia bianca a pois rossi? Ma per evocare chi o
cosa? Anche in questo caso, una leggenda senza tempo circola negli
ambienti ciclistici: questa tenuta sportiva avrebbe ricordato quella di un
famoso campione degli anni Trenta-Quaranta, Henri Lemoine,
soprannominato ‘Petit Pois’ per via del suo essere tracagnotto e per una
maglia da cui si separava raramente (tranne quando indossava quella da
campione di Francia) e che faceva la felicità dei caricaturisti, bianca con
grandi cerchi arancioni. Henri Lemoine e Félix erano molto uniti, perciò è
possibile che quest’ultimo abbia scelto la maglia bianca a pois rossi in
onore del suo amico. Ma, nel 1975, Lemoine non era ancora morto, per
nulla (morì nel 1991). E poi, quando era in attività, era un pistard,
mezzofondista nelle gare al velodromo, assolutamente non un grimpeur
nelle gare su strada. Dubito che Félix Lévitan, grande esperto della storia
del ciclismo, abbia commesso, anche volendo, un tale sacrilegio: portare i
pois della pista fra i passi di montagna.
Il mistero resta quindi irrisolto. Può darsi sia meglio così, anche perché
questa maglia basta e avanza: alla prima occhiata, identifica subito chi la
indossa. Ma lo trasforma anche in un pagliaccio. In tutti i casi la scelta dei
pois non è stata molto felice. Una maglia semplicemente a righe bianche e
rosse sarebbe stata meglio: si sarebbe vista altrettanto bene senza avere
questo aspetto ridicolo di una miriade di enormi pois rossi su fondo bianco.
E poi sarebbe stata più elegante. Le cravatte sono d’esempio:
nell’abbigliamento, le righe sono sempre più chic dei pois, anche quelli più
discreti. Ma gli sportivi devono essere chic? Non ne sarei così sicuro. Per
piacere al grande pubblico, tutti i campioni devono essere un po’ buffoni e
stravaganti. Se i grandi sportivi fossero discreti, sobri, eleganti, se
abbandonassero le loro tenute variopinte da saltimbanchi moderni,
probabilmente perderebbero una buona parte della loro popolarità.

I colori del mare


(agosto 2013)

Quando arriva l’estate, guardare il mare è la mia attività principale quando


sono nella mia cara Bretagna. Non mi stanco mai (bisognerebbe essere
davvero barbari per stancarsi di uno spettacolo simile) e cerco di coglierne,
o almeno di nominarle, tutte le sue sfumature di colore. Sembrano infinite.
È senza dubbio la ragione per cui gli Antichi hanno usato vocaboli così
diversi per cercare di descriverlo. Ma che si tratti di greco o di latino, le
parole scelte sono sempre instabili, incerte, polisemiche. Traducono
soprattutto le qualità della luce, più che veri e propri colori. A volte non
indicano tanto il colore in sé quanto le sensazioni o le emozioni che suscita,
lasciando al lettore più un ‘sentimento del colore’ che una precisa
informazione. Così come accade nell’Odissea, dove il mare può essere
‘color bronzo’, ‘color porpora’, ‘color di porfido’, ‘viola come sangue’,
‘perfettamente dorato’, ‘vinoso’ o ‘vinaccia’, ma mai né verde né grigio,
ancor meno blu.
Qui, su questa costa nord della Bretagna, metafore simili non sono
giustificate, ma dire di quale colore sia la Manica è un esercizio altrettanto
impossibile, tanto è mutevole da un’ora all’altra: a volte verde, a volte
marrone, talvolta grigio, raramente blu, e spesso dai riflessi bianchi, gialli,
rossi e anche rosa. In bretone, in generale, c’è una parola sola per definire il
verde, il blu e il grigio: glas, aggettivo che si assegna al colore degli occhi e
a quello del mare. Ma la lingua bretone non ha niente di molto originale in
merito. In molte lingue, il blu e il verde sono confusi in un solo vocabolo, al
quale si aggiungono talvolta il grigio e anche il giallo (più o meno è anche il
caso del greco antico per glaukos e chloros, difficili da tradurre con un
aggettivo preciso).
Con gli autori del Medioevo, la gamma dei colori del mare si semplifica e
si riduce sempre più a una sola parola: viridis (‘verde’). Il mare medievale è
visto, descritto e rappresentato verde fino al XII secolo. Esiste per questo
una semplice spiegazione: il verde è il colore dell’acqua. Per convenzione,
l’ho già evidenziato in questo Diario cromatico, ognuno dei quattro
elementi possiede il suo colore: l’aria è bianca; il fuoco rosso; la terra nera;
e l’acqua verde. Il blu è stato per tanto tempo un colore troppo debole sul
piano simbolico per avere un suo ruolo in un tale sistema di corrispondenze,
già in atto ai tempi dei Romani e ancora molto utilizzato fino all’inizio
dell’epoca moderna.
Bisogna effettivamente aspettare gli albori della cartografia perché in
Europa il mare diventi blu. Fu un passaggio lento, fra il XV e il XVII
secolo: quando le carte complete si aggiungono ai portolani, per non
confondere il verde delle foreste con quello del mare, dei laghi o dei fiumi,
si comincia piano piano a codificare in blu tutto ciò che rappresenta l’acqua
e a mantenere il verde per le aree forestali. Questa nuova convenzione si
estende progressivamente ad altre forme di rappresentazione, così che
nell’immaginario comune l’acqua finisce col diventare blu. Specialmente
l’acqua fredda, come lo ricorda oggi la placchetta blu che compare sui
rubinetti d’acqua fredda nei nostri bagni. Se, nel cuore del Medioevo, i
nostri antenati avessero potuto disporre dell’acqua corrente, questa
placchetta sarebbe stata senza alcun dubbio verde.

Quando sventola la bandiera rossa


(agosto 2013)
Oggi sono quasi solo in spiaggia: il mare è brutto, il bagno è vietato, la
bandiera rossa sventola. Questo colore, poco presente nella nostra vita di
tutti i giorni, è diventato quello del pericolo e del divieto. Lo era già nel
XVIII secolo nella maggior parte delle grandi città europee, quando le
autorità cittadine erano solite agitare un pezzo di stoffa rossa per avvisare di
un pericolo imminente. È quel che è accaduto il 17 luglio 1791 a Parigi: una
folla immensa si era radunata allo Champ-de-Mars per chiedere la
destituzione del re che era appena stato arrestato mentre cercava di fuggire
a Varennes; la bandiera rossa venne dispiegata per invitare la folla a
disperdersi, ma l’ordine venne mal interpretato e ci furono degli spari. Ci
furono decine e decine di morti, subito trasformati in martiri della
Rivoluzione nascente. A partire da quel giorno funesto, la bandiera rossa,
un tempo pacifica e consociativa, divenne prima in Francia e poi in Europa,
e in seguito nel mondo intero, un emblema militante, sia ideologico che
politico, che ha confiscato e sottomesso alle proprie esigenze il ricco
simbolismo del colore rosso.
L’uso del rosso per segnalare un pericolo non è tuttavia scomparso. Ce ne
sono ancora molti esempi nelle nostre società contemporanee, non solo
sulle spiagge: così come le bande alternate bianche e rosse per delimitare un
perimetro di protezione intorno a zone pericolose; oppure, sulle nostre
confezioni di medicinali, la riga rossa con la dicitura ‘non superare le dosi
prescritte’. Dal pericolo, siamo passati ben presto al divieto. La segnaletica
stradale, erede di quella marittima e ferroviaria, fa un largo impiego del
rosso per vietare, a cominciare dal semaforo rosso che impedisce di passare.
Il primo esempio è londinese e risale al 1859. Ma in mare è molto più
antico: data dalla metà del XVIII secolo. Più si va avanti nel tempo, più i
pannelli del codice della strada costruiti intorno al rosso – pericolo, divieto,
minaccia di multa – diventano numerosi, come se questo colore, un tempo
quello della bellezza, del piacere, della festa e dell’amore, si riducesse ai
suoi utilizzi punitivi o vincolanti.
Stamani è rosso: non si fa il bagno! Verrebbe quasi voglia di auspicare il
ritorno dell’arancione, questo quasi rosso che veste giubbotti e salvagenti.
Colora ipocritamente la bandiera delle spiagge quando fare il bagno è
ritenuto pericoloso ma resta lecito e sorvegliato. Apparentemente più
permissivo, l’arancione è comunque altrettanto minaccioso.
Pittura fresca
(settembre 2013)

Non sono un fan delle piccole trasgressioni, comportamenti futili e spesso


arroganti, ma c’è un caso in cui trasgredisco volentieri i divieti: ogni volta
che m’imbatto in una scritta che dice ‘attenzione, pittura fresca’. Lo faccio
da quando ero piccolo e continuo a farlo nella terza età. Non posso
impedirmelo, è più forte di me. È vero che in questo caso non si tratta di un
vero e proprio divieto, quanto di un avvertimento. Non importa: bisogna
che io tocchi il colore appena dato. Quando è laccato e attraente (verde
scuro, per esempio), avrei quasi voglia di leccarlo. Il colore a volte si
assaggia. Ma di certo non lo faccio, ci passo solo il mio dito, delicatamente,
ma con una certa golosità. La mia vanità mi spinge a dire che in più di
sessant’anni di questa pratica bizzarra mai, mai e poi mai il mio dito (di
solito l’indice della mano sinistra), si è sporcato di ‘pittura fresca’. Come se
il cartello fosse stato appoggiato o lasciato lì molto dopo che il colore si era
completamente asciugato. Scritte e cartelli spesso mentono…
Purtroppo non è stato il caso di ieri pomeriggio a Lamballe, briosa
cittadina della Côtes-d’Armor di cui frequento la stazione da quando ero
ancora un bambino. Un banale cartello ‘pittura fresca’, simile a tutti quelli
che avevo sempre visto fino ad allora, era attaccato al portone di un
modesto caseggiato del quartiere della stazione. Con molta naturalezza ho
passato il mio dito sulla griglia appena riverniciata, ma qui – cosa inaudita –
la scritta non mentiva: la pittura fresca era davvero fresca. Per la prima
volta nella mia vita in una circostanza simile, il mio indice sinistro si è
coperto di una pellicola appiccicosa e colorata, un brutto blu cielo che è
stato difficile da togliere. Ho dovuto ricorrere al solvente per lo smalto delle
unghie, all’etere etilico più o meno adulterato (ormai non si trova più in
commercio) e al famoso alcool bianco degli amanti del fai-da-te, prodotto
orribile e pericoloso derivato del petrolio, ma prodotto abbastanza efficace.
Che umiliazione! Grande amico dei colori sotto ogni aspetto, credevo di
essere invulnerabile alle sbavature appiccicose della vernice da
imbianchini! Il mio orgoglio cromatico ha preso una brutta batosta.
Un maglione blu scuro
(ottobre 2013)

Si è borghesi – ma cos’è poi un ‘borghese’? – perché s’indossa un maglione


o un vestito blu scuro? È quel che sembra pensare uno dei miei colleghi,
militante sindacalista rugoso, marxista della prima ora e ‘antiborghese’
convinto e dichiarato. Malgrado la (o a causa della) nostra amicizia, stamani
mi ha rimproverato di portare un abito simile. Per lui, il blu scuro è un
‘colore di classe’, da classe ‘dominante’ ovviamente, e quindi un colore da
evitare in ogni ambito e in tutte le occasioni.
Una tale faziosità, che giudica dalle apparenze e che si basa su idee così
sommarie, è inquietante. Purtroppo non succede di rado negli ambienti
universitari. Ho provato a spiegare al mio amico che, se mi vesto spesso di
blu scuro, è per la mia stazza: scegliendo questo colore, elegantemente
scuro, spero di sembrare più magro agli occhi degli altri. «Puoi sempre
vestirti di nero» ha obiettato… perentoriamente, «il nero è un colore
politicamente corretto». Proposito particolarmente sfizioso nella bocca di
un vecchio studente ‘rosso’, e anche più rosso del rosso, che conosco da
anni e che, nelle manifestazioni del maggio del ’68, s’infuriava nel vedere
la bandiera rossa dell’estrema sinistra invasa sulla sinistra dalla bandiera
nera degli anarchici.
Non ho assolutamente nulla contro i borghesi, ma penso di non esserlo. In
compenso, molti miei amici lo so-no e non corrispondono per niente
all’idea che se ne sono fatti i gauchisti. Chi confonde sempre ‘borghesi’ e
‘arricchiti’ – cose non collegate fra loro – e s’immagina assurdamente che
avere valori borghesi voglia dire necessariamente essere ricchi, importanti,
potenti (o meglio ‘dominatori’, come direbbe Bourdieu). Idea a dir poco
riduttiva, se non disonesta. La maggior parte dei borghesi che conosco vive
modestamente e discretamente, senza esercitare alcun potere, senza imporre
a nessuno i propri codici e le proprie consuetudini, evita le novità
appariscenti, è nauseata dallo sfarzo e molti di loro votano a sinistra. Ma è
vero che, per alcuni ideologi, non possedere una televisione, non leggere
riviste people, rifuggire dal divertimento popolare equivale a simpatizzare
con l’estrema destra, persino comportarsi da ‘facho’. I ‘gauchos’ hanno un
concetto molto ampio dei ‘fachos’. Sarà vero anche il contrario? Senza
dubbio.
Torniamo al blu scuro, una sfumatura di colore che amo sinceramente.
Ciò è probabilmente legato alla mia adolescenza, e più in particolare alle
vacanze passate a casa della nonna, in quella piccola stazione balneare della
costa nord della Bretagna che ho già ricordato. In quell’epoca, all’inizio
degli anni Sessanta, praticamente tutti noi, ragazzi e ragazze appartenenti
alle classi sociali medie più o meno abbienti, eravamo vestiti di blu: camicia
o polo blu chiaro, jeans indaco e maglione blu scuro. Sto dicendo ‘all’inizio
degli anni Sessanta’ (secondo me la più bella epoca del XX secolo), e non
‘alla fine degli anni Sessanta’, quando la moda variopinta dei futuri anni
1970 era già in gestazione. Questo blu degli adolescenti era per me
essenzialmente il blu delle ragazze adolescenti. Io le guardavo e loro mi
turbavano. Dopo questa epoca, un maglione blu scuro indossato da una
donna, associato o no a un jeans, ha ancora ai miei occhi una discreta
dimensione erotica. Ciò può sembrare sorprendente ai giorni nostri,
addirittura ridicolo, ma so che questa fantasia è molto diffusa tra gli uomini
della mia generazione.
Del resto non ne abbiamo l’esclusiva, e questa fantasia esiste anche tra le
persone più vecchie di noi, alcune del tutto insospettabili. Così come Serge
Gainsbourg, la cui adolescenza è trascorsa molto lontano dalle spiagge della
Bretagna e che in alcun caso si può definire ‘borghese’ o ‘figlio di cattolici’.
Ciononostante, quando nel 1983 compose per Isabelle Adjani una canzone
(dalla melodia meravigliosa) che s’intitolava Pull marine, sono quasi certo
che questo indumento e questo colore nascondessero una sorta di vaga
fantasia sessuale non molto diversa dalla mia. Anche se la giovane donna
della canzone – di cui Isabelle Adjani ha scritto una parte del testo – non è
una tenera adolescente ma una donna che soffre per amore («J’ai touché le
fond de la piscine dans le petit pull marine, tous déchiré aux coudes… que
tu m’avais donné»); e anche se Serge Gainsbourg ha più volte affermato,
negli ultimi anni della sua vita, di preferire tra i colori il ‘caca d’oie’.
Sicuramente una provocazione, ma avrebbe potuto ammettere di amare il
blu scuro? La maggior parte dei suoi fan, soprattutto i più giovani, non
l’avrebbero capito.

Ancora il blu scuro


(ottobre 2013)
Desidero ritornare oggi sul blu scuro, non avendo smesso d’innervosirmi e
di ripensare per tutta la giornata di ieri alle parole ingiuste e discriminanti
del mio collega ‘antiborghese’, peraltro amico di lunga data e filologo
illuminato. Non è certo il solo a pensare che il blu scuro sia un colore ‘di
destra’, oggi come oggi quasi di estrema destra. Sono ragioni legate
all’attualità politica: in Francia, come facevano una volta i comunisti con il
rosso, il Front National cerca di monopolizzare per i propri fini questa
sfumatura di colore che appartiene a tutti. Per farlo, associa il blu della
Francia – eredità nazionale che viene da molto lontano – e il nome del suo
presidente – Marine Le Pen – al punto tale che oggi è diventato difficile
dire: «Mi piace il blu marine» senza essere immediatamente etichettato
come ‘frontista’.
Ciononostante (mi piace l’avverbio ‘ciononostante’, delicatamente
concessivo: fa finta di mitigare il pensiero quando in realtà non mitiga
proprio niente), esistono anche delle ragioni storiche in questo legame tra il
blu scuro, le autorità militari o di polizia e gli ambienti borghesi (o pretesi
tali). Facciamo allora un po’ di storia.
Nella seconda metà del XIX secolo, i chimici misero a punto coloranti
sintetici che permettevano ai tintori di diversificare la gamma dei blu scuri
senza bisogno di ricorrere all’indaco naturale, materia colorante molto
costosa. Ciò permise di lanciare la moda dei capi di vestiario ‘blu scuro’,
sfumatura di colore che imita quella delle uniformi della Marina britannica
– la celebre Navy Blue – in voga dalla fine del XVIII secolo. Questa nuova
moda, cominciata in sordina, conobbe un successo sempre maggiore a
partire dagli anni Trenta, al punto che dopo la Seconda guerra mondiale il
blu scuro divenne una delle sfumature di colore più amate
nell’abbigliamento europeo. Esistono diverse spiegazioni per questo fatto,
ma la principale è legata al declino del nero, colore dominante nel XIX
secolo, ma abbandonato poco a poco perché giudicato troppo severo. Nel
XX secolo quindi il nero viene sostituito in molti settori dal blu scuro,
colore altrettanto sobrio ma meno violento e soprattutto meno caro. Riuscire
a ottenere per la maggior parte dei tessuti un nero veramente nero,
profondo, carico, uniforme per la tintoria industriale è stata per molto tempo
una pratica costosa e complessa. Questo non accade più con il blu scuro. Da
qui la moda di usare questa tinta per molti capi di abbigliamento, soprattutto
per le uniformi. Col passare dei decenni, prima in Europa e poi nella
maggior parte del mondo occidentale, molte professioni o attività che
prevedono un’uniforme sono progressivamente passate dal nero al blu
scuro, ormai definito come ‘blu Navy’: prima i marinai, senza dubbio, poi
alcuni militari, i carabinieri, i doganieri, i poliziotti, i pompieri, la maggior
parte degli impiegati delle poste e dei trasporti e anche diversi ecclesiastici.
Solamente i giudici sono rimasti fedeli al nero.
Un’uniforme in particolare, che ha fatto fantasticare i giovani della mia
generazione e quelli della generazione precedente, è quella dei collegi e
delle scuole per ragazze, istituti misteriosi (almeno per i ragazzi) dove per
molto tempo il blu scuro – tutto o in parte – era obbligatorio. Si è quindi
creata una relazione, nei sogni e nei desideri dei giovani uomini che
cominciavano a sentire il richiamo della passione, tra questo colore e le
belle adolescenti: vestite in questo modo sembravano allo stesso tempo
virtuose, desiderabili e inaccessibili. Una canzone di Maxime Le Forestier,
del 1972 e intitolata Fontenay-aux-Roses, lo dice espressamente: «Vous êtes
si jolies quand vous passez le soir à l’angle de ma rue; parfumées et
fleuries avec un ruban noir, toutes de bleu vêtues…» La canzone è
meravigliosa ma animi misogini e in malafede hanno accusato Maxime Le
Forestier di apologia della pedofilia cantando quelle parole. Accusa
infondata perché le parole, scritte da Jean-Pierre Kernoa, alludono alle
studentesse dell’École normale supérieure per ragazze, istituita a Fontenay-
aux-Roses dal 1880. Queste studentesse non hanno otto o dieci anni ma
diciotto, venti o anche di più.
Per non parlare più del blu scuro del mio maglione, che come rispettabile
insegnante di una certa età non avrei mai dovuto indossare un giorno
dell’estate indiana nella corte della Sorbonne, devo aggiungere che il mio
collega (e amico) non mi ha solamente rinfacciato il colore ma anche il
modo di portarlo: «… appoggiato con noncuranza sulle spalle; un operaio
non lo farebbe mai…». Di certo. E neanche un contadino. O un parvenu, un
industriale, un politico importante o ancor meno un artista anarchico. Ma io
non appartengo a nessuna di queste categorie, e se togliersi il maglione e
metterselo sulle spalle quando incomincia a fare caldo è un gesto
tipicamente borghese, me ne assumo la responsabilità. Ma credo
fermamente che agli occhi di questo amico troppo bourdieusien ciòche
sembrava troppo ‘borghese’, più del colore del maglione e di come lo
tenevo sulle spalle, fosse quell’indossarlo ‘con noncuranza’. Un lusso
secondo lui vietato a molte categorie sociali e riservato alla classe
‘dominante’.
‘Noncuranza’: un nome di classe!

Il colore delle lettere


(novembre 2013)

Ho trascorso tutto il giorno a una conferenza, rinchiuso in un piccolo


auditorium dell’università Paris VII, troppo riscaldato e che puzzava
vagamente degli strani odori di una vicina mensa: non ho più l’età. Divento
claustrofobico, irritabile, impaziente, sensibile alle esalazioni maleodoranti
e infastidito dai ritardi accumulati sul programma. Oggi sono rari gli oratori
che rispettano il tempo di parola, e ancora più rari quelli che parlano dando
prova di spirito pedagogico invece di leggere le loro relazioni, e di solito a
gran velocità. Quando ero studente e in seguito giovane ricercatore, era
considerato estremamente sgarbato leggere il proprio testo: bisognava
parlare, utilizzando in modo discreto le proprie annotazioni, come se si
stesse facendo una lezione; soprattutto mai leggere. Adesso non mi sembra
più così. Ho visto addirittura, al momento della discussione di una tesi di
laurea, colleghi, professori universitari arrivati all’apice della carriera,
leggere in tono monocorde un discorso preparato in anticipo, quando invece
il povero dottorando, nonostante la timidezza e la solennità della giornata,
aveva fatto lo sforzo di presentare il suo lavoro parlando e non leggendo.
Detto questo, la conferenza di oggi era molto interessante, dedicata
all’evoluzione recente della veste tipografica (in special modo quella della
forma delle cifre e delle lettere) e alla leggibilità dei testi stampati. Molti
relatori hanno parlato del manifesto, un documento per il quale nutro una
particolare tenerezza. Altri hanno affrontato l’argomento dei colori degli
inchiostri e dei tipi di carta, un tema che ha evidentemente catturato tutta la
mia attenzione. Nella mia ingenuità credevo che le lettere nere su fondo
bianco fossero quelle più leggibili. Ho invece imparato che è così solo per
la visione ravvicinata. Da lontano (per esempio per i manifesti), le lettere
nere su fondo giallo si vedono e si leggono meglio. Inoltre, sia da vicino
che da lontano, un testo scritto a lettere rosse su fondo bianco si legge meno
bene di uno a caratteri in nero, smentendo quel che a volte si pensa. Ma,
essendo meno frequente, attira maggiormente l’attenzione e serve spesso
per mettere in evidenza un pericolo, un obbligo, un divieto o una
promozione (per esempio in periodo di saldi). Quanto ai testi composti da
lettere di colori diversi, sono difficilmente leggibili, anche su uno sfondo a
tinta unita; e diventano illeggibili su uno sfondo policromo. D’altronde,
molto spesso questi testi, che possono a volte rallegrare lo sguardo, non
sono fatti per essere letti.
L’intervento che mi ha interessato di più è stato un incrocio tra
percezione, neurologia e psicologia. Trattava del cosiddetto ‘effetto Stroop’
(dal nome di John R. Stroop, psicologo americano morto nel 1973), effetto
di cui il mio amico Philippe Fagot – esperto di tutte le questioni che
riguardano i colori – mi aveva già parlato. Si tratta dell’alterazione che
produce l’introduzione di un’informazione non pertinente in un atto
cognitivo, senza rapporto o in contraddizione con ciò su cui si concentra
l’attenzione. Scartare, filtrare o ignorare questa informazione rallenta o
distorce il compito da svolgere. Il relatore che parlava dell’effetto Stroop ha
utilizzato un esempio sorprendente che concerneva i colori. Se ci chiedono
di dire rapidamente i colori delle lettere della parola ‘verde’ scritta in verde,
della parola ‘rosso’ scritta in rosso, della parola ‘giallo’ scritta in giallo, non
avremo nessuna difficoltà e lo faremo a tutta velocità. In compenso, se ci
domandano di dire il colore delle lettere della parola ‘verde’ scritta in
giallo, della parola ‘rosso’ scritta in blu, della parola ‘giallo’ scritta in rosso
e della parola ‘blu’ scritta in verde, l’esercizio diventa più difficile, più
lento, più confuso. La lettura del vocabolo prende il sopravvento sul colore
delle lettere che lo compongono, e il numero di errori rispetto al compito
affidato diventa elevato. Inoltre, se questi stessi termini di colore non sono
presentati isolatamente ma inseriti in una frase o in un testo relativamente
lunghi, la confusione e l’indugio saranno ancora maggiori. Alcuni
esperimenti pratici fatti con il pubblico l’hanno ampiamente dimostrato.
Cercare di leggere ‘blu’ e non ‘rosso’ quando la parola ‘rosso’, nel testo
suggerito, è scritta a caratteri blu è un compito difficile.
Questa presentazione mi ha reso felice, non vedo l’ora di riproporre
l’esperimento alle persone che conosco. Anche altri relatori hanno parlato
di colori, di come vengono percepiti, della loro influenza nella scelta dei
caratteri, in pubblicità, nei fumetti. Si trattava di argomenti più
convenzionali, ma sempre istruttivi. Nessuno, però, ha posto il problema di
‘chi sta guardando’? Gli esperimenti sulla percezione e la leggibilità dei
caratteri e dei testi a colori danno gli stessi risultati in lingue diverse? Ne
dubito. La percezione non è solo un fenomeno neurobiologico, ma anche un
fenomeno culturale: l’essere umano – non lo si ripeterà mai abbastanza –
non vive da solo, ma vive in società. La società, qualunque essa sia, esercita
la sua influenza anche sugli atti cognitivi più intimi. Nessuno ha parlato di
questo relativismo culturale, come se tutto quello che dal punto di vista
percettivo è valido in Occidente possa (e debba!) esserlo per l’intero
pianeta.

Dermatologia
(novembre 2013)

Ho la fobia di ogni malattia, in particolare di quelle della pelle. Per un


medievalista, è comprensibile: nel Medioevo, le malattie della pelle sono le
più temute e quelle che discriminano nel modo peggiore chi ne è colpito. Si
fa fatica a distinguerle le une dalle altre, e ogni foruncolo, ascesso,
bubbone, orzaiolo, pustola, eruzione o anche semplice rossore è visto come
lebbra o peste.
Questa mattina mi sono svegliato con una specie di lebbra: tutto il mio
corpo era ricoperto da vesciche rosse, particolarmente abbondanti sul petto,
la schiena e le natiche; vescicole e pustole di grandi dimensioni,
dall’aspetto disgustoso e di un rossore che tende al rosato e al giallastro.
Non è una classica orticaria. Preoccupato, direi quasi molto preoccupato,
malgrado l’assenza di dolore, febbre, o prurito, sono andato dalla mia
dermatologa che, come ogni volta, mi ha accolto con un ironico «Non è
dimagrito». Mi sono spogliato, e non appena lei ha visto l’esantema si è
messa a gridare entusiasta: «Oh! Un bell’edema di…» Ho dimenticato
come si chiamano i due famosi dottori che hanno dato il loro nome a questo
edema conosciuto ai dermatologi solo superficialmente. Nomi complicati e
vagamente comici, qualche cosa del tipo Chignon-Brossard e Sacripanti.
La dottoressa mi chiede quindi cosa io abbia mangiato il giorno prima.
Confesso pietosamente di aver cenato la sera prima in un ristorante cinese
poco raccomandabile, che per una cifra modesta offriva un ‘buffet a
volontà’, formula attraente e magica per tutti gli ingordi che preferiscono la
quantità alla qualità, ma sempre deludente e di cui bisogna chiaramente
diffidare. Ci si mangiano i resti avariati del ristorante e non solo, anche
quelli di tutti i ristoranti dei dintorni… «Inutile indagare oltre» mi dice, «lei
ha mangiato quasi sicuramente del cibo andato a male. Fortunatamente non
è grave, è una reazione di tipo allergico, l’edema sparirà in due o tre giorni.
Ma è talmente spettacolare e di un tipo così meravigliosamente da manuale
che voglio fotografarlo». Ed eccomi fotografato nudo sotto tutte le
angolazioni, compresi natiche e genitali. Tra qualche mese le foto del mio
corpo arrossato si troveranno nei manuali e nei dizionari di dermatologia di
tutto il mondo. Un prestigioso caso emblematico, una gloria inattesa che è
capitata a me! E anche un comportamento esemplare dello storico dei colori
che non esita a offrire la propria immagine per insegnare quali sono le più
inquietanti sfumature di giallo, rosa e rosso della pelle.

Una confezione istruttiva di colori


(dicembre 2013)

Fare un regalo a un bambino, grande o piccolo, maschio o femmina, non mi


pone alcun problema di scelta: regalo, ogni volta che posso, una scatola di
colori, dono il più delle volte gradito e apprezzato. Poco importa che il
bambino ne possieda già una, due, tre o tante altre: una confezione di colori
non è mai uguale a un’altra, e anche se semplice, è sempre una bella cosa.
Non fosse altro che per la tavolozza di colori che crea la scala cromatica
delle vaschette o dei tubetti nella scatola. Che cosa c’è di più bello di un
campionario di colori? Bisogna rispondere onestamente: niente,
assolutamente niente.
Oggi ho comprato una scatola di colori che mi ha fatto particolarmente
felice. Non tanto perché amo i colori smodatamente ma perché sono uno
storico. Si tratta di una confezione di piccole dimensioni destinata a un
bambino di dieci anni. Ho già regalato alla sorella più grande una
confezione di acquerelli di buona qualità che ha riscosso un evidente
successo. La scatola attuale è meno costosa perché fatta solo di colori a
tempera, ma è altrettanto bella. D’altra parte, i colori non sono sistemati in
vaschette di forma circolare, come in una semplice confezione da scolari,
ma in piccoli recipienti rettangolari, come veri e propri acquerelli quali
sono. Sono in tutto dodici, uno vicino all’altro e formano un’unica fila,
disposta in lunghezza, come gli elementi di una tastiera di pianoforte. Una
simile disposizione ricorda subito gli stretti legami che uniscono i colori
alla musica. In questa bella confezione, si tratta proprio di una gamma, con
i suoi toni, le sue sfumature, il suo timbro e le sue particolari variazioni.
I colori vanno dal bianco al nero passando da tonalità che si declinano dal
chiaro allo scuro. Da sinistra a destra, l’ordine è il seguente: bianco, giallo,
beige, arancione, rosso (due tonalità), verde (due tonalità), blu, viola,
marrone e nero. L’effetto è superbo, anche se non rispetta affatto lo spettro.
O piuttosto: è superbo perché non rispetta affatto lo spettro, classificazione
troppo comune dei colori che conquista solo quando si tratta
dell’arcobaleno naturale ma che perde il suo fascino e il suo mistero ogni
volta che l’essere umano cerca di riprodurlo. In questo caso, niente di tutto
questo. Siamo lontanissimo dallo spettro che, ricordiamolo, è costituito
attorno alla sequenza: viola, indaco, blu, verde, giallo, arancione, rosso.
Siamo molto lontani dallo spettro ma in compenso siamo molto vicini alla
classificazione dei colori in uso in Occidente prima che Newton facesse la
sua scoperta: nel 1666 – un anno particolarmente proficuo per la storia della
scienza (a poche settimane di distanza l’una dall’altra, il giovane scienziato
inglese scopre lo spettro e la gravitazione universale) – Newton fa passare
la luce bianca del sole attraverso un prisma di vetro e la scompone in sette
raggi colorati. Facendolo, aggiorna un nuovo ordine di colori – lo spettro –
che è rimasto fino a oggi l’ordine naturale per classificare i colori secondo
le leggi della fisica. Prima di questa ‘invenzione’, ovvero dall’Antica
Grecia fino al XVII secolo, quando si posizionavano i colori su un asse,
l’ordine era tutto diverso: bianco, giallo, rosso, verde, blu, viola e nero. Di
conseguenza, oggi, quando si è storici dell’Antichità, del Medioevo, del
Rinascimento o dell’inizio dell’epoca moderna, è chiaramente su questa
classificazione – attribuita ad Aristotele – e non sullo spettro che bisogna
basarsi per studiare qualsiasi problema relativo al colore. Altrimenti, si
direbbero enormi sciocchezze. Soprattutto per le questioni che riguardano il
lessico. Il vocabolario dei colori delle nostre lingue europee moderne non
corrisponde affatto allo spettro ma alla classificazione di Aristotele. Non
potrebbe essere altrimenti, questo vocabolario, ereditato dal latino o dalle
lingue germaniche, è nato ben prima di Newton, durante il Medioevo.
Torniamo alla mia meravigliosa confezione di colori, aristotelica anche
lei. Riunisce i sei colori di base della cultura occidentale (bianco, rosso,
nero, verde, giallo, blu) e diversi colori ‘secondari’ (rosa, arancione, viola,
grigio e marrone). In tutto fanno undici colori, un numero sicuramente poco
simbolico. È certamente per questa ragione che il produttore ha aggiunto
una dodicesima tinta: il beige. Dodici colori formano una serie completa, un
insieme perfetto. E ciò che è straordinario, e che costituisce ai miei occhi un
documento pedagogico esemplare, è che sono dodici colori perfettamente
allineati come si sarebbe fatto in qualsiasi epoca tra Aristotele e Newton.
Nella confezione, il bianco e il nero, colori a pieno titolo, sono messi ai lati;
il rosso è correttamente posizionato al centro della sequenza; il verde non è
assolutamente tra il giallo e il blu; è di sicuro vicino al blu, ma lontano dal
giallo; anche il viola non si trova a metà strada tra il rosso e il blu, ma
vicino al nero, come nella liturgia e nelle cerimonie del lutto. Del resto, la
parola latina che nel Medioevo indica il viola è quasi sempre ‘subniger’,
cioè ‘sotto il nero’.
Sotto i miei occhi ci sono i colori dell’Antichità, i colori del Medioevo, i
colori del Rinascimento. Sicuramente questa piccola confezione è un
autentico tesoro. Al punto che sono tentato di non regalarla, ma di tenerla
egoisticamente solo per me. Alla fine, sono ritornato nel negozio e ne ho
comprate tre.

Toni blu
(dicembre 2013)

Come mai sulle stoffe e sui vestiti, la maggior parte dei toni blu si
accordano e si sposano facilmente quando è più raro per gli altri colori?
Associare un blu cielo a un blu scuro, un blu lavanda a un blu notte, un blu
foglia di tè a un blu ‘mari del Sud’ non ferisce lo sguardo, non sorprende,
non trasgredisce per nulla i nostri codici o le nostre abitudini cromatiche.
Invece, accostare un verde bottiglia a un verde oliva o semplicemente
combinare un rosso aranciato a un rosso violetto fa male al nostro sguardo e
fa urlare i puristi del colore (tra cui ci sono anch’io, purtroppo!). È un
problema culturale? Di considerazioni ottiche o fisiche? O entrano in gioco
altri fattori più elusivi?
In effetti, nella gamma dei blu, la maggior parte delle tinture, antiche o
moderne, naturali o sintetiche, si ottengono da uno stesso principio
colorante: l’indigotina, presente sia nelle foglie e nel gambo del guado
europeo che in quelli dell’Indigofera tinctoria del Vecchio e del Nuovo
Mondo; oggi è prodotta per sintesi chimica. Nelle altre gamme di colori
(rosso, verde, giallo e anche nero), i principi coloranti di base delle diverse
tinture non sono gli stessi e sembrano rendere dissonanti certi accostamenti.
Almeno agli occhi degli occidentali, poiché, in questo campo, tutto è
decisamente culturale. Del resto, anche solo limitandosi alle società
europee, le differenze geografiche e sociali dello sguardo possono essere
grandi. Un abbinamento di colori normale in una regione potrà essere
sconcertante in un’altra, a tal punto che nella stessa città un simile
accostamento, ‘chic’ in un certo ambiente, sembrerà ordinario o volgare in
un altro. Solo i toni del blu…
Né Internet né la globalizzazione potranno cambiare le cose. Almeno
speriamolo.
2014
Dal nero al bianco
Inquietanti lenzuola di lusso
(gennaio 2014)

Sono le 23.00. Nella camera di un hotel di Zurigo, che fa parte di una


prestigiosa catena internazionale, sto per mettermi a letto. Tutto qui trasuda
lusso e design ultramoderno. Mobili, tende, moquette, stanza da bagno,
tutto è sobrio e del miglior gusto. Tutto è anche ‘protestante’, soprattutto i
colori: grigio, bianco, beige; nessun colore vivo, nessun disegno in
contrasto, nessuna di quelle tinte orribili – dorate e più o meno rosate – che
si trovano spesso negli hotel a cinque stelle degli Stati Uniti. È bello essere
in Svizzera, Paese che può permettersi un lusso inaccessibile a tutti gli altri:
il neutro.
Al momento di coricarmi, qualche cosa tuttavia mi disturba, addirittura
mi inquieta. Togliendo il copriletto rigato di bianco e grigio chiaro (lo chic
assoluto?), mi rendo conto con stupore che il copripiumone, il lenzuolo di
sotto e la federa del cuscino sono neri. Di un nero intenso e a tinta unita.
Mai in vita mia mi sono coricato in lenzuola nere, colore che ai miei occhi
non va bene in un letto. Mi piace molto il nero, lo indosso spesso per avere
l’aria più magra, faccio regali avvolti con carta nera per renderli più
eleganti, sono grande amico dei corvi, ai quali dedicherò un nuovo libro;
ma dormire in lenzuola nere non mi riesce: è l’incubo assicurato. Il
copriletto delicatamente rigato, anche se non lo togliessi, non sarebbe una
barriera sufficiente per impedire al diavolo di venire a farmi visita nel
sonno.
Lenzuola nere! Quale giovane designer pretenzioso, dalla reputazione
sopravvalutata e dalle fatture esorbitanti, ha potuto avere un’idea simile? E
com’è possibile che un hotel di questo livello, frequentato perlopiù da
persone di una certa età, magari già tormentate dall’idea della morte, abbia
potuto fare una scelta simile? È incredibile. Mi viene voglia di chiamare la
reception e chiedere se, tra le circa centocinquanta camere di questo
albergo, non ce ne sia qualcuna che abbia un letto preparato con lenzuola
bianche o blu, colori pacifici che mi assicurerebbero un sonno come si
deve. Ma naturalmente non lo faccio, sono troppo timido o troppo vigliacco
per farlo. Inoltre, dovrei spiegarmi in inglese e non in francese, e nemmeno
in tedesco o in svizzero tedesco. Sono a Zurigo, in uno dei grandi alberghi
di lusso: qui si parla solo inglese evidentemente. Infatti, quando sono
arrivato, il personale della reception mi ha chiesto di fare lo spelling del
mio cognome in inglese. Come ogni uomo istruito, per quanto riguarda il
lessico indispensabile delle lenzuola, padroneggio meglio il tedesco
dell’inglese. Si dorme più comodamente nella lingua di Goethe che in
quella di Shakespeare.
Decido quindi di restare in questa camera, ma mi dedico a un’azione
liberatoria e di protesta: disfo completamente il letto, strappo dal materasso
il temibile lenzuolo nero, spoglio il piumone della sua fodera impura e tolgo
al cuscino la sua federa inquietante; poi arrotolo tutto in una palla infame
che lascio di nascosto in corridoio. E poiché la mia vigliaccheria è totale,
non la metto davanti alla porta della mia camera, la 311, ma un po’ più in
là, davanti all’anta di un ripostiglio o presunto tale.

Le lenzuola il giorno dopo


(gennaio 2014)

Sono ancora provato per la brutta notte passata in un letto riorganizzato a


modo mio: ho dormito direttamente sulla traversa del materasso – una
traversa di un bianco incerto per nulla degno del prestigio di questo albergo
– la testa appoggiata su un copricuscino ruvido, che puzzava vagamente di
cavolo rapa. Tra l’altro, malgrado avessi levato le lenzuola nere, gli spiriti
maligni mi hanno fatto visita questa notte. A casa di Zwingli! A Zurigo, una
città che amo tanto, dove si vive tanto bene, in mezzo a banche e a
casseforti! Per fortuna, la colazione era magnifica, e quando ho attraversato
il corridoio per andare all’ascensore, la spaventosa palla nera che avevo
fatto furiosamente la sera prima non era più davanti alla porta dell’armadio
misterioso. Miracolosamente fatta sparire all’alba da mani ignote. Ma
quest’avventura mi ha fatto riflettere sulla storia del colore delle lenzuola e
della biancheria da letto nel corso degli anni, un argomento meno
aneddotico di quanto sembri e una documentazione che aspetta ancora di
ottenere l’interesse degli storici.
Come raccontarlo in poche parole? Per molto tempo, in Europa, uomini,
donne e bambini delle classi più agiate si sono coricati (presto) in lenzuola
che erano solamente bianche o écru. Per ragioni igieniche e morali, tutte le
stoffe che venivano direttamente a contatto con la pelle dovevano essere
bianche e non tinte. Ciò valeva sia per le lenzuola sia per gli indumenti
intimi, per la biancheria da notte e per quella da bagno. In seguito, durante
il XX secolo, si è a poco a poco diffuso l’uso di tinte pastello e quello dei
tessuti a righe. La rigatura, che ‘spezza’ un colore associandolo al bianco, è
quasi come il pastello: un colore attenuato, un colore ‘che non osa dire il
suo nome’, per riprendere l’espressione graziosa di Jean Baudrillard. Più di
recente, negli anni Settanta, sono apparse lenzuola tinte a colori vivaci,
decisi, carichi, a volte scuri. Fu una sorta di rivoluzione che fa sentire
ancora fortemente i suoi effetti. Chi, oggigiorno, dorme ancora in lenzuola
bianche, rosa pallido o blu cielo? Si dorme piuttosto in lenzuola a righe o a
quadretti, a motivi variopinti, o, più semplicemente, gialle, rosse, verdi, e
anche grigie e viola. Ma non nere come quelle dell’albergo zurighese che
spinge la modernità fino alle porte dell’inferno.
Lenzuola nere! Sono davvero in vendita nei negozi e nei cataloghi? E se
sì, si vendono davvero? Faccio fatica a crederlo. Chi può acquistare
lenzuola nere? Non solo comprarle, ma anche usarle, coricarcisi, rotolarcisi,
dedicarsi agli scambi carnali o a un semplice ‘pisolino’! Si può dormire,
sognare, amarsi, o anche solo riposarsi dentro lenzuola nere? I nostri nonni
non avrebbero mai commesso un simile sacrilegio cromatico. Per rispetto
alla loro memoria prendo parte alla Resistenza: mi rifiuto di dormire in
lenzuola così. Blu: sì; gialle: sì; verdi: sì, rosse: al limite (anche se…). Ma
nere: mai!

Semafori tricolori
(febbraio 2014)

Essere un pedone a Parigi non è affatto riposante. L’aggressività degli


automobilisti e il disinteresse dei poteri pubblici obbligano alla più grande
prudenza quando si attraversa la strada. Con l’età, per me è diventato un
esercizio particolarmente pericoloso, me ne accorgo dolorosamente molte
volte al giorno tentando di attraversare il quai de Conti, davanti al palazzo
dell’istituto dove abito da più di vent’anni. Naturalmente ci sono strisce
pedonali e semafori, ma io cammino lentamente, e il semaforo per i pedoni
rimane verde solo per dodici secondi. Quello per le automobili, invece, dura
circa due minuti, ma anche quando diventa rosso molte macchine e moto –
soprattutto moto – non si fermano. Se poi si vuole attraversare di notte,
inutile provare: nessun veicolo si ferma rispettando il rosso.
Due minuti per le automobili, dodici secondi per i pedoni: la lotta è
impari. Coscienti di un tale pericolo per i membri delle sue cinque
accademie – uomini e donne non più nel fiore degli anni – i servizi
amministrativi dell’Institut de France hanno chiesto alla Direzione Viabilità
del Comune di Parigi di regolare i semafori in modo diverso. Fatica inutile:
non è cambiato niente, sembra addirittura che i pedoni abbiano perso, a
seguito di questa iniziativa, uno o due secondi. Le autorità municipali
mostrano solo disprezzo verso il nostro istituto e, in generale, per gli
anziani. Anche gli automobilisti: una giovane donna al volante di una
piccola auto sportiva verde dotata di ruote a raggi come quelle in
circolazione negli anni Sessanta di recente mi ha dato dello stronzo perché,
secondo lei, non attraversavo abbastanza velocemente e il semaforo era
diventato verde per le auto. ‘Pouffiat’: un vocabolo di grandissima
eleganza, pronunciato al quai de Conti, davanti all’Académie française,
dove si discute ogni giovedì dello stato della lingua francese…
Gli agenti di polizia, come ho potuto constatare questo pomeriggio, non
sono affatto più indulgenti con i pedoni lenti. Il fatto non è accaduto al quai
de Conti ma in boulevard Raspail, all’incrocio Sèvres-Babylone. Un uomo
col bastone stava faticosamente attraversando sulle strisce pedonali quando
il semaforo era rosso per le automobili. Purtroppo, per lui, il semaforo è
diventato verde quando non aveva ancora finito tutto il percorso; un
automobilista che aveva fretta l’ha allora insultato e, per mettergli paura, ha
continuato ad andare avanti con la sua auto fino a sfiorarlo. L’uomo,
malgrado l’età avanzata, ha alzato il bastone e ha colpito il cofano,
graffiandolo leggermente. Folle di rabbia, il conducente è sceso dalla sua
bella auto grigia, ha afferrato, strattonato e insultato il pedone,
valorosamente difeso da molti testimoni. Ne è seguito un alterco,
sufficientemente violento e rumoroso da attirare due poliziotti.
Assembramento, spiegazioni, gesti, chiacchiere, insulti: la discussione è
durata più di un’ora. Eravamo almeno in dieci ad aver assistito alla scena e,
tutti noi, abbiamo testimoniato a favore del pedone. Non è servito a niente. I
poliziotti hanno dato torto a quest’ultimo e hanno stilato un verbale che
l’obbligherà di sicuro a pagare le spese di riverniciatura della carrozzeria
graffiata. A Parigi un pedone non ha alcun diritto rispetto a un
automobilista.
Questo incidente, meno aneddotico di quanto possa sembrare, invita a
interrogarsi sull’origine del semaforo tricolore e sulla scelta del verde,
dell’arancione e del rosso per regolare la circolazione. Bisogna risalire al
XVIII secolo poiché la segnaletica stradale deriva dalla segnaletica
ferroviaria, erede di quella marittima. In mare, grazie a lanterne
segnaletiche installate all’ingresso dei grandi porti, a partire dal 1740 si
comincia a poco a poco a vietare il passaggio con il rosso e ad autorizzarlo
con il verde. Perché questi due colori? Perché in quel periodo cominciavano
a formare nel mondo scientifico una coppia di opposti: un colore primario e
il suo complementare. Il rosso era ormai da molto tempo il colore del
divieto, il verde, il suo recente ‘contrario’, diventa molto naturalmente
quello dell’autorizzazione e del lasciar passare. Si dà oramai il semaforo
verde per entrare nei porti. Il verde diventa il colore della libertà, quando
non lo era mai stato prima.
Nel secolo successivo, verso il 1840, la ferrovia adotta questo codice
creato per le imbarcazioni, poi anche il trasporto su strada fa lo stesso, due
o tre decenni dopo, almeno nelle città. Il più antico semaforo bicolore è
stato installato a Londra nel dicembre del 1868, all’angolo di Palace Yard e
di Bridge Street. Erano due lanterne girevoli a gas, manovrate da un vigile
urbano. Il sistema era pericoloso: l’anno successivo, un’esplosione ferì
mortalmente l’uomo incaricato di accendere le lanterne. Londra si dimostrò
comunque molto all’avanguardia in questo campo visto che Parigi e Berlino
la imitarono solo nel 1923. Il primo semaforo parigino fu installato
all’incrocio dei boulevard Sébastopol e Saint-Denis; era solamente rosso,
per vietare il passaggio; il verde fece la sua apparizione solo agli inizi del
1930 e l’arancione, colore pensato come una specie di rosso, all’indomani
della Seconda guerra mondiale. Nel frattempo, i semafori a due colori
avevano conquistato gli Stati Uniti: Salt Lake City, 1912; Cleveland, 1914;
New York, 1918. Divennero gradualmente a tre colori negli anni Quaranta-
Cinquanta.
Quando l’animale vede il colore
(marzo 2014)

Gran raduno di dotti oggi al Museo nazionale di storia naturale: è la prima


giornata di un simposio che ha per tema la visione dei colori nel regno
animale. Sono venuto in veste di spettatore profano, certamente per
imparare, ma anche per vedere come lavorano e ragionano i naturalisti. Le
loro problematiche e le loro ricerche sono molto diverse da quelle degli
storici, l’ho capito in tutte le presentazioni. Ho anche notato un grande
nervosismo tra i partecipanti più giovani (la posta in gioco è così importante
per loro?) e molta animosità, vedi aggressività, tra i ricercatori più
affermati. A volte i loro punti di vista erano molto divergenti, senza
un’apparente possibilità di riconciliazione. Soprattutto, per tutto ciò che
riguardava la visione dei colori degli insetti.
In ogni caso ho imparato molto durante questa giornata. Per esempio che
i topi sono poco sensibili ai colori ma hanno un’eccellente visione notturna;
che i gatti non vedono in ‘bianco e nero’ come si è sempre pensato, ma
hanno difficoltà a percepire la gamma dei rossi; che i cani sono leggermente
presbiti, che i cavalli hanno un campo visivo molto esteso, che i corvidi
sono particolarmente sensibili alla sovrapposizione del rosso e del giallo.
Nelle presentazioni è ricorso spesso il concetto di ‘efficienza oculare’ che
nessuno ha mai spiegato bene (nitidezza? contrasto? risoluzione?). Mi è
anche sfuggita la differenza tra ‘dicromatismo’ e ‘daltonismo’; ho capito
solo che i due termini non sono sinonimi, come credevo prima. Infine, e
soprattutto, con mia grande sorpresa, la maggior parte degli oratori hanno
confuso i vocaboli ‘visione’ e ‘percezione’, come se si trattasse della stessa
cosa.
Questa sera, al momento di fare un bilancio di una giornata peraltro ricca
e istruttiva, ho delle forti perplessità. Che cosa possiamo veramente sapere
della visione e della percezione dei colori da parte degli animali? Tutti gli
esperimenti, le sollecitazioni, i test, le osservazioni del comportamento
animale, i quadri analitici e d’interpretazione sono stabiliti, realizzati,
codificati e decodificati dall’essere umano. Che cosa ci insegnano davvero
sugli animali? Che i risultati di questi esperimenti, necessariamente
antropocentrici, variano da una specie all’altra, a volte sono simili, e altre
differenti. Che le api sembrano essere stimolate da certi colori e i ragni da
altri. O ancora che la femmina del pavone e quella del fagiano non sono
attratte dalla stessa armonia di colori delle piume dei maschi che si mettono
in mostra per loro. O ancora che i rapaci notturni sembrano distinguere più
sfumature di grigio dei mammiferi, dei rettili o dei marsupiali. Certamente.
Ma possiamo andare più lontano? Per esempio, oltre a risultati più o meno
dedotti, possiamo supporre negli animali l’esistenza di un’estetica o di un
simbolismo dei colori? Questi concetti hanno valore in questo caso?

Carrozzerie
(aprile 2014)

I parcheggi sono luoghi immondi in cui non ci si ferma. A meno che non si
sia degli storici dei colori. Nonostante la mia avversione verso le automobili
e la mia paura di questi luoghi terrificanti, a volte ci passo del tempo per
osservare, o meglio contare, i colori delle carrozzerie (e dire che in un
vocabolo così triviale c’è anche la parola ‘carrozza’…). Se il parcheggio è
grande, il bottino può rivelarsi istruttivo. Il problema è tuttavia riuscire a
raggruppare per grandi categorie cromatiche (bianco, nero, grigio, blu…)
sfumature oggi molto diverse. Una volta riuscivo a farlo e così riuscivo a
scoprire qualche nuova tendenza; da qualche anno, mi è diventato più
difficile.
In modo approssimativo si possono distinguere quattro periodi nella
storia dei colori delle automobili guidate dai comuni mortali (non considero
le auto di lusso, quelle sportive e da collezione). Da quando sono state
inventate fino all’indomani della Seconda guerra mondiale, quasi tutte le
automobili erano nere, bianche, beige o crema, a volte bicolori. L’assenza di
colori vivaci non era dovuta a problemi tecnici, legati alla chimica dei
colori industriali, ma a considerazioni di tipo morale. Figlia del capitalismo,
quindi solitamente legata a valori laici, all’inizio l’automobile doveva avere
colori discreti, neutri, degni di cittadini rispettabili e cristiani virtuosi
(ricordiamoci a questo proposito il cupo Henry Ford, fondatore della
dinastia che porta il suo nome e che nella sua vita, per moralismo, volle
vendere solo automobili nere). A partire dagli anni Cinquanta e fino agli
anni Ottanta, la tendenza si invertì progressivamente: il nero divenne più
raro, i colori più numerosi. In seguito, la tendenza cambiò ancora rotta: la
moda non era più per i colori vivaci ma per le tinte sobrie e scure,
soprattutto il grigio. Al cambio del millennio, tutte le automobili europee
sembravano destinate a essere solo grigie, e sembrava dovesse essere così
ancora per molto tempo. Da qualche anno, invece, questo grigio
onnipresente, invadente, dittatoriale comincia a perdere terreno; sono
riapparsi il bianco e il nero, poi il blu, il marrone, il rosso, e si iniziano a
vedere tinte finora rare o eccentriche come il giallo. Ma il fenomeno rimane
marginale. Nei parcheggi francesi come in quelli dei Paesi vicini, il grigio
resta ancora il colore dominante e si declina in un numero infinito di
sfumature.
In questi cicli di lunga durata ci sono periodi più brevi, spesso circoscritti
geograficamente ma sempre in balìa dell’ago della bilancia tipico delle
mode. In certi ambienti, quando tutti possiedono un’automobile grigia, ‘fa
molto chic’ avere una vettura rossa o verde; e quando i vicini sono
proprietari di un’automobile dai colori vivaci, il massimo è avere un’auto
nera o bianca. Perlomeno quando si può scegliere il colore dell’automobile
al momento dell’acquisto, ma non sempre è possibile: quella tinta non è
disponibile prima di sei mesi, per quell’altra ci vuole un supplemento di
prezzo, l’altra ancora è incompatibile con il modello o gli accessori scelti.
Le scelte sono spesso scelte per esclusione: l’acquirente non sceglie il
colore che gli piace di più ma quello che gli dispiace meno rispetto a quello
che gli viene proposto. E non è la stessa cosa.
Detto questo, le carrozzerie attuali hanno delle sfumature di colore
talmente diverse e così squisitamente declinate che a volte ho difficoltà a
dar loro un nome. Io, l’esperto dei colori, non so più come chiamare la
sfumatura di questa o quella macchina, se non usando nomi imprecisi e
mercenari come quelli proposti dai cataloghi di vendita: ‘grigio quarzo’,
‘grigio sublime’, ‘bianco delle Alpi’, ‘bianco diamante’, ‘nero inferno’,
‘nero Veláz-quez’, senza contare il ‘blu aquarius’, il ‘verde Cambridge’ o il
‘rosso Carpaccio’. Un insieme di vocaboli certamente molto poetici ma che
cromaticamente non danno nessuna informazione precisa. A ben vedere,
sarebbe più facile (e più utile) indicare queste sfumature in latino. Non in
latino classico, il cui vocabolario sui colori non era particolarmente ampio,
ma il latino erudito del XVII secolo: subravidus, grigio chiaro leggermente
giallastro; caesius murinus, grigio medio con riflessi bluastri; superpullus
rufulus, grigio scuro più o meno rossastro.
Frequentare i parcheggi mi rende pedante.
Visita in libreria
(maggio 2014)

Viaggio a Berna, una delle più belle città d’Europa dove cerco di andare
ogni volta che vengo a fare lezione a Ginevra o a Losanna. Appena uscito
dalla stazione – una città nella città – mi dirigo alla libreria d’antiquariato
che frequento da quarant’anni: Hegnauer, sulla via principale, sotto i portici.
Sconforto: la libreria è chiusa, e sulla porta verde è affisso un breve
messaggio dattiloscritto malamente: ‘Rovinati da Internet’. Il mio dolore è
immenso. Così come la mia collera. La morte di una libreria è sempre un
atto di violenza nei miei confronti.
Ho avuto la fortuna di nascere e crescere tra i libri. La biblioteca di mio
padre contava circa quindicimila volumi, quella di mio zio un po’ di più;
due mie zie erano custodi alla Biblioteca nazionale, le cui diverse sale di
lettura erano frequentate da tutta la famiglia. Quando ero molto giovane,
una gran parte della mia paghetta era spesa nell’acquisto di libri, e per me le
librerie erano già allora luoghi incantati. Molto presto ho capito che la vita
vera era in questi luoghi – librerie e biblioteche – e non per strada, nei
giornali, e ancora meno sugli schermi del cinema, della televisione o di un
computer.
Adolescente, m’interessavo già ai caratteri tipografici, ai bozzetti, e
soprattutto alle copertine. Mezzo secolo dopo, non sono cambiato. Alcune
copertine mi attirano o mi incuriosiscono; altre mi ripugnano. Per esempio,
non comprerei mai un libro con una copertina o un dorso in prevalenza rosa
o viola, due colori che detesto. Stessa cosa per l’oro. Come si può sfoggiare
nella propria libreria un libro dal dorso dorato, oggetto da esibire riservato
ai parvenu che non aprono mai un libro? Presto anche molta attenzione alla
impaginazione delle immagini, e non solamente a quella della copertina.
Sensibile su questo punto – con gran dispiacere dei miei editori – ho
un’avversione totale per le illustrazioni così dette ‘al vivo’ (uno, due o tre
lati dell’immagine vanno fino in fondo alla pagina). Pagina intera, al limite;
ma non con l’immagine stampata ‘al vivo’: in un libro l’immagine risalta
maggiormente e si associa meglio ai caratteri quando ha una cornice,
ovvero è delimitata dai bordi bianchi della pagina su tutti e quattro i lati.
Il verde, come si sa, è il mio colore preferito. Per questa ragione, più o
meno consapevolmente, in libreria mi attirano i libri con la copertina di
questo colore. Sfortunatamente sono pochi. Continua ancora a circolare
nell’ambiente dell’editoria – come in quelli del teatro e della Marina –
l’idea che il verde porti sfortuna. Un libro con la copertina verde o con una
forte predominanza di verde non si venderà, o si venderà male: meglio
scegliere un altro colore. La superstizione sulla natura nefasta del verde è
antica. Nel teatro, era già avvalorata all’epoca di Shakespeare; sulle navi, a
quella di Colbert. Nel campo dell’editoria sembra essere più recente ma
c’era già durante il Romanticismo: le opere con la copertina verde, o più
frequentemente grigio-verde, sono riservate a piccole tirature, in special
modo all’erudizione che secondo Balzac ‘si vende male’. Ancora oggi,
alcune riviste di società accademiche, rimaste fedeli alla tradizione, hanno
una copertina in cartone di un verdastro slavato che non piace a tanti ma
che a me rende felice. D’altra parte, l’Académie des inscriptions et belles-
lettres continua a dare il buon esempio: i suoi prestigiosi e accademici
Comptes rendus trimestrali sono diffusi ancora e come sempre con una
copertina verde. Sempre che un bel giorno, all’Institut de France, a un
giovane arrivista del marketing non salti in mente di cambiare questa
copertina con un colore giudicato ‘più vendibile’; oppure – cosa che
sarebbe ben peggiore – sopprimere la pubblicazione cartacea a favore di
una online perfettamente acromatica. La vera erudizione ha bisogno del
verde, e anche del verdastro, così come della carta.

Scrivere sui libri


(maggio 2014)

Da oltre mezzo secolo, frequento regolarmente le librerie specializzate in


libri antichi e d’occasione. Sono purtroppo sempre meno numerose, il caso
di Berna raccontato ieri non è per nulla isolato. In queste librerie, ho – o
meglio avevo – la mania di cercare disegni, segni o frammenti di testo
lasciati nel libro dai lettori precedenti. Nelle grandi biblioteche pubbliche se
ne trovano molti, soprattutto quando sono frequentate da universitari, gente
scherzosa, narcisista e talmente innamorata dei libri da non esitare a
lasciarvi le proprie tracce. L’umorismo c’è spesso. Mi ricordo di essermi
divertito nella grande sala Labrouste dell’antica Biblioteca nazionale, in rue
de Richelieu, alla lettura dei brevi commenti lasciati da due lettori che mi
avevano preceduto nella consultazione di un libro di storia della fine del
XIX secolo. Si trattava di uno studio ricercato sui primi cavalieri insigniti
dall’ordine del Toson d’Oro. Davanti alla nota informativa dedicata a uno di
loro, Jean de Luxembourg-Ligny (1392-1441), una mano anonima aveva
scritto a inchiostro verde, negli anni Sessanta: ‘Si tratta del miserabile che
nel 1430 ha venduto Giovanna d’Arco agli Inglesi per la somma di 10.000
sterline’. E più sotto un’altra mano, altrettanto anonima, aveva aggiunto
qualche anno dopo, a matita rosso vivo: ‘E allora? Bisogna pur vivere!’
Le biblioteche che conservano dei tali tesori dentro ai libri dovrebbero
dedicare loro una raccolta o una mostra. Allo stesso modo meritano di
essere recensite e presentate al pubblico le dediche degli autori. Non sono
rare, e spesso sono originali o divertenti. Ne ho trovate molte nei volumi
che ho ereditato da mio padre. La maggior parte sono opera dei suoi amici
surrealisti: André Breton, che scrive sempre con inchiostro verde, con
un’insospettabile calligrafia minuta e diligente da scuola elementare; Paul
éluard, la cui grande firma a forma di croce di Sant’Andrea è magnifica;
Louis Aragon che, non so perché, si ostinava a chiamare mio padre ‘piccolo
mio’; e Benjamin Péret, che su un esemplare del suo libro Le Gigot. Sa vie
et son œuvre (1957) ha scritto questa dedica enigmatica a inchiostro
marrone: ‘A Henri Pastoureau, che saprà perché’. Io non l’ho mai saputo.
Un giorno, nella vetrina di una libreria di libri d’occasione di Saint-
Germain-des-Prés, ho visto uno dei miei libri in vendita con questa nota:
‘Raro, in ottimo stato, con dedica dell’autore’. Si trattava di uno dei miei
primi libri, un’opera giovanile scritta durante il servizio militare e
pubblicata per la casa editrice Hachette nel 1976: La Vie quotidienne en
France et en Angleterre au temps des chevaliers de la Table ronde.
Trent’anni dopo la sua pubblicazione, era effettivamente diventato una
rarità. Ma mi domandavo soprattutto a chi, nel 1976, avevo dedicato questo
esemplare che a detta del libraio era in ottimo stato, e quindi probabilmente
mai letto. Spinto dalla curiosità, ho deciso di ricomprare il mio libro.
Purtroppo quel giorno la libreria era chiusa. Per questo motivo il giorno
dopo, quando sarei dovuto partire per la provincia, ho chiesto a Laura, la
mia figlia maggiore, di andare ad acquistare il libro per me. Cosa che ha
fatto e, al mio ritorno, ho potuto scoprire la famosa dedica. Sfortunatamente
non era mia, ma di una certa Suzanne, una perfetta sconosciuta, che aveva
regalato il libro a un parente o a un amico e aveva scritto a grosse lettere
sulla pagina iniziale con una brutta biro blu: ‘Per Raymond, questo libro
che parla dei tempi antico (sic), in ricordo della nostra cagnolina’. Sono
rimasto esterrefatto.
Come è possibile che un onesto librario, proprietario di un negozio a
Saint-Germain-des-Prés, abbia confuso la mia bella scrittura di giovane
autore dalle belle speranze con la calligrafia ordinaria e sgrammaticata di
una povera Suzanne in preda a nostalgia canina?

Un blu molto freddo


(giugno 2014)

Amo la Toscana, le sue città e la sua campagna, la sua dolcezza e i suoi


colori, soprattutto in primavera e in autunno. Tranne Firenze… Troppi
turisti, troppo rumore, troppo bieco commercio, musei compresi. Tuttavia
questa settimana non sono andato a Firenze, ma a Pisa, per una conferenza
alla Scuola Normale Superiore. È stato ieri. Oggi approfitto di una giornata
libera per offrirmi una gita a Lucca, la città italiana che preferisco, ad
appena una ventina di chilometri. Era da più di venticinque anni che non ci
tornavo e non sembra cambiato niente. La città è sempre appisolata dietro
alle sue mura e l’atmosfera è densa di quella fragilità malinconica che
hanno certi luoghi assonnati in attesa di una gloria che fu e che non
ritornerà più. Lucca fu nel Medioevo un’importante città mercantile e
tessile; anche una capitale del colore: le attività tintorie davano lavoro a un
gran numero di artigiani, e gli archivi della città conservano ancora vecchi
trattati tecnico-artistici di notevole interesse per la storia della fabbricazione
delle tinture. Li ho già studiati altre volte; ho imparato che non fu né a
Venezia, né a Bruges, né a Norimberga che i mastri tintori mescolarono per
la prima volta il blu e il giallo per ottenere il verde, ma probabilmente
proprio qui, a Lucca.
È primo pomeriggio, fa un caldo gentile, tutto è assonnato, come in
sospensione. Manca solo il mare per sentirsi come nel libro Le Rivage des
Syrtes di Julien Gracq, uno dei miei romanzi preferiti. Le strade sono
deserte, le chiese serrate, i ristoranti chiusi. È lunedì. Solo qualche bambino
gioca a pallone nella splendida piazza Anfiteatro, antica arena romana di
forma ellittica circondata da case costruite nel Medioevo. All’improvviso,
in questo luogo idilliaco, mi viene una voglia molto semplice: mangerei
volentieri un gelato. Ma dove trovarne a quest’ora di sonnolenza generale?
Nessun gelataio sembra aperto. Attraverso la città da nord a sud, da est a
ovest, arrivo fino alla stazione, al di là delle mura, poi ritorno sulla
passerella e nelle stradine del centro storico: invano! Tornare a mani vuote
rende la mia voglia ancor più urgente. Finalmente mi ritrovo davanti a un
bar modesto, un po’ squallido, dove intravedo una specie di frigorifero
obsoleto che contiene dei ghiaccioli confezionati, incartati alla buona e con
brutti colori. Dei prodotti a buon mercato per bambini? Il bar è aperto, entro
come un cospiratore nervoso. Faccio una cosa da pazzi: sotto lo sguardo
sospettoso della padrona, vestita di rosa, ben in carne e pettinata come una
sartina d’anteguerra, compro un enorme e assurdo gelato a forma di…
piede.
Appena arrivo in strada, lo scarto dal suo involucro giallastro e scopro
che il piede è blu, di una bella sfumatura leggermente ‘mari del Sud’, tranne
il grosso alluce ricoperto da un leggero strato di cioccolato, che assomiglia
a un minuscolo gelato da passeggio. La golosità vince sull’imbarazzo.
Senza alcuna vergogna, sotto gli occhi di tutti – non molti, a dire il vero –
incomincio a leccare questo prodotto infame come un bambino che non
vede dolci da mesi e mesi. Dopo tutto, posso dire di essere diabetico – che è
vero – e quindi giustificabile per via dell’ipoglicemia – che lo è un po’
meno. Inoltre, in questo bar assurdo in una città in cui non tornavo da un
quarto di secolo, nessuno sa chi sono. Sono solo un povero straniero
panciuto, con un’espressione un po’ ebete, abbandonato da tutti e che,
nell’ora in cui la gente onesta riposa, mangia avidamente, in mezzo alla
strada, un gelato a forma di piede. Un piede blu.

I colori della Bretagna


(luglio 2014)

In estate e con il ritorno dei festival (che non frequento affatto: troppa
gente, troppo rumore, troppa birra o sidro), la bella bandiera nera e bianca
della Bretagna viene tirata fuori e sventola su tutta la regione. È composta
da nove strisce orizzontali (cinque nere e quattro bianche), interrotte vicino
al pennone da un grande riquadro di mosche d’ermellini. L’effetto visivo è
spettacolare e ricorda vagamente la bandiera greca, un’altra meravigliosa
bandiera ma dai colori bianco e blu.
Le origini della bandiera bretone (che porta il nome di Gwenn-ha-Du)
sono controverse: è nata negli anni Venti o è più antica? La storia
vessillologica della Bretagna è particolarmente ricca e dibattuta, e gli
studiosi sono in disaccordo su molte questioni. Tuttavia, per l’araldista,
sembra innegabile che i due colori della bandiera, il nero e il bianco,
provengano dall’antico stemma del ducato: ‘D’argent semé de mouchetures
d’hermine de sable’, ossia uno scudo bianco costellato di piccole ciocche di
peli neri che ricordano la coda dell’animale. Questo scudo fu sicuramente
scelto nel 1316 dal duca Jean III. L’ermellino ducale apparve tuttavia un
secolo prima: figura già sulle armi del suo predecessore sotto forma di
quartier franco (semplice quadrato posto in alto a sinistra dello scudo) che
distingueva le armi dei Dreux. I duchi di Bretagna del XIII secolo sono
infatti cadetti dei conti di Dreux. Sono discendenti di Pierre Mauclerc,
secondo figlio del conte Robert II, che sposò nel 1213 Alix de Thouars,
erede del ducato. In questa occasione, introdusse gli ermellini in Bretagna.
Ma ai bretoni non piace affatto che si ricordi loro che i duchi e gli ermellini
vengono da altri Paesi.
Anche se non hanno in origine nulla di bretone, con il passare del tempo
gli ermellini sono diventati l’immagine stessa del ducato. Dopo la fine del
Medioevo, in tutta Europa, le moscature di ermellino o anche la semplice
associazione emblematica del nero e del bianco erano sufficienti a evocare
la Bretagna. Per questa ragione il bretone d’adozione che si nasconde in me
si sorprende spesso nel constatare come oggi alle istituzioni ufficiali non
piacciano ed esitino a farli vedere. Troppo pericolosi, gli ermellini? Troppo
indipendentisti? Siamo nell’epoca europea, non ha più molto senso. Perciò,
che i bretoni siano fieri dei loro emblemi! Che diffondano ovunque i loro
ermellini e con essi l’associazione del nero e del bianco, due colori
intimamente legati alla storia e all’identità bretone! Dico effettivamente
‘colori’: per lo storico, per il sociologo, per l’insieme delle discipline
umanistiche – bisogna dirlo e ridirlo – il nero e il bianco sono colori a tutti
gli effetti, colori ‘di base’, esattamente come il rosso, il blu, il giallo e il
verde.
Una nuova sfumatura di grigio
(agosto 2014)

Noleggio raramente un’auto ma oggi l’ho fatto alla stazione di Quimper per
andare in una località balneare della costa sud del Finistère non servita dagli
autobus nei fine settimana. In questo dipartimento come in molti altri, chi
non ha l’auto può raggiungere spiaggia e stabilimenti balneari solo nei
giorni lavorativi. Al banco della compagnia di noleggio, la brillante
impiegata che mi consegna le chiavi mi precisa che l’automobile è una
Renault Clio e che è parcheggiata dietro alla stazione, nel ‘grande
parcheggio del Maréchal-Gallieni’, non lontano dal viale che ha lo stesso
nome. Per poterla individuare meglio, le chiedo di che colore sia, ma la
domanda la lascia perplessa. Sembra che nessun cliente glielo abbia mai
chiesto. Cerca a lungo nei documenti, non trova la risposta e mi dice: «Deve
essere indicato sul portachiavi». E infatti quest’ultimo, con una scritta a
mano più o meno incerta, riporta non solo il modello dell’auto e il numero
di targa, ma anche il colore della carrozzeria: ‘Grigio Missouri’.
Ora tocca a me essere perplesso. Grigio Missouri! Da dove proviene una
simile espressione? E di quale sfumatura potrebbe trattarsi? Di un ‘grigio
topo’ frainteso e scritto male da un noleggiatore di auto analfabeta? Se così
fosse, sarebbe almeno divertente, un piccolo roditore che lascia il suo posto
al grande Stato americano. È vero che l’espressione ‘grigio topo’, frequente
quando ero bambino e adolescente per indicare una stoffa di un grigio scuro
piuttosto caldo, oggi non si usa più tanto. Magari non si tratta di un
calembour involontario, ma della creazione furbetta e pretenziosa di un
genio del marketing che si crede un umorista? In materia di automobili, sui
lussuosi cataloghi di vendita proposti dalle grandi marche, i colori delle
carrozzerie sono spesso indicati con espressioni che vorrebbero essere
originali e seducenti: ho già parlato del ‘bianco delle Alpi’, del ‘grigio
sublime’, del ‘blu aquarius’, del ‘nero inferno’. Aggiungiamo il coltissimo
‘verde oxfordiano’, l’enigmatico ‘marrone quad’ e il probabilmente
carinissimo ‘rosso Elisabetta’. L’insolito ‘grigio Missouri’ che mi aspetta
sul ‘grande parcheggio del Maréchal-Gallieni’ appartiene a questa
tavolozza lessicale, coniata espressamente per clienti di bocca buona come
una poesiola o una spiritosaggine da oratorio? Se è così, allora è una gran
bella trovata. Nello stesso spirito di quando si usa il ‘grigio Mississippi’ per
indicare una sfumatura di grigio vagamente diuretica?
Mentre vado a prendere possesso della mia auto, ci rimango un po’ male.
Non solo il grande parcheggio del Maréchal-Gallieni è piuttosto piccolo (è
anche vero che questo grande soldato fu fatto maresciallo di Francia solo
dopo la sua morte), ma il colore della carrozzeria ‘grigio Missouri’ della
macchina è fra i più normali; ‘grigio medio’ sarebbe bastato.

André Breton è un indovino


(settembre 2014)

Rimettere a posto i propri libri su nuovi ripiani dopo un trasloco è un


esercizio lento, lungo e doloroso. La voglia di lasciare tutto nei cartoni e di
ricomprare via via solo le opere di cui si ha davvero bisogno è forte.
Soprattutto quando come me si posseggono venticinquemila libri e sulle
scatole di cui sopra non c’è nessuna indicazione riguardo al contenuto. La
fretta, la pigrizia e soprattutto la sofferenza che hanno accompagnato il mio
recente trasloco dalle rive della Senna verso il Bois de Boulogne mi hanno
impedito di scrivere cosa ci fosse in questi maledetti cartoni, riempiti dai
traslocatori a una velocità impressionante. Adesso sono impilati nel mio
garage dove per molti anni non si potrà parcheggiare. Da una settimana,
brontolone e pieno di dolori, li apro in malo modo, con una media di due o
tre al giorno, pur essendo perfettamente conscio che non finirò mai. Perché
possedere così tanti libri quando me ne sarebbero bastati un centinaio?
Questo esercizio ingrato può tuttavia riservare dei momenti di vera
felicità. Per esempio stupirsi di possedere una particolare e rara
pubblicazione; ritrovare un’opera che si pensava di aver perso o prestato;
scoprire tra le pagine di un libro un biglietto importante, una vecchia lettera
d’amore mai inviata, due o tre banconote ormai fuori corso, oppure gli orari
dei treni per l’Italia o una ricetta per preparare la lepre ‘à la royale’. È più o
meno quello che mi succede oggi rimettendo in ordine alcuni libri
appartenuti a mio padre. Aveva la mania di metterci dentro lettere, bozze,
fotografie. Ritrovo così il manoscritto di un progetto di un articolo intitolato
Il surrealismo e il dopoguerra. Trovo anche delle lettere di Aragon, di
éluard, di Benjamin Péret, di Leo Malet, delle fotografie di Man Ray, dei
disegni di Yves Tanguy. Ma soprattutto, in questo cartone che è una vera
caverna di Ali Babà, rimetto le mani su un’opera di cui vado
particolarmente fiero perché è la prima che mi è stata regalata: Arcane 17 di
André Breton, pubblicata nel 1947.
A dire il vero, è stata regalata a mio padre. Henri Pastoureau, amico e
complice di André Breton per il surrealismo, ma la dedica è solo per me. È
stata scritta il giorno stesso della mia nascita, il 17 giugno 1947. Breton
sapeva che mia madre stava per partorire ma ignorava – come pure i miei
genitori – il sesso del nascituro. A inchiostro verde, con la sua minuta e
solerte grafia normanna, ha scritto quindi sulla prima pagina del libro
appena uscito questa frase neutra ma premonitrice: «Per il bebè che sarà
sicuramente molto bello». Questo bebè ero io, nato qualche ora più tardi. E
Breton aveva indovinato: ero – e lo sono ancora – estremamente bello. Lui
lo sapeva prima della mia nascita perché era un formidabile veggente,
soprattutto per la poesia e la bellezza. Arcane 17 non è di sicuro il suo libro
migliore: la deriva esoterica era già predominante e a poco a poco avrebbe
corrotto il surrealismo (almeno questo era il parere di mio padre). Ma il
titolo include il giorno del mese in cui sono nato, e la dedica a inchiostro
verde sull’esemplare a me destinato ha forse fatto sì che questo colore
diventasse il mio favorito.
Per quanto mi ricordi, ho infatti sempre amato il verde, senza saperne
spiegare la ragione. Era anche il colore preferito di André Breton, il mio
primo professore di disegno, che scriveva, disegnava e dipingeva quasi
sempre in verde. Quando veniva a cena da noi sulla collina di Montmartre,
cosa che capitava spesso, mi faceva vedere come trasformare una semplice
patata in uno strumento per dipingere; gli bastava tagliarla in due e versare
su una delle due facce un po’ di colore a tempera e poi applicarla
delicatamente su un foglio di carta, come una specie di timbro; ripetendo
l’operazione più volte e cambiando i gesti, la posizione e i colori,
ottenevamo degli acquerelli semifigurativi. Mi ricordo che, nel farlo, Breton
creava delle figure a forma di pesce ma mi lasciava scegliere i colori. Ho
conservato molte di queste creazioni a quattro mani, ottenute con una
mezza patata, un po’ d’acqua e una scatola di colori per bambini.
In modo alquanto bizzarro, su molti di questi ‘disegni-timbro’ un po’ di
viola è associato al blu e al verde che io avevo scelto, senza dubbio
un’aggiunta di Breton che vedeva in questo colore la tinta ‘del mistero e
degli amori che verranno’. Anni dopo, mio padre mi mostrò gli stemmi che
nel 1950 il pittore Marcel Jean aveva creato per il gruppo surrealista di
Parigi, che si raccoglieva ogni sera intorno a Breton nel famoso café di
place Blanche. Questi associavano il verde e il viola: ‘fasce ondulate
porpora e verdi’. Il disegno non era molto elegante ma lo scudo era
circondato dall’allegro motto del gruppo surrealista, scritto a lettere
maiuscole, adottato sembra molto tempo prima, forse già dal 1934:
BENJAMIN PÉRET FA IL BAGNO SOLO UNA VOLTA ALL’ANNO.

Una misteriosa sfumatura di rosa


(ottobre 2014)

Il linguaggio del marketing e della pubblicità è particolarmente fantasioso


nel creare termini ed espressioni per descrivere (ed elogiare) le sfumature
colorate di una stoffa, di un capo d’abbigliamento, di un prodotto
qualunque. Ne ho appena parlato facendo degli esempi sulla carrozzeria
delle automobili. Le parole semplici non si usano più; ormai ci vogliono
parole rare, espressioni che colpiscono, frasi che incuriosiscono o fanno
sognare. Molto spesso il rapporto tra il colore effettivo dell’oggetto e
l’espressione utilizzata non è fra i più chiari e, se il testo non è
accompagnato da nessuna immagine, capire di quale tinta o sfumatura si
tratti non è affatto evidente. Citiamo qualche esempio che ho visto di
recente: ‘rosso moda’, ‘rosso design’, ‘blu tempesta’, ‘blu barista’ (!),
‘verde americano’, ‘avorio della sposa’, ‘bianco seminterrato’ (?), ‘grigio
squalo’, ‘grigio talpa’. Chi potrebbe identificare la sfumatura precisa che si
nasconde dietro a tali sintagmi? È vero che in questo campo la nostra epoca
non ha inventato niente e in ogni caso avrebbe comunque difficoltà a
trovare le stesse espressioni che si trovano su vari campionari di vendita
delle stoffe di lusso del XVIII secolo, specialmente a Parigi negli anni
1750-1780: ‘pioggia di rose’ (rosa pallido); ‘fiore di zolfo’ (tra il bianco e il
giallo); ‘capelli della regina’ (giallo chiaro leggermente argentato); ‘pera
del mattino’ (tra il rosa, il verde e il giallo); ‘sospiro soffocato’ (grigio
molto chiaro); ‘pancia di carmelitana’ (grigio chiaro bluette); ‘pulce
spaventata’ (cremisi scuro); ‘coscia di pulce’ (marrone rossastro); ‘prugna
Monsieur’ (viola scuro); ‘fango di Parigi’ (tra il grigio e il marrone); ‘caca
Dauphin’ (marrone giallognolo leggermente color mostarda).
Perciò questa mattina mi sono stupito nel trovare in un catalogo di capi
d’abbigliamento sportivi un lessico molto sensato per indicare la
colorazione di magliette polo piuttosto eleganti, assolutamente non a buon
mercato e destinate sia agli uomini che alle donne: ‘bianco’, ‘giallo pallido’,
‘azzurro cielo’, ‘blu scuro’, ‘verde scuro’, ‘nero’. Tuttavia a questa lista di
sei colori molto semplici se ne aggiungeva un settimo la cui denominazione
mi ha particolarmente incuriosito: ‘rosa pink’. Di che cosa potrebbe
trattarsi? ‘Giallo pallido’, ‘azzurro cielo’, ‘verde scuro’, tutti capiscono,
anche se ognuno di noi ha le proprie idee su queste sfumature più o meno
diverse. Ma ‘rosa pink’? Che precisazione aggiunge la parola inglese,
abituale traduzione del vocabolo ‘rosa’? Perché questa tautologia? E perché
non diciamo allo stesso modo ‘blu blue’, ‘rosso red’, ‘giallo yellow’, per
specificare le sfumature di un colore? È per essere snob? Ma l’inglese oggi
non ha più nulla di snob, e il ‘franglese’ ancor meno: al contrario, che cosa
c’è di più cafone dell’introdurre un vocabolo inglese in una frase in
francese? Nel 1830 o nel 1900 magari, ma oggi! Per fare i presuntuosi? Ma
allora un termine in greco o latino sarebbe stato meglio, e una parola in
siriano, gotico o slavo antico meglio ancora. O si vuole forse avere l’aria
esotica? Ma l’inglese non ha davvero niente di esotico contrariamente al
romancio, alla lingua Mapuche o all’irochese. Il mistero resta irrisolto.
Del resto, anche la parola pink è abbastanza misteriosa. La sua etimologia
è oscura e la data della sua apparizione nella lingua inglese difficile da
stabilire: forse verso il 1780, o un po’ prima. Esiste un legame tra pink e ink
(inchiostro)? Non ne sarei così sicuro. Magari tra pink e pig (maiale), altro
vocabolo dall’etimologia sconosciuta, o perlomeno controversa? Ma i
maiali non sono sempre stati rosa; in Europa lo sono diventati solo a partire
dal XVIII secolo, periodo in cui la parola pink sembra fare la sua
apparizione nella lingua inglese. Ciononostante, ai suoi albori questo
termine sembrava rinviare più al giallo pallido che al rosa. E allora?

Occhiali
(ottobre 2014)

Piove. Mi piace vedere e sentire la pioggia cadere. È sempre stata una delle
mie più grandi gioie. Soprattutto quando si tratta di piogge autunnali, a
pomeriggio inoltrato, quando la notte sta per arrivare e le strade di Parigi
sono ancora animate, le boutique aperte, e i tanti passanti si affollano verso
le entrate del metro o sotto le tende dei negozi.
È quello che succede oggi. Con una decina di sconosciuti mi sono
rifugiato sotto la tenda di un negozio di ottica che presenta in vetrina il
simpatico spettacolo di decine di occhiali. Ce ne sono per tutte le età e per
tutti i gusti, di tutte le forme, di tutte le grandezze, soprattutto di tutti i
colori. Finiti i tempi in cui le montature erano banalmente nere o marroni,
se non spietatamente in metallo. Non mi sono mai piaciute le montature
argentate o dorate, men che mai quelle tartaruga. Ma oggi ho qui, sotto i
miei occhi, montature rosse, blu, verdi e anche gialle, ognuno di questi
colori proposto in due o tre sfumature. Non sono tutte per bambini: in
questa allegra sinfonia policroma, ci sono anche occhiali per adulti, anche
da uomo.
Mi viene la tentazione di entrare nel negozio e chiedere il prezzo di due o
tre paia, anche se so che farei fatica a scegliere, e che ciò che mi attira non è
tanto un colore in particolare, ma l’arcobaleno che compongono
nell’insieme. Succede la stessa cosa in qualsiasi negozio d’abbigliamento:
una pila di camicie, di polo o di magliette a maniche corte di dieci o dodici
colori diversi ha un potere di seduzione ineguagliabile; ma un capo fuori
dalla pila e isolato perde una buona parte della sua attrattiva. Un colore,
qualsiasi esso sia, risalta appieno solo quando è associato o messo a
confronto con molti altri colori. Da solo, è meno vivido, più ordinario, quasi
scialbo. Dal monocromo all’incolore il passo è breve.
Esito. Sarebbe forse una follia farmi il regalo di un paio di occhiali con la
montatura rossa, verde o gialla? Mi piacerebbero molto gialli, ma alla mia
età, con la mia testa tonda, il mio cranio pelato, le mie guanciotte e la mia
aria da vecchio rimbambito? E poi, gli ottici hanno l’attrezzatura necessaria
per misurare la vista dei presbiti? E si possono comprare degli occhiali
senza la ricetta medica?
Mentre valuto tutti i miei dubbi mi cade l’occhio sullo slogan della catena
a cui appartiene questo negozio di ottica. Uno slogan chiassoso o
perlomeno inopportuno, scritto a grandi lettere bianche sulla parte alta della
vetrina: ‘Qui, i vostri occhiali in un’ora’. La cosa mi spaventa. L’idea che i
miei occhiali – un oggetto per me particolarmente importante – siano
preparati in un’ora, vale a dire arrangiati alla meglio, fatti male,
danneggiati, non mi piace. Come probabilmente alla maggior parte degli
acquirenti di occhiali. Com’è possibile che dei professionisti del marketing
possano fare simili errori: inventare slogan che scoraggiano i clienti invece
di conquistarli? Mi ricordo come, una trentina di anni fa, un’auto eccellente,
la Renault 14, era stata vittima di una malaugurata campagna pubblicitaria
che la paragonava a una pera. A quei tempi nelle scuole di design e di
marketing non si era forse al corrente della simbologia negativa della pera?
Lo stesso vale oggi, non si sa che non ci si deve vantare di preparare un
paio di occhiali in un’ora, un oggetto intimo, indispensabile e di gran
valore?
Sconfortato, rinuncio e vado ad aspettare il mio autobus. In fondo ha
smesso di piovere.

Precisione del vocabolario


(novembre 2014)

Ritorno sull’espressione ‘rosa pink’ di cui parlavo qualche settimana fa e


che mi lasciava perplesso. Una mia amica, che conosce l’inglese meglio di
me, mi ha informato che in questa lingua esistono due vocaboli per dire
rosa: pink e rose. Il primo è di uso corrente, il secondo riservato al
linguaggio poetico o a certi campi tecnici, come quelli del tessile o della
tintura. In questo ultimo caso, rose indica un rosa pallido e poco saturo
(colore vicino al ‘rose layette’ francese), mentre pink un rosa più vivo, più
denso, più aggressivo, in una parola più flashy, per riprendere un inglesismo
oramai tollerato in un vocabolario commerciale.
Un ‘rosa pink’ sarebbe allora un rosa flashy, brillante e sovrasaturo,
magari addirittura leggermente violaceo. Quasi un ‘rosa Barbie’. Non fa
assolutamente per me. It’s not my line!

I colori dell’Europa
(novembre 2014)

Dovendo partire per il Canada per una serie di conferenze, ho dovuto far
richiesta di un nuovo passaporto, poiché il vecchio era ormai scaduto da
diversi anni. In effetti lascio di rado l’Europa, e attraversare l’Atlantico
rappresenta per me un’impresa quasi insormontabile. Eppure è proprio ciò
che mi attende tra qualche settimana: due o tre ore di attesa all’aeroporto
seguite da sette ore di volo durante le quali sarò di volta in volta sospettato,
perquisito, umiliato, maltrattato, angosciato, schiacciato, e infine sfinito.
Come possono gli esseri umani – io come gli altri –accettare una tale
mortificazione? E pagare per subirla? Siamo tutti diventati completamente
masochisti?
Con mia grande sorpresa, richiedere e ottenere un nuovo passaporto è
stato relativamente semplice e veloce. Pensavo di ricevere un documento
veramente nuovo, con una copertina di quel bel blu dell’Unione europea,
decorato con simboli e loghi creativi, che rievocano immagini attraenti della
Francia e dell’Europa, e invece sono stato smentito. Il nuovo passaporto è
identico al precedente, con le stesse brutte pagine, più o meno spiegazzate
negli angoli e dove le informazioni relative alla mia identità sono scritte a
macchina in caratteri minuscoli (per leggere il numero del passaporto è
necessaria una lente d’ingrandimento super potente). E inoltre ha
un’orribile copertina di cartone marrone che ricorda più il fango, il sangue
infetto o gli escrementi che un avvenire radioso. Il mio vecchio passaporto
era già dello stesso abominevole colore, così come lo sono anche tutti quelli
dei cittadini appartenenti all’Unione europea. L’Europa dei passaporti resta
unita intorno al marronastro.
Chi, a Bruxelles o in un altro luogo, ha potuto scegliere una tinta così
triste, così sporca, così tremenda? Questo colore dà un’immagine negativa
degli europei, toglie qualsiasi desiderio di viaggiare per il mondo, e anche
di avere un’identità o dei documenti d’identità. Tanto più che la tessera
sanitaria europea è ancor peggio: non è marrone ma grigia, di un grigio
bluastro sanitario e allarmista, come se si fosse già ammalati o infortunati
per il solo fatto di possederla. L’Europa ha scelto male i suoi colori in
questo campo. Solo la sua bandiera azzurra e oro (blu e gialla)… Ma questa
bandiera, un po’ più allegra per i colori, non è neanche tra le più belle (le
dodici stelle che formano un cerchio sono troppo piccole e si vedono male
da lontano). Inoltre, i suoi colori non sono realmente quelli dell’Europa ma
quelli… della Vergine Maria.
Sappiamo oggi in effetti che questa bandiera, concepita e disegnata da
Arsène Heitz (1908-1989), semplice funzionario al Consiglio d’Europa,
pittore della domenica e cattolico fervente, si avvicina molto alla celebre
medaglia miracolosa della Vergine Maria. Fu adottata dal Consiglio
d’Europa l’8 dicembre 1955 (festa solenne dell’Immacolata Concezione!),
poi dalla Comunità europea (più tardi Unione europea) il 1° gennaio 1986.
Tutta l’Europa, compresa l’Europa protestante, è simboleggiata dai colori e
dalle stelle della Vergine Maria.

Cruciverba
(dicembre 2014)

Ho iniziato a fare i cruciverba verso i dodici anni e da allora non ho più


smesso. È un’attività rilassante che riduce le attese e accorcia i viaggi.
Poiché prendo spesso il treno, faccio i cruciverba tutto l’anno ed esulto ogni
volta che una definizione particolarmente complessa mi resiste. A questo
proposito mi ricordo, io che mi sento bretone fino all’osso, e che penso di
conoscere tutto della Bretagna, soprattutto la sua geografia, di non essere
riuscito a trovare la parola di nove lettere che corrispondeva a questa
definizione apparentemente semplice: ‘Una buona parte della Bretagna’.
Era forse… ‘Bécassine’. O, ancora più ingegnosamente, questa definizione
dello stesso autore, Michel Laclos: ‘Quaranta all’ora (due parole)’. La
risposta, che io non ho mai trovato (ma chi l’avrebbe trovata?), era: ‘Meno
venti’.
Oggi, nel treno tra Losanna e Parigi, sono stato più abile e ho risolto (a
fatica) un grande cruciverba in cui il colore aveva quasi un posto d’onore
Prima un neologismo: il verbo ‘cardinaliser’, ben definito dall’espressione:
‘Passare la birra al monaco’. Poi un altro verbo che mostrava come l’autore
conoscesse bene la storia della pittura e avesse un giudizio critico identico
al mio. La definizione era: ‘Una mania in aumento presso gli
impressionisti’, e la risposta: ‘Violacer’. Poi una parola inesistente di tre
lettere ma che lessicalmente traeva abilmente in inganno: ‘Zur’, che
corrispondeva alla definizione: ‘Sarebbe blu se avesse testa e piedi’.
Quando l’azur perde la ‘a’ iniziale diventa ‘zur’. Infine un termine raro ma
che, alla fine, era abbastanza facile da trovare: ‘Plutôt pourpre et un peu
zinzin’. Risposta: ‘Zinzolin’ (parola cara ad Arthur Rimbaud e André
Breton).
Questo cruciverba mi ha reso particolarmente felice perché il colore è di
solito uno dei grandi assenti delle parole crociate. Che peccato.
I colori di Natale
(dicembre 2014)

Un singolare cartellone mi accoglie in questo tardo pomeriggio sulla piazza


principale di una cittadina di periferia dove sono andato per fare una
conferenza e firmare dei libri in una libreria: ‘Ridateci i veri colori del
Natale’. Questa richiesta scritta a grandi, sgraziate lettere maiuscole su un
supporto in legno non è indirizzata a me, ma probabilmente al Comune. Di
fatto, Natale è vicino, e una bellissima decorazione è stata installata attorno
a tutta la piazza: quattro abeti giganti, ghirlande luminose, corone
imponenti, palle di Natale di grandezze diverse e anche due finti pupazzi di
neve armati di scopa e con in testa un cappello a cilindro. Quello che mi
colpisce èin effetti l’assenza dei tradizionali colori natalizi: il verde, il
rosso, l’oro. Niente di tutto questo, la gamma di colori è diversa: è tutto
bianco, blu, argentato. Gli abeti non sono delle vere piante ma delle
imitazioni giganti di plastica bianca; le ghirlande sono argentate; le corone e
le palle di Natale sono bluette, di un blu chiaro, metallico, glaciale. Anche i
cappelli dei pupazzi di neve sono di un bianco leggermente grigio. Solo le
scope sono vere scope e introducono un po’ di giallo pallido in
quest’insieme certamente armonioso ma che non evoca per niente il Natale,
almeno cromaticamente (a maggior ragione sotto la pioggia).
A dire il vero una tale messa in scena, che è dovuta costare parecchio alla
città, mi sorprende solo parzialmente. Da qualche anno a questa parte, ho
notato che le decorazioni natalizie hanno spesso abbandonato il rosso e il
verde per il blu e il bianco, e che al dorato si preferisce ormai l’argentato.
Per rendersene conto basta camminare lungo i reparti decorati di un grande
magazzino o di un supermercato durante tutto il mese di dicembre, i colori
non sono più quelli di una volta: meno rosso, più blu; meno oro, più
argento. Passi ancora per quest’ultimo cambiamento, l’argento potrebbe a
rigore sostituire il bianco, come in araldica; ma far diventare il blu un
colore di Natale ha qualche cosa di artificiale, quasi di cattivo gusto. Come
se si mettesse il cielo estivo all’inizio dell’inverno; e come se al Natale
della gente comune si fosse sostituito quello delle vacanze esotiche dei
parvenu. La ricerca della novità per vendere di più e il rifiuto ideologico
delle tradizioni si sono alleati per tentare di cambiare colori che venivano
da molto lontano e che sembravano immutabili.
Perché abbandonare il rosso e il verde tradizionali? In cosa sono obsoleti?
A chi danno veramente fastidio? Il verde evoca semplicemente quello della
vegetazione, ossia le foglie e i ramoscelli che rituali molto antichi
introducono nelle case al sopraggiungere della stagione fredda. E per
quanto riguarda il rosso, è storicamente il primo e il più bello dei colori,
quello della gioia e della festa. È d’altronde per questa ragione che Babbo
Natale, che porta i doni ai bambini, è un uomo vestito di rosso. Bisogna in
questo caso non accettare una leggenda apparsa qualche decennio fa e che
sfortunatamente è ben radicata: il rosso di Babbo Natale sarebbe in effetti
quello della Coca-Cola, che l’avrebbe vestito così su un cartellone
pubblicitario degli anni Trenta; il cartellone avrebbe riscosso notevole
successo, e il colore del marchio sarebbe diventato quello del folcloristico
personaggio, generoso dispensatore di doni. Niente di tutto ciò è provato da
un’analisi approfondita. Babbo Natale era vestito di rosso molto prima
dell’invenzione della Coca-Cola (1885) e la fondazione dell’azienda con lo
stesso nome. Discende invece dal grande San Nicola, protettore e
benefattore dei bambini, che portava, nelle immagini della fine del
Medioevo, una mitra sul capo (era vescovo di Myre) e un mantello rosso
sulle spalle (quello dei fasti ecclesiastici). La festa del santo ricorreva il 6
dicembre, ed era quello il giorno in cui i bambini ricevevano i doni (come
ancora succede in una grande parte dei Paesi dell’Europa del Nord).
L’immagine di Babbo Natale, epigono di San Nicola, si è affermata
progressivamente tra il XVII e il XIX secolo, grazie al collegamento e alla
fusione di diversi personaggi: Santa Claus, Father Christmas, der
Weihnachtsmann, e qualche altro, tutti discendenti di San Nicola e tutti
vestiti di rosso, con la barba e il pancione prominente.
Il rosso di Babbo Natale non ha assolutamente niente a che fare con la
Coca-Cola, né con l’America, né con la pubblicità. Chi ci sbarazzerà di
questa stupida leggenda pompata che arriva d’oltreoceano?
2015
Dal blu al viola
Chi è veramente strabico?
(gennaio 2015)

Lo scientismo a volte è divertente ma purtroppo il più delle volte è


angosciante. Lavorando di nuovo sulla storia del colore blu nell’antica
Grecia, questa mattina ho voluto consultare gli scritti dello studioso
austriaco Hugo Magnus, uno di quegli autori che, negli anni 1870-1890,
hanno sostenuto che i Greci, dal momento che nominavano raramente il blu,
vedevano male o non vedevano affatto questo colore. Idea assurda, che
confonde visione, percezione e designazione (in una data società, se si
nomina raramente un colore non vuol dire necessariamente che non lo si
veda), ma che ha trovato sostenitori appassionati alla fine del XIX secolo.
In questo ambito, Magnus, oftalmologo e neurologo di formazione, è uno
dei più convinti assertori di questa tesi. Secondo lui, l’occhio dei Greci
(come del resto quello dei Romani) è imperfetto perché non ha ancora
completato la sua evoluzione, né anatomica né fisiologica; è per questa
ragione che vede solo in modo parziale certi colori, in particolare il blu e il
verde. Al contrario, l’occhio degli antichi Germani è completamente
sviluppato e vede senza difficoltà tutta la gamma dello spettro; a
dimostrazione di questo, nelle antiche lingue germaniche nominare il blu
non pone alcun problema. Da ciò a evincere che i Germani sono
anatomicamente, biologicamente e fisiologicamente più avanzati e più
efficienti dei Greci e dei Romani, il passo è breve. Hugo Magnus va
allegramente oltre e dopo di lui, negli anni Trenta, molti teorici nazisti.
I Greci antichi erano incapaci di vedere il blu? No, di sicuro. L’ho già
detto e ripetuto, e altri prima di me hanno fatto notare che non si deve
confondere percezione e designazione. Nelle sue circa duecentoquaranta
favole, La Fontaine non scrive mai la parola ‘blu’: possiamo quindi dedurne
che non vedeva questo colore? Sarebbe un’assurdità.
Non ho voglia di ritornare in questa sede su tale complessa questione, ma
a titolo d’esempio vorrei citare una frase di Hugo Magnus che evidenzia
come le certezze dello scientismo o del positivismo della fine del XIX
secolo, per quanto ridicole possano sembrare oggi, siano state e rimangano
pericolose. Magnus scrive nel suo libro sull’evoluzione del significato dei
colori nell’essere umano (Die geschichtliche Entwicklung des
Farbensinnes, Leipzig, 1877): ‘Tutto porta alla conclusione che gli occhi
blu non sono mai soggetti a strabismo, mentre gli occhi verdi sono a volte
soggetti a questo handicap e gli occhi marroni o neri lo sono ancora più
spesso’ (p. 116).
Hugo Magnus era di certo un uomo alto e bello, biondo e con gli occhi
blu. Ma le sue teorie hanno qualcosa di sinistro.

Velatura e saturazione
(febbraio 2015)

Ho tenuto questo pomeriggio alla Scuola nazionale superiore delle Belle


Arti di Parigi un corso di cui, a ben pensarci, sono poco soddisfatto. Parlavo
dei pigmenti nella pittura della fine del Medioevo, argomento che conosco
bene, ma mi sono confuso tentando di definire due vocaboli che credevo
noti a tutti gli studenti di Belle Arti. Era vero il contrario. Una ragazza mi
ha chiesto, senza alcuna malizia, che cosa fosse la velatura, termine che
avevo appena utilizzato più volte a proposito della pittura fiamminga. Le ho
risposto che si trattava di un procedimento che consiste nello stendere sopra
uno strato di colore un secondo strato di colore più sottile, quasi trasparente,
contenente più legante che pigmento, allo scopo di creare una specie di velo
che modifica leggermente la colorazione, la luminosità o gli effetti di
profondità dello strato sottostante. Una tale definizione, che mi è venuta
quasi spontanea, non era sbagliata ma era incompleta. L’ho capito e ho
voluto aggiungere delle precisazioni che corrispondevano a casi diversi:
velatura localizzata su un motivo o estesa all’insieme del quadro; velatura
applicata a motivi in primo piano o a quelli più lontani; velatura della
pittura fiamminga in contrapposizione a quella della pittura veneziana. E
qui ho incominciato a impappinarmi, tanto più che volevo andare avanti e
precisare i diversi effetti prodotti dalla velatura a base di blu, di verde o di
giallo, non solo per la pittura a olio ma anche nell’utilizzo con altri leganti.
Non avrei mai dovuto improvvisare una parte così tecnica. Ho pensato di
essere più esperto di quanto lo fossi realmente e credo che il pubblico se ne
sia accorto. Non tentare mai più di spiegare la velatura. Non fare mai più il
saccente.
Le mie disgrazie non sono finite lì. Qualche minuto più tardi, uno
studente mi ha chiesto che cos’era ‘esattamente’ la saturazione di un colore,
vocabolo che ricorreva spesso nel mio intervento. Accidenti! Come definire
‘esattamente’ la saturazione? Nessun pittore, nessuno storico dell’arte,
nessun fabbricante di colori ne sarebbe capace, anche se tutti fanno un uso
quotidiano di questa parola, alla stessa stregua di valore o tonalità. Queste
tre nozioni costituiscono i parametri attorno ai quali si articolano la maggior
parte delle attuali tabelle di colori. Aiutano a classificare i colori e fanno
credere che esista una scienza oggettiva del colore, idea che faccio fatica ad
accettare. Forse è per questa ragione che, ancor più che per l’inafferrabile
velatura, ho avuto tanta difficoltà a spiegare cosa fosse la saturazione di un
colore.
Detto questo, chi al mio posto, in quest’aula detta ‘du Mûrier’, davanti a
questo pubblico un po’ indisciplinato, ci sarebbe riuscito in modo
accettabile e appropriato? Nessuno, probabilmente. Perché se definire le
nozioni di valore (vale a dire il rapporto con la luce) e tonalità (ovvero la
gamma di colorazione e la sfumatura in questa gamma) è abbastanza
semplice (anche se…), definire la saturazione è un esercizio quasi
impossibile. Non esiste alcun sinonimo, neanche approssimativo. Quelli che
si utilizzano più spesso sono ‘purezza’ e ‘concentrazione’. Il primo ha il
merito di essere comprensibile a tutti, ma l’inconveniente di essere molto
lontano dall’idea che gli artisti e i chimici hanno della saturazione. Inoltre,
come il secondo, tende a confondere la materia colorante e l’effetto colorato
che produce, cosa che è impropria. Il secondo – ‘concentrazione’– si
avvicina di più alla nozione di saturazione, ma non spiega molto al profano.
Dire che la saturazione di un colore è la facoltà che questo ha di
concentrarsi su se stesso non è sbagliato, ma rimane una formulazione
alquanto misteriosa. È tuttavia un modo di dire meno astruso della
definizione proposta da un celebre Dictionnaire de la peinture di cui è
meglio non citare gli autori: ‘La saturazione è la dissoluzione in un liquido
della massa possibile di una sostanza colorata’; definizione utilmente
completata dalla seguente spiegazione: ‘Saturare vuol dire portare una
soluzione colorata da una materia disciolta a contenere la più grande
quantità possibile di quel corpo dissolto’. Indubbiamente…
Nessuno, fortunatamente, in seguito mi ha chiesto di definire il verbo
‘desaturare’ che, lo ammetto, uso spesso e che non si trova in nessun
dizionario.

Alla ricerca di una sfumatura ripugnante


(marzo 2015)

Nel 2010, per il lancio di un pacchetto di sigarette definito ‘neutro’, il


governo australiano aveva chiesto a diverse agenzie di design e di
marketing di determinare ‘il colore più brutto del mondo’, con l’idea –
molto ingenua! – che una sgradevole colorazione della confezione avrebbe
allontanato alcuni fumatori dal consumo di tabacco. Per farlo, ha speso
somme considerevoli e ha scelto, fra le quattro o cinque tinte selezionate, il
‘Pantone 448 C’, ovvero un grigio molto scuro più o meno sporco, che
dovrebbe evocare il catrame. Una scelta simile lascia perplessi: non solo il
grigio non è in sé un brutto colore – nei sondaggi, i tre colori citati a questo
titolo più di frequente sono, in Australia come in tutto il mondo occidentale,
il rosa, il viola e il marrone – ma nella sua versione luminosa mette
particolarmente bene in valore tutti i colori che lo circondano. Sembra
addirittura che oggi sia quasi ‘chic’ in questo suo utilizzo.
Recentemente, Francia, Germania, e Italia hanno imitato l’Australia.
Sono state interpellate diverse agenzie europee per identificare la sfumatura
di colore più ripugnante, destinata ai pacchetti di sigarette, sempre come
deterrente.
Ancora una volta, sono state spese somme ingenti per un risultato
davvero discutibile. La colorazione scelta è un grigio ‘olivastro’, sfumatura
a metà tra color pulce metallizzato e un grazioso verde bronzo. Come
sempre, tutto dipende dall’illuminazione, dal supporto, dal tempo che fa e
soprattutto da chi guarda. I maghi del marketing ci avevano pensato?
Alla fine, in una strategia cromatica presumibilmente volta a far
diminuire il consumo di sigarette, tutto sembrava avvilente: l’inutilità delle
intenzioni, la confusione nel parlare di ‘colore’ e ‘sfumatura’ (confusione
che ho già fatto notare tante volte), la superficialità delle agenzie, l’avidità
degli intermediari, le scandalose somme dilapidate e le scelte assurde, scelte
che si basavano sull’idea falsa e infondata che il grigio sia un colore triste e
poco vivo. Senza spendere un centesimo, pensandoci un po’, e guardandosi
attorno, facendo qualche piccola indagine di prova, ci si sarebbe accorti
molto rapidamente che, per la maggioranza degli europei, le tinte più brutte
non si trovano fra i toni scuri o del grigio ma fra quelli ‘brillanti’, quelli più
sgargianti. Un pacchetto di sigarette rosa violetto sembra molto più
aggressivo e ripugnante di un pacchetto grigio verdastro.

Un altro cappuccetto rosso


(marzo 2015)

Visita al museo del Louvre, cosa che non facevo da molte settimane. Ho
scelto male il giorno perché c’è tanta gente, una folla agitata e rumorosa.
Per un giovedì pomeriggio di marzo è sorprendente, quasi inquietante. E
dire che alla stessa ora i musei di provincia sono deliziosamente vuoti…
Sono venuto a vedere ancora il più famoso cappuccetto rosso di tutta la
storia della pittura, non la bambina che porta a sua nonna un cestino con la
colazione, ma un copricapo fuori dal comune: quello che Eugène Delacroix
ha messo sulla testa di Dante nel suo quadro intitolato La barca di Dante (o
a volte Dante e Virgilio all’Inferno). L’opera è datata 1822. Presentata al
Salon, suscitò subito grande ammirazione, fu acquistata dallo Stato e valse
al giovane pittore di ventiquattro anni una precoce notorietà.
La scena, tratta dalla Divina Commedia, è stata raffigurata più volte e il
quadro stesso fu spesso copiato, anche da grandi maestri (Manet, Cézanne e
altri ancora). Dante e Virgilio in piedi, su una barca, mentre attraversano lo
Stige, il fiume che separa il mondo terreno dal mondo degli inferi. Nelle sue
acque melmose, i dannati si aggrappano alla barca per cercare di salire a
bordo. Grande è il contrasto tra i loro corpi nudi, di un bianco cadaverico,
rappresentati in primo piano, e la città in fiamme dipinta sullo sfondo. La
nebbia e la foschia livide rendono ancor più intensa quest’atmosfera di
paura e di tensione. Fin dall’inizio della sua carriera, il giovane Delacroix
aveva dimostrato appieno il suo talento di colorista. Ma è soprattutto lo
strano copricapo portato da Dante – in un modo teatrale, più da
‘menestrello’ che da uomo del Medioevo – che costituisce il polo principale
della gamma di colori: è di un rosso veramente rosso e rappresenta la sola
nota di colore vivo e caldo in un insieme dove dominano i toni freddi, grigi,
marroni, blu scuri, verdastri. Lo scarto cromatico tra questo cappuccio e il
resto del quadro è sorprendente. Chi s’interessa di colori – cioè chi
s’interessa veramente alla pittura – vede solo quello.
È il mio caso. Vorrei avvicinarmi il più possibile e cercare di individuare
che cosa fa di questo rosso un rosso ‘dantesco’, ma non ci riesco: c’è troppa
gente, e soprattutto troppi fotografi dilettanti. Tanto più perché La barca di
Dante è vicino a La libertà che guida il popolo dello stesso Delacroix e a
La zattera della Medusa di Géricault, due tele dal formato imponente che
non mi piacciono per niente. Qui, come in tutti i grandi musei del mondo, la
maggior parte dei visitatori non guarda più le opere ma le fotografa. Si
fotografano anche tra di loro mentre fotografano il quadro, addirittura chi
sta fotografando fotografa l’amico che fotografa il quadro. È strano: se si è
un semplice spettatore che contempla un’opera per più di venti secondi, si
dà fastidio a tutti. Bisogna spostarsi! Spazio ai fotografi, ovvero al branco
di barbari scaricati dagli autobus dei tour operator nelle sale del Louvre e
pronti a devastare l’intero museo, armati dei loro implacabili telefonini
trasformati in odiose macchine fotografiche.
In preda allo sconforto mi siedo – con una natica solamente, perché i
posti sono rari – e mi rendo conto che in questa galleria, una delle più
visitate del Louvre, la maggior parte dei quadri sono prevalentemente
marroni, e anche di un color ‘marronaccio’, come se tutti i pigmenti si
fossero scuriti e fossero quasi ammuffiti. Naturalmente, conosco la
mancanza di stabilità dei pigmenti dell’inizio del XIX secolo, ma credo che
non siano i soli responsabili; lo sono anche le vernici, che hanno scurito e
velato tutti i toni. Sverniciare è sempre un’operazione difficile e rischiosa. E
le pesanti cornici dorate (e stupidamente ridorate) non aiutano: troppo
nuove, troppo vistose, mettono ancor più in evidenza l’aspetto scuro e
terroso della pittura. Sono indispettito, affranto e soprattutto irritato.
L’agitazione della folla e l’insopportabile L’incoronazione di Napoleone di
David che si prende gioco di me alle mie spalle mi rendono furioso. Non è
veramente né il giorno né il luogo adatto per un amico dei colori. Che cosa
ci faccio qui?

Ruminazioni
(aprile 2015)
Sono ancora in preda alla collera che ieri pomeriggio al Louvre si è
impadronita di me. Eppure l’avevo placata lasciando le gallerie di pittura
per rifugiarmi in quelle dei vasi greci, al piano di sotto. Luogo idilliaco,
deserto, silenzioso, dove per oltre un’ora sono rimasto l’unico visitatore,
avvicinandomi molto alle vetrine per studiare le forme, le figure e i colori
sotto lo sguardo bonario di un guardiano girellone. I vasi con le figure nere
sono sempre stati i miei preferiti perché danno priorità al colore sul disegno.
Le sfumature di nero, soprattutto, appaiono molto varie, anche per la
decolorazione dovuta al lavoro del tempo: il nero prende a volte delle tinte
o dei riflessi grigi, blu, marroni e anche viola. Sui vasi a figure rosse,
invece, la cura per i dettagli realistici e gli effetti di profondità costituiscono
una nuova estetica che m’interessa meno. Ma questo lo sapevo già da molto
tempo, mentre la scoperta della ceramica greca d’epoca arcaica, che non
avevo mai osservato con attenzione, si è rivelata molto più policroma di
come avessi immaginato. Mi ha consolato un po’ delle mie frustrazioni
pittoriche al primo piano. Detto questo, il mio sdegno non è diminuito.
Come può un’istituzione prestigiosa come il Louvre confondere fino a
questo punto turismo e cultura? Nove persone su dieci ci vengono non per
guardare le opere, ma per deambulare in orde ruggenti e fotografare
qualsiasi cosa. Nella maggior parte delle gallerie negozi e punti vendita
sono stati installati per loro. Le targhette, quando esistono, sono ridotte
drasticamente, e la didattica è diventata poco alla volta inesistente. Quando
si confronta il Louvre con i principali musei tedeschi, svizzeri o scandinavi,
si può solo provare vergogna per quello che è diventato malgrado gli sforzi
dei conservatori: una mostruosa fabbrica per turisti, come il British
Museum o – peggio ancora – come i musei di Firenze, di Venezia e del
Vaticano.
Mi vengono allora delle voglie un po’ folli e reazionarie, o perlomeno
fortemente elitarie: quelle di musei in cui non si vende niente, o dov’è
proibito fare delle foto, dove le opere troppo celebri non sono esposte e
dove all’uscita ogni visitatore deve superare un esame per valutare ciò che
ha imparato percorrendo le sale. Simili idee mi sarebbero sembrate
discutibili o stravaganti quando ero più giovane e credevo alle virtù
pedagogiche della visita al grande museo parigino. Oggi, non ci credo più.
Una notte in Vaticano
(maggio 2015)

Convegno a Roma, nei magnifici locali dell’École française, piazza


Navona. Di solito i partecipanti sono sistemati in alloggi che danno sulla
piazza, in camere immense, moderne e tutte bianche. Le finestre a tripli
vetri le proteggono ormai dai rumori dell’esterno che in certe notti vanno
avanti fino alle tre del mattino. Era una tale seccatura da far venir voglia di
andare a dormire altrove, molto lontano da questa piazza troppo affollata e
chiassosa (ma che resta una delle più belle al mondo). Oggi non capita più,
e soggiornare a piazza Navona è di nuovo un must.
Un tale privilegio, purtroppo, non mi è stato accordato. Credendo di farmi
piacere, e forse per rendermi onore (non sono forse un ricercatore molto
vecchio, un po’ fuori moda, a cui hanno affidato il compito di esporre in
fretta le conclusioni del convegno?), gli organizzatori mi hanno sistemato in
Vaticano, in una istituzione per prelati di passaggio. La ragione addotta è
che qui viene servita la colazione, contrariamente alla struttura ricettiva
dell’École française. D’altronde ho la reputazione di essere uno studioso
goloso, insaziabile in tutti i campi, compreso e soprattutto quello
alimentare…
Si tratta quindi della mia prima notte in Vaticano, a sessantotto anni, l’età
di un arcivescovo o di un cardinale. Di fatto, nel grande ingresso di questa
casa, ne ho visti tanti, tutti molto chiacchieroni, che sembravano
particolarmente contenti di ritrovarsi in un luogo simile. Non è il mio caso.
Non ho niente contro la Chiesa romana né contro questi prelati, ma non mi
sento a mio agio, sono intimidito, quasi paralizzato, unico laico in mezzo a
questi monsignori venuti da tutto il mondo. Ciononostante, una nota
positiva: tra tutti gli ospiti di questo luogo esotico, malgrado la mia stazza,
non sono affatto il più grosso. È piuttosto rassicurante. Quello che lo è
meno è la camera che mi è stata assegnata, al secondo piano. Grande,
ampia, nuda, scura e soprattutto sinistra: qui tutto è marrone. Non castano,
marrone! Di un marrone obsoleto degli anni Quaranta che mi sembra ancora
vagamente mussoliniano. Eppure la tinteggiatura è abbastanza recente, ma
dubito fortemente che la scelta di questo colore lo sia. Probabilmente si è
ridipinto ‘com’era prima’ (ecco un bel problema per lo storico: quando si
ridipinge un luogo, un oggetto, un’opera d’arte, lo si fa con gli stessi colori
o se ne approfitta per cambiarli?).
La camera è marrone e l’anticamera, quasi grande uguale, anche lei
marrone. Quanto al bagno… I muri sono giallo chiaro, puliti e senza alcuna
decorazione, ma le piastrelle, i sanitari, il sedile del WC e anche il
portasapone a muro sono marroni. Certamente di un marrone un po’ meno
scuro di quello della camera, ma perciò anche più strano. Chi può aver
avuto l’idea di una scelta simile? Perché negare il bianco a un bagno, quel
‘bianco che lava più bianco’ (e soprattutto più pulito)? Si è voluto essere
originali? Si è rimasti agli anni Settanta, quando i colori dei sanitari si sono
diversificati, assicurando il trionfo (fortunatamente effimero) del rosa, del
verde mela e del beigiolino? Oppure si è pensato che il bianco fosse un
lusso non adatto a un uomo di Chiesa e che il marrone delle piastrelle dei
muri, del pavimento, del lavandino, della doccia e del bidet (un bidet in
questo luogo!) fossero più consoni alla presunta umiltà dei prelati di
passaggio? Il marrone è più umile del bianco? Un bidet marrone costa
veramente meno di un bidet bianco? E i bagni marroni svolgono
efficacemente tutte le funzioni che ci si dovrebbe aspettare?
Chi saprebbe rispondere a queste domande decisive e complesse?

La bandiera più bella


(maggio 2015)

Rientro a Parigi con un volo più che turbolento e conferenza in serata al


Musée de l’Armée, un luogo che ritrovo sempre con piacere e nostalgia
perché, più di quarant’anni fa, ho fatto qui il servizio militare, in veste di
‘scienziato del contingente’ (!). Fu un anno di apprendimento e
socievolezza, in una cornice stupenda. Lavoravo come assistente alla tutela
dei beni, agli ordini benevoli di un colonnello in pensione, erudito come
una volta, del tipo ‘vecchia Francia’. Mi insegnò molto e fu per me come un
secondo padre.
Ieri sera, ho parlato della storia degli emblemi della Francia, dal gallo
gallico alla bandiera tricolore, passando dal fiore di giglio alla Marseillaise,
dall’aquila del Primo Impero al colore blu. A proposito di quest’ultimo ho
raccontato come, quando frequentavo le lezioni durante il servizio militare,
a Draguignan, nell’agosto 1974, avessi imparato a piegare correttamente i
colori della Francia. Quando la bandiera tricolore è ammainata dal suo
pennone, è buona usanza infatti piegarla secondo regole ben precise e non
così come viene, come chiaramente avevo fatto la prima volta. Queste
regole comportano il nascondere il bianco e il rosso così che, una volta
piegata, la bandiera mostri solo il blu. In questo modo, il blu appare come il
solo e unico colore della Francia; una prassi molto strana che lascia capire
che il bianco è ancora vagamente monarchico e il rosso più o meno
sovversivo. È vero che questo succedeva più di quarant’anni fa, in ambito
militare. Succede lo stesso ancora oggi?
Soffermarmi sulla storia della bandiera tricolore mi ha dato l’occasione
per parlare più in generale delle bandiere – oggetti che, non senza ragione,
fanno paura a storici, sociologi, politologi – e di esaminare più in dettaglio
il loro aspetto visuale o la loro forza simbolica. Ho avuto l’idea infelice di
dire che la bandiera francese, per quanto eroica e venerabile, non è –
visualmente parlando – tra le più belle. Che cosa avevo mai detto! Una
parte del pubblico, incapace di fare la differenza tra simbolismo ed estetica,
mi ha aggredito, sottolineando che la bandiera tricolore è ‘la più bella del
mondo’ e che criticarla, anche solo sul piano visuale, è indegno di uno
storico francese. Ho provato a difendermi, a dire che le bande verticali
troncate sono sgradevoli alla vista, a precisare che le bande messe nell’altro
senso sarebbero state meglio, a ricordare che nel 1794, quando la coccarda
diede origine all’insegna della Marina (e poi più tardi alla bandiera
nazionale), il tricolore orizzontale blu-bianco-rosso era da tempo stato
adottato dalle Province unite olandesi. Ho provato ad aggiungere che altre
bandiere europee, create nello stesso modo per imitare la bandiera francese
(Belgio, Italia, Irlanda), suscitano qualche volta le stesse critiche, non è
servito a niente: sono un cattivo francese. Un onesto cittadino non deve
criticare la sua bandiera!
Un’altra parte del pubblico, apparentemente più giovane, mi ha difeso e
ha accettato di parlare solo di visibilità e di estetica. A questo proposito una
giovane donna mi ha chiesto quale fosse, secondo me, la bandiera ‘più
elegante’. Curioso aggettivo per qualificare una bandiera! Senza dubbio
voleva dire ‘la più riuscita’ o semplicemente ‘la più bella’. Quaranta o
cinquant’anni fa, se mi avessero fatto una simile domanda, avrei esitato tra
diverse risposte: certamente la bandiera giapponese (secondo il grande
pubblico, di solito è questa a occupare il primo posto), ma anche quella
della Giamaica o della Norvegia (entrambe magnifiche), oppure quella del-
la Danimarca (ammirevole per semplicità), o quella della Scozia (Paese
caro al mio cuore ma non ancora indipendente). Oggi non ho più alcuna
esitazione: secondo me, la più bella bandiera del mondo, ben più di tutte le
altre, è la bandiera della Groenlandia, adottata nel giugno 1985 e scelta
dopo un concorso aperto a disegnatori e vessillologi di tutto il mondo. Sono
state ricevute cinquecentocinquantacinque proposte, di cui
duecentonovantatré dagli stessi groenlandesi. Il mio amico Sven Tito
Achen, studioso araldista danese e grafico di talento, aveva proposto una
formula molto sobria: un campo verde (allusione al nome del Paese: la
Groenlandia, così battezzata dai navigatori islandesi, è la ‘terra verde’) con
una semplice croce bianca, decentrata a sinistra come quella della
Danimarca e degli altri Paesi scandinavi. Progetto notevole per la sua
sobrietà e che è stato quasi scelto. Alla fine, comunque, hanno preferito un
altro disegno che è diventato la bandiera attuale. Il colore verde è assente
(come alcuni rimpiangono) per poter mantenere i colori della Danimarca e,
così facendo, evidenziare i legami storici e istituzionali della Groenlandia
con il regno dal quale si è progressivamente svincolata per diventare
autonoma. Oltre ai colori danesi, un simbolismo creato a posteriori – come
spesso accade in vessillologia – vede nella bandiera groenlandese
‘l’immagine di un sole che tramonta nel mare nella terra dei ghiacci’.
Perché no. Ma in questo caso il mare è rosso.
Ecco la descrizione di questa bandiera che piace tanto al mio sguardo,
una descrizione non nel linguaggio tecnico dell’araldica (a volte respinto
dai vessillologi), ma in quello di tutti i giorni. Il rettangolo è diviso
orizzontalmente in due parti uguali bianco di sopra, rosso in basso. Un
grande disco unisce questa linea di ripartizione, formando due semicerchi:
quello superiore è rosso su fondo bianco; quello inferiore bianco su fondo
rosso. Uniti rappresentano un cerchio bicromatico, posto su un campo
anch’esso bicromatico ma di colori inversi, e situato non al centro del
rettangolo, ma leggermente sulla sinistra, verso l’asta della bandiera. Il
linguaggio araldico, molto più conciso e preciso della lingua comune, la
descriverebbe così, in poche parole: ‘Tagliata d’argento e di cinabro a
tortello-bisante di uno e dell’altro decentrato a destra’. Evviva l’araldica,
linguaggio documentario più efficace di qualunque altro!
L’effetto visuale prodotto da una tale immagine è molto forte. Difficile
fare meglio, almeno rispettando le tradizioni e lo spirito che condizionano
la creazione di ogni bandiera: solamente due o tre colori, una forte
stilizzazione e una semplicità assoluta. Una bandiera deve essere
riconoscibile da lontano e facile da disegnare per i bambini delle scuole. La
bandiera groenlandese obbedisce perfettamente a questi chiari principi, cosa
che non accade sempre con le recenti bandiere nazionali, certamente belle
ma che hanno troppe figure o sono eccessivamente policrome. Quella del
Sudafrica ne è un buon esempio. È magnifica, ma come si fa a disegnarla
quando si è un bambino di sette o otto anni?

Dal giallo al verde


(luglio 2015)

Grazioso slogan pubblicitario, letto questa mattina su un cartellone della


metropolitana parigina, di un celebre aperitivo a base di anice il cui colore
giallo tende a volte al giallo-verde. Questa bevanda ritenuta dissetante, che
io non ho mai bevuto perché sono incapace di mandar giù la minima goccia
di alcool (in merito alle bevande, i miei gusti sono rimasti quelli di un
bambino di otto anni a cui si sono aggiunti solo il caffè e il tè), è ormai
disponibile in una nuova versione, alla quale sembra sia stato aggiunto un
colorante blu (del curaçao?). Da qui lo slogan che mi ha divertito per un bel
po’: ‘Ormai il giallo si beve anche in verde’. A volte i pubblicitari sono dei
poeti. Mi viene l’idea di ispirarmi a questo slogan per il titolo di un mio
futuro libro, qualche cosa del tipo: ‘Il blu si fa anche in rosso’.

Un magnifico verde
(agosto 2015)

Questo pomeriggio, verso le 17.00, al chiosco, molto bucolico, dei giardini


del Lussemburgo, un luogo che frequento abitualmente da molto tempo, ho
bevuto un diabolo menthe, cosa che non facevo più da molti anni. Questa
bevanda, molto zuccherata, mi è in effetti vietata a causa del diabete.
Tuttavia, senza troppi rimorsi, ho trasgredito al divieto e ne ho tratto un
immenso piacere, al tempo stesso rinfrescante, gustativo, nostalgico e
cromatico.
Mi piace la menta, in tutti i suoi impieghi e in tutti i suoi profumi. Niente
di strano poiché sono un medievalista e le società medievali usavano e
abusavano di questa pianta aromatica che cresce così facilmente su terreni
diversi. La usavano in cucina, in medicina, in cosmesi, ma la impiegavano
anche per profumare le stoffe, i vestiti, gli oggetti e anche i locali. In epoca
feudale, la grande sala del dongione o quella della fortezza del sovrano
erano spesso disseminate di menta fresca, regolarmente rinnovata e a volte
associata ad altre piante odorose. Il XII secolo è pulito e profuma di menta.
Non è il caso del XVII secolo – chiamato in modo inappropriato ‘Gran
Secolo’ – che emana costantemente odori nauseabondi. Non solo si era
soliti gettare la spazzatura praticamente ovunque, defecare dietro porte,
mobili o tendaggi, lasciare decomporre i cadaveri degli animali (soprattutto
i cavalli), ma soprattutto nessuno si lavava quotidianamente, poiché i
medici avevano decretato che il contatto frequente dell’acqua con la pelle
poteva nuocere alla salute. Se c’è un secolo che proprio non profuma di
menta, quello è il XVII secolo.
Nel caso del diabolo menthe, ciò che mi incanta non è tanto il delizioso
sapore della bevanda né la provocazione infantile del paziente che
trasgredisce le prescrizioni, ma lo splendido colore verde dentro il
bicchiere. Per ottenerlo, il bicchiere deve essere di grandi dimensioni e la
proporzione tra sciroppo e gazzosa perfettamente calibrata. Un decimo di
sciroppo basta per ottenere un magnifico colore, simile a quello degli
smeraldi più belli; con un nono o un ottavo talvolta il risultato è ancora più
spettacolare, dipende tutto dalla marca dello sciroppo e della gazzosa. Del
resto possiamo variare la tinta aggiungendo dei cubetti di ghiaccio: in
questo modo il liquido perde parte della sua monocromia ma si arricchisce
di sfumature e sembra disegnare degli arabeschi che modificano la
tavolozza di colori della miscela quanto a tonalità, valore e saturazione. In
tal modo, il consumatore di una modesta bevanda rinfrescante diventa un
colorista di grande talento.
L’onestà mi obbliga a precisare che il risultato non è lo stesso se si
sostituisce l’acqua alla gazzosa, anche se acqua minerale di buona qualità.
Un’acqua e menta non darà mai una tonalità di verde così affascinante come
quella di un diabolo menthe. Perché? Incantesimo della gazzosa, la bevanda
magica più di tutte? Effervescenza di bolle che svolgono nel bicchiere la
stessa funzione dei leganti in pittura? Ruolo dello zucchero, paragonabile a
quello dell’alcool che modifica i colori qualsiasi origine essi abbiano? O
ancora, come credo, ruolo emotivo del giardino del Lussemburgo, il mio
personale paradiso terrestre, luogo incomparabile di ricordi, di aspettative,
di amori e di sogni?

Il blu e il bianco
(settembre 2015)

Gli aeroporti sono luoghi sinistri, ansiogeni, opprimenti. A nessuno


verrebbe in mente di restarci più del necessario a meno che non vi sia
costretto. Al ritorno dalla Germania del Nord mi affretto a lasciare quello di
Roissy quando la mia attenzione è attirata da un cartellone posto in un
luogo particolarmente squallido del terminal 2F, sotto una scala, di fianco ai
bagni pubblici. Sul cartellone c’è scritto: ‘Luogo di raccoglimento’. Uno
scherzo? Una provocazione? Chi potrebbe raccogliersi in un posto simile?
Del resto, di cosa si tratta esattamente? Di un semplice luogo per riposarsi o
di un luogo di preghiera? E in quest’ultimo caso, perché non dirlo? Forse
per essere politicamente corretti e non dover nominare questa o quella
religione? Oppure per evitare il vocabolo ‘preghiera’, una parola divenuta
oggi politicamente scorretta, se non oscena?
Mi avvicino e vedo solamente una piccola stanza vuota e male illuminata.
Ma noto che i muri sono dipinti di blu e bianco: niente di figurativo, solo un
blu abbastanza chiaro che pare spruzzato a intervalli regolari sul bianco
delle pareti. Decorazione curiosa, che sembra anche lei voler evitare
qualsiasi connotazione religiosa e inserirsi in una combinazione di colori
relativamente neutri, che evocano più o meno il sogno o l’infinito. È l’idea
di pace che si nasconde dietro questi due colori? Se sì, si tratta di una pace
occidentale, addirittura stranamente una pace Onu. L’Occidente, che ha dato
vita alla maggior parte delle organizzazioni internazionali, vede in effetti
nel bianco e nel blu colori pacifici. Ma è vero per tutte le culture?
Evidentemente no.
Il luogo non invita certo a entrare, piuttosto a fuggire. Mi allontano,
pensando a Rabelais che prende ripetutamente in giro la combinazione di
bianco e blu della livrea di Gargantua, il cui simbolismo gli sembrava
artificiale e pretenzioso. Non riesco a resistere al piacere di citarlo:
I colori di Gargantua furono bianco e azzurro […]. Capisco che leggendo queste parole voi
riderete […] affermando che il bianco significa fede, l’azzurro fermezza […]. Chi vi dice che
bianco significa fede e azzurro fermezza? Un libercolo (dite voi) che vendono i girovaghi e i
merciai ambulanti, dal titolo: Le blason des couleurs. Chi l’ha scritto? Chiunque sia ebbe la
prudenza di non metterci il nome.

Il verde dell’Islam
(settembre 2015)

Traversata di Aubervilliers in questo tardo pomeriggio d’estate per fare una


conferenza alla mediateca, vicino alla sede del futuro campus universitario
Condorcet dove magari un giorno andrò a tenere una lezione. È una
periferia che non conosco, e la strada dalla metropolitana fino al luogo dove
devo andare mi sembra lunga. Mi superano molti autobus che non ho avuto
il coraggio di aspettare alla fermata: come al solito, ho fatto la scelta
sbagliata. Sui marciapiedi c’è un sacco di gente, una popolazione variegata,
tra cui molte donne velate; altre, meno numerose, indossano il chador o il
niqab. Il nero è il colore dominante, ma sono presenti anche il marrone e il
grigio; nessun colore vivace, appena un po’ di bianco e di beige per
rischiarare a volte il velo o gli abiti.
Davanti a una gamma di colori simile mi interrogo su un’assenza
sorprendente: quella del verde, colore religioso dell’Islam comune a tutte le
sue componenti. Perché le donne musulmane non indossano mai niente di
verde? Dovrebbe essere il colore ideale per indicare la loro identità
culturale, manifestare la loro fede e mettersi sotto la protezione del Profeta,
il cui colore preferito era il verde. Per di più è una gran bella tinta, che ai
miei occhi rende le donne più attraenti. Quale può essere la ragione di
questa assenza, che ho notato anche a Londra, Bruxelles, Roma, Berlino e
perfino in Marocco, il solo Paese dell’Islam che io abbia mai visitato? Il
verde è forse un colore troppo sacro per un capo d’abbigliamento esposto a
tutto il sudiciume della vita quotidiana? È forse riservato agli abiti da
cerimonia e alle occasioni più solenni? Oppure è vietato alle donne? Ma, mi
sembra, sono molto rari anche gli uomini musulmani che indossano
qualcosa di verde.
Chi potrebbe rispondere a simili domande? Ho letto spesso che, nei
tappeti tessuti nel Vicino e nel Medio Oriente musulmani, la lana verde non
veniva usata in modo da evitare che questo colore sacro venisse calpestato.
È vero? Una semplice osservazione tende a mostrare il contrario: anche se
non è molto frequente né molto abbondante, il verde compare su molti
tappeti, raramente al centro, bisogna dirlo, quasi sempre verso i bordi. Dove
sta la verità?
Facciamo ancora un breve excursus storico. Come la Bibbia, il Corano
parla poco dei colori. Per quanto riguarda i sei colori di base, si riscontrano
solo trentatré vere occorrenze: undici per il bianco, otto per il verde, sette
per il nero, cinque per il giallo, una per il rosso e una per il blu. Le metafore
e i paragoni – ‘color del miele’, ‘color dell’aurora’ eccetera – sono molto
numerosi, ma non come nella Bibbia. Il verde, che mi interessa in questo
frangente, è sempre considerato come un colore positivo, associato alla
vegetazione, alla primavera, al cielo e al paradiso. Non è mai messo in
cattiva luce, come lo possono essere il nero o il giallo. È bastato questo per
fare del verde un colore sacro? Forse no. È stata necessaria un’altra
tradizione che si unisse al testo coranico per dare al verde la supremazia
sugli altri colori e farne, in seguito, in data che resta da precisare, il colore
religioso dell’Islam.
In effetti, secondo una tradizione, di cui si trova traccia a partire dalla
seconda metà del VII secolo, pare che Maometto, per un lungo periodo
della sua vita, abbia mostrato una preferenza spiccata per il colore verde: gli
piaceva portare un turbante verde e, anche se di solito si vestiva di bianco,
gli piaceva circondarsi di stoffe verdi. In guerra, usava uno stendardo a
volte verde, a volte nero. Le testimonianze sono evidentemente incerte, a
volte contraddittorie, ma questa propensione per il verde èstata confermata
da alcuni uomini vicini al Profeta e si è a poco a poco trasformata in una
verità che non deve più essere messa in discussione. Innamorato come sono
del verde, non posso che esserne felice.

Alle origini della maglia gialla


(ottobre 2015)

Scoperta curiosa fatta ieri pomeriggio al Salon du vieux papier, all’Espace


Champerret, vicino alla porta di Parigi con lo stesso nome. È un luogo che
frequento una volta all’anno con il mio amico Pierre, collezionista di
vecchie cartoline e amante di curiosità tipografiche. Per quanto mi riguarda,
cerco soprattutto documenti dell’Ancien Régime (lettere, atti notarili, titoli
ufficiali), non tanto per i testi ma per il supporto su cui sono redatti: il
papier chiffon, materiale perfetto per disegnare con le matite o dipingere
con gli acquerelli. Lo spessore, la grana e la tinta di questi fogli antichi si
sposano perfettamente con il disegno e la pittura ad acqua. Le righe
manoscritte che appaiono in modo più o meno evidente sotto i colori danno
all’insieme un aspetto rivelatore. Sfortunatamente questi documenti sono
diventati rari e il loro prezzo esorbitante. Quando spiego ai venditori che
non mi interessa il testo ma la carta, non mi credono e aumentano
ulteriormente i prezzi.
Si trova di tutto in questo Salon, specialmente vecchi giornali, alcuni
datati fine XIX secolo o inizio XX. Mi è così capitato per le mani ieri un
pacco di copie del giornale L’Auto, quotidiano sportivo francese pubblicato
a partire dal mese di ottobre del 1900 fino ad agosto 1944; in un certo senso
l’antenato di L’Équipe. La partita in vendita era degli anni compresi tra il
1919 e il 1923, e ogni numero (una trentina in tutto) era stampato su carta
da giornale bianca. Il bianco era evidentemente un po’ ingiallito in alcuni
punti, ma si trattava certamente di bianco. Eppure ho sempre letto (e scritto
e ripetuto) che L’Auto era stampato su carta gialla, colore che non
solamente ne costituiva la peculiarità ma che soprattutto è all’origine della
mitica ‘maglia gialla’, indossata da chi è primo nella classifica generale del
Tour de France.
Tutte le storie del ciclismo raccontano infatti che questa maglia nacque il
19 luglio 1919 e che il primo a indossarla fu Eugène Christophe, alla
partenza di una tappa che portava i corridori da Grenoble a Ginevra.
Aggiungono poi che si trattava essenzialmente di una trovata pubblicitaria,
visto che il giallo era il colore della carta su cui era stampato il giornale
L’Auto, organizzatore del Tour de France. Era uno di quei gialli pallidi e
spenti che si usavano per tingere la carta a buon mercato, destinata a usi
effimeri o a grandi tirature. Eppure, nel pacco di giornali L’Auto che ho
avuto sotto gli occhi ieri al Salon du vieux papier, c’erano sette numeri
datati 1919 (sfortunatamente nessuno del mese di luglio) e tutti erano
stampati su carta bianca. È un peccato che il venditore, poco gentile, non
abbia voluto vendermi due o tre numeri singoli del lotto, il cui prezzo era
ben troppo elevato per le mie tasche. Quest’uomo scortese non mi ha
neanche dato il permesso di fotografare una pagina di una copia. Erano
veramente degli originali? Apparentemente sì. L’Auto manterrà per me il
suo mistero cromatico. Ma se gli storici della Grande Boucle si sono
sbagliati, perché un tale errore non è mai stato corretto? Forse per
conservare al Tour la sua aura mitologica e alla maglia gialla la sua
leggenda?
In effetti, la magia del Tour de France, manifestazione già immensamente
popolare nel 1919, ha funzionato rapidamente. Quella che fu – forse – in
origine solo una semplice operazione pubblicitaria divenne una questione di
lingua e di costume. Appena indossata, la maglia gialla si trasformò in un
oggetto di culto che diede vita a un sintagma ammiccante – ‘maglia gialla’
– di cui la stampa si impadronì e il cui uso si diffuse a poco a poco al di
fuori del ciclismo e dell’ambito sportivo. A partire dagli anni Trenta ci sono
state ‘maglie gialle’ nell’industria, poi nell’economia e nella finanza, più
tardi ancora nella ricerca e nella scienza eccetera. Avere la maglia gialla
significava ormai – e continua a significare oggi – ‘essere in testa’,
qualunque fosse il tipo di competizione o il metodo di classificazione
considerato. L’espressione si è addirittura inserita in parecchie altre lingue,
italiano compreso, anche se dal 1931 il corridore in testa alla classifica del
Giro d’Italia, la celebre manifestazione che si corre in primavera, porta una
maglia… rosa!
Il Tour de France ha innegabilmente contribuito a ridare valore al giallo,
colore per molto tempo negativo e associato alla menzogna, all’ipocrisia, al
tradimento, alla cupidigia e alla malattia. Ma questa rivalutazione rimane
fragile. Che sia meglio non cercare troppo a fondo le vere origini della
famosa ‘maglia gialla’?

Invincibili All Blacks


(ottobre 2015)

Sui campi sportivi, una leggenda tenace afferma che le squadre che giocano
in maglia rossa abbiano, al calcio d’inizio, un leggero vantaggio su quelle in
tenute di altri colori. Il rosso, colore marziale, addirittura aggressivo,
impressionerebbe l’avversario e lo farebbe andare nel pallone. In effetti, sia
nel calcio che nel rugby, da oltre un secolo molti episodi esemplari hanno
dimostrato la frequente superiorità di questo colore. Da qui, per le squadre
che giocano ordinariamente in blu, verde, bianco o giallo, la tentazione di
cambiare talvolta la maglia abituale il tempo di una partita e scendere in
campo, anche loro, in rosso. Purtroppo non funziona sempre: la squadra
francese di rugby l’ha dolorosamente sperimentato questo pomeriggio
affrontando la Nuova Zelanda nei quarti di finale della Coppa del Mondo.
La partita si giocava a Cardiff, al Millennium Stadium, davanti a più di
settantamila spettatori. Non avendo la televisione – e non avendola mai
avuta (devo sembrare terribilmente snob…) – sono andato a vedere la
trasmissione a casa di un amico, vero amante del rugby, che possiede un
apparecchio a grande schermo. Una partita magnifica che si è conclusa con
la vittoria dei giocatori neozelandesi con un risultato da asilo infantile: 62 a
13! Un’umiliazione completa per i francesi che pure avevano abbandonato
la loro tradizionale maglia blu per una splendida ed eccezionale maglia
rossa. Sicuramente, avevano un incedere fiero sul campo di gioco: maglia
rossa, calzoncini bianchi, calze rosse. Ma il rosso non è servito a niente
contro il nero. Il rosso non può mai servire a niente contro il nero. La
dimostrazione è stata data ancora una volta questo pomeriggio: nove mete,
sette trasformazioni, una punizione per la Nuova Zelanda; una sola meta
trasformata e una punizione per la Francia. Solo l’assenza di un drop – a
mio parere, una delle più belle fasi di gioco a rugby – ha impedito a questa
partita di essere perfetta.

Perché nero
(ottobre 2015)

Ritorniamo alla partita di ieri e alle divise nere dei rugbisti neozelandesi per
le quali si sono meritati il soprannome di ‘All Blacks’ probabilmente il più
celebre tra tutti i soprannomi sportivi. Più ancora delle loro innumerevoli
vittorie, è questa divisa fuori dal comune che ha fatto nascere la loro gloria
e la loro leggenda. Tutto questo è ben noto. Al contrario, datarne la
comparsa non è facile. In occasione della prima trasferta in Australia, nel
1884, i neozelandesi giocavano con una maglia blu scuro e pantaloncini
bianchi, come gli scozzesi. Qualche anno più tardi, la maglia è diventata
nera ma i pantaloncini sono ancora bianchi. Bisogna attendere la trasferta
europea del 1905-1906 perché l’intera divisa sia di colore nero. È proprio in
quell’occasione, del resto, che un giornale britannico, il Northern Daily
Mail, utilizza per la prima volta l’espressione ‘All Blacks’.
Sembra in effetti che la divisa tutta nera sia stata adottata a partire dal
1893, in occasione della prima assemblea della New Zealand Rugby Union,
ma che sia stata indossata in campo solo una decina di anni dopo. In
seguito, altri sportivi neozelandesi imitarono i giocatori di rugby e
indossarono anch’essi maglia e calzoncini neri nelle competizioni
internazionali. I primi a farlo sembra siano stati i vogatori, al campionato
mondiale universitario di canottaggio del 1920, poi gli atleti, ai Giochi del
Commonwealth del 1930. Per quanto mi riguarda ho questo ricordo molto
forte della finale degli 800 metri ai Giochi olimpici di Roma del 1960: Peter
Snell – uno dei più grandi atleti di tutti i tempi – che supera all’interno,
negli ultimi metri, il belga Roger Moens. Era tutto vestito di nero, e quel
nero sembrava bucare lo schermo, che pure era anch’esso in bianco e nero.
Me ne ricordo benissimo soprattutto perché avevo tredici anni, ero a casa di
un amico la cui sorella mi piaceva molto ed era la prima volta in vita mia
che guardavo la televisione.
Quali sono le origini e le ragioni di questa divisa insolita, di cui gli
sportivi neozelandesi detengono il monopolio, e anche l’onore? Certo, il
nero non è del tutto assente dai terreni di gioco (contrariamente al marrone),
ma è il colore dei calzoncini, oppure quello della maglietta, mai di
entrambi. Inoltre, quando è il colore della maglietta, è raramente solo, più
spesso è associato a un altro colore: nero e bianco, nero e giallo, nero e
rosso. Molte squadre hanno adottato una simile bicromia negli sport
collettivi. Ma maglietta e pantaloncini neri sono appannaggio esclusivo
delle squadre nazionali neozelandesi, e soprattutto dei rugbisti.
Nessuna delle ipotesi finora avanzate per spiegare questo nero sta in
piedi. Vederci un colore maori, carico di una misteriosa simbologia
indigena, non è una tesi sostenibile, anche solo per via della cronologia.
Dire, come si è fatto qualche volta, che questo nero è stato scelto per
impressionare, perfino terrorizzare, l’avversario non è falso, ma è
insufficiente. Affermare che indossando il nero i rugbisti neozelandesi
portano in anticipo il lutto per gli avversari che batteranno costituisce una
bella immagine cavalleresca, ma è un’interpretazione recente, che inoltre
non spiega nulla. No, l’origine di questo nero deve essere cercata più a
monte, nella stessa Europa, e più specificamente in Scozia.
I college britannici hanno in effetti giocato un ruolo determinante nella
nascita e nello sviluppo dello sport moderno nel corso della seconda metà
del XIX secolo; e senza dubbio i college scozzesi ancor più di quelli inglesi.
Negli anni 1860-1880, nelle competizioni tra college, era consuetudine che
una squadra in bianco ne affrontasse una in nero, come negli scacchi. Il
rosso e il blu erano più rari; il giallo, il verde e il viola praticamente
inesistenti. Sapendo quale ruolo essenziale abbiano giocato gli emigrati
scozzesi per lo sviluppo dello sport nelle scuole e nelle università in Nuova
Zelanda, niente vieta di pensare che essi abbiano portato con sé gli stemmi
e le tradizioni sui colori dei loro college e che abbiano fatto della divisa
nera, probabilmente cara ad alcuni di loro, quella della squadra nazionale di
rugby.
Al contrario di quanto si pensa comunemente, la simbologia del colore
nero non è solo negativa. Come tutti gli altri colori, il nero è ambivalente:
triste, inquietante, mortifero da un lato; dignitoso, elegante, virtuoso
dall’altro. Inoltre è il colore dell’autorità, quello dei giudici e dei magistrati.
Anche quello degli arbitri, almeno fino a poco tempo fa. Abbandonando
progressivamente le loro divise nere per quelle a vari colori, gli arbitri
hanno perso buona parte della loro autorità. I rugbisti neozelandesi, invece,
hanno intelligentemente conservato la loro e sono restii ad abbandonarla.
Associata alla terrificante haka, li rende praticamente invincibili, o
perlomeno mette gli avversari in una situazione di inferiorità fin dal calcio
d’inizio. Come potrebbero i Bianchi, i Verdi o i Blu battere gli All Blacks?

Una felce enigmatica


(ottobre 2015)

Restiamo ancora un po’ in compagnia degli All Blacks. Come la loro


celebre divisa nera, la felce bianca (a volte detta ‘felce d’argento’) sulla
maglia ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro. Da dove viene? Che cosa
significa? Sono state proposte molte spiegazioni, una più incerta dell’altra.
Come quella che vede in questo stemma un semplice richiamo alla flora
locale. In Nuova Zelanda crescono in effetti molte varietà di felci; la più
spettacolare è la felce reale, le cui foglie, nella parte inferiore, sono di un
bianco più o meno argentato: sarebbe questa la felce che orna le maglie dei
rugbisti. Non è falsa ma, ancora una volta, è una spiegazione un po’
riduttiva. Più ambiziose ma più fragili sono le ipotesi che cercano di
ricollegare la felce a questa o quella leggenda maori e a vedere in essa un
simbolo anteriore all’arrivo degli europei. Ipotesi politicamente corretta ma
storicamente indifendibile: quando la felce compare per la prima volta sulla
maglietta dei giocatori di rugby neozelandesi, nel 1884, durante una
trasferta in Australia, la cultura maori non gode ancora di grande
considerazione. Inoltre, la felce non è argentata ma dorata (lo diventerà una
decina di anni dopo).
Anche la felce neozelandese ha probabilmente radici in Europa. Fin
dall’Antichità, si ritiene che questa pianta possegga non solo numerose
proprietà medicinali (contro la stanchezza, i reumatismi, il veleno dei
serpenti) ma anche virtù preventive: tiene lontane le forze del male,
protegge da demoni e spiriti maligni, perfino, più semplicemente, dai
nemici. Nel Medioevo, si crede che coricarsi su un letto di felci possa
guarire tutti i mali. Nel XIX secolo, ogni soldato che va in guerra con un
ramo di felce sul petto crede di essere protetto dalla morte. È un’usanza
diffusa in tutti gli eserciti europei che è resistita fino alla Prima guerra
mondiale. Bisognerebbe forse cercare in questa direzione l’origine della
felce che i rugbisti neo-zelandesi portano sul cuore.

Libri davvero brutti


(novembre 2015)

Conversazione istruttiva stamani con un simpatico libraio parigino in un


quartiere animato del XV arrondissement. È domenica, giorno di mercato, e
la libreria approfitta dell’affluenza per organizzare incontri con dedica con
autori di libri pubblicati di recente. Oggi è il mio turno: sono venuto a
presentare e firmare il mio libro Les Couleurs expliquées en images,
pubblicato qualche settimana fa. Il compito è più semplice di un tempo,
quando ogni persona che chiedeva una dedica desiderava vedere scritti sulla
prima pagina del libro che aveva appena acquistato non solo una frase
sincera, la più lunga e calorosa possibile, ma anche nomi, cognomi e titoli
completi: ‘Alla signora Marie Alexandra Victoire de Vertencourt,
viscontessa di Valframbert-Tournemine…’. Oggi basta un semplice nome:
‘Per Bernard…’ Nessuno chiede più che si scriva il cognome, e l’autore può
dedicarsi a raccogliere statistiche personali sulla popolarità dei nomi di
battesimo per gruppi di età. Per quanto mi riguarda, ho l’impressione che i
più numerosi a comprare i miei libri siano le Catherine, le Véronique e i
François. Le Daphné e gli Hercule sono più rari.
Approfitto della mia presenza in questo posto per fare quattro chiacchiere
con il giovane libraio che mi ospita, e discutere con lui delle difficoltà del
suo mestiere e dell’editoria. Per chi come me è nato tra i libri, ha passato
tutta la vita nelle biblioteche e la cui attività quotidiana consiste nella
ricerca e nella scrittura, sono tempi duri. Il crescente disinteresse dei nostri
contemporanei per i libri e la lettura mi fa soffrire; e il disprezzo di chi ci
governa per le lettere classiche e le discipline umanistiche mi è
particolarmente odioso.
Nel corso della nostra conversazione, il mio interlocutore si mette a
parlare della disposizione e della presentazione delle opere in una grande
libreria come quella in cui ci troviamo. Sentendosi in confidenza, mi
confessa che i miei libri sui colori sono difficili da catalogare: storia? storia
dell’arte? sociologia? moda? design? simbologia? Dove metterli? «È lecito
esitare» mi dice, «tanto sono diversi i campi in cui lei si avventura».
Rispondo che sono uno storico e che i miei sono prima di tutto libri di
storia: il loro obiettivo principale è lo studio dei rapporti tra colori e società,
in Europa, dall’Antichità romana fino ai giorni nostri. Ma lui obietta che il
pubblico non cerca le mie pubblicazioni nella sezione ‘Storia’ ma piuttosto
in quella di ‘Storia dell’arte’ oppure, se esiste, in quella di ‘Esoterismo’.
Che mi si cerchi nella sezione ‘Storia dell’arte’ non mi scandalizza
minimamente, anche se sono più uno storico che uno storico dell’arte; ma
che i miei libri si trovino nella sezione ‘Esoterismo’ mi fa davvero
arrabbiare. Quello che scrivo non ha niente a che vedere con l’esoterismo,
l’ermetismo, la ricerca confusa di archetipi di fantasia o la psicologia da
supermercato. Ma bisogna ben ammettere che tale sezione in libreria è
spesso piena di volumi e che annovera purtroppo un numero abbastanza
elevato di opere sui colori. Citiamo quale esempio libri che hanno titoli tipo
Les Mystères de la couleur, Le Secret des couleurs révélé, Le Pouvoir
inconnu des couleurs, Qui êtes-vous par la couleur? e altri dello stesso
genere, tutti ugualmente scioccanti. Ho la vanità di pensare che questi libri
non abbiano niente in comune con i miei. Giostrano con epoche e culture,
credono ingenuamente a una simbologia universale dei colori e, in una
stessa zuppa indigesta, mescolano Egitto faraonico, Cina imperiale,
mitologia greca, gnosi, Graal, Templari, Catari, cavalleria, alchimia,
massoneria, se non Harry Potter o Il codice da Vinci. Questi libri
spaventosi, sfortunatamente, sono talvolta successi editoriali.
Simili pubblicazioni non sono solo recenti: fiorivano già in epoca
romantica ed erano apprezzate da un pubblico vario. Nel campo dei colori,
un’opera decisamente mediocre ha avuto effetti devastanti, sia dal punto di
vista della pittura che della letteratura: quella di Frédéric Portal, Sui colori
simbolici nell’Antichità, nel Medioevo e nell’Età moderna, pubblicato nel
1837 e ristampato molte volte. Alla fine del XIX secolo, alcuni pittori se ne
sono invaghiti (Gustave Moreau, Maurice Denis), e anche diversi poeti e
romanzieri (Mallarmé, Huysmans, Moréas). Questo libro è un cumulo di
idiozie, in cui si sostiene che i colori hanno il medesimo significato in tutte
le civiltà antiche e che sono frutto di una rivelazione originale. Per cercare
di ritrovare questi significati, Portal distingue tre livelli d’interpretazione:
quello del linguaggio divino, quello del linguaggio sacro e quello del
linguaggio profano. Il primo livello è per noi inaccessibile ma è possibile
ritrovarne il senso nascosto in alcuni testi religiosi della Persia antica e, in
misura minore, nei geroglifici egiziani. Questi ultimi sarebbero la matrice
della simbologia giudaico-cristiana, più o meno imbastardita a seconda
delle epoche e delle società. Il libro fu ristampato anche nel XX secolo,
nonostante molte recensioni sarcastiche in diverse riviste accademiche; e
oggi, nel 2015, è a volte ancora citato come opera di riferimento sulla storia
e la simbologia dei colori in alcuni manuali per designer e pubblicitari.
Le stupidaggini hanno vita lunga, a volte più lunga di quella degli stupidi
(nato nel 1804, Frédéric Portal è morto nel 1876).

Un mago dai poteri limitati


(novembre 2015)

Visita a Hélène, amica di sempre e giovane nonna che oggi si occupa di


Louise, la nipotina di quattro anni. Lo stesso nome di mia nonna, nata nel
1884, morta nel 1983. Come quelli delle sorelle – Aline, Lucie, Emma – è
tornato di moda e la cosa mi rende felice. A quando il ritorno di Michel,
nome affascinante che in Francia nessun uomo di meno di sessant’anni ha
più?
Ho già detto che, quando vado in visita da un amico dove so che ci sarà
anche un bambino, porto una scatola di colori, regalo sempre molto
apprezzato, anche quando la bambina o il bambino ne possiede già tre o
quattro più belle e più grandi di quella che regalo loro. La nuova scatola,
anche se modesta, ha il vantaggio di essere nuova, cioè non ancora
maculata di chiazze policrome che sono fuoriuscite dalle vaschette
sporcando tutti i bordi. Non ho quindi trasgredito a questa regola, e Louise
ha l’aria contenta del suo regalo. Ricordando che io stesso, alla sua età,
avevo avuto come primo ‘professore di colori’ André Breton, amico intimo
di mio padre che veniva spesso a casa nostra, in cima alla collina di
Montmartre, e che mi portava tutte le volte qualche cosa con cui dipingere o
disegnare, cerco di assumere lo stesso ruolo. Faccio vedere a Louise come
giocare con una maggiore o minore quantità di acqua per diluire o
concentrare il colore, facendolo inspessire o assorbire gradualmente; poiché
si tratta di colori a tempera, il compito è facile. Poi le insegno come
mescolare due colori per ottenerne un terzo. Per farlo, metto uno strato
leggero di giallo su uno di blu: appare il verde. Louise è affascinata. È un
incantesimo! Ai suoi occhi, sono una specie di mago.
Fiero di questo successo nella gamma dei verdi, decido di mostrarle
come, mescolando allo stesso modo il blu e il rosso, si può ottenere il viola.
Purtroppo, questa volta, fallimento totale! Da questa mistura non esce il
viola sperato ma un impiastro brunastro dei peggiori. Louise è delusa: è
abbastanza grande da distinguere il viola dal marrone e capisce che i miei
poteri magici sono limitati. Mi sono vantato di poter creare il viola –
curiosamente assente da questa scatola di tempere che include peraltro otto
vaschette – e ho fallito.
Prudente, rinuncio a mostrarle come mettere il giallo sul rosso per
ottenere l’arancione, e il bianco sul nero per un bel grigio. Il colore è spesso
un ribelle indomabile e ostinato, nella teoria come nella pratica. Meglio non
cercare di fare troppo il furbo.

Viola, un colore mistico?


(dicembre 2015)
Mi piace viaggiare in treno nel cuore delle Alpi, che sia in Svizzera, in
Austria o in Italia: i treni si muovono lentamente e mi danno l’opportunità
di ammirare a piacimento paesaggi magnifici. Oggi ho attraversato il passo
del Brennero, un evento sempre commovente per lo storico che si ricorda
come per millenni questo sia stato l’unico passaggio alpino a cielo aperto
tra l’Europa del Nord e quella meridionale.
Venendo da Innsbruck e dirigendomi a Trento, ho deciso di fare tappa a
Bolzano, città che mi fa sempre piacere visitare: vi si parla tedesco, le vie,
le piazze e le case hanno mantenuto il loro aspetto austriaco, ma l’atmosfera
è già impregnata di una certa latinità. Le regioni in cui il mondo tedesco e il
mondo latino si incontrano hanno un fascino particolare al quale sono
sempre stato sensibile: è il caso del Tirolo italiano, chiamato qui ‘Trentino-
Alto Adige’. Avendo un po’ di tempo a disposizione, ho dapprima visitato il
museo archeologico, che ospita il famoso Ötzi, la più vecchia mummia
umana conservata. Vecchio di circa cinquemila anni, trovato nel 1991 a
oltre tremila metri d’altitudine, questo cacciatore della protostoria non è
morto di freddo ma forse assassinato. Un destino singolare, messo qui in
scena in maniera elegante e istruttiva in una scenografia tutta in nero,
grigio, bianco e beige.
In seguito ho visitato il Museion, mostruosa costruzione recente dedicata
in linea di principio all’arte contemporanea ma che ospita per qualche
settimana una mostra pomposamente intitolata Il paesaggio mistico nelle
Alpi (Die mystische Landschaft in den Alpen). I quadri esposti andavano
dalla fine del XVIII secolo agli anni Trenta. A parte Klimt e Hodler, gli altri
erano pittori regionali poco noti, in maggioranza austriaci e italiani. Pochi
svizzeri, nessun tedesco né francese. Mi aveva attratto il titolo della mostra
ma sono stato un po’ deluso dalla visita: belle montagne, senza dubbio, ma
molte opere minori, un certo numero di croste, e soprattutto nessuna
spiegazione su cosa potesse essere un ‘paesaggio mistico’. Gli organizzatori
erano muti riguardo al loro progetto. Come se fosse compito del visitatore
trovare il denominatore comune di questa settantina di quadri tale da
giustificare un titolo simile.
A meno che non si consideri qualsiasi vista di montagna come più o
meno mistica, ammetto di non esserci riuscito. Ho invece scoperto un
denominatore comune nella gamma di colori usata nelle opere presentate:
l’abbondanza di viola. E anche la sua sovrabbondanza nei cieli, nelle cime,
nelle nuvole e negli sfondi. Bisogna cercare il sedicente ‘mistico’ della
mostra in quest’unico colore (che io detesto, come si sa), declinato qui in
una moltitudine di sfumature, dai malva più abominevoli fino ai toni più
saturi: prugna, melanzana, zinzolin? Se sì, perché? I conservatori o gli
storici dell’arte che hanno concepito la mostra e scelto le opere
(sfortunatamente i loro nomi non erano indicati) hanno visto in questi viola
alpestri una presenza del sovrannaturale che invita alla meditazione, alla
devozione, alla conversione? Oppure hanno confuso, come purtroppo fanno
certi miei studenti, il mistico con il liturgico e il liturgico con
l’ecclesiastico? Il viola non ha in sé niente di mistico e non ha una relazione
diretta con la fede. Invece, nel culto cattolico, è un colore liturgico che può,
soprattutto in tempi di attesa o di penitenza (Avvento, Quaresima), sostituire
il nero. È poi un colore da lutto, o meglio da semi-lutto, che oggi
certamente non si porta più per esprimere dolore o afflizione ma lo è stato
nel passato, tra la fine del XIX secolo e la Seconda guerra mondiale. È
infine un colore ecclesiastico, sfoggiato dai vescovi nei sinodi, nei concili e
in altre cerimonie importanti. Tuttavia, in questo ruolo specifico, il viola è il
colore dei vescovi solamente a partire dagli anni Trenta del XIX secolo;
prima, il colore emblematico della loro dignità era il verde.
Una certa opinione pubblica crede che il viola sia il colore religioso per
eccellenza, scorciatoia mentale completamente ingiustificata, che confonde
una semplice tenuta da prelato con la fede e le pratiche di devozione, e
assimila tutte le religioni al cattolicesimo. È irritante, ma è così. Questa
stessa gente qualifica spesso come ‘curati’ tutti gli ecclesiastici, che siano
secolari o regolari, chierici o monaci, vescovi o abati, come pure preti
cattolici e pastori protestanti: tutto nello stesso calderone, quello della
mancanza di cultura!
Ignoro assolutamente le intenzioni degli organizzatori della mostra, ma
ho forti dubbi sul fatto che abbiano un’idea chiara del misticismo e della
simbologia dei colori. Il paesaggio mistico nelle Alpi è un titolo adescatore
e ingannevole. Pittori delle Alpi dal XVIII secolo agli anni Trenta sarebbe
stato più veritiero e più onesto. Ma in tal caso sarei entrato in questo museo
orribile, dall’architettura troppo moderna, per visitare la mostra?
Probabilmente no.
2016
Dall’arancione all’innominabile
Arancione contro arancione
(gennaio 2016)

Da un po’ di tempo la stampa si fa portavoce di un futuro cambiamento di


uniforme: quella dei vigili del fuoco di Parigi e di molte grandi città
francesi. Ben presto abbandoneranno la tradizionale tenuta nera e blu scuro
per vestirne una nuova, di color arancione, presentata come più comoda, più
ergonomica e soprattutto più efficace per resistere alle alte temperature. Da
qui il titolo un po’ ingannevole scelto da molti quotidiani per annunciare
questa piccola rivoluzione dell’abbigliamento: ‘I pompieri passano
all’arancione’. Evidentemente non sono affatto competente per apprezzare i
vantaggi e la vera finalità di questo cambiamento, ma un’affermazione
riportata dai giornali mi fa sorgere alcuni dubbi: ‘I test effettuati in
laboratorio mostrano molto chiaramente che il rosso e l’arancione, colori
caldi, ritardano più di altri colori la trasmissione del calore del fuoco verso
le persone incaricate di spegnerlo’. Nientemeno!
Che cos’è esattamente un colore caldo? Lo storico sa bene che non ci
sono in assoluto colori caldi e colori freddi; si tratta di convenzioni, che
cambiano a seconda delle società e dei tempi. In Occidente, il blu che oggi
per noi è il colore più freddo per molto tempo è stato considerato come
caldo e il giallo, al contrario, come freddo. Inoltre, come e perché un colore
considerato caldo potrebbe ritardare più di uno freddo la trasmissione del
calore? Stiamo parlando di fisica o di simbolismo?
A dire il vero questa nuova divisa non sarà uniformemente arancione.
Bande gialle fosforescenti larghe una decina di centimetri la ricoprirebbero
in diversi punti per dare migliore visibilità in caso di interventi notturni o di
fumo intenso. Nel complesso, il vigile del fuoco sarà vestito di arancione e
giallo. Porterà anche un nuovo casco, più avvolgente e dotato di lampade
integrate e di mezzi di comunicazione audio. L’insieme lo farà assomigliare
più a un cosmonauta dei fumetti o a un palombaro da luna park che a un
vero soldato del fuoco.
Questo dossier di grande attualità invita a interrogarsi sul o sui colori del
fuoco. Bisogna constatare che in numerose società (anche se non in tutte) il
fuoco è associato al colore rosso. D’altronde, quando apriamo un dizionario
al vocabolo ‘rosso’ e leggiamo la definizione proposta, la maggior parte
delle volte troviamo una frase del tipo: ‘Rosso (aggettivo): che è del colore
del sangue, che è del colore del fuoco’. Una tale enunciazione non spiega
veramente che cos’è il rosso ed è più o meno discutibile riguardo al fuoco,
ma quale altra definizione proporre? Che cos’è il rosso? Se rispondessi: ‘È
il colore che nello spettro si trova tra questa e quell’altra lunghezza d’onda’,
userei una terminologia da fisico, di certo perfettamente pertinente per le
scienze dure ma che non sarebbe di alcuna utilità per le scienze umane. Ma
cos’altro si potrebbe dire, se non nominare degli oggetti, degli elementi
naturali o degli esseri viventi di questo colore?
Ritorniamo al fuoco. Se il legame tra il rosso e il sangue è per così dire
scontato – tutti gli esseri viventi vertebrati hanno il sangue rosso –
l’associazione tra il rosso e il fuoco è meno evidente. In natura, una fiamma
è raramente rossa, piuttosto arancione, gialla, blu, a volte bianca, incolore,
oppure policroma. Anche le braci tendono piuttosto all’arancione che al
rosso. Perciò, perché in tutto il mondo dei simboli e delle rappresentazioni
il fuoco è sempre rosso? Forse perché è percepito come una specie di essere
vivente dalle società della Preistoria, per le quali tutto ciò che è fonte di vita
mantiene naturalmente uno stretto legame con il colore rosso. Gli uomini
del Paleolitico hanno a disposizione un ventaglio ristretto di colori, non
tanto materialmente quanto concettualmente, e tutto quello che noi
coglieremmo come una sfumatura dell’arancione rientrerebbe per loro e i
loro discendenti nella gamma dei rossi.
A volte favorevole, fecondo, purificatore o rigeneratore, a volte al
contrario subdolo, violento, distruttore, nemico degli uomini e di tutti gli
esseri viventi, il fuoco ha instaurato molto presto – senza dubbio molte
decine di millenni prima della nostra era – legami archetipici con il rosso, il
colore più ambivalente. Da allora, niente ha potuto rimettere in discussione
tali legami: vengono da troppo lontano e sono troppo solidi. Che cosa
possono fare la realtà materiale e l’osservazione positiva contro il
simbolismo? Probabilmente, non molto.

Il lessico e lo spettro
(febbraio 2016)
Sia ringraziata l’École nationale supérieure de chimie che mi accoglie ogni
venerdì mattina per il mio seminario. Da qualche anno, l’affluenza è tale
che l’École pratique des hautes études non può più ospitarmi alla Sorbonne
e deve sollecitare la benevolenza di istituzioni amiche che dispongono di un
auditorium di grandi dimensioni. È il caso dell’École nationale supérieure
de chimie, e per me è ancora più emozionante perché qui ha insegnato mia
madre negli anni Sessanta, prima di entrare al CNRS, dove ha terminato la
propria carriera dopo averla iniziata come farmacista vent’anni prima. Mi
ricordo quanto fosse agitata a parlare davanti a un centinaio di studenti e
come preparasse a lungo ognuna delle sue lezioni di biochimica.
Questa mattina, attraversando il parcheggio, sono incuriosito dalla
carrozzeria di una piccola automobile Opel che vedo per la prima volta: la
tinta è singolare, e sono del tutto incapace di trovare il termine che potrebbe
definirne la sfumatura. Tanto più che quest’ultima, a metà tra beige, rosa e
dorato, è particolarmente sgradevole. Non ho il tempo di fermarmi ma mi
riprometto di tornare a fine mattinata con qualche studente per il quale lo
spettacolo di un simile veicolo costituirà certamente una proficua sessione
di esercizio pratico: chi potrà dirmene il nome?
Due ore dopo, siamo una dozzina a circondare la piccola automobile
mostro, sotto gli sguardi sospettosi di colleghi e studenti di chimica: in
quest’università che non è la nostra, noi storici del Medioevo, abbiamo
fama di essere gente strana, più o meno incontrollabile. Anche se tutti i miei
studenti sono d’accordo nel trovare volgare il colore della carrozzeria,
nessuno è in grado di designarlo con un solo vocabolo. Ne occorrono molti
per cercare di definirlo esattamente: ‘champagne rosé metallizzato’ ci
sembra abbastanza corretto ma esprime una sfumatura un po’ troppo chiara
e troppo elogiativa rispetto alla realtà; ‘crema di vaniglia e mandorle andata
a male’ sembra meglio, ma non prende in considerazione la sfumatura
leggermente rosata dell’insieme. Alla fine, ci accordiamo per
un’espressione che mette insieme la tinta e la bruttezza di una simile
carrozzeria: ‘vomito di pioggia di rose appassite’. I contemporanei di Luigi
XV avrebbero apprezzato una formula simile.
Questo piccolo e divertente esercizio collettivo mi ricorda un’espressione
che ho più volte incontrato nei documenti d’archivio della fine del
Medioevo e dell’inizio dell’epoca moderna: estrange couleur (colore
alieno). È usata dai notai che redigono un inventario di oggetti preziosi o di
guardaroba e che non dispongono di un vocabolario che permetta loro di
indicare con precisione la colorazione che hanno sotto gli occhi. Piuttosto
che creare un neologismo – vocabolo semplice o sintagma complesso – che
rischierebbe di non essere capito, preferiscono ammettere il loro imbarazzo:
estrange couleur sembra per loro la formula più onesta. È possibile che
questo imbarazzo derivi dal divario esistente tra il lessico di cui
dispongono, lessico interamente costruito sulla base della classificazione
aristotelica dei colori (bianco – giallo – rosso – verde – blu – viola – nero),
e le sfumature di colore che esaminano, le quali, a seconda
dell’illuminazione, si collocano nello spettro cromatico (viola – indaco –
blu – verde – giallo – arancione – rosso). Le due classificazioni mal si
combinano soprattutto quando una tinta si situa tra il verde e il giallo o tra il
rosso e il blu: non esistono parole che possano dar loro un nome. In
quest’ultimo caso, anche un termine come ‘viola’ non sarebbe appropriato:
in quest’epoca, indica un tono intermedio tra blu e nero e non tra rosso e
blu.
La nostra difficoltà a dare un nome al colore dell’orrenda vetturetta forse
ha la stessa origine: il divario esistente tra lessico e spettro. La scoperta di
quest’ultimo da parte di Newton, nel 1666, è stata certamente una
rivoluzione e ha fatto nascere un nuovo ordine scientifico dei colori –
ordine sul quale si fonda ancora oggi la scienza –ma non ha cambiato il
vocabolario che descrive questi ultimi nelle lingue europee. Il lessico e la
scienza non vanno di comune accordo.

Tavolozza calvinista
(marzo 2016)

Mi è capitato più volte di assistere a funzioni luterane, dato che la mia


amica Julia e suo marito Friedrich sono pastori nella Germania del Nord. Le
differenze con la messa cattolica non mi sono mai sembrate grandissime.
Certo, il tempio è più spoglio della chiesa, sono assenti i colori liturgici, i
canti sono più numerosi e più melodiosi (Bach…) e, sicuramente, Cristo
non è davvero presente nell’eucarestia: la funzione luterana è una
celebrazione e non la ripetizione di un sacrificio, come la messa. Ma tra i
due rituali esiste una parentela abbastanza stretta, almeno in apparenza.
Niente a che vedere con una funzione calvinista. Le differenze sono
molto più grandi, come ho sperimentato questo pomeriggio a Ginevra, nel
tempio di Saint-Gervais. Volevo vedere un grande dipinto murale del XV
secolo che rappresenta una Vergine con mantello, pittura che non è stata
distrutta al momento dell’adozione del culto riformato, ma ricoperta di
calce. Riportata alla luce e restaurata all’inizio del XX secolo, si trova in
una cappella in fondo all’edificio, sotto il campanile, ed è oggi nascosta da
una specie di paravento. Per ammirarla, bisogna attraversare tutto il tempio
e accendere una luce appositamente installata allo scopo. Quando sono
arrivato, la funzione era appena iniziata. Ho dovuto aspettare, e aspettare a
lungo perché la predica era interminabile. Ne ho approfittato per osservare
la decorazione – vuota, spoglia, priva di qualsiasi arredo – e i religiosi –
tutti, o quasi, vestiti di colori scuri. Questa gamma di colori mi ha ricordato
quella che portava mio zio Henri Dubief, calvinista di confessione e
presidente della Società di storia del protestantesimo francese. Ironico,
gaudente, ci si sarebbe potuti dimenticare che fosse calvinista, non fosse
stato per il suo abbigliamento: semplice, sobrio, austero, soprattutto per
quanto riguardava i colori. Non l’ho mai visto portare colori vivaci, neanche
bianco o viola, sempre grigio, blu scuro, un po’ di beige, marrone e nero.
Per i grandi riformatori protestanti del XVI secolo, l’abito è sempre
indice di peccato. Ricorda il peccato originale commesso da Adamo ed Eva
e la loro cacciata dal paradiso terrestre. Nel giardino dell’Eden, vivevano
nudi, circondati da meraviglie, e conducevano una vita di delizie. Il solo
divieto che Dio aveva loro imposto era quello di non cogliere il frutto
proibito, quello dell’albero della conoscenza del bene e del male. Sotto
l’influenza del demonio, hanno disobbedito, colto e poi mangiato questo
frutto. Cacciati dal paradiso, condannati a una vita di fatica, al momento
della loro cacciata hanno ricevuto un vestito per nascondere le loro nudità.
Questo vestito ricorda per sempre la loro colpa: è il simbolo stesso della
caduta dell’umanità.
Per la teologia e la morale protestante, ogni abito è più o meno erede di
questi primi vestiti. È pregno della colpa dei nostri antenati e, per questa
ragione, deve essere il più discreto possibile. Un abito non deve mai farsi
notare poiché è sempre, per natura, segno di vergogna e di peccato. Cercare
di abbellirlo, volerlo più ricco di quello del vicino, metterlo in valore con
accessori diversi è un comportamento riprovevole. Un buon cristiano non
deve attribuire alcuna importanza alla sua apparenza. Deve evitare stoffe
lussuose, colori vivaci, forme stravaganti, tenute spudorate, accessori
inutili, ciprie e gioielli, camuffamenti e travestimenti. Il suo guardaroba
deve essere ridotto e modesto. Priorità alla semplicità delle forme, alla
sobrietà dei colori, alla funzione protettrice e utilitaria del vestito. Un
indumento deve adattarsi al clima, alle stagioni, alle attività, eventualmente
proteggere chi lo porta, ma non abbellirlo né travestirlo, men che meno
farlo notare.
Mio zio Henri era rispettoso di questi principi, e lo erano anche i fedeli
che ho osservato questo pomeriggio nel tempio di Saint-Gervais a Ginevra.
Anche se non sono calvinista, li imiterei volentieri: le forme semplici e i
colori scuri snelliscono la figura. E la mia figura avrebbe davvero bisogno
di essere snellita.

Si può vietare in blu?


(aprile 2016)

Presentazione solenne oggi all’Università di Ginevra, a fine pomeriggio.


Seicentocinquanta persone riunite nella bella sala Dufour per sentir parlare
della storia e della simbologia del colore rosso. Sono io l’oratore, e mi sento
al tempo stesso onorato e confuso che mi sia dedicata una tale cerimonia.
Viceversa, non sono intimidito. Parlare in pubblico non mi ha mai fatto
impressione, neanche davanti a un pubblico di seicentocinquanta persone.
Se ce ne fossero duemila non farebbe nessuna differenza: in queste
situazioni non ho alcun timore. Ce ne sono comunque altre dove la fifa mi
paralizza. Per esempio una semplice cena mondana con otto o dieci persone
di cui non ne conosco la metà. In generale non dico niente: bisogna lottare
per prendere la parola – cosa che non so fare – mentre in una conferenza
pubblica mi si dà la parola. Orgoglio? Timidezza? Noia? Tutti e tre insieme,
senza dubbio… Allo stesso modo, al telefono, strumento di comunicazione
che mi fa orrore, non sono per niente chiacchierone e rispondo sì a tutte le
domande che mi rivolgono, in modo che la comunicazione duri il minor
tempo possibile. Il che mi mette poi evidentemente in situazioni
inestricabili.
Questa sera, sono ancora più fiero e contento di essere l’oratore perché è
la mia amica Thalia che presiede e che mi presenta. Formiamo una coppia
insolita: lei è in piedi, giovane, bellissima in un vestito di un verde delicato;
io sono seduto, rubicondo e strizzato in un vestito grigio che ha conosciuto
tempi migliori. Solo la mia cravatta… Thalia fa una lunga presentazione
delle mie ricerche e dei miei lavori. È talmente elogiativa che capisco di
non poter dire scemenze né superare l’orario previsto (siamo a Ginevra,
città in cui nel XVI secolo è stata inventata la puntualità). Ma la storia del
rosso è particolarmente lunga e complessa: è il primo colore di cui l’uomo è
riuscito ad avere il controllo, sia in pittura che in tintura, ed è rimasto in
Europa per molto tempo il colore ‘per eccellenza’, il colore preferito, quello
la cui simbologia è più ricca e più ambivalente.
Non potendo raccontare tutto, ho scelto di parlare soprattutto degli aspetti
negativi di questa simbologia, lasciando da parte tutto ciò che riguarda la
bellezza, l’amore, la gioia, la festa, il potere e la gloria. D’altronde il mio
intervento si intitola: ‘Rosso: un colore pericoloso?’ Per tre quarti d’ora
tutto procede al meglio, la conferenza segue il suo corso, dal Paleolitico al
XIX secolo. Poi arrivo al mondo contemporaneo e spiego come oggi il
rosso sia soprattutto presente nella nostra vita quotidiana per avvertire di un
pericolo, segnalare un divieto, minacciare una punizione: ‘Attenzione lavori
in corso’; ‘Da utilizzare solo sotto controllo medico’; ‘Non superare la dose
prescritta’; ‘È obbligatorio indossare il casco’; ‘Questo compito è da rifare’:
tutte queste ingiunzioni sono scritte in rosso o sottolineate in rosso. Sono a
questo punto del mio discorso quando il mio sguardo cade accidentalmente
su un grande cartello posto sul muro alla mia destra che mi era finora
sfuggito: VIETATO FUMARE. Ecco una cosa che si adatta perfettamente ai
miei propositi, a parte che la scritta non è in rosso ma in blu. Un divieto
minaccioso in caratteri blu! Quale architetto daltonico o grafico burlone ha
potuto avere un’idea così singolare (e probabilmente inefficace)?
La vista di questo blu incongruente mi turba. Mentre sto ancora parlando,
penso già al dopo conferenza: verrà data la parola al pubblico e,
immancabilmente, qualcuno sottolineerà che abbiamo tutti sotto gli occhi in
quella sala un esempio che mostra il contrario di quello che ho appena
detto. Che cosa rispondergli? Rifletto mentre parlo. Finalmente concepisco
un abbozzo di risposta: se mi viene fatta un’osservazione simile e se
seicentocinquanta paia d’occhi si girano verso questo mostruoso VIETATO
FUMARE in lettere blu, dirò che in tutti i codici, in tutti i sistemi,
occorrono delle eccezioni per confermare la regola. Queste immense e
sciocche lettere blu sarebbero in effetti la valvola di sfogo che conferma
quello che ho appena affermato sul rosso. Ecco la mia difesa! La mia
risposta è pronta. Ho in mano la vittoria.
Finisco l’intervento, mi applaudono, aspetto le domande. Thalia dà la
parola al pubblico, ma le poche domande che mi rivolgono sono tra le più
banali, la maggior parte riguarda i colori della bandiera svizzera e quelli di
alcuni cantoni. Nessuno sembra aver notato queste grottesche lettere blu che
vietano l’uso di tabacco e continuano a prendersi gioco di me. Sono quasi
deluso.

Ava è più cara di Marilyn


(aprile 2016)

Con il team dei Beaux Livres delle Èditions du Seuil – per me come una
seconda famiglia – apporto gli ultimi ritocchi all’iconografia del mio libro
Rosso. Storia di un colore (Ponte alle Grazie, 2016), che deve uscire il
prossimo ottobre. Come per il precedente volume della serie, Verde. Storia
di un colore (Ponte alle Grazie, 2013), vorremmo finire l’opera con
l’immagine di una diva vestita con un abito colore del titolo. La nostra
scelta cade su Marilyn Monroe: le fotografie che la mostrano in abito rosso
sono molte, tutte una più seducente dell’altra. Ma sorge un interrogativo: le
Èditions du Seuil potranno permettersi i diritti richiesti per riprodurre una
tale immagine? Questi diritti sono certamente molto cari, magari
spropositatamente cari.
Ci torna in mente in effetti la delusione relativa all’opera Vert, tre anni
prima. Avevamo scelto una splendida e rara fotografia di Ava Gardner in
abito verde, ma il prezzo richiesto per la riproduzione superava di molto il
budget di una grande casa editrice. Inoltre, per ragioni misteriose, la
diffusione di questa foto magnifica era vietata negli Stati Uniti e in Canada,
il che poneva un problema per la versione del libro in inglese. Abbiamo
dovuto ripiegare su una fotografia molto meno costosa – ma altrettanto
incantevole – di Jane Fonda in abito verde seduta su un divano verde.
Questa bella immagine era stata addirittura utilizzata come copertina
dell’edizione americana del libro. Che cosa accadrà oggi con Marilyn?
Con nostra grande sorpresa, il prezzo richiesto è assolutamente
ragionevole, e il suo seducente vestito rosso potrà senza problemi giuridici
e finanziari chiudere il libro. Meno male!
Queste disavventure editoriali possono sembrare aneddotiche ma non
sono prive di interesse per la storia culturale: il verde – che per molto tempo
è stato così difficile da fissare, da fotografare e da riprodurre – costa più
caro del rosso, ancora e sempre; quanto ad Ava Gardner, contrariamente a
Marilyn, resta una diva inaccessibile, anche diversi anni dopo la sua morte.
Troppo bella? Troppo fiera? Troppo mora? Troppo verde?

Predire il futuro a colori


(maggio 2016)

A me che sono specialista del passato chiedono a volte di predire il futuro.


È quello che è successo ieri sera a Losanna dopo la mia conferenza sulla
storia dei pigmenti verdi, di cui tutti i pittori, dall’Antichità romana fino ai
tempi recenti, non sono mai stati pienamente soddisfatti: «Ci saranno un
giorno dei nuovi colori? E se sì, quali?» mi hanno chiesto un po’
brutalmente. Ho risposto come meglio ho potuto, di no evidentemente,
invitando a non confondere colori, sfumature, pigmenti e coloranti. Ma ho
avuto più o meno l’impressione di essere una specie d’impostore: in nome
di che cosa un semplice storico del Medioevo occidentale potrebbe predire
il futuro di società ormai globalizzate e negare che nuovi colori possano
apparire nei prossimi decenni? Anche uno specialista della fisica della luce
o della chimica dei coloranti avrebbe difficoltà a rispondere in modo
pertinente a una simile domanda.
Di sicuro, è possibile immaginare che nuovi materiali, nuove
illuminazioni, nuovi supporti per immagine possano produrre cambiamenti
importanti. D’altra parte, cambiamenti simili sono già in corso. Nel campo
dell’abbigliamento, per esempio, nuove stoffe, che presentano consistenze
finora sconosciute, fanno oggi ‘parlare’ i colori in modo diverso rispetto a
dieci o quindici anni fa. Allo stesso modo, nel campo della fotografia, del
cinema, della televisione, il passaggio dal chimico o dal magnetico al
digitale ha già trasformato alcuni dei nostri modi di percezione e di
sensibilità. Ma possiamo veramente parlare di ‘nuovi colori’? Non credo.
Al massimo di nuove colorazioni, ma non di nuovi colori.
A prescindere dalle scoperte della scienza o dalle manipolazioni della
tecnica, il colore resta innanzitutto un fatto di costume, una pratica
culturale, un insieme di convenzioni e sistema di valori. Più che la natura,
più che la luce, più che l’occhio o il pigmento, è la società che ‘fa’ il colore.
Se le pratiche sociali e i codici simbolici non sono immobili, evolvono
lentamente, contrariamente a ciò che si afferma troppo spesso, molto più
lentamente del progresso tecnico o delle scoperte scientifiche. Per questa
ragione è difficile dire quali saranno ‘i colori di domani’. Tra venti o
trent’anni, molto probabilmente non saranno affatto diversi da quello che
sono oggi. In quanto a proiettarsi ancora più avanti nel tempo, per esempio
tra due o tre secoli, è un esercizio artificioso e di scarso interesse.
Per le scienze umane, i colori non sono né semplici materiali, né luci, né
lunghezze d’onda o vibrazioni; non sono neppure sensazioni o percezioni.
Sono categorie astratte, in un certo qual modo preconfezionate, che le
civiltà riempiono e colorano a loro piacimento per farne usi diversi; il loro
numero, la loro importanza e il loro significato variano a seconda delle
culture. In Europa – l’ho detto e ripetuto in tutto questo diario – i colori di
base sono sei: il bianco, il rosso, il nero, il verde, il giallo e il blu. Non c’è
alcuna ragione di pensare che una qualsivoglia invenzione o evoluzione
tecnologica possa modificare questi sei colori nei decenni a venire. La
stessa cosa vale per i cinque colori seguenti, quelli che io chiamo i ‘colori
secondari’, che rivestono un ruolo sociale e simbolico minore: il grigio, il
rosa, l’arancione, il viola e il marrone. No, se ci saranno mutazioni,
determinate da nuove fonti di illuminazione o nuovi materiali, queste
riguarderanno solo le sfumature. Alcune saranno modificate, altre
spariranno, altre ancora nasceranno. La maggior parte di esse si declinerà a
sua volta in sfumature di sfumature. Ma i colori propriamente detti saranno
gli stessi. E va bene così.

Europei ben scialbi


(giugno-luglio 2016)

Meno male! Il Campionato europeo di calcio è finito, e con lui si


concludono tutti gli eccessi d’isteria nazionale collettiva. Ho sofferto quasi
come nel 1998, quando la Francia ha vinto il Campionato mondiale di
calcio. Non che lo sport non mi interessi o che lo disprezzi, al contrario: è
senza dubbio il tema che conosco meglio. Inoltre, da storico, so che è un
fatto di costume di grande importanza da oltre un secolo, non fosse altro per
la massa di documentazione, di immagini e di leggende che lascia alle
generazioni future. Ma lo sciovinismo è un atteggiamento che mi è
totalmente estraneo: perché, per la sola ragione di essere francese, dovrei
essere al colmo della felicità quando la nazionale di Francia vince una
partita o una gara? Un simile sentimento mi è sconosciuto e, osservandolo
negli altri, allo stesso tempo mi turba e mi preoccupa. Fin dove arriveranno
la malafede, il settarismo, la violenza. Sono senza dubbio un cattivo
francese…
Detto ciò, questi Europei mi hanno annoiato. Come tutti, o quasi, li ho
trovati insulsi, troppo lunghi e di scarso interesse, soprattutto a confronto
degli appassionanti Mondiali che si erano tenuti due anni prima in Brasile.
A parte due o tre eccezioni (Italia-Belgio, Croazia-Spagna), il livello
tecnico delle partite era scarso. I giocatori sembravano stanchi; gli allenatori
non all’altezza; le squadre rassegnate. Come se nessuno volesse veramente
vincere. Il Portogallo, un Paese che riscuote la mia simpatia, sembra aver
prevalso ‘per esclusione’.
Approfittando dell’insulsaggine generale, ho osservato con maggiore
attenzione le divise delle ventiquattro squadre (cifra decisamente eccessiva
per una manifestazione simile), i colori, gli stemmi, i distintivi. E qui,
l’onestà mi obbliga a riconoscere che i fornitori dell’equipaggiamento
hanno fatto degli sforzi. Rispetto alle competizioni precedenti, hanno
giocato la carta della sobrietà. Bravi! Io, che tutto l’anno faccio presente
l’orribile stile delle maglie delle squadre di club, orrendi stracci policromi
contaminati da scritte pubblicitarie degradanti (come possono degli sportivi
di alto livello accettare di mostrarsi con divise simili? Che somme inaudite
ricevono per prostituirsi in questo modo?), ho visto colori ben definiti –
spesso il o i colori nazionali – e loghi discreti. Certamente, i tessuti sintetici
di oggi non hanno lo stesso effetto cromatico del cotone di una volta, ma
c’è un miglioramento innegabile. Come nel caso del blu, colore test in
questo campo, indossato agli Europei da diverse squadre (Francia, Italia,
Islanda, Slovacchia).
Scegliere un tessuto blu che risulti sgradevole alla vista è in effetti un
compito difficile; esistono così tanti bei blu che trovarne uno brutto non è
per niente semplice. Eppure, da molti decenni a questa parte, i fornitori
sportivi sono diventati maestri nel farlo. Ne sono una prova le sfumature di
blu scelte per vestire le squadre francesi: sono spesso state di una bruttezza
e di una volgarità insensate, non solamente nel calcio. Niente di tutto ciò
quest’anno: dei blu molto decorosi, persino seducenti, sia per i francesi che
per gli italiani e per tutti gli altri. I blu brutti si trovavano piuttosto sulle
tribune, su sciarpe, berretti, magliette, bandierine e bandiere portate dai
tifosi, tutti sottoprodotti fabbricati a basso costo e con tessuti miseri. Com’è
possibile che simili orrori possano essere venduti, talvolta anche a prezzi
molto elevati, e in così grande quantità?

Il verde del prato


(giugno-luglio 2016)

Questi Europei di calcio, organizzati in Francia, si sono svolti senza nessun


incidente significativo, nonostante gli ultimi scioperi di primavera e le
persistenti minacce terroristiche; soltanto alcuni tifosi russi molto ubriachi
di vodka si sono comportati da teppisti sulla Canebière. Sorpresa ma
sincera, la stampa estera ha sottolineato nell’insieme la buona
organizzazione dell’evento e la simpatica accoglienza riservata ai visitatori
stranieri. Non accade spesso. Tutti i nostri compatrioti che viaggiano nei
Paesi vicini sanno che la Francia non gode sempre di buona reputazione; un
Paese dove non funziona niente, meno che mai i trasporti; un Paese che
accoglie male lo straniero; un Paese arrogante, a cui piace dare lezioni al
mondo intero. Questa è l’immagine – in parte meritata? – che si ha a volte
della Francia oltrefrontiera. I nostri governanti ne sono consapevoli? Il fatto
che questi Europei 2016 siano stati un successo e si siano svolti in
un’atmosfera tranquilla è di certo un evento indimenticabile. Tanto più che
la Francia, Paese ospite, ha avuto l’eleganza di non vincere la competizione.
È importante per l’immagine di uno sport: la vittoria del Paese
organizzatore è sempre sospetta e sembra contraria all’etica sportiva.
La sola ‘nota stonata’ – che sembra sia stata mal vissuta dai giocatori –
sono state le condizioni dei prati degli stadi, spesso mediocri, a volte
pessime e paragonate da alcuni giornalisti a quelle di un campo da arare.
Giardinieri, fornitori, autorità locali, federazioni e organi di controllo hanno
giocato (!) a scaricabarile per decidere chi ne fosse responsabile.
Apparentemente nessuno, se dobbiamo credere alle polemiche che ne sono
sorte. Del resto, gli Europei sono finiti e il problema non è più attuale. In
compenso, bisogna ricordarsi di un evento spettacolare che ha fortemente
segnato la storia dello sport e quella del colore: in tre stadi, poco prima del
calcio d’inizio, sono state dipinte con bombolette spray le zone del prato
troppo rovinate. Intervento precipitoso e ridicolo, destinato non a migliorare
lo stato del campo ma a dare agli spettatori un’immagine davvero verde!
S’è mai visto niente di così grottesco su un campo sportivo?
Agendo in tal modo, i responsabili di questo atto ridicolo non si sono
certamente resi conto che il verde del prato di un campo da calcio assolve
una doppia funzione, sia pragmatica che simbolica: da un lato, grazie
all’erba, ammortizzare le cadute, attenuare i colpi; dall’altro, ricordare,
grazie al colore, che le sorti di una partita si decidono su superfici verdi.
Ritroviamo qui una delle più antiche dimensioni simboliche del verde,
colore del destino. Vi ho già fatto allusione in questo Diario cromatico. Che
si tratti dei prati sui quali si svolgevano le ordalie e i tornei del Medioevo,
dei tappeti da gioco apparsi nel XVI secolo (soprattutto per le carte), dei
moderni campi sportivi e persino dei tappeti verdi dei consigli di
amministrazione delle aziende, il significato è sempre lo stesso: su una
superficie verde si prende una decisione, si gioca l’avvenire, la fortuna
sceglie da che parte stare. Questo èparticolarmente vero per i campi
sportivi: il verde non è tanto quello dell’erbetta tenera e rilassante ma
piuttosto quello del destino che si sta decidendo. Il ping pong ne è la
conferma più evidente: anche se si pratica indoor e non genera conflitti né
violenza, si gioca su una superficie verde. Come si giocano su tappeti di
feltro verde le partite di biliardo. E come si disputano su linoleum o
pavimenti verdi un gran numero di sport da palestra. Il verde è il colore del
gioco e della sfida. Per questa ragione è onnipresente nel mondo dello sport.

Senza rosso né giallo


(luglio 2016)

Visita alla Kunsthalle di Amburgo, un museo tedesco di Belle Arti che


frequento regolarmente. Ospita fino a fine estate una mostra dedicata
all’opera di Edouard Manet che attira un gran numero di visitatori anche se
i quadri più famosi (Olympia, Le Déjeuner sur l’Herbe, Baigneuses sur la
Seine) sono assenti. Sale spaziose, presentazione sobria ma, come in
Francia, targhette troppo piccole e piazzate ad altezza ombelico, se non
ancora più in basso. Che cosa costerebbe agli organizzatori stampare le
targhette in corpo quattordici o sedici invece che sette o otto, e metterle
all’altezza degli occhi? Hanno paura che a quell’altezza le targhette
deturpino le opere? Pensano che tutti i visitatori siano nani? Oppure
vogliono obbligarli ad affittare un’audioguida, oggetto di certo molto
loquace ma che spesso dice meno di una semplice targhetta, almeno per chi
come me si interessa alle date, ai titoli e ai luoghi di conservazione?
In realtà, quello che snatura le opere non sono tanto le targhette quanto le
cornici, troppo spesso pesanti, massicce, appariscenti e poco consone allo
stile dell’artista o al soggetto raffigurato. Ad Amburgo come altrove, è il
dorato che uccide un certo numero di quadri, un dorato molto nuovo,
scintillante, aggressivo. Per un grandissimo pittore dei neri come Manet, è
particolarmente inopportuno. Hanno ridipinto le cornici apposta per la
mostra? In tal caso, è stata una pessima idea. Un quadro antico in una
cornice nuova di zecca, o che sembra tale, pare spento, perfino umiliato da
un contorno che gli fa violenza.
Manet è sicuramente un grande pittore dei neri ma lo è anche dei grigi. O
piuttosto dei rapporti tra i neri e i grigi (e non dei grigi tra loro, come
potevano esserlo Chardin o Hammershøi). Se confrontare la sua gamma di
colori con quella di Vélasquez è appropriato, il trattamento dei neri è invece
molto diverso, perché ai grigi Vélasquez preferiva spesso i marroni e i
beige. Eccellente nella gamma dei neri e dei toni scuri, Manet lo è meno in
quella dei verdi e dei blu, a volte molto forti. A meno che non siano le luci
della Kunsthalle a farli apparire tali. Certi verdi acidi mi hanno fatto
pensare a quelli delle giungle del Doganiere Rousseau.
Malgrado queste perplessità, mi è piaciuta molto questa mostra
amburghese, ancor più per via del ricordo del mio prozio Raymond, anche
lui pittore: Manet era uno dei suoi artisti preferiti. Non è il mio caso, ma
come non riconoscere in questo artista, che a suo tempo fu tanto calunniato
(rifiutato per cinque volte al Salon tra il 1859 e il 1876), un precursore
dell’arte moderna? Oggi mi hanno colpito in modo particolare due aspetti.
Da un lato la raffigurazione delle mani, spesso maldestra, a volte
sproporzionata, o del tutto trascurata, come se Manet – un nome pertanto
predestinato a farne un pittore abile a dipingere le mani – attribuisse poca
importanza a questa parte del corpo. Dall’altro, l’assenza pressoché totale
del rosso e del giallo nei quasi settanta quadri presentati. È un fatto inusuale
in una mostra di quadri e merita di essere sottolineato. Gli artisti plastici di
oggi, nemici dei grigi, fanatici infantili dei colori caldi, spesso utilizzati così
come escono dai tubetti, dovrebbero ispirarsi molto di più alla gamma di
colori di Manet.

Intermezzo ad Arcachon
(luglio 2016)

Divertimento estivo questa mattina alla rivendita di giornali alla periferia


d’Arcachon, dove mi reco ogni giorno durante le vacanze estive per
comprare L’Équipe – questo ‘giornale di sport e di automobili’ la cui lettura
quotidiana (da quando avevo undici anni!) rimane per me una dipendenza
mentre lo sport professionistico mi delude ogni giorno di più. Sulla porta,
un cartello a grandi lettere blu informa che il negozio è gestito dai ‘Signor e
Signora Bézuquet’, cognome molto diffuso nella regione ma che trovo
comunque molto buffo. Se mi chiamassi così, non avrei mai fatto scrivere il
mio nome in blu; avrei chiaramente scelto il rosa o il giallo.
Oggi, quando sono entrato nel negozio, la signora Bézuquet stava
mostrando a una cliente di una certa età una rivista scandalistica ad alta
tiratura. La copertina riportava una fotografia di Catherine Deneuve e
Johnny Hallyday, molto giovani e teneramente abbracciati, con questo titolo
ammiccante: ‘Il loro amore segreto. Ciò che la stampa non ha mai rivelato’.
L’anziana cliente è allora entrata in una sorta di trance e rivolgendosi a tutti
i presenti ha incominciato a urlare: «Lo sapevo, lo sapevo!» Poi ha iniziato
a girare in tondo su se stessa, ripetendo incessantemente e mangiandosi
progressivamente le vocali: «Lo spevo, lo spvo, lo spv». Impossibile farla
tacere fino a quando un uomo in polo verde e bermuda bianchi, molto
dignitoso ma irritato, le ha detto in faccia: «E invece io, signora, non lo
sapevo!» Quindi è uscito, imperturbabile. La signora Bézuquet ha allora
confidato a tutti i presenti, con una certa fierezza nella voce: «È il signor
Vidal, si veste sempre di verde: è nel settore dei solventi».
Sono rimasto allegro tutto il giorno. Quella parola ‘solventi’, nella bocca
di una signora Bézuquet la cui eterna camicetta grigiastra farebbe venire gli
incubi a un tintore, era già surrealista; ma l’idea che sia necessario vestirsi
di verde perché si lavora in una ditta di solventi lo era ancora di più. Questo
signor Vidal, che uomo!

Idiozia a colori
(agosto 2016)

Quest’estate vanno di moda gli album da colorare, fascicoli di poche pagine


sulle quali sono stampate figure di forme diverse (scacchiere, rosoni,
losanghe, fiori, stelle, arabeschi, eccetera) pronte per essere colorate con
pennarelli o matite. Simili articoli non sono destinati a bambini piccoli che
non sanno ancora scrivere né disegnare, ma ad adulti stressati, atoni o
semplicemente senza occupazioni. Sembra che colorare queste forme
semplici, prestampate in inchiostro nero su carta bianca, permetta di
combattere efficacemente ‘la fatica psicologica e l’indolenza’. Senza essere
faticoso, né richiedere uno sforzo d’immaginazione sovrumano, un simile
esercizio richiede tuttavia attenzione, cura e precisione: bisogna mettere il
colore nello spazio definito, senza uscire dai bordi, altrimenti…
Questi album da colorare per adulti (!) hanno riscosso un successo
considerevole. Ad Arcachon, la modesta rivendita di giornali della signora
Bézuquet ne propone più di un centinaio, tutti diversi, che si vendono allo
stesso ritmo delle caramelle per i bambini e necessitano di un rifornimento
quotidiano. Un simile successo lascia sbalorditi. Com’è possibile che
un’attività tanto debilitante possa tenere occupato un così gran numero di
vacanzieri? La parte creativa è inesistente, e l’apporto pedagogico peggio
ancora. Su alcuni di questi album, il colore da inserire in un determinato
spazio è addirittura indicato da una lettera in codice: qui bisogna mettere il
giallo (G); là il verde (V); un po’ più lontano il rosso (R). Chi si dedica a
una simile occupazione non può neppure scegliere i colori, qualcun altro
l’ha fatto per lui. L’idiozia raggiunge in questo caso il parossismo. Una
specie di record del mondo, mi dispiace solo che il colore vi sostenga il
ruolo principale.
A dire il vero, non capisco. Esistono migliaia di attività per passare il
tempo e altrettante per combattere lo stress, tutte più gratificanti di questa.
Anche solo la lettura, il disegno, la pittura, la musica, camminare, praticare
uno sport, se non addirittura, ancor più semplicemente, mangiare
cioccolato, guardare gli altri o fantasticare seduti su una panchina
guardando il mare, gli alberi, la campagna… Ma applicare in modo
ripetitivo il colore in spazi predefiniti? A che scopo? Per non pensare a
niente? Pensare farebbe forse male alla salute? L’essere umano deve ridurre
il proprio cervello in pappa per trovare la serenità?
Sono ingiusto con la pappa. Ma approfitto dell’occasione per attirare
l’attenzione sulla differenza tra il verbo colorer (colorare) e colorier
(applicare del colore), troppo spesso confusi. Eppure la lingua francese li
distingue accuratamente, cosa che non fa l’inglese (to colour in entrambi i
casi) né il tedesco (färben si utilizza soprattutto per l’idea di colorare, ma
Farbe geben, mit Farbe ausfüllen o anche kolorieren hanno entrambi i
significati). In francese colorier significa semplicemente applicare dei
colori su una superficie; colorer, invece, significa innanzitutto dare un certo
colore a qualche cosa, ma significa anche e soprattutto dare colore. Dal che
derivano, per questo secondo verbo, numerosi sensi figurati, estranei al
primo: dar luce, vita, movimento; truccare, abbellire, rendere originale o
seducente. Colorer è sempre un atto più creativo, più dinamico, che dà più
valore di colorier. Fa inoltre intervenire la chimica: avviene un’osmosi tra il
colore e il suo supporto, ed è impossibile tornare indietro, come succede
nelle operazioni di tintura. Infine, è un verbo che può essere utilizzato in
forma riflessiva, un lusso grammaticale che molti verbi non possono
offrirsi: ‘Quando ho aggiunto nel bicchiere qualche goccia di sciroppo di
granatina, la gazzosa si è colorata di rosa’. Questo semplice esempio è
sufficiente a mostrare come colorer permetta di fare cose meravigliose, se
non prodigi. Il che non è affatto il caso di colorier né degli album da
colorare.

Non tutti i corvi sono neri


(settembre 2016)

Quante volte sono venuto a Chartres a visitare la cattedrale? Certamente più


di una ventina. La prima volta ero con mio zio Henri, nato in questa città
che tanto amava: avevo dieci anni e il prestigioso monumento mi aveva
fatto paura. L’ultima, tre anni fa, per vedere e studiare le chiavi di volta del
coro ornate di stemmi, recentemente rinnovate. Avevo avuto bisogno di un
potente binocolo.
Oggi mi soffermo nella navata. C’è poca gente e, caso raro, nessuna
impalcatura. Le vetrate più basse, smontate e ripulite una quindicina di anni
fa, sono nitide e ben visibili: l’inquinamento non ha ancora avuto il tempo
di sporcarle. Tralasciando per una volta l’analisi delle differenze cromatiche
tra i due ‘blu di Chartres’ – quello del XII secolo: chiaro, luminoso, un po’
lattiginoso; quello del XIII secolo: più saturo e più scuro – esamino più a
lungo di quanto abbia mai fatto la vetrata che è consacrata all’arca di Noè,
un tema iconografico sul quale ho scritto molto. Quali animali nell’arca e
quanti? Il testo della Genesi non dice niente al riguardo; precisa
semplicemente che Noè, su richiesta del Signore, ne fece salire sull’arca
‘due di ogni specie’. Ma nelle immagini, non importa che siano riprodotte
su una miniatura carolingia, una vetrata del XIII secolo o un libro per
bambini del XXI, gli artisti non hanno mai a disposizione spazio sufficiente
per rappresentare un gran numero di animali. Devono quindi fare una
selezione, e questa selezione è sempre altamente significativa. Per lo storico
rappresenta un documento di storia culturale eccezionale, di lungo periodo.
Quali specie di animali hanno il permesso di salire sull’arca e perché?
Questa mattina, con l’aiuto del mio binocolo (oggetto indispensabile
quando si visita una chiesa), ho passato in rassegna tutti i medaglioni,
soffermandomi a lungo su quelli che mostravano degli animali. Mi
interessano in modo particolare il corvo e la colomba, perché formano una
coppia di opposti, sia dal punto di vista simbolico che da quello cromatico:
la colomba è bianca e positiva, il corvo è nero e negativo. Ma, oggi,
stupore: il corvo nella vetrata di Chartres, che si nutre dei cadaveri nelle
acque del Diluvio, non è nero ma rosa! Ho certamente detto più volte ai
miei studenti che nelle immagini medievali qualunque oggetto, vegetale,
animale o personaggio poteva essere di qualsiasi colore. Dal punto di vista
cromatico, la rappresentazione non è mai realista, e se per caso sembra
esserlo, bisogna interpretare questa rappresentazione realistica come uno
dei livelli, tra gli altri, di rappresentazione simbolica: il realismo e il
naturalismo sono sempre convenzioni, in un’immagine come in un testo.
Ciononostante, ho avuto il torto di precisare che esisteva qualche
eccezione a questa regola. E di citare come esempio il corvo, «sempre nero
nelle immagini medievali». Affermazione fragile ed erronea da parte mia, la
vetrata di Chartres ne è la prova: esiste almeno un corvo rosa, e senza
dubbio altrove ce ne sono altri che sono rossi, blu, verdi, gialli o persino
bianchi. Chi saprà trovarli?

Il prossimo colore: il giallo


(settembre 2016)

Il mio libro Rouge. Histoire d’une couleur è appena stato pubblicato dalle
Éditions du Seuil. Le traduzioni in inglese e in italiano sono uscite lo stesso
giorno, la traduzione in tedesco è ritardata di qualche mese. L’opera è
magnifica per la qualità della stampa e l’abbondanza dell’iconografia.
Quanto al testo…
Sarei incline a pensare che questo lavoro rappresenti per me la
conclusione di un’impresa iniziata quasi vent’anni fa: la storia dei colori in
Occidente, dal Paleolitico ai giorni nostri, nell’insieme dei suoi aspetti, dal
lessico ai simboli, passando per le consuetudini sociali, le conoscenze
tecniche, le teorie scientifiche, le morali religiose e le creazioni artistiche.
Bleu è apparso nel 2000, Noir nel 2006, Vert nel 2013, Rouge nel 2016. Un
progetto di lungo respiro, tanto più che prima della pubblicazione di questi
quattro libri, per molti anni, ho dedicato alla storia dei colori la maggior
parte dei miei seminari all’École pratique des hautes études e all’École des
hautes études en sciences sociales; e che a monte di questi seminari ci sono
tre o quattro decenni di ricerca. Dovrei fermarmi!
Tuttavia, il mio editore non la pensa così: l’insieme non gli sembra
completo. Di certo non si aspetta che consacri un intero volume al bianco;
ne ho a lungo parlato nel volume sulla storia del Noir. Stessa cosa, dal mio
punto di vista, vale per il grigio, il marrone, il rosa, l’arancione e il viola:
difficile dedicare loro un libro intero perché non sono colori primari; la loro
storia è decisamente meno ricca e la loro simbologia più limitata di quella
del blu, del nero, del verde e del rosso. Di sicuro. Ma manca il giallo! Il
giallo che credevo di poter evitare. Non che detesti questo colore, anzi, ma
cinquant’anni di consultazione di documenti europei sulla storia dei colori
mi hanno insegnato che questi ultimi, dall’Antichità fino ai giorni nostri,
non raccontano granché sul giallo. Come scrivere un libro fatto sulla
falsariga dei precedenti: Jaune. Histoire d’une couleur? La documentazione
è frammentaria e molto disomogenea.
Sono perciò reticente (e, lo confesso, un po’ esausto). Ho anche paura di
ripetermi, di continuo. Quando analizzo, per esempio, l’atteggiamento ostile
della Riforma protestante verso i colori che ritiene indecenti o immorali
perché troppo vistosi, mi è difficile trovare argomenti diversi quando parlo
di volta in volta del verde, del rosso o del giallo: tre colori che hanno
scatenato nei grandi riformatori del XVI secolo, sia calvinisti che luterani,
una vera e propria cromofobia. Se dedico un intero libro al giallo, dovrò
necessariamente riprendere il caso, oltre a un gran numero di altri già
analizzati. Cosa fare? Esito. Ma sono vigliacco e non so dire di no.
Per questo motivo, alla fine, mi sono lasciato convincere. Un po’ per
debolezza ma anche perché anch’io capisco che la serie è incompleta.
Esistono sei colori ‘di base’ nella cultura occidentale: rosso, bianco, nero,
verde, blu e giallo. Devo quindi scrivere quest’ultimo libro e, per farlo,
iniziare a raccogliere idee e documenti. Visto che il mio editore mi ha
chiesto di scrivere un riassunto di una o due pagine che, nei saloni e nelle
fiere del libro, potrebbe sedurre qualche editore straniero interessato a una
coedizione, ecco – in una sorta di anteprima – quel che ho redatto per
annunciare questo prossimo libro:
‘Nelle società europee contemporanee, il giallo è un colore discreto, poco
presente nella vita quotidiana e indebolito sul piano simbolico. Non è
sempre stato così. I popoli dell’Antichità vedevano nel giallo un colore
quasi sacro, simbolo di luce, di calore, di ricchezza e di prosperità. I Greci e
i Romani gli attribuivano un ruolo importante nei riti religiosi, mentre i
Celti e i Germani lo associavano all’oro e al sole. In Europa, il declino del
giallo risale al Medioevo, che ne ha fatto un colore ambivalente. Da un lato
il giallo cattivo, quello dello zolfo demoniaco e della bile amara: è segno di
menzogna, avarizia, tradimento, a volte malattia o follia. Il giallo è anche il
colore dei falsari, dei cavalieri cattivi, dei traditori, di Giuda e di Lucifero.
La stella gialla, triste ricordo, si riallaccia a questa tradizione negativa. Ma
dall’altro lato, il giallo buono, quello del miele e dell’oro, segno di gioia,
piacere e abbondanza. In termini cromatici questi due gialli si esprimono in
modo diverso: il primo con un giallo limone; il secondo con un giallo più o
meno arancione, senza tuttavia tendere al rosso, colorazione presa spesso in
senso peggiorativo e più vicina al rosso che al giallo.
‘Con il passare dei secoli, questa simbologia medievale del giallo non è
affatto cambiata. Ancora oggi, il giallo che tende al verde è spesso percepito
come acido, pericoloso o tossico; porta in sé qualcosa di malsano o di
velenoso. Al contrario, il giallo che si avvicina all’arancione è sano, tonico
e benefico, come tutti i frutti di questo colore e le vitamine che si supponga
contengano. L’oro e l’arancione sembrano essersi fatti carico dei buoni
elementi del giallo, lasciando alle altre sfumature gli aspetti negativi.
‘In altre parti del mondo le cose sono diverse. La simbologia dei colori
non è affatto universale, e ciò che vale per l’Europa non vale
necessariamente per l’Asia, l’Africa o il Sudamerica. In Asia, per esempio, i
pigmenti gialli (ocra, orpimento) e i coloranti gialli (zafferano, curcuma,
erba guada) sono abbondanti. Per questa ragione, lì è stato a lungo più facile
dipingere o tingere con questo colore di quanto lo fosse in Europa, e
presentare così una varietà più ricca e diversificata di gialli. Anche per
questo tale colore è quasi sempre interpretato in senso positivo. Nell’antica
Cina, per esempio, i vestiti gialli erano riservati all’imperatore, che stava al
centro della Terra, come il Sole al centro del cielo. In India, qualunque sia
la sfumatura, il giallo è fonte di felicità, specialmente in ambito coniugale e
familiare: indossare un po’ di giallo allontana le forze del male. Soprattutto,
il giallo è il colore del buddismo, i cui templi sono indicati da un segno di
questo colore sulle porte. Del resto, Buddha aveva lui stesso esaltato il
giallo, raccomandando di tingere le stoffe e gli abiti con lo zafferano e
condannando l’indaco.
Oggi le differenze tra i continenti rimangono ma sono meno marcate di
un tempo. Nella maggior parte delle culture, il giallo resta un colore
associato alla luce e al sole, un colore che si vede da lontano e che pare
caldo e sempre in movimento, come le palline da tennis che, da una
quarantina d’anni a questa parte, sui campi del mondo intero, sono di questo
colore’.
Bisogna ora scrivere un libro voluminoso e colto intorno a queste poche
idee. Compito quasi sovrumano.

Il rosso della signora Clinton


(ottobre 2016)

Non ho alcuna ammirazione per il sistema politico americano e nutro una


completa avversione per le campagne chiassose e costosissime che
precedono l’elezione del presidente degli Stati Uniti. Come può un Paese
democratico, o preteso tale, comportarsi in modo tanto indegno? Per me è
un enigma. In ogni caso, non ho guardato il primo dibattito televisivo che
ieri sera (questa notte per gli europei) ha visto fronteggiarsi Hillary Clinton
e Donald Trump. Del resto, non possiedo una televisione, e col mio
modesto computer non sarei affatto in condizione di captare un qualsivoglia
canale americano. Questo non ha impedito a molti giornalisti di sollecitare
questa mattina presto un mio commento sulla scelta del sorprendente
tailleur rosso vivo indossato dalla signora Clinton per l’occasione. Come
mai questo rosso insolito?
La risposta mi sembra abbastanza semplice, e mi sorprende che la stampa
abbia bisogno di consultarmi per trovarla. Allo stesso tempo, la mia vanità
ne è lusingata: sono fiero di essere considerato un maître à penser e un
esperto di colori nel mondo contemporaneo. E dire che, quando ero studente
e poi giovane ricercatore, tutti attorno a me trovavano infantile il mio
interesse per i colori e giudicavano poco seri i miei primi lavori sulla loro
storia e la loro simbologia! Se serbassi rancore, non direi a nessuno perché
la signora Clinton ha scelto di vestirsi di rosso. Ma non sono vendicativo, e
se voglio continuare a essere interpellato, devo rispondere.
Vedo innanzitutto in questo rosso un colore femminile, un colore che un
uomo politico non può portare in uno studio televisivo, almeno non per un
abito intero. Per quanto sia stravagante e sconcertante, Donald Trump non
avrebbe mai potuto fare la scelta suicida di un completo tutto rosso. In
quanto donna, Hillary Clinton poteva offrirsi un tale lusso. L’ha fatto,
affermando così la differenza – la sua femminilità – ed enfatizzando con
forza la sua volontà di essere la prima donna presidente degli Stati Uniti. Mi
sembra poi che con questo rosso abbia cercato di ringiovanirsi: è raro che
una donna di quasi settant’anni indossi una tenuta di un colore così vivo.
Vestita così, sembrava di dieci anni più giovane ed è riuscita a far
dimenticare un pochino la sua età. Negli Stati Uniti come in Francia è
purtroppo diffusa tra i media e i commentatori politici l’idea imbecille che
un presidente (o una presidentessa) debba essere giovane. Per quanto mi
concerne, io sono del parere opposto e mi rallegrerei vivamente se nel
nostro Paese una norma costituzionale impedisse a qualunque persona che
ha meno di sessantacinque anni di candidarsi alle elezioni presidenziali. Un
Primo ministro deve essere giovane, non un presidente della Repubblica
(che, secondo me, non dovrebbe essere eletto a suffragio universale).
Ritorniamo agli Stati Uniti e a Hillary Clinton. Ringiovanirsi con il rosso,
quindi, ma anche rendersi più seducente, più attraente, in altre parole più
‘sexy’. Un compito apparentemente difficile, considerando quanto la
signora abbia l’aria dura e scostante, che tuttavia il rosso riesce a volte ad
assolvere efficacemente, e da tempo immemorabile.
Infine – ed è forse qui l’essenziale – la scelta del rosso ha dato a Hillary,
fin dall’inizio, ancora prima che iniziasse il dibattito, un leggero vantaggio
su Donald Trump. Ogni dibattito televisivo è una guerra. Partire in guerra
vestiti di rosso è inequivocabilmente un vantaggio. Si è visto in passato sui
campi di battaglia; si vede oggi sui campi sportivi. Ne ho già parlato nel
Diario cromatico: le squadre che si presentano in rosso impressionano i
loro avversari e beneficiano ancor prima del calcio d’inizio di una certa
superiorità. Hillary e il suo staff hanno fatto quindi una buona scelta.
Almeno per quanto riguarda il colore, perché in quanto al tailleur
pantaloni… Non sono né uno stilista né un sarto, ma mi sembra che un
semplice vestito rosso sarebbe stato meglio; perlomeno visto dall’Europa.
Per finire, vorrei far notare che mentre Hillary Clinton, candidata
democratica, si presentava vestita di rosso, Donald Trump, candidato
repubblicano, portava una cravatta blu brillante. Ovvero un ribaltamento
perfetto dei colori emblema scelti di solito dai due grandi partiti americani:
blu è generalmente il colore dei democratici, e rosso quello dei
repubblicani. Errore? Aneddoto? Scelta precisa? Accadrà la stessa cosa in
occasione del secondo dibattito?

Dipartimenti
(novembre 2016)

Gli amici da cui vado a cena questa sera hanno due bambini: otto e dieci
anni. Ho già preparato la scatola di colori (tempere) che regalerò loro:
militante del colore, regalo a tutti i bambini tra i sei e i dodici anni una
confezione di colori; a mio avviso è il più bel dono che io possa fare. Ne ho
già parlato più volte. Ma oggi ho bisogno di un secondo regalo. Nel grande
magazzino in cui mi trovo, esito. Vorrei portare un oggetto poco
ingombrante e silenzioso, che abbia qualche virtù pedagogica ma che non
abbia niente a che fare con un videogioco o un computer. In questo campo,
ammetto di essere all’antica. Alla fine opto per un puzzle che rappresenta i
dipartimenti francesi, ricordandomi quanto mi piacesse rimettere insieme i
novanta o novantuno pezzi di quello che mi era stato regalato per i miei otto
anni. Era di legno, grande, e per ogni dipartimento erano indicati il nome in
lettere maiuscole, la prefettura (a quei tempi si diceva ‘capoluogo di
dipartimento’) in minuscolo tondo e le sottoprefetture in corsivo. Qualche
mese dopo, conoscevo a memoria le quattrocentocinquantaquattro
sottoprefetture francesi e le sapevo indicare su una cartina. Non le ho
dimenticate e so farlo ancora oggi. Del resto, mia nonna Louise, morta a
quasi cent’anni nel 1983, lo sapeva fare ancora alla vigilia della sua morte,
anche se aveva imparato quella geografia amministrativa della Francia
quasi un secolo prima, alle elementari.
Anche se un po’ desueto, l’oggetto che ho comprato è diverso dal mio
antico puzzle: non di legno ma di plastica, meno grande e per ogni
dipartimento indica solo il nome e il numero di immatricolazione, non le
prefetture né le sottoprefetture! Peccato. Ma almeno, trattandosi di un
puzzle, i bambini impareranno a mettere i dipartimenti al posto giusto, gli
uni accanto agli altri. Per farlo, si potranno aiutare con i colori. Ce ne sono
cinque: rosso, giallo, blu, verde e viola. Sono colori piuttosto vivaci, mentre
sul puzzle della mia infanzia erano più o meno pastello per far sì che
risaltassero bene i nomi scritti in nero. Li vedo ancora: rosa, giallo pallido,
verde pallido, malva e arancione. In entrambi i casi, comunque, chi lo ha
ideato ha rispettato la tacita regola secondo la quale due dipartimenti dello
stesso colore non possono toccarsi. Un problema di ripartizione complesso,
che si basa su una formula matematica che non conosco (bisogna dire
‘equazione’ in questo caso?) ma che mi impressiona. Nel caso della Francia
metropolitana (cioè la Francia europea, che esclude dipartimenti e territori
d’oltremare, N.d.T.), divisa oggi in novantacinque dipartimenti di forma
molto diversa, la soluzione è relativamente facile con cinque colori ma lo
sarebbe molto meno con quattro.
Per quanto riguarda la Corsica, lontana dalle altre aree, in questo puzzle è
rappresentata da un unico pezzo bicromatico (in effetti è divisa in due
dipartimenti). Curiosamente è colorata in due colori assenti sul continente:
rosa e arancione. Chi saprebbe dire perché? (Non mi ricordo di un pezzo
che rappresentasse la Corsica nel puzzle della mia infanzia.)
Mi piacciono i dipartimenti e mi fa sempre piacere vedere agli Archivi
nazionali, a Parigi, nell’anticamera del direttore, il grande tavolo sul quale,
tra il dicembre 1789 e il marzo 1790, è stata fatta la prima suddivisione
(sulla base del progetto già in cantiere sotto l’Ancien Régime). Le
discussioni erano state aspre, e la nuova geografia amministrativa più volte
rimaneggiata. Invece non provo alcuna simpatia per le regioni,
raggruppamenti artificiali, contrari alla storia, più volte rigettati dal voto
popolare a partire dal 1969, ma ciononostante imposti dai nostri governanti.
Siamo arrivati oggi a tredici regioni, molte delle quali hanno nomi
grotteschi. Tredici: un numero dalla simbologia un po’ inquietante e dalle
virtù pedagogiche quasi inesistenti, per lo meno nella forma di un puzzle.
Se comunque esistesse un oggetto simile, vedrei bene la Bretagna in blu, la
Normandia in rosso e l’Occitania in giallo. Quanto al resto… Come si fa ad
assegnare un colore a regioni che si chiamano Alvernia-Rodano-Alpi,
Grand Est o Alta Francia?

Definire il colore
(dicembre 2016)

Quando si scrive sul colore, è opportuno citare Aristotele, Newton, Goethe


e Wittgenstein. Ho già citato i primi tre, a diverso titolo. Chiudiamo dunque
questo Diario cromatico in compagnia di Wittgenstein.
Da giovane, ho letto molto Wittgenstein (1889-1951), me lo aveva fatto
scoprire il mio giovane professore di filosofia dell’ultimo anno del liceo,
l’eccellente Pierre Thuillier, divenuto in seguito un epistemologo di grande
talento. Quello che ho apprezzato prima di tutto nel filosofo austriaco è il
logico pessimista, che mostra come per esprimere il nostro pensiero siamo
costantemente prigionieri delle parole mentre il linguaggio si intrappola
spesso da solo. In seguito, diventato miglior germanista, ho ammirato in
Wittgenstein lo stile: il suo linguaggio minerale è cesellato come un
cristallo di rocca. Più tardi ancora, quando stavo ormai lavorando da diversi
anni sulla storia dei colori, ho letto la sua opera postuma Bemerkungen über
die Farben (Osservazioni sui colori, Torino, 1981, introduzione di Aldo
Gargani, trad. M. Trinchero), divenuto uno dei miei libri prediletti. È un
testo particolarmente stimolante, anche se composto solo da note e
frammenti sparsi che Wittgenstein non ha avuto il tempo di mettere in
forma definitiva. Ignoriamo se queste note siano state redatte durante un
lungo periodo o solamente nei suoi ultimi mesi di vita. D’altronde, forse è
meglio che esse non abbiano mai preso la forma di un libro organizzato e
compiuto: hanno, mi sembra, un impatto molto più grande allo stato di
materiale grezzo nel quale ci sono giunte.
Su molte questioni sono in disaccordo con Wittgenstein; per esempio
quando si mostra molto severo verso La Teoria dei colori di Goethe (1810),
o quando ignora il relativismo culturale e sembra dare troppo credito agli
insegnamenti della fisica e della chimica contemporanee. Ma ogni volta che
sottolinea – e lo fa spesso – come il colore sia ribelle a qualsiasi analisi, se
non a tutti i discorsi, sono assolutamente d’accordo con lui. A questo
proposito è esemplare una frase che ritengo una delle più importanti mai
scritte riguardo ai termini di colore e al loro significato. Al punto che mi
sono imposto di citarla in ogni libro consacrato ai colori. Non c’è ragione di
non farlo anche in questa fine d’anno 2016, al momento di chiudere questo
mio Diario cromatico:

Se ci chiedessero «che cosa significano le parole rosso, blu, nero, bianco?» potremmo di certo
indicare immediatamente certe cose che hanno quei colori, ma la nostra capacità di spiegare i
significati di queste parole non va oltre. (Osservazioni sui colori, I, 68)

Ascoltiamo Wittgenstein e, prudentemente, non andiamo oltre.


Orientamento bibliografico sulla storia e la
simbologia dei colori

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Ringraziamenti

Come tutti i diari, questo è costituito da note, osservazioni, evocazioni,


fastidi, brevi resoconti o richiami storici. Ma è anche il frutto di scambi e
riflessioni con tutti coloro – amici, parenti, colleghi, studenti – che in questi
ultimi anni hanno condiviso (o subito) le mie curiosità per il colore e mi
hanno fatto beneficiare delle loro testimonianze, osservazioni, commenti,
critiche o suggerimenti. Vanno ringraziati in particolare: Thalia Brero,
Brigitte Buettner, Pierre Bureau, Perinne Canavaggio, Yvonne Cazal, Marie
Clauteaux, Claude Coupry, Eliane Hartmann, François Jacquesson,
Christine Lapostolle, Hélène Lossky, Caroline Masson–Voss, Maurice
Olender, Anne Pastoureau, Laure Pastoureau, Claudia Rabel, Anne Ritz-
Guilbert, Olga Vassilieva-Codognet.
I miei ringraziamenti anche alle éditions du Seuil, in modo particolare a
François des Accords, Clémence Grillon, Estelle Roquetanière, Vladimir
Sichler e Sophie Tarneaud, così come alle mie addette stampa e amiche,
Maude Boulaud e Marie-Claire Chalvet.
Indice

Introduzione

2012. Dal verde al giallo


Colore reale e colore designato
Civiltà nel paese dei Grigioni
Il verde di Babar
Divorare Marilyn
Un giorno allo stadio
Il verde dell’Irlanda
Un trifoglio sul cuore
Chi è il cittadino L’Arancione?
Un’elezione senza copricapo
Daltonismo
Non vedere i colori
Sulla spiaggia
Che fine hanno fatto le righe?
Tatuaggi
Quando il colore mitiga i tabù
Una valigia insolita
Il camaleonte
I capricci dell’oro
Umiliazione in giallo

2013. Dal rosso al blu


Banana split
Il rosso in qualche frase
Lo schermo in bianco e nero
Il colore confiscato
La macchina gialla
Il colore del destino
Difficili confessioni
Nessun gergo per il colore
Il clown del plotone
I colori del mare
Quando sventola la bandiera rossa
Pittura fresca
Un maglione blu scuro
Ancora il blu scuro
Il colore delle lettere
Dermatologi
Una confezione istruttiva di colori
Toni blu

2014. Dal nero al bianco


Inquietanti lenzuola di lusso
Le lenzuola il giorno dopo
Semafori tricolori
Quando l’animale vede il colore
Carrozzerie
Visita in libreria
Scrivere sui libri
Un blu molto freddo
I colori della Bretagna
Una nuova sfumatura di grigio
André Breton è un indovino
Una misteriosa sfumatura di rosa
Occhiali
Precisione del vocabolario
I colori dell’Europa
Cruciverba
I colori di Natale

2015. Dal blu al viola


Chi è veramente strabico?
Velatura e saturazione
Alla ricerca di una sfumatura ripugnante
Un altro cappuccetto rosso
Ruminazioni
Una notte in Vaticano
La bandiera più bella
Dal giallo al verde
Un magnifico verde
Il blu e il bianco
Il verde dell’Islam
Alle origini della maglia gialla
Invincibili All Blacks
Perché nero?
Una felce enigmatica
Libri davvero brutti
Un mago dai poteri limitati
Viola, un colore mistico?

2016. Dall’arancione all’innominabile


Arancione contro arancione
Il lessico e lo spettro
Tavolozza calvinista
Si può vietare in blu?
Ava è più cara di Marilyn
Predire il futuro a colori
Europei ben scialbi
Il verde del prato
Senza rosso né giallo
Intermezzo ad Arcachon
Idiozia a colori
Non tutti i corvi sono neri
Il prossimo colore: il giallo
Il rosso della signora Clinton
Dipartimenti
Definire il colore

Orientamento bibliografico sulla storia e la simbologia dei colori

Ringraziamenti

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