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Michel Pastoureau - Un Colore Tira L'altro. Diario Cromatico 2012-2016-Ponte Alle Grazie (2019)
Michel Pastoureau - Un Colore Tira L'altro. Diario Cromatico 2012-2016-Ponte Alle Grazie (2019)
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@ponteallegrazie
www.illibraio.it
Titolo originale:
Une couleur ne vient jamais seule
Orazio, Odi, I
(tradotto liberamente e messo in musica
da Étienne Du Chemin, 1661)
Introduzione
Volendo dare un seguito a I colori dei nostri ricordi, propongo oggi, nello
stesso spirito, un ‘diario cromatico’ – il mio diario cromatico – riferito non
più a mezzo secolo ma solamente agli ultimi cinque anni. Non si tratta più
in questo caso di ricordi raggruppati e messi per iscritto in una redazione
successiva allo scopo di costruire una raccolta organizzata, ma proprio di
appunti presi sul campo, per settimane e mesi, e lasciati nell’ordine in cui
sono stati stilati. Ne deriva una raccolta volutamente a briglia sciolta, che
salta da un argomento all’altro, serio o frivolo, istruttivo o narcisista, ludico
o aneddotico, senza logica apparente. Ma non è esattamente questo lo scopo
di tutti i diari? Riorganizzare il mio discorso, classificare queste note per
tema sarebbe magari stato meglio, senza dubbio più pedagogico, ma il libro
avrebbe perso il suo carattere spontaneo. Non era quello che volevo.
Naturalmente ho riletto i miei testi, talvolta li ho riscritti per sgrezzarli ed
eliminare qualche ripetizione, ma non li ho né trasformati né soprattutto
attualizzati tenendo conto di quel che so oggi e che non sapevo allora (per
esempio sulla vita politica, i risultati sportivi, le mode o le vicende di
cronaca). Inoltre, ho volontariamente conservato la loro successione
cronologica. I miei appunti sono stati veramente redatti in maniera
progressiva, a caldo, il giorno stesso dell’avvenimento di cui parlano, a
volte il giorno dopo, spesso in luoghi insoliti, o perlomeno diversi da un
ufficio o da una biblioteca: treno, metropolitana, bar, giardinetti, spiaggia,
camera d’albergo, riva di un lago o di un fiume, sala d’attesa di un medico
(luogo particolarmente ansiogeno), oppure museo, chiesa, stadio,
supermercato, se non semplicemente in mezzo alla strada, in piedi sul
marciapiede o seduto su una panchina. Fin da quando ero studente, non mi
muovo mai senza due o tre fogli di carta e una matita, non solo per
disegnare – cosa che faccio di continuo – ma anche per prendere appunti,
frutto delle mie osservazioni o delle mie riflessioni. Le persone del mio
entourage mi prendono spesso in giro: «Annoti ancora le tue idee
poetiche!» Non sono idee poetiche, ma è vero che mi piace sedermi nei
luoghi pubblici, prendermela comoda, guardare e disegnare ciò che mi
circonda, osservare come sono vestite le persone che passano, ascoltare
quello che dicono, fare collegamenti con quello che conosco delle società e
delle sensibilità del passato (impossibile sbarazzarmi completamente della
mia veste di storico). E poi, certamente, pensare, sognare, ricordare. Per
questo non mi annoio mai. Proprio in quanto specialista dei colori, trovo
sempre e dappertutto, nella vita quotidiana, in ogni momento e in ogni
circostanza, occasioni per osservare, confrontare, riflettere. Sono un
privilegiato: grazie ai colori, ignoro cosa sia la noia.
Rileggendo l’insieme dei miei testi, due cose mi hanno colpito: la prima,
l’abbondanza di aggettivi; la seconda, il carattere a volte brontolone della
mia prosa. Vorrei spiegarmi.
Mi sono sempre piaciuti gli aggettivi. Già al liceo, uno dei miei professori
di francese, che mi faceva spesso i complimenti per la chiarezza della mia
scrittura, aggiungeva comunque una riserva: «Pastoureau, non abusi degli
aggettivi, i lettori maligni potrebbero credere che servano a nascondere il
suo vuoto mentale». Da giovane, prestavo attenzione a questa critica e
cercavo di essere parco in aggettivi. Con l’età non più: mi lascio andare alla
predisposizione naturale della mia scrittura. Del resto, gli aggettivi
nascondono veramente il vuoto mentale? Non credo. Sono utili, hanno una
funzione descrittiva, aiutano a classificare esseri e cose, a differenziarli e a
identificarli; inoltre, come gli avverbi (di cui, devo confessarlo, abuso in
ugual misura), apportano sfumature e precisazioni e danno allo stile un
aspetto visivo, a volte pittorico. Del resto, come si può parlare di colori
senza utilizzare numerosi aggettivi? È impossibile.
Nel rileggermi, invece, rimango perplesso di fronte alle critiche frequenti
che rivolgo all’epoca attuale, alle novità inutili e sconfortanti,
all’ostentazione dei personaggi famosi e dei media, alla simbologia e alla
psicologia spicciola, alla mancanza di cultura generalizzata. Sul momento,
mentre redigevo questi testi, non me ne sono reso conto. Ma rileggendoli…
Con l’età, sono diventato amaro? brontolone? senile? seguace dell’‘era
meglio prima’? Effettivamente una volta ero giovane e magro, avevo tutti i
capelli, potevo chiudere la giacca, ero in buona salute, e a volte piacevo
addirittura alle donne. Oggi non è più così. Per quanto mi riguarda, è
evidente che ‘era meglio prima’, e visto che il mio libro è un diario – un
genere necessariamente narcisista (un diario che non lo sia non è un diario)
– questo traspare dalla mia penna. Chiedo venia al lettore. Ma devo
precisare che quando ho l’aria di canzonare o di prendere in giro le mode
dei nostri giorni, l’imbecille beatitudine di fronte a tutte le novità,
l’ossessione di apparire, il falso sapere e la psicologia da supermercato che
lo accompagna, tutto ciò è limitato a un unico ambito: il colore.
Mi sembra infatti che in questo campo, rispetto alla mia infanzia e alla
mia adolescenza, ci sia un’innegabile perdita di appetito, di conoscenza, di
creatività e di sogno. Come se troppi colori uccidessero il colore, per
utilizzare una formula facile. In effetti i bambini non imparano più a
mescolare due colori per ottenerne un terzo; i giovani artisti figurativi non
lavorano più i colori quando li estraggono dai barattoli o dai tubetti; e la
maggior parte degli adulti confonde continuamente ‘colori’ e ‘sfumature’.
Pubblicitari, informatici, designer, creatori di campionari e anche fisici, tutti
magnificano i milioni, addirittura le decine di milioni di colori ormai
accessibili o che ci circondano. Che cosa possono mai essere milioni di
colori? L’occhio non può distinguerli e il linguaggio non può dar loro un
nome. Affermazioni simili mi fanno arrabbiare. Come mi irritano gli errori
lessicali: una sfumatura non è un colore, ma una semplice colorazione più o
meno stabile, che deriva dalla declinazione di un colore di base. Che lo si
voglia o no, nelle società occidentali ci sono solo undici colori; sei di base:
bianco, rosso, nero, verde, giallo, blu; e cinque secondari: rosa, arancione,
viola, grigio e marrone. Al di là di questo non c’è altro, solo sfumature e
sfumature di sfumature, che non hanno né storia né simbologia proprie, e
variano continuamente a seconda dell’illuminazione, della tecnica, del
supporto, dell’occhio dello spettatore e dell’ora del giorno. Non sono colori,
vale a dire categorie mentali che esistono senza aver bisogno di essere
materializzate; sono solamente variazioni di colore.
Prima di essere luce o materia, prima di essere sensazione o percezione,
un colore è un’astrazione, un’idea, un concetto. È senz’altro per questa
ragione che, nelle prassi sociali come nella creazione artistica e nel mondo
della simbologia o dell’immaginario, il colore non esiste realmente e
acquista tutto il suo significato solamente quando è associato o
contrapposto a uno o più colori diversi. Qualunque sia il campo in cui sta
agendo, un colore tira l’altro.
giugno 2017
2012
Dal verde al giallo
Colore reale e colore designato
(gennaio 2012)
Che i miei cari mi perdonino: mi rendo conto che con l’età qualche volta
divento noioso a parlare solo di colori, o quanto meno a dedicare ai colori
gran parte della mia conversazione. C’è così tanto da dire su un argomento
come questo, che riguarda tutti nel quotidiano e che tocca ogni aspetto della
vita sociale. Come si fa a non prenderli sempre come punto di riferimento?
Nel corso di decenni, tra osmosi e conversioni, ho quindi costituito una
piccola rete di ‘simpatizzanti cromatici’ che, pur non essendo ossessionati
dai colori come me, sono comunque attenti a ciò che li riguarda, a quello
che possono leggere, capire o osservare, e dopo, in un modo o nell’altro, lo
condividono con me. Sono in un certo senso i miei ‘informatori’, come si
dice nella polizia, o meglio i miei segugi, come quando si caccia. Di certo
non sono numerosi e dimenticano spesso le loro ‘missioni colorate’, ma a
loro devo senz’altro un buon numero di considerazioni, di testimonianze o
di documenti importanti. Che siano ringraziati affettuosamente con un
bell’arcobaleno di gratitudine.
La mia amica Perrine, mia complice da più di mezzo secolo, mi ha
inviato stamani una fotografia fatta l’estate scorsa in Bretagna, dove in una
bella pineta, con il mare sullo sfondo, si vede un grande contenitore per i
rifiuti un po’ insolito che ci fa riflettere sul colore degli oggetti e il modo di
determinarne i nomi. Il contenitore è verde, di quel verde indefinibile che
da molti decenni veste le nostre spazzature, ma davanti, a lettere
gigantesche, c’è una scritta che dice: ‘CONTENITORE GIALLO’. In
questo caso la differenza fra il colore reale e il nome del colore è clamorosa
e divertente. Perché una differenza simile, esibita in un modo così rozzo e
ingenuo?
Probabilmente perché le parole che indicano i colori non sono altro che
etichette, non hanno come funzione principale il descrivere, ma il
classificare. Almeno per come la società percepisce i colori. Dire che il
contenitore verde è verde sarebbe pleonastico e non servirebbe a niente: lo
possono vedere tutti. Dire invece che è giallo dà un’informazione molto più
utile: ovvero che appartiene alla categoria dei recipienti municipali gialli,
cioè quelli che possono contenere solo certi rifiuti (di solito rifiuti
riciclabili) e non altri. Ora, ciò che gli conferisce quest’identità non è il
colore del materiale, una plastica dura e spessa, ma quel che c’è scritto
sopra: il contenitore è verde ma deve essere considerato come giallo. La
parola vince sempre sul colore. Un esempio semplice ce lo dà il vino: noi
tutti diciamo, quotidianamente e da tempi molto antichi, ‘vino bianco’ per
indicare un liquido che non ha proprio nulla di bianco; è giallo, verdastro,
paglierino, più o meno dorato o ambrato, ma di certo non bianco. E
nonostante tutto non ci disturba per niente chiamarlo bianco. Dare un nome
ai colori delle cose non è tanto descriverle, quanto classificarle, ordinarle,
metterle in relazione con altre o contrapporle, talvolta tradurre le sensazioni
che ci suscitano e i significati che le accompagnano. Le parole sono sempre
più forti dei colori.
Potremmo moltiplicare gli esempi, anche in quei settori nei quali non ci
aspetteremmo di trovarne, come nella realizzazione artistica. Posso citare
qui la testimonianza esemplare di un responsabile del reparto pitture del più
grande negozio parigino di prodotti per pittori, la Maison Sennelier, che ha
sede da più di un secolo sulle rive della Senna, davanti al Louvre. Il
commesso propone al cliente che desidera acquistare tubetti di tempera,
pigmenti in polvere o pastelli, un campionario senza nome, codice o
numero di riferimento, che dispone solo di placchette di colori diversi.
Quando il cliente ha fatto la sua scelta e ha indicato sul campionario il
colore che vuole comprare, il commesso gli dà un nome e, a titolo
comparativo, dice anche come si chiamano i colori accanto, che nel
campionario sono o più a sinistra o più a destra. Ora, quando il cliente – che
è un pittore! – ha sentito il nome del colore che ha scelto e quello dei colori
vicini, quasi sempre modifica la sua scelta e dice una frase come: «Allora
piuttosto prenderei quel colore lì» mettendo il dito su un’altra placchetta. Il
nome detto dal commesso ha un potere decisionale ben più forte del colore
riprodotto. Anche per un pittore, i colori sono lessico, prima di essere
tavolozza.
La prima qualità di un colore è quindi il suo nome. Più della sua
sfumatura, più delle sue caratteristiche ottiche, fisiche o chimiche, è il nome
che determina e crea i nostri gusti e le nostre scelte, i nostri usi e i nostri
codici, i nostri simboli e i nostri sogni.
Civiltà nel paese dei Grigioni
(febbraio 2012)
Il verde di Babar
(febbraio 2012)
Era tanto tempo che non mi sedevo sulle tribune di un grande stadio per
assistere a una partita di rugby, credo mezzo secolo, forse anche di più. Non
avrei mai immaginato di tornarci. Alla mia età e nelle mie condizioni…
Eppure questo pomeriggio, invitato da un amico grande tifoso di questo
sport, sono andato allo Stade de France, a Saint-Denis, per assistere a una
partita del torneo delle Sei Nazioni: Francia-Irlanda. Perché io abbia
accettato, lo ignoro. Pigrizia da parte mia, senza dubbio, io che non so mai
dire ‘no’ ma solo ‘forse’, che poi è sempre percepito come ‘sì’? O forse la
voglia di rivivere le forti emozioni della mia adolescenza, quando di tanto
in tanto frequentavo gli stadi di rugby con mio zio Henri? Non saprei. Fatto
sta che mi sono ritrovato nell’immenso Stade de France, per me fin troppo
moderno, e che mi ci sono sentito frustrato, o quanto meno deluso; niente
era più come prima, né in campo, né sulle tribune. Era tutto finto e fuori
misura, nessuna somiglianza con l’atmosfera da bravi ragazzi che avevo
vissuto all’inizio degli anni Sessanta, quando i giocatori erano dilettanti; gli
spettatori venivano dalla campagna; il protocollo ridotto alla sua
espressione più semplice e il risultato della partita senza importanza.
Adesso, più folclore prima della partita, in campo troppi galli nel pollaio,
nessuna allegria sulle tribune e il silenzio assoluto delle cornamuse
irlandesi. Ecco come il professionismo ha trasformato uno sport che un
tempo era bello. Ma lo sport da professionisti si può ancora chiamare sport?
Ne dubito.
Nonostante la mia delusione ho seguito la partita con interesse. Una
partita giocata con accanimento e finita con un pareggio: 17 a 17. Un
punteggio rarissimo, che mi ha fatto felice perché questo numero mi piace
molto, è il giorno in cui sono nato. Ma quello che mi ha consolato davvero
non è stato il risultato della partita, né le azioni di gioco, men che mai la
rimonta complicata della squadra francese rimasta a lungo indietro di 11
punti, ma il contrasto dei colori in campo: i francesi giocavano con la
maglia blu scuro, pantaloncini neri e calzettoni blu; gli irlandesi con la
maglia verde – un bel verde abbastanza chiaro – calzoncini bianchi e
calzettoni dello stesso verde. Con la divisa bianca e rossa dell’arbitro, la
sinfonia di colori era quasi perfetta. Mancava solo il giallo. La mia
preferenza, ovviamente, andava agli irlandesi, vestiti col mio colore
preferito. Ma per una volta devo ammettere che il blu della maglia francese
non era così orribile come spesso succede (e in ogni sport). Era piuttosto
elegante: blu Savoia all’altezza delle spalle, che assumeva discretamente
toni sempre più scuri man mano che scendeva. Può darsi che i fornitori che
si occupano delle divise stiano facendo degli sforzi? Che abbiano letto
finalmente le pagine istruttive che Michel Pastoureau ha consacrato alla
storia del blu sui campi sportivi?
Il verde dell’Irlanda
(marzo 2012)
Rimaniamo alla partita di ieri e parliamo un po’ di storia dei colori e dei
simboli dell’Irlanda, un Paese che ha tutta la mia simpatia. Chi, come me,
ama la pioggia, il vento, il mare e il colore verde non può non amare
l’Irlanda.
Sui campi da rugby, il verde è stato per molto tempo meno presente del
rosso, del blu o del bianco. Eppure, l’Irlanda lo ha fatto diventare subito il
colore simbolo della sua maglia. Dal 1875, quando le regole del rugby
moderno non erano ancora state stabilite, gli irlandesi, durante le loro prime
due partite contro gli inglesi (perdono 4 a 0, poi 8 a 0), giocano con la
maglia e i calzettoni a righe bianche e verdi. In quel periodo le righe erano
molto in voga sui campi sportivi e quasi sempre abbinavano il bianco a un
altro colore. In seguito, negli anni 1890-1900, la maglia irlandese diventa
verde tinta unita abbinato ai calzoncini bianchi. Ancora oggi è la divisa
ufficiale. L’Irlanda, più di ogni altra squadra, è rimasta fedele al suo colore
originario, e anche a una sua particolare sfumatura. Il tono del suo verde
non si ritrova di sicuro in un classico campionario di colori, ma una
tradizione vuole che sia relativamente chiaro – più chiaro di quello
dell’Australia o del Sudafrica, per esempio – forse per evocare i verdi
pascoli fecondi dell’isola cari al grandissimo poeta e drammaturgo John M.
Synge (autore di un’opera teatrale che mi piace particolarmente: The
Playboy of the Western World / Le Baladin du monde occidental, 1907).
A essere sinceri, i verdi pascoli non sono stati decisivi nell’adozione di
questo colore simbolico. Voler vedere il verde nazionale dell’Irlanda come
un’allusione all’erba che in questo Paese è dappertutto non è inverosimile,
ma è un po’ forzato: non è così che nascono gli emblemi e i simboli di una
nazione. D’altronde, la testimonianza più antica del verde irlandese non
riguarda tutta l’Irlanda, ma solo la contea di Leinster, a est dell’isola. Un
documento della fine del XIII secolo le attribuisce uno stemma con la croce
bianca in campo verde. L’isola stessa, conquistata dai re Plantageneti alla
fine del secolo precedente, dipende dalla Corona inglese, dove compare già
allora come stemma uno scudo rosso a tre leopardi d’oro.
Durante le prime lotte per l’indipendenza, nel XVII e XVIII secolo, il
verde è diventato a poco a poco il colore dei movimenti nazionalisti
irlandesi. Cattolico e insurrezionale, questo verde si oppone quindi
violentemente al rosso dei soldati britannici. Le lotte sono sanguinose e,
com’è noto, continueranno fino al XX secolo. Non appena raggiunta
l’indipendenza (1921) e approvata poi definitivamente la bandiera
nazionale irlandese (1937), il verde si trova ovviamente al suo posto; ma
deve spartirsi la stoffa con l’arancione dei protestanti (contrariamente a quel
che si crede, in effetti, esiste una forte comunità protestante nell’Irlanda
cattolica, soprattutto a Dublino), dal quale lo divide il colore della pace: il
bianco.
La nazionale irlandese di rugby non rappresenta soltanto l’Eire, la parte
indipendente dell’isola. Fra i suoi ranghi conta anche giocatori venuti
dall’Ulster, cioè dell’Irlanda del Nord, rimasta fedele alla Corona britannica
e quindi parte integrante del Regno Unito. Questa situazione insolita – ma
esemplare sul piano sportivo – pone certamente qualche problema
protocollare nell’utilizzo degli emblemi. I giocatori venuti dal Nord sono
fieri di portare la maglia verde, simbolo che precede la ripartizione
dell’isola, ma non accettano l’inno della Repubblica d’Irlanda, l’Amhrán na
bhFiann, e vorrebbero sentire il God Save the Queen, cosa davvero
impensabile a Dublino come nel resto dell’Eire. Ecco perché, nel 1995, fu
composto e adottato un inno speciale per la squadra di quest’Irlanda
rugbisticamente unificata, l’Ireland’s Call. In modo analogo, per quanto
riguarda le bandiere, non sono né il tricolore irlandese (bianco-verde-
arancione) né l’Union Jack britannica a rappresentarla, ma una bandiera
specifica, divisa in quattro quarti, che riunisce gli stemmi delle quattro
province dell’isola: Ulster, Leinster, Munster e Connacht. Quattro stemmi
diversi per dar vita a una bandiera in comune accordo, ma un unico colore
nazionale per la maglia: il verde, colpito in pieno petto da un trifoglio dello
stesso colore, una sorta di logo insulare che fa eco all’antico ‘Torneo delle
Cinque Nazioni’ con il cardo scozzese, il porro gallese, la rosa inglese e il
gallo francese.
Mio padre Henri Pastoureau è morto nel 1996 e non ho ancora finito di
sistemare i suoi libri, i documenti, le carte. È un archivio importante di cui
una buona parte riguarda la sua attività ‘surrealista’ tra il 1932 e il 1951,
periodo in cui fu grande amico di Breton, d’Aragon, d’éluard, di Dalí, di
Max Ernst e di tanti altri poeti e artisti. Tranne gli anni della guerra, che
passa prigioniero a Berlino, in questo periodo partecipa a tutte le attività del
gruppo surrealista di Parigi. Contrariamente a molti altri, lui litigò piuttosto
tardi con André Breton, nel 1951, per motivi essenzialmente ideologici. Il
documento che ho appena ritrovato oggi nelle carte di mio padre – un
grande volantino rosa –riguarda proprio questa separazione, rimasta nella
storia del surrealismo come ‘l’affare Pastoureau-Carrouges’. Il testo,
piuttosto irriguardoso, riassume gli avvenimenti di febbraio, marzo e aprile
del 1951 e ha come titolo, a grandi lettere, la strana formula scritta come
fosse un motto: ALL’OMBRA DI LEONE DIFFAMATO E
INCORONATO, LATORE DI UNA VALIGIA D’ARGENTO. Chiude poi
con un’altra formula, ancora più enigmatica: LASCIATE PASSARE IL
CITTADINO L’ARANCIONE AL SERVIZIO DELLA REPUBBLICA.
Proviamo a far luce su cosa possa significare. All’inizio del 1951, dopo
qualche mese, una parte del seguito di Breton gli contesta un certo
‘appannamento ideologico’ e una ‘deriva esoterizzante’. Alcuni gli
contestano anche la frequentazione di numerosi intellettuali cattolici e di
essere influenzato dal filosofo cristiano Michel Carrouges, introducendo
così in seno al movimento surrealista ‘idee mistiche’ e ‘soggetti
controrivoluzionari’ noti per essere ‘gli strilloni di Dio’.
Nonostante la lunga e solida amicizia con Breton, mio padre Henri
Pastoureau si mette a capo dei ribelli. Calunnie, volantini, intimazioni,
citazioni, querele, assemblee generali, dibattiti infiniti, processi ed esoneri
sono all’ordine del giorno. L’affare Pastoureau-Carrouges dura più di tre
mesi e si conclude, nella primavera del 1951, con la scissione del gruppo
surrealista. Gli ultimi vecchi seguaci di Breton (quelli di prima della guerra)
abbandonano la nave; ormai una nuova generazione attornia il papa che sta
invecchiando. Solo Benjamin Péret rimane un fedele servitore… In seguito,
tutti i numerosi tentativi di riconciliazione falliranno.
Il grande foglio rosa che ho sotto gli occhi è il volantino più importante
pubblicato dai ribelli durante l’affare. È stato scritto da mio padre e dai suoi
amici Adolphe Acker e Marcel Jean. Il titolo allude a Breton, vecchio leone
che è ormai solo l’ombra di se stesso, diffamato per le sue derive esoteriche
e ‘incoronato’ dai suoi nuovi amici papisti. La valigia d’argento che porta
evoca forse la presenza nella sua nuova cerchia di qualche ricco discepolo.
Ma chi è il misterioso ‘cittadino L’Arancione’ che bisogna lasciar passare
‘per rendere servizio alla Repubblica’? Lo ignoro e, nonostante tutti i miei
sforzi per saperlo, resto con un pugno di mosche in mano. Si tratta del
soprannome di un membro del gruppo? È forse un’allusione letteraria? Di
sarcasmo anti-Breton, la cui avversione per l’arancione allora era nota a
tutti? Chi è in grado di rispondere? Questo antroponimo cromatico è
particolarmente intrigante.
Daltonismo
(maggio 2012)
L’avanzare dell’età, insieme a un’inevitabile stanchezza, fa sì che non mi
piacciano più i convegni. Ce ne sono troppi (la famosa ‘convegnite’
universitaria), durano troppo e non s’impara più granché. I ricercatori
invecchiano parlando senza dire nulla o ripetendo quel che hanno già detto
comunque. I più giovani, a volte intimiditi, leggono velocemente un foglio
dove le idee più interessanti annegano in un fiume di esempi e di dettagli.
Nessun oratore rispetta più il proprio tempo di parola e lo spazio destinato
alla discussione è ridotto all’essenziale, se non puramente e semplicemente
eliminato. L’assurdità arriva al punto che ormai si chiede ai partecipanti di
fornire ancor prima dell’incontro il testo che sarà pubblicato in seguito negli
atti del convegno. Quindi, a cosa serve tenere un convegno, tanto vale
pubblicare direttamente un’opera collettiva sullo stesso soggetto; si
risparmierebbe tempo e denaro.
In questo quadro un po’ nero (ma lucido) di un rituale diventato ormai
sconfortante si trovano tuttavia delle eccezioni: a mio avviso sono i
convegni che trattano un argomento che io conosco male o per niente,
nemmeno la gentilezza mi costringe a essere presente a tutte le sessioni. È
stato il caso di oggi all’Accademia Nazionale di Medicina, un luogo
prestigioso che mi è estraneo, dove non conosco quasi nessuno, ma dove,
venuto ad assistere, ho passato una mattinata particolarmente istruttiva. Il
tema era il daltonismo, argomento in cui le mie conoscenze non superano
quelle della gente comune, il che è sorprendente per uno storico dei colori.
In tre ore e sei dissertazioni – i dottori e gli oftalmologi sono meno prolissi
degli specializzati in discipline umanistiche – le ho potute arricchire. Non
posso riassumere qui tutto quello che ho imparato, ma desidero riportare
qualche commento fondamentale ed esternare anche le mie perplessità. È
consuetudine definire daltonismo il disturbo della vista che impedisce di
distinguere tutti i colori l’uno dall’altro (acromatopsia) o più esattamente
solo certi colori, come il rosso e il verde, ovvero riconoscere solo certi rossi
e certi verdi (dicromatopsia o daltonismo vero e proprio). È stato il fisico e
chimico John Dalton (1766-1844), uno dei più grandi scienziati di tutti i
tempi e uno degli inventori della moderna teoria atomica, che per primo ha
messo in evidenza e studiato questo disturbo della vista di cui anch’egli
soffriva. Oggi, si concorda sul fatto che colpisca direttamente o
indirettamente il 2% degli uomini (molto meno le donne). Di norma è
congenito o ereditario, molto raramente è acquisito. Allo stato attuale delle
nostre conoscenze, avrebbe origine da una incompleta differenziazione tra i
coni e i bastoncelli della retina, o meglio dalla loro cattiva connessione con
alcune fibre del nervo ottico (va ricordato che i coni reagiscono alle
vibrazioni più lunghe – rosse, arancioni – e i bastoncelli alle vibrazioni più
corte – verdi, blu). Il daltonismo non è una malattia ma una ‘anomalia’ che,
malgrado non sia grave, non permette d’esercitare certe professioni, in
special modo quelle dove si utilizzano spesso segnali colorati (Aviazione,
Marina, Ferrovie eccetera).
Riguardo al daltonismo, lo storico – sempre diffidente – s’interroga su
una questione: che cosa sono realmente le ‘anomalie nella percezione dei
colori’, espressione che ho sentito spesso tutta la mattinata? ‘Nella visione
dei colori’ mi sarebbe sembrato più pertinente. La percezione è un
fenomeno complesso, in parte neurobiologico, e in parte culturale; varia a
seconda delle epoche e delle società e difficilmente può sottostare a leggi o
regole universali. Inoltre, è difficile definire questo o quel ‘colore’ senza
affidarsi alla parola: il nome è parte integrante del colore, almeno per le
discipline umanistiche. Un colore che non ha un nome è pur sempre un
colore? Ne dubito, è solo una tinta. D’altro canto però, i nomi dei colori
variano da una lingua all’altra e non sono traducibili con precisione.
Qualsiasi sia la lingua, non c’è mai una corrispondenza precisa fra il colore
reale, il colore percepito e il colore detto.
Perciò, come scoprire le presunte ‘anomalie’ di percezione? Basterebbe
parlare di differenze o di peculiarità. L’ho fatto timidamente notare, ma
questo non ha suscitato alcuna reazione. Probabilmente perché non era la
sede giusta.
Eppure, non ero l’unico in sala a rappresentare le discipline umanistiche.
Un sociologo è intervenuto dopo di me per far presente che il daltonismo
può essere anche una ‘moda’. Negli anni Cinquanta, ha detto per fare un
esempio, certi pittori avanguardisti consideravano una cosa molto ‘chic’ far
credere di essere daltonici per vendere più cari i loro quadri (?). Ha
aggiunto anche che un po’ di tempo dopo fu il turno degli adolescenti di
buona famiglia, che, per attirare l’attenzione, dicevano di soffrire di questo
disturbo che sembrava essere di ‘gran classe’ negli ambienti aristocratici.
Una simile osservazione ha lasciato il pubblico incredulo, me compreso.
Può darsi che questi adolescenti confondessero John Dalton, l’illustre
scienziato inglese morto nel 1844, con i fratelli Dalton, famosi banditi e
perdenti spassosi, eroi del fumetto franco-belga Lucky Luke, nato dal talento
di Morris e Goscinny. I quattro fratelli Dalton – Joe, William, Jack e
l’indescrivibile Averell – sono quasi sempre vestiti con una camicia a righe
gialle e nere, da carcerato. La riga ha sempre disturbato la vista e turbato gli
animi, perché confonde il viso con lo sfondo. Ma ce ne vuole a confondere
delinquenti e daltonici…
Ritorno su quel che ho imparato ieri mattina durante questo convegno sul
daltonismo. Una frase pronunciata dal primo oratore mi ha particolarmente
colpito: «Giunto all’età adulta, un non vedente dalla nascita possiede più o
meno la stessa cultura cromatica di un vedente; ciò che non è assolutamente
il caso di un daltonico». Avevo già letto molte volte, su riviste specializzate,
articoli che sottolineavano come alcuni non vedenti dalla nascita potessero
acquisire negli anni conoscenze approfondite riguardo ai colori, per il solo
fatto di condividere la propria vita con dei vedenti. In questo campo, ciò che
riguarda i colori non è diverso dagli altri campi del sapere: l’essere umano
non vive solo, vive in società, vedenti e non vedenti tutti insieme. Vedere i
colori non è indispensabile per pensarli, nemmeno per parlarne. Anch’io
faccio spesso quest’esperienza alla radio: parlo per un’ora di colori eppure
non faccio vedere nulla; questo non disturba assolutamente gli ascoltatori.
Perlomeno quando parlo della relazione fra colori e società, o meglio della
storia e del simbolismo di un’epoca o di un’altra. Evidentemente, se
partecipo a una trasmissione che parla dei colori di Vermeer o Matisse, non
vedere nulla, non far vedere nulla è frustrante e fa perdere una parte
dell’informazione.
Che i non vedenti dalla nascita possano perfettamente ‘parlare colorato’
con chi è vedente invita a chiedersi che cosa siano in realtà i colori.
Spiegarli è un esercizio difficile: le definizioni suggerite non sono mai né
complete, né univoche, né pienamente soddisfacenti. Ne abbiamo la prova
consultando un semplice dizionario: l’autore o gli autori fanno molta fatica,
in una nota di poche righe, a dire che cos’è il colore. Frazione di luce?
Pigmento o colorante? Sensazione che coinvolge la relazione occhio-
cervello? Fenomeno percettivo complesso? Tutte queste cose insieme? Di
sicuro, ma sono anche altro. Prima di essere luci o materia, prima di essere
sensazioni o percezioni, i colori sono categorie mentali, una sorta di caselle
di preconcetti, pronte a essere attivate, riempite, applicate, pensate,
nominate, catalogate, semantizzate, organizzate, strutturate. Riuscire a
vederli contribuisce a una parte di questo riempimento e di questo processo,
ma solo a una parte.
Io questo lo sapevo già e a volte ne ho discusso con linguisti o fisici,
questi ultimi non sempre d’accordo con il relativismo attribuito alla
definizione dei colori dalle discipline umanistiche. Ma sapere che la cultura
cromatica di un daltonico è più modesta di quella di un non vedente per me
è stata una scoperta. Distinguere male i colori sarebbe, per pensarli e
metterli in ordine, un handicap più grande di non vederli per niente? Ecco
che si aprono nuovi scenari di riflessione.
Sulla spiaggia
(luglio 2012)
Tatuaggi
(agosto 2012)
Il camaleonte
(ottobre 2012)
Riletta ieri mattina una bella frase di François Cavanna (che ne ha scritte
centinaia) nella sua gustosa raccolta intitolata Lo sapevate? (1971). Questa
riguarda i colori e dà le vertigini: ‘Il camaleonte ha il colore del camaleonte
solo quando si posa su un altro camaleonte’. Una battuta simile non solo
mette in difficoltà la logica, ma invita a leggere o a rileggere tutto quello
che la zoologia ci può insegnare su quest’animale. In effetti solo il
camaleonte ha un sistema cromatico a parte e questo deve interessare
principalmente lo storico dei colori. Quel che spiega la scienza a questo
proposito non è chiarissimo, tutt’altro.
Sembra infatti che solo da oggi s’inizi ad abbandonare l’idea un po’
approssimativa – ma che ha attraversato i secoli – che questa lucertola
arboricola assuma il colore della superficie sulla quale si posa. Il fenomeno
è al tempo stesso diverso e più complesso. Almeno per quanto riguarda la
pelle del camaleonte, fatta da vari strati, ognuno con proprie cellule
specializzate, che reagiscono alla luce in modo specifico. Se cambia colore
quindi, non è tanto per dove si posa, ma per la luce che riceve. Questo varia
a seconda della sua posizione e del suo orientamento. Inoltre, questa
mutazione cromatica quasi immediata non sarebbe tanto un modo di
mimetizzarsi quanto il voler tradurre le proprie emozioni o comunicare con
i suoi simili. Le tinte scure esprimerebbero collera o aggressività; le tinte
chiare intenzioni più pacifiche; quanto alla policromia di cui si adornano i
maschi, si tratterebbe solo di una strategia per sedurre le femmine. Questi
sono i recenti studi della ricerca che riguarda questa strana creatura.
È lecito domandarsi se queste nuove teorie siano più fondate delle
precedenti. Che la pace sia associata a un colore chiaro e la guerra a un
colore scuro mi sembra metta in luce un simbolismo abbastanza ordinario e
non un dato scientifico prestigioso. Quanto al farsi belli per sedurre le
signore… Di certo abbiamo ancora tanto da imparare sulle variazioni di
colore del camaleonte. Come del resto sulla sua strana anatomia: fronte e
muso cornuti. Dita delle zampe a forma di pinza, coda prensile fatta a
spirale, occhi convergenti e indipendenti l’uno dall’altro, e soprattutto una
lingua lunga più del suo corpo che srotola in una frazione di secondo per
catturare gli insetti. Che un simile sauro stia diventando un animaletto da
compagnia in certi ambienti particolarmente ‘in’ mi lascia perplesso e mi
suggerisce di riassumere quello che gli autori di bestiari medievali scrivono
su di lui. Le loro argomentazioni sono senz’altro molto diverse da quelle
degli zoologi di oggi ma, tutto sommato, sono solo un po’ più strane.
Per molti autori del Medioevo, il camaleonte è un quadrupede mostruoso,
nato dall’accoppiamento fra un cammello e una leonessa, come indica il suo
nome. Per altri, è solo un animaletto ibrido che possiede il corpo di una
lucertola, la testa di un maiale o di una scimmia, le unghie di un rapace e,
sul dorso, una cresta che assomiglia alla pinna di un pesce. La sua lingua è
molto lunga e si allunga come fanno i serpenti; gli permette di catturare da
lontano tutto quel che vuole. Cosa che non gli serve granché perché non
mangia e non beve: del resto è per questo motivo che è sprovvisto di
sangue. Visto che non assomiglia a nessuno, il camaleonte ha paura di tutto
e si nasconde cambiando costantemente colore. Il suo grande nemico è il
corvo perché quando il camaleonte diventa nero, il suo nero è più bello e
più luminoso di quello dell’uccello. Così tanto da ingelosire il corvo, che si
avventa sul camaleonte e lo costringe a cambiare colore. Per farlo, i nostri
autori ci rivelano due modi: l’animale secerne un liquido interno che molto
rapidamente gli colora il corpo, la testa e addirittura gli occhi; oppure
guarda l’oggetto o la pianta più vicini a lui e s’impossessa del colore.
Di sicuro, la zoologia medievale fa sognare molto più della zoologia
moderna.
I capricci dell’oro
(novembre 2012)
In trentacinque anni di carriera universitaria, ho partecipato a più di un
centinaio di giurie di dottorato e letto tesi dai soggetti più disparati, dal
bestiario del Paleolitico fino all’arte più contemporanea, passando per il
lessico latino, i sigilli medievali, la letteratura su Re Artù, la storia del gioco
degli scacchi o quella del Tour de France. Tuttavia, i soggetti che
riguardano il Medioevo sono stati molto più numerosi; io sono e resto
soprattutto un medievalista.
Oggi, prima della discussione di tesi che avverrà fra qualche settimana,
leggo (o piuttosto rileggo) la tesi di una delle mie dottorande. Marie, che ha
lavorato sui colori del corpo nei codici miniati medievali. Ha avuto
l’autorizzazione – accordata raramente – a fotografarli personalmente in
alcune biblioteche, soprattutto quella dell’Arsenal, a Parigi. Che i
responsabili siano ringraziati vivamente. Tanto più che grazie a questo ho
potuto vivere un’esperienza non comune: scorrendo l’album delle stampe
che accompagnano il testo di Marie, trovo la foto di una miniatura su fondo
oro, fondo sul quale la si può vedere chinata, vestita con una maglietta
rossa, mentre sta facendo la foto! L’oro ha fatto da specchio, e la giovane
fotografa amatoriale è finita involontariamente nella sua foto, accanto a un
imperatore e a due vescovi ottoniani vissuti più o meno nell’anno Mille!
Questo prova che, per ottenere quest’immagine, Marie non è stata ostaggio,
come la maggior parte dei dottorandi in storia dell’arte, di qualche istituto o
archivio fotografico. Prova anche che la macchina fotografica può essere
una macchina ideale e insospettabile per entrare clandestinamente nelle
immagini che i secoli passati ci hanno tramandato.
Questa storia potrebbe essere solo un aneddoto personale, sottolinea
invece come l’oro, onnipresente nell’arte medievale, sia difficile da
fotografare. La sua resa cromatica nell’immagine, sia in un libro o sullo
schermo di un computer, è sempre deludente: troppo giallo, troppo rosso,
troppo luminoso, o meglio, al contrario, vagamente verdastro, leggermente
scuro e più o meno sporco. Come la vetrata, che si anima seguendo il sole e
il ciclo delle stagioni, l’oro medievale è dinamico, sempre in movimento, in
ogni momento fa parlare la luce in modo diverso. E come la vetrata, non è
fatto per essere studiato sullo schermo di un computer e nemmeno sulla
carta patinata di una comune fotografia. Lo scatto fissa un solo istante:
fotografare l’oro, che è contemporaneamente materia, luce e colore, vuol
dire sempre tradirlo. L’oro è ‘infotografabile’. (È corretta un’ortografia
come questa? Ci vuole veramente una N e non una M prima della F? Non
sarebbe meglio scrivere ‘in-fotografabile’ o ancora meglio ‘non
fotografabile’?)
Umiliazione in giallo
(novembre 2012)
Soggiorno a Dresda, una città che non è fatta per i pedoni. I viali immensi
di stampo sovietico, nonostante siano stati occidentalizzati e oramai
costellati di negozi di un lusso pacchiano, conservano qualcosa di
sgradevole, quasi d’impenetrabile. La città sembra troppo grande per i suoi
abitanti, e il contrasto fra i quartieri per turisti – rinnovati e americanizzati –
e le zone abitate dai più poveri – spesso lasciate in uno stato pietoso – qui
sembra essere più forte che nelle altre città della Germania orientale che ho
visitato. Anche se Magdeburgo o Dessau…
Invitato da un collega, terrò in università una serie di cinque lezioni di
due ore ciascuna sul bestiario medievale. Lezioni in tedesco, una prova
faticosa per me. Di sicuro, ho una buona conoscenza di questa lingua, la
leggo correntemente, la scrivo senza fare troppi errori, ma all’orale le cose
vanno diversamente. Appartengo a una generazione che ha imparato le
lingue vive come si imparavano le lingue morte. Ora, per piacere o per
necessità, nella mia vita ho letto e tradotto tanto di quel latino che non ho
proprio trovato il tempo di fare del mio tedesco una vera lingua viva.
La prima lezione, davanti a una quarantina di studenti, trascorre in ogni
caso abbastanza bene. Parlo lentamente ma non faccio fatica a trovare le
parole. Quel che cerco, invece, è il collega che mi ha invitato. Non c’è.
Malato, senza dubbio. Secondo giorno, seconda lezione. Miglioro, faccio
meno errori, parlo un po’ più velocemente. Ma il professore che mi ha
invitato è sempre assente. Alla fine del corso, chiedo a uno dei suoi
assistenti cosa gli sia successo. Sta male? Ha sbagliato settimana, orario,
aula? Si è semplicemente dimenticato di me? Il giovane collega ha un’aria
molto imbarazzata e mi spiega, timido e confuso, in un tedesco contorto,
che il mio corso è stato classificato come gelb (‘giallo’) e non rot (‘rosso’),
e che quindi il grande Herr Professor Doktor non può assistervi.
Al momento, non ci capisco nulla, ma durante il pranzo (orribile) alla
mensa universitaria, le cose si fanno più chiare e i colori assumono tutto il
loro significato. Un altro assistente, più a suo agio, mi spiega che i corsi
all’Università di Dresda, almeno quelli di discipline umanistiche, si
dividono in quattro categorie, ognuna contrassegnata da un colore: blu per i
primi due anni, giallo per i corsi di laurea, rosso per il dottorato e verde per
i corsi aperti al pubblico. Il mio corso sul bestiario medievale è stato
considerato come un corso di laurea e quindi classificato come ‘giallo’. In
tal modo, il collega che mi ha invitato, arrivato in cima alla gerarchia della
docenza – è Professor Doktor erster Klasse! –, non può né partecipare, né
assistere: non è un corso di dottorato, non è un corso degno di lui.
Sono sconcertato. Sconcertato e umiliato, vittima della rigidità cromatica
dell’università sassone e costernato dalla maleducazione del mio collega.
Farmi venire da così lontano, obbligarmi a sforzi linguistici dolorosi, e non
venirmi a sentire! Mi sfogo coi due assistenti che, pur senza colpa,
avrebbero dovuto capire la mia rabbia. Così non è stato. Senza dubbio in
imbarazzo, ma leali nei confronti del loro maestro, mi spiegano che il
regolamento vale per tutti e in ogni circostanza, e che era davvero
impossibile al loro illustrissimo professore assistere al mio piccolo corso di
laurea, un ‘corso giallo’. Resto senza parole, ma non insisto. Pusillanime
come mi capita troppo spesso di essere, porto la conversazione sulla
gerarchia dei colori che si complica via via sempre più, come a judo o su
una pista di sci!
Queste peripezie universitarie e colorate non hanno avuto luogo nella
Prussia di fine Ottocento, né nella Repubblica Democratica Tedesca degli
anni Sessanta, bensì nella Germania del 2012, libera, aperta, moderna.
2013
Dal rosso al blu
Banana split
(gennaio 2013)
Il colore confiscato
(marzo 2013)
La macchina gialla
(aprile 2013)
Ieri, in Bretagna, per la prima volta nella mia vita, sono salito su una
macchina gialla che non era né un taxi, né un postale. L’esperienza è stata
fantastica: mi è sembrato di essere in una specie di enorme gadget, vistoso e
sfavillante come un giocattolo svizzero, e di dover partecipare a una gara di
vetture eccentriche dove il colore avrebbe dovuto conquistare la giuria e il
pubblico. La macchina era nuova e di un bellissimo giallo: vivo, carico,
denso, quasi grasso. Una tinta davvero insolita nelle nostre regioni dove, se
una macchina gialla è ferma in un grande parcheggio, tutti la guardano.
Alcuni l’ammirano, altri vorrebbero averla, altri ancora, più perversi,
vorrebbero rigare o sporcare la carrozzeria. Gli indifferenti al giallo-
macchina sono rari.
Bisogna dire che in Francia, diversamente dalla Germania o dalla Svezia,
per esempio, le auto gialle sono insolite. Soprattutto per quel che riguarda i
privati. Se capita, si tratta generalmente della terza o della quarta auto di
una famiglia benestante – molto benestante – che può permettersi il lusso di
una piccola macchina sportiva dal colore strano poiché ha già una macchina
nera e due grigie (è più o meno il caso della famiglia che ieri mi ha ospitato
a bordo di una macchina così). Le classi meno abbienti non circolano in
giallo; nemmeno il ceto medio. In questo ambiente, questo giallo insolente è
sempre segno di opulenza.
Non si può dire altrettanto del giallo dei taxi e dei postali che si vedono in
molti Paesi. Qui il colore ha la funzione di distinguersi e di sottolineare lo
status sociale di questo genere di veicoli, come il rosso del camion dei
pompieri. Ma perché giallo e non rosa, arancione o viola, tre colori che
sono poco diffusi e che si noterebbero altrettanto bene? La risposta ci è data
in parte dalla storia: il giallo è il colore della dinastia della famiglia Thurn
und Taxis, signorotti lombardi divenuti poi baroni tedeschi, poi prìncipi del
Sacro Romano Impero. Sono loro che hanno fondato e strutturato la posta
europea nel XV e XVI secolo, e poi, più tardi, in Germania, hanno
inventato gli antenati dei nostri ‘taxi’. Il giallo simbolico di questa famiglia
– oggi una delle più ricche al mondo – divenne il colore delle loro poste e
delle loro compagnie di trasporto di veicoli trainati da cavalli. Per quanto
riguarda i taxi moderni, negli Stati Uniti molte compagnie scelsero il giallo
abbastanza presto: a Chicago dal 1915, a New York negli anni Venti; forse
come riferimento o omaggio ai vecchi ‘ippotaxi’ dei Thurn und Taxis ma
con l’idea che fosse il colore che si vedeva meglio da lontano nel grigiore
della città. Non era sbagliato. Piano piano, altre città, altri Paesi hanno
imitato l’esempio americano, al punto che oggi, in buona parte del mondo,
un taxi è un veicolo di colore giallo. Non è il caso della Francia. Ma la
Francia, a cui piace dare lezioni a tutto il mondo, si è sempre considerata
come un ‘Paese a parte’, anche e soprattutto in materia di colori.
La maggior parte dei dizionari etimologici spiega l’origine della parola
‘taxi’ con il fatto che questo veicolo è equipaggiato da un ‘tassametro’,
dispositivo che serve a calcolare la ‘tassa’ che il cliente deve pagare per il
trasporto. Spiegazione ingegnosa, che deriva dal greco antico taxis
(‘accordo, disposizione’), ma che non considera i Thurn und Taxis,
inconfutabili inventori dei primi ‘taxi’ tirati dai cavalli. Il nesso mi sembra
comunque evidente fra il nome proprio e il nome comune. Nel cognome, la
seconda parola, ‘Taxis’, all’origine è un toponimo, qualche volta scritto
‘Tassis’ e costituito probabilmente dal nome del ‘tasso’ (latino taxus;
italiano tasso). Il più antico castello di questa famiglia era stato infatti
costruito in Lombardia, vicino a Bergamo, sul monte Tasso (da leggere
come ‘la collina dei tassi’). Cosa che ci allontana di sicuro dalle macchine
gialle.
Rimaniamo prudenti, dunque, e andiamo piano: la velocità è sempre
volgare.
Conferenza a Nizza, al Museo Chagall (un pittore che non mi piace affatto):
parlo ancora del verde, della sua storia, del suo simbolismo, del suo posto
nella storia della pittura. Come accade spesso, il mio intervento è seguito da
una cena di cui farei volentieri a meno ma che per educazione non posso
rifiutare. È un passaggio obbligato al quale sfuggo di rado nelle città di
provincia. Purtroppo! Perché obbligare un conferenziere stanco a una cena
interminabile, a una conversazione spesso inutile, a mondanità stucchevoli;
le autorità cittadine, assenti alla conferenza, sono sempre presenti a tavola!
Perché, tra l’altro, prenotarmi una camera in un hotel di lusso dove arriverò
solo a mezzanotte e che dovrò lasciare alle sette del mattino per prendere un
treno? È assurdo e stancante.
Questa sera, tuttavia, i discorsi che si svolgono a tavola sono meno
ridicoli del solito. I rappresentanti delle autorità non sono presenti, e gli
invitati, più a loro agio, non si dilungano sulla politica locale ma su quel
che ho detto sui sondaggi d’opinione: colori preferiti e colori detestati. Un
uomo anziano, simpatico, il classico vecchio ingegnere, racconta come
venne intervistato una volta, durante una promozione pubblicitaria in una
via di negozi del centro città, e come alla domanda: «Qual è il suo colore
preferito?» abbia risposto con una bugia. Accompagnato da amici e da
colleghi, non ha osato dire che il rosso era il suo colore preferito, per paura
– lo cito – «di passare per comunista», e in un soffio ha menzionato il blu,
«come tutti o quasi».
La testimonianza di quest’uomo mi ha interessato particolarmente. Da un
lato, perché è la prima volta che incontro qualcuno che dice di essere stato
intervistato per strada a proposito dei colori (è successo anche a me una
volta) e che ammette di aver dato una risposta falsa (quanti sono quelli che,
per diverse ragioni, mentono ai sondaggisti, soprattutto durante i sondaggi
manipolatori prima delle elezioni: 10%? 15%?). Dall’altro, perché questa
confessione ricorda i legami molto forti – troppo forti? – che hanno avuto
luogo per decenni fra il rosso e i partiti politici di estrema sinistra,
relegando in secondo piano tutti gli altri aspetti simbolici di questo colore:
l’infanzia, l’amore, la passione, la bellezza, la gioia, la festa, il piacere,
l’erotismo, il potere e anche la giustizia. Un’unica corrente di pensiero ha
fatto suo il rosso che in tal modo ha smesso di essere un colore per
diventare un’ideologia. Al punto che, come sottolinea la testimonianza di
quest’uomo, per tanto tempo non si è potuto ammettere di preferire il rosso
agli altri colori, senza sembrare subito un autentico comunista.
Oggi, dopo la scomparsa dell’URSS e l’indebolimento delle ideologie,
questo legame forzato si è molto indebolito. Ma, fra i colori, il verde
sembra aver preso il sopravvento: è diventato quasi impossibile ammettere
di preferire il verde agli altri colori senza passare subito per un paladino
dell’ambiente, per un fautore delle energie rinnovabili o dell’agricoltura
biologica, oppure per un fervente militante ambientalista. Non ho nulla
contro gli ambientalisti, né contro i comunisti, ma come combattere simili
associazioni d’idee semplicistiche e riduttive che finiscono per snaturare i
colori, privandoli di ogni dimensione affettiva, poetica, estetica o onirica?
Ho dedicato uno dei miei seminari alla storia simbolica dei frutti e da
qualche tempo m’interesso all’uso figurativo dei termini che li designano,
soprattutto nelle espressioni gergali e in quelle popolari, del tipo: «Poi,
l’amico ciliegia mi fa: ‘Al contadino non far sapere quanto è buono il cacio
con le pere’. È stato proprio allora che sono caduto come una pera cotta».
Una simile ricerca mi ha portato a consultare vari dizionari di francese
definiti pudicamente come ‘non convenzionali’. Ce ne sono di notevoli, in
special modo quelli che fanno lo sforzo di datare la comparsa di questo o
quel vocabolo in gergo (o dell’uso distorto di una parola comune) e che
provano a capirne l’origine e il significato.
Oggi ho lavorato alla biblioteca dell’Institut de France, molto ricca per
tutto quello che riguarda la storia della lingua francese. Ho consultato un
gran numero di archivi, ho raccolto molti dati e ho provato un piacere
immenso nel fare questa ricerca. Poi, approfittando dell’essere in questo
luogo colto e ovattato, ho abbandonato un momento il mondo dei frutti e ho
cercato di capire che ne era stato dei colori e del loro rapporto con il gergo.
Mi sono accorto subito che il rapporto era quasi inesistente: i colori e il
gergo sembravano ignorarsi. Anche se può sembrare strano, la langue verte
è molto poco colorata. Non solo il lessico dei colori entra solo
marginalmente nella creazione di parole o espressioni gergali (citiamo due
rari esempi in francese: la blanche per indicare l’eroina; avoir la rougeole
per portare la Legion d’Onore), ma anche e soprattutto non esistono quasi
parole in gergo che possano sostituire questo o quel colore. Anche la
semplice gergalizzazione di vocaboli ordinari per suffissazione (noircif,
verdasse, rougedingue) o per giavanese (blaveu, per blu, gravis per grigio)
non è un procedimento comune, tutt’altro. I rari esempi si trovano in
qualche romanzo popolare degli anni Cinquanta e riguardano la mafia.
Quanto al verlan – procedimento di gergalizzazione poco originale e
linguisticamente molto povero –conosce appena gerou (rosso) e renoi
(nero), visto che queste due parole sono più o meno frequentemente
pronunciate dai verlangueurs.
L’espressione langue verte sembra inadeguata per qualificare questo stato
della lingua che indichiamo anche con argot. È vero che in origine, a
cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la langue verte indicava solo la lingua
esplicita, se non volgare, dei giocatori di carte. Il verde, colore della fortuna
e della sfortuna, dei soldi e del caso, era in effetti associato al gioco dalla
fine del Medioevo; e questo, ovunque in Europa. In Italia, per esempio, a
metà del XV secolo, i tappeti di gioco erano già di questo colore. E lo sono
rimasti fino a oggi.
Una simile scarsità di rapporti fra il gergo e il colore si nota nella
maggior parte delle lingue europee. C’è ben poco anche in inglese dove il
vocabolario cromatico sembra avere qualche forma ed espressione gergale:
a yellow dog, ‘un fifone’; a green ass, ‘un novellino’ (‘una matricola’); to
paint the town red ‘divertirsi’; to give the pink slip, ‘licenziare’; to dream
about green horses, ‘fantasticare’. Non trovo niente di simile in tedesco,
lingua che non usa molto il gergo, e nemmeno in italiano (ma la mia
conoscenza dell’italiano popolare e dei suoi derivati è rudimentale).
L’indagine prosegue.
Sulle strade del Tour de France si nota solo lui. Non quello che indossa la
maglia gialla, ma quello della maglia bianca a pois rossi, ovvero il primo
della classifica del ‘Gran Premio della Montagna’. Questa classifica fu
istituita ufficialmente nel 1933 ma si è dovuto aspettare il 1975 perché il
suo leader si potesse distinguere dagli altri ciclisti con una maglia speciale.
Non una maglia in tinta unita come il primo della classifica generale (gialla)
o della graduatoria a punti (verde), ma una maglia particolarmente vistosa e
un po’ comica: bianca e costellata di grandi – molto grandi – pois rossi.
Impossibile non distinguere un ciclista così in mezzo al plotone.
Chi ha avuto l’idea di una tenuta così appariscente, e perché? Una
leggenda inossidabile racconta che fu la marca del cioccolato Poulain,
allora sponsor di questa formazione di montagna, a imporre questa maglia.
Fondata a Blois nel 1848, famosa non solo per il suo cioccolato ma anche
per le immagini educative che accompagnavano le tavolette, questa marca
ha avuto in effetti per lungo tempo il rosso come colore emblematico.
Tuttavia, il suo logo non era un insieme di pois ma un cavallino, figura
simbolica ‘parlante’ – come dice il linguaggio araldico – ovvero che dà
luogo a un gioco di parole con il nome della marca. La teoria Poulain per
giustificare la stravagante maglia a pois non sembra essere plausibile.
L’affermazione secondo la quale fu Félix Lévitan, giornalista sportivo e
in seguito direttore del Tour de France dal 1962 al 1987, il promotore di
questa maglia sembra più veritiera. Gli si devono in effetti molte novità
volte a modernizzare il Tour, soprattutto il traguardo dell’ultima tappa sugli
Champs-Élysées (che a mio parere sminuisce l’aspetto sportivo del Tour de
France, dando più rilievo allo spettacolo che alla gara). È forse Félix
Lévitan l’autore della maglia bianca a pois rossi? Ma per evocare chi o
cosa? Anche in questo caso, una leggenda senza tempo circola negli
ambienti ciclistici: questa tenuta sportiva avrebbe ricordato quella di un
famoso campione degli anni Trenta-Quaranta, Henri Lemoine,
soprannominato ‘Petit Pois’ per via del suo essere tracagnotto e per una
maglia da cui si separava raramente (tranne quando indossava quella da
campione di Francia) e che faceva la felicità dei caricaturisti, bianca con
grandi cerchi arancioni. Henri Lemoine e Félix erano molto uniti, perciò è
possibile che quest’ultimo abbia scelto la maglia bianca a pois rossi in
onore del suo amico. Ma, nel 1975, Lemoine non era ancora morto, per
nulla (morì nel 1991). E poi, quando era in attività, era un pistard,
mezzofondista nelle gare al velodromo, assolutamente non un grimpeur
nelle gare su strada. Dubito che Félix Lévitan, grande esperto della storia
del ciclismo, abbia commesso, anche volendo, un tale sacrilegio: portare i
pois della pista fra i passi di montagna.
Il mistero resta quindi irrisolto. Può darsi sia meglio così, anche perché
questa maglia basta e avanza: alla prima occhiata, identifica subito chi la
indossa. Ma lo trasforma anche in un pagliaccio. In tutti i casi la scelta dei
pois non è stata molto felice. Una maglia semplicemente a righe bianche e
rosse sarebbe stata meglio: si sarebbe vista altrettanto bene senza avere
questo aspetto ridicolo di una miriade di enormi pois rossi su fondo bianco.
E poi sarebbe stata più elegante. Le cravatte sono d’esempio:
nell’abbigliamento, le righe sono sempre più chic dei pois, anche quelli più
discreti. Ma gli sportivi devono essere chic? Non ne sarei così sicuro. Per
piacere al grande pubblico, tutti i campioni devono essere un po’ buffoni e
stravaganti. Se i grandi sportivi fossero discreti, sobri, eleganti, se
abbandonassero le loro tenute variopinte da saltimbanchi moderni,
probabilmente perderebbero una buona parte della loro popolarità.
Dermatologia
(novembre 2013)
Toni blu
(dicembre 2013)
Come mai sulle stoffe e sui vestiti, la maggior parte dei toni blu si
accordano e si sposano facilmente quando è più raro per gli altri colori?
Associare un blu cielo a un blu scuro, un blu lavanda a un blu notte, un blu
foglia di tè a un blu ‘mari del Sud’ non ferisce lo sguardo, non sorprende,
non trasgredisce per nulla i nostri codici o le nostre abitudini cromatiche.
Invece, accostare un verde bottiglia a un verde oliva o semplicemente
combinare un rosso aranciato a un rosso violetto fa male al nostro sguardo e
fa urlare i puristi del colore (tra cui ci sono anch’io, purtroppo!). È un
problema culturale? Di considerazioni ottiche o fisiche? O entrano in gioco
altri fattori più elusivi?
In effetti, nella gamma dei blu, la maggior parte delle tinture, antiche o
moderne, naturali o sintetiche, si ottengono da uno stesso principio
colorante: l’indigotina, presente sia nelle foglie e nel gambo del guado
europeo che in quelli dell’Indigofera tinctoria del Vecchio e del Nuovo
Mondo; oggi è prodotta per sintesi chimica. Nelle altre gamme di colori
(rosso, verde, giallo e anche nero), i principi coloranti di base delle diverse
tinture non sono gli stessi e sembrano rendere dissonanti certi accostamenti.
Almeno agli occhi degli occidentali, poiché, in questo campo, tutto è
decisamente culturale. Del resto, anche solo limitandosi alle società
europee, le differenze geografiche e sociali dello sguardo possono essere
grandi. Un abbinamento di colori normale in una regione potrà essere
sconcertante in un’altra, a tal punto che nella stessa città un simile
accostamento, ‘chic’ in un certo ambiente, sembrerà ordinario o volgare in
un altro. Solo i toni del blu…
Né Internet né la globalizzazione potranno cambiare le cose. Almeno
speriamolo.
2014
Dal nero al bianco
Inquietanti lenzuola di lusso
(gennaio 2014)
Semafori tricolori
(febbraio 2014)
Carrozzerie
(aprile 2014)
I parcheggi sono luoghi immondi in cui non ci si ferma. A meno che non si
sia degli storici dei colori. Nonostante la mia avversione verso le automobili
e la mia paura di questi luoghi terrificanti, a volte ci passo del tempo per
osservare, o meglio contare, i colori delle carrozzerie (e dire che in un
vocabolo così triviale c’è anche la parola ‘carrozza’…). Se il parcheggio è
grande, il bottino può rivelarsi istruttivo. Il problema è tuttavia riuscire a
raggruppare per grandi categorie cromatiche (bianco, nero, grigio, blu…)
sfumature oggi molto diverse. Una volta riuscivo a farlo e così riuscivo a
scoprire qualche nuova tendenza; da qualche anno, mi è diventato più
difficile.
In modo approssimativo si possono distinguere quattro periodi nella
storia dei colori delle automobili guidate dai comuni mortali (non considero
le auto di lusso, quelle sportive e da collezione). Da quando sono state
inventate fino all’indomani della Seconda guerra mondiale, quasi tutte le
automobili erano nere, bianche, beige o crema, a volte bicolori. L’assenza di
colori vivaci non era dovuta a problemi tecnici, legati alla chimica dei
colori industriali, ma a considerazioni di tipo morale. Figlia del capitalismo,
quindi solitamente legata a valori laici, all’inizio l’automobile doveva avere
colori discreti, neutri, degni di cittadini rispettabili e cristiani virtuosi
(ricordiamoci a questo proposito il cupo Henry Ford, fondatore della
dinastia che porta il suo nome e che nella sua vita, per moralismo, volle
vendere solo automobili nere). A partire dagli anni Cinquanta e fino agli
anni Ottanta, la tendenza si invertì progressivamente: il nero divenne più
raro, i colori più numerosi. In seguito, la tendenza cambiò ancora rotta: la
moda non era più per i colori vivaci ma per le tinte sobrie e scure,
soprattutto il grigio. Al cambio del millennio, tutte le automobili europee
sembravano destinate a essere solo grigie, e sembrava dovesse essere così
ancora per molto tempo. Da qualche anno, invece, questo grigio
onnipresente, invadente, dittatoriale comincia a perdere terreno; sono
riapparsi il bianco e il nero, poi il blu, il marrone, il rosso, e si iniziano a
vedere tinte finora rare o eccentriche come il giallo. Ma il fenomeno rimane
marginale. Nei parcheggi francesi come in quelli dei Paesi vicini, il grigio
resta ancora il colore dominante e si declina in un numero infinito di
sfumature.
In questi cicli di lunga durata ci sono periodi più brevi, spesso circoscritti
geograficamente ma sempre in balìa dell’ago della bilancia tipico delle
mode. In certi ambienti, quando tutti possiedono un’automobile grigia, ‘fa
molto chic’ avere una vettura rossa o verde; e quando i vicini sono
proprietari di un’automobile dai colori vivaci, il massimo è avere un’auto
nera o bianca. Perlomeno quando si può scegliere il colore dell’automobile
al momento dell’acquisto, ma non sempre è possibile: quella tinta non è
disponibile prima di sei mesi, per quell’altra ci vuole un supplemento di
prezzo, l’altra ancora è incompatibile con il modello o gli accessori scelti.
Le scelte sono spesso scelte per esclusione: l’acquirente non sceglie il
colore che gli piace di più ma quello che gli dispiace meno rispetto a quello
che gli viene proposto. E non è la stessa cosa.
Detto questo, le carrozzerie attuali hanno delle sfumature di colore
talmente diverse e così squisitamente declinate che a volte ho difficoltà a
dar loro un nome. Io, l’esperto dei colori, non so più come chiamare la
sfumatura di questa o quella macchina, se non usando nomi imprecisi e
mercenari come quelli proposti dai cataloghi di vendita: ‘grigio quarzo’,
‘grigio sublime’, ‘bianco delle Alpi’, ‘bianco diamante’, ‘nero inferno’,
‘nero Veláz-quez’, senza contare il ‘blu aquarius’, il ‘verde Cambridge’ o il
‘rosso Carpaccio’. Un insieme di vocaboli certamente molto poetici ma che
cromaticamente non danno nessuna informazione precisa. A ben vedere,
sarebbe più facile (e più utile) indicare queste sfumature in latino. Non in
latino classico, il cui vocabolario sui colori non era particolarmente ampio,
ma il latino erudito del XVII secolo: subravidus, grigio chiaro leggermente
giallastro; caesius murinus, grigio medio con riflessi bluastri; superpullus
rufulus, grigio scuro più o meno rossastro.
Frequentare i parcheggi mi rende pedante.
Visita in libreria
(maggio 2014)
Viaggio a Berna, una delle più belle città d’Europa dove cerco di andare
ogni volta che vengo a fare lezione a Ginevra o a Losanna. Appena uscito
dalla stazione – una città nella città – mi dirigo alla libreria d’antiquariato
che frequento da quarant’anni: Hegnauer, sulla via principale, sotto i portici.
Sconforto: la libreria è chiusa, e sulla porta verde è affisso un breve
messaggio dattiloscritto malamente: ‘Rovinati da Internet’. Il mio dolore è
immenso. Così come la mia collera. La morte di una libreria è sempre un
atto di violenza nei miei confronti.
Ho avuto la fortuna di nascere e crescere tra i libri. La biblioteca di mio
padre contava circa quindicimila volumi, quella di mio zio un po’ di più;
due mie zie erano custodi alla Biblioteca nazionale, le cui diverse sale di
lettura erano frequentate da tutta la famiglia. Quando ero molto giovane,
una gran parte della mia paghetta era spesa nell’acquisto di libri, e per me le
librerie erano già allora luoghi incantati. Molto presto ho capito che la vita
vera era in questi luoghi – librerie e biblioteche – e non per strada, nei
giornali, e ancora meno sugli schermi del cinema, della televisione o di un
computer.
Adolescente, m’interessavo già ai caratteri tipografici, ai bozzetti, e
soprattutto alle copertine. Mezzo secolo dopo, non sono cambiato. Alcune
copertine mi attirano o mi incuriosiscono; altre mi ripugnano. Per esempio,
non comprerei mai un libro con una copertina o un dorso in prevalenza rosa
o viola, due colori che detesto. Stessa cosa per l’oro. Come si può sfoggiare
nella propria libreria un libro dal dorso dorato, oggetto da esibire riservato
ai parvenu che non aprono mai un libro? Presto anche molta attenzione alla
impaginazione delle immagini, e non solamente a quella della copertina.
Sensibile su questo punto – con gran dispiacere dei miei editori – ho
un’avversione totale per le illustrazioni così dette ‘al vivo’ (uno, due o tre
lati dell’immagine vanno fino in fondo alla pagina). Pagina intera, al limite;
ma non con l’immagine stampata ‘al vivo’: in un libro l’immagine risalta
maggiormente e si associa meglio ai caratteri quando ha una cornice,
ovvero è delimitata dai bordi bianchi della pagina su tutti e quattro i lati.
Il verde, come si sa, è il mio colore preferito. Per questa ragione, più o
meno consapevolmente, in libreria mi attirano i libri con la copertina di
questo colore. Sfortunatamente sono pochi. Continua ancora a circolare
nell’ambiente dell’editoria – come in quelli del teatro e della Marina –
l’idea che il verde porti sfortuna. Un libro con la copertina verde o con una
forte predominanza di verde non si venderà, o si venderà male: meglio
scegliere un altro colore. La superstizione sulla natura nefasta del verde è
antica. Nel teatro, era già avvalorata all’epoca di Shakespeare; sulle navi, a
quella di Colbert. Nel campo dell’editoria sembra essere più recente ma
c’era già durante il Romanticismo: le opere con la copertina verde, o più
frequentemente grigio-verde, sono riservate a piccole tirature, in special
modo all’erudizione che secondo Balzac ‘si vende male’. Ancora oggi,
alcune riviste di società accademiche, rimaste fedeli alla tradizione, hanno
una copertina in cartone di un verdastro slavato che non piace a tanti ma
che a me rende felice. D’altra parte, l’Académie des inscriptions et belles-
lettres continua a dare il buon esempio: i suoi prestigiosi e accademici
Comptes rendus trimestrali sono diffusi ancora e come sempre con una
copertina verde. Sempre che un bel giorno, all’Institut de France, a un
giovane arrivista del marketing non salti in mente di cambiare questa
copertina con un colore giudicato ‘più vendibile’; oppure – cosa che
sarebbe ben peggiore – sopprimere la pubblicazione cartacea a favore di
una online perfettamente acromatica. La vera erudizione ha bisogno del
verde, e anche del verdastro, così come della carta.
In estate e con il ritorno dei festival (che non frequento affatto: troppa
gente, troppo rumore, troppa birra o sidro), la bella bandiera nera e bianca
della Bretagna viene tirata fuori e sventola su tutta la regione. È composta
da nove strisce orizzontali (cinque nere e quattro bianche), interrotte vicino
al pennone da un grande riquadro di mosche d’ermellini. L’effetto visivo è
spettacolare e ricorda vagamente la bandiera greca, un’altra meravigliosa
bandiera ma dai colori bianco e blu.
Le origini della bandiera bretone (che porta il nome di Gwenn-ha-Du)
sono controverse: è nata negli anni Venti o è più antica? La storia
vessillologica della Bretagna è particolarmente ricca e dibattuta, e gli
studiosi sono in disaccordo su molte questioni. Tuttavia, per l’araldista,
sembra innegabile che i due colori della bandiera, il nero e il bianco,
provengano dall’antico stemma del ducato: ‘D’argent semé de mouchetures
d’hermine de sable’, ossia uno scudo bianco costellato di piccole ciocche di
peli neri che ricordano la coda dell’animale. Questo scudo fu sicuramente
scelto nel 1316 dal duca Jean III. L’ermellino ducale apparve tuttavia un
secolo prima: figura già sulle armi del suo predecessore sotto forma di
quartier franco (semplice quadrato posto in alto a sinistra dello scudo) che
distingueva le armi dei Dreux. I duchi di Bretagna del XIII secolo sono
infatti cadetti dei conti di Dreux. Sono discendenti di Pierre Mauclerc,
secondo figlio del conte Robert II, che sposò nel 1213 Alix de Thouars,
erede del ducato. In questa occasione, introdusse gli ermellini in Bretagna.
Ma ai bretoni non piace affatto che si ricordi loro che i duchi e gli ermellini
vengono da altri Paesi.
Anche se non hanno in origine nulla di bretone, con il passare del tempo
gli ermellini sono diventati l’immagine stessa del ducato. Dopo la fine del
Medioevo, in tutta Europa, le moscature di ermellino o anche la semplice
associazione emblematica del nero e del bianco erano sufficienti a evocare
la Bretagna. Per questa ragione il bretone d’adozione che si nasconde in me
si sorprende spesso nel constatare come oggi alle istituzioni ufficiali non
piacciano ed esitino a farli vedere. Troppo pericolosi, gli ermellini? Troppo
indipendentisti? Siamo nell’epoca europea, non ha più molto senso. Perciò,
che i bretoni siano fieri dei loro emblemi! Che diffondano ovunque i loro
ermellini e con essi l’associazione del nero e del bianco, due colori
intimamente legati alla storia e all’identità bretone! Dico effettivamente
‘colori’: per lo storico, per il sociologo, per l’insieme delle discipline
umanistiche – bisogna dirlo e ridirlo – il nero e il bianco sono colori a tutti
gli effetti, colori ‘di base’, esattamente come il rosso, il blu, il giallo e il
verde.
Una nuova sfumatura di grigio
(agosto 2014)
Noleggio raramente un’auto ma oggi l’ho fatto alla stazione di Quimper per
andare in una località balneare della costa sud del Finistère non servita dagli
autobus nei fine settimana. In questo dipartimento come in molti altri, chi
non ha l’auto può raggiungere spiaggia e stabilimenti balneari solo nei
giorni lavorativi. Al banco della compagnia di noleggio, la brillante
impiegata che mi consegna le chiavi mi precisa che l’automobile è una
Renault Clio e che è parcheggiata dietro alla stazione, nel ‘grande
parcheggio del Maréchal-Gallieni’, non lontano dal viale che ha lo stesso
nome. Per poterla individuare meglio, le chiedo di che colore sia, ma la
domanda la lascia perplessa. Sembra che nessun cliente glielo abbia mai
chiesto. Cerca a lungo nei documenti, non trova la risposta e mi dice: «Deve
essere indicato sul portachiavi». E infatti quest’ultimo, con una scritta a
mano più o meno incerta, riporta non solo il modello dell’auto e il numero
di targa, ma anche il colore della carrozzeria: ‘Grigio Missouri’.
Ora tocca a me essere perplesso. Grigio Missouri! Da dove proviene una
simile espressione? E di quale sfumatura potrebbe trattarsi? Di un ‘grigio
topo’ frainteso e scritto male da un noleggiatore di auto analfabeta? Se così
fosse, sarebbe almeno divertente, un piccolo roditore che lascia il suo posto
al grande Stato americano. È vero che l’espressione ‘grigio topo’, frequente
quando ero bambino e adolescente per indicare una stoffa di un grigio scuro
piuttosto caldo, oggi non si usa più tanto. Magari non si tratta di un
calembour involontario, ma della creazione furbetta e pretenziosa di un
genio del marketing che si crede un umorista? In materia di automobili, sui
lussuosi cataloghi di vendita proposti dalle grandi marche, i colori delle
carrozzerie sono spesso indicati con espressioni che vorrebbero essere
originali e seducenti: ho già parlato del ‘bianco delle Alpi’, del ‘grigio
sublime’, del ‘blu aquarius’, del ‘nero inferno’. Aggiungiamo il coltissimo
‘verde oxfordiano’, l’enigmatico ‘marrone quad’ e il probabilmente
carinissimo ‘rosso Elisabetta’. L’insolito ‘grigio Missouri’ che mi aspetta
sul ‘grande parcheggio del Maréchal-Gallieni’ appartiene a questa
tavolozza lessicale, coniata espressamente per clienti di bocca buona come
una poesiola o una spiritosaggine da oratorio? Se è così, allora è una gran
bella trovata. Nello stesso spirito di quando si usa il ‘grigio Mississippi’ per
indicare una sfumatura di grigio vagamente diuretica?
Mentre vado a prendere possesso della mia auto, ci rimango un po’ male.
Non solo il grande parcheggio del Maréchal-Gallieni è piuttosto piccolo (è
anche vero che questo grande soldato fu fatto maresciallo di Francia solo
dopo la sua morte), ma il colore della carrozzeria ‘grigio Missouri’ della
macchina è fra i più normali; ‘grigio medio’ sarebbe bastato.
Occhiali
(ottobre 2014)
Piove. Mi piace vedere e sentire la pioggia cadere. È sempre stata una delle
mie più grandi gioie. Soprattutto quando si tratta di piogge autunnali, a
pomeriggio inoltrato, quando la notte sta per arrivare e le strade di Parigi
sono ancora animate, le boutique aperte, e i tanti passanti si affollano verso
le entrate del metro o sotto le tende dei negozi.
È quello che succede oggi. Con una decina di sconosciuti mi sono
rifugiato sotto la tenda di un negozio di ottica che presenta in vetrina il
simpatico spettacolo di decine di occhiali. Ce ne sono per tutte le età e per
tutti i gusti, di tutte le forme, di tutte le grandezze, soprattutto di tutti i
colori. Finiti i tempi in cui le montature erano banalmente nere o marroni,
se non spietatamente in metallo. Non mi sono mai piaciute le montature
argentate o dorate, men che mai quelle tartaruga. Ma oggi ho qui, sotto i
miei occhi, montature rosse, blu, verdi e anche gialle, ognuno di questi
colori proposto in due o tre sfumature. Non sono tutte per bambini: in
questa allegra sinfonia policroma, ci sono anche occhiali per adulti, anche
da uomo.
Mi viene la tentazione di entrare nel negozio e chiedere il prezzo di due o
tre paia, anche se so che farei fatica a scegliere, e che ciò che mi attira non è
tanto un colore in particolare, ma l’arcobaleno che compongono
nell’insieme. Succede la stessa cosa in qualsiasi negozio d’abbigliamento:
una pila di camicie, di polo o di magliette a maniche corte di dieci o dodici
colori diversi ha un potere di seduzione ineguagliabile; ma un capo fuori
dalla pila e isolato perde una buona parte della sua attrattiva. Un colore,
qualsiasi esso sia, risalta appieno solo quando è associato o messo a
confronto con molti altri colori. Da solo, è meno vivido, più ordinario, quasi
scialbo. Dal monocromo all’incolore il passo è breve.
Esito. Sarebbe forse una follia farmi il regalo di un paio di occhiali con la
montatura rossa, verde o gialla? Mi piacerebbero molto gialli, ma alla mia
età, con la mia testa tonda, il mio cranio pelato, le mie guanciotte e la mia
aria da vecchio rimbambito? E poi, gli ottici hanno l’attrezzatura necessaria
per misurare la vista dei presbiti? E si possono comprare degli occhiali
senza la ricetta medica?
Mentre valuto tutti i miei dubbi mi cade l’occhio sullo slogan della catena
a cui appartiene questo negozio di ottica. Uno slogan chiassoso o
perlomeno inopportuno, scritto a grandi lettere bianche sulla parte alta della
vetrina: ‘Qui, i vostri occhiali in un’ora’. La cosa mi spaventa. L’idea che i
miei occhiali – un oggetto per me particolarmente importante – siano
preparati in un’ora, vale a dire arrangiati alla meglio, fatti male,
danneggiati, non mi piace. Come probabilmente alla maggior parte degli
acquirenti di occhiali. Com’è possibile che dei professionisti del marketing
possano fare simili errori: inventare slogan che scoraggiano i clienti invece
di conquistarli? Mi ricordo come, una trentina di anni fa, un’auto eccellente,
la Renault 14, era stata vittima di una malaugurata campagna pubblicitaria
che la paragonava a una pera. A quei tempi nelle scuole di design e di
marketing non si era forse al corrente della simbologia negativa della pera?
Lo stesso vale oggi, non si sa che non ci si deve vantare di preparare un
paio di occhiali in un’ora, un oggetto intimo, indispensabile e di gran
valore?
Sconfortato, rinuncio e vado ad aspettare il mio autobus. In fondo ha
smesso di piovere.
I colori dell’Europa
(novembre 2014)
Dovendo partire per il Canada per una serie di conferenze, ho dovuto far
richiesta di un nuovo passaporto, poiché il vecchio era ormai scaduto da
diversi anni. In effetti lascio di rado l’Europa, e attraversare l’Atlantico
rappresenta per me un’impresa quasi insormontabile. Eppure è proprio ciò
che mi attende tra qualche settimana: due o tre ore di attesa all’aeroporto
seguite da sette ore di volo durante le quali sarò di volta in volta sospettato,
perquisito, umiliato, maltrattato, angosciato, schiacciato, e infine sfinito.
Come possono gli esseri umani – io come gli altri –accettare una tale
mortificazione? E pagare per subirla? Siamo tutti diventati completamente
masochisti?
Con mia grande sorpresa, richiedere e ottenere un nuovo passaporto è
stato relativamente semplice e veloce. Pensavo di ricevere un documento
veramente nuovo, con una copertina di quel bel blu dell’Unione europea,
decorato con simboli e loghi creativi, che rievocano immagini attraenti della
Francia e dell’Europa, e invece sono stato smentito. Il nuovo passaporto è
identico al precedente, con le stesse brutte pagine, più o meno spiegazzate
negli angoli e dove le informazioni relative alla mia identità sono scritte a
macchina in caratteri minuscoli (per leggere il numero del passaporto è
necessaria una lente d’ingrandimento super potente). E inoltre ha
un’orribile copertina di cartone marrone che ricorda più il fango, il sangue
infetto o gli escrementi che un avvenire radioso. Il mio vecchio passaporto
era già dello stesso abominevole colore, così come lo sono anche tutti quelli
dei cittadini appartenenti all’Unione europea. L’Europa dei passaporti resta
unita intorno al marronastro.
Chi, a Bruxelles o in un altro luogo, ha potuto scegliere una tinta così
triste, così sporca, così tremenda? Questo colore dà un’immagine negativa
degli europei, toglie qualsiasi desiderio di viaggiare per il mondo, e anche
di avere un’identità o dei documenti d’identità. Tanto più che la tessera
sanitaria europea è ancor peggio: non è marrone ma grigia, di un grigio
bluastro sanitario e allarmista, come se si fosse già ammalati o infortunati
per il solo fatto di possederla. L’Europa ha scelto male i suoi colori in
questo campo. Solo la sua bandiera azzurra e oro (blu e gialla)… Ma questa
bandiera, un po’ più allegra per i colori, non è neanche tra le più belle (le
dodici stelle che formano un cerchio sono troppo piccole e si vedono male
da lontano). Inoltre, i suoi colori non sono realmente quelli dell’Europa ma
quelli… della Vergine Maria.
Sappiamo oggi in effetti che questa bandiera, concepita e disegnata da
Arsène Heitz (1908-1989), semplice funzionario al Consiglio d’Europa,
pittore della domenica e cattolico fervente, si avvicina molto alla celebre
medaglia miracolosa della Vergine Maria. Fu adottata dal Consiglio
d’Europa l’8 dicembre 1955 (festa solenne dell’Immacolata Concezione!),
poi dalla Comunità europea (più tardi Unione europea) il 1° gennaio 1986.
Tutta l’Europa, compresa l’Europa protestante, è simboleggiata dai colori e
dalle stelle della Vergine Maria.
Cruciverba
(dicembre 2014)
Velatura e saturazione
(febbraio 2015)
Visita al museo del Louvre, cosa che non facevo da molte settimane. Ho
scelto male il giorno perché c’è tanta gente, una folla agitata e rumorosa.
Per un giovedì pomeriggio di marzo è sorprendente, quasi inquietante. E
dire che alla stessa ora i musei di provincia sono deliziosamente vuoti…
Sono venuto a vedere ancora il più famoso cappuccetto rosso di tutta la
storia della pittura, non la bambina che porta a sua nonna un cestino con la
colazione, ma un copricapo fuori dal comune: quello che Eugène Delacroix
ha messo sulla testa di Dante nel suo quadro intitolato La barca di Dante (o
a volte Dante e Virgilio all’Inferno). L’opera è datata 1822. Presentata al
Salon, suscitò subito grande ammirazione, fu acquistata dallo Stato e valse
al giovane pittore di ventiquattro anni una precoce notorietà.
La scena, tratta dalla Divina Commedia, è stata raffigurata più volte e il
quadro stesso fu spesso copiato, anche da grandi maestri (Manet, Cézanne e
altri ancora). Dante e Virgilio in piedi, su una barca, mentre attraversano lo
Stige, il fiume che separa il mondo terreno dal mondo degli inferi. Nelle sue
acque melmose, i dannati si aggrappano alla barca per cercare di salire a
bordo. Grande è il contrasto tra i loro corpi nudi, di un bianco cadaverico,
rappresentati in primo piano, e la città in fiamme dipinta sullo sfondo. La
nebbia e la foschia livide rendono ancor più intensa quest’atmosfera di
paura e di tensione. Fin dall’inizio della sua carriera, il giovane Delacroix
aveva dimostrato appieno il suo talento di colorista. Ma è soprattutto lo
strano copricapo portato da Dante – in un modo teatrale, più da
‘menestrello’ che da uomo del Medioevo – che costituisce il polo principale
della gamma di colori: è di un rosso veramente rosso e rappresenta la sola
nota di colore vivo e caldo in un insieme dove dominano i toni freddi, grigi,
marroni, blu scuri, verdastri. Lo scarto cromatico tra questo cappuccio e il
resto del quadro è sorprendente. Chi s’interessa di colori – cioè chi
s’interessa veramente alla pittura – vede solo quello.
È il mio caso. Vorrei avvicinarmi il più possibile e cercare di individuare
che cosa fa di questo rosso un rosso ‘dantesco’, ma non ci riesco: c’è troppa
gente, e soprattutto troppi fotografi dilettanti. Tanto più perché La barca di
Dante è vicino a La libertà che guida il popolo dello stesso Delacroix e a
La zattera della Medusa di Géricault, due tele dal formato imponente che
non mi piacciono per niente. Qui, come in tutti i grandi musei del mondo, la
maggior parte dei visitatori non guarda più le opere ma le fotografa. Si
fotografano anche tra di loro mentre fotografano il quadro, addirittura chi
sta fotografando fotografa l’amico che fotografa il quadro. È strano: se si è
un semplice spettatore che contempla un’opera per più di venti secondi, si
dà fastidio a tutti. Bisogna spostarsi! Spazio ai fotografi, ovvero al branco
di barbari scaricati dagli autobus dei tour operator nelle sale del Louvre e
pronti a devastare l’intero museo, armati dei loro implacabili telefonini
trasformati in odiose macchine fotografiche.
In preda allo sconforto mi siedo – con una natica solamente, perché i
posti sono rari – e mi rendo conto che in questa galleria, una delle più
visitate del Louvre, la maggior parte dei quadri sono prevalentemente
marroni, e anche di un color ‘marronaccio’, come se tutti i pigmenti si
fossero scuriti e fossero quasi ammuffiti. Naturalmente, conosco la
mancanza di stabilità dei pigmenti dell’inizio del XIX secolo, ma credo che
non siano i soli responsabili; lo sono anche le vernici, che hanno scurito e
velato tutti i toni. Sverniciare è sempre un’operazione difficile e rischiosa. E
le pesanti cornici dorate (e stupidamente ridorate) non aiutano: troppo
nuove, troppo vistose, mettono ancor più in evidenza l’aspetto scuro e
terroso della pittura. Sono indispettito, affranto e soprattutto irritato.
L’agitazione della folla e l’insopportabile L’incoronazione di Napoleone di
David che si prende gioco di me alle mie spalle mi rendono furioso. Non è
veramente né il giorno né il luogo adatto per un amico dei colori. Che cosa
ci faccio qui?
Ruminazioni
(aprile 2015)
Sono ancora in preda alla collera che ieri pomeriggio al Louvre si è
impadronita di me. Eppure l’avevo placata lasciando le gallerie di pittura
per rifugiarmi in quelle dei vasi greci, al piano di sotto. Luogo idilliaco,
deserto, silenzioso, dove per oltre un’ora sono rimasto l’unico visitatore,
avvicinandomi molto alle vetrine per studiare le forme, le figure e i colori
sotto lo sguardo bonario di un guardiano girellone. I vasi con le figure nere
sono sempre stati i miei preferiti perché danno priorità al colore sul disegno.
Le sfumature di nero, soprattutto, appaiono molto varie, anche per la
decolorazione dovuta al lavoro del tempo: il nero prende a volte delle tinte
o dei riflessi grigi, blu, marroni e anche viola. Sui vasi a figure rosse,
invece, la cura per i dettagli realistici e gli effetti di profondità costituiscono
una nuova estetica che m’interessa meno. Ma questo lo sapevo già da molto
tempo, mentre la scoperta della ceramica greca d’epoca arcaica, che non
avevo mai osservato con attenzione, si è rivelata molto più policroma di
come avessi immaginato. Mi ha consolato un po’ delle mie frustrazioni
pittoriche al primo piano. Detto questo, il mio sdegno non è diminuito.
Come può un’istituzione prestigiosa come il Louvre confondere fino a
questo punto turismo e cultura? Nove persone su dieci ci vengono non per
guardare le opere, ma per deambulare in orde ruggenti e fotografare
qualsiasi cosa. Nella maggior parte delle gallerie negozi e punti vendita
sono stati installati per loro. Le targhette, quando esistono, sono ridotte
drasticamente, e la didattica è diventata poco alla volta inesistente. Quando
si confronta il Louvre con i principali musei tedeschi, svizzeri o scandinavi,
si può solo provare vergogna per quello che è diventato malgrado gli sforzi
dei conservatori: una mostruosa fabbrica per turisti, come il British
Museum o – peggio ancora – come i musei di Firenze, di Venezia e del
Vaticano.
Mi vengono allora delle voglie un po’ folli e reazionarie, o perlomeno
fortemente elitarie: quelle di musei in cui non si vende niente, o dov’è
proibito fare delle foto, dove le opere troppo celebri non sono esposte e
dove all’uscita ogni visitatore deve superare un esame per valutare ciò che
ha imparato percorrendo le sale. Simili idee mi sarebbero sembrate
discutibili o stravaganti quando ero più giovane e credevo alle virtù
pedagogiche della visita al grande museo parigino. Oggi, non ci credo più.
Una notte in Vaticano
(maggio 2015)
Un magnifico verde
(agosto 2015)
Il blu e il bianco
(settembre 2015)
Il verde dell’Islam
(settembre 2015)
Sui campi sportivi, una leggenda tenace afferma che le squadre che giocano
in maglia rossa abbiano, al calcio d’inizio, un leggero vantaggio su quelle in
tenute di altri colori. Il rosso, colore marziale, addirittura aggressivo,
impressionerebbe l’avversario e lo farebbe andare nel pallone. In effetti, sia
nel calcio che nel rugby, da oltre un secolo molti episodi esemplari hanno
dimostrato la frequente superiorità di questo colore. Da qui, per le squadre
che giocano ordinariamente in blu, verde, bianco o giallo, la tentazione di
cambiare talvolta la maglia abituale il tempo di una partita e scendere in
campo, anche loro, in rosso. Purtroppo non funziona sempre: la squadra
francese di rugby l’ha dolorosamente sperimentato questo pomeriggio
affrontando la Nuova Zelanda nei quarti di finale della Coppa del Mondo.
La partita si giocava a Cardiff, al Millennium Stadium, davanti a più di
settantamila spettatori. Non avendo la televisione – e non avendola mai
avuta (devo sembrare terribilmente snob…) – sono andato a vedere la
trasmissione a casa di un amico, vero amante del rugby, che possiede un
apparecchio a grande schermo. Una partita magnifica che si è conclusa con
la vittoria dei giocatori neozelandesi con un risultato da asilo infantile: 62 a
13! Un’umiliazione completa per i francesi che pure avevano abbandonato
la loro tradizionale maglia blu per una splendida ed eccezionale maglia
rossa. Sicuramente, avevano un incedere fiero sul campo di gioco: maglia
rossa, calzoncini bianchi, calze rosse. Ma il rosso non è servito a niente
contro il nero. Il rosso non può mai servire a niente contro il nero. La
dimostrazione è stata data ancora una volta questo pomeriggio: nove mete,
sette trasformazioni, una punizione per la Nuova Zelanda; una sola meta
trasformata e una punizione per la Francia. Solo l’assenza di un drop – a
mio parere, una delle più belle fasi di gioco a rugby – ha impedito a questa
partita di essere perfetta.
Perché nero
(ottobre 2015)
Ritorniamo alla partita di ieri e alle divise nere dei rugbisti neozelandesi per
le quali si sono meritati il soprannome di ‘All Blacks’ probabilmente il più
celebre tra tutti i soprannomi sportivi. Più ancora delle loro innumerevoli
vittorie, è questa divisa fuori dal comune che ha fatto nascere la loro gloria
e la loro leggenda. Tutto questo è ben noto. Al contrario, datarne la
comparsa non è facile. In occasione della prima trasferta in Australia, nel
1884, i neozelandesi giocavano con una maglia blu scuro e pantaloncini
bianchi, come gli scozzesi. Qualche anno più tardi, la maglia è diventata
nera ma i pantaloncini sono ancora bianchi. Bisogna attendere la trasferta
europea del 1905-1906 perché l’intera divisa sia di colore nero. È proprio in
quell’occasione, del resto, che un giornale britannico, il Northern Daily
Mail, utilizza per la prima volta l’espressione ‘All Blacks’.
Sembra in effetti che la divisa tutta nera sia stata adottata a partire dal
1893, in occasione della prima assemblea della New Zealand Rugby Union,
ma che sia stata indossata in campo solo una decina di anni dopo. In
seguito, altri sportivi neozelandesi imitarono i giocatori di rugby e
indossarono anch’essi maglia e calzoncini neri nelle competizioni
internazionali. I primi a farlo sembra siano stati i vogatori, al campionato
mondiale universitario di canottaggio del 1920, poi gli atleti, ai Giochi del
Commonwealth del 1930. Per quanto mi riguarda ho questo ricordo molto
forte della finale degli 800 metri ai Giochi olimpici di Roma del 1960: Peter
Snell – uno dei più grandi atleti di tutti i tempi – che supera all’interno,
negli ultimi metri, il belga Roger Moens. Era tutto vestito di nero, e quel
nero sembrava bucare lo schermo, che pure era anch’esso in bianco e nero.
Me ne ricordo benissimo soprattutto perché avevo tredici anni, ero a casa di
un amico la cui sorella mi piaceva molto ed era la prima volta in vita mia
che guardavo la televisione.
Quali sono le origini e le ragioni di questa divisa insolita, di cui gli
sportivi neozelandesi detengono il monopolio, e anche l’onore? Certo, il
nero non è del tutto assente dai terreni di gioco (contrariamente al marrone),
ma è il colore dei calzoncini, oppure quello della maglietta, mai di
entrambi. Inoltre, quando è il colore della maglietta, è raramente solo, più
spesso è associato a un altro colore: nero e bianco, nero e giallo, nero e
rosso. Molte squadre hanno adottato una simile bicromia negli sport
collettivi. Ma maglietta e pantaloncini neri sono appannaggio esclusivo
delle squadre nazionali neozelandesi, e soprattutto dei rugbisti.
Nessuna delle ipotesi finora avanzate per spiegare questo nero sta in
piedi. Vederci un colore maori, carico di una misteriosa simbologia
indigena, non è una tesi sostenibile, anche solo per via della cronologia.
Dire, come si è fatto qualche volta, che questo nero è stato scelto per
impressionare, perfino terrorizzare, l’avversario non è falso, ma è
insufficiente. Affermare che indossando il nero i rugbisti neozelandesi
portano in anticipo il lutto per gli avversari che batteranno costituisce una
bella immagine cavalleresca, ma è un’interpretazione recente, che inoltre
non spiega nulla. No, l’origine di questo nero deve essere cercata più a
monte, nella stessa Europa, e più specificamente in Scozia.
I college britannici hanno in effetti giocato un ruolo determinante nella
nascita e nello sviluppo dello sport moderno nel corso della seconda metà
del XIX secolo; e senza dubbio i college scozzesi ancor più di quelli inglesi.
Negli anni 1860-1880, nelle competizioni tra college, era consuetudine che
una squadra in bianco ne affrontasse una in nero, come negli scacchi. Il
rosso e il blu erano più rari; il giallo, il verde e il viola praticamente
inesistenti. Sapendo quale ruolo essenziale abbiano giocato gli emigrati
scozzesi per lo sviluppo dello sport nelle scuole e nelle università in Nuova
Zelanda, niente vieta di pensare che essi abbiano portato con sé gli stemmi
e le tradizioni sui colori dei loro college e che abbiano fatto della divisa
nera, probabilmente cara ad alcuni di loro, quella della squadra nazionale di
rugby.
Al contrario di quanto si pensa comunemente, la simbologia del colore
nero non è solo negativa. Come tutti gli altri colori, il nero è ambivalente:
triste, inquietante, mortifero da un lato; dignitoso, elegante, virtuoso
dall’altro. Inoltre è il colore dell’autorità, quello dei giudici e dei magistrati.
Anche quello degli arbitri, almeno fino a poco tempo fa. Abbandonando
progressivamente le loro divise nere per quelle a vari colori, gli arbitri
hanno perso buona parte della loro autorità. I rugbisti neozelandesi, invece,
hanno intelligentemente conservato la loro e sono restii ad abbandonarla.
Associata alla terrificante haka, li rende praticamente invincibili, o
perlomeno mette gli avversari in una situazione di inferiorità fin dal calcio
d’inizio. Come potrebbero i Bianchi, i Verdi o i Blu battere gli All Blacks?
Il lessico e lo spettro
(febbraio 2016)
Sia ringraziata l’École nationale supérieure de chimie che mi accoglie ogni
venerdì mattina per il mio seminario. Da qualche anno, l’affluenza è tale
che l’École pratique des hautes études non può più ospitarmi alla Sorbonne
e deve sollecitare la benevolenza di istituzioni amiche che dispongono di un
auditorium di grandi dimensioni. È il caso dell’École nationale supérieure
de chimie, e per me è ancora più emozionante perché qui ha insegnato mia
madre negli anni Sessanta, prima di entrare al CNRS, dove ha terminato la
propria carriera dopo averla iniziata come farmacista vent’anni prima. Mi
ricordo quanto fosse agitata a parlare davanti a un centinaio di studenti e
come preparasse a lungo ognuna delle sue lezioni di biochimica.
Questa mattina, attraversando il parcheggio, sono incuriosito dalla
carrozzeria di una piccola automobile Opel che vedo per la prima volta: la
tinta è singolare, e sono del tutto incapace di trovare il termine che potrebbe
definirne la sfumatura. Tanto più che quest’ultima, a metà tra beige, rosa e
dorato, è particolarmente sgradevole. Non ho il tempo di fermarmi ma mi
riprometto di tornare a fine mattinata con qualche studente per il quale lo
spettacolo di un simile veicolo costituirà certamente una proficua sessione
di esercizio pratico: chi potrà dirmene il nome?
Due ore dopo, siamo una dozzina a circondare la piccola automobile
mostro, sotto gli sguardi sospettosi di colleghi e studenti di chimica: in
quest’università che non è la nostra, noi storici del Medioevo, abbiamo
fama di essere gente strana, più o meno incontrollabile. Anche se tutti i miei
studenti sono d’accordo nel trovare volgare il colore della carrozzeria,
nessuno è in grado di designarlo con un solo vocabolo. Ne occorrono molti
per cercare di definirlo esattamente: ‘champagne rosé metallizzato’ ci
sembra abbastanza corretto ma esprime una sfumatura un po’ troppo chiara
e troppo elogiativa rispetto alla realtà; ‘crema di vaniglia e mandorle andata
a male’ sembra meglio, ma non prende in considerazione la sfumatura
leggermente rosata dell’insieme. Alla fine, ci accordiamo per
un’espressione che mette insieme la tinta e la bruttezza di una simile
carrozzeria: ‘vomito di pioggia di rose appassite’. I contemporanei di Luigi
XV avrebbero apprezzato una formula simile.
Questo piccolo e divertente esercizio collettivo mi ricorda un’espressione
che ho più volte incontrato nei documenti d’archivio della fine del
Medioevo e dell’inizio dell’epoca moderna: estrange couleur (colore
alieno). È usata dai notai che redigono un inventario di oggetti preziosi o di
guardaroba e che non dispongono di un vocabolario che permetta loro di
indicare con precisione la colorazione che hanno sotto gli occhi. Piuttosto
che creare un neologismo – vocabolo semplice o sintagma complesso – che
rischierebbe di non essere capito, preferiscono ammettere il loro imbarazzo:
estrange couleur sembra per loro la formula più onesta. È possibile che
questo imbarazzo derivi dal divario esistente tra il lessico di cui
dispongono, lessico interamente costruito sulla base della classificazione
aristotelica dei colori (bianco – giallo – rosso – verde – blu – viola – nero),
e le sfumature di colore che esaminano, le quali, a seconda
dell’illuminazione, si collocano nello spettro cromatico (viola – indaco –
blu – verde – giallo – arancione – rosso). Le due classificazioni mal si
combinano soprattutto quando una tinta si situa tra il verde e il giallo o tra il
rosso e il blu: non esistono parole che possano dar loro un nome. In
quest’ultimo caso, anche un termine come ‘viola’ non sarebbe appropriato:
in quest’epoca, indica un tono intermedio tra blu e nero e non tra rosso e
blu.
La nostra difficoltà a dare un nome al colore dell’orrenda vetturetta forse
ha la stessa origine: il divario esistente tra lessico e spettro. La scoperta di
quest’ultimo da parte di Newton, nel 1666, è stata certamente una
rivoluzione e ha fatto nascere un nuovo ordine scientifico dei colori –
ordine sul quale si fonda ancora oggi la scienza –ma non ha cambiato il
vocabolario che descrive questi ultimi nelle lingue europee. Il lessico e la
scienza non vanno di comune accordo.
Tavolozza calvinista
(marzo 2016)
Con il team dei Beaux Livres delle Èditions du Seuil – per me come una
seconda famiglia – apporto gli ultimi ritocchi all’iconografia del mio libro
Rosso. Storia di un colore (Ponte alle Grazie, 2016), che deve uscire il
prossimo ottobre. Come per il precedente volume della serie, Verde. Storia
di un colore (Ponte alle Grazie, 2013), vorremmo finire l’opera con
l’immagine di una diva vestita con un abito colore del titolo. La nostra
scelta cade su Marilyn Monroe: le fotografie che la mostrano in abito rosso
sono molte, tutte una più seducente dell’altra. Ma sorge un interrogativo: le
Èditions du Seuil potranno permettersi i diritti richiesti per riprodurre una
tale immagine? Questi diritti sono certamente molto cari, magari
spropositatamente cari.
Ci torna in mente in effetti la delusione relativa all’opera Vert, tre anni
prima. Avevamo scelto una splendida e rara fotografia di Ava Gardner in
abito verde, ma il prezzo richiesto per la riproduzione superava di molto il
budget di una grande casa editrice. Inoltre, per ragioni misteriose, la
diffusione di questa foto magnifica era vietata negli Stati Uniti e in Canada,
il che poneva un problema per la versione del libro in inglese. Abbiamo
dovuto ripiegare su una fotografia molto meno costosa – ma altrettanto
incantevole – di Jane Fonda in abito verde seduta su un divano verde.
Questa bella immagine era stata addirittura utilizzata come copertina
dell’edizione americana del libro. Che cosa accadrà oggi con Marilyn?
Con nostra grande sorpresa, il prezzo richiesto è assolutamente
ragionevole, e il suo seducente vestito rosso potrà senza problemi giuridici
e finanziari chiudere il libro. Meno male!
Queste disavventure editoriali possono sembrare aneddotiche ma non
sono prive di interesse per la storia culturale: il verde – che per molto tempo
è stato così difficile da fissare, da fotografare e da riprodurre – costa più
caro del rosso, ancora e sempre; quanto ad Ava Gardner, contrariamente a
Marilyn, resta una diva inaccessibile, anche diversi anni dopo la sua morte.
Troppo bella? Troppo fiera? Troppo mora? Troppo verde?
Intermezzo ad Arcachon
(luglio 2016)
Idiozia a colori
(agosto 2016)
Il mio libro Rouge. Histoire d’une couleur è appena stato pubblicato dalle
Éditions du Seuil. Le traduzioni in inglese e in italiano sono uscite lo stesso
giorno, la traduzione in tedesco è ritardata di qualche mese. L’opera è
magnifica per la qualità della stampa e l’abbondanza dell’iconografia.
Quanto al testo…
Sarei incline a pensare che questo lavoro rappresenti per me la
conclusione di un’impresa iniziata quasi vent’anni fa: la storia dei colori in
Occidente, dal Paleolitico ai giorni nostri, nell’insieme dei suoi aspetti, dal
lessico ai simboli, passando per le consuetudini sociali, le conoscenze
tecniche, le teorie scientifiche, le morali religiose e le creazioni artistiche.
Bleu è apparso nel 2000, Noir nel 2006, Vert nel 2013, Rouge nel 2016. Un
progetto di lungo respiro, tanto più che prima della pubblicazione di questi
quattro libri, per molti anni, ho dedicato alla storia dei colori la maggior
parte dei miei seminari all’École pratique des hautes études e all’École des
hautes études en sciences sociales; e che a monte di questi seminari ci sono
tre o quattro decenni di ricerca. Dovrei fermarmi!
Tuttavia, il mio editore non la pensa così: l’insieme non gli sembra
completo. Di certo non si aspetta che consacri un intero volume al bianco;
ne ho a lungo parlato nel volume sulla storia del Noir. Stessa cosa, dal mio
punto di vista, vale per il grigio, il marrone, il rosa, l’arancione e il viola:
difficile dedicare loro un libro intero perché non sono colori primari; la loro
storia è decisamente meno ricca e la loro simbologia più limitata di quella
del blu, del nero, del verde e del rosso. Di sicuro. Ma manca il giallo! Il
giallo che credevo di poter evitare. Non che detesti questo colore, anzi, ma
cinquant’anni di consultazione di documenti europei sulla storia dei colori
mi hanno insegnato che questi ultimi, dall’Antichità fino ai giorni nostri,
non raccontano granché sul giallo. Come scrivere un libro fatto sulla
falsariga dei precedenti: Jaune. Histoire d’une couleur? La documentazione
è frammentaria e molto disomogenea.
Sono perciò reticente (e, lo confesso, un po’ esausto). Ho anche paura di
ripetermi, di continuo. Quando analizzo, per esempio, l’atteggiamento ostile
della Riforma protestante verso i colori che ritiene indecenti o immorali
perché troppo vistosi, mi è difficile trovare argomenti diversi quando parlo
di volta in volta del verde, del rosso o del giallo: tre colori che hanno
scatenato nei grandi riformatori del XVI secolo, sia calvinisti che luterani,
una vera e propria cromofobia. Se dedico un intero libro al giallo, dovrò
necessariamente riprendere il caso, oltre a un gran numero di altri già
analizzati. Cosa fare? Esito. Ma sono vigliacco e non so dire di no.
Per questo motivo, alla fine, mi sono lasciato convincere. Un po’ per
debolezza ma anche perché anch’io capisco che la serie è incompleta.
Esistono sei colori ‘di base’ nella cultura occidentale: rosso, bianco, nero,
verde, blu e giallo. Devo quindi scrivere quest’ultimo libro e, per farlo,
iniziare a raccogliere idee e documenti. Visto che il mio editore mi ha
chiesto di scrivere un riassunto di una o due pagine che, nei saloni e nelle
fiere del libro, potrebbe sedurre qualche editore straniero interessato a una
coedizione, ecco – in una sorta di anteprima – quel che ho redatto per
annunciare questo prossimo libro:
‘Nelle società europee contemporanee, il giallo è un colore discreto, poco
presente nella vita quotidiana e indebolito sul piano simbolico. Non è
sempre stato così. I popoli dell’Antichità vedevano nel giallo un colore
quasi sacro, simbolo di luce, di calore, di ricchezza e di prosperità. I Greci e
i Romani gli attribuivano un ruolo importante nei riti religiosi, mentre i
Celti e i Germani lo associavano all’oro e al sole. In Europa, il declino del
giallo risale al Medioevo, che ne ha fatto un colore ambivalente. Da un lato
il giallo cattivo, quello dello zolfo demoniaco e della bile amara: è segno di
menzogna, avarizia, tradimento, a volte malattia o follia. Il giallo è anche il
colore dei falsari, dei cavalieri cattivi, dei traditori, di Giuda e di Lucifero.
La stella gialla, triste ricordo, si riallaccia a questa tradizione negativa. Ma
dall’altro lato, il giallo buono, quello del miele e dell’oro, segno di gioia,
piacere e abbondanza. In termini cromatici questi due gialli si esprimono in
modo diverso: il primo con un giallo limone; il secondo con un giallo più o
meno arancione, senza tuttavia tendere al rosso, colorazione presa spesso in
senso peggiorativo e più vicina al rosso che al giallo.
‘Con il passare dei secoli, questa simbologia medievale del giallo non è
affatto cambiata. Ancora oggi, il giallo che tende al verde è spesso percepito
come acido, pericoloso o tossico; porta in sé qualcosa di malsano o di
velenoso. Al contrario, il giallo che si avvicina all’arancione è sano, tonico
e benefico, come tutti i frutti di questo colore e le vitamine che si supponga
contengano. L’oro e l’arancione sembrano essersi fatti carico dei buoni
elementi del giallo, lasciando alle altre sfumature gli aspetti negativi.
‘In altre parti del mondo le cose sono diverse. La simbologia dei colori
non è affatto universale, e ciò che vale per l’Europa non vale
necessariamente per l’Asia, l’Africa o il Sudamerica. In Asia, per esempio, i
pigmenti gialli (ocra, orpimento) e i coloranti gialli (zafferano, curcuma,
erba guada) sono abbondanti. Per questa ragione, lì è stato a lungo più facile
dipingere o tingere con questo colore di quanto lo fosse in Europa, e
presentare così una varietà più ricca e diversificata di gialli. Anche per
questo tale colore è quasi sempre interpretato in senso positivo. Nell’antica
Cina, per esempio, i vestiti gialli erano riservati all’imperatore, che stava al
centro della Terra, come il Sole al centro del cielo. In India, qualunque sia
la sfumatura, il giallo è fonte di felicità, specialmente in ambito coniugale e
familiare: indossare un po’ di giallo allontana le forze del male. Soprattutto,
il giallo è il colore del buddismo, i cui templi sono indicati da un segno di
questo colore sulle porte. Del resto, Buddha aveva lui stesso esaltato il
giallo, raccomandando di tingere le stoffe e gli abiti con lo zafferano e
condannando l’indaco.
Oggi le differenze tra i continenti rimangono ma sono meno marcate di
un tempo. Nella maggior parte delle culture, il giallo resta un colore
associato alla luce e al sole, un colore che si vede da lontano e che pare
caldo e sempre in movimento, come le palline da tennis che, da una
quarantina d’anni a questa parte, sui campi del mondo intero, sono di questo
colore’.
Bisogna ora scrivere un libro voluminoso e colto intorno a queste poche
idee. Compito quasi sovrumano.
Dipartimenti
(novembre 2016)
Gli amici da cui vado a cena questa sera hanno due bambini: otto e dieci
anni. Ho già preparato la scatola di colori (tempere) che regalerò loro:
militante del colore, regalo a tutti i bambini tra i sei e i dodici anni una
confezione di colori; a mio avviso è il più bel dono che io possa fare. Ne ho
già parlato più volte. Ma oggi ho bisogno di un secondo regalo. Nel grande
magazzino in cui mi trovo, esito. Vorrei portare un oggetto poco
ingombrante e silenzioso, che abbia qualche virtù pedagogica ma che non
abbia niente a che fare con un videogioco o un computer. In questo campo,
ammetto di essere all’antica. Alla fine opto per un puzzle che rappresenta i
dipartimenti francesi, ricordandomi quanto mi piacesse rimettere insieme i
novanta o novantuno pezzi di quello che mi era stato regalato per i miei otto
anni. Era di legno, grande, e per ogni dipartimento erano indicati il nome in
lettere maiuscole, la prefettura (a quei tempi si diceva ‘capoluogo di
dipartimento’) in minuscolo tondo e le sottoprefetture in corsivo. Qualche
mese dopo, conoscevo a memoria le quattrocentocinquantaquattro
sottoprefetture francesi e le sapevo indicare su una cartina. Non le ho
dimenticate e so farlo ancora oggi. Del resto, mia nonna Louise, morta a
quasi cent’anni nel 1983, lo sapeva fare ancora alla vigilia della sua morte,
anche se aveva imparato quella geografia amministrativa della Francia
quasi un secolo prima, alle elementari.
Anche se un po’ desueto, l’oggetto che ho comprato è diverso dal mio
antico puzzle: non di legno ma di plastica, meno grande e per ogni
dipartimento indica solo il nome e il numero di immatricolazione, non le
prefetture né le sottoprefetture! Peccato. Ma almeno, trattandosi di un
puzzle, i bambini impareranno a mettere i dipartimenti al posto giusto, gli
uni accanto agli altri. Per farlo, si potranno aiutare con i colori. Ce ne sono
cinque: rosso, giallo, blu, verde e viola. Sono colori piuttosto vivaci, mentre
sul puzzle della mia infanzia erano più o meno pastello per far sì che
risaltassero bene i nomi scritti in nero. Li vedo ancora: rosa, giallo pallido,
verde pallido, malva e arancione. In entrambi i casi, comunque, chi lo ha
ideato ha rispettato la tacita regola secondo la quale due dipartimenti dello
stesso colore non possono toccarsi. Un problema di ripartizione complesso,
che si basa su una formula matematica che non conosco (bisogna dire
‘equazione’ in questo caso?) ma che mi impressiona. Nel caso della Francia
metropolitana (cioè la Francia europea, che esclude dipartimenti e territori
d’oltremare, N.d.T.), divisa oggi in novantacinque dipartimenti di forma
molto diversa, la soluzione è relativamente facile con cinque colori ma lo
sarebbe molto meno con quattro.
Per quanto riguarda la Corsica, lontana dalle altre aree, in questo puzzle è
rappresentata da un unico pezzo bicromatico (in effetti è divisa in due
dipartimenti). Curiosamente è colorata in due colori assenti sul continente:
rosa e arancione. Chi saprebbe dire perché? (Non mi ricordo di un pezzo
che rappresentasse la Corsica nel puzzle della mia infanzia.)
Mi piacciono i dipartimenti e mi fa sempre piacere vedere agli Archivi
nazionali, a Parigi, nell’anticamera del direttore, il grande tavolo sul quale,
tra il dicembre 1789 e il marzo 1790, è stata fatta la prima suddivisione
(sulla base del progetto già in cantiere sotto l’Ancien Régime). Le
discussioni erano state aspre, e la nuova geografia amministrativa più volte
rimaneggiata. Invece non provo alcuna simpatia per le regioni,
raggruppamenti artificiali, contrari alla storia, più volte rigettati dal voto
popolare a partire dal 1969, ma ciononostante imposti dai nostri governanti.
Siamo arrivati oggi a tredici regioni, molte delle quali hanno nomi
grotteschi. Tredici: un numero dalla simbologia un po’ inquietante e dalle
virtù pedagogiche quasi inesistenti, per lo meno nella forma di un puzzle.
Se comunque esistesse un oggetto simile, vedrei bene la Bretagna in blu, la
Normandia in rosso e l’Occitania in giallo. Quanto al resto… Come si fa ad
assegnare un colore a regioni che si chiamano Alvernia-Rodano-Alpi,
Grand Est o Alta Francia?
Definire il colore
(dicembre 2016)
Se ci chiedessero «che cosa significano le parole rosso, blu, nero, bianco?» potremmo di certo
indicare immediatamente certe cose che hanno quei colori, ma la nostra capacità di spiegare i
significati di queste parole non va oltre. (Osservazioni sui colori, I, 68)
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