Sei sulla pagina 1di 24

Il colle degli impiccati

José Maria de Eça de Queiró s

2012-12-01T23:00:00+00:00
Le Storie

In copertina: Anton Van Dyck,Ritratto equestre del marchese Anton Giulio Brignola-Sale,
Genova, Palazzo Rosso.
Titolo originale: O Defunto
Traduzione dal portoghese di Giuliana Segre Giorgi
© 1992 Lindau s.r.l.
corso Re Umberto 37 - 10128 Torino
Seconda edizione: gennaio 2002
ISBN 978-88-6708-060-1

José Maria de Eça de Queiró s


IL COLLE DEGLI IMPICCATI
a cura di Giuliana Segre Giorgi

Capitolo primo
Nell’anno 1474, che fu così ricco di grazie divine per tutta la cristianità , regnando in
Castiglia el-rei Enrico IV, venne ad abitare nella città di Segovia, dove aveva ereditato case e
un orto, un giovane gentiluomo di assai nitido lignaggio e gentile aspetto, che si chiamava
don Rui de Cardenas. Quella casa, che ereditava da uno zio, arcidiacono e professore
all’università di Coimbra, si trovava ben accosto e sotto l’ombra silenziosa della chiesa di
Nossa Senhora Do Pilar: e proprio di fronte, al di là del sagrato, dove cantavano i tre
zampilli di un’antica fontana, c’era il cancello del tetro palazzo di don Alonso de Lara,
ricchissimo nobiluomo dalle maniere poco cordiali, che, ormai in età matura e con la
chioma quasi completamente ingrigita, aveva sposato una fanciulla celebre in tutta la
Castiglia per il candore dell’incarnato, capelli color di chiaro sole, e collo di cigno reale. Don
Rui era stato per l’appunto battezzato sotto la protezione della Madonna del Pilar, e ne era
rimasto sempre un devoto e fedele osservante, sebbene, essendo di temperamento allegro
e impetuoso, lo attraessero le armi, la caccia, le feste galanti, e persino a volte una serata
chiassosa in taverna con dadi e boccali di vino. Per devozione e per le facilitazioni
consentitegli da questa santa vicinanza, da quando si era trasferito a Segovia aveva preso la
pia abitudine di rendere omaggio tutte le mattine all’ora della prima alla sua Divina
Madrina per chiederle grazia e benedizione con tre Ave Maria.
All’imbrunire poi, anche dopo qualche gagliarda scorreria per campi e per monti con falchi
o levrieri, vi ritornava ancora, per la salutazione del vespro, a mormorare soavemente un
Salve Regina.
Tutte le domeniche comprava sul sagrato da una fioraia mora un mazzo di giunchiglie, o di
garofani o semplicemente di rose che distribuiva amorevolmente con garbo e gran cura
davanti all’altare della Madonna.
In questa veneranda chiesa del Pilar si recava pure tutte le domeniche donna Leonor, la
tanto celebrata e incantevole moglie del signor De Lara, accompagnata da una arcigna
governante, che aveva gli occhi più aperti e più fissi di quelli di una notturna civetta, e da
due robusti staffieri che la scortavano e la presidiavano come due torri. Era talmente geloso
questo signor don Alonso, che era soltanto perché glielo aveva severamente ordinato il
confessore e per timore di offendere la Madonna, la sua vicina, che permetteva questa visita
fugace; e lui rimaneva a spiare ansiosamente tra le stecche di una gelosia i movimenti di lei
e la durata della permanenza. Tutti i lenti giorni della lenta settimana la signora donna
Leonor li passava nel chiuso del palazzo di granito nero cinto da inferriate e non aveva, per
distrarsi e respirare almeno nelle ore calde dei meriggi estivi, altro che un angolo di
giardino verde scuro, incassato tra muri così alti, che al di là se ne vedeva emergere a mala
pena qualche cima di triste cipresso. Ma quella breve sosta presso la Madonna del Pilar
bastò a don Rui per innamorarsi di lei, follemente, una mattina di maggio, quando la vide in
ginocchio dinnanzi all’altare sotto un raggio di sole, aureolata dei suoi capelli d’oro, con le
lunghe ciglia abbassate sul libro d’ore e il rosario pendente tra le dita sottili, morbida e
flessuosa e tutta bianca, di un candore simile a quello di un giglio dischiuso nell’ombra, più
bianca in mezzo al pizzo nero e le pieghe nere delle sete sparse intorno al suo corpo pieno
di grazia, rigide pieghe sulle lastre di pietra della cappella, che erano antiche pietre tombali.
Quando, dopo un attimo di turbamento e di deliziosa emozione egli s’inginocchiò , fu meno
per la sua Divina Madrina la Vergine del Pilar, che per quella straordinaria apparizione, di
cui non conosceva né il nome né la vita, ma soltanto che per lei era pronto a dare vita e
nome se ella avesse potuto concedersi per così dubbioso prezzo. Balbettando con ingrata
fretta le tre avemarie con cui ogni mattina faceva la sua salutazione a Maria, prese il
cappello, ridiscese in punta di piedi la sonora navata e si fermò sul portale, ad attenderla in
mezzo ai mendicanti e ai lazzaroni che si spidocchiavano al sole. Ma quando, dopo un
indugio, durante il quale don Rui sentì nel cuore un inusitato batter d’ansietà e di timore, la
signora donna Leonor passò e si fermò a bagnarsi le dita nell’acquasantiera di marmo, i
suoi occhi, sotto il velo abbassato, non si levarono su di lui. Con la governante dagli occhi
molto aperti incollata alla gonna e in mezzo ai due staffieri come tra due torri, attraversò
lentamente il sagrato pietra a pietra godendo indubbiamente come una carcerata l’aria
libera e il sole schietto che l’inondavano. E grande fu lo stupore di don Rui quando la vide
penetrare sotto la buia arcata tra due pesanti pilastri su cui gravava il palazzo, e scomparire
attraverso una porta stretta coperta di catenacci. Era dunque quella la tanto celebrata
donna Leonor, la bellissima e nobile signora De Lara...
Allora ebbero inizio sette lunghi giorni, che trascorse appollaiato su uno dei sedili di pietra
di una sua finestra a scrutare quella nera porta coperta di ferro come se fosse stata la porta
del Paradiso e di lì dovesse comparire un angelo ad annunciargli la Beatitudine. Finché
finalmente giunse la tardiva domenica: e nell’attraversare il sagrato all’ora della prima,
mentre si udiva il rintocco delle campane, con un mazzo di garofani gialli in mano per la sua
Divina Madrina, incontrò donna Leonor che si stava affacciando tra i pilastri del buio
portico, bianca, dolce e pensosa, come la luna di tra le nuvole. Quasi gli caddero di mano i
garofani in una deliziosa agitazione che gli fece ansimare il petto come e più di un’onda di
mare, mentre tutta l’anima in tumulto gli sgorgava fuori attraverso lo sguardo con cui la
divorava. E anch’essa alzò gli occhi su don Rui, ma erano occhi tranquilli, occhi sereni, dai
quali non trapelava curiosità e neppure la consapevolezza di uno scambio di sguardi con
altri occhi tanto accesi e offuscati dal desiderio.
Il giovane gentiluomo non entrò in chiesa, per il pio timore di non prestare alla sua Divina
Madrina l’attenzione che certamente le avrebbe rubato completamente colei che era solo
umana, ma già padrona del suo cuore, e in esso divinizzata.
Attese impazientemente davanti all’ingresso in mezzo ai mendicanti e mentre i garofani
appassivano per il calore delle sue mani ardenti gli sembrava ben lento il rosario che essa
recitava. Donna Leonor stava ancora ripercorrendo la navata, che già lui sentiva nell’anima
il dolce fruscio delle pesanti sete che strisciavano sul pavimento dietro di lei. La bianca
signora passò – e il medesimo sguardo distratto, disattento e calmo, che essa posò sui
mendicanti e sul sagrato, lo lasciò scivolare su di lui, o perché non comprendesse come mai
quel giovane a un tratto si fosse fatto tanto pallido, o perché non lo distingueva ancora dalle
cose e dalle forme indifferenti.
Don Rui si ritirò precipitosamente con un profondo sospiro; e giunto in camera sua
accomodò devotamente davanti all’immagine della Vergine i fiori che in chiesa non aveva
dedicato al suo altare. La vita divenne allora per lui un’amarezza continua per il fatto di
avvertire così fredda e disumana quella donna, unica tra le donne, che aveva catturato e
reso savio il suo cuore volubile e incostante. Sperava ancora, e pur prevedendo benissimo
un disinganno, prese a far la ronda attorno ai muri molto alti del giardino – oppure,
imbacuccato nel suo mantello, con una spalla appoggiata a una cantonata, a rimanere fermo
per lunghe ore a contemplare le inferriate di quelle gelosie nere e spesse come di una
prigione. Ma i muri non si aprivano e dalle grate non filtrava il minimo barlume di
promettente luce! L’intero palazzo sembrava una tomba: lì giaceva una donna insensibile,
anzi, al di là di quelle fredde pietre c’era un freddo cuore. Per sfogarsi compose con
riverente cura, vegliando nottetempo sulle carte, strofe gemebonde, che non lo
rincuoravano. Dinnanzi all’altare della Madonna del Pilar, sulle medesime pietre su cui
l’aveva vista inginocchiata, a sua volta si metteva in ginocchio e rimaneva lì, senza
pronunciare orazioni, immerso in un fantasticare dolce-amaro, in attesa che il suo cuore si
rasserenasse e si rianimasse sotto l’influenza di Colei che di tutto consola e tutto placa. Ma
ogni volta si rialzava più desolato che mai, senz’altra sensazione se non di quanto erano
fredde e dure le pietre su cui si era inginocchiato. Il mondo intero gli pareva non contenere
altro che durezza e gelo.
In altre luminose mattine domenicali incontrò di nuovo donna Leonor: ma gli occhi di lei
erano ancor sempre disattenti e come immemori, oppure, quando incrociavano i suoi, era
con tanta naturalezza, erano tanto sgombri da qualsiasi emozione, che don Rui li avrebbe
preferiti offesi e balenanti d’ira o superbamente distolti con superbo disdegno. Certamente
donna Leonor ormai lo conosceva – ma così lo conosceva anche la fioraia mora accoccolata
davanti al suo cesto presso la fontana; o anche i poveri che si spidocchiavano al sole di
fronte al portale della Madonna. Né don Rui poteva ormai pensare che essa fosse fredda e
disumana. Era soltanto superbamente remota, come una stella che nel firmamento si volge
e rifulge, senza sapere che in basso, in un mondo che essa non distingue, occhi che essa non
suppone la contemplano, l’adorano e le affidano il governo del proprio destino e della
propria sorte.
Allora don Rui pensò : «Lei non vuole, io non posso: è stato un bel sogno ed è finito, che la
Madonna ci abbia in grazia tutti e due!».
E siccome era un gentiluomo molto discreto, dopo che ebbe accettato che essa fosse
davvero così irriducibile nella sua indifferenza, non la cercò più , e neppure levò mai più gli
occhi verso le grate delle sue finestre, e rinunciò persino a entrare in chiesa quando
casualmente dal portale la scorgeva inginocchiata, con la testa dorata, tanto piena di grazia,
china sul libro d’ore.

Capitolo secondo
La vecchia governante aveva gli occhi aperti e fissi come quelli di una notturna civetta e
fece presto a correre dal signor De Lara a riferire che un ardito giovanotto, di bell’aspetto,
che era il nuovo proprietario della vecchia dimora dell’arcidiacono, si aggirava
continuamente sul sagrato e si appostava davanti alla chiesa per fare il cascamorto alla
signora donna Leonor. Ben lo sapeva già e con quanta amarezza il geloso nobiluomo, dato
che quando dalla propria finestra spiava come un falco l’incantevole dama nel recarsi in
chiesa, aveva osservato gli andirivieni, gli indugi, le occhiate assassine di quel bel
vagheggino e si era inviperito come una bestia. Da quel momento, infatti, la sua
occupazione precipua era stata odiare don Rui, l’impertinente nipote del canonico, che
osava innalzare il proprio basso desiderio fino alla eccelsa signora De Lara. E adesso lo
teneva continuamente sotto osservazione per mezzo di un domestico – e così era al
corrente degli amici coi quali andava a caccia o a divertirsi, e persino di chi gli tagliava le
giubbe, e persino di chi gli affilava la spada, insomma della sua vita minuto per minuto.
Ancora più ansiosamente, poi, vigilava su donna Leonor – ogni suo gesto, fino agli
atteggiamenti più fuggevoli, i silenzi e le chiacchiere con le donne di casa, i momenti di
distrazione quando era intenta a ricamare, il modo in cui guardava assorta gli alberi del
giardino e il colore che aveva al ritorno dalla chiesa... Ma tanto inalterabilmente serena,
nella pace del cuore, si mostrava la signora donna Leonor, che neppure la gelosia più
immaginativa di colpe avrebbe potuto trovare una macchia in quella candida neve.
Doppiamente acre diventava allora il rancore di don Alonso verso il nipote del canonico,
che aveva osato concupire quella purezza, quei capelli color di chiaro sole, quel collo di
cigno reale che erano solo suoi, per la splendida gioia della sua vita. E quando andava su e
giù per la tetra galleria del suo palazzo, sonora sotto il soffitto a volta, infagottato in una
vecchia zimarra orlata di pelliccia, la punta della barba brizzolata protesa in avanti, la
chioma arruffata penzolante dietro e a pugni stretti, stava sempre rimuginando la
medesima bile:
«Ha insidiato la sua virtù , ha attentato al mio onore... È colpevole due volte, merita due
morti!».
Ma il suo furore per poco non si frammischiò a un tal quale terrore, quando venne a sapere
che don Rui non aspettava più donna Leonor sul sagrato, che non faceva più la ronda
d’amore attorno ai muri del palazzotto, che non si infilava più in chiesa quando c’era lei a
pregare alla domenica; e che anzi si dimostrava così totalmente indifferente, che una
mattina, trovandosi proprio accanto al portale e avendo sentito benissimo il cigolio della
porta da cui sarebbe comparsa la signora, era rimasto voltato dall’altra parte, non si era
mosso d’un dito e aveva continuato a ridere in compagnia di un giovanotto biondo che gli
stava leggendo un papiro. Un’indifferenza così ben affettata serviva certamente soltanto
(pensò don Alonso) a nascondere una qualche ben iniqua intenzione! Che cosa tramava
dunque l’abile impostore? Nell’animo del violento nobiluomo tutto si esacerbò – gelosia,
rancore, diffidenza, amarezza per il proprio aspetto brutto e vecchio. Dietro la calma di
donna Leonor sospettò astuzia e simulazione – e immediatamente le vietò di andare a
rendere omaggio alla Madonna del Pilar. Al mattino, come al solito, correva in chiesa a dire
il rosario recando le discolpe di donna Leonor – «que no puede venir (mormorava in
ginocchio davanti all’altare) por lo que sabeis, virgem purissima!». Inoltre controllò e
rinforzò tutti i tetri chiavistelli del palazzo.
Al capezzale del vasto letto, accanto al tavolino con la lampada, un reliquiario e il bicchier di
vin caldo con garofano e cannella per ritemprargli le forze, risplendeva sempre un suo gran
spadone sguainato. Eppure, malgrado tante precauzioni, dormiva appena, si raddrizzava
ogni momento di soprassalto dal fondo dei cuscini, e abbrancando la signora donna Leonor
con mano selvaggia e impaziente le opprimeva il petto e intanto ruggiva a bassa voce,
colmo d’ansia: «Dimmi che vuoi bene solo a me!...». Poi, quando cominciava ad albeggiare,
eccolo appollaiato come un falco a guatare le finestre di don Rui. Ma non lo avvistava più ,
adesso, né sulla porta della chiesa all’ora della messa, né a cavallo di ritorno dalla
campagna al rintocco dell’Ave Maria.
E proprio perché gli appariva come scomparso dai posti e dai percorsi abituali sospettava
maggiormente che fosse penetrato nel cuore di donna Leonor.
Alla fine, una notte, dopo un gran passeggiare su e giù sull’impiantito della galleria
rimuginando sordamente sospetti e rabbia, chiamò l’intendente e ordinò che si allestissero
bagagli e cavalcatura. Sarebbe partito presto, all’alba, insieme alla signora donna Leonor
per la sua tenuta di Cabril a due leghe da Segovia! La partenza non ebbe luogo di prima
mattina come la fuga di un avaro che va a nascondere lontano il suo tesoro, ma anzi, fu
realizzata pomposamente e senza fretta, e la lettiga rimase in attesa lunghe ore davanti al
portone, con le tendine aperte, mentre un palafreniere faceva passeggiare sul sagrato la
mula bianca del ifidalgo, addobbata alla moresca, e dal lato del giardino la carovana di
bestie da soma maschie, cariche di bauli, legate insieme sotto il sole e le mosche, facevano
rintronare il vicolo con il tintinnar dei sonagli. Così don Rui seppe della spedizione del
signor De Lara e così lo seppe tutta la città .
Per donna Leonor fu una gran gioia, perché amava Cabril, i suoi rigogliosi frutteti, i giardini
sui quali si aprivano, ampie e senza inferriate, le finestre delle sue stanze luminose: là
almeno aveva aria libera, pieno sole, vasi di terracotta da innaffiare, un’uccellaia, e viali di
lauro o di tasso così lunghi, che erano quasi la libertà . Inoltre sperava che in campagna si
alleviassero quelle preoccupazioni che avevano reso negli ultimi tempi così corrucciato e
taciturno il suo signore e marito. Tale speranza, però , non fu soddisfatta, perché in capo a
una settimana il volto di don Alonso non si era ancora rasserenato, anzi era evidente che né
i boschi, né il sussurro di acque fluenti o gli aromi diffusi tra i rosai in fiore, riuscivano a
calmare un’inquietudine tanto amara e profonda. Come a Segovia nella galleria sonora
sotto il soffitto a volta, anche qui marciava, in un andirivieni senza riposo, infagottato nella
sua zimarra, la punta della barba brizzolata protesa in avanti, la gran chioma arruffata
dietro le spalle, e un certo modo di raggrinzare silenziosamente le labbra, come se stesse
meditando qualche cosa di crudele del cui acre sapore godesse in anticipo. Ogni interesse
della sua vita si concentrava ormai su un domestico che galoppava tra Segovia e Cabril e
che lui a volte giungeva al punto di aspettare all’entrata del villaggio accanto al Crocifisso
per poi, quando smontava ansimante da cavallo, ascoltare le notizie che quello
precipitosamente gli dava. Una sera donna Leonor stava recitando il rosario in camera
insieme alle sue cameriste. Il signor De Lara entrò pian piano con un foglio di cartapecora e
una penna piantata nel relativo calamaio d’osso in mano. Con un brusco cenno congedò le
cameriste, che peraltro avevano paura di lui quanto di un lupo. Poi, spingendo uno sgabello
accanto al tavolo, e rivolgendo a donna Leonor un viso al quale aveva conferito un’aria
tranquilla e gentile, come se fosse venuto soltanto per motivi semplici e naturali:
«Signora, vorrei che mi scriveste qui una lettera che ho proprio bisogno di scrivere...».
Essa era talmente abituata all’obbedienza, che, senza la minima preoccupazione o curiosità ,
limitandosi appena ad andare ad appendere al pomo del letto il rosario col quale stava
pregando, sedette sullo sgabello e le sue dita sottili, con molta applicazione affinché la
calligrafia risultasse chiara e perfetta, tracciarono la prima breve riga che il signor De Lara
le aveva dettato e che era: «Mio signore...». Ma quando con tono amaro egli le dettò la
seguente, più lunga, donna Leonor depose la penna, come se quella penna le scottasse le
dita, e, allontanandosi dal tavolo, gridò piena d’angoscia:
«Mio signore, per quale motivo io dovrei scrivere cose simili e così false?...».
Con repentino furore il signor De Lara si cavò dalla cintura un pugnale e glielo fece oscillare
davanti al viso ruggendo sordamente:
«O scrivete quello che vi ordino e che a me conviene, o, per Dio, vi trapasso il cuore!...».
Più bianca della cera della candela che li illuminava, rabbrividendo in tutto il corpo alla
vista del lucido acciaio, con un trepido brivido di tutta la persona, disposta a tutto, donna
Leonor mormorò :
«Per la Vergine Maria, non fatemi del male!... E non vi crucciate, mio signore, perché io vivo
solo per obbedire e servire voi... E adesso disponete pure, io scriverò ».
Allora, aggrappandosi con tutte e due le mani ai bordi del tavolo, su cui aveva posato il
pugnale e schiacciando la fragile e sfortunata donna sotto il crudele lampeggiare dello
sguardo, il signor De Lara dettò , anzi scaraventò giù con voce roca, a brandelli, a spintoni,
una lettera che, una volta finita, ancorché tracciata con una scrittura ben incerta e tremula,
diceva: «Illustre signore, avete compreso molto male, o molto male state ricambiando
l’amore che vi porto, e che a Segovia non vi ho mai potuto dimostrare chiaramente... Adesso
mi trovo qui a Cabril, bruciando dal desiderio di vedervi; e se il vostro desiderio
corrisponde al mio lo potrete realizzare molto facilmente, perché mio marito si è assentato
per recarsi in un’altra proprietà e questa casa di Cabril è proprio aperta e accessibile.
Venite questa notte, entrate dalla porta del giardino e, seguendo il sentiero, superata la
cisterna raggiungerete la terrazza. Qui troverete una scala appoggiata a una finestra della
casa: è la finestra della mia camera dove sarete ben dolcemente accolto da colei che
ansiosamente vi attende...».
«Adesso, signora, firmate col vostro nome, che in fondo è la cosa più importante!»
Lentamente donna Leonor tracciò il proprio nome arrossendo tutta, come se la stessero
spogliando di fronte a una folla.
«Ed ora», le ordinò il marito con voce sempre più cupa e a denti stretti, «indirizzatela a don
Rui de Cardenas!».
Lei osò alzar gli occhi in viso dalla sorpresa per quel nome sconosciuto.
«Avanti!... A don Rui de Cardenas», gridò l’uomo minacciosamente.
Ed essa indirizzò la sua disonesta lettera a don Rui de Cardenas.
Don Alonso si infilò il plico in cintura accanto al pugnale che aveva ringuainato e uscì in
silenzio con la barba ritta cercando di attutire il rumore dei propri passi sulle lastre di
pietra del corridoio.
Lei era rimasta sullo sgabello, le mani abbandonate stancamente in grembo, lo sguardo
perduto nell’oscurità della notte silente, in uno stupore infinito. La morte le sembrava
meno buia della tenebrosa sventura in cui si sentì coinvolta e trascinata! Chi era questo don
Rui de Cardenas, di cui non aveva mai sentito parlare, che non aveva mai attraversato la sua
vita tranquilla, così scarsamente popolata di ricordi e di uomini? Certamente lui la
conosceva, l’aveva incontrata, l’aveva seguita per lo meno con gli occhi dato che sembrava
naturale e perfettamente logico che ricevesse da lei una lettera tanto piena di passione e di
promesse...
Così dunque, un uomo, un giovane senz’altro bennato, nobile forse e cortese, penetrava nel
suo destino bruscamente, guidato dalla mano di suo marito? Anzi quell’uomo si era perfino
infiltrato tanto intimamente nella sua vita, senza che lei se ne accorgesse, che per lui si
apriva nottetempo il cancello del suo giardino, e appoggiata alla sua finestra per farlo salire,
veniva disposta nella notte una scala!... A che scopo?
D’un tratto a questo punto, donna Leonor comprese la verità , la vergognosa verità , che le
strappò di gola un grido angoscioso malamente soffocato. Era una trappola! Il signor De
Lara attirava a Cabril questo don Rui con una magnifica promessa, per acciuffarlo e
ucciderlo senza dubbio, solo e indifeso! E lei, il suo amore, il suo corpo costituivano le
promesse che venivano fatte luccicare davanti agli occhi sedotti del giovane sventurato.
Così suo marito si serviva della sua bellezza, del suo letto, come di una rete dorata in cui
doveva cadere l’incauta preda! Si era mai vista offesa più grande? E per di più quale
imprudenza! Questo don Rui de Cardenas poteva benissimo diffidare, non accettare un
invito così apertamente amoroso, e in seguito mostrare in giro a tutta Segovia, ridendo
trionfante, quella lettera in cui gli offriva il proprio letto e il proprio corpo la moglie di
Alonso de Lara! Ma no! Lo sventurato sarebbe accorso a Cabril – e per morire,
miserabilmente morire nel nero silenzio della notte, senza prete né sacramenti, con l’anima
in preda al peccato d’amore! Per morire, indubbiamente – perché giammai il signor De Lara
avrebbe permesso di vivere all’uomo che aveva ricevuto una tal lettera! Così quel giovane
moriva per amor suo, per un amore che, senza avergli mai regalato piacere, significava già
per lui la morte! Certamente per amor suo – perché un odio tale da parte del signor De
Lara, odio che si nutriva di tanta perfidia e di tanta malafede, non poteva derivare che dalla
gelosia, una gelosia che cancellava completamente qualsiasi senso del dovere sia di
gentiluomo che di cristiano. Aveva certamente sorpreso occhiate, passi, turbamento di
questo signor don Rui, troppo imprudente per eccesso di amore.
Ma come? Quando? Confusamente si ricordava di un giovane che aveva incontrato una
domenica sul sagrato, e che l’aveva aspettata all’entrata della chiesa con un mazzo di
garofani in mano... Quello forse? Aveva un aspetto nobile, era molto pallido con grandi
occhi neri pieni di calore. Era passato – lei non ci aveva neanche fatto caso... I garofani che
aveva in mano erano rossi e gialli... A chi li portava?... Ah! se riuscisse ad avvertirlo, di
mattina presto, all’alba!
Ma come, se a Cabril non c’era un solo domestico o cameriera di cui si potesse fidare! Ma
permettere che una spada brutale trapassasse a tradimento quel cuore che accorreva pieno
di lei, palpitando per lei, colmo della speranza di lei!...
Oh! la corsa affannosa e ardente di don Rui da Segovia a Cabril, con la promessa
dell’incantevole giardino aperto, della scala accostata alla finestra, nell’ambito muto e
protettivo della notte!
Ma davvero il signor De Lara avrebbe fatto collocare una scala sotto la finestra? Senza
dubbio, perché così lo avrebbero potuto ammazzare più facilmente, quel povero, e dolce, e
innocente giovane, nel momento in cui sarebbe stato impegnato nel salire, malfermo su un
fragile scalino, con le mani impedite e la spada a dormire nel fodero... Così dunque la notte
prossima di fronte al suo letto la sua finestra sarebbe stata aperta con una scala appoggiata
al davanzale in attesa di un uomo! E, in agguato nell’oscurità della camera, suo marito che
certamente avrebbe ucciso quell’uomo.
E se invece il signor De Lara avesse aspettato fuori dalla cinta della tenuta e avesse assalito
brutalmente su un viottolo qualunque questo don Rui de Cardenas, e, o per essere meno
agile, o anche per essere meno robusto, nel corso di uno scontro d’armi fosse caduto lui
stesso trafitto, senza che l’altro nemmeno sapesse chi aveva ucciso? E lei lassù , nella sua
camera, all’oscuro di tutto, con tutte le porte aperte e quell’uomo che sarebbe apparso fuori
dalla finestra nell’oscurità della notte tiepida, e il marito che la doveva difendere morto in
fondo a un viottolo... Cosa doveva fare lei, Vergine Santa? Oh! avrebbe certamente respinto
con superbia il temerario giovanotto. Ma di fronte al suo stupore e alla sua collera per il
desiderio deluso! «È chiamato da voi, che sono venuto, signora!» Perché portava sul cuore
la sua lettera, con la sua firma, vergata dalla sua mano. Come palesargli l’imboscata e
l’inganno? Sarebbe stato così lungo da raccontare, in tutto quel silenzio e nella notte
deserta, mentre gli occhi umidi e neri di lui la starebbero supplicando, la starebbero
trapassando da parte a parte... Disgraziata lei se il signor De Lara fosse morto lasciandola
sola e indifesa in quell’immensa casa completamente aperta! Ma quanto disgraziata pure se
quel giovane, chiamato da lei e che l’amava e che incontro a questo amore accorreva
ammaliato, avesse dovuto trovar la morte nel luogo stesso della sua speranza, che era
anche il luogo del suo peccato, e, morto in pieno peccato, fosse precipitato così nella rovina
eterna... Venticinque anni, aveva – se era lo stesso che ricordava, pallido e tanto piacente,
con una casacca di velluto violetto e un mazzo di garofani in mano sulla porta della chiesa a
Segovia.
Due lagrime sgorgarono dagli occhi stanchi di donna Leonor e piegando i ginocchi con tutta
l’anima rivolta al cielo, dove stava incominciando a sorgere la luna, mormorò con infinita
angoscia e fede:
«Oh! Santa Vergine del Pilar, mia Signora, proteggici tutti e due, proteggi noi tutti!...».

Capitolo terzo
All’ora della siesta don Rui stava rientrando nel fresco patio di casa sua, quando da un
banco di pietra all’ombra si alzò un giovane contadinotto, che estrasse da un suo tascapane
una lettera o gliela consegnò mormorando:
«Signor mio, affrettatevi a leggerla, che io devo far ritorno a Cabril da chi mi ha mandato...».
Don Rui aperse il plico e dallo stupore che provò se lo battè sul petto come per
configgerselo in cuore...
Il contadinotto insisteva, inquieto:
«Presto, presto, signore! Non è neppure necessario rispondere. Basta che mi diate una
prova che vi ho consegnato la missiva...».
Don Rui, pallidissimo, fece appena a tempo a togliersi uno dei suoi guanti ricamati in seta, e
già il ragazzo lo ravvoltolava e lo faceva sparire nel tascapane. E stava subito precipitandosi
via sulla punta delle sue lievi scarpe di corda. Con un cenno don Rui lo trattenne ancora un
momento:
«Senti. Che strada fai per tornare a Cabril?».
«La più corta è isolata, solo per gente senza paura: è quella che passa per il Colle degli
Impiccati.»
«Bene.»
Don Rui salì per le sue scale di pietra e giunto nel suo appartamento, senza neanche
togliersi il cappello, lesse di nuovo alla luce della gelosia quel foglio divino, con cui donna
Leonor lo chiamava nottetempo in camera sua, per il possesso totale della sua persona. Ma
tale offerta – dopo una così costante, imperturbabile indifferenza – non lo meravigliava.
Anzi vi riconobbe subito un amore che era molto astuto perché molto forte, di quelli che
con gran pazienza si acquattano di fronte ai pericoli e agli ostacoli, e silenziosamente
preparano l’ora della propria felicità , che sarà anche migliore, più deliziosa per esser stata
predisposta così. Lei, dunque, l’aveva sempre amato fin da quella beneaugurata mattina in
cui i loro occhi s’erano incontrati sul portale della Madonna. E intanto che lui faceva la
ronda attorno ai muri del giardino, maledicendo una freddezza che gli appariva più fredda
di quella di quei freddi muri, lei gli aveva già donato il suo cuore, e, piena di tenacia, con
amorosa accortezza, trattenendo anche il minimo sospiro, tacitando la diffidenza,
preparava la notte radiosa in cui gli avrebbe donato anche il proprio corpo.
Tanta fermezza, tanta ingegnosa raffinatezza nelle faccende d’amore, gliela facevano
apparire ancor più bella e desiderabile!
Con quanta impazienza guardava perciò il sole, che con così scarsa fretta quel pomeriggio si
accingeva a calare dietro ai monti! Irrequieto, chiuso in camera con le gelosie sbarrate per
meglio concentrare la sua felicità , preparava tutto amorosamente per la trionfale impresa:
indumenti raffinati, una giubba di velluto nero impregnata di essenze profumate, pizzi
delicati. Due volte scese nella stalla a verificare se il suo cavallo era ben ferrato e ben
riposato. Sul pavimento fece inarcare avanti e indietro per prova la lama della spada che
avrebbe portato alla cintura... Ma la sua preoccupazione maggiore era la strada per Cabril,
che pure conosceva benissimo, e il villaggio agglomerato intorno al monastero francescano,
e l’antico ponte romano con il suo Calvario, e il sentiero tenebroso che conduceva alla
proprietà del signor De Lara. Ancora nell’ultimo inverno era passato di là mentre andava a
caccia insieme a due amici di Astorga, e, riconoscendo la torre dei Lara, aveva pensato:
«Ecco la torre della mia ingrata!». Come s’ingannava! Era tempo di notte di luna e lui
sarebbe uscito da Segovia silenziosamente per la porta di San Mauro. Un breve galoppo ed
eccolo sul Colle degli Impiccati... Lo conosceva bene del resto, quel sito pieno di tristezza e
di terrore, con i suoi quattro pilastri di pietra dove venivano impiccati i delinquenti, e dove
questi rimanevano poi, sballottati dal vento e rinsecchiti dal sole, fin quando le corde
marcivano e le ossa cadevano a terra bianche e ripulite della carne dal becco dei corvi. Al di
là del Colle c’era il laghetto delle Dame. L’ultima volta che era andato da quelle parti era
stato il giorno di San Matteo Apostolo, quando il podestà e le pie confraternite di carità in
processione vi si recavano per dare una sepoltura sacramentale all’ossame caduto a terra
scarnificato dai rapaci. Di lì in avanti la strada correva, poi, dritta e piana in direzione di
Cabril.
Così rimuginava don Rui la sua fortunata spedizione, mentre il crepuscolo si avvicinava.
Poi, quando fu buio e intorno ai campanili della chiesa incominciarono a roteare i
pipistrelli, e agli angoli del sagrato cominciarono ad accendersi le nicchie con le candele per
i defunti, il coraggioso giovane provò una strana paura, paura per quella felicità che si
approssimava e che gli pareva soprannaturale. Era poi certo che quella donna, di una
bellezza divina, famosa in tutta la Castiglia e più inaccessibile di un astro, sarebbe stata sua,
tutta sua, nel silenzio di un’alcova sicura, tra brevi istanti, quando ancora non si sarebbero
spenti davanti alle immagini delle anime dell’aldilà quei lumi devoti? E che cosa aveva fatto
lui per meritare una ventura così grande? Aveva calcato le pietre di un sagrato, aveva atteso
sulla porta di una chiesa, cercando con gli occhi altri due occhi, che non si alzavano,
indifferenti o disattenti che fossero. Allora, senza rimpianti, aveva abbandonato ogni
speranza... Ed ecco che a un tratto quegli occhi distratti lo cercano, quelle braccia serrate si
schiudono per lui, aperte e nude, e con il corpo e con l’anima quella donna gli grida: «Oh!
sconsiderato, che non mi hai capito! Vieni! Colei che prima ti ha sconfortato adesso ti
appartiene!». Si era mai vista una simile ventura! Così eccelsa, così rara, preziosa,
irripetibile, che certamente, se la legge che governa l’umanità non erra, già al suo seguito si
dovrebbe star approssimando la sventura! E in verità già si stava approssimando – dal
momento che è ben grande sventura sapere che dopo tal ventura, quando all’alba,
emergendo da quelle divine braccia, lui si fosse ritirato a Segovia, la sua Leonor, che era il
bene supremo della sua vita, tanto insperatamente conquistato per un istante, sarebbe
ricaduta subito in potere di un altro padrone! Ma che importa! Venissero pure, dopo,
sofferenze e gelosie! Quella notte era splendidamente sua, il resto del mondo una vana
parvenza, e l’unica realtà quella stanza a Cabril, poco illuminata, dove lei lo avrebbe atteso
con i capelli sciolti! Con impazienza scese le scale e si precipitò sul suo cavallo. Poi, per
prudenza, attraversò il sagrato molto lentamente, con il cappello ben rialzato sulla fronte
come per una passeggiata qualunque a cercar fuori porta la frescura della sera. Non fece
alcun incontro inquietante fino alla porta di San Mauro. Qui un mendicante, accoccolato
nell’oscurità di un’arcata a suonare una monotona fisarmonica, con la sua geremiade chiese
alla Vergine e a tutti i santi che custodissero quel gentil cavaliere sotto la loro dolce e santa
protezione. Don Rui si era fermato per gettargli un’elemosina, ma a un tratto si ricordò che
quella sera non era andato in chiesa all’ora del vespro, a chiedere la benedizione della sua
Divina Madrina. Con un balzo, scese subito da cavallo; perché per l’appunto accanto
all’antica arcata tremolava una lampada che rischiarava un’immagine sacra. Era
un’immagine della Vergine col petto trapassato da sette spade. Don Rui s’inginocchiò , posò
il cappello a terra e giungendo le mani recitò con molto ardore un salveregina. Il volto della
Madonna appariva circonfuso dal giallo lucore della lampada, ed Ella, senza sentire il
dolore delle sette daghe, anzi come se esse le procurassero solo ineffabili diletti, sorrideva
con labbra molto rosse. Mentre pregava, dal vicino convento di San Domenico cominciò a
suonare la squilla di vespro a morto. Dal fondo buio e nero dell’arcata, il mendico,
abbassando il mantice della fisarmonica, mormorò : «Là dentro deve star morendo un
frate!». Don Rui recitò un’Ave Maria per il frate che moriva. La Vergine dalle sette spade
sorrideva dolcemente – il rintocco della campana a morto non era quindi di malaugurio!
Oltre la porta di San Mauro, dopo alcune baracche di fornaciai, la strada andava avanti
stretta e buia tra due alte siepi di agavi. Dietro le colline in fondo a un tenebroso pianoro,
saliva il primo chiarore, languido e giallo, della luna piena, ancora nascosta. E don Rui
procedeva al passo per timore di arrivare a Cabril troppo presto, prima che le domestiche e
i famigli avessero concluso la veglia e il rosario. Perché donna Leonor non gli aveva fissato
l’ora in quella lettera così chiara e pensata?... Ed ecco che la sua immaginazione correva
avanti, irrompeva nel giardino di Cabril, si issava di volata su per la scala promessa: via al
galoppo in una cavalcata affannosa, che sollevava le pietre del selciato sconnesso. Poi
frenava il cavallo ansimante. Era presto, era troppo presto! E riprendeva ad avanzare
penosamente al passo, sentendo nel petto il cuore simile a un uccello in gabbia che cozza
sulle grate.
E così arrivò al Crocifisso, dove la strada si biforcava in due rami quasi paralleli come quelli
di un forcone, e tutti e due si inoltravano nel bosco di pini. A capo scoperto dinnanzi
all’immagine crocifissa, don Rui ebbe un momento di angoscia perché non ricordava quale
delle due strade conduceva al Colle degli Impiccati. E già si era ingolfato nel sentiero più
stretto, quando tra i pini silenziosi apparve una luce che ballonzolava nel buio. Era una
vecchia coperta di stracci, con lunghe chiome sciolte, che si appoggiava a un bordone e
teneva in mano una lucerna.
«Dove porta questa strada?» gridò don Rui.
La vecchia fece ondeggiare più in alto la lampada per osservare l’uomo a cavallo.
«A Xarana.»
Luce e vecchia si dileguarono immediatamente, dissolti nell’ombra, come se fossero
comparse lì solo per avvertire il cavaliere che aveva sbagliato strada... Lui ritornò sui suoi
passi precipitosamente e, contornato il Calvario, galoppò per l’altra strada, che era più
larga, finché nel chiarore emanato dal cielo limpido, scorse i pilastri neri e le nere travi del
Colle degli Impiccati. Allora trattenne le redini e si fermò dritto sulle staffe. Su un poggio
elevato, arido, senza erba né erica, collegati tra loro da un muricciolo, ecco drizzarsi, neri,
enormi sotto la gialla luce lunare, quattro pilastri di granito simili alle quattro pietre
angolari di una casa in rovina. Sopra i pilastri erano appoggiate quattro grosse travi. E dalle
travi pendevano quattro impiccati rigidi e neri nell’aria ferma e muta. Tutto all’intorno era
morto come loro.
Grassi uccelli di rapina dormivano appollaiati sulle travi e al di là brillava livida l’acqua
stagnante della palude delle Dame. Nel cielo la luna era grande e piena.
Don Rui mormorò il Pater noster che ogni cristiano deve a quelle anime scellerate. Poi
incitò il cavallo e stava passando oltre quando, nell’immenso silenzio e nell’immensa
solitudine, si alzò , risuonò , una voce, una voce che lo chiamava, una voce roca e
supplichevole:
«Signore, fermatevi, venite qui!».
Don Rui raccolse bruscamente le redini e drizzandosi sulle staffe lanciò uno sguardo
sbigottito per tutto il sinistro deserto. Ma scorse soltanto il colle dirupato, l’acqua lucente e
muta, le travi, i morti. Pensò che doveva essersi trattato di una qualche illusione notturna
oppure della sfacciataggine di uno spirito maligno errante qualsiasi. E spronò
tranquillamente il cavallo, senza paura e senza fretta, come se si trovasse in una via di
Segovia. Ma dietro di lui la voce riprese con maggiore impazienza, un’impazienza ansiosa,
quasi angosciata:
«Signore, aspettate, non andatevene via, tornate indietro, venite qui!...».
Di nuovo don Rui si immobilizzò e girandosi sulla sella squadrò arditamente i quattro corpi
appesi alle travi. Era da quella parte che echeggiava la voce, ed essendo umana, non poteva
provenire altro che da una persona umana! Era stato uno di quegli impiccati, dunque, a
chiamarlo con tanta urgenza e trepidazione.
Era possibile che in uno di loro perdurassero, per meravigliosa grazia di Dio, respiro e vita?
o non piuttosto, per avventura, e per ancora maggior meraviglia, una di quelle carcasse
mezzo putrefatte lo tratteneva per trasmettergli comunicazioni d’oltretomba?... Ma sia che
la voce erompesse da un petto vivo oppure da un petto morto, grande codardia sarebbe
stata prendere il largo terrorizzato, senza ascoltarla ed esaudirla.
Immediatamente spinse in cima al poggio il cavallo, che tremava; e fermo con una mano sul
fianco, eretto e calmo, dopo aver guardato fissamente, uno per uno, i quattro corpi sospesi,
gridò :
«Chi di voi, o uomini impiccati, ha osato chiamare don Rui de Cardenas?».
Allora quello che voltava le spalle alla luna piena rispose, dall’alto della forca, molto
placidamente e naturalmente come un uomo che stia conversando dalla finestra con
qualcuno per la strada:
«Sono stato io, signore».
Don Rui fece procedere il cavallo fin davanti a lui. Non distingueva la faccia, infossata nel
torace e nascosta da lunghe e nere chiome spioventi. Si accorse però che aveva le mani
libere e slegate, e sciolti erano pure i piedi nudi, già rinsecchiti e color della pece.
«Cosa vuoi da me?»
L’impiccato, sospirando, mormorò :
«Signore, fatemi l’immensa grazia di tagliarmi questa corda alla quale sto appeso».
Don Rui sguainò la spada e d’un sol colpo risoluto tagliò la corda che era mezza marcia. Con
un rumore sinistro d’ossa sbatacchiate il corpo cadde a terra e lì rimase un momento
disteso. Ma subito si drizzò sulle gambe insicure e ancora intorpidite – e alzò verso don Rui
un viso morto, che era un teschio con la pelle perfettamente appiccicata sopra, e più gialla
dei raggi della luna che la colpivano. Gli occhi non possedevano né moto né luce. Tutte e
due le labbra erano increspate, digrignate in un impietrito sorriso.
Tra i denti molto bianchi sbucava la punta di una lingua molto nera.
Don Rui non dimostrò terrore, né ripugnanza. E rinfoderando con calma la spada:
«Sei morto o sei vivo?» domandò .
L’uomo si strinse lentamente nelle spalle.
«Signore, non lo so... E poi chi sa che cosa è la vita? Chi sa che cosa è la morte?»
«Ma che cosa vuoi da me?»
Con le lunghe dita scarnite l’impiccato allentò il nodo della corda che ancora gli stringeva
con il cappio la gola e dichiarò con assoluta calma e sicurezza:
«Signore, io devo venire con voi a Cabril, là dove state andando».
Il cavaliere rabbrividì con tale spavento, e trasse a sé le redini con tal forza, che anche il suo
buon cavallo s’impennò terrorizzato.
«Con me a Cabril?!...»
L’uomo piegò la schiena, e così, attraverso un lungo strappo nella sua camicia mortuaria di
stamigna, si vedevano tutte le ossa della spina dorsale, più acuminate dei denti di una sega.
«Signore – supplicò – non me lo negate. Perché io potrò ricevere gran salario se vi farò gran
servigio!».
Allora don Rui pensò repentinamente che tutto ciò poteva essere benissimo uno
stratagemma formidabile del Demonio. E, puntando due occhi molto lucidi su quella faccia
morta levata verso di lui in ansiosa attesa del suo consenso, disegnò un lento e ampio segno
della croce.
L’impiccato piegò le ginocchia con stupore e riverenza:
«Signore, perché mi mettete alla prova con questo segno? se solo per mezzo suo otteniamo
remissione, e io solo da questo segno spero misericordia».
Allora don Rui pensò che se quell’essere non era mandato dal Demonio, era ben possibile
che fosse mandato da Dio! E subito devotamente, con un atto di sottomissione col quale
tutto affidava al Cielo, acconsentì e accettò lo spaventoso compagno:
«Vieni dunque con me a Cabril, se Dio ti manda! Ma nulla ti domanderò e tu non
domandarmi niente».
Fece subito scendere di nuovo il cavallo sulla strada, tutta illuminata dalla luna. L’impiccato
procedeva di fianco a lui con passi così svelti, che anche quando don Rui galoppava lui si
manteneva alla staffa, come portato da un muto vento. Ogni tanto, per respirare più
liberamente, allentava il nodo della corda che aveva attorno al collo. E quando passavano in
mezzo a siepi su cui errava l’aroma di fiori silvestri, l’uomo mormorava con sollievo e
delizia infiniti:
«Che piacere poter correre!».
Don Rui andava avanti pieno di stupore e in preda a una tormentosa preoccupazione.
Adesso si era reso conto che aveva a che fare con un cadavere rianimato da Dio per uno
strano e misterioso compito. Ma a che scopo Dio gli dava un così spaventevole compagno?
Per proteggerlo forse? Per impedire che donna Leonor, benvista in Cielo per la sua
devozione, cadesse in peccato mortale? E per tale divina incombenza di così alta mercé, il
Signore non aveva già gli angeli del Cielo, senza aver bisogno dei servizi di un giustiziato?...
Ah! come gli sarebbe piaciuto poter voltar le redini per rientrare a Segovia, non fosse per la
sua cavalleresca galanteria, nonché per l’orgoglio di non recedere mai e per la
sottomissione agli ordini del Signore, che sentiva pesare su di sé...
Da un dosso della strada, a un tratto videro Cabril, i campanili del convento francescano
biancheggianti sotto la luna, i casolari addormentati tra gli orti. Molto silenziosamente,
tanto che nessun cane abbaiò dietro un cancello o da sopra un muro, percorsero l’antico
ponte romano. Dinnanzi al Crocifisso, l’impiccato cadde in ginocchio sul lastrico, alzò le
livide ossa delle due mani, e rimase a lungo a pregare tra profondi sospiri. Poi, all’imbocco
di un sentiero, si fermò tranquillamente a bere per un bel po’ di tempo da una fonte che
scorreva e cantava sotto le fronde di un salice. Dato che il sentiero era molto stretto, lui
camminò davanti all’uomo a cavallo, tutto curvo e con le braccia strettamente incrociate sul
petto, senza il minimo rumore.
La luna era già alta in cielo. Don Rui osservava pieno di amarezza quel disco tondo e
luminoso, che spargeva tanta luce, e tanto indiscreta, sul suo segreto. Ah! come si stava
rovinando quella notte che doveva essere divina! Una luna enorme sorgeva dietro i monti
per illuminare tutto. Un impiccato scendeva giù dalla forca per seguirlo ed essere informato
di tutto. Dio aveva comandato così. Ma che tristezza giungere a quella dolce porta,
dolcemente promessa, con un tale intruso accanto, sotto quel cielo tutto luce!
Bruscamente l’impiccato si fermò , alzando un braccio, da cui pendeva la manica stracciata.
Era finito il sentiero, che sboccava in una stradicciola più larga e più battuta – e davanti a
loro biancheggiava il lungo muro della tenuta del signor De Lara; lì c’era un belvedere con
balconcini di pietra tutto rivestito d’edera.
«Signore» mormorò l’impiccato, trattenendo rispettosamente la staffa di don Rui, «qui
vicino, a pochi passi da questo belvedere, c’è la porta per la quale dovete passare per entrar
nel giardino. È meglio che lasciate qui il cavallo, legandolo a un albero, se lo ritenete
tranquillo e fedele. Perché per l’impresa che ci aspetta anche il rumore dei nostri passi è di
troppo!...».
Don Rui silenziosamente smontò e legò il cavallo, che sapeva fedele e tranquillo, al tronco
di un pioppo rinsecchito.
Era diventato così completamente sottomesso a quel compagno imposto da Dio, che senza
commenti si mosse seguendolo a filo del muretto battuto dalla luna.
L’impiccato avanzava ora con misurata cautela in punta di piedi, che aveva scalzi,
sorvegliando la sommità del muro, sondando l’oscurità della siepe, fermandosi ad ascoltare
rumori, percepibili solamente a lui – perché don Rui non aveva mai visto una notte più
profondamente addormentata e muta.
Una tale paura, in chi avrebbe dovuto essere indifferente a pericoli umani, andò colmando a
poco a poco anche il valoroso cavaliere di un così vivo timore, che cavava il pugnale dalla
guaina, arrotolava il mantello sull’avambraccio, e avanzava sulla difensiva, con sguardo
saettante, come sulla strada di una imboscata o per una zuffa. Giunsero così a una porta
bassa, che l’impiccato spinse avanti e che si aprì senza il minimo cigolio di cardini.
Penetrarono quindi in un viale fiancheggiato da una fitta siepe di tassi, che conduceva a una
cisterna piena d’acqua su cui galleggiavano foglie di ninfea, ed era circondata da ruvidi
banchi di pietra ammantati da rami di arbusti in fiore.
«Per di là !», sussurrò l’impiccato tendendo il suo braccio striminzito.
C’era, al di là della cisterna, un viale che folti e scuri alberi coprivano e ombreggiavano
come una cupola. S’infilarono là dentro come ombre nell’ombra, l’impiccato davanti e don
Rui dietro che lo seguiva con tutta l’agilità possibile, senza sfiorare un ramo e quasi senza
toccar terra. Un sottile filo d’acqua gorgogliava tra l’erba. Su per i tronchi ramificavano rose
rampicanti dal dolce profumo. Il cuore di don Rui ricominciò a battere in speranza d’amore.
«Sst!», fece l’impiccato. Don Rui per poco non inciampava nel sinistro individuo, che si era
arrestato con le braccia aperte come le traverse di un cancello. Davanti a loro quattro
scalini di pietra portavano a una terrazza, dove la luce era libera e completa. Quatti quatti,
si arrampicarono per i gradini – e in fondo a un giardino senz’alberi, composto interamente
da aiuole fiorite e ben curate, bordate di bosso potato, scorsero un fianco della casa
illuminato dalla luna piena. In mezzo, tra le finestre a davanzale tutte chiuse, c’era un
balcone di pietra con vasi di basilico negli angoli, che aveva le due vetrate spalancate. La
stanza all’interno era buia e sembrava una specie di buco tenebroso in mezzo al chiarore
della facciata bagnata dalla luce della luna. E, appoggiata al balcone, c’era una scala con gli
scalini di corda.
Allora l’impiccato spinse giù prontamente don Rui dai gradini nell’oscurità del vialetto. E
qui, dominando il cavaliere, con atteggiamento imperioso, esclamò :
«Signore! Adesso è meglio che mi cediate il vostro cappello e la zimarra! Voi rimanete
nell’oscurità sotto questi alberi. Io mi arrampicherò su quella scala per dare un’occhiata in
quella stanza... E se sarà come voi desiderate tornerò indietro, e, con l’amor di Dio, siate
felice...».
Don Rui arretrò d’orrore all’idea che fosse una simile creatura a scalare la sua diletta
finestra!
E puntando i piedi, gridò cupamente:
«No, per Dio!».
Ma la mano dell’impiccato, livida nel buio, bruscamente gli strappò via il cappello dalla
testa, e gli prese la zimarra che aveva al braccio. Stava già coprendosi il capo e
imbacuccandosi nel mantello, e intanto sussurrava in tono trepidante e supplichevole:
«Non me lo negate, signore, ché se vi avrò fatto questo gran servigio io ne riceverò gran
mercede!».
E si avviò su per i gradini – eccolo nel grande terrazzo illuminato.
Don Rui pure salì gli scalini, mezzo imbambolato, e di nascosto scrutava la scena. E, oh
meraviglia! era lui, don Rui, proprio lui, aspetto e atteggiamento, quell’uomo che procedeva
tra le aiuole e le basse siepi di bosso, snello ed elegante, con una mano alla cintura, il volto
sorridente rivolto in su verso la finestra, la lunga piuma scarlatta del cappello che
ondeggiava trionfale. L’uomo procedeva sotto lo smagliante chiaro di luna. L’amorosa
camera era là che l’aspettava, aperta e buia. E don Rui a guardare, con occhi che lanciavano
faville, tremante, trepidante, palpitante di sbigottimento e collera. L’uomo aveva raggiunto
la scala: adesso apriva il mantello e poneva un piede sul primo scalino di corda! «Oh! eccolo
che monta su, il maledetto!» ruggì don Rui. L’impiccato saliva. E già l’alta figura, che era
quella di lui, don Rui, si trovava a metà scala, scura e nera contro la parete bianca. Si era
fermato!... No! non si fermava: saliva ancora, arrivava su – già aveva appoggiato un
ginocchio guardingo sulla balaustra del balcone. Don Rui guardava, disperatamente, con gli
occhi, con l’anima, con tutto l’essere... Ed ecco che, improvvisamente, dalla stanza scura si
affaccia una sagoma scura e una voce furibonda grida: «Fellone! Fellone!» – e la lama di una
spada scintilla, e ricade, e di nuovo si leva, e di nuovo brilla e si abbatte, rifulge ancora, e si
immerge di nuovo!... Come un fagotto, dall’alto della scala, pesantemente, l’impiccato cade
sulla terra molle. Vetri e imposte subito si chiudono sul balcone con fragore. E non ci fu più
che silenzio, calma serena e la luna già molto alta e rotonda nel cielo d’estate.
In un battibaleno don Rui si era reso conto del tradimento e aveva sguainato la spada,
indietreggiando verso l’ombra del viale – quand’ecco che, oh meraviglia!, di corsa
attraverso la terrazza, salta fuori l’impiccato, che lo afferra per la manica, gridandogli:
«A cavallo, signore, e di gran carriera, ché l’appuntamento non era d’amore ma di morte!...».
Scendono insieme precipitosamente per il viale, contornano la cisterna sotto la protezione
degli arbusti fioriti, infilano lo stretto sentiero bordato di tassi, varcano la porta d’ingresso
– e per un istante si fermano ansimando sulla strada, dove a causa della luna più sfavillante
e più piena che mai pareva quasi che facesse giorno, un limpido chiaro giorno.
E allora, solo allora, don Rui si accorse che l’impiccato aveva nel petto, conficcata dentro
fino all’elsa, una spada, e la punta gli usciva fuori dietro le spalle, lucida e pulita!... Ma già
quell’uomo spaventoso lo spingeva, lo incalzava:
«A cavallo, signore, e di carriera, che ancora incombe su di noi il tradimento!».
Rabbrividendo e ansioso di por fine a quell’avventura tanto piena di miracoli e di orrore,
don Rui afferrò le redini e montò a cavallo smaniosamente. E subito, di gran fretta, anche
l’impiccato balzò in groppa al fedele cavallo. Raggelò tutto, il buon cavaliere, al sentirsi
strusciare alle spalle quel corpo morto, sganciato da una forca e trapassato da una spada.
Con quale disperazione galoppò , quindi, per quella strada che non finiva mai! Galoppava
precipitosamente, ma l’impiccato non oscillava neanche, rigido sulla groppa come un
bronzo su un piedistallo! E di momento in momento don Rui sentiva un freddo sempre più
gelido, che gli raggelava la schiena, come ci avesse caricato sopra un sacco pieno di
ghiaccio. Passando davanti al Crocifisso mormorò : «Signore, aiutami!», ma quando ebbe
oltrepassato il Crocifisso, subitamente inorridì al pensiero, al chimerico terrore, che un così
funebre compagno dovesse continuare per sempre ad accompagnarlo, e che il suo destino
fosse diventato di galoppare attraverso il mondo in una notte eterna portandosi in groppa
un morto... E allora perse il controllo e gridò all’indietro, nel vento della corsa che li
frustava:
«Dove volete che vi porti?».
L’impiccato, accostando il corpo a don Rui tanto da quasi ferirlo con l’elsa della spada, gli
sussurrò in segreto:
«Signore, dovete lasciarmi al Colle!».
Che dolce e infinito sollievo per il bravo cavaliere! – perché il Colle era vicino e nella pallida
luce se ne scorgevano già i pilastri e le nere travature... Poco dopo fermò il cavallo bianco di
schiuma, che tremava tutto.
Subito l’impiccato scivolò giù dalla groppa senza rumore e prese in mano, come un bravo
scudiere, la staffa di don Rui. Poi, levando verso di lui il teschio con la nera lingua che
sporgeva più che mai tra i denti candidi, mormorò rispettosamente la sua supplica:
«Signore, adesso fatemi ancora la generosa grazia di appendermi di nuovo alla mia trave».
Don Rui raggelò d’orrore:
«Per Dio! Che vi impicchi, io?...».
L’uomo sospirò allargando le lunghe braccia:
«Signore, è così per volontà di Dio, e per volontà di Colei che a Dio è più cara!».
Allora, rassegnato, sottomesso ai comandi venuti dall’Alto, don Rui scese da cavallo – e
cominciò a seguire l’uomo, che saliva verso il Colle con aria meditabonda, curva la schiena
da cui fuoriusciva, rigida e lucente, la punta della spada. Si fermarono tutti e due sotto la
trave vuota. Tutt’intorno dalle altre travi pendevano i tre scheletri. Il silenzio era più triste
e denso che ogni altro silenzio sulla terra. L’acqua nello stagno si era fatta nera. La luna
declinante si stava dileguando.
Don Rui osservò la trave dove era rimasto appeso, corto lassù , il pezzo di corda che lui
stesso aveva tagliato con la spada.
«Come volete che faccia ad appendervi?» esclamò . «A quel pezzo di corda con la mano non
posso arrivare e da solo non ce la faccio a issarvi lassù .»
«Signore» rispose l’uomo «là in un angolo deve esserci un lungo rotolo di corda.
Un’estremità me la allaccerete a questo nodo che ho qui al collo: l’altra estremità la
getterete al di sopra della trave, e poi, tirando con la forza che possedete, riuscirete
benissimo a riimpiccarmi».
A capo chino e a passo lento si misero tutti e due a cercare il rotolo di corda. E fu
l’impiccato che lo trovò , lo srotolò ... Allora don Rui si tolse i guanti. E, istruito da colui che
l’aveva appreso così bene dal boia, legò un’estremità della corda al laccio che l’uomo
portava ancora al collo, e lanciò con forza l’altra estremità , che volteggiò nell’aria, passò al
di sopra della trave e restò appesa e sfiorava il suolo. Poi l’intrepido cavaliere, puntando i
piedi e tendendo i muscoli, tirò , issò , l’uomo, finché restò sospeso nell’aria, tutto nero, come
un impiccato qualunque tra altri impiccati.
«Sto come devo, signore.»
Allora don Rui per fissarlo allacciò la grossa corda con molti giri attorno al pilastro di
pietra. E toltosi il cappello, mentre si asciugava con il dorso della mano il sudore di cui
grondava, scrutò il suo sinistro e miracoloso compagno. Era già rigido come prima, con il
volto penzolante sotto le ciocche sciolte della chioma, i piedi irrigiditi, già tutto consunto e
logoro come una vecchia carogna. Ma la spada l’aveva ancora conficcata in petto. Sopra ci
dormivano tranquillamente due corvi...
«E adesso cosa vi serve ancora?» domandò don Rui, cominciando a infilarsi i guanti.
Debolmente, dall’alto, l’impiccato mormorò :
«Signore, sommamente v’imploro adesso, che, giunto a Segovia, riferiate tutto fedelmente
alla vostra Madrina, la Madonna del Pilar, poiché da lei mi aspetto grande mercé per la mia
anima, per questo servigio, che per suo ordine vi ha reso il mio corpo!».
Allora don Rui de Cardenas capì tutto – e, inginocchiandosi devotamente su quel suolo di
dolore e di morte, a lungo pregò per quel buon impiccato.
Poi volò a briglia sciolta alla volta di Segovia. Spuntava il giorno quando oltrepassò la porta
di San Mauro. Nell’aria pura dell’alba le campane suonavano il mattutino. Entrato nella
chiesa della Madonna del Pilar ancora con le vesti scomposte per la terribile avventura
trascorsa, don Rui, prostrandosi davanti all’altare, narrò alla sua Divina Madrina il cattivo
proposito che l’aveva condotto a Cabril, l’aiuto che gli era venuto dal Cielo, e con calde
lacrime di pentimento e di gratitudine le giurò che mai più avrebbe posto gli occhi con
desiderio là dove fosse peccato, e nemmeno avrebbe dato accesso nel cuore a pensieri
provenienti dal Mondo e dal Male.

Capitolo quarto
A Cabril, a quell’ora, don Alonso de Lara, con gli occhi fuori dalla testa dallo stupore e
terrore, stava perlustrando tutti i sentieri, ogni angolo, ogni recesso del giardino.
Quando, all’alba, dopo aver origliato alla porta della camera dove per quella notte aveva
relegato donna Leonor, era sceso quatto quatto in giardino e non aveva trovato sotto il
balcone accanto alla scala, come deliziosamente si aspettava, il corpo di don Rui de
Cardenas, tenne per certo che quell’uomo odioso, quando era caduto ancora con un debole
vestigio di vita, sanguinante e ansimante si era trascinato via nel tentativo di raggiungere il
proprio cavallo e fuggire lontano da Cabril... Ma con quella solida spada che lui per ben tre
volte gli aveva conficcato nel petto, che nel petto gli aveva lasciato, non avrebbe potuto, il
fellone, trascinarsi avanti per molte leghe, e in qualche sito doveva pur giacere freddo e
irrigidito. E allora continuò a cercare in ogni vialetto, ogni ripostiglio, ogni gruppo di
arbusti. E, oh stupore, non trovava niente, né il corpo, né orme, né terra in qualche modo
rimossa, e neppure una traccia di sangue sul terreno! Eppure, con mano avida e sicura per
ben tre volte gli aveva immerso la spada nel petto, e nel petto gliela aveva lasciata!
Ed era proprio don Rui de Cardenas l’uomo che aveva ucciso – perché lo aveva subito
riconosciuto benissimo, da dentro la stanza buia dove di nascosto lo spiava, quando aveva
attraversato il terrazzo al chiaro di luna, svelto e fiducioso, la mano in cintura, il viso
sorridente rivolto in su, la penna sul cappello ondeggiante in trionfo! Come è possibile una
cosa tanto strabiliante, che un corpo mortale sopravviva a un’arma che per tre volte gli
trapassa il cuore e nel cuore rimane inchiodata? E la cosa più incredibile era che neppure al
suolo sotto il balcone, dove correva lungo tutto il muro una lunga aiuola di gerbere e gigli,
quel corpo forte aveva lasciato alcun vestigio cadendo pesantemente dall’alto, inerte come
un fagotto! Neppure un fiore calpestato – tutti eretti, rigogliosi, come nuovi, bagnati da
piccole gocce di rugiada! Impietrito dallo stupore, dal terrore quasi, don Alonso de Lara era
rimasto fermo a osservare il balcone, a calcolare l’altezza della scala, a guardare con occhi
stralunati le gerbere ritte, fresche senza un solo gambo o una foglia reclinati. Poi ricominciò
a percorrere all’impazzata tutta la terrazza, e il viale, e il sentiero coi tassi, sempre ancora
con la speranza di un’impronta, di un ramo spezzato, di un grumo di sangue nella sabbia
leggera.
Niente! Tutto il giardino appariva in un assetto inusitato, una pulizia diversa, come se non
ci fosse passato sopra né il vento che sfronda, né il sole che inaridisce.
Così, verso sera, divorato dall’incertezza di tanto mistero, prese il cavallo e, senza scudiere
né cavallerizzo, partì per Segovia. Zitto e quieto e furtivamente come un latitante, penetrò
nel proprio palazzo dalla porta dell’orto; e il suo primo atto fu correre alla galleria dal
soffitto a volta, togliere il paletto alle ante della finestra e scrutare avidamente la casa di
don Rui de Cardenas. Tutte le finestre dell’antica dimora dell’arcidiacono erano buie, ma
aperte come a respirare la frescura della sera – e sulla porta, seduto su un banco di pietra
un garzone di stalla accordava pigramente un chitarrino.
Don Alonso de Lara scese in camera sua, livido, pensando che non poteva sicuramente
essere accaduta una disgrazia in una casa in cui tutte le finestre erano state aperte per
rinfrescarla, mentre sulla porta di strada la servitù si dava bel tempo. Allora con un battito
di mani si fece portare la cena in fretta e furia. E, appena si fu seduto a capo tavola sul suo
alto scanno di cuoio arabescato, fece chiamare l’intendente e gli offrì subito, con
sorprendente familiarità , un bicchiere di vin vecchio. Mentre quello, in piedi,
rispettosamente beveva, don Alonso, ficcandosi le dita nella barba e costringendo il volto
truce a sorridere, lo interrogava sulle novità e sui pettegolezzi di Segovia. Durante il
periodo del suo soggiorno a Cabril, non si era verificato nessun incidente che avesse
prodotto curiosità o commenti in città ?... L’intendente si asciugò le labbra e affermò che a
Segovia non era successo niente da suscitar commenti, salvo per la figlia del signor don
Gutierres, così giovane e per di più ricca ereditiera, che aveva preso il velo nel convento
delle Carmelitane Scalze. Don Alonso insisteva fissando avidamente l’intendente. E non era
per caso scoppiata una gran lite?... Non era stato trovato un ferito sulla strada di Cabril, un
giovane signore, molto chiacchierato?... L’intendente si stringeva nelle spalle; non aveva
sentito dire niente in città a proposito di zuffe o di nobiluomini feriti. Con gesto villano don
Alonso congedò l’intendente.
Terminata la parca cena, ritornò alla galleria a sorvegliare le finestre di don Rui. Adesso
erano chiuse; ma nell’ultima, quella all’angolo della casa, palpitava vagamente una luce.
Tutta la notte vegliò don Alonso, ruminando instancabilmente la medesima stupefazione.
Come aveva potuto cavarsela quell’uomo con una spada a trapassargli il cuore? Come aveva
potuto?... Allo spuntar del giorno prese un mantello, un largo cappello, scese in piazza tutto
imbacuccato e infagottato, e si mise a gironzolare davanti alla casa di don Rui. Le campane
suonavano il mattutino. I mercanti, con la giacca mal abbottonata, uscivano per la strada ad
alzare le saracinesche delle botteghe e ad appender fuori le insegne. Già gli ortolani,
spronando i somari carichi di ceste, lanciavano i richiami per i loro ortaggi freschi, e
qualche frate scalzo con la bisaccia sulle spalle chiedeva l’elemosina, benediva le ragazze.
Beghine velate, con pesanti rosari in mano, s’infilavano golosamente in chiesa. Poi un
banditore della città , fermatosi da un lato del sagrato, suonò una trombetta e con voce
insopportabile incominciò a leggere un bando.
Il signor De Lara si era fermato accanto alla fontana con l’aria attonita, come assorto nel
canto dei tre zampilli d’acqua. A un tratto gli venne in mente che quella notificazione letta
dal banditore della città poteva forse riferirsi a don Rui, alla sua scomparsa... Corse da
quella parte del sagrato – ma l’uomo aveva già arrotolato il papiro e si stava allontanando
maestosamente, picchiando sul selciato con la sua bacchetta bianca. Allora si voltò per
scrutare di nuovo la casa, ed ecco che i suoi occhi sbalorditi si posarono su don Rui, don Rui
che lui aveva ucciso – si avviava passo passo verso la chiesa della Madonna, svelto,
elegante, col viso sorridente ed eretto nell’aria fresca del mattino, con una giubba chiara,
con chiare piume, con una delle mani appoggiata in cintura e l’altra a maneggiare
distrattamente un bastone con nappe e cordone d’oro! Don Alonso tornò a casa
strascicando i piedi come un vecchio. Quando giunse in cima allo scalone di pietra, trovò ad
aspettarlo l’anziano cappellano, che era venuto a salutarlo, e che, entrando insieme a lui in
anticamera, dopo avergli rispettosamente chiesto nuove di donna Leonor, si mise subito a
raccontargli di un caso prodigioso, che stava provocando molti commenti stupefatti in città .
Il pomeriggio del giorno prima il podestà era andato a ispezionare il Colle delle forche,
perché s’era vicini ormai al giorno della festa dei Santi Apostoli, e aveva scoperto, con
immenso stupore e scandalo, che uno degli impiccati aveva una spada conficcata nel petto!
Forse lo scherzo di un sinistro burlone?... Ma la cosa più strabiliante ancora era che il corpo
era stato staccato dalla forca, trascinato attraverso un orto o in un giardino (dato che
appiccicate ai suoi vecchi stracci si vedevano delle giovani foglie) e poi impiccato di nuovo e
con corda nuova!... E che così va il mondo in questi tempi sregolati, che neanche i morti
scampavano agli oltraggi!
Don Alonso ascoltava con le mani che tremavano e i capelli gli si rizzavano sulla testa. E
immediatamente in preda a una agitazione come d’ansia, urlando, incespicando contro le
porte, volle mettersi in cammino per andare a verificare con i propri occhi la funebre
profanazione. A cavallo di due mule bardate in fretta e furia, si precipitarono tutti e due al
Colle degli Impiccati, lui e il cappellano stordito e trascinato da lui. La popolazione di
Segovia in gran numero si era già radunata sul Colle, stupefatta da quel mirabile orrore –
un morto messo a morte!... Tutti si scostarono alla presenza del nobile signor De Lara che si
era avventato su per il Colle: si fermò poi, livido e stralunato, a osservare l’impiccato e la
spada che gli trafiggeva il petto. Ed era la sua spada – era stato lui ad ammazzare il morto!
Galoppò terrorizzato in direzione di Cabril. E lì si rinchiuse col suo segreto, cominciando
subito a farsi giallo, consunto, sempre appartato dalla signora donna Leonor,
nascondendosi nei viali più ombrosi del giardino, mormorando parole al vento, finché
all’alba del giorno di San Giovanni, una serva, che stava tornando dalla fontana, col suo
orcio, lo trovò morto stecchito sotto il balcone di pietra, lungo disteso per terra con le dita
aggrappate all’aiuola di gerbere, dove sembrava aver lungamente raspato il terriccio, alla
ricerca di...

Capitolo quinto
Per sfuggire a tanto lamentevoli memorie, la signora donna Leonor, erede di tutti i beni di
casa De Lara, si ritirò nel palazzo di Segovia. Ma dal momento che adesso sapeva che il
signor don Rui de Cardenas era scampato miracolosamente all’imboscata di Cabril, e dato
che tutte le mattine, spiandolo tra le imposte semichiuse, lo seguiva con gli occhi umidi e
mai sazi, quando attraversava il sagrato per entrare in chiesa, essa non volle, diffidando
della fretta e dell’impazienza del proprio cuore, recarsi ai piedi della Madonna del Pilar
prima che fosse terminato il lutto. Poi, una domenica mattina, quando, al posto del crespo
nero, si poté vestire di seta viola, scese le scale del palazzo, pallida per un’emozione nuova
e divina, calpestò le pietre del sagrato, attraversò la porta della chiesa. Don Rui de Cardenas
era in ginocchio davanti all’altare, dove aveva deposto il suo votivo mazzolino di garofani
bianchi e gialli. All’udire il fruscio della seta, alzò gli occhi, pieni di una speranza molto pura
e tutta fatta di grazia celeste, come se lo avesse chiamato un angelo. Donna Leonor
s’inginocchiò , con il respiro affannoso, tanto pallida e felice che la cera delle candele non
era più pallida, né più felici le rondini che libere svolazzavano tra le ogive dell’antica chiesa.
Davanti a quell’altare, in ginocchio sulle medesime lastre di pietra, furono alla fine sposati
dal vescovo di Segovia, don Martinho, nell’autunno dell’anno di grazia 1475, quando in
Castiglia regnavano già Isabella e Fernando, che erano molto forti e molto cattolici, e per
mezzo dei quali il Signore operò grandi imprese per terra e per mare.
Indice
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO

Potrebbero piacerti anche