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APPROCCIO POETICO CON RIFERIMENTO AL MONDO NATURALE

COME I POETI, IN DIVERSI SECOLI, VEDEVANO LA NATURA ? (APPROCCIO FILOSOFICO,


LETTERARIO E POETICO)
La presenza della natura nei testi letterari è costante nel tempo, ampia, ma diversificata per scelte
nell’ambito del mondo naturale ed interpretazioni dei diversi elementi:
1. LA MITOLOGIA E LA VISIONE DELLA NATURA
Agli inizi della nostra tradizione classica, come di quella di quasi tutti i popoli, ci sono i miti, che
rappresentano il comune patrimonio di riferimento capace di creare l’unità e la coesione culturale. Nella
mitologia greca la Natura è descritta tramite un processo di personalizzazione, secondo cui i vari elementi
sono creature divine, maschili e femminili, che interagiscono tra di loro, in rapporti diversi, di alleanza o di
conflittualità, e che determinano la varietà degli aspetti naturali e la loro incidenza sulla vita degli uomini.
L’adesione degli uomini a questi miti avviene in un tempo ancora fuori dalla storia, anche se permane nei
poemi omerici. Nell’Iliade e nell’Odissea si aprono, però, forse anche attraverso stratificazioni creative
diacroniche, altre prospettive di visione ed interpretazione della Natura. Innanzitutto la descrizione secondo
verisimiglianza, soprattutto nei paragoni e nelle raffigurazioni in opere artistiche.
Ricordiamo in particolare la terza zona dello scudo di Achille , in cui sono rappresentate tre scene, ispirate
alla vita campestre e riconducibili ai momenti più importanti dell’anno agricolo: l’aratura nella stagione
primaverile, la mietitura estiva e la vendemmia nel rigoglio dell’autunno; scene che ci fanno capire la
predilezione del poeta per la natura coltivata rispetto a quella selvaggia. Nella quarta zona, invece, sono
raffigurati due momenti di vita pastorale: un armento assalito da due leoni ed un gregge di pecore al pascolo;
anche qui la natura è in rapporto al lavoro e alla vita dell’uomo, con insidie e pericoli. Nell’Odissea prevale
invece la rappresentazione di una natura fantastica con sfondamento del muro del naturalismo, in luoghi
lontani e misteriosi. Ma soprattutto il vero protagonista del poema è il mare, che domina tutta la vicenda con
l’immensità della sua presenza, con la furia delle sue tempeste, con il placido splendore della sua calma.
2. DIVERSI AUTORI DELLA GRECIA ANTICA SOSTENGONO IDEOLOGI DIVERSE SUL MONDO
NATURALE
Successivamente si affermano nella Grecia classica altri due modi di rapportarsi alla Natura con significative
ripercussioni letterarie. Infatti tra l’VIII e il VII secolo a. C. il poeta Esiodo, con il suo poema Le opere e i
giorni, introduce l’idea che l’uomo con il suo lavoro, l’impegno e la fatica personale possa trasformare la
Natura a suo vantaggio, attraverso la coltivazione, per produrre quanto a lui utile. In questo spirito diventano
importanti gli astri, personaggi mitologici mutati in stelle o costellazioni, che, con il sorgere e tramontare,
scandiscono il succedersi delle occupazioni agricole secondo le stagioni. In seguito, a partire dal VI secolo
a.C., vengono abbandonati i miti cosmogonici e si inizia a cercare l’origine di tutto in un principio naturale. Ha
così inizio la filosofia che, proprio con quegli autori che poi impropriamente verranno chiamati Presocratici, si
pone nella prospettiva di un’ indagine critica nei confronti della Natura, di cui cerca di individuare il principio
primo, l’arché, nei diversi poemi intitolati Perì phýseos, ritrovandolo di volta in volta nell’acqua (Talete),
nell’aria (Anassimene), nel fuoco (Eraclito) o nel numero (Pitagora). In questo momento la letteratura
rappresenta il terreno di elaborazione e di espressione del sapere in quanto tale, in una concezione unitaria,
senza contrapposizione tra sfera scientifica e umanistica.
3. LA POESIA LIRICA MONODICA E IL RAPPORTO INDIVIDUO NATURA
Nello stesso lasso di tempo inizia con Alceo e Saffo la poesia lirica monodica che, proprio per l’impostazione
sentimentale e soggettiva, stabilisce il primo rapporto tra individuo e Natura fatto di consonanza personale,
che si esplicita soprattutto nei paragoni e negli elementi esornativi del testo poetico. Saffo soprattutto avvertì
con straordinaria intensità il fascino della Natura, di cui seppe cantare i particolari in un’atmosfera di
incantata osservazione. Con Socrate e successivamente con Platone, tra il V ed il IV secolo a.C., l’interesse
della filosofia si sposta dalla ricerca dell’arché ad altri argomenti, ma, per quanto riguarda la percezione e la
descrizione della Natura in letteratura, fondamentale è la creazione, da parte di Platone, del tópos del locus
amoenus*, un luogo suggestivo e felice per l’uomo, caratterizzato da una fonte o da un corso d’acqua e da
una rigogliosa vegetazione, di lunga e vasta ripercussione letteraria in tutta Europa .
4. VIRGILIO ED IL CONCETTO DI “LOCUS AMOENUS”
Ma a determinare un rapporto letterariamente imperituro tra la Natura e la letteratura sarà nel volgere di
pochi decenni Virgilio con la sua poesia delle ‘’Bucoliche e delle Georgiche’’. Con le dieci egloghe delle
Bucoliche il poeta inventa e fissa il paesaggio dell’Arcadia.
Il poeta, sulla scorta dello storico Polibio, che di essa era originario e che molto l’amava, tanto da evocarla
come una terra particolare in cui gli abitanti venivano fin dalla prima giovinezza esercitati al canto e si
impegnavano in gare musicali, e del poeta Teocrito, che nel III sec. a.C. aveva fatto conoscere i luoghi della
sua vita (gli uliveti egei, i campi di grano egizi, i vigneti ed i pascoli siciliani), riportando tutto all’Arcadia, le
diede una fama imperitura, facendo di questa regione non un luogo della Natura, ma un luogo della
Letteratura creato con l’accostamento voluto di singoli elementi naturali. Di conseguenza divenne il luogo
ideale in cui i pastori vivono, dedicandosi alla poesia e al canto, gratificati dall’amore, in comunanza con gli
dei, per cui s’intrecciano fatti mitici e dati reali in un paesaggio che ha tutte le caratteristiche del locus
amoenus*, ma che per di più diventa patria d’elezione della poesia, che solo in esso può nascere e
prosperare.
Virgilio, però, si appropria anche di un altro atteggiamento della poesia nei confronti della Natura ed è quello
che gli deriva dalla conoscenza di Esiodo e dall’osservare con occhio amoroso le pianure ubertose delle sue
terre mantovane, quelle terre amate e perdute, poi forse in parte recuperate, terre generose, capaci di
ripagare con l’abbondanza del loro prodotto, la fatica degli uomini che sapevano abilmente lavorarle. Di tutta
questa esperienza, personale e letteraria, Virgilio fa tesoro per la composizione delle Georgiche, in cui fissa
con intento didascalico quelle che sono le competenze in ordine all’agricoltura e all’allevamento a cui si è
giunti nel suo tempo, rendendole patrimonio duraturo ed utile per gli uomini dei secoli seguenti, in versi di
grande armonia e ricercatezza formale, adornati da riferimenti mitologici e geografici.
5. IL CIRCOLO DI MESSALLA CORVINO
Accanto alle posizioni di Lucrezio e di Virgilio si evidenzia, sempre nell’età augustea, un altro atteggiamento
della poesia nei confronti della Natura. E’ rappresentato dai poeti elegiaci del circolo di Messalla Corvino, che
si contrappongono a quelli, come Virgilio e Orazio, appartenenti al circolo di Mecenate e quindi sostenitori
delle guerre di conquista fulcro della politica augustea. Questi poeti, tra cui primeggia Tibullo, vedono la
Natura come la campagna quieta e ridente, in contrapposizione al mondo della città e soprattutto come
l’ambiente in cui rifugiarsi per sfuggire al pericolo di dover partecipare alle sanguinose e funeste guerre di
conquista. A questo atteggiamento si lega il rimpianto per la mitica età dell’oro, in cui la terra dava tutto
all’uomo, senza richiedere la fatica del lavoro ed in cui soprattutto non c’erano guerre di conquista. E’ un mito
di contrapposizione di tempi e stili di vita, ma anche tra Natura e Cultura, che avrà lunga ripercussione nella
storia della letteratura (Tasso, Monti, ecc.), ma è anche un’interpretazione della vita che crea attesa e
rinnovamento, favorevole quindi alla diffusione del Cristianesimo.
6. LA VISIONE CRITIANA DELLA NATURA
Con il Cristianesimo la Natura viene vista in una dimensione nuova, in quanto frutto della creazione divina,
concesso per generosità da Dio agli uomini come luogo di vita dopo la caduta conseguente al peccato
originale, da cui raccogliere i frutti, ma anche da far prosperare con il lavoro e la fatica personale. Tra i vari
elementi della Natura con il Cristianesimo assume una valenza particolarmente forte l’acqua, vista come
occasione di purificazione in rapporto al rito del battesimo, con la conseguenza di valorizzare anche i fiumi, a
partire dal Giordano, in cui sarebbe avvenuto il battesimo di Gesù.
7. LE CONOSCENZE SULLA NATURA DURANTE IL MEDIOEVO E LA CONCEZIONE DI DANTE
ALIGHIERI
Nei secoli del Medioevo le conoscenze della natura sono scarse e limitate, anche se qualche contributo alla
classificazione viene dato, ad esempio con l’Hortulus di Valfrido Strabone, ma la percezione della Natura è
piuttosto generica, come possiamo vedere dal Cantico delle creature di San Francesco, in cui la flora è del
tutto indeterminata, mentre gli elementi della Natura (il Sole, la Luna, l’acqua) vengono percepiti solo come
oggetti della creazione divina .
Nel mondo dell’oltretomba dantesco gli elementi della natura che assumono valenze simboliche
particolarmente forti sono due, il buio che caratterizza l’inferno, privandolo di ogni colore, a cui si aggiungono
l’acqua nelle sue diverse forme (fiume, pioggia, palude, lago ghiacciato) ed il vento, mentre la luce,
progressivamente crescente, fino a non essere più tollerabile per l’occhio umano, anch’essa capace di
annullare ogni varietà cromatica, caratterizza il Paradiso. Quindi questi due elementi creano i poli di un
itinerario che va dal massimo di negatività, con la conseguenza di dolore, sofferenza e punizione, al
massimo di beatitudine, a cui si correlano felicità e gioia imperitura, legate all’idea del premio eterno. Tra
questi due mondi sta il Purgatorio, a cui Dante attribuisce i caratteri positivi del mondo terreno con una luce
diffusa e gradevole, con l’alternarsi del giorno e della notte, con la varietà del mare e della natura amena,
fino ad arrivare al Paradiso Terrestre, che riprende, cristianizzandoli, gli elementi del locus amoenus,
lasciandoli, però, generici, senza precisazioni naturalistiche.
Francesco Petrarca introduce il lauro come materializzazione della donna amata che da esso e da l’aura
prende appunto il proprio nome, con un ulteriore intreccio significante con l’auro, cioè l’oro, in modo tale che
la donna amata viene a materializzarsi nell’incontro di questi tre elementi della natura, l’alloro, albero ricco di
tradizione letteraria, in quanto, nella mitologia classica, risultato della metamorfosi di Dafne (nome greco
della pianta), fanciulla invano amata dal dio Apollo, albero che per questo diventerà sacro al dio, nonché
simbolo della gloria poetica, testimoniata dalla corona d’alloro con cui il Petrarca sarà incoronato a Roma in
Campidoglio (1343), per mano di Roberto d’Angiò. Inoltre l’aura, l’aria, anch’essa nobilitata dalla tradizione
poetica classica, grazie al mito ovidiano di Cefalo e Procri16, in cui la donna viene uccisa dal giavellotto
lanciato dal marito, essendosi appostata dietro un cespuglio, per sorprenderlo insieme ad Aura da lui
invocata e da lei supposta una ninfa di cui Cefalo si fosse innamorato. E poi l’auro, cioè l’oro, elemento
chimico, il più pregiato e nello stesso tempo centrale nella tradizione alchemica.
Nella produzione letteraria dell’Umanesimo assume rilievo la posizione di Angelo Poliziano, che, escludendo
ogni rapporto realistico con la Natura, crea una Natura tutta letteraria, in cui, in base alla sua poetica della
doctavarietas, mette insieme, al di là delle verisimiglianze stagionali ed ambientali, tutte quelle piante che
hanno avuto una nobilitazione letteraria, sia attraverso i poeti classici sia tramite quelli della tradizione in
volgare. Questo ha la sua espressione più completa nella descrizione del ‘’giardino di Venere nelle Stanze
per la giostra’’, in cui vengono raggruppati in un unico paesaggio, innaturale, ma letterario, quelle piante e
quei fiori che già avevano avuto cittadinanza in testi poetici precedenti.
Per quanto riguarda la percezione del mondo naturale, invece, occorre segnalare il fatto che al consolidarsi
del tradizionale paesaggio letterario in cui i caratteri del locus amoenussi combinano con quelli arcadici,
soprattutto nell’esperienza poetica che prende il nome di Arcadia e che nella seconda metà del Settecento
tenta di ridimensionare in letteratura gli eccessi del gusto barocco, si affianca una certa attenzione al
paesaggio marinaresco, soprattutto a Napoli, dove già il Marino aveva fatto dei pesci e della vita di mare il
soggetto di sue composizioni poetiche, dove inoltre si compongono delle “egloghe piscatorie”, come variante
di quelle bucoliche, in cui ai pastori si sostituiscono i pescatori con il loro mondo, e dove anche la pittura, in
particolare con la bottega dei Recco, testimonia questa propensione del gusto.
8. LA PERCEZIONE DELLA NATURA NEL ROMANTICISMO E PER IL RESTO DEL ‘700
Ma furono proprio gli elementi arcadici che contribuirono, insieme ad altri di provenienza nord-europea, a
determinare quella svolta decisiva nella percezione e nella rappresentazione letteraria della Natura che
avviene con il Romanticismo, per il confluire e l’intrecciarsi di esperienze e di sensibilità diverse. Innanzitutto
agli elementi del giardino e del locus amoenus, di tradizione classica e recentemente riportato in auge
dall’Arcadia, si sostituisce la foresta, per il prevalere di influssi anglo-germanici. Sulla base della descrizione
della Silva Hercyniafatta da diversi autori latini e greci, questo luogo diventa simbolo di una memoria mitica,
di una libertà .Il paesaggio stesso sollecitava l’attenzione a questo elemento, vissuto ed osservato
direttamente, non più vagheggiato letterariamente.
Ma con il nuovo secolo l’aspetto più importante è il rapporto personale e soggettivo che si viene a stabilire tra
il singolo individuo ed elementi della natura che si caricano di motivazioni individuali che li rendono
importanti. Possiamo fare due esempi: il significato che assume il fiore della pervinca per Rousseau, come
testimonia la pagina memorabile delle sue Confessioni, e l’emozione straordinaria che suscita la
contemplazione del mare del Nord in tempesta per l’Alfieri, provocandogli quel tumulto dell’animo di cui ci dà
conto nella sua Vita. Nasce così un modo completamente nuovo di percepire la Natura: la si guarda, la si
osserva e soprattutto si analizzano ed esprimono le emozioni, i cambiamenti di stato d’animo, i ricordi che da
questo nuovo rapporto nascono. Proprio per questo nuovi elementi ed aspetti del paesaggio naturale
diventano oggetto d’attenzione e di conseguenza letterariamente importanti: soprattutto i monti ed i laghi,
mentre nasce il nuovo gusto dell’orrido, che mette in discussione il concetto di sublime di ascendenza
classica. Artefice di questa polarizzazione dell’attenzione letteraria è ancora una volta Rousseau, insieme a
Lamartine.
In questo clima anche nella produzione letteraria italiana comincia a farsi strada un’osservazione più attenta
e diretta degli elementi della natura, di cui una testimonianza esemplare si può ritrovare nella famosissima
descrizione d’apertura dei Promessi Sposi, di ambiente lacustre, di taglio cinematografico, attenta e precisa,
modello per molte altre descrizioni successive, ma anche in quelladella vigna di Renzo34, descritta con la
precisione naturalistica di molti elementi, tra cui spicca un bel tasso barbasso.
9. LEOPARDI E LA SUA INTERPRETAZIONE DELLA NATURA
il punto nodale della nostra tradizione poetica è indubbiamente rappresentato nell’Ottocento dalla poesia del
Leopardi35. Egli, innanzitutto, propone una visione sistematica della Natura, con la sua teoria della Natura
matrigna, di derivazione classica, a cui arriva progressivamente attraverso le varie fasi del suo pessimismo,
che da storico ed individuale diventa cosmico (dall’ Ultimo canto di Saffo al Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia). Nello stesso tempo porta a vette altissime il rinnovato rapporto soggettivo, individuale e
meditativo con aspetti del paesaggio (L’infinito, Alla Luna, Le ricordanze, ecc.), contribuendo a polarizzare
l’attenzione, secondo il gusto della sensibilità romantica, sul cielo, sulle stelle ed in particolare sulla Luna,
elemento centrale del Romanticismo. Ma in Leopardi troviamo anche descrizioni di tipo bozzettistico-
naturalistico, in stretta consonanza con il rinnovato gusto pittorico dei Macchiaioli che ha determinato
l’archiviazione della pittura accademica di impostazione storica e mitologica , in particolare nei Grandi Idilli
(‘’La quiete dopo la tempesta’’, ‘’Il sabato del villaggio’’, ecc.).
D’ora in poi la flora poetica non sarà più letteraria, ma reale, osservata, scelta ed amata, semplice e naturale
nel Pascoli, che anche quando recupera la tradizione classica delle myricae, parte dalla sua esperienza
personale di uomo abituato a vivere a contatto con la natura, invece ricercata, caricata di valori simbolici,
ancora recuperata da memorie letterarie, ma soprattutto inglesi e francesi, in D’Annunzio, che tra tutti i fiori
privilegia la rosa bianca a cui dà ampio rilievo ne Il piacere come simbolo di seduzione e di purezza insieme
10. FINE DEL OTTOCENTO INIZIO NOVECENTO
Il rapporto soggettivo con il mare entra nella letteratura italiana soprattutto con gli Ossi di seppia di Eugenio
Montale, in cui il paesaggio marino di Monterosso, località dove il poeta trascorreva le vacanze estive,
diventa protagonista di liriche cariche di significati esistenziali, tramite il correlativo oggettivo, come in
Meriggiare pallido e assorto. Con il proseguire del Novecento e sino ai nostri giorni tutto è libero e possibile
in letteratura, senza schemi, modelli o pregiudizi, per cui ogni singolo autore sceglie della natura ciò che
sente maggiormente in consonanza con il suo cuore, il suo stato emotivo, la sua sensibilità, la sua storia e la
sua vita. Capita così che tanti, soggettivi ed occasionali, siano i luoghi, gli scorci di paesaggio, gli ambienti
naturali che assumono in letteratura una rilevanza particolare.
COM’ERA VISTA LA LUNA DAI POETI NEL CORSO DEI SECOLI?
 Prima che Galileo ci descrivesse la luna con la prosa del suo cannocchiale, ben altre lenti poetiche
erano state utilizzate da chi nel nostro satellite credeva di scorgere un dragone (i cinesi), un coniglio (i
giapponesi), un cane (tedeschi e indiani), addirittura un uomo decapitato (gli svedesi). Dante, come tutti i
suoi contemporanei, vi intravvedeva i lineamenti di Caino. Poi arrivò la scienza moderna, che rese la luna
troppo concreta per mantenersi poetica, e i poeti dovettero eccedere in astrazione. Era aperta la strada per
la luna-ruffiana degli innamorati, una luna-simbolo, una luna che non esiste(va): la luna dei poeti, appunto.

 Mille lune gravitano attorno al pianeta della poesia italiana dall’Ottocento in poi: mille meteoriti frutto
dell’esplosione della grande luna post-romantica. A disintegrarla cominciano gli scapigliati come Faldella (“un
verdastro di selenografia veneziana”) e Lucini (le sue Espettorazioni di un tisico alla luna furono inserite
da Edoardo Sanguineti in una provocatoria hit-parade delle dieci migliori poesie di tutta la letteratura italiana).
Anche i crepuscolari fanno la loro parte: Gozzano, memore di De Musset, alla sua signorina Felicita fa dire
che “la Luna sopra il campanile / pareva ‘un punto sopra un I gigante’ ”. La mazzata definitiva però viene dai
futuristi: se Soffici ancora si limita all’ironia dissacrante (“gli archi elettrici / fanno l’articolo della luna, casa
fondata nell’anno I dell’eternità”), Marinetti ne fa l’oggetto di una sua celebre invettiva, allorché urla
programmaticamente “Uccidiamo il chiaro di luna!”. E’ la luna dissacrata, una reazione eccessiva agli eccessi
del romanticume d’accatto.

 Ben altra era la vera eredità romantica, quella che aveva avuto in Leopardi il più alto interprete.
Nell’opera del recanatese la luna è presenza assidua, interlocutore privilegiato, presenza casta, testimone
familiare ma lontano dal dramma umano. E’ la luna “vereconda” dell’Ultimo canto di Saffo, la luna “queta”
della Sera del dì di festa, la luna “graziosa” e “diletta” dell’idillio ‘’Alla luna’’.

 Quasi totale invece l’assenza di Montale, più propenso ad ambientazioni solari (e solariane), tanto
che nel suo corpus poetico l’astro lunare ricorre solo una decina di volte, per lo più di straforo.
(PARTE SERENA)
Espressioni usate per descrivere la suggestione della luna
La luna fa capolino nella poetica leopardiana nel Frammento XXXIX, composto tra il
novembre e il dicembre del 1816. Nonostante il poeta sembri provare affetto per la luna,
definita come «rugiadosa» e «sorella del sole», mostra una vena malinconica «spento il
diurno raggio in occidente». Lo spento raggio, come rivela Leopardi in un passo
dell’Appressamento della Morte, «in undici giorni tutta senza interruzioni e nel giorno in cui la
terminai, cominciai a copiarla che feci in due altri giorni. Tutto nel Novembre e Dicembre del
1816 » non è altro che una metafora del poeta che mostra una certa apprensione nel
terminarla per paura della morte incombente.
In Alla luna Leopardi sceglie il lessico e il tono della poesia d’amore in un modo quasi
petrarchesco. Ricordando tantissimo un passo dell’ Ortis «O luna! Amica luna», Leopardi,
spendendo parole dolcissime verso la sua interlocutrice (la luna), quasi come se si stesse
rivolgendo alla donna amata, instaura un monologo con essa definendola “graziosa” e
successivamente sua diletta «mia diletta luna».
Il poeta si rivolge alla luna in tono affettivo «cara», critica la stessa perché sgradita a tutti
coloro che vogliono rimanere nascosti per tramare ombra. Il raggio, inizialmente
«tranquillo», diventa «vezzoso». La luce emanata, infatti, ostacola le cattive intenzioni del
brigante, incapace di assalire l’ignaro viaggiatore,amante, a rischio di essere scoperto,
e di tutti gli uomini malvagi. Il sentimento di Leopardi di fronte alla luna è ambivalente: da
una parte il chiarore della luna lo espone agli sguardi altrui e esponeva gli altri ai suoi
sguardi, dall’altra gli consente di godere anche di notte della bellezza degli “infiniti spazi”.
Nonostante tutto, il poeta sarà sempre grato alla luna «loderollo» perché unica a seguire,
silenziosamente, il poeta per tutto arco della sua esistenza.

PARTE DI CATERINA
La Luna, l’astro per eccellenza, delle religioni primitive, assieme al Sole, ha ispirato le frasi più belle tra poeti
e santi, un miscuglio di romanticismo e di sacralità, per il semplice sguardo di questi corpi misteriosi. Con il
passare dei secoli, lentamente si acquisiva una certa consapevolezza degli eventi celesti e più aumentava il
grado di conoscenza, più ci si allontanava dal romanticismo. La Luna come dono di Dio per rischiarare le
notti buie perse il suo significato e subentrò l’aspetto scientifico, come corpo planetario alla stessa stregua
della Terra e degli altri pianeti che girano attorno al Sole.             
Le ragioni sono profonde e si legano alla fortuna che nella cultura romantica ha il tema dell'indefinito,
dell'infinito, del vago. Il tema del notturno converge con quello della solitudine, ora amata o temuta, ora fonte
di piacere e angoscia. La luna funge, dunque, da specchio che rimanda gli impulsi dell'io, positivi e negativi.
Interlocutrice privilegiata della poesia di Leopardi, in “Alla luna” viene ribadito il carattere di amicizia con il
poeta: il paesaggio si interiorizza e la luna porta su di sé i segni della condizione soggettiva del poeta. Un
rapporto di intima consonanza anche nella “Vita solitaria”  tra la propria ricerca di solitudine e lo spettacolo di
un tranquillo paesaggio lunare. Lontano dalla città corrotta, solo, in mezzo alla campagna. Nel “Bruto
minore”, la luna assiste indifferente al suicidio dell'eroe sconfitto: una svolta netta nel loro rapporto. Estranea
alle virtù e alle imprese eroiche, impassibile assiste alle vicende dell'uomo. Sicuramente complice di questa
situazione, l'esperienza della malattia e la riflessione sul vero con cui approda ad una visione meccanicistica
dell'universo. Caduta l'illusione di una natura buona, entra in crisi il colloquio con la natura. Ricompare
soltanto in una remota, gelida lontananza, nel “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”, dove la luna
appare silenziosa, vergine, intatta. I suoi sempiterni giri, ormai sganciati da qualsiasi partecipazione umana,
misurano solo il tacito infinito andar del tempo, un tempo sempre uguale a se stesso, senza scopo e senza
senso. Una sconsolata allegoria del destino umano. Chi parla non è più l'eroe ma il semplice pastore che, a
nome dell'intera umanità, rivolge alla luna le domande accordate e senza risposta: “Dimmi o luna: a che
vale/al pastor la sua vita,/la vostra vita a voi? Dimmi: ove tende/questo vagar mio breve,/il tuo corso
immortale?”.
“O falce calante, qual messe di sogni/ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!”. Così D'Annunzio si rivolge alla
luna che, velata di prezioso argento, richiama i riverberi che il mare assume grazie alla sua luce. La
rappresentazione del notturno è suggestiva e raffinata, impreziosita dalla presenza dell'ultimo quarto della
luna; sono esaltati gli aspetti estetizzanti del decadentismo dannunziano, in pochi versi, attraverso una serie
di sinestesie proibitive gioca sulla loro musicalità e sulla sensualità delle immagini che ne derivano.
In una dimensione tutta personale, l'Assiuolo di Pascoli che apre le danze con la domanda: 
“Dov'era la luna? ché il cielo/ notava in un'alba di perla,/ ed ergersi il mandorlo e il melo/ parevano a meglio
vederla./" La descrizione del paesaggio notturno affascina: il cielo è chiaro come l'alba grazie alle stelle,
lucenti come poche altre volte. Perfino gli alberi sembrano sporgersi per vedere la luna, timidamente
nascosta tra le nubi; il paesaggio è incantevole con la melodia del mare e i fruscii dei cespugli che
rasserenano l'anima. L'ambiente viene solo momentaneamente e a più riprese, disturbato da un sussulto
lontano che si leva tra i campi: chiù. Una presenza minacciosa, angosciosa che riecheggia il pianto di morte,
che rievoca ricordi tristi e pensieri tormentati, che provoca una scossa al cuore e, ancor peggio, che
impedisce il godimento totale della magia di una notte stellata, come quella di Van Gogh, perché avvolta dal
mistero e dalla morte. 
Anche nel “Alla sera” di Foscolo la riflessione tocca inevitabilmente questo tema: quello della “fatal quiete”.
Ancor più netta è l'espressione “nulla eterno” (l'Unsinn, il “solido nulla” di Leopardi  valsogli, secondo alcuni,
l'appellativo di nichilista a cui è stata preferita la filosofia dell'ontologia del nulla), che indica la morte in
termini materialistici. La sera non è guardata come una generica immagine di finitudine umana e mondana,
ma nei caratteri realistici e puntuali che le conferiscono le stagioni, in termini cioè terreni e materiali. Il suo
potere non riguarda misteriose associazioni irrazionali, ma si esercita sull'interiorità umana e psicologica del
poeta attraverso un meccanismo che questi si impegna a rendere comprensibile. Il sentimento di caducità dà
un senso di limitatezza all'esperienza individuale e storica. Un modello, questo di “Alla sera”, non proprio di
equilibrio, ma il suo fascino punta proprio sulla armonizzazione di motivi e temi contrapposti: slancio vitale e
idea della morte, angoscia e rasserenamento. Un invito a misurarsi senza orrore con i grandi temi
esistenziali.
Il confronto, per contrasto. è ancora una volta con “La mia sera” di Pascoli, inserita nella dimensione più
personale della propria intimità, espressione intensa del suo simbolismo poetico. La descrizione della sera è
connotativa; essa porta serenità dopo una giornata di tempesta ed indica la vecchiaia del poeta e si anticipa
la soggettività del componimento, in cui i dati oggettivi assumono un significato esistenziale. Una delle cifre
significative della poesia pascoliana consiste nel suscitare, attraverso una serie di immagini semplici, una
trama impressionistica compenetrata da un forte espressionismo. “La mia sera” non fa eccezione e, dopo un
quadro denso di simboli, ascoltiamo i bisbigli, le voci, i canti della madre.

PARTE DI ROKS
La poesia Canto alla luna di Alda Merini
La luna infatti "geme" sul fondo del mare, tra la paura delle siepi sulla terra, o degli sguardi che si
intravedono nel buio, che cercano di afferrarla nell'animo ferito. La luna è presente su di noi, e anche quando
siamo vicini alla fine, possiamo sentire la sua presenza tra i cespugli colpiti dal fuoco del mantici e dai giochi
del destino. 
La luna geme sui fondali del mare,
o Dio quanta morta paura
di queste siepi terrene,
o quanti sguardi attoniti
che salgono dal buio
a ghermirti nell'anima ferita.
La luna grava su tutto il nostro io
e anche quando sei prossima alla fine
senti odore di luna
sempre sui cespugli martoriati
dai mantici
dalle parodie del destino. 
Ad un certo punto la poetessa si esprime in prima persona, affermando di essere come una zingara, poiché
nel mondo non ha una dimora fissa. 
Io sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo,
Ma forse, scorgendo il chiaro di luna, potrebbe fermarsi un attimo, giusto per dare un solo bacio d'amore al
suo innamorato. 
ma forse al chiaro di luna
mi fermerò il tuo momento,
quanto basti per darti
un unico bacio d'amore.
Gli elementi presenti nella poesia sono dunque molteplici. Innanzitutto l'elemento biografico, desumibile
dall'atmosfera cupa, ma nello stesso tempo contrastante del paesaggio al chiaro di luna. Viene descritta una
realtà tragica, che proviene dall'incoscio della donna, vissuta in modo allucinato, e che si riflette di
conseguenza nella descrizione dello scenario. La Merini infatti fu internata per un po' di tempo in un
manicomio, quando incontrò "le prime ombre nella sua mente", e questa esperienza si riflette nella sua
produzione poetica: ella descrive, anche in questo caso, una realtà visionaria, angosciosa, lucida a tratti, con
una concezione del tutto personale delle cose. Altro tema della poesia è l'amore: la luna fa sicuramente
sfondo agli incontri degli innamorati, ma nello stesso tempo la sua luce fredda è sinonimo di addio. Tuttavia,
nonostante il suo animo sia tormentato, il chiaro di luna non può fare altro che farla fermare almeno un
attimo, e concenderle un bacio d'amore, breve e sfuggente, un momento raro se si pensa alla vita solitaria e
complicata della donna. Infine, un altro elemento è il paesaggio, illuminato dalla luna personificata, bellissimo
ma nello stesso tempo inquetante e non sicuro. 
La poesia Alla luna di Leopardi
Dopo un anno il poeta guarda di nuovo la luna, che rischiara la selva del monte Tabor o colle dell’Infinito.
Come un anno prima la luna compariva velata e tremula agli occhi di lui, pieni di lacrime, così gli compare
anche adesso, perché nulla è cambiato nella sua vita, che continua ad essere travagliata e che gli riempie
ancora gli occhi di lacrime 
‘Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
O mia diletta luna.’
  Quando si è nell’età giovanile, dice il poeta, la memoria ha poco spazio dietro di sé e la speranza, invece,
ha davanti a sé un lungo cammino, questo perché le illusioni sono ancora vive e vere, quindi è piacevole il
ricordo del passato, anche se esso fu triste e se il presente è doloroso.
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,           
Ancor che triste, e che l'affanno duri! 
Il tema dell’idillio è la dolcezza, che si prova rievocando il passato, anche se è doloroso, perché se ne
evocano tutte le illusioni. Il Leopardi dei piccoli idilli, ed in questo caso di “Alla Luna”, si rifugia sul monte
Tabor, che gli dà la percezione dell’Infinito, per lasciarsi andare al ricordo del tempo nel quale era convinto
che il domani sarebbe stato migliore. Nell’immaginario del poeta, la luna è una donna graziosa che allevia il
pianto umano, compare per rischiarare la selva, e per ridare agli occhi del poeta, che sono velati dal pianto,
nuovo vigore. Non è solo una predilezione per i notturni lunari, ma un desiderio di affetto. Nell’opera
leopardiana c’è un’immagine di donna che vuole essere madre, simboleggiata dalla luna.
PARE DI DAMIANO
IL RAPPORTO, TRA POETA E LUNA.

LEOPARDI:
Attraverso gli scritti di leopardi è possibile comprendere il rapporto tra il poeta e la luna, mai statico e sempre
in continua evoluzione.
La luna fa capolino nella poetica leopardiana nel 1816. Nonostante il poeta sembri provare affetto per la luna,
definita come «rugiadosa» e «sorella del sole», mostra una vena malinconica «spento il diurno raggio in
occidente». Nella Sera al dì di festa (1820) subentra, come nel Frammento XXXI, il simbolo della morte. La
prima bozza della poesia, che si apre con l'espressione «Oimè, chiara», mette l'accento sul dolore fisico del
poeta. Solo in una seconda versione il poeta si rivolge in maniera affettuosa alla luna «dolce», sostituendo a
un'espressione di dolore un sentimento di angoscia ristretto all'animo del poeta. Nei primi versi il polisindeto
«dolce e chiara è la notte» mette in risalto la presenza della luna «notturna lampa», che appare immobile
«posa» di fronte al poeta. Sembra quasi che Leopardi, dopo essersi abbandonato alla bellezza della luna, ci
voglia dire che tutte le cose umane finiscono nell'oscurità e in silenzio, negando al poeta la speranza della
felicità.
In Alla luna Leopardi, spende parole dolcissime verso la sua interlocutrice (la luna), quasi come se si stesse
rivolgendo alla donna amata, instaura un monologo con essa definendola “graziosa” e successivamente sua
diletta «mia diletta luna». Ancora una volta a questo idillio subentra la malinconia: il poeta, tornato a distanza
di un anno nei “luoghi dell'infinito”, osserva commosso la luna che, muta e silenziosa, metafora della sua vita
infelice, suscita nel poeta malinconia e nostalgia dei tempi passati. 
Nella Vita solitaria Il sentimento di Leopardi di fronte alla luna è ambivalente: da una parte il chiarore della
luna lo espone agli sguardi altrui e esponeva gli altri ai suoi sguardi, dall'altra gli consente di godere anche di
notte della bellezza degli “infiniti spazi”. Nonostante tutto, il poeta sarà sempre grato alla luna perché è
l'unica a seguire, silenziosamente, il poeta per tutto l'arco della sua esistenza.
Nel Canto Notturno la luna da confidente consolatrice (graziosa e dolce) diviene un astro gelido, indifferente,
distaccato e impassibile ai problemi dell'uomo. Il poeta si rivolge alla luna ponendo domande che non
presuppongono risposta. Le domande, di carattere esistenzialistico, «Che fai tu, luna in ciel?», riguardano
tutti quegli interrogativi che l'uomo, nel corso della storia, non è riuscito a dare una spiegazione
universalmente e definitivamente convincente. Infine, Leopardi contemplando la luna, scopre quanto la
propria vita sia simile a quella dell'astro. 
Per Leopardi quando l'attività del pastore si conclude, dopo essersi alzato di buon’ora per portare a
pascolare il gregge, inizia quella della luna «posa». Una vita noiosa, ripetitiva, che sfocia nella domanda
finale del pastore sul senso della vita dell'uomo e dell’universo. Quest'ultima domanda non casca nel vuoto:
il poeta stesso, nelle vesti del pastore, cerca di dare risposta ai quesiti esistenziali posti inizialmente alla
luna. Il poeta paragona la vita umana al destino di un vecchio infermo che, dopo aver attraversato mille
difficoltà, sanguinante e esausto, corre verso l’abisso, simbolo della morte, nel quale precipita e si annulla.
Nelle strofe successive Leopardi, umanizza la luna rendendola terrena e mortale. La luna condivide lo stesso
destino amaro del «pastore errante» che, come lui, vive in solitudine., vive un destino ancor più amaro del
poeta perché costretta a girare in eterno osservando il crudele destino degli uomini.
                                                  
                                            La luna fonte d’ispirazione:
La luna, nei secoli, è stata fonte di ispirazione poetica e filosofica: Luciano di Samosata, scrittore greco del II
secolo d.C., nella sua “Storia vera”, immaginava il viaggio verso luna con una nave, mentre il secondo Canto
del Paradiso di Dante sembra quasi un trattatello di scienza lunare. Dante ha un dubbio riguardo all’origine
delle macchie lunari visibili dalla Terra.
Secondo lui le diversità tra le parti luminose e quelle scure sono causate dalla diversa densità dei corpi, ma
Beatrice dà una spiegazione di natura metafisica al fenomeno: la maggiore o minore intensità degli astri o di
parti di essi è legata al diverso grado di compenetrazione nei cieli della virtù angelica. Petrarca fa della luna
una metafora dei suoi stati d’animo malinconici e notturni. 

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