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Mille lune gravitano attorno al pianeta della poesia italiana dall’Ottocento in poi: mille meteoriti frutto
dell’esplosione della grande luna post-romantica. A disintegrarla cominciano gli scapigliati come Faldella (“un
verdastro di selenografia veneziana”) e Lucini (le sue Espettorazioni di un tisico alla luna furono inserite
da Edoardo Sanguineti in una provocatoria hit-parade delle dieci migliori poesie di tutta la letteratura italiana).
Anche i crepuscolari fanno la loro parte: Gozzano, memore di De Musset, alla sua signorina Felicita fa dire
che “la Luna sopra il campanile / pareva ‘un punto sopra un I gigante’ ”. La mazzata definitiva però viene dai
futuristi: se Soffici ancora si limita all’ironia dissacrante (“gli archi elettrici / fanno l’articolo della luna, casa
fondata nell’anno I dell’eternità”), Marinetti ne fa l’oggetto di una sua celebre invettiva, allorché urla
programmaticamente “Uccidiamo il chiaro di luna!”. E’ la luna dissacrata, una reazione eccessiva agli eccessi
del romanticume d’accatto.
Ben altra era la vera eredità romantica, quella che aveva avuto in Leopardi il più alto interprete.
Nell’opera del recanatese la luna è presenza assidua, interlocutore privilegiato, presenza casta, testimone
familiare ma lontano dal dramma umano. E’ la luna “vereconda” dell’Ultimo canto di Saffo, la luna “queta”
della Sera del dì di festa, la luna “graziosa” e “diletta” dell’idillio ‘’Alla luna’’.
Quasi totale invece l’assenza di Montale, più propenso ad ambientazioni solari (e solariane), tanto
che nel suo corpus poetico l’astro lunare ricorre solo una decina di volte, per lo più di straforo.
(PARTE SERENA)
Espressioni usate per descrivere la suggestione della luna
La luna fa capolino nella poetica leopardiana nel Frammento XXXIX, composto tra il
novembre e il dicembre del 1816. Nonostante il poeta sembri provare affetto per la luna,
definita come «rugiadosa» e «sorella del sole», mostra una vena malinconica «spento il
diurno raggio in occidente». Lo spento raggio, come rivela Leopardi in un passo
dell’Appressamento della Morte, «in undici giorni tutta senza interruzioni e nel giorno in cui la
terminai, cominciai a copiarla che feci in due altri giorni. Tutto nel Novembre e Dicembre del
1816 » non è altro che una metafora del poeta che mostra una certa apprensione nel
terminarla per paura della morte incombente.
In Alla luna Leopardi sceglie il lessico e il tono della poesia d’amore in un modo quasi
petrarchesco. Ricordando tantissimo un passo dell’ Ortis «O luna! Amica luna», Leopardi,
spendendo parole dolcissime verso la sua interlocutrice (la luna), quasi come se si stesse
rivolgendo alla donna amata, instaura un monologo con essa definendola “graziosa” e
successivamente sua diletta «mia diletta luna».
Il poeta si rivolge alla luna in tono affettivo «cara», critica la stessa perché sgradita a tutti
coloro che vogliono rimanere nascosti per tramare ombra. Il raggio, inizialmente
«tranquillo», diventa «vezzoso». La luce emanata, infatti, ostacola le cattive intenzioni del
brigante, incapace di assalire l’ignaro viaggiatore,amante, a rischio di essere scoperto,
e di tutti gli uomini malvagi. Il sentimento di Leopardi di fronte alla luna è ambivalente: da
una parte il chiarore della luna lo espone agli sguardi altrui e esponeva gli altri ai suoi
sguardi, dall’altra gli consente di godere anche di notte della bellezza degli “infiniti spazi”.
Nonostante tutto, il poeta sarà sempre grato alla luna «loderollo» perché unica a seguire,
silenziosamente, il poeta per tutto arco della sua esistenza.
PARTE DI CATERINA
La Luna, l’astro per eccellenza, delle religioni primitive, assieme al Sole, ha ispirato le frasi più belle tra poeti
e santi, un miscuglio di romanticismo e di sacralità, per il semplice sguardo di questi corpi misteriosi. Con il
passare dei secoli, lentamente si acquisiva una certa consapevolezza degli eventi celesti e più aumentava il
grado di conoscenza, più ci si allontanava dal romanticismo. La Luna come dono di Dio per rischiarare le
notti buie perse il suo significato e subentrò l’aspetto scientifico, come corpo planetario alla stessa stregua
della Terra e degli altri pianeti che girano attorno al Sole.
Le ragioni sono profonde e si legano alla fortuna che nella cultura romantica ha il tema dell'indefinito,
dell'infinito, del vago. Il tema del notturno converge con quello della solitudine, ora amata o temuta, ora fonte
di piacere e angoscia. La luna funge, dunque, da specchio che rimanda gli impulsi dell'io, positivi e negativi.
Interlocutrice privilegiata della poesia di Leopardi, in “Alla luna” viene ribadito il carattere di amicizia con il
poeta: il paesaggio si interiorizza e la luna porta su di sé i segni della condizione soggettiva del poeta. Un
rapporto di intima consonanza anche nella “Vita solitaria” tra la propria ricerca di solitudine e lo spettacolo di
un tranquillo paesaggio lunare. Lontano dalla città corrotta, solo, in mezzo alla campagna. Nel “Bruto
minore”, la luna assiste indifferente al suicidio dell'eroe sconfitto: una svolta netta nel loro rapporto. Estranea
alle virtù e alle imprese eroiche, impassibile assiste alle vicende dell'uomo. Sicuramente complice di questa
situazione, l'esperienza della malattia e la riflessione sul vero con cui approda ad una visione meccanicistica
dell'universo. Caduta l'illusione di una natura buona, entra in crisi il colloquio con la natura. Ricompare
soltanto in una remota, gelida lontananza, nel “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”, dove la luna
appare silenziosa, vergine, intatta. I suoi sempiterni giri, ormai sganciati da qualsiasi partecipazione umana,
misurano solo il tacito infinito andar del tempo, un tempo sempre uguale a se stesso, senza scopo e senza
senso. Una sconsolata allegoria del destino umano. Chi parla non è più l'eroe ma il semplice pastore che, a
nome dell'intera umanità, rivolge alla luna le domande accordate e senza risposta: “Dimmi o luna: a che
vale/al pastor la sua vita,/la vostra vita a voi? Dimmi: ove tende/questo vagar mio breve,/il tuo corso
immortale?”.
“O falce calante, qual messe di sogni/ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!”. Così D'Annunzio si rivolge alla
luna che, velata di prezioso argento, richiama i riverberi che il mare assume grazie alla sua luce. La
rappresentazione del notturno è suggestiva e raffinata, impreziosita dalla presenza dell'ultimo quarto della
luna; sono esaltati gli aspetti estetizzanti del decadentismo dannunziano, in pochi versi, attraverso una serie
di sinestesie proibitive gioca sulla loro musicalità e sulla sensualità delle immagini che ne derivano.
In una dimensione tutta personale, l'Assiuolo di Pascoli che apre le danze con la domanda:
“Dov'era la luna? ché il cielo/ notava in un'alba di perla,/ ed ergersi il mandorlo e il melo/ parevano a meglio
vederla./" La descrizione del paesaggio notturno affascina: il cielo è chiaro come l'alba grazie alle stelle,
lucenti come poche altre volte. Perfino gli alberi sembrano sporgersi per vedere la luna, timidamente
nascosta tra le nubi; il paesaggio è incantevole con la melodia del mare e i fruscii dei cespugli che
rasserenano l'anima. L'ambiente viene solo momentaneamente e a più riprese, disturbato da un sussulto
lontano che si leva tra i campi: chiù. Una presenza minacciosa, angosciosa che riecheggia il pianto di morte,
che rievoca ricordi tristi e pensieri tormentati, che provoca una scossa al cuore e, ancor peggio, che
impedisce il godimento totale della magia di una notte stellata, come quella di Van Gogh, perché avvolta dal
mistero e dalla morte.
Anche nel “Alla sera” di Foscolo la riflessione tocca inevitabilmente questo tema: quello della “fatal quiete”.
Ancor più netta è l'espressione “nulla eterno” (l'Unsinn, il “solido nulla” di Leopardi valsogli, secondo alcuni,
l'appellativo di nichilista a cui è stata preferita la filosofia dell'ontologia del nulla), che indica la morte in
termini materialistici. La sera non è guardata come una generica immagine di finitudine umana e mondana,
ma nei caratteri realistici e puntuali che le conferiscono le stagioni, in termini cioè terreni e materiali. Il suo
potere non riguarda misteriose associazioni irrazionali, ma si esercita sull'interiorità umana e psicologica del
poeta attraverso un meccanismo che questi si impegna a rendere comprensibile. Il sentimento di caducità dà
un senso di limitatezza all'esperienza individuale e storica. Un modello, questo di “Alla sera”, non proprio di
equilibrio, ma il suo fascino punta proprio sulla armonizzazione di motivi e temi contrapposti: slancio vitale e
idea della morte, angoscia e rasserenamento. Un invito a misurarsi senza orrore con i grandi temi
esistenziali.
Il confronto, per contrasto. è ancora una volta con “La mia sera” di Pascoli, inserita nella dimensione più
personale della propria intimità, espressione intensa del suo simbolismo poetico. La descrizione della sera è
connotativa; essa porta serenità dopo una giornata di tempesta ed indica la vecchiaia del poeta e si anticipa
la soggettività del componimento, in cui i dati oggettivi assumono un significato esistenziale. Una delle cifre
significative della poesia pascoliana consiste nel suscitare, attraverso una serie di immagini semplici, una
trama impressionistica compenetrata da un forte espressionismo. “La mia sera” non fa eccezione e, dopo un
quadro denso di simboli, ascoltiamo i bisbigli, le voci, i canti della madre.
PARTE DI ROKS
La poesia Canto alla luna di Alda Merini
La luna infatti "geme" sul fondo del mare, tra la paura delle siepi sulla terra, o degli sguardi che si
intravedono nel buio, che cercano di afferrarla nell'animo ferito. La luna è presente su di noi, e anche quando
siamo vicini alla fine, possiamo sentire la sua presenza tra i cespugli colpiti dal fuoco del mantici e dai giochi
del destino.
La luna geme sui fondali del mare,
o Dio quanta morta paura
di queste siepi terrene,
o quanti sguardi attoniti
che salgono dal buio
a ghermirti nell'anima ferita.
La luna grava su tutto il nostro io
e anche quando sei prossima alla fine
senti odore di luna
sempre sui cespugli martoriati
dai mantici
dalle parodie del destino.
Ad un certo punto la poetessa si esprime in prima persona, affermando di essere come una zingara, poiché
nel mondo non ha una dimora fissa.
Io sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo,
Ma forse, scorgendo il chiaro di luna, potrebbe fermarsi un attimo, giusto per dare un solo bacio d'amore al
suo innamorato.
ma forse al chiaro di luna
mi fermerò il tuo momento,
quanto basti per darti
un unico bacio d'amore.
Gli elementi presenti nella poesia sono dunque molteplici. Innanzitutto l'elemento biografico, desumibile
dall'atmosfera cupa, ma nello stesso tempo contrastante del paesaggio al chiaro di luna. Viene descritta una
realtà tragica, che proviene dall'incoscio della donna, vissuta in modo allucinato, e che si riflette di
conseguenza nella descrizione dello scenario. La Merini infatti fu internata per un po' di tempo in un
manicomio, quando incontrò "le prime ombre nella sua mente", e questa esperienza si riflette nella sua
produzione poetica: ella descrive, anche in questo caso, una realtà visionaria, angosciosa, lucida a tratti, con
una concezione del tutto personale delle cose. Altro tema della poesia è l'amore: la luna fa sicuramente
sfondo agli incontri degli innamorati, ma nello stesso tempo la sua luce fredda è sinonimo di addio. Tuttavia,
nonostante il suo animo sia tormentato, il chiaro di luna non può fare altro che farla fermare almeno un
attimo, e concenderle un bacio d'amore, breve e sfuggente, un momento raro se si pensa alla vita solitaria e
complicata della donna. Infine, un altro elemento è il paesaggio, illuminato dalla luna personificata, bellissimo
ma nello stesso tempo inquetante e non sicuro.
La poesia Alla luna di Leopardi
Dopo un anno il poeta guarda di nuovo la luna, che rischiara la selva del monte Tabor o colle dell’Infinito.
Come un anno prima la luna compariva velata e tremula agli occhi di lui, pieni di lacrime, così gli compare
anche adesso, perché nulla è cambiato nella sua vita, che continua ad essere travagliata e che gli riempie
ancora gli occhi di lacrime
‘Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
O mia diletta luna.’
Quando si è nell’età giovanile, dice il poeta, la memoria ha poco spazio dietro di sé e la speranza, invece,
ha davanti a sé un lungo cammino, questo perché le illusioni sono ancora vive e vere, quindi è piacevole il
ricordo del passato, anche se esso fu triste e se il presente è doloroso.
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!
Il tema dell’idillio è la dolcezza, che si prova rievocando il passato, anche se è doloroso, perché se ne
evocano tutte le illusioni. Il Leopardi dei piccoli idilli, ed in questo caso di “Alla Luna”, si rifugia sul monte
Tabor, che gli dà la percezione dell’Infinito, per lasciarsi andare al ricordo del tempo nel quale era convinto
che il domani sarebbe stato migliore. Nell’immaginario del poeta, la luna è una donna graziosa che allevia il
pianto umano, compare per rischiarare la selva, e per ridare agli occhi del poeta, che sono velati dal pianto,
nuovo vigore. Non è solo una predilezione per i notturni lunari, ma un desiderio di affetto. Nell’opera
leopardiana c’è un’immagine di donna che vuole essere madre, simboleggiata dalla luna.
PARE DI DAMIANO
IL RAPPORTO, TRA POETA E LUNA.
LEOPARDI:
Attraverso gli scritti di leopardi è possibile comprendere il rapporto tra il poeta e la luna, mai statico e sempre
in continua evoluzione.
La luna fa capolino nella poetica leopardiana nel 1816. Nonostante il poeta sembri provare affetto per la luna,
definita come «rugiadosa» e «sorella del sole», mostra una vena malinconica «spento il diurno raggio in
occidente». Nella Sera al dì di festa (1820) subentra, come nel Frammento XXXI, il simbolo della morte. La
prima bozza della poesia, che si apre con l'espressione «Oimè, chiara», mette l'accento sul dolore fisico del
poeta. Solo in una seconda versione il poeta si rivolge in maniera affettuosa alla luna «dolce», sostituendo a
un'espressione di dolore un sentimento di angoscia ristretto all'animo del poeta. Nei primi versi il polisindeto
«dolce e chiara è la notte» mette in risalto la presenza della luna «notturna lampa», che appare immobile
«posa» di fronte al poeta. Sembra quasi che Leopardi, dopo essersi abbandonato alla bellezza della luna, ci
voglia dire che tutte le cose umane finiscono nell'oscurità e in silenzio, negando al poeta la speranza della
felicità.
In Alla luna Leopardi, spende parole dolcissime verso la sua interlocutrice (la luna), quasi come se si stesse
rivolgendo alla donna amata, instaura un monologo con essa definendola “graziosa” e successivamente sua
diletta «mia diletta luna». Ancora una volta a questo idillio subentra la malinconia: il poeta, tornato a distanza
di un anno nei “luoghi dell'infinito”, osserva commosso la luna che, muta e silenziosa, metafora della sua vita
infelice, suscita nel poeta malinconia e nostalgia dei tempi passati.
Nella Vita solitaria Il sentimento di Leopardi di fronte alla luna è ambivalente: da una parte il chiarore della
luna lo espone agli sguardi altrui e esponeva gli altri ai suoi sguardi, dall'altra gli consente di godere anche di
notte della bellezza degli “infiniti spazi”. Nonostante tutto, il poeta sarà sempre grato alla luna perché è
l'unica a seguire, silenziosamente, il poeta per tutto l'arco della sua esistenza.
Nel Canto Notturno la luna da confidente consolatrice (graziosa e dolce) diviene un astro gelido, indifferente,
distaccato e impassibile ai problemi dell'uomo. Il poeta si rivolge alla luna ponendo domande che non
presuppongono risposta. Le domande, di carattere esistenzialistico, «Che fai tu, luna in ciel?», riguardano
tutti quegli interrogativi che l'uomo, nel corso della storia, non è riuscito a dare una spiegazione
universalmente e definitivamente convincente. Infine, Leopardi contemplando la luna, scopre quanto la
propria vita sia simile a quella dell'astro.
Per Leopardi quando l'attività del pastore si conclude, dopo essersi alzato di buon’ora per portare a
pascolare il gregge, inizia quella della luna «posa». Una vita noiosa, ripetitiva, che sfocia nella domanda
finale del pastore sul senso della vita dell'uomo e dell’universo. Quest'ultima domanda non casca nel vuoto:
il poeta stesso, nelle vesti del pastore, cerca di dare risposta ai quesiti esistenziali posti inizialmente alla
luna. Il poeta paragona la vita umana al destino di un vecchio infermo che, dopo aver attraversato mille
difficoltà, sanguinante e esausto, corre verso l’abisso, simbolo della morte, nel quale precipita e si annulla.
Nelle strofe successive Leopardi, umanizza la luna rendendola terrena e mortale. La luna condivide lo stesso
destino amaro del «pastore errante» che, come lui, vive in solitudine., vive un destino ancor più amaro del
poeta perché costretta a girare in eterno osservando il crudele destino degli uomini.
La luna fonte d’ispirazione:
La luna, nei secoli, è stata fonte di ispirazione poetica e filosofica: Luciano di Samosata, scrittore greco del II
secolo d.C., nella sua “Storia vera”, immaginava il viaggio verso luna con una nave, mentre il secondo Canto
del Paradiso di Dante sembra quasi un trattatello di scienza lunare. Dante ha un dubbio riguardo all’origine
delle macchie lunari visibili dalla Terra.
Secondo lui le diversità tra le parti luminose e quelle scure sono causate dalla diversa densità dei corpi, ma
Beatrice dà una spiegazione di natura metafisica al fenomeno: la maggiore o minore intensità degli astri o di
parti di essi è legata al diverso grado di compenetrazione nei cieli della virtù angelica. Petrarca fa della luna
una metafora dei suoi stati d’animo malinconici e notturni.