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Sofocle

EDIPO RE

Feltrinelli
Traduzione e cura di
Laura Correale

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Prima edizione nella collana “Universale Economica I


Classici” giugno 2013

ISBN edizione cartacea: 9788807900471


Franco Rella (Rovereto 1944), docente di Estetica alla
facoltà del Design e delle Arti dell’Università di Venezia, è
autore di numerosi saggi, più volte ristampati e tradotti. Con
Feltrinelli ha pubblicato: Il mito dell’altro. Lacan, Deleuze,
Foucault (1978), Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo
della crisi (1981), Metamorfosi. Immagini del pensiero
(1984), La battaglia della verità (1986), Limina. Il pensiero
e le cose (1987), Asterischi (1989), Bellezza e verità (1990),
L’enigma della bellezza (1991), Miti e figure del moderno
(1993, 2003), Le soglie dell’ombra (1994), Negli occhi di
Vincent. L’io nello specchio del mondo (1998), Ai confini del
corpo (2000), Figure del male (2002), Dall’esilio. La
creazione artistica come testimonianza (2004) e Scritture
estreme. Proust e Kafka (2005), oltre al romanzo L’ultimo
uomo (1996); ha curato per “I Classici” anche le edizioni di
Hölderlin, Edipo il tiranno, Rilke, I sonetti a Orfeo,
Baudelaire, Lo Spleen di Parigi e Ultimi scritti, Euripide,
Baccanti, Flaubert, Bouvard e Pécuchet.

Laura Correale è insegnante di latino e greco, ha curato per


Feltrinelli Baccanti (1993) e Medea (1995) di Euripide.
   Introduzione 
 di Franco Rella

A Valeria Giordano
 

Nelle note si dà l’indicazione bibliografica estesa soltanto delle opere che


non sono comprese nella Bibliografia. Anche per eventuali riferimenti nel
testo si rinvia alla Bibliografia.
Negli occhi di Edipo

Edipo, l’uomo che più ha sofferto, ha


scoperto l’enigma dell’uomo.
F.W. NIETZSCHE

1. La verità tragica
Il racconto tenta di spiegare l’inspiegabile.
Siccome proviene da un fondo di verità, deve
terminare nell’inspiegabile.
F. KAFKA

Eraclito di Efeso era detto l’oscuro. Ma non parlava


oscuramente: parlava di cose oscure, di un fondo buio,
nascosto, a cui anche il dio soltanto accenna1 (DK 93; M 14),
senza dare segni certi che ci permettano di capirlo, di dare
ad esso una forma, di comprenderlo in un simbolo. I poeti
hanno cantato il buio dell’origine, Esiodo per esempio, che
però, per quanto sia celebrato, nulla sa di essa, perché egli
non sa nemmeno che il giorno e la notte sono una cosa sola.
O come Omero, che ha cantato la forza, il terrore, il sangue
e la pena, ma si è sottratto all’enigma piú profondo, perché
era incapace di sciogliere enigmi. 2
“La natura ama nascondersi” (DK 123; M 8), e gli uomini
vagano cercando di orientarsi, cercando con gli occhi e con
le orecchie “cattivi testimoni”, come stranieri in mezzo a
cose che appaiono familiari e che sono anch’esse straniere. 3
Il sapiente, che vaga anch’egli in questa terribile peripezia,
sa però che tutte le cose sono uno e che l’uno è tutte le cose4
in una tensione che non ha termine. Colui che non è sapiente,
ma che invece solo dichiara di amare sapienza, di essere cioè
filosofo, è “principe degli ingannatori”, in quanto, come
Pitagora (DK 81; M 18), egli non ama veramente sapienza,
ma il suo amore per essa, e dunque illude che il tutto stia
insieme in un’armonia senza contrasti, senza sapere che
anche Eros, la forza che unifica miticamente le cose, come
dirà Euripide, è terribile e “aritmico”. E dunque come un
mucchio di rifiuti buttati a caso è la più bella armonia (DK
124; M 107); e dunque anche nel canto della lira risuona, in
una strana, smisurata armonia, la vibrazione dell’arco che
porta la morte. 5

Soltanto spingendosi sempre più nell’oscuro, conoscendo


molte cose, riusciamo a scorgere il logos che le governa: è il
logos dei contrari, ed è per questo che “contesa è Giustizia”;
è per questo che dobbiamo sapere e affermare che tutte le
cose avvengono, e dunque si generano, vengono all’essere
“secondo contesa e necessità” (DK 80; M 28). Quindi non
Eros, come aveva detto Esiodo, ma Eris, la contesa, è
cosmogonica: fa essere il mondo l’uno e il tutto. Il logos della
contesa si mantiene attraverso le cose, attraverso l’uomo,
che è “vivo e morto, sveglio e dormiente, giovane e vecchio”
(DK 88; M 41), e si spinge fin dentro il dio “che vuole e non
vuole essere chiamato con il nome di Zeus”, fin dentro il
divino che presiede, con nomi diversi, quello di Ade e quello
di Dioniso, “che sono la stessa cosa”, alla generazione e alla
morte (DK 32, 15; M 84, 50).
È un conflitto che non conosce soluzione, perché nessuno
può prevalere in esso. Ed è questo conflitto che dà il profilo
del mondo, traccia la sua geografia, i suoi confini. Persino il
dio, Helios, non può superare questi metra, questi confini,
“altrimenti le Erinni ministre di Dike lo sorprenderanno con
la loro punizione” (DK 94; M 52). Eppure nel mondo
dominato dal conflitto, con le sue leggi e con i suoi limiti,
sembra che ci sia un illimitato. Infatti “per quanto tu possa
andare i confini dell’anima non li potrai scoprire, anche
percorrendo tutte le vie, tanto è profondo il Logos che le
appartiene” (DK 45; M 67). L’uomo dunque, proprio lui, che
ha in se stesso fragilità, vecchiaia, buio e morte, non ha
confini, è atopos, letteralmente “senza luogo”, perché è lui
stesso il confine e il limite del mondo; il phronein umano, il
suo sapere, è infatti il luogo “in cui si concatenano tutte le
cose” (DK 113; C 14). Per questo Protagora potrà ripetere
che “l’uomo è misura di tutte le cose”, in quanto è egli stesso
limite, soglia, frontiera: limen attraverso cui transitano i
contrari nel loro conflitto. 6

L’uomo nel buio “accende una luce a se stesso, e vivendo


tocca il morto, e sveglio tocca il dormiente” (DK 26; C 57).
L’uomo è dunque, come ha detto Fink, “un sito inquieto tra la
notte e la luce”, perché è lui stesso che agisce e fa essere i
contrari. Egli con il suo sapere traccia e stabilisce il legame
tra la notte e il giorno, tra la vita e la morte. È, in una
parola, l’ “essere tra la notte e il giorno”,7 l’essere tra la vita
e la morte.

Di fronte alla terribile scoperta di Eraclito, il genio greco


inventa contemporaneamente, nel V secolo, tre diverse
strategie che appartennero soltanto allo spirito greco, ma
che sono divenute in seguito lo spirito dell’Occidente, del
mondo intero: la democrazia, il primo tentativo (l’unico
nell’antichità) di tenere insieme e di agire i conflitti senza
risolverli coattivamente, ma cercando di strutturare la
società con l’energia che essi esprimono; la tragedia, che
trasforma questo sapere eracliteo in una metafisica del
limite, la più aspra e tesa che mai sia stata pensata, come è
quella che si esprime nelle parole di Antigone: “Me infelice,
la mia casa non è tra gli uomini e tra le ombre: non tra i vivi
né tra i morti”.

Queste parole, che riassumono il limite fra la vita e la


morte, che è anche in Aiace o in Elettra, o nella deserta
extraterritorialità del Filottete, o nell’assoluto essere
ovunque straniero di Edipo, parlano di un’assoluta atopia,
che ritroveremo dopo un vertiginoso salto temporale nel
Cacciatore Gracco di Kafka: colui che dà forma ai luoghi e
alle cose del mondo non può avere egli stesso un luogo. E
infine la filosofia, che trasforma, già con Parmenide, uno dei
termini della polarità fra essere e non essere, in una falsa
polarità: l’essere è il me einai, e il non essere è ouk on, un
niente, che non riguarda né l’essere né il pensiero. 8 Platone
spingerà l’audacia di questa affermazione fino a dichiarare
nel Fedone che anche la morte è un “niente”.

Nell’antica contesa della verità tra filosofia e tragedia,9


così la definisce Platone, la vittoria sembrerà toccare alla
filosofia. Eppure nessuna epoca ha potuto guardare a se
stessa, conoscersi, senza riattraversare la metafisica del
limite tragico. La tragedia, infatti, non è una forma
letteraria, ma è uno dei vertici conoscitivi toccati dall’uomo
nel suo viaggio attraverso l’oscuro per conoscere i suoi
confini, per conoscere i confini del mondo.

2. L’enigma della tragedia


Forse la soluzione più semplice di tutte
sarebbe che egli spingesse le cose
all’estremo.
F. KAFKA
“L’enigma è lo statuto formale della tragedia”, scrive Del
Corno. Ed è, proprio per questa sua enigmaticità,
“ineluttabile”, come lo era “la parola del dio di Delfi secondo
la sentenza di Eraclito”. 10 Ma la tragedia stessa è un enigma.
La sua lacerante presenza, che apre un varco al pensiero
che è rimasto incancellato lungo il corso della storia
dell’umanità, sorge come una luce improvvisa, per spegnersi
altrettanto improvvisamente alla fine di quello stesso secolo
che ne aveva visto la nascita. Non si era ancora spenta l’eco
delle rappresentazioni delle Baccanti di Euripide e
dell’Edipo a Colono di Sofocle, che già Aristofane nelle
Rane11 ne parla come di una cosa irrimediabilmente
trascorsa, che tenta, ma che non può sopravvivere nelle
caricature degli epigoni.

Numerose spiegazioni sono state tentate. Si è detto che il


sapere della precarietà che la tragedia esprime è connesso
alle grandi crisi che attraversano la società greca, con
l’affermarsi e il declino della polis, e di Atene in particolare.
Ma perché altre epoche, contrassegnate da grandi
trasformazioni e da grandi crisi, non si sono espresse
tragicamente? Perché l’epoca dell’ansietà, come Dodds ha
definito tutto l’ellenismo,12 attraversato da grandi
dissoluzioni e da grandi creazioni, non ha espresso la
tragedia, ma anzi, con Seneca, l’ha trasformata in un
dramma luttuoso, che nulla ha a che vedere con il suo
pensiero e la sua forma? Perché possiamo parlare di
“tragico” soltanto quando ci si è spinti, con Shakespeare, con
Hölderlin, con Dostoevskij e Kafka, dentro l’atopia dell’uomo,
a prescindere dalla forma che questo viaggio ha assunto?

Anche il tentativo di colonizzare la tragedia all’interno


della teoria dei generi letterari, con la relativa
storicizzazione che è nata insieme a questa strategia critica,
è fallito. Certo, sentiamo parlare di una evoluzione della
tragedia, che si muoverebbe lungo uno sviluppo lineare da
Eschilo a Euripide. Ma si tratta di una lettura ingenua, che
porta, per esempio, Jacqueline de Romilly13 a interrogarsi
stupefatta sul perché si trovino più tracce omeriche in
Sofocle che in Eschilo. Che porta i critici a estenuarsi per
capire se Sofocle abbia influenzato Euripide, o Euripide
Sofocle. Su questo punto ha ragione un filosofo come
Ricoeur, quando scrive che “la tragedia è una manifestazione
improvvisa e completa dell’essenza del tragico.
Comprendere il tragico significa ripetere in sé il tragico
greco”. 14

Hölderlin è colui che nella modernità ha ripetuto dentro di


sé il tragico. 15 La lettura di Sofocle nell’età di Hölderlin dà
luogo, come scrive Steiner, “ad alcune delle metamorfosi più
radicali che siano mai state suscitate da un testo
letterario”16: attraverso Schelling che definisce l’essenza del
soggetto a partire dall’impossibile lotta dell’eroe tragico
contro il destino. Attraverso Hegel che, nella Fenomenologia
dello spirito, fa nascere la dialettica dal contrasto tragico, e
la filosofia dalla capacità di dare a questo contrasto sviluppo
e soluzione, legittimandola, con Socrate, come erede diretta
della tragedia.

Ma è Hölderlin che ha ripetuto il tragico. Lo ha fatto, per


esempio, quando, traducendo il primo stasimo dell’Antigone,
ha trovato il senso di una parola apparentemente
intraducibile, deinón, “smisurato”, che tutti hanno invece
tradotto con “mirabile”, “strano”, “terribile”: “Molte sono le
cose smisurate, ma la più smisurata di tutte è l’uomo”. 17 Così
la tragedia di Edipo, nella sua lettura, diventa il nefas, il
destino irrevocabile, di chi, come Edipo, “troppo
smisuratamente” interpreta l’oracolo, cerca il senso della
vita. 18 È su questa via che Hölderlin ha scoperto nel
linguaggio e nelle figure tragiche la “cesura”, l’interruzione,
la forma che non è forma, attraverso cui si esprime e si
manifesta l’inesprimibile di ciò che non ha misura, e che è
l’essenza stessa dello sguardo dell’uomo. È Hölderlin, infine,
che ha scoperto che la gioia più grande, quella gioia
incontenibile che Nietzsche chiamerà dionisiaca, si esprime
soltanto in ciò che le si oppone: nel dolore e nel lutto. 19

Ma è Nietzsche che si è posto davanti al tragico come di


fronte a un pensiero irrevocabile, che contrassegna di sé
ogni altro pensiero. 20 È Nietzsche che ha pensato
l’opposizione di apollineo e dionisiaco come una tensione che
riesce a dare forma ad ogni altra polarità di cui è costituita
la vita e il destino dell’uomo. Questa capacità di forma è la
nascita della tragedia. Dentro il suo orizzonte si muove tutta
La filosofia nell’epoca tragica. La tragedia muore perché
nasce un pensiero di fronte e contro di essa: il pensiero di
Socrate, che trasforma ogni dissidio in una dialettica, che
risolve la polarità stessa dissolvendola nell’idea,
nell’archetipo, unico, solo, immobile e immutabile. Così, nel
Simposio, Platone parla di Eros che ci spinge attraverso i
corpi, le loro forme e la loro caducità, attraverso i discorsi,
le cose e le leggi, finché non riconosciamo che unica è la
bellezza che abbiamo cercato in essi, e, abbandonati, o
meglio sacrificati, corpi e cose e discorsi, non ci acquietiamo
nella contemplazione dell’immenso mare del bello, che è il
termine di ogni ricerca.

Girard,21 quando interpreta la tragedia come una crisi


sacrificale, si muove ancora interamente dentro l’orizzonte
segnato da Nietzsche, ma riducendone la portata. Secondo
Girard, l’Edipo re, con l’incesto e il parricidio, evidenzia la
rottura delle leggi che governano la città, e un pericoloso
scivolamento nell’informe da cui la comunità emerge,
proiettando la colpa di questa dissoluzione su di un capro
espiatorio che viene sacrificato. La tentazione dell’informe è,
appunto, la tentazione del dionisiaco nietzschiano, quel
dissolvimento nell’aorgico che già Hölderlin aveva
tematizzato come uno dei punti chiave della tragedia. Quello
che Girard non coglie è che nella tragedia non prevale mai
nessun elemento, e dunque non c’è soluzione nemmeno sul
piano sacrificale, perché tutti gli elementi che la
costituiscono si intrecciano nel tessuto dei conflitti che noi
possiamo chiamare propriamente “il tragico”, che è
irriducibile ad un solo conflitto. Ed è per questo che anche
l’interpretazione di Goethe della tragedia come conflitto
inconciliabile, la più famosa e influente insieme a quella di
Aristotele,22 rimane ugualmente debole.

C’è un interrogativo aperto nel testo di Nietzsche che è di


fatto una straordinaria intuizione sulla natura del tragico.
Perché, si chiede Nietzsche, Euripide che in tutta la sua
opera si è contrapposto all’oracolo apollineo, è indicato da
questo oracolo come l’uomo più sapiente dopo Socrate?23 La
risposta è che in Euripide, come d’altronde in tutta la
tragedia, c’è la coscienza che non solo esiste un conflitto fra
uomo e dio, ma che l’uomo si rapporta al divino, e il dio
all’umano dentro un conflitto. Infatti, come avverte Segal, la
violenza che si contrappone all’eroe tragico non è solo la
manifestazione di Eros, o di Zeus, o di Afrodite come
nell’epoca arcaica o nella lirica. “È una potenza numinosa e
al tempo stesso qualcosa che è dentro di noi; è una parte di
noi e una visitazione misteriosa di qualcosa che è al di là di
noi stessi.”24 È così che l’eroe tragico “diventa cosciente”, in
questa contesa, “di un se stesso che è anche suo nemico”. 25

Nella tragedia, dunque, non assistiamo semplicemente al


cedere dell’uomo di fronte al destino, quanto piuttosto al
realizzarsi dell’uomo in un conflitto che dà al destino stesso
la sua forma. L’eroe tragico, con la sua azione, ritarda il
compiersi del fato: “lo fa esitare e apparire contingente”,
come scrive Ricoeur, “introducendo anche nell’ineluttabile un
germe di incertezza, una dilazione”,26 che diventa anch’essa
una esperienza liminare, in cui si affaccia la duplicità di un
dio che è salvezza e condanna, bene e male, e di un soggetto
che è contemporaneamente colpevole e innocente, prossimo
agli dei e posto in una distanza assoluta e senza mediazione
con essi. Si realizza così l’esperienza di una sospensione e di
una frontiera attraverso cui transita la verità, anch’essa
duplice, anch’essa irriducibile a una legge unica, ad un unico
nomos.

Steiner ha individuato “le costanti principali del conflitto


nella condizione umana”. Sono, secondo lui, cinque:
“l’opposizione uomo-donna; vecchiaia-giovinezza; società-
individuo; vivi-morti; uomini-divinità”. “I conflitti che
derivano da queste cinque opposizioni”, scrive Steiner, “non
sono negoziabili” e gli esseri che sono presi in essi si
definiscono “nel processo conflittuale della definizione
reciproca. La definizione della propria persona e il
riconoscimento polemico dell’ ‘altro’ al di là dei confini
minacciati dell’io sono due azioni indissolubili”. Nel tragico
sono presenti tutti questi conflitti, e in particolare tutti nei
versi 441-581 dell’Antigone (il colloquio tra Antigone e
Creonte), tanto che “se di tutta la letteratura ci rimanesse
solo questa tragedia, anzi solo questa scena centrale, i
lineamenti fondamentali della nostra identità e della nostra
storia, certamente per quanto riguarda l’Occidente,
sarebbero ancora visibili”. E dal momento che nessuna di
queste antinomie è risolvibile rimangono, singolarmente e
nel loro insieme, inesauribili, mantenendo viva la necessità
della tragedia, la sua inestinguibile produttività. 27

3. La sventura tragica
Non volere vincere sempre; le tue vittorie non
ti hanno seguìto nella vita.
SOFOCLE

Queste laceranti antinomie, che costituiscono il tessuto


della vita umana, o, come avrebbe detto Eraclito, ciò che le è
proprio, non possono essere oggettivate al di fuori di noi, e
osservate con lo sguardo che guarda “altro”, ciò che non è
noi, ma che è solo cosa o idea. Di queste antinomie si può
avere solo esperienza. Questo è uno degli aspetti che
costituiscono il sapere tragico. Simone Weil, che ha scritto
parole di straordinaria chiarezza sulla tragedia, è tornata
più volte su questo punto, e in particolare sulla prima grande
ode corale dell’Agamennone di Eschilo, in cui questo sapere
si mostra in tutta la sua lacerante pregnanza. 28

“Zeus, qualunque egli sia, se pure questo nome gli è


gradito, con questo l’invoco [...]. Egli ha aperto agli uomini le
vie della sapienza, fissando questa legge: ‘attraverso il
patimento il sapere’. Anche nel sonno, davanti a cuore che
stilla affanno che ha memoria del dolore, anche a chi non
voglia tocca saggezza.”

Phronein, mathos, sophronein: tre parole che indicano tre


livelli di conoscenza, l’intelligenza umana (phronein), in cui,
secondo Eraclito, “si concatenano tutte le cose”; il sapere in
senso proprio (mathos); la sapienza che ha in sé qualcosa di
sacro (sophronein). Queste tre “parole” sono di faccia al
pathos: al patimento, alla passione del mondo, che è “via”,
strada, accesso a questi tre livelli, ad ogni sapere possibile,
che è in tutte le esperienze umane, e che stilla anche nel
sonno, anche negli inconsapevoli, anche in chi vorrebbe
esserne sottratto. Simone Weil ha chiamato questo pathos
“sventura”, perché è la sventura che apre il soggetto al
mondo, che fa entrare il mondo nel soggetto.

La Sfinge ci costringeva a guardare l’immediato, il


presente, ciò che sta davanti ai nostri piedi, e ci impediva di
guardare l’oscuro. Così dice Creonte a Edipo (Edipo re, v.
130). La sventura tragica, il suo pathos, apre questa via
sbarrata — e questa è la vittoria di Edipo — e ci porta a
guardare nel segreto dell’origine, nella luce che è nel buio
dell’origine, la luce di Phanes che, secondo il mito orfico,
abita nelle sedi della notte. 29 Questo è infatti lo sguardo che
risale dalla morte alla nascita, dalla fine all’inizio, che è
rappresentato, come scrive Ricoeur, “sul modello della
morte”, per cui ogni destino “è reso fatale a partire dalla sua
fine”. 30 Ma in questo atto, in questo procedere sulla via che il
patimento ha aperto, riusciamo a vincere anche i decreti
della Sfinge, i decreti apollinei, i decreti del tempo che tutto
vede e tutto giudica, secondo la sua strana e terribile
giustizia. Qui l’uomo si sa nella sua terribile precarietà, che
gli concede un rapporto con il mondo che nemmeno gli dei
possono avere: gli permette di sapere le cose nella loro
fragilità, che è, come ha detto Simone Weil, il contrassegno
della loro irrevocabile realtà. 31 Per questo, come dice ancora
Ricoeur, “la salvezza nella visione tragica non è fuori della
tragedia ma nel tragico stesso”. 32

Questo viaggio nel paese Patimento, accompagnati dal


dolore e dalla lamentazione, verso un rapporto con ciò che è
caduco, ma che in questa caducità può esprimere
un’indicibile felicità, è il segreto del tragico, ma è anche,
dopo un altro vertiginoso balzo del tempo, tutto il senso
dell’ultimo Rilke, quello delle Elegie duinesi e dei Sonetti a
Orfeo, o della Ricerca del tempo perduto di Proust, delle
opere cioè che sono più prossime allo spirito della nostra
modernità.

È contro questo rapporto sapere-passione, pathosmathos


che si è mossa la filosofia, a partire da Platone per finire con
Severino che legge, rovesciando Eschilo, il coro
dell’Agamennone nel senso dell’emergenza di un pensiero
che domina e vince il dolore: del pensiero come arma contro
il dolore. 33 Il pensiero non è quest’arma. Lo dice Sofocle
nella prima ode corale dell’Edipo re: “Ahimè, innumerevoli
mali / sopporto; soffre tutto il mio / popolo né il pensiero ha
un’arma / con cui difendersi”. Il pensiero non è infatti arma
contro il patimento, perché senza questo patimento non vi
sarebbe pensiero alcuno. E proprio quando questa avventura
è al culmine, lì troviamo il senso stesso dell’umano: “nel
punto in cui non si è più capaci di sopportare che essa
continui, né di esserne liberati”,34 come scrive Simone Weil.
Nel punto, cioè, in cui l’uomo è posto ancora una volta esso
stesso come un limite e una soglia.

4. Eros
Invincibile ci ammalia la divina Afrodite.
SOFOCLE

Sia maledetto! Cancellò l’amore, sì, l’amore.


SOFOCLE

Simone Weil scopre un’altra vetta del tragico e del


pensiero umano nel discorso che il tragico Agatone
pronuncia nel Simposio di Platone, prima che il suo dire sia
annientato dalla confutazione socratica: “Il punto più
importante è che Eros non fa ingiustizia né la subisce, né da
un dio né a un dio, né da un uomo né a un uomo. Non subisce
la forza, se qualcosa subisce, perché non ci si impossessa
dell’amore con la forza” (Simp., 196 C). Ma questo Eros, che
né fa né subisce violenza è il logos stesso: quel logos che non
si muove sui pensieri e sulle cose come una macchina da
guerra, annientando tutto il reale e il possibile nel dominio di
una, di un’unica verità. 35 È, invece, il logos dei contrari, il
logos antinomico, che tiene in sé il vero e il non vero, il bene
e il male, perché bene e verità sarebbero nulla senza i loro
contrari. Il tragico ci ha così insegnato a pensare insieme ciò
che non possiamo pensare insieme: ciò che il pensiero
filosofico da sempre ci ha impedito di pensare insieme.

La guerra, il sogno della potenza hanno “cancellato


l’amore” (Aiace, v. 1206), mentre è proprio dell’eroe tragico,
in questo caso Antigone, eroe e donna,36 “condividere amore
e non odio” (Ant., v. 523). Questo “condividere amore”,
synphilein, non è soltanto diventato una delle parole-chiave
dello spirito romantico, ma è un tratto decisivo per la
comprensione del tragico. All’amore non si oppone l’odio, ma
il potere, che trasforma sempre, nella tragedia, il re,
l’autorità, in un tyrannos: in tirannia. Sembra, come dice
Euripide nelle Baccanti (vv. 270-271), che quando un uomo
ha potere, “anche se è capace di parlare bene diventa un
cittadino cattivo”. C’è dunque in esso, nel potere, qualcosa di
“malsano” (vv. 309 sgg.). Tutti, lo stesso Edipo, sono resi
ciechi dal potere, perché vogliono fondare su di esso
conoscenza e decisione. Ma come può il potere contenere in
sé 1’ “immisurabile” del dolore (Bacc., v. 1244), l’illimitato
del sapere che ad esso è connesso?

Solo deregalizzandosi, facendosi di nuovo atopos e


straniero, Edipo ha accesso al sapere che lo rende più
grande di qualsiasi potente: in grado di portare un dolore che
nessun uomo può portare (vv. 1414-1415). E proprio perché
non ha più rapporto con il potere l’eroe sofocleo, come dice
Knox, “agisce in un vuoto terribile, in un presente che non ha
un futuro per consolarlo, né un passato per guidarlo, in un
isolamento nel tempo e nello spazio che gli impone l’intera
responsabilità del proprio agire e delle sue conseguenze. 37
Egli è solo a solo, di fronte a una terribile conoscenza, che è
la conoscenza stessa del destino, in cui tutto viene per così
dire riorientato — passato, presente e futuro — in un
rapporto nuovo con il mondo e con il valore dell’uomo nel
mondo. Forse accecandosi, come ha detto Hölderlin, Edipo
ha perso il potere ma ha guadagnato un occhio in più.

5. Mito: natura e cultura


Fuggi ciò che ha forma fissa negli sciolti
reami delle forme.
J.W. GOETHE

Il nostro secolo ha conosciuto molti tentativi, da Propp a


Lévi-Strauss, di proporre una lettura del tragico, e
soprattutto di Edipo, a partire dal materiale del folclore.
Un’infinità di zoppi, di incestuosi, di parricidi sono stati
scoperti in tutte le culture, e sono stati avvicinati all’Edipo
sofocleo in base ad alcune corrispondenze di carattere
formale: “Un itinerario tortuoso e pieno di andirivieni,
guidato da un’analogia formale”, come scrive Ginzburg,38 che
ha percorso, nel suo ultimo libro, un lungo tratto di questo
tortuoso cammino, che non ha portato a mio giudizio nulla
alla comprensione del tragico. Il problema di fondo è che i
tragici attingevano molto spregiudicatamente a un
patrimonio mitico, scegliendo quei miti o evidenziando quelle
parti dei miti, attraverso cui poter far transitare la loro
metafisica. Così l’Edipo di Sofocle si acceca e torna ramingo
al mondo, portando con sé negli occhi ciechi l’ultima visione
di Giocasta, moglie e madre, morta. Anzi, si acceca con una
spilla strappata dalla veste di Giocasta, in un ultimo
disperato gesto di nudificazione della donna morta, della
madre-sposa. Nelle Fenicie di Euripide, Giocasta vive
ancora, dopo lo svelamento della vicenda di Edipo, e muore
alla fine per i figli, mentre Edipo non vaga ramingo per il
buio del mondo, ma è solo una voce di lamento nelle segrete
del palazzo.

Ciò che l’etnologia ci ha permesso di mettere in evidenza e


di capire meglio non è il tragico, o il rapporto fra il mito e la
tragedia, ma il nesso fra natura e cultura, che è presente in
modo problematico nella tragedia, e che Steiner non ha
compreso nelle sue cinque antinomie essenziali, che abbiamo
esaminato più sopra.

La polis nella tragedia è il luogo in cui l’uomo si confronta


con i valori della civiltà, o, come ha detto Segal, con il suo
potere “di controllare il mondo e se stesso”. 39 La qualità di
questo controllo non è definita una volta per sempre. Sembra
infatti che essendo misura di tutte le cose, l’uomo, nella sua
precarietà, si trovi sottoposto all’urgenza delle spinte
irrazionali della sua stessa natura, che diventano anch’esse
“misura”. Ancora una volta l’eroe tragico diventa limen: tra
la civiltà della polis e le istanze “selvagge”, la ferinità che la
polis dovrebbe aver domato. Questa divisione, come scrive
ancora Segal, “è turbata” nella tragedia, in cui non è
possibile trovare una netta separazione fra interno ed
esterno, in quanto questa frontiera è posta “dentro la polis
stessa, nel cuore delle sue leggi e dei suoi cittadini” (p. 30),
aprendo nei suoi interstizi spazi di ambiguità, di
inclassificabilità.

Aveva ragione Platone nel pensare alla tragedia come a un


pericolo. La tragedia infatti propone “un interscambio fluido”
fra natura e cultura, sospendendo contesti e modelli
acquisiti, e facendo sì che ciò che è familiare sia penetrato
dall’ “inquieto, dall’alieno, modificando le modalità di
rapporto con il mondo” (p. 47). Aveva torto Platone,
condannando la tragedia, perché proprio in questa fluidità e
in questa precarietà “l’uomo scopre ed esperimenta di nuovo
la preziosità e la fragilità degli attributi più specificamente
umani” (p. 43), in cui nuovi ordini diventano possibili. Fa
parte della grandezza del V secolo, che si esprime nella
tragedia, “permettere che il dialogo fra questi due poli si
sviluppi così pienamente. La tragedia è l’emergenza di
questo dialogo, di questa dialettica senza soluzione tra
limitato e illimitato, tra civiltà umana, ordine delle energie, e
tutte quelle forze che non possono essere comprese e
dominate nelle strutture che l’uomo ha così ambiziosamente
creato” (p. 183).

6. Sofocle
La parola di Sofocle è parola divina.
F. SCHLEGEL

Sofocle ha attraversato tutto il V secolo, dalla nascita nel


497-496 alla morte nel 406. È arrivato, con la prima
rappresentazione dell’Edipo a Colono dopo la morte nel 401,
a sfiorare l’inizio del secolo successivo. In mezzo stanno le
guerre persiane, Pericle, l’egemonia ateniese e il suo
declino. L’Edipo a Colono, con la glorificazione di Atene e del
suo eroe Teseo, sembra essere già uno sguardo all’indietro,
su un passato irrimediabilmente perduto. Nel ciclo delle
tragedie che ci sono rimaste, egli sembra così riassumere in
sé tutto il percorso, l’avventura, la crisi e la morte del
discorso tragico. Il meccanismo della premiazione tragica
sembra confermare che questa era anche l’opinione dei suoi
contemporanei.

L’arconte eponimo40 sceglieva i tragediografi in gara, che


dovevano rappresentare tre drammi e un testo satiresco nel
corso di un’intera giornata. “I giudici che assegnavano i
premi non erano più qualificati”, da un punto di vista
letterario, dell’arconte stesso, anche per l’assoluta casualità
della loro scelta.

Il Consiglio “sceglieva infatti alcuni nomi da ciascuna tribù.


Questi nomi venivano posti in dieci urne, sigillate fino al
giorno della rappresentazione”. Allora, da ogni urna, veniva
estratto un nome. Questi dieci giudici compilavano la lista
delle loro preferenze. Da queste dieci liste ne venivano prese
cinque a caso, e il vincitore usciva da questa ultima
estrazione. “Proprio per questo assumono un significato
notevole le ripetute vittorie di uno stesso autore, che
sembrano rappresentare una unanimità di entusiasmo sui
suoi drammi”, oltre che, ovviamente, lo straordinario livello e
la straordinaria capacità di giudizio del pubblico ateniese.
Gli studiosi dell’antichità attribuivano a Sofocle da 120 a
130 opere. Ci sono rimaste sette tragedie, un ampio
segmento di un dramma satiresco, I cercatori di tracce, e
numerosi frammenti. L’Aiace è considerato il testo più antico
tra quelli rimasti, forse della metà del secolo. L’Antigone è
del 442; l’Edipo re è stato datato da alcuni studiosi
immediatamente a ridosso della peste che devastò Atene nel
429, da Diano nel 411, legando la polemica contro l’oracolo,
che è in esso contenuta, alle vicende politiche ateniesi che
avevano scosso la fiducia popolare negli oracoli. 41 In realtà,
come dice Knox, in una tragedia di Sofocle non abbiamo mai
l’idea della collocazione dell’eroe, che agisce in un vuoto
terribile. Nessun evento esterno mi sembra perciò probante
per decidere della datazione delle singole tragedie (salvo
quelle, Antigone, Filottete, Edipo a Colono, di cui esiste
documentazione diretta). D’altronde la memoria della peste
non sarebbe stata altrettanto viva dieci anni dopo? E la
polemica contro l’oracolo non era già di Eraclito? Le
Trachinie dovrebbero comunque essere precedenti all’Edipo
re, e l’Elettra essergli immediatamente successiva. Il
Filottete fu rappresentato nel 409. L’Edipo a Colono,
postumo, nel 401.

La critica ha sempre letto un’evoluzione della tragedia da


Eschilo a Sofocle, fino a Euripide. L’ipotesi, come già si è
detto sopra, non sembra molto convincente. Sofocle ed
Euripide sono contemporanei (muoiono nello stesso anno), e
sono evidenti gli influssi incrociati tra le due opere.

La tragedia, come abbiamo visto, è una modalità di


pensiero e una forma di rappresentazione del rapporto tra
questo pensiero e la realtà. All’interno di questa forma i tre
grandi protagonisti della tragedia attica esprimono
particolari preoccupazioni, anche secondo inclinazioni
individuali, di carattere metafisico ed estetico. Le variazioni
tecniche, sulla struttura del coro o nel numero dei
protagonisti, non mi paiono giustificare l’affermazione di una
linea evolutiva, che certamente c’è stata, ma che non ha
forse il rilievo che è stato ad essa attribuito. La gara
farsesca delle Rane di Aristofane indica con chiarezza una
necessità del tragico per la città, ma non pare che si dia
grande importanza al percorso evolutivo della tragedia
stessa. Eschilo, tra l’altro, confuta Euripide con una modalità
chiaramente socratica e, se vogliamo, euripidea.

Quindi altrove va cercato il motivo, e non in quello di


essere stato il tragediografo di mezzo, per cui nell’antichità,
e poi di nuovo nell’età moderna dall’idealismo in poi, Sofocle
è stato considerato l’autore che più compiutamente ha
rappresentato lo spirito e il pensiero tragico. Sta di fatto che
nessuna delle antinomie, che trovano espressione nella
tragedia, è assente dalla sua opera. In lui c’è una inusitata, e
forse mai più toccata, apertura a tutte quelle forze che in
qualche modo mettono alla prova l’uomo e i contesti in cui
egli ha organizzato la sua esistenza; l’amore e l’odio, la furia
del tempo, la morte, la cecità rovinosa del potere, lo scontro
con le forze numinose del destino e del divino. E se la
tragedia è davvero, come abbiamo cercato di dimostrare, un
pensiero del limite, dobbiamo ricordare che tutti gli eroi
sofoclei sono esistenze liminari, strappate dai contesti che ne
potrebbero garantire ruolo e forma. L’eroe sofocleo è in
quasi tutte le tragedie apolis o apoptolis: senza patria o
emarginato dalla sua patria. E ciononostante, o proprio per
questo, egli è la misura del mondo. È il protagonista di un
canto, quello della lode corale dell’Antigone, che non ha
riscontro in nessun canto che mai sia stato levato nella
letteratura, a nessuna creatura, forse nemmeno a un dio.
Molte sono le cose smisurate, ma nessuna
è più smisurata dell’uomo:
egli attraversa il mare canuto
e avanza pure con Noto tempestoso,
muovendosi fra le onde
che si accavallano intorno,
e la Terra eccelsa tra gli dei,
eterna e infaticabile, egli travaglia
volgendo di anno in anno gli aratri
e rivoltandola con la generazione dei cavalli.
E la razza spensierata degli uccelli
e le stirpi delle fiere selvatiche
e le marine creature dei flutti
nei lacci delle sue reti
avviluppa e fa preda
l’uomo che è dotato di ingegno.
Vince con le sue trappole l’animale
agreste che vaga sui monti e il cavallo
sottopone al giogo con la sua folta criniera,
e anche il toro montano instancabile.
E parola e pensiero
veloce come il vento e la spinta
a civili ordinamenti apprese da solo; come
a fuggire inospiti geli
e il cielo ricco di risorse
con i suoi gravi rovesci di piogge. Né mai
povero di risorse muove incontro
all’evento futuro. Solo da Ade
non troverà scampo anche se scampo
ha trovato da mali incurabili.
Possedendo, al di là di ogni speranza,
scienza e sapienza e arti,
talora muove verso il male, talora verso il bene.
Se rispetta le leggi della sua terra
e la giustizia giurata agli dei,
allora eleva la sua città. Senza patria
è colui che per sfrontata temerarietà
si congiunge al male:
non abiti la mia casa
chi agisce così,
chi non ha un pensiero uguale al mio.42

7. Edipo: il re, il tiranno


La sentenza non viene di colpo. È il processo
che la trasforma a poco a poco in sentenza.
F. KAFKA

La leggenda di Edipo è uno dei racconti più noti


dell’immaginario umano. L’oracolo aveva predetto che se
Laio, re di Tebe, avesse avuto un figlio, questi l’avrebbe
ucciso e avrebbe conquistato il suo regno. Nato comunque
un figlio, questo viene consegnato, legato (o trafitto) per i
piedi (Oidipous: colui che ha i piedi gonfi) a un servo perché
lo esponga a morte sul Citerone. Il servo impietosito affida il
bimbo a un pastore che lo offre al re di Corinto, il quale, non
avendo figli, lo accoglie e lo alleva come figlio suo. Diventato
giovinetto, Edipo, insospettito da alcune voci, interroga
l’oracolo di Delfi sulla sua origine. Non ha risposte su questa,
ma anche a lui viene predetto che ucciderà il padre e
sposerà la madre. Decide allora di non far ritorno a Corinto
e si avvia, mosso dal caso, verso Tebe. Ad un crocicchio si
apre un conflitto con un vecchio — il re Laio — e con i suoi
servi, ed Edipo, insultato e colpito dal vecchio, lo uccide.
Proseguendo il suo cammino arriva a Tebe, che è sotto il
dominio della Sfinge, il mostro alato, che canta i suoi enigmi
e uccide chi non sappia interpretarli. Edipo risolve l’enigma,
che è l’enigma stesso dell’uomo, giovane e vecchio insieme,
con la nascita e la morte che si toccano, e annienta così la
Sfinge, e viene ricompensato dai Tebani con il trono e il
matrimonio con la vedova di Laio: Giocasta. Passano alcuni
anni felici. Edipo è amato dal popolo, ha già avuto quattro
figli da Giocasta, quando un miasma colpisce la città. E i
cittadini si rivolgono a lui supplici, perché li salvi una seconda
volta.

La tragedia di Sofocle inizia con questa supplica. Edipo ha


già mandato il cognato Creonte all’oracolo, e la risposta è
che l’omicida di Laio è ancora nella città: che dovrà essere o
ucciso o bandito, perché la città possa rivivere. Edipo inizia
la sua indagine. Gli indizi si accumulano senza che egli,
abbagliato proprio dalla loro molteplicità, riesca a
interpretarli in un unico senso, finché la verità si svela:
Giocasta muore di sua mano, ed Edipo si acceca bandendosi
dalla città, con quel carico di dolore che soltanto lui sa
portare.
Cerchiamo ora di vedere più da vicino il testo di Sofocle,
attraverso alcuni problemi che da esso emergono con forza.

7.1. Edipo e la Sfinge

Edipo è straniero a Tebe. Edipo è straniero a tutto.


Nemmeno del suo nome dev’essere certo se egli, di fronte al
coro, dice di sé: “io che sono chiamato Edipo”. Egli ha
viaggiato spinto da un enigmatico vaticinio di Apollo per le
vie del mondo. Ha in sé la forza e il coraggio che lo muovono
armato contro la tracotanza di chi vuole sbarrargli il
cammino. Nemmeno la Sfinge lo trattiene con i suoi
incantamenti. L’affronta e la vince in un agone in cui investe
tutto il suo sapere. È infatti il sapere di sé, il sapersi uomo,
che sconfigge il terribile canto. Ciò che Edipo non ha capito,
però, è che la Sfinge è anch’essa Pizia, sacerdotessa di
Apollo. 43 Anch’essa come la Pizia di Delfi ha il compito di non
svelare, di proporre segni ambigui, che costringono l’uomo
nelle spire all’immediato: a non guardare l’oscuro (v. 130).

La Pizia ha messo Edipo in cammino: lo ha convinto a


spingersi lontano da quella che egli riteneva la sua origine,
così come la Sfinge ha trattenuto i Tebani da ogni indagine
intorno alle cose oscure, alla verità nascosta. Quello che né i
Tebani, né Edipo sanno è che la Sfinge è ministra di Apollo, il
dio dell’ambiguo. Essa, come scrive Moret, “si esprime come
l’oracolo, in versi e in termini insidiosi”. Il suo attributo,
parthenos, è quello della Pizia e delle sacerdotesse votate
all’attività mantica. È “profetica vergine” (Edipo re, vv.
1199-1200). I poeti, prosegue Moret, che ha portato prove a
mio giudizio inequivocabili per identificare questo aspetto di
Sfinge, “hanno espresso in due modi complementari il potere
oracolare della Sfinge: assimilando enigma e oracolo per via
dell’ambiguità e della forma metrica, e facendo della Sfinge
una profetessa”.
Il compito che il dio ha ad essa assegnato è quello di
trasformare l’esperienza umana dell’essere soglia e
frontiera fra il giorno e la notte, fra la nascita e la morte, fra
il sonno e la veglia, fra il fiorire e il declinare, in un enigma
irresolvibile, perché questo sapere non deve dall’uomo
essere saputo: perché esso è il logos che, come ha detto
Eraclito, domina le cose attraverso le cose; è il logos
dell’imperituro mutare, che sembra poter sottrarre l’uomo
alla misura del divino. Per questo Tiresia afferma che “è
sufficiente Apollo a cui sta a cuore che tutto questo”, e cioè
la rovina di Edipo, “si compia” (v. 376). Per questo Edipo
scopre alla fine che “è Apollo [...] che questi miei mali crudeli
[...] ha compiuto” (v. 1329), in quanto, come dice lo stesso
Edipo nel grande dialogo con Tiresia, il suo sapere ha
superato quello dei sacerdoti di Apollo. Il suo è un logos che
ha penetrato il segreto dell’uomo.

Il vincitore della Sfinge non sa ancora nulla di questo


destino. Egli inizia la sua indagine, che lo porterà nel paese
Patimento, che è il luogo delle contraddizioni e della contesa,
del dolore e della conoscenza ultima.

7.2. Segni

Creonte ritorna riportando il vaticinio in Tebe devastata


dal miasma. Febo ordina di allontanare il miasma dalla città,
esiliando il colpevole, o facendo espiare la morte di Laio con
la morte dell’omicida. Ma come trovare “l’oscura traccia
[ichnos] di questa colpa antica” (vv. 108-110)?

“Sfugge ciò che si trascura”, risponde Creonte (Edipo re,


vv. 110-111). Ed è l’inatteso che è trascurato, e che
dobbiamo cercare. Ma tutto ciò che è invisibile ai sensi,
cattivi testimoni per chi ha anima straniera rispetto
all’armonia nascosta, come aveva detto Eraclito, è inatteso e
inaudito. E verso l’inaudito procede appunto la tragedia nel
suo inesorabile cammino.

I Tebani non hanno potuto penetrare nell’oscuro —


nell’armonia nascosta, nella connessione invisibile del tutto
(taphane, Edipo re, v. 130), — perché sono stati a questo
impediti dal canto ambiguo della Sfinge, che, ancora una
volta, come il vaticinio di Apollo, l’Obliquo, obbliga l’uomo a
infinite diversioni. Anche Edipo, di fronte ai Tebani, di fronte
al Coro, anch’egli straniero di fronte alle cose e ai segni
stranieri (Edipo re, v. 219), deve confessare di non avere
“simbolo” per penetrare in ciò che è nascosto.

Symbolon è di solito tradotto con “traccia”, quasi fosse


sinonimo di ichnos. In realtà, nell’Edipo re, le tracce si
accumulano quasi vertiginosamente: quello che manca a
Edipo non è dunque l’indizio, ma la capacità di cogliere la
“relazione” fra gli indizi, che rinvia alla “connessione
nascosta”, che è, come ha detto ancora Eraclito, più forte di
quella apparente. Symbolon, nel linguaggio giudiziario, è,
come ha detto Segal, la connessione di due frammenti di una
marca che serviva a legittimare il proprio posto in una corte,
o per provare la propria identità. Symbolon è però
generalmente la connessione in uno — in un’immagine, in un
segno, in una figura — del diverso. 44

Edipo non ha simboli, ha solo tracce, indizi, segni. Sono i


segni che invia a lui, a tutti gli uomini, il signore di Delfi, che
non nasconde, ma soprattutto non rivela. L’indagine intorno a
questi segni si sviluppa nella tragedia sfociando in un’aspra
polemica contro l’Apollo pitagorico,45 il signore della luce e
dell’unità. Come vedremo la vittoria sarà di Apollo, e del
linguaggio pitagorico che lo esprime. Ma questa vittoria di
Apollo è, nel paradosso tragico, anche la vittoria di Edipo.
L’evento tragico è infatti quella lacerazione che permette
finalmente di guardare l’oscuro (skopein taphane, v. 130)
muovendosi verso lo smisurato del sapere umano, verso la
sua phronesis, che abbraccia il mondo e il destino.

La tragedia è la scrittura che mantiene nella sua forma


anche il disordine, l’informe, la contesa e il dissidio. Questa
sua caratteristica, secondo Segal, fa della tragedia stessa
l’armonia contrastante espressa da Eraclito, come quella del
suono che contiene in sé la vibrazione delle corde dell’arco e
della lira. La scrittura di Sofocle è anche però la tensione di
un tempo, il presente, in cui si affronta l’oscuro del passato e
l’oscuro dell’avvenire. È in questa tensione che si esprime il
paradosso della conoscenza tragica “dove,” scrive Segal,
“chiarezza e oscurità coesistono, e dove il nostro sapere di
noi include come suo centro un nucleo di non sapere, l’ombra
della congiunzione alle nostre origini il cui mistero non
potremo mai interamente penetrare”. L’intelligenza di Edipo,
famoso per questo tra tutti gli uomini, e per questo potente
dominatore e tyrannos, si scontra con un inesplicabile, che è
l’inesplicabile stesso dei segni attraverso cui Apollo si
manifesta. Ed è precisamente nell’interpretazione di questi
segni, che Edipo ha, come scrive Segal, “la più grande
difficoltà, perché la parola implica sia ‘evidenza’ da cui
possono esser tratte deduzioni razionali e ‘segni’ misteriosi
di un sovrannaturale intervento nella vita umana”.

Questi “segni” compaiono sempre in momenti critici della


tragedia, quando si parla dell’inaffidabilità degli oracoli, o
quando Edipo guarda, o è spinto a guardare verso il suo
ghenos, verso la sua origine (vv. 710, 933, 957, 1050,
1059).

7.3. Giocasta
Ma è Giocasta che si muove con più asprezza contro
l’ambiguità dei segni, traendone la conseguenza più estrema.
Se il dio non si manifesta apertamente (v. 725), allora l’uomo
non è del dio, ma appartiene a tyche, al caso, e nulla allora
può egli prevedere, di nulla avere certezza. Allora è meglio
vivere come capita, non temere, per esempio, le nozze con la
madre, perché “già molti dei mortali anche nei sogni si sono
uniti con la propria madre: ma chi non se ne cura sopporta la
vita con più facilità” (vv. 976 sgg.). Il ruolo di Giocasta è
stato trascurato dalla critica. In realtà ad essa è affidata la
polemica contro l’oracolo e contro l’Apollo pitagorico, che è
costitutiva del sapere tragico.

Apollo per Pitagora (e dopo di lui per Platone) è il dio di


un’armonia senza contrasti. Il divino, per Sofocle, si
manifesta invece nel conflitto. La polemica di Giocasta non è
illuminismo anassagoreo o pericleo, come ha creduto Diano,
ma la rivendicazione di un rapporto con il dio che non è
quello che la filosofia andava proponendo. Il linguaggio di
Pitagora sarà, come vedremo, ripreso, ma per essere
anch’esso rovesciato in un detto compiutamente tragico.

7.4. Simbolo
Ma tutti i segni giungono finalmente a connettersi nel
symbolon che apre all’oscura verità. Si sconta dunque
l’hybris che ha spezzato il divieto di guardare nell’oscuro:
“Se gli dei nascondono cose divine non si può avere sapere,
neanche cercando e investigando ovunque”. Oggetto d’odio è
l’uomo che investiga taphane, le cose oscure. 46 Questo Edipo
ha fatto penetrando l’enigma, questo ha fatto sconfiggendo la
Sfinge, “che costringeva all’immediato e a trascurare il
nascosto”; questo ha fatto via via nella sua indagine,
nell’interpretare, come ha detto Hölderlin, “troppo
smisuratamente” i segni, fino al simbolo che tutti li connette
in un senso che è la soluzione degli enigmi e che è anche la
soluzione tragica.
“L’uomo è misura di tutte le cose” in quanto tutte le cose
misura, aveva detto Protagora ripetendo Eraclito. Edipo
aveva cercato di misurare le cose, e per questo aveva
superato le misure del sapere concesso all’uomo, che
“mortale, thnetos, deve avere pensieri uguali alla misura
dell’uomo” (Sofocle, fr. 34).

Ma qual è la misura dell’uomo?

7.5. La misura dell’uomo


Detienne ha scritto che “alla fine del V secolo il
Pitagorismo ha definitivamente fallito il suo progetto”. 47 In
realtà la fine del V secolo segna il trionfo della filosofia
pitagorica, chiunque sia stato Pitagora. L’ “armonia”
pitagorica si trasmette nell’idea del “bene” socratico, e di lì
nel concetto di “bello” e di “bene” platonico, per emergere
nel Timeo con una tale evidenza che rianimerà il nome di
Pitagora in tutto il pensiero neoplatonico fin dentro il cuore
del Rinascimento. Ma la tragedia è paradossale anche su
questo punto. Sottolinea il trionfo del linguaggio pitagorico,
ma per comunicare in esso ciò che nessuna filosofia, e tanto
meno una filosofia di ispirazione pitagorica, potrà mai
accettare:

“Ahi generazioni di mortali, / pari al nulla / valuto la vostra


vita” (vv. 1186 sgg.).

Isa to meden. È il linguaggio matematico pitagorico:


“uguali a zero”. Lo ha capito, ancora una volta, Hölderlin nel
Significato delle tragedie. “Il significato delle tragedie si può
cogliere nel modo più facile partendo dal paradosso. [...] Nel
tragico il segno è in sé privo di significato, ineffettuale, ma
l’originario è messo allo scoperto. L’originario può infatti
apparire solo nella sua debolezza, proprio nella misura in cui
il segno in se stesso, essendo insignificante, viene posto = 0.
Se la natura propriamente si dà nel suo manifestarsi più
debole, il segno allora è nel suo darsi più impetuoso = 0.”48

Il paradosso tragico sta dunque nel fatto che ponendo “il


segno”, vale a dire in questo caso l’uomo, uguale a zero,
allora l’originario, quello che era nefasto guardare, si
manifesta con la massima forza: diventa l’assolutamente
visibile. Ma l’originario, nel suo manifestarsi attraverso il
nulla, porta con sé ineliminabile la traccia dell’altra faccia
dell’essere, del nulla appunto, che la filosofia, a partire da
Parmenide, ha cercato di esorcizzare, trasformando, come si
è già detto, il me einai, il non essere, in un puro ouk on, in un
niente.

Edipo ha infranto il divieto del “nascosto”, svelando così


anche l’ambiguità del divino, e la tensione contraddittoria
dell’essere, che, mentre tocca il termine del sapere e dello
sguardo, incontra il buio del nulla, che nessuna filosofia può
esorcizzare. E, penetrato nel buio, incontra quella verità che
nessuno può sottrargli: quella verità che trasforma il sapere
“malato” della potenza nel sapere del pathos: nel sapere che
nasce nella passione del mondo.

7.6. Edipo e la tragedia

Già Aristotele aveva fatto dell’Edipo re il paradigma del


tragico. In lui si riassume l’oscillazione di Aiace sull’orlo
della follia e della saggezza, lacerato da questa tensione,
mentre solo guarda attorno a sé il mare di sangue che la sua
folle sete di giustizia ha fatto sgorgare, e in cui si raggruma e
finisce anche la grande epica di Omero. In Edipo si riassume
il conflitto tra Antigone e Creonte, perché egli, tiranno, è
Creonte, e, sofferente, è Antigone. Nel suo essere straniero
si riassume la lacerante, assoluta, allucinata
extraterritorialità di Filottete. E con la sua morte è la
tragedia stessa che muore.

8. La morte della tragedia


Quale dio è balzato con lunghissimo salto sul
tuo sventurato destino?
SOFOCLE

Nietzsche ha detto che Euripide ha ucciso la tragedia.


Nietzsche ha anche detto che l’ultima tragedia è l’Edipo a
Colono di Sofocle. 49 Nietzsche ha ragione in entrambi i casi:
le ultime tragedie sono assolutamente contemporanee. Sono
Le Baccanti di Euripide e L’Edipo a Colono di Sofocle. Siamo
alla fine del V secolo. La città è lacerata, e sembra non poter
più reggere ad alcun conflitto. Sembra non vi possa più
essere posto in essa per un sapere che ne mette in
discussione i confini, i limiti, le istituzioni. E Sofocle fa
l’ultimo grande sacrificio alla sua città. Gli sacrifica Edipo, e
con lui sacrifica alla città anche la tragedia.

L’Edipo a Colono è un testo terribile, in cui risuona più


nitidamente che mai il detto del Sileno: “Non essere nati è la
condizione che tutte supera; ma una volta apparsi, tornare al
più presto donde si venne è certo il secondo bene” (vv. 1224
sgg.). Nell’Edipo a Colono Teseo si sa fratello di Edipo: “So
bene che sono un uomo, e che il domani non appartiene a me
più che a te” (v. 568). Nell’Edipo a Colono c’è un senso di
precarietà assoluta e senza scampo: “Ogni cosa distrugge il
tempo onnipotente. Perisce la forza della terra, quella del
corpo...” (v. 608). Eppure questa tragedia fonda una
certezza che è l’annientamento della tragedia stessa. Edipo,
lo straniero, il senzapatria, bandito dalla città, diventa egli
stesso, con il suo corpo morto, il confine sacro della città di
Atene. L’orrore del suo destino diventa il sacro che protegge.
La metafisica dell’uomo come soglia, attraverso cui l’altro
transita, questa volta fonda un confine, una frontiera
intransitabile per ogni alterità.

Le Baccanti mostrano, invece, l’insostenibilità del tragico,


radicalizzandone tutti i termini. I critici hanno tormentato
questo testo cercando di far quadrare il presunto scetticismo
euripideo con la presenza ossessiva di Dioniso. Ma Le
Baccanti sono di un nitore così assoluto da diventare
accecante. La tragedia, spingendo all’estremo le sue
contraddizioni, ci porta a uno stato in cui non c’è un oltre: ci
porta letteralmente a un nec ulterius. Tutto qui fluttua
inarrestabile, anche le pietre del palazzo. Umano e ferino,
maschile e femminile, divino e diabolico non sono più realtà
antinomiche, ma le maschere di un unico orrore senza fondo.
Nelle Baccanti lo “smisurato” del dolore non si muta in
sapere: rimane solo crudo dolore, irrimediabile, assoluto
dolore.

9. Il paradigma umano di Edipo


C’erano obiezioni che si fossero dimenticate?
Ce n’erano di certo, la logica è incrollabile,
ma non resiste a chi vuole vivere [...]. Sollevò
le mani e divaricò le dita.
F. KAFKA

Quante centinaia di Edipi si sono succeduti nella storia?


Seneca, Corneille, Voltaire, Chénier, Hölderlin,
Hofmannsthal, Ghéon, Gide, Cocteau, Stravinskij, Anouilh,
Dürrenmatt, Pasolini, per citare solo alcuni grandissimi. E
quante interpretazioni che, come quella di Schelling o di
Hegel o di Nietzsche o di Freud, ne sono state di fatto una
riscrittura?

I grecisti hanno spesso polemizzato contro queste


interpretazioni e queste riscritture. Wilamowitz lo aveva
fatto contro Nietzsche, senza capire che al di là di singoli
aspetti, La nascita della tragedia, proprio perché è una
grande lettura del tragico, si pone come una di quelle opere
destinate a mutare il corso del pensiero.

Vernant lo ha fatto contro la psicoanalisi, senza rendersi


conto che al di là dei paradigmi attraverso cui la scolastica
psicoanalitica uniforma realtà spirituali diverse ad un unico
modello, l’interpretazione di Freud è non solo geniale, ma
forse una delle più prossime allo spirito di Sofocle. 50 Certo,
Freud porta Edipo e Tebe e la Sfinge all’interno del soggetto.
Ma non è questa la verità tragica? La verità cioè dell’uomo
che, essendo frontiera e soglia, deve contenere in sé anche
l’altro, anche le istanze distruttrici?

La tragedia è un’immensa opera di pensiero. Attraverso il


tragico abbiamo un accesso al mondo, al soggetto e alla
realtà, che altrimenti ci sarebbe precluso. Ed è per questo
che la tragedia è inesauribile. È per questo che riaffiora per
esempio nel romanzo dialogico e polifonico di Dostoevskij,
dove non c’è una voce che possieda la verità, un soggetto
interamente malvagio e un soggetto interamente buono. È
per questo che il più grande rifacimento di Edipo re non è
uno di quelli espliciti, citati più sopra, ma Il processo di
Kafka, dove non c’è né incesto né parricidio, perché non vi è
in esso né padre né madre, ma dove tutte le antinomie del
reale si confrontano in un immenso paradosso tragico, fino a
quello finale di un “logos incrollabile che non resiste a chi
vuole vivere”, e che dunque deve continuamente essere
tentato. Così il coltello che entra nelle carni è la scoperta
che tutte le vie non sono state provate. È la ferita che apre a
una nuova verità e, al contempo, alla vergogna di non aver
percorso anche quel varco.

La nostra stessa condizione è tragica, posti come siamo


sull’orlo di immensi mutamenti. E il nostro pensiero sempre
più insoddisfatto di regole normative, sempre più aperto
all’altro, al diverso, alla differenza, è un pensiero
sostanzialmente tragico. È il pensiero tragico che abbiamo
assorbito direttamente da Sofocle, da Eschilo, da Euripide, o
indirettamente attraverso i loro commentatori. È un segno
irrevocabile, necessariamente irrevocabile, all’interno
dell’orizzonte conoscitivo umano. Solo in esso gioia e dolore
trovano insieme compiuta parola.
1
Per i frammenti di Eraclito si è seguita l’edizione Marcovich o l’edizione
Colli, La sapienza greca, 3 voll. (abbreviate M e C). Si è data comunque
sempre anche l’indicazione della numerazione Diels-Kranz (abbreviata con
DK). Ho parlato più diffusamente del rapporto di Eraclito con la tragedia in
RELLA, L’Enigma della bellezza, capp. I e II.
2
ERACLITO, DK 40, 56, 57; M 16, 21, 43.
3
ERACLITO, DK 72, 17; C 95; M 3.
4
ERACLITO, DK 10, 50; M 26-26.
5
ERACLITO, DK 51; M 27; C 4: “Gli uomini non comprendono inche modo
ciò che diverge converge in un rapporto di tensione contrastante come
quella dell’arco e della lira”. Ma vedi anche DK 48; M 39:”Nome dell’arco è
vita [bíos], opera la morte”. Colli, in questi passi, legge la sostanza stessa
del pensiero presocratico: il geroglifico comune, la sapienza come esegesi
dell’azione di Apollo. Cfr. COLLI, La nascita della filosofia, cit., p. 41.
6
Ci sono almeno tre passi di Protagora che rinviano direttamente a
Eraclito. DK 14: “Materia scorre”. DK B 6: “Intorno a ogni cosa ci sono due
discorsi in contrasto fra loro”. Questa prossimità a Eraclito mi fa
interpretare come eracliteo anche il frammento di Protagora citato come
DK 1: “L’uomo è misura di tutte le cose”, in quanto è l’essere che con la sua
anima, con il suo phronein, misura tutte le cose.(Per i primi due testi
analizzati di Protagora cfr. anche MONDOLFO, in MONDOLFO-TARÁN, op.
cit., p. CXXII.)
7
E. FINK, in M. HEIDEGGER-E. FINK, Heraklit, Klostermann, Frankfurt a.M.
1970, pp. 193-194, 204, 211, 239.
8
Su questo tema cfr. anche K. HEINRICH, Parmenide e Giona, a cura di M.
De Carolis, Guida, Napoli 1988.
9
Nelle Leggi (607 b) ma anche in passi della Repubblica. Su questo tema
cfr. RELLA, op. cit., cap. III; F. RELLA, La battaglia della verità, Feltrinelli,
Milano 1986, capp. II-III; M. HEIDEGGER, Nietzsche, Neske, Pfullingen, pp.
218-226; S. ROSEN, The Quarrel between Poetry and Philosophy, Routledge,
New York-London 1988.
10
DEL CORNO, Sull’ “Ippolito” di Euripide, cit., pp. 47, 50.
11
ARISTOFANE, Le rane, nell’edizione commentata da Del Corno di cui si
raccomanda anche l’Introduzione (Mondadori, Milano 1985).
12
DODDS, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, cit.
13
S. RADT, Sophokles in seinen Fragmente, con la discussione che segue
questa relazione e l’intervento di J. de Romilly a p. 230 di Sophocle,
“Entretiens de la Fondation Hardt”, vol. XXIX, Genève 1983.
14
RICOEUR, op. cit, p. 472.
15
Dobbiamo rinviare ancora una volta a RELLA, op. cit, cap. IX e a F.
HÖLDERLIN, Edipo il Tiranno, tr. it. e note di T. Cavallo, introduzione di F.
Rella, Feltrinelli, Milano 1991.
16
G. STEINER, Le Antigoni, cit., p. 31 (tr. modificata).
17
F. HÖLDERLIN, Frankfurter Hölderlin Ausgabe, a cura di D.E. Sattler,
Roter Stern, Frankfurt a.M. 1975 sgg., vol. XVI (la sua traduzione
dell’Antigone).
18
F. HÖLDERLIN, Note sull’ “Edipo re”, in HÖLDERLIN, Edipo il Tiranno,
cit. Su questo aspetto cfr. G. BEVILACQUA, Edipo nella letteratura tedesca
moderna, in Edipo, il teatro greco e la cultura europea, cit., p. 48.
19
Cfr. il distico intitolato Sofocle: “Molti hanno cercato di dire
gioiosamente il più gioioso / Ecco esso si manifesta finalmente a me, qui nel
lutto”.
20
Di NIETZSCHE, oltre alla Nascita della tragedia, cfr. La filosofia
nell’epoca tragica dei Greci e Frammenti postumi 1869-1874 nell’ed. it. a
cura di Colli e Montinari, cit.
21
Di GIRARD si vedano entrambi i testi citati in Bibliografia.
22
Cfr. DEL CORNO, Sull’ “Ippolito”, cit., p. 48 e GOETHE, Colloqui con
Eckermann, cit., 28 marzo 1827.
23
NIETZSCHE, Frammenti postumi 1869-1874, cit., 1 [92].
24
SEGAL, Tragedy and Civilization, cit., p. 7.
25
SEGAL, Tragedy and Civilization, cit., p. 46.
26
RICOEUR, op. cit, p. 483.
27
STEINER, Le Antigoni, cit., pp. 260-262.
28
Simone WEIL è tornata più volte sul tragico, ma particolarmente nei
Quaderni, cit.
29
Phanes (COLLI, La sapienza greca, cit., I, B, 70): “Siede dentro, nel
santuario della notte”.
30
RICOEUR, op. cit., p. 477.
31
WEIL, Quaderni, cit., III, p. 387.
32
RICOEUR, op. cit, p. 492.
33
SEVERINO, Il giogo, cit.
34
WEIL, Quaderni, cit., II, p. 43.
35
WEIL, Quaderni, cit., III, pp. 121 e 133. Questi passi sono ripresi e
commentati in F. RELLA, Bellezza e verità, Feltrinelli, Milano 1990.
36
Un giorno ci si dovrà occupare a fondo anche di questo aspetto della
tragedia: l’unica forma d’arte e di pensiero in cui siano così presenti eroi
donna: portatori, tra l’altro, delle istanze decisive per il pensiero tragico. La
Diotima del Simposio di Platone è certamente esemplata su queste eroine.
37
B.M. KNOX, L’eroe sofocleo (The Heroic Temper), in BEYE, op. cit, p. 77.
38
GINZBURG, op. cit., p. 230.
39
SEGAL, Tragedy and Civilization, cit., p. 4. (Mi sono avvalso, per
l’argomentazione su questo tema, dei suggerimenti di Segal, nel suo libro
decisivo su questo aspetto della tragedia. Le citazioni nel testo, con il
numero di pagina tra parentesi, si riferiscono ad esso.)
40
Ho riportato queste notizie dall’Introduzione di BEYE, op. cit., pp. IX-
XXVII. Le citazioni nel testo, senza ulteriori indicazioni, si riferiscono a
questo studio.
41
DIANO, op. cit. L’argomentazione è stata accettata, senza ulteriori
discussioni, da LONGO nella sua edizione dell’Edipo re, cit.
42
Mi sono avvalso con molta libertà della traduzione di R. Cantarella di
SOFOCLE, Edipo re, Antigone, Edipo a Colono, cit.
43
Sul carattere della Sfinge cfr. ROCCHI, Kadmos e Harmonia, cit., p. 119
e soprattutto MORET, op. cit., pp. 51, 52, 82, 144-146. Moret, in un’analisi
esemplare, anche se condotta soprattutto sulla dimensione pittorica e
vascolare del fenomeno della Sfinge, porta una vasta documentazione tratta
dai poeti, dai filosofi e dai dossografi, a cui si rinvia. Per l’identificazione,
per esempio, di vaticinio e oracolo cfr. PLUTARCO, Gli oracoli della Pizia, 407
B e 409 D: “ta ainigmata [...] tes mantikes”, “gli enigmi [...] della mantica”.
44
Lossia, l’ambiguo, è l’appellativo frequente di Apollo nella tragedia, in
particolare in Euripide. Sull’ambiguità dei segni in generale, e di Apollo cfr.
SEGAL, Time, Theater and Knowledge, in Edipo, il teatro greco, cit., pp. 464,
469, 470, 471-472 (a cui si riferiscono le citazioni nel testo). Symbolon da
symballein, mettere insieme.
45
Apollo è per Pitagora e per la tradizione platonica e neoplatonica: “non
molti”, il dio dell’armonia e dell’unità. Cfr. RELLA, op. cit., dove questo tema
è discusso con ampiezza. Per quanto riguarda più specificamente Pitagora
cfr. CORNFORD, op. cit., cap. VI.
46
SOFOCLE, Frammenti (secondo l’ed. Paduano), cit., fr. 733 e 919.
47
DETIENNE, Dioniso e la pantera profumata, cit., p. 115.
48
HÖLDERLIN, Il significato delle tragedie, in FHA, cit., XIV, 195; Scritti di
estetica, cit., p. 153.
49
NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., passim. Frammenti postumi
1869-1874, cit., 1 [6]: “Morte della tragedia con l’Edipo a Colono nel bosco
sacro delle furie”.
50
Per Wilamowitz cfr. NIETZSCHE-ROHDE-WILAMOWITZ-WAGNER, op. cit.
Per Vernant cfr. Edipo senza complessi in J.-P. VERNANT-P. VIDAL-NAQUET,
Mito e tragedia nell’antica Grecia, cit.
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II. Gli altri tragici


   (Si indica soltanto l’edizione più praticabile per il
lettore italiano dell’opera completa.)
ESCHILO , edizione critica, traduzione e commento a cura di P.
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Tragedie e frammenti a cura di G. e M. Morani, UTET,
Torino 1987.
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Chapoutier, Meunier, voll. I-VI, Belles Lettres, Paris 1923-
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IV. Religione e filosofia nell’età tragica


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VIII. Edipo e la psicoanalisi


FREUD, S., Opere, Boringhieri, Milano 1966-1980.
BOLLACK, J., Le fils de l’homme. Le mythe freudien d’Oedipe,
in Oedipe, “L’écrit du temps”, 12, 1986.
GREEN, A., La pensée d’Oedipe, in Oedipe, “L’écrit du temps”,
12, 1986.
LACAN, J., L’essence de la tragédie. Un commentaire de
l’Antigone de Sophocle - La dimensione tragique de
l’experience psychanalytique, in Le Séminaire Livre VII,
L’éthique de la psychanalyse, Seuil, Paris 1986.
Oedipe, “L’écrit du temps”, 12, 1986.
STAROBINSKI, J., Amleto e Edipo, in L’occhio vivente, tr. it. di G.
Guglielmi, Einaudi, Torino 1975.

IX. Sopravvivenza di Edipo


Accanto alle grandi letture di Nietzsche, Hegel, Schelling,
Freud che sono vere e proprie riproposte della tragedia
edipica, ogni epoca si è cimentata con questa figura: da
Omero e Eschilo prima di Sofocle, a Euripide (un Edipo
perduto e Le Fenicie), a Seneca e a Stazio nell’antichità, da
Emanuele Tesauro e Corneille nell’età del Manierismo e del
Barocco, a Voltaire, fino al grande rifacimento di Hölderlin.
Nell’età moderna ricordiamo almeno Hofmannsthal, Anouilh,
Gide, Cocteau, Stravinskij, Dürrenmatt, Pasolini e Testori.

La presenza del meccanismo e della metafisica tragica,


propria dell’Edipo re di Sofocle, mi sembra ricomparire con
particolare evidenza in:

CAMUS, A., Il mito di Sisifo, in Le opere, Club degli Editori,


Milano 1965.
KAFKA, F., Nella colonia penale e Il cacciatore Gracco, in
Racconti, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1970.
KAFKA, F., Il processo, tr. it. di C. Morena, Garzanti, Milano
1984.
EDIPO RE
 

Avvertenza

Il testo greco è quello stabilito, per l’edizione francese delle


“Belles Lettres”, da A. Dain, Paris 1967-1968. La traduzione
se ne discosta soltanto in un caso segnalato in nota.
Le persone del dramma

Edipo
Sacerdote di Zeus
Creonte
Coro di vecchi Tebani
Tiresia
Giocasta
I Messaggero
Servo di Laio
II Messaggero
 

EDIPO

Figli, di Cadmo1 antico giovane prole, perché sedete qui,


con i supplici rami coronati di bende2? La città è piena di
incensi, di invocazioni, insieme, e di lamenti; non ritenendo
giusto essere informato da altri son venuto qui io stesso, io
noto a tutti, l’illustre Edipo. Ma, vecchio, dimmi, poiché sei tu
il più adatto a parlare a nome di costoro, con quale stato
d’animo siete giunti qui, con quale timore o desiderio? Sappi
ch’io vorrei portarvi aiuto in tutto; sarei insensibile se non
provassi pena per questo atteggiamento supplichevole.
SACERDOTE

Tu vedi, Edipo, signore della mia terra, noi, uomini di ogni


età, sediamo qui davanti ai tuoi altari, alcuni che ancora non
hanno la forza per volare a lungo, altri gravi per la vecchiaia
— io, sacerdote di Zeus — e altri ancora poi scelti tra i
giovani; il resto della gente con i rami coronati di bende
siede nelle piazze o accanto ai due templi di Pallade o presso
la cenere profetica di Ismeno. 3 La città, come tu stesso vedi,
è in completa balìa delle onde e non sa più risollevare il capo
dai gorghi di una tempesta di sangue, morendo nei germi
fruttuosi della terra, morendo nelle greggi di animali al
pascolo e nei parti sterili delle donne. E intanto il dio
portatore di fuoco, l’odiosa pestilenza, precipitando, flagella
la città; così si svuota la casa di Cadmo e il nero Ade si
riempie di gemiti e di lamenti. Io e questi fanciulli sediamo
qui supplici presso il tuo focolare non considerandoti pari agli
dei, ma perché ti giudichiamo il primo tra gli uomini nelle
vicende della vita e negli eventi voluti dagli dei: tu, infatti,
giungendo alla città di Cadmo ci liberasti dal tributo pagato
alla crudele cantatrice di enigmi,4 senza sapere niente e
senza essere informato da noi più di quanto lo fossero gli
altri, ma si dice e si crede che con l’aiuto di un dio tu abbia
risollevato la nostra vita. E ora, Edipo, per tutti il più
potente, qui tutti ti preghiamo supplici di trovare una difesa,
ascoltando il responso di un dio o il consiglio di un uomo; io
vedo, infatti, che le decisioni di chi ha più esperienza sono
quelle che più spesso ottengono successo. Su, dunque, tu, il
migliore dei mortali, risolleva la città, sta’ in guardia; questa
terra ti chiama salvatore per il coraggio che un tempo hai
mostrato; del tuo regno mai dobbiamo avere questo ricordo,
di esserci rialzati e poi caduti di nuovo. Ma risolleva la città
così che sia sicura. Con favorevole auspicio, infatti, già allora
hai reso a noi la fortuna, e sii lo stesso anche ora. Poiché se
regnerai su questa terra, come ora ne sei il signore, è meglio
esser signore di uomini che di una terra deserta. A niente
vale una torre né una nave vuota di uomini che in essa vivano
insieme.
EDIPO

Poveri figli miei, siete venuti qui desiderando cose ben


note, non certo ignote a me. Sì, io so che voi soffrite tutti e
soffrendo non c’è tra voi nessuno che soffra quanto me. Il
vostro dolore ricade su uno solo, per lui stesso e nessun
altro, l’anima mia piange per la città e per me e per te
insieme. Così non mi svegliate certo addormentato in un
sonno profondo, ma sappiate che molte lacrime ho versato,
molte strade ho percorso errando nelle vie del pensiero. Il
rimedio che solo, cercando bene, ho trovato, questo tentai: il
figlio di Meneceo, Creonte, mio cognato, ho inviato alle
Pitiche case di Febo,5 perché domandi che cosa io debba fare
o dire per liberare questa città. Il tempo trascorso fino a
oggi mi fa chiedere con ansia che mai gli sia accaduto: è
lontano da un tempo superiore al dovuto, più di quanto fosse
prevedibile. Quando tornerà, allora io sarei uno scellerato se
non facessi tutto quanto il dio comanda.
SACERDOTE

Hai parlato al momento giusto; mi fanno cenno or ora che


Creonte si avvicina.
EDIPO

Signore Apollo, possa egli giungere con una sorte di


salvezza, così come sereno appare nello sguardo.
SACERDOTE

A quanto sembra, è lieto: certo non verrebbe così, col capo


incoronato di fruttuoso alloro.
EDIPO

Lo sapremo presto. A questa distanza ormai ci può sentire.


Signore, mio congiunto, figlio di Meneceo, con quale
responso del dio tu giungi?
CREONTE

Favorevole; io credo, infatti, che anche le situazioni più


difficili possano risolversi bene se riescono a trovare la via
giusta.
EDIPO
Qual è l’oracolo? non sono incoraggiato, ma certo neanche
intimorito dalle tue parole.
CREONTE

Se desideri ascoltarmi alla presenza di costoro sono pronto


a parlare, se no sono pronto anche ad entrare.
EDIPO

Parla davanti a tutti. Per loro io provo pena più ancora che
per la mia stessa vita.
CREONTE

Allora ti dirò quel che ho udito dal dio. Febo signore


apertamente ci comanda di scacciare dal paese la
contaminazione, nutrita in questa terra, e di non nutrirla
ancora fino a renderla insanabile.
EDIPO

Con quale purificazione? Qual è la natura del male?


CREONTE

Esiliando i colpevoli o ripagando morte con morte, perché


questo male tempesta la città.
EDIPO

Ma di quale uomo denuncia questa sorte?


CREONTE

Laio, signore, fu un tempo il sovrano di questa terra, prima


che tu giungessi a governare la città.
EDIPO
Lo so, l’ho sentito; ma non l’ho mai visto.
CREONTE

Quest’uomo è morto e ora il dio chiaramente ingiunge di


punire i colpevoli, quali che siano.
EDIPO

Ma dove sono? Dove si potrà trovare l’oscura traccia di


questa colpa antica?
CREONTE

In questa terra, ha detto; quel che si cerca si può ottenere,


sfugge ciò che si trascura.
EDIPO

In casa, forse, o nei campi, Laio, o in un’altra terra è


caduto per questo delitto?
CREONTE

Lasciata la città per consultare un oracolo, così ci disse,


non ritornò più a casa, dopo che fu partito.
EDIPO

Ma nessuno vide niente, né un messaggero né un


compagno di viaggio, dal quale si possa avere qualche
informazione?
CREONTE

Sono morti tutti, tranne uno solo che, fuggito per la paura
di quel che aveva visto, non seppe dire niente con certezza
tranne una cosa sola.
EDIPO
Quale? Una sola può rivelarne molte se cogliamo un labile
inizio di speranza.
CREONTE

Disse che dei banditi incontrati per caso lo avevano ucciso


non con la forza di uno solo ma con l’unione di molte mani.
EDIPO

Ma come un bandito sarebbe potuto giungere a tal punto


di audacia, se qualcosa non fosse stato ordito qui con del
denaro?
CREONTE

Ci pensammo ma, morto Laio, non vi fu nessun vendicatore


nella sciagura.
EDIPO

Quale sciagura poté esservi d’ostacolo al punto di


impedirvi di conoscere la verità, dopo che un regno era
caduto in questo modo?
CREONTE

La Sfinge dal canto ingannevole ci costringeva a guardare


il presente e a tralasciare l’oscuro.
EDIPO

Ma io farò luce su tutto questo, fin dal principio. Molto


giustamente Febo e giustamente tu vi siete presi cura
dell’ucciso, cosicché doverosamente vedrete anche me
alleato venire in aiuto a questa terra e, insieme, al dio. Non
per amici lontani, ma io stesso per me stesso disperderò
questa macchia. Chiunque sia colui che lo uccise, ora, allo
stesso modo, potrebbe colpire anche me. Vendicando lui,
dunque, io gioverò a me stesso. Figli miei, presto, alzatevi
dai gradini, portate via questi supplici rami; qualcuno raduni
qui il popolo di Cadmo, perché io intendo fare tutto quello
che si deve. O risulteremo fortunati, col volere del dio,
oppure perduti.
SACERDOTE

Figli, alziamoci: egli ci promette quello per cui siamo


venuti. Febo che invia questi vaticini, allo stesso tempo,
possa giungere salvatore e liberatore dal male.
CORO
O responso di Zeus dolce parola, quale
da Pito ricca di oro
giungesti alla splendida Tebe?
Sono teso d’angoscia nell’animo spaventato,
tremante di paura,
dio di Delo,6 invocato con grida, soccorritore,
con sacro timore per te io mi chiedo quale compito mai,
nuovo
o che torna nel volger del tempo, a me tu imporrai.
Dimmelo, o figlia dell’aurea Speranza,
immortale parola.

Per prima invoco te, figlia di Zeus,


Atena immortale,
e, protettrice della terra, la sorella
Artemide che sul glorioso trono circolare7
della piazza siede,
e Febo lungisaettante,
tutti e tre liberatori mostratevi a me,
se già una volta nella precedente sventura
che si scagliava contro la città
scacciaste via la fiamma rovinosa,
venite qui anche ora.
Ahimè, innumerevoli mali
sopporto; soffre tutto il mio
popolo né il pensiero ha un’arma
con cui difendersi. I frutti
di una terra gloriosa non crescono più e nei parti
alle doglie che strappano grida le donne più non resistono;
ma uno sull’altro
li puoi vedere, come un uccello dalle belle ali
slanciarsi con più potenza di un fuoco indomabile
sulla riva del dio d’occidente. 8

D’innumerevoli morti la città perisce


e senza pietà i suoi figli nella pianura
portatori di morte giacciono senza compianto;
e intanto le spose e le madri canute
alla sponda degli altari, chi qua chi là,
per luttuose pene si lamentano supplici.
Un inno risplende e una voce concorde di gemiti:
per costoro, o aurea figlia di Zeus,
un rimedio invia dal sereno aspetto.

Ares divoratore, che


ora senza bronzo di scudi
mi incendia opponendosi a me tra le grida,
in una precipitosa corsa all’indietro volga le spalle
via dai confini della mia patria, o al grande
talamo di Anfitrite9
o all’onda Tracia
inospitale all’approdo;
se la notte qualcosa tralascia
a compierlo il giorno si avventa:
tu che delle folgori
portatrici di fuoco la forza governi,
Zeus padre, col tuo fulmine annientalo.

Liceo signore,10 dalle corde


dell’arco d’oro intrecciate,
vorrei che i tuoi dardi giungessero a segno invincibili
schierati a difesa, e portatrici di fuoco
le fiaccole di Artemide con le quali
i lici monti percorre;
e il dio dalla mitra d’oro invoco,
colui che dà nome a questa terra,

Bacco dal volto colore del vino tra le gioiose grida di evoè,
compagno alle Menadi
si avvicini fiammeggiante
con la torcia radiosa
contro il dio senza onore tra gli dei.
EDIPO

Tu preghi e per quel che preghi, se ascoltando le mie


parole vorrai accoglierle e rimediare al male, otterrai
soccorso e sollievo dalle sciagure. Io parlerò da estraneo a
quanto è stato detto, estraneo a quanto è stato fatto; certo
non potrei cercare lontano non disponendo neppure di un
segno. Ma ora, soltanto dopo, infatti, sono divenuto cittadino
tra i cittadini, questo proclamo a voi tutti Cadmei: “Chiunque
di voi sappia per mano di chi sia caduto Laio figlio di
Labdaco, io ordino che costui riveli ogni cosa a me. Se ha
paura, cancelli l’accusa, lui stesso da se stesso: non soffrirà
niente altro di spiacevole, infatti, ma se ne andrà sicuro da
questa terra. Se qualcuno, poi, sa che l’assassino è un altro o
di un’altra regione, non taccia; io gli concederò un compenso
e la mia gratitudine vi si aggiungerà. Se invece tacerete o
per paura qualcuno tenterà di stornare da un amico o da se
stesso questo mio decreto, dovete ascoltare da me quel che
farò in questo caso. Ordino che nessuno in questa terra, su
cui ho il potere e il trono, accolga quest’uomo, chiunque sia,
né gli rivolga la parola né lo renda partecipe delle preghiere
agli dei né dei sacrifici né gli offra acqua lustrale. Tutti lo
scaccino dalle case, poiché costui è per noi una
contaminazione, come il responso pitico del dio or ora ha
rivelato a me. Così, dunque, io divengo alleato del dio e
dell’ucciso. Invoco che il colpevole, sfuggito a noi da solo o
insieme ad altri, misero miseramente possa vivere una vita
sventurata. Invoco poi, se egli fosse nella mia casa,
compagno del mio focolare con la mia complicità, che io
possa soffrire quello che or ora ho imprecato contro costoro.
A voi ordino di obbedire, per me stesso e per il dio e per la
nostra terra che muore così senza frutti e senza dei”. Se
anche quest’azione non fosse stata imposta dagli dei, non
sarebbe stato lecito a voi lasciare il fatto così senza
purificazione, ma bisognava indagare, poiché è morto un
uomo ottimo, un re. Ma ora, poiché ho il potere che quello
aveva prima, ho il suo letto e la donna che ha ricevuto il
seme di entrambi e sarebbe nata a noi comunanza di figli
comuni, se non fosse stato sfortunato nella discendenza —
ma ora la sorte è piombata sul suo capo; perciò combatterò
per lui come fosse mio padre e giungerò a tutto pur di
scoprire l’autore del delitto, per il discendente di Labdaco e
di Polidoro e del vecchio Cadmo e dell’antico Agenore. 11 Per
quanti non eseguono i miei ordini prego gli dei che non
facciano nascere loro né messe dalla terra né figli dalle
donne, ma che possano morire di un destino come quello che
ora ci opprime o di uno anche peggiore di questo. A voi altri
Cadmei, a quanti queste mie parole sono gradite, sia alleata
Giustizia e tutti gli dei siano sempre benevoli.
CORIFEO

Come vincolato dalla tua maledizione, così, signore, io


parlerò: non ho ucciso né so indicarti chi abbia ucciso. Era
compito di Febo, che ci ha ordinato quest’indagine, dire chi
ha commesso l’omicidio.
EDIPO
È vero, ma nessun uomo potrebbe mai costringere gli dei
se essi non vogliono.
CORIFEO

Un altro consiglio potrei darti.


EDIPO

Anche un terzo, se c’è, non tralasciarlo.


CORIFEO

So che il signore Tiresia vede allo stesso modo del suo


signore Febo; rivolgendoci a lui, signore, si potrebbero
conoscere questi fatti nel modo più sicuro.
EDIPO

Neanche questo ho trascurato: su consiglio di Creonte ho


mandato a lui due messaggeri. Da tempo mi stupisco che non
sia arrivato.
CORIFEO

Ci sono poi altre voci, seppure vane e antiche.


EDIPO

Quali? Voglio indagare su ogni parola.


CORIFEO

Si disse caduto per mano di alcuni viandanti.


EDIPO

L’ho udito anch’io, ma nessuno conosce il testimone.


CORIFEO
Se solo ha un po’ di timore, udendo le tue maledizioni non
resisterà.
EDIPO

Chi non ha paura di agire non teme le parole.


CORIFEO

Ma ecco colui che lo potrà accusare; infatti già


accompagnano qui il divino profeta, il solo tra gli uomini in
cui la verità è innata.
EDIPO

Tiresia, tu che tutte le cose osservi, dicibili e indicibili,


celesti e terrene, anche se non puoi vedere, ugualmente
comprendi in quale male versi questa città; unico difensore e
salvatore abbiamo trovato te. Febo, infatti, se già non hai
sentito qualcosa dai messaggeri, ha risposto a noi che
mandavamo a interrogarlo che l’unica liberazione da questo
male giungerà se, individuando gli uccisori di Laio, li
uccideremo o, esuli, li allontaneremo da questa terra. Tu,
dunque, non rifiutando a noi né un responso di uccelli né, se
c’è, un’altra via profetica, libera te stesso e la città, libera
me, liberaci da ogni contaminazione dell’ucciso. Siamo nelle
tue mani: per un uomo rendersi utile come sa e può è la più
bella delle fatiche.
TIRESIA

Ahimè! È tremendo sapere quando non giova a colui che


sa; io ne ero consapevole e l’ho dimenticato, altrimenti non
sarei venuto.
EDIPO

Che c’è? Perché tanto sgomento?


TIRESIA

Lasciami andare a casa; più facilmente sopporteremo tu il


tuo destino e io il mio, se mi obbedirai.
EDIPO

Le tue parole non sono legittime né generose verso questa


città che ti ha nutrito, se vuoi privarci del tuo responso.
TIRESIA

Quello che dici non conviene neanche a te, io lo vedo bene,


e perché non debba anch’io subire lo stesso...
EDIPO

No, in nome degli dei, non te ne andrai sapendo, poiché qui


davanti a te tutti ci prostriamo supplici.
TIRESIA

Voi tutti, infatti, non sapete: io no, non rivelerò le mie, anzi
le tue disgrazie.
EDIPO

Che dici? Pur conoscendo la verità non parlerai, ma intendi


tradire noi e annientare questa città?
TIRESIA

Non voglio fare del male né a me né a te; perché continui a


interrogarmi invano?
EDIPO

Tu, dunque, il più sciagurato degli sciagurati, che


susciteresti l’ira perfino di una roccia,12 non parlerai e ti
mostrerai così inflessibile e inesorabile?
TIRESIA

Rimproveri la mia ira13 e non vedi quella che vive insieme a


te, ma condanni me.
EDIPO

Chi non si adirerebbe nell’ascoltare le tue parole, con le


quali mostri il tuo disprezzo per questa città?
TIRESIA

Verrà fuori da sé la verità, anche se io la copro col silenzio.


EDIPO

Se verrà fuori, voglio saperla anche da te.


TIRESIA

Non parlerò oltre; perciò, se vuoi, infuria dell’ira più


selvaggia.
EDIPO

Adirato come sono, certo non tralascerò niente di quello


che ora comprendo chiaramente. Sappilo bene, infatti, io
credo che tu abbia aiutato a concepire questo delitto e lo
abbia compiuto, seppure non hai ucciso con le tue mani; se tu
avessi la vista, poi, direi anche che questo delitto è opera tua
soltanto.
TIRESIA

Davvero? Ti ordino di attenerti all’editto che hai


promulgato e da questo giorno non rivolgere la parola né a
costoro né a me, poiché sei tu colui che contamina
empiamente questa terra.
EDIPO
Così spudoratamente pronunci queste parole e credi che
potrai evitarne le conseguenze?
TIRESIA

Le ho già evitate; io nutro in me la forza della verità.


EDIPO

Da chi l’avresti appresa? Certo non dalla tua arte.


TIRESIA

Da te: tu mi hai costretto a parlare, io non volevo.


EDIPO

Che hai detto? Dillo di nuovo, che io lo capisca meglio.


TIRESIA

Non hai compreso prima? o vuoi farmi parlare?


EDIPO

Non posso dire mi sia chiaro; ripetilo.


TIRESIA

Dico che sei tu l’assassino che cerchi.


EDIPO

Non impunemente dirai due volte quest’infamia.


TIRESIA

Devo dirti altro, perché ti adiri anche di più?


EDIPO
Quello che vuoi; parlerai invano.
TIRESIA

Dico che tu senza saperlo convivi nel modo più infame con
chi ti è più caro e non vedi il male in cui ti trovi.
EDIPO

Credi forse che potrai continuare senza danno a parlare in


questo modo?
TIRESIA

Sì, se c’è una forza della verità.


EDIPO

C’è, ma non per te; per te non c’è, poiché sei cieco negli
orecchi, nella mente e negli occhi.
TIRESIA

Tu, sciagurato, rinfacci a me quelle stesse cose che presto


tutti ti rinfacceranno.
EDIPO

Sei nutrito da una sola unica notte, così che non potresti
danneggiare né me né alcun altro che veda la luce.
TIRESIA

Non è destino che tu cada per causa mia14; è sufficiente


Apollo a cui sta a cuore che tutto ciò si compia.
EDIPO

Sono di Creonte o tue queste invenzioni?


TIRESIA
Non è Creonte la tua rovina, ma tu a te stesso.
EDIPO

O ricchezza, potere e arte superiore a ogni arte, in questa


vita piena di rivalità, quanta invidia si annida presso di voi, se
a causa del regno, che la città mi ha concesso in dono e
senza che io lo avessi richiesto, il fedele Creonte, l’amico di
sempre, insinuandosi segretamente, di questo regno ambisce
privarmi, istigando uno stregone intrigante, un ciarlatano
fraudolento, che ha occhi soltanto per il guadagno ma nella
sua arte è cieco. Allora, su dimmi, quando ti sei dimostrato
profeta? Come mai, quando la cagna tessitrice di canti15 era
qui, non hai saputo dire niente per liberare i tuoi
concittadini? Eppure decifrare l’enigma non era impresa per
un primo venuto, ma richiedeva una sapienza profetica; tu
hai dimostrato di non averla né dagli uccelli né rivelata da
qualcuno degli dei. Io, invece, Edipo che non sapeva niente,
l’ho messa a tacere indovinando con la forza della ragione,
senza apprendere nulla dagli uccelli; io, che tu ora cerchi di
scacciare, credendo di diventare un protetto del trono di
Creonte. Con molte lacrime, io credo, tu e colui che ha
progettato questo piano allontanerete la contaminazione. Se
non fossi così vecchio, a tue spese capiresti l’enormità di quel
che mediti.
CORIFEO

A nostro parere le sue parole sembrano dettate dall’ira e


anche le tue, Edipo. Non di questo abbiamo bisogno, ma di
interpretare nel modo migliore il volere profetico del dio,
ecco che cosa dobbiamo cercare.
TIRESIA

Se pure tu sei il re, uguale è il mio diritto di parlarti come a


un pari; anch’io ne ho facoltà. Non sono servo tuo, infatti, ma
del Lossia16 né mai sarò annoverato tra i protetti di Creonte.
Io ti dico, poiché mi rinfacci di essere cieco: tu hai gli occhi e
non scorgi il male in cui ti trovi né dove abiti né con chi
convivi. Ma sai tu da chi sei nato? e non ti rendi conto di
essere nemico dei tuoi, sotto e sopra la terra. E duplice la
maledizione dal passo tremendo, della madre e di tuo padre,
scaccerà da questa terra te che ora vedi chiaramente ma poi
vedrai soltanto tenebre. E quale porto non ci sarà per le tue
grida, quale Citerone non ne riecheggerà tra poco, quando
comprenderai le nozze a cui approdasti in questa casa, porto
inospitale di una navigazione fortunata? Un’infinità di altri
mali tu non intendi, che renderanno uguale te a te stesso e ai
tuoi figli! Perciò getta pure fango su Creonte e sopra la mia
bocca: mai nessuno dei mortali soffrirà peggio di te!
EDIPO

È insopportabile ascoltare le parole di quest’uomo! Va’ alla


malora! Subito! Tornatene via, lontano da questa casa!
TIRESIA

Io non sarei venuto se non mi avessi chiamato tu.


EDIPO

Non potevo sapere che avresti fatto discorsi così insensati,


se no difficilmente ti avrei fatto venire alla mia casa.
TIRESIA

Per te siamo insensati, ma sapienti per i genitori che ti


diedero la vita.
EDIPO

Chi? Resta! Chi dei mortali mi diede la vita?


TIRESIA
Questo giorno ti darà la vita e ti distruggerà.
EDIPO

Come sono enigmatiche e oscure tutte le tue parole!


TIRESIA

Ma non eri tu il migliore a scoprire questi enigmi?


EDIPO

Rinfacciami pure quelle cose in cui mi scoprirai davvero


grande.
TIRESIA

Proprio questa sorte ti ha perduto.


EDIPO

Non importa, se ho potuto salvare questa città.


TIRESIA

Allora me ne vado; tu, ragazzo, accompagnami.


EDIPO

Sì, ti accompagni pure; restando qui mi dai soltanto noia;


se te ne vai la smetterai di infastidirmi.
TIRESIA

Me ne andrò, ma prima voglio dirti quello per cui sono


venuto; non ho paura del tuo volto, non potresti mai farmi del
male. Io ti dico: quell’uomo che da tempo vai cercando con
minacce e con proclami sull’omicidio di Laio, egli è qui,
straniero in apparenza, ma poi si rivelerà di nascita Tebano e
non se ne rallegrerà; cieco da vedente e mendicante da ricco
qual era, se ne andrà in terra straniera tastando la via con il
bastone. Si rivelerà essere per i suoi propri figli fratello e, al
tempo stesso, padre, della donna da cui ebbe la vita figlio e
insieme sposo, del padre di cui avrà condiviso la stessa
moglie assassino. Vai dentro e ripensa a quello che ti ho
detto e se troverai che io ho mentito, allora potrai dire che
non conosco affatto l’arte della profezia.
CORO
Chi la profetica
roccia di Delfi accusa
di avere compiuto azioni innominabili tra le più
innominabili
con mani sanguinarie?
È tempo per lui di volgere in fuga
il piede, più vigoroso
di tempestose cavalle;

armato su di lui si avventa


con fulmini e fiamme il figlio di Zeus,17
tremende lo seguono
le Chere infallibili. 18

Rifulse dal nevoso


Parnaso, or ora apparendo,
una voce: ovunque
inseguire l’uomo sconosciuto.

Si aggira in selvaggia
foresta tra gli antri
e le rocce simile a un toro,

misero con misero piede solitario vagando,


per fuggire lontano dai vaticini
del centro della terra; ma quelli sempre
viventi gli svolazzano intorno.
Tremendo, in modo tremendo
mi turba il sapiente indovino
né gli credo né posso
smentirlo. Che dire? non so;
volo tra incerte speranze
e non riesco a vedere gli eventi vicini
né quelli lontani.

Quale ragione di odio ci fu tra i Labdacidi19


e il figlio di Polibo?
Né in passato né adesso
ho saputo qualcosa che mi desse motivo
di smentire la buona fama
di Edipo, per farmi vendicatore
di oscure morti dei Labdacidi.

Zeus e Apollo
comprendono bene e sanno le azioni
dei mortali; ma che tra gli uomini
un profeta sia migliore di me
è giudizio non veritiero;
un uomo può vincere

sapienza in sapienza.
Prima di avere visto
una parola sicura, con quanti lo accusano
mai potrei essere concorde.
A tutti visibile lo affrontò la vergine alata
un giorno, e sapiente ci apparve
e alla prova dei fatti amico della città; perciò dall’animo
mio
mai sarà incolpato di malvagità.
CREONTE

Cittadini, ho saputo che il re Edipo pronuncia accuse


tremende contro di me e vengo qui perché non posso
tollerarlo. Se nella presente sciagura egli crede di avere
sofferto qualche torto da me in parole o in azioni, non
desidero vivere più a lungo sopportando una simile infamia.
Per un’accusa del genere non semplice ma grandissimo è il
danno, se sarò chiamato traditore dalla città, traditore da te
e da chi mi è caro.
CORIFEO

Ma quest’offesa fu provocata dall’ira, forse, più che da un


ragionato giudizio.
CREONTE

Ma il discorso fu chiaro: il profeta direbbe il falso per


obbedire ai miei consigli?
CORIFEO

Ha detto questo ma non so con quale intenzione.


CREONTE

Con occhi saldi e saldo pensiero ha pronunciato una tale


accusa contro di me?
CORIFEO

Non so; non guardo quel che fanno i potenti. Ma ecco, lui
stesso ormai esce fuori dal palazzo.
EDIPO

Tu, come osi avvicinarti qui? O giungi a tal punto di audacia


da venire a casa mia, tu che sei evidentemente il mio
assassino e chiaramente il predatore del mio regno? Su,
dimmi, in nome degli dei, hai visto qualche segno di viltà o di
follia in me per tramare questo? Non mi sarei accorto di
questa tua impresa che strisciava nell’inganno e, una volta
capito, non avrei saputo respingerla? Ma non era folle
questo tuo tentativo, senza popolo e senza amici, di
perseguire un regno che soltanto con il popolo e con la
ricchezza si può conquistare?
CREONTE

Sai che devi fare? Sta a sentire quel che ti rispondo e, dopo
aver ascoltato, giudica tu stesso.
EDIPO

Tu sei abile a parlare, ma io sono incapace di ascoltarti; ti


ho scoperto ostile e violento contro di me.
CREONTE

Proprio su questo sta a sentire prima di tutto quel che ti


dirò.
EDIPO

Proprio su questo non venirmi a dire che non sei un


traditore.
CREONTE

Se credi che l’ostinazione irragionevole sia un bene, non


pensi correttamente.
EDIPO

Se credi di poter fare del male a un tuo congiunto senza


scontare la tua colpa, non pensi giustamente.
CREONTE

Sono d’accordo, quello che dici è vero; ma allora spiegami,


da quale offesa tu ti credi offeso?
EDIPO

Fosti o non fosti tu a persuadermi che si doveva far venire


quel venerabile profeta?
CREONTE

E ancora adesso sono dello stesso avviso.


EDIPO

Quanto tempo è passato dacché Laio...


CREONTE

Ha fatto che? Non ti capisco.


EDIPO

Scomparve nell’agguato mortale?


CREONTE

Lunghi e antichi anni si dovrebbero contare.


EDIPO

E già allora questo profeta esercitava la sua arte?


CREONTE

Sapiente allo stesso modo e ugualmente onorato.


EDIPO

In quel tempo, allora, fece mai cenno a me?


CREONTE

Mai, almeno in mia presenza.


EDIPO
Ma non faceste indagini sul morto?
CREONTE

Ne facemmo, come no? ma non trovammo niente.


EDIPO

Come mai questo sapiente non fece allora le sue


rivelazioni?
CREONTE

Non so; amo tacere su ciò che non conosco.


EDIPO

Ma quel che sai potresti anche dirlo, poiché conosci bene...


CREONTE

Che cosa? Se lo so, non negherò.


EDIPO

Che, se non fosse stato d’accordo con te, non mi avrebbe


mai accusato dell’omicidio di Laio.
CREONTE

Se dice questo, lo sai tu. Io, piuttosto, pretendo di sapere


qualcosa da te, proprio come tu da me adesso.
EDIPO

Domanda pure; certo non mi scoprirai un assassino.


CREONTE

Dunque, mia sorella non è forse tua moglie?


EDIPO

Non posso negarlo.


CREONTE

Tu regni su questa terra al pari di lei, dividendo un uguale


potere?
EDIPO

Sì, ella ottiene da me tutto ciò che vuole.


CREONTE

E io non sono pari a voi due come terzo?


EDIPO

Proprio in questo ti riveli un falso amico.


CREONTE

No, se rifletti sulla mia posizione. Considera questo innanzi


tutto: credi forse che qualcuno preferisca regnare in mezzo
alle paure, piuttosto che dormire sonni tranquilli, avendo un
identico potere? Io, per mia natura, non ho mai desiderato
essere re più che agire da re, come qualunque altra persona
ragionevole. Ora ottengo tutto da te, senza paura; se fossi re
io stesso, dovrei fare molte cose anche contro voglia. Come
potrebbe, dunque, essere più desiderabile per me un regno
di un potere e di un’autorità senza preoccupazioni? Non sono
tanto ingenuo da cercare onori che non siano realmente
vantaggiosi. Ora vado d’accordo con tutti, ora tutti mi
vogliono bene, ora quelli che hanno bisogno di te si rivolgono
a me: qualunque cosa vogliano ottenere è qui che la trovano.
Come potrei lasciare quello che ho per ottenere questo? Non
può fare del male una mente che sa ben ragionare. Io, per
mia natura, non ho mai avuto questo proposito né mai mi
assocerei a chi agisse così. Se vuoi una prova, vai a Pito e
informati se ti ho riferito i vaticini in modo veritiero, poi, se
scoprirai che ho tramato insieme all’indovino, condannami
pure a morte dopo che mi avrai scoperto, non con un voto
solo ma con due, il mio e il tuo; così, però, non accusarmi,
con un giudizio incerto e non provato. Non è giusto, infatti,
senza un valido motivo considerare oneste le persone
disoneste, né disoneste le persone oneste. Credo che gettare
via un fedele amico sia come gettare via la propria vita, cioè
quanto di più caro. Col tempo lo riconoscerai sicuramente,
poiché soltanto il tempo rivela l’uomo giusto; in un giorno
solo, invece, puoi riconoscere l’uomo disonesto.
CORIFEO

Ha parlato bene; è giusto ammetterlo, signore, se non si


vuol sbagliare. Chi è frettoloso nei giudizi non è mai sicuro.
EDIPO

Se rapido avanza chi trama nell’ombra, rapido anch’io


devo decidere a mia volta. Se rimango inerte le azioni di lui
andranno a segno e le mie falliranno.
CREONTE

Che vuoi allora? Cacciarmi da questa terra?


EDIPO

No davvero, ti voglio morto, non in esilio.


CREONTE

Quando avrai chiarito la causa di tanto odio.


EDIPO

Non ti arrendi, non vuoi obbedire?


CREONTE

Vedo che non ragioni.


EDIPO

Ragiono nel mio interesse.


CREONTE

Dovresti ragionare anche nel mio.


EDIPO

Ma tu sei un traditore.
CREONTE

E se non capisci niente?


EDIPO

Ugualmente bisogna obbedire.


CREONTE

Non a un comando ingiusto.


EDIPO

O città, città!
CREONTE

Anch’io faccio parte della città, non tu soltanto.


CORIFEO

Smettete, signori! Al momento per voi più opportuno vedo


Giocasta che esce dal palazzo; insieme a lei si dovrà
risolvere questa vostra contesa.
GIOCASTA

Sciagurati, perché avete suscitato questo sconsiderato


litigio? Non vi vergognate di agitare i vostri contrasti privati
mentre la terra soffre così? Va’ a casa tu! Anche tu, Creonte,
entra dentro! Non trasformate un fatto da nulla in un grande
dolore.
CREONTE

Sorella, Edipo, il tuo sposo, vuole colpirmi in modo


tremendo; sceglierà tra due condanne, cacciarmi via dalla
terra patria o prendermi e condannarmi a morte.
EDIPO

Lo confermo; l’ho sorpreso, donna, tramare con arte


perversa contro la mia persona.
CREONTE

Possa non avere più bene e morire maledetto, se mai ho


commesso quel che mi accusa di aver commesso.
GIOCASTA

In nome degli dei, prestagli fede, Edipo; abbi rispetto


prima di tutto di questo sacro giuramento, poi di me e di
costoro che sono qui presenti.
CORO
Obbedisci, signore, di buon grado e con animo
ragionevole,
te ne supplico.
EDIPO

In che cosa vuoi che io ti ceda?


CORO
Abbi rispetto di lui che già prima non era persona di poco
valore
e ora è reso grande dal giuramento.
EDIPO

Sai quel che mi chiedi?


CORIFEO

Lo so.
EDIPO

Allora, di’quello che vuoi.


CORO
Non incolpare l’amico vincolato dal giuramento,
non disonorarlo per un’accusa oscura.
EDIPO

Sappi bene che chiedendomi questo chiedi la morte per me


o l’esilio da questa terra.
CORO
No, te lo giuro sul Sole, sul dio primo tra tutti gli dei,
possa io morire senza dei, senza amici,
nel modo più infelice, se ho quest’intenzione.
Ma la terra che muore a me sventurato
tormenta l’anima, se ai dolori di prima
si aggiungono anche questi causati da voi due.
EDIPO

Se ne vada allora, anche se io dovrò morire o essere


cacciato via da questa terra a forza, disonorato. Ho
compassione delle tue parole pietose, non delle sue.
Dovunque andrà, costui mi sarà odioso.
CREONTE

Cedi con odio, è chiaro, ma te ne pentirai quando il furore


ti sarà passato; giustamente caratteri così sono duri da
sopportare anche per se stessi.
EDIPO

Lasciami stare! Vattene lontano!


CREONTE

Me ne andrò, misconosciuto da te, ma quello di prima per


costoro.
CORO

Donna, che aspetti ad accompagnarlo in casa?


GIOCASTA

Prima voglio sapere che cosa è accaduto.


CORO
Oscuri sospetti sono nati dalle loro parole
ma anche le accuse ingiuste possono fare del male.
GIOCASTA

Da parte di entrambi?
CORIFEO

Sì.
GIOCASTA

Qual era la questione?


CORO
Basta, basta, la mia terra soffre;
resti il discorso là dove si è fermato.
EDIPO

Vedi a che punto sei arrivato, tu che pure sei un uomo di


giudizio, rilassando e smussando il mio cuore?
CORO
Signore, te l’ho detto e non una volta sola;
sappi che sarei un pazzo, un insensato
se volessi abbandonare te,
che la mia amata terra, preda del dolore,
riportasti con vento favorevole, sulla giusta rotta.
Anche ora sii buon timoniere, se puoi.
GIOCASTA

In nome degli dei, spiega anche a me, signore, il motivo di


un’ira tanto violenta.
EDIPO

Te lo dirò; più di costoro, infatti, io ti rispetto. È colpa di


Creonte e di quel che ha tramato contro di me.
GIOCASTA

Parla, se puoi spiegare chiaramente la causa del litigio


attribuendo a lui la colpa.
EDIPO

Dice che l’assassino di Laio sono io.


GIOCASTA

Lo sa lui o è venuto a saperlo da qualcun altro?


EDIPO
Mi ha mandato quel miserabile profeta, perché per quanto
lo riguarda non vuole compromettersi.
GIOCASTA

Non devi preoccuparti di questo, ascoltami e sappi che


nessuna creatura mortale possiede l’arte della profezia. Te
ne darò la prova in breve. Un oracolo giunse a Laio un
giorno, non dirò proprio da Febo, ma dai suoi ministri, che
era suo destino morire per mano di quel figlio che fosse nato
da me e da lui. Ed egli, invece, almeno a quanto si racconta,
fu ucciso da banditi stranieri all’incrocio di tre strade
carraie. Non erano trascorsi tre giorni dalla nascita del figlio
che quello, dopo avergli legato le caviglie, lo fece gettare su
un monte inaccessibile. In questo caso Apollo non portò a
compimento né che quello divenisse assassino del padre né
che Laio — il fatto tremendo da lui tanto temuto — morisse
per mano di suo figlio. Tali eventi avevano decretato i
profetici responsi; tu non ci pensare. Quel che un dio vuole,
lui stesso, facilmente, lo manifesterà.
EDIPO

Che smarrimento dell’animo, che sussulto della mente mi


ha preso or ora, donna, mentre ti ascoltavo!
GIOCASTA

Perché dici così, quale angoscia ti sconvolge?


EDIPO

Mi è parso di sentirti dire che Laio fu assassinato


all’incrocio di tre strade carraie.
GIOCASTA

Così si disse e non fu mai smentito.


EDIPO

E dov’è questo luogo, dove avvenne la sciagura?


GIOCASTA

La regione è chiamata Focide, là dove si incontrano le


strade da Delfi e da Daulia.
EDIPO

E quanto tempo è trascorso da allora?


GIOCASTA

L’annuncio fu dato alla città poco prima che tu prendessi il


potere su questa terra.
EDIPO

O Zeus, che mai vuoi fare di me?


GIOCASTA

Edipo, che cos’è quest’angoscia?


EDIPO

Non farmi domande, non ancora; ma dimmi, com’era Laio


d’aspetto, che età aveva?
GIOCASTA

Alto, cominciava a incanutire nel capo appena imbiancato,


non molto diverso da te nella persona.
EDIPO

Ahimè infelice! Credo di aver gettato me stesso in


maledizioni tremende, or ora, senza saperlo.
GIOCASTA

Ho paura di guardarti, signore.


EDIPO

Ho il dubbio tremendo che il profeta non sia affatto cieco.


Tu potrai chiarirlo meglio se mi dirai ancora una cosa sola.
GIOCASTA

Ho paura ma, se posso, ti risponderò.


EDIPO

Viaggiava con una piccola scorta o con molti uomini armati,


come si addice a un sovrano?
GIOCASTA

Erano cinque in tutto, compreso un araldo; un solo carro


conduceva Laio.
EDIPO

Ahimè, ormai tutto è chiaro! Chi vi ha raccontato questo,


donna?
GIOCASTA

Un servo, che fu il solo a ritornare salvo.


EDIPO

Si trova ancora nel palazzo?


GIOCASTA

Non più. Quando tornò e vide che tu eri al potere e Laio


morto, mi supplicò, prendendomi la mano, di lasciarlo andare
nei campi e ai pascoli delle greggi, il più lontano possibile
dalla vista di questa città. Io lo lasciai andare; come servo
meritava un favore anche più grande di questo.
EDIPO

Non si potrebbe farlo venire subito qui?


GIOCASTA

È possibile. Ma perché lo vuoi?


EDIPO

Temo per me, donna, di aver parlato troppo; perciò ora


desidero vederlo.
GIOCASTA

Allora verrà, ma ho anch’io il diritto di sapere che cosa ti


opprime, signore.
EDIPO

Non te lo negherò; tanta è l’incertezza in cui mi trovo. Con


chi potrei confidarmi meglio che con te, dovendo affrontare
tale situazione? Mio padre era Polibo di Corinto, mia madre
Merope dorica. Ero considerato il più importante dei
cittadini là, prima che mi capitasse un fatto, degno di
meraviglia certo, non degno tuttavia della mia
preoccupazione. Durante un banchetto, un uomo, ubriaco
fradicio, mi chiama, in preda al vino, falso figlio di mio padre.
Io, turbato, per quel giorno mi trattenni a stento ma il giorno
dopo interrogai mia madre e mio padre; quelli si sdegnarono
per l’affronto di chi aveva pronunciato quelle parole. Io fui
rassicurato dal loro atteggiamento, eppure questo pensiero
mi tormentava sempre, profondamente s’insinuava in me. Di
nascosto da mia madre e da mio padre, mi recai a Pito e
Apollo mi mandò via senza degnarmi di una risposta alle
domande per cui ero venuto, ma si rivelò a me sciagurato
predicendo altri eventi tremendi e orribili: era destino ch’io
mi congiungessi a mia madre e mostrassi agli uomini una
discendenza intollerabile a vedersi e diventassi l’assassino
del padre che mi aveva generato. Udito questo, da quel
giorno, misurando da lontano la terra corinzia sul corso delle
stelle,20 me ne andai in esilio, dove mai avrei visto compiersi
l’infamia dei miei infausti vaticini. Viaggiando, giungo nei
luoghi dove tu dici che questo re morì. A te, donna, dirò la
verità. Quando camminando fui nei pressi di quell’incrocio di
tre strade, là mi si fecero incontro un araldo e un uomo che
avanzava su un carro tirato da puledri, proprio come dici tu;
il guidatore e anche il vecchio cercavano di spingermi a forza
fuori dalla strada. Colpisco, allora, con ira il conducente che
cercava di farmi deviare; il vecchio, come vede che mi
avvicino al carro, stando bene in guardia, mi raggiunge in
piena testa con un pungolo a due punte. L’ha pagata cara;
subito colpito col bastone da questa mia mano, dal centro del
carro rotola giù supino. Li uccido tutti. Se tra quello
straniero e Laio c’è qualche relazione, chi ora è più infelice
di me? Quale uomo potrebbe essere mai più odioso agli dei?
Non mi è più concesso essere accolto in casa né di stranieri
né di cittadini né rivolgere la parola ad alcuno, ma dalle case
di tutti dovrò essere scacciato. Io stesso, poi, nessun altro,
ho scagliato contro di me queste maledizioni. Il talamo del
morto contamino con le mie mani, quelle stesse da cui fu
ucciso. Non sono uno sventurato? Non sono io un impuro?
Devo andare in esilio e a me in esilio non è dato vedere i miei
né mettere piede sulla terra patria, altrimenti sarò costretto
a congiungermi in matrimonio con la madre e a uccidere il
padre, Polibo, che mi ha nutrito e mi ha generato. Chi
giudicasse questi eventi mandati da un dio crudele contro di
me non avrebbe, dunque, ragione? No, no, pura maestà degli
dei, possa io non vedere quel giorno, ma scomparire dal
mondo dei mortali prima di vedere una tale macchia di
sciagura giungere su di me.
CORIFEO

Spaventose per noi sono le tue parole, signore; ma finché


non avrai ascoltato chi era presente devi avere una
speranza.
EDIPO

Soltanto questa speranza mi resta, aspettare quell’uomo, il


pastore.
GIOCASTA

Che cosa ti aspetti dalla sua venuta?


EDIPO

Te lo spiegherò; se confermerà quello che hai detto tu, io


avrò evitato questa sciagura.
GIOCASTA

Che cosa hai sentito di tanto importante da me?


EDIPO

Mi hai detto che, secondo il suo racconto, dei banditi


avrebbero commesso l’omicidio. Se ripeterà ancora lo stesso
numero, allora non l’ho ucciso io: una sola persona, infatti,
non è uguale a molti. Se, invece, parlerà di un viandante
solitario, è evidente, ormai, che il delitto ricade su di me.
GIOCASTA

Sappi che parlò chiaramente e ora non può ritrattare: la


città ha udito le sue parole, non io soltanto. E se anche si
discostasse dalla versione precedente, tuttavia, signore, non
potrà mai dimostrare che l’omicidio di Laio è avvenuto nel
modo previsto, poiché il Lossia aveva dichiarato che doveva
morire per mano di mio figlio. E certo non fu quell’infelice a
ucciderlo, anzi morì lui stesso prima. Così da oggi in poi, per
una profezia, non mi volgerei più né in qua né in là.
EDIPO

Hai ragione, ma ugualmente manda qualcuno a chiamare il


pastore; non mancare di farlo.
GIOCASTA

Manderò subito, ma entriamo in casa; non potrei fare


niente che a te non fosse gradito.
CORO
Sia mio destino serbare
rispettosa purezza di parole
e di tutte le azioni, cui sono preposte leggi
che volano alto, create
nell’etere celeste, di cui Olimpo
solo è padre
né natura mortale di uomini
le ha generate né dimenticanza
mai le potrà addormentare:
un dio potente è in esse e non invecchia.

L’eccesso genera il tiranno,21 l’eccesso,


se di molti beni follemente si sazia,
né opportuni né convenienti,
salito sulle cime più alte
rovina subito in un precipizio di necessità
dove di valido piede
non sa più servirsi. Ma la lotta per il bene
della città io prego il dio
che mai faccia cessare:
mai il dio smetterò di avere a mia difesa.
Se qualcuno sprezzante
in opere e parole avanza
incurante di Giustizia,
non venerando le sedi degli dei,
lo colga una sorte crudele
per il suo sventurato orgoglio,
se guadagnerà guadagno non giusto
e da empie azioni non si asterrà
o l’intangibile, folle, vorrà possedere.
Quale uomo mai potrà vantarsi in questi casi di tenere
lontano
dalla propria vita gli strali della collera divina?
Se tali azioni sono onorate,
perché devo io danzare?

Non più l’intangibile


centro della terra22 andrò a venerare
né il tempio di Abe,23
né Olimpia,24
se questi fatti non saranno additati ad esempio
da tutti i mortali concordi.
Ma tu, Possente, se giustamente sei così chiamato,
Zeus, signore di tutte le cose, non permettere che questo
sfugga
a te e al tuo potere sempre immortale.
Svanire lasciano
gli oracoli dell’antico Laio
e in nessun luogo Apollo ha manifesti onori:
muore il divino.
GIOCASTA

Signori di questa terra, ho deciso di recarmi supplice ai


templi degli dei con queste ghirlande e questi incensi nelle
mani. Troppo si tormenta Edipo con timori di ogni genere!
Non giudica, come un uomo ragionevole, i fatti recenti alla
luce di quelli lontani, ma è in balìa di chiunque gli parli,
purché faccia discorsi paurosi. Con i miei consigli non
ottengo niente, perciò da te, Apollo Liceo — sei il più vicino,
infatti —, vengo supplice con queste mie offerte, affinché tu
conceda a noi una liberazione purificatrice. Ora, vedendolo
spaventato, abbiamo tutti paura, come se fosse il timoniere
della nostra nave.
MESSAGGERO

Stranieri, potreste indicarmi dove è il palazzo del re


Edipo? Anzi, se lo sapete, ditemi lui dov’è.
CORIFEO

La casa è questa e lui è dentro, straniero. Questa donna è


la madre dei suoi figli.
MESSAGGERO

Sia sempre felice e tra uomini felici, poiché di lui è una


sposa perfetta.
GIOCASTA

Anche tu, straniero: lo meriti, per le tue parole augurali.


Ma dimmi, a quale scopo sei venuto qui, che cosa vuoi
annunciare?
MESSAGGERO

Buone notizie per la tua casa e per il tuo sposo, donna.


GIOCASTA

Quali? Da parte di chi vieni?


MESSAGGERO
Da Corinto. Quel che ora ti dirò potrà rallegrarti —
certamente — ma anche addolorarti.
GIOCASTA

Che dici? Quale duplice potere ha in sé?


MESSAGGERO

Gli abitanti della terra dell’Istmo lo acclameranno re, così


là si diceva.
GIOCASTA

Perché? L’anziano Polibo non è più al potere?


MESSAGGERO

Non più. La morte, infatti, lo tiene nella tomba.


GIOCASTA

Che dici? Polibo è morto?


MESSAGGERO

Possa morire se non dico la verità!


GIOCASTA

Ancella, va’ e riferisci subito la notizia al padrone. O


responsi degli dei, dove siete? Da tempo Edipo fuggiva da
quest’uomo per il terrore di ucciderlo e ora costui è morto
compiendo il suo destino e non per mano di lui.
EDIPO

Giocasta, amatissima sposa, perché mi hai mandato a


chiamare qui, fuori dal palazzo?
GIOCASTA
Ascolta quest’uomo e, dopo averlo udito, guarda dove se ne
vanno i sacri responsi del dio.
EDIPO

Chi è costui? Che cosa vuole dirmi?


GIOCASTA

Viene da Corinto per annunciarti che tuo padre non c’è più;
è scomparso.
EDIPO

Che dici, straniero? Sii tu stesso ad annunciarmelo.


MESSAGGERO

Se proprio questo devo comunicarti chiaramente come


prima cosa, sappi allora che se ne è andato, è morto.
EDIPO

Vittima di un’insidia? o colpito da una malattia?


MESSAGGERO

Un tocco appena può rovesciare un corpo gravido di anni.


EDIPO

L’infelice, a quanto sembra, morì di malattia.


MESSAGGERO

E in accordo con la sua età avanzata.


EDIPO

Perché mai, donna, qualcuno dovrebbe guardare al


profetico altare di Pito o agli uccelli che gridano in cielo,
secondo i quali avrei dovuto uccidere il padre mio? Egli,
morto, giace nell’ombra sotto terra, io, invece, sono qui e
non ho toccato un’arma — a meno che non si sia consumato
per il rimpianto che aveva di me: solo così potrebbe essere
morto per causa mia. Giace nell’Ade Polibo e con sé ha
portato tutti questi oracoli, privi ormai di qualunque valore.
GIOCASTA

Non te lo dicevo da tempo?


EDIPO

Lo dicevi, sì; ma ero sviato dalla paura.


GIOCASTA

Più niente, ormai, ti deve preoccupare.


EDIPO

Come? Non dovrei temere il letto di mia madre?


GIOCASTA

Di che cosa deve aver paura l’uomo, dominato dagli eventi


della sorte, senza alcuna chiara conoscenza del futuro? È
meglio lasciarsi vivere, come si può. Tu non avere paura
delle nozze con tua madre. Già molti dei mortali anche nei
sogni si sono uniti con la propria madre: ma chi non se ne
cura sopporta la vita con più facilità.
EDIPO

Avresti ragione se la donna che mi ha generato non fosse


ancora in vita; ma ora, poiché è viva, è impossibile per me
non aver timore.
GIOCASTA
Eppure, un grande occhio è la tomba di tuo padre. 25
EDIPO

Grande, lo comprendo bene; ma ho timore di colei che è


ancora in vita.
MESSAGGERO

Ma chi è la donna di cui avete paura?


EDIPO

Merope, vecchio, la sposa di Polibo.


MESSAGGERO

E che cosa in lei vi fa paura?


EDIPO

Un responso tremendo mandato dagli dei, straniero.


MESSAGGERO

Puoi dirlo? o nessun altro deve saperlo?


EDIPO

Certamente. Mi disse il Lossia un giorno che era mio


destino congiungermi a mia madre e versare con queste mie
mani il sangue paterno. Perciò da tanto tempo vivo lontano
da Corinto; felicemente, è vero, tuttavia è dolce vedere gli
occhi di chi ci ha generato.
MESSAGGERO

Ma allora è per timore di questo che hai vissuto in esilio?


EDIPO
Sì, non volevo diventare l’assassino di mio padre, vecchio.
MESSAGGERO

Perché non ti ho liberato io da questa paura, signore?


Infatti sono venuto qui con intenzioni buone.
EDIPO

E riceveresti da me la degna ricompensa.


MESSAGGERO

Sono venuto proprio per questo, perché quando tu ritorni a


casa io possa ottenere qualche beneficio.
EDIPO

Io non andrò mai dove sono i miei genitori.


MESSAGGERO

Figlio mio, è chiaro che non sai quello che fai.


EDIPO

Come, vecchio? Spiegami, in nome degli dei!


MESSAGGERO

Se per questo motivo non vuoi tornare a casa...


EDIPO

Ho il timore che Febo risulti veritiero.


MESSAGGERO

Cioè di essere contaminato dai tuoi genitori?


EDIPO
Proprio così, vecchio; questa è sempre la mia paura.
MESSAGGERO

Ma sai che non c’è ragione di tremare?


EDIPO

Come no, se sono figlio di questi genitori?


MESSAGGERO

Tra te e Polibo non c’era alcun legame.


EDIPO

Che dici? Polibo non mi ha generato?


MESSAGGERO

Non più di me, allo stesso modo.


EDIPO

Come potrebbe un padre essere lo stesso di chi non è


niente per me?
MESSAGGERO

Ma tu non sei nato né da lui né da me.


EDIPO

Perché, allora, mi chiamava figlio?


MESSAGGERO

Ti ebbe in dono, devi sapere, dalle mie mani.


EDIPO
E mi amò tanto, benché mi avesse ricevuto da una mano
estranea?
MESSAGGERO

Lo spinse a questo il non aver avuto figli fino ad allora.


EDIPO

Mi avevi comprato oppure trovato quando mi desti a lui?


MESSAGGERO

Ti avevo trovato nei boscosi anfratti del Citerone.


EDIPO

Perché andavi per quei luoghi?


MESSAGGERO

Sorvegliavo là le greggi montane.


EDIPO

Eri un pastore nomade, allora? Lavoravi a pagamento?


MESSAGGERO

Ma fui il tuo salvatore, figlio, in quella circostanza.


EDIPO

Ero sofferente quando mi raccogliesti in quella dolorosa


condizione?
MESSAGGERO

Lo possono testimoniare le tue caviglie.


EDIPO
Ahimè! Perché mi parli di questo male antico?
MESSAGGERO

Io ti sciolsi, avevi le giunture dei piedi perforate.


EDIPO

Tremendo oltraggio ho ricevuto ancora in fasce!


MESSAGGERO

Da quello avesti il nome che porti ancora adesso.


EDIPO

In nome degli dei, dimmi! Dalla madre o dal padre?


MESSAGGERO

Non so. Lo può sapere meglio chi ti diede a me.


EDIPO

Ma allora mi avesti da un altro, non fosti tu a trovarmi?


MESSAGGERO

No, un altro pastore ti diede a me.


EDIPO

Chi è costui? Me lo sai dire chiaramente?


MESSAGGERO

So per certo che era un servo di Laio.


EDIPO

Di colui che una volta era il re di questa terra?


MESSAGGERO

Proprio così: era un suo pastore.


EDIPO

È ancora vivo, così che io possa vederlo?


MESSAGGERO

Dovreste saperlo meglio voi che abitate qui.


EDIPO

C’è qualcuno tra voi presenti che conosca il pastore di cui


parla e lo abbia visto nei campi oppure qui in città?
Indicatelo a me, poiché è il momento che questi fatti vengano
svelati.
CORIFEO

Credo che sia quello stesso contadino che prima volevi


incontrare. Del resto Giocasta qui te lo può dire meglio di
chiunque altro.
EDIPO

Donna, sai tu se l’uomo che abbiamo mandato a chiamare


poco fa e quello di cui parla costui...
GIOCASTA

Che ti importa di chi parla? Non ci pensare; è inutile anche


ricordare quel che è stato detto.
EDIPO

Dopo aver trovato tali segni, non posso non far luce sulla
mia origine.
GIOCASTA

No, in nome degli dei, se ti sta a cuore la tua vita, non


indagare. Basta la mia sofferenza.
EDIPO

Coraggio; se anche da tre generazioni di madri io mi


rivelerò tre volte schiavo, tu non apparirai plebea.
GIOCASTA

Eppure ascoltami, ti supplico, non farlo.


EDIPO

Non potrei ascoltarti e non conoscere questi fatti


chiaramente.
GIOCASTA

Ma io ti voglio bene; ti do buoni consigli.


EDIPO

Da tempo mi infastidiscono questi tuoi buoni consigli.


GIOCASTA

O sventurato, possa tu non sapere mai chi sei!


EDIPO

Qualcuno vada a chiamare il pastore. Lasciate costei a


godersi la sua ricca origine.
GIOCASTA

Ahimè infelice! Soltanto questo nome posso darti ormai;


nessun altro mai più!
CORIFEO

Perché se ne è andata la tua donna, Edipo, spinta da un


selvaggio dolore? Ho paura che da questo silenzio possa
erompere una tempesta di mali.
EDIPO

Erompa che vuole. Io voglio conoscere il mio seme, anche


se umile. Ella, forse, superba come tutte le donne, si
vergogna della mia nascita indegna. Io, invece, mi considero
figlio della Sorte, di una sorte benevola e non proverò
disonore. Sono nato da questa madre: i mesi generati con me
mi hanno reso piccolo e grande. Tale io nacqui né mai potrei
diventare un altro; perché, dunque, non dovrei indagare la
mia origine?
CORO
Se io sono profeta
e di mente sicuro,
in nome d’Olimpo, no, Citerone,
domani nel plenilunio,
non resterai senza gloria tu compatriota di Edipo,
sua nutrice e sua madre
e sarai celebrato con danze, poiché grati favori rendesti
ai miei re.
Febo soccorritore, sia questo a te bene accetto.

Chi, figlio, chi ti generò


tra le Ninfe dalla lunga vita,
unitasi a Pan, tuo padre che vaga per i monti,
o forse fu una sposa
del Lossia, a lui, infatti, son care tutte le pianure ricche di
pascoli,

o il signore di Cillene26
o il Bacchico dio che vive sulle cime dei monti
ti accolse, scoperta inattesa, da una
delle Ninfe Eliconie27 con cui spesso ama scherzare.
EDIPO

Se io, che pure non l’ho mai incontrato, posso fare una
supposizione, credo di vedere il pastore che da tempo
cerchiamo; la sua età avanzata concorda con quella di
quest’uomo e, d’altra parte, riconosco i miei servi in quelli
che l’accompagnano. Ma tu, forse, lo sai meglio di me, poiché
già in passato hai visto il pastore.
CORIFEO

Sì, lo riconosco, sappilo; era un uomo di Laio, un pastore


fedele come mai nessun altro.
EDIPO

Lo domando prima a te, straniero di Corinto: è lui che


intendi?
MESSAGGERO

È proprio lui, quello che vedi.


EDIPO

Tu, vecchio, guardami e rispondi a quel che ti domando. Eri


tu un uomo di Laio?
SERVO

Ero un suo servo, non comprato ma allevato in casa.


EDIPO

A quale attività ti dedicavi, a quale vita?


SERVO
Ho seguito le greggi per quasi tutta la mia vita.
EDIPO

Quali luoghi frequentavi soprattutto?


SERVO

Il Citerone o la regione circostante.


EDIPO

Quest’uomo, ricordi di averlo mai incontrato là?


SERVO

In che occasione? E di quale uomo stai parlando, poi?


EDIPO

Di costui che è qui presente. Hai mai avuto a che fare con
lui?
SERVO

Così sul momento non te lo so dire, non mi ricordo.


MESSAGGERO

Niente di strano, signore. Ma se ha dimenticato lo aiuterò


io a ricordare. So bene, infatti, che ha ancora in mente
quando sul Citerone lui con due greggi e io con uno siamo
stati insieme per due periodi interi di sei mesi, da primavera
al sorgere di Arturo. D’inverno, poi, io ritornavo alle mie
stalle e lui agli ovili di Laio. Dico o non dico quel che è
accaduto veramente?
SERVO

Dici la verità ma è passato tanto tempo!


MESSAGGERO

E ora dimmi, ricordi quel bambino che mi desti allora,


perché lo allevassi come una mia creatura?
SERVO

Che c’è? Perché me lo domandi?


MESSAGGERO

Costui, amico, è il piccolo di allora!


SERVO

Va’ alla malora! Vuoi startene zitto?


EDIPO

Non rimproverarlo, vecchio; le tue parole meritano un


rimprovero ben più delle sue!
SERVO

Che ho fatto di male, mio buon signore?


EDIPO

Non vuoi raccontare del bambino su cui costui ti interroga.


SERVO

Non sa quello che dice e si affanna inutilmente.


EDIPO

Tu parlerai, per amore o per forza!


SERVO

No, in nome degli dei, non farmi del male, sono un vecchio!
EDIPO

Qualcuno gli leghi le mani dietro la schiena, subito!


SERVO

Infelice, perché? Che vuoi sapere?


EDIPO

Hai dato o no il bambino su cui costui ti interroga?


SERVO

Gliel’ho dato, ma vorrei piuttosto essere morto quel


giorno.
EDIPO

Avrai proprio questo se non dirai quello che devi.


SERVO

Molto peggiore, se parlerò, sarà la mia rovina.


EDIPO

Quest’uomo, a quanto pare, vuole tirarla per le lunghe.


SERVO

No, te l’ho già detto; gliel’ho dato.


EDIPO

Dove l’avevi preso? era tuo o di qualcun altro?


SERVO

Non era mio, l’ho avuto da un altro.


EDIPO
Da chi di questi cittadini? Da quale casa?
SERVO

No, in nome degli dei, non chiedermi di più!


EDIPO

Sei morto, se devo domandarlo un’altra volta.


SERVO

Apparteneva alla casa di Laio.


EDIPO

Un servo oppure un suo parente?


SERVO

Ahimè, ecco la cosa per me più tremenda da dire.


EDIPO

E per me da ascoltare, tuttavia devo ascoltarla.


SERVO

Si diceva che fosse suo figlio; ma colei che ora è dentro, la


tua sposa, potrebbe dirti meglio come si svolsero i fatti.
EDIPO

Fu lei, allora, a consegnarlo a te?


SERVO

Proprio così, signore.


EDIPO
E a quale scopo?
SERVO

Perché lo uccidessi.
EDIPO

Sciagurata, lei che lo aveva generato?


SERVO

Temeva funesti presagi.


EDIPO

Quali?
SERVO

Era stato detto che avrebbe ucciso i genitori.


EDIPO

Perché lo affidasti a questo vecchio?


SERVO

Mi fece compassione, signore; pensai che lo avrebbe


portato in un’altra terra, al suo paese. Ma lo salvò per le
sciagure più grandi. Se, infatti, sei colui che quest’uomo dice,
sappi che sei nato sventurato.
EDIPO

Ahimè, tutto è chiaro. Luce, ti veda per l’ultima volta, io


che, ormai è evidente, fui generato da chi non dovevo, con
chi non dovevo mi congiunsi, e chi non era lecito uccidere
uccisi.
CORO
Ahi generazioni di mortali,

pari al nulla

valuto la vostra vita.

Chi, infatti, quale uomo mai

raggiunge una felicità maggiore

dell’apparire felice

per poi dall’apparenza subito declinare?

Il tuo prendendo a esempio,

il tuo destino, il tuo,

infelice Edipo, niente che sia mortale

considero beato.

Egli cogliendo il segno

con maestria suprema ottenne

una prosperità felice in tutto,

o Zeus, e annientando

la profetica vergine

dagli artigli ricurvi, contro le morti

come torre si eresse a difesa della mia terra.

Da quel giorno io ti chiamo re

e grandemente fosti onorato


regnando

sulla grande Tebe.

E ora chi di te è più misero?

chi in sciagure selvagge, chi nel dolore

ti è compagno in tale mutamento della vita?

Ahimè, glorioso Edipo,

cui un unico grande porto bastò

al figlio e al padre che vi si gettarono dentro come sposi,

come, come i paterni

solchi poterono, sventurato,

sopportare in silenzio fino a tal punto?

Ti ha scoperto, tuo malgrado, il tempo che tutto vede

e condanna ora le nozze non nozze di te

che a lungo fosti insieme generante e generato.

Ahi, figlio di Laio,

mai, mai ti avessi conosciuto;

gemo immensamente lanciando grida

dalla mia bocca. Devo dire la verità,

a causa tua ritrovai il respiro

e chiusi gli occhi al sonno.


II MESSAGGERO

Voi, sommamente onorati sempre in questa terra, quali


eventi dovrete ascoltare, quali vedere, quanto lutto
sopporterete, se con affetto ancora vi preoccupate della casa
di Labdaco. Credo che né l’Istro né il Fasi28 potrebbero mai
lavare con acqua purificatrice questo tetto, tanti sono i mali
che nasconde; e altri ne verranno alla luce, volontari non
involontari. Tra le sciagure soprattutto addolorano quelle
che si rivelano liberamente scelte.
CORIFEO

Quello che sapevamo prima già era motivo di profondi


lamenti. Che cosa aggiungerai ancora?
II MESSAGGERO

La notizia più rapida da dire e da ascoltare; la divina


Giocasta è morta.
CORIFEO

Infelice, in che modo?


II MESSAGGERO

Di sua propria mano. Di quanto è accaduto ti è risparmiato


l’aspetto più doloroso, infatti tu non hai visto. Eppure, per
quanto ricordo, conoscerai anche tu le sofferenze di quella
sventurata. Quando, in preda al furore, giunse nell’atrio,
subito si lanciò verso le stanze nuziali strappandosi i capelli
con ambedue le mani. Come vi entrò, sbattendo le porte le
chiuse dall’interno e allora invocava Laio, morto ormai da
tempo, ricordando l’antico seme a causa del quale egli era
morto e aveva lasciato lei a generare a suo figlio una prole
sciagurata. Compiangeva il letto dove, infelice, aveva
concepito una doppia discendenza, dallo sposo uno sposo e
figli dal figlio. Come sia morta poi, non ti so dire; gridando,
infatti, fece irruzione Edipo, per cui non era più possibile
fare attenzione al dolore della donna, ma tutti guardavamo
verso di lui che andava su e giù e si aggirava chiedendoci di
porgergli una spada e dove potesse trovare la sposa non
sposa ma doppio alveo materno suo e dei suoi figli. Fu un dio
a mostrarlo a lui furente, nessuno degli uomini che eravamo
lì presenti. Con un urlo tremendo, come se qualcuno lo
guidasse, si scaglia sui battenti della porta, dai sostegni
incurva i cavi chiavistelli e si precipita nella stanza. Allora
vedemmo pendere la donna, stretta in lacci intrecciati. Come
la vede, l’infelice con un ruggito tremendo scioglie il laccio
pendente. Quando la misera giacque a terra, allora
accaddero cose tremende a vedersi. Strappando dalla veste
di lei le fibbie d’oro di cui era adorna, alzandole in alto ferì i
bulbi dei suoi occhi gridando così, che mai avrebbero visto
quali mali aveva sofferto e quali aveva compiuto e soltanto
nell’ombra da quel giorno avrebbero visto chi non doveva e
non avrebbero conosciuto chi desiderava. Lamentando così
sollevava le palpebre e colpiva ripetutamente, non una volta
sola. Ad ogni colpo le pupille sanguinanti gli inondavano le
guance, non umide gocce di sangue versavano, ma lo
inondava una nera tempesta di grandine e di sangue. Da
entrambi, non da uno solo, proruppero queste sciagure,
sciagure comuni all’uomo e alla donna. La felicità di un
tempo prima era veramente felicità ma ora, in questo giorno,
gemito, colpa, morte, vergogna, e di quante sciagure hanno
un nome non ne manca nessuna.
CORIFEO

Ora quell’infelice ha trovato una tregua al dolore?


II MESSAGGERO

Grida di spalancare le porte e di mostrare a tutti i Cadmei


l’assassino del padre, colui che sua madre... — qui dice
empie parole che io non posso ripetere — che bandirà se
stesso da questa terra né più rimarrà nella casa maledetto
dalla sua stessa maledizione. Ha bisogno di un sostegno e di
una guida: il suo male è più grande di quanto si possa
sopportare. Ma ora lo mostrerà anche a te, si spalancano,
infatti, le porte. Tra poco assisterai a uno spettacolo tale da
impietosire anche un nemico.
CORO
O sofferenza tremenda a vedersi per gli uomini,
la più tremenda tra tutte quelle
incontrate finora: quale, sciagurato,
quale follia ti ha assalito? Quale dio
è balzato con lunghissimo salto
sul tuo sventurato destino?
Ahimè, infelice! Non posso guardarti,
anche se molte cose vorrei domandare,
molte sapere, molte indagare;
tale è il ribrezzo che susciti in me.
EDIPO
Ahi! Me infelice,
dove mi trascino, dove
rapida vola via la mia voce?
O dio, dove sei precipitato!
CORIFEO

In una sciagura che è tremendo ascoltare e vedere.


EDIPO
Ah mia nube
di tenebra orrenda discesa su di me indicibile,
indomabile e guidata da un vento funesto.
Ahimè,
ancora ahimè! Come mi penetra
il dolore delle trafitture e insieme il ricordo dei mali.
CORIFEO
Non c’è da meravigliarsi se in così grandi sciagure
doppio dolore tu soffri e doppio male sopporti.
EDIPO
Ah amico!
Tu sei ormai il mio solo compagno;
resti ancora a occuparti di me, di un cieco.
Ahi, ahi,
Non mi sfugge la tua presenza ma chiaramente,
seppure nell’ombra, riconosco tuttavia la tua voce.
CORIFEO
Tremende azioni hai compiuto! Come osasti
distruggere a tal punto i tuoi occhi? Quale dio ti ha
istigato?
EDIPO
Apollo, è Apollo, amici,
che questi miei mali crudeli, i miei mali crudeli ha
compiuto.
Nessun altro colpì di sua mano
ma fui, infelice, io stesso.
Perché avrei dovuto ancora vedere
se, vedendo, non avrei potuto vedere più niente di dolce?
CORIFEO
Quello che dici è vero.
EDIPO
Che cosa ancora potrei guardare
con amore, che cosa con piacere
potrei ancora ascoltare, amici?
Portatemi via da questa terra al più presto,
portate via, amici, la grande rovina,
il più maledetto,
anche per gli dei il più odioso tra i mortali.
CORO
Ugualmente sventurato nella sorte e nell’intelletto,
come vorrei che tu non avessi saputo mai!
EDIPO
Possa morire chi da selvaggia catena
su erba di pascolo mi raccolse e da morte
mi liberò e mi salvò,
facendomi solo del male.
Se fossi morto allora
non sarei la causa di così grande angoscia per i miei cari e
per me.
CORIFEO
Anch’io lo vorrei.
EDIPO
Non sarei divenuto assassino
di mio padre né gli uomini
mi chiamerebbero sposo
di colei dalla quale fui generato.
Ora, invece, sono senza dei, figlio di impuri,
padre dei figli di colei da cui io stesso, misero, fui
generato.
Se c’è un male più grave del male,
questo toccò in sorte a Edipo.
CORIFEO

Non posso dire che tu abbia deciso saggiamente. Era


meglio morire che vivere cieco.
EDIPO

Non dirmi che non ho compiuto quel che dovevo; non darmi
più consigli. Non so con quali occhi, se ancora potessi
vedere, una volta disceso nell’Ade avrei guardato mio padre
e mia madre infelice, nei confronti dei quali ho compiuto
azioni che meritano una pena ben più grave di un laccio
mortale. O la vista dei figli, nati come sono nati, era dolce
per me da guardare? Non certo ai miei occhi; né la città né
la torre né le sacre immagini degli dei delle quali io
sventurato, io l’uomo più potente di Tebe, ho privato me
stesso, ordinando a tutti di scacciare l’empio, colui che gli dei
hanno rivelato essere un impuro e della stirpe di Laio. E io,
dopo avere scoperto una tale macchia in me stesso avrei
potuto guardare costoro diritto negli occhi? No, certamente.
Ma se potessi impedire attraverso gli orecchi anche la fonte
dell’udito non mi tratterrei dal chiudere il mio misero corpo
per essere cieco e non udire più niente; è dolce per la mente
rimanere lontana dai mali. Ahi Citerone, perché mi
accogliesti, perché non mi uccidesti subito dopo avermi
ricevuto, affinché mai dovessi mostrare agli uomini da dove
ero stato generato? O Polibo e Corinto e antica casa paterna
soltanto di nome, quale bellezza marcia di mali avete
allevato con me! Ora mi rivelo uno sciagurato, figlio di
genitori sciagurati. O tre strade e valle nascosta, stretto
sentiero in triplice via che il mio sangue, quello di mio padre,
dalle mie mani, avete bevuto, ricordate quali azioni ho
commesso tra voi e quali, giunto qui, di nuovo compivo? O
nozze, nozze, voi mi generaste e, generando di nuovo,
versaste lo stesso seme e rivelaste padri fratelli e figli,
sangue della stessa stirpe, e donne mogli e madri e quanto di
più infame può avvenire tra gli uomini. Ma poiché non si deve
dire quel che non è giusto fare, portatemi via di qui, lontano
dalla vostra vista, o uccidetemi o gettatemi in mare dove non
mi vedrete mai più. Su, degnatevi di toccare quest’uomo
infelice. Datemi ascolto, non abbiate paura; nessuno degli
uomini tranne me solo può sopportare i miei mali.
CORIFEO

Per quel che chiedi, ecco Creonte che giunge al momento


opportuno, per agire e per consigliare; ormai è rimasto il
solo custode di questa terra, al posto tuo.
EDIPO

Ahimè, che gli dirò? Quale giusta fiducia potrò avere?


Prima sono stato ingiusto nei suoi confronti.
CREONTE

Non sono venuto per deriderti, Edipo, né per rimproverarti


le accuse che mi hai fatto. Voi, se non avete vergogna del
genere umano, abbiate almeno rispetto della fiamma del dio
Sole che tutto alimenta, non lasciate così scoperta una tale
contaminazione che né la terra né la sacra pioggia né la luce
potranno mai accettare. Accompagnatelo in casa, subito; è
dovere dei parenti vedere e ascoltare essi soli le sciagure dei
loro congiunti.
EDIPO

In nome degli dei, poiché mi hai strappato a un’angosciosa


incertezza, venendo tu, il migliore degli uomini, da me,
dall’uomo peggiore, ascoltami; parlo nel tuo non nel mio
interesse.
CREONTE

Di che cosa mi preghi così ardentemente?


EDIPO

Cacciami via, lontano da questa terra, dove nessun mortale


possa rivolgermi la parola!
CREONTE

Lo avrei già fatto, sappilo, se non volessi sapere dal dio,


prima di tutto, quel che bisogna fare.
EDIPO

Ma il responso del dio fu chiaro, uccidere me, il parricida,


l’empio.
CREONTE

Così fu detto; tuttavia, nella situazione in cui ci troviamo, è


meglio domandare come si deve agire.
EDIPO

Dunque volete interrogare l’oracolo su quest’uomo


infelice?
CREONTE

Ormai anche tu dovresti aver fede nel dio.


EDIPO

Sì, mi affido a te e ti supplico: per colei che è in casa,


disponi la sepoltura tu stesso, come credi; compirai il tuo
dovere verso i tuoi. Questa città, la città dei miei padri, non
sia condannata ad accogliermi vivo, ma lascia che abiti tra i
monti, dove è quel mio Citerone che mia madre e mio padre,
quand’erano in vita, destinarono a me come tomba, sì che io
muoia come loro mi vollero morto. Di questo sono sicuro: né
una malattia né nient’altro potrebbero mai distruggermi.
Non sarei stato salvato quando dovevo morire se non per
qualche tremenda sciagura. Ma il mio destino vada dove
deve andare. Dei miei figli, dei maschi, Creonte, non darti
pensiero; sono uomini e, dovunque si troveranno, non
mancherà loro mai di che vivere. Ma delle mie povere,
infelici fanciulle, mai lontane dalla mia mensa, partecipi
sempre di tutto ciò che io toccavo, di loro abbi cura.
Soprattutto lascia che io le tocchi con le mie mani e pianga
insieme a loro le mie sventure. Ti prego, signore, ti prego,
nobilissimo, se potessi accarezzarle con le mie mani mi
sembrerebbe di averle ancora, come quando vedevo. Che
dico? In nome degli dei, non sento, forse, piangere le mie
care? Creonte ha avuto pietà e ha fatto venire le mie figlie
amatissime? È vero?
CREONTE

È vero, sono stato io a ordinarlo, sapendo la gioia che


avresti provato, quella che hai sempre provato.
EDIPO

Sii felice e per questa tua decisione un dio ti protegga


meglio di come ha protetto me. Figlie, dove siete? Venite qui,
venite a queste mie mani fraterne che hanno fatto sì che
vedeste ridotti in questo stato gli occhi un tempo luminosi del
padre che vi ha dato la vita. Io, figlie, senza vedere, senza
sapere, sono divenuto padre là dove io stesso fui concepito.
Piango per voi — ormai non posso più guardarvi — pensando
all’amara esistenza che vi attende, quella che
inevitabilmente vivrete per colpa degli uomini. A quali
riunioni di cittadini andrete, a quali feste, da cui non
tornerete a casa in pianto, escluse dalla gioia dello
spettacolo? E quando giungerete all’età delle nozze, chi ci
sarà, chi avrà il coraggio, figlie, di prendere su di sé una tale
infamia che sarà la rovina dei miei genitori e di voi allo
stesso modo? Quale sciagura manca? Vostro padre uccise il
padre e fecondò la madre da cui lui stesso era stato
concepito ed ebbe voi da quella stessa donna da cui era stato
generato. Questo vi sarà rinfacciato. Chi vi sposerà?
Nessuno, figlie; dovrete morire sterili e senza nozze. Figlio
di Meneceo, poiché sei rimasto tu solo a far da padre a loro
— noi che le generammo, infatti, siamo morti entrambi —
non permettere che vadano errando povere e senza il
sostegno di un uomo; hanno il tuo stesso sangue. Ma abbi
pietà vedendole così giovani, prive di tutto se non per quanto
è in tuo potere. Concedimelo, nobile uomo, toccami con la
tua mano. A voi, figlie, se già foste in grado di comprendere,
darei molti consigli; ma ora, pregate di poter vivere dove la
sorte concede e di ottenere una vita migliore del padre che
vi ha generato.
CREONTE

Hai pianto abbastanza; rientra in casa.


EDIPO

Devo ubbidire, anche se mi addolora.


CREONTE

Ogni cosa è bella a suo tempo.


EDIPO

Sai a quali condizioni vado?


CREONTE

Dimmelo e lo saprò.
EDIPO

Che mi mandi via, esule da questa terra.


CREONTE

Solo il dio può concederti quello che chiedi.


EDIPO

Ma io sono odioso agli dei.


CREONTE

Perciò sarai accontentato.


EDIPO

Dunque acconsenti?
CREONTE

Non amo dire inutilmente quel che non so.


EDIPO

Fammi accompagnare via di qui.


CREONTE

Va’, ma lascia le tue figlie.


EDIPO

Non portarmele via.


CREONTE

Non voler vincere sempre; le tue vittorie non ti hanno


seguito nella vita.
CORIFEO

Abitanti della mia patria Tebe, guardate, questo è Edipo,


colui che sapeva gli enigmi famosi ed era uomo potente, la
cui sorte per tutti i cittadini era oggetto di invidia; guardate
in quale gorgo di tremenda sciagura è caduto. Perciò,
considerando il giorno estremo nessun mortale dobbiamo
stimare felice prima che abbia oltrepassato il termine della
sua vita senza aver mai sofferto alcun dolore.
Note al testo

1
Cadmo, figlio di Agenore, re della Fenicia, è il mitico fondatore di Tebe.
Dalle sue nozze con Armonia nasce Polidoro, progenitore della stirpe dei
Labdacidi (Labdaco, Laio, Edipo).
2
Ramoscelli d’olivo avvolti in bende bianche di lana erano il tipico
ornamento dei supplici.
3
Incerta è l’individuazione dei due templi di Atena cui allude il sacerdote
(probabilmente di Pallade Onca e di Atena Cadmeia). Ismeno è una divinità
locale, forse da identificare con lo stesso Apollo, nel cui tempio si praticava
la divinazione per mezzo dell’olocausto. Ismeno è anche il nome di un fiume
nei pressi di Tebe.
4
La Sfinge.
5
Il santuario di Apollo a Delfi (Pito). Febo (lo splendente) è comunissimo
appellativo di Apollo.
6
L’isola di Delo era uno dei più importanti luoghi di culto di Apollo che
qui era venuto alla luce insieme alla sorella Artemide.
7
Il passo è di incerta interpretazione; il trono circolare può essere inteso
come l’agorà, la piazza circolare di Tebe, sede della statua di Artemide, o
più limitatamente come la base della statua stessa.
8
L’Ade, il regno dei morti, il cui ingresso è situato all’estremo occidente,
sulla riva di Oceano.
9
Il talamo di Anfitrite (figlia di Nereo e sposa del dio del mare Poseidone)
è l’Atlantico. L’Oceano e il mare della Tracia indicano gli estremi confini,
rispettivamente, occidentale e orientale.
10
Liceo è epiteto di Apollo la cui etimologia può essere messa in
relazione o al termine λύκος, lupo (“il dio uccisore dei lupi”) o a λύκη, luce
(“dio della luce”).
11
Cfr. nota 1. Edipo ripercorre a ritroso l’intera genealogia dei Labdacidi.
12
L’espressione di tipo proverbiale equivale al nostro “muovere un cuore
di pietra”. Si cerca nella traduzione di mantenere la forza del testo greco.
13
Il termine greco ὀργή ha un ambito semantico piuttosto ampio che va
dal significato di “indole”, “carattere” a quello di “ira”. Si è scelto di
tradurre con “ira” (meno pertinente in questo contesto) per salvare il gioco
verbale di ripetizioni di parole con la stessa radice (ὀργάνειας v. 335, ὀργήν
v. 337, ὀργίζοιτο v. 339).
14
Si accetta nel v. 376 la correzione di Brunk, seguita dalla maggior parte
degli editori. Il testo di Dain, fedele ai codici, con με al posto di σε e ἐμοῦ
invece di σοῦ, sarebbe “non è destino che io cada per causa tua”.
15
La Sfinge.
16
Lossia, “l’ambiguo”, è epiteto di Apollo, relativo all’ambito profetico;
cfr. λοξός, “obliquo”.
17
Apollo.
18
Divinità vendicatrici dei delitti di sangue, da identificare qui con le
Erinni.
19
La stirpe di Laio.
20
Di non facile interpretazione, l’espressione è probabilmente proverbiale
per indicare chi si allontana per sempre dalla propria terra.
21
Il termine τύραννος, che altrove nella tragedia, a cominciare dal titolo
Οἰδίπους τύραννος, ha il significato di “re”, privo di connotazioni negative,
in questo contesto ha senza dubbio il valore politicamente ed eticamente
spregiativo di “tiranno”.
22
Il santuario delfico di Apollo era considerato il centro della terra,
l’ὀμφαλός, l’“ombelico” del mondo.
23
Città della Focide, sede di un oracolo di Apollo.
24
Città dell’Elide, sede del santuario di Zeus e dei giochi panellenici.
25
L’espressione è stata variamente interpretata. L’occhio può essere inteso
come la luce chiarificatrice e rassicurante della realtà dei fatti contro il
timore suscitato dai vaticini, oppure come una forza vigile e protettiva
contro il verificarsi degli eventi profetizzati. Si mantiene volutamente
l’ambiguità del testo.
26
Hermes, nato in una caverna del monte Cillene in Arcadia.
27
Le Ninfe dell’Elicona, il monte della Beozia sacro alle Muse.
28
Rispettivamente il Danubio e il Rion; i due fiumi, che sfociano entrambi
nel Mar Nero, sono ricordati qui per la ricchezza delle loro acque.
Cronologia essenziale

496
Sofocle nasce ad Atene, nel demo di Colono Hippios.

469-468
Ottiene la prima vittoria in un agone tragico con una
tetralogia cui apparteneva il Trittolemo.

443
Ricopre la carica di “hellenotamias”, amministratore del
tesoro della confederazione attica.

442
Si rappresenta l’Antigone.

441-440
Partecipa come stratego al fianco di Pericle alla guerra di
Samo, in difesa del governo democratico contro
l’aristocrazia locale.

428-425
In questi anni, secondo l’opinione critica più diffusa, compone
l’Edipo re.

413 circa
Dopo la disfatta ateniese in Sicilia è nominato “probulos”,
cioè commissario, nel collegio preposto alla formazione di
una nuova costituzione oligarchica.

409
Con il Filottete vince il primo premio nel concorso tragico.

406
Muore ad Atene.

401
Si rappresenta postumo l’Edipo a Colono.
Indice

Introduzione di Franco Rella

Bibliografia

EDIPO RE

Note al testo

Cronologia essenziale

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