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A dead woman walking: storia extraordinaria

Svegliarsi con dei dolori lancinanti: ecco il suo primo ricordo della malattia che l’ha condotta a quello che è,
nel male - dolore, sofferenza e incertezza – e nel bene, la Livia di oggi è anche un suo prodotto.
Il risveglio nel cuore della notte, il dolore, la sua inspiegabilità: la prostrazione fisica è tremenda, la richiesta
di un rimedio che potesse alleviarlo è flebile. Orudis, questo il nome del primo di una serie innumerevole di
farmaci, a cui è grata per averla aiutata in quei primi istanti, ignara di ciò che sarebbe accaduto poi…
La vita di Livia da quel preciso istante non sarà più la stessa: gli innumerevoli ostacoli che dovrà superare
sono lì, dietro l’angolo, ma lei non lo sa ancora. Noi la chiameremo “autoimmunità”, termine generico che sta a
significare che una parte del sé – il proprio sistema immunitario – ad un cero punto decide, innescato da
chissà quali meccanismi, di aggredire, sì, aggredire come in una guerra, altre parti del sé, tessuti innocenti che
vengono distrutti dall’infiammazione, e dopo non sono più gli stessi, con tutte le conseguenze funzionali che
questo comporta. È una guerra silenziosa e senza dichiarazione di belligeranza che il corpo ha dichiarato a sè
stesso. Livia apprende tutto questo dal medico che se ne sta serio e glaciale dietro la scrivania dell’infermeria
e la guarda senza esprimere alcuna emozione.
Non si sa perché, ma è così. Sarà lunga la strada che porterà Livia a comprendere le sue cause, quelle
sue personali e non di un'altra persona, e forse è proprio perché ciascun malato ha la “propria” malattia
autoimmune che non esiste una eziologia precisa per questa tipologia di sindromi.
La sostanza è che entro dieci anni il malato perde la sua autonomia, e quando Livia legge su un manuale
di medicina questa frase inizia a combattere con tutte le sue forze per smentire clamorosamente questa
prognosi. Non sa che per lei è in serbo uno sviluppo ancora più infausto, di quelli che ti fanno confrontare con
la morte e con la disabilità a vita se proprio sei fortunato: non è solo una “possibilità” prevista dalla letteratura
medica, ma una cruda realtà quando alla malattia e alle sue imprevedibili manifestazioni si aggiungono
l’imperizia, la disattenzione, la medicina praticata alla leggera e la superficialità umana, ancorché velata dal
pomposo titolo professorale.
È così che Livia si ritrova, dopo un lungo calvario durato proprio dieci anni, in un letto d’ospedale gonfia,
dolorante e divorata da quella brutta bestia che ha per nome “setticemia”: la morte è dietro l’angolo, i medici
esprimono ai familiari una prognosi infausta, durerà al massimo cinque giorni, ma lei non ne ha piena
coscienza, sa solo che l’infezione la sta invadendo con il suo naturale seguito non di semplice dolore, e la
permanenza nel letto d’ospedale sta causando complicazioni a catena, una dietro l’altra, senza risparmiare
niente a quel corpo che dopo mesi di alimentazione parenterale assomiglierà più ad uno scampato ai lager
nazisti che a quello che ieri fu di un’atleta.
Come una frustata arriva la consapevolezza della perdita dell’uso delle gambe. È il delirio concentrato di
tutti i mali, la follia della natura che contempla i risultati di quegli animaletti detti stafilococchi “aureus”: chi sono
costoro, cosa vogliono da me, perché, che c’entra l’aggettivo aureus, non sono dorati, sono neri come la pece,
sono neri come una sentenza di morte senza appello…E’ il buio della depressione e della disperazione, il
pianto inconsolabile e inascoltato, il pensiero fisso della morte, invocata ma che mai arriva. Eppure è vicina
vicina, tutto l’organismo è compromesso, le funzioni vitali sballate, i valori sanguigni alterati, i danni materiali si
accumulano, ma niente, la morte non vuole arrivare. E allora aiutiamola: buttiamoci giù dalla scala con la poca
forza residua per girare le ruote della carrozzina…ma se poi non muoio? Prova a raccogliere tutte le forze e a
buttarti giù dal parapetto del terrazzo del reparto: no, è troppo alto e non ce la potrei mai fare. Trovato! Una
siringa di aria nel catetere venoso impiantato nel braccio: niente da fare, dopo tanta applicazione per
appropriarsi di una siringa sfuggita all’attenzione dell’infermiere di turno, le mani non riescono a manovrare
niente, impossibile…
Disperazione, una strada senza uscita, non sei tra i vivi, ma neanche tra i morti.
Solitudine, anche se hai qualcuno che ti viene a trovare, dura troppo poco la compagnia che ti distrae dai
pensieri di morte.
Scrittura, tanta e a fatica, la sola compagnia che hai sono il foglio e la penna, la chiusura in un mondo tuo
di disperazione creativa. Anche grandi scrittori soffrenti di depressione hanno prodotto molte belle pagine in
preda al loro proprio delirio doloroso: me lo insegna un uomo di medicina che è anche grande scrittore, che ha
un rispetto quasi reverenziale per il dolore della malattia psichica, che mi farà compagnia in questa enorme

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bolla di isolamento. Un fiume di parole e frasi e concetti da comunicare a chi non è vicino a te fisicamente, ma
lo è con tutto se stesso. Pagine e pagine di scrittura fitta e minuta per rendere il senso di una condizione
kafkiana: il doppio circuito delle istituzioni totali che ti accerchia, i tempi e le modalità standardizzate
dell’ospedale, le sue ritualità e inconvenienze, i turni degli infermieri e dei medici, le loro proprie problematiche
talvolta scaricate malamente su di te, l’indifferenza e la partecipazione, l’attesa: il tutto racchiuso in una parola:
impotenza.
Infine, la pugnalata alla schiena: dopo tanta sofferenza, prima incatenata al letto dai tubi che fuoriescono
dal torace, poi finalmente in grado di stare seduta su una sedia a ruote, sei finalmente in grado di affrontare
un periodo di riabilitazione: ma nel reparto di malattie infettive – l’ultimo di una lunga serie - sei rimasta troppo
tempo, il budget non perdona: devono scaricarti, costi troppo, e non sono in grado di proporti una struttura di
riabilitazione che provi a ridare una forma umana a quel corpo scheletrico e minato da otto mesi di letto.
Lasciata al buon cuore dei familiari che si assumono anche una grande responsabilità – la madre chiede: e se
si sente male? Risposta: chiamate l’ambulanza -, Livia torna a casa inerme e annientata da un’esperienza che
come un uragano ha stravolto per sempre la sua vita: il pensiero di restare come un’ameba a carico degli altri
trafigge la testa e offusca qualsiasi pensiero positivo: solo la morte potrà dare soluzione a questo
annientamento concreto, anche se ancora esisti per l’anagrafe cittadina.
L’agognata fisioterapia arriva a domicilio, insieme alla stoccata finale: Livia, facciamo la richiesta per una
carrozzina elettrica, ormai bisogna farsene una ragione. La cosa “buffa”, come lo è una farsa, è che il mezzo
di trasporto è stato effettivamente procurato, ma il tecnico addetto alle misure ha provveduto con tanta perizia
a sceglierne uno che non entra in ascensore: una beffa che costerà a Livia qualche settimana in più di arresti
domiciliari. In realtà, la fisiatra parlava per “esperienza”, leggi superficialità e leggerezza, faciloneria e
ignoranza, ma sarebbe stato bene che si fosse messa in comunicazione con Livia e la sua storia, con la sua
personalità e spessore, perché pochi mesi dopo, grazie alla “disobbedienza” della fisioterapista che ha dato
fiducia alla paziente e non al suo diretto superiore, provando esercizi e pratiche fisioterapiche apparentemente
non adatte, forse azzardate, Livia muoverà i suoi primi passi con un deambulatore prestato dal nonno di una
sua amica, e poi con la stampella: vittoria, la soddisfazione di un timido e incerto deambulare l’ha ripagata di
tutte le “disavventure” che ha subito da malata grave data per morta anzitempo, data per paraplegica con
troppo anticipo, e chi più ne ha più ne metta…

È così che Livia reagisce, agli occhi altrui è un’eroina, una “persona eccezionale”, interagisce e scherza
con medici e infermieri, si rende persino utile agli altri per ciò che è possibile, per chi sta peggio di lei, e
mentre è indubbiamente tutte queste cose, soffre di una passività che la fa interrogare sul ruolo di “paziente”:
cosa fa di un malato una persona sospesa e dimezzata? Perché subisce tutte quelle pratiche umilianti cui
deve sottostare all’interno del campo delimitato dall’istituzione totalizzante, che ti fa diventare numero di letto o
una patologia? È difficile da spiegare, ma la fragilità di un malato, di qualsiasi sofferente, lo rende impotente di
fronte al sapere medico, alle diagnosi e alle proposte di cura che esercitano fattivamente un potere sulle sue
“scelte”, e le accetta come fossero ineluttabili: è per questo che Livia, ancora non pienamente consapevole
degli errori che in quel luogo sono stati commessi su di lei, accetta una prima operazione – come se fosse un
risarcimento dei danni subito dall’ospedale stesso - che in seguito si rivelerà fallimentare.
E di errori ne vengono fatti tanti altri, e di interventi chirurgici pure, lei in prima persona ne commetterà
ancora, nelle scelte da effettuare, nel porre la propria fiducia in chi non l’avrebbe meritata, come in un
girotondo di turismo ospedaliero in giro per l’Italia pieno di aspettative e vuoto di risultati: Livia ormai sembra
essere “bruciata”, ciò che le è accaduto fa di lei un paziente fallimentare su cui non investire, troppo pericoloso
– sembra – provare altre terapie per governare quella brutta bestia della sua autoimmunità. Quando la
professione medica viene esercitata senza il coraggio umano di prestare aiuto, il malato non responsivo a
quelli che vengono spacciati come farmaci futuristici non ha più scampo: è lasciato al suo destino di dolore e
sofferenze fisiche indicibili. Anche perchè nella carriera medica gli insuccessi non fanno punteggio!
Ma Livia non si dà per vinta, e cerca, e cerca ancora, finchè non trova chi, lanciatogli il guanto di sfida,
risponde che sì, c’è ancora qualcosa da tentare, si può fare...così che, armata della speranza di accesso ad
una nuova terapia, Livia si impegna con tutte le sue forze a risollevarsi, fisicamente e psicologicamente. É
stata fortunata – per qualcuno “miracolata” – perchè l’infezione alle vertebre è finalmente debellata, e i primi

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timidi movimenti delle gambe le hanno dato la speranza concreta di tornare a muoversi sulle sue gambe.
L’attende un lavoro enorme e faticoso, pieno di incognite e intralci, come per chiunque debba muoversi
all’interno della sanità pubblica e privata qui in Italia, ma ogni piccolo progresso è fautore di quello successivo,
in una dinamica positiva creata da quel << Si può fare >> che le ha aperto la strada del riscatto, del poter
risollevarsi nonostante le prognosi che la volevano, prima, quasi morta e, poi, condannata alla carrozzina a
vita.
Da quel giorno sono passati cinque lunghi anni, la sua autoimmunità è ancora lì che erode il corpo e
prostra le forze impegnate a combattere questa guerra senza senso, il dolore è intatto, la sofferenza non si
placa, ma la terapia ha avuto il suo effetto frenante su di una dinamica che, lasciata a sè stessa, logora
incessantemente e deforma e uccide tessuti: la malattia non è “curabile”, ma oggi Livia può pensare ad un
futuro segnato sì dalla malattia, ma ancora praticabile, alla ricerca di cose nuove da fare e persone da
incontrare, in una relazione che metta al centro l’umanità, la ricchezza intellettuale e la pratica sociale, come
sfide all’impoverimento culturale e materiale che in questa società sono emergenze all’ordine del giorno.

Roma, settembre 2014

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Tiziana cherubini

Nata a Perugia, il 24/03/1960

Residente a Roma, via Quintilio varo, 46 – 00174

Tiziana-cherubini@libero.it

3888984914

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