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SCUOLA ITALIANA di IPNOSI e

PSICOTERAPIA ERICKSONIANA

QUARTO ANNO

Una stretta di mano e… una mano stretta


Ipnosi Ericksoniana, cure palliative: review e riflessioni nella
psicoterapia nel fine vita

Relatore: Studente:
Prof. Antonio Piro FabioGlielmi

Anno Accademico 2014 - 2015


Ringraziamenti

Il mio primo ringraziamento va a Silvia,

creatura meravigliosa che mi accompagna nel tortuoso ed incredibile viaggio della vita. Grazie! Non
deve essere stato per niente facile starmi accanto in questi anni di riflessioni, cambiamenti e
confusione, vivere accanto a te è il più grande esempio di accompagnamento: nonostante i “bastoni
fra le ruote della vita” sei sempre con me.

Un grazie ai docenti e colleghi di questi 4 anni, fonte di esperienza e riflessione ma soprattutto di


metafore sulle complessità della vita.

Un grazie ai miei familiari per essermi stati vicini ed avermi sostenuto, nel bene e nel male.


INDICE
Introduzione ................................................................................................................... 4
Parte Prima ...................................................................................................................... 6
La psicoterapia nella malattia grave .......................................................................................... 6
L’esperienza corporea come esperienza centrale ....................................................................... 7
La strada del dolore ed il sentiero “laterale” ............................................................................. 7

Parte seconda .................................................................................................................. 9


Ipnosi cure palliative e qualità della vita ed il controllo del dolore oncologico. .......................... 9
Alcune tecniche utili per la gestione del dolore nel paziente in fase terminale. ....................... 13

Parte terza .................................................................................................................... 15


Trattare la morte - trattare il morente? ................................................................................... 15
Fasi di elaborazione… elaborazione delle fasi … consapevolezza. ............................................ 15
Informare e comprendere ....................................................................................................... 16
Aspettative, obiettivi e speranze. ............................................................................................ 17
La famiglia ............................................................................................................................... 18
Il terapeuta ... ed alcune conclusioni ....................................................................................... 18

Bibliografia ................................................................................................................... 20


Così come la nascita la morte fa parte della vita.
Per chi muore e per chi rimane ignorarla non è la soluzione.

Introduzione

Un messaggio whatsup da una mia collega volontaria del policlinico è forse stata
l’attivazione più “rimbalzata” che abbia, ad oggi, ricevuto. Era all’inizio di Luglio…
leggo il messaggio : “Fabio, ti chiamerà una mia paziente, ha la sorella di una sua
carissima amica ricoverata in fase terminale… forse l’ipnosi può aiutarla” .
Non è mio interesse affrontare le varie tipologie di “invio” ma questo è uno dei più
“comuni invi/attivazioni” per chi si occupa di cure palliative: un collega, un amico,
qualcuno che ha qualcun altro affetto da una malattia cronica e giunto ormai a quella
che l’Organizzazione mondiale della sanità chiama “fine vita” ed inserisce nell’ambito
delle Cure Palliative.
Di lì a poco ricevetti la telefonata ed organizzai l’incontro, il giorno dopo mi recai
presso il reparto di neurologia di un noto ospedale romano per vedere Elena1, una
ragazza di 26 anni affetta da un tumore al polmone con metastasi ai reni, fegato e
cervello. Fui accolto dalla sorella che, sulla porta della stanza, con voce bassa
accompagnata da gestualità, mimica ed espressione degli occhi mi dice: “mi
raccomando”, mi stringe la mano ed esce avendo cura di chiudere la porta lasciandosi
sfuggire un profondo sospiro. Entrando vedo Elena sdraiata sul letto, con una profonda
espressione di sofferenza e degli spasmi alla gamba sinistra, i capelli curati ed il viso
ricoperto di bolle e pustule (effetti collaterali della radioterapia). Mi guarda, mi chiede
con un gesto di avvicinarmi e senza lasciarmi il tempo di presentarmi mi prende la
mano, la stringe forte fissandomi intensamente e mi dice: “ mi hanno detto che venivi,
non voglio stringerti la mano per salutarti ma tenerla stretta mentre mi aiuti a
calmare il dolore, tenerla stretta mentre mi accompagni.. tenerla stretta perchè ho
paura!”

Quella “mano stretta” è stato l’inizio del nostro Rapport, base fondamentale su cui
costruimmo insieme gli interventi degli incontri successivi. Incontri in cui Elena
imparò a ridurre il dolore che la “stringeva alla testa ed al ventre”, a “dimenticarsi
delle ciocche di capelli che cadevano e del bruciore al viso” ed a “lasciare andare gli
attacchi di panico e conati di vomito improvvisi” ..

Elena morì per una emorragia cerebrale dopo 5 incontri… mi informò la sorella
mandandomi un mesaggio “Elena non c’è più… ha lottato fino alla fine ma, alla fine
se n’è andata… infondo sapevamo che sarebbe accaduto…” messaggio a cui, dopo un
certu numero di minuti di sconforto/sorpresa/tristezza e strano “sollievo” (che provo
ogni volta che vengo avvisato o assisto alla morte di un mio paziente) risposi “Si K…

1
Nel rispetto della privacy della paziente il nome qui indicato è un nome di fantasia

lo sapevamo… mi dispiace”; Immediatamente mi rispose “Grazie, per esserci
veramente stato, senza addolcire le cose e senza mentire.. grazie per ave evitato ogni
frase di circostanza.. e grazie per avermi risposto in modo così umano senza
sciolinare una frase fatta.. l’hai conosciuta e ci credo se dici che ti dispiace”.

Questo è solo uno stralcio di esperienza, esperienza che può andare avanti per pagine e
che non sarebbero comunque sufficienti a spiegare in modo esauriente il complesso
sistema delle cure palliative anche se ristretto all’ambito dell’intervento
psicoterapeutico ipnotico.

Cercherò di fare una trattazione schematica ed al contempo elastica includendo


aggiornamenti recenti della letteratura scientifica e personali riflessioni emerse in
questi (ancor) pochi anni di esperienza diretta.
Questo scritto voleva essere un approfondimento del lavoro precedentemente
sviluppato l’anno passato. Dal punto di vista della review non vi sono state molte
aggiunte poichè gli studi nel campo dell’uso dell’ipnosi nelle cure palliative ancora
scarseggiano. In itinere questo lavoro si è trasformato da review scientifica a review
“esperienziale” in cui il sottoscritto cerca di mettere in lettere quelle che sono state le
sue esperienze nell’ambito della psicoterapia applicata alle cure palliative.
Nella prima parte viene presentata una cornice di inquadramento della Psicoterapia
all’interno delle malattie gravi e del fine vita.
Nella seconda si affronta il tema dell’ipnosi ericksoniana per il controllo del dolore,
(il campo più documentato dalla letteratura scientifica)

Riguardo la terza ed ultima parte, in essa ho cercato di sintetizzare alcune riflessioni


personali, un pò per dare un senso di conclusione a questi quattro anni…
documentandomi su vari testi ma rileggendo ciò che ho scritto non posso non notare il
taglio esperienziale e riflessivo che, forse inconsapevolmente, ho seguito… forse
spinto dai testi più ricchi di conoscienza con cui sono venuto in contatto: le persone
che ho avuto l’ònere e l’onore di seguire, accompagnare, nella fase finale della loro
vita.


Parte Prima
La psicoterapia nella malattia grave

Mentre nella medicina “tradizionale” si parla, a volte con pretesa, di “restitutio ad


integrum”, nella dimensione della malattia grave e del fine vita si fa strada e riempie
di dignità la “cura”, declinandosi come assunzione di responsabilità, come un
“prendersi cura”; non più un estenuante battaglia per garantire una sopravvivenza a
costo della vita ,a un nuovo scenario, ben diverso, in cui il protagonista diviene la
relazione e la natura della dimensione terapeutica: il processo in itinere e la relazione
stessa. Anche nella pratica psicoterapeutica, l’ambito delle cure palliative diviene un
laboratorio in cui evolversi dalla mitologia dei “fatti” e prove di efficacia per riscoprre
la propria vocazione di ascolto, accoglimento della sofferenza ed utilizzazione delle
risorse (spesso povere) a disposizione. La situazione stessa della malattia grave e del
fine vita costringe e spinge, attraverso tutte le sue componenti ( la condizione
patologica, la gravità della malattia, i sintomi invalidanti, la pressione psicologica
della prognosi, gli effetti collaterali delle cure mediche, la varietà e pluralità dei
soggetti coinvolti oltre il paziente, i familiari, gli amici, gli operatori, la particolarità
dei luogi come la casa, l’hospice o l’ospedale, i tempi e molto altro) lo psicoterapeuta
ad un ripensamento della teoria e della pratica pricoterapeutica e obbligano alla ricerca
di nuovi strumenti. Da un lato si tratta di rinunciare ad un approccio teorico che sia
orientto alla ricerca delle “cause prime” del disagio o che subisce il fascino delle
istanze riparatorie, dall’altra è necessario confrontarsi con le specificità della
condizione della malattia grave e questo significa, ad esempio, confrontarsi con la
centralità della dimensione corporea e la potenza della sintomatologia fisica nel
modulare le funzioni psichiche: il tempo della malattia infrange le abituali forme in cui
e con cui il soggetto organizza la propria esperienza di sé nel mondo; la terapia diviene
quindi il luogo del “darsi” un corpo, un corpo diverso che si integra con la malattia
creando nuove forme di pensabilità e vivibilità spinte dala contingenza. Ricordo bene
la prima volta che mi trovai ad intervenire su una persona in fine vita… per quanto
conoscessi la teoria e le possibili tecniche ericksoniane mi chiesi: come faccio ad
intervenire se il dolore che prova questa persona è talmente acuto da inondare ogni suo
pensiero? Cosa posso fare di utile? ( riprenderemo questo discorso nella seconda parte
dove parleremo del dolore e delle possibili strategie per intervenire su di esso o
utilizzarlo).

Ma nella malattia grave vi è un altro fattore importante: il tempo! Il malato terminale è


posto di fronte ad un limite temporale non più solo immaginario ma concreto e
(spesso) molto vicino; questo porta a dover rinunciare ad un approccio
narrativo/ricostruttivo e lascia spazio solo ad un lavoro esplorativo del “qui e ora” con
un taglio assolutamente esperienziale, una “archieologia del presente”2 (Rasnik, 2006);
un presente che spesso però arido, sconfortante e doloroso a causa dei sintomi e
dall’angoscia della morte. In questo presente l’intervento terapeutico deve creare una
dilatazione dei confini facendo riconoscere alla persona che la nostra vitalità non può

Resnik, 2006
2


prescindere dalla dimensione immaginaria, dalla ricerca dell’altro e dal bisogno di
andare oltre il contingente.

L’esperienza corporea come esperienza centrale

L’attenzione della psicoterapia nelle cure palliative e di malattia grave deve essere
innanzi tutto indirizzata su una dimensione corporea: i sintomi (dolore, febbre, nausea,
difficoltà a camminare o stare in piedi, spossatezza etc) e le conseguenze delle cure
(farmaci, interventi chirurgici) rendono il paziente estremamente concentrato sino ad
essere “vittima” del suo corpo. Come può la psicoterapia attenuare l’intensità del
sintomo che satura lo spazio mentale e fisico del paziente? Come fare per aiutare il
paziente a trovare un nuovo modo di “abitare” se stessi, questo corpo imprigionato ed
inaffidabile che non è più vissuto come una “base sicura e costante dell’essere” ma
fonte di nutrimento per l’angoscia, l’odio ed il terrore della morte sostenuto dal
paradigma medico dominante della “cura che guarisce”

Ed è in questo contesto che la psicoterapia può/deve inervenire nel tentativo di trovare


nuove strade per allargare il campo, l’esistenza; per riconoscere nella malattia, anche
nella malattia mortale, un modo di esplorare e vivere, in modo diverso, ma vivere
anche il proprio corpo! Ecco che l’intervento psicoterapeutico può creare nuove
corrispondenze significative che permettano di dare senso all’evento e contenere allo
stesso tempo le sensazioni perturbanti, le ambivalenti emozioni e ridurre l’angoscia
rappresentanto un’occasione per aiutare il paziente a apserimentare un nuovo modo di
percepire e vivere la corporeità, un modo per ascoltare e accompagnare invece di
lottare e combattere o evitare e negare. Che si usi l’ipnosi, le tecniche immaginative o
interventi centrati sulla corporeità lo scopo è aiutare il paziente a utilizzare la mente
per registrare, elaborare e prappresentare ovvero per tradurre in esperienza ogni cosa
con cui ci si confronta. Favorire la consapevolezza e l’esperienza della dinamicità
dell’esistenza stessa.

La strada del dolore ed il sentiero “laterale”

“Ecco che oggi, come ieri e sicuramente come faro domani, ho inboccato la strada
del dolore… acuto, pulsante e costante… sò che posso cercare il sentiero laterale ..ma
cazzarola dottore, a volte mi perdo su questa superstrada enorme e non trovo lo
svincolo tra le fratte” (Marco, paziente oncologico )

Nella malattia terminale ciò che è familiare diventa estraneo, a cominciare dal corpo
che diventa “massa ingombrante e goffa” (Andrea, paziente oncologico) e che
“sembra rallentare ogni sprazo di vita.. forse la vita stessa come se volesse fermarla e
dire adesso basta” (Elena, paziente oncologica). Un corpo “truccato ed alterato dai
farmaci ma che ti ricorda quanto tu sia nulla di fronte all’esistenza”. Un corpo che
improvvisamente rivela la temporalità della vita e con essa tutta la sofferenza che può
contenere. É come se si “imboccasse un sentiero obliquo, ferito al centro che ti
costringe a camminare di sbiego in modo davvero scomodo” (Patrizia, paziente
oncologica)

Queste e molte alter sono le frasi di alcune persone che ho seguito, le loro metafore…
metafore che mi hanno permesso di aiutarli a costruire con loro delle nuove
“gemetrie” percettive nello spazio del loro corpo, nello spazio delle stanze con odore
di farmaci e le luci degli ospedali; gli spazi private sempre più accartocciati in cui i
pazienti sono relegati: la poltrona, il letto.. abbiamo disegnato nuove mappe
esistenziali e di vita quotidiana ed in queste mappe riservare degli spazi di quiete, dove
anche il dolore può essere reso silenzioso e sopportabile come un brusio ed anche il
tempo passa da dimensione trasparente e scontata dell’esistenza ad un velo elastico in
cui un singolo minuto può durare ore… ore di quiete in quell “sentiero laterale nella
strada del dolore”.


Parte seconda
Ipnosi cure palliative e qualità della vita ed il controllo del dolore
oncologico.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) definisce “palliativa” quella branca


della medicina che si occupa in maniera globale e proattiva dei pazienti affetti da
patologie che non rispondono più ai trattamenti e che conducono alla morte. Il focus di
questa disciplina è sul controllo del dolore, dei sintomi e delle conseguenze
psicologiche, sociali e spirituali della malattia.

Lo scopo delle cure palliative è dunque il raggiungimento della miglior qualità di vita
possibile per i pazienti e per le loro famiglie. Questo tipo di medicina, in altre parole,
non prevede il solo intervento medico ma può favorire un percorso di riconciliazione e
pacificazione che comprenda sia il malato che le persone che lo circondano.

Trattandosi di una disciplina che vede il paziente come un “tutto” che esprime bisogni
su diversi piani (medico-biologico, psicologico, esistenziale), è naturale che abbia
incluso, tra gli strumenti terapeutici, approcci integrativi che comprendano il rapporto
mente-corpo.

In letteratura vi sono ormai numerose ricerche che dimostrano l’utilizzo dell’ipnosi per
il miglioramento della qualità della vita in pazienti terminali, molte di queste ricerche
riguardano pazienti oncologici, alcune il trattamento di dolori cronici ma andiamo in
orine:

Liossi e White (Liossi., White 2001) hanno dimostrato il miglioramento della qualità
della vita (misurato con scale standardizzate) grazie all’applicazione di tecniche
ipnotiche all’interno del set di cure palliative per malati di cancro ottenendo risultati
significativi nella percezione della qualità della vita di questi pazienti. In nuova
zelanda Laidlaw e Willet (2002) hanno dimostrato l’efficacia dell’ipnosi sull’ansia pre
e post operatoria in pazienti oncologici e non.

Moltissimi studi hanno dimostrato (hilgard 1982, seltzer 1982, Hawkins,liossi, Ewart
1998, Liosi e Hatira 2003) l’efficacia dell’ipnosi nella riduzione del dolore (acuto,
cronico, neuropatico e post operatorio). Ma soprattutto hanno dimostrato la gande
possibilità di miglioramento della qualità della vita che offr l’ipnosi inquanto priva di
effetti collaterali, I pazienti ne giovano senza problem organici e possono imparare ad
indursi stati di trance da soli e (come Franco nel caso sopra esposto) godere dei
benefici dell’ipnsosi anche in assenza del terapeuta; ciò aumenta l’autonomia del
paziente rendedogli più tollerabile la condizione di malattia che sta vivendo.

Da questo punto di vista l’ipnosi rappresenta uno strumento utile in quanto può essere
applicato a diversi livelli nella gestione del malato terminale (R. Peynovska, 2005).
Oltre a poter controllare i sintomi della malattia, che possono comprendere dolore o
altri sintomi aspecifici come affaticabilità, irritabilità, insonnia o generiche sensazioni
di malessere, può aiutare a gestire gli effetti collaterali dei trattamenti che, specie in

patologie come il cancro, possono diventare molto invalidanti (es. vomito, rifiuto del
cibo).

Sul piano psicologico l’ipnosi può contribuire a controllare l’ansia, la depressione ed i


sentimenti di rabbia, colpa, frustrazione ed isolamento tipici di queste condizioni.

Infine, favorisce il miglioramento dell’autostima, il coinvolgimento attivo nel progetto


di cura e la riacquisizione di controllo sulla propria vita.

Tra i pazienti affetti da cancro in stadio avanzato, l’84% riporta di essere afflitto da
dolore intenso, il 49% difficoltà respiratorie ed il 33% nausea (C. Liossi, 2001), inoltre
il trattamento di questi sintomi è spesso associato a effetti collaterali come
costipazione indotta da oppioidi, delirio o stati di eccessiva sedazione.

Molte di queste problematiche sono generalizzabili anche ad altre popolazioni di


pazienti terminali come ad esempio gli affetti da sclerosi multipla: in questi il dolore è
un sintomo molto diffuso, la vasta letteratura in materia ci restituisce delle stime che
oscillano dal 40% all’80% (M.P.Jensen et al., 2009).

Oltre a difficoltà legate alla componente sintomatica della malattia, queste persone
possono trovare notevoli difficoltà nell’affrontare, accettare ed adattarsi all’idea della
morte prossima. Questo, unito all’inevitabile modificazione della quotidianità, spesso
può portare a depressione e stati d’ansia.

Soprattutto riguardo questi ultimi aspetti, interventi psicologici - di gruppo o


individuali - hanno dimostrato di essere in grado di ridurre lo stress psicologico ed i
sintomi depressivi, di migliorare la qualità di vita in pazienti affetti da cancro e persino
di avere degli effetti positivi sul tasso di sopravvivenza (Spiegel & J.R., 1983; Spiegel
et al., 1981; Spiegel et al., 1989; Walker et al., 1999).

Tanti sono gli approcci sperimentati in quest’ambito, tra questi ricordiamo interventi
esistenziali, familiari, supportivo-espressivi e cognitivo-comportamentali.

L’ipnosi clinica ha dimostrato di essere efficace sia nella cura dei bambini (Liossi,
2000; Liossi, 1999; Liossi & Hatira, 1999) che degli adulti (C. & Mystakidou, 1999)
affetti di cancro.

Gli effetti benefici comprendono un miglioramento della funzionalità del sistema


immunitario (Fox et al., 1999; Gruzelier, n.d.), degli stati d’ansia, dolore, dispnea ed
insonnia. In particolare, riguardo al dolore, i pazienti trattati con una combinazione di
psicoterapia e auto-ipnosi beneficiano, oltre che di una riduzione dell’intensità del
dolore (ottenuta anche da pazienti che seguono unicamente una psicoterapia), anche di
una riduzione della frequenza e della durata degli episodi di dolore. Notevole anche il
fatto che, in questi stessi pazienti, sia riscontrabile un aumento del tempo di
sopravvivenza.

Nel tentativo di approfondire la conoscenza dei possibili benefici che l’ipnosi può

portare a questi pazienti, Liossi (Liossi & White, 2001) ha messo a confronto in un
trial randomizzato due gruppi di pazienti, il primo trattato con un protocollo standard
ed il secondo con l’aggiunta di sedute di ipnosi. Il primo programma di cura
comprendeva la gestione farmacologica del dolore e degli altri sintomi così come
indicato dalla WHO più quattro sedute settimanali di mezz’ora di counseling
supportivo di tipo cognitivo-esistenziale.

Il secondo programma di cura, oltre a quanto già detto per il protocollo standard,
comprendeva 4 sedute settimanali di 30 minuti ciascuna di ipnosi.
I risultati, in linea con studi precedenti (Spiegel et al., 1981; Spiegel & J.R., 1983;
Moorey et al., 1998; Walker et al., 1999), dimostrano che il gruppo trattato con
l’ipnosi ha avuto una maggiore riduzione dell’ansia e della depressione vissuta dai
pazienti che hanno inoltre riportato una qualità di vita più alta soprattutto per quanto
riguarda gli aspetti psicologici come il rapporto con la malattia.

Questo aspetto acquista ancora più rilevanza se si pensa che variabili come lo stress
psicologico in pazienti terminali rappresentano un fattore di rischio per lo sviluppo di
condizioni psichiatriche come franchi disturbi d’ansia o depressivi.

Anche dal punto di vista della sintomatologia fisica il gruppo trattato con l’ipnosi ha
mostrato grandi miglioramenti.

Risultati analoghi sono replicati in altri studi (R. Peynovska, 2005; Rajasekaran et al.,
2005) fornendo dati promettenti anche sulla gestione di aspetti problematici tipici del
paziente terminale come i cambiamenti dell’immagine corporea, la perdita di
funzionalità nelle attività quotidiane e l’inevitabile perdita di una quota di
indipendenza. Soprattutto se il trattamento ipnotico viene cominciato al momento della
diagnosi, il paziente può migliorare il suo adattamento alla malattia e quindi prevenire
l’insorgenza di seri quadri ansiosi, depressivi e attacchi di panico.

L’inizio precoce del trattamento inoltre favorisce l’aderenza alle cure e migliora la
riposta psicologica generale, fattore prognostico collegato al tasso di sopravvivenza
nel tempo.
Un altro modo attraverso il quale il paziente terminale può giovarsi dell’ipnosi è
attraverso training di autoipnosi.

Uno studio recente (M.P.Jensen et al., 2009) ha messo a confronto due gruppi di
pazienti affetti da sclerosi multipla con dolore cronico. Il focus degli interventi nei due
gruppi era proprio il dolore, e, mentre nel primo gruppo venivano insegnate delle
tecniche di rilassamento muscolare progressivo, nel secondo i pazienti venivano
addestrati all’utilizzo di tecniche di autoipnosi. I ricercatori hanno prestato molta
attenzione a contenere eventuali effetti dovuti all’aspettativa su uno o sull’altro
intervento comunicando ad entrambi i gruppi che sarebbe stato usato uno strumento
che conteneva sia elementi ipnotici che di rilassamento. I risultati dimostrano che i
pazienti che hanno ricevuto un training di autoipnosi hanno riportato una maggiore
riduzione del dolore rispetto ai pazienti assegnati al gruppo di rilassamento muscolare
progressivo nonostante le attese per l’efficacia dei due trattamenti fossero simili.
All’interno del gruppo addestrato all’autoipnosi, mentre il livello di suggestionabilità

si è dimostrato ininfluente sul risultato, un effetto lo ha avuto l’aspettativa positiva
verso il trattamento, in altre parole, più le aspettative nei confronti dell’intervento
erano alte, migliori erano i risultati ottenuti.

Questo dato è coerente con l’ipotesi che le aspettative dei pazienti possono giocare un
ruolo sia sugli effetti immediati che a lungo termine dell’analgesia ipnotica per il
dolore cronico. In altre parole, conoscere le potenzialità dell’ipnosi può essere utile ai
pazienti per raggiungere risultati più soddisfacenti.

Un altro articolo (Cassileth & Keefe, 2010) che indaga gli approcci integrativi per il
trattamento del dolore neuropatico correlato al cancro. Per dolore neuropatico si
intende il dolore causato dalla diretta conseguenza di una lesione o malattia che
colpisce il sistema somato-sensoriale. I pazienti affetti da cancro spesso soffrono di
questo particolare tipo di dolore a causa della compressione dei nervi o a causa della
neurotossicità della chemioterapia. I ricercatori riportano che attualmente non ci sono
sostanze specifiche atte a contenere il dolore neuropatico, e gli agenti utilizzati
comunemente tendono ad avere bassi tassi di successo (Santiago-Figueroa & Kuffler,
2009; U.S. Food and Drug Administration, 2009).

Considerando che spesso si trascura che il dolore è un processo complesso che


coinvolge l’intera unità psicosociale del paziente, diviene chiaro come sia necessaria
una integrazione al trattamento del dolore. Molti sono gli aspetti su cui si può agire, un
esempio proveniente dalla letteratura scientifica (Cassileth & Keefe, 2010) riporta che
pazienti che tendono a catastrofizzare il dolore (rimuginandovi sopra o che si sentono
senza speranza) sono più inclini a soffrire di dolore intenso. L’utilizzo di tecniche di
autoipnosi permette al paziente di rilassarsi e di anestetizzare il dolore anche
attraverso l’inquadramento del dolore in una cornice meno negativa.

Uno studio in particolare (Jensen et al., 2009) dimostra che pazienti con dolore
persistente addestrati all’uso dell’autoipnosi ottengono un rapido e notevole
decremento del dolore che si mantiene stabile nel tempo.

Da un punto di vista anatomico i processi che governano l’esperienza dolorifica


coinvolgono due distinti circuiti: un circuito laterale, responsabile degli aspetti
discriminativi e sensoriali, ed un circuito mediale, coinvolto negli aspetti emotivi di
percezione della spiacevolezza dell’esperienza e, in generale, della sofferenza. A
livello corticale, il primo circuito raggiunge due aree situate nel lobo parietale, note
come corteccia somatosensoriale primaria (S1) e secondaria (S2), mentre il secondo
proietta a regioni più frontali, come la corteccia cingolata anteriore.

Lo studio recentemente pubblicato su Science Translational Medicine, condotto da


Bingel (Bingel 2011) e collaboratori, tutti i partecipanti hanno ricevuto un trattamento
analgesico con un oppiaceo (remifentanil) accompagnato però da diverse
informazioni riguardanti il trattamento stesso.

1. Un primo gruppo di soggetti sapeva di ricevere il farmaco, ed era correttamente


informato riguardo alla somministrazione dell’analgesico ricevendo, in questo modo,

un’aspettativa di riduzione del dolore (gruppo open analgesico).
2. Un secondo gruppo non sapeva di ricevere l'analgesico che, infatti, veniva
somministrato all’insaputa dei partecipati. Di conseguenza i soggetti non avevano
alcuna aspettativa riguardo agli effetti analgesici del trattamento (gruppo hidden senza
aspettative analgesiche).
3. Il terzo gruppo, invece, riceveva informazioni opposte riguardo alla somministrazione
del farmaco, aspettandosi quindi un effetto iperalgesico (gruppo open iperalgesia)

I risultati hanno dimostrato che i pazienti che sapevano di ricevere un potente


analgesico riportavano una riduzione doppia del dolore rispetto a chi non riceveva
informazioni. Tale analgesia era associata ad una riduzione dell’attività proprio a
livello di S1 e della corteccia cingolata. Viceversa, aspettative negative abolivano
completamente l’effetto farmacologico ed erano associate ad un aumento di attività a
livello dell’ippocampo. Tali aspettative possono essere alterate mediante l’utilizzo
dell’ipnosi, creando contesti in cui perdono di senso o vengono competamente
capovolti.

Riassumendo, possiamo affermare che l’applicazione dell’ipnosi, nelle sue diverse


forme, può essere estremamente utile a pazienti terminali in aspetti centrali per la loro
esistenza come il contenimento concreto dei sintomi invalidanti, la gestione rapida ed
a lungo termine del dolore e il fronteggiare le conseguenze esistenziali della malattia
per ottenere una migliore qualità di vita, fattore associato, tra l’altro, al tasso di
sopravvivenza nel tempo.

Alcune tecniche utili per la gestione del dolore nel paziente in fase
terminale.

Suggestione ipnotica diretta

Schema che viene applicator a persone facilmente suggestionabili e con capacità intellettive
modeste. Consiste in una “formula” che si rivolge al paziente in stato di trance “da questo
momento in poi il dolore sarà sempre più lieve sino a sparire”. Spesso questa tecnica
fallisce, il dolore si ripresenta rendendo sempre più difficile il funzionamento di tale
suggestione (Erickson, 1979)

Analgesia ipnotica

Parziale o complete, vengono modificate le sensazioni generando calore, intorpidimento o


rilassamaento. Ad esempio un paziente che descrive il suo dolore come pungente ad un arto
si può suggerire che l’arto sia avvolto da una fascia stretta e resistente che faccia sentire la
pressione della lama ma che questa non possa penetrare la carne trasformando quindi il
dolore in una sensazione di pressione.

Spostamento / sostituzione ipnotica delle sensazioni



Un classico caso citato da Erickson in cui, ad una paziente oncologica con dolori lancinanti
impartisce la suggestion di un prurito fastidioso alla punta dei piedi che in breve tempo
cattura tutta l’attenzione della paziente. Erickson continua con l’insorgenza di varie
sensazioni quali calore, freddo, pesantezza nelle sone doloranti ed in breve tempo la
paziente percepisce prurito fastidioso, lieve e distoglie completametne l’attenzione dal
dolore.

Spostamento ipnotico della sede del dolore

Consiste nello spostamento del dolore dalla zona interessata ad una in cui la persona può
meglio tollerarlo: ad esempio un dolore all’addome può essere spostato su unamano e
controllato con lo stringere o aprire le dita.

Dissociazione ipnotica: regressione/distorsione temporale e corporea

Dopo l’induzione di una profonda trance si riporta il soggetto indietro nel tempo al momento
in cui la syndrome algica è appena iniziata ed ancora tollerabile. Si può anche provocare una
dissociazione corporea in modo che quando il dolore diviene insopportabile si può “lasciare
il proprio corpo” ed andare in un altro luogo o impegnarsi in alter attività mentali.

Distorsione del tempo

Utilizzabile anche con trance medio/leggere si induce il paziente, attraverso suggestioni post
ipnotiche, a vivere I momenti di dolore come “brevissimi” e ad eliminare l’angoscia nei
momenti di pace tra un dolore e l’altro. Questa tecnicha funziona molto bene nei doloti
cronici inquanto và ad intaccare la componente “memoria” che ogni dolore cronico
comporta facendo vivere così ogni scarica algica come “unica”.


Parte terza

Trattare la morte - trattare il morente?

Hinton sostiene che “alla maggior parte delle persone non interessa tanto il momento della
morte, quanto il modo, e che la paura le fa soffrire più della malattia stessa”. (Hinton 1967)

Spesso nelle scienze mediche il malato viene identificato con la malattia stessa. La persona
sofferenze viene “confusa” con la propria patologia, dispersa in costellazioni di sintomi che
non lasciano spazio alla parte cognitiva ed emotiva del paziente.
Nel caso del malato terminale è molto importante che le sue emozioni, pensieri e stati
d’animo tornino al centro. Per questi pazienti la morte non è solo un evento “più probabile”
ma una certezza sempre più vicina e tale vicinanza viene scandita ora dopo ora con il
progredire dei sintomi; per queste ragioni è importante, nella cura del malato terminale,
considerare tutti i problemi emozionali (oltre che fisici) determinati dall’evoluzione della
malattia stessa.

Erickson definisce così chiaramente il problema:

“non si tratta di curare la malattia in se stessa dato che il paziente sta morendo e soffre […]
il problema sostanziale è come trattare il malato per soddisfare il più possibile i suoi
bisogni umani […] un complesso problema che riguarda sia le esigenze del corpo fisico che
i bisogni della sua personalità” (Erickson, 1979)

Purtroppo la medicina tradizionale si concentra quasi solo sulla patologia e poco su colui
che la sta subendo. Sempre più mi sono accorto della differenza tra: cure contro la malattia
e cure rivolte alla persona…
“accanirsi contro il mio cancro con la chemio è come vincere la guerra con una bomba
atomica! Spazzi via tutto.. ma qui il campo di battaglia è il mio corpo e dopo una bomba
atomica non mi resta più nulla! Lasciatemi combattere come posso io senza distruggermi…
accompagnatemi e basta! Basta armi pesanti” (Marco, paziente oncologico)
Le cure rivolte alla persona morente servono a migliorare la qualità della vita nei suoi ultimi
giorni di vita, porsi in una posizione di ascolto e apprendimento per cogliere le indicazioni
specifiche che la persona saprà fornirci e metterci al suo servizio.

Fasi di elaborazione… elaborazione delle fasi … consapevolezza.


Ogni paziente affetto da una malatita cronica irreversibile attraversa una serie di fasi (Kubler
– Ross 1969) prima di arrivare all’accettazione finale; esse non seguono un ordine
cronologico specific e non hanno una durata prestabilita. Ho assistito alcuni pazienti che in
poche ore hanno elaborato tutte le fasi (“Sai Fabio… due ore fa mi avete detto la diagnosi…
in queste due ore sono uscito in balcone, ho fumato due sigarette e da che non ci credevo
ora ho capito… non ho più lacrime da piangere ma mentre mi soffiavo il naso per

l’ennesima volta ho deciso che devo sistemare tutto in questo poco tempo rimasto e cercare
di godermi i miei ultimi giorni” Marco, paziente oncologico); e sistemi familiari impiegarci
diversi settimane. Ogni paziente ed ogni famiglia elabora con modi e tempi propri.

Possiamo rifarci alla sequenze di Kubler-Ross (Kubler-Ross 1969) per descrivere le 5 fasi
di elaborazione della malattia terminale:

1. : Fase della negazione. “ Dottore ma che diavolo sta dicendo!! Non ci osso credere,
mi state mentedo” (Patrizia, paziente oncologica) . Questa è una fase caratterizzata
dal rifiuto di voler affrontare la propria morte, di prendere consapevolezza che ciò
che sis ta vivendo sia una malattia progressiva e degenerativa. Di solito, tale fasce
va scemando con il progredire della malattia che rende impossibile negare quanto
stia succedendo.
2. Fase della Rabbia. Dopo la negazione inizia a manifestarsi una forte rabbia,
indiscriminate rivolta a tutto e a tutti. Una rabbia che possiamo definire “lecita”,
rivolta alla sorte, a chi vivrà perchè può. Di solito questa rabbia è rivolta verso chi è
più vicino al malato, a chi mostra più amore e affetto; come se il paziente si aspetta
che questo affetto verrà tradito. È una fase molto complessa dove il paziente
potrebbe manifestare la massima richeista di aiuto o una complete chiusura in se
stesso.
3. Fase della contrattazione. “se guarisco prometto di… faro … andrò…” si cerca un
patteggiamento, c’è spazio per barlumi di speranza e sogni. É una fese di
progettualità dove si cercano compromessi con Dio con I medici e qualsiasi entità
possa fornire aiuto, sollievo o la speranza di un solo giorno di vità in più.
4. Fase della depression. Di solito arriva la depression quando I sintomi peggiorano. Il
paziente può sperimentare una depression reattiva (prende coscienza di ciò che ha
perso: rapport sociali, mobilità, vita relazionale, autonomia fisica etc) o una
depressione preparatoria he invece è funzione di ciò che inevitabilemnte perderà.
Aumenta sempre più la consapevolezza dell’avvicinarsi della morte e quindi
dell’inutilità di rabbia e negazione.
5. Fase dell’accettazione. Il paziente può raggiungere, se ben sostenuto, l’accettazione
della malattia. Possono comparire sempre rabbia e depressione ma in forma molto
ridota. Il paziente inizia ad affrontare il momento dei saluti, il testamnto e sistema le
“ultime cose”. Questa è la fase che solo Ii pazienti con un senso di “aver compiuto
qualcosa” possono raggiungere facilmente. Per coloro che “avebbero bisogno di più
vita” perchè molto giovani o perchè la malattia li ha colpiti in un momento
particolare della vita (appena sposati, appena divenuti genitori etc) questa fase può
essere molto difficile da raggiungere ed alcuni pazienti proprio in questa fase
tentanto dei gesti anticonservativi, spinti dalla consapevolezza di dover morire ma
nella impossibilità di tollerare la fortissimo frustrazione di non riuscire a completare
qualcosa di importante che avevano iniziato.

Informare e comprendere


Una domanda che spesso i familiari mi rivolgono è “come lo informiamo ? Cosa gli
diciamo? In moltissimi casi mi sono trovato con dei familiari (coloro che avevano richiesto
il mio intervento per il paziente) che mi bloccano sulla porta della sua stanza e mi dicono
“dottore, ancora non gli abbiamo detto nulla” oppure “dottore gli abbiamo detto solo questo
e quello.. “ ed ancora “stiamo aspettando che Lei parli con l’oncologo per dirgli la diagnosi”
ed infine “dottore, abbiamo pensato di non dirgli nulla, che ne pensa?”

Il paziente va sempre informato ma dobbiamo ricordarci che la virtù è nel mezzo. Il paziente
ha tutto il diritto di essere informato e non abbandonato. Ha diritto di essere compreso ed
accompagnato in tutte le fasi dello sviluppo della malattia, essere supportato con interventi
farmacologici e psicologici e con Lui tutta la sua famiglia deve essere seguita. Ho
comunicato personalmente molte diagnosi, affiancato dall’oncologo, sia a familiari che
pazienti. In ogni caso si deve sempre cercare di informare e supportare non abbandonare la
persona con un nuovo fardello (insostenibile) di consapevolezza.

Lavorare con un paziente terminale ( e con la sua famiglia) significa palare di una vita che
sta finendo ed implica uno sforzo importante. Molti colleghi con cui ho avuto modo di
confrontarmi lo definiscono un “togliere le speranze” al malato e ai familiari. Personalmente
lo vivo come “sostenere ed accompagnare “ quella persona ed i suoi familiari a comprendee
che quella persona non sarà più presente, non potrà più rispondere alle nostre domande,
insomma significa accompagnare verso la consapevolezza che una parte della loro vita (per i
familiari) sarà diversa, non più possibile. Significa aiutare chi resta a lasciare andare la
persona che sta morendo ed accompagnarli nella perdita. Mentre per il paziente significa
accompagnarlo “nella sua ultima parte del viaggio” rendendola il più gradevole
(sopportabile) possibile. Per chi si occupa di cure palliative, e parlo per chi come me nello
specifico si occupa della parte psicologica, significa riconoscere ogni giorno i propri confini
ed i propri limiti. In generale si può dire che una considerevole parte dei pazienti sà di avere
una patologia specifica ma non sà di essere in stato terminale, una piccola parte non sa
neppure di avere una determinata patologia e una parte ancora più piccola è completamente
informata sulla gravità ella loro ocndizione terminale. In questi pochi anni di esperienza che
ho potuto fino ad ora fare, su una cosa ho sempre meno dubbi: alcune persone devono essere
difese dalla loro diagnosi per evitare di aggravare sia i sintomi che le relazioni con i propri
cari per via dello stress causato dalla consapevolezza acquisita ... ma non potendo contare su
prove scientifiche di ciò e soprattutto non potendo generalizzare un qualcosa che va
assolutamente tagliato su misura millimetrica a seconda di ogni paziente, lascierò questa mia
opinione come tale ... una pura opinione personale e pertanto possibile di modificazioni
costanti nel tempo ed in base all’esperienza che avrò modo di fare.

Aspettative, obiettivi e speranze.


Il primo e fondamentale intervento, spesso il più duro perchè proprio all’inizio della
relazione con il paziente ed i suoi familiari, è aiutare il malato e la sua famiglia a ricalibrare
le proprie aspettative. L’obiettivo è arrivare alla migliore soluzione possibilie. Purtroppo
molto spesso questo obiettivo non coincide con quanto il paziente si aspetta. Quasi sempre

lo psicologo si trova a dover rimodellare le aspettative/sogni/speranze (irrealistiche) dei
pazienti cercando però di mantenerne alta la capacità di ambire, desiderare e progettare.

“ricordate che non siete il giuice ultimo, non siete completamente consapevoli delle
potenzialità dei vostri pazienti ,ma dovete ricorare a voi e a loro che devono fare il
massimo, ogni possibile sforzo per raggiungere certi obiettivi ed essere soddisfatti di
qualsiasi risultato entro i limiti delle loro possibilità” (Erikson, 1979).

La famiglia

La malattia oncologica è un evento traumatico familiare ed in quanto tale crea cambiamenti


importati in tutta la struttura della famiglia. Possiamo racchiudere in 3 aree le cause di
disagio che una malattia neoplastica porta in una famiglia:

1- aspetti relative alla relazione con il coniuge malato (si modifica il ruolo del paziente
da soggetto indipendente a dipendente etc).
2- tutti gli aspetti relativi alla famiglia stessa (ad esempio vi è sempre uno spostamento
dell’attenzione sulla malattia del membro malato).
3- Aspetti relativi alla comunicazione con le istituzioni

Nella famiglia che affronta una fase avanzata della malattia di un suo componente si
possono verificare lutti anticipatori e soprattuto paura. La paura di non essere all’altezza di
stare vicino al malato, di aver lasciato che le “cose accadano tutte così in fretta”, la paura di
essere impotenti e la percezione di perdere l’identità familiare.

Diventa cruciale entrare in relazione con chi assiste il malato, sia durante la fase di
accompagnamento sia durante la fase di elavorazione del lutto. Nella fase di
accompagnamento tutta la famiglia può passare momenti di totale sconforto e grandi
proiezioni, sul malato, delle proprie ansie e paure. Ad un tratto tutti sapranno tutto della
patologia ma si crea un “muro invisibile” a causa dello sbilanciamento indotto dalle ansie e
paure di ogni membro della famiblia. Per questo diventa cruciale entrare in relazione con il
paziente e con il suo contesto familiare, potendo fonire così un ponte affettivo tra il malato
ed i suoi cari più vicini. A volte si riesce a fare un buon lavoro mettendo in contatto i
familiari ed il malato in modo da farli parlare, salutare ed evitare sospesi (alla base di una
tardiva elaborazione del lutto).

Il terapeuta ... ed alcune conclusioni


Ricordo la prima persona che “accompagnai”, era una giornata di luglio del 2011, lei era una
donna di 48 anni con un carcinoma al polmone e metastasi in tutto il corpo. Nessuno le
aveva detto nulla, sapeva solo che era in ospedale perchè dimagriva e nessuno si spiegava il
motivo. All’inizio non sapevo come comportarmi, ero tra l’incudine dei suoi familiari che
sapevano tutto ma non volevano dire nulla ed il martello di Lei che non sapeva nulla e

voleva sapere tutto. Gli stessi medici si mantenevano omertosi. Io non sapevo cosa fare. Lei
era ricoverata in un’ospedale in Emilia, la vedevo una volta a settimana ed i nostri incontri
duravano ore. Anche durante il primo incontro mi sentii come il piccolo pezzo di metallo tra
l’incudine ed il martello: Lei non sapeva che la famiglia avesse coinvolto lo psicologo e
quando entrai nella sua stanza mi disse “ e Lei che ci fà qui? Chi è e cosa vuole”.. il medico
che la stava visitando e sapeva chi io fossi non disse nulla, contnuò la visita e si limito ad
andarsene appena finito. Io risposi: “una cosa per volta, ora finisca la visita con il dottore poi
ci presentiamo” e mi misi a leggere una rivista che trovai sul suo letto. Quando il medico se
ne andò mi rivolsi a Lei facendo un commento su una foto che mostrava la cellulite di una
star del cinema e Lei mi rispose subito: “con tutti i soldi che hanno non sanno nemmeno
farsi belle... che strane che sono le persone”. Mi afferrai con tutte le forze a
quell’affermazione e le chiedi “ e Tu sei strana? Che ci fai qui? Iniziammo così un lungo
dialogo durante il quale mi disse quello che sapeva ed io mi presentai come uno psicologo
che era li per aiutarla a rilassarsi. Le piacuqe molto la possibilità di rilassarsi ed iniziamo
subito a lavorare. Feci 6 incontri con Lei, passando dall’ospedale all’hospice dove a metà
agosto le fun indotto il coma farmacologico.

In tutti quegli incontri non vidi solo Lei, ma fin dalla stazione dove veniva la sorella a
prendermi iniziavo a “lavorare”. Ascoltavo la sorella, l’ex marito, la figlia ventenne... tutti
che, almeno all’inizio, speravano in un miracolo e con i quali ho dovuto subito lavorare per
ridurre le loro aspettative e rimodellare le speranze. Il setting era così esteso che ogni mia
mossa doveva essere soppesata... Quando morì mi confrontai per la prima volta con un
profondo senso di impotenza... ad ogni incontro mi era ben chiaro che si trattava di un
intervento palliativo, riuscivo a mantenere quella giusta “distanza” che da all’altro la tua
presenza ed al contempo non ti lascia investire dalle ondate emotive di tutti coloro che sono
direttamente coinvolti. Ma quando mi comunicarono che era morta, per la prima volta mi
sentii davvero impotente. Ci misi un paio di settimane a rielaborare il tutto ed ancora oggi,
quando vedo un paziente terminale o lo accompagno mi torna in mente quella sensazione e
sempre più mi diviene chiara la differenza tra “esserci” ed “accompagnare”. Accompagnare
significa esserci e mantenersi saldi per poter sorreggere, con la propria presenza, chi stiamo
accompagnando; così che possa concentrarsi solo sulle sue risorse e, come disse Erickson
“fare il massimo, ogni possibile sforzo per raggiungere il suo obiettivo”. (Erickson 1979).

A volte le persone mi chiedono : “come fai a fare questo lavoro? “... Ed io spesso rispondo
“la nascita e la morte sono parti della stessa cosa: la vita! Ignorarne la morte non è una
soluzione... forse io sto cercando di farci pace...”


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