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Vincenzo Caporaletti

Trasposizioni testuali nelle


musiche audiotattili

Introduzione
La pratica delle trasposizioni testuali musicali può essere intesa in funzione della
transizione di un brano o di una parte di esso – un’unità di concettualizzazione
musicale – da un assetto mediale ad un altro, sul piano puramente strumentale/
materiale o simbolico/stilistico.1 In una prospettiva più generale, tale dimensione
poietica, assieme alla questione dei prelievi testuali, si può ascrivere alla problema-
tica dell’intertestualità, nel rapporto di influsso e dipendenza tra testi culturali.2
Nella tradizione musicale scritta occidentale, in particolare nella linea classico/
romantico/modernista, tali processi hanno acquisito denominazioni specifiche,
riferite a diverse tecniche creative, quali arrangiamento, trascrizione, adattamento,
rielaborazione, orchestrazione, riduzione, ma anche – e qui la trasposizione si lega
alla questione dei prelievi – citazione, riferimento, o, con un concetto elaborato in
sede di teoria letteraria africano-americana, signifyin(g).3 In questo contributo si
considereranno i processi di trasposizione testuale nei repertori del jazz, del rock
e della pop music, categorizzati – come da mie recenti ricerche – all’interno del
modello teorico delle “musiche audiotattili”.4
È importante notare preliminarmente come il processo traspositivo nella musica
di tradizione scritta occidentale assuma connotati fenomenologici differenti

1.  Si intende qui medium nell’accezione che tale nozione riveste negli studi mediologici, che ne
contempla la distinzione in media materiali (ad esempio, uno strumento o un organico strumen-
tale) e media ideazionali (uno stile o un sistema linguistico).
2.  In questo articolo consideriamo “testo” sia una composizione scritta, solo musicale o con
componenti verbali, sia una performance, eventualmente (video)registrata.
3. Cfr. Gates 1988; Floyd 1991, e infra.
4. Cfr. Caporaletti 2005 e 2014.
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rispetto alle musiche audiotattili, e questo per un’importante caratteristica distin-


tiva che riguarda la natura autografica dell’esperienza audiotattile.5 Per essa, infatti,
una speciale struttura mediologica costituita dal sistema psico-somatico del per-
former, il principio audiotattile (PAT),6 attivo anche nelle musiche tradizionali, si
oggettiva creativamente mediante le possibilità di registrazione sonora inducendo
i processi estetici di codifica neo-auratica (CNA).7 Tale fonofissazione produce
testi che rispondono alla logica formativa audiotattile pur essendo cristallizzati e
conchiusi, a differenza della fenomenologia delle culture orali, intese nella loro
sedimentazione storica, in cui la testualità performativa è evanescente e transitoria.
Questo passaggio è particolarmente rilevante in prospettiva mediologica, poi-
ché dal processo di testualizzazione oggettivata si originano connotazioni culturali
afferenti all’estetica culta europea, come l’originalità artistica creativa, l’autonomia
formale, la mobilitazione della norma estetica: funzioni attive sia nella dimensione
poietica sia estesica.8 Questi esiti estetici, sostanzialmente estranei all’esperienza
delle culture tradizionali, sono connessi, come abbiamo visto, a disposizioni for-
mative tipicamente “oralistiche” innescate dal principio audiotattile, che non

5. Cfr. Goodman 1968. Com’è noto, per Nelson Goodman la musica è un’arte allografica,
ossia multipla, che ammette diverse esecuzioni come classi congruenti con un testo compitato in
notazione, anche in ragione della mediazione di quest’ultima nell’interrelazione decontestualiz-
zata tra compositore e interprete. La pittura, invece, è arte autografica, singolare, per cui nella deter-
minata opera è incriptato il gesto creativo dell’artista (ingenerando la nozione di falso artistico,
nella replica inautentica). In Caporaletti 2005 è stata sovvertita, o meglio, integrata, questa con-
cezione, individuando specifici tratti autografici nelle musiche audiotattili (p. 122 sgg).
6.  In prima approssimazione, il principio audiotattile (PAT), relativamente alla rappresenta-
zione e conoscenza del suono organizzato, può essere considerato come il plesso psico-corporeo
nella sua identità non puramente materiale ma di medium che condiziona e indirizza gli esiti per-
cettivi e cognitivi.
7.  Nella produzione di alcune musiche basate sul medium formativo audiotattile, assume un
ruolo cruciale il “processamento” dei testi (siano essi scritti – a codifica per lo più “aperta” o con-
siderata tale – oppure solo performativi) operato dalla registrazione sonora. Ne deriva uno statuto
testuale definitivo, una fonofissazione, che agisce in un senso per molti versi omologo (anche se
qui saldamente radicato nella dimensione performativa evenemenziale/audiotattile) alla cristal-
lizzazione notazionale della progettazione di lunga durata, tipica della composizione “scritta”, ad
autorialità individualizzata, della tradizione culta occidentale. La possibilità di utilizzo del medium
di registrazione sonora come strumento creativo ingenera, nelle musiche audiotattili, conseguenze
d’ordine cognitivo (attive anche in relazione a performance non soggette a registrazione): tali
effetti, ricondotti alla nozione di codifica neo-auratica (CNA), si riflettono sulla loro immagine
estetica come caratteri distintivi rispetto alle musiche delle culture tradizionali/orali.
8.  Mi riferisco qui alla cosiddetta “triade semiologica” di Molino (1975) e Nattiez (1975), per
cui nella dimensione poietica (prospettiva dell’emittente del messaggio) la forma simbolica risulta
da un processo di creazione che può essere descritto o ricostruito; in quella estesica (prospettiva del
ricevente) alla forma simbolica sono assegnati vari significati dal fruitore; e nel livello neutro (l’ar-
tefatto materiale) la forma simbolica è materializzata in una traccia accessibile percettivamente.
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partecipano cognitivamente della poietica astrattiva generativo-combinatoria


propria della cultura della composizione scritta. Si stabilisce così l’orizzonte cultu-
rale in cui possono profilarsi le musiche audiotattili come modello antropologico
ibridato.9
In questo quadro, il processo di trasposizione testuale audiotattile dismette
alcune valenze sintattiche, che trovano nella linearità ritmo-diastematica la con-
figurazione elettiva, per abbracciare, come vedremo con la nozione di “cover”,
la trasmutazione di energie psico-corporee. In questa fenomenologia troviamo
modalità performative di trasposizione piuttosto che stringhe di dati sonori quan-
tificati “per file interne”, di tipo sintattico/sintagmatico, com’è nel processamento
di dati sonori attraverso il conceptual scheme notazionale.

Trasposizioni testuali nel jazz e nel rock


Il jazz, nel suo svolgimento storico, esemplifica il caso di una tradizione che si è
tutta prodotta all’interno della mediazione cognitiva neo-auratica: differente-
mente, poniamo, dalla cultura musicale del rāga indiano, fondata sulla mediazione
mnemonica e a testualità performativa e evanescente. Louis Armstrong, Billie
Holiday, Charlie Parker hanno appreso soprattutto dalle registrazioni discogra-
fiche i rudimenti della propria tradizione, e attraverso la individuale proiezione
artistica veicolata dai processi improvvisativi hanno prodotto a loro volta registra-
zioni improntate ai valori di originalità artistica, di mobilitazione della norma este-
tica e di autonomia formale, analogamente ai compositori della tradizione scritta
europea.
Ma proprio alle origini della tradizione del jazz, la trasposizione testuale ha gio-
cato un ruolo cruciale, tale da configurarne l’immagine estetica e gli svolgimenti
successivi. Prendiamo il caso del brano Tiger Rag – e della querelle autoriale e sto-
riografica connessa – come esempio paradigmatico del passaggio dalla fenomeno-
logia della cultura orale all’audiotattile. Riassumiamone qui la complessa vicenda.10
Tiger Rag, un brano multitematico formalmente tributario del ragtime, fu inciso
il 17 agosto 1917 dalla “Original Dixieland Jazz Band”;11 il copyright era stato regi-
strato il 12 maggio 1917, con titolarità di Nick La Rocca. Molti anni dopo, nel 1938,
nelle famose interviste alla Library of Congress di Washington che Jelly Roll

9. Cfr. Caporaletti 2005.


10.  Per una trattazione dettagliata cfr. Caporaletti 2011.
11.  Tiger Rag, “Original Dixieland Jass Band” [sic] (Nick La Rocca, cornetta; Larry Shields,
clarinetto; Eddie Edwards, trombone; Henry Ragas, pianoforte; Tony Sbarbaro, batteria), New
York, 17 agosto 1917, Aeolian/Vocalion B-1206 (CD Jazz Archives (F)158492).
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Morton rilasciò ad Alan Lomax,12 il pianista e compositore creolo asserì di essere il


vero compositore di Tiger Rag. L’attuazione compositiva sarebbe risalita agli inizi
del Novecento, con la trasformazione – e qui abbiamo il prelievo testuale – dei
temi di un’antica quadriglia francese in altrettante sezioni tematiche di Tiger Rag,
dando così origine, sempre secondo il pianista di New Orleans, al primo tratta-
mento jazzistico di materiali di origine europea (di questa trasformazione Mor-
ton dà evidenza fonica, esemplificando nelle registrazioni sia la quadriglia sia Tiger
Rag).
Questa testimonianza ha influenzato profondamente la storiografia jazz, che ha
sempre ritenuto credibile la versione del creolo Morton, a scapito della presunta
usurpazione discografica, connotata di discriminazione razziale, da parte di Nick
La Rocca. Ora, in Caporaletti 2011 è stato dimostrato che le cose sono andate
diversamente. Morton si contraddice in vari punti nelle esemplificazioni al pia-
noforte, configurando una strategia à rebours, in cui sembra inequivocabilmente
accreditare retroattivamente l’esistenza di una quadriglia, in realtà, fittizia, rico-
struita a posteriori, a partire proprio dal modello di Tiger Rag inciso dall’Original
Dixieland Jazz Band.
La questione parrebbe liquidata, ma vi sono ulteriori risvolti molto interessanti –
e qui entrano in gioco proprio le trasposizioni testuali – che alla fine sembrano dar
ragione paradossalmente a Morton, anche se per vie totalmente diverse. Infatti, le
varie sezioni tematiche incise da La Rocca con il titolo di Tiger Rag facevano parte
del repertorio condiviso dei primi musicisti jazz di New Orleans, e vi è ragione di
credere che la vicenda si debba leggere come effetto della cristallizzazione neo-
auratica e autoriale di motivi vaganti,13 i modelli musicali ubiqui nelle culture tra-
dizionali come patrimonio comunitario. Proprio queste dinamiche chiariscono
alcuni snodi fondamentali della transizione dall’oralità ai processi audiotattili.
Dal punto di vista storico e antropologico occorre innanzitutto tenere presente
che, agli inizi del secolo XX, la comunità musicale della Crescent City, cui appar-
teneva Morton, dovette subire un notevole shock nel fronteggiare l’impatto reifi-
cante del medium di registrazione/riproduzione fonografico, con i connessi effetti
estetico-antropologici neo-auratici. Ricordiamo che questi ultimi ricodificavano la
fenomenologia oralistica, nel cui ambito i musicisti si erano sempre mossi, in una

12.  L’edizione discografica di riferimento è Jelly Roll Morton. The Complete Library of Congress
Recordings, a cura di Jeffrey A. Greenberg e Anna Lomax Wood, CDBox Rounder 11661-1555-
2G01, 2005.
13.  Per “motivi vaganti” intendiamo melodie che circolavano nella jazz community come mate-
riale d’uso per le pratiche creative, di cui non si conosceva o si era dimenticato l’autore. È un con-
cetto introdotto negli studi di letteratura e mitologia comparata dal filologo Aleksander Nicolaevič
Veselovskij (1838-1906) in relazione ai repertori folklorici dei racconti di fiabe e all’epica orale.
Corrisponde, più da presso al contesto di cui ci stiamo occupando, alla nozione di floating folk
strains (cfr. Jasen e Tichenor 1989: 22).
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nuova dimensione socio-antropologica, in cui, pur all’interno della fenomenologia


formativa basata sul principio audiotattile, si affermavano relativamente alle prati-
che creative i fattori di cristallizzazione testuale. In questo inaudito assetto culturale,
che i musicisti non erano assolutamente preparati ad affrontare, i motivi vaganti che
costituivano l’humus della loro creatività – e i tratti genomici di Tiger Rag – persero
il proprio statuto comunitario e, in un certo senso, la propria innocenza, diven-
tando oggetto di irregimentazione fiscale e sfruttamento economico. La storia del
jazz ci mostra come le ripercussioni sul vissuto individuale dei musicisti siano state
dirompenti: ne derivarono drammatici esiti di odio interpersonale letteralmente
insanabili e profonde crisi di identità, di cui forse si può trattare solo in termini di
teoria delle catastrofi, vissute sulla falda che segna passaggio da un assetto cultu-
rale ad un altro. Così si spiega l’ostilità della comunità musicale, e segnatamente
di Morton, nei confronti di La Rocca, al di là di motivazioni basate sulla diffidenza
interetnica. Il cornettista siculo-americano si era reso reo di appropriazione fiscale
di beni condivisi, sotto forma di floating folk strain, tra i musicisti di New Orleans
– sia africano-americani sia euro-americani, con particolare riferimento agli stessi
colleghi di origine italiana formatisi nelle Reliance Bands di George Vitale-Laine –
solo per il semplice e fortuito fatto di aver inciso per primo un brano, denominato
Tiger Rag, basato sulla trasposizione di questi motivi vaganti, reperti della cultura
orale, in artefatti registrati.

A ben vedere, attraverso la pratica improvvisativa, la trasposizione di materiali


musicali è immanente all’essenza stessa del jazz. La creazione in tempo reale, infatti,
si esercita con l’elaborazione e variazione sia di materiali oggettivi (ad esempio la
forma-canzone) sia su referenti simbolico/stilistici (anche la decisione di evitare
consonanze nell’improvvisazione cosiddetta free è un artificio che si inquadra nei
sistemi di prescrizioni e interdizioni linguistiche).
Con l’avvento della tradizione moderna del jazz, dagli anni Quaranta del secolo
scorso, e con l’egemonia della struttura tema-improvvisazioni come veicolo privile-
giato della prassi creativa,14 si intensifica un fenomeno di trasposizione testuale del
tutto particolare: la tecnica del contrafact.15 Si tratta di un espediente compositivo

14.  Per una puntuale contestualizzazione storico-stilistica di questa prassi, bisogna considerare
la mutazione della focalizzazione creativa dalla metà degli anni trenta del secolo scorso, dal modello
performativo basato sull’arrangiamento scritto, nello stile delle big bands, all’interattiva fucina cre-
ativa delle jam session improvvisate; un processo che aveva preso forma sopratutto nell’ambiente
musicale di Kansas City per poi estendersi a New York.
15.  Si intende per contrafact nel jazz una composizione le cui melodie sono costruite sulla
struttura metrico-armonica di brani precedenti, per lo più tratti dal repertorio della commedia
musicale americana; si deve a James Patrick (1975) l’introduzione nella letteratura della formula-
zione melodic contrafact. L’analogia proposta nella formulazione anglofona con i contrafacta della
lauda medievale o del corale luterano è però solo superficiale, poiché in questi casi ci si riferisce alla
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basato sull’utilizzo di strutture metrico-armoniche di brani celebri cui sono sovrap-


poste nuove melodie, realizzando creazioni originali a pieno titolo (dallo stesso
Tiger Rag si produssero dei contrafact: Django Rag di Django Reinhardt, Before My
Time di Duke Ellington o Sittin’ In di Roy Eldridge, solo per citarne alcuni).
La pratica si originò principalmente per aggirare la normativa sul diritto d’au-
tore in musica, che individua e tutela come precipua attestazione dell’opera
dell’ingegno la linearità melodica, ma non la strutturazione armonica o la dimen-
sione timbrica o ritmico-energetica. Questa ideologia, che deriva da una visione
radicata nella tradizione musicale occidentale, scritta e allografica, collideva con
le pratiche audiotattili dei musicisti jazz, che utilizzavano funzionalmente i brani
come vettori di creatività in tempo reale, categorizzandoli soprattutto in base alle
loro peculiarità armoniche. Le canzoni di Kern, Gershwin o Porter erano in que-
sto contesto considerate “materiali per una nuova forma” (potremmo dire, utiliz-
zando un felice concetto di Adorno): ma questa operazione era costosa in termini
di diritti d’autore, istituito in funzione di una visione dell’opera come fine in sé e
non come mezzo.
La naturale reazione alla dispendiosa esazione delle royalties per le session
improvvisate o registrate (per cui il fruitore dei diritti finiva per essere l’autore
del “pretesto” improvvisativo, ossia il compositore del brano) fu la mutuazione
di progressioni accordali di brani famosi. Queste avevano il vantaggio di essere
universalmente conosciute, e, come tali, funzionali alla scelta del repertorio della
jam session, che avviene per negoziazione contestuale. Inoltre – fattore non di
poco conto –, si utilizzava un nuovo tema di fattura propria, andando per così dire
a credito, anziché a debito, con le società di riscossione e ripartizione dei diritti
d’autore.
Dal punto di vista etnomusicologico si può interpretare la proliferazione di con-
trafact come processo di costituzione di tune families.16 La famiglia più numerosa è
diventata quella di I Got Rhythm (di George e Ira Gershwin, 1930: senza la Coda,
però, ridotta alle canoniche 32 misure della forma AABA), con centinaia di contra-
fact.17 Altre numerose genealogie contano Sweet Georgia Brown (Casey/Pinkard,

sostituzione del testo poetico relativo ad un contesto melodico preesistente. Questa pratica jazzi-
stica era già stata descritta nel 1954 da André Hodeir (1980: 122) come “parafrasi” e individuata
da Frank Tirro (1967) attraverso la categoria di “silent theme tradition” nel primo saggio dedicato
al jazz apparso su una rivista scientifica di musicologia, la statunitense “The Musical Quarterly”.
16.  Il concetto di tune family è stato introdotto nella ricerca etnomusicologica da Samuel P.
Bayard (1954). In ambito italiano è stato spesso tradotto con la locuzione “famiglia melodica”,
anche se in questo caso dovremmo parlare di “famiglia armonica”. Questa discrasia teorica ci illu-
mina sulle implicazioni epistemologiche insite nella stessa terminologia tecnica, e sulla necessità di
distinguere le attribuzioni e produzioni delle culture tradizionali-orali rispetto a quelle audiotattili.
17.  In ragione della straordinaria ubiquità, la struttura armonica di I Got Rhythm ha assunto
persino una denominazione specifica, Rhythm Changes, o in ambito francofono, anatole.
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1925), Honeysuckle Rose (Razaf/Waller, 1929), All The Things You Are (Hammer-
stein II/ Kern, 1939), Cherokee (Ray Noble, 1939), What Is This Thing Called Love
(Cole Porter, 1930), Out Of Nowhere (Heyman/Green, 1931), How High the Moon
(Hamilton/Lewis, 1940), I’ll Remember April (Raye/De Paul/Johnston, 1942). I
contrafact sono stati composti non solo sulle progressioni armoniche di canzoni
prodotte nel contesto di Tin Pan Alley, la via di New York degli editori divenuta
eponima della canzone americana nel xx secolo, bensì di brani originali creati dagli
stessi musicisti jazz. Confirmation di Charlie Parker, So What di Miles Davis o
Giant Steps di John Coltrane hanno generato altrettante tune families.
Alle generazioni dirette poi si sommano le interpolazioni, mutuando, per ogni
sezione o parte del brano, strutture armoniche di brani diversi. È il caso del con-
trafact Scrapple from the Apple di Charlie Parker, in forma AABA, che mutua la
sezione A dalla rispettiva di Honeysuckle Rose e la B da I Got Rhythm, oppure 52nd
Street Theme di Thelonious Monk che, al contrario, utilizza la sezione A di I Got
Rhythm e la B di Honeysuckle Rose.18

Un esempio interessante di trattamento di materiali musicali nei contrafact lo


troviamo in Donna Lee, brano be-bop inciso originariamente dal “Charlie Parker
Quintet”.19 Il pezzo è basato sulla struttura metrico-armonica di uno dei più antichi
“modelli armonici” jazzistici, la canzone (Back Come Again in) Indiana, composta
nel 1917 da Ballard McDonald e James F. Hanley, e resa famosa dall’incisione, nello
stesso anno, dell’“Original Dixieland Jazz Band”. L’autorialità del contrafact (ossia,
della melodia di Donna Lee superimposta alla trasposizione armonica), che trae il
nome dalla figlia del contrabbassista Curly Russell,20 è però ancora discussa (cfr.
infra).
La costruzione del virtuosistico tema dà l’idea della prassi costruttiva tattile-
modulare con cui negli anni quaranta i musicisti di jazz utilizzavano i materiali
melodico-armonici. Riferendoci alla nostra “riscrittura” delle prime tre battute –
cfr. Esempio 1, pentagramma inferiore – si potrà notare come la melodia sia costru-
ita come una serie di arpeggi (semplici o con appoggiature, e con il la bemolle come
blue note su F7); sono cerchiate le “note bersaglio”, sulla terza maggiore di ogni
accordo, corrispondenti esattamente alla cadenza del ritmo armonico di (Back

18.  Vale chiarire un particolare tecnico riguardante la differenza tra la sezione B di I Got Rhythm
e di Honeysuckle Rose, peraltro molto simili. La prima è basata sulla progressione di quinte III7 /
VI7 / II7 / V7 /, mentre la seconda sulla sequenza I7 / IV / II7 / V7.
19.  Donna Lee, “Charlie Parker Quintet” (Charlie Parker, sax contralto; Miles Davis, tromba;
Bud Powell, pianoforte; Tommy Potter, contrabbasso; Max Roach, batteria), Harris Smith Studio,
New York, 8 maggio 1947 [5 takes, CD Bird’s Eyes, Philology vol. 60 (W891)].
20.  Il titolo fu ideato dal produttore della sessione di registrazione per la Savoy Records, Teddy
Reig (cfr. Chambers 1985: 61), che dedicò nella stessa sede un altro brano, Cheryl, alla figlia di
Davis.
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Come Again in) Indiana. Questa procedura, piuttosto comune nel jazz degli anni
venti e soprattutto trenta del Novecento, viene però qui mascherata, dislocando
il profilo melodico in avanti di mezza battuta rispetto all’intelaiatura metrico-
armonica, che quindi si sfalsa rispetto alla scansione arpeggiata della griglia accor-
dale. Da questo sfasamento cubista, poliprospettico rispetto alla focalizzazione
armonico-tonale proiettata da (Back Come Again in) Indiana, deriva gran parte del
fascino del brano.

Esempio 1. Donna Lee, prime tre misure. Nel pentagramma inferiore è da noi ricon-
dotta in fase col ritmo armonico la dislocazione di mezza misura della melodia nella
versione originale

La nostra ipotesi è confermata da un’incisione del trombettista Fats Navarro,


che nel suo assolo in un altro contrafact di (Back Come Again in) Indiana, dal titolo
Ice Freezes Red21 – inciso ben quattro mesi prima della versione di Parker, con la
stessa etichetta discografica, la Savoy Records – segue esattamente la logica costrut-
tiva indicata. La sequenza delle note del fraseggio di Navarro è sorprendentemente
identica all’inizio del tema di Donna Lee (Esempio 2), con una notevole differenza:
coerentemente con la nostra ipotesi, è posto “in fase” col ritmo armonico.22

21.  Ice Freezes Red, “Fats Navarro and his Thin Men” (Fats Navarro, tromba; Leo Parker, sax
baritono; Tadd Dameron, piano; Gene Ramey, contrabbasso; Denzil Best, batteria), New York, 29
gennaio 1947 (Savoy SJL2216).
22.  Douglass Parker (1994), assertore dell’autorialità di Davis per Donna Lee, ha notato l’as-
sonanza di Ice Freezes Red con questo brano, ma nella sua analisi (tanto pletorica quanto piuttosto
inconcludente, per la verità) condotta sintatticamente sulle trascrizioni ha perso di vista il fattore
principale, non evidenziando la funzione della dislocazione metrica. In un’ottica audiotattile,
invece, questo dispositivo – per le peculiari circostanze del contesto comportamentale cui rimanda
(cfr. infra) – illumina il criterio costruttivo di Donna Lee.
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Esempio 2. Inizio del solo di Fats Navarro in Ice Frezes Red (29 gennaio 1947) [note
reali; suddivisione del beat: Long/Short]

Per approfondire nei termini di alcuni nostri paradigmi teorici il senso poietico
di questa prassi, dal punto di vista della CNA bisogna tenere presente in primo
luogo che il tema di Donna Lee è stato realizzato in un contesto di processi di regi-
strazione audio; inoltre, per quanto riguarda la formatività del PAT, è come se
Parker nell’eseguire il tema non avesse seguito la scansione della sezione ritmico-
armonica, controllando però correttamente – quasi in un universo cognitivo/
percettivo parallelo – la sequenza accordale nella linea improvvisata (che teneva
conto, inoltre, della performance di Navarro in Ice Freezes Red). Con ogni proba-
bilità, il risultato fonico di questa procedura, processato neo-auraticamente dalla
registrazione, è stato a posteriori apprezzato dai musicisti, cristallizzandosi poi in
melodia autonoma.
In relazione a Ice Freezes Red di Fats Navarro – che reca molti altri passaggi
riconducibili al brano in questione – si potrebbe quindi dire il contrafact Donna Lee
abbia avuto origine da una citazione “sbagliata” che poi, grazie ai processi di CNA,
ha superato la “censura preventiva”23 della jazz community,24 diventando “giusta”.
In fondo, la nozione giapponese di wabi non sta ad indicare un‘imperfezione che
crea un insieme elegante? Sono tutt’altro che rari gli esempi di chance e serendipità
nella creazione musicale del jazz, indotti proprio dalla tecnologia di registrazione
e dai processi cognitivi neo-auratici connessi. Ma questo ragionamento ci illumina
anche su un’altra rilevante problematica. Sulla scorta di queste indicazioni, infatti,
può essere reinterpretata la questione autoriale sollevata da Miles Davis in merito
alla paternità del brano, e con evidenza la nostra ipotesi costruttiva deporrebbe
senz’altro a favore di Parker.25

23. Cfr. Jakobson e Bogatyrëv 1966 (I ed. 1929).


24.  Per la nozione di “jazz community”, cfr. Merriam e Mack 1960: 211-222.
25.  Nonostante Charlie Parker risulti il titolare del copyright di Donna Lee, Miles Davis ha
dichiarato espressamente di essere l’autore del brano (cfr. Davis e Troupe 1989: 103-104); que-
sta rivendicazione è stata sostenuta da Gil Evans, che ne avrebbe avuto conferma da Parker stesso
(cfr. Priestley 2005: 59). Bisogna considerare che Parker – secondo un uso diffuso – spesso
cedeva alle compagnie discografiche i diritti di composizioni originali incise: anche nel caso fos-
sero state composte dai sidemen della sessione di incisione, queste gli venivano automaticamente
attribuite. Ma Woideck (1996: 258) suggerisce che Davis avrebbe potuto captare alcuni fraseggi
di Parker riconducibili a Donna Lee già nel 1946, ricordando come anche il biografo parkeriano
James Patrick avesse notato la somiglianza di alcuni passaggi di Donna Lee con altri già eseguiti dal
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Sul piano dei prelievi testuali, nell’improvvisazione jazz gioca un ruolo del tutto
particolare la prassi della citazione. Samuel Floyd (1991) ha voluto applicare sia
all’improvvisazione in sé sia alla citazione musicale il concetto che Louis Gates
(1988) ha identificato in sede di teoria letteraria come Signifyin(g). Questa nozione
identifica una modalità di riferimento connotativo intrinseco alla logica lingui-
stico/antropologica degli africani-americani; essa ha origine nel double talking
come codice di autotutela nella cultura della emarginazione/discriminazione raz-
ziale e nei conseguenti sistemi di riferimento simbolici ipercodificati delle dinami-
che infragruppo. Tale teoria, sorta in sede letteraria, presta però il fianco a molte
riserve qualora applicata ipso facto ai fenomeni musicali, proprio per il differente
status che la dimensione semantica riveste nei due distinti domini.
In ogni caso, la citazione è sempre stata un artificio virtuosistico nel jazz, sia per
i musicisti euro-americani sia per gli africani-americani, proprio per la difficoltà di
inserire nella creazione in tempo reale dei blocchi ipercodificati, senza compro-
mettere la concinnitas ritmica e la logica del fraseggio all’interno della struttura
metrico-armonica. Questo procedimento, infatti, richiede un notevole controllo
della dimensione temporale, oltre a considerevoli doti di previsionalità costrut-
tiva e senso della forma nel farsi dell’improvvisazione. Solo per restare a Charlie
Parker, va notato come i suoi assolo contengano citazioni, oltre che del repertorio
della canzone americana, di opere della tradizione scritta europea: dal Guillaume
Tell di Rossini al Peer Gynt di Grieg, dal Tannhäuser di Wagner al Sacre du Prin-
temps di Stravinskij. Proprio su quest’ultima opera mi vorrei soffermare, anche per
l’influsso non secondario che l’armonia e la costruzione melodica stravinskijana,
in particolare con la modalità ottofonica, hanno avuto sugli stili bop e post-bop.
Parker cita in svariate occasioni l’incipit del Sacre,26 ad opera del fagotto: in Salt
Peanuts a Parigi nel maggio 1949, come chiaro omaggio al pubblico della capitale
francese o in The Song Is You (26 luglio 53); ma mentre a Parigi effettua la trasposi-
zione alla quinta inferiore, il prelievo è nel tono originale in Cool Blues27 (25 marzo
1952). La logica seguita da Parker riguarda la fungibilità armonica: la prima frase
del Sacre – riconducibile ad un arcaico la eolio – nei termini della sintassi armonica

saxofonista prima della pubblicazione del brano. Brian Priestley (2005: 212), pur se sostenitore
dell’autorialità davisiana, è costretto ad ammettere che “The distinctive phrase at bars 25-26 [of
Donna Lee’s theme] can be heard played by Parker (at 5.17) on the 1945 Town Hall recording of
Bebop, suggesting that Miles’s tune is an anthology of others ideas”. L’analisi musicale da noi pro-
posta avvalorerebbe le implicite attribuzioni “autoriali” a favore di Charlie Parker insite in queste
osservazioni.
26.  Si potrebbe parlare, in proposito, di un “prelievo alla seconda”, dato che nel Sacre lo stesso
Stravinskij utilizza arcaiche melodie russe: cfr. Taruskin 1980.
27.  Cool Blues, “Charlie Parker Quartet” (Charlie Parker, sax contralto; Dick Cary, pianoforte;
Eddie Safransky, contrabbasso; Don Lamond, batteria), Loew’s Valencia Theatre, Jamaica, 25
marzo 1952 [CD Bird’s Eyes, Philology, vol. 8 (W80)].
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∙ Trasposizioni testuali nelle musiche audiotattili ∙

bop si adattava bene sia all’accordo di Cmaj7 sia di C6. Osserviamo di seguito
(Esempio 3) il passo stravinskijano e la parkeriana inserzione a batt. 7 del dodice-
simo chorus di Cool Blues (Esempio 4) dell’incipit eseguito dal fagotto solo.

Esempio 3. Incipit del Sacre du Printemps di Igor Stravinskij

Esempio 4. Citazione di Charlie Parker dell’incipit del Sacre du Printemps in Cool Blues
(25 marzo 1952) [note reali; suddivisione beat: Long/Short]

Nell’ambito dei prelievi citazionali vi sono poi, ovviamente, i rimandi alla tradi-
zione stessa del jazz, come l’omaggio che Parker rende a Louis Armstrong citando
in Cheryl (25 dicembre 1949) la famosa cadenza introduttiva a West End Blues del
28 giugno 1928. Ma l’universo della citazione parkeriana abbraccia dimensioni
molto più vaste, che riguardano associazioni semantiche tra processi mentali, stati
d’animo e testi verbali delle canzoni, in un caleidoscopico gioco di rinvii incrociati
ancora tutto da esplorare.
In ogni caso, che la citazione o il prelievo testuale non siano solo appannag-
gio del jazz africano-americano lo dimostra in Europa il chitarrista belga, di etnia
manuoche, Django Reinhardt, compositore nel 1940 del celeberrimo brano Nua-
ges, in cui ripropone, addirittura, l’incipit del Tristan und Isolde di Wagner con tanto
di Tristan-Akkord, citato testualmente (Esempio 5).28

28.  Questo prelievo non ci risulta sia mai stato notato nella letteratura.
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∙ Vincenzo Caporaletti ∙

Esempio 5. Incipit del Preludio di Tristan und Isolde di Wagner (endecalineo), confron-
tato quello di Nuages di Django Reinhardt.

Venendo alla questione della trasposizione testuale nella musica rock e pop,
bisogna notare che essa assume caratteri specifici, per molti versi differenzian-
dosi rispetto alla tradizione del jazz di ascendenza bop.29 Limitiamoci in questa
sede a sottolineare la diversa funzionalità del testo musicale nelle tradizioni jazz
e rock, tendenzialmente inerente, rispettivamente, alla finalizzazione improvvisa-
tiva e all’attuazione compositiva. Nella musica rock il testo, inteso come unità di
concettualizzazione musicale, come brano definito e conchiuso, viene trasposto
da una versione performativa all’altra attraverso un’accentuata presa di possesso
psico-corporea da parte del performer creativo, con assunzione audiotattile scar-
samente condizionata da strutture teorico-musicali/notazionali.30 Ciò, tra l’altro,
è dimostrato dall’assenza nella tradizione rock di compendi repertoriali noti come
Real Book. Infatti, più che a fini improvvisativi la trasposizione testuale viene qui
utilizzata come riproposizione a livello, si potrebbe dire, interpretativo.
È però indicativo, a questo proposito, che anche in contesti linguistici non
anglofoni si utilizzi il termine “cover”, anziché quello di “interpretazione”, come
segno di una distintiva marcatura culturale di questi processi. Chi dice “cover” sa,
in qualche modo, che si sta riferendo ad un fenomeno non immediatamente ricon-
ducibile alla sfera della “interpretazione”, com’è nella musica di tradizione scritta,
e altresì differenziato rispetto alla personalizzazione e istanziazione di un modello

29.  Si rimanda per questi specifici aspetti a una ricerca dello scrivente di prossima pubblicazione.
30.  Per strutture “teorico musicali/notazionali” intendo il complesso teoretico e la visione
stessa della musica espressi dalla tradizione scritta d’arte occidentale, assetti antropologici che si
affiancano alle “etnoteorie” di altri sistemi culturali non occidentali o di mediazioni audiotattili,
come il rock (Per una concezione relativistica della musica d’arte occidentale, cfr. Blacking 1973;
per la nozione di “etnoteoria”, cfr. Cardona 1985).
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∙ Trasposizioni testuali nelle musiche audiotattili ∙

culturalmente preservato e mnemonicamente mediato, come avviene (o meglio,


“avveniva”) nelle musiche tradizionali. Questo tratto distintivo ha a che fare esat-
tamente con la fenomenologia delle musiche audiotattili.
Nel caso della cover, infatti, si ha, mediante assunzione audiotattile, la traspo-
sizione testuale di un testo neo-auraticizzato, attraverso un processo estemporiz-
zativo.31 Chiariamo questa definizione. Partiamo dal fatto che nella cover non si
ha interpretazione di un testo musicale scritto, né di un modello mnemonico, ma
di una performance, codificata neo-auraticamente mediante fissazione fonogra-
fica su supporto di riproduzione sonora (in genere è la prima incisione originale
del brano, ma può essere anche un’”interpretazione” successiva particolarmente
pregnante).
Ad esempio, nel riproporre All Along the Watchtower32 (1968), canzone com-
posta da Bob Dylan l’anno prima, Jimi Hendrix non ha approcciato il testo musi-
cale attraverso la mediazione notazionale di una partitura, esplorando sulla carta le
sue strutture sintattiche melo-armoniche, soprattutto perché lo stesso Dylan non
componeva stendendo una partitura (eventualmente trascritta solo a posteriori,
in formato melodia/accordi siglati – lead sheet – a fini fiscali per la registrazione
del copyright) ma registrando il brano direttamente su nastro magnetico (una
prassi seguita, peraltro, in un contesto culturale ed estetico del tutto diverso, dal
compositore Giacinto Scelsi). L’immagine estetica del brano dylaniano, di con-
seguenza, è stata fonofissata nella registrazione, che funge da testo di riferimento
sia per la ricezione dell’opera sia per la produzione di altre registrazioni, come nel
caso della numinosa versione di Hendrix. Ed ecco che, a sua volta, senza passare
per la mediazione theory laden della notazione, il sistema psico-somatico di Hen-
drix si appropria, personalizzandola, della produzione audiotattile di Dylan, codi-
ficandola a sua volta in un supporto registrato, come interpretante semiologico nel
senso peirciano; “iscrivendola” in un testo inteso come un’individuale struttura
autosufficiente, conchiusa ed elaborata, che costituisce la parte essenziale dell’og-
getto estetico che si configura nella coscienza dell’ascoltatore.33 Su questa istan-
ziazione formale, realizzata attraverso processi di tipo estemporizzativo, si sono
poi esercitati i dispositivi post-produttivi di sovraincisione e modificazione/elabo-
razione dei parametri timbrici del suono, in maniera molto simile alle procedure

31.  Per la nozione di “estemporizzazione” cfr. Caporaletti 2005: 98 sgg.


32.  All Along the Watchtower, “Jimi Hendrix Experience” (Jimi Hendrix, voce, chitarra elet-
trica, basso elettrico; Dave Mason, chitarra acustica; Mitch Michell, batteria, percussioni; ignoto:
tamburello a cornice; traccia base: Olympic Sound Studios, London, 21 gennaio 1968 [Electric
Ladyland, 2LP Reprise 2RS 6307, ottobre 1968].
33.  Sono le condizioni che Carl Dahlhaus pone per configurare teoricamente la nozione di
composizione (cfr. Dahlhaus 1979: 10-11). Naturalmente il musicologo tedesco le riferisce alla
scrittura musicale, mentre qui stiamo parlando, per analogia, di una “iscrizione del PAT”.
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∙ Vincenzo Caporaletti ∙

(e alle problematiche estetiche connesse) della musica elettroacustica della tradi-


zione culta occidentale. In questo senso si configura con pregnanza teorica, nella
successiva estemporizzazione di un modello fonofissato neo-auraticamente, o, se
vogliamo, nella “interpretazione” di una performance fonofissata e non di un testo
precomposto scritturalmente, la nozione di “cover”.

Un ultimo accenno lo riserviamo alle modalità di trasposizione che contem-


plano, nei termini della semiotica di Hjelmslev, anche la Materia dell’Espressione
e non solo la Forma dell’Espressione. Mi riferisco al prelievo e sincronizzazione
di estratti da registrazioni sonore, e la loro combinazione in un montaggio: una
pratica pionierizzata sperimentalmente in ambito di musica audiotattile sin dal
1956 dal disco-collage The Flying Saucer (Parts 1 & 2)34 di Bill Buchanan e Dickie
Goodman, e introdotta con determinati intendimenti formali nel rock sin dall’ini-
zio degli anni ‘60 da Frank Zappa. Questo dispositivo creativo, peraltro normativo
nelle esperienze della musica sperimentale elettroacustica, assume in Zappa un
tratto distintivo per la funzione di sincronizzazione, fondamentale per adattare i
reperti allogeni alla continuous pulse,35 la linea pulsiva (pseudo)-isocrona che sot-
tende la forma musicale nelle manifestazioni più tipiche di jazz e rock. Proprio per
evidenziare questo specifico aspetto, Zappa coniò il termine “xenocronia”.
Ad esempio, gli assolo di chitarra nell’opera rock zappiana Joe’s Garage36 [1979]
sono quasi tutti xenocroni, ossia già eseguiti in altri contesti o brani (anche diversi)
e susseguentemente “importati” e sincronizzati con la nuova struttura metrico-rit-
mica e tonale. In song come Rubber Shirts37 (1979) la batteria è stata prelevata da
una registrazione di Terry Bozzio in metro 11/8 e combinata nel marzo 1975 con
la registrazione del basso elettrico di Patrick O’Hearn effettuata, quattordici mesi
prima, a Goteborg (Sweden).
Dagli anni settanta del secolo scorso, sfruttando le risorse della computer music,
queste disposizioni creative hanno aperto la strada alle esperienze di campiona-
mento, in specie in contesti musicali hip-hop e techno, con l’elaborazione dei

34.  Disco 45 rpm Luniverse Records 101, 1956. Lo stress mediologico (direbbe Mcluhan) dato
dall’introduzione dell’editing tramite nastro magnetico, induce in questo tipo di fonofissazione ciò
che ho definito “processo neo-auratico secondario”, con reversibilità temporale non solo a livello
estesico – processo neo-auratico primario, alla ricezione, come poteva avvenire con il ri-ascolto del
disco – ma a livello poietico, nella stessa produzione testuale della registrazione su nastro magne-
tico (cfr. Caporaletti 2015).
35. Cfr. Caporaletti 2000.
36.  Joe’s Garage, Frank Zappa, Village Recorders “B”, Los Angeles, marzo-giugno 1979 [Joe’s
Garage Act 1, LP Zappa Records, SRZ-1-1603, 3 settembre 1979; Joe’s Garage Act II & III, 2LP
SRZ-2-1502, 19 novembre 1979].
37.  Rubber Shirts, Frank Zappa, The Palladium, New York, 1977 - Hammerstein Odeon,
London, 1978 [Sheik Yerbouti, 2LP Zappa Records SRZ-21501, 3 marzo 1979].
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∙ Trasposizioni testuali nelle musiche audiotattili ∙

passaggi estrapolati – attraverso le tecniche dell’iterazione costante (loop), della


retrogradazione, dell’interpolazione – e la loro trasposizione in contesti allogeni. I
break “storici” di batteria negli stili del funky e soul – in particolare di Clyde Stub-
blefield in Funky Drummer38 (1970) di James Brown o di Gregory Cilvester “G.C.”
Coleman in Amen, Brother39 [1969] dei The Winstons – trattati digitalmente ed
espansi metricamente, hanno così visto dissolvere lo specifico statuto estetico che
li contraddistingueva per trasformarsi in meri materiali, in elementi fattoriali di
una combinatoria formale di seconda generazione. La recente diffusione di massa
di queste pratiche con l’ormai ubiquo mashup – il mixaggio, montaggio e interpo-
lazione di fonti sonore precostituite – individua la cifra dei modelli di creatività che
le risorse della Rete e le tecniche informatiche inducono nella contemporaneità.

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Eldee Williams, sax tenore; Jimmy Nolen, chitarra elettrica; Alphonso “Country” Kellum, chitarra
elettrica; Charles Sherrell, basso elettrico; Clyde Stubblefield, batteria; live Cincinnati (Ohio), 20
novembre 1969 [7 inch 45 rpm King 6290, marzo 1970].
39.  Amen, Brother, “The Winstons” (Richard Lewis Spencer, voce principale, sax tenore;
Ray Maritano, voce, sax contralto; Quincy Mattison, voce, chitarra elettrica; Phil Tolotta, voce,
organo; Sonny Pekerol, voce, basso elettrico; Gregory C. Coleman, voce, batteria) [7 inch 45 rpm
Metromedia MMS-117, 1969]
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∙ Vincenzo Caporaletti ∙

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