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Introduzione
La pratica delle trasposizioni testuali musicali può essere intesa in funzione della
transizione di un brano o di una parte di esso – un’unità di concettualizzazione
musicale – da un assetto mediale ad un altro, sul piano puramente strumentale/
materiale o simbolico/stilistico.1 In una prospettiva più generale, tale dimensione
poietica, assieme alla questione dei prelievi testuali, si può ascrivere alla problema-
tica dell’intertestualità, nel rapporto di influsso e dipendenza tra testi culturali.2
Nella tradizione musicale scritta occidentale, in particolare nella linea classico/
romantico/modernista, tali processi hanno acquisito denominazioni specifiche,
riferite a diverse tecniche creative, quali arrangiamento, trascrizione, adattamento,
rielaborazione, orchestrazione, riduzione, ma anche – e qui la trasposizione si lega
alla questione dei prelievi – citazione, riferimento, o, con un concetto elaborato in
sede di teoria letteraria africano-americana, signifyin(g).3 In questo contributo si
considereranno i processi di trasposizione testuale nei repertori del jazz, del rock
e della pop music, categorizzati – come da mie recenti ricerche – all’interno del
modello teorico delle “musiche audiotattili”.4
È importante notare preliminarmente come il processo traspositivo nella musica
di tradizione scritta occidentale assuma connotati fenomenologici differenti
1. Si intende qui medium nell’accezione che tale nozione riveste negli studi mediologici, che ne
contempla la distinzione in media materiali (ad esempio, uno strumento o un organico strumen-
tale) e media ideazionali (uno stile o un sistema linguistico).
2. In questo articolo consideriamo “testo” sia una composizione scritta, solo musicale o con
componenti verbali, sia una performance, eventualmente (video)registrata.
3. Cfr. Gates 1988; Floyd 1991, e infra.
4. Cfr. Caporaletti 2005 e 2014.
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5. Cfr. Goodman 1968. Com’è noto, per Nelson Goodman la musica è un’arte allografica,
ossia multipla, che ammette diverse esecuzioni come classi congruenti con un testo compitato in
notazione, anche in ragione della mediazione di quest’ultima nell’interrelazione decontestualiz-
zata tra compositore e interprete. La pittura, invece, è arte autografica, singolare, per cui nella deter-
minata opera è incriptato il gesto creativo dell’artista (ingenerando la nozione di falso artistico,
nella replica inautentica). In Caporaletti 2005 è stata sovvertita, o meglio, integrata, questa con-
cezione, individuando specifici tratti autografici nelle musiche audiotattili (p. 122 sgg).
6. In prima approssimazione, il principio audiotattile (PAT), relativamente alla rappresenta-
zione e conoscenza del suono organizzato, può essere considerato come il plesso psico-corporeo
nella sua identità non puramente materiale ma di medium che condiziona e indirizza gli esiti per-
cettivi e cognitivi.
7. Nella produzione di alcune musiche basate sul medium formativo audiotattile, assume un
ruolo cruciale il “processamento” dei testi (siano essi scritti – a codifica per lo più “aperta” o con-
siderata tale – oppure solo performativi) operato dalla registrazione sonora. Ne deriva uno statuto
testuale definitivo, una fonofissazione, che agisce in un senso per molti versi omologo (anche se
qui saldamente radicato nella dimensione performativa evenemenziale/audiotattile) alla cristal-
lizzazione notazionale della progettazione di lunga durata, tipica della composizione “scritta”, ad
autorialità individualizzata, della tradizione culta occidentale. La possibilità di utilizzo del medium
di registrazione sonora come strumento creativo ingenera, nelle musiche audiotattili, conseguenze
d’ordine cognitivo (attive anche in relazione a performance non soggette a registrazione): tali
effetti, ricondotti alla nozione di codifica neo-auratica (CNA), si riflettono sulla loro immagine
estetica come caratteri distintivi rispetto alle musiche delle culture tradizionali/orali.
8. Mi riferisco qui alla cosiddetta “triade semiologica” di Molino (1975) e Nattiez (1975), per
cui nella dimensione poietica (prospettiva dell’emittente del messaggio) la forma simbolica risulta
da un processo di creazione che può essere descritto o ricostruito; in quella estesica (prospettiva del
ricevente) alla forma simbolica sono assegnati vari significati dal fruitore; e nel livello neutro (l’ar-
tefatto materiale) la forma simbolica è materializzata in una traccia accessibile percettivamente.
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12. L’edizione discografica di riferimento è Jelly Roll Morton. The Complete Library of Congress
Recordings, a cura di Jeffrey A. Greenberg e Anna Lomax Wood, CDBox Rounder 11661-1555-
2G01, 2005.
13. Per “motivi vaganti” intendiamo melodie che circolavano nella jazz community come mate-
riale d’uso per le pratiche creative, di cui non si conosceva o si era dimenticato l’autore. È un con-
cetto introdotto negli studi di letteratura e mitologia comparata dal filologo Aleksander Nicolaevič
Veselovskij (1838-1906) in relazione ai repertori folklorici dei racconti di fiabe e all’epica orale.
Corrisponde, più da presso al contesto di cui ci stiamo occupando, alla nozione di floating folk
strains (cfr. Jasen e Tichenor 1989: 22).
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14. Per una puntuale contestualizzazione storico-stilistica di questa prassi, bisogna considerare
la mutazione della focalizzazione creativa dalla metà degli anni trenta del secolo scorso, dal modello
performativo basato sull’arrangiamento scritto, nello stile delle big bands, all’interattiva fucina cre-
ativa delle jam session improvvisate; un processo che aveva preso forma sopratutto nell’ambiente
musicale di Kansas City per poi estendersi a New York.
15. Si intende per contrafact nel jazz una composizione le cui melodie sono costruite sulla
struttura metrico-armonica di brani precedenti, per lo più tratti dal repertorio della commedia
musicale americana; si deve a James Patrick (1975) l’introduzione nella letteratura della formula-
zione melodic contrafact. L’analogia proposta nella formulazione anglofona con i contrafacta della
lauda medievale o del corale luterano è però solo superficiale, poiché in questi casi ci si riferisce alla
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sostituzione del testo poetico relativo ad un contesto melodico preesistente. Questa pratica jazzi-
stica era già stata descritta nel 1954 da André Hodeir (1980: 122) come “parafrasi” e individuata
da Frank Tirro (1967) attraverso la categoria di “silent theme tradition” nel primo saggio dedicato
al jazz apparso su una rivista scientifica di musicologia, la statunitense “The Musical Quarterly”.
16. Il concetto di tune family è stato introdotto nella ricerca etnomusicologica da Samuel P.
Bayard (1954). In ambito italiano è stato spesso tradotto con la locuzione “famiglia melodica”,
anche se in questo caso dovremmo parlare di “famiglia armonica”. Questa discrasia teorica ci illu-
mina sulle implicazioni epistemologiche insite nella stessa terminologia tecnica, e sulla necessità di
distinguere le attribuzioni e produzioni delle culture tradizionali-orali rispetto a quelle audiotattili.
17. In ragione della straordinaria ubiquità, la struttura armonica di I Got Rhythm ha assunto
persino una denominazione specifica, Rhythm Changes, o in ambito francofono, anatole.
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1925), Honeysuckle Rose (Razaf/Waller, 1929), All The Things You Are (Hammer-
stein II/ Kern, 1939), Cherokee (Ray Noble, 1939), What Is This Thing Called Love
(Cole Porter, 1930), Out Of Nowhere (Heyman/Green, 1931), How High the Moon
(Hamilton/Lewis, 1940), I’ll Remember April (Raye/De Paul/Johnston, 1942). I
contrafact sono stati composti non solo sulle progressioni armoniche di canzoni
prodotte nel contesto di Tin Pan Alley, la via di New York degli editori divenuta
eponima della canzone americana nel xx secolo, bensì di brani originali creati dagli
stessi musicisti jazz. Confirmation di Charlie Parker, So What di Miles Davis o
Giant Steps di John Coltrane hanno generato altrettante tune families.
Alle generazioni dirette poi si sommano le interpolazioni, mutuando, per ogni
sezione o parte del brano, strutture armoniche di brani diversi. È il caso del con-
trafact Scrapple from the Apple di Charlie Parker, in forma AABA, che mutua la
sezione A dalla rispettiva di Honeysuckle Rose e la B da I Got Rhythm, oppure 52nd
Street Theme di Thelonious Monk che, al contrario, utilizza la sezione A di I Got
Rhythm e la B di Honeysuckle Rose.18
18. Vale chiarire un particolare tecnico riguardante la differenza tra la sezione B di I Got Rhythm
e di Honeysuckle Rose, peraltro molto simili. La prima è basata sulla progressione di quinte III7 /
VI7 / II7 / V7 /, mentre la seconda sulla sequenza I7 / IV / II7 / V7.
19. Donna Lee, “Charlie Parker Quintet” (Charlie Parker, sax contralto; Miles Davis, tromba;
Bud Powell, pianoforte; Tommy Potter, contrabbasso; Max Roach, batteria), Harris Smith Studio,
New York, 8 maggio 1947 [5 takes, CD Bird’s Eyes, Philology vol. 60 (W891)].
20. Il titolo fu ideato dal produttore della sessione di registrazione per la Savoy Records, Teddy
Reig (cfr. Chambers 1985: 61), che dedicò nella stessa sede un altro brano, Cheryl, alla figlia di
Davis.
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Come Again in) Indiana. Questa procedura, piuttosto comune nel jazz degli anni
venti e soprattutto trenta del Novecento, viene però qui mascherata, dislocando
il profilo melodico in avanti di mezza battuta rispetto all’intelaiatura metrico-
armonica, che quindi si sfalsa rispetto alla scansione arpeggiata della griglia accor-
dale. Da questo sfasamento cubista, poliprospettico rispetto alla focalizzazione
armonico-tonale proiettata da (Back Come Again in) Indiana, deriva gran parte del
fascino del brano.
Esempio 1. Donna Lee, prime tre misure. Nel pentagramma inferiore è da noi ricon-
dotta in fase col ritmo armonico la dislocazione di mezza misura della melodia nella
versione originale
21. Ice Freezes Red, “Fats Navarro and his Thin Men” (Fats Navarro, tromba; Leo Parker, sax
baritono; Tadd Dameron, piano; Gene Ramey, contrabbasso; Denzil Best, batteria), New York, 29
gennaio 1947 (Savoy SJL2216).
22. Douglass Parker (1994), assertore dell’autorialità di Davis per Donna Lee, ha notato l’as-
sonanza di Ice Freezes Red con questo brano, ma nella sua analisi (tanto pletorica quanto piuttosto
inconcludente, per la verità) condotta sintatticamente sulle trascrizioni ha perso di vista il fattore
principale, non evidenziando la funzione della dislocazione metrica. In un’ottica audiotattile,
invece, questo dispositivo – per le peculiari circostanze del contesto comportamentale cui rimanda
(cfr. infra) – illumina il criterio costruttivo di Donna Lee.
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Esempio 2. Inizio del solo di Fats Navarro in Ice Frezes Red (29 gennaio 1947) [note
reali; suddivisione del beat: Long/Short]
Per approfondire nei termini di alcuni nostri paradigmi teorici il senso poietico
di questa prassi, dal punto di vista della CNA bisogna tenere presente in primo
luogo che il tema di Donna Lee è stato realizzato in un contesto di processi di regi-
strazione audio; inoltre, per quanto riguarda la formatività del PAT, è come se
Parker nell’eseguire il tema non avesse seguito la scansione della sezione ritmico-
armonica, controllando però correttamente – quasi in un universo cognitivo/
percettivo parallelo – la sequenza accordale nella linea improvvisata (che teneva
conto, inoltre, della performance di Navarro in Ice Freezes Red). Con ogni proba-
bilità, il risultato fonico di questa procedura, processato neo-auraticamente dalla
registrazione, è stato a posteriori apprezzato dai musicisti, cristallizzandosi poi in
melodia autonoma.
In relazione a Ice Freezes Red di Fats Navarro – che reca molti altri passaggi
riconducibili al brano in questione – si potrebbe quindi dire il contrafact Donna Lee
abbia avuto origine da una citazione “sbagliata” che poi, grazie ai processi di CNA,
ha superato la “censura preventiva”23 della jazz community,24 diventando “giusta”.
In fondo, la nozione giapponese di wabi non sta ad indicare un‘imperfezione che
crea un insieme elegante? Sono tutt’altro che rari gli esempi di chance e serendipità
nella creazione musicale del jazz, indotti proprio dalla tecnologia di registrazione
e dai processi cognitivi neo-auratici connessi. Ma questo ragionamento ci illumina
anche su un’altra rilevante problematica. Sulla scorta di queste indicazioni, infatti,
può essere reinterpretata la questione autoriale sollevata da Miles Davis in merito
alla paternità del brano, e con evidenza la nostra ipotesi costruttiva deporrebbe
senz’altro a favore di Parker.25
Sul piano dei prelievi testuali, nell’improvvisazione jazz gioca un ruolo del tutto
particolare la prassi della citazione. Samuel Floyd (1991) ha voluto applicare sia
all’improvvisazione in sé sia alla citazione musicale il concetto che Louis Gates
(1988) ha identificato in sede di teoria letteraria come Signifyin(g). Questa nozione
identifica una modalità di riferimento connotativo intrinseco alla logica lingui-
stico/antropologica degli africani-americani; essa ha origine nel double talking
come codice di autotutela nella cultura della emarginazione/discriminazione raz-
ziale e nei conseguenti sistemi di riferimento simbolici ipercodificati delle dinami-
che infragruppo. Tale teoria, sorta in sede letteraria, presta però il fianco a molte
riserve qualora applicata ipso facto ai fenomeni musicali, proprio per il differente
status che la dimensione semantica riveste nei due distinti domini.
In ogni caso, la citazione è sempre stata un artificio virtuosistico nel jazz, sia per
i musicisti euro-americani sia per gli africani-americani, proprio per la difficoltà di
inserire nella creazione in tempo reale dei blocchi ipercodificati, senza compro-
mettere la concinnitas ritmica e la logica del fraseggio all’interno della struttura
metrico-armonica. Questo procedimento, infatti, richiede un notevole controllo
della dimensione temporale, oltre a considerevoli doti di previsionalità costrut-
tiva e senso della forma nel farsi dell’improvvisazione. Solo per restare a Charlie
Parker, va notato come i suoi assolo contengano citazioni, oltre che del repertorio
della canzone americana, di opere della tradizione scritta europea: dal Guillaume
Tell di Rossini al Peer Gynt di Grieg, dal Tannhäuser di Wagner al Sacre du Prin-
temps di Stravinskij. Proprio su quest’ultima opera mi vorrei soffermare, anche per
l’influsso non secondario che l’armonia e la costruzione melodica stravinskijana,
in particolare con la modalità ottofonica, hanno avuto sugli stili bop e post-bop.
Parker cita in svariate occasioni l’incipit del Sacre,26 ad opera del fagotto: in Salt
Peanuts a Parigi nel maggio 1949, come chiaro omaggio al pubblico della capitale
francese o in The Song Is You (26 luglio 53); ma mentre a Parigi effettua la trasposi-
zione alla quinta inferiore, il prelievo è nel tono originale in Cool Blues27 (25 marzo
1952). La logica seguita da Parker riguarda la fungibilità armonica: la prima frase
del Sacre – riconducibile ad un arcaico la eolio – nei termini della sintassi armonica
saxofonista prima della pubblicazione del brano. Brian Priestley (2005: 212), pur se sostenitore
dell’autorialità davisiana, è costretto ad ammettere che “The distinctive phrase at bars 25-26 [of
Donna Lee’s theme] can be heard played by Parker (at 5.17) on the 1945 Town Hall recording of
Bebop, suggesting that Miles’s tune is an anthology of others ideas”. L’analisi musicale da noi pro-
posta avvalorerebbe le implicite attribuzioni “autoriali” a favore di Charlie Parker insite in queste
osservazioni.
26. Si potrebbe parlare, in proposito, di un “prelievo alla seconda”, dato che nel Sacre lo stesso
Stravinskij utilizza arcaiche melodie russe: cfr. Taruskin 1980.
27. Cool Blues, “Charlie Parker Quartet” (Charlie Parker, sax contralto; Dick Cary, pianoforte;
Eddie Safransky, contrabbasso; Don Lamond, batteria), Loew’s Valencia Theatre, Jamaica, 25
marzo 1952 [CD Bird’s Eyes, Philology, vol. 8 (W80)].
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bop si adattava bene sia all’accordo di Cmaj7 sia di C6. Osserviamo di seguito
(Esempio 3) il passo stravinskijano e la parkeriana inserzione a batt. 7 del dodice-
simo chorus di Cool Blues (Esempio 4) dell’incipit eseguito dal fagotto solo.
Esempio 4. Citazione di Charlie Parker dell’incipit del Sacre du Printemps in Cool Blues
(25 marzo 1952) [note reali; suddivisione beat: Long/Short]
Nell’ambito dei prelievi citazionali vi sono poi, ovviamente, i rimandi alla tradi-
zione stessa del jazz, come l’omaggio che Parker rende a Louis Armstrong citando
in Cheryl (25 dicembre 1949) la famosa cadenza introduttiva a West End Blues del
28 giugno 1928. Ma l’universo della citazione parkeriana abbraccia dimensioni
molto più vaste, che riguardano associazioni semantiche tra processi mentali, stati
d’animo e testi verbali delle canzoni, in un caleidoscopico gioco di rinvii incrociati
ancora tutto da esplorare.
In ogni caso, che la citazione o il prelievo testuale non siano solo appannag-
gio del jazz africano-americano lo dimostra in Europa il chitarrista belga, di etnia
manuoche, Django Reinhardt, compositore nel 1940 del celeberrimo brano Nua-
ges, in cui ripropone, addirittura, l’incipit del Tristan und Isolde di Wagner con tanto
di Tristan-Akkord, citato testualmente (Esempio 5).28
28. Questo prelievo non ci risulta sia mai stato notato nella letteratura.
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Esempio 5. Incipit del Preludio di Tristan und Isolde di Wagner (endecalineo), confron-
tato quello di Nuages di Django Reinhardt.
Venendo alla questione della trasposizione testuale nella musica rock e pop,
bisogna notare che essa assume caratteri specifici, per molti versi differenzian-
dosi rispetto alla tradizione del jazz di ascendenza bop.29 Limitiamoci in questa
sede a sottolineare la diversa funzionalità del testo musicale nelle tradizioni jazz
e rock, tendenzialmente inerente, rispettivamente, alla finalizzazione improvvisa-
tiva e all’attuazione compositiva. Nella musica rock il testo, inteso come unità di
concettualizzazione musicale, come brano definito e conchiuso, viene trasposto
da una versione performativa all’altra attraverso un’accentuata presa di possesso
psico-corporea da parte del performer creativo, con assunzione audiotattile scar-
samente condizionata da strutture teorico-musicali/notazionali.30 Ciò, tra l’altro,
è dimostrato dall’assenza nella tradizione rock di compendi repertoriali noti come
Real Book. Infatti, più che a fini improvvisativi la trasposizione testuale viene qui
utilizzata come riproposizione a livello, si potrebbe dire, interpretativo.
È però indicativo, a questo proposito, che anche in contesti linguistici non
anglofoni si utilizzi il termine “cover”, anziché quello di “interpretazione”, come
segno di una distintiva marcatura culturale di questi processi. Chi dice “cover” sa,
in qualche modo, che si sta riferendo ad un fenomeno non immediatamente ricon-
ducibile alla sfera della “interpretazione”, com’è nella musica di tradizione scritta,
e altresì differenziato rispetto alla personalizzazione e istanziazione di un modello
29. Si rimanda per questi specifici aspetti a una ricerca dello scrivente di prossima pubblicazione.
30. Per strutture “teorico musicali/notazionali” intendo il complesso teoretico e la visione
stessa della musica espressi dalla tradizione scritta d’arte occidentale, assetti antropologici che si
affiancano alle “etnoteorie” di altri sistemi culturali non occidentali o di mediazioni audiotattili,
come il rock (Per una concezione relativistica della musica d’arte occidentale, cfr. Blacking 1973;
per la nozione di “etnoteoria”, cfr. Cardona 1985).
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34. Disco 45 rpm Luniverse Records 101, 1956. Lo stress mediologico (direbbe Mcluhan) dato
dall’introduzione dell’editing tramite nastro magnetico, induce in questo tipo di fonofissazione ciò
che ho definito “processo neo-auratico secondario”, con reversibilità temporale non solo a livello
estesico – processo neo-auratico primario, alla ricezione, come poteva avvenire con il ri-ascolto del
disco – ma a livello poietico, nella stessa produzione testuale della registrazione su nastro magne-
tico (cfr. Caporaletti 2015).
35. Cfr. Caporaletti 2000.
36. Joe’s Garage, Frank Zappa, Village Recorders “B”, Los Angeles, marzo-giugno 1979 [Joe’s
Garage Act 1, LP Zappa Records, SRZ-1-1603, 3 settembre 1979; Joe’s Garage Act II & III, 2LP
SRZ-2-1502, 19 novembre 1979].
37. Rubber Shirts, Frank Zappa, The Palladium, New York, 1977 - Hammerstein Odeon,
London, 1978 [Sheik Yerbouti, 2LP Zappa Records SRZ-21501, 3 marzo 1979].
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39. Amen, Brother, “The Winstons” (Richard Lewis Spencer, voce principale, sax tenore;
Ray Maritano, voce, sax contralto; Quincy Mattison, voce, chitarra elettrica; Phil Tolotta, voce,
organo; Sonny Pekerol, voce, basso elettrico; Gregory C. Coleman, voce, batteria) [7 inch 45 rpm
Metromedia MMS-117, 1969]
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