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Federico Imperato

Gaetano Salvemini e la questione adriatica dalla prima guerra mondiale al trattato di Rapallo

1. Anti-irredentismo e anti-triplicismo nella visione della politica estera italiana del primo
Salvemini (1900-1914)
Lo studio della politica estera, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, fu piuttosto
trascurato in Italia, sia dagli storici che dagli uomini politici.1 Ciò per ragioni oggettive e soggettive.
Il segreto diplomatico, alla base delle relazioni fra gli Stati, impediva una conoscenza precisa e
rigorosa di queste. Vi era, poi, una tara impressa dalla concezione socialista della politica, basata più
sui rapporti fra le classi che su quelli fra i governi. Entrambi questi elementi contribuirono alla
scarsa popolarità che lo studio della politica estera incontrò soprattutto tra i pensatori di formazione
socialista dell’epoca, al punto che – si può dire – in Italia, tra le fila dei militanti del Partito
Socialista Italiano, soltanto Gaetano Salvemini 2 e Leonida Bissolati si interessarono delle relazioni
internazionali del governo di Roma. 3 Nel rapporto tra i due uomini politici socialisti è stato
sottolineato che, mentre l’impulso a dedicarsi allo studio della politica estera italiana e alcune
intuizioni vennero a Salvemini proprio da Bissolati, 4 diversi furono i risultati di tale comune
interesse. Lo storico originario di Molfetta si dimostrò essere, infatti, il più versato nello studio delle
relazioni internazionali dell’Italia liberale. Augusto Torre ha sottolineato, infatti, come Salvemini
avesse «la dote particolare, diremo il fiuto naturale», propria dello storico di vaglia, «di saper
distinguere fra le svariate notizie, più o meno veritiere, quella interessante e genuina», oltre a sapere
«distinguere le linee fondamentali di una politica, quelle linee che talvolta non troviamo nei
documenti diplomatici, ma che non sfuggono a chi sa leggere negli avvenimenti umani». 5

1 Sulla storiografia della diplomazia e delle relazioni internazionali in Italia,cfr.: Amedeo Giannini, «Gli studi di storia diplomatica
in Italia (1860-1950)», in: «Rivista di studi politici internazionali», 1950, n. 4, pp. 607-632; Mario Toscano, «Gli studi di storia
delle relazioni internazionali in Italia», in: AA. VV., La storiografia italiana negli ultimi vent’anni. Volume 2, Milano, Marzorati,
1981, pp. 823-852; Ennio Di Nolfo, «Gli studi di storia delle relazioni internazionali in Italia», in: «Storia delle relazioni
internazionali», 1986, n. 2, p. 189 e ss.; Id., Prima lezione di storia delle relazioni internazionali, Bari-Roma, Laterza, 2006.
2 Per un profilo biografico di Gaetano Salvemini si veda: Massimo Luigi Salvadori, Gaetano Salvemini, Torino, Einaudi, 1963;
Enzo Tagliacozzo, Gaetano Salvemini. Un profilo storico, Bari, Laterza, 1963; Umberto Zanotti Bianco, Meridione e
meridionalisti, Roma, Collezione Meridionale Editrice, 1964; Gaspare de Caro, Gaetano Salvemini, Torino, UTET, 1970;
Norberto Bobbio, «La non-filosofia di Salvemini», in: Id., Maestri e compagni, Firenze, Passigli, 1984, pp. 31-47; Alessandro
Galante Garrone, I miei maggiori, Milano, Garzanti, 1984; Barbara Bracco, Storici italiani e politica estera. Tra Salvemini e
Volpe 1917-1925, Milano, Franco Angeli, 1998; Charles Killinger, Gaetano Salvemini. A Biography, Westport, Praeger, 2002;
Gaetano Quagliariello, Gaetano Salvemini, Bologna, Il Mulino, 2007; Mirko Grasso (a cura di), Gaetano Salvemini: l’uomo il
politico lo storico, Calimera, Kurumuny, 2007; Filomena Fantarella, Un figlio per nemico. Gli affetti di Gaetano Salvemini alla
prova dei fascismi, Roma, Donzelli, 2018.
3 Sull’orientamento politico di Salvemini verso il movimento socialista si vedano innanzitutto i suoi scritti raccolti nel volume
Movimento socialista e questione meridionale, a cura di Gaetano Arfé, Milano, Feltrinelli, 1961. Si veda anche: Lelio Basso,
Salvemini socialista e meridionalista, Manduria, Lacaita, 1959; Gaetano Arfé, Storia del socialismo italiano (1892-1926),
Torino, Einaudi, 1965; Salvatore Lucchese, Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano Salvemini, Manduria,
Lacaita, 2004.
4 de Caro, Gaetano Salvemini, cit., p. 81.
5 Augusto Torre, «Prefazione», in: Gaetano Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, Milano,
Feltrinelli, 1963, p. XI. Su Salvemini storico si vedano i suoi scritti contenuti nei volumi Magnati e popolani a Firenze dal 1280
al 1295, a cura di Ernesto Sestan, Milano, Feltrinelli, 1961; La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze a altri scritti, a cura
di Ernesto Sestan, Milano, Feltrinelli, 1972; La rivoluzione francese (1788-1792), a cura di Franco Venturi, Milano, Feltrinelli,
1962; Scritti sul Risorgimento, a cura di Piero Pieri e Carlo Pischedda, Milano, Feltrinelli, 1961; Stato e Chiesa in Italia, a cura
di Elio Conti, Milano, Feltrinelli, 1969. Si veda anche: Piero Pieri, «Gaetano Salvemini: storico dell’Età Moderna e
Contemporanea», in: «Rassegna Storica Toscana», a. 4 (1958), fasc. 2, pp. 94-120; Ernesto Sestan, «Salvemini storico del
Medioevo», in: Id. (a cura di), Atti del convegno su Gaetano Salvemini. Firenze, 8-10 novembre 1975, Milano, Il Saggiatore,
1977, pp. 47-67; Gaetano Cingari (a cura di), Gaetano Salvemini tra politica e storia, Roma-Bari, Laterza, 1986; Nicola
Tranfaglia, «Gaetano Salvemini», in: Bruno Bongiovanni, Luciano Guerci (a cura di), L’albero della Rivoluzione. Le
interpretazioni della rivoluzione francese, Torino, Einaudi, 1989, pp. 563-567; Enrico Artifoni, Salvemini e il Medioevo. Storici
italiani tra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1990; Dario Antiseri (a cura di), Gaetano Salvemini metodologo delle scienze
sociali, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996; Antonino De Francesco, Mito e storiografia della «Grande Rivoluzione». La

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L’interesse di Salvemini per la politica estera italiana fu, per tutto il primo decennio del Novecento,
piuttosto saltuario. Il primo saggio in tal senso fu pubblicato su «Critica Sociale» nel gennaio del
1900 e aveva come tema l’irredentismo, sviluppato in polemica con l’economista Emanuele Sella e
con una delle personalità più in vista dello schieramento repubblicano, il triestino Salvatore
Barzilai. 6 In quell’articolo, lo storico molfettese proponeva una concezione dell’irredentismo
democratico che avrebbe abbandonato in seguito. Esso era visto come «un insieme di contraddizioni
e di equivoci, spesso ridicoli, sempre pericolosi». Il presupposto da cui partiva l’analisi di
Salvemini era costituito, infatti, dalla incompatibilità tra irredentismo e democrazia, dal momento
che il primo avrebbe portato inevitabilmente l’Italia alla guerra, facendo il gioco della monarchia
sabauda, del conservatorismo italiano e del militarismo, all’epoca rappresentati dal capo del
governo, il generale Luigi Pelloux. In conclusione, Salvemini smascherava la contraddittorietà di
chi pretendeva di essere, allo stesso tempo, democratico e irredentista, repubblicano e «militarista in
pectore»:
Val quanto dire che, – proseguiva lo storico pugliese – se – poniamo – dovesse un giorno prevalere in Italia il partito
democratico, questo dovrebbe o rinunziare alle rivendicazioni delle frontiere naturali o tradire la democrazia al
militarismo. O incoerenti o traditori. La prospettiva non è davvero consolante pei democratici, e molto meno … per
noi. 7

Questa tesi sarebbe stata presto abbandonata da Salvemini. Per questo, l’importanza di questo primo
articolo di politica estera risiede, innanzitutto, nell’anticipare la centralità che il fenomeno
irredentista avrebbe avuto sul suo pensiero e sulla sua azione politica. Da questo sarebbe derivata
un’analisi approfondita e ancora attuale dell’irredentismo, che avrebbe svelato anche imprecisioni e
inesattezze della storiografia coeva, come ha evidenziato Luciano Monzali nella sua storia degli
italiani di Dalmazia. 8
Il fenomeno dell’irredentismo costituiva un’eredità della tradizione mazziniana e dell’idea della
lotta contro l’Impero asburgico, ritenuto un’entità che costituiva una minaccia mortale per gli
interessi dell’Italia, e a favore della costituzione di Stati nazionali in Europa centrale. L’Italia ne era
coinvolta per portare a soluzione la questione del confine orientale e delle regioni della Venezia
Giulia e dell’Istria, dove viveva una popolazione di lingua e cultura italiane. Tale questione era
inscritta nel dibattito, più generale, sul completamento dell’unificazione nazionale, costituendo uno
degli argomenti tra i più dibattuti in politica estera, sin dagli anni immediatamente successivi
all'Unità d'Italia.9 Le rivendicazioni sul Friuli orientale, sulla Venezia Giulia e sull'Istria occidentale
facevano il paio con quelle sul Trentino e sul Tirolo italiano, pur rimanendo, fino al primo conflitto

Rivoluzione francese nella cultura politica italiana del ‘900, Napoli, Guida, 2006; Paola Cavina, Lorenzo Grilli, Gaetano
Salvemini e Gioacchino Volpe: dalla storia medievale alla storia contemporanea, Pisa, Edizioni della Normale, 2008.
6 Su Barzilai, cfr.: Emilio Falco, Salvatore Barzilai. Un repubblicano moderno tra massoneria e irredentismo, Roma, Bonacci,
1996.
7 Gaetano Salvemini, «L’irredentismo», in: Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, cit., pp. 9-10.
8 Lo storico pugliese, soprattutto nella sua opera La questione dell’Adriatico, scritta insieme al geografo Carlo Maranelli e
pubblicata nel 1916, avrebbe elaborato la tesi dell’inesistenza di un irredentismo italiano in Dalmazia nell’Ottocento: un assunto
che sarebbe stato ripreso, con maggiore approfondimento e con una base documentaria più ampia, dallo stesso Monzali nelle sue
opere. Cfr.: Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, Firenze, Le Lettere, 2004, pp. 21, 53.
Il pamphlet La questione dell’Adriatico, scritto a quattro mani da Salvemini e Maranelli, si trova in: Gaetano Salvemini, Dalla
guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 285-473. Per la tesi di Salvemini sull’assenza di un
irredentismo italiano in Dalmazia, cfr. in particolare le pp. 353-354.
9 Sulla questione adriatica e del confine orientale come elementi centrali del dibattito in politica estera del periodo postunitario
cfr.: Luciano Monzali, «Attilio Tamaro, la questione adriatica e la politica estera italiana», in: «Clio. Rivista trimestrale di studi
storici», a. 43, n. 2 (aprile-giugno 2007), pp. 229-253; Paolo Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica, Milano,
Feltrinelli, 1959; Fulvio Salimbeni, «La questione adriatica nella storiografia tra guerra e dopoguerra. Rileggendo Salvemini,
Salata, Tamaro e Volpe», in: Antonio Scottà (a cura di), La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920). Atti del
Convegno internazionale di studi, Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 155-
171; Marina Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, Bologna, il Mulino, 2007; Rolf Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e
Jugoslavia dal 1915 al 1955, Bologna, Il Mulino, 2009; Vojislav G. Pavlović, «Les buts de guerre alliés et leur soutien aux
nationalitées opprimées novembre 1917-mai 1918», in: «Balcanica. Annual of the Institute for Balkan Studies», vol. XLII
(2011), pp. 49-74.

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mondiale, meno popolari rispetto a queste ultime. L'unica motivazione che si poteva portare a
sostegno della necessità di una sovranità italiana sulle terre del Nord Adriatico era, infatti, quella
strategica della difendibilità militare dei confini, dal momento che il carattere multietnico della
regione giuliana non consentiva un'applicazione del principio di nazionalità. A ciò si aggiunse la
mediocre prova data dall'esercito e dalla marina italiani nella terza guerra d'indipendenza, in
particolare nelle battaglie di Custoza e Lissa, che aveva portato a un ridimensionamento delle
rivendicazioni italiane.10 Lo stesso Salvemini, nei primi anni del Novecento, non riteneva la
questione di Trento e Trieste vitale per la politica estera italiana, dal momento che da essa non
sarebbe dipesa «la vita di nessuno degli stati interessati, per quanto grande po[tesse] essere la loro
portata sentimentale e importanza militare, e nessun uomo politico sarebbe [stato] tanto folle da
porre a rischio per esse lo sviluppo futuro del proprio paese attraverso il cataclisma di una
guerra».11
D’altro canto, fino allo scoppio della prima guerra mondiale, l'irredentismo coinvolse soltanto un
numero esiguo di persone – i gruppi, poco numerosi, seppur rumorosi, della sinistra mazziniana,
degli ex garibaldini, dei radicali e dei fuoriusciti, in generale ex soldati dell'esercito asburgico
riparati in Italia durante le guerre del Risorgimento - 12 e le manifestazioni di questi gruppi erano
biasimate dai partiti di governo, «perché potevano turbare i buoni rapporti, tanto utili, anzi
necessari, col governo di Vienna». All’interno di questo quadro, Salvemini invitava il governo
italiano a non abbandonare il principio di nazionalità, in quanto «la nuova Italia era sorta dalla fede
nel diritto di nazionalità; e in questo diritto solamente, trovava la sua base morale»:
Il governo italiano – continuava lo storico molfettese – poteva deplorare, e magari reprimere le manifestazioni più
turbolente del sentimento nazionale, come inopportune e pericolose. Non poteva ripudiar questo sentimento, proprio
mentre era obbligato ad invocarlo ogni giorno contro i governi spossessati e contro il papa, meno che mai poteva
rinunziare esplicitamente ad ogni rivendicazione nazionale per tutta l'eternità. 13

Il concetto di nazione in Salvemini aveva, però, una dimensione prettamente volontaristica, che
prescindeva da qualsiasi elemento naturale, compresi i confini. Secondo l'uomo politico pugliese,
infatti,
L'unità nazionale è qualcosa di diverso dalla unità geografica. Essa è costituita non dai monti, dai fiumi, dai mari, ma
dagli uomini, in quanto hanno la coscienza di una tradizione storica comune e di una solidarietà permanente, e la libera
volontà di un avvenire comune, e forti di questa coscienza e di questa volontà superano monti e mari e fiumi, oppure
spezzano con confini politici regioni che geograficamente sarebbero indivisibili, e dànno un'anima alle terre e alle acque
inerti, e le rivestono di una determinata tradizione storica, si costruiscono insomma una patria. 14

L'anti-irredentismo di Salvemini, proprio dei suoi anni socialisti, venne a incrinarsi all'inizio del
Novecento, in seguito all'evoluzione della situazione nelle regioni dell'Impero asburgico abitate da
una popolazione di lingua e cultura italiana. In quegli anni, infatti, persino le popolazioni più fedeli
agli Asburgo, come gli italiani del Trentino e del Goriziano, cominciarono a provare una certa
insoddisfazione nei confronti del governo imperiale, accusato di non tutelare i loro interessi
nazionali. Tali rivendicazioni, un tempo sostenute dai soli liberali, diventarono ben presto proprie
anche di partiti non nazionalisti, come i popolari cattolici trentini o i gruppi socialisti. Questo portò
a una crescente attenzione dell'opinione pubblica italiana nei confronti dei loro «fratelli»
assoggettati all'Austria.15 Un'attenzione che divenne ancora più elevata a partire dal 1908, dopo
l'annessione da parte dell'Impero asburgico delle due province ottomane della Bosnia e

10 Gaetano Salvemini, La politica estera dal 1871 al 1915, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 160-161.
11 Gaetano Salvemini, «Verso l’aggiornamento della conferenza d’Algesiras. La guerra?», in: Id., Come siamo andati in Libia e
altri scritti dal 1900 al 1915, cit., p. 30.
12 Per un profilo che Salvemini fece di questi gruppi, cfr.: Salvemini, La politica estera dal 1871 al 1915, cit., p. 150.
13 Ivi, pp. 161-165.
14 Maranelli, Salvemini, La questione dell'Adriatico, in: Salvemini, Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), cit., p. 301.
15 Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, cit., pp. 199-200.

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dell'Erzegovina, che suscitarono un'ondata di sdegno nell'opinione pubblica internazionale e che
diedero vita, in Italia, a tutta una serie di rivendicazioni in termini di compensi.16
In Salvemini, la crisi bosniaca segnò un’importante svolta nella sua analisi della politica estera
italiana. Rafforzò, infatti, il suo antitriplicismo, che, fino a quel momento, era rimasto in nuce,
essendosi manifestato con accenti più antitedeschi che antiaustriaci. La crescente concorrenza che
stava emergendo, in quei primi anni del secolo, tra Gran Bretagna e Germania, di cui erano prova
concreta l’Entente cordiale anglo-francese del 1904 17 – prima risposta del governo di Londra al
riarmo navale tedesco – e la crisi marocchina dell’anno successivo, provocata dall’opposizione, da
parte del governo di Berlino al tentativo della Francia di estendere il suo potere sul Marocco,
necessitava, da parte italiana, una scelta chiara tra i due blocchi di alleanze. E, secondo Salvemini, il
blocco franco-britannico era preferibile, per la comunanza di interessi commerciali e per le
maggiori probabilità di vittoria, ma, soprattutto, per il contributo che l’Italia avrebbe potuto dare
alla lotta contro l’autoritarismo prussiano, considerato una barriera possente al progresso delle idee
e delle istituzioni democratiche nel mondo. 18
Ma la grave crisi internazionale del 1908-1909 provocò anche un distacco forte, da parte di
Salvemini, dal socialismo marxista e pacifista, testimoniata dalle polemiche giornalistiche con il
socialista triestino Angelo Vivante 19 e il pacifista Ernesto Teodoro Moneta. 20 La crisi bosniaca
aveva dimostrato che l’internazionalismo socialista non aveva retto alla prova del contrasto tra
opposti interessi nazionali. I socialisti austriaci non si erano opposti alla decisione, da parte di
Vienna, di annettersi la Bosnia e l’Erzegovina. Questo dimostrava, da un lato, che occorreva lottare
per impedire di perpetuare i privilegi di una nazionalità su un’altra, anche all’interno di
un’Internazionale «in cui a noi non tocchi se non prendere schiaffi e fare la ricevuta»; 21 mentre,
dall’altro, faceva emergere la non inconciliabilità tra classe e nazione. Tale nesso, e le
argomentazioni che Salvemini trovò a un rapporto che non doveva essere necessariamente
dialettico, sarebbero state accolte da una parte significativa del pensiero politico italiano di inizio
Novecento, persino da quelle correnti e da quegli esponenti più lontani allo storico pugliese: dai
nazionalisti di Enrico Corradini, al Mussolini interventista durante la prima guerra mondiale, al
Pascoli della «grande proletaria». Salvemini trasferiva, infatti, la dialettica marxista dalla lotta tra le
classi alla lotta tra gli Stati: «Attraverso l’evoluzione storica passata, come nei confini di ciascuno
Stato si è formato un insieme di classi dominanti e un sistema di classi dominate, così nei rapporti
internazionali esistono stati più forti e stati più deboli: stati borghesi e stati proletarî». 22 Da questo
derivava che, sul piano delle relazioni internazionali, occorreva applicare lo stesso concetto di
dialettica che Marx applicava alla lotta tra classi, trasferendolo alla lotta tra Stati, che avrebbero o
difeso tenacemente i privilegi economici acquisiti o preteso una revisione delle sfere d’influenza e
una ripartizione dei mercati. 23

16 Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 64.


17 Sull’intesa del 1904 tra Francia e Gran Bretagna, cfr.: Alan J. P. Taylor, L’Europa delle grandi potenze. Da Metternich a Lenin,
Bari, Laterza, 1961; Antoine Capet, Britain, France and the Entente Cordiale, Houndmills-New York, Palgrave MacMillan,
2006; Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914. Volume I. Le relazioni europee dal congresso di Berlino all’attentato di
Sarajevo, Gorizia, LEG, 2019
18 Gaetano Salvemini, «La politica estera dell’Italia», in: Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, cit., pp.
33-36.
19 Su Angelo Vivante, cfr.: Anna Millo, Storia di una borghesia. La famiglia Vivante a Trieste dall’emporio alla guerra mondiale,
Gorizia, LEG, 1998.
20 Su Ernesto Teodoro Moneta, unico italiano a essere stato insignito del premio Nobel per la pace, nel 1907, si veda: Claudio
Ragaini, Giù le armi! Ernesto Teodoro Moneta e il progetto di pace internazionale, Milano, Franco Angeli, 1999; Francesca
Canale Cama, La pace dei liberi e dei forti. La rete di pace di Ernesto Teodoro Moneta, Bologna, Bononia University Press,
2012.
21 Gaetano Salvemini, «Irredentismo, questione balcanica e internazionalismo», in: Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti
dal 1900 al 1915, cit., p. 83.
22 Ivi, p. 89.
23 Per una tesi di questo tipo, cfr.: de Caro, Gaetano Salvemini, cit., pp. 113-115.

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Gli articoli di commento di Salvemini alla crisi bosniaca confermano anche il suo anti-irredentismo.
L’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina all’Austria-Ungheria non doveva portare il governo
italiano a chiedere mutamenti di confine. Sarebbe stato più utile, piuttosto, concentrarsi
sull’ottenimento dell’autonomia amministrativa in Trentino, dell’università italiana a Trieste e di un
sistema amministrativo in Istria. 24 Parlando delle stesse «terre irredente», poi, occorreva
distinguere tra il Trentino, «paese di popolazione italiana compatta e nettamente distinta dalla
popolazione tedesca del Tirolo, […] indissolubilmente legato alla regione lombardo-veneta», il cui
ritorno all’Italia non avrebbe dovuto basarsi su «una politica foggiata sulla ipotesi dello
sfasciamento dell’Austria»; e la Venezia Giulia e l’Istria, in cui la presenza di forti nuclei di
popolazione di lingua e cultura slava, che, in alcune zone costituiva addirittura la maggioranza,
avrebbe fatto sorgere un irredentismo slavo all’interno dei confini italiani, o, fatto ancora più grave,
un vero e proprio contrasto di classe tra la borghesia italiana, proprietaria, mercantile e intellettuale,
e i contadini, quasi tutti slavi. 25
Salvemini riprese a occuparsi della politica estera italiana nel 1911, contestualmente al ritorno di
Giovanni Giolitti alla guida del governo italiano. 26 Lo statista di Dronero inaugurò quell’esperienza
ministeriale con la concessione del suffragio universale maschile quasi completo e con la
dichiarazione di guerra alla Turchia per il possesso della Libia. 27 La «febbre per Tripoli», in
quell'anno, eccitò e sconvolse gran parte del sistema politico italiano, propagandosi dagli ambienti
nazionalisti anche al mondo liberale. Salvemini si schierò contro l'intervento in Africa, conducendo
una durissima polemica con i nazionalisti. La penetrazione in Tripolitania non avrebbe portato alcun
beneficio economico all’Italia, causando soltanto lo spostamento di una «enorme massa di capitali
pubblici e privati» e di «tanto sangue vigoroso sottratt[i] alla vita economica dell’Italia».28
Salvemini continuava a preferire una presenza economica italiana nei Balcani, che, attraverso la
partecipazione finanziaria alla realizzazione delle grandi vie di comunicazione nell’Adriatico
orientale avrebbe contrastato l’espansionismo e l’egemonia in quella regione degli imperi centrali
alleati dell’Italia nella Triplice Alleanza.29
Proprio in occasione del rinnovo della Triplice, avvenuto il 5 dicembre 1912,30 Salvemini aveva
modo di tornare sulle alleanze internazionali dell’Italia polemizzando ancora una volta con il

24 Gaetano Salvemini, «La politica estera dell’Italia», in: Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, cit., p. 45
25 Carlo Pischeddda, «Prefazione», in: Salvemini, Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), cit., p. XIII.
26 A Giolitti Salvemini dedicò il saggio Il ministro della mala vita, pubblicato per la prima volta nel 1910 e che oggi si trova in:
Gaetano Salvemini, Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di Elio Apih, Milano, Feltrinelli, 1966.
Sulla figura e l’attività politica di Giovanni Giolitti, cfr. anche: Giampiero Carocci, Giolitti e l’età giolittiana, Torino, Einaudi,
1971; Nino Valeri, Giovanni Giolitti, Torino, UTET, 1972; Alberto Aquarone, L’Italia giolittiana, Bologna, Il Mulino, 1988;
Emilio Gentile, Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana, Roma-Bari, Laterza, 2003; Aldo A. Mola, Giolitti. Lo
statista della nuova Italia, Milano, Mondadori, 2003.
27 Sulla guerra di Libia, cfr.: Augusto Torre, «La preparazione diplomatica dell’impresa libica», in: «Rassegna di politica
internazionale», a. III, n. 10, ottobre 1936, estratto; Id., «La preparazione diplomatica dell’impresa libica. Parte II. Le prime
avvisaglie del conflitto (1910-11)», in: «Rassegna di politica internazionale», a. IV, n. 1, gennaio 1937, estratto; Id., «L’impresa
libica e un mancato accordo mediterraneo», in: «Storia e politica internazionale», 30 giugno 1939, estratto; Francesco Malgeri,
«Gaetano Salvemini e la guerra di Libia», in: «Rassegna di politica e di storia», a. 13, n. 147 (gennaio 1967); Maurizio
Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori Riuniti, 1976; Timothy W. Childs, Italo-Turkish
Diplomacy and the War over Libya (1911-1912), Leiden, Brill, 1990; Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol
d’amore (1860-1922), Milano, Mondadori, 1993; Gianpaolo Ferraioli, Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di
Antonino di San Giuliano (1852-1914), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007; Nicola Labanca, La guerra italiana per la Libia
(1911-1931), Bologna, Il Mulino, 2011; Luca Micheletta, Andrea Ungari (a cura di), L’Italia e la guerra di Libia cent’anni dopo,
Roma, Studium, 2013; Charles Stepehnson, A Box of Sand. The Italo-Ottoman War 1911-12. The First Land, Sea and Air War,
Ticehurst, Tattered Flag Press, 2014; Luciano Monzali, Il colonialismo nella politica estera italiana 1878-1949. Momenti e
protagonisti, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 2017.
28 Gaetano Salvemini, «La coltura italiana e Tripoli», in: Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, cit., p.
113.
29 Gaetano Salvemini, «Trabocchetto tripolino», in: Ivi, p. 92.
30 Sulla Triplice Alleanza, cfr.: Luigi Salvatorelli, La Triplice alleanza. Storia diplomatica (1877-1912), Milano, Istituto per gli
Studi di Politica Internazionale, 1939; Gioacchino Volpe, L’Italia nella Triplice alleanza (1882-1915), Milano, Istituto per gli
Studi di Politica Internazionale, 1941; Roberto Sciarrone, L’Italia nella Triplice Alleanza. Politica e sistema militare, Roma,
Aracne, 2014.

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triestino Angelo Vivante. Questi, in un articolo dal titolo «L’imperialismo della paura», uscito sulle
colonne de «l’Unità», la rivista fondata da Salvemini l’anno precedente, aveva sostenuto che
l’imperialismo austriaco era dettato fondamentalmente dalla paura dell’irredentismo serbo. Se la
spinta unificatrice delle popolazioni slave del sud avesse favorito la dissoluzione dell’Impero
austro-ungarico, l’Italia avrebbe dovuto contendere il dominio dell’Adriatico al neonato Stato
jugoslavo, che, non essendo paralizzato al suo interno dai contrasti nazionali che minavano la
stabilità austriaca, sarebbe stato, per l’Italia, un avversario ben più pericoloso di Vienna. L’Austria-
Ungheria costituiva, in definitiva, per le ambizioni italiane in Adriatico, un male minore rispetto alla
nascita di una «Grande Serbia» o di una formazione statale che unificasse le diverse nazionalità
slave del sud. Per questo, Salvemini, pur concordando essenzialmente con le argomentazioni del
socialista triestino, auspicava la fine della fase imperialista della politica estera austriaca in favore
di un «processo di federalizzazione e oseremmo dire di svizzerazione dell’Austria-Ungheria, che in
un regime di maggiore giustizia per tutte le nazionalità confederate, attutirebbe anche nei serbo-
croati dell’impero la spinta ad associarsi politicamente coi serbo-croati della Balcania».31
L’auspicio di Salvemini di una trasformazione dell’Impero austro-ungarico in uno Stato federale,
come soluzione al problema delle sue nazionalità, dimostrava che, alla vigilia dello scoppio della
prima guerra mondiale, Salvemini aveva ormai abbandonato il movimento e il pensiero socialista a
favore di un ideale democratico-federalista, più vicino a Carlo Cattaneo che a Marx e a Labriola. I
nuovi orientamenti politici di Salvemini trovarono espressione nella scelta di fondare un
settimanale, «L'Unità», che presto sarebbe diventato la principale cassa di risonanza della sua
posizione di interventismo democratico – anch’essa frutto di un’evoluzione del suo pensiero
politico – nel dibattito su un’eventuale entrata in guerra dell’Italia nella Grande Guerra, scoppiata
nell'estate del 1914.

2. L’Italia in guerra. Salvemini interventista e irredentista democratico


L’emergere della crisi internazionale, nell’estate del 1914, successiva all’assassinio dell’arciduca
Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno di
quell’anno, per mano del patriota bosniaco Gavrilo Princip,32 non mutò, almeno nell’immediato, i
principi ispiratori dell’analisi sulla politica estera italiana proposta da Salvemini nel quindicennio
precedente. Suo motivo ispiratore continuava a essere un radicale antitriplicismo, che si nutriva,
come abbiamo visto, di una profonda ostilità verso gli imperi centrali, visti come espressioni del
conservatorismo autoritario e del militarismo. Soltanto la sconfitta dei due Stati dell’Europa
centrale avrebbe potuto portare alla nascita di un’Europa pacifica e democratica, il cui assetto si
sarebbe fondato finalmente sul principio di nazionalità:
Affinché questa guerra – dal momento che avviene – produca i maggiori vantaggi possibili, occorre che essa liquidi il
maggior numero possibile delle vecchie questioni internazionali, dando luogo ad un equilibrio più stabile dell’antico, in
cui le forze della pace possano riprendere in migliori condizioni di efficacia quel lavoro di consociazione dei popoli che
oggi sembra dissipato per sempre, ma di cui ben presto si ripresenterà a tutti gli spiriti la fatale necessità. Bisogna che
questa guerra uccida la guerra.
[…] Una vittoria austro-germanica non risolverebbe nessuno dei problemi, che affaticarono la vecchia Europa; ma tutti
li inasprirebbe con le nuove prepotenze dei vincitori. Una grande lega di nazioni, a cui partecipino l’Inghilterra, la
Francia, la Russia, l’Italia, e tutte o quasi tutte le nazioni minori, sarà un grande esperimento pratico della federazione

31 Gaetano Salvemini, «Postilla a “L’imperialismo della paura”», in: Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al
1915, cit., p. 278.
32 Sulle origini della prima guerra mondiale: Christopher Clark, I sonnambuli. Come l'Europa arrivò alla Grande Guerra. Roma-
Bari, Laterza, 2013; Max Hastings, Catastrofe 1914. L'Europa in guerra, Milano, Neri Pozza, 2014; Luigi Albertini, Le origini
della guerra del 1914. Volume II. La crisi del luglio 1914. Dall’attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell’Austria-
Ungheria, Gorizia, LEG, 2019; Id., Le origini della guerra del 1914. Volume III. L’epilogo della crisi del luglio 1914. Le
dichiarazioni di guerra e di neutralità, Gorizia, LEG, 2019.

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dei popoli: al principio delle alleanze offensive e difensive, si sostituirà irresistibilmente la pratica giornaliera della
società giuridica fra le nazioni.33

Allo stesso tempo, però, la guerra non avrebbe dovuto concludersi creando tra gli Stati risentimenti
insanabili o con una netta sopraffazione di un gruppo di nazioni sulle altre. Il principio
dell'equilibrio democratico suggeriva, quindi, sia l'auspicio per una vittoria dell'Intesa, sia, d'altra
parte, la necessità che gli imperi centrali non fossero completamente annientati. In questo caso,
infatti, la Germania avrebbe dovuto fronteggiare una nuova ondata di pretese egemoniche da parte
della Francia, mentre l'Austria-Ungheria avrebbe dovuto subire l'espansionismo da parte della
Russia. L'opinione di Salvemini rimaneva legata alla sopravvivenza del vecchio assetto europeo,
depurato soltanto dell'autoritarismo rappresentato dai vecchi imperi e aperto a una maggiore
evoluzione democratica.34 L’unico tratto di novità fu costituito dall’accoglimento, da parte dello
storico molfettese, delle istanze dell’irredentismo democratico. Come si evince dai suoi articoli
pubblicati su «L’Unità», in particolare a partire dal dicembre 1914, il perdurare del conflitto e il
fallimento della solidarietà internazionalista da parte dei partiti socialisti europei portarono
Salvemini a sottolineare il carattere mostruoso dell'Impero austro-ungarico, nemesi del principio di
nazionalità alla base, invece, della predicazione di Giuseppe Mazzini, a cui egli si volle avvicinare,
e del processo di unificazione italiana.35
Il dibattito che si sviluppò sulle colonne de «l’Unità» contribuì molto all’evoluzione del pensiero di
Salvemini in senso interventista e irredentista. Dall’affermazione del principio di nazionalità
conseguiva che il popolo italiano avrebbe dovuto combattere l'ultima guerra del Risorgimento per
completare quel processo di unificazione nazionale, rimasto incompiuto dopo la nascita del Regno
d’Italia. È questo il motivo per cui Salvemini, opponendosi all’irredentismo di matrice nazionalista,
accettava il punto di vista di Ugo Guido Mondolfo. Questi pubblicò, nel marzo 1915 su «L’Unità»,
un articolo in cui indicava come obiettivi territoriali dell'Italia solo quelle regioni abitate da una
popolazione di lingua e cultura prevalentemente italiane:
È pacifico che tra questi compensi debbano essere il Trentino strettamente italiano e il Friuli orientale, è controverso che
debbano esserci l'Alto Adige e l'Istria e Trieste e Fiume; ma viceversa c'è chi vorrebbe anche la Corsica, la Tunisia, il
Dodecaneso ed inoltre l'accennato Boccone dell'Asia Minore. Ora spetta a noi di fare intendere che lo stesso acquisto
del Trentino e del Friuli orientale non ha valore in quanto aggiunge territorio e sudditi (cioè, nella concezione di alcuni,
soldati) all'Italia; ma in quanto risolve un problema di nazionalità, elimina una ragione di conflitto, diventa perciò un
coefficiente di pace.36

Allo stesso modo, Salvemini dimostrava di condividere l’opinione del geografo Carlo Maranelli –
che, negli anni successivi, avrebbe scritto, insieme a Salvemini, il pamphlet La questione
dell’Adriatico – secondo cui sarebbe stato difficile escludere l’Austria-Ungheria dall’Adriatico
senza «distruggerl[a] del tutto o quasi del tutto». Da questi e da altri contributi apparsi su «l’Unità»
nei primi mesi del 1915, Salvemini prendeva spunto per auspicare il distacco delle diverse
nazionalità dall’Impero asburgico e la sua riduzione «alla zona magiara dell’Ungheria e alle
province dell’Austria». In quel modo, alla fine del conflitto, in caso di vittoria, l’Italia, aumentata
dei territori italofoni dell’Impero, si sarebbe confrontata in Adriatico con «un regno serbo-dalmata-
croato-sloveno, che [sarebbe arrivato] a Lubiana, comprendendo tutte le popolazioni jugoslave
dell’Austria e dell’Ungheria, meno quelle delle zone di confine aggregate all’Italia». Con questo
Stato jugoslavo l’Italia avrebbe trovato un modus vivendi pacifico e collaborativo, attraverso la
garanzia delle libertà scolastiche concesse dall’Italia agli sloveni e croati delle nuove province

33 Gaetano Salvemini, «La guerra per la pace», in: Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, cit., pp. 359-
360. Considerazioni analoghe sono espresse da Salvemini anche in alcune lettere: Doc. n. 18. «Salvemini a Ugo Ojetti»,
Molfetta, 11 agosto 1914, in: Gaetano Salvemini, Carteggio 1914-1920, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 18.
34 De Caro, Gaetano Salvemini, cit., pp. 242-245.
35 Nicola Tranfaglia, Storia dell'Italia contemporanea. La prima guerra mondiale e il fascismo, Torino, UTET, 1995, pp. 27-28.
36 Gaetano Salvemini, «Il popolo italiano e la guerra», in: Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, cit.,
p.495.

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italiane e, da parte serba, ai nuclei italiani residenti in Dalmazia; attraverso «l’impegno da parte
della Serbia, di non costruire nell’Adriatico arsenali e di non tenervi flotte militari» e, «da parte
dell’Italia, di non oltrepassare con la sua flotta il canale di Otranto»; e con la costituzione di una
«zona doganale libera» che comprendesse Trieste, Fiume e «magari anche tutta l’Istria». Si trattava,
per il fondatore de «L’Unità», di un programma agli antipodi di quello propugnato dai nazionalisti,
che desideravano, occupando Trieste, l’Istria, la Dalmazia e Fiume, «dominare [...] tutte le
comunicazioni col mare della Bosnia, della Croazia, dell’Ungheria, della Slovenia, dell’Austria,
della Boemia». Un programma che, però, secondo Salvemini, non avrebbe ottenuto altro risultato se
non quello di «sviare tutto il commercio adriatico verso il mare del Nord, verso il mar Nero, verso
l’Egeo, e di associare nell’odio anti-italiano serbi, croati, sloveni, magiari, tedeschi e czechi».37
Fu nella primavera del 1915, quando il dibattito politico interno era dominato dalla
contrapposizione tra neutralisti e interventisti e, all’interno di quest’ultimo campo, dal
posizionamento dell’Italia al fianco degli imperi centrali, già alleati nella Triplice, o nell’Intesa, con
Francia, Gran Bretagna e Russia,38 che Salvemini maturò la scelta interventista. Si trattò di una
scelta accompagnata da una rinnovata vis polemica nei confronti dei sostenitori della neutralità.
Innanzitutto, i vecchi compagni socialisti, a cui il fondatore de «L'Unità» ricordava che il
«socialismo non è la pace: è la giustizia; con la pace, se è possibile; con la guerra, interna o esterna,
se è necessario»; e, naturalmente, Giolitti, tradizionale bersaglio polemico dello storico di origine
pugliese. L'intervento nel conflitto era, in fin dei conti, motivato sia con la liquidazione definitiva
del giolittismo, sia con la necessità di un rinnovamento economico e sociale dell'Italia:
Questa guerra nel 1882 non era possibile. L'Italia doveva entrare nella triplice Alleanza, e a quelle condizioni, per
evitare mali peggiori. E la pace, che abbiamo sofferta per tant'anni, era sempre il meno peggio che ci poteva toccare. E
così sia. Ma dal 1883 al 1915 qualcosa è mutato nel mondo, se non per merito nostro, a nostro vantaggio. L'amicizia
anglo-germanica è finita; la potenza austriaca barcolla da ogni parte. Liberiamoci oggi dalla servitù passata. Se non ci
liberiamo oggi, non saremo liberi più.39

L'illusione della «guerra rivoluzionaria» fece breccia, quindi, anche in Salvemini, che credeva che
un conflitto armato potesse costituire la rivincita degli oppressi sulla società industriale e sui suoi
rapporti con lo Stato. Ciò di cui Salvemini sembrò non rendersi conto, in quei drammatici frangenti,
reso quasi cieco dall'opposizione a Giolitti e al giolittismo, fu l'assoluta estraneità alla guerra delle
classi subalterne, operai e contadini, che «domandavano solamente di essere lasciate tranquille alla
loro vita di ogni giorno».40
Per questo, l'ingresso in guerra dell'Italia è stato giudicato da Marina Cattaruzza come un'«adesione
alla guerra in sé, alla guerra per la guerra», senza obiettivi ben definiti, ma con la convinzione che il
conflitto avrebbe fatto da antidoto e da toccasana rispetto ad una temuta decadenza della società.41
I più strenui sostenitori di questa concezione purificatrice e liberatrice del conflitto, rispetto ad una
quotidianità intrisa di mediocrità e delusione, furono alcuni gruppi interventisti, che, se pur meno
numerosi dei sostenitori della neutralità, agivano in maniera più attiva, in alcuni casi addirittura in
modo chiassoso e rumoroso. Era una pletora di gruppi che avevano ascendenze ideali le più

37 Gaetano Salvemini, «Finis Austriae?», in: Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, cit., pp. 491-494.
38 Sul dibattito tra neutralismo e interventismo: Brunello Vigezzi, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale. Volume I: L’Italia
neutrale, Napoli, Ricciardi, 1966; Volume II: Da Giolitti a Salandra, Firenze, Vallecchi, 1968; Piero Melograni, Storia politica
della Grande Guerra 1915-1918, Bari, Laterza, 1969; Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna. Volume ottavo. La prima
guerra mondiale. Il dopoguerra. L’avvento del fascismo, Milano, Feltrinelli, 1984; Nicola Tranfaglia, Storia dell’Italia
contemporanea. La prima guerra mondiale e il fascismo, Torino, UTET, 1995; Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia. 1914-
1924, Firenze, Le Lettere, 2007; Antonio Varsori, Radioso maggio. Come l'Italia entrò in guerra, Bologna, Il Mulino, 2015;
Giovanni Orsina, Andrea Ungari (a cura di), L'Italia neutrale 1914-1915, Roma, Rodorigo, 2016; Giuseppe Astuto, La
decisione di guerra. Dalla Triplice Alleanza al Patto di Londra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019.
39 Gaetano Salvemini, «Guerra o neutralità?», in: Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, cit., pp. 473-474.
40 de Caro, Gaetano Salvemini, cit., p. 254.
41 Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 71-72.

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disparate: dai seguaci di Georges Sorel, ai nazionalisti,42 ai sindacalisti rivoluzionari, ai gruppi
intellettuali futuristi.
L'interventismo democratico, rappresentato principalmente dallo stesso Salvemini e da Bissolati –
pur se in quest’ultimo non erano presenti gli intenti polemici nei confronti dei socialisti e di Giolitti
che caratterizzavano, invece, la posizione del direttore de «L’Unità» - portava avanti, invece, una
concezione diversa della guerra.43 Salvemini e Bissolati riprendevano il concetto mazziniano di
un'«Europa delle nazioni», proponendo un programma di autodeterminazione nazionale per tutte le
nazionalità soggette alla monarchia asburgica e di affratellamento tra il governo italiano e i popoli
salvi del Sud. Salvemini partiva sostanzialmente dalla premessa che obiettivo della guerra sarebbe
dovuto essere la distruzione dell'Austria-Ungheria, a cui erano interessati, in massima parte, «una
Romania e […] una Serbia scismatiche e […] una Italia e […] una Boemia liberali». Ciò avrebbe
permesso all'Italia di inaugurare una stagione di fruttuosi scambi con i popoli slavi del Sud,
portando lo Stato jugoslavo a gravitare nell'orbita del Regno italiano, in virtù, soprattutto,
dell'influenza della cultura italiana in Dalmazia.
Proprio la Dalmazia costituiva l'elemento discriminante tra le rivendicazioni dei gruppi nazionalisti,
irredentisti e liberali di destra da un lato, e gli interventisti democratici dall'altro. I primi, infatti,
avocavano all'Italia gran parte della costa orientale dell'Adriatico, seguendo una logica tipica della
politica di potenza. I secondi, invece, propendevano per un confine etnico, che avrebbe dovuto
inglobare una parte notevole dell'Istria, con l'esclusione del distretto di Volosca, lasciando gran
parte della costa dalmata nelle mani del futuro Stato jugoslavo. Un’analisi organica a queste
indicazioni fu data da Salvemini, insieme al geografo Carlo Maranelli, nel pamphlet La questione
dell'Adriatico, elaborato nel 1916, ma dato alle stampe solo nel 1918, dopo molti problemi con la
censura. Secondo Maranelli e Salvemini, la conquista della Dalmazia avrebbe creato una colonia
slava all'interno dello Stato italiano, dominata dall'irredentismo croato e serbo, 44 e avrebbe esposto
l'Italia «al danno internazionale di essere odiosi a tutto il mondo, come è stata l'Austria». Avrebbe
spinto, inoltre, «gli slavi del sud ad allearsi contro di noi con la Germania». 45 Secondo lo storico
pugliese, la creazione di una grande Serbia, comprendente la Dalmazia e la Bosnia, avrebbe
avvantaggiato l'Italia, perché avrebbe indebolito la presenza austriaca sull'Adriatico. Da qui
derivava la necessità di un accordo con Belgrado, che garantisse la sovranità italiana sul Trentino e
la Venezia Giulia, in cambio della concessione della Dalmazia alla Serbia.46 A chi gli contestava
che l'assoggettamento della Dalmazia alla Serbia avrebbe provocato la slavizzazione della regione
adriatica, Salvemini rispondeva che si sarebbe trattato di un fenomeno inevitabile: «Sarebbe ora di
affermare chiaro e forte che la causa dell'italianità in Dalmazia è irreparabilmente perduta già da un
pezzo, e che è assurdo subordinare la nostra politica estera alla vana pretesa di contrastare
l'inevitabile».47
Lo scrittore pugliese riconosceva come legittima la rivendicazione di un confine non etnico, che si
limitava al controllo delle Alpi Giulie, di Pola e di alcune isole dalmate: nello specifico Cherso e
Lussino, che permettevano di chiudere il Quarnaro; l'Isola Lunga e l'Isola Incoronata; gli isolotti di
fronte a Sebenico e l'Isola di Solta, che «chiude[vano] lo sbocco del golfo di Sabbioncello»; e Lissa,
«dalla cui altura si esplora buona parte dell'Adriatico centrale». 48 Le minoranze nazionali italiane

42 Sull'interesse dei nazionalisti nella questione adriatica cfr. Franco Gaeta, Il nazionalismo italiano, Bari, Laterza, 1981. Cfr. anche
Federico Imperato, Roberto Forges Davanzati, il nazionalismo e la politica estera italiana (1911-1918), Tricase, Franco Maisto,
2006.
43 Sui diversi programmi dei democratici e dei nazionalisti intorno alla questione adriatica cfr. Roberto Vivarelli, Storia delle
origini del fascismo. Volume I. L'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 175-180. Sulle
differenze tra L’irredentismo democratico in Salvemini e in Bissolati: de Caro, Gaetano Salvemini, cit., pp. 262-263.
44 Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, cit., p. 284.
45 Maranelli, Salvemini, La questione dell'Adriatico, cit., p. 260.
46 «La Dalmazia», in: Gaetano Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, cit., pp. 370-373; Gaetano
Salvemini, «Austria, Italia e Serbia», in: Ivi, pp. 414-420.
47 Gaetano Salvemini, «Fra la grande Serbia ed una più grande Austria», in: Ivi, p. 348.
48 Doc. n. 326 «Salvemini a Pietro Silva», Saltino, 21 agosto 1917, in: Salvemini, Carteggio 1914-1920, cit., pp. 322-325.

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avrebbero dovuto essere tutelate attraverso opportune garanzie internazionali e una forte autonomia
per Fiume e Zara all'interno dello Stato jugoslavo, 49 simili a quelle che l'Italia avrebbe riservato alle
sue minoranze croate e slovene. 50 La rinuncia alla Dalmazia avrebbe permesso, poi, al governo
italiano di avanzare delle rivendicazioni su Fiume, dimenticata dal patto di Londra, e di ottenere la
sicurezza strategica sul confine giuliano. 51 Uno dei difetti del patto di Londra era costituito proprio,
secondo Salvemini, dalla rinuncia a Fiume, di cui egli spingeva a chiedere la costituzione in
municipio autonomo, rispettato dalla Serbia e garantito dall'Italia, nel caso in cui la prima non
avesse mantenuto la parola.52 In maniera poco avveduta, continuava l'intellettuale molfettese, il
governo italiano aveva fondato tutta la sua politica adriatica sulla Dalmazia, piuttosto che sull'Istria,
fornendo un alibi agli alleati dell'Intesa, per mettere la seconda sullo stesso piano della prima. Ma se
la guerra avesse dato l'Alsazia e la Lorena alla Francia, ma non l'Istria all'Italia, ciò avrebbe creato
un'ondata di francofobia e di anglofobia all'interno dell'opinione pubblica nazionale, che si sarebbe
potuta trasformare ben presto in un ritorno di fiamma nei confronti della Germania.53
Salvemini si arruolò volontario e prese parte alla guerra di trincea, sul Carso. L’esperienza da
militare avrebbe travolto tutte le sue illusioni sulla funzione «livellatrice» e conciliatrice del
conflitto, che avrebbe dovuto favorire l'alleanza politica e ideale tra la borghesia intellettuale e i
contadini del Meridione. Ma l'esperienza sotto le armi avrebbe spezzato questa illusione, che
costituiva, forse, il motivo ispiratore di tutto il pensiero politico dello storico di Molfetta. La guerra,
infatti, non ebbe, come risultato, la conciliazione tra i ceti intellettuali e le classi umili, ma, al
contrario, la definitiva emarginazione di queste ultime, nel quadro della crisi ultima della
democrazia italiana. La guerra aveva aperto la strada che avrebbe portato al sacrificio delle classi
più povere e alla disgregazione morale della borghesia intellettuale.54

3. Gaetano Salvemini e la questione adriatica nella fase finale del conflitto (1917-1918)
La questione adriatica assunse rilievo nella politica estera italiana durante l’ultima fase del conflitto,
a partire dalla seconda metà del 1917. Il 20 luglio di quell’anno, infatti, fu stipulato a Corfù un
accordo tra il presidente del Consiglio serbo, Nikola Pašić e Ante Trumbić, presidente del Comitato
jugoslavo a Londra, che comprendeva gli esuli croati, dalmati e sloveni. L’accordo concluso a Corfù
proclamava la volontà di far nascere, dopo la vittoria, un Regno dei serbi, croati e sloveni,55 sotto
la dinastia serba dei Karageorgević, che avrebbe dovuto comprendere la Serbia, il Montenegro, la
Bosnia-Erzegovina, la Croazia, la Dalmazia ed i territori abitati dagli sloveni, cioè la Carniola, parte
della Carinzia, la Stiria meridionale e, secondo i nazionalisti più accesi, anche Trieste, l’Istria,
Gorizia e una parte del Friuli.

49 Monzali, Italiani di Dalmazia 1914-1924, cit., pp. 12-13 e 85-86. Sulle posizioni di Salvemini in merito alla questione adriatica
si veda anche: Elio Apih, «Gaetano Salvemini e il problema adriatico», in: AA. VV., L'imperialismo italiano e la Jugoslavia,
Urbino, Argalia, 1981, pp. 85-127; Andrea Frangioni, Salvemini e la Grande guerra. Interventismo democratico, wilsonismo,
politica delle nazionalità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011; Federico Imperato, La «chiave dell’Adriatico». Antonio
Salandra, Gaetano Salvemini, la Puglia e la politica balcanica dell’Italia liberale durante la Grande Guerra (1914-1918),
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019.
50 Maranelli, Salvemini, La questione dell'Adriatico, in: Salvemini, Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), cit., pp.
436-444.
51 Gaetano Salvemini, «Ognuno al suo posto», in: Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), cit., pp. 475-483.
52 Doc. n. 326 «Salvemini a Pietro Silva», in: Salvemini, Carteggio 1914-1920, cit., pp. 322-325.
53 Doc. n. 341 «Salvemini a Bernard Berenson», Firenze, 27 novembre 1917, in: Ivi, pp. 340-344.
54 Leone De Castris, «I grandi intellettuali e lo Stato», in: Luigi Masella, Biagio Salvemini (a cura di), Storia d'Italia. Le regioni
dall'Unità a oggi. La Puglia, Torino, Einaudi, 1989, pp. 636-639.
55 Sul Regno dei serbi, croati e sloveni (SHS) si veda: Ivo J. Lederer; La Jugoslavia dalla conferenza della pace al trattato di
Rapallo 1919-1920, Milano, Il Saggiatore, 1966; Jože Pirjevec, Il giorno di San Vito. Jugoslavia 1918-1992. Storia di una
tragedia, Torino, Nuova ERI, 1993; Georges Castellan, Storia dei Balcani, Lecce, Argo, 1996; John R. Lampe, Yugoslavia as
History. Twice there was a Country, Cambridge, Cambridge University Press, 2000; Monzali, Italiani di Dalmazia 1914-1924,
cit.; Igor Pellicciari, Storia costituzionale del Regno dei Serbi, Croati, Sloveni (1917-1921), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004;
Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia. Le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, Venezia, Marsilio, 2015.

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Le reazioni italiane all’accordo di Corfù furono contrastanti e confermarono la spaccatura,
all’interno dello schieramento interventista, secondo la definizione che ne ha dato Salvemini, tra «la
corrente democratica antiaustriaca, e la corrente nazionalista antislava». Per questi ultimi, la guerra
costituiva «una occasione, di cui l’Italia d[oveva] approfittare per ingrandirsi territorialmente». Per
farlo, doveva combattere l’Impero asburgico, ma anche porre «un divieto assoluto al sorgere di una
Jugoslavia serbo-croata-slovena». Gli interventisti democratici desideravano, invece,
l’annientamento dell’Impero asburgico, visto come «il ponte di passaggio e la longa manus
dell’imperialismo tedesco verso l’Oriente», nonché, «per le lotte di razza, da cui è sconnesso al di
dentro, il locus minoris resistentiae di tutto il sistema pangermanico».56
i nazionalisti non comprendevano che il patto di Corfù non aveva finalità anti-italiane, ma
essenzialmente anti-austriache e la scelta di indicare il nuovo Stato «non [con] un nome geografico,
il quale avrebbe costretto a precisare troppo fin d’ora i confini territoriali, ma [con] una triade di
nomi etnici», era la prova che si intendeva «lasciare impregiudicati i problemi, che interessa[va]no
quelle popolazioni delle zone non compatte e discontinue che non [erano] né serbe, né croate, né
slovene».57 Risultava importante allora che l’Italia fosse animata dalla ferma volontà di favorire la
dissoluzione dell’Impero asburgico e di stringere un’alleanza con la Jugoslavia. Perché questo
avvenisse, era necessario che «le coste orientali dell’Adriatico [fossero] divise fra noi e la nuova
Jugoslavia indipendente, mediante un compromesso, che soddisfi le esigenze essenziali e legittime
degli slavi, in maniera che questi siano interessati a conservare, in alleanza con noi il nuovo assetto
adriatico». Questo voleva dire anche stracciare il Patto di Londra, perché «per la parte che ci
assicura Trieste e l’Istria, ci obbliga a una guerra a morte coll’Austria: e questa guerra noi
l’abbiamo voluta e la vogliamo sempre […]; ma per la parte che ci assicura la Dalmazia, ci
costringe a una guerra eterna con gli slavi, rafforza l’Austria con la solidarietà di costoro, […], ci
costringe a volere il salvataggio dell’Austria […]: e questa guerra non la vogliamo».58
La firma del patto di Corfù rischiava di compromettere in maniera seria tutta la costruzione
diplomatica creata da Sonnino con l'adesione dell'Italia agli obiettivi di guerra dell'Intesa e con le
ricompense territoriali contenute nel patto di Londra. Questa costruzione si fondava su un assetto
continentale che vedeva ancora presente l'Impero austro-ungarico e aveva come obiettivo il
predominio italiano sull'Adriatico, oltre alla conquista del cosiddetto confine naturale. Il ministro
degli Esteri italiano si mostrò irritato dal carattere massimalistico dell'accordo di Corfù,
specialmente quando rivendicava, per il futuro Stato jugoslavo, il possesso di tutti i territori abitati
da popolazioni serbe, croate e slovene, comprese la Dalmazia e l'Istria.59
Per questo motivo, Sonnino concesse un’accoglienza piuttosto tiepida alla conferenza delle
nazionalità oppresse dall’Austria, che si tenne nell’aprile 1918 a Roma, in Campidoglio. Oltre alle
delegazioni ceca, jugoslava (con Trumbić a capo), rumena e polacca, l’Italia poteva contare su una
rappresentanza numerosa, che comprendeva anche Salvemini, eletto per rappresentare il Comitato
italo-jugoslavo, insieme al senatore Vito Volterra e ai deputati Giuseppe Canepa, Ettore Ciccotti e
Giambattista Pirolini. Lo scopo del congresso era reso noto nel proclama e negli articoli che
andarono a costituire il patto di Roma e consisteva nel dar vita a un’intesa che «non mira[va]
soltanto ad uno scopo politico, ma ad un’associazione nello spirito e nell’opera, nella coltura e nei
commerci, che oltre la guerra manten[esse] l’unione fra di noi ed aliment[asse] con animo ed atti di
reciproca fiducia, la fede comune di adempiere ad una missione di progresso e di civiltà umana».60
Ma il convegno del Campidoglio fu segnato anche dall’assenza manifesta e lampante del governo

56 Gaetano Salvemini, «Austria delenda o Austria servanda», in: Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), cit., pp.
219-221.
57 Gaetano Salvemini, «Il segreto dei fatti palesi», in: Ivi, pp. 113-114.
58 Salvemini, «Austria delenda o Austria servanda», cit., pp. 223-225.
59 Monzali, Italiani di Dalmazia 1914-1924, cit., pp. 35-36.
60 Luigi Albertini, Venti anni di politica italiana, Parte II, Volume III, Bologna, Zanichelli, 1953, p. 271. Sul congresso del
Campidoglio cfr. anche: Apih, «Gaetano Salvemini e il problema adriatico», cit.; Luca Micheletta, «Pietro Silva storico delle
relazioni internazionali», in: «Clio. Rivista trimestrale di studi storici», a. XXX, n. 3 (luglio-settembre 1994), pp. 497-527.

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italiano. Questo fu sottolineato dalle varie delegazioni straniere. Sonnino, infatti, aveva dato solo
un’adesione indiretta, «desideroso di non compromettere il solo «pezzo di carta» che aveva in
mano, il patto di Londra».61
Il congresso di Roma intendeva, secondo le intenzioni di Salvemini, gettare le basi di una nuova
politica estera dell'Italia e dell'Intesa nei confronti delle nazionalità oppresse, che si basasse sulla
sconfessione e sul superamento del patto di Londra e degli altri accordi segreti, resi obsoleti dagli
sviluppi del conflitto. Lo «sfacelo della Russia», infatti, aveva mutato la linea d’azione delle
nazionalità sottomesse all’Impero austro-ungarico. Se queste, fino a quel momento, «avevano, per
la loro liberazione, contato quasi esclusivamente sull’aiuto della Russia e sulla guerra degli altri»,
dopo la Rivoluzione d’ottobre e la fine dello zarismo furono costrette a prendere in considerazione
«la politica, diciamo così, mazziniana, di suscitare in lotta contro il comune nemico i popoli
oppressi. […] Di qui la genesi dell’idea, veramente mazziniana, del Congresso di Roma».62
L’iniziativa poteva contare sul sostegno e su una concezione molto contigua della libertà dei popoli
e della democrazia che avevano il presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson, vero
«ministro degli esteri della democrazia internazionale» e il primo ministro britannico David Lloyd
George e voleva essere, in un certo senso, una sconfessione della politica estera di Sonnino e del
suo costante rifiuto di adattarsi ai mutamenti della realtà internazionale.63
La fermezza del ministro degli Esteri italiano nel non voler cedere su alcuno degli impegni assunti
dalla Francia e dalla Gran Bretagna con il patto di Londra fu determinante nel mandare a monte il
tentativo di pace separata da parte austriaca. 64 Il 31 marzo 1917, l’imperatore austriaco Carlo I,
succeduto a Francesco Giuseppe, dopo la morte di questi, avvenuta il 21 novembre 1916, aveva
fatto recapitare al presidente della Repubblica francese Raymond Poincaré, tramite il cognato, il
principe Sisto di Borbone-Parma, ufficiale dell’esercito belga, una lettera. La missiva conteneva le
proposte per una pace separata: il ritorno dell’Alsazia-Lorena alla Francia, la restaurazione del
Belgio e della Serbia come Stati indipendenti, con la promessa di dare a quest’ultima uno sbocco al
mare. Nella lettera dell’imperatore austriaco non si faceva alcun accenno all’Italia. I governi
francese e britannico, favorevoli all’apertura di negoziati con l’Austria, speravano di rendere
Sonnino più disponibile al dialogo, avanzando delle concessioni territoriali in Asia Minore, in
previsione di un collasso dell’Impero ottomano. Fu questo il motivo della conferenza di San
Giovanni di Moriana, località della Savoia francese, a pochi chilometri di distanza dal confine
italiano, che si era tenuta il 19 aprile 1917. 65 In quell’occasione Sonnino accettò le offerte
britanniche di un’area d’influenza nella penisola anatolica, nello specifico nei territori di Smirne e
di Konya – ma non ad Adana, come richiesto dall’Italia – mentre non vi fu alcun cedimento sulle
proposte di pace avanzate dall’imperatore austriaco. Del resto, il contenuto esatto delle lettere di
Carlo I a Poincaré fu reso noto al governo di Roma soltanto durante le conferenze interalleate che si
tennero, rispettivamente a Versailles, dal 1° al 3 giugno 1917, e a Londra al principio dell’agosto
successivo. 66 Così, un anno dopo, Salvemini poteva tacere sull’atteggiamento anti-italiano e

61 Albertini, Venti anni di politica italiana, cit., p. 272.


62 Gaetano Salvemini, «Il Congresso di Roma», in: Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura, cit., pp. 179-180.
63 Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1995, pp. 376-377.
64 Sul tentativo di pace separata dell'Austria, Sisto di Borbone-Parma ha lasciato un volume di memorie: Sixte de Bourbon, L'offre
de paix séparée del'Autriche, Paris, Plon, 1921. Si veda inoltre: Luca Riccardi, Alleati non amici. Le relazioni politiche tra
l’Italia e l’Intesa durante la prima guerra mondiale, Brescia, Morcelliana, 1992, pp. 473-483.
65 Sugli accordi di San Giovanni di Moriana rimane fondamentale il volume di Mario Toscano, Gli accordi di San Giovanni di
Moriana. Storia diplomatica dell'intervento italiano. II. (1916-1917), Milano, Giuffrè, 1936; Riccardi, Alleati non amici, cit., pp.
459-521; Fiorella Perrone, La politica estera italiana e la dissoluzione dell'Impero Ottomano (1914-1923), Lecce, I libri di
Icaro, 2010, pp. 1-41; Federico Imperato, «L’Italia e gli Accordi di San Giovanni di Moriana», in: Pietro Neglie, Andrea Ungari
(a cura di), La guerra di Cadorna. Atti del Convegno Trieste-Gorizia 2-4 novembre 1916, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito
Ufficio Storico, 2018, pp. 383-399.
66 Sul modo in cui Sonnino venne messo a conoscenza delle offerte di pace separata da parte dell’Austria-Ungheria si veda il
racconto che ne ha lasciato lo stesso ministro degli Esteri italiano nel suo Diario 1916-1922, a cura di Pietro Pastorelli, Bari,
Laterza, 1972, pp. 120-121; 155; 160-162; 179-180. Sulla figura di Sidney Sonnino: Geoffrey A. Haywood, Failure of a Dream.
Sidney Sonnino and the Rise and fall of liberal Italy (1847-1922), Firenze, Olschki, 1999; Luciano Monzali, «Sidney Sonnino e

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abbastanza condiscendente nei confronti dell’Austria da parte di Francia e Gran Bretagna, rivelatore
anche della posizione di inferiorità in cui l’Italia era tenuta nell’ambito dell’Intesa e, di
conseguenza, della sottovalutazione dello sforzo bellico sostenuto dall’esercito regio, per
sottolineare, invece, il «fatto […] che la proposta fatta singolarmente dall’Austria alla Francia fu
respinta collettivamente dall’Intesa». Il gioco non sarebbe valso, quindi, la candela, dal momento
che «per guadagnare l’Austria si sarebbe rischiato di perdere l’Italia» [in corsivo nel testo]. 67
L’episodio del tentativo di pace separata da parte austriaca mette in evidenza una certa ambiguità
nel rapporto tra Salvemini e Sonnino. Sicuramente il direttore de «L’Unità» condannava le
«tendenze imperialistiche» dello statista toscano, che mai accettò l’interpretazione democratica
della guerra italiana, vista da lui non come un contributo nazionale alla lotta europea e mondiale per
la libertà dei popoli e «contro la sopraffazione teutonica», ma come «la piccola guerra di
rivendicazioni nazionali […] con qualche punta di imperialismo – più verbale che territoriale –
contro la Serbia».68 E, tuttavia, Salvemini, oltre a riconoscere a Sonnino «un coraggio delle proprie
responsabilità, uno spirito di sacrificio, un’aspirazione ideale», vedeva incarnato in lui l’oppositore
per eccellenza a Giolitti e alla sua «neutralità triplicista»:69 si trattava, in sostanza, della garanzia
che a Giolitti non si sarebbe più potuti tornare.70
Questa sorta di «delega incondizionata» a favore di Sonnino, la cui presenza costante alla guida del
dicastero degli Esteri nei ministeri Salandra, Boselli e Orlando, aveva garantito una sostanziale
continuità nella gestione degli aspetti diplomatici della guerra venne meno nell’ultima fase del
conflitto, quando la questione adriatica e il problema della concessione dell’indipendenza alle
nazionalità sottomesse all’Impero asburgico divennero i temi principali della politica estera italiana.
A quel punto l’atteggiamento di Salvemini mutò. Il fondatore de «L’Unità» prese parte alla
campagna di stampa contro la politica del ministro degli Esteri italiano, inaugurata nel mese di
agosto del 1918 e che vide in prima linea il «Corriere della Sera» di Luigi Albertini.71 Scopo della
campagna era mettere in rilievo tutti gli errori politici dello statista toscano. Non ci si doveva
soffermare soltanto sulla questione adriatica, ma denunciare anche l'atteggiamento di inerzia tenuto
dal governo nei confronti degli Stati Uniti o l'incapacità di comprendere i nuovi problemi
economici, che sarebbero emersi completamente dopo la fine delle ostilità.72
Tuttavia, l’azione promossa dal grande quotidiano milanese non diede i frutti sperati. Essa, al
contrario, risultò essere controproducente perché ricompattò le fila dei sostenitori di Sonnino, dai
nazionalisti agli irredentisti slavofobi. Per coloro che appoggiavano un cambiamento di indirizzo in
politica estera fu coniato il termine dispregiativo di «rinunciatari». Salvemini, uno di questi, si
difese dalle accuse sostenendo che non si trattava di rinunce, ma di un atteggiamento volto al
raggiungimento di diversi scopi: impedire un aumento esponenziale dei morti italiani; cancellare
l’illusione «che gli Stati Uniti possano mai considerarsi legati dal trattato di Londra, che non hanno
mai firmato»; considerare le grandi difficoltà che avrebbe posto all’Italia il governo della Dalmazia,
abitata in maggioranza da una popolazione slava «ostilissima al nostro dominio»;73 tener conto dei

la politica estera italiana dal 1878 al 1914», in: «Clio. Rivista trimestrale di studi storici», a. 1999, n. 3, pp. 397-447; Rolando
Nieri, Sonnino, Guicciardini e la politica estera italiana (1899-1906), Pisa, ETS, 2005; Pier Luigi Ballini (a cura di), Sonnino e
il suo tempo (1914-1922), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011; Luciano Monzali, «La politica estera di Sidney Sonnino e i fini
di guerra dell'Italia (1915-1917). Alcune riflessioni, in: Neglie, Ungari (a cura di), La guerra di Cadorna, cit., pp. 315-325.
67 Gaetano Salvemini, «La lettera di Carlo I. Agli amici di Francia», in: Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura, cit., pp.183-184.
68 Gaetano Salvemini, «L’antisonnino», in: Ivi, p. 72.
69 Gaetano Salvemini, «Il ministero e il paese», in: Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, cit., p. 423.
70 Per un’interpretazione di questo tipo, cfr.: de Caro, Gaetano Salvemini, cit., pp. 269-275.
71 Sul «Corriere della Sera» di Albertini, cfr.: Albertini, Venti anni di politica italiana, cit.; Ottavio Barié, Luigi Albertini, Torino,
UTET, 1979; Luciano Monzali, «Albertini e il «Corriere della Sera» dalla fine del XIX secolo allo scoppio della guerra», in:
Luigi Albertini, I giorni di un liberale. Diari 1907-1925, Bologna, Il Mulino, 2000; Lorenzo Benadusi, Il «Corriere della Sera»
di Luigi Albertini. Nascita e sviluppo della prima industria culturale di massa, Roma, Aracne, 2012.
72 Doc. n. 398 «Salvemini a Ugo Ojetti», Firenze, 26 luglio 1918, in: Salvemini, Carteggio 1914-1920, cit., pp. 410-413.
73 Gaetano Salvemini, «Le cose a posto», in: Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura, cit. p. 227.

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danni commerciali che una politica antislava aveva prodotto ed avrebbe potuto ancora produrre
all’Italia.
Ma la risposta di Salvemini si realizzò soprattutto nella stesura del pamphlet La questione
dell’Adriatico, scritto a quattro mani con Carlo Maranelli. L’idea del volume risaliva al 1916, ma la
prima edizione fu data alle stampe soltanto a metà febbraio del 1918, mutila dell’ultimo capitolo a
causa dell’intervento della censura. Una seconda edizione, integrale, fu pubblicata soltanto alla fine
di luglio del 1919, dopo la fine della censura di guerra74 e la caduta di Sonnino dalla carica di
ministro degli Esteri, a seguito delle dimissioni del gabinetto Orlando. Già nella sua prima edizione,
l'opera di Salvemini e Maranelli era stata accolta «con villanie e calunnie», che sfociarono, in alcuni
casi, in «volgarità e slealtà polemiche».75 Tale propaganda, che secondo lo studioso pugliese, era
stata organizzata da Sonnino anche all'estero, aveva avuto come risultato principale quello «di
rendere la politica ufficiale italiana spregevole, oltre che odiosa: odiosa perché prepotente,
spregevole perché bugiarda».76 La qualità del volume, che univa l'idealismo di una sincera fede
democratica con l'impegno culturale dello studioso, basato su un'ampia base documentaria, permise
di ricevere scarse critiche nel merito, sostituite, però, da «una esplosione di contumelie» e da un
«gran numero di diffamazioni personali».77 La più nota, e, forse, più vigliacca, fu quella di
«rinunciatario», cui seguiva la storpiatura del cognome del suo autore in «Slavemini».78
Inizia, in questo periodo una fase di crescente impopolarità per Salvemini, che subì l'avversa
propaganda della stampa nazionalista, ormai in rotta con la componente democratica del fronte
interventista. Questa rottura fu sancita dalle dimissioni di Bissolati dalla carica di ministro
dell’Assistenza Militare e delle Pensioni di Guerra, avvenute alla fine di dicembre del 1918.
L'esponente socialriformista aveva rappresentato, all'interno dell'esecutivo Orlando, le correnti
interventiste democratiche. Le sue dimissioni erano, secondo Salvemini, la manifestazione,
all'interno del governo, della lotta tra l'esponente socialriformista e Sonnino,79 finita con
l'isolamento del primo, che aveva finito per diventare, per l'opinione pubblica nazionale, il
campione dei cosiddetti «rinunciatari».80
Le dimissioni di Bissolati furono seguite dall'episodio, di poco successivo, del comizio che egli
tenne alla Scala di Milano l'11 gennaio 1919, durante il quale fu investito da una selva di fischi da
parte di un pubblico composto da nazionalisti, futuristi e mussoliniani. Fu quella la prima
manifestazione della sorte che sarebbe toccata all'interventismo democratico, destinato a
soccombere di fronte all'altra anima del movimento, rappresentata, come visto, dal nazionalismo,
dai seguaci di Benito Mussolini e dalla destra liberale. Quell'episodio è, però, sintomo anche di
qualcosa di più grave che sembra emergere dal profondo della nazione. Secondo Luigi Salvatorelli e
Giovanni Mira, infatti, la contestazione nei confronti di Bissolati costituisce «il primo grande e
vittorioso esperimento di un metodo di violenza sistematica, “pianificata”, materiale e morale, per
impedire l'attività politica agli avversari, e metterli al bando della nazione».81 Da quel momento
emerge l'intima debolezza del gruppo dell'interventismo democratico, che, per tutta la durata della
guerra aveva condiviso una dura polemica contro tutte le forze neutraliste, e che, finito il conflitto,

74 Doc. n. 452 «Salvemini a Pietro Silva», Firenze, 2 luglio 1919, in: Salvemini, Carteggio 1914-1920, cit., p. 477.
75 Maranelli, Salvemini, «La questione dell'Adriatico», in: Salvemini, Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), cit., p.
287.
76 Ivi, p. 288.
77 Ivi, p. 448.
78 Ernesto Rossi, «Salvemini maestro e amico», in: Grasso (a cura di), Gaetano Salvemini: l'uomo, il politico, lo storico, cit., p.
119.
79 Doc. n. 429 «Salvemini a Giuseppe Lombardo Radice», Firenze, 16 gennaio 1919, in: Salvemini, Carteggio 1914-1920, cit., p.
444. Cfr. anche: Gaetano Salvemini, «Ognuno al suo posto», in: Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), cit., pp.
475-483.
80 Un esempio dell'opera di isolamento condotta da Orlando e da Sonnino nei confronti di Bissolati fu la cooptazione, all'interno
del governo, come ministro dei Lavori Pubblici, dell'altro leader socialriformista dell'epoca, Ivanoe Bonomi, che condivideva
solo in parte le idee di politica estera del primo. Cfr.: Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, cit., pp. 132-133.
81 Luigi Salvatorelli, Giovanni Mira, Storia dell'Italia fascista, Torino, Einaudi, 1956, p. 52.

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non riuscì a stringere un'alleanza con quei gruppi che avrebbero potuto condividere la strategia di
una pace democratica e di accordo con le nazionalità emerse dopo la dissoluzione dell'Austria-
Ungheria.82

4. Il dopoguerra e il trattato di Rapallo


Nel gennaio 1919 si aprì la Conferenza per la pace di Parigi.83 All'interno del Consiglio dei
Quattro, che comprendeva i capi di governo delle grandi potenze vincitrici dell'Intesa – Wilson per
gli Stati Uniti, Georges Clemenceau per la Francia, Lloyd George per la Gran Bretagna e Vittorio
Emanuele Orlando per l'Italia, accompagnati dai rispettivi ministri degli Esteri, Robert Lansing,
Stephen Pichon, Arthur James Balfour e Sonnino – e che prese le decisioni più importanti, si
assistette fin da subito a un atteggiamento ostile nei confronti dell’Italia da parte del presidente
statunitense, che si oppose ostinatamente alla cessione della Dalmazia, sulla base del principio di
nazionalità.84 Egli, però, denotando una certa contraddizione di ragionamento, si oppose anche alla
cessione di Fiume, città abitata per la stragrande maggioranza da italiani. Salvemini interpretò
questo atteggiamento, da parte di Wilson, come un atto di testardaggine. Lo studioso pugliese
aveva, infatti, mutato posizione sul destino della città di Fiume. All'inizio della guerra, e anche su
La questione dell'Adriatico, egli aveva chiesto soltanto che, alla fine del conflitto, Fiume diventasse
Città libera, perché «Fiume città libera e garentita dall’Italia, [era] praticamente la stessa cosa che
Fiume, città italiana».85 Successivamente, però, egli cercò di spingere la delegazione italiana alla
Conferenza di Parigi a rinunciare alla Dalmazia in cambio di Fiume. Proprio su questo punto vi fu il
maggior contrasto con Sonnino, da lui definito un «asino bendato».86 D’altro canto, Salvemini si
chiedeva, su «L'Unità», in un articolo dal titolo «La camicia di Nesso», il motivo per cui Wilson
cercasse di imporre criteri di giustizia assoluta soltanto all'Italia, mentre in altri casi, come nella
spartizione tra Francia e Gran Bretagna delle colonie tedesche in Africa e dei territori ottomani in
Medio Oriente, avesse prevalso la logica del vincitore. La risposta era che, per sfortuna dell'Italia,
sull'Adriatico si affacciavano due Stati vincitori, i cui rapporti non sarebbero stati semplici.87
Nonostante tutto, Salvemini continuò a svolgere, negli anni immediatamente successivi al conflitto,
l'ingrato ruolo della Cassandra, opponendosi, innanzitutto, alla condotta contraddittoria della
delegazione italiana alla Conferenza per la pace. Si è già accennato alla polemica nei confronti di
Sonnino. Il ministro degli Esteri era responsabile, secondo lo studioso molfettese, di aver capovolto
i termini della politica adriatica dell'Italia, avendo preferito il possesso sulla Dalmazia, abitata da
molti allogeni slavi, a Fiume, città quasi completamente italiana e dimenticata dal patto di Londra.
La politica di Sonnino non avrebbe, secondo Salvemini, preparato la pace, ma condotto al «dissidio
italo-jugoslavo». Ciò, lungi dal portare al dominio di Roma su entrambe le sponde dell'Adriatico,
avrebbe, invece, chiuso «al nostro commercio e alla nostra influenza intellettuale la penisola
balcanica e spin[to] gli slavi del sud nelle braccia della Germania». Alla Conferenza per la pace,

82 Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, cit., p. 135.


83 Sulla Conferenza per la pace di Parigi cfr.: René Albrecht-Carrié, Italy at the Paris Peace Conference, New York, Columbia
University Press, 1938; James H. Burgwyn, The Legend of the Mutilated Victory. Italy, the Great War and the Paris Peace
Conference (1915-1919), Westport, Greenwood Press, 1993; Clifford R. Lovin, A School for Diplomats. The Paris Peace
Conference of 1919, Lanham, University Press of America, 1997; Francesco Caccamo, L'Italia e la “Nuova Europa”. Il
confronto sull'Europa orientale alla Conferenza di pace di Parigi (1919-1920), Milano, Luni, 2000; Michael L. Dockrill, John
Fischer, The Paris Peace Conference 1919. Peace without Victory?, Houndmills, Palgrave, 2001; Scottà, La Conferenza di pace
di Parigi fra ieri e domani (1919-1920), cit.; Erik Goldstein, Gli accordi di pace dopo la Grande Guerra, Bologna, Il Mulino,
2005; Margaret MacMillan, Parigi 1919. Sei mesi che cambiarono il mondo, Milano, Mondadori, 2006; Giovanni Bernardini,
Parigi 1919. La Conferenza di pace, Bologna, Il Mulino, 2019; Paolo Soave, Una vittoria mutilata? L’Italia e la Conferenza di
Pace di Parigi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2020.
84 Su questo cfr. in particolare Monzali, Italiani di Dalmazia 1914-1924, cit., pp. 89-115.
85 Gaetano Salvemini, «Il problema di Fiume. Postilla», in: Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura, cit., p. 282.
86 Doc. n. 442 «Salvemini a Umberto Zanotto Bianco», Firenze, 24 aprile 1919, in: Salvemini, Carteggio 1914-1920, cit., pp. 464-
465.
87 Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., pp. 124-125.

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quindi, Sonnino avrebbe contribuito a preparare un'Europa «aggravata da armamenti maggiori e
precipitantesi verso la voragine di nuove guerre». Giocando sulle calunnie che avevano cominciato
già a circolare sul conto suo e di Bissolati, Salvemini ribaltava sul ministro degli Esteri l'appellativo
di rinunciatario: se, però, Bissolati «rinuncia[va] a una nuova guerra, [...] «l'on. Sonnino
rinuncia[va] alla pace».88
Il contraltare della diplomazia sonniniana era, per lo studioso pugliese, quella incarnata dal
presidente statunitense, Wilson. Il suo messaggio al Congresso dell'8 gennaio 1918, con cui aveva
fissato i Quattordici punti in vista della pace – pieno riconoscimento dei diritti delle nazionalità,
libertà dei mari, superamento delle barriere economiche, disarmo, pubblicità della diplomazia e
formazione della Società delle Nazioni – ne aveva fatto, agli occhi del fondatore de «L’Unità», «il
Padre della Democrazia Internazionale», paragonato, addirittura a Mazzini.89 Wilson apparve, sullo
scenario internazionale come il rappresentante delle aspirazioni degli interventisti democratici
italiani. La guerra che si era combattuta era stata, per il presidente statunitense, una «guerra di
giustizia e di libertà per tutti i popoli, grandi e piccoli, guerra per la pace».90 A questa ispirazione
idealistica si univa, però, un approccio molto concreto, rappresentato, secondo Salvemini, dal «patto
per la Società delle Nazioni», che ruotava intorno a due idee fondamentali: l'arbitrato obbligatorio,
regolato dagli articoli 12 e 16 del Covenant, e la limitazione degli armamenti. L'obiettivo della
istituzione della Società delle Nazioni non consisteva, dunque, nella instaurazione di un regime
internazionale di «giustizia assoluta» o di «pace perpetua». In maniera più semplice, si trattava di
«creare una nuova procedura internazionale, obbligatoria per tutti, la quale consent[isse] di adattare
l'assetto giuridico internazionale a tutte le nuove esigenze economiche, politiche, morali, via via che
si [fossero manifestate], appianando le controversie con metodi, che non [fossero] il metodo,
rivelatosi, se non altro, stolto, della guerra». Le incognite, però, nei primi mesi del 1919, erano
ancora tante. Il Covenant era imbevuto di ottimi principi, non da ultimo quello che trasformava le
potenze coloniali in Stati mandatari sui vecchi possedimenti, ma non era ancora «il codice della
civiltà internazionale». Sembrava, piuttosto, «un codice di procedura civile», che avrebbe potuto
regolare o «una palestra di popoli liberi ed eguali» o, nel peggiore dei casi, «una galera di
nazioni».91
Il caso del nuovo assetto dello spazio adriatico fu, ancora una volta, istruttivo. Pur conscio degli
eccessi nazionalistici propri dei leader dei popoli slavi del sud - «Pašić non è un Cavour, e Trumbić
non è un Mazzini», scrisse - Salvemini continuava ad attribuire agli errori della politica estera di
Sonnino la mancata composizione degli interessi contrapposti nella regione adriatico-balcanica.
Alla «grossolanità» propria dello statista toscano, si contrapponeva la «maggiore grossolanità
jugoslava», entrambe espresse nella disputa intorno alla Dalmazia. La politica di Sonnino, basata
sul pieno e completo riconoscimento delle disposizioni contenute nel patto di Londra, fu «la
camicia di Nesso, che [egli] mise, […], addosso all'Italia».92 Quando, alla fine, il ministro degli
Esteri italiano si accorse della necessità di una revisione, si trovò di fronte a una divisione tra gli
alleati, che, di fatto, rendeva impossibile qualsiasi ulteriore mediazione. Francia e Gran Bretagna
non intendevano disconoscere il valore del patto di Londra, pur considerando necessario un suo
ridimensionamento, soprattutto in merito alle pretese italiane sulla terraferma dalmata, su alcune
isole e su Fiume; gli Stati Uniti, invece, negavano qualsiasi valore a quell'accordo e si
pronunciavano favorevoli alla sola concessione all'Italia di un confine strategico in Alto Adige e in
Venezia Giulia.93

88 Salvemini, «Ognuno al suo posto», cit., p. 481.


89 Salvadori, Salvemini, cit., p. 101.
90 Gaetano Salvemini, «Il discorso di Milano», in: Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), cit., p. 483.
91 Gaetano Salvemini, «Il progetto della Società delle Nazioni», in: Ivi, pp. 490-492; 499-500.
92 Gaetano Salvemini, «La camicia di Nesso», in: Ivi, p. 512.
93 Monzali, Gli italiani di Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, cit., pp. 141-142.

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A questo proposito, l’abbandono, da parta di Orlando e Sonnino, dei tavoli della Conferenza per la
pace fu fonte di grande delusione per Salvemini.94 Una parziale giustificazione della condotta
wilsoniana fu che la corruzione del suo idealismo avvenne nel momento in cui il presidente
statunitense entrò in contatto con «i lupi e le volpi della vecchia diplomazia europea», che gli «si
strinsero intorno da ogni parte; gl'impedivano di decidere, e l'accusavano perché non decideva; lo
trascinavano a concessioni inique, e lo accusavano di iniquità; gli imponevano il segreto nelle
discussioni, ma propalavano via via gli errori, che egli commetteva, anche quando non erano
definitivi e c'era ancora possibilità di ripararli».95
La reazione di Salvemini ai risultati raggiunti a Parigi fu improntata, innanzitutto, a un'opposizione
nei confronti della svalutazione nazionalistica delle decisioni riguardanti l'Italia.96 La delusione di
Salvemini non arrivò mai alla «slavofobia» che caratterizzava l'irredentismo giuliano.97 Egli cercò,
piuttosto, di concentrarsi sugli aspetti positivi, a cominciare dal confine stabilito per la Venezia
Giulia, che, sviluppandosi dal monte Tricorno fino alla punta di Fianona, risultava, da un punto di
vista delle nazionalità, il migliore. Esso permetteva, infatti, di avere, in territorio italiano, 100.000
abitanti di origine slava in meno rispetto a quanto era stato previsto nel patto di Londra. 98 Da
questo punto di vista, la guerra aveva dato, in realtà, i risultati che Salvemini e gli interventisti
democratici speravano. A cominciare dallo smembramento dell'Austria-Ungheria. Al posto di una
grande potenza di circa 50 milioni di abitanti, infatti, esisteva, alla fine del conflitto, al confine
orientale, un regno di 12 milioni di abitanti, che aveva tutto l'interesse a coltivare rapporti di buon
vicinato con Roma contro il pericolo dei revisionismi tedesco, ungherese e bulgaro.
Questo tentativo di esaltare il valore positivo della situazione italiana all'indomani della fine del
conflitto, contro l'elemento protestatario e ribellistico alla base del mito della «vittoria mutilata»,
ammetteva, però, anche delle eccezioni. Dal 16 al 19 aprile 1919, si tenne, a Firenze, il convegno
degli amici de «L'Unità», che portò alla fondazione della Lega democratica per il rinnovamento
della vita pubblica italiana.99 In quell'occasione fu votato un ordine del giorno sulla Società delle
Nazioni in cui si chiedeva, tra le altre cose, «l'annessione dell'Alto Adige, del Trentino, della
Venezia Giulia, delle città di Fiume e di Zara e di quelle isole dell’Adriatico [...]indispensabili alla
sicurezza» dell'Italia. Quest’ordine del giorno fu votato anche da Salvemini, nonostante, in passato,
lo studioso pugliese avesse, più volte, espresso una posizione contraria all’ottenimento di alcuni di
quei compensi. Come volle spiegare alcuni giorni più tardi, sulle colonne de «l'Unità», quel voto
nasceva dal «dovere assoluto» di non esprimere un'opinione contraria a quella «della maggioranza
del convegno su un punto, in cui non sentivo impegnate le mie profonde convinzioni».100
Ciò non significò un'adesione all'irresponsabile nazionalismo, travestito di idealità patriottiche, di
D'Annunzio. La «Dichiarazione dei principî» della Lega, redatta proprio da Salvemini, propugnava
ancora un appoggio incondizionato alla Società delle Nazioni, purché questa non diventasse «la
veste legale, di cui gli Stati più forti si [fossero valsi] per attribuirsi una condizione di privilegio e
paralizzare il naturale sviluppo degli Stati minori, immobilizzandoli nella loro attuale inferiorità
economica e politica». La Società che Salvemini, idealisticamente, sosteneva era quella che aveva
tra i suoi principi cardine il riconoscimento dei diritti all'indipendenza per tutti i popoli «che
[avessero] raggiunto la capacità dell'autogoverno»; la progressiva riduzione delle barriere doganali;
il disarmo controllato dagli organi della stessa; la richiesta della «obbligatorietà della procedura
arbitrale in tutte le controversie internazionali»; l'affermazione del principio della porta aperta e

94 Salvadori, Gaetano Salvemini, cit., p. 105.


95 Salvemini, «La camicia di Nesso», cit., p. 508.
96 Salvadori, Gaetano Salvemini, cit., pp. 106-107.
97 Gaetano Salvemini, «Il ritorno di Casa d'Austria», in: Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), cit., pp. 536-540.
98 Gaetano Salvemini, «Noi, rinunciatari!», in: Ivi, pp. 559-560.
99 Sul convegno di Firenze e sul programma della Lega cfr.: Enzo Tagliacozzo, Gaetano Salvemini nel cinquantennio liberale,
Firenze, La Nuova Italia, 1959, pp. 214-217. Cfr. anche: Doc. n. 442 «Salvemini a Umberto Zanotti-Bianco», Firenze, 24 aprile
1919, in: Salvemini, Carteggio 1914-1920, cit., pp. 464-465.
100 «Una spiegazione», in: Salvemini, Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), cit., pp. 512-513.

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della parità di trattamento in tutte le colonie; l'abolizione dei trattati segreti e la rinuncia «ad ogni
tendenza imperialistica e resistenza agli imperialismi altrui».101
Salvemini, eletto alla Camera dei deputati nel novembre del 1919 all'interno della Lista dei
combattenti, fu molto attivo, invece, a denunciare tutti gli aspetti deteriori dell'impresa dannunziana
di Fiume.102 Il porto del Quarnaro era diventato «un centro di disonore e di ridicolo per l'Italia», a
cominciare dalla immoralità della condotta del poeta pescarese. D'Annunzio, denunciò Salvemini in
un discorso pronunciato alla Camera il 7 agosto 1920, aveva fatto del Comando di Fiume «un
lupanare». Ma la corruzione e il malcostume che regnavano nella città del Quarnaro avevano
contagiato anche Mussolini, che fu accusato di avere sottratto una parte consistente della
sottoscrizione raccolta per Fiume da italiani residenti negli Stati Uniti per finanziare la sua
campagna elettorale.103
L'ultimo intervento di Salvemini in parlamento fu dedicato al trattato di Rapallo, che può essere
considerato, a buon ragione, la degna conclusione della sua lunga battaglia adriatica. Lo studioso
pugliese sostenne la conclusione dell' accordo con il Regno dei serbi, croati e sloveni, grazie a cui il
confine comune ai due paesi fu stabilito lungo una linea che scorreva molto a est della cosiddetta
«Linea Wilson». L'Italia doveva rinunciare soltanto alla Dalmazia, con l'esclusione di Zara e delle
isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa, mentre l'indipendenza dello Stato libero di Fiume era
riconosciuta da entrambe le parti. Per Salvemini, il trattato di Rapallo del 12 novembre 1920
costituì «la prima vera pace», un'«opera di saggezza, non solamente perché concilia[va] i diritti
nazionali e i bisogni vitali dei due popoli adriatici, ma soprattutto perché [era] il resultato di liberi
accordi diretti». Non si trattava di un accordo perfetto, e lo studioso molfettese non esitò a metterne
in rilievo i difetti. L'indipendenza di Fiume, poneva, ad esempio, molti interrogativi. La presenza, in
quella città, di una rappresentanza politica composita, che andava dal partito croato, agli italiani
autonomisti, agli italiani annessionisti ai socialisti autonomisti italiani e slavi, faceva chiedere a
Salvemini se non fosse stato più opportuno sciogliere, in nome di una pace duratura, questo nodo
una volta per tutte, stabilendo l'annessione di Fiume all'Italia. Le stesse perplessità erano sollevate
dal rilevante spostamento a est del confine comune a Italia e Regno dei serbi, croati e sloveni, che
aveva portato all'inclusione di oltre 400.000 slavi nella Venezia Giulia.104
Salvemini volle esprimere le sue «congratulazioni vivissime» nei confronti del ministro degli Esteri,
Carlo Sforza, che fu, paradossalmente, insieme al presidente del Consiglio Giolitti, l'artefice, in
Italia del trattato.105 Questa, fino a poco tempo prima, improbabile convergenza con le posizioni e
l’azione dello statista di Dronero sancì il fallimento delle posizioni dell’irredentismo di sinistra
sostenute da Salvemini e la fine, nel dicembre del 1920, dell'esperienza de «L'Unità». Nonostante la
ricchezza e la varietà del dibattito politico e culturale animatosi sulle pagine della rivista, Salvemini
e i suoi avevano avuto molte difficoltà a influire sull’elaborazione della politica estera del governo
italiano durante la guerra. Come lo stesso Salvemini ammise candidamente, per tutta la durata del
conflitto, «non ci fu possibile di stabilire intese e contatti diretti col governo per coordinare il

101 Un'ampia sintesi della «Dichiarazione dei principî» si trova in: Salvadori, Gaetano Salvemini, cit., pp. 108-110.
102 Sull’impresa di Fiume: Arrigo Solmi, Gabriele D’Annunzio e la genesi dell’impresa adriatica, Milano-Roma, Rizzoli, 1945;
Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica, cit.; Roberto Vivarelli, Il dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo (1918-
1922), Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1967; Michael A. Ledeen, D'Annunzio a Fiume, Roma-Bari, Laterza, 1975;
Renzo De Felice, D'Annunzio politico (1918-1938), Roma-Bari, Laterza, 1978; Paolo Alatri, D’Annunzio, Torino, UTET, 1983;
Massimo Bucarelli, «”Delenda Jugoslavia”. D'Annunzio, Sforza e gli “intrighi balcanici” del '19-'20», in: «Nuova Storia
Contemporanea», a. 2002, n. 6, pp. 19-34; Giuseppe Parlato, Mezzo secolo di Fiume. Economia e società a Fiume nella prima
metà del Novecento, Siena, Cantagalli, 2009; Antonella Ercolani, Da Fiume a Rijeka. Profilo storico-politico dal 1918 al 1947,
Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2009.
103 «Anche recentemente – denunciava Salvemini – vi fu una terribile lite fra due amanti del poeta, con grandi urli e strappi di
capelli e rotolamento per terra in una sala del Comando». E ancora su Mussolini: «Dalla sottoscrizione per Fiume furono
sottratte da Mussolini 480 mila lire per le spese elettorali». Cfr.: Gaetano Salvemini, «La politica estera dell'Italia», in: Id., Dalla
guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), cit., pp. 626-628.
104 Gaetano Salvemini, «Il Trattato di Rapallo», in: Ivi, pp. 650-651.
105 Doc. n. 518 «Salvemini a Carlo Sforza», in: Salvemini, Carteggio 1914-1920, cit., p. 556.

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movimento popolare con la politica ufficiale...»,106 con la conseguenza di aver lavorato «con
disperante cecità […] alla rovina dell’Italia».107 Queste riflessioni tornarono nel volume Dal patto
di Londra alla pace di Roma, pubblicato nel 1925 da Piero Gobetti e dedicato al problema
dell’Austria e ai rapporti italo-slavi negli anni compresi tra il 1915 e il 1920. Il deficit democratico
che aveva caratterizzato la condotta in politica estera dei governi che si erano succeduti negli anni
della guerra aveva contribuito a provocare le frustrazioni della «vittoria mutilata» e, poi, il
fascismo. Proprio la solidarietà democratica, interna e internazionale, sarebbe stata la parola chiave
di tutta la sua esperienza di opposizione al fascismo, oltre che il paradigma per un’interpretazione
storica innovativa del regime, che completava le impostazioni crociana, liberale e marxista
dell’analisi della dittatura mussoliniana.108

106 Salvemini, «L’antisonnino», cit., p. 70.


107 Salvemini, «Lloyd George e i fini di guerra dell’Intesa», in: Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura, cit., p. 160.
108 Gli scritti di Salvemini sul fascismo comprendono Mussolini diplomate, Paris, Grasset, 1932; Under the Axe of Fascism, New
YorK, The Viking Press, 1936; Prelude to World War II, London, Gollancz, 1953, poi raccolti in Scritti sul fascismo, 3 voll.,
Milano, Feltrinelli, 1961, 1966, 1974. Sulle interpretazioni storiografiche del fascismo, si segnalano soltanto: Renzo De Felice,
Le interpretazioni del fascismo, Bari, Laterza, 1969; Giovanni Sabbatucci, Le istituzioni del fascismo. Problemi e istituzioni
recenti, Torino, Centro Studi di Scienza Politica, 1977; Francesco Perfetti, Il dibattito sul fascismo, Roma, Bonacci, 1984;
Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002.

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