Sei sulla pagina 1di 866

Sotterranei

72

Louis Armstrong

Satchmo. La mia vita a New Orleans

titolo originale: Satchmo. My Life in New


Orleans

L’editore si dichiara a disposizione

per eventuali aventi diritto sul testo originale


e

sulla traduzione di Amy Coopmans de Yoldi,

che è stata qui considerevolmente


riveduta e corretta da Federica Aceto.

© minimum fax, 2004

Tutti i diritti riservati

Edizioni minimum fax

piazzale di Ponte Milvio, 28 – 00191 Roma

tel. 06.3336545 / 06.3336553 – fax


06.3336385

www.minimumfax.com

info@minimumfax.com

I edizione: giugno 2004

ISBN 88-7521-025-X
LOUIS ARMSTRONG

SATCHMO

LA MIA VITA A NEW ORLEANS

prefazione di

ENRICO RAVA

traduzione di

AMY COOPMANS DE YOLDI

PREFAZIONE

di Enrico Rava
Louis Armstrong è il jazz. È impossibile

immaginare questa musica senza di lui.

Penso che in nessun altro campo artistico ci

sia qualcuno in grado di rappresentare in

modo così assoluto e totale tutto il percorso

e la storia dell’arte a cui appartiene.

Armstrong ha saputo impadronirsi di

quello che era un artigianato primitivo per

trasformarlo in arte sublime, creando le

fondamenta di quella che sarebbe stata la


grande musica americana del Novecento.

Nei dischi incisi da Satchmo tra il ’25 e il

’35 c’è praticamente tutta la storia del jazz,

passato, presente e futuro. Già nel ’25, gli

Hot

Five,

pur

conservando

certe

caratteristiche di improvvisazione collettiva


tipiche della musica di New Orleans, davano

vita ad una autentica rotazione di solisti così

come viene praticata ancora oggi.

Ovviamente su tutti svetta lui, con la sua

energia, il suo gusto del rischio, la sua

imprevedibilità e una straordinaria agilità

sullo strumento.

Agilità che migliora letteralmente di

giorno in giorno, in modo stupefacente,

come si può facilmente constatare ascoltando


le sue incisioni con gli Hot Five e gli Hot

Seven tra il ’25 e il ’27. Quella che era per

l’epoca una tecnica eccezionale (“Cornet

Chop Suey” – febbraio ’26) viene

ampiamente superata un anno dopo (“Potato

Head Blues” – maggio ’27).

Ma se la tecnica di Armstrong in quegli

anni è infinitamente superiore a quella dei

trombettisti-cornettisti suoi contemporanei,

quello che soprattutto colpisce è la


costruzione dei suoi assoli, di una modernità

sorprendente, la sua capacità di creare una

tensione drammatica giocando con gli spazi,

con la dinamica, coi silenzi, con l’utilizzo

dei registri estremi dello strumento. Tra le

altre cose infatti Armstrong è stato il primo

ad esplorare il registro acuto della tromba,

arrivando, agli inizi degli anni Trenta, a

dominarlo in modo totale, definendo nuovi

parametri di eccellenza. Sono quelli gli anni


in cui il suo rapporto con la tromba

raggiunge l’apice. Il labbro risponde a

qualunque sollecitazione, il controllo degli

acuti

perfetto,

l’agilità

quasi

funambolica. Sono quelli gli anni in cui nel


suo discorso solistico appaiono frasi che

ritroveremo quindici anni più tardi nel

linguaggio dei bopper.

Nel frattempo Armstrong, come se non

bastasse, inventa in pratica il canto jazz. Non

c’è cantante che non sia in debito con lui, da

Ella Fitzgerald a Billie Holliday, da Sinatra

a Mel Tormé, da Sarah Vaughan a Betty

Carter.

Tutti hanno imparato dal suo modo di


giocare col tempo, dai suoi anticipi e ritardi,

dalla sua espressività.

Per non parlare del canto scat che diventa

una caratteristica del vocabolario di

Satchmo fin dal 1926 (“Heebie Jeebies”) e

che diventerà parte del patrimonio di tutti i

cantanti a venire.

Perfino il rap è presente nella musica di

questo genio che in pratica ha inventato il

jazz e dintorni (“Big Butter and Egg Man”).


Passano gli anni. Dopo l’epoca dello

swing (Goodman, Harry James, Gene Krupa)

esplode il be bop. I nuovi eroi si chiamano

Parker, Gillespie, Davis, Monk. È una

rivoluzione musicale che investe anche il

modo di vestirsi, di parlare, di muoversi, di

comportarsi. Tra i giovani musicisti neri si

fa strada una nuova coscienza sociale

insieme

all’orgoglio
della

propria

negritudine. Il jazz di prima viene snobbato e

tacciato di “ziotomismo”. Eppure tutti si

riconoscono figli di Armstrong. Lo stesso

Miles Davis, uno dei più duri verso il

comportamento troppo condiscendente di

certi musicisti del passato, dirà nella sua

autobiografia che tutto quello che si suona è

già stato suonato da Satchmo il quale, se


negli anni Cinquanta non era più l’uomo di

punta del jazz e non era più in grado di

suonare come prima per via di un un labbro

letteralmente massacrato dal troppo suonare

negli anni d’oro, riusciva tuttavia a

ritagliarsi uno spazio di primissimo piano

nel mondo dell’entertainement ad altissimo

livello, apparendo in numerosissimi film,

trasformando delle canzoncine alla moda in

autentiche opere d’arte (“C’est ci bon”, “La


Vie en rose”, “Hello Dolly”, ecc.) e

diventando il musicista più popolare della

prima metà del secolo scorso malgrado una

tecnica delle comunicazioni di massa non

ancora del tutto sviluppata.

La sua intelligenza e la sua capacità innata

a trovare sempre la via giusta lo portano a

superare le sopravvenute limitazioni fisiche

con un utilizzo sempre più sapiente delle

pause, degli anticipi e dei ritardi. Il suo


suono, meno pulito di prima, cessa di essere

il suono di uno strumento per diventare il

suono della sua anima. Un’anima che

trabocca dalla campana della tromba

attraverso il vibrato, trasformando ogni nota

in un’esplosione d’amore.

Louis Armstrong era nato a New Orleans,

nel quartiere più povero della città, ed era

nato con il jazz (il primo disco di jazz è

datato febbraio 1917). Aveva imparato a


suonare la cornetta a dodici anni in

riformatorio.

Un’infanzia

difficile,

poverissima, minacciata da violenze d’ogni

genere, che il giovane Louis riuscirà ad

attraversare, uscendone integro e pronto al

grande balzo grazie alla musica che aveva

dentro e grazie alla dedizione e alla saggezza

della madre Mayann, che è, in fondo, la vera


protagonista di questo libro esemplare, in

cui il grande Louis ci racconta in modo

semplice ma affascinante gli anni difficili

della sua formazione a New Orleans.

NOTA AL TESTO

La grafia dei nomi dei musicisti è spesso

errata nel testo. Quindi, Ducson sarebbe

Duson, Gasper: Gaspar, Harry Zeno: Henry

Zeno, Powlow o Paalow: Paolo, Fields:

Filhé, Mauret : Moret, Dewey: Duhé,


Backet : Bacquet. Bacquet, inoltre, nella

Excelsior Brass Band suonava il clarinetto,

e in particolare il clarinetto mi bemolle, e

non la cornetta. La città natale di Kid Ory è

Laplace, non La Blast, e il locale di Chicago

citato come Idleweise Gardens si chiamava

in realtà Edelweiss Gardens. Le “stock ties”,

infine, sembrano essere un fraintendimento

del termine ascot ties.

SATCHMO
CAPITOLO 1

Nel 1900, quando nacqui io, mio padre

Willie Armstrong e mia madre May Ann – o

Mayann, come veniva più comunemente

chiamata – abitavano in un vicoletto che si

chiamava James Alley. Lunga appena un

isolato, la strada si trovava in quel popoloso

quartiere di New Orleans noto come Back

o’Town, che costituisce uno dei quattro

grandi settori in cui è divisa la città. Gli altri


tre sono Uptown, Downtown, e Front

o’Town; ognuno di questi quartieri ha una

personalità tutta sua.

James Alley – e non Jane Alley come lo

chiamano alcuni – si trova nel cuore della

zona

soprannominata

il

“Campo

di
Battaglia” per via dei suoi rissosissimi

abitanti che si azzuffavano e sparavano in

continuazione. In quell’unico isolato stretto

fra Gravier e Perdido Street viveva stipata

più gente di quanta ne possiate vedere mai in

vita vostra. C’erano uomini di chiesa,

biscazzieri,

imbroglioni,

ladruncoli,

papponi, prostitute e sciami di bambini.


C’erano bar, honky tonk e saloon e un sacco

di donne che battevano il marciapiede a

caccia di clienti da portarsi nella “tana”,

come chiamavano la loro stanza.

Mayann mi raccontò che la notte in cui

nacqui io ci fu una sparatoria furibonda nel

vicolo e i due si ammazzarono a vicenda.

Era il quattro di luglio, festa grossa per New

Orleans, un giorno in cui può succedere di

tutto. Quasi tutti festeggiano la ricorrenza


con pistole, fucili o qualunque arma ci fosse

a portata di mano.

Quando venni al mondo i miei genitori

vivevano con la nonna, Josephine Armstrong

– che Dio l’abbia in gloria! – ma non

rimasero a lungo in quella casa. Litigavano

in modo orribile e alla fine scoppiarono: mia

madre un bel giorno se ne andò, lasciandomi

con la nonna, e mio padre a sua volta tagliò

la corda per andare a vivere con un’altra


donna. Mia madre si trasferì in una casa fra

Liberty e Perdido Street, in un quartiere

pieno di prostitute da due soldi, che

guadagnavano molto meno delle puttane di

Storyville, il famoso quartiere a luci rosse.

Non so se mia madre battesse. Ma se

batteva di sicuro non l’ha mai fatto sotto i

miei occhi. Una cosa è certa: tutti nel

quartiere, dai timorati di Dio ai delinquenti,

la trattavano con il massimo rispetto, e lei


salutava tutti volentieri e girava sempre a

testa alta. Non provò mai invidia per

nessuno e io credo di aver ereditato da lei

questo dono.

Quando avevo un anno mio padre andò a

lavorare in uno stabilimento dove si

produceva trementina non lontano da James

Alley, dove rimase fino alla sua morte, nel

1933. Ci restò tanto da diventare una sorta di

istituzione, in fabbrica, e la sua posizione gli


consentiva di assumere e licenziare a suo

piacimento gli operai di colore che erano

sotto la sua supervisione. Dopo che si

separò da mia madre non lo vidi fino a

quando non fui grandicello, né rividi Mayann

per molto tempo.

La nonna mi fece frequentare la scuola.

Era lavandaia e stiratrice, e quando l’aiutavo

a consegnare i vestiti ai signori bianchi mi

dava un nichelino. Mamma mia! Mi sentivo


ricchissimo! I giorni che non dovevo andare

a scuola mi portava con sé nelle case dei

clienti bianchi dove faceva il bucato e altre

faccende domestiche. Mentre lei lavorava io

stavo in giardino a giocare con i bambini

bianchi. Giocavamo per lo più a nascondino,

e quasi sempre ero io che stavo sotto. E tutte

le volte che mi nascondevo quei ragazzini

bianchi erano così in gamba che mi

scovavano subito. Questa cosa mi faceva


imbestialire. Sia a casa che alla scuola

materna, non aspettavo altro che la nonna

andasse in casa di qualche cliente e mi

portasse con sé: così sarei finalmente

riuscito a trovare un nascondiglio dove non

mi avrebbero mai trovato.

Un caldissimo giorno d’estate stavo

giocando a nascondino con dei bambini

bianchi e naturalmente toccava a me

nascondermi. Mi stavo spremendo il


cervello per trovare un nascondiglio sicuro,

quando l’occhio mi cadde sulla nonna, che

stava china su una tinozza a sgobbare come

un mulo. Il lembo posteriore del suo

scamiciato era aperto e sventolava. Fu così

che mi venne l’idea. Prima che gli altri

potessero vedermi, feci una bella corsa e

andai a infilarmi sotto il vestito della nonna.

Per un bel po’ rimasi ad ascoltare quei

ragazzini che correvano in giro dicendo:


“Ma che fine ha fatto?” Poi, quando stavano

per abbandonare le ricerche, feci capolino

da sotto la gonna e fischiai.

“Ah, eccoti!”, urlarono. “Ti abbiamo

trovato!”

“No no”, dissi io. “Non mi trovavate mica

se non tiravo fuori la testa”.

Sempre, fin da piccolissimo, sono stato

molto affezionato a mia nonna. Passò giorni

e giorni a occuparsi di me e a insegnarmi a


distinguere fra il bene e il male. Quando

pensava che meritassi una punizione per

qualcosa che avevo fatto, mi mandava in

giardino a staccare un ramoscello dal grande

albero del sapone.

“Hai fatto il cattivo”, diceva, “e ora te le

do”.

Io andavo in cortile piangendo calde

lacrime e tornavo con il ramoscello più

piccolo e sottile che riuscivo a trovare. Di


solito la nonna si metteva a ridere e mi

lasciava andare, ma quando era arrabbiata

sul serio me le dava di santa ragione anche

per tutte le altre volte che mi aveva

risparmiato. Mayann doveva aver imparato

da lei questo sistema, dato che più tardi,

quando andai ad abitare con lei, me le dava

nello stesso identico modo in cui me le dava

la nonna.

Ricordo bene anche la mia bisnonna, che


visse oltre novant’anni. Probabilmente è da

lei che ho ereditato la mia energia: oggi, a

cinquantaquattro anni, mi sento ancora come

un ragazzino che ha appena finito la scuola e

non vede l’ora di fare la vita che sogna,

suonando la tromba.

All’epoca, s’intende, non distinguevo una

tromba da un pettine. Andavo regolarmente

in chiesa perché la nonna e la bisnonna erano

credenti e mi facevano andare a scuola, in


chiesa e al catechismo. Fu lì, penso, che

facendo parte del coro acquisii la mia

tecnica vocale.

A scuola prendevo parte a tutte le attività.

Ero simpatico sia ai compagni che agli

insegnanti, ma non feci mai nulla per

arruffianarmi gli insegnanti. Comunque, fin

da

piccolissimo,

sono
sempre

stato

coscienzioso in tutto quello che ho fatto. In

chiesa ci mettevo veramente il cuore quando

cantavo gli inni e sono ancora molto

credente, e ancora oggi vado in chiesa tutte

le volte che mi è possibile.

Dopo due anni di convivenza, mio padre

lasciò la donna con cui stava e tornò con

Mayann. Il risultato fu mia sorella Beatrice,


in seguito soprannominata “Mama Lucy”.

Quando nacque, io abitavo ancora con mia

nonna e la vidi per la prima volta quando

avevo cinque anni.

Un’estate ci fu una terribile siccità: erano

mesi e mesi che non pioveva e in giro non

c’era neanche una goccia d’acqua. All’epoca

la gente aveva in giardino delle grandi

cisterne per la raccolta dell’acqua piovana.

Quando le cisterne si riempivano era facile


prendere tutta l’acqua che si voleva. Ma

questa volta le cisterne erano vuote e gli

abitanti di James Alley erano fuori di sé. Le

scuderie del penitenziario, all’angolo tra

James Street e Gravier Street, salvarono la

situazione. Lì acqua ce n’era e i cocchieri ci

permettevano di andare lì con i nostri barili

da birra vuoti per riempirli d’acqua.

Di

fronte
alle

scuderie

c’era

il

penitenziario vero e proprio che occupava

un intero isolato e ospitava detenuti

condannati a scontare “da trenta giorni a sei

mesi”. I carcerati venivano impiegati per

pulire i vari mercati della città e venivano

portati avanti e indietro dai posti di lavoro


su grossi carri. Quelli che accettavano di

lavorare nei mercati avevano la pena ridotta

da trenta a diciannove giorni. Aquei tempi, a

New Orleans, i carri e i cellulari della

polizia venivano trainati da bei cavalli

robusti. Io guardavo quei grossi animali e

desideravo tanto cavalcarne uno. E poi

finalmente lo feci. Mamma che emozione!

Un giorno, a James Alley, mentre facevo

rifornimento di acqua insieme ai vicini, una


signora anziana, amica di Mayann, andò

dalla nonna per dirle che Mayann stava

malissimo e che lei e mio padre si erano

lasciati un’altra volta. Mia madre non

sapeva dove fosse papà e tanto meno se

sarebbe tornato. Era rimasta sola con la

bimba piccola – mia sorella Beatrice (o

Mama Lucy) – e senza nessuno che le desse

una mano. La signora chiese alla nonna di

lasciarmi andare da Mayann per aiutarla un


po’. Lei, essendo una donna eccezionale,

acconsentì immediatamente e, con le lacrime

agli occhi, cominciò a vestirmi.

“Mi dispiace tanto lasciarti andare via”,

disse. “Ormai mi ero così abituata ad averti

con me”.

“Anche a me dispiace molto lasciarti,

nonna”, risposi con un nodo in gola, “ma

spero di tornare presto. Ti voglio troppo

bene. Sei stata sempre così buona e gentile


con me e mi hai insegnato tutto quello che

so: ad aver cura di me stesso, a lavarmi e a

pulirmi i denti, a mettere a posto i vestiti e a

rispettare le persone più grandi”.

Mi diede una pacca sulla schiena, si

asciugò gli occhi e asciugò anche i miei, poi

mi spinse gentilmente verso la porta per

salutarmi. Non sapeva quando sarei tornato.

Neppure io lo sapevo, ma siccome mia

madre era malata, le sembrava giusto che io


andassi ad assisterla.

La signora mi prese per mano e lentamente

ci allontanammo. Per strada scoppiai in

lacrime. Mentre percorrevamo James Alley

potevo vedere nonna Josephine che mi

salutava con la mano; poi voltammo l’angolo

per prendere il tram su Tulane Avenue,

proprio davanti al penitenziario. Continuavo

a singhiozzare, e allora la signora mi prese e

mi girò per farmi vedere l’enorme


costruzione.

“Ascolta bene, Louis, se non la smetti

subito di piangere ti faccio rinchiudere in

quella prigione dove c’è la gente cattiva. Ma

tu non ci vuoi andare, vero?”

“Oh, no, signora!”

Vedendo quanto era grande quell’edificio,

mi dissi: “Forse è meglio smettere di

piangere. In fondo io non conosco questa

signora e magari è capace di fare sul serio


quello che dice. Non si sa mai”.

Smisi di piangere immediatamente. Il tram

arrivò e noi salimmo.

Qui ebbi la mia prima esperienza di

discriminazione razziale. Avevo appena

cinque anni e non ero mai salito su un tram.

Salii per primo e mi precipitai a occupare i

posti in testa alla carrozza senza notare la

scritta “RISERVATO AI PASSEGGERI DI


COLORE”

sullo schienale dei sedili ai due lati. Sicuro


che la signora mi venisse dietro, occupai uno

dei posti davanti, ma quando mi voltai non la

vidi vicino a me. La scorsi invece sul fondo

che agitava freneticamente le braccia.

“Ragazzino, vieni qua”, gridava, “vieni a

sederti al posto tuo”.

Pensavo che mi stesse prendendo in giro e

credendo di fare il furbo rimasi imperterrito

al mio posto. Che m’importava di dove si

sedeva lei? Non l’avessi mai fatto! Si


precipitò su di me e, dopo avermi strappato

dal sedile, con la velocità del lampo mi

trascinò in fondo alla carrozza spingendomi

a sedere su uno dei posti più indietro.

Soltanto allora mi accorsi che sullo

schienale dei sedili posteriori c’era scritto:

“RISERVATO AI PASSEGGERI DI
COLORE”.

“Cosa c’è scritto?”, chiesi.

“Smettila di fare tutte queste domande.

Sta’ zitto, stupidello!”


Quelle scritte sui tram di New Orleans

avevano un che di ridicolo, in realtà. Noi

neri ci divertivamo da matti, specialmente

quando prendevamo il tram per fare delle

scampagnate oppure la domenica sera a

Canal Street e succedeva che eravamo più

numerosi dei bianchi. Automaticamente

occupavamo l’intera carrozza spingendoci il

più avanti possibile. Era bello sedersi là

davanti, una volta tanto. Ci sentivamo un po’


più importanti del solito. Non saprei

spiegare con esattezza il perché, ma forse

derivava dal fatto che era una cosa proibita.

Quando il tram si fermò all’angolo fra

Tulane e Liberty Street, la signora disse:

“Bene, Louis, è qui che dobbiamo scendere”.

Mentre scendevamo guardai verso Liberty

Street. Fin dove arrivava il mio sguardo

c’era una gran quantità di gente che andava

su e giù. Mi ricordava un po’James Alley,


pensavo, e se non fosse stato per la nonna

non avrei sentito una gran nostalgia di quella

strada. Ad ogni modo tenni per me questi

pensieri mentre percorrevamo i due isolati

che ci separavano dalla casa di Mayann:

un’unica stanza, in fondo a un cortiletto,

dove lei doveva cucinare, lavare, stirare e

occuparsi della mia sorellina. La prima

impressione fu così forte che la ricordo

come fosse ieri. Non sapevo cosa pensare.


Sapevo solo che mi trovavo con la mamma e

che le volevo tanto bene, tanto quanto ne

volevo alla nonna. La mia povera mamma

era distesa lì davanti a me, molto molto

malata... Oh Dio, incominciai a provare una

strana sensazione e mi venne un’altra volta

da piangere.

“Allora ci sei venuto a trovare tua

madre!”, disse.

“Sì, mamma”.
“Avevo paura che la nonna non ti

lasciasse venire. Dopotutto mi rendo conto

che non ho fatto per te quanto avrei dovuto.

Ma, figlio mio, la mamma rimedierà. Se non

fosse stato per quel buono a nulla di tuo

padre, le cose sarebbero andate meglio. Io

faccio tutto quello che posso, ma sono sola

con la piccolina. Sei ancora un bimbo,

figliolo, e hai davanti a te ancora molta

strada. Non dimenticare mai che quando si è


malati nessuno ti dà nulla, quindi cerca di

stare in buona salute. Vale più la salute del

denaro. Mi devi promettere di prendere una

purga almeno una volta alla settimana finché

campi. Me lo prometti?”

“Sì, mamma”, risposi.

“Bene! Allora dammi quelle pillole che

sono nel primo cassetto del comò, nella

scatola con su scritto Coal Roller Pills. Sono

pilloline nere”.
Le pillole assomigliavano alle pillole per

il fegato, soltanto erano molto molto più

nere. Quando ebbi mandato giù le tre che mi

aveva dato mia madre, la signora che mi

aveva accompagnato disse che doveva andar

via. “Ora che ti ho portato tuo figlio devo

andare a casa a preparare la cena a mio

marito”.

Dopo che se ne fu andata, domandai alla

mamma se potevo fare qualcosa per lei.


“Sì”, disse. “Guarda sotto il tappeto e

prendi quei cinquanta cents. Va’ da

Zattermann a Rampart Street e fatti dare una

fetta di carne, mezzo chilo di fagioli rossi e

mezzo chilo di riso. Passa poi dal fornaio

Stahle e compra due pagnotte da un

nichelino. Torna presto, figliolo”.

Era la prima volta che uscivo senza essere

accompagnato da mia nonna ed ero molto

fiero del fatto che mia madre si fidasse di me


tanto da mandarmi da solo fino a Rampart

Street. Ero deciso a fare esattamente quello

che mi aveva detto.

Uscito dal cortiletto, vidi sul marciapiede

davanti alla casa cinque o sei mocciosi

vestiti

di

stracci,

li
salutai

amichevolmente.

Dopotutto venivo da James Alley,

quartiere assai turbolento, dove avevo

conosciuto tipi piuttosto violenti, ma per lo

meno i ragazzini della mia zona erano stati

educati a comportarsi come si deve e a

rispettare gli altri. Tutti salutavano sempre,

recitavano le preghiere prima dei pasti e

prima di andare a dormire. Naturalmente io


credevo che ovunque i bambini ricevessero

la stessa educazione.

Quando mi videro così pulito e ben vestito

si affollarono intorno a me.

“Ehi, tu. Ma che sei un cocco di

mamma?”, fece uno di loro.

“Un cocco di mamma? Che cosa vuol

dire?”, domandai.

“Ecco, appunto, sei proprio un cocco di

mamma!”
“Non capisco. Che cosa vuol dire?”

Uno di quei bulletti, soprannominato One

Eye Bud, si era avvicinato per esaminare il

mio completino alla piccolo lord, con il

collettone bianco.

“Ah non capisci, eh? Male, molto male”.

Dopodiché raccolse una manciata di fango

e me la scagliò su quell’abito che mi piaceva

così tanto. Ne avevo soltanto due. Gli altri

ragazzini, tutti sporchi in faccia e con le


gambe piene di croste, scoppiarono a ridere,

e io rimasi lì tutto inzaccherato senza sapere

come comportarmi. Ero piccolo, sì, ma ero

in grado di capire che si stava mettendo male

e che se mi fossi messo a litigare le avrei

prese di santa ragione.

“Che c’è, cocco di mamma, non ti sta

bene?”, chiese One Eye Bud.

“No, non mi sta bene”.

Poi, prima di rendermi conto di quello che


facevo e prima che gli altri potessero

disporsi

all’attacco,

balzai

contro

il

mocciosetto e gli sferrai un pugno sul muso.

Ero spaventato e lo colpii con tutte le mie

forze. Gli feci uscire tantissimo sangue dalla

bocca e dal naso. Quei ragazzini rimasero


così spiazzati che se la diedero a gambe con

One Eye Bud in testa. Ero troppo confuso

per rincorrerli, e poi, in realtà, non mi

andava neanche.

Avevo paura che Mayann, sentendo tutto

quel trambusto, si facesse male nello sforzo

di alzarsi dal letto. Per fortuna non lo fece e

io andai a sbrigare le mie commissioni.

Al mio ritorno trovai la stanza di mia

madre piena di visitatori: un sacco di cugini


che non avevo mai visto. Isaac Miles, Aaron

Miles, Jerry Miles, Willie Miles, Louisa

Miles, Sarah Ann Miles, Flora Miles (che

era una neonata) e lo zio Ike Miles erano tutti

in attesa di poter conoscere il nuovo

cuginetto, come dicevano loro.

“Louis”, disse mia madre, “ti presento dei

nuovi parenti”. Caspita, pensai, tutti questi

sono proprio miei cugini?

Lo zio Ike Miles era il padre di tutti quei


ragazzini. Sua moglie, morendo, glieli aveva

affidati e lui se la stava cavando bene. Per

sostentarli, lavorava sul molo allo scarico

dei battelli. Guadagnava poco e in modo

discontinuo, ma comunque riusciva quasi

sempre a sfamarli e a vestirli in modo

decente. Abitava in una sola stanza con tutti

quei figli, ma in un modo o nell’altro

riusciva a farceli entrare. Ne metteva a letto

più che poteva e gli altri dormivano sul


pavimento. Dio benedica lo zio Ike! Se non

fosse stato per lui non so che fine avremmo

fatto io e Mama Lucy, perché ogni volta che

a Mayann veniva l’impulso di andarsene a

fare baldoria stavamo anche giorni e giorni

senza vederla. Quando questo accadeva, ci

scaricava regolarmente in braccio allo zio

Ike.

In quell’unica stanza io dormivo tra Aaron

e Isaac e Mama Lucy dormiva tra Flora e


Louisa. Mangiavamo in scodelline di latta

che lo zio Ike aveva comprato per sostituire i

piatti di porcellana, perché i bambini erano

così pigri che li rompevano pur di non

doverli lavare.

Certo lo zio Ike aveva un bel da fare con

tutti quei ragazzini, buoni a nulla come mai

ne avevo visti, ma nonostante tutto

crescemmo insieme.

Come
ho

già

detto,

mia

madre

somministrava regolarmente una purga a me

e a Mama Lucy.

“Una purghetta o due la settimana”,

diceva, “serve a cacciare via molti di quei

mali o germi che non si riesce a capire


perché vadano a cacciarsi nello stomaco.

Non possiamo spendere cinquanta cents o un

dollaro per pagare un dottore”.

Con quel denaro invece poteva cucinare

pentole e pentole di riso e fagioli rossi, e

con quel regime non stavamo mai male.

D’altra parte, poiché tutti i bambini che

abitavano in quel quartiere di New Orleans

andavano in giro quasi sempre scalzi,

succedeva che ci facevamo male con chiodi,


schegge e pezzi di vetro. Ma eravamo

giovani, sani e robusti come torelli e non ci

spaventavamo di certo per una robetta come

il tetano.

Mia madre andava con alcune sue vicine

lungo gli argini della ferrovia a raccogliere

intere ceste di crescioni. Li faceva bollire

fino a ridurli in una poltiglia da applicare

sulle ferite. Con questo rimedio, noi

bambini, dopo due o tre ore, saltavamo fuori


dal letto per andare a giocare in strada come

se niente fosse.

Quello che dice il proverbio: “Il Signore

protegge i pazzi” è proprio vero se si pensa

a tutti i pericoli che incombevano su noi

bambini. Nella nostra zona c’erano sempre

case in demolizione o in costruzione, e nei

pressi trovavamo ogni sorta di rifiuti, come

vecchie scatole di latta, chiodi, pezzi di

legno, bottiglie e vetri rotti. Noi andavamo a


giocare proprio in quelle case e tra le altre

cose ci piaceva giocare alla guerra, anche

perché l’avevamo vista tante volte al

cinema. Naturalmente ne sapevamo poco o

nulla, ma comunque decidemmo di nominare

gli ufficiali dei vari gradi. One Eye Bud si

autonominò generale dell’esercito. Poi lui mi

fece uomo d’armi; però quando gli chiesi che

cosa avrei dovuto fare, disse che il mio

compito era quello di andare sul campo di


battaglia a raccogliere i feriti.

Un giorno, mentre trascinavo un compagno

ferito fuori dal campo di battaglia, un pezzo

di tegola staccatosi da un tetto venne a

cadere proprio sulla mia testa. Svenni e il

colpo fu tanto forte da farmi venire gli

spasmi. Quando mi portarono a casa, Mama

Lucy e Mayann si misero subito a bollire

erbe e radici da applicarmi sulla testa. Poi

mi fecero bere un bicchiere di Pluto Water,


una purga potentissima, e mi misero a letto

dove sudai l’anima per tutta la notte. La

mattina dopo, come se nulla fosse accaduto,

me ne andai tranquillamente a scuola.

CAPITOLO 2

Dopo un paio di settimane mia madre,

completamente ristabilita, andò a lavorare

presso alcuni ricchi signori bianchi che

abitavano dalle parti del cimitero a City

Park. Felice di rivederla in buona salute,


cominciai a rendermi conto di quello che

succedeva intorno a me, e ciò che mi colpì

maggiormente furono gli honky tonk nei

pressi di casa nostra, così diversi da quelli

della zona di James Alley che avevano

solamente un pianoforte. ALiberty Street,

Perdido Street, Franklin Street e Poydras

Street c’erano locali a ogni angolo e in

ciascuno di essi si suonavano strumenti di

ogni genere. All’angolo della strada in cui


abitavo io c’era il famoso Funky Butt Hall,

dove per la prima volta sentii suonare Buddy

Bolden. Pareva il temporale.

In quel quartiere non mancava nulla e

anche se logicamente a noi bambini era

vietato l’ingresso al Funky Butt, potevamo

sempre

ascoltare

l’orchestra

dal
marciapiede. A quei tempi, quando c’era una

festa danzante, l’orchestra suonava per una

buona mezz’ora davanti all’ingresso del

locale prima di entrare per accompagnare le

danze. Questo si faceva ovunque in città per

attirare il pubblico, e di solito funzionava.

Buddy Bolden suonava con tanta forza che

io mi domandavo se avrei mai avuto tanto

fiato nei polmoni per suonare la cornetta. In

fin dei conti Buddy Bolden era un ottimo


musicista, ma secondo me soffiava un po’

troppo forte e, anzi, forse non soffiava

nemmeno come si deve. Comunque finì per

diventare pazzo, e non c’è da stupirsi.

La musica vera però si sentiva quando

Bunk Johnson suonava la cornetta insieme

alla Eagle Band e, per quanto fossi piccolo,

ero capace di notare la differenza. I musicisti

che componevano la sua orchestra erano:

Bunk Johnson, cornetta


Frankie Ducson, trombone

Bob Lyons, contrabbasso

Henry Zeno, batteria

Bill Humphrey, clarinetto

Danny Lewis, basso.

Era ascoltando loro che si sentiva la vera

musica.

Buddy Bolden godeva naturalmente di una

enorme fama, ma io, fin da piccolo,

apprezzavo la raffinatezza, anche nella


musica.

Il re di tutti i musicisti era Joe Oliver, il

miglior trombettista che si fosse mai sentito

a New Orleans. Aveva un solo rivale, ed era

Bunk, che però era all’altezza di Oliver

solamente per quanto riguarda il timbro.

Nessuno aveva la passione e la resistenza di

Joe. Nessuno, nell’ambito del jazz, ha saputo

creare tanta musica quanta ne ha creata lui.

Quasi tutto ciò che ancora oggi c’è di più


importante in musica è merito suo. Ecco

perché lo chiamavano “King”, ed è un titolo

ben meritato. Venivano musicisti da ogni

parte del mondo per ascoltare Joe Oliver

quando suonava al Lincoln Gardens di

Chicago e ogni volta, puntualmente, era

un’emozione unica.

Quando lo vidi per la prima volta non ero

che un ragazzetto, ma le prime parole che mi

rivolse furono le più belle che abbia mai


sentito da qualsiasi altro pezzo grosso della

musica.

Naturalmente a cinque anni non suonavo la

tromba, ma c’era qualcosa in quello

strumento che attirava la mia attenzione.

Quando ero in chiesa e quando figuravo

nella “seconda fila”, cioè seguivo la brass

band nelle parate, stavo attento al suono dei

singoli strumenti per rendermi conto di cosa

suonavano e di come lo suonavano. Fu così


che riuscii a cogliere le differenze di

esecuzione tra Buddy Bolden, King Oliver e

Bunk Johnson. Dei tre, Bunk Johnson era il

migliore per quanto riguarda il timbro, la

fantasia e il fraseggio delicato.

Oggi molta gente crede che sia stato Bunk

a insegnarmi a suonare la tromba perché

abbiamo un timbro piuttosto simile, ma in

realtà non abbiamo altro in comune. Per me

il timbro di Joe Oliver è all’altezza di quello


di Bunk. E Joe aveva dentro di sé

un’estensione e una creatività eccezionali. A

lui si devono alcune dei fraseggi più famosi

che si sentono oggi, e spunti da elaborare.

Come ho già detto Bolden era un po’ troppo

brusco e non mi emozionava per niente.

Subito dopo Oliver e Bunk venivano

Buddy Petit, un ragazzo creolo, e Joe

Johnson. Suonavano tutti e due la cornetta e

tutti e due morirono giovani. Una grande


perdita per il mondo della musica.

Mayann mi iscrisse alla Fisk School,

all’angolo tra Franklin e Perdido Street. Ero

un bambino sveglio e pieno di buona

volontà, tanto che non rimasi a lungo nella

scuola materna e passai subito in seconda

elementare. Leggevo il giornale alle persone

anziane del quartiere che davano una mano

alla mamma per tirarmi su. Quando fui più

grandicello, cominciai a vendere i giornali


per aiutare mia madre a sbarcare il lunario.

Frequentando i ragazzi più grandi, feci

presto a sveltirmi. Quando non avevamo

giornali da vendere, ci giocavamo qualche

spicciolo ai dadi oppure a ramino o a

blackjack. Divenni un giocatore piuttosto

abile e riuscivo a non farmi mettere nel

sacco dagli altri ragazzi, così che diverse

sere tornavo a casa con le tasche piene di

monete da uno, cinque, dieci e persino


venticinque centesimi. Allora io, mia madre

e mia sorella potevamo permetterci il lusso

di far spese. Di tanto in tanto regalavo anche

un vestito nuovo alla mamma e qualche volta

mi compravo un paio di pantaloni corti in

uno

dei

negozi

di

Rampart
Street.

Naturalmente non potevo permettermi un

paio di scarpe, ma poco importava perché

tanto andavamo sempre in giro scalzi. Invece

della camicia portavo un giacchetto di

cotone blu, una specie di giacca sportiva che

mettevo sopra le bretelle.

Fino a che non potei permettermi il lusso

di comprare dei calzoni, portai quelli dei

miei “patrigni”, rimboccati fino a farli


sembrare calzoni alla zuava o pantaloncini.

Mayann aveva a disposizione numerosi

“patrigni” che mi rifornivano di pantaloni in

quantità. Non facevo in tempo a girarmi che

c’era un nuovo “babbo”. Alcuni erano brave

persone, ma altri invece erano tipi

volgarissimi, come per esempio un certo

Albert. Slim non era molto migliore, ma

Albert era il peggiore di tutti. Un giorno

Albert e mia madre erano seduti sulla


sponda del canale artificiale presso Galves

Street e litigavano per un qualche motivo,

mentre io giocavo lì vicino. All’improvviso

lui la chiamò “puttana nera” e con un pugno

in faccia la fece volare in acqua. Poi se ne

andò senza neppure voltarsi indietro. Ero

fuori di me, e mentre Mayann era in acqua

che strillava con la faccia coperta di sangue,

io cominciai a urlare a perdifiato per

chiedere aiuto. Alla fine accorsero delle


persone e la tirarono fuori, ma fu un

momento terribile! Non ho mai perdonato

quell’uomo e se lo rivedessi lo farei fuori.

Ma finora, per quante volte sia tornato a

New Orleans, non l’ho mai più incontrato. I

vecchi amici mi dicono che è morto.

Il più simpatico dei miei patrigni – ne

ricordo almeno sei – si chiamava Gabe. Non

era istruito o elegante come gli altri, ma era

un uomo dotato di buon senso e a quel tempo


per me questo era sufficiente. Il patrigno

Gabe mi piaceva un sacco. Anche il patrigno

Slim non era male, ma beveva troppo. Un

giorno era simpatico, il giorno dopo

picchiava Mayann. Comunque, mai in mia

presenza. Non ho mai dimenticato quello che

era successo con il patrigno Albert e non

avrei mai permesso che si mettessero le

mani addosso a mia madre senza difenderla.

Quando Mayann si mise con Slim io


cominciavo a diventare grandicello. Ogni

giorno intorno a noi c’era qualche rissa: fra

prostitute, fra teppisti e persino fra ragazzini,

e visto che nel quartiere c’era sempre

qualche casa in demolizione, c’era anche una

gran quantità di mattoni a portata di mano.

Ogni volta che due facevano a botte,

correvano al più vicino mucchio di macerie

e cominciavano a tirarsi mattoni. Con questi

esempi sotto gli occhi noi ragazzini avevamo


adottato lo stesso sistema.

Una mattina, alle dieci, Slim e Mayann

cominciarono a litigare fra Gravier e

Franklin Street. Percorsero litigando tutta

Franklin Street finché arrivarono all’ honky

tonk di Kid Brown. Il custode stava

spazzando e la porta era aperta. Sempre

accapigliandosi entrarono nel bar, girarono

intorno al piano e finirono sulla pista da

ballo in fondo al locale. In tutto questo, un


mio amico che si chiamava Cocaine Buddy,

mi corse incontro mentre uscivo da scuola

per la ricreazione.

“Spicciati, Dipper” (Dipper era il mio

soprannome, abbreviazione di Dippermouth,

tratto dalla canzone “Dippermouth Blues”),

disse, “c’è uno che sta picchiando tua

madre” .

Buttai a terra i libri e corsi a gettarmi

nella mischia. Quando giunsi da Kid Brown,


Mayann e Slim stavano uscendo di nuovo

sulla

strada,

sempre

continuando

picchiarsi.

“Lascia stare mia madre. Lascia stare mia

madre”, urlai io.

Siccome quello non la smetteva, mi venne


un’idea: prendere i mattoni. Mi ci volle

pochissimo e quando cominciai a tirarglieli

non sbagliai un colpo. Come lanciatore di

baseball non avevo nulla da invidiare a

Satchel Paige.

“Scappa che Slim ti fa fuori”, gridavano

tutti.

Ma non c’era pericolo. Con un mattone lo

colpii al fianco e Slim si piegò in due. Non

era più in condizioni di inseguire né me né


nessun altro. Soffriva tanto che dovettero

portarlo al più vicino ospedale. Non vidi

mai più Slim. Era un discreto musicista

blues, ma, all’infuori di questo, non avevamo

niente in comune, e il suo stile non mi

piaceva poi così tanto.

Crescendo nella zona di Liberty e Perdido

imparai a conoscere tutto e tutti. Amavo

quella gente e loro amavano me. Tanto i

buoni che i cattivi ritenevano Little Louis


(così mi chiamavano) un tipo in gamba.

Stavo al mio posto, ero rispettoso, mai

sgarbato né impertinente. Tutto merito degli

insegnamenti di Mayann e della nonna.

Ovviamente mio padre non aveva avuto

modo di insegnarmi nulla; era troppo

occupato a correre dietro alle sciacquette.

Il mio vero padre era un uomo elegante,

alto, bello e robusto. Le ragazze andavano in

visibilio quando lo vedevano sfilare in alta


uniforme nella parata degli Oddfellows. Ero

molto fiero di vederlo in divisa con l’alta

tuba ornata di nastri che gli scendevano sino

al fianco. Era davvero un bell’uomo, mio

padre. O per lo meno così mi sembrava da

piccolo,

quando

lo

vedevo

incedere
impettito come un pavone in testa alla parata

degli Oddfellows.

Quando Mayann conviveva con il patrigno

Tom,

quest’ultimo

lavorava

all’Hotel

DeSoto fra Barrone e Perdido Street.

Quando tornava a casa portava un mucchio

di “braccia rotte” che erano poi gli avanzi


dei tavoli ai quali serviva. Con questi,

Mayann riusciva a prepararmi dei pranzi

deliziosi che io portavo a scuola nelle

giornate in cui il suo lavoro la teneva lontana

da casa. Quando aprivo il pacchetto che

conteneva quelle leccornie, nel cortile della

scuola, tutti i ragazzi mi circondavano come

un branco di lupi affamati. Non ci voleva

molto a individuare il contenuto: bei pezzi di

bistecca, di cotoletta, di pollo, uova, di tutto


un po’ e tutte cose buone.

Un giorno, mentre mangiavo, il branco dei

ragazzetti che mi stava attorno a un tratto

scomparve fuggendo in tutte le direzioni.

Alzai gli occhi per vedere che stava

succedendo e vidi One Eye Bud con la sua

combriccola: la stessa con la quale mi ero

azzuffato quel giorno che la mamma mi

aveva mandato al negozio di Rampart Street.

Non mostrai alcun segno di paura e aspettai


che si avvicinassero. Ero pronto al peggio e

invece uno di loro mi parlò cortesemente.

“Ciao Dipper”.

“Ciao, ragazzi. Come va?”, risposi

sforzandomi di conservare la calma. “Vi va

un po’ del mio panino?”

Si gettarono sulla mia colazione come se

non avessero mangiato per anni. Ciò non mi

turbò affatto, per quanto fossero cattivi, ero

contento di vederli allegri. Da allora


diventammo buoni amici e non solo non mi

diedero più fastidio, ma ebbero cura che

nessun altro mi rompesse le scatole. Erano

senza dubbio dei duri e il fatto che mi

considerassero alla loro stregua ancora oggi

mi rende felicissimo.

La vecchia signora Martin era la bidella

della Fisk School e, aiutata dal marito,

faceva molto bene il suo dovere. Erano

entrambi benvoluti da tutti nel quartiere.


Avevano una famiglia numerosa e due dei

loro figli divennero bravi e famosi musicisti.

Henry Martin suonava la batteria nel celebre

complesso di Kid Ory che la signora Cole

impegnava per le sue feste all’aperto.

Faceva queste feste due o tre volte la

settimana e quando suonava l’orchestra di

Kid Ory era quasi impossibile entrare.

Kootchy Martin era un ottimo pianista e suo

padre suonava benissimo il violino. Del


padre non posso dire molto perché lasciò

New Orleans quando ero ancora piccolo. Si

trovò coinvolto nella tremenda rivolta

razziale di East Saint Louis e da allora non

se ne seppe più nulla.

Walter Martin era mio amico. Lo avevo

conosciuto quando lavoravamo insieme ai

bei vecchi tempi degli honky tonk. Walter

era una bravissima persona e aveva il

miglior carattere del mondo.


La signora Martin aveva tre bellissime

figlie con la pelle chiara, alla creola:

Orleania, Alice e Wilhelmina. Le prime due

si sposarono. Io ero innamorato di

Wilhelmina, ma la povera ragazza morì

prima che io trovassi il coraggio di

dirglielo. Era così gentile e carina che aveva

un’infinità di pretendenti, ma io avevo un

tale complesso di inferiorità che non mi

ritenevo degno di lei. Cosa darei per poterla


rivedere! Quando mi sorrideva sembrava

che il mondo intero si illuminasse. La

vecchia signora Martin è ancora viva e a

ottant’anni è più arzilla che mai, Dio la

benedica. Trovava sempre il modo di

confortare i derelitti che bussavano alla sua

porta e riusciva sempre a trovare un boccone

per sfamarli.

Dall’altra parte della strada dove

abitavamo c’era la chiesa del pastore Cozy.


Era uno dei predicatori più apprezzati della

zona, e per ascoltarlo veniva gente anche

dalle

altre

parti

della

città.

Non

dimenticherò mai quella sera che la mamma

mi portò nella sua chiesa. Il pastore Cozy


cominciò a infiammarsi a poco a poco finché

partì in quarta; dopo poco tutta la chiesa era

in subbuglio. Mia madre era così rapita ed

eccitata che a furia di agitarsi e di

sbracciarsi mi fece ruzzolare giù dalla

panca. Era una donna robusta ed era in un

tale stato di eccitazione che ci vollero ben

sei fedeli tra i più forti per tenerla ferma e

calmarla. Io ero troppo piccolo e non potevo

capire queste cose. Mi scompisciai dalle


risate e così quando fummo a casa me la fece

pagare.

“Stupido che non sei altro”, disse, “come

ti è venuto in mente di ridere proprio mentre

mi stavo convertendo?”

Dopodiché la mamma divenne veramente

religiosa. Assistei al suo battesimo nel

Mississippi, dove la buttarono sott’acqua

tante di quelle volte che pensai che la

volessero affogare. Il battesimo ebbe il suo


effetto:

Mayann

perseverò

nella

sua

religione.

Quando vendevo i giornali li ricevevo da

un simpatico ragazzo bianco che si chiamava

Charles e aveva circa quattro anni più di me.

Mi teneva in gran conto e mi dava buoni


consigli su come mi dovevo comportare

nella vita e su come dovevo prendermi cura

di me. Sentendomi parlare del quartetto dove

cantavo e del denaro raccolto andando in

giro

col

cappello,

si

mostrò

assai
preoccupato che io frequentassi alla mia

tenera età il quartiere a luci rosse e che

cantassi per i magnaccia e le puttane. Io gli

spiegai che quello era proprio il posto

migliore per fare soldi e che quella gente

andava pazza per le nostre canzoni. Questo

lo rassicurò. Io continuai a vendere giornali

per Charles finché non venni arrestato un

capodanno perché fui pescato con una

vecchia pistola che uno dei miei patrigni


aveva nascosto in casa durante quei giorni di

festa.

CAPITOLO 3

Per tutto il periodo di Natale e Capodanno

New Orleans è in festa: ci sono i fuochi

artificiali e i cortei che percorrono la città al

lume delle torce. All’epoca sparavamo con

fucili e pistole o con qualsiasi cosa che

facesse più rumore possibile. L’uso delle

armi da fuoco era ufficialmente proibito e


bisognava evitare di farsi sorprendere dalla

polizia con l’arma addosso per non finire in

gattabuia. E questo è quanto mi capitò, col

risultato peraltro che imparai a suonare la

tromba.

Avevo trovato quella pistola calibro 38 in

fondo al vecchio baule di cedro di Mayann e

naturalmente quando quella sera uscii per

andare a cantare lei ignorava che l’avessi

portata con me.


Ma prima devo spiegare cosa facevamo

con il nostro quartetto per attrarre il

pubblico. Cominciavamo percorrendo il

tratto di Rampart Street tra Perdido e

Gravier Street: il primo cantante e il tenore

andavano avanti seguiti dal baritono e dal

basso. Cantando a caso camminavamo su e

giù per le strade fino a che qualcuno non ci

chiedeva di cantare qualche canzone.

Andavamo poi in giro col cappello teso e


alla fine della serata ci dividevamo i soldi.

Il più delle volte ricavavamo delle belle

sommette. Dopodiché io correvo difilato a

casa e versavo la mia parte sulle gambe di

mia madre.

Little Mack, il nostro cantante solista,

divenne poi uno dei migliori batteristi di

New Orleans. Big Nose Sidney era il basso

e Redhead Happy Bolton il baritono. Happy

era anche un batterista e il migliore


showman che ci fosse, come vi potrebbe

confermare la gente di allora. E io ero il

tenore. Mi mettevo una mano dietro

l’orecchio, movevo la bocca a destra e a

sinistra, e mi uscivano fuori dei suoni

bellissimi. Giovane com’ero, il tono della

mia voce era alto, e così rimase fino a che

non uscii dal riformatorio nel quale stavo

per essere rinchiuso.

Come al solito ce ne andavamo per i fatti


nostri, cantando su e giù per Rampart Street,

quando a un tratto un tipo dall’altra parte

della strada tirò fuori una piccola pistola a

sei colpi e cominciò a sparare. Bang-bang-

bang-bang-bang-bang.

“Su Dipper, fagli vedere chi sei”, gridò la

mia banda.

Senza esitare tirai fuori il revolver del

mio patrigno, alzai il braccio in aria e

sparai. La mia pistola era migliore di quella


dell’altro e i miei colpi fecero più rumore. Il

ragazzo, preso dalla fifa, scomparve a gambe

levate

correndo

come

una

lepre.

Scoppiammo in una risata e riprendemmo a

camminare e a cantare.

Un po’ più in là, sempre su Rampart


Street, ricaricai la mia arma e di nuovo

sparai in aria tra l’entusiasmo dei miei

compagni. Avevo appena finito di sparare la

mia ultima cartuccia a salve, quando sentii

due braccia robuste che mi afferravano da

dietro. Era una notte abbastanza fredda, ma il

sudore che mi uscì era ancora più freddo. I

miei compagni se la svignarono, piantandomi

lì, e io nel voltarmi mi trovai tra le braccia


di un robusto poliziotto bianco che era stato

a osservarmi mentre sparavo. O mamma!


Cominciai a piangere cercando di scusarmi

in ogni modo.

“La prego, agente, non mi arresti... Non lo

farò più... la prego... mi lasci tornare da mia

madre... Le assicuro che non lo farò mai

più”.

Tutto inutile. Quell’uomo non mi lasciò

andare. Fui condotto al tribunale minorile e

fui chiuso in una cella, dove, triste e

disperato, dormii sul pancaccio fino alla


mattina seguente.

Quando mi svegliai ero spaventatissimo.

Cosa mi avrebbero fatto? Dove mi

avrebbero mandato? Non sapevo allora in

che cosa consistesse un riformatorio. Quanto

tempo ci dovevo rimanere? Era un reato

grave sparare con una pistola per la strada?

Centinaia di pensieri mi assalivano e non

potevo darmi pace. Ero terrorizzato, molto

peggio di quella volta che Jack Johnson


pestò Jim Jeffries. Quel giorno infatti mentre

andavo a Canal Street a ritirare la mia

provvista di giornali presso Charlie, che

impiegava un certo numero di ragazzi di

colore come me, vidi venirmi incontro una

schiera di ragazzi neri che correvano a

perdifiato.

Chiesi a uno di loro cosa fosse successo.

“Ti conviene svignartela, negretto”, disse

uno col fiato grosso mentre mi trascinava


via. “Jack Johnson ha steso Jim Jeffries; i

ragazzi bianchi sono furiosi e se la sono

presa con noi”.

Non ci fu bisogno che aggiungesse altro.

Cominciai a correre e sorpassai gli altri in

un baleno. Ero veloce a correre, e quando gli

altri ragazzi arrivarono nella zona dove

abitavo, io me ne stavo già affacciato alla

finestra di casa come se niente fosse. Il

giorno dopo la calma era già ristabilita.


Ma tornando alla cella dove avevo

passato tutta la notte per aver sparato in

segno di festa con la vecchia calibro 38 del

mio patrigno: finalmente verso le dieci del

mattino venne ad aprire la porta un uomo con

un mazzo di chiavi.

“Louis Armstrong?”, chiese.

“Sì, signore”.

“Da questa parte, devi andare al

riformatorio per i ragazzi di colore”.


Nel cortile mi attendeva un carro cellulare

come quello del penitenziario, trainato da

due bei cavalli. Uno sportello con una

finestrella munita di grata si richiuse dietro

di me e mi portarono via, insieme a vari altri

ragazzi che erano stati pescati per qualche

crimine simile al mio.

Il riformatorio era un vecchio edificio

evidentemente destinato in origine a tutt’altro

scopo. Si trovava in piena campagna di


fronte a un vastissimo cascinale, con

centinaia di vacche, tori, vitelli e qualche

cavallo.

Alcuni

di

questi

animali

pascolavano e altri saltellavano tutt’intorno

come se volessero dire a qualcuno, a

chiunque, quanto fossero contenti. A vederli


correre così uno con la mentalità un po’

chiusa avrebbe detto che quegli animali

erano completamente pazzi, ma io ero

convinto che facessero così per esprimere

quanto fossero felici, allegri e soddisfatti.

Quando scesi dal carro con gli altri

ragazzi, la prima cosa che notai fu un filare

di grandi alberi davanti all’edificio. Le mie

narici furono colpite da un gradevolissimo

profumo.
“Che fiori sono quelli? Hanno un profumo

magnifico!”, chiesi.

“Caprifogli”, mi fu risposto.

Me ne innamorai, e ancora adesso mi

piace sentire il profumo dei caprifogli.

I detenuti stavano pranzando. Percorso un

lungo corridoio, giungemmo nel refettorio

dove c’era una lunga fila di ragazzi seduti

davanti alle loro scodelline di metallo piene

di fagioli bianchi senza riso. Mi fecero il


saluto che si riserva ai nuovi arrivati:

“Benvenuto, pivello. Benvenuto nella tua

nuova casa”. Io ero troppo depresso per

rispondere. Dopo che presi posto in fondo

alla tavola mi misero davanti un piatto di

fagioli. Nei periodi spensierati della mia

vita, li avrei spazzati via in un baleno. Ma

quella volta li rifiutai. Feci così per alcuni

giorni. I guardiani, i coniugi Jones, il signor

Alexander e il signor Davis, videro che


rifiutavo il cibo ma non dissero nulla. Il

quarto giorno ero così affamato che fui il

primo a precipitarmi a tavola. Jones e i suoi

colleghi risero di cuore. Io risposi con un

timido

sorrisetto.

Il

loro

senso

dell’umorismo non si accordava per niente


col mio.

I guardiani erano tutti gente di colore.

Jones, un giovanotto da poco dimesso dalla

cavalleria, ci faceva fare tutte le mattine gli

esercizi militari nel cortile dell’istituto e ci

insegnava a maneggiare le armi usando fucili

di legno.

Alexander insegnava ai ragazzi a fare

lavori di falegnameria, giardinaggio e a fare

i falò. Peter Davis insegnava musica e


impartiva istruzione professionale. Tutti i

ragazzi avevano il diritto di scegliere il

mestiere per il quale erano più portati.

Naturalmente la mia inclinazione mi

indirizzava verso Davis e la sua musica,

perché ho la musica nel sangue da quando

sono nato. Purtroppo inizialmente non ero

nelle grazie di Davis che disprezzava il

quartiere da cui provenivo. Riteneva che i

ragazzi cresciuti attorno a Liberty e Perdido


Street fossero tutti dei mascalzoni. Erano vie

piene di honky tonk, delinquenti e donnine

allegre. Inoltre anche la Fisk School aveva

una pessima reputazione. Davis era perciò

convinto che anch’io, cresciuto in un

ambiente così poco raccomandabile, fossi un

poco di buono. Fin da principio mi trattò

duramente e io stavo sulle mie. Un giorno

che

avevo
commesso

una

lieve

disobbedienza

mi

punì

con

quindici

bacchettate sulla mano, e per parecchio

tempo ebbi una gran paura di lui.


Tutta la nostra vita era regolata dal suono

della tromba militare. Uno dei ragazzi

suonava la sveglia, l’ora di coricarsi e l’ora

dei pasti. Quest’ultimo segnale era quello

che tutti amavano di più. Quando lo

sentivamo, anche se eravamo lontani un

miglio a tagliare alberi oppure nel cortile ad

accendere il fuoco sotto il pentolone dove

bollivano i nostri panni sporchi, noi ragazzi

correvamo a gambe levate verso il


riformatorio.

Invidiavo

il

trombettiere

perché gli era data, più che agli altri, la

possibilità di suonare il suo strumento.

Quando l’orchestra si esercitava sotto la

guida di Davis, che era un bravo insegnante,

io ascoltavo con grande attenzione ma non

osavo avvicinarmi, anche se morivo dalla


voglia. Temevo che il signor Davis mi

cacciasse in malo modo o mi mollasse

qualche

altra

bacchettata.

Avevo

l’impressione che mi odiasse a morte e così

me ne stavo seduto in un angolo e mi

divertivo immensamente.

La piccola brass band era davvero in


gamba, e Davis faceva suonare ai ragazzi un

po’ ogni genere di musica. Io non avevo mai

provato a suonare la cornetta, ma ogni

giorno, mentre ascoltavo la banda, mi

venivano in mente Joe Oliver, Bolden e Bunk

Johnson. Avevo una voglia matta di imparare

a suonare la cornetta. Ma Davis mi odiava. E

inoltre non sapevo per quanto ancora mi

avrebbero tenuto in riformatorio. Il giudice

mi aveva condannato per un periodo


indeterminato e ciò significava che sarei

dovuto rimanere lì finché lui non avesse

deciso di mettermi fuori, oppure fino a

quando qualche persona bianca influente non

avesse garantito per me, per mia madre e per

mio padre. Questa era l’unica possibilità che

avevo di uscire presto dal riformatorio, e

così ebbi tutto il tempo di ascoltare

l’orchestra e desiderare di imparare a

suonare la cornetta.
Finalmente, Jones mi diede l’opportunità

di cantare per la scuola. La mia prima

insegnante fu la signorina Spriggins. Passai

poi con la signora Vigne nel corso superiore.

Col passare del tempo l’odio di Davis nei

miei confronti cominciò ad attenuarsi.

Qualche

volta

nostri
sguardi

si

incontravano, io abbassavo gli occhi ma lui

continuava a guardarmi con un lieve sorriso

di approvazione che mi faceva veramente

piacere. Da allora in poi ogni volta che

Davis mi parlava o mi sorrideva, io ero

felice. Dio mio, che piacere, proprio lui mi

sorrideva!

Stavo
cominciando

ad

ambientarmi, e dato che avrei dovuto

rimanerci per parecchio tempo, pensai che in

fondo tanto valeva che mi adattassi. E ci

riuscii.

Passarono sei mesi. Un giorno, mentre

stavamo per alzarci da tavola dopo una cena

a base di sciroppo di melassa nera e da un

bel pezzo di pane – cena che dopo tutto il


tempo trascorso lì dentro era come un buon

pranzetto casalingo a base di pollo – Davis

si avvicinò lentamente e si fermò vicino a

me.

“Louis Armstrong”, disse, “ti piacerebbe

far parte della nostra brass band?”

Rimasi senza fiato e così sorpreso che non

fui capace di spiccicare una parola. Allora,

per assicurarsi che avessi capito, ripeté la

domanda: “Louis Armstrong, ti ho chiesto se


ti piacerebbe far parte della nostra brass

band”.

“Certo che sì, signor Davis. Certo che sì”,

balbettai.

Mi diede una pacca amichevole sulla

spalla e disse: “Va’ a darti una lavata e poi

vieni alle prove”.

Mentre mi lavavo non facevo che pensare

alla fortuna che mi era capitata: finalmente

avrei potuto suonare la cornetta. Mi andò a


finire il sapone negli occhi ma non me ne

importava niente. Immaginavo cosa avrebbe

detto il mio gruppo di amici quando mi

avrebbero visto sfilare per le strade del

quartiere suonando la cornetta. Già mi

vedevo soffiare con tutta la forza e la

resistenza di un Bunk, di un Joe o di un

Bolden. Dopo essermi lavato corsi alle

prove.

“Eccomi, signor Davis”.


Con mia grande sorpresa mi porse un

tamburello, quell’affarino che sembra un

tamburo in miniatura, su cui si batte con le

dita. Era la fine del mio bel sogno! Ma non

dissi una parola. Presi il tamburello e

cominciai a suonarlo tenendo il ritmo con la

banda. Davis fu così favorevolmente

impressionato che mi passò subito a suonare

la batteria. Doveva essersi accorto che

avevo il ritmo che voleva lui.


Stavano suonando “At the Animals’ Ball”,

un motivetto molto popolare a quel tempo e

che a metà aveva un cambiamento di

registro. A questo passaggio me la cavai

molto bene, anzi, in maniera fenomenale.

Tutti i ragazzi gridarono: “Bravo Louis

Armstrong!” Davis approvò con un cenno

del capo e questa era l’unica cosa che

m’interessava. La sua approvazione era

essenziale per qualsiasi ragazzo che


desiderasse

intraprendere

la

carriera

musicale.

“Sei molto bravo, Louis”, disse, “ma mi

serve uno che suoni il sax contralto. Te la

senti di provare?”

“Tutto quello che vuole, signor Davis”,

risposi pieno di fiducia in me stesso.


Mi porse lo strumento. Cantavo già da

qualche anno e il mio istinto mi suggerì che

il sax contralto in un’orchestra ha lo stesso

ruolo che un baritono o un tenore hanno

all’interno di un quartetto. Eseguii molto

bene la mia parte al sassofono.

Appena finite le prove, la tromba ci

avvertì che era ora di andare a letto. Tutti i

ragazzi si misero in riga e con la banda in

testa si avviarono verso il dormitorio. Nel


dormitorio ci era permesso di parlare fino

alle nove, e cioè fino a quando le luci si

spegnevano e allora dovevamo fare silenzio

e metterci a dormire. Noi continuavamo a

bisbigliare ugualmente ma a bassissima voce

in modo da non attirare l’attenzione dei

guardiani che dormivano al piano inferiore

vicino ai coniugi Jones. Se parlavamo forte,

saliva un guardiano e ce le dava.

La mattina, quando la tromba ci svegliava


con le note di “ I Can’t Get ’em Up”, ci

buttavamo giù dal letto e ci vestivamo alla

svelta perché il tempo che avevamo a

disposizione era assai limitato. Sapevano

esattamente quanto tempo ci voleva, era una

vita che facevano quel mestiere. Se uno di

noi arrivava in ritardo doveva avere una

buona scusa se non voleva prendere le

bacchettate sulle mani.

Era inutile tentare di fuggire dal


riformatorio. Chi ci aveva provato era stato

ripescato in meno di una settimana. Una

notte, mentre dormivamo, uno dei ragazzi

legò insieme cinque o sei lenzuoli. Si unse il

corpo per poter passare più agevolmente

attraverso le sbarre di legno del dormitorio.

Si calò giù e scomparve. Non riuscivamo a

capire come avesse potuto farcela ed

eravamo tutti terrorizzati all’idea di essere

puniti con l’accusa di complicità. Invece non


successe nulla. L’unica cosa che i guardiani

dissero dopo la sua scomparsa fu: “Tornerà

presto”.

Avevano ragione. In meno di una settimana

il ragazzo fu preso e ricondotto al

riformatorio. Era in condizioni pietose, tutto

sporco per aver dormito in case diroccate o

dove gli capitava e per aver mangiato

solamente quel poco che poteva rimediare

qua e là. La polizia lo aveva preso e


riaccompagnato al tribunale minorile.

Per tutto il primo giorno non gli dissero

una parola. Ci chiedevamo tutti che cosa gli

avrebbero fatto, e pensavamo che molto

probabilmente l’avrebbero lasciato in pace.

Asera, quando la tromba suonò la ritirata,

salimmo tutti nel dormitorio. I guardiani

attesero che ci fossimo spogliati e in

procinto di metterci il pigiama.

Fu allora che Jones gridò: “Fermi lì,


ragazzi”.

Poi rivolse lo sguardo al ragazzo che era

scappato.

“Voglio che vi infiliate tutti il pigiama

all’infuori di questo giovanotto. È evaso ed è

giusto che paghi”.

Ci mettemmo a protestare a viva voce, ma

fu inutile. Jones chiamò quattro dei più

robusti ragazzi per farsi dare una mano.

Ordinò a due di loro di tener ferme le


braccia del colpevole e agli altri due le

gambe, in modo che potesse muovere solo il

sedere. E su quel sedere nudo che si

dimenava di qua e di là Jones scaricò

centocinque colpi di frusta. Urlavamo tutti,

ma più urlavamo, più forti scendevano i

colpi. Fu un vero strazio assistere alle

sofferenze di quel poveraccio. Per più di due

settimane non poté mettersi a sedere.

Vidi molti incoscienti tentare la fuga ma,


dopo quello che successe a questo primo

malcapitato, a me personalmente passò per

sempre la voglia di provarci.

Un giorno ci trovavamo lungo i binari

della ferrovia a raccogliere le traversine

fuori uso che la Società Ferroviaria regalava

al riformatorio come legna da ardere. Per

sollevare ogni traversina occorrevano due

ragazzi. Nella nostra squadra fra gli altri

lavorava un ragazzo di circa diciotto anni


proveniente da Houma, una cittadina della

Louisiana. Dal modo con cui storpiava la

lingua inglese si intuiva che era un vero

campagnolo. Lo avevamo soprannominato

“Houma”, come la sua cittadina.

Stavamo ritornando al riformatorio, che

distava ancora un paio di chilometri. Fra noi

c’era anche un ragazzo sui diciotto o

diciannove anni che si chiamava Willie

Davis ed era famoso perché correva più


forte di tutti. Pensare di batterlo era stata una

pazzia. Ma l’amico campagnolo non sapeva

quanto fosse veloce Davis.

A circa un chilometro dal riformatorio

sentimmo cadere una delle traversine. Prima

che potessimo renderci conto di quanto stava

accadendo, scorgemmo Houma, che correva,

ma nella direzione sbagliata. Dopo che si era

allontanato di un centinaio di metri, il signor

Alexander lo vide e chiamò Willie Davis.


“Va’, Willie, acchiappalo”.

Willie, veloce come un lampo, cominciò a

rincorrerlo mentre noi a bocca aperta ci

domandavamo se ce l’avrebbe fatta. Houma

accelerò quando se lo vide alle calcagna, ma

con quel campione non c’era proprio gara e

Willie lo prese subito.

E qui viene il bello.

Nel mettergli la mano sulla spalla per

fermarlo, Willie disse: “Andiamo, bello.


Devi tornare indietro”.

“Che c’è?”, disse Houma. “Non stavo

mica andando da nessuna parte io”.

Dopo le cinquecento frustate che si buscò

gli passò la voglia di scappare. Infine alcuni

bianchi di una certa importanza, presso i

quali lavoravano i genitori di Houma,

mandarono a prendere il ragazzo e se lo

fecero rispedire a casa con congedo

illimitato. Quella storia ci fece proprio fare


una bella risata: “Non stavo mica andando

da nessuna parte io”.

Col tempo cominciai a diventare il

ragazzo più amato del riformatorio. Vedendo

quanto stavo simpatico a Davis e quanto

tempo mi dedicava, i ragazzi presero a

volermi bene e mi guadagnai la loro

confidenza.

Un giorno il padre e la madre del giovane

trombettiere, avendo ottenuto il permesso di


ritirarlo,

vennero

prenderlo

per

riportarselo a casa. Non appena quello se ne

fu andato, Davis mi dette il suo posto. Presi

la tromba militare e cominciai a lustrarla.

L’altro trombettiere non l’aveva mai pulita e

l’ottone era tutto opaco e verdastro. I


ragazzi, quando invece della vecchia lurida

tromba

verde

videro

uno

strumento

scintillante,

mi

applaudirono

fragorosamente.
Io ero molto orgoglioso della mia nuova

posizione di trombettiere. Portavo con

disinvoltura la tromba alle labbra, mi

mettevo sull’attenti e suonavo note calde e

suadenti. E a quel punto era come se quel

posto

subisse

una

trasformazione.

Soddisfatto del mio modo di suonare Davis


mi diede una cornetta e mi insegnò a suonare

“Home, Sweet Home”. Toccavo il cielo con

un dito. Se quella era la realtà e non un

sogno, allora potevo proprio dire che la mia

ambizione si era finalmente realizzata.

Tutti i giorni mi esercitavo con costanza a

suonare quanto Davis mi aveva assegnato.

Diventai così bravo a suonare la cornetta che

un bel giorno Davis mi disse: “Louis, voglio

che diventi il capo banda”.


Feci un salto in aria, con Davis lì che mi

guardava, e poi corsi al refettorio per

comunicare ai ragazzi la grande notizia. Mi

fecero tutti i complimenti. Adesso ero non

solo un musicista ma addirittura il leader

dell’orchestra! Avrei potuto sfilare per le

strade e vedere Mayann e i miei amici che

frequentavano Liberty e Perdido Street.

Spesso l’orchestra era richiesta per suonare

in occasione delle scampagnate di qualche


privato, oppure per partecipare a uno dei

frequenti cortei che si svolgevano lungo le

strade di New Orleans, in ogni parte della

città: Uptown, Back o’Town, Front o’ Town

e Downtown. Andavamo persino a suonare

nel West End e allo Spanish Fort, ritrovi

estivi molto frequentati, e anche a Milenburg

e Little Woods.

L’uniforme consisteva in calzoni lunghi

bianchi
rimboccati

fino

sembrare

calzoncini corti, scarpe nere leggere di tela,

o scarpe da tennis, come si chiamano oggi,

giacchetta blu di gabardine, calze nere e

berretto a strisce bianche e nere: così vestiti

i giovani musicisti facevano veramente un

figurone. Essendo il leader della band, per


distinguermi dagli altri, portavo un paio di

pantaloncini color crema, calze e scarpette

color marrone e un berretto crema.

quei

tempi

alcune

associazioni

sfilavano in parata anche per una giornata

intera. Quando le big band composte da


suonatori di età avanzata protestavano per il

compito

eccessivamente

gravoso,

le

associazioni ricorrevano a noi.

“Quei ragazzi”, dicevano, “sono capaci di

marciare tutta una giornata senza la minima

protesta”.

Avevano perfettamente ragione. Eravamo


così felici di poter camminare per le strade,

che non ci importava proprio nulla della

durata delle parate né delle distanze da

percorrere. Il giorno che fummo ingaggiati

dal

Merry-Go-Round

Social

Club

marciammo fino a Carrolton, poco meno di

cinquanta chilometri. Suonammo con un


entusiasmo pazzesco e ci divertimmo da

morire.

Il primo giorno che passammo per il mio

quartiere erano tutti lì, schierati lungo i

marciapiedi, per vederci passare. Prostitute,

magnaccia, giocatori, ladri e straccioni

erano in attesa dell’orchestra perché

sapevano che ci sarebbe stato anche Dipper,

il figlio di Mayann. Non si sarebbero mai

immaginati, però, che io avrei suonato la


cornetta, e così bene, per giunta. Corsero a

svegliare la mamma, che dormiva, avendo

lavorato di notte, perché mi venisse a

vedere. Chiesero poi a Davis se potevano

darmi un po’ di soldi. Lui annuì, pensando

che non si trattasse di una grande somma.

Non conosceva la generosità di quella gente.

Quei matti mi diedero tanto di quel denaro

che dovetti farmi prestare i berretti di

parecchi altri ragazzi per raccoglierlo tutto.


Racimolai tanto che bastò per rinnovare tutte

le uniformi e acquistare nuovi strumenti per

ogni membro dell’orchestra. Gli strumenti

che usavamo erano vecchi e sconquassati.

Questa vicenda aumentò talmente la mia

popolarità nel riformatorio che Davis mi

diede il permesso di andare da solo in città

per far visita a Mayann. Lui e i coniugi Jones

ritennero forse che questo fosse il modo

migliore per dimostrarmi la loro gratitudine.


Un giorno andammo a suonare allo

Spanish Fort, vicino al West End, in

occasione di una festa all’aperto organizzata

da gente bianca. Lì c’erano feste ogni

domenica e venivano ingaggiate orchestre

d’archi e qualche volta brass band. Quando

tutti gli altri complessi erano occupati

ricorrevano a noi.

Quel giorno, dato che il cottage dove

suonavamo si trovava sul bordo dell’acqua,


durante l’intervallo ci venne voglia di fare

un bagno. Nuotavamo e ci stavamo

divertendo un mondo, quando a Jimmy

caddero i calzoncini da bagno. Ci stavamo

dando da fare per ripescarli quando un uomo

bianco prese un fucile dalla rastrelliera sotto

il portico e lo puntò su Jimmy, che era

freneticamente impegnato nel tentativo di

infilarsi i calzoncini. L’uomo disse: “Figlio

di puttana, se non ti muovi a coprirti quel


culo nero ti sparo!”

Rimanemmo paralizzati dal terrore, ma

poi l’uomo e la compagnia sbottarono in una

grande risata e alla fine venne fuori che era

tutto solo per ridere. Per tutto il resto della

giornata non riuscimmo più a suonare bene

per lo spavento che ci eravamo presi, ma ciò

non tolse che mangiammo tutti gli spaghetti e

bevemmo tutta la birra che ci diedero

quando ebbero finito di mangiare loro. Fu


una bella giornata.

Tra gli altri episodi comici che si

verificarono

al

riformatorio

non

dimenticherò mai quella messinscena che

mise su Red Sun. Era stato mandato in

riformatorio per furto. La sua era una forma

di mania: rubava tutto quello che riusciva a


portarsi via. Già prima del mio arrivo al

riformatorio ci aveva trascorso due o tre

periodi di detenzione. Rimesso in libertà,

dopo due o tre mesi eccolo di nuovo

condannato a un’altra pena per furto.

Dopo sei mesi di detenzione, durante la

mia permanenza nel riformatorio, il giudice

lo liberò sulla parola. Erano ormai tre mesi

che si trovava fuori e noi, convinti che si

fosse messo finalmente sulla buona strada, lo


avevamo quasi del tutto dimenticato.

Un bel giorno, mentre Jones ci faceva fare

gli esercizi militari, da lontano vedemmo

venire verso di noi un tizio che montava un

bellissimo cavallo. Ci chiedemmo chi

potesse essere. Jones sospese l’esercitazione

e aspettò con noi, guardando cavallo e

cavaliere che si avvicinavano. Con nostra

meraviglia scoprimmo che si trattava di Red

Sun che per giunta cavalcava senza sella. Ci


affollammo intorno a lui per dirgli che

eravamo felici di vederlo e che aveva

proprio un bell’aspetto e per ammirare il suo

cavallo.

“Red, dove hai preso questo bel

cavallo?”, domandò Jones.

Red, che era veramente brutto, rispose con

un sorriso affabile: “Sto lavorando. Ho

trovato un lavoro talmente buono che sono

riuscito a comprarmelo. Che ve ne pare?”


Jones, come tutti noi, pensava che

l’animale era proprio bello. Red era tutto

fiero e impettito.

Trascorse tutto il giorno con noi e ci

lasciò montare il suo cavallo. Mamma,

quanto ci siamo divertiti! Red si fermò a

cena, come poi cominciai a fare io qualche

anno dopo. Quando suonai la tromba per la

ritirata, salì a cavallo e ci salutò.

“Arrivederci a presto”, disse, e cavalcò


via con la disinvoltura di un Lone Ranger.

Dopo che se ne fu andato, continuammo a

parlare di lui finché non si spensero le luci.

Ci addormentammo dicendoci che Red Sun

era diventato proprio un pezzo grosso.

L’indomani, dopo cena, mentre stavamo

affacciati alla finestra, vedemmo Alexander

– di solito era lui che andava al tribunale

minorile per prendere i ragazzi arrestati –

che portava un nuovo arrivato nell’ufficio di


Jones. Ci domandammo chi potesse essere:

sorpresa! Si trattava di Red Sun che era stato

arrestato per il furto di un cavallo.

Vidi portare al riformatorio tanti poveri

ragazzi. Un giorno avevano preso due

ragazzetti per le strade di New Orleans

letteralmente ricoperti di pulci e pidocchi.

Nel cortile posteriore c’era un enorme

pentolone che veniva usato per far bollire i

nostri vestiti sporchi. Quei due ragazzi erano


talmente luridi che dovemmo raparli a zero e

gettare i loro abiti nel fuoco, sotto il

pentolone.

Il riformatorio era certamente un posto

pulitissimo e per merito nostro. Là ho

imparato a sfregare i pavimenti, lavare e

stirare, cucinare, rifare i letti, fare un po’tutti

i lavori domestici. Ogni nuovo venuto

doveva per prima cosa fare una bella doccia,

e poi veniva sottoposto a un attento esame


della testa e di tutto il corpo, per accertare

che non portasse alcun parassita nel

riformatorio. Ogni giorno dovevamo metterci

in fila per l’ispezione.

Se qualcuno non aveva gli abiti in ordine,

lo si faceva uscire dai ranghi ed era

obbligato a sistemarsi da solo i vestiti. Una

volta la settimana veniva somministrata a

tutti una purga, e quasi nessuno di noi stava

mai male. Il luogo assomigliava più a una


casa di cura o a un collegio che non a un

riformatorio. Praticavamo tutti gli sport, e

alcuni di noi divennero ottimi giocatori di

baseball, nuotatori e musicisti. In fin dei

conti sono proprio orgoglioso del tempo che

ho trascorso al riformatorio per ragazzi di

colore.

CAPITOLO 4

Quando fui rilasciato dal riformatorio

avevo quattordici anni. Mio padre, che


lavorava ancora nella fabbrica di trementina,

chiese al suo padrone di parlare di me al

giudice Wilson e così fui rilasciato a

condizione che vivessi con mio padre e la

mia matrigna. Vennero a prendermi una

magnifica sera di giugno, nell’aria c’era il

profumo intenso del caprifoglio. Quanto mi

piaceva quel profumo! La domenica sera,

nella tranquillità più assoluta, mi stendevo

sulla brandina e ascoltavo il complesso di


Freddie Keppard che suonava per qualche

ricco bianco, a meno di un chilometro di

distanza, e il profumo di quei fiori deliziosi

mi riempiva le narici.

Quel giorno, in attesa che mio padre e la

mia matrigna venissero a prendermi, mi misi

a pensare al futuro. Per prima cosa mi resi

conto che non avrei più potuto ascoltare

Freddie Keppard, ottimo cornettista, con un

timbro meraviglioso e un fiato eccezionale.


Aveva uno stile tutto suo. Certo il timbro di

Bunk Johnson era il migliore di tutti, ma

Freddie aveva dei tratti originalissimi e

particolari che lo rendevano a mio avviso

molto interessante e divertente. Quando

suonava nelle parate, si copriva le dita con il

fazzoletto per non farsi rubare la tecnica

dagli altri cornettisti. Che scemenza,

pensavo io, ma Freddie era fatto così e la

gente lo ascoltava ammirata. Senza dubbio


aveva del talento.

Quelle sere passate sulla branda inebriato

dal profumo dei caprifogli ad ascoltare

Freddie che suonava la cornetta erano

veramente il paradiso in terra per un ragazzo

della mia età. Non sapevo rassegnarmi

all’idea di dover rinunciare a tutto questo.

Mi chiedevo come avrebbe reagito mio

padre se gli avessi chiesto di rimanere nel

riformatorio. Dopotutto non avevo mai


vissuto con lui, e sua moglie non la

conoscevo neppure. Che tipo di donna era?

Saremmo andati d’accordo? Che carattere

aveva? Lì al riformatorio ero stato felice.

Tutti mi volevano bene e io volevo bene a

tutti. Una volta andato a casa di mio padre

avrei rivisto ancora Mayann e Mama Lucy

che venivano a farmi visita al riformatorio

tre volte la settimana? Mio padre invece non

era venuto a trovarmi nemmeno una volta. E


i ragazzi e pure i guardiani? Sembravano

tutti tristi e con la faccia lunga a vedermi

partire, e anch’io ero triste perché li

lasciavo.

Mentre i miei ultimi bagagli venivano

preparati, l’orchestrina suonò come mai

prima aveva suonato. Eseguii vari numeri

con loro per farmi sentire da mio padre che

rimase entusiasta dei miei progressi e disse

che avrei dovuto continuare.


La signora Jones nel dirmi addio mi

baciò. Strinsi la mano a tutti i ragazzi e

anche a Jones, Davis e Alexander. Provavo

un gran senso di tristezza mentre, lasciato il

riformatorio,

percorrevamo

City

Park

Avenue per andare a prendere il tram che ci

avrebbe condotti in città.


Mio padre e la mia matrigna abitavano

nella zona tra Miro e Poydras Street, proprio

nel cuore del cosiddetto Campo di Battaglia.

Erano felicemente sposati e avevano due

figli maschi, Willie e Henry. Non mi ci volle

molto a capire il carattere della mia

matrigna: era un’ottima donna e mi trattava

come un figlio. Per questo le vorrò per

sempre bene. Anche Henry era un ragazzino

bravissimo; fu sempre buono con me e


diventammo grandi amici. Il fratello

maggiore era invece scorbutico come pochi

e trovava sempre il modo di rompere le

scatole a tutti.

Dopo un po’ di tempo che vivevo con

loro, il babbo e la mia matrigna, che

lavoravano entrambi fuori casa, si accorsero

che sapevo cucinare e che mi venivano bene

soprattutto i fagioli. Non gli parve vero di

potermi lasciare a casa coi due bambini,


affidandomi la cucina. Poiché ero più grande

di loro, ritenevano che i due bambini mi

avrebbero ubbidito. Henry mi ubbidiva. Ma

quel Willie! Mentiva così sfacciatamente che

qualche volta mi veniva la tentazione di

tirargli in testa la pentola dei fagioli. Lui

sapeva benissimo che i suoi genitori si

sarebbero bevuti gran parte delle sue storie.

Il problema era che non gliene davano

abbastanza.
Un giorno ne fece una tanto grossa che non

potei fare a meno di mollargli un ceffone

così forte da fargli proprio male. Temevo

che se lo avesse detto a papà Willie e a

mamma Gertrude al loro ritorno a casa quelli

mi avrebbero rispedito al riformatorio. Ma il

furfantello non disse nulla. Immagino che si

rese conto di essere dalla parte del torto e di

aver meritato il castigo.

Da principio, quando mi esercitavo con la


cornetta, i due bambini ridevano come pazzi.

Ma con l’andar del tempo presero ad

ascoltare con maggior interesse e a fare

qualche osservazione, di quelle che fanno i

bambini. Allora cominciammo ad andare un

po’ più d’accordo. Crescevano rapidamente

e più crescevano, più mangiavano. Mi resi

subito conto di quanto riuscissero a

mangiare, e quindi presi le necessarie

precauzioni. Spesso, dopo aver cotto una


grossa pentola di fagioli, riso e prosciutto,

se ne spazzavano via una buona metà prima

che arrivassi a metterla in tavola. Willie era

capace di spazzolare un piattone con una

velocità incredibile.

Dovetti cominciare a giocare di astuzia

con loro. Quando cucinavo, mangiavo a

sazietà prima di suonare il campanello per

chiamare Willie e Henry che giocavano in

giardino. Un giorno Willie mi chiese perché


non mangiassi con loro. Io risposi che

dovendo assaggiare il cibo mentre cucinavo,

finivo per non aver più voglia di mangiare.

Ci cascarono con tutte le scarpe.

Nel periodo in cui stavo con papà Willie e

con mamma Gertrude venne al mondo la mia

piccola sorellastra Gertrude, e così, poco

tempo dopo, dovetti andarmene, perché mio

padre si accorse che i soldi che guadagnava

bastavano appena a mantenere i tre figli che


aveva avuto dalla mia matrigna. In quei

tempi la mano d’opera era assai mal pagata,

e papà Willie e mamma Gertrude, benché

lavorassero entrambi, riuscivano appena a

sbarcare il lunario.

Una sera passò a trovarci la mia vera

mamma, che si intrattenne a lungo a parlare

con papà. Quando Mayann stava per

andarsene, mio padre mi disse: “Louis, ti

piacerebbe tornare a casa di tua madre?”


A quelle parole fui contentissimo, ma feci

del mio meglio per nasconderlo. Durante il

mio soggiorno con lui, Gertrude e i due

bambini, aveva fatto di tutto per rendermi

felice. Gli sono sempre stato grato per

questo e per la bontà con cui mi hanno

trattato.

“Va bene, papà. Voglio bene sia a te che a

Mayann e tornerò spesso a trovarti”.

“È un bravo ragazzo”, disse lui a Mayann


sorridendo e dandomi una pacca sulle spalle.

“Eh sì”, annuì lei. Poi uscimmo, diretti a

Liberty e Perdido Street, il mio territorio.

La mattina dopo mi svegliai arzillo di

buon’ora e uscii per cercare il mio gruppo di

amici, i miei ex compagni di scuola o

chiunque altro conoscessi.

La prima persona che incontrai fu Cocaine

Buddy Martin, il fratello di Bella, per la

quale avevo avuto una cotta. Era cresciuto un


bel po’, portava i calzoni lunghi e lavorava

per Joe Segretta che gestiva un locale che

era una sorta di drogheria, bar e honky tonk,

tutto insieme.

Gli sgattaiolai piano piano alle spalle

mentre stava spazzando l’ingresso dai rifiuti

della sera prima, e gli misi le mani sugli

occhi.

“Indovina chi sono!”

Non riusciva a indovinare, ma quando


tolsi le mani urlò di gioia.

“Dipper! Porca miseria, erano secoli che

non ti si vedeva!”

Non sapeva che ero stato rilasciato dal

riformatorio già da un pezzo né che ero stato

a casa di mio padre a star dietro ai miei

piccoli fratellastri.

“Bene, che bello”, disse Cocaine Buddy.

“Sembrava quasi che non volessero farti più

uscire da quel riformatorio”.


Ci facemmo una bella risata e poi gli

chiesi notizie di tutti.

“Ah, quasi dimenticavo. Tu suoni la

cornetta, vero? È così che si chiama

quell’arnese in cui soffi?”

“Sì, Buddy, suono la cornetta. Ma non

credo di essere abbastanza bravo da poter

suonare con una vera orchestra”.

“Credo che andrai comunque bene per il

lavoro che dico io”.


Gli chiesi dove fosse.

“Proprio là”, disse puntando il dito verso

un honky tonk dall’altra parte della strada.

“Il padrone si chiama Henry Ponce, è uno

dei pezzi grossi nel quartiere a luci rosse, e

non ha paura di nessuno. Ha bisogno di un

buon cornettista. Se credi che faccia al caso

tuo, ci metterò una buona parola. Tutto

quello devi fare è metterti un paio di calzoni

lunghi e suonare il blues per le puttane che


battono tutta la notte. Vengono nel locale con

le calze zeppe di soldi per i loro protettori.

Se gli suoni il blues ti chiameranno con tutti i

nomignoli più affettuosi, ti offriranno da bere

e ti daranno un bel po’ di mance”.

Pensando a Mayann e Mama Lucy che

avevano tanto bisogno di essere aiutate,

dissi: “Caro Buddy, fa’ del tuo meglio e

cerca di farmi avere quel lavoro”.

È strano, ma Buddy non mi disse che


Henry Ponce e Joe Segretta si odiavano a

morte. Segretta era italiano, e Ponce

francese; entrambi maneggiavano un sacco di

soldi e avevano per le mani un mucchio di

affari. Erano entrambi dei tipi terribili e

cercavano in tutti i modi di battere l’altro.

Buddy riuscì a farmi avere quel lavoro e

dopo sei mesi che lavoravo lì i rapporti tra i

due bianchi si fecero estremamente tesi, ma

non riuscivo a capire in realtà per quale


motivo litigassero.

Il sabato il locale stava aperto tutta la

notte e la domenica non tornavo a casa prima

delle dieci o delle undici di mattina. Gli

ubriachi spendevano un sacco di soldi e le

mance erano buone, almeno per quei tempi.

Io risparmiavo in tutti i modi. Mayann mi

preparava una cena abbondante, che

consumavo poi nel locale a notte fonda.

Evitavo così di spendere troppo per


mangiare alla tavola calda o a un chiosco.

Mayann diceva, e io ero perfettamente

d’accordo con lei, che i pasti consumati in

quei posti non valevano il denaro che

costavano.

Ero giovane e forte, pieno di ambizione e

volevo fare il possibile per aiutare Mayann e

Mama Lucy. Dopo essermi assicurato il

posto nel locale di Henry Ponce, trovai un

altro lavoro che consisteva nel guidare un


carretto per il trasporto del carbone durante

il giorno. Finito il primo lavoro, alle quattro

del mattino correvo a casa per dormicchiare

un paio d’ore e poi andavo alla C.A.

Andrews Coal Company all’angolo tra

Ferret e Perdido Street, ad appena due

isolati di distanza dall’ honky tonk. Dalle

sette

della

mattina
alle

cinque

del

pomeriggio trasportavo antracite a quindici

cents il carico. E mi piaceva davvero tanto.

Avevo quindici anni e mi sentivo un vero

uomo quando caricavo con la pala una

tonnellata di carbone sul mio carro. Siccome

ero giovane e mingherlino non riuscivo a

fare più di cinque carichi al giorno. Però non


andava affatto male. Fra i settantacinque

cents che guadagnavo durante il giorno e il

dollaro e un quarto più le mance dell’ honky

tonk, mettevo insieme una bella sommetta.

Poi

proprietari

degli

altri

locali
cominciarono a richiedere i miei servizi.

Caspita, mi sembrava proprio di essere

diventato qualcuno! Nonostante tutto, non

rinunciai al mio mulo e al mio carro da

carbone.

Una delle ragioni per le quali mi piaceva

così tanto trasportare il carbone era il mio

patrigno, Gabe. Lui lavorava da tantissimo

tempo per la Andrews Coal Company e fu

lui che mi procurò quel lavoro. Era il


patrigno che mi piaceva di più. Gabe

guidava un carro con due muli e guadagnava

trenta cents per carico, il doppio di quello

che prendevo io. Conosceva tutti i segreti

del mestiere e riusciva a trasportare nove,

dieci e a volte anche più di dieci carichi al

giorno. Mi insegnò il trucco per caricare un

carro senza farsi troppo male alla schiena.

Dato il momento, un impiego fisso

rappresentava un bel vantaggio perché c’era


sempre il pericolo che la polizia imponesse

da un momento all’altro la chiusura degli

honky tonk. Se ciò fosse avvenuto, mi

sarebbe pur sempre rimasta un’altra fonte di

guadagno.

Poco tempo dopo infatti l’ honky tonk

dove lavoravo venne chiuso. Solamente

allora mi resi conto di quali fossero le vere

cause della feroce lotta tra Joe Segretta e

Henry Ponce. Era una domenica mattina e nel


locale eravamo rimasti solamente io e il bel

francese. Ponce mi stava accompagnando

alla porta e mi parlava di un blues che

avevamo suonato la notte precedente. Rimasi

sorpreso perché non immaginavo che lui

stesse effettivamente ad ascoltarci.

Arrivato al marciapiede voltai la schiena

alla

strada,

sempre
continuando

chiacchierare con Ponce che si era fermato

sulla soglia. Dopo circa dieci minuti mi

accorsi per caso di alcuni tipi di colore che

di solito frequentavano il locale di Joe

Segretta, fermi davanti alla drogheria di

Gasper, sull’angolo di fronte ai locali di

Segretta e di Ponce, gente terribile che

lavorava per Joe Segretta. Ce l’avevano con


Ponce. Ma Ponce, anche lui un osso duro,

non si era accorto di niente. E neanch’io mi

ero accorto di niente. A un tratto vidi che uno

di loro tirava fuori la pistola e ce la puntava

addosso. Sparò due colpi e poi se la svignò

correndo verso l’incrocio tra Howard e

Perdido Street, un isolato più in là. Poi,

prima che potessimo renderci conto di

quanto stava succedendo, quei disgraziati

cominciarono tutti a sparare.


“Be’, che mi venga un colpo”, gridò

Ponce mentre quelli, dopo aver scaricato le

pistole, se la davano a gambe. “Quei negri

bastardi sparavano proprio contro di me”.

Ponce tirò fuori una pistola e si mise a

rincorrerli, e quando fu all’altezza di

Howard e Perdido Street sentii nettamente

sparare sei colpi uno dietro l’altro. Mentre

sparavano contro Ponce io non mi ero mosso

e quando i presenti mi videro inchiodato al


suolo per lo spavento, tutti si precipitarono

verso di me.

“Ti hanno colpito?”, chiedevano. “Sei

ferito?”

Quando mi chiesero cos’era successo

persi i sensi. Solamente allora mi resi conto

del pericolo che avevo corso. Pensavo che il

primo colpo mi avesse raggiunto.

Quando ripresi conoscenza, si sentivano

ancora provenire degli spari da Howard e


Perdido Street e le urla dei ragazzi di colore.

Nessuno di loro era all’altezza di Ponce che,

da ottimo tiratore qual era, li colpì uno dopo

l’altro. Finita la sparatoria, tornò indietro al

suo locale, folle di rabbia e bestemmiando.

Tre dei ragazzi di colore furono trasportati

all’ospedale e io fui condotto da Mayann. Ci

vollero parecchi giorni prima che mi

riprendessi dallo shock.

Dopo quello scontro nessuno di loro osò


più rompere le scatole a Ponce perché si

erano resi conto che era un osso troppo duro.

Io continuai a suonare nel suo locale, ma

stavo sempre all’erta, temendo che da un

momento all’altro potesse succedere di

nuovo qualche cosa. Ma non successe più

nulla, e infine durante una campagna

elettorale tutti gli honky tonk vennero chiusi.

Henry Ponce, come tutti gli altri proprietari

di locali, aveva intenzione di riaprire appena


fosse tornata la calma, ma la chiusura per

legge si prolungò talmente che Ponce perse

ogni speranza e si mise in nuovi affari nella

zona di Downtown.

CAPITOLO 5

Credo che Henry Ponce abbia poi aperto

un negozio di abbigliamento maschile o si

sia dato ad altri affari di carattere lecito. In

ogni caso, non potevo essergli utile e non lo

rividi più. Rimpiangemmo tutti Henry Ponce


perché era una persona cortese e generosa;

spesso lo avevo visto fermarsi per strada e

far scivolare degli spiccioli in mano a

qualche povero straccione, il che a quei

tempi nel Sud non era considerata cosa da

poco.

Naturalmente mi rimaneva ancora il

lavoro nel trasporto del carbone quando

Henry Ponce chiuse bottega. Potevo tornare

a casa presto e riposare tutta la notte.


Qualche volta però dopo cena mi lavavo e

mi infilavo i calzoni lunghi fatti su misura

che avevo tenuto a lungo da parte. Poi io e

Isaac Smooth facevamo il giro degli honky

tonk per osservare la gente e prendere in

giro gli ubriachi. I buttafuori li lasciavano in

pace

finché

quelli

sonnecchiavano
appoggiati al muro. Ma se cadevano a terra o

davano in escandescenze, li scaraventavano

fuori all’istante. Stavamo lì a guardarci

queste scene e a osservare le prostitute che

spesso si accapigliavano per uno dei loro

protettori azzuffandosi come cani arrabbiati.

Isaac Smooth, o Ike, come lo chiamavamo,

era stato con me in riformatorio, dove

avevamo suonato insieme nell’orchestra. Era

un bellissimo ragazzo e spesso le puttane


cercavano di portarselo a letto, ma lui come

me temeva quelle donne forti e tremende. Le

nostre madri ci avevano messo in guardia in

proposito e poi non pensavamo molto al

sesso. Volevamo sì imparare tante cose nella

vita, ma più che altro c’interessava la

musica. Andavamo sempre in cerca di un

pianista che suonasse qualcosa di innovativo

e che avesse un ritmo tutto suo e originale.

Tipi del genere, con del talento vero,


provenivano spesso dai campi di lavoro

forzato. Si sedevano al piano e ti tiravano

fuori un blues come non l’avevi mai sentito

in vita tua. Ogni volta che io e Ike trovavamo

un musicista così, eravamo i ragazzi più

felici di New Orleans.

Il locale più frequentato si trovava

all’angolo tra Gravier e Franklin Street e lì

vidi una rissa tra due puttane che non

dimenticherò mai. Il motivo del litigio era un


protettore, e le due puttane erano Mary Jack

the Bear, e una ragazza che chiamerò

Deborah. Di tutte le donne che frequentavano

i locali Mary era la più sfacciata. Deborah

invece era una graziosa ragazzetta che aveva

appena finito la scuola. Non sapevo di dove

fosse, sapevo soltanto che era davvero

carina. Si innamorò del protettore di Mary

Jack che la spinse a battere. A Deborah non

dispiaceva più di tanto perché era


pazzamente innamorata del protettore. Anche

Mary Jack era innamorata dello stesso

protettore. Deborah non sapeva di avere una

rivale e non sapeva di avere in comune con

questa il protettore. Neanche Mary Jack

sapeva niente, per lo meno fino a quella

piovosa notte di Capodanno quando i

festeggiamenti stavano per finire.

Erano tutte e due mezze ubriache quando

si incontrarono nel locale dove il protettore


stava bevendo con Deborah. Mary Jack

cominciò a sfotterli: “C’è una troia in questo

locale che se la fa col mio uomo. Lei gli dà

tutti i soldi che raccatta e lui me li passa pari

pari”.

Deborah non reagì. Mary Jack rincarò la

dose, ma senza effetto. Allora si avvicinò a

Deborah, la girò verso di sé e fissandola

negli occhi disse: “Guardami, troia, ce l’ho

con te”.
Deborah era una ragazzina molto dolce:

“Scusa”, rispose, “cosa dicevi?”

“Mi hai sentito benissimo e sai di cosa sto

parlando. Se non lasci stare il mio uomo ti

faccio a pezzi. Ti vuole solo perché gli dai i

soldi. Non ti illudere che sia per la tua bella

faccia. Te la sfregio”.

“Mi ha detto che non stavate più insieme”,

disse tranquillamente Deborah. “Mi sa tanto

che i soldi che mi dà sono quelli fai tu


battendo il marciapiede”.

Tutti quelli che osservavano la scena

erano tesissimi e silenziosi. Veloce come il

lampo Mary Jack gettò in faccia a Deborah il

contenuto del suo bicchiere e Deborah con

altrettanta sveltezza fece lo stesso. Si

azzuffarono, piroettando e rotolandosi sul

pavimento finché non vennero separate.

Mary Jack, dopo essersi riordinata il vestito,

si fermò sulla soglia e disse: “Troia, ti


aspetto fuori”.

“Va bene, troia”, rispose la piccola

Deborah, tutta timida.

All’angolo della strada si era raggruppata

una vera e propria folla per vedere come

sarebbe andata a finire. Mezz’ora dopo

Deborah uscì e appena raggiunse il

marciapiede, Mary Jack tirò fuori un

coltellaccio con la lama larga, le saltò

addosso e cominciò a sfregiarle la faccia.


Deborah a sua volta tirò fuori un coltello

simile e cominciò a sfregiare la faccia di

Mary Jack. La folla terrorizzata non osava

avvicinarsi. Miravano tutti e due alla faccia

e ogni volta che un colpo andava a segno la

gente urlava: “Oddio!” Dopo mezz’ora,

esauste e sanguinanti, caddero entrambe sul

marciapiede.

Alla fine arrivò un’ambulanza che le portò

all’ospedale. Mary Jack è morta, ma


Deborah è ancora viva. La sua faccia però è

così malamente sfregiata da sembrare una

cartina geografica. Nel quartiere quella rissa

non è mai stata dimenticata, una delle più

sanguinose che si siano mai viste.

All’epoca c’era un’altra donna terribile

che bazzicava i locali. Portava una parrucca

per nascondere i capelli che erano più corti

di quelli di un uomo. Ebbe una bella batosta

quella volta che si mise a maltrattare una


nuova

arrivata,

dal

carattere

molto

tranquillo. Quando arrivarono ad acciuffarsi

per i capelli, la parrucca le volò via sul

pavimento. Al che ci furono scrosci di risate

che le bastarono per sempre e da allora in

poi lasciò in pace la nuova venuta. Parecchi


anni dopo venni a sapere che aveva lasciato

la strada e s’era data tutta alla religione.

Altri tipi mi avevano affascinato all’epoca

in cui vivevo nella zona del Third Ward:

Black Benny, Cocaine Buddy, Nicodemus,

Slippers, Red Cornelius, Aaron Harris e

George Bo’hog. Erano davvero dei tipi

tremendi.

Nicodemus era un gran giocatore e uno dei

migliori ballerini che frequentassero gli


honky tonk. Era un tipo bruttino, con delle

grosse labbra sensuali e con un modo vivace

di ballare tutto suo, faceva un sacco di facce

strane e mandava in visibilio i clienti del

locale di Gravier e Franklin Street. Quando

era stufo di giocare a carte nella bisca sul

retro, veniva in pista da ballo e ci chiedeva

di suonare qualcosa. Agguantava la ragazza

più elegante che si trovava davanti e

cominciava a ballare come un pazzo per tutto


il locale. Di fronte a questo locale c’erano il

tribunale,

la

prigione

distrettuale,

il

commissariato di polizia e l’obitorio. Dopo

la mezzanotte i giudici, gli avvocati e i

poliziotti sciamavano per venire a vedere

ballare Nicodemus. Gli davano un mucchio


di soldi. Dopodiché lui se ne tornava a

giocare nella bisca.

Nicodemus aveva un caratteraccio rissoso

ed era capace di litigare per la minima

sciocchezza. Nero come l’ebano, era

abilissimo nel maneggiare il coltello ed era

temuto anche da molti tipi duri, a eccezione

di Black Benny.

Benny era veramente diverso da tutti gli

altri presunti tipacci che conoscevo. Era un


ottimo suonatore di grancassa, nelle varie

brass band, ma era anche bravissimo a

suonare i trap drums. Trap drums era

l’espressione allora in uso per indicare sia

la grancassa che il tamburo quando i

suonatori delle bande da parata suonavano il

tamburo

militare

la
grancassa

contemporaneamente. Benny era grande, uno

dei migliori batteristi di New Orleans.

Era amico di tutti i musicisti. Ogni volta

che uno di noi si trovava in difficoltà Benny

veniva in soccorso ed era sempre pronto ad

aiutare i derelitti. Un giorno mentre guidava

il suo carro da carbone – lavorava per

Andrews come me – vide dei tizi grandi e

grossi che infierivano contro un gruppo di


ragazzini. Saltò immediatamente giù dal

carro e conciò quei prepotenti per le feste.

Un’altra volta venne alle mani con alcuni

fochisti. Li avrebbe fatti fuori se uno di

questi, arrivandogli di soppiatto alle spalle,

non l’avesse steso a terra con un colpo di

stanga. Quello era l’unico modo per aver

ragione di Benny.

Quando ero un adolescente, Benny aveva

più o meno ventisei anni; era un bellissimo


ragazzo con la pelle nera e liscia, un corpo

ben formato e robusto e un cuore d’oro. Non

dava fastidio a nessuno, ma guai se qualcuno

cercava di farlo fesso. Una sera andò nella

bisca del locale da ballo per giocare e, non

si sa come, finì a discutere con Nicodemus

per una scommessa. Nicodemus in quel

momento non aveva il suo coltellaccio e

anche Black Benny era a mani vuote.

Nell’impeto della lite Nicodemus si alzò e


corse a casa per prendere la pistola. Tutti

consigliarono a Black Benny di svignarsela

prima che quello ritornasse.

“Ma che andasse a quel paese”, disse.

“Quello mi fa un baffo, a me”.

Invece di andare a casa per prendere la

pistola come aveva fatto Nicodemus, Benny

andò in un vicoletto nei pressi del locale in

attesa che Nicodemus tornasse con la sua

pistola. Camminando nel vicolo inciampò in


un pezzo di tubo di piombo lungo poco più

di un metro e largo quanto una mortadella.

Quando Benny si ritrovò in mano il tubo fu

felice e contento perché era proprio quello

che ci voleva per fare una brutta sorpresa a

Nico. Nico infatti stava per rientrare di

corsa nel locale quando Benny gli assestò

una tale botta in testa col tubo di piombo da

stenderlo tramortito a terra.

C’è una cosa da dire sulle risse che


scoppiavano fra i teppisti, ai miei tempi: non

c’era malvagità né agivano in modo subdolo.

Vinca il migliore: questa era la regola.

I ragazzi erano affezionati sia a Benny che

a Nico. Non appena Nico fu messo fuori

combattimento, i ragazzi che erano nella

stanza sul retro gli tolsero il revolver di

tasca e lo nascosero così i poliziotti non

avrebbero saputo che ce l’aveva con sé

quando era stato colpito. Quando arrivarono,


i poliziotti si misero a cercare l’arma

ovunque ma non riuscirono a trovarla.

Questa è vera lealtà reciproca per me. Non

volevamo che i poliziotti ficcassero il naso

nelle nostre faccende: potevamo benissimo

sistemarle da soli.

La guancia di Nicodemus rimase per

sempre sfregiata dall’orribile cicatrice

dovuta al colpo che Black Benny gli aveva

mollato con tutta la sua forza. Ce l’aveva


ancora, quella cicatrice, quando lo rividi

molti anni più tardi in un noto locale a

Calumet City, vicino a Chicago.

Fin da bambino, ho sempre considerato

Black Benny il miglior suonatore di

grancassa che io abbia mai visto in tutte le

brass band che abbiano messo piede a New

Orleans. Ancora oggi lo ritengo uno dei

migliori batteristi che abbiano sfilato in

parata per le vie di quella città.


I poliziotti conoscevano bene Benny, e lo

avevano tanto in simpatia che non lo

picchiavano mai come invece facevano con

gli altri tipi che arrestavano. Quando Benny

scontava una pena, il direttore della prigione

distrettuale lo lasciava uscire per suonare ai

funerali con la nostra brass band. Dopo il

funerale rientrava in prigione come se nulla

fosse. Le cose continuarono così per anni.

Però Black Benny non restò mai in prigione


più di trenta giorni consecutivi: non fu mai

arrestato per furto, ma sempre per colpe

minori come schiamazzi, risse o per aver

picchiato a sangue Nelly, la sua donna. E se

non era in prigione per rissa, era in ospedale

perché lei l’aveva accoltellato.

Nelly era una donna veramente tremenda.

Era una ragazza piccola, carina, di colore ma

con la pelle chiara, e non aveva paura di

nessuno. Quando lei e Benny si picchiavano


erano come due galli da combattimento. Un

giorno Benny stava suonando in una brass

band che sfilava in parata per le strade.

Evidentemente aveva litigato con Nelly

quella mattina, prima di uscire di casa.

Proprio quando la parata imboccò la nostra

strada Benny e Nelly si videro e

cominciarono a prendersi a parolacce. E che

parolacce! Secondo me non sapevano

neanche come si scrivevano. Black Benny si


fermò di botto e si sfilò la cinghia che gli

teneva la grancassa sospesa al collo. Nelly

si avviò per passare sulla lastra di pietra che

serviva da ponte attraverso la cunetta piena

di acqua piovana fangosa. Nel correre verso

di lei, Benny vide la lastra, la tirò su e la

scaraventò sulla schiena della ragazza

quando questa si abbassò cercando di

schivarla.

Tutti pensarono che Nelly non si sarebbe


mai più rialzata. Non la conoscevano. Scattò

su immediatamente e tirò fuori dalla calza un

coltello a lama larga chiamando Benny

brutto nero questo e brutto nero quest’altro.

Lui cominciò a scappare, ma non poté

mettersi in salvo prima che lei gli avesse

ripetutamente affettato il sedere. Finirono

tutti e due all’ospedale e quando furono

guariti se ne tornarono a casa insieme,

sorridendosi a vicenda come se nulla fosse.


Più o meno in quel periodo Mama Lucy si

trasferì in una città della Florida dove c’era

una grande segheria che stava assumendo

molti nuovi operai per far fronte alle

ordinazioni che erano in costante crescita.

Avevano bisogno di operai e avevano messo

un avviso sull’ Item di New Orleans, uno dei

giornali che distribuivo io. Operai e

manovali potevano guadagnare molto di più

in Florida che non a New Orleans e Mama


Lucy fu una delle varie centinaia di persone

che partirono. Restò a lungo in Florida e io

cominciai a pensare con non avrei mai più

rivisto la mia adorata sorellina.

Quando Mama Lucy andò via, lei e nostra

cugina Flora erano ormai delle ragazzotte

grandi e grosse. Poiché andavano quasi

sempre in giro insieme, Flora rimase

parecchio sola. Allora finì per aggregarsi a

un altro gruppo di ragazze della stessa età


che però non erano sveglie come lei e Mama

Lucy. Entrambe erano vissute proprio nel

cuore del quartiere degli honky tonk,

conoscevano la gente che girava da quelle

parti, avevano visto un bel po’ di vita

movimentata e non si facevano prendere in

giro facilmente. Erano assai più scaltre delle

normali minorenni e facevano, in sostanza,

tutto il comodaccio loro all’insaputa dei

genitori.
All’epoca in cui andava in giro con quelle

ragazze nuove, Flora finì nei pasticci per

colpa di un bianco di una certa età che si

portava nella sua casaccia fatiscente quelle

ragazze di colore. Non c’è bisogno che vi

spieghi per fare cosa.

Mia cugina Flora Miles rimase incinta. Io

ero ancora un ragazzino e nessuo di noi

sapeva che pesci prendere. Tutto quello che

potevo fare era guardare Flora che


ingrassava sempre di più, finché apparve un

bel bambino paffuto. Flora lo chiamò

Clarence. Quando le altre ragazzine si

accorsero di cosa era successo a Flora e a

due altre di loro, si rifugiarono terrorizzate

presso i genitori.

Tutti dicevano a Ike Miles, il padre di

Flora, che doveva far arrestare quel vecchio.

Ma questa era una cosa assurda. Si trattava

di un bianco. Se avessimo solamente tentato


di farlo arrestare, il giudice ci avrebbe

buttato tutti in mezzo a una strada, compreso

il piccolo Clarence. Abbandonammo l’idea e

pensammo a qualche altro rimedio. L’unica

cosa era che io cercassi un lavoro così da

poter mantenere Clarence. E, credetemi, fu

tutt’altro che facile.

La mia famiglia era stata sempre povera e

quando nacque Clarence io ero l’unico che

portasse a casa un salario decente. Non si


trattava certo di un patrimonio, ma a me

andava comunque meglio che a tutti gli altri.

Vendevo giornali e suonavo anche un po’.

Nei momenti più difficili andavo a Front

o’Town dove c’erano dei magazzini di

derrate. Lì si smistavano grandi quantità di

cipolle, patate, polli, tacchini, e in pratica

tutti i generi alimentari destinati al

rifornimento dei grandi alberghi e dei

ristoranti. Le derrate avariate venivano


gettate in grossi bidoni posti lungo il

marciapiede che poi venivano vuotati nei

carri della spazzatura. Prima che arrivassero

i carri, io scavavo nei secchi e ripescavo le

cose migliori che riuscivo a trovare, come

polli, tacchini, anatre, oche, ecc. Tutta roba

semi-avariata. A casa ritagliavamo le parti

andate a male, facevamo bollire a lungo

quelle in buono stato, e poi le sistemavamo

per benino in un cesto. Avederlo, il


contenuto

di

questi

panieri

dava

l’impressione di essere buonissimo. Noi

questi cestini li vendevamo ai migliori

ristoranti al prezzo che il proprietario era

disposto a darci. Generalmente ricavavamo

una discreta sommetta e in più rimediavamo


qualche sandwich e un buon pranzetto. Lo

stesso facevamo con le patate: tagliavamo

via le parti andate a male e vendevamo

quelle ancora buone per tre quarti di dollaro

al sacco. Naturalmente dal pollame si

ricavava assai di più.

Noi pensavamo di aver già ripulito i

bidoni da tutto quanto c’era di utilizzabile,

ma quando i carri della spazzatura

arrivavano alla discarica di Silver City,


c’era ad aspettarli un sacco di gente di

colore armata di bastoni appuntiti con i quali

facevano la cernita della spazzatura ancora

buona. Avolte ripescavano intere bistecche

di maiale, pagnotte intonse, vestiario e altra

roba ancora utilizzabile. Qualche volta

anch’io seguivo i carri fino alla discarica

nella speranza di trovare ancora roba da

tenere o da vendere. Era questo uno dei

mezzi coi quali aiutavo la famiglia ad


allevare il neonato.

Col passare degli anni mi affezionai molto

a Clarence. Flora dovette intuire che non

sarebbe campata molto perché poco prima

della sua fine lo fece registrare come

Clarence Armstrong e lo affidò a me. Anche

il bimbo mi si affezionò molto. Aveva un

sorriso troppo simpatico e io passavo ore e

ore a giocare con lui.

Al momento della sua morte Flora abitava


da sua sorella Sarah Ann, mia cugina, una

ragazza vivace con un gran cuore e che

faceva di tutto per rendere felici gli altri. Era

molto amica di mia madre e insieme

frequentavano certi posti in cui noi ragazzini

non avremmo mai osato ficcare il naso.

Flora aveva avuto un sacco di problemi

fin da quando Clarence era nato. Proprio il

giorno della sua nascita scoppiò un uragano

tremendo, uno dei peggiori che si fossero


mai visti a New Orleans. Molte case

vennero rase al suolo, morirono uomini e

animali e migliaia di persone rimasero senza

tetto.

L’uragano scoppiò all’improvviso mentre

ero per strada e stavo tornando a casa. Il

vento soffiava con tanta forza da strappare le

tegole dai tetti facendole cadere per strada.

Piovevano tegole da tutte le parti, e avrei

fatto bene a mettermi al coperto per non


essere accoppato come successe a diverse

persone.

Quando finalmente raggiunsi casa mia ero

fradicio ed esausto. Mayann e Sarah Ann

erano terrorizzate perché avevano temuto che

fossi morto. Lungo la strada di casa, mentre

avanzavo

fatica,

mi
ero

sentito

angosciatissimo per il timore che il vento

avesse spazzato via la mia casa e la mia

famiglia. Quando entrai, gettai le braccia al

collo di mia madre e di Sarah Ann. Mentre

le abbracciavo mi cadde lo sguardo sul

nostro unico letto dove dormivo con Mayann

e mia sorella e vidi allora il piccolo

Clarence. Tutto il senso di desolazione


scomparve.

Il giorno dopo il sole tornò a splendere

bello e luminoso, e tutti erano sorridenti. In

città però le vittime furono moltissime e per

tutta la settimana non si ebbero che funerali.

Joe Oliver, Bunk Johnson, Freddie Keppard

e Henry Allen, tutti suonatori di tromba nelle

brass band, fecero soldi a palate suonando ai

funerali dei membri di varie associazioni,

morti a causa del temporale.


Sono sicuro che la nascita di Clarence e

lo shock per l’uragano ebbero la loro parte

nella morte di Flora. Nel Sud, specialmente

in quei giorni, non era facile trovare un

dottore ed era ancora più difficile trovare il

denaro

per

pagarlo.

Non

potevamo
permetterci il lusso di un medico a due

dollari per visita: quei soldi ci servivano

per mangiare. Certo facemmo tutto il

possibile per curare Flora, ma non bastò.

L’ospedale traboccava di degenti e molti

ammalati dovevano essere lasciati nel

cortile.

Mama Lucy, che era ancora una ragazzina,

tornò dalla Florida per partecipare al

funerale di Flora. Fece di tutto per aiutarci a


comprare da mangiare e altre cose

essenziali, ma non si era portata dietro molto

denaro. In Florida era un’operaia non

specializzata e dunque non guadagnava un

granché. Nessuno nella mia famiglia

conosceva un mestiere e dovevamo tutti

accontentarci di lavorare alla giornata. Per

quanto mi è possibile risalire nel mio albero

genealogico,

non
trovo

nessuno

che

conoscesse una delle cose che vengono

insegnate a scuola.

Mama Lucy e Sarah Ann avevano un gran

senso dell’umorismo e io volevo molto bene

a entrambe. La vita di tutti e tre era una

continua lotta per l’esistenza, ma nonostante

le difficoltà rifarei tutto daccapo. Con


quindici cents Mayann era capace di

preparare i migliori piatti che si possano

desiderare. Quando mi spediva al mercato di

Poydras per comprare quindici cents di teste

di pesce, preparava una grossa pentola di

cubie yon1 che serviva con salsa di


pomodoro e riso bianco e soffice in cui ogni

chicco

era

separato

dall’altro.
Ne

mangiavamo fino quasi a star male.

Per me il gumbo alla creola che faceva lei

era il migliore al mondo. Il suo riso col

cavolo era eccezionale. Quanto al riso coi

fagioli rossi, meglio non parlarne, è il mio

marchio di fabbrica.

Mayann aveva insegnato a me e mia

sorella a cucinare le sue specialità. Il suo

jumbalaia
era

delizioso.

Si

prepara

cuocendo insieme mortadella tagliata a

dadini, gamberi, ostriche e granchi misti a

riso e conditi con salsa di pomodoro. Se mai

vi capitasse di mangiare il jumbalaia

preparato da Mayann non potreste non

leccarvi le dita, quant’è vero che mi chiamo


Louis Satchmo Daniel Armstrong.

Aproposito di cibo mi ricordo il tempo in

cui lavoravo come lavapiatti presso il

ristorante Thompson tra Canal e Rampart

Street. Avevo il permesso di mangiare tutti i

bignè alla crema, le ciambelle e i gelati che

volevo. Andò bene per quindici giorni, ma

poi cominciai a stancarmi talmente di questo

genere di cose che solo a vederle mi veniva

la nausea. Tanto che abbandonai il posto per


tornarmene al vecchio lavoro presso la

Andrews Coal Yard. Fu in questo periodo

che scrissi “Coal Cart Blues”, che poi incisi

anni dopo.

Ero molto contento di aver ripreso questo

lavoro, e inoltre, di tanto in tanto, suonavo in

occasione di balli, di feste all’aperto, di

funerali ed eventualmente la domenica in

qualche parata. Il mio salario era veramente

discreto per un ragazzo della mia età. Provo


ancora una certa emozione se ripenso al mio

lavoro al magazzino di carbone in

compagnia di quei vecchi furfanti. A pranzo

mi mettevo a sedere con loro consumando il

mio boccale di birra da dieci cents e il mio

panino. Di solito mi limitavo ad ascoltare,

ma quelle volte che dicevo la mia, il solo

fatto che gli altri mi ascoltassero sul serio mi

esaltava da morire.

Ho sempre avuto, fin da piccolo, un


grande spirito di osservazione. Avevo notato

che i ragazzi che frequentavo avevano delle

prostitute che lavoravano per loro. Non

ottenevano molto denaro dalle loro amiche,

ma in compenso si facevano il nome.

Anch’io volevo entrare nel giro e così

cominciai a farmi dare i soldi da una

ragazza. Non era bellissima, ma guadagnava

molto o per lo meno all’epoca a me

sembrava tanto. In fatto di donne ero ancora


troppo giovane e inesperto, specie se si

trattava di una che doveva battere il

marciapiede per me. Era bassa, aveva

capelli crespi e denti sporgenti. Ma con

questo non voglio farne una caricatura

perché per me quello che conta è la donna in

quanto persona e non il suo aspetto esteriore.

Non prendevo sul serio né lei, né

nessun’altra donna, se è per questo. La mia

passione è la musica e nessuna donna potrà


mai sostituirla. Ancora oggi la mia tromba

viene prima di tutto.

Aveva il bel coraggio di essere gelosa di

me, ma io non le davo retta. Una volta

voleva che rimanessi a dormire a casa sua.

“Non starei mai lontano da Mayann e da

Mama Lucy”, dissi, “neppure per una notte.

Non l’ho mai fatto fino a oggi e non lo farò

adesso. Mayann e Mama Lucy non ci sono

abituate”.
“E che diamine!”, disse. “Ora sei

cresciuto, no? Dai, vieni da me”.

“No”.

Prima che potessi rendermi conto di

quello che stava facendo, mi affibbiò una

coltellata. Non era un coltellaccio di quelli

che usavano Mary Jack the Bear o Deborah,

ma un semplice temperino. Me lo piantò

nella spalla sinistra e il sangue mi colò sulla

camicia, dietro la schiena.


Avevo paura di parlarne a Mayann, ma lei

se

ne

accorse

vedendo

la

camicia

insanguinata e diventò furiosa.

“Chi è stato? Chi è stato?”, chiese

scuotendomi.
“Mmmm... è stata la mia ragazza”.

“Ah! È stata lei!”

“Sì”.

“E che diritto aveva di accoltellarti?”

Spaventato, le raccontai tutta la storia.

Mayann non era tipo da sopportare

scemenze, né da parte mia né da parte di

nessun altro. Avevo appena finito di

raccontarle l’accaduto che mi buttò da una

parte e corse difilato a casa della mia


ragazza.

La ragazza stava per andarsene a letto

quando Mayann bussò alla porta e, appena

quella venne ad aprire, Mayann l’agguantò

per la gola.

“Come ti permetti di accoltellare mio

figlio?”

Prima che la ragazza potesse dire una

parola, Mayann la scaraventò a terra e

cominciò a stringerle la gola per strozzarla.


Mayann era un pezzo di donna forte e

robusta, e l’avrebbe ammazzata se non fosse

stato per Black Benny e alcuni altri

individui,

giocatori

bevitori,

che

bazzicavano la zona di Liberty e Perdido

Street. Benny conosceva bene Mayann, e io e


lui ci eravamo trovati a suonare insieme in

più di un funerale.

“Non l’ammazzare, Mayann”, urlò Benny

precipitandosi nella stanza. “Non lo farà

più”.

Mayann allentò un po’ la presa.

“Lascia stare mio figlio”, disse. “Sei

troppo vecchia per lui. Non vuole offenderti,

ma non ne vuole più sapere di te”.

Aveva ragione. Quando mi accorsi che la


mia ragazza era della stoffa di Mary Jack the

Bear, ebbi paura di lei.

1. Pronuncia creola di court bouillon.


[n.d.t.]

CAPITOLO 6

Arthur Brown, uno dei miei compagni di

giochi a scuola, era un giovincello di

bell’aspetto e ben educato e aveva un modo

di fare che faceva impazzire le ragazze. Ho

sempre ammirato il suo atteggiamento

tranquillo e rilassato. Stava con una ragazza


che aveva un fratellino assai svelto. Anzi,

troppo svelto, perché giocherellava sempre

con la pistola o con il coltello. Non ci

preoccupavamo troppo del bambino, ma un

giorno, mentre stava ripulendo la pistola, la

puntò contro Arthur Brown dicendo:

“Adesso sparo”, e infatti premette il

grilletto. La pistola era carica e Arthur

Brown cadde stecchito con una palla in

fronte.
Fu una cosa terribile. Rimanemmo tutti

molto impressionati e anche i più piccoli

piansero.

Raccogliemmo tra di noi una certa somma

e ingaggiammo una brass band per il funerale

di Arthur. Arrivarono tutte le splendide

ragazze con cui Arthur era stato, da ogni

parte della città: Uptown, Downtown, Front

o’Town e Back o’Town. Piangevano tutte.

Noi ragazzi, tutti sotto i vent’anni, portammo


la bara. L’orchestra che avevamo noleggiato

era la migliore che avessi mai sentito. Si

trattava della Onward Brass Band con Joe

“King” Oliver ed Emmanuel Perez che

suonavano la cornetta. Eddy Jackson, alto e

robusto, suonava il bassotuba. Un cattivo

suonatore di bassotuba in un complesso di

ottoni può disturbare non poco gli altri

musicisti, ma Eddy Jackson sapeva suonarla

eccome ed era perfetto per la Onward Brass


Band. Il migliore di tutti era Black Benny

che suonava la grancassa. È stata una grande

perdita per il mondo non ascoltare Black

Benny alla grancassa prima che venisse

ucciso da una prostituta.

Fu davvero un momento tristissimo

quando la Onward Brass Band attaccò la

marcia funebre, nel tragitto dalla chiesa al

camposanto. Tutti piangevano, io compreso.

Black Benny batteva la grancassa con un


tocco leggero, mentre Babe Mathews teneva

un fazzoletto steso sul tamburo per attutire il

rumore. Mentre la bara veniva calata nella

fossa fu intonato il pezzo “Nearer My God to

Thee”.

Dovendo portare la bara, io, Cocaine

Buddy, Little Head Lucas, Egg Head Papa e

Harry Tennisen avevamo indossato i nostri

abiti più scuri, in prevalenza completi blu.

Più tardi, nello stesso anno, Harry Tennisen


fu ucciso da una prostituta dei locali notturni,

chiamata Sister Pop. Aveva un protettore

soprannominato Pop, noto per la sua abilità

con le carte. Pop non seppe nulla della

faccenda, finché Sister Pop non forò il

cervello di Harry con una grossa pistola

calibro 45, freddandolo sul colpo. In seguito

Lucas

Cocaine
Buddy,

affetti

da

tubercolosi, morirono di morte naturale.

A New Orleans la fase triste di un

funerale dura fino a quando il feretro viene

calato nella fossa e il reverendo dice:

“Polvere sei e polvere ritornerai”. Non

appena il caro fratello fu sotterrato sotto tre

metri di terra, l’orchestra attaccò uno di quei


bei vecchi motivi come “Didn’t He Ramble”

tutti

pensieri

tristi

svanirono,

specialmente quando King Oliver suonò

l’ultimo refrain in un registro più alto.

Appena comincia la musica, tutti si


mettono a ondeggiare da una parte all’altra

della strada, specialmente quelli che si

inseriscono nel corteo e seguono quelli che

tornano dal funerale. Questi sono noti come

“seconda fila”, costituita da tutti i passanti

occasionali che hanno semplicemente voglia

di ascoltare un po’di musica. Vengono

coinvolti dalla forza della situazione e si

uniscono agli altri per vedere cosa sta

succedendo. Alcuni seguono il corteo solo


per un certo tratto di strada, ma ci sono altri

che vanno dietro all’orchestra fino alla fine.

Le veglie di solito cominciano quando la

salma è esposta in casa o nella cappella

funebre. Di solito la famiglia del defunto

offre caffè, formaggio e biscotti per tutta la

notte così che quelli che cantano inni in

presenza del defunto possono mangiare e

bere a sazietà. Ero un assiduo frequentatore

di veglie e di solito iniziavo io a cantare gli


inni sacri. Quando tutti erano occupati a

cantare in coro, in punta di piedi scivolavo

in cucina e mi rimpinzavo di biscotti,

formaggio e caffè. Le cose che mangiavo in

quelle

occasioni

sembravano

sempre

buonissime, forse perché erano gratis e non

mi costavano nulla più di una canzone, o per


meglio dire un inno.

C’era un tipo che si faceva tutte le veglie

della città, a prescindere da chi fosse il

morto. In un modo o nell’altro lui lo veniva a

sapere e, cascasse il mondo, ci andava e

attaccava un inno sacro. Quando fui

abbastanza grande per poter suonare nella

brass band con vecchie glorie, come Joe

Oliver, Roy Palmer, Sam Dutrey e suo

fratello Honore, Oscar Celestin, Oak Gasper,


Buddy Petit, Kid Ory e Mutt Carey con suo

fratello Jack, ebbi l’opportunità di osservare

più da vicino soprattutto quest’ultimo, Jack.

Un giorno lo vidi in chiesa con un’aria

sconsolata come se stesse per scoppiare a

piangere da un momento all’altro. I suoi abiti

erano in cattive condizioni e la giacca non

c’entrava niente coi calzoni. Una cosa che

ammiravo in lui era che riusciva comunque

ad apparire più che presentabile. L’abito era


ben stirato e le scarpe lucidissime. Seppi poi

che lo chiamavano Sweet Child.

Per qualche tempo la mia unica occasione

di suonare la cornetta furono i funerali. Era

cominciata la guerra e tutte le sale da ballo e

i teatri di New Orleans erano stati chiusi.

Per legge tutti dovevano lavorare o andare a

combattere.

Avrei

voluto
arruolarmi

nell’esercito, ma l’età andava dai ventuno ai

venticinque anni e io ne avevo soltanto

diciassette. Cercai di entrare in Marina, ma

poi controllarono il mio certificato di nascita

e mi buttarono fuori. Io non perdevo la

speranza, e un militare di uno degli uffici di

arruolamento mi consigliò di ripresentarmi

di lì a un anno. Mi disse che se allora la

guerra non fosse ancora finita avrei potuto


catturare il Kaiser e guadagnarmi un grosso

premio. “Che forza”, pensai. “Catturare il

Kaiser e vincere la guerra”. Credetemi, da

quel momento vissi nell’attesa di quel

giorno.

Non potendo più suonare la mia cornetta,

cominciai a fare ogni genere di lavoro.

Lavorai allo scarico delle banane per un

certo periodo, finché un giorno un grosso

topo saltò fuori da un casco che stavo


portando al controllore. Lasciai cadere il

casco e me la diedi a gambe. Il controllore

mi urlò di tornare indietro perché mi

dovevano pagare, ma io continuai a correre

finché non arrivai a casa. Da allora le

banane mi fanno paura. Non ne mangerei una

neppure se morissi di fame. E sì che prima,

ricordo, mi piacevano tantissimo. Quando il

controllore non mi vedeva ero capace di

mangiare da solo un intero casco piccolo di


banane mature.

Ogni volta che le cose andavano male

potevo sempre fare affidamento sul trasporto

del carbone, grazie al mio buon patrigno

Gabe. Gli volevo molto bene e qualche volta

mi divertivo a stuzzicare Mayann.

“Mamma, la sai una cosa?”, le dicevo.

“Papà Gabe è il più bravo patrigno che io

abbia mai avuto. È certamente il migliore di

tutti”.
Mayann ridacchiava e diceva: “Ma

piantala un po’, Fatty O’Butler”.

All’epoca l’attore Fatty Arbuckle andava

per la maggiore ed era molto popolare a

New Orleans. Mayann non era mai riuscita a

pronunciare per bene il suo nome, ma mi

piaceva così tanto quando mi chiamava Fatty

O’Butler che non la correggevo mai.

Me ne stavo al magazzino di carbone con

papà Gabe finché non pensavo di aver


trovato qualcosa di meglio, e cioè qualcosa

di meno faticoso. Era un lavoro ingrato

spalare carbone e stare seduto dietro il mulo

tutto il giorno e poi mi venivano dei

tremendi mal di schiena. Così appena

trovavo un mestiere un po’più leggero lo

accettavo di corsa.

Il lavoro da Morris Karnoffsky era più

semplice e rimasi con lui parecchio tempo.

Se ne andava con il suo carretto in giro per


Storyville, il quartiere a luci rosse,

vendendo carbone per un nichelino al

secchiello. L’antracite la chiamavano carbon

fossile. Una delle ragioni per cui mi tenni

caro il lavoro con Morris Karnoffsky era che

potevo andare a Storyville con i calzoncini

corti. Siccome lavoravo con un uomo adulto

i poliziotti mi lasciavano in pace. Sennò mi

avrebbero conciato per le feste, se mi

avessero pescato in giro per quel quartiere.


Erano molto severi con noi ragazzi e non

posso dargli torto. Le tentazioni erano forti e

qualche giovincello un po’ debole avrebbe

potuto mettersi seriamente nei guai.

Personalmente ero tutt’altro che ingenuo.

Ero cresciuto nell’ambiente degli honky tonk

tra Liberty e Perdido Street dove la vita era

più o meno la stessa che a Storyville, con la

differenza che da noi le lucciole erano più a

buon mercato. Quelle del mio quartiere non


stavano nella loro stanzetta con indosso la

bella biancheria di seta in attesa del cliente,

come invece facevano quelle di Storyville.

Anche loro usavano la biancheria di seta, ma

sotto vestiti normali. Le nostre prostitute

stavano sedute sullo scalino della porta e

chiamavano

clienti

che
passavano.

Dovevano stare sempre all’erta per non farsi

beccare dai poliziotti, perché non potevano

adescare i clienti come le ragazze di

Storyville. Quello era esclusivamente un

centro di affari. Lì la musica, il cibo e tutto il

resto erano di prima scelta.

In ciascuna stanza c’era un caminetto.

Quando il nostro carro passava, le ragazze

urlavano a Morris di mandarmi su a portare


un po’ di carbone. Io portavo tutto quello che

ordinavano, e spesso mi chiedevano di

accendere il fuoco oppure di mettere altro

carbone nel caminetto già acceso. Mentre mi

occupavo del fuoco, non potevo fare a meno

di guardarle con la coda dell’occhio: mi

facevano sudare freddo. Non osavo dire una

parola, ma gli occhi ce li avevo, e pure

buoni se è per questo, specialmente allora, e

li usavo. Pensavo che alcune di quelle belle


ragazze che vedevo in piedi sulla soglia

avrebbero fatto bene a rimanere a casa con i

loro genitori.

Ero felice di poter girare liberamente per

Storyville senza essere importunato dai

poliziotti soprattutto perché c’era il cabaret

di Pete Lala, dove c’era la band di Joe

Oliver che soffiava come un pazzo nella sua

cornetta. Nessuno era alla sua altezza. Harry

Zeno, il batterista più famoso di New


Orleans, all’epoca suonava con Oliver. Ciò

che ho sempre ammirato in Zeno è che per

quanta baldoria facesse non trascurava mai

la sua professione. E questo farebbero bene

a impararlo i musicisti di oggi. Nulla venne

mai a interporsi tra Harry Zeno e la sua

batteria.

Dell’orchestra di Joe Oliver facevano

parte altri elementi i cui nomi sono diventati

leggendari nell’ambiente musicale. Non


credo che si potrà mai sostituirli. Lo dico

con tutto il cuore. Si tratta di: Buddy

Christian, chitarra (suonava anche il

pianoforte);

Zue

Robertson,

trombone;

Jimmy Noone, clarinetto; Bob Lyons,

contrabbasso; e infine, ma non ultimo, Joe

Oliver con la sua cornetta. Questa era la


migliore jazz band che si potesse ascoltare

in tutta New Orleans tra il 1910 e il 1917.

Harry Zeno morì nei primi mesi del 1917

e il suo funerale fu il più imponente che si

fosse mai fatto per un musicista. Tra gli altri

c’era anche Sweet Child che cantava e

cantava come se fosse stato un membro della

loggia di Zeno. La Onward Brass Band

soffocò il canto di Sweet Child con quelle

dolci marce funebri.


Poco tempo dopo la scomparsa di Zeno

corse voce di una prossima chiusura di

Storyville. Alcuni marinai in licenza si

trovarono coinvolti in una mischia e due di

loro ci rimisero la pelle. La Marina

incominciò la sua guerra contro Storyville e

io, per quanto fossi ancora un ragazzo, capii

che la fine era vicina. La polizia cominciò a

perquisire le case e i cabaret. Tutti i

protettori e i giocatori che se ne stavano in


un locale chiamato Twenty-Five, mentre le

loro donne lavoravano, finirono dentro.

Fu uno spettacolo molto triste vedere la

legge che cacciava via da Storyville tutta

quella gente. Mi sembravano una massa di

profughi. Alcuni avevano passato la maggior

parte della loro esistenza in quel quartiere.

Tanti altri non avevano mai conosciuto un

diverso sistema di vita. Non ho mai sentito

tanta gente piangere e lamentarsi. Molti dei


protettori, salvo pochi privilegiati, dovettero

rassegnarsi a lavorare o andare in galera.

Stava nascendo una nuova generazione a

Storyville. Avevamo cominciato a cercarci

altri interessi, come la nostra jazz band, il

nostro quartetto e altre attività musicali.

Io e Joe Lindsey mettemmo su una piccola

orchestra. Joe era molto bravo alla batteria e

Morris French suonava bene il trombone.

Inizialmente era un po’ timido, ma facemmo


presto a fargliela passare. Anche Louis

Prevost, che suonava il clarinetto, era un

ragazzo piuttosto timido, ma una volta che

cominciava a suonare non lo fermava più

nessuno!

All’epoca

non

usavamo

il

pianoforte. C’erano solo sei strumenti:


cornetta, clarinetto, trombone, batteria,

contrabbasso e chitarra, ma quando quei sei

ragazzi attaccavano a suonare sembravano

proprio la jazz band di Ory e Oliver.

Kid Ory e Joe Oliver si erano uniti per

formare una delle più formidabili jazz band

che si siano mai viste a New Orleans.

Spesso caricavano gli strumenti su un carro a

sponde mobili e suonavano a scopo

pubblicitario per annunciare un ballo o


qualche altro spettacolo. Quando giravano un

angolo e si imbattevano in altre orchestre

ambulanti, Oliver e Kid Ory ci davano

dentro a più non posso. Suonavano al meglio

delle loro capacità e mandavano il pubblico

in visibilio. Quando poi l’altra orchestra si

rendeva conto che non c’era gara e svoltava

l’angolo, Kid Ory suonava col suo trombone

un motivetto che faceva impazzire il

pubblico. Ma questa volta impazzivano per


le risate. Se vi capiterà di incontrare Kid

Ory, chiedetegli il nome di quel motivetto e

forse ve lo dirà. Non oso scriverlo qui. Era

una canzoncina piuttosto piccante, scritta

apposta

per

celebrare

la

sconfitta

dell’avversario. Per me era la cosa più


divertente del mondo e penso che anche voi

sareste d’accordo con me.

Kid sapeva quanto Oliver mi volesse

bene. Sapeva anche che, pur essendo così

celebre, Oliver non avrebbe mai fatto nulla

che potesse sminuirmi agli occhi del

pubblico. Spesso, quando percorrevamo le

strade suonando per annunciare una festa

campestre o altro, il nostro carro si

imbatteva nel gruppo Ory-Oliver. Joe mi


aveva detto che in questo caso io avrei

dovuto alzarmi in piedi in modo che,

riconoscendomi, mi avrebbe evitato guai. Si

sarebbe alzato in piedi a sua volta e, dopo

aver suonato qualche breve pezzo, avrebbe

preso un’altra direzione.

Un giorno, mentre stavamo facendo

pubblicità

un
ballo,

incrociammo

l’orchestra di Oliver. Quel giorno io non mi

sentivo molto bene e dimenticai di alzarmi.

Ce le diedero di santa ragione. Inoltre,

quando il nostro carro si rimise in moto, Kid

Ory cominciò a suonarci il solito motivetto

di congedo. La folla impazzì. Ci rimanemmo

proprio male, ma la prendemmo con spirito,

tanto più che quella era l’unica band che


potesse trattarci a quel modo. Noi ragazzini

eravamo i soli che potessero competere

quasi alla pari con Ory e i suoi.

Incontrai Joe proprio la sera di quel

giorno in cui ci avevano fatto smettere di

suonare.

“Ma per quale diavolo di motivo”, disse,

prima che io potessi aprire bocca, “non ti sei

alzato in piedi?”

“Papa Joe, è tutta colpa mia. Ti prometto


che non lo farò mai più”.

Finimmo col ridere della vicenda e Joe mi

regalò una bottiglia di birra. Questo era un

grande onore per me, perché Papa Joe era un

tipo piuttosto tirchio e tutt’altro che disposto

a scialacquare per pagare da bere alla gente,

ma avrebbe fatto qualsiasi cosa per rendermi

felice.

In quel periodo non conoscevo ancora gli

altri grandi musicisti quali Jelly Roll


Morton, Freddy Keppard, Jimmy Powlow,

Bab Frank, Bill Johnson, Sugar Johnny, Tony

Jackson, George Fields e Eddy Atkins.

Avevano lasciato New Orleans molto prima

che la Marina ricorresse alla legge per far

chiudere il quartiere a luci rosse. Qualche

anno dopo ebbi a che fare più o meno con

tutti loro, ma Papa Joe, Dio lo benedica, è

stato sempre il mio migliore amico. Facevo

spesso delle commissioni per Stella Oliver,


sua moglie, e Joe mi ripagava con delle

lezioni. Non avrei potuto desiderare di

meglio: la mia più grande ambizione era di

poter suonare come lui. Sono sicuro che se

non fosse stato per Oliver il jazz non sarebbe

quello che è oggi. Lui può essere considerato

senz’altro un innovatore.

Anche la signora Oliver prese a volermi

bene e mi trattò sempre come se fossi un

figlio suo. Aveva avuto una figlia dal primo


matrimonio, che si chiamava Ruby, e io la

conobbi quando era appena una bambina.

Ora è sposata e ha una figlia che sta per

sposarsi.

Una delle cose più belle che Joe Oliver

fece per me fu quella di regalarmi una

vecchia cornetta semi sgangherata che aveva

suonato per molti anni. Tenevo a quella

cornetta come alla mia vita. Ne ebbi la

massima cura e la suonai per molto tempo,


prima di avere la fortuna di potermene

comprare un’altra.

Per quanto fossero assai meno care di

oggi, le cornette costavano pur sempre

sessantacinque dollari e per acquistarne una

a quel prezzo bisognava essere un musicista

famoso che faceva soldi a palate. Ricordo

come alcuni musicisti di primo piano, come

Hamp Benson, Kid Ory, Zoo French, George

Brashere, Joe Petit e molti altri con i quali


suonavo, si illuminassero di gioia quando

avevano

delle

cornette

nuove.

Si

comportavano come se avessero ricevuto

una Cadillac appena uscita di fabbrica.

Comprai la mia prima cornetta nuova di

zecca pagandola a rate, “un piccolo


versamento iniziale” e il resto “un po’ ora e

un altro po’ più tardi”. Ogni volta che

l’esattore riusciva a pescarmi e insisteva

perché gli pagassi “un po’ ora”, rispondevo:

“Le darò tutto ‘un po’ più tardi’, ma, che mi

venga un colpo se posso dargliene ‘un po’

ora’”.

I suonatori di cornetta impegnavano i loro

strumenti quando non c’erano abbastanza

funerali, parate, balli, serate e scampagnate.


Molte volte sono dovuto andare al banco dei

pegni a lasciare la mia cornetta in cambio di

un gruzzoletto. Una volta ci andai per poter

giocare a carte e spassarmela con i giocatori

e imbroglioni vecchi amici miei.

Non smetterò mai di voler bene a Joe

Oliver. Era sempre pronto a venirmi in aiuto

quando avevo bisogno di consigli nelle

complicate vicende della vita, o a darmi una

mano se mi trovavo nei pasticci. Come


accadde quando incontrai una ragazza che si

chiamava

Irene,

appena

arrivata

da

Memphis, Tennessee, e che non conosceva

un cane a New Orleans. Si era messa con un

giocatore del mio quartiere, Cheeky Black,

che la trattava malissimo. La ragazza veniva


spesso nell’ honky tonk dove suonavo in un

trio. Io suonavo la cornetta, Boogus il

pianoforte e Sonny Garbie la batteria. Le

prostitute, una volta finita la loro nottata di

lavoro, venivano nel locale, verso le quattro

o le cinque del mattino. Ci chiedevano di

suonare per loro qualche bel pezzo blues e

poi ci pagavano da bere, ci compravano le

sigarette o quello che volevamo.

Mi accorgevo che tutte se la spassavano


all’infuori di Irene. Una volta, a notte fonda,

durante l’intervallo le andai vicino per

parlare un po’ e lei finì per raccontarmi tutta

la sua storia. Cheeky Black le aveva

succhiato tutto fino all’ultimo centesimo, e

lei non mangiava da due giorni. Era messa

proprio male. Fu allora che il mio buon

cuore mi fece entrare in scena. Io

guadagnavo un dollaro e venticinque cents

per notte, che a quel tempo non era poco, se


mi pagavano: a volte ci pagavano a volte no.

Ciononostante cominciai a dare a Irene una

buona parte delle mie entrate perché potesse

rimettersi in piedi.

Continuammo così finché lei e Cheeky

Black non si lasciarono. A quel punto a Irene

non rimase altra scelta che rifugiarsi sotto la

mia ala protettiva. Non avevo alcuna

esperienza in fatto di donne e fu lei a

insegnarmi tutto.
Ci innamorammo perdutamente. Mia

madre da principio non se ne accorse.

Quando venne a saperlo, essendo una donna

eccezionale, non fece obiezioni. Riteneva

che fossi ormai abbastanza grande per vivere

la mia vita e pensare a me stesso. Io e Irene

vivevamo insieme come marito e moglie. Poi

un giorno lei si ammalò gravemente.

Siccome la vita dissoluta che aveva condotto

l’aveva molto indebolita, il suo fisico non


riuscì a reagire alla malattia. Povera

ragazza! Aveva solo ventun anni e io appena

diciassette. Non sapevo da dove cominciare

per curarla.

Il peggio fu quando cominciò a soffrire di

mal di stomaco. Ogni notte si lamentava così

tanto che io mi sentivo impazzire. Ero ormai

ridotto alla disperazione quando incontrai

Joe Oliver, il mio angelo custode. Lo

incrociai mentre stavo andando al mercato di


Poydras per comprare delle teste di pesce

per fare il cubie yon a Irene, secondo la

ricetta che mi aveva insegnato Mayann. Papa

Joe stava andando a suonare a un funerale.

“Ciao, ragazzo. Che si dice?”, chiese.

“Nulla”, risposi con aria triste.

Poi gli raccontai della malattia di Irene e

di quanto l’amavo.

“Hai bisogno di soldi per il dottore? È

così?”, disse immediatamente. “Va’ da Pete


Lala e prendi il mio posto per due notti”.

Quel lavoro gli rendeva una fortuna: un

dollaro e mezzo a sera. In due notti avrei

potuto

guadagnare

abbastanza

per

permettermi un buon dottore che rimettesse a

posto lo stomaco di Irene. Ero felicissimo di

poter guadagnare i soldi di cui avevo tanto


bisogno, e anche di poter suonare di nuovo

la mia cornetta. Era da un bel po’ che non la

suonavo.

“Papa Joe”, dissi, “grazie per la tua

generosità ma non credo di essere in grado

di prendere il tuo posto”.

Joe ci pensò un attimo e poi disse: “Ma

va’, va’. Suona al posto mio. Se Pete Lala si

mette a fare storie tu digli che ti ho mandato

io”.
Per quanto quei soldi mi servissero

davvero, ero spaventato a morte. Joe era un

personaggio di tale importanza in tutto il

quartiere che Pete Lala non avrebbe mai

accettato di sostituirlo con un illustre

sconosciuto. Già me lo immaginavo, Pete,

che mi rispondeva proprio con queste

testuali parole.

Quando la sera dopo andai lì, con la coda

dell’occhio vidi arrivare Pete prima ancora


che potessi togliere la cornetta dall’astuccio.

Senza dire una parola presi il mio posto sul

palco: “Dov’è Joe?”, mi chiese Pete.

“Mi ha chiesto di sostituirlo”, risposi

tremando.

Con mia grande sorpresa Pete Lala mi

lasciò suonare quella sera, però ogni cinque

minuti si trascinava col piede zoppo fino al

palco, in fondo al locale.

“Ragazzo”, diceva, “metti la z ordina a


quella tua cornetta”.

Per tutta la sera non riuscii a capire cosa

diavolo volesse dire, ma infine afferrai che

voleva che suonassi con la sordina. Alla fine

della serata, mi disse che avrei fatto bene a

non tornare più.

Riferii a Papa Joe quanto era successo,

ma ciò nonostante mi pagò per due sere.

Sapeva quanto mi servissero quei soldi e

d’altra parte quello era il suo modo di


comportarsi con la gente a cui voleva bene.

Joe lasciò Pete Lala quando per legge i

locali dovettero rimanere chiusi il sabato

sera, che era la serata più redditizia di tutta

la settimana. Mentre si dava da fare per

trovarsi un’altra attività, venne a trovarci; gli

avevamo cucinato una grossa pentola di

gumbo. Irene si era ristabilita ed eravamo di

nuovo felici.

Il 1917 fu un anno decisivo per me. Joe


Lindsey aveva lasciato il suo posto

nell’orchestra. Si era messo con una donna

che gli aveva fatto smettere di suonare con

noi. Sembrava che a Joe non importasse più

di tanto: quella donna aveva deciso per lui.

Tanto bastò perché il nostro piccolo

complesso si sciogliesse. Non rividi più i

miei compagni per parecchio tempo. Di tanto

in tanto incontravo per caso qualcuno di loro

durante qualche serata. Ma Joe Lindsey, il


mio amico del cuore, non c’era mai.

Quando lo rividi, Joe faceva l’autista

privato, guidava un gran macchinone. Che

sciccheria! Il modo in cui Joe aveva

disertato l’orchestra e i suoi amici per

andarsene con quella donna aveva sollevato

molte chiacchiere. Io insistevo che almeno

per quanto riguardava la nostra amicizia non

era cambiato nulla: io e lui eravamo amici

fin da bambini e avremmo continuato a


esserlo per tutta la vita.

Seefus, come chiamavano Joe, se l’era

passata bene finché era rimasto un povero

musicista come tutti noi. Tanto per non

smentire il vecchio proverbio secondo il

quale non tutto è oro quello che luccica,

Seefus ebbe un sacco di guai per colpa di

quella donna. Tanto per cominciare era

troppo, veramente troppo vecchia per lui. Io

pensavo che Irene fosse un po’ vecchiotta


per me, ma Seefus mi batteva di gran lunga:

si era praticamente messo con sua nonna.

Non solo, ma se la sposò pure! Dio mio,

quante gliene fece passare! Subito dopo il

matrimonio lei lo mollò come se fosse una

patata bollente. Lui soffrì terribilmente, più

che altro ferito nell’orgoglio, e tentò di

suicidarsi tagliandosi la gola con una

lametta. Vedendo quanto era capitato a Joe io

dissi a Irene che dal momento che si era


rimessa avrebbe fatto bene a cercarsi un

amico più maturo di me. Ero tanto preso

dalla mia cornetta che non avrei mai potuto

essere un buon compagno per lei. Lei

apprezzò la mia sincerità e disse che mi

avrebbe voluto sempre bene.

Poco dopo andai a Houma, Louisiana –

proprio la cittadina del ragazzo che al

riformatorio

avevamo
soprannominato

Houma – per suonare in un’orchestrina di

proprietà di un impresario di pompe funebri

di nome Bonds. Fu così gentile con me che

rimasi più a lungo di quanto avessi

progettato. Passò moltissimo tempo prima

che rivedessi Irene e Joe Lindsey, ma

pensavo spesso a tutti e due.

Quando tornai a New Orleans, le cose non

erano cambiate granché. Nel mio quartiere


continuavo a incontrare spesso la vecchia

signora Magg che aveva cresciuto quasi tutti

i ragazzini della zona. Sia lei che la signora

Martin, la maestra di scuola, erano

conosciutissime nel quartiere come, del

resto, anche la signora Laura – non ce ne

fregava mai un granché del cognome delle

persone – che ricordo sempre con affetto.

Ogni volta che una di queste signore ci dava

una bella sculacciata, non ci passava


neanche per la mente di correre a dirlo ai

nostri genitori perché ne avremmo buscate

altrettante da loro. Credo che la signora

Magg sia ancora viva.

Quando tornai da Houma, la signora Magg

volle che le raccontassi per filo e per segno

tutto quello che avevo combinato nelle poche

settimane che ero stato via. Bonds mi pagava

un salario settimanale e inoltre mangiavo a

casa sua che era anche la sede della sua


impresa. La moglie era una persona molto

carina e mi piaceva molto come cucinava

quella specie di fagioli freschi che nel Nord

vengono chiamati fagioli di Lima. A Houma

ci divertivamo un mondo quando ci capitava

di suonare per un ballo, in campagna. Se la

sala era piena soltanto a metà, io mi dovevo

alzare per andare a suonare la mia cornetta

fuori dalla finestra. Questo era il sistema più

sicuro per attirare la gente e il modo più


efficace per far capire al pubblico che là

dentro si ballava sul serio. Quando la sala

era affollata, la nostra orchestrina faceva

scoppiare il finimondo.

Essendo giovane e scatenato, appena mi

pagavano alla fine della settimana mi

precipitavo nella casa da gioco dove in

meno di due ore mi stangavano con tutti i

crismi. Quando tornai a casa, Mayann mi

mise davanti uno dei suoi piatti e decisi di


non andarmene mai più. Dovunque andassi,

la cucina di Mayann mi mancava tantissimo.

Un giorno a me a ad alcuni ragazzi del

quartiere venne la fantastica idea di

scappare di casa e di andare alla ventura con

la speranza di ottenere del lavoro in una

piantagione di canna da zucchero. Quando

arrivammo con un treno merci a Harrihan,

lontano da New Orleans non più di una

sessantina di chilometri, cominciai ad avere


fame, e più avevo fame più pensavo a quelle

buone polpette di carne e agli spaghetti che

Mayann stava preparando quando ero uscito

di casa. Decisi lì per lì di abbandonare

l’impresa.

“Sentite, ragazzi”, dissi, “mi dispiace, ma

che senso ha piantare una casa comoda e

tutta quella buona roba da mangiare per

andare in giro per il paese senza un soldo in

tasca? Prendo il primo treno merci che passa


e torno da mia madre”.

E così feci. Quando arrivai a casa,

Mayann non si era neppure accorta che ero

scappato per andarmene nella piantagione di

canna da zucchero.

“Figliolo”, mi disse, “arrivi proprio in

tempo per la cena”.

Tirai un sospiro di sollievo e giurai per la

seconda volta che non avrei mai più lasciato

casa, tranne nel caso che Papa Joe Oliver mi


avesse fatto chiamare. E così feci.

Non voglio certo passare per un

santarellino. Come tutti ho anch’io i miei

difetti, ma la mia aspirazione è stata sempre

quella di guadagnarmi da vivere in modo

onesto. Volevo suonare a tutti i costi e per

farlo ho dovuto rinunciare a molti piaceri.

Spesso di sera i ragazzi del quartiere

andavano nel locale all’aperto della signora

Cole, dove Kid Ory regnava sovrano. Gli


altri ragazzi sembravano chissà chi con i

loro completi. Non ero ricco come loro e

non potevo vestirmi come loro, per cui mi

dimenticai dell’esistenza di Kid Ory.

Andavo al cinema con Mayann e Mama Lucy

e ci divertivamo un mondo.

CAPITOLO 7

Facevo un po’ di tutto per tenermi a galla

e per aiutare Mayann e Mama Lucy. Lavorai

anche per uno straccivendolo che si


chiamava

Lorenzo.

Era

un

tipo

simpaticissimo che non mi dava molti soldi,

ma insieme a lui mi sono divertito un mondo

ad andare in giro per la città a raccogliere

gli stracci, i rifiuti e le bottiglie dei ricchi e

anche dei poveri!


Lorenzo aveva una vecchia tromba di latta

che non aveva il bocchino, ma lui riusciva lo

stesso a suonarla, e pure con sentimento. Era

una di quelle trombe lunghe, di solito con il

bocchino di legno, che la gente comprava

per Natale e Capodanno. Io rimanevo di

stucco quando lui suonava delle vere e

proprie canzoni con quella tromba per far

uscire la gente di casa. Tra il ciarpame che

la gente scartava a volte c’era della roba


ancora buona e degli abiti che mi andavano a

pennello. Una volta Lorenzo comprò da certi

signori bianchi un completo che poi mi

rivendette allo stesso prezzo. Costò poco ma

ci facevo un figurone.

Contento che avessi imparato bene il

mestiere, a volte mi affidava il materiale

raccolto in giornata perché andassi a pesarlo

al deposito degli stracci. Era un lavoro che

mi piaceva molto. C’era una cosa di Lorenzo


che non sono mai riuscito a capire: con tutti i

soldi che guadagnava, non si era mai fatto

sistemare i denti. Aveva un dente sì e uno no,

per cui quando qualcuno faceva una battuta,

sulla bocca gli appariva un ghigno tale da

sembrare che ridesse il doppio degli altri. Io

però mi guardavo bene dal farglielo notare

perché non volevo che quelli più grandi di

me pensassero che ero un ragazzaccio

impertinente. Stimavo molto Lorenzo e se


potessi tornare indietro e rivivere quei

giorni lo rifarei perché quando ero con lui

mi sentivo proprio a mio agio. Parlava di

musica con tanta competenza che rimanevo

affascinato, e quando suonava quella sua

vecchia e sgangherata tromba di latta, lo

faceva con tanto ardore che mi pareva di

ascoltare un musicista vero.

Anche un pasticciere di nome Santiago

suonava una trombetta per attirare i clienti


mentre camminava per la via tenendo infilato

al braccio un grosso paniere pieno di paste.

E la suonava pure bene, come anche il

venditore di cialde che percorreva la città

con un grosso carro attrezzato con un

fornello. A quel suono che risvegliava

l’appetito i clienti accorrevano, e quando

capitavano quei tipi che rincasavano dopo

aver passato tutta la notte a giocare, si

creava una tale folla intorno a lui che ci


mancava poco che gli incatenassero le ruote

per non farlo andar via.

Quando ero ragazzo c’erano musicisti e

strumenti

di

vario

genere

che

mi

entusiasmavano e mi spingevano a coltivare


la musica. Ho sempre amato la musica a

prescindere da chi suonasse e con quale

strumento, l’importante era che si trattasse di

buona musica. Ne sentivo di bella musica

quando ascoltavo i quartetti che cantavano

nei bar: i musicisti giravano per le sale

tenendo una lattina di birra fredda in mano e

se la passavano a vicenda e cantavano che

era una meraviglia. Mi sentivo proprio

qualcuno quando in seguito cominciai a


frequentare quella gente e a cantare e bere

dalla lattina con loro. Avevo meno di

vent’anni e quelli, che erano già grandi, Dio

li benedica, già mi permettevano di cantare

con loro e di guidare il coro. Fin da allora

riconobbero che avevo della stoffa come

cantante di ragtime, che era quello che oggi è

il modo di cantare tipico dello hot swing.

Anche Black Benny bazzicava quella

strada o il bar, quando non era impegnato a


giocare, o a suonare, oppure a scherzare con

le ragazze. Avreste dovuto sentire quella sua

voce tenorile, fatta apposta per i locali

notturni, quando cantava “Sweet Adeline”, o

“Mister Jefferson Lord – Play that

Barbershop Chord”, ma se ci stava girando

una latta di birra era meglio tenerlo

d’occhio. Quando un gruppo di persone si

metteva insieme alla fine non si arrivava a

racimolare più di dieci cents. Naturalmente i


soldi erano per un barilotto di birra gelata,

tanto gelata che sarebbe stato impossibile

mandarne giù più di tre sorsate di seguito.

Impossibile per chiunque, ma non per Black

Benny. Guai a passargli il barilotto per

primo: se lo sarebbe incollato alle labbra e a

noi non sarebbe rimasta altra soddisfazione

che vedere il suo pomo d’Adamo andare su e

giù come una macchina a moto perpetuo. Si

sentiva un glu glu glu continuo, poi con un


sospiro Black Benny si staccava la lattina

dalla bocca, si asciugava la schiuma con la

manica della camicia, e con la massima

disinvoltura la passava a un altro, come se

fosse ancora piena di birra. Ebbene no!

Black Benny col suo gargarozzo di amianto

se l’era scolata tutta fino all’ultima goccia.

Black Benny ci sapeva proprio fare e

riusciva a cavarsela sempre, in qualsiasi

situazione. Non aveva quasi mai un soldo in


tasca perché gli altri giocatori più abili di

lui lo riducevano al verde obbligandolo a

ricorrere al banco dei pegni. Ma nei periodi

di fortuna riscattava i vestiti buoni e pagava

da bere a tutti. Dopodiché si buttava sul

barilotto di birra, ma prima bevevano tutti

gli altri. Neppure quando pagava lui

volevamo

correre

il
rischio,

perché

temevano che Benny facesse come quello

che portò un cesto di arance a un amico

ricoverato in ospedale e poi finì per

mangiarsele tutte lui durante la visita.

Al mio ritorno da Houma le cose

andavano peggio che mai. Quella storia con

il Kaiser si metteva davvero male e come se

non bastasse New Orleans era afflitta da una


seria epidemia di influenza. Tutti si

ammalarono, tranne me. E questo grazie alle

purghe. Ogni sacrosanta settimana prendevo

la mia purga e perciò non sono mai stato

colpito da nessun genere di malattia.

Proprio quando il governo stava per

togliere il divieto di assembramento, cosa

che ci avrebbe permesso di tornare a

suonare, la situazione peggiorò di nuovo, il

che mi obbligò a fare i mestieri più svariati.


Lavoravo e facevo l’infermiere per tutta la

famiglia e anche per tutto il vicinato. Devo

dire che mi sono dato veramente da fare.

Finalmente trovai lavoro in un honky tonk

gestito da un bianco, un italiano che si

chiamava Henry Matranga. Le autorità non

avevano chiuso il suo locale, come invece

avevano fatto con quelli di Storyville,

perché il suo era un locale di terz’ordine.

Suonavo il blues per le prostitute da due


soldi e per la gente di malaffare. Almeno per

un po’, perché alla fine anche Matranga fu

costretto a chiudere.

Henry Matranga oltre a essere un gran

dritto era un uomo di mondo. Trattava tutti

con molta cortesia e la gente di colore che

ƒfrequentava il suo locale gli voleva molto

bene. Mia madre lavorava a casa sua, a

pochi isolati di distanza, e qualche volta

l’andavo a trovare. Se arrivavo all’ora dei


pasti, mi facevano sedere in cucina davanti a

un bel piatto di spaghetti. Tutti in quella

famiglia si divertivano un mondo a vedermi

mangiare.

Matranga raramente si metteva a tu per tu

con i suoi clienti. Sapendo quanto sia

suscettibile la mia gente se un bianco alza la

voce e si mette a comandare, lasciava che

fosse Slippers, il buttafuori, a mantenere

l’ordine.
Durante

quel

periodo

assistetti

parecchie risse, come lo scontro a fuoco un

sabato sera tra Slippers e un tipo che veniva

dalle paludi vicine alle banchine del fiume.

Era uno di quegli operai che, dopo aver

riscosso la paga, ogni sabato sera si


ubriacavano e poi puntavano direttamente

verso la città per finire nel locale notturno

dove suonavo. Slippers era bravo a fare a

pugni. Non se la prendeva mai con nessuno,

ma guai a chi gli faceva qualcosa o creava

disordini nel locale di Matranga.

Quella sera il tizio che viveva nel campo

di lavoro vicino al fiume venne e perse tutti i

soldi al gioco nella bisca sul retro. Slippers

rimase a guardare mentre quello cercava di


farsi ridare i soldi dal biscazziere. Dopo

aver cercato di prenderlo con le buone, visto

che il tizio continuava a mugugnare, Slippers

lo prese per il fondo dei pantaloni e lo sbatté

fuori sul marciapiede. Quelli che erano al

tavolo da gioco avevano dimenticato di dire

a Slippers che quell’individuo era armato, e

cosi, mentre la porta stava per essere chiusa,

quello tirò fuori una pistola calibro 45 e

sparò tre colpi che però andarono a vuoto.


Slippers, che era sveltissimo a sparare, lo

ferì alla gamba. Il tizio fu prima ricoverato

in ospedale e poi portato in prigione.

Mentre accadeva tutto questo, noi tre

musicisti, essendo il palco vicino alla porta,

eravamo terrorizzati. Quando cominciò la

baruffa, Boogus, il pianista, diventò bianco

come un cencio lavato. Garbee, il batterista,

con quelle sue grosse labbra, cominciò a

balbettare.
“Co-co-co... cosa sta succedendo?”

“Nulla”, dissi io, anche se avevo paura

come lui.

In realtà non accadde niente di grave. Il

ferito fu trasportato all’ospedale, e alle

quattro del mattino cominciarono ad affluire

le prostitute dopo la loro nottata di lavoro.

Ci pagarono da bere, noi attaccammo a

suonare il blues e ben presto fu tutto

dimenticato.
Quando ero ragazzo, una cosa che ho

sempre ammirato in quei mezzi delinquenti

di New Orleans era il fatto che gli piacesse

la buona musica. A Slippers piaceva tanto il

mio modo di suonare che fu lui stesso a

suggerire a Henry Matranga di affidarmi la

cornetta al posto di uno che se ne era andato.

Quello era molto bravo e Matranga era un

po’ perplesso perché dubitava delle mia

capacità. Quando debuttai, Slippers si mise


nell’angoletto vicino a me a fare il tifo.

“Ma senti quel ragazzo”, diceva a

Matranga. “Ma senti come suona la quaglia

quel figlio di buona donna!”

Così Slippers chiamava la mia cornetta e

la chiamò sempre così per tutto il tempo che

rimasi

da

Matranga.

Avolte,
quando

facevamo

fuoco

fiamme,

Slippers

scappava fuori dalla sala da gioco e andava

nella sala da ballo per dire: “Ma senti come

suona la quaglia quel figlio di buona donna”

Poi si rivolgeva a me.


“Dammi retta, ragazzo, se continui così

sarai il miglior suonatore di quaglia del

mondo”.

Venendo da Slippers, quelle parole mi

facevano sentire importante. La musica la

conosceva bene e poi non era certo uno dal

complimento facile.

In tutto il quartiere, Slippers e Black

Benny erano quelli che se la cavavano

meglio coi pugni. Erano sempre pronti a


combattere lealmente, ma guai se qualcuno

avesse osato avvicinarsi a tradimento: apriti

cielo! Gli avrebbero fatto la festa. Sapevano

giocare sporco, se proprio dovevano. Ho

sempre apprezzato il fatto che Slippers e

Black Benny non abbiano mai litigato tra di

loro.

A un isolato di distanza da Matranga

c’erano altri due locali notturni, ma noi

giovani non ci andavamo quasi mai perché


erano frequentati da gente di malaffare,

specialmente quello gestito da Spanol. Quasi

sempre c’era un’ambulanza davanti alla

porta per raccogliere qualcuno da portare

all’ospedale.

se

non

si

trattava
dell’ambulanza c’era il cellulare della

polizia per trasportare all’obitorio il

cadavere di qualcuno che era stato fatto fuori

a revolverate oppure accoltellato. Noi

ragazzi stavamo alla larga da quel posto.

L’altro locale era il Savocas. Si andava lì a

riscuotere la paga quando lavoravamo sulla

banchina allo scarico delle banane dai

battelli. Avolte lavoravamo su quelle navi

tutto il giorno, altre volte tutta la notte. Finito


il lavoro, correvamo al Savocas e ci

mettevamo in fila sul marciapiede per

incassare la paga. Parecchi di noi subito

dopo entravano nella sala da gioco e si

facevano pelare fino all’ultimo centesimo. Io

non potevo fare altrettanto perché avevo

sulle spalle Mayann, Mama Lucy e Clarence,

il mio figlio adottivo, e dovevo sgobbare

perché loro potessero mettere qualcosa sotto

i denti.
A Clarence piaceva molto il latticello di

burro, e quando il lattaio passava per la via

urlando: “Latticello, latticello”, il bimbo si

svegliava e diceva: “Papà, ecco il lattaio”.

Clarence andava per i due anni ed era

troppo simpatico. Mi si affezionò tantissimo

e siccome a me i bambini piacevano molto

andavamo perfettamente d’accordo. Ha

avuto un ruolo davvero importante nella mia

vita.
La signora Laura stazionava col suo

chioschetto ambulante di fronte al locale

notturno di Matranga. Dopo essersi riempiti

di alcol, assai più forte di quello che si beve

oggi, i nottambuli facevano religiosamente la

fila e poi si rimpinzavano di cibo come

maiali. Noi musicisti mangiavamo a credito

e pagavamo alla fine della settimana. La

signora Laura faceva un sacco di soldi, ma

suo marito, che era assai più giovane di lei,


li sperperava con le altre donne. La signora

Laura non era una bellezza, ma era felice e

questo era l’importante.

In quel periodo della mia vita lavorai per

un po’ come aiutante di un autista addetto al

trasporto del latte. Era un giovanotto bianco

molto cortese e disponibilissimo con me. Il

nostro itinerario comprendeva il West End e

i ritrovi estivi della zona di Spanish Fort.

Consegnavamo il latte nelle prime ore del


mattino. Il fondo stradale era costituito da

valve di ostriche che, macinate dal traffico,

rendevano il suolo durissimo. Una domenica

mattina saltai sul carro mentre era già in

moto. Il piede mi scivolò e andò a finire

sotto una delle ruote. La ruota passò sopra il

piede schiacciandolo contro gli acutissimi

frammenti di conchiglie. Data la pesantezza

del

veicolo,
il

mio

alluce

venne

letteralmente

spaccato

nella

ferita

penetrarono minutissimi frammenti aguzzi. Il


dolore fu tremendo e il mio principale

dovette portarmi all’ospedale di New

Orleans a parecchi chilometri di distanza.

Quando mi tolsero dalla ferita quelle

schegge minuscole volevo morire. I medici,

saputo che l’incidente era successo su un

autocarro

del

latte

della
Cloverland

Company, mi chiesero se avevo intenzione di

fargli causa per danni.

“Nossignore”, dissi, “stimo troppo il mio

principale per fargli una cosa del genere. E

poi non è stata colpa sua”.

Vedendomi tornare a casa col piede

fasciato, Mayann svenne. Ogni volta che

succedeva qualche cosa a suo figlio Louis

lei perdeva i sensi. Naturalmente tutti i


vicini cercarono di convincerla a fare causa

alla Società del latte, ma lei non volle.

“Se mio figlio dice no, è no”, disse.

Se avessi fatto causa, avrei potuto

ricavare anche cinquecento dollari, ma a me

non

imporava

niente

dei

soldi.
M’interessava solo guarire, e poi pensavo

che non era stata affatto colpa del mio

padrone, che, anzi, era tanto buono con me.

L’alluce guarì e il principale alla fine mi

fece comunque un regalino.

Una settimana dopo un ragazzo che

lavorava su un altro furgone del latte ebbe un

incidente di poca gravità, e in ogni caso

meno grave del mio. Era un tipo piuttosto

furbo e fece causa. Se alla fine ottenne anche


un minimo di indennizzo dalla società, poté

dirsi fortunato perché in quei casi gli

avvocati si prendono quasi tutto. Succede

sempre così al Sud.

Noi ragazzi che lavoravamo come aiutanti

per i furgoni del latte venivamo pagati verso

le dieci del venerdì mattina. Dopodiché,

appena girato l’angolo della latteria, ci

mettevamo a giocare ai dadi. Non avevo

ricevuto
un

soldo

d’indennizzo

per

l’incidente, ma almeno ero fortunato al

gioco. Tornavo a casa con le tasche piene di

spiccioli, tanto che Mayann finì per

spaventarsi.

“Ragazzo, dove diavolo hai preso tutti

quei soldi?”, chiese.


Confessai, perché non volevo che

pensasse che li avevo rubati. Poi mi preparai

a prenderle di santa ragione, come punizione

per aver giocato.

“Figliolo”, mi disse invece, “sta’ attento

al gioco. Ti ricordi quanto è stato difficile

per me e tuo padre riuscire a convincere il

giudice a farti uscire dal riformatorio”.

Dissi: “Va bene”, e andai a Canal Street a

comprare un po’ di vestiti eleganti per


mamma, per mia sorella e per Clarence.

Comprai anche un paio di calzoni corti per

me fatti su misura. I soldi non mi bastarono

per comprarmi le scarpe e quindi me ne

andai a piedi nudi come sempre. Del resto un

buon paio di pantaloni nuovi e una camicia

nuova erano tutto ciò che contava.

Rimasi con la Società del latte per

parecchio tempo dopo il mio infortunio. Aun

certo punto però gli affari cominciarono ad


andare male. Il mio principale fu licenziato e

io con lui. Ebbi serie difficoltà a trovare un

nuovo lavoro finché non fu aperto un grande

cantiere all’angolo tra Poland e Dauphine

Street. C’era una tale scarsità di mano

d’opera che il governo fu costretto a far

affluire migliaia di lavoratori da Portorico.

Che spettacolo che erano! I più erano

seminudi e alcuni andavano scalzi come i

ragazzi del mio quartiere. Noi eravamo


abbastanza contenti di lavorare con loro,

anche se erano così sfacciati da guardarci

dall’alto in basso perché eravamo di colore.

Noi facevamo finta di niente e più o meno

riuscimmo ad andare d’accordo con loro.

Ero particolarmente fiero di quel grosso

distintivo

giallo

d’identificazione

che
dovevo portare quando entravo e uscivo dal

cantiere. Potete ben immaginare come

andassero male le cose in generale, se si

pensa che molti dei più noti musicisti erano

costretti a fare quel lavoro per tirare avanti.

Tra questi c’era Kid Ory, che era un

falegname professionista, e pure piuttosto

bravo. Mi faceva piacere lavorare insieme

con lui e con parecchi degli altri ragazzi.

Con mia grande sorpresa rividi anche il mio


vecchio amico, Joe Lindsey. Eravamo felici

di ritrovarci come ai bei vecchi tempi in cui

suonavamo insieme. Apranzo ci mettevamo a

sedere sui ceppi per il battipalo e parlavamo

a lungo. Mi raccontò della donna che gli

aveva fatto lasciare la nostra band e di come

poi lei alla fino lo avesse piantato per

mettersi insieme a un uomo più grande e

navigato. Questa cosa lo aveva praticamente

rovinato.
A mia volta gli raccontai della storia con

Irene e di come eravamo stati saggi a

lasciarci. Lei era tornata con Cheeky Black,

ma si era guardata bene dal farmelo sapere.

Joe si mise a ridere quando gli raccontai di

come ero venuto a conoscenza della cosa.

Al mio ritorno da Houma un bel giorno

incontrai Irene che mi chiese di andare a

casa sua. Prudentemente volli sincerarmi che

lei non stesse con qualcuno.


“Oh, no. Nessuno”, mi disse.

Mi sentii rassicurato e così andai a casa

sua. Aun certo punto, quando stavamo per

addormentarci, sentii girare la maniglia della

porta. Irene fece un salto.

“Chi è?”, chiese.

Lì per lì la cosa non mi preoccupò più di

tanto perché credevo che si trattasse di un

conoscente. La maniglia continuava a

muoversi.
“Chi è?”, chiese lei con voce più forte.

“Sono Cheeky Black”.

Allora il mio cervello cominciò a fare

mille pensieri. Cheeky aveva un carattere

piuttosto violento. Di norma all’epoca

quando una ragazza faceva capire di essere

in compagnia, il visitatore che era fuori se ne

andava via. Ma non fu così questa volta. Io

stesso mi ero premurato di chiudere a chiave

la porta, ma Cheeky la sfondò senza


problemi.

Quando entrò brandendo un rasoio, Irene

schizzò fuori dal letto. Lo scansò e scappò

urlando per strada praticamente svestita.

Cheeky la rincorse sempre agitando il

rasoio. Da fuori sentivo le urla di Irene e le

voci della gente che cercava di calmare

Cheeky gridando: “Non la sfregiare. Non la

sfregiare”.

In
quel

frangente

io

cercavo

disperatamente di infilarmi i vestiti per

darmela a gambe il più in fretta possibile. La

mia mente pensava solo questo: Cheeky

Black. Cosa ne sarebbe stato di me se fosse

tornato indietro? Finalmente riuscii a

vestirmi alla meno peggio e sempre di corsa


feci la strada fino a casa di Mayann. Quando

mi precipitai dentro tutto ansimante, lei

disse: “Ah ah! E così ti sei intrufolato in

casa di un altro uomo con la sua donna?

Spero che tutto questo ti serva di lezione”.

“Mamma, credimi, non lo farò mai più”.

Mayann rise come una pazza. Non aveva

paura di nessuno e mi disse di non

preoccuparmi: avrebbe pensato lei a mettere

le cose a posto con Cheeky Black. Dopotutto


mica era colpa mia. Era Irene che non

doveva trascinarmi in casa sua se stava

ancora con Cheeky Black.

Joe Lindsey si divertì un mondo a questo

racconto e io gli dissi che se mai avessi

incontrato Irene avrei girato alla larga. Ma in

realtà non l’ho più rivista.

Quando i lavori del governo finirono

trovai un buon posticino presso un’impresa

che si occupava della demolizione di


vecchie case. Il lato più attraente di questo

lavoro consiste nella speranza di scovare

qualche tesoro nascosto molti anni prima

nella casa e poi dimenticato. Quelli che

lavoravano con me dicevano tutti di aver

trovato soldi e gioielli. Io ci davo dentro

come un dannato col piede di porco nella

speranza di poter gridare agli altri:

“Guardate cosa ho trovato”. Il capomastro ci

aveva detto: “Chi trova prende”. Proprio


tanto ci guadagnai da tutto quel lavoro: non

trovai mai un bel nulla. Il lavoro di

demolizione è piuttosto pericoloso e molti ci

hanno rimesso la pelle. Dopo aver rischiato

diverse volte di rimanerci secco schiacciato

sotto un muro decisi che non sarei più

rimasto in attesa di trovare un tesoro. Tagliai

la corda.

Il mio lavoro successivo fu con il vecchio

Smooth, padre di Isaac Smooth. Per lungo


tempo io e Ike lavorammo per suo padre che

abitava in una parte della città chiamata Irish

Channel. Ci andavo sempre malvolentieri a

casa del vecchio perché avevo paura di

incontrare uno di quei tipacci irlandesi che

frequentavano i bar della zona. Papà Smooth

faceva l’imbianchino e noi l’aiutavamo a

imbiancare un enorme edificio che si trovava

vicino a quei magazzini di derrate dove da

bambini andavamo a raccogliere i rifiuti. Ma


ora sotto la protezione di papà Smooth

eravamo al sicuro come in una botte di ferro.

Le sorelle di Ike erano veramente belle.

Una di loro, Eva, faceva l’affittacamere e

potrebbe raccontarne di storielle dei bei

vecchi tempi a Storyville. Era la sorella

preferita di Ike, e suo marito Tom era

considerato uno dei migliori giocatori di

carte di New Orleans. E saper giocare a

carte non è una cosa da poco. Mi piaceva


così tanto che ogni volta che potevo

raggranellare qualche spicciolo, andavo a

sedermi al tavolo dei bari più abili e

sfacciati; immancabilmente ne uscivo pelato

come il palmo della mano. Quelli mi

leggevano in faccia come un libro aperto, e

io, appena mi capitava una buona mano, mi

facevo scoprire perché sorridevo. Eppure

quel gioco mi piaceva da pazzi.

CAPITOLO 8
Al principio del 1918 l’epidemia di

influenza cominciò a scemare e gli Stati

Uniti presero a far sentire il fiato sul collo al

Kaiser e ai suoi. Ci fu un’altra chiamata alle

armi

per

uomini

dai

diciotto

ai
quarantacinque anni: mi presentai all’ufficio

e mi arruolai. Non vi dico l’orgoglio che

provavo a portare quel certificato nella tasca

di dietro dei pantaloni. Aspettavo che mi

chiamassero da un momento all’altro per

andare a combattere per lo Zio Sam, o a

suonare per lui.

Una bella sera, in quel periodo in cui mi

aspettavo che succedesse qualcosa, entrai

nel locale di Henry Matranga per farmi una


bottiglia di birra. La sala da ballo era

chiusa, ma il bar era aperto e c’erano alcuni

vecchi amici che chiacchieravano del più e

del meno. Avevo appena salutato Matranga,

quando il capitano Jackson, il peggiore fra i

poliziotti, entrò nel bar.

“Tutti in riga”, ordinò. “Stiamo cercando

alcuni rapinatori che poco fa hanno aggredito

uno a Rampart Street”.

Cercammo di persuaderlo che eravamo


innocenti, ma lui ordinò ai suoi uomini di

metterci le manette e di portarci alla

prigione distrettuale, a un isolato di distanza.

Ero in trappola e dovetti mandare un

messaggio a Mayann: “Vado in galera. Cerca

di trovare qualcuno che mi tiri fuori”.

Non ci rinchiusero subito ma, in attesa di

indagini, ci tennero nel cortile della prigione

insieme a quelli che dovevano scontare una

pena lunga e che erano in attesa di essere


rinchiusi. Per alcuni di loro la condanna si

aggirava dai quaranta ai cinquant’anni, tipi

come Dirty Dog, Steel Arm Johnny, Budow

Albert Mitchel e Channey. Erano in gran

parte creoli che abitavano nella zona del

Seventh Ward, da dove veniva anche il mio

suonatore di clarinetto, Barney Bigard.

Avevo conosciuto quei tipi quando

venivano nel Third Ward, dove abitavo io, e

ricordo anche che Black Benny gli disse di


non causare rogne se non volevano prenderle

di santa ragione. Non se lo fecero dire due

volte: conoscevano Black Benny e sapevano

che non scherzava. Che tipo che era Benny!

Mi resi conto che fra tutta quella gente

poco raccomandabile non c’era nessuno che

potesse aiutarmi, e d’altra parte Sore Dick,

il guardiano del cortile, era più duro di tutti

loro. Basso di statura, nero come il carbone,

tozzo e robusto, guardava i nuovi arrivati


con un’espressione che non lasciava dubbi

sul fatto che Sore Dick era il padrone,

capace di governare il cortile proprio come

voleva lui. Me ne accorsi presto. Il primo

giorno che eravamo nel cortile andai a

salutare uno dei prigionieri che conoscevo

già. Tutt’a un tratto qualcuno mi colpì sulla

schiena con un manico di scopa e mi fece lo

sgambetto. Guardai in alto e vidi Sore Dick

che mi fissava senza dire una parola e capii


all’istante che mi conveniva prendere subito

la scopa che aveva in mano e mettermi al

lavoro. Come seppi più tardi, tutti i nuovi

arrivati dovevano spazzare il cortile, che ce

ne fosse bisogno o meno. Questo era un

modo di mettere in riga i prigionieri prima

ancora che cominciassero a scontare la pena.

Essendo in prigione non sapevo ancora

che Matranga aveva preso accordi con il suo

avvocato per farci liberare sulla parola. Non


andai neppure in tribunale. Funzionava così

all’epoca: ogni volta che un gruppo di

persone veniva arrestato in una retata

all’interno di una bisca o di un locale

notturno, il proprietario sapeva sempre come

come farli uscire di galera.

Comunque non dimenticherò mai la mia

esperienza di carcerato temporaneo insieme

ai condannati a lungo termine.

È strano come la vita possa essere un


minuto tremenda e il minuto dopo fantastica.

Il giorno che uscii di prigione era carnevale,

che per New Orleans è un giorno di gran

festa, specialmente per lo Zulu Aid Pleasure

and

Social

Club.

Tutti

membri
dell’associazione

si

mascherano

da

personaggi famosi, per metterli alla berlina.

Anche il re degli zulu, in maschera con altri

sei zulu, se ne va su una zattera dalla quale

distribuisce noci di cocco come ricordo. I

membri dell’associazione marciano al suono

dell’allegra musica delle brass band, mentre


il re dal suo trono fa salamelecchi e

riverenze alla folla plaudente. Ogni anno

Jamke, che commercia in sabbia e ghiaia,

invita il re con la sua corte e tutti gli zulu nei

suoi uffici per offrirgli lo champagne. Sono

anni e anni che fa così, e molti dei membri

dello Zulu Club lavorano per lui da quando

sono nato.

Quando mi trovai in mezzo alla festa e a

tutta questa bella musica mi dimenticai di


Sore Dick e della prigione distrettuale.

All’epoca la maggior parte dei membri dello

Zulu Club abitava nella zona di Liberty e

Perdido Street, ma al giorno d’oggi il

Carnevale è diventato cosi famoso – viene

gente da tutta l’America per assistere alla

sfilata – che tra gli iscritti ci sono dottori,

avvocati e altre persone importanti di tutta la

città. In seguito venne fondato anche un Lady

Zulu Club. Diventare re degli zulu era


sempre stato il sogno mio, come anche di

tutti i ragazzi del quartiere. Il giorno dopo il

Martedì Grasso si elegge il nuovo re

dell’anno.

Garfield Carter – o Papa Gar, come lo

chiamavamo noi – era il più fiero tra quelli

che sfilavano in parata e aveva anche il

coraggio di fare il verso al capitano Jackson.

Sfilava travestito da capitano della polizia

zulu e la folla andava in visibilio quando


Papa Gar incedeva tronfio con la faccia tinta

di nero e le grosse labbra bianche.

Quell’anno il re degli zulu era Monk

Story, e anche lui era un personaggio

pittoresco. Con le sue barzellette faceva

piegare la gente in due per le risate. Nel

modo di parlare somigliava molto a

Mortimer Snerd, ma non era bello come lui.

Quell’anno fu un magnifico re degli zulu. In

seguito riuscii finalmente anch’io a levarmi


questa soddisfazione e non vedo l’ora di

essere eletto un’altra volta.

Johnny Keeling, uno dei ragazzi più

simpatici del quartiere, durante quel

carnevale si mise nei guai con dei ragazzacci

della zona di Downtown. Ma Black Benny,

come sempre, venne in suo aiuto e conciò

quei tipi per le feste. Quando c’era Black

Benny in giro era meglio lasciar stare i

ragazzi del nostro quartiere. Naturalmente


Black Benny finì in prigione per questa

storia, ma la cosa non aveva molta

importanza e, come sempre, quando doveva

suonare la grancassa aveva il permesso di

uscire di prigione. Infatti, proprio il giorno

dopo, Bunk Johnson andò alla prigione e

chiese al guardiano se poteva prestargli

Benny per la Eagle Band di Frankie Dusen,

che doveva suonare per un funerale. Finita la

cerimonia, Benny tornò dentro con qualche


spicciolo di più in tasca. Neppure Sore Dick

si permetteva di fargli lo sgambetto col

manico della scopa; se lo avesse fatto,

probabilmente avrebbero dovuto ricostruire

la prigione da zero.

Una volta Benny fu baciato dalla fortuna

mentre giocava al Savocas con George

Bo’hog, Red Cornelius, Black Mannie

Hubbard, Sun Murray, Ben Harding e Aaron

Harris: George Bo’hog teneva il banco e ce


l’aveva con Benny perché lo stava

sbancando, ma in ogni caso si guardava bene

dal dirgli la sua.

Isaiah Hubbard, fratello di Mannie, stava

appoggiato alla ringhiera che correva intorno

al tavolo e osservava il gioco. Da parecchio

tempo ce l’aveva con Benny e ogni

occasione era buona per dargli addosso, ma

Benny, che in realtà evitava di mettersi nei

pasticci quando era possibile, faceva del suo


meglio per ignorare Isaiah, che tra l’altro era

veramente bravo a fare a botte. Isaiah era

anche il solo che si poteva permettere di

sfottere Benny per i vestiti sbrindellati che

portava. A Isaiah invece non mancava

praticamente nulla: aveva bei vestiti e le

donne che portavano a casa più soldi di tutti.

Isaiah era un vero nero, aveva dei baffoni

folti e si portava dietro una grossa pistola e

anche i poliziotti sapevano che era armato.


Quel giorno si sentiva nell’aria che stava per

succedere qualcosa. Alla fine del gioco

Benny andò alla cassa per farsi cambiare le

fiches. Nella sala non si sentiva volare una

mosca e fu allora che Isaiah parlò.

“Brutto nero bastardo”, disse rivolgendosi

a Benny. “Ora che hai vinto tutti questi soldi,

farai bene ad andarti a riprendere i vestiti al

banco dei pegni. Sarebbe ora che la

smettessi di sbandierare per il quartiere tutte


quelle pezze che hai al culo”.

Benny si fermò di botto e poi andò dritto

verso Isaiah.

“Non mi piace quello che hai detto”,

disse, “e poi sono stufo di questo tuo

continuo sfottermi. Se ce l’hai con me è

meglio che sputi il rospo. Possiamo

sistemare la faccenda subito”.

“No, mi stai sulle scatole”, rispose Isaiah,

“mi sei sempre stato sulle scatole”.


E così dicendo fece per mettere le mani

addosso a Benny. Benny però non si fece

trovare impreparato. Era pratico di pugilato

e si era trovato coinvolto in parecchi scontri

all’ultimo sangue. Si abbassò e sferrò un

dritto che stese al suolo Isaiah. A quel punto

gli astanti si avvicinarono all’uscita pronti a

svignarsela al momento opportuno, ma poi si

fermarono quando si accorsero che si

trattava di un leale incontro di pugilato, e


che Benny era in vantaggio. Si batterono

come due campioni ben allenati e nessuno

osò intervenire. Alla fine Benny fece una

finta e poi colpì Isaiah con tutte le sue forze,

che non erano poche. Isaiah cadde sul sedere

e si spense come un lumicino. Regnava il

silenzio quando Benny intascò il denaro

mentre le lacrime gli rigavano le guance.

“Grazie al Cielo”, disse, “è finita. Erano

anni che quest’uomo mi perseguitava ed ero


certo che un giorno o l’altro sarebbe

successo. Non sapevo quando, ma ero certo

che per uno dei due sarebbe andata male”.

Detto questo uscì.

Nessuno fece commenti e nessuno lo seguì

mentre se ne andava lungo Perdido Street

gridando a squarciagola: “Grazie al Cielo,

finalmente ho sistemato questa storia con

Isaiah Hubbard”.

Sta di fatto che da quel giorno in poi,


Benny e Isaiah s’incontrarono spesso ma non

litigarono più.

Quel povero Benny si metteva sempre nei

guai. Ora che aveva vinto tutti quei soldi,

andò a riscattare i suoi abiti dal banco dei

pegni, dove stavano da circa un anno: un bel

completo di gessato nero, scarpe Edwin

Clapp color marrone, un cappello Stetson

marrone e un camicia rosa pallido con una

bella cravatta. Stava davvero bene! E noi


eravamo tutti contenti di rivederlo così

vestito a nuovo. Quel giorno pioveva a

catinelle, le strade erano fangose e l’acqua

che rigurgitava dalle fogne invadeva le

cunette spandendo intorno una puzza

infernale.

Allora i barili di birra vuoti venivano

rotolati sul marciapiede in attesa che i

furgoni dei birrai venissero a ritirarli. Quelli

che bazzicavano in zona si sedevano sui


barili e chiacchieravano. Dopo aver

riscattato i vestiti al banco dei pegni Benny

si intratteneva felice con gli altri della

combriccola. Aun certo punto arrivò un

poliziotto che gli ordinò di presentarsi subito

alla

stazione

di

polizia

per
essere

interrogato. Quel poliziotto, che era uno dei

più anziani in servizio, interruppe Benny

proprio quando stava raccontando una delle

sue barzellette.

“Benny”, gli disse, “il capo ti vuole in

ufficio”.

“Ma porca miseria”, gli rispose Benny,

“mi ci è voluto quasi uno stramaledetto anno

per potermi rimettere addosso questi vestiti


e non ho nessuna intenzione, per far piacere

a te o a chiunque altro, di tornare in prigione

oggi. Né per te né per nessun altro, hai

capito?”

Il poliziotto insisteva.

“Guarda che te l’ho detto”, ripeté Benny,

“oggi non vado in prigione per far piacere a

nessuno, nes-su-no! Capito?”

Al che il vecchio poliziotto lo agguantò

per i pantaloni e lo immobilizzò: “Ti


dichiaro in arresto”, gridò.

Benny schizzò fuori dal barile come un

proiettile e si mise a correre dritto verso

l’altro lato della strada. Il poliziotto gli

rimase tenacemente aggrappato ai calzoni.

Benny correva così forte che lo sbirro non ce

la fece più a stargli dietro, ma poi scivolò,

perse l’equilibrio e finì a capofitto nel fango.

Benny si fermò dall’altra parte della strada a

guardare il poliziotto che cercava di


rimettersi in piedi. Aveva la faccia così

imbrattata di fango da sembrare un attore

travestito da nero.

“Ti avevo detto che per oggi non avevo

nessuna intenzione di andare in prigione!”,

gli gridò Benny, e se ne andò per i fatti suoi.

Una settimana dopo si costituì. Raccontò

al capo della polizia ciò che era successo e

quello che aveva detto al poliziotto, e il

capo rise di cuore.


Fu Benny a regalarmi la mia prima

pistola. Durante le feste di Natale e

Capodanno, quando tutti sparavano pistole e

mortaretti in segno di gioia, Benny, con

alcuni suoi amici, andava in giro per tutto il

quartiere. Se per strada incrociava un

ragazzino che sparava, gli si avvicinava

piano piano e puntandogli una pistola contro

la schiena gli diceva: “Questa la prendo io,

bello”.
I ragazzi gliela davano sempre, la pistola.

Diverse volte ho visto Benny ritornare dal

suo giro con un cesto pieno di pistole di ogni

genere, che poi rivendeva al miglior

offerente. Che personaggio!

Nel 1918 le cose cominciarono a

cambiare per me. Per un po’ di tempo

sostituii Sweet Child nel suo lavoro che

consisteva nel fare il fattorino per il locale

all’angolo di casa mia nel Third Ward. Era


un’attività che mi piaceva: tutto ciò che

dovevo fare era camminare su e giù per le

strade in attesa che una lucciola si

affacciasse alla finestra e mi chiamasse.

“Ehi, ragazzo!”, gridava lei.

“Sì?”, rispondevo io.

“Portami mezza lattina”.

Mezza lattina di birra costava un nichelino

mentre per una intera ci volevano dieci

cents.
Aquei tempi con una lattina intera si

poteva invitare la gente a nozze e anche per

un nichelino ti davano tanta birra che per

berla dovevi chiamare qualcuno a darti una

mano.

In un certo qual modo mi piaceva fare il

fattorino perché mi dava la possibilità di

entrare nelle case e di vedere un po’ cosa

succedeva. Spesso quando una ragazza non

aveva i soldi per la mezza lattina, gliela


offrivo io con i soldi delle mance. Le

ragazze erano sempre molto gentili con me,

ma purtroppo, per mia sfortuna, Sweet Child

riprese il suo posto e non lo mollò più.

Dopodiché dovetti tornare a trasportare il

carbone. Come sempre il mio patrigno Gabe

fu felice di rivedermi, come fui felice io di

rivedere lui. Avevo spesso tentato di

convincere Mayann a rimettersi con Gabe,

ma non c’era niente da fare. Non lo poteva


più soffrire. Per me lui è stato il migliore tra

tutti i patrigni che ho avuto e sono ancora

della stessa opinione. Ogni volta che ne

avevo bisogno, potevo sempre chiedergli un

quarto di dollaro. In confronto a lui tutti gli


altri patrigni sembravano un branco di

spilorci. Ma non potevo certo dire a Mayann

cosa doveva fare della sua vita.

Quando lavoravo al deposito dei carboni,

Sidney Bechet, un giovanotto del quartiere

creolo, venne nella mia zona per suonare da


Kid Brown, il famoso paracadutista che

gestiva un honky tonk all’angolo fra Gravier

e Franklin Street. La prima volta che lo

sentii suonare il clarinetto rimasi colpito. In

seguito ebbi modo di constatare quanto fosse

versatile come strumentista. Tutti i musicisti

della città erano impegnati con i vari

complessi che sfilano nel grande corteo per

la festa del lavoro, e solo Bechet, chissà

perché, mancava. Henry Allen, il padre di


Red Allen, era venuto da Algiers con la sua

orchestra che doveva suonare per una delle

varie associazioni. Al vecchio Allen

mancava un suonatore di cornetta, ma

proprio mentre le orchestre si stavano

adunando davanti all’Odd Fellow’s Hall,

intravide Bechet. Siccome sapeva che era

bravissimo a suonare la cornetta, lo spedì

nel locale di Jake Fink per farsi prestare lo

strumento
da

Bob

Lyons,

celebre

contrabassista. Poi Bechet raggiunse il

gruppo e prese parte al corteo, suonando per

tutto il tempo come un pazzo. Rimasi senza

parole per come suonava, tanto che lo seguii

tutto il giorno. Nessuno a New Orleans era

meglio di lui con la cornetta. Quanta


sensibiltà! Quanta anima ci metteva! Nessun

altro strumentista in città era alla sua altezza.

Un’altra grande emozione per me fu

quando suonai insieme a Bechet per

annunciare un incontro di boxe. Anche se non

ricordo più il nome dei pugili, non potrò mai

dimenticare di aver suonato con il grande

Bechet; quella volta la nostra orchestrina era

composta da tre soli elementi: clarinetto,

cornetta e batteria. Poi Bechet si trasferì al


Nord ma io lo seppi soltanto quando era già

partito. Andò infine a Parigi dove divenne ed

è tuttora una celebrità.

CAPITOLO 9

Più o meno a metà dell’estate del 1918

Joe Oliver ebbe un’offerta da Chicago per

andare a suonare per la signora Major,

proprietaria del Lincoln Gardens. Lui

accettò e portò con sé Jimmie Noone come

clarinettista.
Io ero tornato a lavorare per il deposito di

carbone, ma chiesi un permesso per

accompagnarli al treno. Kid Ory e gli altri

componenti della Ory-Oliver Jazz Band

erano già alla stazione. Fu un distacco molto

triste. A loro dispiaceva tanto dover lasciare

New Orleans, e io ebbi l’impressione che la

vecchia compagnia si stesse disgregando.

Ma nel mondo dello spettacolo uno spera

sempre che dietro l’angolo ci sia qualcosa di


meglio.

Non appena il treno si mosse, io già stavo

per uscire dalla Illinois Central Station e

tornare al mio carro – dovevo consegnare un

grosso carico di carbone – quando Kid Ory

mi chiamò: “Suoni ancora la cornetta?”,

gridò da lontano.

Tornai indietro di corsa e lui mi disse che

aveva sentito dire un mondo di bene di

“Little Louis” (così mi chiamavano da


ragazzino, perché ero piccolo e simpatico).

“Hmm...” Drizzai le orecchie.

Disse che quando gli altri componenti

della banda avevano saputo della prossima

partenza di Joe Oliver, gli avevano tutti

consigliato di sostituirlo con Little Louis.

Inizialmente aveva avuto qualche dubbio, ma

dopo aver passato in rivista tutta la città non

trovò nessun altro all’infuori di me che gli

desse abbastanza affidamento per occupare


il posto di quel grande musicista. Infine mi

disse di andarmi a dare una lavata e di

raggiungerlo quella sera stessa per suonare

con loro.

Che emozione! Pensare che proprio io ero

considerato degno di occupare il posto di

Joe Oliver nella migliore band della città!

Non vedevo l’ora di correre da Mayann per

comunicarle la bella notizia. Dopo tante

delusioni
dovevo

proprio

correre

dirglielo.

Era lei che mi aveva sempre incoraggiato

a suonare la cornetta, perché sapeva che era

la mia passione.

Non potevo telefonarle perché a quei

tempi la gente come noi non aveva il


telefono: solamente quelli ricchi sfondati

potevano permettersi un lusso simile e noi

eravamo ben lontani dall’appartenere a

quella categoria.

Non è che mi andasse molto di raccontare

subito a Mama Lucy del mio successo,

perché mi lanciava sempre delle frecciatine.

Come quella notte che suonai a pagamento

per la prima volta; certo fu una cosa da poco

e non racimolai che quindici cents ma ero


comunque fiero di poterli portare a casa a

mia madre. Mama Lucy sentì che dicevo:

“Mamma, ecco quello che ho guadagnato ieri

sera. Ed era pure sabato. Con le mance non

abbiamo messo insieme più di quindici cents

a testa”.

Mia sorella si scosse dal suo sonno

profondo e disse: “Hmmm! Ti sei ammazzato

per quindici cents!”

L’avrei uccisa, e nostra madre dovette


tenerci separati per tutta la mattinata per

impedire che ci picchiassimo.

Così quando la fortuna mi assistette la

prima volta per merito di Kid Ory, volevo

che la prima a saperlo fosse mia madre e non

mia sorella. Lasciai che Lucy lo scoprisse

per conto suo, e quando mi fece i

complimenti tutta entusiasta mi limitai a dire

con aria noncurante: “Grazie, sorella”.

Volevo fare il duro, ma sotto sotto ero


felice che fossero contente di me. La prima

sera che suonai nella band di Kid Ory, gli

altri quasi si dimenticarono dei loro

strumenti per ascoltare quella specie di

uragano che usciva dalla mia cornetta. Io non

ero per nulla intimorito. Imitavo Joe Oliver

in tutto e per tutto, o perlomeno facevo del

mio meglio per imitarlo. Il giorno poi in cui

fummo ingaggiati per un ballo all’Economy

Hall, arrivai persino ad avvolgermi un


grosso asciugamano intorno al collo: Joe

faceva sempre così prima di suonare. Si

metteva un asciugamano intorno alla gola e

poi si slacciava il colletto per poter soffiare

più liberamente e facilmente.

E siccome io ero sempre andato a sentire

Joe che suonava, all’epoca in cui era con

Kid Ory, conoscevo quasi tutti i pezzi che

facevano, almeno a orecchio. Già a quel

tempo ero assai bravo a suonare la cornetta e


avevo un ottimo orecchio. Coglievo le note

con la massima facilità.

Kid Ory era così buono, cortese e paziente

che quella prima sera di lavoro fu per me un

vero piacere anziché una fatica. Io non avevo

altro da fare che soffiare nella mia cornetta

come un disperato. Momenti deliziosi,

credetemi.

Grazie a quella prima serata con Kid Ory

iniziai a farmi conoscere. Cominciai ad


acquistare una vera popolarità sia tra gli

appassionati del ballo sia tra i musicisti.

Questi venivano ad ascoltarci e qualche

volta mi chiamavano a suonare con loro,

nelle serate in cui non ero impegnato con

Kid Ory.

Andai avanti a gonfie vele fino a una sera

in cui provai la più storica fifa della mia

vita. Dovevo sostituire il cornettista nella

Silver Leaf Band, che era tra l’altro una


band eccezionale. Tutti i musicisti leggevano

la loro parte sullo spartito. Il clarinettista era

Sam Dutrey, fratello di Honore Dutrey il

trombonista. Sam era uno dei migliori

clarinettisti in città. (A tempo perso faceva il

barbiere.) Aveva un modo di fare così

altezzoso che uno poteva pensare che

credesse di essere chissà chi, ma in realtà

era un tipo allegro, bonaccione, che amava

scherzare. Io però non lo sapevo ancora!


La sera che dovevo sostituire il

cornettista,

mi

presentai

presto

per

ambientarmi un po’, perché dovendo suonare

con gente che non conoscevo volevo fare del

mio meglio perché tutto andasse bene. La

maggior parte dei musicisti arrivò alla


spicciolata poco più di un quarto d’ora

prima dell’inizio. Sam Dutrey fu l’ultimo.

Non lo avevo mai visto prima di allora.

Arrivò mentre noi già stavamo accordando

gli strumenti e salì sul palco. Salutò gli altri

e poi mi guardò negli occhi.

“Cosa sta succedendo qui?”, urlò. “Fila

via, ragazzo!” Mamma mia come urlava.

Ero

spaventatissimo.
“Sissignore”,

risposi. Cominciai a riporre la cornetta.

Ma uno dei musicisti disse: “Lascia stare

il ragazzo, Sam. Sta sostituendo Willie per

questa sera”. Poi mi presentò a Sam.

Sam si mise a ridere e disse: “Ragazzino,

stavo solo scherzando”.

“Sissignore”, ripetei.

Suonammo per tutta la notte, spaccammo

veramente il mondo. Ma continuai a sentirmi


strano. Adesso, tutte le volte che incontro

Sam Dutrey, ricordiamo quell’episodio e

ridiamo come pazzi.

Sia Sam sia Honore erano strumentisti

impeccabili. Honore Dutrey aveva un timbro

come pochi strumentisti riescono a produrre

suonando il trombone. Purtroppo si rovinò

l’esistenza durante il periodo in cui prestò

servizio nella Marina. Un giorno a bordo si

addormentò nella santabarbara e s’intossicò


con le esalazioni, tanto che soffrì di asma

per anni. Suonare il trombone in tali

condizioni era una tortura.

Nel 1926 quando andai a suonare a

Chicago per Joe Glaser, che adesso è il mio

manager, Dutrey suonava il trombone. Se la

cavava sempre benissimo, ma quando si

trattava di suonare “Irish Medley”, dove gli

ottoni nel finale devono mantenersi nel

registro superiore, doveva ritirarsi dietro il


sipario e applicarsi lo spruzzatore alle

narici. Dopodiché diceva: “Be’, ora diamoci

dentro”, e faceva cantare quel trombone

come mai lo sentirete in tutta la vita. Tornerò

a parlare di lui più avanti.

Parlerò di molti musicisti, specialmente di

quelli con i quali ho lavorato o con cui ho

avuto a che fare via via. Devo dire che me la

sono proprio spassata a suonare con loro.

Molti di loro erano dei personaggi, e quando


dico

“personaggi”

intendo

proprio

personaggi! Ho suonato con alcuni dei

migliori musicisti del mondo, sia di jazz che

di musica classica. Che Dio li benedica, tutti

quanti!

Al tempo in cui facevo solo le serate con

la band di Kid Ory, dovevamo tutti fare


anche altri lavori durante il giorno. La guerra

era ancora nel vivo e gli ordini erano:

“Lavorare o combattere”. Siccome ero

ancora troppo giovane per combattere,

continuavo a trasportare carbone. All’infuori

della cornetta sembrava che il carro da

carbone fosse la cosa che mi piaceva di più.

Forse dipendeva dal fatto che molti dei miei

compagni di lavoro erano vecchi amici.

Kid Ory faceva delle serate spettacolari,


specialmente se si trattava di suonare per i

bianchi con i soldi. Quando ci chiamavano in

posti di gran classe come il Country Club, la

paga era più alta, e negli intervalli gli

organizzatori si preoccupavano che gli

orchestrali mangiassero bene e a sazietà,

proprio come tutti. A volte io e il batterista

ci mettevamo d’accordo con i camerieri di

colore, e così potevo portare qualcosa da

mangiare anche a Mayann e Mama Lucy.


I musicisti che suonavano leggendo lo

spartito, come quelli dell’orchestra di

Robechaux, consideravano noi della band di

Kid Ory bravi sì ma solo quando suonavamo

insieme. Un giorno quei pezzi grossi furono

richiesti per suonare a un funerale, ma molti

di loro lavoravano anche di giorno e perciò

non potevano andarci. Furono quindi

costretti a ricorrere a parecchi dei musicisti

di Kid Ory, compreso me. Il giorno del


funerale i musicisti dovevano adunarsi nella

sala da cui partiva il corteo per andare alla

casa del socio defunto. Io e Kid Ory

notammo che tutti quei presuntuosoni ci

trattavano con sussiego. Non ci ritenevano

all’altezza di suonare le loro marce.

Diedi di gomito a Ory come per dirgli:

“Pensi anche tu quello che penso io?”, e lui

annuì.

Nell’andare alla casa eseguimmo una


marcia non troppo veloce. Suonammo tutto

quello che ci dicevano di suonare e con

maggior scioltezza rispetto a loro. Non

fecero commenti né in bene né in male.

Il feretro fu portato fuori dalla casa e ci

incamminammo verso il cimitero, suonando

sempre marce funebri molto molto lente. Ma

quando arrivammo al cimitero e la salma fu

calata tre metri sotto terra al rullo dei

tamburi,
attaccammo

un

ragtime

che

richiedeva un ritmo incalzante. Ma quei

vecchi fossili non ce la facevano. Fu proprio

in quel momento che noi ragazzi della band

di Ory intervenimmo facendoci veramente

onore.

Che sensazione fu far vedere a quelli


com’è che si suona. Che bellezza!

La “seconda fila” – quel mucchio di

straccioni che seguono i cortei funebri per

sentire la musica – era così entusiasta di

come suonavamo che vollero il bis. E questo

non succede spesso durante i cortei.

Entrammo nella sala suonando a ritmo

serrato l’ultimo pezzo, “Panama”. Avevo

notato che Joe Oliver suonava il motivo

finale portandosi nel registro superiore e


così feci anch’io riuscendo a raggiungere le

note più alte mentre la folla impazziva

dall’entusiasmo.

Dopo questo gran successo tutti quei

presuntuosoni non ci lasciavano più in pace.

Ci davano pacche sulle spalle e davvero non

ci davano tregua. In seguito ci chiamarono

spesso per suonare con loro. E gli avevamo

dimostrato che qualsiasi musicista istruito è

capace di leggere la musica, ma che non tutti


hanno lo swing. Fu una bella lezione per

loro.

In seguito ci chiesero ripetutamente di

suonare con loro, ma io ero già impegnato

con Celestin (ottimo cornettista e leader

della Tuxedo Brass Band) per sostituire

Sidney Desvigne, un altro bravo cornettista.

A mio avviso la Tuxedo Brass Band di

Celestin era la band migliore che si fosse

vista in città dai tempi della Onward Brass


Band con Emmanuel Perez e Joe Oliver agli

ottoni. Mamma mia, che band! Così, dopo

che Joe Oliver andò a Chicago, la Tuxedo

Brass Band fu quella che si accaparrò il

maggior numero di funerali e di cortei.

Tornerò a parlare di Papa Celestin in

seguito.

L’ultima volta che vidi Lady, la mula che

guidavo, fu l’11 novembre 1918, il giorno in

cui venne firmato l’armistizio. Proprio in


quel giorno gli Stati Uniti con i loro alleati

ridussero il Kaiser tedesco e il suo esercito

a zero. Alle undici di quella mattina stavo

scaricando carbone al ristorante Farbach su

St. Charles Street, uno dei migliori ristoranti

della città. Mentre sudavo quattro camicie

per trasportare il carbone dal carro

all’interno, sentii passare per St. Charles

Street

numerose
automobili

che,

trascinandosi dietro lattoni vuoti, facevano

un fracasso infernale. Dopo che passarono

un po’ di macchine m’incuriosii e chiesi a

uno che stava lì: “Ma che sta succedendo?”

“Fanno festa perché la guerra è finita”, mi

disse quello.

A quelle parole rimasi come fulminato.

Non credo di aver messo più di tre palate


di

carbone

nella

carriola,

quando

all’improvviso mi resi conto di cos’era

successo: “La guerra è finita e io sto qui a

fare il fesso con questa mula. Huh!”

Buttai all’istante la pala per terra,

m’infilai con calma la giacca e guardando


Lady le dissi: “Addio, cara. Credo che non

ci vedremo mai più”. Poi tagliai la corda,

piantando in asso mula, carro, carico di

carbone e compagnia bella. Da quel giorno

non li ho mai più rivisti.

Corsi dritto a casa. Mayann, vedendomi

arrivare più presto del solito, mi chiese cosa

fosse successo. Nuovi guai forse?

“No, mamma”, le dissi. “La guerra è finita

e io pianto una volta per tutte il magazzino


del carbone. Ora potrò suonare la musica

che dico io. E quando voglio io”.

Il giorno dopo fu abolito l’oscuramento e

una marea di locali riaprì i battenti. La città

era di nuovo splendida con tutte quelle luci

lungo Canal Street e tutto il resto. Matranga

voleva che tornassi a suonare nel suo honky

tonk, ma arrivò in ritardo. Miravo molto più

in alto, specialmente dopo che Kid Ory mi

aveva dato la possibilità di suonare la


musica che volevo veramente suonare. Cioè

musica di tutti i generi, dal jazz al valzer.

A quel punto Kid Ory cominciò ad avere

un sacco di serate. Arrivò persino a

organizzare balli per conto suo, come quelli

del lunedì sera alla Economy Hall. A New

Orleans, all’epoca, il lunedì sera non era

certo movimentato, e negli altri locali si

lavorava poco, ma all’Economy Hall Kid

Ory andava a gonfie vele. Riuscì a suonare


per parecchi mesi facendo una barca di

soldi. E pagava bene anche noi.

Spesso non lavoravamo neanche il sabato

sera e io ne approfittavo per andare a

suonare a Gretna, oltre il fiume, al Brick

House, un altro locale notturno. Gretna era

un piccolo centro vicino ad Algiers, dove

abitava Red Allen, e in quel locale si

guadagnava assai bene calcolando anche le

mance degli avventori ubriachi, delle


puttane, dei loro protettori e dei giocatori

d’azzardo. Ci bazzicavano anche dei tipacci

da cui era meglio stare alla larga se non si

voleva finere decapitati o con una pallottola

in fronte...

La nostra band era composta da tre

elementi e ci toccava suonare un blues dietro

l’altro per soddisfare le prostitute che

facevano un bel po’ di soldi vendendosi a

prezzi molto bassi.


Il Brick House era vicino alla banchina,

all’altezza del traghetto della Jackson

Avenue. Finito di lavorare, quando dovevo

prendere il tram per tornare a New Orleans,

avevo una gran fifa perché a quell’ora del

mattino c’era pochissima gente in giro.

Soltanto pochi ubriachi, sia bianchi che di

colore. Spesso i due si guardavano in

cagnesco pronti a venire alle mani per un

nonnulla. Quando succedeva, essendoci


pochissimi negri da quelle parti, non era una

bella cosa. Anche se noi di colore eravamo

dalla parte della ragione, all’arrivo dei

poliziotti, questi prima ci picchiavano e poi

ci interrogavano.

Una volta, mentre alcune persone di

colore, me compreso, tornavano da Gretna

nelle primissime ore del mattino, una donna

di colore di mezza età, ubriaca fradicia,

occupava il sedile lungo il parapetto del


battello. Alcuni uomini dell’equipaggio

lavavano il ponte che quindi era abbastanza

scivoloso. Si stavano già per levare gli

ormeggi, quando un’anziana signora bianca

fece di corsa la passerella per raggiungere il

traghetto. Non sapendo che il pavimento era

bagnato, inciampò e ci mancò poco che

cadesse per terra. A quella vista la donna di

colore si alzò di scatto, guardò la donna

bianca e disse: “Sia lodato il Cielo!”


Un momentaccio!

Mamma mia, il Signore ci ha protetto, a

noi di colore, quella notte, perché alla fine


non è successo nulla. Ancora non mi spiego

il perché. Ho visto guai cominciare per

molto meno.

Louis Armstrong incontrò la sua prima

moglie al Brick House. Ma prima di

raccontarvi come conobbi Daisy Parker,

vorrei parlare per l’ultima volta dei bei

vecchi tempi di Storyville.


Per esempio, non vi ho ancora parlato di

Lulu White. Povera Lulu White! Che donna!

Avevo una grande ammirazione per lei fin

da bambino, non per i grandi affari di cui si

occupava

ma

per

la

meravigliosa

organizzazione della sua Mahogany Hall:


così si chiamava la casa che gestiva a

Storyville. Era una casa di piacere dove i

bianchi ricchi, uomini d’affari e proprietari

di piantagioni, venivano da ogni parte del

Sud a spendere montagne di soldi.

Lulu aveva alcuni dei più grossi diamanti

che si siano mai visti. Aveva anche

magnifiche pellicce... e anche alcune delle

più belle ragazze mulatte, che lavoravano

per lei...
Da Lulu lo champagne scorreva a fiumi.

Se qualcuno degli ospiti ordinava una

bottiglia di birra, lo guardavano a bocca

aperta e poi – forse – gliela servivano. Ma

chi ordinava birra si pentiva amaramente di

non aver ordinato champagne.

Jelly Roll Morton faceva un sacco di soldi

suonando il pianoforte per conto di Lulu

White in una delle sue stanze.

Quando venne la crisi e la Marina e la


legge cominciarono a infierire contro

Storyville, anche Lulu dovette chiudere.

Aveva accumulato tanto denaro da potersene

stare tranquilla per tutta la vita e piantare gli

affari. E invece no, come tante altre

maîtresse che ho conosciuto in vita mia era

insaziabile, non si arrendeva mai e voleva

continuare a fare facili guadagni sfidando la

legge che non le dava tregua.

Il sindaco Martin Behrman fece sloggiare


lei e le altre da Storyville nel giro di pochi

giorni. Lulu dal numero 325 di North Basin

Street passò al 1200 di Bienville Street per

tentare la fortuna con un’altra casa di

piacere. E il suo sbaglio fu proprio cercare

di

continuare

gestire

una
casa

d’appuntamenti con la legge che le stava così

addosso e che alla fine prese tutti i soldi che

aveva guadagnato nel corso della sua attività

insieme a tutti i diamanti e i gioielli.

Ricordo che il detective Harry Gregson la

teneva sotto torchio. Era un tipo duro. È

ancora vivo. Conoscevo tutti gli sbirri di

Storyville – Hessel, Fast Mail, Gregson e gli

altri – fin da ragazzetto quando distribuivo


l’antracite in tutti quegli alloggi dove le

prostitute si mettevano sulla soglia a offrire

le loro grazie ai passanti.

A Storyville ho provato ogni tipo di

emozione. A ogni angolo c’era qualcuno che

suonava della musica, e che musica! La

musica che mi piaceva ascoltare. Pur di

andare a Storyville spendevo tutti i soldi che

guadagnavo, anche se erano pochi. Sembrava

che tutte quelle orchestre si sparassero


addosso a vicenda con quei riff pazzeschi. E

Joe Oliver! Quell’uomo mi incantava

veramente con la sua tromba.

Storyville! Con tutti quei magnifici

trombettisti: Joe Oliver, Bunk Johnson (era

la sua epoca d’oro, quella), Emmanuel

Perez, Buddy Petit e Joe Johnson, veramente

grande, peccato che non abbia inciso

dischi...

Mi colpiva il fatto che Joe Johnson e


Buddy Petit avessero lo stesso identico stile.

Che era magnifico! In realtà tutti i suonatori

di tromba e di cornetta che ho sentito quando

ero giovane a New Orleans erano dei

diavolacci – questo è il minimo che posso

dire di loro. Erano capaci di continuare a

soffiare in quegli strumenti per ore e ore.

Joe Oliver però, che era grasso, era il più

forte e il più creativo di tutti. E Bunk

Johnson era il più melodico. Batteva tutti in


fatto di timbro, anche se tutti avevano una

timbro eccezionale. Questa, del resto, era la

prima cosa che Peter Davis mi aveva

insegnato al riformatorio. “Il timbro”,

diceva. “Un musicista che ha un suo

particolare timbro può suonare ogni genere

di musica, dalla classica al ragtime”.

Sembrava che tutti spingessero Lulu White

a lasciar perdere e cominciare a vivere una

vita regolare. Ma lei non volle sentire


ragioni. Si tenne i cavalli, le carrozze e il

cocchiere nero fino all’ultimo. Alla fine la

legge che lei aveva sfidato la mise a terra e

la rovinò completamente. Fu vergognoso il

modo in cui le portarono via la casa –

mobili, diamanti a non finire, cose che

valevano una fortuna.

Ma comunque, anche se Lulu non c’è più,

il nome della Mahogany Hall a Basin Street

vivrà in eterno. Come vivrà in eterno Basin


Street.

CAPITOLO 10

Il Brick House, a Gretna, Louisiana ...

Di tutti i locali in cui ho suonato durante

la mia carriera, credo che il Brick House sia

stato quello meno raccomandabile. Il sabato

sera i lavoratori delle banchine fluviali

arrivavano a frotte per andare con le

prostitute che passeggiavano avanti e

indietro nella sala da ballo e nel bar. Quei


tipi bevevano e se le davano di santa

ragione. Le bottiglie volavano all’impazzata

sopra il palco e revolverate e coltellate

erano all’ordine del giorno. Però tutte queste

storie non mi turbavano minimamente,

perché ero troppo felice di avere un posto

dove suonare.

Per tre sabati successivi notai nel locale

una ragazza che mi guardava in un certo

modo inequivocabile. Io continuavo a


suonare, ma cominciai a contraccambiare i

suoi sguardi in modo piuttosto espressivo.

Quella ragazza si chiamava Daisy Parker.

Evidentemente per lei era una semplice

questione di lavoro, mentre per me era

l’ennesima

cotta,

o,

come

dicevamo
all’epoca, scuffia. Se qualcuno ti diceva:

“Quella donna ha una scuffia per te”, tu

gonfiavi il petto e ti sentivi importante.

Comunque mi accorsi di tutto questo solo

dopo il mio primo incontro con Daisy, in una

delle camere del Brick House, al piano di

sopra. Mi disse quanto prendeva, che non

era molto per l’epoca, e io le dissi che ci

saremmo visti dopo che finivo di lavorare.

Lei acconsentì e io me ne andai pensando:


“Caspita, che bel pezzo di creola”. Non

immaginavo certo cosa mi aspettava.

Così, appena libero, mi precipitai di

sopra dove Daisy, dopo essersi congedata

dalla sua compagnia, mi raggiunse. Poiché

eravamo

entrambi

liberi

dal

lavoro,
rimanemmo in quella stanza dalle cinque del

mattino fino al pomeriggio inoltrato.

La prima cosa che notai di Daisy, quella

volta – ma tacqui perché non volevo credere

ai miei occhi – fu che spogliandosi si tolse

un paio di fianchi artificiali che portava

sotto la gonna per apparire più formosa.

Pensai fra me: “Guarda, guarda! Il corpo di

questa ragazza mi aveva tanto colpito e

invece alla fine ecco che mi ritrovo in mano


due braccioli da nuoto!” Ma non mi lasciò

neanche il tempo di pensarci perché mi

spiegò subito il motivo. Disse che era troppo

magra, pesava a malapena quarantacinque

chili. Era costretta a indossare quelle

imbottiture. E infatti quando le indossava

aveva proprio una bella linea. In fondo non

faceva nulla di male, dopotutto con me era

pur sempre carina e sincera. A dire la verità

mi ci abituai, e i fianchi finti finirono anche


per piacermi.

A quel primo incontro ne seguirono molti

altri finché io e Daisy ci innamorammo

perdutamente l’uno dell’altra.

Daisy aveva ventun anni, e io diciotto. Ero

talmente innamorato di lei che non si parlò

mai del fatto che lei avesse un “ganzo” –

così

venivano

chiamati
all’epoca

conviventi – anche se questa di solito era la

prima cosa che chiedevo a una ragazza.

Seppi più tardi perché Daisy non mi aveva

mai detto di avere un fidanzato batterista che

lavorava in un altro locale notturno di

Gretna, mentre lei lavorava al Brick House; i

clienti del Brick House pagavano meglio.

Lei e il batterista vivevano a Freetown, un


piccolo centro fra Gretna e Algiers. Siccome

insisteva perché andassi a farle visita uno di

quei pomeriggi, per me era ovvio che

vivesse da sola, come del resto parecchie

altre donne di vita con cui me l’ero spassata.

I loro protettori andavano a riscuotere il

denaro, prelevavano la loro parte in natura, e

poi se ne andavano verso i loro alloggi da

scapoli, oppure a casa da moglie e figli.

Quando Kid Ory firmò un contratto che lo


impegnava a suonare ogni sabato sera al

New Orleans Country Club, frequentato da

gente molto ricca, piantai il Brick House più

velocemente di quanto non avessi fatto con

Lady il giorno dell’armistizio. Quindi per un

mese intero non vidi Daisy. Le parlai

solamente qualche volta per telefono. Non

sapeva come fare ad attraversare il fiume

per venire a New Orleans perché aveva

passato tutta la sua vita a Gretna o in altre


cittadine della Louisiana.

Io avevo una voglia matta di rivederla,

così come lei aveva voglia di rivedere me:

quindi, un bel pomeriggio, pensai bene di

mettermi in ghingheri. Di abiti buoni ne

avevo uno solo e lo tenevo con la massima

cura, sempre spazzolato e stirato. Lo

indossai e alle due del pomeriggio ero

pronto per andare. Mayann, con la quale

vivevo ancora, a quel tempo, mi chiese:


“Dove vai, figliolo, così bello ed elegante?”

“In nessun posto speciale, mamma”,

risposi. “ È solo che oggi mi andava di

mettermi il vestito delle feste”.

Si fece una bella risata e poi andò in

cucina per rimestare la pentola di riso e

fagioli rossi. Avevano un profumino così

delizioso che quasi quasi mi venne voglia di

cambiare programma.

Saranno state le tre e mezzo quando


arrivai a Freetown. L’autobus che avevo

preso da Gretna mi scaricò a circa un

chilometro dall’abitazione di Daisy. Chiesi a

una persona come dovevo fare per

raggiungere la casa che poi rintracciai con

facilità perché era in campagna e in

campagna si conoscono tutti.

Era una casa di quattro stanze tutte in fila,

di modo che entrando dalla soglia si vedeva

fino all’ultima stanza che era la cucina. La


casa, che era vecchia, aveva stanze buie e un

portico mezzo cadente.

Bussai alla porta e Daisy apparve subito

col sorriso sulle labbra. Mi fece strada

verso il soggiorno e appena chiuse la porta

ci baciammo: fu un bacio lunghissimo. Mi

tolse il cappello, lo posò sopra una sua

vecchia macchina da cucire e poi si

accoccolò sulle mie ginocchia. Ci stavamo

dando
dentro

con

baci,

quando

all’improvviso qualcuno bussò alla porta.

“Chi è?”, chiese Daisy tutta agitata.

Era il suo “ganzo”, che con mia grande

sorpresa era stato informato delle mie

manovre con Daisy fin dalla notte del nostro


primo incontro. Spinse la porta con violenza

ed entrò; Daisy nel frattempo era schizzata

via dalle mie ginocchia per rifugiarsi

nell’altra stanza, seguita a breve distanza

dall’amico.

Nel

mio

cervello

cominciarono

a
turbinare milioni di pensieri, soprattutto il

ricordo di quel famoso incidente con Irene e

Cheeky Black.

Sentii il rumore di qualcosa che cadeva a

terra. Eh sì! Era Daisy. Lui l’aveva colpita

violentemente, e lei si era accasciata svenuta

senza un grido e senza che avesse potuto dire

una parola.

Cominciai ad armeggiare nel tentativo di

svignarmela il più presto possibile. Per


quanto ricordassi benissimo che Daisy aveva

messo il mio cappello a portata di mano,

sulla macchina da cucire, non riuscivo a

recuperarlo e a mettermelo in testa. Il

pensiero predominante era la paura di quanto

stava per capitarmi.

Riuscii comunque a tagliare la corda

prima che quello tornasse fuori dall’altra

stanza,

ma
finché

non

misi

piede

sull’omnibus non riuscii a infilarmi il

cappello in testa. In realtà non mi passò per

la testa l’idea d’infilarmi il cappello finché

non mi sentii al sicuro sul traghetto per New

Orleans. Ero ancora un ragazzino quando

scoprii che si corre meglio con il cappello in


mano piuttosto che sulla testa: si va più

veloci.

Appena raggiunto il traghetto diedi un

grosso sospiro di sollievo e dissi a me

stesso: “Uff, questa è l’ultima volta”.

Mi ricordai allora che già in precedenza

avevo formulato questo proposito, e

precisamente quando Cheeky Black mi

sorprese a letto con Irene. Questa volta però

dicevo sul serio.


Quando arrivai a casa da Mayann ero

ancora sconvolto, ma feci di tutto perché non

mi leggesse in faccia che avevo passato dei

guai. Poveretta, si preoccupava tanto per me

e per Mama Lucy, perché col nostro carattere

impulsivo ci mettevamo spesso nei pasticci.

Appena pronta la cena – riso e fagioli – mi

bastò la prima cucchiaiata a farmi passare di

mente tutto quello che era successo.

Dopo il fattaccio non rividi Daisy per


quasi un mese. Avevo deciso comunque di

mollarla, perché non ne valeva la pena.

Mayann non ne sapeva nulla. Chissà perché

non avevo voluto parlarle di Daisy. E ora

che avevo intenzione di lasciarla non c’era

proprio più nulla da dire.

Passò ancora del tempo, quando un bel

giorno, nel mio quartiere di Liberty e

Perdido Street, mi ritrovai tra i piedi proprio

Daisy! Rimasi veramente sorpreso. Siccome


mi aveva mentito riguardo al suo “ganzo”,

ritenevo che non mi amasse affatto e che mi

avesse usato come un semplice passatempo.

Rimase senza parole quando mi vide che

chiacchieravo all’angolo della strada con

dei vecchi amici che erano appena tornati

dal lavoro al magazzino del carbone. Mi

corse incontro gettandomi le braccia al collo

e con le lacrime agli occhi mi disse: “Amore

mio, mi sentivo così sola e così triste e


infelice che non ho potuto più resistere.

Avevo bisogno di vederti”.

Gli amici intorno a noi osservavano la

scenetta e dicevano: “E bravo Dipper! Una

ragazza così bella che ti dice tutte queste

cose! Ma che le hai fatto?”

Poi pensai che quella bella ragazza che si

sdilinquiva per me mi offriva l’occasione

per farmi grande davanti a loro, tanto per

cambiare.
Così mi ricomposi e le domandai “Ma...

cosa... come hai fatto ad arrivare fin qui,

tesoro?”

Allora mi spiegò che un suo cugino che

lavorava a Canal Street le aveva indicato la

strada per raggiungermi.

Andammo poi all’angolo tra Rampart e

Lafayette Street, all’albergo di Kid Green, e

prendemmo una camera per la notte, così

avremmo avuto modo di fare una bella


chiacchierata.

Kid Green, un ex pugile di professione,

era noto da un capo all’altro degli Stati

Uniti. Ai tempi d’oro era stato tra i più

quotati, ma adesso aveva abbandonato il ring

e viveva del denaro guadagnato. Possedeva

un discreto albergo che, pur non essendo il

migliore del mondo, non mancava di

comodità. Eravamo buoni amici e ogni volta

che andavo da lui con una ragazza, anche se


il locale era affollato, riusciva sempre a

trovare un posticino per me. Kid Green era

noto perché portava quel tipo di cravatta che

si chiama stock tie, molto popolare

all’epoca, fatta di tela o di seta, che si

avvolgeva intorno al collo e poi si fissava

davanti con un grosso nodo. La portava da

dio. Ogni dente che aveva in bocca era d’oro

e aveva un grosso diamante incastonato in

uno degli incisivi, proprio come Jelly Roll


Morton. Kid Green aveva talmente tanto oro

in bocca che lo chiamavamo “Klondike”.

Quando sorrideva si vedeva oro da

chilometri di distanza.

Durante la mia permanenza nell’albergo di

Kid Green con Daisy ebbi modo di

conoscerla come si deve. Non si poteva

proprio dire che fosse “bella e stupida”,

perché era piuttosto svelta e particolarmente

brava a fare soldi. Ma era troppo gelosa.


Capii che durante la sua infanzia trascorsa

in campagna doveva essere stata viziata dai

genitori che evidentemente le avevano

permesso di fare tutto quello che voleva.

Marinava la scuola quando le pareva e

piaceva, e così crebbe ignorante e senza

aver imparato alcun mestiere. Non aveva

neanche quel minimo di istruzione che tutti i

bambini avevano all’epoca. Mi accorsi più

tardi che non sapeva né leggere né scrivere,


ma era bravissima a fare storie e ad

attaccare briga.

Ma si sa che tra due persone innamorate

tutti i piccoli difetti, per quanto antipatici,

vengono attenuati dal grande affetto. Così,

quando mi resi conto di essere perdutamente

innamorato di Daisy, il cuore divenne più

forte della ragione e alla fine mi abbandonai

all’impeto dell’amore. Perché lei mi

prendeva davvero tanto. E non potevo farci


niente...

Dall’albergo passammo dritti filati al

municipio, dove ci sposammo. Fu allora che

la nostra relazione divenne di dominio

pubblico.

Non eravamo ancora usciti dal palazzo

comunale che la notizia era già dilagata per

tutto il quartiere. Le mie vecchie amiche,

come la signora Magg, la signora Laura e la

signora Martin, ne furono ovviamente


sorprese, ma furono anche le uniche a essere

contente per me. Tutto il resto del vicinato

invece, in prima linea i più pettegoli,

corsero difilato da Mayann.

Cercarono di montarla contro di me

facendole domande del tipo: “Vuoi proprio

permettergli di sposare quella puttana?”

Mayann però (il cielo la benedica)

rispose con tutta calma: “Be’, è mio figlio e

può vivere la sua vita come meglio crede”.


Poi, alzando le spalle, aggiunse : “E se ama

quella donna fino a volerla sposare sono fatti

suoi, e io non posso far altro che benedirli

entrambi. Anzi, farò del mio meglio per

rendere felice sua moglie”.

Bastarono queste parole perché quella

gente cambiasse opinione e quando se ne

andarono erano tutti d’accordo con lei.

Dopo che uscimmo dal Municipio, Daisy

prese il tram e andò a Freetown per fare le


valigie. Io tornai a casa.

Per strada incontrai Black Benny, vestito

in uniforme, che stava fermo a un angolo

della strada. Anche se la guerra era finita

faceva ancora parte dell’esercito, in attesa di

congedo. Era sergente e poteva ancora dare

ordini ai suoi inferiori di grado. A un certo


punto passò un soldato semplice, uno che si

credeva chissà chi e che nella vita civile

aveva sempre fatto del suo meglio per

sfottere Black Benny. Allora, quella volta,


Black Benny aspettò che il soldato gli

passasse davanti e poi gli intimò: “AT-


TENTI!”

Al che il tizio si mise sull’attenti e così

rimase, col braccio alzato, per tutto il tempo

in cui Benny si fece il giro dell’isolato. Alla

fine Benny tornò e disse: “Riposo!”, e il

tizio se ne andò tutto scuro in volto. Ma non

osò mai dire una parola in proposito a

Benny. Perché Benny è un tipo tremendo, ve

lo posso garantire.
Tornato a casa ebbi un colloquio molto

sincero con Mayann. “Figlio mio, sei sicuro

di amare quella ragazza?”, fu la prima cosa

che mi domandò.

“Mamma”, risposi, “in vita mia non sono

mai stato così sicuro di niente come del mio

amore per Daisy. Sono convinto che è

l’unica donna per me”.

“Be’”, disse lei, “sembra però che la sua

istruzione lasci a desiderare”.


“Mamma”, risposi, “che c’entra questo

con il nostro amore? Non dimenticare che io

stesso non sono andato oltre la quinta. Ma le

cose che mi hanno guidato sempre nel corso

della vita sono stati il mio buon senso, il mio

istinto e sapere come trattare gli altri,

rispettando i loro sentimenti. Queste cose me

le hai insegnate tu, mamma, e in fondo finora

me la sono cavata abbastanza bene, no?”

Mayann si strinse nelle spalle. “Penso che


hai ragione, figliolo”. Poi disse: “Fa’ venire

qui tua moglie, voglio conoscerla”.

Col cuore che mi batteva fortissimo, tirai

un grande sospiro di sollievo e dissi: “Oh,

grazie, mamma”.

Il consenso di Mayann era la sola cosa a

cui tenevo. Del parere degli altri non

m’interessava molto.

Abbracciai e baciai la mia cara mamma

con grande affetto e poi corsi da Daisy per


darle la buona notizia, e lei fu felice che

Mayann avesse dato la sua approvazione al

nostro matrimonio a dispetto di tutti i

pettegoli del quartiere.

Per un mesetto io e Daisy c’incontrammo

in vari posti e alberghi perché non avevamo

ancora abbastanza denaro per affittare una

casa per conto nostro. Trovammo poi un

bilocale sopra il negozio di un tappezziere

su Melpomene Street, nella zona di Uptown


a New Orleans. Il posto non era niente di

speciale e per entrare in casa bisognava

passare per delle scale esterne, dalla parte

della stradina laterale. Quando pioveva era

un vero disastro: i rifiuti del tappezziere

proprietario e degli altri inquilini che

abitavano il cortile retrostante, accumulati lì

da secoli, mi rendevano difficile l’accesso

quando tornavo a casa di notte dal lavoro.

Ma in fondo era sempre un angolino tutto


nostro dove potevamo vivere in intimità e

quindi ci adattammo volentieri.

Nel posto in cui vivevamo c’erano due

verande, una davanti e una dietro, ma noi le

chiamavamo “balconi” perché allora non

conoscevamo la parola “veranda”. Stavamo

al secondo piano e il balcone sul retro era

vecchio e cominciava a cedere, e nelle

giornate di pioggia l’acqua ci scorreva come

su una parete.
Una volta pioveva a catinelle e io e Daisy

stavamo nel soggiorno ad ascoltare dei nuovi

dischi della Dixieland Jazz Band originaria

che avevo appena comprato. Suonavamo i

dischi su un vecchio grammofono Victrola di

cui andavamo molto fieri. I dischi erano

“Livery Stable Blues” e il “Tiger Rag”, il

primo “Tiger Rag” registrato su disco. (E

quella versione, rimanga tra noi, è a tutt’oggi

la migliore.)
All’epoca Clarence, il figlio illegittimo di

mia cugina Flora Miles, viveva con noi.

Aveva tre anni e portava ancora le sottanine.

Da noi i bambini andavano vestiti così fino a

che non diventavano grandicelli. Si sa che i

bambini amano gironzolare per la casa e

Clarence non faceva eccezione. In quel

giorno di pioggia – l’acqua cadeva a scrosci

– mentre ascoltavamo i dischi, il bimbo,

rimasto solo in cucina, si divertiva con dei


giocattoli che gli avevo comprato. Non ci

accorgemmo che a un certo punto uscì nel

balcone sul retro, dove pioveva a dirotto.

Tutt’a un tratto udimmo i suoi strilli

acutissimi e accorremmo per vedere cosa

fosse successo. La stanza era vuota e quando

uscii sul balcone mi accorsi con terrore che

il bambino non c’era anche se continuavo a

sentire le sue grida. Guardai giù e vidi

Clarence in lacrime che risaliva la scala


reggendosi la testa. Il balcone era talmente

bagnato che il bambino era scivolato,

ruzzolando di sotto. Qualsiasi altro bambino

molto probabilmente sarebbe morto ma per

Clarence la caduta non ebbe altro effetto che

renderlo un po’ più lento rispetto agli altri

bambini.

Clarence risentì delle conseguenze di

quella caduta per tutta la vita. Consultai i

medici più rinomati. Ma dopo averlo visitato


furono tutti d’accordo che la caduta aveva

menomato le sue facoltà mentali. Rimase

ritardato di quattro anni rispetto ai suoi

coetanei.

Quando fu più grande gli feci frequentare

ogni sorta di scuola. Lo iscrissi persino a

una scuola cattolica, ma dopo parecchi mesi

me lo rispedirono indietro con la solita

diagnosi. Rimasi così schifato da tutti gli

strapazzi ai quali Clarence veniva sottoposto


che decisi di finirla una buona volta e di

occuparmi io stesso della sua istruzione.

Poiché il ragazzo era sempre stato

incredibilmente nervoso e incapace di

lavorare e di guadagnarsi da vivere, ideai

per lui una forma di istruzione che almeno lo

rendesse felice per il resto della sua vita.

Feci in modo di insegnargli le cose

necessarie all’esistenza, come la cortesia, il

rispetto verso gli altri e, non ultimo, un po’


di buon senso. Quando lavoravo o quando

ero in viaggio cercavo sempre di affidarlo a

qualcuno che ne avesse cura. I musicisti, gli

attori – tutti quelli insomma ai quali lo avevo

presentato – lo avevano preso a ben volere,

perché Clarence era tutt’altro che una

“peste”.

Nei giorni in cui non suonavo per Kid Ory

a un funerale, in un corteo oppure per

pubblicizzare qualcosa, andavo al New


Basin Canal e passavo il tempo intorno alle

golette del carbone con altri ragazzi come

me in attesa che gli scaricatori, dopo aver

scelto i pezzi più grossi che mettevano in

sacchi di juta, ci vendessero sottocosto

quelli di scarto. Riempivamo dei sacchi che

portavamo via e rivendevamo in giro a

cinque cents il secchiello. Così mi

guadagnavo da vivere quando sposai Daisy.

Maneggiare e vendere carbone era


senz’altro un mestiere in cui ci si sporcava

molto. Avevo sempre la faccia e le mani nere

e spesso somigliavo ad Al Jolson quando si

metteva in ginocchio per cantare “Mammy”.

Ma questo lavoro e i soldi che guadagnavo

con la musica mi permettevano di vivere

abbastanza bene.

Ogni volta che litigavo con Daisy – cosa

che odiavo – mettevo i miei vestiti e quelli

di Clarence nel sacco del carbone, prendevo


il bambino e mi trasferivo da mia madre con

l’intenzione di rimanerci per sempre. Ma

puntualmente dopo due settimane arrivava

Daisy che si scusava in tutti i modi e

prometteva che non mi avrebbe fatto

arrabbiare mai più e che mi avrebbe lasciato

suonare la mia tromba in santa pace.

Un giorno morì un membro della mia

associazione, il Tammany Social Aid and

Pleasure
Club.

Il

funerale

partiva

dall’angolo tra Liberty e Perdido Street.

Tutti i soci erano tenuti a vestire di nero o di

colori molto scuri, e io avevo avuto la

fortuna di poter ritirare in tempo dal banco

dei pegni il mio abito nero di panno lucido.

Aquell’epoca ricorrere al banco dei pegni


era all’ordine del giorno, e nei momenti di

magra la prima cosa che si faceva era

impegnare roba. Quel giorno con il vestito

recuperato ero uno schianto.

Nel nostro quartiere viveva una ragazza di

nome Rella Martin, con la quale un tempo

avevo filato. Non so come, ma Daisy venne a

sapere di questa ragazza. Non mi disse mai

niente in proposito, ma io mi ero accorto che

c’era qualcosa che non andava dalle scenate


che mi faceva ogni volta che tardavo a

rincasare anche solo di mezz’ora. Erano

scenate tremende che facevano tremare le

pareti e ci insultavamo in tutti i modi

possibili.

Il giorno del funerale, mentre il feretro era

ancora in chiesa, io me ne stavo in un angolo

a parlare con Rella Martin e con un mio caro

amico chiamato Little Head, già mio

compagno alla Fisk School. Era tutta la


mattina che pioveva, le cunette delle strade

erano piene d’acqua e le vie erano colme di

fango. Avevo in testa un cappello Stetson a

tesa larga nuovo nuovo (come quello della

canzone “St. James Infirmary”), il mio bel

completo nero e un paio di scarpe nuove di

vernice: ero proprio scicchissimo. Ce ne

stavamo tutti e tre a parlare del più e del

meno per ammazzare il tempo in attesa di

accompagnare il defunto al cimitero (io ero


uno di quelli che dovevano portare la bara)

quando a un tratto vidi Daisy che veniva

verso di noi. “Uff, guai in vista”, pensai.

“Ragazzi”, dissi, “sta arrivando Daisy”.

Sapevano tutti quanto fosse gelosa. Rella

si eclissò lasciandomi solo con Little Head.

Daisy intanto si avvicinava; non dicemmo

una parola e lei neppure, ma poi, tirato fuori

un rasoio, cominciò a inveire. Presi la fuga.

Ero svelto di gambe e la partenza fu rapida,


ma nel saltare la cunetta mi cadde il

cappello,

il

mio

bellissimo

Stetson.

All’epoca era il cappello per eccellenza e

per comprarlo avevo dovuto spendere tutti i

miei sudatissimi risparmi. Little Head si

stava chinando per raccoglierlo, ma Daisy


gli vibrò una rasoiata per colpirlo alla

schiena. Veloce come un lampo mi seguì

nella fuga.

In un accesso di rabbia, Daisy raccolse da

terra il cappello e cominciò a tagliuzzarlo

col rasoio. Dio mio! Questa cosa mi fece

imbestialire. Stavo per tornare indietro e

fargliela pagare cara, ma gli altri soci del

club mi tennero fermo per le braccia dicendo

che ci avrei rimesso io.


“Sta’ attento, bello. Lei ha un rasoio. Tu

non hai nemmeno un temperino”.

Nel frattempo Daisy, dopo aver fatto a

pezzi il cappello, stava facendo ritorno

verso Uptown. Schiumavo dalla rabbia, ma

feci come mi avevano consigliato i miei

amici e la lasciai andare. Però me la legai al

dito, ero deciso a fargliela pagare cara.

In quel momento il corteo stava uscendo

dalla chiesa al triste bum bum bum della


grancassa. Poi la brass band attaccò “Nearer

My God to Thee” e ci incamminammo verso

il cimitero. Mentre marciavamo (avevo in

testa il cappello di un amico al posto del

mio, ormai a brandelli) rimuginavo sulla

figuraccia che Daisy mi aveva fatto fare di

fronte ai miei amici, i membri del Tammany

Social Club. Il cimitero non era lontano da

casa nostra. Ero così infuriato che dopo la

tumulazione, invece di tornare con gli altri


alla sede del club, me ne tornai dritto casa.

Daisy non c’era. Stava alla finestra di una

sua amica con una decina di mattoni accanto

a sé. Ma io non me n’ero accorto. Proprio

mentre stavo per infilare la chiave nella

toppa, tum! , un mattone colpì la porta.

Spaventato, mi voltai per vedere da dove

arrivava, e con viva sorpresa mi accorsi che

Daisy, bestemmiando come una dannata,

continuava a scagliare mattoni con una


rapidità degna di Satchel Paige. Non potevo

fare altro che abbassare la testa a ogni colpo

in arrivo, finché non fossero esaurite le

munizioni. Dopodiché, lei si precipitò giù

per le scale per sferrare l’attacco. Veloce

come un lampo, mi chinai, raccolsi uno dei

mattoni che mi aveva tirato e poi, prendendo

la mira come un lanciatore di baseball,

glielo scagliai contro. La colpii allo

stomaco. Daisy si piegò su se stessa


gridando: “Mi hai ammazzato! Mi hai

ammazzato!”

Può

darsi

che

abbia

aggiunto

qualcos’altro, ma certo io non ero più lì a

sentirla perché qualcuno nel frattempo (non

mancano mai i soliti zelanti) aveva


telefonato alla polizia per avvertire che un

uomo e una donna si stavano accoppando; e

non sbagliavano certo. Quando sentii in

lontananza la sirena della polizia, filai verso

la staccionata sul retro dell’edificio, la saltai

a piè pari senza neanche sfiorarla e fuggii.

Non curandomi dei fischietti e dei colpi di

pistola che i poliziotti sparavano in aria per

cercare di fermarmi, mi dileguai come un

tacchino in un campo di grano.


Quando la polizia, chiamata per sedare

una rissa, arriva sul posto e trova uno solo

dei contendenti, lo afferra e lo sbatte in

prigione. Lo stesso accadde con Daisy che fu

trascinata via nonostante tutte le sue proteste,

le sue grida e le sue imprecazioni. Non si

rassegnò certo molto facilmente. Fece il

diavolo a quattro e arrivò perfino a dare un

calcio sotto il mento a uno dei poliziotti che

perse allora la calma e col manganello colpì


la piccola creola in testa facendola

sanguinare copiosamente. Daisy non osò poi

dirlo al comandante del posto di polizia

perché, come era uso comune in quel tempo

a New Orleans, quel poliziotto poi

gliel’avrebbe fatta pagare cara all’uscita di

prigione.

Daisy però fece la furba. Dopo tutto il

putiferio che aveva suscitato arrivò in

prigione piangendo come una bimba e con


l’aria più innocente del mondo. Proprio da

vera donna!

Intanto, tornato indietro, mi ero riunito al

corteo funebre. Mi feci prestare un cappello

in buone condizioni da un amico che stava

tra gli spettatori e non pensai più a quello

che Daisy mi aveva fatto a pezzi. All’epoca

chi portava un cappello Stetson era

considerato un pezzo grosso. Un pezzo

grosso secondo gli standard di allora,


s’intende. Per noi poveri giovani musicisti ci

volevano mesi e mesi prima di poter mettere

insieme i quindici dollari necessari per

comprare

uno

di

quei

cappelli.

Desideravamo così tanto averne uno che

cercavamo in ogni modo di risparmiare cent


su cent. Ma non tutti ce la facevano a

comprarselo. Pagavano una serie di rate in

anticipo e poi quando mancava poco a

completare

la

somma,

si

trovavano

improvvisamente a secco, e così il

cappellaio vendeva il cappello a un altro.


Questo per farvi capire il mio risentimento

verso Daisy che aveva ridotto il mio Stetson

in quel modo. Ma come ho detto, riuscii a

dimenticare tutto quando sentii la brass band

che suonava una di quelle meravigliose

marce funebri. Quelle brass band suonavano

le marce funebri con tanto sentimento e tanta

passione che non potevi fare a meno di

commuoverti.

Mentre seguivo il corteo, un tizio mi si


avvicinò e mi diede un messaggio da parte di

Daisy che, pur essendo in stato di fermo, non

aveva ancora avuto una condanna definitiva.

Quell’uomo, per sapere tutte quelle cose,

doveva essere un condannato privilegiato.

Come ho già detto a proposito di Black

Benny, un condannato privilegiato poteva

andare e venire dalla prigione a suo piacere,

il che gli permetteva di guadagnare denaro

facendo commissioni per gli altri prigionieri.


Io gli diedi un paio di dollari e lui mi disse

che Daisy non era stata ancora condannata.

Anche se prima ero arrabbiatissimo con lei,

mi sentii intenerire all’istante e le mandai a

dire di non preoccuparsi, che l’amavo

sempre e che avevo dimenticato tutto.

Fortunatamente in quel periodo lavoravo

ancora sui battelli e il mio principale aveva

un’ottima opinione di me. Sapevo che se gli

avessi chiesto di far uscire Daisy di prigione


lo avrebbe fatto in un battibaleno. Finito il

funerale, restituii al mio amico il suo

Stetson, lo ringraziai e mi precipitai nella

più vicina drogheria. Dovevamo sempre

andare nelle drogherie per telefonare o per

ricevere messaggi.

Cercavo quindi di mantenermi nelle grazie

del droghiere. Mi faceva molto comodo

usare il suo telefono e che mi prendesse i

messaggi, ma ancora più importante era che


avesse una buona opinione di me. Tutte le

comunicazioni sulle serate mi giungevano

per telefono e Tony, Gaspar, Matranga o

Segretta non mancavano mai di riferirmele.

Ciò dimostra che per quanto duro un bianco

possa apparire, c’è sempre un “nero figlio di

buona donna” che gli sta simpatico e cui

vuole bene come fosse un parente.

Quando telefonai al mio principale sul

battello lui chiamò subito il posto di polizia


e fece rilasciare Daisy sulla parola. Quando

uscì, naturalmente io ero lì ad attenderla per

accompagnarla a casa, e notai allora che

zoppicava un poco dalla gamba sinistra.

Sembrava contenta di vedermi e ci

baciammo e facemmo pace. Poi ci

dirigemmo verso la linea del fuoco, dove

cioè mi aveva investito con quella scarica di

mattoni. (Per fortuna aveva una pessima

mira.)
Più ci avvicinavamo a casa più le

riaffiorava il ricordo del nostro litigio.

Vedevo sulla sua faccia i segni di una rabbia

crescente. Io continuavo a tacere, ma alla

fine lei non riuscì più a trattenersi e sbottò


maledicendomi e prendendomi a parolacce.

Disse che l’avevo azzoppata e che voleva

vendicarsi a tutti i costi. Rimasi molto molto

sorpreso, perché credevo che tutto si fosse

sistemato e che avessimo sotterrato l’ascia

di guerra. E poi potevamo considerarci pari.


In fin dei conti era stata lei a ridurre a

brandelli il mio cappello e a minacciare col

rasoio me e il mio amico. Per di più al mio

ritorno a casa mi aveva scaricato addosso

una gragnola di mattoni e di quant’altro le

era capitato a portata di mano.

Così quando sul tram Daisy cominciò a

sgranare quella serie di epiteti, mi dissi:

“Ragazzo mio, ci siamo, tieniti pronto per

un’altra delle scenate di Daisy”. Aogni


parolaccia che mi diceva io le rispondevo

per le rime, colpendola con maggiore

violenza, aggiungendo il “contentino”, come

da ragazzi chiamavamo il regalino di

ringraziamento che ci dava il droghiere

quando i nostri genitori ci mandavano a

saldare il conto. Il “contentino” consisteva in

biscottini o in altra merce di poco valore, e

il venditore aveva il suo tornaconto a darci

un contentino generoso perché così si


assicurava più clienti fra noi ragazzini.

Raggiungemmo l’angolo tra Melpomene e

Dryades Street, vicino a casa, sempre

litigando come pazzi. Quando scendemmo

dal tram, incontrammo un poliziotto in

perlustrazione su quel tratto di strada, che mi

conosceva perché mi aveva visto suonare

con la band di Kid Ory in varie feste di

beneficenza. Invece di riportarci in prigione

si dimostrò molto disponibile nei nostri


confronti.

“Dippermouth”, disse, “vedi di riportare a

casa tua moglie prima che arrivi un altro

agente di polizia e vi sbatta dentro!”

Ero

proprio

contento:

ero

stato

riconosciuto da uno dei poliziotti più


inflessibili. Invece di farmi una lavata di

testa, come di solito fanno i poliziotti, mi

aveva dato un buon consiglio per evitare che

finissi nei guai.

Quando arrivammo nel nostro bilocale, la

prima cosa che feci fu mettere le carte in

tavola e parlare a cuore aperto.

“Senti, Daisy, tesoro mio”, dissi, “queste

continue scenate non ci portano da nessuna

parte. Sono un musicista e non un pugile.


Ogni sacrosanta volta che ti arrabbi cerchi

subito di darmi un pugno in faccia. Finora,

grazie al cielo, sono riuscito a schivare i

colpi, ma ora ne ho fin sopra i capelli, e

credo che sia meglio per tutti e due se ci

lasciamo”.

“Oh no, non mi lasciare”, supplicò Daisy,

scoppiando in lacrime. “Lo sai che ti amo

troppo e che è per questo che sono così

gelosa!”
Come ho già detto, Daisy era totalmente

priva d’istruzione. Le persone ignoranti e

senza istruzione sono sempre gelose,

malvagie e antipatiche. Tutte le circostanze e

tutte le situazioni possono essere considerate

da punti di vista opposti, ma l’ignoranza non

ammette discussione. Succedeva talvolta che

vedendomi parlare sottovoce con qualcuno

Daisy si infuriasse dicendo: “Sono sicura

che avete sparlato di me perché tu mi


guardavi”. Pazzesco, no? Ma solo la perfetta

conoscenza che avevo di lei può giustificare

il fatto che io abbia potuto trascorrere con

quella donna quattro anni in un’altalena di

torture e di felicità.

Per un uomo è indispensabile possedere

un minimo di istruzione se non vuole trovarsi

continuamente in uno stato di inferiorità.

Daisy era del tutto incapace di leggere un

giornale o qualsiasi cosa che potesse


illuminarla. Per sua fortuna era una donna e

per di più anche molto carina. La bellezza è

fondamentale per una donna, sia essa stupida

o no, ed è per questo che rabberciammo alla

meglio i cocci, in modo da tirare avanti

ancora un po’.

All’epoca suonavo accompagnando molti

funerali con la Tuxedo Brass Band diretta da

Oscar (Zost) Celestin, magnifico trombettista

e musicista d’eccezione nonché una delle più


oneste persone di New Orleans. Io ero il

secondo trombettista nella sua brass band.

Sempre a quel tempo il mio carissimo amico

Maurice Durand faceva parte della Excelsior

Brass Band, anch’essa una delle più

apprezzate. La dirigeva il buon vecchio

Mauret che faceva anche da prima cornetta e

sapeva dirigere i suoi musicisti come se

fossero uno stuolo di angeli. Del resto,

trovava in loro la massima corrispondenza,


perché era gente di altri tempi, niente a che

vedere con gli orchestrali d’oggigiorno che

lavorano solo perché non possono farne a

meno e si irritano quando ricevono ordini o

consigli dal leader.

Maurice e gli altri che lavoravano per

Celestin e per il vecchio Mauret si

comportavano in tutt’altro in modo. Io e

Maurice eravamo cresciuti insieme, ma nei

cortei o nei funerali in genere suonavamo in


complessi diversi. Ogni volta che vedevo la

sua orchestra potevo constatare quale

meravigliosa disciplina il vecchio Mauret

sapesse imporre e come i suoi dipendenti lo

apprezzassero. Anche Celestin del resto era

altrettanto benvoluto dai suoi.

E a proposito di brass band eccezionali,

non posso fare a meno di ricordare la super

orchestra che le batteva tutte: la Onward

Brass Band. In occasione della festa del


lavoro o in altre ricorrenze era uno

spettacolo davvero emozionante vedere il

grande King Oliver di Uptown ed Emmanuel

Perez sfilare per le vie suonando “Panama”.

È un ricordo indelebile che, nonostante tutti

gli anni trascorsi, mi piacerebbe rievocare,

parlandone a lungo con Maurice, che ora

vive a San Francisco.

CAPITOLO 11

In quel periodo stavo cominciando a


diventare popolare nella mia cara, vecchia

città. Ricevevo molte offerte di lavoro da

parte di persone che volevano che lasciassi

Kid Ory, ma per qualche tempo nessuna mi

tentò. Un giorno un capo orchestra con i

capelli rossi, un certo Fate Marable, venne a

trovarmi. Da più di sedici anni lavorava sul

piroscafo Sydney adibito a gite di piacere;

era un bravissimo pianista e suonava anche

la calliope, un organo a vapore, sul ponte di


coperta. Quando il battello stava per mollare

gli ormeggi e risalire il Mississippi per

compiere una delle solite gite serali, Fate

sedeva alla tastiera della calliope e vi

batteva sopra furiosamente fino quasi a

spezzarla. Era senza dubbio un gran

musicista.

Quando mi propose di far parte della sua

orchestra,

presi
subito

quell’ottima

occasione al volo. Ciò comportava un

notevole avanzamento nella mia carriera

musicale perché tutti i componenti dovevano

saper leggere la musica alla perfezione.

Quelli di Ory non erano in grado. Mi accorsi

in seguito che Fate Marable disponeva di

buoni jazzisti, proprio come Kid Ory, con la

differenza che i suoi erano più abili perché


sapevano leggere la musica e sapevano

improvvisare. Avevano un vasto repertorio

ed essendo capaci di leggere a prima vista

potevano eseguire brani di attualità. Dopo

l’esperienza con King Ory si era in grado di

afferrare rapidamente un motivo per poi

ripeterlo anche meglio degli altri, ma io

potevo fare assai di più che non carpire frasi

melodiche qua e là, perché la musica è molto

più che questo. Così non ci pensai sopra due


volte e passai nell’orchestra del Sydney.

Di questa faceva parte David Jones, che

suonava il mellophone. Proveniva da una

compagnia di giro che aveva fatto tappa a

New Orleans, ma era un bravo musicista dal

timbro morbido e melodioso, dotato anche di

grande abilità nell’improvvisazione. Voglio

ricordarlo in modo particolare perché tra

una gita e l’altra si prese la briga di

insegnarmi a leggere la musica. Imparai


assai rapidamente. Br’er Jones, come in

seguito presi a chiamarlo, mi insegnò come

adattarmi a ogni nuovo arrangiamento

musicale senza dover aspettare in un angolo,

con la mia cornetta in mano, che Joe Howard

suonasse per primo il pezzo e poi me lo

passasse. Ero già capace di afferrare

rapidamente un motivo e anche di leggere un

po’ le note, ma non in maniera soddisfacente

per la band di Fate Marable.


Fate sapeva benissimo tutte queste cose

quando mi prese a lavorare con sé, ma gli

piaceva il mio timbro e il fatto che afferrassi

le cose al volo. Essendo un musicista

esperto, capiva che stando insieme a

esecutori capaci di leggere la musica avrei

imparato

automaticamente

anch’io.

In
pochissimo tempo fui in grado di decifrare

tutto quello che mi metteva davanti. Fate,

come capo orchestra, era capace di imporre

ai suoi musicisti un pezzo di musica difficile

per prenderli alla sprovvista. Mentre i

ragazzi uscivano a fumare una sigaretta, lui

scorreva la musica e dopo averla assorbita

batteva un piede a terra e diceva: “Ehi,

ragazzi, eccovi le vostre parti”.

Dopo averle distribuite batteva di nuovo


il piede a terra.

“Cominciamo”, diceva.

Allora noi ci davamo da fare a leggere

all’impronta, ma prima che fossimo in grado

di suonare la parte che ci spettava lui era già

capace di eseguire la sua senza dover

leggere. Era una cosa spettacolare. Fate era

davvero un musicista con i fiocchi. Sfidava

tutti a suonare pezzi più difficili di quelli che

suonava lui. Nell’ambiente musicale di New


Orleans era tenuto in gran considerazione.

Aveva vissuto i bei tempi di Storyville,

giocando anche a carte nella bisca del

Twenty-Five con protettori e ladruncoli.

Aveva fatto delle jam session straordinarie

con i migliori pianisti di quei tempi, come

Jelly Roll Morton, Tony Jackson, Calvin

Jackson, Udell Wilson, Arthur Camel,

Frankie Heinze, Boogus, Laurence Williams,

Buddy Christian, Wilhelmina Bart Wynn,


Edna Frances e molti altri grandi dell’epoca.

E si era sempre fatto onore.

Aveva un modo tutto particolare di trattare

i suoi orchestrali. Se uno di noi commetteva

un errore o eseguiva male una parte di un

brano musicale, non diceva nulla, tanto che

nessuno ci pensava più, ma il giorno dopo,

quando ci rimettevamo al lavoro, un

po’intontiti per la sbronza della notte

precedente, tirava fuori lo spartito e quello


che aveva eseguito male il brano doveva

ripeterlo davanti agli altri. Posso garantirvi,

miei cari, che non era affatto una cosa

piacevole fare una figuraccia di fronte ai

colleghi se l’errore veniva ripetuto. Noi

chiamavamo questa dura prova la nostra

Waterloo. Con questo metodo Fate riusciva a

costringere i suoi musicisti a riposare per

bene di modo che la sera successiva fossero

in grado di eseguire alla perfezione la loro


parte. Con questo sistema ho imparato molto

e ancora oggi lo ritengo un metodo

psicologicamente efficace.

Quando per il piroscafo Sydney venne il

momento di lasciare New Orleans, Fate

Marable mi trattò assai diplomaticamente.

Sapeva che fino ad allora non avevo mai

lasciato la città se non per andare in piccoli

centri della Louisiana come Houma, West

Wego, La Blaste (la cittadina di Ory) e altri


posti simili. Lui ci teneva veramente tanto ad

avermi nella sua band. I musicisti più

anziani, che adoravano “Little Louis”, gli

dicevano che stava perdendo tempo a

cercare di persuadermi ad abbandonare la

città, ma lui ci riuscì con una tattica tutta sua.

Sapeva che mi trovavo benissimo nella sua

magnifica orchestra, dove avevo modo di

suonare molta musica che fino allora non

conoscevo neanche, e dove potevo ottenere


tutte quelle soddisfazioni che nella mia

ambizione giovanile avevo sempre sognato.

Fu infatti in quell’orchestra che divenni in

seguito una figura di primo piano. Non

dimenticherò mai gli applausi che il

pubblico mi tributava.

Con David Jones, che mi insegnò a

leggere la musica, e sotto la rigida direzione

di Fate, non pensavo assolutamente di

abbandonare l’orchestra. Vero è che ero


stato assunto per un periodo di prova, o

meglio, come si dice oggi, si trattava di una

specie di “provino”. Le cose si mettevano

insomma tanto bene per me che non appena

Fate mi fece la sua proposta risposi di sì con

una rapidità tale che lui non poteva credere

alle sue orecchie.

Quella sera, quando il piroscafo attraccò

dopo la gita serale, filai direttamente da

Daisy per darle la notizia, sicuro che


sarebbe stata contenta del mio passo avanti

nella carriera. E invece lei mi guardò con

disgusto come se l’unico scopo della mia

partenza da New Orleans fosse quello di

liberarmi di lei. Che doccia fredda! Poi,

mentre continuavo a magnificarle la mia

fortuna, mi fece un sorrisetto melenso e mi

diede un bacio forzato.

“Parti e mi lasci tutta sola?”, chiese.

“Be’, Daisy cara”, dissi, “devi capire che


questa è l’unica opportunità che mi si

presenta di fare quello che ho sempre voluto

fare nella vita. Se rifiutassi adesso questa

offerta, come ho fatto per tutte le altre, finirei

per fossilizzarmi qui, senza speranza”.

Quando infine ricorsi al vecchio detto

secondo il quale “la fortuna bussa alla porta

una volta sola”, il viso di lei s’illuminò.

“Capisco, tesoro”.

Poi mi baciò con vero trasporto. E tutto


tornò a posto.

All’epoca ero troppo giovane e avevo

pochissima esperienza e solamente quando

raggiunsi Saint Louis seppi che avrei potuto

benissimo portare Daisy con me.

Poco prima della partenza andammo

insieme a Canal Street per fare compere con

il denaro che mi era stato anticipato sul mio

salario. Era la prima volta che mi capitava

una cosa del genere. Gli unici anticipi che


spettavano a noi musicisti a quei tempi erano

le cauzioni per le serate che facevamo. Le

uniche persone a riscuotere quel denaro,

però, erano l’impresario o il capo del nostro

complesso. Io non firmavo contratti per quel

genere di cose, perché chi se ne occupava

era Joe Lindsey, il nostro batterista, che si

teneva sempre il deposito. Io e tutti gli altri

eravamo

così
ingenui

che

non

ci

accorgevamo di nulla. Ci bastava poter

suonare e il resto non aveva importanza.

Sentivamo parlare di denaro anticipato

solo quando non si riusciva a soddisfare tutti

gli impegni in una sola notte. Allora quelli

che avevano dato l’anticipo insistevano


perché Joe restituisse il danaro. Da veri

imbecilli noi prendevamo le parti di Joe e

suonavamo un altro giorno. New Orleans era

famosa per questo genere di cose. In fatto di

denaro, facevano tutti così, a cominciare dai

più importanti capi orchestra come Buddy

Bolden, Joe Oliver, Bunk Johnson, Freddie

Keppard ed Emmanuel Perez, fino ai ragazzi

della mia età.

Questa è una delle ragioni per le quali non


ci ho mai tenuto più di tanto a diventare

leader di una band, si finiva sempre per

litigare su miserabili questioni di soldi.

Quello che mi interessava era suonare in

pace e basta, come del resto faccio anche

adesso. Ho sempre notato che il capo di una

band non deve solamente darsi da fare per

accontentare il pubblico, ma deve anche

preoccuparsi dei guadagni.

Quando entrai a far parte della Marable


Band, oltre a Fate e Joe Howard, l’orchestra

era composta da Baby Dodds alla batteria,

George (Pops) Foster al contrabbasso,

David Jones al mellophone, Johnny St. Cyr

al banjo, Boyd Atkins al violino e un altro

elemento di cui non ricordo il nome.

Qualsiasi ragazzo appassionato di musica

sarebbe stato felice di poter suonare con

loro, anche tenuto conto di quanto costavano

le lezioni che prendevamo. Non sempre i


nostri genitori erano in grado di pagare i

cinquanta cents per una lezione. Aquei tempi

la vita era dura a New Orleans e ti potevi

dire fortunato se riuscivi a mangiare,

figuriamoci quindi avere i soldi per le

lezioni. Per farsi strada bisognava veramente

amare la musica anima e corpo.

I proprietari dei battelli a vapore

Streckfus erano quattro fratelli, Vern, Roy,

Johnny e Joe. Il capitano Joe, il più anziano,


era anche il capo, senza il minimo dubbio.

Tutti e quattro erano ottime persone e mi

trattavano

benissimo.

La

mia

prima

impressione fu che tutti avessero paura del

capo, il capitano Joe. Avevo sentito parlare

spesso del suo caratteraccio, per cui quando


debuttai sul piroscafo Sydney a mala pena

riuscivo a suonare, ma lui mi mise subito a

mio agio. Comunque era uno che pretendeva

che a bordo tutti facessero sempre il proprio

dovere. Quando sapevamo che sarebbe

venuto a bordo, tutti, compresi i musicisti, si

davano da fare perché trovasse ogni cosa

linda e pulita. Gli piaceva il nostro modo di

suonare e spesso rimaneva in piedi dietro il

palco e sorrideva soddisfatto. Avolte ci


richiedeva anche qualche pezzo e noi

facevamo l’impossibile per accontentarlo.

Il capitano Joe si divertiva un mondo

quando Baby Dodds, il nostro batterista, si

dimenava come un pazzo eseguendo i suoi

rimshot. Spesso sulla nave si fermavano tutti


a guardarlo. Anche in seguito, quando lasciai

il suo battello per lavorare altrove, il

capitano Joe con la moglie e tutta la famiglia

venne spesso ad ascoltarmi.

Il capitano Vern, per il sorriso e l’aspetto,


ricordava Stan Laurel, il mio comico

cinematografico preferito. Già fin dal nostro

primo incontro mi accolse con un sorriso

così amichevole che mi sembrò di

conoscerlo

da

sempre

conservai

quell’impressione finché rimasi sul suo


battello. Tutti coloro che lavoravano sui

piroscafi della compagnia di navigazione

Streckfus, ed erano molti, se la passavano

bene.

Durante l’ultima settimana della mia

permanenza a New Orleans, mentre facevo i

preparativi per risalire il fiume fino a Saint

Louis conobbi un simpatico ragazzo bianco

di nome Jack Teagarden. Era venuto a New

Orleans da Houston, Texas, dove aveva fatto


parte di un complesso diretto da Peck Kelly.

La prima volta che lo sentii suonare il

trombone mi venne la pelle d’oca: in tutta la

mia vita non avevo mai sentito nulla di così

entusiasmante.

Jack

conobbe

tutti

componenti
della

mia

orchestra.

Naturalmente incontrò anche il capitano Joe,

che essendo un grande appassionato di

musica apprezzava tutti i buoni musicisti e li

ingaggiava per farli suonare su uno dei suoi

battelli. Così le più celebri orchestre, sia di

musicisti bianchi che di musicisti neri,

davano lustro ai palcoscenici delle sue


imbarcazioni. Dopo quel primo incontro non

rividi Jack Teagarden per molti anni, ma mi

arrivavano sempre notizie sue e dei suoi

continui progressi. Fin dal primo incontro

siamo stati sempre sulla stessa lunghezza

d’onda, musicalmente parlando.

Giunse infine per me il momento di

abbandonare la mia cara città natale per

viaggiare avanti e indietro sul pigro

Mississippi suonando la cornetta di città in


città. L’orchestra di Fate Marable merita un

plauso per aver rotto una serie di barriere

lungo le rive del Mississippi, barriere

imposte dalla segregazione razziale. Nella

maggior parte delle città in cui facemmo

tappa, specialmente nelle più piccole,

eravamo la prima orchestra di colore che

avesse mai suonato. I bianchi non erano

abituati a vedere gente di colore che

suonasse la tromba per farli ballare.


All’inizio dovevamo subire umiliazioni e

anche ingoiare commenti offensivi mentre

eravamo sul palco a suonare. Molti di noi

venivano dal Sud e ciò significa che

eravamo

abituati

quel

genere

di
trattamento, per cui continuavamo a suonare

come se niente fosse. Ma prima che la serata

fosse finita, ci adoravano e ci riempivano di

complimenti, chiedendoci di tornare presto a

suonare per loro. Non dimenticherò mai il

giorno in cui partii da New Orleans con il

treno diretto a Saint Louis per raggiungere il

piroscafo Saint Paul. Era la prima volta che

facevo un viaggio così lungo in treno. Non

sapevo cosa dovessi portare con me e tanto


meno lo sapevano mia moglie e mia madre.

Per il pranzo Mayann andò da Prat, un

ristorante creolo, e acquistò un gigantesco

panino con il pesce e un barattolo di olive

verdi. David Jones, il suonatore di

mellophone, viaggiava con me. Era uno

sputasentenze che credeva di saperla lunga, e

per

quanto

vedesse
che

ero

un

po’sprovveduto, non fece nulla per rendermi

il viaggio piacevole. Era più grande di me

ed erano anni che viaggiava, da quando io

portavo ancora i calzoni corti, al seguito di

compagnie teatrali e di circhi.

Quando arrivammo a Galesburg, Illinois,

dovevamo cambiare treno e io scesi, con le


braccia cariche di tutto il ciarpame che mi

ero portato dietro. Oltre alla cornetta, avevo

una valigia talmente malridotta che sembrava

appartenere all’epoca in cui Washington

aveva attraversato il fiume Delaware. In

quella sacca (così si chiamavano allora le

valigie) Mayann aveva messo tutti i vestiti

che avevo lasciato a casa mia per via delle

continue scenate di Daisy. Era così colma di

roba che non c’era posto per il grosso


barattolo di olive e dovevo perciò portarlo

insieme col panino in una mano mentre con

l’altra reggevo la cornetta e la sacca. Che

viaggio d’inferno!

Il capotreno passò lungo il corridoio

gridando: “Scendere per Galesburg”. Poi

aggiunse una sfilza di nomi che non mi

dicevano niente. Ma appena aggiunse: “Si

cambia treno per Saint Louis”, drizzai le

orecchie.
Ero così agitato che quando agguantai il

mio bagaglio il tappo del barattolo di olive

si svitò a metà. Avevo le braccia cariche, ma

riuscii ugualmente a raggiungere il binario.

La stazione era affollata di gente che andava

e veniva e David Jones, che aveva avuto

l’ordine di badare un po’ a me, faceva

tutt’altro. Era scocciatissimo. Si comportava

come se io fossi stato un qualunque ragazzo

di colore che lui neanche conosceva. Era


questa l’impressione che voleva dare alla

gente in stazione. Aun tratto sbucò da dietro

l’angolo un lungo treno che a me sembrava

andare a tutta velocità. Nella foga di

accaparrarsi il posto qualcuno mi urtò,

facendo schizzare via il barattolo che si

ruppe in mille pezzi, mentre le olive

rotolavano per tutto il marciapiede. David

Jones si allontanò in fretta senza neppure

voltarsi. Rimasi molto male per quelle olive


che erano buonissime, ma quando riuscii a

salire sul treno mi restava sempre il panino

di pesce. Eh già, almeno quello ero riuscito

a salvarlo.

Aquel punto ero proprio infuriato con

Br’er Jones. Andai dritto da lui e gli dissi il

fatto suo. Fra l’altro, gli feci notare che non

era il caso di darsi tante arie. Non gli rivolsi

più la parola fino a Saint Louis. E lì fu lui a

fare una figuraccia. Faceva molto freddo e si


era messo il cappotto e aveva tenuto in testa

il cappello di paglia. A sentire le risate della

gente che lo vide scendere dal treno, mi

buttai per terra sbellicandomi anch’io. Poi

mi resi conto che la sua figuraccia superava

di gran lunga la mia e allora mi fece un

po’pena. Però, era un uomo navigato, certe

cose doveva saperle. E certo non poteva

prendersela con me perché avevo riso, visto

come s’era comportato lui con me. Alla fine


diventammo buoni amici e fu allora che

incominciò a insegnarmi a leggere la musica.

La sera del mio arrivo rimasi meravigliato

alla vista di Saint Louis e dei suoi edifici

altissimi. Non ne avevo mai visti di simili

nella mia città e non riuscivo a immaginare a

cosa potessero servire. Avevo un gran

desiderio di chiederlo a qualcuno, ma

temevo di fare la figura dello scemo.

Finalmente,
mentre

stavamo

tornando

all’albergo, presi il coraggio a due mani e

chiesi a Fate Marable:

“Cosa sono tutte quelle costruzioni così

alte? Sono delle università?”

“Ehi, ragazzo”, rispose Fate, “ma sei

proprio scemo!”

Allora mi resi conto che avrei dovuto


seguire il mio primo istinto e tenere il becco

chiuso.

CAPITOLO 12

Con l’andare del tempo cominciai ad

acquisire una certa esperienza. Imparai

molte cose sulla vita e sulle persone

giocando

dadi

con
i

camerieri,

l’equipaggio, i musicisti e con chiunque

giocasse d’azzardo. Qualche volta, dopo

aver lasciato il palco, giocavamo per tutta la

notte, a volte addirittura fino alla sera

seguente. Qualche volta mi capitava di

vincere, ma di solito perdevo. I camerieri

erano delle vecchie volpi, come anche gli

uomini dell’equipaggio e i musicisti, del


resto. Naturalmente mi dispiaceva perdere,

ma siccome non ero mai stato abituato ad

avere un sacco di soldi, anzi, non ce li avevo

proprio, quando perdevo non me la prendevo

poi più di tanto, come facevano invece i miei

compagni più esperti.

Appena riscossa la paga, non sapendo

come spenderla meglio, acquistavo nei bazar

da cinque e dieci cents un mucchio di

paccottiglia che avrei regalato ai bambini


del quartiere al mio ritorno a New Orleans.

Non dovevo preoccuparmi per Daisy né per

mia madre, perché entrambe avevano ottimi

lavori. Mia sorella Beatrice viveva in

Florida con suo marito. Era operaia in una

segheria, e quindi poteva fare a meno del

mio aiuto. Così tra uno stipendio e l’altro

spendevo e spandevo. Ero il più felice tra i

giovani musicisti della terra.

Quando entrai a far parte dell’orchestra di


Fate pesavo solamente una sessantina di

chili. Un giorno, dopo aver gozzovigliato più

del solito ed essermi beccato un raffreddore

coi fiocchi, chiesi a David Jones di

consigliarmi una cura.

“Compra una bottiglia di Emulsione Scott,

e prendine regolarmente finché non ti passa”.

Così feci e dopo una settimana aumentai

sensibilmente di peso. Sta di fatto che al mio

ritorno a New Orleans dovetti comprare un


paio di calzoni enormi, e da allora non sono

più tornato al mio peso forma. Certo è che

comunque mi liberai del raffreddore.

Durante un’escursione di un giorno sul

Saint Paul accadde un fatto strano. Il

battello era stipato di gente e l’orchestra

suonava all’impazzata. Nel tratto fra Alton e

Quincy un ragazzino bianco scommise con i

suoi amici che si sarebbe buttato. E infatti si

buttò.
Gli

uomini

dell’equipaggio

cominciarono a gridare: “Uomo in acqua!

Uomo in acqua!” Tutti affluirono incuriositi e

sporgendosi dal parapetto fecero inclinare

pericolosamente il battello. Da tutte le parti

sbucava gente terrorizzata che non si rendeva

bene conto di cosa stesse succedendo. Ci fu

il panico. Noi musicisti eravamo sul palco e


suonavamo come dei matti e il capitano si

precipitò da noi gridando: “Continuate a

suonare! Continuate a suonare!” E noi, con

quanto fiato avevamo in corpo, attaccammo

“Tiger Rag” e alla fine quasi tutti si

calmarono.

Il ragazzino, che sapeva nuotare bene,

stava per raggiungere la sponda opposta del

fiume, quando fu raggiunto dalla lancia

inviata dal capitano. Quello non ne voleva


sapere proprio di tornare a bordo, lottò con

l’equipaggio e ci volle tutta l’energia dei

marinai per tirarlo a bordo. Per assistere a

quella scena, i passeggeri si affollarono di

nuovo tutti da un lato facendo inclinare

un’altra volta il battello. “Continuate a

suonare! Continuate a suonare!”, urlava il

capitano. Finalmente il ragazzino fu issato a

bordo e rinchiuso in una cabina. Il capitano e

alcuni uomini dell’equipaggio avrebbero


voluto dargliele di santa ragione, ma in

fondo era solo un bambino, e si limitarono a

farlo arrestare al nostro arrivo a Saint Louis.

Durante quelle gite, a bordo scoppiavano

spesso liti violente che venivano sedate dai

membri dell’equipaggio; ma noi orchestrali

non intervenivamo mai. Eravamo gente di

colore e sapevamo cosa voleva dire. Non ci

era permesso stare in mezzo ai passeggeri

bianchi per nessun motivo al mondo. Il


nostro compito era quello di suonare bene

per loro e basta. Comunque piacevamo a

tutti. Tutti apprezzavano la nostra musica e ci

trattavano come dei principi. Io e alcuni dei

miei colleghi venivamo dal Sud, certe cose

le sapevamo e non ce la prendevamo più di

tanto. Ho sempre amato i bianchi che ho

conosciuto e ho sempre visto che anche loro

mi amavano e apprezzavano la mia musica.

Non ho mai avuto problemi da questo punto


di vista, ho riscosso solo rispetto e stima.

Più di una volta persone bianche hanno

invitato me e i miei ragazzi a casa loro

offrendoci ottimi pranzi: non sono mai

mancati i più fini liquori, liquori da leccarsi

le labbra e che non avrei mai potuto

permettermi il lusso di acquistare.

Ho sempre avuto la fortuna di lavorare

con musicisti che non bevevano molto

quando dovevano suonare. Eccessi in questo


senso possono dar luogo a gravi seccature,

come ho potuto constatare proprio all’inizio

della mia carriera. Non avevo la minima

idea degli effetti che può produrre una notte

di sbornie. Avevo appena diciassette anni

quando i miei amici mi portarono a casa da

Mayann ubriaco fradicio. La mamma non se

la prese troppo, anche se mi sentivo

malissimo. Ma dopo avermi avvolto la testa

in un panno imbottito di pezzetti di ghiaccio


mi mise a letto. Poi mi fece prendere una

bella purga e disse a quelli che mi avevano

accompagnato di andare a casa.

“La purga lo ripulirà come si deve e dopo

che si sarà imbottito la pancia con uno dei

piatti che so preparare io, domattina sarà più

in gamba di prima”.

E andò proprio così.

Mia madre sapeva sempre cosa fare

quando si trattava di curare la gente, anche


nei casi più seri. Era originaria di una

cittadina della Louisiana chiamata Butte. I

suoi genitori erano nati schiavi e lei era

sempre stata povera. Mio padre era un

operaio

senza

nessun

tipo

di

specializzazione e non aveva mai avuto il


becco di un quattrino. I genitori di Mayann

non potevano permettersi il lusso di

chiamare un medico e quando uno dei figli si

ammalava andavano a raccogliere le erbe

lungo i binari della ferrovia. Poi le facevano

bollire e ottenevano decotti da bere o

cataplasmi da mettere addosso. Credetemi,

queste cure avevano effetti magici. Il bimbo

malato guariva in un battibaleno ed era

pronto a riprendere la sua vita normale.


Mi vergognavo tantissimo che Mayann mi

avesse visto ubriaco e chiesi scusa diverse

volte.

“Figliolo”, disse, “tu devi vivere la tua

vita. E inoltre dovrai affrontare il mondo da

solo. Devi fare ogni genere di esperienza per

saper distinguere il bene dal male. Non

posso insegnartele io certe cose, devi

impararle da te, perché nessuno può

giudicare meglio quello che potrà o meno


convenirti nella vita. Non voglio farti il

processo per qualche bicchierino di troppo.

Tua madre beve quanto le pare e piace e

talvolta prende anche qualche sbornietta.

Solo, io so fermarmi prima di arrivare a

sentirmi troppo male”.

E poi mi disse come mi sarei dovuto

comportare

qualora

avessi
sentito

nuovamente l’esigenza di bere. Non volle

che le promettessi di non bere più, perché

ero ancora troppo giovane per prendere una

decisione simile.

“Figliolo”, aggiunse, “ancora non conosci

te stesso e non puoi neppure sapere ciò che

in seguito ti piacerà fare. Senti un po’: e se

noi due una bella sera facessimo il giro di

tutti i locali notturni? Potrei insegnarti così


come si beve davvero”.

“Sarebbe bello, mamma”, dissi. “Sarebbe

fantastico andare in giro a divertirmi con mia

madre!”

All’idea di accompagnare una signora nei

migliori locali notturni della zona mi sentivo

proprio un vero uomo. Per tutta la settimana,

mentre ero al lavoro, non feci che pensare

alla notte di bisboccia con Mayann che mi

avrebbe insegnato a reggere l’alcol.


Finalmente arrivò quella sera, e io avevo

anche un sacco di soldi. Le prostitute ricche

che frequentavano il locale dove suonavo ci

davano mance generose perché suonassimo i

loro pezzi preferiti o quelli preferiti dai loro

amici. A volte queste prostitute chiedevano

ai loro clienti di darci i soldi per principio,

per il gusto di fargli spendere il denaro che

non potevano spillargli direttamente. Un po’

lo facevano per questo motivo, ma un po’


anche perché ci volevano bene.

La sera in cui io e mia madre uscimmo a

fare bisboccia andammo prima di tutto al

Savocas tra Saratoga e Poydras Street, che

era anche il quartier generale e il luogo di

paga degli scaricatori di banane sulla

banchina fluviale. Spesso anch’io avevo

fatto la fila dopo aver lavorato su quei

battelli. E spesso, dopo aver intascato i

soldi, andavo direttamente in una bisca dove


li perdevo fino all’ultimo centesimo. Ma non

me ne importava niente. L’unica cosa che

m’interessava

era

stare

insieme

ai

ladruncoli, i magnaccia e i musicisti. Mi

piaceva il loro modo di parlare.

Il Savocas era noto per essere uno dei


locali notturni più equivoci, ma io ero nato

in quel quartiere e la sua reputazione non mi

preoccupava per niente. Tutti conoscevano

me e mia madre. Mayann era stata la

lavandaia e la stiratrice di prostitute e

ruffiani, tutta gente che pagava bene. Il

sabato sera i protettori, per distinguersi, si

mettevano la giacchetta e la salopette: la

giacchetta era una specie di giubbotto blu, la

salopette è quella che più comunemente


chiamiamo tuta da lavoro. Erano convinti

che quel genere di abbigliamento portasse

fortuna a loro e alle loro puttane.

Quando

esercitavano,

le

prostitute

indossavano vestiti cortissimi e le migliori

calze di seta, per mettere in mostra le gambe

belle e ben tornite. Io ero benvoluto da tutte


perché ero giovane e simpatico e anche

perché sapevo suonare i loro blues preferiti.

Quando i loro affari andavano bene,

entravano nel locale alle ore piccole e

andavano

dritte

verso

il

palco

dell’orchestra. Appena le vedevo entrare


con la coda dell’occhio, dicevo subito a

Boogus, il pianista, e a Garbee, il batterista,

di tenersi pronti per una bella mancia. Allora

Boogus attaccava un blues e le ragazze

lanciavano grida entusiastiche.

Più tardi, quando durante il breve

intervallo scendevo dal palco, la prima

ragazza alla quale passavo vicino mi diceva:

“Vieni qua, siediti in braccio a me, figlio di

buona donna che non sei altro”. Be’, potete


immaginare l’effetto che una cosa del genere

aveva

su

un

ragazzetto

come

me.

Eccitatissimo e arrossendo fino alla radice

dei capelli mi dicevo: “Sei troppo giovane

per sapere anche solo vagamente come si


soddisfa una donna esperta come quella. Lei

è abituata ad avere il meglio di ogni cosa.

Perché ha scelto me? Lei ha a disposizione i

migliori protettori che ci siano!” (Di fronte

ai protettori sentivo sempre un complesso di

inferiorità.)

Avevo paura delle prostitute, ancora

memore di quella che aveva tirato fuori il

coltello e mi aveva ferito alla spalla. Eppure

le puttane continuavano a darmi la caccia e


devo ammettere che qualche volta, specie se

erano belle, finivo per farmi acchiappare.

Ma torniamo alla sera in cui io e Mayann

uscimmo a spassarcela. Dopo aver fatto una

capatina al Savocas andammo da Spanol,

subito dietro l’angolo, e appena entrati tutti


ci salutarono calorosamente.

“Che fine avevi fatto?”, dissero a Mayann.

“Ma che piacere rivederti”.

Poi gridarono: “Mamma e figlio vanno per

locali, stasera. Questo significa buona


fortuna”.

“Dammi una carta per venti dollari”, gridò

al biscazziere uno dei giocatori più abili,

“stasera mi sento fortunatissimo”.

Quella sera io e mia madre non riuscimmo

a spendere molto: tutti facevano a gara a

riempirci lo stomaco di whisky. Era la prima

volta che ci vedevano insieme.

Mia madre continuava a spiegarmi come

bisognava fare per reggere l’alcol. Io


ascoltavo tutto attentamente e rispondevo:

“Sì, mamma”, a tutti i consigli che mi dava.

Volevo imparare il più possibile. Nel locale

in cui lavoravo, il mio capo, Henry

Matranga, ci invitò a bere qualcosa, offerto

dalla casa.

“Suo figlio è un gran bravo ragazzo”,

disse a Mayann. “I miei clienti gli vogliono

molto bene. Siamo tutti convinti che un

giorno diventerà un ottimo musicista. Ci


mette veramente il cuore, quando suona”.

Mayann gonfiò il petto d’orgoglio.

“Ringrazio Dio”, disse. “Non ho mai avuto

la possibilità di dargli quell’istruzione che

meritava. Fin da quando era bambino ho

capito che aveva del talento, ma non potevo

fare altro che pregare Dio che lo guidasse e

lo aiutasse, e a quanto pare sono stata

esaudita. Se sono orgogliosa di mio figlio?

Eccome se lo sono! E mille grazie a lei,


signor Matranga, per averlo fatto suonare nel

suo locale pur sapendo che non aveva ancora

abbastanza

esperienza.

Il

Signore

la

ripagherà per essere stato così buono con

lui. Io la ricorderò ogni sera nelle mie

preghiere. Con tutto il tifo che fate tutti per


lui, Louis non può non farcela”.

Proprio allora, Slippers, il buttafuori,

entrò nel bar gridando: “Ehilà Mayann!

Come mai ti dai alla pazza gioia, stasera?”

Quando lei gli spiegò che stavamo

facendo il giro di tutti i locali, disse che era

la cosa più spassosa che si potesse

immaginare e volle offrirci da bere a tutti i

costi.

A questo punto io e mia madre


cominciavamo a essere piuttosto sbronzi, pur

non avendo ancora visitato la metà dei

locali. Ma avevamo stabilito di passarceli

tutti ed eravamo decisi a non rinunciare al

nostro proposito. E poi ci divertivamo un

mondo a incontrare persone che ci volevano

bene e che parlavano la nostra stessa lingua.

Sapevamo di essere fra la nostra gente e

questo era ciò che contava. Il mondo esterno

non aveva alcuna importanza.


Slippers, che avrebbe dovuto trovarsi

nella saletta per tenere d’occhio i clienti

irrequieti, si trattenne invece al bar con noi e

continuò a tessere le mie lodi per come

suonavo la mia quaglia.

“Mayann”, diceva, “questo figlio tuo

dovrebbe proprio andare al Nord per

suonare con i migliori trombettisti”.

“Grazie,

Slippers”,
rispondeva

lei,

mandando giù un altro bicchiere e

balbettando leggermente. “Grazie, Slippers.

Tu lo sai... io sono orgogliosa di questo

ragazzo. Lui è tutto quello che possiedo. Lui

e sua sorella, Mama Lucy. Certo quel buono

a nulla di loro padre non si è mai curato dei

due figli. Per fortuna hanno avuto dei buoni

patrigni. Se non fosse stato per loro, non so


cosa ne sarebbe stato di questi poveretti”.

E giù un altro bicchiere. Fu allora che

qualcuno dalla saletta nel retro gridò:

“Slippers, Slippers, corri, c’è una carogna di

forestiero che non vuole saldare i debiti”.

Con un balzo Slippers si precipitò nel

retro e in men che non si dica agguantò quel

tipo per il fondo dei calzoni spingendolo

verso l’uscita. Poi gli sferrò un pugno sul

muso e disse: “Vattene, brutto negro bastardo


e non farti più vedere”.

E finiva sempre lì. Nessuno avrebbe mai

osato ribellarsi a Slippers, perché ci sapeva

fare sia con la pistola che con i pugni.

Sapeva combattere, lealmente o meno, a

seconda delle preferenze della vittima di

turno. In fondo, era una gran brava persona e

gli volevo bene come a un padre. Quando mi

trovavo vicino a persone come lui o Black

Benny provavo un gran senso di sicurezza e


la loro compagnia era quanto di meglio

potessi desiderare.

Dopo che quel tizio fu scaraventato fuori

finimmo di bere. O almeno ce la mettemmo

tutta per arrivare a finire perché i bicchieri

erano allineati sul tavolo come soldati.

Salutammo Matranga e tutti gli altri e

riprendemmo il nostro allegro itinerario

diretti da Joe Segretta a Liberty e Perdido, la

via che divenne poi così celebre che Duke


Ellington le dedicò un brano.

Segretta vendeva una specie di essenza di

ginger giamaicano a quindici cents la

bottiglia. Tutti compravano quell’intruglio e

lo bevevano aggiungendo un mezzo bicchiere

d’acqua e noi facemmo altrettanto: era una

cosa che ti stendeva. Vedevo che gli occhi di

Mayann diventavano sempre più vitrei, ma

lei continuava a chiedermi: “Stai bene?”

“Certo, mamma. Mi diverto un mondo”.


“Quando pensi che sia il momento di

tornare a casa, dimmelo e ce ne andremo

subito”.

Chissà perché, mi sentivo fresco come una

rosa, e dal modo in cui reggevo l’alcol si

sarebbe

detto

che

ero

immune
all’ubriachezza. Dopo aver bevuto due

bottiglie di ginger giamaicano a testa mi

accorsi che si era fatto veramente tardi e che

mia madre cominciava ad accusare la

sbornia. Però non volevo tornare a casa

prima di fare tappa nel locale di Henry

Ponce, dal lato opposto della strada. Lui, ve

lo ricorderete, era il bel francese dell’epoca

di Storyville, il rivale di Joe Segretta. Joe lo

odiava tanto che avrebbe preferito essere


divorato da una tigre anziché incontrarlo per

strada.

Henri Ponce mi stimava molto e anch’io

ammiravo lui. Mi piaceva guardare le

bellissime donne di ogni colore che

venivano apposta al Third Ward per

incontrarlo. Naturalmente disprezzavano il

quartiere dove si trovava ora, dopo che

l’avevano cacciato da Storyville, ma

continuavano a venirci perché gli volevano


bene. Quelle donne ci davano mance

generose per farci suonare i loro pezzi

preferiti. Ponce era un uomo molto

coraggioso, non c’è che dire. Se vi trovate a

parlare di un uomo che ci sa fare davvero,

pensate a Henry Ponce.

Non appena entrai con mia madre nel suo

locale, lui uscì da dietro il bancone per

salutarmi. Non conosceva Mayann e così

gliela presentai.
“Piacere di conoscerla”, disse subito.

“Lei è la madre di un gran bravo ragazzo,

beneducato, che ci mette il cuore quando

lavora e non mi ha mai dato seccature. È

davvero un piacere conoscerla. Suo figlio è

ambizioso e vuole arrivare. Lo tenevo

d’occhio quando suonava per me dalle otto

di sera alle quattro del mattino. Sapevo che

aveva già lavorato tutto il giorno al

magazzino del carbone e mi chiedevo come


facesse a resistere. Ci tiene a far carriera,

glielo posso assicurare”.

Il barista ci portò da bere, e noi bevemmo

anche questa volta. Poi il trio che aveva

sostituito la nostra band attaccò un brano

ritmato e io ballai con Mayann. Vidi allora

che sbadigliava, ma non dissi nulla.

Dopo aver ballato, tornammo al nostro

tavolo a finire di bere. Quando ci alzammo

per andarcene Mayann si diresse verso


Ponce per salutarlo. Traballava un poco e

dopo appena sei passi cadde a faccia a terra.

Senza pensare che in realtà avevo bevuto

quanto lei, mi chinai per rialzarla. Appena

mi chinai verso di lei le piombai addosso

lungo disteso. Tutti scoppiarono a ridere e

mia madre, che era una donna di spirito sia

da sobria che da ubriaca, fece altrettanto.

Ridemmo tutti a crepapelle.

Il mio patrigno Gabe stava aspettando


dall’altra parte della strada, all’angolo dove

si trovava il locale di Joe Segretta. Tornato

in casa non aveva trovato nessuno, e mentre

andava in giro a cercarci, qualcuno gli aveva

detto di venire da Ponce. Quando vide

quello che era successo rise anche lui e dopo

averci rimesso in piedi raddrizzò alla meglio

il cappellino di Mayann, le ravviò i capelli e

ci condusse via, salutando tutti con un

sorriso. Prima di uscire si trattenne un


momento per stringere la mano a Ponce e per

dirgli che era un vero signore. Lo ringraziò

per avermi concesso la possibilità di

suonare nella sua orchestra invece di

assumere un musicista più anziano che gli

avrebbe

dato

probabilmente

maggiore

soddisfazione. Ponce gli rispose che a un


musicista anziano sarebbe mancato ciò che

aveva il giovane in questione: una

spontaneità e uno spirito creativo che il

mondo avrebbe avuto presto modo di

apprezzare. Gabe non afferrò bene quei

paroloni, ma lo ringraziò comunque.

Dopodiché, io e mia madre uscimmo sorretti

dalle sue braccia robuste.

Mentre ci dirigevamo verso casa, a non

più di un isolato di distanza, spuntava l’alba


e nella strada non si vedeva che qualche

bighellone.

Sbandavamo

malamente

trascinavamo anche Gabe da una parte e

dall’altra. Tutti quelli che incontravamo

dovevano certamente pensare che lui fosse

non meno ubriaco di Mayann e di me. Ma era

talmente buono di cuore che non se la prese


affatto.

“Figliolo”, disse Mayann, “sono sicura

che ora hai imparato a bere. Da quanto ho

potuto vedere questa notte, sei perfettamente

in grado di badare a te stesso. Credo di aver

trovato una risposta al mio dubbio e cioè se

mi dovesse succedere qualcosa tu te la

caveresti benissimo da solo”.

Mi sentii molto orgoglioso di me stesso.

Ho raccontato di questa notte in giro con


mia madre perché prima parlavo dei

musicisti che non bevono quando devono

lavorare. Adesso vi voglio raccontare una

brutta esperienza che ho avuto una sera

d’estate, lavorando sul Saint Paul in una

città dello Iowa. Erano già parecchi giorni

che andavamo su e giù lungo il fiume dando

ogni sera uno spettacolo in tutte le città dove

ci fermavamo. Arrivammo in quella città

nello Iowa abbastanza presto per cui


avemmo tutto il tempo di scendere a terra e

farci un giro, il che succedeva di rado,

perché di norma, dopo ogni gita serale,

proseguivamo oltre, navigando poi per tutta

la giornata.

Quella volta Baby Dodds si imbatté in

alcuni vecchi amici che lo trascinarono in

una casa dove si beveva senza misura. Baby,

dimenticandosi che avrebbe dovuto suonare

in serata, bevve più del dovuto. Sapevamo


tutti che quando cominciava a bere diventava

intrattabile e che era meglio stargli alla

larga, per il suo stesso bene.

Quella sera, dunque, non solo arrivò in

ritardo,

ma

quando

salì

sul

palco
dell’orchestra si accostò vacillando alla

batteria, sotto gli occhi dei numerosi clienti

bianchi. Nel tentativo di far passare

inosservato l’incidente, il direttore Fate

Marable fece subito iniziare un pezzo e noi

suonammo come dei pazzi per coprire le

stecche di Dodds. Facemmo di tutto per

aiutare il nostro amico, anche se lui

strascicava il ritmo in un modo terribile.

Eravamo tutti furibondi, ma continuammo a


tener duro per salvare la situazione. A un

certo punto però Baby si offese e cominciò a

inveire definendoci “un branco di negri

bastardi”. A noi quegli insulti ci facevano un

baffo, ma c’erano anche i clienti ad

ascoltarli. E questo era il problema.

Fate dette il segnale dell’intervallo, che di

solito passavamo sul ponte, da dove si

poteva vedere l’acqua mossa dal battello.

Fate chiamò Baby e cercò di parlargli. Pensò


che era meglio che cercasse di calmarlo

prima che si immischiasse qualche bianco.

Ma fu tutto inutile. Baby continuava a

sbraitare e a bestemmiare. Allora intervenni

io. Ero molto amico di Baby e in altri

frangenti ero riuscito a farlo ragionare. Ero

sicuro che se gli avessi chiesto di venire via

con me a fare due chiacchiere, lui mi

avrebbe seguito. Poi avrei pensato io a

proteggerlo almeno fino alla fine della serata


di lavoro.

Mentre stava gridando che voleva

rompere il naso a qualcuno, gli balzai

davanti.

“Dai, Baby, non dire così. Tu non

prenderesti a pugni nessuno”.

“Altroché”, rispose.

“Però a me non mi prenderesti a pugni,

vero?”, chiesi, sicuro che avrebbe detto di

no.
“Adesso prendo a pugni sia te che il

capo”, rispose invece lui.

Mamma mia. Rimasi di sasso. Con la coda

fra le gambe mi ritirai in un angoletto, mentre

lui continuava a vaneggiare e a bestemmiare

come un ossesso. Improvvisamente il

capitano Johnny, uno dei fratelli Streckfus,

un uomo forte e robusto, arrivò sulla scena e

con le buone chiese a Baby di piantarla di

bestemmiare, perché a bordo c’erano donne


e bambini e potevano sentirlo. Con mia

grande sorpresa, Baby mandò il capitano

Johnny a quel paese. “Che Dio lo assista!”,

pensai. Il capitano Johnny lo prese per il

collo con le sue mani poderose e lo strinse

finché Baby non divenne cianotico.

E Baby, che fino ad allora ci aveva trattati

come cani, adesso era docile come un

agnellino. Fu una scena spaventosa. Tutti

intorno sudavano freddo, ma nessuno aveva


il coraggio di dire: “Non strozzarlo”, o di

chiedere pietà per lui. Eravamo troppo tesi e

ce l’avevamo troppo con Baby per riuscire a

dire una parola. Baby cadde in ginocchio, il

capitano mollò la presa e Baby svenne.

Era ora di tornare sul palco per suonare,

ma senza Dodds. Poi Fate andò dal capitano

Johnny a chiedergli scusa a nome di tutti e

finalmente la serata ebbe termine, ma quella

fu certo la più disgustosa scena di


ubriachezza cui abbia mai assistito. Oggi

però io e Baby ci ridiamo su quando ci

incontriamo.

Per me fu un’esperienza importantissima

poter suonare sul battello in compagnia di

tutti quei pezzi grossi nel campo della

musica.

Molti

mi

hanno
insegnato

preziosissime tecniche di esecuzione, altri

mi hanno messo in guardia dall’acquisire

abitudini sbagliate. Mi interessava anche

come maneggiavano il denaro. David Jones,

per esempio, durante tutta quell’estate in cui

lavorammo sul Saint Paul, quasi morì di

fame per risparmiare fino all’ultimo

centesimo e poter mandare dei soldi a una

sua piantagione di cotone nel Sud, dove


operai e parenti facevano man bassa perché

non c’era lui sul posto a curare i suoi

interessi. Ogni giorno, invece di un buon

pasto caldo, si accontentava di mangiare una

mela. E cosa ne ricavò? I parassiti del

cotone divorarono le piante prima ancora

che si giungesse al raccolto. E prima che

potesse andare di persona a vedere come

andavano le cose alla sua tenuta, arrivò un

telegramma ad annunciargli che tutto era già


andato in malora. In seguito a ciò, durante gli

intervalli David Jones se ne andava ad

affacciarsi al parapetto del battello per

guardare l’acqua e pensare a tutti i soldi

persi. Spesso dicevo a Fate Marable: “Fate,

sarà bene tener d’occhio David Jones,

perché quello è capace di buttarsi in acqua

da un momento all’altro”.

Questo mi insegnò a non saltare mai i

pasti. Fin da bambino ho sempre creduto che


non valga la pena, come si dice, di “tagliarsi

il naso per far dispetto alla faccia”, una

delle massime più vere che esistano. Molto

probabilmente non diventerò mai ricco, ma

per lo meno sarò sempre grasso. Non mi

sono mai privato di quello che ho ritenuto

indispensabile, mentre ci sono molte cose

che non mi hanno mai attirato come per

esempio avere molti vestiti. Ho conosciuto

persone che hanno venticinque o trenta


vestiti. A che servono? Le tarme se li

mangiano prima che uno abbia il tempo di

usarli tutti. Io ho solo i vestiti che mi

servono, comprese le uniformi. Ho sempre

ritenuto giusto aiutare i bisognosi secondo le

mie possibilità, e più o meno ho sempre

potuto farlo. Continuerò a farlo finché vivrò

e credo che vivrò molto, ma molto a lungo.

Un bel po’ oltre i cent’anni.

Dopo il primo viaggio a Saint Louis


risalimmo il fiume fino a Davenport, Iowa,

dove tutti i battelli degli Streckfus sostavano

durante l’inverno. Fu là che incontrai il

grande Bix Beiderbecke, il genio della

tromba. Tutti i musicisti del mondo

conoscevano e ammiravano Bix. Godeva di

una straordinaria popolarità e noi tutti lo

rispettavamo come fosse un dio. Quando lo

incontravamo, i nostri volti si illuminavano

di gioia e felicità, ma c’erano anche lunghi


periodi in cui non lo vedevamo per niente.

Alla fine della prima stagione sul Saint

Paul, l’ultima sera del nostro contratto

suonammo a Saint Louis per un’escursione

serale riservata a gente di colore. Il battello

era stipato. Mentre si navigava scoppiò una

lite e alcuni brutti ceffi dei quartieri del

centro tirarono fuori le pistole. Mamma mia!

Non ho mai visto in vita mia tanta gente di

colore correre qua e là all’impazzata.


“Questa volta”, pensai, “le cose si mettono

peggio di quando quel ragazzino si buttò in

acqua provocando il panico”. Anche in

questa occasione il capitano diede l’ordine

di continuare a suonare, e anche in questa

occasione io mi tenevo pronto a mettermi in

salvo. Fu una serata veramente tremenda, ma

alla fine il battello attraccò senza danni e

pochissimi si fecero male.

Finito di suonare, raggiungemmo i nostri


alberghi in città. Lungo la strada sentimmo

qua e là alcuni individui che si vantavano di

aver contribuito a creare tutta quella

confusione sul battello. “Guarda un po’”,

pensai, “loro si divertiranno pure a fare

queste cose, ma il mio concetto di

divertimento è ben altro”.

Al Grand Central Hotel di Saint Louis ero

molto conosciuto e poiché ero il più giovane

nella band di Fate Marable e per di più ero


tutto

solo,

destavo

l’interesse

delle

cameriere. Mi sentivo un gran bel pezzo

d’uomo quando le ragazze bisticciavano per

me dicendo: “L’ho visto prima io”, oppure

“È mio”, e altre fesserie del genere. Ma ero

troppo preso dalla musica e queste


sciocchezze non mi interessavano mai. O,

almeno, quasi mai.

CAPITOLO 13

Al termine della stagione a Davenport,

Iowa, il capitano Joe Streckfus diede a

ciascuno di noi una gratifica, che poi erano i

cinque dollari trattenuti settimanalmente

sulla nostra paga. Si trattava di una bella

sommetta, specie per uno come me che non

era abituato a trovarsi in tasca tanto denaro


tutto in una volta. Quando arrivai a New

Orleans ero pieno di soldi, tanto più che gli

Streckfus ci avevano pagato il viaggio di

ritorno e offerto perfino il denaro per

comprarci da mangiare. Erano delle gran

brave persone quegli Streckfus. Più lavoravo

per loro più mi sembrava di diventare uno

della loro famiglia.

Arrivato

a
New

Orleans,

andai

direttamente a Liberty e Perdido, la zona che

frequentavo prima di aver avuto la fortuna di

lavorare per Fate Marable. La prima persona

che incontrai fu Black Benny che con altre

vecchie conoscenze se ne stava a passare il

tempo nel bar di Segretta.

“Che mi venga un accidente”, disse


vedendomi entrare, “quello è proprio

Dipper!”

Non mi tolse gli occhi di dosso mentre mi

avvicinavo, e continuò ad alta voce: “Vieni

qui, figlio di buona donna. Sei stato al Nord,

eh, a suonare la tromba. Lo so che ti sei fatto

il malloppo”.

Voleva dire che ero pieno di soldi. Mi

chiese di offrirgli da bere, e io non avrei

certo rifiutato un bicchiere al grande Black


Benny. Nessuno glielo aveva mai negato.

Vidi poi che tutti avevano ordinato da bere.

Gettai sul tavolo una banconota da venti

dollari. In tutto, quella bevuta mi costò sei o

sette dollari. Quando il barista mi diede il

resto, Black Benny ci mise la mano sopra e

disse: “Questi me li prendo io”. Feci un bel

sorriso. D’altro canto, che altro avrei potuto

fare? Se Benny aveva bisogno di quel

denaro, se lo prendesse pure. E poi gli


volevo così bene che non m’importava un

granché. Però devo ammettere che se non si

fosse impossessato di quei soldi con la

forza, probabilmente gli avrei dato molto di

più. Già ci avevo pensato in treno mentre

tornavo a casa da Saint Louis. Ma quando lo

vidi usare le maniere forti, lasciai perdere.

In fondo pensai che avrebbe dovuto trattarmi

da uomo senza prendermi alla sprovvista.

Ma non mi andava di mettermi contro di lui


per questa storia, tanto più che sarebbe stato

come ficcare la testa in bocca al leone.

Questa cosa però mi seccò talmente che

appena possibile presi e me ne andai.

Quando arrivai a casa, Daisy mi stava

aspettando e aveva preparato una bella

pentola di riso e fagioli rossi. Mi diede un

bacione saporitissimo. Poi dovetti sedermi e

raccontarle per filo e per segno il mio

viaggio: che era stato divertente, che tutti


quanti erano stati gentili, e che tutti avevano

apprezzato la mia musica. Era così felice di

sentire tutte queste cose che andò in estasi e

non la finiva più di fare domande. E io

intanto pensavo: “Mmm. Che bellezza se

Daisy fosse sempre così carina con me come

lo è stata oggi. Quanto sarebbe facile la vita

se riuscissimo a non accapigliarci più e a

non minacciare ogni momento di far crollare

la casa che abbiamo messo su con tanta


fatica”.

Per la gioia di ritrovarci non la finivamo

più di baciarci. Erano sei mesi che non ci

vedevamo e mai prima di allora mi ero

allontanato da casa per tanto tempo, neppure

quando stavo con mia madre, benché più di

una volta avessi ricevuto ottime offerte per

andare a suonare in vari posti. All’epoca la

tromba non era uno strumento molto comune

e più che altro si suonava la cornetta. Solo le


grandi orchestre nei teatri avevano suonatori

di tromba tra gli ottoni.

Può sembrare strano, ma allora noi tutti

pensavamo che la tromba fosse riservata a

chi studiava al conservatorio, oppure a

strumentisti d’eccezione. Per molti anni

infatti non osai cimentarmi con quello

strumento.

Dopo qualche giorno trascorso con Daisy,

naturalmente Mayann volle che andassi a


cena da lei insieme con mia sorella e con

Clarence. Quella cena non era un problema

da poco, perché nessuno meglio di lei che ci

aveva allevati conosceva il nostro appetito e

Mayann sapeva bene che per mettere a

tavola “la squadra di demolizione”, come ci

chiamava lei, avrebbe dovuto mettere sul

fuoco non solo la pentola grande ma anche

quella più piccola. Doveva poi andare a

Rampart Street per fare la spesa, e cercare


di comprare quanto più poteva con i pochi

soldi che aveva a disposizione.

Alla drogheria di Zatteran comprò mezzo

chilo di fagioli rossi, mezzo chilo di riso,

una bella fetta di lardo e una grossa cipolla.

Dal panettiere Stahle si fece dare due

pagnotte rafferme per un nichelino. Fece

cuocere il tutto fino a ottenere un sughetto. Vi

assicuro che quando arrivammo, già da una

bella distanza sentivamo il profumino.


Mayann era proprio una cuoca straordinaria.

Quando Mama Lucy, Clarence e io

sedevamo a tavola, avevamo bisogno di uno

spazio non indifferente per non intralciarci a

vicenda. Dopo due bis, mi alzai perché

rischiavo di sentirmi male. Clarence aveva

un appetito formidabile, eccezionale per la

sua età. Da bambino io mi accontentavo di

una fetta di pane e burro e a volte anche solo

di pane asciutto: mi bastava poter mettere


qualcosa nello stomaco. Ma Clarence era

diverso, e quando eravamo a tavola insieme,

io mi divertivo un mondo.

“Be’, figliolo”, gli dissi quella sera che

ero a cena da Mayann, “oggi mangerò più di

te”.

“Va bene, papà”.

Dopodiché le nostre mascelle lavorarono

in moto perpetuo. Clarence mi superava di

gran lunga e anche Mama Lucy si faceva


abbastanza onore, ma ciò che mangiava lei

non era niente in confronto a quello che

facevamo fuori noi. Mia madre rimaneva in

piedi a guardarci con orgoglio. Le piaceva

guardarci mangiare. Proprio per questo si

ammazzava di lavoro, lavando e stirando per

i bianchi e sorvegliando i loro bambini.

Quando non suonavo sui battelli, mi davo

da fare come capitava. Nel 1921 – l’ultimo

anno che lavorai sul battello – fui assunto da


Tom Anderson per il suo cabaret di Rampart

Street, tra Canal e Iberville Street. È stato

uno dei lavori migliori che abbia mai avuto.

Il cabaret era frequentato dai più ricchi

allevatori di cavalli da corsa della zona.

Spendevano un sacco di quattrini e ci davano

mance generose perché suonassimo i pezzi

preferiti da loro e dalle loro ragazze.

Ordinavano lauti pranzi e li spiluzzicavano

appena. Avevo fatto amicizia con tutti i


camerieri di colore i quali erano perciò

sempre disposti a favorirmi, e quando

passavano diretti alla cucina per riportare le

bottiglie vuote o gli avanzi, ci davamo

un’occhiata

d’intesa.

Poi,

durante

l’intervallo, filavo diritto in cucina a

mangiare tutto quello che avevano messo da


parte per me. Quanto ben di Dio! Le migliori

bistecche, polli, cotolette, quaglie e molti

altri piatti costosissimi. Mi sembrava di

essere una persona importante perché avevo

la possibilità di mangiare tutta quella roba

così costosa che allora non mi sarei mai

potuto permettere, e che del resto non mi

posso permettere neanche oggi.

Il leader del nostro quartetto da Anderson

era
Paul

Dominguez,

un

bravissimo

musicista

creolo.

Ritengo

che

fosse

all’altezza dei migliori del tempo, anzi, forse


era anche più moderno degli altri. E allora i

musicisti di classe non mancavano certo:

gente come A.J. Piron, Peter Bocage, John

Robechaux e Emile Bigard, zio di Barney

Bigard, il nostro clarinettista. Va ricordato

anche Jimmy Paalow che lasciò New

Orleans nel 1915, con la Keppard’s Creole

Jazz Band quando noi portavamo ancora i

calzoni corti. Fu quella la prima band che

partì da New Orleans per andare a fare


fortuna. Senz’altro c’erano molti altri

violinisti validi, ma per me Paul Dominguez

li batteva tutti, e lavorare con lui era un vero

piacere. Era un leader comprensivo e molto

umano, e non un nevrastenico come altri con

cui ho lavorato nel corso della mia carriera.

Da Tom Anderson, davanti al palco

metteva un cassetta, nella quale i clienti

infilavano qualche spicciolo ogni volta che

richiedevano un pezzo. Mettevamo insieme


più denaro con le mance che con la paga.

Anderson non veniva spesso nel suo locale,

ma il suo amministratore, George Delsa, non

mancava una sera. Mi ricordava Pinotto del

duo Gianni e Pinotto.

Nella piccola orchestra di quattro

elementi di Paul Dominguez, Albert Frances

suonava la batteria, sua moglie Edna il piano

e io la cornetta. Quando Edna rimase incinta,

fu sostituita da Wilhelmina Bert Wynn.


Queste due donne suonavano molto meglio di

parecchi uomini che ho conosciuto in tutti

questi anni.

Avrei potuto guadagnare – o perdere – un

mucchio di soldi se mi fosse interessato

qualcosa delle corse di cavalli. Molti dei

più noti fantini e scommettitori cercavano di

passarmi informazioni sui cavalli, dopo che

avevo suonato per loro dei pezzi a richiesta.

Ma io ero troppo preso dalla musica per


tentare la fortuna negli ippodromi. Li

ringraziavo di cuore e poi dimenticavo tutto,

abbandonandomi a una bella jam session.

A New Orleans, quando lavoravo da Tom

Anderson, fra gli altri cabaret c’erano il

Cadillac, il Pup e il locale di Butsy

Fernandez. In tutti si suonava ottima musica.

Quando Anderson dovette chiudere per

restauro, Zutty Singleton, che lavorava per

Butsy con il bravo pianista Udell Wilson, mi


chiamò a suonare con loro. Formavamo un

trio pirotecnico, e tutte le notti, dopo il

lavoro, venivano ad ascoltarci altri musicisti

che spesso si univano a noi.

Non dimenticherò mai quella sera in cui

Baby Dodds venne a trovarci, durante un

periodo in cui non stava suonando. Lo

presentammo al principale, Butsy, che fra

parentesi era l’uomo più elegante e distinto

di New Orleans, e anche un magnifico


ballerino. La sera in cui Rodolfo Valentino

fece tappa a New Orleans durante la sua

tournée negli Stati Uniti, Butsy vinse il

premio Rodolfo Valentino come miglior

danzatore. Quella notte si presentò vestito in

modo così elegante che tutte le donne gli si

buttarono addosso. Secondo me era uno

degli uomini più simpatici che siano mai

esistiti, a eccezione di Joe Glaser che è stato

– e lo è ancora – il miglior datore di lavoro


per il quale io abbia lavorato.

Tornando a Baby Dodds, quella sera lui

volle suonare con noi e si mise alla batteria

di Zutty, che per comprarsi lo strumento

aveva dovuto fare i salti mortali. Baby

batteva su quei tamburi con tanta forza che

prima che potessimo fermarlo ne sfondò uno.

In vita mia non avevo mai visto Zutty così

fuori di sé. Baby disse semplicemente:

“Scusa”.
Prima della fine della serata, Baby e Zutty

stavano per venire alle mani. Per quanto di

norma io sia contrario a intromettermi nelle

liti altrui, dovetti mettermi in mezzo per

separarli. Volevo bene a tutti e due, a Zutty in

modo particolare, e mi sarebbe davvero

dispiaciuto se gli fosse successo qualcosa di

sgradevole, non perché non fosse in grado di

difendersi da solo, ma più che altro perché

volevo evitare una zuffa fra i due. Dopo


quella sera Zutty cambiò idea nei riguardi di

Baby e noi tutti del resto pensavamo che

Baby si fosse comportato molto male. Non

riuscivamo a capire perché un musicista

della sua fama avesse trattato quella povera

batteria con tanta brutalità.

Io e Zutty rimanemmo con Butsy finché gli

affari non cominciarono ad andare male.

Come succede in questi casi, niente affari

niente paga, e noi, dopo aver accettato tutta


una serie di tagli fino ai limiti del possibile,

ce ne andammo.

Le cose andarono piuttosto male per tutto

il 1921. La mia ultima stagione sul battello

mi aveva procurato abbastanza per tirare

avanti alla meno peggio finché non fosse

capitato qualcosa di meglio. Inoltre,

suonando per i cortei, per i funerali e alle


feste all’aperto dei bianchi, riuscivo a tirare

avanti senza problemi.

Verso la fine di quell’anno diventai


membro permanente ed effettivo della

Tuxedo Brass Band sotto la guida del

trombettista Celestin. Mi sentivo veramente

qualcuno. E così ebbi anche modo di

realizzare una delle mie più grandi

ambizioni: suonare come seconda cornetta

con l’unico, l’insuperabile Joe Oliver,

ribattezzato “King” Oliver in virtù della

grandissima fama che si era guadagnato a

Chicago nel 1918.


La Tuxedo Brass Band era veramente

qualcosa di grande, sia da vedere che da

ascoltare, ed è un vero peccato che a quel

tempo non esistessero ancora i registratori o

le telecamere per riprendere la band in

azione. Comunque, anche se fossero esistiti,

non avremmo avuto i soldi per comprarceli.

Tutti i soldi che avevamo ci servivano per

mangiare.

Quando suonavo con la Tuxedo Brass


Band mi sentivo orgoglioso come se fossi

stato assunto da John Philip Sousa o da

Arthur

Pryor.

Provavo

un’emozione

straordinaria quando ci distribuivano la

trascrizione per gli ottoni stampata su

cartoncino, in modo da poterla leggere anche

camminando. Mi sforzavo di interpretare la


mia parte correttamente, senza saltare una

nota, e un solo errore bastava a farmi star

male tutta la giornata. Ma Celestin aveva

avuto modo di rendersi conto di quanto ci

tenessi alla mia musica. Apprezzava molto la

mia dedizione, e ogni volta che gli sembravo

un poco perplesso davanti a un pezzo

musicale veniva a dirmi: “Ragazzo, tutto a

posto? Ce la fai?”

Ed era quello il modo migliore di


incoraggiare un giovane che non aveva

sufficiente esperienza come membro di una

brass band. Sono ancora grato a Papa

Celestin e a tutti gli altri membri della sua

band che mi hanno sempre trattato con

grande comprensione e bontà.

La Tuxedo Brass Band aveva un’uniforme

estiva molto simile a quella della Onward

Brass Band: berretto degli orchestrali bianco

con galloni neri, camicia azzurra e scarpe


beige. Dopo la rottura della Onward Brass

Band il primato rimase a noi e per quanto

apprezzabili, gli altri complessi dovevano

farci tanto di cappello.

Il fatto di appartenere alla migliore

orchestra della città mi diede la possibilità

di entrare in contatto con i più noti musicisti,

tra cui uno dei migliori clarinettisti di New

Orleans, Picou. Lui aveva adattato al

clarinetto la parte dell’ottavino nel pezzo


“High Society” e da allora in poi per questo

pezzo il clarinettista suona l’assolo di Picou.

C’erano molti altri clarinettisti famosi, come

Tio, Bechet, Sidney Desvigne, Sam Dutry,

Jim Williams jr. e Wade Whaley. Williams

morì giovane e con lui il mondo perse un

grande musicista. Lo stesso si può dire di

Rappolo, morto anche lui giovane. Altri assi

del clarinetto erano Bill Humphrey, Johnny

Dodds, Jimmy Noone e Albert Nicholas.


Barney Bigard si affermò soltanto in seguito,

ma secondo me era all’altezza dei migliori.

Visto che sto parlando di vecchi amici, non

posso non nominare Lawrence Dewey, che ai

suoi tempi era veramente in gamba. Ora si è

ritirato a Lafayette, Louisiana, ma suona

ancora di tanto in tanto quando gli capita. Ho

lavorato parecchio con il grande, immenso

Bunk Johnson. Anche Louis Warner e Charlie

McCurtis erano ottimi clarinettisti.


Per quanto a lungo io possa vivere e per

quanti altri musicisti possa avere per

colleghi, non potrò mai trovare musicisti

migliori di quelli che ho citato. Ho avuto

modo di apprezzarli e ho potuto constatare

che tutti, dai più giovani ai più vecchi,

lavoravano con vera passione. A quei tempi

i giovani musicisti come me prendevano la

musica molto più seriamente di quanto non

facciano i giovani musicisti di oggi. Erano


talmente più bravi dei principianti di adesso

che non c’è proprio paragone. Quando, per

esempio, George Backet suonava la sua

piccola cornetta in mi bemolle con la

Excelsior Brass Band lo si sentiva dominare

sugli altri strumenti a chilometri di distanza.

Quando guidava tutti gli altri cornettisti, ma

suonando un’ottava più su, ci metteva tanto

sentimento che ti faceva commuovere fino

alle lacrime.
Potrei tessere le lodi di parecchi altri

clarinettisti, ma dopo tutto il tempo che è

passato non ricordo più i nomi. Ero ancora

molto giovane quando suonavo con loro, e a

quei tempi non si dava troppa importanza ai

nomi veri delle persone. Quando ci

salutavamo usavamo dei soprannomi, tipo

“Gate”, “Face” o “Guizzard”. Di norma ci

ritrovavamo

per
fare

una

serata

un’esibizione unica, e a sentirci si sarebbe

detto che suonavamo insieme chissà da

quanto.

Sempre nel 1921 Daisy adottò una

ragazzina che si chiamava Wila Mae Wilson.

All’epoca ci eravamo trasferiti nel quartiere


bianco di Saint Charles e Clio Street,

proprio dietro l’abitazione della famiglia

bianca presso cui Daisy lavorava. Per

entrare in casa bisognava attraversare un

vicoletto, e quando dovevo percorrerlo nelle

primissime ore del mattino temevo sempre di

essere scambiato per un ladro. E in effetti

così fu. Finito il mio lavoro, un mattino

verso le quattro, scesi dal tram e mi diressi

verso il vicolo. A un mezzo isolato di


distanza notai un bianco che mi veniva

incontro. Quando stavo per imboccare il

vicoletto mi aveva quasi raggiunto. Qualcosa

mi suggerì allora di non andare oltre,

quell’individuo sembrava guardarmi con

sospetto e allora mi fermai e appena mi fu

vicino gli rivolsi la parola. Lui si fermò.

“Senta”, dissi. “Forse lei sospetta che io

sia qui per fare qualcosa di male. Voglio

perciò informarla che io abito in questo


vicolo. Mia moglie è al servizio di gente

bianca e per questo stiamo di casa qui. Ho

pensato che fosse meglio avvisarla di questa

cosa, per evitare che sorgessero equivoci”.

“Meglio che me l’hai detto”, disse il

vecchiaccio, “perché io sono il guardiano

qui e non mi sembra di averti mai visto. Ok,

vai, ma da ora in poi ti tengo d’occhio”.

Avrebbe potuto anche stare zitto. Appena

messo piede in casa svegliai Daisy e Wila


Mae che dormivano della grossa, e dissi che

all’alba dovevamo andarcene da quel posto.

Raccontai quello che mi era successo, e la

mattina dopo Daisy si licenziò. Trovai tre

camere a Saratoga ed Erato Street.

Alla piccola e dolce Wila Mae non

importava dove ci fossimo trasferiti,

l’importante era che stesse con noi. La

mamma di Wila Mae aveva portato lei e sua

sorella Violet a New Orleans da una


cittadina della Louisiana. Violet morì molto

giovane, a quattordici anni. Wila Mae rimase

con Daisy anche dopo che andai al Nord, a

Chicago, nel 1922, per suonare insieme a

King Oliver al Lincoln Gardens. Divenne

una ragazza molto bella, e prima che

potessimo renderci conto di cosa stava

succedendo, s’era già sposata con un ragazzo

di nome Sibley e aveva avuto un figlio che

chiamò Archie.
La gente di New Orleans mi conosceva

come il padrino di Wila Mae, e quando suo

figlio fu abbastanza grande per capire,

incominciò a volermi tanto bene quanto ne

voleva a sua madre. Poi divenni anche il suo

padrino. Seguendo il mio esempio cominciò

a suonare la tromba e prese il nome di

Archie Armstrong, un nome che gli rimarrà

per il resto della vita.

Daisy si affezionò a Wila Mae in modo


sorprendente. Daisy era una che non si

attaccava mai più di tanto a nessuno. Spesso

e volentieri non gliene importava niente

nemmeno di me. Ma mi amava e io amavo

lei, e questo è quanto. Posso senz’altro dire

che con me fu sempre sincera durante tutto il

tempo della nostra convivenza. Quando

partii per Chicago avevamo litigato e da

allora non fu più mio compito controllare

con chi se la faceva. In seguito venni a


sapere che amoreggiava in giro per New

Orleans con un mio amico d’infanzia, Shots

Madison. Anche lui suonava la cornetta

molto bene, e allora tutti cominciarono a dire

che Daisy s’innamorava solo di quelli che

suonavano la cornetta. E, dopo tutto,

innamorarsi della cornetta non è poi una

cattiva scelta.

Mia sorella Mama Lucy si trasferì

nuovamente nella città dove c’era la


segheria. Abitò lì con il suo uomo, il suo

convivente, per molti anni. Gestivano una

piccola bisca e facevano un sacco di soldi.

Più di una volta sono stato tentato di

chiedergli di darmi qualcosina, ma non l’ho

mai fatto. Ho sempre pensato che per quanti

soldi guadagnino i tuoi parenti, non ne hanno

mai più di quelli che gli servono. E come

dicono le Scritture è meglio dare che

ricevere. Sono sempre stato felice di dare


tutto quello che potevo ai miei familiari, ma

ho sempre avuto il terrore di chiedergli

qualcosa. Ero sempre io quello fortunato

quando si trattava di soldi. Quando

cominciai a suonare naturalmente non

guadagnavo

molto,

ma

guadagnavo

comunque di più di quelli che non avevano


mai imparato nessun mestiere.

Nel mio quartiere s’impressionarono un

po’ tutti quando sentirono che Mama Lucy

dava le carte e teneva banco in una bisca

frequentata dalla peggiore gente. Io dissi a

tutti di non preoccuparsi: Mama Lucy non

aveva paura neppure della gente peggiore

perché teneva sempre a portata di mano il

suo coltellaccio e con quella gran lama

avrebbe saputo affettare a dovere chiunque


avesse sgarrato.

Ho conosciuto due donne con le quali mi

sono sempre sentito perfettamente al sicuro

anche quando avevano il coltello: mia

sorella Mama Lucy e mia moglie Daisy. È

strano, ma Daisy, con quella testa calda e

con quel caratteraccio che si ritrovava, non

ha mai provato a farmi a fette con il suo

coltello. Vero è che spesso facevamo a gara

a scagliarci addosso i mattoni, ma questa è


una tradizione di New Orleans e ci sono

sempre stato abituato, fin da piccolo. Sapevo

schivare i colpi. Nel calcolare le traiettorie

con i suoi mattoni, Daisy avrebbe dato filo

da torcere allo stesso Don Newcomb. Ma

nonostante tutto, continuavo ad amare lei e la

mia cornetta.

All’ultima grande parata cui assistei a

New Orleans parteciparono tutte le maggiori

e più rinomate associazioni assistenziali e


ricreative. Facevano tutti a gara a chi

suonasse meglio e furono davvero tutti

magnifici. Fra i club presenti c’erano: il

Bull, l’Hobgoblin, lo Zulu, il Tammany, il

Young Men Twenties (il club di Zotty

Singleton), il Merry-Go-Round, il Dewey, il

Tulane Club, il Young Men Vidalia, il Money

Waster, il Jolly Boys, il Turtle, l’Original

Swell, il San Jacinto, l’Autocrat, il Frans Sa

Mee Club, il Cooperative, l’Economy,


l’Oddfellows, il Mason, il Knights of Pythias

(la mia loggia) e il Diamond Swell dalla

zona dell’Irish Channel. Quelli che si

aggregavano ai cortei avevano paura di

seguirli attraverso l’Irish Channel, il

quartiere che si trovava nella città alta di

fronte al fiume. Era un quartiere pericoloso,

gli irlandesi che ci abitavano erano gente

cattiva e quelli di colore non erano da meno.

Quando si attraversava quella zona a seguito


di un corteo c’era la possibilità di tornarsene

a casa con la testa in mano.

La sfilata dei club era uno spettacolo

unico nel suo genere. I membri dei vari club

vestivano l’alta uniforme e con tutti quei

magnifici nastri di seta che piovevano dalle

spalle erano proprio belli da vedere. Il

corteo era aperto dagli aiutanti di campo,

anch’essi in gran tenuta, che montavano

bellissimi cavalli impennacchiati. Seguivano


le brass band, che suonavano marce

roboanti, con tutto il pubblico che faceva

salti di gioia. I membri del club, che

marciavano dietro le orchestre, portavano

cappelli di feltro bianchi, camicie bianche di

seta (della migliore qualità) e calzoni di

mohair. Io avevo passato tutta la vita a New

Orleans, ma quando c’era una parata dei

club non potevo fare a meno di seguire il

corteo per tutta la giornata. Portando la


cornetta a Joe Oliver o Bunk Johnson

ricevevo di che sostentarmi fino al termine

della parata.

I club facevano molte soste o punch, come

si chiamavano, davanti alle case dei membri,

dove

venivano

offerti

panini,

birra
ghiacciata e whisky in quantità. Ma in quelle

occasioni del whisky non m’importava

niente, mi bastava stare insieme a quella

gente.

Per assistere alla parata dei club ci

voleva un giorno intero, ma non ci si

stancava mai di vederli sfilare. Black Benny

era sempre l’attrazione principale, era

l’unico tra i musicisti e i non musicisti, che

osasse andare dappertutto, fosse l’Irish


Channel, Back o’Town, il settore creolo del

Seventh Ward o qualsiasi altro posto

malfamato. Non c’era nessuno che avesse il

coraggio di dargli fastidio. Era un tipo

veramente tremendo, non aveva paura di

nessuno. Ovunque andasse al di fuori del

nostro quartiere, fosse per suonare o per

ballare, veniva sempre trattato col massimo

rispetto.

Verso il 1922 ero diventato talmente


famoso, suonando nel complesso di Kid Ory

e nella Tuxedo Brass Band, che anch’io

potevo andare ovunque a New Orleans senza

che nessuno mi venisse a dare fastidio. Tutti

mi volevano bene e volevano solo sentirmi

suonare, comprese le persone malfamate. Più

erano delinquenti e più gli piaceva come

suonavo, proprio come i vecchi ruffiani per

cui mi esibivo al tempo degli honky tonk.

Joe Oliver era partito da New Orleans e


adesso era a Chicago, dove stava andando

alla grande. Continuava a mandarmi lettere e

telegrammi perché andassi a suonare con lui

come seconda cornetta. E io sapevo che per

me sarebbe stato il paradiso.

Avevo deciso che non avrei mai lasciato

New Orleans se non per King. Non mi sarei

azzardato a partire per nessun altro. Troppo

spesso avevo visto i miei amici allontanarsi

da casa e tornare poi ridotti male. Spesso i


genitori dovevano addirittura mandargli i

soldi per il ritorno. Avevo trascorso tre

magnifici anni sui battelli che facevano le

gite sul Mississippi e per nulla al mondo

avrei cambiato strada per seguire uno

sconosciuto che poteva da un momento

all’altro piantarmi in asso o mettermi nei

guai. Fate Marable e i fratelli Streckfus mi

avevano trattato così bene che era da

escludere la possibilità che io mi affidassi al


caso per correre dietro a un’avventura piena

di incognite.

Dopo aver sistemato tutte le mie faccende,

accettai la proposta di Joe. Il giorno stesso


in cui dovevo partire per Chicago, l’8 agosto

1922, suonai a un funerale che aveva luogo

ad Algiers. Si trattava del padre di Eddie

Vincent, un ottimo suonatore di trombone.

Quando il feretro lasciò la casa per essere

portato al cimitero, attaccammo l’inno “Free

as a Bird” e lo suonammo con tanto


sentimento che avevano tutti gli occhi lucidi.

I colleghi della Tuxedo Brass Band e del

complesso di Celestin fecero di tutto per

convincermi a non andare a Chicago:

dicevano che Joe Oliver era un farabutto e

che si trovava sulla lista nera dei sindacati

dei musicisti perché non si comportava bene

con i suoi impiegati. Io spiegai che volevo

bene a Joe e che mi fidavo di lui. Non

m’importava di cosa facesse lui o la sua


band. Mi aveva chiamato, e questo era

l’importante. A quel tempo sapevo poco o

nulla del modo di procedere del sindacato

dei musicisti, perché a New Orleans non

esisteva, e così parlarmi di liste nere era

come parlarmi in arabo.

Quando il funerale finì, corsi a casa, misi

in valigia alla meglio i miei quattro stracci e

mi affrettai verso la Illinois Central Station

per prendere il treno delle sette diretto alla


città del vento, come viene chiamata

Chicago. Tutti i miei vecchi colleghi vennero

alla stazione per salutarmi e augurarmi

buona fortuna. Da una parte erano contenti

dell’occasione che mi era capitata di andare

per il mondo a farmi conoscere, dall’altra

però non apprezzavano molto che entrassi

come seconda cornetta nella band di Joe

Oliver. Pensavano che fossi in grado di

potermi mettere in proprio. Ma io sentivo


che era un grande onore per me stare vicino

a un uomo così ricco di prestigio come Joe

Oliver.

Sembrava che tutta New Orleans fosse

venuta alla stazione a portarmi un po’ di

fortuna. Anche le vecchie sorelle nostre

vicine, che si può dire mi abbiano allevato,

erano venute a salutarmi, dopo avermi

baciato si asciugarono le lacrime col

fazzoletto.
Quando arrivò il treno, i facchini e i

camerieri che ci lavoravano sopra mi

riconobbero,

ricordandosi

di

quando

suonavo alla stazione per annunciare balli, o

“feste danzanti”, come li chiamavamo

all’epoca. Mi gridarono tutti in coro: “Dove

vai, Dipper?”
“Che fortuna sfacciata, gran figlio di

buona donna!”, disse uno. “Andare al Nord

per suonare con Cocky!”

Lo chiamavano così per via della cataratta

che aveva a un occhio. I maligni lo

sfottevano per questo suo difetto, e lui si

arrabbiava e minacciava di prenderli a

pugni. Ma a che sarebbe servito? Se

veramente fosse venuto alle mani con quei

teppisti, avrebbe finito per rimetterci anche


l’altro occhio.

Quando il capotreno annunciò la partenza,

io gridai ai camerieri che mi salutavano: “E

già, belli miei, vado a Chicago a suonare

insieme al mio idolo, Papa Joe!”

CAPITOLO 14

Salito in treno, trovai un posto vuoto

vicino a una signora con tre bambini. Aveva

proprio un bel malloppo! Voglio dire, aveva

un gran cesto pieno di quei pezzi di pollo


fritto tipici della cucina del Sud che si era

preparata per il viaggio. Aveva talmente

tanto pollo che sarebbe bastato a lei e ai suoi

figli non solo fino a Chicago, ma anche fino

alla California, se ci fossero voluti andare.

Attaccai il panino col pesce che Mayann

mi aveva preparato, ma al tempo stesso mi

lambiccavo il cervello per trovare un

pretesto qualsiasi che potesse indurre quella

signora a offrirmi un po’di pollo fritto. A


quei tempi alla gente di colore non era

permesso mangiare nei vagoni ristorante, e

specialmente in Galilea (nel Sud). Così i

negri, quando andavano al Nord, si

dovevano portare dietro cesti pieni di ogni

cosa possibile, e ci avrebbero infilato anche

la cucina con i fornelli, se avessero potuto.

Fortunatamente,

quella

signora
mi

riconobbe. Disse che conosceva Mayann e

che anche lei era diretta a Chicago.

Parlammo

della

grande

città

noi

sconosciuta e facemmo subito amicizia. Così


per il resto del viaggio mi sentii un re e

mangiai da re.

A un certo punto, quando il capotreno

passò per il corridoio gridando: “Prossima

fermata Chicago”, uno strano brivido mi

corse lungo la schiena e il mio primo

pensiero fu: “Chissà se Papa Joe sarà alla

stazione ad aspettarmi!” Lui credeva che io

sarei arrivato con il primo treno della

mattina, ma non avevo potuto prenderlo


perché ero andato a suonare al funerale per

mettere da parte qualche spicciolo in più per

Chicago.

Quando il treno entrò in stazione, io

guardavo attentamente fuori del finestrino.

Se qualcuno mi avesse osservato, si sarebbe

subito accorto che ero un provincialotto.

Speravo con tutto il cuore che Joe Oliver

venisse a prendermi. Non m’importava di

nessun altro. Volevo solo vedere la sua


faccia e questo mi sarebbe bastato a essere

felice.

Quando il capotreno gridò: “Scendere tutti

a Chicago. Ultima fermata”, sembrò che tutti

scattassero in piedi contemporaneamente.

Sul binario non c’era traccia di Joe e non lo

vidi neppure quando salii la lunga scalinata

che porta alla sala d’aspetto.

Un milione di pensieri mi affluirono al

cervello mentre osservavo la gente in fila


per il taxi. Erano le undici e mezzo di sera.

Tutte le persone di colore salivano sui taxi o

sulle auto dei loro parenti, compresa la

signora dei polli fritti con i figli. Mi

salutarono e mi augurarono buona fortuna per

la mia permanenza a Chicago. Mentre li

salutavo con la mano, dicevo tra me: “Mmm,

non credo che mi piacerà molto questa

vecchia città”.

Tutto a un tratto mi ritrovai da solo. Più il


tempo passava più mi agitavo. Ero lì da una

mezz’ora buona, quando mi si avvicinò un

poliziotto. Già da un pezzo mi teneva

d’occhio, si era accorto che non ero del

posto e che mi guardavo intorno cercando

ansiosamente qualcuno.

“Cerca qualcuno?”, chiese.

“Sissignore”.

“Posso esserle di aiuto?”

“Arrivo ora da New Orleans, nella


Louisiana”, risposi. “Sono un suonatore di

cornetta e sono venuto qui per far parte della

Joe Oliver Jazz Band”.

Mi rivolse un sorriso amichevole.

“Ah”, disse, “allora è lei il ragazzo che

deve entrare a far parte dell’orchestra di

King Oliver al Lincoln Gardens”.

“Sissignore”, dissi io.

Mi colpì un particolare: aveva detto King

Oliver, mentre a New Orleans era


semplicemente Joe Oliver.

Ero impaziente di vederlo in persona,

comunque, e poco mi importava del nome.

Quando dissi al poliziotto che King Oliver

sarebbe dovuto venirmi a prendere, lui mi

disse: “King Oliver è venuto qui prima

perché pensava che lei sarebbe arrivato con

un altro treno dal quale invece non è mai

sceso. È dovuto andare al lavoro, ma ci ha

lasciato detto di stare attenti e vedere se per


caso arrivava con quest’altro treno”.

Alla fine fece cenno a un taxi e disse

all’autista: “Porta questo ragazzo al locale

dove suona King Oliver”. L’autista caricò il

mio bagaglio e così ci dirigemmo verso la

zona sud della città.

Aprendo la porta d’ingresso del Lincoln

Gardens,

sentivo

l’orchestra
di

Joe

improvvisare sul tema d’un bel vecchio

motivo

Dixieland.

Credetemi,

ero

emozionato a sentirli suonare in quel modo.

Valeva i soldi che avevo speso per il

viaggio. Però ero intimorito all’idea di


dover entrare. Mi chiesi se fosse il caso. E

poi mi sorse anche il dubbio di non essere

abbastanza bravo per suonare con una band

del genere. Poi mi decisi a entrare e più

m’inoltravo più la musica diventava

incandescente.

Il Lincoln Gardens si trovava fra la

Trentunesima e Cottage Grove Avenue.

Aveva una magnifica facciata con una

pensilina che andava dal portale alla strada.


Il corridoio era così lungo che pensavo non

sarei mai arrivato al palco. La sala era

talmente affollata che Joe e i musicisti non si

accorsero di me se non quando arrivai

proprio sotto il palco.

E a quel punto scoppiò il finimondo. Si

alzarono in piedi tutti insieme, gridando:

“Eccolo! Eccolo!”, e Joe Oliver tolse il

piede sinistro dalla sputacchiera sulla quale

generalmente lo teneva appoggiato quando


suonava la cornetta. Aveva una sputacchiera

sua perché masticava continuamente tabacco.

“Fermi tutti! Lasciatemelo guardare”,

disse ai ragazzi. “Accidenti, erano anni che

non vedevo Slow Foot”. Era così che mi

chiamava quando veniva a trovarmi nei

locali notturni dove avevo lavorato a New

Orleans.

Joe cominciò a chiedermi un sacco di

notizie su tutto quello che avevo fatto da


quando lui e Jimmy Noone erano partiti da

New Orleans nel 1918. Fu molto contento di

sapere che ero diventato così bravo da

diventare un membro effettivo nella celebre

Tuxedo Brass Band e che avevo suonato sui

battelli.

“Caspita,

ragazzo,

sono

proprio
orgoglioso di te!”, disse. “Da quando ti ho

lasciato hai fatto una carriera rapidissima!”

Dall’espressione della sua faccia capivo

però che era ancora alquanto in dubbio se

fossi veramente all’altezza di suonare con lui

e con i suoi ragazzi. Ma non disse nulla e si

limitò a dire: “Adesso siediti che noi

dobbiamo continuare lo spettacolo. Tanto

vale che rimani, così ci ascolti e ti ambienti

un po’dato che domani sera cominci a


lavorare”.

“Certo”, risposi.

Finito il concerto, mi portò a casa sua,

appena dietro il Lincoln Gardens. Stella

Oliver, che mi aveva sempre avuto in

simpatia, fu contenta di rivedermi e io fui

contento di rivedere lei. Aveva con sé la

figlia Ruby, nata da un precedente

matrimonio. Era una famiglia felice quella, e

io divenni uno di loro.


Stella disse che dovevo rimanere a cena,

cosa che per me andava benissimo. Da Joe si

mangiava in modo molto semplice, senza

formalità né pretese particolari. La padrona

di casa ci servì un grande piatto di riso e

fagioli rossi, una mezza pagnotta e un

bicchierone di limonata fredda.

Si stava facendo tardi e Stella disse a Joe

di accompagnarmi alla camera che mi

avevano prenotato in una pensione al numero


3412 di South Wabash Avenue, tenuta da una

sua amica, una certa Filo. Durante il tragitto

in taxi Joe mi disse che avrei avuto una

camera con bagno privato.

“Bagno? Bagno privato? Che cosa è un

bagno privato?”, chiesi io.

“Senti un po’, Slow Foot, figlio di buona

donna”, disse guardandomi in un modo un

po’ strano. “Ma allora sei veramente

scemo”.
Dimenticava che molto probabilmente

anche lui aveva fatto la stessa domanda la

prima volta che era arrivato lì da New

Orleans. Nel nostro quartiere non avevamo

mai neanche sentito parlare di una vasca da

bagno, figuriamoci poi di un bagno privato!

Quando finì di sfottermi per questa storia, gli

ricordai i tempi andati, quando ci facevamo

il bagno nella tinozza dei panni da lavare nel

cortile oppure in quella per i pediluvi.


Ricordo ancora quando mi lavavo in una

tinozza di stagno. Per pulirmi come si deve

prima dovevo mettermi a sedere sul bordo

per lavarmi dal collo fino a metà corpo, poi

mi alzavo in piedi e passavo al resto.

Quando gli raccontai queste cose, Papa Joe

fece si fece una bella risata.

Filo evidentemente ci stava aspettando,

perché aprì la porta appena suonammo il

campanello. Era una creola di mezza età,


piuttosto bella, con un viso gentile e quando

ti rivolgeva la parola ti faceva sentire subito

a tuo agio.

“È questo il ragazzo di casa?”, chiese.

“Sì”, rispose Joe, “questo è il buon

Dippermouth”.

Appena entrati, Filo disse che la mia

camera era al piano di sopra. Io non vedevo

l’ora di dare uno sguardo al mio bagno

privato, ma dovetti aspettare, perché ci


eravamo messi a parlare di New Orleans, e

a ricordare un’infinità di cose. Filo aveva

lasciato la città quasi dieci anni prima di me,

e si era trasferita a Chicago ancora prima di

Joe Oliver.

La mattina seguente mi preparò la

colazione e devo dire che era un’ottima

cuoca, come tutte le donne creole. Dopo aver

mangiato, salii di nuovo in camera per farmi

un bel bagno caldo nella mia vasca privata e


poi mi vestii per uscire a fare un giretto e

dare uno sguardo alla città.

Non avevo una meta ben precisa, e poco

mi importava, perché ogni cosa mi pareva

straordinaria. Senza niente togliere alla mia

città, ogni strada lì mi sembrava molto più

elegante di quelle di New Orleans. In effetti

non c’era proprio paragone.

Al mio ritorno a casa, Filo aveva già

apparecchiato la tavola e tutto era pronto per


il pranzo.

“Va’ a lavarti le mani”, mi disse con la sua

voce dolce, “e vieni a mangiare qualcosa di

buono”. Filo sapeva preparare quasi tutti i

più famosi piatti creoli.

Dopo pranzo andai di sopra per farmi la

barba, farmi un bagno e schiacciare un bel

sonnellino. Fin da ragazzino, i miei vecchi

maestri mi avevano insegnato che dormire a

lungo è fondamentale per poter suonare bene.


Un musicista non può dare il meglio di sé se

è stanco o nervoso.

Dopo che mi fui svegliato e vestito, Filo

venne in camera mia.

“Anche

se

hai

già

mangiato

abbondantemente”, disse, “visto che devi


suonare a lungo, sarà bene che mangi ancora

qualcosa che ti tenga su”.

Non avevo nulla in contrario. Quando

scesi mi diede un panino con sopra una fetta

d’ananas e zucchero grezzo. Mamma mia che

bontà! E dopo uscii per affrontare la mia

serata di debutto al Gardens.

Indossavo il mio vecchio Roast Beef,

come io chiamavo il mio vecchio smoking.

L’avevo fatto stirare e aggiustare il meglio


possibile in modo che nessuno potesse

accorgersi di quanto fosse vecchio, a meno

che non ci mettesse proprio il naso sopra per

scoprire i vari rammendi qua e là. Ad ogni

modo, pensavo di essere davvero elegante.

Alle otto e mezzo in punto un taxi si fermò

davanti alla porta di casa. Era stata Filo a

farlo

venire,

perché
non

era

meno

emozionata di me e voleva che tutto andasse

liscio la sera del mio debutto con King. È

strano quello che succede nel mondo della

musica e dello spettacolo in genere. Anche

se lavori da un pezzo, la sera del debutto ti

senti sempre lo stomaco sottosopra.

La signora Major, la proprietaria bianca


del Gardens, e Red Bud, il manager di

colore, furono le prime persone che incontrai

mentre percorrevo il lungo corridoio. Poi fu

la volta di King Jones, un uomo basso, con

un vocione che si poteva sentire a un isolato

di distanza quando presentava le serate. (Si

comportava come se non fosse di colore,

anche se il suo inglese lo tradiva subito.)

Quando arrivai al palco vidi King Oliver

con tutti i suoi ragazzi che si facevano una


fumatina in attesa che arrivassi io per

cominciare il primo pezzo. Il locale si

andava affollando, erano presenti tutti i

migliori musicisti della città, compreso

Louis Panico, l’asso bianco della tromba, e

Isham Jones, che apparteneva alla stessa

orchestra, e di cui tutti parlavano.

Ero emozionatissimo quando presi posto

insieme a quel favoloso gruppo di musicisti:

Johnny e Baby Dodds, Honore Dutrey, Bill


Johnson, Lil Hardin e naturalmente il capo.

Era una gran bella cosa suonare di nuovo

insieme con Baby Dodds, e mi fece piacere

sentire

che

aveva

smesso

di

bere

smoderatamente, e si dedicava anima e


corpo alla musica. Era sempre un mago della

batteria, e certo quella sera suonai con più

slancio perché lo sentivo battere quelle sue

bacchette al ritmo di uno dei miei riff.

Johnny Dodds era un ragazzo bello e sano,

e le sue variazioni erano morbide e perfette.

Era fissato con i risultati delle partite di

baseball, ed era un tifoso dei White Sox.

Compravamo insieme il Daily News. Lui si

teneva la pagina del baseball e a me dava il


resto del giornale.

Bill Johnson, il contrabbassista, mi colpì

in modo speciale quella prima sera al

Gardens. Era uno dei ragazzi della Creole

Jazz Band originaria, e uno dei primi a

venire al Nord e ad avere successo

musicale. Aveva i lineamenti e anche la voce

di un ragazzo bianco, un ragazzo bianco del

Sud, per giunta. Aveva uno straordinario

senso dell’umorismo.
Anche Dutrey era simpaticissimo e aveva

proprio

un

bel

carattere.

Ricordavo

perfettamente che da ragazzino seguivo lui e

Joe Oliver per giornate intere alle sfilate dei

cortei per le strade di New Orleans. Quando

fu congedato dalla Marina si trasferì a


Chicago e lì entrò a far parte della band di

Joe Oliver poche settimane prima che

arrivassi io. Suonava sempre benissimo, ma

aveva un grosso problema: il fiato corto.

Tutte le volte che doveva eseguire un assolo

un po’faticoso, andava dietro il palco a

spruzzarsi il naso e la gola. Dopodiché, tutti

dovevano stare bene attenti perché tornava in

scena e soffiava dentro quel trombone come

un dannato. Non capivo come potesse


farcela.

Per essere una donna, Lil Hardin era

davvero straordinaria. E quella sera mi

sorprese per il ritmo che aveva. Era un caso

eccezionale una donna che aveva ottenuto il

massimo dei voti alla Fisk University, e che

suonava così bene il jazz. Si era addestrata

con Joe Oliver, Freddy Keppard, Sugar

Johnny, Lawrence Dewey, Tany Johnson e

molti altri grandi pionieri di New Orleans.


Se non si fosse imbattuta in quei suonatori

d’eccezione, avrebbe forse sposato un

importante uomo politico, o si sarebbe

dedicata alla musica classica. In seguito

scoprii che Lil era impegnata anche

all’Idleweise Gardens, dopo le ore di lavoro

con noi, e mi chiesi come riuscisse a trovare

il tempo per dormire. Sapevo che quei tipi di

New Orleans potevano resistere benissimo a

certe fatiche, ma per una donna era uno


sforzo considerevole.

Subito dopo le prime note quella sera al

Lincoln Gardens mi resi conto che le cose

sarebbero andate bene. Quando Papa Joe

cominciò a soffiare nella sua cornetta mi

sembrò che fossimo tornati ai vecchi tempi.

Il primo pezzo ebbe un tale successo che

dovemmo concedere il bis. Fu allora che io

e Joe sviluppammo un piccolo sistema

nostro per gli assolo improvvisati nei duetti.


Non occorreva scriverli: io ero così in

sintonia con lui e sentivo così intensamente

la sua musica, che potevo seguirlo ovunque

andasse in una frazione di secondo. Nessuno

riusciva a capire come facessimo, ma a noi

riusciva facile e continuammo così per tutta

la sera.

Io eseguii il mio primo assolo verso la

fine della serata. Non cercai di eclissare

Papa Joe, perché sentivo che gli applausi e il


successo che avremmo ottenuto spettavano a

lui. Era capace di soffiare abbastanza per

tutti e due. Gli andavo dietro senza mai

sognarmi di rubargli la scena o altre

stupidaggini del genere.

Ogni pezzo quella sera del mio debutto fu

un successone. Ma un successo particolare

lo riscosse un brano chiamato “Eccentric” in

cui Joe faceva tutta una serie di assolo

improvvisati. Cominciava con un registro di


quattro battute, e poi era la volta

dell’orchestra. Poi faceva un altro registro di

quattro battute e infine proprio all’ultima

ripresa Joe e Bill Johnson facevano una

specie di scenetta musicale. Joe produceva

un suono che sembrava il pianto di un

bambino, e Bill Johnson a sua volta

produceva una voce di donna dal timbro

acuto e gentile che cercava di calmare il

bimbo. Mentre la cornetta di Joe piangeva,


quella di Bill la interrompeva con una serie

di note alte, come per dire: “Non piangere,

piccolo”. E infine quel gioco strepitoso

esplodeva in un bisticcio selvaggio e

rumoroso fra la bambinaia e il piccino, e la

sala veniva giù per le risate e gli applausi.

Al termine della serata attaccammo un po’

di musica da ballo, e tutti gridarono: “Fate

suonare quello giovane!”, che poi ero io. Joe

fu meraviglioso e mi lasciò suonare il blues


a modo mio. Ero alle stelle!

Papa Joe fu così contento che suonò

mezz’ora oltre il tempo stabilito. I ragazzi

che venivano dal centro rimasero ad

ascoltare finché non suonammo l’ultima nota,

e poi vennero a parlarci mentre mettevamo a

posto i nostri strumenti. Si congratularono

molto con Joe, sia per la sua bravura sia per

avermi fatto venire da New Orleans. Ero

così felice che non sapevo più cosa dovevo


fare.

Finalmente avevo sfondato. Mi trovavo

nel Nord con i più grandi. Suonavo con il

mio idolo, il Re, Joe Oliver. Il mio sogno di

ragazzo si era finalmente avverato.


Document Outline
Prefazione
Nota al testo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14

Potrebbero piacerti anche