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La metro

Cammino per la strada. Mi guardo intorno con gli


occhi sbarrati. Il cielo piatto si ritira e rimbomba come un foglio
metallico. Sento dei passi dietro di me, mi giro e guardo: un
individuo con una faccia orrenda di pollo mi corre dietro con gli
artigli in alto ma quando mi giro si ritira pio come uno shaolin e
scompare. A sinistra dei poli giganti si rincorrono con le falce.
Davanti individui con una maschera camosciata arrivano con le
motoseghe per aria: OK!, qui ci sono le scale che portano alla
metropolitana, mi butto come dal margine di una piscina, aterro
nella piscina, un dente mi salta come un tappo e ne esce un suono
allegro e rinfrescante, la mia stessa saliva mi irriga la bocca come
una schweppes dall'interno. Esco dalla piscina corro alla metro,
«c'è un mondo normale qui, YO, tira sù bene i vestiti!» mi urla
qualcuno con una faccia orrendo di pollo, e me li tiro, me li tengo
con le zampe sotto il mio mento peloso.
La metro arriva e noi come pellicani neri gli
corriamo dietro sui nostri polpacci sottili, sembriamo dei stupidi
lungoni sui trampoli. Nessun problema. Si apre a metà una porta
della metropolitana: TSFUSSSSSSS!, esce un sacco di vapore, ci
stringiamo l'uno sull l'altro, uno dà una testata nella finestra e
salta all'interno, un altro come Hulk dà un colpo nella costa del
treno, un altro come Superman lo solleva intero, escalation,
«cosa fai, BRO?? lascia lì!» li urlo e gli tiro un montante, profitto
e gli salto in testa coi zoccoli, attero, cerco un posto, è vitale, non
c'è posto, sto in piedi.
Guardo la fauna circostante. Una metropolitana di
bestie spettrali. Vecchie bestie tra altre più giovani, più gioviali.
Ansimo con la lingua di fuori, le branchie mi pulsano, tremo un
po', dopo tutto io sono umano, giusto? Mi sorreggo a un palo di
sostegno li apposta solo per me. Il mio nome è su di esso: "palo
di sostegno", leggo.
Ad un certo punto, la metropolitana si ferma e
guardiamo tutti accigliati verso la porta. Non vogliamo che entri
il bue che pure entra. Allora il tizio accanto a me si gira con una
piroetta teatrale, tira fuori una zampa con artigli metallici e in
una mossa, taglia la testa del bue che entra. La taglia e la butta
all'altra estremità del vagone dalla base della clavicola. Fisso la
base di questa clavicola. Tutte le teste e gli occhi si girano dietro
la testa di bue. Qualcuno inizia a urlare: «Gol!!! Gol!!!
Golgolgolgolgol!!!», saltano tutti con le zampe per aria, il corpo
di bue senza testa sprizza sangue intorno come uno champagne,
individui pieni di sangue schizzato dalla gola tagliata si gettano a
vicenda sopra la testa, sembrano una squadra di rugby.
Guardo la testa di bue risucchiata in fondo al
vagone: mi aspettavo che mi lasciassero qualcosa. Niente hanno
lasciato. La metropolitana si ferma. Il tizio che ha tagliato la testa
inforca il resto della carcassa ed esce.
La metropolitana riparte.

D.

La mia amica D. mi ha invitata oggi a giocare a carte


e io vado come se non avessi niente da fare. Cammino per la
strada, è normale che tu vada e arrivi. Busso alla porta, mi apre
ed entro.
«Cosa fai?» le chiedo, «hai un brutto ceffo.»
«Sì, beh, non mi sento bene. Sta tranquilla, non
muoio oggi.»
«HM», ringhio, «chissà, tutto è possibile», la
incoraggio.
Lei gira un pò per la casa, gira su se stessa per
qualche istante, gobba in mezzo alla stanza. Dalla finestra la luce
entra grigia e bavosa come saliva che colla da una bocca aperta.
Infatti, una saliva colla sulla finestra. Arrivo subito alla finestra
ne prendo un po' con il dito annuso e guardo l'enorme bocca
aperta all'esterno, guardo i suoi denti marci, con una luce, il collo
all'interno, come è tagliato, quindi gli chiudo la finestra nel naso
e mi giro. La mia amica D. al tavolo in mezzo alla stanza
mescola svogliata le carte con le sue dita sottili e giallastre, facili
da rompere e da masticare.
«Cosa fai, ti è passato un pò?» le chiedo.
Lei, bionda, mi guarda placida con gli occhi
incrociati. Ha un occhio rosso completo.
«Non ancora, giochiamo, per quello che ti ho
chiamato».
«Subito» dico, e mi siedo accanto a lei.
Inizia a distribuire le carte. A volte tira meglio la
veste sui suoi piccoli seni trema e scrolla le spalle.
«Ti faccio un tè?» le chiedo, fissando i suoi seni
cadenti.
«Se vuoi» dice con una faccia smunta, e guarda il
cielo, butta i suoi occhi d'argento sopra la testa un attimo.
«Ok» le dico, e mi dirigo verso la piccola stufa.
Prendo il bollitore prendo limone e un pezzo di pomodoro e
metto nel bollitore, metto il latte di calce e lo spengo, preparo il
tè alla ragazza. Finisco, lo verso in una tazza con tatto e glielo
porto, metto un paio di fette di pane e glielo tendo.
«Grazie» dice.
«Di niente» rispondo.
Beve, sorseggia, si lecca le dita con le labbra
bianche. Io guardo con interesse le carte, e sopra di loro, con
molto interesse, lei. A volte casca la bocca. Sta con la bocca
aperta come se sbadigliasse ma non sbadiglia, apre solo la bocca.
Chino gli occhi, alzo gli occhi e la vedo tutto in una volta aprire
la bocca e vomitare un grassa larva bianca di mezzo metro.
D. chiude la bocca e si pulisce con un dito agli
angoli. La larva mucillaginosa cade con un pioppo! sotto il
tavolo.
Poggio la mie carte.

La vecchia american-psycho

Oggi come al solito, vado al lavoro, vado a lavare


cessi. Cammino a piedi, fa caldo, un sacco di auto, l'aria è
irrespirabile, vorrei sborsare un bazooka e farli saltare in aria.
Non ne posso più, sono stufa. Delle automobili e del mondo.
Sono storpi, non possono andare a piedi. «Dannazione!» urlo a
un tizio che guidava la macchina e mi ha quasi investita sui
pedoni. Infine, con la maglietta piena di sudore e i capelli sulla
fronte come una maschera di alghe arrivo all'immobile.
L'immobile luccicante vibra come una navetta stellare. Salgo le
scale, li conto con la mascella, otto piani senza ascensore,
diecimila scale fin sù, striscio, mi arrampico con la lingua e alla
fine arrivo. Busso e suono alla porta. La vecchia non risponde.
Forse è morta, la gente muore di tanto in tanto. Busso di nuovo e
sento un pestare di zoccoli. Fanno avanti e indietro dietro la porta
poi saltano in alto; sento una zoccolata nel muro e un corno
penetra attraverso la porta insieme a una lunga lama di pugnale
da caccia, il sangue implode come da un tubo di irrigazione mi
schizza in faccia mi colla sugli... Aspetta un attimo, dormo di
nuovo? mi chiedo, e apro gli occhi: guardo la vecchia che mi
guarda. Sbatte le palpebre appoggiata a un supporto per i disabili
con un aria da cannibale. Mi fa segno per entrare ed entro. Mi
segue trascinando una spessa pantofola di poliomielite come se
fosse vuota e infatti la scarpa rimane indietro, il piede monco. In
giro ci sono montagne di carta, montagne di sporcizia, montagne
di ogni tipo e polvere sopra di loro, in grandi strati, è il suolo
lunare qui dentro. Mi guardo un po' intorno e sbuffo di fronte a
lei. «Che il diavolo ti porti» le mormoro. «Non puoi costringermi
a farlo, non posso, voglio dire, fare qualsiasi cosa, io, per 15
euro». La vecchia mi guarda a lungo. I suoi capelli leccati sopra
la fronte mi sorridono come una bocca.
«Di dove vuoi cominciare...?» mi chiede con una
voce sottile, la vecchia, e si lecca i capelli con la lingua.
«In realtà voglio andarmene», li ringhio, guardando
a lungo i giornali, le pile di giornali con offerte di bare per il
funerale, fa raccolta di promozioni alle bare, la vecchia. Do
un'occhiata in bagno: il pavimento è pieno di carta igienica con
cui si è pulita, WOW, nella camera sotto il letto, scarpe con tacco
affilato di lap dance. Ehm, cosa fa la vecchia con questi? mi
chiedo, e comincio a gettare tutto in una scatola, come esce e
come mi viene, tovaglioli pasticciati pieni di muco, preservativi,
di questi trovo sotto il cuscino e vicino al finestrino rotto pronto a
cadermi in testa.
Faccio il letto. Sotto le coperte, un pugnale pieno di
sangue. Guardo la vecchia e la vecchia guarda verso di me.
Nell'armadio la carcassa di un caprone pendola dalla gruccia. Ok,
dico e lo sposto un pò. Nella parte posteriore, carcasse di donne
le une sopra le altre con le gole tagliate, guardo per sporcizia, io,
il resto sono affari suoi.
Vado in cucina. Nella cucina le piastrelle sono piene
di sangue, più fresco e più vecchio, più arcaico. In un angolo ci
sono degli intestini rimasti.
«Fino a che ora puoi rimanereeeee? Hai mica
mamma, parenti...?» mi chiede la vecchia.
Mi giro lentamente e noto che a una gamba ha uno
zoccolo da cui pesta. Il ghigno malefico li risplende insieme alla
gengive dietro gli occhiali.
«Beh... ancora un po', di certo non fino a domani.
Ma perché me lo chiede?» le domando e mi distraggo, guardo sul
pavimento le buste con una sostanza blu gettate ovunque. Ha
anche scarafaggi qui dentro, mi dico, e mi vien da gettarmi da
questa finestra aperta.
«Questi intestini dove li metto?» le chiedo con la
mano sugli intestini, e mi dirigo verso l'angolo sinistro dove è
appesa una tenda. La sposto un po' e mi fermo: un gigante
scarafaggio nero mi fa un segno discreto di chiudere. Io lo
guardo: «come vuoi» gli dico e mi giro. La vecchia signora dietro
pronta con il pugnale in mano il Scarafaggio gli sputa in faccia
un acido la vecchia apre la bocca sdentata e ruggisce il caprone
nell'armadio butta dai trampoli il caprone esce dal armadio con
una piccola testa di donna al posto della testa di capro, prendo la
vecchia e cerco di gettarla dalla finestra la vecchia si gira e và nel
soffitto insieme allo Scarafaggio gigante poi corrono tutte e due
sui muri e il caprone con la testa tagliata dopo di loro.
Alla fine la vecchia cade dal terzo piano.
Scendiamo, io e il capro senza testa sulla schiena del
Scarafaggio.
Non è morta.
Scappiamo.

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