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EMMANUEL BOVE

I MIEI AMICI








Traduzione di Beppe Sebaste


















Feltrinelli

Titolo originale dell'opera
MES AMIS
Flammarion, 1977
Traduzione dal francese di
BEPPE SEBASTE
Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione in "Impronte" febbraio 1991
ISBN 88-07-05082-X




























I
1.

Quando mi sveglio, la mia bocca aperta. I denti sono unti: lavarli la sera sarebbe meglio, ma non ne
ho mai il coraggio. Agli angoli delle palpebre mi si sono asciugate delle lacrime. Le spalle non mi fan pi
male. Una ciocca di capelli induriti mi copre la fronte. Li butto all'indietro con le dita aperte. inutile:
come pagine di un libro nuovo, si raddrizzano e mi ricadono sugli occhi.
Quando abbasso la testa, sento che la barba mi cresciuta: mi punge il collo.
La nuca tiepida, resta li sulla schiena con gli occhi aperti, le lenzuola tirate fino al mento perch non si
raffreddi il letto.
Sul soffitto ci sono macchie di umidit: cos vicino il letto. Sotto la carta da parati, in certi punti
passa dell'aria. I mobili assomigliano a quelli esposti dai robivecchi, lungo i marciapiedi. Il tubo della
stufa fasciato da imo straccio, come un ginocchio. In alto, sopra la finestra, un avvolgibile rotto pende
di traverso.
Quando mi allungo, sento contro la pianta dei piedi le sbarre verticali del letto, come un equilibrista
sulla corda.
I vestiti, che mi pesano sopra le gambe, sono tiepidi e piatti da una parte soltanto. I lacci delle scarpe
sono senza punte.
Se piove la camera diventa fredda. come se non vi abbia dormito nessuno. L'acqua, scivolando per
tutta la superficie del vetro, corrode lo stucco e forma una pozzanghera per terra.
Quando il sole sfavilla da solo nel cielo proietta la sua luce dorata al centro della stanza. Allora le
mosche tracciano sul pavimento mille linee rette.

Ogni mattina, la mia vicina canta senza le parole mentre sposta i mobili. La sua voce attutita dalle
pareti. Ho l'impressione di essere dietro a un grammofono.
Spesso la incrocio nelle scale. Fa la lattaia. Alle nove torna per riordinare la casa. Il feltro delle sue
pantofole macchiato da gocce di latte.
Mi piacciono le donne in pantofole: le gambe hanno l'aria pi indifesa.
In estate le si vedono le mammelle e le spalline della sottoveste, sotto la camicetta.
Le ho detto che l'amavo. Lei ha riso, sicuramente perch non ho un bell'aspetto e sono povero.
Preferisce gli uomini che portano un'uniforme. L'hanno vista: aveva una mano sotto il cinturone di una
guardia repubblicana.
Un vecchio occupa un'altra stanza. ammalato gravemente: tossisce. Sulla punta del suo bastone c'
un pezzo di gomma. Le scapole gli fanno due gobbe sulla schiena. Ha una vena in rilievo che gli
attraversa la tempia, tra l'osso e la pelle. La giacca non gli tocca pi le anche: saltella come se le tasche
fossero vuote. Il poveruomo sale i gradini uno per volta, senza lasciare mai la ringhiera. Quando lo
vedo aspiro quanta pi aria possibile, per oltrepassarlo senza dover riprendere fiato.
La domenica viene a trovarlo sua figlia. elegante. Le fodere del suo palt sembrano le piume di un
pappagallo. Sono cos belle che mi chiedo sempre se non sia alla rovescia. Quanto al cappello, esso ha
un grande valore perch, quando piove, viene sempre in taxi. Questa signora sa di profumo, di profumo
vero, non di quello che vendono nei tubetti di vetro.
Gli inquilini della mia casa la odiano. Dicono che, invece di fare la bella vita, sarebbe meglio che
togliesse il padre dalla miseria.
Anche la famiglia Lecoin abita sul mio pianerottolo.
La mattina presto fanno suonare una sveglia.
Al marito io non piaccio. Per con lui sono gentile. Ce l'ha con me perch mi alzo tardi.
Con gli abiti da lavoro avvolti sotto il braccio, tutte le sere torna a casa verso le sette, fumando una
sigaretta inglese - ci che fa dire alla gente che gli operai si guadagnano bene da vivere.
alto e muscoloso. Basta un complimento per servirsi della sua forza. L'anno scorso ha portato gi il
baule della signora del terzo piano, anche se a fatica, perch il coperchio non si chiudeva.

Quando qualcuno gli rivolge la parola si mette a fissarlo, perch immagina che voglia prenderlo in
giro. Al minimo sorriso dice: "Lei sa... quattro anni di guerra... io. I tedeschi non me l'hanno fatta... Non
sar mica lei a farmela..."
Un giorno, passandomi vicino ha detto sottovoce: "Fannullone!" Sono diventato pallido e non ho
saputo che cosa rispondere. La paura di avere un nemico m'imped di dormire per una settimana.
Pensavo che mi volesse picchiare, che mi odiasse a morte.
Eppure, se solo il signor Lecoin sapesse come amo i lavoratori, come ho compassione della loro vita.
Se sapesse quante privazioni mi costa la mia piccola indipendenza.
Ha due figlie che picchia soltanto con le mani, per il loro bene. Dietro le ginocchia hanno dei tendini.
Il loro cappello tenuto da un elastico.
Mi piacciono i bambini, cos, quando incontro quelle due monelline, rivolgo loro la parola. Allora
camminano all'indietro, e bruscamente, senza rispondermi, si mettono a scappare.
Ogni marted la signora Lecoin lava le scale. Il rubinetto scorre tutto il giorno. Man mano che le
brocche si riempiono cambia il rumore. La sottana della signora Lecoin fuori moda. La sua crocchia
cos stretta che si vedono tutte le forcine. Spesso fissa lo sguardo su di me, per io non mi fido, perch
molto probabile che voglia tendermi una trappola. D'altronde senza petto.

Appena uscito dalle lenzuola mi siedo sul bordo del letto. Le gambe mi penzolano a partire dal
ginocchio. I pori delle cosce sono neri. Le unghie dei piedi sono dure e taglienti: un estraneo le
troverebbe brutte.
Mi alzo. La testa mi gira, ma la vertigine scompare quasi subito. Quando c' il sole, una nuvola di
polvere che scappa dal letto brilla un minuto nei raggi, come la pioggia.
Per prima cosa mi metto le calze, altrimenti mi si incollano dei fiammiferi alla pianta dei piedi.
Appoggiandomi a una sedia mi infilo i pantaloni.
Prima di mettermi le scarpe esamino le suole, per rendermi conto della loro durata.
Dopo metto sul secchio della toeletta la bacinella dell'acqua, che ha l'orlo dello sporco del giorno
prima. Ho la mania di lavarmi piegato, a gambe aperte, con le bretelle agganciate solo dietro. Al
reggimento mi lavavo cos dentro la marmitta del rancio. La bacinella cos piccola che quando
immergo entrambe le mani l'acqua si rovescia. Il sapone non fa schiuma: troppo sottile.
Uso un solo asciugamano per le mani e la faccia. Se fossi ricco, farei la stessa cosa.
Una volta lavato mi sento meglio. Respiro dal naso. I denti sono nitidi. Le mani mi rimarranno
bianche fino a mezzogiorno.
Metto il cappello. L'orlo ondulato dalla pioggia. Il nastro alla moda: messo dietro.
Appendo lo specchio alla finestra. Mi piace guardarmi in faccia alla luce. Mi trovo pi bello. Gli
zigomi, il naso e il mento sono illuminati; un'ombra annerisce il resto del volto. Si direbbe che sono
stato fotografato al sole.
Bisognerebbe che non mi allontanassi mai dallo specchio, perch di qualit scadente. A distanza mi
deforma l'immagine.
Mi esamino accuratamente le narici, l'angolo degli occhi, i molari. Questi ultimi sono cariati. Non
cadono mai, si rompono. Aiutandomi con un altro specchio cerco di sorprendere il mio profilo. Allora
ho l'impressione di essere sdoppiato. Gli attori del cinema conoscono sicuramente questo piacere.
Poi apro la finestra: la porta si mette a vibrare, la stampa del '14-'18 si muove contro il muro. Sento
battere dei tappeti. Vedo dei tetti azzurri di zinco, dei camini, una bruma che si muove mentre un raggio
di sole la trafigge, e la torre Eiffel con l'ascensore in mezzo.
Prima di uscire do un'occhiata alla camera. Il letto gi freddo. Dal guanciale escono a met delle
piume. Nelle gambe della sedia ci sono dei buchi per le sbarre di legno. Le due sezioni del tavolo tondo
sono sbilenche.
Quei mobili mi appartengono. Me li ha regalati un amico prima di morire. Li ho disinfettati io stesso
con lo zolfo, perch ho paura delle malattie contagiose.
Nonostante queste precauzioni, per molto tempo ho avuto paura. Voglio vivere.
Indosso il soprabito. Faccio fatica, perch la fodera delle maniche scucita.
Metto il libretto militare, la chiave e il fazzoletto sporco, che scricchiola quando lo piego, nella tasca
sinistra. Ho una spalla pi alta: il peso di questi oggetti la dovrebbe abbassare.
La porta non si apre del tutto. Per uscire mi abbottono e passo di traverso.
Le piastrelle del pianerottolo sono crepate. Una sbarra di ferro con tre buchi pende dal finestrino. La
ringhiera delle scale finisce nel muro, senza pomelli di vetro.
Scendo le scale rasente il muro, dove i gradini sono pi larghi. Per non sporcare le mani evito di
tenermi alla ringhiera. Alle serrature delle porte ci sono mazzi di chiavi penzolanti.
Mi sento leggero, come il primo giorno di uscita senza soprabito. L'acqua della bacinella mi bagna
ancora le ciglia e il fondo delle orecchie. Compiango quelli che dormono ancora.
Incontro sempre la portinaia. Appoggia gli zerbini sulla ringhiera per scopare sui pianerottoli, oppure
strofina un corridoio con uno spazzolone giallo. Le dico buongiorno. Lei mi risponde appena,
guardandomi le scarpe.
Lei vorrebbe essere sola nella casa, dopo le otto.

2.
Abito a Montrouge.
Gli edifici nuovi della mia strada hanno ancora l'odore di pietra tagliata.
La mia casa, invece, non nuova. Il gesso della facciata cade a pezzi. Le finestre sono attraversate da
delle travi di sostegno. Il tetto fa da soffitto all'ultimo piano. Le imposte si fissano al muro con un
gancio, quando non c' vento. L'architetto non ha scolpito il suo nome sopra il numero.

Di mattina la strada tranquilla. C' una portinaia che scopa per terra, davanti alla sua porta soltanto.
Quando le passo vicino respiro col naso, per via della polvere.
Dalle finestre socchiuse spio gli appartamenti del pianterreno. Vedo delle piante verdi che sono state
appena annaffiate, dei paralumi fatti con bossoli di granata rossastri e rilucenti, delle lame di parquet
sottili e tirate a cera, disposte a zig zag.
Quando il mio sguardo incontra quello di un inquilino, sono imbarazzato.
A volte un panno bianco si muove ad altezza d'uomo dietro una tenda: qualcuno si lava.
Prendo il caff in un barettino sotto casa. Lo zinco del banco ha il bordo ondulato. Nel pavimento
lavato con lo straccio si indovina l'et del legno. Un grammofono, che andava prima della guerra,
girato contro il muro. Ci si chiede che cosa ci faccia l, visto che non funziona.
Il barista gentile. piccolo come un soldato che sta in coda al reggimento. Ha un occhio di vetro
che imita cos bene quello vero, che non so mai quale sia quello buono - il che fastidioso. Mi pare che
si offenda quando gli guardo l'occhio finto.
Mi ha giurato di essere stato ferito in guerra. Ma si dice che fosse gi orbo nel 1914.
Il brav'uomo si lamenta in continuazione. Gli affari non vanno pi. Ha un bell'asciugare i bicchieri
davanti ai clienti, dire "Grazie, signore; arrivederci, signore; lasci pure aperto": non viene nessuno.
Vorrebbe che la guerra fosse dimenticata. Rimpiange l'anno 1910.
A quell'epoca, pare, la gente era onesta, socievole. L'esercito si faceva rispettare. Si poteva fare credito.
Ci si interessava ai problemi sociali.
Quando parla di queste cose, tutt'e due gli occhi - falsi - gli diventano umidi, e le ciglia si uniscono tra
loro formando delle piccole ciocche.
L'anteguerra si oscurato cos in fretta che non riesce a credere che ormai solo un ricordo.
Anche noi affrontiamo insieme i problemi sociali. Ci tiene. Per lui la prova che la guerra non l'ha
cambiato.
Ogni giorno mi assicura che in Germania, paese meglio organizzato del nostro, non esistono pi
mendicanti. I ministri francesi dovrebbero vietare la mendicit.
"Ma vietata!"
"Ma andiamo! E tutti quegli straccioni che vendono lacci da scarpe! Sono pi ricchi di lei e di me."
Siccome non mi piace litigare, mi guardo bene dal rispondere. Mando gi il caff, che una goccia di
latte ha fatto diventare marrone, pago ed esco.
"A domani!" grida mentre ripone la tazza ancora calda sotto un filo d'acqua che si pu chiudere solo
dalla cantina.
Pi lontano c' una drogheria.
Il padrone mi conosce. cos grasso che il suo grembiule pi corto davanti che dietro. Gli si vede la
pelle sotto i capelli a spazzola. I baffi "all'americana" gli turano le narici e devono impedirgli di respirare
dal naso.
Davanti al negozio ha un banco piuttosto stretto - per maggior prudenza - con sopra sacchi di
lenticchie, prugne secche e vasi di caramelle. Per servire viene fuori, ma pesa all'interno.
Un tempo, quando restava sulla soglia, ci mettevamo a parlare. Mi chiedeva se avevo trovato qualcosa,
oppure mi diceva che avevo un'ottima cera. Poi rientrava facendomi un segno con la mano che voleva
dire: "A un'altra volta".
Un giorno mi preg di aiutarlo a trasportare una cassa. Avrei acconsentito volentieri, ma ho sempre
avuto paura delle ernie.
Rifiutai balbettando:
"Non sono forte, sono un grande invalido."
Dopo quell'incidente non mi ha pi rivolto la parola.
Nella mia strada c' anche una macelleria.
Dei quarti di carne sono appesi per i tendini a degli uncini d'argento. Il banco da lavoro consumato
al centro, come uno scalino. Dei filetti di bue legati tra loro sanguinano su della carta gialla. La segatura
s'incolla ai piedi dei clienti. I pesi forbiti sono allineati in ordine di grandezza. C' anche una griglia,
come se temessero che la carne possa scappare.
Di sera, attraverso la griglia verniciata di rosso, vedo delle piante verdi sul marmo nudo dell'entrata.
Il padrone della macelleria non si ricorda di me: ho comprato soltanto quattro soldi di scarti per un
gatto scabbioso, l'anno scorso.
La panetteria tenuta bene. Tutte le mattine una ragazza lava l'entrata. Dei rivoli d'acqua scorrono
lungo il marciapiede.
Dalla vetrina si vede la bottega intera, con gli specchi e le decorazioni di legno stile Luigi XV, e le
torte messe sopra dei piatti di fil di ferro.
Sebbene la panetteria sia frequentata solo da persone agiate, io faccio parte della clientela, tanto il
pane costa uguale dappertutto.
Spesso mi fermo davanti a una merceria dove i monelli del quartiere comprano i petardi.
Fuori, su un tavolo, ci sono dei giornali piegati di cui si pu leggere solo la met del titolo.
Soltanto "l'Excelsior" disteso come una tovaglia.
Guardo le immagini. Le foto troppo grandi raffigurano sempre le stesse cose: un ring, una rivoltella
con le cartucce.
Appena la merciaia mi vede arrivare esce dal negozio, seguita da un odore di giocattoli dipinti e di
cotone nuovo.
magra e vecchia. I vetri dei suoi occhiali sembrano lenti d'ingrandimento. Una reticella da
bambinaia le imprigiona la crocchia di capelli secchi. Le sue labbra sono rientrate nella bocca e non ne
escono pi. Il grembiule nero le modella un ventre che sembra fuori posto. Per cambiare cinque franchi
scompare nel retrobottega.
Le chiedo come sta.
Non rispondermi sarebbe troppo scortese; cos scuote la testa. La porta che ha lasciato aperta mi fa
capire che aspetta che me ne vada.
Un giorno ho sollevato il giornale per leggere dei caratteri molto piccoli.
"Costa tre soldi."
Mi venne voglia di farle sapere che avevo fatto la guerra, che ero un invalido, avevo la medaglia
militare e prendevo la pensione, ma capii subito che sarebbe stato inutile.
Andandomene ho sentito la porta che si chiudeva con un rumore di parafango.

Sono costretto a passare davanti alla latteria dove lavora la mia vicina. Mi disturba, perch sicuramente
ha raccontato della mia dichiarazione d'amore. Devono farsi beffe di me.
Allora cammino pi in fretta, distinguendo, con un colpo d'occhio, dei pani di burro striati con un
filo, dei paesaggi sulla carta dei camembert e una retina sopra le uova, a causa dei ladri.
3.
Quando mi viene la voglia di lusso vado a passeggiare intorno alla Madeleine. un quartiere ricco. Le
strade odorano di lastricato di legno e di tubi di scappamento. Il turbine di gas che segue gli autobus e i
taxi mi schiaffeggia il volto e le mani. Davanti ai caff, le voci che percepisco un istante sembrano
uscire da un altoparlante che gira. Resto in contemplazione delle automobili ferme. Le donne lasciano
una scia di profumo. Attraverso i viali solo quando un agente interrompe il traffico.
Immagino che malgrado i miei abiti logori le persone sedute ai tavoli nelle terrazze mi notino.
Una volta, una signora seduta di fronte a una teiera minuscola mi ha osservato.
Felice, colmo di speranza, sono tornato sui miei passi. I clienti per hanno sorriso, e il cameriere mi
ha i cercato con gli occhi.
Mi sono ricordato a lungo di quella sconosciuta, della sua gola, dei suoi seni. Di sicuro le ero piaciuto.
A letto, quando udivo suonare mezzanotte, ero certo che lei mi pensasse.
Ah, come vorrei essere ricco!
Il collo di pelliccia del mio soprabito susciterebbe ammirazione, soprattutto in periferia. La giacca mi
starebbe aperta. Una catenina d'oro mi attraverserebbe il gilet; un'altra d'argento congiungerebbe il
borsellino alle bretelle. Il portafogli si troverebbe nella tasca posteriore dei pantaloni, come quello degli
Americani. Un orologio da polso mi obbligherebbe a fare un gesto elegante per guardare l'ora. Metterei
le mani nelle tasche del gilet coi pollici in fuori, e non come fanno i nuovi ricchi, lungo i risvolti.

Avrei un'amante, un'attrice.
Andremmo insieme a prendere l'aperitivo nella terrazza del pi grande caff di Parigi. Per farci
passare, il cameriere sposterebbe i tavolini come se fossero botti. Un pezzo di ghiaccio galleggerebbe
nei nostri bicchieri. Il giunco delle nostre sedie non si spaglierebbe.
Andremmo a cenare in un ristorante con le tovaglie e dei fiori di diversi steli.
Lei entrerebbe per prima. Degli specchi ben lustri rimanderebbero cento volte il mio profilo, come
una fila di lampioni a gas. Quando il direttore s'inchinerebbe per salutarci, lo sparato gli si inarcherebbe
dal colletto alla pancia. Il violinista indietreggerebbe un po', poi si slancerebbe in avanti sulla pedana,
dondolando.
Delle ciocche di capelli gli ballerebbero sugli occhi, come se fosse uscito da un bagno.

A teatro occuperemmo un palco. Sporgendomi potrei toccare il sipario. Da tutta la sala ci
osserverebbero coi binocoli.
Di colpo, le luci della ribalta, dietro le abat-jour di zinco, illuminerebbero il palcoscenico.
Scorgeremmo il profilo delle scenografie e, dietro le quinte, degli attori immobili.
Un cantante di mondo, con i lustrini, alla fine di ogni strofa ci lancerebbe uno sguardo.
Poi una ballerina compirebbe delle evoluzioni sulle punte dei piedi. Le luci rosse, verdi e gialle dei fari
che la seguono, le scivolerebbero via docilmente, lievi, come la patina di colori delle illustrazioni a buon
mercato.

Al mattino andremmo al Bois de Boulogne, in taxi. Vedrei i gomiti dell'autista che si muovono.
Dai vetri sobbalzanti delle portiere distingueremmo li persone ferme da quelle che sembra che
camminino lentamente.
Quando, dentro una curva, il taxi ci sposterebbe facendoci scivolare sul sedile, ci scambieremmo un
bacio.
Una volta arrivati scenderei per primo, abbassando la testa, poi porgerei la mano alla mia compagna.
Pagherei senza guardare il tachimetro. Lascerei la porta aperta.
Verremmo spiati dai passanti; farei finta di non accorgermene.
Riceverei la mia amante in una garonnire, al pianterreno di una casa nuova.
Delle palme piatte di ferro forgiato proteggerebbero la porta del palazzo. Il campanello brillerebbe in
mezzo a una targa di bronzo. Gi dall'ingresso si riconoscerebbe, in fondo al corridoio, il legno rosso di
un ascensore.
Al mattino mi farei una doccia. La mia biancheria saprebbe di ferro da stiro. Due bottoni sganciati nel
gilet mi darebbero un'aria disinvolta.
La mia amante arriverebbe alle tre.
Le toglierei il cappello. Ci siederemmo su un divano. La bacerei sulle mani, sui gomiti, sulle spalle.
Dopo sarebbe l'amore.
Ormai ebbra, la mia amante si lascerebbe cadere. I suoi occhi ruotanti mostrerebbero il bianco. Le
slaccerei il corpetto. Avrebbe indossato, per farmi piacere, una camicetta col pizzo.
Poi si abbandonerebbe sussurrando parole d'amore, e mi bagnerebbe il mento a forza di baci.
LUCIE DUNOIS
A volte mangio alla mensa dei poveri del V Arrondissement. Sfortunatamente non mi piace molto,
perch siamo troppo numerosi e bisogna arrivare in orario. In qualunque stagione facciamo la coda sul
marciapiedi , lungo un muro. I passanti ci squadrano. sgradevole.
Preferisco la piccola bottiglieria delle rue de Seine, dove mi conoscono. La padrona si chiama Lucie
Dunois. Il suo nome, in maiuscole di smalto, incollato alla vetrina. Mancano tre lettere.
Lucie ha la pinguedine del bevitore di birra. Un anello di alluminio, ricordo del marito morto al
fronte, le orna l'indice della mano sinistra. Le sue orecchie sono molli. Le sue scarpe sono senza tacco.
Tutti i momenti si soffia sui capelli che le scappano dalla crocchia. Quando si piega, la gonna le si apre
di dietro come una castagna. Le sue pupille non sono in mezzo agli occhi, ma troppo alte, come negli
alcoolizzati.
La sala sa di botti vuote, di topi, di risciacquatura. Sul tubo del gas c' un'elica di amianto che non
gira. Di notte il becco illumina fin sotto i tavoli. Un manifesto - Legge sulla repressione dell'ubriachezza
- attaccato al muro, bene in vista. Dall'elenco telefonico vengono fuori delle pagine. Uno specchio
macchiato, graffiato dietro, decora una parete.
Mangio all'una: il pomeriggio mi sembra meno lungo.
Due muratori in camicia bianca, le guance sporche di gesso, bevono un caff che per contrasto
sembra molto nero.
Mi metto in un angolo, il pi lontano possibile dall'entrata: odio sedermi vicino a una porta. Dove
sono seduto io hanno mangiato prima degli operai. Il tavolo sporco di gusci d'uova e delle carte di un
formaggino svizzero.
Lucie gentile con me. Mi porta una minestra tutta fumante, del pane fresco che si sbriciola, un piatto
di verdura e a volte un pezzo di carne.
Finito di mangiare, il grasso mi resta attaccato alle labbra.
Ogni tre mesi, quando prendo la pensione, do cento franchi a Lucie. Non deve guadagnarci molto
con me.
La sera aspetto che tutti i clienti siano usciti, perch sono io a chiudere la bettola. Spero sempre che
Lucie mi trattenga.
Una volta mi ha detto di restare.

Dopo avere abbassato la saracinesca con un'asta, rientrai carponi nel locale. Il fatto di trovarmi in una
bottega chiusa al pubblico mi fece un'impressione strana. Non mi sentivo a mio agio.
La gioia dissip questi pensieri.
Adesso scrutavo con pi indulgenza quella che sicuramente sarebbe diventata la mia amante. Non
doveva piacere molto agli uomini, ma era pur sempre una donna, con dei seni grossi e fianchi pi larghi
dei miei.
E poi mi amava, perch mi aveva chiesto di restare.
Lucie stapp una bottiglia impolverata, si lav le mani con del sapone minerale e venne a sedermisi di
fronte. Dell'unto le luccicava ancora sull'anello e intorno alle unghie.
Mio malgrado, tendevo l'orecchio ad ogni rumore della strada.
Eravamo imbarazzati, perch lo scopo troppo visibile della mia presenza sopravanzava la nostra
intimit.
"Beviamo," disse asciugando il collo della bottiglia col grembiule.
Chiacchierammo un'ora.
L'avrei baciata volentieri se non avessi dovuto fare il giro del tavolo. Era meglio aspettare
un'occasione pi favorevole, soprattutto per un primo bacio.
D'un tratto mi chiese se conoscevo la sua camera.
Naturalmente risposi:
"No".
Ci alzammo. Un brivido mi fece stringere i gomiti. Prima di tirare la cordicella della lampada a gas,
accese una candela. Le gocce di cera che le caddero sulle dita seccarono subito. Le fece saltare con
l'unghia, senza spezzarle.
La fiamma della candela vacill nella cucina, poi si appiatt mentre salimmo le scale, ripide come pioli,
che conducevano alla camera.
La seguivo con la mente vuota, camminando istintivamente con la punta dei piedi.
Abbass la candela per illuminare il buco della serratura, poi apr la porta.
Le persiane della camera erano chiuse, come di sicuro lo erano state tutto il giorno. I panni del letto
pendevano dallo schienale di una sedia. Si vedevano le strisce rosse del materasso. L'armadio era
semiaperto. Pensai che i risparmi di Lucie dovevano essere l dentro, sotto una pila di biancheria. Per
delicatezza, guardai da un'altra parte.
Mi mostr gli ingrandimenti fotografici che ornavano le pareti, poi si sedette sul letto. La raggiunsi.
"Come trova la mia camera?"
"Molto bella."
All'improvviso la strinsi, come per impedirle di cadere. Non si difese. Incoraggiato dal suo
atteggiamento la baciai mille volte, mentre con una mano la spogliavo. Mi sarebbe piaciuto, alla maniera
dei grandi innamorati, staccarle i bottoni e strapparle il vestito, ma il timore che mi facesse
un'osservazione mi trattenne.
Ben presto le rest solo il busto. Le stecchette erano storte. Un laccio le legava la schiena. I seni si
toccavano.
Le slacciai il busto tremando. La camicetta ader per un attimo alla vita, poi cadde.
Lo tolsi a fatica, perch il collo troppo stretto non passava dalle spalle. Le lasciai solo le calze, perch
secondo me pi bello. Del resto sui giornali le donne svestite hanno sempre le calze.
Finalmente apparve nuda. Le sue cosce traboccavano sopra le giarrettiere. La colonna vertebrale le
ammaccava la pelle all'altezza delle reni. Era vaccinata sulle braccia.
Persi la testa. Dei brividi mi corsero lungo il corpo, simili a quelli che scuotono le gambe dei cavalli.

L'indomani mattina, verso le cinque, Lucie mi svegli. Era gi vestita. Non osavo guardarla perch,
prima dell'alba, non sono bello.
"Sbrigati, Victor, bisogna che scenda."
Anche se mezzo addormentato, capii subito che non voleva lasciarmi solo nella camera: non si fidava
di me.
Mi vestii in fretta e, senza lavarmi, la seguii nelle scale.
Richiuse la porta a chiave.
"Va' a sollevare la grata."
Ubbidii, poi mi sedetti, sperando che mi offrisse un caff.
"Puoi andare, fra poco arrivano i clienti."
Anche se adesso era la mia amante, me ne andai senza chiedere nulla.

Da allora, quando vengo a mangiare, lei mi serve come al solito, n pi n meno.
HENRI BILLARD
1.
La solitudine mi pesa. Vorrei avere un amico, un vero amico, oppure un'amante a cui confiderei le mie
pene.
Quando si erra tutto il giorno, senza parlare, la sera ci si sente stanchi nella propria stanza.
Per un po' di affetto dividerei quello che possiedo: i soldi della pensione, il mio letto. Sarei cos
delicato con la persona che mi fosse amica. Non la contrarierei mai. I suoi desideri sarebbero i miei. La
seguirei dappertutto, come un cane. Avrebbe solo da dire una battuta, e io riderei; qualcosa la
renderebbe triste, e io piangerei.
La mia bont infinita. Eppure, le persone che ho conosciuto non hanno saputo apprezzarla.
Billard non pi degli altri.
Ho conosciuto Henri Billard in un assembramento davanti a una farmacia.
Gli assembramenti nelle strade mi provocano sempre apprensione. Il timore di trovarmi davanti a un
cadavere ne la ragione. Ciononostante, un bisogno che non curiosit dirige i miei piedi. Pronto a
chiudere gli occhi, tento mio malgrado di aprirmi un varco. Non mi lascio sfuggire nessuna
esclamazione dei curiosi: cerco sempre di sapere prima di guardare.
Una sera, verso le sei, mi trovai in mezzo ad una folla, cos vicino al poliziotto che la tratteneva da
poterne distinguere il battello della citt di Parigi sui suoi bottoni d'argento. Come sempre in ogni
assembramento, delle persone spingevano da dietro.
Nella farmacia, di fianco alla pesa, stava seduto un uomo privo di sensi, con gli occhi aperti. Era cos
basso che la sua nuca appoggiava contro lo schienale della sedia, mentre le gambe gli penzolavano come
un paio di calze stese ad asciugare, la punta rivolta per terra. Ogni tanto le pupille gli facevano il giro
degli occhi. Un gran numero di macchie gli lustrava il davanti dei pantaloni. Una spilla gli chiudeva la
giacca.
Le premure del farmacista, il poco conto in cui i curiosi tenevano gli abiti del disgraziato e l'interesse
che questi suscitava, mi sembrarono anormali.
Una donna, il collo avvolto da un fazzoletto spesso, mormor guardandosi intorno: "Sar debolezza".
"Non spingete... non spingete," consigli un uomo anziano.
Una commerciante, che intanto spiava la porta aperta del suo negozio, inform il pubblico: "Nel
quartiere lo conoscono tutti. un nano. I veri disgraziati sono orgogliosi, non si fanno notare. Quello l
non interessante: uno che beve".
Fu allora che il mio vicino, a cui non avevo ancora prestato attenzione, osserv: "Se beve, ha ragione".
Questa opinione mi piacque, ma se approvai fu solo quanto bastava perch lo sconosciuto se ne
accorgesse.
Ecco dove conducono gli eccessi," disse un signore che aveva dei guanti le cui dita erano piatte.
"Fino a quando la rivoluzione non avr spazzato via la societ moderna, ci saranno sempre dei
disgraziati," proffer un vecchio a voce piuttosto bassa, lo stesso che prima aveva consigliato di non
spingere.
Il poliziotto, che aveva un'aria enigmatica per via della mantellina che gli occultava le braccia, si volt,
e i perdigiorno si lanciarono tra loro delle occhiate, per far capire di non essere d'accordo con
quell'utopista.
"Finiscono tutti in quel modo," biascic una massaia, la cui dentiera si era staccata per un attimo dalle
gengive.
Un signore, che senza volere imitava le smorfie del nano, approv scuotendo la testa.
"Perch non viene portato all'ospedale?" domandai all'agente.
Avrei potuto chiederlo ad uno dei miei vicini. Invece no, preferivo interrogare la guardia. In questo
modo mi sembrava che il rigore della legge si sarebbe attenuato soltanto per me.
Il nano aveva chiuso gli occhi. Respirava con il ventre. Ogni secondo un brivido gli scrollava le
maniche e i lacci delle scarpe. Un filo di saliva gli colava gi dal mento. Dalla camicia semiaperta si
vedeva un capezzolo, piccolo e appuntito, come se fosse bagnato.
Il pover'uomo stava sicuramente per morire.
Spiai il mio vicino. Stava arricciandosi i baffi. Un bottone dorato gli chiudeva il collo della camicia.
Basso, magro e nervoso, era simpatico a uno come me, alto sentimentale e indolente.
La notte stava calando. I lampioni a gas, anche se gi accesi, non illuminavano ancora. Il cielo era di
un azzurro freddo. C'erano dei disegni geografici sulla luna.
Il mio vicino si allontan senza salutarmi. Credetti di indovinare dal suo atteggiamento indeciso che
sperava che lo raggiungessi.
Esitai un momento, come chiunque altro avrebbe fatto al mio posto, visto che dopo tutto non lo
conoscevo: la polizia avrebbe potuto benissimo ricercarlo.
Poi, senza pi riflettere, lo raggiunsi.
La distanza era stata cos breve che non ebbi il tempo di preparare cosa dire. Dalla mia bocca non usc
alcuna parola. Quanto allo sconosciuto, non si curava di me.
Camminava in modo buffo, appoggiando il tacco prima della suola, come un negro. Teneva una
sigaretta dietro l'orecchio.
Mi rimproverai di averlo seguito; ma vivo solo, non conosco nessuno. L'amicizia sarebbe per me una
consolazione cos grande.
Adesso lasciarlo era impossibile, perch camminavamo uno accanto all'altro nella stessa direzione.
Tuttavia all'angolo di una strada mi venne voglia di scappare. Ma non feci nulla.
"Hai una sigaretta?" mi chiese all'improvviso.
Istintivamente lanciai un'occhiata al suo orecchio, ma, per non urtarlo, abbassai rapidamente lo
sguardo.
Secondo me avrebbe dovuto prima fumare la sua sigaretta. anche vero che poteva essersene
dimenticato.
Gli diedi una sigaretta.
L'accese senza informarsi se me ne restassero e continu a camminare. Io lo seguivo sempre,
imbarazzato di fronte ai passanti per la sua indifferenza. Avrei voluto che si voltasse, che mi facesse
delle domande, cosa che mi avrebbe permesso di assumere un atteggiamento.
La sigaretta che gli avevo offerto aveva rafforzato il nostro rapporto. Non potevo pi andarmene.
D'altronde preferisco sopportare un fastidio che commettere una scortesia.
"Vieni a bere un bicchiere," mi disse fermandosi davanti a una bottiglieria.
Rifiutai, non per gentilezza, ma perch temevo che non avrebbe pagato. Mi hanno gi fatto questo
scherzo, bisogna essere diffidenti, soprattutto con gli sconosciuti.
Insistette.
Avevo un po' di soldi nel caso che si rifiutasse; entrai.
Il padrone, seduto come un cliente, torn rapidamente dietro il banco.
"Buonasera, signori."
" Buonasera, Jacob. "
Il soffitto della sala era basso come quello di un treno. Sulla cassa c'erano dei biglietti ridotti per un
cinema.
Il mio compagno domand un boccale di birra.
"E tu, che cosa prendi?"
"Come lei."
Avrei preferito domandare un liquore, ma la mia sciocca timidezza me lo imped.
Il mio vicino mand gi un sorso di birra, poi, asciugandosi i baffi pieni di schiuma, mi interrog:
"Come ti chiami?"
"Bton Victor," risposi come al reggimento.
"Bton?"
"S."
"Che nome! " disse facendo il gesto di colpire un cavallo.
Lo scherzo non mi era nuovo. Mi stup da parte di un uomo che sembrava riservato.
"E lei, come si chiama?"
"Henri Billard."
Se la paura di offenderlo non mi avesse trattenuto, avrei preso in giro anch'io il suo nome facendo
finta di giocare a biliardo.
Il mio compagno apr un portamonete e pag.
Non avendo sete, feci fatica a finire la birra.
All'improvviso mi venne l'idea di offrire qualcosa. Resistetti. Dopotutto Billard non era mio amico.
Ma di fronte alla prospettiva di trovarmi solo per strada divenni debole.
Feci il vuoto nella mia mente affinch nessuna considerazione mi potesse trattenere e, con una voce
che udii come se parlassi da solo, esclamai: "Signore... Beviamo quello che vuole lei".
Ci fu un silenzio. Ansioso, ero in attesa della risposta, paventando un s quanto un no.
Finalmente rispose: "Perch dovrei farti spendere dei soldi? Tu sei povero".
Balbettai qualcosa per insistere: fu inutile.
Billard usc lentamente, dondolando le braccia e zoppicando un po', di sicuro perch era restato
immobile. Lo imitai, zoppicando anch'io senza ragione.
"Arrivederci, Bton."
Non mi piace lasciare una persona con cui mi sono intrattenuto senza conoscere il suo indirizzo n
dove poterla rivedere. Quando, mio malgrado, mi succede, vivo per molte ore una specie di malessere. Il
pensiero della morte, che di solito allontano rapidamente, mi ossessiona. Quella persona, andandosene
per sempre, mi ha ricordato, non so perch, che morir solo.
Guardai tristemente Billard.
"Beh, andiamo, arrivederci Bton."
"Se ne va?"
"S."
"La rivedr, magari da queste parti?"
"Ma s."
Tornai a casa tutto pensieroso. Per rifiutare quello che gli avevo offerto, Billard doveva veramente
avere buon cuore. Sicuramente mi voleva bene e mi capiva.
Sono cos rari quelli che mi vogliono un po' di bene e mi capiscono!
2.
L'indomani, svegliandomi, pensai subito a lui. Riepilogai a letto le fasi del nostro incontro. I tratti di
Billard mi sfuggivano. Per quanto cercassi di rammentarmi un volto con dei baffi, dei capelli, un naso,
l'espressione non veniva mai.
Come sarei contento se diventasse mio amico! Uscimmo insieme la sera. Mangeremmo insieme.
Quando mi mancherebbero i soldi lui me li presterebbe e, beninteso, farei lo stesso con lui. Lo
presenterei a Lucie. La vita cos triste quando si soli e si parla soltanto con persone che ci sono
indifferenti.
La giornata trascorse lentamente. Nonostante il frastuono della citt sentii suonare tutte le ore, come
di notte quando non si dorme. Vivevo nell'attesa. Ogni momento un sudore freddo mi dava l'illusione
che ci fosse dell'aria tra la camicia e il corpo.
Il pomeriggio passeggiai in un parco.
Poich conosco i numeri romani mi divertii a calcolare l'et delle statue. Ogni volta fui deluso: non
avevano mai pi di cento anni. La polvere mi offusc assai presto il lucido delle scarpe. I cerchi con cui
giocavano i bambini giravano su se stessi prima di cadere. Sulle panchine stavano sedute delle persone,
schiena contro schiena.
Quello che osservavo distraeva soltanto i miei occhi. Nella mia testa c'era Billard.
Finalmente giunse la sera. Rifeci le strade che avevamo percorso io e Billard. Mi fece uno strano
effetto, perch nella mia testa erano associate ad un assembramento.
Non c'era nessuna ragione che mi aveva impedito di andare a zonzo gi prima nei pressi del caff
Jacob, ma sapevo che rivedendo Billard alla stessa ora del giorno prima, avrei avuto meno l'aria di
cercarlo. Avrebbe supposto che passavo nel suo quartiere tutti i giorni, verso le sei.
Il posto non era lontano. Il cuore, battendo, mi faceva sentire la forma del seno sinistro. Ogni
secondo mi asciugavo le mani umide sopra le maniche. Un odore di sudore usciva dalla giacca aperta.
Immaginavo il padrone dietro il banco, e Billard che stava bevendo una birra, come ieri.
Sulla punta dei piedi, le mani sul vetro per non perdere l'equilibrio, vidi sopra la tendina rossa l'interno
del caff Jacob.
Billard non c'era.
Mi indispettii. Mi ero figurato che Billard, che mi voleva bene, sarebbe venuto con la speranza di
parlarmi.
Guardai la pendola di un fornaio. Segnava le sei. Non tutto era perduto: poteva darsi che Billard
lavorasse.
Mi allontanai prendendo la decisione di tornare venti minuti dopo. Lo avrei trovato l di sicuro.
Avremmo parlato: avevo tante cose da dirgli.
Per ammazzare il tempo girovagai lungo un viale.

Gli alberi, cinti da una griglia di ferro, avevano l'aria
di stare in piedi come soldatini di piombo. Vedevo i passeggeri nei tram illuminati. I taxi, corti e bui,
sobbalzavano sopra il pav. A forza di accendersi e spegnersi, due insegne non attiravano pi
l'attenzione.
Guardai per una mezz'ora il prezzo delle scarpe, delle cravatte, dei cappelli. Mi fermavo anche davanti
alle gioiellerie. Le etichette minuscole erano alla rovescia. impossibile sapere il prezzo degli orologi e
degli anelli senza entrare nelle gioiellerie.
Adesso Billard doveva starmi aspettando, perch dopo tutto a me ci teneva, altrimenti non mi avrebbe
offerto una birra.
Temendo all'improvviso che fosse arrivato e subito ripartito, mi affrettai per tornare al caff Jacob.
Ero contento che fosse notte. Grazie al buio, il padrone e i clienti non mi avrebbero visto. Li avrei
osservati dalla strada. E, se Billard non ci fosse stato, non avrebbe letto la delusione sul mio volto.
I cento metri che ancora mi restavano da percorrere mi sembrarono interminabili. Avevo voglia di
prendere un passo da ginnastica, ma la paura di sembrare ridicolo mi trattenne: non ho mai corso per
strada. E poi corro male, come una donna.
Giunsi finalmente davanti al bar. Dopo essermi acceso una sigaretta spiai l'interno della sala.
Billard non c'era.
La vista mi si annebbi triplicando ai miei occhi ogni passante, le automobili e le case.
Capisco che certe persone avrebbero potuto ridere della mia emozione. Quello che era accaduto non
avrebbe colpito nessun altro oltre me. Sono troppo sensibile, ecco tutto.

Un minuto dopo mi allontanai, completamente abbattuto. Invece di reagire cercai di aumentare la mia
tristezza. Mi chiusi in me stesso, facendomi pi piccolo e miserabile di quello che sono. Cos trovavo
una consolazione alle mie disgrazie.
Billard non era venuto.
Nella vita mi andata sempre cos. Non ha mai risposto nessuno al mio amore. Chiedo solo di amare,
di avere degli amici, e resto sempre solo. Mi fanno l'elemosina, poi mi evitano. Il destino non mi ha
davvero favorito.
Inghiottii la saliva per non piangere.

Camminavo dritto davanti a me, una sigaretta ancora spenta sulle labbra, quando vidi un uomo che
stava fermo davanti a un lampione. Credetti in un primo momento che si trattasse di un mendicante,
perch loro stanno spesso immobili.
Improvvisamente dalla bocca mi usc un grido, involontario come un singhiozzo.
L'uomo era Billard. Portava un soprabito sgualcito come quello degli annegati. Vicino al riverbero, alla
luce pallida di quel lampione all'aperto, si arrotolava una sigaretta.
"Buongiorno, signor Billard."
Si volt, mi guard e non mi riconobbe, cosa che mi contrari. Tuttavia gli perdonai subito la
mancanza di memoria. La notte era fitta. I suoi occhi, abituati alla luce del lampione, non si adattavano
al buio.
"Sono io, Bton."
Allora lecc la carta della sigaretta per il lungo.
Aspettai, e perch non si accorgesse che stavo fumando una sigaretta gi fatta, la spensi contro il
muro e me la misi in tasca.
"Tu dove mangi?" mi chiese.
"Dove mangio?"
"S."
"In qualsiasi posto."
"Vieni con me, conosco un ristorante a buon mercato."
Lo seguii. Quando cammino di fianco a qualcuno, senza volere lo spingo contro il muro, cos mi
controllai. Appena il marciapiede diventava pi stretto scendevo sulla strada. Ogni volta che borbottava
qualcosa, pensavo che mi rivolgesse la parola: non avrei mai voluto che mi prendesse per un
indifferente.
La gioia di aver ritrovato Billard mi toglieva l'appetito. Bench fossi assillato dal desiderio di parlargli
di me, dei miei vicini, della mia vita, non mi usciva una parola di bocca. La timidezza mi paralizzava
tutto tranne gli occhi. anche vero che non ero molto legato al mio compagno.
Anche lui aveva di sicuro mille cose da raccontarmi, ma come me non osava. Dietro un'apparenza
rude, era un uomo sensibile.
"Ho comprato un camembert, ce lo divideremo. Di solito ceno con mia moglie. Oggi non c'."
Lo guardai. La carta della sua sigaretta non bruciava.
"Lei dunque sposato?"
"No, convivo soltanto."
Il mio buonumore svan di colpo. Una decina di pensieri mi attraversarono la testa
contemporaneamente.
Mi ricordai della mia camera, di Lucie, della mia strada. Il mio futuro consisteva in una serie di
giornate monotone. S, ce l'avevo con Billard perch aveva una donna. Un'amicizia solida non ci poteva
pi unire perch una terza persona l'avrebbe turbata. Ero geloso. Perch allora avevo seguito quello
sconosciuto? Mi aveva disorientato. Per colpa sua, la solitudine ora sarebbe stata ancora pi pesante.
Tutti questi pensieri non mi impedirono di aggrapparmi a un'ultima speranza. Magari la sua amante
non era bella! Sarebbe bastato che fosse brutta perch mi sentissi meglio.
" carina?" chiesi sforzandomi di avere un'aria distratta.
Coi modi sicuri delle persone prive di delicatezza, mi rispose che era magnifica, e che malgrado avesse
solo diciott'anni aveva gi un petto da donna. Me ne indic perfino il posto, con le sue mani paffute.
Adesso avevo solo un'idea: andare via. L'ingiustizia della sorte era davvero troppa. Billard aveva una
verruca e i piedi piatti, ed era amato, mentre io che sono pi giovane e pi bello, vivevo solo.
Non avremmo mai potuto intenderci. Lui era felice. Di conseguenza non gli interessavo. Era meglio
che me ne andassi.
Continuavamo a camminare. Io cercavo un pretesto per scappare. Come mi sarebbe piaciuto stare
seduto, umile, solo e triste, all'angolo del ristorante della rue de Seine. L, almeno, nessuno si accorgeva
di me.
Billard era davvero privo di tatto. Se fossi stato sposato, io non l'avrei detto. Doveva sapere che non si
raccontano le proprie fortune a un disgraziato.
Tuttavia non mi decidevo a lasciare il mio compagno. C'era un pensiero, cresciutomi nell'anima in
disparte, che mi ridava coraggio. Forse quella donna non amava Billard. Forse lui soffriva. Come mi
sarebbe stato simpatico, allora! Lo avrei consolato. L'amicizia avrebbe addolcito i nostri dolori.
Ma, nel timore di una risposta affermativa, evitai di chiedergli se la sua donna lo amasse.
"Cos'hai? Sei triste?" mi domand.
La mia tristezza, che fino a quel momento non aveva cessato di aumentare, svan di colpo. L'interesse
che Billard mi rivolgeva era una realt, mentre i miei pensieri erano solo le divagazioni di un infelice.
Lo guardai con gratitudine.
"S, sono triste."
Mi aspettavo dei lamenti, qualche confidenza. Restai deluso: mi consigli di reagire.
Ci fermammo davanti a un ristorante. La pittura della facciata si stava scollando. Su un vetro, i
passanti potevano leggere questa frase: Chi vuole pu portarsi il suo mangiare.
"Entra," disse Billard.
Abbassai una maniglia a forma di becco che aveva una catenella tremolante. Alcune persone si
voltarono.
Restai sulla soglia della porta.
"Allora, entra!"
"No, prima lei."
Mi pass davanti. Fu allora che notai che ero stato io ad aprire e chiudere la porta.
La sala era ammobiliata da lunghi tavoli e alcune di quelle panche da refettorio che si sollevano da una
parte quando ci si siede. Il fumo delle sigarette formava delle spirali, come lo sciroppo in un bicchiere
d'acqua. Davanti a ogni cliente si allineavano in piedi un bicchiere e una bottiglia da un litro. Con un
coltello, avrebbero potuto suonare della musica.
Ci sistemammo uno di fronte all'altro.
Billard cerc di togliersi il camembert dalla tasca. Era stretta. Dovette adoperare tutt'e due le mani.
Poi, da cliente abituale, chiam la padrona per nome: "Maria!"
Era una bella campagnola, che tutti i momenti si asciugava le mani fino al gomito. Quando
camminava le si muoveva il petto, e dei soldi le tintinnavano nella tasca del grembiule.
"Due mezzi litri e del pane."
"Mezzo litro per me troppo." dissi, ma un po' tardi.
"Pago io... Pago io."
"Ma lei non ricco."
"Che non diventi un'abitudine."
Non avevo nessuna intenzione di abusare della generosit del mio vicino. Per questo quel suo che non
diventi un'abitudine mi fer. Sono molto suscettibile. Non trover mai un uomo buono e generoso? Ah, se
fossi ricco, come sarei capace di dare!
Un cane, che aveva soltanto un pezzetto di coda, venne ad annusarmi le dita. Lo respinsi, ma riprese
con una tale ostinazione che arrossii. Eppure le mie dita non avevano nessun odore.
Per fortuna arriv la padrona, col collo della bottiglia tra le dita e il pane sotto il braccio. Cacci via
con dei calci quella brutta bestia.
Billard tast il camembert con l'indice e lo tagli in due. Me ne diede met, la pi piccola.
Ci mettemmo a mangiare, lentamente, a causa della carta trasparente che s'incollava al formaggio.
Quando Billard beveva, io lo imitavo. Per gentilezza, facevo in modo che il livello del mio vino non
scendesse pi in fretta del suo.
Non sono abituato a bere, perci non tardai molto a diventare allegro. I vecchi pidocchiosi che
chiacchieravano nell'angolo mi sembrarono tutti dei saggi.
Versai il resto del vino e, come mi aspettavo, nel bicchiere non venne granch, a causa del fondo della
bottiglia.
Mi appoggiai al tavolo. Per la prima volta guardai il mio vicino negli occhi. Anche lui aveva finito di
mangiare. Pulendosi i denti con la lingua faceva un rumore di baci.
Cerc del tabacco nelle tasche. Senza esitare gli offrii una sigaretta.
Ero disposto a raccontare la mia vita e a dire, in un impeto di sincerit, tutto quello che in lui mi era
dispiaciuto.
"Lei sembra avere un buon cuore, signor Billard," dissi constatando che il vino mi aveva cambiato la
voce.
"S, ho un buon cuore."
"C' cos poca gente che capisce la vita."
"Ho un buon cuore," continu Billard seguendo il suo pensiero. "Ma bisogna esser prudenti, se no la
gente ne approfitta della tua bont. Sai, Bton, per colpa di un amico che ho perduto il posto."
Quelle parole mi contrariarono di nuovo e, per trovare un punto sul quale potessimo essere d'accordo,
saltai da un argomento all'altro.
"Ho fatto la guerra."
Estrassi il portafogli e gli mostrai il libretto militare col mio nome, tutto scritto in maiuscole, sulla
copertina.
"Anch'io ho fatto la guerra," mi disse mostrandomi a sua volta delle carte.
Le apr. Mi mise nelle mani la sua piastrina di riconoscimento, una ciocca di capelli appiattita da una
lunga permanenza nel portafogli, la sua fotografia di soldato in servizio permanente di fianco a un
mobile, di intrepido accanto a un secchio, e quella di un gruppo di fanti in mezzo ai quali c'era una
scritta che diceva: "I ragazzi della l
a
C.M. Mai nessun problema".
"Lo vedi quello?"
"S, lo vedo."
"Beh, morto, anche quello l..."
Facevo finta di interessarmi a tutto questo, ma non c' niente che mi annoi quanto i portafogli degli
altri e le fotografie dal tergo bisunto. Eppure, quanti ne ho visti durante la guerra, di portafogli e di
fotografie.
Se non fossi stato brillo non avrei mai mostrato le mie carte. Billard doveva essersi infastidito.
Poich cercava ancora dentro una busta, temetti che volesse mostrarmi delle donne nude. Odio quelle
cartoline. Riescono solo ad aumentare la mia miseria.
"Ero a Saint-Michel," dissi tanto per parlare di me. Invece di ascoltarmi e di pormi delle domande,
disse:
"C'ero anch'io".
"Sono invalido e riformato."
Gli feci vedere la scheggia di granata che mi aveva ferito.
"Vivi da solo?" mi chiese Billard ripiegando le sue carte.
"S."
"Ci si annoia."
"Oh s!... Soprattutto io che sono cos sensibile... A me sarebbe piaciuta una vita in famiglia. Ecco,
ascolti, lei signor Billard, se fosse mio amico, sarei felice, completamente felice. La solitudine e la
povert mi disgustano. Vorrei avere degli amici, lavorare, insomma vivere."
"Ce l'hai un'amante?"
"No."
"Eppure le donne non mancano."
"S, ma non ho i soldi. Una donna mi darebbe dei pensieri. Bisognerebbe mettere della biancheria
pulita per gli appuntamenti."
"Ma su, andiamo, figurati se le donne badano alla biancheria. Ovviamente, se vuoi frequentare una
borghese un'altra cosa. Lascia fare a me, ti trover un'amante; ti distrarr."
Se veramente mi avesse trovato una donna, giovane e bella, che mi amasse e non facesse caso alla mia
biancheria, perch non avrei dovuto accettare?
"Ma difficile trovare una donna carina."
"Non oggigiorno; la mia ha lasciato tutte le sue fiamme per me. Sono davvero felice con quella
giovinetta."
Volevo un amico infelice, un vagabondo come me, verso il quale non si tenuti a nessun obbligo.
Avevo creduto che Billard fosse quell'amico, povero e generoso. Mi ero sbagliato. Mi intratteneva
raccontandomi ad ogni momento della sua donna, e questo mi faceva sprofondare in una grande
malinconia.
"Bton, vieni domani da me, dopo cena, cos vedrai la piccola. Abito in rue Gt-le-Coeur, Hotel du
Cantal.
Accettai, perch non osavo rifiutare. Sapevo benissimo che non ho mai il coraggio di andare a trovare
delle persone felici.
Dunque, le mie relazioni finiscono sempre in maniera ridicola?
Ci alzammo. Mi vidi nello specchio fino alle spalle; avevo l'aria di essere in Corte d'Assise. Anche se
sotto l'effetto dell'alcol, mi riconobbi. Tuttavia il contorno del busto era sfumato, come l'ombra di
qualcuno troppo allungata.
Attraversai la sala seguito da Billard.
Fuori, un vento brutale mi schiaffeggi il viso, come dal finestrino di un treno. Per un attimo ebbi la
tentazione di accompagnare l'amico, ma mi trattenni: a cosa sarebbe servito? Del resto non ci
intendevamo. Lui era amato, ricco e felice.
E poi suonarono le nove.
Non avrei osato salutare per primo; Billard era meno delicato.
"A domani, Bton."
"S, a domani."
Andai dritto davanti a me finch incontrai una strada familiare.
I caff erano pieni, caldi e illuminati.
Anche se non avevo sete, il desiderio di prendere qualcosa mi assillava. Resistetti, finch mi venne in
mente che non avevo fatto nessuna spesa inutile.
Entrai in un bar.
Un vapore come di un bagno galleggiava intorno al banco. Un cameriere osservava un bicchiere in
trasparenza.
Ordinai la cosa meno cara: un caff liscio.
"Grande?" chiese il cameriere.
"No, piccolo."
3.
Trascorsi la giornata successiva a ripetermi che non sarei andato da Billard. Sarebbe stato capace di
accarezzare la sua amante davanti a me. Lei si sarebbe seduta sulle sue ginocchia. Gli avrebbe solleticato
l'orecchio.
Quelle effusioni mi avrebbero esasperato.

Gli innamorati sono egoisti e scortesi.
L'anno scorso, nella camera della lattaia, abitavano dei giovani sposi. Tutte le sere restavano affacciati
alla finestra. Dal rumore dei baci intuivo se si baciavano sulla bocca o sulla pelle.
Per non sentirli mi trascinavo per strada fino a mezzanotte. Quando rientravo, mi spogliavo in
silenzio.
Una volta, disgraziatamente, mi cadde di mano una scarpa.
Si svegliarono e il rumore dei baci riprese. Furioso, picchiai contro il muro. Siccome non sono cattivo,
mi pentii di averli disturbati. Dovevano sentirsi confusi. Decisi che avrei presentato loro delle scuse.
Ma, alle nove del mattino, degli scoppi di risa attraversarono nuovamente il muro. I due innamorati si
stavano prendendo gioco di me.
La sera, dopo cena, vagabondai sul boulevard Saint-Germain. I negozi erano spenti. Dei lampioni ad
arco illuminavano le foglie degli alberi. Dei tram lunghi e gialli scivolavano senza le ruote, come scatole.
I ristoranti si stavano svuotando.
Nell'aria risuonarono le otto.
Anche se Billard non era l'amico dei miei sogni, non cessavo di pensare a lui.
La mia immaginazione si costruisce degli amici perfetti per l'avvenire ma, nell'attesa, mi accontento di
chiunque.
Era possibile che la sua amante non fosse bella. Ho notato che le donne che non conosciamo ce le
figuriamo sempre belle. Al reggimento, quando un soldato mi parlava della sorella, della moglie o della
cugina, pensavo subito a una ragazza stupenda.
Non sapendo come passare il tempo mi diressi verso l'hotel du Cantal. Cammin facendo pensai di
ritornare indietro, ma la prospettiva di una serata vuota allontan quasi subito questa debole intenzione.
Rue Gt-le-Coeur ha l'odore di acqua putrida e di vino. La Senna scorre vicino alle sue case umide. I
bambini che si incrociano portano in mano delle bottiglie. I passanti camminano sulla strada: non ci
sono automobili da evitare.
Qui e l, uno di quei negozi deserti che chiudono tardi la sera vende verdura cotta, puree verdi e
patate fumanti dentro un bigoncio di zinco.
Era troppo presto per andare da Billard. Non mi piace sorprendere la gente, perch immaginano che
si cerchi di sapere cosa stiano mangiando.
Il soprabito mi intorpidiva le spalle. Una fitta al fianco mi costringeva a camminare ricurvo. Quando,
di sera, ci si siede su una panchina, si fa davvero compassione.
Entrai allora in un bar della place Saint-Michel e, come al solito, ordinai un caff nero. Appesi il
cappello in un angolo, di fronte a uno specchio.
Sopra le pareti di ceramica, delle belle Egiziane riempivano delle brocche. Due signori, con completi
alla moda, giocavano a scacchi.
Non conoscendo le regole di questo gioco, non riuscii a capire nulla delle evoluzioni geometriche
delle pedine.
Il cameriere, con la giacca d'alpaca tagliata sull'addome, mi port un caff. Era gentile. Mi port anche
l"Illustration" dentro un cartone.
Avevo appena aperto la rivista che l'odore della carta patinata mi ricordo che non mi trovavo nel mio
ambiente. La sfogliai ugualmente. Per guardare le fotografie dovevo sporgermi, perch facevano dei
riflessi.
Ogni tanto davo un'occhiata al cappello, per assicurarmi della sua presenza.
Giunto agli annunci, richiusi il cartone.
Sul piattino della tazza, piena di caff freddo, erano segnati trenta centesimi. Sperai che fosse il prezzo
della consumazione; ma, essendo i piattini di prima della guerra, temevo costasse di pi.
"Cameriere!"
Nello spazio di un secondo sollev la mia tazza e asciug il tavolo che pure non si era sporcato.
"Trenta centesimi, signore."
Pagai con una moneta da un franco. Avevo pensato di dargli due centesimi di mancia. All'ultimo
momento, temendo che non fosse abbastanza, ne lasciai quattro.
Uscii. La schiena non mi faceva pi male. Il caff mi scaldava ancora la pancia.
Percorrevo la strada con la sicurezza e la soddisfazione di un impiegato che ha lasciato l'ufficio. La
sensazione di avere un ruolo nella folla mi metteva di buonumore.
Mi portai alla bocca la mia ultima sigaretta, bench avessi voluto conservarla per l'indomani mattina.
Pur avendo dei fiammiferi, preferii chiedere da accendere a un passante.
Un signore stazionava su di un terrapieno fumando un sigaro. Mi guardai dall'avvicinarlo, perch so
che agli amatori di sigari non piace dare da accendere: ci tengono alla cenere del loro sigaro.
Pi distante, sulla mia strada - poich avevo una strada - un altro uomo stava fumando.
Togliendomi il cappello mi rivolsi a lui. Mi porse la sua sigaretta e, per non tremare, appoggi il dito
contro la mia mano. Le sue unghie erano curate. Un anello con sigillo gli ornava l'anulare. Il polsino gli
scendeva fino al pollice.
Dopo averlo ringraziato tre o quattro volte, me ne andai.
Ho pensato a lungo a quello sconosciuto. Cercavo di indovinare che cosa pensasse di me, e se facesse
anche lui le stesse riflessioni.
Ci si tiene sempre a fare bella figura con le persone che non si conoscono.
4.
Sopra la porta dell'hotel du Cantal c'era una sfera bianca con delle maiuscole, come una palla del
Louvre.
Entrai. Attraverso una tenda riconobbi una sala da pranzo che doveva fungere da ufficio, una
credenza con delle file di colonnine minuscole, un casellario in cui stavano in piedi delle lettere.
Bussai sul vetro, piano, per paura di romperlo. Si aprirono delle cortine e un uomo seduto si rovesci
all'indietro per vedermi.
"Desidera?"
"Il signor Billard, per favore."
Mi rispose senza cercare.
"Trentanove, sesto piano."
Al primo piano il tappeto finiva. Ogni porta era numerata. Dei fagotti di lenzuola ingombravano le
scale.
Salendo i gradini pensavo all'amante di Billard. Per cacciare l'emozione che mi stava invadendo, mi
ripetevo: brutta... brutta... brutta...
Raggiunsi l'ultimo piano del tutto senza fiato. Mi sembrava che il cuore cambiasse di posto tanto mi
batteva forte.
Finalmente bussai. La porta era sottile: rimbomb. "Chi ?"
"Sono io."
Dire il mio nome sarebbe stato pi semplice ma, per timidezza, cercai di evitarlo. Il mio nome, nella
mia bocca, mi fa sempre una strana impressione, soprattutto dietro una porta.
"Chi?"
Non potevo pi tacere: "Bton".
Billard apr la porta. Scorsi una donna seduta e, nello specchio dell'armadio, l'intera stanza che vi si
rifletteva.
La ragazza era bella. I capelli ricci le si attorcigliavano come se fossero bruciati dalla luce della
lampada.
Restai sbalordito sulla soglia, pronto a scappare.
Lei si alz e mi venne vicino.
Allora, una folle gioia mi imped di parlare. La sensazione di un alito caldo che mi accarezzava il volto
mi fece rabbrividire. Pur senza essere esuberante battei Billard sulla spalla e, nonostante l'allegria,
quando ritirai la mano mi sentii ridicolo. Avevo voglia di ridere, di ballare, di cantare: l'amante di Billard
era zoppa.
La stanza era banale. Avrebbero potuto ugualmente abitarla un rumeno, una ragazza facile o un
impiegato. Il camino era ingombro di giornali sui quali erano stati appoggiati delle pentole, uno
spazzolino da denti in piedi in un bicchiere e delle bottiglie.
"Dai, Nina, prepara il caff! "
La ragazza accese una stufa a petrolio macchiata di giallo d'uovo.
Quell'offerta, che mi obbligava a restare, mi fece molto piacere.
Sicuramente per non aver l'aria di accorgersi del silenzio, che diventava pi imbarazzante via via che
passava il tempo, Billard si mise a cercare un dado dentro una scatola di attrezzi, mentre la sua donna
asciugava con il pollice l'interno di alcune tazze. Quanto a me, avrei voluto parlare, ma quello che mi
veniva in mente da dire avrebbe denotato troppo l'intenzione di por fine a una situazione ridicola.
Quando non mi guardavano ispezionavo la stanza con lo sguardo. Il vapore che usciva dalla caffettiera
prendeva forme contorte. Le federe dei cuscini, sopra il letto, al centro erano nere.
"Vuoi del latte?"
Risposi che per me era uguale.
Ci sedemmo intorno al tavolo. Per paura di sfiorare i piedi dei miei ospiti, ritrassi le gambe sotto la
sedia.
La rapidit con cui era stato preparato il caff mi era dispiaciuta. Sapevo bene che, dopo aver bevuto,
avrei dovuto andarmene.
Nina ci serv tenendo il coperchio della caffettiera.
"Il suo caff deve essere buono," dissi prima di averlo assaggiato.
"Viene da Damoy, il negozio."
Lo mescolai a lungo, affinch una volta bevuto non restasse zucchero in fondo alla tazza. Poi
inghiottii dei piccoli sorsi, facendo attenzione a non rovesciare nulla durante la traiettoria dal piattino
alla bocca.
"Ancora?" domand Nina.
Anche se la tazza era piccola rifiutai, per gentilezza.
D'un tratto Billard mise la sua mano nella mia, senza ragione.
Il primo pensiero fu di ritirarla - il contatto tra uomini mi disturba - ma non feci nulla.
"Ascoltami, Bton."
Lo guardai. Il naso era bucherellato di pori.
"Bisogna che ti chieda una cosa."
La prospettiva di risultare gradito a un compagno mi affascin.
"Vuoi farmi un favore?"
"S... Certo..."
Avevo paura che mi sollecitasse qualcosa di insignificante oppure di troppo importante. Mi piace fare
dei favori - dei piccoli favori, ovvio - per mostrare la mia bont.
"Prestami cinquanta franchi."
I nostri occhi si incontrarono. Mille pensieri mi vennero alla mente. Di sicuro fu lo stesso in quella di
Billard. Fra noi non esistevano pi barriere. Lui leggeva nella mia anima con la stessa facilit con cui
leggevo nella sua.
Quell'attimo di esitazione che colpirebbe chiunque in tale circostanza spar, e con una voce che mi era
consentito rendere solenne dissi: "Glieli prester."
Ero felice, pi di ispirare gratitudine che di fare un prestito. La conversazione avrebbe ripreso. Adesso
non ero pi un disturbo. Sarei potuto restare fino a mezzanotte, tornare domani e dopodomani, e anche
sempre. Se mi aveva chiesto in prestito cinquanta franchi, voleva dire che aveva fiducia in me.
I soldi della pensione li avevo nella tasca. Tuttavia non diedi subito a Billard quello che mi aveva
chiesto. Facevo finta di non pensarci pi. Sentivo che pi io avessi aspettato, pi loro sarebbero stati
gentili.
Adesso potevo recitare una parte. Ogni mio movimento veniva spiato, nella speranza che estraessi il
portafogli. Non avevo avuto da anni un'importanza simile. Ogni mia parola veniva accolta da un
sorriso. Mi osservavano: avevano paura che mi dimenticassi.
Bisognerebbe essere un santo per resistere alla tentazione di prolungare questo piacere.
Ah, come scuso le persone ricche!

Cominciava a esser tardi. Mi alzai. Billard era pallido: non osava rinnovarmi la richiesta. Ostentavo
sempre di non pensarci pi, mentre non pensavo che a quello.
Nina, la lampada in mano e la testa nell'ombra, era immobile.
Improvvisamente ebbi la sensazione che il mio intrigo fosse stato capito.
Allora, per sviare i sospetti, estrassi il mio portafogli con gesti frettolosi e impacciati.
"Come sono distratto... Mi dimenticavo..."
Porsi cinquanta franchi.
"Grazie, Bton, te li restituir la settimana prossima."
"Oh!... non c' fretta!"

Nelle scale il gas era gi spento. I tubi avevano ancora il rossore di braci.
Ora, i due amanti, dovevano osservare la banconota in trasparenza, come una lastra fotografica, per
essere sicuri che fosse buona.
La sensazione di essere stato preso in giro mi rendeva nervoso. Billard mi aveva ringraziato appena. In
realt non era povero. Aveva un'amante, un armadio pieno di biancheria, zucchero, caff e grasso.
Conosceva della gente. In quelle condizioni, perch chiedere dei soldi a un poveraccio? Avevo notato
molti oggetti nella sua camera. Se li avesse portati al Credito municipale avrebbe facilmente ottenuto
cinquanta franchi.
Sentii sotto i piedi il tappeto del primo piano, poi vidi, seduto nella sala da pranzo, il padrone che
leggeva a distanza un giornale aperto.
Una volta sulla strada ebbi un brivido. Il vento soffiava tra le case. Un lampione s'innalzava in mezzo
a un cerchio pallido.
Feci qualche passo con la luce dell'ufficio dell'hotel negli occhi.
Delle gocce cadevano per terra, mai una sull'altra.
5.
La notte dormii male.
Ad ogni istante le coperte mi cadevano da una parte del letto. Quando il freddo mi svegliava,
salendomi lungo le gambe, tendevo una mano per sapere dove si trovasse il muro.
All'alba, finalmente, la finestra s'illumin. Il tavolo usc dolcemente dall'ombra, i piedi per primi. Il
soffitto divenne quadrato.
Improvvisamente si fece giorno. Una luce limpida entr nella camera, come se fossero stati lavati i
vetri. Vidi il mobilio immobile, un po' di cenere di carta nel camino e le assicelle degli avvolgibili in alto,
sopra la finestra.
La casa rest silenziosa per qualche minuto.
Poi una porta sbatt; suon la sveglia dei Lecoin; un furgone di lattaio fece risuonare i coperchi dei
bidoni del latte.
Mi alzai, perch il letto era ormai freddo come quando mi alzo tardi.
Quando si dormito tra due lenzuola bianche, saltando dal letto ci si pu guardare allo specchio. Io,
al mattino, prima di guardarmi mi lavo.
Il sole, fuori, indorava l'ultimo piano delle case. Non pungeva ancora gli occhi.
L'aria che respiravo mi rinfrescava i polmoni come menta.
Una brezza leggera, che odorava di lill, sollev le falde del mio soprabito, che divent simile a un
cappotto da soldato.
Non c'erano uccelli n gemme; ciononostante era primavera.

Avevo voglia di camminare. Di solito, uscendo di casa, mi dirigo verso la rue de Seine. Quel giorno mi
diedi come meta i bastioni.
Le finestre erano aperte. Le magliette stese ad asciugare, irrigidite dal vento, oscillavano come insegne
di latta. Dalle porte socchiuse dei negozi si potevano vedere i pavimenti risciacquati, ormai asciutti.
Quando un palazzo di sette piani mi ostruiva il sole, raddoppiavo il passo.
Le strade diventavano man mano pi sporche. Delle assi di legno, tra cui giocavano i bambini all'uscita
della scuola, sostenevano gli edifici. Sui marciapiedi, dal pietrisco rotto si vedeva la terra. Il gesso
annerito delle facciate assomigliava alle tele di fondo dei fotografi.
Una nuvola oscur il sole. La strada tiepida divenne grigia. Le mosche cessarono di brillare.
Mi sentii triste.
Ero partito poco prima verso l'ignoto con l'illusione di essere un vagabondo, libero e felice. Ora, per
colpa di una nuvola, era tutto finito.
Tornai sui miei passi.
Non sapendo dove andare, il pomeriggio vagai intorno all'hotel du Cantal.
Nonostante tutti i miei ragionamenti, e il pensiero che se avessi incontrato Billard, non avremmo
saputo cosa dirci, non riuscivo ad allontanarmi da quel quartiere.
Forse quelli che vivono nella povert, senza amici, potranno capire questa attrazione.
Billard era cos poco per me, per era tutto.

In place Saint-Michel un uomo con la bombetta in testa distribuiva dei volantini.
Me ne porse parecchi.
Nessuno vuole mai ingombrarsi di queste carte. Bisognerebbe togliere la mano di tasca, prendere il
volantino, accartocciarlo e buttarlo. Quanto lavoro!
Io invece ho compassione dei distributori.
Accetto sempre quello che mi offrono. So che quegli uomini sono liberi solo dopo avere distribuito
parecchie migliaia di pezzi di carta.
Le persone che passano sdegnosamente davanti a quelle mani, che danno invece di ricevere, mi
irritano.

Erano le tre. il momento della giornata che odio di pi. Non lo allieta nessuno dei piccoli
avvenimenti della vita quotidiana. Per cacciare la noia tornai verso rue Gt-le-Coeur con l'intenzione di
fare visita a Billard.
Passai tre o quattro volte davanti alla porta dell'hotel, imbarazzato di ritornare indietro. ridicolo
essere imbarazzati quando si torna indietro, per strada.
Non entrai.
Sentivo che Billard mi avrebbe accolto male. Il giorno che mi aveva chiesto i cinquanta franchi avrei
dovuto darglieli subito. Sicuramente ce l'aveva con me per averlo fatto aspettare.
Tuttavia rimasi l, all'angolo della strada, a spiare l'hotel.
Stavo guardando le finestre delle case da alcuni minuti quando Billard, in compagnia di un uomo che
non conoscevo, apparve sulla porta.
Avrei voluto corrergli incontro, ma mi trattenni perch avrebbe pensato che l'avessi aspettato per ore.
La gente non crede al caso, soprattutto quando l'unica cosa che ci pu scusare.
Billard portava un fazzoletto nuovo sul collo. I suoi capelli erano tagliati di fresco sulla nuca. I gesti
che faceva mentre parlava mi sembravano quelli di un estraneo. Ho notato che sempre cos quando,
senza essere visti, si scorge un amico con uno sconosciuto.
Mi nascosi dietro un'automobile. Billard non avrebbe potuto riconoscermi dai piedi.
I due uomini camminavano velocemente, in mezzo alla strada.
Allora mi venne in mente un'idea strana e un po' sciocca.
Infilai una strada parallela e presi un'andatura sportiva. Quando ebbi percorso un centinaio di metri,
raggiunsi per una traversa la strada che avevo appena lasciato.
Immobile davanti a un negozio, mi misi ad aspettare.
Per soffocare l'ansimare del petto respirai dal naso. Le calze mi ricadevano gi, sulle scarpe.
I due uomini si avvicinavano. A sentire il battito delle loro quattro suole si sarebbe detto che sui
marciapiedi stava camminando un cavallo.
Ancora qualche secondo e Billard e il suo compagno sarebbero stati qui.
Non osavo pi guardare la vetrina del negozio, per paura che i miei occhi, riflessi nel vetro,
incontrassero quelli di Billard.
Per un attimo mi venne l'idea di girarmi, con aria distratta. Ma ebbi paura che quell'aria distratta non
sembrasse sincera.
Del resto, Billard mi avrebbe visto. La strada era stretta. Avrebbe pensato che stessi vagabondando e
mi avrebbe parlato per primo. Era quello che desideravo.
Sfortunatamente i due uomini mi superarono senza rivolgermi la parola.
Fu la certezza di essere stato visto che mi imped di ricominciare la commedia.

Non ho fortuna, davvero. Nessuno si interessa a me. Mi considerano matto. Eppure sono buono,
generoso.
Henri Billard era un cafone. Non mi avrebbe mai restituito i cinquanta franchi. sempre cos che la
gente ci ricompensa.
Ero triste e arrabbiato. La sensazione che tutta la mia vita sarebbe trascorsa nella solitudine e nella
povert accresceva la mia disperazione.

Erano appena le quattro. Bisognava che aspettassi almeno due ore prima di andare al ristorante.
Delle nuvole trasparenti correvano sotto altre nuvole nere. Le strade perdevano quell'atmosfera
affaticata del pomeriggio, sicuramente per via dei giornali della sera.
Ho notato che i giornali risvegliano i passanti, anche coloro che non li comprano. Un giornale fatto
per essere letto al mattino. Quando esce la sera, si ha l'impressione che vi sia stato costretto da una
ragione importante.
Billard mi aveva realmente offeso. Eppure non riuscivo ad allontanarmi dal suo quartiere.
Camminavo in fretta nelle strade in cui pensavo di essere stato notato, e lentamente in quelle dove
andavo per la prima volta.
Una donna che zoppicava mi fece pensare a Nina. Non era possibile che lei amasse Billard. Era
troppo giovane. A diciott'anni non si convive con un uomo di quaranta, a meno che non vi si sia
costretti.
Poco a poco, il pensiero di andare a trovare Nina mi si insinu nella mente.
Me ne sentivo il coraggio. Quando sono da solo con una donna, la mia timidezza non mi d pi
fastidio. Ho l'impressione che mi renda simpatico.
S, sapr cosa dire a quella ragazza. Le parler male di Billard. Lei mi capir. Lo lascer. E, chiss,
magari mi amer.
Alla vista della sfera bianca dell'hotel du Cantal, ebbi la sensazione che, per non svegliarmi da un bel
sogno, mi stavo sforzando a dormire.
Mi introdussi nell'hotel cercando di convincermi che venivo direttamente da casa, che ero in ritardo, e
che dopo tutto la mia visita non aveva nulla di strano.
Salii le scale lentamente, per non perdere il fiato. Le mani, bagnate di sudore, facevano un sibilo sopra
la ringhiera.
Una donna delle pulizie, coi capelli raccolti in un asciugamano, scopava un corridoio buio. Da una
finestra aperta vidi un cortile e il retro di una casa, con dei porta vivande appesi come gabbie di uccelli.
Mi fermai al centro dell'ultimo piano.
Se una porta si fosse aperta avrei continuato a camminare. Non avrei avuto l'aria losca di una persona
immobile in mezzo a un pianerottolo.
Ero emozionato. Le orecchie mi ronzavano come quando si ascolta il mare dentro una conchiglia. La
camicia era bagnata sotto le braccia.
Saliti gli ultimi gradini bussai. "Chi ?"
"Bton... Bton."
"Ah! Va bene... aspetti... sono in bagno."
Piantato davanti alla porta come un impiegato del gas, ascoltavo ogni minimo rumore, temendo di
udire la voce di Billard o quella di uno sconosciuto.
Nel buco della serratura c'era della luce. Chiunque altro avrebbe guardato. Io mi trattenni. Sarei
davvero morto di vergogna se qualcuno mi avesse sorpreso cos, accovacciato davanti alla porta.
Finalmente apparve Nina.
Lavata, coi capelli bagnati alle tempie e le sopracciglia incollate fra loro, pi nere, le labbra fresche e
senza una ruga, sorrideva. Aveva dei bei denti: non si vedevano le gengive.
"Entri, signor Bton."
"La disturbo."
"No."
Avrebbe dovuto dire no molte pi volte.
Cammin davanti a me, senza essere imbarazzata di zoppicare.
Quando si ferm, il suo corpo ritorn verticale.
"C' il signor Billard?"
" appena uscito."
"Che peccato."
"Lo aspetti, allora."
Mi misi nello stesso posto della sera prima. una mia abitudine. Mi siedo sempre nel posto che ho
scelto la prima volta.
La stanza non aveva pi quel decoro che, alla luce di una lampada, le davano un pavimento passato
con la cera, un armadio a specchio e un camino di marmo nero.
Delle lamelle di legno lucido si scollavano dai mobili. La carta da parati sembrava essersi asciugata al
sole. L'aria odorava di dentifricio. Sulle tende c'erano dei fiori ricamati a macchina. Le rotelle del letto
avevano rigato il parquet.
"Non si volti, signor Bton, devo finire di vestirmi."
La parola vestire mi diede la voglia di prendere la ragazza per i fianchi, sicuramente perch mi faceva
pensare a svestire.
Ebbi paura che Billard arrivasse. Chiss cosa avrebbe detto trovandomi l, mentre la sua donna si
vestiva. Sarebbe stato geloso.
Udii il rumore acuto dei bottoni automatici, il fruscio di una camicia pulita che viene aperta e, ogni
tanto, lo scricchiolio di una giuntura di ossa.
Gli occhi, a forza di sbirciare la ragazza, mi facevano male.
Quando ebbe terminato la sua toeletta venne a sedermisi di fronte.
Bench non fosse necessario mi girai: era un gesto istintivo.
Vidi dei pantaloni da donna le cui gambe si toccavano in un solo punto e, per terra, delle impronte di
piedi, con le cinque dita.
"Come sta, signor Bton?"
"Abbastanza bene... e lei?"
Non rispose. Incurante di me, si limava le unghie.
Pensando che una volta limate le unghie si sarebbe interessata a me, contai le dita che non erano
ancora state curate.
Appoggi la sua limetta bianca.
"Lei forse si annoia, signora, quando Henri assente?"
"S... abbastanza."
Abbass la gonna per nascondersi la gamba troppo corta.
"Deve essere felice con lui."
"S."
Mi sembr che nelle risposte di Nina ci fosse poco entusiasmo, cos mormorai: "La capisco".
Mi guard. Le sue mani cessarono di muoversi.
"La capisco," ripetei, "l'annoia."
"Chi?"
"Billard."
Ci fu un silenzio. Ella rest immobile. Le si muovevano soltanto gli occhi, tutti e due insieme.
Ora avevo la certezza che non amava il suo uomo. Era troppo confusa quando parlava di lui. Non lo
difendeva.
Mi alzai. Per un primo colloquio, era meglio non precipitare le cose.
Riaccompagnandomi alla porta, ella mi tese la mano con franchezza, senza piegare il gomito.
Essendo soli, trattenni la sua mano nella mia.
Ero sul pianerottolo. Lei stava nel vano della porta.
Guardava le mie orecchie, per sapere se arrossivo.
"Arrivederci, signorina."
"Arrivederci, signore."
Mi restava un secondo per fissare un appuntamento prima che la porta si chiudesse.
"Domani, alle tre" balbettai.
Non rispose.
Senza guardare i gradini, scesi le scale di volata, un po' come una fata.
6.
Qualche secondo dopo ero all'aperto, rosso fino alla nuca. Mi mancava il respiro, come quando c' il
vento.
Mi guardai in uno specchio. Una vena che non conoscevo mi attraversava la fronte, dall'alto in basso.
Avrei voluto tornare all'hotel e baciare Nina. Mi amava. Bisognava essere timidi come me per non
aver saputo approfittare della situazione. Di sicuro lei rimpiangeva che non fossi stato pi
intraprendente. La mia debolezza aveva dovuto irritarla.
Ma se era intelligente, mi sarebbe stata grata di averla rispettata. Non conveniente baciare una
persona che si conosce appena.
Stavo dunque per avere un'amante che mi avrebbe amato, e che, per darsi, non mi avrebbe chiesto
nulla.

Perch la notte mi sembrasse meno lunga, rincasai tardi.
Dopo essermi tolto la giacca mi affacciai alla finestra. L'aria tiepida mi ricord le serate dell'estate
scorsa. La luna, piena di macchie d'acqua, illuminava l'orlo di una nuvola.
Poi andai a letto.
Bisognava che dormissi, altrimenti al mattino avrei avuto un brutt'aspetto. Il mio volto non
simmetrico.
La mascella sinistra pi sporgente. Quando sono stanco si nota di pi.
Tuttavia non riuscivo a chiudere gli occhi. Per quanto mi dessi da fare a sistemare il letto ogni
momento, e mi mettessi nudo alla finestra per sentire freddo, pensavo sempre a Nina. Me la vedevo
davanti, in una nebbia da cartolina, senza le gambe, oppure cercavo un modo di farla venire da me
senza che la portinaia se ne accorgesse.
Poich ancora non mi addormentavo, decisi di rivedere con l'immaginazione tutti gli avvenimenti della
mia vita di soldato. strano come nella memoria diventino piacevoli anche i luoghi in cui si stati
infelici.
Cos come canto solo raramente le canzoni della mia infanzia, per non smorzare i ricordi che mi
evocano, allo stesso modo penso alla mia vita di soldato solo quando non posso farne a meno. Mi piace
tenere nella mente una riserva di ricordi. So che c'. Questo mi basta.
Stavo per assopirmi quando la lattaia, che sicuramente tornava dal cinema, sbatt la sua porta.
La sentii chiudere la finestra, poi lavarsi. Non si lavava mai la sera. Udivo gli stessi rumori che davanti
alla porta di Billard. Ho notato che i fatti nuovi della vita quotidiana si succedono in serie.
Uscii dal letto.
Con gli alluci sollevati a causa del freddo, camminai su e gi per la stanza, sperando confusamente che
la lattaia mi vedesse da un buco, attraverso il muro.

Mi addormentai solo all'alba. Non udii n la sveglia dei Lecoin n la scopa della portinaia, che tutte le
mattine urta apposta contro la mia porta.
Quando mi svegliai, il quadrato di sole aveva oltrepassato il mio letto e tremolava sul muro.
Era tardi. Mi alzai in fretta, con gli occhi piccoli e una guancia rigata come una foglia da un lenzuolo
sgualcito.
Una volta vestito mi spazzolai a lungo.
La mia spazzola cos vecchia che i suoi peli si piantano nella stoffa.
Dovetti toglierli uno ad uno.
Poi uscii.
Era una bella giornata di primavera. Il sole mi stava sopra la testa. Camminavo sopra la mia ombra.
Posseggo un rasoio di sicurezza, ma la lama taglia male.
Per questo entrai da un barbiere.
Il padrone stava scopando dei capelli. Era in maniche di camicia. Degli elastici di metallo gli giravano
intorno alle braccia, sopra il gomito. La cravatta era tenuta su da una molletta.
Mi ras benissimo.
Alle tre precise, con la pelle liscia e dura e il volto incipriato, bussai alla porta di Billard.
Nina doveva aspettarmi.
Le vene delle mie mani erano pi grosse del solito.
Non rispose nessuno. Nina, che era un po' civetta, voleva farmi languire.
Bussai, questa volta pi forte.
Con l'orecchio incollato alla porta, cercai di ascoltare. Si sente meglio in questa maniera.
Il silenzio non venne turbato da alcun rumore.
Allora battei col pugno. Stesso silenzio. Nina non c'era. Guardai dal buco della serratura, visto che
non c'era nessuno. Vidi il battente della finestra con una tenda troppo lunga.
Nina non mi aveva aspettato; Nina non mi amava.
Improvvisamente fui colto da una paura idiota. Se la ragazza fosse morta, l, nella camera, sarei stato
sospettato.
Scesi le scale in fretta e furia, saltando gli ultimi gradini di ogni piano.
cos che fin la mia relazione con la coppia Billard. Non sono pi tornato a trovarli nemmeno per
chiedere loro i cinquanta franchi.
Evito place Saint-Michel. Eppure, se Billard avesse voluto, saremmo stati cos felici.
Cerco un amico. Credo che non lo trover mai.
NEVEU, IL MARINAIO
Mi piace vagare sulla riva della Senna. I depositi di merci, le darsene, le chiuse mi fanno pensare a dei
porti lontani in cui vorrei abitare. Vedo, con la fantasia, delle ragazze e dei marinai che danzano, delle
bandierine, delle navi immobili con alberi senza vele.
Queste visioni non durano molto.
I lungosenna di Parigi mi sono troppo familiari: assomigliano solo per un istante alle citt brumose
dei miei sogni.

In un pomeriggio di marzo, passeggiavo lungo il fiume.
Erano le cinque. Il vento mi sollevava i lembi del soprabito come se fosse una gonna, e mi costringeva
a tenere il cappello con le mani. Ogni tanto, pi rapide della corrente, passavano sull'acqua le vetrate di
un vaporetto. Senza muovere la testa, si vedeva la torre della gare de Lyon, con gli orologi gi illuminati.
Quando cessava il vento, l'aria aveva l'odore di un torrente in secca.
Mi fermai, e, coi gomiti appoggiati sul parapetto, guardai tristemente davanti.
Il fumaiolo dei rimorchiatori, prima dei ponti, cadeva all'indietro. Dei cavi tesi collegavano al centro le
chiatte abitate. Una lunga passerella di legno univa una zattera alla terraferma.
L'operaio che vi si avventurava sopra rimbalzava ad ogni passo, come su un letto a molle.

Non avevo intenzione di morire, ma ispirare compassione mi spesso piaciuto. Appena si avvicinava
un passante, mi nascondevo la faccia nelle mani e tiravo su col naso, come qualcuno che ha pianto. La
gente, allontanandosi, si voltava.
La settimana scorsa, per sembrare sincero, c' mancato poco che mi buttassi nell'acqua.

Contemplavo il fiume, pensando a tutte le monetine galliche che dovevano trovarsi sul fondo, quando
una pacca sulla spalla mi fece sollevare i gomiti, d'istinto.
Mi girai, un po' imbarazzato di avere avuto paura.
Di fronte a me c'era un uomo con un berretto da marinaio, un mozzicone sotto i baffi e una piastrina
di riconoscimento arrugginita al polso.
Poich non l'avevo udito arrivare gli guardai i piedi: calzavano delle espadrillas.
"Lo so che vuole morire," mi disse.
Non risposi: il silenzio mi rendeva interessante.
"Lo so."
Alzai gli occhi pi in alto possibile, per farli piangere.
"Si, lo so."
Visto che i miei occhi non piangevano, li chiusi. Ci fu un silenzio, poi mormorai:
" vero, voglio morire".
La notte stava calando. I lampioni a gas si accesero da soli. Il cielo era illuminato solo da una parte.
Lo sconosciuto si avvicin e mi disse in un orecchio: "Anch'io voglio morire".
Pensai dapprima che scherzasse; ma, tremandogli le mani, ebbi improvvisamente il timore che fosse
sincero, e che mi invitasse a morire con lui.
"S, voglio morire," ripet.
"Su, andiamo!"
"Voglio morire."
"Bisogna sperare nell'avvenire."
Mi piacciono le parole "sperare nell'avvenire" e "avvenire", nel silenzio della mia mente, ma non
appena le pronuncio mi sembra che non abbiano pi senso.
Pensai che il marinaio sarebbe scoppiato a ridere. Non batt ciglio.
"Bisogna sperare."
"No... no..."
Cominciai a parlare senza sosta per dissuaderlo di morire.
Non mi ascolt. Il corpo eretto, la testa abbassata e le braccia penzoloni, aveva l'aria di un banchiere
in rovina.
Per fortuna sembrava avesse dimenticato che avevo avuto anch'io l'intenzione di uccidermi. Mi
guardai bene dal ricordarglielo.
"Andiamo via," dissi, nella speranza di lasciare il lungosenna.
"S, andiamo sulla sponda."
Prima la pietra del parapetto mi aveva gelato i gomiti. Adesso il freddo mi pervadeva il corpo.
"Sulla sponda?" chiesi.
"S, bisogna morire."
"Adesso troppo buio. Torneremo domani."
"No, oggi."
Scappare sarebbe stato vile. La mia coscienza me l'avrebbe rimproverato tutta la vita. Non si deve
lasciare morire qualcuno. Il mio dovere era di salvare quell'uomo. Ma, restando l, avrebbe pensato che
volessi annegarmi, e se all'ultimo istante avessi rifiutato sarebbe stato capace di costringermi. I marinai
sono abituati a tirare le barche con un cavo. Per loro, tirare un uomo col braccio doveva essere
facilissimo.
" meglio tornare a casa, amico mio."
Il disperato alz la testa. Indossava una giubba da soldato inglese, senza bottoni. Sicuramente li aveva
dati via. Sotto la giubba, un maglione col collo spianato gli faceva dei cuscinetti sul ventre. Al posto di
un dente, ne aveva due. Dalle orecchie gli spuntavano dei peli, e si sarebbe potuto contarli. Una bottiglia
da un litro, col tappo nuovo, gli sporgeva a met da una tasca.
Mi prese per il braccio e mi trascin verso una scaletta. Abbassando lo sguardo vidi l'argine del fiume,
tra i gradini di ferro.
Scesi lentamente, appoggiando entrambi i piedi su ogni scalino prima di avanzare, come uno che ha la
gamba di legno.
Mi tenevo alla ringhiera piatta e sottile e, per ritardare il suicidio, facevo finta di avere paura di cadere.
Le dita del marinaio affondavano tra il mio bicipite e l'osso. Ogni tanto, per liberarmi, alzavo il
braccio: era inutile.
Sull'argine c'era un mucchio di sabbia appuntito, degli attrezzi del comune di Parigi, una garitta e una
carriola legata con una catena. Vidi il disotto oscuro di un ponte, e il tetto degli autobus che passavano
sul lungosenna. Delle correnti d'aria mi premevano la schiena.
"In due si muore pi facilmente," osserv il mio vicino.
Senza alcun dubbio quel marinaio aveva deciso di annegarsi. Pensava che io lo avrei seguito. Avrei
voluto che continuasse a crederlo: non bello essere sospettati dalla gente di avere paura della morte.
Stavamo sul bordo della Senna come sul bordo di uno stagno. Non c'erano pi parapetti. Il fatto di
trovarmi cos vicino al fiume mi stup. Chi avrebbe pensato, vedendo scorrere la Senna tra le case, sotto
i ponti di pietra, che si sarebbe potuto venirle tanto vicino.
Mio malgrado, come mi accade sempre quando vedo una distesa d'acqua, pensavo al fatto che non
sapevo nuotare.
"Andiamo pi lontano," disse lo sconosciuto, "la corrente ci porterebbe contro gli archi del ponte."
Approvai subito.
Un tram fece tremare la volta del ponte. Ebbi paura che crollasse. Tutte le volte che passo sotto un
ponte provo lo stesso timore. La ghiaia scricchiol sotto i nostri piedi come dello zucchero tritato.
"Ma perch ci tiene tanto a morire?" domandai.
"Sono tre giorni che non mangio. Non so dove dormire."
"Ci sono gli ospizi."
"Mi conoscono troppo bene. Non mi ci vogliono pi."
Dei riflessi di luce si conficcarono a picco nella Senna. La superficie del fiume era agitata come se
sott'acqua ci fossero delle foche. Sull'altra riva, a causa dell'ombra, le case davano l'impressione di
scendere gi lino al fiume, come a Venezia.
"Coraggio, andiamo," disse il marinaio. " un brutto momento da passare. Poi, per, il riposo eterno."
"Ne sicuro?"
"S... andiamo... coraggio."
La sua mano, che mi stringeva sempre nello stesso punto, mi provocava la stessa paura di un granchio
invisibile che ci pizzichi un piede.
"Mi lasci, prima."
Io non volevo uccidermi, ma se mi fossi deciso a farlo non avrei voluto che qualcuno mi tenesse.
Occorre tutta la propria indipendenza per uccidersi. Il suicidio non la morte. Contrariamente a quello
che mi aspettavo, lo sconosciuto ubbid subito.
L'aria riprese a girarmi nei polmoni, come se invece di lasciarmi il braccio mi avesse lasciato la gola.
Il marinaio si chin e, con due dita rigide, misur la temperatura dell'acqua.
"Un po' fredda," disse asciugandosi.
"Bene, torneremo un'altra volta."
"No, bisogna farla finita."
Per tutta la vita, a causa della mia solitudine, mi sono trovato in situazioni analoghe. Vorrei che
qualcuno si occupasse di me, che mi volesse bene. Siccome non conosco nessuno, cerco di attirare
l'attenzione per strada, perch solo l posso farmi notare.
Il mio caso assomiglia a quello di un mendicante che, in pieno inverno, canta su di un ponte a
mezzanotte. I passanti non offrono niente, perch trovano quel modo di chiedere l'elemosina troppo
teatrale. Allo stesso modo, vedendomi appoggiato coi gomiti a un parapetto, triste e sfaccendato, i
passanti intuiscono che sto recitando una commedia. Hanno ragione. Per, non pensate sia comunque
una situazione ben triste quella di mendicare a mezzanotte sopra un ponte, o di appoggiarsi coi gomiti a
un parapetto per interessare la gente?
Il marinaio si riempiva le tasche di sassi per andare a fondo pi in fretta.
"Faccia come me," disse.
La situazione si aggravava. Non avrei voluto parlare dei miei soldi, ma adesso non era pi possibile
tacere. Fino all'ultimo momento avevo sperato che un avvenimento imprevisto mi avrebbe evitato di
dire che possedevo un po' di soldi.
"Ehi... ehi!..."
Il disperato, che sceglieva dei sassi accovacciato vicino a un mucchio di sabbia, si volt.
"Siamo salvi!"
Mi guard senza capire.
"Mi sono accorto adesso che ho un po' di soldi."
Lo sconosciuto si alz e fece un passo. Qualche pietra gli scivol dalle dita. I suoi occhi brillarono, ma
soltanto in mezzo.
"Ha dei soldi?"
"S... s."
Stordito, un po' come devono sentirsi quelli che risuscitano, non si muoveva. Una lacrima gli col fino
alla barba. Poi, improvvisamente, salt in aria tre o quattro volte di seguito, facendo la ruota con le
braccia.
"Ha dei soldi?"
"S... s."
"Li faccia vedere... li faccia vedere."
Aprii il portafogli. Per evitare che vedesse tutte le banconote ne presi solo una, che si spieg uscendo.
"Ecco, amico mio, prenda questi dieci franchi."
L'infelice guard la banconota con amore, e si sforz per un minuto di stirarla.
Entrammo in un ristorante, io per primo.
"Che cosa prendi?"
Adesso gli davo del tu, perch mi doveva la vita, ma anche perch lui era pi povero di me.
"Come lei."
"Del rosso, allora?"
"S."
Ci portarono del vino in una caraffa pulita da un litro, del pane tagliato a fette e quattro salsicce che
crepitavano ancora nel piatto.
Pagai.
Pago sempre in anticipo. Cos mi sento pi tranquillo. So che i soldi che mi restano nel portamonete
mi appartengono tutti.
Il marinaio si butt sulle salsicce.
"Stai attento, mangia lentamente."
Non rispose. Sentii che ai suoi occhi cominciavo a diminuire di importanza.
Quando ebbe finito gli chiesi:
"Hai mangiato bene?"
Si asciug i baffi col palmo della mano prima di rispondermi "s".
Poich non mi ringraziava, continuai: "Era buono?"
"S."
"Ne hai avuto abbastanza?"
"S."
Mi infastidiva che non mi manifestasse di pi la sua riconoscenza.
Per ricordargli il regalo che gli avevo fatto, gli chiesi:
"Hai ancora i dieci franchi?"
"S."
Era davvero privo di delicatezza. Al suo posto sarei stato molto pi gentile con un benefattore. Aveva
la fortuna di avere a che fare con me. Sono caritatevole e di larghe vedute. L'ingratitudine non mi
impedisce di fare del bene.
"Ma come ti chiami?"
"Neveu... e tu?"
Adesso mi dava del tu. Ho notato spesso che non bisogna dare confidenza alle persone maleducate.
Confondono la familiarit con l'amicizia. Pensano subito di essere uguali a noi. Le distanze che ci
separano scompaiono. Io, per, non sono mai stato in confidenza con qualcuno che, pur essendo
superiore, si fosse mostrato affabile. Conosco troppo bene come possa offendere la gente.
Non ce l'avevo con Neveu, ma avrebbe dovuto essere pi cortese.
Io lo ero ben stato con Billard.
Poich sono molto buono, risposi al mio vicino:
"Victor Bton".
Adesso un rossore da frutto maturo gli colorava le gote, sopra l'osso. La barba gli si arricciava meglio.
Aveva delle briciole sul maglione.
Neveu, nonostante mancasse di delicatezza, mi era simpatico. Avevo finalmente trovato un amico su
cui potevo contare. Sarei stato l'unica persona che conosceva. La mia gelosia non avrebbe avuto ragione
di manifestarsi. Inoltre ero orgoglioso di sapermela cavare meglio di lui. Quando saremmo usciti
insieme, avremmo percorso le strade che piacciono a me; si sarebbe fermato davanti ai negozi che io
preferisco.
"Dove dormi stasera?" gli chiesi sapendo benissimo che non aveva dimora.
"Non so."
"Stai tranquillo, mi occuper io di te."
Il mio primo pensiero fu di fargli un letto a casa mia. Abbandonai l'idea quasi subito. Prima di tutto la
portinaia mi avrebbe fatto il muso. E poi il mio letto una cosa sacra. Ho, come tutti, delle manie,
soprattutto nella mia camera. Se avessi dovuto dormire con una coperta di meno non avrei chiuso
occhio tutta la notte. Al mattino, per lavarmi, sarei stato in imbarazzo. Era meglio che gli affittassi una
piccola stanza in albergo. Per dieci franchi alla settimana, si pu trovare una mansarda niente male.
Mi fermai su quest'idea. Evitai comunque di dirlo al marinaio. Preferivo lasciarlo nell'ansia.
In quel momento sentii che, per lui, ero di nuovo la provvidenza. Era pallido. Quando sono
preoccupati i ricchi, sanno darsi un contegno. Lui era povero, non era capace. Le sue mani avevano dei
tic come quelle di un dormiente su cui stia passeggiando una mosca. Gli occhi inquieti gli si muovevano
cos distintamente che sembravano quelli di un negro.
Non giusto divertirsi a tenere qualcuno alla propria merc. Mi si poteva per perdonare, perch, se
lo lasciavo struggersi in quel modo, era per potergli dopo annunciare una buona notizia. Non mi sarei
comportato cos se non avessi voluto prendermi cura di lui.
"Vuoi bere, amico mio?"
"S."
Ordinai un altro litro di vino.
Mentre brindavamo constatai che le mie unghie erano pi pulite di quelle del mio compagno. Non
seppi se esserne fiero o dispiaciuto.
Appena i bicchieri furono vuoti versai di nuovo da bere, per timore che Neveu mi precedesse. Se si
fosse preso la libert di servirsi, mi sarei indignato. Mi avrebbe fatto capire che non teneva in nessun
conto la mia superiorit. Mi dava del tu: era gi abbastanza.
Eravamo allegri. La testa mi girava, come sull'altalena. Mi sentivo diventare buono, senza alcun
secondo fine, veramente buono.
"Sai, Neveu, non devi avere paura. Ti affitter una camera. Se vuoi saremo dei veri amici. Non ci
lasceremo mai."
L'espressione del marinaio mut all'improvviso, forse per colpa di una ciocca di capelli che gli cadde
sulla tempia. Le sue rughe da attore, che gli andavano dalle narici agli angoli delle labbra, divennero
meno profonde.
"S... certo... se tu lo vuoi."
Quel tu mi fer, comunque, meno della prima volta. Riconoscevo di avere avuto torto. L'ebrezza mi
dava voglia di dividere tutto ci che avevo.
"Vieni, usciamo," dissi scrollandomi le falde del soprabito coperto di segatura.
Nonostante il mio stato, sapevo benissimo che l'ultimo litro non era stato pagato. Feci finta di
dimenticarmene.
Neveu, per non ricordarmelo, estrasse la banconota che gli avevo regalato.
"No... no... lascia... pago io."
L'aria fresca di fuori non mi fece passare la sbornia. La strada, piena di gente, era sfuocata come
quando si provano gli occhiali di qualcuno. I volti delle persone sembravano delle maschere. I fari delle
automobili mi passavano all'altezza del ventre. Avevo del cotone nelle orecchie. I motori dei taxi
facevano pensare a della ferraglia calda, priva di valore. Il marciapiede si muoveva sotto i piedi, come
quando ci si pesa. Sembrava una strada uscita da un sogno, con delle luci dappertutto.
Ero cos contento che mi sarebbe piaciuto gridarlo.
Adesso non volevo pi dividere con Neveu: volevo dargli tutto. Trovavo che la mia povert non fosse
abbastanza grande. Mio Dio, quale gioia pi nobile di quella di dare tutto ci che si possiede e di
guardare, con le mani vuote, colui che abbiamo reso felice !
Stavo per offrire tutto a Neveu, quando un pensiero mi arrest. Forse non ne era degno.

Camminavamo da cinque minuti quando mi venne un'idea da uomo ben pasciuto. Mi voltai. Neveu
era dietro di me.
"Ehi... andiamo da Flora! "
"Flora?"
" un posto dove ci si diverte."
Il marinaio, che era ubriaco, camminava di traverso, una spalla pi bassa dell'altra. Seguiva il bordo del
marciapiede come un equilibrista. Il gomito appoggiato sul ventre, la mano tremante all'altezza del
mento, aveva l'aria di un degenerato. La testa gli barcollava come una palla tenuta da un pezzo di spago.
Un capo della cintura di flanella gli penzolava fino alle ginocchia.
"Vedi, Neveu, si sta meglio qui che in mezzo all'acqua."
Non ero mai stato cos felice. Il mio amico mi seguiva. Quindi ero io che lo guidavo. Pensai che, se
avessi girato a destra o a sinistra, non avrebbe avuto nessuna importanza, perch tanto il marinaio mi
avrebbe seguito.
Malgrado la baraonda, davanti a noi il passaggio era sempre sgombro. Quando dovevamo attraversare
una strada, un agente, come per incanto, interrompeva il traffico. Quando un assembramento ostruiva il
marciapiede, nel momento in cui noi arrivavamo si apriva un varco.
Imboccammo una strada deserta. Il chiarore dei lampioni si muoveva sopra le case, fino ai primi piani.
Le nostre ombre, tagliate alle ginocchia, a volte ci precedevano, a volte ci seguivano sui muri. In alto, in
una casa, una finestra accesa proiettava il suo quadrato luminoso, pi ampio e pi fioco, sulla facciata
opposta.
Ogni tanto mi appoggiavo ad un muro: un po' di gesso mi s'infilava sotto le unghie.
Oppure mi tastavo l'interno della giacca, perch malgrado l'ubriachezza pensavo al portafogli. Temevo
che il mio compagno approfittasse del mio stato per rubarlo.
Un grammofono riecheggi. Un numero illuminava una porta.
Eravamo arrivati.
Devo confessare che non avrei mai osato venire l da solo. Quando si in due non la stessa cosa.
L'attenzione della gente rivolta solo su di noi.
Tuttavia l'emozione mi faceva male alla pancia.
Stavo dunque per entrare in una di quelle case di cui avevo sentito parlare fin dall'infanzia. Stavo per
entrarci da signore e non facendo la spalla a qualcuno, come al reggimento.
Suonai.
La porta si apr subito, di sicuro per evitarci l'imbarazzo di essere visti stazionare l davanti.
Entrammo.
Grazie a un apparecchio speciale, la porta si richiuse da sola.
Pensai subito al mio cappello. Mi scoprii la testa e, per avere l'aria di un habitu, andai dritto davanti a
me.
"Non da quella parte," grid una donna molto grossa, la stessa che ci aveva aperto.
Aveva calze bianche, una borsetta di pelle tenuta da una catenina d'acciaio e un grembiule di pizzo,
troppo piccolo per servire da grembiule.
Quel rimprovero mi aveva rovinato l'entrata. Avrei voluto tanto avere l'aria di conoscere il posto.
Ella ci introdusse in una sala che ci sorprese per la sua ampiezza, un po' come tutte quelle sale che si
trovano in fondo a una casa.
Alcuni clienti, contenti di essere ben rasati, guardavano girare il disco di un grammofono. In fondo
alla sala c'era un palcoscenico abbandonato, con delle scenografie confuse.
"Le signorine stanno cenando. Scenderanno tra qualche minuto. Che cosa gradiscono nell'attesa, lor
signori?"
So che in questi posti le consumazioni sono molto care. Ordinai nondimeno una bottiglia di vino.
Ci sedemmo.
Avevo tenuto il soprabito perch molto difficile da indossare, a causa della fodera delle maniche.
L'atteggiamento di Neveu mi indispettiva. Non si era tolto il berretto. Inoltre non aveva il colletto. E,
invece di essere umile, come conviene fare quando non si ricchi, assumeva un'aria provocatoria.
Lo colpii col gomito.
"Togliti il berretto."
Ubbid. Una striscia rossa gli divideva la fronte da una tempia all'altra.
Mentre il mio compagno si sfregava gli occhi coll'indice bagnato, io mi pulii le unghie sotto il tavolo
con un fiammifero.
Non tutte le lampadine erano state gi accese. Si aveva l'impressione di trovarsi in un cinema quando
si arriva troppo presto.
I clienti sembrava che stessero l per forza. Le mani erano nelle tasche. Le orecchie rosse luccicavano
come i nasi. La pelle finta dei sedili mandava riflessi di saia consumata.
Il grammofono si ferm.
Un cliente ne imit il suono con la bocca. Non credo sia difficile, perch ho conosciuto molta gente
che lo faceva.
Finalmente apparvero le donne. Le contai. Erano sette.
Le loro vesti corte esalavano quell'odore di vizio e di miseria che esalano le acconciature ornate di
lustrini che decorano i mostri di cera esposti ai musei delle fiere.
Avevano un colorito pallido e rilucente, come bambole di cartone patinato. Degli anelli brillavano,
allineati sulle dita.
Quando una di quelle ragazze allegre stava da sola, le sue gambe sembravano ben fatte, ma non
appena si riuniva alle compagne i loro difetti saltavano agli occhi, senza che possa spiegarmene il
motivo.
Una donna venne a sedersi accanto a noi, e rimbalz ridendo sul sedile. Aveva denti gialli, che a causa
della bianchezza del viso sembravano ancora pi gialli. Gli occhi erano rigati come un vecchio
quadrante di orologio. Il profumo che emanava era pi forte quando si muoveva.
Neveu la guardava con ammirazione. Era completamente cambiato. Parlava, rideva, e non si curava
pi di me.
Improvvisamente la donna si alz e, prendendo il marinaio per il braccio, lo trascin con s.
Restai solo. Sul tavolo c'erano tre bicchieri e due bottiglie.
Pagai tutto e uscii, il cuore colmo di amarezza.

Avrei fatto tutto per Neveu. Gli volevo bene, lui che era pi debole di me.
Gli ho dato dieci franchi: invece di tenerli per mangiare, ha preferito divertirsi. Oggi forse morto,
annegato. Per, se mi avesse ascoltato, se mi avesse voluto bene, se non mi avesse preso in giro,
saremmo stati felici.
Anch'io, quel giorno, avrei seguito volentieri una donna. Non l'ho fatto perch volevo affittargli una
camera.
Non ha intuito che nel mio cuore c'erano dei tesori di affetto. Ha preferito soddisfare un desiderio.
Fate del bene, cos che sarete ringraziati.
dunque cos difficile capirsi sulla terra?
MONSIEUR LACAZE
1
Le stazioni mi fanno scorgere un mondo che non conosco. L'atmosfera che le avvolge pi sottile.
Amo le stazioni, la gare de Lyon in particolare. La torre quadrata che la domina mi fa pensare, di
sicuro perch nuova, ai monumenti delle citt tedesche che ho ammirato dalle portiere dei carri
bestiame, quando ero soldato.
Amo le stazioni perch vivono giorno e notte. Se non dormo, mi sento meno solo.
Le stazioni mi rivelano la vita privata della gente ricca. Per strada assomigliano a tutti gli altri. Mentre
lasciano Parigi, li sento parlare, ridere, ordinare. Vedo come si separano. Questo m'interessa, a me che
sono povero, senza amici e senza bagagli.
Si intuisce che quei viaggiatori non vorrebbero mai essere al posto di chi, come me, li guarda partire.
Delle ragazze alte aspettano che i bagagli vengano registrati. Sono belle. Le osservo chiedendomi se,
vestite da operaie, sarebbero ugualmente belle.
Amo la gare de Lyon perch dietro c' la Senna, con le sue sponde, le gru che girano nell'aria, le chiatte
immobili come piccole isole, le sue fumate che, nel cielo, hanno smesso di salire.

Un giorno, non sapendo come trascorrere il tempo, decisi di passare qualche ora alla gare de Lyon.
Le porte senza serratura sbattevano a vuoto nell'aria. I miei piedi scivolavano sul selciato di vetro
come in una foresta di abeti. Sui pannelli umidi di un chiosco di giornali erano attaccate delle locandine.
Le correnti d'aria impedivano alla gente di aprire i giornali. Dietro gli sportelli, nonostante il giorno, era
accesa la luce. Gli impiegati delle ferrovie erano simili alle guardie municipali.
Nessuno mi prestava attenzione. Ero triste. Mi sforzavo di restarlo. Volevo che i viaggiatori avessero
un rimorso, partendo, che pensassero a me mentre correvano verso altri paesi.
Camminavo a testa bassa, e quando incontravo una bella donna la guardavo malinconicamente, per
commuoverla. Speravo che indovinasse il mio bisogno di amore.

Quando esco di casa, spero sempre in un avvenimento che possa sconvolgermi la vita. Lo aspetto
fino a quando rientro. E per questo che non resto mai nella camera.
Sfortunatamente questo avvenimento non si mai verificato.
"Ehi... laggi., quell'uomo!"
Dopo essermi voltato vidi, a una ventina di metri, un uomo che doveva essere in mezzo a una
corrente d'aria: il soprabito gli svolazzava come sul pontile di una nave. Aveva una valigia appesa
all'estremit del braccio destro.
Non sapendo se si rivolgesse a me, rimasi in attesa. Allora mi fece un segno con l'indice, come se
premesse un grilletto.
Mi guardai intorno, per assicurarmi che non chiamasse qualcun'altro, e non vedendo nessuno mi
avvicinai.
Lo sconosciuto era grasso. La sua pancia fuoriusciva dalla giacca. I peli dei baffi rossicci erano
pareggiati.
Ero seccato, non perch mi prendesse per un addetto ai bagagli, ma per il fatto che disturbava la mia
tristezza. Ora qualcuno mi parlava. Quindi assomigliavo a tutti gli altri. Per colpa di quell'uomo non
avevo pi il diritto di compiangermi.
"Prendi questa valigia, brav'uomo."
Aveva la pigrizia delle persone che hanno viaggiato e trovano naturale che ci si precipiti incontro,
aprendo loro un passaggio.
Esitai a prendere la valigia: una ragazza mi stava osservando.
Alla fine, rassegnato, afferrai il manico col mio braccio valido e seguii il viaggiatore.
Il suo soprabito si sollevava dietro, sicuramente perch ci si era seduto sopra.
Ogni secondo mi fermavo per riposarmi e per guardarmi le dita schiacciate.
Il viaggiatore, invece, non si fermava mai contemporaneamente. Continuava a camminare e mi
aspettava pi lontano, per non dovermi rivolgere la parola.
Durante tutto il tragitto abbassai lo sguardo, perch avevo vergogna. Il peso della valigia addossata alla
gamba mi calava gi i pantaloni.
Avrei voluto raccontare la mia vita a quell'uomo; forse si sarebbe interessato a me. Ci tenevo ancora di
pi in quanto, se non lo avessi fatto, non sarei stato contento di me.
Raccontare le mie disgrazie, in certi momenti era facile, in altri impossibile, soprattutto quando
cominciavo a parlare.
Perch, ogni volta che mi preparavo a parlare, il viaggiatore si cercava un oggetto nella tasca, oppure
fissava lo sguardo su qualcosa. Bastava questo a dissuadermi. Temevo di importunare un signore cos
importante. Sentivo che, per ascoltarmi, era indispensabile che non avesse niente da fare.
Appena fummo sul marciapiede, un taxi venne a schierarsi davanti a noi.
Aprii la portiera con la stessa fatica che se fosse quella di un vagone: non sapevo da che parte si
girasse la maniglia.
L'autista abbass la bandierina e ci osserv dall'alto in basso, come un uomo a cavallo.
Era cos calmo che capii che i miei sforzi per sollevare la valigia dovevano apparire ridicoli.
Il signore diede il proprio indirizzo piuttosto forte, a causa del motore, poi, spargendosi delle
monetine nella mano, ne scelse una e me la porse.
Sentii che entro pochi secondi sarei arrossito. Rifiutai, meno per orgoglio che per rendermi
interessante. Feci persino un gesto con la mano.
"Non vuole?" domand il viaggiatore cambiando tono, e dandomi anche del lei.
Quel rifiuto, per quanto normale, lo aveva colpito.
L'autista, viola come una varice, ci osservava con le mani sul volante.
"Ma perch rifiutare? Lei povero."
In quel momento, avrei dovuto balbettare qualcosa e scappare. Invece restai, sperando non so cosa.
"Lei mi interessa, brav'uomo."
Lo sconosciuto estrasse un biglietto da visita, e appoggiandolo al taxi, scrisse: "Ore dieci".
"Tenga... venga a trovarmi domani mattina."
Sal sull'automobile, che oscill come una barca.
Immobile, il biglietto in mano, non sapendo cosa dire e desiderando parlare, restai l sul bordo del
marciapiede.
Il taxi gir nel piazzale e mi ripass davanti. L'autista mi guard con l'aria di dire "Va', furbacchione".
Vidi per un attimo il signore che si accendeva una sigaretta.
Il taxi si allontan. Senza sapere perch, presi nota del numero.
Non volevo che qualcuno mi vedesse leggere il biglietto. Mi allontanai, perch delle persone mi
guardavano.
Fu solo dopo aver camminato per cinque minuti che lessi:

JEAN-PIERRE LACAZE
Industriale
6, rue Lord-Byron

Questo biglietto mi fece un'enorme impressione, per via dei due nomi uniti da un trattino,della
parola"industriale" e di quella rue Lord-Byron, che di sicuro non si trovava nel mio quartiere.
S, l'indomani, alle dieci, sarei andato a casa di quel signore.
Ero dunque salvo, perch qualcuno si interessava a me.
2.
A casa, la sera, lavai nella bacinella, con l'acqua fredda, le calze e il fazzoletto.
Durante la notte mi svegliai ogni quarto d'ora, tutte le volte prima della fine di un sogno. Allora
pensavo all'industriale. Nella mia immaginazione aveva una figlia che sposavo; egli moriva lasciandomi
tutte le sue fortune.

Al mattino, quando mi si aprirono gli occhi, capii che la fantasia mi aveva spinto troppo lontano.
Lacaze doveva essere un uomo come tutti gli altri.
Mentre mi facevo la toeletta, riassunsi mentalmente tutti gli avvenimenti della mia vita suscettibili di
interessarlo, per poterglieli dire.
Poi feci una scelta. Per quanto uno possa essere infelice, povero e solo, ci sono sempre delle cose che
meglio tacere.
Ho due completi: quello che metto tutti i giorni e un altro che ha il vantaggio di essere nero. Esitavo a
indossare quest'ultimo: non sapevo se a Lacaze sarebbe piaciuto di pi che avessi l'aria da povero o che
mi fossi vestito a festa per lui.
Decisi di indossare il vestito nero. Spazzolai le macchie dopo aver sputato sulla spazzola. E molto
tempo che spazzolo quelle macchie. Alla sera riappaiono sempre.
Mi lavai le braccia fino al gomito perch non si vedesse che il mio corpo era sporco. Mi bagnai i
capelli, perch la riga si mantenesse. Misi una camicia pulita, l'unico colletto duro che possiedo e che era
stato portato solo due volte, e la cravatta meno spiegazzata dai nodi.

Uscii.
Non mi coprii subito la testa, affinch i capelli avessero il tempo di asciugare. Ho notato che non c'
niente di pi brutto dei capelli asciugati sotto un cappello.
Presi il portafogli con tutti i miei documenti. Il biglietto da visita di Lacaze stava in una tasca vuota,
per non doverlo cercare in caso di bisogno.
Era raro che uscissi cos presto. Le scale non erano ancora state pulite. C'era un giornale a cavallo del
pomo della porta del dottore.
Il dottore un brav'uomo, come tutte le persone istruite.

Alle nove passeggiavo gi nel quartiere degli Champs Elyse.
A guardare le case, gli alberi, che emergevano da una nebbiolina giallastra, veniva da pensare a una
fotografia che non sia stata fissata. Per si sentiva che a mezzogiorno sarebbe spuntato il sole.
Chiesi ad un agente dove si trovasse la rue Lord Byron.
Tenendo il braccio sotto la mantellina, me la indic.
Mentre lo ascoltavo, mi chiesi che cosa avrebbe pensato di me se, dopo, avessi preso un'altra
direzione.

Il palazzo di rue Lord-Byron che corrispondeva al numero 6 era una casa ricca. Lo si vede subito.
Delle vetrate artistiche rimpiazzano le finestre al pianterreno. Le imposte di ferro si piegano come un
paravento. Sopra il portone ci sono due maschere, sicuramente quelle della tragedia e della commedia.
Ai lati dell'androne vi sono due piccoli marciapiedi, per mettersi al riparo quando esce un'automobile.
Un portiere ben vestito stava scopando il marciapiede gi lustro. Mi not. Questo mi dispiacque
perch dopo, quando sarei tornato, mi avrebbe riconosciuto.
Stavo attraversando la strada per avere una visione d'insieme della casa quando, colto dal timore
improvviso che Lacaze mi scorgesse, affrettai il passo con quell'aria distratta che hanno le persone che
si sentono osservate.
Ben presto mi trovai in un viale deserto e annaffiato, come un giardino di mattina.
Nessuno scrollava strofinacci alla finestra. Le automobili giravano prudentemente agli angoli delle
strade. I domestici indossavano giacca e cappello prima di uscire. Dappertutto c'erano gli stessi portoni
di legno scuro e lucente. Ogni tanto, un tram vuoto saltellava sui binari ammaccati. I lampioni erano pi
grandi di quelli che si trovano nel mio quartiere.
Erano quasi le dieci. Tornai sui miei passi cambiando marciapiede, per vedere qualcosa di nuovo.
Giunsi davanti al 6 di rue Lord-Byron con qualche minuto di anticipo. Faccio sempre in modo di
arrivare troppo presto, cos ho il tempo di prepararmi.
Passai tre o quattro volte davanti alla porta, poi entrai. Il biglietto da visita di Lacaze era nella tasca.
Lo toccavo raramente, perch non volevo che si sporcasse. cos brutto vedere delle impronte di dita
sopra qualcosa di bianco. Delle gocce fredde di sudore mi cadevano dalle ascelle, lungo i fianchi.
Vidi, attraverso una porta a vetri, una scala con sopra un tappeto.
Il portiere, immobile in mezzo al cortile, guardava una finestra.
Lo chiamai, egli si volt.
"Monsieur Lacaze?" domandai.
E per provare che conoscevo Lacaze gli tesi il biglietto da visita. Ero fiero, perch di sicuro il ricco
industriale non dava il suo biglietto a chicchessia.
Il portiere prese il biglietto. Una papalina rigida gli copriva la testa. Un piumino gli penzolava dal
cordone del grembiule.
" lei il signore che doveva venire alle dieci?"
"S."
"Prenda la scala di servizio, in fondo al cortile. al secondo piano."
Poich non mi restituiva il biglietto glielo chiesi, perch ci tenevo.
"Tenga... tenga... eccolo."
Mentre attraversavo il cortile sentii che mi seguiva con lo sguardo. imbarazzante. Non mi piace che
mi si guardi la schiena mentre cammino. Mi fa camminare male. Penso sempre alle mie mani, ai tacchi e
alla mia spalla troppo alta.
Una volta nella scala di servizio respirai meglio.
Ogni piano era illuminato da una lampadina e, poich era giorno, vidi i fili all'interno delle lampadine.
Perfino in quella scala c'erano dei campanelli elettrici.
Mentre salivo i gradini pensavo al portiere. Non riuscivo a credere che Lacaze gli avesse parlato di me.
Il portiere, sicuramente per gelosia, mi aveva fatto salire dalla scala di servizio. Col suo occhio di
domestico aveva visto che ero povero. Se l'occhio dei domestici cos esercitato, ci deriva dal fatto che
odiano il loro mestiere. Hanno rinunciato alla loro indipendenza, ma solo nei confronti dei ricchi.
L'istinto della libert, che alberga nonostante tutto dentro i loro cuori, permette loro di distinguere
subito un ricco da un povero, un padrone da un uomo come loro.
Giunto al secondo piano suonai. Una cameriera mi apr. Era stata sicuramente avvisata perch, prima
che avessi il tempo di parlare, mi preg di entrare con aria protettiva.
La seguii. Attraversammo la cucina, che sapeva gi ili fritto, poi un lungo corridoio.
All'improvviso mi trovai in un'anticamera.
"Aspetti... vado ad avvertire il signore."
Udii allora attraverso il tramezzo giungere la voce dell'industriale. Diceva:
"Lo faccia entrare, quel pover'uomo".
Ne fui offeso. Non fa piacere che i domestici sappiano quello che pensa di noi il loro padrone. Inoltre
Lacaze doveva sapere benissimo che lo sentivo.
Ma, ignorando le abitudini delle persone ricche, non volli formalizzarmi.
Forse Lacaze doveva occuparsi di cose ben pi importanti di questioni di amor proprio.
La cameriera riapparve. Accompagnandomi verso lo studio mormor:
"Non abbia paura... il signore cos buono".
Ero rosso. Le mani mi sudavano all'interno. Inebetito dall'emozione, andavo verso la porta aperta e
inondata dalla luce del giorno come un pezzo di legno verso il centro di un vortice. Non pensai neanche
di reagire. Mi dicevo: "Sia fatto di me quel che si vorr".

Entrai.
La porta dietro di me si richiuse, senza rumore. Due finestre scendevano fino al parquet: dal centro
della stanza vidi la strada. Ero abbagliato. L'unico potere che mi restava era quello di accentuare la mia
goffaggine. L'orlo delle orecchie mi bruciava, come quando c' freddo. La bocca era secca, a forza di
respirare senza fare saliva.
Gli occhi spalancati e le ciglia in aria, guardavo Lacaze.
Era un altro uomo. Non aveva cappello n soprabito. Era vestito di nero. Una riga bianca gli divideva
i capelli in due parti uguali. Le orecchie piatte a volte si muovevano dal basso in alto, molto
rapidamente.
Alla stazione non mi aveva cos intimidito. Fuori ho l'abitudine a vedere delle persone ricche. Ma qui,
in piedi, mentre toccava con la punta delle dita la sua scrivania, con la redingote dai bottoni coperti di
stoffa e la camicia inamidata che non gli dava fastidio, mi sentivo schiacciato dalla sua superiorit.
"Si sieda, brav'uomo."
Me lo aveva detto subito, ma ero cos emozionato che mi sembrava di stare in piedi da un pezzo.
Guard un orologio d'oro, le cui lancette sottili davano altrettanta importanza ai minuti che alle ore.
"Su... si sieda."
Avevo capito, ma la timidezza m'impediva di ubbidire. Le poltrone erano troppo basse. Seduto, sarei
sembrato suo pari, e questo mi avrebbe imbarazzato. E poi, nel profondo dell'animo, sentivo che il fatto
che non mi sedessi lo lusingava.
"Ma si sieda, dunque... non abbia paura."
Dovetti fare molti passi prima di arrivare alla poltrona che mi aveva indicato con tutta la mano.
Mi sedetti, e il mio corpo si sprofond ancora di pi di quanto mi aspettassi. Le ginocchia erano
troppo alte. I gomiti mi scivolavano sui braccioli ricurvi.
Feci degli sforzi per non appoggiare la nuca contro lo schienale: sarebbe stato troppo intimo. Ma il
collo si affaticava, come a letto quando si solleva la testa.
Il cappello, sulle ginocchia, aveva l'odore dei capelli bagnati. I miei occhi rasentavano il piano del
tavolo, come quelli di un geometra.
Lacaze giocherellava con un tagliacarte, passandoselo da una punta all'altra. Gli vedevo il polso fino al
gomito, dentro la manica. Sotto la scrivania, le sue gambe erano incrociate. Quella che non toccava il
parquet tremava. La suola della scarpa era nuova, appena un po' pi bianca nel mezzo.
"Brav'uomo, l'ho fatta venire perch mi interesso ai poveri."
Cambiai posizione. Dalla poltrona non usci nessun rumore.
"S, mi interesso ai poveri, ai poveri veri, beninteso. Detesto le persone che sfruttano la bont altrui."
Appoggiandosi alla scrivania, si alz come qualcuno a cui fanno male le ginocchia, poi cominci a
misurare la stanza a grandi passi con le mani dietro la schiena, facendo schioccare due dita, come una
ballerina spagnola.
La mia testa si trovava all'altezza del suo ventre. Imbarazzato, alzai gli occhi per guardarlo in faccia.
"Mi piacciono i poveri, brav'uomo. Sono sfortunati. Ogni volta che mi si presenta l'occasione di
aiutarli, lo faccio volentieri. Lei, mi sembra in una situazione interessante."
"Oh, signore!"
Sulla mensola del camino, tre cavalli dorati leccavano uno specchio, dentro un abbeveratoio dorato.
"La sua delicatezza mi piaciuta molto."
"Oh, signore!"
Ero contento della piega che stava prendendo la conversazione, quando all'improvviso la porta si apr.
Apparve una ragazza che, scorgendomi, esit ad entrare. Era bionda e bella, come quelle donne che,
nelle cartoline inglesi baciano il muso di un cavallo.
"Entra pure, Jeanne."
Mi alzai, con molti sforzi.
"Resti seduto... resti seduto," mi disse l'industriale.
Quell'ingiunzione mi umili. Lacaze mi aveva ordinato di restare seduto per farmi capire che non
avevo nulla a che fare con la sua famiglia.
Si sistem alla scrivania e scrisse qualcosa. La ragazza aspett e, ogni tanto, mi guardava furtivamente.
I nostri occhi si incontrarono. Subito volt la testa.
Sentii che ero, per lei, un essere di un altro mondo. Mi spiava per sapere come ero fatto, allo stesso
modo con cui avrebbe spiato una ragazza di facili costumi o un assassino.
Alla fine se ne and, con un pezzo di carta in mano. Fece in modo, chiudendo la porta, che potesse
vedermi.

"Ha fatto il soldato?"
"Si, signore."
Mostrai la mano mutilata.
"Ah! stato ferito; in guerra spero."
"S."
"Dunque riceve una pensione?"
"S, signore... trecento franchi al trimestre."
"Invalidit al cinquanta per cento, allora."
"S."
"E ha un lavoro?"
"No, signore."
Aggiunsi subito:
"Per lo cerco".
"Il suo caso interessante. Mi occuper di lei. Intanto, tenga."
Lacaze tir fuori il portafogli.
Ebbi un brivido che mi diede l'impressione che la pelle del cranio si fosse piegata.
Quanto stava per darmi? Mille franchi, magari!
Cont delle banconote fermate da una spilla come si sfoglia un libro. Seguivo ogni suo gesto.
Tolse la spilla e mi porse un biglietto da cento franchi, non senza averlo sgualcito per essere sicuro
che fosse solo uno.
Lo presi. Ero imbarazzato a tenerlo in mano, e non osavo metterlo subito in tasca.
"Avanti, lo metta via, e soprattutto non lo perda. Si comprer un vestito d'occasione. Il suo troppo
largo."
"Va bene, signore."
"E mi verr a trovare col nuovo vestito."
Mentre Lacaze parlava, pensavo che non avrei dovuto accettare i soldi cos presto. Il mio
atteggiamento non quadrava con quello della stazione.
"Mi venga a trovare..."
L'industriale consult un'agenda, strascicando la voce sulla parola "trovare".
"Mi venga a trovare dopodomani, alla stessa ora. La aspetter."
Scrisse qualcosa, poi mi chiese: "Ma, a proposito, come si chiama?"
"Bton Victor."
Dopo aver annotato il mio nome e indirizzo, suon.
La cameriera mi riaccompagn.
" stato gentile?"
"S."
"Le ha detto di tornare?"
"S."
" che il suo caso interessante."
3.
La via era calma. Non si vedeva il sole, per lo si sentiva. Il marciapiede, che sarebbe stato all'ombra
appena il cielo si fosse rischiarato, era pi fresco.
Camminavo velocemente per poter essere pi solo e riflettere meglio.
Lacaze non mi aveva impressionato solo per la sua ricchezza, ma perch era una persona decisa. Gli
avvenimenti non si erano svolti come mi ero immaginato durante la notte. sempre cos. Lo so, e ho
un bel costringermi a non fare pi supposizioni, la mia immaginazione prende sempre il sopravvento.
Certe considerazioni dell'industriale mi avevano offeso, ma, dopo tutto, non mi conosceva. Forse
anch'io lo avevo offeso.
Le persone ricche non ci assomigliano. Non devono ilare molta importanza alle piccole cose.
Erano le undici. La prospettiva di tornare nel mio quartiere non mi sorrideva affatto. Avevo dei soldi.
Perch non avrei dovuto andare a Montmartre e fare una bella mangiata e bevuta, e dimenticare per
qualche ora la mia solitudine, la mia tristezza e la mia miseria?

A mezzogiorno arrivai sui viale esterno. Avevo fame, e per essere ancora pi affamato andavo apposta
a zonzo.
Ogni cinquanta metri si succedevano degli alberi esili, senza le foglie, senza corteccia, legati a un palo
da una corda e piantati in un buco senza recinzione. Tra un albero e l'altro c'era una di quelle panchine
marroni su cui si costretti a rimanere dritti. Qua e l, una baracca Vilgrain vuota, dei gabinetti pubblici
con manifesti d'anteguerra, uno straniero che apre una pianta della citt oppure che consulta una guida
turistica, riconoscibile dal bordo.
Mi fermai davanti ad ogni ristorante, per leggere il men ciclostilato incollato su un vetro.
Finalmente entrai in un ristorante mezzo nascosto ila delle casse di arbusti.
A causa delle tovaglie non si vedevano le gambe dei i avoli. C'era della gente, degli specchi che si
riflettevano gli uni negli altri fino a diventare troppo piccoli, dei cappelli obliqui sugli attaccapanni e una
cassiera sopra uno sgabello troppo alto.
Mi sedetti. L'oliera, il men in piedi tra due bicchieri, una caraffa di vetro sfaccettata e un cestino di
pane, mi stavano a portata di mano.
Di fronte a me, un signore che aveva pertanto un'aria rispettabile, disegnava delle donne nude per
avere il piacere di annerirvi un triangolo nel mezzo. Pi lontano, una signora si puliva i denti con una
spilla; io, questo, non avrei mai potuto farlo.
"Rose, il conto," grid un cliente che mi sembrava avesse una voce strana, di sicuro perch non
l'avevo mai sentita.
La cameriera si avvicin col suo grembiule bianco, la matita nei capelli e le forbici per l'uva.
La guardai. Le gambe le salivano su per la gonna. I seni erano troppo bassi. La gola le si imbiondiva
sopra l'orlo della camicetta. Quando si allontan, portando con s i piatti sporchi, il corpo mi sembr
pi indifeso, la nuca pi intima, perch la vedevo di schiena.
Finalmente si occup di me; mi port, in rapida successione, un litro di vino, una sardina senza la
testa, una fetta di arrosto con un pezzo di spago, un pur rigato con la forchetta.
Un nuovo cliente mi si sistem accanto. Dovetti mangiare coi gomiti stretti contro il corpo, il che
sgradevole. Ordin una bottiglia d'acqua di Vichy. Scrisse il suo nome sull'etichetta, perch non la
beveva tutta lo stesso giorno.
Un mendicante entr nel ristorante, ma non ebbe il tempo di fare la questua, perch la cameriera lo
cacci con lo strofinaccio, come all'epoca in cui, ragazza di campagna, spaventava le oche gesticolando.
Il mio piatto, asciugato con la mollica, aveva dei riflessi di grasso.
Gridai, cos come avevo sentito fare:
"Rose, il conto".
La cameriera scarabocchi delle cifre sul retro di un men, poi, per ridarmi il resto, tenne fra i denti la
banconota che le avevo dato.
Anche se un po' brillo, uscii con la goffaggine di un uomo nudo.
Dopo aver comprato delle sigarette High Life, che malgrado il nome costano solo un franco, entrai in
un bar.
Un vapore leggero scappava fischiando da una macchina da caff nichelata. Un cameriere, avvolto in
un grembiule bianco, asciugava con un panno l'impronta dei bicchieri sui tavoli rotondi. I cucchiaini
risuonavano contro le tazzine spesse come monete false.
Siccome non mi piace guardarmi di profilo, mi sedetti in modo da vedere in uno specchio un altro
specchio che riflettesse la mia immagine.
Quattro donne che fumavano stavano sedute ad un tavolo. Le loro camicette erano tinte a mano col
colorante in bottiglia. Una di loro aveva uno di quei cappotti su cui si soffia per sapere se di lontra.
Esattamente lei si alz, e, col cappotto aperto e la sigaretta tra le dita allungate, venne verso di me. I
tacchi delle sue scarpe erano troppo alti. Avanzava come qualcuno che cammina in punta di piedi.
Si sedette accanto a me.
La sua bocca sembrava disegnata sulla pelle, tanto il contorno era netto. La cipria, pi granulosa
vicino alle narici, aveva un buon odore. Sulle labbra aveva un po' dell'oro che ornava la punta della sua
sigaretta.
Incroci le gambe con disinvoltura, come un uomo. Notai che le sue calze bianche erano nere
sull'osso della caviglia.
"Allora, che cosa mi offri, mio caro?"
Dopo tutto, per una volta potevo dimenticare i miei dolori e divertirmi.
"Quello che lei vorr."
Il cameriere, che non sembrava trovare strano l'atteggiamento della donna, si avvicin.
"Un benedettino, Ernest."
"Bene, e lei, signore?"
"Niente... grazie... ho gi preso un caff," dissi mostrando la tazzina.
"Su, caro, andiamo... prendi qualcosa con me."
"S... se vuole... un benedettino."
Quando la mia vicina ebbe bevuto il suo liquore si alz, e dopo aver cercato il cappello nel posto in
cui era seduta prima, mi preg di aspettarla.

Aspettai fino alle sei. Non torn: mi aveva preso in giro Chiamai il cameriere e, mentre pagavo, senza
che me lo avesse chiesto gli spiegai che un violento mal di testa mi aveva costretto a rimanere l.
Poi uscii. Fu solo dopo essermi aggirato una mezz'ora attorno a quel bar che riuscii ad allontanarmi.
La notte stava calando. L'aria era pesante. Le strade avevano l'odore di catrame, come quando fanno
delle riparazioni. Avevo la sgradevole sensazione di essermi alzato da tavola quando la gente si
preparava ad andarci.
4.
Avevo letto, sulla vetrina di un fornaio, una scritta cos concepita:

Completo nero da vendere, causa decesso:
pantaloni, giacca, gilet. Rivolgersi all'interno.
L'indomani, per timore che il cartello fosse stato tolto, mi alzai presto.
Quando entrai nella panetteria, il padrone, che vedevo tutto intero per via di uno specchio che gli
rifletteva la schiena, mi chiese cosa desideravo col tono del commerciante che di me non aveva bisogno.
" per il completo, signore."
"Bene."
Chiam la moglie che stava disponendo in piedi dei pani ornamentali. Bench fosse molto grassa, una
cintura le girava intorno alla vita.
Si avvicin, con le ginocchia sporche di farina come se avesse cambiato la gomma di una bicicletta.
"Il signore venuto per il completo," spieg il fornaio.
La padrona si accingeva a darmi le informazioni quando entr un cliente.
Mi trascur per servire lui, mentre il marito faceva cadere dentro un cassetto aperto, come se
acchiappasse una mosca, le monete che stavano sul banco di marmo.
Delle banconote in disordine riempivano uno scomparto del cassetto. Piegarle e ripiegarle, la sera,
quando il negozio chiuso, una cosa che deve dare una grande gioia.
"Ma come si chiama la persona che vende il completo?" domandai.
" la vedova Junod. "
Sapendo che si trattava di una vedova provai un vivo piacere. Preferisco avere a che fare con le donne
che con gli uomini.
"E abita al 23."
"La ringrazio."
Per uscire feci una deviazione, perch una ragazza accovacciata stava lavando una ad una le mattonelle
in prospettiva del lastricato.

I balconi conferivano un'apparenza borghese alla casa del numero 23.
Tastai il portafogli. Prendo sempre questa precauzione prima di comprare qualcosa, e a volte anche
quando non compro niente.
Sotto il vestibolo c'era un tappeto umido e spesso, per asciugarsi i piedi, e pi distante, nell'ombra,
una porta vetrata che non si apriva dalla parte che ci si aspettava.
"Portinaia!"
Una voce che veniva dalle scale grid:
"Eccomi!"
"Madame Junod," chiesi gentilmente.
La portinaia non rispose. L'importanza che ella rivestiva per me in quel momento sarebbe svanita non
appena avessi saputo anch'io a che piano abitava la vedova.
"Madame Junod," ripetei.
"Per che cosa?"
"Per il completo."
"Al secondo piano, porta a sinistra."
Il muro delle scale imitava il marmo. Il vecchio legno dei gradini era passato con la cera.
Al primo piano lessi: ammezzato; al secondo: primo.
Avendo contato due piani, mi fermai. Alla porta di sinistra pendeva un cordone di stoffa fino alla
serratura. Lo tirai dolcemente, perch non mi sembr molto robusto.
Suon una campanella, non dietro il muro ma distante, nell'appartamento. Poi qualcuno chiuse una
porta - quella della cucina, probabilmente.
Apparve un signore, senza cappello n cravatta. Ebbi l'impressione di averlo sorpreso. Mi chiesi
guardandolo che cosa avesse potuto fare prima che suonassi.
" per il completo," dissi alla fine.
"Quale completo?"
"Ho visto dal fornaio un..."
" di sopra. La portinaia dovrebbe averglielo detto."
Mi mostr il soffitto con l'indice.
"La portinaia mi ha detto al secondo piano."
"Appunto, qui lei al primo... legga, dunque."
Mi scusai e salii al piano di sopra. Questa volta non potevo sbagliarmi. Il biglietto da visita della
signora Junod era attaccato alla porta. Un tratto d'inchiostro barrava l'indirizzo.
Suonai. Una piccola donna brutta e ben pettinata mi apr. Una fede le si muoveva sulla falange sottile
di una delle dita. curioso come la fede delle donne brutte salti agli occhi.
" per il completo, signora."
"Ah! Entri... signore., entri."
Quell'invito mi fece piacere. Le persone che hanno fiducia in me sono cos rare.
Mi pulii i piedi a lungo, come faccio ogni volta che vado da qualcuno per la prima volta. Mi tolsi il
cappello e seguii la signora.
Mi fece entrare in una sala da pranzo. Restai in mezzo alla stanza, lontano da tutto quello che si
sarebbe potuto portar via.
"Si sieda, signore."
"Grazie... grazie."
" Allora, per il completo."
" Si, signora."
"Ah, se sapesse quanto mi costa separarmi dagli effetti del mio povero marito. morto nel fiore degli
anni, signore. Se sapesse che sono costretta a vendergli i vestiti per vivere..."
Mi piace che mi si facciano delle confidenze, cos come mi piace quando mi parlano male della gente.
Sono cose che danno vita alle conversazioni.
"Cosa c' di pi penoso che vendere degli oggetti con cui si vissuto, che ci sono intimi come i nei
del nostro corpo! "
" vero, ci si tiene ai ricordi," dissi alzando anche la mano.
"Soprattutto ai ricordi che ci rievocano tanto cose. Ah! Se potessi lo terrei, quel completo. Andava
cos bene a mio marito. Il mio povero marito aveva giusto la sua taglia. Forse era un po' pi robusto.
vero anche che era un uomo fatto. Era capoufficio. Deve averlo letto sul biglietto da visita, sulla porta."
"Non ci ho fatto caso."
"L'indirizzo cancellato perch avevamo fatto stampare i biglietti prima di abitare qui. S, quel
completo mi evoca tanti ricordi. Siamo andati a comprarlo insieme, io e mio marito, a Raumur. Ho
conservato la fattura. Gliela do. Era un pomeriggio di primavera. La gente cercava con gli occhi le
gemme negli alberi. Il cielo era tutto illuminato dal sole. Un mese dopo mio marito era morto. Lo aveva
portato solo due volte, il completo, due domeniche."
"Soltanto?"
"S, signore. Un completo da centosettanta franchi nel 1916. A quel tempo i soldi avevano pi valore
di oggi. Sa, un completo. Ci sono i pantaloni, la giacca e il gilet. Aspetti, lo vado a cercare."
La signora Junod torn dopo qualche secondo con il completo avvolto in una tela.
Lo pos sul tavolo, tolse le spille e, prendendo la giacca, me la mostr davanti e dietro, tenendola col
braccio teso.
Toccai la stoffa.
"Guardi la fodera."
In effetti il completo era nuovo. Non c'erano macchie sotto le braccia. Le asole e le tasche erano
ancora rigide.
"Mi d il crepacuore, sa, separarmi da queste reliquie. Ho paura che mio marito mi veda, l in cielo.
Ma cosa vuole, non sono ricca. Bisogna vivere. Mio marito mi perdoner. Ecco, guardi, siamo l."
Mi mostr una fotografia alta un metro che rappresentava una coppia di sposi.
"Vede, l'ingrandimento di un ingrandimento. Pi mio marito grande e pi mi sembra vivo."
Guardai a lungo gli sposi. Non riconoscevo la signora Junod.
"S, signore, siamo proprio noi, nel 1915. Il giorno dopo partivamo per la campagna."
Mi squadr dalla testa ai piedi.
"Era della sua taglia, un po' pi alto e robusto, comunque. "
Pensai che, se era pi grosso, il completo non mi sarebbe andato. Per delicatezza non espressi il mio
timore.
"Nel 1914 eravamo gi fidanzati. Ah, signore, quelle serate in riva alla Senna. A Parigi faceva troppo
caldo. E poi tutta quella gente, a causa della guerra, ci dava fastidio. "
"Ma suo marito non era soldato?"
"Oh, signore, cosa crede. Non era mica forte. E lui, appunto, che avrebbe dovuto vivere perch non
era soldato, stato portato via da una malattia. "
" la vita," mormorai.
"S, cos va il mondo."
"Ma di cosa morto?" domandai, temendo ad un tratto che si fosse trattato di una malattia
contagiosa.
"Di una congestione."
Approfittando della pausa della vedova che si stava raccogliendo, chiesi il prezzo del completo.
"Non caro, sa, settantacinque franchi. Guardi il taglio."
Tracci con la mano un semicerchio, che doveva raffigurare di sicuro un taglio immaginario.
"Tocchi la stoffa. panno inglese di prima della guerra. Pu rendersene conto. Non la trover pi
questa stoffa, nemmeno nei pi grandi negozi. "

Davanti alla guardiola camminai in fretta, un po' imbarazzato perch la portinaia sapeva che nel pacco
che portavo sotto il braccio c'era un vestito.
Una voce mi chiam.
Mi girai. La portinaia, che mi aveva fatto la posta, era l vicino alle scale.
"Il signore del primo piano si lamentato. Eppure le avevo detto che Madame Junod abitava al
secondo. Deve stare attento. Sono responsabile io per gli inquilini."
Per non provocare una scena, me ne andai senza arrabbiarmi.

A causa del completo non andai a mangiare da Lucie: mi avrebbe preso in giro.
Pranzai in uno di quei ristorantini in cui il men scritto col gesso sopra una lavagna, e dopo, per
passare il tempo, passeggiai per le strade.
La giacca mi stringeva un po' sotto le ascelle. Le maniche, troppo lunghe, mi facevano solletico alle
mani. I pantaloni mi modellavano troppo le cosce. Ma il nero mi sta bene.
Col soprabito aperto, mi guardavo in tutte le vetrine, senza averne l'aria. Ho notato che sono molto
meglio nelle vetrine che negli specchi veri.

Quando sentii che avevo finito di digerire, entrai in uno stabilimento di bagni pubblici. Sapevo che
c'era un lato per gli uomini e un altro per le donne. Senza questo non sarei entrato.
La cassiera mi diede un numero: eppure c'ero solo io.
L'inserviente non tard a chiamarmi.
Entrai in una cabina. La porta non si chiudeva a chiave. Questo particolare mi disturb durante tutto
il bagno, soprattutto quando sentivo dei passi.
Siccome avevo i piedi freddi, il calore dell'acqua mi sembr molto piacevole.
Mi insaponai con una piccola saponetta che non poteva annerire, facendo attenzione agli occhi. Mi
divertii a galleggiare.
Quando l'acqua cominci a raffreddarsi, mi alzai con un salto e mi asciugai - prima la faccia - con un
asciugamano che si bagn altrettanto in fretta di un fazzoletto.
Uscendo dal bagno pubblico mi sentii cos bene che mi promisi di tornare ogni volta che avrei avuto
dei soldi.
5.
Fu alle dieci precise che arrivai da Lacaze.
Avevo indossato il mio bel vestito e, per la prima volta della stagione, uscivo senza il soprabito.
Entrai nello studio con pi sicurezza dell'altro giorno.
L'industriale stava parlando con sua figlia. Sembr sorpreso di vedermi.
"Siediti," disse, "sar da te tra un minuto."
Aveva dimenticato che ieri l'altro mi dava del lei. Poi, rivolgendosi alla cameriera: "Le ho gi ripetuto
venti volte che non si deve far entrare nessuno senza avvertirmi. "
"Allora, non puoi venire oggi?" chiese la ragazza appena fui seduto.
"No, bambina mia."
"E domani?"
"Ma non sei libera!"
"S, dopo le quattro. Esco dal Conservatorio alle quattro."
"Non posso. Se vuoi sabato."
"D'accordo."
Dopo aver baciato suo padre, la ragazza usc. Come l'altra volta, mi lanci un'occhiata chiudendo la
porta. Per quanto giungesse da lontano, quello sguardo mi turb.
"Allora, hai comprato il vestito?"
"S, signore."
"Benissimo, alzati."
Ubbidii, un po' seccato di non avere il soprabito.
"Girati."
Eseguii immediatamente, alzando la spalla troppo bassa.
"Ma ti sta benissimo. Sembra fatto su misura. Quanto lo hai pagato?"
"Cento franchi."
"Non caro. Adesso posso mandarti alla mia fabbrica. Sei presentabile. Posso raccomandarti al capo
del personale."
Lacaze svit un calamaio, lo scosse, e scrisse qualche riga su un biglietto da visita.
Affinch non mi sospettasse di leggergli sopra le spalle, mi ritrassi ostentatamente.
"Ecco," grid l'industriale esaminando il biglietto di profilo, per vedere se l'inchiostro era asciutto.
Misi il biglietto nel portafogli senza averlo letto, e mi sedetti sperando che Lacaze si occupasse di me,
che mi facesse delle domande.
Oggi, che ero meno emozionato, mi sentivo capace di rispondere con intelligenza, e, uscendo, di avere
l'aria interessante.
"Arrivederci, allora, mio bravo Ba... Ba... Bton. Per oggi tutto. Vai domattina alle sette alla mia
fabbrica, dal 97 al 125 di rue de la Victorie, a Billancourt. Chiedi del signor Carpeaux. Ti dar del
lavoro. Quando hai un giorno di congedo non avrai che da venire a trovarmi. Su, arrivederci,
brav'uomo."
Deluso dalla brevit del colloquio, mi alzai.
"Arrivederci, signore. Molte grazie."
"S, arrivederci, a uno di questi giorni."
Uscii all'indietro facendo degli inchini, tenendo il cappello premuto sul petto.
6.
All'alba mi recai alla fermata del tram pi vicina.
Il vento soffiava con tanta forza che la porta di casa sbatt da sola, prima che avessi il tempo di
chiuderla. Dai cornicioni, delle gocce pi grosse delle altre mi cadevano sulle mani. La pioggia colava
dai marciapiedi, verso la carreggiata. Ogni volta che attraversavo una strada sprofondavo col piede
dentro una pozzanghera, troppo larga da scavalcare. L'acqua che cadeva dalle tubature fissate alle case si
rovesciava per terra come da un secchio colmo. Le maniche della giacca non tardarono a bagnarmi i
polsini. Sembrava che non mi fossi asciugato le mani dopo averle lavate.
Arriv un tram. Durante la notte era stato lavato. Le lampadine che lo illuminavano erano tristi come
le luci che ci si scorda di spegnere prima di addormentarsi.
Mi sedetti in un angolo. Gli scaldapiedi erano ancora freddi. Dell'aria, che filtrava da sotto un sedile,
mi gelava le mani. La bigliettaia, immobile in mezzo al tram, sbadigliava.
"La Motte-Picquet!" grid.
Se il tram fosse stato vuoto avrebbe gridato comunque.
Ripartimmo. Le porte si aprivano da sole nelle curve. A volte le luci si spegnevano per un secondo.
Dietro i vetri bagnati, le strade sembravano attorcigliarsi come nell'aria calda.
"Grenelle! "
Salirono degli operai. Un rumore sordo di campanello risuon all'orecchio del manovratore. Pensai al
mio letto disfatto, ancora caldo dalla parte dei piedi, alla mia finestra chiusa e all'alba che gli altri giorni,
dormendo, vedevo spuntare tra le ciglia.
In quel momento, alla luce della porta aperta, il signor Lecoin si stava lavando.
"Pont Mirabeau!"
Due uomini vennero a sedermisi di fronte.
Ero furioso, perch c'erano dei posti altrove. Parlavano come se fosse mezzogiorno.
" Avenue de Versailles! "
Un operaio sal con un giornale non ancora piegato le cui notizie mi sembrarono troppo fresche.
Si lev il giorno. La luce del tram si spense di colpo. Tutto cambi di colore. Nel vano grigio della
finestra si vedeva la pioggia.
"Chardon-Lagache! "
Mi sentivo triste e solo. Tutte quelle persone sapevano dove stavano andando. Io, invece, partivo
all'avventura.
"Point-du-Jour!"
Scesi. Un filo d'acqua che cadeva dal tetto del tram mi col nella schiena. Le gambe, sballottate dalle
scosse del tram, mi si piegavano. La faccia, restata a lungo immobile, si era irrigidita. Il piede sinistro era
freddo.
Il tram se ne and, portandosi via quelle facce conosciute e il mio posto vuoto.
In un capanno, due doganieri che non avevano dormito si accingevano ad andarsene.
Per andare a Billancourt bisognava uscire da Parigi.
Seguii un lungo viale senza marciapiede, costeggiato da case basse.
Pioveva sempre. Il fango, che si incollava alle scarpe, schioccava ad ogni passo. Dietro un muro, un
albero si muoveva come un cespuglio in cui ci sia qualcuno. Il vento girava le foglie alla rovescia. La
pioggia faceva delle bolle dentro le pozzanghere.

Un muro circonda la fabbrica di Lacaze. Alzando la testa, si vedono delle ciminiere di diversa
grandezza che fumano.
"Il signor Carpeaux," domandai al custode.
"Vuol dire il signor Henri."
"S."
Il custode chiuse scrupolosamente la porta della guardiola - non ne vidi l'utilit - e, prima di partire, si
mise nei panni di un estraneo cercando di aprirla.
"Mi segua," disse senza guardarmi.
Ci teneva a farmi capire che non era per cortesia che mi accompagnava dal signore Carpeaux, ma
perch era il suo mestiere.
Si ferm davanti a un edificio che delle macchine facevano tremare.
Senza badare a me si mise a chiacchierare con un operaio. Poi, ad un tratto, come se non si trovasse l
per me, disse:
" per il signor Henri".
Mi fecero entrare in una sala di legno bianco. I muri erano coperti di manifesti di pneumatici.
Poco dopo apparve il signor Carpeaux.
Era, contrariamente a quello che avevo immaginato, un giovanotto con dei baffi radi come quelli delle
donne, quando ne hanno. Portava degli occhiali color tintura di iodio.
Gli tesi il biglietto di Lacaze, su cui erano scritte queste parole:
Mio caro Carpeaux,
ti mando un brav'uomo, dagli un lavoro.
"Ah, viene da parte di Monsieur Lacaze."
"S, signore."
"Bene, aspetti."
Spar e ritorn dopo qualche minuto.
"Siamo intesi, lavorer luned."
"Oh, la ringrazio, signore."
"Luned alle sette."
"Grazie, grazie, ma, lei sa, non posso usare la mano sinistra. Sono stato ferito."
"Andiamo, non avr bisogno della mano sinistra per lavorare nelle scritture."
"S, certo, ma volevo dirglielo." "Capisco. Allora, a luned."
7.
Le giornate sono lunghe quando non si ha nulla da fare, e, soprattutto, quando si possiedono solo
pochi franchi.
Essendomi ormai abituato al completo, cui nel frattempo la pioggia aveva deformato i risvolti e il
fango macchiato i pantaloni dietro ai polpacci, potei andare a pranzo da Lucie.
Al reggimento, quando si assenti al rancio, la vostra porzione viene messa da parte. Da Lucie la
stessa cosa.
Mangiai quindi benissimo.
Quando uscii dal ristorante non pioveva pi.
Stavo per dirigermi verso il Palazzo di Giustizia, quando un pensiero, venutomi in testa non so come,
mi scombussol. Il mio respiro si ferm. Il cuore batt dei gran colpi dentro il petto senz'aria. Non mi
accorsi pi di avere i piedi bagnati nel bordo della suola.
Avevo appena avuto l'idea di aspettare la figlia di Lacaze all'uscita del Conservatorio.
Lottai fiaccamente, per alcuni minuti, contro questo capriccio. Fu inutile. La prospettiva di parlare con
una ragazza ricca aveva troppa attrattiva. Nel pomeriggio piovoso, era per me come un appuntamento
atteso da tanti giorni. Era l'ignoto, l'amore, forse. Nessun desiderio fisico mi spingeva verso quella
ragazza. D'altronde, quando amo una donna non penso mai a possederla. Trovo che, pi questo
momento ritarda, tanto pi piacevole.
Vagabondai per le strade con l'animo lieto che bastava a se stesso, senza l'aiuto degli occhi. Gli
ombrelli chiusi dei passanti erano ancora lucidi. I marciapiedi ritornavano bianchi, lungo i muri.

Sopra la porta del Conservatorio c'era una bandiera.
Erano le quattro meno un quarto.
Per pazientare camminai avanti e indietro, pensando a tutte le cose felici che sarebbero accadute se la
signorina Lacaze mi avesse amato. Non si deve credere che pensassi alla sua ricchezza. Se mi avesse
offerto dei soldi, sentivo che avrei rifiutato con indignazione. Quando sarebbe venuta nella mia misera
camera, sarei stato pieno di dignit.
Tuttavia, devo confessare che, se fosse stata povera, il mio amore sarebbe svanito. Questo non lo
capisco.
Ad un tratto un impiegato apr il secondo battente della porta del Conservatorio.
Un minuto dopo la ragazza usciva di corsa, come un viaggiatore che volesse dare il suo biglietto per
primo.
Il sangue si mise a scorrermi pi forte nelle tempie e nei polsi. Sentii che l stava facendo delle bolle
nelle vene.
La signorina Lacaze, passandomi vicino, mi guard negli occhi. Mosse la bocca. Mi aveva
riconosciuto. Tuttavia non mi parl.
La seguii. Era davvero bella con i capelli nella schiena e la sua gonna corta.
Camminavo velocemente, pronto a rallentare nel caso che si fosse voltata.
Ben presto la oltrepassai e, togliendomi il cappello, la salutai.
Non mi rispose.
Adesso mi trovavo davanti a lei e, per farmi raggiungere, mi fermai per accendere una sigaretta.
Un ragazzo di buona famiglia, che avevo conosciuto all'esercito, mi aveva detto che le donne si
accostavano chiedendo loro il permesso di accompagnarle a casa. Mi apprestavo a mettere in pratica
questo consiglio quando, non vedendola arrivare, mi girai.
Non c'era pi.
8.
L'indomani mattina mi svegliai di soprassalto.
Qualcuno aveva colpito la porta cos violentemente che rintron come una cassa piena che cade.
Credetti dapprima di sognare. Ma continuarono a battere.
Saltai fuori dal letto. La paura m'imped di sentire il freddo che mi saliva sotto la camicia.
"Chi ?" domandai dolcemente, come se dormissi ancora.
"Io, Lacaze."
Dire il suo nome a volte alta, dietro una porta, a lui non dava fastidio.
Guardai dal buco della serratura, aspettandomi di vedere un occhio senza ciglia n palpebre.
Ma cosa veniva a fare in casa mia, Lacaze. Forse voleva verificare quello che gli avevo detto; magari
stava per annunciarmi una buona notizia.
Buss nuovamente.
Avrei potuto aprire, ma quando sono senza vestiti mi sento debole.
"Aspetti... signore... un attimo."
Aprii la finestra per cambiare l'aria. L'avevo aperta senza far rumore, perch l'industriale non se ne
accorgesse.
Indossai i pantaloni e la giacca, e mi bagnai il viso con l'angolo dell'asciugamano.
Poi chiusi la finestra, dolcemente.
Con la camicia troppo alta dentro i pantaloni, aprii la porta.
Lacaze entr senza togliersi il cappello. La canna di giunco che teneva dietro la schiena, quando si
girava, urtava contro i mobili.
"Lei uno sporco individuo," disse fermandosi vicinissimo a me.
Sapeva tutto, ero perduto. Non sapendo che atteggiamento adottare, feci l'ignorante.
"Si merita una punizione. Non si vergogna? Seguire una ragazzina... con i capelli sulla schiena."
Balbettavo, senza trovare nulla per scusarmi.
"Ecco come si ricompensati quando si fa del bene... Le ho dato dei soldi.... l'ho assunta nella mia
fabbrica... grazie..."
Era cos furibondo che avevo paura che mi picchiasse. Stentavo a credere di essere io la causa di una
tale collera.
"S, ecco il ringraziamento. Stia attento, far la conoscenza della polizia. Lei un triste figuro."
Finalmente usc, sbattendo la porta cos forte che rimase aperta.
Udii i suoi passi nelle scale, e quando il rumore cambiava sui pianerottoli avevo paura che tornasse.
Seduto sul letto, guardai il mio vestito nuovo, che non aveva pi ragione di esistere, e il disordine della
camera nell'aria fresca del mattino.
Avevo un mal di testa violento. Pensai alla mia vita triste, senza amici, senza denaro. Chiedevo solo di
amare, di essere come tutti gli altri. Non era tanto, eppure...
Improvvisamente scoppiai in singhiozzi.
Presto, per, mi accorsi che stavo sforzandomi di piangere.
Mi alzai. Le lacrime mi si asciugarono sulle guance.
Provai la sensazione sgradevole che si ha quando ci si lava la faccia senza poi asciugarla.
BLANCHE
1.
La sera, quando ho un po' di soldi, vado a passeggiare in rue de la Gait.
In questa strada si sente, nello stesso tempo, odore di cucina e di profumeria.
I dolci costano meno cari che altrove. Ci sono forni che cuociono tre crpes alla volta. A causa della
folla, tutti i momenti si deve scendere dal marciapiede. A met della strada c' un commissariato, con
degli agenti senza kepi e delle biciclette davanti alla porta. Sulle vetrine dei fotografi, le facce si ripetono
dodici volte sopra una striscia che sembra ritagliata da un film. Una cartoleria vende le canzoni con le
note e delle cartoline che rappresentano i monumenti di Parigi, in estate.
Una sera ammiravo un manifesto di cinema che brillava sotto la colla di farina. Chiss quale monello
aveva disegnato una sigaretta tra le labbra dell'eroina. Deploravo In stupidit della gente, quando il mio
sguardo si port su una donna che mi stava osservando a mia insaputa.
Intuendo di essere stato guardato, subito riepilogai mentalmente le mie ultime movenze, per essere
sicuro di non aver fatto gesti sconvenienti.
Ero contento. Fa piacere essere guardati senza saperlo, soprattutto quando si ha l'aria distratta. Una
volta mi sono riconosciuto nella fotografia di un giornale durante un assembramento. Mi fece pi
piacere del pi bell'ingrandimento.
La donna non era elegante, per colpa dei piedi; ma sufficiente che una donna mi guardi perch le
trovi un certo fascino.
Essendo timido, dovetti fare degli sforzi per non abbassare gli occhi. Un uomo non deve mai
abbassare gli occhi per primo.

Un signore, con la barbetta bianca e un cappello calato sugli occhi, guardava anch'egli la donna. Era
fermo. Il peso del suo corpo si spostava ora su una gamba ora sull'altra, come un trampoliere.
Temendo che lo precedessi si avvicin alla sconosciuta, si tolse il cappello come se fosse qualcosa da
non rovesciare, e mormor delle parole che non udii.
Lo vedevo di schiena. Stava ridendo o parlando, perch le punte dei suoi baffi si muovevano.
Ah, se fossi stato al posto della donna, come lo avrei schiaffeggiato!
La donna non lo schiaffeggi, ma si volt dall'altra parte. Interdetto, l'uomo si ripose il cappello sulla
testa e lo lasci soltanto una volta ritrovata la posizione di prima; poi, messosi in disparte, fece finta di
allacciarsi una scarpa.
A mia volta mi avvicinai alla sconosciuta. L'uomo cos vanitoso che, se vedesse una donna cacciare
via dieci pretendenti, continuerebbe ugualmente a farle la corte.
"Mi scusi, signorina."
Mi guardai bene dal farle l'occhiolino.
"Quell'uomo stato sicuramente volgare. Le parlo affinch non torni pi a importunarla."
"Grazie, signore."
Alz la testa. Gli occhi e le orecchie erano nascosti a met dal cappello. Aveva un naso regolare, delle
labbra pallide che, quando socchiudeva la bocca, restavano incollate negli angoli, e un falso neo rotondo
sopra il mento.
"Quei vecchi signori sono davvero sgarbati."
"Oh! S, signorina... ma che cosa le ha detto?"
Non la interrogavo tanto per curiosit, quanto per prolungare il piacere di essere stato preferito.
"Mi ha detto un'oscenit."
Avrei voluto sapere quale, ma non osavo chiederlo.
"Un'oscenit?"
"S, mi ha detto un'oscenit."
Lo sospettavo. Ho notato spesso quei vecchi, dall'aspetto giovanile e profumati di lavanda, andare in
giro per strada. Dedicano venti franchi al giorno alle donne. Fino alle dieci di sera sono liberi. Del resto
fanno quello che vogliono, perch la vita intima non riguarda nessuno.
"Andiamo via di qui, signore, vuole?"
"S... s..."
Guardai di nascosto i piedi della mia compagna, per vedere se erano ben calzati.
buffo, vicino a lei avevo l'impressione strana che avevo provato da soldato vicino a un civile. La sua
gonna, la pelliccia e il cappello avevano un profumo di libert. I suoi vestiti erano solo vestiti. Non
sembrava conoscerne tutte le macchie, le pieghe.
Sarei potuto essere assolutamente felice se non avessi avuto il timore di una bizzarria improvvisa. Le
donne sono cos strane. La mia vicina sarebbe stata capace, di i colpo, di dirmi arrivederci all'angolo di
una strada.
Poich non ci conoscevamo, continuammo a parlare per mezz'ora del vecchio.
Alla fine, non sapendo pi cosa dire a riguardo, le chiesi:
"Lei forse artista, signorina?"
" Sono cantante. "
"Cantante?"
"S."
Credendo di avere a che fare con un'attrice famosa, volli sapere il suo nome.
"Come si chiama?"
"Blanche de Myrtha."
"Myrtha?"
"S, con la i greca."
" sicuramente uno pseudonimo."
"Mi chiamo Blanche, ma de Myrtha l'ho inventato."
Cercavo nella memoria, con la speranza di aver letto da qualche parte quello pseudonimo laborioso.
"Ma non allontaniamoci, signore. Alle dieci e cinque passo ai Trois Mousquetaires. Non avr che da
prendere una birra e aspettarmi. "
Con l'immaginazione, mi vidi abitare con quella donna in un appartamento ricco. Avevo un pigiama e
delle pantofole, le cui suole pulite scivolavano sui tappeti.
" Vive da sola?" domandai subito, affinch in caso contrario non mi facessi illusioni.
" Si, signore."
"Anch'io."
Ella si guard in uno specchio fissato all'interno della borsetta, e si incipri le guance con un piumino
minuscolo.
"Ecco," disse, "prendiamo questa via, saremo pi tranquilli a parlare."
La strada era illuminata dalle vetrate azzurre dei locali notturni e dalle insegne luminose degli hotel.
Ogni tanto, un uomo e una donna che non si tenevano per il braccio sparivano dentro un corridoio.
Il braccio di Blanche, allungato e morbido come la schiena di un animale, mi scaldava le dita. Il suo
cappello mi sfiorava le orecchie. Le nostre anche si toccavano.
Ero felice. Tuttavia dei pensieri ridicoli mi rovinavano la gioia.
Che cosa avrebbe pensato Blanche se avessimo incontrato la sua migliore amica? Mi avrebbe lasciato?
Oppure se, tutto d'un tratto, un dolore improvviso le avesse impedito di camminare? Oppure ancora se
avesse rotto una vetrina, o strappato la gonna, o urtato un passante?
A volte mi chiedo se sono matto. Avevo tutto per essere felice e bisognava che dei pensieri idioti
venissero a turbarmi.
Appena un uomo traversava la strada e ci veniva vicino, il cuore mi batteva. Lo so, avrei voluto essere
solo al mondo con la mia compagna.
Le lasciai il braccio e le appoggiai la mano sui fianchi, dolcemente, per poterla ritirare prima che si
arrabbiasse, se non le fosse piaciuto.
Non si adir.
Allora non pensai ad altro che baciarla, ma non osavo farlo camminando, perch avevo paura di
mancare la bocca.
"Fermiamoci, le vorrei dire una cosa."
La voce mi tremava. Presi le sue mani e mi lisciai le labbra con i denti.
"Cosa vuole dirmi, signore?"
La strinsi contro di me. Le nostre ginocchia si urtarono come bocce di legno. Feci attenzione a non
perdere l'equilibrio, per non camminarle sui piedi.
Poi, improvvisamente, la baciai.
Raddrizzandomi, sentii che il mio cappello stava spostando il suo.
Bench lo avesse rimesso subito sugli occhi, immaginai che l'avesse infastidita.
Confuso, le braccia penzoloni, non sapevo se dovevo baciarla di nuovo oppure scusarmi.
Una donna, giovane e bella, ci pass vicino con un cappotto di pelliccia. Arrossii, perch sentii che
Blanche era gelosa.
Non saprei dire come mai l'invidia, in una donna, cos brutta.
"Sa, signore, devono essere le dieci."
"S... ma..."
"Ma?"
"Vorrei baciarla ancora, questa volta senza cappello."
"S, se vuole."
Ci baciammo a lungo, a capo scoperto. Non riuscivo a distinguere gli occhi di Blanche, troppo vicini
ai miei.
Mi respinse dolcemente.
"Sbrighiamoci. Sono in ritardo."
Stretti come una coppia sotto l'ombrello, ritornammo sui nostri passi.
Il caff dei Trois Mousquetaires era pieno. Su una pedana di legno bianco, un comico stava cantando.
Dei manifesti raffiguravano la cantante leggera de Myrtha.
Mentre Blanche raggiungeva una porta su cui era scritto col gesso "Riservato agli artisti", mi sedetti.
I clienti mi guardarono con ammirazione, credendo che fossi l'amante della cantante.
Un tenore bretone subentr al comico. Il pianista, che aveva una bella faccia per via dei capelli lunghi,
suon la Paimpalaise.
Vicino a me, un disturbatore cantava da solo, con la testa china. Sul polso, sotto la manica, gli vedevo
la met di un tatuaggio. Pi lontano, una donna si leccava le dita invischiate di liquore.
Poi, sul palco, apparve Blanche. Pensai che mi avrebbe cercato con gli occhi, ma non lo fece.
Cant tre canzoni, mano nella mano, e, quando ebbe finito, scese dalla pedana tenendosi la gonna.
Qualche minuto dopo mi raggiunse.
"Possiamo andare."
"Abita lontano, signorina?"
"S, al Modern'Hotel, in rue Lafayette."
2.
Un'ora dopo entrammo nell'hotel.
Un cameriere, seduto su una poltrona, dormiva con le gambe cos unite che sembravano legate.
Mi vidi da lontano camminare nello specchio e, per continuare a guardarmi, mi allontanai dal tappeto.
La scala doveva rimanere accesa tutta la notte; un tappeto, fermato da triangoli di rame, serviva a darle
un certo lustro.
La camera di Blanche era in disordine. Sul calorifero c'era un fazzoletto ad asciugarsi. Una camicia era
appesa alla chiave di un armadio.
Al centro del soffitto c'era un anello, senza lampadario appeso.
Non osando sedermi, e non sapendo cosa fare tra quelle quattro mura, mi misi a camminare avanti e
indietro per la stanza; tutte le volte che passavo davanti all'armadio a specchio, i bagagli che ne
sporgevano in cima ondeggiavano.
Blanche non fu molto brava a tirare le tendine: gli anelli, troppo alti, non scorrevano sulle aste. Alla
fine ci riusc.
Poi, senza curarsi di me, cominci a spogliarsi. Con la camicetta aveva una faccia diversa.
Col lato ricurvo di una spilla per capelli si pul le orecchie. Si lav, ma in uno strano modo.
Quando cominci a camminare a piedi nudi, faceva dei passi pi corti.
Poi ad un tratto scivol tra le lenzuola, non senza essersi pulita i piedi sullo scendiletto.
Mi svegliai all'alba. Una luce da pianoterra penetrava nella stanza. Pioveva. Udivo le gocce che
cadevano sui vetri.
Blanche dormiva. Prendeva quasi tutto il posto nel letto.
Le sue narici e la fronte erano lucide. Aveva la bocca socchiusa e le labbra, a forza di restare separate,
sembrava che non appartenessero pi alla stessa bocca.
Sentii nostalgia del mio letto. Avrei voluto alzarmi dolcemente, vestirmi e partire, andare fuori, nella
pioggia, lasciare quella stanza che sapeva ancora del nostro alito e di panni rinchiusi.
Il giorno cominciava a spuntare. Riuscivo a distinguere dei vestiti sopra una sedia e dei vasetti inutili
sopra il camino.
Le palpebre di Blanche d'un tratto si sollevarono, scoprendo due occhi morti. Borbott qualche
parola, mosse le gambe e, istintivamente, tir verso di lei tutte le coperte.
Uscii dal letto, coi capelli in disordine e la camicia che mi arrivava alle ginocchia troppo grandi.
Mi lavai con l'acqua fredda, senza sapone, e ancora addormentato andai alla finestra.
Vidi una strada che non conoscevo, dei tram, degli ombrelli e delle grandi lettere dorate attaccate a un
balcone.
Il cielo era grigio, e quando alzai la testa delle gocce mi bagnarono la fronte.
"Te ne vai, caro?"
"S."
Mi vestii rapidamente.
"Quando potr rivederti, Blanche?"
"Non so."
"Domani?"
"Se vuoi."
Baciai la mia amante sulla fronte e uscii.
Le scale sapevano di cioccolato. Per terra vidi un vassoio.
Un minuto dopo ero in strada.

Non ho mai cercato di rivedere Blanche.
UN ALTRO AMICO
Preferisco i giardini inglesi ai giardini francesi. Non che rifugga l'armonia e l'ordine, n che sia
incantato dall'imitazione della natura, semplicemente mi piace non sapere esattamente dove mi trovo. I
giardini inglesi sono misteriosi. Ci sono delle cascate, dei corridoi segreti. Anche se presto ci si ritrova al
punto di partenza, per qualche istante si prova la deliziosa sensazione di perdersi. E, soprattutto, non si
attraversano delle grandi distese dove ci guarda tanta gente.
In una calda giornata di agosto passeggiavo nel parco Montsouris. Bench fosse mezzogiorno, il sole
non stava in mezzo al cielo. Lo vedevo senza muovere la testa, alzando solo gli occhi.
Le ore della mattina sono le pi belle della giornata, tutti i pensieri troppo ambiziosi o troppo modesti
della sera si sono dissolti. La notte ha fatto di me una persona nuova.
Mezzogiorno per me il limite estremo della gioia. Eppure, quel giorno, ero felice. Ascoltavo il canto
degli uccelli. Non capivo come potesse sembrare cos gradevole per certi orecchi. In quei cinguettii non
vi era nulla che mi desse sollievo.
Camminavo lentamente, lungo un vialetto ombreggiato. Cercavo una panchina in disparte, il pi
possibile al centro del parco, per poter avere intorno a me un'uguale profondit di alberi e prati che mi
separasse dalla citt.
Il cielo era azzurro. L'aria, al sole, vibrava. Degli insetti, che non avevano da temere altri insetti pi
grandi, saltellavano sul prato. Da questa natura protetta non sgorgava la vita intensa, n il mormorio dei
campi o delle foreste. La terra che calpestavo rimbombava. Non ammortizzava i passi come quella della
campagna.
Mi piace dar da mangiare il pane agli uccelli. Lo faccio perch segno di un'anima generosa. Sono
tanto pi da lodare in quanto non c' nulla in loro che mi attira. Come alla maggior parte della gente, la
loro indipendenza e la loro grazia mi sono care, ma non al punto di sentirmi appagato a gettare loro
delle briciole.
Quando trovai la panchina che cercavo, mi tolsi dalla tasca il pezzo di pane che avevo portato.
C'erano gi una dozzina di uccelli intorno a me allorch vidi, a qualche metro di distanza, un uomo
che mi osservava. Non direi, come certe persone, che avevo sentito il suo sguardo su di me. Sarebbe
falso. Per sono sicuro che una donna, quel giorno, vedendo lo sconosciuto come lo vedevo io, nella
posizione in cui mi trovavo, cio con l'angolo dell'occhio e senza girare la testa, non avrebbe esitato a
dire di avere sentito il suo sguardo pesarle addosso.
Nondimeno continuai a lanciare le briciole. Le lanciavo il pi vicino possibile. Si prova sempre una
bella soddisfazione a vedere gli uccelli che ci vengono vicino. La fiducia che ci accordano ci fa piacere, e
per quanto sappiamo nel nostro intimo che la accorderebbero a chiunque, preferiamo credere che
abbiano intuito la nostra bont.
Poich lo sconosciuto continuava a guardarmi, mi misi a parlare agli uccelli. Arrivai anche a dare loro
dei nomi. Il mio desiderio era che uno di essi venisse a prendermi una briciola sulla punta delle dita.
Allora sarebbe sembrato che quegli uccelli mi conoscessero, che venivo spesso nel parco.
Sfortunatamente, non mi si avvicin nessuno.
Mentre continuavo a mostrare un grande interesse per quello che stavo facendo, non cessavo di
pensare all'uomo che mi guardava. Forse diceva tra s e s: "Ci sono delle strane persone. Ecco l un
povero, un disgraziato che divide con gli uccelli del parco quel poco che possiede. Deve avere senz'altro
un gran cuore. Non ho mai visto un povero fare cos."
Sicuramente si diceva queste cose. Ero cosciente della mia grandezza. Poich mi restava solo un pezzo
di pane, lo divisi in un gran numero di briciole. Lo sconosciuto fece qualche passo. Gli uccelli volarono
via. Mi voltai verso di lui, umilmente, ma con uno sguardo di rimprovero.
"Non se la prenda, signore," disse con voce dolce, "gli uccelli torneranno."
Soltanto allora osai osservare lo sconosciuto.
Era un uomo anziano, di taglia media, ben vestito. Portava degli occhialetti stringinaso. Ai piedi aveva
un paio di quegli stivaletti a gambale di caucci, che si possono mettere indifferentemente all'uno o
all'altro piede. Mi guardava con tanta bont che, per un attimo, mi sembr che gli occhialetti fossero
appannati.
"Viene qui spesso?"
" S, signore. "
Per la prima volta nella mia vita non provai nessun imbarazzo a fare la conoscenza di qualcuno. Stavo
in una posizione cos simpatica che avrei potuto parlare con chiunque, senza timore.
" Lei ama gli animali, vero?"
"Molto."
Mi alzai e meccanicamente, per assumere un atteggiamento, lanciai del pane nell'erba, nel posto dove
prima si trovavano gli uccelli.
"Lei ha un'anima bella," disse dopo un silenzio.
Non risposi nulla. Tuttavia, non era una frase che sarebbe dovuta restare tra due silenzi. Non ho mai
ricevuto dei complimenti. Non mi stato detto quello che altri si sentono dire cos spesso. Quelle
parole gentili mi colmarono di gioia. Sentii perfino che, se avessi voluto, avrei potuto piangere.
E continuavo a lanciare delle briciole di pane sempre pi piccole. Quell'uomo aveva di sicuro una
grande sensibilit. Era imbarazzato. Quando lo guardavo, avevo giusto il tempo di vedergli gli occhi,
perch abbassava la testa nello stesso istante.
"Ecco, guardi," disse indicando gli uccelli perch distogliessi lo sguardo da lui, "stanno tornando."
"Ma non ho pi pane."
Qui, bisogna che confessi una cosa. Dicendo "Ma non ho pi pane", c'era stata nella mia voce
un'intonazione cattiva. Ognuno ha le sue debolezze. Non si pu essere perfetti. Avevo detto "ma non
ho pi pane" come se lo rimproverassi di non averne, come se lui avesse dovuto prevedere che mi
sarebbe mancato, o come se volessi che me ne comprasse per continuare a darlo.
Per fortuna sono intelligente. Capii subito quanto ci fosse di meschino nel mio pensiero e mi corressi
dicendo, con un tono di voce naturale: "Per oggi gli uccelli ne hanno avuto abbastanza..."
"Lei crede?"
Lo sconosciuto era cos buono che non si era nemmeno accorto del mio moto di stizza.
Ci allontanammo. Camminava lentamente, seguendo il proprio passo. Ero io che mi accordavo al suo.
Ogni tanto si fermava, e guardava il cielo.
"Che giornata!"
Era pervaso da una gioia immensa. Sentivo in quell'uomo sconosciuto un grande amore per le cose
semplici. S'interessava a mille piccoli nonnulla. Era dunque un uomo come me. Chi non mi conosce
bene potrebbe pensare, di primo acchito, che sono difficile, e che questa sia la causa della mia infelicit.
No, chiedo soltanto un po' di amicizia. So che un segno di grande saggezza quello di non chiedere alle
persone pi di quanto possano dare. Bisogna prenderle per quello che sono, Io lo so. Sono saggio. Non
chiedo che di prenderle come sono. Ma perfino questo mi viene negato.
Camminavo accanto allo sconosciuto con passo indeciso, pronto ad accelerare o rallentare l'andatura,
come una ragazza che ha appena abbordato un passante.
Udivo ogni rumore. Il giardino era quasi deserto. A volte, dall'altra parte di un prato, si vedeva passare
qualcuno.
Lo sconosciuto, invece, camminava a testa bassa. Lo osservavo. Non sapevamo dove stavamo
andando.
Su una panchina un poveraccio mangiava un pezzo di pane con un po' di salame. Ci si chiede sempre
dove possano dormire quelle persone che mangiano all'aperto. Lo sconosciuto lo guard con
compassione. Oh, non si pensi che questo mi abbia reso geloso. Al contrario, fu una grande gioia per
me vedere che, sulla terra, c' pur sempre qualcuno che si impietosisce per la miseria altrui. No, non ero
geloso. Non sono geloso dei veri mendicanti, di quelli che non si stupiscono di essere poveri, che non
desiderano nulla, che non si accorrono nemmeno quando ci fanno compassione. Quell'uomo che
mangiava sulla panchina non era un impostore. Non scambi neanche uno sguardo d'intesa con lo
sconosciuto. Lui era semplicemente un povero, un povero come piacciono a me.
Camminavamo sempre, senza scambiarci una parola. cos dolce camminare vicino a qualcuno
vestito cos bene, di cui non si conoscono i pensieri, che immaginiamo potente e che, magari, cambier
la nostra vita.
Quello sconosciuto, per me, era quasi un padre. Nel portamento e nel silenzio sentivo in lui una forza
protettrice. Neanche da bambino, quando uscivo con mio padre, avevo provato una tale sicurezza.
Avevo sempre paura che qualcuno lo picchiasse.
Ogni tanto lo sconosciuto si voltava, e mi osservava scrollando la testa. E io, stupido, non sapevo
come guardarlo. Con dolcezza sarebbe stato ridicolo, essendo lui pi grosso di me; con freddezza,
sgarbato; con sottomissione, senza dignit.
Perci evitavo accuratamente il suo sguardo che immaginavo percorrere i miei abiti logori, le scarpe
troppo grandi e, quello che pi penoso, il mio collo.
Ci avvicinavamo all'uscita del parco. Tra pochi secondi avremmo dovuto parlare. Come avrei voluto
che fossimo ancora al centro del giardino !
Ci fermammo. Vicino al cancello c'era la garitta del custode, dipinta dello stesso giallo delle seggiole di
ferro.
Dunque era gi tutto finito! Stavamo per separarci. Ebbi un brivido. Per fortuna in quel momento
l'uomo non mi guard. C'era caldo. Abbassando gli occhi sentii che le mie palpebre erano umide.
Lo sconosciuto, bench avesse il volto madido di sudore, non si detergeva. Questa sua distrazione mi
piaceva. La attribuivo a una grande timidezza, ad una grande simpatia nei miei confronti.
Per la prima volta dopo anni, ebbi l'impressione di avere finalmente un amico.
Lo sconosciuto estrasse dalla tasca un fazzoletto, un fazzoletto ancora ripiegato, e prima di asciugarsi
mi chiese: "Dove va a mangiare?"
"Non so, signore."
Avevo l'impressione che a quella domanda ci sarebbe stata di sicuro una risposta pi vantaggiosa da
fare, ma ho la mente lenta, e non ebbi il tempo di trovarla.
"Vuole venire a mangiare con me?"
Un pranzo cos poca cosa, e finisce quasi subito. Eppure, dovreste sapere quanto questo invito mi
fece trasportare dalla gioia.
Purtroppo non ho mai il coraggio di accettare quello che mi offerto. Ho sempre paura di accettare
troppo presto.
"No... grazie... Disturberei...," balbettai.
"Su, andiamo... se la invito... venga..."
Non pensai pi n al caldo n alla mia miseria. La mia vita l'avevo dimenticata. Vidi il cielo azzurro
sopra la mia testa, il parco a destra, la strada a sinistra. Tutto questo era immenso.
"Oh... s, signore."
S, avevo detto s. Sapeste come difficile per me dire s. Non ho mai detto s. Non sono capace di
dire s. Mi sembra che s sia la libert stessa, la felicit.

Lo sconosciuto abitava nell'ammezzato. Sar perch ho sempre abitato all'ultimo piano, o magari per
via di un sentimento un po' oscuro, ma sento proprio che non potrei mai abitare in un ammezzato,
neanche se fossi ricco.
Giunti davanti alla porta lo sconosciuto, bench rientrasse a casa sua, invece di cercare le chiavi nella
tasca suon. Una giovane domestica, dall'aspetto candido ma anche, lo si intuiva, piuttosto cocciuta,
venne ad aprirci.
"Entri, amico mio," mi disse lo sconosciuto indicandomi l'anticamera.
Ubbidii, ma senza pulirmi le scarpe, a causa della suola che avrebbe potuto restare attaccata al
tappeto. Stavo per togliermi il cappello quando lo sconosciuto mi disse: "Non si disturbi... resti pure
coperto... faccia come a casa sua..."
Qui potrei dire che quell'ingiunzione mi umili, in quanto di sicuro era rivolta solo a delle persone
come me; ma a cosa avrebbe potuto servire? Ci sono cos tante cose che mi offendono che non vale la
pena rilevarle tutte.
Mi scoprii comunque la testa. Feci due passi avanti, guardai un animale impagliato e aspettai.
Lo sconosciuto mi aveva lasciato nel vestibolo. Torn dopo qualche secondo.
"Su... entri nella sala da pranzo. Ho detto di mettere un coperto per lei."
Lo seguii.
"Si sieda... lei a casa sua..."
Lo sconosciuto mi guard le mani, poi aggiunse: "Forse si star domandando, caro amico, chi sono io.
Glielo dir. Mi chiamo Boudier-Martel. Amo coloro che sono colpiti dall'asprezza della vita. Ho intuito
che, dietro il suo aspetto timido, lei ha un'anima pura. per questo che ho tenuto a conoscerla, a
venirle in aiuto, a incoraggiarla. Che il suo orgoglio non abbia a soffrirne, giacch potrei essere suo
padre. Lei trova in me un amico. Ogni volta che posso rendere meno penosa la vita di qualcuno, lo
faccio. Lei, si merita che ci si prenda cura di lei."
Ascoltavo quelle parole come se l'essere perfetto al quale penso cos spesso le avesse pronunciate. Le
ascoltavo senza cercare di capirle, perch temevo che alcune di esse mi sarebbero dispiaciute. La mia
attenzione si posava per un secondo sulle parole che amo: caro amico, venire in aiuto, orgoglio. Non
riuscivo a credere che l'amico che cerco da sempre fosse l, davanti a me. Nondimeno era l, e mi
rendevo conto come fossi poco preparato a parlargli.
"Non creda, amico mio, che il mio cuore sia arido. Faccio tutto quello che in mio potere per rendere
meno dura la vita agli sfortunati. Non conosco niente di pi nobile che chinarsi sulla miserie degli
umili."
Quelle parole mi cullavano. Mi sembrava che la sedia su cui ero seduto non avesse i piedi, che i miei
talloni non si appoggiassero pi sul parquet, che vivessi dentro un sogno. Per me stava cominciando
una nuova vita. Avevo un amico. Veniva a me con tutti i suoi doni, col suo cuore.
"Ah, come mi rende felice tutto quello che dice..."
"Sa, quello che penso... Ma via, dobbiamo pranzare... e poi, domenica, verr a trovarla da lei, nella
sua stanzetta... una stanzetta al sesto piano, vero, come l'immagino io..."
Si, signore.
"Se sapesse come la conosco bene... Conosco tutta la sua vita... Si alza quando si sveglia... Fa un
giretto... Ama gli animali... Va a mangiare... Vagabonda qui e l... Cena... Va a letto... Solo, lei solo,
assolutamente solo. Nessuno la disturba... Ma, in effetti, di cosa vive?"
"Della mia pensione..."
"Ah, s, lei ha una piccola pensione. felice... Lei saggio... La ammiro."
Quel pranzo, me lo ricorder per tutta la vita. Ci fu tra me e il signor Boudier-Martel una tale
confidenza, tante attenzioni delicate, che faccio fatica a credere, oggi, che di tutto questo non sia
rimasto nulla.
La domenica finalmente arriv. Il signor Boudier-Martel doveva venire alle quattro, dopo il grande
caldo.
Trascorsi tutta la mattinata a fare i preparativi. Avevo comprato del vino, una scatola di biscotti e della
limonata. La camera, messa in ordine, sembrava pi grande del solito. Mi ero seduto sul letto, nel punto
in cui c'era un grande buco nel copriletto. Restai in attesa. La finestra era aperta. Siccome non si pu
usare l'avvolgibile, la luce che veniva da fuori inondava la stanza.
Ero in quello stato di soddisfazione in cui ci si trova dopo aver svolto mille piccoli lavoretti facili da
dimenticare.
C'erano solo i due bicchieri ancora da lavare. Lo sapevo benissimo: mi riservavo di farlo, per darmi un
contegno quando sarebbe arrivato il signor Boudier-Martel.
Ad un tratto udii dei passi nelle scale.
Di sicuro era lui. Mi alzai e presi i bicchieri, affinch li stessi lavando quando avrebbe bussato.
Lo udii sul pianerottolo. Bench gli avessi spiegato quale fosse la mia porta, stava cercando dall'altra
parte del piano, l dove abita Lecoin. Come avrei desiderato che il mio vicino vedesse il signor Boudier
entrare in casa mia.
Udii bussare. Andai ad aprire.
Era lui. Anche se era domenica, per venire a trovarmi aveva messo degli abiti consumati. Sicuramente
lo aveva fatto per delicatezza. Entr, e si tolse il cappello gi sulla soglia.
"Vede," dissi, "sto lavando i bicchieri. Si sieda...," e gli porsi la sedia pi bella.
"Oh! Amico mio... non si preoccupi per me... Posso sedermi in qualunque posto."
Si sedette sul letto, proprio nel posto in cui mi ero seduto io, perch in quel punto il materasso
sfondato forma una specie di cavit.
"Ma bellissima questa camera... pulita... ha dell'aria, qui... un po' in alto... per ha dell'aria..."
"Lei trova..."
"Delle camere come questa sono rare..."
Quell'ammirazione per il mio alloggio non mi fece piacere. Avevo sperato che, dopo averla vista, mi
avrebbe offerto una grande stanza nel suo appartamento. Adesso capivo che era inutile farvi conto.
"Forse lei si fa da mangiare da solo..."
"Oh, no, signore."
"Non lo fa?"
"No, mangio al ristorante!..."
"Mangia al ristorante?"
"Si, signore."
"Ma molto caro, il ristorante..."
"S, ma ho fatto un accordo..."
"Ah, allora un'altra cosa... Bisogna sapersi arrangiare, quando si in una situazione come la sua."
"Lo so bene, signore."
Ci fu un silenzio. Col pugno girato, mentre guardava dalla finestra, il signor Boudier-Martel stava
tastando il mio letto. In certi momenti alzava il tacco e colpiva il pavimento. Si girava spesso, e guardava
dappertutto.
Poich cercavo uno strofinaccio, disse: "No, non asciughi i bicchieri... Non occorre che si dia troppo
da fare... Mi piace bere nei bicchieri appena sciacquati... Sa, non niente male, qui. Ha senz'altro
dell'acqua, qui vicino..."
"S, c' l'acqua sul pianerottolo..."
"Benissimo... L'altro giorno non ho potuto parlarle come avrei voluto. La conoscevo appena. Adesso
voglio dirle come trovo nobile la sua rinuncia, la sua semplicit."
Quelle parole, che intuivo piene di verit, mi commossero. Guardai il signor Boudier con affetto.
Sentivo che quello che ci separava ancora stava per sparire.
"Vuole bere un po' di vino, signore?"
"Se vuole, figliolo..."
Figlio... Mi aveva detto figliolo... Questa volta, tutta la mia tristezza scomparve. Versai da bere
tremando. Quando cerc di alzarsi per prendere il bicchiere, dissi: "No, no, non si disturbi...," e glielo
portai, non senza rovesciare un po' di vino.
Bevette chinato in avanti, come quando si beve al banco di un bar.
Questo mi sembr poco cortese. Avrebbe dovuto, credo, fare finta di non accorgersi che avevo
riempito troppo il bicchiere, perch se l'avevo fatto era solo perch le sue parole generose mi avevano
commosso. A costo di bagnarsi, avrebbe dovuto bere come se fosse a casa sua.
"Amico mio, lei una persona sensibile..."
Per un secondo credetti che mi avesse letto nel pensiero.
"Mi piacciono le persone come lei. La miseria umana mi commuove. Mi racconti la sua vita. Se
qualcosa le pesa nel cuore, si confidi con me."
Raccontare la mia vita! Si pu raccontare la propria vita a un amico? Si pu raccontare la propria vita
senza abbellirla o abbruttirla, senza mentire? Quanto a confidarsi, si pu farlo cos, quando uno ve lo
chiede? Parlare della mia vita, di me, a una persona che era appena arrivata, no, non era possibile.
Il signor Boudier aspettava che parlassi, simulando una grande attenzione. Dico bene: simulando,
perch mentre fissava lo sguardo su di me, ogni tanto i suoi occhi si spostavano per qualche secondo su
qualche oggetto della mia camera.
"Si lava in quella bacinella?"
"S, signore."
"Non dev'essere comodo... Su, mi racconti la sua vita, si confidi con me. Lei ha in me un amico, un
fratello..."
"Un fratello?"
"S, ho sofferto anch'io la povert."
"Ha sofferto la povert?"
"S."
Sentivo che, ai suoi occhi, avrei dovuto esserne contento. Per, nel mio intimo, la stima verso di lui si
abbass.
"Vuole bere ancora un po' di vino, signore?" chiesi aspettandomi un cortese rifiuto.
Mi ero sbagliato. Il signor Boudier-Martel accett.
Avrete notato come ci si sbaglia spesso sulla gente. Siamo sicuri che dicano una cosa e invece ci
rispondono il contrario. Ma non bisogna che questo cambi la nostra opinione. Il signor Boudier non
aveva detto di no a causa di qualche ragione infinitamente piccola e ignota, ma con tutto il suo essere
rifiutava il vino che gli offrivo.
Questa volta versai il vino lentamente, affinch il signor Boudier mi risparmiasse dal vederlo bere
sporgendosi. Bench il bicchiere fosse mezzo vuoto, si sporse ugualmente in avanti.
"Allora, quando mi racconter dunque la sua vita?" Disse cercando un posto dove appoggiare il
bicchiere.
Se aveste visto come cercava quel posto! Se mi avesse veramente voluto bene, se fosse stato attratto
verso di me da qualche sentimento, non avrebbe avuto quell'aria presa in prestito. Avrebbe appoggiato il
bicchiere per terra.
"Allora, questa vita?"
"Oh, signore, non interessante."
Si alz, venne vicino a me e mi accarezz i capelli.
Ero illuminato di gioia, bench fossi diviso tra il desiderio che la smettesse e quello che continuasse.
Che la smettesse, perch c' qualcosa di grottesco nelle effusioni tra uomini; che continuasse, perch
era un segno di cos profonda amicizia.
"Fanciullone, fanciullone," disse allontanandosi da me. "Devo lasciarla, caro amico.."
"Se ne va?"
E io che avevo creduto che saremmo rimasti insieme fino a notte!
"Verr a mangiare da me quando ne avr voglia. Non voglio forzarla. libero. Non le do
appuntamento. Rispetto troppo la libert altrui."
Ah, se il signor Boudier sapesse quanto poco ci si tenga alla libert, quando si soli.
Prese il cappello, e non aspett di essere uscito per coprirsi la testa. Capii che all'inizio aveva fatto uno
sforzo per essere gentile e che adesso, stancatosi, si lasciava andare.
Intravidi la grande solitudine nella quale stavo per trovarmi.
Mi alzai anch'io.
"Se ne va?"
"S, bisogna che rientri..."
Persi la testa.
"Signore... signore... non se ne vada."
Stupefatto, Boudier-Martel fece un passo indietro. Per prudenza, dietro l'apparenza della sorpresa,
apr la porta come se non ci pensasse.
"Non vada via, sar solo senza di lei... Sapesse come soffro quando sono solo... Resti... mi parler...
stato cos gentile con me..."
Rassicurato, il signor Boudier lasci il pomo della porta.
"Andiamo, su, figliolo, si calmi... Sa bene che pu contare su di me."
Capii che era impossibile trattenerlo. Non conosco niente di pi angosciante del sentire che, qualsiasi
cosa tacciamo, non riusciremo a trattenere qualcuno.
In un ultimo soprassalto mi avvicinai a lui e, inginocchiandomi maldestramente, come le persone che
non vanno in chiesa, balbettai: "Non me ne voglia, signore... Ho agito cos senza sapere... Lei mi
capisce, mi scusi... Pu contare su di me per tutto... Mi sacrificher... resti, signore..."
Mi rialzai. Il signor Boudier, che era indietreggiato di nuovo, era sul pianerottolo.
"Su, amico mio, coraggio. Non la dimentico. Le voglio molto bene. Arrivederci, venga da me..."
E se ne and senza nemmeno aver sentito che gli avevo detto che mi sarei sacrificato per lui.
Rimasto solo, mi sedetti sul letto. Faceva ancora pieno giorno. Qualcuno suonava la chitarra in una
casa vicina. A volte era due volte di seguito la stessa aria. Degli uccelli passavano nel cielo azzurro.
Passavano cos velocemente che sembravano seguire una linea retta. Erano neri come lo sono gli uccelli
alla fine del pomeriggio.
Mi alzai. Presi il cappello. Aspettai un po' per non rischiare di raggiungere il signor Boudier. Aprii la
porta, le scale erano deserte. Uscii, e passeggiai fino a notte.

Mi ricorder sempre di quella giornata radiosa che fu per me una delle pi tristi della mia vita.
Il giorno precedente mi ero addormentato tardi perch, a letto, avevo pensato al signor Boudier. Sono
cos buono che, quando sono lontano dalle gente, non vedo pi i loro difetti. Stupidamente, mi ero
immaginato che il signor Boudier, nel suo letto, stesse anche lui pensando a me. Allora avevo guardato
l'orologio. Decisi in quel momento di andare a trovarlo l'indomani per dirgli che alle undici e dieci i
nostri pensieri si erano sicuramente incontrati.
Al mattino quell'idea mi sembr ridicola. Ma poich erano gi tre giorni che non ci vedevamo, non
cambiai la mia decisione. Aveva tanto insistito che andassi a mangiare da lui che non temevo di abusare
della sua generosit.
Mi vestii nel modo pi bello che potei. Nella mia camera mi trovo sempre abbastanza bene. Ma
appena sono fuori, appena mi trovo per strada, mescolato alla folla, mi accorgo di quanto sia vestito
poveramente. Non il contrasto a farlo. Passo inosservato. perch penso che la gente conosca la vita
che faccio, che si dica: "Ha soltanto quello che si merita". Ma ho torto. Nessuna bada a me.
Alle undici e mezza lasciai la mia camera. Di solito la lascio pi presto. Ma quel giorno volevo arrivare
dal signor Boudier fresco, senza polvere.
Faceva un caldo opprimente. Una vettura che innaffiava le strade mi bagn i piedi. Camminavo
lentamente, perch, nonostante la visita che avevo deciso di fare fosse giustificata, ero emozionato.
Mezzogiorno stava suonando dappertutto quando arrivai davanti alla casa del signor Boudier. Entrai
subito. Il vestibolo era meno fresco dell'altro giorno, e le porte erano tutte chiuse. In estate, le porte
sembra che non debbano mai aprirsi.
L'ascensore non c'era. Salii le scale. La ringhiera era troppo grossa per poterla tenere. Giunto davanti
alla porta mi levai il cappello, poi lo rimisi. L'emozione mi faceva ansimare. Non avevo la scusa di avere
salito sei piani.
Bisognava suonare. Senza toccare l'interruttore premetti il pulsante. Aspettai qualche secondo.
"Il signore l?" domandai alla domestica, una mano appoggiata contro al muro e un'altra nella tasca.
Avevo preso quella posa appena avevo visto la domestica, perch non posso sopportare i domestici.
Volevo mostrare a quella cameriera che, bench fossi mal vestito, ero superiore a lei. Ella lo sent di
sicuro, e, sia per cattiveria che per vendicarsi, mi chiese:
"Quale signore?"
Rischiai di perdere il sangue freddo che avevo acquistato con tanta fatica.
"Il suo padrone," dissi con insolenza.
Ma mi pentii subito di quel colpo di testa. Mi ero appena reso conto di essere, dopo tutto, alla merc
di quella donna. Cosa avrei potuto fare se mi avesse risposto: "Il mio padrone! Non c'". Perci
aggiunsi immediatamente:
"Mi riconosce bene. Sono venuto l'altro giorno a pranzo."
Ma anche se balbettavo queste parole con timorosa umilt, nondimeno pregustavo il piacere di parlare
male di lei, dopo, quando avrei chiacchierato col signor Boudier-Martel.
"S, qui, entri..."
Mi tolsi il cappello, bench mi ripugnasse farlo davanti a quella cameriera. Era capace di credere che lo
facessi per lei.
"Chi devo annunciare?"
Esitai un istante prima di rispondere.
"Annunci il signore che venuto a pranzo l'altro giorno."
"Ma quale... Ne vengono tutti i giorni."
Questa volta bisognava che dicessi il mio nome. Mi avrebbe preso in giro, avrebbe riso. Ma poi, dopo
tutto, il mio nome il mio nome. Non ho nulla da temere a dirlo.
"Il signor Bton."
"Bton."
"S."
"Bene, attenda."
Mi sedetti su una di quelle sedie da anticamera su cui si appoggiano i pacchi e i cappelli, ma sulle quali
si siedono solo le persone come me.
Una porta si apr, il signor Boudier apparve, senza colletto, in veste da camera. Mi alzai d'un balzo.
Immobile, tese le mani verso di me.
" lei... Come sono contento di vederla. Venga... Entri... le presento un amico... Un uomo come lei...
Entri... Entri..."
"Un uomo come me?"
"S, entri..."
Non ebbi il tempo di pensare. Avanzai confuso, felice, come nei sogni che riusciamo a ricordare.
Mi fermai di colpo. Il mio sangue, invece di seguire il suo corso, mi sal alla testa. Il signor Boudier mi
puntava con l'indice. La domestica era da dietro di me, da qualche parte. Parlavano. Udivo delle parole.
Dolcemente la porta, da sola, ripiegava verso il muro.
Avevo visto, l, sulla poltrona dove ero stato seduto, un povero, un povero come me. Non ho bisogno
di guardarli a lungo. Li riconosco subito. Ero sicuro, l, sulla poltrona, c'era un povero.
"Ma entri dunque... amico mio..."
Non risposi, Capivo tutto, ora. Il signor Boudier non mi voleva bene. Voleva bene ai poveri.
"Entri, dunque, Bton... Ma che cos'ha?"
"No... no... Vado via... Mi sento male..."
Camminai a ritroso. Il signor Boudier mi seguiva lentamente. Immaginai che non osava avvicinarmi di
pi. Non si avvicinano le persone che cambiano repentinamente atteggiamento.
"Ma resti, mio caro... resti... lei a casa sua... mio amico."
Indietreggiavo sempre, poi aprii la porta.
"Torner fra poco, signore... Mi sento male... Sono malato... Bisogna che vada..."
Uscii, lasciando la porta aperta. Avrei voluto chiuderla, ma non ebbi il coraggio di farlo. Fin tanto che
rimaneva aperta, c'era ancora qualcosa tra me e il signor Boudier. Avrebbe potuto seguirmi, supplicarmi
di tornare. Allora non so che cosa avrei fatto.
Se ho lasciato aperta la porta, anche perch fosse lui a chiuderla, perch fosse lui a rompere per
sempre la nostra amicizia, per avere almeno, nella mia solitudine, la ragione di potere soffrire a causa
dell'incomprensione altrui.

Il signor Boudier, mentre scendevo le scale, rest davanti alla porta. Sembrava che il pianerottolo
fosse il margine estremo in cui potesse andare, che la scala fosse un abisso. Si sporgeva, mi chiamava,
non osando poggiare il piede sul primo scalino.
"Andiamo, Bton... Venga... Che cos'ha?"
Andavo via lentamente. Quando arrivai nel vestibolo mi fermai. Forse perch il mio dolore non era
cos grande come pensavo, ma mi sorpresi in agguato, teso ad ascoltare quello che succedeva
nell'ammezzato.
La porta sbatt. Era finita.
Nella luce abbagliante della strada mi sembr che tutto quello che era appena successo nella
penombra della casa fosse gi perduto nel passato. Non piangevo. Non si piange mai, sul momento. I
miei nervi erano tesi a tal punto che, bench non ridessi, il mio volto era contratto come quando si ride.

I giorni sono passati.
Avrei dimenticato da tempo quella storia penosa se non avessi conservato l'impressione che il signor
Boudier sapeva perch me ne ero andato. Sapeva di sicuro che era stato un sentimento di volgare
gelosia che mi aveva spinto a fuggire, perch, se invece di un povero ci fosse stato un ricco seduto nella
sala da pranzo, sarei sicuramente restato. Egli conosceva certamente tutti i pensieri meschini che, allora,
mi avevano attraversato la mente. S, li conosceva tutti, senza alcun dubbio, perch io, al suo posto, li
avrei immaginati.
VIII.
1.
Il proprietario mi ha dato lo sfratto.
Sembra che gli inquilini si siano lamentati del fatto che non lavoravo. Eppure mi sono sempre
comportato bene. Scendevo le scale delicatamente. Ero sempre molto garbato. Quando l'anziana
signora che abita al terzo piano portava una borsa troppo pesante, io l'aiutavo a salire. Mi pulivo i piedi
sui tre zerbini che ci sono prima delle scale.
Osservavo il regolamento della casa affisso vicino alla portineria. Non sputavo sui gradini come
faceva invece il signor Lecoin. Di sera, quando tornavo a casa, non buttavo per terra i fiammiferi che
accendevo per farmi luce. E poi pagavo l'affitto, certo, lo pagavo. vero che non ho mai dato la mancia
alla portinaia, ma, dopo tutto, non la disturbavo mai molto. Soltanto una o due volte la settimana
rientravo dopo le dieci. Non niente per una portinaia dover tirare il cordone. Lo si fa
meccanicamente, mentre si dorme.
Abitavo al sesto piano, lontano dagli appartamenti. Non cantavo mai, non ridevo, per delicatezza,
perch non lavoravo.
Uno come me, che non lavora, che non vuole lavorare, sar odiato sempre.
Io ero, in questa casa di operai, il matto che in fondo avrebbero voluto essere tutti. Ero colui che si
privava di carne, di cinema, di lana per essere libero. Colui che, senza volerlo, ogni giorno ricordava alla
gente le loro miserie.
Non mi hanno mai perdonato di essere libero, di non avere nessuna paura della povert.
Il proprietario mi ha dato lo sfratto legalmente, su carta da bollo.
I miei vicini gli hanno detto che sono sporco, altezzoso, e forse perfino che da me venivano delle
donne.
Dio sa come sono generoso. Dio sa tutte le buone azioni che ho fatto.
Cos come io mi ricordo di un signore che, quando ero piccolo, mi diede qualche soldo, allo stesso
modo molti bambini si ricorderanno di me quando saranno cresciuti, perch spesso ho fatto loro dei
regali.
D una gioia immensa sapere che esister sempre in quelle anime.

Bisogner lasciare la camera. La mia vita dunque cos anormale da scandalizzare la gente? Non
posso crederlo.
Tra quindici giorni sar altrove, non avr pi la chiave di questa camera dovo ho vissuto tre anni,
dove caduta la mia uniforme di soldato, dove, congedato dalle armi, ho creduto che sarei stato felice.
S, fra quindici giorni me ne andr. Allora i vicini avranno forse un rimorso, perch i cambiamenti
toccano tutti, anche i pi sensibili. Forse avranno, anche solo per un attimo, la sensazione di essere stati
cattivi. Questo mi baster.
Verranno nella mia camera vuota, e non essendoci pi i mobili guarderanno dentro gli armadi. Ma
non vedranno niente.
finita. Il sole non mi dir pi l'ora sul muro. Il malato che abita sul mio piano, morir quindici
giorni dopo la mia partenza, perch bisogna ci sia qualcosa di nuovo. Verr ridipinto qualcosa. Degli
operai ripareranno il tetto.
E strano come tutto cambi senza di noi.
2.
Non sono riuscito a trovare una camera: allora ho venduto i miei mobili.

Sono le dieci di sera. Sono solo, in una camera d'albergo.
Ah, che piacere essermi sbarazzato dei vicini, essere partito, aver abbandonato Montrouge.
Mi guardo intorno, perch dopo tutto in questa stanza che dovr vivere. Apro l'armadio. Non c'
niente, a parte dei fogli di giornale sui ripiani.
Apro la finestra. L'aria immobile del cortile non pu entrare. Di fronte, un'ombra passa e ripassa
dietro una tenda. Sento le ruote di ferro di un tram.
Torno in mezzo alla stanza. Adesso la candela ben accesa cola e la fiamma immobile non fa pi fumo.
Un tovagliolo piegato fa da tappo a una brocca d'acqua. Un bicchiere copre una caraffa. Il linoleum
davanti alla toeletta stato scolorito da dei piedi bagnati. Le molle del lettino luccicano. Dalle sale si
alzano delle voci sonore, che non conosco.
Il gesso dei muri bianco come il lembo del lenzuolo rivoltato sulle coperte. Uno sconosciuto si
muove in una camera attigua.

Mi siedo su una sedia - una sedia pieghevole, da giardino - e penso al futuro.
Voglio credere che un giorno sar felice, che un giorno qualcuno mi vorr bene.
Ma gi da tanto tempo che conto nel futuro!

Dopo mi corico - sul lato destro, a causa del cuore.
Le lenzuola dure sono cos fredde che mi allungo solo molto lentamente. Sento che la mia pelle dei
piedi rugosa.
Naturalmente ho chiuso la porta. Eppure mi d l'impressione di essere aperta, che possa entrare
chiunque. Per fortuna ho lasciato la chiave nella serratura: cos non potr entrare nessuno con una
seconda chiave.

Cerco di dormire ma mi vengono in mente i miei vestiti, piegati nella valigia, che si sgualciscono.
Il letto si scalda. Non muovo i piedi per non graffiare le lenzuola, perch mi fa venire i brividi.
Controllo che l'orecchio su cui appoggio il peso sia piatto, che non si pieghi.
Sono cos brutte le orecchie allargate.
Il trasloco mi ha fatto diventare nervoso. Ho voglia di muovermi come quando sogno di essere
incollato per terra. Ma resisto: bisogna dormire.
I miei occhi spalancati non vedono niente, neanche la finestra.
Penso alla morte e al cielo, perch ogni volta che penso alla morte penso anche alle stelle.
Mi sento piccolissimo vicino all'infinito, e abbandono presto questi pensieri. Il corpo caldo, vivo, mi
rassicura. Tocco con amore la mia pelle. Ascolto il mio cuore, anche se mi guardo bene dal posare la
mano sul seno sinistro, perch non c' niente che mi spaventi come quel battito regolare che non
comando, e che potrebbe cos facilmente fermarsi. Muovo le articolazioni, e respiro meglio sentendo
che non mi fan male.
Ah, la solitudine, che cosa bella e triste! Come triste quando ci imposta da anni!
Certi uomini forti non sono soli nella solitudine, ma io, che sono debole, sono solo quando non ho
nessun amico.











NOTA DEL TRADUTTORE

"Ah, la solitudine, che cosa bella e triste!
Come triste quando essa ci imposta
da anni!
Certi uomini forti non sono soli nella
solitudine, ma io che sono debole, sono
solo quando non ho nessun amico."
Emmanuel Bove nato il 20 aprile 1898 a Parigi, da padre russo e madre lussemburghese, ha
trascorso gran parte della giovinezza a Ginevra e in Inghilterra e ha pubblicato numerosi racconti e
romanzi, anche polizieschi - questi ultimi sotto pseudonimo. Stimato da Edmond Jaloux e da quanti si
raccoglievano attorno ai fratelli librai-editori Emile-Paul, fu apprezzato da Rilke e dagli amici pittori, tra
i quali Maurice Utrillo, che disegn il frontespizio al suo bellissimo racconto-descrizione Bcon-le-
Bruyres. Bove conobbe il successo letterario, partecip attivamente alla Resistenza e mor giovane, nel
1945 a Parigi.

Mes amis il suo primo romanzo, ed stato pubblicato nel 1924. lecito dire che il silenzio che dopo
la sua morte ha avvolto l'opera di Bove, sia stato infranto solo negli ultimi anni grazie ad una traduzione
devota di questo romanzo (e del successivo Armand) da parte dello scrittore austriaco Peter Handke.
Dopo, Mes amis diventato perfino un oggetto di culto. Per fare un esempio, il regista Wim Wenders
passeggia in un suo cortometraggio su New Jork col romanzo sottobraccio, mentre la sua voce fuori
campo suggerisce: "Finalmente, dopo giorni di erranza, un libro a destarmi la voglia di immagini
restituendomi il senso del racconto. Questa storia semplice ed esemplare, con il suo rispetto dei dettagli,
mi ricorda che il cinema pu descrivere allo stesso modo, lasciando le cose cos come sono."
Sappiamo che anche Samuel Beckett am i racconti di Bove per la sua arte dei dettagli, mentre Rainer
Maria Rilke - che nel senso di ingenuit e di ineluttabile disperazione dei suoi personaggi non poteva
non scorgere una parentela con lo spirito russo - ha lasciato su Bove alcune testimonianze nelle lettere a
Maurice Betz, il traduttore francese dei Quaderni di Malte. "Mi sforzo sempre di seguirlo", scriveva in una
lettera del 26 aprile 1926; ed il 5 novembre 1925, a proposito del romanzo Visite d'un soir: "Nella mia
infanzia si aveva ancora l'abitudine di farsi i guanti su misura; era un'esperienza assai curiosa quella di
tendere le mani al guantaio. Leggendo l'ultimo libro di Bove me ne tornato intero il ricordo, compresa
la sensazione fisica delle dita esposte al calcolo." in questa lettera che Rilke propone due importanti
formule descrittive per lo stile di Bove: esitazione plastica e ritenzione feconda, aggiungendo: "Quanto
deve contare poco, per lui, il 'soggetto'!".
Bove, in una delle rare dichiarazioni di poetica contenuta in una delle ancora pi rare pagine di diario,
esprime qualcosa di simile: "Non c' niente di pi paralizzante della ricerca di un soggetto. Jean Fayard
venuto l'altro ieri a trovarmi. Dice: 'Bisogna partire da un buon soggetto. Guardi i Russi'. Io non la
penso come lui. In essi il tono ad essere grande. I soggetti degli scrittori francesi d'appendice sono
altrettanto grandi di quelli di Dostoievskij. In breve: non esiste soggetto, c' solo quello che uno prova.
Io, per esempio, provo con forza l'inazione: essa sar un'azione nel mio libro."
Anche Jean Cassou, nell'introduzione all'edizione francese del romanzo, rubrica la specialit della
prosa di Bove nella dimensione tonale, e considera il suo tono "un'arte di singolare potere. Un'arte che
non indietreggia davanti all'effetto di choc e di malessere che la sua precisione produce". Il che non
esclude che Bove ci offra delle frasi a volte di una comicit irresistibile, mai ricercata, ma trovata nel
disordine casuale e un po' assurdo della vita quotidiana; una comicit dimessa, sicuramente ingenua,
sulla scia di una scrittura che si propone di dimostrare il non-epico, il "non ancora occupato dal senso"
(Handke). "Nel paese in cui Bove ci conduce - scrive ancora Cassou - la sfortuna ingenua e c'
ingenuit nella maniera di accoglierla". Le sue frasi, cos povere e per questo efficaci, non hanno
bisogno di descrivere la povert perch "si presentano cos naturalmente, ingenuamente povere, da
essere molto pi forti che se parlassero di povert".

Beppe Sebaste





Stampa Grafica Sipiel
Milano, febbraio 1991

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