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DIRITTO DEL LAVORO – LEZ 5

Nella lezione precedente abbiamo parlato delle competenze legislative in materia di diritto del lavoro,
inteso in quei quattro segmenti (del rapporto, del mercato, sindacale, della previdenza sociale), della
riforma del Titolo V che ha attribuito alle regioni nuove competenze, ripartizione ex ART 117 comma 2; la
previdenza sociale (obbligatoria, in base all’art 38 Cost) compete allo stato in esclusiva, perché art 117 dice
questo, mentre al comma 3 si parla di competenza complementare e in particolare si cita la previdenza
complementare e integrativa.
In questo periodo c’è stato un massiccio intervento statale di sostegno ai lavoratori con cassa integrazione,
e le regioni hanno previsto altri interventi aggiuntivi, proprio grazie a questo comma 3 che lo permette
attribuendo competenza concorrente.
C’è però anche una previsione al comma 2 che in realtà non è materia in senso proprio cioè non individua
un segmento e un’area omogenea della realtà socio-economica, costituisce una previsione che attribuisce
allo stato competenza trasversale cioè gli consente di intervenire in tutti gli ambiti cioè anche quelli non di
sua competenza, anche quelli non di competenza concorrente stato-regioni, ma che sono di competenza
residuale delle regioni (cioè tutto ciò che non sia previsto ai commi 2-3 e che quindi è di competenza delle
regioni), questa competenza è quella prevista alla LETTERA M):

“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale.”

Questa competenza ha come sua funzione quella di assicurare uniformità di trattamento cioè l’eguaglianza
dei cittadini sul territorio nazionale in tema di diritti sociali, che prima di tutto è il diritto al lavoro. Lo stato
dovrebbe garantire la previsione dei livelli, e non solo perché l’ART 120 Cost:

“il governo può sostituirsi ad organi delle regioni quando lo richiedano la tutela dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”

Laddove ci fosse la definizione dei livelli essenziali da parte dello Stato e questi non fossero garantiti dalle
regioni, lo Stato potrebbe sostituirsi alle regioni per intervenire.
Quindi per la previdenza sociale è chiara l’attribuzione di competenze, anche se a livello regionale è meno
chiaro, ma comunque hanno poche competenze.

TUTELA E SICUREZZA DEL LAVORO, si cita al COMMA 3, quindi è competenza concorrente. È una formula
ambigua e senza precedenti nella costituzione, sconosciuta nella legislazione (anche ordinaria) precedente
dove non si è mai riscontrata. Questa collega due concetti, due termini, che hanno un significato
sistematico molto diverso. Dove troviamo questa formula nella costituzione? Dove si parla di tutela del
lavoro? Art 35, che apre il Capo III della Parte I della Cost, perché dice che essa tutela il lavoro in tutte le sue
forme e applicazioni, quindi la formula tutela del lavoro è ampia e generale e si presta a comprendere tutto
il diritto del lavoro; mentre sicurezza indica un segmento della disciplina complessiva del lavoro, indica un
sistema di norme specificatamente dirette a garantire l’integrità psico-fisica del lavoratore.

L’esistenza di questi due poli accostati ha creato incertezza perché ci si è chiesti se a fronte di un totale
silenzio dell’art 117 sul lavoro tra le competenze esclusive dello Stato, e dall’altra parte la presenza di
questa formula che può essere letta in senso ampio, allora ci si è chiesto se le regioni potessero legiferare
su qualsiasi aspetto della disciplina del lavoro, ipoteticamente arrivando a 21 normative diverse in materia
ad esempio di orario di lavoro, questa soluzione è apparsa poco ragionevole perché in un sistema in cui le
relazioni economiche comportano mobilità territoriale delle imprese diventerebbe difficile gestire una
situazione simile di varietà di regole. Comunque, si diceva d’altra parte che le competenze legislative delle
regioni non potevano neanche essere limitate alla sicurezza sul lavoro, che, come materia, non avrebbe
molto senso differenziarla. Inoltre, questa interpretazione non teneva conto dell’evoluzione legislativa
verificatasi sin dal 1997 con la riforma amministrativa e l’attribuzione alle regioni sussidiariamente di
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competenze amministrative alle regioni, non legislative, in materia di incontro tra domanda e offerta di
lavoro.

Perciò l’ipotesi formulata dagli esperti rispetto alla competenza legislativa conseguente e sottesa alla
formula di cui parliamo, portava ad attribuire alle regioni una competenza legislativa su quegli ambiti del
diritto del lavoro già oggetto di devoluzione amministrativa, quindi il collocamento, politiche attive, le
politiche a favore di lavoratori svantaggiati. Questa tesi è stata sostanzialmente accolta a livello
costituzionale dalla Corte, con la sent 50/2005 ha confermato che la formula “tutela e sicurezza”
ricomprende ciò che riguarda il sistema pubblico di incontro tra domanda e offerta del lavoro quindi la
gestione da parte di soggetti pubblici (Regioni, comuni, province) delle funzioni previste dalle leggi nazionali
in materia di incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Questo per ciò che riguarda previdenza e mercato del lavoro. Che ne è del diritto del lavoro in senso
stretto? Cioè del rapporto di lavoro e di quello sindacale. Una volta che si esclude competenza legislativa
regionale, le obiezioni alla frammentazione legislativa valgono per un’ipotesi di legislazione residuale, cioè
attribuita alle regioni in rispetto dei livelli essenziali senza ulteriori limiti, anche qui la giurisprudenza
costituzionale ha ricondotto la materia alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in quanto
regolazione dei rapporti fra privati, quindi riconducibile alla materia dell’ordinamento civile. Dal punto di
vista della competenza legislativa poco è cambiato rispetto al quadro precedente se non per la parte del
mercato del lavoro.

L’ultimo aspetto che riguarda la nostra materia è l’ASSISTENZA SOCIALE, perché all’art 38 Cost si parla di
assistenza e di previdenza sociale, l’assistenza sociale non è mai prevista all’art 117 comma 2-3, quindi è
materia di competenza residuale delle regioni nel rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni.

Il livello essenziale delle prestazioni. Nel diritto del lavoro in senso proprio non ha senso di parlare di questo
livello essenziale di prestazioni, il problema non si è posto neanche in relazione alla previdenza sociale
perché l’art 38 comma 2 dice che i lavoratori hanno diritto a mezzi adeguati alle esigenze di vita, quindi c’è
una previsione costituzionale che stabilisce qual è il livello di tutela da garantire, anche se in linea di
principio.

Il problema si è posto con l’assistenza dove il legislatore non ha previsto livelli essenziali e anche nel
mercato del lavoro, dove abbiamo una disciplina dal 2015, il D.lgs. 150/2015 noto come uno dei Jobs act,
con cui ridisegnò la struttura istituzionale del mercato del lavoro, definì le politiche attive, e individuò alcuni
livelli essenziali.

Quindi dal punto di vista delle competenze legislative questo è il quadro. Ricapitolando:

- Quindi partendo dall’art 1 cc, preleggi, abbiamo parlato delle fonti, e distinto legge statale e
regionale
- Abbiamo parlato della competenza legislativa esclusiva e concorrente, e di quella amministrativa
- Norme corporative abrogate

In questo contesto ci dobbiamo chiedere se entrano le previsioni dei contratti collettivi  avevamo visto un
esempio e la sua struttura quasi a legge, con previsioni di carattere generale destinate a produrre effetti nei
confronti di una serie aperta e indefinita di rapporti di lavoro, appunto la cd parte normativa; entrano
nell’elenco delle fonti del diritto? Chiaramente nell’elenco che abbiamo visto non ci sono. Cosa dobbiamo
capire però innanzitutto per rispondere alla domanda? È un contratto, quindi ha forza di legge fra le parti,
ma questa efficacia è uguale a quella propria di una legge ordinaria? Se avessi una legge che dice che
l’orario di lavoro è di 40 ore settimanali, e ho un contratto collettivo, invece, che ha forza di legge tra le
parti, sono la stessa cosa? La legge potrebbe dire che il datore di lavoro che assume un dipendente nelle
regioni tal de tali ha diritto a uno sgravio dei contributi fiscali del 100%? Posso fare una legge che delimita il
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suo campo d’applicazione in questo modo? Nulla impedisce al legislatore di farlo, compete alla
discrezionalità del legislatore perché magari c’è situazione di disparità fra regioni e quindi si ritiene di
colmarla attraverso la legge, per esempio perché il divario occupazionale al nord e sud è enorme quindi
prevede questo.
Non è comunque discrezionalità assoluta, perché bisogna rispettare i principi costituzionali e il principio
costituzionale di eguaglianza sostanziale, per cui la legge deve essere ragionevole, devono esserci ragioni
adeguate che sostengano le norme. Posso incentivare settore o area ma non includere o escludere singole
imprese.
La legge ha carattere di generalità e astrattezza, cioè questa si impone a tutti coloro cui è rivolta, perché
questa potrebbe riguardare settori economici e particolari soggetti, si impone con una previsione che
stabilisce gli effetti giuridici; il contratto collettivo ha la stessa struttura della legge, ma la natura giuridica è
la stessa? Perché si dice che ha forza di legge tra le parti il contratto nel Codice civile? Non ha di per sé
efficacia generale che possa vincolare tutti quelli che si trovano in quella situazione. Il contratto collettivo è
un contratto di diritto privato e persegue interessi di diritto privato, di singoli e di gruppi organizzati,
mentre la legge persegue interesse generale.
Quindi le fonti del diritto hanno queste caratteristiche, mentre il contratto non è una fonte del diritto dal
punto di vista formale, degli interessi perseguiti, delle sue caratteristiche, però ha una peculiarità per cui
tradizionalmente ne parliamo come fosse una fonte in senso proprio o atecnico, ha la caratteristica di
regolare una molteplicità di rapporti di lavoro, ma per sua natura giuridica esprime interessi privati perché
il lavoratore aderisce all’organizzazione lavorativa e tutte le estensioni sono meccanismi che operano
all’esterno rispetto al contratto e non modificano la efficacia. Anche se una parte della dottrina ha
sostenuto la natura pubblicistica del contratto ma la tesi è minoritaria.
Non può essere considerata fonte in senso tecnico, non segue le modalità previste dalla legge per produrre
norme giuridiche, non soddisfa interessi generali, non contiene norme ma sono clausole, anche se noi
parliamo di norme per semplicità. Quindi abbiamo nel diritto del lavoro, oltre alle fonti in senso proprio
viste, il contratto collettivo che si inserisce nella dinamica dei rapporti di lavoro: è la principale “fonte”,
appunto non in senso proprio di fonte normativa, quindi come lavoratore devo fare riferimento al contratto
e non alla legge, cioè questa potrebbe prevedere un monte orari, e il contratto prevederne uno diverso.

Allora si pone una domanda, qual è il RAPPORTO FRA LEGGE E CONTRATTO COLLETTIVO?
Cioè le previsioni contenute nei contratti collettivi possono derogare rispetto a ciò che è previsto dalla
legge. Cioè un contratto può stabilire disciplina diversa da quella prevista? Diversità ma solo in senso
favorevole per il lavoratore? Solo quando la legge consente la deroga?

Esempio. Le legge dice 40 ore settimanale di lavoro, il contratto può dire 42? No, perché il contratto non è
norma di legge e non può entrare in conflitto con essa, l’autonomia negoziale non può andare contro le
tutele del lavoratore previste dalla legge. Se invece prevedesse 36 ore?

La regola generale è che il contratto collettivo NON può prevedere trattamenti peggiorativi, quindi le norme
di legge non possono essere derogate sia da autonomia individuale sia collettiva, ma si possono prevedere
trattamenti migliorativi da parte del contratto, perché la funzione delle norme di diritto del lavoro è di
tutela del soggetto debole del rapporto e quindi come principio generale si ritiene che non siano disponibili
dall’autonomia individuale e collettiva. Se fossi soggetto debole potrei essere spinto dal datore di lavoro a
derogare alla legge se questa lo permettesse.
Il contratto non è fonte del diritto in senso proprio ma può derogare la legge in meglio. Il contratto opera
con funzione normativa e si inserisce all’interno delle fonti del diritto con questa funzione importantissima.

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Tenendo conto della questione fonti del diritto, questo è funzionale a ciò che tratteremo d’ora in poi cioè il
rapporto di lavoro, questo si costruisce nella dialettica fra legge e contratto collettivo. Ma prima di vedere la
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disciplina del rapporto di lavoro, parliamo ora della fattispecie sulla cui base è costruito il diritto del lavoro,
quando parliamo di rapporto di lavoro, cosa si intende? Che tipologia di lavoro/rapporto è? Abbiamo avuto
un’evoluzione ancora oggi, per cui il quadro è molto più articolato rispetto alle origini del lavoro. Proviamo
ad immaginare com’erano le ORIGINI DEL DIRITTO DEL LAVORO: fabbriche, manodopera che si sposta nelle
città, offerta di lavoro ai proprietari dei macchinari, i capitalisti. Che tipo di relazione giuridica si instaura fra
questi soggetti? Qual è la disciplina applicabile? È un fenomeno sociale ed economico nuovo rispetto a cui
l’ordinamento dell’epoca fatica a stare dietro. Gli sfugge questo fenomeno, sfugge alle categorie giuridiche
(Codice civile del 1865 per l’Italia, dove la Rivoluzione Industriale arriva molto dopo, solo dopo l’unità) del
diritto dell’epoca, i Codici civili dell’epoca erano costruiti sull’idea proprietaria e sulle relazioni giuridiche fra
i contraenti, il contratto era lo strumento tipico con cui regolare i rapporti giuridici, e si basava sull’idea che
i contraenti fossero uguali, ma non si conosceva un fenomeno di massa caratterizzato dal fatto che persone
prestino la propria attività lavorativa a favore di un altro soggetto, che poi l’utilizza stabilendo l’oggetto
della prestazione, cioè l’oggetto del contratto (art 1325: elementi essenziali del contratto) che dovrebbe
essere definito consensualmente, ciò che il lavoratore si impegna ad offrire qui non è predefinito, egli offre
il suo lavoro/energie, ma poi è il datore che decide cosa lui debba fare (persino nel Codice del 1942 non
c’era molto a riguardo). Come lo inquadro questo fenomeno giuridico? Il diritto si preoccupa dei fatti, il
legislatore deve risolvere questa lacuna. Il codice dell’epoca non prevedeva una situazione tale, sfuggiva a
un inquadramento, per cui la dottrina e i giudici si cominciano ad interrogare e per prima cosa si
rispondono riconducendo questa fattispecie al CONTRATTO DI LOCAZIONE, nel cc dell’epoca viene definito:

“Il contratto di locazione ha per oggetto le cose o le opere.


La locazione delle cose è un contratto, col quale una delle parti si obbliga di far godere l’altra di una cosa
per un determinato tempo, e mediante un determinato prezzo che questa si obbliga di pagarle.
La locazione delle opere è un contratto per cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante
la pattuita mercede.”

Si obbliga a fare qualcosa per l’altro mediante pattuita mercede, quindi in qualche modo potrebbe scorgersi
una possibile strada per inquadrare quel rapporto
Art 1627 locazione delle opere:

“Vi sono tre principali specie di locazione di opere e d’industria:


1°: quella per cui le persone obbligano la propria persona all’altrui servizio
2°: quella dei vetturini per terra come per acqua che si incaricano del trasporto
3°: quella degli imprenditori di opere ad appalto e a cottimo”

Inoltre, all’art successivo:

“Nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo, o per una determinata impresa”

Quindi una prima risposta o tentativo di inquadramento riconduce la situazione al contratto di locazione,
ma non ci sono particolari regole, non esiste una disciplina specifica della situazione del contratto di
locazione. Qual è l’OBIEZIONE che viene fatta a un certo punto rispetto a questo inquadramento?

Cosa significa che abbiamo una locazione di opere? Il contratto di locazione sottintende che l’oggetto locato
è una cosa, bene materiale. Applicato all’attività lavorativa equivale a ipotizzare che le energie lavorative
siano qualcosa di separabile e oggettivizzabile rispetto alla persona. Pensate di separare queste energie
dalla persona, parlare di locazione di opere nei termini qui usati sottintende questo: astrarre energie
lavorative dalla persona e configurarle come bene e renderle commerciali, scambiabili, offrire di questo
bene una valutazione economica al pari di qualsiasi bene che scambio.
Senonché nella nostra ipotesi non c’è equilibrio contrattuale fra le parti, ma c’è squilibrio fra domanda e
offerta di lavoro, perché c’è surplus di offerta rispetto alla domanda (di manodopera), quindi, c’è
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supremazia del datore sull’altro, sfruttata per strappare condizioni più favorevoli. Partiamo da questo
inquadramento, perché queste erano le uniche norme esistenti, la prestazione di lavoro, dunque è
configurata nei termini che vi ho detto alla disciplina delle locazioni, l’obiezione che emerge nel dibattito è
che l’attività lavorativa non è considerabile alla stregua di qualsiasi bene, perché non è scindibile l’energia
dalla persona e sarebbe un’astrazione la reificazione del lavoro.
Quindi ci si comincia a interrogare sul superamento di questa impostazione. D’altra parte, si pongono
problemi da questa prospettiva: quando si parla di locazione delle opere, tendenzialmente si fa riferimento
a una fattispecie in cui la persona che si obbliga cioè lavoratore, si impegna nei confronti dell'altro a
realizzare un determinato bene o servizio. Viene espressa sotto questa configurazione quello che noi oggi
chiamiamo lavoro autonomo, che non esisteva all’epoca, quindi la normalità dei rapporti giuridici
dell’epoca era questa, un mondo di artigiani, piccoli imprenditori diremmo noi oggi. L’opera è il bene che
ho commissionato, una sedia, un mobile o vestito, che ti chiedo di realizzare e consegnarmi, tramite
appunto al contratto, ma come poi tu lavori non mi compete, l’importante è che mi consegni il bene così
come l’ho chiesto. Quindi la locatio delle opere sottintende una modalità di adempimento della
obbligazione diversa dalla modalità del lavoro subordinato che noi oggi conosciamo. Rispetto a questa
situazione il problema giuridico che si poneva nella nuova fattispecie è come giustifico a fronte di
un’equivalenza delle parti in un contratto l’esistenza di un potere modificativo dell’oggetto del lavoro; come
giustifico che una volta che accetto di lavorare per il datore Per questo può chiedermi una cosa piuttosto
che un’altra o un’altra ancora, cioè mi dice di lavorare a questo macchinario o fare quest’altra cosa? Questa
situazione che fattualmente è normale implica che dal punto di vista giuridico ci sia un soggetto che possa
contrattualmente modificare l’oggetto della prestazione unilateralmente.
C’è un problema rispetto alla logica paritaria, come giustifico questo potere? Allora nascono diverse teorie
sul problema. C’è chi disse che i poteri del datore di lavoro non nascono dal contratto, con questo le parti si
obbligano a retribuire e prestare l’opera, e in particolare nasce l’obbligo dal contratto di inserire il
lavoratore nell’impresa, ma poi i poteri sono poteri di fatto, che nascono dal fatto di essere imprenditore e
di organizzare la produzione, quindi esulano dall’ambito della relazione giuridica.
Anche questa evidentemente è una ricostruzione che non consente adeguata tutela del lavoratore perché
se i poteri del lavoratore non sono riconducibili all’accordo, cioè al contratto, non possono essere oggetto
di scambio consensuale, esserci eventuali accordi limitativi. Quindi abbiamo serie di problemi giuridici che
nascono da questo fatto e non trovano un inquadramento adeguato nella disciplina dei rapporti privati
all’epoca esistenti.

L’ultimo aspetto è che è diverso impegnarsi a realizzare un’opera dall’impegnarsi a offrire le proprie
energie, perché così mi impegno in modo continuativo nel tempo, dalle 8 alle 14, delimitano lo spazio di
tempo, ma il vincolo giuridico alla base della prestazione è continuativo nel tempo anche in base alla durata
del contratto, i contratti sono tutti a tempo determinato, nessuno può obbligarsi all’altrui servizio se non a
tempo diceva il cc del 1865 come abbiamo visto sopra. Perché il cc nella logica liberale individualistica
dell’epoca considerava l’esistenza di vincoli giuridici a tempo determinato come possibili fonti di
asservimento, di riduzione in schiavitù e limitazione delle libertà personali, quindi tutti i rapporti dovevano
essere a termine.
Il dato di fondo che emerge è l’inadeguatezza del concetto di locazione per spiegare la situazione del
lavoratore-datore con posizioni gerarchiche diverse, nel silenzio della legge si sviluppano teorie e tentativi
teorici della dottrina perché siamo di fronte a una situazione nuova. Si sviluppa una giurisprudenza
probivirale, cioè una legge dell’inizio del ‘900 istituì dei collegi ad hoc non composti interamente da
magistrati, ma anche da esperti in materia che risolvono controversie sorte tra lavoratori e datori di lavoro.
Quindi questa giurisprudenza inizia a introdurre regole giurisprudenziali, che di per sé sono riferite a singoli
casi ma che poi divengono orientamenti stabili nel tempo.
In questo contesto si arriva all’inizio del ‘900, nel 1911-15 circa ad elaborare da parte di Barassi, il concetto
di SUBORDINAZIONE. Le prime leggi in materia di tutela non si ponevano tanto il problema di qualificazione
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ma si rivolgevano a categoria sociologica, parlavano di operai e addetti dell’industria, non tentavano di


qualificare giuridicamente questa situazione, inquadravano come campo di applicazione un’area attraverso
il riferimento a un dato sociologico.
Barassi contesta questa impostazione ritenendo non fosse giuridicamente corretta e quindi elabora nel suo
testo, considerato fondamento del diritto del lavoro e del 1915 circa, questa nozione che oggi chiamiamo
subordinazione, tentando di dare inquadramento giuridico di quella situazione, di definire gli elementi
giuridicamente rilevanti della fattispecie.
Questa impostazione viene recepita parzialmente nel cc del 1942 dove troviamo per prima volta al Libro V
del lavoro, una parte dedicata ai collaboratori dell’impresa e fra questi l’art 2094 cita e definisce il
PRESTATORE DI LAVORO SUBORDINATO:

“È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa,


prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore.”

Impostazione del Libro V – Del lavoro

Il lavoro nel cc è innanzitutto riferito all’impresa cioè è lavoro prestato nell’ambito dell’organizzazione
dell’impresa, tant’è che all’inizio il Titolo II si chiama Del lavoro nell’impresa e si apre con la definizione di
imprenditore (ART 2082: è imprenditore chi esercita un’attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni e servizi.”), abbiamo poi una norma per cui ART 2086 comma 1:

“L’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori.”

In queste disposizioni si riflette l’ideologia corporativa, i giuristi che scrissero il codice non erano
necessariamente organici al partito ed erano anche giuristi di spessore, però il contesto culturale
comportava inevitabilmente delle influenze e interferenze per cui nel cc troviamo sicuramente un’influenza
dell’ideologia dell’epoca e più in generale della cultura dell’epoca. L’imprenditore è considerato vertice
gerarchico di una struttura.

ATTIVITÀ D’IMPRESA chi sono i COLLABORATORI? Abbiamo la Sezione II - Dei collaboratori


dell’imprenditore. Qui abbiamo l’art 2094 che introduce la nozione di subordinazione per prima volta.
Il diritto del lavoro si è sviluppato almeno fino agli anni ’90 come diritto del lavoro subordinato o dei
lavoratori subordinati, cioè le sue regole riguardavano solo e soltanto loro, perché questo rispondeva ad un
dato sociologico (la parte più consistente dei lavoratori erano dipendenti), dall’altro perché nel contesto
socio economico dell’epoca un problema di tutela si poneva soprattutto per loro; il lavoro autonomo si
contrappone al lavoro subordinato nella logica del cc, ed era considerato una condizione lavorativa che non
necessitava di particolari tutele perché chi esercitava un’attività di lavoro autonomo poteva ottenere con le
proprie competenze e il proprio lavoro un livello di benessere adeguato e alto, quindi non necessitava di
tutela. Perciò il diritto del lavoro nasce sulla base di questa fattispecie e per tutelare i lavoratori subordinati.

Oggi i termini della questione sono molto cambiati, se da un lato permane una consistente quota di
lavoratori dipendenti subordinati e in quest’area si pongono continuamente nuovi problemi, però non è più
vero che il lavoro autonomo è garanzia di un livello di benessere elevato e di una condizione economica
medio-alta. Perché abbiamo, tramite le rivoluzioni tecnologiche, la crescita di attività che si fa fatica ad
inquadrare nella subordinazione dal punto di vista giuridico, ma che richiedono esigenze di tutela analoghe,
perché il mondo del lavoro autonomo è cresciuto oltre a quelle che erano le professioni tradizionali
(professioni liberali, medici, avvocati, notai), e perché molte situazioni di piccoli imprenditori, come il
terziario e commercio al dettaglio, sono stati stravolti dall’evoluzione del sistema produttivo. Prima i piccoli
negozi fiorivano, oggi si trovano in difficoltà a causa dei grandi magazzini, quindi categorie che prima si
garantivano un buon livello di reddito, oggi sono in difficoltà, e la pandemia ha reso questa situazione
trasparente, cioè pure preesistendo ora è ben visibile e si sono previste diverse misure dal legislatore in
emergenza.
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Oggi il diritto lavoro guarda anche a questi lavoratori autonomi, il segno più evidente di questa evoluzione è
la Legge 81/2017 che ha introdotto per la prima volta delle regole di tutela per questi lavoratori.
Generalmente prima di questa data, le tutele laddove previste erano dal lato previdenziale, cioè pensione,
infortunio, maternità, malattia, ecc., mentre con questa legge c’è evoluzione almeno dal punto di vista della
ratio della legge (al di là dell’adeguatezza o meno delle tutele), è una svolta almeno concettualmente. Il
lavoro subordinato non è più soggetto esclusivo del diritto del lavoro, ma a pieno titolo vi entrano anche i
lavoratori autonomi.

Prima di analizzare la definizione notiamo che il Libro V si apre con Capo I (disposizioni generali), Capo II
(Delle ordinanze corporative e degli accordi economici collettivi), Capo III (Del contratto collettivo di lavoro
e delle norme equiparate  queste norme sono abrogate con caduta ordinamento corporativo, ad
esempio l’art 2077 di cui avevamo parlato, che comunque è preso come norma di riferimento dalla
giurisprudenza ancorché si ritenga pacificamente che sia stato abrogato, perché sia il Capo II che il Capo III
fanno riferimento all’ordinamento corporativo)

Vediamo l’art 2094. Questa è una norma cardine; per capire cosa intendiamo quando diciamo che il diritto
del lavoro si costruisce sulla fattispecie del lavoro subordinato, è che la regola generale è questa, nel
momento in cui accerto l’esistenza del rapporto di subordinazione, l’effetto giuridico che ne consegue è
l’applicazione di tutta la normativa di tutela, cioè non è possibile selezionare e applicare alcune norme e
non altre, l’impostazione del cc, poi seguita con l’evoluzione delle leggi speciali, è che alla constatata
esistenza del rapporto subordinato segue come effetto l’applicazione di tutta la normativa di tutela. Questo
oggi può creare problemi perché comunque la situazione è molto variegata, ci sono tante situazioni
diversificate mentre un tempo c’era l’operaio, l’azienda, il lavoro che veniva fornito era molto omogeneo.

Nella sistematica del codice al Libro V nel Titolo II abbiamo l’imprenditore, i collaboratori dell’impresa, la
disciplina del rapporto, e poi il lavoro autonomo nel Titolo III, vediamo ART 2222 come viene definito il
lavoro autonomo:

“Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro
prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le
norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV.”

Cosa significa questa norma? Che la logica del cc contrappone le due ipotesi di prestatore di lavoro
subordinato e di contratto d’opera, che è una prestazione, opera o servizio reso senza vincolo di
subordinazione. Secondo questa logica il lavoro autonomo fuoriesce dall’ambito dell’impresa e della
collaborazione all’impresa, cioè egli non è collaboratore dell’imprenditore. Quali sono le disposizioni riferite
al lavoro autonomo? Sono pochissime. (vedi Titolo III quanti artt. ha, ), perché c’è questa differenza tra
lavoro subordinato e autonomo? Perché qui si riflette la differenza di situazione socio-economica di cui
parlavamo. Chiarito questo, proviamo a leggere l’art 2094 (vedi sopra):

“È prestatore di lavoro subordinato…”

Qui è un contratto che fa nascere l’obbligazione di lavorare in forma subordinata? Questo art NON ci dice in
via diretta che il prestatore di lavoro subordinato è tale in forza di un contratto come nel contratto di opera
(art 2022), però c’è qualcosa che ci potrebbe indurre ad affermarlo con certezza? “che si obbliga mediante
retribuzione” non c’è definizione di tipo contrattuale però comunque si parla di obbligarsi, però se si
obbliga si tratta per forza di un contratto? Presuppone per forza l’esistenza di un contratto? Qui si parla di
obbligazione, ma questo non è un elemento che ci può portare ad affermare con certezza che è il contratto
la fonte, l’origine dell’obbligazione e della subordinazione perché le obbligazioni non nascono solo da
contratto! Possono nascere da fatto illecito, legge, ecc. (vedi art 1173, fonti delle obbligazioni). Qui abbiamo
una definizione che non è costruita in termini di relazione contrattuale; ciò ha aperto una discussione
dottrinale e giurisprudenziale consistente nei primi decenni successivi all’emanazione del cc, in ordine al
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fatto se il rapporto di lavoro, la relazione giuridica di lavoro subordinato nascesse da contratto o no. La
soluzione oggi è assolutamente assodata, cioè che sia l’accordo fra le parti, cioè il contratto, a fare nascere
le obbligazioni corrispettive di lavorare collaborando nell’impresa alle dipendenze del direttore, e di
retribuire il lavoratore; in realtà un dato normativo da cui lo si può desumere è l’ART 2126:

“La nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha
avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa.
Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni
caso diritto alla retribuzione.”

Questa disposizione conferma l’origine contrattuale dell’obbligazione perché parla esplicitamente di


contratto, afferma e presuppone esistenza di un contratto di lavoro. Cosa implica questo articolo? Qual è la
ratio?

Esempio. Assumo e poi il contratto è accertato che sia nullo, quindi se avesse efficacia ex tunc la nullità non
dovrei pagare la prestazione che già ha compiuto il lavoratore. Tutto ciò avvantaggerebbe il datore di
lavoro, l’obbligazione di lavoro è di facere, quella di pagare è di dare. L’obbligazione di facere non può
essere restituita ma quella di dare sì. La norma esclude che nullità e annullabilità producano effetti normali
quindi ex tunc, per evitare un danno al lavoratore e un vantaggio al datore. Deroga alla disciplina generale
della nullità e annullabilità del contratto.

Sono poche situazioni in cui questa norma viene applicata in concreto.

Domande:

- Tornando all’art 2094, il prestatore di lavoro subordinato, chi è il prestatore? Cioè persona fisica,
giuridica? Se fisica chiunque può prestarla? O ci sono condizioni affinché contratto sia
legittimamente stipulato?
- Si obbliga mediante retribuzione, cosa vuol dire dal punto di vista della struttura di questo
contratto che c’è un’obbligazione che sorge mediante retribuzione? È possibile che non ci sia
retribuzione? È possibile prestazione di lavoro subordinazione che sia prestata gratuitamente?

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