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Si educa quando si è disposti a cambiare se stessi.

Chat di prof. Mi arriva la canzoncina sul COVID nella scuola, quella che dice: “Se alle scuole
dell’infanzia c’è anche solo un positivo…”
Bellina, più chiaro che il dpcm. E la inoltro, come da prassi, a collega di musica. È divertente,
insegnala che almeno non mi fanno altre domande su dad e quarantene, che non se ne può più.
Una faccina che ride (più di cortesia che per rispondere), e ciao.
Ma meno male non va sempre così.
C’è chi mi fredda: eh no, non ci rido. La collega di musica non ci sta all’ironia facile, non trova da
riderci.
Gusti diversi? Snob? Rigida? Non lo so, e non è questo il punto.
E’ che è interessante.
Se non altro per una risposta nuova e contro corrente.
Mi piacciono le persone che non accondiscendono, mi interrogano. Ne è nato un dialogo vero. Con
a tema il problema del vivere per i nostri alunni. Un fatto piccolo e normale, ma che mi ha ricordato
quanto sia bello il lavoro dell’insegnante. E’ bellissimo il lavoro dell’insegnante, ti costringe
sempre a cambiare. Questo ti riaccende, ti rimette in pista. Non ti cambiano i ragazzi perché
studiano, fanno domande intelligenti, si comportano bene (questo è il fantastico mondo dei Puffi, se
un educatore si aspetta che succeda così, sarà perennemente depresso). Sei tu che se cambi, magari
puoi coltivare più pazientemente e attendere altrettanto pazientemente un passo nel percorso di uno
studente. Riguardo i lavori dei ragazzi, ripenso alle loro domande con un affondo nuovo. E ho
voglia di essere in classe questo lunedì mattina, per cercare di rispondere, di aiutarli a grattare sotto
la superficie, di costruire su quell’accento di verità che ho visto almeno una volta in loro.
Al confronto, il testo del nuovo ddl sulla scuola, mi sembra già vecchio.
Ho letto i passaggi del ddl sull’introduzione sperimentale delle “competenze non cognitive”, che ora
passerà al Senato, contro la dispersione scolastica. E cosa sarebbero queste “competenze non
cognitive”? Il testo esemplifica con parole come “amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva,
apertura mentale”. Aspetti per i quali, in una situazione particolarmente difficile come la pandemia,
saranno dedicate delle ore di scuola. Spero di sbagliarmi, ma da insegnante dentro la scuola che ne
ha viste e ne vede, a me cadono le braccia. Già il fatto che certi aspetti dell’umano si trattino come
“competenze” e soprattutto “non cognitive” dovrebbe sollevare delle perplessità solo a livello
concettuale. Ma, ahimè, ormai ci siamo abituati al pedagogichese nella scuola. Temo, come già
accade, che si arrivi, dagli alti intenti degli esperti, a una nuova e dannosa riduzione in burocrazia.
Tradotto: molto –e stucchevole- didattichese, regole poche chiare e nuova burocrazia, fiumi di soldi
per progetti, formazione degli insegnanti. Che cosa arriverà direttamente ai ragazzi? Potrà esserci
un cambiamento? Non so se si possa cambiare un aspetto umano ope legis. Nell’educazione è
sempre un rapporto che cambia, come nel dialogo con la collega che, pur partito dal niente, mi ha
sorpreso. E come noi anche i ragazzi: uno può essere disposto a cambiare non perché convinto da
discorsi o progetti scolastici, ma perché vede cambiare –e ripartire- chi gli sta davanti.

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