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I POETAE NOVI. Tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C.

, ispirandosi a modelli e concezioni d’arte poetica


provenienti dall’ambiente culturale grecoalessandrino, si era affermata a Roma una nuova forma di poesia: si
era rivelata subito di natura essenzialmente lirica e soggettiva, libera e staccata dalla tradizione culturale
romana e, soprattutto, decisamente innovatrice, in quanto leggera, disimpegnata, talora persino morale o civile
(oltre che sempre elegante e raffinata, ricercata e ricca di grazia e spensieratezza). Quel che più distingue i
poeti novi dai loro non lontani precursori è la presenza in essi di una maggiore consapevolezza critica e
letteraria e la loro comune volontà di un più serio e polemico impegno programmatico, sia ai fini della rottura
con la tradizione e del rinnovamento culturale romano, sia ai fini dell’affermazione del valore assoluto
dell’individuo e della sua indipendenza spirituale e culturale nei confronti della società e dello Stato.

Il nome di poetae novi o, con parola greca, neòteroi fu dato loro, in chiave ironica e dispregiativa, da Cicerone:
quei giovani poeti potevano costituire un effettivo pericolo per la vita dello Stato, col loro crescente
atteggiamento critico di rifiuto, non solo della cultura romana tradizionale, ma anche dello stesso Stato, delle
sue istituzioni e delle tradizioni politiche e morali sulle quali si reggeva la società romana, entrò in aperta
polemica con essi e prese a ridicolizzarli. In realtà, però, questi nuovi poeti rappresentano un nuovo capitolo
della letteratura latina, fatto di individualismo e crisi interiore a causa del periodo storico, la fine della
Repubblica. Con essi il distacco dal mos maiorum appare netto, soprattutto nel disimpegno civile. Si tratta di
anime stanche della letteratura al servizio dello Stato e si collegano direttamente alla lezione degli alessandrini,
scegliendo però solamente alcuni aspetti. I poetae novi si richiamano all'esperienza di Callimaco. Il loro ideale è
la brevitas, il breve carme pieno di dottrina e cura formale. Oggetto del loro canto è il mito, nei suoi aspetti più
umani e meno conosciuti. Vengono cantati i miti d'amore e di dolore, dietro ai quali si celano le personali
esperienze. Conoscono la brevissima struttura dell'epigramma, in cui racchiudono un piccolo respiro dell'anima
o una "bagattella" (le nugae), ma anche l'epillio, ricco di erudizione mitica e finezza espressiva. Nell'eloquenza i
poetae novi si rivelarono atticisti, in filosofia affini all'epicureismo, per la propensione all'edonismo (ma non
dimentichiamo che Epicuro aveva condannato il sentimento amoroso) e il vivo senso dell'amicizia. Il loro merito
fu quello di aver portato a Roma i tratti più genuini dell'alessandrinismo e averlo reso in chiave introspettiva.

Il movimento acquista consapevolezza piena e maturità di pensiero e di ideali umani e letterari con Catullo che
dà un’impronta caratteristica al movimento, accentuandone lo spirito polemico e la definitiva e risoluta volontà
di rottura con lo Stato romano, le sue istituzioni, il suo costume, le sue tradizioni politiche, sociali, morali e
religiose. Il poeta greco cui più si ispirano i neòteroi è, senz’ombra di dubbio, Callimaco di Cirene (III secolo
a.C.). Egli rivendicava l’autonomia dell’arte, sostenendo che essa doveva essere libera da ogni impegno o
funzione civile o morale o altra finalità educativa, dovendo rispondere, invece, solo alla funzione di lusus, cioè
di puro «gioco» o diletto dello spirito e ravvisava allora la necessità di una nuova poesia, diversa, leggera e
disimpegnata, di breve ispirazione, preferibilmente lirica e soggettiva, ricca di grazia e ricercatezza formale. I
poetae novi ritenevano che ormai nell’epoca loro non vi era più spazio per il poema epico di tradizione
enniana, inteso a celebrare le glorie dello Stato, ma che occorreva, invece, un nuovo tipo di poesia, di
argomento breve e non più eroico o storico ed impegnato, una poesia, preferibilmente intima e soggettiva,
nella quale risultasse al centro dell’ispirazione il poeta stesso, cioè l’individuo, con i suoi problemi, le sue
necessità spirituali, il suo mondo interiore, la sua vita. Essi costituiscono pertanto una vera e propria
avanguardia letteraria, formata da giovani poeti spregiudicati e anticonformisti, animati da ferma volontà di
rottura con l’antica cultura, specie quella di Stato, sprezzanti e polemici con i tradizionalisti ancora legati ad
essa e a quei principi politici e morali da essi giudicati ormai obsoleti. Impegnati a sostenere e a diffondere con
vigore nuovi modelli o ideali umani e letterari, questi giovani poeti sono consapevoli e orgogliosi, infine, di
costituire un’élite intellettuale, che è riuscita ad elaborare concezioni poetiche nuove, di portata davvero
rivoluzionaria. Rivelano infatti il conflitto tra la società e l’artista, con la ribellione di quest’ultimo al mondo che
lo circonda, dal quale non vuole lasciarsi condizionare o assorbire, con la conseguente ricerca di un’arte nuova,
non più rivolta ai benpensanti uomini di cultura tradizionale, ma a pochi spiriti congeniali e mirante ad
affermare la libertà d’ispirazione. Inoltre, i poeti delle due avanguardie letterarie, quella latina antica e quella
italiana moderna, hanno in comune l’insofferenza del passato, la ricerca del nuovo e, soprattutto, entrambe,
esprimendo una medesima crisi che da storica è diventata esistenziale, rifiutano l’arte come fatto «sociale» e
rivendicano il diritto del poeta ad esprimere solo se stesso e la propria individualità. I poetae novi, con la loro
inquietudine interiore, con i loro atteggiamenti polemici, con la loro vita agitata, il loro anticonformismo, le loro
scontentezze e insoddisfazioni, lo spirito beffardo e dissacratore, l’esasperato individualismo, sono gli amari
interpreti e testimoni della grave crisi storica, morale ed esistenziale che affligge l’età cesariana. Poeti originali
e innovatori, i neòteroi mancò a essi, tuttavia, una fede, un ideale superiore di vita. La filosofia loro più
congeniale fu, naturalmente, l’epicureismo, che, proprio nell’esaltazione dell’individualismo e nella rinuncia ai
grandi ideali o ambizioni, nell’invito alla vita appartata, priva di turbamenti o passioni, lontana dai tumulti
cittadini e tesa solo a conseguire i quotidiani, piccoli e grandi piaceri naturali e necessari all’esistenza, aveva
scoperto e indicava a tutti il segreto dell’umana felicità. Per le loro concezioni artistiche, i poetae novi si
ispirano agli ideali letterari e all’arte del poeta greco Callimaco e agli altri poeti alessandrini del III secolo a.C.

1) Rifiuto della poesia epica, cioè del poema in esametri di tradizione enniana, impegnato a celebrare le glorie
della patria, e ripudio, in genere, di ogni altro tipo di poema lungo: inoltre, il poema epico, essendo per sua
stessa natura e vocazione d’argomento solenne e impegnato, dovendo rispondere ad una funzione didascalica,
risulterà prolisso, noioso e barocco, difetti ai quali non è riuscita a sottrarsi tutta la precedente poesia arcaica.

2) Preferenza, invece, per la poesia breve e disimpegnata: la brevità è per essi garanzia di durata o continuità
d’ispirazione. Di qui, le preferenze per una poesia leggera, delicata, spesso ironica, sempre elegante, piena di
grazia e raffinatezza, di gusto fine, ricca di cultura e di sapienza tecnica. I componimenti preferiti sono le nuga,
«giochi» o «scherzi» poetici, cioè le poesie intese come lusus («gioco») e, perciò, brevi e di argomento leggero
e avranno tanta parte nel liber di Catullo; oppure, i carmina docta, cioè i poemetti di più grande (entro certi
limiti) lunghezza o impegno, di ispirazione erudita e mitologica

3) Autonomia dell’arte, per cui, la poesia deve essere priva di impegno, fine o preoccupazione civile o morale o
religiosa. L’arte, e la poesia in specie, deve essere fine a se stessa e deve essere intesa come lusus, cioè un
«gioco», uno svago o puro diletto dello spirito, priva di alcuna finalità didascalica.

4) Gli argomenti e i temi della poesia neoterica sono tenuti, disimpegnati, per lo più a carattere soggettivo o
mitologico. L’impegno del poeta neoterico, pertanto, è solo culturale o letterario e si risolve, se il tema è
mitologico, nella ricerca del mito più raffinato, raro o meno conosciuto. Per i poeti antichi, infatti, la conoscenza
della dottrina mitologica corrisponde al possesso di una cultura vasta e profonda.

5) Il poeta novus è soprattutto un uomo di grande cultura, un poeta doctus, cioè un erudito, ricco di cultura e di
conoscenze tecniche, metriche e letterarie, esperto conoscitore e ricercatore delle tradizioni, delle leggende e
dei miti greci più strani e sconosciuti, più rari, preziosi e significativi.

6) Lo stile del poeta novus è sobrio, semplice, elegante, ma improntato ad un’estrema cura e ad un accentuato
rigore di ricercatezza formale, di gusto e maniera tipicamente alessandrina, e caratterizzato da lunga e
studiatissima elaborazione, da perfezione tecnica e metrica, da ricchezza di erudizione, fatta di frequenti
citazioni colte (specie nei carmina docta).

7) Nella lingua il poeta novus si serve di un linguaggio composito, pur esso ricercato, fatto di voci comuni o
tradizionali, che si alternano o si intrecciano con altre di natura arcaica o colta ed elevata, o con altre
originalmente coniate per l’occasione dal poeta stesso, o, con altre attinte dal linguaggio popolare, per
arricchire di vigore o colorito l’immagine. La lingua dei neòteroi risulta, pertanto, semplice e nello stesso tempo
costruita, vivace e colorita, raffinata ed elegante, colta e insieme popolare, sicuramente originale e innovatrice.
Molto frequente è l’uso di diminutivi, impiegati per conferire maggiore grazia e delicatezza al racconto poetico.

8) I generi letterari preferiti dai neòteroi sono: l’epigramma, breve, ma ricco d’intensità concettuale e
sentimentale, di argomento vario, più frequentemente amoroso e soggettivo; l’elegia, riservata a vicende
mitologiche di contenuto amoroso e passionale o, più spesso, al racconto di vicende sentimentali, o di tristi e
dolorose esperienze di vita del poeta stesso; l’epillio, il piccolo componimento epico in esametri, di argomento
mitologico, tendente a cogliere motivi o aspetti secondari e poco noti del mito, specie quelli di natura non
propriamente eroica, ma idillica o patetica e sentimentale.

In conclusione, la poesia neoterica nasce come lusus letterario da una profonda esigenza di rinnovamento e di
disimpegno civile e morale; essa si configura come poesia dotta, frutto di grande erudizione e di accentuato
virtuosismo tecnico, sempre ricercata ed elegante, sia che seriamente s’impegni nel racconto mitologico, sia
che scanzonatamente si trastulli nell’elaborazione delle nugae; con essa il poeta latino rivendica il proprio
diritto ad essere un uomo, un individuo, una persona, prima ancora che un civis romano, emancipandosi così
da ogni condizionamento da parte dello Stato e da ogni sudditanza ad esso, per poter dare libero sfogo alla sua
vocazione letteraria e per potersi spingere finalmente anche a raccontare le proprie vicende personali, ad
esprimere anche il proprio mondo interiore, le delusioni o le attese, i rancori o le pene o le gioie, insomma, i
più profondi o segreti e personali moti dell’anima.

CATULLO

La vita, la poesia lirica e il contesto romano. Gaio Valerio Catullo è nato a Verona tra gli anni 87 e 84 a.C.,
morendo ancora molto giovane nel 54 a.C. Ebbe una raffinata educazione letteraria sia greca sia latina e
frequentò gli ambienti letterari e mondani di Roma, scegliendo l’otium letterario e stringendo amicizia con
importanti autori. Il tema principale delle sue poesie è l’amore contrastato nei confronti di Lesbia, uno
pseudonimo che richiama la poetessa Saffo e dietro cui è stata identificata Clodia. Tuttavia Catullo non fu un
autore romantico, follemente innamorato della sua bella, che interiorizza e assolutizza i drammi d’amore. La
poesia di Catullo è letteratura, sfoggio di bravura artistica rivolto a un pubblico colto di letterati e poeti (un vero
e proprio gruppo di amici, detti “poetae novi“, con una definizione che è addirittura dispregiativa). La poesia
lirica si sviluppa in Grecia in contesti aristocratici molto legati a dinamiche cittadine e politiche. Solo con il
passare dei decenni gli argomenti si allargano sempre più, toccando vertici artistici significativi in due poeti
dell’isola di Lesbo: Saffo e Alceo. La dipendenza di Catullo, che aveva approfonditamente studiato la traduzione
letteraria greca, da questi modelli traspare anche dalla scelta dello pseudonimo con cui chiama una delle sue
donne: Lesbia, cioè “dell’isola di Lesbo”, è chiaramente un’allusione a Saffo, di cui il poeta rielabora un celebre
testo nel carme 51. Se la letteratura latina predilige i temi impegnati civilmente e che celebrano la grandezza
del mos maiorum romano, contrapponendolo alle mollezze orientali e greche sempre più di moda anche a
Roma, nella seconda metà del I secolo a.C. iniziano a svilupparsi alcuni circoli di giovani poeti che rivendicano
una nuova forma di poesia e di vita, contrapponendosi in maniera esibita e a tratti violenta alle norme
tradizionali, che trovano per esempio in Cicerone l’emblema dei “vecchi brontoloni”, incapaci di godere il
presente e la pienezza delle passioni. Catullo è proprio uno di questi poeti ribelli, che scardinano la consueta
visione del mondo romana per esaltare un vitalismo istintivo e totalizzante, almeno a parole.

Il Liber. Della produzione poetica di Catullo sarebbero probabilmente rimasti solo pochi frammenti, come è
avvenuto per gli altri "poeti nuovi", se nel Trecento non fosse stato ritrovato un manoscritto con le sue poesie.
Il manoscritto, il cosiddetto "Codice Veronese" fu copiato e poi perduto. Le liriche del manoscritto non furono
pubblicate dall'autore, ma raccolte dopo la sua morte in un Liber che comprende 116 carmi, suddivisi in tre
gruppi, a seconda del metro adoperato e dei caratteri stilistici.

Il primo gruppo comprende componimenti brevi (le nugae), scritti in metro vario (trimetro giambico, saffico,
coliambo, prevalentemente, l'endecasillabo falecio; nella raccolta vi sono ben 14 metri diversi, alcuni dei quali
usati per la prima volta nella letteratura latina.), il secondo gruppo (carmina docta) include i carmi dal 61 al 68;
si tratta dei componimenti più lunghi e più complessi, sia dal punto di vista contenutistico sia da quello
stilistico, infine al terzo gruppo appartengono ancora carmi brevi, in forma di epigrammi, brevi liriche in distici
elegiaci di argomento prevalentemente erotico.

Tolti i carmina docta, che sono degli epilli (cioè dei brevi poemi epico-didascalici), gli altri componimenti
catulliano si contraddistinguono per la brevità (brevitas) e l’apparente leggerezza, tratti tipicamente ellenistici,
dietro cui, però, c’è un raffinatissimo lavoro poetico (labor limae) e una fitta trama di echi letterari. Le nugae
sono poesie brevi, per lo più legate ad un’occasione immediata, i carmina docta al contrario, appaiono più
difficili, di più ardua interpretazione, qui l’elaborazione letteraria, il ricorso al mito, l’accuratezza formale sono
le costanti di maggior rilievo.

I carmina docta. Gli scrittori antichi consideravano Catullo un doctus, come tutti i poeti nuovi, cioè un poeta
che non solo aveva una perfetta conoscenza dei miti, ma anche grande finezza ed eleganza formale, e lo
ritenevano grande soprattutto per i carmina docta. La nuova poesia di Catullo e degli altri poetae novi aveva,
per certi aspetti, alcuni precedenti di rilievo nella tradizione romana. Già con Ennio erano comparsi generi
letterari nei quali la vita del poeta aveva larga parte , e cioè le satire e gli epigrammi. Lucilio, il primo grande
autore di satire, il poeta che ne definisce i caratteri, pone come argomento di poesia la propria esperienza.
Nei neoteroi i motivi nuovi si precisano, l’ideale poetico callimacheo, che auspicava una poesia breve, elaborata
e raffinata, viene definito e realizzato. E, ancora, lo stesso concepire la poesia come lusus, soltanto come
diletto, diventa un motivo costante del circolo neoterico e in particolar modo di Catullo.

La parte centrale del canzoniere catulliano è occupata da otto carmi. Si tratta di componimenti elaborati ed
accurati, dove accanto ai motivi personali o autobiografici è avvertibile, la doctrina del poeta e la sua
erudizione. Catullo in questi carma dotti prende a modello la poesia ellenistica.

Le nugae e gli epigrammi. I componimenti della prima e terza sezione sono carmi brevi, schiette espressioni
dei sentimenti di Catullo, che mette a nudo il proprio animo. Le tematiche sono la sua passione per Lesbia e la
vita mondana di tutti i giorni, con le amicizie, i pettegolezzi, le invettive, gli scherzi e le polemiche letterarie,
insomma un ritratto di grande vivacità di tutta l'alta società romana che il poeta frequentava. Le liriche per
Lesbia sono in tutto 25 e costituiscono un breve, sincero diario dell'impetuosa passione amorosa che travolge il
poeta fin dal loro primo incontro. È un amore sensuale, delirante per una donna la cui bellezza vive nei versi di
Catullo, anche se non vi è nessun accenno ai suoi tratti fisici. È gioia di stare insieme, è desiderio di intimità;
tutti devono sapere di questa loro relazione, in modo che gli invidiosi si consumino per la rabbia e i
benpensanti moralisti si turbino. Ma i momenti di felicità si alternano a quelli di sconforto: Lesbia è una donna
volubile, che non si sottrae ad altri uomini; così la relazione più volte si rompe e nascono la gelosia, l'odio e le
invettive contro i rivali in amore; più lei si allontana, più il poeta si sente attratto. Poi più volte avviene la
riconciliazione, il ritorno ai momenti appassionati. Le liriche rispecchiano l'esaltante e dolorosa varietà di stati
d'animo, in cui si alternano tristezza e gioia, riso e pianto, speranza e delusione, esplosioni di giubilo e tristi
pensieri sull'infedeltà della donna. Infine il distacco definitivo, la nostalgia e lo struggente rimpianto. L’amore è
per Catullo un foedus, un patto inviolabile di reciproca stima e di attaccamento incondizionato.

Gli altri carmi catulliani, che sono i più numerosi, sono poesie d'occasione e presentano le stesse caratteristiche
formali dei modelli adottati da tutti i "poeti nuovi". Compare sempre lo spirito arguto, malizioso, ma anche
pensieroso e malinconico di Catullo, uomo passionale e impetuoso, che mette nelle proprie liriche tutto il
complesso mondo dei suoi sentimenti, dall'amore all'odio, dalla delicatezza alla denigrazione. L'amicizia è uno
dei temi principali del canzoniere catulliano, quella soprattutto per i neóteroi, un'amicizia alla quale si
abbandona con fresca ingenuità e profondità. Come per tutti gli altri poetae novi, anche quella di Catullo è
poesia di circolo: i poeti legati da quegli ideali comuni di vita avevano l’abitudine di indirizzarsi reciprocamente
messaggi poetici. E’ verosimile che i componimenti di ciascuno fossero sottoposti al giudizio degli amici, che a
loro volta rispondevano in poesia o trattando lo stesso argomento o commentando la poesia dell’amico.
Talvolta l’arguzia di Catullo diventa scherzo vero e proprio, ma accanto all’ironia, Catullo sa anche porre
considerazione sulla condizione degli amici e sulla sua.

LA DEDICA A CORNELIO NEPOTE(CARME 1). Il carme, proemio del liber catulliano, è una dedica all’amico
Cornelio Nepote (100 ca. - 27 ca. a.C.), suo conterraneo e autore di una storia universale per noi perduta
intitolata Chronica, oltre che della più nota raccolta biografica De viris illustribus. Cornelio era anche un
estimatore di poesia e aveva incoraggiato Catullo a comporre versi, che il poeta chiama nugae, ovvero “cose da
poco”, “bazzeccole”. Con questo termine egli indica con professione di modestia la sua produzione leggera e
poco impegnata (con una sorta di captatio benevolentiae, quindi), ma al tempo stesso prende velatamente di
mira la poesia epica e polemizza con chi, come Cicerone, denigrava il nuovo modo di comporre dei poetae novi.
Del resto anche il diminutivo libellus suggerisce che la sua opera non è un pesante volume di molte migliaia di
versi (cosa da evitare secondo Callimaco, poeta greco del III secolo che è uno dei modelli di Catullo), ma una
composizione agile, accurata e rifinita nei dettagli (v. 1: “lepidum”; v. 2: “pumice expolitum”).

La struttura e le scelte stilistiche stesse di questo carme, che pure vuole dare impressione di spontaneità e
immediatezza, sono frutto di una precisa elaborazione formale: i primi due versi hanno per oggetto il liber di
Catullo, mentre i vv. 3-7 riguardano la figura di Cornelio, la sua opera storica e il suo interesse per le nugae. Con
una composizione di tipo circolare si torna infine al libellum (v. 8), ricordato dapprima con modestia (v. 8:
“quidquid”; v. 9: “qualecumque”), poi sottoposto alla protezione della Musa (v. 9: “patrona virgo”), la quale ne
garantirà la sopravvivenza.

VIVAMUS, MEA LESBIA, ATQUE AMEMUS (CARME 5). Nel carme 5 del Liber catulliano assistiamo al trionfo
dell’amore tra Catullo e Lesbia; è questo il primo componimento che celebra la forza delle passioni in maniera
spensierata e gioiosa (con toni antitetici a quelli, ad esempio, del carme 85). La poesia si costruisce così su due
perni fondamentali: la celebrazione dell’equazione vita-passione, così che le critiche dei benpensanti siano da
paragonarsi ad un assis, ad una moneta di pochissimo valore, e la consapevolezza della fugacità dell’esistenza:
se quest’ultima è breve come un giorno, allora conviene non perdere nemmeno un istante di possibile felicità.

Il corpo centrale del testo è occupato dall’accumulo dei baci scambiati con Lesbia, che il poeta si diverte a
contare ed enumerare sotto forma di elenco. Il tutto si risolve, negli ultimi versi, nella “beffa” nei confronti di
chi augura il peggio ai due amanti felici: Catullo e Lesbia gettano all’aria le somme dei baci, per non far sapere a
nessuno quanti essi davvero siano. Dal punto di vista stilistico, il carme 5 si caratterizza per uno stile semplice e
colloquiale, come se si trattasse di un invito rivolto a Lesbia stessa: si noti l’uso dei congiuntivi esortativi (
“Vivamus [...] atque amemus”) e dell’imperativo ( “Da mi basia mille”), la scelta di termini tipici del parlato (v.
7: “basia”, l’esclamazione al v. 3) alternati a termini tecnici o specialistici ( “conturbabimus”; v. 12: “invidere”), il
ricorso ad una sintassi piana e costruita prevalentemente per paratassi, in cui è rilevante il ricorso dell’anafora.

Mea Lesbia: apostrofe di Catullo alla donna amata, Lesbia, pseudonimo letterario con cui il poeta nasconde la
reale identità della destinataria del testo. Il nome è strettamente connesso a Saffo, poetessa greca VII-VI secolo
a.C. originaria dell’isola di Lesbo, nota per le poesie erotiche e amorose (e per la leggenda che la vuola suicida
per amore). Se Saffo è quindi figura centrale per la lirica d’amore, il nome Lesbia evoca qui grazia, bellezza,
fascino e intelligenza. La donna, il cui vero nome era Clodia, apparteneva all’aristocrazia romana, e venne
coinvolta in diversi scandali dell’epoca. Era la moglie di Quinto Metello Celere, morto nel 59 a.C., forse
avvelenato dalla donna stessa. Catullo, a quanto sembra, iniziò con Clodia una relazione basata sulla passione e
l’eros che si evolve e per il poeta diventa un rapporto esclusivo, basata su un vincolo matrimoniale (in latino,
foedus). Per questo, quando Lesbia abbandona il poeta per un’altra relazione, Catullo parla di doloroso
tradimento del foedus d’amore, come emblematicamente espresso nel carme VIII e nel carme 85 (Odi et amo).

Vivamus e amemus: si tratta di due congiuntivi esortativi che evidenziano le due parole-chiave del
componimento: “vivere” ed “amare”, per il Catullo innamorato, sono sostanzialmente la stessa cosa.

Assis: “asse”; si trattava di una moneta originariamente del valore di una libbra, ma il cui valore si andò
riducendo nel tempo, diventando termine popolare per indicare una moneta di poco valore.

est dormienda: la costruzione perifrastica passiva dà una sfumatura di inevitabilità al destino di morte che
attende l’uomo; tanto più vale allora godere delle gioie dei baci di Lesbia.

Usque: “fino a”, ma anche “continuamente”, “senza interruzione” per specificare la gioia del poeta.

Conturbabimus: futuro indicativo del verbo conturbo, composto da con- e turbo (turbo, turbas, turbavi,
turbatum, turbare); il significato di “turbare, sconvolgere, mettere in disordine” in questo caso assume una
sfumatura ironica e giocosa: Catullo vuole rimescolare e scombinare i conti dei baci tra lui e Lesbia.

Invidere: i significati del verbo invideo, invides, invidi, invisum, invidere sono molti (“fare il malocchio”, “avere
sentimenti ostilità”, “invidiare”, impedire”), ma qui Catullo privilegia il significato originario di “gettare la
sfortuna contro qualcuno” per sottolineare la malevolenza di chi invidia la felicità di Catullo e Lesbia.

FIGURE RETORICHE. v. 2 senum severiorum scambio continuo di baci tra il poeta e la donna
OMEOTELEUTO in –um e ALLITTERAZIONE di “m”, “s” amata.
“r”, vuole rendere onomatopeicamente le chiacchiere ANALISI MORFOSINTATTICA v. 2 severiorum:
e i pettegolezzi dei vecchi; gli antagonisti dell’amore d comparativo assoluto = troppo severi v. 3 unius …
Catullo e Lesbia sono sia chi è anziano (nel mondo assis: genitivo di stima v. 5 nobis: è dativo d’agente
romano, si era senex dopo i sessantanni) sia chi fa i voluto dalla perifrastica passiva dormienda [est] v. 7
conservatore moralista. v. 4 soles: i “soli” sono una mi = mihi basia = baci. Il vocabolo basium compare
METONIMIA classica per i dies, cioè i "giorni”. v. 5 lux per la prima volta qui, in letteratura. Nel latino
METONIMIA per dies. vv. 5-6 occidit brevis lux, / nox classico si diceva osculum. Forse ha origine celtica ed
… perpetua: CHIASMO. Nox: la “notte” metafora è poi entrato nell’uso comune delle lingue romanze v.
della mors, la “morte”. Antitesi tra fine del 5 (lux) e 10 dein: forma sincopata per deinde. vv. 8-10 mille…
inizio del 6 (nox), segnati da due diversi momenti de centum…: il ripetersi delle cifre conferisce al passo
giorno e dell’esistenza. Nei versi 4-6 viene espresso un andamento martellante v. 11 conturbabimus:
topos molto caro ai poeti latini del godere e conturbo è termine tecnico = confondere i conti.
approfittare della breve vita che è concessa all’uomo Forse in relazione a fecerimus del v. 10 nel senso
che si ritrova anche in Orazio, Carpe diem. v. 6 tecnico della lingua finanziaria di “sommare” vv.
perpetua una: ASINDETO v. 10 cum milia multa 11-12 ne sciamus … ne … possit: finali negative v. 13
ALLITTERAZIONE vv. 8-9 ANAFORA, sottolinea lo cum … sciat: cum narrativo (valore eventuale)
basiorum: genitivo partitivo retto da tantum (= tot
basia)
ILLE MI PAR ESSE DEO VIDETUR (CARME 51). Il Carme 51 ha importanza decisiva nel Liber sia da un punto di
vista letterario, poiché manifesta un legame molto stretto con la tradizione della lirica greca e in particolare con
la poetessa Saffo (che, ha influenzato generazioni successive di poeti, basti pensare all'Ultimo canto di Saffo di
Leopardi), sia poiché segna un momento decisivo del rapporto con Lesbia, quello del primo innamoramento.
Anche nel rapporto con Lesbia riecheggia il legame con la poesia di Saffo. Un altro segnale dell'influenza della
poetessa greca è riscontrabile nel metro utilizzato in questo carme, chiamato strofa saffica minore. Un ulteriore
elemento è dato dalla tematica del carme, che si configura come un recupero, in lingua latina, di un'ode della
stessa Saffo. Pochi testi sono stati tanto letti, imitati, parafrasati o tradotti come l’ode 31. Composta dalla
poetessa Saffo la poesia è la più celebrata non solo della letteratura greca, ma addirittura di quella mondiale.
L’ode è stata intesa dalla critica ora come epitalamio, canto della gelosia, della beatitudine, canto d’amore o di
consolazione. Tra tutte queste ipotesi risulta più attendibile quella secondo la quale si tratti di un canto
d’amore in cui beato è colui che siede di fronte alla fanciulla, l’ascolta mentre parla dolcemente e ride
amorosamente.

Nel I sec. a.C. a Roma emerge una nuova generazione di poeti chiamati neoteroi che manifestano l’esigenza di
modernizzare il gusto letterario del tempo proponendo una poesia come frutto dell’ otium in cui si mostra
interesse per la dimensione privata e i sentimenti, in primis l’amore. Tra i poeti più interessati al rinnovamento
della cultura romana, che mostra apertura all’ellenizzazione della società romana, incontriamo Catullo.

L’incipit del carme 51 di Catullo risulta sovrapponibile all’ode 31 di Saffo, ma già dal v. 2 il poeta latino si
distacca dalla lirica greca passando dall’assimilazione al superamento del dio e dando più spazio all’uomo (che
“guarda e ascolta”, mentre in Saffo “ascolta” soltanto) e meno alla donna. Così, in un climax crescente
sovraccarico di pathos, l’io lirico esprime tutto il furor, l’insania, come fosse una malattia mentale che turba e
sconvolge ogni ordine o regola sociale: la lingua si paralizza, il sintomo della febbre si insinua nell’intimo, gli
occhi si coprono di tenebre. Questo amore irrazionale esclude l’uomo da vincoli matrimoniali (Clodia è una
matrona dell’alta società romana) e fa sprofondare il poeta in uno stato di intorpidimento. Si può notare al
termine del carme 51 come, distaccandosi totalmente dal modello greco, condanna l’otium perché è causa
della sua malattia d’amore. L’otium esalta la vita disimpegnata e dedita alla soddisfazione dei pulsioni e desideri
individuali, allontana il civis romanus dagli impegni pubblici. L’otium è molesto perché ha sconvolto la vita del
giovane Catullo che sogna, nonostante tutto, di poter stringere con la sua Lesbia un foedus (patto) d’amore.

Catullo sta rivisitando l’ode 31 della poetessa greca Saffo, che racconta di una ragazza che si allontana dal
thiasos (la “scuola” gestita da Saffo) per sposarsi. Rispetto a Saffo, Catullo ha creato una nuova composizione
mirata a rafforzare il testo greco con sfumature più negative e drammatiche. Inoltre, l’elemento della gelosia
non è effettivamente presente: la poetessa di Lesbo compone una sorta di epitalamio – un inno matrimoniale –
dotato di una componente di gelosia nei confronti del marito della sua ex-studentessa e vi inserisce uno sfogo
passionale e un’analisi introspettiva; il poeta romano, invece, dedica il componimento all’amata Lesbia, da poco
conosciuta e per la quale sta provando le prime pulsioni d’amore. La comunanza tra i due componimenti risiede
pertanto nel turbamento sentimentale, cioè in quelle pulsioni del cuore del poeta, sconvolto dinanzi a qualcun
altro che guarda e ascolta Lesbia. Tutti i suoi sensi sono stravolti: la voce scompare, la lingua si inceppa, un
fuoco scorre sotto la pelle, gli orecchi hanno il loro suono sottile, la vista si appanna. L’amore è visto come una
sorta di malattia, una sindrome che infetta non solo l’anima ma anche il corpo, arrivando ad annullare persino
la ragione del poeta (fenomenologia psicosomatica). L’ultima strofa non è tratta da Saffo ma è una completa
innovazione del poeta, che riflette sull’otium, che considera come la colpa della sua rovina.

Fin dall'inizio del testo possiamo percepire la presenza di un rivale ideale, che assume una condizione di
assoluta beatitudine pari a quella della divinità, un ille che si contrappone al poeta suscitando la sua gelosia.
Pervade poi l'immaginario poetico il viso della donna sorridente, secondo un'immagine che verra ripresa secoli
più tardi dai poeti dello Stilnovo. Ancora, il riferimento ai costumi romani e al disvalore che rappresenta
l'otium, rimandando a una presa di coscienza dell'autore circa l'irregolarità della propria vicenda amorosa.
Dal punto di vista retorico fin dalla prima riga si presenta un'antitesi tra l'ille e il poeta, rafforzata da
un'ulteriore serie di figure retoriche e sintattiche. La sintassi della prima strofa è lineare e presenta figure
retoriche come l'anafora, il climax o l'ipallage, mentre a partire dal quinto verso la sintassi comincia a farsi più
contorta e prendono piede figure retoriche capaci di esprimere la confusione di sensazioni che prova il poeta, si
va quindi dall'anastrofe, all'iperbato, al chiasmo, a figure retoriche sonore come l'allitterazione.

FIGURE RETORICHE: vv. 1-2 ille … ille: ANAFORA forma arcaica v. 3 qui : pron. relativo anticipato dai
(assente in Saffo) v. 5 misero quod omnis: ANASTROFE due ille sedens: part. pres. da sedeo, legato al qui
vv. 6-7 simul … aspexi: simul è in ANTITESI con precedente adversus: val. avverbiale = di fronte
identidem v. 9 lingua sed torpet: ANASTROFE = sed identidem v. 5 ridentem: part. predicativo di te (v.3),
lingua torpet v. 10 sonitu suopte: ALLITTERAZIONE vv con costruzione grecizzante, regge l’accusativo neutro
9-10 tenuis … flamma: IPERBATO v. 11 tintinant avverbiale dulce misero: concorda con mihi (v.6)
ONOMATOPEA vv. 11-12 gemina … lumina nocte quod misero … (quod ha valore dichiarativo = la qual
ENALLAGE l’aggettivo gemina dovrebbe riferirsi a cosa, la cosa che) vv. 6-7 simul te …/aspexi;
lumina (i due occhi) ma è riferito a nocte (duplice congiunzione temporale, introduce il perfetto
notte), lumina e nocte costituiscono un OSSIMORO iterativo (aspexi) che esprime anteriorità vv. 7.8 nihil
(accostamento di termini antitetici) vv. 13-15 est super mi <vocis in ore>; l'odio è congetturato;
ANAFORA (si vuole sottolineare il valore che pe vocis è genitivo partitivo che dipende da nihil mi =
Catullo ha l’ozio, inteso come occasione per dedicars mihi V. 14 otio: ablativo di causa gestis: ind. pres.
all’attività poetica) con POLIPTOTO v. 15 POLISINDETO 2^p.s. da gesto, is, gessi, gestum, ere = agitarsiv. 15
perdidit: perf. gnomico2 = fece perdere = mandò in
ANALISI MORFOSINTATTICA v. 1 mi = mihi; dipende rovina; da perdo,is,perdidi,perditum,ere
da videor costruito personalmente v. 2 divos = deos

CARME 72. Per comprendere la poetica amorosa di Catullo si ricorre spesso all’antinomia (cioè alla
contrapposizione quasi antitetica) tra amare e bene velle, che proprio in questo testo viene esplicitata. Tutto il
carme è giocato su forti antitesi, a partire dalla contrapposizione tra il passato (scandito dagli avverbi quondam
e tum) e il presente (si noti il fortissimo Nunc che apre, simmetricamente, la seconda metà della poesia al v. 5).
Catullo, credendo alle vuote promesse di Lesbia, rivelatesi poi solo parole (Dicebas, v. 1), aveva stabilito un
legame amoroso concepito come un vero e proprio foedus, un patto sacro e inviolabile, fondato sulla fides (la
“lealtà”) e affidato alla protezione degli dei. In questo amore trovavano conciliazione e completamento sia la
passionalità erotica (amare), caratteristica delle libere relazioni extraconiugali (come, in ogni caso, doveva
essere quella tra Catullo e Lesbia, se mai esistettero e la donna e la loro storia d’amore) e un sentimento più
serio e profondo, di stima e affetto (bene velle), paragonato a quello che si nutre nei confronti dei propri
familiari e degli amici più stretti. Nel momento in cui, però, la donna si è rivelata per quello che è veramente, in
maniera inequivocabile (te cognovi, in cui la scelta lessicale del verbo difettivo con valore riflessivo non lascia
più alcuna possibilità di successive correzioni positive), quel foedus amoroso si rivela inconsistente, violato dai
tradimenti della puella. Catullo si ritrova così in quella scissione interiore che già aveva contraddistinto il carme
VIII: analizzando le proprie reazioni interiori, il poeta non può che avvertire la lacerante contraddizione tra il
desiderio sensuale, che sopravvive e anzi divampa sempre più, e l’affetto, che non solo scema ma lascia
addirittura spazio al disprezzo (es vilior et levior, v. 6).

Nel descrivere il passato di illusioni, Catullo sembra cogliere soltanto adesso la reale consistenza dell’iperbolica
affermazione di fedeltà per cui la donna non avrebbe preferito congiungersi nemmeno a Giove – per altro
seduttore e traditore per eccellenza nella mitologia classica – piuttosto che al poeta. Molto interessanti
risultano anche altre scelte lessicali nei primi versi: nosse, infinito perfetto sincopato del verbo difettivo novi
(ripreso poi al v. 5 dal poliptoto cognovi), fa riferimento a una conoscenza carnale, in una concretezza ben
evidente anche nell’infinito tenere. Studiata e topica è anche la contrapposizione tra l’amore raffinato ed
elitario del poeta e quello del vulgus (v. 3), che infatti rivolge la propria attenzione a donne di dubbi costumi
(amica indica anche, piuttosto spesso, l’amante prezzolata). Catullo, spinto da una sorta di giustizia a reprimere
e eliminare il bene velle a fronte dell’iniuria della puella (v. 7), è comunque afflitto dalla sofferenza d’amore,
espressa secondo il topos del bruciare (uror, v. 5).

Il carme LXXII può essere accostato al LXXVI, in cui Catullo, esaminando la propria condotta, può rivendicare di
aver sempre osservato i sacri doveri della pietas e della fides (risemantizzati in ambito amoroso rispetto alle
originarie valenze giuridico-sociali), a fronte di un atteggiamento ben diverso dell’amata. Questa drammatica
contrapposizione, a cui segue un’altra esortazione a lottare e sconfiggere la tormentosa passione (cfr. anche il
carme VIII), non deve tuttavia farci cadere nell’errore di interpretare fedelmente le affermazioni del poeta, né
in senso autobiografico quali vicende e reazioni a fatti reali né in senso intimistico quali sincere espressione di
sentimenti autentici: basta accostare questi testi legati drammatici ai ben più numerosi di invettiva o riferiti a
tanti altri partners amorosi per trovare un Catullo ben diverso, molto meno sentimentale e molto più
erotomane o comunque leggero, poco turbato dalla promiscua continua alternanza di amicae e amici.

Il carme 72 di Catullo non ha come focus primario la figura di Lesbia, seppure apostrofata dal poeta. Il carme,
piuttosto, offre una distinzione semantica dei termini "amare" e "bene velle", da non intendersi quali sinonimi
interscambiabili. Esemplare è l'ultimo verso, come pure tutta la serie di vocaboli contrapposti, appartenenti alle
due sfere (dell'amore filiale e dell'amore passionale). Lesbia appare in questo componimento come una figura
indifferente, del passato, lontana (il distacco è reso magistralmente da Catullo, con la contrapposizione di tempi
verbali e avverbi di tempo). Anche la domanda, che Catullo immagina gli sia rivolta dalla donna, è segno di
questa distanza. Si può dire che lesbia emerge, rievocata nell'atto di infedeltà ("iniuria talis") già avvenuto e nel
cambiamento di sentimento per lei (mutato dal voler bene all'amore passionale della carne, "impensius uror").

FIGURE RETORICHE: v. 3 tum te non tantum: v. 2 velle tenere: idem v. 3 ut vulgus amicam: sott.so
ALLITTERAZIONE v. 4 impensius uror: METAFORA. diligit (modale) V. 4 gnatos = natos (forma arcaica) v. 5
L’amore è visto come la fiamma che brucia impensius: comparativo dell’avverbio impense. uror:
l’innamorato v. 4 sed pater ut = sed ut pater indicastivo presente, I pers sing passiva da
(ANASTROFE) v. 6 multo mi (=mihi) tamen: uro,is,ussi,ustum,ĕre = bruciare v. 6 multo: avverbio in
ALLITTERAZIONE. vilior et levior: OMOTELEUTO vv. –o perché seguono due comparativi (vilior e levior) v.
7-8 talis / cogit: ENJEMBEMENT 7 qui = quomodo (come?) vv. 7-8 quod… cogit:
causale v. 8 velle: infini
ANALISI MORFOSINTATTICA v. 1 solum te nosse
Catullum: infinitiva retta da dicebas (nosse = novisse
presente da volo,vis,volui,velle = volere

CARME 75. Il carme 75, formato da due soli distici elegiaci – secondo la prassi metrica che compone la terza
sezione del Liber catulliano (detta degli “epigrammata”) -. Al centro del testo vi è la contrapposizione tra
l’amare, la forza passionale che non viene meno neppure di fronte all’incostanza e ai tradimenti di Lesbia, e il
bene velle, un affetto profondo e nobile, paragonabile a quello dell’amore filiale, che risulta ormai impossibile.
A tal punto Catullo non è più padrone di sé che non può più né voler bene alla donna né smettere di amarla.
L’assurdità di questi sentimenti contrastanti trova poi una celeberrima affermazione nel carme 85, nel quale
Catullo si chiede come tutto questo sia possibile: lui non sa trovare una risposta, ma sente che è così e ne
subisce un tormento). In questo carme 75 il poeta si sofferma unicamente sull’impossibilità di cambiare la
propria condizione, nemmeno qualora Lesbia si riveli quella che ha dimostrato di essere. Catullo ci fa capire che
l’amata non è affatto l’optuma (cioè la migliore), lasciandoci intuire che non può nemmeno diventarlo, e che
non può nemmeno riuscire a spegnere l’ardore della passione erotica, qualsiasi cosa compia.

COME UN FIORE RECISO (CARME 11). Furio e Aurelio, sedicenti amici di Catullo, si dicono disposti a seguirlo
ovunque. Il poeta ironizza sulla loro esagerata disponibilità, elencando le tappe di questo improbabile viaggio:
viene così introdotta una ricca serie di nomi di luogo e di popolo, che dovevano suonare esotici e preziosi al
pubblico di Catullo. Questi termini sono poi arricchiti da epiteti altisonanti (sagittiferos, v. 6; septemgeminus, v.
7) che ne amplificano l’effetto. Alcuni dei popoli indicati da Catullo corrispondono ai limiti del mondo
conosciuto ai suoi tempi (gli Indi all’estremo oriente, gli Sciti al nord, i Britanni all’estremo occidente): quello
immaginato da Catullo è quindi un viaggio impossibile, all’altezza delle grandi imprese di Cesare. La parte finale
dell’ode corrisponde al messaggio per Lesbia che Catullo affida ai due “amici”: il contenuto è tutt’altro che
gentile e si accompagna a uno stile ben diverso da quello altisonante dei versi precedenti. Catullo si serve di
espressioni della lingua d’uso come l’augurio (sarcastico) vivat valeatque; il termine ingiurioso moechus, un
grecismo molto volgare e dispregiativo che indica il “donnaiolo”; il numero iperbolico di trecento (gli amanti
che Lesbia abbraccerebbe tutti insieme); la cruda espressione ilia rumpere per indicare l’atto sessuale.

In contrasto con le espressioni di insulto rivolte a Lesbia, l’ode si chiude con un’immagine delicata, quella del
fiore reciso, che simboleggia qui l’amore di Catullo, devastato dalla brutalità della donna. La similitudine del
fiore falciato dall’aratro era già stata impiegata dalla poetessa greca Saffo (VI secolo a.C.), a cui qui (in un’ode
saffica) il poeta evidentemente allude: “come sui monti i pastori calpestano con i piedi il giacinto, e a terra il
fiore purpureo cadde”: si tratta probabilmente di un’immagine di verginità perduta, che Catullo adatta qui a un
significato diverso. Il carme presenta quindi una notevole varietà di toni che Catullo governa con grande abilità:
il tono “alto” e solenne (anche se velato di ironia) delle prime tre strofe, quello volgare e “basso” del messaggio
a Lesbia e quello lirico ed elegiaco della conclusione. Ancora una volta Catullo riesce a esprimere insieme molti
concetti nei suoi versi. Il tema che si nota è quello principale dell’azione che si sta compiendo a svolgere (il
viaggio) che lo porterà verso regni lontani ed esotici; la verità però è che il viaggio non è assolutamente il tema
principale della poesia “come un fiore reciso” ma come nella maggior parte dei suoi carmi più famosi il vero e
autentico tema è l’amore e la sofferenza per il non essere corrisposto dall’amata. Un tema secondario ma
comunque importante è il conforto dato dagli amici, loro davvero leali e pronti a stare di fianco a Catullo in ogni
insidia, al contrario dell’amata (probabilmente Lesbia) che invece viene messa in contrapposizione, circondata
da amanti e distante da qualsiasi azione del poeta, diciamo insensibile, diciamo crudele.

Catullo sa bene quale sia il suo destino come amante, ma pur dovendo partire e arrivare per terre a lui ignote.
non perde occasione per cercare di far sentire “in colpa” l’amata, che invece probabilmente si limita a giocare
con lui. Si prova molta tristezza nel fatto che lui provi un sentimento vero e autentico verso di lei, raro a trovarsi
specie fra gli amanti di lei (per Catullo non “veri” o “autentici” nell’amore) e nella superficialità con cui al
contrario LesbIa vive i rapporti amorosi. Catullo prova a “spaventare” la ragazza facendole capire che il suo
amore per lei non è scontato e che lui sa benissimo quale sia il vero spirito di Lesbia, poco nobile. Le cose che
abbiamo le rivalutiamo solo quando le abbiamo perdute e l’amore di Catullo, Lesbia non lo riavrà mai più in
quella forma autentica e incredibile in cui lui l’offriva a lei in precedenza: ora è caduto ormai come un fiore
reciso dall’aratro. L’amore, bello, come un fiore, e l’aratro, raccoglitore, veloce e insensibile, come Lesbia.

Innanzitutto bisogna menzionare Furio e Aurelio, invocati da Catullo a inizio Carme per recapitare un
messaggio a Lesbia. Il tono si abbassa di colpo nella penultima strofa, dove è contenuto il messaggio da riferire
a Lesbia, dove sono presenti termini piuttosto volgari.Nell'ultima strofa si trova però un ulteriore cambiamento
di tono, con la delicatissima immagine del fiore divelto dall'aratro (immagine che avrà grande fortuna e verrà
riproposte nelle opere di molti altri poeti, tra cui Virgilio).

In ultimo vengono evidenziate varie figure retoriche, tra cui l'anafora, l'iperbole, l'onomatopea, il chiasmo e
l'iperbato. Fine di un amore, qui in rima con fiore, e come lui avvizzito al tocco dell’aratro all’estremo confine di
un prato, che rimanda ad altri confini, all’immensità di altri spazi e pericoli, che la millantata fedeltà di amici
perfidi si dichiara pronta ad affrontare, e che Catullo usa invece a suggello di un foedus che i continui
tradimenti di Lesbia e l’iniuria di amici e comites hanno definitivamente spezzato. Anche la metrica sottolinea il
carattere anulare che il carme acquista: la strofe saffica, impiegata nel carme 51 a rivelare i sintomi
inequivocabili della passione, illumina qui il degrado morale della puella odiosamata ed irride ironicamente
all’enfasi di una amicizia, che si protesta “globale” in quella sua fantastica galoppata ai confini del mondo, con
la stringata brevità di un messaggio che i non bona dicta scandiscono in immagini lapidarie. Un turbinio di
corpi, spossati e spezzati in un ritmo erotico convulso, che non può trovare appagamento, perché l’unico
amore, quello vero, delicato come un fiore, giace reciso ai margini di un campo.

Esiste per questo carme, a differenza di tanti altri, un preciso riscontro cronologico, che permette di fissarne la
data di composizione. Il riferimento alle imprese di Cesare in Gallia ed in Britannia nell’estate autunno del 55
a.C. consentono infatti di collocarne la stesura sul finire dello stesso anno, a pochi mesi quindi dalla scomparsa
di Catullo. Nuclei tematici: un lungo periodo si snoda dal primo verso al 14, costituendo un ampio e crescente
periodo ipotetico in cui comites è l’apodosi e ben 5 le protasi. Con il v.15 si passa alla seconda parte, slegata
dalla prima per scelta espressiva, e in cui le immagini crude quanto più gridate tanto più celano la sofferenza di
un distacco definitivo.

CARME 13. Nel carme 13 Catullo invita a cena Fabullo, suo carissimo amico, ma essendo in quella circostanza
senza quattrini, lo prega di portare tutto il necessario per la cena ed in più una candida puella; in compenso
riceverà amore sincero ed un profumo che, al solo sentire l’odore, Fabullo vorrà diventare tutto naso.

E’ facile constatare che, rispetto al ribaltamento e allo stravolgimento dei codici culturali o letterari, di più
difficile individuazione, la parodia dei modelli antropologici e comportamentali è indubbiamente più facile da
disvelare nel gioco comico, col ribaltamento di ruolo tra invitante ed invitato. In quest’ottica, infatti, l’invito,
attraverso una procedura parodica che ribalta un codice comportamentale, mira a scoraggiare il malcapitato
ospite e diventa per così dire un non-invito. Il motivo dell’«invito alla rovescia» è un topos tuttora vivo nella
tradizione popolare italiana. Nell’antichità, poi, la gag dell’invito a pranzo in cui non si mangia nulla e
l’aprosdoketon derivante dalla situazione, è un sicuro elemento di comicità. Il testo modello pare sia un
epigramma di Filodemo in cui il poeta invita il ricco Pisone al quale promette “genuini compagni e
conversazioni più dolci che al paese dei Feaci” senza alcun accenno infatti a cibo o ad altri beni materiali ed
esorta il suo protettore ad accettare l’invito perché con la sua sola presenza l’umile festa diventerà più ricca.

CARME 101. Componimento tra i più celebri e noti del Liber catulliano, il carme 101 affronta una tematica assai
intima e privata: il dolore per la morte del fratello. Il testo è costruito su una doppia dimensione: da un lato, la
ritualità funebre tradizionale (come si vede nell’uso dei termini: “inferias”; “postremo munere”; “prisco more
parentum”; “tristi munere”), che avvicina il carme 101 al genere dell’epigramma, dall’altro la spiccata sensibilità
del poeta che, pur consapevole dell'ineluttabilità del destino, cerca un’ultima possibilità di contatto con il
fratello. Da qui, la tensione ad “alloquere cinerem” (come se le ceneri del fratello potessero rispondere), il
rilievo alla sfera semantica del dolore e del lutto (“miseras inferias”; “mihi tete abstulit ipsum”; “heu miser
frater”, v. 6; “fraterno [...] fletu”, v. 9). In questo senso, l’atteggiamento di Catullo nel carme Multas per gentes
non è molto lontano dal Catullo che inneggia al trionfo felice dell’amore (come in Vivamus, mea Lesbia, atque
amemus) o da quello che si tormenta per i tradimenti della donna amata (come nel famosissimo Odi et amo):

Questo carme è un addio come pronunciato sulla tomba, in un sommesso colloquio con il defunto: il dolore,
come l’amore, è sentito ed espresso da Catullo al presente, con grande intensità e urgenza drammatica. Si può
affiancare questo carme al sonetto Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di Ugo Foscolo, in cui il modello
catulliano (quello di un’elegia funebre di stampo autobiografico) è ripreso in molti aspetti fondamentali (la fuga
“di gente in gente”, la morte del fratello giovane, il dialogo “col tuo cenere muto”) ma anche con significative
differenze: Foscolo, confrontandosi con la morte del fratello, si presenta come un esule cui il destino è avverso,
e prefigura per se stesso un simile, tragico destino.

La poesia pare nascere da un vero vissuto biografico di Catullo, che nella primavera del 56 a.C., ritornando dal
viaggio in Bitinia al seguito dell’amico pretore Gaio Memmio, passò nel luogo dove era sepolto il fratello da
poco morto. Il rimpianto del caro prematuramente defunto ritorna in diverse poesie, segno della ricorrenza del
pensiero. Tuttavia, pur in una situazione reale di dolore e di morte, il poeta resta fedele alla propria poetica
alessandrina e raffinata. La devozione amorosa di Catullo verso il fratello morto è in linea con la pietas della
moralità romana, per una volta non bistrattata o ironizzata: il poeta apre qui una porta sul suo senso religioso
degli affetti e dei legami famigliari, che lo spinge finalmente a rendere l’estremo omaggio alle ceneri del
congiunto, seguendo scrupolosamente il rito ancestrale. Il componimento assume così i toni di una breve elegia
funebre e si sottolineano le topiche fasi drammatiche del distacco (verbi abstulit e adempte) e il senso desolato
di vuoto comunicato dal silenzioso dialogo, quasi impossibile, tra vivo e scomparso.

L’espressione del v. 2 è conciso e sottintende il gerundivo ferendas, concordato con inferias (con cui sarebbe
anche in paronomasia). Le inferiae consistevano in offerte rituali di acqua, latte, miele, sale, olio e sangue di
vittime. Sulla tomba del fratello, molto lontano dalla patria e dai parenti, non erano mai state portate offerte
né, forse, si erano svolti riti funebri, celebrati invece poeticamente da questo carme di Catullo, che termina
infatti significativamente con la formula di commiato specifica dei funerali romani (ave atque vale), che veniva
ripetuta per tre volte nel momento in cui ci si distaccava dalle ceneri deposte nel sepolcro. L’immagine
metonimica e personificata della “muta cenere” (v. 4), che compare qui per la prima volta nella letteratura
latina, avrà poi grande successo, fino a essere ripresa dal “cenere muto” foscoliano de In morte del fratello
Giovanni. Un altro tema tipicamente elegiaco è quello delle lacrime che bagnano le offerte portate alle tombe.

Multas per gentes: metonimia usata da Catullo per indicare il lungo viaggio per molti paesi prima di giungere
alla tomba del fratello. L’uso dell’aggettivo multas, in forma iperbolica, serve a evidenziare l’intesità del dolore
del poeta di fronte alla morte del fratello, anche a causa della distanza che lo separa dalla tomba del fratello.
L’incipit del testo è molto curato dal punto di vista stilistico (come si conviene alla poetica dei neoteroi): si noti
l’anastrofe (ovvero l’inversione dell’ordine sintattico abituale) e il rimando intertestuale alle prime righe
dell’Odissea, dove la figura errante era quella di Ulisse. miseras inferias: il sostantivo inferiae, -arum indica
nello specifico le “esequie” o le “offerte votive” che tradizionalmente devono essere lasciate sulle tombe dei
defunti per le divinità dei Mani (ovvero le anime dei defunti). Si noti la figura retorica dell’ipallage, per cui il
poeta trasferisce alle spoglie del fratello l’aggettivo miseras (“triste”, “doloroso”) che in realtà descrive il suo
stato d’animo. postremo munere mortis: letteralmente “l’ultimo dono di morte”; Catullo si è recato sulla tomba
del fratello per rendere gli onori funebri - intesi qui come doni - al fratello. Il verbo donarem regge l’ablativo
della cosa donata ( il “postremo munere”) e l’accusativo della persona a cui si dona (“te”).

mutam cinerem: si tratta di una personificazione delle ceneri del fratello a cui il poeta si rivolge invano, dal
momento che non può più parlare con lui. Questo componimento e in particolare questo verso sono il modello
del sonetto di Ugo Foscolo In morte del fratello Giovanni. In questo caso il poeta romantico canta la morte del
fratello suicida, riprendendo l’immagine delle ceneri mute. fortuna: il termine ( “sorte, destino”) è un’ulteriore
personificazione, che ha crudelmente diviso Catullo da suo fratello, portandolo via e strappandolo da lui.

tete ipsum: “tete” è un costrutto rafforzativo del pronome te mentre ipsum ( “esso stesso, in persona”),
sottolinea ulteriormente la crudeltà della sorte; in questo verso e nel seguente si tocca insomma il vertice della
tensione drammatica e del dolore intimo del poeta. Si noti nella seconda parte di questo verso l’accumulo di
pronomi pronomi personali, come a mimare un dialogo impossibile tra Catullo e il fratello morto.

more parentum: il termine indica “l’usanza dei genitori”, ovvero i riti funebri tradizionali, in cui si prevede
un’offerta votiva e un sacrificio sulla tomba del parente defunto (solitamente costituito da doni quali cibo,
bevande o fiori). Per Catullo si tratta di un rito necessario ma inutile, dal momento che non riporterà in vita il
fratello, con cui ormai non ha più la possibilità di parlare; tutto il componimento si basa su questa opposizione
tra le formalità del rito funebre tradizionale e l’urgente necessità di un ultimo, impossibile contatto col fratello
defunto. ave atque vale: formula tradizionale di saluto ai defunti, che normalmente veniva pronunciata durante
i funerali; la forma completa è salve, vale, ave. Si tratta dell’ultimo saluto del poeta al fratello.

FIGURE RETORICHE: v. 1 Multas per gentes e indigne: avverbio = crudelmente adempte: participio
multa… : POLIPTOTO v. 2 has miseras… ad inferias perfetto da adimo, is, ademi, ademptum, ĕre =
ANASTROFE v. 7 prisco quae: ANASTROFE v. 9 multum togliere via, strappare, concordato con il vocativo
manantia: ALLITTERAZIONE. fraterno multum miser frater. v. 7 quae … tradita sunt: subordinata
manantia fletu: ALLITTERAZIONE oltre a quella già relativa. tradita sunt: indicativo perfetto passivo, 3^
rilevata fraterno…fletu, in struttura CHIASTICA. Tra pers. pl., da trado, is, tradidi, traditum, ĕre =
fraterno e fletu inoltre l’IPERBATO. consegnare, portare. tristi munere: ablativo di modo
ad inferias: riprende il v. 2 (complemento di fine)
ANALISI MORFOSINTATTICA v. 1 aequora: da v. 9 accipe: imperativo presente, 2^ pers. sing, da
aequor,ris = superficie piana. Qui si sottintende maris accipio, is, accepi, acceptum, ĕre = ricevere
e significa “mare” (distesa marina). vectus: participio (composto di capio). multum manantia: riferito a haec
perfetto = trasportare, farsi portare o viaggiare. v. 2 (doni). Manantia è un participio perfetto neutro pl. da
advenio: presente con valore perfettivo = sono giunto mano, as, avi, atum, are = trasudare, grondare.
has miseras…ad inferias = per queste tristi offerte Manare lacrimas = versare lacrime fraterno… fletu:
(complemento di fine). Inferiae erano le offerte ritua complemento di mezzo o causa v. 10 ave atque vale:
per i defunti. v. 3 ut te … donarem: sub. Finale con i formula di saluto presente nelle epigrafi sepolcrali e
congiuntivo imperfetto poiché il verbo reggente usata nei riti funebri. Poiché ave è il saluto che i
advenio ha valore perfettivo e quindi funge da tempo Romani usavano quando incontravano qualcuno
storico. munere: munus significa “dono” ma anche (simile al nostro “salve”) e vale invece veniva usato
“offerta rituale”. È usato in questo senso anche al v. 8 quando ci si congedava (simile al nostro “addio”,
v. 4 alloquerer: congiuntivo imperfetto retto da ut (v letteralmente significa “stai bene”), la formula rituale
4) come il precedente donarem. Il verbo deponente qui usata sta ad indicare l’impossibilità di un nuovo
alloquor (composto da ad+loquor) indica le parole che incontro con la persona defunta. Quindi equivale a un
accompagnano il rito funebre. v.5 quando quidem “addio per sempre”.
introduce una subordinata causale. tete
raddoppiamento del pronome personale di 2^
persona sing. te, ulteriormente rafforzato dall’ipsum
che è pleonastico (sovrabbondante). abstulit
indicativo perfetto da aufero (composto di fero)
generalmente si costruisce con a /ab+ablativo (a me
in questo caso) ma qui regge il dativo mihi. v. 6

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