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La vita non è scritta da nessuna parte

Ripensare la genetica, contro il determinismo: un’intervista al biologo e filosofo Jean-Jacques Kupiec, alla


ricerca di una teoria anarchica del vivente.
Giancarlo Cinini 

In una delle scene più note di Jurassic Park, il patron del parco di dinosauri clonati mostra ai suoi ospiti un
cartone animato che spiega al pubblico come siano riusciti a ricostruire il DNA di queste creature
preistoriche. Il protagonista del cartone è Mister DNA, un personaggio con le fattezze da doppia elica che
inizia a raccontare: “una sola goccia del tuo sangue contiene miliardi di filamenti di DNA, i mattoni coi
quali è costruita la vita. Un filamento di DNA come me costituisce il progetto di costruzione di un essere
vivente”. 
Che la vita sia iscritta nel DNA è d’altra parte una delle concezioni più popolari e diffuse quando si parla di
genetica. Secondo il biologo Jean-Jacques Kupiec, però, le cose potrebbero stare diversamente. Nel suo
ultimo libro, La concezione anarchica del vivente, cerca proprio di smontare l’idea che il DNA sia
un progetto di costruzione del vivente.
A partire dal differenziarsi delle cellule e dal loro organizzarsi, Kupiec ha sviluppato una domanda
epistemologica. Davvero il DNA determina, dà istruzioni, mette ordine nel vivente? Oppure è partecipe di
un processo più complesso, dove c’entrano il caso e l’adattamento delle cellule al proprio ambiente? 
Già l’epigenetica dà un ruolo all’influenza dell’ambiente nell’espressione dei geni. Questa scienza giovane
studia le alterazioni molecolari che avvengono sopra il DNA ma che non ne modificano la sequenza,
alterazioni capaci di favorire o impedire l’espressione di un gene e dovute all’ambiente: un trauma
ambientale come trovarsi a vivere in una carestia, per esempio, lascerebbe una sua traccia sulla superficie
del DNA. Ma Kupiec si spinge oltre.
Per Kupiec l’espressione dei geni è dovuta al caso, è stocastica, e il processo che porta dall’uovo fecondato,
all’embrione, quindi all’individuo (lo chiamiamo ontogenesi), “non è una diversificazione dell’azione dei
geni, bensì una riduzione del loro potenziale di variabilità”.

Lei parla di teoria determinista della genetica. Cosa significa?


La genetica dice che siamo determinati dai geni. Con la biologia molecolare, venuta poi, è apparso il
concetto di programma genetico: lo sviluppo dell’individuo è programmato ancor prima di esistere. La teoria
che invece propongo è che le cellule esistono all’inizio per loro stesse, reagiscono alle loro condizioni di
esistenza locali, qui e ora. È attraverso le relazioni sociali tra cellule che si costruisce un individuo. Noi
siamo persuasi che ci siamo solo noi, ma siamo società cellulari.

Si legge spesso sui titoli di giornale: scoperto il gene di… seguito da qualsiasi cosa: malattie,
comportamenti, tratti distintivi. Su Google, in italiano, si ottengono 4 milioni di risultati per la frase 
“trovato il gene”. Qual è l’idea che si muove dietro questa fiducia? Perché ci piace pensare che i nostri
geni possano essere responsabili di ogni tratto della nostra vita?
È un discorso che si fonda su ciò che i genetisti chiamano leggi, le leggi di Mendel. Tutti ne abbiamo sentito
parlare, penso, quando andavamo a scuola: è la storia dei piselli e di Mendel il monaco che faceva
ibridazioni con quelli. Sono leggi molto precise e dicono che gli esseri – all’inizio, erano solo i piselli ma
poi è stato generalizzato – sono così come sono in funzione della distribuzione dei geni. 
I semi dei piselli erano lisci o rugosi, le persone sono alte o basse, hanno questo o quel colore della pelle,
degli occhi, eccetera. In queste leggi l’ambiente non c’è. Da tempo sappiamo che non va così e si sono
moltiplicate le esperienze per cui quelle leggi non funzionano. Si è perciò tentato di dare spiegazioni di
compromesso, del tipo: c’entra il gene ma anche l’ambiente e i genetisti dicono che non siamo determinati
solo dai geni, ma ci sono per esempio fattori epigenetici. Convivono dunque due discorsi della genetica: una
genetica in senso forte, causale, quella delle leggi di Mendel, e una concezione debole della genetica,
l’epigenetica.
Non c’è forse in genetica un discorso simile a quello che vale per la fisica? Da anni si fanno sforzi per
unificare le due teorie, ma nel frattempo nei loro domini funzionano e dunque ci si dice, bene
possiamo comunque procedere. Qui invece c’è la teoria genetica e c’è l’epigenetica, un campo che
sembra promettente. Nella ricerca antitumorale, per esempio, si sperimentano farmaci che
intervengano proprio su quelle alterazioni molecolari sulla superficie del DNA, studiate
dall’epigenetica. Non è invece che il “discorso della genetica”, che lei contesta, regge perché in fondo
funziona?
Vero. Le biotecnologie esistono e hanno un’efficacia, non lo nego. Certo, se abbiamo osservato il DNA e i
nuclei è grazie alla teoria genetica. Ma penso sia anche grazie allo sviluppo tecnologico generale che
permette di guardare al vivente con strumenti sempre più precisi. Il fatto è che possiamo avere efficacia
tecnica anche con una teoria erronea. I romani sapevano fare catapulte molto efficaci, ma non sapevano di
gravità o meccanica, era fisica pre-galileiana. Penso che valga lo stesso discorso. Penso poi a un altro campo
di ricerca: il cancro, un problema legato alla multi-cellularità. Nella storia abbiamo isolato, per così dire, il
primo “gene del cancro” nel 1976, grazie a due ricercatori, Varmus e Bishop, che hanno preso il Nobel.
Quando è stato scoperto si diceva che era straordinario e che avremmo trovato la causa del cancro. Non è
andata così. Oggi accumuliamo nuovi geni del cancro, un altro e un altro ancora, e non siamo più così certi.
Tuttavia, ci sono stati dei progressi nel trattamento delle malattie, trattamenti fatti su saperi empirici, per
esempio migliorando le radiazioni, i trattamenti chimici. E però sono passati 45 anni e guardate oggi ai “geni
del cancro”: tutti i geni sono geni del cancro e non ne siamo ancora venuti a capo.

La chiama “anarchia del vivente”. Perché e in che modo queste “società cellulari” sono secondo lei
anarchiche?
Credo che sia letteralmente una concezione anarchica: anarchia vuol dire senza archos, ‘potere’, ma anche
senza arché, cioè ‘principio originario’, ciò che viene prima. In un individuo ci sono miliardi di cellule, tutte
derivate da una sola cellula, l’uovo fecondato, che si moltiplica, generando milioni di cellule, e poi miliardi
e sono tutte differenti e si specializzano: muscolari, del cuore, nervose, del cervello, del sangue. La grande
domanda è sapere come succede questo, come si specializzano e si organizzano? Nella teoria genetica
odierna il ruolo del DNA è quello di un principio direttore che dirige e che è anteriore a noi e tutto lo
sviluppo è regolato dall’informazione genetica. Invece le cellule, secondo un processo probabilistico,
esprimono delle proteine; in un primo momento, per così dire vanno a tentoni. Quando trovano la buona
combinazione, cioè dei geni che permettono loro di essere in relazione con il loro ambiente, si stabilizzano. 
Una cellula ha bisogno di molte cose per poter sopravvivere, metaboliti. Immaginiamo una cellula da sola:
ha accesso diretto ai nutrienti che si trovano nel suo ambiente. Ma se si moltiplica, ne nasce una piccola
sfera di cellule e avremo cellule all’esterno dell’embrione e cellule al suo interno. Le cellule dentro non
avranno più accesso ai nutrienti dell’ambiente esterno, ma solo a ciò che è trasmesso dalle altre cellule in
superficie. Dunque più la popolazione ingrandisce, più le cellule devono cambiare, non perché c’è un
programma ma perché l’espressione dei loro geni può cambiare in maniera casuale e questa espressione
viene selezionata dalle condizioni dell’ambiente interno, dai suoi vincoli. Grazie a questo processo aleatorio
si adattano al loro ambiente interno e sulla base di questo processo decentralizzato, locale, di relazioni tra
cellule, costruiamo il grande tutto dell’organismo.
Quindi ogni cellula non ha bisogno di un principio che la diriga, ogni cellula però è tributaria di ciò che
fanno le altre, esistono dunque vincoli, gradi di libertà, relazioni, perché ci sono scambi tra cellule che si
formano, come in una società. Semplicemente tutti questi scambi non sono diretti da uno stato centrale, che
è davvero un paragone usato del fisico Schrödinger, occupatosi anche di biologia. Nel suo libro What is life,
uscito nel ’44 e considerato antesignano della biologia molecolare, paragona i cromosomi agli uffici centrali
di un governo. 
E invece sostengo che non c’è governo. Ecco perché è una concezione anarchica. Ci sono molte versioni di
anarchia, è una parola a geometrie variabili, ma non si tratta di libertà assoluta o perfetto individualismo. Io
faccio riferimento alla concezione del filosofo e naturalista Kropotkin che spiegava che anche Robinson
Crusoe sulla sua isola non era del tutto libero, perché c’era un ambiente e delle relazioni con questo e altri
esseri.

E il DNA cos’è, se non è un principio d’ordine?


Il DNA esiste e ha un ruolo. È evidente che gioca un ruolo nella sintesi delle proteine, e questa è
un’acquisizione della biologia molecolare. Credo che l’espressione dei geni avvenga a caso, cioè un gene ha
sempre una probabilità di esprimersi, più o meno. Gli stimoli, ciò che il DNA riceve dalla cellula che a sua
volta riceve dall’esterno, non inducono la sintesi delle proteine, ma stabilizzano qualcosa che si produce
inizialmente secondo il caso. 
Nel nucleo delle cellule il DNA non è nudo, ma è in interazione con altre molecole e si forma una struttura
che chiamiamo cromatina. A seconda della configurazione, può prodursi la fabbricazione di una proteina
oppure no in una determinata regione del DNA. Ma questa struttura non è rigida, si muove in continuazione
perché tutte le interazioni molecolari, fisiche e chimiche, sono fondamentalmente aleatorie. Dunque,
spontaneamente il DNA nella cromatina può esprimere dei geni a caso e si formano configurazioni che si
stabilizzano grazie all’ambiente del nucleo, che è posto nell’ambiente della cellula, posta in quello
dell’individuo, posto nell’ecosistema. 
Con la teoria anarchica possiamo quindi fare una previsione precisa: quando le cellule si differenziano
produrranno proteine a caso e poi, una volta trovata la buona combinazione, adattate, si stabilizzeranno e
fabbricheranno solo quelle che gli permettono di essere in relazione con l’ambiente. Oggi abbiamo gli
strumenti tecnici per osservare le cellule una per una e quale gene si esprime e a quale livello di espressione;
poi possiamo fare un trattamento statistico e vedere in una popolazione di cellule qual è la variabilità
dell’espressione dei geni, la varianza. Se misuriamo la variabilità della sintesi delle proteine possiamo
prevedere prima un picco, seguito da una restrizione, che corrisponde alla fase di adattamento all’ambiente.

Sotto una sua intervista video su YouTube, in cui spiega queste cose, ho trovato un commento critico,
che immagino le rivolgeranno in molti. Recita: confondete il caso con ciò che non conosciamo. Faccio
l’avvocato del diavolo: e se fosse così?
È una questione di cui parlo nel libro. Ci sono persone che si chiedono se il caso è ontologico, oppure se è il
limite della nostra conoscenza.
Sappiamo oggi che nella natura ci sono molte cose che non possiamo trattare se non in maniera
probabilistica. Intendiamoci: quando diciamo che un sistema è probabilistico, non diciamo che è caotico e
che non ci siano condizioni materiali che determinano le probabilità; in un dado la probabilità è data dalla
struttura del dado. Le condizioni materiali d’esistenza e produzione dei fenomeni determinano le probabilità
e così appaiono certe regolarità. Un giorno forse avremo strumenti così precisi da prevedere tutte le
traiettorie possibili, ma oggi il dado è addirittura l’archetipo del fenomeno probabilistico. A me al momento
basta questo: per trattare casi in cui abbiamo cellule, molecole, macromolecole, e ciò che accade in tale
complessità, non possiamo fare altrimenti. È dimostrato sperimentalmente che c’è una variabilità
nell’espressione dei geni e per descriverla, credo, siamo obbligati a usare dei modelli probabilistici. Poi, se è
il limite della nostra ignoranza, può essere, ma nel giro di duecento anni non ci sarò più, lasceremo allora ai
nostri discendenti la discussione.

Accanto a Darwin, lei fa riferimento a un altro studioso dell’Ottocento, il medico Claude Bernard, e
alla sua visione decentrata del corpo per cui la vita risiede in ogni cellula e non è centralizzata in
nessun luogo. Bernard scrive “ciò che definisce il vivente è quello di avere un ambiente interno”.
Claude Bernard, sperimentatore e teorico, ha fatto molte cose e la sua opera non è omogenea, ma dice alcune
cose che mi interessano. Una delle grandi invenzioni concettuali di Bernard è il concetto di “ambiente
interiore”. Oggi è stato ridotto, il più delle volte, all’idea di omeostasi, cioè semplificando al fatto che
l’ambiente interiore resti costante. Ma lui piuttosto constatava soprattutto che le cellule si adattano al loro
ambiente interno, anche se non pensava che ci fosse una variazione aleatoria nel funzionamento delle
cellule. Diciamo, ho preso i principi generali di Darwin nell’idea di funzionamento delle cellule in rapporto
all’ambiente interno, introdotta da Bernard.

Di fronte a quest’idea del vivente, dovremmo ripensare il cancro?.


Sì, con un collega fisico, Bertrand Laforge, abbiamo fatto delle modellizzazioni su questa questione – un
modello è ovviamente una semplificazione che cerca di cogliere certi tratti pertinenti per comprendere il
reale. Così abbiamo usato un automa cellulare, non vere cellule: un’esperienza informatica che però ci può
servire da esperimento mentale. Ci siamo chiesti se le cellule che si comportano col modello darwinista
anarchico siano capaci di creare strutture organizzate come i tessuti e abbiamo osservato che, anche con un
funzionamento dei geni aleatorio, le cellule creano strutture organizzate che sembrano tessuti. In qualche
modo si raggiunge un equilibrio tra una tendenza aleatoria e la selezione operata dall’ambiente. Non solo,
creando una perturbazione, modificando certi parametri della simulazione, la proliferazione delle cellule
riprendeva e si formavano stati che somigliavano a tessuti cancerogeni. Ciò ci permette di pensare
diversamente la questione del cancro: cioè non semplicemente come a delle mutazioni in un gene, ma
piuttosto come a un equilibrio che viene per varie ragioni sconvolto. C’è un ecosistema in noi e quando c’è
un incidente, uno squilibrio in questo ecosistema può succedere che una specie proliferi più di un’altra,
come accade fuori da noi negli ecosistemi. Penso che questo sia importante, perché ci viene chiesto a che
serve concepire in modo diverso il vivente.

DOMANDE DI COMPRENSIONE
1. In quale paragrafo del testo sono enunciate le domande a cui l’articolo cerca di rispondere (il
PROBLEMA)? Individuale e sottolineale.
2. Sottolinea nella prima pagine le frasi che contengono la TESI di Kupiec.
3. Sottolinea nella prima pagina le frasi che contengono l’ANTITESI.
4. Quale legge scientifica è portata a sostegno della antitesi?
5. Perché l’esempio della ricerca antitumorale è usato da Kupiec per sostenere la tesi?
6. Cosa significa che “siamo società cellulari”? E in che senso queste società sono considerate
“anarchiche” da Kupiec?
7. Quale personaggio letterario è portato a sostegno di questa tesi?
8. Sei d’accordo con l’affermazione “confondiamo il caso con ciò che non conosciamo”?
9. Per quale motivo l’autore cita Darwin a sostegno della sua tesi? Secondo te, che cos’ha in comune
quest’ultima con la teoria dell’evoluzione?
10. Perchè la tesi potrebbe cambiare l’approccio, per esempio, alla cura del cancro?

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