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4.

1) Da crisi locale a conflitto continentale

L’attentato di Sarajevo

Il 28 giugno 1914 l'arciduca Fruncesco Ferdinadu d’Asburgo, erede del trono austriaco, fu ucciso insieme
alla moglie a Sarajevo, la capitale della Bosnia-Erzegovina annessa nel 1908 all'impero austro-ungarico. La
Bosnia era abitata per metà da serbi; l'attentatore dei delitti fu Gavrilo Princip, che venne immediatamente
arrestato. Per quanto Princip fosse un suddito austriaco e avesse agito in territorio austro- ungarico, il
governo di Vienna attribuì fin da subito la responsabilità organizzativa dell'assassinio alla vicina Serbia, nella
quale agiva la "Mano nera", una società segreta che rivendicava l'indipendenza dei popoli slavi dal dominio
imperiale. Il regno di Serbia, uscito rafforzato dalle guerre balcaniche del 1912-1913, era infatti divenuto il
punto di riferimento per i movimenti irredentisti, che sognavano di creare nei Balcani un grande State
slavo.

L’ultimatum dell’Austria-Ungheria alla Serbia e la dichiarazione di guerra

Al di là del reale coinvolgimento del governo serbo nell'attentato, in quel momento le accuse dell'Austria-
Ungheria erano certamente infondate. Per il Consiglio dei ministri austriaco, l'assassinio dell'arciduca era
l'occasione per eliminare una volta per tutte la minaccia serba ai confini dell'impero. Al governo di Belgrado
fu inoltrato un ultimatum, in base al quale Vienna esigeva una dichiarazione di condanna per l'accaduto e
l'impegno a procedere con rigore nei confronti dei responsabili. Inoltre i serbi devono accettare la presenza
sul proprio territorio dei funzionari austro-ungarici, che potrebbero collaborato all'inchiesta e alla
repressione del movimento anti austriaco: una richiesta che, intaccando la sovranità risultava
sostanzialmente inaccettabile. L'ultimatum fu dunque respinto e del paese, il 28 luglio 1914 l'impero
austro-ungarico dichiarò guerra alla Serbia. Una volta aperte le ostilità, i vari trattati d'alleanza stipulati
negli anni precedenti scattarono quasi automaticamente.

La reazione a catena delle potenze europee

Non è un caso che la scintilla della prima guerra mondiale sia scoccata nei Balcani, l’area più turbolenta del
continente europeo, a causa della competizione fra l'Austria-Ungheria, che intendeva far durare in eterno il
suo immenso impero multinazionale, e la Russia, che si ergeva a protettrice dei popoli slavi e mirava da
sempre a estendere il proprio ruolo in quell'area. La prima a muoversi fu proprio la Russia dello zar Nicola
II, che mobilitò immediatamente le proprie truppe a sostegno della Serbia. La risposta della Germania,
alleata dal 1879 dell'Austria-Ungheria, non si fece attendere: il 1° agosto dichiarò guerra alla Russia e il 3
agosto alla Francia, che aveva intanto decretato la mobilitazione generale. Immediatamente, le truppe
tedesche invasero il Lussemburgo e il Belgio, per procedere verso Parigi aggirando le fortificazioni
apprestate dalla Francia sul confine con la Germania. Questa aggressione, se da un lato sollevò un moto di
indignazione nell'opinione pubblica europea, dall'altro spinse la Gran Bretagna, a dichiarare guerra alla
Germania, schierandosi a fianco della Francia. Il 6 agosto anche l'Austria-Ungheria aprì formalmente
l'ostilità contro la Russia e il 23 agosto si unì all'alleanza anti germanica il Giappone, che mirava a scalzare le
postazioni tedesche in Estremo Oriente. Fu così che in poche settimane, in una spirale di reazioni e
controreazioni si trasformò in un conflitto mondiale.

Gli schieramenti belligeranti

La coesione nazionale

All’annuncio della guerra, nell’agosto 1914 le strade e le piazze di di molti paesi si riempirono di folle che
festeggiavano l’entrata in guerra. Non soltanto l’idea di un conflitto armato venne prontamente accettata
da larghi strati della popolazione, ma produsse un’ondata di frenesia ed esultanza e spinse migliaia di
persone a riconoscersi in un sentimento patriottico che superava qualsiasi appartenenza politica o sociale.
Le distinzioni di classe, di partito, di opinione parvero annullarsi di colpo di fronte a un fine superiore:
quello della difesa degli interessi nazionali.

L’appoggio alla guerra dei movimenti socialisti

Al momento dell’entrata in guerra della Germania, il Parlamento tedesco approvò i crediti di guerra
(stazionamenti straordinari votati dal parlamento per far fronte alle spese belliche) all’unanimità,
ottenendo il voto favorevole dei socialdemocratici. Fino ad allora, i movimenti socialisti avevano
contrapposto al sentimento patriottico il pacifismo e lo spirito internazionalista, considerando le guerre
l’espressione di una politica determinata dagli interessi della borghesia e a scapito del proletariato, in
quanto destinato per a subirne i maggiori costi umani ed economici. Con lo scoppio della guerra, invece, i
borghesi e i proletari di una nazione si unirono contro borghesi e proletari di altre nazioni, decretando così
la fine del movimento operaio europeo alla base della Seconda Internazionale. In molti paesi nacquero
governi di “unione nazionale”, dove forze politiche in precedenza antagoniste decisero di affrontare,
stringendosi insieme, la prova cruciale della guerra.

I volontari come fenomeno di massa

Lo spirito di fratellanza e solidarietà nazionale indusse molti civili a presentarsi come volontari per partire
immediatamente verso il fronte. In Gran Bretagna il ministro della Guerra lord Kitchener, che attraverso
innumerevoli manifesti incitava i passanti ad arruolarsi, riuscì ad arruolare entro il 1916 ben due milioni di
volontari. Agli occhi di quei giovani, per lo più di estrazione borghese, la partecipazione alla guerra appariva
non solo un dovere patriottico, ma anche un’occasione per liberarsi dalle vecchie convenzioni e dalla
routine quotidiana, per sfuggire al conformismo della vita civile. Inoltre, ad alimentare il volontarismo
contribuì il valore simbolico della guerra come rito di passaggio verso l’età adulta. Molto diverso, invece, fu
l’atteggiamento di operai e contadini, per lo più estranei alla caratteristica patriottica somministrata dalla
scuola e dall’ambiente familiare: per loro la partecipazione è un obbligo oppure una dura necessità per
sfuggire alla povertà.

Da guerra di movimento a guerra di posizione

L’illusione di una guerra breve: il piano Schlieffen

La maggior parte delle potenze coinvolte nel conflitto era già da tempo preparata a uno scontro nel cuore
dell’Europa, e in particolare lo era la Germania. La strategia di guerra tedesca, prevedeva di cogliere di
sorpresa la Francia, passando attraverso Belgio e il Lussemburgo per colpire il nemico dove era più debole,
una volta conclusa la partita sul fronte occidentale, il grosso dell’esercito tedesco si sarebbe concentrato a
est contro l’esercito russo. Sul versante della Francia, il cosiddetto Piano XVII prevedeva di concentrare le
forze nella zona della Lorena e parallelamente di rafforzare l’alleanza militare con la Russia, in modo da
agire con azioni coordinate sui due fronti. A sua volta il piano della Russia era di lanciare l’offensiva
soprattutto al confine con l’Austria-Ungheria, mentre il resto dell’esercito avrebbe attaccato la Prussia
orientale. Nel 1914 entrambi gli schieramenti, e in particolare gli Imperi centrali, erano convinti che la
guerra sarebbe durata solo qualche settimana, al massimo fino a Natale: ma le operazioni militari in Francia
misero in luce, fin da subito quanto le previsioni fossero sbagliate.

Il fronte occidentale

All’idea di una “guerra di movimento” elaborata da Schlieffen si attenne, il generale Helmuth von Moltke,
nipote del generale prussiano che aveva sconfitto la Francia nel 1870. L’esercito tedesco, composto di oltre
un milione e seicentomila uomini perfettamente addestrati e dotato di una formidabile artiglieria pesante.
Ma la sua avanzata attraverso il Belgio fu ostacolata da un’inattesa resistenza da parte delle truppe del re
Alberto I, cui si aggiunsero numerosi atti di sabotaggio che ritardarono di quasi due settimane la
penetrazione tedesca entro le linee difensive francesi. Alla fine lo schieramento militare francese
comandato da Joffre, soverchiato dalla potenza di fuoco delle truppe di von Moltke, fu costretto ad
arretrare. Ai primi di settembre l’esercito tedesco si trovava a pochi chilometri da Parigi; ma il suo
potenziale si era indebolito a causa della stanchezza dei soldati. Così le forze anglo-francesi riuscirono a
bloccare l’offensiva nella sanguinosa battaglia della Marna (6-12 settembre 1914), il primo micidiale scontro
della Grande guerra, che fermò l’avanzata nemica lungo i fiumi Aisne e Somme e pose fine alle speranze
tedesche di concludere il conflitto. Anche nella battaglia presso la città belga di Ypres, nelle Fiandre (21-23
novembre 1914), Francia e Gran Bretagna riuscirono a bloccare la “corsa al mare” dei tedeschi.

La guerra di trincea

Con la stabilizzazione del fronte occidentale, ebbe inizio una guerra diversa da tutte quelle combattute sino
a quel momento: la guerra di movimento si era trasformata in una “guerra di posizione”. Il rallentamento
delle manovre offensive portò infatti all’allestimento di trincee scavate nel terreno, concepite inizialmente
come rifugio provvisorio da cui muovere all’attacco, finirono per diventare la sede permanente dei reparti
di prima linea e il simbolo stesso della guerra. Nelle trincee i soldati trascorrevano lunghi mesi in condizioni
di estremo disagio, assaliti da topi e da parassiti, asfissiati dal fetore dei rifiuti e dal puzzo dei cadaveri.
C’erano poi sempre in agguato cecchini, trincerati a poche centinaia o addirittura a poche decine di metri,
oltre quella “terra di nessuno” che separava una trincea dall’altra, e segnava perciò il confine tra la vita e la
morte. La guerra di posizione non significò affatto un risparmio di vite umane: per tentare di abbattere le
difese degli avversari e guadagnare pochi metri di terreno gli attacchi frontali si susseguivano incessanti; e
ogni volta migliaia di soldati, non appena si gettavano all’assalto fuori dalle loro postazioni, cadevano sotto
il fuoco dei cannoni e delle mitragliatrici.

Il fronte orientale

Nel frattempo l’avanzata in Prussia orientale dell’esercito russo (il cosiddetto “rullo compressore)
minacciava la stessa Berlino, costringendo lo Stato tedesco a distogliere uomini e mezzi dal teatro di guerra
francese. I tedeschi, meno numerosi ma meglio armati e meglio organizzati, riuscirono a fermare l’avanzata
russa nelle battaglie di Tannenberg (26-30 agosto 1914) e dei laghi Masuri (9-14 settembre 1914). In
Galizia, invece, l’esercito austro-ungarico dovette cedere all’armata russa, che occupò il capoluogo Lemberg
(Leopoli). Solo nel marzo del 1915 gli austriaci riuscirono a riprendere la Galizia con l’aiuto dei tedeschi, che
a loro volta, penetrarono in Polonia e Lituania.

4.2) L’Italia dalla neutralità all’intervento

Neutralisti e interventisti

Appellandosi al carattere difensivo della Triplice Alleanza, il governo italiano, guidato dal conservatore
Antonio Salandra, aveva scelto in un primo momento la neutralità. All’origine di questa decisione vi erano,
oltre a dubbi sull’efficacia di un apparato militare ancora provato dalla guerra di Libia, le reciproche
diffidenze che avevano caratterizzato fin dall’inizio l’alleanza italo-austriaca e che si erano andate via via
più intenso. Da un lato, la questione delle “terre irredenti” era molto diffusa tra l’opinione pubblica italiana,
alimentando una mai placata avversione nei confronti dell’Austria-Ungheria; dall’altro, Austria-Ungheria e
Germania avevano dimostrato ben scarsa considerazione per l’alleata. A differenza dell’ondata di
patriottismo con cui l’annuncio della guerra era stato accolto dall’opinione pubblica inglese, francese e
tedesca, in Italia tra l’estate e l’autunno del 1914 dominò un acceso dibattito fra “interventisti” e
“neutralisti”. Fra gli interventisti si fece strada l’ipotesi di entrare in guerra a fianco dell’Intesa; e a entrambi
si contrapponevano quanti ritenevano che l’Italia, per ragioni ideali o di opportunità politica, dovesse
rimanere fuori dal conflitto.

Le divisioni nello schieramento socialista

Tra i sostenitori della neutralità figuravano i militanti e i simpatizzanti del Partito socialista: tra i partiti
aderenti alla Seconda Internazionale, il PSI era stato l’unico a manifestare una ferma opposizione
all’ingresso in guerra: una scelta che riflette l’orientamento dei contadini e degli operai italiani, meno
sensibili ai richiami del patriottismo di quanto non lo fossero le classi popolari in Gran Bretagna, in Francia o
in Germania. Tuttavia, all’interno del PSI l’atteggiamento contrario a un’entrata dell’Italia nel conflitto non
fu totale.In particolare Benito Mussolini, allora fra i massimi dirigenti socialisti, che aveva in un primo
tempo condotto una vigorosa campagna per la “neutralità assoluta”, nel novembre 1914 si schierò in
favore della guerra quale “levatrice” della nuova Italia. Espulso per questo dal PSI, continuò a battersi a
sostegno dell’intervento dalle colonne di un nuovo giornale da lui fondato, “Il Popolo d’Italia”, unendo la
propria voce a quella dei leader del sindacalismo rivoluzionario Alceste De Ambris e Filippo Corridoni,
convinti anch’essi che la guerra in corso avrebbe “velocizzato” la storia, aprendo le porte della rivoluzione.

L'orientamento neutrale dei cattolici e del Parlamento

A sua volta anche il vasto schieramento cattolico era in prevalenza favorevole all’opzione neutralista, che
rifletteva del resto la posizione di Benedetto XV (1914-1922), fermamente contrario alla guerra. Dello
stesso avviso era la grande maggioranza del Parlamento, che era rimasta ancora giolittiana. E Giolitti era il
più convinto sostenitore della neutralità, in quanto riteneva che non solo l’Italia non avesse alcun obbligo di
intervento, ma che – rimanendo fuori dalla guerra – avrebbe potuto “ottenere parecchio”, trattando con gli
Imperi centrali per via diplomatica; mentre avrebbe avuto molto da perdere prendendo parte a una guerra
per quale era sostanzialmente impreparata.

Gli interventisti democratici e gli irredentisti

A favore di un ingresso nel conflitto si schierarono, oltre ai nazionalisti, i gruppi e i partiti della sinistra
democratica i fuoriusciti dall’impero austro-ungarico già leader dei socialisti trentini. Per tutti loro, non solo
la guerra contro l’Austria avrebbe consentito di ricongiungere alla madrepatria Trento e Trieste,
completando il processo di unificazione nazionale, ma avrebbe favorito anche la liberazione dei popoli
soggetti al dominio straniero. Proprio in nome di una guerra antitedesca e perciò “democratica”, furono
interventisti anche alcuni autorevoli intellettuali, tra cui Giuseppe Prezzolini, Giovanni Gentile, Luigi Einaudi
e Gaetano Salvemini.

Le tendenze interventiste della destra liberale

Radicalmente diversi erano invece i calcoli politici dei liberali di destra, che facevano capo al presidente del
Consiglio Salandra e a Sonnino, titolare del ministero degli Esteri. Alla loro guida il governo si orientò
sempre più verso la strada dell’intervento, anche nella convinzione che l’entrata in guerra poteva ricreare
nel paese le condizioni per una svolta conservatrice. Quanto al re, Vittorio Emanuele III vedeva di buon
occhio una guerra contro l’Austria-Ungheria, nella speranza che un successo militare, oltre ad accrescere il
prestigio internazionale dell’Italia, potesse rinsaldare le istituzioni liberali e le fondamenta della monarchia.

Il patto segreto con Francia e Gran Bretagna

Tra la fine del 1914 e l’inizio del 1915 le pressioni sul governo di Roma da parte delle diplomazie di
entrambi gli schieramenti belligeranti erano andate crescendo: l‘Italia infatti cominciò a essere considerata
una sorta di bilancia, che avrebbe potuto far pendere, da una parte o dall’altra, le sorti del conflitto. Dopo
mesi di consultazioni sia con i rappresentanti di Parigi sia con quelli di Berlino, il 26 aprile 1915 il governo
italiano stipulò con le potenze dell’Intesa un trattato segreto (patto di Londra), con il quale l’Italia si
impegnava a entrare in guerra al loro fianco entro un mese. Il patto, firmato con approvazione del re, ma
all’insaputa sia delle Camere sia dell’opinione pubblica, prevedeva che in caso di vittoria l’Italia acquisisse
dall’Austria-Ungheria il Trentino e l’Alto Adige fino alla linea del Brennero, la Venezia Giulia con Trieste,
Gorizia e l’Istria (esclusa Fiume, che sarebbe andata ai serbo-croati come sbocco marittimo), la Dalmazia, le
isole del Dodecaneso, nonché il bacino carbonifero di Adalia in Turchia e alcune colonie tedesche. Inoltre,
all’Italia sarebbe stato riconosciuto il protettorato sull’Albania.

Le “radiose giornate” del maggio 1915

Una volta firmato il patto di Londra, divenne essenziale per il governo orientare in favore della guerra il
Parlamento e l'opinione pubblica. Si delineava perciò una crisi istituzionale che Salandra anticipò
rassegnando le dimissioni il 13 maggio 1915, convinto tuttavia che la mobilitazione delle folle a favore
dell’intervento avrebbe trasformato in un fatto compiuto la decisione presa intanto da una minoranza. Così
accadde in effetti: la propaganda interventista, percorse il paese, e le difese dei nazionalisti trovarono il
culmine nell’iperbolica oratoria di Gabriele D’Annunzio. Nei comizi del “maggio radioso” giunse a definire la
guerra come “la più feconda matrice di bellezza e di virtù appena sulla terra”.

L’entrata in guerra

In questo clima, Giolitti rinunciò all’incarico; Salandra fu riconfermato dal re e si ripresentò di fronte al
Parlamento, Il 20 maggio, una Camera disorientata e sottoposta alle pressioni della piazza e del sovrano finì
per votare, in tutta fretta e senza alcun dibattito il conferimento al governo dei poteri straordinari per
l'entrata in guerra. Il 23 maggio 1915 l’Italia dichiarò quindi guerra all’Austria-Ungheria e il giorno
successivo le prime truppe partirono alla volta del fronte.

Le ragioni dell’economia

Se la causa interventista era prevalsa al di sopra di ogni dibattito democratico, è comunque vero che l’Italia
non avrebbe potuto sostenere un lungo un regime di neutralità, dipendente com’era dalle materie prime,
dal petrolio e dal carbone che solo le nazioni in quel momento in guerra potevano garantire. Già dalla fine
del 1914 numerose fabbriche avevano dovuto ridurre l’attività per mancanza di scorte e licenziare parte
delle maestranze, dimostrando quanto fosse illusorio il calcolo di quanti ritenevano che rimanendo fuori dal
conflitto l’Italia avrebbe potuto trarre vantaggio di volta in volta dalle ordinazioni provenienti dai vari paesi
in guerra. Alla fine anche dal punto di vista economico apparve più vantaggioso schierarsi accanto alla
Francia e la Gran Bretagna, che erano in grado di assicurare all’Italia adeguati rifornimenti.

Gli italiani al fronte

L’esercito italiano che il 24 maggio 1915 varcò la frontiera dell’Isonzo. Nel corso dell’intero conflitto, gli
italiani chiamati alle armi sarebbero stati circa cinque milioni, per lo più contadini. Per la prima volta,
proiettati tutti insieme nella voragine della guerra, moltitudini di italiani dalle più diverse provenienze
geografiche e sociali si incontrarono e impararono a conoscersi: fu questo l’esordio di un caotico processo
di nazionalizzazione delle masse.

4.3) 1915-1916: un'immane carneficina

Il conflitto sul fronte italiano

Le truppe italiane furono schierate su due fronti: in Trentino e in Venezia Giulia, dove correvano i confini
con l’Austria. Il comandante supremo dell’esercito Luigi Cadorna aveva puntato soprattutto sul secondo,
contando sul fatto che un’offensiva vincente su questo versante avrebbe permesso di avanzare
rapidamente verso il cuore dell’impero austro-ungarico. Di qui l’ordine di abbattere le forze nemiche
attestate lungo il tratto meridionale del fiume Isonzo, dall’altopiano della Bainsizza al Carso, fino al Mare
Adriatico. Si trattava di compiere attacchi frontali da parte di grandi unità di fanteria (le cosiddette
“spallate”). Ma all’Isonzo l’esercito italiano restò inchiodato. L’unico risultato tangibile di questi attacchi fu
la conquista di Gorizia nell’agosto 1916: un obiettivo importante dal punto di vista simbolico, ma
strategicamente inutile.

La “spedizione punitiva” degli austriaci in Trentino

Approfittando del prolungato impegno bellico italiano in area friulana, nella primavera del 1916 gli austriaci
si attaccarono in Trentino. Lanciata nel maggio 1916, la cosiddetta Strafexpedition (“spedizione punitiva”, in
riferimento al “tradimento” che Vienna imputava alla sua ex alleata nella Triplice) si concluse con lo
sfondamento per 20 chilometri delle linee italiane: ma, nonostante le ingenti perdite, il nostro esercito
riuscì a fermare l’avanzata austriaca, che si risolse in un sostanziale insuccesso.

Il governo Boselli e la disciplina di Cadorna

Il rischio in corso con la spedizione austriaca indusse gli ambienti politici a sostituire il ministero Salandra
con un governo di “concentrazione nazionale” (18 giugno 1916), aperto anche agli interventisti di sinistra e
posto sotto la guida dell’anziano uomo politico liberale Paolo Boselli. Il 27 agosto 1916, sull’onda
dell’entusiasmo per la conquista di Gorizia, il governo dichiarò guerra alla Germania, inserendo
definitivamente l’Italia nel conflitto mondiale. Sul piano militare, Boselli e il re rinnovarono la fiducia a
Cadorna, e le “spallate sull'Isonzo” proseguirono dalla tattica offensiva che il comandante in capo
dell’esercito si ostinava a perseguire. Dopo l’attacco austriaco Cadorna impose agli ufficiali l’applicazione di
“estreme misure di coercizione”, come la fucilazione senza processo di coloro che si fossero resi colpevoli
di codardia o insubordinazione, e la decimazione, ovvero l’esecuzione sul posto di soldati estratti a sorte
come “salutare esempio” per le truppe.

I massacri di Verdun e della Somme

Sul fronte occidentale, i tentativi di porre fine alla logorante guerra di posizione sfondando le linee
avversarie con massicce offensive erano risultati del tutto vani. A fine febbraio del 1916 il generale tedesco
Erich von Falkenhayn, attaccò la fortezza di Verdun, sulle rive della Mosa, in uno scontro dove i francesi
riuscirono resistere. Sul fronte opposto, gli anglo-francesi tentarono di sfondare il fronte tedesco
attaccando lungo il fiume Somme, senza ottenere alcun risultato. I due scontri si risolsero in autentiche
carneficine. Ad agosto il generale Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff, vincitori dei russi a
Tannenberg, sostituirono Falkenhayn nel comando supremo dell’esercito tedesco. Quella dispiegata sul
fronte occidentale era ormai divenuta una gigantesca macchina di morte e distruzione, alimentata da
migliaia di fabbriche addette alla produzione di cannoni, mitragliatrici, fucili, munizioni ed esplosivi d’ogni
sorta.

Le operazioni sul fronte orientale e balcanica e l’allargamento del conflitto

Il versante orientale, a differenza di quello occidentale, era più movimentato e le operazioni di guerra si
svolgevano su scenari molto più ampi. Nel corso del 1915 le vittorie austro-tedesche proseguirono e i russi
furono costretti ad abbandonare buona parte della Imperi centrali, che dal novembre 1914 poterono
contare sull’ingresso in guerra al loro fianco dell’impero ottomano, legato alla Germania da un trattato
segreto. Sempre più bisognosa di armi e viveri, le forze anglo-francesi intrapresero una spedizione antiturca
attraverso i Dardanelli. Nell’aprile 1915 truppe inglesi, australiane e neozelandesi sbarcarono nella città di
Gallipoli, operazione, fortemente voluta da Winston Churchill, allora giovane primo Lord dell’Ammiragliato,
si rivelò un completo fallimento: dopo combattimenti estenuanti ed enormi perdite, gli inglesi decisero
infine di ritirarsi nel febbraio 1916. Intanto il conflitto si era allargato ad altri paesi: la Bulgaria, schieratasi
nel settembre 1915 con gli imperi centrali, contribuì alla definitiva sconfitta della Serbia; a fianco della
Triplice Intesa entrò invece in guerra, oltre al Portogallo (marzo 1916), la Romania (agosto 1916).

Lo sterminio degli armeni

L’intervento nel conflitto dell’impero ottomano reso ancora più drammatica dalla già difficile condizione
della minoranza armena. Concentrati soprattutto nella regione nordorientale, fin dall’Ottocento gli armeni
avevano trovato nello zar un alleato, in nome della comune religione cristiano-ortodossa. Quando dunque il
governo dei Giovani turchi entrò in guerra contro i russi, un’ondata di nazionalismo esasperato lo portò a
identificare nel popolo armeno, il “nemico interno” che avrebbe minato le fondamenta di quel che restava
dell’impero ottomano. In seguito alle prime sconfitte militari subite nel Caucaso, il governo turco non esitò
a ordinare, lo sterminio e la deportazione in massa degli armeni del Nord-Est, in terribili “marce della
morte” verso il deserto siriane dove migliaia di persone persero la vita. Una sorte tragica subirono anche gli
armeni chiamati a prestare servizio militare, che furono immediatamente passati per le armi.

La politica inglese in Medio Oriente

A determinare gli insuccessi militari degli ottomani sul fronte russo era stata soprattutto la scarsa efficienza
del loro apparato militare e amministrativo. Della situazione approfittò il governo britannico, che, dopo il
clamoroso insuccesso della spedizione nei Dardanelli, scelse una strada diversa per colpire l’impero
ottomano: quella di incitare gli arabi alla rivolta in Medio Oriente, facendo intravedere loro la prospettiva
della costituzione, a guerra conclusa, di un grande Stato arabo indipendente, formato da Arabia,
Mesopotamia e Siria. Ma alla fine della guerra, le promesse non sarebbero state mantenute.

Il blocco navale inglese

A due anni dallo scoppio del conflitto, quel che giocava a favore delle potenze dell’Intesa non era tanto
l’andamento delle operazioni nel cuore del continente, quanto la supremazia della flotta britannica sui
mari. Il riarmo navale tedesco, all’atto pratico incise ben poco sul corso della guerra. L’unica grande
battaglia navale,svoltasi in Danimarca, ebbe un esito incerto; ma le perdite subite dalla flotta tedesca
furono tanto pesanti da consigliare all’ammiragliato tedesco di far rientrare le navi nei porti e non sfidare di
nuovo la marina britannica. La superiorità navale della Gran Bretagna assicurò così alle potenze dell’Intesa
un vantaggio cruciale, perché consentì di stringere in un ferreo blocco navale gli Imperi centrali, impedendo
loro di approvvigionarsi di prodotti alimentari e di materie prime dall’estero.

la guerra sottomarina

Di fronte al blocco navale imposto dalla flotta britannica e all’impossibilità di sconfiggere il nemico in scontri
navali tradizionali, la Germania reagì fin dall’inizio con un’intensità sottomarina, attuata attraverso i
micidiali sommergibili U-Boot. Nel maggio 1915 la nave passeggeri inglese “Lusitania”, venne affondata da
un siluro tedesco al largo della costa irlandese. Morirono anche dei cittadini statunitensi e l’eco eclatante
suscitato da questa tragedia nella stampa americana portò il presidente americano Woodrow Wilson a un
passo dalla dichiarazione di guerra, e la Germania accettò così di porre fine agli attacchi sottomarini
nell’Atlantico. Questa limitazione tuttavia durò poco: con l’aggravarsi degli effetti del blocco navale inglese,
dal 1 febbraio 1917 la guerra sottomarina tedesca riprese e divenne indiscriminata, con l’annuncio che
sarebbero state affondate tutte le navi, militari o mercantili, di qualunque paese, anche neutrale. Questa
nuova strategia mise inizialmente in serie difficoltà la Gran Bretagna, ma in realtà si trattava di una scelta
disperata, che nel giro di poco tempo si sarebbe rivelata controproducente: propria la Guerra sottomarina,
infatti, avrebbe spinto gli Stati Uniti a rompere gli indugi e a entrare in guerra.

4.4) Nell’inferno della guerra di massa


Le armi della tecnologia e della propaganda

Le mitragliatrici automatiche

La prima guerra mondiale ebbe caratteri diversi rispetto a quelle che l’avevano preceduto anche nella
ragione del dispiegamento su larga scala di nuovi strumenti offensivi. Accanto alle armi tradizionali nella
prima guerra mondiale gli eserciti fecero un uso intenso della mitragliatrice automatica, già collaudata dagli
inglesi nella guerra contro i boeri. Se per il suo peso non si prestava uno spostamento veloce, era invece
particolarmente efficace, e micidiale, nella guerra di trincea.

La guerra chimica

Le armi chimiche vennero sperimentate per la prima volta nella seconda battaglia di Ypres, il 22 aprile 1915,
quando l’esercito tedesco aprì contro i francesi 6000 bombole con una miscela di gas venefico (da allora
denominate iprite) lungo un fronte di 8 chilometri, con effetti devastanti. I gas, tuttavia, rimanevano di
difficile impiego: un forte vento poteva disperderli o addirittura risospingerli indietro. Fu per questo che
dalle bombole si passò a speciali proiettili che si potevano sparare anche da più lontano. Per far fronte al
pericolo dei gas asfissianti, che ben presto furono adottati da tutti gli eserciti, nell’equipaggiamento
ordinario del fante entrò la maschera antigas, che divenne uno degli emblemi della guerra moderna.

Carri armati e aeroplani

Oltre ai sottomarini, che come si è visto è stato utilizzato soprattutto dai tedeschi, un’altra importante
innovazione tenuta a nella prima guerra mondiale furono i carri armati, armati di mitragliatrice e muniti di
cingoli che consentivano di spostarsi su ogni tipo di terreno appoggiando l’assalto della fanteria. I carri
armati furono impiegati in forma massiccia solo nell’ultima fase della guerra, in particolare da parte degli
inglesi, e risultarono decisivi nel determinare l’esito della battaglia di Amiens (agosto 1918). Quanto agli
aeroplani, nessuno dei paesi in guerra aveva ancora sviluppato una vera e propria aviazione militare:
ebbero dunque un impiego limitato nei combattimenti e nei bombardamenti, ma svolsero importanti
compiti di ricognizione.

I trasporti delle truppe e le comunicazioni

Decisivo fu invece l’impiego dei mezzi motorizzati, come treni e autocarri, per rendere più veloci e sicuri gli
spostamenti delle truppe tra i diversi fronti e per trasportare rifornimenti alimentari, armi e munizioni.
Tuttavia, nei luoghi in cui la ferrovia non arriva si continuava a spostarsi a piedi. Il telegrafo e il telefono
sono stati utilizzati per comunicare gli ordini ai diversi settori, ma nei casi in cui ciò era impossibile si
continuò a far uso di staffette e anche di piccioni viaggiatori.

La radicalizzazione della violenza

Le nuove armi, come anche le dimensioni dello scontro e il forte carico ideologico con cui ogni nazione era
entrata in conflitto, concorsero a imprendere alla prima guerra mondiale un carattere di estrema violenza,
dentro e fuori i campi di battaglia. Le convenzioni sul trattamento, il recupero e lo scambio dei prigionieri
stipulati nella seconda metà dell’Ottocento furono largamente disattese, e dopo più di un secolo di guerre
combattute solo tra soldati, la prima guerra mondiale coinvolse pesantemente anche la popolazione civile.
Le violenze commesse dall’esercito tedesco in Belgio e in Francia settentrionale, furono l’inizio di una
catena sempre più fitta di aggressioni contro i civili residenti nelle zone attraversate dagli eserciti avversari,
e lo stupro delle donne, anche come umiliazione simbolica del nemico, fu una pratica frequente, che finisce
per alimentare una spirale di odio, di ritorsioni e di vendette.

La propaganda militarista e il fallimento del pacifismo


Di fronte al numero imponente dei morti e alle continue battaglie senza un esito risolutivo, nei paesi in
guerra anche l’entusiasmo iniziale diminuì e la compattezza fronte interno cominciò a deteriorarsi. Alla
propaganda fu affidato il compito di tenere alto il coinvolgimento emotivo della popolazione e di sostenere
la resistenza a oltranza. Si moltiplicarono i manifesti murali e le cartoline illustrate a tema patriottico, in cui
la guerra veniva presentato come una lotta della civiltà contro la barbarie e il nemico era dipinto come una
forza bestiale e demoniaca, capace di ogni atrocità. Al cospetto del forte impatto di questo genere di
propaganda militarista, ben poco ebbero effetto le manifestazioni pacifiste di quei gruppi socialisti che
avevano continuato a opporsi alla guerra, con varie iniziative sia all’interno del proprio paese sia a livello
internazionale. Le due conferenze svizzere di Zimmerwald e di Kienthal. Indette rispettivamente nel
settembre 1915 e nell’aprile 1916 dai partiti socialisti contrari alla guerra, si conclusero entrambe con una
dichiarazione per una “pace senza annessioni e senza indennità”, che cadde sostanzialmente nel vuoto.

La mobilitazione collettiva al servizio della guerra totale

L’intervento pubblico

In tutti i paesi belligeranti, rispetto al modello liberale classico, venne progressivamente affermandosi un
indirizzo basato su un’azione sempre più estesa dei governi volta alla mobilitazione di ogni energia e risorsa
disponibile in funzione della guerra. L’obiettivo era garantire l’approvvigionamento di materie prime per la
produzione bellica e per i trasporti, nonché di viveri per gli eserciti. Di fatto, doveva essere assicurato il
reclutamento di manodopera per le industrie e i servizi, dato che un numero crescente di uomini era stato
arruolato per il fronte.

Gli organismi statali per il controllo dell’economia

Gli stabilimenti vennero sottoposti a una vera e propria militarizzazione, che si tradusse nell’applicazione di
una rigida disciplina e nella totale sospensione dei diritti sindacali. Inoltre, per rendere esecutivo il controllo
statale sulle imprese adibite alla produzione bellica, tutti i governi diedero vita a speciali organismi
ministeriali. In Germania già nel 1914 venne istituito l’Ufficio delle materie prime di guerra, per controllare
il funzionamento dell’industria pesante. Nonostante le difficoltà, i risultati furono rilevanti: nel 1917 la
produzione tedesca di mitragliatrici e cannoni era cresciuta nel complesso di ben dieci volte. In Gran
Bretagna nel 1915 fu creato un nuovo ministero per le Munizioni e l’industria bellica e vennero inoltre
stabiliti precisamente limitazioni ai profitti delle imprese e istituiti vari prestiti necessari per il
sovvenzionamento delle commesse pubbliche. In molti paesi lo Stato finanziò, la nascita di nuove industrie,
come in Francia e negli Stati Uniti, dove il potenziamento delle costruzioni navali contribuì fin dal 1918 a
fare del paese d’oltreoceano un concorrente diretto della Gran Bretagna nel campo dei trasporti marittimi.
Per quanto riguarda l’Italia, dopo l’entrata in guerra vennero istituiti il ministero delle Armi e Munizioni e il
Comitato centrale di mobilitazione industriale, il cui compito era gestire le imprese industriali coinvolte
nello sforzo bellico. Anche qui, come in altri paesi europei, vennero creati organismi statali per garantire la
fornitura di materie prime dai mercati internazionali, in particolare di carbone e altri combustibili.

Il razionamento dei viveri e le difficoltà alimentari

Anche il rifornimento e la distribuzione di viveri per i civili e i militari vennero sottoposti alla vigilanza
statale, sia mediante misure di raccolta centralizzata (ammasso), quindi di distribuzione controllata
(razionamento), sia attraverso il calmiere (prezzo massimo imposto dall’autorità per la vendita al minuti di
generi di sussistenza) dei prezzi dei generi di prima necessità. Di fronte alle crescenti difficoltà e al
prolungarsi della guerra, il sistema divenne però sempre meno efficace. Si creò così il cosiddetto “mercato
nero”, cioè la vendita clandestina, dei beni sottratti al razionamento. Al risentimento di tanti cittadini
dovuto alla povertà e alla fama si accompagna quello dei contadini, colpiti, oltre che dalla coscrizione
militare, anche dalle requisizioni dei raccolti e dal blocco dei prezzi.
La produzione industriale

I settori che si svilupparono di più furono quelli dell’industria mineraria, della metallurgia e della siderurgia,
e i comparti automobilistico e aeronautico. In Italia l’industria chimica progredì molto grazie al crollo delle
esportazioni tedesche e alla crescita della domanda statale di esplosivi; mentre le imprese
metalmeccaniche che si convertirono alla produzione bellica moltiplicarono le dimensioni dei propri
stabilimenti.

L’ingresso delle donne in fabbrica

Per sopperire alla carenza di manodopera, fra il 1916 e il 1917 la Germania fece addirittura ricorso alla
deportazione di lavoratori polacchi e belgi; a sua volta, con il Munitions of War Act, il governo britannico
impose forti rimozione alla mobilità dei lavoratori. In alcuni settori dell’industria, si cominciarono inoltre ad
applicare le tecniche di produzione in serie, che velocizzarono l’attività nei reparti e al tempo stesso
favorirono l’impiego di manodopera meno specializzata. L’ingresso a massa delle donne nelle officine per
sostituire gli uomini chiamati al fronte rappresentò un passo avanti sulla strada dell’emancipazione
femminile, perché rafforzò la posizione delle donne nella società civile e permise a molte di loro di ottenere
un’indipendenza economica.

Debito pubblico, inflazione e carovita

La guerra sconvolse anche il sistema finanziario internazionale, con conseguenze che ripercossero sulle
vicende del successivo ventennio. I paesi belligeranti ricorsero in modo massiccio e senza alcun limite al
finanziamento in deficit dei loro bilanci (situazione in cui la spesa pubblica non è coperta dai guadagni della
tassazione e si procede quindi un eccesso di uscite rispetto alle entrate), sospendendo del tutto le politiche
di rigore finanziario legato all’applicazione del Gold standard, al quale rimasero fedeli solo gli Stati Uniti. La
fonte principale del finanziamento in deficit furono i prestiti, soprattutto quelli concessi dalle banche
centrali. La sospensione del sistema aureo consente agli istituti bancari di ricorrere all’emissione di
cartamoneta anche senza la necessaria copertura, il che innescò un’inflazione fuori controllo. I prezzi dei
beni di consumo salirono vertiginosamente, mentre le retribuzioni rimasero bloccate o persero
sensibilmente il loro potere d’acquisto. Furono colpiti, in misure diverse, tanto i lavoratori agricoli quanto
gli operai e gli impiegati statali.

4.5) Le svolte del 1917

La rivoluzione di febbraio e la fine del potere degli zar

All’inizio del 1917, dopo tre anni di guerra e nonostante la mobilitazione di un esercito, i risultati delle
operazioni belliche per la Russia risultavano catastrofici, con le armate tedesche che penetravano sempre
più a fondo nel suo territorio. La mancanza di cibo, di munizioni e di assistenza medica aveva moltiplicato il
numero dei morti e aggravato l’esasperazione dei soldati, accrescendo le file di quanti disertavano o si
rifiutavano di partire per il fronte. La ribellione non si diffuse solo tra i militari: nelle campagne, spopolate
dalla mobilitazione bellica, la produzione dei cereali era crollata, e gli operai delle fabbriche, costretti a
lavorare a ritmi sempre più intensi, senza viveri a sufficienza e senza combustibile per il riscaldamento,
erano esasperati. La situazione sociale era così tesa che bastò una sola scintilla a far divampare l’incendio:
una manifestazione contro il carovita (rialzo generalizzato dei prezzi), iniziata a Pietrogrado il 23 febbraio
1917 e repressa con la forza dalle autorità, si trasformò rapidamente in uno sciopero generale di protesta
contro la guerra e l’autocrazia zarista. Mentre nelle officine si fermava ogni attività, nelle campagne
crebbero i disordini tra i soldati chiamati a intervenire in molti si unirono agli insorti. Fu l’inizio di un
movimento vasto e radicale, che portò alla formazione di un governo provvisorio di orientamento liberale
e, alla creazione in diverse città dei soviet, i consigli degli operai e dei contadini. Il 15 marzo 1917 lo zar
Nicola II abdicò e venne arrestato con il resto della famiglia reale.

L’uscita della Russia dalla guerra

Il governo provvisorio dichiarò che avrebbe proseguito la guerra a fianco dell’Intesa, e il socialista Aleksandr
Kerenskij, diventato ministro della Guerra, ordinò un’offensiva in Galizia che doveva risultare definitiva e
che si risolse invece in una disfatta, facendo riesplodere la ribellione dei soldati e dei lavoratori. Nella notte
tra il 24 e il 25 ottobre, gruppi di rivoluzionari bolscevichi assalirono il Palazzo d’Inverno, e rovesciarono il
governo liberale. La nascita della “repubblica dei soviet” ebbe come conseguenza pressoché immediata
l’uscita della Russia dalla guerra. Il governo rivoluzionario guidato da Lenin avviò le trattative per una pace
separata con gli Imperi centrali, che venne ratificata il 3 marzo 1918 con il trattato di Brest-Litovsk e
comportò una gravissima amputazione territoriale per l’ex impero russo. Oltre a dover riconoscere
l’indipendenza della repubblica ucraina, la Russia dovette cedere la Polonia orientale, l’Estonia, la Lettonia,
la Lituania, la Bielorussia e la Finlandia: un’area che corrispondeva a un quarto della popolazione e delle
terre coltivate, e a tre quarti delle risorse di carbone e di metalli.

Le agitazioni popolari in Europa e in Italia

Nel corso del 1917 anche in altri paesi crebbero tra la popolazione civile moti di protesta e di ribellione. A
Lione e a Parigi uomini e donne entrarono in sciopero e scesero in piazza contro il caro-viveri e la guerra. In
Italia i ritardi del governo nel stablire i prezzi dei generi alimentari di più largo consumo avevano contribuito
al dilagare dell’inflazione. Le autorità restavano impotenti di fronte alla stanchezza, alla sfiducia e al
malcontento che, oltre alla popolazione civile, fiaccavano sempre più il morale dei soldati: fra aprile e
giugno le retrovie di alcune divisioni francesi si rifiutarono di andare in linea, furono punite duramente. Lo
stesso papa Benedetto XV si fece interprete di questo vasto disagio e lanciò un appello in favore della pace,
chiedendo a tutti i governanti europei di fermare l’“inutile strage” che stava insanguinando l’Europa.

La disfatta di Caporetto

Nel frattempo l’esercito italiano aveva condotto con successo due offensive sull’altopiano di Asiago e sul
Carso; ma gli assalti ordinati da Cadorna a partire dalla primavera del 1917 si erano conclusi senza alcun
successo e con un enorme costo in vite umane. Durante la notte tra il 23 e il 24 ottobre 1917 il fronte
italiano dell’alto Isonzo venne sottoposto a un pesantissimo attacco di artiglieria da parte dell’esercito
austriaco, rafforzato da numerosi contingenti tedeschi. All’alba fu la volta della fanteria a passare
all’offensiva; ma i soldati austro-tedeschi, anziché assaltare in massa tutto il fronte delle trincee italiane, si
divisero in piccoli gruppi con il compito di spezzare in punti diversi la prima linea nemica, infiltrandosi in
profondità lungo le vallate per prendere alle spalle gli avversari. La manovra riuscì e per l’esercito italiano fu
la catastrofe: colti di sorpresa e privi di chiare indicazioni da parte dei comandi militari, interi battaglioni e
reggimenti sfaldarono. Il risultato della disfatta di Caporetto fu che Friuli e metà del Veneto caddero in
mano dell’esercito austriaco e tedesco.

La responsabilità della sconfitta

Le conseguenze psicologiche della rotta di Caporetto furono forse ancora più traumatiche di quelle militari.
Il primo ministro Boselli rassegnò le dimissioni e nacque un nuovo governo di coalizione nazionale
presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, che il 9 novembre sostituì Cadorna con il generale Armando Diaz
e promise la concessione di terre ai fanti-contadini una volta cessata guerra. Prima di essere dal comando
supremo, Cadorna non solo accusò i soldati di essersi arresi senza combattere, ma addossò ai socialisti –
accusati di disfattismo – la responsabilità morale del “tradimento”. In realtà la causa principale della
sconfitta fu l’imperdonabile ritardo con cui gli alti gradi dell’esercito si erano resi conto della portata
dell’attacco nemico e avevano dato l’ordine di attestarsi su adeguate posizioni difensive.
La nuova linea del comandante Armando Diaz

Al posto della “disciplina della coercizione”, imposta fino ad allora da Cadorna, Diaz inaugurò una
“disciplina della persuasione”, volta a rianimare il morale delle truppe. I soldati poterono godere finalmente
di turni di riposo adeguati, di un vitto migliore e di un maggior numero di licenze. Inoltre, venne potenziato
il servizio di propaganda interna, per spiegare alle truppe le motivazioni patriottiche della guerra. Sul piano
militare, Diaz abbandonò la tattica offensiva del suo predecessore, in quanto era convinto che la guerra
sarebbe durata ancora a lungo. Venne così risparmiato ai soldati l’incubo di continui assalti alle trincee
nemiche. Infine, sotto il controllo delle autorità militari, venne mobilitata l’industria:dove si accelerarono i
ritmi della produzione e l’esercito venne rifornito in tempi brevissimi di quantità crescenti di cannoni,
mitragliatrici, munizioni e mezzi di trasporto. In questo nuovo clima, l’esercito italiano riuscì a riorganizzare
la linea del fronte sulle rive del Piave e presso il monte Grappa, e a resistere nel novembre 1917 a un nuovo
attacco dell’esercito austriaco e tedesco.

L’entrata in guerra degli Stati Uniti

Al principio del 1917, la ripresa della guerra sottomarina da parte della Germania ebbe una conseguenza
decisiva per le sorti del conflitto. Fino ad allora gli Stati Uniti si erano mantenuti neutrali: le simpatie del
presidente Wilson, come quelle della maggior parte dell’opinione pubblica americana, andavano all’Intesa e
in particolare alla Gran Bretagna. Oltre ai tradizionali legami di natura culturale, esistevano da tempo fra
britannici e americani strette relazioni commerciali e finanziarie, che erano andate intensificandosi negli
anni di guerra. Tra il 1914 e il 1917, gli USA non solo avevano venduto armi alla Francia e alla Gran
Bretagna, ma avevano anche assecondato con ingenti prestiti lo sforzo bellico dei paesi dell’Intesa
(compresa l’Italia). Di fatto, dunque, Washington già partecipava al conflitto. Fin dal 2 febbraio il governo
americano, minacciato nei propri interessi dalla guerra sottomarina, che paralizzava i commerci atlantici,
aveva interrotto le relazioni diplomatiche con la Germania, avvertendo Berlino che qualunque attacco a
navi statunitensi ne avrebbe provocato l’entrata in guerra. I tedeschi erano consapevoli del rischio, ma
ritenevano che una guerra sottomarina indiscriminata avrebbero procurato loro la vittoria in pochi mesi.
Quando nel marzo 1917 i sottomarini tedeschi affondarono tre navi mercantili statunitensi, il Congresso si
pronunciò per l’aperta belligeranza e il 6 aprile 1917 il presidente Wilson dichiarò guerra alla Germania. Alla
decisione contribuì anche la scoperta che il governo tedesco aveva cercato di allearsi con il Messico contro
gli Stati Uniti, in cambio del sostegno nella riconquista dei territori persi nella guerra messicano-americana.
Dal punto di vista formale, gli Stati Uniti non erano alleati dell’Intesa, ma “associati”; una distinzione che
rimarcava la differenza di obiettivi rispetto agli altri stati belligeranti: gli Stati Uniti non entravano in guerra
con ambizioni di potenza, ma di difesa della democrazia, della sicurezza e della libertà dei popoli.

4.6) L’epilogo della guerra

La situazione delle potenze dell’Intesa

Malgrado tutto, il 1917 si chiuse all’insegna dell’iniziativa degli Imperi centrali. La Russia era
sostanzialmente fuori dal conflitto, mentre l’offensiva austro-tedesca contro l’Italia aveva avuto un esito
addirittura superiore alle aspettative. La battaglia di Passchendaele nelle Fiandre, si era conclusa con una
vittoria degli inglesi, ma per l’altissimo numero di morti e gli scarsi risultati fu sostanzialmente un
fallimento. Gli alleati (Austria-Ungheria, impero ottomano, Bulgaria) erano ormai alle corde sul piano
militare, politico ed economico; la guerra sottomarina non aveva infranto il blocco navale inglese, che
continua ad impoverire la popolazione, e la stanchezza serpeggiava anche fra i ranghi dell’esercito tedesco,
mentre in patria cresceva la pressione dei movimenti socialisti a favore della pace. Inoltre l’uscita dei russi
dal conflitto stava per essere largamente bilanciata dall’arrivo in Europa dei soldati americani.
L’ultima offensiva tedesca e il contrattacco dell’Intesa

Date queste premesse, lo Stato maggiore tedesco sferrò, fra il 21 marzo e il 15 luglio 1918, cinque grandi
offensive sul fronte occidentale, che arrivarono a minacciare nuovamente Parigi e rappresentarono per
l’Intesa la più grande crisi militare dal 1914. Riunite le loro forze sotto la guida del generale francese
Ferdinand Foch, gli alleati riuscirono tuttavia a respingere tutti gli attacchi, e respinsero le truppe
germaniche oltre le loro posizioni di partenza. Grazie agli aiuti forniti dagli Stati Uniti, l'Intesa passò a
questo punto all’offensiva. Nella battaglia di Amiens (1918), inflisse alla Germania la peggiore sconfitta
dall’inizio del conflitto. Le truppe del Kaiser furono costrette a retrocedere verso il proprio confine,
abbandonando i territori occupati della Francia del Nord e del Belgio. Nei Balcani la Bulgaria, sconfitta dalle
forze dell’Intesa, firmò l’armistizio il 29 settembre.

Il riscatto dell’esercito italiano e l’armistizio con l’Austria-Ungheria

In Italia, dopo il crollo del fronte a Caporetto e la concreta minaccia di invasione da parte delle armate
austriache, la causa della resistenza nazionale coinvolse anche quanti non avevano condiviso fino a quel
momento le ragioni della guerra: i socialisti Filippo Turati e Claudio Treves s’impegnarono in prima persona
incoraggiando tutti gli italiani a battersi con vigore per sbarrare il passo al nemico. Solo l’ala rivoluzionaria
del partito non condivise questa loro iniziativa, rimanendo però ininfluente. Al fronte l’esercito italiano
riuscì a opporre sull’altopiano di Asiago, sul monte Grappa e sul Piave un’efficace resistenza alla nuova
offensiva scatenata a metà giugno dall’esercito austriaco, che dopo essere stato bloccato fu costretto a
arretrare. Il 24 ottobre 1918, un anno dopo Caporetto, le truppe italiane, i cui armamenti erano stati
migliorati da crescenti forniture dell’industria, sfondarono la linea del Piave e sferrarono il colpo decisivo
all’esercito austriaco. II 30 venne conquistata Vittorio Veneto, e nei seguenti giorni furono conquistati
Trento e Trieste. Al governo di Vienna non restò che intavolare i negoziati per l’azione delle ostilità: il 3
novembre i rappresentanti austriaci firmarono presso Padova, un armistizio con l’Italia; il giorno successivo
l’armistizio entrò in vigore e il “proclama della vittoria”, firmato da Armando Diaz, fu diramato in ogni
angolo del paese.

L’esaurimento degli Imperi centrali

Quando gli italiani lanciarono la loro ultima offensiva, l’impero asburgico stava ormai sfaldandosi sotto la
pressione dei movimenti indipendentisti. L’estremo tentativo compiuto a ottobre 1918 dal governo di
Vienna di trasformare l’impero multietnico in una federazione di stati dotati di larghe autonomie non ebbe
esito: fra ottobre e novembre la Cecoslovacchia, l’Ungheria e i nuovi schiavi soggetti all’Austria si
dichiararono indipendenti. Il 12 novembre 1918 Carlo I fu costretto a rinunciare al trono, e venne formato
un governo provvisorio repubblicano. Dopo più di 600 anni, giunse così alla fine in Austria il dominio degli
Asburgo. Il 31 ottobre 1918 era accordato anche l’impero ottomano, sotto gli attacchi sferrati dagli inglesi in
Siria e in Palestina. Il crollo dell’impero asburgico e di quello ottomano accelerò la crisi tedesca, resa
peraltro inevitabile dalla sconfitta subita ad Amiens. Un ammutinamento della flotta tedesca ancorata a Kiel
assunse presto un carattere insurrezione, estendendosi a tutto il paese e arrivando fino a Berlino, dove gli
operai costituirono propri Consigli sul modello dei soviet russi e presero il controllo della città. Il 9
novembre 1918 Guglielmo Il abdicò: fu proclamata la repubblica e capo del governo provvisorio venne
nominato Friedrich Ebert, esponente di spicco del Partito socialdemocratico. L’11 novembre la Germania
firmò la resa (armistizio di Compiègne), ponendo fine al conflitto. Ma all’armistizio fece seguito uno scontro
all’interno del paese, tra aspirazioni rivoluzionarie e reazione controrivoluzionaria.

Un’ecatombe generazionale

All’indomani del conflitto, le nazioni coinvolte si trovarono a elaborare un immenso lutto. Secondo la stima
più accreditata, i caduti in battaglia durante la prima guerra mondiale furono circa 9 milioni e mezzo ai quali
vanno aggiunti venti milioni di feriti: cifre spaventose, pari a più del doppio dei morti provocati da tutte le
guerre dell’Ottocento. Ai caduti in guerra inoltre aggiunti i morti per fame e per malattie. Soprattutto
l’epidemia influenzale conosciuta come “spagnola”, diffusasi fra il 1918 e il 1920, provocò un numero di
vittime superiori a quello della guerra stessa. Ma a segnare indelebilmente la cosiddetta “generazione
perduta” di quegli anni di guerra fu non solo la gran massa di morti in battaglia, ma anche lo stato d'animo
dei reduci destinati a reinserirsi con molte difficoltà nella vita civile.

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