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3/5/2019 «Le calabresi (dimenticate) nella Resistenza» - Corriere della Calabria

«Le calabresi (dimenticate) nella Resistenza»


di Claudio Cavaliere

 22 aprile 2019, 9:17

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“Il tempo, il tempo, insomma, porta via … porta via la memoria, porta via le immagini, porta via un po’ tutto … ma come si fa a
dimenticare? Non puoi dimenticare. Non puoi dimenticare perché noi abbiamo passato anni … anni atroci.” (Giacomina Ercoli,
partigiana). Forse per quanto riguarda la Calabria non si tratta di dimenticare, semmai di recuperarla la memoria, di tirarla fuori
da silenzi, sottovalutazioni, oblii. Grazie a numerosi storici, studiosi, istituti di ricerca, scrittori, si va delineando una immagine un
po’ diversa rispetto a quella stereotipata di questo pezzo di terra e dei suoi abitanti anche per quanto riguarda la partecipazione
calabrese alla Resistenza, da sempre considerata esclusiva prerogativa delle popolazioni del nord, con i meridionali spettatori
passivi di una vicenda fondativa della nostra democrazia. E invece? Invece quei quattro gatti dimenticati che dalla storia hanno
preso solo bastonate si scopre erano migliaia. Una “Resistenza taciuta”, per dirla utilizzando il titolo di un libro, che grazie al lavoro
di censimento avviato in alcune regioni con le banche dati dei partigiani, sta emergendo in tutta la sua portata. Solo tra Piemonte,
Liguria ed Emilia Romagna sono migliaia i nativi calabresi censiti attivi nella lotta partigiana. Centinaia quelli caduti in
combattimento con gure di assoluto rilievo meritevoli di medaglie al valor militare (sette d’oro, sei d’argento e quattro di
bronzo). Come si spiega? C’è qualcosa che non funziona in un popolo capace di dimenticare una simile e straordinaria epopea.
Parlare poi di donne calabresi nella Resistenza signi ca andare alla ricerca di grandi dimenticate. Recuperare solo i loro nomi
appare molto, molto più dif cile. Tra le tante speranze tradite nel dopoguerra per le donne va annoverato anche il mancato
riconoscimento della loro resistenza al nazi-fascismo che fu insieme civile e militare. Iniziano dando rifugio agli sbandati del dopo
8 settembre, una gigantesca operazione di salvataggio, secondo alcuni storici forse la più grande della nostra storia, fatta senza
direttive, indicazioni, che conta solo sull’azione individuale, un maternage di massa secondo Anna Bravo. Si trasformano in
moderne Antigone s dando il nuovo tiranno per sottrarre il più velocemente possibile al ludibrio i corpi esposti a monito degli
impiccati, torturati, fucilati. Sono le promotrice degli scioperi nelle fabbriche e quando non è possibile ne sabotano la produzione.
Stringono relazioni, coinvolgono parenti, vicine, compagne di lavoro, frequentano i mercati facendo insieme spesa e propaganda
politica, scrivono e ciclostilano in case che sono nello stesso tempo abitazioni e centri di resistenza, fanno del proprio corpo il
nascondiglio di documenti, sono infermiere, informatrici, portaordini, collegatrici. E in ne imbracciano le armi. Qualcosa, com’è
evidente, che va ben al di là del termine vago e riducente di “staffetta” che inserisce le donne in un ruolo secondario. Ma
soprattutto fa comprendere l’errore di ridurre la Resistenza solo ad una vicenda armata che al più le concede il compito di un
“contributo”. Solo nella seconda metà degli anni settanta la storiogra a inizia a recuperare il senso di questo impegno
recuperando le donne non al ruolo di comprimarie ma di protagoniste. Al di là della facile retorica, ha funzionato per molto tempo
il pregiudizio che avvolse le resistenti dopo la ne della guerra, in una Italia desiderosa di tornare al perbenismo e di riportare le
donne al loro ruolo tradizionale. E’ storia che alle partigiane torinesi della brigata Garibaldi venne proibito dal Pci di s lare dopo
la liberazione perché il partito voleva accreditarsi come forza rispettabile, mentre in molte altre città furono i capi brigata a
consigliare alle donne di non s lare o almeno di farlo senza armi o vestite da crocerossine o in borghese, con un “Bella ciao” che
scandì per anni anche l’idea che l’uomo andava mentre le donne restavano. “Alla s lata non ho partecipato, ero fuori ad
applaudire. Ho visto passare il mio comandante. Poi ho visto Mauri col suo distaccamento con le donne che avevano, insieme.
Loro si che c’erano! Mamma mia! Per fortuna che non sono andata anche io. La gente diceva che eran delle puttane …” (Intervista
ad una partigiana nel lm-documentario di Liliana Cavani “La donna nella Resistenza”). Anche per questo non sapremo mai il
numero esatto delle resistenti. Continuare a discutere sulla loro dimensione numerica riferendosi ai criteri di oltre settant’anni fa
non ha senso. Occorreva aver svolto almeno tre mesi in armi, aver partecipato a tre azioni di guerra o sabotaggio o avere fatto
almeno tre mesi di carcere per essere riconosciute “partigiani combattenti”. Per quello di “patriota” si richiedeva un impegno
sostanziale e continuato, sotto forma di cessioni di denari, viveri, armi, munizioni, materiali sanitari, ospitalità clandestina, o aver
fornito importanti informazioni ai ni di buon esito della lotta di liberazione. Moltissime, visto il rinnovato clima che spingeva
verso un ritorno al privato delle donne, non richiesero mai la quali ca. Per molte altre, che avevano partecipato ad una resistenza
civile senza armi non fu nemmeno possibile farlo. Altre ancora, che pure avevano messo in gioco la propria vita, ritennero solo di
aver fatto ciò che era giusto. Le donne avevano combattuto non solo per la libertà ma anche per affermare una Italia diversa per i
loro diritti civili e sociali che solo molto lentamente furono ad esse concesse nonostante la nuova Costituzione. Rimangono i
numeri uf ciali che parlano di 4.653 donne arrestate, torturate, condannate; 2.750 deportate nei campi di concentramento
nazisti e 623 fucilate o morte in combattimento. Ad esse furono conferite sedici medaglie d’oro al valor militare e diciassette
d’argento. Per questo, oggi che quasi tutte non sono più in vita rimane dif cile, sulla base della sola documentazione uf ciale,
ricostruire il quadro reale a partire dai nomi e dalle storie. I nomi di battaglia di alcune partigiane calabresi li conosciamo: Cecilia,
Cunegonda, Angiolina, Prima, Beba, Reginella, Nina, Lia Ferrero, Maia, Mina … Erano casalinghe, operaie, professoresse,
contadine, alcune nemmeno maggiorenni. Oggi, di molte di loro, tranne il nome, non conosciamo praticamente nulla, non una foto
in quell’oltremondo che si chiama internet. Anche nei loro paesi di origine il ricordo sembra de nitivamente perso. Alcune storie
magni che sono venute alla luce grazie anche all’Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo, all’ANPI, a studiosi che
tengono accesa l’attenzione su una vicenda che riserva sempre nuove sorprese. Giuseppina Russo di Roccaforte del Greco una
delle Api furibonde dell’omonimo libro che da organizzatrice degli scioperi nelle fabbriche nisce come partigiana combattente,
dalla resistenza civile a quella armata. Anna Cinanni, di Gerace, sorella di Paolo, che subì ripetute sevizie in carcere, una delle
dodici biogra e di partigiane contenute nel libro La Resistenza taciuta e nell’altro volume di Lentini-Guerrisi I partigiani calabresi
nell’Appennino Ligure-Piemontese, anche lei protagonista di quel raf nato gioco delle apparenze alla base di episodi in nite volte
narrati di donne che superano i posti di blocco con le loro sporte piene di volantini o munizioni – piene di politica e di guerra –
esibendo i simboli della routine domestica o della femminilità inoffensiva. Caterina Tallarico di Marcedusa, sorella del più notosettings
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comandante partigiano “Frico” che appena laureata in medicina sale in montagna e comincia a ricoprire il ruolo di medico nella
brigata del fratello Federico esercitando non solo verso i partigiani feriti e bisognosi di cure, ma anche nei confronti di tedeschi e
fascisti prigionieri. Per fortuna un suo libro autobiogra co, Una donna … un medico … una vita, ci permette di avere tutte le
informazioni di prima mano su di lei. Anna Condò di Reggio Calabria, testimone della strage della Benedicta in cui fu ucciso il
fratello. E poi tante altre donne di cui conosciamo meno: Cosco Lucia (Catanzaro); Lucio Alba (Crotone); Lucio Assunta (Crotone);
Di Tocco Maria (Vibo Valentia); Oneglia Antonietta (Catanzaro); Carpino Maria (Colosimi), Fadel  Giacomina (Cosenza); Arcidiaco
Domenica (San Lorenzo); Bazzani Gazagne Margherita (Sant’Ilario dello Ionio); Pontoriero Anna (Rosarno); Pontoriero Giulia
(Rosarno); Pontoriero Tina (Rosarno); Torello Maria (Reggio Calabria); Panuccio Maria (Sant’Eufemia d’Aspromonte); Gangemi
Concetta (Palmi); Pata Franceschina (Mileto); Pata Angela (Mileto); Di Tocco Bice (Reggio Calabria); Ranieri Isolina (San Giorgio
Morgeto); Forte Carinda (Saracena); Montanari Carmelina (Siderno); Iaconetti Maria (Carolei); Barone Maria (Vibo Valentia);
Vuorinna Giovanna (Rossano Calabro) …

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