IL PANE
DELLA VITA
ISBN 88-10-41003-3
5
zione della più intima verità del nostro essere. [ ... ] Al Cenacolo, il gior
no dell'i nizio della creazione diventava il giorno del suo rinnovamento:
la trasformazione sostanziale che si realizzò nel Cenacolo era finalizza
ta a suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la tra
sformazione del mondo.
6
PREFAZIONE
«lo sono il pane della vita)) dichiara Gesù, secondo il quarto Van
gelo (6,35.48), invitando così a credere in lui e a vivere di lui. Il pane
è una metafora che biblicamente significa il nutrimento essenziale
per l'uomo� il termine «Vita» sta a indicare la realtà, resistenza con
creta. Non diciamo «il pane di vita» ma (come in greco) il «pane del
la vita», per indicare che si tratta della vita per eccellenza, la vita di
vina che non è soggetta alla morte.
La vita? Recentemente, il chirurgo che mi ha applicato con suc
cesso un pacemaker mi parlava della sua più profonda convinzione:
la vita è una realtà che non possiamo creare, malgrado i progressi
della scienza. Questa constatazione mi suggerisce che egli pensava a
un superamento del l'uomo. L'uomo si scontra continuamente con
qualcosa che è al di là di lui stesso; si trova in presenza di una realtà
che non può possedere e che l 'evangelista Giovanni chiama la vita
nella sua più forte accezione.
I biblisti credenti la identificano con Dio stesso: Dio è il Vivente,
la vita personificata. Dando un nome alla vita, non abbiamo la pre
tesa di circoscriverla, ma solo di precisare che tale realtà, anche se a
noi comunicata, esiste al di là di noi stessi. Questa vita, ricevuta da
un altro, sappiamo che ci è possibile accoglierla e salvaguardarla in
vita eterna.
Secondo la fede e la pratica cristiana, è la cena eucaristica che
mantiene questa vita, certamente, in ogni credente, ma, prima anco
ra, la mantiene nella comunità ecclesiale, che, celebrandola, esprime
e rinnova l a sua appartenenza al Cristo vivente. Studiando la Scrit
tura, ciò che si è imposto alla mia ricerca è la relazione che unisce
strettamente il culto eucaristico e l'esistenza concreta del credente.
7
È la prospettiva dominante di questo lavoro. L'altro obiettivo della
ricerca è la «presenza reale» del Signore nella celebrazione ecclesia
le. Intendo anche affrontarla a partire dai dati della Scrittura che
aprono alla comprensione delle parole e dei gesti liturgici.
il vero corpo e il vero sangue del nostro Signore Gesù Cristo, così come
li percepiscono i nostri sensi, non solo nel sacramento ma in verità, so
no manipolati e spezzati dalle mani del sacerdote e poi triturati dai den
ti dei fedeli.
8
Oggi la grande maggioranza degli storici riconosce che l'accusa
derivava da un equivoco sul senso del termine <<Spirituale>> per qua
lificare la presenza reale. Ritorneremo su questo problema del lin
guaggio, fondamentale per una giusta comprensione, utilizzando il
termine «Simbolico>> che secondo noi è il più valido.
Si sapeva che colui che si rende presente nel sacramento non è
semplicemente il Gesù di Nazaret che noi conosciamo attraverso i
vangeli, ma il Figlio di Dio risorto. Ora, come spiegare l'unità che si
realizza tra il Cristo glorificato presso il Padre e la Chiesa che egli vi
vifica? La tradizione farà considerevoli sforzi per dire il mistero del
l'eucaristia.
Gli uni tentarono di conservare l'apertura di Berengario, sottoli
neando senza paura che la presenza reale era sotto i «simboli>> del
pane e del vino: solo coloro che capiscono il significato di questi sim
boli possono veramente comunicare sacramentalmente. Coloro che
non ne accolgono il significato non possono veramente ricevere con
verità questo sacramento. Altri cercarono di riferirsi ad Aristotele
adottando le categorie metafisiche di «Sostanza» e di «accidente».
Prese allora forma la teoria della «transustanziazione»: la «sostanza»
del pane diviene «corpo del Cristo», la sua presenza reale. Gli acci
denti , il pane e il vino materiale, restano immutati.
Inoltre, sempre nel medioevo, alcuni non hanno avuto paura di
negare la validità dell'eucaristia: i catari contestavano a Cristo, ormai
essere spirituale, di avere un corpo e quindi non poteva esserci né
L:arne né sangue suo nell'eucaristia; essi preferivano rinunciare a par
lare del Cristo presente nell'e ucaristia, anche perché il Cristo sareb
be allora sottoposto al processo di digestione o di putrefazione. Al
tri, come i valdesi, nati dalla predicazione di Valdo (un lionese, vis
suto verso il 1173), negavano anche la realtà della presenza del Si
gnore nel pane.
Queste eresie erano fortemente combattute dai teologi dell ' epo
ca. Il popolo cristiano invece si accontentava di conservare la propria
fede, privilegiando varie devozioni che lo portavano a onorare il cor
po umano del Cristo presente nel sacramento. Da queste devozioni
proviene il desiderio di vedere l'ostia e l'uso dell'elevazione dell 'o
stia durante la messa. E ancora l'adorazione del Santissimo (dal XIV
secolo) e l'esposizione sull 'altare dell'ostia, che non serviva pi ù per
celebrare, ma permetteva di adorare la presenza del Signore.
L'immaginazione popolare credette di vedere nel pane e nel vi
no consacrati un potere operante al di fuori della liturgia. La devo-
9
zione si sviluppò considerando il pane consacrato come un portafor
tuna; ad esempio, si sotterravano i cadaveri con un'ostia per assicu
rare loro l'entrata in cielo. Altri ancora credevano che il pane fosse
apparso come carne sanguinante, e Antonio da Padova confondeva
gli eretici - si dice - presentando un'ostia consacrata a un asino af
famato che, con rispetto, si inginocchiò per adorarla. Ci si era di
menticati che, secondo s. Bonaventura, eco dei teologi del suo tem
po, se un topo avesse rosicchiato un'ostia consacrata, caduta acci
dentalmente a terra, avrebbe mangiato solo pane. Come lo precisa Y.
De Montcheuil, «poiché l'eucaristia è un sacramento, cioè qualche
cosa che è essenzialmente destinato all'uomo, se questa relazione
viene meno, il Cristo cessa di essere presente, indipendentemente
dallo stato delle specie».
In conclusione, la devozione popolare dimostra che, in molti ca
si, si era passati dall'azione liturgica a una devozione privata. Non
voglio contestare il valore di questi usi, ma per averli vissuti io stes
so da piccolo, sono convinto che non si tratta più dell'eucaristia co
me tale. L'attenzione del fedele viene distolta dal mistero per foca
lizzarsi sull 'aspetto di una presenza separata dalla funzione propria
de li' eucaristia.
Io penso che il rapporto liturgico con il pane consacrato è analo
go ali 'incontro con il Risorto, presentato dalle narrazioni delle appa
rizioni ai suoi discepoli. Questi racconti comportano tre dimensioni:
lo choc dell'incontro con il Vivente, il riconoscimento del Gesù del
passato, l'invio verso gli altri. Anche nell'eucaristia, l'incontro non è
solo nel faccia a faccia con l'Altro che si impone a me: è immediata
mente una memoria di Gesù di Nazaret, del suo dono personale in
nostro favore; è ancora immediatamente l'invio ai nostri fratelli.
D nostro percorso
10
lettura di Luca (c. 2). A questo punto vi sono tre studi sul senso che
assumono le parole di Gesù sul pane (c. 3), quelle sul calice (c. 4) e
quelle sul fare memoria ( c. 5). Poi propongo una lettura dettagliata
della presentazione di Giovanni (c. 6). Un ultimo capitolo tenta di
raccogliere in modo unitario la mia comprensione del mistero del
pane della vita (c. 7).
Il tutto è seguito da un «Invio» e da una «Postfazione», dove so
no raccolte possibili domande poste all'autore.
11
CAPITOLO 1
LA PRATICA PRIMITIVA
DELL'EUCARISTIA
13
Sembra quindi normale che la comunità cristiana di Corinto, for
mata da credenti provenienti dal giudaismo ma anche da molti altri
ambienti, esprima e rinforzi la sua coesione con i pasti comunitari.
Questi pasti avevano luogo in casa di fedeli più benestanti, come
«Stefana e la sua famiglia» ( lCor 16,15) o «Aquila e Prisca presso i
quali si riunisce la Chiesa» ( l Cor 16,19): con altri invitati della stes
sa condizione, essi fornivano l 'insieme delle vivande.
Questi pasti si distinguevano da quelli in uso presso i farisei i cui
convitati facevano parte di uno stesso stato sociale, ma che tuttavia
conoscevano l'uso del «piatto del povero», distribuito ogni giorno, e
anche del «paniere del povero», distribuito ogni settimana, il venerdl
prima del sabato. Sembra che anche i cristiani conoscessero il «ser
vizio delle mense» per i bisognosi ( At 6,2), ma a Corinto le mense
comunitarie erano frequentate anche dai poveri, non unicamente
per ragioni sociologiche ma per favorire l'unione tra i credenti o, più
esattamente, perché si tratta della cena «del Signore» che fa l'unità
di tutti i credenti.
Ascoltiamo Paolo che protesta a favore dell'unità.
17E mentre vi do queste istruzioni , non posso lodarvi per il fatto che le
vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. Innanzi
tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni
tra voi, e in parte Io credo. IHÈ necessario infatti che avvengano divisio
ni tra voi , perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo
a voi . 20Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un man
giare la cena del Signore. 21Ciascuno infat ti, quando partecipa alla cena,
;
prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l altro è ubriaco. 22Non
avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il
disprezzo sulla Ch iesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che
devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!
JCor 11,17-22
14
· 23Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho tra
smesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pa
ne, 24e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo,
che è per voi; fate questo in memoria di me>>. 25Allo stesso modo, dopo
aver cenato. prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova al
leanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memo
ria di me».
Paolo è talmente penetrato dalla presenza del Cristo che, per di
mostrare la gravità dell'azione liturgica, non esita a richiamare il giu
dizio (1 1 ,27-29) che colpisce coloro che non si rendono conto di
quello che fanno quando mescolano incongruamente il loro pasto
«personale» a quello del Signore. Quando si deve solo mangiare per
ché si ha fame, che lo si faccia a casa propria !
L'idea del giudizio introduce la minaccia della sanzione: possono
seguire la malattia, la morte (1 1 ,30). Per capire queste ultime parole
e non attribuirle a qualche credenza di tipo magico, è opportuno ri
cordare quanto era stato dichiarato precedentemente: gli ebrei che
avevano ricevuto nel deserto «il cibo e la bevanda spirituali » erano
tuttavia caduti nell'idolatria e quindi erano stati colpiti dalla morte
(l Cor 10,1-6). La partecipazione ai doni del Cristo non assicura di
per sé la salvezza, contrariamente all'opinione degli «illuminati»
simpatizzanti dei culti misterici dell'ellenismo. L'essere in contatto
col Risorto con questo pasto vuoi dire trovarsi per ciò stesso in una
situazione escatologica di giudizio.
In definitiva, la cena del Signore è propriamente comunione:
Paolo l'ha dimostrato precedentemente:
1611 calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione
con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comu
nione con il corpo di Cristo? 17Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo
molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo deJI'unico pane.
/Cor 10,16-17
15
Non sono pi ù io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne
io la vivo nella fede al Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stes-
so per me.
Ga/2,20
Negli Atti degli apostoli si parla varie volte di un 'attività che ca
ratterizzava la comunità cristiana dall'era apostolica. Essa non è de
scritta nei particolari; l 'autore ne parla come se fosse conosciuta dai
lettori, nominandola semplicemente con il sostantivo «frazione del
pane» (At 2,42) o con il verbo «spezzare il pane» (2,46). Viene for
nita una sola precisazione: essa aveva luogo «nelle case)), I l contesto
indica inoltre che la frazione del pane supponeva una comunità riu
nita e che si trattava di una pratica frequente. Se ne fa menzione non
solo a Gerusalemme ma a Troade (20,6-7), piccola città situata sulla
16
costa nordorientale dell'attuale Turchia. L'espressione, ignorata nel
n1ondo greco, rimanda a un uso giudaico.
L'azione di «Spezzare il pane» costituiva per gli ebrei l'elemento
centrale di un rito domestico che aveva la funzione di inaugurare il
pasto familiare, sia feriale che festivo. Il capofamiglia, seduto, pren
deva il pane e pronunciava la benedizione; rompeva poi il pane con
le sue mani; infine distribuiva i pezzi ai convitati. La benedizione
aveva la massima importanza: essa manifestava che si riceveva da
Dio questo cibo necessario alla vita; con la benedizione esso veniva
inserito nella forza della potenza divina. I convitati rispondevano
con un «Amen) ) collettivo. Il pane da spezzare, fatto di orzo o di gra
no, aveva abitualmente una forma rotonda e piatta.
Con la distribuzione dei pezzi di pane si costituiva effettivamente
la comunità della mensa: i convitati diventavano un solo essere e Dio,
donatore, era considerato come presente. Nei vangeli, questo rito che
inaugurava il pasto è sempre ricordato nei gesti che si succedevano
(benedire, spezzare, dare) e non solo evocato con uno soltanto di que
sti gesti; avviene così nel racconto della moltiplicazione dei pani, nei
racconti. della Cena e nell'apparizione ai discepoli di Emmaus.
Quale è dunque il senso in assoluto dell 'espressione «frazione
del pane) ) o «Spezzare il pane» che gli Atti degli apostoli usano in un
contesto ecclesiale? Non può trattarsi sempl icemente di «prendere
un pasto)) perché le due azioni sono citate una dopo l'altra in At 2,46.
Luca riporta in merito un episodio del quale è testimone quando ac
compagnava Paolo nel suo ultimo grande viaggio missionario. Si tro
vavano a Troade, un sabato sera, nel momento in cui inizia il «giorno
solenne)) del Signore, quando i fratelli si riuniscono per commemo
rare la risurrezione di Gesù.
711 primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare i l pane e
Paolo conversava con loro; e poiché doveva partire il giorno dopo, pro
lungò la conversazione fino a mezzanotte. MC'era un buon numero di
lampade nella stanza al piano superiore, dove eravamo riuniti.
At 20,7-8
17
L'interesse di questo racconto non sta nel miracolo della rianima
zione, ma in quello che lascia intravedere nella riunione presieduta da
Paolo: l'assemblea è liturgica, come lo confermano, con il verbo sy
nag6 (partecipare a una riunione), la datazione e le lampade nume
rose. L'obiettivo di quest'assemblea è la frazione del pane, incorni
ciata dalla parola. Ora, quando Paolo ricorda ai Corinzi il senso della
pratica che egli aveva loro insegnato, conferma il racconto di Luca
parlando del «pane che noi spezziamo» e aggiunge esplicitamente che
questo pane è «comunione al corpo del Cristo)) ( l Cor 10,16).
È dunque legittimo pensare che Luca - o la tradizione prima di
lui -hanno dato un nome al gesto del rito che apriva il pasto giudai
co. Pur evocando immediatamente il rito sacramentale, il termine
«frazione del pane» sottolinea l'aspetto della condivisione nell'unità
che caratterizza la celebrazione cristiana; tanto più che la vita quoti
diana della comunità, secondo Luca, testimoniava quest'unità e que
sta condivisione. Prolungando il pensiero ereditato dagli ebrei, i cri
stiani hanno visto certamente nella frazione del pane il simbolo del
l'unità ricercata dal Cristo che riuniva attorno a sé i fedeli.
Ad ogni modo, la scelta di un nome diverso dall'espressione pao
lina, «cena del Signore», sta a dimostrare la diversità che poteva ca
ratterizzare le Chiese fi n dalle origini del cristianesimo.
L'assemblea celebrante aveva luogo, secondo gli Atti (At 2,46),
«nelle loro case», come abbiamo già segnalato. I discepoli si man
tengono fedeli alla loro tradizione ebraica frequentando assidua
mente il tempio, ma lo fanno per partecipare alla preghiera, per
esempio a quella dell'ora nona (At 3,1 ). Non risulta mai che parteci
pino a qualche sacrificio cultuale. Per questo essi camminano sulle
tracce del loro Maestro, che nessun vangelo ci dice abbia mai parte
cipato a cerimonie sacrificali. Quando Gesù evoca questo tipo di cul
to, lo fa per proclamare la superiorità della misericordia fraterna� ma
ancor più egli ha criticato l'osservanza formale del sabato o delle re
gole della purezza legale.
Gesù ha mantenuto, certamente, con la confessione del Dio uni
co, il rispetto dovuto alla casa di Dio, ma proclama la novità esca
tologica dell'azione del Padre suo, rendendo caduche le cose del
passato. Se Gesù va al tempio, ci va per insegnare, per affrontare le
controversie, a volte per operare un segno; in effetti, il «nuovo» che
egli annuncia non è una rottura ma un inaudito compimento del
l 'antico. Secondo Luca, gli apostoli vanno, come Gesù, nel tempio a
insegnare e ad annunciare la buona novella (At 5,42), mentre l'as-
18
semblea cristiana non si riunisce in un luogo sacro, ma dove abita
no i credenti.
Ci troviamo di fronte a una significativa novità rispetto all'uso
degli ebrei, perché queste «Case» particolari non possono identifi
carsi con le sinagoghe giudaiche dove si celebrava l'ufficio del saba
to. I fedeli si riuniscono per la frazione del pane nelle abitazioni pri
vate che appartenevano all'uno o all'altro dei credenti. Ed è interes
sante osservare come i primi cristiani, ricordando forse che i loro an
tenati celebravano la cena pasquale nell'intimità di ogni famiglia,
non hanno provato il bisogno di procurarsi un luogo riservato esclu
sivamente alla loro vita cultuale. Il velo del tempio è stato squarcia
to alla morte di Gesù (Mt 27,51); Dio è ormai presente e può mani
festarsi in ogni l uogo: la distinzione tra spazio sacro e spazio profa
no, fino allora fondamentale, si è ormai sfumata, come la predicazio
ne di Gesù aveva lasciato int ravedere. Ecco che cosa precisa l'evan
gelista Giovanni nella parola rivolta alla Samaritana:
22Credimi, donna, è giunto il momento in cu i né su questo monte, né in
Gerusalemme adorerete il Pa dre . 2.1Ma è giunto il momento, ed è que
sto, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: perché
il Padre cerca tali adoratori.
Gv 4,22-23
19
deità del suo Cristo. Nell'attesa dell'ultimo giorno, questi ebrei, che
riconoscevano il Messia nel Crocifisso-Risuscitato, rimangono natu
ralmente fedeli alla religione dei loro antenati che aveva rivelato il
Dio unico e il suo disegno di misericordia; ma sono ormai abitati da
una presenza, quella dello Spirito il quale concede loro di capire e di
vivere il messaggio del Nazareno che Dio ha glorificato e pertanto
manifestato veridico. Il comportamento dei credenti rifletterà una li
bertà totalmente nuova, come se la fine dei tempi fosse realizzata.
N on si tratta però di un entusiasmo da illuminati; la liberazione sog
gettiva che ognuno sperimenta nella fede non causa comportamenti
divergenti, né ancor meno una dissociazione della comunità . Al con
trario, ciò che impressiona l'ambiente circostante è la coesione dei
battezzati e la pratica del servizio reciproco ( At 2,41 -47).
La loro vita ecclesiale si organizza nel quotidiano, assumendo
forme concrete di sostegno e manifestazioni ben precise:
Erano assidui nel l'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell' unione
fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere.
At 2,42
20
n un cio del Cristo, accompagnato da miracoli, Pietro e gli apostoli
21
racconto dell'apparizione ai discepoli di Emmaus, che, come gli altri
racconti di apparizioni, fa parte di un contesto liturgico. 2 I viandanti
hanno appena riconosciuto il Signore «durante la frazione del pane»
ed esclamano:
Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo
il cammino, quando ci spiegava le Scritture?
Le 24,32
Analogamente, durante l'apparizione del Cristo ai discepoli riu
niti nel Cenacolo, il Risorto «aprì loro la mente all'intelligenza delle
Scritture» (Le 24,45).
Luca, alla didachè, aggiunge la koinonia, come caratteristica del
la comunità nascente. Questo termine si presenta con un larghissimo
spettro di significati. Dal momento che si tratta della dimensione spi
rituale di un dono dello Spirito Santo, non può riferirsi solo alla con
divisione dei beni; è l'unione di tutti i membri della comunità tra lo
ro in una stessa fede e in un'unica salvezza che ispira appunto la con
divisione dei propri beni. E questo è confermato dalle osservazioni
sull 'unanimità dei fedeli in un altro sommario:
La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore so
lo e un 'anima sola.
At 4,32
Le riunioni testimoniano quest'unanimità: «Tutti i credenti sta
vano insieme». I numerosi convertiti non abitavano certamente in
sieme, ma formavano una comunità che si ritrovava assiduamente
nel tempio e nelle case (At 2,46). Questa intesa ideale consisteva
quindi fondamentalmente in una comunione di fede e si esprimeva
concretamente nel mettere i beni personali a disposizione di tutti.
Luca lo dice esplicitamente in due altri sommari della stessa sezione:
Stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e so
stanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
At 2,44-45
Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva; ma ogni cosa
era· fra loro comune.
At 4,32
2 Cf. il mio Risurrezione di Gesù e messaggio pasquale, Milano 1973, 178s e 287.
22
Se Luca offre come esempio la vendita dei beni quando era ne
cessario per la comunità, sottolinea tuttavia che questo gesto era
completamente libero: B arnaba viene felicitato per averlo fatto (era
quindi un caso eccezionale), mentre invece Anania è punito non per
essersi rifiutato di vendere il suo campo, ma per aver ingannato gli
apostoli sul prezzo realizzato. Sarebbe quindi un abuso il trovare nel
la descrizione di Luca un invito ad abbandonare tutti i propri beni
per raccoglierli in una proprietà comune: Luca parla esplicitamente
di ciò che «apparteneva» a ciascuno, ma sottolinea che non si poteva
più considerarlo come «proprio»: tutto era messo a disposizione di
tutti. Così Maria, la madre di Giovanni Marco, aveva conservato la
sua casa e la metteva a disposizione dei credenti .
Da subito, senza attendere l'iniziativa di Paolo per la col1etta
(chiamata diakonia. koinonia, leitourgia), i primi cristiani hanno in
realtà cercato di tradurre la loro fede e la loro vita di unione col Cri
sto attraverso la condivisione fraterna e l'aiuto dato ai bisognosi.
Se, con l'insegnamento degli apostoli. il presente della comunità
mette le radici nel passato, la comunità vivente si apre continuamen
te all'avvenire:
Godevano la simpatia di t u tto il po pol o Intanto il Si gn ore ogni giorno
.
23
l'indicare principalmente un 'assemblea comunitaria, senza distinzio
ne di classi, significa prima di tutto che lo stare insieme comunitario
è opera del Signore e tende a rendere presente il Signore stesso du
rante la cena.
Da qualsiasi parte si consideri, l'eucaristia lega profondamente
culto ed esistenza.
24
CAPITOL0 2
LE DUE TRADIZIONI
SULL'ULTIMA CENA DI GESÙ
25
Tav. l - Istituzione dell'eucaristia
22 26Ementre essi mangiavano 22E mentre essi mangiavano 23Nella notte in cui fu tradito
23 Gesù il Signore Gesù
24 avendo preso del pane avendo preso del pane 19E avendo preso del pane, prese del pane
25 e pronunciando la pronunciando la avendo rese grazie ��e. avendo reso grazie,
26 be ned i z ione benedi zione
27 [lo] spezzò [lo] spezzò [lo) spezzò [Io] spezzò
28 e avendo[lo) dato e [lo] diede loro e [lo] diede loro
29 ai discepoli, disse: e disse: dicendo: e disse:
30 «Prendete, mangiate, «Prendete
31 questo è il mio corpo>>. questo è il mio corpo». «Questo è il mio corpo <<Questo è il mio corpo
32 che si dà per voi. che [è) per voi.
33 Fate questo Fate questo
34 in memoria di me». in memoria di me».
35 27E, avendo preso 23E,avendo preso 20E per
36 un calice un calice, il calice allo stesso modo 25 Allo stesso modo anche il calice
37 dopo il pasto, dopo il pasto,
38 e reso grazie avendo reso grazie
39 [lo l diede loro , [Io] diede loro
40 e ne bevvero tutti.
41 dicendo: 24E disse loro: dicendo: dicendo:
42 «Bevetene tutti.
42 28Perché questo è (<Questo è «Questo calice [è} «Questo calice è
44 il mio sangue il m io sangue
45 dell'alleanza dell'alleanza la nuova alleanza la nuova alleanza
46 nel mio sangue nel mio sangue.
47 che [è] versato che [è] versato che (è) versato Fate questo, ogni volta che ne
berrete. in memoria di me».
48 per la moltitudine per la moltitudine». per voi,., 26Poiché ogni volta che mangiate
49 per il perdono de(i] 25/f' questo pane e bevete questo
50 peccati». 2':11' calice voi annunciate la morte
del Signore finché egli venga.
28
Marco, da evangelista, non deduce alcuna conseguenza di carat
tere morale relativa alla pratica dell'eucaristia, ma si preoccupa di
non farne una semplice pratica liturgica; Gesù, che noi sappiamo es
sere tuttora vivente, dice in breve, con la parola e l'azione, il senso
della sua vita e della sua morte: riannodare la comunione di tutti gli
uomini con il Padre e secondo il suo disegno. Dal momento che
quest'alleanza non è ancora consumata, deve essere vissuta simboli
camente attraverso un modo nuovo di presenza e di unione. Quando
i suoi discepoli mangiano il pane e bevono il calice che Gesù ha be
nedetto nel nome di Dio, essi esprimono che Gesù è vivente. Gesù è
dunque a loro presente, ma di una presenza che, attraverso l'assen
t.a, è tutta orientata verso il banchetto a venire, quello che vedrà la
l:Onsumazione di tutti in Dio.
Reinserito nella storia evangelica, il racconto della Cena si tro
va radicato a due profondità. L'azione di Gesù corona la sua vita
sulla terra : è un prendere in mano il suo destino. Gesù non · va alla
morte come una fatalità che i suoi nemici gli impongono senza che
lui ne abbia colto il senso profondo: coronando la sua missione, re
staura l'alleanza tra Dio e l'umanità. Gesù manifesta che egli si
don a volontariamente per essere pienamente fedele a Dio e agli
uomini.
C'è un 'altra profondità nella quale si radica il gesto di Gesù: egli
è fedele al suo popolo, in quanto ricapitola in sé la lunga storia del
l'alleanza ripresa senza interruzione da Dio con il popolo eletto. Ge
sù è l 'Israele per eccel lenza. Per mezzo del dono di sé, Gesù porta a
compimento il voto del popolo da cui egli è uscito e al qua le appar
tiene per sempre.
Così l'atto di Gesù che viene a coronare la Pasqua ebraica non è
solamente rituale ma esistenziale. Una vol ta, Dio, con il suo inter
vento durante l'esodo, aveva liberato il suo popolo e per ciò stesso
aveva contestato l'ordine ingiusto del quale era vittima. Oggi, con il
suo atto, Gesù contesta l'ordine nel quale i grandi del suo tempo rin
chiudevano i figli di Abramo: egli dà la sua vita, non solo in obbe
dienza a Dio, ma per fedeltà all'autentica tradizione del suo popolo.
Così facendo, egli inaugura un nuovo ordine di cose, quello dell'a
more che ha la meglio su quello del rito e della legge. I credenti, che
ripren dono il suo gesto e ne riceveranno la vita secondo lo Spirito,
dovranno, a loro volta, contestare l'ordine nel quale rischiano sem
pre di anchilosare il dinamismo inesauribile dell'amore di Dio che fa
nuove tutte le cose.
29
Nei tre evangelisti, i versetti che riferiscono l'istituzione si tro
vano nel contesto di una narrazione biografica: quest'istituzione è
un atto che Gesù ha posto durante la sua ultima cena con i disce
poli. Paolo, peraltro, che scrive verso l'anno 50, evoca anch'egli
questo contesto con la notazione «nella notte in cui fu tradito»
( 1 Cor 1 1 ,23) che precede nella sua lettera il richiamo dell 'atto di
istituzione.
La trama degli evangelisti è dunque quella di un racconto di tipo
storico che include un avvenimento il cui ricordo era di capitale im
portanza per le loro rispettive comunità. Se lo scopo degli evangeli
sti è di raccontare quest'avvenimento passato nel suo svolgimento, il
carattere storico dei gesti di Gesù e il parallelismo delle parole sul
pane e sul calice riflettono senza dubbio le formule di enunciazione
che si erano cristallizzate nel corso della pratica cultuale delle prime
comunità cristiane, fatto questo che giustifica le varianti da un testo
all'altro.
Questo disegno è riprodotto diversamente. Procediamo pazien
temente a un'esegesi del testo. I nostri racconti sono pieni di diffi
coltà, di cui ecco qualche esempio: in Mc 1 4,22 viene ripetuta la no
tazione «mentre mangiavano» che, in 1 4,1 8 (righe 4-6) è ben collo
cata nello svolgimento de l racconto. La frase «e ne bevvero tutti»
(1 4,23b = riga 40) viene curiosamente prima della parola di Gesù sul
calice; un segno del suo posto anormale è la correzione fatta da Mat
teo che la trasforma in «bevetene tutti» (Mt 26,27 riga 42). Ora il
=
30
Marco 14 Luca 22
17Venuta la sera, arriva 1 4E, quando fu l'ora,
con i Dodici prese posto a tavola
e gli apostoli con lui.
È come se, in Marco, la parola sul sangue d eli ' alleanza (v. 24b)
fosse stata inserita ulteriormente in un racconto dove il testo del v.
25 commentava subito, e a suo modo, la distribuzione del calice e
l'atto del bere. Possiamo quindi riconoscere l'esistenza di una tradi
zione sull'ultima cena di Gesù che non parlava dell'istituzione, ma ri
portava altri ricordi importanti per i credenti. Luca l'ha riportata, e
l'ha ricomposta in un tutto coerente nel quale l'istituzione dell 'euca
,
ristia è opportunamente inserita. L ultima cena di Gesù è stata dun
que raccontata sulla base di due tradizioni, l' una e l'altra storiche, ma
di natura diversa: una cultuale, l'altra esistenziale. Nella prima, la
preoccupazione dello scrittore è di mettere in rilievo un'azione fon
datrice piuttosto che di descrivere minuziosamente lo svolgersi di un
episodio biografico.
Marco riprende così l'episodio, un ricordo di ordine cultuale di
capitale importanza per la comunità cristiana, anche se il racconto
conserva le reliquie di una diversa tradizione sull 'ultima cena di Ge
sù. Qual è la prospettiva di quest'ultima tradizione - che chiamo non
cultuale - con cui Luca, che procede diversamente, ha inquadrato il
racconto dell'istituzione?
31
B. Un fattore esistenziale
32
Sarebbe opportuno verificare come questo schema si applica a
questo o a quest'altro testo dell'Antico Testamento, a certi apocrifi
giudaici, e anche a testi del Nuovo Testamento. Così il discorso di ad
dio di Paolo a Mileto (A t 20,17-38): gli anziani sono convocati ed egli
annuncia la sua morte; egli si dilunga sulla sua vita esemplare, an
nuncia la ven uta di falsi dottori, si preoccupa della successione apo
�tolica, auspica la benedizione ed esprime con gesti il suo addio. Al
tro esempio di <<forma testamentaria»: Gv 13-17, discorso che viene
introdotto dall'appellativo «figlioli miei» (Gv 1 3,33).
Qual è allora il senso della forma testamentaria? Essa permette
Ji esprimere quello che avviene al momento di una trasformazione
importante come quella della morte: un cambio di generazioni. Fini
sce un tempo, ne inizia uno nuovo.
Fare testamento è rispondere all'istinto di sopravvivenza che ur
ge in noi: quando sto per morire, spero di trionfare sulla fine del tem
po, desidero non solo trasmettere gli oggetti in mio possesso, ma la
sciare le ricchezze morali e spirituali acquisite durante la vita, ossia
comunicare il mio essere, sopravvivere in qualche modo.
Fare testamento è manifestare l'onnip o tenza di Dio che è eterno.
Ecco perché, sia che si tratti di Abramo, di Giacobbe, di Paolo e an
che di Gesù, rimane aperto il problema di come sopravvivere, il pro
blema della successione. L'uomo che, per sua natura, non può vince
re la morte, deve passare la mano ad altri. Apparentemente verifica
su di sé il proverbio: «Non omnis moriar», ma questo desiderio na
turale è trasfigurato dall'intervento stesso di Dio.
33
Tav. 2 - Confronto con i Testamenti dei XII patriarchi
TESTAMENTO TIPO
TESTAMENTO DI NEFrALI (in base a 32 test. bibl. e apoc.) LuCA 22,1-38
PROLOGO
Morte prossima La morte di Gesù 01-06
è prossima
1,1-2a I suoi figli arrivano Convocazione Egli prende l'iniziativa 07-12
1 ,2b Egli prepara il pasto Pasto per la cena pasquale 13-14
TESTAMENTO
1,3-4 Io muoio dopo Io sto per morire lo muoio dopo 15-18
questo pasto questa cena
Corpo offerto 19-20
Sangue versato
Il traditore prepara 21-23
la mia morte
U...2 Il mio passato felice Il mio passato Come io ho servito, 27 D Regno è dato a me
in un mondo sereno: 1'
3,1-S siate fedeli ognuno al ""'
vostro ruolo + esortazione senite anche voi. 24-36
28-30
Visioni sull'avvenire 4,1-5 Voi peccherete: D vostro avvenire. Peccato di Pietro 31-34 Sarà dato a voi
specialmente di Levi prigionia; e suo ravvedimento:
e Giuda: (5-7) conversione, ritorno. Prossime prove:
S-8,3
8,4-10 Fate il bene e + esortazione (perché non venga meno) 32a + esortazione
sarete benedetti da Dio. immaginosa
La mia successione conferma i tuoi fratelli 32b
Dite ai vostri figli 35-36
di essere loro fedeli. Vi benedico
(8,1-3) Sto per morire Thtto si compirà 37(-38)
9,1 Seppellitemi a Ebron La mia sepoltura.
------ EPILOGO
9,2 Egli mangò, bevve ... Morte (PASSIONE E MORTE) .
morì
9,3 Fu seppellito come Sepoltura (SEPOLTURA)
voleva.
N.B. l 5--8 ,3, 28-30, 35-36: elementi del testamento-tipo più volte ripetuti.
N.B. 2 1'.Jt: elementi rovesciati in 24-27 (infatti il passato viene dopo l'esortazione).
sciente di ciò che l'attende, fa i suoi addii ai discepoli uniti attorno a
lui. Lo schema sottostante all'intero racconto ( Le 2�, 14-23,35 ) e che
struttura la sua unità è simile a quello del Testamento di Nephtali,
uno dei Testamenti dei XII patriarchi, scritto apocrifo giudaico data
to «della seconda metà del I secolo a.C. )).2
La tavola della pagina a fianco mostra la distribuzione del di
scorso di addio nel quale Luca ha inserito la tradizione dell'istituzio
ne eucaristica. Certo, nei Testamenti dei XII patriarchi l'epilogo rife
risce la morte e la sepoltura del patriarca, e questa parte è evidente
mente fortemente sviluppata nei racconti evangelici dell 'arresto, del
giudizio, della crocifissione e della morte di Gesù: l'interesse proprio
della comunità primitiva ha disteso la parte finale dei Testamenti.
D'altra parte, la redazione scritta del racconto della Passione ha cer
tamente preceduto quella del racconto d eli 'ultima cena. Questo ha
dovuto essere redatto dopo che il racconto della Passione circolava
già come avvenimento fondamentale della catechesi.
Le due sezioni sono dunque ben distinte nei vangeli; la loro unità
tuttavia esiste. Inoltre, per Mc/Mt si può dire che il racconto della
«Passione in segreto)) precede quello del la messa a morte in pubbli
co. In Luca, Gesù, cosciente di ciò che l'attende, fa i suoi addii ai di
scepoli riuniti, e qui Luca ha costruito il suo racconto seguendo la
traccia di uno dei Testamenti dei XII patriarchi. Il primo sviluppo (Le
22,1 -6), che riferisce gli antecedenti della cattura di Gesù, equivale
all 'annuncio della morte imminente del patriarca; il secondo svilup
po (22,7-14) descrive la preparazione del pasto al quale i discepoli
sono convocati come i figli del patriarca lo sono per un pasto presso
il morente. Comincia allora la cena durante la quale Gesù farà i suoi
addii: annuncia e m ima la sua morte vicina ( Le 22,15-23 ), dichiara co
me dovrà essere il comportamento di coloro che gli sopravvivono
(22 ,24-30) e infine precisa ciò che sta per succedere alla comunità dei
discepoli (22,3 1 -38): tutto ciò, salvo l'atto dell'istituzione, mostra a
grandi tratti il suo equivalente nella sequenza del Testamento.
35
14Quando fu l'ora, prese posto 17E, avendo ricevuto un calice,
a tavola, e i discepoli con lui. avendo reso grazie,
E disse loro: disse:
«Ho tanto desiderato di «Prendete e condividete tra voi.
mangiare questa Pasqua
con voi, prima di patire.
ISVi dico in effetti che lXVi dico in effetti che
mai più la mangerò ormai non berrò più
del frutto della vite
finché fino a che
non giunga a compimento
nel regno di Dio». non venga il regno di Dio>>.
Queste due strofe dicono, l'una e l'altra, che Gesù è di fronte al
la morte: dovendo smettere di festeggiare la Pasqua e di bere il cali
ce, prova un veemente desiderio di festeggiare quest'ultima Pasqua
con i suoi discepoli fino a che venga il regno di Dio. Gesù condivide
con i suoi discepoli il pasto di festa e beve alla coppa, nella certezza
che alla fine dei tempi parteciperà alrultimo banchetto presso Dio.
I critici divergono nell'in terpretazione di questi testi: gli uni vi
leggono una specie di tradizione di istituzione a causa della menzio
ne del calice; ma come giustificare l'assenza della parola sul pane?
Per questo noi pensiamo che si tratti del ricordo dell'ultima cena di
Gesù, secondo una tradizione non cultuale ma «testamentaria».
Ci si può domandare allora perché Luca menzioni questa tradi
zione cultuale; avendo proclamato la sua partenza e il suo ritorno al
la fine dei tempi , Gesù vuole assicurare alla piccola comunità che le
sarà presente in un altro modo:
1 9E, preso del pane, avendo reso grazie, [lo] spezzò e [lo] diede loro di
cendo: «Questo è il mio corpo che [si dà] per voi; fate questo in memo
ria di me». 20E per la coppa, allo stesso modo, dopo aver cenato, dicen
do: «Q uesta coppa (è] la nuova alle anza [diatheke] nel mio sangue che
è versato per voh>.
36
diatheke deriva da una radice che significa «fare un testamento in
una disposizione efficace», si è autorizzati a vedere, nell 'atto di Ge
sù che si dà, il «testamento» attraverso il quale è costituito il nuovo
popolo di Dio.
Un secondo aspetto caratterizza il racconto cultuale di Luca. La
colorazione liturgica tanto presente in Marco cede il posto a una
presentazione di tipo storico: il racconto ricorda l'evento passato,
quando Gesù si trovava con i Dodici alla fine della sua vita. Questo
aspetto storico è sottolineato dal fatto che G esù non parla «della
moltitudine>> ma solamente di «VOi» (dei discepoli riuniti quel gior
no attorno a lui). Indubbiamente, attraverso il gruppo unificato,
Gesù ha presente la comunità dei credenti di tutti i tempi, ma si in
teressa particolarmente a coloro che sono davanti a lui e ai quali fa
i suoi addii. D 'altra parte, se quest'evento non si perde nel passato
lo si deve all 'anamnesi, alla richiesta di fare memoria di Gesù (v.
19); la comunità ora fondata con un legame divenuto interiore con
Gesù, deve prolungarsi dopo la sua passione e sopravvivere fino al- ·
37
2. Situazione presente del credente (Le 22,24-30)
38
qual cosa aveva suscitato una disputa tra i Dodici (Mc 10,42-44 = Mt
20,25-27). Nel quadro del pasto, Gesù precisa ancora il suo pensiero
con rimmagine del servizio a tavola, come l'aveva fatto in un'altra
circostanza: per ringraziare i servitori che al suo ritorno troverà vigi
lanti, il padrone «prenderà gli abiti da lavoro, li farà sedere a tavola
e passerà a servirli» (Le 12,37). Non è solo questione dei discepoli:
dicendo «io sono in mezzo a voi come colui che serve», Gesù rinvia
direttamente a se stesso; ricapitola all'intenzione dei suoi il senso
della sua intera vita . ciò che in Giovanni sarà espresso simbolica
mente nel gesto della lavanda dei piedi .
Opponendo all'ambizione il servizio, Gesù caratterizza, con il
proprio comportamento, l'atteggiamento autentico dei discepoli;
non solo quello dei Dodici, ma quello di tutti i discepoli. Prima della
Pasqua, infatti, i Dodici non sono ancora capi della Chiesa perché
non sono ancora testimoni privilegiati del Risorto: essi prefigurano
piuttosto il nuovo popolo di Dio, raccolto attorno a Gesù, senza che
si possa attribuire loro la responsabilità nei riguardi degli altri fede
li; essi rappresentano quindi la Chiesa futura nel suo insieme. Per
questo, anche qui, l'esortazione di Gesù è rivolta a tutti i membri del
popolo di Dio.
Tra loro, tuttavia, alcuni aspirano a essere grandi, potenti, a esse
re capi. Gesù non contraddice quest'aspirazione segreta propria del
l'uomo: essa può esprimere un profondo senso di solidarietà umana;
ma, dal momento che può anche nascondere una tendenza a voler
dominare, Gesù stabilisce un'opposizione netta tra «il più grande, co
lui che domina, colui che comanda, col ui che è a tavola» e «il pi ù gio
vane, colui che serve». E dunque, chi può essere dichiarato capo, nel
popolo di Dio? Colui che serve. Non che il discepolo sia così invita
to all'umiltà, ma egli appartiene a un nuovo ordine di cose: nel po
polo di Dio, il più grande è il più piccolo; il capo è il servitore, colui
che, alla sequela di Gesù, si presenta come «Col ui che serve».
Viene così caratterizzata l'esistenza cristiana, a immagine di
quella di Gesù che ha dato il suo sangue per i discepoli e per tutti.
Dalla cena eucaristica sorgono dunque servitori che saranno poi ve
ri «capi» in mezzo ai fratelli.
È utile ricordare ciò che Giovanni ha espresso con brevi formule:
Se uno mi vuoi servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo.
Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà.
Gv 12,26
39
La prospettiva della gloria e dell'onore è sempre presente. Si
tratta del fatto che, per la Scrittura, l'uomo, malgrado la sua debo
lezza, non è senza una dignità incancell � bile.
b) Prospettiva di gloria
Dopo aver evocato una ricompensa per la fine dei tempi , Gesù
vuole affrontare le prove che stanno per scatenarsi sui discepoli. La
comunità che un giorno sarà riunita in cielo sta per conoscere la di
spersione a causa di Gesù; essa deve essere rinforzata e incoraggia
ta, particolarmente nella persona che riceve il compito di rimetterla
assieme.
40
a) Pietro e la comunità (Le 22,31 -34)
41
35E disse loro: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né san
dali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». 36Ed egli sog
giunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non
ha spada venda il man tello e ne compri una. 37Perché vi dico: deve com
piersi in me questa parola della Scrittura: '•E fu annove rato tra i m-alfat
tori ". 38Jnfatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine». 39Ed
essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli rispose: «B asta ! » .
4. Culto ed esistenza
42
Luca, facendo questo, ha dimostrato di essere evangelista per ec
cellenza. Egli non poteva, come Paolo, collegare il racconto dell 'isti
tuzione a un'esortazione alla carità; ma ha potuto situare il tutto in
un discorso di addio che, incominciato in 22,15, contiene le parole
stesse dell'istituzione cultuale. Secondo Luca, Gesù non si è accon
tentato di instaurare un modo nuovo, che noi chiamiamo sacramen
tale, della sua presenza. Egli ha dato, nello stesso tempo, il senso esi
stenziale dell'atto sacramentale, esplicitando il tema del servizio fra
terno e della vigilanza nella prova in attesa del banchetto finale.
Con frontian1o ancora una volta il testo lucano e la tradizione te
stamentaria. I diversi motivi di questa forma appaiono in Luca: si
tuazione di morte imminente, convocazione dei discepoli per una ce
na durante la quale la morte ormai vicina è annunciata, esortazione
affinché tutti si comportino come il moribondo si è comportato nel
passato, incoraggiamento nella prospettiva di un avvenire meravi
glioso, avvertimento sulla situazione dei vivi, quella cioè di una lotta
senza tregua.
Alcune differenze si spiegano con l'orientamento di Luca: l'as
senza di qualsiasi accenno alla sepoltura , cui accenna Marco (Mc
14,8), si spiega in quanto Luca si interessa solo della comunità che
deve continuare a vivere. Tuttavia, altre differenze con la tradizione
testamentaria sono significative. Il pasto è in primo piano; i discepo
li non sono testimoni passivi; l'annuncio del tradimento li turba
profondamente (v. 23), litigano per sapere chi sarà il più grande tra
loro (v. 24) , Pietro reagisce vigorosamente all'annuncio della sua
prova (v. 33), i discepoli non capiscono la loro situazione (vv. 35.38).
Il discorso di Gesù tende a divenire un 'istruzione in forma di dialo
go: è ancora un moribondo che lascia il suo testamento oppure un
uomo pienamente padrone degli eventi?
Infine, se si tratta del passato, lo è solo per dare una base alla fe
deltà dei discepoli, ma è l 'avvenire che focalizza lo sguardo, sia per
la ricompensa attribuita a coloro che saranno stati fede li sulla terra
a vivere in compagnia di Gesù (vv. 24-28), sia nella prospettiva del
ravvedimento di Simone (v. 32), sia infine di fronte alla situazione
oscura e piena di minacce (v. 36).
La tradizione cultuale è dunque colorata da tutto quest'insieme.
Essa acquista un senso attraverso il servizio da compiere per mante
nere la comunità che la cena eucaristica suggella e di cui è simbolo.
Essa si situa nei riguardi del banchetto escatologico in un contesto di
combattimento e di fedeltà: b�sogna restare uniti a Gesù e, co ri lui,
43
trasformare il mondo. L'eucaristia non è semplicemente un rito da
compiere, ma un atto che, come uno specchio concavo, concentra e
nello stesso tempo rifrange la luce. Questo atto è un condensato del
pasto del passato e del futuro, annuncia il pasto definitivo, mantiene
la comunità riunita e fiduciosa attraverso la prova e la morte.
Infine, esaminiamo brevemente il testo secondo due punti di vi
sta. Da quello del testatore, la cui morte è vicina o anche già presen
te, e questo appare evidente dall'uso del tempo presente per i verbi
che descrivono quello che sta per succedere: nelle parole dell'istitu
zione innanzi tutto, ma anche quando Gesù denuncia la mano di co
lui che lo «consegna ai nemici» e dichiara che il Figlio deli 'uomo «Se
ne va» ed «è tradito». Gesù domina il tempo, vedendo la sua morte
presente e, nello stesso tempo, «disponendo» già del Regno e sti
mando che quello che lo riguarda quaggiù finisce.
Dal punto di vista dei destinatari del testamento, la letteratura
testamentaria presenta la cena d'addio come un atto di comunione
con il patriarca e come espressione della comunione tra gli eredi. In
sistendo sul pasto, citato in quasi tutte le pericopi, Luca simboleggia
la comunione dei discepoli con Cristo. Il pasto è preso ora con Gesù
che «serve» a tavola; sarà ripreso alla fine dei tempi con Gesù che di
spone del Regno, mentre al centro si trova l'ordine di un pasto cul
tuale da fare in memoria di Gesù, simile al pasto vissuto ora e che è
già il simbolo della morte di Gesù per la salvezza degli uomini.
Gli apostoli, accettando di comunicare con il suo pane e con il
suo calice, divengono essi stessi partecipi del suo passare dalla vita
antica alla vita nuova. Simbolicamente, essi aderiscono al suo corpo
che si immola e al suo sangue che viene versato. Poiché la comunio
ne con la morte è reale, la rappresentazione è realista. Le parole del
·cristo sono real iste: attraverso loro, implicitamente, i Dodici entra
no nel movimento della sua Pasqua per risuscitare con lui. Questa
comunione è reale nel tempo storico dell'ultima cena e lo sarà nel
tempo celeste del banchetto finale; e deve essere non meno reale nel
tempo intermedio della separazione apparente. Questo sarebbe il
fondamento della «presenza reale» del Cristo: il mistero eucaristico
presuppone una presenza reale.
Conclusione
44
ha voluto mantenere un legame personale con coloro che stava per
lasciare: come essere presente attraverso l'assenza?
L'eucaristia è una prima risposta. Ma non è la sola. Un'altra tra
dizione non cultuale risponde alla domanda. Colui che sta per mori
re lascia un testamento ai suoi discepoli nell'attesa di rivederli. A
modo suo, questa tradizione dice in che maniera il discepolo mantie
ne un legame con colui che, risuscitato dai morti , è sempre vivo: at
traverso il comportamento di servizio e di carità, così come Gesù
stesso ha vissuto.
In realtà, le due tradizioni sono entrambe indispensabili. Da un
primo punto di vista corrispondono ai due poli che la teologia ulte
riore ha precisato a proposito delJ'eucaristia: il sacramento e la «CO
sa del sacra1nento», ossia il rito e la vi ta che il rito significa. Il sacra
mento ha valore solo in funzione della «cosa», cioè, nel caso dell'eu
caristia, Gesù Cristo e la carità. Il cultuale autentico deve esprimersi
n eli ' esistenziale.
Uno sguardo più profondo invita tuttavia a non vedere in queste
due tradizioni due realtà tali che l'una sarebbe la conseguenza del
l'altra. Culto e servizio fraterno non sono sullo stesso piano, né sono
dello stesso ordine. Quale relazione li unisce ? Di solito si pensa che
il servizio sia l 'effetto del culto: l'eucaristia prod urrebbe l'effetto ca
rità. In un certo senso è esatto, ma allora vuoi forse dire che il servi
zio non può esistere se non grazie al culto? Ecco perché, invece di ac
contentarsi della relazione <<causa/effetto», è meglio ricorrere alla re
lazione «significante/significato)).
La presenza della tradizione testamentaria e, in particolare, il fat
to che Giovanni abbia potuto nascondere la tradizione cultuale con
tribuiscono a dimostrare che la carità esistenziale è la «sola)) realtà
attraverso la quale la Chiesa vive autenticamente del Cristo. Conse
guentemente la via cultuale, pur continuando a essere al cuore del
l'esistenza cristiana, non è l 'unica via attraverso la quale il Cristo
continua a mantenere la sua presenza in mezzo ai suoi discepoli: la
carità e il servizio sono una via privilegiata. Il culto non viene per
niente scartato, ma è solo posto in rapporto all 'esistenza nell'amore
che caratterizza il cristiano.
Inserendo le parole dell'istituzione in un discorso di addio, Luca
mostra in modo eccellente qual è la funzione del culto eucaristico
nella vita del cristiano. La tradizione cultuale conserva certamente
un posto privilegiato nella tradizione testamentaria: nei versetti del
l'istituzione si condensa in certo qual modo tutto il discorso d'addio,
45
un discorso che dimostra come l'azione liturgica produce l'assimila
zione progressiva del discepolo al Signore vivente. Ma l'azione litur
gica vale solo in quanto esprime la sua efficacia con frutti concreti:
fede e fedeltà in mezzo alle prove, speranza della gloria annunciata,
carità vissuta nel servizio fraterno.
Non c'è dunque bisogno di scegliere tra la tradizione cultuale e
la tradizione testamentaria, dal momento che l'una e l'altra sono in
dispensabili per manifestare il senso profondo della n uova presenza
di Gesù dopo la morte. L'una e l 'altra dicono lo stesso mistero, che
cioè il discepolo è invitato a divenire un altro Cristo, come l 'hanno
capito i santi.
46
CAPITOLO 3
A. Q uesto
47
LA PRESENZA DEL CRISTO
Avendo preso del pane Avendo preso del pane E avendo preso del pane Egli prese del pane
e pronunciando la benedizione pronunciando la benedizione avendo rese grazie e, avendo reso grazie,
[lo] spezzò [lo] spezzò [lo] spezzò [lo ] spezzò
e avendo [ lo] dato ai discepOli [lo] diede loro e [lo ] diede loro
disse: e disse: dicendo:
«Prendete, mangiate: « Prendete!
questo è il mio corpo». questo è il mio corpo». «Questo è il mio corpo «Questo è il mio corpo
che si dà per voi. che {èj per voi.
Fate questo in memoria di me». Fate questo in memoria di me!».
Infine, questo pane è «dato» ai discepoli, esprimendo in tal mo
do la relazione che lega Gesù stesso, in quanto presiede la cena , con
i suoi convitati. Questo pane viene dato loro dalla sua mano.
Il pane non è quindi una realtà ordinaria: è sottratto al suo stato
ordinario profano, per divenire, a un livello segreto, strumento di re
lazione con l 'lnnominato invisibile e, a un livello manifesto, con Ge
sù che presiede la cena e condivide quel pane.
B. Il mio corpo
49
C. D mio corpo che [è J per voi
50
A conferma d eli 'interpretazione non sacrificale della morte del
Cristo, si può ricordare che molto spesso la morte del Cristo è giu
stificata non dalla salvezza dal peccato ma dall'amore, anche se la
salvezza vi è implicata: «Gesù Cristo mi ha amato e si è immolato per
noi» (Gal 2,20); «Dio dimostra il suo amore verso di noi in questo
che il Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). E l'interpretazione della
morte di Gesù di Giovanni è: «Nessuno ha un amore più grande di
questo: dare la vita per i propri amici>> (Gv 15,13). In questo modo si
ritrova il senso originario dell'espiazione che significa riconciliazio
ne, ripresa del dialogo con Dio. La parola di Gesù trova il suo signi
ficato immediato nel simbolismo del cibo: «lo mi do in nutrimento
perché voi viviate». E allora è questo il senso di «in favore di voi»,
perché se si mangia, si mangia per vivere. Se Gesù va alla morte, non
vi va come a un mezzo rituale di riscatto: egli annuncia che, fedele a
Dio e agli uomini sino alla morte, sarà presente in mezzo ai suoi fa
cendosi loro nutrimento e facendoli vivere di lui. Questa è la pro
spettiva della vita che domina: ha il potere di essere la nostra sor
gente di vita nell'universo nuovo dell'alleanza.
51
Ezechiele deve radersi la testa e disperdere i capelli al vento, e poi
ode l'ordine: «A tutti gli israeliti riferirai: "Così parla YHWH: Que
sta è Gerusalemme ! "» (Ez 5,5). Il profeta identifica il suo gesto con
la sorte della città; i suoi uditori capiscon·o che subiranno una sorte
simile a quella dei suoi capelli. Il mimo profetico annuncia un even
to futuro che la parola rende esplicito.
Esiste un secondo elemento secondo la mentalità biblica: quello
dell'efficacia. Il profeta non ha come obiettivo la semplice eventua
lità, ma la sua azione anticipa l'evento e, in un certo senso, lo produ
ce. Per questo, quando Geremia si è posto sulle spalle un giogo per
indicare che una dominazione straniera peserà su Gerusalemme, i
falsi profeti lo distruggono in fretta per impedire che ciò si realizzi
( Ger 27-28). Alcuni racconti biblici sono ancora più espliciti. Eliseo
invita il re Ioas a percuotere la terra, e il re esegue subito, ma solo
per tre volte, e il profeta gli grida: «Avresti dovuto colpire cinque o
sei volte; allora avresti sconfitto l'A ram fino allo sterminio; ora, in
vece, sconfiggerai l' Aram solo tre volte» (2Re 1 3, 1 9). Tra l'azione del
re e la battaglia annunciata esiste un legame reale, che va dal signifi
cante al significato; il secondo è come conseguenza del primo a cau
sa dell'efficacia attribuita al significante: se il re avesse percosso la
terra cinque volte e non tre, i nemici sarebbero stati sconfitti.
Il lettore avrà notato che nell'esempio di Ezechiele si incontra
una formula: «Questa è Gerusalemme», analoga alla parola sul pane.
Da tale uso profetico risulta che il verbo «essere», nel caso della pa
rola sul pane, non stabilisce una corrispondenza materiale immedia
ta tra il pane e il corpo. E questo è abitualmente visto favorevol
mente dai critici. J. Dupont, ad esempio, scrive: «Nel contesto del mo
do di pensare di un semita e della Bibbia, il senso più naturale della
parol a sul pane sarebbe "Questo significa il mio corpo", "Questo
rappresenta il mio corpo"».1
Si pone allora la domanda: Si può ancora parlare di «presenza
reale»? «Per dare un fondamento a questa dottrina», il medesimo
autore ricorre a Paolo, secondo il quale il pane è «comunione al cor
po del Cristo» (1Cor 10,16), e a Giovanni che afferma: «Perché la
mia carne è vero cibo» (Gv 6,55). O'accordo. Ma questo apporto
esterno alla parola dell'istituzione è sufficiente a precisare in che co
sa consiste la «Conversione» del pane in corpo?
52
b) Seconda tappa. L'esposto precedente è valido ma incompleto.
La parola e il gesto di Gesù si situano perfettamente nel genere del
la rappresentazione profetica e ne possiedono il carattere dell'effi
cacia: mangiando questo pane, i discepoli si uniscono al «Corpo» di
Gesù . Il segno «pane» produce la comunione con Gesù. Ma che co
sa avviene esattamente del significante «pane»? Per rispondere alla
domanda, bisogna ricordare la situazione dialogale nella quale è sta
ta pronunciata la parola di Gesù e approfondire il discorso attraver
so alcune nozioni di linguistica e di semantica.
Ogni parola è pronunciata da un «locutore» a un «interlocutore».
A seconda che essa dica qualche cosa e che essa sia detta a qualcu
no, la parola presenta due poli, uno di determinazione, l'altro di si
gnificato. Quando io dico: «Questo è il mio pane>>, pronuncio un giu
dizio informativo o «Constatativo>>, ossia constato che questo è un
pane e non una pietra; il mio linguaggio è anche «performativo>>, os
si a io invito il mio interlocutore a riconoscere che questo pane è mio
c non di un altro. D'altra parte, io «determ ino» la natura di que
53
il re batte in terra, ma del «pane», cibo che si mangia. Non viene cer
to riferito che i discepoli mangiano il pane, m a è detto che sono in
vitati a farlo. In Luca e Paolo la parola che segue immediatamente
(«fate questo in memoria di me») dice che questo cibarsi dovrà ripe
tersi per sempre dopo la morte di Gesù. In sé, il fatto che si tratti di
pane dimostra che la parola «performativa>> di Gesù non trova la sua
completezza se non nella risposta implicita dei discepoli che man
giano il pane offerto da Gesù. La situazione dialogale della parola si
gnifica che Gesù invita i discepoli al cibo speciale che è il suo corpo.
E questo che cosa vuoi dire?
È qui che il ruolo del significato diventa preponderante nel lin
guaggio. Infatti, la stessa parola «pane>> può assumere diversi signifi
cati. Se ad esempio dico: «Ecco il pane della vita>> io attribuisco al si
gnificante «pane» un valore diverso dal suo significato naturale (ci
bo fisico), un valore percepibile solo dagli interlocutori che fanno ri
ferimento a un certo modo di pensare, nel mondo della fede o in
quello della Bibbia.
Il signi ficato non è più unico, come nella frase precedente «que
sto è il mio pane» (dovevo riconoscere che questo pane è suo); il ter
mine si apre a una pluralità di interpretazioni . Nell'espressione «pa
ne della vita», l'interlocutore può intendere un mezzo di sussistenza
oppure la sapienza che rende gioiosa l'esistenza o Gesù che parla
dell 'eucaristia o infine la manna celeste dell 'Apocalisse. È pertanto
lo spirito dell'interlocutore che coglie un certo valore nell'espressio
ne «pane della vita». Egli «lo riconosce», ossia, grazie alla sua cultu
ra e agli archetipi che possiede, entra in comunione di pensiero con
il locutore, che ha fatto una «performanza»: ha conferito al signifi
cante «pane» un valore di un ordine diverso da quello del suo signi
ficato naturale, invitando il suo interlocutore a riconoscerlo.
Rispetto alla prima tappa, abbiamo fatto un altro passo che per
mette di situare l'azione di Gesù nel genere dell'azione simbolica dei
profeti: essa ci era sembrata reale e non fittizia, a misura dell'auto
rità stessa di Gesù. La seconda tappa ci porta a riconoscere il carat
tere «performante» del linguaggio di Gesù che dà al significante un
valore nuovo. È necessario un terzo passo per arrivare a cogliere
esattamente in che cosa consiste la trasformazione del pane nel cor
po: la necessità di accogliere la parola stessa di Gesù.
54
nanzi tutto ammettere che la parola «simbolico» non si oppone af
fatto a «reale», malgrado le mentalità abituate a una presentazione
«Ontologica» del mondo. B isogna fare una vera conversione menta
le e cogliere ciò che differenzia il simbolo dal segno.
Qual è la natura del segno? Partiamo dal livello inferiore, quello
del «segnale>>: il significante «fumo>> invita a percepire il significato
<<fuoco». Il fumo è segno del fuoco; fumo e fuoco sono due realtà del
lo stesso ordine, che esistono indipendentemente dalla mente che li
percepisce. Per questo non si può dire che il fumo «simboleggia» il
fuoco.
In altri casi, il significante evoca immediatamente un'altra cosa,
una realtà che appartiene a un altro ordine e che non può essere col
ta se non dalla mente dell 'uomo. Riprendiamo quanto è già stato
detto sulla · pluralità dei significati possi b i l i di una parola, ma cen
trando l'attenzione soprattutto sul si gn i fican te.
Secondo la «performanza>> del locutore o la «competenza» del
l'interlocutore, il significante «acqua)>, ad esempio. può simboleggia
re la freschezza, la fecondità, la distruzione . . . Come il pane, la luce o
qualsiasi altro oggetto del mondo, l'acqua non è un simbolo in sé, ma
è la mente dell'uomo che, a partire dalla sua cultura o dall 'inconscio,
entra in comunione con questo o quest'altro aspetto di un signifi
cante che è già in sé carico di ciò che la mente vi mette o vi scopre.
In questo modo ne determina o ne percepisce il valore simbolico in
un determinato contesto.
Attraverso il significante «pane» io posso considerare non il cibo
ordi nario, ma una realtà di ordine diverso, segreto, che io vogl io ma
nifestare attraverso di lui: il pane-sapienza, il pane della vita . . . Lo
stesso significante «pane» mette insieme, unisce, «simboleggia» due
realtà che non sono dello stesso livello.
Mentre nel segno il significante può essere separato dal signifi
cato perché esiste indipendentemente dal pensiero come realtà che
può avere molti significati, il simbolo, invece, partecipa a quello che
rappresenta e diventa tale solo tramite il pensiero che unisce due
realtà di ordine diverso. Siamo dunque passati, mediante una situa
zione dialogale, a un linguaggio simbolico, quello che unisce due
realtà di ordine diverso.
Applichiamo ora queste premesse alla parola sul pane. Pronun
ciandola, Gesù conferisce alla funzione del pane un valore supple
mentare. Questo pane continua a essere nutrimento terreno dato da
Dio, ma diventa inoltre cibo di un altro ordine, poiché è detto corpo
55
del Cristo. Il pane acquisisce così un valore nuovo che gli proviene
dalla parola di Gesù e anche dall 'accoglienza che gli viene fatta. È lo
spirito di Gesù che dà consistenza alla parola; è lo spirito del disce
polo che, accogliendo la parola di Gesù, riconosce la sua efficacia. Il
pane conserva la sua funzione di pane, e in questo senso non è il cor
po di Gesù; ma il pane diventa anche corpo di Gesù e in questo sen
so non è più pane ordinario.
La formulazione «il pane consacrato è e non è il corpo del Si
gnore» è paradossale e deve essere correttamente interpretata. Essa
sembra contraddittoria, poiché enuncia due punti di vista sulla stes
sa realtà. Il pane è successivamente interpretato, positivamente e poi
negativamente: è o un nutrimento terrestre oppure un nutrimento
celeste. Per affrontare questa difficoltà, parte11:do dalla filosofia ari
stotelica, si è potuto distinguere tra sostanza e accidenti, e si è di
chiarato che il Signore è «sostanzialmente» presente e che gli acci
denti del pane consacrato permangono: è la teoria della transustan
ziazione. Il pane è composto di vari elementi: è un cibo che non è più
frumento� è stato cambiato da una serie di trasformazioni dovute al
lavoro dell'uomo. Il grano è stato macinato, impastato, cotto al for
no, trasformazioni la cui unità e senso consistono nel farne un ali
mento per l'uomo.
B asterebbe constatare che, seguendo lo stesso processo, il nutri
mento terrestre del pane diventa un altro nutrimento, celeste.
Attraverso la nozione di «sostanza» crediamo di aver trovato un
principio che unifica due realtà: il pane e il corpo del Signore. Esse so
no di ordine diverso: una terrestre, l'altra celeste. Il termine sostanza
dovrebbe unificare i due elementi mediante un'operazione astratta
che tende ad abolire l'uno a profitto dell'altro, rischiando di procede
re in tal modo a una specie di incarnazione del Signore nel pane.
Qui interviene il «simbolo», la cui funzione è precisamente quel
la di ricondurre all'unità due elementi di natura differente, che nel
nostro caso sono il terrestre e il celeste. Ciò che è nuovo in questa
presentazione è il ruolo dello spirito che considera i dati. Essi sono
mantenuti al loro posto rispettivo, e uno si trova nello spirito che ope
ra. Lo spirito non crea la presenza del corpo del Signore, la riconosce.
Un esempio aiuta a entrare in questo modo di pensare. Il perso
naggio Gesù di Nazaret è visto dai suoi contemporanei come un uo
mo «ordinario». È contemplato dai credenti come il Figlio di Dio. Al
lo stesso modo posso dire che il pane consacrato simboleggia il cor
po del Signore.
56
Quando dico che l'ostia è e non è il corpo del Signore, io non for
mulo due interpretazioni successive della realtà; affermo il doppio
volto che prende senso sotto un unico sguardo: io posso considerare
lo stesso pane consacrato sia dal punto di vista terrestre, sia median
te la mia fede per riconoscervi l'effetto della parola di Gesù.
Quanto al termine transustanziazione, esso dipende da una con
cezione di ordine filosofico che oggi, a mio parere, è insufficiente a
render conto della condizione della presenza del Signore nell 'ostia
consacrata. L'ostia viene considerata come un oggetto di conoscenza
oggettiva e si ignora così il ruolo proprio del soggetto conoscente.
Questo ruolo è stato messo molto bene in evidenza da un ricer
catore britannico, E. Austin, il quale ha distinto il linguaggio perfor
mativo dal linguaggio costativo. 2 Gesù non ha dichiarato semplice
mente «questo è il mio corpo», egli ha fatto precedere la sua affer
mazione da «prendete» o l'ha fatta seguire da «per voi», invitando i
suoi discepoli a riconoscere attivamente il valore della sua afferma
zione generale. Questo dato aggiunge una sfumatura nel concetto
della presenza eucaristica. Essa non è quella di un oggetto, di una
«cosa»: io non ricevo passivamente il corpo del Cristo; io m'impegno
dicendo «Amen», io non creo affatto la presenza, ma la riconosco in
nome del la mia fede in Gesù.
Varie sono le conseguenze. La prima è di fondare la nota rifles
sione di s. Bonaventura: il topo che mangia un 'ostia consacrata, non
riceve il corpo di Gesù ma pane ordinario; non potendo riconoscere
la presenza di Gesù, non può comunicare con lui.
Ritorniamo alla formulazione proposta: il pane è e non è il corpo
del Cristo. In questa frase è raccolto il duplice valore dell'unico pane.
Si capisce meglio allora che non si tratta della semplice materia che si
chiama pane, ma di una realtà trasformata non solo dalla benedizio
ne ma propriamente dalla parola di Gesù «questo è il mio corpo)). Nel
senso più stretto, vale a dire il senso che Gesù attribuisce a questa pa
rola e che il discepolo percepisce, «il pane è il suo corpo)). Ma nello
stesso tempo, da un altro punto di vista, quello dei sensi e della ra
gione non illuminata dalla fede, il pane non è il corpo del Signore.
Presa tale e quale, la parola sul pane fu infelicemente interpreta
ta dai fedeli che, vedendo nel «corpo» la complessione fisica di Ge
sù, non hanno avuto timore a identificare il pane materiale e il suo
57
corpo fisico. Questo modo di vedere ha portato nel passato all'inter
pretazione che faceva dell'ostia una vera <<panificazione» di Gesù
Cristo, e di conseguenza, da parte di chi faceva la comunione, una di
gestione fisica dell'organismo corporeo di Gesù.
Che cosa abbiamo aggiunto al modo classico di parlare? Noi te
niamo conto soltanto dello sguardo di chi riceve, rinunciando a trat
tare il pane consacrato a essere una realtà di questo mondo, ritenuta
reale come una «cosa». Da qui la tentazione di separare l'ostia consa
crata dal suo contesto, cadendo in tal modo in un rischio di idolatria.
Questa lunga disamina ha come effetto quello di usare con sfu
mature il verbo «essere». Mentre noi lo interpretiamo di solito come
ciò che identifica su uno stesso piano cose invisibili, dovremmo am
mettere che la mente dell'uomo ha la possibilità di dire con lo stesso
verbo «essere» un 'identificazione con una realtà di un altro ordine.
Qui si tratta del «corpo» del Cristo. È chiaro che Gesù non vuole da
re da mangiare il proprio corpo fisico, e per questo il «Corpo» non può
essere che la realtà spirituale, celeste, del Risuscitato. Durante la Ce
na, Gesù invita a mangiare questo pane, sapendo che in tal modo si
comunica con la sua persona che esiste solo sotto la forma del «per
voi», fedele fino alla morte e fiducioso in Dio che lo risusciterà.
Rileviamo i limiti della nostra precedente inchiesta. Il risultato è
stato quello di arrivare a qualificare la parola di Gesù come una pa
rola simboleggiante in un dialogo destinato a costituire una comu
nità che va oltre la morte incombente del locutore. E questo vuoi
forse dire che non vi è alcuna differenza tra la parola eucaristica e le
altre parole simboliche? Due elementi fondamentali distinguono la
parola eucaristica. Dal momento che si tratta di una parola «perfor
mante» la condizione del locutore determina il valore della parola.
Nella Cena, il locutore si presenta come un 'autorità unica, e quindi
il mistero del simbolismo eucaristico è semplicemente uno degli
aspetti del mistero della persona di Gesù Cristo. Pertanto il pane eu
caristico non è ridotto a un simbolo tra gli altri, ma esprime un aspet
to del mistero della parola di Dio che ha preso un volto.
In un certo senso si potrebbe dire che il mistero eucaristico è il
simbolo per eccellenza, il sovra-simbolo, poiché la relazione tra lo
cutore e destinatario diventa incontro reciproco. Precisiamo ulte
riormente. Il pane eucaristico produce l'effetto inverso della natura:
se è il credente che mangia il pane, è il corpo di Gesù che si assimila
il credente. Accogliere il pane eucaristico è riconoscere il mistero
stesso di Gesù.
58
E. «Per voi))
59
Se qui si parla ancora di pane e di calice, non lo si fa per procla
mare la salvezza ricevuta, ma la comunione al «Sangue» e al «corpo» ,
c� n riferimento ai gesti propriamente rituali.
Paolo evita ogni formula che potrebbe condurre a un'identifica
zione materializzante delle specie con il corpo e il sangue del Cristo.
Come si è potuto allora arrivare agli eccessi cosificanti, che, come
contraccolpo, hanno portato agli eccessi contrari? Alcuni infatti stan
no lontani e anche si pongono in senso opposto al · materialismo ac
cennato più sopra. Così J. Jeremias,3 che pensa non si possa più par
·
lare di vera identità del corpo e del pane, e che bisognerebbe atte
nersi alla nozione di paragone e di parabola. Ma Jeremias ignora in
questo modo la natura del linguaggio, come abbiamo tentato di pre
cisarla.
Il linguaggio di Gesù è performativo. Si rivolge ai discepoli, pro
ponendo una definizione del pane che ha spezzato e distribuito, ma
lo fa per invitarli a riconoscere nel pane condiviso il proprio corpo e
costituire così la comunità che sarà chiamata «Chiesa».
Gesù inaugura pertanto un nuovo modo di presenza ai suoi di
scepoli, non sotto una qualche forma prol ungata delrincarnazione,
ma come il Risuscitato che nutre la vita della Chiesa. Tutto avviene
come se Gesù dicesse: «Fino a oggi il mio corpo era qui tra voi . Io vi
incontravo attraverso questo corpo che conoscete. Ora me ne vado e
ormai mi incontrerete in modo diverso, in questo pane distribuito da
me tra voi . D'ora in avanti, vi sono presente per mezzo di questo pa
ne che voi condividete in mio nome». Con il gesto di condividere il
pane e con la parola interpretativa, Gesù stabilisce tra il pane reso
eucaristia e il suo corpo un legame di identità che lo rende presente
ai suoi discepoli e al mondo attraverso la sua assenza. Ecco allora il
duplice effetto di questa comunione: non solo ognuno è invitato a
unirsi a Gesù Cristo, ma è invitato a formare insieme con gli altri una
vera comunità.
Thtto non è detto con la parola: «Prendete ! Questo è il ni io cor
po». Essa dichiara la maniera scelta da Gesù per rendersi presente
dopo la morte, ma non dice esplicitamente alcunché circa la condi
zione della modifica della sua presenza, ossia la morte. Il contesto lo
suggerisce, la tradizione paolina lo dichiara: questo corpo si dà per
voi; è infatti grazie al suo sacrificio personale che la nuova presenza
60
si realizza. Ed ecco quello che l'altra parola di Gesù, quella che ri
guarda il calice, dice con chiarezza: così si fonda l'alleanza nuova e
definitiva tra Dio e gli uomini .
Fatta questa riserva, resta il fatto che la parola sul pane apre il di
scepolo a una comunione piena con Gesù e con gli uomini. Nutri
mento, il pane conserva la sua funzione naturale, ma acquista, con la
parola di Gesù sul pane, la funzione di nutrimento celeste che nutre
la Chiesa. Il racconto biblico non autorizza di per sé a considerare il
pane al di fuori della relazione che Gesù instaura con i suoi fedeli, né
al di fuori del contesto liturgico nel quale la parola è inserita. Nella
struttura del racconto, essa riceve · il suo vero senso. Nel momento
stesso in cui la parola di Gesù viene pronunciata, si opera una tra
sformazione: trasformazione di Gesù, dei discepoli, della cena e del
lo stesso nutrimento.
Mediante la comunione, la presenza di Gesù diventa attiva: il fe
dele non si trova semplicemente davanti il personaggio che si chia
ma il Risuscitato, egli diventa attivamente il cooperatore di colui che
salva il mondo.
61
CAPITOL0 4
63
IL SACRIFICIO
E avendo preso un calice e avendo preso un calice per il calice allo stesso modo Allo stesso modo anche il calice
e reso grazie avendo reso grazie dopo il . pasto dopo il pasto
lo diede loro lo diede loro
e ne bevvero tutti
dicendo: . e disse loro: dicendo: dicendo:
«Bevetene tutti
perché questo è il mio sangue «Questo è il mio sangue «Questo calice è «Questo calice è
dell'alleanza dell'alleanza la nuova alleanza la nuova alleanza
che è versato che è versato nel mio sangue che è versato nel mio sangue.
per la moltitudine per la moltitudine». per voi». Fate questo, ogni volta che ne
per il perdono dei peccati)). berrete in memoria di me».
offre una rivelazione non sulla morte da ricercare, ma sulla vita che
scaturisce dalla morte. Differenza fondamentale, perché se si inver
tissero i termini si arriverebbe a collegare l'effetto della morte alla
sola salvezza dal peccato, a quella che si chiama «riparazione», men
tre l'obiettivo al quale si tende è la vita piena.
Con la parola sul calice, deve essere rivista la nozione stessa di
sacrificio: l'eucaristia è essenzialmente un «Sacrificio di lode>>, per
mezzo del quale i discepoli del Cristo glorificano Dio perché in Ge
sù ha fatto trionfare la vita sulla morte.
65
-
cante. La conseguenza è importante, perché si tratta allora non di pu
rificazione, bensì di crescita della vita: l'efficacia dell'azione profeti
ca di Gesù è di aumentare la vita mediante la comunione con lui.
La terza rassomiglianza concerne il linguaggio simbolico. Di con
seguenza, il verbo «essere» non dice immediatamente che c'è iden
tità materiale tra l'elemento «Vino» e «l'alleanza» o tra «Vino» e
«mio sangue». Gesù, peraltro, parla non di vino ma di calice. Il verbo
«essere» unisce paradossalmente il significante «calice» al significa
to che ogni tradizione determina diversamente. Come per il pane, il
calice è e non è il calice e la realtà che annuncia.
Accanto a queste rassomiglianze, due differenze permettono di
meglio caratterizzare la parola sul calice.
Una prima differenza proviene dal contesto. Mentre, secondo M,
Gesù pronunciava la «benedizione» sul pane, qui Gesù «rende gra
zie». Senza dubbio c'è il vestigio di una reminiscenza storica, che
cioè la parola è stata pronunciata «dopo il pasto» (P). Ma si può pre
cisare ulteriormente, a partire dal senso del verbo ( eucharistein) che
viene utilizzato. Ringraziando per il pasto effettuato, Gesù precisa
che non si tratta di un pasto ordinario, bensì di quello in cui si porta
a compimento il progetto di Dio, cioè l'alleanza definitiva. Questa
sarà realizzata dalla fedeltà di Gesù, che affronta una morte violen
ta. Ecco perché la tradizione ha chiamato la cena del Signore «eu
caristia» .
U n a seconda differenza s i legge nel modo i n cui s i annota i l frut
to dell 'azione operata. Il pane condiviso diventa multiplo, per signi
ficare l'unità che proviene dall'unico Gesù. Il calice, contrariamente
agli usi ebraici, è lo stesso per tutti coloro che lo bevono; così come
l'alleanza la quale è una realtà inglobante che procede dal Dio uni
co ed è personificata nel solo Gesù Cristo.
Somiglianze e differenze permettono di cogliere la progressione
avvenuta dal pane al calice. Come il pane è condiviso, il calice è di
stribuito; le due parole hanno la stessa struttura e annunciano un 'u
nità nuova tra Gesù e i discepoli. Ma la parola sul calice completa
quella sul pane. In che senso? Non perché il sangue e il corpo costi
tuiscono le due componenti dell'essere umano, ma perché questa pa
rola fornisce una precisione. La parola sul pane diceva il dono tota
le di Gesù e la sua volontà di comunione con i discepoli, ma essa la
sciava nell 'ombra il rapporto di quest'ultimo suo dono con il disegno
di salvezza che chiamiamo l 'alleanza di Dio con gli uomini. Grazie
alla parola sul calice, i discepoli scoprono il senso pieno della mis-
66
sione di Gesù, interamente orientata verso la comunione di vita tra
Dio e gli uomini e che ora culmina nella morte violenta accettata
nella fedeltà.
B. Questioni di vocabolario
l. Il calice
.! . L'alleanza
67
giuramento di fedeltà. L'alleanza, la cui iniziativa risale sempre al so
vrano, comporta quindi due elementi costitutivi: un accordo reale tra
i contraenti e l'osservanza delle condizioni fissate.
Il primo elemento riguarda i due partner, Dio e il popolo eletto,
tra i quali appare subito una differenza. Mentre Dio è il Signore del
cielo e della terra, Israele è solo un popolo particolare. Ora, fin dalle
sue origini, Dio lo dichiara aperto a tutte le nazioni, delle quali è chia
mato a essere il mediatore sacerdotale (Es 19,5s). Questa espansio
ne, proiettata nel futuro, si realizzerà dopo un movimento di concen
trazione. L'alleanza, contratta inizialmente con Israele e i suoi padri,
si fisserà su Davide e infine sul Servo di Dio, secondo Isaia. Questo
movimento si completa con la morte del Servo, ma trova il suo com
pimento nella giustificazione delle moltitudini. È questo l'universali
smo dell'alleanza, progettato da Dio e ora concentrato in Gesù.
Anche il secondo elemento, l'obbedienza del popolo, ha la sua
evoluzione. Dio è alla ricerca del Servitore fedele che non tradisce
l 'accordo contratto con lui: come ottenere l 'obbedienza necessaria
da questo popolo dalla dura cervice? Se l'alleanza infatti è comunio
ne di vita, essa presuppone l'armonia delle volontà. E mentre la vo
lontà di Dio non può cambiare - Dio è per natura fedele - la volontà
del popolo deve progressivamente essere trasfigurata. Questa trasfi
gurazione deve essere caratterizzata da un movimento che va dall'e
steriore verso l'interiore.
Originariamente la legge, che dice il volere di Dio, si esprime sot
to forma di prescrizioni, senza peraltro porre limitazioni. Nella sua
originaria espressione la legge è Dio che dice il proprio desiderio, il
suo amore, che cerca di stabilire una comunione con il suo popolo.
Per questo Dio la interiorizza a tal punto che essa diventerà il suo
Spirito nel cuore di Israele e questo Spirito diventerà l'autore della
risposta di ciascuno (cf. Ger 31). In questo senso, l'alleanza di sem
pre diventerà nuova, secondo l'espressione ripresa dalla tradizione
paolina.
Avviene allora un'altra trasformazione, che prepara la via alla ri
velazione neotestamentaria. Inizialmente erano stati richiesti a Israe
le due tipi di condizioni: la pratica della giustizia nella vita quotidiana
e la pratica di un culto determinato da regole precise. Ora, la preoc
cupazione dell'osservanza rituale avev� spesso prevalso su quella del
la condotta conforme ai comandamenti, fino a dissociarsene.
Grazie all'intervento dei profeti, questa deviazione è stata a po
co a poco smascherata; il culto vale nella misura in cui la condotta è
68
retta; o ancor meglio, la fedeltà della vita nell'adesione del cuore a
Dio è il vero sacrificio. Le due condizioni si trovano allora riunite ed
esprimono quello che il Nuovo Testamento chiamerà culto spiritua
le, ossia l'esistenza animata propriamente dallo Spirito che rende al
Padre la vera adorazione (cf. Gv 4 23 ) . ,
2 Rinvio al mio libro Di fronte alla morte. Gesù e Paolo, Torino-Leuman 1982,
63-74.
69
proprio figlio, dicendosi: «Avranno rispetto per mio figlio». Lo invia
dunque non perché sia ucciso: sono i vignaioli che, in opposizione to
tale con il proprietario, mettono a morte l'erede.
Ora, Gesù conclude il racconto con una parola della Scrittura: «la
pietra rigettata» è diventata pietra angolare ( Mt 21,42). Il ruolo che
Gesù, annunciando la sua morte, attribuisce al Padre con l'invio è uni
camente la sua piena riabilitazione: sarà la vita che trionfa sulla mor
te. Certo, altri testi sembrano affermare un decreto divino di sofferen
ze, per esempio il «bisognava che» o in Gv 10,18 il comando di depor
re la sua vita, ma essi significano che il Figlio non poteva sottrarsi al ri
schio mortale che la sua testimonianza al Padre avrebbe comportato.
70
L'espiazione aveva talmente invaso il pensiero dei giudei che un
targum del I secolo trasformava il racconto di Es 24 in una cerimo
nia espiatoria:
Allora Mosè prese la metà del sangue [dell'immolazione ] che si trovava
nei vasi d' aspersione, ne asperse l'altare per fare espiazione per il po
polo, e disse: «Ecco il sangue dell 'alleanza, che YHWH ha concluso con
voi sulla base di tutte queste parole ! » .
Targum su Es 24,8
71
m uta mosaica. Non si tratta più del sangue degli animali ma del san-
·
72
è la partecipazione alla santità di Dio: il cuore «nuovo>> sarà abitato
dallo Spirito (Ez 36,26s ). Gesù è l'unico essere che ha ricevuto lo
Spirito in maniera totale - come lo manifesta il suo battesimo - e che
ha vissuto in unione perfetta con la volontà del Padre. Egli può co
municarsi a tutti quelli che egli rappresenta davanti a Dio. L'allean
za è stipulata mediante la sua fedeltà fino alla croce. Il perdono dei
peccati è una dimensione della morte del Cristo, il dono dello Spiri
to ai credenti si realizza a partire da questo momento, secondo Gv
19,34 (cf. 20,22).
Tutto sommato, la parola di Gesù sul calice non è centrata né
fondata sull'espiazione e sul peccato dal quale siamo liberati ma sul
l'alleanza di vita. Gesù sottolinea che il discepolo è invitato a entra
re nell'alleanza che dà la vita in sovrabbondanza.
l. La nuova alleanza
73
Ecco verranno giorni, dice il Signore, nei quali con la casa di Israele e
con la casa di Giuda io concluderò un'alleanza nuova: Non come l'al
leanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per far
li uscire dal paese d' Egitto, un 'al leanza che essi hanno violato, benché io
fossi loro Signore - oracolo di YHWH. Questa sarà l 'alleanza che io con
cluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la
mia legge nel loro animo, la scriverò nel loro cuore. Allora io sarò il ]o
ro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri ,
dicendo: «Abbiate la conoscenza di YHWH ! », perché tutti mi conosce
ranno, dal più piccolo al più grande - oracolo diYHWH -; poiché io per
donerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato.
Ger 31,31-34
Vi darò un cuore nuovo, metterò al fondo del vostro cuore uno spirito
nuovo [ . . . ]. Porrò il mio spirito al fondo del vostro essere e farò in mo
do che voi camminiate secondo le mie leggi [ . . . ]. Voi sarete il mio po
polo e io sarò il vostro D io.
Ez 36,26-28
La legge scritta nei cuori non è dunque altro che lo Spirito stes
so del Signore. Il codice dato al Sinai era rimasto esteriore ali 'uomo,
e gli indicava quello che doveva fare per piacere a lui. Con questo
dono, Dio manifestava già la sua volontà (che l'uomo viva ! ) e si met
teva in contatto con l 'uomo; ora Geremia ed Ezechiele annunciano
che Dio non detta più solo i suoi comandamenti, la sua legge : dona
se stesso nel suo Spirito. Non sarà quindi semplicemente l'uomo che,
avendo ricevuto dei precetti, reagirà il meglio possibile (offerte e sa
crifici , comportamenti secondo giustizia . . . ) per vivere in comunione
con Dio, è Dio stesso che deve venire a produrre nel cuore dell'uo
mo frutti di santità.
Eppure la profezia della nuova alleanza non ha modificato in
profondità la vita degli ebrei. La tendenza a valorizzare la legge ma-
74
nifestata ai tempi di Giosia si è espressa con forza nel momento del
ritorno dall'esilio, con Esdra e Neemia che restringono attorno a
Israele la siepe della legge. E questa storia continua, restringendosi
sempre più sulla pratica minuziosa della legge e dei sacrifici cultuali.
Il monastero di Qumran, presso il Mar Morto, raccoglie per due
secoli, ai tempi di Gesù, i membri della «comunità dell'alleanza nuo
va», dell'«alleanza eterna». I suoi adepti si consideravano come il
Resto eletto di Israele, al quale era stato dato il Maestro di giustizia.
Con le loro credenze nel perdono di Dio e con le loro pratiche, essi
offrono certi punti di paragone con la fede cristiana. I loro pasti sa
cri non hanno niente a che fare con i sacrifici praticati al tempio di
Gerusalemme; essi esprimono solo il loro desiderio profondo della
venuta del regno di Dio. Tuttavia nulla sta a indicare che un profon
do rinnovamento si sia realizzato, come lo aveva annunciato Gere
mia. La loro volontà di essere perfettamente fedeli alla legge non
prova l'esistenza di una comunità veramente nuova, ma piuttosto lo
sforzo di rinnovamento di una comunità che vive ancora nel regime
antico. La profezia di Geremia non si attuerà in questo modo, ma
grazie a coloro che, da lontano, stanno preparando l'altro aspetto
della formula paolina, quello del sangue versato.
75
gesse da intermediario tra Dio e Israele, come Mosè per l'alleanza
del Sinai. Non apriva. esplicitamente una prospettiva universale, tut
tavia già presente nell'alleanza del Sinai. Ora i poemi del Servo (ls
42. 1 -7; 49,1 -9; 50,4-1 1 ; 52,1 3-53,12) integrano invece questi diversi
aspetti costitutivi dell'alleanza di Israele con il suo Signore.
Ricordiamo allora i tratti più notevoli di colui che sarà l'alleanza
personificata, perché il progetto di Dio si concentra su di un essere che
diventa mediatore tra Dio e il popolo. Il profeta guarda ora non più il
sangue delle vittime animali, che era la raffigurazione rituale dell'im
pegno del popolo, ma l 'impegno vissuto di un uomo, del Servitore fe
dele fino alla morte: «alleanza del popolo>>, egli porta a compimento
con il «dono della sua anima» ciò che il rito del sangue significava, la
comunione degli uomini con Dio; egli sarà la luce delle nazioni.
E con questo poema avviene come un mutamento di linguaggio.
Indubbiamente il linguaggio esistenziale predomina nel testo: il Ser
vo è stanco, è stato disprezzato, è l'uomo dei dolori che ha «dato la
sua anima alla morte», e che, a causa dei nostri peccati, è immolato
per il bene di tutti gli uomini. Ma questo «sacrificio personale» dalla
portata universale è anche descritto con l'aiuto del linguaggio cul
tuale: ecco il nuovo Mosè che «asperge le nazioni» e che compie di
nuovo il «Sacrificio di espiazione)). Il linguaggio cultuale usato qui
non deve tuttavia essere frainteso, è divenuto metaforico in quanto
utilizza categorie conosciute per dire una realtà inesprimibile: come
si attribuiva al sacrificio di espiazione un valore per tutto Israele, co
sì il sacrificio personale del Servo ha un valore universale.
La profezia del Servo ci offre dunque una nuova luce per capire
che il sangue versato da un essere totalmente fedele a Dio può ave
re una portata universale di salvezza. Sembra tuttavia che manchi un
elemento rispetto alla profezia di Geremia riguardo all'alleanza.
Questa, in Isaia, non è chiamata «nuova» benché l'idea di novità sia
sottolineata nel primo poema del Servo (42,9) e nell' ultimo (52.15).
Per Isaia si tratta di manifestare il modo nel quale si sarebbe otte
nuta l'alleanza definitiva, ad opera personale del Servo sofferente, fi
gura di Israele, divenuto fedele.
Attraverso ciò che Dio dice del personaggio, si può riconoscere
in lui l'inviolabile fedeltà di un uomo interamente disponibile alla
volontà divina, di un uomo in cui batte un cuore nuovo ricolmo del
lo Spirito. Le sue sofferenze sono provocate da altri uomini, ma il suo
comportamento con i risultati che Dio gli accorda provoca lo stupo
re di quelli che prima lo coprivano di disprezzo e questo stupore pro-
76
duce la loro stessa trasformazione: in Is 53, il «noi» che parla è il po
polo che alla fine capisce il ruolo salvifico del Servo.
Geremia inoltre precisa in 50,5 che l'alleanza, detta «nuova», è
l'alleanza eterna di Dio con il suo popolo. Alcuni anni dopo, il terzo
Isaia stesso qualifica l'alleanza del Signore come un '«alleanza per
sempre, eterna» (55 ,3; 61 ,8). In tal modo la profezia di Isaia concor
da con quella di Geremia: essa mostra il cammino che deve prende
re il Servo perfetto perché sia stabilita l'alleanza eterna .
L'alleanza rimane sempre in prospettiva, ma il mezzo annuncia
to - la morte pienamente assunta dal Servo e la sua riabilitazione ad
opera di Dio - è realizzato solo parzialmente da questo o quel pro
feta. Ciò si realizzerà pienamente con il passaggio pasquale di Gesù.
La storia che abbiamo così ripercorsa non avrebbe potuto esserlo se
non avessimo conosciuto la sua realizzazione in Gesù.
Gesù dichiara dunque: «Questo è il calice della nuova alleanza
nel mio sangue versato per voi». La nuova alleanza sta per realizzar
si attraverso la sua morte in croce. Secondo Paolo la profezia di Ge
remia ha preso corpo: esiste un'alleanza nuova, consumata nello Spi
rito Santo che porta a compimento la legge passata (2Cor 3,6-8).
Nella sua fede, Paolo sa che, con la sua Pasqua, Gesù ha dato lo Spi
rito che personalizza l'alleanza in ogni credente. Egli pensa che un
atto è stato compiuto, ben di verso dalla stretta pratica della legge, e
che consiste piuttosto nella fedeltà personale all'alleanza di Dio, fe
deltà che va fino al sangue versato.
La tonalità esistenziale della parola di Gesù sul calice è confer
mata dal «mio» che qualifica il sangue. e dal «per voi» che stabilisce
il dialogo tra Gesù e i discepoli. A questo bisogna aggiungere che, di
versamente dal poema del Se rvo, qui non è un altro che parla di co
lui che versa il sangue, ma è Gesù che parla di se stesso. L'evento del
sangue versato ha dunque permesso di restaurare secondo il loro
giusto valore non solo le tradi zioni dei profeti perseguitati e del Giu
sto sofferente, ma la profezia del Servo di Dio in Isaia, profezia che,
a poco a poco, era stata relegata fuori della grande corrente tradi
zionale. L'evento è stato necessario per capire la profezia.
Sintetizziamo. Mentre Qumran pensava al rinnovamento dell'al
leanza non attraverso sacrifici cruenti, bensì con un attaccamento
stretto all 'alleanza mosaica attraverso una fedeltà sempre più stret
ta a11 a legge, rinviando alla fine dei tempi il perdono divino, la tradi
zione paolina mostra che la profezia di Geremia si compie attraver
so quella di Isaia sul Servo di Dio. Questo personaggio ha preso cor-
77
po in Gesù di Nazaret che, di fatto, ha sparso il suo sangue per gli uo
mini. Il suo «sangue» è la parola che sostituisce «anima» o «persona»
del poema di Isaia. Con questa parola la tradizione paolina dimostra
che Gesù porta a compimento anche l'alleanza mosaica. Ma l'essen
ziale sta nella prospettiva «personale» della parola.
Conclusione
78
Ispirandosi a un linguaggio di tipo cultuale per dire un'azione ( la
morte accettata, che di fatto è di ordine esistenziale ) , la parola sul ca
lice porta con sé alcuni rischi, nei quali si sono spesso scontrate le in
terpretazioni successive. Infatti, l'interesse dell 'una e dell'altra tradi
zione è l'azione simbolica sul calice con la quale Gesù esprime il do
no che egli fa di se stesso, realizzando l'alleanza promessa dal Padre.
Quest'azione simbolica implica senza dubbio uno sguardo sull'e
lemento vino; ma, come già per il pane, l'interesse non si incentra di
rettamente sul vino, contrariamente a ciò che talvolta insinuano al
cuni critici a proposito di Marco. Sia nella tradizione marciana che
nell'altra, è unicamente la tradizione eucaristica nel suo insieme do
ve si concentra l'attenzione : pane e vino non sono mai isolati dalla
totalità delratto con il quale Gesù costituisce la sua comunità. Ep
pure è certo che, nel corso dei secoli che seguirono, spesso questi ele
menti furono fatti emergere eccessivamente e in qualche modo se
parati dall'azione che dà loro un senso.
L'altro rischio proviene dal linguaggio stesso. Il passo è stato fa
cile e, contrariamente al senso stesso della parola, si è passati dall'e
sistenziale al cultuale. L'azione eucaristica certamente è di tipo cul
tuale ed esige riti perché possa compiersi , questo è indubbio. Ma mai
quest'azione cultuale ha potuto reggere senza il comportamento esi
stenziale di cui essa vuoi simboleggiare il valore e il senso.
La parola sul calice non dice tutto. Essa deve essere completata
dagli altri dati dei vangeli. In particolare, non si precisa in che cosa
consiste la «nuova alleanza». Ecco allora la tradizione testamentaria
e soprattutto il quarto Vangelo. Luca l'ha precisato nei testi che se
guono al racconto dell'istituzione. Giovanni riporta al posto del rac
conto dell 'istituzione la lavanda dei piedi e il comandamento nuovo
che consiste in «Amatevi gli uni gli altri!». È questa la nuova legge
scritta nei cuori , la nuova alleanza, realizzata dall'amore di Gesù che
dà la sua vita per coloro che ama e grazie allo Spirito che rende Ge
sù Cristo presente e dona anche ai credenti la capacità di agire nel
l'amore.
Il comandamento nuovo implica il riconoscimento che tutto vie
ne dal Padre. Seco ndo il greco, il testo di Gv 13,34 sul dovere di amar
si gli uni gli altri si traduce non già secondo la formula classica «ama
tevi gli uni gli altri come io vi ho amati», bensì «dell'amore con cui vi
ho amati, amatevi gli uni gli altri)). L'amore con cui Gesù ama i disce
poli è l'amore con cui il Padre stesso li ama, e quello reciproco dei di
scepoli è l'amore stesso di Gesù in loro e per loro ( Gv 17,23).
· 79
CAPITOL0 5
81
sto in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche
il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fa
te questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta in
fatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annun
ziate la morte del Signore finché egli venga.
J Cor 11,23-26
82
l. Memoria del Dio dell'alleanza
83
cora oggi, senza perdere per questo la sua qualità di passato. È un
preciso evento storico a essere evocato, ed è il suo significato parti
colare per il popolo che ridiventa attuale. In questo senso, sarebbe
sbagliato interpretare questi testi come semplici illustrazioni leggen
d arie della bontà di Dio verso Israel e.
Ecco allora la caratteristica del contatto tra l'uomo e Dio. Non
p uò trattarsi di un faccia a faccia statico, di una semplice contempla
zione ammirativa e riconoscente. Di fronte a Dio, il popolo si trova
nel contempo di fronte a un progetto di cui Dio ha l'iniziativa . L'al
leanza non unisce due partner di statura uguale: entrare in contatto
con Dio è ritrovare il legame già stretto con lui, ed è allora poter con
tare sul perdono e sulla riconciliazione, è infine essere proiettati in
un avvenire che Dio stesso mi ha aperto e che io ho l 'incarico di rea
lizzare, io effimero, nel divenire del tempo, nella mia «Storia».
84
nello stesso tempo un avvenire che è suo segreto. Così, attraverso la
memoria, il mio presente avrà trovato un dinamismo creatore, divino.
Se io, tramite questo mio contatto con lui, sono invitato ad agire
nell'alleanza e secondo la mia condizione di creatura, ciò è dovuto al
fatto che Dio è lui stesso azione. Dio non è un essere che, dopo aver
creato il mondo, non continua a operare: la sua attività creatrice, in
cessante, sostiene e feconda l'agire umano, fasciandogli la propria fa
coltà d'azione.
Memoria e azione sono quindi i due versanti, interiore ed este
riore, della relazione che unisce Dio e l'uomo. Dio salva l 'uomo, azio
ne «memorabile»; quando l'uomo si ricorda di quest'azione, ritrova
la fedeltà all'alleanza.
B. Memoria e culto
l. Culto e racconto
85
Questo giorno sarà per voi un memoriale [fezikkaron ]; lo celebrerete co
me festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete co-
me un rito perenne.
Es 12, 14
Così si dica per le altre feste, per esempio la festa delle Capanne
(Lv 23,33-44), per il sabato (Es 20,8-1 1 ) o anche a proposito dell'al
tare destinato ai sacrifici:
Avete visto che vi ho parlato dal cielo [ . . . ]. Farai per me un altare di ter
ra [ . ]
. . in ogni luogo dove io vorrò ricordare [ 'azkir] il mio nome, verrò
a te e ti benedirò.
Es 20,22-24
86
Il racconto assume in tal modo la funzione di trasmettere alle ge
nerazioni che verranno l 'esperienza di YHWY. Tutti devono ascolta
re e ricordare. Succede così durante la veglia pasquale per le do
mande fatte dai bambini e le risposte che gli anziani devono dare. La
parola diviene sempre più l'essenziale del rito, in quanto è per suo
rnezzo che la memoria del passato viene ravvivata. Qua1e passato?
Non quello delle glorie nazionali, che sono tuttavia evocate, ma quel
lo della salvezza che Dio ha accordato al suo popolo travagliato. Al
lora il passato conserva il valore di rivelazione di Dio.
Questo incontro del popolo con Dio nella liturgia è tanto chiara
mente una «presenza» attuale che il termine «Vedere» è utilizzato
per caratterizzare l'azione del culto:
Venite, vedete le opere del Signore, egli ha fatto portenti sulla terra.
Sa/ 46,9
87
«memoria» e abilitata a vivere nel quotidiano, secondo giustizia.
Ora, prendere coscienza di un passato colmo di Dio è, nello stesso
tempo, prendere coscienza che la sua azione si estende all 'intero uni
verso.
Il culto pertanto comporta una dimensione di proclamazione
universale, e non riguarda solo i partecipanti, i fratelli del salmista, i
poveri e gli umili di Israele, ma si rivolge alle nazioni, fino alle estre
mità del mondo: «Lodatelo, voi, popoli tutti», proclamate il Nome di
colui che è il sovrano del cielo e della terra.
3. Il presente e il passato
88
gli conferisce la sua vera dimensione che è Dio presente al divenire.
L'uomo deve dunque scoprire la presenza dell'eterno nel tempo, fa
re emergere questa dimensione profonda del tempo. E ciò presup
pone che l'uomo sia, per essenza, in relazione con Dio, senza il qua
le egli non può vivere. E anche il tempo non sussiste senza eternità.
Così il Dio di Israele compie certi atti che, in se stessi, e non per
l 'immaginazione degli uomini, dominano il flusso del tempo; essi
hanno una dimensione di eternità che li rende sempre presenti a co
loro che ne conservano la memoria. La memoria è il tempo integra
to, e questo lo si dice sia di Dio e sia degli uomini.
89
fa che ci si ricordi). Conseguentemente è meglio evitare per l'eucari
stia la parola «memoriale» che dice non l'azione nel suo divenire, ma
l'azione già avvenuta (la relazione scritta dei propri ricordi o qual
che monumento). E dal momento che la preposizione eis nella for
mula dell'anamnesi suggerisce un movimento, sarebbe meglio tra
durre: «Fate questo per fare memoria di me».
90
Questo segno è dunque finalizzato a un futuro prossimo. Per l'or
dine della reiterazione è invece destinato a un futuro lontano. Du
rante tutti i secoli questo segno dirà lo stesso evento, ma come già
realizzato; sarà «memoria» (lezikkaron: Es 12,14). È per mezzo di
una figura, il pasto della Pasqua, che l'«esodo» dall 'Egitto è propo
sto ai padri come un fatto che deve avvenire, e con la stessa figura
annunciatrice deve esere ricordato ai discendenti come evento già
avvenuto.
Nello stesso modo, per mezzo del dono del pane e del calice, che
Gesù identifica con il dono della sua persona, viene prefigurato il fu
turo immediato del la sua morte in favore dei suoi . Nell'ordine della
reiterazione, lo stesso segno è destinato a un futuro lontano nel qua
le Gesù proporrà lo stesso evento ma già realizzato; e nel segno an
ticipatore i credenti si approprieranno del frutto di grazia che sgor
ga da questa morte che, per loro. appartiene al passato.
Riassumiamo i dati che ci interessano: la vigilia del suo effet
tuarsi, l'evento salvifico è prefigura to da un segno. Ora questo segno
dovrà essere reiterato nel culto, diventando per la comunità che ce
lebra la memoria dell 'evento ormai realizzato. Il segno si riferisce a
un unico atto divino finalizzato a due futuri, uno prossimo e puntua
le (l'avvenimento stesso), l'altro lontano c dura turo (il frutto del
l'avvenimento nei secoli futuri). Così il segno che nel culto unisce al
passato ha pure la funzione di proiettare in avanti la comunità che
celebra la memoria dell'avvenimento ormai realizzato. Esso ha una
duplice funzione: in quanto profetico proiet ta in avanti, in quanto
cultuale riallaccia al passato.
Fa riflettere il fatto che nel culto venga ripreso non tanto il rac
conto dell'evento salvifico che si commemora. quanto il racconto del
la sua prefigurazione. Sarà forse perché il segno, profetico in origine,
continua a essere pregnante per il futuro? Di fatto la liberazione dei
padri, continuamente commemorata dalla cena pasquale, garantisce
ai figli di Israele la liberazione escatologica. Per i cristiani, il dono di
sé di Gesù simboleggiato dalla condivisione eucaristica garantisce il
loro proprio passaggio pasquale futuro e il banchetto finale.
Si vede da questo che l'evento celebrato, per storico e ormai rea
lizzato che sia, è esso stesso a sua volta garanzia di un compimento
futuro e definitivo. In questo senso, il segno, considerato secondo la
sua portata iniziale di profezia, contiene già in sé tutto ciò che av
verrà nella storia del popolo, al di là dell'evento capitale che annun
cia, fino alla pienezza celeste.
91
Se il racconto della Cena e dell'esodo presentano la stessa strut
tura, essi differiscono tuttavia profondamente, a causa del «me» de l
quale i cristiani devono fare memoria.
2. Il «me» di Gesù
92
Gesù, ma al suo significato: la vita comunicata ai discepoli da Gesù
morente in croce. Con il suo corpo e con il suo sangue Gesù riassu
me il dono di tutta la sua esistenza, la sua costante fedeltà. L'azione
liturgica ci rende presenti all'annuncio della morte che essa significa
e ci fa partecipare alla nuova vita del Risorto. Le tre dimensioni del
la memoria sono ritrovate: l) mediante l'atto presente del culto, 2) si
ritorna a quel Gesù che ha manifestato e compiuto nel tempo stori
co la presenza definitiva del Dio liberatore, 3) che accorda la salvez
za per sempre.
Il culto eucaristico mette collettivamente in presenza di Gesù che
dà la sua vita per me e mi invita ad agire come ha agito lui o meglio
ancora, poiché si dona in nutrimento, ad agire con la sua forza in me:
egli è là e io non lo sapevo ! Egli è là e io mi apro alla moltitudine de
gli uomini. Quando scendo nella profondità della mia memoria, in
contro Gesù mio Salvatore che Dio ha risuscitato e che, ormai, è me
stesso più di me stesso.
3. La situazione nuova
93
In questa prospettiva, l'anamnesi eucaristica trasferisce su Gesù
quanto era stato detto della Pasqua ebraica ed esige che i discepoli
si comportino nello stesso modo. Non è Dio a essere invitato a ri
cordare, ma l 'uomo che deve lottare contro la tendenza a dimentica
re l'atto fondante. Attivando la memoria di Gesù, il discepolo è invi
tato ad assimilarsi a lui e a lasciare che in tal modo la sua azione e la
sua presenza si esprimano. È chiaro che siamo molto lontani da ogni
concezione soggettiva della memoria , del tipo «commemorazione»
di un defunto. L' azione eucaristica non è quindi un monumento da
erigere a Dio; essa è l'attualizzazione dell 'evento Gesù. Il «giorno» è
un giorno che, ancora oggi, è giorno per me: azione di grazia per sem
pre, cattura dell 'eternità nel tempo, apertura al mio vero destino.
Con la formula «fate questo in memoria di me>> è forse detto tut
to? Non penso. Sarebbe ingenuo pensare che il comandamento sia
sufficiente a produrre ciò che dice. La memoria si degrada facilmen
te in abitudine banale.
I giudei si preoccupavano di conservare un rapporto con la pa
rola di Dio attraverso un rito, la festa che esprimeva la presenza ( co
sì Es 13,9). Ma, come altri popoli. hanno trovato gesti equivalenti al
l'azione commemorativa, che sono un po' come un formato ridotto
della festa. Così, serviva da memoriale l'incenso destin ato ai pani di
proposizione.
Senza dubbio, nella Bibbia non si prescrivono i tatuaggi né gl i
amuleti, ma, come si costruiscono stele per «eternizzare» un patto, ad
esempio la traversata del Giordano, viene prescritto di fare un nodo
sulle falde degl i abiti con un cordone di porpora violetto e vengono
fabbricati i filatteri , ma questi hanno finito col dispensare l'uomo
dall'agire secondo la legge. Questi piccoli astucci contenevano pas
saggi essenziali della legge ed erano fissati sulla fronte o sulle brac
cia. «Attaccherai le mie parole alle mani. come un segno, ti saranno
come un pendaglio tra gli occhh> aveva detto Mosè; interpretando la
metafora alla lettera, i giudei avevano materializzato l' «ascolta
Israele>> portando su di sé un astuccio di cuoio; alcuni se ne serviva
no anche per farsi valere. Non gettiamo loro la pietra, perché questa
deformazione si manifesta in tutti coloro cosiddetti «praticanti».
In definitiva, gli espedien ti destinati a ravvivare la memoria del
l'uomo rimangono senza effetto, fin quando Dio non prende egli stes
so in mano la cosa. Nel passato il profeta annunciava che la legge un
giorno sarebbe stata scritta nei cuori; oggi è lo Spirito che tiene vive
le azioni del Cristo. È Gesù che ce lo ha promesso, esplicitando il ruo-
94
lo del «Paraclito)) : «Lo Spirito vi ricorderà tutto quello che io vi ho
detto» (Gv 14,26). Lo Spirito Santo è la memoria viva della Chiesa; è
questa la funzione della «epiclesi» nella messa: essa ricorda attiva
tnente, essa opera la presenza dello Spirito che «Consacra». Non è
quindi un'azione dell'uomo a rendere il credente presente a Gesù nel
la liturgia eucaristica, ma Dio stesso per mezzo del suo Spirito. E si
realizza allora non un faccia a faccia, ma una perfetta «sinergia».
Concretamente, tuttavia, la memoria si esercita attraverso il «rac
conto» di ciò che Gesù ha detto e fatto. Il racconto ha la funzione di
rimettermi alla presenza dell'evento della croce che salva. Notiamo
tuttavia che ben presto si è prodotta una deformazione. Il racconto
ha fissato l'attenzione sull a lettera di ciò che Gesù ha detto e fatto.
A poco a poco, l'attenzione si è fermata non più sul senso, insepara
bile, delle parole e degli atti, ma sull'enunciato letterale delle parole,
portando il lettore e gl i uditori a concentrarsi sui problemi della
<<transustanzi azione» delle «Specie» pane e vino. Lo scopo ultimo del
testo è quello di invitare a essere presenti e a comunicare in modo
reale all'atto di Gesù che salva i'l mondo. Solo l'insieme della cele
brazione, che implica accogliere il dono del pane e del vino con la
presenza di colui che annuncia e simboleggia la sua morte salvifica,
conferisce al banchetto eucaristico la sua vera dimensione.
Conclusione
95
E infine, per meglio cogliere il mistero di un atto passato che ha
la sua efficacia lungo i secoli, proponiamo un'analogia simbolica. Noi
ridiciamo ogni mattina che «il sole si alza», mentre sappiamo bene
che il sole non si alza ma che è la terra, ogni mattina. a presentarsi al
sole, centro del suo sistema di esistenza. Lo stesso avviene per l'atto
di Gesù che si sacrifica per tutti gli uomini. Ormai è lui il centro del
«sistema cristiano» , nel senso che egli è colui dal quale tutti dipen
dono e dal quale tutti ricevono la vita.
Ogni mattina, dico che io attualizzo quest'atto, che lo rendo pre
sente, ma so bene che è vero il contrario. Ogni mattina io mi rendo
presente al sacrificio di Gesù che, pur continuando a essere un atto
temporale passato, ha una dimensione sovratemporale e mi permet
te di rendermi presente a lui attraverso lo spessore di questo tempo
che per me scorre continuamente e inesorabilmente. Ora, questo
tempo acquisisce non solo la profondità dell'eterno, ma anche un di
namismo che, radicato solidamente nell'atto salvifico di Dio, mi apre
alla riconciliazione.
96
CAPITOLO 6
97
Il gesto che egli compie simbolizza il suo comportamento costante di
servizio senza riserve fino alla morte e deve rimanere il prototipo e
la sorgente viva del comportamento dei discepoli (13,1 -1 1 ) .
Vi h o dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi .
Gv 13, 15
98
stretto durante la sua assenza il legame che deve unire i discepoli
dell'Assente-Presente. Sono precisate infatti le modalità di un'esi
stenza in questo mondo. Dal v. 14,4 al v. 14,3 1 , gli ultin1i colloqui ri
guardano le conseguenze della partenza di Gesù ; in seguito, dal v.
15,1 al v. 16,33 la prospettiva cambia: è un ultimo messaggio che il
Glorificato invia alla sua Chiesa.
Lo stile, nel suo insieme, si avvicina molto a quello dei Testamen
ti dei XII patriarchi. Lo si constata dall'appellativo «figliolini miei» o
dalla parola «Comandame nto». Gli stessi temi si ripetono: si tratta di
un'ultima cena, bisogna imitare il servizio c h e ha appena reso colui
che se ne va. egli esorta all'amore fraterno, annuncia persecuzioni . . .
Ora, in quest'ultima sera, non si parla dell 'istituzione dell'eucaristia.
Come spiegare quest'omissione?
Sostituendo la tradizione cul tuale con la tradizione testamenta
ria, Giovanni ha forse voluto contestare la pratica cultuale del suo
tempo? Alcuni critici l 'hanno pensato. non senza esagerare. Ma Gio
vanni non è un contestatore. È un o che porta a compimento. Gio
vanni completa la tradizione sinot ti ca. non perché egli conosca te
stualmente le diverse versioni. ma in quanto approfondisce e con
centra la loro testim onianza.
Giovanni, inoltre, risponde ai bisogni di una determinata comu
nità. Secondo lui, era necessario difendersi dal pericolo della magia
che nell 'ambiente ellenistico minacciava la pratica del sacramento.
Sarebbe questa una delle ragioni per cui Giovanni non ha trasmesso
le parole dell'istituzione nel racconto della Cena. Tuttavia. Giovanni
non deprezza il sacramento. A modo suo, nel suo racconto dell'ulti
ma cena di Gesù egli dà l'equivalente dei testi sinottici attraverso la
forma testamentaria e il linguaggio simbolico. Il suo apporto perso
nale è quello di rivelare il significato reale e durevole dell 'eucaristia.
Possiamo dire che il discorso d'addio è focalizzato sull'«oggetto» del
sacramento, se è vero che l 'amore fraterno di origine divina è la
realtà che, in ultima analisi, l'eucaristia vuole intensificare sulla terra.
Ci è permesso di tirare una conseguenza: mentre la pratica del
servizio vicendevole è la condizione e l 'espressione assoluta della vi
ta del credente, la pratica del sacramento è solo una via per incon
trare il Risorto.
Ai miei occhi, se nel c. 13 si mostra il frutto dell 'eucaristia (amo
re fraterno di origine di vina), nel c. 6 c'è l'orchestrazione della ne
cessità capitale di credere a Gesù di Nazaret, venuto dal cielo, Logos
incarnato, Figlio dell'uomo, morto per dare la vita al mondo, vero pa-
99
ne del cielo e pane di vita. Questa fede sfocia dopo la morte di Gesù
nella «dimora reciproca», e là i termini hanno in sovrappiù una riso
nanza sacramentale (6,53-58). In breve, per rivelare la necessità del
la fede in Gesù di Nazaret, Giovanni non si è accontentato di mette
re in rilievo che l'amore tra cristiani è ciò che realmente simbolizza
in questo mondo la presenza del Cristo. Mostrando dopo il discorso
l'opzione dei discepoli (6,59-66), Giovanni offre una vera catechesi
eucaristica: tale è la duplice prospettiva di questo capitolo.
l. La simbolica biblica
100
Dio con il suo popolo; nell'incontro con Nicodemo il vento che vie
ne ad aprire spazi immensi; con la samaritana l'acqua che estingue la
sete; con il paralitico il camminare che simboleggia la salute. Nello
stesso modo i discepoli devono nutrirsi di un pane venuto dal cielo e
vivere di vita divina, eterna.
L'esperienza storica degli interventi salvifici di Dio ha fatto sco
prire a Israele la sua dipendenza esistenziale dal Dio vivente. Per
parlarne, Israele ha operato una trasposizione metaforica della sua
naturale esperienza di dipendenza dalruniverso: per vivere dobbia
mo mangiare, ma anche riconoscere che il cibo è un dono di Dio. E
questa è la lezione data da Dio durante il cammino nel deserto:
YHWH tuo Dio ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nu
trito di manna [ . . . ] per farti capire che ruomo non vive soltanto di pa
ne, ma di quanto esce dalla bocca del Signore.
Dt 8,3
101
guaggio di Giovanni è quello - non rappresentabile - della «dimora
vicendevole» (6,56 ). Donandosi al credente, Gesù abolisce le distan
ze dei due per gi ungere all'uno, senza che vi sia tuttavia confusione
degli esseri .
D'altra parte, per donarsi al credente e comunicargli la sua esi
stenza, Gesù deve passare attraverso la morte, come il seme del gra
no muore per non restare solo e portare frutto (12,24). Solo da risu
scitato e per mezzo de llo Spirito, Gesù diventa uno con ogni uomo
che l'accoglie nella fede; egli trasforma il suo essere in una vita orien
tata verso il Padre.
102
della festa dei Tabernacoli, celebrata in autunno, mentre invece quel
lo del c. 6 si situa sei mesi prima, verso Pasqua. Considerato come un
blocco coerente, il nostro testo trova un'unità a partire dalla sua po
sizione distinta e dal simbol ismo del pane.
L'opzione della fede in Gesù è il primo principio di unificazione
di un capitolo centrato interamente sulla risposta di Simon Pietro in
nome dei Dodici. Questa va riferita al contesto della defezione dei
discepoli: mentre quasi tutti abbandonano Gesù, un piccolo resto ri
mane fedele (6,66-68). Come nella tradizione dei sin ottici, Giovanni
fa sentire al lettore la confessione solenne di Pietro che qui risponde
a Gesù: «Signore, da chi andremo noi? Tu hai le parole della vita
eterna [ . ] . Tu sei il Santo di Dio».
. .
de di Pietro a nome dei Dodici . Ma, in vece di fel icitarsi con Pietro,
Gesù evoca il tradimento di Giuda, qua l i ficato da «diavolo)) (6 70)
, .
Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete.
Gv 6,35
1 03
Osserviamo solo che Giovanni non solo ha aderito ali 'inviato
escatologico di Dio: egli è il cristiano che vive di fede e la buona no
vella che egli trasmette riguarda prima di tutto la sua comunità. È
normale quindi che il linguaggio eucaristico affiori continuamente.
Leggiamo allora il testo del capitolo annotando, in particolare, il ter
mine «pane».
1 04
rio del Logos incarnato: quella del Figlio dell'uomo che è disceso dal
cielo (3,13) e che vi risale (6,62). Thttavia gli uditori si interessano pri
ma di tutto al «darsi da fare»; essi sanno che il cibo può significare nel
la Bibbia la parola di Dio: la legge dà la vita a quelli che la praticano
(Sir 1 7,1 1; 45,5). Accettano di non lavorare unicamente per procurar
si il pane terrestre e chiedono quali sono le opere che piacciono a Dio:
Gli dissero allora: « Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di
D io?».
Gv 6,28
105
stata data nel deserto ed era diventata il nutrimento quotidiano del
popolo: era questa l'indelebile certezza di Israele (Sal 78,24; Ne 9,15;
Sap 16,20). La citazione dei giudei collega due testi: Es 16,15 e Es 16,4.
Gesù precisa il «chi» ha dato loro da mangiare e che restava ambiguo:
Rispose loro Gesù : «In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il
pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pa
ne d i Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
Gv 6,32s
106
Collegando la sete alla fame, il linguaggio simbolico va al di là
dell'immagine del pane: Gesù si esprime con la tradizione sapienzia
le, secondo la quale la Sapienza invita coloro che l'ascoltano a con
dividere il suo pane e a bere il suo vino eccellente (Sir 24, 19.21 ; Pr
9,5): e allora si sarà pienamente soddisfatti come lo profetizzava
Isaia (48,21 ; 49,10).
Lo sviluppo che segue si riferisce propriamente alla fede in Ge
sù. Ma i giudei riprendono la metafora del pane collegandola a due
affermazioni di Gesù:
Allora i giudei mormoravano di lui perché aveva detto: «Io sono il pa
ne disceso dal cielo».
Gv 6,41
107
Sono io il pane vivo, disceso dal cielo
e aggiunge:
Anzi ! Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.
Gv 6,51
108
F. L'ascesa al cielo e il ruolo dello Spirito ( 6,59-66)
Il discorso sul «pane della vita» non si chiude con l'annuncio del
la morte redentrice di Gesù e sul suo effetto sul credente. Vi è, è ve
ro, un'interruzione nel v. 59, ma il v. 60 riprende la totalità del di
scorso:
Molti dei suoi discepoli , dopo aver ascoltato, dissero: «Questo linguag
gio è duro; chi può intenderlo?».
Gv 6,60
109
Conclusione
1 10
· CAPITOLO 7
APERTURA
A. Culto ed esistenza
111
Due tipi di memoria sono richiesti al discepolo di Gesù: una con
l'azione liturgica, l'altra con un comportamento di servizio. La Chie
sa è invitata a due azioni diverse, una nella vita del culto, l'altra nel
l'esistenza profana, ma l 'una e l'altra sono ugualmente orientate ver
so l'amore dei fratelli: ambedue perseguono il fine di animare la
Chiesa. Una è simbolo per mezzo del cibo, l 'altra esprime, per mez
zo del gesto di un servizio idoneo, la vita nuova dei cristiani. L'una e
l'altra manifestano, nell'azione liturgica o nel gesto di carità, la pre
senza attraverso l'assenza del Signore vivente.
La dualità culto/esistenza appare dal testo stesso. Il termine
koinonia può significare la «comunione al corpo del Cristo» (l Cor
10,16), ma anche la comunione fraterna: non solo l'intesa del cuore,
ma la condivisione dei beni in quella che diviene la «comunità» dei
discepoli. Questi due sensi corrispondono all'uso del Nuovo Testa
mento che - l'abbiamo detto prima - nomina con parole di origine
cultuale i servizi della carità esercitati dalla comunità. È così che le
parole leitourgia, thysia significano a volte la colletta, a volte il dono
di sé : è come se il linguaggio cultuale, spogliato del suo uso proprio,
servisse a descrivere il «Sacrificio spirituale>> (Rm 1 2, l ) che caratte
rizza ormai la vita cristiana. Lo stesso fenomeno di duplice senso si
ritrova nella duplice denominazione riferita dal Nuovo Testamento
per indicare la liturgia eucaristica, ossia «frazione del pane» e «cena
del Signore».
Ali 'i nizio della nostra presentazione, abbiamo fatto osservare
l 'esistenza di due modi di esprimere la vita cristiana: insieme al cul
to, oggetto principale della nostra ricerca, si è sempre presentata
l 'esistenza nella sua quotidianità, dualismo concentrato nel rappor
to culto/esistenza. Si impongono due tradizioni, una cultuale, l'altra
testamentaria. Io devo adottare l'una e l 'altra, ritmando la loro pre
senza.
112
Cena è simbolo del dono di sé da parte del Cristo in croce per la mol
titudine.
La messa ripete il rito dei primi cristiani che hanno ripreso ed
esplicitato l'azione di Gesù nella Cena. In questo senso, c'è ripeti
zione non del «pasto» come Gesù ha potuto viverlo, bensì dei gesti e
delle parole rituali, secondo il senso dato loro da Gesù. Per q uesto il
celebrante proclama il racconto eucaristico e lo gestualizza; pronun
cia così le parole di Gesù come la tradizione, in modo diverso, le ha
tramandate. Questa indipendenza della tradizione nei riguardi degl i
ipsissima verba di Gesù ha una grandissima importanza perché si
gnifica che la Chiesa è i nvitata a riferirsi con libertà all'evento pas
sato della Cena; solo la tradizione può permettersi di modificare
queste parole per renderle più pregnanti o più esplicite.
La messa, come la Cena, simboleggia anche il frutto del sacrificio
del Cristo. La teologia lo dichiara quando parla del «sacramento»: la
messa è allora simbolo (efficace ) del l'alleanza stabilita da Gesù che
offre la sua vita sulla croce, e sigiiJata da Dio che risuscita suo Figlio.
La messa non rappresenta quindi l'evento stesso della croce ma la
Cena, che, simbolicamente, anticipava il mondo nuovo inaugurato da
Cristo; nella Cena i discepoli sono ri uniti attorno a Gesù e, acco
gliendo il dono che egli fa loro, rappresentano già la futura comunità
unita al Signore vivente.
Cena, croce e messa costituiscono apparentemente tre poli del
pensiero; di fatto essi sono raggruppati a due a due. La messa è col
legata con la Cena, la Cena è collegata con la croce, di modo che, in
un certo senso, la messa è collegata con la croce. Se la messa rappre
senta il Calvario, essa tuttavia non lo ripete; avviene come per la ter
ra che, ogni mattino, si presenta al sole che sorge anche se conti
nuiamo a dire che è il sole ad alzarsi ogni giorno; ogni giorno la Chie
sa si presenta al Calvario, rivivendo i gesti di Gesù nel Cenacolo, che
anticipavano non solo la sua morte ma la sua risurrezione.
Precisiamo bene. Se la messa e la Cena sono entrambe azioni li
turgiche, esse prendono il loro senso dal loro rapporto con l 'unico
passaggio pasquale del Cristo al Calvario, e con l'esistenza intera di
Gesù Cristo pre-pasquale e post-pasquale.
E quindi, la messa può e deve essere chiamata sacrificio a condi
zione di precisarne il senso, perché la sua comprensione è � tata oscu
rata dalle controversie che hanno opposto Lutero al cattolicesimo
del suo tempo, ed è difficile non esserne influenzati. Entriamo in un
campo pieno di insidie.
113
Sommariamente possiamo dire che il «sacrificio» si articola in
una struttura di scambio tra l'uomo e la divinità , scambio che di per
sé suppone la coscienza di una distanza, identificata a volte con un
debito originario di esistenza più profondo del peccato dal quale ci
si vuole liberare. Attraverso il sacrificio, l'uomo cerca di colmare
questa distanza e simboleggia l'unione che desidera offrendo ciò di
cui si priva; con questo mezzo rinuncia al possesso immediato delle
cose per arrivare al donatore.
II sacrificio personale di Gesù sulla croce mette fine ai sacrifici cul
tuali del passato. L'unione è realizzata in profondità, la «distanza» non
esiste più non solo tra Gesù e Dio, ma tra l'uomo nuovo e il Padre.
Simboleggiando nella Cena il dono totale di sé per la moltitudine,
Gesù ha aperto la possibilità di fare memoria del suo sacrificio sotto
una forma che viene detta «Sacramentale» . L'eucaristia è un'azione
sacramentale che fa memoria del gesto di Gesù nella Cena; essa si ri
ferisce in ultima analisi alla croce, ma non aggiunge niente al sacrifi
cio del Calvario. Essa esprime nel corso del tempo quello che Gesù
ha inteso significare nella sua ultima cena: la vita data e comunicata.
In che senso la messa è un «Sacrificio»? Non come se la messa
· rosse un mezzo per stabilire l'alleanza, perché questa è già stata com
piuta sulla croce e attualizzata nel battesimo che ha costituito i mem
bri della Chiesa come esseri nuovi. Sono ora questi nuovi viventi che
esprimono la loro fede, la loro azione di grazie, la loro invocazione
di un pieno compimento.
Tuttavia, si può dire che la messa è ancora un «sacrificio», perché
se la Chiesa è già corpo del Cristo, se è già unita al suo Signore, non
lo è ancora pienamente. Deve, ancora e sempre, «passa re» dalla mor
te alla vita: il suo atto simboleggia il passaggio che avviene conti
nuamente. Se esiste ancora una distanza, c'è ancora, in un certo sen
so, sacrificio. La Chiesa non è pienamente corpo del Cristo, essa de
ve esserlo.
Come la Cena è e non è il sacrificio di Gesù in croce, sacrificio
che ha costituito l'essere nuovo del Cristo, così la messa è un sacrifi
cio in quanto è simbolo del passaggio di tutta la comunità ecclesiale
verso l'alleanza nuova e definitiva; essa afferma il nuovo essere, con
testa il passato, riconosce l'abolizione della distanza, dice l'essere
nuovo. Essa non lo è, in quanto, come Gesù nella Cena non è morto,
analogamente anche la Chiesa non è realmente morta al peccato, al
la distanza . Come Gesù nella Cena deve ancora morire, così la Chie
sa deve attualizzare nell'esistenza il suo essere nuovo. La messa è
1 14
pertanto un autentico «sacrificio» ma tutto spirituale, perché è l'of
ferta di se stessa in quanto vive per mezzo di Gesù; essa dona se stes
sa ricevendo il dono dal Padre.
La messa, abbiamo detto, è un «sacrificio di lode». In effetti que
sta denominazione unisce tra loro due parole che per le orecchie
contemporanee si conciliano difficilmente: il sacrificio non evoca
forse l'immolazione, mentre la lode non fa piuttosto pensare ad ac
clamazioni di gioia, nella riconoscenza per aver ricevuto dall'Altro?
Ed è precisamente qui che bisogna cambiare il nostro concetto di sa
crificio, che non è necessariamente collegato alla sofferenza e all 'im
molazione. Ricordo semplicemente che nell'espressione «sacrificio
di lode » questa parola, al temine di una lenta evoluzione, trova il suo
senso originario, cioè ciò che «rende sacro>>, ciò che riallaccia la re
lazione con Dio.
Alla messa la lode di Dio è proclamata nei confronti di colui che
ha strappato il proprio Figlio alla morte e ha fatto esistere la comu
nità dei credenti. Ne consegue ovviamente il perdono dei peccati, re
stando inteso che l'espiazione che l'ha preceduta non significa puni
zione per la colpa, ma riconciliazione dopo una rottura.
Qualificando la morte di Gesù come «Sacrificio», non si dà dun
que a questo termine il senso che esso ha abitualmente nella storia
delle religioni; il sacrificio di Cristo consiste nel fatto che Gesù, dan
do liberamente la sua vita per riprendcrla ( Gv l 0, 1 7s ). è stato fede
le fino alla fine e ha così riuniti tutti gli uomini che egli rappresenta
va davanti al Padre.
Quanto al sacrificio della messa, esso è un sacrificio non cruento,
come l'ha precisato il concilio di Tre nto; si può anche dire che esso è
un «anti-sacrificio», perché morendo sulla croce Gesù ha posto ter
mine ai sacrifici dell'antica alleanza . È proprio quello che diceva l'e
sclamazione del Battista: «Ecco l'agnello di Dio . . . ». Con Gesù, Dio
accorda la pienezza del perdono, e quindi della vita, a Israele e al
mondo. Gesù non è qui la nuova vittima cultuale, ma è colui ad ope
ra del quale Dio interviene offrendo agli uomini la riconciliazione
perfetta con lui.
1 15
re in che modo con questi termini possiamo unificare dati apparen
temente contrari riguardanti i testi eucaristici.
Di solito il termine «simbolico» viene assimilato a «non-reale»,
come quando si dichiara: «Non è che simbolico», parlando ad esem
pio del franco simbolico che corrisponde a una grossa somma di de
naro che bisognerebbe versare. Così lo capivano i teologi ai . tempi
del concilio di Trento: essi si opponevano ai calvinisti, i quali stima
vano che l'ostia era solo una presenza immaginaria. Per noi oggi il
simbolico non contraddice il reale, ma ne è il senso profondo.
Per capire bene questo concetto, il lettore, se fosse necessario,
dovrebbe riandare a quanto ho già esposto riguardo al simbolo, nel
c. 3, a proposito del mio studio della parola di Gesù sul pane. 1 Il sim
bolo evoca oggetti o comportamenti che mostrano uno stretto rap
porto tra ciò che si vede in modo sensibile e immediato e una realtà
umana pi� elevata o spirituale non immediatamente visibile; l'appa
rire di una luce può portare gioia, speranza; un sorriso non è solo un
segno di benevolenza, manifesta che due persone sono unite nella
benevolenza. Così il sentimento che spontaneamente evochiamo da
vanti alla natura o a un pegno di affetto: l 'oggetto contemplato o
conservato preziosamente suggerisce una presenza di un altro ordi
ne, che non è immaginaria. che ci parla . . .
In un simile contesto, l 'azione liturgica si situa a u n livello inter
medio tra le realtà profane e le realtà puramente celesti, livello che
viene volentieri qualificato «sacramentale». Ma bisogna specificare
la natura del sacramento. Abitualmente si caratterizza come uno
«strumento di salvezza»: il battesimo fa rinascere e aggrega alla
Chiesa; l'eucaristia fa partecipare ai frutti di una vita in Cristo. In tal
modo il sacramento è un rito efficace di grazia che. secondo la cate
goria di causalità, produce quello che significa. Questo modo di par
lare si fonda su una concezione del segno secondo la quale il signifi
cato (la salvezza) è un 'altra cosa rispetto al significante (la materia
utilizzata): due mondi vengono così legati insieme nel sacramento,
mediatore della grazia.
Ora, questa presentazione non corrisponde alla maniera biblica
di pensare. Invece di collegare le cose tra loro attraverso i legami di
causa-effetto, si preferisce ragionare per integrazione: i figli portano
1 16
le conseguenze delle azioni dei padri, non per un legame di causalità,
ma perché i figli sono in qualche modo inclusi nei lombi dei padri.
Con questo non si rifiuta la categoria di causalità, ma si adotta un al
tro punto di vista.
In effetti, questo punto di vista è stato assunto da un 'altra tradi
zione ecclesiale che si rifà non tanto a sant'Agostino quanto a Dioni
gi l'Areopagita (V-VI secolo). Secondo questa tradizione, che è an
cora viva nel mondo orie n tale, si preferisce il termine «mistero)) a
quello di «sacramento». In tale prospettiva, l'abbiamo detto, il mon
do sensibile nel quale si esprime la liturgia non è un trampolino che
rimanda a un intelligibile altro da lui, ma è l'epifania del Dio creato
re e redentore. Per questo i misteri liturgici non sono intesi come
«strumenti di salvezza)), bensì come azioni che, ognuna a suo modo,
simboleggiano il mistero unico di Dio in relazione con l 'uomo attra
verso il Cristo.
Celebrando Dio nell 'eucaristia, la Chiesa offre molto più di uno
strumento di salvezza , essa compie un atto salutare o, diremmo noi
oggi, un «atto di linguaggio>>. Essa esprime simbolicamente il miste
ro che essa fa esistere. E questo suppone che si lascino provvisoria
mente da parte le categorie di causalità per prendere quelle della
simbolica: l'azione eucaristica è e non è il mistero di Gesù celebrato
in azione di grazie a Dio.
Questa presentazione offre molti van taggi. Essa manifesta l'im
mediata continuità che unisce la messa alla Cena. La messa attualiz
za le parole di Gesù, perché attraverso lo Spirito è sempre Gesù che
agisce. Nel passato egli anticipava simbol icamente il suo passaggio,
la sua Pasqua di salvezza; oggi esprime il passaggio che la Chiesa fa
grazie a lui e in lui. Stesso agente, stessa azione. Questo passaggio
non è propri amente un «effetto» dell'azione liturgica, è l'azione stes
sa. Mediante il suo linguaggio eucaristico la Chiesa vive ciò che Ge
sù ha vissuto, celebra la sua presenza invisibile e invoca il compi
mento della sua venuta nell'ultimo giorno.
Altro vantaggio: non ridurre l'eucaristia a un ruolo secondario,
parallelo agli altri sacramenti, ma riconoscervi la sorgente della vita
cristiana. L'eucaristia è la vita cristiana allo stato simbolico. Se la
messa è obbligatoria, non lo è per approfittare dell 'unico mezzo di
salvezza che è la croce, perché i cristiani sono già uniti alla croce sa
lutare a causa del battesimo; ma lo è piuttosto per il bisogno di vive
re esprimendosi e nutrendosi. La pratica liturgica è uno degli aspet
ti dell'esistenza comune in Cristo.
1 17
D. Gesù è simbolicamente presente attraverso la sua assenza
118
Bisogna andare più avanti nel discorso. Questo incontro di Gesù
nel pane eucaristico mi porta prima di tutto a Dio; il progetto di Ge
sù infatti si identifica con il progetto di Dio stesso. In Gesù sono in
comunione con l'opera di grazia di cui il Padre è la sorgente. E subi
to ci mettiamo a lodare Dio per quello che ha fatto in Gesù; azione
di grazie e lode anche per la Chiesa, perché in Gesù essa vive nell'a
more e riceve lo Spirito Santo.
Inoltre questa comunione al progetto di Gesù ci spinge in avanti,
in un movimento simile a quello manifestato nei racconti delle appa
rizioni del Risorto. Dopo il riconoscimento ( «Sono proprio io!» dice
il Risorto ) , viene la missione ( «Andate ! » ) . Mediante l'incontro cul
tuale, sono inviato nel mondo; l'eucaristia si apre nel servizio frater
no. La memoria eucaristica si manifesta nella memoria esistenziale.
La «presenza>> non ha niente di statico: essa è immediatamente
attiva, è «sinergia», secondo l'espressione dei teologi ortodossi . Cor
risponde alla presenza che produce l' «esempio>> della lavanda dei
piedi , interamente finalizzata al l'effettiva esecuzione del servizio.
Noi sfociamo quindi nell'affl!rmazione «l'eucaristia fa la Chiesa».
Il paradosso consiste nel fa tto che Gesù, pur rimanendo di fronte al
gruppo dei suoi discepoli , diventa loro nutrimento. Trasforma il
gruppo dei discepoli in una com unità che esiste solo per mezzo di lui
e in lui. Nel linguaggio simbolico i discepoli sono il simbolo della
moltitudine evocata da Gesù. E il Cristo si dona loro come cibo. Egli
è il nutrimento della Chiesa. Nel passato, l'espressione corpus mysti
cum designava propriamente l'eucaristia: oggi è la Chiesa che viene
chiamata «Corpo mistico» del Cristo. Questo cambiamento di senso
fa riflettere: l'accezione primitiva ricorda il ruolo fondamentale del
sacramento per la realtà della comunione tra il Risorto e l 'insieme
dei credenti. «Corpo mistico», la Chiesa è e non è il corpo del Cristo.
1 19
INVIO
121
to, effettivamente donata. Deve incessantemente mantenere in un
vivo equilibrio la forza che lo spinge a lasciare la sicurezza della sta
bilità e l'istinto della felicità che lo abita.
È questa la condizione del discepolo di colui che ha voluto mori
re durante la Pasq ua, ossia durante la festa che fa passare da un luo
go a un altro. Abramo aveva già lasciato la grande civiltà di Ur in
Caldea, Mosè non poteva accontentarsi delle ricchezze dell'Egitto, il
popolo attraversa il deserto: bisogna passare altrove.
Bisogna avere in sé un'apertura costante verso il meglio, ispirata
sempre dal Dio vivente, colui che Gesù pregava nelle sue notti. Ge
sù ha rovesciato le barriere dietro le quali si rinchiudevano troppi
suoi contemporanei. Il gesto compiuto al Cenacolo significa il suo
passaggio finale.
Ripenso allora all'atmosfera nella quale vivevano gli ebrei, op
pressi dagli egiziani, dai greci e in seguito dai romani, che aspirava
no con tutte le forze alla liberazione politica, certamente, ma soprat
tutto alla liberazione religiosa. Quest'aspirazione era vissuta inten
samente durante le feste pasquali . La Pasqua è fondamentalmente
contestazione di un ordine ingi usto, perché D io stesso lo contesta.
Non è certamente il momento di preparare la rivoluzione arma
ta, ma è la mensa ove si alimentano e si sostengono i testimoni del
l'amore di Dio e della giustizia. L'essenziale è nella forza contenuta
nel fermento che fa lievitare la pasta di questo mondo.
Questa retrospettiva si adatta solo alle nazioni dove la giustizia
è beffeggiata? Ma la giustizia è beffeggiata in tutti i paesi del mon
do ! È il nostro sguardo che si è abituato all'ingiustizia e che tollera
ogni compromesso con lei. Se, invece, l'eucaristia scombussola le
mie abitudini, non solo perché io vi sento proclamare il messaggio
della buona novella, ma perché io mi trovo unito in comunità con
colui che ha dato la vita per il regno della giustizia e dell'amore, al
lora la parentesi cultuale nella mia esistenza profana deve produrre
i suoi effetti, perché mi rende capace di rischiare la mia situazione e
la mia vita.
Questo invito lo abbiamo sentito constatando il modo in cui Ge
sù si comportava di fronte alla morte, ma ora con la liturgia eucari
stica non si tratta più semplicemente di un ordine ricevuto né di un
modello da contemplare, si tratta di una comunione, di una «siner
gia» che ormai mi abita.
Il passare non è un semplice transito da un luogo a un altro; esso
implica già una presenza sempre più approfondita. Io arrivo al mi-
122
stero dell 'eterno che feconda il tempo. Se Dio non fosse Dio, gli ba
sterebbe dare ordini da eseguire; ma Dio accompagna incessante
mente colui che egli ha scelto per passare da una sponda all'altra: si
rende presente con una presenza attiva che è il suo progetto su li 'u
manità finalmente riconciliata con lui e in pace con se stessa. Israele
aveva già presagito tutto questo. Il discepolo di Gesù sa che lo Spiri
to gli è stato dato fin d'ora, per aiutarlo a passare sull 'altra riva.
123
POSTFAZIONE
125
tenere con fermezza l'orientamento che assume la celebrazione, cioè
la salvezza proposta a tutti gli uomini, altrimenti rischiamo di fare
dell 'ostia un vero idolo, come facciamo costantemente con le realtà
di questo mondo.
L'eucaristia attualizza la Cena durante la quale Gesù ha voluto
annunciare la sua morte per noi, per la salvezza di tutti gli uomini:
questo è il senso del richiamo a «fare memoria di me». La messa at
tualizza la Cena del tempo passato: Gesù si dona a noi come si è da
to allora, ma ora è il Risorto che viene a prenderei in lui.
126
sempre rinnovata della Chiesa. Sono trascinato nel movimento di
Gesù che dà la sua vita per il bene della moltitudine.
127
Secondo la risposta classica il Signore non è presente fisicamen
te nell'ostia consacrata: sotto le specie del pane c'è la presenza «SO
stanziale» del Signore; in altre parole, io vedo solo pane, ma grazie
alla mia fede so che il Signore si dona a me attraverso «l'accidente»
del pane. Non si può, assolutamente, parlare di «panificazione»: i l
Cristo non è «nel» pane.
Come procedere per pervenire a una nozione di «presenza» che
non è materiale? Bisogna anzitutto precisare che cosa si intende con
questo termine. Dio è sempre presente a questo mondo che egli por
ta nelle sue mani, che fa esistere come dal di dentro, al di là di tutto
ciò che noi possiamo presentire. Il suo mistero non può essere circo
scritto. Allo stesso modo il Risorto è all'opera, continua il suo com
battimento fino alla fine per vincere il male nel mondo di quaggiù. I
santi e gli umili sanno che egli è presente, non facendo numero con
noi, ma essendo noi più di noi stessi. Come dunque definire la sua
presenza eucaristica?
Il termine «presenza>> comporta infatti ogni sorta di accezione.
Due eccessi vanno evitati. Il primo consiste nell'assimilare la pre
senza eucaristica a una presenza di ordine materiale, come quella del
foglio di carta sul quale scrivo queste righe.
Il problema si è posto quando nel passato ci si è chiesto come po
teva Gesù stare nello stesso tempo in cielo e nell'eucaristia sulla ter
ra. Un tempo il fatto che il cielo fosse situato in un luogo determi
n ato non disturbava gli spiriti; ma allora si sono sollevati problemi ir
risolvibili nei quali sono caduti molti teologi nel IX secolo, andando
a finire in concezioni tanto materializzanti da provocare come con
traccolpo uno spiritualismo esagerato, come quello di Berengario di
Tours, almeno nel pensiero dei suoi detrattori. E soprattutto il modo
di pensare non era più conforme a quello dei padri della Chiesa, co
me l'ha dimostrato magistralmente Henri de Lubac.
Non diciamo di aver realmente superato questo stadio, perché la
pietà popolare considera facilmente gli elementi eucaristizzati come
se fossero cose materiali. Gli effetti della comunione sarebbero le
gati «alla durata della presenza corporea di nostro Signore nel sog
getto: quindici, venti , trenta minuti» è stato scritto nel 1 953 nel serio
Dictionnaire de spiritualité (col. 1204) . Il ringraziamento dovrebbe
durare «tanto quanto persiste in noi la presenza eucaristica, vale a di
re circa un quarto d'ora» (col. 1232). Che pensare della confidenza
che mi ha fatto un archimandrita greco il 22 novembre 1 981: nelle
campagne le donne anziane raccomandano ai ragazzi di non giocare
128
nella strada nel giorno in cui fanno la comunione; potrebbero farsi
male alle ginocchia, rischiando così di profanare il sangue del Signo
re per il fatto che dalle ferite può uscire con il loro sangue. Questa
raccomandazione sembra applicare agli uomini la prescrizione con
cernente le donne durante il tempo della loro indisposizione me
struale. • Non è forse un credere alla simbiosi del sangue di Cristo e
del sangue umano?
L'eccesso inverso consiste nello «spiritualizzare» a tal punto l'eu
caristia che essa diventerebbe solo la presa di coscienza di una realtà
permanente, quella della salvezza offerta, quella del Cristo che vive
nei secoli, senza nessun vero incontro sacramentale.
Rimando a ciò che ho detto nel c. 7 circa il modo in cui si realiz
za, all'interno della celebrazione comunitaria della Chiesa, l'incontro
con il Cristo vivente e, per mezzo di lui, con il Dio dell'alleanza. Ciò
che tengo a sottolineare ancora è che non si dovrebbe parlare del
l'eucaristia come di una realtà indipendente da colui che la riceve,
perché i testi biblici non cessano di mostrare che essa si inscrive nel
dialogo di Gesù con i suoi discepoli e implica il ricevimento effetti
vo da parte di costoro del pane e del calice.
La domanda si riduce a questo: la presenza sacramentale del Si
gnore che si realizza durante l'azione liturgica è limitata nel tempo
della celebrazione o continua anche dopo?
Rispondo in primo luogo che. se il Cristo è presente nel pane e nel
vino consacrato, non è per effetto di una trasformazione fisico-chimi
ca di questi alimenti ma in virt ù della sola parola del Signore. Dal mo
mento che questa parola domina il tempo. pane e vino consacrati non
possono ritornare al mondo profano fino a quando restano un nutri
mento assimilabile. Da qui viene l'esigenza del rispetto della santa ri
serva eucaristica: questa è stata sempre collocata dagli ortodossi su un
altare situato dietro l'iconostasi, e dai cattolici in un luogo privilegia
to all'interno dell'edificio dove il culto è stato celebrato.
L'intenzione primaria di questa «riserva» eucaristica, almeno
presso i cattolici, è la distribuzione ai malati e ai morenti che deside
rano fare la comunione ma che non possono andare in chiesa.
Per quanto riguarda le pratiche di pietà davanti al santissimo sa
cramento al di fuori della messa -.che sono state introdotte a partire
129
dal XV secolo -, la fede di coloro che le adottano è certamente viva,
e queste devozioni, fissando l'attenzione sulla santa riserva, che si
tratti di ostensorio o di guardare il tabernacolo, possono senza dubbio
favorire il raccoglimento della preghiera. Tuttavia c'è sempre per noi
terrestri il rischio di «materializzare» la presenza del Cristo nel pane,
di farne una «cosa» nel mondo degli oggetti, e questo sfiorerebbe ciò
che si potrebbe designare con il termine di «idolatria». Un prete san
to, Maurizio Zundel, lo mostra con vigore in una raccolta di prediche
sull 'eucaristia che è stata recentemente edita in sua memoria.
Siamo preservati da questo rischio per opera di una fede autenti
ca che tocca la «Sostanza>> dell'eucaristia, cioè il Signore stesso. Mol
to bene! Ma come giustificare, per esempio, un predicatore che, par
lando del tabernacolo, si estasiasse davanti al «divin prigioniero»?
Perché insistere sulla memoria e non tener affatto conto del sacri
ficio? Accetterebbe di parlare della messa come di un sacrificio?
130
to un altro punto di partenza per la mia riflessione. Tuttavia ci tengo
a dire che è proprio uno dei suoi scritti policopiati che, nel 1 936, ha
ridato gusto alla mia vita cristiana: si trattava allora dell'ambiente di
vino, sorgente di vita per tutti coloro che erano nauseati dal linguag
gio teologico di quei tempi . Nel suo piccolo scritto La messa sul mon
do Teilhard trae molte conseguenze dalle sue intuizioni sull'universo
che sottoscriverei volentieri.
Se generalizzo la mia intuizione, penso che l'errore consiste nel
collegare l'eucaristia al mistero deli 'incarnazione, come se Gesù non
si fosse solamente annientato prendendo la condizione di uomo: egli
avrebbe voluto prendere l'aspetto di una piccola ostia; questa picco
la cosa bianca è il Signore del cielo e della terra. Ecco dove può con
durre una certa idolatria del pane eucaristico. Si tratta invece del mi
stero del corpo del Cristo che non è semplice mente quello di un in
dividuo, bensì l 'umanità nuova, l 'uomo nuovo.
In definitiva, lei pensa che non si può pilì, oggi, essere soddisfatti
della formulazione dell 'insegnantento classico di «transustanziazio
ne» per parlare di «presenza reale». Quale proposta alternativa?
131
Ecco un paragone tratto dai vangeli. L'episodio delle spighe
strappate dai discepoli (Mc 2,23-28) è un atto che viene interpretato
diversamente: i farisei protestano contro questo comportamento che
qualificano come scandaloso, contrario alla legge. Per Gesù, si tratta
di un atto onesto nella misura in cui , a causa di Gesù, la legge non ha
più lo stesso valore. Un solo avvenimento è considerato con due giu
dizi diversi. Nel mio gergo dico che l'episodio delle spighe strappate
è e non è un atto scandaloso. Possiamo anche generalizzare l'opera
zione «simbolizzante» notando che Gesù è e non è il Figlio di Dio. La
differenza è operata dalla fede e dalla non-fede dello spettatore.
Propongo dunque di mantenere la partecipazione della comunità
aHa quale viene indirizzata la parola di Gesù. Si tratta di una parola
che è un atto per il quale l'altro deve impegnarsi. Il termine di «CO
noscenza simbolica» permette di dire la realtà di questa conoscenza.
Da qui viene la formulazione «questo è e non è>> che sottintende l'ac
coglime nto o il rifiuto dell'affermazione del locutore. Il reale è sem
pre ambiguo, di un'ambiguità che solo il lettore può togliere: l'uomo
della strada vedendo un gi ovane che porta un mazzo di rose rosse al
la sua fidanzata si accontenta di ammirare le rose. La fidanzata sco
pre nel gesto del giovane un amore reale. Le rose sono rose rosse e
nello stesso tempo testimonianza di amore del fidanzato.
Succede così per la parola pronunciata dal sacerdote: l'ostia per
il credente è nutrimento divino, per il non credente che la ricevesse
è solo pane condiviso.
132
«incarnazione» statica; essa rappresenta propriamente un «invito» a
essere consumata per cooperare alla fondazione della Chiesa. Pre
senza reale orientata sull'azione di Gesù alla quale io partecipo e che
mi conduce a lodare il Padre con tutti i miei fratelli.
133
La difficoltà sta nel senso dato al termine «simbolico», che non
era conosciuto al concilio di Trento, ma che è pienamente accettato
oggi. L'ostia consacrata resta pane da mangiare, ma essa è anche pre
senza del Risorto. Guardando l'ostia, sono portato dal desiderio di
partecipare al compimento del corpo del Signore, ciò che è il frutto
dell'apostolato. Eccomi interamente abbandonato al Signore viven
te nei secoli o, più esattamente, impegnato nella sinergia che mi lega
a Dio.
Mi ritrovo oggi in questa preghiera:
La tua presenza, Signore, invade il mio presente,
e il mio presente allora diventa presenza all'al tro.
1 34
INDICE
Capitolo l
La pratica primitiva dell'eucaristia .... . . . . . . . . . . .. . . . .... . . . . . .. .. . .. . ... . . . . . » 13
A. L A CENA DE L SIGNORE .................................................. ............ )) 13
B. LA FRAZIONE DEL PANE ..... ................ ...................... ................... » 16
Capitolo 2
Le due tradizioni sull'ultima cena di Gesù . . . .... ......................... » 25
A. IL FATTORE LITURGICO .............................................................. )) 28
B. UN FATTORE ES I STE N ZI AL E ........................................................ » 32
C. Gu ADDII DI GEsù SE CO N D O LucA ...• .••••.•••••• . . .. . . . . . . . . ... .... . . . . . .
. » 33
Conclusione . . . . . . .. . . .. . . . . . . . . . .. . . .. .. . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . .... . . . . .. . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . » 44-
Capitolo 3
La parola sul pane . . ............... ............................ .. .... ......... ..... ....... >> 47
A. Qu ESTO . . . . . . . . . . . .... . . . . . . . . . . . . . . .................. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . . . >> 47
B. MIO CORPO . . . . . . . . ... . .. . . . . . . . . ... . .. . . . . . . . . . . . . .. ... . . . . . . ... . . .. . . .... . . . . . ... . . . . .... » 49
C. IL MIO CORPO CHE (È] PER VOI . . . . . . ... . . . . . . . . . . . ... . .. . . . . ..... . . . .. . ... . . . . . . » 50
D. «QU ESTO È» - PRESENZA REALE? . . . .. . . ... . . . . . . .. ... .. . . . . . .. .. . . .. .. . . .... » 51
E. « PE R VO I » ........... ........................................................... ............ )) 59
Capitolo 4
La parola sul calice . . ..... .. . . ........ .... ... ..... ...... .... ... .. .. .... .... .............. » 63
A. SITUAZION E DELLA PAROLA . . . . . . . .. . . . . . . . . .. .... . . ... .. . . . . . . ..... . .. . .. . .. . . . . >� 65
135
B. Q UESTIONI DI VOCABOLARIO .......... ............................................ >> 67
C. Q UESTO È IL MIO SANGUE DELL'ALLEANZA,
VERSATO PER LA MOLl'ITUDINE...... .................................................. >> 70
D. LA NUOVA ALLEANZA NEL MIO SANGUE VERSATO PER VOI ........ » 73
Conclusione ... .... . . .... . ...... . ...... . . . . ... . . .. . . . . .. . .. . . . .. . .. . . . . .. . . .. . . . . . . . . . . . . .
. . .. » 78
Capitolo S
«Fate questo in memoria di me» .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . >> 81
A. MEMORIA E INCONTRO CON DIO .............................................. » 82
B. MEMORIA E CULTO •. . . . • . • • . • . • • • • • • . . • . . • • . • • • • • • • • • • • . • • . • . . . . . • . • • . • • . . . . . • . • . . . . . . >> 85
C. «FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME» . . . .. .. . .. . . . . . . . . .... . .. .... .... . .. . . .. . . » 89
Conclusione . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. >> 95
Capitolo 6
Il pane della vita secondo Giovanni .. ................ .. . ... .......... ....... . » 97
A. IL TESTAMENTO DI GEsù (Gv 13) ............................................ » 97
B. GES Ù , PANE DELLA VITA (Gv 6) . ..... . �... . ..... . . . . . . . . . . . . . . . ....... . . . . . . . .. »100
c. LA DOMANDA DEL PANE . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . .. . ... . . . . .. . ..... . ......
.. . .. .. . . . . . . »104
D. SONO IO, IL PANE DELLA VITA . . ... . .............. . ... . ...... . . . . . . ..... . . . .. . . . . . » 106
E. IL PANE VIVO PANE CHE SI DONA PER ESSERE MANGIATO .......... »107
F. L'ASCESA AL CIELO E IL RUOLO DELLO SPIRITO.......................... »109
Conclusione .... . . .. . ... ... . . . . . . . . ... . . . . .. . . . . . . . . . . . . . .. . . . . .. . . . . . ..... . . ... . . .
. . . . . ... .. . >> 1 10
Capitolo 7
Apertura ..... . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . >> 111
A . CULTO E D ESISTENZA . . . . . . . ..... ... . . ... . ... ....... . . .. . .. . . . . . . . .. . . . . ..
. . . . . . . . . . . »111
B . MESSA , CENA E CALVARIO • . . . • . . . . . . • . .• • • . • . . • . . • • . • . . • . . . . • . . . . . . . • . • . . . . . . . • . . )) 1 12
136