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Collana Studi biblici

1-3. S.A. Panimolle, Il discorso di Pietro all'assemblea apostolica


1: Il concilio di Gerusalemme
II: Parola, fede e Spirito
III: Legge e Grazia
4. F. Lambiasi. L'autenticità storica dei Vangeli
5. M. McNamara, l Targum e il Nuovo Testamento
6. C.K. Barrett, La prima lettera ai Corinti
7. L . Monloubou, La preghiera secondo Luca
8. L. Alonso Schokel, Trenta salmi: poesia e preghiera
9. P. Grelot, l Canti del Servo del Signore
10. J. Dupont, Teologia della Chiesa negli Atti degli apostoli
11. P. Lapide, Leggere la Bibbia con un ebreo
12. F.-E. Wilms, l miracoli nell'Antico Testamento
13. Il Midrash Temurah, a cura di M. Perani
14. J. Dupont, Le tre apocalissi sinottiche
15. l. De la Potterie, Il mistero del cuore trafitto
16. W. Egger, Metodologia del Nuovo Testamento
17. J. Darù, Principio del Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco
18. S. Zedda, Teologia della salvezza nel Vangelo di Luca
19. L. Gianantoni, La paternità apostolica di Paolo
20. S. Zedda, Teologia della salvezza negli Atti degli apostoli
21. A. Giglioli, L'uomo o il creato?
22. M. Pesce, Le due fasi della predicazione di Paolo
23. E. Boccara, Il peso della memoria
24. L . Alonso Schokel - J.M. Bravo Arag6n, Appunti di ermeneutica
25. Metodologia dell'Antico Testamento, a cura di H. Simian- Yofre
26. F. Manns, Il giudaismo
27. G. Cirignano- F. Montuschi, La personalità di Paolo
28. F. Manns, La preghiera d'Israele al tempo di Gesù
29. H. Simian- Yofre, Testi isaiani dell'Avvento
30. M. Nobile, Ecclesiologia biblica
31. L. Ballarini, Paolo e il dialogo Chiesa-Israele
32. F. Manns, L'Israele di Dio
33. A. Spreafico, La voce di Dio
34. G. Crocetti, Questo è il mio corpo e lo offro per voi
35. A. Rofé, La composizione del Pentateuco
36. P. Lapide, Bibbia tradotta Bibbia tradita
37. G. Cirignano- F. Montuschi, Marco. Un Vangelo di paura e di gioia
38. P. Grelot, Il mistero del Cristo nei Salmi
39. B. Costacurta, /l laccio spezzato
40. G. lbba, La teologia di Qumran
41. A. Wénin, Entrare nei Salmi
42. B. Costacurta, Con la cetra e con la fionda
43. J.P. Fokkelman, Come leggere un racconto biblico
44. X. Léon-Dufour, Agire secondo il Vangelo
45. Bibbia e storia, a cura di M. Hermans - P. Sauvage
46. W. Binni - B.G. Boschi, Cristologia primitiva
47. M. Remaud, Vangelo e tradizione rabbinica
48. B.G. Boschi, Le origini della Chiesa. Una rilettura prospettica
49. A. Miranda, l sentimenti di Gesù
50. W. Binni, La Chiesa nel Quarto Vangelo
51. X. Léon-Dufour, Il pane della vita
XAVIER LÉON-DUFOUR

IL PANE
DELLA VITA

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EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA


Titolo originale: Le pain de la vie

Traduzione dal francese di Ida Dassori


Revisione di Marisa Fratus

Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze

© 2006 Centro editoriale dehoniano


via Nosadella, 6 - 40123 Bologna
EDB (marchio depositato)

ISBN 88-10-41003-3

Stampa: Grafiche Dehoniane, Bologna 2006


PREMESSA

Perché un nuovo libro sull'eucaristia quando all'incirca venticin­


que anni fa pubblicavo presso l'editrice Seuil Le partage du pain eu­
caristique [tr. it.: Condividere il pane eucaristico, ElleDiCi, Torino
1982, ristampato nel 2005]? Questo lavoro è stato molto apprezzato
dagli specialisti, ma non ha per niente modificato la comprensione
del grande pubblico: constato che (malgrado il Vaticano II) si conti­
nua a fare della messa un mezzo per produrre la presenza reale del
Signore nell'ostia. Invece di abbandonarmi a varie considerazioni,
preferisco riferire un vecchio ricordo.
Nel mese di giugno del 1948, a Roma, l'Istituto biblico si prepa­
rava a celebrare la fine dell 'anno accademico con una messa solen­
ne alla quale avrebbero partecipato professori e studenti. Al Padre
nostro, il rettore si prepara ad andarsene. Dove? Va in sacrestia e ri­
torna vestito con paramenti meravigliosi, non per comunicare, ma
per adorare il Santissimo che esporrà sull'altare. L'azione eucaristica
è allora solo un mezzo per permettere agli assistenti di adorare il Si­
gnore? Perché non protestare contro la subordinazione della messa
all 'esposizione del Santissimo?
Prima di tutto, occorre sapere cos'è )'«adorazione». In merito, il
papa Benedetto XVI il 21 agosto 2005 alla messa del Congresso del­
le GMG a Marienfeld ha espresso il senso del termine:
Adorazione in greco suona proskynesis. Essa sign ifica il gesto della sot­
tomissione, il riconosci mento di Dio come n ostra vera misura. [ .. . ] La
parola latina per adorazione è ad-oratio, contatto bocca a bocca, bacio,
abbraccio e quindi in fondo amore. La sottomissione diventa unione,
perché colui al quale ci sottomettiamo è A more. Così sottomissione ac­
quista un senso, perché non ci impone cose estranee, ma ci libera in fun-

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zione della più intima verità del nostro essere. [ ... ] Al Cenacolo, il gior­
no dell'i nizio della creazione diventava il giorno del suo rinnovamento:
la trasformazione sostanziale che si realizzò nel Cenacolo era finalizza­
ta a suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la tra­
sformazione del mondo.

Benedetto XVI ha dunque ricordato ai cristiani la potenza dina­


mica di vita rappresentata dal progetto del Signore: operare con lui
per creare un mondo nuovo di giustizia e di amore. Comunicare non
consiste in un semplice contatto con Gesù di Nazaret; è abbandona­
re le mie proprie preoccupazioni per partecipare all'edificazione del
«corpo del Cristo)). È incontrare il Signore risorto che mi impegna
nel suo progetto: costruire un mondo nuovo di amore e di pace, o, più
precisamente, lasciare agire in me il Cristo vivente.
Il mio intento in questo lavoro non è quello di un dogmatico che
si preoccupa di far intervenire nella sua ricerca la tradizione eccle­
siale posteriore ai testi scritturistici. È quello di un esegeta: proporre
al lettore i testi eucaristici perché possa coglierne meglio il senso e la
portata. La mia interpretazione si basa sui risultati del mio prece­
dente lavoro. Ho soppresso i dati tecnici per limitarmi all 'essenziale.
Invece del termine «eucaristia» ho scelto come titolo un 'espres­
sione presa dall'evangelista Giovanni che caratterizza meglio l'o­
rientamento del mio studio. Secondo la testimonianza dei testi, se la
contemplazione del mistero eucaristico è essenziale, essa però deve
condurre a un comportamento attivo. È questo l'obiettivo dell'euca­
ristia. Dicendo: «Prendete ! Mangiate! » Gesù indica che il fine da lui
perseguito non è una contemplazione statica, ma un agire che è la vi­
ta in abbondanza.
Oso sperare che questo lavoro aiuterà il lettore a entrare più a
fondo nel mistero dell 'atto ecclesiale istituito da Gesù durante l'ulti­
ma cena con i suoi discepoli.

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PREFAZIONE

«lo sono il pane della vita)) dichiara Gesù, secondo il quarto Van­
gelo (6,35.48), invitando così a credere in lui e a vivere di lui. Il pane
è una metafora che biblicamente significa il nutrimento essenziale
per l'uomo� il termine «Vita» sta a indicare la realtà, resistenza con­
creta. Non diciamo «il pane di vita» ma (come in greco) il «pane del­
la vita», per indicare che si tratta della vita per eccellenza, la vita di­
vina che non è soggetta alla morte.
La vita? Recentemente, il chirurgo che mi ha applicato con suc­
cesso un pacemaker mi parlava della sua più profonda convinzione:
la vita è una realtà che non possiamo creare, malgrado i progressi
della scienza. Questa constatazione mi suggerisce che egli pensava a
un superamento del l'uomo. L'uomo si scontra continuamente con
qualcosa che è al di là di lui stesso; si trova in presenza di una realtà
che non può possedere e che l 'evangelista Giovanni chiama la vita
nella sua più forte accezione.
I biblisti credenti la identificano con Dio stesso: Dio è il Vivente,
la vita personificata. Dando un nome alla vita, non abbiamo la pre­
tesa di circoscriverla, ma solo di precisare che tale realtà, anche se a
noi comunicata, esiste al di là di noi stessi. Questa vita, ricevuta da
un altro, sappiamo che ci è possibile accoglierla e salvaguardarla in
vita eterna.
Secondo la fede e la pratica cristiana, è la cena eucaristica che
mantiene questa vita, certamente, in ogni credente, ma, prima anco­
ra, la mantiene nella comunità ecclesiale, che, celebrandola, esprime
e rinnova l a sua appartenenza al Cristo vivente. Studiando la Scrit­
tura, ciò che si è imposto alla mia ricerca è la relazione che unisce
strettamente il culto eucaristico e l'esistenza concreta del credente.

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È la prospettiva dominante di questo lavoro. L'altro obiettivo della
ricerca è la «presenza reale» del Signore nella celebrazione ecclesia­
le. Intendo anche affrontarla a partire dai dati della Scrittura che
aprono alla comprensione delle parole e dei gesti liturgici.

Una tappa nella storia dell'eucaristia: Berengario di Tours

Mi sembra utile ricordare alcuni fondamenti del pensiero della


Chiesa. Berengario di Tours rappresenta, relativamente all'oggetto
in esame, una svolta nell'evoluzione della tradizione. Ha reagito con­
tro le interpretazioni quasi fisiche che erano frequenti nel suo tem­
po; esse sostenevano che Gesù di Nazaret si incarnava nuovamente
nell'eucaristia. Berengario ha sottolineato, al contrario, il carattere
non-fisico della comunione con il Cristo; egli parla abitualmente di
«presenza spirituale».
Da qui provengono le condanne radicali della sua opera. È stato
accusato di negare la presenza reale, benché non ne abbia mai dubi­
tato. Fu condannato una prima volta, nel1054, a firmare una profes­
sione di fede secondo la quale

il vero corpo e il vero sangue del nostro Signore Gesù Cristo, così come
li percepiscono i nostri sensi, non solo nel sacramento ma in verità, so­
no manipolati e spezzati dalle mani del sacerdote e poi triturati dai den­
ti dei fedeli.

In tal modo si credeva di difendere la presenza reale del Signore


nell'eucaristia; in realtà venivano prolungate le teorie «fisicistiche»,
quasi «cosistiche», per affermare la presenza del Cristo.
Un segno del carattere eccessivo della condanna ci risulta dal fat­
to che, venticinque anni dopo, nel 1079, Berengario dovette contro­
firmare un altro giuramento di ortodossia, molto meno costringente,
che diceva semplicemente:

Il pane e il vino che sono sull'altare [ .. . ] sono cambiati sostanzialmente


nella carne vera, propria e vivificante, e nel sangue del nostro Signore
Gesù Cristo [ . . . ], nato dalla Vergine.

E quantunque Berengario continuasse a sostenere di non conte­


stare la presenza reale del Cristo nel sacramento, il suo nome fu de­
finitivamente associato a quelli che la negavano.

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Oggi la grande maggioranza degli storici riconosce che l'accusa
derivava da un equivoco sul senso del termine <<Spirituale>> per qua­
lificare la presenza reale. Ritorneremo su questo problema del lin­
guaggio, fondamentale per una giusta comprensione, utilizzando il
termine «Simbolico>> che secondo noi è il più valido.
Si sapeva che colui che si rende presente nel sacramento non è
semplicemente il Gesù di Nazaret che noi conosciamo attraverso i
vangeli, ma il Figlio di Dio risorto. Ora, come spiegare l'unità che si
realizza tra il Cristo glorificato presso il Padre e la Chiesa che egli vi­
vifica? La tradizione farà considerevoli sforzi per dire il mistero del­
l'eucaristia.
Gli uni tentarono di conservare l'apertura di Berengario, sottoli­
neando senza paura che la presenza reale era sotto i «simboli>> del
pane e del vino: solo coloro che capiscono il significato di questi sim­
boli possono veramente comunicare sacramentalmente. Coloro che
non ne accolgono il significato non possono veramente ricevere con
verità questo sacramento. Altri cercarono di riferirsi ad Aristotele
adottando le categorie metafisiche di «Sostanza» e di «accidente».
Prese allora forma la teoria della «transustanziazione»: la «sostanza»
del pane diviene «corpo del Cristo», la sua presenza reale. Gli acci­
denti , il pane e il vino materiale, restano immutati.
Inoltre, sempre nel medioevo, alcuni non hanno avuto paura di
negare la validità dell'eucaristia: i catari contestavano a Cristo, ormai
essere spirituale, di avere un corpo e quindi non poteva esserci né
L:arne né sangue suo nell'eucaristia; essi preferivano rinunciare a par­
lare del Cristo presente nell'e ucaristia, anche perché il Cristo sareb­
be allora sottoposto al processo di digestione o di putrefazione. Al­
tri, come i valdesi, nati dalla predicazione di Valdo (un lionese, vis­
suto verso il 1173), negavano anche la realtà della presenza del Si­
gnore nel pane.
Queste eresie erano fortemente combattute dai teologi dell ' epo­
ca. Il popolo cristiano invece si accontentava di conservare la propria
fede, privilegiando varie devozioni che lo portavano a onorare il cor­
po umano del Cristo presente nel sacramento. Da queste devozioni
proviene il desiderio di vedere l'ostia e l'uso dell'elevazione dell 'o­
stia durante la messa. E ancora l'adorazione del Santissimo (dal XIV
secolo) e l'esposizione sull 'altare dell'ostia, che non serviva pi ù per
celebrare, ma permetteva di adorare la presenza del Signore.
L'immaginazione popolare credette di vedere nel pane e nel vi­
no consacrati un potere operante al di fuori della liturgia. La devo-

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zione si sviluppò considerando il pane consacrato come un portafor­
tuna; ad esempio, si sotterravano i cadaveri con un'ostia per assicu­
rare loro l'entrata in cielo. Altri ancora credevano che il pane fosse
apparso come carne sanguinante, e Antonio da Padova confondeva
gli eretici - si dice - presentando un'ostia consacrata a un asino af­
famato che, con rispetto, si inginocchiò per adorarla. Ci si era di­
menticati che, secondo s. Bonaventura, eco dei teologi del suo tem­
po, se un topo avesse rosicchiato un'ostia consacrata, caduta acci­
dentalmente a terra, avrebbe mangiato solo pane. Come lo precisa Y.
De Montcheuil, «poiché l'eucaristia è un sacramento, cioè qualche
cosa che è essenzialmente destinato all'uomo, se questa relazione
viene meno, il Cristo cessa di essere presente, indipendentemente
dallo stato delle specie».
In conclusione, la devozione popolare dimostra che, in molti ca­
si, si era passati dall'azione liturgica a una devozione privata. Non
voglio contestare il valore di questi usi, ma per averli vissuti io stes­
so da piccolo, sono convinto che non si tratta più dell'eucaristia co­
me tale. L'attenzione del fedele viene distolta dal mistero per foca­
lizzarsi sull 'aspetto di una presenza separata dalla funzione propria
de li' eucaristia.
Io penso che il rapporto liturgico con il pane consacrato è analo­
go ali 'incontro con il Risorto, presentato dalle narrazioni delle appa­
rizioni ai suoi discepoli. Questi racconti comportano tre dimensioni:
lo choc dell'incontro con il Vivente, il riconoscimento del Gesù del
passato, l'invio verso gli altri. Anche nell'eucaristia, l'incontro non è
solo nel faccia a faccia con l'Altro che si impone a me: è immediata­
mente una memoria di Gesù di Nazaret, del suo dono personale in
nostro favore; è ancora immediatamente l'invio ai nostri fratelli.

D nostro percorso

Precisiamo ora.il percorso che seguirà la nostra ricerca: in che co­


sa consiste la presenza del Cristo nell'eucaristia. Per cominciare, ri­
cordo il modo in cui, all'inizio del cristianesimo, furono definite le
prime manifestazioni di quella che poi fu chiamata «eucaristia»: «la
cena del Signore>> e «la frazione del pane» (c. l ) . In seguito, constato
che due sono le tradizioni fondamentali che riferiscono l'evento del­
l'ultima cena di Gesù: accanto alla tradizione cultuale, c'è un'altra
tradizione che chiamo «testamentaria». È questo il risultato di una

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lettura di Luca (c. 2). A questo punto vi sono tre studi sul senso che
assumono le parole di Gesù sul pane (c. 3), quelle sul calice (c. 4) e
quelle sul fare memoria ( c. 5). Poi propongo una lettura dettagliata
della presentazione di Giovanni (c. 6). Un ultimo capitolo tenta di
raccogliere in modo unitario la mia comprensione del mistero del
pane della vita (c. 7).
Il tutto è seguito da un «Invio» e da una «Postfazione», dove so­
no raccolte possibili domande poste all'autore.

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CAPITOLO 1

LA PRATICA PRIMITIVA
DELL'EUCARISTIA

Sulla pratica primitiva dell'eucaristia esistono tre o quattro bre­


vi accenni di Luca negli Atti degli apostoli e due richiami nella Pri ­
ma lettera di Paolo ai Corinzi , dove sono evocate le parole dell 'isti­
tuzione dell'eucaristia. Questi testi, molto importanti per noi, sono in
effetti poco numerosi, come se gli autori cristiani non ne avessero
fatto il nucleo centrale della loro fede cristiana. Bisogna aggiungere
che non si trova il termine «eucaristia» prima del II secolo: il più an­
tico è in Ignazio di Antiochia verso l'anno 1 10 e poi in Giustino ver­
so i1 150. Nel Nuovo Testamento, le due uniche denominazioni sono
la «cena del Signore» e la «frazione del pane».

A. La cena del Signore

La denominazione «Cena del Signore» si trova in un passo in cui


Paolo critica il comportamento dei Corinzi che, quando si riunivano,
mangiavano insieme ognuno il cibo che si era preparato.
Non c'è niente di strano nel fatto che le riunioni della comunità
dei credenti avessero luogo attorno a una mensa. Sia presso i giudei
sia negli ambienti ellenistici, molto frequentemente il prendere i pa­
sti in comune faceva parte della vita religiosa e sociale. L'usanza dei
pasti comunitari era tanto diffusa che, secondo lo storico Giuseppe, 1
questi erano divenuti oggetto di un'autorizzazione speciale dell'im­
peratore. E l'autorizzazione indicava che questi pasti avevano una
portata essenzialmente religiosa.

1 Antichità giudaiche, n. 14, 214-216.

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Sembra quindi normale che la comunità cristiana di Corinto, for­
mata da credenti provenienti dal giudaismo ma anche da molti altri
ambienti, esprima e rinforzi la sua coesione con i pasti comunitari.
Questi pasti avevano luogo in casa di fedeli più benestanti, come
«Stefana e la sua famiglia» ( lCor 16,15) o «Aquila e Prisca presso i
quali si riunisce la Chiesa» ( l Cor 16,19): con altri invitati della stes­
sa condizione, essi fornivano l 'insieme delle vivande.
Questi pasti si distinguevano da quelli in uso presso i farisei i cui
convitati facevano parte di uno stesso stato sociale, ma che tuttavia
conoscevano l'uso del «piatto del povero», distribuito ogni giorno, e
anche del «paniere del povero», distribuito ogni settimana, il venerdl
prima del sabato. Sembra che anche i cristiani conoscessero il «ser­
vizio delle mense» per i bisognosi ( At 6,2), ma a Corinto le mense
comunitarie erano frequentate anche dai poveri, non unicamente
per ragioni sociologiche ma per favorire l'unione tra i credenti o, più
esattamente, perché si tratta della cena «del Signore» che fa l'unità
di tutti i credenti.
Ascoltiamo Paolo che protesta a favore dell'unità.

17E mentre vi do queste istruzioni , non posso lodarvi per il fatto che le
vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. Innanzi
tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni
tra voi, e in parte Io credo. IHÈ necessario infatti che avvengano divisio­
ni tra voi , perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo
a voi . 20Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un man­
giare la cena del Signore. 21Ciascuno infat ti, quando partecipa alla cena,
;
prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l altro è ubriaco. 22Non
avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il
disprezzo sulla Ch iesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che
devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!
JCor 11,17-22

Paolo richiede quindi un 'unione perfetta tra i credenti che si rac­


colgono attorno alla mensa del Risorto. Non reagisce sognando che
tra i credenti vi sia prima di tutto una condivisione dei beni, che li
metterebbe tutti, da subito, in una condizione di uguaglianza; nessu­
na esortazione perché mettano in comune quanto possiedono. E
neppure esige che i fedeli si mettano a tavola per gruppi sociali omo­
genei. Il suo obiettivo è un altro: l'unione dei convitati proviene dal­
la presenza dell'ospite che li riceve, il Risorto. Ecco perché Paolo, se­
condo la tradizione, insegna che cosa ha fatto Gesù:

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· 23Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho tra­
smesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pa­
ne, 24e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo,
che è per voi; fate questo in memoria di me>>. 25Allo stesso modo, dopo
aver cenato. prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova al­
leanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memo­
ria di me».

Paolo è talmente penetrato dalla presenza del Cristo che, per di­
mostrare la gravità dell'azione liturgica, non esita a richiamare il giu­
dizio (1 1 ,27-29) che colpisce coloro che non si rendono conto di
quello che fanno quando mescolano incongruamente il loro pasto
«personale» a quello del Signore. Quando si deve solo mangiare per­
ché si ha fame, che lo si faccia a casa propria !
L'idea del giudizio introduce la minaccia della sanzione: possono
seguire la malattia, la morte (1 1 ,30). Per capire queste ultime parole
e non attribuirle a qualche credenza di tipo magico, è opportuno ri­
cordare quanto era stato dichiarato precedentemente: gli ebrei che
avevano ricevuto nel deserto «il cibo e la bevanda spirituali » erano
tuttavia caduti nell'idolatria e quindi erano stati colpiti dalla morte
(l Cor 10,1-6). La partecipazione ai doni del Cristo non assicura di
per sé la salvezza, contrariamente all'opinione degli «illuminati»
simpatizzanti dei culti misterici dell'ellenismo. L'essere in contatto
col Risorto con questo pasto vuoi dire trovarsi per ciò stesso in una
situazione escatologica di giudizio.
In definitiva, la cena del Signore è propriamente comunione:
Paolo l'ha dimostrato precedentemente:
1611 calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione
con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comu­
nione con il corpo di Cristo? 17Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo
molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo deJI'unico pane.
/Cor 10,16-17

Che cosa è allora la comunione con Cristo? Non si deve dichia­


rare che è il risultato del fatto di mangiare, né parlare come i p agani
di un'identificazione con la divinità: immaginare una «fusione)) del
fedele con Dio in persona sarebbe non rispettare la trascendenza e
l'alterità divina. A Paolo piace ripetere che i credenti sono «morti
con il Cristo», «Co-crocifissi>>, «risorti con lui)), ma la mistica paolina
rispetta la differenza delle persone.

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Non sono pi ù io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne
io la vivo nella fede al Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stes-
so per me.
Ga/2,20

La vita nuova non fa sparire l'Io sostituendogli la divinità; essa è


una continua irruzione della vita del Cristo in un Io che, perciò, l un­
gi dal dissolversi, si rinnova continuamente. Il culto cristiano è quin­
di spirituale, non in quanto svuota il corpo, ma perché questo corpo
è quello che si è costituito per mezzo del battesimo e che continua a
modellarsi e a ricevere la vita dal Risorto nel la mensa eucaristica.
In 1 Cor 10,16, per ricordare che il pane è il corpo del Cristo, Pao­
lo non utilizza n verbo «essere», come nel v. 1 1 ,24: egli propone la pa­
rola koinonia, che significa «comunione» nel senso più forte e più
esteso. Comunicare, evidentemente, è unirsi al corpo personale di
Gesù, ma è anche partecipare all'alleanza che Gesù ha suggellato in
modo definitivo. Comunicare con il corpo del Cristo è infine vivere
appartenendo al corpo stesso di Cristo, perché Paolo introduce nel­
la teologia la nozione di «Corpo ecclesiale del Signore»: battezzati in
un medesimo Spirito, voi siete il «corpo di Cristo e sue membra, cia­
scuno per la sua parte» (l Cor 1 2,13-27).
Più l'intimità con Gesù è intensa e più la presenza agli altri cre­
denti si fa intima. Paolo tocca uno dei misteri più profondi, se è vero
che l'esistenza umana si fonda sul fatto che l 'uomo è nello stesso
tempo persona individuale e società: in Gesù Cristo il credente di­
venta lui pure tanto più se stesso e tanto più legato ai fratelli quanto
più è intim amente unito al suo Salvatore.

B. La frazione del pane

Negli Atti degli apostoli si parla varie volte di un 'attività che ca­
ratterizzava la comunità cristiana dall'era apostolica. Essa non è de­
scritta nei particolari; l 'autore ne parla come se fosse conosciuta dai
lettori, nominandola semplicemente con il sostantivo «frazione del
pane» (At 2,42) o con il verbo «spezzare il pane» (2,46). Viene for­
nita una sola precisazione: essa aveva luogo «nelle case)), I l contesto
indica inoltre che la frazione del pane supponeva una comunità riu­
nita e che si trattava di una pratica frequente. Se ne fa menzione non
solo a Gerusalemme ma a Troade (20,6-7), piccola città situata sulla

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costa nordorientale dell'attuale Turchia. L'espressione, ignorata nel
n1ondo greco, rimanda a un uso giudaico.
L'azione di «Spezzare il pane» costituiva per gli ebrei l'elemento
centrale di un rito domestico che aveva la funzione di inaugurare il
pasto familiare, sia feriale che festivo. Il capofamiglia, seduto, pren­
deva il pane e pronunciava la benedizione; rompeva poi il pane con
le sue mani; infine distribuiva i pezzi ai convitati. La benedizione
aveva la massima importanza: essa manifestava che si riceveva da
Dio questo cibo necessario alla vita; con la benedizione esso veniva
inserito nella forza della potenza divina. I convitati rispondevano
con un «Amen) ) collettivo. Il pane da spezzare, fatto di orzo o di gra­
no, aveva abitualmente una forma rotonda e piatta.
Con la distribuzione dei pezzi di pane si costituiva effettivamente
la comunità della mensa: i convitati diventavano un solo essere e Dio,
donatore, era considerato come presente. Nei vangeli, questo rito che
inaugurava il pasto è sempre ricordato nei gesti che si succedevano
(benedire, spezzare, dare) e non solo evocato con uno soltanto di que­
sti gesti; avviene così nel racconto della moltiplicazione dei pani, nei
racconti. della Cena e nell'apparizione ai discepoli di Emmaus.
Quale è dunque il senso in assoluto dell 'espressione «frazione
del pane) ) o «Spezzare il pane» che gli Atti degli apostoli usano in un
contesto ecclesiale? Non può trattarsi sempl icemente di «prendere
un pasto)) perché le due azioni sono citate una dopo l'altra in At 2,46.
Luca riporta in merito un episodio del quale è testimone quando ac­
compagnava Paolo nel suo ultimo grande viaggio missionario. Si tro­
vavano a Troade, un sabato sera, nel momento in cui inizia il «giorno
solenne)) del Signore, quando i fratelli si riuniscono per commemo­
rare la risurrezione di Gesù.
711 primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare i l pane e
Paolo conversava con loro; e poiché doveva partire il giorno dopo, pro­
lungò la conversazione fino a mezzanotte. MC'era un buon numero di
lampade nella stanza al piano superiore, dove eravamo riuniti.
At 20,7-8

Paolo di dil ungava a parlare. Un ragazzo, seduto sul bordo di una


finestra, si addormenta e cade dal terzo piano, ma Paolo scende e lo
riporta in vita.
Poi Paolo risalì, spezzò il pane e ne mangiò e dopo aver parlato ancora
molto fino all'alba, partì.
At 20,11

17
L'interesse di questo racconto non sta nel miracolo della rianima­
zione, ma in quello che lascia intravedere nella riunione presieduta da
Paolo: l'assemblea è liturgica, come lo confermano, con il verbo sy­
nag6 (partecipare a una riunione), la datazione e le lampade nume­
rose. L'obiettivo di quest'assemblea è la frazione del pane, incorni­
ciata dalla parola. Ora, quando Paolo ricorda ai Corinzi il senso della
pratica che egli aveva loro insegnato, conferma il racconto di Luca
parlando del «pane che noi spezziamo» e aggiunge esplicitamente che
questo pane è «comunione al corpo del Cristo)) ( l Cor 10,16).
È dunque legittimo pensare che Luca - o la tradizione prima di
lui -hanno dato un nome al gesto del rito che apriva il pasto giudai­
co. Pur evocando immediatamente il rito sacramentale, il termine
«frazione del pane» sottolinea l'aspetto della condivisione nell'unità
che caratterizza la celebrazione cristiana; tanto più che la vita quoti­
diana della comunità, secondo Luca, testimoniava quest'unità e que­
sta condivisione. Prolungando il pensiero ereditato dagli ebrei, i cri­
stiani hanno visto certamente nella frazione del pane il simbolo del­
l'unità ricercata dal Cristo che riuniva attorno a sé i fedeli.
Ad ogni modo, la scelta di un nome diverso dall'espressione pao­
lina, «cena del Signore», sta a dimostrare la diversità che poteva ca­
ratterizzare le Chiese fi n dalle origini del cristianesimo.
L'assemblea celebrante aveva luogo, secondo gli Atti (At 2,46),
«nelle loro case», come abbiamo già segnalato. I discepoli si man­
tengono fedeli alla loro tradizione ebraica frequentando assidua­
mente il tempio, ma lo fanno per partecipare alla preghiera, per
esempio a quella dell'ora nona (At 3,1 ). Non risulta mai che parteci­
pino a qualche sacrificio cultuale. Per questo essi camminano sulle
tracce del loro Maestro, che nessun vangelo ci dice abbia mai parte­
cipato a cerimonie sacrificali. Quando Gesù evoca questo tipo di cul­
to, lo fa per proclamare la superiorità della misericordia fraterna� ma
ancor più egli ha criticato l'osservanza formale del sabato o delle re­
gole della purezza legale.
Gesù ha mantenuto, certamente, con la confessione del Dio uni­
co, il rispetto dovuto alla casa di Dio, ma proclama la novità esca­
tologica dell'azione del Padre suo, rendendo caduche le cose del
passato. Se Gesù va al tempio, ci va per insegnare, per affrontare le
controversie, a volte per operare un segno; in effetti, il «nuovo» che
egli annuncia non è una rottura ma un inaudito compimento del­
l 'antico. Secondo Luca, gli apostoli vanno, come Gesù, nel tempio a
insegnare e ad annunciare la buona novella (At 5,42), mentre l'as-

18
semblea cristiana non si riunisce in un luogo sacro, ma dove abita­
no i credenti.
Ci troviamo di fronte a una significativa novità rispetto all'uso
degli ebrei, perché queste «Case» particolari non possono identifi­
carsi con le sinagoghe giudaiche dove si celebrava l'ufficio del saba­
to. I fedeli si riuniscono per la frazione del pane nelle abitazioni pri­
vate che appartenevano all'uno o all'altro dei credenti. Ed è interes­
sante osservare come i primi cristiani, ricordando forse che i loro an­
tenati celebravano la cena pasquale nell'intimità di ogni famiglia,
non hanno provato il bisogno di procurarsi un luogo riservato esclu­
sivamente alla loro vita cultuale. Il velo del tempio è stato squarcia­
to alla morte di Gesù (Mt 27,51); Dio è ormai presente e può mani­
festarsi in ogni l uogo: la distinzione tra spazio sacro e spazio profa­
no, fino allora fondamentale, si è ormai sfumata, come la predicazio­
ne di Gesù aveva lasciato int ravedere. Ecco che cosa precisa l'evan­
gelista Giovanni nella parola rivolta alla Samaritana:
22Credimi, donna, è giunto il momento in cu i né su questo monte, né in
Gerusalemme adorerete il Pa dre . 2.1Ma è giunto il momento, ed è que­
sto, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: perché
il Padre cerca tali adoratori.
Gv 4,22-23

Aggiungiamo che le apparizioni del Risorto e la Pentecoste sono


avvenute fuori da ogni luogo cultuale.
La frazione del pane era accompagnata da un pasto comunitario,
come a Corinto? Il testo degli Atti non lo dice: tutt avia al v. 2.46 si
precisa che i credenti «prendevano i loro pasti con letizia e sempli­
cità di cuore». Era normale che in amhicntc gi ud a ico una comunità
si riunisse per un pasto fraterno che, di per sé, aveva una componen­
te religiosa. Ed è anche probabile che, nelle case, la frazione del pa­
ne fosse celebrata in relazione a una convivialità vera e propria, a un
pasto preso per saziarsi. Ma, siccome si deve ammettere che il fatto
di nutrirsi a una mensa comune non aveva un'origine eucaristica, il
nome stesso di «frazione del pane» suppone che si trattasse di un'a­
zione indipendente dal pasto preso insieme.
Quale era dunque la situazione della frazione del pane nella co­
munità? La risposta non è precisa. Si può dire che «una letizia»
straordinaria animava i partecipanti: Dio ha realizzato in Gesù le
promesse fatte a Israele, ha compiuto le profezie donando lo Spirito
Santo e costituendo un nuovo popolo con l'alleanza sancita dalla fe-

19
deità del suo Cristo. Nell'attesa dell'ultimo giorno, questi ebrei, che
riconoscevano il Messia nel Crocifisso-Risuscitato, rimangono natu­
ralmente fedeli alla religione dei loro antenati che aveva rivelato il
Dio unico e il suo disegno di misericordia; ma sono ormai abitati da
una presenza, quella dello Spirito il quale concede loro di capire e di
vivere il messaggio del Nazareno che Dio ha glorificato e pertanto
manifestato veridico. Il comportamento dei credenti rifletterà una li­
bertà totalmente nuova, come se la fine dei tempi fosse realizzata.
N on si tratta però di un entusiasmo da illuminati; la liberazione sog­
gettiva che ognuno sperimenta nella fede non causa comportamenti
divergenti, né ancor meno una dissociazione della comunità . Al con­
trario, ciò che impressiona l'ambiente circostante è la coesione dei
battezzati e la pratica del servizio reciproco ( At 2,41 -47).
La loro vita ecclesiale si organizza nel quotidiano, assumendo
forme concrete di sostegno e manifestazioni ben precise:
Erano assidui nel l'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell' unione
fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere.
At 2,42

Questo «sommario)) di Luca non descrive probabilmente lo svi­


luppo organico di un servizio divino della com unità primitiva: inse­
gnamento, comunione delle mense, frazione del pane e preghiere;
raggruppa invece, a due a due, le attività che caratterizzano la comu­
nità primitiva: l'insegnamento degli apostoli e la comunione fraterna
esprimono i rapporti interni della giovane Chiesa; la frazione del pa­
ne e le preghiere il suo legame con il Signore.
Il rapporto col Signore si esprime in due modi. La frazione del
pane, che implica la benedizione divina, mette in relazione con Gesù
di Nazaret nel momento della sua ultima cena. Come ieri nel Cena­
colo, si tratta sempre di accogliere la parola di Gesù; ma oggi biso­
gna procedere a un 'azione in cui, per mezzo della vita ricevuta, si rin­
nova l'unità dell'assemblea con il suo Salvatore.
Quest'azione liturgica si inserisce in un contesto di «preghiere>>
che è legittimo pensare si esprimano secondo la tradizione degli an­
tichi padri con la recitazione dei salmi; si può anche pensare alle con­
fessioni di fede e agli inni cristiani come lo testimoniano le lettere di
Paolo, e ancora al Padre nostro.
I credenti si uniscono al Cristo non solo con l'azione liturgica, ma
anche con l'ascolto assiduo degli apostoli, testimoni autorizzati di
Gesù di Nazaret, e con l'impegno di vivere da fratelli. Con il loro an-

20
n un cio del Cristo, accompagnato da miracoli, Pietro e gli apostoli

hanno invitato a credere all'inviato di Dio. D opo questa prima pro­


clamazione, essi continuano a istruire i battezzati . Comunicando la
loro esperienza di fede, essi formano il peduncolo che collega la co­
munità a Gesù di Nazaret. Il presente della comuni tà si radica nel
passato, è il fiorire di una «tradizione»: la parola di Gesù continua a
trasmettersi, garantendo l'esistenza di una comunità che vive per
opera di Cristo morto e risorto.
L'insegnamento (didachè) , ricordato nel sommario degli A t 2,42,
delinea probabilmente non tanto il primo annuncio del vangelo (pa­
rola che cade verticalmente sugli uomini) , ma le ulteriori istruzioni
(orizzontalmente secondo il nostro schema) che erano necessarie al­
la comunità.
Dove e come aveva luogo questa didachè? Luca precisa il luogo:
E ogni giorno, nel tempio e a casa, non cessavano di insegnare e di por­
tare il lieto annunzio che Gesù è il Cristo.
At 5,42

Insegnando nel tempio, l'abbiamo già osservato, gli apostoli agi­


scono come Gesù che, tanto spesso, vi aveva annunciato il suo mes­
saggio. L'istruzione impartita nelle case sembra per contro come un
discorso che si faceva durante l'assemblea liturgica e, quindi, duran­
te la frazione del pane.
Il racconto di Troade, ricordato prima, lo conferma. È proprio
y uando i credenti sono ri uniti per spezzare il pane che Paolo si in­
trattiene con loro (dielegeto ) prolunga la sua predica (logos) e fa un
,

discorso (homilèsas). È chiaro che si tratta di una lunga omelia pro­


nunciata da Paolo, e forse anche di scambi tra fratelli.
Possediamo solo informazioni indirette sulla Parola che accom­
pagnava le assemblee dei credenti. Ma era ovvia, dal momento che
era detta dagli eredi della sinagoga ebraica. Infatti, regolarmente, il
mattino del sabato, la Scrittura era letta e commentata in una para­
frasi aramaica (dei targumim) al fine di rendere il testo intelligibile
agli ebrei ritornati dall'esilio. Presso i cristiani, oggetto dell'insegna­
tnento non era più solo il testo della Torah, bensì la vita e l'opera del
Signore risorto. Le Scritture costituivano l'elemento illuminante: gli
apostoli si preoccupavano di presentare gli avvenimenti che riguar­
davano Gesù di Nazaret situandoli nel disegno di Dio, con l'aiuto, ad
esempio, della profezia del Servo di Dio secondo Is 53. Un indizio
preciso del ruolo della Parola nel culto cristiano viene offerto dal

21
racconto dell'apparizione ai discepoli di Emmaus, che, come gli altri
racconti di apparizioni, fa parte di un contesto liturgico. 2 I viandanti
hanno appena riconosciuto il Signore «durante la frazione del pane»
ed esclamano:

Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo
il cammino, quando ci spiegava le Scritture?
Le 24,32
Analogamente, durante l'apparizione del Cristo ai discepoli riu­
niti nel Cenacolo, il Risorto «aprì loro la mente all'intelligenza delle
Scritture» (Le 24,45).
Luca, alla didachè, aggiunge la koinonia, come caratteristica del­
la comunità nascente. Questo termine si presenta con un larghissimo
spettro di significati. Dal momento che si tratta della dimensione spi­
rituale di un dono dello Spirito Santo, non può riferirsi solo alla con­
divisione dei beni; è l'unione di tutti i membri della comunità tra lo­
ro in una stessa fede e in un'unica salvezza che ispira appunto la con­
divisione dei propri beni. E questo è confermato dalle osservazioni
sull 'unanimità dei fedeli in un altro sommario:
La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore so­
lo e un 'anima sola.
At 4,32
Le riunioni testimoniano quest'unanimità: «Tutti i credenti sta­
vano insieme». I numerosi convertiti non abitavano certamente in­
sieme, ma formavano una comunità che si ritrovava assiduamente
nel tempio e nelle case (At 2,46). Questa intesa ideale consisteva
quindi fondamentalmente in una comunione di fede e si esprimeva
concretamente nel mettere i beni personali a disposizione di tutti.
Luca lo dice esplicitamente in due altri sommari della stessa sezione:
Stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e so­
stanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
At 2,44-45
Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva; ma ogni cosa
era· fra loro comune.
At 4,32

2 Cf. il mio Risurrezione di Gesù e messaggio pasquale, Milano 1973, 178s e 287.

22
Se Luca offre come esempio la vendita dei beni quando era ne­
cessario per la comunità, sottolinea tuttavia che questo gesto era
completamente libero: B arnaba viene felicitato per averlo fatto (era
quindi un caso eccezionale), mentre invece Anania è punito non per
essersi rifiutato di vendere il suo campo, ma per aver ingannato gli
apostoli sul prezzo realizzato. Sarebbe quindi un abuso il trovare nel­
la descrizione di Luca un invito ad abbandonare tutti i propri beni
per raccoglierli in una proprietà comune: Luca parla esplicitamente
di ciò che «apparteneva» a ciascuno, ma sottolinea che non si poteva
più considerarlo come «proprio»: tutto era messo a disposizione di
tutti. Così Maria, la madre di Giovanni Marco, aveva conservato la
sua casa e la metteva a disposizione dei credenti .
Da subito, senza attendere l'iniziativa di Paolo per la col1etta
(chiamata diakonia. koinonia, leitourgia), i primi cristiani hanno in
realtà cercato di tradurre la loro fede e la loro vita di unione col Cri­
sto attraverso la condivisione fraterna e l'aiuto dato ai bisognosi.
Se, con l'insegnamento degli apostoli. il presente della comunità
mette le radici nel passato, la comunità vivente si apre continuamen­
te all'avvenire:
Godevano la simpatia di t u tto il po pol o Intanto il Si gn ore ogni giorno
.

aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.


At 2,47-48

La comunione fraterna è già il «culto spirituale» che, secondo


Paolo, costituisce l'intera esistenza cristiana. La frazione del pane è,
in un certo senso, il centro e il segreto di q ucsto servizio fraterno. La
comunità vive la vita nuova con il suo Signore grazie al dono che egli
ha fatto di se stesso.

In conclusione: «cena del Signore» e «frazione del pane», queste


due denominazioni dell'assemblea eucaristica, sono l'espressione
simbolica di una esistenza comunitaria di fede. Il rito non si presen­
ta mai isolato, ma è accompagnato dalla Parola che lo preserv a dal
rischio di un falso ritualismo e lo stimola verso continui rinnova­
menti. Non può dissociarsi dall'esigenza di un vicendevole servizio
nella gi ustizia e nell'amore.
Le due denominazioni primitive convergono nel loro significato.
La «frazione del pane» che indica prima di tutto un rito significa an­
che la condivisione del pane ed evidenzia così la dimensione sociale
dell'eucaristia. D'altra parte, l'espressione «cena del Signore» nel-

23
l'indicare principalmente un 'assemblea comunitaria, senza distinzio­
ne di classi, significa prima di tutto che lo stare insieme comunitario
è opera del Signore e tende a rendere presente il Signore stesso du­
rante la cena.
Da qualsiasi parte si consideri, l'eucaristia lega profondamente
culto ed esistenza.

24
CAPITOL0 2

LE DUE TRADIZIONI
SULL'ULTIMA CENA DI GESÙ

L'istituzione dell'eucaristia ad opera di Gesù durante la sua ulti­


ma cena con i discepoli è raccontata a quattro riprese nel Nuovo Te­
stamento: dagli evangelisti Mattco, Marco, Luca e nella Prima lette­
ra di Paolo ai Corinzi. I testi sono riprodotti nella tavola riportata al­
le pagine seguenti su q uattro colonne. nelle quali le rispettive frasi
sono esattamente ripartite secondo il loro parallelismo; le righe sono
numerate sul margine sinistro. Q ua n do un elemento del testo è pro­
prio dell'uno o dell'altro autore, resta hianco lo spazio corrispon­
dente nelle colonne vicine. Si vede così. per esempio alla riga 23, che
il nome di Gesù è presente solo in Mattco c, preceduto da «Signore»,
in l Cor, e che l'invito a «fare memoria» (righe 33-34) si trova sola­
mente in Luca e Paolo.
Le righe 22-50 contengono le quattro redazioni del racconto di
istituzione propriamente detto, mentre le righe 1-21 riproducono i
versetti paralleli che l'accompagnano nei tre evangelisti. Nell 'intro­
duzione di Luca, un insieme ben ordinato sfocia su una parola di Ge­
sù (Le 22,1 8) che Mc 1 4,25 e Mt 26,29 hanno collocato dopo l 'istitu-
zione (cf. righe 15-21 )
·

In tutte le recensioni, il racconto dell'istituzione dell'eucaristia


prende un andamento biografico: racconta uno degli ultimi episodi
della vita di Gesù di Nazaret che è sul punto di concludersi. Tuttavia
il carattere narrativo non spiega da sé solo la composizione del testo:
certi elementi invitano a riconoscervi l'influsso della liturgia pratica­
ta nelle diverse comunità ecclesiali.

25
Tav. l - Istituzione dell'eucaristia

Mt26 Mc14 Lc22

01 20Venuta la sera 17Venuta la sera. arriva 14E, quando fu l'ora


02 era a tavola si mise a tavola
03 con i Dodici [discepoli] con i Dodici. e gli apostoli con lui.
04 21E mentre 111E mentre 15E disse loro: «Ho tanto desiderato
05 essi erano a tavola di mangiare questa Pasqua con voi
06 essi mangiavano e mangiavano . .. prima di soffrire.
07 1"Perché vi dico che mai più la mangerò
08 (18b-21) finché sia compiuta nel regno di Dio».
09
lO 23Avendo preso un calice 17E, avendo ricevuto un calice,
11 e reso grazie avendo reso grazie, disse:
12 [Io] diede loro; «Prendetelo e condividetelo fra voi.
13 e ne bevvero tutti.

14 E disse loro: (24b)


15 29«Ma ve [lo] dico: 25Jn verità. ve [lo] dico. 18JJerché ve [lo] dico:
16 D'ora innanzi non berrò più mai più ne berrò d'ora in poi non berrò più
17 di questo frutto della vite del frutto della vite del (apo] frutto della vite
18 fino a quel giorno in cui fino a quel giorno in cui fino a che non sia venuto [�Paolo "'26)
19 lo berrò, [vino] nuovo, lo berrò, [vino] nuovo,
20 con voi nel nel
21 regno del Padre mio». regno di Dio». il regno di Dio».

Mt26 Mc 14 Lc22 lCor 11

22 26Ementre essi mangiavano 22E mentre essi mangiavano 23Nella notte in cui fu tradito
23 Gesù il Signore Gesù
24 avendo preso del pane avendo preso del pane 19E avendo preso del pane, prese del pane
25 e pronunciando la pronunciando la avendo rese grazie ��e. avendo reso grazie,
26 be ned i z ione benedi zione
27 [lo] spezzò [lo] spezzò [lo) spezzò [Io] spezzò
28 e avendo[lo) dato e [lo] diede loro e [lo] diede loro
29 ai discepoli, disse: e disse: dicendo: e disse:
30 «Prendete, mangiate, «Prendete
31 questo è il mio corpo>>. questo è il mio corpo». «Questo è il mio corpo <<Questo è il mio corpo
32 che si dà per voi. che [è) per voi.
33 Fate questo Fate questo
34 in memoria di me». in memoria di me».
35 27E, avendo preso 23E,avendo preso 20E per
36 un calice un calice, il calice allo stesso modo 25 Allo stesso modo anche il calice
37 dopo il pasto, dopo il pasto,
38 e reso grazie avendo reso grazie
39 [lo l diede loro , [Io] diede loro
40 e ne bevvero tutti.
41 dicendo: 24E disse loro: dicendo: dicendo:
42 «Bevetene tutti.
42 28Perché questo è (<Questo è «Questo calice [è} «Questo calice è
44 il mio sangue il m io sangue
45 dell'alleanza dell'alleanza la nuova alleanza la nuova alleanza
46 nel mio sangue nel mio sangue.
47 che [è] versato che [è] versato che (è) versato Fate questo, ogni volta che ne
berrete. in memoria di me».
48 per la moltitudine per la moltitudine». per voi,., 26Poiché ogni volta che mangiate
49 per il perdono de(i] 25/f' questo pane e bevete questo
50 peccati». 2':11' calice voi annunciate la morte
del Signore finché egli venga.

lCor 10,16: Il calice della benedizione che noi benediciamo


non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che
noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo?
A. D fattore liturgico

Il racconto della Cena riferito da Paolo mostra chiaramente che


un fattore liturgico è all'opera. Scrivendo ai Corinzi , l'apostolo in­
tende riformare gli abusi che essi commettevano nelle loro assem­
blee eucaristiche; per questo bisogna richiamare la pratica cultuale
conosciuta a partire dalle origini della fede cristiana:
lo, infatti. ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmes­
so: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, do­
po aver reso grazie, lo spezzò e disse : «Questo è il mio corpo, che è per
voi; fate questo in memoria di me».
l Cor 11,23-24

Paolo trasmette così la catechesi che egli ha ricevuto ad Antio­


chia dove era stato educato alla fede a partire dagli anni 35/40. Que­
sto racconto ha come funzione di valorizzare, ricordando il suo fon­
damento, un rito abitualmente praticato.
A differenza di quanto farebbe un evangelista, Paolo non si
preoccupa di inserire in un contesto biografico il ricordo dell'ultima
cena di Gesù ; si trovava in presenza di cristiani che ritenevano di
praticare in modo autentico l'eucaristia e che, tuttavia, si mostrava­
no poco coerenti nell'armonizzare il loro atteggiamento concreto
con l'insegnamento che avevano ricevuto.
Di fronte a questa situazione, egli reagisce con vigore ricordando
ai suoi Corinzi che l'eucaristia proclama «la morte del Signore»
( l Cor 1 1 ,26-29) e dunque che essi vivono nella fraternità. Egli preci­
sa persino che la «comunione» caratterizza il frutto dell 'incontro con
il Signore: «Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il
corpo di Cristo?» ( 1 0, 1 6).
Comunicare vuoi dire partecipare all'alleanza che Gesù ha stret­
to con Dio in modo definitivo: al tempo stesso com unione con il cor­
po personale del Cristo e apertura all 'identificazione con lui; non si
tratta di una qualche fusione mistica immaginaria, bensì di un atto
che avviene nel rispetto dell 'a1terità. Questo dialogo d'amore con­
duce all'identificazione, senza tuttavia distruggere la personalità. Il
credente diviene, per mezzo della comunione, realmente uno con il
Cristo Gesù. Paolo ha introdotto nella teologia la nozione di «corpo
ecclesiale», che si chiama «corpo del Cristo» . Che cosa vuoi dire? Io
penso che Paolo qualifichi così l'essere nuovo che Gesù è diventato,
per opera della sua risurrezione: la totalità dei credenti.

28
Marco, da evangelista, non deduce alcuna conseguenza di carat­
tere morale relativa alla pratica dell'eucaristia, ma si preoccupa di
non farne una semplice pratica liturgica; Gesù, che noi sappiamo es­
sere tuttora vivente, dice in breve, con la parola e l'azione, il senso
della sua vita e della sua morte: riannodare la comunione di tutti gli
uomini con il Padre e secondo il suo disegno. Dal momento che
quest'alleanza non è ancora consumata, deve essere vissuta simboli­
camente attraverso un modo nuovo di presenza e di unione. Quando
i suoi discepoli mangiano il pane e bevono il calice che Gesù ha be­
nedetto nel nome di Dio, essi esprimono che Gesù è vivente. Gesù è
dunque a loro presente, ma di una presenza che, attraverso l'assen­
t.a, è tutta orientata verso il banchetto a venire, quello che vedrà la
l:Onsumazione di tutti in Dio.
Reinserito nella storia evangelica, il racconto della Cena si tro­
va radicato a due profondità. L'azione di Gesù corona la sua vita
sulla terra : è un prendere in mano il suo destino. Gesù non · va alla
morte come una fatalità che i suoi nemici gli impongono senza che
lui ne abbia colto il senso profondo: coronando la sua missione, re­
staura l'alleanza tra Dio e l'umanità. Gesù manifesta che egli si
don a volontariamente per essere pienamente fedele a Dio e agli
uomini.
C'è un 'altra profondità nella quale si radica il gesto di Gesù: egli
è fedele al suo popolo, in quanto ricapitola in sé la lunga storia del­
l'alleanza ripresa senza interruzione da Dio con il popolo eletto. Ge­
sù è l 'Israele per eccel lenza. Per mezzo del dono di sé, Gesù porta a
compimento il voto del popolo da cui egli è uscito e al qua le appar­
tiene per sempre.
Così l'atto di Gesù che viene a coronare la Pasqua ebraica non è
solamente rituale ma esistenziale. Una vol ta, Dio, con il suo inter­
vento durante l'esodo, aveva liberato il suo popolo e per ciò stesso
aveva contestato l'ordine ingiusto del quale era vittima. Oggi, con il
suo atto, Gesù contesta l'ordine nel quale i grandi del suo tempo rin­
chiudevano i figli di Abramo: egli dà la sua vita, non solo in obbe­
dienza a Dio, ma per fedeltà all'autentica tradizione del suo popolo.
Così facendo, egli inaugura un nuovo ordine di cose, quello dell'a­
more che ha la meglio su quello del rito e della legge. I credenti, che
ripren dono il suo gesto e ne riceveranno la vita secondo lo Spirito,
dovranno, a loro volta, contestare l'ordine nel quale rischiano sem­
pre di anchilosare il dinamismo inesauribile dell'amore di Dio che fa
nuove tutte le cose.

29
Nei tre evangelisti, i versetti che riferiscono l'istituzione si tro­
vano nel contesto di una narrazione biografica: quest'istituzione è
un atto che Gesù ha posto durante la sua ultima cena con i disce­
poli. Paolo, peraltro, che scrive verso l'anno 50, evoca anch'egli
questo contesto con la notazione «nella notte in cui fu tradito»
( 1 Cor 1 1 ,23) che precede nella sua lettera il richiamo dell 'atto di
istituzione.
La trama degli evangelisti è dunque quella di un racconto di tipo
storico che include un avvenimento il cui ricordo era di capitale im­
portanza per le loro rispettive comunità. Se lo scopo degli evangeli­
sti è di raccontare quest'avvenimento passato nel suo svolgimento, il
carattere storico dei gesti di Gesù e il parallelismo delle parole sul
pane e sul calice riflettono senza dubbio le formule di enunciazione
che si erano cristallizzate nel corso della pratica cultuale delle prime
comunità cristiane, fatto questo che giustifica le varianti da un testo
all'altro.
Questo disegno è riprodotto diversamente. Procediamo pazien­
temente a un'esegesi del testo. I nostri racconti sono pieni di diffi­
coltà, di cui ecco qualche esempio: in Mc 1 4,22 viene ripetuta la no­
tazione «mentre mangiavano» che, in 1 4,1 8 (righe 4-6) è ben collo­
cata nello svolgimento de l racconto. La frase «e ne bevvero tutti»
(1 4,23b = riga 40) viene curiosamente prima della parola di Gesù sul
calice; un segno del suo posto anormale è la correzione fatta da Mat­
teo che la trasforma in «bevetene tutti» (Mt 26,27 riga 42). Ora il
=

v. 23 di Marco può essere accostato al v. 17 di Luca riferito a un pri­


mo calice che precede il testo cultuale. Più sorprendente ancora, che
cosa viene a fare il semplice «frutto della vite» (Mc 1 4,25 righe 15-
=

2 1 ) dopo la parola solenne su «il sangue dell'alleanza» ? Infine, ben­


ché Gesù si indirizzi al piccolo gruppo dei Dodici , la seconda parola
eucaristica annuncia a chiare lettere che il sangue sarà versato per la
«moltitudine».
Queste difficoltà sono l 'indice che nella tradizione propria a
Marco - tradizione che chiamo «cultuale» perché il fattore liturgico
vi domina - si mescolano elementi di un 'altra tradizione, non cultua­
le, complementare, che Luca ha ripreso e utilizzato in modo conti­
nuo. Se allineiamo i resti di quest'altra tradizione che in Marco sus­
sistono in modo maldestro e se li confrontiamo con il racconto di Le
22,15-18, otteniamo la tavola seguente:

30
Marco 14 Luca 22
17Venuta la sera, arriva 1 4E, quando fu l'ora,
con i Dodici prese posto a tavola
e gli apostoli con lui.

1�E mentre essi erano a tavola 15E disse loro


e mangiavano, «Ho tanto desiderato
mangiare questa Pasqua
con voi prima di soffrire.
Gesù disse . . . 16Perché vi dico che mai più
( 18b-22) la mangerò finché sia
compiuta nel regno di Dio.

·= 3Avendo preso un calice 17E, avendo ricevuto un calice,


e reso grazie, avendo reso grazie, disse:
I lo] diede loro; «Prendetelo
e ne bevvero tutti. e condividetelo fra voi.
:!-lE disse loro:
«Questo è il mio sangue dell'alleanza
che [èj versato
per la moltitudine.
25[n verità, io ve {lo] dico: 18Perché, ve (lo] dico:
mai più ne berrò d'ora in poi non berrò più
del frutto della vite del frutto della vite
fino a quel giorno in cui fino a che non sia venuto
lo berrò, [vino] nuovo
nel regno di Dio». · il regno di Dio» .

È come se, in Marco, la parola sul sangue d eli ' alleanza (v. 24b)
fosse stata inserita ulteriormente in un racconto dove il testo del v.
25 commentava subito, e a suo modo, la distribuzione del calice e
l'atto del bere. Possiamo quindi riconoscere l'esistenza di una tradi­
zione sull'ultima cena di Gesù che non parlava dell'istituzione, ma ri­
portava altri ricordi importanti per i credenti. Luca l'ha riportata, e
l'ha ricomposta in un tutto coerente nel quale l'istituzione dell 'euca­
,
ristia è opportunamente inserita. L ultima cena di Gesù è stata dun­
que raccontata sulla base di due tradizioni, l' una e l'altra storiche, ma
di natura diversa: una cultuale, l'altra esistenziale. Nella prima, la
preoccupazione dello scrittore è di mettere in rilievo un'azione fon­
datrice piuttosto che di descrivere minuziosamente lo svolgersi di un
episodio biografico.
Marco riprende così l'episodio, un ricordo di ordine cultuale di
capitale importanza per la comunità cristiana, anche se il racconto
conserva le reliquie di una diversa tradizione sull 'ultima cena di Ge­
sù. Qual è la prospettiva di quest'ultima tradizione - che chiamo non
cultuale - con cui Luca, che procede diversamente, ha inquadrato il
racconto dell'istituzione?

31
B. Un fattore esistenziale

Il testo di Luca presenta tali rassomiglianze con quello di Marco


che si possono dichiarare l'uno e l'altro provenienti da una medesi­
ma fonte. Ma Luca conserva meglio l 'andamento storico del raccon­
to, mediante uno svolgimento ben strutturato e con caratteristiche
proprie. Così, come abbiamo notato, la parola sul «frutto della vite»
- reliquia conservata maldestramente da Mc/M t - precede a buon di­
ritto il testo dell'istituzione.
Ora le parole di Gesù, in questa introduzione lucana (22,15-18 =

righe 4-13), aprono un'altra prospettiva, di ordine esistenziale. Inol­


tre, Luca non si è accontentato di riportarle: fa seguire il testo cul­
tuale da altre numerose parole di Gesù ai discepoli concernenti la lo­
ro propria esistenza, parole che non si trovano (perlorneno a questo
punto) negli altri vangeli. Marco e Matteo passano direttamente dal
racconto dell 'istituzione alla menzione della partenza verso il Getse­
mani, e il racconto concerne subito gli avvenimenti del la Passione.
In Luca dunque il testo eucaristico si trova incluso nelle parole di
Gesù ai suoi, parole che, a loro modo, anticipano ciò che saranno in
G iovanni gli «addii» di Gesù (Gv 1 3-1 6) . Possiamo dedurre da ciò
che, oltre alla tradizione cultuale, un 'altra tradizione è presente nel­
la composizione di Luca. Come precisarla e qual è la sua funzione?

l. In una forma testamentaria

Sono ormai più di quarant'anni che ho formulato la supposizione1


che si poteva collocare il testo di Le 22,1 5-18 nel genere letterario che
si chiama «testamentario)). Questa forma è riconosciuta dalla mag­
gior parte dei critici, ma la sua interpretazione è ancora agli inizi.
Ai miei occhi, il racconto di Luca obbedisce a una forma testa­
mentaria che può essere precisata raggruppando i principali temi
presenti, dai quali nasce una struttura-tipo. Un moribondo si conge­
da dai suoi, riunendoli attorno a sé , per dire il suo addio e per affi­
dare loro le sue ultime parole. Questa riun ione si fa di solito duran­
te una cena, segno di comunione tra il testatore e i destinatari del te­
stamento: è un addio in azione. Il moribondo rivolge una lunga esor­
tazione ai suoi figli.

1 In «Récit de la Passion», in Supplément au Dictionnaire de la Bible.

32
Sarebbe opportuno verificare come questo schema si applica a
questo o a quest'altro testo dell'Antico Testamento, a certi apocrifi
giudaici, e anche a testi del Nuovo Testamento. Così il discorso di ad­
dio di Paolo a Mileto (A t 20,17-38): gli anziani sono convocati ed egli
annuncia la sua morte; egli si dilunga sulla sua vita esemplare, an­
nuncia la ven uta di falsi dottori, si preoccupa della successione apo­
�tolica, auspica la benedizione ed esprime con gesti il suo addio. Al­
tro esempio di <<forma testamentaria»: Gv 13-17, discorso che viene
introdotto dall'appellativo «figlioli miei» (Gv 1 3,33).
Qual è allora il senso della forma testamentaria? Essa permette
Ji esprimere quello che avviene al momento di una trasformazione
importante come quella della morte: un cambio di generazioni. Fini­
sce un tempo, ne inizia uno nuovo.
Fare testamento è rispondere all'istinto di sopravvivenza che ur­
ge in noi: quando sto per morire, spero di trionfare sulla fine del tem­
po, desidero non solo trasmettere gli oggetti in mio possesso, ma la­
sciare le ricchezze morali e spirituali acquisite durante la vita, ossia
comunicare il mio essere, sopravvivere in qualche modo.
Fare testamento è manifestare l'onnip o tenza di Dio che è eterno.
Ecco perché, sia che si tratti di Abramo, di Giacobbe, di Paolo e an­
che di Gesù, rimane aperto il problema di come sopravvivere, il pro­
blema della successione. L'uomo che, per sua natura, non può vince­
re la morte, deve passare la mano ad altri. Apparentemente verifica
su di sé il proverbio: «Non omnis moriar», ma questo desiderio na­
turale è trasfigurato dall'intervento stesso di Dio.

C. Gli addii di Gesù secondo Luca

In tutti i vangeli, il racconto della Passione, che incomincia pro­


priamente con l'arresto notturno di Gesù e si conclude con il rac­
conto della risurrezione, è preceduto da quello dell'ultima sera di
Gesù con i suoi discepoli. Dal punto vista della redazione scritta del­
le tradizioni conservate dalle prime comunità cristiane, il racconto di
quella serata dovrebbe essere stato redatto dopo che quello della
Passione circolava già come un elemento fondamentale della liturgia
c della catechesi. In che modo queste due sezioni formano, nel testo

attuale, un'unità letteraria?


Per Mc/M t si può dire che il racconto della «Passione in segreto»
precede quello della messa a morte in pubblico. In Luca, Gesù, co-

33
Tav. 2 - Confronto con i Testamenti dei XII patriarchi
TESTAMENTO TIPO
TESTAMENTO DI NEFrALI (in base a 32 test. bibl. e apoc.) LuCA 22,1-38
PROLOGO
Morte prossima La morte di Gesù 01-06
è prossima
1,1-2a I suoi figli arrivano Convocazione Egli prende l'iniziativa 07-12
1 ,2b Egli prepara il pasto Pasto per la cena pasquale 13-14
TESTAMENTO
1,3-4 Io muoio dopo Io sto per morire lo muoio dopo 15-18
questo pasto questa cena
Corpo offerto 19-20
Sangue versato
Il traditore prepara 21-23
la mia morte
U...2 Il mio passato felice Il mio passato Come io ho servito, 27 D Regno è dato a me
in un mondo sereno: 1'
3,1-S siate fedeli ognuno al ""'
vostro ruolo + esortazione senite anche voi. 24-36
28-30
Visioni sull'avvenire 4,1-5 Voi peccherete: D vostro avvenire. Peccato di Pietro 31-34 Sarà dato a voi
specialmente di Levi prigionia; e suo ravvedimento:
e Giuda: (5-7) conversione, ritorno. Prossime prove:
S-8,3
8,4-10 Fate il bene e + esortazione (perché non venga meno) 32a + esortazione
sarete benedetti da Dio. immaginosa
La mia successione conferma i tuoi fratelli 32b
Dite ai vostri figli 35-36
di essere loro fedeli. Vi benedico
(8,1-3) Sto per morire Thtto si compirà 37(-38)
9,1 Seppellitemi a Ebron La mia sepoltura.
------ EPILOGO
9,2 Egli mangò, bevve ... Morte (PASSIONE E MORTE) .
morì
9,3 Fu seppellito come Sepoltura (SEPOLTURA)
voleva.
N.B. l 5--8 ,3, 28-30, 35-36: elementi del testamento-tipo più volte ripetuti.
N.B. 2 1'.Jt: elementi rovesciati in 24-27 (infatti il passato viene dopo l'esortazione).
sciente di ciò che l'attende, fa i suoi addii ai discepoli uniti attorno a
lui. Lo schema sottostante all'intero racconto ( Le 2�, 14-23,35 ) e che
struttura la sua unità è simile a quello del Testamento di Nephtali,
uno dei Testamenti dei XII patriarchi, scritto apocrifo giudaico data­
to «della seconda metà del I secolo a.C. )).2
La tavola della pagina a fianco mostra la distribuzione del di­
scorso di addio nel quale Luca ha inserito la tradizione dell'istituzio­
ne eucaristica. Certo, nei Testamenti dei XII patriarchi l'epilogo rife­
risce la morte e la sepoltura del patriarca, e questa parte è evidente­
mente fortemente sviluppata nei racconti evangelici dell 'arresto, del
giudizio, della crocifissione e della morte di Gesù: l'interesse proprio
della comunità primitiva ha disteso la parte finale dei Testamenti.
D'altra parte, la redazione scritta del racconto della Passione ha cer­
tamente preceduto quella del racconto d eli 'ultima cena. Questo ha
dovuto essere redatto dopo che il racconto della Passione circolava
già come avvenimento fondamentale della catechesi.
Le due sezioni sono dunque ben distinte nei vangeli; la loro unità
tuttavia esiste. Inoltre, per Mc/Mt si può dire che il racconto della
«Passione in segreto)) precede quello del la messa a morte in pubbli­
co. In Luca, Gesù, cosciente di ciò che l'attende, fa i suoi addii ai di­
scepoli riuniti, e qui Luca ha costruito il suo racconto seguendo la
traccia di uno dei Testamenti dei XII patriarchi. Il primo sviluppo (Le
22,1 -6), che riferisce gli antecedenti della cattura di Gesù, equivale
all 'annuncio della morte imminente del patriarca; il secondo svilup­
po (22,7-14) descrive la preparazione del pasto al quale i discepoli
sono convocati come i figli del patriarca lo sono per un pasto presso
il morente. Comincia allora la cena durante la quale Gesù farà i suoi
addii: annuncia e m ima la sua morte vicina ( Le 22,15-23 ), dichiara co­
me dovrà essere il comportamento di coloro che gli sopravvivono
(22 ,24-30) e infine precisa ciò che sta per succedere alla comunità dei
discepoli (22,3 1 -38): tutto ciò, salvo l'atto dell'istituzione, mostra a
grandi tratti il suo equivalente nella sequenza del Testamento.

l. Annuncio e rappresentazione della morte (Le 22, 15-23)

I vv. 14-15 e 17-18 sono disposti in modo da mostrare un paralle­


lismo sorprendente:

2 Testamenti dei Xl/ patriarchi, (Bibliotèque de la Pléiade), Paris 1987, LXXXI,


�99-908.

35
14Quando fu l'ora, prese posto 17E, avendo ricevuto un calice,
a tavola, e i discepoli con lui. avendo reso grazie,
E disse loro: disse:
«Ho tanto desiderato di «Prendete e condividete tra voi.
mangiare questa Pasqua
con voi, prima di patire.
ISVi dico in effetti che lXVi dico in effetti che
mai più la mangerò ormai non berrò più
del frutto della vite
finché fino a che
non giunga a compimento
nel regno di Dio». non venga il regno di Dio>>.

Queste due strofe dicono, l'una e l'altra, che Gesù è di fronte al­
la morte: dovendo smettere di festeggiare la Pasqua e di bere il cali­
ce, prova un veemente desiderio di festeggiare quest'ultima Pasqua
con i suoi discepoli fino a che venga il regno di Dio. Gesù condivide
con i suoi discepoli il pasto di festa e beve alla coppa, nella certezza
che alla fine dei tempi parteciperà alrultimo banchetto presso Dio.
I critici divergono nell'in terpretazione di questi testi: gli uni vi
leggono una specie di tradizione di istituzione a causa della menzio­
ne del calice; ma come giustificare l'assenza della parola sul pane?
Per questo noi pensiamo che si tratti del ricordo dell'ultima cena di
Gesù, secondo una tradizione non cultuale ma «testamentaria».
Ci si può domandare allora perché Luca menzioni questa tradi­
zione cultuale; avendo proclamato la sua partenza e il suo ritorno al­
la fine dei tempi , Gesù vuole assicurare alla piccola comunità che le
sarà presente in un altro modo:
1 9E, preso del pane, avendo reso grazie, [lo] spezzò e [lo] diede loro di­
cendo: «Questo è il mio corpo che [si dà] per voi; fate questo in memo­
ria di me». 20E per la coppa, allo stesso modo, dopo aver cenato, dicen­
do: «Q uesta coppa (è] la nuova alle anza [diatheke] nel mio sangue che
è versato per voh>.

Allora si compie una trasformazione radicale di Gesù (la sua pre­


senza corporale sarà di un altro ordine rispetto alla prima) e del
gruppo dei discepoli (che diventa una comunità raccolta in assem­
blea attorno a Gesù durante un pasto cultuale).
Due aspetti caratterizzano il racconto riferito da Luca. Per lui co­
me per Paolo, e diversamente da Marco e Matteo, la coppa non è
identificata con il sangue dell'alleanza ma con la «nuova alleanza»
nel sangue di Gesù «Che è versato per voi>). Così Luca fa culminare
il discorso di Gesù nella nuova alleanza. Se si nota che il termine

36
diatheke deriva da una radice che significa «fare un testamento in
una disposizione efficace», si è autorizzati a vedere, nell 'atto di Ge­
sù che si dà, il «testamento» attraverso il quale è costituito il nuovo
popolo di Dio.
Un secondo aspetto caratterizza il racconto cultuale di Luca. La
colorazione liturgica tanto presente in Marco cede il posto a una
presentazione di tipo storico: il racconto ricorda l'evento passato,
quando Gesù si trovava con i Dodici alla fine della sua vita. Questo
aspetto storico è sottolineato dal fatto che G esù non parla «della
moltitudine>> ma solamente di «VOi» (dei discepoli riuniti quel gior­
no attorno a lui). Indubbiamente, attraverso il gruppo unificato,
Gesù ha presente la comunità dei credenti di tutti i tempi, ma si in­
teressa particolarmente a coloro che sono davanti a lui e ai quali fa
i suoi addii. D 'altra parte, se quest'evento non si perde nel passato
lo si deve all 'anamnesi, alla richiesta di fare memoria di Gesù (v.
19); la comunità ora fondata con un legame divenuto interiore con
Gesù, deve prolungarsi dopo la sua passione e sopravvivere fino al- ·

la fine dei tempi.


Un'ultima osservazione sui versetti cultuali: diversamente da
Marco, Luca utilizza non il fut uro ma il presente: l'uso del verbo al
presente - il corpo di Gesù è immolato, il suo sangue è versato - ma­
nifesta il carattere altamente simbolico dell'atto di Gesù: inserendo­
lo nel discorso di addio, questo atto mima la sua morte.
Ora, immediatamente dopo la menzione del rito eucaristico, Ge­
sù denuncia il commensale pronto a tradirlo:
2 1 «M a ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. 2211 Figl io
delruomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell'uomo dal
q u ale è tradito)).23 Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi
di essi avrebbe fatto ciò.

La designazione di colui che tradirà Gesù è segnalata da Mc/Mt


prima del pasto eucaristico, mentre Luca opera un violento contra­
sto aggiungendola alla parola sull'istituzione: non tanto per simbo­
leggiare la non-comunione del «traditore», ma per sottolineare la
coesione del gruppo che viene esortato alla vita di servizio fraterno.
Nello stesso tempo, il lettore attuale viene invitato a domandarsi se
non sia egli stesso colui che, condividendo la tavola del Signore, si
prepara a tradire il proprio commensale.

37
2. Situazione presente del credente (Le 22,24-30)

La situazione è chiara: Gesù ha rivelato ai suoi discepoli che ri­


marrà presente liturgicamente in mezzo a loro attraverso il rito del­
l'eucaristia, per mezzo dell'alleanza nuova che egli fonda nel suo
sangue. Pienamente sicuro della sua liberazione dalla morte, conti­
nuerà a essere presente fino alla venuta del regno di Dio. Siamo pre­
parati ad ascoltare il patriarca, che ci spiega la vita che comincia,
pronti a vivere come ha vissuto Gesù. L'unione del discepolo e di
Gesù deve ora essere guardata in faccia: in che modo il discepolo do­
vrà realizzare il progetto divino? Ecco allora la dichiarazione che
esorta a fare della vita un servizio fraterno (22,24-27), prospettiva in­
coraggiata dalla gloria promessa. Ecco il programma offerto da colui
che sta per morire.

a) Una vita di servizio


24Sorse anche una discussione, chi di loro poteva essere considerato il
più grande. 25Egli disse : «l re delle nazioni le governano, e coloro che
hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. 26Per voi però
non sia così ; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e
chi governa come col ui che serve. 27Infatti chi è più grande, chi sta a ta­
vola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in
mezzo a voi come colui che serve».

Quest'esortazione si avvicina parecchio alla retrospettiva testa­


mentaria sul passato pio del moribondo e all'esortazione che ne con­
segue. Ciò che distingue il testo di Gesù relativamente al genere te­
stamentario, è il riferimento ai discepoli che litigano fra loro. Questo
particolare viene a spezzare il filo del discorso-monologo per dare
importanza ai compagni di Gesù. Appena riuniti , già cominciano a
discutere e, quindi, a rompere l'unità nascente. Gesù ha un bell 'eli­
minare il «traditore», ecco che spunta subito un elemento di discor­
dia. La situazione non corrisponde più a quella del patriarca che evo­
ca il suo passato; qui, è Gesù che vuole associare pienamente i suoi
discepoli al proprio destino e che, per questo, approfondisce la con­
vivialità che li unisce tra loro.
Per caratterizzare la vita nuova del discepolo, Luca mette esclu­
sivamente in rilievo il servizio fraterno. Questi versetti riprendono la
tradizione di una parola di Gesù pronunciata in risposta alla doman­
da fatta dai figli di Zebedeo che volevano avere un posto d'onore, la

38
qual cosa aveva suscitato una disputa tra i Dodici (Mc 10,42-44 = Mt
20,25-27). Nel quadro del pasto, Gesù precisa ancora il suo pensiero
con rimmagine del servizio a tavola, come l'aveva fatto in un'altra
circostanza: per ringraziare i servitori che al suo ritorno troverà vigi­
lanti, il padrone «prenderà gli abiti da lavoro, li farà sedere a tavola
e passerà a servirli» (Le 12,37). Non è solo questione dei discepoli:
dicendo «io sono in mezzo a voi come colui che serve», Gesù rinvia
direttamente a se stesso; ricapitola all'intenzione dei suoi il senso
della sua intera vita . ciò che in Giovanni sarà espresso simbolica­
mente nel gesto della lavanda dei piedi .
Opponendo all'ambizione il servizio, Gesù caratterizza, con il
proprio comportamento, l'atteggiamento autentico dei discepoli;
non solo quello dei Dodici, ma quello di tutti i discepoli. Prima della
Pasqua, infatti, i Dodici non sono ancora capi della Chiesa perché
non sono ancora testimoni privilegiati del Risorto: essi prefigurano
piuttosto il nuovo popolo di Dio, raccolto attorno a Gesù, senza che
si possa attribuire loro la responsabilità nei riguardi degli altri fede­
li; essi rappresentano quindi la Chiesa futura nel suo insieme. Per
questo, anche qui, l'esortazione di Gesù è rivolta a tutti i membri del
popolo di Dio.
Tra loro, tuttavia, alcuni aspirano a essere grandi, potenti, a esse­
re capi. Gesù non contraddice quest'aspirazione segreta propria del­
l'uomo: essa può esprimere un profondo senso di solidarietà umana;
ma, dal momento che può anche nascondere una tendenza a voler
dominare, Gesù stabilisce un'opposizione netta tra «il più grande, co­
lui che domina, colui che comanda, col ui che è a tavola» e «il pi ù gio­
vane, colui che serve». E dunque, chi può essere dichiarato capo, nel
popolo di Dio? Colui che serve. Non che il discepolo sia così invita­
to all'umiltà, ma egli appartiene a un nuovo ordine di cose: nel po­
polo di Dio, il più grande è il più piccolo; il capo è il servitore, colui
che, alla sequela di Gesù, si presenta come «Col ui che serve».
Viene così caratterizzata l'esistenza cristiana, a immagine di
quella di Gesù che ha dato il suo sangue per i discepoli e per tutti.
Dalla cena eucaristica sorgono dunque servitori che saranno poi ve­
ri «capi» in mezzo ai fratelli.
È utile ricordare ciò che Giovanni ha espresso con brevi formule:
Se uno mi vuoi servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo.
Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà.
Gv 12,26

39
La prospettiva della gloria e dell'onore è sempre presente. Si
tratta del fatto che, per la Scrittura, l'uomo, malgrado la sua debo­
lezza, non è senza una dignità incancell � bile.

b) Prospettiva di gloria

Nella loro esortazione i patriarchi annunciavano ai loro figli che


essi sarebbero stati ricompensati per la loro fedeltà nell'obbedienza
alla legge e nella pratica della carità fraterna ( Testamento di Nephta­
li, 8,4-10). Gesù procede nello stesso modo, ma con quale differenza !
È lo stesso «ÌO» di Gesù che caratterizza la ricompensa accordata ai
discepoli:
2BVoi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; 29e io di­
spon go [diatithemai] per voi del Regno, come il Padre l'ha disposto
[ diatheto] per me. 3°Così voi mangerete e berrete alla mia tavola nel mio
Regno, e siederete su dei troni per giudicare le dodici tribù di Israele.

In un istante Gesù collega la situazione attuale al tempo in cui il


Regno sarà giunto a pieno compimento. Annuncia il tempo in cui si
sarebbero ritrovati tutti riuniti nell 'ultimo festino, quello che aveva
egli stesso evocato annunciando la sua morte, all 'inizio dei suoi addii
(Le 22,15-18). Qui , promette ai discepoli che vi parteciperanno: di­
spone (verbo dia-tithemi, della stessa radice della parola «alleanza»,
l a dia-theke) per loro di questa ricompensa perché sa che il Padre
l'ha messa a disposizione per lui. Egli collega così il loro avvenire al
suo: la comunione di vita incominciata sulla terra, mantenuta attra­
verso i discepoli e sostenuta dalla «memoria» sacramentale, sboc­
cherà nella comunione definitiva, espressa in questo passo con l'im­
magine della comunità di mensa.

3. Nel tempo prossimo (Le 22,31-38)

Dopo aver evocato una ricompensa per la fine dei tempi , Gesù
vuole affrontare le prove che stanno per scatenarsi sui discepoli. La
comunità che un giorno sarà riunita in cielo sta per conoscere la di­
spersione a causa di Gesù; essa deve essere rinforzata e incoraggia­
ta, particolarmente nella persona che riceve il compito di rimetterla
assieme.

40
a) Pietro e la comunità (Le 22,31 -34)

La sparizione del fondatore di una comunità provoca il proble­


ma della successione. Ora, in questo caso Pietro sta per rinnegare il
suo Maestro (22,54-62), secondo quanto Gesù ha annunciato:
33E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione
e alla morte». 34Gesù disse : « lo te lo dichiaro, Pietro, non canterà oggi il
gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi» .

. L'annuncio del rinnegamento di Pietro è comune ai tre sinottici.


In Luca, che in seguito al racconto della tentazione aveva dichiarato
che «il diavolo si sarebbe allontanato da Gesù fino al momento fis­
sato» (4,13), vale a dire ora, l'annuncio del rinnegamento è introdot­
to da una fonte che gli è propria:
31Simone, Simone, ecco Satana vi h a cercato p e r vagJiarvi come il grano.
32Ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, u n a vol­
ta ravveduto, conferma i tuoi fratelli.

Gli interlocutori immediati sono Gesù e Simone; ma i veri attori


sono Gesù e Satana: è questo il segreto che Gesù rivela al gruppo in­
tero, come lo fa intendere il pronome personale usato al plurale: «Sa­
tana vi ha cercato per vagliarvi . . . », ma quando si tratta di Simone,
l'uomo ordinario che verrà chiamato Pietro (cf. 6, 14), Gesù dice «la
tua fede», «i tuoi fratelli». Satana, pur essendo vinto da Gesù ( 10,18;
1 1 18; 1 3,1 6), entra nel combattimento ispirando Giuda e provocan­
,

do la dispersione dei discepoli (22,3-6) . Gesù conosce la tattica del­


l'avversario� lo combatte personalmente con la sua preghiera e in tal
modo lo smarrimento dei discepoli sarà momentaneo: mediante ciò
che non è altro che un setaccio, la paglia volerà via.
Simone è incaricato di confermare nella fede i fratelli, quando lui
stesso si sarà «ravveduto», ossia quando «Si sarà ripreso» nel mo­
mento dell'incontro del Risorto (24 34) Riportando il racconto del
, .

rinnegamento di Pietro, in cui l'ombra mette in valore la luce, Luca


attraverso Pietro intende rivolgersi a tutti i capi della Chiesa che pos­
sono anche loro cadere: nessuno è incrollabile, finché si è sulla terra.

b) Incomincia il combattimento (Le 22,35-38)

Il discorso di addio continua con un realismo implacabil e : l'avve­


nire è oscuro, inevitabile la spada (c[ Mt 1 0,34) :

41
35E disse loro: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né san­
dali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». 36Ed egli sog­
giunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non
ha spada venda il man tello e ne compri una. 37Perché vi dico: deve com­
piersi in me questa parola della Scrittura: '•E fu annove rato tra i m-alfat­
tori ". 38Jnfatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine». 39Ed
essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli rispose: «B asta ! » .

Evidentemente, Gesù non li induce alla rivolta armata ( M t 26,52-


54) - diversamente dai suoi interlocutori che dimostrano di non aver
capito affatto la situazione - ma fa conoscere ai suoi discepoli radio
di cui saranno oggetto, come i patriarchi che annunciavano ai loro fi­
gli le minacce incombenti nei loro riguardi . Il motivo è chiaro: ormai
Gesù è spacciato; il Servo di Dio sarà annoverato tra i criminali
(21 ,17) e la stessa cosa succederà ai discepoli.
Colui che sta per morire annuncia che la comunità entra in un
periodo ben diverso dall 'epoca serena che univa i discepoli attorno
a Gesù di Nazaret all 'inizio del suo ministero sulla terra. Erano assi­
stiti fraternamente, c'era libertà, e non ci si doveva preoccupare per
il domani . Oggi si prevede la prova dura , imminente. Poi Gesù
sprofonda nella notte del giardino degli ulivi, come un lottatore che
suderà sangue.
In questo modo, grazie al testamento di Gesù, la tradizione cul­
tuale acquisisce un senso nuovo. Sì, la cena eucaristica deve conti­
nuare, come lo richiedeva l 'anamnesi. Ma Gesù evoca il mondo para­
disiaco del banchetto celeste solo in vista di una lotta incessante con­
tro il male. È finito il tempo idilliaco della vita sulla terra con Gesù di
Nazaret. Non c'è ancora il banchetto del paradiso. Comincia il tempo
della Chiesa, quello del combattimento contro le potenze di distru­
zione, messe sotto controllo daJla presenza nuova di colui che se ne
va e che affronta la morte, affidando la sua causa a Dio suo Padre.

4. Culto ed esistenza

Il discorso di addio di Luca non ha la vastità di quello di Gio­


vanni. Tuttavia, così come è stato costruito con l'aiuto delle tradizio­
ni che Luca non ha rimaneggiato da cima a fondo, questo passo met­
te in luce la situazione nuova creata dalla partenza di Gesù. Queste
tradizioni sono state organizzate in modo che il lettore colga il testa­
mento di Gesù non riducendolo solo all'istituzione dell'eucaristia,
ma nella sua totalità.

42
Luca, facendo questo, ha dimostrato di essere evangelista per ec­
cellenza. Egli non poteva, come Paolo, collegare il racconto dell 'isti­
tuzione a un'esortazione alla carità; ma ha potuto situare il tutto in
un discorso di addio che, incominciato in 22,15, contiene le parole
stesse dell'istituzione cultuale. Secondo Luca, Gesù non si è accon­
tentato di instaurare un modo nuovo, che noi chiamiamo sacramen­
tale, della sua presenza. Egli ha dato, nello stesso tempo, il senso esi­
stenziale dell'atto sacramentale, esplicitando il tema del servizio fra­
terno e della vigilanza nella prova in attesa del banchetto finale.
Con frontian1o ancora una volta il testo lucano e la tradizione te­
stamentaria. I diversi motivi di questa forma appaiono in Luca: si­
tuazione di morte imminente, convocazione dei discepoli per una ce­
na durante la quale la morte ormai vicina è annunciata, esortazione
affinché tutti si comportino come il moribondo si è comportato nel
passato, incoraggiamento nella prospettiva di un avvenire meravi­
glioso, avvertimento sulla situazione dei vivi, quella cioè di una lotta
senza tregua.
Alcune differenze si spiegano con l'orientamento di Luca: l'as­
senza di qualsiasi accenno alla sepoltura , cui accenna Marco (Mc
14,8), si spiega in quanto Luca si interessa solo della comunità che
deve continuare a vivere. Tuttavia, altre differenze con la tradizione
testamentaria sono significative. Il pasto è in primo piano; i discepo­
li non sono testimoni passivi; l'annuncio del tradimento li turba
profondamente (v. 23), litigano per sapere chi sarà il più grande tra
loro (v. 24) , Pietro reagisce vigorosamente all'annuncio della sua
prova (v. 33), i discepoli non capiscono la loro situazione (vv. 35.38).
Il discorso di Gesù tende a divenire un 'istruzione in forma di dialo­
go: è ancora un moribondo che lascia il suo testamento oppure un
uomo pienamente padrone degli eventi?
Infine, se si tratta del passato, lo è solo per dare una base alla fe­
deltà dei discepoli, ma è l 'avvenire che focalizza lo sguardo, sia per
la ricompensa attribuita a coloro che saranno stati fede li sulla terra
a vivere in compagnia di Gesù (vv. 24-28), sia nella prospettiva del
ravvedimento di Simone (v. 32), sia infine di fronte alla situazione
oscura e piena di minacce (v. 36).
La tradizione cultuale è dunque colorata da tutto quest'insieme.
Essa acquista un senso attraverso il servizio da compiere per mante­
nere la comunità che la cena eucaristica suggella e di cui è simbolo.
Essa si situa nei riguardi del banchetto escatologico in un contesto di
combattimento e di fedeltà: b�sogna restare uniti a Gesù e, co ri lui,

43
trasformare il mondo. L'eucaristia non è semplicemente un rito da
compiere, ma un atto che, come uno specchio concavo, concentra e
nello stesso tempo rifrange la luce. Questo atto è un condensato del
pasto del passato e del futuro, annuncia il pasto definitivo, mantiene
la comunità riunita e fiduciosa attraverso la prova e la morte.
Infine, esaminiamo brevemente il testo secondo due punti di vi­
sta. Da quello del testatore, la cui morte è vicina o anche già presen­
te, e questo appare evidente dall'uso del tempo presente per i verbi
che descrivono quello che sta per succedere: nelle parole dell'istitu­
zione innanzi tutto, ma anche quando Gesù denuncia la mano di co­
lui che lo «consegna ai nemici» e dichiara che il Figlio deli 'uomo «Se
ne va» ed «è tradito». Gesù domina il tempo, vedendo la sua morte
presente e, nello stesso tempo, «disponendo» già del Regno e sti­
mando che quello che lo riguarda quaggiù finisce.
Dal punto di vista dei destinatari del testamento, la letteratura
testamentaria presenta la cena d'addio come un atto di comunione
con il patriarca e come espressione della comunione tra gli eredi. In­
sistendo sul pasto, citato in quasi tutte le pericopi, Luca simboleggia
la comunione dei discepoli con Cristo. Il pasto è preso ora con Gesù
che «serve» a tavola; sarà ripreso alla fine dei tempi con Gesù che di­
spone del Regno, mentre al centro si trova l'ordine di un pasto cul­
tuale da fare in memoria di Gesù, simile al pasto vissuto ora e che è
già il simbolo della morte di Gesù per la salvezza degli uomini.
Gli apostoli, accettando di comunicare con il suo pane e con il
suo calice, divengono essi stessi partecipi del suo passare dalla vita
antica alla vita nuova. Simbolicamente, essi aderiscono al suo corpo
che si immola e al suo sangue che viene versato. Poiché la comunio­
ne con la morte è reale, la rappresentazione è realista. Le parole del
·cristo sono real iste: attraverso loro, implicitamente, i Dodici entra­
no nel movimento della sua Pasqua per risuscitare con lui. Questa
comunione è reale nel tempo storico dell'ultima cena e lo sarà nel
tempo celeste del banchetto finale; e deve essere non meno reale nel
tempo intermedio della separazione apparente. Questo sarebbe il
fondamento della «presenza reale» del Cristo: il mistero eucaristico
presuppone una presenza reale.

Conclusione

Inserendo il racconto cultuale nella trama della Passione, Luca ci


fa vedere come Gesù, prevedendo la sua dipartita da questo mondo,

44
ha voluto mantenere un legame personale con coloro che stava per
lasciare: come essere presente attraverso l'assenza?
L'eucaristia è una prima risposta. Ma non è la sola. Un'altra tra­
dizione non cultuale risponde alla domanda. Colui che sta per mori­
re lascia un testamento ai suoi discepoli nell'attesa di rivederli. A
modo suo, questa tradizione dice in che maniera il discepolo mantie­
ne un legame con colui che, risuscitato dai morti , è sempre vivo: at­
traverso il comportamento di servizio e di carità, così come Gesù
stesso ha vissuto.
In realtà, le due tradizioni sono entrambe indispensabili. Da un
primo punto di vista corrispondono ai due poli che la teologia ulte­
riore ha precisato a proposito delJ'eucaristia: il sacramento e la «CO­
sa del sacra1nento», ossia il rito e la vi ta che il rito significa. Il sacra­
mento ha valore solo in funzione della «cosa», cioè, nel caso dell'eu­
caristia, Gesù Cristo e la carità. Il cultuale autentico deve esprimersi
n eli ' esistenziale.
Uno sguardo più profondo invita tuttavia a non vedere in queste
due tradizioni due realtà tali che l'una sarebbe la conseguenza del­
l'altra. Culto e servizio fraterno non sono sullo stesso piano, né sono
dello stesso ordine. Quale relazione li unisce ? Di solito si pensa che
il servizio sia l 'effetto del culto: l'eucaristia prod urrebbe l'effetto ca­
rità. In un certo senso è esatto, ma allora vuoi forse dire che il servi­
zio non può esistere se non grazie al culto? Ecco perché, invece di ac­
contentarsi della relazione <<causa/effetto», è meglio ricorrere alla re­
lazione «significante/significato)).
La presenza della tradizione testamentaria e, in particolare, il fat­
to che Giovanni abbia potuto nascondere la tradizione cultuale con­
tribuiscono a dimostrare che la carità esistenziale è la «sola)) realtà
attraverso la quale la Chiesa vive autenticamente del Cristo. Conse­
guentemente la via cultuale, pur continuando a essere al cuore del­
l'esistenza cristiana, non è l 'unica via attraverso la quale il Cristo
continua a mantenere la sua presenza in mezzo ai suoi discepoli: la
carità e il servizio sono una via privilegiata. Il culto non viene per
niente scartato, ma è solo posto in rapporto all 'esistenza nell'amore
che caratterizza il cristiano.
Inserendo le parole dell'istituzione in un discorso di addio, Luca
mostra in modo eccellente qual è la funzione del culto eucaristico
nella vita del cristiano. La tradizione cultuale conserva certamente
un posto privilegiato nella tradizione testamentaria: nei versetti del­
l'istituzione si condensa in certo qual modo tutto il discorso d'addio,

45
un discorso che dimostra come l'azione liturgica produce l'assimila­
zione progressiva del discepolo al Signore vivente. Ma l'azione litur­
gica vale solo in quanto esprime la sua efficacia con frutti concreti:
fede e fedeltà in mezzo alle prove, speranza della gloria annunciata,
carità vissuta nel servizio fraterno.
Non c'è dunque bisogno di scegliere tra la tradizione cultuale e
la tradizione testamentaria, dal momento che l'una e l'altra sono in­
dispensabili per manifestare il senso profondo della n uova presenza
di Gesù dopo la morte. L'una e l 'altra dicono lo stesso mistero, che
cioè il discepolo è invitato a divenire un altro Cristo, come l 'hanno
capito i santi.

46
CAPITOLO 3

LA PAROLA SUL PANE

La parola principale «questo è il mio corpo» non è chiusa in se


stessa, né pronunciata in qualche modo come affermazione in sé; es­
sa è accompagnata dall 'imperativo «prendete ! », ciò che impegna i
discepoli ad agire o per la precisione «ch e si dà per voi». La parola
ha un carattere relazionale : il che significa che l'interpretazione do­
vrà mantenere le parole «questo è il mio corpo» nel rapporto con i
convitati. Esaminiamo dunque gli elementi della parola.

A. Q uesto

Il pronome, neutro in greco (touto ), mentre la parola «pane» ( ar­


tos) è maschile, non si riferisce al semplice mate riale preso da Gesù,
perché il pane ha acquisito una portata più ricca a causa dell 'azione
precedente di Gesù e del suo gesto di darlo al tempo stesso ai disce­
poli. Grazie alla benedizione che Gesù ha pronunciato, il pane ha ot­
tenuto la qualità di essere, liturgicamente, un dono di Dio; si è cari­
cato di un valore «simbolico>> che si aggi unge al suo valore imme­
diato di nutrimento terreno. Notiamo che il testo implica non che sia
Gesù a benedire il pane, bensì che sia Dio che benedice: per ciò stes­
so è Gesù che si pone di fronte al Padre. D'altronde Luca e Paolo uti­
lizzano il verbo «avendo reso grazie» al posto del semitico «pronun­
ciò la benedizione».
D 'altra parte, spezzato, il pane non ha solo la funzione di nutrire
individualmente ogni convitato. Unico, ma diviso tra varie persone in
un pasto comunitario, unisce coloro che lo mangiano e che parteci­
pano alla stessa sorgente della vita.

47
LA PRESENZA DEL CRISTO

Tradizione marciana Tradizione paolina

Matteo Marco Luca Paolo

Avendo preso del pane Avendo preso del pane E avendo preso del pane Egli prese del pane
e pronunciando la benedizione pronunciando la benedizione avendo rese grazie e, avendo reso grazie,
[lo] spezzò [lo] spezzò [lo] spezzò [lo ] spezzò
e avendo [ lo] dato ai discepOli [lo] diede loro e [lo ] diede loro
disse: e disse: dicendo:
«Prendete, mangiate: « Prendete!
questo è il mio corpo». questo è il mio corpo». «Questo è il mio corpo «Questo è il mio corpo
che si dà per voi. che {èj per voi.
Fate questo in memoria di me». Fate questo in memoria di me!».
Infine, questo pane è «dato» ai discepoli, esprimendo in tal mo­
do la relazione che lega Gesù stesso, in quanto presiede la cena , con
i suoi convitati. Questo pane viene dato loro dalla sua mano.
Il pane non è quindi una realtà ordinaria: è sottratto al suo stato
ordinario profano, per divenire, a un livello segreto, strumento di re­
lazione con l 'lnnominato invisibile e, a un livello manifesto, con Ge­
sù che presiede la cena e condivide quel pane.

B. Il mio corpo

Prima di tutto è importante ricordare i vari sensi che il termine


soma può avere nel mondo biblico. Con «corpo>> i semiti non indica­
no propriamente l'organismo di cui l'uomo dispone, ma la persona in
quanto essa può esprimersi e manifestarsi o, ancora, la persona in
quanto essa può entrare in relazione con l 'universo e con gli altri. Se­
condo l'antropologia biblica. l'uomo non ha solo un corpo, l' uomo è
corpo. Parlando del suo corpo, Gesù si presenta nel suo rapporto con
gli altri e con tutta la creazione.
In questo senso, il greco soma si avvicina al termine ebraico bii­
.wir. che tuttavia aggiunge alla descrizione precedente una sfumatura
di fragilità creatura/e, che si traduce abitualmente con «carne» (così,
«ogni carne è come l'erba», dice Is 40,6). A volte, secondo la versio­
ne dei Settanta, la parola soma può indicare l'uomo visto dall'ester­
no di lui stesso, come un oggetto: uno sch iavo, una cosa abbandona­
ta, e anche un cadavere. Il termine potrebbe quindi significare l'uo­
mo in quanto essere votato alla decomposizione, alla morte.
L'interpretazione quindi potrebbe orien tarsi in due direzioni: sia
la persona in relazione con l' universo, sia col ui che sta per morire. I l
contesto indicherebbe l a seconda direzione. Gesù h a appena annun­
ciato che sta per essere tradito, ha fatto allusione al sangue che ver­
serà per la moltitudine, e infine il verbo «dare» evoca ls 53,12. Da
questo non si deduce che Gesù si immolerebbe come vittima del sa­
crificio cultuale con il quale sono riscattati i peccati del popolo (cf.
l Pt 2,24 ) Gesù dona la sua vita fino alla morte, in un sacrificio per­
.

sonale e non cultuale. Questo scenario di morte non deve prendere


il posto dell'essenziale, e cioè che la vita è data in nutrimento e inte­
gra la morte.

49
C. D mio corpo che [è J per voi

Anche qui, l'espressione è spesso interpretata secondo lo schema


cultuale di espiazione: Gesù si presenterebbe come colui che, con la
sua morte, offre a Dio il vero sacrificio espiatorio attraverso il quale
gli uomini sono riconciliati con Dio. Questo è detto in Matteo, che
nelle parole sul calice aggiunge «per la remissione dei peccati» (Mt
26,28) . Ma nelle redazioni più antiche non si parla di peccato.
Tuttavia sono numerosi i critici che vedono nella preposizione
hyper ( «pen>) lo schema sacrificate veterotestamentario. Penso che
quest'affermazione non può essere accettata e deve essere rivista.
Certamente, è detto che «il Cristo muore per noi» ( lTs 5,10), «per
noi peccatori» (Rm 5,6) e anche «per i nostri peccati» (l Cor 15,3). E
poiché il peccato è uno dei motivi dell'azione del Cristo, se ne dedu­
ce che la morte del Cristo ha riscattato dal peccato e che essa si col­
loca nella linea biblica del sacrificio per il peccato (Lv 4,1-5 , 1 3) e
questo confermerebbe l'importanza del sacrificio di «espiazione», ad
esempio il kippur, al tempo di Gesù di Nazaret. In tal modo si è ar­
rivati a cogliere nel linguaggio di Gesù una nota cultuale.
Generalizzando così il senso di hyper come espiatorio, si suppon­
gono acquisite due evi denze. Prima di tutto si suppone che Mc 14,24
«il mio sangue versato per la moltitudine» sia il testo più antico sulla
Cena. Poi che abbia un senso sacrificale, cioè un senso in continuità
con i sacrifici rituali di espiazione della liturgia ebraica al tempio.
Queste opin ioni non hanno fondamento: in particolare, l'interpreta­
zione cultuale-sacrificale della morte di Gesù non è che un 'interpre­
tazione tra le altre nelle lettere di s. Paolo, di antichità riconosciuta.
L'altra evidenza, erroneamente data per acquisita, è che se hyper
fosse collegato alla menzione della morte, si riferirebbe sempre al
peccato. E questo è vero in cinque passi (cf. Rm 5 ,6.8) , ma Paolo uti­
"
lizza la stessa preposizi one in situazioni che non sono di peccato. Un
solo esempio: Paolo ha appena dichiarato che «Cristo è morto per gli
empi» e aggiunge subito: «Ora, a stento si trova chi sia disposto a
morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire
per una persona dabbene» (Rm 5,7). La preposizione hyper non im­
pone per niente il pensiero di un sacrificio di espiazione; presente
forse nella prima frase, essa è sicuramente assente nelle due che se­
guono: si tratta allora di un «giusto» o di un uomo «per bene» per i
quali non c'è bisogno di espiazione; eppure viene usata la stessa pre­
posizione.

50
A conferma d eli 'interpretazione non sacrificale della morte del
Cristo, si può ricordare che molto spesso la morte del Cristo è giu­
stificata non dalla salvezza dal peccato ma dall'amore, anche se la
salvezza vi è implicata: «Gesù Cristo mi ha amato e si è immolato per
noi» (Gal 2,20); «Dio dimostra il suo amore verso di noi in questo
che il Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). E l'interpretazione della
morte di Gesù di Giovanni è: «Nessuno ha un amore più grande di
questo: dare la vita per i propri amici>> (Gv 15,13). In questo modo si
ritrova il senso originario dell'espiazione che significa riconciliazio­
ne, ripresa del dialogo con Dio. La parola di Gesù trova il suo signi­
ficato immediato nel simbolismo del cibo: «lo mi do in nutrimento
perché voi viviate». E allora è questo il senso di «in favore di voi»,
perché se si mangia, si mangia per vivere. Se Gesù va alla morte, non
vi va come a un mezzo rituale di riscatto: egli annuncia che, fedele a
Dio e agli uomini sino alla morte, sarà presente in mezzo ai suoi fa­
cendosi loro nutrimento e facendoli vivere di lui. Questa è la pro­
spettiva della vita che domina: ha il potere di essere la nostra sor­
gente di vita nell'universo nuovo dell'alleanza.

D. <<Q uesto è» - Presenza reale?

Di quale natura è l'affermata identificazione tra il pane e il cor­


po di Gesù? Si tratta di un semplice paragone o di una vera identifi­
cazione, e in qual modo? La risposta a queste domande è condizio­
nata dalle opzioni filosofiche o religiose, a tal punto che le stesse pa­
role, ad esempio «reale», «sostanziale», «figurato» . . . sono usate in
accezioni molto diverse. Per questo noi tenteremo, da parte nostra,
di situare la parola di Gesù innanzi tutto n eli 'universo biblico che la
genera, poi alla luce della semantica e infine secondo una certa com­
prensione della nozione di «simbolo».

a) Prima tappa. Gli esegeti .concordano nel situare l'azione glo­


bale di Gesù sul pane e sul calice in un tipo di comportamento pro­
prio dei profeti nella Bibbia. Spesso questi mimano il loro ann uncio
con gesti che sono figura, e figura efficace nello stesso tempo. Per an­
nunciare a Paolo che sarà fatto prigioniero, il profeta Agabo prende
la sua cintura e con questa si lega le mani e i piedi (At 2 1 , 1 1): «Così
Paolo sarà legato». Per annunciare la prossima dispersione degli abi­
tanti di Gerusalemme che Dio intende punire per la loro infedeltà,

51
Ezechiele deve radersi la testa e disperdere i capelli al vento, e poi
ode l'ordine: «A tutti gli israeliti riferirai: "Così parla YHWH: Que­
sta è Gerusalemme ! "» (Ez 5,5). Il profeta identifica il suo gesto con
la sorte della città; i suoi uditori capiscon·o che subiranno una sorte
simile a quella dei suoi capelli. Il mimo profetico annuncia un even­
to futuro che la parola rende esplicito.
Esiste un secondo elemento secondo la mentalità biblica: quello
dell'efficacia. Il profeta non ha come obiettivo la semplice eventua­
lità, ma la sua azione anticipa l'evento e, in un certo senso, lo produ­
ce. Per questo, quando Geremia si è posto sulle spalle un giogo per
indicare che una dominazione straniera peserà su Gerusalemme, i
falsi profeti lo distruggono in fretta per impedire che ciò si realizzi
( Ger 27-28). Alcuni racconti biblici sono ancora più espliciti. Eliseo
invita il re Ioas a percuotere la terra, e il re esegue subito, ma solo
per tre volte, e il profeta gli grida: «Avresti dovuto colpire cinque o
sei volte; allora avresti sconfitto l'A ram fino allo sterminio; ora, in­
vece, sconfiggerai l' Aram solo tre volte» (2Re 1 3, 1 9). Tra l'azione del
re e la battaglia annunciata esiste un legame reale, che va dal signifi­
cante al significato; il secondo è come conseguenza del primo a cau­
sa dell'efficacia attribuita al significante: se il re avesse percosso la
terra cinque volte e non tre, i nemici sarebbero stati sconfitti.
Il lettore avrà notato che nell'esempio di Ezechiele si incontra
una formula: «Questa è Gerusalemme», analoga alla parola sul pane.
Da tale uso profetico risulta che il verbo «essere», nel caso della pa­
rola sul pane, non stabilisce una corrispondenza materiale immedia­
ta tra il pane e il corpo. E questo è abitualmente visto favorevol­
mente dai critici. J. Dupont, ad esempio, scrive: «Nel contesto del mo­
do di pensare di un semita e della Bibbia, il senso più naturale della
parol a sul pane sarebbe "Questo significa il mio corpo", "Questo
rappresenta il mio corpo"».1
Si pone allora la domanda: Si può ancora parlare di «presenza
reale»? «Per dare un fondamento a questa dottrina», il medesimo
autore ricorre a Paolo, secondo il quale il pane è «comunione al cor­
po del Cristo» (1Cor 10,16), e a Giovanni che afferma: «Perché la
mia carne è vero cibo» (Gv 6,55). O'accordo. Ma questo apporto
esterno alla parola dell'istituzione è sufficiente a precisare in che co­
sa consiste la «Conversione» del pane in corpo?

' In NRT 80(1958), 1034s.

52
b) Seconda tappa. L'esposto precedente è valido ma incompleto.
La parola e il gesto di Gesù si situano perfettamente nel genere del­
la rappresentazione profetica e ne possiedono il carattere dell'effi­
cacia: mangiando questo pane, i discepoli si uniscono al «Corpo» di
Gesù . Il segno «pane» produce la comunione con Gesù. Ma che co­
sa avviene esattamente del significante «pane»? Per rispondere alla
domanda, bisogna ricordare la situazione dialogale nella quale è sta­
ta pronunciata la parola di Gesù e approfondire il discorso attraver­
so alcune nozioni di linguistica e di semantica.
Ogni parola è pronunciata da un «locutore» a un «interlocutore».
A seconda che essa dica qualche cosa e che essa sia detta a qualcu­
no, la parola presenta due poli, uno di determinazione, l'altro di si­
gnificato. Quando io dico: «Questo è il mio pane>>, pronuncio un giu­
dizio informativo o «Constatativo>>, ossia constato che questo è un
pane e non una pietra; il mio linguaggio è anche «performativo>>, os­
si a io invito il mio interlocutore a riconoscere che questo pane è mio
c non di un altro. D'altra parte, io «determ ino» la natura di que­

st'oggetto che si chiama «pane)>, e «significo» al mio interlocutore


che mi appartiene. Secondo la disposizione del locutore e dell'inter­
locutore, la parola è carica di significato pi ù o meno forte.
E questo dipende dall'autorità «performante>> del locutore e dal­
la «Competenza» dell'interlocutore. Prima di tutto. l'in terlocutore
deve capire la lingua del locutore (per esempio, in francese, capire
che dicendo «pain» non parlo dell'albero «pin») e riconoscere l'au­
torità del locutore (egli ha il diritto di dire che questo pane è «SUO»).
È quello che avviene tra Ezechiele e i suoi uditori che, conoscendo
la reputazione del profeta, riconoscono che la profezia si avvererà
certamente.
Nel racconto della Cena, il dialogo è esplicito. Le parole «pren­
dete ! » o «per voi» riguardano coloro ai quali si rivolge la parola di
Cìesù: essa non intende definire semplicemente un nuovo stato del
pane che i discepoli dovrebbero riconoscere, ma li invita a fare qual­
che cosa: prendere e accogliere. La parola di Gesù non è una procla­
tnazione in se stessa, ma un appello a ricevere il pane e quindi a di­
venire attori nella realizzazione del segno stesso. E ciò è cosa molto
più importante di quanto avveniva nelle solite profezie. Per essere
compiuta, la rappresentazione di Gesù richiede da parte dei convita­
ti un 'azione corrispondente.
Questa osservazione è confermata dalla natura del significante.
Alla Cena, non si tratta di capelli dispersi del profeta né dei colpi che

53
il re batte in terra, ma del «pane», cibo che si mangia. Non viene cer­
to riferito che i discepoli mangiano il pane, m a è detto che sono in­
vitati a farlo. In Luca e Paolo la parola che segue immediatamente
(«fate questo in memoria di me») dice che questo cibarsi dovrà ripe­
tersi per sempre dopo la morte di Gesù. In sé, il fatto che si tratti di
pane dimostra che la parola «performativa>> di Gesù non trova la sua
completezza se non nella risposta implicita dei discepoli che man­
giano il pane offerto da Gesù. La situazione dialogale della parola si­
gnifica che Gesù invita i discepoli al cibo speciale che è il suo corpo.
E questo che cosa vuoi dire?
È qui che il ruolo del significato diventa preponderante nel lin­
guaggio. Infatti, la stessa parola «pane>> può assumere diversi signifi­
cati. Se ad esempio dico: «Ecco il pane della vita>> io attribuisco al si­
gnificante «pane» un valore diverso dal suo significato naturale (ci­
bo fisico), un valore percepibile solo dagli interlocutori che fanno ri­
ferimento a un certo modo di pensare, nel mondo della fede o in
quello della Bibbia.
Il signi ficato non è più unico, come nella frase precedente «que­
sto è il mio pane» (dovevo riconoscere che questo pane è suo); il ter­
mine si apre a una pluralità di interpretazioni . Nell'espressione «pa­
ne della vita», l'interlocutore può intendere un mezzo di sussistenza
oppure la sapienza che rende gioiosa l'esistenza o Gesù che parla
dell 'eucaristia o infine la manna celeste dell 'Apocalisse. È pertanto
lo spirito dell'interlocutore che coglie un certo valore nell'espressio­
ne «pane della vita». Egli «lo riconosce», ossia, grazie alla sua cultu­
ra e agli archetipi che possiede, entra in comunione di pensiero con
il locutore, che ha fatto una «performanza»: ha conferito al signifi­
cante «pane» un valore di un ordine diverso da quello del suo signi­
ficato naturale, invitando il suo interlocutore a riconoscerlo.
Rispetto alla prima tappa, abbiamo fatto un altro passo che per­
mette di situare l'azione di Gesù nel genere dell'azione simbolica dei
profeti: essa ci era sembrata reale e non fittizia, a misura dell'auto­
rità stessa di Gesù. La seconda tappa ci porta a riconoscere il carat­
tere «performante» del linguaggio di Gesù che dà al significante un
valore nuovo. È necessario un terzo passo per arrivare a cogliere
esattamente in che cosa consiste la trasformazione del pane nel cor­
po: la necessità di accogliere la parola stessa di Gesù.

c) La terza tappa ci permetterà di situare il significante «pane»


del nostro testo nella categoria del simbolo. Per capirlo, bisogna in-

54
nanzi tutto ammettere che la parola «simbolico» non si oppone af­
fatto a «reale», malgrado le mentalità abituate a una presentazione
«Ontologica» del mondo. B isogna fare una vera conversione menta­
le e cogliere ciò che differenzia il simbolo dal segno.
Qual è la natura del segno? Partiamo dal livello inferiore, quello
del «segnale>>: il significante «fumo>> invita a percepire il significato
<<fuoco». Il fumo è segno del fuoco; fumo e fuoco sono due realtà del­
lo stesso ordine, che esistono indipendentemente dalla mente che li
percepisce. Per questo non si può dire che il fumo «simboleggia» il
fuoco.
In altri casi, il significante evoca immediatamente un'altra cosa,
una realtà che appartiene a un altro ordine e che non può essere col­
ta se non dalla mente dell 'uomo. Riprendiamo quanto è già stato
detto sulla · pluralità dei significati possi b i l i di una parola, ma cen­
trando l'attenzione soprattutto sul si gn i fican te.
Secondo la «performanza>> del locutore o la «competenza» del­
l'interlocutore, il significante «acqua)>, ad esempio. può simboleggia­
re la freschezza, la fecondità, la distruzione . . . Come il pane, la luce o
qualsiasi altro oggetto del mondo, l'acqua non è un simbolo in sé, ma
è la mente dell'uomo che, a partire dalla sua cultura o dall 'inconscio,
entra in comunione con questo o quest'altro aspetto di un signifi­
cante che è già in sé carico di ciò che la mente vi mette o vi scopre.
In questo modo ne determina o ne percepisce il valore simbolico in
un determinato contesto.
Attraverso il significante «pane» io posso considerare non il cibo
ordi nario, ma una realtà di ordine diverso, segreto, che io vogl io ma­
nifestare attraverso di lui: il pane-sapienza, il pane della vita . . . Lo
stesso significante «pane» mette insieme, unisce, «simboleggia» due
realtà che non sono dello stesso livello.
Mentre nel segno il significante può essere separato dal signifi­
cato perché esiste indipendentemente dal pensiero come realtà che
può avere molti significati, il simbolo, invece, partecipa a quello che
rappresenta e diventa tale solo tramite il pensiero che unisce due
realtà di ordine diverso. Siamo dunque passati, mediante una situa­
zione dialogale, a un linguaggio simbolico, quello che unisce due
realtà di ordine diverso.
Applichiamo ora queste premesse alla parola sul pane. Pronun­
ciandola, Gesù conferisce alla funzione del pane un valore supple­
mentare. Questo pane continua a essere nutrimento terreno dato da
Dio, ma diventa inoltre cibo di un altro ordine, poiché è detto corpo

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del Cristo. Il pane acquisisce così un valore nuovo che gli proviene
dalla parola di Gesù e anche dall 'accoglienza che gli viene fatta. È lo
spirito di Gesù che dà consistenza alla parola; è lo spirito del disce­
polo che, accogliendo la parola di Gesù, riconosce la sua efficacia. Il
pane conserva la sua funzione di pane, e in questo senso non è il cor­
po di Gesù; ma il pane diventa anche corpo di Gesù e in questo sen­
so non è più pane ordinario.
La formulazione «il pane consacrato è e non è il corpo del Si­
gnore» è paradossale e deve essere correttamente interpretata. Essa
sembra contraddittoria, poiché enuncia due punti di vista sulla stes­
sa realtà. Il pane è successivamente interpretato, positivamente e poi
negativamente: è o un nutrimento terrestre oppure un nutrimento
celeste. Per affrontare questa difficoltà, parte11:do dalla filosofia ari­
stotelica, si è potuto distinguere tra sostanza e accidenti, e si è di­
chiarato che il Signore è «sostanzialmente» presente e che gli acci­
denti del pane consacrato permangono: è la teoria della transustan­
ziazione. Il pane è composto di vari elementi: è un cibo che non è più
frumento� è stato cambiato da una serie di trasformazioni dovute al
lavoro dell'uomo. Il grano è stato macinato, impastato, cotto al for­
no, trasformazioni la cui unità e senso consistono nel farne un ali­
mento per l'uomo.
B asterebbe constatare che, seguendo lo stesso processo, il nutri­
mento terrestre del pane diventa un altro nutrimento, celeste.
Attraverso la nozione di «sostanza» crediamo di aver trovato un
principio che unifica due realtà: il pane e il corpo del Signore. Esse so­
no di ordine diverso: una terrestre, l'altra celeste. Il termine sostanza
dovrebbe unificare i due elementi mediante un'operazione astratta
che tende ad abolire l'uno a profitto dell'altro, rischiando di procede­
re in tal modo a una specie di incarnazione del Signore nel pane.
Qui interviene il «simbolo», la cui funzione è precisamente quel­
la di ricondurre all'unità due elementi di natura differente, che nel
nostro caso sono il terrestre e il celeste. Ciò che è nuovo in questa
presentazione è il ruolo dello spirito che considera i dati. Essi sono
mantenuti al loro posto rispettivo, e uno si trova nello spirito che ope­
ra. Lo spirito non crea la presenza del corpo del Signore, la riconosce.
Un esempio aiuta a entrare in questo modo di pensare. Il perso­
naggio Gesù di Nazaret è visto dai suoi contemporanei come un uo­
mo «ordinario». È contemplato dai credenti come il Figlio di Dio. Al­
lo stesso modo posso dire che il pane consacrato simboleggia il cor­
po del Signore.

56
Quando dico che l'ostia è e non è il corpo del Signore, io non for­
mulo due interpretazioni successive della realtà; affermo il doppio
volto che prende senso sotto un unico sguardo: io posso considerare
lo stesso pane consacrato sia dal punto di vista terrestre, sia median­
te la mia fede per riconoscervi l'effetto della parola di Gesù.
Quanto al termine transustanziazione, esso dipende da una con­
cezione di ordine filosofico che oggi, a mio parere, è insufficiente a
render conto della condizione della presenza del Signore nell 'ostia
consacrata. L'ostia viene considerata come un oggetto di conoscenza
oggettiva e si ignora così il ruolo proprio del soggetto conoscente.
Questo ruolo è stato messo molto bene in evidenza da un ricer­
catore britannico, E. Austin, il quale ha distinto il linguaggio perfor­
mativo dal linguaggio costativo. 2 Gesù non ha dichiarato semplice­
mente «questo è il mio corpo», egli ha fatto precedere la sua affer­
mazione da «prendete» o l'ha fatta seguire da «per voi», invitando i
suoi discepoli a riconoscere attivamente il valore della sua afferma­
zione generale. Questo dato aggiunge una sfumatura nel concetto
della presenza eucaristica. Essa non è quella di un oggetto, di una
«cosa»: io non ricevo passivamente il corpo del Cristo; io m'impegno
dicendo «Amen», io non creo affatto la presenza, ma la riconosco in
nome del la mia fede in Gesù.
Varie sono le conseguenze. La prima è di fondare la nota rifles­
sione di s. Bonaventura: il topo che mangia un 'ostia consacrata, non
riceve il corpo di Gesù ma pane ordinario; non potendo riconoscere
la presenza di Gesù, non può comunicare con lui.
Ritorniamo alla formulazione proposta: il pane è e non è il corpo
del Cristo. In questa frase è raccolto il duplice valore dell'unico pane.
Si capisce meglio allora che non si tratta della semplice materia che si
chiama pane, ma di una realtà trasformata non solo dalla benedizio­
ne ma propriamente dalla parola di Gesù «questo è il mio corpo)). Nel
senso più stretto, vale a dire il senso che Gesù attribuisce a questa pa­
rola e che il discepolo percepisce, «il pane è il suo corpo)). Ma nello
stesso tempo, da un altro punto di vista, quello dei sensi e della ra­
gione non illuminata dalla fede, il pane non è il corpo del Signore.
Presa tale e quale, la parola sul pane fu infelicemente interpreta­
ta dai fedeli che, vedendo nel «corpo» la complessione fisica di Ge­
sù, non hanno avuto timore a identificare il pane materiale e il suo

2 In Quand dire, c 'est faire [tr. fr. 1972).

57
corpo fisico. Questo modo di vedere ha portato nel passato all'inter­
pretazione che faceva dell'ostia una vera <<panificazione» di Gesù
Cristo, e di conseguenza, da parte di chi faceva la comunione, una di­
gestione fisica dell'organismo corporeo di Gesù.
Che cosa abbiamo aggiunto al modo classico di parlare? Noi te­
niamo conto soltanto dello sguardo di chi riceve, rinunciando a trat­
tare il pane consacrato a essere una realtà di questo mondo, ritenuta
reale come una «cosa». Da qui la tentazione di separare l'ostia consa­
crata dal suo contesto, cadendo in tal modo in un rischio di idolatria.
Questa lunga disamina ha come effetto quello di usare con sfu­
mature il verbo «essere». Mentre noi lo interpretiamo di solito come
ciò che identifica su uno stesso piano cose invisibili, dovremmo am­
mettere che la mente dell'uomo ha la possibilità di dire con lo stesso
verbo «essere» un 'identificazione con una realtà di un altro ordine.
Qui si tratta del «corpo» del Cristo. È chiaro che Gesù non vuole da­
re da mangiare il proprio corpo fisico, e per questo il «Corpo» non può
essere che la realtà spirituale, celeste, del Risuscitato. Durante la Ce­
na, Gesù invita a mangiare questo pane, sapendo che in tal modo si
comunica con la sua persona che esiste solo sotto la forma del «per
voi», fedele fino alla morte e fiducioso in Dio che lo risusciterà.
Rileviamo i limiti della nostra precedente inchiesta. Il risultato è
stato quello di arrivare a qualificare la parola di Gesù come una pa­
rola simboleggiante in un dialogo destinato a costituire una comu­
nità che va oltre la morte incombente del locutore. E questo vuoi
forse dire che non vi è alcuna differenza tra la parola eucaristica e le
altre parole simboliche? Due elementi fondamentali distinguono la
parola eucaristica. Dal momento che si tratta di una parola «perfor­
mante» la condizione del locutore determina il valore della parola.
Nella Cena, il locutore si presenta come un 'autorità unica, e quindi
il mistero del simbolismo eucaristico è semplicemente uno degli
aspetti del mistero della persona di Gesù Cristo. Pertanto il pane eu­
caristico non è ridotto a un simbolo tra gli altri, ma esprime un aspet­
to del mistero della parola di Dio che ha preso un volto.
In un certo senso si potrebbe dire che il mistero eucaristico è il
simbolo per eccellenza, il sovra-simbolo, poiché la relazione tra lo­
cutore e destinatario diventa incontro reciproco. Precisiamo ulte­
riormente. Il pane eucaristico produce l'effetto inverso della natura:
se è il credente che mangia il pane, è il corpo di Gesù che si assimila
il credente. Accogliere il pane eucaristico è riconoscere il mistero
stesso di Gesù.

58
E. «Per voi))

Inserita nel suo contesto dialogale, la parola di Gesù trova il suo


senso, sia nella tradizione marciana sia in quella paol ina. In effetti, il
«per voi» che in quest'ultima esplicita la finalità dell 'affermazione,
trova l'equivalente nella tradizione marciana grazie all'invito: «Pren­
dete ! ». Per questo, sceglieremo come punto di partenza la formula
apparentemente più enigmatica della tradizione marciana.
Si può forse dire che, così come si presenta, questa parola «non
ha senso», come lo pretendono alcuni critici che stimano di dover ri­
correre esclusivamente alla tradizione paolina? Questo verdetto è
superficiale: in che modo la tradizione marciana avrebbe potuto sop­
prim ere la qualificazione paolina «per voi», non fosse altro che per
ottenere un parallelismo più stretto tra il corpo e il sangue? Sarebbe
.... oprattutto disconoscere il contesto dialogale della parola di Gesù
che è un invito a «prendere» il suo corpo.
Paolo non può sopportare questi eccessi e concl ude:
Perché ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di que­
sto calice, voi annunziate la morte del Signore.
JCor 1 1,24

I verbi «mangiare» e «bere» ci sono, ma invece di «mangiare que­


�to corpo)) e «bere la nuova alleanza)), come ci si potrebbe aspettare
dopo una lettura oggettivante di quello che precede, si legge: «man­
giare questo pane)) e «bere questo calice)). Si tratta sì del pane e del ca­
lice che sono divenuti eucaristia, ma il mangiare e il · bere sono riferiti
all'atto umano riguardante il nutrimento naturale. Paolo inoltre, nella
sua conclusione, non dice «Voi divenite uno con il Signore)), ma «voi
proclamate la morte del Signore)). Paolo non vuole qui far passare l'i­
dea di comunione con una persona, e ancor meno quella dell'assimi­
lazione attraverso il cibarsi di un essere presente materialme n te; egli
dichiara che partecipare alla cena (pane e calice) del Signore è parte­
cipare alla salvezza che il Cristo ci ha procurato con la sua morte.
In un altro passo dove Paolo parla dell'eucaristia, la situazione è
capovolta dal punto di vista linguistico:
Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione
con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comu­
nione con il corpo di Cristo?
JCor 10,16

59
Se qui si parla ancora di pane e di calice, non lo si fa per procla­
mare la salvezza ricevuta, ma la comunione al «Sangue» e al «corpo» ,
c� n riferimento ai gesti propriamente rituali.
Paolo evita ogni formula che potrebbe condurre a un'identifica­
zione materializzante delle specie con il corpo e il sangue del Cristo.
Come si è potuto allora arrivare agli eccessi cosificanti, che, come
contraccolpo, hanno portato agli eccessi contrari? Alcuni infatti stan­
no lontani e anche si pongono in senso opposto al · materialismo ac­
cennato più sopra. Così J. Jeremias,3 che pensa non si possa più par­
·
lare di vera identità del corpo e del pane, e che bisognerebbe atte­
nersi alla nozione di paragone e di parabola. Ma Jeremias ignora in
questo modo la natura del linguaggio, come abbiamo tentato di pre­
cisarla.
Il linguaggio di Gesù è performativo. Si rivolge ai discepoli, pro­
ponendo una definizione del pane che ha spezzato e distribuito, ma
lo fa per invitarli a riconoscere nel pane condiviso il proprio corpo e
costituire così la comunità che sarà chiamata «Chiesa».
Gesù inaugura pertanto un nuovo modo di presenza ai suoi di­
scepoli, non sotto una qualche forma prol ungata delrincarnazione,
ma come il Risuscitato che nutre la vita della Chiesa. Tutto avviene
come se Gesù dicesse: «Fino a oggi il mio corpo era qui tra voi . Io vi
incontravo attraverso questo corpo che conoscete. Ora me ne vado e
ormai mi incontrerete in modo diverso, in questo pane distribuito da
me tra voi . D'ora in avanti, vi sono presente per mezzo di questo pa­
ne che voi condividete in mio nome». Con il gesto di condividere il
pane e con la parola interpretativa, Gesù stabilisce tra il pane reso
eucaristia e il suo corpo un legame di identità che lo rende presente
ai suoi discepoli e al mondo attraverso la sua assenza. Ecco allora il
duplice effetto di questa comunione: non solo ognuno è invitato a
unirsi a Gesù Cristo, ma è invitato a formare insieme con gli altri una
vera comunità.
Thtto non è detto con la parola: «Prendete ! Questo è il ni io cor­
po». Essa dichiara la maniera scelta da Gesù per rendersi presente
dopo la morte, ma non dice esplicitamente alcunché circa la condi­
zione della modifica della sua presenza, ossia la morte. Il contesto lo
suggerisce, la tradizione paolina lo dichiara: questo corpo si dà per
voi; è infatti grazie al suo sacrificio personale che la nuova presenza

3 Autore, tra l'altro, di Le parabole di Gesù, Brescia 1973.

60
si realizza. Ed ecco quello che l'altra parola di Gesù, quella che ri­
guarda il calice, dice con chiarezza: così si fonda l'alleanza nuova e
definitiva tra Dio e gli uomini .
Fatta questa riserva, resta il fatto che la parola sul pane apre il di­
scepolo a una comunione piena con Gesù e con gli uomini. Nutri­
mento, il pane conserva la sua funzione naturale, ma acquista, con la
parola di Gesù sul pane, la funzione di nutrimento celeste che nutre
la Chiesa. Il racconto biblico non autorizza di per sé a considerare il
pane al di fuori della relazione che Gesù instaura con i suoi fedeli, né
al di fuori del contesto liturgico nel quale la parola è inserita. Nella
struttura del racconto, essa riceve · il suo vero senso. Nel momento
stesso in cui la parola di Gesù viene pronunciata, si opera una tra­
sformazione: trasformazione di Gesù, dei discepoli, della cena e del­
lo stesso nutrimento.
Mediante la comunione, la presenza di Gesù diventa attiva: il fe­
dele non si trova semplicemente davanti il personaggio che si chia­
ma il Risuscitato, egli diventa attivamente il cooperatore di colui che
salva il mondo.

61
CAPITOL0 4

LA PAROLA SUL CALICE

In una parola di eccezionale densità Gesù ricapitola il senso e la


portata della sua esistenza. Egli ha annunci ato senza cedimenti il re­
gno di Dio, fino al punto di dover affrontare la morte imminente; ha
costituito attorno a sé un gruppo di discepoli fedeli. In quest'ultima
ora, deve con i suoi situare il presente e l'avvenire nel disegno d'a­
more di Dio. Due parole riassumono tu.tto questo: alleanza e sangue
versato.
Prima di tutto, non più il semplice annuncio del «regno» di Dio,
1na l'alleanza, parola che evoca il lungo itinerario di Israele nel cor­
so della storia e che dice la presenza di Dio al suo popolo eletto: pre­
parata con Noè (Gen 9,8- 17), promessa ad Abramo (Gen 1 5 ,9-2 1 ;
1 7), realizzata sul Sinai ( Es 1 9-24; G s 23,16), promessa a Davide e al­
la sua discendenza (2Sam 7 ,5-16), spesso trasgredita dal popolo infe­
dele, infine promessa «nuova» per un giorno a venire (Ger 3 1 ) . Alla
fine della sua esistenza, Gesù proclama che l'alleanza con Dio è de­
finitivamente rinnovata, ossia che la vita eterna gli è già stata data e
che egli la comunica ai suoi discepoli offrendo loro da bere il calice.
Ora, questa vita viene attraverso la morte, e tale era stato il messag­
gio culminante che aveva loro insegnato.
Ed ecco il secondo termine capitale, quello della parola sul cali­
ce: il sangue versato. Gesù sta per versare il suo sangue, essendo con­
dannato a morte da coloro che hanno rifiutato il suo annuncio; per
rnantenere questo annuncio fino in fondo, accetta la morte violenta,
si consegna totalmente. Ora, questa morte diventa salvezza non solo
per lui ma per la moltitudine. Si pensi a ciò che Gesù diceva ai suoi
discepoli : accettare di perdere la propria esistenza vuoi dire salva­
guardarla. Qui, bisogna evitare di invertire i d ati del problema. Gesù

63
IL SACRIFICIO

Thadizione marciana Tradizione paolina

Matteo Marco Luca Paolo

E avendo preso un calice e avendo preso un calice per il calice allo stesso modo Allo stesso modo anche il calice
e reso grazie avendo reso grazie dopo il . pasto dopo il pasto
lo diede loro lo diede loro
e ne bevvero tutti
dicendo: . e disse loro: dicendo: dicendo:
«Bevetene tutti
perché questo è il mio sangue «Questo è il mio sangue «Questo calice è «Questo calice è
dell'alleanza dell'alleanza la nuova alleanza la nuova alleanza
che è versato che è versato nel mio sangue che è versato nel mio sangue.
per la moltitudine per la moltitudine». per voi». Fate questo, ogni volta che ne
per il perdono dei peccati)). berrete in memoria di me».
offre una rivelazione non sulla morte da ricercare, ma sulla vita che
scaturisce dalla morte. Differenza fondamentale, perché se si inver­
tissero i termini si arriverebbe a collegare l'effetto della morte alla
sola salvezza dal peccato, a quella che si chiama «riparazione», men­
tre l'obiettivo al quale si tende è la vita piena.
Con la parola sul calice, deve essere rivista la nozione stessa di
sacrificio: l'eucaristia è essenzialmente un «Sacrificio di lode>>, per
mezzo del quale i discepoli del Cristo glorificano Dio perché in Ge­
sù ha fatto trionfare la vita sulla morte.

A. Situazione della parola

La parola sul calice si presenta secondo due tradizioni, marciana


(M) e paolina (P) , ed entrambe comportano i termini «alleanza» e «il
mio sangue (versato] ». Le tradizioni divergono nel modo di concate­
nare tra loro i due termini. Il calice è identificato con «l'alleanza nel
mio sangue» (P) o con «il mio sangue dell'alleanza» (M). Nei due ca­
si, bere il calice vuoi dire diventare beneficiari dell'alleanza divina.
Ma per P è entrare nell'alleanza stabilita grazie al sangue di Gesù;
per M è ricevere il sangue di Gesù in quanto è il sangue dell'allean­
za. Bisogna tenere conto di questa differenza di accento nell 'inter­
pretazione della parola. Quanto alle sfumature proprie a ciascuna
delle tradizioni - «per voi» (Le) o «per la moltitudine» (M), «per il
perdono dei peccati» (Mt) - esse saranno giustificate nel corso del­
l' esposizione.
Mettendo a confronto la parola sul calice con quella sul pane, ol­
tre a una quasi identità di forma riscontriamo tre grandi somiglian­
ze. Anzitutto la parola è inserita, essa pure, in un contesto dialogale.
Essa fa seguito al dono del calice ai convitati, azione di cui vuole ma­
nifestare il senso. Luca lo fa chiaramente, perché il sangue è versato
«per voi» che siete qui, voi ai quali parl a Gesù. La parola non deve
dunque essere letta al di fuori di questo contesto, ma come un invito
rivolto ai convitati a partecipare personalmente all'azione di Gesù e
ad accoglierne i benefici.
Seconda rassomiglianza con la parola sul pane: la parola sul cali­
ce appartiene al genere profetico. Essa commenta un'azione signifi­
cante ed è ritenuta «efficace». Anche il pane e il calice hanno un si­
gnificato apparentato. L'uno e l'altro si riferiscono al nutrimento, at­
traverso il mangiare e il bere che costituiscono una totalità signifi-

65
-
cante. La conseguenza è importante, perché si tratta allora non di pu­
rificazione, bensì di crescita della vita: l'efficacia dell'azione profeti­
ca di Gesù è di aumentare la vita mediante la comunione con lui.
La terza rassomiglianza concerne il linguaggio simbolico. Di con­
seguenza, il verbo «essere» non dice immediatamente che c'è iden­
tità materiale tra l'elemento «Vino» e «l'alleanza» o tra «Vino» e
«mio sangue». Gesù, peraltro, parla non di vino ma di calice. Il verbo
«essere» unisce paradossalmente il significante «calice» al significa­
to che ogni tradizione determina diversamente. Come per il pane, il
calice è e non è il calice e la realtà che annuncia.
Accanto a queste rassomiglianze, due differenze permettono di
meglio caratterizzare la parola sul calice.
Una prima differenza proviene dal contesto. Mentre, secondo M,
Gesù pronunciava la «benedizione» sul pane, qui Gesù «rende gra­
zie». Senza dubbio c'è il vestigio di una reminiscenza storica, che
cioè la parola è stata pronunciata «dopo il pasto» (P). Ma si può pre­
cisare ulteriormente, a partire dal senso del verbo ( eucharistein) che
viene utilizzato. Ringraziando per il pasto effettuato, Gesù precisa
che non si tratta di un pasto ordinario, bensì di quello in cui si porta
a compimento il progetto di Dio, cioè l'alleanza definitiva. Questa
sarà realizzata dalla fedeltà di Gesù, che affronta una morte violen­
ta. Ecco perché la tradizione ha chiamato la cena del Signore «eu­
caristia» .
U n a seconda differenza s i legge nel modo i n cui s i annota i l frut­
to dell 'azione operata. Il pane condiviso diventa multiplo, per signi­
ficare l'unità che proviene dall'unico Gesù. Il calice, contrariamente
agli usi ebraici, è lo stesso per tutti coloro che lo bevono; così come
l'alleanza la quale è una realtà inglobante che procede dal Dio uni­
co ed è personificata nel solo Gesù Cristo.
Somiglianze e differenze permettono di cogliere la progressione
avvenuta dal pane al calice. Come il pane è condiviso, il calice è di­
stribuito; le due parole hanno la stessa struttura e annunciano un 'u­
nità nuova tra Gesù e i discepoli. Ma la parola sul calice completa
quella sul pane. In che senso? Non perché il sangue e il corpo costi­
tuiscono le due componenti dell'essere umano, ma perché questa pa­
rola fornisce una precisione. La parola sul pane diceva il dono tota­
le di Gesù e la sua volontà di comunione con i discepoli, ma essa la­
sciava nell 'ombra il rapporto di quest'ultimo suo dono con il disegno
di salvezza che chiamiamo l 'alleanza di Dio con gli uomini. Grazie
alla parola sul calice, i discepoli scoprono il senso pieno della mis-

66
sione di Gesù, interamente orientata verso la comunione di vita tra
Dio e gli uomini e che ora culmina nella morte violenta accettata
nella fedeltà.

B. Questioni di vocabolario

l. Il calice

Questo termine ha nella B ibbia numerose accezioni metaforiche.


Durante un pasto, il bere insieme è di solito simbolo della comunità
dei convitati; qui il calice è il calice di comunione tra Gesù e i disce­
pol i. tanto più che, diversamente dall 'uso in vigore in quell'epoca, il
calice è uno solo. Secondo Paolo, che insiste sull 'origine divina del­
l'unità di cui è simbolo, è «Calice di benedizione» (l Cor 1 0.1 6).
Se è chiaro che vada escluso ogni nesso con i calici di aspersione
rituale o con quello della collera divina. qui potrebbe imporsi un al­
tro senso frequentemente attribuito al calice nella Bibbia: quello del­
la sorte riservata a qualcuno. Così in Mc 10,38 quando Gesù dice ai
figli di Zebedeo: «Potete bere il calice che io sto per bere?» o quan­
do Gesù al Getsemani suppl ica il Padre di allontanare da lui «questo
calice» prima di accoglierlo (Mc 14,36) . Ora egli l'assume e, donan­
dolo ai discepoli, ne fa il simbolo dell'alleanza ottenuta con la sua fe­
deltà fino al sangue: Gesù sa che il Padre lo farà passare sano e sal­
vo attraverso l'ora decisiva (Gv 12,27). 1

.! . L'alleanza

Senza pretendere di abbozzarne la teologia · molto complessa, ri­


cordiamo sommariamente che cosa è l'alleanza secondo la Bibbia.
Dio nel suo amore ha stabi lito con il suo popolo un patto con il qua­
le gli assicura, con la vita, tutti i beni: terra, fecondità, posterità . . . a
condizione che, da parte sua, Israele osservi le clausole poste da Dio
...; olo. Quest 'alleanza non è concepita sotto forma di un «contratto»
t ra partner uguali. ma come il trattato di un sovrano con il suo vas­
sallo: il primo promette certi vantaggi e il secondo si impegna con un

1 Secondo la traduzione di cui ho dato le ragioni in Lettura dell'evangelo secondo


( iiovanni, Cinisello Balsamo (MI) 1990. t. II, 583-590.

67
giuramento di fedeltà. L'alleanza, la cui iniziativa risale sempre al so­
vrano, comporta quindi due elementi costitutivi: un accordo reale tra
i contraenti e l'osservanza delle condizioni fissate.
Il primo elemento riguarda i due partner, Dio e il popolo eletto,
tra i quali appare subito una differenza. Mentre Dio è il Signore del
cielo e della terra, Israele è solo un popolo particolare. Ora, fin dalle
sue origini, Dio lo dichiara aperto a tutte le nazioni, delle quali è chia­
mato a essere il mediatore sacerdotale (Es 19,5s). Questa espansio­
ne, proiettata nel futuro, si realizzerà dopo un movimento di concen­
trazione. L'alleanza, contratta inizialmente con Israele e i suoi padri,
si fisserà su Davide e infine sul Servo di Dio, secondo Isaia. Questo
movimento si completa con la morte del Servo, ma trova il suo com­
pimento nella giustificazione delle moltitudini. È questo l'universali­
smo dell'alleanza, progettato da Dio e ora concentrato in Gesù.
Anche il secondo elemento, l'obbedienza del popolo, ha la sua
evoluzione. Dio è alla ricerca del Servitore fedele che non tradisce
l 'accordo contratto con lui: come ottenere l 'obbedienza necessaria
da questo popolo dalla dura cervice? Se l'alleanza infatti è comunio­
ne di vita, essa presuppone l'armonia delle volontà. E mentre la vo­
lontà di Dio non può cambiare - Dio è per natura fedele - la volontà
del popolo deve progressivamente essere trasfigurata. Questa trasfi­
gurazione deve essere caratterizzata da un movimento che va dall'e­
steriore verso l'interiore.
Originariamente la legge, che dice il volere di Dio, si esprime sot­
to forma di prescrizioni, senza peraltro porre limitazioni. Nella sua
originaria espressione la legge è Dio che dice il proprio desiderio, il
suo amore, che cerca di stabilire una comunione con il suo popolo.
Per questo Dio la interiorizza a tal punto che essa diventerà il suo
Spirito nel cuore di Israele e questo Spirito diventerà l'autore della
risposta di ciascuno (cf. Ger 31). In questo senso, l'alleanza di sem­
pre diventerà nuova, secondo l'espressione ripresa dalla tradizione
paolina.
Avviene allora un'altra trasformazione, che prepara la via alla ri­
velazione neotestamentaria. Inizialmente erano stati richiesti a Israe­
le due tipi di condizioni: la pratica della giustizia nella vita quotidiana
e la pratica di un culto determinato da regole precise. Ora, la preoc­
cupazione dell'osservanza rituale avev� spesso prevalso su quella del­
la condotta conforme ai comandamenti, fino a dissociarsene.
Grazie all'intervento dei profeti, questa deviazione è stata a po­
co a poco smascherata; il culto vale nella misura in cui la condotta è

68
retta; o ancor meglio, la fedeltà della vita nell'adesione del cuore a
Dio è il vero sacrificio. Le due condizioni si trovano allora riunite ed
esprimono quello che il Nuovo Testamento chiamerà culto spiritua­
le, ossia l'esistenza animata propriamente dallo Spirito che rende al
Padre la vera adorazione (cf. Gv 4 23 ) . ,

3. Nel mio sangue versato

In generale, il sangue è considerato come l'anima della vita e ap­


partiene a Dio solo. Da questa credenza derivano due conseguenze.
La prima, di ordine esistenziale, è che nessuno ha il diritto di «versa­
re il sangue» di un uomo ( Os l ,4; Ez 22,4) cioè di ucciderlo (Es
,

19, 1 3; Dt 5,17). La seconda, di ordine rituale, è che il sangue ha un


carattere sacro; nei banchetti cultuali, dopo l'immolazione di un ani­
male, il sangue non poteva essere consumato con la carne ed era de­
stinato unicamente a essere versato sull'altare che rappresentava
Dio stesso: veniva reso a Dio.
Nella parola sul calice, Gesù adotta infatti il senso esistenziale e
non cultuale. Di fatto, nella Scrittura l'espressione «versare il san­
gue» è usata esclusivamente per descrivere la morte violenta di un
uomo. Gesù rivela così che egli va lucidamente a tale morte e, se­
condo il contesto, che dando la sua vita stipula ralleanza nuova an­
nunciata dai profeti. Se la prospettiva fosse stata cultuale, non si sa­
rebbe trattato di bere, bensì di aspergere il contenuto del calice. Si
tratta di ricevere la vita.
Perché il sangue di Gesù deve essere versato? Non perché il di­
segno di Dio avrebbe richiesto, in vista della redenzione, il sacrificio
grondante sangue del Figlio. Questo insegnamento si trascina anco­
ra ai nostri giorni nello spirito dei cristiani; ma la morte di Gesù è do­
vuta all'ostilità degli uomini di fronte alla sua decisione di mantene­
re fino in fondo il suo annuncio di grazia, conformemente alla mis­
sione ricevuta. 2
Qui, ricordo semplicemente la parabola dei vignaioli nella quale
Gesù ha evocato la sua sorte. Dopo il rigetto violento dei servitori (i
profeti) che aveva incaricato di andare nella sua vigna (Israele) per
riceverne il frutto, il proprietario (Dio) invia in ultima istanza il suo

2 Rinvio al mio libro Di fronte alla morte. Gesù e Paolo, Torino-Leuman 1982,
63-74.

69
proprio figlio, dicendosi: «Avranno rispetto per mio figlio». Lo invia
dunque non perché sia ucciso: sono i vignaioli che, in opposizione to­
tale con il proprietario, mettono a morte l'erede.
Ora, Gesù conclude il racconto con una parola della Scrittura: «la
pietra rigettata» è diventata pietra angolare ( Mt 21,42). Il ruolo che
Gesù, annunciando la sua morte, attribuisce al Padre con l'invio è uni­
camente la sua piena riabilitazione: sarà la vita che trionfa sulla mor­
te. Certo, altri testi sembrano affermare un decreto divino di sofferen­
ze, per esempio il «bisognava che» o in Gv 10,18 il comando di depor­
re la sua vita, ma essi significano che il Figlio non poteva sottrarsi al ri­
schio mortale che la sua testimonianza al Padre avrebbe comportato.

4. La preposizione «per» (hyper)

Come ho già precisato a proposito della parola sul pane, questa


preposizione non ha necessariamente il senso cultuale («al posto di»
o «in espiazione»), ma nel contesto significa «in favore di».

c. Questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per la moltitudine

La formulazione di questa parola secondo la tradizione marcia­


na si ispira testualmente alla parola detta da Mosè per il sacrificio
dell'alleanza al Sinai:
6Mosè prese la metà del sangue [degli animali immolati] e la mise in tan­
ti catini e ne versò l'altra metà sull 'altare. 7Quindi prese il libro de ll' al­
leanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto YHWH ha
ordin ato, noi lo faremo e lo eseguiremo ! » . 8Ailora Mosè prese il sangue
e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell 'alleanza, che
YHWH ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole ! » .
Es 24,6-8

Questo tipo di sacrificio, in seguito chiamato «sacrificio di comu­


nione», fu a poco a poco soppiantato dai sacrifici di espiazione in cui
il sangue era anche asperso sull 'altare ma non sul popolo. Questi sa­
crifici di espiazione hanno finito col dominare la liturgia sacrificate
di Israele - sacrifici di riparazione, sacrifici per il peccato - nei quali
il sangue aveva valore «espiatorio»: grazie a questo rito, il peccato
del popolo veniva cancellato, anche se si credeva che solo YHWH
perdonasse.

70
L'espiazione aveva talmente invaso il pensiero dei giudei che un
targum del I secolo trasformava il racconto di Es 24 in una cerimo­
nia espiatoria:
Allora Mosè prese la metà del sangue [dell'immolazione ] che si trovava
nei vasi d' aspersione, ne asperse l'altare per fare espiazione per il po­
polo, e disse: «Ecco il sangue dell 'alleanza, che YHWH ha concluso con
voi sulla base di tutte queste parole ! » .
Targum su Es 24,8

Al posto dell'aspersione sul popolo, tuttavia essenziale secondo il


testo dell'Esodo, l'autore del targum ha chiaramente conformato l'a­
zione di Mosè sui sacrifici contemporanei di espiazione. La Lettera
agli Ebrei presenta an eh 'essa l'antico rito dell'alleanza in una pro­
spettiva di espiazione dei peccati e non di comunione. Mantiene cer­
tamente l'aspersione del sangue animale sul popolo, ma il contesto ne
spiega lo scopo, che qui è la purificazione, come lo manifesta anche
l'uso dell'acqua e dell'issopo (cf. Lv 14,4; Sal 51,9) durante il rito:
Infatti dopo che tutti i comandamenti furono promulgati a tutto il po­
polo da Mosè, secondo la legge, questi, preso il sangue dei vi telli e dei
capri con acqua, lana scarlatta e issopo, ne asperse il libro stesso e tutto
il popolo, dicendo: « Questo è il sangue del l 'alleanza che Dio ha stabili­
to per voi . Secondo la legge, tutto viene purificato con del sangue e sen­
za e ffusione di sangue non c'è perdono».

Nel contesto della n uova alleanza, l'autore della Lettera agli


Ebrei modifica il primo senso del sacrificio mosaico, trasformando il
sangue, simbolo di comun ione, in sangue purificatore. Lo spirito del­
l'uomo tende a occuparsi del suo «peccato» e a liherarsene con ogni
mezzo. Fortunatamente si è continuato a praticare i sacrifici di lode
e ciò ha permesso di riallacciarsi all'autentica tradizione del sacrifi­
cio dell'alleanza che è il sacrificio mosaico ai piedi del Sinai. Parlan­
do del «sangue dell'alleanza», Mosè diceva in qual senso il sangue di
questo sacrificio esprimeva la comunione di vita che univa il popolo
al suo Dio, perché nel «libro dell'alleanza» si presupponeva la prati­
ca della legge scritta (cf. Es 24,7).

l. Il mio sangue dell'alleanza versato per la moltitudine

Se Gesù adotta a uso proprio l'antica espressione dell'alleanza,


lo fa per trasfigurarla profondamente: il «mio» si appropria della for-

71
m uta mosaica. Non si tratta più del sangue degli animali ma del san-
·

gue versato da Gesù.


Questo sangue non viene asperso su esseri che lo ricevono passi­
vamente: il calice deve essere bevuto. Ciò richiede una cooperazione
da parte dei discepoli. Impossibile dare un 'interpretazione magica
dell'efficacia del gesto del bere. È un dialogo che, instaurato da Ge­
sù con i suoi discepoli, continuerà nell 'azione del «bere il calice)) che
viene offerto loro. Ciò significa che i convitati fanno parte dell'al­
leanza.
Con un diverso linguaggio, si può dire che, con Gesù, il sacrificio
ebraico passa dalla figura alla realtà, dal sacrificio rituale al sacrificio
personale. Passaggio che caratterizza ogni vita cristiana. I profeti
avevano insistito rigorosamente sulle disposizioni interiori e sulla
pratica della giustizia. Paolo ha mostrato chiaramente in che senso il
culto cristiano diventa culto spirituale: solo la fedeltà e l'amore co­
stituiscono la portata del sacrificio personale di Gesù e del culto cri­
stiano.
Benché la Lettera agli Ebrei abbia reinterpretato il sacrificio del
Sinai nella prospettiva della purificazione e la morte di Gesù nel pro­
lungamento dei sacrifici cultuali giudaici, come se fosse un loro com­
pimento, essa cita il Sal 40,7-9:
Tu non mi domandi né olocausti né vittime; allora ho detto: «Ecco, io
vengo>>.
cf Eb 10,8s

Si può dire, con numerosi autori contemporanei, che la morte di


Gesù mette fine ai sacrifici dell'Antico Testamento, essa è un anti-sa­
crificio. Il «mio», che domina la parola sul calice, annuncia da solo
che siamo passati a un ordine diverso dal rituale, e che, ormai, l'al­
leanza si realizza mediante il «culto spirituale)).
La tradizione marciana si è ispirata a Is 53,1 1s, precisando che la
m orte di Gesù ha valore «per la moltitudine», vale a dire per tutti gli
uomini. La prospettiva di Isaia sarà presentata in seguito.

2. Per il perdono dei peccati (Matteo)

Matteo esplicita un pensiero biblico. Il perdono dei peccati è in­


trinseco alla nuova alleanza, promessa dopo le continue trasgressio­
ni della legge. Questo perdono è gratuito: Dio «dimentica» ( Ger
31 ,34) i peccati. Questo dato fondamentale apre alla vita nuova che

72
è la partecipazione alla santità di Dio: il cuore «nuovo>> sarà abitato
dallo Spirito (Ez 36,26s ). Gesù è l'unico essere che ha ricevuto lo
Spirito in maniera totale - come lo manifesta il suo battesimo - e che
ha vissuto in unione perfetta con la volontà del Padre. Egli può co­
municarsi a tutti quelli che egli rappresenta davanti a Dio. L'allean­
za è stipulata mediante la sua fedeltà fino alla croce. Il perdono dei
peccati è una dimensione della morte del Cristo, il dono dello Spiri­
to ai credenti si realizza a partire da questo momento, secondo Gv
19,34 (cf. 20,22).
Tutto sommato, la parola di Gesù sul calice non è centrata né
fondata sull'espiazione e sul peccato dal quale siamo liberati ma sul­
l'alleanza di vita. Gesù sottolinea che il discepolo è invitato a entra­
re nell'alleanza che dà la vita in sovrabbondanza.

D. La nuova alleanza nel mio sangue versato per voi

La formula paolina orienta direttamente all'alleanza, perché il


calice è l' alleanza stessa, un'alleanza detta «nuova>>, secondo l'e­
spressione di Geremia. D 'altra parte la formula parla del sangue ver­
sato nella prospettiva di Is 53: non si tratta più della tradizione del
sacrificio cultuale secondo l 'Esodo.

l. La nuova alleanza

La storia di Israele è intessuta di rotture dell 'alleanza e di sforzi


per rinnovare il patto con Y HWH. Dopo m olti tentativi inutili, nel
622 con il re Giosia fu scoperto il «libro dell'alleanza>>. Ebbe luogo
allora la «riforma deuteronomica» che ristabilì il culto e di cui Gere­
mia si fece vigoroso propagatore, senza ottenere peraltro risultati
durevoli nella condotta del popolo. Perché questo nuovo insuccesso?
I profeti hanno dovuto porsi questa terribile domanda: si doveva
continuare nella stessa direzione o sperare in qualcosa di nuovo?
Quel che è certo, è che molti profeti sono convinti che, venendo
da Dio, l 'alleanza doveva permanere di generazione in generazione.
Sì, dicono, Dio vincerà alla fine a causa della sua fedeltà. E qui si ve­
de l'originalità di Geremia. Fino a lui, erano gli uomini, con i loro re,
a prendere l'iniziativa di rinnovare il patto con diversi rituali di ri­
chiesta di perdono; con Geremia, è Dio stesso che agisce. Non parla
più di «rinnovamento dell'alleanza» ma di alleanza nuova:

73
Ecco verranno giorni, dice il Signore, nei quali con la casa di Israele e
con la casa di Giuda io concluderò un'alleanza nuova: Non come l'al­
leanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per far­
li uscire dal paese d' Egitto, un 'al leanza che essi hanno violato, benché io
fossi loro Signore - oracolo di YHWH. Questa sarà l 'alleanza che io con­
cluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la
mia legge nel loro animo, la scriverò nel loro cuore. Allora io sarò il ]o­
ro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri ,
dicendo: «Abbiate la conoscenza di YHWH ! », perché tutti mi conosce­
ranno, dal più piccolo al più grande - oracolo diYHWH -; poiché io per­
donerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato.
Ger 31,31-34

La profezia di Geremia, pur essendo radicalmente nuova, si iscri­


ve perfettamente nella linea della tradizione; riprende esplicitamen­
te il progetto di Dio al Sinai: YHWH è il Dio di Israele e Israele è il
popolo di Dio (Lv 26,12). La dinam ica dell 'alleanza deve permanere
fino ali 'ultimo giorno, grazie a un rinnovamento che non verrà dal­
l ' uomo, ma che lo toccherà nell'intimo del cuore.
Conquistato dalla novità di quest'alleanza, Geremia ne vede so­
lo il compimento e non parla più di un rito: la legge di Dio sarà solo
interiore. Ezechiele lo ridirà vent'anni dopo:

Vi darò un cuore nuovo, metterò al fondo del vostro cuore uno spirito
nuovo [ . . . ]. Porrò il mio spirito al fondo del vostro essere e farò in mo­
do che voi camminiate secondo le mie leggi [ . . . ]. Voi sarete il mio po­
polo e io sarò il vostro D io.
Ez 36,26-28

La legge scritta nei cuori non è dunque altro che lo Spirito stes­
so del Signore. Il codice dato al Sinai era rimasto esteriore ali 'uomo,
e gli indicava quello che doveva fare per piacere a lui. Con questo
dono, Dio manifestava già la sua volontà (che l'uomo viva ! ) e si met­
teva in contatto con l 'uomo; ora Geremia ed Ezechiele annunciano
che Dio non detta più solo i suoi comandamenti, la sua legge : dona
se stesso nel suo Spirito. Non sarà quindi semplicemente l'uomo che,
avendo ricevuto dei precetti, reagirà il meglio possibile (offerte e sa­
crifici , comportamenti secondo giustizia . . . ) per vivere in comunione
con Dio, è Dio stesso che deve venire a produrre nel cuore dell'uo­
mo frutti di santità.
Eppure la profezia della nuova alleanza non ha modificato in
profondità la vita degli ebrei. La tendenza a valorizzare la legge ma-

74
nifestata ai tempi di Giosia si è espressa con forza nel momento del
ritorno dall'esilio, con Esdra e Neemia che restringono attorno a
Israele la siepe della legge. E questa storia continua, restringendosi
sempre più sulla pratica minuziosa della legge e dei sacrifici cultuali.
Il monastero di Qumran, presso il Mar Morto, raccoglie per due
secoli, ai tempi di Gesù, i membri della «comunità dell'alleanza nuo­
va», dell'«alleanza eterna». I suoi adepti si consideravano come il
Resto eletto di Israele, al quale era stato dato il Maestro di giustizia.
Con le loro credenze nel perdono di Dio e con le loro pratiche, essi
offrono certi punti di paragone con la fede cristiana. I loro pasti sa­
cri non hanno niente a che fare con i sacrifici praticati al tempio di
Gerusalemme; essi esprimono solo il loro desiderio profondo della
venuta del regno di Dio. Tuttavia nulla sta a indicare che un profon­
do rinnovamento si sia realizzato, come lo aveva annunciato Gere­
mia. La loro volontà di essere perfettamente fedeli alla legge non
prova l'esistenza di una comunità veramente nuova, ma piuttosto lo
sforzo di rinnovamento di una comunità che vive ancora nel regime
antico. La profezia di Geremia non si attuerà in questo modo, ma
grazie a coloro che, da lontano, stanno preparando l'altro aspetto
della formula paolina, quello del sangue versato.

2. L'alleanza nel mio sangue versato per voi

Anche qui, come nella formula marciana. la coppia al leanza-san­


gue è mantenuta, coppi a che si incontra solo nel testo di Es 24. Il rac­
conto del sacrificio del Sinai continua dunq ue a ese rcitare la sua in­
fluenza sulla tradizione: la sua immagine può ancora esprimere la co­
munione tra Dio e il suo popolo.
Ma come si è arrivati a parlare «di alleanza nel sangue versato»,
cioè con la morte violenta di un uomo? I profeti non si erano accon­
tentati di annunciare con le parole la venuta dello Spirito che avreb­
be trasformato dall'interno il popolo; perseguitati, essi sono stati per­
sonalmente fedeli all'alleanza di Dio fino a versare il loro sangue, co­
sì Isaia e Geremia. Ma non ne hanno tratto da loro stessi le conse­
guenze, se non attraverso la figura enigmatica del Servo di Dio nel
secondo Isaia.
La profezia del Servo di YHWH presenta infatti elementi che so­
no assenti nella profezia di Geremia e che Qumran ignora. Nell'in­
tento di sottolineare l'aspetto nuovo dell'alleanza, Geremia non con­
centrava la sua attenzione sulla presenza attiva di una figura che fun-

75
gesse da intermediario tra Dio e Israele, come Mosè per l'alleanza
del Sinai. Non apriva. esplicitamente una prospettiva universale, tut­
tavia già presente nell'alleanza del Sinai. Ora i poemi del Servo (ls
42. 1 -7; 49,1 -9; 50,4-1 1 ; 52,1 3-53,12) integrano invece questi diversi
aspetti costitutivi dell'alleanza di Israele con il suo Signore.
Ricordiamo allora i tratti più notevoli di colui che sarà l'alleanza
personificata, perché il progetto di Dio si concentra su di un essere che
diventa mediatore tra Dio e il popolo. Il profeta guarda ora non più il
sangue delle vittime animali, che era la raffigurazione rituale dell'im­
pegno del popolo, ma l 'impegno vissuto di un uomo, del Servitore fe­
dele fino alla morte: «alleanza del popolo>>, egli porta a compimento
con il «dono della sua anima» ciò che il rito del sangue significava, la
comunione degli uomini con Dio; egli sarà la luce delle nazioni.
E con questo poema avviene come un mutamento di linguaggio.
Indubbiamente il linguaggio esistenziale predomina nel testo: il Ser­
vo è stanco, è stato disprezzato, è l'uomo dei dolori che ha «dato la
sua anima alla morte», e che, a causa dei nostri peccati, è immolato
per il bene di tutti gli uomini. Ma questo «sacrificio personale» dalla
portata universale è anche descritto con l'aiuto del linguaggio cul­
tuale: ecco il nuovo Mosè che «asperge le nazioni» e che compie di
nuovo il «Sacrificio di espiazione)). Il linguaggio cultuale usato qui
non deve tuttavia essere frainteso, è divenuto metaforico in quanto
utilizza categorie conosciute per dire una realtà inesprimibile: come
si attribuiva al sacrificio di espiazione un valore per tutto Israele, co­
sì il sacrificio personale del Servo ha un valore universale.
La profezia del Servo ci offre dunque una nuova luce per capire
che il sangue versato da un essere totalmente fedele a Dio può ave­
re una portata universale di salvezza. Sembra tuttavia che manchi un
elemento rispetto alla profezia di Geremia riguardo all'alleanza.
Questa, in Isaia, non è chiamata «nuova» benché l'idea di novità sia
sottolineata nel primo poema del Servo (42,9) e nell' ultimo (52.15).
Per Isaia si tratta di manifestare il modo nel quale si sarebbe otte­
nuta l'alleanza definitiva, ad opera personale del Servo sofferente, fi­
gura di Israele, divenuto fedele.
Attraverso ciò che Dio dice del personaggio, si può riconoscere
in lui l'inviolabile fedeltà di un uomo interamente disponibile alla
volontà divina, di un uomo in cui batte un cuore nuovo ricolmo del­
lo Spirito. Le sue sofferenze sono provocate da altri uomini, ma il suo
comportamento con i risultati che Dio gli accorda provoca lo stupo­
re di quelli che prima lo coprivano di disprezzo e questo stupore pro-

76
duce la loro stessa trasformazione: in Is 53, il «noi» che parla è il po­
polo che alla fine capisce il ruolo salvifico del Servo.
Geremia inoltre precisa in 50,5 che l'alleanza, detta «nuova», è
l'alleanza eterna di Dio con il suo popolo. Alcuni anni dopo, il terzo
Isaia stesso qualifica l'alleanza del Signore come un '«alleanza per
sempre, eterna» (55 ,3; 61 ,8). In tal modo la profezia di Isaia concor­
da con quella di Geremia: essa mostra il cammino che deve prende­
re il Servo perfetto perché sia stabilita l'alleanza eterna .
L'alleanza rimane sempre in prospettiva, ma il mezzo annuncia­
to - la morte pienamente assunta dal Servo e la sua riabilitazione ad
opera di Dio - è realizzato solo parzialmente da questo o quel pro­
feta. Ciò si realizzerà pienamente con il passaggio pasquale di Gesù.
La storia che abbiamo così ripercorsa non avrebbe potuto esserlo se
non avessimo conosciuto la sua realizzazione in Gesù.
Gesù dichiara dunque: «Questo è il calice della nuova alleanza
nel mio sangue versato per voi». La nuova alleanza sta per realizzar­
si attraverso la sua morte in croce. Secondo Paolo la profezia di Ge­
remia ha preso corpo: esiste un'alleanza nuova, consumata nello Spi­
rito Santo che porta a compimento la legge passata (2Cor 3,6-8).
Nella sua fede, Paolo sa che, con la sua Pasqua, Gesù ha dato lo Spi­
rito che personalizza l'alleanza in ogni credente. Egli pensa che un
atto è stato compiuto, ben di verso dalla stretta pratica della legge, e
che consiste piuttosto nella fedeltà personale all'alleanza di Dio, fe­
deltà che va fino al sangue versato.
La tonalità esistenziale della parola di Gesù sul calice è confer­
mata dal «mio» che qualifica il sangue. e dal «per voi» che stabilisce
il dialogo tra Gesù e i discepoli. A questo bisogna aggiungere che, di­
versamente dal poema del Se rvo, qui non è un altro che parla di co­
lui che versa il sangue, ma è Gesù che parla di se stesso. L'evento del
sangue versato ha dunque permesso di restaurare secondo il loro
giusto valore non solo le tradi zioni dei profeti perseguitati e del Giu­
sto sofferente, ma la profezia del Servo di Dio in Isaia, profezia che,
a poco a poco, era stata relegata fuori della grande corrente tradi­
zionale. L'evento è stato necessario per capire la profezia.
Sintetizziamo. Mentre Qumran pensava al rinnovamento dell'al­
leanza non attraverso sacrifici cruenti, bensì con un attaccamento
stretto all 'alleanza mosaica attraverso una fedeltà sempre più stret­
ta a11 a legge, rinviando alla fine dei tempi il perdono divino, la tradi­
zione paolina mostra che la profezia di Geremia si compie attraver­
so quella di Isaia sul Servo di Dio. Questo personaggio ha preso cor-

77
po in Gesù di Nazaret che, di fatto, ha sparso il suo sangue per gli uo­
mini. Il suo «sangue» è la parola che sostituisce «anima» o «persona»
del poema di Isaia. Con questa parola la tradizione paolina dimostra
che Gesù porta a compimento anche l'alleanza mosaica. Ma l'essen­
ziale sta nella prospettiva «personale» della parola.

Conclusione

La parola sul calice completa in un certo senso la parola sul pa­


ne. Con questa, Gesù invitava i suoi discepoli a formare con lui una
comunità; la sua presenza si sarebbe rivelata attraverso il pane da
mangiare insieme. Con la parola sul calice, i discepoli sanno che per
mezzo di Gesù, presente in loro, essi entrano nell'alleanza , alleanza
ottenuta con il sangue versato per la comunità degli uomini.
La parola sul calice porta a compimento alcuni dati dell'alleanza
antica; essa ne riprende parzialmente il linguaggio cultuale, ma lo
trasfigura nella personalizzazione che ne fa Gesù. Linguaggio eredi­
tato, realtà nuova, ecco quello che, a ·c onclusione di questo breve
esposto, vorremmo mostrare partendo dalle. due tradizioni nelle qua­
li è comunicata la parola. Caratterizzandole, non abbiamo avuto l'in­
tenzione di fare preferenze, sia in nome di una pretesa antichità sia
per il loro contenuto. Secondo il nostro metodo, vogliamo cogliere il
senso della parola con l 'aiuto di entrambe le tradizioni.
L'una e l 'altra esprimono · due contributi importanti. Il primo
contributo è la rivelazione del compimento dell'alleanza, rilevato
dalla tradizione paolina. Bevendo al calice, i discepoli entrano nel­
l'alleanza inaugurata da Gesù; essi realizzano così l 'unità simboleg­
giata dall'unico calice, unità con Gesù, unità fra loro e quindi unità
con Dio stesso. I n tal modo si compie la profezia di Geremia sulla
«nuova alleanza», da tempo attesa da Israele.
Il secondo contributo della parola sul calice riguarda la rivela­
zione sul sangue di Gesù. Innanzi tutto una rivelazione sulla fedeltà
di Gesù all'alleanza, fedeltà mantenuta fino alla fine versando il san­
gue. In seguito, con il linguaggio in cui questa rivelazione è fatta, il
passaggio definitivo dal rituale al personale. Non più il sangue degli
animali è simbolo dell'alleanza, ma il sangue stesso di Gesù e questo
sangue non la simboleggia più in modo figurato come al Sinai, ma
nella realtà del Golgota e quindi nel Cenacolo quando Gesù comu­
nica il calice. Bevendo al calice, i discepoli sono attivi e si uniscono
alla fedeltà di Gesù per riceverne una nuova vita.

78
Ispirandosi a un linguaggio di tipo cultuale per dire un'azione ( la
morte accettata, che di fatto è di ordine esistenziale ) , la parola sul ca­
lice porta con sé alcuni rischi, nei quali si sono spesso scontrate le in­
terpretazioni successive. Infatti, l'interesse dell 'una e dell'altra tradi­
zione è l'azione simbolica sul calice con la quale Gesù esprime il do­
no che egli fa di se stesso, realizzando l'alleanza promessa dal Padre.
Quest'azione simbolica implica senza dubbio uno sguardo sull'e­
lemento vino; ma, come già per il pane, l'interesse non si incentra di­
rettamente sul vino, contrariamente a ciò che talvolta insinuano al­
cuni critici a proposito di Marco. Sia nella tradizione marciana che
nell'altra, è unicamente la tradizione eucaristica nel suo insieme do­
ve si concentra l'attenzione : pane e vino non sono mai isolati dalla
totalità delratto con il quale Gesù costituisce la sua comunità. Ep­
pure è certo che, nel corso dei secoli che seguirono, spesso questi ele­
menti furono fatti emergere eccessivamente e in qualche modo se­
parati dall'azione che dà loro un senso.
L'altro rischio proviene dal linguaggio stesso. Il passo è stato fa­
cile e, contrariamente al senso stesso della parola, si è passati dall'e­
sistenziale al cultuale. L'azione eucaristica certamente è di tipo cul­
tuale ed esige riti perché possa compiersi , questo è indubbio. Ma mai
quest'azione cultuale ha potuto reggere senza il comportamento esi­
stenziale di cui essa vuoi simboleggiare il valore e il senso.
La parola sul calice non dice tutto. Essa deve essere completata
dagli altri dati dei vangeli. In particolare, non si precisa in che cosa
consiste la «nuova alleanza». Ecco allora la tradizione testamentaria
e soprattutto il quarto Vangelo. Luca l'ha precisato nei testi che se­
guono al racconto dell'istituzione. Giovanni riporta al posto del rac­
conto dell 'istituzione la lavanda dei piedi e il comandamento nuovo
che consiste in «Amatevi gli uni gli altri!». È questa la nuova legge
scritta nei cuori , la nuova alleanza, realizzata dall'amore di Gesù che
dà la sua vita per coloro che ama e grazie allo Spirito che rende Ge­
sù Cristo presente e dona anche ai credenti la capacità di agire nel­
l'amore.
Il comandamento nuovo implica il riconoscimento che tutto vie­
ne dal Padre. Seco ndo il greco, il testo di Gv 13,34 sul dovere di amar­
si gli uni gli altri si traduce non già secondo la formula classica «ama­
tevi gli uni gli altri come io vi ho amati», bensì «dell'amore con cui vi
ho amati, amatevi gli uni gli altri)). L'amore con cui Gesù ama i disce­
poli è l'amore con cui il Padre stesso li ama, e quello reciproco dei di­
scepoli è l'amore stesso di Gesù in loro e per loro ( Gv 17,23).

· 79
CAPITOL0 5

«FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME»

Il testo dell'istituzione eucaristica di Matteo riflette, con il suo


stretto parallelismo delle parole di Gesù, una stilizzazione liturgica
del rito ecclesiale, e quindi «attualizza» l'antico pasto di Gesù. Ora, so­
no i racconti di Luca e di Paolo che esplicitano, con l'ordine di «fare
memoria», quale era l'intenzione di Gesù al momento della sua azio­
ne simbolica sul pane e sul calice - azione che impegnava i discepoli
con lui: i futuri credenti dovranno sempre radicare la loro fede nella
storia passata di Gesù di N azaret e riferirsi al mistero della sua me­
diazione nei confronti dell'alleanza definitiva di Dio con gli uomini.
In seguito al suo atto che istituisce un rito efficace di comunione
con lui, le prime comunità cristiane hanno praticato il rito eucaristi­
co nella loro vita comunitaria, riconoscendo che attraverso questo ri­
to esse ritrovavano la presenza del Cristo vivente per sempre, che le
univa personalmente a lui e tra di loro in un solo «corpo» rivolto ver­
so il Padre.
L'evangelista Giovanni ha detto l'essenziale: l'eucaristia è il pane
che dà la vita. Si suppone che l'atto dei crede nti. che oggi si chiama
messa, sia radicato nella storia di Gesù, dal quale viene l 'impulso ini­
ziale a ciò che è divenuto culto. L'atto dei credenti fa memoria di un
atto del tempo passato al quale si riferisce continuamente. Gesù du­
rante la sua vita terrestre ha compiuto un atto che vuole dare senso
al culto.
La prima evocazione dell'usanza cristiana dell'eucaristia è forni­
ta da s. Paolo nella Prima lettera ai Corinzi:
Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso
grazie, lo spezzò e disse : «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate que-

81
sto in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche
il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fa­
te questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta in­
fatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annun­
ziate la morte del Signore finché egli venga.
J Cor 11,23-26

Il racconto della Cena è proposto come la citazione di un dato


tradizionale della catechesi ricevuta da Paolo ad Antiochia negli an­
ni 35/40; per mettere ordine nelle assemblee eucaristiche, Paolo vuo­
le giustificare un rito praticato abitualmente nella comunità: in ger­
go questo rito è detto «rito cultuale eziologico». Tralasciando le sfu­
mature offerte dal racconto di Paolo rispetto ai testi sinottici, noi
prendiamo nota che, come Luca lo fa una volta, Paolo sottolinea a
due riprese il comando: «Fate questo in memoria di me»; queste pa­
role rivelano il senso del culto praticato.
«Fate questo in memoria di me» conclude Gesù dopo la parola
sul pane. Alle relazioni che uniscono già i personaggi del racconto,
questo comando aggiunge un nuovo rapporto: non più tra destinan­
te e destinatari immediati, ma tra colui che, ora presente, sta per di­
ventare assente e quelli che gli sopravvivranno. Questa relazione
nuova unisce i futuri credenti al Cristo vivente e la Chiesa al tempo
della Cena. Per capire questo, è necessario l ) immergersi nell'uni­
verso biblico della memoria e del tempo, poi 2) cogliere qual è la fun­
zione della memoria nel culto giudaico, e arrivare così 3) a manife­
stare meglio il senso della formula di Gesù.

A. Memoria e incontro con Dio

Diversamente che per noi, per la Bibbia «ricordare qualcuno»


non vuoi dire semplicemente richiamare qualcuno con un atto inte­
riore alla propria memoria, ma vuoi dire agire in un certo modo: me­
moria e azione sono strettamente legate. Se Dio dice, ad esempio, di
ricordarsi di Noè, di Abramo, di Rachele, significa che egli opera in
loro favore. Questo legame tra memoria e azione caratterizza la ra­
dice zkr (e i suoi derivati, per esempio zèkèr, il figlio maschio che as­
sicura la discendenza) che in ebraico significa il ricordo, realtà sem­
pre efficace.

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l. Memoria del Dio dell'alleanza

Quando interviene nelle relazioni tra l'uomo e Dio, la m emoria


ha nella Bibbia implicazioni estremamente vaste. Prima di tutto pre­
suppone tra questi due partner ineguali un legame solido già stabili­
to, di cui Dio, con le sue promesse e i suoi interventi passati, ha pre­
so l'iniziativa e dato un pegno. Ora, se Dio è eternamente fedele al­
la sua alleanza, il popolo o l 'individuo non riescono a esserlo con il
passare del tempo. Questo non ricordare equivale a un'effettiva se­
parazione.
Così nella Bibbia risuonano continui richiami a «ricordarsi>> che
gli uomini rivolgono a Dio e che Dio stesso ripete agli uomini. Israe­
le supplica YHWH di intervenire in suo favore: desidera con forza di
riallacciare i suoi rapporti con un Dio che sembra assente, a causa di
una disgrazia non meritata o a causa dei suoi peccati. Questi richia­
mi alla memoria di Dio sono la prova che la separazione da lui è in­
tollerabile, ma che Dio può vincerla. Attraverso una memoria reci ­
proca, infatti, la relazione potrà essere riallacciata, anzi è già riallac­
ciata. Israele (o l'individuo orante) ha fiducia che Dio, ricordandosi,
agirà nuovamente secondo la sua potenza di vita, in nome della sua
alleanza .
Ancor più numerosi sono gli appelli di Dio alla memoria di Israe­
le perché, ricordando la sua elezione, «ritorni al suo cuore>> e rettifi­
chi la sua condotta. I profeti soprattutto invitano il popolo a non di­
menticare mai gli interventi sa lutari di Dio. sempre pronti a manife­
starsi ancora, per impegnarlo a ritornare fedele ( Is 44,2 1 : ecc.). Il
Deuteronomio generalizza quest 'esortazione, pe rch é la mancanza di
questa memoria ha causato i disastri di cui il popolo soffre. Solo «ri­
cordandosi)) potrà sfuggire alla morte (Dt H.2. 1 8: 1 5 , 1 5; ecc.)
La memoria biblica dell'uon1o consiste quindi, in un primo tem­
po, nel prendere coscienza dell'alleanza, vale a dire di questa realtà
che vive nel fondo del cuore del popolo, malgrado le sue continue di­
menticanze. I filosofi, giustamente, affermano che l 'essere dell 'uomo
è costituito dal suo passato ed è il passato che lo orienta verso l'av �
venire: l'uomo è, prima di tutto, storia. La rivelazione biblica ci inse­
gna che questa storia è una storia d'amore, quella dell'alleanza tra
Dio e il suo popolo, personalizzata nell 'itinerario di ogni individuo.
Attraverso la sua memoria, poi, Israele scopre che quel dato in­
tervento di Dio nel passato, in una certa epoca, in un certo luogo (ad
esempio a Mamre oppure suli'Oreb ), conserva un senso per lui an-

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cora oggi, senza perdere per questo la sua qualità di passato. È un
preciso evento storico a essere evocato, ed è il suo significato parti­
colare per il popolo che ridiventa attuale. In questo senso, sarebbe
sbagliato interpretare questi testi come semplici illustrazioni leggen­
d arie della bontà di Dio verso Israel e.
Ecco allora la caratteristica del contatto tra l'uomo e Dio. Non
p uò trattarsi di un faccia a faccia statico, di una semplice contempla­
zione ammirativa e riconoscente. Di fronte a Dio, il popolo si trova
nel contempo di fronte a un progetto di cui Dio ha l'iniziativa . L'al­
leanza non unisce due partner di statura uguale: entrare in contatto
con Dio è ritrovare il legame già stretto con lui, ed è allora poter con­
tare sul perdono e sulla riconciliazione, è infine essere proiettati in
un avvenire che Dio stesso mi ha aperto e che io ho l 'incarico di rea­
lizzare, io effimero, nel divenire del tempo, nella mia «Storia».

2. Memoria del Dio creatore

Nel corso della sua riflessione, il popolo ebraico ha capito che i


diversi atti di alleanza di Dio con Israele esprimevano in modo det­
tagliato nel tempo un 'alleanza fondamentale, quella della creazione.
E così, la memoria risale dal Dio dell'alleanza nel tempo al Dio che
è all'opera dalle origini.
Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai
fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il Figlio dell'uomo per­
ché te ne curi?
Sa/ 8,4-5

Per il salmista che ammira l'opera meravigliosa della creazione,


«ricordarsi» è, da parte di Dio, un «prendersi cura». L'alleanza con
Israele non è forse una creazione rinnovata, riportata alla luce dalle
macerie del peccato? Scendere nel più profondo della memoria vuoi
dire ( ri ) mettersi in presenza del Creatore.
Semplificando le cose, si potrebbe dire che la memoria è, nell 'uo­
mo, la sedimentazione del tempo, più o meno cosciente ma sempre
reale. Non è forse anche un tentativo di dominare il tempo, rappre­
sentazione dell'eternità? Per altri motivi, la memoria è piuttosto la
via che collega con l'eterno. Richiamare il passato alla memoria è
quindi, in definitiva, rimettersi in contatto con colui che mi costitui­
sce nell'essere, se è vero che l'uomo respira solo con il soffio di Dio.
G iunto a questo punto originario, in comunione con Dio, riconosco

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nello stesso tempo un avvenire che è suo segreto. Così, attraverso la
memoria, il mio presente avrà trovato un dinamismo creatore, divino.
Se io, tramite questo mio contatto con lui, sono invitato ad agire
nell'alleanza e secondo la mia condizione di creatura, ciò è dovuto al
fatto che Dio è lui stesso azione. Dio non è un essere che, dopo aver
creato il mondo, non continua a operare: la sua attività creatrice, in­
cessante, sostiene e feconda l'agire umano, fasciandogli la propria fa­
coltà d'azione.
Memoria e azione sono quindi i due versanti, interiore ed este­
riore, della relazione che unisce Dio e l'uomo. Dio salva l 'uomo, azio­
ne «memorabile»; quando l'uomo si ricorda di quest'azione, ritrova
la fedeltà all'alleanza.

B. Memoria e culto

Se la memoria, in senso biblico, riguarda tutta l 'esistenza dell 'uo­


mo dal momento che l'uomo è, per natura, relazione con Dio, essa si
esercita in modo privilegiato nel culto, istituzione molto complessa
che conserva il suo vero senso proprio grazie al suo rapporto con la
memoria.

l. Culto e racconto

Quello che caratterizza il culto israelitico non sono i sacrifici e


neppure le festività , perché in tutte q ueste prat iche non mancano
analogie con le pratiche dei popoli vici ni. m a (oltre alla crescente
«spiritualizzazione») è il ruolo della memoria. Attraverso la memo­
ria si celebrano le gesta di YHWH che hanno contrassegnato la sto­
ria del popolo eletto. Dio, infatti, non si è accontentato di contrarre
un 'alleanza solenne con Israele, ma è intervenuto prima e dopo e so­
no proprio questi interventi che il popolo festeggia regolarmente,
conservandoli così nella memoria. A' ricordi di tipo profetico o deu­
teronomico si aggiunge il richiamo più esistenziale costituito dalle
feste del calendario, che commemorano i principali interventi divini,
frutto dell'alleanza.
Per dire che questo incontro del Dio dell'alleanza con il popolo
porta in sé un valore permanente, Dio stesso ha istituito l'evento co­
me festa prescrivendo l'anamnesi. E questo è particolarmente chia­
ro a proposito della Pasqua:

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Questo giorno sarà per voi un memoriale [fezikkaron ]; lo celebrerete co­
me festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete co-
me un rito perenne.
Es 12, 14

Così si dica per le altre feste, per esempio la festa delle Capanne
(Lv 23,33-44), per il sabato (Es 20,8-1 1 ) o anche a proposito dell'al­
tare destinato ai sacrifici:
Avete visto che vi ho parlato dal cielo [ . . . ]. Farai per me un altare di ter­
ra [ . ]
. . in ogni luogo dove io vorrò ricordare [ 'azkir] il mio nome, verrò
a te e ti benedirò.
Es 20,22-24

Il N ome dice la presenza di Dio stesso durante il culto e la sua


forza di benedizione. In realtà Dio «Si ricorda» in modo speciale in
certi giorni e in certi luoghi. If popolo, lui. «si ricorda» osservando i
riti prescritti ed evocando questo o quel fatto di YHWH. Che cosa
succede allora? N o n è la memoria soggettiva dei credenti che può
rendere vita a un evento del passato, ma è l 'atto compiuto nel passa­
to da Dio che, come tale, contiene in sé una virtù duratura, che il cre­
dente è invitato a riconoscere e a fare propria. Quell'evento, infatti,
non riguardava solo i destinatari immediati, ma, attraverso loro.
YHWH aveva presenti tutti i loro discendenti. La Mishnah per que­
sto così commenta:
Celebrando la festa, si deve fare come se ognuno, personalmente, fosse
uscito dall' Egitto.
Pesahìm, X,5

Questo invito a vedersi presenti all 'atto di Dio, il Deuteronomio


lo suggeriva già quando confondeva volontariamente la generazione
del deserto e gli israeliti del tempo presente:
Il Signore nostro Dio ha stabilito con noi un 'alleanza sull' Oreb. Il Si­
gnore non ha stabilito questa alleanza con i nostri padri, ma con noi che
siamo qui oggi tutti in vita.
Dt 5,2-3

La festa è quindi la presenza di un grande atto di Dio all'assem­


blea celebrante; l'attualizzazione avviene tramite la proclamazione
di un racconto che ricorda l'azione divina, che ha una portata anco­
ra oggi; il credente non ne dispone, ma è invitato a raggiungerla, ren­
dendosi personalmente presente ad essa.

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Il racconto assume in tal modo la funzione di trasmettere alle ge­
nerazioni che verranno l 'esperienza di YHWY. Tutti devono ascolta­
re e ricordare. Succede così durante la veglia pasquale per le do­
mande fatte dai bambini e le risposte che gli anziani devono dare. La
parola diviene sempre più l'essenziale del rito, in quanto è per suo
rnezzo che la memoria del passato viene ravvivata. Qua1e passato?
Non quello delle glorie nazionali, che sono tuttavia evocate, ma quel­
lo della salvezza che Dio ha accordato al suo popolo travagliato. Al­
lora il passato conserva il valore di rivelazione di Dio.
Questo incontro del popolo con Dio nella liturgia è tanto chiara­
mente una «presenza» attuale che il termine «Vedere» è utilizzato
per caratterizzare l'azione del culto:
Venite, vedete le opere del Signore, egli ha fatto portenti sulla terra.
Sa/ 46,9

Dopo l' «ascoltare il racconto che i nostri padri ci hanno trasmes­


so», il «Vedere» dice che il popolo è d i fronte a Dio che agisce ades­
so, nella sua storia. L'assemblea cultuale non si raffigura l'evento sto­
rico come se, cosa impossibile. foss e reitc rato nella sua concretezza;
facendone memoria comunitariamente. essa si a pp ropr i a del suo
senso e, in tal modo, va avanti verso il suo avvenire.

2. Culto e vita quotidiana

Come è già stato detto, la memoria non è un semplice atto inte­


riore, ma include una virtualità d'azione che non può rimanere iner­
te. Se così fosse, come le invettive dei profeti lo r i petono il culto non
,

sarebbe più autentico: a cosa servono le pratiche del culto, se la giu­


stizia non è rispettata? È un 'illusione.
C'è una differenza tra la memoria esercitata individualmente e la
memoria applicata al culto? Praticato dal popolo depositario dell'al­
leanza, il culto corrisponde alla volontà che Dio ha espresso prescri­
vendo l'anamnesi� la presenza di Dio è certa . e scaturisce da un do­
no gratuito e non dall'azione dell'uomo, e ancor meno da un 'opera­
zione magica.
L'incontro con Dio, espresso con gesti, diviene, potremmo dire, di
tipo «sacramentale». Inoltre, dal momento che il culto si attua a li­
vello della comunità riunita in assemblea, attraverso riti che espri­
mono unanimità e obbedienza, è tutta l'assemblea che si apre per ac­
cogliere lo spirito del Signore. Essa stessa viene rinnovata nella sua

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«memoria» e abilitata a vivere nel quotidiano, secondo giustizia.
Ora, prendere coscienza di un passato colmo di Dio è, nello stesso
tempo, prendere coscienza che la sua azione si estende all 'intero uni­
verso.
Il culto pertanto comporta una dimensione di proclamazione
universale, e non riguarda solo i partecipanti, i fratelli del salmista, i
poveri e gli umili di Israele, ma si rivolge alle nazioni, fino alle estre­
mità del mondo: «Lodatelo, voi, popoli tutti», proclamate il Nome di
colui che è il sovrano del cielo e della terra.

3. Il presente e il passato

Ora, come affermare che il presente del culto si distingue dall'at­


to passato che il culto commemora, pur continuando a coincidere
con lui? Per capire che questo non è per Israele un atto di immagi­
nazione, è necessario non perdere di vista ciò che caratterizza l'an­
tropologia biblica: l'uomo non è innanzi tutto un individuo, ma un es­
sere che partecipa all'identità del suo popolo, nel quale e per il qua­
le egli esiste. E a sua volta, nelle sue viscere sono contenuti tutti i
suoi discendenti. È quella che viene designata come «personalità
corporativa». È necessario accordarsi con la concezione biblica del
tempo nel suo rapporto con l'eternità.
Che cos'è dunque il tempo? Non è uno spazio vuoto nel quale si
iscrivono e precipitano le azioni degli uomini. Non è neppure una
successione di istanti giustapposti. Ma è la realtà vibrante delle ge­
nerazioni umane che si succedono, trasmettendosi la fiaccola della
vita, dono del Creatore, rimanendo presenti le une alle altre, costi­
tuendo così un popolo che Dio vede con un unico sguardo. Il tempo,
si potrebbe dire, è la proiezione della vita, che in definitiva è Dio
stesso e che da lui è comunicata a tutti gli uomini.
Il tempo è, in questo senso, come lo svolgersi dell'eternità, a tal
punto che l'istante, fungi dal rappresentare un punto intermedio tra
due altri istanti oppure il punto di partenza verso un avvenire anco­
ra incerto, è un «presente» di Dio, inseparabile dalla totalità del pro­
getto divino. Questo tempo biblico non può essere confuso con il
tempo ciclico, perché esso è immediatamente un tempo che progre­
disce verso un compimento. E questo perché il tempo integra l'azio­
ne di Dio stesso oppure non esiste.
Guardiamo dall 'altro punto di vista: l'eterno non è una durata
temporale indefinita; l'eterno non è «dopo» il tempo, ma «dentro», e

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gli conferisce la sua vera dimensione che è Dio presente al divenire.
L'uomo deve dunque scoprire la presenza dell'eterno nel tempo, fa­
re emergere questa dimensione profonda del tempo. E ciò presup­
pone che l'uomo sia, per essenza, in relazione con Dio, senza il qua­
le egli non può vivere. E anche il tempo non sussiste senza eternità.
Così il Dio di Israele compie certi atti che, in se stessi, e non per
l 'immaginazione degli uomini, dominano il flusso del tempo; essi
hanno una dimensione di eternità che li rende sempre presenti a co­
loro che ne conservano la memoria. La memoria è il tempo integra­
to, e questo lo si dice sia di Dio e sia degli uomini.

C. ((Fate questo in memoria di me»

Grazie a una migliore conoscenza della memoria biblica e del


suo rapporto con il culto, siamo in grado di apprezzare più corretta­
mente la parola di Gesù.
Secondo gli specialisti, il verbo greco poiein («fare»), nel conte­
sto, starebbe a caratterizzare un'azione cul tuale. La sua traduzione
ovvia è quella di un imperativo e non di un indicativo: Gesù doman­
da ai suoi discepoli di procedere come lui. Non dà spiegazioni sul di­
venire del pane e del vino, ma invita a un 'azione. m angiare e here, os­
sia a ricevere questi doni, come lo precisano le parole «per voi» o
«per la moltitudine» .
I n che cosa consiste i l questo che i discepoli devono fare? A pri­
ma vista per un lettore affrettato si trattcrehbe di un pasto consu­
mato da Gesù in compagnia dei suoi discepoli. ma questa interpre­
tazione è inesatta. Guardando attentamente il testo, si constata che
il comando si riferisce, secondo Luca e Paolo, all'azione globale che
Gesù ha appena compiuto sul pane. Quando Paolo ripete lo stesso
comando. dopo le parole sul calice, si preoccupa di precisare: « Ogni
volta che mangiate questo pane e bevete questo calice . . . » e, più
avanti: «Chiunque mangia il pane o beve il calice del Signore inde­
gnamente . . . ». Il «questo» si riferisce esattamente non a tutta la ce­
na, ma ai gesti sul pane e sul calice.
L'espressione «in memoria di me)) traduce il greco «eis tèn emèn
anamnèsin». Il sostantivo utilizzato non è mneia (menzione, anniver­
sario) , né mnèma o mnèmeion (emblema, monumento commemora­
tivo, tomba), né mnèmè (facoltà della memoria, ricordo di tipo psi­
cologico), ma anamnèsis (atto di richiamare alla memoria, azione che

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fa che ci si ricordi). Conseguentemente è meglio evitare per l'eucari­
stia la parola «memoriale» che dice non l'azione nel suo divenire, ma
l'azione già avvenuta (la relazione scritta dei propri ricordi o qual­
che monumento). E dal momento che la preposizione eis nella for­
mula dell'anamnesi suggerisce un movimento, sarebbe meglio tra­
durre: «Fate questo per fare memoria di me».

l. Origine della formula «in memoria di»

Da dove viene questa formula? Segnalo, per informare il lettore,


una spiegazione in uso nel passato: la cena eucaristica cristiana sa­
rebbe stata la trasposizione dei «banchetti funebri» con i quali i gre­
ci commemoravano i loro defunti. Sotto l 'influenza ellenistica, la ce­
na del Signore sarebbe stata fatta in ricordo della morte di Gesù, co­
me questi «banchetti del ricordo>>. Questa ipotesi tuttavia non è ac­
cettabile per tre motivi. La formula palestinese eis anamnèsin non si
trova nei documenti allegati . I banchetti funebri avevano luogo nel
giorno anniversario non della morte ma della nascita di colui che si
voleva commemorare. Infine, questi banchetti sono stati rapidamen­
te secolarizzati.
Inutile ricercare fuori della Bibbia l'origine di questa formula; è
sufficiente notare il suo parallelismo con il comando dell'anamnesi
pasquale:
Questo giorno sarà per voi in memoria [tezikkaron]; lo celebrerete co­
me festa.
Es 12, 14

Fate questo in memoria (eis anamnèsin] di me.


Le e J Cor

È evidente che «eis tè n [ . . . ] anamnèsin» corrisponde al


[ezikkaron dell'antica Pasqua, almeno per la forma.
In effetti, il confronto tra il testo della Cena e il testo della Pa­
squa non si limita all'espressione «fare memoria», ma concerne an­
che la disposizione che soggiace ai due racconti. Un evento salvifico
di portata immensa sta all 'orizzonte dei due racconti: l'uscita dall 'E­
gitto o la croce. L'uno e l'altro raccontano la prefigurazione di que­
sto evento, attraverso un segno (fe'ot: Es 1 2,13) che, notiamo bene, ri­
guarda il cibo: pasto pasquale degli ebrei la notte dell'esodo o con­
divisione del pane e del calice da parte di Gesù, nella Cena.

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Questo segno è dunque finalizzato a un futuro prossimo. Per l'or­
dine della reiterazione è invece destinato a un futuro lontano. Du­
rante tutti i secoli questo segno dirà lo stesso evento, ma come già
realizzato; sarà «memoria» (lezikkaron: Es 12,14). È per mezzo di
una figura, il pasto della Pasqua, che l'«esodo» dall 'Egitto è propo­
sto ai padri come un fatto che deve avvenire, e con la stessa figura
annunciatrice deve esere ricordato ai discendenti come evento già
avvenuto.
Nello stesso modo, per mezzo del dono del pane e del calice, che
Gesù identifica con il dono della sua persona, viene prefigurato il fu­
turo immediato del la sua morte in favore dei suoi . Nell'ordine della
reiterazione, lo stesso segno è destinato a un futuro lontano nel qua­
le Gesù proporrà lo stesso evento ma già realizzato; e nel segno an­
ticipatore i credenti si approprieranno del frutto di grazia che sgor­
ga da questa morte che, per loro. appartiene al passato.
Riassumiamo i dati che ci interessano: la vigilia del suo effet­
tuarsi, l'evento salvifico è prefigura to da un segno. Ora questo segno
dovrà essere reiterato nel culto, diventando per la comunità che ce­
lebra la memoria dell 'evento ormai realizzato. Il segno si riferisce a
un unico atto divino finalizzato a due futuri, uno prossimo e puntua­
le (l'avvenimento stesso), l'altro lontano c dura turo (il frutto del­
l'avvenimento nei secoli futuri). Così il segno che nel culto unisce al
passato ha pure la funzione di proiettare in avanti la comunità che
celebra la memoria dell'avvenimento ormai realizzato. Esso ha una
duplice funzione: in quanto profetico proiet ta in avanti, in quanto
cultuale riallaccia al passato.
Fa riflettere il fatto che nel culto venga ripreso non tanto il rac­
conto dell'evento salvifico che si commemora. quanto il racconto del­
la sua prefigurazione. Sarà forse perché il segno, profetico in origine,
continua a essere pregnante per il futuro? Di fatto la liberazione dei
padri, continuamente commemorata dalla cena pasquale, garantisce
ai figli di Israele la liberazione escatologica. Per i cristiani, il dono di
sé di Gesù simboleggiato dalla condivisione eucaristica garantisce il
loro proprio passaggio pasquale futuro e il banchetto finale.
Si vede da questo che l'evento celebrato, per storico e ormai rea­
lizzato che sia, è esso stesso a sua volta garanzia di un compimento
futuro e definitivo. In questo senso, il segno, considerato secondo la
sua portata iniziale di profezia, contiene già in sé tutto ciò che av­
verrà nella storia del popolo, al di là dell'evento capitale che annun­
cia, fino alla pienezza celeste.

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Se il racconto della Cena e dell'esodo presentano la stessa strut­
tura, essi differiscono tuttavia profondamente, a causa del «me» de l
quale i cristiani devono fare memoria.

2. Il «me» di Gesù

L'evento del quale fare memoria non è più l'uscita dall'Egitto.


Senza dubbio si tratta ancora di salvezza accordata, ed è sempre
mantenuto il duplice orientamento del segno, profetico e cultuale.
Ma l'elemento interamente nuovo è la personalizzazione dell 'ogget­
to della memoria. L'evento celebrato è sempre l'azione di Dio, ma
l'azione di Dio nella persona di Gesù.
Per apprezzare a pieno tale modifica, è opportuno confrontare la
formula della Cena con il «ricordo» del gesto della donna nell'un­
zione di Betania, che Gesù vuole sia fatto per sempre:
Dovunque, in tutto il mondo, sarà ann unziato il vangelo, si racconterà
pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto.
Mc 14. 9

Questo ricordo vuole commemorare un atto preciso: quello del­


la donna che ha unto in anticipo il corpo di Gesù. Questo gesto non
dovrà essere dimenticato e resterà legato alla proclamazione del
vangelo.
Alla Cena si tratta sempre di un atto, ma non considerato in se
stesso: esso riassume tutta l'esistenza di Gesù. Con il «SUO» corpo e
il «SUO» sangue. Cristo vuoi significare il mistero della sua morte; con
l'annuncio della salvezza del la moltitudine, ne indica il frutto uni­
versale; e siccome si tratta proprio della sua persona, bisogna sottin­
tendere tutto quello che ha portato Gesù ad accogliere la croce, os­
sia la sua missione vissuta nella fedeltà a Dio e agli uomini, fino alla
fine; infine, l'invito a mangiare e bere significa che Gesù vuole coin­
volgere i discepoli nel suo destino, attraverso un 'assimilazione e an-
·

che una trasformazione in lui.


Focalizzando lo sguardo del lettore, il «me» di Gesù non prende
il posto di YHWH stesso, ma quello delle grandi gesta di Dio che egli
porta a compimento. L'evento della liberazione dall 'Egi tto si «com­
pie» in lui, così come tutti gli interventi del Signore nella storia. Que­
sto «me» acquista proporzioni sorprendenti.
Si capisce meglio allora il senso dell 'azione liturgica richiesta da
Gesù. Essa mi rende presente non propriamente ali 'ultima cena di

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Gesù, ma al suo significato: la vita comunicata ai discepoli da Gesù
morente in croce. Con il suo corpo e con il suo sangue Gesù riassu­
me il dono di tutta la sua esistenza, la sua costante fedeltà. L'azione
liturgica ci rende presenti all'annuncio della morte che essa significa
e ci fa partecipare alla nuova vita del Risorto. Le tre dimensioni del­
la memoria sono ritrovate: l) mediante l'atto presente del culto, 2) si
ritorna a quel Gesù che ha manifestato e compiuto nel tempo stori ­
co la presenza definitiva del Dio liberatore, 3) che accorda la salvez­
za per sempre.
Il culto eucaristico mette collettivamente in presenza di Gesù che
dà la sua vita per me e mi invita ad agire come ha agito lui o meglio
ancora, poiché si dona in nutrimento, ad agire con la sua forza in me:
egli è là e io non lo sapevo ! Egli è là e io mi apro alla moltitudine de­
gli uomini. Quando scendo nella profondità della mia memoria, in­
contro Gesù mio Salvatore che Dio ha risuscitato e che, ormai, è me
stesso più di me stesso.

3. La situazione nuova

Riprendiamo il nostro discorso focalizzando la nostra attenzi one


sulla situazione nuova. Gesù stabilisce una relazione tra due azioni.
Una è quella che compie lui stesso offrendosi per la moltit udine du­
rante il pasto fraterno condiviso nel momento della sofferenza. L'al­
tra azione è quella dei suoi discepoli nelle loro assemblee future.
Una ben presto apparterrà al passato che, come tutti i comporta­
menti degli uomini, tende a perdersi nell 'oblio. L'altra è volta verso
l'avvenire e si modella su quella che l'ha preceduta.
Da un primo punto di vista, queste due azioni dunque non si
confondono se non per un 'immaginazione che evade dal reale; l'a­
zione dei discepoli non è identica a quella di Gesù. Eppure, sotto un
altro aspetto e grazie alla relazione che Gesù stabilisce tra loro, l'a­
zione dei discepoli ha senso solo in funzione della sua; anzi, essa de­
ve identificarsi in profondità con la sua. Come fare perché, malgrado
l'usura del tempo e malgrado la distanza, il passato continui ad agi­
re nel presente? È perché l'evento pasquale di Gesù non è inghiotti­
to nel tempo, ma lo domina. Il popolo costituito da questo evento si
rende presente all'atto che ha fondato la sua esistenza: l'accettazio­
ne da parte di Dio del «sacrificio» di Gesù in croce. La cena del Si­
gnore è in realtà una festa con la quale la Chiesa rinnova la sua ap­
partenenza al Risuscitato e, in lui, al Dio salvatore.

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In questa prospettiva, l'anamnesi eucaristica trasferisce su Gesù
quanto era stato detto della Pasqua ebraica ed esige che i discepoli
si comportino nello stesso modo. Non è Dio a essere invitato a ri­
cordare, ma l 'uomo che deve lottare contro la tendenza a dimentica­
re l'atto fondante. Attivando la memoria di Gesù, il discepolo è invi­
tato ad assimilarsi a lui e a lasciare che in tal modo la sua azione e la
sua presenza si esprimano. È chiaro che siamo molto lontani da ogni
concezione soggettiva della memoria , del tipo «commemorazione»
di un defunto. L' azione eucaristica non è quindi un monumento da
erigere a Dio; essa è l'attualizzazione dell 'evento Gesù. Il «giorno» è
un giorno che, ancora oggi, è giorno per me: azione di grazia per sem­
pre, cattura dell 'eternità nel tempo, apertura al mio vero destino.
Con la formula «fate questo in memoria di me>> è forse detto tut­
to? Non penso. Sarebbe ingenuo pensare che il comandamento sia
sufficiente a produrre ciò che dice. La memoria si degrada facilmen­
te in abitudine banale.
I giudei si preoccupavano di conservare un rapporto con la pa­
rola di Dio attraverso un rito, la festa che esprimeva la presenza ( co­
sì Es 13,9). Ma, come altri popoli. hanno trovato gesti equivalenti al­
l'azione commemorativa, che sono un po' come un formato ridotto
della festa. Così, serviva da memoriale l'incenso destin ato ai pani di
proposizione.
Senza dubbio, nella Bibbia non si prescrivono i tatuaggi né gl i
amuleti, ma, come si costruiscono stele per «eternizzare» un patto, ad
esempio la traversata del Giordano, viene prescritto di fare un nodo
sulle falde degl i abiti con un cordone di porpora violetto e vengono
fabbricati i filatteri , ma questi hanno finito col dispensare l'uomo
dall'agire secondo la legge. Questi piccoli astucci contenevano pas­
saggi essenziali della legge ed erano fissati sulla fronte o sulle brac­
cia. «Attaccherai le mie parole alle mani. come un segno, ti saranno
come un pendaglio tra gli occhh> aveva detto Mosè; interpretando la
metafora alla lettera, i giudei avevano materializzato l' «ascolta
Israele>> portando su di sé un astuccio di cuoio; alcuni se ne serviva­
no anche per farsi valere. Non gettiamo loro la pietra, perché questa
deformazione si manifesta in tutti coloro cosiddetti «praticanti».
In definitiva, gli espedien ti destinati a ravvivare la memoria del­
l'uomo rimangono senza effetto, fin quando Dio non prende egli stes­
so in mano la cosa. Nel passato il profeta annunciava che la legge un
giorno sarebbe stata scritta nei cuori; oggi è lo Spirito che tiene vive
le azioni del Cristo. È Gesù che ce lo ha promesso, esplicitando il ruo-

94
lo del «Paraclito)) : «Lo Spirito vi ricorderà tutto quello che io vi ho
detto» (Gv 14,26). Lo Spirito Santo è la memoria viva della Chiesa; è
questa la funzione della «epiclesi» nella messa: essa ricorda attiva­
tnente, essa opera la presenza dello Spirito che «Consacra». Non è
quindi un'azione dell'uomo a rendere il credente presente a Gesù nel­
la liturgia eucaristica, ma Dio stesso per mezzo del suo Spirito. E si
realizza allora non un faccia a faccia, ma una perfetta «sinergia».
Concretamente, tuttavia, la memoria si esercita attraverso il «rac­
conto» di ciò che Gesù ha detto e fatto. Il racconto ha la funzione di
rimettermi alla presenza dell'evento della croce che salva. Notiamo
tuttavia che ben presto si è prodotta una deformazione. Il racconto
ha fissato l'attenzione sull a lettera di ciò che Gesù ha detto e fatto.
A poco a poco, l'attenzione si è fermata non più sul senso, insepara­
bile, delle parole e degli atti, ma sull'enunciato letterale delle parole,
portando il lettore e gl i uditori a concentrarsi sui problemi della
<<transustanzi azione» delle «Specie» pane e vino. Lo scopo ultimo del
testo è quello di invitare a essere presenti e a comunicare in modo
reale all'atto di Gesù che salva i'l mondo. Solo l'insieme della cele­
brazione, che implica accogliere il dono del pane e del vino con la
presenza di colui che annuncia e simboleggia la sua morte salvifica,
conferisce al banchetto eucaristico la sua vera dimensione.

Conclusione

Con il comando di fare memoria di Gesù Cristo. la Chiesa è sol ­


lecitata a risalire alla sua origine: è questa la funzione della memo­
ria, con la particolarità che in Gesù essa raggiunge Dio all'opera. In
Gesù, la Chiesa trova il senso de lla sua stessa esistenza e si dispone
a lasciare che Dio e Gesù agiscano per mezzo suo.
Con l'anamnesi, la Chiesa non è solo invitata a dire le parole del­
la «consacrazione)) (il che è ovvio) , ma a organizzare una «cena));
non una cena che sazia ne ll'immediato, ma una cena eucaristica che
richiede preparazione, consacrazione e comunione. Allora è realiz­
zato il voto di Gesù.
La memoria di Gesù è dinamica: essa proietta in avanti la Chie­
sa che in questo modo ha preso contatto con il suo Signore e che de­
ve esprimere nell'esistenza ordinaria quello che Gesù ha vissuto sul­
la terra, vale a dire l'amore di Dio che sta a fondamento dell'amore
tra gli uomini. Non è forse questo il senso della lavanda dei piedi se­
condo Gv 13?

95
E infine, per meglio cogliere il mistero di un atto passato che ha
la sua efficacia lungo i secoli, proponiamo un'analogia simbolica. Noi
ridiciamo ogni mattina che «il sole si alza», mentre sappiamo bene
che il sole non si alza ma che è la terra, ogni mattina. a presentarsi al
sole, centro del suo sistema di esistenza. Lo stesso avviene per l'atto
di Gesù che si sacrifica per tutti gli uomini. Ormai è lui il centro del
«sistema cristiano» , nel senso che egli è colui dal quale tutti dipen­
dono e dal quale tutti ricevono la vita.
Ogni mattina, dico che io attualizzo quest'atto, che lo rendo pre­
sente, ma so bene che è vero il contrario. Ogni mattina io mi rendo
presente al sacrificio di Gesù che, pur continuando a essere un atto
temporale passato, ha una dimensione sovratemporale e mi permet­
te di rendermi presente a lui attraverso lo spessore di questo tempo
che per me scorre continuamente e inesorabilmente. Ora, questo
tempo acquisisce non solo la profondità dell'eterno, ma anche un di­
namismo che, radicato solidamente nell'atto salvifico di Dio, mi apre
alla riconciliazione.

96
CAPITOLO 6

IL PANE D ELLA VITA


SECONDO GIOVANNI

Il quarto Vangelo presenta in modo molto originale la tradizione


della cena del Signore e la condivisione del pane. Per un verso, esso
non accenna né al racconto né ad akuna pa r ol a che si riferisca all'i­
stituzione sacramen tale e, p riv il e gi a n d o la re l az i on e del credente con
Gesù Cristo, si pone al di fuori dell' « orga n izzazi one » della vita cri­
stiana per mettere in rilievo il con1andamcnto n u ovo della carità fra-.
tema. Dall 'altro, il simbolismo giovanneo invita spesso a discernere
sotto le parole e attraverso i gesti di Gesù il loro senso profondo, che
alcuni considerano sacramentale.
Spesso i cristiani preferiscono la presentazione di Giovanni alla
tradizione sinottica: il senso dell'incontro eucaristico vi appare più
nettamente. Certo, Giovanni non cita la parola fondatrice: « Prende­
te, questo è il mio corpo», ma fa dire a Gesù: «Chi mangia la mia car­
ne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui». Il credente si sof­
ferma volentieri su questo reciproco dimorare, di cui sente il potere
efficace.

A. D testamento di Gesù ( Gv 13)

L'ultima cena di Gesù non riporta le parole dell'istituzione del­


l'eucaristia, bensì la lavanda dei piedi e il discorso d'addio ( 1 3-1 6).
Ricordiamone la distribuzione. Dopo una solenne introduzione (Gv
13,1), Gesù fonda durante la sua ultima cena la comunità dei suoi di­
scepoli lavando loro i piedi ( 13,2-20) ed escludendone il traditore
(13,21 -30) . La comunità stabilita da Gesù viene così saldata insieme
dal servizio del Maestro e dalla fede nella sua parola (13, 1 0; 1 5 ,2-3).

97
Il gesto che egli compie simbolizza il suo comportamento costante di
servizio senza riserve fino alla morte e deve rimanere il prototipo e
la sorgente viva del comportamento dei discepoli (13,1 -1 1 ) .
Vi h o dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi .
Gv 13, 15

Il termine «esempio» si presta a confusione, perché potrebbe es­


sere compreso come un invito a «imitare» il comportamento di Ge­
sù, quando invece il «come ho fatto io>> (in greco kathos) esprime
piuttosto la capacità di generare che non di essere esemplare. Stabi­
lisce certamente un paragone: la relazione di amore tra i discepoli
deve essere simile alla relazione d'amore che unisce Gesù ai disce­
poli. Ma c'è di più. È come se Gesù dicesse: «Agendo in questo mo­
do io vi rendo capaci di agire anche voi così».
È doveroso fare un confronto con il racconto dell'istituzione eu­
caristica nella quale Gesù afferma: «Fate questo in memoria di me !».
Entrambe le formule indicano la volontà di padroneggiare il tempo
futuro, ma le rispettive finalità sono diverse : l'anamnesi concerne l'a­
zione liturgica, la parola sull 'esempio riguarda il servizio fraterno.
Secondo Giovanni, la comunità è fondata e si mantiene in uguale mi­
sura sia attraverso il servizio reciproco sia attraverso il culto eucari­
stico. La frase «aver parte con » (Gv 13,8) corrisponde alla «comu­
nione» con la persona del Cristo (1 Cor 10,1 6) . La conseguenza è evi­
dente: agli occhi di Giovanni il servizio reciproco eq uivale al culto, e
questo significa che viene stabilito un rapporto tra l'atto cultuale e
l 'atto esistenziale. Il culto eucaristico rinvia al servizio reciproco.
Alla comunità costituita in questo modo Gesù, che sta per !a­
sciarla, può dare il suo testamento eh� chiamiamo il «discorso d'ad­
dio», centrato essenzialmente sull'amore vicendevole.
33Figlioli mie i, ancora per poco sono con voi [ . . . ]. 34Vi do un comanda­
mento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come [kathos] io vi ho ama­
to, così am atevi anche voi gli uni gli altri. 35Da questo tutti sapranno che
siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri.
Gv 13,33-35

Segue un 'interruzione in cui si vede Pietro che vuoi seguire Ge­


sù nel luogo ove egli va; Gesù conclude che ritornerà dopo aver pre­
parato un posto per i suoi discepoli (1 4, 1 -3). Come prima a proposi­
to dell' «esempio» della lavanda dei piedi, le ultime raccomandazioni
di Gesù a quelli che restano sulla terra sono destinate a conservare

98
stretto durante la sua assenza il legame che deve unire i discepoli
dell'Assente-Presente. Sono precisate infatti le modalità di un'esi­
stenza in questo mondo. Dal v. 14,4 al v. 14,3 1 , gli ultin1i colloqui ri­
guardano le conseguenze della partenza di Gesù ; in seguito, dal v.
15,1 al v. 16,33 la prospettiva cambia: è un ultimo messaggio che il
Glorificato invia alla sua Chiesa.
Lo stile, nel suo insieme, si avvicina molto a quello dei Testamen­
ti dei XII patriarchi. Lo si constata dall'appellativo «figliolini miei» o
dalla parola «Comandame nto». Gli stessi temi si ripetono: si tratta di
un'ultima cena, bisogna imitare il servizio c h e ha appena reso colui
che se ne va. egli esorta all'amore fraterno, annuncia persecuzioni . . .
Ora, in quest'ultima sera, non si parla dell 'istituzione dell'eucaristia.
Come spiegare quest'omissione?
Sostituendo la tradizione cul tuale con la tradizione testamenta­
ria, Giovanni ha forse voluto contestare la pratica cultuale del suo
tempo? Alcuni critici l 'hanno pensato. non senza esagerare. Ma Gio­
vanni non è un contestatore. È un o che porta a compimento. Gio­
vanni completa la tradizione sinot ti ca. non perché egli conosca te­
stualmente le diverse versioni. ma in quanto approfondisce e con­
centra la loro testim onianza.
Giovanni, inoltre, risponde ai bisogni di una determinata comu­
nità. Secondo lui, era necessario difendersi dal pericolo della magia
che nell 'ambiente ellenistico minacciava la pratica del sacramento.
Sarebbe questa una delle ragioni per cui Giovanni non ha trasmesso
le parole dell'istituzione nel racconto della Cena. Tuttavia. Giovanni
non deprezza il sacramento. A modo suo, nel suo racconto dell'ulti­
ma cena di Gesù egli dà l'equivalente dei testi sinottici attraverso la
forma testamentaria e il linguaggio simbolico. Il suo apporto perso­
nale è quello di rivelare il significato reale e durevole dell 'eucaristia.
Possiamo dire che il discorso d'addio è focalizzato sull'«oggetto» del
sacramento, se è vero che l 'amore fraterno di origine divina è la
realtà che, in ultima analisi, l'eucaristia vuole intensificare sulla terra.
Ci è permesso di tirare una conseguenza: mentre la pratica del
servizio vicendevole è la condizione e l 'espressione assoluta della vi­
ta del credente, la pratica del sacramento è solo una via per incon­
trare il Risorto.
Ai miei occhi, se nel c. 13 si mostra il frutto dell 'eucaristia (amo­
re fraterno di origine di vina), nel c. 6 c'è l'orchestrazione della ne­
cessità capitale di credere a Gesù di Nazaret, venuto dal cielo, Logos
incarnato, Figlio dell'uomo, morto per dare la vita al mondo, vero pa-

99
ne del cielo e pane di vita. Questa fede sfocia dopo la morte di Gesù
nella «dimora reciproca», e là i termini hanno in sovrappiù una riso­
nanza sacramentale (6,53-58). In breve, per rivelare la necessità del­
la fede in Gesù di Nazaret, Giovanni non si è accontentato di mette­
re in rilievo che l'amore tra cristiani è ciò che realmente simbolizza
in questo mondo la presenza del Cristo. Mostrando dopo il discorso
l'opzione dei discepoli (6,59-66), Giovanni offre una vera catechesi
eucaristica: tale è la duplice prospettiva di questo capitolo.

B. Gesù, pane della vita (Gv 6)

Come annunciare il messaggio evangelico sull 'eucaristia senza


fare riferimento alle parole della sua istituzione: è questo il proble­
ma affrontato da Giovanni che si trova in una situazione apparente­
mente paradossale. Egli è consapevole della difficoltà e lo dimostra
nel modo tutto suo di sostituire l'istituzione con la lavanda dei piedi .
Conosce anche la difficoltà che il messaggio di Gesù ha suscitato:
non si può accettare che quest'uomo venga dal cielo e che sia incari­
cato di comunicare la vita definitiva, soprattutto che anche lui debba
passare attraverso la morte. Come credere che la salvezza e il dono
della vita dipendano proprio da lui?

l. La simbolica biblica

Il colpo di genio di Giovanni è stato quello di tener conto della


tradizione biblica sul cibo, tradizione che era già implicita nell'invito
di Gesù: «Prendete, mangiate» durante l'istituzione dell'eucaristia,
dove il pane spezzato è stato identificato come suo corpo. Il pane da­
to da mangiare potrebbe divenire il simbolo del dono della vita, per
_cui Gesù è «il pane vivo» che dona agli uomini la vita.
Il principio di unità del c. 6 è costituito quindi dalla simbolica del
cibo. Già nel c. 4 Gesù ha utilizzato questo simbolismo per rivelare il
segreto della sua vita, l 'intima unione che egli mantiene con suo Padre:
Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete [ . . . ). Mio cibo è fare la
volontà di colui che mi ha mandato.
Gv 4,32-34

Procedendo in questo modo Giovanni assume, dando loro un


nuovo senso, i simboli che precedono: a Cana il vino delle nozze di

100
Dio con il suo popolo; nell'incontro con Nicodemo il vento che vie­
ne ad aprire spazi immensi; con la samaritana l'acqua che estingue la
sete; con il paralitico il camminare che simboleggia la salute. Nello
stesso modo i discepoli devono nutrirsi di un pane venuto dal cielo e
vivere di vita divina, eterna.
L'esperienza storica degli interventi salvifici di Dio ha fatto sco­
prire a Israele la sua dipendenza esistenziale dal Dio vivente. Per
parlarne, Israele ha operato una trasposizione metaforica della sua
naturale esperienza di dipendenza dalruniverso: per vivere dobbia­
mo mangiare, ma anche riconoscere che il cibo è un dono di Dio. E
questa è la lezione data da Dio durante il cammino nel deserto:
YHWH tuo Dio ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nu­
trito di manna [ . . . ] per farti capire che ruomo non vive soltanto di pa­
ne, ma di quanto esce dalla bocca del Signore.
Dt 8,3

Questa trasposizione metaforica caratterizza la tradizione sapien­


ziale, secondo la quale, a varie riprese, il cib o che sostenta gli esseri è,
a volte, opposto a ciò che è essenziale per ruomo, la parola di Dio:
Non sono le diverse specie di fru tti a nutrire l 'uomo,
·
ma è la tua parola
che conserva coloro che credono in te,
Sap 16,36

altre volte significa la parola divina perché l'uomo viva pienamente;


la Saggezza dichiara infatti:
Mangiate il mio pane ( . . Je vivrete.
Pr 9,5

Riprendendo la lunga tradizione di Israele, Gesù la porta a com­


pimento, anzi va radicalmente al di là del suo insegnamento perché
presenta se stesso, nella sua persona, come il «pane della vita» e an­
nuncia che si dona per la vita del mondo. La tradizione giudaica, inol­
tre, aveva allegorizzato il racconto de lla manna prelevandone ·q uesto
o quell 'elemento. Il dono che era intervenuto a sostegno degli ebrei
nel deserto era figura della parola di Dio, della legge e anche della Sa­
pienza, tutti doni del cielo. E come noi veniamo a conoscere, nella let­
tura del Prologo di Giovanni, che il Logos subentra alla Sapienza, co­
sì dalla manna si passa a Gesù che dona la vita eterna.
Nel suo discorso Gesù va più avanti ancora, approfondendo la
metafora della manducazione. Attraverso quest'immagine, il lin-

101
guaggio di Giovanni è quello - non rappresentabile - della «dimora
vicendevole» (6,56 ). Donandosi al credente, Gesù abolisce le distan­
ze dei due per gi ungere all'uno, senza che vi sia tuttavia confusione
degli esseri .
D'altra parte, per donarsi al credente e comunicargli la sua esi­
stenza, Gesù deve passare attraverso la morte, come il seme del gra­
no muore per non restare solo e portare frutto (12,24). Solo da risu­
scitato e per mezzo de llo Spirito, Gesù diventa uno con ogni uomo
che l'accoglie nella fede; egli trasforma il suo essere in una vita orien­
tata verso il Padre.

2. La struttura del capitolo

In ogni inchiesta esegetica, è importante aver a che fare con un 'u­


nità letteraria ben stabilita. E questo presuppone che l'essenziale
non consista nella ricerca delle numerose fonti utilizzate dallo scrit­
tore, ma nel senso fornito dal testo che abbiamo sotto gli occhi. Il do­
no del pane si presenta in parallelo con il dono del vino a Cana; il pa­
ne della vita annunciato dal discorso evoca il dono dell'acqua pro­
messo alla samaritana . Vino, acqua e pane, questi simboli giovannei
si completano per significare, ciascuno a modo suo, la vita che Gesù
comunica al credente.
A prima vista, il c. 6 è composto di quattro episodi: il miracolo del
pane distribuito con abbondanza (6, 1 - 15), Gesù cammina sulle acque
e ritrova i suoi discepoli e la folla (6,1 6-25), il discorso sul pane di vi­
ta (6,26-65), l'opzione pro o contro Gesù (6,66-71 ) . È possibile ri­
condurre all 'unità questi elementi diversi? L'episodio di Gesù che
cammina sulle acq ue non ha alcun rapporto con il pane; i vv. 53-58
sembrano parlare dell 'eucaristia quando invece miracolo, discorso e
dialogo finale si riferiscono innanzi tutto alla fede in Gesù; e infine i l
v. 5 9 conclude i l discorso, così che i vv. 66-7 1 sull 'opzione nei riguar­
di di Gesù costituiscono un altro insieme, indirizzato non più ai pre­
senti ma ai discepoli e ai Dodici. Malgrado queste difficoltà, il c. t1
forma un 'unità letteraria che può essere interpretata come un tutto.
Il c. 6 è inquadrato infatti da due «dopo questi fatti» (6,1 e 7,1 ).
formula giovannea frequente che dispensa dal voler fare precisazio­
ni cronologiche. Il capitolo è collegato artificialmente a quello che
precede: dal discorso riportato nel c. 5, discorso pronunciato a Geru­
salemme, il lettore passa in Galilea senza alcuna transizione. Per
quanto riguarda il contenuto del c. 7, esso viene situato nel contesto

102
della festa dei Tabernacoli, celebrata in autunno, mentre invece quel­
lo del c. 6 si situa sei mesi prima, verso Pasqua. Considerato come un
blocco coerente, il nostro testo trova un'unità a partire dalla sua po­
sizione distinta e dal simbol ismo del pane.
L'opzione della fede in Gesù è il primo principio di unificazione
di un capitolo centrato interamente sulla risposta di Simon Pietro in
nome dei Dodici. Questa va riferita al contesto della defezione dei
discepoli: mentre quasi tutti abbandonano Gesù, un piccolo resto ri­
mane fedele (6,66-68). Come nella tradizione dei sin ottici, Giovanni
fa sentire al lettore la confessione solenne di Pietro che qui risponde
a Gesù: «Signore, da chi andremo noi? Tu hai le parole della vita
eterna [ . ] . Tu sei il Santo di Dio».
. .

Questa professione di fede viene dopo un lento itinerario, costel­


lato di parole e di gesti significativi. La folla segue Gesù a causa dei
suoi miracoli ( 6,2); essa è testimone di quello dei pani dati a profu­
sione; essa si sbaglia a suo riguardo perché vogliono farlo re ( 6 , 1 5 ) ;
Gesù se ne separa, ma essa lo cerca per avere miracolosamente il pa­
ne (6,26); Gesù le rivela il vero pane (6,35) , ma essa infine rifiuta di
riconoscere in lui il pane venuto dal cielo (6,41 s) che dà la vita al
mondo (6,5 1 ). Da parte loro, parecchi discepoli. scandalizzati, lo ab­
bandonano (6 , 6 1 66) In questo quadro di incred ul ità. splende la fe­
- .

de di Pietro a nome dei Dodici . Ma, in vece di fel icitarsi con Pietro,
Gesù evoca il tradimento di Giuda, qua l i ficato da «diavolo)) (6 70)
, .

Il dualismo fede/non fede corrisponde al cont rasto vita/morte


che domina tutto l'intero capitolo. Il testo non si limita a descrivere
una scena del tempo passato tra Gesù e i suoi uditori ; andando al di
là di questo fatto, Gesù invita il lettore a impegnarsi, per avere la vi­
ta, nella scelta di fede che Gesù propone. Per ben diciassette volte il
lettore può infatti identificarsi con un Innominato - il vero destina­
tario della Parola - che Gesù evoca in annunci formulati come mas­
sime fuori del tempo, come ad esempio:

Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete.
Gv 6,35

Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.


Gv 6,51

Il testo è rivolto all'uomo di tutti i tempi futuri; e la risposta di


Pietro, rimandata a lungo, viene a essere pronunciata a nome del
lettore.

1 03
Osserviamo solo che Giovanni non solo ha aderito ali 'inviato
escatologico di Dio: egli è il cristiano che vive di fede e la buona no­
vella che egli trasmette riguarda prima di tutto la sua comunità. È
normale quindi che il linguaggio eucaristico affiori continuamente.
Leggiamo allora il testo del capitolo annotando, in particolare, il ter­
mine «pane».

ç. La domanda del pane L

Portata a termine l'introduzione, Giovanni sente che i giudei ri­


volgono a Gesù questa domanda : «Signore, dacci questo pane, sem­
pre» (6,34) . Ma Gesù aveva già criticato apertamente il comporta­
mento della gente che cercava in lui il produttore di pani:
Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete man­
giato di quei pani e vi siete sazi ati.
Gv 6,26

Qual era allora il significato dei pani distribuiti a profusione? l


giudei avrebbero dovuto cogliere in profondità il gesto di Gesù, che
si serve di un pane materiale per invitare a elevare in alto lo sguar­
do. Egli lo fa evocando la vita eterna che può essere data; introduct'
la sua parola con un'espressione familiare ai giudei, quella delle
«opere» dell'uomo che lo portano in cielo:
Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eter­
na, e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha
messo il suo sigillo.
Gv 6,2 7

Gesù vuole orientare il dibattito sulla sua persona, senza dichia­


rarsi ancora come il donatore, ma attribuendo questa funzione a una
figura celeste presa dall'apocalittica ebraica e che qui evoca l'itinera-

1 dialogo di Gesù con i giudei è simile a quello con la samaritana:


Il
+ provocazione di Gesù 4,7 6,22-24
- reazione 4,9 6,25
+ parola provocante 4, 10 6,6s e 6,29
- questione sollevata 4,1 ls 6,28 e 6,30
+ rivelazione di Gesù 4, 1 3s 6,32s
- domanda esplicita 4, 15 6,34

1 04
rio del Logos incarnato: quella del Figlio dell'uomo che è disceso dal
cielo (3,13) e che vi risale (6,62). Thttavia gli uditori si interessano pri­
ma di tutto al «darsi da fare»; essi sanno che il cibo può significare nel­
la Bibbia la parola di Dio: la legge dà la vita a quelli che la praticano
(Sir 1 7,1 1; 45,5). Accettano di non lavorare unicamente per procurar­
si il pane terrestre e chiedono quali sono le opere che piacciono a Dio:
Gli dissero allora: « Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di
D io?».
Gv 6,28

Allora Gesù prende il loro punto di vista, riportando però la pra­


tica delle «opere» all'unica opera che è l'adesione alla sua parola:
Gesù rispose: «Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha man­
dato».
Gv 6,29

Anche qui, Gesù non si lascia imbrogliare dall 'inveterata menta­


lità delle molte opere da fare per mcritarsi la salvezza e che sono
frutto dello sforzo dell'uomo. Ai suoi occhi l'essenziale è l'atteggia­
mento interiore che lega a Dio e che è prima di tutto un dono. Si trat­
ta dell 'opera unica che Dio compie nel credente (cf. 6.37 ). La vita di
fede è prodotta da Dio stesso e dall 'uomo che raccoglie (cf. 3 ,16s) .

Agendo così, Gesù non critica la legge in q ua n to tale, ma ricorda che


essa ha la sua origine in Dio e mostra in qual modo l'uomo potrà
compierla. Gli uditori capiscono che Gesù dice di essere l'inviato di
Dio e dimostrano di essere disposti a credere in quest'uomo che par­
la con loro. ma a una condizione: che egli manifesti la sua missione
con un segno proporzionato.
Il dialogo continua, centrato sulla persona di Gesù: oltre al segno
dei pani che è stato appena dato, gli interlocutori domandano un al­
tro segno in vista della fede ; essi sembrano disposti a riconoscerlo se
tale segno viene prodotto.
Allora gli dissero: «Quale segno dunque tu fai perché vediamo e pos­
siamo crederti? Quale opera compi ? I nostri padri hanno mangiato la
manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal
cielo» .
Gv 6,30s

La loro domanda si appoggia su una citazione della Scrittura con­


cernente il «pane» che viene dal cielo perché si mangi. La manna era

105
stata data nel deserto ed era diventata il nutrimento quotidiano del
popolo: era questa l'indelebile certezza di Israele (Sal 78,24; Ne 9,15;
Sap 16,20). La citazione dei giudei collega due testi: Es 16,15 e Es 16,4.
Gesù precisa il «chi» ha dato loro da mangiare e che restava ambiguo:
Rispose loro Gesù : «In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il
pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pa­
ne d i Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
Gv 6,32s

Gesù riconosce la Scrittura che fonda la fede in Dio riguardo al


dono della manna, pur facendo ben osservare che non è Mosè, ben­
sì Dio che ha donato il pane celeste; afferma che Dio «Ve lo dà ora»
e fornisce una vera definizione del «pane di Dio»: viene dal cielo e
dà la vita al mondo. Questa parola, introdotta da un duplice
«Amen», ottiene dai suoi uditori uno slancio di desiderio:
Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane».
Gv 6,34

Gli interlocutori di Gesù sono arrivati a chiedere il vero pane di


Dio; pensano che si tratti della legge secondo la quale vogliono vi­
vere, affinché questo «pane>> non manchi mai durante la loro esi­
stenza . La definizione del «pane» che ha dato Gesù annuncia d'al­
tronde lo sviluppo del discorso sul pane della vita, che è distribuito
in due parti:
- la prima mostra in che senso Gesù è il vero pane disceso dal cie­
lo (6,35-47);
- la seconda sottolinea il dono della vita al mondo (6,48-51).

D. Sono io, il pane della vita

Non si tratta di un proclama, come si potrebbe pensare dalla tra­


duzione «io sono il pane della vita», ma di una risposta alla doman­
da dei galilei. La metafora del pane vivo continua, ma la persona di
Gesù occupa un posto che guiderà gli sviluppi che seguono: si tratta
propriamente di «io»:
Sono io il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame e chi crede
in me non avrà più sete.
Gv 6,35

106
Collegando la sete alla fame, il linguaggio simbolico va al di là
dell'immagine del pane: Gesù si esprime con la tradizione sapienzia­
le, secondo la quale la Sapienza invita coloro che l'ascoltano a con­
dividere il suo pane e a bere il suo vino eccellente (Sir 24, 19.21 ; Pr
9,5): e allora si sarà pienamente soddisfatti come lo profetizzava
Isaia (48,21 ; 49,10).
Lo sviluppo che segue si riferisce propriamente alla fede in Ge­
sù. Ma i giudei riprendono la metafora del pane collegandola a due
affermazioni di Gesù:
Allora i giudei mormoravano di lui perché aveva detto: «Io sono il pa­
ne disceso dal cielo».
Gv 6,41

Il loro rifiuto a credere si fonda sull'evidenza che Gesù ha un pa­


dre e una madre (6,42). Nella sua risposta Gesù non cerca di giusti­
ficare la sua origine divina. Afferma la sua relazione con Dio suo Pa­
dre e dice di nuovo del dono della v i t a eterna a coloro che credono
in lui ( 6,43-47).

E. n pane vivo che si dona per essere mangiato

Anche la seconda parte del discorso ha inizio con una dichiara­


zione: «Sono io il pane della vita» (6,48); ma la prospettiva è diver­
sa. Non si tratta più di identificare semplicemente il pane con Gesù,
e quindi di credere in lui ; ora si tratta del dono che egli fa di se stes­
so attraverso la morte per la vita al mondo (6,5 1 ). Nella prima par­
te, il discepolo che viene da Gesù si trovava ancora a una certa di­
stanza da colui che è «presso Dio)); nella seconda, ogni distanza è
abolita: il Cristo dimora nel credente, come se, a causa della morte
di Gesù, la stessa vita del Figlio non rimanesse più in lui, ma si co­
municasse ai suoi.
Gesù rivela che morirà per la vita del mondo. In linguaggio me­
taforico dice il mistero dell'unione tra lui e il credente, unione la cui
morte annunciata sembra essere la condizione. Quest'ultimo passag­
gio è espresso con il vocabolario sacramentale, senza che si possa
pertanto parlare di un'omelia cristiana sull'eucaristia. Riprendendo
il tema della manna che i padri hanno mangiato nel deserto, Gesù di­
chiara che tuttavia essi sono morti ( 6,51 ) E invece, colui che mangia
.

il pane del cielo non muore, perché egli dice:

107
Sono io il pane vivo, disceso dal cielo

e aggiunge:
Anzi ! Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.
Gv 6,51

Molti critici vedono qui, giustamente, una trasposizione delle pa�


role eucaristiche. Io penso tuttavia che il senso esistenziale sia pre­
minente: il termine «carne» indica il modo di presenza del Logos tra
noi (1 ,14), il modo di colui che è sceso dal cielo; la preposizione
«per» (hyper) normalmente significa «in favore di»: così delle peco­
re ( 1 0, 1 1 -15), del popolo (1 1 ,50-52), dei discepoli (18,14).
I galilei con le parole: «Come può costui darci la sua carne da
mangiare?>> (6,52) negano che la morte di Gesù possa essere sorgen­
te di vita per tutti gli uomini. Ma Gesù continua dicendo che per
mezzo della sua morte egli sarà presente a tutti gli uomini.
In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo
e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia
carne e beve il mio sangue ha la vita etern a e io lo risusciterò nell'ulti­
mo giorno. Perché la mia ca rne è vero cibo e il mio sangue vera bevan­
da. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in
lui. Come il Pa dre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre,
così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disce ­
so dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono.
Chi mangia questo pane vivrà in eterno.
Gv 6,53-58

Queste parole gli uditori di Gesù non potevano intenderle che in


senso sapienziale, secondo il quale «mangiare/bere» significa interi o­
rizzare la legge divina. Gesù mostra che bisogna aderire al suo inse­
gnamento e partecipare alla vita divina del Figlio: tale è il primo tem­
po di lettura del testo. Ma, nel secondo tempo di lettura, lo stesso te­
sto può essere letto in modo sacramentale. Questa maniera di legge­
re è dunque simbolica, perché i due tempi di lettura non sono giu­
stapposti ma coordinati. La realtà della morte salvatrice di Gesù è
presentata in un medesimo testo, ma in due modi differenti.

108
F. L'ascesa al cielo e il ruolo dello Spirito ( 6,59-66)

Il discorso sul «pane della vita» non si chiude con l'annuncio del­
la morte redentrice di Gesù e sul suo effetto sul credente. Vi è, è ve­
ro, un'interruzione nel v. 59, ma il v. 60 riprende la totalità del di­
scorso:
Molti dei suoi discepoli , dopo aver ascoltato, dissero: «Questo linguag­
gio è duro; chi può intenderlo?».
Gv 6,60

La situazione è cambiata : gli oppositori non sono più «i giudei>>


(6,41 .52), bensì «molti dei suoi discepoli». Questi formano un grup­
po distinto da quello dei Dodici (6,67). Avevano forse cominciato ad
ammettere che Gesù era l'inviato escatologico di Dio, ma ora in­
ciampano di fronte alla sua pretesa inaudita di essere il salvatore del
mondo e di instaurare con la sua morte la comunione degli uomini
con Dio. Si scon trano contro una pietra di scandalo. In questi disce­
poli si possono riconoscere i cristiani turbati nella loro fede.
Ma Gesù rinforza la sua rivelazione:
Che direste, che fareste se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era
prima?
Gv 6,62

Gesù ricorda ancora, sotto la misteriosa identità del Figlio del­


l'uomo, la sua origine dall'alto che fonda la val idità del suo messag­
gio. Parlando della sua «ascesa al cielo», non pensa immediatamente
alla sua esaltazione nella gloria ma alla sua vittoria sulla morte.
Senza attendere la risposta, egli dà la chiave di interpretazione
del suo discorso parlando dello Spirito. Colui che «dà lo Spirito con
abbondanza» (3,34) identifica le sue parole, che sono quelle di Dio,
con il dono dello Spirito. E aggiunge:
È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho
dette sono Spirito e vita.
Gv 6,63

Senza lo Spirito, né la lettera né la carne possono produrre il sen­


so, esse non riescono a cogliere il messaggio della vita.
Possiamo raccogliere le tre parti del discorso sul pane della vita:
dopo l 'incarnazione, si presenta la redenzione, e infine la pentecoste
attualizza la rivelazione.

109
Conclusione

Gesù ha parlato chiaramente; egli esige una presa di posizione


netta a suo riguardo: accettare o rifiutare quello che ha detto sulla
sua persona e sulla sua missione. Ora, la reazione dei discepoli di­
mostra che il rifiuto è generale. Dobbiamo stupircene? Gesù sa che
deve sparire da questo mondo perché i discepoli aderiscano alla sua
parola. Deve lasciare il posto allo Spirito. Deve andarsene, cioè risa­
lire al Padre attraverso la sua morte, perché lo Spirito, solo lui, con­
ferisca valore alle sue parole. E questo apparirà nel discorso di Ge­
sù dopo la sua ultima cena ( 14, 17-25; 16,7-15).

1 10
· CAPITOLO 7

APERTURA

Per concludere: qual è il senso dei testi per me, oggi?

A. Culto ed esistenza

Se attraverso il culto l'eucaristia mi invita ad adorare il Signore,


essa comporta anche una dimensione comunitaria: per quanto im­
portante sia la partecipazione di ciascuno a q uesta sorgente di vita, è
sempre l 'assemblea, è l a Chiesa una che ce lebra rc ucaristia.
L'eucaristia è la mia respirazione com unitaria: per mezzo di lei
vivo nella dimensione della Chiesa universale. e quindi di tutta l 'u­
manità; noi siamo allora la «moltitudine>> alla quale Gesù pensava
n eli 'ultima cena.
Le due tradizioni sull'ultima cena di Gesù, come le abbiamo rico­
nosciute (il pasto cultuale e la lavanda dei piedi che lo sostituisce in
Giovanni) mirano entrambe alla comunione, all' «aver parte» con
Gesù nostro salvatore. Al dono di sé significato dalla cena eucaristi­
ca corrisponde il dono costante di sé simboleggiato dalla lavanda dei
piedi. Il discepolo deve «servire» per dare al suo culto il sigillo della
verità piena. Luca ha esplicitato questo dovere del servizio nelle pa­
role che Gesù rivolge ai Dodici dopo l'istituzione dell 'eucaristia (Le
22,24-27), Giovanni l 'ha precisato caratterizzandolo con l 'amore.
Amarsi gli uni gli altri (Gv 13,35), dello stesso amore di Gesù, costi­
tuisce la realtà simboleggiata dal culto: quest'ultimo è il significante
della carità divina che fonda e anima la comunità dei discepoli del
Cristo, come, a modo suo, diceva la teologia classica, quando parlava
di sacramentum et res.

111
Due tipi di memoria sono richiesti al discepolo di Gesù: una con
l'azione liturgica, l'altra con un comportamento di servizio. La Chie­
sa è invitata a due azioni diverse, una nella vita del culto, l'altra nel­
l'esistenza profana, ma l 'una e l'altra sono ugualmente orientate ver­
so l'amore dei fratelli: ambedue perseguono il fine di animare la
Chiesa. Una è simbolo per mezzo del cibo, l 'altra esprime, per mez­
zo del gesto di un servizio idoneo, la vita nuova dei cristiani. L'una e
l'altra manifestano, nell'azione liturgica o nel gesto di carità, la pre­
senza attraverso l'assenza del Signore vivente.
La dualità culto/esistenza appare dal testo stesso. Il termine
koinonia può significare la «comunione al corpo del Cristo» (l Cor
10,16), ma anche la comunione fraterna: non solo l'intesa del cuore,
ma la condivisione dei beni in quella che diviene la «comunità» dei
discepoli. Questi due sensi corrispondono all'uso del Nuovo Testa­
mento che - l'abbiamo detto prima - nomina con parole di origine
cultuale i servizi della carità esercitati dalla comunità. È così che le
parole leitourgia, thysia significano a volte la colletta, a volte il dono
di sé : è come se il linguaggio cultuale, spogliato del suo uso proprio,
servisse a descrivere il «Sacrificio spirituale>> (Rm 1 2, l ) che caratte­
rizza ormai la vita cristiana. Lo stesso fenomeno di duplice senso si
ritrova nella duplice denominazione riferita dal Nuovo Testamento
per indicare la liturgia eucaristica, ossia «frazione del pane» e «cena
del Signore».
Ali 'i nizio della nostra presentazione, abbiamo fatto osservare
l 'esistenza di due modi di esprimere la vita cristiana: insieme al cul­
to, oggetto principale della nostra ricerca, si è sempre presentata
l 'esistenza nella sua quotidianità, dualismo concentrato nel rappor­
to culto/esistenza. Si impongono due tradizioni, una cultuale, l'altra
testamentaria. Io devo adottare l'una e l 'altra, ritmando la loro pre­
senza.

B. Messa, Cena e Calvario

Due azioni, nel Cenacolo e al Calvario, si riferiscono ai due rac­


conti della Cena e della Passione. Il loro rapporto è quello di due ti­
pi di «sacrifici». Sul Golgota, Gesù offre la sua vita in un atto che può
qualificarsi come «sacrificio personale». Al Cenacolo Gesù ha volu­
to simboleggiare questo sacrificio personale con un'azione liturgica
che, in un certo senso, può essere chiamata «sacrificio cultuale». La

112
Cena è simbolo del dono di sé da parte del Cristo in croce per la mol­
titudine.
La messa ripete il rito dei primi cristiani che hanno ripreso ed
esplicitato l'azione di Gesù nella Cena. In questo senso, c'è ripeti­
zione non del «pasto» come Gesù ha potuto viverlo, bensì dei gesti e
delle parole rituali, secondo il senso dato loro da Gesù. Per q uesto il
celebrante proclama il racconto eucaristico e lo gestualizza; pronun­
cia così le parole di Gesù come la tradizione, in modo diverso, le ha
tramandate. Questa indipendenza della tradizione nei riguardi degl i
ipsissima verba di Gesù ha una grandissima importanza perché si­
gnifica che la Chiesa è i nvitata a riferirsi con libertà all'evento pas­
sato della Cena; solo la tradizione può permettersi di modificare
queste parole per renderle più pregnanti o più esplicite.
La messa, come la Cena, simboleggia anche il frutto del sacrificio
del Cristo. La teologia lo dichiara quando parla del «sacramento»: la
messa è allora simbolo (efficace ) del l'alleanza stabilita da Gesù che
offre la sua vita sulla croce, e sigiiJata da Dio che risuscita suo Figlio.
La messa non rappresenta quindi l'evento stesso della croce ma la
Cena, che, simbolicamente, anticipava il mondo nuovo inaugurato da
Cristo; nella Cena i discepoli sono ri uniti attorno a Gesù e, acco­
gliendo il dono che egli fa loro, rappresentano già la futura comunità
unita al Signore vivente.
Cena, croce e messa costituiscono apparentemente tre poli del
pensiero; di fatto essi sono raggruppati a due a due. La messa è col­
legata con la Cena, la Cena è collegata con la croce, di modo che, in
un certo senso, la messa è collegata con la croce. Se la messa rappre­
senta il Calvario, essa tuttavia non lo ripete; avviene come per la ter­
ra che, ogni mattino, si presenta al sole che sorge anche se conti­
nuiamo a dire che è il sole ad alzarsi ogni giorno; ogni giorno la Chie­
sa si presenta al Calvario, rivivendo i gesti di Gesù nel Cenacolo, che
anticipavano non solo la sua morte ma la sua risurrezione.
Precisiamo bene. Se la messa e la Cena sono entrambe azioni li­
turgiche, esse prendono il loro senso dal loro rapporto con l 'unico
passaggio pasquale del Cristo al Calvario, e con l'esistenza intera di
Gesù Cristo pre-pasquale e post-pasquale.
E quindi, la messa può e deve essere chiamata sacrificio a condi­
zione di precisarne il senso, perché la sua comprensione è � tata oscu­
rata dalle controversie che hanno opposto Lutero al cattolicesimo
del suo tempo, ed è difficile non esserne influenzati. Entriamo in un
campo pieno di insidie.

113
Sommariamente possiamo dire che il «sacrificio» si articola in
una struttura di scambio tra l'uomo e la divinità , scambio che di per
sé suppone la coscienza di una distanza, identificata a volte con un
debito originario di esistenza più profondo del peccato dal quale ci
si vuole liberare. Attraverso il sacrificio, l'uomo cerca di colmare
questa distanza e simboleggia l'unione che desidera offrendo ciò di
cui si priva; con questo mezzo rinuncia al possesso immediato delle
cose per arrivare al donatore.
II sacrificio personale di Gesù sulla croce mette fine ai sacrifici cul­
tuali del passato. L'unione è realizzata in profondità, la «distanza» non
esiste più non solo tra Gesù e Dio, ma tra l'uomo nuovo e il Padre.
Simboleggiando nella Cena il dono totale di sé per la moltitudine,
Gesù ha aperto la possibilità di fare memoria del suo sacrificio sotto
una forma che viene detta «Sacramentale» . L'eucaristia è un'azione
sacramentale che fa memoria del gesto di Gesù nella Cena; essa si ri­
ferisce in ultima analisi alla croce, ma non aggiunge niente al sacrifi­
cio del Calvario. Essa esprime nel corso del tempo quello che Gesù
ha inteso significare nella sua ultima cena: la vita data e comunicata.
In che senso la messa è un «Sacrificio»? Non come se la messa
· rosse un mezzo per stabilire l'alleanza, perché questa è già stata com­
piuta sulla croce e attualizzata nel battesimo che ha costituito i mem­
bri della Chiesa come esseri nuovi. Sono ora questi nuovi viventi che
esprimono la loro fede, la loro azione di grazie, la loro invocazione
di un pieno compimento.
Tuttavia, si può dire che la messa è ancora un «sacrificio», perché
se la Chiesa è già corpo del Cristo, se è già unita al suo Signore, non
lo è ancora pienamente. Deve, ancora e sempre, «passa re» dalla mor­
te alla vita: il suo atto simboleggia il passaggio che avviene conti­
nuamente. Se esiste ancora una distanza, c'è ancora, in un certo sen­
so, sacrificio. La Chiesa non è pienamente corpo del Cristo, essa de­
ve esserlo.
Come la Cena è e non è il sacrificio di Gesù in croce, sacrificio
che ha costituito l'essere nuovo del Cristo, così la messa è un sacrifi­
cio in quanto è simbolo del passaggio di tutta la comunità ecclesiale
verso l'alleanza nuova e definitiva; essa afferma il nuovo essere, con­
testa il passato, riconosce l'abolizione della distanza, dice l'essere
nuovo. Essa non lo è, in quanto, come Gesù nella Cena non è morto,
analogamente anche la Chiesa non è realmente morta al peccato, al­
la distanza . Come Gesù nella Cena deve ancora morire, così la Chie­
sa deve attualizzare nell'esistenza il suo essere nuovo. La messa è

1 14
pertanto un autentico «sacrificio» ma tutto spirituale, perché è l'of­
ferta di se stessa in quanto vive per mezzo di Gesù; essa dona se stes­
sa ricevendo il dono dal Padre.
La messa, abbiamo detto, è un «sacrificio di lode». In effetti que­
sta denominazione unisce tra loro due parole che per le orecchie
contemporanee si conciliano difficilmente: il sacrificio non evoca
forse l'immolazione, mentre la lode non fa piuttosto pensare ad ac­
clamazioni di gioia, nella riconoscenza per aver ricevuto dall'Altro?
Ed è precisamente qui che bisogna cambiare il nostro concetto di sa­
crificio, che non è necessariamente collegato alla sofferenza e all 'im­
molazione. Ricordo semplicemente che nell'espressione «sacrificio
di lode » questa parola, al temine di una lenta evoluzione, trova il suo
senso originario, cioè ciò che «rende sacro>>, ciò che riallaccia la re­
lazione con Dio.
Alla messa la lode di Dio è proclamata nei confronti di colui che
ha strappato il proprio Figlio alla morte e ha fatto esistere la comu­
nità dei credenti. Ne consegue ovviamente il perdono dei peccati, re­
stando inteso che l'espiazione che l'ha preceduta non significa puni­
zione per la colpa, ma riconciliazione dopo una rottura.
Qualificando la morte di Gesù come «Sacrificio», non si dà dun­
que a questo termine il senso che esso ha abitualmente nella storia
delle religioni; il sacrificio di Cristo consiste nel fatto che Gesù, dan­
do liberamente la sua vita per riprendcrla ( Gv l 0, 1 7s ). è stato fede­
le fino alla fine e ha così riuniti tutti gli uomini che egli rappresenta­
va davanti al Padre.
Quanto al sacrificio della messa, esso è un sacrificio non cruento,
come l'ha precisato il concilio di Tre nto; si può anche dire che esso è
un «anti-sacrificio», perché morendo sulla croce Gesù ha posto ter­
mine ai sacrifici dell'antica alleanza . È proprio quello che diceva l'e­
sclamazione del Battista: «Ecco l'agnello di Dio . . . ». Con Gesù, Dio
accorda la pienezza del perdono, e quindi della vita, a Israele e al
mondo. Gesù non è qui la nuova vittima cultuale, ma è colui ad ope­
ra del quale Dio interviene offrendo agli uomini la riconciliazione
perfetta con lui.

C. Accesso a un mondo simbolico

Se durante tutto questo lavoro abbiamo fatto spesso ricorso al­


l'espressione «Simboleggiare» o «simbolico», è opportuno dimostra-

1 15
re in che modo con questi termini possiamo unificare dati apparen­
temente contrari riguardanti i testi eucaristici.
Di solito il termine «simbolico» viene assimilato a «non-reale»,
come quando si dichiara: «Non è che simbolico», parlando ad esem­
pio del franco simbolico che corrisponde a una grossa somma di de­
naro che bisognerebbe versare. Così lo capivano i teologi ai . tempi
del concilio di Trento: essi si opponevano ai calvinisti, i quali stima­
vano che l'ostia era solo una presenza immaginaria. Per noi oggi il
simbolico non contraddice il reale, ma ne è il senso profondo.
Per capire bene questo concetto, il lettore, se fosse necessario,
dovrebbe riandare a quanto ho già esposto riguardo al simbolo, nel
c. 3, a proposito del mio studio della parola di Gesù sul pane. 1 Il sim­
bolo evoca oggetti o comportamenti che mostrano uno stretto rap­
porto tra ciò che si vede in modo sensibile e immediato e una realtà
umana pi� elevata o spirituale non immediatamente visibile; l'appa ­
rire di una luce può portare gioia, speranza; un sorriso non è solo un
segno di benevolenza, manifesta che due persone sono unite nella
benevolenza. Così il sentimento che spontaneamente evochiamo da­
vanti alla natura o a un pegno di affetto: l 'oggetto contemplato o
conservato preziosamente suggerisce una presenza di un altro ordi­
ne, che non è immaginaria. che ci parla . . .
In un simile contesto, l 'azione liturgica si situa a u n livello inter­
medio tra le realtà profane e le realtà puramente celesti, livello che
viene volentieri qualificato «sacramentale». Ma bisogna specificare
la natura del sacramento. Abitualmente si caratterizza come uno
«strumento di salvezza»: il battesimo fa rinascere e aggrega alla
Chiesa; l'eucaristia fa partecipare ai frutti di una vita in Cristo. In tal
modo il sacramento è un rito efficace di grazia che. secondo la cate­
goria di causalità, produce quello che significa. Questo modo di par­
lare si fonda su una concezione del segno secondo la quale il signifi­
cato (la salvezza) è un 'altra cosa rispetto al significante (la materia
utilizzata): due mondi vengono così legati insieme nel sacramento,
mediatore della grazia.
Ora, questa presentazione non corrisponde alla maniera biblica
di pensare. Invece di collegare le cose tra loro attraverso i legami di
causa-effetto, si preferisce ragionare per integrazione: i figli portano

1 Confesso la mia dipendenza da uno studio eccellente di E. 0RTIGUES, Le di­


scours et le symhole, Aubier, Paris 1962, e anche dallo studio di G. DURANO, L'imagi­
nation symbolique, Paris 1964.

1 16
le conseguenze delle azioni dei padri, non per un legame di causalità,
ma perché i figli sono in qualche modo inclusi nei lombi dei padri.
Con questo non si rifiuta la categoria di causalità, ma si adotta un al­
tro punto di vista.
In effetti, questo punto di vista è stato assunto da un 'altra tradi­
zione ecclesiale che si rifà non tanto a sant'Agostino quanto a Dioni­
gi l'Areopagita (V-VI secolo). Secondo questa tradizione, che è an­
cora viva nel mondo orie n tale, si preferisce il termine «mistero)) a
quello di «sacramento». In tale prospettiva, l'abbiamo detto, il mon­
do sensibile nel quale si esprime la liturgia non è un trampolino che
rimanda a un intelligibile altro da lui, ma è l'epifania del Dio creato­
re e redentore. Per questo i misteri liturgici non sono intesi come
«strumenti di salvezza)), bensì come azioni che, ognuna a suo modo,
simboleggiano il mistero unico di Dio in relazione con l 'uomo attra­
verso il Cristo.
Celebrando Dio nell 'eucaristia, la Chiesa offre molto più di uno
strumento di salvezza , essa compie un atto salutare o, diremmo noi
oggi, un «atto di linguaggio>>. Essa esprime simbolicamente il miste­
ro che essa fa esistere. E questo suppone che si lascino provvisoria­
mente da parte le categorie di causalità per prendere quelle della
simbolica: l'azione eucaristica è e non è il mistero di Gesù celebrato
in azione di grazie a Dio.
Questa presentazione offre molti van taggi. Essa manifesta l'im­
mediata continuità che unisce la messa alla Cena. La messa attualiz­
za le parole di Gesù, perché attraverso lo Spirito è sempre Gesù che
agisce. Nel passato egli anticipava simbol icamente il suo passaggio,
la sua Pasqua di salvezza; oggi esprime il passaggio che la Chiesa fa
grazie a lui e in lui. Stesso agente, stessa azione. Questo passaggio
non è propri amente un «effetto» dell'azione liturgica, è l'azione stes­
sa. Mediante il suo linguaggio eucaristico la Chiesa vive ciò che Ge­
sù ha vissuto, celebra la sua presenza invisibile e invoca il compi­
mento della sua venuta nell'ultimo giorno.
Altro vantaggio: non ridurre l'eucaristia a un ruolo secondario,
parallelo agli altri sacramenti, ma riconoscervi la sorgente della vita
cristiana. L'eucaristia è la vita cristiana allo stato simbolico. Se la
messa è obbligatoria, non lo è per approfittare dell 'unico mezzo di
salvezza che è la croce, perché i cristiani sono già uniti alla croce sa­
lutare a causa del battesimo; ma lo è piuttosto per il bisogno di vive­
re esprimendosi e nutrendosi. La pratica liturgica è uno degli aspet­
ti dell'esistenza comune in Cristo.

1 17
D. Gesù è simbolicamente presente attraverso la sua assenza

Qual è quindi il mistero della «presenza reale»? Il termine «pre­


senza» deve essere precisato. Si devono evitare due eccessi: il primo
consiste nell'identificarla con una presenza di ordine materiale, il che
ha generato come contraccolpo lo spiritualismo esagerato a suo tem­
po attribuito a Berengario di Tours. L'eccesso inverso consiste nello
«spiritualizzare» talmente l'eucaristia da farne unicamente la presa di
coscienza di una realtà permanente, quella della salvezza offerta, quel­
la del Cristo vivente nei secoli, senza un vero incontro sacramentale.
Tra questi due eccessi, è possibile una via di mezzo, quella della
simbolica: il pane è e non è il corpo di Cristo. N on sono io ali' origine
del mistero, non sono io che creo la presenza del Cristo: in questo
senso il corpo del Cristo è oggettivamente presente. Ma an c h 'io, nel
dialogo che Dio instaura con me, devo riconoscere questa presenza:
senza la fede resto fuori del mistero. È certamente legittimo chie­
dersi che cosa sia il pane senza questo riconoscimento, ma il proble­
ma, posto in questo modo, non esprime i dati del testo: Gesù non par­
la a tutti ma ai Dodici e ai suoi fedeli discepoli. L'affermazione «que­
sto è il m io corpo» ha valore solo nella relazione che li unisce. L'ab­
biamo già sottolineato trattando della parola sul pane.
Non succede forse per l'eucaristia quello che è avvenuto per il
corpo del Risorto che i discepoli vedono con i loro occhi? Si pensa
spesso che l'oggettività del corpo del Risorto consista nel fatto che
lo si può <<toccare» o «vedere». L'oggettività delle apparizioni sta in­
vece nel fatto che non sono soggettive : esse dipendono dall'iniziati­
va del Risorto e non dall'immaginazione dei discepoli. È oggettivo
perché non è soggettivo. Succede lo stesso per l'eucaristia. La pre­
senza è oggettiva, in quanto non ne sono io l'autore, non sono io che
dichiaro l'identità tra il pane e Gesù, ma sono io che, con la Chiesa,
credo e dichiaro che il pane è divenuto Gesù che ci offre la sua vita.
Può succedere che si parli dell'eucaristia come di una realtà indi­
pendente da colui che la riceve, come se l'azione di Gesù si limitasse
alla trasformazione del pane nel suo corpo, quando invece i testi bi­
blici non cessano di mostrare che essa è legata a un dialogo voluto
da Gesù con i suoi discepoli. È necessario restaurare il ruolo della fe­
de nel mistero eucaristico: nel pane consacrato riconosciamo il Si­
gnore, pane della vita. Ma se io mi chiedo in astratto, come se fossi
un n on credente, che cosa è il pane, constaterei che esso è semplice­
mente e sempre caratterizzato d alla sua funzione nutritiva.
.

118
Bisogna andare più avanti nel discorso. Questo incontro di Gesù
nel pane eucaristico mi porta prima di tutto a Dio; il progetto di Ge­
sù infatti si identifica con il progetto di Dio stesso. In Gesù sono in
comunione con l'opera di grazia di cui il Padre è la sorgente. E subi­
to ci mettiamo a lodare Dio per quello che ha fatto in Gesù; azione
di grazie e lode anche per la Chiesa, perché in Gesù essa vive nell'a­
more e riceve lo Spirito Santo.
Inoltre questa comunione al progetto di Gesù ci spinge in avanti,
in un movimento simile a quello manifestato nei racconti delle appa­
rizioni del Risorto. Dopo il riconoscimento ( «Sono proprio io!» dice
il Risorto ) , viene la missione ( «Andate ! » ) . Mediante l'incontro cul­
tuale, sono inviato nel mondo; l'eucaristia si apre nel servizio frater­
no. La memoria eucaristica si manifesta nella memoria esistenziale.
La «presenza>> non ha niente di statico: essa è immediatamente
attiva, è «sinergia», secondo l'espressione dei teologi ortodossi . Cor­
risponde alla presenza che produce l' «esempio>> della lavanda dei
piedi , interamente finalizzata al l'effettiva esecuzione del servizio.
Noi sfociamo quindi nell'affl!rmazione «l'eucaristia fa la Chiesa».
Il paradosso consiste nel fa tto che Gesù, pur rimanendo di fronte al
gruppo dei suoi discepoli , diventa loro nutrimento. Trasforma il
gruppo dei discepoli in una com unità che esiste solo per mezzo di lui
e in lui. Nel linguaggio simbolico i discepoli sono il simbolo della
moltitudine evocata da Gesù. E il Cristo si dona loro come cibo. Egli
è il nutrimento della Chiesa. Nel passato, l'espressione corpus mysti­
cum designava propriamente l'eucaristia: oggi è la Chiesa che viene
chiamata «Corpo mistico» del Cristo. Questo cambiamento di senso
fa riflettere: l'accezione primitiva ricorda il ruolo fondamentale del
sacramento per la realtà della comunione tra il Risorto e l 'insieme
dei credenti. «Corpo mistico», la Chiesa è e non è il corpo del Cristo.

1 19
INVIO

Per natura sua l 'eucaristia è contestataria. Per i primi cristiani es­


sa non è un semplice elemento in una vita cultuale ben organizzata
che cercavano di istituire e regolamentare nei minimi dettagli. Quan­
do la comunità non aveva ancora ricevuto il riconoscimento dei pub­
blici poteri, quando era in situazione di debolezza e di persecuzione,
le cose andavano diversamente. Consideriamo questi cristiani, la­
sciando che la nostra immaginazione ricostruisca la loro vita nei pri­
mi secoli del cristianesimo.
Mi vedo in preghiera con i fratelli nell'intimità delle case in cui si
riuniscono, momentaneamente separate dal mondo esterno. Lascio il
mondo degli affari, d eli 'ambizione. de li 'ingiustizia, del denaro, e an­
che il mondo dove gli uomini soffrono. Sce ndo in un rifugio di pace.
Sì, ho la tentazione di richiudermi qui, per fuggire da questo mondo;
ma resisto, sapendo che devo presto risalire in superficie, in un mon­
do turbolento e anche nemico.
Eccomi dunque in comunità con uomini e donne che hanno opta­
to per Gesù Cristo, che vogliono vivere e annunciare la buona no­
vella della giustizia e dell'amore. L'assemblea eucaristica non è un
tempo di evasione in un mondo di sogno, essa è un aiuto comunita­
rio per aver la forza di resistere alle prove di qualsiasi genere: corru­
zione, tortura. violenza e miseria , come noi le conosciamo ancora og­
gi nell'universo. Sì, la messa è essenzialmente contestataria.
Il fatto è che Gesù è un autentico figlio di Abramo, se mi riferi­
sco al pensiero di un autore ebreo, Andrea Néher. Secondo lui, l'e­
breo ha posto la contraddizione nella propria esistenza: egli è sia un
«ebreo» colui che, secondo l'etimologia della parola, passa e fa pas­
sare; è anche Israele che si stabilisce sulla terra promessa e, in segui-

121
to, effettivamente donata. Deve incessantemente mantenere in un
vivo equilibrio la forza che lo spinge a lasciare la sicurezza della sta­
bilità e l'istinto della felicità che lo abita.
È questa la condizione del discepolo di colui che ha voluto mori­
re durante la Pasq ua, ossia durante la festa che fa passare da un luo­
go a un altro. Abramo aveva già lasciato la grande civiltà di Ur in
Caldea, Mosè non poteva accontentarsi delle ricchezze dell'Egitto, il
popolo attraversa il deserto: bisogna passare altrove.
Bisogna avere in sé un'apertura costante verso il meglio, ispirata
sempre dal Dio vivente, colui che Gesù pregava nelle sue notti. Ge­
sù ha rovesciato le barriere dietro le quali si rinchiudevano troppi
suoi contemporanei. Il gesto compiuto al Cenacolo significa il suo
passaggio finale.
Ripenso allora all'atmosfera nella quale vivevano gli ebrei, op­
pressi dagli egiziani, dai greci e in seguito dai romani, che aspirava­
no con tutte le forze alla liberazione politica, certamente, ma soprat­
tutto alla liberazione religiosa. Quest'aspirazione era vissuta inten­
samente durante le feste pasquali . La Pasqua è fondamentalmente
contestazione di un ordine ingi usto, perché D io stesso lo contesta.
Non è certamente il momento di preparare la rivoluzione arma­
ta, ma è la mensa ove si alimentano e si sostengono i testimoni del­
l'amore di Dio e della giustizia. L'essenziale è nella forza contenuta
nel fermento che fa lievitare la pasta di questo mondo.
Questa retrospettiva si adatta solo alle nazioni dove la giustizia
è beffeggiata? Ma la giustizia è beffeggiata in tutti i paesi del mon­
do ! È il nostro sguardo che si è abituato all'ingiustizia e che tollera
ogni compromesso con lei. Se, invece, l'eucaristia scombussola le
mie abitudini, non solo perché io vi sento proclamare il messaggio
della buona novella, ma perché io mi trovo unito in comunità con
colui che ha dato la vita per il regno della giustizia e dell'amore, al­
lora la parentesi cultuale nella mia esistenza profana deve produrre
i suoi effetti, perché mi rende capace di rischiare la mia situazione e
la mia vita.
Questo invito lo abbiamo sentito constatando il modo in cui Ge­
sù si comportava di fronte alla morte, ma ora con la liturgia eucari­
stica non si tratta più semplicemente di un ordine ricevuto né di un
modello da contemplare, si tratta di una comunione, di una «siner­
gia» che ormai mi abita.
Il passare non è un semplice transito da un luogo a un altro; esso
implica già una presenza sempre più approfondita. Io arrivo al mi-

122
stero dell 'eterno che feconda il tempo. Se Dio non fosse Dio, gli ba­
sterebbe dare ordini da eseguire; ma Dio accompagna incessante­
mente colui che egli ha scelto per passare da una sponda all'altra: si
rende presente con una presenza attiva che è il suo progetto su li 'u­
manità finalmente riconciliata con lui e in pace con se stessa. Israele
aveva già presagito tutto questo. Il discepolo di Gesù sa che lo Spiri­
to gli è stato dato fin d'ora, per aiutarlo a passare sull 'altra riva.

123
POSTFAZIONE

Per concludere questo breve studio, ho pensato che fosse oppor­


tuno dare la parola all'uno o l'altro dei miei lettori, un cristiano abi­
tuato al linguaggio classico: egli si aspetta da me risposte per risol­
vere le eventuali ambiguità della mia esposizione.

Dopo un discorso tanto bello, come discernere l'essenziale da


quanto è secondario parlando dell'eucaristia? Condivide la presenta­
zione abituale che pone al primo posto la presenza reale?

La «presenza)) è senza dubbio un aspetto fondamentale dell'eu­


caristia; ma non è il punto di partenza nella presentazione neotesta­
mentaria del mistero eucaristico. Se il rito eucaristico sfocia sulla tra­
sformazione del pane e del vino nel corpo di Gesù, quest 'azione tut­
tavia è compiuta in vista di un risultato voluto da Gesù, vale a dire la
comunità degli uomini chiamata Chiesa. Subito dopo la morte di Ge­
sù il risultato è stato raggiunto. La messa ci rende presenti all 'azione
di Gesù che con la sua morte ottiene la vita divina per tutti gli uo­
mini. Questa era la prima presentazione dell'azione eucaristica. In
seguito ci si è interessati al fatto che in questo modo Gesù diventava
presente, e se ne è sviluppata la conseguenza, ossia I'.adorazione di
colui che è là, sotto le specie del pane e del vino.
Ai nostri giorni l'adorazione eucaristica occupa un posto molto
importante, rispondendo così all'appello di Giovanni Paolo II nella
sua enciclica del 2003. La pratica è molto bella, ma non dovrebbe tra­
sformare l 'oggetto di quest'adorazione in una specie di idolo statico,
separato dalla celebrazione eucaristica che rimane «sorgente e som­
mità della vita cristiana» , come diceva il Vaticano Il. Dobbiamo man-

125
tenere con fermezza l'orientamento che assume la celebrazione, cioè
la salvezza proposta a tutti gli uomini, altrimenti rischiamo di fare
dell 'ostia un vero idolo, come facciamo costantemente con le realtà
di questo mondo.
L'eucaristia attualizza la Cena durante la quale Gesù ha voluto
annunciare la sua morte per noi, per la salvezza di tutti gli uomini:
questo è il senso del richiamo a «fare memoria di me». La messa at­
tualizza la Cena del tempo passato: Gesù si dona a noi come si è da­
to allora, ma ora è il Risorto che viene a prenderei in lui.

Posso chiedere, forse in modo un po ' impertinente, se lei celebra la


messa ogni giorno? Non si tratta forse di un ideale?

Non mi piace la parola «ideale»; perché, esiste forse la perfezio­


ne in quest'ambito? Sant'Ignazio incoraggiava ad andare in questo
senso, niente di più . Detto questo, devo riconoscere che celebro ogni
giorno. Perché? Non perché è «cosa meritoria» e neppure per rice­
vere dei soldi, ma perché ci tengo a ritrovarmi ogni giorno in contat­
to con colui che, con la sua offerta sulla croce, è morto per me. È que­
sta l'azione dello Spirito Santo che mi porta verso Gesù in croce. Co­
me la terra si presenta ogni giorno alla luce del sole, così anch'io mi
sento ogni giorno chiamato a gustare il calice di Gesù che mi dà la
forza di vivere secondo il vangelo.
Durante tutta la mia esistenza sono condizionato dal ritmo che
unisce il giorno e la notte o, ancora, la veglia e il sonno. Per espe­
rienza so che se non dormo, è inutile che mi metta a lavorare. Ora
con il mio battesimo sono nato una seconda volta, e quest'altra vita
deve essere mantenuta con un nutrimento speciale, perché non di­
venti rapidamente anemica.
Se mi dedico alla liturgia eucaristica, è perché ne ho un bisogno vi­
tale. Certo, la mia esistenza ne è complicata: invece di applicarmi sem­
plicemente ai miei doveri quotidiani, devo sottrarre un po' di tempo
per quest'altra occupazione, che sembra inutile, ma che mi è indi­
spensabile se voglio vivere la fede cristiana. Si tratta di un'esigenza
che si impone se considero l'eucaristia non come un «mezzo» per ot­
tenere grazie, ma come una forma espressiva fondamentale della mia
vita cristiana. Per esistere in pienezza ho bisogno di esprimermi così.
Non vado in chiesa per incontrare colui che mi assicura il riposo
dell'anima né per riversarvi il peso delle mie difficoltà, ma per ascol­
tare l'invito a fare memoria di Gesù e a partecipare alla fondazione

126
sempre rinnovata della Chiesa. Sono trascinato nel movimento di
Gesù che dà la sua vita per il bene della moltitudine.

Capisco il motivo che la fa partecipare quotidianamente alla mes­


sa. Ma questo è per lei un atto personale oppure la partecipazione a
un culto collettivo?

Sembra ormai passato il tempo in cui i fedeli «assistevano» alla


messa per privata devozione o per semplice obbedienza al precetto
festivo e, spesso, senza fare la comunione. Dopo il concilio Vaticano
II, la liturgia rinnovata e l'insegnamento nella prospettiva della Lu­
men gentium hanno favorito nei cristiani la presa di coscienza del ca­
rattere fondamentalmente comunitario della celebrazione eucaristi­
ca. Hanno capito meglio che essa fa parte della vita cultuale della
Chiesa come unico corpo. Evidentemente parteciparvi è sempre un
atto personale e certamente Gesù instaura una relazione personale
con ciascuno di coloro che fanno la comun ione, ma lo Spirito spinge
a vivere il rito in unità con tutti coloro che comunicano in Gesù Cri­
sto e a condividere le ricchezze del l 'incontro con lui.
Paolo dichiara infatti che «i) pane che spezziamo non è forse co­
munione [koinonia ] con il corpo del Cristo?» ( l Cor 1 0. 1 6) . Questa
parola, che definisce il risultato dell'azione eucaristica, si incontra
negli Atti degli apostoli per indicare quella che veniva chiamata la
«comunione fraterna»: non solo l'accordo dei cuori, ma la condivi­
sione dei beni in quella che diventa la «com unità» dei discepoli.
Rinvio a quanto ho detto circa J 'uso neotestamentario di indica­
re con termini di origine cultuale i servizi della comunità. Allo stes­
so modo esiste un'ambivalenza nella maniera di designare la liturgia
eucaristica: «frazione del pane» e «Cena del Signore)). Nella prima, si
riconosce l'effettiva «condivisione)) del pane celebrata dalla comu­
nità primitiva con la sua koinonia; nella seconda, il pasto fraterno
suppone la presenza del Signore nel rito eucaristico propriamente
detto. Esiste un rapporto che unisce strettamente culto ed esistenza.

Secondo lei, la devozione al Signore del tabernacolo non ha gran­


de importanza: che pensare dell'«esposizione del Santissimo»?

Tocchiamo il problema della presenza reale del Signore nel san­


tissimo sacramento, dopo il sacrificio della messa: il Signore è pre­
sente nelle ostie conservate nel tabernacolo?

127
Secondo la risposta classica il Signore non è presente fisicamen­
te nell'ostia consacrata: sotto le specie del pane c'è la presenza «SO­
stanziale» del Signore; in altre parole, io vedo solo pane, ma grazie
alla mia fede so che il Signore si dona a me attraverso «l'accidente»
del pane. Non si può, assolutamente, parlare di «panificazione»: i l
Cristo non è «nel» pane.
Come procedere per pervenire a una nozione di «presenza» che
non è materiale? Bisogna anzitutto precisare che cosa si intende con
questo termine. Dio è sempre presente a questo mondo che egli por­
ta nelle sue mani, che fa esistere come dal di dentro, al di là di tutto
ciò che noi possiamo presentire. Il suo mistero non può essere circo­
scritto. Allo stesso modo il Risorto è all'opera, continua il suo com­
battimento fino alla fine per vincere il male nel mondo di quaggiù. I
santi e gli umili sanno che egli è presente, non facendo numero con
noi, ma essendo noi più di noi stessi. Come dunque definire la sua
presenza eucaristica?
Il termine «presenza>> comporta infatti ogni sorta di accezione.
Due eccessi vanno evitati. Il primo consiste nell'assimilare la pre­
senza eucaristica a una presenza di ordine materiale, come quella del
foglio di carta sul quale scrivo queste righe.
Il problema si è posto quando nel passato ci si è chiesto come po­
teva Gesù stare nello stesso tempo in cielo e nell'eucaristia sulla ter­
ra. Un tempo il fatto che il cielo fosse situato in un luogo determi­
n ato non disturbava gli spiriti; ma allora si sono sollevati problemi ir­
risolvibili nei quali sono caduti molti teologi nel IX secolo, andando
a finire in concezioni tanto materializzanti da provocare come con­
traccolpo uno spiritualismo esagerato, come quello di Berengario di
Tours, almeno nel pensiero dei suoi detrattori. E soprattutto il modo
di pensare non era più conforme a quello dei padri della Chiesa, co­
me l'ha dimostrato magistralmente Henri de Lubac.
Non diciamo di aver realmente superato questo stadio, perché la
pietà popolare considera facilmente gli elementi eucaristizzati come
se fossero cose materiali. Gli effetti della comunione sarebbero le­
gati «alla durata della presenza corporea di nostro Signore nel sog­
getto: quindici, venti , trenta minuti» è stato scritto nel 1 953 nel serio
Dictionnaire de spiritualité (col. 1204) . Il ringraziamento dovrebbe
durare «tanto quanto persiste in noi la presenza eucaristica, vale a di­
re circa un quarto d'ora» (col. 1232). Che pensare della confidenza
che mi ha fatto un archimandrita greco il 22 novembre 1 981: nelle
campagne le donne anziane raccomandano ai ragazzi di non giocare

128
nella strada nel giorno in cui fanno la comunione; potrebbero farsi
male alle ginocchia, rischiando così di profanare il sangue del Signo­
re per il fatto che dalle ferite può uscire con il loro sangue. Questa
raccomandazione sembra applicare agli uomini la prescrizione con­
cernente le donne durante il tempo della loro indisposizione me­
struale. • Non è forse un credere alla simbiosi del sangue di Cristo e
del sangue umano?
L'eccesso inverso consiste nello «spiritualizzare» a tal punto l'eu­
caristia che essa diventerebbe solo la presa di coscienza di una realtà
permanente, quella della salvezza offerta, quella del Cristo che vive
nei secoli, senza nessun vero incontro sacramentale.
Rimando a ciò che ho detto nel c. 7 circa il modo in cui si realiz­
za, all'interno della celebrazione comunitaria della Chiesa, l'incontro
con il Cristo vivente e, per mezzo di lui, con il Dio dell'alleanza. Ciò
che tengo a sottolineare ancora è che non si dovrebbe parlare del­
l'eucaristia come di una realtà indipendente da colui che la riceve,
perché i testi biblici non cessano di mostrare che essa si inscrive nel
dialogo di Gesù con i suoi discepoli e implica il ricevimento effetti­
vo da parte di costoro del pane e del calice.
La domanda si riduce a questo: la presenza sacramentale del Si­
gnore che si realizza durante l'azione liturgica è limitata nel tempo
della celebrazione o continua anche dopo?
Rispondo in primo luogo che. se il Cristo è presente nel pane e nel
vino consacrato, non è per effetto di una trasformazione fisico-chimi­
ca di questi alimenti ma in virt ù della sola parola del Signore. Dal mo­
mento che questa parola domina il tempo. pane e vino consacrati non
possono ritornare al mondo profano fino a quando restano un nutri­
mento assimilabile. Da qui viene l'esigenza del rispetto della santa ri­
serva eucaristica: questa è stata sempre collocata dagli ortodossi su un
altare situato dietro l'iconostasi, e dai cattolici in un luogo privilegia­
to all'interno dell'edificio dove il culto è stato celebrato.
L'intenzione primaria di questa «riserva» eucaristica, almeno
presso i cattolici, è la distribuzione ai malati e ai morenti che deside­
rano fare la comunione ma che non possono andare in chiesa.
Per quanto riguarda le pratiche di pietà davanti al santissimo sa­
cramento al di fuori della messa -.che sono state introdotte a partire

1 Secondo un testo di P. C. CARANICOLAS, vescovo di Corinto: Clefdes prescriptions


canoniques, pubblicato in Emmena (1979).

129
dal XV secolo -, la fede di coloro che le adottano è certamente viva,
e queste devozioni, fissando l'attenzione sulla santa riserva, che si
tratti di ostensorio o di guardare il tabernacolo, possono senza dubbio
favorire il raccoglimento della preghiera. Tuttavia c'è sempre per noi
terrestri il rischio di «materializzare» la presenza del Cristo nel pane,
di farne una «cosa» nel mondo degli oggetti, e questo sfiorerebbe ciò
che si potrebbe designare con il termine di «idolatria». Un prete san­
to, Maurizio Zundel, lo mostra con vigore in una raccolta di prediche
sull 'eucaristia che è stata recentemente edita in sua memoria.
Siamo preservati da questo rischio per opera di una fede autenti­
ca che tocca la «Sostanza>> dell'eucaristia, cioè il Signore stesso. Mol­
to bene! Ma come giustificare, per esempio, un predicatore che, par­
lando del tabernacolo, si estasiasse davanti al «divin prigioniero»?

Perché insistere sulla memoria e non tener affatto conto del sacri­
ficio? Accetterebbe di parlare della messa come di un sacrificio?

Spero che l'esposizione sulla memoria (al c. 5) risponda da sola


al «perché» da lei posto. Era di capitale importanza collegare alla
tradizione ebraica l'ordine di Gesù: «Fate questo in memoria di me ! »
p e r manifestarne l a portata e , d i conseguenza, per cogliere l'efficacia
stessa della celebrazione ecclesiale.
Per quanto riguarda il parlare della messa come «Sacrificio», ac­
cetto evidentemente di farlo, ma a condizione di precisare il senso di
questo termine, poiché la sua comprensione è stata oscurata in se­
guito alle controversie che hanno contrapposto Lutero al cattolicesi­
mo della sua epoca, ed è difficile non lasciarsi influenzare da esse. Mi
accontento di rinviare a quanto ho detto nel c. 7.

Nei testi, è questione di «pane» e di « vino>>; cosa pensa dell'opinio­


ne secondo la quale Gesù avrebbe voluto associare l'universo; e, come
conseguenza, pensare che l'ostia consacrata sia il simbolo perfetto del­
la natura umana? Con Teilhard de Chardin, noi troveremmo nell'ostia
consacrata il simbolo dell'universo: alludo a La messa sul mondo.

Apprezzo altamente la bella opera di Teilhard, e posso dire che


sono un po' geloso della presentazione magnifica e poetica che egli
dà alle sue intuizioni geniali. Io non ne ho affatto approfittato, forse
perché il suo pensiero sull'eucaristia sembra fondato sulla nozione di
transustanziazione, ciò che è perfettamente legittimo; ma io ho scel-

130
to un altro punto di partenza per la mia riflessione. Tuttavia ci tengo
a dire che è proprio uno dei suoi scritti policopiati che, nel 1 936, ha
ridato gusto alla mia vita cristiana: si trattava allora dell'ambiente di­
vino, sorgente di vita per tutti coloro che erano nauseati dal linguag­
gio teologico di quei tempi . Nel suo piccolo scritto La messa sul mon­
do Teilhard trae molte conseguenze dalle sue intuizioni sull'universo
che sottoscriverei volentieri.
Se generalizzo la mia intuizione, penso che l'errore consiste nel
collegare l'eucaristia al mistero deli 'incarnazione, come se Gesù non
si fosse solamente annientato prendendo la condizione di uomo: egli
avrebbe voluto prendere l'aspetto di una piccola ostia; questa picco­
la cosa bianca è il Signore del cielo e della terra. Ecco dove può con­
durre una certa idolatria del pane eucaristico. Si tratta invece del mi­
stero del corpo del Cristo che non è semplice mente quello di un in­
dividuo, bensì l 'umanità nuova, l 'uomo nuovo.

In definitiva, lei pensa che non si può pilì, oggi, essere soddisfatti
della formulazione dell 'insegnantento classico di «transustanziazio­
ne» per parlare di «presenza reale». Quale proposta alternativa?

Sono sempre del parere che questa formulazione, che risponde­


va a certi problemi del X I I secolo. oggi non basta più. Tende anzi a
essere desueta. Essa suppone non solo che si mantenga il vero senso
della parola «sostanza», che oggi non è più corrente, ma che ci si ac­
contenti anche di una filosofia di tipo «cosista)): pensando che la co­
noscenza umana sia capace di cogliere le realtà come sono, essa mi­
sconosce il carattere relazionale di ogni conoscenza; ignora il ruolo
di colui al quale il messaggio è rivolto.

Non c'è anche una difficoltà quando ci si domanda se la sostanza


del pane diventa la sostanza del corpo del Cristo? Si può ancora par­
lare di «sostanza» quando si tratta del corpo del Cristo?

Il problema sollevato concerne il rapporto di due realtà signifi­


cate dal pane. Per la transustanziazione, i due sono considerati suc­
cessivamente; per la simbolica, i due sono affermati immediatamen­
te come uno. Detto diversamente, non si tratterebbe di avere a che
fare con una realtà una sotto due interpretazioni differenti? La me­
desima realtà può essere vista sotto due aspetti da qualcuno che giu­
dica la situazione.

131
Ecco un paragone tratto dai vangeli. L'episodio delle spighe
strappate dai discepoli (Mc 2,23-28) è un atto che viene interpretato
diversamente: i farisei protestano contro questo comportamento che
qualificano come scandaloso, contrario alla legge. Per Gesù, si tratta
di un atto onesto nella misura in cui , a causa di Gesù, la legge non ha
più lo stesso valore. Un solo avvenimento è considerato con due giu­
dizi diversi. Nel mio gergo dico che l'episodio delle spighe strappate
è e non è un atto scandaloso. Possiamo anche generalizzare l'opera­
zione «simbolizzante» notando che Gesù è e non è il Figlio di Dio. La
differenza è operata dalla fede e dalla non-fede dello spettatore.
Propongo dunque di mantenere la partecipazione della comunità
aHa quale viene indirizzata la parola di Gesù. Si tratta di una parola
che è un atto per il quale l'altro deve impegnarsi. Il termine di «CO­
noscenza simbolica» permette di dire la realtà di questa conoscenza.
Da qui viene la formulazione «questo è e non è>> che sottintende l'ac­
coglime nto o il rifiuto dell'affermazione del locutore. Il reale è sem­
pre ambiguo, di un'ambiguità che solo il lettore può togliere: l'uomo
della strada vedendo un gi ovane che porta un mazzo di rose rosse al­
la sua fidanzata si accontenta di ammirare le rose. La fidanzata sco­
pre nel gesto del giovane un amore reale. Le rose sono rose rosse e
nello stesso tempo testimonianza di amore del fidanzato.
Succede così per la parola pronunciata dal sacerdote: l'ostia per
il credente è nutrimento divino, per il non credente che la ricevesse
è solo pane condiviso.

La sua presentazione non sfiora forse il protestantesimo?

Diffido del termine generico di «protestantesimo>>, che riveste


opinioni molto diverse nei confronti dell'eucaristia: per i calvinisti, la
presenza eucaristica non è che «simbolica>>, nel senso di «non-reale>>.
senso comune al tempo del concilio di Trento. È chiaro che io non
condivido questo modo di vedere, per la semplice ragione che il ter­
mine «simbolico>> non significa affatto «non-reale>>, poiché esprime
la «profondità del reale>>.
Per contro, condivido volentieri con loro e con gli ortodossi la
diffidenza nei confronti del termine «transustanziazione>>, che non è
affatto compreso ai nostri giorni. Ma io mantengo il pensiero che c'è
mutamento del pane in Gesù stesso. L'ostia consacrata ha un valore
universale, non creato da colui che la riceve, ma che è da lui ricono­
sciuta come tale. In che cosa consiste? Non si tratta di una sorta di

132
«incarnazione» statica; essa rappresenta propriamente un «invito» a
essere consumata per cooperare alla fondazione della Chiesa. Pre­
senza reale orientata sull'azione di Gesù alla quale io partecipo e che
mi conduce a lodare il Padre con tutti i miei fratelli.

Un 'ultima questione. Lei ha incominciato la sua carriera (1953)


studiando l'avventura di Francesco Saverio, dove mostra quale sia l'i­
tinerario mistico dell'apostolo, studio che ha conosciuto un grande
successo presso i suoi confratelli gesuiti. E lei conclude (2005) solle­
vando dei problemi sul dogma dell'eucaristia. Non è paradossale tut­
to questo ?

Che sia un comportamento paradossale, lo constato facilmente.


Ma è fondato. Non certo dichiarando che si tratta del frutto di un in­
vecchiamento, poiché mi sembra di poterne dare le ragioni.
Rivolgendomi ai miei primi anni di noviziato, mi ricordo delle
parole del mio padre maestro, quando gli confidavo le mie difficoltà
nei confronti del linguaggio della fede : «Dio sa, Dio può, Dio mi
ama». Egli aggiungeva: «Lascia cadere ora i tuoi problemi. Essi tro­
veranno una risposta in teologia». Sono pertanto vissuto con il peso
della mia insoddisfazione per circa dodici anni .
Di fatto, mi sono trovato buttato in una teologia di tipo «cosista»,
di cui mi sono lentamente liberato con la pratica dell'esegesi. Ho
compreso che un'affermazione deve essere situata nel suo contesto
letterario o vitale. Così la parola di Gesù sull 'eucaristia non è sem­
plicemente «questo è il mio corpo»; essa deve essere completata con
un «prendete» o con un «per voi», che richiede un dialogo. Più tardi,
ho compreso che le cose che io prendevo per realtà indipendenti da
me erano di fatto piene di significati vari, che potevano andare fino
a essere qualificati come «Simbolici». Non contesto la loro realtà, ma
discerno una profondità di senso che mi preserva da un 'interpreta-
,
zione di tipo cosista.
Ho affrontato poi il problema del «linguaggio» che penso spieghi
la conversione del pane nel Cristo risorto: è necessario utilizzare la
parola «transustanziazione» che dipende dal termine «sostanza», il
cui senso sfugge all'insieme dei cristiani? Perché, con dottori come s.
Bonaventura e molti altri, non fare un tentativo che poggi sulle re­
centi presentazioni del linguaggio? Il pane può essere simbolica­
mente caricato di parecchi sensi, quello del pane e quello del Risor­
to, secondo la fede di colui che comunica.

133
La difficoltà sta nel senso dato al termine «simbolico», che non
era conosciuto al concilio di Trento, ma che è pienamente accettato
oggi. L'ostia consacrata resta pane da mangiare, ma essa è anche pre­
senza del Risorto. Guardando l'ostia, sono portato dal desiderio di
partecipare al compimento del corpo del Signore, ciò che è il frutto
dell'apostolato. Eccomi interamente abbandonato al Signore viven­
te nei secoli o, più esattamente, impegnato nella sinergia che mi lega
a Dio.
Mi ritrovo oggi in questa preghiera:
La tua presenza, Signore, invade il mio presente,
e il mio presente allora diventa presenza all'al tro.

1 34
INDICE

Premessa . . . .. . . . . . . . ...... . . . .......... . . . . . . . . ......... .. ...... . . . . . ....... ........... . . . . .. . . . >> 5

Prefazione . . ......................... ... ..... .......... ................. .. .......... ............ » 7


UNA TAPPA N E LLA STORIA DELL'EUCARISTIA:
B E RENGARIO DI TOURS . .. . . . . .. . .. . ..... . . . . . .. . . .. ... . . . . . . . . .. ... . .. . . . . . . . .. . . .. .. . . . )) 8
IL NOSTRO PERCORSO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ..... . . . . . . . . . . . . . )) 10

Capitolo l
La pratica primitiva dell'eucaristia .... . . . . . . . . . . .. . . . .... . . . . . .. .. . .. . ... . . . . . » 13
A. L A CENA DE L SIGNORE .................................................. ............ )) 13
B. LA FRAZIONE DEL PANE ..... ................ ...................... ................... » 16

Capitolo 2
Le due tradizioni sull'ultima cena di Gesù . . . .... ......................... » 25
A. IL FATTORE LITURGICO .............................................................. )) 28
B. UN FATTORE ES I STE N ZI AL E ........................................................ » 32
C. Gu ADDII DI GEsù SE CO N D O LucA ...• .••••.•••••• . . .. . . . . . . . . ... .... . . . . . .
. » 33
Conclusione . . . . . . .. . . .. . . . . . . . . . .. . . .. .. . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . .... . . . . .. . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . » 44-

Capitolo 3
La parola sul pane . . ............... ............................ .. .... ......... ..... ....... >> 47
A. Qu ESTO . . . . . . . . . . . .... . . . . . . . . . . . . . . .................. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . . . >> 47
B. MIO CORPO . . . . . . . . ... . .. . . . . . . . . ... . .. . . . . . . . . . . . . .. ... . . . . . . ... . . .. . . .... . . . . . ... . . . . .... » 49
C. IL MIO CORPO CHE (È] PER VOI . . . . . . ... . . . . . . . . . . . ... . .. . . . . ..... . . . .. . ... . . . . . . » 50
D. «QU ESTO È» - PRESENZA REALE? . . . .. . . ... . . . . . . .. ... .. . . . . . .. .. . . .. .. . . .... » 51
E. « PE R VO I » ........... ........................................................... ............ )) 59

Capitolo 4
La parola sul calice . . ..... .. . . ........ .... ... ..... ...... .... ... .. .. .... .... .............. » 63
A. SITUAZION E DELLA PAROLA . . . . . . . .. . . . . . . . . .. .... . . ... .. . . . . . . ..... . .. . .. . .. . . . . >� 65

135
B. Q UESTIONI DI VOCABOLARIO .......... ............................................ >> 67
C. Q UESTO È IL MIO SANGUE DELL'ALLEANZA,
VERSATO PER LA MOLl'ITUDINE...... .................................................. >> 70
D. LA NUOVA ALLEANZA NEL MIO SANGUE VERSATO PER VOI ........ » 73
Conclusione ... .... . . .... . ...... . ...... . . . . ... . . .. . . . . .. . .. . . . .. . .. . . . . .. . . .. . . . . . . . . . . . . .
. . .. » 78

Capitolo S
«Fate questo in memoria di me» .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . >> 81
A. MEMORIA E INCONTRO CON DIO .............................................. » 82
B. MEMORIA E CULTO •. . . . • . • • . • . • • • • • • . . • . . • • . • • • • • • • • • • • . • • . • . . . . . • . • • . • • . . . . . • . • . . . . . . >> 85
C. «FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME» . . . .. .. . .. . . . . . . . . .... . .. .... .... . .. . . .. . . » 89
Conclusione . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. >> 95

Capitolo 6
Il pane della vita secondo Giovanni .. ................ .. . ... .......... ....... . » 97
A. IL TESTAMENTO DI GEsù (Gv 13) ............................................ » 97
B. GES Ù , PANE DELLA VITA (Gv 6) . ..... . �... . ..... . . . . . . . . . . . . . . . ....... . . . . . . . .. »100
c. LA DOMANDA DEL PANE . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . .. . ... . . . . .. . ..... . ......
.. . .. .. . . . . . . »104
D. SONO IO, IL PANE DELLA VITA . . ... . .............. . ... . ...... . . . . . . ..... . . . .. . . . . . » 106
E. IL PANE VIVO PANE CHE SI DONA PER ESSERE MANGIATO .......... »107
F. L'ASCESA AL CIELO E IL RUOLO DELLO SPIRITO.......................... »109
Conclusione .... . . .. . ... ... . . . . . . . . ... . . . . .. . . . . . . . . . . . . . .. . . . . .. . . . . . ..... . . ... . . .
. . . . . ... .. . >> 1 10

Capitolo 7
Apertura ..... . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . >> 111
A . CULTO E D ESISTENZA . . . . . . . ..... ... . . ... . ... ....... . . .. . .. . . . . . . . .. . . . . ..
. . . . . . . . . . . »111
B . MESSA , CENA E CALVARIO • . . . • . . . . . . • . .• • • . • . . • . . • • . • . . • . . . . • . . . . . . . • . • . . . . . . . • . . )) 1 12

C. ACCESSO A UN MONDO SIMBOLICO.............................................. » 1 15


D. GES Ù È SIMBOLICAMENTE PRESENTE
ATTRAVERSO LA SUA ASSENZA .... ... . . .. . . . . . . .. . . . . . . . .. . . . .. . .. ... . . . . . . . . .. . . .. . . . »1 18

Invio . ..... .. ......... ........................................... .................................... >> 121

Postfazione .... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . >> 125

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