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Ringraziamenti IX
5.Il caso dell’ormone della crescita bovina (parte prima): l’influenza sulla FDA
6.Il caso dell’ormone della crescita bovina (parte seconda): l’arte di mettere a
tacere le voci discordanti 1
Note
Sigle e acronimi
Ringraziamenti
Questo libro svela una realtà che fa male agli occhi e stringe il cuore, quella di
un’azienda arrogante che sfrutta con disinvoltura il dolore delle vittime e la
distruzione degli ecosistemi. Una pagina dopo l’altra, il mistero si svela. Si vede
prosperare un’impresa la cui storia «costituisce un modello di aberrazione in cui
si e impantanata la società industriale». Si stenta a crederci, ma la dimostrazione e
chiara e fa capire da dove la Monsanto tragga la propria potenza, come le sue
menzogne abbiano avuto la meglio sulla verità e perchè molti suoi prodotti,
presentati come miracolosi, si siano spesso rivelati un incubo. Nel momento in cui
l’azienda nordamericana mostra un’ambizione ancora piu «totalizzante» che in
passato - imponendo gli organismi geneticamente modificati (OGM) ai contadini
e ai consumatori di tutto il mondo questo libro autorizza a domandarsi, finchè e
ancora possibile, se possiamo permettere alla Monsanto di tenere in pugno (e in
provetta) il futuro dell’umanità e di imporre un nuovo ordine agricolo mondiale.
Non sono solito credere alla teoria del complotto, e non penso che l’operato
delle aziende sia sistematicamente machiavellico. Ammettiamo pure che i
benefìci relativi al progresso scientifico implichino il disordine come base
dell’ordine. Ma qui non c’e nessun ordine! Nonostante l’immagine di benefattrice
dell’umanità rivendicata dall’azienda e gli inevitabili imprevisti della ricerca
scientifica, il bilancio e deprimente.
Come giornalisti abbiamo seri dubbi riguardo a certi metodi di questa azienda,
soprattutto su quelli autoritari adottati nei confronti degli agricoltori. Il libro di
Marie-Monique Robin non solo li conferma, ma ne mostra un lato nascosto
difficile da contestare: sono infatti quelli di una società che ha come unico motore
il denaro - cosa non certo stupefacente - ma, dato ancora piu inquietante, la cui
attività si fonda sulla pretesa di agire solo di testa propria; un’impresa esperta
nello scovare sotterfùgi e nel perseverare nei propri metodi con ogni mezzo,
convinta di sapere meglio di chiunque altro che cosa sia buono per l’umanità,
appropriandosi così del Pianeta per farne un terreno di gioco e di profitto. Nella
logica della Monsanto non e chiaro che cosa prevalga, se l’accecamento
commerciale, l’orgoglio scientifico o il puro e semplice cinismo.
Ora la multinazionale torna alla carica e dice che le sementi OGM, di cui e il
principale produttore, hanno lo scopo di «aiutare i contadini del mondo a produrre
alimenti piu sani, riducendo l’effetto dell’agricoltura sull’ambiente». L’azienda
afferma di essere cambiata e di non avere piu l’atteggiamento irresponsabile del
passato. Noi non abbiamo la competenza scientifica per giudicare la tossicità di
alcune molecole o i rischi delle manipolazioni genetiche, ma sappiamo che la
comunità scientifica e fortemente divisa sugli effetti della transgènesi, e che il
feedback sugli OGM coltivati non ne dimostra ne l’innocuità per la salute e
l’ambiente, ne la capacità di intensificare la produzione alimentare per vincere la
fame nel mondo. Il bilancio tracciato da Marie-Monique Robin riguardo a
Messico, Argentina, Paraguày, Stati Uniti, Canada e India e desolante.
Sappiamo anche che le semine del mais 810 della Monsanto, l’unico coltivato
in Francia a scopo commerciale, sono state saggiamente sospese dal governo nel
gennaio 2008, dopo che un’autorità interna ha sollevato interrogativi inquietanti
sulla base di nuovi dati scientifici. Piu in generale sappiamo, come qualunque
cittadino del mondo con un briciolo di buonsenso, che e necessario porre un freno
quando la logica industriale e commerciale supera i limiti delle precauzioni piu
elementari.
Nicolas Hulot
Introduzione
Il caso Monsanto
Per questi tre film, che presentano aspetti diversi della stessa problematica,
cioè le conseguenze della biotecnologia sull’agricoltura mondiale e sulla
produzione alimentare per l’uomo, ho girato il mondo per un anno: Europa, Stati
Uniti, Canada, Messico, Argentina, Brasile, Israele, India... Ovunque sia presente
lo spettro della Monsanto, che e vista come il Grande Fratello del nuovo ordine
agricolo mondiale.
Nella pagina «Who We Are/Company History» del sito non c’e una parola sui
prodotti estremamente tossici che hanno fatto la fortuna dell’azienda per decenni:
i PCB (policlorobifenili), oli chimici usati come isolanti nei trasformatori elettrici
per piu di cinquant’anni e venduti con il marchio Aroclor negli Stati Uniti e nel
Regno Unito, Pyralene in Francia, Clophen in Germania e Kanechlor in
Giappone, e di cui la Monsanto ha nascosto la nocività fino a quando sono stati
banditi all’inizio degli anni Ottanta; il 2,4,5-T (triclorofeniacetici), un potente
erbicìda contenente diossina alla base dell’agente arancio, il defogliante usato
dall’esercito americano durante la guerra in Vietnam, e di cui la Monsanto ha
sapientemente negato la tossicità presentando studi scientifici falsificati; il 2,4D
(diclorofenossiacetici), l’altro componente dell’agente arancio; il DDT, oggi
vietato; l’aspartame, la cui innocuità non e mai stata dimostrata; gli ormoni della
crescita bovina (vietati in Europa a causa dei rischi che comportano per la salute
degli animali e degli uomini).
Tutti questi prodotti altamente controversi sono spariti dalla storia ufficiale
dell’azienda di Saint Louis (tranne l’ormone della crescita bovina, di cui parlerò
nel corso del libro). Tuttavia, ispezionando i documenti interni della Monsanto si
scopre un passato fumoso che continua a incombere sulla sua attività,
costringendola a sborsare somme di denaro considerevoli per affrontare processi
di cui infanga regolarmente i risultati.
«La Monsanto aiuta i piccoli contadini di tutto il mondo a essere piu produttivi
e autosufficienti», continua The Pledge Report,6 E ancora: «La buona notizia e
che l’esperienza concreta mostra chiaramente che la coesistenza di colture
transgèniche, convenzionali e biologiche non solo e possibile, ma avviene
tranquillamente in tutto il mondo».7 Infine, una frase ha attirato la mia attenzione
in modo particolare, perchè tocca uno dei punti principali legati agli OGM, cioè la
potenziale pericolosità per la salute umana: «I consumatori di tutto il mondo sono
la prova vivente di quanto le colture biotecnologiche siano innocue. Nella
stagione 2003 - 2004 hanno acquistato l’equivalente di ventotto miliardi di dollari
in derrate transgèniche prodotte da agricoltori degli Stati Uniti».8 Cercando di
verificare questa bella affermazione, pensavo a tutti i consumatori che si nutrono
del lavoro degli agricoltori e che possono, tramite scelte precise, influire
sull’evoluzione delle pratiche agricole e, quindi, del mondo. A patto, però, di
essere informati. Quindi e anche per loro che ho scritto questo libro.
Tutte queste affermazioni della Monsanto sono al centro della polemica che
contrappone i difensori della biotecnologia a quelli che la rifiutano. Per i primi,
l’azienda di Saint Louis ha realmente voltato pagina dal suo passato
chimicamente irresponsabile, per realizzare finalmente prodotti capaci di risolvere
i problemi della fame nel mondo e della contaminazione ambientale, seguendo i
«valori» alla base della sua attività: «Integrità, trasparenza, dialogo, condivisione
e rispetto», come annuncia ancora The Pledge Report.9 Per gli altri, invece, tutte
queste promesse sono solo fumo negli occhi per nascondere un vasto progetto
egemonico che minaccia la sicurezza alimentare del mondo, ma anche l’equilibrio
ecologico della Terra.
Tuttavia questo non basta. Così ho ripreso a viaggiare. Stati Uniti, Canada,
Messico, Paraguày, India, Vietnam, Francia, Norvegia, Italia e Gran Bretagna. In
tutti questi Paesi ho confrontato le affermazioni della Monsanto con la realtà del
territorio, incontrando decine di testimoni che avevo precedentemente identificato
in rete.
Sono molti, in effetti, quelli che in tutto il mondo hanno fatto squillare un
campanello d’allarme, denunciando una manipolazione, una menzogna o una
tragedia umana, spesso rischiando gravi ritorsioni personali e professionali. Infatti
- lo scoprirete sfogliando questo libro - non e facile contrapporre la realtà dei fatti
a quella della Monsanto, che mira a «mettere mano alle sementi e quindi al
nutrimento del mondo intero», come mi diceva Yudhvir Singh nel 2004. Un
obiettivo che nel 2008 l’azienda nordamericana sembrerebbe sul punto di
raggiungere, a meno che i contadini e i consumatori europei non decidano di
opporsi, trascinando con se il resto del mondo...
Parte prima
Anniston, Alabama, 12 ottobre 2006. Con le mani che gli tremano, David
Baker inserisce la cassetta nel videoregistratore: «E qualcosa di indimenticabile»,
mormora dall’alto del suo metro e novanta, asciugandosi furtivamente una
lacrima. «Il giorno piu importante della mia vita, quello in cui i membri della mia
comunità hanno deciso di riconquistare la dignità facendo chinare il capo a una
delle piu grandi multinazionali del mondo...» Sullo schermo del televisore
scorrono immagini girate il 14 agosto 2001 ad Anniston. Luce dorata di un tardo
pomeriggio. Visibilmente agitato, il cineoperatore amatoriale non sa piu dove
puntare l’obiettivo: da ogni parte giungono gruppi di afroamericani che, con passo
deciso e silenzioso, invadono l’immenso complesso della Ventiduesima Strada.
«Erano cinquemila», dirà il giorno successivo YAnniston Star. «E stato il piu
grande raduno della storia della città.» Davide contro Golìa «Perchè e venuta
qui?» chiede il giornalista improvvisato.
«Perchè mio marito e mio figlio sono morti di tumore», spiega una donna sulla
cinquantina.
«E lei?» «Per mia figlia», risponde un uomo indicando la bimba che tiene in
braccio. «Ha un tumore al cervello... Avevamo perso ogni speranza di farla pagare
cara alla Monsanto per tutto il male che ci ha fatto, ma se Johnnie Cochran si
occupa di noi, allora e diverso...» Il nome di Johnnie Cochran e sulla bocca di
tutti. Nel 1995 questo avvocato rampante di Los Angeles aveva tenuto con il fiato
sospeso gli Stati Uniti difendendo Orenthal James Simpson, l’ex campione di
football americano riconvertito al cinema, accusato di avere assassinato la ex
moglie e il suo amante una sera del 1994. Dopo un processo fiume ipermediatico,
O.J. Simpson era stato rilasciato grazie al talento del suo avvocato (pronipote di
uno schiavo nero), che aveva fatto di tutto per far apparire il proprio cliente come
vittima di una manipolazione razzista da parte della polizia. Da allora e fino alla
sua morte nel marzo 2005, Johnnie Cochran e stato un eroe della comunità nera
americana: «Un Dio», mi dice David Baker.«Infatti sapevo che convincendolo a
trasferirsi ad Anniston, di cui ignorava l’esistenza, avevo gia praticamente vinto la
partita...» «Johnniiiiiiie!» ha gridato la folla quando l’avvocato e salito sul palco,
elegante e impeccabile come sempre. E Johnnie ha parlato, in un silenzio
religioso. Ha saputo trovare le parole per incantare quella piccola città del Sud
degli Stati Uniti, da tempo straziata dalla lotta per i diritti civili. Ha evocato il
ruolo storico di Rosa Parks, una ragazza dell’Alabama, nella lotta contro la
segregazione razziale negli Stati Uniti. Ha citato il vangelo secondo Mattèo:
«Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli piu
piccoli, l’avete fatto a me». Poi ha ricordato la storia di Davide e Golìa, rendendo
omaggio a David Baker, l’uomo che aveva reso possibile l’improbabile incontro.
«Guardando quest’assemblea vedo tanti Davide», si era infiammato Johnnie.
«Non so se vi rendete conto di quanto potere avete... Ogni cittadino ha il diritto di
vivere senza inquinamento, senza PCB, senza mercurio o piombo. un principio
della Costituzione! L’ingiustizia commessa qui dalla Monsanto Il 1° dicembre
1955, Rosa Parks, una sarta nera di ventidue anni, rifiutò di cedere il posto a un
passeggèro bianco su un autobus di Montgomery, in Alabama. Divenne così la
«madre del movimento per i diritti civili» accanto a Martin Luther King, che
aveva lanciato una campagna di boicottaggio degli autobus di quella società di
trasporti. e una minaccia per la giustizia in qualunque altro luogo del mondo! La
vostra lotta e quindi un servizio che offrite al Paese, che non deve piu essere
governato dagli interessi privati dei giganti industriali!» «Amen! Alleluia!» ha
esultato la folla, applaudendo. Nei giorni successivi 18.233 abitanti di Anniston,
fra cui 450 bambini affetti da infermità motrice cerebrale, hanno sfilato di fronte
al piccolo ufficio della Community Against Pollution (CAP), creata nel 1997 da
David Baker per denunciare la Monsanto. Andavano ad aggiungersi ad altri 3516
querelanti, gia riuniti in una class action, una causa legale collettiva, depositata
quattro anni prima. Dopo mezzo secolo trascorso a soffrire in silenzio, quasi tutta
la popolazione nera della città sfidava uno dei piu grandi inquinatori del mondo,
costringendolo ben presto a pagare il maggior indennizzo mai sborsato da
un’azienda nella storia degli Stati Uniti: settecento milioni di dollari!
E’ stata una lotta dura», commenta David Baker, ancora scosso dall’emozione.
«Ma come potevamo immaginare che un’azienda si comportasse in maniera tanto
criminale? Mio fratello Terry e morto a diciassette anni di tumore al cervello e ai
polmoni..E morto per avere mangiato la verdura del nostro orto e il pesce che
pescava in un corso d’acqua altamente contaminato! La Monsanto ha reso
Anniston una città fantasma.» Le origini della Monsanto Tuttavia, Anniston aveva
avuto il suo momento di gloria. Per molto tempo soprannominata «città modello»
o «capitale mondiale del sistema fognario» per la qualità delle infrastrutture
municipali, il piccolo borgo sudista, ricco di ferro, e stato a lungo considerato una
località leader della rivoluzione industriale. Nata ufficialmente nel 1879 in
omaggio alla moglie del proprietario di una ricca fonderia, «Annie’s Tovvn» e
definita la «città magnifica dell’Alabama» nella Costituzione di Atlanta del 1882.
Negli anni Quaranta diventa uno dei grandi produttori mondiali di caucciù, di
materie plastiche e di fibre sintetiche come il polistirene, ma anche di fosfati,
confermando allo stesso tempo il monopolio sul mercato internazionale dei PCB,
garantito da un brevetto che le permette di vendere licenze un po’ in tutto il
mondo.
«E così che Anniston e divenuta la città piu inquinata degli Stati Uniti », mi
spiega David Baker mentre mi porta a fare un giro in auto nei dintorni. Prima in
centro, in Nobles Street, che negli anni Sessanta era l’orgoglio dei suoi abitanti,
con i molti negozi e i due cinema oggi chiusi. Poi nella zona est, disseminata di
villette in cui per tradizione vive la minoranza bianca. Infine oltre la ferrovia,
nella zona occidentale, dove sono confinati i poveri, per lo piu neri, in piena area
industriale. David e nato qui, cinquantacinque anni fa.
«La gente se n’e andata perchè la terra e l’acqua sono altamente contaminati.
All’improvviso, alla fine di una stradina dissestata, una grande via con un
cartello: Monsanto Road. Costeggia lo stabilimento in cui l’azienda ha prodotto i
PCB fino al 1971. Il luogo e protetto da una cancellata e oggi appartiene a Solutia,
una società «indipendente» con sede, anche questa, a Saint Louis, a cui la
Monsanto ha ceduto la divisione chimica nel 1997, tramite una serie di operazioni
di cui l’azienda detiene il segreto e volte a proteggerla dalla tormenta che presto
le sue azioni irresponsabili ad Anniston avrebbero provocato.
«Non siamo stupiti», borbotta David Baker. «Solutia o Monsanto per noi e lo
stesso... Guardi! Ecco il canale di Snovv Creek, in cui l’azienda ha scaricato i
rifiuti per piu di quarant’anni. Partiva dallo stabilimento e attraversava la città,
prima di riversarsi nei corsi d’acqua piu lontani. Era acqua inquinata. La
Monsanto lo sapeva, ma non ha mai detto niente...» Secondo un rapporto
declassificato, redatto segretamente nel marzo dalla Environmental Protection
Agency (EPA), che avrò spesso occasione di citare nel corso del libro, dal 1929 al
1971 ad Anniston sono state prodotte 308.000 tonnellate di PCB.2 Di queste, 27
tonnellate sono state emesse nell’atmosfera, soprattutto durante il trasferimento
dei PCB incandescenti, 810 tonnellate sono state scaricate in canali come quello
di Snovv Creek dopo le operazioni di pulizia dei macchinari, e 32.000 tonnellate
di rifiuti contaminati sono stati depositati in una discarica a cielo aperto situata sul
posto, cioè nel cuore della comunità nera della città.
Ha preso il posto dello zio, che e morto da poco di un tumore rarissimo, tipico
della contaminazione da PCB.» «Purtroppo non e l’unico», interviene il reverendo
William. «Quest’anno ho seppellito almeno un centinaio di persone morte di
cancro, fra cui molti giovani dai venti ai quarant’anni...» «E’ stato grazie a suo zio
che ha scoperto il dramma che ci riguarda tutti», continua David. «Per decenni
abbiamo accettato la morte dei nostri cari come una fatàlità inspiegabile...»
Quando Terry, il fratello diciassettenne di David, crolla davanti alla porta di casa,
lui e a New York, dove lavora come funzionario presso il sindacato dei dipendenti
municipali e territoriali. Dopo venticinque anni di fedele servizio, nel 1995 decide
di «tornare a casa», dove l’esperienza di leader sindacale gli tornerà molto utile. Il
caso vuole che venga assunto proprio dalla Monsanto, che all’epoca era in cerca
di «tecnici dell’ambiente», incaricati di decontaminare i dintorni dello
stabilimento. «Era la metà degli anni Novanta», racconta David, «e non eravamo
ancora a conoscenza dei pericoli dell’inquinamento, ma l’azienda cominciava con
discrezione a fare pulizia. E’ stato allora che ho sentito parlare per la prima volta
dei PCB, e che ho cominciato a sospettare ci fosse sotto qualcosa...» Nello stesso
momento Donald Stevvart, un senatore americano che praticava come avvocato
ad Anniston, viene contattato da un abitante nero della zona ovest, che gli chiede
di recarsi alla chiesa battista di Mars Hill, proprio di fronte all’azienda dei PCB. Il
pastore, circondato dai fedeli, lo informa che la Monsanto ha proposto alla
comunità di acquistare il luogo di culto e molte abitazioni del quartiere. Anche
l’avvocato capisce che c’e qualcosa di losco in quell’operazione, e accetta di
rappresentare la piccola comunità. «In realtà», commenta David, «l’azienda
cercava di eliminare tutto cio che aveva attorno, per evitare di dover pagare i
danni agli abitanti, poichè sapeva che prima o poi la questione dell’’inquinamento
sarebbe esplosa.» Così ad Anniston la gente comincia a farsi avanti. L’ex
sindacalista di New York organizza una prima riunione nei locali delle pompe
funebri di Tombstone William, lo zio del reverendo, a cui partecipano una
cinquantina di persone. Fino a tarda notte si elencano le morti e le malattie che
straziano le famiglie, oltre ai problemi dei bambini, i numerosi aborti e le
difficoltà scolastiche dei ragazzi, a cui non si e ancora in grado di attribuire un
nome medico. Dall’incontro nasce l’idea di creare un’associazione, la CAP di cui
ho accennato prima, presieduta proprio da David Baker.
A dire il vero, c’e ancora qualcosa che non mi torna e che non ha mai smesso
di tormentarmi per tutta l’inchiesta: come possono degli esseri umani correre
consapevolmente il rischio di avvelenare i loro clienti e l’ambiente che li
circonda, senza pensare che anche loro, e i propri figli, saranno forse vittime di
quella stessa negligenza (per usare un termine moderato)? Non parlo ne di etica,
ne di morale, concetti estranei alla logica capitalistica, ma semplicemente di
istinto di sopravvivenza: i responsabili della Monsanto ne sono forse sprovvisti?
Nel 1937 il dottor Emett Kelly, direttore del servizio medico dell’azienda,
viene convocato a una riunione presso l’Università di Harvard, a cui partecipano
anche alcuni acquirenti di PCB come Halovvax e General Electric, nonchè dei
rappresentanti del dipartimento della Sanità. Nel corso di quell’incontro, Cecil K.
Drinker, scienziato della venerabile università presenta i risultati di uno studio che
ha condotto su richiesta della Halovvax: un anno prima tre operai di questa
azienda erano morti dopo essere stati esposti a vapori di PCB e molti altri
avevano contratto una malattia della pelle all’epoca sconosciuta, che lasciava
cicatrici permanenti e che piu tardi verrà chiamata «cloracne». Nel prossimo
capìtolo tornerò su questa patologia, indice di intossicazione da diossina, che
si manifesta con un’eruzione di pustole su tutto il corpo e che può durare per anni,
se non per sempre.
Non solo l’azienda di Saint Louis non seguirà la raccomandazione del cliente,
ma opporrà persino resistenza quando, nel 1958, sarà approvata una legge che
mira a rafforzare le precauzioni per l’uso dei prodotti tossici: «E nostro desiderio
rispettare la regolamentazione con il minimo sforzo e senza dare informazioni
troppo precise che potrebbero penalizzare la nostra posizione commerciale nel
campo dei liquidi idraulici sintetici». Ecco qualcuno che ha il dono della
chiarezza.
Talvolta, a fronte delle pressioni dei loro clienti, i responsabili della Monsanto
si perdono in circonvoluzioni ridicole, se pensiamo alla posta in gioco.
Nell’agosto 1960 un certo M. Facini, produttore di compressori di Chicago, si
preoccupa delle conseguenze ambientali dello smaltimento nei fiumi di rifiuti
contenenti PCB, e la Monsanto risponde: «Se una piccola quantità di queste
sostanze viene rovesciata accidentalmente in un corso d’acqua, non dovrebbero
esserci effetti gravi», scrive un dirigente del dipartimento medico dell’azienda.
«Invece, se venissero scaricate quantità maggiori, i danni sarebbero
probabilmente ingenti...» Nel corso degli anni, tuttavia, i toni cambiano, forse
perchè lo spettro di un’azione legale intentata dai clienti incombe sempre di piu
sull’azienda di Saint Louis. Nel 1965 una comunicazione interna riporta una
conversazione telefonica tra un addetto della Monsanto e il responsabile di una
società elettrica che usa l’Aroclor 1248 come refrigerante per motori. A quanto
pare, l’uomo avrebbe raccontato che getti bollenti di PCB inondavano il suolo del
suo stabilimento. Commento della Monsanto: «Sono stato di una franchezza
brutale dicendogli che doveva assolutamente impedirlo, prima di causare la morte
di qualcuno per danni al fegato o ai reni...» Un «comportamento criminale» A
fronte di informazioni allarmanti, capita di sentire (rare) voci che si oppongono
all’inerzia dilagante, per esempio quella del dottor J.W.
Barrett, uno scienziato della Monsanto di Londra, che nel 1955 suggerisce di
effettuare degli studi per valutare in modo rigoroso gli effetti tossici dell’Aroclor.
Ma il dottor Kelly gli risponde bruscamente: «Non vedo quale particolare
vantaggio si possa trarre da ulteriori studi...» Due anni dopo il responsabile del
dipartimento medico commenta con la stessa perentorietà i risultati di un
esperimento condotto dalla Marina con il Pydraul 150, un PCB usato come fluido
idraulico nei sottomarini: «L’applicazione cutanea ha provocato la morte di tutti i
conìgli testati. La Marina ha deciso di non impiegare piu il nostro prodotto a
causa degli effetti tossici. Non siamo riusciti a impedirlo».
Alla fine dello stesso mese gli uffici di Bruxelles della Monsanto Europe
ricevono un messaggio da un corrispondente di Stoccolma, che riassume un
incontro dedicato alle analisi di un ricercatore svedese, Soren Jensen. Pubblicato
dal New Scientist,4 in Svezia il lavoro dello scienziato aveva provocato un certo
clamore: analizzando il DDT nei campioni di sangue umano, il dottor Jensen
aveva casualmente scoperto una nuova sostanza tossica che si e rivelata un PCB.
Ironia della sorte, il DDT, un potente insetticìda scoperto in Svizzera nel 1939, e
un altro prodotto chimico clorato ampiamente venduto dalla Monsanto, fino a
quando e stato definitivamente bandito nei primi anni Settanta, soprattutto a causa
degli effetti che aveva sulla salute umana... Quindi il dottor Jensen scopre che i
PCB hanno gia largamente contaminato l’ambiente, pur non essendo prodotti in
territorio svedese: ne ha ritrovate quantità significative nei salmoni pescati sulle
coste, e persino nei capelli della sua famiglia (nei due figli di tre e sei anni, e
soprattutto nella moglie e nel piccolo di cinque mesi, contaminato dal latte
materno). Jensen giunge così alla conclusione che i «PCB si accumulano nella
catena alimentare e soprattutto negli organi e nei tessuti degli animali, risultando
tossici almeno quanto il DDT».
Eppure, la rotta della Monsanto non cambia: un anno dopo approva un credito
supplementare di 2,9 milioni di dollari per sviluppare una gamma di prodotti
Aroclor ad Anniston e a Sauget... «L’irresponsabilità dell’azienda e allucinante»,
commenta Ken Cook. «Sebbene abbia tutti i dati alla mano, non muove un dito.
Ecco perchè definisco criminale il suo comportamento.» Di fatto, nello
stabilimento di Anniston non viene attuata nessuna misura specifica per
proteggere gli operai: «Non sono dotati di indumenti protettivi», afferma un
documento del 1955. «Era così prima della guerra, ma adesso le cose sono
cambiate.» L’unica raccomandazione espressa con chiarezza e di «non ingerire
alcunche nel laboratorio dell’Aroclor».
«E stato dimostrato che i nostri operai sono stati effettivamente infettati dai
PCB.» Allo stesso modo, i tecnici dell’azienda confermano, con osservazioni di
prima mano, che i prodotti tossici persistono nell’ambiente per almeno trent’anni.
In effetti, nel 1939 alcuni PCB erano stati sotterrati per testarne l’efficacia come
antitermiti: «La presenza di Aroclor e ancora visibile», osserva un «funzionario»
nel 1969!
«La cosa peggiore», sospira Ken Cook, «e che la Monsanto non ha mai
avvertito gli abitanti di Anniston che l’acqua, il suolo e l’aria della zona
occidentale della città erano altamente contaminati. Quanto alle autorità
governative e locali, non solo hanno chiuso gli occhi, ma hanno addirittura
coadiuvato le manovre dell’azienda. E uno scandalo! Forse una spiegazione di
questo dramma e il razzismo dei dirigenti dell’epoca: dopotutto, erano solo un
ammasso di neri...» Complicità e manipolazione Nella primavera del 1970,
quando l’amministrazione di Washington ha appena annunciato in pompa magna
la creazione (per il luglio successivo) dell’EPA, in risposta alla «domanda
crescente di acqua, aria e terreno puliti», come spiega oggi il sito
dell’organizzazione, la Monsanto prende il sopravvento: una comunicazione del 7
maggio, classificata come «confidenziale», descrive la visita di alcuni dirigenti
dell’azienda a Joe Crockett, direttore tecnico dell’Alabama Water Improvement
Commission (AWIC), l’organismo pubblico incaricato dell’approvvigionamento
d’acqua dello Stato. L’obiettivo era di «informare il rappresentante dell’AWIC
sulla situazione» e di «renderlo fiducioso [corsivo mio] del fatto che la Monsanto
si impegnerà a collaborare con le agenzie governative per definire gli effetti dei
PCB sull’ambiente». Insomma, si trattava di un’operazione di pubbliche relazioni,
del resto ben riuscita, visto che Joe Crockett ha raccomandato di «non portare
quelle informazioni all’attenzione del pubblico». «Possiamo contare sulla
collaborazione totale dell’AWIC in totale segretezza», conclude la
comunicazione.
La FDA non ha attivato misure ne per impedire la pesca nei corsi d’acqua
incriminati, ne contro la Monsanto, che ha avuto così l’occasione di mettere alla
prova la «collaborazione» con l’AWIC: «Attualmente scarichiamo nello Snovv
Creek circa sette chilogrammi di PCB al giorno (rispetto ai centotredici del
1969)», afferma un documento dell’agosto 1970, contrassegnato come
«confidenziale, distruggere dopo la lettura».
PPM: Parte per milione, cioè lo 0,0001 per cento del peso. Unità di misura
spesso usata dai tossicologi per misurare il residuo di un prodotto tossico negli
alimenti o nell’ambiente.
PCB mostrano un grado di tossicità ancora piu elevato del previsto. [... ]
Nonostante gli sforzi, i dirigenti della Monsanto non hanno potuto evitare
«l’irreparabile»: il 31 ottobre 1977 la produzione dei PCB viene definitivamente
vietata negli Stati Uniti, ma non in Gran Bretagna, dove la multinazionale
possedeva una filiale a Newport, nel Galles, ne in Francia, dove la Prodelec ferma
la produzione solo nel 1987, ne in Germania (Bayer), ne in Spagna. Il 29
settembre 1976 gli uffici di Saint Louis inviano un messaggio alla Monsanto
Europe con un modello domanda-risposta, utile in caso di interviste. Si legge: «Se
vi fanno domande sulla cancerogenicità dei PCB, fornite la seguente risposta, che
attribuirete a George Roush, direttore del dipartimento salute e ambiente della
Monsanto: ‘Gli esami sanitari preliminari condotti sui nostri operai che lavorano
con i PCB, oltre agli studi a lungo termine realizzati sugli animali, non ci
permettono di ritenere che i PCB siano cancerogeni.
Mentre scrivo non posso fare a meno di sfogliare Le Nouvel Observateur del
23 agosto 2007, che, dopo Le Monde, Liberation e Le Figaro, ha parlato di quello
che il Dauphine Libere ha chiamato «Cernobyl alla francese»:7 «Il Rodano e
inquinato sino alla foce», scrive il settimanale.
«Presenta tassi di PCB da cinque a dodici volte superiori alle norme sanitarie
europee!* Analisi dopo analisi, le ordinanze della prefettura sono arrivate una
dietro l’altra: il divieto di consumo dei pesci, decretato prima a nord di Lione, poi
esteso sino ai confini della Drome e dell’Ardeche, dal 7 agosto ha interessato
anche i dipartimenti della Valchiusa, del Gard e delle Bocche del Rodano.
Potrebbe presto diffondersi alle acque della Camargue, alimentate dal fiume, e
persino influire sulla pesca costiera nel Mediterraneo e su quella di crostacei
marini...» L’allarme e stato lanciato casualmente da un pescatore professionista
tradito dalla sua buona fede: «A fine 2004 abbiamo trovato degli uccelli morti a
nord di Lione», spiega a un mio collega giornalista. «Per tutta la durata delle
analisi, i servizi veterinari, per precauzione, hanno vietato il consumo del pescato.
Era solo un caso di botulismo strettamente aviario, ma nessuno voleva piu i miei
pesci. Ho richiesto analisi complete per dimostrare che erano buoni, e invece...
erano pieni di PCB!»
Secondo Le Monde del 26 giugno 2007, «il pesce piu contaminato conteneva
una dose quaranta volte superiore a quella quotidianamente accettabile».
Da allora i servizi statali si affannano per determinare le origini
dell’inquinamento, che interesserebbe centinaia di migliaia di tonnellate di
sedimenti del Rodano. Come abbiamo visto, in Francia la vendita e l’acquisto di
PCB o di apparecchiature che ne contengano sono vietati dal 1987. Un decreto del
18 gennaio 2001 ha inserito nella legislazione francese una direttiva europea del
16 settembre 1996 (cinque anni dopo!) riguardante l’eliminazione dei PCB ancora
esistenti, che dovranno sparire definitivamente entro il 31 dicembre 2010. Un
piano nazionale di decontaminazione e di eliminazione delle apparecchiature
contenenti PCB e stato messo in atto solo nel 2003. Secondo l’agenzia francese
per l’ambiente e la gestione dell’energia (ADEME), al 30 giugno 2002 sarebbero
state rilevate in Francia 545.610 apparecchiature contenenti piu di cinque litri di
PCB (di cui 450.000 appartenenti a EDF, il gruppo energetico francese), per un
totale di 33.462 tonnellate di PCB da eliminare. Ma per France Nature
Environnement (FNE) si e ancora molto lontani dall’obiettivo, dato che la
dichiarazione delle strumentazioni da trattare e volontaria. «Il nostro timore e di
vedere inquinanti a base di PCB dispersi nell’ambiente a causa di smaltimenti non
sorvegliati di rifiuti, abbandonati in modo selvaggio o semplicemente smaltiti
come ferro vecchio», scrive l’associazione in una lettera informativa del febbraio
2007.9
Della serie di studi presentati nel documento dell’EPA, ne ricorderò altri due
particolarmente drammatici. Uno riguarda duecentoquarantadue bambini nati da
madri di origine amerinda o mogli di pescatori amatoriali che avevano
regolarmente consumato pesce del Lago Michigan sei anni prima o durante la
gravidanza: tutti presentavano un calo di peso alla nascita e un deficit persistente
dell’apprendimento cognitivo. L’altro documento riguarda gli inuit della baia di
Hudson, anche loro particolarmente esposti: la contaminazione massima, in
effetti, e stata registrata a monte della catena alimentare, nei mammiferi marini
come le foche, gli orsi polari e le balene, di cui alcune specie, come le orche, sono
minacciate di estinzione da PCB.12
Un mese dopo la sentenza l’EPA, che ha brillato per inattività per oltre
vent’anni, annuncia di avere firmato un accordo con la Solutia per decontaminare
la zona. Questa decisione, favorevole per l’inquinatore e sufficiente ad azzerare il
lavoro dei giurati, provoca la collera di Richard Shelby, senatore dell’Alabama e
membro del comitato incaricato di sorvegliare le agenzie governative. Si scopre
così che Linda Fisher, numero due dell’EPA, e un ex dirigente della Monsanto...
Gli avvocati intascano il 40 per cento della somma riservata alle vittime, cosa
che provoca un certo malcontento. «E così che funziona il sistema americano», mi
spiega David Baker. «In questo tipo di cause gli avvocati sono pagati solo se
vincono, e Johnnie Cochran, per esempio, aveva speso sette milioni di dollari per
preparare il processo. Cio significa che se non si trova un Johnnie Cochran, contro
un’azienda come la Monsanto non si puo fare niente. Ma la cosa che mi
infastidisce di piu e che nessun dirigente e stato condannato...» Negli Stati Uniti
lo statuto giuridico di cio che si definisce una corporation la rende persona
giuridica, mettendone i dirigenti al riparo da qualunque tipo di ripercussione a
titolo individuale. «Nel sistema giuridico americano», commenta Ken Cook, «e
raro che i dirigenti d’impresa siano considerati penalmente responsabili. Si ha
invece la possibilità di attaccare l’azienda dal punto di vista civile. Si puo farla
pagare. In realtà, i danni pagati decenni dopo dalle varie aziende rappresentano
solo una frazione dei loro profitti. Quindi a loro conviene mantenere il segreto...
Non ci si puo mai fidare di una grande azienda per sapere la verità su un
prodotto o su un problema di inquinamento.» I PCB sono ovunque Secondo
stime concordanti, tra il 1929 e il 1989 sono state prodotte un milione e mezzo di
tonnellate di PCB, di cui una grossa quantità sarebbe finita nell’ambiente. Quanto
esattamente? Difficile dirlo. Resta il fatto che i PCB sono ovunque e costituiscono
un incubo per noi cittadini, ma anche per la Monsanto (e per la sua compare
Solutia, che nel 2003 ha dichiarato fallimento, soprattutto per le molte cause
giudiziarie che ha ereditato).
Una città cancellata dalla mappa «Times Beach» e «diossina»: queste due
parole si sono trovate a fianco a fianco sulle prime pagine dei giornali americani,
con grande dispiacere degli abitanti del piccolo borgo, nato nel 1925 come luogo
di villeggiatura per i lavoratori di Saint Louis. «All’inizio nessuno ci abitava in
pianta stabile», racconta Marilyn Leistner. «Alcuni avevano una roulotte e
venivano nel vveekend a fare il bagno nel Fiume Meramec, a pescare o per un
picnic.» Il paese, chiamato semplicemente beach, la spiaggia, attrae così alcuni
residenti stabili che costruiscono palafitte di legno, perchè la zona viene
regolarmente inondata. A poco a poco Times Beach diventa una «vera città» con
negozi, un’officina meccanica (gestita dal marito di Marilyn) una chiesa, tredici
locali pubblici e un consiglio municipale.
Nei primi anni Settanta il comune, «non molto ricco», deve confrontarsi con il
«problema della polvere» che ricopre le strade non asfaltate e «infesta la vita»
degli abitanti. Si decide quindi di rivolgersi ai servizi della Bliss Waste Oil
Company, un’azienda specializzata nel recupero di oli e rifiuti industriali prodotti
dai garage e dalle industrie chimiche del Missouri: per eliminare la polvere
Russell Bliss, il capo dell’azienda, propone di spandere chiazze di oli residui sulle
strade di Times Beach.
Arriva «l’autunno nero» del 1982. «Un incubo», mormora Marilyn, all’epoca
consigliere comunale. «Il 10 novembre sono stata informata da un giornalista
locale che Times Beach faceva parte di un elenco di cento luoghi contaminati
dalla diossina individuati dall’EPA. Il 3 dicembre alcuni tecnici dell’agenzia sono
venuti a prelevare campioni di terreno.
Due giorni dopo la città e stata sommersa dalla piu grande inondazione della
sua storia e molte famiglie hanno dovuto evacuare. Il 23 dicembre, quando gli
abitanti cominciavano a tornare nelle proprie case, l’EPA ci ha informati che il
tasso di diossina rilevato nei campioni era di trecento volte superiore al limite
accettabile... »4
«Mio marito soffriva di ‘porfiria cutanea tardiva’, una malattia cronica 39 della
pelle.* Io, le mie due figlie e mio figlio soffrivamo di ipertiroidismo.
Io ero stata anche operata di parecchi tumori benigni. Una delle mie figlie
soffriva di gravi allergie che comportavano crisi urticanti su tutto il corpo; l’altra
mia figlia era magrissima, soffriva di vertigini e perdeva i capelli. Quando ho
chiesto ai rappresentanti del CDC se fossero problemi legati alla diossina, mi
hanno risposto che non lo sapevano...» In ogni caso, a Times Beach il panico era
ormai all’apice. Il sindaco di allora, vittima di una grave depressione, si dimette.
Nello stesso momento scompare nel nulla anche uno dei suoi assessori: «Era un
dirigente della Monsanto che lavorava nello stabilimento di Saint Louis»,
commenta Marilyn Leistner. «Quando ha saputo che l’EPA aveva trovato dei PCB
se n’e andato...» Ecco come Marilyn si ritrova a capo di una piccola comunità
pronta ad «affrontare la tormenta». Il22 febbraio 1983 Anne Burford,
amministratrice dell’EPA, annuncia la decisione del governo di «acquistare Times
Beach per trenta milioni di dollari». L’eccezionale progetto prevede di
indennizzare e ricollocare gli abitanti, di radere al suolo la città e decontaminare
la zona, bruciando la terra in un inceneritore.
La Monsanto sfugge alle accuse «Guardi, e qui che sono sepolte le nostre
case», mi dice Marilyn fermandosi di fronte a un enorme cumulo di terra
ricoperto d’erba. «Tutto cio che avevamo e stato distrutto. I mobili, gli
elettrodomestici e tutti i giochi dei bambini, perchè l’inondazione aveva sparso
diossina e PCB ovunque. Siamo partiti come rifugiati in fuga da una pestilenza,
perchè nessuno ci voleva: la gente pensava fossimo contagiosi.» «Non avete fatto
causa?» «Certo, ma e stata respinta, perchè secondo la giustizia non potevamo
dimostrare che le malattie di cui soffrivamo erano legate alla contaminazione da
diossina.»
Così nel 1948 la Monsanto apre uno stabilimento per la produzione di 2,4,5-T
a Nitro, nella Virginia occidentale. L’8 marzo 1949 una fuga nella linea di
produzione provoca un’esplosione, durante la quale un materiale non identificato
invade gli interni dell’edificio e fuoriesce sotto forma di nube. Nelle settimane
successive i lavoratori presenti al momento dell’incidente o mobilitati per la
pulizia degli ambienti contraggono una malattia della pelle allora sconosciuta e
sono soggetti a nausea, vomito e mal di testa cronico. I dirigenti della Monsanto
chiedono allora a Raymond Suskind, medico del Kettering Institute
dell’Università di Cincinnati, di effettuare con discrezione un monitoraggio
medico del personale coinvolto. Il 5 dicembre 1949 Suskind redige un rapporto
che sarà reso noto solo a metà degli anni Ottanta, in occasione del processo
Kemner vs. Monsanto (di cui parlerò tra poco). «Settantasette dipendenti
dell’azienda hanno manifestato problemi cutanei e altri sintomi dovuti
all’incidente», scrive il medico, che allega una serie di immagini sconvolgenti:
uomini a torso nudo con il viso sfigurato da cicatrici e pustole e il corpo ricoperto
di cisti purulente.
Nel 1953 Suskind estende lo studio a trentasei operai, dieci dei quali esposti
durante l’incidente del 1949, mentre gli altri ventisei lavoravano nell’unità di
produzione. Lo scienziato nota che trentuno di loro presentano lesioni
dermatologiche gravi, oltre a irritabilità, insonnia e depressione. Ventitre anni
dopo, in un rapporto confidenziale svelato in occasione del processo Kemner vs.
Monsanto, sempre con lo stesso distacco osserverà che tredici operai su trentasei
sono ormai morti, a un’età media di cinquantaquattro anni.
Viva la guerra!
Non solo la Monsanto non modifica la produzione del 2,4,5-T, ma non esita a
lavorare a stretto contatto con gli strateghi del Pentagono per svilupparne
l’utilizzo come arma chimica. Dopo una richiesta di declassificazione indirizzata
agli archivi del Pentagono, in virtù del Freedom of Information Act (legge che
autorizza i cittadini ad avere accesso, a certe condizioni, agli archivi statali), nel
1998 la S. Louis Journalism Revievv ha rivelato che dal 1950 l’azienda di Saint
Louis portava avanti una regolare corrispondenza con il Chemical Warfare
Service sull’uso militare dell’erbicìda.9 Secondo Cary Conn, responsabile degli
archivi, il dossier conta cinquecentonovantasette pagine divise in quattro sezioni,
fra cui "Sviluppo in laboratorio» e «Dimostrazione pilota sulle piante». Tuttavia,
per uno strano «caso» questi documenti, pur non mettendo in pericolo immediato
la sicurezza degli Stati Uniti, non sono consultabili perchè classificati come
«segreti», in seguito alla decisione dell’esercito del 4 marzo 1983. Ma vedremo
che la data non e affatto casuale...
Farben, il piu grande conglomerato chimico del mondo, produttore del gas
Zyklon (usato nei campi di concentramento per sterminare gli ebrei). Quanto alla
Monsanto, nata all’inizio del secolo per produrre saccarina, ha centuplicato i
profitti durante la Prima guerra mondiale vendendo prodotti chimici usati nella
produzione di esplosivi e di gas di guerra.
Così dal 1944 la Monsanto si lancia nella produzione in larga scala di DDT, in
un momento in cui i rapporti con gli strateghi del Pentagono sono assai
privilegiati: nel 1942, infatti, Charles Thomas, direttore della ricerca alla
Monsanto, viene contattato dal generale Leslie R. Groves per partecipare a un
progetto ultrasegreto che porterà a una delle piu grandi catastrofi umane ed
ecologiche dell’era moderna. Il programma, battezzato Manhattan Project, ha
come obiettivo la produzione della prima bomba atomica della storia, la stessa che
sarà sganciata su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945. Il Manhattan Project,
che ha un budget di due miliardi di dollari, riunisce i migliori fisici americani nel
laboratorio di armi nucleari del Pentagono, a Oak Ridge, nel Tennessee, mentre i
chimici della Monsanto, sotto la guida di Charles Thomas, hanno una missione
delicata: isolare e purificare il plutonio e il polonio che serviranno ad alimentare
le bombe atomiche. Godendo della fiducia assoluta del Pentagono, l’azienda
ottiene il permesso di svolgere le ricerche nel suo laboratorio di Dayton,
nell’Ohio.
Eppure le prime prove di grande portata hanno luogo nel Sud del Vietnam a
partire dal 1959. A quanto pare costituiscono una novità tale che il servizio
audiovisivo dell’esercito americano decide di filmarli per un periodo di due anni.
In un documento video eccezionale che ho potuto consultare, si vede un aereo
militare scendere a bassa quota sopra la foresta vergine e rilasciare una nube
lattiginosa. «Dopo due settimane e evidente che il trattamento risulta efficace»,
sottolinea con soddisfazione il commentatore militare. «In due anni e stato
distrutto il 90 per cento degli alberi e degli arbusti.» Le vedute aeree mostrano la
vegetazione lussureggiante distrutta per un raggio di parecchi chilometri. Le
immagini delle irrorazioni di erbicìdi - insieme con quelle delle vittime del
napalm, come quella della piccola Kim Phuc che corre nuda in lacrime su una
strada vietnamita - diverrànno simboli di una delle guerre piu controverse del XX
secolo.
Nel luglio 1961 alla base militare di Saigon arrivano i primi carichi di
defoglianti, barili di duecento litri ciascuno con una fascia colorata di
riconoscimento: «l’agente rosa» contiene 2,4,5-T puro, «l’agente bianco» 2,4D,
«l’agente blu» arsenico, mentre il piu tossico di tutti, «l’agente arancio»,
introdotto nel 1965, e costituito da 2,4,5-T e 2,4-D in pari quantità.
«Ma poi gli hanno tagliato le dita dei piedi, tutti i piedi e alla fine entrambe le
gambe.» «Questa malattia e ricorrente nei veterani della guerra del Vietnam?»
domando.
C’e una testimonianza che viene regolarmente citata e che spiega la cecità
delle autorità militari. E quella del dottor James Clary, scienziato di un laboratorio
del dipartimento di armi chimiche dell’Aviazione, in Florida. E lui che ha
concepito il serbatoio ADO 42 destinato allo spargimento dell’agente arancio:
«Quando abbiamo avviato il programma del defogliante negli anni Sessanta
eravamo consapevoli dei potenziali danni dovuti alla contaminazione degli
erbicìdi con la diossina», scrive in una lettera destinata al senatore Tom
Daschle.«Sapevamo che la formulazione ‘militare’ conteneva un grado di
concentrazione di diossina piu elevato di quella ‘civile’, in virtù del costo ridotto
e dei tempi di produzione molto brevi. Tuttavia, siccome il materiale sarebbe stato
usato contro il ‘nemico’, nessuno di noi se ne e preoccupato sul serio. Non
immaginavamo che anche i nostri potessero risultare contaminati.»19
«Le autorità governative non sono state informate della nocività della diossina
prima della fine degli anni Sessanta», mi garantisce Gerson Smoger, avvocato
anche di molti veterani della guerra del Vietnam. «Per un motivo molto semplice:
i due principali produttori, la Dovv Chemicals e la Monsanto, hanno
deliberatamente nascosto i dati in proposito per non perdere un mercato molto
redditizio. Non ho paura di dire che si e trattato di una vera e propria
cospirazione.»*
E il segreto era stato così conservato per almeno quattro anni, periodo in cui le
irrorazioni di agente arancio in Vietnam avevano raggiunto il picco...» Alla fine
del 1969 le autorità governative non possono piu affermare di non essere
informate: uno studio di Diane Courtney per il National Institute of Health (NIH)
dimostra che i topi sottoposti a dosi massicce di 2,4,5-T sviluppano
malformazioni fetali e mettono al mondo piccoli nati morti.20 La notizia suscita
scandalo e inquietudine. Il 15 aprile 1970 il segretario dell’Agricoltura annuncia
su tutti i canali televisivi e radiofonici «la sospensione dell’uso del 2,4,5-T nei
pressi di laghi, specchi d’acqua, aree di ricreazione, abitazioni e colture destinate
al consumo umano, poichè costituisce un pericolo per la salute».21
In primo luogo, come sottolinea Greenpeace, uno dei suoi piu strenui
oppositori, in un rapporto reso pubblico nel 1990, di qualunque origine sia «la
diossina e onnipresente nella popolazione americana, nell’ambiente e negli
alimenti».22 Difficile, quindi, dimostrare che il tasso di diossina registrato
nell’organismo di un individuo sia legato all’esposizione in occasione di un
incidente come quello di Sturgeon o di un’irrorazione in Vietnam. Per prevenire
eventuali processi, i dirigenti della Monsanto non indietreggiano davanti a niente:
grazie alla complicità del personale dell’obitorio di Saint Louis fanno effettuare di
nascosto prelievi sui cadaveri vittime di incidenti stradali, facendoli poi
analizzare. Bingo! I tessuti dei defunti contengono diossina... La questione, che la
dice lunga sull’operato dell’azienda, verrà alla luce durante il processo Kemner
vs. Monsanto,23 di cui parlerò nel capìtolo successivo.
«Ecco come i veterani della prima class action si sono visti respingere le
richieste di indennità», mi spiega George Smoger. «Al momento della
pubblicazione, quegli studi sono stati considerati il termine di paragone assoluto.
E i veterani, di fronte all’incapacità di dimostrare che i tumori di cui soffrivano
erano legati all’esposizione alla diossina, sono stati costretti ad accettare un
regolamento dei conti amichevole.» Il 7 maggio 1984, alle quattro del mattino,
quando l’apertura del processo istruito nel 1978 da Paul Reutershan e ormai
imminente, i produttori di agente arancio mettono a disposizione centottanta
milioni di dollari come saldo per tutti i conti aperti. Il giudice Jack Weinstein
ordina che il 45,5 per cento della somma sia pagata dalla Monsanto, a causa del
forte contenuto di diossina nel suo 2,4,5-T.26 Il denaro, riposto in un fondo di
compensazione, e destinato a indennizzare i veterani che dimostreranno invalidità
non legata a ferite di guerra entro un periodo massimo di dieci anni. E così che
quarantamila veterani riceveranno contributi compresi fra 256 e 12.800 dollari.
«Inezie», commenta George Smoger, «finchè non si scopre che gli studi della
Monsanto erano stati manipolati.» 3
Per una strana coincidenza di date, nel febbraio 1984, quando i veterani della
guerra del Vietnam sono sul punto di rinunciare a vere e proprie indennità, si apre
nell’Illinois il processo Kemner vs. Monsanto. Per piu di tre anni quattordici
giurati ascolteranno trenta testimoni e tenteranno di comprendere gli abusi subiti
dagli abitanti di Sturgeon e individuare le responsabilità dell’azienda di Saint
Louis. E stato il «piu lungo processo della storia nazionale», scrive il Wall Street
Journal. «La Monsanto e stata rappresentata da dieci avvocati che si davano il
cambio alla sbarra ogni quattro ore. [... ] Alcuni osservatori del processo dicono
che l’azienda, costruendosi una reputazione di avversario intrattabile e
disponendo, apparentemente, di un budget illimitato, mirasse a scoraggiare altri
eventuali processi futuri.»‘
Il 22 ottobre 1987, dopo avere deliberato per ben otto settimane, i giurati
annunciano uno strano verdetto: i querelanti ricevono solo un dollaro simbolico di
risarcimento, perchè non sono riusciti a dimostrare il legàme fra i loro problemi di
salute e l’incidente, mentre alla Monsanto vengono imputati sedici milioni di
dollari di punitive damages (pagamento di una somma piu alta rispetto al danno
cagionato), perchè la giuria si e sentita oltraggiata dal comportamento
irresponsabile dell’azienda nella gestione dei rischi sanitari relativi alla diossina *
In tre anni i giurati hanno fatto molte scoperte. Grazie al rigoroso lavoro di
Rex Carr, l’avvocato dell’accusa, hanno capìto che l’azienda «sapeva che
distillando clorofenòli poteva eliminare o ridurre considerevolmente la presenza
di diossina, ma anche che «non l’aveva mai fatto prima del 1980». Inoltre,
«avrebbe potuto liberarsi della diossina testando ciascun lotto di prodotti e
ritirando dalla vendita quelli contaminati».3
Quanto allo studio pubblicato nel 1983 da Judith Zack e William Gaffey, due
dipendenti della Monsanto, lascia molto a desiderare. Avrebbe dovuto confrontare
lo stato di salute di 884 dipendenti dell’azienda, sia quelli che lavoravano alla
linea di produzione del 2,4,5-T (gli «esposti»), sia «tutti gli altri» (gruppo di
controllo), inclusi «i dipendenti responsabili dell’unità di produzione e
potenzialmente esposti, ma che non erano stati considerati tali per gli scopi dello
studio», come hanno ammesso i due autori.9 Risultato: il tasso di tumori risultava
meno elevato nel gruppo degli esposti che in quello dei non esposti... L’astuzia
consisteva nel far rientrare nello studio solo gli operai che avevano lavorato
nell’azienda e/o erano deceduti fra il 1° gennaio 1955 e il 31 dicembre 1977. In
altre parole, quelli che avevano lavorato a Nitro fra il 1948 e il 1955 erano stati
esclusi, come quelli morti dopo il 1977. Questa arbitrarietà ha permesso di
escludere dallo studio venti operai che la Monsanto sapeva essere stati esposti
(soprattutto all’incidente del 1949), nove dei quali morti di tumore e undici di
malattie cardiache. Inoltre, quattro dipendenti morti di tumore e classificati come
«esposti» nello studio pubblicato nel 1980, in quello del 1983 si erano ritrovati
nel gruppo di controllo.10
Eppure, solo con l’ultimo studio, pubblicato nel 1984 sul prestigioso Journal of
the American Medical Association da Raymond Suskind e Vicki Hertzberg, la
Monsanto ha davvero toccato il fondo. Nel corso di un’udienza del processo
Kemner vs. Monsanto, il dottor Roush, direttore sanitario dell’azienda,
riconoscerà che invece dei quattro tumori rilevati nel gruppo degli esposti, ce
n’erano ventotto (ventiquattro casi omessi!).11 Il dottor Suskind, ascoltato a sua
volta, e rimasto così sconcertato dall’evidenza della sua «frode che ha rifiutato di
tornare nell'Illinois per terminare il controinterrogatorio».12
Dopo avere studiato fisica alla Columbia University, nel 1970 entra nell’EPA.
Ben presto viene nominato a capo della Hazardous Waste Management Division,
il dipartimento che ha il compito di supervisionare il trattamento e lo stoccaggio
dei rifiuti tossici industriali. Nel 1976 il lavoro di Sanjour porta il Congresso ad
approvare il Resource Conservation and Recovery Act, che lo stesso Sanjour si
impegnerà a far rispettare, attirando così l’inimicizia degli inquinatori, nonchè dei
propri superiori.
«Purtroppo l’EPA si preoccupa piu degli interessi delle imprese che di quelli
pubblici», dice oggi Sanjour. Anche lui verrà strenuamente contrastato dai suoi
superiori, soprattutto per gli interventi al Congresso e nelle assemblee pubbliche,
in cui denuncia apertamente la combutta dell’agenzia con i grandi gruppi
industriali.
L’EPA obbedisce agli ordini «Questa e la prova che l’EPA subisce infiltrazioni
della Monsanto», continua William Sanjour porgendomi una lettera di cinque
pagine inviata da James H. Senger, vicepresidente della Monsanto, a Raymond C.
In altri termini, il Journal pubblica cio che riceve senza verificare la validità
dei dati, anche quando l’autore dell’articolo dipende da un grande gruppo
industriale. Tuttavia, il fatto che questo articolo sia stato pubblicato nella «bibbia
della ricerca medica» costituisce garanzia di serietà, di cui non esita ad avvalersi
il vicepresidente della Monsanto nella comunicazione del 9 marzo 1990, in cui
sottolinea, in difesa del dottor Suskind, che le sue conclusioni sono state
esaminate da scienziati indipendenti prima della pubblicazione. Così una serie di
menzogne si e diffusa nella comunità scientifica internazionale, cioè grazie a un
circolo vizioso che, come vedremo, riguarda tutti i campi della ricerca, compresa
la biotecnologia.
Tutti i documenti interni citati in questa parte provengono dal dossier che mi
ha procurato William Sanjour.
«Nessuno ha mai verificato se la frode della Monsanto fosse vera. L’unica mai
realizzata e stata quella di Cate Jenkins, la vvhistleblovver tormentata e
maltrattata. La sua vita e diventata un inferno!» Grazie al dossier dell’ex dirigente
dell’EPA, ho potuto consultare i rapporti mensili dei due detective dell’agenzia.
La maggior parte consistono in una pagina bianca con la frase: «Nessuna attività
di investigazione significativa da riportare nel corso del mese». Un «rapporto
investigativo» di due paginette, datato 14 novembre 1990, attesta che i due hanno
incontrato Cate nel suo ufficio.
L’indomani, preoccupata per la loro scarsa curiosità, Cate gli invia un secondo
rapporto circostanziato in cui espone le proprie argomentazioni sulla «frode
Monsanto. E perchè tutto sia chiaro, sull’ultimo foglio precisa di averne inviata
una copia a sedici tra organizzazioni e personalità tra cui Greenpeace,
l’ammiraglio Zumvvalt e la Coalizione nazionale dei veterani del Vietnam, che
raggruppa sessantadue associazioni di veterani.
Tre giorni dopo l’impenitente Jenkins viene invitata a una cerimonia della
Coalizione, dove riceve una medaglia per il coraggio dimostrato e per la qualità
del lavoro svolto. Cate conferma pubblicamente che l’EPA sta conducendo
un’inchiesta criminale sugli studi fraudolenti della Monsanto, cosa che accelererà
la sua discesa agli inferi. «A partire da allora», commenta William Sanjour, «la
Monsanto interverrà di continuo presso l’EPA perchè l’inchiesta non abbia corso,
e perchè Cate sia sanzionata e licenziata. Tutti questi documenti interni lo
dimostrano», continua mostrandomi un pacco di comunicazioni dell’azienda di
Saint Louis. «Ed e solo la punta dell’iceberg! La Monsanto e una delle aziende
piu potenti degli Stati Uniti: ha legàmi con la Casa Bianca, con il Congresso e con
la stampa. Non solo l’inchiesta sarà sospesa, ma un avvocato della Monsanto
finirà con il redigere un documento di scuse prestampato a nome dell’EPA!» Ho
letto a fondo i documenti in questione e devo dire di essere rimasta sconvolta
dall’aplomb dei dirigenti della Monsanto: anzichè fare ammenda dei propri errori,
si dichiarano vittime, con il tono di chi e innocente o lasciando trasparire minacce
appena velate, come se si rivolgessero a un volgare subalterno. «La Monsanto
riconosce che l’agenzia ha effettivamente reso pubblica una rettifica secondo cui
la [sua] dipendente aveva agìto a titolo personale e [... ] il rapporto non rifletteva
la posizione ufficiale dell’agenzia», scrive James Senger a Donald Clay dell’EPA
il 1° ottobre 1990. «Tuttavia, tale rettifica non ha messo fine ai problemi causati
dalle continue allusioni alle accuse contenute in quel documento nato all’interno
dell’agenzia. [... ] Considerati gli stretti legàmi della nostra azienda con il mondo
scientifico, e fondamentale per le operazioni di ricerca conservare intatta la nostra
reputazione sulla qualità irreprensibile degli studi scientifici da noi condotti...»
Poi, a partire dal 1991, entra in scena James Moore, l’avvocato della Monsanto.
Moore non e stato scelto a caso: in realtà lavora per lo studio Perkins Coie, che
appartiene a William Ruckelshaus, il due volte amministratore dell’EPA con, nel
mezzo, un lungo periodo alla direzione della Monsanto e della Solutia. «Per tutte
le ragioni che le ho spiegato al telefono, non c’e motivo di pensare che sia stata
commessa una frode», insiste James Moore il 12 marzo 1992 parlando con
Hovvard Berman, vicedirettore dell’ufficio per le inchieste criminali dell’EPA.
«L’inchiesta condotta dai suoi servizi dovrebbe essere conclusa al piu presto,
perchè la Monsanto possa finalmente dichiararsi innocente e perchè svanisca ogni
allusione al suo presunto comportamento criminale.» Il monito fa effetto: il 7
agosto 1992 un ultimo «rapporto investigativo» conclude che «l’inchiesta e
terminata. Le affermazioni secondo cui la Monsanto avrebbe trasmesso studi
fraudolenti all’EPA sono state esaminate. Il [parola mancante] ufficio per la
valutazione sanitaria e ambientale dell’EPA, ha concluso che anche se gli studi
fossero stati falsificati, hanno [parola mancante] comportato scarse conseguenze,
poichè non sono stati presi in considerazione quando si e trattato di elaborare la
regolamentazione sulla diossina. Ancora una volta, niente di fatto...
«Nonostante il calvario che ha vissuto, Cate puo essere fiera del proprio
lavoro», afferma oggi William Sanjour. «E grazie a lei che i veterani della guerra
del Vietnam sono stati finalmente ascoltati e la combutta fra il governo e la
Monsanto e venuta alla luce.» Dopo un silenzio carico di commozione, Sanjour
aggiunge: «Purtroppo era troppo tardi per il mio amico Cameron Appel, che e
morto di tumore nel 1976. Aveva solo trent’anni e ha lasciato due figli. Era
capitano dell’Aviazione nella guerra del Vietnam. Ho dedicato a lui il mio
rapporto sulla diossina, perchè penso che questa storia debba essere portata avanti
in nome delle persone, quelle che la Monsanto sembra non considerare.» Come
afferma la «sentinella dell’EPA», il coraggioso rapporto di Cate Jenkins ha aperto
il vaso di Pandora e ha provocato una valanga di rivelazioni e decisioni a
vantaggio, in primo luogo, delle vittime americane dell’agente arancio. «E grazie
a lei che nel 1991 abbiamo ottenuto una nuova legislazione», ha testimoniato John
Thomas Burch, presidente della Coalizione nazionale dei veterani, ascoltato dal
giudice del dipartimento del Lavoro il 29 settembre 1992. «Lo studio della
Monsanto ci ostacolava, perchè citato di continuo come riferimento per i
responsabili della legislazione. Quando siamo riusciti a dimostrare che presentava
dei difetti, l’ostacolo e crollato e migliaia di persone hanno potuto ricevere
assistenza medica.»23
Si scopre così che nel 1982 il Congresso aveva stanziato una somma di
sessantatre milioni di dollari perchè il dipartimento degli Affari dei veterani
conducesse uno studio sugli effetti della diossina sui reduci. Il dipartimento,
ritenendosi incapace di realizzarlo, aveva affidato l’incarico al CDC, a cui il
Pentagono avrebbe dovuto fornire i programmi di irrorazione dell’Aviazione e gli
archivi sui movimenti delle truppe durante la guerra del Vietnam. Quattro anni
dopo il dottor Vernon Houk, direttore del CDC, annuncia di avere annullato lo
studio per «ragioni puramente scientifiche», perchè non erano riusciti a
identificare una «popolazione esposta sufficientemente rilevante»!26 Nel suo
rapporto, l’ammiraglio Zumvvalt denuncia uno «sforzo intenzionale per sabotare
qualunque possibilità di condurre analisi serie sugli effetti dell’esposizione
all’agente arancio». Aggiunge inoltre: «Purtroppo l’interferenza politica negli
studi finanziati dal governo e sempre stata la norma e non l’eccezione. In effetti,
si puo constatare uno sforzo sistematico per eliminare dati o modificare risultati».
Last but not least, nel momento in cui l’ammiraglio redige il suo sconvolgente
rapporto, due studi portano l’acqua al suo mulino: il primo, pubblicato sulla
rivista Cancer, afferma che alcuni contadini del Missouri che hanno utilizzato
erbicìdi clorati come il 2,4,5-T o il 2,4-D presentano un tasso anomalo ed
elevatissimo di tumori (alle labbra, alle ossa, alle cavità nasali, al seno, alla
prostata), così come linfomi non Hodgkin (tumori del sistema linfatico) e mielosi
(tumori della pelle).80 Tali risultati vengono confermati da un’altra ricerca
condotta su agricoltori canadesi e pubblicata nello stesso periodo.31
La storia e così incredibile che merita di essere raccontata, tanto la dice lunga
sull’operato dell’azienda, pronta a tutto pur di garantirsi l’impunità. Solo per caso,
nel 1973 un giovane ricercatore svedese di nome Lennart Hardell scopre la
diossina e i suoi effetti funesti sulla salute umana. Infatti, la sua consulenza viene
richiesta da un sessantatreenne all’ospedale di Umea: l’uomo soffre di tumore al
fegato e al pancreas, e si presenta come agente forestale della Svezia del Nord
che, per vent’anni, aveva avuto l’incarico di spargere una mistura di 2,4-D e di
2,4,5-T su boschi di latifoglie. Comincia allora una lunga ricerca, in
collaborazione con altri tre scienziati svedesi, che porterà alla pubblicazione di
uno studio in cui il legàme fra i sarcomi dei tessuti molli e l’esposizione alla
diossina verrà in superficie.33
Nel suo articolo, il professor Martin racconta come gli esperti citati
dall’associazione dei veterani del Vietnam siano stati «vivamente attaccati
dall’avvocato della Monsanto Australia. «Nel suo rapporto scrive, «la
commissione ha valutato la testimonianza degli esperti negli stessi termini della
Monsanto. Tutti coloro che non escludevano la possibile tossicità dei prodotti
chimici si sono visti denigrare i propri contributi scientifici e la propria
reputazione. Invece gli esperti che esoneravano le sostanze da ogni responsabilità
sono risultati graditi alla commissione.
Gli autori del rapporto non hanno esitato a copiare quasi per intero duecento
pagine fornite dalla Monsanto allo scopo di smontare il risultato degli studi di
Lennart Hardell e Olav Axelson.36 «Il plagio ha l’effetto di presentare il punto di
vista della Monsanto come se fosse quello della commissione” commenta Brian
Martin. Per esempio, nella parte riguardante gli effetti cancerogeni del 2,4-D e del
2,4,5-T, «quando il testo della Monsanto dice ‘si suggerisce’, il rapporto scrive ‘la
commissione ha concluso’, ma per il resto e stato semplicemente copiato».
Richard Doll non e uno qualunque: deceduto nel 2005, e stato a lungo
considerato uno dei piu grandi cancerologi del mondo. Questo epidemiologo
britannico, che aveva persino ricevuto un titolo nobiliare dalla regina
d’Inghilterra, si era distinto per avere dimostrato un legàme fra il tabagismo e la
genesi del tumore ai polmoni. Avendo osato denunciare le menzogne degli
industriali del tabacco, Doll aveva una reputazione incorruttibile. Nel 1981 aveva
pubblicato un articolo sull’epidemiologia del cancro in cui affermava che le cause
ambientali hanno una funzione assai limitata nella progressione della malattia...38
Tuttavia, la leggenda Doll crolla nel 2006, quando il Guardian svela che lo
scienziato aveva lavorato segretamente per la Monsanto per ben vent’anni!39 Fra
i documenti archiviati e depositati nel 2002 nella biblioteca del Wellcome Trust,
c’era una lettera del 29 aprile 1986 scritta su carta intestata dell’azienda di Saint
Louis. Redatta da William Gaffey, un autore dei controversi studi sulla diossina,
confermava il rinnovo del contratto per millecinquecento dollari al giorno. In
realtà la (grossa) questione era stata sollevata da Lennart Hardell e colleghi, autori
di un articolo molto interessante pubblicato sull’American Journal of Industrial
Medicine*" Ma le sorprese non sono ancora finite. E nemmeno gli orrori, che
questa volta scoprirò in Vietnam.
I dannati del Vietnam L’infermiera, nella sua uniforme azzurra, estrae dalla
tasca un mazzo di chiavi e apre la porta senza dire nulla. Entriamo in una sala
tappezzata di scaffali, su cui si trovano decine di barattoli che sembrano usciti dal
set di un film dell’orrore. Sono feti conservati in formalina. Feti mostruosi. Un
cimitero di neonati deformati dalla diossina. Con il pene in mezzo alla fronte.
Gemelli siamesi con una sola testa sproporzionata. Con un solo busto e due teste.
Una massa informe attaccata a un corpicino senza membra. «Anencefalìa, 1979»
(assenza di cervello), dice un’etichetta.
Ma solo alcuni barattoli hanno l’etichetta, perchè molte deformazioni sono così
aberranti da non avere nemmeno un nome medico.
Siamo all’ospedale Tu Du, a Ho Chi Minh (ex Saigon), nel dicembre 2006. Il
«museo degli orrori della diossina», come lo chiamano i vietnamiti, e stato
costituito alla fine degli anni Settanta dalla dottoressa Nguyen Thi Ngoc Phuong,
un’ostetrica che ha diretto per molto tempo il reparto maternità dell’ospedale, il
piu grande del Paese. Oggi questa specialista della diossina e in pensione, ma
continua a occuparsi del Villaggio della pace, al primo piano dell’ospedale, uno
dei dodici centri in Vietnam che si prendono cura dei bambini con handicap,
vittime dell’agente arancio. La dottoressa Phuong, una donnina fragile nel suo
camice immacolato, effettua la visita settimanale dei piccoli pazienti che
occupano cinque sale pulitissime. Alcuni sono costretti a letto, perchè nati senza
gambe, ne braccia. Altri arrancano sul pavimento, sotto l’occhio attento di
un’infermiera seduta in mezzo ai giocattoli di plastica. Sono profondamente
colpita dalla serenità che emanano questi piccoli esseri innocenti, dimostrazione
del fatto che sono oggetto di un’attenzione medica (e affettiva) di altissima
qualità. «La maggior parte soffre di problemi neurologici e di gravi anomalie
organiche», mi dice la dottoressa Phuong, che ora ha in braccio un bambino nato
senza bulbi oculari. Faccio fatica a distogliere lo sguardo da quella testa di feto
attaccata a un corpo di bambino che si raggomitola contro la spalla della donna...
«Le madri di questi bambini possono essere state contaminate dagli alimenti o,
a loro volta, dal latte materno. Si sa anche che la diossina puo provocare anomalie
nei cromosomi, il che ne spiega la trasmissione di generazione in generazione.»
«Avete verificato se i genitori di questi bambini hanno residui di diossina
nell’organismo?» «Secondo i documenti dell’accettazione, il 70 per cento dei
bambini accolti qui hanno genitori che vivono in zone irrorate dai defoglianti.
Purtroppo, gli esami per individuare la diossina costano molto, circa mille
euro, e in Vietnam non esistono laboratori in grado di eseguirli. L’unica volta in
cui abbiamo prescritto analisi simili e stato per la madre di Viet e Due, due
gemelli siamesi che avevano tre gambe, un bacino, un ano e un pene comuni, e
che abbiamo operato con successo per separarli. Abbiamo trovato nel grasso della
donna un tasso di diossina abbastanza elevato. Le autorità mediche del Paese
stimano che oggi siano centocinquantamila i bambini affetti da malformazioni
dovute all’agente arancio, e che ottocentomila persone siano gia malate.»
«Esistono malformazioni congenite tipiche della diossina?» «No, ma la sostanza
agisce all’interno delle cellule come un ormone, favorendo lo sviluppo di
malformazioni e malattie esistenti altrove.» «Perchè un’azienda come la
Monsanto, e persino certi scienziati americani, continuano a negare il legàme fra
l’esposizione alla diossina e le malformazioni genetiche?» «E una storia che si
ripete. Prima hanno negato il legàme con il cancro e adesso, per scansare le
responsabilità, negano quello con le malformazioni congenite...» Per ora, in
effetti, delle tredici malattie riconosciute dagli Stati Uniti come legate alla
diossina, solo una riguarda una malformazione congenita, cioè la spina bifida* «Il
problema», mi spiega il professor Arnold Schecter, presente a Ho Chi Minh in
occasione della mia visita, «e che ci mancano i dati scientifici. Gli unici studi
realizzati riguardano gli animali: mostrano che quando un esemplare femmina e
esposto alla diossina, la probabilità che dia alla luce cuccioli colpiti da handicap o
da gravi malformazioni, anche cerebrali, aumenta considerevolmente.» Il
professor Schecter, docente all’Università del Texas, e uno dei maggiori
specialisti mondiali della diossina. All’inizio degli anni Ottanta aveva infranto
l’embargo americano contro il Vietnam prendendo contatti con alcuni scienziati di
Hanoi, con i quali ha condotto una ricerca di lungo corso sull’irrorazione della
diossina nell’ambiente.
Nel febbraio 2004, per la prima volta, l’Associazione vietnamita delle vittime
dell’agente arancio ha presentato una denuncia presso la Corte federale di New
York. Ma nel marzo 2005 e stata rifiutata dal giudice Jack B. Weinstein, lo stesso
che aveva negoziato gli accordi amichevoli del 1983, con la motivazione che
l’uso militare di erbicìdi non era vietato da nessuna legge internazionale, e quindi
non poteva essere considerato un crimine di guerra. Citando un trattato del 1925
che vieta l’uso di gas durante la guerra, noto per gli«effetti asfissianti e tossici
sull’uomo», il vecchio giudice (ottant’anni) precisa che quel testo non riguarda
«gli erbicìdi concepiti per colpire le piante e che possono avere effetti collaterali
sugli esseri umani...» Poi il giudice conclude con questa frase sconcertante: «Se il
fatto di vendere erbicìdi avesse costituito un crimine di guerra, allora le aziende
chimiche avrebbero potuto rifiutarsi di fornirli.
Siamo una nazione di uomini e donne liberi, abituati alla sommossa appena il
governo supera i limiti della sua autorità... »44
La frase deve avere suscitato la gioia della Monsanto che, da parte sua, non ha
alterato di una virgola la propria difesa: «Proviamo compassione per le persone
che pensano di essere state colpite, e capiamo che cerchino di risalire alle cause
dei loro disagi», dichiara nel 2004 Jill Montgomery, portavoce
dell’azienda.«Eppure, tutte le prove scientifiche attendibili dimostrano che
l’agente arancio non ha effetti a lungo termine sulla salute.45
Negano tutto, ancora una volta. Stesso atteggiamento che oggi caratterizza la
posizione dell’azienda rispetto al Round-up, l’erbicìda lanciato sul mercato nello
stesso periodo in cui, a metà anni Settanta, il 2,4,5-T era stato definitivamente
vietato negli Stati Uniti (e successivamente nel resto del mondo).
«Per i topi il glifosato e meno tossico del sale da tavola ingerito in grandi
quantità.» Da una pubblicità della Monsanto «Se anche voi, come Rex, odiate le
erbacce in giardino, ecco Round-up, il primo diserbante biodegradabile. Distrugge
le erbe infestanti dall’interno fino alle radici e non inquina ne il terreno, ne l’osso
di Rex. Round-up, il diserbante per diserbare!» In questa simpatica pubblicità
televisiva si vede un cane spargere allegramente del Round-up sulle erbacce
infestanti di un praticello per dissotterrare l’osso che aveva nascosto proprio li
sotto. Non si vede che cosa succede alle pianticelle, ma poco dopo l’abbaiare
entusiasta di Rex fa intuire che si stia tranquillamente gustando il suo osso,
perchè il Round-up e del tutto inoffensivo. Si può addirittura immaginare il
simpatico cagnetto «condire» l’osso con i resti del barattolo di«diserbante
biodegradabile»...
Da quando viene messo sul mercato nel 1974, prima negli Stati Uniti, poi in
Europa, il Round-up ottiene un «successo stellare», per riprendere i termini di un
sito Web pubblicitario della Monsanto e del gruppo Scotts, distributore del
prodotto in Francia.1 Mentre e coinvolta nello scandalo ecologico e sanitario del
2,4,5-T, l’azienda di Saint Louis ritrova energia grazie a questa novità, la cui
confezione ne vanta i meriti: «Rispetta l’ambiente», «100 per cento
biodegradabile» e «Non lascia residui nel suolo».
«Il principio attivo del Round-up non agisce a contatto con il terreno,
preservando così le piantagioni circostanti e permettendo di seminare o ripiantare
gia una settimana dopo l’applicazione», precisa la pubblicità su Internet. Queste
allettanti promesse spiegano come il glifosato sia diventato il preferito degli
agricoltori, che lo usano in dosi massicce per liberare i campi dalle erbe infestanti
prima della semina successiva. Il Round-up, con la sua reputazione ecologica, e
diventato anche l’idolo dei gestori di spazi pubblici (aree verdi, campi da golf,
autostrade, treni «diserbanti» della SNCF, le ferrovie francesi, e così via). Chi non
ha mai visto, in primavera, squadre di tecnici vestiti da cosmonauti - tuta
ermetica, maschera antigas e stivali protettivi - percorrere le strade delle nostre
città con un bidone sulle spalle?
Un giorno di maggio del 2006 ho accompagnato nel Sud della regione parigina
una di queste squadre incaricate di sradicare i famosi «avventizi», termine usato
dai professionisti per indicare le «erbe infestanti». Sono rimasta impressionata dal
colore verdastro e poco invitante degli stivali degli addetti, che mi hanno
spiegato di doverne cambiare «un paio ogni due mesi», perchè il «caucciù viene
consumato dal Round-up». «Sono molto attento all’equipaggiamento dei miei
addetti», afferma il proprietario dell’impresa, precisando che preferisce restare
anonimo. «Cerco anche di far rispettare scrupolosamente le dosi prescritte dal
produttore, cosa che purtroppo non sempre abbiamo fatto...» Poi aggiunge con
aria d’intesa: «Sembrerebbe che il prodotto non sia così innocuo come hanno
voluto farci credere...» Non dice altro, limitandosi a ricordare le pubblicità del
piccolo schermo, in cui si vedono bambini giocare sull’erba mentre papà, in
sandali e pantaloncini, si accanisce sulle erbacce con in mano un bidone
di«Round-up per vialetti e terrazzi».
«Nel 1988», spiega il solito sito promozionale, «la Monsanto crea la divisione
giardini per estendere il consumo di Round-up anche al giardiniere amatoriale.
Nasce così una nuova gamma di Round-up destinata al grande pubblico.» Il
glifosato arriva in tutti i giardini francesi, dove viene abbondantemente utilizzato
senza protezioni prima di seminare verdura e insalata, che faranno la gioia delle
famiglie. «Noi lo usiamo», mi ha spiegato l’affittuario di un giardino in prossimità
dello Stade de France di Saint-Denis, a nord di Parigi. Il giovane pensionato, nel
suo capanno da giardino, e intento a preparare la «mistura» da spargere sul terreno
prima della semina. «Guardi!» aveva insistito mostrandomi il bidone verde chiaro
del Round-up con il logo di un uccello, che avrebbe dovuto confermare cio che
diceva l’etichetta: «Se usato seguendo le istruzioni, il Round-up non presenta
alcun rischio per l’uomo, nè per gli animali e l’ambiente».
Negli Stati Uniti l’entusiasmo per il simpatico erbicìda e tale che nel 1993
quindici città accettano di partecipare a un programma di «abbellimento
cittadino» sponsorizzato dalla Monsanto. Alcuni volontari, reclutati dall’azienda,
danno vita a squadre spontanee di lotta contro le erbe infestanti, per ispezionare le
strade e diserbarle. «L’idea e di sviluppare una fobìa delle erbe infestanti e di far
apparire il Round-up come un marchio socialmente responsabile,2 spiega Tracy
Frish, una dirigente della coalizione di New York in favore di un’alternativa ai
pesticìdi, che all’epoca conduceva una campagna per denunciare la «falsa
pubblicità» della Monsanto.
Un doppio caso di frode In realtà, ben presto nascono gravi sospetti sul nuovo
ritrovato dell’azienda di Saint Louis, che ancora una volta riuscirà a sviare le
accuse, grazie al lassismo dell’incorreggibile EPA. A dire il vero, la «costanza»
dell’EPA non ha niente di sorprendente: tutti i fatti riportati in questo libro a
proposito di PCB, diossina o Round-up, riguardano lo stesso periodo, che va piu o
meno dal 1975 al 1995. Non c’e da stupirsi, quindi, se in un prodotto o nell’altro
si ritrovi lo stesso protettore...
Nei primi anni Ottanta le cronache erano invase da un processo che riguardava
gli IBT (vedi Capitolo 1) di Northbrook. L’EPA conosceva bene gli IBT, perchè
erano i principali laboratori nordamericani incaricati di realizzare test sui pesticìdi
per conto delle aziende chimiche, al fine di ottenere l’omologazione dei propri
prodotti. Così, rovistando negli archivi del laboratorio, gli agenti dell’EPA hanno
scoperto che decine di studi erano stati «truccati» e presentavano «serie deficienze
e scorrettezze», per usare il linguaggio prudente dell’agenzia. Hanno soprattutto
constatato una «falsificazione continua di dati», mirata a nascondere un «numero
infinito di decessi fra gli animali testati».3
Pare che tra gli studi incriminati ci fossero trenta test sul glifosato.4
Nel 1991 ci risiamo! Questa volta sono i laboratori Craven a essere accusati di
avere falsificato alcuni studi che avrebbero dovuto valutare i residui di pesticìdi,
fra cui il Round-up, su prugne, patate, uva e barbabietole da zucchero, oltre che
nell’acqua e nel suolo.6 «L’EPA ha spiegato l’importanza di quegli studi per
determinare il livello di pesticìdi autorizzati negli alimenti freschi o confezionati»,
scrive ilNew York Times. «Il risultato delle manipolazioni e che l’EPA ha
dichiarato sani dei pesticìdi di cui non e mai stato dimostrato che lo siano
davvero.»7 La frode e valsa ai proprietari dei laboratori una condanna a cinque
anni di carcere, mentre la Monsanto e le altre aziende chimiche che avevano tratto
profitto dai famosi studi non sono mai state sottoposte a inchiesta. Bisogna dire
che ancora una volta l’EPA aveva scelto la politica dello struzzo: «Non
pensavamo ci fossero problemi ambientali o sanitari», ha dichiarato Linda Fisher,
vicedirettore della divisione pesticìdi e sostanze tossiche dell’agenzia.
«Nonostante siano solo allusioni, d’ora in poi prenderemo misure preventive. Per
me e una grande sfida!»8
Dopo dieci anni di servizio all’EPA, nel 1995 Linda Fisher sarà assunta dalla
Monsanto per dirigere l’ufficio di Washington incaricato del lobbying sulle
autorità politiche. Poi, nel maggio 2001, tornerà all’EPA come numero due. Un
bell’esempio di cio che negli Stati Uniti chiamano revolving doors (porte
girevoli), che illustra la combutta fra grandi aziende e autorità del Paese (tornerò
sull’argomento nel Capitolo 5).
Nell’attesa, la Monsanto ha misurato l’effetto che questo doppio caso di frode
poteva avere sulla sua immagine. Nel giugno 2005, quattordici anni dopo l’accusa
contro i laboratori Craven, l’azienda pubblicava una comunicazione in cui, con il
solito aplomb, affermava: «I danni alla reputazione della Monsanto causati dalle
rivelazioni dei media e dall’uso che ne hanno fatto gli attivisti, i quali se ne sono
serviti per mettere in dubbio i dati forniti dall’azienda, sono difficili da stimare.
Tutti gli studi sui residui messi in discussione sono stati ripetuti e ora i risultati
sono affidabili, aggiornati e accettati dall’EPA».9
Certo, come no! Dopo il doppio scandalo l’EPA aveva preteso che gli esami
incriminati fossero «ripetuti», ma come affermava nel 1998 Caroline Cox sul
Journal of Pesticìde Reform, questa «frode getta un’ombra su tutto il processo di
omologazione dei pesticìdi».10 Eppure, la cosa sorprendente è che questa
«ombra» non ha intaccato minimamente la Monsanto, che ha continuato
tranquillamente a promuovere il Round-up come erbicìda «biodegradabile e
amico dell’ambiente».
«Alcuni studi scientifici hanno dimostrato che nelle acque bretoni c’era una
presenza massiccia di glifosato», mi spiega Gilles Huet, delegato
dell’associazione bretone, durante una conversazione telefonica nella primavera
del 2006. Huet citava un rapporto pubblicato nel gennaio 2001 dall’Osservatorio
regionale della salute in Bretagna.13 In realtà, i prelievi effettuati nel 1998 nelle
acque bretoni hanno rivelato che il 95 per cento dei campioni presentava un tasso
di glifosato superiore alla soglia legale di 0,1 microgrammi/litro, con punte di 3,4
microgrammi/litro nella Seiche, affluente della Vilaine. «Nel 2001», precisa Huet,
«la Commissione europea, che ha riomologato il glifosato, l’ha classificato come
‘tossico per gli organismi acquatici’ e ‘in grado di comportare effetti nefasti a
lungo termine per l’ambiente’. Chiediamo quindi un minimo di coerenza: un
prodotto ‘biodegradabile’ e ‘rispettoso dell’ambiente’ non può essere
contemporaneamente ‘tossico e nefasto’ nelle acque bretoni!» Così, il 4 novembre
2004 il tribunale correttivo di Lione, dove ha sede la filiale francese della
Monsanto, apre il processo per «pubblicità fraudolenta o tale da indurre in
errore». Fino al 2003, approfittando della lentezza dell’istruzione della causa da
parte dell’associazione bretone, la multinazionale ha potuto continuare a
diffondere la campagna pubblicitaria incriminata. Nel giorno del processo di
Lione otterrà persino due anni di proroga, optando semplicemente per la politica
della sedia vuota... All’udienza, infatti, i rappresentanti dell’azienda brillano per la
loro assenza: fingeranno di non avere mai ricevuto la comunicazione «per
mancanza di indirizzo in Francia», come ha detto il pubblico ministero, che
decide di rinviare il processo al giugno 2005. «Errore amministrativo manovra
dell’azienda per sfuggire a una condanna infamante in termini di immagine?» si
interroga l’associazione dei consumatori UFC-Que Choisir, che nel 2001 si era
unita all’accusa di Eau et Rivières de Bretagne. Le malelingue insinuano che il
rinvio avrebbe permesso alla Monsanto di salvare la campagna pubblicitaria
primaverile dei diserbanti, fondamentale per il fatturato aziendale: nel 2004 la
Monsanto France deteneva il 60 per cento del mercato del glifosato; vendeva cioè
tremiladuecento tonnellate di Round-up all’anno, anche grazie al raddoppio dei
consumi di erbicìda verificatosi fra il 1997 e il 2002.
Questi dati vengono esaminati da «esperti» più o meno competenti, più o meno
coraggiosi e più o meno indipendenti. Basta leggere il libro Fìdati, gli esperti
siamo noi dei britannici Sheldon Rampton e John Stauber,14 o quello dei francesi
Fabrice Nicolino e Francois Veillerette, Pesticìdes, révélations sur un scandale
frangais (Pesticìdi, rivelazione su uno scandalo francese),15 per rendersi conto
che molti prodotti tossici hanno avuto lunga vita dopo essere stati approvati dai
famosi «esperti», i cui nomi sono coperti da procedure burocratiche ben poco
limpide.
Nei primi anni Duemila il professor Robert Bellé decide di usarlo per testare
gli effetti sanitari dei pesticìdi. La sua preoccupazione è allora motivata dal livello
di inquinamento constatato nelle acque francesi, oltre che negli alimenti: «I dati
sulla qualità delle acque sotterranee in Francia dimostrano una contaminazione
considerata sospetta nel 35 per cento dei casi», afferma Julie Marc, che ha
consultato tutti gli studi disponibili. «Anche le acque marine mostrano una
contaminazione generalizzata e perenne da erbicìdi. [... ] L’ingestione di frutta e
verdura contribuisce all’apporto di pesticìdi per gli umani. A questo proposito le
cifre sono inquietanti, poiché il 49,5 per cento dei campioni di alimenti vegetali di
origine francese analizzati contengono residui di pesticìdi, e l’8,3 per cento ne
contiene quantità superiori al limite massimo.»21
L’agente arancio della Colombia Intanto, grazie alla combutta fra politici,
giganti dell’industria chimica e comunità scientifica internazionale, l’uso dei
pesticìdi continua a diffondersi in tutto il mondo. Si stima che 2,5 milioni di
tonnellate di prodotti fitosanitari vengano sparsi ogni anno sulle colture del
Pianeta, e che solo lo «0,3 per cento entri in contatto con gli organismi oggetto del
trattamento, il che significa che il 99,7 per cento delle sostanze irrorate finiscono
‘altrove’ nell’ambiente, nel suolo e nelle acque», sottolinea Julie Marc nella sua
tesi di dottorato.31 Quindi la contaminazione dei fiumi e dei corsi d’acqua da
parte dell’erbicìda più usato al mondo potrebbe essere all’origine
dell’annientamento di intere popolazioni di anfibi, come dimostra uno studio
pubblicato nel 2005 da Rick Relyea, un ricercatore dell’Università di
Pittsburgh.82 Relyea ha osservato gli effetti di due insetticìdi (il Sevin e il
Malathion) e di due erbicìdi (il Round-up e il 2,4D) su una popolazione di
venticinque specie animali provenienti da un acquitrino (lumache, girini, crostacei
e insetti), messi in quattro contenitori con la loro acqua di origine. In ogni
contenitore è stata aggiunta una dose di pesticìda, secondo la concentrazione
consigliata dai produttori. I risultati sono stati spettacolari: «Nel bacino in cui
abbiamo messo del Round-up abbiamo trovato, fin dal giorno dopo, girini morti
un po’ ovunque sulla superficie dell’acqua», afferma Relyea. «È stato tremendo
vedere come il Round-up, concepito per uccidere le piante, fosse letale anche per
gli anfibi.»38 Da notare che il 2,4-D e i due insetticìdi non hanno prodotto effetti
sui piccoli abitanti degli acquitrini...
Scrivendo queste righe, non posso evitare di pensare al calvario che vivono
ogni giorno le comunità contadine della Colombia, sottomesse a quello che gli
strateghi di Washington chiamano Pian Colombia. Elaborato nel giugno 2000 con
il supporto del governo di Bogotà, il piano mira a sradicare le colture di coca che
riforniscono il mercato internazionale della cocaina e che finanziano, in parte, i
movimenti di guerriglia. Principale mezzo di tale intervento sono le irrorazioni
aeree di Round-up. Dal 2000 al 2006 si stima che siano stati irrorati trecentomila
ettari circa, soprattutto nei dipartimenti di Cauca, Narino e Putumayo (che si
estende sino al confine con l’Ecuador), le cui popolazioni vengono colpite da
quello che alcuni chiamano «agente arancio della Colombia». Solo nella zona di
Putumayo, dove vivono diverse comunità indie, trecentomila persone sono
rimaste intossicate.
La situazione è così drammatica che nel gennaio 2002 una ONG statunitense,
Earthjustice Legal Defence Fund, si è rivolta alla Commissione per i diritti
dell’uomo e al Consiglio economico e sociale dell’ONU. Nel suo rapporto l’ONG
stilava l’elenco di tutti i danni che era riuscita a constatare sul territorio
colombiano: «Problemi gastrointestinali (gravi emorragie, nausea, vomito),
infiammazioni ai testicoli, febbre alta, vertigini, insufficienza respiratoria,
irruzioni cutanee e gravi irritazioni oculari, oltre ad aborti e malformazioni alla
nascita».36 Inoltre, «le irrorazioni hanno distrutto più di millecinquecento ettari di
colture alimentari (manioca, mais, banane, pomodori, canna da zucchero, praterie)
e alberi da frutto, e hanno provocato la morte di molti animali (bovini e volatili).
Che cosa dire di fronte a questo nuovo scandalo da cui, ancora una volta,
l’azienda di Saint Louis trae profitto? Nulla, se non ricordare le istruzioni del
Round-up Ultra così come appaiono oggi sui bidoni venduti negli Stati Uniti: «Il
Round-up uccide quasi tutte le piante verdi in fase di crescita. Il prodotto non
dovrebbe essere applicato vicino a riserve d’acqua come acquitrini, laghi o fiumi,
perché può essere tossico per gli organismi acquatici. Le persone e gli animali
domestici (cani e gatti) dovrebbero rimanere al di fuori della zona in cui il Round-
up viene applicato, finché non è completamente asciutto. Raccomandiamo che per
due settimane animali come cavalli, bovini, pecore, capre, conìgli, tartarughe non
siano autorizzati a entrare nelle aree trattate. Se il Round-up è usato per
controllare piante indesiderate situate vicino ad alberi da frutta o piantagioni come
i vigneti, consigliamo di non consumarne i frutti prima di ventuno giorni».
«Visto che la composizione del latte non risulta alterata dal Posilac, le sue
proprietà e il gusto non cambiano.» Dal sito Web della Monsanto «Questo caso è
stata una vera e propria discesa agli inferi. Ero entrato alla FDA pensando di
operare per il bene dei miei compatrioti e ho scoperto che l’agenzia non era più il
custode della sanità pubblica, ma il protettore degli interessi delle imprese
industriali.» Quando incontro Richard Burroughs a New York, il 21 luglio 2006,
quasi vent’anni dopo lo scoppio del «caso», mi dice: «È troppo doloroso. Ogni
volta che mi torna in mente è come se mi franasse il terreno sotto i piedi. È molto
difficile ammettere, ancora oggi, di essere stato licenziato dalla famosa FDA
perché mi opponevo alla commercializzazione di un prodotto che consideravo
pericoloso! Eppure era proprio quello il mio compito!» Lo sconforto del dottor
Burroughs mi faceva pensare a Cate Jenkins, a William Sanjour e ad altri di cui
parlerò più avanti: Shiv Chopra di Health Canada, Arpad Pusztai del Rovvett
Institute, Ignacio Chapela dell’Università di Berkeley, o i giornalisti Jane Akre e
Steve Wilson. A tutti si indebolisce la voce quando raccontano la loro esperienza
di vvhistleblovver. E la storia di Richard Burroughs è davvero emblematica.
Dal nome del deputato democratico di New York James Delaney (1901 -
1987), che se potesse leggere queste pagine si rivolterebbe nella tomba.
** Negli anni Settanta altre tre aziende sono riuscite a produrre l’ormone
transgènico: la Elenco, una filiale di Eli Lilly, la Upjohn e l’American Cyanamid.
Ma alla fine solo la Monsanto rimarrà in affari.
«Il dossier fornito dalla Monsanto era alto come me», spiega Richard
Burroughs, che svetta oltre il metro e ottanta. «Il regolamento della FDA ci
impone di non impiegare più di centottanta giorni per analizzare i dati. In realtà, è
uno stratagemma delle aziende per scoraggiare un esame minuzioso: inviano
tonnellate di carta sperando che non vengano neanche guardate. Ho capìto subito
che i dati miravano solo a dimostrare che con l’rBGH la produzione di latte
risultava dopata. Gli scienziati della Monsanto non si erano posti le domande
cruciali: che cosa significa per le mucche produrre latte in quantità superiori alla
loro capacità naturale? Come dovranno essere nutrite per sopravvivere allo
sfruttamento?
Non è possibile valutare gli effetti della BST sulla riproduzione se altri test con
ormoni riproduttivi diversi mascherano o alterano gli effetti della cura.» Infine,
riguardo allo studio tossicologico condotto sui topi, il responsabile del CVM è
ancora più pungente: i topi studiati sono troppo pochi (sette), sono solo femmine,
la durata dello studio è troppo breve (sette giorni) e le dosi ingerite dalle cavie
troppo scarse...
«Pensa che la FDA sia stata tradita dalla Monsanto?» « ‘Tradita’ non è la
parola giusta, perché vorrebbe dire che non sapeva. Invece l’agenzia ha
consapevolmente chiuso gli occhi su dati inquietanti, perché voleva proteggere gli
interessi dell’azienda, favorendo la commercializzazione dell’ormone
transgènico.» I dati segreti della Monsanto e della FDA
Nel momento in cui per il dottor Burroughs comincia il crollo, uno scienziato
noto per il grande coraggio affronta l’argomento che diverrà una delle lotte della
sua vita. Si tratta di Samuel Epstein, oggi docente emerito di medicina ambientale
presso l’Università dell’Illinois. Autore di numerose pubblicazioni e di libri
famosi, soprattutto sul cancro - di cui afferma che la recrudescenza è legata
all’inquinamento ambientale in un giorno di primavera del 1989 riceve una
telefonata da un contadino che ha accettato di testare l’rBGH sulle proprie
mandrie.
«Si è infuriato quando ha capìto che non avevo mai sentito parlare dell’ormone
transgènico», mi racconta Epstein il 4 ottobre 2006, nel suo ufficio di Chicago.
«Mi ha detto: ‘Dovrebbe occuparsene, è il suo lavoro!
** È una divisione della Consumers Union, nata nel 1936, che pubblica
Consumer Reparti, la seconda rivista americana dei consumatori, con 4,5 milioni
di abbonati.
Il «dettaglio» è tanto più importante quando si tratta di un dato su cui tutti sono
d’accordo: il livello di IGF1 è nettamente più elevato nel latte prodotto da
animali trattati con l’ormone della crescita transgènico che nel latte naturale.
Secondo l’articolo pubblicato da Science, questa argomentazione è vera nel 75 per
cento dei casi!8 Ma la FDA aggiunge: «L’rBGH è biologicamente inattivo negli
esseri umani, [...] perché non può essere assorbito nel sangue, [... ] e ci si può
aspettare che una volta ingerito, sia distrutto dal sistema gastrointestinale umano
come le altre proteìne». «È del tutto falso», affermano all’unisono Samuel Epstein
e Michael Hansen. «Più di uno studio ha confermato che l’IGF1 non viene
distrutto dalla digestione, perché protetto dalla caseìna, la principale proteìna del
latte.»9
«Di recente», mi dice Pete Hardin, «ho pubblicato due studi che confermano le
nostre inquietudini. Il primo è stato realizzato da Paris Reidhead, che ha
analizzato le statistiche nazionali constatando che il tasso di tumore al seno nelle
donne americane con più di cinquant’anni è aumentato del 55,3 per cento fra il
1994, anno in cui l’rBGH è stato messo in commercio, e il 2002.12 Il secondo è
uno studio condotto dal dottor Gary Steinman, dell’Albert Einstein College of
Medicine di New York, secondo il quale le donne americane che consumano
quotidianamente latticini hanno il quintuplo delle probabilità di avere un parto
gemellare rispetto a chi non ne consuma, e che il tasso di gravidanze gemellari è
aumentato del 31,9 per cento fra il 1992 e il 2002. Tutto questo è opera
dell’IGF1.»13
Da allora le pubblicazioni sui danni dei battèri resistenti agli antibiotici si sono
moltiplicate: nel 1992, in piena polemica sull’rBGH, due scienziati scrivevano su
Science: «Dopo un secolo di declino, negli Stati Uniti la tubercolosi è in piena
ripresa. [... ] Un terzo dei casi individuati nella città di New York nel 1991 sono
dovuti a ceppi resistenti a uno o più farmaci».17 Nello stesso anno il CDC
constatava che 13.300 pazienti ricoverati nel Paese erano deceduti in seguito a
infezioni provocate da battèri resistenti agli antibiotici che i medici avevano loro
prescritto.18
Pressioni su pressioni Ecco perché il GAO ha preso molto sul serio il problema
delle mastiti.19 Avendo sentito parlare di uno studio realizzato dall’Università del
Vermont, che era stata pagata dalla Monsanto per testare l’ormone transgènico su
quarantasei bovini, la squadra investigativa del Congresso ha chiesto di vederne i
risultati. Ma gli scienziati hanno rifiutato... Preso in carico dal Vermont Public
Interest Research Group, un’organizzazione di consumatori del Vermont (primo
Stato americano per la produzione di formaggio), il caso ha fatto scalpore,
costringendo la FDA a rompere il silenzio: si è così scoperto che il 40 per cento
dei bovini trattati avevano dovuto essere curati per mastite, rispetto al 10 per
cento del gruppo di controllo.
391, ritirata dallo studio a causa di una mastite. In Arizona, stessa cosa per la n.
4320, morta di peritonite; nello Utah, la n. 5586 non è sopravvissuta a un
linfosarcoma; o in Olanda, dove la n. 701 è stata eliminata per un’anemìa acuta
provocata dalla rottura dei vasi sanguigni nelle ghiandole mammarie. E così via.
Erik Millstone si rivolge allora al British Food Journal, che accetta l’articolo
senza l’approvazione preliminare della multinazionale, ma alla fine l’editore
rinuncia perché l’azienda minaccia di attaccarli per «plagio». «Quando si
prendono i dati di qualcun altro e li si utilizza senza accordo, è semplice plagio»,
afferma Robert Collier, «mister rBGH» della Monsanto. Alla fine l’articolo del
professor Millstone, firmato anche da Eric Brunner, dello Università College di
Londra, e da Ian White, della London School of Tropical Medicine, sarà
pubblicato il 20 ottobre 1994 su Nature, il concorrente britannico di Science, che
svelerà il caso.20 L’uscita dell’articolo procede di pari passo con una
puntualizzazione in cui ilricercatore spiega che la multinazionale non ha diritti
sulle analisi condotte dal suo laboratorio, ma solo sui dati bruti che ha mantenuto
confidenziali, come da accordi. È interessante notare che per bloccare la
pubblicazione di un articolo che mette in dubbio i risultati dell’azienda, la
Monsanto non esita a brandire i diritti di proprietà intellettuale su dati che
influiscono negativamente sulla salute dei consumatori.
Torniamo agli Stati Uniti e ai lavori del GAO. Il 2 marzo 1993 i suoi membri
scrivono a Donna Shala, segretario della Sanità: «L’autorizzazione dell’rBGH non
dovrebbe avvenire prima che i rischi legati agli antibiotici siano seriamente
valutati. Le raccomandazioni che in proposito abbiamo fatto alla FDA non hanno
ancora avuto effetto». E non ne avranno mai... Il 5 novembre 1993 la FDA
approva il Posilac, nome commerciale dell’rBGH. Unica piccola «restrizione»: il
foglio illustrativo deve indicare che il prodotto può comportare ventidue effetti
collaterali sui bovini, fra cui un tasso di riproduzione ridotto, cisti ovariche e
disordini a livello uterino, una riduzione del tempo di gestazione e del peso dei
vitelli, un tasso più elevato di gemelli, un aumento delle mastiti e delle SCC,
nonché ascessi da 3-5 centimetri a un massimo di 10 nel punto dell’iniezione. E
scusate se è poco...
Purtroppo non sono riuscita a incontrare Taylor, che incarna il sistema delle
porte girevoli, nonché i legàmi fra la Monsanto e le agenzie di regolamentazione
americane. La sua doppia funzione ha in effetti fatto scorrere fiumi d’inchiostro.
Secondo il suo curriculum, questo avvocato nato nel 1949 ha lavorato alla FDA
dal 1976 al 1980, dove collaborava alla redazione dei documenti sulla sicurezza
alimentare destinati al Federal Register, una sorta di gazzetta ufficiale della FDA
dove vengono pubblicati tutti i testi delle regolamentazioni prodotte dall’agenzia,
e oggi accessibili tramite il sito Web.** Nel 1981 Taylor si unisce al prestigioso
studio King & Spalding di Atlanta e viene nominato numero uno della FDA, che
crea una posizione su misura per lui: vicecommissario incaricato della politica
dell’agenzia. Rimarrà alla FDA per tre anni, il tempo di fare da supervisore alla
redazione dei testi fondamentali sulla regolamentazione dell’rBGH e degli OGM
(ci torneremo), prima di un piccolo soggiorno al dipartimento americano
dell’Agricoltura (USDA), per poi essere reclutato, alla fine degli anni Novanta,
come vicepresidente della Monsanto.
*Il 15 aprile 1994 i tre membri del Congresso scrivono all’ispettore generale
del GAO, spiegando che la prima inchiesta è fallita «a causa del rifiuto della
Monsanto di comunicare tutti i dati clinici disponibili sull’rBGH.
«Il fatto che lei abbia lavorato per sette anni come consulente della Monsanto,
facendo poi da supervisore al processo di omologazione di uno dei suoi prodotti
più controversi, non le ha mai causato problemi etici?» ho domandato con cautela.
125
«La direttiva della FDA è assurda», si indigna Michael Hansen, esperto del
Consumer Policy Institute che aveva inviato una critica circostanziale all’agenzia
fin dal 14 marzo 1994. «Innanzitutto - e la FDA lo sa benissimo - il latte delle
mucche trattate non è identico al latte naturale; in secondo luogo, è da tempo che
l’organismo autorizza etichette come ‘prodotto biologico’, ‘formaggio del
Wisconsin’, ‘prodotto Amish’ o ‘carne di angus’, senza mai pensare che
potrebbero indurre i consumatori in errore implicando una differenza in termini di
qualità o di sicurezza alimentare! Perché dovrebbe essere diverso per il latte
etichettato come ‘senza rBST’? Ancora una volta il testo è stato confezionato su
misura per la Monsanto, consapevole che se il latte verrà etichettato i consumatori
faranno di tutto per evitare i prodotti provenienti dall’ormone transgènico.»
Undici sondaggi realizzati negli anni Novanta confermano che la stragrande
maggioranza dei consumatori preferirebbe acquistare latte senza rBST, se avesse
la possibilità di scelta*
Intanto la direttiva ha fatto i comodi dell’azienda di Saint Louis, che l’ha usata
per trascinare in tribunale tutti quelli che osavano apporre l’etichetta «senza
rBST». La prima vittima, nel 1994, è stata la Svviss Valley Farms di Davenport,
una cooperativa casearia dell’Iowa che ha informato i suoi duemilacinquecento
allevatori che non avrebbe più acquistato il loro latte se avessero usato l’rBST.
«Se così fosse, la Monsanto subirebbe danni irreparabili», ha affermato Tom
McDermott, portavoce dell’azienda.4 Alla fine tutto si concluderà con un accordo
amichevole, deciso dal giudice, che autorizza la cooperativa a etichettare il
proprio latte a condizione che venga aggiunta la «dichiarazione contestuale»
caldamente «raccomandata» dalla direttiva di Michael Taylor. «I produttori di
latte sono terrorizzati», dichiara poco dopo il direttore di una cooperativa del
Nordest degli Stati Uniti, che vuole rimanere anonimo per timore di
rappresaglie.5
Nel 2003 tocca alla Oakhurst Dairy Inc., la più grande azienda casearia del
New England, ritrovarsi sul banco degli imputati. Questa azienda familiare aveva
nettamente aumentato le vendite (ottantacinque milioni di dollari) riportando
sull’etichetta questa frase: «I nostri allevatori si impegnano a non usare ormoni
della crescita artificiali». In compenso, pagava un bonus ai produttori. La
Monsanto non ha esitato a citarla in giudizio, con il pretesto che l’etichetta
rappresentava una «denigrazione dell’uso degli ormoni della crescita nelle
mandrie». «Non cederemo», aveva dichiarato Stanley T. Bennett, presidente della
Oakhurst Dairy, «perché siamo convinti che i nostri clienti abbiano il diritto di
sapere che cosa c’è nel latte che bevono».6 Tuttavia, come per la cooperativa di
Davenport, l’azienda ha dovuto piegarsi e aggiungere la famosa frasetta.7
Davanti a noi, un’enorme stalla con centinaia di mucche allineate. Gli animali
non escono mai, vengono nutriti esclusivamente con integratori alimentari, soia
(OGM) e farine. Nei dintorni si vedono lavoratori dalla pelle scura. «Sono
messicani senza permesso di soggiorno», mi spiega John Peck. «Questo tipo di
azienda funziona come una fabbrica, che impiega manodopera a buon mercato
quando serve.» Nell’ottobre 2006 ci troviamo nello Stato del Wisconsin, a nordest
di Chicago, che era il primo produttore di latte degli Stati Uniti, poi superato dalla
California, dove le fattorie come quella che abbiamo davanti agli occhi si sono
moltiplicate negli ultimi dieci anni proprio grazie all’rBGH.
«Oggi», mi spiega John Peck, «gli allevamenti del Wisconsin contano in media
una cinquantina di capi contro i quattrocento della California, ma il primo Stato
nella produzione di latte biologico siamo noi.» Abbiamo ripreso il viaggio e
attraversiamo un paesaggio collinare e verdeggiante, disseminato di fattorie
curatissime, davanti alle quali troneggia un cartello con la scritta: prodotti amish.
Il Wisconsin ospita infatti la quarta comunità amish del Paese, che continua a
rimanere fedele alle regole di vita stabilite dall’ordine antico, immutate dalla fine
del XVII secolo, quando questa setta religiosa di origine alsaziana si è stanziata
negli Stati Uniti: barba per gli uomini e cuffia in testa per le donne, abiti
tradizionali e soprattutto rifiuto di ogni tecnica nata dal «progresso», a partire
dall’elettricità. Gli amish usano la luce delle candele, si spostano su calessi
trainati da cavalli e lavorano la terra con una coppia di buoi.
«Sì», risponde John Kinsman, «la Monsanto non ha mai smesso di fare
propaganda per il suo prodotto, fin da quando non era nemmeno autorizzato!
L’azienda offriva un premio di trecento dollari a ogni veterinario che fosse
riuscito a convincere un contadino a usarlo. Inoltre, organizzava eventi
promozionali in tutti gli Stati produttori di latte, distribuendo filmati che
vantavano i meriti dell’ormone della crescita.» È vero. Mi sono procurata uno di
quei video della Monsanto. Si vede un gentiluomo dall’aria dotta che passeggia in
un’azienda casearia illustrando i vantaggi dell’rBGH, «il prodotto più studiato
nella storia della FDA». «Il farmaco è stato testato per anni e funziona!»
garantisce, mentre accanto a lui un uomo inietta il prodotto a una fila di mucche
sorprendentemente docili. Il video è stato distribuito agli agricoltori alla fine degli
anni Ottanta, suscitando l’ira della FDA! Così il 9 gennaio 1991
Per fortuna avevo risparmiato il resto della mandria, altrimenti avrei perso
tutto... » «E questo è successo a molti allevatori del Wisconsin», commenta John
Kinsman, che mi rimanda a uno studio pubblicato nel 1995 da Mark Kastel,
consulente indipendente che allora lavorava per la Wisconsin Farmers Union.9
Alla fine dell’estate del 1994, cioè sei mesi dopo la commercializzazione del
Posilac, l’organizzazione contadina, in collaborazione con la National Farmers
Union di Denver, nel Colorado, decide di istituire un numero verde destinato a chi
utilizza l’ormone. AH’origine di questa iniziativa c’è la testimonianza di John
Shumvvay, contadino dello Stato di New York che aveva raccontato le proprie
disavventure a un settimanale locale.10 Dopo solo due mesi di iniezioni, aveva
dovuto sacrificare un quarto della mandria, cioè una cinquantina di mucche, per
gravi problemi di mastiti. L’allevatore, ricontattato un anno dopo, nel settembre
1995, confesserà che l’rBGH aveva decimato centotrentacinque animali su
duecento, cosa che gli era costata centomila dollari, fra le perdite dovute al crollo
della produzione di latte e l’acquisto di nuovi capi di bestiame.
Ma l’AMA non è cosa da poco! Questa associazione, nata nel 1847, raggruppa
duecentocinquantamila medici americani, cioè un terzo dei medici del Paese. Per
«aiutare i medici ad aiutare i pazienti» - questo è il suo motto ufficiale -, pubblica
il Journal of the American Medical Association. «L’AMA ha sempre militato in
favore dell’rBGH», spiega il professor Samuel Epstein, «come del resto
l’American Cancer Society* o l’American Dietetic Association, che fanno parte
degli organi scientifici della Dairy Coalition, una potente lobby casearia nata nel
1993, nel momento in cui la FDA omologava il Posilac. La Dairy Coalition
comprende rappresentanti dell’industria casearia, grandi catene di distribuzione
alimentare, l’associazione dei segretari dell’Agricoltura di cinquanta Stati
americani, scienziati sponsorizzati dalla Monsanto e altri ancora. Basandosi su
tutti questi elementi, l’organizzazione ha inondato la stampa di informazioni
fasulle sull’rBGH, e ha organizzato campagne di diffamazione contro quelli che,
come me, non hanno mai smesso di rivelare i pericoli dell’ormone transgènico.»
«La stampa come si è comportata in tutto ciò?» domando.
Jane Akre riprende tutto per un mese, poi incontra alcuni sostenitori
dell’ormone transgènico, per esempio uno scienziato dell’Università della Florida
o Robert Collier, rappresentante della Monsanto, ma anche chi vi si oppone, come
Samuel Epstein o Michael Hansen. Intervista anche il rappresentante di una
piccola azienda casearia perseguita dalla Monsanto per avere etichettato il proprio
latte come «senza BST». La FDA, invece, ha rifiutato l’intervista di Jane:
«All’epoca ero molto ingenua», sorride lei, «e quella risposta mi aveva sorpresa.
Ero ancora convinta che l’agenzia avesse buoni motivi per avere omologato un
farmaco che ci sembrava pericoloso al punto da indurci a dare a nostra figlia Alix
solo latte biologico».
Una volta terminato il montaggio del loro filmato, la coppia mostra il reportage
a Daniel Webster, direttore dell’informazione che, entusiasta, decide di
trasmetterlo e di promuoverlo con una campagna pubblicitaria molto costosa. La
prima puntata è prevista per lunedì 24 febbraio 1997 in prima serata...
Bob Franklin, direttore generale del canale, chiede di vedere il reportage: «Gli
è piaciuto molto», ricorda Jane Akre, «e di comune accordo abbiamo deciso di
proporre alla Monsanto una nuova intervista. L’azienda ci ha chiesto di inviarle
prima la lista delle domande, cosa che abbiamo fatto, ma alla fine hanno rifiutato
di ricevermi».
Qualche giorno dopo una nuova lettera arriva alla sede di Fox News.
Questa volta il tono è minaccioso: «Sono molto sorpreso di vedere che una
settimana dopo la mia prima e dettagliata lettera sono costretto a inviarne una
seconda per avvertirvi che la situazione non è migliorata, se non addirittura
peggiorata, visto il metodo irresponsabile di Jane Akre», scrive l’avvocato, che
scredita le otto domande inviate dalla giornalista, in particolare quelle sulle
«morti bovine». «Sono argomentazioni diffamatorie», continua l’avvocato, «e se
venissero trasmesse in televisione potrebbero arrecare gravi danni al mio cliente,
e comportare serie conseguenze per Fox News.» «Che cos’aveva da temere Fox
News?» dico io dopo avere letto attentamente le due lettere.
Il prezioso documento costituirà una prova contro Fox News, che ha licenziato
i giornalisti «senza motivi ufficiali» il 2 dicembre 1997. Jane e Steve avviano così
un’azione legale appellandosi a una recente legge della Florida sui
vvhistleblovver** e facendo leva sul fatto che le varie menzogne che il loro
datore di lavoro li ha costretti a inserire nel reportage vanno contro gli interessi
generali e violano la regolamentazione della Federal Communication
Commission. È la prima volta che dei giornalisti fanno ricorso a questa legge, e la
Fox News prende la cosa molto sul serio, reclutando una decina di avvocati, fra
cui alcuni dello studio Williams & Connolly, i difensori di Bill Clinton nel caso
Monica Lewinsky.
Per due anni moltiplicano azioni di nullità per impedire lo svolgersi del
processo. Jane e Steve sono costretti a vendere la casa per garantirsi una difesa,
ma ottengono una prima vittoria: il caso sarà giudicato da un tribunale di Tampa
nel luglio 2000. Dopo cinque settimane di udienze, i giurati devono rispondere a
una domanda: «Credete che la querelante, Jane Akre, abbia dimostrato con prove
convincenti che il convenuto [... ] abbia messo fine al suo contratto di lavoro dopo
che la giornalista ha minacciato di denunciare, sotto giuramento e per iscritto alla
Federal Communication Commission, la trasmissione di un reportage contenente
informazioni false o tendenziose?» La risposta del tribunale è positiva e Jane
ottiene quattrocentoventicinquemiladollari di risarcimento*
«Ha ricevuto il sostegno della stampa?» La domanda rattrista visibilmente
Jane, che mormora: «Assolutamente no! I grandi media nazionali hanno ignorato
il processo. 60Minutes, il programma della CBS, e il New York Times avevano
promesso di occuparsene, ma non abbiamo più avuto notizie. Ci sono anche state
manipolazioni incredibili! Per esempio, abbiamo avuto un lungo incontro con la
giornalista del Saint Petersburg Times, un giornale molto rispettato della Florida.
Aveva seguito il processo, ma quando abbiamo letto il suo articolo siamo rimasti a
bocca aperta!
Diceva: ‘La giuria non ha creduto alle affermazioni della coppia, secondo cui il
canale televisivo avrebbe ceduto alle pressioni della Monsanto per falsificare il
reportage’. In realtà, quella frase era stata aggiunta dal caporedattore all’insaputa
della giornalista! In seguito è stata ripresa tale e quale nel telegiornale della CNN,
che non ha mai voluto concederci diritto di replica. Ma il peggio doveva ancora
venire... » Infatti la Fox ricorre in appello. Il 14 febbraio 2003 c’è un colpo di
scena: la Corte d’appello della Florida ribalta la decisione! I giudici affermano
che nessuna legge impedisce a un canale televisivo o a un quotidiano di mentire al
pubblico. Certo, le regole della Federal Communication Commission lo
proscrivono, ma non hanno valore legale. Di conseguenza, la Corte afferma che la
legge sui vvhistleblovver non può applicarsi nel caso di Jane e Steve. Secondo i
termini di una sentenza molto tecnica, che non affronta la questione di fondo -
cioè la disonestà di Fox News verso i telespettatori -, i due giornalisti sono quindi
condannati a rimborsare al canale televisivo le spese legali, che ammontano ad
almeno due milioni di dollari!
«In effetti», insiste Jane, «la Corte ha seguito le argomentazioni degli avvocati
del gruppo, che non hanno remore nel dichiarare che nessuna legge impedisce di
distorcere un’informazione. Abbiamo fatto appello e finalmente la Corte suprema
della Florida ha respinto la richiesta di rimborso spese della Fox.
«Ma con tutto quel che ci è successo, è evidente che in questo Paese il
giornalismo investigativo è morto, e che nessun giornalista oserà più mettersi
contro la Monsanto... »*
Tentativo di corruzione in Canada Ho lasciato la Florida sconvolta dalla
testimonianza della collega giornalista. Ingenuamente, pensavo di conoscere già
tutti i metodi «speciali» con cui l’azienda di Saint Louis impone i propri prodotti.
In realtà, ci saranno altre sorprese. In volo per Ottawa, mi rituffo nel dossier che
ho messo insieme sul processo di omologazione dell’rBGH in Canada.
Nello stesso pomeriggio del 7 dicembre 1998 è stato ascoltato anche David
Kovvalcyk, responsabile degli affari regolatori della Monsanto, che si è fatto
cogliere con le mani nel sacco. «Abbiamo consultato rapporti in cui lei si propone
presso Health Canada come membro del panel del JECFA», dichiara il senatore
Spivak, fissando dritto negli occhi il suo interlocutore. «Non pensa di avere
oltrepassato i limiti della sua relazione con Health Canada suggerendo di
rappresentare il Canada nel panel del JECFA?» «È la prima volta che ne sento
parlare. Non ho mai raccomandato nessuno per il JECFA», balbetta il
rappresentante della Monsanto.
«Pensa che la Monsanto abbia avuto una parte nella sua disgrazia?» «Devo
fare molta attenzione a che cosa risponderle...» sorride Shiv Chopra. «Diciamo
che la nostra testimonianza è giunta in un momento molto delicato per l’azienda,
che all’epoca stava lanciando gli OGM in Canada. È ovvio che l’ormone della
crescita transgènico costituiva un banco di prova, in parte andato male, ma che ha
permesso loro di rodare quelle che chiamerei ‘tecniche di conquista del mercato’.
Parte seconda
«Abbiamo compiuto una serie di errori, specie nei confronti dei consumatori»,
afferma Taylor al telefono. «La strategia adottata per far accettare una nuova
tecnologia al pubblico, e il fatto che la prima applicazione sul mercato sia legata
al latte, la cui produzione supera di gran lunga le necessità, contribuisce a creare
un clima di... » «.. .sospetto?» intervengo io, sconvolta da ciò che sto sentendo.
«Esatto, di sospetto», continua Michael Taylor. «Allo stesso modo penso che il
Congresso dovrebbe cambiare la legge e approvare un testo che garantisca la
sicurezza di ogni nuovo prodotto transgènico come effettivamente valutata dalla
FDA... » Ancora oggi fatico a capire perché Michael Taylor mi abbia concesso
questa stupefacente dichiarazione. Sarà forse stato un rimorso tardivo?
Oggi, per esempio, sappiamo che certi geni agiscono per interazione con altri e
che non basta estrarli da un organismo e trasferirli in un altro perché esprimano la
proteìna, e quindi la funzione selezionata, poiché si corre il rischio di provocare
reazioni biologiche inaspettate nell’organismo ospite.
* Nel 1977 e nel 1978 sono stati depositati al Congresso sedici progetti di
legge, nessuno dei quali ha mai dato frutti.
1993 : la soia Round-up Ready «Ricordo la prima volta in cui ho detto che il
nostro compito non è quello di sviluppare conoscenze, ma prodotti. Non volava
una mosca!»9
Eppure, ancora non ci siamo. Nel 1985 i ricercatori di Saint Louis hanno
un’unica ossessione: trovare il gene che renderà immuni al Round-up le cellule
vegetali, cosa ancora più urgente da quando la Calgene, una start up californiana,
ha annunciato, in una lettera pubblicata su Nature, di essere riuscita a rendere il
tabacco resistente al glifosato.11 Si parla già di un accordo con la francese Rhòne-
Poulenc per sviluppare colture resistenti al glifosato. Nello stesso momento la
tedesca Hoechst fa di tutto per trovare il gene resistente al suo erbicida. Basta,
senza dimenticare il Glean della DuPont e l’Atrazine della Ciba-Geigy. Insomma,
tutti i giganti della chimica perseguono lo stesso obiettivo e ormai la concorrenza
è all’apice, perché la posta in gioco non è solo scientifica, ma soprattutto
economica, se pensiamo ai brevetti che un’azienda potrà depositare su tutte le
grandi coltivazioni alimentari del mondo...
La ricerca durerà più di due anni, finché un giorno del 1987 ad alcuni
ingegneri viene la brillante idea di frugare nella spazzatura dello stabilimento di
Luling, a più di settecento chilometri a sud di Saint Louis. Proprio qui, sulle rive
del Mississippi, la Monsanto produce ogni anno milioni di tonnellate di glifosato.
Ci sono bacini di disinquinamento che dovrebbero trattare gli scarti di
produzione, una parte dei quali ha tuttavia contaminato il suolo e le acque
circostanti. Vengono effettuati prelievi per raccogliere migliaia di microrganismi,
allo scopo di individuare quelli che sono sopravvissuti naturalmente al glifosato e
identificare il gene che conferisce loro tale preziosa resistenza... Bisognerà
aspettare altri due anni perché un robot che analizza la struttura molecolare dei
battèri raccolti si imbatta, finalmente, nella perla rara: «Un momento
indimenticabile»,13 afferma Stephen Padgette, uno degli «inventori» della soia
Round-up Ready, e oggi tra i vicepresidenti della Monsanto.
Eppure, il caso non è ancora risolto: bisogna trovare la struttura genetica che
permetterà al gene di funzionare una volta introdotto nelle cellule vegetali, nello
specifico della soia, perché dopo i primi esperimenti effettuati sul pomodoro sarà
su questa che l’équipe lavorerà. Una posta in gioco formidabile: insieme con il
mais, la soia domina l’agricoltura americana, apportando all’economia nazionale
dell’epoca quindici miliardi di dollari all’anno. Fino al 1993, data ufficiale della
nascita della Round-up Ready, Stephen Padgette e i colleghi del programma
«resistenza al Round-up» si divideranno fra il laboratorio e le serre che coprono il
tetto di Chesterfield Village, nella periferia ricca di Saint Louis, dove la Monsanto
ha avviato la sua attività biotecnologica. Serviranno «settecentomila ore e un
investimento di ottanta milioni di dollari»14 per arrivare al risultato desiderato:
una struttura genetica che comprende il gene d’interesse (CP4 EPSPS), il famoso
promotore 35S del mosaico del cavolfiore e altri due pezzi di DNA provenienti
dalla petunia, che avrebbero dovuto controllare la produzione della proteìna. «La
cassetta genetica della soia Round-up Ready è completamente artificiale», osserva
il biologo giapponese Masaharu Kavvata dell’Università di Nagoya. «Non è mai
esistita nel regno della natura, e nessuna evoluzione naturale avrebbe potuto
produrla.»16
Ma a quale prezzo! Come sottolinea Arnaud Apoteker nel suo libro, «con
l’intenzione di sottomettere la natura, l’uomo usa tecnologie violente per forzare
le cellule ad accettare geni di altre specie. Per alcune piante usa l’arma chimica o
battèriologica per infettare le cellule con battèri o virus; per altre si limita ad armi
classiche come il cannone genetico. In entrambi i casi le perdite sono
considerevoli, poiché in media solo una cellula su mille riesce a integrare il
transgène, a sopravvivere e a generare un’altra pianta transgènica».18
Tuttavia, il documento non facilita le cose alla Monsanto, che ha un’altra idea:
«Non c’erano ancora prodotti [OGM] disponibili, ma abbiamo convinto Bush
perché venissero regolamentati»,21 spiega Léonard Guarraia. Che cosa nasconde
questo «imbonimento» effettivamente assai «insolito»?
«In realtà», mi spiega nel luglio 2006 Michael Hansen, «la Monsanto voleva
un’apparenza di regolamentazione. L’azienda sapeva che dopo gli scandali dei
PCB e dell’agente arancio, in cui aveva mentito per dissimulare i dati, nessuno le
avrebbe più creduto se si fosse limitata a dire che i prodotti OGM non
comportavano pericoli per la salute o per l’ambiente.
Per capire fino a che punto il modo di procedere del gigante di Saint Louis
fosse «insolito», bisogna sapere che all’epoca alcune alte cariche della FDA erano
del tutto contrarie all’idea di regolamentare gli OGM, sia sotto forma di testo, sia
di «apparente regolamentazione». Era il caso, soprattutto, di Henry Miller,
portavoce dell’agenzia in materia di biotecnologie, che non esitava a trattare i
detrattori degli OGM come «trogloditi» o «intellettuali nazisti», e contro cui la
Casa Bianca avrebbe dovuto combattere apertamente.23
Ma non finisce qui. I giornalisti del New York Times sono riusciti a procurarsi
la bozza di un documento segreto datato 13 ottobre 1986, in cui i dirigenti della
multinazionale stabiliscono un vero e proprio piano di battaglia per imporre gli
OGM negli Stati Uniti. Fra gli obiettivi prioritari: «Creare un supporto per le
biotecnologie ai livelli più alti della regolamentazione americana», oltre che
«negli Stati maggiori, repubblicani e democratici, entro le presidenziali del
1988».24
Poi Bush entra nelle serre di Chesterfield Village, dove un dirigente della
Monsanto in giacca e cravatta gli mostra piante di pomodori transgèniche, che si
rivelano il vero e proprio oggetto di quella visita guidata.
Questa risposta non manca certo di astuzia, sapendo che la direttiva del 1992 è
stata elaborata in stretta collaborazione con la Monsanto, e nei cui intenti
l’agenzia avrebbe dovuto pubblicare una «regolamentazione apparente», per
riprendere le parole di Michael Hansen. Ed è proprio a James Maiyanski che è
stato affidato questo delicato compito, sotto la direzione, ovviamente, di Michael
Taylor, allora numero due della FDA.
Alla fine, nel luglio 2006, sono riuscita a incontrare l’ex quadro della FDA a
New York, appena tornato da una consulenza in Giappone. A dire il vero, non mi
aspettavo un uomo timido, con gli occhi chiari e la voce calma e pacata. Ma
rivedendo il video delle tre ore di conversazione, ho potuto avvertire l’agitazione,
se non il panico, che lo assaliva, gli scatti nervosi del suo sguardo.
«Ehm... Sì, era una decisione politica... che riguardava molti campi, non solo
l’alimentazione... Si applicava a tutti i prodotti delle biotecnologie», risponde l’ex
responsabile della FDA, terminando la frase con grande difficoltà.
Eccoci al cuore del dibattito che vede schierati sostenitori e avversari degli
OGM. Infatti, mentre non erano ancora stati condotti studi scientifici per
verificarlo, la FDA ha deciso a priori che i transgèni non rientravano nella
categoria degli additivi alimentari, e che gli OGM potevano quindi essere
commercializzati senza valutazione tossicologica preliminare. Cosa ancora più
curiosa, nel momento in cui l’agenzia pubblicava la sua «regolamentazione» è
stata colta da una domanda che mostrava quanta urgenza ci fosse di... aspettare!
L’azienda biotech californiana Calgene (la stessa che aveva annunciato su Nature
di avere ottenuto un tabacco resistente al Round-up, dando del filo da torcere alla
Monsanto) aveva depositato un dossier per l’omologazione di un pomodoro
battezzato Flavr Savr, manipolato per rallentarne il processo di maturazione.
Non mi soffermerò sui pomodori manipolati per restare sodi più a lungo sugli
scaffali del supermercato. L’importante è sapere che contenevano il famoso gene
di resistenza alla kanamicina, e che i suoi inventori avevano stimato essere un
«additivo alimentare». Avevano quindi chiesto a un laboratorio (l’International
Research Development Corporation del Michigan) di condurre test tossicologici
destinati a valutare l’effetto sanitario dei pomodori transgènici sui topi. I risultati
dello studio non erano ancora noti alla FDA quando ha pubblicato la
regolamentazione.
Più tardi si scoprirà che su quaranta cavie, sette erano morte in modo
inspiegabile nel giro di due settimane, e un numero significativo aveva sviluppato
lesioni allo stomaco. Eppure l’agenzia, determinata a seguire il proprio dogma
sino in fondo, aveva dato il via libera alla Calgene il 18 maggio 1994.
Il Flavr Savr è dunque partito per il Messico, dove i risultati si sono rivelati
scadenti, come affermava nel 2001 uno studio della FAO: «Dal 1996 i pomodori
Flavr Savr sono stati ritirati dal mercato dei prodotti freschi negli Stati Uniti»,
scrive l’organizzazione dell’ONU. «A quanto pare, la manipolazione del gene
della maturazione aveva prodotto conseguenze impreviste, come la pelle molle,
un gusto strano e cambiamenti nella composizione del pomodoro, che inoltre
costava molto di più di quello non transgènico.»29
Nel frattempo la Calgene era caduta nelle mani della Monsanto, che ha
definitivamente stroncato il pomodoro maledetto.
Il caso dell’L-triptofano: una strana epidemia mortale Avrà capìto dove volevo
arrivare? James Maryanski ha sussultato quando gli ho domandato su quali dati
scientifici si era basata la FDA per dichiarare che i transgèni erano GRAS.
«L’agenzia sosteneva che introducendo un gene in una pianta, il gene diventa
DNA... Siccome consumiamo DNA da tempo, possiamo concludere che quella
pianta è GRAS», mi risponde, cercando attentamente le parole.
Come dice Jeffrey Smith, negli Stati Uniti l’L-triptofano era importato dal
Giappone, dove sei produttori si suddividevano il mercato. L’inchiesta delle
autorità sanitarie ha rivelato che solo il prodotto fabbricato da Shovva Denko
K.K. era legato all’epidemia. Così gli inquirenti hanno scoperto che nel 1984
l’azienda aveva modificato il processo di produzione usando la biotecnologia per
aumentare il rendimento: era stato introdotto un gene all’interno dei battèri dai
quali veniva estratta la sostanza dopo la fermentazione. Progressivamente, il
produttore ha modificato la struttura genetica, al punto che l’ultimo ceppo (Strain
V), prodotto nel dicembre 1988, conteneva cinque transgèni diversi e un grande
numero di impurità.32
Comincia allora una strana controversia sull’origine della malattia, che mirava
soprattutto a screditare l’ipotesi che fosse stata scatenata dalla manipolazione
genetica. Alcuni ricercatori hanno affermato che il problema poteva venire da un
cambiamento del filtro per purificare il prodotto, voluto dalla Shovva Denko;
invece, è stato dimostrato che quella modifica aveva avuto luogo solo nel gennaio
1989, cioè dopo l’esplosione dell’epidemia. Per altri sarebbe stato l’L-triptofano
stesso a dare problemi, ma come sottolineerà l’esperto Gerald Gleich: «Il
triptofano non c’entra, poiché gli individui che hanno consumato i prodotti
provenienti da altre aziende non hanno contratto la malattia».33 Di fatto, solo la
Shovva Denko sarà citata in giudizio, e dopo sentenze amichevoli negoziate nel
1992 risarcirà con due miliardi di dollari oltre duemila vittime.
Quando incontro l’ex quadro della FDA, nel luglio 2006, non sa che conosco
questo documento. «La FDA si era concentrata sulla manipolazione genetica, ma
non aveva informazioni sul fatto che la tecnica stessa potesse creare prodotti
diversi in termini di qualità o di sicurezza», mi spiega con tono sicuro.
«Si ricorda che cos’è successo con l’L-triptofano nel 1989?» domando con una
certa apprensione.
Allora ignoravo che le cifre fornite dalla prima stima delle vittime fossero ben
inferiori alla realtà.
Al di là della «cecità» della FDA, il caso dell’L-triptofano è esemplare per
diversi motivi. Come sottolinea Jeffrey Smith nel suo libro Genette Roulette, «ci
sono voluti anni per identificare l’epidemia. Se alla fine è stata scoperta, è solo
perché riguardava una malattia rara, grave, che insorgeva rapidamente e con
un’unica fonte. Se una di queste quattro caratteristiche fosse stata assente,
l’epidemia avrebbe potuto non essere mai scoperta. Allo stesso modo, se certi
ingredienti contenuti negli alimenti transgènici creassero effetti secondari, i
problemi e la loro fonte potrebbero non essere mai individuati».37
Vedremo che, contrariamente a ciò che afferma Maryanski, gli scienziati della
FDA erano perfettamente consapevoli delle incognite e dei rischi legati alla
biotecnologia e agli OGM, ma l’agenzia ha preferito ignorarne gli avvertimenti.
8. Scienziati messi a tacere
Bisogna dire che James Maryanski non ha fortuna. La sera prima del nostro
incontro avevo visitato il sito Web dell’Alliance for Bio-Integrity,'
un’organizzazione non governativa con sede a Fairfield, nell’Iowa. Diretta
dall’avvocato Steven Druker, l’ONG ha denunciato la FDA per violazione del
Food Drug and Cosmetic Act.2 La citazione in giudizio da parte di scienziati,
personalità religiose e consumatori è stata depositata nel maggio 1998 presso il
tribunale federale di Washington,3 in collaborazione con il Center for Food Safety
(CFS), una ONG creata nel 1997. Corn’era prevedibile, le accuse sono state
respinte nell’ottobre 2000 per mancanza di prove del fatto che la
regolamentazione della FDA costituisse una violazione deliberata della legge
federale.4
Qualche giorno dopo tocca al dottor Gerald Guest, direttore del CVM, dare
l’allarme: «In risposta alla sua domanda sul modo in cui l’agenzia dovrebbe
regolamentare le piante alimentari transgèniche, ho concluso, insieme con altri
scienziati del CVM, che è scientificamente giustificato pretenderne una
valutazione prima della commercializzazione. [... ] La FDA si troverà ad
affrontare costituenti vegetali che possono rivelarsi preoccupanti dal punto di
vista tossicologico e ambientale».9
Quanto al dottor Louis Pribyl, del gruppo dei microbiologi della FDA, rifiuta
l’argomentazione regolarmente offerta dai promotori della biotecnologia: «C’è
una profonda differenza fra il tipo di effetti inattesi provocati dagli incroci
tradizionali [delle piante] e quelli generati dalla biotecnologia, cosa che questo
documento sembra ignorare. Certi aspetti dell’inserimento genetico [... ] possono
essere più pericolosi della selezione genealogica».10
Sono molti gli esempi che mostrano come tutti i dipartimenti della FDA,
qualunque sia la loro specialità, esprimano vive inquietudini riguardo alle
incognite sanitarie che caratterizzano, ai loro occhi, il processo di manipolazione
genetica. Contrariamente a ciò che oggi afferma James Maryanski, non c’erano
consensi sulla regolamentazione degli OGM proposta dalla FDA, nemmeno
qualche mese prima della sua pubblicazione. Del resto, purtroppo per l’ex
«coordinatore», lui stesso l’ha ammesso in un messaggio inviato il 23 ottobre
1991 al dottor Bill Murray, presidente del Food Directorate: «Attualmente non c’è
un particolare accordo [alla FDA] sulla necessità di condurre test tossicologici.
[...] Il fatto che certe sostanze siano potenzialmente in grado di causare reazioni
allergiche è difficile da stimare».11
«Che cos’ha risposto a Linda Kahl?» domando a James Maryanski, 183 che ha
una strana espressione in volto da quando ho cominciato a leggere il documento.
«Il mio lavoro era consultare tutti gli scienziati... perché applicassero la propria
esperienza alle questioni che dovevamo regolare», biascica visibilmente. «Non
sono stato io a prendere la decisione finale, ma il commissario della FDA, il
dottor David Kessler... » «Certo», continuo, «ma la dottoressa Linda Kahl le
poneva una domanda molto precisa: ‘Viene richiesto agli esperti scienziati di
fornire le basi per una regolamentazione in assenza di qualunque dato scientifico
[corsivo mio]?’. Che cosa le ha risposto?» «Beh, eravamo all’inizio del processo
di consultazione... » «Non mi sembra: Linda Kahl le ha scritto nel gennaio 1992,
quattro mesi prima della pubblicazione della direttiva. Non vedo come la FDA
avrebbe potuto ottenere dati scientifici in così poco tempo... » «Certo, ma la
direttiva è stata concepita per guidare l’industria indicandole il genere di test da
effettuare... » Il «mito della regolamentazione» In realtà, come ammette James
Maryanski, il testo pubblicato dalla FDA non costituisce affatto una
«regolamentazione», poiché il suo obiettivo è innanzitutto quello di giustificare
perché gli OGM non saranno regolamentati. Si tratta invece di una semplice
«direttiva» per orientare le aziende e fornire loro «linee guida» in caso di bisogno.
Del resto, tutto ciò è contenuto chiaramente nell’ultima sezione del testo, che
prevede un dispositivo di «consultazione volontaria», se le aziende lo desiderano:
«I produttori possono consultare in modo informale la FDA su questioni
scientifiche o sul concepimento di protocolli appropriati per i vari test, quando la
funzione della proteìna solleva inquietudini o è sconosciuta, o quando la proteìna
è nota per la sua tossicità. La FDA determinerà, caso per caso, se mettere in atto la
disposizione relativa agli additivi alimentari».13
Questo indigna profondamente Joseph Mendelson, direttore giuridico del CFS,
che incontro nel luglio 2006 a Washington: «In realtà», mi spiega, «la salute dei
consumatori americani dipende dalla buona volontà delle imprese biotech, che
possono decidere, al di fuori di qualunque controllo governativo, se i loro prodotti
OGM sono sicuri o meno, cosa che nella storia degli Stati Uniti è del tutto inedita!
La direttiva è stata redatta perché l’industria biotecnologica possa conservare il
mito secondo cui gli OGM sono regolamentati, ma è completamente falso. Nel
frattempo il Paese si è trasformato in un immenso laboratorio in cui prodotti
parzialmente pericolosi sono liberi da dieci anni senza che il consumatore abbia la
possibilità di scegliere, perché in nome del principio di equivalenza sostanziale
l’etichettatura degli OGM è vietata, e inoltre non viene effettuato alcun
monitoraggio».
Nel marzo 2000, basandosi sui vari sondaggi secondo cui più dell’80 per cento
degli americani preferiva che gli alimenti transgènici fossero etichettati,14 e il 60
per cento dichiarava che li avrebbe evitati se avesse avuto possibilità di
scegliere,16 il CFS ha indirizzato una «petizione cittadina» alla FDA, chiedendole
di rivedere la sua politica in materia di OGM, perché siano obbligatoriamente
valutati prima di essere commercializzati, e con tanto di etichetta.16 Di fronte al
silenzio dell’agenzia, il CFS ha fatto causa nella primavera del 2006. «Non ci
arrenderemo», mi spiega Joseph Mendelson, «tanto più che il dispositivo di
consulenza volontaria messo in atto dalla FDA non funziona.» L’avvocato mi
mostra uno studio realizzato dal dottor Douglas GurianSherman, ex scienziato
della FDA che ha lavorato alla valutazione delle piante transgèniche prima di
raggiungere il Center for Science in the Public Interest di Washington.17 Gurian-
Sherman è riuscito a procurarsi quattordici dossier di «consulenza volontaria»
sottoposti alla FDA dalle aziende biotecnologiche fra il 1994 e il 2001 (su un
totale di cinquantatré), cinque dei quali riguardavano la Monsanto. Ha constatato
che, per sei di questi, la FDA aveva chiesto ai produttori di fornire dati
supplementari perché l’agenzia potesse valutare in modo completo la sicurezza
dei prodotti. «In tre casi (cioè uno su due) la richiesta della FDA è stata ignorata o
rifiutata dall’azienda», sottolinea l’avvocato. Di questi tre casi, due riguardavano
mais transgènici della Monsanto, fra cui il famoso MON
810, di cui riparlerò più avanti. L’azienda di Saint Louis non ha mai fornito
alla FDA le informazioni complementari che le aveva richiesto per poter
concludere che i mais OGM fossero equivalenti nella sostanza agli omologhi
convenzionali. L’agenzia non ha potuto fare niente, perché la direttiva - ecco la
differenza con una regolamentazione vera e propria non conferisce «alcuna
autorità per esigere dai produttori dati supplementari, a meno che decida di
valutare la pianta transgènica come additivo alimentare.» Una decisione che ha
preso una sola volta, come abbiamo visto, con il pomodoro Flavr Savr, dietro
richiesta della Calgene. Un documento declassificato mostra che non cambia
molto, e che nonostante i risultati dei test tossicologici l’agenzia ha omologato il
prodotto transgènico. Il 16 giugno 1993, infatti, il dottor Fred Hines inviava alla
dottoressa Linda Kahl un messaggio sui tre test tossicologici condotti su topi
alimentati con pomodori transgènici per ventotto giorni. «Nel secondo studio sono
state individuate lesioni consistenti allo stomaco in quattro delle venti femmine»,
scriveva. «Ma il laboratorio ha concluso che quelle lesioni erano di natura
circostanziale. [...] I criteri che permettono di qualificare una lesione come
‘circostanziale’ non sono stati forniti dal rapporto del produttore.»18 Un anno
dopo, tuttavia, la FDA dava il via libera al pomodoro a maturazione rallentata...
Allo stesso modo, lo scienziato ha analizzato la qualità dei test condotti dai
produttori e il suo bilancio non è meno inquietante: ha constatato che certi
parametri sanitari fondamentali venivano regolarmente tralasciati, come la
tossicità o il potenziale allergène delle proteìne presenti nelle piante transgèniche.
Per alcuni scienziati questa pratica è solo un modo per nascondere una realtà
che un’azienda come la Monsanto si è sempre impegnata a negare, cioè che i geni
inseriti, e quindi le proteìne che producono, non sono affatto identici ai geni e alle
proteìne d’origine, tanto che l’inserimento alla cieca provoca la comparsa di
proteìne sconosciute. Il dottor Gurian-Sherman conclude che se «le proteìne
prodotte dai battèri non sono identiche alle proteìne transgèniche della pianta,
nemmeno gli effetti sanitari sono gli stessi».
«Michael Taylor era l’uomo della Monsanto all’interno della FDA, che, lo
ricordo, è stato reclutato per inquadrare la regolamentazione degli OGM», mi
spiega Steven Druker. «I documenti declassificati rivelano che Taylor si è dato da
fare per svuotare la direttiva di sostanza scientifica, provocando un forte
malcontento da parte degli agenti.» In occasione della nostra lunga conversazione
telefonica (registrata), l’ex vicepresidente della Monsanto ha negato
ostinatamente qualunque implicazione diretta nell’elaborazione della direttiva:
«Non è vero, non sono io l’autore di quella direttiva», mi ha garantito Michael
Taylor. «Ero il vicecommissario, cioè la persona che faceva da supervisore al
processo, ma la direttiva è stata redatta dai professionisti dell’agenzia... che si
sono basati sulla legge e sulla scienza.» Quando riferisco queste parole a Michael
Hansen, salta letteralmente in piedi per prendere un documento pubblicato nel
1990 dall’International Food Biotechnology Committee (IFBiC). Questo effimero
organismo è stato creato nel 1988 dallI’nternational Life Sciences Institute (ILSI),
noto a tutti i militanti del movimento anti OGM. L’ILSI, fondato nel 1978 dai
grandi dell’industria agroalimentare - la Fondazione Heinz, Coca-Cola, Pepsi-
Cola, General Foods, Kraft (che appartiene a Philip Morris) e Procter & Gamble
-, si presenta come un’«organizzazione non governativa» che riunisce una «rete
internazionale di scienziati dediti al progresso delle conoscenze scientifiche per le
menti decisionali della sanità pubblica», come si legge sul suo sito Web.20 Come
rivelerà nel 2003 il quotidiano britannico The Guardian,21 l’organismo è stato
introdotto nell’OMS e nella FAO, due istituzioni dell’ONU in cui si sono
verificati episodi di lobbying a favore degli OGM, attraverso il testo che Hansen
mi ha mostrato.22
«Le ricordo che Michael Taylor è arrivato alla FDA nel luglio 1991», mi
spiega Hansen. «Fino ad allora aveva lavorato nello studio legale King &
Spalding. Fra i suoi clienti c’erano non solo la Monsanto, ma anche l’IFBiC.
Taylor ha scritto per l’IFBiC un documento che descriveva il modo in cui
dovevano essere regolati gli OGM secondo la FDA. Paragonando la proposta di
Taylor a quel comitato e il testo pubblicato dalla FDA si notano parecchie
somiglianze. Se non è lui l’autore della direttiva, allora qualcuno ha preso il suo
documento e l’ha modificato leggermente prima di pubblicarlo.» Il testo
«anonimo» dellTFBiC, stranamente introvabile sul Web, è del resto il primo
«riferimento» citato dalla direttiva della FDA negli allegati.23
«Ancora una volta non è vero», insiste da parte sua Michael Taylor, «non ho
niente a che vedere con tutto ciò, perché non sono uno scienziato... Dovrebbe
parlare con James Maryanski e con tutti quelli che hanno elaborato la direttiva
della FDA.» Evidentemente, l’ex numero due dell’agenzia non poteva
immaginare che sarei riuscita a intervistare il suo collega «coordinatore delle
biotecnologie», che fatica a sbarazzarsi di questa nuova patata bollente:
«All’epoca Michael Taylor era vicecommissario, ed era lui a dirigere il progetto.
Era il capo della regolamentazione, incaricato di fare in modo che tutto fosse
portato a termine», ammette a fatica James Maryanski.
«Lei sapeva che Taylor aveva lavorato come avvocato per la Monsanto?» gli
domando.
«Beh... Sì, penso di avere saputo che era stato alla... Monsanto», risponde con
un fantastico lapsus. «Ma capita spesso che arrivino persone dall’esterno e che
siano nominate commissari o vicecommissari... » «Che ruolo ha avuto la
Monsanto all’interno dell’agenzia?» «Ehm... La Monsanto è stata molto attiva e
anche molto utile alla FDA... nel senso che l’azienda ci ha aiutati a capire che
cosa davvero significasse applicare la biotecnologia alle colture alimentari...
Ricordo riunioni in cui gli scienziati dell’azienda incontravano quelli della FDA.
Conosco quel silenzio, perché ha segnato la maggior parte delle mie interviste
con chi ha osato denunciare le procedure dell’azienda di Saint Louis, sempre
pronta a brandire la minaccia di un processo costosissimo per far tacere gli
impenitenti. Jeffrey Smith ha dovuto pubblicare i propri libri da sé, perché nessun
editore era disposto ad affrontare la Monsanto. Ogni parola, quindi, deve essere
minuziosamente soppesata prima di essere lanciata nell’arena pubblica, principio
che ha guidato anche me nella redazione di questo libro.
«La parola ‘complotto’ è forse troppo forte», mi risponde infine Jeffrey Smith.
«Ma dal punto di vista dell’azienda diciamo che si trattava di una presa di potere
senza rischi di fallimento, grazie alle sue grandi abilità e alla capacità di
infiltrazione in tutte le macchine decisionali del Paese.» Fra queste «grandi
abilità» c’erano i contributi finanziari, perfettamente legali, della Monsanto alle
campagne elettorali dei grandi partiti. Secondo i dati forniti dalla Commissione
federale elettorale, nel 1994 l’azienda di Saint Louis ha versato 268.732 dollari,
equamente suddivisi tra democratici (allora al potere) e repubblicani. Nel 1998 la
somma ammontava a 198.955 dollari, di cui oltre i due terzi per i repubblicani.
Due anni dopo il partito di George W. Bush riceveva 953.660 dollari, contro i
221.060 di quello di Al Gore. Infine, nel 2002, mentre la Casa Bianca lanciava la
crociata contro il «terrorismo internazionale», il partito repubblicano incassava
1.211.908 dollari, contro i 322.028 del partito democratico. Invece, le spese di
lobbying del leader degli OGM sono ufficialmente ammontate a 21 milioni di
dollari fra il 1998 e il 2001, con un record di 7,8 milioni di dollari nel 2000, anno
in cui è stato eletto Bush*
Ma le porte girano ancora di più nell’altro senso, cioè dalla Monsanto verso le
agenzie governative o le organizzazioni intergovernative: nel 1989 Margaret
Miller era passata dai laboratori dell’azienda alla FDA, mentre la sua collega
Lidia Watrud entrava nell’EPA; Virginia Meldon, ex responsabile delle pubbliche
relazioni dell’azienda, è stata reclutata dall’amministrazione Clinton; più di
recente Rufus Yerxa, ex consulente giuridico dell’azienda, è stato designato,
nell’agosto 2002, rappresentante degli Stati Uniti all’interno dell’Organizzazione
mondiale del commercio (OMC), mentre Martha Scott Poindexter è stata
nominata, nel gennaio 2005, membro del Comitato senatoriale per l’agricoltura,
l’alimentazione e la foresta, dopo avere diretto gli affari governativi dell’ufficio
della Monsanto di Washington; senza dimenticare Robert Fraley, uno degli
«inventori» della soia Round-up Ready, divenuto vicepresidente della Monsanto e
nominato consulente tecnico dell’USDA. Ma la lista non finisce qui.
Dan Glickman: «Ho subito molte pressioni» «Il sistema delle porte girevoli
non riguarda solo l’agricoltura, ma esiste in molti altri campi, come la finanza e la
sanità.» Queste parole non vengono da un militante radicale contro gli OGM, ma
da Dan Glickman, segretario dell’Agricoltura con Bill Clinton da marzo 1995 a
gennaio 2001, che intervisto il 17 luglio 2006 a Washington. Noto per essere stato
un discepolo convinto della biotecnologia, Glickman è un habitué dell’USDA,
perché prima di diventarne segretario ha rappresentato per diciotto anni lo Stato
rurale del Kansas al Congresso, di cui ha diretto la commissione agricola.
Allora presentato dal St. Louis Post-Dispatch come «uno dei più grandi
campioni della biotecnologia, che ammonisce gli europei affinché non intralcino
la strada del progresso»,26 il segretario dell’Agricoltura di Clinton credeva nei
vantaggi della manipolazione genetica: «La biotecnologia rappresenta un enorme
potenziale per i consumatori, gli agricoltori e i milioni di persone affamate e
denutrite dei Paesi in via di sviluppo», dichiarava nell’aprile 2000 in un discorso
al Council for the Biotechnology Information.27 In occasione del summit
mondiale dell’alimentazione, che si è tenuto nel novembre 1996 a Roma sotto
l’egida della FAO, il suo entusiasmo gli ha fatto vivere un’esperienza che l’ha
profondamente traumatizzato. Mentre i governi si impegnavano a dimezzare il
numero di persone denutrite entro il 2015, il rappresentante americano ha tenuto
una conferenza stampa. Alcuni militanti di Greenpeace, che si erano procurati
falsi accrediti da giornalisti, si alzano, si spogliano ed esibiscono il proprio corpo
nudo coperto di slogan anti OGM, bombardando allo stesso tempo il segretario
americano di semi di soia Round-up Ready.
Dan Glickman, giunto al dipartimento dell’Agricoltura dopo la
commercializzazione della soia transgènica della Monsanto, è stato l’uomo che ha
autorizzato la coltivazione di tutti gli altri OGM. Quando lo incontro, nel luglio
2006, ha cambiato totalmente mansione, essendo stato nominato, nel settembre
2004, amministratore delegato della Motion Picture Association of America, che
raggruppa i sei grandi del cinema di Hollyvvood, come la Buena Vista Pictures
Distribution (Walt Disney) e la 20th Century Fox. Ho voluto intervistarlo per la
funzione che occupava nell’amministrazione Clinton, ma anche per ciò che aveva
dichiarato al Los Angeles Times il 1° luglio 2001: «Gli incaricati della
regolamentazione si consideravano difensori della biotecnologia. La
consideravano la scienza del futuro, e chi non era d’accordo era visto come un
luddista» *
Le parole usate sono prudenti, ma sono quelle che la stampa riporterà sui
giornali l’indomani, mentre la conclusione costituisce un vero e proprio fardello
sulle spalle della Monsanto: «L’industria ha bisogno di essere guidata da un
progetto più vasto, che non sia unicamente il profitto. Le imprese devono
continuare a seguire i prodotti dopo la commercializzazione, per misurare
l’eventuale pericolo che rappresentano per l’ambiente, rendendo pubblico e
comprensibile tutto ciò che scopriranno. [... ] Noi non sappiamo che cos’ha in
serbo la biotecnologia, se qualcosa di buono o di cattivo, ma faremo il possibile
per garantire che sia al servizio della società».
Oggi Dan Glickman assicura che non si rimangerebbe nemmeno una parola del
discorso del 1999: «Il problema è che il Congresso non si è mai veramente
esposto in proposito... » «Perché?» «Innanzitutto perché è una questione difficile:
il corpo legislativo fugge da qualunque questione tecnica o complessa. Infatti, la
maggior parte dei suoi componenti, sia in Europa sia negli Stati Uniti, non sono
certo scienziati... » L’influenza sugli scienziati L’argomentazione potrebbe
sembrare scarna, ma sono convinta che in parte spieghi il disinteresse dei politici
per ciò che comporta la biotecnologia. Da parte mia ho impiegato mesi di intenso
lavoro per farmi un’opinione ragionata e ragionevole sulla manipolazione
genetica. Oserei persino dire che se la Monsanto ha potuto imporre i propri
prodotti con tanta facilità, è proprio perché ha saputo sfruttare il fatto che
l’argomento è «complesso», e che solo gli scienziati sembrano conoscere. Per
garantirsi il successo, l’azienda ha capìto di dover tenere sotto controllo gli
scienziati che si esprimevano sulla questione, e di fare in modo che frequentassero
gli ambienti giusti, come i forum internazionali patrocinati dalle organizzazioni
dell’ONU o le riviste e le università più rinomate. E sicuramente ha raggiunto lo
scopo con grande efficacia.
Fra gli scienziati che hanno generosamente prestato la propria esperienza alle
iniziative della cellula, il rapporto cita anche lo spagnolo Domingo Chamorro, i
francesi Gérard Pascal (INRA), Claudine Junien (INSERM) e il premio Nobel
Jean Daucet, che hanno partecipato al Forum delle biotecnologie «organizzato
dalla cellula».
Fra gli autori di questo testo fondamentale compare il solito James Maryanski,
oltre a un rappresentante del Consiglio della competitività creato da George Bush.
Infine il documento fornisce in allegato un elenco di dieci pubblicazioni da
consultare, fra cui una dell’ILSI, il famoso documento dell’IFBiC, redatto per lo
più da Michael Taylor, e il rapporto della «consultazione» organizzata nel 1990
dall’OMS e dalla FAO. Come gli altri documenti citati in qualità di «riferimenti»,
nessuna di queste «pubblicazioni» riguarda studi scientifici condotti per valutare
la sicurezza degli OGM, ma per una semplice ragione: all’epoca non ne
esistevano.
Il tutto si chiude definitivamente due anni dopo, quando la FAO e l’OMS - due
organismi dell’ONU non sono certo poco - battono il chiodo organizzando una
seconda consultazione congiunta, dal 30 settembre al ottobre 1996, in cui si
ritroveranno James Maryanski e Roy Fuchs. Il momento è cruciale, perché i primi
carichi di soia Round-up Ready sono già in viaggio verso l’Europa. Il rapporto
finale, non disponibile on-line, ma di cui sono riuscita a procurarmi una copia,
viene regolarmente citato come testo internazionale di riferimento del principio di
equivalenza sostanziale. Vi si legge questa informazione altamente scientifica:
«Quando l’equivalenza sostanziale è stabilita da un organismo o da un prodotto
alimentare, l’alimento è considerato sicuro come il suo omologo convenzionale, e
non è necessaria nessun’altra valutazione. [... ] Quando l’equivalenza sostanziale
non è stabilita, non significa obbligatoriamente che il prodotto alimentare non sia
sicuro, e non è quindi necessario pretendere test sanitari approfonditi».
Uno studio soggetto a cauzione Come sottolineerà nel 1999 Erik Millstone,
relatore di scienze politiche all’Università del Sussex, «il principio di equivalenza
sostanziale non è mai stato realmente definito: quanto un alimento naturale e
l’alternativa transgènica debbano differire affinché la ‘sostanza’ non sia più
considerata ‘equivalente’ non è dichiarato da nessuna parte, poiché non è mai
stata approvata dai legislatori alcuna definizione esatta. È proprio questa
imprecisione che rende utile il concetto per l’industria, ma inaccettabile per il
consumatore. Inoltre, la dipendenza di chi detiene il potere decisionale rispetto al
principio di equivalenza sostanziale agisce come una barriera, che rende
impossibile qualunque ricerca sui possibili rischi legati al consumo di alimenti
transgènici».31
L’azienda di Saint Louis abusa del famoso principio, di cui non esita a
riscrivere la storia per giustificare la sicurezza dei suoi OGM, ricorrendo
all’imprimatur delle organizzazioni dell’ONU, che è lo scopo, naturalmente, della
manovra appena descritta: «Un principio di base nella regolamentazione degli
alimenti e del foraggio provenienti dalla biotecnologia è quello di ‘equivalenza
sostanziale’», spiega un documento pubblicitario della soia Round-up Ready
dell’aprile 1998. «Stabilito all’inizio degli anni Novanta dalla FAO, dall’OMS e
dall’OECD [corsivo mio].» Questa impareggiabile argomentazione è
regolarmente inserita nei documenti ufficiali dell’azienda. A questa se ne
aggiunge una seconda, che dovrebbe apportare una cauzione scientifica alla
prima: «Per stabilire l’equivalenza sostanziale’, la composizione della soia
Round-up Ready è stata paragonata a quella delle varietà convenzionali. [...] In
totale sono state condotte più di milleottocento analisi indipendenti, che hanno
dimostrato in modo netto che la composizione della Round-up Ready è
equivalente a quella di altri semi di soia presenti sul mercato.
Entriamo a questo punto nella fase finale del «piano d’azione» elaborato, come
abbiamo visto, nell’ottobre 1986 (vedi Capitolo 7). L’azienda di Saint Louis,
consapevole che il lancio della soia Round-up Ready traccerà la strada per tutti gli
OGM futuri, decide di ricorrere al meccanismo della «consulenza volontaria»
previsto dalla direttiva della FDA. Così il dottor Roy Fuchs, direttore scientifico
della Monsanto che presiede con assiduità i vvorkshop dell’ONU, viene incaricato
di elaborare due studi con lo scopo di apportare la prova scientifica che il
principio di equivalenza sostanziale risulta fondato (confermando così che i testi
della FAO, dell’OMS e dell’OECD erano solo teorici e non si basavano su nessun
dato scientifico).
Il primo studio mirava a paragonare la composizione organica della soia
Round-up Ready con quella della soia non transgènica, misurando soprattutto i
tassi di proteìne, grassi, fibre, carboidrati e isoflavoni presenti nei due tipi di semi,
cioè tutti i costituenti già noti dell’oleaginosa.
Ma questo studio non trova consensi unanimi, soprattutto perché i suoi autori
hanno «omesso» un certo numero di dati, come ha scoperto Marc Lappé,
rinomato tossicologo fondatore del Center for Ethics and Toxics (CETOS) di
Gualala, in California. «Che cosa mostrano i dati omessi?» si interroga nel 2001
sul Los Angeles Times. «Innanzitutto un livello significativamente più basso di
proteìne e di un acido grasso nei semi di soia Round-up Ready. Poi un livello più
basso di fenilalanina, un amminoacido essenziale potenzialmente in grado di
intaccare il livello dei principali fitoestrogeni legati alla produzione di estrogeni,
per cui i derivati della soia sono spesso prescritti e consumati. Inoltre, dopo la
cottura, livelli più alti dell’inibitore della tripsina, un allergène presente nei semi
di soia Round-up Ready e nel gruppo di controllo.»33
Per mettersi l’animo in pace Marc Lappé, deceduto nel 2005, e la collega Britt
Bailey decidono di ripetere l’esperimento condotto da Stephen Padgette. «Per il
nostro studio», mi spiega Britt Bailey, che ho incontrato a San Francisco
nell’ottobre 2006, «abbiamo piantato semi di soia Round-up Ready e semi
provenienti da colture convenzionali. Le due colture sono state realizzate in
terreni identici, e con le stesse condizioni climatiche. I germogli di soia
transgènica sono stati irrorati di Round-up, secondo le raccomandazioni della
Monsanto. A fine stagione abbiamo raccolto i semi dei due gruppi e ne abbiamo
paragonato la composizione organica.» «Quali sono stati i risultati?» «Le nostre
analisi hanno mostrato differenze significative fra la soia Round-up Ready e la
soia convenzionale, soprattutto a livello di isoflavoni, e quindi di fitoestrogeni,
dal 12 al 14 per cento meno elevato, dimostrazione del fatto che la composizione
della soia Round-up Ready non è equivalente a quella convenzionale. Abbiamo
inviato i dati alla FDA, ma non ci ha mai risposto... » «Come ha reagito la
Monsanto?» «Abbiamo proposto il nostro studio al Journal of Medicinal Food,
che l’ha sottoposto a dei revisori. È stato accettato e la pubblicazione è stata
fissata per il 1° luglio 1999.34 Ma una settimana prima della pubblicazione,
quando secondo l’usanza l’articolo risultava ancora sotto embargo, l’American
Soybean Association [ASA], nota per i suoi legàmi con la Monsanto, ha
pubblicato un comunicato stampa secondo il quale il nostro studio non risultava
sufficientemente rigoroso. Però non abbiamo mai saputo perché.» Ho ritrovato il
comunicato dell’associazione (di cui incontrerò ben presto il vicepresidente) sul
sito britannico della Monsanto, che ne fornisce una versione francese! «L’ASA si
fida delle analisi della soia Round-up Ready condotte dai servizi di tutela negli
Stati Uniti e nel mondo, che mostrano l’equivalenza fra la soia Round-up Ready e
quella classica...»36 si legge.
«Come spiega il fatto che la Monsanto sia giunta alla conclusione che i due
tipi di soia sono equivalenti?» ho domandato a Britt Bailey.
«Penso che il principale punto debole del loro studio sia che non hanno irrorato
i semi con il Round-up, invalidando le analisi, poiché la soia Round-up Ready è
fatta per essere irrorata con l’erbicìda.» 204
«Lei come lo sa?» «Grazie a uno sbaglio del servizio giuridico della
Monsanto!» Britt Bailey mi mostra una lettera scritta da Tom Carrato, un
avvocato della Monsanto, alla Vital Health Publishing, una casa editrice allora sul
punto di pubblicare un libro sugli OGM che lei aveva scritto insieme con Marc
Lappé. Questa lettera, datata 26 marzo 1998, la dice lunga, ancora una volta, sui
metodi dell’azienda. Il consulente, dopo avere spiegato che era stato informato
dell’imminente pubblicazione di un articolo sul Winter Coast Magazine, scrive
con una sicurezza sconcertante: «Gli autori del libro dichiarano che il Round-up è
tossico. Che cosa vorrebbero dire con ‘tossico’? Tutti sanno che qualunque
sostanza, sintetica o naturale, può essere tossica in certe dosi. [... ] Chiunque beva
caffè o alcolici con una certa frequenza sa che è tutta questione di dosi, e che
esiste un limite che non va superato. [... ] Questi errori devono essere resi noti
prima della pubblicazione, perché [...] potenzialmente denigratori e diffamatori
per il prodotto».
Più avanti Tom Carrato difende lo studio di Stephen Padgette con una bella
affermazione: «I test condotti sulla soia Round-up Ready non irrorata [corsivo
mio] non mostrano differenze nel livello di estrogeni. I risultati sono stati
pubblicati in un articolo rivisto da alcuni colleghi di pari livello sul Journal
ofNutrition nel gennaio 1996».
«In ogni caso, la lettera è stata efficace», sospira Britt Bailey, «perché il nostro
editore ha rinunciato a pubblicare il nostro libro e abbiamo dovuto cercarne un
altro... »36
«Scienza da due soldi» «Non spetta alla Monsanto garantire la sicurezza degli
alimenti transgènici», ha dichiarato nell’ottobre 1998 Phil Angeli, direttore della
comunicazione della multinazionale. «Il nostro interesse è venderne il più
possibile. Garantirne la sicurezza è compito della FDA.»37 La citazione non fa
sorridere nemmeno un po’ James Maryanski, che dice di mangiare soia
transgènica tutti i giorni, «perché negli Stati Uniti il 70 per cento degli alimenti
disponibili nei negozi contengono OGM. La FDA è convinta che questo tipo di
soia sia sicura come le altre varietà», mi conferma durante il nostro incontro nel
luglio 2006.
«Come può esserne tanto certo?» «Si basa sui dati che le ha fornito la
Monsanto. E non è nell’interesse di un’azienda condurre uno studio per poi
mascherarne i risultati», mi risponde l’ex «coordinatore delle biotecnologie» della
FDA.
«Per esempio, a proposito dello studio sui topi gli autori scrivono: ‘A parte il
colore marrone scuro, il fegato, sottoposto a necropsia, sembra normale. [... ] Il
colore non è considerato un fattore legato alla modificazione genetica’. Come
hanno potuto limitarsi a questo senza sezionare i fegati e osservarli al microscopio
per essere certi che il colore marrone scuro fosse normale? Evidentemente, si
sono limitati a una valutazione oculare degli organi, che non è un metodo
scientifico. Allo stesso modo, gli autori indicano che ‘il fegato, i testicoli e i reni
sono stati pesati’ e che ‘sono state osservate parecchie differenze’, ma che non
sono state ‘considerate come legate alla manipolazione genetica’... Ancora una
volta, come hanno potuto affermare una cosa simile? Non hanno nemmeno
analizzato l’intestino, e neanche lo stomaco, errore gravissimo in uno studio
tossicologico. Dicono inoltre che sono stati prelevati quaranta tessuti, ma non
sappiamo quali! In realtà, io conosco solo ventitré tessuti appurati, come pelle,
ossa, milza, tiroide... Quali sono gli altri?
«Inoltre, i topi usati per l’esperimento avevano otto settimane: erano troppo
vecchi! Di solito per uno studio tossicologico si usano cavie giovani, perché
bisogna vedere se la sostanza testata altera lo sviluppo dell’organismo in piena
crescita. Il modo migliore per nascondere gli eventuali effetti nocivi è usare cavie
vecchie, tanto più che, malgrado le anomalie constatate, lo studio è durato solo
ventotto giorni, che non sono sufficienti. .. L’ultimo paragrafo del testo riassume
bene l’impressione generale: ‘Gli studi tossicologici forniscono una certa
sicurezza [corsivo mio] che nessun grande cambiamento sia intervenuto con la
soia geneticamente modificata...’ Io non voglio ‘una certa sicurezza’, ma una
sicurezza al 100 per cento! In effetti, sapendo che questo studio ha giustificato
l’introduzione degli OGM nella catena alimentare, non si può che essere
inquieti... Ma che cosa fare? Le racconto che cos’è successo di recente alla mia
collega Manuela Malatesta... » La paura della Monsanto Ho incontrato Manuela
Malatesta il 17 novembre 2006 all’Università di Pavia. Era ancora traumatizzata
dall’esperienza che aveva vissuto e che l’aveva costretta a lasciare l’Università di
Urbino, in cui aveva lavorato per oltre dieci anni. «Tutto a causa di uno studio
sugli effetti della soia transgènica»,40 mi dice sospirando. Infatti, la giovane
ricercatrice ha fatto ciò che nessuno aveva osato fare: ripetere lo studio
tossicologico condotto nel 1996 dalla Monsanto. Con la sua équipe ha nutrito un
gruppo di topi secondo l’alimentazione usuale (gruppo di controllo), e un altro
gruppo con lo stesso cibo, ma con l’aggiunta della soia Round-up Ready (gruppo
sperimentale). Le cavie, sottratte allo svezzamento, sono state monitorate fino alla
morte (in media due anni dopo). «Abbiamo studiato gli organi dei topi al
microscopio elettronico», mi spiega Manuela Malatesta, «e abbiamo constatato
differenze statisticamente significative, soprattutto nel nucleo delle cellule del
fegato dei topi nutriti con soia transgènica. Tutto sembrava indicare che il fegato
avesse un’attività fisiologica più elevata. Abbiamo trovato modifiche simili nelle
cellule del pancreas e dei testicoli.» «Come spiega queste differenze?» «Avremmo
voluto proseguire con gli studi preliminari, ma purtroppo non abbiamo potuto,
perché i finanziamenti sono stati sospesi... Siamo fermi alle ipotesi: le differenze
possono essere dovute alla composizione della soia o ai residui di Round-up.
Tengo a precisare che le differenze da noi riscontrate non sono lesioni; la
questione è sapere che ruolo biologico possono avere sul lungo termine, e per
questo bisognerebbe condurre un altro studio.» «Perché non lo fa lei?» «Ah!»
esclama la ricercatrice. «Attualmente la ricerca sugli OGM è argomento tabù. Per
questo ambito non ci sono fondi. Abbiamo fatto di tutto per trovare un
finanziamento complementare, ma ci hanno risposto che siccome nella letteratura
scientifica non esistono dati in grado di dimostrare che gli OGM provocano
problemi, è del tutto inutile lavorarci ancora. Non si vogliono trovare risposte alle
domande più spinòse... È il risultato della paura diffusa nei confronti della
Monsanto e degli OGM in generale... Quando ho parlato dei risultati dello studio
ad alcuni colleghi, mi hanno vivamente sconsigliato di pubblicarli, e avevano
ragione, perché ho perso tutto, il mio laboratorio, la mia équipe... Ho dovuto
ricominciare da zero in un’altra università, grazie a un collega che mi ha
sostenuta. .. » «Gli OGM la preoccupano?» «Oggi sì! All’inizio ero convinta che
non comportassero problemi, ma adesso i segreti, le pressioni e la paura che li
circondano mi fanno dubitare...» Questa sensazione, come vedremo, è condivisa
da altri scienziati, come il «dissidente» Arpad Pusztai, anche lui caduto nella rete
intessuta dalla Monsanto un po’ in tutto il mondo.
9. 1995 - 1999: la Monsanto tesse la tela
«In veste di scienziato attivamente impegnato in questo campo, penso non sia
giusto trattare i cittadini britannici come cavie.» Queste poche parole sugli OGM,
pronunciate pubblicamente il 10 agosto 1998 a World in Action, un programma
televisivo inglese, hanno rovinato la carriera di Arpad Pusztai, biochimico di fama
internazionale che ha lavorato per trent’anni, dal 1968 al 1998, al Rovvett
Research Institute di Aberdeen, in Scozia. «Credo che non mi perdoneranno mai
per avere detto quella frase», mi spiega quando lo incontro a casa sua, il 21
novembre 2006, con un sorriso malizioso che gli illumina il viso.
«Chi non la perdonerà mai?» gli domando, pur conoscendo già la risposta.
«La Monsanto e tutti quelli che in Gran Bretagna sostengono a occhi chiusi la
biotecnologia», risponde. «Non avrei mai pensato di ritrovarmi vittima di metodi
che ricordano quelli usati dai regimi comunisti con i dissidenti.» Le patate
maledette Arpad Pusztai, figlio di un membro della resistenza ungherese
all’occupazione nazista, è nato a Budapest nel 1930. Nel 1956, mentre i carri
sovietici marciano sulla capitale ungherese, fugge in Austria, dove gli viene
concesso asilo politico. Laureato in chimica, ottiene una borsa alla Fondazione
Ford, che gli propone di studiare in un Paese a sua scelta. Pusztai sceglie la Gran
Bretagna, che per lui rappresenta il «Paese della libertà e della tolleranza». Dopo
avere conseguito un dottorato in biochimica all’Università di Londra, viene
reclutato dal prestigioso Rovvett Institute, considerato il miglior laboratorio
europeo sull’alimentazione. Il ricercatore si specializza sulle lectine (a loro
dedicherà ben duecentosettanta articoli scientifici), proteìne presenti in natura in
alcune piante con una funzione insetticìda che le protegge dagli attacchi degli
afidi.
Benché alcune lectine siano tossiche, altre sono inoffensive per l’uomo e per i
mammiferi, come la lectina proveniente dal bucaneve chiamata GNA, a cui Arpad
Pusztai ha dedicato sei anni della sua vita. L’esperienza del biochimico è così nota
che nel 1995 il Rovvett Institute gli propone di prolungare il contratto, sebbene lui
abbia già l’età per il pensionamento, e assumere il comando di un programma di
ricerca finanziato dal ministero scozzese dell’Agricoltura, dell’ambiente e della
pesca.
Con un budget di 1,6 milioni di sterline (oltre due milioni di euro), questo
contratto sostanziale, che mobilita una trentina di ricercatori, ha lo scopo di
valutare l’effetto degli OGM sulla salute umana. «Eravamo tutti entusiasti», mi
spiega Pusztai, «perché all’epoca, quando la prima coltivazione di soia
transgènica era appena stata avviata negli Stati Uniti, non era stato pubblicato
nessuno studio in proposito. Il ministero pensava che la nostra ricerca avrebbe
rappresentato un supporto a favore degli OGM, al momento del loro ingresso nel
mercato britannico ed europeo. Ma nessuno immaginava - io per primo, fervente
sostenitore della biotecnologia - che avremmo riscontrato dei problemi.»
L’entusiasmo dello scienziato è tale che, quando nel 1996 compare lo studio
tossicologico della Monsanto sulla soia Round-up Ready su The Journal
ofNutrition, parla subito di «scienza da quattro soldi», convinto che con la sua
équipe avrebbe fatto di meglio: «Se fossimo riusciti a dimostrare, con uno studio
scientifico degno di tale nome, che gli OGM erano davvero inoffensivi, saremmo
diventati eroi», racconta.
«La mancanza di test sugli OGM la preoccupa?» chiede la mia collega della
televisione ad Arpad Pusztai.
In altre parole, gli effetti osservati sui topi non sono dovuti alla manipolazione
genetica ma alla lectina Con A, che è un «veleno naturale»,2 come si affretta a
sottolineare il dottor Collin Merritt, portavoce della Monsanto in Gran Bretagna.
«Invece di topi nutriti con patate geneticamente modificate, il dottor Pusztai ha
usato i risultati di test condotti su topi trattati con veleno», rincara lo Scottish
Daily Record & Sunday Mail? «Se un cocktail di cianuro e vermouth non fa bene
alla salute, non si può certo concludere che debbano essere banditi tutti i cocktail
esistenti»,4 ironizza sir Robert May, consulente scientifico del governo. Allo
stesso modo, in Francia Le Monde riprende questa «informazione», ancora più
strana perché riguardante il più grande specialista mondiale delle lectine: «Il
dottor Pusztai ha messo insieme i dati legati a un tipo di patata transgènica, il cui
studio è stato appena avviato, e altri provenienti da esperimenti che aggiungevano
proteìne insetticìde al menù dei topi. I tuberi incriminati non avevano quindi
niente di transgènico».5 «Era tremendo», mormora Arpad Pusztai, con la voce
rotta dall’emozione. «E non avevo nemmeno il diritto di difendermi... » Così il
professor James attacca su un secondo fronte, chiedendo a un comitato di
scienziati di condurre un audit sul famoso studio. Viene però da chiedersi perché:
se l’esperimento è stato invalidato da un errore sulla lectina usata, allora non c’è
motivo di approfondire i risultati... Tuttavia, il 28 ottobre 1998 il Rovvett Institute
pubblica le conclusioni dell’audit: «Il comitato pensa che i dati esistenti non
permettono di affermare che il consumo di patate transgèniche da parte dei topi
abbia influito sulla loro crescita, sullo sviluppo dei loro organi o del loro sistema
immunitario. Questa ipotesi [... ] era infondata».6
L’argomentazione non convince il dottor Alan Williams, uno dei membri della
commissione parlamentare che, specificando la funzione del comitato consultivo
incaricato di autorizzare il commercio degli alimenti transgènici, di cui Philip
James fa parte, risponde con un’ironia tutta britannica: «Dire che non è corretto
commentare uno studio non pubblicato pone un problema serio, perché se ho
capìto bene tutte le decisioni prese dal comitato consultivo si basano su studi
provenienti da aziende, quindi non pubblicati. Non è del tutto democratico, non vi
pare? Non abbiamo il diritto di commentare gli studi perché non sono pubblicati,
ma d’altra parte nessuno di questi viene reso pubblico. Siamo quindi costretti ad
affidarci ai pareri del comitato e dei suoi rispettabili membri, che prendono le
decisioni a nome nostro, fidandosi di studi che provengono da imprese
commerciali. Non vi sembra che in tutto ciò vi sia un’evidente mancanza di
democrazia?»9
Bisogna ammettere che gli scettici hanno ragione: mentre i grandi della
distribuzione agroalimentare come Unilever England, ma anche Nestlé, Resco,
Sainsbury, Somerfield o le filiali britanniche di McDonald’s e Burger King, si
impegnano pubblicamente a rinunciare a qualunque ingrediente transgènico, si
scopre che il governo di Tony Blair conduce strane manovre per «riconquistare la
fiducia della gente». Secondo un documento confidenziale che il Sunday
Independent è riuscito a procurarsi, Blair stabilisce un vero e proprio piano di
battaglia per «denigrare la ricerca del dottor Pusztai, sollecitando eminenti
scienziati a rilasciare interviste televisive e a scrivere articoli» per «contribuire a
raccontare qualcosa di buono».14 Fra gli scienziati prescelti, il documento cita
soprattutto quelli della rispettabilissima Royal Society che, in realtà, collabora
attivamente alle operazioni denigratorie.
Ancora oggi il dottor Evven fatica a parlare del «caso» che ha annientato per
sempre la sua fiducia nell’indipendenza della scienza. «Era come se mi fosse
mancato il terreno sotto i piedi», racconta con tono duro.
Peccato che, violando tutte le normative, John Pickett, il «sesto revisore», non
esiti a criticare violentemente l’articolo dalle colonne dell’Independent cinque
giorni prima della pubblicazione.18 Peggio ancora, trasmette la bozza del testo a
The Lancet: «Ci sono state forti pressioni per annullarne la pubblicazione»,
ammette Peter Lachmann (ex vicepresidente e segretario per la biologia della
Royal Society, nonché presidente dellAccademia delle scienze mediche), secondo
il quale la pubblicazione «avrebbe potuto avere ripercussioni sulla sua posizione
di direttore».19 Affermazione, questa, smentità in seguito dallo stesso Lachmann.
«Non ci sono dubbi che la decisione di fermare il nostro lavoro sia stata presa
ai livelli più alti», mormora Stanley Evven. «Ne ho avuto conferma nel settembre
1999. Ero a una cena e al tavolo accanto al mio c’era uno degli amministratori del
Rovvett Institute. A un certo punto gli ho detto: ‘È tremendo quel che è successo
ad Arpad, vero?’ E lui ha risposto: ‘Certo, ma sa che Dovvning Street ha chiamato
il direttore due volte?’ A quel punto ho capìto che c’era stato qualcosa di
sovranazionale: l’ufficio di Tony Blair aveva subito pressioni da parte degli
americani, secondo i quali il nostro studio avrebbe arrecato danni alla loro
industria biotecnologica, e in particolare alla Monsanto.» Questa informazione è
stata anche confermata da un ex amministratore del Rovvett Institute, il professor
Robert Orskov, il quale nel 2003 ha confermato al Daily Mail che «la Monsanto
aveva telefonato a Bill Clinton, poi Clinton a Blair e Blair a James... »20
Colpita da questo «dettaglio» della sua carriera, che getta un velo di sospetto
sul suo discorso ecologico-terzomondista, ho cercato di contattarlo. Nel 2006
Shapiro dirige la sede di Chicago del Belle Center, un’organizzazione non
governativa creata nel 1984 a Saint Louis, che si occupa dell’inserimento in
società dei bambini portatori di handicap. Secondo ciò che scrive Michael Specter
sul New Yorker, Shapiro, «uno dei dirigenti più pagati d’America» (venti milioni
di dollari nel 1988), «risponde alle e-mail il giorno stesso, e talvolta nel giro di
qualche minuto».29 Infatti, gli ho inviato una prima e-mail il 29 settembre 2006, a
cui ha risposto dopo mezz’ora, declinando educatamente la mia richiesta di
intervista: «Ormai è da qualche anno che non sono più impegnato
professionalmente nella biotecnologia. [... ] Non mi sento più competente per
parlarne».
Poi, essendo venuta a sapere che il sessantenne, padre di due figli adulti, si era
creato una nuova famiglia, il 30 settembre gli ho posto l’unica domanda che mi
stava veramente a cuore: «Come madre di tre bambine vorrei sapere che latte dà
lei ai suoi figli: latte normale [venduto senza distinzioni fra convenzionale e
transgènico, poiché ormai mescolati e senza diritto di etichettatura] o biologico?»
La risposta è stata quasi immediata: «Ho due figli: quello di dieci anni è
intollerante al lattosio, quello di otto consuma latte e gelati con il 2 per cento di
materia grassa.
Non abbiamo mai acquistato latticini biologici». Leggendo questa e-mail non
ho potuto evitare di ripensare a ciò che aveva scritto Business Ethics nel gennaio
1997: «È chiaro che Shapiro parla in due modi diversi.
Forte del nuovo motto, «Cibo, salute e speranza», Robert Shapiro galvanizza le
truppe annunciando impianti in grado di produrre plastica biodegradabile, mais
che produce anticorpi contro il cancro e olio di colza o di soia che protegge dalle
malattie cardiovascolari. Alcuni testimoni raccontano che una dipendente,
Rebecca Tominack, esaltata da tutto questo, si è avvicinata all’amministratore per
dirgli: «Io sono con lei», poi, togliendosi dal collo il badge identificativo, l’ha
messo al collo di lui, in un gesto di fiducia compiuto anche da un altro centinaio
di dipendenti.
«Sono rimasto molto colpito dal discorso di Robert Shapiro, che ci esortava a
lavorare per migliorare il mondo», mi spiega Kirk Azevedo, dipendente della
Monsanto dal 1996 al 1998, che incontro il 14 ottobre in una cittadina sulla costa
occidentale, dove esercita ormai la professione di chiropratico. Laureato in
chimica e contattato da un cacciatore di teste, si era dimesso dai laboratori Abbott,
dov’era incaricato di testare nuovi pesticìdi, per entrare in quella che considerava
«l’azienda del futuro». Il suo compito era promuovere presso i negozianti di
sementi e gli agricoltori californiani due varietà di cotone transgènico che la
Monsanto si apprestava a lanciare sul mercato: un cotone Round-up Ready e uno
Bt, geneticamente manipolato per produrre una lectina insetticìda (come le patate
transgèniche di Arpad Pusztai), grazie all’introduzione di un gene proveniente dal
battèrio Bacillus thuringiensis.
«Ero entusiasta», mi racconta Kirk Azevedo. «Pensavo davvero che quei due
OGM avrebbero comportato una riduzione del consumo di erbicìdi e di insetticìdi.
Ma la prima nota discordante è giunta tre mesi dopo la mia assunzione. Ero stato
invitato a Saint Louis per visitare la sede e partecipare a uno stage destinato ai
nuovi arrivati. A un certo punto, mentre difendevo con fervore la biotecnologia
che avrebbe permesso di ‘diminuire l’inquinamento e la fame nel mondo’, uno dei
vicepresidenti della Monsanto mi ha preso in disparte e mi ha detto: ‘Quello che
dice Robert Shapiro è una cosa, ma per noi l’importante è fare soldi. Lui usa tante
belle parole, ma noi non capiamo nemmeno di che parli...’» «Chi era?»
«Preferisco non fare nomi», esita Kirk Azevedo. «In ogni caso, all’epoca ho
pensato che l’idea di quel dirigente fosse un’eccezione... Fino all’estate del 1997,
quando ho avuto la seconda grande disillusione. Mi trovavo in un campo a
valutare una piantagione sperimentale di cotone Round-up Ready, la cui
coltivazione non era ancora autorizzata. Con me c’era uno scienziato della
Monsanto, esperto di cotone. Discutevamo su che cosa avremmo fatto con quel
cotone una volta raccolto. Siccome ero molto ‘prò OGM’, ho detto che bisognava
venderlo al prezzo del ‘premium California’, perché dopotutto c’era solo un gene
di differenza con la varietà d’origine, che non ne avrebbe certo cambiato la
qualità. A quel punto lui mi ha detto: ‘No, ci sono altre differenze. Le piante di
cotone transgènico non producono solo la proteìna di resistenza al Round-up, ma
anche altre, e sconosciute, durante il processo di manipolazione’.
Nel 2002 il giornalista americano Daniel Charles, nel già citato Lords of the
Harvest, riporterà con dovizia di particolari la stupefacente mutazione della
Monsanto avvenuta negli anni Novanta, una storia che qui riassumerò. Quando
nel 1993 Robert Shapiro, allora capo della divisione agricola della Monsanto,
incontra Tom Urban, dirigente della Pioneer HiBred International, per illustrargli
il gene Round-up Ready, viene ricevuto con serenità: «Complimenti!» ironizza
Urban. «Voi avete un gene! Noi ne abbiamo cinquantamila! Non siete voi ad
avere le chiavi del mercato, ma noi! Siete voi a dover pagare per mettere il vostro
gene nelle nostre varietà!»32 Ma dopo anni di ricerca a fondo perduto, Shapiro
non aveva scelta: l’obiettivo della Monsanto era fare soldi. Un primo accordo
viene quindi firmato con la Pioneer, che alla fine accetta di pagare, in una sola
volta e come saldo di tutti i conti aperti, cinquecentomila dollari per poter
introdurre il gene Round-up Ready nelle sue varietà di soia. Poi, ispirandosi al
successo del NutraSvveet con la Coca-Cola Light, Robert Shapiro ottiene che
venga stampata la scritta Round-up ready sui sacchetti di sementi. Ma in fin dei
conti non c’è molto da festeggiare: come sottolinea Daniel Charles, «il gene
Round-up Ready è diventato solo un veicolo che permette alla Monsanto di
vendere più erbicìdi».33
Robert Shapiro riesce dunque a farsi pagare questa performance con la somma
forfetaria e definitiva di trentotto milioni di dollari. In entrambi i casi le somme
versate dal produttore di sementi di Des Moines si riveleranno ridicole rispetto
all'immenso successo che incontreranno fin da subito i due tipi di OGM, e
soprattutto la soia Round-up Ready. Shapiro, amministratore delegato della
Monsanto dall’aprile 1995, cercherà di rinegoziare i due accordi, ma invano...
«Nella storia dell’agricoltura un’invenzione tecnica non era mai stata adottata
così rapidamente e con tanto entusiasmo», osserva Daniel Charles, il quale ricorda
che nel 1996 la soia Round-up Ready copriva quattrocentomila ettari negli Stati
Uniti, 3,6 milioni nel 1997 e dieci milioni nel 1998.34 Per capire l’entusiasmo che
suscitano in un primo tempo le colture Round-up Ready, bisogna mettersi nei
panni di un agricoltore americano come John Hofman, vicepresidente dell’ASA, e
noto per la sua vicinanza alla Monsanto.
Nell’ottobre 2006, nel momento del raccolto, Hofman mi ha ricevuta nella sua
immensa tenuta nell’Iowa, di cui non ha voluto comunicarmi la superficie. «Prima
di usare la tecnica Round-up Ready», mi spiega in mezzo a un campo di soia
transgènica di parecchie decine di ettari, «dovevo trattare il terreno per preparare
la semina. Poi dovevo applicare più di un erbicìda selettivo per liberarmi delle
erbe infestanti nel corso della stagione. Prima del raccolto dovevo ispezionare i
campi per togliere le ultime erbacce a mano. Adesso non li tratto più: dopo avere
sparso il Round-up una prima volta, semino direttamente nei residui del raccolto
precedente. Si chiama ‘semina diretta’ e permette di ridurre l’erosione del suolo.
Poi, a metà stagione, faccio una seconda applicazione di Round-up, e
normalmente basta fino al raccolto. Il sistema Round-up Ready mi permette
quindi di risparmiare tempo e denaro... » Nell’estate del 1995 vengono
organizzate dimostrazioni nelle pianure del Midwest, dove affluiscono agricoltori
affascinati da queste piante magiche. «Facevamo fare le irrorazioni direttamente
agli agricoltori», racconta un negoziante di sementi, «poi si fermavano a osservare
i campi. Era uno spettacolo formidabile. [... ] Non credevano ai loro occhi. Alla
fine tutti volevano comprarne.»35 «È stato incredibile», continua un altro
negoziante del Minnesota. «Penso che non succederà mai più una cosa simile. Gli
agricoltori avrebbero fatto qualunque cosa pur di procurarsi le sementi della soia
Round-up Ready. Compravano tutti i sacchi che avevamo.»36
* Alla fine la percentuale sarà del 70 per cento, dopo l’intervento degli
organismi di regolamentazione.
In due anni Robert Shapiro spende più di otto miliardi di dollari e fa della
Monsanto la seconda azienda di sementi del mondo dopo Pioneer Hi-Bred* Per
finanziare questo costoso programma, nel 1997 Shapiro vende la divisione
chimica alla Solutia (vedi Capitolo 1). Ma non basta: deve contrattare un
indebitamento record, sostenuto dalla borsa di New York, che all’epoca si affida
alle «promesse della biotecnologia». Nel le azioni della Monsanto salgono del 74
per cento, e del 71 per cento nel 1996. Gli investitori seguono a occhi chiusi il
«guru di Saint Louis», fino al passo falso del marzo 1998, che dà il via alla
discesa agli inferi.
Il trafiletto del Wall Street Journal è stato scoperto per caso da Hope Shand,
direttrice della ricerca della Rural Advancement Foundation International (RAFI),
una ONG canadese poi ribattezzata Erosion, Technology, Concentration Group
(ETC Group) che si batte per la tutela della biodiversità e contro gli effetti
indesiderati dell’agricoltura industriale.
Presto Hope Shand informa il proprio direttore, Pat Mooney, che esclama: «Ma
è come Terminator!» Da allora questa espressione indica la tecnica di
sterilizzazione e, più in generale, gli obiettivi generali dei produttori di OGM.
Quando lo incontro a Ottawa, nel settembre 2004, Pat Mooney mi spiega:
«Questa tecnica minacciava direttamente la sicurezza alimentare, soprattutto nei
Paesi in via di sviluppo, dove oltre 1,5 miliardi di persone sopravvivono grazie
alla conservazione delle sementi.
L’11 marzo 1998 la RAFI pubblica un comunicato dal titolo «La tecnologia
Terminator, una minaccia globale per i contadini, per la biodiversità e per la
sicurezza alimentare», ma passa praticamente inosservato.
«In realtà», sorride Pat Mooney, «è grazie alla Monsanto che la nostra
campagna ha avuto un successo di portata mondiale...» Due mesi dopo, infatti,
Robert Shapiro annuncia di stare negoziando l’acquisto della Delta & Pine per 1,9
miliardi di dollari. La notizia provoca una protesta internazionale, perché
l’amministratore di Saint Louis recupera così il famoso brevetto Terminator. Le
ONG ecologiste non sono le uniche a reagire: manifestano il proprio dissenso
anche la Fondazione Rockefeller, che ha sostenuto la rivoluzione verde negli anni
Sessanta e che, tuttavia, appoggia le biotecnologie, e il Consultive Group on
International Agricultural Research (CGIAR), che si impegna pubblicamente a
non usare Terminator nei suoi programmi sulle sementi. A quel punto la
convenzione dell’ONU sulla diversità biologica approva una moratoria, ancora in
vigore dopo dieci anni, sugli esperimenti sul campo e sull’uso commerciale di
Terminator. Infine, anche la commissione antitrust americana contesterà
l’acquisizione*
Per la Monsanto le cose non potevano andare peggio. Dall’autunno del 1997 in
Europa tutti i segnali sono effettivamente negativi. I primi carichi di soia
transgènica sono bloccati nei porti del vecchio continente su iniziativa di
Greenpeace, che conduce una campagna molto efficace contro il «cibo di
Frankenstein». L’azienda, forte del successo in America del Nord, dove ha
dimostrato la propria forza imponendo di evitare l’etichettatura e la segregazione
degli OGM, non si aspettava che il granellino di sabbia di Greenpeace inceppasse
gli ingranaggi del sistema. Il 26 maggio 1998 l’Europa adotta il regolamento
1139/98, che conferma l’etichettatura dei prodotti transgènici. Fin dall’inizio
dell’anno la Monsanto ha riunito delle unità di crisi a Saint Louis, Chicago,
Londra e Bruxelles, quindi prende la decisione di lanciare, a inizio giugno 1998,
una massiccia campagna pubblicitaria in Germania, Francia (venticinque milioni
di franchi) e Gran Bretagna (un milione di sterline).
La sbandata è tale che Robert Shapiro è costretto al cessate il fuoco anche con i
suoi peggiori nemici: il 6 ottobre 1999 accetta di prendere parte a una business
conference organizzata da Greenpeace a Londra.
Upjohn, un’azienda farmaceutica di origine svedese con sede nel New Jersey.
«I termini della fusione segnano il fallimento della visione dirigenziale della
Monsanto e del suo amministratore, Robert Shapiro», commenterà Michael
Watkins, ricercatore della Harvard Business School.47 La nuova corporation,
battezzata Pharmacia, non ha occhi che per la Searle, l’ex divisione farmaceutica
della Monsanto, il cui valore è all’epoca stimato ventitré miliardi di dollari (la
Searle produce soprattutto il Celebrex, un farmaco contro l’artrite). Inoltre,
cercherà di staccarsi al più presto dalla divisione agrochimica della Monsanto,
cioè la «nuova Monsanto», di cui si libererà definitivamente nell’estate del 2002,
quando anche Pharmacia sarà contemporaneamente assorbita dalla Pfizer.
«Una delle cose che mi preoccupano di più sono gli effetti della biotecnologia
sull’agricoltura familiare», dichiarava Dan Glickman il 13 luglio 1999, in
occasione del famoso discorso che ha tanto irritato i suoi colleghi del Commercio
estero americano. «La questione del sapere chi possiede cosa alimenta dibattiti già
assai spinòsi. Si vedono aziende denunciarne altre per problemi di brevetti, anche
nei casi di fusione. Gli agricoltori si mettono contro i loro vicini per proteggere i
diritti di proprietà intellettuale delle multinazionali. [... ] I contratti con gli
agricoltori devono essere giusti, perché i lavoratori non si trasformino in semplici
schiavi della terra.» L’arma dei brevetti Con questo discorso iconoclasta, il
segretario dell’Agricoltura di Bill Clinton affrontava uno degli argomenti più cari
agli oppositori degli OGM: i brevetti. «Abbiamo sempre denunciato il doppio
gioco delle aziende della biotecnologia», mi spiega Michael Hansen, l’esperto del
Consumer Policy Institute. «Da un lato dicono che non è necessario testare le
piante transgèniche, perché strettamente simili agli omologhi convenzionali;
dall’altro chiedono dei brevetti, dicendo che gli OGM rappresentano una
creazione unica. Bisogna mettere le cose in chiaro: o la soia Round-up Ready è
identica alla soia convenzionale, o non lo è! Non può essere entrambe le cose
contemporaneamente, secondo gli interessi della Monsanto!» Sino alla fine degli
anni Settanta sarebbe stato inconcepibile presentare una richiesta di brevetto su
una varietà vegetale. Anche negli Stati Uniti la legge sui brevetti del 1951 esigeva
chiaramente che riguardassero solo le macchine e i processi industriali, e in
nessun caso gli organismi viventi, e quindi le piante. In origine, in effetti, il
brevetto rappresenta uno strumento di politica pubblica che mira a stimolare le
innovazioni tecnologiche, concedendo all’inventore un monopolio di produzione
e di vendita del prodotto per vent’anni. «I criteri di attribuzione dei brevetti sono
molto rigidi», commenta Paul Gepts, ricercatore del dipartimento di biologia
molecolare dell’Università di Davis, in California, dove mi riceve nel luglio 2004.
«I requisiti sono tre: la novità assoluta del prodotto, l’inventiva e il potenziale
utilizzo industriale. Fino al 1980 il legislatore aveva escluso gli organismi viventi
dal campo dei brevetti, perché affermava che in nessun caso potevano soddisfare
il primo criterio: anche se l’uomo interviene sul loro sviluppo, gli organismi
viventi esistevano già prima della sua azione e, inoltre, possono riprodursi da
soli.» Con l’arrivo dei selezionatori si era posto il problema delle varietà vegetali
«migliorate» con la tecnica della selezione genealogica {vedi Capitolo 7). Le
aziende di sementi, ansiose di recuperare i propri investimenti, avevano ottenuto
che fosse attribuito alle «loro varietà» un «certificato di conseguimento vegetale»,
che gli permetteva di vendere licenze di sfruttamento ai negozianti o di includere
una sorta di tassa nel prezzo delle sementi. Ma questo certificato, noto come Plant
Variety Protection Act negli Stati Uniti* non era che un lontano parente del
brevetto, poiché non impediva ai contadini di tenere una parte del raccolto per
seminare i campi l’anno successivo, né ai ricercatori come Paul Gepts, o ai
selezionatori, di usare la varietà interessata per crearne di nuove. È ciò che viene
definita «eccezione del contadino e del ricercatore».
Nel 1980, però, è cambiato tutto. In quell’anno la Corte suprema degli Stati
Uniti ha emesso una sentenza carica di conseguenze, dichiarando brevettabile un
microrganismo transgènico. La storia era cominciata otto anni prima, quando
Ananda Mohan Chakrabarty, un ingegnere genetico che lavorava per la General
Electric, aveva richiesto un brevetto per un battèrio che aveva manipolato perché
riuscisse a inglobare i residui di idrocarburi. L’ufficio brevetti di Washington
aveva respinto la richiesta, secondo la legge del 1951. Chakrabarty era ricorso in
appello e aveva vinto. La Corte suprema aveva dichiarato: «Tutto ciò che sotto il
sole è stato toccato dall’uomo può essere brevettato».
«Certo», ammette John Doli, «ma siccome l’azienda è riuscita a isolare il gene
e a descriverne la funzione, può ottenere un brevetto... » Il «nuovo ordine
agricolo» Come abbiamo visto, quando i ricercatori della Monsanto sono riusciti a
modificare la «cassetta genetica» rendendo la soia resistente al Round-up, la
multinazionale ha inoltrato una richiesta di brevetto, che ha ottenuto senza
difficoltà. Negli Stati Uniti è valido fino al 2014. Nel giugno 1996 l’Ufficio
europeo di Monaco concede a sua volta un brevetto alla soia Round-up Ready,
che per estensione si applica a tutte le varietà vegetali in cui la famosa cassetta
può essere inserita: «Mais, grano, riso, soia, cotone, canna da zucchero,
barbabietola, colza, lino, girasole, patata, tabacco, pomodoro, erba medica,
pioppo, pino, melo e vite»,* cosa che la dice lunga sui progetti dell’azienda.
Rimanevano da trovare i mezzi per far rispettare ciò che l’azienda chiama
«diritti di proprietà intellettuale». Si potrebbe pensare che la strategia di vendere
prima licenze d’uso ai negozianti di sementi, poi di acquistare le principali
aziende di sementi, bastasse a garantire i famosi «ritorni di investimento», ma non
è stato così. In realtà, il vero problema della Monsanto erano i contadini stessi
che, un po’ in tutto il mondo, avevano mantenuto l’odiosa abitudine di conservare
una parte del raccolto per riseminarlo (salvo per gli ibridi che, come abbiamo
visto, non riguardano le piante autogame come la soia o il grano). «In alcuni Paesi
i contadini conservano i semi per seminarli l’anno dopo», osservava con
discrezione nel 2005 The Pledge Report. «Quando la semente possiede una
caratteristica brevettata, come nel caso del gene Round-up Ready, questa
procedura tradizionale crea un dilemma [corsivo mio] per l’azienda che ha
sviluppato la varietà.»2 In un altro rapporto più «professionale», il Form 10K, che
è il rapporto di attività che l’azienda deve inviare ogni anno agli azionisti, oltre
che alla Security and Exchange Commission (SEC), i termini sono più diretti: alla
voce «concorrenza» gli autori evidenziavano che nel 2005 i mercati globali erano
«altamente concorrenziali per i nostri prodotti», e che «in certi Paesi siamo in
concorrenza con le aziende di sementi pubbliche», oltre che «con gli agricoltori, i
quali, conservando le sementi da un anno all’altro, influenzano la nostra
competitività».*
Ancora oggi i termini del contratto, che deve essere assolutamente firmato,
sono severissimi: gli agricoltori che trasgrediscono devono pagare una multa
salata, pena un processo di fronte al tribunale di Saint Louis (cosa che, come
vedremo, presenta tuttavia qualche vantaggio).
* Firmato da Hugh Grant, questo documento di centoquattordici pagine
riguarda l’anno fiscale che va dal 1° settembre 2004 al 31 agosto 2005.
Inoltre, l’azienda si arroga il diritto di analizzare i conti dei suoi clienti fino a
tre anni prima, oltre che di ispezionarne i campi al minimo sospetto: «Se la
Monsanto ha ragione di pensare [corsivi miei] che un produttore abbia ripiantato
sementi conservate dal precedente raccolto, può richiedere che vengano esibite le
fatture, o altrimenti verificare in altro modo che i campi siano stati seminati con
semi acquistati di recente. Se quanto richiesto non viene fornito entro trenta
giorni, la Monsanto potrà ispezionare e testare tutti i campi del produttore».3
La minaccia vale anche per i negozianti di sementi che, fra le altre attività,
dovevano (in America del Nord ormai si impone l’imperfetto)
«Ma di quali mezzi dispone la Monsanto per far rispettare la sua propria
legge?» «Di mezzi enormi!» mi risponde il professor Carstensen. «Sono rimasto
sconvolto quando ho saputo che l’azienda si era avvalsa dei servizi dell’agenzia di
investigazioni Pinkerton* La Monsanto paga i suoi agenti per ispezionare la
campagna e scovare i truffatori, incoraggiandoli persino alla delazione. L’azienda
ha attivato un numero verde a cui chiunque può denunciare il proprio vicino.
Insomma, impiega molto denaro per imporre la propria legge nei campi.»
Naturalmente, tutto ciò avrebbe potuto essere evitato se Robert Shapiro avesse
potuto usare la tecnologia del Terminator, che gli avrebbe permesso di risolvere il
«dilemma» dell’azienda senza sborsare un soldo, e soprattutto senza dover
mettere in piedi una vera e propria macchina da guerra, peraltro assai impopolare.
La polizia dei geni «Gli OGM sono protetti dalla legge americana sui
brevetti», mi spiega John Hofman, vicepresidente dell’ASA, con l’immancabile
sorriso che accompagna ogni sua frase. «Non ho il diritto di conservare dei semi
per ripiantarli l’anno dopo. È una tutela per la Monsanto e per le aziende di
biotecnologia, che hanno investito milioni di dollari in questa nuova tecnologia
che tutti siamo felici di usare.» A sentire l’agricoltore dell’Iowa mi viene in mente
Hugh Grant, l’amministratore delegato della Monsanto che, in un’intervista con
Daniel Charles, diceva: «È nostro interesse tutelare la proprietà intellettuale dei
semi, e per questo non dobbiamo scusarci. [... ] C’è un gene che appartiene alla
Monsanto ed è illegale che un agricoltore lo ricrei in un secondo raccolto».6
* Famosa negli Stati Uniti per i suoi metodi forti, simili a quelli di una
milizia privata, soprattutto quando veniva pagata per placare gli scioperi operai
alla fine del XIX secolo. La Pinkerton National Detective Agency è stata creata
nel 1850 da Allan Pinkerton, che ha conosciuto il massimo della gloria
denunciando un tentativo di attentato contro il presidente Abraham Lincoln, il
quale a sua volta ha reclutato presso l’agenzia gli addetti per la propria sicurezza
durante la guerra di secessione. Forte del suo logo, un occhio con la frase «Noi
non dormiamo mai», l’agenzia è diventata famosa come «bloody Pinkerton», cioè
la «Pinkerton sanguinaria».
«Come fa la Monsanto a sapere che qualcuno ha riutilizzato i suoi semi?»
chiedo a John Hofman.
Ma la tecnologia è buona».18
Altri, invece, sono stati condannati senza sapere che stavano coltivando piante
OGM! È successo a Hendrik Hartkamp, olandese, che nel 1998 ha avuto la
brillante idea di acquistare un ranch nell’Oklahoma, dove ha trovato una riserva di
sementi di soia che ha seminato... Il 3 aprile 2000 è stato citato in giudizio dalla
Monsanto per «violazione della legge sui brevetti», perché una parte dei semi
erano transgènici. Dopo essere finito in rovina per garantirsi una difesa, Hartkamp
ha venduto il ranch e ha lasciato per sempre gli Stati Uniti. «La cosa tremenda»,
mi spiega Joseph Mendelson, «è che i tribunali non fanno differenza fra quelli che
riutilizzano consapevolmente le sementi e quelli che non hanno piantato OGM in
modo intenzionale. L’unica cosa che conta è che in un campo sia stato ritrovato il
famoso gene: qualunque sia il motivo, il proprietario del campo è considerato
responsabile.» A un contadino che garantiva di non avere mai firmato nessun
contratto, e che ha trasgredito per centomila dollari (da cui l’anonimato), un
rappresentante della Monsanto ha dichiarato, con una franchezza notevole: «Lei è
nelle nostre mani. Noi possediamo tutti quelli che acquistano i nostri prodotti».15
Nel rapporto del CFS si scopre anche che, per almeno sei dei novanta processi
intentati dalla Monsanto, l’«accordo» sbandierato dall’azienda presenterebbe una
firma falsa, una «prassi riconosciuta come ricorrente dai negozianti di sementi».
Sarebbe il caso soprattutto di Eugène Stratemeyer, un agricoltore dell’Illinois
caduto in una trappola tesa da un «ispettore». Nel luglio 1998 si presenta presso la
sua fattoria un individuo per chiedergli di vendergli una piccola quantità di
sementi. Essendo ormai terminata la stagione della semina, spiega di voler fare un
test di erosione. Eugène Stratemeyer accetta e... Condannato a pagare 16.974,28
dollari di multa per avere infranto il brevetto, l’uomo ha intentato un processo
contro la Monsanto per uso di prove false.
Da notare anche che nel 2001, quando il malcontento contro i brevetti delle
sementi si diffondeva per le praterie americane, un certo John Ashcroft, allora
segretario della Giustizia di George W. Bush, e anche governatore del Missouri
dal 1983 al 1994, chiedeva alla Corte suprema degli Stati Uniti un parere in
proposito. Il 10 dicembre la Corte, nella persona di Clarence Thomas (come
abbiamo visto, uno degli avvocati della Monsanto), si dichiarava, per sei voti
contro due, favorevole ai brevetti sulle sementi.22
«Tutti hanno paura» «I brevetti hanno cambiato tutto», sospira Troy Roush, un
agricoltore dell’indiana vittima della «polizia dei geni» che mi ha ricevuta nella
sua Fattoria di Van Buren nell’ottobre 2006. «Consiglio agli agricoltori europei di
pensarci bene prima di lanciarsi nell’agricoltura transgènica, perché poi niente
sarà più come prima...» Ricordo l’emozione che avevo provato sentendo le parole
di quell’omone alto quasi due metri, che tratteneva a stento le lacrime e la collera.
Per lui l’incubo era iniziato nell’autunno del 1999, con la visita di un
«detective privato della Monsanto» impegnato in un’«inchiesta sugli agricoltori
che conservano le sementi». Quell’anno Troy, che gestisce un’azienda agricola
familiare insieme con il fratello e il padre, aveva seminato duecento ettari di soia
Round-up Ready per conto di un’altra azienda di sementi con cui aveva firmato
un contratto.* Inoltre, aveva seminato anche cinquecento ettari di soia
convenzionale con semi conservati dal raccolto precedente.
«Era facile capire quali campi erano sotto contratto, perché era stipulato con
molta chiarezza», mi spiega. «Ho proposto al detective di consultare i documenti
e le fatture degli erbicìdi, ma ha rifiutato.» Nel maggio 2000 Troy riceve una
convocazione in giudizio, con allegata una mappa topografica e delle analisi di
campioni prelevati dalla sua proprietà senza permesso. «C’erano parecchi errori
grossolani», commenta Troy. «Per esempio, uno dei campi sospetti era in realtà
seminato a mais non transgènico per conto della Weaver Popcorn, cosa che sono
riuscito a dimostrare facilmente...» «Perché ha negoziato un accordo amichevole
con la Monsanto?» gli domando.
* Quest’azienda, che aveva introdotto il gene in una delle sue varietà, gli
aveva chiesto di moltiplicare i semi, che avrebbe in seguito venduto agli
agricoltori.
«I brevetti hanno sconvolto la vita delle comunità rurali», dice David Runyon,
visibilmente commosso. «Hanno distrutto la fiducia che esisteva fra vicini.
Personalmente, parlo solo con due degli agricoltori che hanno campi vicino ai
miei. Anche per quanto riguarda lei, prima di accettare di incontrarla e di parlarle
al telefono ho controllato su Google chi fosse sul serio...» «Gli agricoltori hanno
così paura?» «Certo che hanno paura», mi risponde Troy Roush. «È impossibile
difendersi contro la Monsanto. Nel Midwest l’unico modo per sopravvivere con i
profitti agricoli che continuano ad assottigliarsi, è aumentare la superficie delle
terre. Ma per farlo un vicino se ne deve andare... Quindi, un colpo di telefono alla
linea delle spie e... » «Non vi sentite al sicuro da una nuova accusa?» «Certo che
no!» risponde David Runyon. «Prima di tutto perché nell’indiana siamo un po’
come gli ultimi dei Moicani: coltiviamo ancora soia tradizionale nel bel mezzo di
un impero transgènico. Poi perché i nostri campi possono essere contaminati dagli
OGM circostanti. È successo al mio vicino.» L’agricoltore mostra delle foto a
Troy. Si vede un campo di soia ingiallito e avvizzito, disseminato di piantine
verdi. «Questo campo di soia convenzionale è stato irrorato accidentalmente con
il Round-up dal figlio del mio vicino, che ha sbagliato campo. Le piante verdi
sono di soia della Monsanto. Ho calcolato che la contaminazione era del 15 per
cento circa.» «Corn’è possibile?» «Negli Stati Uniti non esistono filiere distinte
per i due tipi di soia», mi risponde David. «Probabilmente, le sementi
convenzionali del mio vicino sono state contaminate da semi transgènici rimasti
nella mietitrebbia che prima aveva lavorato in un campo di Round-up Ready,
oppure dai negozianti durante la scelta delle sementi. È anche possibile che il
polline OGM sia stato diffuso dagli insetti o dal vento. Il mio vicino si è reso
conto che la Monsanto avrebbe potuto trascinarlo in tribunale per violazione del
brevetto.» «Esatto», conferma Troy, «corn’è successo al nostro collega canadese
Percy Schmeiser.....
Percy Schmeiser, un ribelle nel «paese dei cieli viventi» Percy Schmeiser, nato
nel 1931 a Bruno, un villaggio di settecento anime nel cuore della provincia
canadese del Saskatchevvan (il «Paese dei cieli viventi»), rappresenta la «bestia
nera della Monsanto, il sassolino nella scarpa», per dirla con il giornalista di Le
Monde Hervé Kempf.23
Percy Schmeiser rifiuta di chinare il capo. Invia al suo avvocato alcune prove
dell’acquisto, nel 1997, di un campo che era stato coltivato con colza Round-up
Ready. Spiega inoltre che l’oleaginosa ha la vivacità di un’erba infestante, capace
di invadere le praterie alla velocità del vento e che i semi, leggerissimi, possono
riposare nel terreno per più di cinque anni prima di essere trasportati da un uccello
per chilometri. Constatando che la presenza della colza transgènica riguarda
soprattutto il margine dei campi, conclude che devono essere stati contaminati
dalle colture dei vicini, convertiti agli OGM, o dai camion di semi che sono
passati sulla strada. Bisogna dire che la resistenza di Schmeiser è incoraggiata
dalla rivelazione delle procedure forzate dell’azienda di Saint Louis, che non esita
a diffondere Round-up con gli elicotteri sui campi dei contadini sospettati di
«pirateria», secondo le affermazioni, nell’agosto 1998, di Edy ed Elisabeth Kram,
una coppia di agricoltori della provincia. Un’azione quanto mai «strana», afferma
Hervé Kempf, e che la Monsanto non ha mai smentito, «riconoscendo del resto, in
una dichiarazione al posto di polizia, che i suoi agenti avevano prelevato
campioni della colza di Edy Kram per analizzarla in laboratorio».25
La Monsanto Canada, in ogni caso, non vuole saperne. Brandendo di fronte
alla stampa i campioni che dice di avere prelevato (di nascosto, e quindi
illegalmente) dalla fattoria di Percy Schmeiser, che rivelano un tasso di
«contaminazione» di oltre il 90 per cento,26 la multinazionale decide di intentare
un processo, continuando allo stesso tempo a fare pressione su di lui perché
accetti di dichiararsi trasgressore. «Il 1999 è stato un anno terribile», racconta
Percy a Hervé Kempf. «C’erano uomini in auto che ci sorvegliavano. Stavano lì,
senza dire né fare nulla, solo a guardare. Una volta sono rimasti tre giorni di
seguito. Quando ci avvicinavamo partivano in quarta. Ricevevamo anche
telefonate anonime: ‘Dovrete arrendervi’, dicevano. Avevamo così paura che ho
comprato una carabina. La tenevo sul trattore quando lavoravo nei campi.»27
Alla fine la causa viene dibattuta a Saskatoon, capitale della provincia del
Saskatchevvan, nel giugno 2000. Il giudice Andrevv McKay comunica la
sentenza il 29 marzo 2001, lasciando stupiti tutti quelli che sostengono
l’agricoltore di Bruno. Infatti, il magistrato dichiara che seminando i propri campi
con semi raccolti nel 1997, «che sapeva o avrebbe dovuto sapere essere resistenti
al Round-up», Percy Schmeiser aveva infranto il brevetto della Monsanto. Precisa
inoltre che la «fonte della colza resistente al Round-up non ha importanza ai fini
del processo», e che «un contadino il cui campo contiene sementi o piante
provenienti da sementi introdotte dall’esterno, portate dal vento o persino dal
polline veicolato dagli insetti, dagli uccelli o, anche questo, dal vento, possiede
tali sementi o piante anche se non aveva intenzione di piantarle. Non possiede,
tuttavia, il diritto di usare il gene brevettato, né la semente o la pianta con il gene
o la cellula brevettata», perché «sarebbe come impadronirsi dell’essenza
dell’invenzione dei querelanti senza il loro permesso».28
Grazie agli OGM, sempre più erbicìdi L’ironia della sorte è che la Monsanto
ha intuito subito il valore finanziario di queste piante «ribelli»: il 29 maggio 2001
l’azienda ha ottenuto un brevetto (n. 6239072) riguardante un «misto di erbicìdi»
che permette di «controllare le erbe infestanti sensibili al glifosato e gli esemplari
volontari tolleranti al glifosato».43 Come sottolinea il rapporto della Soil
Association, «questo brevetto permetterà all’azienda di beneficiare di un
problema dovuto ai suoi stessi prodotti».44
In uno studio del 2004 Benbrook osserva che la quantità di erbicìdi sparsi sulle
tre principali colture statunitensi (soia, mais e cotone) è aumentata del 5 per cento
fra il 1996 e il 2004, per un totale di quasi sessantatremila tonnellate in più.
Mentre la quantità di erbicìdi usati per le colture convenzionali ha continuato a
diminuire, quella del Round-up ha avuto un’evoluzione inversa, come afferma
allegramente la Monsanto nel suo Form 10K del 2006: dopo avere sottolineato
che le vendite di glifosato hanno raggiunto un fatturato di 2,2 miliardi di dollari
nel 2006, contro i 2,05 del 2005, l’azienda afferma che «ogni espansione delle
colture Round-up Ready aumenta considerevolmente le vendite dei prodotti
Round-up».
Tali risultati sono il frutto di una strategia pianificata di lunga data: «Un fattore
chiave per l’aumento del volume di Round-up è una strategia basata sull’elasticità
e sulla riduzione selettiva dei prezzi, seguìta da un imponente aumento dei
volumi», scriveva la multinazionale nel rapporto annuale del 1998 (a p. 7).
Quando le si fa notare che questa evoluzione è la prova che gli OGM non
riducono il consumo di erbicìdi, l’azienda risponde che è normale che le vendite
di Round-up aumentino, poiché aumenta la superfìcie delle colture di Round-up
Ready. Certo, nove anni dopo la loro commercializzazione le colture transgèniche
coprivano cinquanta milioni di ettari negli Stati Uniti, e il 73 per cento erano
Round-up Ready (il 23 per cento Bt), ma quelle superfici erano già coltivate
prima dell’arrivo degli OGM (e quindi irrorate di pesticìdi).61
Charles Benbrook aggiunge inoltre che la fine del monopolio della Monsanto
sul glifosato, nel 2000, ha comportato una guerra dei prezzi che ha fatto crollare
quello del Round-up almeno del 40 per cento. Eppure il fatturato dell’azienda non
ha subito cali, anzi. Scrive inoltre che «la dipendenza da un solo erbicìda per la
gestione delle erbe infestanti su milioni di ettari, ha reso necessario applicare dosi
di erbicìda più elevate per raggiungere lo stesso livello di controllo».62 Benbrook
ricorda che prima degli OGM gli scienziati avevano identificato solo due
avventizi resistenti al glifosato: il loglio (in Australia, Sudafrica e Stati Uniti) e il
caglio (in Malaysia), ma che oggi se ne contano sei solo sul territorio americano,
primo dei quali l’equiseto, vero e proprio flagello delle praterie, ma anche gli
amaranti come l’erba correggiola o l’ambrosia. Così uno studio realizzato
all’Università del Delaware ha mostrato che piante di equiseto prelevate in campi
di soia Round-up Ready sopravvivevano dieci volte di più alla dose di Round-up
raccomandata.53 A queste erbe infestanti già identificate come resistenti al
Round-up, si aggiunge una serie di avventizi detti «tolleranti al glifosato», cioè
non ancora resistenti, ma per cui bisogna moltiplicare le dosi di tre o quattro volte
per liberarsene.
Il «lato nascosto della biotecnologia» «La resistenza alle erbe infestanti può
ridurre il rendimento di un’azienda agricola del 17 per cento.» Lo scriveva la
Syngenta, un’azienda svizzera tra i principali concorrenti della Monsanto, in un
documento del dicembre 2002 indirizzato a tutti i suoi clienti del settore
agricolo.64 Basandosi su un sondaggio realizzato fra gli agricoltori americani,
l’altro gigante della chimica e della biotecnologia affermava che il 47 per cento
degli intervistàti prevedeva un ritorno alla «rotazione delle colture e dei prodotti
chimici». Come Charles Benbrook osservava all’inizio del 2002, il crollo del
rendimento non è l’unica «cattiva notizia» che ha caratterizzato il «lato nascosto
della biotecnologia», di cui «scienziati e agricoltori cominciano appena a rendersi
conto».66
«Si tratta di quello che chiamiamo yield drag [letteralmente, il drenaggio del
rendimento]. Avevamo due ipotesi in grado di spiegare ciò che influisce sul
rendimento delle piante transgèniche: poteva dipendere dall’azione del Round-up
sul metabolismo vegetale o dal risultato della manipolazione genetica. Per
verificare la prima ipotesi abbiamo coltivato tre gruppi di soia Round-up Ready
proveniente dalla stessa varietà, di cui uno irrorato di Round-up, l’altro di solfato
di ammonio, un prodotto che stimola l’azione degli erbicìdi, e il terzo d’acqua.
Nei tre casi il rendimento è stato praticamente lo stesso, cioè cinquantacinque
esemplari per acro. Quindi alla base dello yield drag c’è la manipolazione
genetica.
Apparentemente, l’inserimento violento del gene intacca la capacità produttiva
della pianta.» «Allora la soia transgènica non è equivalente a quella
convenzionale?» «È ciò che dimostra il nostro studio...» «Come ha reagito la
Monsanto?» «Diciamo che l’azienda non ha fatto salti di gioia», mi risponde
Roger Elmore con la dovuta prudenza.
«Anche loro avevano condotto uno studio sul rendimento della loro soia?» «I
dati che avevano fornito erano molto deboli dal punto di vista scientifico, e
rispondevano più a un bisogno commerciale...» conclude l’agronomo.
Michael Duffy ha anche confrontato i risultati del mais Bt con quelli del mais
convenzionale ed è giunto a una conclusione simile: 28,28 dollari di perdita per
acro nel primo caso, 25,02 dollari nel secondo.
* In Canada il grano viene coltivato su dieci milioni di ettari, sei milioni dei
quali nella sola provincia del Saskatchevvan.
«Qui siamo lontani da tutto», sorride Ian McCreary, dopo avere pronunciato la
benedizione prima del pasto in famiglia. «I costi di trasporto sono astronomici, e
perché il nostro lavoro sia redditizio dobbiamo concentrarci sulla qualità del
grano, che è apprezzato da tutti i mugnai del mondo perché lo mescolano a varietà
di qualità inferiore per la panificazione. Come per la colza o il mais, gli OGM
comporterebbero un abbassamento dei prezzi, e noi non possiamo permetterci di
vendere grano come foraggio.» «Ma la Monsanto dice che il suo grano
risolverebbe il problema delle erbe infestanti», replico io.
Negli Stati Uniti, dove il 50 per cento del grano viene esportato (cinque
miliardi di dollari circa all’anno), il messaggio è stato ricevuto da tutti i produttori
di cereali, compresi quelli che non coltivavano grano primaverile. «L’effetto sul
mercato riguarda tutti i produttori»,7 spiegava Alan Tracy, presidente della US
Wheat Associates, che aveva impugnato uno studio pubblicato nell’ottobre 2003
da Robert Wisner, economista dell’Università dell’Iowa. Wisner aveva esaminato
l’effetto che avrebbe avuto la commercializzazione del nuovo OGM
sull’economia del grano, e il quadro era alquanto pessimistico: crollo dal 30 al 50
per cento delle esportazioni di grano rosso primaverile, e ancora di più per le altre
varietà di grano duro; riduzione dei prezzi di due terzi; perdita di posti di lavoro in
tutta la filiera e conseguenti ripercussioni su tutta la vita rurale. «La maggior parte
dei consumatori e degli acquirenti stranieri non vogliono il grano transgènico»,
spiegava l’economista. «Che abbiano torto o ragione, i consumatori rappresentano
la forza motrice nei Paesi in cui l’etichettatura permette di scegliere.»8
Così centinaia di agricoltori, che meno di dieci anni prima avevano applaudito
l’avvento degli OGM, hanno attraversato le «grandi pianure del Nord» per
«lottare contro la biotecnologia». Nel Nord Dakota e nel Montana la resistenza si
è «consolidata in un movimento politico»9 che ha chiesto l’approvazione di una
moratoria sul grano della Monsanto. L’azienda di Saint Louis ha mosso mari e
monti per far decollare le proprie iniziative. Per riportare all’ovile le pecorelle
smarrite ha persino mandato un aereo a prendere una delegazione di ribelli del
Nord Dakota e a portarli presso la sede del Missouri, dove sono stati ricevuti da
Robert Fraley, uno degli «inventori» della soia Round-up Ready, intanto
promosso vicepresidente. Fraley ha lasciato loro intendere che «opponendosi alla
Monsanto facevano il gioco degli ambientalisti radicali». «A quel punto»,
racconta Louis Kuster, uno dei contadini invitati, «mi è saltata la mosca al naso.
L’ho guardato dritto negli occhi e gli ho detto: ‘Guardi che lei non sta parlando
coi Verdi. Anche noi abbiamo bisogno di guadagnare’...»10
In Europa la prima «prova» fondante del movimento anti OGM è stata la crisi
della mucca pazza, che esplode nel 1996, nel momento in cui i primi carichi di
soia Round-up Ready giungono dagli Stati Uniti. Se la campagna organizzata da
Greenpeace contro gli OGM ha successo, è soprattutto perché rientra nell’aura
sospetta provocata dal cataclisma del prione killer, che ha rivelato l’incapacità
degli organismi governativi di valutare i rischi dell’agricoltura intensiva e del
sistema di produzione industriale degli alimenti. Come sottolineano Pierre-Benoìt
Joly e Claire Marris, «nell’edizione del 1° novembre 1996 Libération intitola
‘Allarme soia pazza’, dando così una chiara rappresentazione degli OGM».12
Insieme con il rafforzamento del movimento altromondista che denuncia
l’egemonia di multinazionali come la Monsanto sull’agricoltura del mondo
(summit OMC a Seattle nel dicembre 1999), di cui il caso Terminator è un
esempio perfetto, il tema della «cattiva alimentazione» attira la simpatìa dei
francesi per quelli che, accanto al leader contadino José Bové, arrecano danni,
nell’agosto 1999, al McDonald’s di Millau o distruggono i campioni di colture
transgèniche.
In America del Nord lo studio provoca clamore, mentre il giorno stesso della
pubblicazione la Commissione europea annuncia la sospensione delle richieste di
commercializzazione di parecchie varietà Bt, fra cui quelle della Monsanto. «Si
tratta di osservazioni fatte in laboratorio», si difende Christian Morin, portavoce
della Novartis, pretendendo che le osservazioni siano ripetute sul campo.16
Eppure niente: il malessere della farfalla cara agli americani infligge un primo
colpo alle esportazioni di mais verso l’Europa, che crollano dall’oggi al domani.
«Perché questo studio non è stato realizzato prima dell’approvazione del mais
Bt?» chiede sdegnata la dottoressa Margaret Mellon della Union of Concerned
Scientists. «Sono otto milioni di ettari coltivati troppo in ritardo. Deve servire
come avvertimento del fatto che forse ci saranno altre sorprese?»17
276
* La Aventis era un gruppo farmaceutico europeo nato nel 1999 dalla fusione
della tedesca Hoechst, delle francesi Rhòne-Poulenc e Roussel-Uclaf, delle
americane Rorer e Mario e della britannica Fisons. Nel 2004 viene acquistata da
Sanofi-Synthélabo dando così origine a Sanofi-Aventis.
Sulle istruzioni per l’uso il giornalista scopre che la patata è stata registrata
dall’EPA come «pesticìda», e si stupisce che l’etichetta informi della sua
composizione organica, dei nutrienti e persino delle «tracce di rame» che la
costituiscono; tuttavia non si dice una parola sul fatto che provenga da una
manipolazione genetica, e soprattutto che «contiene un insetticìda». Pollan decide
allora di chiamare James Maryanski, «coordinatore delle biotecnologie» alla
FDA. «Il Bt è un pesticìda», gli spiega, «per questo è esente dalla
regolamentazione della FDA ed è invece di competenza dell’EPA.» «Eppure»,
insiste il giornalista, «mangerò le mie patate Bt. L’EPA ha testato la loro sicurezza
alimentare?» «Non proprio», risponde Maryanski, perché, come dice il loro stesso
nome, i «pesticìdi sono prodotti tossici» e l’EPA non può fare altro che stabilire
«livelli di tolleranza» accettabili per l’uomo... Michael Pollan chiama l’EPA, dalla
quale viene informato che siccome la New Leaf è la «somma di una patata senza
rischi e di un pesticìda senza rischi», l’agenzia ha stabilito che non pone alcun
rischio per la salute umana. «Ammettiamo che le mie patate siano un pesticìda,
sebbene molto sicuro», ironizza il giornalista.
«Tutti i pesticìdi che uso in giardino, compreso il Bt, hanno mille precauzioni
d’uso. L’etichetta sul flacone di Bt dice, fra le altre cose, di evitare di inalare il
prodotto o di metterlo a contatto con una ferita. Perché le patate New Leaf, che
contengono un pesticìda registrato dall’EPA, non hanno questo tipo di etichetta?»
Non c’è modo migliore per riassumere l’aberrazione del sistema di
regolamentazione americano, che sfocia nel ridicolo quando sappiamo che, messa
in allarme sui potenziali effetti allergici del mais StarLink, l’EPA, invece di
vietarlo, decide di restringerne l’autorizzazione al solo consumo animale. Da
notare la totale indifferenza della FDA sulla questione, che in una lettera inviata
da Alan Rulis il 29 maggio 1998 ad AgrEvo, la filiale della Aventis che
commercializza lo StarLink, si limita a precisare: «Come sapete, è responsabilità
della AgrEvo garantire che gli alimenti commercializzati dall’azienda siano sicuri,
sani e che rispondano a tutte le norme di legge e di regolamentazione».27
Il funzionario della FDA non credeva di averci azzeccato tanto: dal settembre
2000 l’agenzia è sommersa di telefonate provenienti da tutti gli Stati Uniti. Per
esempio, quella di Grace Booth, che durante un pranzo di lavoro in cui aveva
mangiato delle enchiladas era stata improvvisamente colta da vampate di calore e
da una dissenteria violentissima, oltre che da un rigonfiamento delle labbra e dalla
perdita della voce: «Pensavo di morire», ha raccontato alla CBS.28 Trasportata
d’urgenza in un ospedale californiano, Grace Booth è sopravvissuta grazie alla
somministrazione immediata di un antiallergico. Tutti i rapporti che giungono alla
FDA presentano reazioni violente legate al consumo di prodotti a base di mais,
serviti per lo più in ristoranti tex-mex. Il dottor Marc Rosenberg, allergologo
incaricato di consigliare il governo sul da farsi, in un’intervista alla CBS
conferma che i sintomi «andavano da semplici dolori addominali, diarrea ed
eruzioni cutanee, a reazioni più rare in grado di mettere la persona in pericolo di
vita».
Come sottolineerà nel luglio 2001 Friends of the Earth, «la sconfitta dello
StarLink è un caso emblematico, poiché mostra l’incompetenza e la dipendenza
pressoché totale delle nostre agenzie di regolamentazione dalle aziende
biotecnologiche e agroalimentari».29 L’associazione afferma che la FDA ha
impiegato una settimana a confermare la presenza dello StarLink nella catena
alimentare, e per un motivo che non avrebbe mai sospettato: «Ci siamo resi conto
che questo ritardo era dovuto al semplice fatto che due anni dopo l’inizio della
coltivazione dello StarLink su centinaia di migliaia di acri* l’agenzia non era
ancora in grado di individuare quella proteìna potenzialmente allergica», scrive
l’associazione ecologista.30 Per poter condurre i test di laboratorio, la famosa
FDA ha dovuto sollecitare l’aiuto della Aventis. Allo stesso modo, quando l’EPA è
stata costretta a mettere a punto un test per misurare l’allergènicità della proteìna
Bt, ha dovuto rivolgersi al produttore per farsi inviare un campione della
molecola. Alla fine, sostenendo di non poter isolare proteìne espresse a
sufficienza nella pianta, l’azienda ha fornito un sostituto sintetico proveniente dal
battèrio Escherichia coli. Alcuni esperti hanno sottolineato che il test sarebbe stato
falsificato, perché, come abbiamo visto, «la stessa proteìna non è necessariamente
identica in una specie o nell’altra».31
* Si stima che all’epoca negli Stati Uniti lo StarLink rappresentasse l’1 per
cento delle colture di mais, cioè centocinquantamila ettari circa.
«Il grano, mai!» Alla fine il «fallimento» è costato un miliardo di dollari alla
Aventis.
Nel settembre 2004 un gelo eccezionale (-9 °C) ha colpito le praterie di Vonda,
mettendo in pericolo il grano, una parte del quale si è congelato. Per Marc il grano
è tutto, perché gli permette di vivere, naturalmente, ma anche perché lo lega
all’epopèa familiare e alla grande avventura dell’uomo. Questo cattolico
praticante, infatti, non coltiva un grano qualunque, ma ogni anno semina quattro-
cinque ettari con una varietà antica a rischio di estinzione, la Red Fife, molto
apprezzata dai panificatori artigianali. Mentre viaggiamo su un rettilineo che corre
verso l’orizzonte, *
Marc mi spiega che quando i coloni europei erano arrivati in Canada avevano
portato sementi di grano inadatte alle rigide temperature delle praterie. Poi, nel
1842, un certo David Fife, agricoltore scozzese stabilitosi nell’Ontario, ha
cominciato a seminare semi che un amico di Glasgovv aveva recuperato da un
carico di grano ucraino proveniente da Danzica.
Presto la varietà di grano rosso, battezzata appunto Red Fife, dal nome del suo
«scopritore», si diffonde nelle praterie, perché ha una grande resistenza alla
ruggine e, soprattutto, perché matura abbastanza velocemente da sfuggire al gelo
dell’autunno. Successivamente un selezionatore decide di incrociarla con la Hard
Red Calcutta, una varietà originaria dell’ìndia, per aumentarne il rendimento e la
qualità panificatrice. Nasce così la Marquis, che all’inizio del XX secolo
conquista un vasto territorio che si estende dal Sud del Nebraska al Nord del
Saskatchevvan, oggi considerato uno dei serbatoi di grano del mondo.
«Questa storia», dice Marc Loiselle, «illustra bene la grande saga del grano che
gli uomini hanno saputo portare avanti in tutto il mondo, perché lo scambio di
sementi non era ancora ostacolato dai brevetti o dai vari Terminator.» Adesso
arriviamo in un immenso campo di grano Red Fife, circondato da colture di colza
Round-up Ready che seccano sul terreno. «Prima», mi spiega l’agricoltore,
«facevo una rotazione fra le colture di grano e quelle di colza o di senape. Ma ho
dovuto smettere, perché il mio campo è stato contaminato dalla colza transgènica
del mio vicino, probabilmente trasportata dal vento. La mia agenzia di
certificazione biologica mi ha chiesto di non coltivare più colza, né altre piante
imparentate per almeno cinque anni, perché è risaputo che il seme di colza può
restare dormiente nel suolo per tutto quel tempo. In ogni caso, non credo che
riprenderò la coltivazione della colza biologica, perché è impossibile tutelarsi
dalla contaminazione.» «Non può ricorrere ad arbusti o a zone tampone, come
consigliano le autorità agricole?» gli domando.
«Non serve a nulla!» risponde Marc. «Non si possono prevenire tutti gli eventi
della natura: gli uccelli, le api, il vento... L’agricoltura lavora con gli organismi
viventi, che non sono un insieme di geni su un vetrino da laboratorio! Al contrario
di ciò che afferma la Monsanto, una volta introdotto un OGM l’agricoltore perde
la facoltà di scegliere il tipo di coltura, perché colonizzano tutto. Gli OGM
annientano la mia libertà di contadino, e non posso più seminare quello che voglio
dove voglio. Per questo eravamo pronti a tutto, purché questa sventura
risparmiasse il grano.» Dal gennaio 2002 Marc Loiselle aveva partecipato a una
class action che raggruppava la maggior parte degli agricoltori biologici del
Saskatchevvan, i quali chiedevano i danni alla Monsanto e all’Aventis per la
perdita delle proprie colture di colza.41 Il 13 dicembre 2007 la Corte suprema del
Canada respinge la richiesta per motivi tecnici, avendo stimato che l’accusa, di
cui non contesta tuttavia i fondamenti, non può essere trattata nel quadro di
un’azione collettiva, ma solo a livello individuale.
«In che cosa l’esperienza della colza poteva servire per il grano?» «La CWB ci
aveva chiesto di verificare se il gene Round-up Ready fosse in grado di passare da
una coltura di grano all’altra», mi risponde l’agronomo. «Perciò abbiamo
costruito un modello del flusso di geni che, nella colza, scaturisce da ciò che
chiamiamo ‘ponti di geni’. Abbiamo confrontato tutti gli elementi del modello,
uno per uno, e abbiamo concluso che la situazione sarebbe stata simile per il
grano, e che il flusso di geni sarebbe stato possibile.» «Non si potevano
organizzare due filiere distinte, basate sulla segregazione dei semi?» domando,
riprendendo l’argomentazione avanzata dai promotori delle biotecnologie.
Si scopre così che l’82 per cento dei professionisti contattati erano «molto
preoccupati» per l’eventuale commercializzazione del grano Round-up Ready,
perché «è impossibile avere un sistema di segregazione con una tolleranza zero».
Allo stesso modo, nel 2001 una comunicazione di servizio interna di AAC, rivolta
al segretario dell’Agricoltura Lyle Vanclief e recuperata da Greenpeace, svela che
la questione della segregazione non convince gli stessi funzionari ministeriali:
«Se il grano transgènico venisse autorizzato, sarebbe difficile e costoso
mantenerlo separato dal grano non transgènico nell’insieme delle attività di
produzione, manutenzione e trasporto», si legge nel documento.44
Guardi che cosa sta succedendo in Messico, dove le due strade si sono già
incrociate...»
12. Messico: colpo basso alla biodiversità
«La speranza degli industriali è che, con il tempo, il mercato sarà talmente
sommerso che non potrete fare più niente, se non arrendervi.»1
Le vie del centro storico erano ostruite da barricate, mentre il palazzo del
governatore, il tribunale, il congresso regionale e tutte le scuole dello Stato di
Oaxaca, considerato uno dei più poveri del Paese, erano chiusi da settimane. Il
conflitto, cominciato con uno sciopero degli insegnanti, sì era esteso a tutti i
settori della società che, riuniti all’interno dell’APPO, chiedevano
l’allontanamento di Ulises Ruiz Ortiz, governatore dello Stato. Il magnate del
partito rivoluzionario istituzionale, corrotto e dedito alle maniere forti, aveva
finito con il venire rinnegato dal proprio schieramento politico.
«Ho lavorato per quindici anni con le comunità indie della regione di Oaxaca,
a cui insegnavo analisi ambientale», risponde il biologo, lui stesso di origine
messicana e per molti anni alle dipendenze dell’azienda svizzera Sandoz (poi
della Novartis e dopo ancora della Syngenta). «David Quist, un mio studente, è
andato a tenere un seminario sugli OGM.
«Da due punti», mormora. «Innanzitutto da alcuni colleghi di Berkeley, con cui
mi ero già scontrato in passato riguardo a un contratto di venticinque milioni di
dollari che il mio dipartimento di biologia aveva firmato nel 1998 con la Novartis-
Syngenta, miei ex datori di lavoro. Quel contratto quinquennale dava diritto
all’azienda di depositare brevetti per un terzo delle nostre scoperte. Quella storia
aveva creato due fazioni a Berkeley, due concezioni antagoniste della scienza: da
un lato quelli che, come me, vogliono che rimanga indipendente, dall’altro quelli
pronti a vendere l’anima per ottenere finanziamenti.» Nel giugno 2002 la rivista
New Scientist identifica questi «colleghi», che nel dicembre 2001 scrivono una
lettera minatoria aNature, chiedendo di rinnegare l’articolo. Una cosa inaudita.
Sono Matthevv Metz, già citato, Nick Kaplinsky, Mike Freeling e Johannes
Futterer, un ricercatore svizzero al servizio di Wilhelm Gruissem, «unanimemente
considerato l’uomo che aveva portato a Berkeley la Novartis».11
«Ma il peggio è venuto dalla Monsanto», afferma Chapela, «che tra l’altro ha
ricevuto una copia del nostro studio prima [corsivo mio] della pubblicazione.» I
«colpi bassi della Monsanto» L’azienda di Saint Louis ha dato il meglio di
sé, nonostante la storia che sto per raccontare abbia dell’incredibile. Il giorno
stesso della pubblicazione dell’articolo di Chapela e Quist su Nature, cioè il 29
novembre 2001, una certa Mary Murphy, evidentemente bene informata, invia
una e-mail al sito scientifico prò OGM AgBioWorld, in cui scrive: «Gli attivisti
spargeranno la voce che il mais messicano è stato contaminato da geni di mais
OGM. [... ] Da notare che l’autore dell’articolo di Nature, Ignacio H. Chapela, fa
parte del Pesticìde Action Netvvork North America (PANNA), un gruppo di
attivisti, per l’appunto. [... ] Non è esattamente quello che si dice un autore
imparziale».12
Lo stesso giorno una certa Andura Smetacek invia allo stesso sito una e-mail
con oggetto «Ignatio [sic] Chapela: più attivista che scienziato», in cui afferma:
«Purtroppo la recente pubblicazione sulla rivista Afatare di una lettera (e non di
un articolo di ricerca sottoposto all’analisi scientifica di scienziati indipendenti)
dell’ecologista di Berkeley Ignatio [sic]
«Come spiega che il dottor Ezcurra abbia firmato uno studio che contraddìce a
tal punto i suoi precedenti lavori?» «Solo lui lo sa», mi risponde cauta la biologa.
«Posso soltanto dire che abbiamo cominciato quei lavori insieme e che poi sono
stata allontanata.
«Vi mostrerò delle foto di piante di mais che abbiamo scattato nella nostra
regione», spiega Aldo all’assemblea. «Vorrei sapere se avete già visto questo tipo
di piante nella vostra comunità. Come vedete, succedono cose strane: questa
pianta, per esempio, ha un ramo qui e un altro qui...
Di solito una pianta di mais non è così: c’è sempre una foglia da cui esce una
sola pannocchia, ma guardate bene, ci sono tre pannocchie che escono dalla stessa
foglia. Sono dei veri mostri! In generale, abbiamo incontrato questo tipo di piante
ai margini di una strada, nei giardini... È possibile che qualcuno sia andato a
comprare del mais in una drogheria e abbia perso qualche chicco per strada.
Questi chicchi hanno germinato e così il mais tradizionale è stato contaminato.»
«Ho avuto una pianta simile l’anno scorso», dice un giovane contadino. «L’ho
fatta vedere agli anziani, che mi hanno detto di non averla mai vista prima. È una
nuova malattia?» «Sì... » risponde Aldo. «Ma il problema è che non si può
curare... » «Se ho capìto bene», interviene un altro, «o riusciamo a fermare questa
proliferazione nei nostri campi, o presto saremo costretti a comprare i semi
di mais, perché il nostro non darà più niente. È molto preoccupante, ma che cosa
si può fare?» «La prima raccomandazione è che se trovate una pianta strana,
bisogna subito strapparne la spighetta, per evitare che emetta polline e contamini
il resto del campo. In generale, dovete stare molto attenti e sorvegliare da vicino il
mais... » «Se la contaminazione si diffonde, quali possono essere le
conseguenze?» domando.
«Sarà la fine del mais criollo, ma anche di tutta l’economia rurale che lo
riguarda», risponde Aldo. «Più ci penso, più mi convinco che tutto ciò sia
intenzionale, perché alla fine dalla contaminazione ci guadagnano solo le
multinazionali come la Monsanto. Quando tutto sarà contaminato, l’azienda potrà
mettere mano sul cereale più coltivato del mondo e incassare i diritti, come in
Argentina o in Brasile... » Infatti, la contaminazione degli OGM non riguarda solo
l’America del Nord e il Messico, ma anche l’America del Sud, in particolare
l’Argentina, dove in qualche anno la soia transgènica è diventata la prima risorsa
economica del Paese e, probabilmente, anche la sua prima maledizione.
13. In Argentina: la soia della fame
«Il continuo aumento delle superfici coltivate è una dimostrazione dei vantaggi
portati dalle colture transgèniche, e soprattutto dell’effetto positivo
sull’ambiente.» Monsanto, The Pledge Report 2005, p. 18
Nelle due ore di colloquio che ho avuto con lui non ha mai smesso di vantare i
meriti agricoli e finanziari della soia Round-up Ready, ammettendo tuttavia che il
comportamento dell’azienda di Saint Louis è vile e inspiegabile.
«La Monsanto non ha mai potuto far brevettare il gene Round-up Ready in
Argentina, perché le nostre leggi non lo permettono», mi spiega Miguel Campos.
«L’azienda ha quindi accettato di rinunciare ai diritti sulle sementi e si è
impegnata a non perseguire penalmente i contadini che riseminavano una parte
del raccolto, come fanno da sempre in tutta legalità. Oggi la Monsanto torna sulle
proprie promesse, esigendo tre dollari per tonnellata di grano o di farina di soia in
partenza dai porti argentini, o quindici dollari all’arrivo dei carichi nei porti
europei. È inammissibile!» Colpo basso all’Argentina Miguel Campos ha
l’espressione dell’alunno modello ingiustamente maltrattato dall’adorato maestro.
Infatti, se c’è un Paese in cui la multinazionale ha potuto fare ciò che ha voluto
senza il minimo ostacolo, è proprio l’Argentina. Quando incontro Campos la metà
delle terre coltivate sono seminate con soia transgènica, cioè quattordici milioni di
ettari e trentasette milioni di tonnellate di raccolto, il 90 per cento delle quali
vengono esportate soprattutto verso l’Europa e la Cina. Se la Monsanto
raggiungerà i propri scopi, guadagnerà centosessanta milioni di dollari all’anno
per le sole esportazioni europee.
«Lei non crede che sia stata una trappola?» domando a Miguel Campos.
Tuttavia, dieci anni prima l’avventura transgènica era cominciata come una
fiaba nel Paese dei bovini e dei gauchos. Quando nel 1994 la FDA autorizza la
commercializzazione della soia Round-up Ready nell’America del Nord, è ormai
chiaro che la Monsanto vuole anche il Sud. Obiettivo: il Brasile, secondo
produttore mondiale di soia. Ma l’affare è ben lontano dal concludersi, visto che
la Costituzione brasiliana esige che le colture transgèniche siano sottoposte a test
preliminari sull’effetto ambientale prima di autorizzarne la «liberazione». Allora il
gigante di Saint Louis dirotta le proprie attenzioni Sull’Argentina, dove il governo
di Carlos Menem, così come l’amministrazione Bush, ha in mente una sola
parola: «deregolamentazione». L’uomo dalle lunghe basette - che nel 2007 vive in
esilio in Cile per sfuggire a due accuse di corruzione legate a un traffico d’armi -
si è impegnato, nei dieci anni di incarico (1989 - 1999), a portare a termine il
lavoro da tempo iniziato dalla dittatura militare (1976 - 1983): smantellare ciò che
rimaneva dello Stato argentino, privatizzando e aprendo le porte del Rio de la
Plata ai capitali esteri. Questa politica ultraliberale ha colpito in pieno il settore
agricolo, i cui meccanismi di protezione sono stati annientati, sottoponendo così
la produzione alle sole leggi di mercato.
La Monsanto non si è sbagliata a buttarsi nella mischia fin dai primi anni
Novanta, diventando l’interlocutore privilegiato della Commissione nazionale di
consiglio della biotecnologia agricola (CONABIA), creata da Menem nel 1991
per dare all’Argentina una parvenza di regolamentazione in materia di OGM. La
commissione, dipendente dal ministero dell’Agricoltura, dell’allevamento, della
pesca e dell’alimentazione e con statuto consultivo, è costituita esclusivamente da
rappresentanti di organismi pubblici, come l’istituto nazionale delle sementi
(INASE) o l’istituto nazionale della tecnologia agricola (INTA), e da operatori
privati dell’industria biotecnologica come la Syngenta, la Novartis e naturalmente
la Monsanto. In realtà, le decisioni della CONABIA si ispirano direttamente al
dispositivo nordamericano, poiché fin dalle origini adotta il principio di
equivalenza sostanziale, come afferma anche il suo sito: «La norma argentina si
basa sulle caratteristiche e sui rischi identificati del prodotto biotecnologico, e non
sul processo che ha permesso di ottenere tale prodotto». In pratica, la
commissione si limita ad analizzare i dati forniti dalle multinazionali, e se
vengono realizzati esperimenti è solo per testare l’adattabilità delle sementi
transgèniche alle condizioni agronomiche argentine.
A partire dal 1994 la Monsanto vende licenze alle principali aziende di sementi
del Paese, come la Nidera o la Don Mario, che si incaricano di introdurre il gene
Round-up Ready nelle varietà del loro catalogo. Per una fortunata coincidenza, i
due principali quotidiani del Paese, La Nación e soprattutto Clarìn (che gode della
maggiore tiratura nazionale), si impegnano a promuovere - alcuni parlano di
«propaganda» - la biotecnologia* riducendo gli oppositori, anche i più moderati,
al rango di esaltati antiprogresso o «luddisti», come dice Dan Glickman (vedi
Capitolo 8). A colpi di editoriali, quindi, vengono esaltati i meriti della
rivoluzione biotecnologica, con argomentazioni che ricordano quelle di una certa
azienda del Missouri: «Con gli OGM la scienza ha dato un contributo decisivo
alla guerra contro la fame nel mondo», dichiara Carlos Menem a una rivista di
settore.1 «Le biotecnologie permettono di avere raccolti di maggiore qualità, oltre
che una migliore produttività e un’agricoltura sostenibile che tutela l’ambiente»,
garantisce da parte sua William Konsinsky, l’«educatore alle biotecnologie» della
Monsanto.2
Da fonti ufficiali, negli anni 1996 - 1997 e 2001 - 2002 il numero di tambos, le
aziende agricole che producono latte, si è ridotto del 27 per cento, e per la prima
volta nella sua storia il Paese dei bovini ha dovuto importare latte dall’Uruguay.
Allo stesso modo, la produzione di riso è crollata del 44 per cento, quella di mais
del 26 per cento, di girasole del 34 e di carne suina del 36 per cento. Si registra
nel frattempo un aumento del prezzo dei prodotti di consumo di base: nel 2003,
per esempio, il prezzo della farina è aumentato del 162 per cento, quello delle
lenticchie - molto apprezzate nella cucina nazionale - del 272 per cento e del riso
del 130 per cento. «L’argentino medio mangia molto peggio di trent’anni fa»,
sottolinea Walter Pengue. «L’aspetto ‘divertente’ è che ci invitano a sostituire il
latte di mucca e la carne di manzo, che hanno sempre fatto parte
dell’alimentazione nazionale, con latte e bistecche di soia... » L’affermazione
dell’agronomo argentino non è una barzelletta di cattivo gusto, ma rispecchia la
realtà. In un Paese in cui il dulce de leche e la carne de vaca sono parte essenziale
del patrimonio culturale, lo stesso ministro dell’Agricoltura, Miguel Campos, è
pronto a fornire l’indirizzo di «un buon ristorante sojero» a Buenos Aires. Esalta
inoltre la generosità del programma Soja Solidaria lanciato nel 2002
dall’AAPRESID, che decide di «aiutare» a suo modo i dieci milioni di emarginati
che soffrono di malnutrizione, di cui uno su sei è un bambino. L’idea è semplice:
«Regalare un chilogrammo di soia per ogni tonnellata esportata». La campagna
ottiene il supporto dei media, che non esitano a presentare Soja Solidaria come
un’«idea brillante che cambierà la storia».4 Quanto all’incorreggibile Héctor
Huergo, incoraggia il governo a «sostituire i prògrammi attuali di aiuti sociali con
una catena solidale a costo zero, grazie a una rete di distribuzione della soia, uno
degli alimenti più completi che dobbiamo far entrare nella nostra cultura».5
Pertanto, i promotori degli OGM non lesinano sui mezzi: grazie al gasolio
gentilmente fornito dalla Chevron-Texaco, vengono consegnati carichi di soia a
centinaia di mense popolari e scolastiche dei quartieri poveri e delle bidonville,
agli ospizi, agli ospedali e a tutte le opere di carità. Un po’ in tutto il Paese si
creano laboratori o centri di volontariato - all’Università cattolica di Cordoba si
parla persino di «brigatisti della soia» - per insegnare ai «cuochi» come produrre
il «latte», gli hamburger e le bistecche di soia. Il sito nutri.corn rende noto che a
Chimbas, ai confini della provincia di San Juan, un «programma municipale» ha
permesso di «formare al consumo della soia» seimila persone, e mille volontari
sono stati mobilitati per distribuire latte di soia a dodicimila bambini.
Dario Gianfelìci è più formale e scientifico: «Con molti colleghi della regione
abbiamo constatato un aumento significativo delle anomalie nella fecondità, come
aborti o morti fetali premature, disfunzioni della tiroide e dell’apparato
respiratorio, come gli edemi polmonari, oppure renali endocrine, e malattie
epatiche e dermatologiche o problemi oculari gravi. Molto preoccupanti sono
anche gli effetti che possono avere i residui di Round-up ingeriti dai consumatori
di soia, perché sappiamo che alcuni surfattanti sono perturbatori endocrini. Nella
regione si constata una quantità significativa di criptorchidìe e ipospadìe* nei
giovani maschi, oltre a disfunzioni ormonali nelle ragazze, alcune delle quali
hanno le mestruazioni dall’età di tre anni... » Sono rari quelli che, come Dario
Gianfelìci, osano pronunciarsi contro gli effetti devastanti della politica della soia.
Alcune organizzazioni come Greenpeace o gli ecologisti radicali del Gruppo di
riflessione rurale (GRR) avevano denunciato la commercializzazione degli OGM,
sottolineando i pericoli della biotecnologia, ma i loro sforzi erano stati vani.
* Stati sono composti fosfati che si legano ad alcuni metalli, per esempio il
ferro, e ne impediscono l’assorbimento nell’intestino.
Luis parla con cognizione di causa: nel febbraio 2003 viene contattato da
alcuni contadini della Colonia Loma Senes, una comunità rurale della provincia di
Formosa situata al confine con il Paraguày. Cercavano disperatamente un esperto
per valutare i danni provocati sulle loro colture a uso alimentare da un’irrorazione
di Round-up e di 2,4-D, precisamente su un campo di trenta ettari, invaso dalla
famosa «soia ribelle». La soia apparteneva a un vicino che viveva a Paranà ma
che affittava la terra a un’azienda della provincia di Salta, la quale subappaltava
semina e irrorazioni a un’altra azienda ancora...
«Così hanno seminato zizzania», racconta Luis, «ma alla fine non abbiamo
accettato, perché queste terre sono della comunità, non appartengono a nessuno in
particolare. E poi dove saremmo andati? Qui la vita è dura, ma almeno riusciamo
a mangiare ogni giorno.» Nel cortile di terra battuta razzolano polli e anatre,
insieme con un gruppetto di maiali neri.
«Sì, ma non abbiamo molto peso... » Per rendersi conto della portata della
catastrofe basta prendere la ruta nacional 16 in direzione di Salta o del Chaco.
Tronchi d’albero vengono regolarmente accatastati al margine della strada. A
volte una fumata nera tradisce l’attività dei carboneros (carbonai), in genere
piccoli contadini che hanno finito con il lasciare le loro terre e prestare la loro
opera per sopravvivere.
Cinismo assoluto: cacciati dalla belva che ora si sono ridotti a nutrire.
Petrona Talavera è una donnina con uno sguardo di una dolcezza infinita, che
ha scoperto a proprie spese come la soia transgènica sia un nemico mortale. Per
incontrarla, nel gennaio 2007, viaggio otto ore, da Asunción, la capitale del
Paraguày, al confine argentino. Fino a Iguazu la ruta nacional 7 attraversa un
paesaggio di pampa verdeggiante in cui pascolano immense mandrie di bestiame,
disseminato di palme e di colline coperte di boschi. Poi ci si dirige verso
Encarnación, nel dipartimento di Itapuà. Centinaia di ettari di soia Round-up
Ready si estendono a perdita d’occhio a nord, verso il vicino Brasile, e a sud fino
alla provincia argentina di Formosa.
Comincia così per Petrona una dura lotta, perché questo crimine non rimanga
impunito. Sostenuta dal Coordinamento nazionale delle organizzazioni di donne
lavoratrici e indigene (CONAMURI), si appella al tribunale di Encarnación.
Nell’aprile 2004 i due sojeros sono condannati a due anni di prigione ciascuno e a
una multa di venticinque milioni di guarani (circa quattromila euro): è la prima
volta che succede nella nazione. Nella sentenza il tribunale stabilisce che il
bambino è morto in seguito a un’intossicazione dovuta a un prodotto agrotossico,
«penetrato nelle vie respiratorie e orali, ma anche nella pelle». I due sojeros
ricorrono in appello, grazie al sostegno della Camera paraguaiana degli
esportatori di cereali e oleaginose (CAPECO), l’associazione dei grandi
produttori di soia, versione paraguaiana dell’ASA americana o dell’AAPRESID
argentina. La pena è confermata nel luglio 2006, ma i due si rivolgono alla
Cassazione.
Nel dicembre 2006 il ricorso viene rifiutato, ma quando faccio visita a Petrona,
nel gennaio 2007, sono ancora in libertà. Durante i tre anni del processo si è
creato un collettivo di ONG che organizza regolarmente azioni perché il caso non
venga insabbiato. «I sojeros sono molto potenti», sospira Petrona, «più potenti del
governo. Mi hanno minacciata di morte. Hanno pagato molti nostri vicini per
renderci la vita impossibile e costringerci ad andarcene. Ma per andare dove? In
una bidonville? Silvino aveva una compagna di classe, anche lei morta di recente
in seguito a un’intossicazione, ma la famiglia non ha sporto denuncia, per timore
della rappresaglie e per mancanza di mezzi. Quanti bambini paraguaiani sono già
morti nell’indifferenza generale?» Difficile rispondere a questa domanda. Al
ministero della Sanità la dottoressa Graciela Camarra ammette che
l’inquinamento da Round-up è diventato un vero e proprio problema di sanità
pubblica, ma per ora è impossibile censire le vittime. «Cerchiamo di mettere in
atto un sistema di sorveglianza per essere informati appena compare un caso
sospetto, ma non è facile», mi spiega. «Ho saputo dei due bambini morti dopo
avere consumato frutti irrorati di erbicìda. Poi del piccolo Antonio Ocampo
Benitez, finito anche lui sui giornali, che ha rischiato di morire dopo avere fatto il
bagno in un fiume inquinato. C’è stato un altro dramma in una comunità indigena
del dipartimento di San Pedro, dove tre bambini non hanno resistito alle
irrorazioni. Al ministero della Sanità cerchiamo di convincere i colleghi
dell’agricoltura a far applicare le regole, per un uso corretto dell’erbicìda, ma di
fronte ai sojeros nessuno può fare niente...
Per uno strano caso, il contrabbando viene organizzato nello Stato brasiliano di
Rio Grande do Sul. Le sementi vengono importate clandestinamente dalla vicina
Argentina, cosa che vale loro il soprannome di «Maradona». Sostenuta
dall’AAPRESID, l’Associazione dei produttori e commercianti di sementi dello
Stato del Rio Grande do Sul (APASSUL) organizza generose churrascadas
(grigliate) per promuovere le colture transgèniche, in barba alle autorità
pubbliche, che lasciano fare. «Non è raro vedere nei campi brasiliani tecnici
argentini venuti a dare manforte ai loro colleghi locali», scrive nel 2003 Daniel
Vernet, giornalista di Le Monde, che riporta la testimonianza di Odacir Klein, il
ministro dell’Agricoltura dello Stato di Rio Grande do Sul: «La polizia federale
effettua controlli nelle fattorie e sulle strade per multare i contravventori, e
trasmette le varie denunce alla giustizia che, quasi sempre, le ignora».1
Risultato: quando nel 2002 Luis Inàcio Lula da Silva, detto Lula, aspira per la
quarta volta alla presidenza della Repubblica, facendo una campagna contro gli
OGM, in realtà i nuovi semi sono già diffusi in tutto lo Stato di Rio Grande do
Sul, ma anche negli Stati vicini del Paranà e del Mato Grosso do Sul. Il 22
settembre 2003, nove mesi dopo l’insediamento del partito dei lavoratori al
palazzo presidenziale del Planalto, a Brasilia, la Commissione europea adotta due
regolamentazioni sulla tracciabilità e l’etichettatura degli OGM per i prodotti
alimentari destinati al consumo umano e animale. Come in Paraguày, questa
decisione minaccia direttamente le esportazioni del Brasile, incapace di
distinguere fra soia convenzionale e soia transgènica, poiché quest’ultima non
esiste ufficialmente.
Infine, ultima tappa della strategia: la raccolta dei diritti, prima in Brasile, poi
in Paraguày e in Argentina. Appena Lula legalizza le colture illegali, la Monsanto
avvia i negoziati con i produttori, gli esportatori e i trasformatori del prezioso
seme, brandendo i propri diritti di proprietà intellettuale sul gene Round-up
Ready. Di fronte alle minacce di tagliare gli approvvigionamenti di sementi,
questi non resistono a lungo: nel gennaio 2004 firmano un accordo secondo cui la
raccolta dei diritti si sarebbe effettuata quando i produttori avrebbero portato il
raccolto nei silos dei negozianti e degli esportatori di soia, come Bunge o Cargill,
il gigante americano di cui la Monsanto aveva acquistato le operazioni esterne.
L’ammontare dei diritti era fissato a dieci dollari per tonnellata nel primo anno, e
a venti dollari per il raccolto del 2004. Sapendo che nel 2003 il 30 per cento della
soia brasiliana era transgènica, per un totale di circa sedici milioni di tonnellate
raccolte, il calcolo è semplice: solo per quel primo anno, i «diritti di proprietà
intellettuale» fanno affluire centosessanta milioni di dollari nelle casse
dell’azienda di Saint Louis.
«Guardi», mi dice Jorge Galeano, «oggi la frontiera della soia arriva qui.» È
sconvolgente. Procediamo ormai su un sentiero rettilineo che corre per parecchi
chilometri. Alla nostra sinistra, verso est, soia a perdita d’occhio dalla quale
emergono rari e minuscoli boschetti. Alla nostra destra il paesaggio boschivo e
biodiversamente ricco che abbiamo attraversato per due ore abbondanti. «Meno di
due anni fa questi territori erano popolati da comunità contadine e indigene, che
hanno finito tutte con l’andarsene», mi spiega Jorge. «La tecnica dei sojeros è
sempre la stessa: prima prendono contatti con le famiglie, offrendo loro cibo e
giocattoli per il compleanno dei bambini, poi tornano e propongono loro di
affittare i campi con un contratto di tre anni. Le famiglie rimangono a vivere sul
posto, riservandosi una porzione di terra per le coltivazioni a uso familiare.
Presto, però, anche queste vengono colpite dalle irrorazioni, quindi i sojeros
propongono loro di vendere definitivamente tutte le terre. Poiché di solito queste
terre non hanno titoli di proprietà, perché destinate alla riforma agraria che non ha
mai avuto luogo, i produttori le acquistano da funzionari di Asunción e diventano
proprietari legali di terreni ‘liberi’, come dicono loro. A questo punto arrivano con
i bulldozer, che distruggono l’habitat naturale di territori molto fertili e, l’anno
dopo, avviano la monocoltura. Allora è ovvio che si parli di nuova conquista,
perché l’espansione della soia si basa sulla semplice eliminazione di comunità
umane e stili di vita.» «È un fenomeno reversibile?» «Purtroppo no! Anche
immaginando che un giorno i piccoli contadini riescano a recuperare le terre,
saranno così contaminate dai prodotti chimici che ci vorranno anni per riavere la
qualità iniziale del suolo. La soia transgènica è un vero e proprio flagello mortale,
contro cui ci opponiamo con tutte le nostre forze.»
Convinti della propria impunità, alcuni sojeros tornano alle tecniche rodate
della lunga dittatura di Stroessner, facendo semplicemente eliminare i leader
contadini troppo ingombranti. Così il 19 settembre 2005, a Mbuyapey, nel
dipartimento di Paraguari, due poliziotti tentano di fare fuori Benito Gavilàn
sparandogli alla testa. L’uomo sopravvive per miracolo, ma perde un occhio. Nei
settori confinanti con la «frontiera della soia», che i produttori cercano di spostare
sempre più verso l’interno del Paese, vengono condotte operazioni di forza allo
scopo di eliminare i piccoli produttori recalcitranti. Il 3 novembre 2004, nel
dipartimento di Alto Paranà, settecento poliziotti vengono mobilitati per espellere
duemila contadini senza terra accampati con le famiglie di fronte a
sessantacinquemila ettari di soia Round-up Ready, recentemente acquistati da
Agropeco, azienda appartenente a un paraguayano di origine tedesca e a un
investitore italiano.31 due avevano comprato l’immenso terreno dal figlio del
dittatore Stroessner, che l’aveva ottenuto manipolando la riforma agraria! Le
famiglie coltivavano una striscia di terra lungo la ruta nacional 6, e durante
l’operazione, in cui tredici contadini sono stati incarcerati, le coltivazioni e gli
accampamenti sono andati distrutti.
«Si può parlare di una vera e propria ‘soizzazione’ della zona», mi spiega
Tomàs Palau, «perché oggi, nei quattro Paesi citati sulla cartina, gli OGM della
Monsanto coprono quaranta milioni di ettari. Ma questa espansione vertiginosa,
che avviene a scapìto dei piccoli contadini della regione, rappresenta ben più di
un semplice fenomeno agricolo. È anche un vero e proprio progetto politico
egemonico e, in tal senso, lo slogan pubblicitario della Syngenta è perfetto, quasi
simile a una confessione.
Si stima che il 70 per cento circa dei migranti partano a causa della soia.
È una cifra enorme, sapendo che in generale queste famiglie finiscono nelle
bidonville o vivono in situazioni di estrema povertà. Ma al di là dei problemi
sociali creati dagli OGM, l’effetto più significativo è la perdita della sicurezza
alimentare. Lasciando le proprie terre, i piccoli contadini smettono di produrre per
se stessi, ma anche per gli altri. Dal 1995 il Paraguày è passato da un bilancio
alimentare in positivo a uno in negativo, perché oggi si importano più alimenti di
quanti se ne esportino. Ecco perché dico che la Monsanto e i suoi alleati - in realtà
concorrenti, come la Syngenta o la Novartis, che forse finiranno con il fondersi -
sono impegnati in una strategia imperialista, se non dittatoriale, che mira a
sottomettere politicamente i popoli attraverso lo strangolamento alimentare.
Nel dicembre 2006, appena arriviamo, il corteo funebre compare sulla curva di
una stradina bianca di calce, a disturbare il torpore di questo piccolo villaggio
indiano baciato dal sole. Vestiti con gli abiti tradizionali tunica e pantaloni di
cotone bianchi - i suonatori di tamburo guidano la marcia, che procede verso la
riva del fiume dove è stato preparato il rogo. In mezzo al corteo, alcune donne in
lacrime si aggrappano disperate ai ragazzi robusti dallo sguardo triste, che portano
sulle spalle una lettiga ricoperta di fiori variopinti. Colta da forte emozione,
individuo il viso giovane del morto, che spunta da un lenzuolo bianco: palpebre
chiuse, naso aquilino e baffi bruni. Non dimenticherò mai quell’immagine, che
macchia d’infamia le «belle promesse» della Monsanto.
Anil Kondba Shend, il marito della giovane vedova, aveva trentacinque anni.
Coltivava «tre acri e mezzo», cioè poco più di un ettaro di terra.
* Cioè 1090 euro (allora 1 euro equivaleva a circa 55 rupìe). Non esiste un
salario minimo in India, ma nel 2006 la maggior parte degli operai o impiegati
guadagnavano meno di seimila rupìe al mese.
«La Monsanto dice che gli OGM sono adatti ai piccoli contadini: che cosa ne
pensa?» chiedo, ripensando alle affermazioni dell’azienda nel suo Pledge Report
del 2006.
Una visione sconvolgente: una distesa di teschi ricopre quella che a Vidarbha
si chiama «cintura del cotone». «Sono tutti i suicìdi che abbiamo registrato fra
giugno 2005, data dell’introduzione del cotone Bt nello Stato del Maharashtra, e
dicembre 2006», mi spiega il leader contadino.
«Sono 1280 morti. Uno ogni otto ore! Invece questa zona bianca è dove si
produce il riso: praticamente non ci sono stati suicìdi! È il cotone Bt che sta
provocando un vero e proprio genocìdio... »*
Kate Tarak, che insieme con me vede per la prima volta quella cartina, mi
mostra un piccolo spazio senza teschi: «È il settore di Ghatanji, nel distretto di
Yavatmal», mi spiega con un sorriso. «È qui che la mia associazione promuove la
coltivazione biologica. Ci vivono cinquecento famiglie, suddivise in venti
villaggi. Come vede, non ci sono suicìdi... » «Certo, ma il suicìdio dei produttori
di cotone non è un fenomeno nuovo. Non esisteva anche prima dell’arrivo degli
OGM?» «È vero», mi risponde l’agronomo. «Ma con il cotone Bt si è
conoiderevolmente accentuato. C’è stata la stessa evoluzione nell’Andhra
Pradesh, il primo Stato ad autorizzare le colture transgèniche, prima di entrare in
conflitto con la Monsanto.»
”Non vogliamo più cotone Bt!» urla un uomo che non riesco nemmeno a
vedere.
Al che si alza una selva di mani che, per miracolo, Guillaume Martin, il
cameraman, riesce a filmare, mentre veniamo letteralmente sommersi da quella
marea umana. «Il problema», sospira Kate Tarak, «è che questi contadini
faticheranno molto a trovare sementi di cotone non transgèniche, perché la
Monsanto controlla quasi tutto il mercato.» All’inizio degli anni Novanta, mentre
guardava al Brasile, l’azienda di Saint Louis preparava minuziosamente il lancio
dei suoi OGM in India, terzo produttore mondiale di cotone dopo la Cina e gli
Stati Uniti. Pianta simbolica del Paese del Mahatma Gandhi, che ha fatto della sua
coltivazione l’emblema della resistenza non violenta all’occupazione britannica, il
cotone è coltivato da oltre cinquemila anni nel subcontinente indiano. Oggi dà da
vivere a più di diciassette milioni di famiglie, soprattutto negli Stati del Sud
(Maharashtra, Gujarat, Tamil Nadu e Andhra Pradesh).
Dal 1993, in effetti, il leader degli OGM negozia una licenza d’uso della
tecnologia Bt con la Maharashtra Hybrid Seeds Company (Mahyco), la principale
azienda di sementi dell’india. Due anni dopo il governo indiano autorizza
l’importazione di una varietà di cotone Bt coltivata negli Stati Uniti (la Cocker
312, che contiene il gene CrylAc), perché i tecnici della Mahyco possano
incrociarla con varietà ibride locali. Nell’aprile 1998 l’azienda di Saint Louis
annuncia di avere acquistato il 26 per cento delle quote della Mahyco e di avere
creato con il socio indiano una joint venture alla pari, battezzata Mahyco
Monsanto Biotech (MMB) e impegnata nella commercializzazione delle future
sementi transgèniche di cotone. Nello stesso momento il governo indiano
autorizza la multinazionale a condurre i primi esperimenti sul campo per quanto
riguarda il cotone Bt.
(marzo 2002). «La stagione scorsa, appena vedevo i parassiti andavo nel
panico. Ho irrorato pesticìdi sulle mie colture almeno venti volte, invece
quest’anno solo tre.»9
Siccome in India i brevetti sulle sementi sono (per ora) vietati, l’azienda di
Saint Louis non può applicare lo stesso sistema dell’America del Nord,
pretendendo che i contadini acquistino ogni anno le loro sementi, poiché finirebbe
in tribunale; per compensare queste «perdite», ha quindi deciso di rifarsi sui
prezzi delle sementi, quadruplicandoli: se una confezione di sementi
convenzionali da 450 grammi costa 450 rupìe, per gli OGM il prezzo sale a 1850
rupìe. Infine, osserva il collega del Washington Post, «il fastidioso verme
americano non è scomparso».
Questi risultati poco più che mediocri non impediscono a Ranjana Smetacek*
direttrice delle pubbliche relazioni della Monsanto India, di dichiarare: «Il cotone
Bt è andato molto bene nei cinque Stati dove è stato coltivato».11
Per dare corpo a questo dispositivo irreprensibile dal punto di vista scientifico,
la DDS ha unito all’iniziativa un’équipe di «sei cameravvomen scalze», per
riprendere le parole del dottor P.V. Satheesh,* fondatore e direttore
dell’associazione ecologista. Queste sei donne, tutte contadine analfabete e dalit
(«intoccabili», gli ultimi della scala sociale indiana) sono state formate come
tecnici video in un laboratorio aperto dalla DDS
Infatti, dal primo rapporto pubblicato dai due agronomi, la situazione non ha
fatto altro che peggiorare, innescando la seconda ondata di suicìdi, che presto si è
diffusa nel Maharashtra. Il governo dell’Andhra Pradesh, preoccupato, ha
condotto a sua volta uno studio che ha confermato i risultati ottenuti da Qayum e
Sakkhari.13 Consapevole delle conseguenze elettorali che un simile disastro
poteva comportare, il ministro dell’Agricoltura Raghuveera Reddy ha ordinato
alla MMB di indennizzare gli agricoltori per il fallimento delle colture, cosa che
naturalmente l’azienda non ha fatto.
Tanto più che, tralasciando tutti i dati registrati sul posto, Martin Qaim non
esita a dichiarare: «Nonostante il costo più elevato delle sementi, con il cotone
geneticamente modificato gli agricoltori hanno quintuplicato il loro reddito». Il
suo collega, David Zilberman, ha il merito di avere esposto chiaramente il vero
obiettivo dello «studio» in un’intervista al Washington Post nel maggio 2003:
«Sarebbe una vergogna se i timori di chi si oppone agli OGM impedissero ad altri
di beneficiare di questa importante tecnologia».18
Il Times of India è invece più prosàico: «Chi pagherà per il fallimento del
cotone Bt?» si interroga, ricordando che una legge indiana del 2001 sulla «tutela
delle varietà vegetali e dei diritti degli agricoltori» impone ai selezionatori di
indennizzare i contadini quando vengono «imbrogliati» con sementi che per
«qualità, rendimento o resistenza agli insetti nocivi»20 non valgono quanto
dovrebbero.
«È ciò che afferma l’azienda, e in generale è vero, anche se le cifre di cui parla
sono difficili da verificare», mi risponde l’agronomo. «Questa situazione si spiega
soprattutto con il monopolio che ha saputo stabilire in India, dove è diventato
molto difficile trovare sementi di cotone non transgèniche. È piuttosto inquietante
perché, come abbiamo riscontrato nel nostro secondo studio, la promessa che il Bt
avrebbe ridotto il consumo di pesticìdi non è stata mantenuta, anzi.» La resistenza
degli insetti alle piante Bt: una «bomba a orologeria» Kiran Sakkhari mi mostra i
risultati del secondo studio che, lo ricordo, riguarda la stagione 2005 - 2006. Se
durante la stagione 2002 - 2003, cioè nell’anno successivo all’introduzione delle
sementi Bt, il consumo di insetticìda era lievemente inferiore per il cotone
transgènico rispetto al cotone convenzionale, tre anni dopo la «bella promessa» è
definitivamente scomparsa: le spese per i pesticìdi sono state, in media, di 1311
rupìe per acro per i produttori di cotone convenzionale, e di 1351 rupìe per quelli
di cotone OGM. «Questo risultato non ci ha sorpreso, e può solo peggiorare»,
mi spiega il dottor Abdul Qayum, «perché qualunque agronomo o entomologo
serio sa che gli insetti sviluppano una resistenza ai prodotti chimici. Il fatto che le
piante Bt producano di continuo la tossina insetticìda è come una bomba a
orologeria, di cui un giorno si pagherànno le conseguenze, che rischiano di essere
molto gravi dal punto di vista sia economico, sia ambientale.» L’eventualità che i
parassiti del cotone (o del mais) sviluppassero una resistenza alla tossina Bt è
stata sollevata ancora prima che la Monsanto mettesse i suoi OGM sul mercato.
Dalla metà degli anni Novanta la strategia della multinazionale, in accordo con
l’EPA, prevedeva che i produttori di piante Bt si impegnassero contrattualmente a
conservare campi di colture non Bt, chiamati «rifugi», da cui prelevare gli insetti
«normali» e farli incrociare con i cugini ormai resistenti al Bacillus thuringiensis,
provocando così una «diluizione genetica». Effettivamente, gli insetti inondati da
una dose di veleno a priori mortale vengono tutti sterminati, tranne quelli dotati di
un gene che resiste alla sostanza velenosa. I sopravvissuti si accoppiano con i
propri congeneri, trasmettendo così il famoso gene alle prossime generazioni. È la
«coevoluzione», che nel corso della lunga epopea dei viventi ha permesso a
specie minacciate di estinzione di adattarsi per sopravvivere al flagello.
Per l’azienda di Saint Louis è sempre troppo, come afferma Daniel Charles nel
suo Lords of the Harvest: «La Monsanto ha reagito dicendo: ‘Così non potremo
sopravvivere’, dice Scott McFarland, un avvocato che ha seguito il dossier molto
da vicino. La multinazionale contatta allora l’Associazione nazionale dei
produttori di mais, che ha sede a Saint Louis. Questa riesce a convincere i suoi
rappresentanti che ‘grandi rifugi costituirebbero una minaccia per la libertà degli
agricoltori di usare le sementi Bt’».25 Così fino al settembre 1998, quando le parti
si incontrano a Kansas City per trovare un accordo. Mentre i dibattiti si
susseguono in una lotta all’ultima percentuale, un economista dell’Università del
Minnesota, specializzato in agricoltura, dimostra che, secondo le sue stime, se i
rifugi saranno grandi solo il 10 per cento delle colture transgèniche, le piralidi - il
parassita del mais Bt - avranno il 50 per cento di possibilità di sviluppare una
resistenza a breve termine, e ciò costerà molto caro ai contadini. Loro, punti sul
vivo, cioè il portafoglio, stanno dalla parte degli entomologi.
«Questo dimostra come gli OGM, che rappresentano l’ultimo flagello della
rivoluzione verde, siano stati inventati soprattutto per i grandi agricoltori dei Paesi
del Nord.»
16. Come le multinazionali controllano gli alimenti del
mondo
Per vent’anni questo agronomo, che oggi è un fervido difensore degli OGM,
ha avuto un’unica ossessione: aumentare la produttività del grano, creando varietà
che permettano di decuplicarne il rendimento. Per riuscirci ha avuto l’idea di
incrociare le varietà del CIMMYT con una varietà giapponese nana, la Norin 10.
Aumentare il rendimento significa costringere la pianta a produrre semi più grossi
e in maggiore quantità, con il rischio di rompere il gambo. Da qui l’astuzia di
«accorciare le cannucce», come detta il gergo dei selezionatori, introducendo un
gene di nanismo.*
* L’espressione è stata utilizzata per la prima volta l’8 marzo 1968 da William
Gaud, direttore della USAID, in un discorso pronunciato a Washington.
Così nel giro di un secolo il rendimento del grano passa da dieci quintali
all’ettaro (1910) a una media di ottanta quintali, mentre la dimensione delle
spighe perde quasi un metro di altezza. A questo boom si accompagna però un
altro incremento, denunciato dai detrattori della rivoluzione verde: il maggiore
consumo di prodotti fitosanitari, senza i quali le «sementi miracolose», come sono
state soprannominate dal CIMMYT, non servono a nulla. Infatti, per riuscire a
produrre una quantità tale di semi, la pianta deve essere letteralmente rimpinzata
di concìmi (azoto, fosforo, potassio), trattamento che con il tempo provoca un
indebolimento della fertilità naturale dei terreni. Inoltre, deve essere
abbondantemente innaffiata, cosa che riduce le riserve d’acqua. Del resto,
l’estrema concentrazione vegetale è un paradiso per gli insetti infestanti e i
funghi, da cui l’uso massiccio di insetticìdi e fungicìdi. Infine, l’ossessione del
rendimento ha causato un calo generale della qualità nutrizionale dei semi,
nonché una riduzione della biodiversità del grano, di cui numerose varietà sono
semplicemente scomparse.
Negli anni Sessanta, consapevole delle perdite legate alla promozione delle
varietà ad alto rendimento, il CIMMYT ha aperto una «banca del germoplasma»,
in cui oggi vengono conservate, a circa 3 °C sotto zero, centosessantaseimila
varietà di grano. Per alimentare questo «tesoro» i collaboratori ispezionano le
campagne del mondo in cerca di specie rare, come quelle di grano selvatico
ritrovate sul confine iraniano della Mezzaluna fertile, che i tecnici stavano
etichettando nel periodo in cui visitavo il centro.
Eppure, le varietà nane del CIMMYT hanno fatto il giro del mondo: nei Paesi
del Nord, compresi quelli comunisti, i selezionatori le hanno usate nei programmi
di incroci. Al Sud, con l’ìndia in testa, hanno inviato tecnici a formarsi presso il
centro messicano, soprannominato la «Scuola degli apostoli del grano». Nel 1965
una siccità eccezionale colpisce il raccolto di grano nel subcontinente indiano, e la
carestìa è alle porte. Il governo di Indirà Gandhi decide di acquistare diciottomila
tonnellate di sementi ad alto rendimento importate dal Messico. È il più grande
trasferimento di sementi mai compiuto nella storia. Gli agronomi indiani
propagano la rivoluzione verde nelle regioni del Punjab e dell’Haryana,
considerate il granaio dell’india. Sono sostenuti finanziariamente dalla
Fondazione Ford, che fornisce trattori e macchine agricole.
Allo stesso tempo le varietà di riso ad alto rendimento vengono introdotte nel
Paese su richiesta dell’International Rice Research Institute (IRRI), creato nel
1960 dalle fondazioni Rockefeller e Ford sul modello del CIMMYT.
«Si dice sempre che grazie alla rivoluzione verde l’india abbia raggiunto
l’autosufficienza alimentare, e che in cinque anni, dal 1965 al 1970, la produzione
di grano sia passata da dodici a venti milioni di tonnellate», mi spiega Vandana
Shiva, che è anche autrice, insieme con altri, di Seeds of Suicide (Semi del
suicìdio).3 «Oggi il Paese è il secondo produttore mondiale di grano, con
settantaquattro milioni di tonnellate, ma a quale prezzo? Terreni stremati, una
preoccupante riduzione delle riserve d’acqua, un inquinamento generalizzato,
un’estensione delle monocolture a scapìto delle colture a uso alimentare e
l’esclusione di decine di migliaia di piccoli contadini, che hanno raggiunto le
bidonville perché non riuscivano a integrarsi in un modello agricolo
estremamente costoso. La prima ondata di suicìdi segna il fallimento della prima
rivoluzione verde. Purtroppo, la seconda rivoluzione verde, quella degli OGM,
sarà ancora più mortifera, anche se in linea con la prima.» «In che cosa sono
diverse?» «La differenza è che la prima rivoluzione verde era diretta dal settore
pubblico: le agenzie governative controllavano la ricerca e lo sviluppo agricolo.
La seconda, invece, è diretta dalla Monsanto. L’altra differenza è che la prima
aveva l’obiettivo di vendere più prodotti chimici e macchine agricole, ma la
motivazione principale era fornire più alimenti e garantire la sicurezza alimentare.
In fin dei conti, anche se questo è andato a scapìto di altre colture, come le
leguminose, sono stati prodotti più riso e più grano per nutrire le persone. La
seconda rivoluzione verde non ha nulla a che vedere con la sicurezza alimentare.
Il suo unico scopo è aumentare i profitti della Monsanto, che è riuscita a imporre
la propria legge un po’ in tutto il mondo.» «Qual è la legge della Monsanto?»
«Quella dei brevetti. L’azienda ha sempre affermato che la manipolazione
genetica è un mezzo per ottenere dei brevetti. Se osserviamo la strategia di ricerca
che applica in India, notiamo come stia testando una ventina di piante in cui ha
introdotto geni Bt: la senape, il gumbo, la melanzana, il riso e il cavolfiore... Una
volta che avrà imposto come norma il diritto di proprietà sui semi geneticamente
modificati, potrà incassarne i diritti; così dipenderemo da tale norma per ogni
seme che seminiamo e ogni campo che coltiviamo. E se controlla le sementi,
controlla anche il cibo. È questo il suo obiettivo. Il cibo è più potente delle
bombe, più delle armi, ed è il mezzo migliore per controllare le popolazioni del
mondo.» «Eppure, in India è vietato brevettare le sementi», ribatto, sconvolta dal
quadro appena descritto da Vandana Shiva.
* Questo brevetto era stato ottenuto dalla texana RiceTec (n. 5663454).
È una negazione del lavoro e del knovv-hovv di milioni di persone che hanno
sostenuto la biodiversità della vita da millenni, e che quindi vivono di questo.»
«Quali sono le conseguenze dei brevetti sugli organismi viventi per le popolazioni
del Sud?» chiedo, affascinata dalla sua chiarezza di idee.
Il GATT è stato voluto nel 1947 dalle grandi potenze capitaliste dell’epoca,
allo scopo di regolare i diritti doganali sul commercio internazionale. Nel 1986 si
apre la conferenza ministeriale di Punta del Este, inaugurando quello che passerà
alla storia come l’«Uruguay Round», poiché segna una svolta decisiva nella storia
del GATT, decretandone la morte.
È soprattutto il caso del famoso accordo TRIPS, di cui si verrà a sapere che «è
stato in gran parte concepito da una coalizione di aziende riunite sotto il nome di
Intellectual Property Committee (IPC), e che comprende i «principali operatori
del campo delle biotecnologie», come sottolineano gli universitàri canadesi.8
L’IPC, creato nel marzo 1986 negli Stati Uniti, riunisce tredici multinazionali
appartenenti principalmente ai settori chimico, farmaceutico e informatico:
Bristol-Myers, DuPont, FMC Corporation, General Electric, General Motors,
Hevvlett-Packard, IBM, Johnson and Johnson, Merck, Pfizer, Rockvvell
International, Warner Communications e naturalmente la Monsanto.
Dopo avere venduto questi concetti da noi, siamo andati a Ginevra per
presentare il documento alla segreteria del GATT. L’industria considera il
commercio internazionale un problema molto grave. Immagina una soluzione, ne
trae una proposta concreta e la vende ai vari governi. Le industrie e gli operatori
del commercio mondiale assumono a turno il ruolo del paziente, del medico che
emette la diagnosi e del promotore.»10
Nonostante questa lobbying collettiva condotta con mano esperta, nei molti
settori coperti dall’accordo TRIPS (diritti d’autore, marchi di fabbrica, appellativi
d’origine, disegni e modelli industriali, informazioni non divulgate, compresi i
segreti commerciali), è proprio la Monsanto a inceppare, dal 1995, l’implacabile
macchina dell’OMC. Per la precisione, con l’articolo 27.3(b), relativo agli
«oggetti brevettabili». Che cosa dice questa clausola controversa? Ecco il testo
ufficiale: «I membri potranno escludere dalla brevettabilità i vegetali e gli animali
diversi dai microrganismi, i processi essenzialmente biologici per l’ottenimento di
vegetali o animali diversi dai processi non biologici e microbiologici. Tuttavia, i
membri provvederanno alla protezione delle varietà vegetali mediante brevetti,
con un sistema sui generis efficace o mediante una combinazione dei due mezzi.
Le disposizioni del presente paragrafo saranno riesaminate quattro anni dopo la
data di entrata in vigore dell’accordo».
«Qual è l’articolo che pone problemi?» insisto, per vedere se avevo capìto
bene il linguaggio astruso dell’OMC.
«Lo scopo dell’accordo TRIPS è che un brevetto ottenuto negli Stati Uniti, per
esempio dalla Monsanto, sia applicabile automaticamente ovunque nel mondo»,
mi aveva spiegato Devinder Sharma un mese prima a Nuova Delhi. Questo
giornalista indiano, dirigente del Forum per la sicurezza della biotecnologia e
dell’alimentazione, è uno strenuo oppositore dell’OMC: «L’evoluzione
internazionale del sistema dei brevetti segue esattamente quella dell’Ufficio
americano dei brevetti. Con l’accordo TRIPS tutti i Paesi dovranno seguire il
modello degli Stati Uniti, pena sanzioni commerciali pesanti, perché l’OMC
dispone di un potere di coercizione e di rappresaglia esorbitante. Ciò significa che
se un Paese non fa rispettare i diritti di proprietà intellettuale della Monsanto, per
esempio su una semente brevettata, la multinazionale si rivolgerà al governo
americano, che farà causa presso l’organo di regolamentazione dell’OMC.
D’altronde, l’accordo TRIPS è stato concepito dalle multinazionali per
impadronirsi delle risorse genetiche del Pianeta, soprattutto dei Paesi del terzo
mondo che detengono la maggiore biodiversità. L’India è particolarmente colpita,
perché è uno dei Paesi detti mega-diverse [ad alta biodiversità], in cui si contano
quarantacinquemila specie di piante e ottantunomila specie animali. Ecco perché
siamo in molti a dire che il settore degli organismi viventi non riguarda l’OMC,
ma dipende dalla convenzione sulla biodiversità firmata nel 1992 a Rio de Janeiro
sotto l’auspicio dell’ONU. Questo trattato, firmato da duecento Paesi, dichiara
che le risorse genetiche sono proprietà esclusiva degli Stati, che devono
impegnarsi a preservarle e a organizzare una suddivisione equa dello sfruttamento
delle competenze tradizionali a loro legate».
Per chiunque ritenga che queste parole siano eccessive, citerò un rapporto
dell’ONU pubblicato nel giugno 2000 dalla sottocommissione per la promozione
e la protezione dei diritti dell’uomo: «La maggior parte del commercio mondiale
è controllato da potenti aziende transnazionali. In un contesto simile, la nozione di
libero scambio sottostante alle regole [dell’OMC] è un inganno. [...] Il risultato è
che per certi gruppi dell’umanità, in particolare i Paesi in via di sviluppo del Sud
del mondo, l’OMC rappresenta un vero e proprio incubo».11
Conclusioni
Un colosso con i piedi d’argilla «La gente di quest’azienda è veleno allo stato
puro: si prendono le vite, come fa il dio della morte.» Una contadina di Pastapur,
nell’Andhra Pradesh La scena che sto per descrivere si svolge nel luglio 2006
presso la sede della Teachers Insurance and Annuity Association, College
Retirement Equities Fund (TIAA-CREF) di New York, nei bei quartieri di
Manhattan.
(81 per cento), Gallup Poli (68 per cento), Grocery Manufacturers of America
(92 per cento), Time Magazine (81 per cento), Novartis (93 per cento),
Oxygen/Market-Pulse (85 per cento).
863.» «Le falle del sistema di regolamentazione»: l’esempio del mais MON
863
Mentre il governo francese annuncia, nel gennaio 2008, che attiverà delle
«clausole di tutela» per il mais MON 810, sospendendo la coltivazione di questo
mais Bt della Monsanto finché l’Unione europea non ne avrà riesaminato
l’autorizzazione, vorrei ricordare la storia del MON 863, un cugino del MON
810: il MON 863 contiene una tossina (Cry3Bbl) che avrebbe dovuto proteggerlo
dalla crisomelide delle radici del mais,* mentre il MON 810 è stato manipolato
(CrylAb) per resistere agli attacchi della piralide.
Il caso del MON 863 illustra perfettamente il modo a dire poco preoccupante
in cui sono regolamentati gli OGM in Europa.
Tutto comincia nell’agosto 2002, quando l’azienda di Saint Louis inoltra una
richiesta di commercializzazione presso le autorità tedesche, a cui consegna un
dossier tecnico che comprende uno studio tossicologico condotto per novanta
giorni su dei topi. In conformità con la regolamentazione europea (vedi Capitolo
9), le autorità esaminano i dati forniti dalla Monsanto, poi trasmettono un parere
negativo alla Commissione di Bruxelles, perché l’OGM contiene un indicatore di
resistenza a un antibiotico che infrange la direttiva 2001/18, che ne sconsiglia
fortemente l’utilizzo. La Commissione è allora tenuta a distribuire il dossier agli
Stati membri, per raccogliere pareri che saranno poi esaminati dalla European
Food Safety Authority (EFSA), il comitato scientifico europeo incaricato di
valutare la sicurezza alimentare degli OGM.
Eppure, il caso torna alla carica il 19 aprile 2004, quando l’EFSA, per
l’appunto, emette un parere favorevole alla commercializzazione del MON 863.
Secondo l’EFSA, le anomalie osservate dalla CGB «rientrano nella variazione
normale delle popolazioni di controllo»; quanto alle malformazioni renali, sono
«di un’importanza minimale».6
Come possono due comitati scientifici emettere pareri tanto diversi su uno
stesso dossier? La risposta a questa domanda è data dalla sezione europea di
Friends of the Earth, che nel novembre 2004 pubblica un rapporto molto
dettagliato (e inquietante) sul funzionamento dell’EFSA.7
Creato nel 2002 nel quadro della direttiva europea 178/2002 sulla sicurezza dei
prodotti alimentari, questo istituto conta otto comitati scientifici, uno dei quali è
incaricato esclusivamente della valutazione degli OGM. È proprio quest’ultimo,
che chiameremo «comitato OGM», l’oggetto del rapporto.
Secondo il rapporto, questa situazione sarebbe dovuta agli stretti legàmi fra
«certi membri» del comitato OGM e i giganti delle biotecnologie, primo fra tutti
il presidente, il professor Harry Kuiper. Lui è in effetti coordinatore di
Entransfood, un progetto sostenuto dall’Unione europea per «favorire
l’introduzione degli OGM sul mercato europeo e rendere competitiva l’industria
europea»; a questo titolo, fa parte di un gruppo di lavoro che comprende la
Monsanto e la Syngenta. Allo stesso modo Mike Gasson lavora per Danisco,
partner della Monsanto; Pere Puigdomenech è il copresidente del settimo
Congresso internazionale sulla biologia molecolare vegetale, sponsorizzato da
Monsanto, Bayer e DuPont; Hans-Yorg Buhk e Detlef Bartsch sono «noti per il
loro impegno a favore degli OGM, al punto da apparire in video promozionali
finanziati dall’industria delle biotecnologie»; fra i (rari) esperti esterni interrogati
dal comitato, c’è soprattutto il dottor Richard Phipps, che ha firmato una petizione
a favore delle biotecnologie per AgBioWorld8 (vedi Capitolo 12) e compare sul
sito della Monsanto per sostenere l’ormone della crescita bovina.9
Friends of the Earth esamina allora più casi, fra cui quello del MON
863. Pare che i dubbi espressi dal governo tedesco riguardo all’indicatore di
resistenza a un antibiotico siano stati scacciati in un lampo dal comitato OGM,
che ha fatto leva su un parere pubblicato il 19 aprile 2004 in un comunicato
stampa: «Il comitato conferma che gli indicatori di resistenza agli antibiotici sono,
nella maggior parte dei casi, necessari per permettere una selezione efficace degli
OGM», dichiarava il presidente Harry Kuiper. Commento di Friends of the Earth:
«La direttiva europea non chiede di confermare se gli indicatori di resistenza agli
antibiotici siano uno strumento efficace per l’industria biotecnologica, ma se
possano avere effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute umana».
La fine della storia è del tutto esemplare: dopo la pubblicazione del parere
positivo dell’EFSA, Greenpeace chiede al ministero dell’Agricoltura tedesco di
rendere pubblico il dossier tecnico fornito dalla Monsanto (1139 pagine), perché
sia sottoposto a una controperizia. Risposta del ministero: impossibile, la
Monsanto rifiuta che i dati siano comunicati, perché coperti da «segreto
commerciale». Dopo una battaglia giudiziaria di parecchi mesi, l’azienda di Saint
Louis sarà finalmente costretta a renderli pubblici con una decisione della corte
d’appello di Monaco il 9 giugno 2005.
«In realtà», commenta il professor Séralini, «la storia del mais MON
Peccato che il riso dorato sia finito nel dimenticatoio, perché appena è stato
coltivato in condizioni reali ha prodotto quantità irrisorie, e quindi inutili, di
betacarotene. «Non abbiamo mai capìto perché», commenta Marc Brammer, «ma
questa storia illustra bene le incognite del processo di manipolazione genetica.
Sono un rischio per la performance della Monsanto sul breve e sul lungo termine:
niente può garantire che gli OGM non saranno l’agente arancio del futuro... » Non
mi metterò certo a elencare tutte le sorprese che hanno riservato negli anni i
prodotti provenienti dalle manipolazioni genetiche, come la «scoperta», da parte
di uno scienziato belga, di un «frammento di DNA sconosciuto»16 nella soia
Round-up Ready. Mi limiterò a rimandare i lettori a un indirizzo Internet della
Commissione europea dove sono recensiti gli studi scientifici sulla sicurezza degli
OGM. Per esempio, consiglio di leggere una ricerca intitolata «I meccanismi e il
controllo della ricombinazione genetica nelle piante».16 Nella presentazione del
progetto, gli autori sottolineano: «Uno dei maggiori problemi della tecnologia
attuale è che non si può prevedere dove si integreranno i transgèni», cosa che può
«indurre mutazioni imprevedibili e indesiderabili nel genòma ospite». I ricercatori
si propongono quindi di verificare di che cosa si tratti, premettendo che gli OGM
si sono integrati nella catena alimentare senza che la questione fosse
preventivamente analizzata.
Prima sono processi intentati dalle vittime delle attività chimiche, come gli
abitanti di Anniston {vedi Capitolo 1), poi quelli dei veterani della guerra del
Vietnam (vedi Capitolo 3).
«Se la seconda class action dei veterani avesse successo, potrebbe comportare
il fallimento della Monsanto», afferma Marc Brammer nell’estate del 2006. «Per
non dimenticare i PCB, gli ormoni della crescita e il Round-up, che possono
comportare nuovi processi. Ai rischi legati alle attività chimiche presenti e
passate, si aggiungono quelli legati alla contaminazione genetica, fonte
inesauribile di potenziali contenziosi. Finora la catastrofe dello StarLink è costata
un miliardo di dollari alla Aventis.
«Sulla Monsanto incombe lo stesso pericolo che, a suo tempo, gravava sulla
Microsoft», mi spiega Marc Brammer. «Non è escluso che un giorno l’azienda
venga condannata per violazione delle leggi antitrust e antiracket americane. Se
così fosse, la pagherebbe molto cara... » Dal 1999 una prima class action di
agricoltori aveva attaccato la multinazionale presso il tribunale di Saint Louis,
accusandola di avere «cospirato», soprattutto con Pioneer Hi-Bred, per «fissare il
prezzo» delle sementi a un livello molto elevato. Ma le richieste dei querelanti
sono state respinte nel 2003 dal giudice Rodney Sippel, lo stesso che aveva
mostrato il dente avvelenato con i contadini accusati di avere violato il brevetto
della Monsanto {vedi Capitolo 10).26
Un anno dopo il New York Times pubblicava un’inchiesta in cui, dopo avere
incontrato «decine di proprietari» di aziende produttrici di sementi, confermava i
sospetti di «cospirazione» che gravavano sul leader mondiale degli OGM, il
quale, fra le altre cose, avrebbe avvicinato la Mycogen, un produttore di sementi
californiano, perché rinunciasse «a entrare in competizione sul prezzo delle
sementi in cambio di un accesso a certe tecnologie brevettate, secondo ex
dirigenti dell’azienda»26 (poi acquistata dalla Dovv Chemicals). In seguito queste
accuse sono state riprese in quattordici class action, depositate presso altrettanti
tribunali americani, così come affermava la stessa multinazionale nel Form 10K
del 2005.
Aggiungerò, in conclusione, che anche per noi cittadini e cittadine del buon
vecchio Pianeta Terra «la questione è molto seria». Dopo avere seguìto per
quattro anni le tracce della multinazionale di Saint Louis, credo di poter affermare
che non è più concesso dire «non sapevo», e che sarebbe irresponsabile lasciare il
nutrimento umano in certe mani. Infatti, di una cosa sono sicura: non voglio, né
per me, né per le mie tre figlie, un mondo secondo la Monsanto.
Appendice
Scrivo questa postfazione all’edizione tascabile del mio libro, pubblicata nel
marzo 2009, da una stanza d’albergo di Lima, in Perù, dove ero invitata, il 28 e 29
gennaio 2009, a partecipare a un convegno intitolato «I semi della diversità di
fronte agli OGM», organizzato da una decina di associazioni impegnate sui temi
dello sviluppo durevole e dei diritti dell’uomo.
Il problema, per Monsanto e soci, è che queste varietà non sono brevettate e
che i contadini continuano a sviluppare i propri semi, all’occorrenza scambiandoli
con i loro vicini. Ora, curiosa coincidenza, il Perù ha per l’appunto adottato, il 14
gennaio 2009, una legge che autorizza la brevettatura dei semi, il che apre la
strada agli OGM. Nello stesso tempo, il governo peruviano subiva numerose
pressioni per vietare l’etichettatura degli OGM che già entrano nel paese, in
particolare sotto forma di olio di soia importato dal Brasile, con la motivazione
che questa etichettatura sarebbe pregiudizievole per il consumatore, provocando
un aumento dei prezzi (tesi già sostenuta da Monsanto, in particolare negli Stati
Uniti). Infine, informazioni concordanti segnalano la presenza di colture
transgèniche illegali in almeno una regione peruviana, grazie a un molto
tempestivo traffico di semi organizzato dai paesi vicini.
Come il lettore di questo libro avrà capìto, ritroviamo qui gli abituali
ingredienti tipici della strategia della ditta di Saint Louis per imporre con tutti i
mezzi le sue piante transgèniche pesticìde: pressione sui governi per modificare le
leggi concernenti la brevettatura del vivente, o per impedire l’etichettatura degli
OGM, mentre oscuri agenti creano uno “stato di fatto” (come in Paraguày o in
Brasile, e più recentemente in Messico) che permette defacto alla multinazionale
di rivendicare i suoi “diritti di proprietà intellettuale” sulle colture transgèniche
illegali e, dunque, sostanziose royalties, che provocano alla fine la legalizzazione
delle colture di contrabbando.
Il convegno di Lima è iniziato con la proiezione del mio film davanti a circa
trecento partecipanti. Nello stesso momento, era organizzata per venticinque
giornalisti un’altra proiezione, seguìta da una conferenza stampa durata quasi due
ore, tanto numerose erano le domande. Ho poi raggiunto la sala del convegno per
ascoltare il discorso di apertura del ministro dell’Ambiente Antonio Brack, uno
stimato ecologista. Questi ha ripetuto la sua proposta di dichiarare il Perù “libero
dagli OGM”, sottolineando che il governo era lungi dall’accoglierla all’unanimità.
Essa è anzi oggetto di intense frizioni con il ministero dell’Agricoltura che, come
in Brasile, sostiene accanitamente gli OGM di Monsanto, ritenuti in grado di
provocare un aumento della produttività agricola. Durante il pranzo, Antonio
Brack mi ha “confessato”, con un grande sorriso, che il suo gabinetto era
colpevole di “pirateria”: «Poiché non ci siamo potuti procurare il suo film in
spagnolo mi ha spiegato - abbiamo dunque visto la versione pirata messa in linea
da Google!». Di fatto, non essendo allora disponibile sul mercato alcun DVD
spagnolo, un internauta avveduto si è preso il disturbo di sottotitolare interamente
il film e di mettere su Internet la sua versione pirata!2
Il 14 marzo 2008, tre giorni dopo la messa in onda del film, sul sito Web di
Arte si poteva leggere: «Il mondo secondo Monsanto ha suscitato un passaparola
abbastanza colossale nella blogosfèra [...]. Sono stati identificati più di 338 blog
francofoni che citano il titolo del documentario, 224 dei quali dopo la messa in
onda». Oggi, ossia dieci mesi più tardi, una ricerca «Le monde selon Monsanto»
sul Service Blog Search di Google dà...
Secondo aneddoto: quando il film non era ancora disponibile negli Stati Uniti,
degli accorti internauti lo hanno acquistato, poi lo hanno ritagliato in dieci parti
per metterlo su Google Video, You Tube o Daily Motion. Responsabile della
distribuzione della versione inglese del documentario nell’America del Nord,
l’ONF canadese è intervenuto a più riprese per chiederne il ritiro dalla Rete,
fintantoché non fosse stato regolarmente commercializzato. Il lettore potrà
verificare che sul Web sono immediatamente circolati dei documenti intitolati
«The documentary you vvon’t ever see» (il documentario che non vedrete mai),
che spiegavano, a torto, che era colpa di... Monsanto, che si sarebbe avvalsa della
sua leggendaria abilità per censurarlo.
Come spiegare una tale eco? Credo, in primo luogo, con la violenza stessa
delle pratiche di una multinazionale che esibisce, paradossalmente, un
comportamento “al di sopra di ogni sospetto”. Ma anche con l’effetto sotterraneo
del lavoro ostinato svolto da decenni, nel mondo intero, da tutti coloro, uomini e
donne, che vi si sono opposti e ai quali ho qui tentato di restituire la parola: i
sindacati e i movimenti contadini dell’india e dell’America Latina esposti ai danni
degli OGM, i “falciatori volontari” dei campi di OGM in Francia, gli scienziati
che hanno “lanciato l’allarme” in America e in Europa, o gli avvocati, in
particolare americani, delle vittime delle pratiche di Monsanto, dal PCB di ieri
agli OGM di oggi. Infine, e forse soprattutto, col fatto che la multinazionale di
Saint Louis rappresenta un paradigma del mortifero modello industriale che si è
imposto un po’ dovunque nel mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ora,
questo modello, basato sulla corsa sfrenata al profitto, alimenta una paura diffusa
dovuta ai suoi effetti nefasti sull’ambiente e la salute dell’uomo.
È appunto in nome di questa scienza “al di sopra della mischia” e che non deve
rendere conto a nessuno, che hanno potuto aver luogo i grandi scandali sanitari
degli ultimi venti anni: affare del sangue contaminato, crisi di mucca pazza,
dramma dell’ormone della crescita o disastro criminale dell’amianto».
Con ogni evidenza, l’AFIS non era molto lontana dalle tesi di Monsanto, così
come ha potuto verificare, nel marzo 2008, la giornalista Christina Palmeira,
corrispondente parigina del giornale brasiliano Carta Capital, alla quale i
rappresentanti francesi della ditta hanno declinato la sua richiesta d’intervista,
rinviandola su... l’AFIS!10
Non le è forse sfuggito che, per influenza del suo redattore capo JeanPaul
Krivine, l’AFIS si è trasformata, senza che nessuno abbia sollecitato il nostro
parere, in una vera lobby pro-OGM. Certo, io non sono pienamente persuaso che
il mais 810 o di altro tipo sia tossico. Ciò che ho letto non me ne convince. Ma,
per contro, combatto l’aggressiva strategia monopolistica di Monsanto e delle sue
diverse società ombra. Ho dunque chiesto alla redazione di Science et pseudo-
sciences che [... ] Marcel Kuntz e Louis-Marie Houbedine indichino i loro legàmi
con Monsanto e le sue filiali, come una in medicina (mi occupo di un giornale
scientifico medico ed è diventato obbligatorio precisare quello che si chiama
“conflitto di interessi”)».
Qualcosa si muove!
Ho concentrato il mio intervento sulla posta in gioco dei semi brevettati e sul
disegno di Monsanto di impadronirsi del controllo della catena alimentare
attraverso lo strumento degli OGM (un tema completamente assente dal dibattito
parlamentare), sulla inevitabile contaminazione delle filiere convenzionali e
biologiche se le colture transgèniche fossero autorizzate in Francia e, infine, sulla
necessità di rivedere l’omologazione del Round-up.
Ad esempio, nel giugno 2008, sono stata invitata a tenere una relazione sul
Round-up dalla regione Poitou-Charentes, che organizzava un «forum
partecipativo regionale per la riduzione dei pesticìdi nelle collettività». Più di
centocinquanta eletti e tecnici degli spazi verdi avevano risposto all’appello,
rivelando la loro inquietudine di fronte alla catastrofe sanitaria che l’uso
massiccio di pesticìdi ha già cominciato a provocare, persino nei luoghi riservati
alla ricreazione scolastica. Il 24 novembre 2008, un articolo di Le Monde
denunciava, per la prima volta, gli effetti nefasti sulla fertilità maschile dei
pesticìdi (e delle materie plastiche), che sono dei perturbatori endocrini (come il
Round-up di Monsanto). La loro «presenza diffusa nell’ambiente» potrebbe
spiegare che «il numero e la qualità degli spermatozoi» degli uomini siano
«diminuiti circa del 50% rispetto al 1950».19
Monsanto, The Pledge Report 2005, p. 12. Tutti i The Pledge Report dal al
2006 sono disponibili all’indirizzo monsanto.corn/vvho_vve_are/our_
pledge/recent_reports.asp.
Ibidem, p. 3.
Ibidem, p. 30.
Ibidem, p. 9.
Ibidem, p. 2.
Si tratta della direttiva 96/59/CE. Vedi Marc Laimé, «Le Rhòne pollué par les
PCB: un Tchernobyl frangais?», blog.mondediplo.net/2007-08-14-LeRhone-
pollue-par-les-PCB-un-Tchernobyl.
«US: General Electric Workers Sue Monsanto Over PCBs», Reuters, 4 gennaio
2006.
The New York Times, 13 agosto 1983, 18 novembre 1983, 29 novembre 1983
e 1° dicembre 1983.
James Troyer, «In the Beginning: the Multiple Discovery of the First Hormone
Herbicìdes», in Weed Science, n. 49,2001, pp. 290-297.
Peter Dovvns, «Cover up: Story of Dioxin Seems Intentionally Murky», in St.
Louis Joumalism Revievv, 1° giugno 1998. Vedi anche Robert Alien, The Dioxin
Wars. Trues and Lies About a Perfect Poison, Pluto Press, Londra 2004.
2095804101&query=Agribusiness%252C%2BBiotechnology%2Band
%2BWar.
William Buckingham jr, Operation Ranch Hand. The Air Force and Herbicìdes
in Southeast Asia, 1961-1971, Office of Air Force History, Washington 1982, p.
IV.
Ibidem, p. IlI.
Ibidem, p. 10.
Le stime più attendibili sono state pubblicate da Jane Mager Stellman, 407
«The Extent and Patterns of Usage of Agent Orange and Other Herbicìdes in
Vietnam», in Nature, 17 aprile 2003.
GAO, «Ground Troops in South Vietnam Were in Areas Sprayed With Agent
Orange», FPCD 80-23,16 novembre 1979, p. 1.
Redatta il 19 settembre 1988, questa lettera è stata letta dal senatore Tom
Daschle di fronte a una commissione senatoriale il 21 novembre 1989.
Nel 1978 l’EPA ordina la sospensione delle irrorazioni di 2,4,5-T nelle foreste
nazionali dopo avere constatato un «aumento statisticamente significativo degli
aborti» nelle donne residenti nei pressi delle zone irrorate (Bioscience, n. 454,
agosto 1979).
Joe Thornton, Science for Sale. Critics of Monsanto Studies on Worker Health
Effects Due to Exposure to 2,3,7,8-Tetrachlorodibenzo-P-Dioxin (TCDD),
Greenpeace, 29 novembre 1990. Questo studio è stato presentato al National Press
Club di Washington (The Washington Post, 30 novembre 1990).
Istruzione dei querelanti, 3 ottobre 1989; vedi anche Alien, TheDioxin Wars,
cit.
Peter Schuk, Agent Orange on Trial. Mass Toxic Disaster in the Courts,
Harvard Università Press, Cambridge 1987, pp. 86-87, 155-164. La Monsanto ha
prodotto il 29,5 per cento dell’agente arancio utilizzato in Vietnam, contro il 28,6
per cento della Dovv Chemicals, ma alcuni suoi lotti contenevano una quantità di
diossina quarantasette volte maggiore di quelli della Dovv Chemicals.
Monsanto Company, causa civile n. 80-L-970, Circuit Court, St. Clair County,
Illinois, 8 luglio 1985, pp. 1-147; 9 luglio 1985, pp. 1-137.
R.C. Brovvnson, J.S. Reif, J.C. Chang e J.R. Davis, «Cancer Risks Among
Missouri Farmers», in Cancer, voi. 64, n. 11,1° dicembre 1989, pp. 2381-2386.
652-656.
«Agent Orange: the New Controversy. Brian Martin Looks at the Royal
Commission that Acquitted Agent Orange», in Australian Society, voi. 5, n.
Monsanto Australia Ltd., «Axelson and Hardell. The Odd Men Out»,
sottoposto alla Royal Commission on the Use and Effects of Chemical Agents on
Australian Personnel in Vietnam, reperto 1881,1985.
Citato in Lennart Hardell, Mikael Eriksson e Olav Axelson, «On the
Misinterpretation of Epidemiological Evidence, Relating to Dioxin-Containing
Phenoxyacetic Acids, Chlorophenols and Cancer Effects», in New Solutions,
primavera 1994.
Arnold Schecter, Hoang Trong Quynh, Marian Pavuk, Olaf Papke, Rainer
Malisch e John D. Constable, «Food as a Source of Dioxin Exposure in the
Residents of Bien Hoa City, Vietnam», in Journal of Occupational and
Environmental Medicine, voi. 45, n. 8, agosto 2003, pp. 781-788.
Ibidem.
Procuratore dello Stato di New York, Consumer Frauds and Protection Bureau,
Environmental Protection Bureau, In the Matter of Monsanto Company,
Respondent. Assurance of Discontinuance Pursuant to Executive Lavv § 63(15),
New York, aprile 1998.
Isabelle Tron, Odile Piquet e Sandra Cohuet, Ejfets chroniques des pesticìdes
sur la santé: état actuel des connaissances, Observatoire regional de santé de
Bretagne, gennaio 2001.
Sheldon Rampton e John Stauber, Fidati, gli esperti siamo noi, Nuovi Mondi
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Pesticìde/2002/Round-up-Human-Rights24jan02.htm.
The Los Angeles Times, 1° agosto 1989. Nello stesso periodo Samuel Epstein
scrive un articolo scientifico: «Potential Public Health Hazards of Biosynthetic
Milk Hormones», in International Journal of Health Services, voi. 20, n.l, 1990,
pp. 73-84.
1445-1446).
563-566.
1433.
Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, Baldini & Castoldi Dalai, Milano 2003.
Samuel Epstein aveva già espresso la propria rabbia sul Los Angeles Times, 20
marzo 1994.
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Problems, Financial Troubles», mindfully.org/GE/Dovvn-On-The-Farm-BGH
1995.htm. ^
Citato in Robert Shapiro, «The Welcome Tension of Technology: the Need for
Dialog About Agricultural Biotechnology», in CEO Series Issues, n.
Ibidem, p. 25.
Daniel Charles, Lords ofthe Harvest, Basic Books, New York 2002, p. 24.
Ibidem, p. 37.
Ibidem.
417
Ibidem.
~lrd/biocon.html.
Ibidem, p. 22985.
/X9602F/x9602f00.HTM.
Smith, Seeds ofDeception, cit., pp. 107-127; dello stesso autore, Genetic
Roulette. The Documented Health Risks of Genetically Engineered Foods,
Chelsea Green Publishing, White River 2007, pp. 60-61, seedsofdeception.corn
/Public/Home/index.cfm.
Causa registrata con il nome di Alliance for Bio-Integrity vs. Shalala et al.
Mevvl.html.
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marzo 2000, fda.gov/ohrms/dockets/dailys/00/mar00/032200/ cp00001.pdf.
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of Genetically Modified Food and Feed With Particular Regard to Ingredients
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17,2003.
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1998.
The Guardian, 12 febbraio 1999; «Le Rat et la patate, chronique d’un scandale
britannique», in Le Monde, 17 febbraio 1999; «Peer Revievv Vindicates Scientist
Let Go for ‘Improper’ Warning About Genetically Modified Food», inNatuaral
Science Journal, 11 marzo 1999.
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testimonianze, caso 247, 8 marzo 1999, parliament.the-stationery-
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«Furor Food: the Man With the Worst Job in Britain», in The Observer,
febbraio 1999.
181).
Rapporto annuale della Monsanto per il 1997 (citato in The Washington Post,
1° novembre 1999).
Ibidem.
Ibidem, p. 120.
Ibidem, p. 179.
Ibidem, p. 151.
Ibidem, p. 177.
Ibidem, p. 200.
Vi si legge: «Per quanto riguarda l’agente arancio, gli autori di Ecologist hanno
dimenticato di segnalare che studi approfonditi condotti per anni dall’Aviazione
americana e da altri organismi hanno dimostrato che non esistono effetti nocivi
gravi per la salute associati a questo defogliante».
423 ottobre 1999. Il 26 ottobre 1999 un’azione della Monsanto era quotata a
39,18 dollari alla Borsa di New York, contro i 62,72 dollari dell’agosto 1998.
Monsanto, 2005 Technology Use Guide, art. 19 (citato nel rapporto del CFS,
Monsanto vs. US Farmers, novembre 2005, p. 20, centerforfoodsafety.
org/Monsantovsusfarmersreport.cfm.)
Ibidem, p. 155.
Ibidem, p. 187.
Ibidem.
28.«Monsanto Canada Inc. vs. Percy Schmeiser», 29 marzo 2001. pp. 5155,
citato inStarPhoenix, 30 marzo 2001.
Ibidem.
Soil Association, Seeds ofDoubt, cit., p. 24; vedi anche «Monsanto Sees
Opportunity in Glyphosate Resistant Volunteer Weeds», in CropchoiceNews, 3
settembre 2001.
Secondo il Los Angeles Times del 1° luglio 2001, il Round-up era usato sul 20
per cento delle coltivazioni americane nel 1995 e sul 62 per cento quattro anni
dopo.
Ibidem.
Stevvart Wells e Holly Penfound, «Canadian Wheat Board Speaks Out Against
Round-up Ready Wheat», in Toronto Star, 25 febbraio 2003.
Ibidem.
Pierre-Benoìt Joly e Claire Marris, «Les Américains ont-ils accepté les OGM?
Analyse comparée de la construction des OGM comme problème public en
France et aux États-Unis», in Cahiers d’économie et de sociologie rurales, n. 68-
69, 2003, p. 19.
Ibidem, p. 18.
Lincoln Brovver, «Canary in the Cornfield. The Monarch and the Bt Corn
Controversy», in Orion Magazine, primavera 2001,
orionmagazine.org/index.php/articles/article/85/.
Marc Kaufman, «‘Biotech Corn is Test Case for Industry’. Engineered Food’s
Future Hinges on Allergy Study», in The Washington Post, 19 marzo 2001.
Michael Pollan, «Playing God in the Garden», in The New York Times Sunday
Magazine, 25 ottobre 1998.
Ibidem, p. 36.
Smith, Seeds ofDeception, cit., p. 171.
Marc Kaufman, «EPA Reject Biotech Corn as Human Food: Federal Tests do
not Eliminate Possibility That it Could Cause Allergie Reactions, Agency Told»,
in The Washington Post, 18 luglio 2001.
Ibidem.
Canadian Press, 10 aprile 2004. Per i particolari di questa class action, vedi il
sito dell’Organic Agriculture Protection Fund: saskorganic.corn/ oapf/.
René Van Acker, Anita Brulé-Babel e Lyle Friesen, «An Environmental Safety
Assessment of Round-up Ready Wheat: Risks for Direct Seeding Systems in
Western Canada», relazione del Canadian Board for Submission to Plant
Biosafety Office della CFIA, giugno 2003; «Study: Modified Wheat Poses a
Threat», Canadian Press, 9 luglio 2003.
Capitolo 12. Messico: colpo basso alla biodiversità Stuart Laidlavv, «StarLink
Fallout Could Cost Billions», in The Toronto Star, 9 gennaio 2001, disponibile
all’indirizzo biotech-info.net/starlink_ fallout.html.
The New York Times, 2 ottobre 2001; The Guardian, 30 novembre 2001.
Marc Kaufman, «The Biotech Corn Debate Grovvs Hot in Mexico», in The
Washington Post, 25 marzo 2002.
Wil Lepkovvski, «Maize, Genes, and Peer Revievv», Center for Sciem Policy
and Outcomes, n. 14,31 ottobre 2002.
Ibidem.
Ibidem.
Javiera Rulli, Stella Semino e Lilian Joensen, Paraguày Sojero. Soy Expansion
and Its Violent Attack on Locai and Indigenous Communities in Paraguày, GRR,
Buenos Aires, marzo 2006, grr.org.ar.
Ibidem.
Capitolo 15. India: le sementi del suicìdio Favvzan Husain, «On India’s Farms,
a Plague of Suicide», in The New York Times, 19 settembre 2006.
Ibidem. lì.Ibidem.
Y5160E/Y5160E00.HTM. monsanto.co.uk/nevvs/ukshovvlib.phtml?uid=7983.
The Hindu Business Line, 23 gennaio 2006. Si tratta delle varietà Mech-12 Bt,
Mech-162 Bt e Mech-184 Bt.
«Court Rejects Monsanto Plea for Bt Cotton Seed Price Hike», in The Hindu,
6 giugno 2006.
Vandana Shiva et al., Seeds of Suicide. The Ecological and Human Costs of
Globalisation ofAgriculture, Research Foundation for Science, Technology and
Ecology, gennaio 2002, disponibile all’indirizzo navdanya.org/publications/seeds-
of-suicide.htm.
Vandana Shiva, Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2003; Vacche sacre
e mucche pazze: il furto delle riserve alimentari globali, DeriveApprodi, Roma
2004; Éthique et agro-industrie. Main basse sur la vie, L’Harmattan, Parigi 1996.
«La Mondialisation et ses effets sur la pieine jouissance de tous les droits de
l’homme», rapporto preliminare presentato da Joseph OlokaOnyango e Deepika
Udagama, Commissione dei diritti dell’uomo dell’ONU, 15 giugno 2000.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
«Monsanto Plants to Offer Right to Its Altered Rice Technology», in The New
York Times, 4 agosto 2000.
David Barboza, «Questions Seen on Seed Prices Set in the 90’s», in The New
York Times, 6 gennaio 2004.
Appendice. Un successo durevole Prendo a prestito questo titolo da quello di
un articolo del settimanale professionale Livres Hebdo del 18 aprile 2008, il quale
riferisce che Il mondo secondo Monsanto «è il secondo libro più venduto tra i
saggi».
«Un bright è un individuo che volge uno sguardo naturalistico sul mondo.
Cfr. anche i miei due libri: Voleurs d’organes. Enquète sur un trofie, Bayard
Éditions, Paris 1996; e Le sixième sens. Science et paranormal, Éditions du
Chène, Paris 2002.
«Un senatore dell’UMP ritiene che dei parlamentari pro-OGM siano “azionati”
dai semenzieri», Le Monde, 2 aprile 2008.
Cfr. il suo libro: Francois Grosdidier, Taons-nous les uns les autres.
Qu’avons-nous retenu des grandes catastrophes sanitaires?, Le Rocher, Paris
2008.
CETOS - Center for Ethics and Toxics, Centro per l’etica e la tossicità.
CFS - Center for Food Safety, Centro per la sicurezza del cibo.
IATP - Institute for Agriculture and Trade Policy, Istituto per l’agricoltura e la
politica del commercio.