Sei sulla pagina 1di 375

Marie-Monique Robin

IL MONDO SECONDO MONSANTO

Prefazione di Nicolas Hulot

Titolo originale: Le monde selon Monsanto

Iraduzione di Cristina Volpi

2009 Arianna Editrice


Ai miei genitori agricoltori, Joel e Jeannette, che mi hanno donato il gusto per
le cose belle della terra, e quindi della vita.
Indice

Ringraziamenti IX

Prefazione. Un libro per la salute pubblica di Nicolas Hulot XI

Introduzione. Il caso Monsanto

Parte prima Uno dei grandi inquinanti della storia industriale

1. PCB: un crimine da colletti bianchi

2. Diossina: un inquinante al servizio del Pentagono

3. Diossina: manipolazioni e corruzione

4. Round-up: operazione intossicazione

5.Il caso dell’ormone della crescita bovina (parte prima): l’influenza sulla FDA

6.Il caso dell’ormone della crescita bovina (parte seconda): l’arte di mettere a
tacere le voci discordanti 1

Parte seconda OGM: il grande complotto

7.L’invenzione degli OGM

8.Scienziati messi a tacere

9.1995 - 1999: la Monsanto tesse la tela

10.La legge ferrea dei brevetti sugli organismi viventi

11.Grano transgènico: la battaglia persa della Monsanto nell’America del Nord

Parte terza Gli OGM della Monsanto all’assalto del Sud

12.Messico: colpo basso alla biodiversità

13.In Argentina: la soia della fame

14.Paraguày, Brasile, Argentina: la «Repubblica unità della soia»

15.India: le sementi del suicìdio


16.Come le multinazionali controllano gli alimenti del mondo

Conclusioni. Un colosso con i piedi d’argilla

Appendice. Un successo durevole

Note

Sigle e acronimi
Ringraziamenti

Ringrazio tutti quelli che mi hanno aiutata a scrivere questo libro, e in


particolare Bernard Vaillot e Agnes Ravoyard (Galaxie), i quali mi hanno
permesso di realizzare i primi tre film che hanno dato il via all’inchiesta sulla
Monsanto (Les pirates du vivant, Ble: chronique d’une mort annoncee? e
Argentine: le soja de la faim), trasmessi da Arte grazie ad Annie-Claude Elkaim,
Sylvie Jezequel e Marco Nassivera; Christilla Huillard-Kann, grazie alla quale ho
potuto girare il documentario Le Monde selon Monsanto con Image et
Compagnie; Pierre Merle, Pierrette Ominetti e Thierry Garrel di Arte, senza i
quali il documentario non sarebbe mai venuto alla luce: hanno sempre saputo
manifestarmi il loro sostegno; Francoise Boulegue, che ha montato i quattro
documentari con pazienza e convinzione; William Bourdon, per i suoi saggi
consigli; Frangois Geze di Editions La Decouverte; David Charrasse e le nostre
tre figlie Fanny, Coline e Solene, che mi hanno sempre incoraggiata, anche nei
momenti piu difficili dell’inchiesta.

Ringrazio inoltre i numerosi testimoni che, accettando di rispondere alle mie


domande o aprendomi i loro archivi, hanno contribuito in modo decisivo a fare
chiarezza sulla storia della Monsanto.
Prefazione

Un libro per la salute pubblica

L’opera di Marie-Monique Robin ha suscitato in me una serie di interrogativi,


che sono poi diventati motivo di vera e propria angoscia, riassumibile in una sola
domanda: corn’e possibile? Come ha fatto la Monsanto, azienda emblematica
dell’agrochimica mondiale, a commettere errori così gravi e a immettere sul
mercato prodotti tanto nocivi per la salute umana e per l’ambiente? Come ha fatto
ad andare avanti come se niente fosse, sempre piu consapevole della propria
influenza (e della propria fortuna), con una storia punteggiata di eventi così
drammatici? Corn’e riuscita a dissimulare tranquillamente i fatti e a tradire il
mondo intero?

E come ha fatto a mantenere intatte le proprie attività nonostante le pesanti


condanne giudiziarie che l’hanno colpita e i divieti posti su alcuni suoi prodotti,
dopo avere causato danni irreversibili?

Questo libro svela una realtà che fa male agli occhi e stringe il cuore, quella di
un’azienda arrogante che sfrutta con disinvoltura il dolore delle vittime e la
distruzione degli ecosistemi. Una pagina dopo l’altra, il mistero si svela. Si vede
prosperare un’impresa la cui storia «costituisce un modello di aberrazione in cui
si e impantanata la società industriale». Si stenta a crederci, ma la dimostrazione e
chiara e fa capire da dove la Monsanto tragga la propria potenza, come le sue
menzogne abbiano avuto la meglio sulla verità e perchè molti suoi prodotti,
presentati come miracolosi, si siano spesso rivelati un incubo. Nel momento in cui
l’azienda nordamericana mostra un’ambizione ancora piu «totalizzante» che in
passato - imponendo gli organismi geneticamente modificati (OGM) ai contadini
e ai consumatori di tutto il mondo questo libro autorizza a domandarsi, finchè e
ancora possibile, se possiamo permettere alla Monsanto di tenere in pugno (e in
provetta) il futuro dell’umanità e di imporre un nuovo ordine agricolo mondiale.

Non sono solito credere alla teoria del complotto, e non penso che l’operato
delle aziende sia sistematicamente machiavellico. Ammettiamo pure che i
benefìci relativi al progresso scientifico implichino il disordine come base
dell’ordine. Ma qui non c’e nessun ordine! Nonostante l’immagine di benefattrice
dell’umanità rivendicata dall’azienda e gli inevitabili imprevisti della ricerca
scientifica, il bilancio e deprimente.

Facciamo due calcoli. Come ha potuto la Monsanto diventare uno dei


principali imperi industriali del mondo? Niente meno che con la produzione su
larga scala di alcuni dei prodotti piu pericolosi dell’era moderna: i PCB, o
piraleni, liquidi refrigeranti e lubrificanti la cui nocività e devastante per la salute
umana e per la catena alimentare, e ormai banditi dopo la constatazione del loro
potere contaminante; la diossina, di cui bastano pochi grammi per avvelenare
un’intera città e la cui produzione, che parte da un erbicìda dell’azienda
nordamericana (quello che sarà alla base del tristemente famoso agente arancio, il
defogliante irrorato sulle foreste e sui villaggi vietnamiti, grazie al quale la
Monsanto otterrà con il Pentagono il contratto piu redditizio della sua storia), sarà
vietata; gli ormoni della crescita bovina - primo banco di prova degli OGM il cui
obiettivo e far produrre all’animale ben oltre le proprie capacità naturali malgrado
le conseguenze dimostrate sulla salute umana; il diserbante Round-up, presentato
in una serie di spot pubblicitari come «biodegradabile e amico dell’ambiente»,
affermazioni smentite da analisi effettuate sia negli Stati Uniti, sia in Europa.

Come giornalisti abbiamo seri dubbi riguardo a certi metodi di questa azienda,
soprattutto su quelli autoritari adottati nei confronti degli agricoltori. Il libro di
Marie-Monique Robin non solo li conferma, ma ne mostra un lato nascosto
difficile da contestare: sono infatti quelli di una società che ha come unico motore
il denaro - cosa non certo stupefacente - ma, dato ancora piu inquietante, la cui
attività si fonda sulla pretesa di agire solo di testa propria; un’impresa esperta
nello scovare sotterfùgi e nel perseverare nei propri metodi con ogni mezzo,
convinta di sapere meglio di chiunque altro che cosa sia buono per l’umanità,
appropriandosi così del Pianeta per farne un terreno di gioco e di profitto. Nella
logica della Monsanto non e chiaro che cosa prevalga, se l’accecamento
commerciale, l’orgoglio scientifico o il puro e semplice cinismo.

L’inchiesta della Robin e molto accurata: i fatti sono innegabili, le


testimonianze numerose e varie, i documenti vengono svelati e gli archivi aperti.
Il suo libro non e un pamphlet pieno di chiacchiere e fantasie. E un tremendo
spaccato della realtà. Infatti, per molti anni di commercializzazione dei prodotti,
siano questi PCB, erbicìdi alla diossina, ormoni della crescita bovina o il Round-
up, la Monsanto ha sempre saputo della loro nocività. I documenti portati alla luce
da questo libro non lasciano dubbi. L’azienda ha l’abitudine di affermare
pubblicamente il contrario delle conoscenze di cui dispone al proprio interno. Ma
adesso, grazie a quest’opera, anche noi sappiamo cio che la Monsanto ha sempre
saputo!

Perchè l’azienda sapeva delle conseguenze tossiche dei suoi prodotti.

Eppure ha taciuto. E l’hanno lasciata fare...

Ora la multinazionale torna alla carica e dice che le sementi OGM, di cui e il
principale produttore, hanno lo scopo di «aiutare i contadini del mondo a produrre
alimenti piu sani, riducendo l’effetto dell’agricoltura sull’ambiente». L’azienda
afferma di essere cambiata e di non avere piu l’atteggiamento irresponsabile del
passato. Noi non abbiamo la competenza scientifica per giudicare la tossicità di
alcune molecole o i rischi delle manipolazioni genetiche, ma sappiamo che la
comunità scientifica e fortemente divisa sugli effetti della transgènesi, e che il
feedback sugli OGM coltivati non ne dimostra ne l’innocuità per la salute e
l’ambiente, ne la capacità di intensificare la produzione alimentare per vincere la
fame nel mondo. Il bilancio tracciato da Marie-Monique Robin riguardo a
Messico, Argentina, Paraguày, Stati Uniti, Canada e India e desolante.

Sappiamo anche che le semine del mais 810 della Monsanto, l’unico coltivato
in Francia a scopo commerciale, sono state saggiamente sospese dal governo nel
gennaio 2008, dopo che un’autorità interna ha sollevato interrogativi inquietanti
sulla base di nuovi dati scientifici. Piu in generale sappiamo, come qualunque
cittadino del mondo con un briciolo di buonsenso, che e necessario porre un freno
quando la logica industriale e commerciale supera i limiti delle precauzioni piu
elementari.

Oggi, mentre Francia ed Europa sono scosse da un vero e proprio dibattito


scientifico, economico e sociale sulle conseguenze sanitarie e ambientali degli
OGM, oltre che sulla condizione contadina e sui test sugli esseri viventi, il libro
della Robin arriva con un tempismo perfetto. E infatti a pieno titolo un’opera per
la salute pubblica, ed e come tale che dovrebbe essere letta e considerata.

La crisi ecologica globale comporta una trasformazione ad ampio raggio


nell’organizzazione economica e sociale delle comunità umane. Nello specifico,
interroga pesantemente l’agricoltura mondiale sulla sua capacità di fornire risorse
alimentari sufficienti per i futuri nove miliardi di abitanti della Terra. Certo e che
l’innovazione scientifica e tecnologica potrà avere una funzione dinamica. Ma
non se sarà casuale o se cadrà nelle mani di chiunque!

Nicolas Hulot
Introduzione

Il caso Monsanto

« Dovrebbe fare un’inchiesta sulla Monsanto. Tutti vogliamo sapere chi e


veramente questa multinazionale americana che sta mettendo mano alle sementi e
quindi al cibo del mondo...»Yudhvir Singh e io siamo all’aeroporto di New Delhi,
nel dicembre 2004. Singh e il portavoce della Bharatiya Kisan Union, un
sindacato di contadini dell’India del Nord con venti milioni di iscritti. Con lui ho
trascorso due settimane a ispezionare il Puryab e l’Haryana, due Stati simbolo
della «rivoluzione verde»in cui si produce la quasi totalità del grano indiano.

Un’inchiesta indispensabile All’epoca stavo realizzando due documentari per il


canale televisivo franco-tedesco Arte. Sarebbero stati trasmessi all’interno del
programma Thema, in una serata dedicata alla biodiversità intitolata «Main basse
sur la nature» (Le mani sulla natura).1 Nel primo documentario, Les pirates du
vivant (I pirati del vivo),2 racconto come l’avvento delle tecniche di
manipolazione genetica abbia provocato una vera e propria corsa ai geni, in cui i
giganti della biotecnologia non esitano a impadronirsi delle risorse naturali dei
Paesi in via di sviluppo abusando del sistema dei brevetti. fu così che un
agricoltore del Colorado, che si definisce un «elettrone libero», ha ottenuto un
brevetto per il fagiolo giallo, coltivato in Messico dalla notte dei tempi: fingendo
di esserne «l’inventore» americano, chiede i diritti a tutti i contadini messicani
che desiderano esportare il proprio raccolto verso gli Stati Uniti. Anche
un’azienda americana, la Monsanto, ha ottenuto un brevetto europeo su una
varietà indiana di grano usata per produrre il famoso chapati (pane indiano senza
lievito).

Nel secondo documentario, intitolato Ble: chronique d’une mort annoncee?


(Grano: cronaca di una morte annunciata), traccio la storia della biodiversità e
delle minacce che incombono su di essa attraverso la grande saga del cereale
dorato, dai primi esperimenti di coltivazione fatti dall’uomo diecimila anni fa,
all’arrivo degli OGM, di cui il leader mondiale e la Monsanto. Nello stesso
periodo stavo realizzando un terzo filmato per Arte Reportage intitolato
Argentine: le soja de la Jaim (Argentina: la soia della fame),3 che traccia un
bilancio (disastroso) delle colture transgèniche nel Paese della pampa. Si da il
caso che gli OGM in questione, che ricoprono metà del territorio argentino
coltivato, riguardino un tipo di soia chiamato Round-up Ready (letteralmente,
«pronta per il Round-up»), manipolata dalla Monsanto per resistere, appunto, alle
irrorazioni di Round-up, l’erbicìda piu venduto al mondo dagli anni Settanta e
prodotto, anche questo, dalla Monsanto.

Per questi tre film, che presentano aspetti diversi della stessa problematica,
cioè le conseguenze della biotecnologia sull’agricoltura mondiale e sulla
produzione alimentare per l’uomo, ho girato il mondo per un anno: Europa, Stati
Uniti, Canada, Messico, Argentina, Brasile, Israele, India... Ovunque sia presente
lo spettro della Monsanto, che e vista come il Grande Fratello del nuovo ordine
agricolo mondiale.

Per questo le parole di Yudhvir Singh, all’aeroporto di New Delhi, hanno


confermato la sensazione che dovevo interessarmi piu da vicino alla storia di
questa multinazionale nordamericana nata nel 1901 a Saint Louis, nel Missouri.
Oggi l’azienda produce il 90 per cento degli OGM coltivati nel mondo, e dal 2005
e il primo produttore mondiale di sementi per l’agricoltura.

Appena tornata dall’India mi sono precipitata al computer e ho digitato


«Monsanto»in un motore di ricerca. Ho trovato più di sette milioni di documenti
che tracciavano il ritratto di un’azienda che, ben lungi dal trovare pareri concordi,
e considerata una delle piu controverse dell’era industriale. In realtà, aggiungendo
a «Monsanto»la parola «pollution», «inquinamento» sia in inglese, sia in francese,
ho ottenuto 343.000 occorrenze. Con «criminal», termine sia inglese, sia
spagnolo, 165.000.

Con ‘corruption’, «corruzione», i risultati sono stati 129.000; digitando


«Monsanto falsified scientific data» («dati scientifici manipolati dalla Monsanto),
si arrivava a 115.000 documenti.

Ho navigato in Internet per settimane, consultando una quantità di documenti


declassificati, rapporti o articoli di giornale che mi hanno restituito, come tessere
di un puzzle, l’immagine di un’azienda che suscita molte polemiche, e che lei
stessa bada bene di occultare sul proprio sito.

Infatti, aprendo l’home page di monsanto.corn leggiamo che l’azienda si


presenta come «the agricultural company» («un’impresa agricola»), che ha
l’obiettivo di «aiutare i contadini del mondo [... ] a produrre alimenti piu sani, [...]
riducendo l’effetto dell’agricoltura sull’ambiente».
Ma cio che non viene detto e che prima di interessarsi all’agricoltura, la
Monsanto e stata una delle piu grandi aziende chimiche del XX secolo,
specializzata in materie plastiche, polistirene e altre fibre sintetiche.

Nella pagina «Who We Are/Company History» del sito non c’e una parola sui
prodotti estremamente tossici che hanno fatto la fortuna dell’azienda per decenni:
i PCB (policlorobifenili), oli chimici usati come isolanti nei trasformatori elettrici
per piu di cinquant’anni e venduti con il marchio Aroclor negli Stati Uniti e nel
Regno Unito, Pyralene in Francia, Clophen in Germania e Kanechlor in
Giappone, e di cui la Monsanto ha nascosto la nocività fino a quando sono stati
banditi all’inizio degli anni Ottanta; il 2,4,5-T (triclorofeniacetici), un potente
erbicìda contenente diossina alla base dell’agente arancio, il defogliante usato
dall’esercito americano durante la guerra in Vietnam, e di cui la Monsanto ha
sapientemente negato la tossicità presentando studi scientifici falsificati; il 2,4D
(diclorofenossiacetici), l’altro componente dell’agente arancio; il DDT, oggi
vietato; l’aspartame, la cui innocuità non e mai stata dimostrata; gli ormoni della
crescita bovina (vietati in Europa a causa dei rischi che comportano per la salute
degli animali e degli uomini).

Tutti questi prodotti altamente controversi sono spariti dalla storia ufficiale
dell’azienda di Saint Louis (tranne l’ormone della crescita bovina, di cui parlerò
nel corso del libro). Tuttavia, ispezionando i documenti interni della Monsanto si
scopre un passato fumoso che continua a incombere sulla sua attività,
costringendola a sborsare somme di denaro considerevoli per affrontare processi
di cui infanga regolarmente i risultati.

Cento milioni di ettari di OGM

Queste scoperte mi hanno spinta a proporre ad Arte un nuovo documentario


intitolato Le Monde selon Monsanto (Il mondo secondo la Monsanto), la cui
inchiesta e alla base di questo libro. L’idea era di narrare la storia della
multinazionale e cercare di capire in quale misura il suo passato potesse chiarirne
le pratiche attuali e cio che oggi dice di essere. In effetti, con 17.500 dipendenti,
un fatturato di 7,5 miliardi di dollari nel 2007 (di cui un miliardo di utili) e sedi in
quarantasei Paesi, l’azienda di Saint Louis afferma di essersi convertita allo
sviluppo sostenibile, che intende promuovere grazie alla commercializzazione di
sementi transgèniche che riducono i limiti degli ecosistemi per il bene
dell’umanità.

Dal 1997, a forza di campagne pubblicitarie e di slogan come «Cibo, salute e


speranza», la Monsanto e riuscita a imporre i suoi OGM, in particolare soia, mais,
cotone e colza, su territori vastissimi. Nel 2007 le colture transgèniche (di cui,
ripeto, il 90 per cento presenta caratteristiche genetiche brevettate dalla
Monsanto) coprivano 100 milioni di ettari: piu della metà negli Stati Uniti (54,6
milioni), seguìti dall’Argentina (18 milioni), dal Brasile (11,5 milioni), dal
Canada (6,1 milioni), dall’India (3,8 milioni), dalla Cina (3,5 milioni), dal
Paraguày (2 milioni) e dal Sudafrica (1,4 milioni). Questa «esplosione di aree
OGM»4 ha risparmiato l’Europa, tranne la Spagna e la Romania. Da notare che il
70 per cento degli OGM coltivati nel mondo erano resistenti al Round-up,
l’erbicìda che la Monsanto ha sempre definito «biodegradabile e amico
dell’ambiente» (cosa che le e costata, come vedremo, due condanne per falsa
pubblicità), e il 30 per cento sono stati manipolati per produrre una tossina
insetticìda chiamata Bt (Bacillus thuringiensis).

Naturalmente, all’inizio di questa lunga inchiesta ho contattato i dirigenti della


multinazionale per chiedere loro delle interviste. La sede di Saint Louis mi ha
indirizzata da Yann Fichet, agronomo e direttore degli affari istituzionali e
industriali della filiale francese di Lione. Il 20 giugno 2006 Fichet e io ci siamo
incontrati a Parigi, in un hotel vicino al Palazzo del Lussemburgo (sede del Senato
francese), in cui mi ha confessato di trascorrere «molto tempo». Fichet mi ha
ascoltata a lungo e si e impegnato a inoltrare le mie richieste alla sede del
Missouri. Ho aspettato tre mesi, mantenendo i contatti con lui, ma alla fine mi ha
detto che la mia proposta era stata rifiutata. Quando sono andata a Saint Louis per
le riprese del mio documentario, ho chiamato Christopher Horner, responsabile
delle pubbliche relazioni della Monsanto, il quale mi ha confermato il rifiuto. Era
il 9 ottobre 2006: «Apprezziamo la sua insistenza nel chiedere un’intervista, ma ci
siamo consultati internamente e la nostra posizione non e cambiata. Non abbiamo
motivo di partecipare al suo documentario. ..» «Avete paura delle domande che
potrei farvi?» «No, no... Non si tratta di sapere se abbiamo o non abbiamo le
risposte alle sue domande, ma della legittimità del prodotto finale, che
sospettiamo non sarà affatto positivo per noi.» Nonostante il rifiuto, non ho
rinunciato a dare la parola alla Monsanto, procurandomi tutti i documenti cartacei
e audiovisivi disponibili in cui i suoi rappresentanti si esprimono, ma anche e
soprattutto servendomi dei testi che l’azienda ha messo on-line e in cui giustifica i
vantaggi degli OGM per il mondo: «I contadini che hanno piantato colture nate
dalle biotecnologie hanno usato molti meno pesticìdi e realizzato proventi
significativi rispetto all’agricoltura convenzionale», si leggeva per esempio nel
2005 su The Pledge Report, una sorta di carta etica che la multinazionale pubblica
regolarmente dal 2000 e in cui espone attività e risultati.5
Essendo figlia di agricoltori e sensibile alle difficoltà del mondo agricolo (sono
nata nel 1960 in una fattoria del Poitou-Charentes), mi rendo conto di quale
effetto possa avere un discorso del genere sui contadini che ogni giorno, in
Europa e nel mondo, lottano per la sopravvivenza. Del resto, se ho scritto questo
libro e innanzitutto per loro, per chi lavora la terra, che nel momento in cui la
globalizzazione impoverisce le campagne del Sud e del Nord non sanno piu a che
santo votarsi. Il genio di Saint Louis avrebbe davvero salvato loro la vita? Ho
voluto conoscere la verità, perchè la posta in gioco riguarda tutti noi: si tratta
infatti di capire chi, un domani, produrrà il cibo dell’uomo.

«La Monsanto aiuta i piccoli contadini di tutto il mondo a essere piu produttivi
e autosufficienti», continua The Pledge Report,6 E ancora: «La buona notizia e
che l’esperienza concreta mostra chiaramente che la coesistenza di colture
transgèniche, convenzionali e biologiche non solo e possibile, ma avviene
tranquillamente in tutto il mondo».7 Infine, una frase ha attirato la mia attenzione
in modo particolare, perchè tocca uno dei punti principali legati agli OGM, cioè la
potenziale pericolosità per la salute umana: «I consumatori di tutto il mondo sono
la prova vivente di quanto le colture biotecnologiche siano innocue. Nella
stagione 2003 - 2004 hanno acquistato l’equivalente di ventotto miliardi di dollari
in derrate transgèniche prodotte da agricoltori degli Stati Uniti».8 Cercando di
verificare questa bella affermazione, pensavo a tutti i consumatori che si nutrono
del lavoro degli agricoltori e che possono, tramite scelte precise, influire
sull’evoluzione delle pratiche agricole e, quindi, del mondo. A patto, però, di
essere informati. Quindi e anche per loro che ho scritto questo libro.

Tutte queste affermazioni della Monsanto sono al centro della polemica che
contrappone i difensori della biotecnologia a quelli che la rifiutano. Per i primi,
l’azienda di Saint Louis ha realmente voltato pagina dal suo passato
chimicamente irresponsabile, per realizzare finalmente prodotti capaci di risolvere
i problemi della fame nel mondo e della contaminazione ambientale, seguendo i
«valori» alla base della sua attività: «Integrità, trasparenza, dialogo, condivisione
e rispetto», come annuncia ancora The Pledge Report.9 Per gli altri, invece, tutte
queste promesse sono solo fumo negli occhi per nascondere un vasto progetto
egemonico che minaccia la sicurezza alimentare del mondo, ma anche l’equilibrio
ecologico della Terra.

Ho voluto chiarirmi le idee, perciò ho seguito una doppia strada. Prima ho


navigato in Internet per giorni e notti. Infatti, la maggior parte dei documenti che
citerò in questo libro sono disponibili sul Web. Basta leggerli e metterli in
relazione fra loro, cosa che vi invito a fare perchè rimarrete colpiti: e tutto in
quelle «carte», e nessuno puo ragionevolmente dire di non sapere, tantomeno i
responsabili delle leggi che ci governano.

Tuttavia questo non basta. Così ho ripreso a viaggiare. Stati Uniti, Canada,
Messico, Paraguày, India, Vietnam, Francia, Norvegia, Italia e Gran Bretagna. In
tutti questi Paesi ho confrontato le affermazioni della Monsanto con la realtà del
territorio, incontrando decine di testimoni che avevo precedentemente identificato
in rete.

Sono molti, in effetti, quelli che in tutto il mondo hanno fatto squillare un
campanello d’allarme, denunciando una manipolazione, una menzogna o una
tragedia umana, spesso rischiando gravi ritorsioni personali e professionali. Infatti
- lo scoprirete sfogliando questo libro - non e facile contrapporre la realtà dei fatti
a quella della Monsanto, che mira a «mettere mano alle sementi e quindi al
nutrimento del mondo intero», come mi diceva Yudhvir Singh nel 2004. Un
obiettivo che nel 2008 l’azienda nordamericana sembrerebbe sul punto di
raggiungere, a meno che i contadini e i consumatori europei non decidano di
opporsi, trascinando con se il resto del mondo...
Parte prima

Uno dei grandi inquinanti della storia industriale

1. PCB: un crimine da colletti bianchi

«Non possiamo permetterci di perdere nemmeno un dollaro.» Pollution Letter,


documento declassificato della Monsanto, 16 febbraio 1970

Anniston, Alabama, 12 ottobre 2006. Con le mani che gli tremano, David
Baker inserisce la cassetta nel videoregistratore: «E qualcosa di indimenticabile»,
mormora dall’alto del suo metro e novanta, asciugandosi furtivamente una
lacrima. «Il giorno piu importante della mia vita, quello in cui i membri della mia
comunità hanno deciso di riconquistare la dignità facendo chinare il capo a una
delle piu grandi multinazionali del mondo...» Sullo schermo del televisore
scorrono immagini girate il 14 agosto 2001 ad Anniston. Luce dorata di un tardo
pomeriggio. Visibilmente agitato, il cineoperatore amatoriale non sa piu dove
puntare l’obiettivo: da ogni parte giungono gruppi di afroamericani che, con passo
deciso e silenzioso, invadono l’immenso complesso della Ventiduesima Strada.
«Erano cinquemila», dirà il giorno successivo YAnniston Star. «E stato il piu
grande raduno della storia della città.» Davide contro Golìa «Perchè e venuta
qui?» chiede il giornalista improvvisato.

«Perchè mio marito e mio figlio sono morti di tumore», spiega una donna sulla
cinquantina.

«E lei?» «Per mia figlia», risponde un uomo indicando la bimba che tiene in
braccio. «Ha un tumore al cervello... Avevamo perso ogni speranza di farla pagare
cara alla Monsanto per tutto il male che ci ha fatto, ma se Johnnie Cochran si
occupa di noi, allora e diverso...» Il nome di Johnnie Cochran e sulla bocca di
tutti. Nel 1995 questo avvocato rampante di Los Angeles aveva tenuto con il fiato
sospeso gli Stati Uniti difendendo Orenthal James Simpson, l’ex campione di
football americano riconvertito al cinema, accusato di avere assassinato la ex
moglie e il suo amante una sera del 1994. Dopo un processo fiume ipermediatico,
O.J. Simpson era stato rilasciato grazie al talento del suo avvocato (pronipote di
uno schiavo nero), che aveva fatto di tutto per far apparire il proprio cliente come
vittima di una manipolazione razzista da parte della polizia. Da allora e fino alla
sua morte nel marzo 2005, Johnnie Cochran e stato un eroe della comunità nera
americana: «Un Dio», mi dice David Baker.«Infatti sapevo che convincendolo a
trasferirsi ad Anniston, di cui ignorava l’esistenza, avevo gia praticamente vinto la
partita...» «Johnniiiiiiie!» ha gridato la folla quando l’avvocato e salito sul palco,
elegante e impeccabile come sempre. E Johnnie ha parlato, in un silenzio
religioso. Ha saputo trovare le parole per incantare quella piccola città del Sud
degli Stati Uniti, da tempo straziata dalla lotta per i diritti civili. Ha evocato il
ruolo storico di Rosa Parks, una ragazza dell’Alabama, nella lotta contro la
segregazione razziale negli Stati Uniti. Ha citato il vangelo secondo Mattèo:
«Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli piu
piccoli, l’avete fatto a me». Poi ha ricordato la storia di Davide e Golìa, rendendo
omaggio a David Baker, l’uomo che aveva reso possibile l’improbabile incontro.
«Guardando quest’assemblea vedo tanti Davide», si era infiammato Johnnie.
«Non so se vi rendete conto di quanto potere avete... Ogni cittadino ha il diritto di
vivere senza inquinamento, senza PCB, senza mercurio o piombo. un principio
della Costituzione! L’ingiustizia commessa qui dalla Monsanto Il 1° dicembre
1955, Rosa Parks, una sarta nera di ventidue anni, rifiutò di cedere il posto a un
passeggèro bianco su un autobus di Montgomery, in Alabama. Divenne così la
«madre del movimento per i diritti civili» accanto a Martin Luther King, che
aveva lanciato una campagna di boicottaggio degli autobus di quella società di
trasporti. e una minaccia per la giustizia in qualunque altro luogo del mondo! La
vostra lotta e quindi un servizio che offrite al Paese, che non deve piu essere
governato dagli interessi privati dei giganti industriali!» «Amen! Alleluia!» ha
esultato la folla, applaudendo. Nei giorni successivi 18.233 abitanti di Anniston,
fra cui 450 bambini affetti da infermità motrice cerebrale, hanno sfilato di fronte
al piccolo ufficio della Community Against Pollution (CAP), creata nel 1997 da
David Baker per denunciare la Monsanto. Andavano ad aggiungersi ad altri 3516
querelanti, gia riuniti in una class action, una causa legale collettiva, depositata
quattro anni prima. Dopo mezzo secolo trascorso a soffrire in silenzio, quasi tutta
la popolazione nera della città sfidava uno dei piu grandi inquinatori del mondo,
costringendolo ben presto a pagare il maggior indennizzo mai sborsato da
un’azienda nella storia degli Stati Uniti: settecento milioni di dollari!

E’ stata una lotta dura», commenta David Baker, ancora scosso dall’emozione.
«Ma come potevamo immaginare che un’azienda si comportasse in maniera tanto
criminale? Mio fratello Terry e morto a diciassette anni di tumore al cervello e ai
polmoni..E morto per avere mangiato la verdura del nostro orto e il pesce che
pescava in un corso d’acqua altamente contaminato! La Monsanto ha reso
Anniston una città fantasma.» Le origini della Monsanto Tuttavia, Anniston aveva
avuto il suo momento di gloria. Per molto tempo soprannominata «città modello»
o «capitale mondiale del sistema fognario» per la qualità delle infrastrutture
municipali, il piccolo borgo sudista, ricco di ferro, e stato a lungo considerato una
località leader della rivoluzione industriale. Nata ufficialmente nel 1879 in
omaggio alla moglie del proprietario di una ricca fonderia, «Annie’s Tovvn» e
definita la «città magnifica dell’Alabama» nella Costituzione di Atlanta del 1882.

Governata da una minoranza di bianchi laboriosi in grado di reinvestire in loco


il proprio denaro, favorendo così la pace sociale, la cittadina attrae molti
imprenditori, con grande dispiacere di Birmingham, la vicina capitale dello Stato.
E così che nel 1917 la Southern Manganese Corporation decide di aprire uno
stabilimento in cui produrre granate per l’artiglieria. Nel 1925 l’azienda viene
ribattezzata Svvann Chemical Company e, quattro anni dopo, si lancia nella
produzione di PCB, considerati all’unanimità «miracoli chimici», che presto
faranno la fortuna della Monsanto e l’infelicità di Anniston.

I PCB sono derivati chimici clorati che rappresentano la grande avventura


industriale della fine del XIX secolo. Perfezionando le tecniche di raffinamento
del petrolio greggio per estrarne la benzina necessaria alla nascente industria
automobilistica, i chimici identificano le qualità del benzene, un idrocarburo che
sarà ampiamente usato come solvente per la sintesi chimica di farmaci, materie
plastiche o coloranti. Nei laboratori chimici in via di sviluppo, gli apprendisti
stregòni provano a mescolarlo con il cloro e ottengono un nuovo prodotto che si
rivela termicamente stabile e resistente al fuoco. Nascono così i PCB, che per
cinque anni colonizzeranno il mondo: faranno da liquidi refrigeranti nei
trasformatori elettrici e nelle apparecchiature idrauliche industriali, ma anche da
lubrificante in applicazioni varie per plastiche, vernici, inchiostri o carta.

Nel 1935 la Svvann Chemical Company viene acquistata da una società


emergente con sede a Saint Louis, nel Missouri: la Monsanto Chemical Company.
Creata nel 1901 da John Francis Queen, un chimico autodidatta che, anche lui,
volle rendere omaggio alla moglie, Olga Mendez Monsanto, la piccola società,
nata grazie a un prestito personale di cinquemila dollari, all’inizio produce
saccarina, il primo edulcorante sintetico che all’epoca vende esclusivamente a
un’altra azienda emergente della Georgia: la Coca-Cola. Presto arriva a rifornirla
anche di vaniglia e caffeìna, prima di lanciarsi nella produzione dell’aspirina, di
cui rimarrà il principale fornitore degli Stati Uniti fino agli anni Ottanta. Nel 1918
la Monsanto effettua la sua prima acquisizione, comprando un’azienda
dell’lllinois che produce acido solforico.
La svolta verso i prodotti industriali di base la porta all’acquisto di molte
società chimiche negli Stati Uniti, ma anche in Australia, soprattutto dopo la
quotazione alla Borsa di New York nel 1929, avvenuta un mese prima del grande
crollo di Wall Street, al quale l’azienda di Saint Louis sopravvive, ribattezzata
appunto Monsanto Chemical Company.

Negli anni Quaranta diventa uno dei grandi produttori mondiali di caucciù, di
materie plastiche e di fibre sintetiche come il polistirene, ma anche di fosfati,
confermando allo stesso tempo il monopolio sul mercato internazionale dei PCB,
garantito da un brevetto che le permette di vendere licenze un po’ in tutto il
mondo.

«E così che Anniston e divenuta la città piu inquinata degli Stati Uniti », mi
spiega David Baker mentre mi porta a fare un giro in auto nei dintorni. Prima in
centro, in Nobles Street, che negli anni Sessanta era l’orgoglio dei suoi abitanti,
con i molti negozi e i due cinema oggi chiusi. Poi nella zona est, disseminata di
villette in cui per tradizione vive la minoranza bianca. Infine oltre la ferrovia,
nella zona occidentale, dove sono confinati i poveri, per lo piu neri, in piena area
industriale. David e nato qui, cinquantacinque anni fa.

Ci addentriamo in quella che David, giustamente, aveva chiamato «città


fantasma». «Tutte queste case sono abbandonate», commenta mostrandomi, ai lati
della strada, baracche di legno decadenti e in rovina.

«La gente se n’e andata perchè la terra e l’acqua sono altamente contaminati.
All’improvviso, alla fine di una stradina dissestata, una grande via con un
cartello: Monsanto Road. Costeggia lo stabilimento in cui l’azienda ha prodotto i
PCB fino al 1971. Il luogo e protetto da una cancellata e oggi appartiene a Solutia,
una società «indipendente» con sede, anche questa, a Saint Louis, a cui la
Monsanto ha ceduto la divisione chimica nel 1997, tramite una serie di operazioni
di cui l’azienda detiene il segreto e volte a proteggerla dalla tormenta che presto
le sue azioni irresponsabili ad Anniston avrebbero provocato.

«Non siamo stupiti», borbotta David Baker. «Solutia o Monsanto per noi e lo
stesso... Guardi! Ecco il canale di Snovv Creek, in cui l’azienda ha scaricato i
rifiuti per piu di quarant’anni. Partiva dallo stabilimento e attraversava la città,
prima di riversarsi nei corsi d’acqua piu lontani. Era acqua inquinata. La
Monsanto lo sapeva, ma non ha mai detto niente...» Secondo un rapporto
declassificato, redatto segretamente nel marzo dalla Environmental Protection
Agency (EPA), che avrò spesso occasione di citare nel corso del libro, dal 1929 al
1971 ad Anniston sono state prodotte 308.000 tonnellate di PCB.2 Di queste, 27
tonnellate sono state emesse nell’atmosfera, soprattutto durante il trasferimento
dei PCB incandescenti, 810 tonnellate sono state scaricate in canali come quello
di Snovv Creek dopo le operazioni di pulizia dei macchinari, e 32.000 tonnellate
di rifiuti contaminati sono stati depositati in una discarica a cielo aperto situata sul
posto, cioè nel cuore della comunità nera della città.

Cinquecentomila pagine di documenti segreti Cominciamo a fare il giro della


zona a piedi e subito incrociamo un carro funebre, che suona il clacson e si ferma
accanto a noi. il reverendo William», mi spiega David. «Dirige le pompe funebri
di Anniston.

Ha preso il posto dello zio, che e morto da poco di un tumore rarissimo, tipico
della contaminazione da PCB.» «Purtroppo non e l’unico», interviene il reverendo
William. «Quest’anno ho seppellito almeno un centinaio di persone morte di
cancro, fra cui molti giovani dai venti ai quarant’anni...» «E’ stato grazie a suo zio
che ha scoperto il dramma che ci riguarda tutti», continua David. «Per decenni
abbiamo accettato la morte dei nostri cari come una fatàlità inspiegabile...»
Quando Terry, il fratello diciassettenne di David, crolla davanti alla porta di casa,
lui e a New York, dove lavora come funzionario presso il sindacato dei dipendenti
municipali e territoriali. Dopo venticinque anni di fedele servizio, nel 1995 decide
di «tornare a casa», dove l’esperienza di leader sindacale gli tornerà molto utile. Il
caso vuole che venga assunto proprio dalla Monsanto, che all’epoca era in cerca
di «tecnici dell’ambiente», incaricati di decontaminare i dintorni dello
stabilimento. «Era la metà degli anni Novanta», racconta David, «e non eravamo
ancora a conoscenza dei pericoli dell’inquinamento, ma l’azienda cominciava con
discrezione a fare pulizia. E’ stato allora che ho sentito parlare per la prima volta
dei PCB, e che ho cominciato a sospettare ci fosse sotto qualcosa...» Nello stesso
momento Donald Stevvart, un senatore americano che praticava come avvocato
ad Anniston, viene contattato da un abitante nero della zona ovest, che gli chiede
di recarsi alla chiesa battista di Mars Hill, proprio di fronte all’azienda dei PCB. Il
pastore, circondato dai fedeli, lo informa che la Monsanto ha proposto alla
comunità di acquistare il luogo di culto e molte abitazioni del quartiere. Anche
l’avvocato capisce che c’e qualcosa di losco in quell’operazione, e accetta di
rappresentare la piccola comunità. «In realtà», commenta David, «l’azienda
cercava di eliminare tutto cio che aveva attorno, per evitare di dover pagare i
danni agli abitanti, poichè sapeva che prima o poi la questione dell’’inquinamento
sarebbe esplosa.» Così ad Anniston la gente comincia a farsi avanti. L’ex
sindacalista di New York organizza una prima riunione nei locali delle pompe
funebri di Tombstone William, lo zio del reverendo, a cui partecipano una
cinquantina di persone. Fino a tarda notte si elencano le morti e le malattie che
straziano le famiglie, oltre ai problemi dei bambini, i numerosi aborti e le
difficoltà scolastiche dei ragazzi, a cui non si e ancora in grado di attribuire un
nome medico. Dall’incontro nasce l’idea di creare un’associazione, la CAP di cui
ho accennato prima, presieduta proprio da David Baker.

Nel frattempo la questione della chiesa di Mars Hill si e evoluta: la Monsanto


ha proposto un accordo amichevole, mettendo sul piatto un milione di dollari.
Durante una riunione con la piccola comunità battista, l’avvocato Donald Stevvart
scopre che molti sono stati contattati dai rappresentanti dell’azienda, i quali
volevano acquistare le loro abitazioni in cambio di un accordo per non andare in
tribunale. L’avvocato intuisce che c’e sotto qualcosa di veramente grosso e
propone di intraprendere un’azione giudiziaria collettiva. Il comitato di David
Baker e incaricato di reclutare i querelanti, dopo che Donald Stevvart ha fissato
un numero massimo di tremilacinquecento persone.

Stevvart e consapevole di avere avviato la causa della sua vita, nonostante


rischi di essere lunga e costosa. Per fare fronte alle spese, decide di contattare lo
studio newyorchese Kasovvitz & Benson, noto per un’azione legale contro
l’industria del tabacco. L’avventura durerà piu di sette anni, con un investimento
di quindici milioni di dollari e spese giuridiche che ammonteranno fino a
cinquecentomila dollari al mese. La prima fase consiste nell’organizzare prelievi
di sangue e di tessuti organici dei tremilacinquecento querelanti, per misurare i
livelli di PCB. Questi esami, che possono essere realizzati solo da laboratori
specializzati, costano circa mille dollari ciascuno.

Mentre viene organizzato il processo, battezzato Abernathy vs. Monsanto,


Donald Stevvart fa di tutto per mettere mano su alcuni documenti dell’azienda di
Saint Louis che possono dimostrare come fosse al corrente della tossicità dei
PCB. Sa che senza quei documenti e dura vincere, perchè l’azienda potrà sempre
difendersi fingendo di non sapere, ma sa anche che una multinazionale piena di
scienziati funziona in modo molto burocratico, con una gerarchia che controlla
tutto secondo una cultura del documento assai sofisticata: il minimo evento,
ritiene Stevvart, la minima decisione lasciano immancabilmente tracce scritte.
Quindi l’avvocato si immerge nelle deposizioni dei rappresentanti della
Monsanto, analizzandole con scrupolo. Gli capita fra le mani una perla preziosa:
secondo un giurista dell’azienda, una «montagna di documenti» sarebbe stata
depositata nella biblioteca di uno studio di consulenza della Monsanto, a New
York. Cio significa che cinquecentomila pagine sono scomparse, come per magia,
dagli uffici di Saint Louis...
Donald Stevvart chiede di consultarle, ma si sente rispondere che i documenti
sono inaccessibili perchè protetti da quella che negli Stati Uniti si chiama vvork-
product doctrine (letteralmente, «dottrina dei materiali prodotti»): questa specifica
del diritto americano, istituita nel 1947, permette a un avvocato di mettere
l’embargo su alcuni documenti fino all’apertura del processo, per evitare di
fornire informazioni alla parte avversa. Al che Stevvart si rivolge al giudice Joel
Laird, del tribunale di Calhoun County, il quale istruisce la causa Abernathy vs.
Monsanto e ordina così all’azienda di Saint Louis di aprire i propri archivi interni.

La Monsanto sapeva e non ha detto nulla Da allora la «montagna di documenti


e accessibile su un sito dell’Environmental Working Group (EWG),3
un’organizzazione non governativa specializzata nella salvaguardia dell’ambiente
e diretta da Ken Cook, che nel luglio 2006 mi riceve nel suo ufficio di
Washington. Prima di incontrarlo mi sono letteralmente immersa, per notti intere,
in quell’ammasso di note di servizio, documenti scambiati per posta e resoconti
redatti nel corso dei decenni dai rappresentanti dell’azienda di Saint Louis con
una meticolosità e una freddezza kafkiane.

A dire il vero, c’e ancora qualcosa che non mi torna e che non ha mai smesso
di tormentarmi per tutta l’inchiesta: come possono degli esseri umani correre
consapevolmente il rischio di avvelenare i loro clienti e l’ambiente che li
circonda, senza pensare che anche loro, e i propri figli, saranno forse vittime di
quella stessa negligenza (per usare un termine moderato)? Non parlo ne di etica,
ne di morale, concetti estranei alla logica capitalistica, ma semplicemente di
istinto di sopravvivenza: i responsabili della Monsanto ne sono forse sprovvisti?

«Un’azienda come la Monsanto e un mondo a parte», mi spiega Ken Cook, che


confessa di essersi posto le stesse domande. «La ricerca del profitto ha
anestetizzato le sue menti, che hanno un unico obiettivo: fare soldi.» Hanno anche
pubblicato un documento che riassume questo modello di funzionamento. Si
intitola Pollution Letter ed e datato 16 febbraio 1970. Questa nota interna, redatta
da un certo N.Y. Johnson, che lavorava nella sede di Saint Louis, si rivolge agli
agenti commerciali dell’azienda per spiegare loro come rispondere ai clienti,
allarmati dalle prime informazioni pubbliche sulla potenziale pericolosità dei
PCB: «Trovate in allegato una serie di domande che potrebbero porvi i clienti che
riceveranno la lettera riguardante l’Aroclor e i PCB. Potete rispondere come
indicato, ma solo oralmente, non per iscritto. Non possiamo permetterci di
perdere nemmeno un dollaro».
La cosa piu vergognosa e che la Monsanto sapeva che i PCB rappresentavano
un grave rischio per la salute dal 1937. Eppure ha fatto come se niente fosse, fino
a quando sono stati definitivamente vietati nel 1977, data della chiusura dello
stabilimento di Sauget, nella periferia est di Saint Louis, il secondo per la
produzione di PCB della Monsanto.

Nel 1937 il dottor Emett Kelly, direttore del servizio medico dell’azienda,
viene convocato a una riunione presso l’Università di Harvard, a cui partecipano
anche alcuni acquirenti di PCB come Halovvax e General Electric, nonchè dei
rappresentanti del dipartimento della Sanità. Nel corso di quell’incontro, Cecil K.
Drinker, scienziato della venerabile università presenta i risultati di uno studio che
ha condotto su richiesta della Halovvax: un anno prima tre operai di questa
azienda erano morti dopo essere stati esposti a vapori di PCB e molti altri
avevano contratto una malattia della pelle all’epoca sconosciuta, che lasciava
cicatrici permanenti e che piu tardi verrà chiamata «cloracne». Nel prossimo
capìtolo tornerò su questa patologia, indice di intossicazione da diossina, che
si manifesta con un’eruzione di pustole su tutto il corpo e che può durare per anni,
se non per sempre.

I dirigenti della Halovvax, sconvolti, avevano chiesto a Cecil Drinker di testare


i PCB sui topi. I risultati, pubblicati sul Journal of Industrial Hygiene and
Toxicology, erano inequivocabili: le cavie presentavano gravi lesioni al fegato.
L’11 ottobre 1937 un resoconto interno della Monsanto contiene la seguente
laconica constatazione: «Studi sperimentali condotti su animali mostrano che
un’esposizione prolungata ai vapori di Aroclor provoca effetti tossici su tutto
l’organismo. Un contatto fisico ripetuto con il liquido Aroclor puo portare a
eruzioni cutanee simili all’acne».

Diciassette anni dopo il problema della cloracne e oggetto di un rapporto


interno così tecnico da far rabbrividire: «Sette operai di un’azienda che utilizza
Aroclor hanno contratto la cloracne», afferma un dirigente della Monsanto. Ma
senza far trasparire emozioni, continua e precisa: «I test sulla qualità dell’aria
avevano individuato quantità trascurabili di PCB: apparentemente, un’esposizione
debole ma continua non risulta inoffensiva».

Il 14 febbraio 1963 il responsabile della produzione degli Hexagon


Laboratories, altro cliente della Monsanto, invia una lettera al dottor Kelly a Saint
Louis: «In seguito alla nostra conversazione telefonica, le confermo che i due
operai della nostra azienda esposti a vapori di Aroclor 1248 in seguito alla rottura
di un tubo, hanno manifestato i sintomi di un’epatite, come lei aveva pronosticato,
e pertanto hanno dovuto essere ricoverati. [... ] Ritengo che sulle istruzioni di
utilizzo del prodotto dovrebbe comparire una descrizione piu rigorosa e chiara dei
pericoli che presenta».

Non solo l’azienda di Saint Louis non seguirà la raccomandazione del cliente,
ma opporrà persino resistenza quando, nel 1958, sarà approvata una legge che
mira a rafforzare le precauzioni per l’uso dei prodotti tossici: «E nostro desiderio
rispettare la regolamentazione con il minimo sforzo e senza dare informazioni
troppo precise che potrebbero penalizzare la nostra posizione commerciale nel
campo dei liquidi idraulici sintetici». Ecco qualcuno che ha il dono della
chiarezza.

Talvolta, a fronte delle pressioni dei loro clienti, i responsabili della Monsanto
si perdono in circonvoluzioni ridicole, se pensiamo alla posta in gioco.
Nell’agosto 1960 un certo M. Facini, produttore di compressori di Chicago, si
preoccupa delle conseguenze ambientali dello smaltimento nei fiumi di rifiuti
contenenti PCB, e la Monsanto risponde: «Se una piccola quantità di queste
sostanze viene rovesciata accidentalmente in un corso d’acqua, non dovrebbero
esserci effetti gravi», scrive un dirigente del dipartimento medico dell’azienda.
«Invece, se venissero scaricate quantità maggiori, i danni sarebbero
probabilmente ingenti...» Nel corso degli anni, tuttavia, i toni cambiano, forse
perchè lo spettro di un’azione legale intentata dai clienti incombe sempre di piu
sull’azienda di Saint Louis. Nel 1965 una comunicazione interna riporta una
conversazione telefonica tra un addetto della Monsanto e il responsabile di una
società elettrica che usa l’Aroclor 1248 come refrigerante per motori. A quanto
pare, l’uomo avrebbe raccontato che getti bollenti di PCB inondavano il suolo del
suo stabilimento. Commento della Monsanto: «Sono stato di una franchezza
brutale dicendogli che doveva assolutamente impedirlo, prima di causare la morte
di qualcuno per danni al fegato o ai reni...» Un «comportamento criminale» A
fronte di informazioni allarmanti, capita di sentire (rare) voci che si oppongono
all’inerzia dilagante, per esempio quella del dottor J.W.

Barrett, uno scienziato della Monsanto di Londra, che nel 1955 suggerisce di
effettuare degli studi per valutare in modo rigoroso gli effetti tossici dell’Aroclor.
Ma il dottor Kelly gli risponde bruscamente: «Non vedo quale particolare
vantaggio si possa trarre da ulteriori studi...» Due anni dopo il responsabile del
dipartimento medico commenta con la stessa perentorietà i risultati di un
esperimento condotto dalla Marina con il Pydraul 150, un PCB usato come fluido
idraulico nei sottomarini: «L’applicazione cutanea ha provocato la morte di tutti i
conìgli testati. La Marina ha deciso di non impiegare piu il nostro prodotto a
causa degli effetti tossici. Non siamo riusciti a impedirlo».

Leggendo questi documenti e sorprendente constatare come niente sia in grado


di scall’ire la multinazionale e cambiarne l’atteggiamento.

Accumula coscienziosamente dati allarmanti che si affretta a rinchiudere in un


cassetto, con lo sguardo puntato solo sulle vendite: «Piu di mille tonnellate
all’anno», si rallegra l’autore di un documento del 1952.

Così, il 2 novembre 1966 arriva a Saint Louis il resoconto di un esperimento


condotto, su richiesta della Monsanto, dal professor Denzel Ferguson, biologo
dell’Università del Mississippi. La sua equipe ha liberato venticinque pesci
cresciuti in cattività nelle acque dello Snovv Creek, in cui vengono scaricati gli
scarti di produzione e che, come abbiamo visto, attraversa la città di
Anniston.«Tutti hanno perso l’orientamento e sono morti in tre minuti e mezzo
sputando sangue», dichiara lo scienziato, secondo cui in certi punti l’acqua e così
inquinata da «uccidere i pesci anche se diluita trecento volte». Emergono due
raccomandazioni: «Non gettate piu rifiuti non trattati! Pulite lo Snovv Creek!»
Conclusione: «Lo Snovv Creek e una potenziale fonte di problemi legali. [... ] La
Monsanto deve misurare gli effetti biologici dei propri rifiuti per proteggersi da
eventuali accuse».

Alla fine dello stesso mese gli uffici di Bruxelles della Monsanto Europe
ricevono un messaggio da un corrispondente di Stoccolma, che riassume un
incontro dedicato alle analisi di un ricercatore svedese, Soren Jensen. Pubblicato
dal New Scientist,4 in Svezia il lavoro dello scienziato aveva provocato un certo
clamore: analizzando il DDT nei campioni di sangue umano, il dottor Jensen
aveva casualmente scoperto una nuova sostanza tossica che si e rivelata un PCB.
Ironia della sorte, il DDT, un potente insetticìda scoperto in Svizzera nel 1939, e
un altro prodotto chimico clorato ampiamente venduto dalla Monsanto, fino a
quando e stato definitivamente bandito nei primi anni Settanta, soprattutto a causa
degli effetti che aveva sulla salute umana... Quindi il dottor Jensen scopre che i
PCB hanno gia largamente contaminato l’ambiente, pur non essendo prodotti in
territorio svedese: ne ha ritrovate quantità significative nei salmoni pescati sulle
coste, e persino nei capelli della sua famiglia (nei due figli di tre e sei anni, e
soprattutto nella moglie e nel piccolo di cinque mesi, contaminato dal latte
materno). Jensen giunge così alla conclusione che i «PCB si accumulano nella
catena alimentare e soprattutto negli organi e nei tessuti degli animali, risultando
tossici almeno quanto il DDT».
Eppure, la rotta della Monsanto non cambia: un anno dopo approva un credito
supplementare di 2,9 milioni di dollari per sviluppare una gamma di prodotti
Aroclor ad Anniston e a Sauget... «L’irresponsabilità dell’azienda e allucinante»,
commenta Ken Cook. «Sebbene abbia tutti i dati alla mano, non muove un dito.
Ecco perchè definisco criminale il suo comportamento.» Di fatto, nello
stabilimento di Anniston non viene attuata nessuna misura specifica per
proteggere gli operai: «Non sono dotati di indumenti protettivi», afferma un
documento del 1955. «Era così prima della guerra, ma adesso le cose sono
cambiate.» L’unica raccomandazione espressa con chiarezza e di «non ingerire
alcunche nel laboratorio dell’Aroclor».

L’azienda di Saint Louis accumula con discrezione i dati che le si ritorceranno


contro vent’anni dopo: «Gli effetti dell’esposizione ai PCB sugli operai sono stati
analizzati dal nostro dipartimento medico e da un consulente indipendente
dell’Eppley Institute dell’Università del Nebraska», spiega William Papageorge,
soprannominato «lo zar dei PCB», in quanto supervisore alla produzione della
Monsanto per parecchi anni.

«E stato dimostrato che i nostri operai sono stati effettivamente infettati dai
PCB.» Allo stesso modo, i tecnici dell’azienda confermano, con osservazioni di
prima mano, che i prodotti tossici persistono nell’ambiente per almeno trent’anni.
In effetti, nel 1939 alcuni PCB erano stati sotterrati per testarne l’efficacia come
antitermiti: «La presenza di Aroclor e ancora visibile», osserva un «funzionario»
nel 1969!

«La cosa peggiore», sospira Ken Cook, «e che la Monsanto non ha mai
avvertito gli abitanti di Anniston che l’acqua, il suolo e l’aria della zona
occidentale della città erano altamente contaminati. Quanto alle autorità
governative e locali, non solo hanno chiuso gli occhi, ma hanno addirittura
coadiuvato le manovre dell’azienda. E uno scandalo! Forse una spiegazione di
questo dramma e il razzismo dei dirigenti dell’epoca: dopotutto, erano solo un
ammasso di neri...» Complicità e manipolazione Nella primavera del 1970,
quando l’amministrazione di Washington ha appena annunciato in pompa magna
la creazione (per il luglio successivo) dell’EPA, in risposta alla «domanda
crescente di acqua, aria e terreno puliti», come spiega oggi il sito
dell’organizzazione, la Monsanto prende il sopravvento: una comunicazione del 7
maggio, classificata come «confidenziale», descrive la visita di alcuni dirigenti
dell’azienda a Joe Crockett, direttore tecnico dell’Alabama Water Improvement
Commission (AWIC), l’organismo pubblico incaricato dell’approvvigionamento
d’acqua dello Stato. L’obiettivo era di «informare il rappresentante dell’AWIC
sulla situazione» e di «renderlo fiducioso [corsivo mio] del fatto che la Monsanto
si impegnerà a collaborare con le agenzie governative per definire gli effetti dei
PCB sull’ambiente». Insomma, si trattava di un’operazione di pubbliche relazioni,
del resto ben riuscita, visto che Joe Crockett ha raccomandato di «non portare
quelle informazioni all’attenzione del pubblico». «Possiamo contare sulla
collaborazione totale dell’AWIC in totale segretezza», conclude la
comunicazione.

Nello stesso momento la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia


federale incaricata della sicurezza degli alimenti e dei farmaci, effettuava un test
sui pesci pescati alla confluenza dello Snovv Creek e di un altro corso d’acqua, il
Choccolocco Creek: il tasso di PCB era in media di 277 ppm* mentre il livello
tollerato per il consumo era solo di 5 ppm.

La FDA non ha attivato misure ne per impedire la pesca nei corsi d’acqua
incriminati, ne contro la Monsanto, che ha avuto così l’occasione di mettere alla
prova la «collaborazione» con l’AWIC: «Attualmente scarichiamo nello Snovv
Creek circa sette chilogrammi di PCB al giorno (rispetto ai centotredici del
1969)», afferma un documento dell’agosto 1970, contrassegnato come
«confidenziale, distruggere dopo la lettura».

«Joe Crockett cercherà di risolvere il problema con discrezione, senza


informarne il pubblico.» Quindi gli abitanti di Anniston hanno continuato a
consumare i pesci pescati nei corsi d’acqua contaminati fino al 1993, data del
primo divieto di pesca emesso dalla FDA.

Ma il lassismo - o come diranno alcuni, il cinismo - della Monsanto non si


ferma qui. Come abbiamo visto, l’azienda scaricava una parte dei rifiuti in una
discarica in prossimità dello stabilimento che, con la pioggia, diffondeva sostanze
pericolose negli orti circostanti, coltivati dagli operai. Nel dicembre 1970 un
abitante del quartiere, che faceva pascolare un maiale su un terreno incolto
adiacente alla discarica, e stato avvicinato da un rappresentante della Monsanto,
che gli ha proposto di vendergli l’animale. Secondo un documento interno
all’azienda, l’animale e stato abbattuto e analizzato: il suo grasso conteneva
19.000 ppm di PCB...5 Ma ancora una volta nessuna informazione e trapelata fra
gli abitanti, che per molti anni hanno continuato a far pascolare i maiali su quel
terreno incolto.

In realtà, tutto spinge a pensare che l’unico interesse dell’azienda di Saint


Louis fossero i propri affari. Nell’agosto 1969, quando i PCB attirano sempre di
piu l’attenzione dei media, la dirigenza Monsanto decide di creare un comitato ad
hoc incaricato di fare il punto della situazione.

Pubblica quindi un rapporto «confidenziale» che comincia con una serie di


obiettivi: «Tutelare le vendite e i profitti di Aroclor, oltre che l’immagine
dell’azienda». Segue una lunga lista di casi di contaminazione registrati nel Paese.
Si scopre così che un ricercatore dell’Università della California ha individuato
tassi elevati di PCB nei pesci, negli uccelli e nelle uova della regione costiera;6
uno studio della FDA ha mostrato che i PCB erano stati ritrovati nel latte
proveniente da mandrie del Maryland e della Georgia; un altro esame condotto dal
laboratorio dell’Agenzia per la pesca commerciale della Florida ha rilevato che i
piccoli di gambero non riuscivano a sopravvivere in un’acqua con 5 ppm di PCB.
Leggendo il rapporto si capisce anche che i PCB sono ovunque: servono da
lubrificanti nelle turbine, nelle pompe o nei distributori di alimenti per bovini, nei
silos di cereali, nelle piscine (soprattutto in Europa) e nella segnaletica
autostradale, nella composizione degli oli per il trattamento dei metalli, nelle
saldature, negli adesivi, nelle carte copiative senza carbone eccetera.

PPM: Parte per milione, cioè lo 0,0001 per cento del peso. Unità di misura
spesso usata dai tossicologi per misurare il residuo di un prodotto tossico negli
alimenti o nell’ambiente.

«A mano a mano che l’allarme per l’inquinamento ambientale cresce, e quasi


automatico che un certo numero di nostri clienti o di loro prodotti saranno messi
sotto accusa. L’azienda rischia di essere considerata moralmente, o addirittura
legalmente, delittuosa se non informerà tutti i suoi clienti delle possibili
implicazioni», sottolinea il comitato. E conclude: «Di fronte a questa situazione di
emergenza, che mette in pericolo una linea di prodotti molto redditizi, e
necessario usare mezzi finanziari e umani per tutelarsi...» In pratica, cio che
propone la Monsanto non e di ammettere la propria colpa, semplicemente
ritirando la gamma Aroclor dal mercato, ma di fare di tutto per continuare a
venderla, grazie a un piano di battaglia la cui prima mossa consiste nel finanziare
uno studio tossicologico per testare i PCB sui topi. Perciò l’azienda firma un
contratto con gli Industrial Bio-Test Labs (IBT) di Northbrook, nell’Illinois, fra i
cui dirigenti figura il dottor Paul Wright, tossicologo della Monsanto reclutato per
l’occasione. Qualche mese piu tardi giungono i primi esiti dello studio: «I

PCB mostrano un grado di tossicità ancora piu elevato del previsto. [... ]

Esistono altri risultati provvisori, forse ancora piu scoraggianti», commenta un


rappresentante del dipartimento medico della Monsanto. Segue una lettera a
Joseph Calandra, dirigente degli IBT: «Siamo delusi per gli alti livelli di tossicità
rilevati. Speriamo che il prossimo campione darà risultati meno sconfortanti». Nel
luglio 1975 un rapporto preliminare viene indirizzato allo stesso dipartimento, il
quale lo modifica proponendo di sostituire la conclusione «che possono portare a
tumori benigni» con la frase «che sembrano non essere cancerogeni».

Il «rapporto», destinato a smorzare la polemica che continua a crescere nel


corso degli anni Settanta, sarà pubblicato e relegato, dopo tre anni, in un armadio
della Monsanto: dopo un’inchiesta condotta congiuntamente dalla FDA e
dall’EPA, i dirigenti degli IBT (fra cui Paul Wright, che nel frattempo aveva
occupato il proprio posto a Saint Louis) sono stati condannati per «frode» al
termine di un lungo processo. Avevano evidentemente manipolato i risultati di
alcuni studi per soddisfare i propri clienti. Stranamente, il processo non affronta
nello specifico lo studio dei PCB ma, piu tardi, si scoprirà che l’82 per cento dei
topi nutriti con alimenti contenenti 10 ppm di Aroclor avevano sviluppato un
tumore (con 100 ppm la percentuale era del 100 per cento).

Nonostante gli sforzi, i dirigenti della Monsanto non hanno potuto evitare
«l’irreparabile»: il 31 ottobre 1977 la produzione dei PCB viene definitivamente
vietata negli Stati Uniti, ma non in Gran Bretagna, dove la multinazionale
possedeva una filiale a Newport, nel Galles, ne in Francia, dove la Prodelec ferma
la produzione solo nel 1987, ne in Germania (Bayer), ne in Spagna. Il 29
settembre 1976 gli uffici di Saint Louis inviano un messaggio alla Monsanto
Europe con un modello domanda-risposta, utile in caso di interviste. Si legge: «Se
vi fanno domande sulla cancerogenicità dei PCB, fornite la seguente risposta, che
attribuirete a George Roush, direttore del dipartimento salute e ambiente della
Monsanto: ‘Gli esami sanitari preliminari condotti sui nostri operai che lavorano
con i PCB, oltre agli studi a lungo termine realizzati sugli animali, non ci
permettono di ritenere che i PCB siano cancerogeni.

Un veleno tossico quanto la diossina «Tutti abbiamo PCB nell’organismo», mi


dice il professor David Carpenter, direttore dell’Istituto per la salute e l’ambiente
dell’Università di Albany, nello Stato di New York. Appartengono a una categoria
di dodici inquinanti chimici molto pericolosi chiamati «inquinanti organici
persistenti», perchè resistono alla degradazione biologica naturale accumulandosi
nei tessuti degli organismi viventi attraverso la catena alimentare.

«I PCB hanno contaminato tutto il Pianeta, dall’Artico all’Antartico, e


un’esposizione regolare può portare a tumori, soprattutto a fegato, pancreas,
intestino, seno, polmoni e cervello, a malattie cardiovascolari, ipertensione,
diabete, a una riduzione delle difese immunitarie, a disfunzioni della tiroide e
degli ormoni sessuali, a problemi della riproduzione oltre che a disturbi
neurologici gravi, perchè alcuni PCB appartengono alla famiglia delle diossine...»
Il professor Carpenter mi spiega inoltre che i PCB sono molecole di bifenili in cui
uno o piu dei dieci atomi di idrogeno sono sostituiti da atomi di cloro. Esistono
quindi duecentonove combinazioni possibili e duecentonove PCB diversi - si
parla di «congeneri» - la cui tossicità varia secondo il grado di clorazione legata
alla posizione e al numero di atomi di cloro presenti nella molecola.

Mentre scrivo non posso fare a meno di sfogliare Le Nouvel Observateur del
23 agosto 2007, che, dopo Le Monde, Liberation e Le Figaro, ha parlato di quello
che il Dauphine Libere ha chiamato «Cernobyl alla francese»:7 «Il Rodano e
inquinato sino alla foce», scrive il settimanale.

«Presenta tassi di PCB da cinque a dodici volte superiori alle norme sanitarie
europee!* Analisi dopo analisi, le ordinanze della prefettura sono arrivate una
dietro l’altra: il divieto di consumo dei pesci, decretato prima a nord di Lione, poi
esteso sino ai confini della Drome e dell’Ardeche, dal 7 agosto ha interessato
anche i dipartimenti della Valchiusa, del Gard e delle Bocche del Rodano.
Potrebbe presto diffondersi alle acque della Camargue, alimentate dal fiume, e
persino influire sulla pesca costiera nel Mediterraneo e su quella di crostacei
marini...» L’allarme e stato lanciato casualmente da un pescatore professionista
tradito dalla sua buona fede: «A fine 2004 abbiamo trovato degli uccelli morti a
nord di Lione», spiega a un mio collega giornalista. «Per tutta la durata delle
analisi, i servizi veterinari, per precauzione, hanno vietato il consumo del pescato.
Era solo un caso di botulismo strettamente aviario, ma nessuno voleva piu i miei
pesci. Ho richiesto analisi complete per dimostrare che erano buoni, e invece...
erano pieni di PCB!»

Secondo Le Monde del 26 giugno 2007, «il pesce piu contaminato conteneva
una dose quaranta volte superiore a quella quotidianamente accettabile».
Da allora i servizi statali si affannano per determinare le origini
dell’inquinamento, che interesserebbe centinaia di migliaia di tonnellate di
sedimenti del Rodano. Come abbiamo visto, in Francia la vendita e l’acquisto di
PCB o di apparecchiature che ne contengano sono vietati dal 1987. Un decreto del
18 gennaio 2001 ha inserito nella legislazione francese una direttiva europea del
16 settembre 1996 (cinque anni dopo!) riguardante l’eliminazione dei PCB ancora
esistenti, che dovranno sparire definitivamente entro il 31 dicembre 2010. Un
piano nazionale di decontaminazione e di eliminazione delle apparecchiature
contenenti PCB e stato messo in atto solo nel 2003. Secondo l’agenzia francese
per l’ambiente e la gestione dell’energia (ADEME), al 30 giugno 2002 sarebbero
state rilevate in Francia 545.610 apparecchiature contenenti piu di cinque litri di
PCB (di cui 450.000 appartenenti a EDF, il gruppo energetico francese), per un
totale di 33.462 tonnellate di PCB da eliminare. Ma per France Nature
Environnement (FNE) si e ancora molto lontani dall’obiettivo, dato che la
dichiarazione delle strumentazioni da trattare e volontaria. «Il nostro timore e di
vedere inquinanti a base di PCB dispersi nell’ambiente a causa di smaltimenti non
sorvegliati di rifiuti, abbandonati in modo selvaggio o semplicemente smaltiti
come ferro vecchio», scrive l’associazione in una lettera informativa del febbraio
2007.9

«Il problema», mi spiega il professor David Carpenter, «e che i PCB sono


molto difficili da distruggere. L’unico modo e bruciarli ad altissime temperature
dentro inceneritori capaci di trattare anche la diossina che ne provoca la
combustione.» In Francia le aziende omologate per condurre questa delicata
operazione sono due: una si trova a Saint-Auban, nelle Alpi dell’Alta Provenza,
l’altra a Saint-Vulbas, nell’Ain, lungo il Rodano. Secondo le informazioni
raccolte da Le Nouvel Observateur, fino al 1988 quest’ultima era autorizzata a
scaricare quotidianamente nel fiume tre chilogrammi di residui di PCB (oggi la
quantità massima e di tre grammi al giorno). A questa possibile fonte di
contaminazione si aggiungono probabilmente anche i rifiuti prodotti dalle
numerose aziende che usano il Pyralene nella zona del Rodano (nota come
«corridoio chimico»), e che hanno scaricato i loro oli al PCB nel terreno, nelle
falde freatiche e nei corsi d’acqua vicini. «Per decenni negli Stati Uniti e nel resto
del mondo le autorità pubbliche hanno accettato il silenzio della Monsanto sulla
tossicità dei PCB», commenta il professor Carpenter. «Tutti hanno chiuso gli
occhi sugli effetti di questo veleno, pericoloso quanto la diossina.» Basta leggere
il documento redatto dal dipartimento della Sanità e dall’EPA, e inviato al
Congresso americano nel 1996, per capire che in realtà le «implicazioni sanitarie
dell’esplosione di PCB» sono gravissime.10 In una trentina di pagine presenta
ben centocinquantanove studi scientifici condotti negli Stati Uniti, in Europa e in
Giappone, tutti con le stesse conclusioni: le tre fonti principali di contaminazione
umana da PCB sono l’esposizione diretta sul posto di lavoro, vivere in prossimità
di un luogo inquinato e, soprattutto, la catena alimentare, in cui il pesce e
l’elemento piu rischioso. Inoltre, tutti i ricercatori hanno constatato che le madri
contaminate trasmettevano i PCB attraverso il latte materno, provocando danni
neurologici irreparabili nei neonati, che venivano colpiti da quelli che i medici
chiamano «disordini dell’attenzione» e avevano un QI decisamente inferiore alla
media.

La tossicità devastante dei PCB ha potuto essere minuziosamente studiata a


causa di un incidente accaduto in Giappone nel 1968, quando milletrecento
persone della regione di Kyushu hanno consumato olio di riso contaminato da
PCB, in seguito a una fuga in un sistema di refrigerazione. Sono state colpite da
una malattia inizialmente chiamata yusho (cioè «malattia dermatologica
proveniente dall’olio»), e caratterizzata da eruzioni cutanee gravi, scolorimento di
labbra e unghie e rigonfiamento delle articolazioni. Quando si e capìto che
l’origine della misteriosa malattia erano i PCB, alcuni ricercatori hanno avviato
un follovv-up medico a lungo termine sulle vittime. I risultati mostrano che i
bambini nati da madri contaminate durante la gravidanza presentavano un tasso di
mortalità precoce e/o un ritardo mentale e comportamentale significativi; inoltre,
il tasso di tumori al fegato era quindici volte piu elevato nelle vittime che nella
popolazione normale, mentre la speranza di vita media si era considerevolmente
ridotta. Infine, i PCB erano ancora individuabili nel sangue e nel sebo delle
persone contaminate ventisei anni dopo l’incidente.

Questi risultati sono stati confermati da uno studio condotto su duemila


soggetti di Taiwan, contaminati nel 1979 nelle stesse condizioni dei loro vicini
giapponesi (incidente di Yu-Cheng).11 Questi due drammatici eventi spiegano il
timore delle autorità belghe quando, nel gennaio 1999, e scoppiata la questione
dei «polli alla diossina». Bisognava anche considerare la mescolanza accidentale
dei PCB con gli oli di cottura, in seguito introdotti negli alimenti destinati a polli,
maiali e bovini di allevamenti intensivi.

Della serie di studi presentati nel documento dell’EPA, ne ricorderò altri due
particolarmente drammatici. Uno riguarda duecentoquarantadue bambini nati da
madri di origine amerinda o mogli di pescatori amatoriali che avevano
regolarmente consumato pesce del Lago Michigan sei anni prima o durante la
gravidanza: tutti presentavano un calo di peso alla nascita e un deficit persistente
dell’apprendimento cognitivo. L’altro documento riguarda gli inuit della baia di
Hudson, anche loro particolarmente esposti: la contaminazione massima, in
effetti, e stata registrata a monte della catena alimentare, nei mammiferi marini
come le foche, gli orsi polari e le balene, di cui alcune specie, come le orche, sono
minacciate di estinzione da PCB.12

La continua negazione dell’evidenza «Non esistono prove convincenti che i


PCB siano associati a effetti sanitari gravi a lungo termine»,13 dichiarava John
Hunter, presidente della Solutia, il 14 gennaio 2002 in una conferenza a cui aveva
invitato azionisti e rappresentanti della stampa. Hunter cercava di alleviare
l’effetto di un articolo del Washington Post intitolato «La Monsanto nasconde
decenni di inquinamento»14 e pubblicato il 2 gennaio 2002, giorno dell’apertura
del processo Abernathy vs. Monsanto. «Nonostante lo spessore del dossier
scientifico, i documenti interni e le testimonianze, gli industriali di Saint Louis
hanno continuato a negare la responsabilità dell’azienda nel disastro ecologico e
sanitario di Anniston», commenta il professor Carpenter, convocato come esperto
scientifico in occasione del processo.

«Non hanno mai mostrato la benchè minima compassione per le vittime», mi


conferma Ken Cook, «non una parola di scuse o un segno di dispiacere, ma una
costante negazione dell’evidenza! La loro linea di difesa si puo riassumere così:
‘Prima della fine degli anni Sessanta non sapevamo che i PCB fossero pericolosi,
ma appena l’abbiamo saputo abbiamo agìto con tempestività per risolvere la
questione con le agenzie governative’.

Sfogliando i documenti del processo si rimane sconvolti dall’arroganza di


alcuni rappresentanti dell’azienda, che non vuole riconoscere le proprie colpe.
Ecco, per esempio, un estratto dell’udienza di William Papageorge nell’ambito
dell’istruttoria del 31 marzo 1998 presso il tribunale di Calhoun County: «La
Monsanto ha forse informato gli abitanti di Anniston che ogni giorno lo
stabilimento rilasciava circa dodici chilogrammi di rifiuti provenienti dalla
produzione di Aroclor?» lo interroga il giudice.

«Non c’era motivo di farlo, erano quantità insignificanti», risponde William


Papageorge.

«Quindi la risposta e no?» «Esatto.» «Qualcuno ha informato gli abitanti che la


Monsanto usava lo Snovv Creek e il Choccolocco Creek per determinare gli
effetti sull’acqua dei PCB provenienti dall’azienda?» “E come se chiedeste a un
benzinaio di informare i vicini che la sua stazione di servizio lascia tracce di olio
e di benzina sul pavimento. Sarebbe del tutto controproducente...» «La risposta e
no?» «Si...» «La Monsanto ha fornito agli abitanti di Anniston informazioni sui
rischi per la salute legati ai PCB?» «Perchè avremmo dovuto farlo?» Il 23
febbraio 2002, dopo cinque ore passate a deliberare, la giuria emette il verdetto e
all’unanimità dichiara la Monsanto e la Solutia colpevoli di avere inquinato «il
territorio di Anniston e il sangue della sua popolazione con i PCB».15 I motivi
della condanna sono: «Negligenza, abbandono, frode, attentato a persone e cose,
molestie». La sentenza e accompagnata da un severo giudizio sul comportamento
della Monsanto, che ha «superato tutti i limiti della decenza, mostrandosi crudele
e intollerabile da parte di una società civilizzata». Presto l’azienda si appellerà
alla Corte suprema dell’ Alabama, chiedendo che il giudice Joel Laird sia privato
del dossier, ma la richiesta viene respinta. Ai giurati spetta allora un compito
delicato: valutare i risarcimenti che spettano a ogni vittima sulla base dei valori di
PCB presenti nel sangue di ciascuno, nonchè il costo del programma di
decontaminazione del luogo. Il 15 per cento dei 3516 querelanti presenta nel
sangue un tasso di PCB superiore a 20 ppm, con picchi di 60, se non di 100 ppm
(la soglia accettabile, lo ricordo, e di ppm). David Baker, da parte sua, ne ha 341
ppm e, per questo, otterrà trentatremila dollari di risarcimento, mentre l’indennità
piu alta aarriverà a cinquecentomila dollari.

Un mese dopo la sentenza l’EPA, che ha brillato per inattività per oltre
vent’anni, annuncia di avere firmato un accordo con la Solutia per decontaminare
la zona. Questa decisione, favorevole per l’inquinatore e sufficiente ad azzerare il
lavoro dei giurati, provoca la collera di Richard Shelby, senatore dell’Alabama e
membro del comitato incaricato di sorvegliare le agenzie governative. Si scopre
così che Linda Fisher, numero due dell’EPA, e un ex dirigente della Monsanto...

Nello stesso momento il tribunale di Birmingham annuncia che il processo


Tolbert vs. Monsanto, l’azione collettiva condotta da Johnnie Cochran, si aprirà
nell’ottobre 2002. Alla Borsa di New York le azioni della Solutia subiscono un
crollo. Comincia così una lunga opera di persuasione del giudice federale U.W.
Clemon, che per evitare un processo assai costoso convince le parti a cercare un
accordo amichevole che metta insieme le due cause, Abernathy vs. Monsanto e
Tolbert vs. Monsanto. Finora l’azienda di Saint Louis aveva sempre rifiutato
quella soluzione, forse sperando di esaurire finanziariamente l’accusa,
moltiplicando i ricorsi tecnico-giuridici e le misure delatorie. «In realtà», mi
spiega David Baker, «la prospettiva di un processo ipermediatico con Johnnie
Cochran alla sbarra ha fatto indietreggiare la Monsanto, che ha preferito
negoziare per limitare la pubblicità negativa». Alla fine l’inquinatore propone un
risarcimento di settecento milioni di dollari, di cui seicento saranno divisi in due
fondi uguali destinati all’indennità delle vittime, e cento serviranno a
decontaminare l’area e a finanziare una clinica specializzata.16

«Chi pagherà?» si interroga il St. Louis Post-Dispatch il 7 febbraio 2004. Di


fatto la questione e un vero e proprio rompicapo: come abbiamo visto, la
Monsanto si era liberata della divisione chimica nel 1997, vendendola alla
Solutia. Poi, il 19 dicembre 1999 l’azienda, che all’epoca aveva un ramo
farmaceutico e uno agroindustriale (sementi transgèniche e Round-up), annuncia
la fusione con la Pharmacia & Upjohn, dando vita alla nuova Pharmacia.
Nell’estate del 2002 la Monsanto torna a essere indipendente, conservando solo la
divisione agroindustriale, mentre la Pharmacia viene acquistata dal gigante
farmaceutico Pfizer. I settecento milioni di dollari saranno finalmente versati da
Solutia (cinquanta milioni), Monsanto (trecentonovanta milioni) e Pfizer
(settantacinque milioni), con una copertura del saldo da parte delle assicurazioni.

Gli avvocati intascano il 40 per cento della somma riservata alle vittime, cosa
che provoca un certo malcontento. «E così che funziona il sistema americano», mi
spiega David Baker. «In questo tipo di cause gli avvocati sono pagati solo se
vincono, e Johnnie Cochran, per esempio, aveva speso sette milioni di dollari per
preparare il processo. Cio significa che se non si trova un Johnnie Cochran, contro
un’azienda come la Monsanto non si puo fare niente. Ma la cosa che mi
infastidisce di piu e che nessun dirigente e stato condannato...» Negli Stati Uniti
lo statuto giuridico di cio che si definisce una corporation la rende persona
giuridica, mettendone i dirigenti al riparo da qualunque tipo di ripercussione a
titolo individuale. «Nel sistema giuridico americano», commenta Ken Cook, «e
raro che i dirigenti d’impresa siano considerati penalmente responsabili. Si ha
invece la possibilità di attaccare l’azienda dal punto di vista civile. Si puo farla
pagare. In realtà, i danni pagati decenni dopo dalle varie aziende rappresentano
solo una frazione dei loro profitti. Quindi a loro conviene mantenere il segreto...

Potremmo chiederci quali segreti la Monsanto abbia in serbo adesso.

Non ci si puo mai fidare di una grande azienda per sapere la verità su un
prodotto o su un problema di inquinamento.» I PCB sono ovunque Secondo
stime concordanti, tra il 1929 e il 1989 sono state prodotte un milione e mezzo di
tonnellate di PCB, di cui una grossa quantità sarebbe finita nell’ambiente. Quanto
esattamente? Difficile dirlo. Resta il fatto che i PCB sono ovunque e costituiscono
un incubo per noi cittadini, ma anche per la Monsanto (e per la sua compare
Solutia, che nel 2003 ha dichiarato fallimento, soprattutto per le molte cause
giudiziarie che ha ereditato).

Piccolo dettaglio non esaustivo: nel gennaio 2003 il ministero dell’Ambiente


di Oslo ha inflitto un’ammenda di sette milioni di euro a Bayer, Kaneka e Solutia
per avere contaminato il fiordo in cui si trova il porto con i PCB usati per la
pittura delle barche. (Da notare che numerosi esperti, fra cui il professor David
Carpenter, sconsigliavano di consumare salmoni di allevamento norvegesi e
scozzesi...) Nel gennaio 2006 cinquecentonovanta dipendenti di uno stabilimento
della General Electric di New York hanno citato in giudizio la Monsanto per
contaminazione da PCB.17

Nel 2007, mentre la Francia scopriva che il Rodano e inquinato da PCB, il


Galles veniva scosso da uno scandalo rimasto in sordina per oltre quarant’anni.18
Come ho gia detto, a Newport la Monsanto possedeva una filiale che fino al 1978
produceva il 12 per cento dei PCB del mondo. Dal 1965 al 1971 lo stabilimento
ha scaricato a Brofiscin, in una vecchia cava calcarea estremamente porosa, circa
ottocentomila tonnellate di rifiuti contaminati da PCB. La cosa era stata a suo
tempo denunciata da alcuni contadini, che avevano constatato una morìa
misteriosa di bestiame. La decontaminazione dell’area potrebbe costare piu di
duecento milioni di euro. Per ora la Monsanto e la Solutia incolpano l’azienda con
cui lo stabilimento di Newport aveva stipulato un contratto per il trasporto e lo
smaltimento dei rifiuti.

Oltre alle inquietudini riguardo all’ambiente che riempiono le pagine dei


giornali, c’e da scommettere che anche lo spettro dei PCB ossessionerà a lungo
l’azienda di Saint Louis, proprio come le diossine, di cui e stata un produttore
incallito.

2. Diossina: un inquinante al servizio del Pentagono

«Siamo convinti che il nostro atteggiamento globale, come impresa e come


cittadini, debba essere guidato da una politica a favore dei diritti dell’uomo, per
mostrare l’importanza che ha per noi il rispetto dei dipendenti e delle persone
toccate dal nostro agire.» Monsanto, The Pledge Report 2005, p. 25

«La diossina? Non mi fa chiudere occhio da venticinque anni», sospira


Marilyn Leistner parcheggiando l’auto davanti al Route 66 Museum, a una
trentina di chilometri da Saint Louis. «Si guardi intorno. Di Times Beach non c’e
piu traccia. Chi penserebbe che qui c’era un comune di millequattrocento
abitanti?» Difficile da immaginare, in effetti. Davanti a noi, in questo mese di
ottobre 2006, un edificio messo a nuovo ospita un memoriale kitch dedicato alla
storia della mitica Route 66 cantata dai Rolling Stones e da Eddy Mitchell. La
mother road, la strada madre, la prima asfaltata d’America, partiva da Chicago,
nell’Illinois, per raggiungere, quattromila chilometri piu in la, Santa Monica in
California, attraversando otto Stati, fra cui il Missouri. Accanto al museo, un
cartello di legno in stile far vvest annuncia route 66 state park. «Hanno eliminato
Times Beach dalla cartina creando sulla zona contaminata un parco nazionale per
far dimenticare uno dei maggiori scandali degli Stati Uniti», mi spiega Marilyn,
ultimo sindaco della città scomparsa.

Una città cancellata dalla mappa «Times Beach» e «diossina»: queste due
parole si sono trovate a fianco a fianco sulle prime pagine dei giornali americani,
con grande dispiacere degli abitanti del piccolo borgo, nato nel 1925 come luogo
di villeggiatura per i lavoratori di Saint Louis. «All’inizio nessuno ci abitava in
pianta stabile», racconta Marilyn Leistner. «Alcuni avevano una roulotte e
venivano nel vveekend a fare il bagno nel Fiume Meramec, a pescare o per un
picnic.» Il paese, chiamato semplicemente beach, la spiaggia, attrae così alcuni
residenti stabili che costruiscono palafitte di legno, perchè la zona viene
regolarmente inondata. A poco a poco Times Beach diventa una «vera città» con
negozi, un’officina meccanica (gestita dal marito di Marilyn) una chiesa, tredici
locali pubblici e un consiglio municipale.

Nei primi anni Settanta il comune, «non molto ricco», deve confrontarsi con il
«problema della polvere» che ricopre le strade non asfaltate e «infesta la vita»
degli abitanti. Si decide quindi di rivolgersi ai servizi della Bliss Waste Oil
Company, un’azienda specializzata nel recupero di oli e rifiuti industriali prodotti
dai garage e dalle industrie chimiche del Missouri: per eliminare la polvere
Russell Bliss, il capo dell’azienda, propone di spandere chiazze di oli residui sulle
strade di Times Beach.

«Dall’estate del 1971 abbiamo constatato la morte di numerosi gatti, cani,


uccelli e persino di un procione», racconta Marilyn. «Uno degli abitanti ha
contattato l’EPA, che gli ha chiesto di congelare qualche animale morto perchè un
agente sarebbe passato a prenderlo. Ma non e mai venuto nessuno...» Eppure
l’EPA era gia stata allertata. Nel marzo 1971 la proprietaria di un allevamento di
cavalli a nordovest di Saint Louis aveva visto morire inspiegabilmente una
cinquantina di esemplari dopo l’intervento degli uomini di Russell Bliss, che
avevano ricoperto il terreno del maneggio di chiazze brunastre. Qualche settimana
dopo i due figli, che avevano l’abitudine di giocare nel maneggio, si erano
gravemente ammalati e avevano dovuto essere ricoverati. Il Center for Disease
Control (CDC) aveva così effettuato prelievi del rivestimento sospetto,
individuando tassi allarmanti di prodotti tossici: 1590 ppm di PCB, 5000 ppm di
2,4,5-T e 30 ppm di diossina.1

«C’erano ceste intere di uccelli selvatici morti», confermerà al New York


Times il dottor Patrick Phillips, veterinario del dipartimento della Sanità del
Missouri chiamato a intervenire in parecchie zone in cui l’azienda di Russell Bliss
aveva sparso le proprie sostanze.2 Nel 1975 la rivista Science pubblica un articolo
su questo misterioso inquinamento mortale,3 ma per anni le autorità non si
degnano di intervenire. Eppure l’EPA continua con discrezione l’inchiesta. Si
concentra soprattutto sulle aziende del Missouri che producono rifiuti tossici,
come testimonia uno scambio epistolare del settembre 1972 tra funzionari
dell’agenzia e William Papageorge, lo «zar dei PCB» della Monsanto: a quanto
pare sono stati prelevati e analizzati alcuni campioni dei serbatoi d’olio di Russell
Bliss, e i risultati sono stati comunicati all’azienda di Saint Louis.

Arriva «l’autunno nero» del 1982. «Un incubo», mormora Marilyn, all’epoca
consigliere comunale. «Il 10 novembre sono stata informata da un giornalista
locale che Times Beach faceva parte di un elenco di cento luoghi contaminati
dalla diossina individuati dall’EPA. Il 3 dicembre alcuni tecnici dell’agenzia sono
venuti a prelevare campioni di terreno.

Due giorni dopo la città e stata sommersa dalla piu grande inondazione della
sua storia e molte famiglie hanno dovuto evacuare. Il 23 dicembre, quando gli
abitanti cominciavano a tornare nelle proprie case, l’EPA ci ha informati che il
tasso di diossina rilevato nei campioni era di trecento volte superiore al limite
accettabile... »4

A Times Beach si diffonde il panico. Mentre orde di tecnici dell’EPA, muniti di


tuta e maschere a gas, invadono la città, anche i giornalisti giungono da ogni
dove. «All’epoca avevamo pochissime informazioni sulla diossina», ricorda
Marilyn, «e solo guardando il telegiornale abbiamo scoperto che si trattava della
molecola piu pericolosa mai inventata dall’uomo. Ma niente di piu. Nessuno
riusciva a dirci che cosa significasse per la nostra salute.» Inoltre, come vedremo
piu avanti, gli effetti altamente tossici della diossina venivano sapientemente
minimizzati da chi la produceva, in particolare da una certa azienda di Saint
Louis...
Nell’attesa, il CDC invia una squadra d’emergenza a Times Beach. Gli abitanti
sono invitati a sottoporsi a un controllo. Nei telegiornali dell’epoca che ho potuto
vedere si nota l’angoscia sui volti. Crisi di pianto, collera impotente di fronte al
silenzio dei medici che ignorano le domande della gente. «Tutta la mia famiglia e
stata visitata», racconta Marilyn.

«Mio marito soffriva di ‘porfiria cutanea tardiva’, una malattia cronica 39 della
pelle.* Io, le mie due figlie e mio figlio soffrivamo di ipertiroidismo.

Io ero stata anche operata di parecchi tumori benigni. Una delle mie figlie
soffriva di gravi allergie che comportavano crisi urticanti su tutto il corpo; l’altra
mia figlia era magrissima, soffriva di vertigini e perdeva i capelli. Quando ho
chiesto ai rappresentanti del CDC se fossero problemi legati alla diossina, mi
hanno risposto che non lo sapevano...» In ogni caso, a Times Beach il panico era
ormai all’apice. Il sindaco di allora, vittima di una grave depressione, si dimette.
Nello stesso momento scompare nel nulla anche uno dei suoi assessori: «Era un
dirigente della Monsanto che lavorava nello stabilimento di Saint Louis»,
commenta Marilyn Leistner. «Quando ha saputo che l’EPA aveva trovato dei PCB
se n’e andato...» Ecco come Marilyn si ritrova a capo di una piccola comunità
pronta ad «affrontare la tormenta». Il22 febbraio 1983 Anne Burford,
amministratrice dell’EPA, annuncia la decisione del governo di «acquistare Times
Beach per trenta milioni di dollari». L’eccezionale progetto prevede di
indennizzare e ricollocare gli abitanti, di radere al suolo la città e decontaminare
la zona, bruciando la terra in un inceneritore.

La Monsanto sfugge alle accuse «Guardi, e qui che sono sepolte le nostre
case», mi dice Marilyn fermandosi di fronte a un enorme cumulo di terra
ricoperto d’erba. «Tutto cio che avevamo e stato distrutto. I mobili, gli
elettrodomestici e tutti i giochi dei bambini, perchè l’inondazione aveva sparso
diossina e PCB ovunque. Siamo partiti come rifugiati in fuga da una pestilenza,
perchè nessuno ci voleva: la gente pensava fossimo contagiosi.» «Non avete fatto
causa?» «Certo, ma e stata respinta, perchè secondo la giustizia non potevamo
dimostrare che le malattie di cui soffrivamo erano legate alla contaminazione da
diossina.»

Questa dermatosi provoca vescìche, croste e cicatrici che si formano


soprattutto sul dorso delle mani, sugli avambracci e sul viso. La causa puo essere
l’esposizione alla diossina.
«E i PCB?» «Ah! Ufficialmente l’EPA non e mai riuscita a risalire alla fonte
dei PCB usati da Russell Bliss...» E sconvolgente. L’unico produttore di queste
sostanze disponeva, come ho gia detto, di uno stabilimento a Sauget, nella
periferia est di Saint Louis, a una trentina di chilometri da Times Beach. «In
realtà», mi spiega Marilyn, «tempo dopo abbiamo saputo che Rita Lavelle,
l’assistente di Anne Burford, la numero uno dell’EPA, aveva distrutto dei
documenti che avrebbero potuto portare all’implicazione della Monsanto.

Di fatto, nel 1983 il caso e stato al centro delle cronache americane.

Indagando sullo sfruttamento del Superfund Program (fondi concessi all’EPA


per individuare e decontaminare i siti inquinati dagli scarichi industriali, ma in
parte usati per finanziare illegalmente le campagne elettorali di alcuni candidati
repubblicani), il Congresso scopre che erano scomparsi documenti
compromettenti. L’inchiesta dimostrerà che l’amministrazione di Ronald Reagan,
nota per il suo sostegno ai grandi gruppi industriali, aveva ordinato ad Anne
Burford di «congelare» il dossier di Times Beach. La Burford, nominata a capo
dell’EPA poco dopo l’arrivo alla Casa Bianca del noto attore di Hollywood, e
stata costretta a dimettersi a causa dello scandalo nel marzo 1983. Rita Lavelle,
sua assistente, ha avuto meno fortuna: e stata condannata a sei mesi di prigione
per «spergiuri e ostruzione d’inchiesta del Congresso».5 Dall’inchiesta era emerso
che aveva trafugato un certo numero di documenti e che pranzava troppo spesso
con alcuni rappresentanti della Monsanto. Ma con il cambiamento, per l’azienda
di Saint Louis non tutto era perduto: nel maggio 1983 il nuovo capo dell’EPA è
William Ruckelshaus, che aveva presieduto alla nascita dell’agenzia nel 1970,
prima di diventare direttore provvisorio all’FBI nel 1973, per poi entrare nel
consiglio d’amministrazione della Monsanto e della Solutia.

«Il problema», mi spiega nell’ottobre 2006 Gerson Smoger, avvocato di San


Francisco specializzato in questioni ambientali che ha difeso alcuni abitanti di
Times Beach, «e che non abbiamo mai potuto mettere mano ai contratti stipulati
da Russell Bliss con la Monsanto, che aveva due filiali nel Missouri, una a Sauget
e una a Queeny, entrambe nella periferia di Saint Louis.» «Si dice che Bliss sia
stato pagato per farli sparire.» «Tutto e possibile», ammette Smoger. «Di sicuro
piu volte ha testimoniato che la Monsanto era sua cliente, ma non abbiamo prove
scritte.» Poi Smoger mi espone alcuni passaggi che convergono nel dossier: il 21
aprile 1977 Russell Bliss conferma, in una deposizione sotto giuramento, che la
Monsanto e il suo principale fornitore di rifiuti industriali; il 30 ottobre 1980 Scott
Rollins, trasportatore di Bliss, afferma di fronte al procuratore generale del
Missouri di avere caricato fusti provenienti dagli stabilimenti dell’azienda. E così
via. «La Monsanto ha sempre negato di avere lavorato con Russell Bliss»,
commenta l’avvocato. «Inoltre, l’azienda si e difesa dicendo che i PCB
provenivano da altre imprese che usavano i suoi fluidi idraulici. Nasce così il
problema della responsabilità: all’epoca non sapevamo ancora che la Monsanto
aveva nascosto la tossicità dei PCB ai suoi clienti, quindi questi erano gli unici
responsabili dei propri rifiuti. Ecco come, nel dossier di Times Beach, i PCB sono
semplicemente messi da parte e le autorità si interessano solo alla diossina,
dimenticando che anche la maggior parte dei prodotti della Monsanto erano
contaminati da quella sostanza...» Solo un’azienda ammetterà la propria
responsabilità nell’inquinamento: la Syntex Agribusiness, con sede a Verona, nel
Missouri. Questa filiale della Northeastern Pharmaceutical and Chemical
Company (NEPACCO) produceva il 2,4,5-T, il potente diserbante contaminato
dalla diossina di cui anche la Monsanto era un importante produttore. Ma
fortunatamente per l’azienda di Saint Louis, non produceva il defogliante nello
Stato del Missouri. Al termine di un accordo con l’EPA, la Syntex ha accettato di
versare dieci milioni di dollari per partecipare alla decontaminazione di ventisette
discariche tossiche nella parte orientale del Missouri, quindi anche di Times
Beach. «Ironia della sorte», commenta Gerson Smoger, «nel momento in cui la
Syntex veniva designata come colpevole, la Monsanto pubblicava studi fasulli per
nascondere gli effetti tossici del 2,4,5-T.» L’erbicìda 2,4,5-T e la diossina Per
capire la tragica «ironia» di questo dramma dei tempi moderni, e necessario
risalire alle origini della diossina, una sostanza tossica prodotta con il processo di
preparazione di alcuni componenti chimici clorati o con la loro combustione ad
alta temperatura. Il termine «diossina» indica una famiglia di duecentodieci
sostanze correlate (come per i PCB, per cui si parla di «congeneri»), la piu tossica
delle quali risponde al nome altisonante di tetracloro-p-dibenzodiossina o 2,3,7,8-
TCDD, abbreviate in TCDD. La diossina, a lungo ignorata dal grande pubblico, e
uscita dall’ombra dei laboratori industriali e militari il 10 luglio 1976, in
occasione dell’ormai celebre catastrofe di Seveso.

Quel giorno un incidente avvenuto nell’azienda chimica italiana Icmesa, di


proprietà della multinazionale svizzera Hoffmann-La Roche, provoca la
formazione di una nube altamente tossica che si diffonde sulla pianura padana, e
soprattutto sul comune di Seveso. Qualche giorno dopo piu di tremila animali
domestici muoiono intossicati, mentre decine di abitanti sviluppano la cloracne,
malattia della pelle cronica e sfigurante, che miete vittime in tutto il mondo.
Davanti all’entità della catastrofe, i responsabili della Hoffmann-La Roche sono
costretti a svelarne il colpevole: la diossina, derivata dalla produzione
dell’erbicìda 2,4,5-T, prodotto principale dell’Icmesa.
L’identificazione di questa molecola, di origine industriale, e intrinsecamente
legata alla storia del diserbante, inventato piu o meno contemporaneamente nei
laboratori britannici e americani durante la Seconda guerra mondiale. Nei primi
anni Quaranta molti ricercatori riescono a isolare l’ormone che controlla la
crescita delle piante, riproducendone la molecola in modo sintetico.* Gli
scienziati constatano che, iniettato a piccole dosi, l’ormone artificiale stimola lo
sviluppo vegetale, e che, in dosi massicce, provoca la morte delle piante. Nascono
così due erbicìdi di grande efficacia, artefici di una vera e propria «rivoluzione
agricola e dell’inizio della scienza delle erbe infestanti», per riprendere le parole
del botanico americano James Troyer:6 sono gli acìdi 2,4-D e 2,4,5-T che, accanto
a concìmi e insetticìdi come il DDT, accompagnano la rivoluzione verde

Si tratta, per il Regno Unito, di William G. Templeman, dell’Imperial


Chemical Industries, e di Philip S. Nutman, della Rothamsted Agricultural
Experiment Station; per gli Stati Uniti, di Franklin D. Jones, dell’American
Chemical Paint Company, e di Ezra Kraus e John Mitchell, dell’Università di
Chicago.

All’indomani della Seconda guerra mondiale. La loro scoperta simultanea in


quattro laboratori diversi porta a una guerra al brevetto mai risolta, e sfociata in
una situazione in cui numerose aziende chimiche, da una parte e dall’altra
dell’Atlantico, approfittano di questo vuoto giuridico per lanciarsi in una
produzione propria. Infatti, presto la domanda raggiunge cifre stellari. Questi
erbicìdi, detti «selettivi», presentano un vantaggio considerevole per il lavoro nei
campi: se dosati correttamente, distruggono le erbe infestanti (dicotiledoni) e
lasciano intatti i cereali come il mais o il grano (monocotiledoni).

Così nel 1948 la Monsanto apre uno stabilimento per la produzione di 2,4,5-T
a Nitro, nella Virginia occidentale. L’8 marzo 1949 una fuga nella linea di
produzione provoca un’esplosione, durante la quale un materiale non identificato
invade gli interni dell’edificio e fuoriesce sotto forma di nube. Nelle settimane
successive i lavoratori presenti al momento dell’incidente o mobilitati per la
pulizia degli ambienti contraggono una malattia della pelle allora sconosciuta e
sono soggetti a nausea, vomito e mal di testa cronico. I dirigenti della Monsanto
chiedono allora a Raymond Suskind, medico del Kettering Institute
dell’Università di Cincinnati, di effettuare con discrezione un monitoraggio
medico del personale coinvolto. Il 5 dicembre 1949 Suskind redige un rapporto
che sarà reso noto solo a metà degli anni Ottanta, in occasione del processo
Kemner vs. Monsanto (di cui parlerò tra poco). «Settantasette dipendenti
dell’azienda hanno manifestato problemi cutanei e altri sintomi dovuti
all’incidente», scrive il medico, che allega una serie di immagini sconvolgenti:
uomini a torso nudo con il viso sfigurato da cicatrici e pustole e il corpo ricoperto
di cisti purulente.

Nell’aprile 1950 il dottor Suskind redige un secondo rapporto su sei operai


particolarmente colpiti che, un anno dopo l’incidente, continuano a soffrire della
misteriosa malattia dermatologica, ma anche di disturbi alle vie respiratorie, al
sistema nervoso centrale, ai tessuti epatici, oltre che di impotenza sessuale. Il
medico arriva a raccomandare una «cura speciale» a un operaio che ha contratto
una patologia psicologica grave, perchè la sua pelle si e talmente scurita da essere
«preso per un nero e quindi costretto ad adattarsi alle leggi segregazioniste sugli
autobus o a teatro».7

Nel 1953 Suskind estende lo studio a trentasei operai, dieci dei quali esposti
durante l’incidente del 1949, mentre gli altri ventisei lavoravano nell’unità di
produzione. Lo scienziato nota che trentuno di loro presentano lesioni
dermatologiche gravi, oltre a irritabilità, insonnia e depressione. Ventitre anni
dopo, in un rapporto confidenziale svelato in occasione del processo Kemner vs.
Monsanto, sempre con lo stesso distacco osserverà che tredici operai su trentasei
sono ormai morti, a un’età media di cinquantaquattro anni.

In tutto questo tempo l’azienda di Saint Louis adotta lo stesso atteggiamento


riguardo ai PCB: chiude i dati in un cassetto senza informare le autorità sanitarie,
e tantomeno i dipendenti. Tuttavia, sembra improbabile che i dirigenti non fossero
a conoscenza di uno studio pubblicato nel 1957 da Karl Heinz Schultz, un
ricercatore di Amburgo che aveva esaminato i dipendenti di uno stabilimento
della tedesca BASF, che produceva 2,4,5-T, dopo un incidente simile a quello di
Nitro avvenuto il 17 novembre 1953. Le ricerche di Heinz Schultz avevano
permesso di identificare la molecola della TCDD e di dare una volta per tutte un
nome alla malattia che ne scaturiva, cioè la cloracne.

Viva la guerra!

Non solo la Monsanto non modifica la produzione del 2,4,5-T, ma non esita a
lavorare a stretto contatto con gli strateghi del Pentagono per svilupparne
l’utilizzo come arma chimica. Dopo una richiesta di declassificazione indirizzata
agli archivi del Pentagono, in virtù del Freedom of Information Act (legge che
autorizza i cittadini ad avere accesso, a certe condizioni, agli archivi statali), nel
1998 la S. Louis Journalism Revievv ha rivelato che dal 1950 l’azienda di Saint
Louis portava avanti una regolare corrispondenza con il Chemical Warfare
Service sull’uso militare dell’erbicìda.9 Secondo Cary Conn, responsabile degli
archivi, il dossier conta cinquecentonovantasette pagine divise in quattro sezioni,
fra cui "Sviluppo in laboratorio» e «Dimostrazione pilota sulle piante». Tuttavia,
per uno strano «caso» questi documenti, pur non mettendo in pericolo immediato
la sicurezza degli Stati Uniti, non sono consultabili perchè classificati come
«segreti», in seguito alla decisione dell’esercito del 4 marzo 1983. Ma vedremo
che la data non e affatto casuale...

Come sottolinea Brian Tokar, cofondatore dell’Institute for Social Ecology e


autore di un numero speciale di Ecologist dedicato alla storia delittuosa della
Monsanto,10 non stupisce che i dirigenti di Saint Louis abbiano avuto rapporti
con i militari del Pentagono. E il caso, infatti, di tutte le grandi aziende chimiche
del XX secolo che hanno approfittato in larga misura delle due guerre mondiali.
Nel 2003, in un articolo intitolato «Agrobusiness, biotecnologia e guerra», Tokar
scriveva: «Durante la guerra le multinazionali che dominano il mercato dei
concìmi e dei pesticìdi chimici hanno fatto fortuna. Sono le stesse che oggi
controllano le biotecnologie e le sementi, e quindi la produzione di alimenti».11
Così durante la Prima guerra mondiale la DuPont (che diverrà uno dei maggiori
produttori di sementi del mondo) ha rifornito gli alleati di polvere da sparo per i
cannoni e di esplosivi. Nella stessa epoca la Hoechst (che nel 1999 si unirà alla
francese Rhone-Poulenc, dando origine alla Aventis, gigante delle biotecnologie)
ha fornito all’esercito tedesco esplosivi e iprite. Nel 1925 la stessa Hoechst ha
formato, con BASF e Bayer, la IG

Farben, il piu grande conglomerato chimico del mondo, produttore del gas
Zyklon (usato nei campi di concentramento per sterminare gli ebrei). Quanto alla
Monsanto, nata all’inizio del secolo per produrre saccarina, ha centuplicato i
profitti durante la Prima guerra mondiale vendendo prodotti chimici usati nella
produzione di esplosivi e di gas di guerra.

Talvolta e la guerra stessa a fare la fortuna delle multinazionali chimiche. Così


il DDT, la cui molecola era stata sintetizzata nel 1874, e uscito dal dimenticatoio
in occasione della Seconda guerra mondiale, perchè l’esercito americano aveva
deciso di servirsi di quell’insetticìda per venire a capo di un’epidemia di tifo
trasmesso dalle pulci che decimava le truppe nell’Europa occidentale, oltre che
per sterminare le zanzare portatrici del paludismo nel Pacifico del Sud.

Così dal 1944 la Monsanto si lancia nella produzione in larga scala di DDT, in
un momento in cui i rapporti con gli strateghi del Pentagono sono assai
privilegiati: nel 1942, infatti, Charles Thomas, direttore della ricerca alla
Monsanto, viene contattato dal generale Leslie R. Groves per partecipare a un
progetto ultrasegreto che porterà a una delle piu grandi catastrofi umane ed
ecologiche dell’era moderna. Il programma, battezzato Manhattan Project, ha
come obiettivo la produzione della prima bomba atomica della storia, la stessa che
sarà sganciata su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945. Il Manhattan Project,
che ha un budget di due miliardi di dollari, riunisce i migliori fisici americani nel
laboratorio di armi nucleari del Pentagono, a Oak Ridge, nel Tennessee, mentre i
chimici della Monsanto, sotto la guida di Charles Thomas, hanno una missione
delicata: isolare e purificare il plutonio e il polonio che serviranno ad alimentare
le bombe atomiche. Godendo della fiducia assoluta del Pentagono, l’azienda
ottiene il permesso di svolgere le ricerche nel suo laboratorio di Dayton,
nell’Ohio.

All’indomani della guerra, Charles Thomas, promosso vicepresidente della


Monsanto, assumerà la guida dei laboratori Clinton, con l’incarico di sviluppare le
applicazioni civili del nucleare per conto del governo di Washington, pur
mantenendo la sede a Saint Louis. Thomas concluderà la sua carriera come
amministratore delegato della Monsanto, dal 1951 al 1960, in un momento in cui
l’azienda, divenuta uno dei gruppi chimici piu potenti del mondo, e sul punto di
firmare il piu grosso contratto della sua storia: la produzione dell’agente arancio,
usato nella guerra del Vietnam.

L’operazione Ranch Hand e l’agente arancio «L’operazione Ranch Hand e


stata unica nella storia dell’esercito americano, e probabilmente lo rimarrà per
molto tempo. Nell’aprile 1975 il presidente Ford rinuncia pubblicamente all’uso
di erbicìdi nelle guerre che gli Stati Uniti intraprenderanno in futuro. Finchè
prevarrà questa politica, non si verifichera mai piu un’operazione come Ranch
Hand... »12

Così scrive il maggiore William Buckingham in un’opera pubblicata nel 1982


dall’Office of Air Force History, e dedicata all’uso degli «erbicìdi nel Sudest
asiatico dal 1961 al 1971».

Il vantaggio di questo libro, che evita intenzionalmente di affrontare le


conseguenze sanitarie ed ecologiche dell’uso massiccio di defoglianti nel Sud del
Vietnam, e che presenta in modo molto tecnico la genesi della guerra chimica
condotta dagli Stati Uniti sotto il pudico nome di Ranch Hand (piu o meno
«vaccaro»), e che ha arricchito multinazionali come la Dovv Chemicals e
naturalmente la Monsanto. Leggiamo che «i prodotti chimici per uccidere le erbe
infestanti sono usati da tempo nell’agricoltura americana», e che il primo
spargimento aereo di pesticìdi e stato sperimentato il 3 agosto 1921, vicino a Troy,
nell’Ohio. L’obiettivo era combattere l’infestazione di lepidotteri su una
piantagione di catalpa. Da notare, però, che l’aereo era pilotato dal generale John
Macready, che aveva accanto l’entomologo J.S. Houser. Il tentativo viene ripetuto
l’anno dopo su una piantagione di cotone della Louisiana, per sterminare i vermi
delle foglie: dimostrazione - come se ce ne fosse bisogno - del fatto che
l’agricoltura industriale non sarebbe mai nata senza la stretta collaborazione fra
esercito e scienza, nessuno dei quali ha tuttavia il compito di produrre alimenti
sani nel rispetto dell’ambiente.

Negli anni Quaranta l’Aviazione mette a punto i serbatoi erogatori che,


installati sugli aerei militari, serviranno a diffondere il DDT nell’Europa
occidentale e nel Pacifico, «per salvare vite», sottolinea l’autore dell’Office of Air
Force History, che precisa: «Gli alleati e le potenze dell’Asse si sono astenute
dall’usare questa arma contro il nemico, in virtù delle restrizioni legali e per
evitare misure di rappresaglia».13

Di fatto, l’abbandono di ogni remora e dovuto a un doppio fattore: l’insorgere


della guerra fredda, che giustifica tutti i mezzi per venire a capo della minaccia
comunista, e la scoperta dei rivoluzionari erbicìdi 2,4-D e 2,4,5-T. Presto i
ricercatori si rendono conto del potenziale che rappresentano in tempi di guerra,
poichè permettono di distruggere le colture, affamando gli eserciti e le
popolazioni nemiche. Dal 1943 il Consiglio per la ricerca agricola del Regno
Unito lancia un programma segreto di prova che servirà negli anni Cinquanta in
Malaysia dove, per la prima volta nella storia, l’esercito britannico userà gli
erbicìdi per distruggere i raccolti dei ribelli comunisti. Contemporaneamente,
negli Stati Uniti Fort Detrick, nel Maryland, si accinge a testare il dinoxol e il
trinoxol, costituiti dall’unione di 2,4-D e 2,4,5-T. Dopo la rivelazione degli
archivi segreti del Pentagono, e ragionevole pensare che questi test preliminari
siano stati condotti con la stretta collaborazione dell’azienda di Saint Louis.

Eppure le prime prove di grande portata hanno luogo nel Sud del Vietnam a
partire dal 1959. A quanto pare costituiscono una novità tale che il servizio
audiovisivo dell’esercito americano decide di filmarli per un periodo di due anni.
In un documento video eccezionale che ho potuto consultare, si vede un aereo
militare scendere a bassa quota sopra la foresta vergine e rilasciare una nube
lattiginosa. «Dopo due settimane e evidente che il trattamento risulta efficace»,
sottolinea con soddisfazione il commentatore militare. «In due anni e stato
distrutto il 90 per cento degli alberi e degli arbusti.» Le vedute aeree mostrano la
vegetazione lussureggiante distrutta per un raggio di parecchi chilometri. Le
immagini delle irrorazioni di erbicìdi - insieme con quelle delle vittime del
napalm, come quella della piccola Kim Phuc che corre nuda in lacrime su una
strada vietnamita - diverrànno simboli di una delle guerre piu controverse del XX
secolo.

L’operazione Ranch Hand ha ufficialmente inizio il 13 gennaio 1962, un anno


dopo l’insediamento di John F. Kennedy alla Casa Bianca. Secondo il libro di
William Buckingham, e il presidente stesso a prendere la decisione dopo aspre
discussioni con i consiglieri del dipartimento della Difesa favorevoli all’uso di
queste «tecniche e strumenti»,14 e con quelli del dipartimento di Stato, che
temono le reazioni internazionali e la «propaganda comunista», che potrebbe
sfruttare la questione del defogliante per sollevare la popolazione contro il
governo. All’epoca il coinvolgimento americano era ancora limitato:
ufficialmente appoggiava gli sforzi dell’esercito sudvietnamita, allora presieduto
dal dittatore Ngo Dinh Diem, per contenere la spinta dei vietcong, appoggiati dal
Vietnam del Nord comunista di Ho Chi Minh. Lo scopo dell’operazione Ranch
Hand e innanzitutto «liberare» le strade principali, i corsi d’acqua e i confini del
Vietnam del Sud per «controllare piu facilmente i movimenti dei vietcong» e, in
un secondo tempo, per «distruggere i raccolti» che avrebbero approvvigionato i
«ribelli».

Nel luglio 1961 alla base militare di Saigon arrivano i primi carichi di
defoglianti, barili di duecento litri ciascuno con una fascia colorata di
riconoscimento: «l’agente rosa» contiene 2,4,5-T puro, «l’agente bianco» 2,4D,
«l’agente blu» arsenico, mentre il piu tossico di tutti, «l’agente arancio»,
introdotto nel 1965, e costituito da 2,4,5-T e 2,4-D in pari quantità.

Il10 gennaio 1962 un comunicato del governo sudvietnamita viene riportato da


tutti i giornali del Paese: «Oggi la repubblica del Vietnam ha annunciato il via a
un esperimento destinato a liberare alcune vie di comunicazione chiave dalla fitta
vegetazione tropicale. E stata richiesta l’assistenza americana per coadiuvare il
personale vietnamita nello svolgimento delle operazioni. Saranno utilizzati
erbicìdi commerciali, largamente diffusi in America del Nord, Europa, Africa e
URSS. [...] I prodotti chimici saranno forniti dagli Stati Uniti su richiesta del
governo vietnamita, garante del fatto che non sono tossici e non costituiscono un
pericolo per la fauna selvatica e domestica, ne per gli esseri umani o per il
suolo».15 Cio che non dice la propaganda del presidente Diem, a cui la Casa
Bianca ha chiesto di prendersi la responsabilità dell’operazione Ranch Hand, e
che le dosi di erbicìda usate dall’esercito americano per ogni ettaro saranno fino a
trenta volte superiori a quelle usate negli Stati Uniti, dove il 2,4,5-T e il 2,4-D
venivano accuratamente diluiti prima dell’uso per scopi agricoli.
Il 13 gennaio 1962 un Fairchild C-123 dell’Aviazione americana lascia la base
militare di Tan Son Nhut con un carico di oltre ottocento litri di agente viola (un
altro ancora). Da allora fino al 1971 pare siano stati versati 80 milioni di litri di
defogliante su 3,3 milioni di ettari di foreste e terreni. Piu di tremila villaggi sono
stati contaminati e il 60 per cento dei defoglianti usati era costituito dall’agente
arancio, cioè da quattrocento chilogrammi di diossina pura.16 Secondo uno studio
della Columbia University pubblicato nel 2003, la dissoluzione di 80 grammi di
diossina in una rete d’acqua potabile potrebbe eliminare una città di otto milioni
di abitanti.17

La cospirazione L’uomo che mi riceve nell’ottobre 2006 ha lo sguardo


emaciato dei malati terminali. A sessantasette anni ne dimostra quindici di piu.
Seduto sulla sedia a rotelle, privo degli arti inferiori, Alan Gibson e il
vicepresidente dell’associazione Vietnam Veterans of America, che conta
cinquantacinquemila membri. «Al ritorno dal Vietnam ho cominciato ad avere
problemi agli occhi», mi spiega. «Poi, tre anni dopo, i primi sintomi di quella che
i medici chiamano ‘neuropatìa periferica’. Le ossa hanno cominciato a
fossilizzarsi e a fuoriuscire dalle dita dei piedi. Un giorno me li stavo lavando e
mi e rimasto in mano un pezzo d’osso.» «All’inizio hanno detto che era la gotta»,
interviene la moglie Marcia.

«Ma poi gli hanno tagliato le dita dei piedi, tutti i piedi e alla fine entrambe le
gambe.» «Questa malattia e ricorrente nei veterani della guerra del Vietnam?»
domando.

«Si», risponde Marcia. «Sono infermiera all’ospedale dei veterani e le malattie


piu comuni sono i tumori, soprattutto ai polmoni e al fegato, le leucemie e le
patologie neurologiche. E nella nostra associazione ci sono molti veterani con
figli, anche molto piccoli, con handicap fisici o mentals Alan Gibson non sa piu
quando e dove ha visto per la prima volta uno spargimento di defogliante. «Era
molto frequente. Eravamo nella foresta e all’improvviso sembrava piovesse. Si
sentiva un motore... Ci dicevano che erano diserbanti usati ogni giorno dai nostri
agricoltori. Alcuni compagni si lavavano nei barili di agente arancio vuoti o li
usavano come barbecue. Non ci hanno mai detto che gli erbicìdi contenevano
diossina. Eppure il governo lo sapeva.» Chi lo sapeva esattamente, e da quando?
Piu di trent’anni dopo la fine della guerra del Vietnam la questione continua a
dividere gli esperti.

Secondo un rapporto del General Accounting Office, l’organo di


investigazione del Congresso, del novembre 1979 «il dipartimento della Difesa
non considerava l’agente arancio tossico, ne pericoloso per l’uomo, e per questo
motivo ha preso poche precauzioni».18

C’e una testimonianza che viene regolarmente citata e che spiega la cecità
delle autorità militari. E quella del dottor James Clary, scienziato di un laboratorio
del dipartimento di armi chimiche dell’Aviazione, in Florida. E lui che ha
concepito il serbatoio ADO 42 destinato allo spargimento dell’agente arancio:
«Quando abbiamo avviato il programma del defogliante negli anni Sessanta
eravamo consapevoli dei potenziali danni dovuti alla contaminazione degli
erbicìdi con la diossina», scrive in una lettera destinata al senatore Tom
Daschle.«Sapevamo che la formulazione ‘militare’ conteneva un grado di
concentrazione di diossina piu elevato di quella ‘civile’, in virtù del costo ridotto
e dei tempi di produzione molto brevi. Tuttavia, siccome il materiale sarebbe stato
usato contro il ‘nemico’, nessuno di noi se ne e preoccupato sul serio. Non
immaginavamo che anche i nostri potessero risultare contaminati.»19

Un’altra testimonianza sembra indicare che i responsabili militari sul campo in


Vietnam non fossero informati dell’estrema tossicità della diossina contenuta
nell’agente arancio. E quella dell’ammiraglio Elmo Russell Zumvvalt jr,
promosso nel settembre 1968 al comando delle forze navali in Vietnam. Dirigeva
la flotta navale che pattugliava il delta del Mekong. Per proteggere i marines dalle
imboscate dei vietcong in quell’area strategica, aveva ordinato di spargere le coste
di agente arancio. Si da il caso che il comandante di una delle navi fosse suo
figlio, Elmo Russell Zumvvalt III, che morirà di tumore e di leucemia a
quarantadue anni, lasciando un figlio colpito da diversi handicap. Da allora
l’ammiraglio Zumvvalt smuove cielo e terra perchè il segreto che circonda la
diossina sia finalmente svelato. Sarà nominato consigliere speciale del segretario
di Stato dei veterani, Edvvard J. Dervvinski, e lotterà instancabilmente per le
vittime dell’agente arancio.

«Le autorità governative non sono state informate della nocività della diossina
prima della fine degli anni Sessanta», mi garantisce Gerson Smoger, avvocato
anche di molti veterani della guerra del Vietnam. «Per un motivo molto semplice:
i due principali produttori, la Dovv Chemicals e la Monsanto, hanno
deliberatamente nascosto i dati in proposito per non perdere un mercato molto
redditizio. Non ho paura di dire che si e trattato di una vera e propria
cospirazione.»*

Gerson Smoger, residente nella periferia di San Francisco e specializzato in


questioni legate all’inquinamento ambientale, si e anche distinto per le class
action intentate contro i giganti farmaceutici e dell’industria del tabacco. Eppure
la causa della sua vita rimane quella dell’agente arancio. Nello scantinato sotto il
suo studio raccoglie da anni migliaia di documenti, accuratamente classificati in
scatoloni numerati: «Servono mesi per consultarli tutti», sorride di fronte alla mia
espressione inquieta. «Ma sono riuscito a dimostrare le colpe della Dovv
Chemicals e della Monsanto: innanzitutto, contrariamente a cio che affermavano i
dirigenti, le aziende testavano con regolarità il contenuto di diossina dei loro
prodotti, ma non hanno mai comunicato i risultati delle analisi alle autorità
sanitarie o militari. Il caso della Monsanto e particolarmente grave perchè
l’agente arancio prodotto nello stabilimento di Sauget conteneva il tasso di
diossina piu elevato di tutti.» L’avvocato cita un documento datato 22 febbraio
1965, il rapporto di una riunione di tredici dirigenti della Dovv Chemicals in
merito alla tossicità del 2,4,5-T. Insieme avevano deciso di organizzare un
incontro con gli altri produttori di agente arancio, fra cui la Monsanto e la
Hercules, per «discutere dei problemi tossicologici causati dalla presenza di certe
impurità altamente tossiche» nei campioni di 2,4,5-T. «L’incontro ha avuto luogo
in totale segretezza», commenta Smoger. «La Dovv Chemicals ha parlato
soprattutto di uno studio interno secondo il quale i conìgli esposti alla diossina
sviluppavano gravi lesioni al fegato. La questione era decidere se informare il
governo. Come dimostra un messaggio scritto, di cui possiedo una copia, la
Monsanto aveva rimproverato alla Dovv Chemicals di voler infrangere la
segretezza.

Sette aziende producevano l’agente arancio: Dovv Chemicals, Monsanto,


Diamone Shamrock, Hercules, T-H Agricultural & Nutrition, Thompson
Chemicals e Uniroyal.

E il segreto era stato così conservato per almeno quattro anni, periodo in cui le
irrorazioni di agente arancio in Vietnam avevano raggiunto il picco...» Alla fine
del 1969 le autorità governative non possono piu affermare di non essere
informate: uno studio di Diane Courtney per il National Institute of Health (NIH)
dimostra che i topi sottoposti a dosi massicce di 2,4,5-T sviluppano
malformazioni fetali e mettono al mondo piccoli nati morti.20 La notizia suscita
scandalo e inquietudine. Il 15 aprile 1970 il segretario dell’Agricoltura annuncia
su tutti i canali televisivi e radiofonici «la sospensione dell’uso del 2,4,5-T nei
pressi di laghi, specchi d’acqua, aree di ricreazione, abitazioni e colture destinate
al consumo umano, poichè costituisce un pericolo per la salute».21

E la fine dell’agente arancio e, per i veterani americani, l’inizio di una lunga


lotta.

La Monsanto organizza la propria impunità Nel 1978 Paul Reutershan, un


veterano colpito da tumore all’intestino, cita in giudizio i produttori di agente
arancio. Presto migliaia di veterani fanno lo stesso e danno vita alla prima class
action mai intentata contro la Monsanto e soci. Un anno dopo, il 10 gennaio 1979,
un treno merci con a bordo settantamila litri di clorofenòlo (una sostanza per la
produzione di trattamenti per il legname) deraglia a Sturgeon, nel Missouri,
provocando il rovesciamento dell’intero carico. Proviene dallo stabilimento di
Sauget, dove fino a poco tempo prima la Monsanto produceva i PCB. Alcuni
prelievi effettuati dall’EPA rivelano che il prodotto contiene diossina.
Sessantacinque abitanti di Sturgeon, fra cui Frances Kemner, che darà il nome alla
causa Kemner vs. Monsanto, citano in giudizio l’azienda di Saint Louis.

Per la Monsanto la questione e seria, anche perchè dopo la catastrofe di Seveso


la TCDD e oggetto di un’attenzione particolare da parte del pubblico e dei media.
L’azienda capisce di dover reagire per non ritrovarsi implicata in una moltitudine
di processi in cui non mancheranno di essere considerati gli effetti a lungo
termine della diossina sulla salute umana, soprattutto in materia di tumori. Ma sa
anche di avere due assi nella manica, che dalla fine degli anni Settanta non ha mai
smesso di sfoderare.

In primo luogo, come sottolinea Greenpeace, uno dei suoi piu strenui
oppositori, in un rapporto reso pubblico nel 1990, di qualunque origine sia «la
diossina e onnipresente nella popolazione americana, nell’ambiente e negli
alimenti».22 Difficile, quindi, dimostrare che il tasso di diossina registrato
nell’organismo di un individuo sia legato all’esposizione in occasione di un
incidente come quello di Sturgeon o di un’irrorazione in Vietnam. Per prevenire
eventuali processi, i dirigenti della Monsanto non indietreggiano davanti a niente:
grazie alla complicità del personale dell’obitorio di Saint Louis fanno effettuare di
nascosto prelievi sui cadaveri vittime di incidenti stradali, facendoli poi
analizzare. Bingo! I tessuti dei defunti contengono diossina... La questione, che la
dice lunga sull’operato dell’azienda, verrà alla luce durante il processo Kemner
vs. Monsanto,23 di cui parlerò nel capìtolo successivo.

In secondo luogo, sempre secondo Greenpeace, «vista l’onnipresenza della


diossina e difficile condurre uno studio epidemiologico», perchè e praticamente
impossibile trovare un gruppo di controllo (cioè qualcuno che sicuramente non e
mai stato esposto). In altri termini, «invece di confrontare un gruppo esposto con
uno non esposto, si puo solo paragonare un gruppo piu esposto a uno meno
esposto, a condizione che i livelli di esposizione siano sufficientemente diversi e
che la dimensione dei gruppi sia abbastanza rilevante perchè gli effetti sanitari
constatati siano statisticamente significativi». L’associazione ecologista conclude
che le «popolazioni umane utili per uno studio epidemiologico sono quelle
esposte a un’alta concentrazione di diossina, come le comunità contaminate
accidentalmente o durante un lungo periodo, cioè Seveso e Times Beach, gli
individui esposti a pesticìdi contaminati dalla diossina come il 2,4,5-T, cioè gli
utilizzatori di erbicìdi o i veterani del Vietnam, e gli operai di aziende produttrici
di diossina, cioè la Monsanto o la BASF».

Dal 1978 la multinazionale di Saint Louis e consapevole di avere una carta da


giocare: infatti, e l’unica a disporre di dati sanitari che risalgano al 1949, data
dell’incidente dello stabilimento di Nitro. La questione e semplice: se la diossina
e cancerogena, per verificarlo basta ritrovare gli operai che erano stati visitati dal
dottor Suskind e confrontare il loro stato di salute di trent’anni dopo con quello di
soggetti appartenenti a una fetta normale della popolazione. Così il dottor Suskind
riceve l’incarico di supervisore di tre studi epidemiologici, coadiuvato da due
scienziati della Monsanto. Come rivelerà il processo Kemner vs. Monsanto, sarà
il dottor George Roush, direttore sanitario dell’azienda, a controllare il contenuto
degli studi prima della pubblicazione nel 1980, 1983 e 1984 su riviste scientifiche
di riferimento.24 Come ovvio, giungeranno alla conclusione di un’assenza di
legàme fra l’esposizione al 2,4,5-T e i tumori.

«Ecco come i veterani della prima class action si sono visti respingere le
richieste di indennità», mi spiega George Smoger. «Al momento della
pubblicazione, quegli studi sono stati considerati il termine di paragone assoluto.
E i veterani, di fronte all’incapacità di dimostrare che i tumori di cui soffrivano
erano legati all’esposizione alla diossina, sono stati costretti ad accettare un
regolamento dei conti amichevole.» Il 7 maggio 1984, alle quattro del mattino,
quando l’apertura del processo istruito nel 1978 da Paul Reutershan e ormai
imminente, i produttori di agente arancio mettono a disposizione centottanta
milioni di dollari come saldo per tutti i conti aperti. Il giudice Jack Weinstein
ordina che il 45,5 per cento della somma sia pagata dalla Monsanto, a causa del
forte contenuto di diossina nel suo 2,4,5-T.26 Il denaro, riposto in un fondo di
compensazione, e destinato a indennizzare i veterani che dimostreranno invalidità
non legata a ferite di guerra entro un periodo massimo di dieci anni. E così che
quarantamila veterani riceveranno contributi compresi fra 256 e 12.800 dollari.
«Inezie», commenta George Smoger, «finchè non si scopre che gli studi della
Monsanto erano stati manipolati.» 3

Diossina: manipolazioni e corruzione «Tutte le prove scientifiche attendibili


dimostrano che l’agente arancio non ha effetti nocivi a lungo termine sulla salute.

Jill Montgomery Portavoce della Monsanto, 2004

Per una strana coincidenza di date, nel febbraio 1984, quando i veterani della
guerra del Vietnam sono sul punto di rinunciare a vere e proprie indennità, si apre
nell’Illinois il processo Kemner vs. Monsanto. Per piu di tre anni quattordici
giurati ascolteranno trenta testimoni e tenteranno di comprendere gli abusi subiti
dagli abitanti di Sturgeon e individuare le responsabilità dell’azienda di Saint
Louis. E stato il «piu lungo processo della storia nazionale», scrive il Wall Street
Journal. «La Monsanto e stata rappresentata da dieci avvocati che si davano il
cambio alla sbarra ogni quattro ore. [... ] Alcuni osservatori del processo dicono
che l’azienda, costruendosi una reputazione di avversario intrattabile e
disponendo, apparentemente, di un budget illimitato, mirasse a scoraggiare altri
eventuali processi futuri.»‘

Studi scientifici falsificati I mezzi impiegati dall’azienda sono proporzionati


alla posta in gioco: se tutti quelli che utilizzano prodotti contenenti tracce di
diossina le si rivoltassero contro, andrebbe di certo in fallimento. Per questo la
Monsanto non esita a sfruttare qualunque tecnica dilatoria, con il rischio di
esasperare il giudice. «La giustizia ritardata e una giustizia negata», afferma il
magistrato in occasione dell’esame di un ultimo ricorso presentato dagli avvocati
della multinazionale. «La Corte dovrebbe rifiutare di essere manipolata come una
pedina da gioco in una serie di simili ricorsi giudiziari.»2

Il 22 ottobre 1987, dopo avere deliberato per ben otto settimane, i giurati
annunciano uno strano verdetto: i querelanti ricevono solo un dollaro simbolico di
risarcimento, perchè non sono riusciti a dimostrare il legàme fra i loro problemi di
salute e l’incidente, mentre alla Monsanto vengono imputati sedici milioni di
dollari di punitive damages (pagamento di una somma piu alta rispetto al danno
cagionato), perchè la giuria si e sentita oltraggiata dal comportamento
irresponsabile dell’azienda nella gestione dei rischi sanitari relativi alla diossina *

In tre anni i giurati hanno fatto molte scoperte. Grazie al rigoroso lavoro di
Rex Carr, l’avvocato dell’accusa, hanno capìto che l’azienda «sapeva che
distillando clorofenòli poteva eliminare o ridurre considerevolmente la presenza
di diossina, ma anche che «non l’aveva mai fatto prima del 1980». Inoltre,
«avrebbe potuto liberarsi della diossina testando ciascun lotto di prodotti e
ritirando dalla vendita quelli contaminati».3

Secondo la testimonianza di Donald Edvvards, ingegnere della Monsanto, dal


1970 al 1977 l’azienda ha «scaricato nel Mississippi quindiciventi chilogrammi di
diossina al giorno dal suo stabilimento di Sauget, entrati così nella catena
alimentare», senza informare le autorità. Ma non solo: come emerge dall’udienza
di tre dirigenti, fra cui un chimico e il responsabile marketing dell’azienda, la
Monsanto sapeva che il Santophen, contenuto nella formulazione del Lysol, un
prodotto consigliato per pulire i giocattoli dei bambini, era contaminato dalla
diossina. Per timore di perdere posizione sul mercato, la Monsanto ha preferito
non informare i clienti (le imprese Lehn e Fink), e mentire alle domande che
venivano loro poste.

La Monsanto si appellerà in giudizio e vincerà, poichè la Corte non può


esigere punitive damage se l’accusa non riesce a dimostrare la correlazione fra i
disturbi alla salute e l’esposizione alla diossina {USNews, 13 giugno 1991).

Una lettera inviata da Clayton F. Callis, quadro della Monsanto, a un suo


collega conferma la disinvoltura con cui l’azienda tratta il problema della
diossina: «La Dovv Chemicals fa storie per la diossina contenuta nel Penta»,
scrive il 3 marzo 1978 riguardo a una gamma di sostanze per il trattamento del
legname. «Il nostro prodotto ha un contenuto di diossina piu alto del loro.
Dovrebbe quindi spettare a noi dimostrare che le diossine sono accettabili. Il che
implicherebbe studi tossicologici non su una sola molecola, ma su molte di piu.
Tanto vale ammettere che si tratta di una missione impossibile.» Si potrebbero
riportare molti altri esempi, ma il clou del processo e arrivato con la notizia che i
tre studi effettuati sotto la supervisione del dottor Suskind, e publicati dalla
Monsanto fra il 1980 e il 1984, erano stati falsificati. Se fossero stati condotti
correttamente, infatti, sarebbero giunti a conclusioni diametralmente opposte.
Avrebbero cioè ammesso che la diossina e un potente cancerogeno. La frode,
dimostrata dall’avvocato Rex Carr, sarà poi confermata da diversi organismi
scientifici, come il National Institute for Occupational Safety and Health
(NIOSH)4 o il National Research Council (NRC), secondo il quale gli studi della
Monsanto «contenevano errori di classificazione di soggetti esposti e non
esposti».5 Anche Greenpeace, nel 1990, dedicherà alla questione un dossier molto
dettagliato, in gran parte ripreso dalla stampa, mentre le rivelazioni del Kemner
vs. Monsanto erano passate praticamente inosservate.6

Nel dossier di Greenpeace si scopre che lo studio pubblicato nel 1980 da


Raymond Suskind e dalla sua collega Judith Zack, peccava - diciamo così - di
rigore nella definizione dei soggetti considerati «esposti» o «non esposti» (gruppo
di controllo). Secondo le spiegazioni fornite dallo stesso Suskind, avevano
considerato come base di partenza «gli operai esposti in occasione dell’incidente
[del 1949] che avevano contratto la cloracne, poichè probabilmente costituivano il
gruppo piu esposto di tutti quelli che lavoravano nello stabilimento di Nitro».7
Pertanto, nel gruppo degli«esposti» erano stati inclusi solo gli operai presenti il
giorno dell’incidente, e solo quelli che avevano contratto la cloracne, sebbene il
dottor Suskind sapesse che l’assenza di cloracne non implicava necessariamente
una mancata esposizione.

Invece, chiunque presentasse problemi alla pelle (psoriasi, acne eccetera)


veniva inserito nel gruppo degli «esposti», mentre gli operai che lavoravano sulla
linea di produzione, ma assenti il giorno dell’incidente, erano finiti nel gruppo di
controllo dei «non esposti», anche se soffrivano di cloracne. In una lettera inviata
a Nature nel 1986, i tossicologi Alastair Hay ed Ellen Silberberg osservano che
«tutti quegli operai avrebbero dovuto rientrare nello stesso gruppo, senza fare
distinzione fra quelli esposti il giorno dell’incidente e quelli che lavoravano alla
linea di produzione del 2,4,5-T»; tanto piu che i dati raccolti dal dottor Suskind
nello studio del 1953 mostravano che «l’incidenza della cloracne era piu o meno
simile nei due gruppi», e che «malattie serie con un tempo di latenza lungo come i
tumori possono essere il risultato di un’esposizione lenta e cronica».8

Quanto allo studio pubblicato nel 1983 da Judith Zack e William Gaffey, due
dipendenti della Monsanto, lascia molto a desiderare. Avrebbe dovuto confrontare
lo stato di salute di 884 dipendenti dell’azienda, sia quelli che lavoravano alla
linea di produzione del 2,4,5-T (gli «esposti»), sia «tutti gli altri» (gruppo di
controllo), inclusi «i dipendenti responsabili dell’unità di produzione e
potenzialmente esposti, ma che non erano stati considerati tali per gli scopi dello
studio», come hanno ammesso i due autori.9 Risultato: il tasso di tumori risultava
meno elevato nel gruppo degli esposti che in quello dei non esposti... L’astuzia
consisteva nel far rientrare nello studio solo gli operai che avevano lavorato
nell’azienda e/o erano deceduti fra il 1° gennaio 1955 e il 31 dicembre 1977. In
altre parole, quelli che avevano lavorato a Nitro fra il 1948 e il 1955 erano stati
esclusi, come quelli morti dopo il 1977. Questa arbitrarietà ha permesso di
escludere dallo studio venti operai che la Monsanto sapeva essere stati esposti
(soprattutto all’incidente del 1949), nove dei quali morti di tumore e undici di
malattie cardiache. Inoltre, quattro dipendenti morti di tumore e classificati come
«esposti» nello studio pubblicato nel 1980, in quello del 1983 si erano ritrovati
nel gruppo di controllo.10

Eppure, solo con l’ultimo studio, pubblicato nel 1984 sul prestigioso Journal of
the American Medical Association da Raymond Suskind e Vicki Hertzberg, la
Monsanto ha davvero toccato il fondo. Nel corso di un’udienza del processo
Kemner vs. Monsanto, il dottor Roush, direttore sanitario dell’azienda,
riconoscerà che invece dei quattro tumori rilevati nel gruppo degli esposti, ce
n’erano ventotto (ventiquattro casi omessi!).11 Il dottor Suskind, ascoltato a sua
volta, e rimasto così sconcertato dall’evidenza della sua «frode che ha rifiutato di
tornare nell'Illinois per terminare il controinterrogatorio».12

La caccia ai «vvhistleblovver» Greenpeace trasmette il dossier a Cate Jenkins,


una chimica dell’EPA dal 1979. Questa scienziata quarantatreenne ha la missione
di rilevare i rifiuti tossici industriali e di elaborare una regolamentazione per
controllarli. Nota per l’intransigenza nei confronti degli inquinatori, questa
esperta incontestata della diossina aveva gia dovuto vedersela con la gerarchia
interna della sua stessa agenzia, che la accusava di spingere troppo in la le
investigazioni sul Penta (pentaclorofenòlo). La produzione del Penta «libera
settantacinque diossine diverse, fra cui la TCDD e l’esadiossina, cinquemila volte
piu tossica dell’arsenico», spiega la Jenkins alla rivista canadese Harrovvsmith
nel 1990, quando la macchina delle indagini si mette in moto.13

Da quando viene a conoscenza del dossier di Rex Carr, ripreso anche da


Greenpeace, Cate Jenkins misura le implicazioni che tali rivelazioni possono
avere sulla regolamentazione americana della diossina. In effetti, basandosi sugli
unici studi epidemiologici allora disponibili, cioè quelli realizzati dalla Monsanto,
nel 1988 l’EPA aveva concluso che «non vi erano dimostrazioni di un legàme fra
la TCDD e i tumori».14 L’agenzia aveva quindi deciso di classificare la diossina
come cancerogeno di tipo B2, cioè, per riprendere il gergo dell’EPA,
«probabilmente cancerogeno per l’uomo», ma per cui esistono solo «prove per gli
animali»* Il risultato e che la diossina non era considerata un inquinante
prioritario e sfuggiva anche alla regolamentazione sulle emissioni atmosferiche
prevista dal Clean Air Act, la legge sulla qualità dell’aria. Per Cate Jenkins era
evidente che se gli studi della Monsanto non fossero stati manipolati, le
conclusioni dell’EPA (ma anche del resto del mondo, uniformatosi alla posizione
americana) sarebbero state diverse.
La classificazione dell’EPA riprende quella dell’Agenzia internazionale per la
ricerca sul cancro. Comprende cinque gruppi: gruppo A (cancerogeno per
l’uomo); gruppo B (probabilmente cancerogeno per l’uomo) con due
sottocategorie; gruppo B1 (prove limitate nell’uomo) e gruppo B2 (nessuna prova
nell’uomo, ma prove sufficienti negli animali), e così via fino al gruppo E (non
cancerogeno per l’uomo).

Ecco perchè, da brava funzionaria, decide di redigere un rapporto


confidenziale su uno studio contraffatto della Monsanto che l’EPA ha usato per
valutare gli effetti sanitari delle diossine, e di inviarlo, il 23 febbraio 1990, al
presidente del comitato scientifico dell’agenzia, oltre che all’ufficio
dell’amministratore.15 Al rapporto allega inoltre i documenti del processo
Kemner, chiedendo che venga condotto un audit scientifico sugli studi della
Monsanto. Iniziativa che presto le metterà di fronte le maggiori difficoltà della
sua carriera.

Purtroppo non ho potuto incontrare Cate Jenkins, che ha rifiutato di


concedermi un’intervista. Quando l’ho contattata, nel maggio 2006, era
impegnata a coordinare per l’EPA l’analisi dei rifiuti tossici fra le rovine di
Ground Zero. «E un caso molto delicato», mi spiega in un’e-mail un po’
enigmatica, «e preferisco concentrarmi su questo.» Mi consiglia di mettermi in
contatto con William Sanjour, che e stato uno dei quadri superiori piu in vista
dell’EPA, prima di essere «messo a riposo» fino al pensionamento nel 2001. Nel
settembre 2007, proprio mentre scrivo, Sanjour compare sulla copertina del Fraud
Magazine per avere ottenuto il premio della Association of Certified Fraud
Examiners, che l’ha consacrato «sentinella dell’EPA».16

«Cate ha paura», mi dice William Sanjour quando lo sento al telefono nella


primavera del 2006. «Sapendo quello che ha passato, e comprensibile...» Sanjour,
come Cate Jenkins, e uno di quelli che negli Stati Uniti chiamano vvhistleblovver
(letteralmente, «suonatore di fischietti»), uno che «lancia l’allarme». Negli Stati
Uniti queste persone sono un vero e proprio gruppo, anzi un’organizzazione, il
National Whistleblovvers Center, con sede a Washington dal 1988. I
vvhistleblovver sono uomini e donne, impiegati di un istituto pubblico o di una
grande azienda privata, i quali a un certo punto scoprono che il loro datore di
lavoro mette a repentaglio l’interesse pubblico violando una legge, crimine
talvolta aggravato da frode o corruzione. Provocano la rabbia dei superiori e sono
tormentati, sottoposti a mobbing e diffamati, e a volte licenziati, per avere preso
troppo sul serio il proprio lavoro. La loro e una vita molto dura. Per i pragmatici
sono «idealisti»; per aziende come la Monsanto sono solo bastoni fra le ruote. Da
questo punto di vista la storia di William Sanjour si rivela esemplare.

Dopo avere studiato fisica alla Columbia University, nel 1970 entra nell’EPA.
Ben presto viene nominato a capo della Hazardous Waste Management Division,
il dipartimento che ha il compito di supervisionare il trattamento e lo stoccaggio
dei rifiuti tossici industriali. Nel 1976 il lavoro di Sanjour porta il Congresso ad
approvare il Resource Conservation and Recovery Act, che lo stesso Sanjour si
impegnerà a far rispettare, attirando così l’inimicizia degli inquinatori, nonchè dei
propri superiori.

«Purtroppo l’EPA si preoccupa piu degli interessi delle imprese che di quelli
pubblici», dice oggi Sanjour. Anche lui verrà strenuamente contrastato dai suoi
superiori, soprattutto per gli interventi al Congresso e nelle assemblee pubbliche,
in cui denuncia apertamente la combutta dell’agenzia con i grandi gruppi
industriali.

Incontro William Sanjour, appassionato di vela, il 14 luglio 2006 in un


porticciolo non lontano da Washington. «L’EPA ha elaborato una legge apposta
per me!» mi racconta con ironica soddisfazione. In effetti, per farlo tacere l’EPA,
con la collaborazione dell’Office of Government Ethics (OGE), ha redatto un
regolamento che nega agli agenti il rimborso spese quando vengono invitati, fuori
dall’orario di lavoro, a parlare presso organizzazioni militanti o di cittadini. «La
mia esperienza era richiesta in tutti gli Stati Uniti», commenta William Sanjour.
«Dall’oggi al domani ho dovuto declinare gli inviti, perchè mi sarebbero costati
troppo.» Al che decide di portare la questione in tribunale, con l’aiuto del
National Whistleblovvers Center, che nel 1995 ottiene l’annullamento del «testo
incriminato» e il diritto, per tutti i vvhistleblovver, di denunciare il datore di
lavoro qualora violasse apertamente la legge.17

Così, nel luglio 1994 la «sentinella dell’EPA», che da anni riveste la


prestigiosa carica di analista delle politiche pubbliche, decide di usare la propria
funzione per redigere un rapporto sul caso di Cate Jenkins e della diossina,
intitolato The Monsanto Investigation .18 Si tratta di un’implacabile «analisi del
fallimento dell’EPA nelle indagini sui falsi studi scientifici della Monsanto in
materia di cancerogenicità della diossina».
«Ho ispezionato a fondo tutto il dossier», mi riferisce. «Eccolo!» dice
estraendo da una valigetta un pacco di documenti alto cinquanta centimetri,
ottenuti nel corso di diverse procedure giudiziarie contro la Monsanto (come la
Kemner vs. Monsanto) o l’EPA (la denuncia di Cate Jenkins al dipartimento del
Lavoro). Ci sono centinaia di documenti incriminanti, fra cui molte
comunicazioni interne della Monsanto, che mostrano come l’azienda abbia
nascosto la verità su uno dei prodotti piu pericolosi mai inventati, cercando
peraltro di eliminare chi aveva osato denunciare lo scandalo.

L’EPA obbedisce agli ordini «Questa e la prova che l’EPA subisce infiltrazioni
della Monsanto», continua William Sanjour porgendomi una lettera di cinque
pagine inviata da James H. Senger, vicepresidente della Monsanto, a Raymond C.

Loehr, presidente del comitato scientifico dell’EPA. «E datata 9 marzo 1990,


solo due settimane dopo che Cate aveva inviato al comitato il suo rapporto
confidenziale. Chi aveva informato l’azienda?» «La Monsanto ha saputo che
l’EPA e al corrente di informazioni altamente provocatorie ed erronee riguardo a
studi epidemiologici sullo stabilimento dell’azienda a Nitro», scrive il dirigente di
Saint Louis. «Le affermazioni di frode non sono credibili. [... ] Siamo molto
turbati dalle accuse infondate contro la Monsanto e il dottor Suskind.» Meno di
tre settimane dopo e l’amministratore delegato della multinazionale in persona,
Richard J. Mahoney, a inviare un messaggio a William Reilly, amministratore
dell’EPA, a cui allega un articolo comparso sulla Charleston Gazette: «Purtroppo
questo documento interno dell’EPA si e fatto strada fra i media», scrive infuriato.
«Capirete che questo causa alla Monsanto un serio problema che non ci
meritiamo affatto. Ecco perchè pretendiamo che il vostro ufficio emetta al piu
presto una dichiarazione, precisando che Cate Jenkins non parla a nome dell’EPA
ma a titolo personale.» Segue una risposta di Donald R. Clay, viceamministratore
dell’EPA, il cui tono servile lascia tutti perplessi: «Le opinioni espresse dal
rapporto interno dell’EPA erano attribuibili esclusivamente alla dottoressa Jenkins
e non all’agenzia. Mi scuso per i problemi arrecati alla Monsanto dallo
sfruttamento di tale comunicazione da parte dei media.

Se potrò esservi ulteriormente d’aiuto, non esitate a contattarmi».

Bisogna dire che da vvhistleblovver esperta, Cate Jenkins aveva organizzato da


se la fuga di informazioni ai media, perchè rimanessero tracce nel caso in cui
l’EPA avesse deciso di infangare la sua inchiesta. La questione aveva provocato
reazioni anche al Journal of the American Medical Association, il settimanale
medico piu letto al mondo, che sei anni prima aveva pubblicato, senza esitazioni,
il terzo studio della Monsanto.

Riporto un estratto da una lettera molto interessante del vicepresidente


dell’American Medical Association (AMA), responsabile della pubblicazione del
rispettatissimo Journal, uscita il 13 aprile 1990 in risposta agli interrogativi di un
medico che si preoccupava, a giusto titolo, dell’affidabilità degli studi pubblicati
dalla rivista scientifica, considerata la «bibbia della ricerca medica»: «Il Journal
of the American Medical Association ha molto a cuore che gli articoli scientifici
pubblicati siano affidabili. Tuttavia, quando vengono sollevate insinuazioni di
un’eventuale frode, gli editori di riviste scientifiche non hanno i mezzi per
condurre le indagini del caso. Non abbiamo accesso ai dati necessari, ne
lapossibilità di interpellare le persone implicate [corsivo mio]. Tali investigazioni
spetterebbero agli istituti da cui dipendono gli autori degli articoli stessi (in
genere ricercatori universitàri), agli organismi privati o alle agenzie governative
che ne finanziano i lavori, o a entrambe le cose»*

In altri termini, il Journal pubblica cio che riceve senza verificare la validità
dei dati, anche quando l’autore dell’articolo dipende da un grande gruppo
industriale. Tuttavia, il fatto che questo articolo sia stato pubblicato nella «bibbia
della ricerca medica» costituisce garanzia di serietà, di cui non esita ad avvalersi
il vicepresidente della Monsanto nella comunicazione del 9 marzo 1990, in cui
sottolinea, in difesa del dottor Suskind, che le sue conclusioni sono state
esaminate da scienziati indipendenti prima della pubblicazione. Così una serie di
menzogne si e diffusa nella comunità scientifica internazionale, cioè grazie a un
circolo vizioso che, come vedremo, riguarda tutti i campi della ricerca, compresa
la biotecnologia.

Tutti i documenti interni citati in questa parte provengono dal dossier che mi
ha procurato William Sanjour.

Intanto all’EPA il rapporto di Cate Jenkins diventa una patata bollente.


Stranamente, il comitato scientifico dell’agenzia, che nel 1988 si era servito degli
studi della Monsanto per giustificare la classificazione della diossina nella
categoria B2, non si dimostra all’altezza di condurre l’audit scientifico richiesto
da Cate e cede il dossier a un altro istituto, il NIOSH. Nello stesso periodo, forse
per salvare la faccia di fronte alla pressione dei media, la direzione dell’agenzia
chiede all’Office of Criminal Enforcement (OCE), l’organo incaricato delle
inchieste criminali, di considerare la validità delle accuse di frode.

«Era il modo migliore per seppellire la questione, afferma William Sanjour,


«perchè chi sarà disposto a correre il rischio di pronunciarsi su un’eventuale
frode, se nessuno realizza l’audit scientifico richiesto da Cate? Il 20 agosto 1990
l’inchiesta e ufficialmente aperta e vengono nominati due investigatori, John West
e Kevin Guarino, inviati speciali di Denver. I due hanno il compito di verificare le
«presunte violazioni delle leggi ambientali federali da parte della Monsanto, dei
suoi dipendenti e dirigenti», che avrebbero infranto il Toxic Substances Control
Act, la legge sul controllo delle sostanze tossiche che obbliga gli industriali a
informare l’EPA della tossicità dei loro prodotti, e sarebbero colpevoli di
«cospirazione per raggirare l’EPA» e di «dichiarazioni false».20

«L’inchiesta non ha mai avuto luogo», commenta William Sanjour.

«Nessuno ha mai verificato se la frode della Monsanto fosse vera. L’unica mai
realizzata e stata quella di Cate Jenkins, la vvhistleblovver tormentata e
maltrattata. La sua vita e diventata un inferno!» Grazie al dossier dell’ex dirigente
dell’EPA, ho potuto consultare i rapporti mensili dei due detective dell’agenzia.
La maggior parte consistono in una pagina bianca con la frase: «Nessuna attività
di investigazione significativa da riportare nel corso del mese». Un «rapporto
investigativo» di due paginette, datato 14 novembre 1990, attesta che i due hanno
incontrato Cate nel suo ufficio.

L’indomani, preoccupata per la loro scarsa curiosità, Cate gli invia un secondo
rapporto circostanziato in cui espone le proprie argomentazioni sulla «frode
Monsanto. E perchè tutto sia chiaro, sull’ultimo foglio precisa di averne inviata
una copia a sedici tra organizzazioni e personalità tra cui Greenpeace,
l’ammiraglio Zumvvalt e la Coalizione nazionale dei veterani del Vietnam, che
raggruppa sessantadue associazioni di veterani.

Tre giorni dopo l’impenitente Jenkins viene invitata a una cerimonia della
Coalizione, dove riceve una medaglia per il coraggio dimostrato e per la qualità
del lavoro svolto. Cate conferma pubblicamente che l’EPA sta conducendo
un’inchiesta criminale sugli studi fraudolenti della Monsanto, cosa che accelererà
la sua discesa agli inferi. «A partire da allora», commenta William Sanjour, «la
Monsanto interverrà di continuo presso l’EPA perchè l’inchiesta non abbia corso,
e perchè Cate sia sanzionata e licenziata. Tutti questi documenti interni lo
dimostrano», continua mostrandomi un pacco di comunicazioni dell’azienda di
Saint Louis. «Ed e solo la punta dell’iceberg! La Monsanto e una delle aziende
piu potenti degli Stati Uniti: ha legàmi con la Casa Bianca, con il Congresso e con
la stampa. Non solo l’inchiesta sarà sospesa, ma un avvocato della Monsanto
finirà con il redigere un documento di scuse prestampato a nome dell’EPA!» Ho
letto a fondo i documenti in questione e devo dire di essere rimasta sconvolta
dall’aplomb dei dirigenti della Monsanto: anzichè fare ammenda dei propri errori,
si dichiarano vittime, con il tono di chi e innocente o lasciando trasparire minacce
appena velate, come se si rivolgessero a un volgare subalterno. «La Monsanto
riconosce che l’agenzia ha effettivamente reso pubblica una rettifica secondo cui
la [sua] dipendente aveva agìto a titolo personale e [... ] il rapporto non rifletteva
la posizione ufficiale dell’agenzia», scrive James Senger a Donald Clay dell’EPA
il 1° ottobre 1990. «Tuttavia, tale rettifica non ha messo fine ai problemi causati
dalle continue allusioni alle accuse contenute in quel documento nato all’interno
dell’agenzia. [... ] Considerati gli stretti legàmi della nostra azienda con il mondo
scientifico, e fondamentale per le operazioni di ricerca conservare intatta la nostra
reputazione sulla qualità irreprensibile degli studi scientifici da noi condotti...»
Poi, a partire dal 1991, entra in scena James Moore, l’avvocato della Monsanto.
Moore non e stato scelto a caso: in realtà lavora per lo studio Perkins Coie, che
appartiene a William Ruckelshaus, il due volte amministratore dell’EPA con, nel
mezzo, un lungo periodo alla direzione della Monsanto e della Solutia. «Per tutte
le ragioni che le ho spiegato al telefono, non c’e motivo di pensare che sia stata
commessa una frode», insiste James Moore il 12 marzo 1992 parlando con
Hovvard Berman, vicedirettore dell’ufficio per le inchieste criminali dell’EPA.
«L’inchiesta condotta dai suoi servizi dovrebbe essere conclusa al piu presto,
perchè la Monsanto possa finalmente dichiararsi innocente e perchè svanisca ogni
allusione al suo presunto comportamento criminale.» Il monito fa effetto: il 7
agosto 1992 un ultimo «rapporto investigativo» conclude che «l’inchiesta e
terminata. Le affermazioni secondo cui la Monsanto avrebbe trasmesso studi
fraudolenti all’EPA sono state esaminate. Il [parola mancante] ufficio per la
valutazione sanitaria e ambientale dell’EPA, ha concluso che anche se gli studi
fossero stati falsificati, hanno [parola mancante] comportato scarse conseguenze,
poichè non sono stati presi in considerazione quando si e trattato di elaborare la
regolamentazione sulla diossina. Ancora una volta, niente di fatto...

Ma per la Monsanto non basta, come dimostra una comunicazione redatta il 26


agosto 1992 da un responsabile dell’EPA (il nome e cancellato), che riporta
l’ultima conversazione telefonica con James Moore: «Adesso Jim Moore
vorrebbe capire che cosa dovrebbe dire l’EPA per sistemare le cose e restituire la
reputazione di cui godeva l’azienda», scrive. «E’ consapevole della delicatezza
della richiesta. [...] Ritengo abbia almeno diritto a una lettera in cui l’EPA
annuncia che l’indagine si e chiusa per mancanza di prove, ma potrebbe non
essere sufficiente. [... ]

Ho suggerito a Jim di impostare un modello di documento [parola mancante]


contenente cio che la Monsanto vuole sentirsi dire...» La combutta fra governo e
industriali Mentre la Monsanto detta ordini all’EPA, Cate Jenkins patisce i
tormenti della vvhistleblovver. Il30 agosto 1990, infatti, viene messa da parte,
dove rimarrà fino all’8 aprile 1992, data in cui cambierà mansioni e si ritroverà in
una posizione amministrativa - «in mezzo alle scartoffie», secondo le sue parole -
appositamente creata per lei. In realtà, la sorte di Cate era gia stata decisa alla fine
del febbraio 1990, come si intuisce da una comunicazione redatta da Edvvin
Abrams, suo diretto superiore: «Cate non dovrebbe ricevere incarichi che la
mettano a contatto con i responsabili della regolamentazione, ne con il pubblico,
perchè sulla diossina ha opinioni estreme. [... ] Se proprio dobbiamo tenerla,
dovrebbe occupare una posizione amministrativa (come Bill Sanjour) e poco
importa se e soddisfatta o meno».21 William Sanjour sorride, ma un istante dopo
il suo sguardo si incupisce: «In questo Paese abbiamo tanto criticato i metodi
sovietici», dice adirato, «ma all’interno dell’EPA regna un’atmosfera da KGB...»
Il 21 aprile 1992 Cate Jenkins cita in giudizio l’EPA presso il dipartimento del
Lavoro. Un mese dopo il giudice ordina che la Jenkins venga reintegrata al
servizio originario, con la motivazione che il cambiamento di posizione era
discriminatorio e illegale. L’EPA ricorre in appello. L’ordine di reintegro sarà
confermato due anni dopo dal segretario del Lavoro, che non mancherà di
accusare il comportamento dell’EPA, la quale «in piu occasioni ha punito i suoi
vvhistleblovver trasferendoli in posizioni poco desiderabili».22

«Nonostante il calvario che ha vissuto, Cate puo essere fiera del proprio
lavoro», afferma oggi William Sanjour. «E grazie a lei che i veterani della guerra
del Vietnam sono stati finalmente ascoltati e la combutta fra il governo e la
Monsanto e venuta alla luce.» Dopo un silenzio carico di commozione, Sanjour
aggiunge: «Purtroppo era troppo tardi per il mio amico Cameron Appel, che e
morto di tumore nel 1976. Aveva solo trent’anni e ha lasciato due figli. Era
capitano dell’Aviazione nella guerra del Vietnam. Ho dedicato a lui il mio
rapporto sulla diossina, perchè penso che questa storia debba essere portata avanti
in nome delle persone, quelle che la Monsanto sembra non considerare.» Come
afferma la «sentinella dell’EPA», il coraggioso rapporto di Cate Jenkins ha aperto
il vaso di Pandora e ha provocato una valanga di rivelazioni e decisioni a
vantaggio, in primo luogo, delle vittime americane dell’agente arancio. «E grazie
a lei che nel 1991 abbiamo ottenuto una nuova legislazione», ha testimoniato John
Thomas Burch, presidente della Coalizione nazionale dei veterani, ascoltato dal
giudice del dipartimento del Lavoro il 29 settembre 1992. «Lo studio della
Monsanto ci ostacolava, perchè citato di continuo come riferimento per i
responsabili della legislazione. Quando siamo riusciti a dimostrare che presentava
dei difetti, l’ostacolo e crollato e migliaia di persone hanno potuto ricevere
assistenza medica.»23

Il primo a reagire al rapporto di Cate e stato l’ammiraglio Elmo Zumvvalt jr


che, come abbiamo visto, dopo la morte del figlio era stato nominato consigliere
speciale di Edvvard J. Dervvinski, segretario degli Affari dei veterani. In
un’intervista al Washington Post afferma di essere sconvolto «dagli studi disonesti
finanziati dall’industria chimica» e «dall’incapacità del CDC di condurre analisi
sui veterani che piu di tutti hanno sofferto l’esposizione alla diossina».24 Infine
Zumvvalt aggiunge: «Non avrei mai sospettato che conoscere la verità fosse tanto
difficile». Il 5 maggio 1990 l’ammiraglio redige un rapporto confidenziale in cui
afferma che la frode della Monsanto fa parte di un vasto meccanismo governativo
destinato a bloccare i risarcimenti alle vittime dell’agente arancio e, quindi, della
diossina.25

Si scopre così che nel 1982 il Congresso aveva stanziato una somma di
sessantatre milioni di dollari perchè il dipartimento degli Affari dei veterani
conducesse uno studio sugli effetti della diossina sui reduci. Il dipartimento,
ritenendosi incapace di realizzarlo, aveva affidato l’incarico al CDC, a cui il
Pentagono avrebbe dovuto fornire i programmi di irrorazione dell’Aviazione e gli
archivi sui movimenti delle truppe durante la guerra del Vietnam. Quattro anni
dopo il dottor Vernon Houk, direttore del CDC, annuncia di avere annullato lo
studio per «ragioni puramente scientifiche», perchè non erano riusciti a
identificare una «popolazione esposta sufficientemente rilevante»!26 Nel suo
rapporto, l’ammiraglio Zumvvalt denuncia uno «sforzo intenzionale per sabotare
qualunque possibilità di condurre analisi serie sugli effetti dell’esposizione
all’agente arancio». Aggiunge inoltre: «Purtroppo l’interferenza politica negli
studi finanziati dal governo e sempre stata la norma e non l’eccezione. In effetti,
si puo constatare uno sforzo sistematico per eliminare dati o modificare risultati».

Per rafforzare la propria critica, l’ammiraglio Zumvvalt cita un altro esempio


di frode, quella rivelata nel novembre 1989 dal senatore Thomas Daschle in
occasione di un’udienza al Congresso dedicata all’agente arancio.27 Si capisce
così come l’Aviazione americana abbia deliberatamente celato i risultati di uno
studio condotto per analizzare gli effetti delle irrorazioni sui piloti dell’operazione
Ranch Hand: contrariamente alle conclusioni «rassicuranti» pubblicate nel 1984,
pare che i figli dei militari coinvolti presentassero malformazioni congenite con
una frequenza due volte superiore rispetto al gruppo di controllo.

Tocca all’ex capo della Marina in Vietnam ribadire il concetto: «Purtroppo la


disonestà, la frode e l’interferenza politica che hanno caratterizzato gli studi
finanziati dal governo [... ] non hanno risparmiato nemmeno quelli condotti dai
ricercatori indipendenti, rafforzando così le conclusioni erronee fornite dagli
organismi governativi». Naturalmente, si riferisce agli studi della Monsanto, ma
anche a quelli condotti dal suo alter ego, la BASF, che in un suo stabilimento
aveva subito un’esplosione simile a quella di Nitro nel novembre 1953. Nel 1982,
per un inquietante effetto di mimetismo, alcuni scienziati pagati dall’azienda
tedesca avevano pubblicato una ricerca secondo cui gli operai presenti al
momento dell’incidente non presentavano patologie particolari.28 Sette anni dopo
un articolo del New Scientist rivelava che i dati erano stati falsificati seguendo le
stesse astute procedure della Monsanto: venti uomini che non erano stati esposti
al 2,4,5-T erano stati inseriti nel gruppo degli esposti, mascherando così il tasso
elevato di tumori ai polmoni, alla trachèa e al sistema digerente.29

Last but not least, nel momento in cui l’ammiraglio redige il suo sconvolgente
rapporto, due studi portano l’acqua al suo mulino: il primo, pubblicato sulla
rivista Cancer, afferma che alcuni contadini del Missouri che hanno utilizzato
erbicìdi clorati come il 2,4,5-T o il 2,4-D presentano un tasso anomalo ed
elevatissimo di tumori (alle labbra, alle ossa, alle cavità nasali, al seno, alla
prostata), così come linfomi non Hodgkin (tumori del sistema linfatico) e mielosi
(tumori della pelle).80 Tali risultati vengono confermati da un’altra ricerca
condotta su agricoltori canadesi e pubblicata nello stesso periodo.31

Corruzione: il caso Richard Doll Di fronte a questa valanga di rivelazioni


offerte da uno degli ufficiali piu prestigiosi dell’esercito americano,
l’amministrazione repubblicana di Bush padre non puo fare altro che arrendersi
all’evidenza. Il 2 febbraio 1991 il Congresso approva una legge (PL 102-4) che
richiede all’Accademia nazionale delle scienze di stilare un elenco di malattie
attribuibili a un’esposizione alla diossina. Sedici anni dopo l’elenco include
tredici patologie gravi, sostanzialmente tumori (all’apparato respiratorio e alla
prostata), alcuni dei quali rari come il sarcoma dei tessuti molli o il linfoma non
Hodgkin, ma anche la leucemia, il diabete (di tipo 2), la neuropatìa periferica (di
cui soffre Alan Gibson, il veterano che ho incontrato) e la cloracne. Questa lista
ha permesso al dipartimento degli Affari dei veterani di indennizzare e di prestare
cure mediche a migliaia di ex combattenti (su 3,1 milioni circa di soldati
americani in servizio durante la guerra in Vietnam).

Questo radicale cambiamento di rotta non ha risparmiato l’EPA, che ha dovuto


rivedere le proprie azioni nel momento in cui la comunità internazionale aveva gli
occhi puntati su uno studio molto atteso riguardante il primo bilancio sanitario
della catastrofe di Seveso. Diretto dal dottor Pier Alberto Bertazzi, lo studio
confermava un tasso abnorme di sarcomi dei tessuti molli, di linfomi non
Hodgkin e di mielosi nella popolazione esposta.32 Questo nuovo studio
costituisce «una prova in piu nella questione della diossina», come dichiara senza
timore la dottoressa Linda Birnbaum, una delle direttrici dell’EPA secondo cui
l’agenzia si sarebbe impegnata a rivalutare la classificazione della sostanza, che
ora poteva rientrare nel gruppo A (cancerogeno per l’uomo) in virtù di «prove
schiaccianti». Per rafforzare le proprie affermazioni, Linda Birnbaum cita quattro
studi pubblicati da scienziati svedesi fra il 1979 e il 1988 e fino ad allora
intenzionalmente ignorati dall’EPA, per la gioia della Monsanto che, ancora una
volta, agiva nell’ombra...

La storia e così incredibile che merita di essere raccontata, tanto la dice lunga
sull’operato dell’azienda, pronta a tutto pur di garantirsi l’impunità. Solo per caso,
nel 1973 un giovane ricercatore svedese di nome Lennart Hardell scopre la
diossina e i suoi effetti funesti sulla salute umana. Infatti, la sua consulenza viene
richiesta da un sessantatreenne all’ospedale di Umea: l’uomo soffre di tumore al
fegato e al pancreas, e si presenta come agente forestale della Svezia del Nord
che, per vent’anni, aveva avuto l’incarico di spargere una mistura di 2,4-D e di
2,4,5-T su boschi di latifoglie. Comincia allora una lunga ricerca, in
collaborazione con altri tre scienziati svedesi, che porterà alla pubblicazione di
uno studio in cui il legàme fra i sarcomi dei tessuti molli e l’esposizione alla
diossina verrà in superficie.33

Nel 1984 Lennart Hardell viene invitato a testimoniare nell’ambito di una


commissione d’inchiesta riunita dal governo australiano, all’epoca assalito dalle
richieste di indennizzo dei militari che avevano partecipato alla guerra del
Vietnam accanto agli americani. Nel 1985 la commissione «sull’uso e sugli effetti
dei prodotti chimici sul personale australiano in Vietnam emette un rapporto che
suscita accese polemiche.34 In un testo pubblicato sulla rivista Australian Society,
il professor Brian Martin, docente al dipartimento di scienze e tecnologie
dell’Università di Wollongong, denuncia le manipolazioni che hanno portato la
commissione a dichiarare «assolto» l’agente arancio.36 In effetti, manifestando
un ottimismo stupefacente, il rapporto conclude che «nessun veterano ha sofferto
per l’esposizione ai prodotti chimici usati in Vietnam. Finalmente una buona
notizia che la commissione si impegna a diffondere».

Nel suo articolo, il professor Martin racconta come gli esperti citati
dall’associazione dei veterani del Vietnam siano stati «vivamente attaccati
dall’avvocato della Monsanto Australia. «Nel suo rapporto scrive, «la
commissione ha valutato la testimonianza degli esperti negli stessi termini della
Monsanto. Tutti coloro che non escludevano la possibile tossicità dei prodotti
chimici si sono visti denigrare i propri contributi scientifici e la propria
reputazione. Invece gli esperti che esoneravano le sostanze da ogni responsabilità
sono risultati graditi alla commissione.

Gli autori del rapporto non hanno esitato a copiare quasi per intero duecento
pagine fornite dalla Monsanto allo scopo di smontare il risultato degli studi di
Lennart Hardell e Olav Axelson.36 «Il plagio ha l’effetto di presentare il punto di
vista della Monsanto come se fosse quello della commissione” commenta Brian
Martin. Per esempio, nella parte riguardante gli effetti cancerogeni del 2,4-D e del
2,4,5-T, «quando il testo della Monsanto dice ‘si suggerisce’, il rapporto scrive ‘la
commissione ha concluso’, ma per il resto e stato semplicemente copiato».

Lennart Hardell, chiamato fortemente in causa dal rapporto, che lo accusa di


avere manipolato i dati degli studi, analizza a sua volta la famosa opera. Scopre
«con sorpresa che il punto di vista della commissione e sostenuto dal professor
Richard Doll in una lettera del 4 dicembre 1985 indirizzata al giudice Phillip
Evatt, presidente della commissione». Doll scrive: «Le conclusioni del dottor
Hardell non possono essere difese e il suo lavoro non dovrebbe piu, a mio parere,
essere citato come prova scientifica. [... ] Non c’e motivo di pensare che il 2,4-D e
il 2,4,5-T siano cancerogeni per gli animali di laboratorio, e anche la TCDD,
presentata come un pericoloso inquinante contenuto negli erbicìdi, e tutt’al piu
debolmente cancerogena per gli animali».37

Richard Doll non e uno qualunque: deceduto nel 2005, e stato a lungo
considerato uno dei piu grandi cancerologi del mondo. Questo epidemiologo
britannico, che aveva persino ricevuto un titolo nobiliare dalla regina
d’Inghilterra, si era distinto per avere dimostrato un legàme fra il tabagismo e la
genesi del tumore ai polmoni. Avendo osato denunciare le menzogne degli
industriali del tabacco, Doll aveva una reputazione incorruttibile. Nel 1981 aveva
pubblicato un articolo sull’epidemiologia del cancro in cui affermava che le cause
ambientali hanno una funzione assai limitata nella progressione della malattia...38
Tuttavia, la leggenda Doll crolla nel 2006, quando il Guardian svela che lo
scienziato aveva lavorato segretamente per la Monsanto per ben vent’anni!39 Fra
i documenti archiviati e depositati nel 2002 nella biblioteca del Wellcome Trust,
c’era una lettera del 29 aprile 1986 scritta su carta intestata dell’azienda di Saint
Louis. Redatta da William Gaffey, un autore dei controversi studi sulla diossina,
confermava il rinnovo del contratto per millecinquecento dollari al giorno. In
realtà la (grossa) questione era stata sollevata da Lennart Hardell e colleghi, autori
di un articolo molto interessante pubblicato sull’American Journal of Industrial
Medicine*" Ma le sorprese non sono ancora finite. E nemmeno gli orrori, che
questa volta scoprirò in Vietnam.

I dannati del Vietnam L’infermiera, nella sua uniforme azzurra, estrae dalla
tasca un mazzo di chiavi e apre la porta senza dire nulla. Entriamo in una sala
tappezzata di scaffali, su cui si trovano decine di barattoli che sembrano usciti dal
set di un film dell’orrore. Sono feti conservati in formalina. Feti mostruosi. Un
cimitero di neonati deformati dalla diossina. Con il pene in mezzo alla fronte.
Gemelli siamesi con una sola testa sproporzionata. Con un solo busto e due teste.
Una massa informe attaccata a un corpicino senza membra. «Anencefalìa, 1979»
(assenza di cervello), dice un’etichetta.

«Microcefalìa» (cervello piccolo), dice un’altra. O ancora: «Idrocefalìa».

Ma solo alcuni barattoli hanno l’etichetta, perchè molte deformazioni sono così
aberranti da non avere nemmeno un nome medico.

Siamo all’ospedale Tu Du, a Ho Chi Minh (ex Saigon), nel dicembre 2006. Il
«museo degli orrori della diossina», come lo chiamano i vietnamiti, e stato
costituito alla fine degli anni Settanta dalla dottoressa Nguyen Thi Ngoc Phuong,
un’ostetrica che ha diretto per molto tempo il reparto maternità dell’ospedale, il
piu grande del Paese. Oggi questa specialista della diossina e in pensione, ma
continua a occuparsi del Villaggio della pace, al primo piano dell’ospedale, uno
dei dodici centri in Vietnam che si prendono cura dei bambini con handicap,
vittime dell’agente arancio. La dottoressa Phuong, una donnina fragile nel suo
camice immacolato, effettua la visita settimanale dei piccoli pazienti che
occupano cinque sale pulitissime. Alcuni sono costretti a letto, perchè nati senza
gambe, ne braccia. Altri arrancano sul pavimento, sotto l’occhio attento di
un’infermiera seduta in mezzo ai giocattoli di plastica. Sono profondamente
colpita dalla serenità che emanano questi piccoli esseri innocenti, dimostrazione
del fatto che sono oggetto di un’attenzione medica (e affettiva) di altissima
qualità. «La maggior parte soffre di problemi neurologici e di gravi anomalie
organiche», mi dice la dottoressa Phuong, che ora ha in braccio un bambino nato
senza bulbi oculari. Faccio fatica a distogliere lo sguardo da quella testa di feto
attaccata a un corpo di bambino che si raggomitola contro la spalla della donna...

La dottoressa Phuong era ancora una studentessa di medicina quando ha


assistito, per la prima volta, alla nascita di un neonato mall’ormato nel reparto
maternità dell’ospedale Tu Du. «Era il 1965», mi spiega in un francese piu che
discreto. «All’epoca non avevo mai sentito parlare della diossina. Negli anni
successivi abbiamo notato un aumento rilevante dei bambini nati morti o con
gravi malformazioni. Nel 2005 abbiamo registrato, solo in questo ospedale, circa
ottocento nascite con malformazioni, dato nettamente superiore alla media
internazionale.» «Le irrorazioni di defoglianti sono finite da quasi quarant’anni.
Come ha fatto la diossina a infettare questi bambini?»le ho domandato.

«Sappiamo che la diossina si accumula nella catena alimentare ed e una


sostanza liofila, cioè che si fissa nei grassi», risponde la dottoressa.

«Le madri di questi bambini possono essere state contaminate dagli alimenti o,
a loro volta, dal latte materno. Si sa anche che la diossina puo provocare anomalie
nei cromosomi, il che ne spiega la trasmissione di generazione in generazione.»
«Avete verificato se i genitori di questi bambini hanno residui di diossina
nell’organismo?» «Secondo i documenti dell’accettazione, il 70 per cento dei
bambini accolti qui hanno genitori che vivono in zone irrorate dai defoglianti.

Purtroppo, gli esami per individuare la diossina costano molto, circa mille
euro, e in Vietnam non esistono laboratori in grado di eseguirli. L’unica volta in
cui abbiamo prescritto analisi simili e stato per la madre di Viet e Due, due
gemelli siamesi che avevano tre gambe, un bacino, un ano e un pene comuni, e
che abbiamo operato con successo per separarli. Abbiamo trovato nel grasso della
donna un tasso di diossina abbastanza elevato. Le autorità mediche del Paese
stimano che oggi siano centocinquantamila i bambini affetti da malformazioni
dovute all’agente arancio, e che ottocentomila persone siano gia malate.»
«Esistono malformazioni congenite tipiche della diossina?» «No, ma la sostanza
agisce all’interno delle cellule come un ormone, favorendo lo sviluppo di
malformazioni e malattie esistenti altrove.» «Perchè un’azienda come la
Monsanto, e persino certi scienziati americani, continuano a negare il legàme fra
l’esposizione alla diossina e le malformazioni genetiche?» «E una storia che si
ripete. Prima hanno negato il legàme con il cancro e adesso, per scansare le
responsabilità, negano quello con le malformazioni congenite...» Per ora, in
effetti, delle tredici malattie riconosciute dagli Stati Uniti come legate alla
diossina, solo una riguarda una malformazione congenita, cioè la spina bifida* «Il
problema», mi spiega il professor Arnold Schecter, presente a Ho Chi Minh in
occasione della mia visita, «e che ci mancano i dati scientifici. Gli unici studi
realizzati riguardano gli animali: mostrano che quando un esemplare femmina e
esposto alla diossina, la probabilità che dia alla luce cuccioli colpiti da handicap o
da gravi malformazioni, anche cerebrali, aumenta considerevolmente.» Il
professor Schecter, docente all’Università del Texas, e uno dei maggiori
specialisti mondiali della diossina. All’inizio degli anni Ottanta aveva infranto
l’embargo americano contro il Vietnam prendendo contatti con alcuni scienziati di
Hanoi, con i quali ha condotto una ricerca di lungo corso sull’irrorazione della
diossina nell’ambiente.

Fra questi c’era il professor Hoang Trong Quynh, ex colonnello dell’esercito


vietnamita che ha partecipato «alle due guerre di liberazione, prima contro la
Francia, poi contro gli Stati Uniti», mi spiega lui stesso in un francese
impeccabile. Da trent’anni i due ricercatori ispezionano insieme la campagna
vietnamita per prelevare campioni di sangue o di tessuti umani e animali e
analizzarne il tasso di diossina. Il loro lavoro ha portato a numerose
pubblicazioni, l’ultima delle quali riguarda quarantatre abitanti della città di Bien
Hoa, nel Vietnam del Sud, in prossimità di una ex base aerea usata per i voli di
irrorazione dell’agente arancio.411 risultati hanno mostrato tassi elevati di
diossina nel sangue, superiori a 5 ppt (parti per trilione), con picchi fino a 413 ppt,
anche in bambini molto piccoli.*

Il termine deriva dal latino e significa«spina (dorsale) divisa in due». E


un’imperfezione della colonna vertebrale in cui una o piu vertebre non si sono
formate correttamente allo stadio embrionale, creando uno spazio che lascia
passare il midollo spinale e le meningi (NAT.!).

Inoltre, alcuni campioni di terreno o di sedimenti prelevati nella regione di


Bien Hoa, soprattutto nei pressi del Lago Bien Hung, hanno rivelato
concentrazioni di TCDD eccezionali, superiori a un milione di ppt...

«In Vietnammi spiega il professor Schecter, «urge decontaminare quelli che


noi chiamiamo hot spots, cioè luoghi con un’altissima concentrazione di diossina
come l’ex base aerea di Bien Hoa. Infatti, la diossina, pur non accumulandosi nei
vegetali, penetra nel suolo, dove la sua vita media [il tempo necessario perchè la
metà di una sostanza si dissolva] può essere addirittura di cent’anni. Disciolta
dalle piogge, raggiunge poi le falde freatiche, i laghi e i fiumi. A quel punto si
deposita nei sedimenti, contaminando fitoplancton, zooplancton, pesci, uccelli ed
esseri umani lungo la catena alimentare. Una volta nel sangue, si distribuisce nelle
cellule e si attacca ai grassi. A quel punto, all’interno del corpo umano, ha una
vita media di sette anni circa. Puo essere espulsa solo con un dimagrimento o con
il latte materno. Il problema e che, nell’ultimo caso, contamina anche il neonato.»
Un giorno del dicembre 2006 i due ottantenni fanno un viaggio nella provincia di
Binh Duong, a un centinaio di chilometri da Ho Chi Minh, una delle zone piu
irrorate dall’agente arancio. Hanno appuntamento con una famiglia i cui tre figli,
tutti intorno alla ventina, sono affetti da handicap mentali. Il padre ha vissuto a
Bien Hoa dal 1962 al 1975. La madre non ha mai lasciato la provincia di Binh
Duong.

«Ha visto delle irrorazioni di agente arancio?# domanda il professor Schecter.

«Si», risponde il padre.«Aveva l’odore della guaiava.» «Nel caso di questa


famiglia” commenta lo scienziato americano, «se il tasso di diossina dei genitori
si rivelasse elevato, si potrebbe affermare che gli handicap dei figli siano legati
all’agente arancio. Altrimenti, non sappiamo. Non e mai stata condotta nessuna
indagine epidemiologica sul rapporto fra diossina e malformazioni congenite.

Contrariamente ad altri prodotti tossici, la diossina si misura generalmente in


parti per trilione. Nei Paesi occidentali il tasso medio di diossina registrato negli
umani e di 2 ppt.

«Non e vero», interviene il professor Quynh. «Sono stati pubblicati studi da


colleghi vietnamiti, secondo i quali nei villaggi irrorati dall’agente arancio il tasso
di aborti e di malformazioni congenite e molto piu rilevante che nelle zone non
irrorate. Ma siccome questi studi non sono stati condotti da occidentali, gli
scienziati americani non ne vogliono tenere conto.42

«Come spiega tutto questo? domando, consapevole che la conversazione e


entrata in un terreno spinòso.
«La diossina e diventata un argomento essenzialmente politico” risponde il
professore americano con imbarazzo. «E un peccato, perchè alla fine riguarda
tutti. Si, tutti abbiamo un po’ di diossina nel corpo, ed e importante sapere con
precisione quali sono gli effetti sull’organismo umano. Purtroppo gli scienziati
sono prigionieri di implicazioni piu grandi di loro...

D’altronde, una cosa e certa: il 20 marzo 2005 l’amministrazione Bush


annunciava l’annullamento di un programma di ricerca approvato due anni prima
con un accordo fra Stati Uniti e Vietnam.43 Questo studio, che aveva un budget di
parecchi milioni di dollari, doveva essere diretto dal professor David Carpenter,
dell’Università di Albany, che ho incontrato per la mia indagine sui PCB (vedi
Capitolo 1). «Doveva riguardare le popolazioni vietnamite, e soprattutto il legàme
fra l’esposizione alla diossina e le malformazioni congenite” mi spiega il
professor Schecter. «Ufficialmente e stato annullato a causa della mancanza di
collaborazione del governo vietnamita. E vero che era imputabile di una certa
lentezza burocratica, ma penso che la decisione andasse soprattutto a vantaggio
dei produttori di agente arancio, contro i quali erano state intentate nuove cause...

Così il 9 giugno 2003 la Corte suprema degli Stati Uniti si pronunciava a


favore di Daniel Stephenson e Joe Isaacson, due veterani della guerra del Vietnam
affetti rispettivamente da tumore al midollo spinale e da linfoma non Hodgkin,
diagnosticati alla fine degli anni Novanta. Non rientrando nella sentenza
amichevole del processo del 1983, i due avevano deciso di citare di nuovo in
giudizio la Monsanto e altre società. Le aziende erano ricorse in appello, ma la
Corte suprema ha respinto le domande, aprendo così la strada a una nuova class
action in cui ritroviamo Alan Gibson come querelante e Gerson Smoger come
avvocato. Quattro anni dopo il processo non aveva ancora avuto luogo.

Nel febbraio 2004, per la prima volta, l’Associazione vietnamita delle vittime
dell’agente arancio ha presentato una denuncia presso la Corte federale di New
York. Ma nel marzo 2005 e stata rifiutata dal giudice Jack B. Weinstein, lo stesso
che aveva negoziato gli accordi amichevoli del 1983, con la motivazione che
l’uso militare di erbicìdi non era vietato da nessuna legge internazionale, e quindi
non poteva essere considerato un crimine di guerra. Citando un trattato del 1925
che vieta l’uso di gas durante la guerra, noto per gli«effetti asfissianti e tossici
sull’uomo», il vecchio giudice (ottant’anni) precisa che quel testo non riguarda
«gli erbicìdi concepiti per colpire le piante e che possono avere effetti collaterali
sugli esseri umani...» Poi il giudice conclude con questa frase sconcertante: «Se il
fatto di vendere erbicìdi avesse costituito un crimine di guerra, allora le aziende
chimiche avrebbero potuto rifiutarsi di fornirli.
Siamo una nazione di uomini e donne liberi, abituati alla sommossa appena il
governo supera i limiti della sua autorità... »44

La frase deve avere suscitato la gioia della Monsanto che, da parte sua, non ha
alterato di una virgola la propria difesa: «Proviamo compassione per le persone
che pensano di essere state colpite, e capiamo che cerchino di risalire alle cause
dei loro disagi», dichiara nel 2004 Jill Montgomery, portavoce
dell’azienda.«Eppure, tutte le prove scientifiche attendibili dimostrano che
l’agente arancio non ha effetti a lungo termine sulla salute.45

Negano tutto, ancora una volta. Stesso atteggiamento che oggi caratterizza la
posizione dell’azienda rispetto al Round-up, l’erbicìda lanciato sul mercato nello
stesso periodo in cui, a metà anni Settanta, il 2,4,5-T era stato definitivamente
vietato negli Stati Uniti (e successivamente nel resto del mondo).

4. Round-up: operazione intossicazione

«Per i topi il glifosato e meno tossico del sale da tavola ingerito in grandi
quantità.» Da una pubblicità della Monsanto «Se anche voi, come Rex, odiate le
erbacce in giardino, ecco Round-up, il primo diserbante biodegradabile. Distrugge
le erbe infestanti dall’interno fino alle radici e non inquina ne il terreno, ne l’osso
di Rex. Round-up, il diserbante per diserbare!» In questa simpatica pubblicità
televisiva si vede un cane spargere allegramente del Round-up sulle erbacce
infestanti di un praticello per dissotterrare l’osso che aveva nascosto proprio li
sotto. Non si vede che cosa succede alle pianticelle, ma poco dopo l’abbaiare
entusiasta di Rex fa intuire che si stia tranquillamente gustando il suo osso,
perchè il Round-up e del tutto inoffensivo. Si può addirittura immaginare il
simpatico cagnetto «condire» l’osso con i resti del barattolo di«diserbante
biodegradabile»...

L’erbicìda piu venduto al mondo Questa campagna pubblicitaria, trasmessa


trecentottantuno volte dal 20 marzo al 28 maggio 2000 sui principali canali
televisivi francesi, e costata alla Monsanto la bellezza di venti milioni di franchi.
Nello stesso momento, spot simili erano diffusi un po’ in tutto il mondo, perchè
per l’azienda di Saint Louis erano tempi duri: in quell’anno, infatti, scadeva il
brevetto sul Round-up, che metteva fine al monopolio sull’erbicìda piu
venduto al mondo e apriva la strada alla concorrenza. Questo faceva tremare la
Monsanto che, come vedremo nel settimo capìtolo, stava costruendo il proprio
futuro sullo sviluppo delle colture transgèniche, le Round-up Ready, cioè
geneticamente manipolate per resistere alle irrorazioni di Round-up. Inutile dire,
quindi, che per la multinazionale la posta in gioco era enorme, e che avrebbe
difeso il suo prodotto di punta a ogni costo.

Il Round-up, che in inglese significa «retata», e il nome commerciale dato


dalla Monsanto al glifosato, un erbicìda derivato da un amminoacido (la glicina)
che i chimici di Saint Louis hanno scoperto alla fine degli anni Sessanta. La
particolarità di questo diserbante detto «non selettivo» o «totale» - a differenza del
2,4-D e del 2,4,5-T - e che annienta qualunque forma di vegetazione: viene
assorbito dalla pianta attraverso le foglie e trasportato dalla linfa fino alle radici e
ai rizomi, coinvolgendo un enzima essenziale per la sintesi degli amminoacìdi
aromatici, e comportando così una diminuzione dell’attività della clorofilla, oltre
che di alcuni ormoni. Infine blocca la crescita vegetale, provocando una necrosi
dei tessuti che uccide la pianta.

Da quando viene messo sul mercato nel 1974, prima negli Stati Uniti, poi in
Europa, il Round-up ottiene un «successo stellare», per riprendere i termini di un
sito Web pubblicitario della Monsanto e del gruppo Scotts, distributore del
prodotto in Francia.1 Mentre e coinvolta nello scandalo ecologico e sanitario del
2,4,5-T, l’azienda di Saint Louis ritrova energia grazie a questa novità, la cui
confezione ne vanta i meriti: «Rispetta l’ambiente», «100 per cento
biodegradabile» e «Non lascia residui nel suolo».

«Il principio attivo del Round-up non agisce a contatto con il terreno,
preservando così le piantagioni circostanti e permettendo di seminare o ripiantare
gia una settimana dopo l’applicazione», precisa la pubblicità su Internet. Queste
allettanti promesse spiegano come il glifosato sia diventato il preferito degli
agricoltori, che lo usano in dosi massicce per liberare i campi dalle erbe infestanti
prima della semina successiva. Il Round-up, con la sua reputazione ecologica, e
diventato anche l’idolo dei gestori di spazi pubblici (aree verdi, campi da golf,
autostrade, treni «diserbanti» della SNCF, le ferrovie francesi, e così via). Chi non
ha mai visto, in primavera, squadre di tecnici vestiti da cosmonauti - tuta
ermetica, maschera antigas e stivali protettivi - percorrere le strade delle nostre
città con un bidone sulle spalle?

Un giorno di maggio del 2006 ho accompagnato nel Sud della regione parigina
una di queste squadre incaricate di sradicare i famosi «avventizi», termine usato
dai professionisti per indicare le «erbe infestanti». Sono rimasta impressionata dal
colore verdastro e poco invitante degli stivali degli addetti, che mi hanno
spiegato di doverne cambiare «un paio ogni due mesi», perchè il «caucciù viene
consumato dal Round-up». «Sono molto attento all’equipaggiamento dei miei
addetti», afferma il proprietario dell’impresa, precisando che preferisce restare
anonimo. «Cerco anche di far rispettare scrupolosamente le dosi prescritte dal
produttore, cosa che purtroppo non sempre abbiamo fatto...» Poi aggiunge con
aria d’intesa: «Sembrerebbe che il prodotto non sia così innocuo come hanno
voluto farci credere...» Non dice altro, limitandosi a ricordare le pubblicità del
piccolo schermo, in cui si vedono bambini giocare sull’erba mentre papà, in
sandali e pantaloncini, si accanisce sulle erbacce con in mano un bidone
di«Round-up per vialetti e terrazzi».

«Nel 1988», spiega il solito sito promozionale, «la Monsanto crea la divisione
giardini per estendere il consumo di Round-up anche al giardiniere amatoriale.
Nasce così una nuova gamma di Round-up destinata al grande pubblico.» Il
glifosato arriva in tutti i giardini francesi, dove viene abbondantemente utilizzato
senza protezioni prima di seminare verdura e insalata, che faranno la gioia delle
famiglie. «Noi lo usiamo», mi ha spiegato l’affittuario di un giardino in prossimità
dello Stade de France di Saint-Denis, a nord di Parigi. Il giovane pensionato, nel
suo capanno da giardino, e intento a preparare la «mistura» da spargere sul terreno
prima della semina. «Guardi!» aveva insistito mostrandomi il bidone verde chiaro
del Round-up con il logo di un uccello, che avrebbe dovuto confermare cio che
diceva l’etichetta: «Se usato seguendo le istruzioni, il Round-up non presenta
alcun rischio per l’uomo, nè per gli animali e l’ambiente».

Negli Stati Uniti l’entusiasmo per il simpatico erbicìda e tale che nel 1993
quindici città accettano di partecipare a un programma di «abbellimento
cittadino» sponsorizzato dalla Monsanto. Alcuni volontari, reclutati dall’azienda,
danno vita a squadre spontanee di lotta contro le erbe infestanti, per ispezionare le
strade e diserbarle. «L’idea e di sviluppare una fobìa delle erbe infestanti e di far
apparire il Round-up come un marchio socialmente responsabile,2 spiega Tracy
Frish, una dirigente della coalizione di New York in favore di un’alternativa ai
pesticìdi, che all’epoca conduceva una campagna per denunciare la «falsa
pubblicità» della Monsanto.

Un doppio caso di frode In realtà, ben presto nascono gravi sospetti sul nuovo
ritrovato dell’azienda di Saint Louis, che ancora una volta riuscirà a sviare le
accuse, grazie al lassismo dell’incorreggibile EPA. A dire il vero, la «costanza»
dell’EPA non ha niente di sorprendente: tutti i fatti riportati in questo libro a
proposito di PCB, diossina o Round-up, riguardano lo stesso periodo, che va piu o
meno dal 1975 al 1995. Non c’e da stupirsi, quindi, se in un prodotto o nell’altro
si ritrovi lo stesso protettore...
Nei primi anni Ottanta le cronache erano invase da un processo che riguardava
gli IBT (vedi Capitolo 1) di Northbrook. L’EPA conosceva bene gli IBT, perchè
erano i principali laboratori nordamericani incaricati di realizzare test sui pesticìdi
per conto delle aziende chimiche, al fine di ottenere l’omologazione dei propri
prodotti. Così, rovistando negli archivi del laboratorio, gli agenti dell’EPA hanno
scoperto che decine di studi erano stati «truccati» e presentavano «serie deficienze
e scorrettezze», per usare il linguaggio prudente dell’agenzia. Hanno soprattutto
constatato una «falsificazione continua di dati», mirata a nascondere un «numero
infinito di decessi fra gli animali testati».3

Pare che tra gli studi incriminati ci fossero trenta test sul glifosato.4

«E difficile non dubitare dell’integrità scientifica dello studio», commentava


nel 1978 un tossicologo dell’EPA, «soprattutto quando i ricercatori degli IBT
dicono di avere condotto un esame istologico degli uteri prelevati da conìgli
maschi.»5

Nel 1991 ci risiamo! Questa volta sono i laboratori Craven a essere accusati di
avere falsificato alcuni studi che avrebbero dovuto valutare i residui di pesticìdi,
fra cui il Round-up, su prugne, patate, uva e barbabietole da zucchero, oltre che
nell’acqua e nel suolo.6 «L’EPA ha spiegato l’importanza di quegli studi per
determinare il livello di pesticìdi autorizzati negli alimenti freschi o confezionati»,
scrive ilNew York Times. «Il risultato delle manipolazioni e che l’EPA ha
dichiarato sani dei pesticìdi di cui non e mai stato dimostrato che lo siano
davvero.»7 La frode e valsa ai proprietari dei laboratori una condanna a cinque
anni di carcere, mentre la Monsanto e le altre aziende chimiche che avevano tratto
profitto dai famosi studi non sono mai state sottoposte a inchiesta. Bisogna dire
che ancora una volta l’EPA aveva scelto la politica dello struzzo: «Non
pensavamo ci fossero problemi ambientali o sanitari», ha dichiarato Linda Fisher,
vicedirettore della divisione pesticìdi e sostanze tossiche dell’agenzia.
«Nonostante siano solo allusioni, d’ora in poi prenderemo misure preventive. Per
me e una grande sfida!»8

Dopo dieci anni di servizio all’EPA, nel 1995 Linda Fisher sarà assunta dalla
Monsanto per dirigere l’ufficio di Washington incaricato del lobbying sulle
autorità politiche. Poi, nel maggio 2001, tornerà all’EPA come numero due. Un
bell’esempio di cio che negli Stati Uniti chiamano revolving doors (porte
girevoli), che illustra la combutta fra grandi aziende e autorità del Paese (tornerò
sull’argomento nel Capitolo 5).
Nell’attesa, la Monsanto ha misurato l’effetto che questo doppio caso di frode
poteva avere sulla sua immagine. Nel giugno 2005, quattordici anni dopo l’accusa
contro i laboratori Craven, l’azienda pubblicava una comunicazione in cui, con il
solito aplomb, affermava: «I danni alla reputazione della Monsanto causati dalle
rivelazioni dei media e dall’uso che ne hanno fatto gli attivisti, i quali se ne sono
serviti per mettere in dubbio i dati forniti dall’azienda, sono difficili da stimare.
Tutti gli studi sui residui messi in discussione sono stati ripetuti e ora i risultati
sono affidabili, aggiornati e accettati dall’EPA».9

Certo, come no! Dopo il doppio scandalo l’EPA aveva preteso che gli esami
incriminati fossero «ripetuti», ma come affermava nel 1998 Caroline Cox sul
Journal of Pesticìde Reform, questa «frode getta un’ombra su tutto il processo di
omologazione dei pesticìdi».10 Eppure, la cosa sorprendente è che questa
«ombra» non ha intaccato minimamente la Monsanto, che ha continuato
tranquillamente a promuovere il Round-up come erbicìda «biodegradabile e
amico dell’ambiente».

«Messaggi pubblicitari ingannevoli» Tuttavia, nel 1996 una serie di accuse


depositate presso l’Ufficio per la repressione delle frodi e per la tutela del
consumatore di New York avevano costretto l’azienda a negoziare un accordo
amichevole con il dipartimento della Giustizia, che aveva avviato un’inchiesta per
«falsa pubblicità sulla sicurezza dell’erbicìda Round-up (glifosato)». Con un
rapporto assai dettagliato,11 il dipartimento, nella persona di Dennis C. Vacco,
passa in rassegna le numerose pubblicità pagate dalla Monsanto e apparse in
televisione o sui giornali. Alcune sono davvero edificanti: «Per i topi il glifosato è
meno tossico del sale da tavola ingerito in grandi quantità», «Il Round-up può
essere usato in luoghi in cui vivono bambini e animali domestici, perché si
decompone in materie naturali».

Sono «messaggi pubblicitari ingannevoli», afferma Dennis Vacco, che


impedisce alla Monsanto, sotto minaccia di ammenda, di dichiarare che il suo
erbicìda è «biodegradabile, amico dell’ambiente, non tossico, inoffensivo e noto
per le caratteristiche ambientaliste». Due anni dopo l’azienda viene sanzionata
con settantacinquemila dollari di multa per avere insinuato, in una nuova
pubblicità con un orticoltore californiano, che l’erbicìda poteva essere spruzzato
vicino a fonti d’acqua.12

Stranamente, le decisioni giudiziarie americane non hanno mai preoccupato la


Commissione europea, e ancora meno le autorità francesi, che hanno tollerato
senza battere ciglio la campagna pubblicitaria lanciata nella primavera del 2000
dalla Monsanto. Ma l’immagine del simpatico Rex che si gusta un osso
impregnato di Round-up ha fatto insorgere l’associazione Eau et Rivières de
Bretagne, che nel gennaio 2001 ha citato in giudizio la filiale francese del gigante
americano per pubblicità fraudolenta.

«Alcuni studi scientifici hanno dimostrato che nelle acque bretoni c’era una
presenza massiccia di glifosato», mi spiega Gilles Huet, delegato
dell’associazione bretone, durante una conversazione telefonica nella primavera
del 2006. Huet citava un rapporto pubblicato nel gennaio 2001 dall’Osservatorio
regionale della salute in Bretagna.13 In realtà, i prelievi effettuati nel 1998 nelle
acque bretoni hanno rivelato che il 95 per cento dei campioni presentava un tasso
di glifosato superiore alla soglia legale di 0,1 microgrammi/litro, con punte di 3,4
microgrammi/litro nella Seiche, affluente della Vilaine. «Nel 2001», precisa Huet,
«la Commissione europea, che ha riomologato il glifosato, l’ha classificato come
‘tossico per gli organismi acquatici’ e ‘in grado di comportare effetti nefasti a
lungo termine per l’ambiente’. Chiediamo quindi un minimo di coerenza: un
prodotto ‘biodegradabile’ e ‘rispettoso dell’ambiente’ non può essere
contemporaneamente ‘tossico e nefasto’ nelle acque bretoni!» Così, il 4 novembre
2004 il tribunale correttivo di Lione, dove ha sede la filiale francese della
Monsanto, apre il processo per «pubblicità fraudolenta o tale da indurre in
errore». Fino al 2003, approfittando della lentezza dell’istruzione della causa da
parte dell’associazione bretone, la multinazionale ha potuto continuare a
diffondere la campagna pubblicitaria incriminata. Nel giorno del processo di
Lione otterrà persino due anni di proroga, optando semplicemente per la politica
della sedia vuota... All’udienza, infatti, i rappresentanti dell’azienda brillano per la
loro assenza: fingeranno di non avere mai ricevuto la comunicazione «per
mancanza di indirizzo in Francia», come ha detto il pubblico ministero, che
decide di rinviare il processo al giugno 2005. «Errore amministrativo manovra
dell’azienda per sfuggire a una condanna infamante in termini di immagine?» si
interroga l’associazione dei consumatori UFC-Que Choisir, che nel 2001 si era
unita all’accusa di Eau et Rivières de Bretagne. Le malelingue insinuano che il
rinvio avrebbe permesso alla Monsanto di salvare la campagna pubblicitaria
primaverile dei diserbanti, fondamentale per il fatturato aziendale: nel 2004 la
Monsanto France deteneva il 60 per cento del mercato del glifosato; vendeva cioè
tremiladuecento tonnellate di Round-up all’anno, anche grazie al raddoppio dei
consumi di erbicìda verificatosi fra il 1997 e il 2002.

Alla fine l’udienza del tribunale di Lione si è tenuta il 26 gennaio 2007,


esattamente sei anni dopo la citazione in giudizio. I dirigenti della Scotts France e
della Monsanto sono stati condannati a quindicimila euro di ammenda che, tutto
sommato, valevano pur qualche manovra di delazione. Il tribunale ha stimato che
«l’uso combinato, sulle etichette e sulle confezioni [degli erbicìdi della gamma
Round-up], delle espressioni ‘biodegradabile’ e ‘lascia il suolo pulito’ [... ] poteva
fare erroneamente credere al consumatore che i suddetti prodotti fossero innocui
grazie a una rapida degradazione biologica dopo l’utilizzo, [... ] quando in realtà
possono rimanere a lungo nel suolo, e persino infiltrarsi nelle acque sotterranee».

Ma ciò che ha infastidito ancora di più la Monsanto, la quale è ricorsa in


appello, è che secondo la giustizia francese l’azienda sapeva «che i prodotti in
questione erano ecotossici», poiché «secondo gli studi effettuati dalla Monsanto
stessa, dopo ventotto giorni si ottiene un livello di degradazione biologica pari
solo al 2 per cento». Ancora una volta l’azienda di Saint Louis disponeva di dati
contrari a ciò che affermava pubblicamente, ma si è ben guardata dal mostrarli.
Del resto, perché avrebbe dovuto farlo? Come ha detto Ken Cook, direttore
dell’EWG di Washington a proposito dei PCB (vedi Capitolo 1), «a loro conviene
di più mantenere il segreto, perché in fin dei conti le sanzioni sono molto
leggère».

Il problematico processo di omologazione dei pesticìdi «Teniamo a ricordare


che le dichiarazioni riportate sulle nostre etichette si basano su studi scientifici
pubblicati o trasmessi agli organismi di regolamentazione del dipartimento
dell’Agricoltura, incaricato di autorizzare la commercializzazione dei prodotti»,
scriveva l’8 giugno 2000 un quadro della Monsanto France alla Direzione
generale della concorrenza sui consumi e della repressione delle frodi. E qui
bisogna dare ragione al rappresentante dell’azienda: nella sua autodifesa tocca il
cuore del problema, cioè il processo di omologazione dei prodotti chimici in
Francia (ma anche in moltissimi altri Paesi sviluppati), che apre la strada a ogni
tipo di abuso e frode a danno del consumatore.

Per essere più precisi, dirò che il famoso «processo di omologazione» è un


vero e proprio inganno: al contrario di quanto vorrebbero far credere le autorità di
regolamentazione, si basa interamente sul volere delle aziende chimiche che
forniscono i dati sull’innocuità dei loro prodotti.

Questi dati vengono esaminati da «esperti» più o meno competenti, più o meno
coraggiosi e più o meno indipendenti. Basta leggere il libro Fìdati, gli esperti
siamo noi dei britannici Sheldon Rampton e John Stauber,14 o quello dei francesi
Fabrice Nicolino e Francois Veillerette, Pesticìdes, révélations sur un scandale
frangais (Pesticìdi, rivelazione su uno scandalo francese),15 per rendersi conto
che molti prodotti tossici hanno avuto lunga vita dopo essere stati approvati dai
famosi «esperti», i cui nomi sono coperti da procedure burocratiche ben poco
limpide.

In questo senso la storia della Monsanto è un esempio delle aberrazioni in cui


si è impantanata la società industriale, costretta a gestire come può - cioè male - la
proliferazione di sostanze chimiche tossiche che hanno invaso il Pianeta dalla fine
della Seconda guerra mondiale. La soluzione più ragionevole sarebbe,
semplicemente, bandire qualunque molecola rappresenti un pericolo per l’uomo e
per l’ambiente. Ma per soddisfare gli interessi dei grandi gruppi chimici - e dei
consumatori della vita «moderna», come diranno alcuni - la regolamentazione
riguarda solo le sostanze pericolose che potrebbero creare danni immediati e
vistòsi. Le altre, dopo il Diluvio universale...

La storia dei pesticìdi è un esempio perfetto di questo meccanismo intricato, di


cui bisogna cercare di capire il funzionamento addentrandosi in particolari
piuttosto aridi che ne rivelano l’assurdità. Come sottolinea Julie Marc in una tesi
di dottorato in biologia discussa nel 2004 all’Università di Rennes,'6 «l’uso dei
pesticìdi risàle all’antichità», ma fino al XX secolo i «killer di erbe infestanti»
erano di origine naturale: i contadini e i giardinieri usavano derivati minerali
come il rame della vecchia cara «poltiglia bordolese» per trattare le piante affette
da malattie o assalite dai parassiti. Lo sviluppo dell’agricoltura industriale è stato
accompagnato dall’uso massiccio di pesticìdi chimici che appartengono, come
abbiamo visto, alla famiglia degli organoclorati, primo fra tutti il DDT. Battezzati
«prodotti fitosanitari» - bella prodezza retorica che sostituisce il concetto di
«killer» con l’eufemistico «cura medica» -, si suddividono in tre categorie: i
fungicìdi (per combattere i funghi), gli insetticìdi (per liberarsi dei parassiti) e gli
erbicìdi (per eliminare gli infestanti erbacei delle colture).

Ogni pesticìda è costituito da un «principio attivo» - glifosato per il Round-up


- e da molti adiuvanti ancora chiamati «sostanze inerti», come solventi,
disperdenti, emulatori e surfattanti, il cui scopo è migliorare le proprietà
psicochimiche e l’efficacia biologica dei principi attivi, ma che non hanno attività
pesticìda propria. Così i vari prodotti della gamma Round-up sono costituiti dal
14,5 al 75 per cento di sali di glifosato, e il resto della formulazione comprende
una decina di adiuvanti principali di cui «la composizione è spesso segreta», come
sottolinea Julie Marc. La funzione di questi adiuvanti è di permettere la
penetrazione del glifosato nella pianta, come il polioxietilene (POEA), un
detergente che favorisce la propagazione delle goccioline irrorate sulle foglie.
In Francia, terzo utilizzatore mondiale di pesticìdi (dopo Stati Uniti e
Giappone) con centomila tonnellate vendute ogni anno, di cui il 40 per cento
erbicìdi, il 30 per cento fungicìdi e il 30 per cento insetticìdi, si stima che
attualmente siano omologate 550 materie attive e 2700 formulazioni commerciali.
Come nel resto del mondo, e soprattutto in Europa, ogni nuovo prodotto
fitosanitario deve essere oggetto di omologazione prima di venire
commercializzato; deve cioè avere un’autorizzazione di vendita valida dieci anni
rilasciata dal ministero dell’Agricoltura. Per ottenerla, l’azienda deve dimostrare
l’efficacia e l’innocuità della formulazione presentando un dossier tecnico che
comprenda rapporti di laboratorio sulle proprietà chimiche, fisiche e biologiche
del prodotto, ma anche sull’eventuale tossicità per l’uomo, gli animali e
l’ambiente. Quando si legge, per mano di Julie Marc, la lista delle relazioni che
dovevano costituire tale «dossier tossicologico», si ha la sensazione che tutto vada
per il meglio nel mondo industriale, e che non vi siano motivi per preoccuparsi.

In realtà, i test richiesti dalle autorità di regolamentazione, in Francia come nel


resto dell’Unione europea, sono molti: mirano innanzitutto a valutare sui topi (e
talvolta su altri animali) gli effetti della sostanza quando viene assunta per via
orale, cutanea o per inalazione. Si misurano soprattutto l’assorbimento, la
distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione della molecola da parte
dell’organismo, e si calcola quella che viene chiamata «dose letale», cioè la
quantità o la concentrazione del prodotto necessarie a provocare la morte del 50
per cento di un lotto di cavie («DL50» o «CL50»), allo scopo di evitare incidenti
gravi durante la manipolazione. In seguito si esamina la «tossicità subcronica»,
cioè gli effetti di un’assunzione ripetuta del prodotto sugli organi, soprattutto
fegato e reni. Questi studi, condotti in generale su un periodo che va da novanta
giorni a un anno (anche due, se si presenta un problema), permettono di stabilire
quella che gli esperti chiamano «dose senza effetti osservati» (DSE), cioè la
quantità massima di sostanza la cui assunzione quotidiana non comporta effetti
sugli animali testati. La DSE è espressa in milligrammi di sostanza attiva per
chilogrammo di peso corporeo dell’animale testato al giorno, o in milligrammi di
sostanza per chilogrammo di cibo (la famosa ppm) se si tratta di un componente
alimentare. Infine altri test devono dimostrare se il prodotto presenta un
«potenziale oncogenico» (cancerogeno), «teratogeno» (in grado di causare
malformazioni congenite) o «mutagenico» (capace di modificare in modo
permanente e trasmissibile il DNA dei soggetti esposti).

Il dossier tossicologico completo permette di stabilire valori regolamentari,


come la «dose giornaliera accettabile» (DGA), che indica la quantità di sostanza
che l’utilizzatore o il consumatore può ingerire quotidianamente e per tutta la vita
senza che la salute ne risenta. In altri termini, per fare luce sull’assurdità del
processo, si sa che una sostanza è tossica per i mammiferi e si calcola la dose che
possono consumare quotidianamente prima di ammalarsi o di morirne. Poi si
trasferisce il dato sull’uomo. Ma come facciamo a sapere che la dose calcolata per
un topo un coniglio può davvero proteggerci dall’avvelenamento? E che cosa dire
dell’accumulo e dell’interazione fra le diverse sostanze tossiche che ingurgitiamo
quotidianamente, visto che la famosa DGA riguarda non solo i (numerosi)
pesticìdi, ma anche gli additivi alimentari come coloranti e conservanti? La
domanda, finora, non ha una risposta. In ogni caso è già sconvolgente sapere che
il calcolo della DGA si basa su studi condotti dalle aziende che, ovviamente,
guadagnano dalla vendita del loro prodotto.

Ai test sulla tossicità per l’uomo di una nuova molecola si aggiungono


relazioni che ne monitorano il comportamento nell’ambiente (la persistenza, la
mobilità, l’assorbimento nella catena alimentare o la capacità di biodegradarsi),
così come il potenziale ecotossico (per uccelli, api, pesci o piante acquatiche).

Alla fine il dossier tossicologico viene esaminato dalla Commissione di studio


per la tossicità dei prodotti antiparassitari a uso agricolo, che trasmette la propria
valutazione al dipartimento dell’Agricoltura. E in generale il dipartimento si
uniforma alle decisioni prese a livello europeo dal Comitato fitosanitario
permanente, incaricato di scrivere su una lista evolutiva i principi attivi
autorizzati, classificandoli secondo il grado di tossicità (irritante, corrosivo,
nocivo, tossico o molto tossico) con obbligo di etichettatura. «Secondo gli
organismi francesi e internazionali, il glifosato è considerato irritante, in grado di
causare lesioni oculari gravi e tossico per gli organismi acquatici», afferma Julie
Marc. «Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), l’EPA e l’Unione
europea, l’uso di glifosato secondo le istruzioni del produttore non crea problemi
per la salute umana. [... ] Tuttavia, molti studi epidemiologici mostrano una
correlazione fra esposizione al glifosato e tumori.» «Il Round-up innesca le prime
fasi che portano al cancro» Mentre le agenzie di regolamentazione continuano a
classificare gli erbicìdi a base di glifosato come «non cancerogeni per l’uomo»,
una serie di indagini epidemiologiche prova l’esatto contrario. Uno studio
canadese, pubblicato nel 2001 dall’Università del Saskatchevvan dimostra che
uomini esposti al glifosato per più di due giorni all’anno hanno il doppio delle
probabilità di sviluppare un linfoma non Hodgkin rispetto ad altri mai esposti.17
Questi risultati sono confermati da uno studio svedese pubblicato nel 2002 da
Lennart Hardell (lo specialista della diossina) e colleghi, che hanno paragonato lo
stato di salute di 442 utilizzatori di erbicìdi a base di glifosato a un gruppo di
controllo di 741 non utilizzatori,18 oltre che da un’inchiesta epidemiologica su
alcuni contadini americani del Midwest da parte del National Cancer Institute.19
Inoltre, uno studio epidemiologico condotto nell’Iowa e nella Carolina del Nord
su 54.315 utilizzatori privati e professionisti di pesticìdi, suggerisce un legàme fra
glifosato e mieloma multiplo.20

In Francia l’équipe del professor Robert Bellé, della stazione biologica di


Roscoff, che dipende dal Centre nationale de la recherce scientifique (CNRS) e
dall’Institut Pierre-et-Marie-Curie, ha studiato l’effetto delle formulazioni al
glifosato sulle cellule di un riccio. «Lo sviluppo precoce del riccio fa parte dei
modelli riconosciuti per lo studio dei cicli cellulari», spiega Julie Marc, che ha
scritto la tesi di dottorato sui lavori del laboratorio bretone. In realtà, la scoperta
del «modello del riccio», fondamentale per la comprensione delle fasi precoci
della cancerogenesi, è valso nel 2001 il premio Nobel per la fisiologia e la
medicina ai britannici Tim Hunt e Paul Nurse e all’americano Leyland Hartvvell.

Nei primi anni Duemila il professor Robert Bellé decide di usarlo per testare
gli effetti sanitari dei pesticìdi. La sua preoccupazione è allora motivata dal livello
di inquinamento constatato nelle acque francesi, oltre che negli alimenti: «I dati
sulla qualità delle acque sotterranee in Francia dimostrano una contaminazione
considerata sospetta nel 35 per cento dei casi», afferma Julie Marc, che ha
consultato tutti gli studi disponibili. «Anche le acque marine mostrano una
contaminazione generalizzata e perenne da erbicìdi. [... ] L’ingestione di frutta e
verdura contribuisce all’apporto di pesticìdi per gli umani. A questo proposito le
cifre sono inquietanti, poiché il 49,5 per cento dei campioni di alimenti vegetali di
origine francese analizzati contengono residui di pesticìdi, e l’8,3 per cento ne
contiene quantità superiori al limite massimo.»21

In questo panorama poco rassicurante, la Bretagna mostra un tasso di


contaminazione record, che interessa in particolare le acque destinate al consumo
umano. Continua Julie Marc: «Nel 75 per cento dei casi la norma regolamentativa
per l’accumulo di sostanze viene superata, e nello stesso campione si trovano
talvolta più di dieci sostanze, con concentrazioni che superano a loro volta gli 0,1
microgrammi/litro regolamentari. Questo inquinamento ha origine da pratiche
agricole, ma anche dall’uso di pesticìdi nelle aree non coltivate». È anche
necessario notare una delle aberrazioni della regolamentazione, che ha fissato il
tasso accettabile di residuo nelle acque a 0,1 microgrammi/litro, ma solo per un
unico erbicìda, senza mai esprimersi sull’effetto cumulativo - cosa assai ricorrente
- degli altri, né sulla loro interazione.
Così, agli inizi degli anni Duemila, il professor Bellé propone al Consiglio
regionale della Bretagna di condurre uno studio per valutare l’effetto degli
erbicìdi sulla divisione cellulare. «Il lato ironico della faccenda», mi spiega il
ricercatore, che incontro nel suo laboratorio di Roscoff il 28 settembre 2006, «è
che avevamo deciso di usare il Round-up come termine di controllo negli
esperimenti, convinti che fosse del tutto inoffensivo, come sosteneva la pubblicità
del cane con l’osso! La sorpresa più grande è stata vederlo causare effetti ben più
rilevanti dei prodotti che testavamo. È così che abbiamo cambiato l’oggetto della
nostra ricerca, dedicandoci unicamente al Round-up.» «Come avete proceduto?»
domando.

«Abbiamo fatto ‘fecondare’ dei ricci, la cui caratteristica è di produrre grandi


quantità di ovuli; abbiamo messo gli ovociti in presenza di spermatozoidi e
immerso le uova fecondate in una soluzione diluita di Round-up. Preciso che la
concentrazione era molto inferiore a quella generalmente usata in agricoltura. Poi
abbiamo osservato gli effetti del prodotto su milioni di divisioni cellulari. Presto
ci siamo resi conto che il Round-up colpiva un punto chiave della divisione
cellulare; non i meccanismi della divisione stessa, ma quelli che la controllano.
Per capire l’importanza di questa scoperta bisogna ricordare il meccanismo della
divisione cellulare: quando una cellula si divide in due cellule figlie, la copia in
due esemplari del patrimonio ereditario, sotto forma di DNA, dà luogo a numerosi
errori. Fino a cinquantamila per cellula. Normalmente si innesca un processo
automatico di riparazione o di morte naturale delle cellule atipiche [apoptosi]. Ma
capita che non succeda, se viene colpito il punto di controllo dei danni del DNA.
È proprio questo checkpoint a essere danneggiato dal Round-up. Pertanto,
diciamo che il Round-up innesca le prime fasi che portano al cancro [corsivo
mio]. In effetti, sfuggendo ai meccanismi di riparazione, la cellula colpita potrà
sopravvivere in forma geneticamente instabile; e oggi sappiamo che può costituire
l’origine di un tumore che si svilupperà trenta o quarant’anni dopo.» «Siete
riusciti a determinare quale sostanza del Round-up colpiva la divisione
cellulare?» «Bella domanda! Abbiamo condotto l’esperimento anche con glifosato
puro, cioè senza gli adiuvanti che costituiscono il Round-up, e non abbiamo
constatato effetti: quindi è il Round-up in sé a essere tossico, non il suo principio
attivo. Quando abbiamo esaminato i test che hanno contribuito all’omologazione
del Round-up, abbiamo scoperto con sorpresa che erano stati condotti con
glifosato puro, che in realtà non ha alcuna funzione, nemmeno come erbicìda,
perché da solo non riesce a penetrare nelle cellule. Ecco perché penso ci sia un
grosso problema con il processo di omologazione del Round-up, e sono convinto
che ci si dovrebbe interessare di più ai molti adiuvanti che contiene e alla loro
composizione.» Fra gli adiuvanti sospetti emerge soprattutto il polioxietilene, la
cui tossicità acuta è stata confermata da numerosi studi, ma anche le sostanze
inerti di cui non si può dire nulla, poiché la loro identità non viene comunicata dal
produttore, in nome del «segreto commerciale»;22 senza dimenticare il principale
prodotto della biodegradazione del glifosato, l’acido aminometilfosfonico
(AMPA), che ha una vita media molto elevata.

Di fronte a queste chiare disfunzioni del processo di omologazione, alcuni


scienziati coraggiosi come il dottor Mae-Wan Ho (Regno Unito) e il professor Joe
Cummins (Canada), membri dell’Institute of Science in Society, richiedono una
revisione urgente della regolamentazione relativa all’erbicìda più usato al
mondo.23 Dico «coraggiosi» perché la storia del professor Bellé dimostra,
qualora ce ne fosse bisogno, che non si può colpire impunemente il prodotto di
punta di un’azienda come la Monsanto.

«Evidentemente, abbiamo capìto subito l’importanza che potevano avere i


nostri risultati per gli utilizzatori di Round-up», spiega, «visto che la
concentrazione dell’erbicìda all’origine delle prime disfunzioni è di
duemilacinquecento volte inferiore a quella raccomandata durante le irrorazioni.
Basta una goccia minuscola per colpire il processo di divisione cellulare. In
concreto, significa che per usare l’erbicìda senza correre rischi, bisogna non solo
indossare tuta e mascherina, ma anche accertarsi che non ci sia nessuno nei
dintorni per un raggio di cinque metri. Con grande ingenuità ci siamo detti che
probabilmente la Monsanto non lo sapeva, perché altrimenti quelle
raccomandazioni sarebbero state scritte nelle istruzioni per l’uso, così abbiamo
comunicato loro i risultati prima di pubblicare lo studio.24 Siamo rimasti sorpresi
dalla loro reazione: invece di considerare seriamente i nostri dati, hanno risposto
con aggressività che tutte le agenzie di regolamentazione avevano concluso che il
prodotto non era cancerogeno per l’uomo e che, a ogni modo, il cancro del riccio
non interessava a nessuno! Questo è tutto tranne che un’argomentazione
scientifica! Non sapevano nemmeno che se il ‘modello del riccio’ è valso il
premio Nobel a chi l’ha scoperto, è proprio perché gli effetti misurati su una
cellula del riccio sono perfettamente trasferibili sull’uomo...» «E come hanno
reagito i vostri organismi di tutela, il CNRS e l’Institut Pierre-et-Marie-Curie?»
«A dire il vero la loro reazione è stata ancora più sorprendente», risponde il
professor Bellé dopo un attimo di silenzio. «Alcuni rappresentanti sono venuti
fino a Roscoff per chiederci di non comunicare con i media e con il pubblico, con
il pretesto che avrebbe potuto scatenarsi una psicosi...» «Come spiegate tutto
ciò?» «Questa domanda è stata un’ossessione per molto tempo... Oggi penso che
non si volessero provocare reazioni per non creare un pregiudizio sullo sviluppo
degli OGM, che, come sappiamo, sono stati manipolati per resistere al Round-
up... » «Non teme per la sua carriera?» «Non ho paura di niente», mormora il
ricercatore. «Presto andrò in pensione e non dirigerò più il laboratorio. Ecco
perché posso permettermi di parlare...» Un «killer di embrioni» «Non disturbare
lo sviluppo degli OGM»: è l’unica argomentazione avanzata anche da Gilles-Éric
Séralini per spiegare l’inerzia del potere pubblico di fronte alla tossicità del
Round-up. Séralini, docente all’Università di Caen, è membro della Commissione
di ingegneria biomolecolare francese, incaricata di istruire i dossier per la
richiesta di prove sul campo degli organismi geneticamente modificati, oltre che
del Comitato di ricerca e di informazione indipendente sull’ingegneria genetica
(CRIlGEN), che continua a richiedere studi più approfonditi sull’effetto sanitario
degli OGM.

Il professor Séralini ha condotto parecchi studi sul Round-up e i suoi effetti


sulla salute umana, come mi spiega quando lo incontro, il 10 novembre 2006, nel
suo laboratorio di Caen: «Mi sono interessato al Round-up perché insieme con gli
OGM, che sono stati manipolati per poterlo assorbire senza soccombere, è
diventato un prodotto alimentare, visto che se ne trovano residui nella soia e nel
mais transgènici. Inoltre, avevo letto studi epidemiologici realizzati in Canada
secondo i quali si verificavano più aborti e parti prematuri nelle coppie di
agricoltori che usavano il Round-up rispetto al resto della popolazione».

Uno studio pubblicato dall’Università di Carleton, condotto su famiglie


contadine dell’Ohio, ha rilevato che l’uso del glifosato nei tre mesi precedenti al
concepimento di un bambino era associato a un maggior rischio di aborto tardivo
(fra la dodicesima e la diciannovesima settimana).26 È interessante osservare che,
secondo un altro studio realizzato su famiglie contadine dell’America del Nord, il
70 per cento degli agricoltori presentava, il giorno in cui irroravano i loro campi
con il Round-up, urine contaminate di erbicìda con una concentrazione media di 3
e punte di 233 milligrammi/litro.26

Allo stesso modo, un laboratorio dell’Università del Texas ha stabilito che


l’esposizione al Round-up delle cellule di Leydig, che sono nei testicoli e hanno
un ruolo fondamentale nel funzionamento dell’apparato genitale maschile,
riduceva del 94 per cento la loro produzione di ormoni sessuali.27 Infine, alcuni
ricercatori brasiliani hanno constatato che spesso, al momento dell’esposizione al
Round-up, esemplari di topi femmina davano alla luce cuccioli con
malformazioni scheletriche.28
Tutti questi risultati sono stati confermati dai due studi condotti dal professor
Séralini e dalla sua équipe, che ha misurato l’effetto tossico del Round-up prima
su cellule della placenta umana, poi su cellule embrionali29 «prese da cellule
renali di embrioni coltivate in laboratorio, non dovendo così procedere a nessuna
distruzione di embrioni».

«Come avete fatto?» gli domando.

«Abbiamo immerso le cellule in una soluzione di Round-up, variando la


concentrazione del prodotto, da quella più bassa, cioè 0,001 per cento, fino alle
dosi utilizzate in agricoltura, cioè 1-2 per cento», mi risponde il biologo.
«Abbiamo anche variato il tasso di esposizione per determinare in quale momento
l’erbicìda produceva un effetto su quella che chiamiamo la ‘respirazione delle
cellule’, che condiziona la produzione di ormoni sessuali. Abbiamo constatato che
in quantità ammesse dalla regolamentazione sui livelli di residui accettabili in
prodotti alimentari come le piante transgèniche, il Round-up uccideva le cellule di
placenta umana in qualche ora e, in modo ancora più sensibile, le cellule
provenienti da embrioni umani.» Il professore accende il computer per mostrarmi
le fotografie relative agli studi realizzate dall’équipe. All’inizio si vede una
sequenza di cellule ben distinte e trasparenti, ciascuna con una macchiolina scura
al centro, che è il nucleo. Dopo una giornata di esposizione al Round-up si sono
dissolte, lasciando il posto a un ammasso scuro e informe, una sorta di «purèa»,
per usare le parole di Séralini. «Infatti, sotto l’effetto del prodotto le cellule
cominciano a contrarsi, poi, non riuscendo più a respirare bene, muoiono per
asfissia. Preciso inoltre che questo risultato si ottiene con dosi nettamente inferiori
a quelle usate in agricoltura, poiché, per esempio per questa immagine, la
concentrazione era dello 0,05 per cento. Ecco perché dico che il Round-up è un
killer di embrioni. Con una concentrazione ancora più scarsa, diluendo cioè il
prodotto acquistato in negozio diecimila o centomila volte, si constata che non
uccide più le cellule ma ne blocca la produzione di ormoni sessuali, cosa
altrettanto grave perché è grazie a quegli ormoni che i feti possono sviluppare le
ossa e formare il futuro sistema riproduttivo. Si può quindi concludere che il
Round-up è anche un elemento di disturbo endocrino.» «Avete confrontato gli
effetti del Round-up con quelli del glifosato puro?» «Certo! E abbiamo constatato
che il Round-up è molto più tossico del glifosato, visto che le prove alla base
dell’omologazione del Round-up sono state realizzate con il solo principio attivo.
Abbiamo quindi contattato il commissario europeo dell’Agricoltura, che ha
ammesso la presenza del problema, ma da allora non è successo niente... » «E
cos’hanno detto le autorità francesi?» «Ah!» sospira il biologo. «Innanzitutto
bisogna sapere che è impossibile ottenere crediti istituzionali per condurre questo
tipo di ricerca. In Francia, come nella maggior parte dei Paesi industrializzati, non
c’è interesse - e dunque nemmeno fondi - per studi epidemiologici o controperizie
scientifiche sulla tossicità dei prodotti chimici che invadono la nostra quotidianità.
Eppure mi sembra che dal punto di vista della sanità pubblica ci sia una vera e
propria emergenza, perché il nostro organismo è diventato una spugna di
inquinanti. Nel genòma dei feti umani, come ho potuto constatare, si trovano
centinaia di sostanze tossiche come idrocarburi, diossine, pesticìdi, residui di
plastica o di colla... Questi prodotti, concepiti per non essere solubili in acqua, si
ammassano e si concentrano nei nostri grassi, e nessuno sa quali siano gli effetti a
lungo termine. Il problema è che l’autorità pubblica non vuole saperlo. È pronta a
finanziare uno studio per migliorare le cannucce necessarie per l’inseminazione in
vitro dei suini, ma non per gli effetti tossici dell’erbicìda più venduto nel mondo.
Nel mio caso, ho dovuto trovare finanziamenti privati, soprattutto dalla
Fondazione per una terra umana; ma quale giovane scienziato si lancerebbe in
un’avventura tale sapendo di andare contro ogni tutela istituzionale?» Del resto, il
giorno in cui mi sono recata a Caen per intervistare e filmare il professor Séralini,
i suoi laboratori erano stranamente vuoti: «Nessuno dei miei dottorandi vuole
comparire accanto a me», mi ha spiegato, «perché temono di essere associati alle
mie dichiarazioni, che metterebbero a rischio la loro carriera».

Benvenuti nel regno della scienza indipendente! «L’atmosfera da KGB» che


aveva denunciato William Sanjour, il vvhistleblovver dell’EPA, evidentemente
non riguarda solo la venerabile agenzia nordamericana... Lo dimostra la reazione
suscitata fra i ranghi dell’Assemblea nazionale francese dall’articolo del professor
Séralini su Environmental Health Perspectives nel febbraio 2005. La
pubblicazione viene infatti duramente criticata dal portavoce della Missione di
informazione sulle implicazioni delle ricerche e dell’uso degli OGM, Christian
Ménard, medico e deputato, nel suo rapporto dell’aprile 2005: «In virtù del
carattere tossico del glifosato, e dei prodotti a base di glifosato, le recenti
conclusioni dello studio condotto dal professor Gilles-Éric Séralini devono essere
riviste. [... ] Il percorso seguìto e le conclusioni di questo studio sono assai
controversi. [... ] Il concetto stesso di perturbatore endocrino è particolarmente
fumoso e la comunità scientifica internazionale è d’accordo nell’affermare che
mancano prove sperimentali per stabilire legàmi di causa-effetto fra alcune
molecole sospettate di essere perturbatori endocrini ed esiti nocivi nell’uomo...
»30
Anche se il ricercatore «sottolinea [... ] la necessità di condurre studi
epidemiologici [... ] per effettuare confronti tra i diversi erbicìdi», è il caso di un
cane che si morde la coda: le autorità non invitano i laboratori a condurre studi
sugli effetti tossici delle «molecole sospette», quindi esistono poche «prove
sperimentali» (ma quando ce ne sono vengono contestate) e di conseguenza è
facile concludere che «non ci sono problemi».

L’agente arancio della Colombia Intanto, grazie alla combutta fra politici,
giganti dell’industria chimica e comunità scientifica internazionale, l’uso dei
pesticìdi continua a diffondersi in tutto il mondo. Si stima che 2,5 milioni di
tonnellate di prodotti fitosanitari vengano sparsi ogni anno sulle colture del
Pianeta, e che solo lo «0,3 per cento entri in contatto con gli organismi oggetto del
trattamento, il che significa che il 99,7 per cento delle sostanze irrorate finiscono
‘altrove’ nell’ambiente, nel suolo e nelle acque», sottolinea Julie Marc nella sua
tesi di dottorato.31 Quindi la contaminazione dei fiumi e dei corsi d’acqua da
parte dell’erbicìda più usato al mondo potrebbe essere all’origine
dell’annientamento di intere popolazioni di anfibi, come dimostra uno studio
pubblicato nel 2005 da Rick Relyea, un ricercatore dell’Università di
Pittsburgh.82 Relyea ha osservato gli effetti di due insetticìdi (il Sevin e il
Malathion) e di due erbicìdi (il Round-up e il 2,4D) su una popolazione di
venticinque specie animali provenienti da un acquitrino (lumache, girini, crostacei
e insetti), messi in quattro contenitori con la loro acqua di origine. In ogni
contenitore è stata aggiunta una dose di pesticìda, secondo la concentrazione
consigliata dai produttori. I risultati sono stati spettacolari: «Nel bacino in cui
abbiamo messo del Round-up abbiamo trovato, fin dal giorno dopo, girini morti
un po’ ovunque sulla superficie dell’acqua», afferma Relyea. «È stato tremendo
vedere come il Round-up, concepito per uccidere le piante, fosse letale anche per
gli anfibi.»38 Da notare che il 2,4-D e i due insetticìdi non hanno prodotto effetti
sui piccoli abitanti degli acquitrini...

Ma non sono solo gli animali a soffrire delle conseguenze dell’inquinamento


dovuto ai prodotti fitosanitari. «Il numero di intossicazioni accidentali da pesticìdi
è stimato a più di un milione all’anno nel mondo, e a ventimila quello dei casi
mortali», continua Julie Marc. «Aggiungendovi i casi di suicìdio, i tre milioni di
avvelenamenti vengono raggiunti pienamente, con 220.000 decessi.» In questo
quadro infelice il Round-up occupa un posto d’onore, essendo l’erbicìda preferito
dei candidati al suicìdio per intossicazione. Secondo uno studio realizzato a
Taiwan su 131 casi di suicìdio per assunzione di Round-up, la maggior parte dei
soggetti era morta dopo sofferenze atroci, causate da edemi, difficoltà respiratorie,
violenti conati di vomito e dissenteria.34 Uno studio simile condotto in Giappone
ha permesso di valutare la dose letale dell’erbicìda: circa 200 millilitri, cioè tre
quarti di una tazza.

Più in generale, il Round-up rappresenta la causa più diffusa di querele per


avvelenamento registrate, per esempio, nel Regno Unito o in California, così
come riportava nel 1996 la rivista Pesticìdes News. Secondo fonti concordanti, i
sintomi dell’intossicazione sono sempre gli stessi: irritazione agli occhi, problemi
di vista, mal di testa, irruzioni dermatologiche, irritazione della pelle, nausea,
sensazione di secchezza alla gola, asma, difficoltà respiratorie, sangue dal naso e
vertigini.

Scrivendo queste righe, non posso evitare di pensare al calvario che vivono
ogni giorno le comunità contadine della Colombia, sottomesse a quello che gli
strateghi di Washington chiamano Pian Colombia. Elaborato nel giugno 2000 con
il supporto del governo di Bogotà, il piano mira a sradicare le colture di coca che
riforniscono il mercato internazionale della cocaina e che finanziano, in parte, i
movimenti di guerriglia. Principale mezzo di tale intervento sono le irrorazioni
aeree di Round-up. Dal 2000 al 2006 si stima che siano stati irrorati trecentomila
ettari circa, soprattutto nei dipartimenti di Cauca, Narino e Putumayo (che si
estende sino al confine con l’Ecuador), le cui popolazioni vengono colpite da
quello che alcuni chiamano «agente arancio della Colombia». Solo nella zona di
Putumayo, dove vivono diverse comunità indie, trecentomila persone sono
rimaste intossicate.

La situazione è così drammatica che nel gennaio 2002 una ONG statunitense,
Earthjustice Legal Defence Fund, si è rivolta alla Commissione per i diritti
dell’uomo e al Consiglio economico e sociale dell’ONU. Nel suo rapporto l’ONG
stilava l’elenco di tutti i danni che era riuscita a constatare sul territorio
colombiano: «Problemi gastrointestinali (gravi emorragie, nausea, vomito),
infiammazioni ai testicoli, febbre alta, vertigini, insufficienza respiratoria,
irruzioni cutanee e gravi irritazioni oculari, oltre ad aborti e malformazioni alla
nascita».36 Inoltre, «le irrorazioni hanno distrutto più di millecinquecento ettari di
colture alimentari (manioca, mais, banane, pomodori, canna da zucchero, praterie)
e alberi da frutto, e hanno provocato la morte di molti animali (bovini e volatili).

[... ] Insomma, la situazione illustra chiaramente il legàme fra l’ambiente e i


diritti dell’uomo, perché le irrorazioni che causano gravi danni all’aria, all’acqua,
alla terra e alla biodiversità costituiscono una violazione dei diritti umani».
In questo rapporto si legge che l’erbicìda usato è il Round-up Ultra, al quale
sono stati aggiunti surfattanti prodotti in Colombia, il Cosmos flux411f e il
Cosmo-in-D, che hanno la funzione di quadruplicare «l’efficacia» del prodotto
della Monsanto. Inoltre, le concentrazioni usate nei preparati dell’esercito
colombiano, sotto lo sguardo dei colleghi nordamericani, sono «cinque volte più
alte di quelle raccomandate dall’EPA per le irrorazioni aeree». Infine «i metodi di
applicazione non rispettano le raccomandazioni del produttore, che sconsiglia di
spruzzare il prodotto a più di tre metri sopra la cima delle piante più alte; secondo
la polizia antidroga colombiana, gli aerei volano a dieci-quindici metri». Ne
consegue, naturalmente, uno spargimento dell’erbicìda per diverse centinaia di
metri...

Che cosa dire di fronte a questo nuovo scandalo da cui, ancora una volta,
l’azienda di Saint Louis trae profitto? Nulla, se non ricordare le istruzioni del
Round-up Ultra così come appaiono oggi sui bidoni venduti negli Stati Uniti: «Il
Round-up uccide quasi tutte le piante verdi in fase di crescita. Il prodotto non
dovrebbe essere applicato vicino a riserve d’acqua come acquitrini, laghi o fiumi,
perché può essere tossico per gli organismi acquatici. Le persone e gli animali
domestici (cani e gatti) dovrebbero rimanere al di fuori della zona in cui il Round-
up viene applicato, finché non è completamente asciutto. Raccomandiamo che per
due settimane animali come cavalli, bovini, pecore, capre, conìgli, tartarughe non
siano autorizzati a entrare nelle aree trattate. Se il Round-up è usato per
controllare piante indesiderate situate vicino ad alberi da frutta o piantagioni come
i vigneti, consigliamo di non consumarne i frutti prima di ventuno giorni».

Ottenute grazie alla vigilanza di alcune organizzazioni dei consumatori


nordamericane, queste avvertenze non valgono, naturalmente, per i contadini
colombiani. E si potrebbe concludere, in modo alquanto affrettato, che la
Monsanto abbia imparato la lezione da un passato poco glorioso e che oggi sia un
po’ più cauta, poiché in gioco c’è la salute dei suoi concittadini. Ma vedremo, con
la questione dell’ormone della crescita bovina, che non è esattamente così.

5. Il caso dell’ormone della crescita bovina (parte prima): l’influenza sulla


FDA

«Visto che la composizione del latte non risulta alterata dal Posilac, le sue
proprietà e il gusto non cambiano.» Dal sito Web della Monsanto «Questo caso è
stata una vera e propria discesa agli inferi. Ero entrato alla FDA pensando di
operare per il bene dei miei compatrioti e ho scoperto che l’agenzia non era più il
custode della sanità pubblica, ma il protettore degli interessi delle imprese
industriali.» Quando incontro Richard Burroughs a New York, il 21 luglio 2006,
quasi vent’anni dopo lo scoppio del «caso», mi dice: «È troppo doloroso. Ogni
volta che mi torna in mente è come se mi franasse il terreno sotto i piedi. È molto
difficile ammettere, ancora oggi, di essere stato licenziato dalla famosa FDA
perché mi opponevo alla commercializzazione di un prodotto che consideravo
pericoloso! Eppure era proprio quello il mio compito!» Lo sconforto del dottor
Burroughs mi faceva pensare a Cate Jenkins, a William Sanjour e ad altri di cui
parlerò più avanti: Shiv Chopra di Health Canada, Arpad Pusztai del Rovvett
Institute, Ignacio Chapela dell’Università di Berkeley, o i giornalisti Jane Akre e
Steve Wilson. A tutti si indebolisce la voce quando raccontano la loro esperienza
di vvhistleblovver. E la storia di Richard Burroughs è davvero emblematica.

«Licenziato per incompetenza» Il dottor Burroughs, veterinario, laureato alla


Cornell University, lavorava come medico indipendente nello Stato di New York,
dove i suoi genitori allevavano una mandria di mucche da latte. «Adoro le
mucche», dice con un sorriso che gli illumina il volto. «È per loro che ho scelto
questo mestiere!» Nel 1979 viene assunto alla FDA, che gli propone una
formazione in tossicologia. «Ho accettato di lasciare la campagna per Washington
perché quell’offerta era il massimo!» Per lui come per chiunque altro, direi. Chi
non ha sentito dire almeno una volta nella vita: «Il prodotto è stato autorizzato
negli Stati Uniti, quindi non ci sono problemi». Ma autorizzato da chi? Dalla
FDA.

L’agenzia, nata ufficialmente nel 1930, approva o disapprova la


commercializzazione dei prodotti alimentari o farmaceutici destinati al consumo
umano o animale. La sua bibbia è il Food Drug and Cosmetic Act, firmato dal
presidente Theodore Roosevelt nel 1938. Un testo vincolante su cui poggia
l’autorità della FDA, che nasceva come risposta a un dramma nazionale: un anno
prima erano morte un centinaio di persone per avere ingerito elisir di sulfamidici,
farmaco prodotto con un solvente che si rivelò mortale. Il Food Drug and
Cosmetic Act prevedeva che ogni prodotto contenente nuove sostanze fosse
testato dalle aziende e sottoposto a un’autorizzazione della FDA prima che
venisse messo in commercio.

Nel 1958 il testo è stato completato dall’emendamento Delaney,* secondo il


quale se un prodotto presenta il minimo rischio di cancerogenicità, non deve
essere omologato. In ogni caso, è importante notare che l’agenzia in sé non
realizza studi tossicologici, ma si limita a esaminare i dati forniti dai produttori.
Così nel 1985 il dottor Burroughs, che lavora nel Center for Veterinary
Medicine (CVM) della FDA, riceve l’incarico di analizzare la richiesta di
omologazione di un ormone della crescita bovina, la somatotropina bovina (BST),
prodotta per manipolazione genetica dalla Monsanto** e destinata a essere
iniettata ai bovini due volte al mese per aumentarne la produzione di latte almeno
del 15 per cento. «Per il CVM si trattava di un prodotto rivoluzionario», spiega
Richard Burroughs, «perché era il primo farmaco transgènico che ci capitava di
studiare.»

Dal nome del deputato democratico di New York James Delaney (1901 -
1987), che se potesse leggere queste pagine si rivolterebbe nella tomba.

** Negli anni Settanta altre tre aziende sono riuscite a produrre l’ormone
transgènico: la Elenco, una filiale di Eli Lilly, la Upjohn e l’American Cyanamid.
Ma alla fine solo la Monsanto rimarrà in affari.

La BST è un ormone naturale secreto in abbondanza dall’ipofisi delle mucche


dopo il parto e in grado di stimolare la lattazione, permettendo la mobilitazione
delle riserve corporee dell’animale grazie a un’azione sui tessuti. Da come era
stata descritta la sua funzione da alcuni scienziati sovietici nel 1936, i laboratori
legati all’agroindustria avevano cercato di riprodurla per aumentare il rendimento
del bestiame, ma invano: bisognava sacrificare venti mucche al giorno per
ottenere, a partire dalle loro ipofisi, la dose giornaliera di ormone del latte
necessaria per un solo animale... Alla fine degli anni Settanta alcuni ricercatori,
finanziati dalla Monsanto, sono riusciti a isolare il gene che produce l’ormone.
L’hanno introdotto mediante manipolazione genetica in un battèrio Escherichia
coli (o «colibacillo», battèrio comune che popola la flora intestinale dei
mammiferi, uomo compreso), permettendone così la produzione su vasta scala.
Questo ormone transgènico è stato battezzato dalla Monsanto recombinant Bovine
Somatotropin (rBST) o recombinant Bovine Grovvth Hormone (rBGH).* Fin
dall’inizio degli anni Ottanta l’azienda organizza dei test in fattorie sperimentali
di sua proprietà o in collaborazione con alcune università, come la Cornell o
quella del Vermont.

«Il dossier fornito dalla Monsanto era alto come me», spiega Richard
Burroughs, che svetta oltre il metro e ottanta. «Il regolamento della FDA ci
impone di non impiegare più di centottanta giorni per analizzare i dati. In realtà, è
uno stratagemma delle aziende per scoraggiare un esame minuzioso: inviano
tonnellate di carta sperando che non vengano neanche guardate. Ho capìto subito
che i dati miravano solo a dimostrare che con l’rBGH la produzione di latte
risultava dopata. Gli scienziati della Monsanto non si erano posti le domande
cruciali: che cosa significa per le mucche produrre latte in quantità superiori alla
loro capacità naturale? Come dovranno essere nutrite per sopravvivere allo
sfruttamento?

Oggi sono utilizzati entrambi i termini, ma non dagli stessi soggetti: la


Monsanto, ansiosa di nascondere l’origine artificiale del proprio prodotto, parla
solo di rBST, mentre gli oppositori usano la sigla rBGH.

Quali malattie potrebbero sviluppare? Non avevano neppure pensato che le


mucche avrebbero avuto la mastite, molto diffusa nelle mandrie ad alto
rendimento.» «La mastite è un problema anche per il consumatore?» «Certo,
perché si traduce in un aumento di globuli bianchi, che provoca la presenza di più
pus nel latte! Bisogna trattare i capi di bestiame con antibiotici, che possono
lasciare, anche questi, residui nel latte.

Quindi è una questione molto seria... Inoltre, l’ormone transgènico sconvolge


il ciclo naturale dell’animale. Normalmente la bestia produce BST dopo il parto,
per nutrire il piccolo. A mano a mano che il vitello cresce, la secrezione
dell’ormone rallenta, per poi arrestarsi definitivamente. Perché la mucca riprenda
a produrre latte, bisogna che dia alla luce un altro vitellino. L’rBGH permette di
mantenere artificialmente attiva la produzione di latte al di là del ciclo naturale.
Ecco perché può comportare problemi di riproduzione per l’animale, e di
conseguenza un danno economico per l’allevatore. Quando ho notato che
mancavano tutti questi dati, ho detto alla Monsanto di rivedere il dossier, cosa che
ha richiesto due-tre anni di tempo, perché hanno dovuto seguire l’evoluzione delle
mucche su almeno tre cicli... » «E quali sono stati i risultati dei nuovi studi?»
«Innanzitutto erano di scarsissima qualità scientifica! Per esempio, per misurare
l’effetto dell’ormone transgènico sulle mastiti, bisogna determinare in ogni
allevamento un gruppo di animali trattati con l’ormone e un altro di controllo non
sottoposto a trattamento, ma allevato nelle medesime condizioni. La Monsanto
aveva disperso animali trattati e non trattati in diversi siti sperimentali,
mescolandone poi i risultati. Sono quindi stato costretto a correggere il tiro ancora
una volta. Ricordo anche una visita a sorpresa che ho effettuato in uno dei loro
laboratori, dove avrebbero dovuto analizzare l’effetto dell’ormone sugli organi e
sui tessuti dei bovini: ho scoperto che erano scomparsi dei rognoni! Nonostante
questi difetti tecnici, dagli studi emergeva chiaramente che la frequenza delle
mastiti era molto più elevata... » «Avete avvertito i superiori della FDA?» «Sì»,
dice il dottor Burroughs, «in un primo momento hanno reagito correttamente...»
Un documento datato 4 marzo 1988 attesta che Richard R Lehmann, direttore
della divisione produzione farmaci del CVM, ha trasmesso le inquietudini di
Burroughs a Terrence Harvey della Monsanto:* «Abbiamo esaminato la vostra
richiesta e la troviamo incompleta», scrive Burroughs. «Gli esami sono
insufficienti. [...] Non avete identificato con chiarezza l’incidenza clinica delle
mastiti sulle mandrie testate. [... ] Dovreste chiarire quali trattamenti utilizzerete
per curare le mastiti. [... ] Vi ricordiamo che l’uso della gentamicina e della
tetracicline non è autorizzato per la cura delle mastiti nelle mandrie da latte. [... ]
Avete compromesso i dati sulla riproduzione usando progesterone e
prostaglandine.

Non è possibile valutare gli effetti della BST sulla riproduzione se altri test con
ormoni riproduttivi diversi mascherano o alterano gli effetti della cura.» Infine,
riguardo allo studio tossicologico condotto sui topi, il responsabile del CVM è
ancora più pungente: i topi studiati sono troppo pochi (sette), sono solo femmine,
la durata dello studio è troppo breve (sette giorni) e le dosi ingerite dalle cavie
troppo scarse...

A partire da questa comunicazione comincia la discesa agli inferi del dottor


Burroughs. «Sono stato subito messo da parte», racconta. «Mi hanno vietato
l’accesso ai dati che io stesso avevo richiesto, fino a rendermi del tutto estraneo al
dossier. Poi, il 3 novembre 1989, il mio superiore mi ha messo alla porta. Per me
era la fine.» «L’hanno licenziata?» «Sì, per incompetenza», mormora Richard
Burroughs.

Il veterinario cita in giudizio la FDA per licenziamento immotivato.

Vince in prima istanza, l’agenzia ricorre in appello, ma alla fine è costretta a


reintegrare il suo agente. «Sono stato dirottato alla sezione suina», commenta
Burroughs. «Non sapevo niente di maiali! Ogni momento era buono per
commettere gravi errori, così ho preferito dare le dimissioni. È stato un periodo
nero... Non capivo che cosa mi succedeva. Ero sul lastrico, perché i processi mi
erano costati moltissimo e non avevo un lavoro. Per fortuna avevo mia moglie e i
miei due figli... » «Ha ricevuto minacce? “Fisicamente? Preferisco non parlarne...
Moralmente, sì. Durante il processo d’appello gli avvocati della Monsanto hanno
minacciato di fare ritorsioni se avessi rivelato informazioni confidenziali
sull’rBGH. Tipico della Monsanto...»
Terrence Harvey aveva trascorso tutta la sua carriera alla FDA, dirigendo quasi
sempre il CVM, prima di conquistarsi una posizione alla Monsanto come direttore
degli affari regolatori.

«Pensa che la FDA sia stata tradita dalla Monsanto?» « ‘Tradita’ non è la
parola giusta, perché vorrebbe dire che non sapeva. Invece l’agenzia ha
consapevolmente chiuso gli occhi su dati inquietanti, perché voleva proteggere gli
interessi dell’azienda, favorendo la commercializzazione dell’ormone
transgènico.» I dati segreti della Monsanto e della FDA

Nel momento in cui per il dottor Burroughs comincia il crollo, uno scienziato
noto per il grande coraggio affronta l’argomento che diverrà una delle lotte della
sua vita. Si tratta di Samuel Epstein, oggi docente emerito di medicina ambientale
presso l’Università dell’Illinois. Autore di numerose pubblicazioni e di libri
famosi, soprattutto sul cancro - di cui afferma che la recrudescenza è legata
all’inquinamento ambientale in un giorno di primavera del 1989 riceve una
telefonata da un contadino che ha accettato di testare l’rBGH sulle proprie
mandrie.

«Si è infuriato quando ha capìto che non avevo mai sentito parlare dell’ormone
transgènico», mi racconta Epstein il 4 ottobre 2006, nel suo ufficio di Chicago.
«Mi ha detto: ‘Dovrebbe occuparsene, è il suo lavoro!

Nel 1994 il professor Epstein ha creato la Coalition Against Cancer


(Coalizione per la prevenzione del cancro). Nel 1998 ha ricevuto il Right
Livehood Avvard (il «premio Nobel alternativo»), nel 2000 il Project Censored
Avvard (il «premio Pulitzer alternativo») e nel 2005 la Albert Schvveitzer Golden
Grand Medal per il «contributo internazionale alla prevenzione del cancro».

* Le mucche trattate presentano gravi problemi di riproduzione: mentre il 93


per cento degli animali del gruppo di controllo ha potuto essere inseminato
durante il periodo, nei gruppi a cui è stato iniettato l’ormone è stato possibile solo
nel 52 per cento dei casi.

* Da un animale all’altro il livello di ormone presente nel sangue varia


considerevolmente, e il tasso più elevato è di mille volte superiore a quello
registrato nel gruppo di controllo.
Stranamente, gli scienziati della Monsanto non forniscono dati statistici sulle
mastiti. Eppure, dai documenti emerge che gli animali trattati sono stati sottoposti
molto più spesso di quelli del gruppo di controllo a cure antibiotiche, di cui alcune
non autorizzate dalla FDA nelle mandrie da latte.* Una povera mucca
particolarmente sfortunata (la n. 85704) ha ricevuto ben centoventi trattamenti
diversi. Infine il latte prodotto nei gruppi sperimentali è stato venduto alla rete di
distribuzione di Saint Louis.

«Guardi», mi dice Pete Hardin mostrandomi una cartellina piuttosto pesante,


«sono fotografie di carcasse di mucca dopo essere state scuoiate. Qui si vedono
aree scure: sono tessuti morti che corrispondono ai punti di iniezione. È un
prodotto molto potente! Ricordo di avere fatto un reportage in un mattatoio in cui
cercavano di trasformare questi pezzi poco invitanti in carne da hamburger... » Un
articolo manipolato su «Science»

* Vengono citati i seguenti antibiotici: Banamine, Di-trim, Gentamycin,


Ivomec, Piperallin, Rompun e Vetislud.

A questo punto della storia ci si immagina, molto ingenuamente, che i


contropoteri americani facciano la loro parte e finalmente costringano la
Monsanto a ritirare il prodotto. E invece no! Ma il professor Epstein non molla e
contatta John Conyers, presidente dell’House Committee on Government
Operations, che nel 1979 gli aveva chiesto di testimoniare al Congresso
nell’ambito di un progetto di legge sui «crimini dei colletti bianchi». «Avevo
menzionato il caso della Monsanto, che aveva nascosto dati sanitari sull’acido
nitrilotriacetico», ricorda il cancerologo. «I lavori della commissione avevano
finalmente definito due categorie di aziende incriminabili: quelle che dissimulano
dati intenzionalmente, come gli effetti cancerogeni di un prodotto, continuando a
venderlo tranquillamente, e quelle che nascondono o distruggono informazioni e,
inoltre, affermano che il loro prodotto è pulito.3 La Monsanto, però, appartiene a
entrambe le categorie: alla prima per i PCB e alla seconda per la diossina e
l’rBGH!» L’8 maggio 1990 John Conyers chiede ufficialmente a Richard
Kusserov, ispettore generale del dipartimento della Sanità e dei servizi alla
persona, di aprire un’inchiesta sull’ormone della crescita bovina, affermando che
«la Monsanto e la FDA hanno soppresso e manipolato i dati dei test veterinari per
poter approvare l’uso commerciale dell’rBGH». La richiesta dà il via a
un’indagine del Government Accountability Office (GAO), l’ufficio investigativo
del Congresso americano. I membri del GAO ascoltano testimoni come il dottor
Burroughs o il professor Epstein, e il caso viene reso pubblico dal New York
Times.*

Ben presto, però, la FDA e la Monsanto organizzano il contrattacco.

Nell’agosto 1990 l’agenzia decide di infrangere l’obbligo di riservatezza a cui


era costretta per statuto. Per la prima volta nella sua storia prende pubblicamente
posizione per un prodotto che non ha ancora autorizzato, inviando un articolo alla
famosa rivista Science in cui afferma che il latte proveniente da mucche trattate
con l’rBGH è «sano e idoneo per il consumo umano».6 Ufficialmente, questa
pubblicazione di dieci pagine è stata redatta da due scienziati, Judith Juskevich e
Greg Guyer, che nella premessa non mancano di precisare: «La FDA esige che le
aziende farmaceutiche comunichino tutti gli studi condotti sul prodotto in corso di
omologazione. [... ] Anche le aziende devono fornire i dati bruti degli studi
relativi agli effetti sulla salute umana, basilari per l’omologazione del prodotto».

All’occorrenza, gli autori fanno riferimento a due studi tossicologici condotti


dalla Monsanto: nel primo, ad alcuni topi viene iniettato l’ormone transgènico per
un periodo di ventotto giorni; nel secondo, della durata di novanta giorni, le cavie
ingeriscono l’rBGH per testare gli effetti della molecola, in particolare sul sistema
gastrointestinale. In entrambi i casi la conclusione è la stessa: «Nessun
cambiamento significativo».

«Questa pubblicazione è una vera e propria manipolazione», si indigna il


dottor Michael Hansen, che incontro nel luglio 2006 a New York. Il dottor Hansen
lavora per il Consumer Policy Institute* ed è diventato, come Samuel Epstein,
una delle bestie nere della Monsanto. «Innanzitutto», mi spiega, «il principale
revisore di questo articolo era il dottor Dale Bauman della Cornell University,
pagato dalla Monsanto per testare l’rBGH sulle mucche. Era chiaramente un vero
e proprio conflitto d’interessi, che Science non avrebbe potuto lasciar passare.»
Per un neofita questa storia del «revisore» potrà sembrare solo un aneddoto, ma in
realtà è molto importante. In tutte le riviste scientifiche rinomate il funzionamento
è lo stesso: quando un ricercatore sottopone un articolo per la pubblicazione, il
comitato editoriale nomina dei revievvers (revisori, minimo due), scelti per le
competenze scientifiche e incaricati di valutare la qualità del testo. Questi
revisori, non remunerati, possono chiedere di consultare i dati bruti alla base della
ricerca, se lo ritengono necessario. Se la loro opinione è positiva, l’editore
ne approva la pubblicazione. È importante notare che l’identità dei revievver, ma
anche il contenuto dell’articolo, sono tenuti segreti fino al giorno della
pubblicazione, per evitare pressioni di qualunque genere sugli incaricati, principio
che, come vedremo, non sempre viene rispettato. La dicitura «peer-revievved»
(rivisto da pari) costituisce garanzia di qualità e indipendenza.

** È una divisione della Consumers Union, nata nel 1936, che pubblica
Consumer Reparti, la seconda rivista americana dei consumatori, con 4,5 milioni
di abbonati.

** La settimana successiva all’uscita dell’articolo di Science il dottor Jean-


Yves Nau, responsabile della pagina scientifica di Le Monde, gli ha dedicato uno
spazio: «I ricercatori della FDA stimano che l’uso dell’ormone non rappresenta un
pericolo per il consumatore», Le Monde, 30 agosto 1990.

«Il secondo punto», prosegue il dottor Hansen, «è che la FDA ha ridotto i


risultati dello studio di novanta giorni. Contrariamente a quanto afferma,
l’assorbimento dell’rBGH da parte dei topi ha avuto un effetto significativo, dato
che il 20 - 30 per cento di loro ha sviluppato anticorpi, dimostrando così che il
sistema immunitario si è mobilitato per individuare e neutralizzare gli agenti
patogeni.» Questa informazione, resa pubblica nel 1998 grazie a rivelazioni
canadesi (vedi Capitolo 6), ha costretto un rappresentante della FDA, John
Scheid, a riconoscere che il CVM stesso non aveva mai avuto accesso ai dati bruti
dello studio, ma si era limitato a valutarne un sunto fornito dalla Monsanto...6
«Questi risultati avrebbero dovuto comportare altri studi a lungo termine sugli
effetti dell’ormone della crescita, e soprattutto dell’IGF1, sulla qualità e sulla
composizione del latte proveniente da animali trattati», commenta Michael
Hansen, «ma la FDA ha preferito chiudere gli occhi.» L’IGF1 (Insulin-Like
Grovvth Factor 1, noto come «fattore di crescita insulino-simile») si pone al
centro della polemica sull’rBGH. Questa sostanza ormonale è prodotta dal fegato
di tutti i mammiferi sotto l’effetto dell’ormone della crescita. Negli umani è
presente in grande quantità nel colostro (il primo latte materno), permettendo così
al neonato di crescere. La secrezione raggiunge l’apice nella pubertà, per poi
scemare con gli anni. L’IGF1 prodotto dall’ormone della crescita umana è
identico a quello prodotto dall’ormone della crescita bovina, benché i due ormoni
siano sensibilmente diversi. Questo è il problema, e anche l’origine,
dell’escamotage scientifico usato dai promotori dell’rBGH per accreditarne
l’innocuità. In altre parole, l’ipofisi dei bovini e quella dell’uomo producono
ciascuna un ormone della crescita specifico che, tuttavia, comporta la secrezione
della stessa sostanza, l’IGF1, con la funzione di stimolare la proliferazione delle
cellule per la crescita degli organismi. Quando, per esempio, Jean-Yves Nau
scrive su Le Monde: «Questo ormone è proprio della specie animale da cui
proviene e non può quindi avere effetti sul metabolismo umano, che sia presente
nel latte o nella carne consumati»,7 ebbene, si sbaglia.

Il «dettaglio» è tanto più importante quando si tratta di un dato su cui tutti sono
d’accordo: il livello di IGF1 è nettamente più elevato nel latte prodotto da
animali trattati con l’ormone della crescita transgènico che nel latte naturale.
Secondo l’articolo pubblicato da Science, questa argomentazione è vera nel 75 per
cento dei casi!8 Ma la FDA aggiunge: «L’rBGH è biologicamente inattivo negli
esseri umani, [...] perché non può essere assorbito nel sangue, [... ] e ci si può
aspettare che una volta ingerito, sia distrutto dal sistema gastrointestinale umano
come le altre proteìne». «È del tutto falso», affermano all’unisono Samuel Epstein
e Michael Hansen. «Più di uno studio ha confermato che l’IGF1 non viene
distrutto dalla digestione, perché protetto dalla caseìna, la principale proteìna del
latte.»9

Gli scienziati della FDA, pienamente consapevoli della posta in gioco,


azzardano un’ultima argomentazione: «È stato anche dimostrato che il 90 per
cento dell’attività dell’rBGH viene annientata dalla pastorizzazione del latte. Ecco
perché i residui di rBGH non rappresentano un problema per la salute umana». «È
il culmine della malafede», sospira il giornalista Pete Hardin, che mi mostra lo
studio su cui dovrebbe basarsi questa affermazione. «È stato condotto da un certo
Paul Groenevvegen, dottorando canadese a servizio della Monsanto, che ha
riscaldato del latte di origine transgènica a 162 °F (circa 72 °C) per trenta minuti!
Il tempo normale di pastorizzazione è di quindici secondi!» ironizza Pete Hardin.
«Il latte pastorizzato in queste condizioni non ha alcun valore nutritivo, e tuttavia
il 30 per cento dell’IGF1 non è stato distrutto!» Un grave problema di sanità
pubblica Non bisogna confondersi: la questione dell’IGF1 è più di una semplice
lotta fra esperti, soprattutto negli Stati Uniti, terzo consumatore di latte al
mondo.* Se poi pensiamo che i maggiori consumatori di latte sono i bambini, le
inquietudini di chi si oppone all’rBGH risultano più che legittime. Inoltre, questo
caso è sintomatico di un’evoluzione dell’’amministrazione americana che lascia
allibiti e che, di conseguenza, pone interrogativi anche sul comportamento degli
europei: quanti prodotti di dubbia provenienza sono finiti sul mercato del vecchio
mondo grazie a un processo di omologazione non trasparente e sbrigativo?
* Nel 2004 il consumo annuale del Paese era di 89,1 litri a testa. Compresi i
latticini (yogurt, gelati, formaggi eccetera) si raggiungono i 270 litri all’anno.

Per quanto riguarda l’rBGH, il dossier è sconcertante: «Sappiamo da decenni»,


mi spiega il professor Epstein, «che un tasso elevato di IGF1 nell’organismo può
comportare una malattia che si chiama acromegalìa gigantismo. Questi malati
hanno una vita molto breve e, in generale, muoiono di tumore intorno ai
trent’anni. Fin qui niente di stupefacente: l’IGF1 è un fattore della crescita che
stimola la proliferazione di tutte le cellule, sia quelle buone, sia quelle cattive.
Ecco perché l’rBGH rappresenta un vero pericolo per la salute pubblica: una
sessantina di studi hanno dimostrato che un tasso elevato di IGF1 aumenta in
modo sostanziale i rischi di cancro al seno, al colon e alla prostata».

Il cancerologo mi mostra tutte le pubblicazioni ordinate con cura sui ripiani


della sua libreria. Gli studi più vecchi risalgono agli anni Sessanta: la FDA non
poteva ignorarli e avrebbe dovuto almeno applicare il principio di precauzione
previsto dall’emendamento Delaney. I più recenti sono stati pubblicati negli anni
Novanta. Uno di questi, condotto da un’équipe di ricercatori di Harvard, si è
svolto su un gruppo di quindicimila uomini e ha concluso che un tasso elevato di
IGF1 nel sangue quadruplicava il rischio di tumore alla prostata.1" Allo stesso
modo, uno studio pubblicato da Lancet ha dimostrato che le donne in
premenopausa, con un’età inferiore ai cinquant’anni e un’alta concentrazione di
IGF1, avevano «una probabilità sette volte maggiore di sviluppare il cancro al
seno rispetto a chi ne aveva un tasso normale».11

«Di recente», mi dice Pete Hardin, «ho pubblicato due studi che confermano le
nostre inquietudini. Il primo è stato realizzato da Paris Reidhead, che ha
analizzato le statistiche nazionali constatando che il tasso di tumore al seno nelle
donne americane con più di cinquant’anni è aumentato del 55,3 per cento fra il
1994, anno in cui l’rBGH è stato messo in commercio, e il 2002.12 Il secondo è
uno studio condotto dal dottor Gary Steinman, dell’Albert Einstein College of
Medicine di New York, secondo il quale le donne americane che consumano
quotidianamente latticini hanno il quintuplo delle probabilità di avere un parto
gemellare rispetto a chi non ne consuma, e che il tasso di gravidanze gemellari è
aumentato del 31,9 per cento fra il 1992 e il 2002. Tutto questo è opera
dell’IGF1.»13

«D’accordo», dico io, «ma il GAO ha condotto un’inchiesta. Che risultati ha


dato?» «Niente di che», sorride Pete Hardin, «dirò solo che ha finito con il
capìtolare di fronte all’assenza di collaborazione della FDA, e soprattutto della
Monsanto...» In realtà, il Congresso ha chiesto al NIH di valutare il dossier
scientifico dell’rBGH. Dal 5 al 7 dicembre 1990 il venerabile istituto ha tenuto
una conferenza ad hoc, le cui conclusioni sono molto caute, ma che non
raccomandano di «condurre altre ricerche» sugli «effetti di un tasso elevato di
IGF1 nel sistema gastrointestinale».14 Tre mesi dopo è toccato all’AMA
pubblicare un articolo: «Sono necessari studi supplementari per determinare se
l’ingestione di una concentrazione più elevata di IGF1 non rappresenti un pericolo
per bambini, adolescenti e adulti», scrive il comitato scientifico dell’AMA.16

«La FDA e la Monsanto hanno completamente ignorato queste


raccomandazioni», afferma il professor Epstein. «Ecco perché dico che il loro è
un atteggiamento criminale. Peggio ancora: riguardo al problema dei residui di
antibiotici è stato fatto di tutto per nascondere la verità.» Ricordo, infatti, che una
delle preoccupazioni principali del dottor Richard Burroughs riguardava
l’incidenza dell’ormone transgènico sulla frequenza delle mastiti. Dire «mastite»
è come dire «infezione», quindi cura a base di antibiotici che finiscono nel latte
sotto forma di residui. Chi beve il latte ingerisce anche questi residui che, a
loro volta, vengono assorbiti dai battèri della flora intestinale. Aggiungendo il
fatto che quello stesso consumatore di latte è un grande consumatore di
antibiotici, prescritti spesso in modo eccessivo, si capisce perché molti battèri che
si credevano debellati dalla scoperta della penicillina di Arthur Fleming nel 1928,
sono diventati resistenti agli antibiotici. Il risultato è la recrudescenza di malattie
che la medicina pensava di avere sconfitto. Così, nel 1983 trecento scienziati di
fama mondiale inoltrano una petizione alla FDA in cui chiedono che l’agenzia
controlli con più rigore l’utilizzo di antibiotici negli allevamenti.16

Da allora le pubblicazioni sui danni dei battèri resistenti agli antibiotici si sono
moltiplicate: nel 1992, in piena polemica sull’rBGH, due scienziati scrivevano su
Science: «Dopo un secolo di declino, negli Stati Uniti la tubercolosi è in piena
ripresa. [... ] Un terzo dei casi individuati nella città di New York nel 1991 sono
dovuti a ceppi resistenti a uno o più farmaci».17 Nello stesso anno il CDC
constatava che 13.300 pazienti ricoverati nel Paese erano deceduti in seguito a
infezioni provocate da battèri resistenti agli antibiotici che i medici avevano loro
prescritto.18

Pressioni su pressioni Ecco perché il GAO ha preso molto sul serio il problema
delle mastiti.19 Avendo sentito parlare di uno studio realizzato dall’Università del
Vermont, che era stata pagata dalla Monsanto per testare l’ormone transgènico su
quarantasei bovini, la squadra investigativa del Congresso ha chiesto di vederne i
risultati. Ma gli scienziati hanno rifiutato... Preso in carico dal Vermont Public
Interest Research Group, un’organizzazione di consumatori del Vermont (primo
Stato americano per la produzione di formaggio), il caso ha fatto scalpore,
costringendo la FDA a rompere il silenzio: si è così scoperto che il 40 per cento
dei bovini trattati avevano dovuto essere curati per mastite, rispetto al 10 per
cento del gruppo di controllo.

Nello stesso momento la Monsanto cominciava un braccio di ferro con cinque


scienziati britannici, fra cui il professor Erik Millstone, dell’Università del
Sussex, che, a differenza di altri, non si è arreso. La storia merita di essere
raccontata, perché illustra bene l’atteggiamento della multinazionale di Saint
Louis nei confronti della ricerca indipendente. La questione è sempre la mastite,
la cui gravità si misura in base alla somatic cells count (SCC), ovvero il
cosiddetto «conteggio cellulare». Per valutare lo stato infiammatorio delle
mammelle si enumerano i leucociti, o globuli bianchi, contenuti nel sangue degli
animali: se il conteggio cellulare è elevato, significa che il latte contiene pus.
Bisogna anche sapere che nel momento in cui la FDA lavorava
sull’autorizzazione per la commercializzazione dell’rBGH, la Monsanto aveva
rivolto ai Paesi europei una domanda simile. È così che l’azienda ha associato
ventisei centri di ricerca internazionali per gli esperimenti sull’ormone
transgènico. Il 4 ottobre 1989 il professor Millstone incontra Neil Craven,
rappresentante della Monsanto a Bruxelles, che accetta di trasmettergli i dati bruti
dei test realizzati in otto centri con sede negli Stati Uniti, in Olanda, in Gran
Bretagna, in Germania e in Francia (dove la sperimentazione è stata condotta
dall’istituto tecnico di allevamento bovino). Una settimana dopo una
comunicazione, che diverrà ben presto il cuore del caso, precisa il quadro
dell’accordo: «Siamo interessati a conoscere il vostro punto di vista sui dati, una
volta che li avrete analizzati», scrive Neil Craven. «Come sapete, chiediamo che
questi dati bruti siano mantenuti confidenziali, e speriamo che ne discuterete con
noi prima di rivelarli a terzi...» Il professor Millstone analizza quindi i dati
trasmessi dagli otto centri internazionali: riguardavano 620 bovini, a 309 dei quali
era stato iniettato l’ormone. Il professore scopre che un certo numero di animali
erano stati «prematuramente ritirati dalle statistiche», influendo così sui risultati.
Per esempio a Dardenne, negli Stati Uniti, è il caso della mucca n.

321, trovata morta il 28 marzo 1986, via dai gruppi di controllo! 0 la n.

391, ritirata dallo studio a causa di una mastite. In Arizona, stessa cosa per la n.
4320, morta di peritonite; nello Utah, la n. 5586 non è sopravvissuta a un
linfosarcoma; o in Olanda, dove la n. 701 è stata eliminata per un’anemìa acuta
provocata dalla rottura dei vasi sanguigni nelle ghiandole mammarie. E così via.

Lo scienziato britannico ha quindi concluso che il tasso di SCC era in media


del 19 per cento più alto negli esemplari trattati rispetto a quelli dei gruppi di
controllo. Sapendo che il Comitato dei prodotti veterinari del ministero britannico
dell’Agricoltura, della pesca e dell’alimentazione stava studiando la domanda di
commercializzazione dell’rBGH, gli invia un resoconto delle sue analisi
sottolineando che «alcune cifre pubblicate dalla Monsanto non coincidono con
quelle che ci sono state fornite direttamente», e che «l’uso commerciale
dell’rBGH potrebbe essere alla base di un peggioramento della qualità del latte».

Poi, il 5 dicembre 1991 Millstone contatta Doug Hard, nuovo rappresentante


dell’azienda a Bruxelles, per chiedergli l’autorizzazione di pubblicare un articolo
su una rivista scientifica, di cui allega una copia come da precedente accordo.
«Tutti i dati bruti sono confidenziali, così come la loro analisi», risponde un mese
dopo Doug Hard, che tuttavia si mostra conciliante, vincolando però la
pubblicazione dell’articolo alla comparsa imminente e prioritaria di un documento
firmato dai consulenti della Monsanto sul Journal of Dairy Science. Passano due
anni senza novità.

Allora il professor Millstone scrive al Journal of Dairy Science, suggerendo di


pubblicare contemporaneamente il suo articolo e quello della Monsanto. Scopre
così che nessun articolo su rBGH e SCC è mai stato sottoposto dall’azienda!*

Il ricercatore britannico, stanco di tante manovre, intraprende un duro


cammino, che la dice lunga sulla famosa «indipendenza» delle riviste scientifiche.
Contatta il Veterinary Record, che accetta di pubblicare il suo articolo, a
condizione che ottenga l’approvazione della Monsanto.

Erik Millstone si rivolge allora al British Food Journal, che accetta l’articolo
senza l’approvazione preliminare della multinazionale, ma alla fine l’editore
rinuncia perché l’azienda minaccia di attaccarli per «plagio». «Quando si
prendono i dati di qualcun altro e li si utilizza senza accordo, è semplice plagio»,
afferma Robert Collier, «mister rBGH» della Monsanto. Alla fine l’articolo del
professor Millstone, firmato anche da Eric Brunner, dello Università College di
Londra, e da Ian White, della London School of Tropical Medicine, sarà
pubblicato il 20 ottobre 1994 su Nature, il concorrente britannico di Science, che
svelerà il caso.20 L’uscita dell’articolo procede di pari passo con una
puntualizzazione in cui ilricercatore spiega che la multinazionale non ha diritti
sulle analisi condotte dal suo laboratorio, ma solo sui dati bruti che ha mantenuto
confidenziali, come da accordi. È interessante notare che per bloccare la
pubblicazione di un articolo che mette in dubbio i risultati dell’azienda, la
Monsanto non esita a brandire i diritti di proprietà intellettuale su dati che
influiscono negativamente sulla salute dei consumatori.

Benvenuti nel Paese delle porte girevoli!

* Essendo ormai trapelata la notizia, la Monsanto finirà con il pubblicare un


articolo sul Journal of Dairy Science nell’estate del 1994.

Torniamo agli Stati Uniti e ai lavori del GAO. Il 2 marzo 1993 i suoi membri
scrivono a Donna Shala, segretario della Sanità: «L’autorizzazione dell’rBGH non
dovrebbe avvenire prima che i rischi legati agli antibiotici siano seriamente
valutati. Le raccomandazioni che in proposito abbiamo fatto alla FDA non hanno
ancora avuto effetto». E non ne avranno mai... Il 5 novembre 1993 la FDA
approva il Posilac, nome commerciale dell’rBGH. Unica piccola «restrizione»: il
foglio illustrativo deve indicare che il prodotto può comportare ventidue effetti
collaterali sui bovini, fra cui un tasso di riproduzione ridotto, cisti ovariche e
disordini a livello uterino, una riduzione del tempo di gestazione e del peso dei
vitelli, un tasso più elevato di gemelli, un aumento delle mastiti e delle SCC,
nonché ascessi da 3-5 centimetri a un massimo di 10 nel punto dell’iniezione. E
scusate se è poco...

«L’rBGH è il prodotto più controverso mai autorizzato dalla FDA», mi spiega


Michael Hansen, del Consumer Policy Institute. «Bisogna capire che l’ormone
transgènico non è un farmaco destinato a curare una qualunque malattia del
bestiame, ma un prodotto strettamente economico che non presenta benefìci per
gli animali, né per i consumatori. L’agenzia avrebbe quindi dovuto esigere che
fosse del tutto innocuo prima di approvarne la commercializzazione. Invece
riconosce che può provocare numerosi problemi di salute, dando luogo a una
nuova violazione del Food Drug and Cosmetic Act mediante il manageable risk
[rischio gestibile].» Un documento interno della FDA svela che in occasione di
una riunione del 31 marzo 1993 il CVM ha concluso che i rischi legati all’ormone
transgènico per la salute umana e animale erano «gestibili», e che l’agenzia
doveva quindi procedere all’omologazione. «In realtà», continua Michael Hansen,
«l’agenzia ha modificato di nascosto i criteri di regolamentazione per soddisfare
le necessità della Monsanto, che ha manovrato tutto piazzando alcuni suoi
rappresentanti in ruoli chiave all’interno della FDA.» È ciò che negli Stati Uniti
chiamano «porte girevoli»: il reclutamento di funzionari del settore privato da
parte di agenzie governative e viceversa. Più avanti ci soffermeremo su questo
sport nazionale di cui il gigante di Saint Louis è campione indiscusso,
limitandoci, per ora, a evocare solo il caso dell’rBGH. Si scopre quindi che uno
degli autori nascosti del controverso articolo pubblicato dalla FDA su Science era
Susan Sechen, ex allieva del professor Dale Bauman (principale revisore del
famoso articolo), il quale era stato pagato dalla Monsanto per testare l’ormone
transgènico alla Cornell University. Dopo avere scritto una tesi sull’rBGH, Susan
Sechen era stata reclutata dal CVM per valutare i dati forniti dall’azienda. Sopra
di lei, nella gerarchia del potere decisionale, c’era Margaret Miller, che aveva
lavorato per la Monsanto dal 1985 al 1989, prima di diventare la vice del dottor
Robert Livingston, direttore dell’ufficio per la valutazione dei nuovi farmaci
presso il CVM.

La presenza della Miller in una posizione tanto strategica aveva provocato


subbuglio, poiché il 16 marzo 1994, mentre il Posilac arrivava sul mercato, alcuni
agenti del CVM scrivevano una lettera anonima al dottor David Kessler,
amministratore della FDA, inviandone una copia anche all’ispettore del GAO e
alla Consumers Union: «Abbiamo paura di parlare apertamente a causa delle
rappresaglie del direttore, il dottor Robert Livingston, che perseguita chiunque
esprima un’opinione diversa dalla sua», affermano i vvhistleblovver. «L’origine
della nostra inquietudine viene dal fatto che il dottor Livingston abbia fatto
scrivere al dottor Miller una regolamentazione sull’uso degli antibiotici nel latte.
È stato così fissato, senza basi scientifiche, il tasso di residuo a 1 ppm, senza
alcun test preliminare per la salute del consumatore. Questo limite è però valido
per un solo antibiotico, mentre un bovino può essere curato con più antibiotici.
Gli effetti dei vari medicinali possono quindi sommarsi senza che vengano presi
in considerazione.» «Appena siamo venuti a sapere della lettera abbiamo ritrovato
la speranza», mi spiega Jeremy Rifkin, il mediatico presidente della Founda123
tion on Economie Trends, che mi riceve nel luglio 2006 nel suo ufficio di
Bethesda, nella periferia di Washington. L’economista, autore del famoso libro Il
secolo biotech,21 è stato senza dubbio l’intellettuale americano che prima di tutti
ha analizzato le conseguenze dell’rBGH, il primo prodotto OGM
commercializzato dalla Monsanto. Nel febbraio 1994 Rifkin lancia una campagna
nazionale chiamata Pure Food Campaign. In alcuni documenti audiovisivi lo si
vede versare bidoni di latte nei canali di scolo di New York, mentre una giovane
attivista ferma i passanti con un megafono: «L’ormone della crescita transgènico è
una prova per farci accettare gli OGM», si sgola brandendo un cartello con la
scritta No al latte transgènico! Basandosi sulla lettera anonima dei vvhistleblovver
del CVM, Jeremy Rifkin riesce a convincere tre membri del Congresso a chiedere
l’apertura di un’inchiesta al GAO. L’ufficio di investigazioni del Congresso, che
ha da poco pietosamente sotterrato la prima inchiesta sui rischi sanitari
dell’rBGH* ne apre una seconda, questa volta su un possibile «conflitto
d’interessi» riguardante il trattamento del dossier da parte della FDA. Vengono
presi di mira Susan Sechen, Margaret Miller e soprattutto un certo Michael
Taylor...

Purtroppo non sono riuscita a incontrare Taylor, che incarna il sistema delle
porte girevoli, nonché i legàmi fra la Monsanto e le agenzie di regolamentazione
americane. La sua doppia funzione ha in effetti fatto scorrere fiumi d’inchiostro.
Secondo il suo curriculum, questo avvocato nato nel 1949 ha lavorato alla FDA
dal 1976 al 1980, dove collaborava alla redazione dei documenti sulla sicurezza
alimentare destinati al Federal Register, una sorta di gazzetta ufficiale della FDA
dove vengono pubblicati tutti i testi delle regolamentazioni prodotte dall’agenzia,
e oggi accessibili tramite il sito Web.** Nel 1981 Taylor si unisce al prestigioso
studio King & Spalding di Atlanta e viene nominato numero uno della FDA, che
crea una posizione su misura per lui: vicecommissario incaricato della politica
dell’agenzia. Rimarrà alla FDA per tre anni, il tempo di fare da supervisore alla
redazione dei testi fondamentali sulla regolamentazione dell’rBGH e degli OGM
(ci torneremo), prima di un piccolo soggiorno al dipartimento americano
dell’Agricoltura (USDA), per poi essere reclutato, alla fine degli anni Novanta,
come vicepresidente della Monsanto.

*Il 15 aprile 1994 i tre membri del Congresso scrivono all’ispettore generale
del GAO, spiegando che la prima inchiesta è fallita «a causa del rifiuto della
Monsanto di comunicare tutti i dati clinici disponibili sull’rBGH.

Quando finalmente riesco a localizzarlo, nel luglio 2006, è direttore di


Resources for the Future, un «istituto indipendente» con sede a Washington e
dedito alle «analisi delle risorse naturali, ambientali ed energetiche». Quest’uomo
dell’ombra, dalla leggendaria discrezione, non ha mai accettato di incontrarmi.
Stranamente, però, mi ha dato un appuntamento telefonico nella mia stanza
d’hotel a Washington, permettendomi così di registrare la conversazione. Ricordo
che, presa da un accesso di paranoia, avevo pensato che anche lui stesse
registrando... Era l’epoca in cui aspettavo una risposta dalla Monsanto per le
interviste a Saint Louis, e sapevo che l’azienda stava indagando su di me.

«Il fatto che lei abbia lavorato per sette anni come consulente della Monsanto,
facendo poi da supervisore al processo di omologazione di uno dei suoi prodotti
più controversi, non le ha mai causato problemi etici?» ho domandato con cautela.

«No, no», mi risponde Michael Taylor, «esistono delle regole e io le ho


rispettate...» «Non crede che ci fosse un conflitto d’interessi?» «Assolutamente
no, del resto il GAO ha condotto un’inchiesta molto minuziosa e mi ha del tutto
discolpato... » Di fatto, per la disperazione di Jeremy Rifkin, il GAO concluderà
l’inchiesta negando l’esistenza di un conflitto d’interessi. «Benvenuta a
Washington!» esclama divertito il ricercatore americano. «Al momento
dell’udienza Michael Taylor e Margaret Miller hanno affermato di essersi
volontariamente ritirati da tutte le riunioni riguardanti l’rBGH!» «L’inchiesta del
GAO è stata una buffonata», rincara la dose il professor Samuel Epstein. «Come
ha potuto prendere per oro colato un alibi simile, mentre è stato Michael Taylor a
firmare una direttiva della FDA che raccomandava di non etichettare il latte
naturale come ‘senza rBGH’

125

‘senza ormoni’? Capisce che cosa significa? L’agenzia incaricata della


sicurezza alimentare ha pubblicato un testo senza precedenti, che impedisce ai
consumatori di scegliere il latte che vogliono bere e che, soprattutto, permette alla
Monsanto di perseguire in tribunale tutti i venditori di latticini che rifiutano
pubblicamente il latte con gli ormoni. Non pensa che in questo Paese ognuno
faccia un po’ troppo come vuole?»22

6. Il caso dell’ormone della crescita bovina (parte seconda): l’arte di mettere a


tacere le voci discordanti «L’rBGH è il prodotto più studiato della storia della
FDA.» Da un filmato promozionale della Monsanto Samuel Epstein ha ragione:
più ci si addentra in questa storia incredibile, più bisogna accertarsi che non sia un
sogno, tanto sembra uscita dalla penna di uno scrittore di fantascienza. Il 5
novembre 1993 la FDA autorizzava la commercializzazione del Posilac. Novanta
giorni dopo - secondo i tempi legali -, esattamente il 4 febbraio 1994, i furgoncini
della Federal Express vagavano per le campagne americane per consegnare le
prime dosi dell’ormone transgènico. Infatti - ecco un’altra curiosità l’rBGH non si
acquista nelle farmacie veterinarie, ma si ordina direttamente alla Monsanto
chiamando un numero verde.

Vietato etichettare! Pena di citazioni in giudizio Sei giorni dopo il Federal


Register pubblica un testo intitolato «Direttiva sull’etichettatura volontaria del
latte e dei latticini provenienti da animali non trattati con la rBST», il cui obiettivo
è «prevenire informazioni false o che inducano in errore sull’rBST».1 Passi la
prima parte in cui «l’autore» afferma senza battere ciglio: «L’agenzia non ha
constatato differenze significative fra il latte proveniente da bovini trattati e non
trattati», ed è per questo che «non ha autorità per esigere l’etichettatura del latte
proveniente da animali trattati con rBST». In altri termini, la FDA non esigerà dai
produttori di latte che usano l’ormone della crescita transgènico alcuna
segnalazione alle cooperative o ai distributori di latticini; il latte prodotto con
l’rBGH verrà quindi mescolato al latte naturale senza nessuna menzione speciale.
E quelli che vogliono bere latte naturale? Beh, i loro fornitori non avranno
nemmeno il diritto di apporvi una semplice etichetta che dica «senza rBST». Le
argomentazioni della FDA non mancano di sorprendere: «Considerando che il
latte contiene naturalmente della BST, nessun tipo di latte può essere dichiarato
‘senza BST’, quindi un’etichetta con tale scritta sarebbe scorretta. Inoltre, la FDA
afferma che l’espressione ‘senza BST’ implicherebbe che il latte proveniente da
mucche non trattate è più sano e di migliore qualità di quello proveniente da
animali trattati, che è cosa falsa e ingannevole».

Questa direttiva non ha valore di legge e l’agenzia non vieta formalmente la


dicitura «senza BST», ma consiglia che sia accompagnata da una frase utile a
«informare il consumatore» del fatto che si tratta di una contextual statement
(dichiarazione contestuale): «La FDA non ha constatato differenze significative
fra il latte derivante da animali trattati e non trattati con rBST».

Chi ha firmato la direttiva? Michael Taylor, naturalmente.2 «Certo che sono


stato io a firmare il testo. Firmare tutti i documenti pubblicati dalla FDA era il
mio compito, ma non sono stato io a scriverlo», mi ha assicurato l’interessato
durante la nostra conversazione telefonica, apparentemente imbarazzato
dall’argomento. «Perché tornare di continuo su questa storia vecchia di quindici
anni?» Perché? Perché chiarisce le idee sul modo in cui gli OGM saranno imposti
al mondo intero sotto l’influenza di una multinazionale che ha pianificato tutto
con una logica implacabile.

Ecco perché ci interesseremo ai «piccoli dettagli», considerato che la


Monsanto non ha tralasciato nulla.
Siamo precisi: è vero, non è stato Michael Taylor in persona a scrivere la
direttiva, perché il numero uno della FDA aveva sicuramente altro da fare. Come
ha ammesso durante l’intervista, il suo incarico era di «inquadrare il processo di
regolamentazione». La persona che ha redatto il testo è infatti Margaret Miller,
l’ex dipendente della Monsanto diventata uno dei capi del CVM. A ogni modo è
ciò che affermavano i vvhistleblovver nella lettera anonima del 1994: «Siamo
preoccupati per la recente decisione della FDA di non etichettare il latte trattato
con la BST. Questa decisione è stata presa dalla dottoressa Margaret Miller,
assistente del direttore. [... ] Tuttavia, prima di venire alla FDA, la dottoressa
Miller lavorava per la Monsanto come ricercatrice proprio sulla BST. Nel
momento in cui ha redatto la decisione della FDA sull’etichettatura, continuava a
pubblicare articoli su questa sostanza insieme con gli scienziati della Monsanto.
Ci sembra un caso plateale di conflitto d’interessi. Se il latte verrà etichettato
come proveniente da mucche trattate con la BST, i consumatori non lo
acquisteranno e la Monsanto perderà enormi quantità di denaro».

Pur non avendo scritto la direttiva personalmente, Michael Taylor ne ha


ispirato il contenuto: per convincersene basta leggere attentamente un documento
confidenziale che il 28 aprile 1993 lo studio King & Spalding ha indirizzato alla
FDA. Bisogna anche ricordare che Michael Taylor come dice il suo curriculum -
vi aveva lavorato per sette anni come consulente della Monsanto nel campo del
food labelling (etichettatura degli alimenti), soprattutto di origine transgènica
(torneremo sull’argomento più avanti). Il documento di King & Spalding,
intitolato «L’etichettatura del latte e degli alimenti provenienti da bovini da latte
trattati con BST sarebbe illegale e imprudente», che è stato «annesso alla richiesta
della Monsanto alla FDA», sviluppa argomenti che ritroviamo anche nella famosa
direttiva: «Oltre a essere illegale, l’etichettatura indurrebbe il consumatore in
errore, poiché suggerirebbe una differenza fra il latte proveniente da mandrie da
latte trattate con BST e quello proveniente da animali non trattati, mentre non
esistono differenze significative».3

«La direttiva della FDA è assurda», si indigna Michael Hansen, esperto del
Consumer Policy Institute che aveva inviato una critica circostanziale all’agenzia
fin dal 14 marzo 1994. «Innanzitutto - e la FDA lo sa benissimo - il latte delle
mucche trattate non è identico al latte naturale; in secondo luogo, è da tempo che
l’organismo autorizza etichette come ‘prodotto biologico’, ‘formaggio del
Wisconsin’, ‘prodotto Amish’ o ‘carne di angus’, senza mai pensare che
potrebbero indurre i consumatori in errore implicando una differenza in termini di
qualità o di sicurezza alimentare! Perché dovrebbe essere diverso per il latte
etichettato come ‘senza rBST’? Ancora una volta il testo è stato confezionato su
misura per la Monsanto, consapevole che se il latte verrà etichettato i consumatori
faranno di tutto per evitare i prodotti provenienti dall’ormone transgènico.»
Undici sondaggi realizzati negli anni Novanta confermano che la stragrande
maggioranza dei consumatori preferirebbe acquistare latte senza rBST, se avesse
la possibilità di scelta*

Intanto la direttiva ha fatto i comodi dell’azienda di Saint Louis, che l’ha usata
per trascinare in tribunale tutti quelli che osavano apporre l’etichetta «senza
rBST». La prima vittima, nel 1994, è stata la Svviss Valley Farms di Davenport,
una cooperativa casearia dell’Iowa che ha informato i suoi duemilacinquecento
allevatori che non avrebbe più acquistato il loro latte se avessero usato l’rBST.
«Se così fosse, la Monsanto subirebbe danni irreparabili», ha affermato Tom
McDermott, portavoce dell’azienda.4 Alla fine tutto si concluderà con un accordo
amichevole, deciso dal giudice, che autorizza la cooperativa a etichettare il
proprio latte a condizione che venga aggiunta la «dichiarazione contestuale»
caldamente «raccomandata» dalla direttiva di Michael Taylor. «I produttori di
latte sono terrorizzati», dichiara poco dopo il direttore di una cooperativa del
Nordest degli Stati Uniti, che vuole rimanere anonimo per timore di
rappresaglie.5

Nel 2003 tocca alla Oakhurst Dairy Inc., la più grande azienda casearia del
New England, ritrovarsi sul banco degli imputati. Questa azienda familiare aveva
nettamente aumentato le vendite (ottantacinque milioni di dollari) riportando
sull’etichetta questa frase: «I nostri allevatori si impegnano a non usare ormoni
della crescita artificiali». In compenso, pagava un bonus ai produttori. La
Monsanto non ha esitato a citarla in giudizio, con il pretesto che l’etichetta
rappresentava una «denigrazione dell’uso degli ormoni della crescita nelle
mandrie». «Non cederemo», aveva dichiarato Stanley T. Bennett, presidente della
Oakhurst Dairy, «perché siamo convinti che i nostri clienti abbiano il diritto di
sapere che cosa c’è nel latte che bevono».6 Tuttavia, come per la cooperativa di
Davenport, l’azienda ha dovuto piegarsi e aggiungere la famosa frasetta.7

* Sondaggi realizzati per il dipartimento dell’Agricoltura, la Cornell


University, l’Università del Wisconsin, The Dairy Today e altri giornali.
Nel febbraio 2005 Tillamook, uno dei più grandi produttori americani di
formaggi, riceveva a sua volta le maledizioni della multinazionale. Di fronte alla
crescente domanda di latte naturale da parte dei clienti, la cooperativa casearia
aveva chiesto ai suoi centoquarantasette allevatori di sospendere l’utilizzo
dell’ormone transgènico. Ben presto la Monsanto aveva inviato nell’Oregon un
avvocato di King & Spalding per convincere una parte del consiglio
d’amministrazione a rivedere la decisione. In un comunicato la cooperativa si
diceva sconcertata da quei «metodi particolarmente aggressivi», che miravano a
«seminare zizzania» fra i soci.8

A dire il vero non si capisce perché la Monsanto ricorra a questo tipo di


strategie, visto che ha sempre avuto il sostegno della FDA. Lo prova un
messaggio che il dottor Lester Cravvford, vicecommissario dell’agenzia, ha
inviato nel 2003 a Brian Lovvry, per molto tempo incaricato del dossier rBST alla
Monsanto, prima che diventasse responsabile della politica dei diritti dell’uomo
dell’azienda, e pubblicato sul sito dell’International Dairy Foods Association
(IDFA), una potente lobby a favore dell’rBGH:*

«Sono stato attirato da queste pratiche ingannevoli sulla qualità e la sicurezza


del latte con l’rBST. Condividiamo la sua inquietudine e stiamo esaminando le
etichette.» Propaganda illegale «Alla sua sinistra può vedere una delle più grandi
aziende agricole della regione, che usa senza remore l’ormone della crescita
transgènico per produrre latte», mi dice John Peck, segretario dell’associazione
Family Farm Defenders. «Se vuole filmare, sia discreta, non si sa mai... » Il
giovane agricoltore parcheggia prudentemente l’auto sul ciglio della strada. Presi
dalla sua inquietudine, filmiamo il più rapidamente possibile.

* idfa.org/. L’associazione dichiara: «La Monsanto è un fornitore di prodotti


che aumentano il rendimento dell’azienda agricola e la qualità degli alimenti.
L’azienda produce e commercializza il Posilac, una tecnologia che ha dimostrato
la propria resa permettendo agli allevatori di produrre da otto a dodici litri di latte
in più al giorno per animale».

Davanti a noi, un’enorme stalla con centinaia di mucche allineate. Gli animali
non escono mai, vengono nutriti esclusivamente con integratori alimentari, soia
(OGM) e farine. Nei dintorni si vedono lavoratori dalla pelle scura. «Sono
messicani senza permesso di soggiorno», mi spiega John Peck. «Questo tipo di
azienda funziona come una fabbrica, che impiega manodopera a buon mercato
quando serve.» Nell’ottobre 2006 ci troviamo nello Stato del Wisconsin, a nordest
di Chicago, che era il primo produttore di latte degli Stati Uniti, poi superato dalla
California, dove le fattorie come quella che abbiamo davanti agli occhi si sono
moltiplicate negli ultimi dieci anni proprio grazie all’rBGH.

«Oggi», mi spiega John Peck, «gli allevamenti del Wisconsin contano in media
una cinquantina di capi contro i quattrocento della California, ma il primo Stato
nella produzione di latte biologico siamo noi.» Abbiamo ripreso il viaggio e
attraversiamo un paesaggio collinare e verdeggiante, disseminato di fattorie
curatissime, davanti alle quali troneggia un cartello con la scritta: prodotti amish.
Il Wisconsin ospita infatti la quarta comunità amish del Paese, che continua a
rimanere fedele alle regole di vita stabilite dall’ordine antico, immutate dalla fine
del XVII secolo, quando questa setta religiosa di origine alsaziana si è stanziata
negli Stati Uniti: barba per gli uomini e cuffia in testa per le donne, abiti
tradizionali e soprattutto rifiuto di ogni tecnica nata dal «progresso», a partire
dall’elettricità. Gli amish usano la luce delle candele, si spostano su calessi
trainati da cavalli e lavorano la terra con una coppia di buoi.

«Oggi i prodotti agricoli amish riscuotono un grande successo, perché sono


necessariamente biologici», mi spiega John Kinsman, presidente della Family
Farm Defenders, che raggiungiamo nella sua casa. «Vendono il latte direttamente
alla fattoria, riuscendo così a evitare le maledizioni della Monsanto.» John
Kinsman, sulla sessantina, è una delle figure principali della lotta all’ormone
transgènico, contro cui si è mobilitato fin dall’inizio, innanzitutto per motivi
economici e sociali. «L’rBGH rappresenta una vera e propria aberrazione»,
afferma, aprendo sul tavolo della cucina un enorme dossier. «Nel momento in cui
la Monsanto l’ha sottoposto alla FDA, il governo americano pagava gli allevatori
per abbattere gli animali, perché avevamo un surplus di latte già da un quarto di
secolo!» Nel 1985, per farla finita con la sovrabbondanza di latte, che costava
ogni anno alle casse federali la bellezza di due miliardi di dollari, il Congresso ha
approvato il Food Security Act, che mirava a ridurre le spese diminuendo il
numero delle aziende casearie. Circa quattordicimila agricoltori hanno accettato
di essere sovvenzionati per inviare al mattatoio oltre 1,5 milioni di mucche (il
programma è costato 1,8 miliardi di dollari). «L’ormone della crescita rientra nella
logica industriale dell’agricoltura che spinge alla concentrazione della
produzione, e quindi alla scomparsa di numerose unità agricole che non possono
sostenere le spese generate da questo modello di sfruttamento intensivo», mi
spiega John Kinsman. «Siamo convinti che questo modello vada contro lo
sviluppo sostenibile e la produzione di alimenti di qualità, che solo l’agricoltura
familiare e biologica può fornire.» Riprendiamo il nostro viaggio per incontrare
un contadino che ha usato l’rBGH per un po’ di tempo prima di rinunciarvi a
causa di gravi problemi veterinari. «È molto difficile trovare un contadino che
accetti di testimoniare riguardo alle proprie disavventure», commenta Kinsman.

«Innanzitutto perché la maggior parte di loro si vergogna di avere inflitto pene


simili al proprio bestiame, minacciando al tempo stesso la salute dei loro clienti;
poi, per potersi procurare l’ormone bisogna firmare un contratto che comprende
una clausola di segretezza in caso di problemi.

Ho conosciuto contadini perseguiti legalmente dalla Monsanto perché si erano


esposti pubblicamente... » Il contadino che ci riceve si chiama Terry ed è
proprietario di una mandria di una quarantina di bovini Holstein, che pascolano
tranquillamente non lontano dalla casa. Gli esemplari pezzati di nero sono
custoditi niente meno che da due lama peruviani! «Sono eccezionali, meglio dei
cani», spiega lui, divertito per il mio stupore. Poi, in tono grave, mi avverte: «Ho
accettato di riceverla perché John mi ha convinto della sua buona fede e del fatto
che qualcuno dovrà pur testimoniare perché aziende come la Monsanto smettano
di mettere le mani sull’agricoltura di questo Paese. Purtroppo, la mia storia è del
tutto banale: un giorno, nel 1992, o forse era il 1993, il mio veterinario mi ha
parlato di un farmaco miracoloso che sarebbe arrivato a breve sul mercato e che,
diceva, avrebbe aumentato di parecchio i miei guadagni. Siccome facciamo un
mestiere in cui ci troviamo spesso con l’acqua alla gola, ho accettato di provarlo
appena fosse stato possibile».

«Succedeva spesso che un veterinario facesse pubblicità all’rBGH?» ho


domandato con una certa sorpresa.

«Sì», risponde John Kinsman, «la Monsanto non ha mai smesso di fare
propaganda per il suo prodotto, fin da quando non era nemmeno autorizzato!
L’azienda offriva un premio di trecento dollari a ogni veterinario che fosse
riuscito a convincere un contadino a usarlo. Inoltre, organizzava eventi
promozionali in tutti gli Stati produttori di latte, distribuendo filmati che
vantavano i meriti dell’ormone della crescita.» È vero. Mi sono procurata uno di
quei video della Monsanto. Si vede un gentiluomo dall’aria dotta che passeggia in
un’azienda casearia illustrando i vantaggi dell’rBGH, «il prodotto più studiato
nella storia della FDA». «Il farmaco è stato testato per anni e funziona!»
garantisce, mentre accanto a lui un uomo inietta il prodotto a una fila di mucche
sorprendentemente docili. Il video è stato distribuito agli agricoltori alla fine degli
anni Ottanta, suscitando l’ira della FDA! Così il 9 gennaio 1991

Gerald B. Guest, direttore del CVM, ha inviato un messaggio a David


Kovvalczyk della Monsanto: «Negli ultimi anni la vostra azienda ha organizzato
una serie di iniziative importanti, corredate da materiali come brochure e video ed
eventi come assemblee promozionali, che presentavano la BST come sana e/o
efficace per aumentare la produzione di latte, [... ] benché siano ancora in corso
gli studi per determinarne l’eventuale commercializzazione negli Stati Uniti»,
scrive il rappresentante della FDA «L’articolo 21 CFR.l (b) (8) (IV) non autorizza
questo tipo di attività fino all’effettiva approvazione del farmaco.» Più tardi si
viene a sapere che fra gli eventi organizzati dalla Monsanto figuravano «cocktail
party» organizzati per i veterinari e per il «personale del CVM», che «ha sempre
rifiutato di parteciparvi». Almeno si sono salvati la faccia! Intanto il
rappresentante della FDA ordinava gentilmente alla Monsanto di sospendere le
attività pubblicitarie illegali, e quindi sanzionabili.

Ecatombe sulle fattorie «Ho conservato un opuscolo pubblicitario della


Monsanto», mi dice John Kinsman. Poi legge ad alta voce: «Gli animali trattati
con il Posilac sono in perfetta salute. [... ] Il rendimento dei vitelli nati da bovini
trattati è eccellente». «Non è affatto vero!» insorge Terry. «Io ho usato l’ormone
della crescita su dodici mucche della mia mandria, ma presto mi sono accorto che
perdevano peso. Continuavo ad aumentare le razioni alimentari, ma non c’era
niente da fare, dimagrivano a vista d’occhio. Alla fine del periodo di lattazione ho
voluto farle inseminare; ci ho provato quattro o cinque volte ma non ha mai
funzionato. Nessun animale che avevo trattato mi ha dato un vitello. Alla fine le
ho vendute al mattatoio.

Per fortuna avevo risparmiato il resto della mandria, altrimenti avrei perso
tutto... » «E questo è successo a molti allevatori del Wisconsin», commenta John
Kinsman, che mi rimanda a uno studio pubblicato nel 1995 da Mark Kastel,
consulente indipendente che allora lavorava per la Wisconsin Farmers Union.9
Alla fine dell’estate del 1994, cioè sei mesi dopo la commercializzazione del
Posilac, l’organizzazione contadina, in collaborazione con la National Farmers
Union di Denver, nel Colorado, decide di istituire un numero verde destinato a chi
utilizza l’ormone. AH’origine di questa iniziativa c’è la testimonianza di John
Shumvvay, contadino dello Stato di New York che aveva raccontato le proprie
disavventure a un settimanale locale.10 Dopo solo due mesi di iniezioni, aveva
dovuto sacrificare un quarto della mandria, cioè una cinquantina di mucche, per
gravi problemi di mastiti. L’allevatore, ricontattato un anno dopo, nel settembre
1995, confesserà che l’rBGH aveva decimato centotrentacinque animali su
duecento, cosa che gli era costata centomila dollari, fra le perdite dovute al crollo
della produzione di latte e l’acquisto di nuovi capi di bestiame.

Presto il numero verde si ritrova oberato di lavoro, poiché chiamano allevatori


da tutti gli Stati Uniti. Per esempio Melvin Van Heel, settanta mucche nel
Minnesota, che afferma di non sapere più come curare i suoi animali, i quali
soffrono di mastite e di enormi ascessi nei punti di iniezione; Al Core,
centocinquanta mucche in Florida, fa notare che i suoi capi non riescono più a
camminare sotto il peso delle mammelle divenute enormi e zoppicano a causa
delle ferite alle zampe e agli zoccoli (tre mucche trattate hanno anche dato alla
luce vitelli mostruosi, con zampe sopra la testa o lo stomaco all’esterno); Jay
Livingston, duecento mucche nello Stato di New York, racconta di avere dovuto
sostituire cinquanta capi, alcuni dei quali brutalmente deceduti, e di avere fatto
inseminare il resto della mandria dopo il ciclo di iniezioni: trentacinque mucche
hanno dato alla luce dei gemelli, la maggior parte dei quali di debolissima
costituzione «e quindi del tutto inutili».

Leggendo questo rapporto apocalittico mi viene in mente una riflessione fatta


da un commosso dottor Richard Burroughs, il veterinario licenziato dalla FDA.
«È tremendo ciò che viene inflitto ai bovini», aveva sussurrato. «Per fornire latte
in continuazione sono costretti ad attingere alle proprie riserve, indebolendo le
ossa. Inoltre, a causa delle mammelle enormi inciampano e riescono a mala pena
a stare in piedi... » Come da contratto, tutti gli allevatori citati nello studio di
Mark Kastel hanno inviato rapporti alla Monsanto, ma l’azienda non ha mai dato
risposte. Peggio ancora: pur essendo legalmente tenuta a rendere conto degli
effetti collaterali del prodotto, sembrerebbe non avere mai nemmeno trasmesso i
resoconti alla FDA. A ogni modo, a che cosa sarebbe servito? Il 15 marzo 1995
Stephen Sundlof, il nuovo direttore del CVM, assalito da informazioni allarmanti
constata con freddezza: «Dopo un’attenta lettura dei rapporti, la FDA è convinta
che non ci sia motivo di preoccuparsi...»11

Oggi, mentre i principali distributori agroalimentari cercano di rifornirsi di


latte se non biologico, almeno naturale per soddisfare la crescente domanda dei
consumatori* non è stato ancora stilato un bilancio ufficiale sull’uso dell’ormone
transgènico. «La FDA continua la sua politica dello struzzo», sospira John
Kinsman, «ma senza volerlo il suo comportamento irresponsabile ha favorito lo
sviluppo dell’agricoltura biologica.
* Il 6 giugno 2006 The Dairy & Food Market Analyst scriveva che catene
come Dean Foods, Wal-Mart e Kroger, sebbene poco inclini a sostenere
l’agricoltura biologica, si impegnavano a vendere solo latte senza rBST.

Cercando a ogni costo di evitare il latte proveniente dall’rBGH, i consumatori


si sono orientati sui latticini biologici e, di colpo, hanno cominciato a interrogarsi
sulla qualità degli alimenti. Penso che nessuna decisione ufficiale impedirà mai
l’uso dell’ormone, ma sul lungo termine saranno i consumatori a farlo scomparire
dalle nostre aziende agricole.

E a quel punto sarà una tragedia... » «Perché?» domando perplessa.

«Perché l’rBGH è una vera e propria droga», risponde il paladino


dell’attivismo contadino. «Quando le mucche non vengono più trattate, soffrono
di astinenza e crollano letteralmente al suolo. Nel giorno in cui i grandi allevatori
saranno costretti a sospendere le iniezioni, perché nessuno vorrà più il loro latte,
dovranno macellare le loro mandrie, che rappresentano, secondo le nostre stime,
un terzo delle mucche da latte del Paese...» «Ma è tremendo! Come si è arrivati a
una follia simile?» «Il potere del denaro», mi risponde John Kinsman. «La
Monsanto ha saputo fare leva su una vera e propria macchina da guerra per
mettere a tacere le voci discordanti... » Lobbying e controllo della stampa «Le
scrivo per ringraziarla degli sforzi che ha fatto per tenere informato sia me, sia
l’AMA dei progressi della BST e del clima che la circonda. La portata dell’opera
di comunicazione realizzata dalla Monsanto su questo prodotto è stata
impressionante. [... ] Non vedo alcun motivo per cui la comunità medica non
debba essere convinta della sicurezza del prodotto per l’uomo e per il latte.
Teniamoci in contatto riguardo alla BST e buona fortuna alla Monsanto!» Questa
cortese missiva è stata recapitata il 30 giugno 1989 dal dottor Roy Schvvartz, uno
dei vicepresidenti dell’AMA alla dottoressa Virginia Meldon, vicepresidente della
Monsanto, responsabile delle questioni scientifiche. La lettera illustra alla
perfezione la «macchina da guerra», tutta savoir-faire e forti influenze, creata
dall’azienda di Saint Louis per soffocare sul nascere qualunque critica sui suoi
prodotti.

Ma l’AMA non è cosa da poco! Questa associazione, nata nel 1847, raggruppa
duecentocinquantamila medici americani, cioè un terzo dei medici del Paese. Per
«aiutare i medici ad aiutare i pazienti» - questo è il suo motto ufficiale -, pubblica
il Journal of the American Medical Association. «L’AMA ha sempre militato in
favore dell’rBGH», spiega il professor Samuel Epstein, «come del resto
l’American Cancer Society* o l’American Dietetic Association, che fanno parte
degli organi scientifici della Dairy Coalition, una potente lobby casearia nata nel
1993, nel momento in cui la FDA omologava il Posilac. La Dairy Coalition
comprende rappresentanti dell’industria casearia, grandi catene di distribuzione
alimentare, l’associazione dei segretari dell’Agricoltura di cinquanta Stati
americani, scienziati sponsorizzati dalla Monsanto e altri ancora. Basandosi su
tutti questi elementi, l’organizzazione ha inondato la stampa di informazioni
fasulle sull’rBGH, e ha organizzato campagne di diffamazione contro quelli che,
come me, non hanno mai smesso di rivelare i pericoli dell’ormone transgènico.»
«La stampa come si è comportata in tutto ciò?» domando.

«Ah, la stampa!» sorride il professor Epstein. «Non si è certo commossa. O


non capivano niente di questa storia dell’ormone transgènico, o erano accecati
dall’aura di rispettabilità che circonda la FDA: come immaginare che la famosa
agenzia potesse tradire la propria missione fino a questo punto? I pochi giornalisti
che hanno fatto il loro lavoro fino in fondo sono stati duramente sanzionati, come
Jane Akre e suo marito Steve Wilson.» Questa coppia di reporter, simbolo della
censura della stampa d’oltreoceano,12 è stata assunta il 18 novembre 1996 da
Channel 13, della WTVT di Tampa, in Florida, per lavorare a un programma di
inchieste annunciato a suon di spot come la nuova trasmissione choc del canale:
«Gli investigatori svelano la verità e vi proteggono!» garantisce uno degli spot.
Jane Akre e Steve Wilson sono figure di un giornalismo d’inchiesta che è valso
loro diversi premi prestigiosi, come tre Emmy Avvard e un riconoscimento del
National Press Club.

* Proprio per denunciare la combutta fra l’American Cancer Society e le


multinazionali farmaceutiche, Samuel Epstein ha creato la Coalition Against
Cancer.

«Eravamo entusiasti di lavorare insieme a un programma che ci lasciava carta


bianca per indagare su argomenti scelti da noi», mi spiega Jane Akre, che mi
riceve nel luglio 2006 nella loro casa di Jacksonville, in Florida. «Il primo
argomento che abbiamo proposto era l’rBGH, perché avevamo sentito parlare
della polemica che circondava il prodotto.
Io mi occupavo dell’inchiesta giornalistica e Steve della produzione.
Ricorderò sempre il primo reportage che ho realizzato. In un’azienda agricola ero
riuscita a filmare il momento in cui l’allevatore faceva l’iniezione ai suoi animali,
che sussultavano violentemente ogni volta che l’ago di nove centimetri penetrava
nella carne.» Jane mi fa vedere le immagini, di cui conserva una copia in uno
scatolone in cantina: si vede l’allevatore mungere l’enorme mammella di una
mucca, da cui esce un getto di liquido spesso e brunastro: «Vede questi piccoli
grumi?» dice l’uomo tendendo il palmo della mano rivolto verso la telecamera.
«È la mastite!» Poco dopo una lunga inquadratura mostra uno scaffale pieno di
antibiotici...

Jane Akre riprende tutto per un mese, poi incontra alcuni sostenitori
dell’ormone transgènico, per esempio uno scienziato dell’Università della Florida
o Robert Collier, rappresentante della Monsanto, ma anche chi vi si oppone, come
Samuel Epstein o Michael Hansen. Intervista anche il rappresentante di una
piccola azienda casearia perseguita dalla Monsanto per avere etichettato il proprio
latte come «senza BST». La FDA, invece, ha rifiutato l’intervista di Jane:
«All’epoca ero molto ingenua», sorride lei, «e quella risposta mi aveva sorpresa.
Ero ancora convinta che l’agenzia avesse buoni motivi per avere omologato un
farmaco che ci sembrava pericoloso al punto da indurci a dare a nostra figlia Alix
solo latte biologico».

Nel frattempo - «dettaglio» importante - la WTVT, e quindi Channel 13, viene


acquisita da Fox News, che appartiene a Rupert Murdoch, il magnate della stampa
australiano-americana noto per la sua idea, diciamo così, molto mercantile (e
conservatrice) del giornalismo.

Una volta terminato il montaggio del loro filmato, la coppia mostra il reportage
a Daniel Webster, direttore dell’informazione che, entusiasta, decide di
trasmetterlo e di promuoverlo con una campagna pubblicitaria molto costosa. La
prima puntata è prevista per lunedì 24 febbraio 1997 in prima serata...

«Il venerdì precedente alla trasmissione siamo stati convocati nell'ufficio di


Daniel Webster, che ci ha consegnato una lettera inviata per fax», racconta Jane.
Era firmata da John Walsh, rappresentante di Cadvvalader, Wickersham & Taft,
uno studio legale di New York molto in vista, e indirizzata a Roger Ailes,
amministratore delegato di Fox News: «Le scrivo per attirare la sua attenzione su
una situazione che preoccupa molto la Monsanto», comincia l’avvocato, che non
ha nemmeno visto il reportage. «Quanto all’oggettività dei vostri reporter e alla
loro capacità di realizzare un reportage su un argomento scientifico complesso
come l’rBST sussistono parecchi dubbi. [... ] Il fatto è che tutti gli organismi
scientifici o medici che hanno esaminato e omologato il prodotto, come la FDA o
l’OMS, sono giunti alla stessa conclusione: il latte proveniente da mucche trattate
con l’rBST non comporta rischi per la salute umana. [... ] Le conseguenze di ciò
che accade in Florida sono importanti, non solo per la Monsanto, ma anche per la
Fox News e per il suo proprietario, oltre che per il popolo americano, il quale può
approfittare in larga misura dell’uso dell’rBST e di altri prodotti provenienti
dall’agricoltura biotecnologica.» Poi, conoscendo i punti deboli del suo
interlocutore, l’avvocato della multinazionale ricorda che il comportamento dei
due giornalisti è ancora più deplorevole, poiché si manifesta «all’indomani della
sentenza del caso Food Lion». Sottinteso: attenti, perché potrebbe toccarvi la
stessa sorte.*

Bob Franklin, direttore generale del canale, chiede di vedere il reportage: «Gli
è piaciuto molto», ricorda Jane Akre, «e di comune accordo abbiamo deciso di
proporre alla Monsanto una nuova intervista. L’azienda ci ha chiesto di inviarle
prima la lista delle domande, cosa che abbiamo fatto, ma alla fine hanno rifiutato
di ricevermi».

* Nel 1992 la trasmissione Prime Time di ABC News trasmette un reportage


in cui si vedono, ripresi di nascosto, dei dipendenti della catena Food Lion
mischiare carne macinata andata a male con carne fresca. Dopo la trasmissione le
quotazioni della Food Lion crollano e un centinaio di negozi devono chiudere i
battenti. L’azienda cita in giudizio ABC

News e ottiene, in prima istanza, un risarcimento di 5,5 milioni di dollari! La


sentenza diffonde una certa inquietudine nelle redazioni televisive di tutto il
Paese...

Qualche giorno dopo una nuova lettera arriva alla sede di Fox News.

Questa volta il tono è minaccioso: «Sono molto sorpreso di vedere che una
settimana dopo la mia prima e dettagliata lettera sono costretto a inviarne una
seconda per avvertirvi che la situazione non è migliorata, se non addirittura
peggiorata, visto il metodo irresponsabile di Jane Akre», scrive l’avvocato, che
scredita le otto domande inviate dalla giornalista, in particolare quelle sulle
«morti bovine». «Sono argomentazioni diffamatorie», continua l’avvocato, «e se
venissero trasmesse in televisione potrebbero arrecare gravi danni al mio cliente,
e comportare serie conseguenze per Fox News.» «Che cos’aveva da temere Fox
News?» dico io dopo avere letto attentamente le due lettere.

«Poteva perdere la pubblicità!» mi risponde Jane. «La Monsanto, infatti,


spende molto in comunicazione per i propri prodotti, soprattutto per il Round-up e
il NutraSvveet, e rappresenta un grosso introito per le televisioni.» «È così che lei
e Steve siete diventati vvhistleblovver?» «Sì!» sospira Jane. «Non avremmo mai
immaginato divivere un’esperienza simile in un Paese che si vanta di essere la
prima democrazia del mondo...» Ormai la guerra è iniziata. A Tampa è condotta
da Dave Boylan che, grazie all’acquisto di Channel 13 da parte di Fox News, è
stato nominato direttore generale. Chiede ai due giornalisti di rivedere il testo del
loro lavoro e di proporre una nuova versione del reportage, la cui trasmissione è
stata rimandata a data da destinarsi. «Abbiamo modificato lo script ottantatré
volte!» dice divertita Jane, che ha conservato la brutta copia di tutte le versioni.13
«Ma non andava mai bene. Per esempio, non potevamo usare la parola
‘cancerogeno’ e dovevamo sostituirla con ‘possibili implicazioni per la salute’.
Oppure dovevamo minimizzare le competenze scientifiche del dottor Samuel
Epstein e così via. In seguito abbiamo scoperto che la Dairy Coalition aveva
sommerso Fox News di documenti che avrebbero dovuto dimostrare l’innocuità
dell’rBGH. Ogni versione era attentamente rivista da Carolyn Forrest, avvocato
della Fox, che un giorno, esasperata, ha sbottato: ‘Non capìte? Non è la veridicità
dei fatti che importa! Con questo reportage rischiamo di spendere centinaia di
migliaia di dollari di processo contro la Monsanto, e non ne vale la pena... » Il 16
aprile 1997 Dave Boylan minaccia di licenziare i due giornalisti per
«insubordinazione», se rifiuteranno di rimontare il reportage seguendo alla lettera
le «raccomandazioni» della Fox: «Abbiamo pagato tre miliardi di dollari per
acquistare queste televisioni», afferma. «Siamo noi a decidere quale deve essere il
contenuto di una trasmissione!» Steve Wilson replica che se il reportage verrà
trasmesso senza il loro consenso, si appelleranno alla Federal Communication
Commission per violazione del CommunicationAct del 1934*

Il 6 maggio il nuovo direttore di Channel 13 cambia strategia: propone ai due


giornalisti un anno di stipendio completo, contributi compresi (cioè duecentomila
dollari), affidando loro postazioni fittizie di consulenti. In cambio di questi «posti
d’oro», i due devono impegnarsi a non raccontare come Fox News ha censurato il
reportage, né ciò che hanno scoperto riguardo all’rBGH. «Ci faccia una proposta
scritta e la prenderemo in esame!» risponde Steve con grande stupore di Jane, che
non tarderà a capire...

Il prezioso documento costituirà una prova contro Fox News, che ha licenziato
i giornalisti «senza motivi ufficiali» il 2 dicembre 1997. Jane e Steve avviano così
un’azione legale appellandosi a una recente legge della Florida sui
vvhistleblovver** e facendo leva sul fatto che le varie menzogne che il loro
datore di lavoro li ha costretti a inserire nel reportage vanno contro gli interessi
generali e violano la regolamentazione della Federal Communication
Commission. È la prima volta che dei giornalisti fanno ricorso a questa legge, e la
Fox News prende la cosa molto sul serio, reclutando una decina di avvocati, fra
cui alcuni dello studio Williams & Connolly, i difensori di Bill Clinton nel caso
Monica Lewinsky.

* La Federal Communication Commission è un’agenzia federale incaricata di


attribuire le frequenze agli operatori di radiodiffusione e di sorvegliare il
funzionamento degli audiovisivi (parità in periodo di campagna elettorale, diritti
di replica eccetera).

** Secondo i termini di questa legge, un vvhistleblovver è un dipendente


vittima di ritorsioni per avere rifiutato di prestarsi a un’attività illecita commessa
dalla propria azienda o per avere minacciato di denunciare la suddetta attività alle
autorità.

Per due anni moltiplicano azioni di nullità per impedire lo svolgersi del
processo. Jane e Steve sono costretti a vendere la casa per garantirsi una difesa,
ma ottengono una prima vittoria: il caso sarà giudicato da un tribunale di Tampa
nel luglio 2000. Dopo cinque settimane di udienze, i giurati devono rispondere a
una domanda: «Credete che la querelante, Jane Akre, abbia dimostrato con prove
convincenti che il convenuto [... ] abbia messo fine al suo contratto di lavoro dopo
che la giornalista ha minacciato di denunciare, sotto giuramento e per iscritto alla
Federal Communication Commission, la trasmissione di un reportage contenente
informazioni false o tendenziose?» La risposta del tribunale è positiva e Jane
ottiene quattrocentoventicinquemiladollari di risarcimento*
«Ha ricevuto il sostegno della stampa?» La domanda rattrista visibilmente
Jane, che mormora: «Assolutamente no! I grandi media nazionali hanno ignorato
il processo. 60Minutes, il programma della CBS, e il New York Times avevano
promesso di occuparsene, ma non abbiamo più avuto notizie. Ci sono anche state
manipolazioni incredibili! Per esempio, abbiamo avuto un lungo incontro con la
giornalista del Saint Petersburg Times, un giornale molto rispettato della Florida.
Aveva seguito il processo, ma quando abbiamo letto il suo articolo siamo rimasti a
bocca aperta!

Diceva: ‘La giuria non ha creduto alle affermazioni della coppia, secondo cui il
canale televisivo avrebbe ceduto alle pressioni della Monsanto per falsificare il
reportage’. In realtà, quella frase era stata aggiunta dal caporedattore all’insaputa
della giornalista! In seguito è stata ripresa tale e quale nel telegiornale della CNN,
che non ha mai voluto concederci diritto di replica. Ma il peggio doveva ancora
venire... » Infatti la Fox ricorre in appello. Il 14 febbraio 2003 c’è un colpo di
scena: la Corte d’appello della Florida ribalta la decisione! I giudici affermano
che nessuna legge impedisce a un canale televisivo o a un quotidiano di mentire al
pubblico. Certo, le regole della Federal Communication Commission lo
proscrivono, ma non hanno valore legale. Di conseguenza, la Corte afferma che la
legge sui vvhistleblovver non può applicarsi nel caso di Jane e Steve. Secondo i
termini di una sentenza molto tecnica, che non affronta la questione di fondo -
cioè la disonestà di Fox News verso i telespettatori -, i due giornalisti sono quindi
condannati a rimborsare al canale televisivo le spese legali, che ammontano ad
almeno due milioni di dollari!

* Steve aveva deciso di garantirsi in modo autonomo la propria difesa, cosa


che ha fatto come un avvocato esperto, ma i giurati hanno considerato Jane la
principale vittima.

«In effetti», insiste Jane, «la Corte ha seguito le argomentazioni degli avvocati
del gruppo, che non hanno remore nel dichiarare che nessuna legge impedisce di
distorcere un’informazione. Abbiamo fatto appello e finalmente la Corte suprema
della Florida ha respinto la richiesta di rimborso spese della Fox.

«Ma con tutto quel che ci è successo, è evidente che in questo Paese il
giornalismo investigativo è morto, e che nessun giornalista oserà più mettersi
contro la Monsanto... »*
Tentativo di corruzione in Canada Ho lasciato la Florida sconvolta dalla
testimonianza della collega giornalista. Ingenuamente, pensavo di conoscere già
tutti i metodi «speciali» con cui l’azienda di Saint Louis impone i propri prodotti.
In realtà, ci saranno altre sorprese. In volo per Ottawa, mi rituffo nel dossier che
ho messo insieme sul processo di omologazione dell’rBGH in Canada.

«Alcuni scienziati di Health Canada accusano di corruzione un’azienda per


ottenere l’approvazione di un prodotto veterinario dubbio», scrive The Ottawa
Citizen il 23 ottobre 1998. «La testimonianza degli scienziati di fronte al comitato
senatoriale sembra una scena diXFiles», rincara la dose il Globe and Mail. Il
novembre 1998.

* Da allora Jane Akre e Steve Wilson hanno ricevuto prestigiosi


riconoscimenti: premio per la deontologia della Society for Professional
Journalism; premio Joe A. Callavvay per il coraggio civico; premio per l’eroismo
nel giornalismo dell’Alliance pour la démocratie e il Goldman Environmental
Prize per l’America del Nord. Così funziona l’America...

Scopro così che nel 1985 la Monsanto ha inoltrato una richiesta di


autorizzazione per la commercializzazione dell’ormone transgènico presso Health
Canada, l’omologo canadese della FDA. Di solito Health Canada prende le sue
decisioni seguendo quelle dell’agenzia americana, ma questa volta il meccanismo,
pur essendo ben rodato, si è inceppato. Tre scienziati dell’Ufficio farmaci
veterinari (BVD) hanno denunciato pubblicamente l’ormai prossima
autorizzazione dell’rBGH. Nel giugno 1998 sono stati convocati per testimoniare
di fronte a una commissione senatoriale, che si è riunita per parecchi mesi prima
di pubblicare un rapporto con la richiesta che il prodotto della Monsanto non
fosse autorizzato in Canada. Mi sono procurata una trascrizione, oltre che una
registrazione audiovisiva, delle udienze della commissione, dove effettivamente
regna un’atmosfera degna di XFiles.

La sessione di apertura prende subito un tono solenne, poiché i tre


vvhistleblovver chiedono di prestare giuramento sulla Bibbia o sulla Costituzione
canadese. Si tratta dei dottori Shiv Chopra, Gérard Lambert e Margaret Haydon,
che lavorano per Health Canada rispettivamente da trenta, venticinque e quindici
anni. Uno dopo l’altro si alzano, visibilmente emozionati, tendono la mano e
giurano di dire «la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità... » Fra i presenti
cala un silenzio pieno di imbarazzo e stupore, poi il senatore Stratton prende la
parola: «Avete chiesto di prestare giuramento, ma siete sicuri che la vostra
carriera professionale non venga compromessa? In altri termini, temete che
vengano intraprese azioni contro di voi? [... ] Il ministro ha inviato una lettera alla
commissione secondo la quale il vostro gruppo avrebbe prestato una
testimonianza onesta e diretta, senza timore di rappresaglie. Vi sentite
rassicurati?» «Parlando sotto giuramento, alla presenza di Dio, sono costretto a
dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità», risponde il dottor Shiv
Chopra. «Ma il mio problema è sapere quale verità devo dire, quella che conosco"
o quella che il ministro mi impone di dire? Questo è il mio conflitto. [... ] Ci
hanno garantito che non ci sarebbero state ripercussioni, ma finché non vediamo
non ci crediamo. Per quanto mi riguarda, ho ricevuto l’ordine di tacere, tanto da
non avere diritto di partecipare a nessuna riunione sull’rBST. Se mi esprimo
durante una cena e qualcuno riferisce alla divisione* ciò che ho detto, rischio di
ritrovarmi con parecchi problemi... » «Ho l’impressione che non abbia fiducia
nella procedura in corso», riprende il senatore Stratton. «Vorrei che sappiate che
se avrete problemi se subirete minacce di qualunque tipo, questa commissione
sarà lieta di esserne tenuta al corrente... » «La divisione ribadisce di continuo che
ora il cliente - ed è stato messo per iscritto - è l’industria, e noi dobbiamo servire
il cliente», spiega Shiv Chopra. «Il conflitto che ci preoccupava al BVD,
soprattutto nella divisione per la salute umana, veniva dal fatto che spesso
subiamo pressioni e azioni coercitive per autorizzare prodotti veterinari di dubbia
sicurezza come l’rBST. [... ] Alla fine ho deciso di scrivere all’attuale ministro
della Sanità e al suo predecessore, oltre che al viceministro, per denunciare un
grave problema di segreti e cospirazioni, chiedendo loro di intervenire. Li ho
pregati in nome della tutela dell’interesse pubblico, ma non ho mai ricevuto
risposta... Nel novembre 1997 abbiamo incontrato il dottor Paterson, uno dei
quadri superiori di Health Canada, e gli abbiamo detto che volevamo fosse
realizzata un’analisi scientifica approfondita del dossier. [... ] Quando ce l’hanno
inviata abbiamo constatato che si trattava solo di un sunto fornito dalla FDA o
dalla Commissione europea, senza dati bruti. [... ] Questi dati sono infatti custoditi
esclusivamente dal dottor Ian Alexander, nominato ispettore referente dell’rBST.
Nessuno tranne lui ha il diritto di consultarli.» A quel punto viene interrogata
Margaret Haydon, a cui era stato affidato l’esame della richiesta di autorizzazione
dal 1985 al 1994, prima di essere sollevata dall’incarico. «I documenti sono stati
trafugati nel mio ufficio nel maggio 1994», racconta. «Quando ho scoperto che
mancava qualcosa ero sconvolta. [... ] La maggior parte del lavoro che stavo
realizzando da dieci anni sull’rBST era scomparso. È stata condotta un’inchiesta
dal gruppo di sicurezza di Health Canada. Il sergente Fiegenvvald ha preso alcuni
documenti per verificare le impronte digitali. Mi ha chiesto di redigere un elenco
di tutto ciò che era scomparso e di scrivere qualunque cosa potesse spiegare
l’accaduto. Gli ho dato l’originale dell’elenco e ne ho tenuta una copia. [... ]
Qualche mese più tardi, nel novembre 1997, ero a casa in malattia, quando mi ha
chiamata un membro della sicurezza, che è venuto a prendersi la copia
dell’elenco. Da allora non ho più rivisto il mio testo.»

* La divisione sicurezza umana del BVD di Health Canada.

«I documenti rubati erano a favore o contro l’rBST?» domanda il senatore


Taylor.

«Sollevavo molti dubbi su quella sostanza e c’erano diverse ‘lettere


addizionali’, come le chiamiamo noi, che chiedevano al produttore di fornire
informazioni supplementari», risponde Margaret Haydon. «Diciamo che all’epoca
non raccomandavo l’uso del prodotto, per problemi di sicurezza e di efficacia... »
«Suppongo che se qualcuno le avesse offerto un bicchiere di latte trattato con
rBST non l’avrebbe bevuto... » continua il senatore Taylor.

«Personalmente no.» «Sentendovi parlare fatico a credere di essere in


Canada!» interviene il senatore Eugen Wheelan. «In quale sistema ci troviamo? Io
sono stato ministro dell’Agricoltura per undici anni e la ricerca era il mio
argomento preferito. [... ] Ho tutti i motivi per essere scettico quando si constata
che la ricerca è sempre meno pubblica e più condizionata da aziende come la
Monsanto. Vorrei chiedere a ciascuno di voi: siete stati avvicinati dalla
Monsanto?» «Ecco la mia esperienza», racconta Margaret Haydon. «Non so se la
parola ‘lobbying’ sia quella giusta, ma ho assistito a una riunione nel 1989, o forse
era il 1990, in cui c’erano alcuni rappresentanti della Monsanto, il mio
supervisore, il dottor Drennan, e il mio direttore, il dottor Messier. Durante la
seduta l’azienda ha avanzato proposte da uno a due milioni di dollari. Non so che
cosa sia successo dopo, ma il mio direttore mi ha detto che ne avrebbe parlato ai
suoi superiori... » «La dottoressa Haydon ha parlato di uno o due milioni offerti
dalla Monsanto durante quella riunione», continua Shiv Chopra. «Il canale Fifth
Estate ha fatto una trasmissione televisiva in proposito. Hanno incontrato il dottor
Drennan, che oggi è in pensione. Gli hanno domandato se quell’offerta c’era
davvero stata. Lui ha confermato e loro hanno continuato dicendo: ‘Lo considera
un tentativo di corruzione?’ ‘Direi di sì’, risponde lui. Poi gli domandano: ‘Che
cos’ha fatto dopo?’ E lui: ‘Mi sono messo a ridere’. ‘E dopo avere riso, che cos’ha
fatto? Ha emesso un rapporto?’ Il dottor Drennan risponde di sì. ‘E poi, che cos’è
successo?’ ‘Non loso...’» Nella sala dell’udienza la tensione è altissima. Un lungo
silenzio cala sui membri della commissione, rotto solo dal senatore Spivak, che
introduce un argomento molto importante: «Negli Stati Uniti la FDA ha
autorizzato il prodotto sulla base di analisi errate, perché i dati bruti non erano
disponibili o non erano stati trasmessi. Oggi il JECFA, il comitato comune
dell’OMS e della FAO, afferma che con l’rBST non sussistono problemi. Ma a
quanto pare anche il JECFA si è pronunciato sulla base delle stesse analisi, che
non hanno nulla a che vedere con i dati bruti. Ci si potrà fidare?» Per capire
l’importanza di questa domanda bisogna sapere che il Joint Expert Committee on
Food Additives (JECFA) è un comitato scientifico consultivo creato nel 1955
dall’OMS e dalla Food and Agriculture Organization (FAO), due organi
dell’ONU. Il comitato si riunisce regolarmente per esaminare la richiesta di
commercializzazione di nuovi prodotti alimentari. Perciò fa appello a esperti,
scelti per le competenze e l’imparzialità dai Paesi membri. I rapporti del JECFA
vengono trasmessi alla commissione del Codex alimentarius, anche questo
dipendente dall’OMS e dalla FAO e creato nel 1962 per uniformare le norme sui
prodotti alimentari ed emettere raccomandazioni internazionali in materia di
igiene e sicurezza delle pratiche tecnologiche legate agli alimenti. I testi
pubblicati dal Codex si avvalgono dell’esperienza scientifica internazionale, con
l’imprimatur dell’ONU.

Riguardo al funzionamento dello JECFA e del Codex alimentarius i lavori


della commissione senatoriale canadese si sono rivelati assai istruttivi, perché
hanno permesso di confermare ciò che alcuni avevano intuito, cioè l’impedimento
dei lavori da parte della Monsanto. Infatti, il 7 dicembre 1998 i senatori hanno
ascoltato Michael Hansen, l’esperto del Consumer Policy Institute, che conosce
bene gli arcani degli organismi dell’ONU poiché ha partecipato a molte riunioni
in veste di rappresentante delle organizzazioni dei consumatori. Ha svelato che il
primo panel di scienziati riuniti dal JECFA nel 1992 per valutare l’ormone della
crescita transgènico comprendeva sei rappresentanti della FDA, fra cui Margaret
Miller, disertrice della Monsanto, il dottor Greg Guyer e la dottoressa Judith
Juskevvitch, autori del controverso articolo pubblicato su Science. Nel 1998 il
portavoce del secondo panel altri non era che Margaret Miller. È chiaro, quindi,
come in queste condizioni il JECFA abbia emesso un parere favorevole
sull’rBGH, pur avendo sottolineato con Ray Bovvling, vicepresidente della
Monsanto e responsabile degli affari governativi e pubblici, ascoltato dopo
Michael Hansen: «Il rapporto dell’ONU ha confermato che il trattamento dei
bovini con la BST non crea problemi di salute. Ha concluso che non vi sono
implicazioni negative sulla sicurezza o sulla salute legate ai residui di BST nei
prodotti come carne o latte provenienti da animali trattati».
Un banco di prova per gli OGM

Nello stesso pomeriggio del 7 dicembre 1998 è stato ascoltato anche David
Kovvalcyk, responsabile degli affari regolatori della Monsanto, che si è fatto
cogliere con le mani nel sacco. «Abbiamo consultato rapporti in cui lei si propone
presso Health Canada come membro del panel del JECFA», dichiara il senatore
Spivak, fissando dritto negli occhi il suo interlocutore. «Non pensa di avere
oltrepassato i limiti della sua relazione con Health Canada suggerendo di
rappresentare il Canada nel panel del JECFA?» «È la prima volta che ne sento
parlare. Non ho mai raccomandato nessuno per il JECFA», balbetta il
rappresentante della Monsanto.

«Esistono resoconti e rapporti che attestano più di una sua conversazione in


merito con Ian Alexander, che aveva il controllo esclusivo dei dati bruti forniti
dalla vostra azienda e ha negato proprio come sta facendo lei», insiste il senatore.

«Credo che dovremmo approfondire le nostre ricerche», conclude il senatore


Wheelan dopo l’udienza dei tre vvhistleblovver di Health Canada. «Per esempio,
in questo momento la Monsanto ha dato seicentomila dollari ad Agriculture and
Agri-Food Canada (AAC) per lavorare su un grano resistente al Round-up [vedi
Capitolo 11]. Ho scritto a dieci università, una delle quali mi ha detto di farmi i
fatti miei quando ho cercato di sapere quali fossero le contropartite di tali sussidi.
Altre due mi hanno chiamato per dirmi: ‘Lei è sulla buona strada, ma non
possiamo dare nessuna informazione’. Erano tutti terrorizzati. Sono molto fiero di
vedere che lei non lo sia. Se cercano di farle qualcosa, ci tenga al corrente... »
L’ex ministro dell’Agricoltura canadese non credeva di averci azzeccato a tal
punto... Dopo l’operazione di catarsi nazionale provocata dalla commissione
senatoriale, è tornato l’ordine. Il Canada ha definitivamente bandito l’rBGH dal
territorio, comportando il rifiuto definitivo dell’ormone da parte della
Commissione europea, che era tuttavia a un passo dal seguire il consiglio del
JECFA e dall’annullare la moratoria in vigore dal 1990* Anche Australia e Nuova
Zelanda hanno bandito il prodotto. E a Health Canada le buone, vecchie abitudini
hanno ripreso il sopravvento: nel luglio 2004 Shiv Chopra, Margaret Haydon e
Gérard Lambert sono stati licenziati per disobbedienza. «Dopo la nostra
testimonianza di fronte alla Commissione siamo stati tormentati, mobbizzati,
demansionati», mi spiega Shiv Chopra, che mi riceve nel luglio 2006 nella sua
bella dimora indo-canadese a una cinquantina di chilometri da Ottawa. «Tutto ciò
che temevamo è successo, e nessuno ha mosso un dito!
Abbiamo portato il caso in tribunale, ma in Canada non ci sono leggi che
proteggano i vvhistleblovver. Questo Paese è corrotto fino al midollo, e infatti è
l’argomento del libro che sto scrivendo!» Il 10 marzo 1999 il Comitato scientifico
per la sanità e il benessere degli animali della Commissione europea emette un
rapporto di novantuno pagine in cui raccomanda di «non usare l’rBST sulle
mandrie da latte». Tuttavia non vengono menzionati i pericoli per la salute umana
che potrebbero risultare legati all’ormone, ufficialmente vietato nell’Unione
europea dal 1° gennaio 2000.

«Pensa che la Monsanto abbia avuto una parte nella sua disgrazia?» «Devo
fare molta attenzione a che cosa risponderle...» sorride Shiv Chopra. «Diciamo
che la nostra testimonianza è giunta in un momento molto delicato per l’azienda,
che all’epoca stava lanciando gli OGM in Canada. È ovvio che l’ormone della
crescita transgènico costituiva un banco di prova, in parte andato male, ma che ha
permesso loro di rodare quelle che chiamerei ‘tecniche di conquista del mercato’.
Parte seconda

OGM: il grande complotto

7. L’invenzione degli OGM

«Se i prodotti OGM siano sani o meno non è un argomento di discussione: la


loro sicurezza alimentare e ambientale deve essere dimostrata prima che entrino
nel sistema di produzione agricola e di distribuzione.» Monsanto, The Pledge
Report 2005, p. 31

«L’ormone della crescita bovina rappresenta la prima applicazione delle


biotecnologie nella produzione di alimenti, e la Monsanto si conferma una
multinazionale molto potente, poiché ha rapporti con le più alte cariche dello
Stato», mi spiega Pete Hardin, giornalista delMilkvveed. «Per il governo federale
lo sviluppo delle biotecnologie è così importante che ha preferito ignorare le
questioni, diciamo, ‘subalterne’, come la salute degli animali o dei consumatori,
autorizzando l’ormone nonostante i pericoli che presenta... » Mentre l’rBGH
viene omologato dalla FDA, decine di prodotti OGM sono in via di ultimazione
nei laboratori delle aziende biotecnologiche, e soprattutto della Monsanto, che ha
appena depositato un dossier per la commercializzazione della soia Round-up
Ready. Il legàme fra le manovre dell’azienda per far approvare l’ormone della
discordia e il progetto di imporsi sul mercato come la «Microsoft della
biotecnologia» è inaspettatamente confermato da Michael Taylor che,
ricordiamolo, ha lavorato come consulente per la Monsanto prima di essere
nominato, nel 1991, vicecommissario della FDA, per poi diventare, qualche anno
dopo, uno dei vicepresidenti dell’azienda di Saint Louis.

«Abbiamo compiuto una serie di errori, specie nei confronti dei consumatori»,
afferma Taylor al telefono. «La strategia adottata per far accettare una nuova
tecnologia al pubblico, e il fatto che la prima applicazione sul mercato sia legata
al latte, la cui produzione supera di gran lunga le necessità, contribuisce a creare
un clima di... » «.. .sospetto?» intervengo io, sconvolta da ciò che sto sentendo.

«Esatto, di sospetto», continua Michael Taylor. «Allo stesso modo penso che il
Congresso dovrebbe cambiare la legge e approvare un testo che garantisca la
sicurezza di ogni nuovo prodotto transgènico come effettivamente valutata dalla
FDA... » Ancora oggi fatico a capire perché Michael Taylor mi abbia concesso
questa stupefacente dichiarazione. Sarà forse stato un rimorso tardivo?

Oppure un tentativo di svincolarsi dalla regolamentazione americana degli


OGM, di cui era supervisore e che ha ispirato tutti i governi e gli organismi
internazionali, compresa l’Unione europea?

L’assalto ai geni Prima di raccontare la genesi di quello che potrebbe essere


considerato uno dei più grandi complotti della storia agroindustriale, è il caso di
tracciare, almeno a grandi linee, l’incredibile vicenda dell’ingegneria genetica. E
qui bisogna riconoscere, per una volta, la tenacia e l’entusiasmo della Monsanto,
che ha saputo tagliare le gambe ai (numerosi) concorrenti per diventare leader
incontestata in questo settore.

Tutto comincia nel 1953, quando l’americano James Watson e il britannico


Francis Crick decriptano la struttura a doppia elica del DNA. La scoperta varrà ai
due ingegneri genetici e biochimici il premio Nobel per la medicina nel 1962, e
segnerà la nascita di una nuova disciplina: la biologia molecolare. Come
sottolinea il mio collega Hervé Kempf nella sua opera La guerre secrète des
OGM, questo provoca anche l’affermarsi di un «credo» secondo il quale
«l’organismo è una macchina» interamente dipendente dai geni, divenuti la chiave
per la comprensione dei meccanismi dei viventi. Questo «credo» - per non dire
«dogma» - viene riassunto alla perfezione da Edvvard Tatum nel 1958, quando
riceve il Premio Nobel per la medicina: Tutti i processi biochimici in tutti gli
organismi sono sotto il controllo della genetica.

Tali processi biochimici sono riducibili a concatenamenti di reazioni


individuali.

Ogni reazione isolata è controllata da un semplice gene. [... ] L’ipotesi


sottintesa, confermata mediante esperimenti in un gran numero di casi, prevede
che ogni gene controlli la produzione, la funzione e la specificità di un enzima
particolare.1

In altre parole, ogni reazione biologica che caratterizza il funzionamento di un


organismo vivente è controllata da un gene che esprime una funzione innescando
la produzione di una proteìna specifica. Questo processo è all’origine di uno dei
più grossi malintesi sullo sviluppo delle biotecnologie: «In realtà», sottolineava
nel 1999 Arnaud Apoteker, dottore in biologia e responsabile del dossier OGM
per Greenpeace France, «i fenomeni si rivelano ogni giorno più complessi: uno
stesso gene può codificare proteìne con strutture primarie e proprietà biologiche
molto diverse, secondo il tessuto di un organismo o secondo l’organismo stesso.
La struttura molecolare dei viventi è di una complessità inimmaginabile».2

Oggi, per esempio, sappiamo che certi geni agiscono per interazione con altri e
che non basta estrarli da un organismo e trasferirli in un altro perché esprimano la
proteìna, e quindi la funzione selezionata, poiché si corre il rischio di provocare
reazioni biologiche inaspettate nell’organismo ospite.

Dall’inizio degli anni Sessanta i biologi molecolari si ostinano a mettere a


punto tecniche per manipolare materiale genetico e per fabbricare organismi
chimera che la natura in sé non avrebbe mai potuto produrre. Pertanto, si
ingegnano a tagliare e a incollare pezzi di DNA, a copiare e a moltiplicare geni,
con lo scopo di trasferirli da una specie all’altra.

Questo bricolage genetico è spesso giustificato da una missione generosa e


umanitaria, come afferma nel 1962 Caroli Hochvvalt, vicepresidente responsabile
della ricerca della Monsanto, durante una conferenza alla Washington University
di Saint Louis: «È del tutto naturale che tramite la manipolazione delle
informazioni genetiche a livello molecolare una 157 pianta come il riso possa
essere ‘istruita’ a produrre un tasso elevato di proteìne, cosa letteralmente
miracolosa per combattere la fame e la denutrizione».3 Bisogna sottolineare che
all’epoca i segreti del DNA erano l’ultima preoccupazione del gigante della
chimica, impegnato a fare fortuna nella giungla vietnamita...

Quindi non a Saint Louis, ma all’Università di Stanford in California, hanno


luogo le prime manipolazioni genetiche: nel 1972, mentre la Monsanto prepara il
lancio del Round-up, Paul Berg riesce a «ricombinare» questo è il termine usato,
cioè «incollare» -, due pezzi di DNA di specie diverse in una molecola ibrida.
Poco dopo il suo collega Stanley Cohen annuncia di essere riuscito a trasferire un
gene proveniente da un rospo nel DNA di un battèrio capace di riprodurre
l’intruso in grandi quantità. Queste scoperte, che annullano una legge allora
considerata intangibile, cioè l’impossibilità di varcare la cosiddetta «barriera tra le
specie», provocano entusiasmo nella comunità scientifica internazionale, ma
anche grosse preoccupazioni. Tali inquietudini sfociano in protesta quando Paul
Berg annuncia l’intenzione di inserire un virus cancerogeno, l’SV40 proveniente
da una scimmia, in una cellula di Escherichia coli, un battèrio che colonizza lo
stomaco umano. «Che cosa succederà se, per disgrazia, l’organismo manipolato
fuggisse dal laboratorio?» si preoccupano alcuni grandi scienziati come Robert
Pollack, specialista di virus cancerogeni.4 Tutto ciò porta a una moratoria
temporanea sulle manipolazioni genetiche, precisamente il 25 febbraio 1975, al
primo congresso internazionale sulla ricombinazione delle molecole di DNA. Per
due giorni ad Asilomar, una stazione balneare della costa pacifica californiana, i
grandi della neonata disciplina lavorano a un progetto sui rischi dell’ingegneria
genetica, concentrando il dibattito sulla sicurezza degli esperimenti e sulle regole
da stabilire, come le misure di accantonamento degli organismi manipolati, senza
tuttavia affrontare la questione etica. Tutto si svolge come se i biologi avessero
voluto «restringere al minimo l’implicazione del pubblico o del governo nei loro
affari»,5 scrive Hervé Kempf. Un messaggio che presto il futuro leader mondiale
delle biotecnologie farà proprio...

Dopo il congresso di Asilomar gli esperimenti di ingegneria genetica


proliferano negli Stati Uniti, dove a partire dal 1977 il NIH ne approva più di
trecento. Mentre i tentativi di inquadrare legalmente queste nuove e azzardate
attività scientifiche vengono sepolti uno dopo l’altro* fioriscono start up e società
di capitali, soprattutto in California, dove un’altra tecnologia promettente,
l’informatica, ha appena dato vita alla Silicon Valley. Che si chiamino Calgene o
Plant Genetics System, tali imprese vengono create da biologi che fino ad allora
avevano lavorato nelle università e che, trascinati dalla frenesìa della ricerca e
dalla prospettiva di guadagni allettanti, si lanciano in campo economico,
prelevando milioni di dollari dalla Borsa newyorchese o riscuotendo interessi da
aziende private di cui risultano membri del consiglio d’amministrazione.

Questa vera e propria «corsa ai geni» provoca un avvicinamento inedito fra


scienza e industria, che sconvolgerà profondamente le pratiche della ricerca, come
spiega la sociologa Susan Wright: «Quando l’ingegneria genetica è stata vista
come opportunità di investimento, si è innescato un adattamento delle norme e
delle pratiche scientifiche agli standard delle aziende», scrive in un libro uscito
nel 1994 e diventato un caposaldo della storia delle biotecnologie.6 «Il risveglio
dell’ingegneria genetica coincide con la nascita di una nuova etica, radicalmente
definita dal commercio.» Come vedremo più avanti, questa evoluzione è stata in
gran parte stimolata dalla Monsanto, grazie a un sistema di brevetti che veicolano
la ricerca e i prodotti che ne derivano.

Il trionfo del bricolage genetico Mentre le start up californiane popolano le


cronache borsistiche, a Saint Louis un uomo conduce una lotta solitaria. Si
chiama Ernest Javvorski ed è entrato alla Monsanto nel 1952. Questo specialista
del glifosato, di cui ha analizzato l’attività sulle cellule vegetali, ha un’idea che i
colleghi dell’azienda chimica considerano strampalata: invece di cercare di
produrre nuovi erbicìdi, perché non creare piante selettive, manipolandone il
patrimonio genetico e rendendole capaci di sopravvivere alle irrorazioni di
erbicìdi?

* Nel 1977 e nel 1978 sono stati depositati al Congresso sedici progetti di
legge, nessuno dei quali ha mai dato frutti.

Incoraggiato da John Hanley, nominato amministratore delegato nel 1972 e


anche lui convinto che la biologia rappresenti il futuro della chimica, Javvorski
lavora alla coltura di cellule vegetali in un laboratorio canadese, prima di dirigere
i lavori di un’équipe di trenta ricercatori, fra cui alcuni giovani promesse della
biologia molecolare come Robert Fraley, Robert Horsch e Stephen Rogers:
«Alcuni di questi giovani fenomeni della genetica credevano che il loro lavoro
recasse beneficio al Pianeta e che avrebbe permesso di produrre più cibo
riducendo allo stesso tempo la dipendenza dell’agricoltura dai prodotti chimici»,
scrive il giornalista Daniel Charles, autore di Lords of the Harvest (I padroni del
raccolto), che è riuscito a intervistare i pionieri della biotecnologia prima che
decidessero di barricarsi dietro un silenzio impenetrabile. «Spesso si
consideravano rivoluzionari ‘verdi’ che, pur lavorando per aziende chimiche,
lottavano contro il potere meschino dei chimici.»7

L’équipe, riunita al quarto piano dell’edificio U della Monsanto a Creve Coeur,


nella periferia di Saint Louis, dove l’azienda si era da poco trasferita, è
soprannominata Uphoria dagli scettici dell’azienda, che considerano questa banda
di giovani entusiasti dei pazzi economicamente irresponsabili. Bisogna dire che la
politica volontaristica condotta dal Kremlin - come viene chiamato l’edificio D,
sede della direzione - si scontra con le abitudini dell’azienda che, per la prima
volta nella sua storia, si lancia a peso morto nella ricerca senza sapere in quale
applicazione concreta sfocerà. «La priorità era l’eccellenza scientifica»,
testimonia Robert Horsch. «Non c’erano pressioni per la realizzazione di un
prodotto. Per esempio, si lavorava sulle petunie e nessuno veniva a dirci:
‘Petunie? Dove credete di essere, all’università?’ In effetti, eravamo una sorta di
unità imprenditoriale protetta dalla direzione.»8

I ricercatori di Uphoria scelgono come modello sperimentale la petunia.


Sulla scia dei laboratori californiani, belgi e tedeschi, che hanno intrapreso
un’incredibile corsa contro il tempo, il loro programma di ricerca comprende tre
tappe: si tratta, in un primo tempo, di manipolare il DNA per prelevare i geni
potenzialmente utili, da cui il nome di «gene d’interesse», poi di trasferire i geni
in cellule vegetali e, infine, di sviluppare colture di tessuti per riprodurre e far
crescere le cellule embrionali manipolate. La prima tappa è stata raggiunta grazie
alla scoperta degli «enzimi di restrizione», che in un certo senso sono le «forbici»
dei biologi molecolari, poiché permettono loro di tagliare il DNA per estrarne i
geni d’interesse.

Ma per la seconda tappa è tutta un’altra storia. Infatti, contrariamente alle


argomentazioni fornite dai promotori delle biotecnologie, le tecniche di
manipolazione genetica non hanno nulla a che vedere con la selezione
genealogica praticata dai selezionatori a partire dagli studi di Louis de Vilmorin, a
metà del XIX secolo. I produttori di sementi non hanno fatto altro che
razionalizzare e sistematizzare le pratiche ancestrali dei contadini, che
dall’avvento dell’agricoltura nella Mesopotamia di diecimila anni fa conservano
le più belle spighe del raccolto per seminarle nei campi l’anno successivo. Il
contributo dei selezionatori professionisti consiste nel provocare l’incrocio fra due
piante - i «genitori» della stirpe - selezionate per qualità agronomiche
complementari (come la resistenza alle malattie o il rendimento dei semi),
sperando che i loro discendenti presentino le stesse caratteristiche, grazie alle
leggi dell’ereditarietà. Si scelgono allora i soggetti migliori della seconda
generazione, li si costringe a incrociarsi e così via per molte generazioni.

Come risulta ormai chiaro, la selezione genealogica si basa su leggi naturali,


come la riproduzione sessuata degli organismi vegetali, visto che l’azione
dell’uomo mira solo a orientare le varie possibilità all’interno di uno stesso
serbatoio genetico, ma alla fine la pianta «migliorata» - secondo i termini in uso –
avrebbe potuto essere creata nei campi dalla cara, vecchia madre natura. Tornerò
più avanti sulle conseguenze della selezione genealogica per la biodiversità (vedi
Capitolo 11), ma per ora è sufficiente sapere che questo processo agronomico non
può essere assimilato alle tecniche di manipolazione genetica che, lungi dal
rispettare le leggi naturali dello sviluppo vegetale, tentano invece di infrangerle.

I biologi molecolari sanno che gli organismi vegetali possiedono meccanismi


di difesa per respingere i corpi estranei che tentano di penetrare dentro di loro, e
naturalmente questo vale anche per i geni provenienti da altre specie del mondo
vivente. È vero al punto che, fin dall’inizio, gli stessi biologi hanno capìto che la
manipolazione genetica non potrebbe sussistere senza ricorrere a un
intermediario, o «mulo», capace di trasportare il gene selezionato e di farlo
entrare con la forza nella cellula bersaglio. Ecco perché tutti si sono concentrati su
un battèrio che prolifera nel suolo, YAgrobacterium tumefaciens, che ha la facoltà
di inserire alcuni suoi geni nelle cellule vegetali per dare luogo a tumori* In altre
parole, questo battèrio è un agente patogeno che modifica il patrimonio genetico
delle cellule infettandole.

Nel 1974 un’équipe di ricercatori belgi riesce a identificare il plasmide (un


anello di DNA) che costituisce il vettore grazie al quale il gene che provoca il
tumore si trasferisce dal battèrio alla pianta. A Saint Louis, come in tutti i
laboratori dell’epoca, si cerca allora di isolare sul plasmide il gene responsabile
dei tumori per sostituirlo con il gene d’interesse aggiungendovi un «promotore»,
cioè una sequenza di DNA che permette di innescare l’espressione del gene.
Come vedremo, spesso si tratterà di un gene chiamato 35S, proveniente da un
virus del mosaico del cavolfiore (una malattia dell’ortaggio) e imparentato con
quello dell’epatite B.

Ma non è tutto: se il gene che provoca il tumore è stato soppresso, come


verificare che il plasmide abbia fatto il proprio lavoro inserendo il gene sostitutivo
nella cellula vegetale? L’unica soluzione trovata dagli apprendisti stregòni della
genetica è quella di aggiungere alla costruzione genetica il cosiddetto «marcatore
di selezione», all’occorrenza un gene di resistenza agli antibiotici (la kanamicina).
Per riscontrare che il trasferimento sia avvenuto si irrorano le cellule con una
soluzione antibiotica: le «elette» sono quelle che resistono allo choc, dando così
luogo ad altri problemi sanitari (nel momento in cui la resistenza agli antibiotici
rischia di diventare una grave questione di sanità pubblica, alcune Cassandre
temono che il marcatore di selezione venga assorbito dai battèri che popolano la
flora intestinale degli umani, riducendone la capacità di resistenza agli agenti
infestanti).

* L’Agrobacterìum tumefaciens è responsabile della «galla del colletto», che


attacca le radici di alcune piante provocando la nascita di un tumore. È stato
scoperto nel 1907 da due ricercatori americani.

Il 18 gennaio 1983, in occasione del simposio di genetica molecolare di


Miami, i rappresentanti di tre laboratori - un belga e due americani, fra cui Robert
Horsch per la Monsanto - annunciano di essere riusciti a inserire una costruzione
genetica, in particolare un gene di resistenza alla kanamicina, nelle cellule di
petunia e di tabacco (due piante sensibili all’Agrobacterium tumefaciens). I tre
laboratori hanno depositato dei brevetti sulle loro scoperte simultanee. Per
l’azienda di Saint Louis si comincia a fare sul serio, e l’ora della guerra è vicina...

1993 : la soia Round-up Ready «Ricordo la prima volta in cui ho detto che il
nostro compito non è quello di sviluppare conoscenze, ma prodotti. Non volava
una mosca!»9

Così dice Richard Mahoney che, da quando è stato nominato amministratore


delegato della Monsanto nel 1984 - posto che occuperà fino al 1995 - ha
cominciato a scuotere i membri di Uphoria. Finita l’epoca della ricerca a fondo
perduto sulle petunie, l’obiettivo è ormai chiaro: produrre piante transgèniche che
procurino denaro! Mahoney, definito da Fortune «uno dei dirigenti più rudi
d’America», è un disinibito uomo d’affari che non esita a dichiarare: «Le scuse e
gli indugi sono passati di moda. L’unica cosa che conta è raggiungere in tempo il
proprio scopo».10

L’équipe di Ernest Javvorski, sottoposta a uno stress senza precedenti, capisce


che il successo del laboratorio è una questione di vita o di morte, e che un
fallimento segnerebbe la vittoria dei chimici puri. Da allora tutta la ricerca è
concentrata sulla produzione di piante resistenti al Round-up, ormai divenuto,
dieci anni dopo il primo lancio, l’erbicìda più venduto al mondo. Del resto,
l’implacabile Mahoney non ha mancato di ricordare che nel 2000 il brevetto che
garantiva il monopolio sui derivati del glifosato sarebbe diventato di dominio
pubblico, e che gli OGM, presto chiamati Round-up Ready, sarebbero serviti a
lasciare indietro i produttori di generici. Ecco un obiettivo concreto! Javvorski è
al settimo cielo perché, dopotutto, era proprio quella la sua idea iniziale:
manipolare piante in modo che sopravvivano alle irrorazioni dell’erbicìda, che
potrà quindi essere sparso in qualunque momento sulle colture - di mais, soia,
cotone o colza e, perché no, di grano - per distruggere solo le erbe infestanti.

Eppure, ancora non ci siamo. Nel 1985 i ricercatori di Saint Louis hanno
un’unica ossessione: trovare il gene che renderà immuni al Round-up le cellule
vegetali, cosa ancora più urgente da quando la Calgene, una start up californiana,
ha annunciato, in una lettera pubblicata su Nature, di essere riuscita a rendere il
tabacco resistente al glifosato.11 Si parla già di un accordo con la francese Rhòne-
Poulenc per sviluppare colture resistenti al glifosato. Nello stesso momento la
tedesca Hoechst fa di tutto per trovare il gene resistente al suo erbicida. Basta,
senza dimenticare il Glean della DuPont e l’Atrazine della Ciba-Geigy. Insomma,
tutti i giganti della chimica perseguono lo stesso obiettivo e ormai la concorrenza
è all’apice, perché la posta in gioco non è solo scientifica, ma soprattutto
economica, se pensiamo ai brevetti che un’azienda potrà depositare su tutte le
grandi coltivazioni alimentari del mondo...

A Saint Louis, intanto, lo stress fa da padrone, perché il famoso gene rimane


introvabile. I ricercatori di Javvorski girano a vuoto. Sono riusciti a identificare il
gene dell’enzima che, come sappiamo (vedi Capitolo 4), è bloccato dall’azione
delle molecole di glifosato, provocando una necrosi dei tessuti e la morte della
pianta. L’idea è di manipolarlo per disattivare la reazione all’erbicìda, per poi
introdurlo nelle cellule vegetali, ma non è così facile. «È come il progetto
Manhattan», racconta Harry Klee, uno dei ricercatori dell’équipe. «L’antitesi del
modo in cui si lavora in un laboratorio: normalmente lo scienziato fa un
esperimento, lo valuta, ne trae una conclusione e poi passa a un’altra variabile.
Con la resistenza al Round-up si provavano venti variabili alla volta: i mutanti, i
promotori, molteplici specie vegetali... Si sperimentava tutto nello stesso
tempo.»12

La ricerca durerà più di due anni, finché un giorno del 1987 ad alcuni
ingegneri viene la brillante idea di frugare nella spazzatura dello stabilimento di
Luling, a più di settecento chilometri a sud di Saint Louis. Proprio qui, sulle rive
del Mississippi, la Monsanto produce ogni anno milioni di tonnellate di glifosato.
Ci sono bacini di disinquinamento che dovrebbero trattare gli scarti di
produzione, una parte dei quali ha tuttavia contaminato il suolo e le acque
circostanti. Vengono effettuati prelievi per raccogliere migliaia di microrganismi,
allo scopo di individuare quelli che sono sopravvissuti naturalmente al glifosato e
identificare il gene che conferisce loro tale preziosa resistenza... Bisognerà
aspettare altri due anni perché un robot che analizza la struttura molecolare dei
battèri raccolti si imbatta, finalmente, nella perla rara: «Un momento
indimenticabile»,13 afferma Stephen Padgette, uno degli «inventori» della soia
Round-up Ready, e oggi tra i vicepresidenti della Monsanto.

Eppure, il caso non è ancora risolto: bisogna trovare la struttura genetica che
permetterà al gene di funzionare una volta introdotto nelle cellule vegetali, nello
specifico della soia, perché dopo i primi esperimenti effettuati sul pomodoro sarà
su questa che l’équipe lavorerà. Una posta in gioco formidabile: insieme con il
mais, la soia domina l’agricoltura americana, apportando all’economia nazionale
dell’epoca quindici miliardi di dollari all’anno. Fino al 1993, data ufficiale della
nascita della Round-up Ready, Stephen Padgette e i colleghi del programma
«resistenza al Round-up» si divideranno fra il laboratorio e le serre che coprono il
tetto di Chesterfield Village, nella periferia ricca di Saint Louis, dove la Monsanto
ha avviato la sua attività biotecnologica. Serviranno «settecentomila ore e un
investimento di ottanta milioni di dollari»14 per arrivare al risultato desiderato:
una struttura genetica che comprende il gene d’interesse (CP4 EPSPS), il famoso
promotore 35S del mosaico del cavolfiore e altri due pezzi di DNA provenienti
dalla petunia, che avrebbero dovuto controllare la produzione della proteìna. «La
cassetta genetica della soia Round-up Ready è completamente artificiale», osserva
il biologo giapponese Masaharu Kavvata dell’Università di Nagoya. «Non è mai
esistita nel regno della natura, e nessuna evoluzione naturale avrebbe potuto
produrla.»16

È verissimo. Infatti, i ricercatori di Saint Louis hanno faticato parecchio per


introdurla nelle cellule della soia. Hanno dovuto rinunciare al «mulo»
Agrobacterìum tumefaciens, perché si ritrovavano di fronte 165 sempre lo stesso
problema: ogni volta che inondavano le cellule di antibiotico, quelle che non
avevano inglobato la «cassetta» morivano e infettavano quelle «buone», secondo
un fenomeno che Robert Horsch chiamava «morte colloperativa»,16 un
neologismo funereo nato da «collaterale» (come «effetto collaterale») e
«cooperativo».

A fronte di questa resistenza della natura, l’équipe decide di ricorrere


all’artiglieria pesante: un «cannone genetico» inventato da due scienziati della
Cornell University e sviluppato in collaborazione con Agracetus, un’azienda
biotech del Wisconsin (che la Monsanto acquisterà nel 1996).

Quando John Sanford e il collega Tedd Klein escogitano quest’arma


dell’ultima ora, vengono considerati pazzi, ma nello stesso momento i laboratori
sono pronti a tutto pur di far penetrare il DNA nelle cellule, dimostrazione del
fatto che la biotecnologia non ha nulla a che vedere con la vecchia tecnica di
selezione genealogica: alcuni ricercatori usano aghi microscopici, altri scariche
elettriche per provocare piccoli fori nella parete cellulare e permettere così al
DNA di entrare. Ma è tutto inutile!

Oggi il cannone genetico è lo strumento più usato dagli «artiglieri»


dell’ingegneria genetica. Come funziona? Si fissano le strutture genetiche su
palline d’oro o di tungsteno microscopiche, poi ci si bombarda una coltura di
cellule embrionali. Per rendersi conto di quanto questa tecnica sia imprecisa, cito
le parole di Stephen Padgette che nel 2001 la mia collega Stephanie Simon ha
riportato sul Los Angeles Times: «Il problema era che il cannone genetico
inseriva il DNA a caso. [... ] Talvolta un ‘pacchetto’ esplodeva prima di attecchire
nella cellula, oppure due pacchetti di geni erano doppioni. Peggio ancora, il DNA
poteva cadere in un punto di interferenza con il funzionamento della cellula.
L’équipe ha dovuto sparare migliaia di cannonate prima di ottenere qualche
decina di piante dall’aspetto promettente. Dopo tre anni di tentativi su queste
specie, un solo tipo di soia manipolata sembrava superiore alle altre.

Riusciva a resistere a forti dosi di glifosato, come confermarono gli


esperimenti in serra. [... ] ‘Era blindata’, ricorda Padgette con orgoglio, e nel 1993
la Monsanto l’ha dichiarata vincente».17

Ma a quale prezzo! Come sottolinea Arnaud Apoteker nel suo libro, «con
l’intenzione di sottomettere la natura, l’uomo usa tecnologie violente per forzare
le cellule ad accettare geni di altre specie. Per alcune piante usa l’arma chimica o
battèriologica per infettare le cellule con battèri o virus; per altre si limita ad armi
classiche come il cannone genetico. In entrambi i casi le perdite sono
considerevoli, poiché in media solo una cellula su mille riesce a integrare il
transgène, a sopravvivere e a generare un’altra pianta transgènica».18

Tuttavia, nel 1994 la Monsanto inoltra una richiesta di commercializzazione


della soia Round-up Ready, che diventa il primo OGM coltivato su vasta scala.
Vedremo che anche in questo caso l’azienda ha «blindato» ogni cosa, per
riprendere le parole del suo vicepresidente.

Manovre alla Casa Bianca Mentre l’équipe di Chesterfield Village insegue


disperatamente il gene di resistenza al glifosato, l’azienda dimostra una capacità
di anticipazione che, non tenendo conto delle conseguenze, potrebbe risultare
sorprendente. Così dirà nel 2001 il New York Times, in un articolo molto bene
informato: «Verso la fine del 1986 quattro dirigenti della Monsanto hanno fatto
visita al vicepresidente George H.W. Bush, alla Casa Bianca, dove si sono esibiti
in un’insolita opera di imbonimento».19

Per capire la finezza del cammino intrapreso da Léonard Guarraia, allora


direttore degli affari regolatori dell’azienda, bisogna ricordare che all’epoca Bush
padre era il vicepresidente di Ronald Reagan, eletto nel novembre 1980 e rieletto
quattro anni dopo. La parola d’ordine di questo duo repubblicano è
«deregolamentazione», per «liberare le forze del mercato» riducendo «l’idra
statale». Questo credo ultraliberale mira a favorire l’industria americana,
diminuendo quelli che i falchi della Casa Bianca chiamano «impedimenti
burocratici», cioè i test sanitari e ambientali voluti dalle agenzie di
regolamentazione prima della commercializzazione di un nuovo prodotto: la FDA
per gli alimenti e i farmaci, l’EPA per i pesticìdi e l’USDA per le piante agricole.
Gli Stati Uniti conducono allora una lotta spietata per imporsi sul Giappone e,
in misura minore, sull’Europa, soprattutto nel campo delle nuove tecnologie, ma
anche dei prodotti agricoli. In questo contesto di concorrenza spietata, la
biotecnologia è una considerevole posta in gioco. Ecco perché il 26 giugno 1986
la Casa Bianca emette una direttiva intitolata «Quadro per la regolamentazione
della biotecnologia», con l’obiettivo, in primo luogo, di evitare che il Congresso
si intrometta in quella delicata questione con una legge specifica per la
regolamentazione degli OGM. Tale direttiva, rivolta ai tre organismi di
regolamentazione del Paese (FDA, EPA e USDA), prevede che i prodotti
provenienti dalle biotecnologie siano regolamentati nell’ambito delle leggi
federali già esistenti, nella misura in cui «le tecniche sviluppate di recente»
rappresentano solo un’«estensione delle manipolazioni tradizionali» di piante e
animali.20 In altre parole, gli OGM non godono di un trattamento particolare, e
saranno sottoposti allo stesso regime di approvazione dei prodotti non transgènici.

Tuttavia, il documento non facilita le cose alla Monsanto, che ha un’altra idea:
«Non c’erano ancora prodotti [OGM] disponibili, ma abbiamo convinto Bush
perché venissero regolamentati»,21 spiega Léonard Guarraia. Che cosa nasconde
questo «imbonimento» effettivamente assai «insolito»?

«In realtà», mi spiega nel luglio 2006 Michael Hansen, «la Monsanto voleva
un’apparenza di regolamentazione. L’azienda sapeva che dopo gli scandali dei
PCB e dell’agente arancio, in cui aveva mentito per dissimulare i dati, nessuno le
avrebbe più creduto se si fosse limitata a dire che i prodotti OGM non
comportavano pericoli per la salute o per l’ambiente.

Voleva che fossero le agenzie governative, soprattutto la FDA, a garantire la


sicurezza dei prodotti. Non appena fosse sorto un problema, avrebbe potuto dire:
‘La FDA ha stabilito che gli OGM non presentano rischi’. Era un modo per
proteggersi se le cose fossero andate male... » Secondo i giornalisti del New York
Times l’incontro di Washington ha dato i suoi frutti: «Nelle settimane e nei mesi
seguenti la Casa Bianca si è impegnata a lavorare dietro le quinte per aiutare la
Monsanto [... ] a ottenere la regolamentazione desiderata. La scena si sarebbe
ripetuta più volte sotto tre amministrazioni diverse: ciò che la Monsanto voleva da
Washington, lo otteneva, e così per tutta l’industria delle biotecnologie».22

Per capire fino a che punto il modo di procedere del gigante di Saint Louis
fosse «insolito», bisogna sapere che all’epoca alcune alte cariche della FDA erano
del tutto contrarie all’idea di regolamentare gli OGM, sia sotto forma di testo, sia
di «apparente regolamentazione». Era il caso, soprattutto, di Henry Miller,
portavoce dell’agenzia in materia di biotecnologie, che non esitava a trattare i
detrattori degli OGM come «trogloditi» o «intellettuali nazisti», e contro cui la
Casa Bianca avrebbe dovuto combattere apertamente.23

Ma non finisce qui. I giornalisti del New York Times sono riusciti a procurarsi
la bozza di un documento segreto datato 13 ottobre 1986, in cui i dirigenti della
multinazionale stabiliscono un vero e proprio piano di battaglia per imporre gli
OGM negli Stati Uniti. Fra gli obiettivi prioritari: «Creare un supporto per le
biotecnologie ai livelli più alti della regolamentazione americana», oltre che
«negli Stati maggiori, repubblicani e democratici, entro le presidenziali del
1988».24

Il caso vuole che abbia trovato la prova filmata dell’incommensurabile aplomb


dell’azienda, capace di proferire minacce appena velate persino di fronte a George
H.W. Bush, poiché avverte la resistenza dell’amministrazione. È un documento
eccezionale, girato il 15 maggio 1987 dall’Associated Press. Si vede Bush,
braccio destro di Reagan, allora in campagna elettorale, vagare in camice bianco
nei laboratori della Monsanto di Saint Louis scortato dai giornalisti.

«Vorrei mostrarle le tappe per spostare i geni da un organismo all’altro»,


spiega con una provetta in mano Stephen Rogers, una delle tre «promesse» di
Uphoria. «Prendiamo del DNA, lo suddividiamo in segmenti e rimescoliamo le
varie parti, per poi unirle di nuovo. Questa provetta contiene DNA proveniente da
un battèrio. Ha sempre lo stesso aspetto, che venga da una pianta o da un
animale.» «Capisco», dice George Bush, con gli occhi fissi sulla provetta. «E a
che cosa vi servirà? Ad avere una pianta più forte o una pianta che resista. .. » «In
questo caso è resistente a un erbicìda», risponde Rogers.

«Abbiamo un erbicìda favoloso», annuncia entusiasta una voce fuori campo.

Poi Bush entra nelle serre di Chesterfield Village, dove un dirigente della
Monsanto in giacca e cravatta gli mostra piante di pomodori transgèniche, che si
rivelano il vero e proprio oggetto di quella visita guidata.

Segue una conversazione agghiacciante: «Abbiamo richiesto al dipartimento


dell’Agricoltura di poter testare le nuove piante per la prima volta già quest’anno,
nell’Illinois», spiega il dirigente incravattato.

«È il nostro sogno! Continuiamo a investire denaro, ma non succede nulla!»


replica Stephen Rogers.
«Non possiamo lamentarci con il dipartimento dell’Agricoltura, perché sta
seguendo le normali procedure», riprende il dirigente. «È attento alle nuove
tecnologie, ma se in settembre non avremo ricevuto l’autorizzazione,
probabilmente cambieremo strategia!» «Chiamate me, deregolamentare è il mio
lavoro», replica George Bush con una grande risata. «Potrei aiutarvi... » Il 2
giugno 1987, esattamente due settimane dopo la sorprendente visita del
vicepresidente, i ricercatori della Monsanto realizzano il primo test di colture
transgèniche a Jerseyville, nell’Illinois. Esiste una foto in cui Stephen Rogers,
Robert Fraley e Robert Horsch posano con cappelli da contadino in testa davanti a
un trattore. Ai loro piedi, cassette di piantine di pomodori manipolate grazie ai
poteri magici del battèrio Agrobacterium tumefaciens.

Una regolamentazione «politica» su misura Nel gennaio 1989 George H.W.


Bush guadagna lo studio ovale della Casa Bianca. A marzo affida a Dan Quayle,
suo vice, la presidenza del Consiglio della competitività, la cui missione è
«ridurre il fardello di regolamentazioni che grava sull’economia».26 Il 26 maggio
1992 il vicepresidente rende nota la politica americana in materia di OGM, di
fronte a un pubblico di dirigenti d’impresa, alti funzionari e giornalisti: «Questa
decisione fa parte della seconda fase del programma presidenziale per alleggerire
la regolamentazione», dichiara Quayle. «Gli Stati Uniti sono già leader mondiali
delle biotecnologie, e l’intenzione è continuare a esserlo. Nel 1991 le
biotecnologie hanno apportato quattro miliardi di dollari.

Per il 2000 prevediamo di arrivare a cinquanta miliardi di dollari, a patto di


non inciampare in una regolamentazione inutile... » Tre giorni dopo, il 29 maggio
1992, la Monsanto ottiene la sua vittoria: la FDA pubblica sul Federal Register la
sua policy, cioè la regolamentazione sugli «alimenti derivati dalle nuove varietà di
piante».26 Da notare che il titolo di questo testo di una ventina di pagine,
considerato una bibbia in materia un po’ in tutto il mondo, evita accuratamente
qualunque riferimento alle biotecnologie, presentate fin dall’introduzione come
una semplice estensione della selezione genealogica, secondo le raccomandazioni
emesse dalla Casa Bianca sei anni prima: «Gli alimenti [... ] derivati da varietà
vegetali sviluppate con i nuovi metodi di modificazione genetica sono
regolamentati nello stesso quadro e secondo gli stessi criteri di quelli provenienti
dall'incrocio tradizionale delle colture».

Chi desidera «più informazioni» è invitato a contattare un certo James H.


Maryanski. Ho dovuto lottare a lungo per trovare quest’uomo, che ha occupato il
posto chiave di «coordinatore delle biotecnologie» alla FDA dal 1985 al 2006. Il
microbiologo, entrato nell’agenzia nel 1977, nel 2006 era in pensione, ma
lavorava ancora come «consulente indipendente» sulla «sicurezza degli alimenti
OGM» presso i governi, o almeno così dice il curriculum che mi ha inviato* Un
breve antefatto: siccome volevo disperatamente avere i suoi recapiti, avevo
chiesto un’intervista a un rappresentante della FDA riguardo alla
regolamentazione del 1992, precisando che stavo realizzando un documentario
sulla Monsanto, in particolare sull’omologazione della soia Round-up Ready.
Ecco l’e-mail di risposta che ho ricevuto il 7 luglio 2006 da Mike Herndon,
membro del servizio stampa dell’agenzia: «Devo rispettosamente declinare la sua
richiesta di intervista filmata. La FDA è tenuta ad apparire neutrale nei rapporti
con gli industriali dell’agroalimentare. Il fatto di essere intervistàti per un
documentario riguardante un’azienda di cui la FDA regolamenta i prodotti ci
sembra inappropriato... »

* Maryanski ha creato un’impresa di Consulting business, la J.H. Maryanski


Llc.

Questa risposta non manca certo di astuzia, sapendo che la direttiva del 1992 è
stata elaborata in stretta collaborazione con la Monsanto, e nei cui intenti
l’agenzia avrebbe dovuto pubblicare una «regolamentazione apparente», per
riprendere le parole di Michael Hansen. Ed è proprio a James Maiyanski che è
stato affidato questo delicato compito, sotto la direzione, ovviamente, di Michael
Taylor, allora numero due della FDA.

Alla fine, nel luglio 2006, sono riuscita a incontrare l’ex quadro della FDA a
New York, appena tornato da una consulenza in Giappone. A dire il vero, non mi
aspettavo un uomo timido, con gli occhi chiari e la voce calma e pacata. Ma
rivedendo il video delle tre ore di conversazione, ho potuto avvertire l’agitazione,
se non il panico, che lo assaliva, gli scatti nervosi del suo sguardo.

Innanzitutto lo interrogo sulle direttive trasmesse dalla Casa Bianca per


redigere la regolamentazione degli alimenti transgènici: «Nel complesso il
governo ha preso la decisione di non creare nuove leggi», mi spiega prudente.
«Pensava che per la FDA il Food Drug and Cosmetic Act, che regolamenta la
sicurezza dei cibi, a eccezione di carne, pollame e uova, che dipendono dal
dipartimento dell’Agricoltura, potesse applicarsi alle nuove tecnologie. [... ] Alla
FDA il commissario David Kessler ha creato un gruppo di scienziati e di giuristi
di cui ero il supervisore. Il gruppo era incaricato di esaminare la possibilità di
regolamentare gli alimenti provenienti dalle biotecnologie nel quadro del Food
Drug and Cosmetic Act.» «La decisione di non sottoporre gli OGM a un regime
specifico non si basava su dati scientifici, ma era solo politica?» domando,
causandogli una lieve smorfia.

«Ehm... Sì, era una decisione politica... che riguardava molti campi, non solo
l’alimentazione... Si applicava a tutti i prodotti delle biotecnologie», risponde l’ex
responsabile della FDA, terminando la frase con grande difficoltà.

Il «principio di equivalenza sostanziale» Proseguo leggendo un paragrafo della


regolamentazione che è al centro della polemica sugli OGM: «Nella maggior
parte dei casi, i componenti dei cibi che provengono da piante geneticamente
modificate saranno uguali o sostanzialmente simili [corsivo mio] a quelli che si
trovano comunemente negli alimenti tradizionali, come proteìne, grassi e
carboidrati».27

Queste parole, apparentemente insignificanti, veicolano un concetto ripreso un


po’ in tutto il mondo come base teorica della regolamentazione degli OGM: il
«principio di equivalenza sostanziale». Prima di capire perché rappresenta il nodo
di quello che ho definito «uno dei più grandi complotti della storia
agroindustriale», passo la parola a James Maryanski, che continua a difenderlo
con tenacia: «Sappiamo che i geni introdotti nelle piante dalla biotecnologia
producono proteìne molto simili a quelle che consumiamo da secoli», spiega. «La
soia Round-up Ready, per esempio, contiene un enzima modificato praticamente
uguale [corsivi miei] a quello che esiste nella pianta in natura: la mutazione è
minima, quindi in termini di sicurezza non ci sono differenze rilevanti fra
l’enzima manipolato e quello naturale...» In altre parole, gli OGM sono
«praticamente uguali» ai loro omologhi naturali. Ed è proprio questa
caratteristica, tutto sommato stupefacente per un microbiologo, a rendere sospetto
il principio di equivalenza sostanziale agli occhi di chi ne denuncia la validità,
come Jeremy Rifkin, che è stato, come abbiamo visto, uno dei primi a opporsi alla
biotecnologia: «All’epoca, a Washington, frequentando i bar dei lobbisti, li sentivi
ridere di questa cosa. Tutti sapevano che il principio di equivalenza sostanziale
era una frottola. Per certe aziende, e soprattutto per la Monsanto, era
semplicemente un modo per mettere subito i prodotti sul mercato con la minore
interferenza governativa possibile. Devo ammettere che hanno saputo difendere
bene i propri interessi».

Michael Hansen, l’esperto del Consumer Policy Institute, ribadisce il concetto:


«Il principio di equivalenza sostanziale è un alibi senza fondamento scientifico,
creato dal nulla per evitare che gli OGM siano considerati additivi alimentari, e
permettendo così alle aziende biotecnologiche di evitare i test tossicologici
previsti dal Food Drug and Cosmetic Act, ma anche l’etichettatura dei prodotti.
Per questo si dice che la regolamentazione americana dei cibi transgènici viola la
legge federale». A sostegno delle proprie convinzioni, lo scienziato mi mostra un
documento legato al Food Drug and Cosmetic Act, approvato nel 1958 dal
Congresso e chiamato Food Additive Act. Come indica il nome, tale
emendamento mira a regolamentare gli additivi alimentari come i coloranti e i
conservanti, o «qualunque sostanza il cui uso intenzionale induca, o sembri voler
indurre, sia direttamente sia indirettamente, a pensare che costituisca un
componente in grado di influire sulle caratteristiche di qualunque alimento
(comprese le sostanze usate per produrre, trasformare, condizionare [...] trattare,
imballare, trasportare o conservare i cibi)».

Secondo questa definizione, sono molte le sostanze che possono essere


considerate additivi alimentari. La loro sicurezza, quindi, deve essere
rigorosamente valutata attraverso test tossicologici che possono durare, secondo i
casi, da ventotto giorni a due anni. Rispondendo al «principio di precauzione», su
richiesta del Congresso, i test devono dimostrare che esiste una «certezza
ragionevole, secondo il giudizio di scienziati competenti, che la sostanza non è
nociva nelle condizioni d’uso previste». Sono escluse dalle categorie degli
«additivi alimentari», e quindi non sottoposte ai test, le sostanze generally
recognized as safe (GRAS), cioè «generalmente riconosciute come sicure»,
perché «usate negli alimenti prima del 1° gennaio 1958» o perché «procedure
scientifiche» non hanno rilevato in loro problemi sanitari.

«Può farmi un esempio di un additivo alimentare considerato GRAS?» chiedo


a James Maryanski.

«Certo. Per esempio alcuni enzimi di produzione alimentare, come il sale, il


pepe, l’aceto, sostanze usate da anni e di cui la comunità scientifica ha stabilito la
sicurezza... » «E su quale base la FDA ha deciso che il gene introdotto in una
pianta per manipolazione genetica è GRAS? » continuo, fissando Maryanski negli
occhi.

Eccoci al cuore del dibattito che vede schierati sostenitori e avversari degli
OGM. Infatti, mentre non erano ancora stati condotti studi scientifici per
verificarlo, la FDA ha deciso a priori che i transgèni non rientravano nella
categoria degli additivi alimentari, e che gli OGM potevano quindi essere
commercializzati senza valutazione tossicologica preliminare. Cosa ancora più
curiosa, nel momento in cui l’agenzia pubblicava la sua «regolamentazione» è
stata colta da una domanda che mostrava quanta urgenza ci fosse di... aspettare!
L’azienda biotech californiana Calgene (la stessa che aveva annunciato su Nature
di avere ottenuto un tabacco resistente al Round-up, dando del filo da torcere alla
Monsanto) aveva depositato un dossier per l’omologazione di un pomodoro
battezzato Flavr Savr, manipolato per rallentarne il processo di maturazione.

Non mi soffermerò sui pomodori manipolati per restare sodi più a lungo sugli
scaffali del supermercato. L’importante è sapere che contenevano il famoso gene
di resistenza alla kanamicina, e che i suoi inventori avevano stimato essere un
«additivo alimentare». Avevano quindi chiesto a un laboratorio (l’International
Research Development Corporation del Michigan) di condurre test tossicologici
destinati a valutare l’effetto sanitario dei pomodori transgènici sui topi. I risultati
dello studio non erano ancora noti alla FDA quando ha pubblicato la
regolamentazione.

Più tardi si scoprirà che su quaranta cavie, sette erano morte in modo
inspiegabile nel giro di due settimane, e un numero significativo aveva sviluppato
lesioni allo stomaco. Eppure l’agenzia, determinata a seguire il proprio dogma
sino in fondo, aveva dato il via libera alla Calgene il 18 maggio 1994.

Prima di tornare a James Maryanski, devo raccontare la fine di questa


(miserabile) storia. La coltivazione del pomodoro transgènico, tanto promettente
in laboratorio, si è rivelata una catastrofe: in California il rendimento è stato così
basso che i suoi inventori hanno deciso di spostare la produzione in Florida, dove
il raccolto è stato decimato da una serie di malattie. «Sono così tanti gli elementi
in grado di uccidere una pianta», spiegava uno degli orticoltori reclutati dalla
Calgene. «È tutta questione di particolari... »28

Il Flavr Savr è dunque partito per il Messico, dove i risultati si sono rivelati
scadenti, come affermava nel 2001 uno studio della FAO: «Dal 1996 i pomodori
Flavr Savr sono stati ritirati dal mercato dei prodotti freschi negli Stati Uniti»,
scrive l’organizzazione dell’ONU. «A quanto pare, la manipolazione del gene
della maturazione aveva prodotto conseguenze impreviste, come la pelle molle,
un gusto strano e cambiamenti nella composizione del pomodoro, che inoltre
costava molto di più di quello non transgènico.»29

Nel frattempo la Calgene era caduta nelle mani della Monsanto, che ha
definitivamente stroncato il pomodoro maledetto.

Il caso dell’L-triptofano: una strana epidemia mortale Avrà capìto dove volevo
arrivare? James Maryanski ha sussultato quando gli ho domandato su quali dati
scientifici si era basata la FDA per dichiarare che i transgèni erano GRAS.
«L’agenzia sosteneva che introducendo un gene in una pianta, il gene diventa
DNA... Siccome consumiamo DNA da tempo, possiamo concludere che quella
pianta è GRAS», mi risponde, cercando attentamente le parole.

«Riprendendo l’esempio della soia della Monsanto, significa che, secondo


l’agenzia, un gene proveniente da un battèrio che permette di resistere a un
erbicìda potente è a priori meno pericoloso di un agente colorante? » insisto,
osservandolo sussultare ancora di più.

«Esatto», risponde l’ex «coordinatore delle biotecnologie».

L’«argomentazione» della FDA, difesa da Maryanski, fa insorgere Michael


Hansen, che mi chiarirà le idee puntando il dito sulla questione che la Monsanto e
soci hanno sempre voluto evitare: «Attualmente anche solo una goccia
microscopica di conservante o di altro prodotto chimico è considerata ‘additivo
alimentare’, ed è quindi necessaria una serie di test per dimostrarne la ‘sicurezza
ragionevole di non nocività’.

Invece, quando si manipola geneticamente una pianta, che può generare


innumerevoli differenze nell’alimento, non si richiede nulla! In realtà il malinteso,
per non dire l’imbroglio, deriva dal fatto che la FDA ha sempre rifiutato di
valutare la tecnica di manipolazione genetica considerando solo il prodotto finale.
È partita dal principio che la biotecnologia fosse intrinsecamente neutra, ma
aveva ricevuto segnali d’allarme che avrebbero dovuto invitarla a una maggiore
prudenza».

L’esperto del Consumer Policy Institute mi racconta il drammatico caso


dell’’L-triptofano, ben documentato da Jeffrey Smith, direttore dell’Institute for
Responsible Technology, con sede a Fairfield, nell’Iowa, e strenuo oppositore
degli OGM. Sintetizzo qui i risultati della sua inchiesta.30

L’L-triptofano è un amminoacido che si trova in natura nel tacchino, nel latte,


nel lievito di birra e nel burro di arachidi. Noto perché favorisce la produzione di
serotonina, veniva prescritto sotto forma di integratore alimentare per combattere
l’insonnia, lo stress e la depressione. Alla fine degli anni Ottanta migliaia di
americani sono stati colpiti da una malattia misteriosa che verrà battezzata
«sindrome eosinofilìa-mialgìa», perché i dolori muscolari (mialgìa) erano un
sintomo comune in tutti i soggetti. Soffrivano di una serie di disturbi ricorrenti:
edemi, tosse, eruzioni cutanee, difficoltà respiratorie, indurimenti della pelle,
ulcere alla bocca, nausea, problemi alla vista e alla memoria, perdita dei capelli e
paralisi.
La strana epidemia è stata segnalata per la prima volta il 7 novembre 1989 da
Tamar Stieber, giornalista dell'Albuquerque Journal, che aveva constatato come le
vittime fossero state tutte consumate dall’L-triptofano (l’inchiesta gli varrà il
premio Pulitzer nel 1990). Quattro giorni dopo centocinquantaquattro casi sono
stati segnalati alle autorità mediche e la FDA ha chiesto al pubblico di non
consumare più l’integratore alimentare. Ma la lista delle vittime si allungava: un
primo bilancio del 1991 era di trentasette morti e millecinquecento invalidi a
vita.31 Secondo le stime fornite successivamente dal CDC, la malattia avrebbe
ucciso in tutto un centinaio di pazienti e reso disabili o paralizzati da cinquemila a
diecimila persone.

Come dice Jeffrey Smith, negli Stati Uniti l’L-triptofano era importato dal
Giappone, dove sei produttori si suddividevano il mercato. L’inchiesta delle
autorità sanitarie ha rivelato che solo il prodotto fabbricato da Shovva Denko
K.K. era legato all’epidemia. Così gli inquirenti hanno scoperto che nel 1984
l’azienda aveva modificato il processo di produzione usando la biotecnologia per
aumentare il rendimento: era stato introdotto un gene all’interno dei battèri dai
quali veniva estratta la sostanza dopo la fermentazione. Progressivamente, il
produttore ha modificato la struttura genetica, al punto che l’ultimo ceppo (Strain
V), prodotto nel dicembre 1988, conteneva cinque transgèni diversi e un grande
numero di impurità.32

Comincia allora una strana controversia sull’origine della malattia, che mirava
soprattutto a screditare l’ipotesi che fosse stata scatenata dalla manipolazione
genetica. Alcuni ricercatori hanno affermato che il problema poteva venire da un
cambiamento del filtro per purificare il prodotto, voluto dalla Shovva Denko;
invece, è stato dimostrato che quella modifica aveva avuto luogo solo nel gennaio
1989, cioè dopo l’esplosione dell’epidemia. Per altri sarebbe stato l’L-triptofano
stesso a dare problemi, ma come sottolineerà l’esperto Gerald Gleich: «Il
triptofano non c’entra, poiché gli individui che hanno consumato i prodotti
provenienti da altre aziende non hanno contratto la malattia».33 Di fatto, solo la
Shovva Denko sarà citata in giudizio, e dopo sentenze amichevoli negoziate nel
1992 risarcirà con due miliardi di dollari oltre duemila vittime.

Tuttavia, nel 1991 la FDA ha deciso di bandire definitivamente l’L-triptofano,


compreso quello prodotto in modo convenzionale. Inoltre, nei rapporti ufficiali
pubblicati da quel momento, la FDA non parla nemmeno del fatto che i ceppi
incriminati fossero transgènici...34 Eppure, alla FDA c’è un uomo che ha
considerato molto seriamente l’ipotesi che la malattia potesse essere stata
provocata dalla tecnica di manipolazione genetica: James Maryanski.
Nel settembre 1991, sei mesi prima che la FDA pubblicasse la
regolamentazione sugli OGM, secondo un documento declassificato di cui
conservo preziosamente una copia, Maryanski ha riportato ciò che ha raccontato
ai rappresentanti del GAO «su loro richiesta»: «Volevano discutere dei problemi
legati agli alimenti transgènici nell’ambito degli studi che stavano conducendo
sulle nuove tecnologie», scrive. «Mi hanno interrogato sull’L-triptofano e sulla
possibilità che la manipolazione genetica fosse coinvolta. Ho detto loro che [... ]
non sappiamo quale sia la causa dell’eosinofilìa-mialgìa, ma che non possiamo
escludere che sia dovuta alla manipolazione dell’organismo.»36

Quando incontro l’ex quadro della FDA, nel luglio 2006, non sa che conosco
questo documento. «La FDA si era concentrata sulla manipolazione genetica, ma
non aveva informazioni sul fatto che la tecnica stessa potesse creare prodotti
diversi in termini di qualità o di sicurezza», mi spiega con tono sicuro.

«Si ricorda che cos’è successo con l’L-triptofano nel 1989?» domando con una
certa apprensione.

«Sì...» «Era un amminoacido geneticamente modificato. Conosciamo alla


perfezione gli amminoacìdi... » «Esatto...» «Ha provocato l’epidemia di una
malattia sconosciuta, l’eosinofilìa-mialgìa...» «È vero...» ammette James
Maryanski, improvvisamente sopraffatto da tic nervosi.

«Quante persone sono morte?» «In effetti, abbiamo molti...» «Almeno


trentasette... Per non contare i mille disabili», continuo*

«Si ricorda?» «Certo...» «Secondo un documento declassificato della FDA, lei


avrebbe detto: ‘Non sappiamo quale sia la causa dell’eosinofilìa-mialgìa, ma non
possiamo escludere che sia dovuta alla manipolazione dell’organismo’. Ha
davvero pronunciato queste parole?» «Sì...» Tuttavia, sei mesi dopo la
dichiarazione ai rappresentanti del GAO, James Maryanski non esiterà a firmare il
testo della FDA che omologava gli OGM, che fra le altre cose diceva: «L’agenzia
non ha mai ricevuto informazioni a dimostrazione del fatto che gli alimenti
derivati dai nuovi metodi differiscano dagli altri in modo significativo o uniforme,
né che gli alimenti derivati dalle nuove tecniche siano oggetto di inquietudini
nuove o maggiori in tema di sicurezza rispetto a quelli creati dagli incroci
tradizionali».36

Allora ignoravo che le cifre fornite dalla prima stima delle vittime fossero ben
inferiori alla realtà.
Al di là della «cecità» della FDA, il caso dell’L-triptofano è esemplare per
diversi motivi. Come sottolinea Jeffrey Smith nel suo libro Genette Roulette, «ci
sono voluti anni per identificare l’epidemia. Se alla fine è stata scoperta, è solo
perché riguardava una malattia rara, grave, che insorgeva rapidamente e con
un’unica fonte. Se una di queste quattro caratteristiche fosse stata assente,
l’epidemia avrebbe potuto non essere mai scoperta. Allo stesso modo, se certi
ingredienti contenuti negli alimenti transgènici creassero effetti secondari, i
problemi e la loro fonte potrebbero non essere mai individuati».37

Vedremo che, contrariamente a ciò che afferma Maryanski, gli scienziati della
FDA erano perfettamente consapevoli delle incognite e dei rischi legati alla
biotecnologia e agli OGM, ma l’agenzia ha preferito ignorarne gli avvertimenti.
8. Scienziati messi a tacere

«La composizione dei semi di soia resistenti al glifosato è equivalente a quella


dei semi di soia convenzionali» Titolo di uno studio pubblicato dalla Monsanto su
The Journal of Nutrition nell’aprile 1996.

«Quando abbiamo terminato di scrivere la regolamentazione [relativa agli


OGM], tutti gli scienziati dell’agenzia erano d’accordo sul testo», mi dice James
Maryanski con improvvisa calma.

«Vuole dire che c’era un consenso generale sul principio di equivalenza


sostanziale?» «Ehm... In ogni caso, la decisione finale dell’agenzia ha tenuto
conto di tutti i pareri espressi sul modo di procedere... » Niente consensi alla FDA

Bisogna dire che James Maryanski non ha fortuna. La sera prima del nostro
incontro avevo visitato il sito Web dell’Alliance for Bio-Integrity,'
un’organizzazione non governativa con sede a Fairfield, nell’Iowa. Diretta
dall’avvocato Steven Druker, l’ONG ha denunciato la FDA per violazione del
Food Drug and Cosmetic Act.2 La citazione in giudizio da parte di scienziati,
personalità religiose e consumatori è stata depositata nel maggio 1998 presso il
tribunale federale di Washington,3 in collaborazione con il Center for Food Safety
(CFS), una ONG creata nel 1997. Corn’era prevedibile, le accuse sono state
respinte nell’ottobre 2000 per mancanza di prove del fatto che la
regolamentazione della FDA costituisse una violazione deliberata della legge
federale.4

Nonostante il fallimento giudiziario, la querela ha permesso di ottenere la


declassificazione di circa quarantamila pagine di documenti interni della FDA
relativi agli OGM. Il minimo da dire è che questa miniera di testi e comunicazioni
dipinge un quadro poco brillante del modo in cui l’agenzia ha trattato questo
delicato dossier. Il suo compito, lo ricordo, è di tutelare la salute dei consumatori
americani. In un documento del gennaio 1993 i suoi rappresentanti riconoscono
che, in conformità con la politica governativa, il loro obiettivo era di
«promuovere» l’industria della biotecnologia degli Stati Uniti.5 Ma il clou di
questo ammasso di informazioni sono i resoconti redatti dagli scienziati
dell’agenzia, che dovevano esprimere la propria opinione sulla bozza di
regolamentazione a loro sottoposta. L’Alliance for Bio-Integrity ha avuto la buona
idea di mettere on-line questi documenti,6 un certo numero dei quali sono
indirizzati al «coordinatore delle biotecnologie».

Così il 1° novembre 1991 James Maryanski riceve un documento redatto dalla


divisione di chimica e tecnologia alimentare, che sottolinea tutti gli «effetti
indesiderati» prodotti dalla tecnica di manipolazione genetica, come il «livello
anomalo di sostanze tossiche che si riproducono naturalmente, la comparsa di
sostanze tossiche non identificate, la maggiore capacità di accumulare sostanze
provenienti dall’ambiente (come pesticìdi o metalli pesanti) e un’alterazione non
desiderabile dei livelli di nutrienti».7

Inoltre, il 31 gennaio 1992 Samuel Shibko, del dipartimento tossicologico


della FDA, scrive: «Non possiamo garantire che tutti i prodotti transgènici, e in
particolare quelli che contengono geni provenienti da fonti non alimentari, siano
digeribili. Per esempio, è dimostrato che alcuni tipi di proteìne resistono alla
digestione e possono essere assorbite in una forma biologicamente attiva».8

Qualche giorno dopo tocca al dottor Gerald Guest, direttore del CVM, dare
l’allarme: «In risposta alla sua domanda sul modo in cui l’agenzia dovrebbe
regolamentare le piante alimentari transgèniche, ho concluso, insieme con altri
scienziati del CVM, che è scientificamente giustificato pretenderne una
valutazione prima della commercializzazione. [... ] La FDA si troverà ad
affrontare costituenti vegetali che possono rivelarsi preoccupanti dal punto di
vista tossicologico e ambientale».9

Quanto al dottor Louis Pribyl, del gruppo dei microbiologi della FDA, rifiuta
l’argomentazione regolarmente offerta dai promotori della biotecnologia: «C’è
una profonda differenza fra il tipo di effetti inattesi provocati dagli incroci
tradizionali [delle piante] e quelli generati dalla biotecnologia, cosa che questo
documento sembra ignorare. Certi aspetti dell’inserimento genetico [... ] possono
essere più pericolosi della selezione genealogica».10

Sono molti gli esempi che mostrano come tutti i dipartimenti della FDA,
qualunque sia la loro specialità, esprimano vive inquietudini riguardo alle
incognite sanitarie che caratterizzano, ai loro occhi, il processo di manipolazione
genetica. Contrariamente a ciò che oggi afferma James Maryanski, non c’erano
consensi sulla regolamentazione degli OGM proposta dalla FDA, nemmeno
qualche mese prima della sua pubblicazione. Del resto, purtroppo per l’ex
«coordinatore», lui stesso l’ha ammesso in un messaggio inviato il 23 ottobre
1991 al dottor Bill Murray, presidente del Food Directorate: «Attualmente non c’è
un particolare accordo [alla FDA] sulla necessità di condurre test tossicologici.
[...] Il fatto che certe sostanze siano potenzialmente in grado di causare reazioni
allergiche è difficile da stimare».11

Quando incontro James Maryanski gli leggo un messaggio da lui stesso


indirizzato l’8 gennaio 1992 alla dottoressa Linda Kahl, che aveva il compito di
sintetizzare le opinioni dei colleghi sul progetto della direttiva. «Il documento
cerca di forzare una conclusione definitiva secondo cui non c’è differenza fra gli
alimenti manipolati geneticamente e quelli modificati con metodi tradizionali»,
scrive la dottoressa. «Ciò si spiega con l’obiettivo di regolamentare il prodotto e
non il processo [corsivo mio].» Poi aggiunge che tale obiettivo è simile a una
«dottrina»: «I processi di manipolazione genetica e di incrocio tradizionale sono
diversi e, secondo gli esperti dell’agenzia, portano a rischi diversi [corsivo
mio]».12

«Che cos’ha risposto a Linda Kahl?» domando a James Maryanski, 183 che ha
una strana espressione in volto da quando ho cominciato a leggere il documento.

«Il mio lavoro era consultare tutti gli scienziati... perché applicassero la propria
esperienza alle questioni che dovevamo regolare», biascica visibilmente. «Non
sono stato io a prendere la decisione finale, ma il commissario della FDA, il
dottor David Kessler... » «Certo», continuo, «ma la dottoressa Linda Kahl le
poneva una domanda molto precisa: ‘Viene richiesto agli esperti scienziati di
fornire le basi per una regolamentazione in assenza di qualunque dato scientifico
[corsivo mio]?’. Che cosa le ha risposto?» «Beh, eravamo all’inizio del processo
di consultazione... » «Non mi sembra: Linda Kahl le ha scritto nel gennaio 1992,
quattro mesi prima della pubblicazione della direttiva. Non vedo come la FDA
avrebbe potuto ottenere dati scientifici in così poco tempo... » «Certo, ma la
direttiva è stata concepita per guidare l’industria indicandole il genere di test da
effettuare... » Il «mito della regolamentazione» In realtà, come ammette James
Maryanski, il testo pubblicato dalla FDA non costituisce affatto una
«regolamentazione», poiché il suo obiettivo è innanzitutto quello di giustificare
perché gli OGM non saranno regolamentati. Si tratta invece di una semplice
«direttiva» per orientare le aziende e fornire loro «linee guida» in caso di bisogno.
Del resto, tutto ciò è contenuto chiaramente nell’ultima sezione del testo, che
prevede un dispositivo di «consultazione volontaria», se le aziende lo desiderano:
«I produttori possono consultare in modo informale la FDA su questioni
scientifiche o sul concepimento di protocolli appropriati per i vari test, quando la
funzione della proteìna solleva inquietudini o è sconosciuta, o quando la proteìna
è nota per la sua tossicità. La FDA determinerà, caso per caso, se mettere in atto la
disposizione relativa agli additivi alimentari».13
Questo indigna profondamente Joseph Mendelson, direttore giuridico del CFS,
che incontro nel luglio 2006 a Washington: «In realtà», mi spiega, «la salute dei
consumatori americani dipende dalla buona volontà delle imprese biotech, che
possono decidere, al di fuori di qualunque controllo governativo, se i loro prodotti
OGM sono sicuri o meno, cosa che nella storia degli Stati Uniti è del tutto inedita!
La direttiva è stata redatta perché l’industria biotecnologica possa conservare il
mito secondo cui gli OGM sono regolamentati, ma è completamente falso. Nel
frattempo il Paese si è trasformato in un immenso laboratorio in cui prodotti
parzialmente pericolosi sono liberi da dieci anni senza che il consumatore abbia la
possibilità di scegliere, perché in nome del principio di equivalenza sostanziale
l’etichettatura degli OGM è vietata, e inoltre non viene effettuato alcun
monitoraggio».

Nel marzo 2000, basandosi sui vari sondaggi secondo cui più dell’80 per cento
degli americani preferiva che gli alimenti transgènici fossero etichettati,14 e il 60
per cento dichiarava che li avrebbe evitati se avesse avuto possibilità di
scegliere,16 il CFS ha indirizzato una «petizione cittadina» alla FDA, chiedendole
di rivedere la sua politica in materia di OGM, perché siano obbligatoriamente
valutati prima di essere commercializzati, e con tanto di etichetta.16 Di fronte al
silenzio dell’agenzia, il CFS ha fatto causa nella primavera del 2006. «Non ci
arrenderemo», mi spiega Joseph Mendelson, «tanto più che il dispositivo di
consulenza volontaria messo in atto dalla FDA non funziona.» L’avvocato mi
mostra uno studio realizzato dal dottor Douglas GurianSherman, ex scienziato
della FDA che ha lavorato alla valutazione delle piante transgèniche prima di
raggiungere il Center for Science in the Public Interest di Washington.17 Gurian-
Sherman è riuscito a procurarsi quattordici dossier di «consulenza volontaria»
sottoposti alla FDA dalle aziende biotecnologiche fra il 1994 e il 2001 (su un
totale di cinquantatré), cinque dei quali riguardavano la Monsanto. Ha constatato
che, per sei di questi, la FDA aveva chiesto ai produttori di fornire dati
supplementari perché l’agenzia potesse valutare in modo completo la sicurezza
dei prodotti. «In tre casi (cioè uno su due) la richiesta della FDA è stata ignorata o
rifiutata dall’azienda», sottolinea l’avvocato. Di questi tre casi, due riguardavano
mais transgènici della Monsanto, fra cui il famoso MON

810, di cui riparlerò più avanti. L’azienda di Saint Louis non ha mai fornito
alla FDA le informazioni complementari che le aveva richiesto per poter
concludere che i mais OGM fossero equivalenti nella sostanza agli omologhi
convenzionali. L’agenzia non ha potuto fare niente, perché la direttiva - ecco la
differenza con una regolamentazione vera e propria non conferisce «alcuna
autorità per esigere dai produttori dati supplementari, a meno che decida di
valutare la pianta transgènica come additivo alimentare.» Una decisione che ha
preso una sola volta, come abbiamo visto, con il pomodoro Flavr Savr, dietro
richiesta della Calgene. Un documento declassificato mostra che non cambia
molto, e che nonostante i risultati dei test tossicologici l’agenzia ha omologato il
prodotto transgènico. Il 16 giugno 1993, infatti, il dottor Fred Hines inviava alla
dottoressa Linda Kahl un messaggio sui tre test tossicologici condotti su topi
alimentati con pomodori transgènici per ventotto giorni. «Nel secondo studio sono
state individuate lesioni consistenti allo stomaco in quattro delle venti femmine»,
scriveva. «Ma il laboratorio ha concluso che quelle lesioni erano di natura
circostanziale. [...] I criteri che permettono di qualificare una lesione come
‘circostanziale’ non sono stati forniti dal rapporto del produttore.»18 Un anno
dopo, tuttavia, la FDA dava il via libera al pomodoro a maturazione rallentata...

Inoltre, Douglas Gurian-Sherman ha esaminato i «sunti di dati» forniti dalle


aziende alla FDA per la loro «consulenza volontaria», e ha constatato che in tre
casi su quattordici contenevano «errori grossolani» non individuati dagli
scienziati dell’agenzia durante l’esame. Questo punto è molto importante, perché
sottolinea l’imperfezione, per usare un termine cortese, del processo di
omologazione dei prodotti alimentari o chimici, così come viene praticato in tutto
il mondo: è rarissimo che le aziende forniscano i dati bruti dei test che hanno
realizzato; di solito si limitano a redigere un «sunto» che talvolta gli esaminatori
arrivano persino a sorvolare... Come afferma il dottor Gurian-Sherman, «più i dati
sono succinti e poco dettagliati, più è il produttore a determinare se la pianta è
sicura e, viceversa, più la FDA dipende dal giudizio del produttore».

Allo stesso modo, lo scienziato ha analizzato la qualità dei test condotti dai
produttori e il suo bilancio non è meno inquietante: ha constatato che certi
parametri sanitari fondamentali venivano regolarmente tralasciati, come la
tossicità o il potenziale allergène delle proteìne presenti nelle piante transgèniche.

Infine Gurian-Sherman evoca un ultimo punto di natura più tecnica, ma di


capitale importanza, perché nega la validità di tutti i test tossicologici condotti
sugli OGM, soprattutto quelli della Monsanto: in generale, per misurare la
tossicità e il potenziale allergico delle proteìne prodotte nella pianta dal gene
inserito, le aziende non usano le proteìne così come si esprimono nella pianta
manipolata, ma quelle esistenti nel battèrio d’origine, cioè prima che il gene
prodotto da quest’ultimo vi sia trasferito. Ufficialmente, se procedono così è
perché è difficile prelevare dalla pianta una quantità sufficiente di proteìna
transgènica pura, a differenza del battèrio che, invece, può produrre quanta
proteìna si vuole.

Per alcuni scienziati questa pratica è solo un modo per nascondere una realtà
che un’azienda come la Monsanto si è sempre impegnata a negare, cioè che i geni
inseriti, e quindi le proteìne che producono, non sono affatto identici ai geni e alle
proteìne d’origine, tanto che l’inserimento alla cieca provoca la comparsa di
proteìne sconosciute. Il dottor Gurian-Sherman conclude che se «le proteìne
prodotte dai battèri non sono identiche alle proteìne transgèniche della pianta,
nemmeno gli effetti sanitari sono gli stessi».

Gli «immancabili James Maryanski e Michael Taylor» Mentre gli scienziati


della FDA esprimevano il proprio disaccordo sul progetto della direttiva, il testo
era praticamente già stato pubblicato il 29 maggio 1992. Due mesi prima, per
l’esattezza il 20 marzo 1992, il commissario David Kessler inviava un
promemoria assai strano al suo segretario della tutela, per chiedergli
l’autorizzazione a pubblicare la direttiva nel Federal Register: «Le nuove
tecnologie forniscono ai produttori strumenti potenti e precisi che permettono di
introdurre caratteristiche migliori nelle piante alimentari, cosa che comporterà
progressi negli alimenti a beneficio degli agricoltori, degli industriali
dell’agroalimentare e dei consumatori. Le aziende sono ormai pronte a
commercializzare alcuni di questi nuovi prodotti. Tuttavia, hanno bisogno di
sapere come saranno regolamentati, non solo perché siano informate sul modo in
cui il governo eserciterà il proprio controllo, ma anche per aiutarle a guadagnarsi
l’approvazione dei consumatori. [... ] Inoltre, il gruppo di lavoro sulla
biotecnologia del Consiglio della competitività vuole che la direttiva sia
pubblicata il prima possibile. [... ] Le linee guida della direttiva [... ] rispondono
all’interesse della Casa Bianca di garantire uno sviluppo rapido e sicuro della
biotecnologia negli Stati Uniti».

Il messaggio del commissario della FDA termina con l’accenno a una


«possibile controversia», alimentata da «gruppi di difesa dell’ambiente», fra cui
quello di Jeremy Rifkin che, dice Kessler, non mancheranno di «criticare la nostra
direttiva perché lascia troppo potere decisionale nelle mani dell’industria e non
fornisce informazioni adeguate ai consumatori». Infine una copia del testo viene
allegata al messaggio, con due indicazioni interessanti: «Bozza: J. Maryanski.
Revisione: M. Taylor».
«Questo documento è la prova che la direttiva della FDA sugli OGM non è
stata redatta per tutelare la sanità degli americani, ma per soddisfare un disegno
strettamente industriale e commerciale», afferma Steven Druker, avvocato
dell’Alliance for Bio-Integrity. «Per raggiungere il proprio obiettivo, il governo
americano non ha mai smesso di mentire ai propri cittadini, ma anche al resto del
mondo, fingendo che il principio di equivalenza sostanziale fosse sostenuto da un
largo consenso all’interno della comunità scientifica, così come da numerosi dati
scientifici: due grandi menzogne! Questa campagna di disinformazione criminale,
decisa ai livelli più alti con la complicità della Monsanto, è stata attuata dagli
immancabili James Maryanski e Michael Taylor.» «Qual era l’esatta funzione di
Maryanski?» domando, leggermente scossa dalle parole appena sentite.

«Era suo compito diffondere la buona novella transgènica all’interno, ma


anche all’esterno, dell’agenzia. L’ho incrociato più volte e mai l’ho sentito
ricorrere alla burocrazia, nemmeno di fronte ai rappresentanti politici.» Mentre la
querela depositata dall’Alliance for Bio-Integrity pone qualche problema, James
Maryanski è invitato a testimoniare di fronte al Comitato senatoriale
dell’agricoltura, degli alimenti e della foresta il 7 ottobre 1999. Dopo avere a
lungo spiegato i fondamenti della direttiva della FDA ha concluso: «Signor
presidente, la FDA prende molto sul serio il compito di tutelare i consumatori
degli Stati Uniti e di garantire che il sistema di approvvigionamento degli alimenti
sia tra i più sicuri al mondo. [... ] Siamo convinti che il nostro metodo sia
adeguato. Permette a noi di garantire la sicurezza dei nuovi prodotti alimentari e
ai produttori di realizzarne di migliori, fornendo allo stesso tempo la possibilità di
scelta ai consumatori».

«L’altro compito di Maryanski era accordare le voci all’interno della FDA e, in


caso di necessità, smorzare i toni dei dissidenti con il sostegno di Michael
Taylor», continua Steven Druker, che mi mostra un altro documento declassificato
messo on-line dalla sua organizzazione. Si tratta di un messaggio indirizzato il 7
ottobre 1991 dal «coordinatore delle biotecnologie» al «vicecommissario
responsabile della regolamentazione»: «Vi suggerisco di discutere i vostri
obiettivi [corsivo mio] sulla regolamentazione degli alimenti transgènici con il
dottor Guest del CVM prima della fine dell’anno. La maggior parte delle piante
sviluppate dalla nuova tecnologia saranno anche usate come foraggio per gli
animali. [... ] Penso che il CVM sarà felice di sentire il vostro punto di vista».19
Maryanski invia apertamente Michael Taylor al fronte, per placare la rivolta che
cova al CVM, di cui il direttore generale Gerald Guest parlerà in un messaggio
che ho già citato in precedenza. Da questo documento emerge inoltre che è
Michael Taylor, l’ex avvocato della Monsanto, a determinare gli obiettivi della
«regolamentazione» allora in corso di redazione.

«Michael Taylor era l’uomo della Monsanto all’interno della FDA, che, lo
ricordo, è stato reclutato per inquadrare la regolamentazione degli OGM», mi
spiega Steven Druker. «I documenti declassificati rivelano che Taylor si è dato da
fare per svuotare la direttiva di sostanza scientifica, provocando un forte
malcontento da parte degli agenti.» In occasione della nostra lunga conversazione
telefonica (registrata), l’ex vicepresidente della Monsanto ha negato
ostinatamente qualunque implicazione diretta nell’elaborazione della direttiva:
«Non è vero, non sono io l’autore di quella direttiva», mi ha garantito Michael
Taylor. «Ero il vicecommissario, cioè la persona che faceva da supervisore al
processo, ma la direttiva è stata redatta dai professionisti dell’agenzia... che si
sono basati sulla legge e sulla scienza.» Quando riferisco queste parole a Michael
Hansen, salta letteralmente in piedi per prendere un documento pubblicato nel
1990 dall’International Food Biotechnology Committee (IFBiC). Questo effimero
organismo è stato creato nel 1988 dallI’nternational Life Sciences Institute (ILSI),
noto a tutti i militanti del movimento anti OGM. L’ILSI, fondato nel 1978 dai
grandi dell’industria agroalimentare - la Fondazione Heinz, Coca-Cola, Pepsi-
Cola, General Foods, Kraft (che appartiene a Philip Morris) e Procter & Gamble
-, si presenta come un’«organizzazione non governativa» che riunisce una «rete
internazionale di scienziati dediti al progresso delle conoscenze scientifiche per le
menti decisionali della sanità pubblica», come si legge sul suo sito Web.20 Come
rivelerà nel 2003 il quotidiano britannico The Guardian,21 l’organismo è stato
introdotto nell’OMS e nella FAO, due istituzioni dell’ONU in cui si sono
verificati episodi di lobbying a favore degli OGM, attraverso il testo che Hansen
mi ha mostrato.22

«Le ricordo che Michael Taylor è arrivato alla FDA nel luglio 1991», mi
spiega Hansen. «Fino ad allora aveva lavorato nello studio legale King &
Spalding. Fra i suoi clienti c’erano non solo la Monsanto, ma anche l’IFBiC.
Taylor ha scritto per l’IFBiC un documento che descriveva il modo in cui
dovevano essere regolati gli OGM secondo la FDA. Paragonando la proposta di
Taylor a quel comitato e il testo pubblicato dalla FDA si notano parecchie
somiglianze. Se non è lui l’autore della direttiva, allora qualcuno ha preso il suo
documento e l’ha modificato leggermente prima di pubblicarlo.» Il testo
«anonimo» dellTFBiC, stranamente introvabile sul Web, è del resto il primo
«riferimento» citato dalla direttiva della FDA negli allegati.23
«Ancora una volta non è vero», insiste da parte sua Michael Taylor, «non ho
niente a che vedere con tutto ciò, perché non sono uno scienziato... Dovrebbe
parlare con James Maryanski e con tutti quelli che hanno elaborato la direttiva
della FDA.» Evidentemente, l’ex numero due dell’agenzia non poteva
immaginare che sarei riuscita a intervistare il suo collega «coordinatore delle
biotecnologie», che fatica a sbarazzarsi di questa nuova patata bollente:
«All’epoca Michael Taylor era vicecommissario, ed era lui a dirigere il progetto.
Era il capo della regolamentazione, incaricato di fare in modo che tutto fosse
portato a termine», ammette a fatica James Maryanski.

«Lei sapeva che Taylor aveva lavorato come avvocato per la Monsanto?» gli
domando.

«Beh... Sì, penso di avere saputo che era stato alla... Monsanto», risponde con
un fantastico lapsus. «Ma capita spesso che arrivino persone dall’esterno e che
siano nominate commissari o vicecommissari... » «Che ruolo ha avuto la
Monsanto all’interno dell’agenzia?» «Ehm... La Monsanto è stata molto attiva e
anche molto utile alla FDA... nel senso che l’azienda ci ha aiutati a capire che
cosa davvero significasse applicare la biotecnologia alle colture alimentari...
Ricordo riunioni in cui gli scienziati dell’azienda incontravano quelli della FDA.

Parlavano di modificazioni provocate dai loro interventi e ci chiedevano come


avremmo regolamentato i loro prodotti.» Il campione delle porte girevoli «Pensa
sia stato un complotto?» chiedo a Jeffrey Smith quando lo incontro a Fairfield,
nell’ottobre 2006, e la domanda lo fa riflettere a lungo.

Conosco quel silenzio, perché ha segnato la maggior parte delle mie interviste
con chi ha osato denunciare le procedure dell’azienda di Saint Louis, sempre
pronta a brandire la minaccia di un processo costosissimo per far tacere gli
impenitenti. Jeffrey Smith ha dovuto pubblicare i propri libri da sé, perché nessun
editore era disposto ad affrontare la Monsanto. Ogni parola, quindi, deve essere
minuziosamente soppesata prima di essere lanciata nell’arena pubblica, principio
che ha guidato anche me nella redazione di questo libro.

«La parola ‘complotto’ è forse troppo forte», mi risponde infine Jeffrey Smith.
«Ma dal punto di vista dell’azienda diciamo che si trattava di una presa di potere
senza rischi di fallimento, grazie alle sue grandi abilità e alla capacità di
infiltrazione in tutte le macchine decisionali del Paese.» Fra queste «grandi
abilità» c’erano i contributi finanziari, perfettamente legali, della Monsanto alle
campagne elettorali dei grandi partiti. Secondo i dati forniti dalla Commissione
federale elettorale, nel 1994 l’azienda di Saint Louis ha versato 268.732 dollari,
equamente suddivisi tra democratici (allora al potere) e repubblicani. Nel 1998 la
somma ammontava a 198.955 dollari, di cui oltre i due terzi per i repubblicani.
Due anni dopo il partito di George W. Bush riceveva 953.660 dollari, contro i
221.060 di quello di Al Gore. Infine, nel 2002, mentre la Casa Bianca lanciava la
crociata contro il «terrorismo internazionale», il partito repubblicano incassava
1.211.908 dollari, contro i 322.028 del partito democratico. Invece, le spese di
lobbying del leader degli OGM sono ufficialmente ammontate a 21 milioni di
dollari fra il 1998 e il 2001, con un record di 7,8 milioni di dollari nel 2000, anno
in cui è stato eletto Bush*

Forse più determinante di queste spese «politiche» - tutto sommato abbastanza


modeste rispetto alla norma americana - è la «capacità di infiltrazione»
dell’azienda, indice di un sistema rodato, già intravisto con l’ormone della
crescita bovina: quello delle porte girevoli, di cui «la Monsanto è il campione
nazionale», secondo Jeffrey Smith. «Prenda l’amministrazione di George W.
Bush», mi spiega con in mano una lista di alcune pagine. «Quattro dipartimenti
importanti sono guidati da soggetti vicini alla Monsanto, o perché hanno ricevuto
sussidi dall’azienda o perché ci hanno lavorato direttamente: John Ashcroft,
segretario della Giustizia, è stato sponsorizzato dalla Monsanto perché venisse
rieletto nello Stato del Missouri, così come Tommy Thompson, segretario della
Sanità Per gli anni 2000, 2001 e 2002, le spese comprendono anche la lobbying di
Pharmacia che ha acquistato la Monsanto nel 2000, per poi liberarsene nel 2002.
Questi dati possono essere consultati sul sito di Capital Eye: capitaleye.org.

(da cui dipende la FDA); Ann Venneman, segretario dell’Agricoltura, dirigeva


la Calgene, che apparteneva alla Monsanto; Donald Rumsfeld, segretario alla
Difesa, era l’amministratore delegato della Searle, una divisione della Monsanto;
senza dimenticare Clarence Thomas, avvocato della Monsanto prima di essere
nominato giudice della Corte suprema!» Sull’elenco di Jeffrey Smith, in parte
reperibile su Internet,24 si scopre che le porte girano almeno in quattro sensi.
Innanzitutto dalla Casa Bianca verso la Monsanto. Infatti, Marcia Hale, ex
assistente del presidente Clinton e direttrice degli affari intergovernativi, è stata
nominata nel 1997 direttrice degli affari governativi internazionali della
Monsanto; stessa cosa per il suo collega Josh King, ex direttore della produzione
evenemenziale della Casa Bianca, che ha proseguìto la carriera come direttore
della comunicazione internazionale nell’ufficio dell’azienda a Washington;
Michael Kantor, segretario del Commercio dal 1996 al 1997, è stato eletto, subito
dopo, membro del consiglio d’amministrazione dell’azienda; e così via.
Una seconda passerella è quella degli ex membri del Congresso o dei loro
stretti collaboratori diventati lobbisti dell’azienda, debitamente registrati come tali
presso organismi governativi: è il caso di Toby Moffet, ex deputato democratico
diventato «stratega politico» della Monsanto; o di Ellen Boyle e John Orlando,
che lavoravano per politici eletti e reclutati in seguito come «lobbisti».

Le porte girano con assiduità anche dalle agenzie di regolamentazione verso


l’azienda di Saint Louis: abbiamo già visto che nel 1995 Linda Fisher era stata
nominata vicepresidente della Monsanto (responsabile degli affari governativi)
dopo avere lavorato come vicecommissario presso l’EPA, e che William
Ruckelshaus, ex dirigente dell’agenzia da maggio 1983 a gennaio 1985, aveva
raggiunto il consiglio d’amministrazione dell’azienda; allo stesso modo, Michael
Friedman, ex numero due dell’EPA, era stato reclutato dalla Searle, la divisione
farmaceutica della Monsanto.

Ma le porte girano ancora di più nell’altro senso, cioè dalla Monsanto verso le
agenzie governative o le organizzazioni intergovernative: nel 1989 Margaret
Miller era passata dai laboratori dell’azienda alla FDA, mentre la sua collega
Lidia Watrud entrava nell’EPA; Virginia Meldon, ex responsabile delle pubbliche
relazioni dell’azienda, è stata reclutata dall’amministrazione Clinton; più di
recente Rufus Yerxa, ex consulente giuridico dell’azienda, è stato designato,
nell’agosto 2002, rappresentante degli Stati Uniti all’interno dell’Organizzazione
mondiale del commercio (OMC), mentre Martha Scott Poindexter è stata
nominata, nel gennaio 2005, membro del Comitato senatoriale per l’agricoltura,
l’alimentazione e la foresta, dopo avere diretto gli affari governativi dell’ufficio
della Monsanto di Washington; senza dimenticare Robert Fraley, uno degli
«inventori» della soia Round-up Ready, divenuto vicepresidente della Monsanto e
nominato consulente tecnico dell’USDA. Ma la lista non finisce qui.

Dan Glickman: «Ho subito molte pressioni» «Il sistema delle porte girevoli
non riguarda solo l’agricoltura, ma esiste in molti altri campi, come la finanza e la
sanità.» Queste parole non vengono da un militante radicale contro gli OGM, ma
da Dan Glickman, segretario dell’Agricoltura con Bill Clinton da marzo 1995 a
gennaio 2001, che intervisto il 17 luglio 2006 a Washington. Noto per essere stato
un discepolo convinto della biotecnologia, Glickman è un habitué dell’USDA,
perché prima di diventarne segretario ha rappresentato per diciotto anni lo Stato
rurale del Kansas al Congresso, di cui ha diretto la commissione agricola.

Quando arriva in questo strategico dipartimento, che allora disponeva di un


budget annuale di settanta miliardi di dollari e impiegava oltre centomila
dipendenti in tutto il Paese, l’atmosfera è molto cambiata da quando è stato
creato, nel 1862, dal presidente Abraham Lincoln, che lo chiamava «dipartimento
del popolo», perché doveva essere al servizio degli agricoltori e delle loro
famiglie, cioè del 50 per cento della popolazione. Centoquarant’anni più tardi i
suoi (numerosi) detrattori lo chiamano «dipartimento dell’Agrobusiness» o
«USDA Inc.», perché gli viene rimproverato di fare gli interèssi degli industriali
che controllano la produzione, la trasformazione e la distribuzione degli alimenti.
«I dirigenti legati all’industria hanno contribuito a sviluppare politiche che
minacciano la vera missione dell’USDA, a vantaggio di una manciata di aziende
economicamente potenti», scriveva nel 2004 Philip Mattera.25

A sostegno delle proprie convinzioni, l’ex giornalista economico, che allora


lavorava per l’organizzazione Good Jobs First di Washington, faceva l’esempio
della biotecnologia, di cui l’USDA, scriveva, era diventato uno dei più ferventi
promotori. Questo orientamento, inaugurato durante la presidenza di Bush padre,
è continuato sotto l’amministrazione democratica di Bill Clinton, il cui direttore
di campagna elettorale era Michael Kantor, che nel 1996 diverrà suo segretario
del Commercio, prima di entrare, come abbiamo visto, nel consiglio
d’amministrazione della Monsanto. Nel 1999 l’intransigente rappresentante del
commercio americano è diventato famoso per i commenti poco ameni e per le
minacce proferite contro i partner europei, che avevano annunciato l’intenzione di
etichettare i prodotti OGM. Su questo terreno il migliore alleato era quindi Dan
Glickman.

Allora presentato dal St. Louis Post-Dispatch come «uno dei più grandi
campioni della biotecnologia, che ammonisce gli europei affinché non intralcino
la strada del progresso»,26 il segretario dell’Agricoltura di Clinton credeva nei
vantaggi della manipolazione genetica: «La biotecnologia rappresenta un enorme
potenziale per i consumatori, gli agricoltori e i milioni di persone affamate e
denutrite dei Paesi in via di sviluppo», dichiarava nell’aprile 2000 in un discorso
al Council for the Biotechnology Information.27 In occasione del summit
mondiale dell’alimentazione, che si è tenuto nel novembre 1996 a Roma sotto
l’egida della FAO, il suo entusiasmo gli ha fatto vivere un’esperienza che l’ha
profondamente traumatizzato. Mentre i governi si impegnavano a dimezzare il
numero di persone denutrite entro il 2015, il rappresentante americano ha tenuto
una conferenza stampa. Alcuni militanti di Greenpeace, che si erano procurati
falsi accrediti da giornalisti, si alzano, si spogliano ed esibiscono il proprio corpo
nudo coperto di slogan anti OGM, bombardando allo stesso tempo il segretario
americano di semi di soia Round-up Ready.
Dan Glickman, giunto al dipartimento dell’Agricoltura dopo la
commercializzazione della soia transgènica della Monsanto, è stato l’uomo che ha
autorizzato la coltivazione di tutti gli altri OGM. Quando lo incontro, nel luglio
2006, ha cambiato totalmente mansione, essendo stato nominato, nel settembre
2004, amministratore delegato della Motion Picture Association of America, che
raggruppa i sei grandi del cinema di Hollyvvood, come la Buena Vista Pictures
Distribution (Walt Disney) e la 20th Century Fox. Ho voluto intervistarlo per la
funzione che occupava nell’amministrazione Clinton, ma anche per ciò che aveva
dichiarato al Los Angeles Times il 1° luglio 2001: «Gli incaricati della
regolamentazione si consideravano difensori della biotecnologia. La
consideravano la scienza del futuro, e chi non era d’accordo era visto come un
luddista» *

«Perché ha detto questa cosa?» gli ho domandato dopo avergli letto la


citazione.

«Quando sono diventato segretario dell’Agricoltura [nel 1995], l’atmosfera che


circondava la regolamentazione era per lo più orientata verso l’omologazione
delle colture transgèniche, con lo scopo di facilitare il trasferimento di tecnologia
nell’agricoltura del Paese e favorire così le esportazioni. Nell’agroalimentare e nel
governo degli Stati Uniti regnava un consenso generale: se non acconsentivi al
rapido sviluppo della biotecnologia e delle colture OGM venivi considerato
nemico della scienza e del progresso.» «Pensa che la soia della Monsanto avrebbe
dovuto ricevere più attenzioni prima di essere commercializzata?» «Sinceramente,
penso che si sarebbero dovuti effettuare più test, ma le aziende agroindustriali non
volevano, perché avevano investito moltissimo nello sviluppo di questi prodotti.
In quanto responsabile del servizio che regolamentava l’agricoltura, ho subito
molte pressioni perché non fossi... troppo esigente. L’unica volta in cui ho osato
parlarne, durante il mandato Clinton, mi hanno subito rimproverato... Non solo
l’industria, ma anche il governo. Ho tenuto un discorso in cui dicevo che
bisognava studiare più seriamente la regolamentazione degli OGM. C’erano
persone all’interno del governo Clinton, legate al Commercio estero, che mi
hanno odiato. Hanno detto: ‘Come puoi, tu che lavori nell’agricoltura, mettere in
dubbio il nostro sistema di regolamentazione?’»

* La parola «luddista» è stata coniata in Inghilterra all’inizio del XIX secolo,


dal nome di un operaio tessile, Ned Ludd, che in un gesto di rivolta distrusse i
macchinari che stavano togliendo il lavoro agli uomini. Luddista, quindi, è chi si
oppone a tutto ciò che incarna l’automazione e il progresso tecnico in generale.
Probabilmente, Michael Kantor non era estraneo a tali pressioni. È vero che il
discorso di cui parla Glickman aveva qualcosa di sorprendente, poiché
contrastava la linea seguìta fino ad allora. Il segretario dell’Agricoltura, in un
discorso al National Press Club di Washington il 13 luglio 1999, aveva cominciato
omaggiando le «promesse della biotecnologia» e aveva parlato di «banane»
manipolate, perché «un giorno forniscano vaccini per i bambini dei Paesi in via di
sviluppo». A questo proposito, otto anni dopo si aspettava ancora la
commercializzazione di quei magici OGM annunciati negli anni Ottanta: a parte
le piante resistenti agli erbicìdi o in grado di produrre insetticìdi, non si è visto
niente...

«Qualunque cosa possa prometterci la biotecnologia, non è niente se non viene


accettata», aveva continuato Dan Glickman, prima di pronunciare le parole che
avevano suscitato la rabbia dei suoi colleghi e, senza dubbio, della Monsanto. «È
una questione di fiducia, nella scienza e nel processo di regolamentazione, che
deve [... ] essere mantenuto a distanza da chiunque abbia un interesse particolare
nei suoi risultati. In fin dei conti, alcuni osservatori, di cui io faccio parte, pensano
che tutto si risolverà con l'etichettatura [corsivo mio].»28

Le parole usate sono prudenti, ma sono quelle che la stampa riporterà sui
giornali l’indomani, mentre la conclusione costituisce un vero e proprio fardello
sulle spalle della Monsanto: «L’industria ha bisogno di essere guidata da un
progetto più vasto, che non sia unicamente il profitto. Le imprese devono
continuare a seguire i prodotti dopo la commercializzazione, per misurare
l’eventuale pericolo che rappresentano per l’ambiente, rendendo pubblico e
comprensibile tutto ciò che scopriranno. [... ] Noi non sappiamo che cos’ha in
serbo la biotecnologia, se qualcosa di buono o di cattivo, ma faremo il possibile
per garantire che sia al servizio della società».

Oggi Dan Glickman assicura che non si rimangerebbe nemmeno una parola del
discorso del 1999: «Il problema è che il Congresso non si è mai veramente
esposto in proposito... » «Perché?» «Innanzitutto perché è una questione difficile:
il corpo legislativo fugge da qualunque questione tecnica o complessa. Infatti, la
maggior parte dei suoi componenti, sia in Europa sia negli Stati Uniti, non sono
certo scienziati... » L’influenza sugli scienziati L’argomentazione potrebbe
sembrare scarna, ma sono convinta che in parte spieghi il disinteresse dei politici
per ciò che comporta la biotecnologia. Da parte mia ho impiegato mesi di intenso
lavoro per farmi un’opinione ragionata e ragionevole sulla manipolazione
genetica. Oserei persino dire che se la Monsanto ha potuto imporre i propri
prodotti con tanta facilità, è proprio perché ha saputo sfruttare il fatto che
l’argomento è «complesso», e che solo gli scienziati sembrano conoscere. Per
garantirsi il successo, l’azienda ha capìto di dover tenere sotto controllo gli
scienziati che si esprimevano sulla questione, e di fare in modo che frequentassero
gli ambienti giusti, come i forum internazionali patrocinati dalle organizzazioni
dell’ONU o le riviste e le università più rinomate. E sicuramente ha raggiunto lo
scopo con grande efficacia.

Lo dimostra un documento interno della Monsanto, classificato come


«confidenziale» e giunto misteriosamente (grazie a un vvhistleblovver) all’ufficio
della GeneWatch, un’associazione britannica che, come dice il nome, segue da
vicino il caso OGM.29 Questo «rapporto mensile» di dieci pagine, reso pubblico
il 6 settembre 2000, svela l’attività della cellula affari regolatori e conseguenze
scientifiche dell’azienda nei soli mesi di maggio e giugno dello stesso anno. «Il
documento dimostra come la Monsanto tenti di manipolare la regolamentazione
degli alimenti transgènici nel mondo per favorire i propri interessi», spiega la
dottoressa Sue Mayer, direttrice di GeneWatch, in un comunicato stampa.
«Apparentemente, cercano di accaparrarsi l’influenza di soggetti chiave,
infarcendo i comitati di esperti che li sostengono e sovvertendo l’agenda
scientifica.» Si scopre, in effetti, che la «cellula» è stata molto «efficace nel
garantire che esperti scientifici riconosciuti a livello internazionale venissero
nominati per il consulto organizzato dalla FAO e dall’OMS a Ginevra il mese
scorso. Il rapporto finale si è rivelato favorevole alla biotecnologia vegetale, e
sostiene anche il ruolo cruciale dell’equivalenza sostanziale nella valutazione
della sicurezza alimentare. [... ] Informazioni sui vantaggi e sulla sicurezza della
biotecnologia vegetale sono state fornite a esperti medici e a studenti di Harvard.
[... ] Un editoriale è stato scritto dal dottor John Thomas, docente emerito della
scuola di medicina dell’Università del Texas di San Antonio, che comparirà su
una rivista medica come il primo di una serie pianificata per sensibilizzare i
medici. [... ]

Una riunione si è tenuta con il professor David Khayat, specialista oncologo di


fama internazionale, affinché collabori a un articolo che dimostri l’assenza di
legàme fra alimenti transgènici e cancro. [... ] I rappresentanti della Monsanto
hanno ottenuto il rifiuto dell’esame delle due proposte di etichettatura da parte del
comitato del Codex alimentarius».

Fra gli scienziati che hanno generosamente prestato la propria esperienza alle
iniziative della cellula, il rapporto cita anche lo spagnolo Domingo Chamorro, i
francesi Gérard Pascal (INRA), Claudine Junien (INSERM) e il premio Nobel
Jean Daucet, che hanno partecipato al Forum delle biotecnologie «organizzato
dalla cellula».

Leggendo questo documento risulta chiaro come, dal 5 al 10 novembre 1990,


l’OMS e la FAO abbiano organizzato una «consultazione» (simile a quella
descritta nel rapporto) a Ginevra. Intitolata «Strategie per valutare la sicurezza
degli alimenti prodotti dalla biotecnologia», ha riunito alcuni rappresentanti delle
autorità sanitarie internazionali e altri «esperti», fra cui James Maryanski, che ne
ha organizzato la segreteria* Stranamente, quando nessun OGM era ancora
venuto alla luce, questa «consultazione» è sfociata in una diagnosi perentoria: «Il
DNA di tutti gli organismi viventi è strutturalmente simile. Ecco perché la
presenza di DNA trasferito in un prodotto non pone in sé alcun rischio per i
consumatori». In allegato veniva citato come «riferimento» l’articolo pubblicato
poco tempo prima su Nature da alcuni scienziati della Monsanto, un testo
sull’ormone della crescita transgènico che era stato, lo ricordo, assai
contestato...30

* Secondo il suo curriculum, James Maryanski ha operato come esperto


presso l’OMS e la FAO, poi come delegato degli Stati Uniti presso il comitato del
Codex alimentarius e dell’OECD.

Da allora è chiaro come l’azienda di Saint Louis assuma un ruolo


fondamentale nell’imporre, a livello internazionale e indipendentemente da
qualunque dato scientifico, il principio di equivalenza sostanziale. Tale principio
compare in un testo dell’Organization for Economie Co-operation and
Development (OECD), intitolato «Valutazione della sicurezza degli alimenti
derivati dalla biotecnologia moderna: concetti e principi». Questo documento di
settantuno pagine contiene una lunga dimostrazione per stabilire che la
«biotecnologia» esiste da quando l’uomo ha imparato a selezionare le piante e,
quindi, che le tecniche di manipolazione genetica sono solo il prolungamento
«moderno» di conoscenze ancestrali. Pertanto, il «metodo più pratico» per
«determinare la sicurezza degli alimenti sviluppati dall’applicazione della
biotecnologia moderna è valutare se siano sostanzialmente equivalenti agli
analoghi alimenti convenzionali, sempre che esistano». Per sostenere questo
nuovo concetto caduto dal cielo, il rapporto si basa sull’esempio di OGM come il
pomodoro a maturazione rallentata della Calgene (che verrà, come abbiamo visto,
ritirato dal mercato) o il pomodoro resistente al Round-up della Monsanto (che è
rimasto allo stadio sperimentale).

Fra gli autori di questo testo fondamentale compare il solito James Maryanski,
oltre a un rappresentante del Consiglio della competitività creato da George Bush.
Infine il documento fornisce in allegato un elenco di dieci pubblicazioni da
consultare, fra cui una dell’ILSI, il famoso documento dell’IFBiC, redatto per lo
più da Michael Taylor, e il rapporto della «consultazione» organizzata nel 1990
dall’OMS e dalla FAO. Come gli altri documenti citati in qualità di «riferimenti»,
nessuna di queste «pubblicazioni» riguarda studi scientifici condotti per valutare
la sicurezza degli OGM, ma per una semplice ragione: all’epoca non ne
esistevano.

Un anno dopo tocca all’OMS riprendere le fila di questa operazione di


propaganda: dal 31 ottobre al 4 novembre 1994 l’organizzazione dell’ONU
organizza un vvorkshop dal titolo non certo ambiguo: «Applicazione del principio
di equivalenza sostanziale alla valutazione della sicurezza degli alimenti o dei
componenti alimentari provenienti da piante derivate dalla nuova biotecnologia».
Questa volta il famoso principio è inciso a chiare lettere, anche se non c’è ancora
niente di nuovo sotto il sole. E per dimostrare che la cosa è seria i partecipanti al
vvorkshop, fra cui un certo dottor Roy Fuchs («Monsanto Company»), ricordano
che «il metodo comparativo è stato innanzitutto proposto dall’OMS e dalla FAO,
poi sviluppato dall’OECD».

Il tutto si chiude definitivamente due anni dopo, quando la FAO e l’OMS - due
organismi dell’ONU non sono certo poco - battono il chiodo organizzando una
seconda consultazione congiunta, dal 30 settembre al ottobre 1996, in cui si
ritroveranno James Maryanski e Roy Fuchs. Il momento è cruciale, perché i primi
carichi di soia Round-up Ready sono già in viaggio verso l’Europa. Il rapporto
finale, non disponibile on-line, ma di cui sono riuscita a procurarmi una copia,
viene regolarmente citato come testo internazionale di riferimento del principio di
equivalenza sostanziale. Vi si legge questa informazione altamente scientifica:
«Quando l’equivalenza sostanziale è stabilita da un organismo o da un prodotto
alimentare, l’alimento è considerato sicuro come il suo omologo convenzionale, e
non è necessaria nessun’altra valutazione. [... ] Quando l’equivalenza sostanziale
non è stabilita, non significa obbligatoriamente che il prodotto alimentare non sia
sicuro, e non è quindi necessario pretendere test sanitari approfonditi».

Uno studio soggetto a cauzione Come sottolineerà nel 1999 Erik Millstone,
relatore di scienze politiche all’Università del Sussex, «il principio di equivalenza
sostanziale non è mai stato realmente definito: quanto un alimento naturale e
l’alternativa transgènica debbano differire affinché la ‘sostanza’ non sia più
considerata ‘equivalente’ non è dichiarato da nessuna parte, poiché non è mai
stata approvata dai legislatori alcuna definizione esatta. È proprio questa
imprecisione che rende utile il concetto per l’industria, ma inaccettabile per il
consumatore. Inoltre, la dipendenza di chi detiene il potere decisionale rispetto al
principio di equivalenza sostanziale agisce come una barriera, che rende
impossibile qualunque ricerca sui possibili rischi legati al consumo di alimenti
transgènici».31

L’azienda di Saint Louis abusa del famoso principio, di cui non esita a
riscrivere la storia per giustificare la sicurezza dei suoi OGM, ricorrendo
all’imprimatur delle organizzazioni dell’ONU, che è lo scopo, naturalmente, della
manovra appena descritta: «Un principio di base nella regolamentazione degli
alimenti e del foraggio provenienti dalla biotecnologia è quello di ‘equivalenza
sostanziale’», spiega un documento pubblicitario della soia Round-up Ready
dell’aprile 1998. «Stabilito all’inizio degli anni Novanta dalla FAO, dall’OMS e
dall’OECD [corsivo mio].» Questa impareggiabile argomentazione è
regolarmente inserita nei documenti ufficiali dell’azienda. A questa se ne
aggiunge una seconda, che dovrebbe apportare una cauzione scientifica alla
prima: «Per stabilire l’equivalenza sostanziale’, la composizione della soia
Round-up Ready è stata paragonata a quella delle varietà convenzionali. [...] In
totale sono state condotte più di milleottocento analisi indipendenti, che hanno
dimostrato in modo netto che la composizione della Round-up Ready è
equivalente a quella di altri semi di soia presenti sul mercato.

[... ] Inoltre, gli studi tossicologici condotti su un vasto spettro zoologico


(pollame, mucche da latte, pescigatto e topi) mostrano l’equivalenza nutrizionale
della soia Round-up Ready».

Entriamo a questo punto nella fase finale del «piano d’azione» elaborato, come
abbiamo visto, nell’ottobre 1986 (vedi Capitolo 7). L’azienda di Saint Louis,
consapevole che il lancio della soia Round-up Ready traccerà la strada per tutti gli
OGM futuri, decide di ricorrere al meccanismo della «consulenza volontaria»
previsto dalla direttiva della FDA. Così il dottor Roy Fuchs, direttore scientifico
della Monsanto che presiede con assiduità i vvorkshop dell’ONU, viene incaricato
di elaborare due studi con lo scopo di apportare la prova scientifica che il
principio di equivalenza sostanziale risulta fondato (confermando così che i testi
della FAO, dell’OMS e dell’OECD erano solo teorici e non si basavano su nessun
dato scientifico).
Il primo studio mirava a paragonare la composizione organica della soia
Round-up Ready con quella della soia non transgènica, misurando soprattutto i
tassi di proteìne, grassi, fibre, carboidrati e isoflavoni presenti nei due tipi di semi,
cioè tutti i costituenti già noti dell’oleaginosa.

In altre parole, non si è cercato di capire se la soia transgènica contenesse nella


sua struttura molecolare sostanze sconosciute o (lievemente) trasformate dalla
manipolazione genetica. Lo studio, con la supervisione di Stephen Padgette, è
stato pubblicato nel 1996 su The Journal of Nutrition, una rivista scientifica di
riferimento, e i risultati non presentavano sorprese: «La composizione dei semi di
soia resistente al glifosato è equivalente a quella dei semi di soia convenzionali»,
annuncia il titolo.32

Ma questo studio non trova consensi unanimi, soprattutto perché i suoi autori
hanno «omesso» un certo numero di dati, come ha scoperto Marc Lappé,
rinomato tossicologo fondatore del Center for Ethics and Toxics (CETOS) di
Gualala, in California. «Che cosa mostrano i dati omessi?» si interroga nel 2001
sul Los Angeles Times. «Innanzitutto un livello significativamente più basso di
proteìne e di un acido grasso nei semi di soia Round-up Ready. Poi un livello più
basso di fenilalanina, un amminoacido essenziale potenzialmente in grado di
intaccare il livello dei principali fitoestrogeni legati alla produzione di estrogeni,
per cui i derivati della soia sono spesso prescritti e consumati. Inoltre, dopo la
cottura, livelli più alti dell’inibitore della tripsina, un allergène presente nei semi
di soia Round-up Ready e nel gruppo di controllo.»33

Probabilmente, per un neofita questi dati tecnici sono un po’ ostici, ma se mi


sforzo di tradurli è proprio per sottolineare che in materia di sicurezza alimentare
non ci si può accontentare dell’approssimazione. In altre parole, o i semi
transgènici sono strettamente simili ai loro omologhi convenzionali o non lo sono.
E se non lo sono, in che cosa differiscono? E quali conseguenze sanitarie possono
avere?

Per mettersi l’animo in pace Marc Lappé, deceduto nel 2005, e la collega Britt
Bailey decidono di ripetere l’esperimento condotto da Stephen Padgette. «Per il
nostro studio», mi spiega Britt Bailey, che ho incontrato a San Francisco
nell’ottobre 2006, «abbiamo piantato semi di soia Round-up Ready e semi
provenienti da colture convenzionali. Le due colture sono state realizzate in
terreni identici, e con le stesse condizioni climatiche. I germogli di soia
transgènica sono stati irrorati di Round-up, secondo le raccomandazioni della
Monsanto. A fine stagione abbiamo raccolto i semi dei due gruppi e ne abbiamo
paragonato la composizione organica.» «Quali sono stati i risultati?» «Le nostre
analisi hanno mostrato differenze significative fra la soia Round-up Ready e la
soia convenzionale, soprattutto a livello di isoflavoni, e quindi di fitoestrogeni,
dal 12 al 14 per cento meno elevato, dimostrazione del fatto che la composizione
della soia Round-up Ready non è equivalente a quella convenzionale. Abbiamo
inviato i dati alla FDA, ma non ci ha mai risposto... » «Come ha reagito la
Monsanto?» «Abbiamo proposto il nostro studio al Journal of Medicinal Food,
che l’ha sottoposto a dei revisori. È stato accettato e la pubblicazione è stata
fissata per il 1° luglio 1999.34 Ma una settimana prima della pubblicazione,
quando secondo l’usanza l’articolo risultava ancora sotto embargo, l’American
Soybean Association [ASA], nota per i suoi legàmi con la Monsanto, ha
pubblicato un comunicato stampa secondo il quale il nostro studio non risultava
sufficientemente rigoroso. Però non abbiamo mai saputo perché.» Ho ritrovato il
comunicato dell’associazione (di cui incontrerò ben presto il vicepresidente) sul
sito britannico della Monsanto, che ne fornisce una versione francese! «L’ASA si
fida delle analisi della soia Round-up Ready condotte dai servizi di tutela negli
Stati Uniti e nel mondo, che mostrano l’equivalenza fra la soia Round-up Ready e
quella classica...»36 si legge.

«Come spiega il fatto che la Monsanto sia giunta alla conclusione che i due
tipi di soia sono equivalenti?» ho domandato a Britt Bailey.

«Penso che il principale punto debole del loro studio sia che non hanno irrorato
i semi con il Round-up, invalidando le analisi, poiché la soia Round-up Ready è
fatta per essere irrorata con l’erbicìda.» 204

«Lei come lo sa?» «Grazie a uno sbaglio del servizio giuridico della
Monsanto!» Britt Bailey mi mostra una lettera scritta da Tom Carrato, un
avvocato della Monsanto, alla Vital Health Publishing, una casa editrice allora sul
punto di pubblicare un libro sugli OGM che lei aveva scritto insieme con Marc
Lappé. Questa lettera, datata 26 marzo 1998, la dice lunga, ancora una volta, sui
metodi dell’azienda. Il consulente, dopo avere spiegato che era stato informato
dell’imminente pubblicazione di un articolo sul Winter Coast Magazine, scrive
con una sicurezza sconcertante: «Gli autori del libro dichiarano che il Round-up è
tossico. Che cosa vorrebbero dire con ‘tossico’? Tutti sanno che qualunque
sostanza, sintetica o naturale, può essere tossica in certe dosi. [... ] Chiunque beva
caffè o alcolici con una certa frequenza sa che è tutta questione di dosi, e che
esiste un limite che non va superato. [... ] Questi errori devono essere resi noti
prima della pubblicazione, perché [...] potenzialmente denigratori e diffamatori
per il prodotto».
Più avanti Tom Carrato difende lo studio di Stephen Padgette con una bella
affermazione: «I test condotti sulla soia Round-up Ready non irrorata [corsivo
mio] non mostrano differenze nel livello di estrogeni. I risultati sono stati
pubblicati in un articolo rivisto da alcuni colleghi di pari livello sul Journal
ofNutrition nel gennaio 1996».

«In ogni caso, la lettera è stata efficace», sospira Britt Bailey, «perché il nostro
editore ha rinunciato a pubblicare il nostro libro e abbiamo dovuto cercarne un
altro... »36

«I residui di Round-up che si trovano immancabilmente sulla soia transgènica


sono stati valutati dal punto di vista sanitario?» «Mai! Scrivendo il libro abbiamo
scoperto che nel 1987 il livello di residui di glifosato autorizzato sui semi di soia
era di 6 ppm. Poi nel 1995, un anno prima della commercializzazione della soia
Round-up Ready, il livello concesso dalla FDA è salito a 20 ppm. Ho parlato con
Phil Errico, direttore del dipartimento glifosato dell’EPA, che mi ha detto: ‘La
Monsanto ci ha fornito studi secondo cui 20 ppm non comporterebbero rischi per
la salute, e il livello ammesso è quindi stato modificato’. Benvenuta negli Stati
Uniti!» Per essere onesta, in Europa non va certo meglio: secondo alcune
informazioni pubblicate da Pesticìdes News nel settembre 1999 in risposta
all’importazione della soia transgènica americana, la Commissione europea ha
moltiplicato per duecento il limite consentito di residui di glifosato, portandolo da
0,1 a 20 milligrammi/chilogrammo.

«Scienza da due soldi» «Non spetta alla Monsanto garantire la sicurezza degli
alimenti transgènici», ha dichiarato nell’ottobre 1998 Phil Angeli, direttore della
comunicazione della multinazionale. «Il nostro interesse è venderne il più
possibile. Garantirne la sicurezza è compito della FDA.»37 La citazione non fa
sorridere nemmeno un po’ James Maryanski, che dice di mangiare soia
transgènica tutti i giorni, «perché negli Stati Uniti il 70 per cento degli alimenti
disponibili nei negozi contengono OGM. La FDA è convinta che questo tipo di
soia sia sicura come le altre varietà», mi conferma durante il nostro incontro nel
luglio 2006.

«Come può esserne tanto certo?» «Si basa sui dati che le ha fornito la
Monsanto. E non è nell’interesse di un’azienda condurre uno studio per poi
mascherarne i risultati», mi risponde l’ex «coordinatore delle biotecnologie» della
FDA.

Sarebbe bello poter condividere l’ottimismo di James Maryanski. Ma a essere


sinceri, nutro qualche dubbio. O almeno questa è l’impressione che ho avuto
durante il colloquio con il professor Ian Pryme, che ho incontrato il 22 novembre
2006 nel suo laboratorio del dipartimento di biochimica e biologia molecolare
dell’Università di Bergen, in Norvegia. Nel 2003 questo scienziato di origine
britannica e un suo collega danese, il professor Rolf Lembcke (non più in vita),
hanno avuto l’ottima idea di analizzare i (rari) studi tossicologici condotti sugli
alimenti transgènici.38 Uno di questi era il secondo studio pubblicato nel 1996 dai
ricercatori della Monsanto, che questa volta mirava a valutare l’eventuale tossicità
della soia Round-up Ready.39

«Siamo rimasti molto sorpresi scoprendo che nella letteratura scientifica


esistevano solo dieci studi recensiti», mi spiega Ian Pryme. «È pochissimo per
l’importanza della questione.» «Come se lo spiega?» «Bisogna sapere che è molto
difficile procurarsi campioni di materiali transgènici, perché le aziende ne
controllano l’accesso. Esigono una descrizione dettagliata del progetto di ricerca,
e sono reticenti a fornire OGM a scienziati indipendenti. Se qualcuno insiste,
ricorrono al ‘segreto commerciale’. Del resto è difficile ottenere finanziamenti per
condurre studi sugli effetti a lungo termine degli alimenti transgènici. Con alcuni
colleghi provenienti da sei Paesi europei abbiamo chiesto fondi all’Unione
europea, che ha rifiutato con il pretesto che le aziende avevano già condotto studi
dello stesso genere... » «Che cosa dire dello studio condotto dalla Monsanto su
topi, polli, pescigatto e mucche da latte?» «È molto importante, perché è servito
come base per il principio di equivalenza sostanziale, e spiega, in parte, l’assenza
di studi complementari. Eppure dal punto di vista scientifico è deludente. Se mi
avessero chiesto un parere prima della pubblicazione avrei rifiutato lo studio
perché i dati forniti sono insufficienti. È scienza da quattro soldi... » «Ha cercato
di procurarsi i dati bruti dello studio?» «Sì, ma purtroppo la Monsanto ha rifiutato
di comunicarli perché coperti da segreto commerciale... Era la prima volta che
sentivo un’argomentazione simile riguardo ai dati di una ricerca... Normalmente,
quando uno studio viene pubblicato, qualunque ricercatore può chiedere di
consultarne i dati bruti, per ripetere l’esperimento e contribuire al progresso
scientifico. Il rifiuto della Monsanto dà l’impressione che l’azienda abbia
qualcosa da nascondere: o i risultati non sono abbastanza convincenti, o sono
negativi, oppure la metodologia e il protocollo usati non reggono a un’analisi
scientifica rigorosa. Per condurre il nostro studio abbiamo quindi dovuto
accontentarci dei sunti forniti dall’azienda alle agenzie di regolamentazione, e
sono emerse informazioni inquietanti.

«Per esempio, a proposito dello studio sui topi gli autori scrivono: ‘A parte il
colore marrone scuro, il fegato, sottoposto a necropsia, sembra normale. [... ] Il
colore non è considerato un fattore legato alla modificazione genetica’. Come
hanno potuto limitarsi a questo senza sezionare i fegati e osservarli al microscopio
per essere certi che il colore marrone scuro fosse normale? Evidentemente, si
sono limitati a una valutazione oculare degli organi, che non è un metodo
scientifico. Allo stesso modo, gli autori indicano che ‘il fegato, i testicoli e i reni
sono stati pesati’ e che ‘sono state osservate parecchie differenze’, ma che non
sono state ‘considerate come legate alla manipolazione genetica’... Ancora una
volta, come hanno potuto affermare una cosa simile? Non hanno nemmeno
analizzato l’intestino, e neanche lo stomaco, errore gravissimo in uno studio
tossicologico. Dicono inoltre che sono stati prelevati quaranta tessuti, ma non
sappiamo quali! In realtà, io conosco solo ventitré tessuti appurati, come pelle,
ossa, milza, tiroide... Quali sono gli altri?

«Inoltre, i topi usati per l’esperimento avevano otto settimane: erano troppo
vecchi! Di solito per uno studio tossicologico si usano cavie giovani, perché
bisogna vedere se la sostanza testata altera lo sviluppo dell’organismo in piena
crescita. Il modo migliore per nascondere gli eventuali effetti nocivi è usare cavie
vecchie, tanto più che, malgrado le anomalie constatate, lo studio è durato solo
ventotto giorni, che non sono sufficienti. .. L’ultimo paragrafo del testo riassume
bene l’impressione generale: ‘Gli studi tossicologici forniscono una certa
sicurezza [corsivo mio] che nessun grande cambiamento sia intervenuto con la
soia geneticamente modificata...’ Io non voglio ‘una certa sicurezza’, ma una
sicurezza al 100 per cento! In effetti, sapendo che questo studio ha giustificato
l’introduzione degli OGM nella catena alimentare, non si può che essere
inquieti... Ma che cosa fare? Le racconto che cos’è successo di recente alla mia
collega Manuela Malatesta... » La paura della Monsanto Ho incontrato Manuela
Malatesta il 17 novembre 2006 all’Università di Pavia. Era ancora traumatizzata
dall’esperienza che aveva vissuto e che l’aveva costretta a lasciare l’Università di
Urbino, in cui aveva lavorato per oltre dieci anni. «Tutto a causa di uno studio
sugli effetti della soia transgènica»,40 mi dice sospirando. Infatti, la giovane
ricercatrice ha fatto ciò che nessuno aveva osato fare: ripetere lo studio
tossicologico condotto nel 1996 dalla Monsanto. Con la sua équipe ha nutrito un
gruppo di topi secondo l’alimentazione usuale (gruppo di controllo), e un altro
gruppo con lo stesso cibo, ma con l’aggiunta della soia Round-up Ready (gruppo
sperimentale). Le cavie, sottratte allo svezzamento, sono state monitorate fino alla
morte (in media due anni dopo). «Abbiamo studiato gli organi dei topi al
microscopio elettronico», mi spiega Manuela Malatesta, «e abbiamo constatato
differenze statisticamente significative, soprattutto nel nucleo delle cellule del
fegato dei topi nutriti con soia transgènica. Tutto sembrava indicare che il fegato
avesse un’attività fisiologica più elevata. Abbiamo trovato modifiche simili nelle
cellule del pancreas e dei testicoli.» «Come spiega queste differenze?» «Avremmo
voluto proseguire con gli studi preliminari, ma purtroppo non abbiamo potuto,
perché i finanziamenti sono stati sospesi... Siamo fermi alle ipotesi: le differenze
possono essere dovute alla composizione della soia o ai residui di Round-up.
Tengo a precisare che le differenze da noi riscontrate non sono lesioni; la
questione è sapere che ruolo biologico possono avere sul lungo termine, e per
questo bisognerebbe condurre un altro studio.» «Perché non lo fa lei?» «Ah!»
esclama la ricercatrice. «Attualmente la ricerca sugli OGM è argomento tabù. Per
questo ambito non ci sono fondi. Abbiamo fatto di tutto per trovare un
finanziamento complementare, ma ci hanno risposto che siccome nella letteratura
scientifica non esistono dati in grado di dimostrare che gli OGM provocano
problemi, è del tutto inutile lavorarci ancora. Non si vogliono trovare risposte alle
domande più spinòse... È il risultato della paura diffusa nei confronti della
Monsanto e degli OGM in generale... Quando ho parlato dei risultati dello studio
ad alcuni colleghi, mi hanno vivamente sconsigliato di pubblicarli, e avevano
ragione, perché ho perso tutto, il mio laboratorio, la mia équipe... Ho dovuto
ricominciare da zero in un’altra università, grazie a un collega che mi ha
sostenuta. .. » «Gli OGM la preoccupano?» «Oggi sì! All’inizio ero convinta che
non comportassero problemi, ma adesso i segreti, le pressioni e la paura che li
circondano mi fanno dubitare...» Questa sensazione, come vedremo, è condivisa
da altri scienziati, come il «dissidente» Arpad Pusztai, anche lui caduto nella rete
intessuta dalla Monsanto un po’ in tutto il mondo.
9. 1995 - 1999: la Monsanto tesse la tela

«Si assiste non solo a un consolidamento delle aziende produttrici di sementi,


ma anche di tutta la catena alimentare.» Robert Fraley Copresidente della
divisione agricola della Monsanto (Farm Journal, ottobre 1996)

«In veste di scienziato attivamente impegnato in questo campo, penso non sia
giusto trattare i cittadini britannici come cavie.» Queste poche parole sugli OGM,
pronunciate pubblicamente il 10 agosto 1998 a World in Action, un programma
televisivo inglese, hanno rovinato la carriera di Arpad Pusztai, biochimico di fama
internazionale che ha lavorato per trent’anni, dal 1968 al 1998, al Rovvett
Research Institute di Aberdeen, in Scozia. «Credo che non mi perdoneranno mai
per avere detto quella frase», mi spiega quando lo incontro a casa sua, il 21
novembre 2006, con un sorriso malizioso che gli illumina il viso.

«Chi non la perdonerà mai?» gli domando, pur conoscendo già la risposta.

«La Monsanto e tutti quelli che in Gran Bretagna sostengono a occhi chiusi la
biotecnologia», risponde. «Non avrei mai pensato di ritrovarmi vittima di metodi
che ricordano quelli usati dai regimi comunisti con i dissidenti.» Le patate
maledette Arpad Pusztai, figlio di un membro della resistenza ungherese
all’occupazione nazista, è nato a Budapest nel 1930. Nel 1956, mentre i carri
sovietici marciano sulla capitale ungherese, fugge in Austria, dove gli viene
concesso asilo politico. Laureato in chimica, ottiene una borsa alla Fondazione
Ford, che gli propone di studiare in un Paese a sua scelta. Pusztai sceglie la Gran
Bretagna, che per lui rappresenta il «Paese della libertà e della tolleranza». Dopo
avere conseguito un dottorato in biochimica all’Università di Londra, viene
reclutato dal prestigioso Rovvett Institute, considerato il miglior laboratorio
europeo sull’alimentazione. Il ricercatore si specializza sulle lectine (a loro
dedicherà ben duecentosettanta articoli scientifici), proteìne presenti in natura in
alcune piante con una funzione insetticìda che le protegge dagli attacchi degli
afidi.

Benché alcune lectine siano tossiche, altre sono inoffensive per l’uomo e per i
mammiferi, come la lectina proveniente dal bucaneve chiamata GNA, a cui Arpad
Pusztai ha dedicato sei anni della sua vita. L’esperienza del biochimico è così nota
che nel 1995 il Rovvett Institute gli propone di prolungare il contratto, sebbene lui
abbia già l’età per il pensionamento, e assumere il comando di un programma di
ricerca finanziato dal ministero scozzese dell’Agricoltura, dell’ambiente e della
pesca.

Con un budget di 1,6 milioni di sterline (oltre due milioni di euro), questo
contratto sostanziale, che mobilita una trentina di ricercatori, ha lo scopo di
valutare l’effetto degli OGM sulla salute umana. «Eravamo tutti entusiasti», mi
spiega Pusztai, «perché all’epoca, quando la prima coltivazione di soia
transgènica era appena stata avviata negli Stati Uniti, non era stato pubblicato
nessuno studio in proposito. Il ministero pensava che la nostra ricerca avrebbe
rappresentato un supporto a favore degli OGM, al momento del loro ingresso nel
mercato britannico ed europeo. Ma nessuno immaginava - io per primo, fervente
sostenitore della biotecnologia - che avremmo riscontrato dei problemi.»
L’entusiasmo dello scienziato è tale che, quando nel 1996 compare lo studio
tossicologico della Monsanto sulla soia Round-up Ready su The Journal
ofNutrition, parla subito di «scienza da quattro soldi», convinto che con la sua
équipe avrebbe fatto di meglio: «Se fossimo riusciti a dimostrare, con uno studio
scientifico degno di tale nome, che gli OGM erano davvero inoffensivi, saremmo
diventati eroi», racconta.

D’accordo con il ministero, il Rovvett Institute decide di lavorare su patate


transgèniche che i suoi ricercatori hanno già ottenuto con successo, inserendo il
gene che produce la GNA. «Studi preliminari avevano mostrato che in effetti le
patate respingevano gli attacchi degli afidi», mi spiega Pusztai. «Del resto,
sapevamo che allo stato naturale la GNA non era pericolosa per i topi, anche
quando ne assorbivano una dose ottocento volte superiore a quella prodotta dagli
OGM. Ci restavano dunque da valutare gli eventuali effetti delle patate
transgèniche sui topi.» Il protocollo dell’esperimento prevede di seguire quattro
gruppi di topi dallo svezzamento fino ai cento giorni d’età: «Rapportato
all’uomo», precisa Pusztai, «significa seguire un bambino da uno a nove o dieci
anni, cioè nel periodo in cui l’organismo è in piena crescita». Nel gruppo di
controllo i topi vengono nutriti con patate convenzionali. Nei due gruppi
sperimentali le cavie si alimentano con patate transgèniche di due tipi diversi.
Infine, nel quarto gruppo, il menù comprende patate convenzionali a cui viene
aggiunta una quantità di lectina naturale (estratta direttamente dal bucaneve). «La
mia prima sorpresa», ricorda il dottor Pusztai, «è stata quando abbiamo analizzato
la composizione chimica delle patate transgèniche. Prima di tutto abbiamo
constatato che non erano equivalenti alle patate convenzionali. Poi non erano
nemmeno equivalenti fra loro, perché da un tipo all’altro la quantità di lectina
espressa poteva variare del 20 per cento. Per la prima volta ho messo in dubbio il
fatto che la manipolazione genetica potesse essere considerata una tecnologia,
perché per uno scienziato tradizionale come me, il principio stesso di tecnologia
implica che se un processo produce un certo effetto, tale effetto deve essere
necessariamente lo stesso se il medesimo processo viene ripetuto in condizioni
identiche. In quel caso, però, la tecnica era molto imprecisa, perché non generava
un effetto identico.» «Quale spiegazione si è dato?» «Purtroppo possiedo solo
ipotesi che non ho mai avuto i mezzi di verificare.. . Per rendersi conto
dell’imprecisione di ciò che impropriamente chiamiamo ‘biotecnologia’, che di
solito utilizza il cosiddetto ‘cannone genetico’, basta pensare a un Guglielmo Tell
con gli occhi bendati: è impossibile sapere dove il gene lanciato atterrerà nella
cellula bersaglio.

Penso che la localizzazione aleatoria del gene spieghi la variabilità


nell’espressione della proteìna, all’occorrenza della lectina. Un’altra spiegazione
si basa forse sulla presenza del ‘promotore 35S’, proveniente dal gene del virus
del mosaico del cavolfiore e destinato a promuovere, appunto, l’espressione della
proteìna, ma di cui nessuno ha verificato gli effetti che può generare. In ogni caso,
nell’organismo dei topi le patate transgèniche producono esiti inaspettati.» «Quali
ha osservato?» «Prima di tutto i topi dei gruppi sperimentali presentavano
cervello, fegato e testicoli meno sviluppati di quelli del gruppo di controllo, oltre
che tessuti atrofizzati, soprattutto nel pancreas e nell’intestino. Inoltre, abbiamo
constatato una proliferazione delle cellule nello stomaco, cosa inquietante perché
in grado di facilitare lo sviluppo di tumori causati da prodotti chimici. Infine il
sistema immunitario dello stomaco era surriscaldato, indicazione del fatto che gli
organismi dei topi trattavano quelle patate come corpi estranei. Eravamo convinti
che alla base di queste disfunzioni ci fosse il processo di manipolazione genetica,
non il gene della lectina di cui avevamo testato la sicurezza allo stato naturale. A
quanto pare, contrariamente a ciò che affermava la FDA, la tecnica di inserimento
non era una tecnologia neutra, perché produceva, in sé, effetti inspiegabili.» Il
caso Arpad Pusztai: caccia al dissidente Arpad Pusztai, profondamente
turbato, condivide le proprie inquietudini con il professor Philip James, direttore
del Rovvett Institute e uno dei dodici membri del comitato consultivo sui nuovi
processi e alimenti, incaricato di valutare la sicurezza degli OGM prima della loro
commercializzazione nel Regno Unito. Convinto dell’importanza dei risultati
dello studio, il direttore lo autorizza a partecipare a una trasmissione televisiva
dedicata alla biotecnologia, registrata nel giugno 1998, cioè sette settimane prima
della sua diffusione, in presenza del capo delle pubbliche relazioni dell’istituto.
«Nell’intervista», spiega Pusztai, «non ho rivelato particolari sullo studio che non
avevamo ancora pubblicato, ma ho risposto con franchezza alle domande che mi
venivano poste, poiché credevo fosse mio dovere morale mettere in allerta la
società britannica sulle incognite sanitarie riguardanti gli OGM mentre i primi
alimenti transgènici venivano importati dagli Stati Uniti.» Dal 23 aprile 1990
l’Unione europea aveva adottato la direttiva 90/220 che regolamentava la
diffusione degli OGM in Europa. Prevedeva una procedura tipo, ancora in vigore
otto anni dopo (e tuttora nel 2008): per ottenere l’autorizzazione a
commercializzare l’alimento di una pianta transgènica, l’azienda deve trasmettere
un dossier tecnico a uno Stato membro, i cui organismi nazionali valuteranno i
rischi del prodotto per l’uomo e per l’ambiente. Dopo essere stato esaminato, il
dossier viene trasmesso dalla Commissione agli altri Stati, che hanno sessanta
giorni per chiedere analisi supplementari, se lo ritengono necessario. Così nel
dicembre 1996 l’Unione europea autorizza l’importazione della soia Round-up
Ready (oltre che di un mais Bt della Novartis), fidandosi dello studio pubblicato
nello stesso anno dalla Monsanto. La posta in gioco è molto alta, poiché nel
quadro degli accordi del General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) del
1993, l’Europa aveva accettato di limitare le proprie superfici coltivate a
oleaginose (soia, colza, girasole) per permettere lo smercio delle scorte
americane, costringendo così i contadini a rifornirsi di foraggio proveniente da
oltreoceano.1

«La mancanza di test sugli OGM la preoccupa?» chiede la mia collega della
televisione ad Arpad Pusztai.

«Sì», risponde lo scienziato senza esitare.

«Lei mangerebbe patate transgèniche?» «Mai! E in veste di scienziato


impegnato attivamente in questo campo, penso non sia giusto trattare i cittadini
britannici come cavie...» In un primo tempo i dirigenti del Rovvett Institute non
hanno niente da ridire sulla famosa frase, usata per pubblicizzare la puntata di
World in Action il 9 agosto 1998. Il giorno seguente l’istituto viene sommerso di
richieste di interviste, e il professor James si vanta dei meriti di uno studio che
attira una tale pubblicità. La sera della trasmissione, il 10 agosto, il direttore non
può fare a meno di chiamare Arpad Pusztai per felicitarsi della sua performance
televisiva: «Era molto entusiasta», ricorda Pusztai. «Poi, d’un tratto, è cambiato
tutto...» Il 12 agosto, infatti, quando un’orda di giornalisti si piazza davanti a
casa sua, Arpad Pusztai viene convocato a una riunione in cui il professor James
gli annuncia, assistito da un avvocato, che il suo contratto è sospeso fino al
pensionamento. L’équipe di ricerca è sciolta. I computer e i documenti legati allo
studio vengono confiscati e le linee telefoniche tagliate. Arpad Pusztai è colpito
da un gag order, un divieto di comunicare con la stampa, a rischio di citazioni in
giudizio. Comincia così una penosa operazione di disinformazione che mira a
rovinargli la reputazione.

In più di un’intervista Philip James afferma che il ricercatore si è sbagliato e


che, contrariamente a quanto credeva, non ha più usato la lectina del bucaneve ma
un’altra lectina chiamata Concanavalina A (Con A), proveniente da un fagiolo
sudamericano e nota per la sua tossicità.

In altre parole, gli effetti osservati sui topi non sono dovuti alla manipolazione
genetica ma alla lectina Con A, che è un «veleno naturale»,2 come si affretta a
sottolineare il dottor Collin Merritt, portavoce della Monsanto in Gran Bretagna.
«Invece di topi nutriti con patate geneticamente modificate, il dottor Pusztai ha
usato i risultati di test condotti su topi trattati con veleno», rincara lo Scottish
Daily Record & Sunday Mail? «Se un cocktail di cianuro e vermouth non fa bene
alla salute, non si può certo concludere che debbano essere banditi tutti i cocktail
esistenti»,4 ironizza sir Robert May, consulente scientifico del governo. Allo
stesso modo, in Francia Le Monde riprende questa «informazione», ancora più
strana perché riguardante il più grande specialista mondiale delle lectine: «Il
dottor Pusztai ha messo insieme i dati legati a un tipo di patata transgènica, il cui
studio è stato appena avviato, e altri provenienti da esperimenti che aggiungevano
proteìne insetticìde al menù dei topi. I tuberi incriminati non avevano quindi
niente di transgènico».5 «Era tremendo», mormora Arpad Pusztai, con la voce
rotta dall’emozione. «E non avevo nemmeno il diritto di difendermi... » Così il
professor James attacca su un secondo fronte, chiedendo a un comitato di
scienziati di condurre un audit sul famoso studio. Viene però da chiedersi perché:
se l’esperimento è stato invalidato da un errore sulla lectina usata, allora non c’è
motivo di approfondire i risultati... Tuttavia, il 28 ottobre 1998 il Rovvett Institute
pubblica le conclusioni dell’audit: «Il comitato pensa che i dati esistenti non
permettono di affermare che il consumo di patate transgèniche da parte dei topi
abbia influito sulla loro crescita, sullo sviluppo dei loro organi o del loro sistema
immunitario. Questa ipotesi [... ] era infondata».6

Ma il caso fa talmente scalpore che la Camera dei comuni chiede di ascoltare il


«dissidente», costringendo il professor James ad autorizzarlo ad accedere ai dati
del suo studio. Arpad Pusztai decide allora di inviarli a venti scienziati con cui
aveva lavorato nel corso della sua lunga carriera, i quali accettano di redigere un
rapporto paragonando i dati con l’audit. Le conclusioni, pubblicate in prima
pagina dal quotidiano The Guardian il 12 febbraio 1999, non sono affatto innocue
per il «comitato» messo in piedi dal professor James: dopo avere notato che
l’audit aveva deliberatamente ignorato certi risultati, i suoi autori precisano che
«le patate transgèniche avevano effetti significativi sulla funzione immunitaria
[dei topi], e questo bastava a rafforzare le dichiarazioni del dottor Pusztai».7
Inoltre, gli scienziati denunciano anche la «violenza del trattamento inflitto dal
Rovvett Institute» al loro collega, e «più ancora il segreto impenetrabile che
circonda tutto il caso», così si appellano a una moratoria sulle colture
transgèniche.

Qualche giorno dopo la commissione scientifica e tecnologica del parlamento


britannico comincia le udienze. Di fronte alle domande degli interrogatori, che
sottolineano le varie contraddìzioni, il professor James si nasconde dietro una
nuova argomentazione che Collin Merritt, portavoce della Monsanto, aveva già
sfoderato in un’intervista a The Scotsman: «Non è possibile rilasciare
un’informazione di questa natura prima che sia stata correttamente esaminata da
altri esperti».* In altre parole, ciò che il direttore del Rovvett Institute oggi
rimprovera al suo ricercatore è di avere parlato prima che lo studio fosse
pubblicato.

L’argomentazione non convince il dottor Alan Williams, uno dei membri della
commissione parlamentare che, specificando la funzione del comitato consultivo
incaricato di autorizzare il commercio degli alimenti transgènici, di cui Philip
James fa parte, risponde con un’ironia tutta britannica: «Dire che non è corretto
commentare uno studio non pubblicato pone un problema serio, perché se ho
capìto bene tutte le decisioni prese dal comitato consultivo si basano su studi
provenienti da aziende, quindi non pubblicati. Non è del tutto democratico, non vi
pare? Non abbiamo il diritto di commentare gli studi perché non sono pubblicati,
ma d’altra parte nessuno di questi viene reso pubblico. Siamo quindi costretti ad
affidarci ai pareri del comitato e dei suoi rispettabili membri, che prendono le
decisioni a nome nostro, fidandosi di studi che provengono da imprese
commerciali. Non vi sembra che in tutto ciò vi sia un’evidente mancanza di
democrazia?»9

Le affermazioni del parlamentare costituiscono il cuore dell’immensa polemica


scatenata dal caso Pusztai, oggetto di almeno settecento articoli nel solo mese di
febbraio 1999. Come riporta il New Statesman, «la controversia sugli OGM ha
diviso la società in due. Quelli che vedono gli alimenti transgènici come una
prospettiva terrificante - i ‘cibi di Frankenstein’ - e quelli che difendono la
biotecnologia».10 «Tutti ci odiano», si lamenta da parte sua Dan Verakis,
portavoce europeo della Monsanto.11
Un sondaggio realizzato segretamente nell’ottobre 1998 su richiesta
dell’azienda, e di cui la stampa ha potuto procurarsi una copia, rivela un «calo di
sostenitori della biotecnologia», con «un terzo delle opinioni estremamente
negative».12 Sette mesi dopo la tendenza è confermata da un nuovo sondaggio,
richiesto dal governo britannico, secondo cui «solo l’1 per cento del pubblico
pensa che gli OGM siano un bene per la società», e da cui risulta che la maggior
parte degli intervistàti non ha fiducia nel fatto che le autorità «forniscano
informazioni affidabili ed equilibrate».13

Bisogna ammettere che gli scettici hanno ragione: mentre i grandi della
distribuzione agroalimentare come Unilever England, ma anche Nestlé, Resco,
Sainsbury, Somerfield o le filiali britanniche di McDonald’s e Burger King, si
impegnano pubblicamente a rinunciare a qualunque ingrediente transgènico, si
scopre che il governo di Tony Blair conduce strane manovre per «riconquistare la
fiducia della gente». Secondo un documento confidenziale che il Sunday
Independent è riuscito a procurarsi, Blair stabilisce un vero e proprio piano di
battaglia per «denigrare la ricerca del dottor Pusztai, sollecitando eminenti
scienziati a rilasciare interviste televisive e a scrivere articoli» per «contribuire a
raccontare qualcosa di buono».14 Fra gli scienziati prescelti, il documento cita
soprattutto quelli della rispettabilissima Royal Society che, in realtà, collabora
attivamente alle operazioni denigratorie.

La Monsanto, Clinton e Blair, ovvero delle pressioni efficaci «La Royal


Society è stata veramente feroce», afferma Arpad Pusztai, mentre accanto a lui il
dottor Stanley Evven approva con il capo. Questo scienziato, oggi sessantenne,
noto istologo collaboratore dell’Università di Aberdeen, era stato associato allo
studio sulle patate transgèniche con l’incarico di valutarne l’effetto sul sistema
gastrointestinale dei topi.

In un messaggio indirizzato al parlamento britannico, aveva sottolineato i


risultati delle sue analisi: «Allungamento della cripta intestinale e
infiammazione delle cellule che formano la parete dell’intestino».

Ancora oggi il dottor Evven fatica a parlare del «caso» che ha annientato per
sempre la sua fiducia nell’indipendenza della scienza. «Era come se mi fosse
mancato il terreno sotto i piedi», racconta con tono duro.

«Incomprensibile: lunedì il nostro lavoro era formidabile e martedì era buono


per la spazzatura. Sono stato messo in pensione d’ufficio, neanche avessi
commesso un errore gravissimo...» Poi racconta come la Royal Society abbia
deliberatamente compromesso la sua reputazione di persona seria e imparziale
screditando i risultati dello studio.

Il 23 febbraio 1999 diciannove membri dell’istituto pubblicano una lettera


aperta sul Daily Telegraph e sul Guardian, in cui stigmatizzano i ricercatori che
hanno «innescato una crisi sugli alimenti transgènici rendendo pubblici risultati
non sottoposti alla revisione di altri scienziati». Cosa falsa, poiché nei centodieci
secondi di intervista, Arpad Pusztai non ha detto una parola sui risultati del suo
studio, ma si è limitato a invocare più vigilanza sugli OGM in generale. Il 23
marzo la Royal Society, come non ha mai fatto in trecentocinquant’anni di
esistenza, pubblica un’analisi critica della famosa ricerca, in cui conclude che
«presenta difetti sia nella concezione, sia nell’esecuzione e nella valutazione dei
risultati».

Approfondendo la strana iniziativa, il Guardian scopre che la «società» ha


costituito una «cellula denigratoria» allo scopo di «modellare l’opinione pubblica
e scientifica su una linea prò OGM e di opporsi agli scienziati contrari, così come
ai gruppi ambientalisti».16 L’atteggiamento della Royal Society è talmente
eccezionale che il 22 maggio 1999 The Lancet, una delle riviste scientifiche più
prestigiose del mondo, decide di uscire allo scoperto: «I governi non avrebbero
mai dovuto autorizzare i prodotti OGM senza pretendere test rigorosi sugli effetti
sanitari», insiste l’editoriale. Lanciandosi deliberatamente nella mischia, la rivista
annuncia che pubblicherà - finalmente! - lo studio di Arpad Pusztai e di Stanley
Evven. Secondo la prassi, invia una copia dell’articolo a sei «revisori
indipendenti» che, come abbiamo visto, non possono comunicarne il contenuto
fino alla pubblicazione, annunciata per il 15 ottobre 1999.17

Peccato che, violando tutte le normative, John Pickett, il «sesto revisore», non
esiti a criticare violentemente l’articolo dalle colonne dell’Independent cinque
giorni prima della pubblicazione.18 Peggio ancora, trasmette la bozza del testo a
The Lancet: «Ci sono state forti pressioni per annullarne la pubblicazione»,
ammette Peter Lachmann (ex vicepresidente e segretario per la biologia della
Royal Society, nonché presidente dellAccademia delle scienze mediche), secondo
il quale la pubblicazione «avrebbe potuto avere ripercussioni sulla sua posizione
di direttore».19 Affermazione, questa, smentità in seguito dallo stesso Lachmann.

«Non è affatto sorprendente», commenta il dottor Evven. «La Royal Society ha


sostenuto fin dall’inizio gli OGM, e molti suoi membri, come il professor
Lachmann, lavorano come consulenti per le aziende di biotecnologie.»*
«Compresa la Monsanto. D’altronde, era uno degli sponsor privati del Rovvett
Institute, ma anche dell’istituto di ricerca agricola scozzese, coincidenza quanto
mai ‘naturale’ visto che uno dei suoi dirigenti più in vista, Hugh Grant, attuale
amministratore delegato dell’azienda, è scozzese.»*

* Secondo il Guardian, il professor Lachmann era consulente di aziende


come Geron Biomed, Adprotech e SmithKline Beecham.

«Crede che la Monsanto abbia avuto un ruolo importante in questa faccenda?»


domando.

«Non ci sono dubbi che la decisione di fermare il nostro lavoro sia stata presa
ai livelli più alti», mormora Stanley Evven. «Ne ho avuto conferma nel settembre
1999. Ero a una cena e al tavolo accanto al mio c’era uno degli amministratori del
Rovvett Institute. A un certo punto gli ho detto: ‘È tremendo quel che è successo
ad Arpad, vero?’ E lui ha risposto: ‘Certo, ma sa che Dovvning Street ha chiamato
il direttore due volte?’ A quel punto ho capìto che c’era stato qualcosa di
sovranazionale: l’ufficio di Tony Blair aveva subito pressioni da parte degli
americani, secondo i quali il nostro studio avrebbe arrecato danni alla loro
industria biotecnologica, e in particolare alla Monsanto.» Questa informazione è
stata anche confermata da un ex amministratore del Rovvett Institute, il professor
Robert Orskov, il quale nel 2003 ha confermato al Daily Mail che «la Monsanto
aveva telefonato a Bill Clinton, poi Clinton a Blair e Blair a James... »20

Robert Shapiro, «guru della Monsanto» Può sembrare incredibile, eppure


abbiamo già visto come l’azienda di Saint Louis fosse capace di intervenire ai
livelli più alti degli organismi governativi o internazionali per imporre quella che
non esita a chiamare, nel suo rapporto annuale del 1997, la «legge della
Monsanto».21 Quando mette per iscritto queste strane affermazioni, qualche mese
prima che l’équipe del Rovvett sia travolta dalla tormenta, la multinazionale è
diretta da Robert B. Shapiro, successore di Robert Mahoney dall’aprile 1995 al
gennaio 2001.

* In un comunicato stampa pubblicato il 16 febbraio 1999 il Rovvett Institute


conferma di avere firmato un contratto con la Monsanto, per una cifra pari all’1
per cento delle sue risorse annuali.
Soprannominato «l’evangelista della biotecnologia»,22 il «regista»23 o ancora
il «guru della Monsanto»,24 questo ex avvocato nato in una famiglia agiata di
Manhattan presenta una caratteristica del tutto nuova nella storia dell’azienda: è
un democratico e, quindi, molto vicino all’amministrazione Clinton. Ecco perché
nel 1996 l’azienda di Saint Louis contribuisce generosamente alla campagna per
la rielezione del presidente, che rende omaggio alla Monsanto nel suo discorso
sullo stato dell’Unione del 4 febbraio 1997. Poco dopo Robert Shapiro viene
nominato membro del Consiglio consultivo per la politica e i negoziati
commerciali della Casa Bianca, che opera in stretta collaborazione con Michael
Kantor, che già conosciamo. Nel dicembre 1998 Bill Clinton in persona consegna
la prestigiosa medaglia della tecnologia a Ernest Javvorski, Robert Fraley, Robert
Horsch e Stephen Rogers, i quattro «inventori» della soia Round-up Ready.

All’epoca, come testimonia Dan Glickman, ex segretario dell’Agricoltura,


l’amministrazione democratica è soggiogata dal discorso di «Bob» Shapiro sulle
«promesse della biotecnologia», cioè una «rivoluzione nell’agricoltura,
nell’alimentazione e nella sanità».26 A tutti gli interlocutori di Washington
l’amministratore delegato della Monsanto mostra i benefìci di una tecnica capace,
secondo lui, di garantire il bene futuro dell’umanità, e lo fa con una forza e una
convinzione che gli riconoscono persino gli avversari più temuti. In una delle rare
interviste che ha rilasciato, pubblicata il 1° gennaio 1997, poco dopo la rielezione
di Bill Clinton, dalla serissima Harvard Business Revievv, Shapiro spiega perché
gli OGM rappresentano il futuro del Pianeta. Dopo avere sottolineato che 1,5
miliardi di persone vivono in una situazione di «povertà abietta» e che la
popolazione «raddoppierà entro il 2030», si lancia in una diatriba quasi
messianica sulle catastrofi che affliggono il genere umano: «Viviamo in un
mondo di migrazioni massicce e degrado ambientale diffuso. Nel migliore dei casi
abbiamo privilegi isolati e un minimo di prosperità in un mare di miseria e
violenza. [... ] Bisogna cambiare sistema e oggi abbiamo la possibilità di farlo. [...
] Alla Monsanto cerchiamo di inventare un nuovo giro d’affari intorno al concetto
di sviluppo sostenibile. [... ] Le pratiche agricole attuali non garantiscono tale
sviluppo: in vent’anni abbiamo perso circa il 15 per cento della superficie
terrestre, l’irrigazione aumenta la salinità dei terreni e i prodotti petrolchimici da
cui dipendiamo non sono rinnovabili. La maggior parte delle aree coltivabili sono
già coltivate. I tentativi di dissodare nuove terre comportano gravi danni
ecologici. In futuro avremo la stessa quantità di terre da lavorare, ma con il
doppio delle persone da nutrire, cosa che pone il problema della produttività delle
risorse disponibili. [... ] La conclusione è che la nuova tecnologia è l’unica
alternativa».26

Dopo questo sproloquio ecologico-terzomondista, Robert Shapiro affronta la


parte filosofica del discorso che, devo dire, sulla carta non manca di attrattiva. Per
l’amministratore delegato della Monsanto, infatti, la biotecnologia è una
«tecnologia dell’informazione» che permette di sostituire l’utilizzo di materie
prime ed energie, nefasto per l’ambiente, con quello sofisticato dell’informazione
genetica: «L’informazione è uno dei modi per aumentare la produttività senza
abusare della natura», dichiara nella stessa intervista, considerato il credo di
quella che lui chiama la «nuova Monsanto». «Un sistema chiuso come la Terra
non può resistere a un aumento sistematico delle cose materiali, ma può
sopportare una crescita esponenziale di informazione e knovv-hovv. Se sviluppo
economico significa usare più materia, allora ha ragione chi afferma che crescita e
sviluppo sostenibile sono incompatibili. [... ] Ma lo sviluppo sostenibile e la
crescita possono essere compatibili, se riusciamo a creare valore e a soddisfare i
bisogni delle persone aumentando la componente di informazione in ciò che
produciamo, e diminuendo la quantità di materia utilizzata.»27

Per illustrare le proprie dichiarazioni, il dirigente della Monsanto prende


l’esempio dei pesticìdi, il 90 per cento dei quali si disperdono in natura al
momento dell’applicazione: «Se metteremo l’informazione giusta nella pianta,
perderemo meno materia e ne aumenteremo la produttività. [... ] La tecnologia
dell’informazione costituirà il nostro strumento più potente».

«Possiamo fidarci del produttore dell’agente arancio e lasciargli manipolare il


nostro cibo?» si interroga allora Business Ethics, la rivista per l’investimento
socialmente responsabile, a cui Robert Shapiro rilascia un’altra intervista, sempre
all’inizio del 1997.28 A dire la verità, leggendo le parole dell’amministratore di
Saint Louis mi sono posta esattamente la stessa domanda: davvero credeva in ciò
che diceva? Ho quindi ricostruito la carriera dell’ex allievo di Harvard, che amava
strimpellare la chitarra con Joan Baez alle manifestazioni contro la guerra del
Vietnam.

Di quei tempi ha conservato il disprezzo per le cravatte e l’attaccamento


all’area democratica. Dopo un passaggio nell’amministrazione di Jimmy Carter
(che diverrà un fervido difensore delle biotecnologie), nel 1979 viene reclutato
come direttore giuridico della Searle, diretta niente meno che da Donald
Rumsfeld, segretario alla Difesa di Gerald Ford dal 1975 al 1977 e di George W.
Bush dal 2001 al 2006.
All’epoca la Searle è in conflitto con la FDA, che decide di sospendere la
vendita dell’aspartame, un edulcorante sintetico oggetto di accese controversie,
perché sospettato di provocare tumori al cervello. Stranamente il prodotto,
venduto con il nome di NutraSvveet, (ri)ottiene l’omologazione nel 1981, quando
Donald Rumsfeld entra nell’équipe fresca di elezione di Ronald Reagan. Nel
frattempo Robert Shapiro, incaricato di gestire la polemica sull’aspartame, è stato
nominato capo del dipartimento NutraSvveet. È lui a negoziare con la Coca-Cola
l’introduzione dell’edulcorante nella nuova Coca-Cola Light. Shapiro fa quindi in
modo che compaia il marchio «NutraSvveet» - la piccola spirale rossa e bianca
sulle confezioni della bibita, impedendo così ai concorrenti produttori di
aspartame di venderne alla Coca-Cola.

Nel 1985 la Monsanto acquista la Searle, facendone la sua divisione


farmaceutica nel momento in cui deposita la richiesta di commercializzazione
dell’rBGH. Robert Shapiro, presentandosi come «appassionato di giardinaggio»,
prende il comando della divisione agricola della Monsanto nel 1990, diventando
così l’addetto alla supervisione del dossier sul Posilac, nome commerciale
dell’ormone della crescita bovina (vedi Capitoli 5 e 6).

Colpita da questo «dettaglio» della sua carriera, che getta un velo di sospetto
sul suo discorso ecologico-terzomondista, ho cercato di contattarlo. Nel 2006
Shapiro dirige la sede di Chicago del Belle Center, un’organizzazione non
governativa creata nel 1984 a Saint Louis, che si occupa dell’inserimento in
società dei bambini portatori di handicap. Secondo ciò che scrive Michael Specter
sul New Yorker, Shapiro, «uno dei dirigenti più pagati d’America» (venti milioni
di dollari nel 1988), «risponde alle e-mail il giorno stesso, e talvolta nel giro di
qualche minuto».29 Infatti, gli ho inviato una prima e-mail il 29 settembre 2006, a
cui ha risposto dopo mezz’ora, declinando educatamente la mia richiesta di
intervista: «Ormai è da qualche anno che non sono più impegnato
professionalmente nella biotecnologia. [... ] Non mi sento più competente per
parlarne».

Poi, essendo venuta a sapere che il sessantenne, padre di due figli adulti, si era
creato una nuova famiglia, il 30 settembre gli ho posto l’unica domanda che mi
stava veramente a cuore: «Come madre di tre bambine vorrei sapere che latte dà
lei ai suoi figli: latte normale [venduto senza distinzioni fra convenzionale e
transgènico, poiché ormai mescolati e senza diritto di etichettatura] o biologico?»
La risposta è stata quasi immediata: «Ho due figli: quello di dieci anni è
intollerante al lattosio, quello di otto consuma latte e gelati con il 2 per cento di
materia grassa.
Non abbiamo mai acquistato latticini biologici». Leggendo questa e-mail non
ho potuto evitare di ripensare a ciò che aveva scritto Business Ethics nel gennaio
1997: «È chiaro che Shapiro parla in due modi diversi.

Quando si esprime sullo sviluppo sostenibile ha un tono pieno di speranza.


Quando è interrogato sul Posilac, riformula le domande e ricicla le risposte
imparate a memoria per gli investitori di Wall Street».30

La «nuova» Monsanto «salverà il mondo» Robert Shapiro, da poco nominato


amministratore delegato della Monsanto, nell’aprile 1995 lancia la grande
«rivoluzione culturale» in grado di far entrare la vecchia azienda chimica nell’era
delle «scienze della vita». Questo nuovo concetto, basato sull’applicazione della
biologia molecolare all’agricoltura e alla salute, compare ufficialmente in
occasione del global forum aziendale organizzato dal «guru» nel giugno in un
hotel di Chicago. Cinquecento dirigenti venuti da tutte le filiali del mondo sono
invitati a scoprire la nuova politica della Monsanto, in un ambiente che rompe con
le leggendarie rigidità dell’azienda. L’« uomo della rinascita»,31 in maniche di
camicia, commuove fino alle lacrime quando evoca la vergogna che provano a
volte alcuni dipendenti nel dire per chi lavorano.

Quell’epoca è finita, perché la «nuova» Monsanto «salverà il mondo».

Forte del nuovo motto, «Cibo, salute e speranza», Robert Shapiro galvanizza le
truppe annunciando impianti in grado di produrre plastica biodegradabile, mais
che produce anticorpi contro il cancro e olio di colza o di soia che protegge dalle
malattie cardiovascolari. Alcuni testimoni raccontano che una dipendente,
Rebecca Tominack, esaltata da tutto questo, si è avvicinata all’amministratore per
dirgli: «Io sono con lei», poi, togliendosi dal collo il badge identificativo, l’ha
messo al collo di lui, in un gesto di fiducia compiuto anche da un altro centinaio
di dipendenti.

«Sono rimasto molto colpito dal discorso di Robert Shapiro, che ci esortava a
lavorare per migliorare il mondo», mi spiega Kirk Azevedo, dipendente della
Monsanto dal 1996 al 1998, che incontro il 14 ottobre in una cittadina sulla costa
occidentale, dove esercita ormai la professione di chiropratico. Laureato in
chimica e contattato da un cacciatore di teste, si era dimesso dai laboratori Abbott,
dov’era incaricato di testare nuovi pesticìdi, per entrare in quella che considerava
«l’azienda del futuro». Il suo compito era promuovere presso i negozianti di
sementi e gli agricoltori californiani due varietà di cotone transgènico che la
Monsanto si apprestava a lanciare sul mercato: un cotone Round-up Ready e uno
Bt, geneticamente manipolato per produrre una lectina insetticìda (come le patate
transgèniche di Arpad Pusztai), grazie all’introduzione di un gene proveniente dal
battèrio Bacillus thuringiensis.

«Ero entusiasta», mi racconta Kirk Azevedo. «Pensavo davvero che quei due
OGM avrebbero comportato una riduzione del consumo di erbicìdi e di insetticìdi.
Ma la prima nota discordante è giunta tre mesi dopo la mia assunzione. Ero stato
invitato a Saint Louis per visitare la sede e partecipare a uno stage destinato ai
nuovi arrivati. A un certo punto, mentre difendevo con fervore la biotecnologia
che avrebbe permesso di ‘diminuire l’inquinamento e la fame nel mondo’, uno dei
vicepresidenti della Monsanto mi ha preso in disparte e mi ha detto: ‘Quello che
dice Robert Shapiro è una cosa, ma per noi l’importante è fare soldi. Lui usa tante
belle parole, ma noi non capiamo nemmeno di che parli...’» «Chi era?»
«Preferisco non fare nomi», esita Kirk Azevedo. «In ogni caso, all’epoca ho
pensato che l’idea di quel dirigente fosse un’eccezione... Fino all’estate del 1997,
quando ho avuto la seconda grande disillusione. Mi trovavo in un campo a
valutare una piantagione sperimentale di cotone Round-up Ready, la cui
coltivazione non era ancora autorizzata. Con me c’era uno scienziato della
Monsanto, esperto di cotone. Discutevamo su che cosa avremmo fatto con quel
cotone una volta raccolto. Siccome ero molto ‘prò OGM’, ho detto che bisognava
venderlo al prezzo del ‘premium California’, perché dopotutto c’era solo un gene
di differenza con la varietà d’origine, che non ne avrebbe certo cambiato la
qualità. A quel punto lui mi ha detto: ‘No, ci sono altre differenze. Le piante di
cotone transgènico non producono solo la proteìna di resistenza al Round-up, ma
anche altre, e sconosciute, durante il processo di manipolazione’.

«Ero traumatizzato! All’epoca si parlava molto della malattia della mucca


pazza, l’encefalite spongiforme bovina, e della sua controparte umana, il morbo di
Creutzfeldt-Jacob, patologie gravissime provocate da macroproteìne chiamate
prioni. Sapevo che i nostri semi di cotone transgènici sarebbero stati venduti come
foraggio per il bestiame, e ho pensato che non avevamo nemmeno verificato se
queste proteìne ‘sconosciute’ non fossero per caso dei prioni. Ho condiviso le mie
preoccupazioni con lo scienziato della Monsanto, il quale mi ha risposto che non
avevamo tempo di occuparci di cose del genere. Ho tentato di parlarne con i miei
colleghi, ma a poco a poco sono stato messo da parte. Ho anche contattato
l’Università della California e alcuni rappresentanti del dipartimento
dell’Agricoltura, ma ho incontrato solo indifferenza. Ero così turbato che alla fine
ho deciso di dare le dimissioni, per non essere complice di un comportamento
tanto irresponsabile. Ma non è stata una decisione facile... Andandomene ho
rinunciato a un buono stipendio e ho sacrificato decine di migliaia di stock option.
Infatti, la Monsanto acquista il silenzio dei suoi dipendenti... » «Che cosa pensa
oggi del discorso di Robert Shapiro?» «Tutte chiacchiere! Quando ripenso al
modo in cui lavoravamo all’epoca, era un’eterna corsa contro il tempo; e l’unico
obiettivo era imporsi sul mercato delle sementi il prima possibile. Per salvare
davvero il mondo si deve cominciare verificando con cura la sicurezza dei
prodotti che si mettono in circolazione.» La corsa alle sementi Robert Shapiro, il
«visionario illuminato», si è quindi trasformato in un dubbio uomo d’affari, che in
tempi record ha saputo trasformare un gigante della chimica in operatore di un
mercato internazionale, le sementi, di cui detiene praticamente il monopolio.
Tuttavia, la partita non era ancora vinta. Infatti, quando nel 1993 l’équipe di
Stephen Padgette ottiene finalmente la famosa soia Round-up Ready, alla
Monsanto nessuno sa che cosa farsene. Certo, prima di tutto bisogna depositare il
brevetto sul prezioso gene, ma poi?

L’azienda di Saint Louis non è un produttore di sementi e l’unica soluzione è


vendere la scoperta a «qualcuno del mestiere». Dick Mahoney, amministratore
delegato dell’epoca, pensa subito alla Pioneer Hi-Bred International, che controlla
il 20 per cento del mercato americano delle sementi (il 40 per cento per il mais e il
10 per cento per la soia). L’azienda, creata nel 1926 a Des Moines, nell’Iowa, da
Henry Wallace, che diverrà vicepresidente degli Stati Uniti dal 1941 al 1945, è
nota soprattutto per avere inventato le varietà ibride di mais che hanno fatto la sua
fortuna. Il principio è il seguente: invece di lasciare che il mais si impollini
naturalmente per via aerea, si forzano le piante ad autofecondarsi per ottenere
discendenze pure, con caratteristiche genetiche stabili. Il risultato sono «ibridi»
che permettono una resa più elevata, ma i cui semi sono praticamente sterili. Per i
produttori di sementi è una miniera d’oro, poiché improvvisamente gli agricoltori
sono costretti ad acquistare le sementi ogni anno... Questa tecnica di ibridazione,
tuttavia, funziona solo per le piante «allogame», cioè che si riproducono per
fecondazione dell’ovulo di una pianta con il polline di un’altra pianta, e non per le
piante cosiddette «autogame», come il grano o la soia, in cui ogni pianta
garantisce la sua riproduzione attraverso i propri organi maschili e femminili
interni. Più avanti vedremo che questo «dettaglio» non sfuggirà alla Monsanto,
che lo aggirerà con il sistema dei brevetti.

Nel 2002 il giornalista americano Daniel Charles, nel già citato Lords of the
Harvest, riporterà con dovizia di particolari la stupefacente mutazione della
Monsanto avvenuta negli anni Novanta, una storia che qui riassumerò. Quando
nel 1993 Robert Shapiro, allora capo della divisione agricola della Monsanto,
incontra Tom Urban, dirigente della Pioneer HiBred International, per illustrargli
il gene Round-up Ready, viene ricevuto con serenità: «Complimenti!» ironizza
Urban. «Voi avete un gene! Noi ne abbiamo cinquantamila! Non siete voi ad
avere le chiavi del mercato, ma noi! Siete voi a dover pagare per mettere il vostro
gene nelle nostre varietà!»32 Ma dopo anni di ricerca a fondo perduto, Shapiro
non aveva scelta: l’obiettivo della Monsanto era fare soldi. Un primo accordo
viene quindi firmato con la Pioneer, che alla fine accetta di pagare, in una sola
volta e come saldo di tutti i conti aperti, cinquecentomila dollari per poter
introdurre il gene Round-up Ready nelle sue varietà di soia. Poi, ispirandosi al
successo del NutraSvveet con la Coca-Cola Light, Robert Shapiro ottiene che
venga stampata la scritta Round-up ready sui sacchetti di sementi. Ma in fin dei
conti non c’è molto da festeggiare: come sottolinea Daniel Charles, «il gene
Round-up Ready è diventato solo un veicolo che permette alla Monsanto di
vendere più erbicìdi».33

Comincia così un secondo negoziato sull’altra «caratteristica genetica»,


secondo l’espressione più usata, che la Monsanto ha in magazzino: il gene Bt, per
cui c’è una certa urgenza, perché molte aziende ne rivendicano la paternità (cosa
che comporterà un’infinita battaglia dei brevetti). Questa volta l’OGM non è
associato alla vendita di un pesticìda, poiché è il gene stesso a essere un pesticìda,
concepito a priori per uccidere la piralide del mais, un parassita molto diffuso (ne
riparlerò più avanti).

Robert Shapiro riesce dunque a farsi pagare questa performance con la somma
forfetaria e definitiva di trentotto milioni di dollari. In entrambi i casi le somme
versate dal produttore di sementi di Des Moines si riveleranno ridicole rispetto
all'immenso successo che incontreranno fin da subito i due tipi di OGM, e
soprattutto la soia Round-up Ready. Shapiro, amministratore delegato della
Monsanto dall’aprile 1995, cercherà di rinegoziare i due accordi, ma invano...

«Nella storia dell’agricoltura un’invenzione tecnica non era mai stata adottata
così rapidamente e con tanto entusiasmo», osserva Daniel Charles, il quale ricorda
che nel 1996 la soia Round-up Ready copriva quattrocentomila ettari negli Stati
Uniti, 3,6 milioni nel 1997 e dieci milioni nel 1998.34 Per capire l’entusiasmo che
suscitano in un primo tempo le colture Round-up Ready, bisogna mettersi nei
panni di un agricoltore americano come John Hofman, vicepresidente dell’ASA, e
noto per la sua vicinanza alla Monsanto.

Nell’ottobre 2006, nel momento del raccolto, Hofman mi ha ricevuta nella sua
immensa tenuta nell’Iowa, di cui non ha voluto comunicarmi la superficie. «Prima
di usare la tecnica Round-up Ready», mi spiega in mezzo a un campo di soia
transgènica di parecchie decine di ettari, «dovevo trattare il terreno per preparare
la semina. Poi dovevo applicare più di un erbicìda selettivo per liberarmi delle
erbe infestanti nel corso della stagione. Prima del raccolto dovevo ispezionare i
campi per togliere le ultime erbacce a mano. Adesso non li tratto più: dopo avere
sparso il Round-up una prima volta, semino direttamente nei residui del raccolto
precedente. Si chiama ‘semina diretta’ e permette di ridurre l’erosione del suolo.
Poi, a metà stagione, faccio una seconda applicazione di Round-up, e
normalmente basta fino al raccolto. Il sistema Round-up Ready mi permette
quindi di risparmiare tempo e denaro... » Nell’estate del 1995 vengono
organizzate dimostrazioni nelle pianure del Midwest, dove affluiscono agricoltori
affascinati da queste piante magiche. «Facevamo fare le irrorazioni direttamente
agli agricoltori», racconta un negoziante di sementi, «poi si fermavano a osservare
i campi. Era uno spettacolo formidabile. [... ] Non credevano ai loro occhi. Alla
fine tutti volevano comprarne.»35 «È stato incredibile», continua un altro
negoziante del Minnesota. «Penso che non succederà mai più una cosa simile. Gli
agricoltori avrebbero fatto qualunque cosa pur di procurarsi le sementi della soia
Round-up Ready. Compravano tutti i sacchi che avevamo.»36

L’entusiasmo per la soia Round-up Ready è tale che i principali produttori di


sementi americani si precipitano a Saint Louis per accaparrarsi il gene magico.
Ma Shapiro, dopo l’esperienza con la Pioneer Hi-Bred, ha imparato la lezione.
Ormai è lui a condurre il gioco: per ottenere il diritto di inserire il gene nelle loro
varietà, le aziende di sementi devono sottoscrivere una licenza, che permette alla
Monsanto di incassare i diritti su ogni seme transgènico venduto. Inoltre, Shapiro
impone una clausola che sarà denunciata come abusiva dagli organismi di
regolamentazione responsabili della concorrenza: firmando il contratto, le aziende
accettano che il 90 per cento degli OGM resistenti a un erbicìda che venderanno
devono contenere il gene Round-up Ready* Un modo di tagliare le gambe ai
concorrenti della Monsanto, come la tedesca AgrEvo, che ha dovuto rinunciare a
commercializzare OGM resistenti al Liberty, un erbicìda noto in Europa con il
nome di Basta, perché non trovava aziende produttrici di sementi disposte a
diventare sue partner.

Dal 1996 l’amministratore delegato della Monsanto cambia strategia:


consapevole che per garantire il massimo vantaggio bisogna possedere le sementi,
si lancia in un ambizioso programma di acquisizione delle aziende che le
producono, cosa che sconvolgerà profondamente le procedure agricole mondiali.
Per raggiungere tale obiettivo, Robert Shapiro non lesina sui mezzi: acquista per
un miliardo di dollari la Holden’s Foundation Seeds, ben posizionata sul mercato
americano del mais, i cui profitti annuali superano qualche miliardo di dollari,
rendendo il suo dirigente, Ron Golden, un «uomo ricchissimo dall’oggi al
domani».37

* Alla fine la percentuale sarà del 70 per cento, dopo l’intervento degli
organismi di regolamentazione.

Poi acquisisce molte altre aziende: Asgrovv Agronomics, principale


selezionatore di soia degli Stati Uniti; Dekalb Genetics (per 2,3 miliardi di
dollari), seconda azienda di sementi americana e nona in tutto il mondo, che
dispone di numerose succursali, o joint venture, soprattutto in Asia; Corn States
Hybrid Services (mais), Custom Farm Seeds e Firm Line Seeds (Canada); i
selezionatori britannici Plant Breeding International e Unilever (grano), ma anche
Sementes Agroceres, leader del mercato brasiliano del mais, Monsoy, numero uno
brasiliano per la soia, Ciagro (Argentina), Mahyco, principale fornitore di sementi
di cotone in India, poi Maharashtra Hybrid Seed Company, Eid Parry e Rallis, tre
aziende indiane; la sudafricana Sensako (grano, mais, cotone), la National Seed
Company (Malavvi) e la Agro Seed Corp (Filippine), senza dimenticare la
divisione internazionale di Cargill, primo commerciante di sementi del mondo,
con sede in Asia, Africa, Europa e America centrale e del Sud, che la Monsanto ha
acquistato per 1,4 miliardi di dollari.

In due anni Robert Shapiro spende più di otto miliardi di dollari e fa della
Monsanto la seconda azienda di sementi del mondo dopo Pioneer Hi-Bred* Per
finanziare questo costoso programma, nel 1997 Shapiro vende la divisione
chimica alla Solutia (vedi Capitolo 1). Ma non basta: deve contrattare un
indebitamento record, sostenuto dalla borsa di New York, che all’epoca si affida
alle «promesse della biotecnologia». Nel le azioni della Monsanto salgono del 74
per cento, e del 71 per cento nel 1996. Gli investitori seguono a occhi chiusi il
«guru di Saint Louis», fino al passo falso del marzo 1998, che dà il via alla
discesa agli inferi.

Il brevetto Terminator, un colpo di troppo per la Monsanto Il 3 marzo 1998 un


trafiletto del Wall Street Journal annuncia che l’USDA, allora retto da Dan
Glickman, e la Delta & Pine, maggiore produttore americano di semi di cotone,
hanno ottenuto congiuntamente un brevetto sul «controllo dell’espressione
vegetale dei geni». Dietro questo misterioso appellativo si nasconde una tecnica
che permette di modificare geneticamente le piante affinché producano semi
sterili. Messa a punto da Melvin Oliver, uno scienziato australiano che lavora nel
laboratorio di ricerca dell’USDA a Lubbock, nel Texas, la tecnica è anche
chiamata «Sistema di protezione della tecnologia» (sottinteso transgènica), perché
mira a impedire agli agricoltori di riseminare una parte del raccolto,
costringendoli così ad acquistare ogni anno le sementi e quindi a pagare i diritti ai
produttori di OGM. Concretamente, la pianta è stata manipolata per produrre, alla
fine della sua crescita, una proteìna tossica che rende i semi sterili.

* La Monsanto continuerà le acquisizioni all’inizio degli anni Duemila. Con


l’acquisto di Seminis (sementi orticole), nel 2005 l’azienda è diventata il primo
produttore di sementi del mondo.

Il trafiletto del Wall Street Journal è stato scoperto per caso da Hope Shand,
direttrice della ricerca della Rural Advancement Foundation International (RAFI),
una ONG canadese poi ribattezzata Erosion, Technology, Concentration Group
(ETC Group) che si batte per la tutela della biodiversità e contro gli effetti
indesiderati dell’agricoltura industriale.

Presto Hope Shand informa il proprio direttore, Pat Mooney, che esclama: «Ma
è come Terminator!» Da allora questa espressione indica la tecnica di
sterilizzazione e, più in generale, gli obiettivi generali dei produttori di OGM.
Quando lo incontro a Ottawa, nel settembre 2004, Pat Mooney mi spiega:
«Questa tecnica minacciava direttamente la sicurezza alimentare, soprattutto nei
Paesi in via di sviluppo, dove oltre 1,5 miliardi di persone sopravvivono grazie
alla conservazione delle sementi.

Pensi che le piante Terminator si incrociano con le colture circostanti e


rendono sterili i semi raccolti dai piccoli contadini: per loro è una catastrofe, ma
anche per la biodiversità, finora tenuta in vita continuando a riseminare ogni anno
varietà locali, adatte a un clima e a un terreno specifici».

L’11 marzo 1998 la RAFI pubblica un comunicato dal titolo «La tecnologia
Terminator, una minaccia globale per i contadini, per la biodiversità e per la
sicurezza alimentare», ma passa praticamente inosservato.

«In realtà», sorride Pat Mooney, «è grazie alla Monsanto che la nostra
campagna ha avuto un successo di portata mondiale...» Due mesi dopo, infatti,
Robert Shapiro annuncia di stare negoziando l’acquisto della Delta & Pine per 1,9
miliardi di dollari. La notizia provoca una protesta internazionale, perché
l’amministratore di Saint Louis recupera così il famoso brevetto Terminator. Le
ONG ecologiste non sono le uniche a reagire: manifestano il proprio dissenso
anche la Fondazione Rockefeller, che ha sostenuto la rivoluzione verde negli anni
Sessanta e che, tuttavia, appoggia le biotecnologie, e il Consultive Group on
International Agricultural Research (CGIAR), che si impegna pubblicamente a
non usare Terminator nei suoi programmi sulle sementi. A quel punto la
convenzione dell’ONU sulla diversità biologica approva una moratoria, ancora in
vigore dopo dieci anni, sugli esperimenti sul campo e sull’uso commerciale di
Terminator. Infine, anche la commissione antitrust americana contesterà
l’acquisizione*

Per la Monsanto le cose non potevano andare peggio. Dall’autunno del 1997 in
Europa tutti i segnali sono effettivamente negativi. I primi carichi di soia
transgènica sono bloccati nei porti del vecchio continente su iniziativa di
Greenpeace, che conduce una campagna molto efficace contro il «cibo di
Frankenstein». L’azienda, forte del successo in America del Nord, dove ha
dimostrato la propria forza imponendo di evitare l’etichettatura e la segregazione
degli OGM, non si aspettava che il granellino di sabbia di Greenpeace inceppasse
gli ingranaggi del sistema. Il 26 maggio 1998 l’Europa adotta il regolamento
1139/98, che conferma l’etichettatura dei prodotti transgènici. Fin dall’inizio
dell’anno la Monsanto ha riunito delle unità di crisi a Saint Louis, Chicago,
Londra e Bruxelles, quindi prende la decisione di lanciare, a inizio giugno 1998,
una massiccia campagna pubblicitaria in Germania, Francia (venticinque milioni
di franchi) e Gran Bretagna (un milione di sterline).

Concepita dall’agenzia inglese Bartle Bogle Hegarty, la campagna segue un


unico modello in tutti e tre i Paesi: «La biotecnologia alimentare è una questione
di opinioni», dice il primo messaggio britannico. «La Monsanto pensa che
dovreste ascoltarle tutte.» Seguono i numeri di telefono e gli indirizzi dei
principali avversari dell’azienda, come Amici della terra o Greenpeace. Il primo
messaggio pubblicitario francese annuncia: «Il 69 per cento dei francesi non si
fida delle biotecnologie, il 63 per cento dichiara di non sapere che cosa siano. Per
fortuna il 91 per cento sa leggere». Gli altri spot riprendono la visione messianica
di Robert Shapiro, con quel tono moralistico che lui adora: «Ci troviamo all’alba
di un nuovo millennio e tutti sogniamo un domani senza fame nel mondo. Perché
il sogno si realizzi, dobbiamo accogliere la scienza che promette speranza. La
biotecnologia è lo strumento del futuro. Frenarne lo sviluppo è un lusso che
un mondo che soffre la fame non può permettersi».

* La Monsanto riuscirà ad acquistare Delta & Pine, e quindi il famoso


brevetto, solo nel 2006.

In un’intervista alla rivista Chemistry and Industry, Jonathan Ramsay, un


dirigente della Monsanto, riassume alla perfezione lo spirito di questa campagna,
giudicata da molti piuttosto arrogante: «Ce la faremo se la biotecnologia diventerà
sempre meno un argomento da luddisti superstiziosi e più il fulcro di un dibattito
pubblico, serio e informato».38

In Gran Bretagna il flop è immediato, grazie all’intervento del principe del


Galles, convinto sostenitore dell’agricoltura biologica. Al lancio della campagna
della Monsanto, il principe pubblica sul Daily Telegraph un articolo intitolato «I
semi del disastro»: «Ho sempre pensato che l’agricoltura dovesse svilupparsi in
armonia con la natura, riconoscendo che esistono limiti naturali alle nostre
ambizioni», scrive. «Semplicemente, non sappiamo quali conseguenze a lungo
termine potranno avere sulla salute umana e sull’ambiente le piante selezionate in
questo modo.

Ci garantiscono che sono state rigorosamente testate e regolamentate, ma le


procedure di valutazione sembrano presumere che, fino a quando non viene
dimostrata la pericolosità di una pianta transgènica, non c’è motivo di vietarne
l’utilizzo. [... ] Personalmente, non desidero alimentarmi con nessun prodotto
proveniente dalla manipolazione genetica, e non nutrirò la mia famiglia, né i miei
ospiti con sostanze del genere.»38

Le parole del principe sono riprese da tutta la stampa britannica, costringendo


così l’azienda di Saint Louis a riconoscere le proprie colpe, dimostrazione del
fatto che la cosa è seria: «Abbiamo forzato i tempi», ammette Toby Moffett,
vicepresidente incaricato degli affari governativi internazionali, «un po’ come
qualcuno che cerca di imporsi in una festa privata. Non siamo stati abbastanza
europei».40

In questo contesto scoppia il caso di Arpad Pusztai. Colmo della «sfortuna»,


all’indomani della trasmissione in cui Pusztai pronuncia la famosa frase, cioè
nell’agosto 1998, l’autorità britannica che supervisiona la pubblicità istruisce
quattro citazioni in giudizio contro la Monsanto per «falsa pubblicità»: in uno dei
messaggi della campagna l’azienda affermava che gli OGM avevano ricevuto
regolare approvazione in venti Paesi, compreso il Regno Unito.41 Poi, siccome le
sventure non vengono mai da sole, nel settembre 1998 la rivista britannica The
Ecologist pubblica uno speciale di settantacinque pagine che racconta la storia
dell’azienda fin dalle origini nel 1905:42 le quattordicimila copie della prima
edizione sono state distrutte da Penvvells, lo stampatore che lavorava per la rivista
da venticinque anni, a causa di «pressioni» di cui non ha mai voluto parlare. Zac
Goldsmith, direttore di Ecologist, ha dovuto trovare un altro stampatore, ma due
grosse aziende di distribuzione britanniche hanno rifiutato di consegnare le
copie.43

Il valzer degli amministratori Per Robert Shapiro la gloria finisce.


Dall’autunno del 1998 le azioni dell’azienda di Saint Louis crollano: «Negli
ultimi quattordici mesi la Monsanto ha perso un terzo del suo valore», sottolinea
il Washington Post un anno dopo. «Certi analisti pensano che i dirigenti
dell’azienda potrebbero essere costretti a cambiamenti radicali, compreso lo
smembramento della Monsanto.»44 Nello stesso momento Le Monde scrive:
«Ormai la Monsanto è solo una specie di enorme start up delle biotecnologie
vegetali, con un fatturato di 8,6 miliardi di dollari e perdite di duecentocinquanta
milioni di dollari nel 1998. Le ultime e numerose acquisizioni nel settore delle
sementi, pagate talvolta a peso d’oro, hanno influito sui suoi risultati. Gli
investitori cominciano a snobbare l’azienda [... ] e gli amici di ieri si allontanano,
per paura di essere a loro volta screditati».46

La sbandata è tale che Robert Shapiro è costretto al cessate il fuoco anche con i
suoi peggiori nemici: il 6 ottobre 1999 accetta di prendere parte a una business
conference organizzata da Greenpeace a Londra.

Tuttavia, non avendo potuto (e osato) presentarsi personalmente all’incontro, il


suo intervento viene registrato a Saint Louis e trasmesso via satellite su uno
schermo gigante, che mostra un viso «tirato e cinereo», per riprendere le parole
del Washington Post.46 L’amministratore, che si dimetterà qualche mese dopo,
chiedendo ammenda di fronte a un pubblico sbalordito, dichiara: «Probabilmente
abbiamo irritato e infastidito più persone di quante ne abbiamo convinte. La
fiducia e l’entusiasmo per questa tecnologia sono stati interpretati, e posso capirlo
benissimo, come condiscendenza o persino arroganza». Poi, interpellando Peter
Melchett, presidente di Greenpeace Gran Bretagna ed ex ministro
dell’Agricoltura, si impegna a «non commercializzare la tecnologia di
sterilizzazione delle sementi comunemente chiamata Terminator», per poi
promettere: «Contribuiremo a sviluppare risposte costruttive per tutte le domande
che la gente si pone all’alba di questa nuova invenzione. Ciò significa, per me,
ascoltare tutti i punti di vista con attenzione e rispetto».

Mentre pronuncia queste parole, Robert Shapiro sta cercando disperatamente


un socio per salvare l’azienda. Innanzitutto prende accordi con American Home
Products, poi con la DuPont di Nemours, ma le transazioni non danno frutto. Alla
fine, come già sappiamo (vedi Capitolo 1), il 19 dicembre 1999 la Monsanto
annuncia la fusione con Pharmacia &

Upjohn, un’azienda farmaceutica di origine svedese con sede nel New Jersey.
«I termini della fusione segnano il fallimento della visione dirigenziale della
Monsanto e del suo amministratore, Robert Shapiro», commenterà Michael
Watkins, ricercatore della Harvard Business School.47 La nuova corporation,
battezzata Pharmacia, non ha occhi che per la Searle, l’ex divisione farmaceutica
della Monsanto, il cui valore è all’epoca stimato ventitré miliardi di dollari (la
Searle produce soprattutto il Celebrex, un farmaco contro l’artrite). Inoltre,
cercherà di staccarsi al più presto dalla divisione agrochimica della Monsanto,
cioè la «nuova Monsanto», di cui si libererà definitivamente nell’estate del 2002,
quando anche Pharmacia sarà contemporaneamente assorbita dalla Pfizer.

La visione messianica di Robert Shapiro, che sognava un’azienda dedita alle


«scienze della vita», è ormai superata. Quando lascia le redini, dopo la fusione
con Pharmacia & Upjohn, la Monsanto mostra il suo vero volto: è il primo
fornitore mondiale di sementi transgèniche, ma trae il 45 per cento dei suoi
profitti dal Round-up, minacciato dall’arrivo dei generici. L’amministratore
«visionario» viene succeduto dal belga Hendrik Verfaillie, che sarà sostituito a sua
volta nel dicembre 2002 per «scarsi risultati».48 Gli succede allora lo scozzese
Hugh Grant (ancora amministratore delegato della Monsanto all’inizio del 2008),
che ha la delicata missione di raddrizzare il tiro, mentre in America del Nord gli
OGM non raccolgono certo consensi unanimi, nemmeno nei campi.
10. La legge ferrea dei brevetti sugli organismi viventi

«La Monsanto e i suoi prodotti contribuiscono positivamente a un’agricoltura


sostenibile.» Monsanto, The Pledge Report 2005, p. 14

«Una delle cose che mi preoccupano di più sono gli effetti della biotecnologia
sull’agricoltura familiare», dichiarava Dan Glickman il 13 luglio 1999, in
occasione del famoso discorso che ha tanto irritato i suoi colleghi del Commercio
estero americano. «La questione del sapere chi possiede cosa alimenta dibattiti già
assai spinòsi. Si vedono aziende denunciarne altre per problemi di brevetti, anche
nei casi di fusione. Gli agricoltori si mettono contro i loro vicini per proteggere i
diritti di proprietà intellettuale delle multinazionali. [... ] I contratti con gli
agricoltori devono essere giusti, perché i lavoratori non si trasformino in semplici
schiavi della terra.» L’arma dei brevetti Con questo discorso iconoclasta, il
segretario dell’Agricoltura di Bill Clinton affrontava uno degli argomenti più cari
agli oppositori degli OGM: i brevetti. «Abbiamo sempre denunciato il doppio
gioco delle aziende della biotecnologia», mi spiega Michael Hansen, l’esperto del
Consumer Policy Institute. «Da un lato dicono che non è necessario testare le
piante transgèniche, perché strettamente simili agli omologhi convenzionali;
dall’altro chiedono dei brevetti, dicendo che gli OGM rappresentano una
creazione unica. Bisogna mettere le cose in chiaro: o la soia Round-up Ready è
identica alla soia convenzionale, o non lo è! Non può essere entrambe le cose
contemporaneamente, secondo gli interessi della Monsanto!» Sino alla fine degli
anni Settanta sarebbe stato inconcepibile presentare una richiesta di brevetto su
una varietà vegetale. Anche negli Stati Uniti la legge sui brevetti del 1951 esigeva
chiaramente che riguardassero solo le macchine e i processi industriali, e in
nessun caso gli organismi viventi, e quindi le piante. In origine, in effetti, il
brevetto rappresenta uno strumento di politica pubblica che mira a stimolare le
innovazioni tecnologiche, concedendo all’inventore un monopolio di produzione
e di vendita del prodotto per vent’anni. «I criteri di attribuzione dei brevetti sono
molto rigidi», commenta Paul Gepts, ricercatore del dipartimento di biologia
molecolare dell’Università di Davis, in California, dove mi riceve nel luglio 2004.
«I requisiti sono tre: la novità assoluta del prodotto, l’inventiva e il potenziale
utilizzo industriale. Fino al 1980 il legislatore aveva escluso gli organismi viventi
dal campo dei brevetti, perché affermava che in nessun caso potevano soddisfare
il primo criterio: anche se l’uomo interviene sul loro sviluppo, gli organismi
viventi esistevano già prima della sua azione e, inoltre, possono riprodursi da
soli.» Con l’arrivo dei selezionatori si era posto il problema delle varietà vegetali
«migliorate» con la tecnica della selezione genealogica {vedi Capitolo 7). Le
aziende di sementi, ansiose di recuperare i propri investimenti, avevano ottenuto
che fosse attribuito alle «loro varietà» un «certificato di conseguimento vegetale»,
che gli permetteva di vendere licenze di sfruttamento ai negozianti o di includere
una sorta di tassa nel prezzo delle sementi. Ma questo certificato, noto come Plant
Variety Protection Act negli Stati Uniti* non era che un lontano parente del
brevetto, poiché non impediva ai contadini di tenere una parte del raccolto per
seminare i campi l’anno successivo, né ai ricercatori come Paul Gepts, o ai
selezionatori, di usare la varietà interessata per crearne di nuove. È ciò che viene
definita «eccezione del contadino e del ricercatore».

Questo sistema è garantito dagli accordi dell’International Union for the


Protection of New Varieties of Plants (UPOV), firmati da trentasette Paesi nel
1973.

Nel 1980, però, è cambiato tutto. In quell’anno la Corte suprema degli Stati
Uniti ha emesso una sentenza carica di conseguenze, dichiarando brevettabile un
microrganismo transgènico. La storia era cominciata otto anni prima, quando
Ananda Mohan Chakrabarty, un ingegnere genetico che lavorava per la General
Electric, aveva richiesto un brevetto per un battèrio che aveva manipolato perché
riuscisse a inglobare i residui di idrocarburi. L’ufficio brevetti di Washington
aveva respinto la richiesta, secondo la legge del 1951. Chakrabarty era ricorso in
appello e aveva vinto. La Corte suprema aveva dichiarato: «Tutto ciò che sotto il
sole è stato toccato dall’uomo può essere brevettato».

Questa sconvolgente decisione aveva aperto la strada a ciò che alcuni


chiamano «privatizzazione degli organismi viventi». In effetti dal 1982, basandosi
sulla giurisprudenza americana, l’Ufficio europeo dei brevetti di Monaco ha
concesso brevetti su microrganismi, piante (1985), animali (1988) ed embrioni
umani (2000). In teoria questi brevetti possono essere concessi solo se
l’organismo vivente è stato manipolato con tecniche di ingegneria genetica, ma in
realtà questa evoluzione va ben oltre gli OGM. Attualmente vengono concessi
brevetti per piante non transgèniche, soprattutto quelle che presentano virtù
medicinali, in totale violazione delle leggi esistenti: «Dall’avvento della
biotecnologia si assiste a una deriva del diritto comune dei brevetti», mi ha
spiegato nel febbraio 2005 Christoph Then, rappresentante di Greenpeace a
Monaco. «Per ottenere un brevetto non è più necessario presentare una vera e
propria invenzione, ma spesso basta una semplice scoperta: si scopre la funzione
terapeutica di una pianta, come per esempio il neem (Azadirachta indica), la si
descrive e la si isola dal contesto naturale, chiedendo di brevettarla. La cosa
determinante è che la descrizione sia effettuata in un laboratorio, e che non si
tenga conto del fatto che altrove la pianta e le sue virtù siano note da migliaia di
anni.»1

Oggi l'ufficio brevetti di Washington concede ogni anno più di settantamila


brevetti, il 20 per cento dei quali riguarda organismi viventi. Ho dovuto lottare a
lungo prima di ottenere un incontro con un rappresentante di questa enorme
istituzione, che dipende dal dipartimento del Commercio americano e impiega
settemila agenti. Vera e propria roccaforte nella periferia di Washington, è un
luogo strategico per un’azienda come la Monsanto, che fra il 1983 e il 2005 ha
ottenuto seicentoquarantasette brevetti in materia di piante.

«Il caso Chakrabarty ha aperto la strada a un periodo molto entusiasmante»,


gioisce John Doli, che lavora al dipartimento di biotecnologia dell’Ufficio brevetti
e mi riceve nel settembre 2004. «Ormai rilasciamo brevetti sui geni, sulle
sequenze di geni, sulle piante e sugli animali transgènici, insomma su tutti i
prodotti dell’ingegneria genetica.» «Ma un gene non è un prodotto...» dico io,
colpita dal suo tono.

«Certo», ammette John Doli, «ma siccome l’azienda è riuscita a isolare il gene
e a descriverne la funzione, può ottenere un brevetto... » Il «nuovo ordine
agricolo» Come abbiamo visto, quando i ricercatori della Monsanto sono riusciti a
modificare la «cassetta genetica» rendendo la soia resistente al Round-up, la
multinazionale ha inoltrato una richiesta di brevetto, che ha ottenuto senza
difficoltà. Negli Stati Uniti è valido fino al 2014. Nel giugno 1996 l’Ufficio
europeo di Monaco concede a sua volta un brevetto alla soia Round-up Ready,
che per estensione si applica a tutte le varietà vegetali in cui la famosa cassetta
può essere inserita: «Mais, grano, riso, soia, cotone, canna da zucchero,
barbabietola, colza, lino, girasole, patata, tabacco, pomodoro, erba medica,
pioppo, pino, melo e vite»,* cosa che la dice lunga sui progetti dell’azienda.

Rimanevano da trovare i mezzi per far rispettare ciò che l’azienda chiama
«diritti di proprietà intellettuale». Si potrebbe pensare che la strategia di vendere
prima licenze d’uso ai negozianti di sementi, poi di acquistare le principali
aziende di sementi, bastasse a garantire i famosi «ritorni di investimento», ma non
è stato così. In realtà, il vero problema della Monsanto erano i contadini stessi
che, un po’ in tutto il mondo, avevano mantenuto l’odiosa abitudine di conservare
una parte del raccolto per riseminarlo (salvo per gli ibridi che, come abbiamo
visto, non riguardano le piante autogame come la soia o il grano). «In alcuni Paesi
i contadini conservano i semi per seminarli l’anno dopo», osservava con
discrezione nel 2005 The Pledge Report. «Quando la semente possiede una
caratteristica brevettata, come nel caso del gene Round-up Ready, questa
procedura tradizionale crea un dilemma [corsivo mio] per l’azienda che ha
sviluppato la varietà.»2 In un altro rapporto più «professionale», il Form 10K, che
è il rapporto di attività che l’azienda deve inviare ogni anno agli azionisti, oltre
che alla Security and Exchange Commission (SEC), i termini sono più diretti: alla
voce «concorrenza» gli autori evidenziavano che nel 2005 i mercati globali erano
«altamente concorrenziali per i nostri prodotti», e che «in certi Paesi siamo in
concorrenza con le aziende di sementi pubbliche», oltre che «con gli agricoltori, i
quali, conservando le sementi da un anno all’altro, influenzano la nostra
competitività».*

* Si tratta del brevetto EP 546090, chiamato Glyphosate Tolerant 5-


Enolpyruvylshikimate-3-Phosphate Synthases.

Leggendo le parole della Monsanto si ha l’impressione che l’abitudine di


conservare le sementi esista solo in Paesi lontani e arretrati. Invece no! Infatti,
quando Robert Shapiro ha la brillante idea di far firmare un technology use
agreement (accordo sull’uso della tecnologia) a ogni contadino americano che
acquista sementi di soia Round-up Ready, incontra molta resistenza. Tale accordo,
trasmesso obbligatoriamente dai negozianti, che non ne erano certo entusiasti,
prevedeva il pagamento di una «tassa tecnologica», prima fissata a 5 dollari, poi a
6,50 per ogni acro (0,4 ettari) coltivato a soia, ma anche e soprattutto l’impegno a
non riseminare l’anno dopo una parte dei semi raccolti. In più c’era anche una
clausola che costringeva i «clienti» a usare solo il Round-up della Monsanto, e
non uno dei numerosi generici presenti sul mercato dalla scadenza del brevetto
nel 2000.

Ancora oggi i termini del contratto, che deve essere assolutamente firmato,
sono severissimi: gli agricoltori che trasgrediscono devono pagare una multa
salata, pena un processo di fronte al tribunale di Saint Louis (cosa che, come
vedremo, presenta tuttavia qualche vantaggio).
* Firmato da Hugh Grant, questo documento di centoquattordici pagine
riguarda l’anno fiscale che va dal 1° settembre 2004 al 31 agosto 2005.

Inoltre, l’azienda si arroga il diritto di analizzare i conti dei suoi clienti fino a
tre anni prima, oltre che di ispezionarne i campi al minimo sospetto: «Se la
Monsanto ha ragione di pensare [corsivi miei] che un produttore abbia ripiantato
sementi conservate dal precedente raccolto, può richiedere che vengano esibite le
fatture, o altrimenti verificare in altro modo che i campi siano stati seminati con
semi acquistati di recente. Se quanto richiesto non viene fornito entro trenta
giorni, la Monsanto potrà ispezionare e testare tutti i campi del produttore».3

La minaccia vale anche per i negozianti di sementi che, fra le altre attività,
dovevano (in America del Nord ormai si impone l’imperfetto)

«ripulire» i semi che i contadini avevano raccolto prima che li potessero


riutilizzare, portando via le filacce. Così, dichiara Daniel Charles nel suo Lords of
the Harvest, Roger Peters, un negoziante dell’Ohio, è stato costretto ad appendere
un cartello nel suo negozio per tutelarsi da quelli che la Monsanto chiamava i
«pirati»: Informazione importante PER CHI CONSERVA SEMENTI E LE
RIPIANTA

I semi di soia Round-up Ready non possono essere riseminati.

Sono protetti dai brevetti americani n. 4535060, 4940835, 5633435 e 5530196.


Qualunque coltivatore conservi semi Round-up Ready espone il negoziante che
glieli ha venduti e se stesso a grossi rischi.4

«Alla fine», osserva Daniel Charles, «i contadini si sono rassegnati.

Hanno firmato e si sono uniformati al nuovo ordine agricolo.»5 Per il professor


Peter Carstensen, economista all’Università di Madison, nel Wisconsin, la
procedura istituita dalla Monsanto segna una «doppia rivoluzione»: «La prima»,
mi spiega quando lo incontro nell’ottobre 2006, «è il fatto di avere il diritto di
brevettare sementi, cosa assolutamente proibita fino all’arrivo della biotecnologia;
la seconda è l’estensione dei diritti del produttore conferiti dai brevetti. A questo
proposito mi rifarò all’immagine usata dalla Monsanto, che paragona la semente
transgènica a un’auto a noleggio: una volta utilizzata, la si restituisce al
proprietario. In altre parole, l’azienda non vende sementi, ma si limita ad affittarle
per una stagione, rimanendo la proprietaria ad vìtam aeternam dell’informazione
genetica contenuta nei semi, sprovvisti dello statuto di organismo vivente per
diventare un semplice ‘bene di consumo’ [commodity ]. Alla fine i contadini sono
diventati gli esecutori della proprietà intellettuale della Monsanto. Sapendo che le
sementi costituiscono la base dell’alimentazione del mondo, penso che ci siano
tutte le ragioni di preoccuparsi».

«Ma di quali mezzi dispone la Monsanto per far rispettare la sua propria
legge?» «Di mezzi enormi!» mi risponde il professor Carstensen. «Sono rimasto
sconvolto quando ho saputo che l’azienda si era avvalsa dei servizi dell’agenzia di
investigazioni Pinkerton* La Monsanto paga i suoi agenti per ispezionare la
campagna e scovare i truffatori, incoraggiandoli persino alla delazione. L’azienda
ha attivato un numero verde a cui chiunque può denunciare il proprio vicino.
Insomma, impiega molto denaro per imporre la propria legge nei campi.»
Naturalmente, tutto ciò avrebbe potuto essere evitato se Robert Shapiro avesse
potuto usare la tecnologia del Terminator, che gli avrebbe permesso di risolvere il
«dilemma» dell’azienda senza sborsare un soldo, e soprattutto senza dover
mettere in piedi una vera e propria macchina da guerra, peraltro assai impopolare.

La polizia dei geni «Gli OGM sono protetti dalla legge americana sui
brevetti», mi spiega John Hofman, vicepresidente dell’ASA, con l’immancabile
sorriso che accompagna ogni sua frase. «Non ho il diritto di conservare dei semi
per ripiantarli l’anno dopo. È una tutela per la Monsanto e per le aziende di
biotecnologia, che hanno investito milioni di dollari in questa nuova tecnologia
che tutti siamo felici di usare.» A sentire l’agricoltore dell’Iowa mi viene in mente
Hugh Grant, l’amministratore delegato della Monsanto che, in un’intervista con
Daniel Charles, diceva: «È nostro interesse tutelare la proprietà intellettuale dei
semi, e per questo non dobbiamo scusarci. [... ] C’è un gene che appartiene alla
Monsanto ed è illegale che un agricoltore lo ricrei in un secondo raccolto».6

* Famosa negli Stati Uniti per i suoi metodi forti, simili a quelli di una
milizia privata, soprattutto quando veniva pagata per placare gli scioperi operai
alla fine del XIX secolo. La Pinkerton National Detective Agency è stata creata
nel 1850 da Allan Pinkerton, che ha conosciuto il massimo della gloria
denunciando un tentativo di attentato contro il presidente Abraham Lincoln, il
quale a sua volta ha reclutato presso l’agenzia gli addetti per la propria sicurezza
durante la guerra di secessione. Forte del suo logo, un occhio con la frase «Noi
non dormiamo mai», l’agenzia è diventata famosa come «bloody Pinkerton», cioè
la «Pinkerton sanguinaria».
«Come fa la Monsanto a sapere che qualcuno ha riutilizzato i suoi semi?»
chiedo a John Hofman.

«Beh...» esita, visibilmente in imbarazzo. «Non saprèi rispondere...

Però è un’ottima domanda per la Monsanto... » Purtroppo, come ho detto


all’inizio del libro, il responsabile delle pubbliche relazioni della Monsanto ha
rifiutato di ricevermi. Eppure sarebbe stato interessante intervistare Christopher
Horner, perché secondo un articolo del Chicago Tribune è stato lui a doversi
esporre per difendere il suo datore di lavoro quando il CFS ha pubblicato un
rapporto molto inquietante, nel novembre 2004, intitolato Monsanto vs. US
Farmers (Monsanto contro gli agricoltori degli Stati Uniti). Questo documento di
ottantaquattro pagine conferma l’esistenza di quella che in America del Nord
viene chiamata «polizia dei geni», rappresentata dalle agenzie Pinkerton negli
Stati Uniti e Robinson in Canada.7 Nel testo si legge anche che dal 1998 l’azienda
di Saint Louis conduce una vera e propria caccia alle streghe nelle praterie
americane, che ha portato a «migliaia di inchieste, un centinaio di processi e
numerosi fallimenti».8

«Queste procedure rappresentano una percentuale minima rispetto ai circa


trecentomila utenti della nostra tecnologia», ha replicato Christopher Horner. «I
processi costituiscono l’ultima spiaggia per l’azienda.»9 Quanto a Joseph
Mendelson, direttore giudiziario del CFS, denuncia i «metodi dittatoriali» della
multinazionale, pronta a tutto, secondo lui, pur di «imporre il proprio controllo su
tutti gli aspetti dell’agricoltura». Il rapporto da lui coordinato fa rabbrividire:
dopo avere ricordato che nel 2005 l’85 per cento della soia, l’84 per cento della
colza, il 76 per cento del cotone e il 45 per cento del mais coltivati negli Stati
Uniti erano transgènici, osserva che «nessun contadino è al sicuro dalle
investigazioni brutali e dalle implacabili persecuzioni della Monsanto: alcuni
agricoltori sono stati condannati dopo che il loro campo era stato contaminato dal
polline o dalle sementi provenienti dal campo transgènico di un vicino; o quando i
‘semi ribelli’ rimasti da una coltivazione precedente hanno germinato, l’anno
successivo, nel bel mezzo di una piantagione non transgènica; alcuni non avevano
nemmeno firmato un contratto per questa tecnologia. In tutti questi casi, per come
viene applicata la legge sui brevetti, i contadini sono stati considerati
tecnicamente responsabili».

Per condurre il proprio studio, il CFS ha consultato i dati forniti dall’azienda


stessa, che rende regolarmente pubblici i casi di «pirateria di sementi» individuati
nel Paese. Una misura di trasparenza inusuale destinata a dissuadère gli eventuali
trasgressori della legge di ferro. Si scopre così che nel 1998 la multinazionale ha
«indagato» su quattrocentosettantacinque casi di «pirateria» e che, fino al 2004, la
media annuale superava i cinquecento. Il CFS ha usato questi dati per il
censimento delle «cause indette dalla Monsanto contro agricoltori americani»,10
stabilito dal registro dei cancellieri dei tribunali federali che, al 2005, avevano
registrato novanta processi. La media delle indennità ottenute dall’azienda
ammonta a 412.259 dollari, con un massimo di 3.052.800 dollari e un totale di
15.253.602 dollari (in certi casi, per quanto eccezionali, gli agricoltori non sono
stati condannati). Le procedure hanno comportato il fallimento di otto aziende
agricole. «In realtà», mi spiega Joseph Mendelson, «queste cifre rappresentano
solo la parte emersa dell’iceberg, poiché riguardano esclusivamente i rari casi che
sono andati in tribunale. La maggioranza dei contadini accusati, molto spesso
ingiustamente, preferiscono negoziare, perché temono le spese che comporterebbe
un processo contro la Monsanto. Tutti questi regolamenti di conti amichevoli però
non compaiono, perché accompagnati da una clausola di segretezza.» Nel
rapporto del CFS si scopre che la Monsanto dispone di un budget annuale di dieci
milioni di dollari e di uno staff di settantacinque persone per condurre le proprie
«inchieste». La sua principale fonte informativa è il numero verde «1-800-Round-
up», che l’azienda ha attivato ufficialmente il 29 settembre 1998, con un vero e
proprio comunicato stampa: «Lasciate un messaggio sulla segreteria se volete
denunciare eventuali violazioni della legge sulle sementi o qualunque altro tipo di
informazione», dice la voce registrata. «È importante usare linee fisse, perché i
cellulari possono essere intercettati. Potete rimanere anonimi, ma preferiremmo
che lasciaste il vostro nome e numero di telefono, nel caso fosse necessario
ricontattarvi.»11 Secondo Daniel Charles, la «linea delle spie» ha ricevuto
millecinquecento chiamate nel 1999, cinquecento delle quali hanno innescato
un’«inchiesta».12 Karen Marshall, portavoce della Monsanto, interrogata su
questa «linea delle spie» e sospettata di «sfilacciare i legàmi sociali che
sostengono le comunità rurali», per usare le morbide parole del Washington Post,
si è limitata a rispondere: «Fa parte della rivoluzione agricola, e qualunque
rivoluzione è dolorosa.

Ma la tecnologia è buona».18

«Possediamo tutti quelli che acquistano i nostri prodotti» La maggior parte


degli agricoltori condannati e contattati dal CFS raccontano la stessa storia: un
giorno un agente, di solito della Pinkerton, suona alla porta, talvolta
accompagnato dalla polizia. Chiede di consultare le fatture di sementi ed erbicìdi
e pretende di recarsi sui campi, dove preleva campioni di piante e scatta
fotografie. Il tono è spesso minaccioso, se non brutale. A volte capita anche che
non si presenti nessun agente, ma il coltivatore riceve una citazione in giudizio
sulla base di un «dossier» costituito da vedute aeree e da analisi di piante che sono
state raccolte sulla sua proprietà a sua insaputa. Accade che gli agricoltori accusati
non abbiano nemmeno firmato un «accordo d’uso della tecnologia» (venticinque
cause su novanta), magari perché il negoziante che ha venduto loro le sementi non
l’ha mai menzionato; oppure l’hanno firmato, ma senza neanche averlo letto... È il
caso di Homan McFarling, un contadino del Missouri portato in tribunale nel
2000 per avere salvaguardato sementi di soia Round-up Ready», cosa che lui non
ha mai negato... In prima istanza è stato condannato a pagare centoventi volte il
valore dei semi conservati, cioè 780.000 dollari, secondo quanto stipulato
dall’«accordo» che non ricordava neppure di avere firmato e di cui non c’erano
tracce. McFarling è ricorso in appello e, almeno questo, ha ottenuto una riduzione
della penale: la corte si è interrogata sulla «costituzionalità di un contratto che
richiede danni enormi per un crimine minimo».14 Non è dato sapere, però, quanto
abbia effettivamente pagato...

Altri, invece, sono stati condannati senza sapere che stavano coltivando piante
OGM! È successo a Hendrik Hartkamp, olandese, che nel 1998 ha avuto la
brillante idea di acquistare un ranch nell’Oklahoma, dove ha trovato una riserva di
sementi di soia che ha seminato... Il 3 aprile 2000 è stato citato in giudizio dalla
Monsanto per «violazione della legge sui brevetti», perché una parte dei semi
erano transgènici. Dopo essere finito in rovina per garantirsi una difesa, Hartkamp
ha venduto il ranch e ha lasciato per sempre gli Stati Uniti. «La cosa tremenda»,
mi spiega Joseph Mendelson, «è che i tribunali non fanno differenza fra quelli che
riutilizzano consapevolmente le sementi e quelli che non hanno piantato OGM in
modo intenzionale. L’unica cosa che conta è che in un campo sia stato ritrovato il
famoso gene: qualunque sia il motivo, il proprietario del campo è considerato
responsabile.» A un contadino che garantiva di non avere mai firmato nessun
contratto, e che ha trasgredito per centomila dollari (da cui l’anonimato), un
rappresentante della Monsanto ha dichiarato, con una franchezza notevole: «Lei è
nelle nostre mani. Noi possediamo tutti quelli che acquistano i nostri prodotti».15

Nel rapporto del CFS si scopre anche che, per almeno sei dei novanta processi
intentati dalla Monsanto, l’«accordo» sbandierato dall’azienda presenterebbe una
firma falsa, una «prassi riconosciuta come ricorrente dai negozianti di sementi».
Sarebbe il caso soprattutto di Eugène Stratemeyer, un agricoltore dell’Illinois
caduto in una trappola tesa da un «ispettore». Nel luglio 1998 si presenta presso la
sua fattoria un individuo per chiedergli di vendergli una piccola quantità di
sementi. Essendo ormai terminata la stagione della semina, spiega di voler fare un
test di erosione. Eugène Stratemeyer accetta e... Condannato a pagare 16.974,28
dollari di multa per avere infranto il brevetto, l’uomo ha intentato un processo
contro la Monsanto per uso di prove false.

Quando gli agricoltori decidono di difendersi contestando pubblicamente il


divieto di riseminare una parte del raccolto, si espongono a vere e proprie
molestie, oltre che a una campagna diffamatoria minuziosamente organizzata che
coinvolge i media e tutti gli intermediari agricoli.

È successo a Mitchell Scrugg, un coltivatore del Mississippi che ha sempre


affermato di avere conservato semi di soia Round-up Ready e di cotone Bt. Per lui
è un diritto inalienabile, che difende per principio, ma anche per le implicazioni
finanziarie che comportano le pretese della Monsanto. Il suo calcolo è semplice:
nel 2000 ha coltivato 5200 ettari di soia, il 75 per cento dei quali transgènici; e per
seminare un campo di un acro (0,4 ettari) con soia Round-up Ready, ha dovuto
pagare 24,50 dollari per un sacco di neanche 23 chilogrammi, rispetto ai 7,5
dollari per la soia convenzionale. Per illustrare i «profitti enormi realizzati dalla
Monsanto», ricorda che se avesse deciso di vendere «legalmente» come sementi il
surplus del suo raccolto convenzionale, avrebbe ottenuto 4 dollari al sacco.16 Per
il cotone Bt, sottolinea invece che il rapporto fra sementi convenzionali e
transgèniche è di uno a quattro.

Mitchell Scrugg, condannato a pagare sessantacinquemila dollari di pena nel


2003, ha portato avanti una class action che accusa la Monsanto di violare la
legge antitrust americana (ne riparlerò più avanti) e ha chiesto che gli OGM
venissero sottoposti al regime comune del Plant Variety Protection Act. Per avere
opposto deliberata resistenza alla «legge della Monsanto», la vita di Scrugg si è
trasformata in un inferno: gli agenti dell’azienda hanno persino acquistato un
hangar abbandonato di fronte al suo negozio di forniture agricole per installarvi
una telecamera di sorveglianza, facendo anche sorvolare regolarmente la proprietà
da un elicottero...17

Talvolta gli affari si trasformano in tragedia. Infatti, nel gennaio 2000

Kem Ralph, un agricoltore del Tennessee, è stato accusato di avere conservato


quarantuno tonnellate di soia e di cotone transgènici. Il giudice Rodney Sippel,
del tribunale di Saint Louis, lo condanna a una prima penale di centomila dollari,
costringendolo a conservare le sementi incriminate perché possano essere valutati
i «danni» esatti subiti dalla Monsanto. Il contadino, esasperato, ed essendo
tuttavia riuscito a dimostrare che la firma sull’«accordo» fornito dall’azienda era
falsa, decide di dare fuoco alle proprie riserve. «Non ne possiamo più di essere
maltrattati dalla Monsanto», ha dichiarato all’Associated Press. «Ci stringono il
guinzaglio intorno al collo come se fossimo un branco di cani!»18 Alla fine il
giudice Sippel lo condanna a pagare 1,7 milioni di dollari e a scontare una pena di
otto mesi di carcere, a cui si aggiunge una multa supplementare di 165.468 dollari
per «ostacolo alla giustizia e distruzione di prove».

Il caso ha fatto scalpore, perché ha permesso di individuare un’altra procedura


abusiva della multinazionale: i famosi «accordi sull’uso della tecnologia»
comprendono una clausola secondo cui, in caso di azione legale, le procedure
devono essere obbligatoriamente effettuate di fronte alla giurisdizione di Saint
Louis. Per le vittime, provenienti da tutti gli Stati Uniti, ciò comporta spese
supplementari per potersi garantire una difesa, e soprattutto conferisce alla
Monsanto quello che nel 2005 il Chicago Tribune ha definito un «vantaggio di
domicilio»19 non trascurabile.

L’azienda, insediata da oltre un secolo nel proprio feudo, ha l’abitudine di


lavorare sempre con gli stessi studi legali, fra cui Hush & Eppenberger.20 Si dà il
caso che il giudice Rodney Sippel, noto per l’intransigenza verso i «pirati», abbia
esordito come giurista proprio in questo studio legale.21

Da notare anche che nel 2001, quando il malcontento contro i brevetti delle
sementi si diffondeva per le praterie americane, un certo John Ashcroft, allora
segretario della Giustizia di George W. Bush, e anche governatore del Missouri
dal 1983 al 1994, chiedeva alla Corte suprema degli Stati Uniti un parere in
proposito. Il 10 dicembre la Corte, nella persona di Clarence Thomas (come
abbiamo visto, uno degli avvocati della Monsanto), si dichiarava, per sei voti
contro due, favorevole ai brevetti sulle sementi.22

«Tutti hanno paura» «I brevetti hanno cambiato tutto», sospira Troy Roush, un
agricoltore dell’indiana vittima della «polizia dei geni» che mi ha ricevuta nella
sua Fattoria di Van Buren nell’ottobre 2006. «Consiglio agli agricoltori europei di
pensarci bene prima di lanciarsi nell’agricoltura transgènica, perché poi niente
sarà più come prima...» Ricordo l’emozione che avevo provato sentendo le parole
di quell’omone alto quasi due metri, che tratteneva a stento le lacrime e la collera.

Per lui l’incubo era iniziato nell’autunno del 1999, con la visita di un
«detective privato della Monsanto» impegnato in un’«inchiesta sugli agricoltori
che conservano le sementi». Quell’anno Troy, che gestisce un’azienda agricola
familiare insieme con il fratello e il padre, aveva seminato duecento ettari di soia
Round-up Ready per conto di un’altra azienda di sementi con cui aveva firmato
un contratto.* Inoltre, aveva seminato anche cinquecento ettari di soia
convenzionale con semi conservati dal raccolto precedente.

«Era facile capire quali campi erano sotto contratto, perché era stipulato con
molta chiarezza», mi spiega. «Ho proposto al detective di consultare i documenti
e le fatture degli erbicìdi, ma ha rifiutato.» Nel maggio 2000 Troy riceve una
convocazione in giudizio, con allegata una mappa topografica e delle analisi di
campioni prelevati dalla sua proprietà senza permesso. «C’erano parecchi errori
grossolani», commenta Troy. «Per esempio, uno dei campi sospetti era in realtà
seminato a mais non transgènico per conto della Weaver Popcorn, cosa che sono
riuscito a dimostrare facilmente...» «Perché ha negoziato un accordo amichevole
con la Monsanto?» gli domando.

«Per dimostrare la nostra innocenza avevamo già speso quattrocentomila


dollari», mi risponde Troy. «Nel giro di due anni e mezzo la mia famiglia era
distrutta... Non avevo più la forza per affrontare un processo, e per di più dal
risultato incerto, perché la legge, purtroppo, è tutta dalla parte della Monsanto,
che per questo tipo di cose ha mezzi illimitati. Se avesse vinto, ci avrebbe preso
tutto quello che avevamo. Tutto... Poi, quando ho chiesto al mio avvocato quali
sarebbero stati i benefìci di un eventuale processo, mi ha risposto: ‘Solo la gloria
di essere riconosciuti innocenti...’»

* Quest’azienda, che aveva introdotto il gene in una delle sue varietà, gli
aveva chiesto di moltiplicare i semi, che avrebbe in seguito venduto agli
agricoltori.

Durante la nostra conversazione arriva David Runyon, un altro contadino


dell’indiana che ha ricevuto la visita dei famosi «detective» nel luglio 2003. Gli
hanno lasciato un biglietto da visita della McDovvell & Associates, che ha un
logo di una chiarezza sconvolgente: una grande M su una fila di sagome umane
grigie... Secondo Runyon, gli agenti della Monsanto hanno finto di avere un
accordo con il dipartimento dell’Agricoltura dello Stato dell’indiana, che li
autorizzava a ispezionare i campi dei contadini sospettati di «pirateria». David
Runyon scrive al senatore Evan Bayh, che verifica l’informazione e conferma, in
un documento scritto attualmente in mio possesso, che si tratta di una menzogna.

«I brevetti hanno sconvolto la vita delle comunità rurali», dice David Runyon,
visibilmente commosso. «Hanno distrutto la fiducia che esisteva fra vicini.
Personalmente, parlo solo con due degli agricoltori che hanno campi vicino ai
miei. Anche per quanto riguarda lei, prima di accettare di incontrarla e di parlarle
al telefono ho controllato su Google chi fosse sul serio...» «Gli agricoltori hanno
così paura?» «Certo che hanno paura», mi risponde Troy Roush. «È impossibile
difendersi contro la Monsanto. Nel Midwest l’unico modo per sopravvivere con i
profitti agricoli che continuano ad assottigliarsi, è aumentare la superficie delle
terre. Ma per farlo un vicino se ne deve andare... Quindi, un colpo di telefono alla
linea delle spie e... » «Non vi sentite al sicuro da una nuova accusa?» «Certo che
no!» risponde David Runyon. «Prima di tutto perché nell’indiana siamo un po’
come gli ultimi dei Moicani: coltiviamo ancora soia tradizionale nel bel mezzo di
un impero transgènico. Poi perché i nostri campi possono essere contaminati dagli
OGM circostanti. È successo al mio vicino.» L’agricoltore mostra delle foto a
Troy. Si vede un campo di soia ingiallito e avvizzito, disseminato di piantine
verdi. «Questo campo di soia convenzionale è stato irrorato accidentalmente con
il Round-up dal figlio del mio vicino, che ha sbagliato campo. Le piante verdi
sono di soia della Monsanto. Ho calcolato che la contaminazione era del 15 per
cento circa.» «Corn’è possibile?» «Negli Stati Uniti non esistono filiere distinte
per i due tipi di soia», mi risponde David. «Probabilmente, le sementi
convenzionali del mio vicino sono state contaminate da semi transgènici rimasti
nella mietitrebbia che prima aveva lavorato in un campo di Round-up Ready,
oppure dai negozianti durante la scelta delle sementi. È anche possibile che il
polline OGM sia stato diffuso dagli insetti o dal vento. Il mio vicino si è reso
conto che la Monsanto avrebbe potuto trascinarlo in tribunale per violazione del
brevetto.» «Esatto», conferma Troy, «corn’è successo al nostro collega canadese
Percy Schmeiser.....

Percy Schmeiser, un ribelle nel «paese dei cieli viventi» Percy Schmeiser, nato
nel 1931 a Bruno, un villaggio di settecento anime nel cuore della provincia
canadese del Saskatchevvan (il «Paese dei cieli viventi»), rappresenta la «bestia
nera della Monsanto, il sassolino nella scarpa», per dirla con il giornalista di Le
Monde Hervé Kempf.23

Discendente di pionieri europei insediatisi nelle praterie nordamericane alla


fine del XIX secolo, Schmeiser è un combattente, uno che «sopravvive», ama dire
lui, con l’energia di chi nella vita è stato messo alla prova precocemente e a più
riprese. Schmeiser è scampato a un grave incidente sul lavoro, che l’ha costretto
all’invalidità per anni, oltre che a un’epatite virale contratta in Africa. Infatti, a
margine dell’attività di contadino, il ribelle delle praterie è anche un cattolico
convinto: è stato sindaco del suo comune per un quarto di secolo, poi deputato
all’assemblea provinciale, e si è dedicato molto ai viaggi umanitari, non esitando,
insieme con la moglie, ad affidare i cinque figli ai nonni per andare ad «aiutare la
gente» in Africa o in Asia. Percy Schmeiser è anche uno sportivo. Durante il
lungo freddo invernale partiva per scalare il Kilimangiaro o per tentare l’Everest
(tre volte, ma senza successo).

Purtroppo non ho potuto incontrarlo, perché quando mi sono recata nel


Saskatchevvan, nel settembre 2004, era a Bangkok, dove aveva accettato uno dei
numerosi inviti internazionali che riceve da quando è divenuto «l’uomo che si è
ribellato alla Monsanto».24

Per l’agricoltore, che gestisce un’azienda familiare di seicento ettari da


cinquant’anni, la storia comincia nell’estate del 1997. Dopo avere diserbato con il
Round-up i fossati lungo i suoi campi di colza, si rende conto che il suo lavoro
non serve praticamente a nulla: molte piantine che avevano germinato ai margini
dei campi resistono alle irrorazioni. Stupito, contatta un rappresentante della
Monsanto, da cui apprende che si tratta di colza Round-up Ready, sul mercato da
due anni. Passano i mesi e nella primavera del 1998, Percy, noto in tutta la zona
per essere un attento selezionatore di sementi di colza, riutilizza i semi del
raccolto precedente. In agosto, quando si appresta alla mietitura, viene contattato
da un rappresentante della Monsanto Canada, il quale lo informa che alcuni
ispettori hanno individuato della colza transgènica nei suoi campi e gli propone
un accordo amichevole, altrimenti avrebbero dovuto ricorrere al tribunale.

Percy Schmeiser rifiuta di chinare il capo. Invia al suo avvocato alcune prove
dell’acquisto, nel 1997, di un campo che era stato coltivato con colza Round-up
Ready. Spiega inoltre che l’oleaginosa ha la vivacità di un’erba infestante, capace
di invadere le praterie alla velocità del vento e che i semi, leggerissimi, possono
riposare nel terreno per più di cinque anni prima di essere trasportati da un uccello
per chilometri. Constatando che la presenza della colza transgènica riguarda
soprattutto il margine dei campi, conclude che devono essere stati contaminati
dalle colture dei vicini, convertiti agli OGM, o dai camion di semi che sono
passati sulla strada. Bisogna dire che la resistenza di Schmeiser è incoraggiata
dalla rivelazione delle procedure forzate dell’azienda di Saint Louis, che non esita
a diffondere Round-up con gli elicotteri sui campi dei contadini sospettati di
«pirateria», secondo le affermazioni, nell’agosto 1998, di Edy ed Elisabeth Kram,
una coppia di agricoltori della provincia. Un’azione quanto mai «strana», afferma
Hervé Kempf, e che la Monsanto non ha mai smentito, «riconoscendo del resto, in
una dichiarazione al posto di polizia, che i suoi agenti avevano prelevato
campioni della colza di Edy Kram per analizzarla in laboratorio».25
La Monsanto Canada, in ogni caso, non vuole saperne. Brandendo di fronte
alla stampa i campioni che dice di avere prelevato (di nascosto, e quindi
illegalmente) dalla fattoria di Percy Schmeiser, che rivelano un tasso di
«contaminazione» di oltre il 90 per cento,26 la multinazionale decide di intentare
un processo, continuando allo stesso tempo a fare pressione su di lui perché
accetti di dichiararsi trasgressore. «Il 1999 è stato un anno terribile», racconta
Percy a Hervé Kempf. «C’erano uomini in auto che ci sorvegliavano. Stavano lì,
senza dire né fare nulla, solo a guardare. Una volta sono rimasti tre giorni di
seguito. Quando ci avvicinavamo partivano in quarta. Ricevevamo anche
telefonate anonime: ‘Dovrete arrendervi’, dicevano. Avevamo così paura che ho
comprato una carabina. La tenevo sul trattore quando lavoravo nei campi.»27

Alla fine la causa viene dibattuta a Saskatoon, capitale della provincia del
Saskatchevvan, nel giugno 2000. Il giudice Andrevv McKay comunica la
sentenza il 29 marzo 2001, lasciando stupiti tutti quelli che sostengono
l’agricoltore di Bruno. Infatti, il magistrato dichiara che seminando i propri campi
con semi raccolti nel 1997, «che sapeva o avrebbe dovuto sapere essere resistenti
al Round-up», Percy Schmeiser aveva infranto il brevetto della Monsanto. Precisa
inoltre che la «fonte della colza resistente al Round-up non ha importanza ai fini
del processo», e che «un contadino il cui campo contiene sementi o piante
provenienti da sementi introdotte dall’esterno, portate dal vento o persino dal
polline veicolato dagli insetti, dagli uccelli o, anche questo, dal vento, possiede
tali sementi o piante anche se non aveva intenzione di piantarle. Non possiede,
tuttavia, il diritto di usare il gene brevettato, né la semente o la pianta con il gene
o la cellula brevettata», perché «sarebbe come impadronirsi dell’essenza
dell’invenzione dei querelanti senza il loro permesso».28

Il giudice respinge l’argomentazione della difesa, secondo la quale l’interesse a


usare l’«essenza» degli OGM della Monsanto esiste se poi si applica il Round-up
sulle colture, cosa che Percy Schmeiser non ha fatto, come dimostrano le sue
fatture di erbicìdi. Non tiene nemmeno conto del fatto che, per prelevare i
campioni, la Monsanto sia entrata illegalmente nella proprietà dell’agricoltore, né
che i test effettuati dagli esperti e consultati da Schmeiser abbiano rivelato una
contaminazione nettamente inferiore. Come afferma giustamente Hervé Kempf,
«la sentenza è straordinaria: significa che un agricoltore infrange il brevetto di
qualunque azienda che produce OGM appena il proprio campo viene contaminato
da piante transgèniche». La decisione piace alla Monsanto: «È un’ottima notizia
per noi», dice trionfante Trish Jordan, rappresentante dell’azienda in Canada. «Il
giudice ha dichiarato il signor Schmeiser colpevole di violazione del nostro
brevetto e l’ha condannato a pagarci i danni»,29 che ammontano a 15.450 dollari
canadesi, cioè quindici dollari per acro (0,4 ettari) raccolto nel 1998, quando era
stata contaminata una sola partita del raccolto. A questi si sommano, inoltre, le
spese giudiziarie intentate dalla Monsanto.

Percy Schmeiser ricorre in appello, ma il 4 settembre 2002 la decisione del


giudice McKay viene confermata. Tuttavia l’agricoltore, che ha già sacrificato
molti dei suoi risparmi e una parte delle proprie terre per garantirsi una difesa
(duecentomila dollari canadesi), non molla: «Non è più il caso Schmeiser»,
afferma, «è il caso di tutti i contadini del mondo».30 Si rivolge così alla Corte
suprema del Canada che, il 21 maggio 2004, emette una sentenza inattesa per chi
teme l’avanzata degli OGM: con cinque voti contro quattro, i giudici confermano
le due decisioni precedenti ma, stranamente, esentano il contadino dal pagamento
dei danni e delle spese giudiziarie sostenute dal gruppo americano. La sentenza è
a sfondo drammatico, poiché conferma che i contadini sono responsabili della
contaminazione transgènica dei loro campi, ma dimostra anche che i magistrati
sono corrotti fino al midollo: «Con una mano danno ciò che con l’altra
tolgono»,31 osserva Richard Gold, specialista di proprietà intellettuale della
McGill Università di Montreal. Per l’azienda di Saint Louis, però, è una vittoria di
cui non mancherà di avvalersi in futuro: «Questa decisione premia il nostro modo
di fare affari»,32 commenta Trish Jordan.

Quando la contaminazione degli OGM produce «erbe superinfestanti» Sono


rimasta molto colpita dalla capacità dell’azienda di Saint Louis di dire una cosa e
fare l’esatto opposto. Mentre perseguiva Percy Schmeiser, il suo ufficio
comunicazione scriveva nel famoso Pledge Report: «Nel caso in cui delle varietà
che ci appartengono comparissero nei campi di un agricoltore in modo non
intenzionale, contatteremo il proprietario delle terre per risolvere il problema in
modo soddisfacente sia per lui, sia per la Monsanto».33 Ecco dunque le parole
che rassicurano gli azionisti e gli eventuali clienti. Ma la realtà è totalmente
diversa, tanto la contaminazione degli OGM è divenuta un problema enorme nelle
praterie dell’America del Nord.

«La colza transgènica si è diffusa molto più rapidamente di quanto


pensassimo», dichiara nel 2001 il professor Martin Entz dell’Università di
Manitoba, in Canada. «È un avvertimento sugli effetti secondari della
biotecnologia.»34 Nello stesso anno il professor Martin Phillipson constata:
«Nella nostra provincia gli agricoltori spendono decine di migliaia di dollari per
liberarsi della colza che non hanno piantato. Devono usare sempre più erbicìdi per
avere la meglio sulla tecnologia».35 Queste due testimonianze sono citate in
Seeds of Doubt, un rapporto pubblicato nel settembre 2002 dalla Soil Association,
un’associazione britannica fondata nel 1946 per promuovere l’agricoltura
biologica. L’associazione compìla un bilancio alquanto dettagliato delle colture
transgèniche nell’America del Nord: «La contaminazione massiccia degli OGM
ha severamente intaccato l’agricoltura non transgènica, compresa quella
biologica. Ha distrutto il mercato e annientato la competitività agricola
nordamericana», si legge nell’introduzione. «Le colture transgèniche hanno anche
aumentato la dipendenza degli agricoltori dagli erbicìdi, e hanno dato origine a
parecchi problemi giudiziari.»36

Uno studio commissionato dal dipartimento dell’Agricoltura del


Saskatchevvan ha dimostrato che nel 2001 il polline di colza Round-up Ready
può spostarsi di almeno ottocento metri, cioè oft’o volte la distanza raccomandata
dalle autorità fra le colture OGM e quelle convenzionali.37 Risultato: nel 2001
l’organismo di certificazione biologica degli Stati Uniti ammetteva, su The
Western Producer, che era praticamente impossibile trovare sementi di colza, ma
anche di mais e di soia, non contaminate da OGM. Nello stesso articolo la
Canadian Seed Trade Association ammetteva che tutte le varietà convenzionali
erano già contaminate dagli OGM per almeno l’1 per cento.38 Viene da chiedersi
che cosa ne sarà sei anni dopo...

In ogni caso, anticipando gli effetti incontrollabili della contaminazione


transgènica, nel 2003 le principali compagnie di assicurazione agricola del Regno
Unito hanno annunciato che rifiutavano di coprire i produttori di colture OGM
contro quel flagello, paragonabile al problema dell’amianto o al terrorismo,
poiché poteva avere implicazioni impreviste. In un sondaggio pubblicato dal
Guardian, assicuratori come la National Farm Union Mutual, il Rural Insurance
Group (Lloyds) o il BIB

Undervvrites Ltd (Axa) sottolineavano di saperne «troppo poco sugli effetti a


lungo termine delle colture transgèniche sulla salute umana e sull’ambiente per
poter proporre una qualunque polizza».39

Ma una cosa è certa: nell’America del Nord la contaminazione degli OGM ha


provocato un vero e proprio «intrìco di contenziosi», per riprendere le parole della
Soil Association, secondo cui tutto ciò «riguarda ogni livello dell’attività:
agricoltori, trasformatori, distributori, consumatori e aziende di biotecnologia»,40
dove gli uni si ritorcono contro gli altri appena un OGM indesiderato compare da
qualche parte. Per illustrare l’assurdità della situazione, Seeds of Doubt riporta
l’esempio della contaminazione di un carico di colza convenzionale canadese,
ispezionato in Europa nel maggio 2001, perché era stato rilevato un transgène
della Monsanto. La Adventa ha dovuto procedere alla distruzione di migliaia di
ettari, indennizzare gli agricoltori, spostare la produzione di sementi dall’Ovest
all’Est del Canada, dove pensava di potersi proteggere meglio dall’impollinazione
incrociata, per non parlare della serie infinita di processi giudiziari...41

I problemi che pone la contaminazione transgènica non sono solo giuridici,


ma anche ambientali. Infatti, quando un seme di colza transgènico attecchisce in
un campo, per esempio di grano, viene considerato 259 infestante dall’agricoltore,
che non riesce però a estirparlo, poiché «questa colza, essendo resistente al
Round-up, un erbicìda totale, l’unico modo per liberarsene è toglierla a mano o
usare il 2,4-D, un erbicìda estremamente tossico».42 Allo stesso modo, anche un
produttore di OGM che voglia mantenere una rotazione delle colture, alternando
per esempio colza Round-up Ready e mais Round-up Ready, può trovarsi di
fronte a questo problema, rafforzato dalla specificità della colza: siccome i
baccelli maturano in modo ineguale, i produttori hanno preso l’abitudine di
tagliare le piante e farle seccare nei campi, prima di raccoglierne i semi.

Immancabilmente, migliaia di semi rimangono nel suolo e germogliano l’anno


dopo, se non addirittura cinque anni più tardi. Si tratta di quella che viene
chiamata «colza spontanea» o «ribelle», che è «un’erba superinfestante»
(supervveed, per gli americani).

Grazie agli OGM, sempre più erbicìdi L’ironia della sorte è che la Monsanto
ha intuito subito il valore finanziario di queste piante «ribelli»: il 29 maggio 2001
l’azienda ha ottenuto un brevetto (n. 6239072) riguardante un «misto di erbicìdi»
che permette di «controllare le erbe infestanti sensibili al glifosato e gli esemplari
volontari tolleranti al glifosato».43 Come sottolinea il rapporto della Soil
Association, «questo brevetto permetterà all’azienda di beneficiare di un
problema dovuto ai suoi stessi prodotti».44

Osservando l’evoluzione delle praterie dell’America del Nord, ci si potrebbe


aspettare che il famoso «misto di erbicìdi» rappresenti la nuova mucca da latte
dell’azienda di Saint Louis. Le supervveed sono diventate uno dei principali
rompicapi degli agronomi nordamericani, secondo i quali queste erbe sarebbero in
grado di spuntare in tre modi. Nel primo caso, come abbiamo visto, sono
«spontanee» (resistenti al Round-up), e per distruggerle servono erbicìdi più
potenti. Nel secondo caso gli OGM si incrociano con degli avventizi (termine
scientifico per «erbacce») a loro geneticamente affini, trasferendo così il famoso
gene di resistenza al Round-up. Vale soprattutto per la colza, un ibrido naturale fra
la rapa e il cavolo, in grado di scambiare geni con specie selvatiche imparentate
come il ravanello, la senape o la rucola, che gli agricoltori considerano erbe
infestanti. Uno studio del 2003 condotto dal britannico Mike Wilkinson,
dell’Università di Reading, ha confermato che il flusso di geni fra la colza e la
rapa (Brassica rapa), uno degli avventizi più diffusi, era molto frequente,
indicazione del fatto che «l’impollinazione incrociata fra piante OGM e loro
parenti selvatici è inevitabile e può creare erbe superinfestanti che resistono agli
erbicìdi più potenti», come osserva The Independent.ib Infine, terzo caso, se
compaiono supervveed è perché a forza di irrorazioni di solo Round-up, più volte
all’anno e per più anni, le erbacce sviluppano una resistenza all’erbicìda che
finisce con il renderle efficaci come gli OGM che le hanno generate. Stranamente
l’azienda, pur avendo una lunga esperienza in erbicìdi, ha sempre negato questo
fenomeno: «Dopo vent’anni d’uso, non si è mai sentito parlare di specie di
avventizi diventate resistenti al Round-up», afferma un documento pubblicitario
sui meriti della soia Round-up Ready.46 Allo stesso modo, nel Pledge Report
della multinazionale afferma che le colture transgèniche «permettono agli
agricoltori di usare meno erbicìdi».47

«Non è vero!» replica l’agronomo americano Charles Benbrook in uno studio


pubblicato nel 2004.48 Secondo lui l’idea della «riduzione dell’uso di pesticìdi»
valeva nei primi tre anni che hanno seguito la coltivazione degli OGM nel 1995,
ma «dal 1999 non funziona più». «Non è una sorpresa», spiega, «sono dieci anni
che gli scienziati specializzati in avventizi mettono in guardia contro il fatto che
l’uso intensivo delle colture resistenti a un erbicìda avrebbe innescato
cambiamenti nelle popolazioni di erbe infestanti, oltre che nella loro resistenza,
costringendo così i contadini ad applicare altri erbicìdi e/o ad aumentarne il
dosaggio. [... ] Un po’ ovunque nel Midwest gli agricoltori evocano con nostalgia
l’efficacia e la semplicità iniziali della tecnica Round-up Ready, rimpiangendo i
‘cari vecchi tempi’.» Charles Benbrook sa di che cosa parla. Dopo avere lavorato
come esperto agricolo alla Casa Bianca sotto l’amministrazione Carter, poi al
Campidoglio, è stato direttore della divisione agricola dell’Accademia nazionale
delle scienze per sette anni, prima di creare il proprio studio di consulenza
indipendente a Sandpoint, nell’Idaho. Dal 1996 analizza minuziosamente i dati di
consumo di erbicìdi registrati dal National Agriculture Statistics Service (NASS),
che dipende dall’USDA, confrontandoli con quelli forniti dalla Monsanto, che
considera «ingannevoli e al limite della disonestà».49 In un articolo del 2001
Benbrook affermava che il «consumo totale di erbicìdi usati per la soia Round-up
Ready nel 1998 era in media del 30 per cento superiore a quello per la soia
convenzionale in sei Stati, fra cui l’Iowa, dove si coltiva un sesto della soia
dell’intera nazione».60

In uno studio del 2004 Benbrook osserva che la quantità di erbicìdi sparsi sulle
tre principali colture statunitensi (soia, mais e cotone) è aumentata del 5 per cento
fra il 1996 e il 2004, per un totale di quasi sessantatremila tonnellate in più.
Mentre la quantità di erbicìdi usati per le colture convenzionali ha continuato a
diminuire, quella del Round-up ha avuto un’evoluzione inversa, come afferma
allegramente la Monsanto nel suo Form 10K del 2006: dopo avere sottolineato
che le vendite di glifosato hanno raggiunto un fatturato di 2,2 miliardi di dollari
nel 2006, contro i 2,05 del 2005, l’azienda afferma che «ogni espansione delle
colture Round-up Ready aumenta considerevolmente le vendite dei prodotti
Round-up».

Tali risultati sono il frutto di una strategia pianificata di lunga data: «Un fattore
chiave per l’aumento del volume di Round-up è una strategia basata sull’elasticità
e sulla riduzione selettiva dei prezzi, seguìta da un imponente aumento dei
volumi», scriveva la multinazionale nel rapporto annuale del 1998 (a p. 7).
Quando le si fa notare che questa evoluzione è la prova che gli OGM non
riducono il consumo di erbicìdi, l’azienda risponde che è normale che le vendite
di Round-up aumentino, poiché aumenta la superfìcie delle colture di Round-up
Ready. Certo, nove anni dopo la loro commercializzazione le colture transgèniche
coprivano cinquanta milioni di ettari negli Stati Uniti, e il 73 per cento erano
Round-up Ready (il 23 per cento Bt), ma quelle superfici erano già coltivate
prima dell’arrivo degli OGM (e quindi irrorate di pesticìdi).61

Charles Benbrook aggiunge inoltre che la fine del monopolio della Monsanto
sul glifosato, nel 2000, ha comportato una guerra dei prezzi che ha fatto crollare
quello del Round-up almeno del 40 per cento. Eppure il fatturato dell’azienda non
ha subito cali, anzi. Scrive inoltre che «la dipendenza da un solo erbicìda per la
gestione delle erbe infestanti su milioni di ettari, ha reso necessario applicare dosi
di erbicìda più elevate per raggiungere lo stesso livello di controllo».62 Benbrook
ricorda che prima degli OGM gli scienziati avevano identificato solo due
avventizi resistenti al glifosato: il loglio (in Australia, Sudafrica e Stati Uniti) e il
caglio (in Malaysia), ma che oggi se ne contano sei solo sul territorio americano,
primo dei quali l’equiseto, vero e proprio flagello delle praterie, ma anche gli
amaranti come l’erba correggiola o l’ambrosia. Così uno studio realizzato
all’Università del Delaware ha mostrato che piante di equiseto prelevate in campi
di soia Round-up Ready sopravvivevano dieci volte di più alla dose di Round-up
raccomandata.53 A queste erbe infestanti già identificate come resistenti al
Round-up, si aggiunge una serie di avventizi detti «tolleranti al glifosato», cioè
non ancora resistenti, ma per cui bisogna moltiplicare le dosi di tre o quattro volte
per liberarsene.

Il «lato nascosto della biotecnologia» «La resistenza alle erbe infestanti può
ridurre il rendimento di un’azienda agricola del 17 per cento.» Lo scriveva la
Syngenta, un’azienda svizzera tra i principali concorrenti della Monsanto, in un
documento del dicembre 2002 indirizzato a tutti i suoi clienti del settore
agricolo.64 Basandosi su un sondaggio realizzato fra gli agricoltori americani,
l’altro gigante della chimica e della biotecnologia affermava che il 47 per cento
degli intervistàti prevedeva un ritorno alla «rotazione delle colture e dei prodotti
chimici». Come Charles Benbrook osservava all’inizio del 2002, il crollo del
rendimento non è l’unica «cattiva notizia» che ha caratterizzato il «lato nascosto
della biotecnologia», di cui «scienziati e agricoltori cominciano appena a rendersi
conto».66

Innanzitutto, al contrario di ciò che ha sempre affermato la Monsanto nei suoi


documenti promozionali, non è vero che «le nuove varietà, coltivate in uguali
condizioni, presentano una resa simile a quella delle varietà [convenzionali] ad
alto rendimento».56 «Purtroppo abbiamo dimostrato il contrario», mi spiega
Roger Elmore, agronomo che nel 2001 ha pubblicato uno studio in proposito con i
colleghi dell’Università del Nebraska.67 Oggi Elmore lavora all’Università
dell’Iowa e nell’ottobre mi riceve nella sua casa, a una cinquantina di chilometri
da Des Moines. «Se abbiamo condotto questo studio, per due anni e in quattro
luoghi diversi, è perché avevamo informazioni provenienti da vari Stati secondo
cui la soia transgènica aveva un rendimento minore delle varietà convenzionali
imparentate», dice l’agronomo. «I nostri risultati dimostrano un calo di
rendimento del 5 per cento.» «Come spiega tutto ciò?» gli chiedo, guardando i
grafici che mi indica.

«Si tratta di quello che chiamiamo yield drag [letteralmente, il drenaggio del
rendimento]. Avevamo due ipotesi in grado di spiegare ciò che influisce sul
rendimento delle piante transgèniche: poteva dipendere dall’azione del Round-up
sul metabolismo vegetale o dal risultato della manipolazione genetica. Per
verificare la prima ipotesi abbiamo coltivato tre gruppi di soia Round-up Ready
proveniente dalla stessa varietà, di cui uno irrorato di Round-up, l’altro di solfato
di ammonio, un prodotto che stimola l’azione degli erbicìdi, e il terzo d’acqua.
Nei tre casi il rendimento è stato praticamente lo stesso, cioè cinquantacinque
esemplari per acro. Quindi alla base dello yield drag c’è la manipolazione
genetica.
Apparentemente, l’inserimento violento del gene intacca la capacità produttiva
della pianta.» «Allora la soia transgènica non è equivalente a quella
convenzionale?» «È ciò che dimostra il nostro studio...» «Come ha reagito la
Monsanto?» «Diciamo che l’azienda non ha fatto salti di gioia», mi risponde
Roger Elmore con la dovuta prudenza.

«Anche loro avevano condotto uno studio sul rendimento della loro soia?» «I
dati che avevano fornito erano molto deboli dal punto di vista scientifico, e
rispondevano più a un bisogno commerciale...» conclude l’agronomo.

I risultati dello studio di Roger Elmore hanno così confermato la


«metanalisi» di Charles Benbrook, per la quale aveva esaminato ottomiladuecento
misurazioni del rendimento effettuate dalle università agrarie degli Stati Uniti nel
1998. Era giunto alla conclusione che lo yield drag era in media del 6,7 per cento,
con punte del 10 per cento soprattutto nel Midwest, cosa che rappresentava un
deficit di ottanta-cento milioni di piante di soia solo per il 1999.58

Come afferma Charles Benbrook, lo yield drag si trasforma in catastrofe a


causa di un altro fenomeno evidenziato nel 2001 da alcuni scienziati
dell’Università dell’Arkansas.59 Infatti hanno constatato che il Round-up
influisce sui battèri rhizobium che popolano le radici della soia e li aiutano a
svilupparsi fissando l’azoto nell’atmosfera. La sensibilità dei battèri all’erbicìda
spiegherebbe la riduzione del rendimento della soia Round-up Ready, che può
raggiungere il 25 per cento in caso di episodi di siccità. «Purtroppo», spiega
Charles Benbrook, «è ormai chiaro che le colture Round-up Ready sono più
vulnerabili a certe malattie, soprattutto quando devono combattere un freddo
insolito, un’aggressione di insetti o uno squilibrio minerale o microbico nel
terreno. Questi problemi si manifestano perché il materiale genetico introdotto per
rendere la pianta resistente al Round-up ha modificato il funzionamento normale
di una via metabolica chiave che innesca e regola la reazione immunitaria. »WJ

Benbrook aggiunge: «È un peccato che queste informazioni siano state rese


note solo dopo che quaranta milioni di ettari di campi americani erano già stati
seminati... » Sfogliando le riviste scientifiche e agricole si nota che gli incidenti
non sono rari nel Paese delle colture Round-up Ready (più avanti tornerò su
problemi simili riguardanti le piante Bt). Per esempio, nel 1999 alcuni scienziati
della Georgia sono stati contattati da produttori di soia che lamentavano il fatto
che i gambi delle loro piante si spezzassero in modo inspiegabile, comportando un
rendimento bassissimo. Il loro studio ha concluso che la soia transgènica
produceva il 20 per cento di lignina in più di quella convenzionale, cosa che, in
condizioni di calore più elevate della norma, provocava un’eccezionale fragilità
dei gambi.61

Un «disastro economico» «Il profitto è sul campo! Provateci con la soia


Round-up Ready di Asgrovv.» Questa pubblicità della Monsanto del gennaio
2002 su una rivista agricola non ha convinto la Soil Association, che in Seeds of
Doubt scrive: «Le prove che abbiamo raccolto mostrano che le piante
transgèniche non rappresentano certo una success story. In completo disaccordo
con le impressioni dell’industria della biotecnologia, è evidente che non hanno
permesso di ottenere la maggior parte dei vantaggi preannunciati, e che si
traducono, quindi, in un disastro sul piano sia pratico sia economico».

La Monsanto non mancherà di rispondere che non ci si poteva aspettare nulla


di diverso da una delle principali organizzazioni europee di promozione
dell’agricoltura biologica. Peccato che questo bilancio sia anche quello dei
ricercatori che si sono dati la pena di analizzare tutti gli aspetti dell’agricoltura
transgènica, per capire se, dal punto di vista strettamente economico, il gioco
valesse la candela. Così Michael Duffy, economista dell’Università dell’Iowa, ha
condotto un’inchiesta con la collaborazione del NASS. Ha analizzato la
contabilità di tutti gli agricoltori dello Stato, confrontando costi di produzione e
profitti associati alla coltivazione della soia Round-up Ready (centootto campi) e
della soia convenzionale (sessantaquattro campi) relativi al raccolto del 2000. Il
risultato è inappellabile: tenendo conto di tutti i fattori di produzione (costo delle
sementi, consumo di erbicìdi, rendimento, spese di carburante, concìme eccetera),
i produttori di soia transgènica hanno perso 8,87 dollari per acro (0,4 ettari),
contro gli 0,02 dollari dei produttori di soia convenzionale.62 Da notare che
l’inchiesta è stata condotta in un momento in cui la «guerra dei prezzi» sugli
erbicìdi era all’apice, riducendo l’ammontare delle fatture, e in cui gli avventizi
non erano resistenti al Round-up.

Michael Duffy ha anche confrontato i risultati del mais Bt con quelli del mais
convenzionale ed è giunto a una conclusione simile: 28,28 dollari di perdita per
acro nel primo caso, 25,02 dollari nel secondo.

Ci si potrebbe sorprendere del fatto che, pur producendo, gli agricoltori


abbiano perso del denaro. Si tratta di un altro aspetto degli OGM, che hanno
comportato un crollo delle esportazioni americane verso l’Europa, quindi anche
dei prezzi. Infatti, sotto la pressione dei consumatori la Commissione europea,
che inizialmente aveva autorizzato senza battere ciglio l’importazione di soia,
mais e colza transgènici da Stati Uniti e Canada, ha dovuto fare marcia indietro
fissando, il 25 giugno 1999, una moratoria di cinque anni sulle colture OGM e, il
21 ottobre 1999, l’etichettatura obbligatoria dei prodotti.63 Queste due decisioni,
vivamente contestate dai partner d’oltreoceano, hanno provocato sgomento nelle
campagne americane dove, da un giorno all’altro, i negozianti di sementi hanno
chiesto agli agricoltori di consegnare separatamente i raccolti transgènici e quelli
convenzionali, per poter così applicare un sovrapprezzo ai secondi.

Secondo il Washington Post, la collera era diffusa negli Stati tradizionalmente


esportatori come l’Iowa o l’Illinois, dove gli agricoltori avevano la sensazione di
essere stati imbrogliati: «I produttori americani hanno coltivato le piante
transgèniche in tutta fiducia, convinti che fossero inoffensive e che sarebbero stati
ricompensati per i loro sforzi», si lamenta un rappresentante dei produttori di
mais. «Invece sono stati indotti in errore dalle multinazionali di sementi, dalle
aziende chimiche e dalle associazioni professionali che li hanno incoraggiati a
coltivare senza avvertirli del pericolo che stavano correndo.»64

Ormai il «danno» era fatto: secondo l’USDA, le esportazioni di mais verso


l’Europa si sono ridotte del 99,4 per cento fra il 1996 e il 2001, con una perdita
annuale di trecento milioni di dollari. Allo stesso modo, se l’Europa assorbiva il
27 per cento delle esportazioni di soia nel 1998, la cifra era crollata al 7 per cento
nel 1999. Quanto al Canada, primo esportatore mondiale di colza, ha perso tutto il
mercato europeo, non solo di colza, ma anche di miele.65

Risultato: per tutelare i redditi dei contadini, il governo americano ha dovuto


mettere mano alle proprie tasche, concedendo loro sovvenzioni eccezionali,
stimate intorno ai dodici miliardi di dollari fra il 1999 e il 2002.66 Nel maggio
2002 il Senato ha approvato una nuova «legge agricola» che permette di sbloccare
centoottanta miliardi di dollari di sovvenzioni per i dieci anni seguenti: un modo
per «dissimulare con gli agricoltori il fallimento economico delle colture
transgèniche», per usare le parole della Soil Association.

In questo contesto si svilupperà il conflitto che vedrà, all’inizio degli anni


Duemila, gli agricoltori canadesi e statunitensi contro la Monsanto che, una volta
tanto, subirà un grave fallimento nella strategia di moltiplicazione degli OGM,
ritrovandosi costretta a rinunciare al grano transgènico.
11. Grano transgènico: la battaglia persa della
Monsanto nell’America del Nord

«Ascolteremo con attenzione i vari punti di vista e intavoleremo un dialogo


approfondito per migliorare la nostra comprensione del problema e considerare di
più le necessità sociali.» Monsanto, The Pledge Report 2001 - 2002

Il 10 maggio 2004 negli uffici di Greenpeace a Ottawa, ma anche in quelli di


tutti i suoi alleati dell’America del Nord e nei campi transgènici del Canada
occidentale e del Midwest degli Stati Uniti, sono state stappate bottiglie di
champagne. Quel giorno l’azienda di Saint Louis annunciava, in un lapidario
comunicato stampa, la decisione di «evitare ulteriori sforzi per introdurre un tipo
di grano Round-up Ready», dopo avere condotto «intense consultazioni con i
clienti e i leader dell’industria del grano».1

«A questa conclusione si è arrivati con il dialogo»,2 insiste l’azienda nel suo


Pledge Report del 2004.

La Monsanto cade sul grano Uno straordinario braccio di ferro ha portato al


più grande fallimento mai registrato dalla Monsanto, che per la prima volta è stata
costretta a rinunciare alla commercializzazione di un prodotto per cui aveva
investito parecchie centinaia di milioni di dollari. «È stata una vittoria inaspettata,
che compensa il fallimento economico delle colture transgèniche», mi ha spiegato
nell’ottobre 2004 Dennis Olson, economista dell’Institute for Agriculture and
Trade Policy (IATP) di Minneapolis, che ha partecipato in modo molto attivo alla
campagna americana contro il grano Round-up Ready. «Ed è stata ancora più
emblematica, perché è avvenuta proprio nell'America del Nord, dove gli OGM
sono nati, e grazie all’appoggio determinante di chi li coltiva.» Tuttavia, quando
alla vigilia di Natale del 2002 l’azienda di Saint Louis annuncia di avere inoltrato,
contemporaneamente a Ottawa e a Washington, la richiesta di
commercializzazione di un grano primaverile resistente al Round-up, il caso
sembra chiuso. Così facendo, però, dimentica un «particolare» che le sarà fatàle:
fino ad allora tutti i suoi OGM riguardavano solo colture usate essenzialmente
come foraggio o per la produzione di olio e tessuti (soia, colza e cotone), e più di
rado per il consumo umano diretto (mais). Ma con il grano, pianta mitica, è tutta
un’altra storia: manipolando il cereale dorato che copre più del 20 per cento delle
terre coltivate del Pianeta e rappresenta il nutrimento base di un uomo su tre,
metteva le mani su un simbolo - culturale, religioso ed economico - nato con
l’agricoltura diecimila anni fa, in qualche luogo sperduto della Mesopotamia.3

Questo «simbolo» è anche il «pane quotidiano», nel senso proprio e figurato


del termine, dei potenti cerealicoltori dell’America del Nord, che coltivano, per
l’esattezza, il grano rosso primaverile, in cui la Monsanto ha introdotto il gene
Round-up Ready. Soprannominato «re del grano», per l’eccezionale contenuto di
proteìne e glutine, questo cereale è coltivato in quattro Stati nel Nord degli Stati
Uniti (Nord e Sud Dakota, Montana e Minnesota), oltre che nelle praterie del
Saskatchevvan, nel Canada occidentale* Evidentemente, questi grandi produttori
di cereali producono anche soia, colza e mais transgènici, ma si sono opposti
all’ultima trovata dei manipolatori del Missouri, per lo più per motivi economici.
«Il Canada esporta il 75 per cento della produzione annuale di grano, che
ammonta in media a venti milioni di tonnellate», mi ha spiegato Ian McCreary,
vicepresidente della Canadian Wheat Board (CWB), che controlla l’intera
commercializzazione dei semi prodotti nelle praterie in virtù di una legge federale
del 1935. «Equivale a due miliardi di euro circa di profitti all’anno. I nostri clienti
internazionali, primi fra tutti il Giappone e l’Europa, hanno chiaramente affermato
di non volere grano transgènico. Se il grano della Monsanto fosse stato messo sul
mercato, gli ottantacinquemila produttori di cereali del Canada occidentale
avrebbero sprangato le porte delle loro aziende.»

* In Canada il grano viene coltivato su dieci milioni di ettari, sei milioni dei
quali nella sola provincia del Saskatchevvan.

A quarantadue anni Ian McCreary gestisce un’azienda agricola di settecento


ettari vicino a Bladvvorth, nel cuore dell’immensa provincia pianeggiante
soprannominata il «cestino del pane». Quando lo incontro, nel settembre 2004, sta
eseguendo con la moglie Mary gli ultimi ritocchi alla mietitrebbia. Vivono in un
posto da favola, con migliaia di ettari di grano che splendono sotto il cielo
azzurro, verso cui si elevano qua e là immensi silos piantati a terra come enormi
pezzi di Lego.

«Qui siamo lontani da tutto», sorride Ian McCreary, dopo avere pronunciato la
benedizione prima del pasto in famiglia. «I costi di trasporto sono astronomici, e
perché il nostro lavoro sia redditizio dobbiamo concentrarci sulla qualità del
grano, che è apprezzato da tutti i mugnai del mondo perché lo mescolano a varietà
di qualità inferiore per la panificazione. Come per la colza o il mais, gli OGM
comporterebbero un abbassamento dei prezzi, e noi non possiamo permetterci di
vendere grano come foraggio.» «Ma la Monsanto dice che il suo grano
risolverebbe il problema delle erbe infestanti», replico io.

«Contrariamente alla soia, le erbacce non rappresentano un vero problema per


il grano», mi risponde Ian McCreary. «Credo sia soprattutto la Monsanto ad avere
un problema: il brevetto sul Round-up era scaduto e l’azienda voleva recuperare
vendendo erbicìdi e sementi per una delle più grandi colture alimentari del
mondo. Quanto ai cerealicoltori, temono che il grano Round-up Ready aumenti le
spese per gli erbicìdi, a causa della comparsa di ‘erbe spontanee’, per non parlare
del costo esorbitante delle sementi brevettate: nelle praterie abbiamo l’abitudine
di conservare le nostre sementi di grano almeno per dieci anni prima di
acquistarne di nuove...» Così la potente CWB si è ritrovata a lottare accanto a
Greenpeace e a The Council of Canadians (la più importante associazione di
consumatori del Paese) per «fare fronte unito contro gli OGM»,4 afferma nel
febbraio 2003 il Toronto Star. Nel loro articolo, i giornalisti citano una lettera
indirizzata da un rappresentante di Rank Hovis, il più grande mulino britannico,
alla CWB: «Se coltiverete grano geneticamente modificato, non potremo più
acquistare nessuno dei vostri prodotti, né transgènici, né convenzionali, [... ]
semplicemente perché non riusciremo a venderli». Nello stesso tempo Grandi
Molini Italiani, il più importante mulino italiano, rivolgeva un messaggio simile ai
produttori di cereali nordamericani,5 presto affiancato anche dalla potente
associazione dei mulini giapponesi che, per voce di Tsutomu Shigeta, il direttore
esecutivo, prevedeva un «crollo del mercato» se il grano della Monsanto avesse
invaso le praterie contro il volere della maggior parte dei consumatori6 (nel
maggio 2003 un sondaggio realizzato dalla Western Organization of Resource
Councils aveva dimostrato che il 100 per cento degli importatori di grano
giapponesi, cinesi e coreani contattati avrebbero rifiutato di acquistare grano
transgènico).

Negli Stati Uniti, dove il 50 per cento del grano viene esportato (cinque
miliardi di dollari circa all’anno), il messaggio è stato ricevuto da tutti i produttori
di cereali, compresi quelli che non coltivavano grano primaverile. «L’effetto sul
mercato riguarda tutti i produttori»,7 spiegava Alan Tracy, presidente della US
Wheat Associates, che aveva impugnato uno studio pubblicato nell’ottobre 2003
da Robert Wisner, economista dell’Università dell’Iowa. Wisner aveva esaminato
l’effetto che avrebbe avuto la commercializzazione del nuovo OGM
sull’economia del grano, e il quadro era alquanto pessimistico: crollo dal 30 al 50
per cento delle esportazioni di grano rosso primaverile, e ancora di più per le altre
varietà di grano duro; riduzione dei prezzi di due terzi; perdita di posti di lavoro in
tutta la filiera e conseguenti ripercussioni su tutta la vita rurale. «La maggior parte
dei consumatori e degli acquirenti stranieri non vogliono il grano transgènico»,
spiegava l’economista. «Che abbiano torto o ragione, i consumatori rappresentano
la forza motrice nei Paesi in cui l’etichettatura permette di scegliere.»8

Così centinaia di agricoltori, che meno di dieci anni prima avevano applaudito
l’avvento degli OGM, hanno attraversato le «grandi pianure del Nord» per
«lottare contro la biotecnologia». Nel Nord Dakota e nel Montana la resistenza si
è «consolidata in un movimento politico»9 che ha chiesto l’approvazione di una
moratoria sul grano della Monsanto. L’azienda di Saint Louis ha mosso mari e
monti per far decollare le proprie iniziative. Per riportare all’ovile le pecorelle
smarrite ha persino mandato un aereo a prendere una delegazione di ribelli del
Nord Dakota e a portarli presso la sede del Missouri, dove sono stati ricevuti da
Robert Fraley, uno degli «inventori» della soia Round-up Ready, intanto
promosso vicepresidente. Fraley ha lasciato loro intendere che «opponendosi alla
Monsanto facevano il gioco degli ambientalisti radicali». «A quel punto»,
racconta Louis Kuster, uno dei contadini invitati, «mi è saltata la mosca al naso.
L’ho guardato dritto negli occhi e gli ho detto: ‘Guardi che lei non sta parlando
coi Verdi. Anche noi abbiamo bisogno di guadagnare’...»10

Piante Bt: il malessere della farfalla monarca...

Per capire l’improbabile rivolta degli agricoltori nordamericani del 2003,


bisogna inquadrarla nel contesto dell’epoca, ben poco favorevole alla
Monsanto. Come hanno sottolineato fin da allora i sociologi francesi Pierre-
Benoìt Joly e Claire Marris, la resistenza agli OGM si è costruita attorno a
«prove» e «temi» con una propria specificità da una parte e dall’altra
dell’Atlantico, e si è formata, all’inizio degli anni Duemila, per affermare il rifiuto
comune del grano Round-up Ready.11

In Europa la prima «prova» fondante del movimento anti OGM è stata la crisi
della mucca pazza, che esplode nel 1996, nel momento in cui i primi carichi di
soia Round-up Ready giungono dagli Stati Uniti. Se la campagna organizzata da
Greenpeace contro gli OGM ha successo, è soprattutto perché rientra nell’aura
sospetta provocata dal cataclisma del prione killer, che ha rivelato l’incapacità
degli organismi governativi di valutare i rischi dell’agricoltura intensiva e del
sistema di produzione industriale degli alimenti. Come sottolineano Pierre-Benoìt
Joly e Claire Marris, «nell’edizione del 1° novembre 1996 Libération intitola
‘Allarme soia pazza’, dando così una chiara rappresentazione degli OGM».12
Insieme con il rafforzamento del movimento altromondista che denuncia
l’egemonia di multinazionali come la Monsanto sull’agricoltura del mondo
(summit OMC a Seattle nel dicembre 1999), di cui il caso Terminator è un
esempio perfetto, il tema della «cattiva alimentazione» attira la simpatìa dei
francesi per quelli che, accanto al leader contadino José Bové, arrecano danni,
nell’agosto 1999, al McDonald’s di Millau o distruggono i campioni di colture
transgèniche.

Nell’America del Nord, dove la «cattiva alimentazione» fa parte dello stile di


vita, il nutrimento del consumatore non è un tema che richiama grande attenzione
nel «periodo calmo» che accompagna la «diffusione degli OGM su larga scala».
Invece, nel momento in cui il caso Terminator e la questione dei brevetti
provocano i primi soprassalti nelle campagne, due «prove» influiranno
sull’opinione pubblica, d’un tratto inquieta per l’affidabilità e l’imparzialità delle
agenzie di regolamentazione nella gestione dei rischi associati ai prodotti
provenienti dalle biotecnologie. La prima riguarda la farfalla monarca, lepidottero
migratore dalle grandi ali ambrate, emblema dell’America, che diverrà il simbolo
della causa anti OGM negli Stati Uniti.

Il 20 maggio 1999, infatti, la rivista scientifica Nature pubblica uno studio


realizzato da John Losey, entomologo della Cornell University di New York:13
insieme con due colleghi, il ricercatore ha studiato gli effetti del polline di un
mais Bt prodotto dalla Novartis (oggi Syngenta) che avrebbe dovuto sconfiggere
la piralide, un parassita, sulle larve della bella farfalla. Ricordiamo che gli OGM
Bt, di cui la Monsanto è il primo produttore, hanno preso il nome da un battèrio
che si trova naturalmente nel suolo, il Bacillus thuringiensis, il quale agisce come
insetticìda. Isolato nel 1901 da un battèriologo giapponese, che aveva constatato
la sua proprietà di infettare e uccidere i bachi da seta, questo bacillo è usato dagli
agricoltori biologici sotto forma di polvere, perché riesce a degradarsi
rapidamente al sole, permettendo interventi puntuali senza conseguenze per
l’ambiente, né per le popolazioni di insetti che non si vogliono colpire. La
biotecnologia cambia completamente le cose. Infatti, l’inserimento del gene che
codifica la tossina fa in modo che quest’ultima si esprima perennemente in tutta la
pianta, con il rischio di infettare tutte le popolazioni di insetti, sia nocivi, sia utili
come la crisope, predatrice della stessa piralide che il mais Bt dovrebbe
combattere. Mentre il dottor Losey si interessa alla monarca, vari studi hanno già
dimostrato che le colture Bt possono essere fatàli per insetti buoni come le
coccinelle, ma anche per microrganismi del terreno o per uccelli insettivori.14
L’équipe della Cornell University ha nutrito, in laboratorio, larve di monarca
con foglie di grespino (il loro cibo preferito) cosparse di polline di mais Bt.
Risultato: «Quattro giorni dopo il 44 per cento delle larve erano decedute e quelle
sopravvissute avevano perso l’appetito. Invece, nessuna larva esposta a foglie
‘trattate’ con polline ‘naturale’ era morta».16

In America del Nord lo studio provoca clamore, mentre il giorno stesso della
pubblicazione la Commissione europea annuncia la sospensione delle richieste di
commercializzazione di parecchie varietà Bt, fra cui quelle della Monsanto. «Si
tratta di osservazioni fatte in laboratorio», si difende Christian Morin, portavoce
della Novartis, pretendendo che le osservazioni siano ripetute sul campo.16
Eppure niente: il malessere della farfalla cara agli americani infligge un primo
colpo alle esportazioni di mais verso l’Europa, che crollano dall’oggi al domani.
«Perché questo studio non è stato realizzato prima dell’approvazione del mais
Bt?» chiede sdegnata la dottoressa Margaret Mellon della Union of Concerned
Scientists. «Sono otto milioni di ettari coltivati troppo in ritardo. Deve servire
come avvertimento del fatto che forse ci saranno altre sorprese?»17

Naturalmente, i produttori di OGM, la Monsanto per prima, organizzano il


contrattacco: una campagna destinata a «minimizzare, se non addirittura a
ridicolizzare lo studio», diffondendo «informazioni ingannevoli, fantasiose e
segno di scarsissima conoscenza della vita naturale della monarca», scrive nel
2001 Lincoln Brovver, entomologo che lavora sulla mitica farfalla dal 1954.18
Questo articolo dimostra come un dibattito scientifico possa venire
completamente distorto da interessi privati, con la complicità degli organismi
governativi e di una parte della comunità scientifica. «Purtroppo», ammette
Lincoln Brovver, «il dibattito sulle scoperte della Cornell University, manipolato
dall’industria agricola, ha fatto perdere di vista una questione molto più grande e
seria: il reale pericolo che le piante transgèniche accelerino l’impoverimento della
biodiversità». Brovver osserva inoltre che l’uso intensivo del Round-up ha fatto
scomparire tutte le piante selvatiche come il grespino, da cui dipende la
sopravvivenza della monarca.

L’entomologo racconta anche l’opera di «manipolazione» di cui è stato


testimone. Infatti, nei giorni successivi alla pubblicazione dello studio i leader
delle biotecnologie decidono di creare un «consorzio», l’Agricultural
Biotechnology Stevvardship Working Group (ABSWG), che ha il compito di
sponsorizzare ricerche universitàrie simili a quella di John Losey. Il 2 novembre
1999, quando questi studi sono ancora alle fasi preliminari, l’ABSWG organizza
una conferenza scientifica a Chicago per dibattere «liberamente» sulla delicata
questione. Vi partecipano i migliori scienziati finanziati dal «consorzio», ma
anche altri indipendenti come Lincoln Brovver e la giornalista Carol Yoon del
New York Times. A dibattito appena cominciato, la collega giornalista viene
informata dell’arrivo, presso la sede del suo giornale, di un comunicato stampa da
parte della Biotechnology Industry Organization: è intitolato «Simposio
scientifico conclude che la farfalla monarca non corre alcun rischio».19

Carol Yoon, sconcertata, chiede ai partecipanti della conferenza se hanno


sentito parlare di tale comunicato: «No!» rispondono in coro. La giornalista
riporterà l’aneddoto, certo esemplare, nel suo articolo,20 ma tutti gli altri giornali
pubblicheranno ciecamente le conclusioni di quel comunicato...21

Eppure i risultati della Cornell University saranno confermati da uno studio


dell’Università dell’Iowa, pubblicato il 19 agosto 2000 sulla rivista (Ecologia,22
«Abbiamo constatato che dopo cinque giorni di esposizione al polline Bt, il 70 per
cento delle larve di monarca erano morte»,23 commenta John Obrycki, direttore
della ricerca, realizzata sul campo con foglie di grespino prelevate in prossimità
delle colture transgèniche. All’epoca la polemica era già avviata, ma presto è stata
superata dal più grande scandalo sanitario e ambientale mai provocato, fino a
oggi, dagli OGM.

276

...e il «fallimento dello StarLink» Il 18 settembre 2000 Friends of the Earth


pubblica un comunicato che scatena un vero e proprio cataclisma: l’associazione
ecologica americana annuncia di avere fatto analizzare dei campioni di mais
(patatine, tacos, cereali, farine, zuppe, gallette) acquistati nei supermercati, e i test
hanno rilevato tracce di StarLink, un mais Bt prodotto dalla Aventis* e bandito dal
consumo umano. Per aumentare la funzione insetticìda del suo OGM, l’azienda
introduce una proteìna Bt (Cry9C) particolarmente pesante e stabile, «sospettata
di causare allergie perché ha una grande resistenza al calore e ai succhi gastrici,
cosa che dà più tempo all’organismo per reagire», come spiega il Washington
Post}* Ecco perché l’EPA ha limitato la commercializzazione di questo mais Bt
per il solo consumo animale e per la produzione di etanolo... Poiché niente
somiglia di più a un mais convenzionale come un mais OGM, i negozianti di
sementi, che non erano informati della finezza burocratica, hanno mescolato lo
StarLink con le altre varietà (gialle) del cereale.

Prima di passare alle conseguenze di questo tremendo caso, vorrei sottolineare


perché è tipico di quella che Pierre-Benoìt Joly e Claire Marris chiamano
«inadeguatezza del quadro di regolamentazione americano».25 È noto che dopo
avere pubblicato le proprie «linee direttive sulla regolamentazione degli OGM»,
l’amministrazione repubblicana aveva suddiviso le competenze fra tre principali
agenzie di regolamentazione: la FDA era stata incaricata degli alimenti
transgènici, l’EPA degli OGM con funzione di pesticìdi e l’USDA delle colture
transgèniche. Il risultato di tale ripartizione (arbitraria) è che le piante Bt, alcune
delle quali, come il mais, finiscono nel piatto del consumatore, non dipendono
dalla FDA ma dall’EPA, perché sono considerate pesticìdi.

Questo paradosso, che spiega la catastrofe dello StarLink, è stato


magistralmente dimostrato nel 1998 da Michael Pollan, giornalista del New York
Times}6 Pollan racconta di avere piantato «qualcosa di nuovo nell’orto»: una
patata Bt recentemente lanciata sul mercato dalla Monsanto con il nome di New
Leaf, e in grado di produrre «il proprio insetticìda».

* La Aventis era un gruppo farmaceutico europeo nato nel 1999 dalla fusione
della tedesca Hoechst, delle francesi Rhòne-Poulenc e Roussel-Uclaf, delle
americane Rorer e Mario e della britannica Fisons. Nel 2004 viene acquistata da
Sanofi-Synthélabo dando così origine a Sanofi-Aventis.

Sulle istruzioni per l’uso il giornalista scopre che la patata è stata registrata
dall’EPA come «pesticìda», e si stupisce che l’etichetta informi della sua
composizione organica, dei nutrienti e persino delle «tracce di rame» che la
costituiscono; tuttavia non si dice una parola sul fatto che provenga da una
manipolazione genetica, e soprattutto che «contiene un insetticìda». Pollan decide
allora di chiamare James Maryanski, «coordinatore delle biotecnologie» alla
FDA. «Il Bt è un pesticìda», gli spiega, «per questo è esente dalla
regolamentazione della FDA ed è invece di competenza dell’EPA.» «Eppure»,
insiste il giornalista, «mangerò le mie patate Bt. L’EPA ha testato la loro sicurezza
alimentare?» «Non proprio», risponde Maryanski, perché, come dice il loro stesso
nome, i «pesticìdi sono prodotti tossici» e l’EPA non può fare altro che stabilire
«livelli di tolleranza» accettabili per l’uomo... Michael Pollan chiama l’EPA, dalla
quale viene informato che siccome la New Leaf è la «somma di una patata senza
rischi e di un pesticìda senza rischi», l’agenzia ha stabilito che non pone alcun
rischio per la salute umana. «Ammettiamo che le mie patate siano un pesticìda,
sebbene molto sicuro», ironizza il giornalista.
«Tutti i pesticìdi che uso in giardino, compreso il Bt, hanno mille precauzioni
d’uso. L’etichetta sul flacone di Bt dice, fra le altre cose, di evitare di inalare il
prodotto o di metterlo a contatto con una ferita. Perché le patate New Leaf, che
contengono un pesticìda registrato dall’EPA, non hanno questo tipo di etichetta?»
Non c’è modo migliore per riassumere l’aberrazione del sistema di
regolamentazione americano, che sfocia nel ridicolo quando sappiamo che, messa
in allarme sui potenziali effetti allergici del mais StarLink, l’EPA, invece di
vietarlo, decide di restringerne l’autorizzazione al solo consumo animale. Da
notare la totale indifferenza della FDA sulla questione, che in una lettera inviata
da Alan Rulis il 29 maggio 1998 ad AgrEvo, la filiale della Aventis che
commercializza lo StarLink, si limita a precisare: «Come sapete, è responsabilità
della AgrEvo garantire che gli alimenti commercializzati dall’azienda siano sicuri,
sani e che rispondano a tutte le norme di legge e di regolamentazione».27

Il funzionario della FDA non credeva di averci azzeccato tanto: dal settembre
2000 l’agenzia è sommersa di telefonate provenienti da tutti gli Stati Uniti. Per
esempio, quella di Grace Booth, che durante un pranzo di lavoro in cui aveva
mangiato delle enchiladas era stata improvvisamente colta da vampate di calore e
da una dissenteria violentissima, oltre che da un rigonfiamento delle labbra e dalla
perdita della voce: «Pensavo di morire», ha raccontato alla CBS.28 Trasportata
d’urgenza in un ospedale californiano, Grace Booth è sopravvissuta grazie alla
somministrazione immediata di un antiallergico. Tutti i rapporti che giungono alla
FDA presentano reazioni violente legate al consumo di prodotti a base di mais,
serviti per lo più in ristoranti tex-mex. Il dottor Marc Rosenberg, allergologo
incaricato di consigliare il governo sul da farsi, in un’intervista alla CBS
conferma che i sintomi «andavano da semplici dolori addominali, diarrea ed
eruzioni cutanee, a reazioni più rare in grado di mettere la persona in pericolo di
vita».

Come sottolineerà nel luglio 2001 Friends of the Earth, «la sconfitta dello
StarLink è un caso emblematico, poiché mostra l’incompetenza e la dipendenza
pressoché totale delle nostre agenzie di regolamentazione dalle aziende
biotecnologiche e agroalimentari».29 L’associazione afferma che la FDA ha
impiegato una settimana a confermare la presenza dello StarLink nella catena
alimentare, e per un motivo che non avrebbe mai sospettato: «Ci siamo resi conto
che questo ritardo era dovuto al semplice fatto che due anni dopo l’inizio della
coltivazione dello StarLink su centinaia di migliaia di acri* l’agenzia non era
ancora in grado di individuare quella proteìna potenzialmente allergica», scrive
l’associazione ecologista.30 Per poter condurre i test di laboratorio, la famosa
FDA ha dovuto sollecitare l’aiuto della Aventis. Allo stesso modo, quando l’EPA è
stata costretta a mettere a punto un test per misurare l’allergènicità della proteìna
Bt, ha dovuto rivolgersi al produttore per farsi inviare un campione della
molecola. Alla fine, sostenendo di non poter isolare proteìne espresse a
sufficienza nella pianta, l’azienda ha fornito un sostituto sintetico proveniente dal
battèrio Escherichia coli. Alcuni esperti hanno sottolineato che il test sarebbe stato
falsificato, perché, come abbiamo visto, «la stessa proteìna non è necessariamente
identica in una specie o nell’altra».31

* Si stima che all’epoca negli Stati Uniti lo StarLink rappresentasse l’1 per
cento delle colture di mais, cioè centocinquantamila ettari circa.

Dopo mesi di temporeggiamenti, l’EPA ha riconosciuto una «probabilità media


che lo StarLink fosse un allergène».32 Poi le autorità sanitarie hanno abbandonato
il dossier, perdendo così una buona occasione per capire perché il consumo di
tacos aveva fatto stare così male e messo in pericolo di vita centinaia di
americani.

«Il grano, mai!» Alla fine il «fallimento» è costato un miliardo di dollari alla
Aventis.

Prima l’azienda ha dovuto indennizzare i distributori alimentari che hanno


ritirato dagli scaffali dieci milioni di prodotti a base di mais. Poi ha dovuto
riacquistare presso tutti i negozianti, contadini e mulini le scorte di StarLink. Ma
l’entità della catastrofe ha superato le peggiori previsioni: test condotti
dall’USDA hanno rivelato che il 22 per cento del mais americano era contaminato
dalla proteìna maledetta,33 dando così il colpo di grazia alle esportazioni che la
storia della farfalla monarca aveva già ridotto in miseria. La rivista Nature scrive
che, secondo un rappresentante dell’USDA, lo StarLink era stato identificato in
prodotti da forno a Taiwan, ma anche in Giappone.34 «Vi chiederete se un giorno
tutto questo finirà», ha esclamato furioso John Wichtrich, un dirigente della
Aventis, in una riunione dell’associazione dei mugnai dell’America del Nord a
San Antonio, in Texas. «Purtroppo la risposta è no. Tutto ciò non avrà fine finché
si pretenderà una tolleranza zero per la proteìna Cry9C nell’alimentazione. »:!5

Ora è chiaro perché la resistenza si sia organizzata nelle pianure dell’America


del Nord, quando in pieno «fallimento da StarLink» la multinazionale di Saint
Louis ha annunciato l’intenzione di commercializzare il grano Round-up Ready.
Bisogna dire che l’azienda stessa non navigava in ottime acque. A fine dicembre
2002, quando pubblica il suo comunicato, l’amministratore delegato Hendrik
Verfaillie viene messo alla porta per «scarsi risultati», cioè 1,7 miliardi di dollari
di perdite per il 2002.

Ma il problema non riguarda la CWB, che il 27 giugno 2003 dichiara guerra


non solo alla Monsanto, ma anche al fedele alleato governativo: «Faremo il
possibile per garantire che il grano OGM non venga introdotto in Canada»,
dichiara Adrian Measner, presidente della CWB.36

Poco tempo prima il Comitato permanente dell’agricoltura e


dell’agroalimentare della Camera dei comuni si era riunito per discutere la
delicata questione. Greenpeace Canada, esclusa dai dibattiti, aveva fatto circolare
un documento precedentemente indirizzato a Paul Steckle, presidente del
Comitato, in cui denunciava il «conflitto d’interessi creato dal partenariato fra la
Monsanto e il governo del Canada».37 Si scopre così che AAC, alle dipendenze
del dipartimento dell’Agricoltura e dell’agroalimentare, «ha fornito materiale
genetico di prima scelta e di proprietà pubblica alla Monsanto perché sviluppasse
il grano Round-up Ready», e che era stata l’AAC a «realizzare, in virtù di un
contratto, le prove sul campo del grano OGM della Monsanto in vista
dell’iscrizione varietàle». Infine lo stesso dipartimento di Stato «ha fornito alla
Monsanto almeno ottocentomila dollari di fondi nel quadro dell’iniziativa
d’accoppiamento degli investimenti».38 In queste condizioni non si capisce, in
effetti, come il dipartimento dell’Agricoltura e la Canadian Food Inspection
Agency (CFIA), che operano come cosviluppatori del grano Round-up Ready,
potrebbero esercitare in tutta indipendenza la propria autorità, valutando
«correttamente la sicurezza della biotecnologia agricola per la salute umana,
l’agricoltura e l’ambiente».39

Nel suo comunicato, Greenpeace ricorda anche il problema della


contaminazione genetica, che potrebbe comportare la commercializzazione del
grano Round-up Ready. Gli esperti suggeriscono al «venerabile comitato» di
porre tre domande ai rappresentanti della Monsanto nel corso dell’udienza: La
Monsanto è pronta a rilasciare una dichiarazione pubblica e giuridicamente
stringente che la renderebbe responsabile dell’eventuale contaminazione genetica
del grano convenzionale e biologico [... ] da parte del grano Round-up Ready?

Se sì, quanto denaro è pronta a sborsare l’azienda per risarcire le vittime?

Se no, chi, secondo la Monsanto, dovrebbe pagare tali rimborsi?


«È vero che la questione della contaminazione genetica ha pesato molto sulla
nostra decisione di rifiutare il grano Round-up Ready», mi dice Ian McCreary,
vicepresidente della CWB. «Lo spettro dello StarLink ci ossessionava, e inoltre
avevamo già l’esempio della colza transgènica, che aveva fatto praticamente
sparire dal Canada la colza convenzionale.» Quando la colza transgènica elimina
la colza biologica: l’inevitabile contaminazione Le prime vittime della
contaminazione genetica sono gli agricoltori biologici, che hanno dovuto
rinunciare a coltivare l’oleaginosa perché non riuscivano a garantirne la purezza.
Per chiarirmi le idee una volta per tutte ho incontrato Marc Loiselle, una delle
figure principali della resistenza al grano della Monsanto, che pratica l’agricoltura
biologica da ventidue anni.40 Con la moglie Anita gestisce la fattoria dei nonni,
emigrati dall’Aquitania un secolo prima per stabilirsi a Vonda, a una cinquantina
di chilometri da Saskatoon, nel Saskatchevvan.

Nel settembre 2004 un gelo eccezionale (-9 °C) ha colpito le praterie di Vonda,
mettendo in pericolo il grano, una parte del quale si è congelato. Per Marc il grano
è tutto, perché gli permette di vivere, naturalmente, ma anche perché lo lega
all’epopèa familiare e alla grande avventura dell’uomo. Questo cattolico
praticante, infatti, non coltiva un grano qualunque, ma ogni anno semina quattro-
cinque ettari con una varietà antica a rischio di estinzione, la Red Fife, molto
apprezzata dai panificatori artigianali. Mentre viaggiamo su un rettilineo che corre
verso l’orizzonte, *

Marc mi spiega che quando i coloni europei erano arrivati in Canada avevano
portato sementi di grano inadatte alle rigide temperature delle praterie. Poi, nel
1842, un certo David Fife, agricoltore scozzese stabilitosi nell’Ontario, ha
cominciato a seminare semi che un amico di Glasgovv aveva recuperato da un
carico di grano ucraino proveniente da Danzica.

Presto la varietà di grano rosso, battezzata appunto Red Fife, dal nome del suo
«scopritore», si diffonde nelle praterie, perché ha una grande resistenza alla
ruggine e, soprattutto, perché matura abbastanza velocemente da sfuggire al gelo
dell’autunno. Successivamente un selezionatore decide di incrociarla con la Hard
Red Calcutta, una varietà originaria dell’ìndia, per aumentarne il rendimento e la
qualità panificatrice. Nasce così la Marquis, che all’inizio del XX secolo
conquista un vasto territorio che si estende dal Sud del Nebraska al Nord del
Saskatchevvan, oggi considerato uno dei serbatoi di grano del mondo.

«Questa storia», dice Marc Loiselle, «illustra bene la grande saga del grano che
gli uomini hanno saputo portare avanti in tutto il mondo, perché lo scambio di
sementi non era ancora ostacolato dai brevetti o dai vari Terminator.» Adesso
arriviamo in un immenso campo di grano Red Fife, circondato da colture di colza
Round-up Ready che seccano sul terreno. «Prima», mi spiega l’agricoltore,
«facevo una rotazione fra le colture di grano e quelle di colza o di senape. Ma ho
dovuto smettere, perché il mio campo è stato contaminato dalla colza transgènica
del mio vicino, probabilmente trasportata dal vento. La mia agenzia di
certificazione biologica mi ha chiesto di non coltivare più colza, né altre piante
imparentate per almeno cinque anni, perché è risaputo che il seme di colza può
restare dormiente nel suolo per tutto quel tempo. In ogni caso, non credo che
riprenderò la coltivazione della colza biologica, perché è impossibile tutelarsi
dalla contaminazione.» «Non può ricorrere ad arbusti o a zone tampone, come
consigliano le autorità agricole?» gli domando.

«Non serve a nulla!» risponde Marc. «Non si possono prevenire tutti gli eventi
della natura: gli uccelli, le api, il vento... L’agricoltura lavora con gli organismi
viventi, che non sono un insieme di geni su un vetrino da laboratorio! Al contrario
di ciò che afferma la Monsanto, una volta introdotto un OGM l’agricoltore perde
la facoltà di scegliere il tipo di coltura, perché colonizzano tutto. Gli OGM
annientano la mia libertà di contadino, e non posso più seminare quello che voglio
dove voglio. Per questo eravamo pronti a tutto, purché questa sventura
risparmiasse il grano.» Dal gennaio 2002 Marc Loiselle aveva partecipato a una
class action che raggruppava la maggior parte degli agricoltori biologici del
Saskatchevvan, i quali chiedevano i danni alla Monsanto e all’Aventis per la
perdita delle proprie colture di colza.41 Il 13 dicembre 2007 la Corte suprema del
Canada respinge la richiesta per motivi tecnici, avendo stimato che l’accusa, di
cui non contesta tuttavia i fondamenti, non può essere trattata nel quadro di
un’azione collettiva, ma solo a livello individuale.

Nell’attesa, ciò che denunciano Marc Loiselle e colleghi viene confermato da


uno studio scientifico diretto da René Van Acker, agronomo dell’Università del
Manitoba, su richiesta della CWB.42 «Abbiamo realizzato test in ventisette silos
di sementi certificate di colza non transgènica e abbiamo constatato che l’80 per
cento erano contaminate dal gene Round-up Ready», mi spiega Van Acker quando
lo incontro a Ottawa nel settembre 2004. Ciò significa che la quasi totalità dei
campi di colza canadesi comprendono piante Round-up Ready. Quanto alla colza
biologica, in Canada è già scomparsa, ed è ormai difficile trovare cinque
chilometri quadrati senza OGM.

«In che cosa l’esperienza della colza poteva servire per il grano?» «La CWB ci
aveva chiesto di verificare se il gene Round-up Ready fosse in grado di passare da
una coltura di grano all’altra», mi risponde l’agronomo. «Perciò abbiamo
costruito un modello del flusso di geni che, nella colza, scaturisce da ciò che
chiamiamo ‘ponti di geni’. Abbiamo confrontato tutti gli elementi del modello,
uno per uno, e abbiamo concluso che la situazione sarebbe stata simile per il
grano, e che il flusso di geni sarebbe stato possibile.» «Non si potevano
organizzare due filiere distinte, basate sulla segregazione dei semi?» domando,
riprendendo l’argomentazione avanzata dai promotori delle biotecnologie.

«È impossibile», mi risponde l’agronomo. «La contaminazione nei campi


rende inefficace ogni tentativo di segregazione a priori.» Tale affermazione è
condivisa dai proprietari di silos di cereali, come conferma un sondaggio
realizzato nel 2003 dallo IATP di Minneapolis.43

Si scopre così che l’82 per cento dei professionisti contattati erano «molto
preoccupati» per l’eventuale commercializzazione del grano Round-up Ready,
perché «è impossibile avere un sistema di segregazione con una tolleranza zero».
Allo stesso modo, nel 2001 una comunicazione di servizio interna di AAC, rivolta
al segretario dell’Agricoltura Lyle Vanclief e recuperata da Greenpeace, svela che
la questione della segregazione non convince gli stessi funzionari ministeriali:
«Se il grano transgènico venisse autorizzato, sarebbe difficile e costoso
mantenerlo separato dal grano non transgènico nell’insieme delle attività di
produzione, manutenzione e trasporto», si legge nel documento.44

Questo è anche il parere degli organismi europei, benché ufficialmente


dichiarino una cosa del tutto diversa, per rassicurare le popolazioni recalcitranti.
Un rapporto segreto inviato all’Unione europea nel gennaio 2002, di cui
Greenpeace si è procurato una copia, conferma che l’introduzione delle colture
transgèniche in Europa sarebbe un colpo fatàle per la «coltivazione biologica e
familiare» della colza, ma anche per i «grandi produttori di mais convenzionale»,
e che la convivenza di colture convenzionali e transgèniche «in una stessa azienda
agricola sembra irrealistica, anche nelle grandi fattorie». Consapevole della
«sensibilità» di tali conclusioni, Barry McSvveeney, direttore del centro di ricerca
dell’Unione europea, ha pensato di allegare al rapporto una lettera in cui scrive:
«Considerata la sensibilità dell’argomento, propongo che questo rapporto sia
riservato unicamente all’uso interno della Commissione».46

«La contaminazione transgènica è reversibile?» domando a René Van Acker,


lievemente sconvolta da tutte queste informazioni.

«Purtroppo no», dice sospirando. «Non si può fare marcia indietro.


Una volta che un OGM è rilasciato in natura, non lo si può più richiamare...
Per sopprimere la colza transgènica nel Canada occidentale, bisognerebbe
chiedere a tutti i contadini di smettere di coltivarla per almeno dieci anni. Cosa
impossibile, poiché la colza rappresenta la nostra seconda produzione nazionale,
con 4,5 milioni di ettari coltivati.» «Quali sono le conseguenze per la
biodiversità?» «È una questione molto importante, soprattutto per il Messico,
culla d’origine del mais; o per i Paesi della Mezzaluna fertile, dove è nato il
grano. Il Canada e gli Stati Uniti esportano verso queste zone del mondo: se i
transgèni si inseriscono nelle specie selvatiche e tradizionali di mais di grano, ciò
darà origine a un incredibile impoverimento della biodiversità. Inoltre, si pone il
problema dei diritti di proprietà intellettuale.

Il caso di Percy Schmeiser dimostra che la Monsanto è convinta che tutte le


piante contenenti un gene brevettato le appartengano: se questo principio non
verrà rimesso in discussione, presto l’azienda potrebbe controllare le risorse
genetiche del mondo, che sono un bene comune.

Guardi che cosa sta succedendo in Messico, dove le due strade si sono già
incrociate...»
12. Messico: colpo basso alla biodiversità

«La presenza accidentale fa parte dell’ordine naturale.» Monsanto, The Pledge


Report 2001 - 2002, p. 13

«La speranza degli industriali è che, con il tempo, il mercato sarà talmente
sommerso che non potrete fare più niente, se non arrendervi.»1

Sono le dichiarazioni, all’inizio del 2001, di Don Westfall, vicepresidente di


Promar International, uno studio di consulenze di Washington che lavorava per le
aziende di biotecnologie. Quella frase risuonava ancora dentro di me quando,
nell’ottobre 2006, sono atterrata a Oaxaca, nel Sud del Messico. La città,
incastonata nel cuore di uno splendido paesaggio di montagne verdeggianti e
considerata un gioiello del turismo nazionale, all’epoca era in preda a un violento
conflitto sociale.

La «conquista transgènica» del mais americano Sullo Zócalo, la magnifica


piazza coloniale circondata dai portici, centinaia di scioperanti erano accampati
con le famiglie in tende ornate di bandierine dell’Assemblea popolare degli
abitanti di Oaxaca (APPO).

Le vie del centro storico erano ostruite da barricate, mentre il palazzo del
governatore, il tribunale, il congresso regionale e tutte le scuole dello Stato di
Oaxaca, considerato uno dei più poveri del Paese, erano chiusi da settimane. Il
conflitto, cominciato con uno sciopero degli insegnanti, sì era esteso a tutti i
settori della società che, riuniti all’interno dell’APPO, chiedevano
l’allontanamento di Ulises Ruiz Ortiz, governatore dello Stato. Il magnate del
partito rivoluzionario istituzionale, corrotto e dedito alle maniere forti, aveva
finito con il venire rinnegato dal proprio schieramento politico.

«È venuta per questa storia?» mi domanda il receptionist dell’hotel, che in quel


periodo vede sfilare giornalisti di tutto il mondo.

«No, sono qui per la contaminazione del mais... » rispondo, ma a giudicare


dalla sua espressione non si aspettava questa risposta.

Il 29 novembre 2001 la rivista scientifica Astore aveva pubblicato uno


sconvolgente studio che aveva causato lo spiegamento di artiglieria (molto)
pesante in quel di Saint Louis. Lo studio, firmato da David Quist e Ignacio
Chapela, due biologi dell’Università di Berkeley, in California, affermava che il
mais criollo (tradizionale) dello Stato di Oaxaca era contaminato dai geni Round-
up Ready e Bt.2 Ma la notizia era ancora più sconcertante, poiché nel 1998 il
Messico aveva dichiarato una moratoria sulle colture di mais transgènico, per
salvaguardare la straordinaria biodiversità del cereale che sussiste in questo Paese.
Coltivato da almeno cinquemila anni prima di Cristo, il mais costituiva l’alimento
base dei popoli maya e azteco, che lo veneravano come una pianta sacra. Una
leggenda india narra che gli dei hanno creato l’uomo partendo da una pannocchia
di mais giallo e bianco.

Da buona europea, convinta che il mais fosse immancabilmente giallo (o


meglio, dorato), sono rimasta affascinata dalle numerose varietà messicane.
Passando in rassegna le comunità indie dello Stato, a quattro cinque ore di strada
(dissestata) dalla capitale in sommossa, ho incontrato un po’ ovunque donne con
gonne variopinte che facevano seccare davanti alle case pannocchie magnifiche,
gialle chiare, bianche, rosse, lilla, nere o di un blu stupefacente, e anche di più
colori insieme, grazie all’impollinazione incrociata.

«Solo nella regione di Oaxaca abbiamo più di centocinquanta varietà locali»,


mi spiega Secundino, un indio zapoteco intento a raccogliere a mano del mais
bianco. «Questa specie, per esempio, è eccellente per le tortillas. Guardi questa
pannocchia, grossa e con tanti bei chicchi: la terrò come semente per l’anno
prossimo.» «Lei non compra mai i semi da un’altra parte?» «No», risponde
Secundino. «Quando ho un problema, faccio cambio con un vicino: io gli do
qualche pannocchia per i suoi consumi e lui mi dà delle sementi. È il baratto di un
tempo... » «Fa sempre le tortillas con il mais locale?» «Sì, sempre», sorride il
contadino. «È più nutriente, ed è di una qualità migliore di quello industriale... Poi
è più sano, perché lo coltiviamo senza prodotti chimici.» Il «mais industriale»
sarebbero le sei milioni di tonnellate di semi che arrivano ogni anno dagli Stati
Uniti, il 40 per cento delle quali transgèniche. In virtù dell’Accordo di libero
scambio nordamericano (NAFTA) firmato nel 1992 con il potente vicino del Nord
e con il Canada, il Messico non ha potuto impedire l’importazione massiccia di
mais: largamente sovvenzionata dall’amministrazione di Washington, tale
importazione minaccia ora la produzione locale, perché questo mais viene
venduto a un prezzo inferiore.* Si stima che fra il 1994 e il 2002 il prezzo del
mais messicano sia crollato del 44 per cento, costringendo molti piccoli contadini
a prendere la strada delle bidonville.

«Guardi!» mi dice Secundino, mostrandomi una magnifica pannocchia lilla nel


palmo della mano. «Questo mais era il preferito dei miei avi...» «Esisteva già
prima della conquista spagnola?» «Sì», sussurra il contadino, «e ora c’è un’altra
conquista... » «Quale nuova conquista?» «La conquista transgènica, che vuol fare
scomparire il nostro mais tradizionale a favore di quello industriale. Così per le
sementi dipenderemo dalle multinazionali! E saremo costretti ad acquistare anche
concìmi e insetticìdi, perché altrimenti il loro mais non crescerà. Il nostro, invece,
cresce benissimo senza prodotti chimici... » Nel 2007 gli Stati Uniti esportavano
l’11 per cento del loro mais verso il Messico, per un totale di cinquecento milioni
di dollari; il 30 per cento del mais consumato in Messico era statunitense.

Il linciaggio mediatico del biologo Ignacio Chapela «I piccoli contadini


messicani sono consapevoli delle conseguenze della contaminazione transgènica,
perché per loro il mais non è solo il cibo di base, ma anche un simbolo culturale»,
mi spiega Ignacio Chapela, autore dello studio pubblicato da Nature. Chapela mi
ha dato appuntamento all’Università di Berkeley, a San Francisco, dove nel 1964
era nato il movimento contro la guerra del Vietnam, che denunciava le irrorazioni
di agente arancio e i «mercanti della morte», fra i quali la Monsanto.

In quella domenica di ottobre 2006 l’immenso campus (più di trentamila


studenti e circa duemila insegnanti) era deserto. C’era solo un’auto della polizia.
«È per me», dice Ignacio Chapela. «Dall’inizio di questa storia sono strettamente
sorvegliato, soprattutto quando sono accompagnato da una telecamera...» Poi, con
aria incredula, aggiunge: «Vuole una prova? Venga!» Saliamo in auto per
raggiungere una collina che domina la baia di San Francisco. Mentre ci dirigiamo
verso il punto panoramico, la stessa auto della polizia parcheggia lungo la strada,
dove rimarrà per tutta la durata della nostra conversazione...

«Come ha scoperto che il mais messicano era contaminato?» gli domando,


discretamente turbata.

«Ho lavorato per quindici anni con le comunità indie della regione di Oaxaca,
a cui insegnavo analisi ambientale», risponde il biologo, lui stesso di origine
messicana e per molti anni alle dipendenze dell’azienda svizzera Sandoz (poi
della Novartis e dopo ancora della Syngenta). «David Quist, un mio studente, è
andato a tenere un seminario sugli OGM.

Per spiegare i principi della biotecnologia, ha proposto loro di paragonare il


DNA di un mais transgènico, proveniente dagli Stati Uniti, con quello di un
mais criollo, la nostra unità di controllo, perché pensavamo non esistesse un mais
più puro al mondo. Immagini la nostra sorpresa quando abbiamo scoperto che i
campioni di mais tradizionale contenevano DNA transgènico! Abbiamo quindi
deciso di condurre uno studio vero e proprio, che ha confermato la
contaminazione del mais criollo.» Per la ricerca i due scienziati hanno prelevato
pannocchie di mais in due località della Sierra Norte di Oxaca. Hanno constatato
che quattro campioni presentavano tracce del promotore 35S, proveniente, come
abbiamo visto, dal virus del mosaico del cavolfiore; due campioni rivelavano la
presenza di un frammento del battèrio Agrobacterium tumefaciens e un altro
quello di un gene Bt.3 «Appena abbiamo avuto i risultati», commenta Ignacio
Chapela, «abbiamo messo in allarme il governo messicano, che ha condotto un
proprio studio e ha confermato la contaminazione.» Infatti, il 18 settembre 2001 il
ministero dell’Ambiente messicano annuncia che da test condotti in ventidue
comunità contadine, in tredici è stato rilevato mais contaminato a livelli compresi
fra il 3 e il 10 per cento.4 Stranamente, però, il comunicato del ministero passa
inosservato, mentre meno di tre mesi dopo un fulmine si abbatterà su Ignacio
Chapela e David Quist, forse a causa della fama di Nature, che pubblica il loro
articolo alla fine di novembre. Eppure, quando lo propongono alla rivista
britannica i due scienziati ricevono i complimenti per la qualità dello studio, che
segue il normale corso: viene sottoposto a quattro revisori e approvato entro otto
mesi. Come sottolineerà nel maggio 2002 YEastBay Express: «Nessuno poteva
prevedere l’entità della controversia che ne sarebbe scaturita».6 Sarà un attacco
violento, un vero e proprio linciaggio mediatico organizzato in gran parte da Saint
Louis.

«Prima di tutto», mi dice Ignacio Chapela, «bisogna capire perché questo


studio ha scatenato le ire dei sostenitori delle biotecnologie. In effetti, conteneva
due rivelazioni: la prima riguardava la contaminazione genetica, che in realtà non
ha sorpreso nessuno, perché tutti sapevano che prima o poi sarebbe successo,
persino la Monsanto, che si è sempre limitata a minimizzarne le conseguenze».
Nel suoPledgeReport, l’azienda affronta l’argomento con un certo linguaggio,
poiché non parla di «contaminazione», ma di «presenza accidentale» che farebbe
«parte dell’ordine naturale».6 «Invece», prosegue il ricercatore di Berkeley, «il
secondo punto del nostro studio era molto più grave per la Monsanto.

Cercando dove fossero localizzati i frammenti di DNA transgènici, abbiamo


constatato che si erano inseriti in vari punti del genòma della pianta, in modo del
tutto aleatorio. Ciò significa che, contrariamente alle affermazioni dei produttori
di OGM, la tecnica di manipolazione genetica non è stabile, perché una volta che
l’OGM si incrocia con un’altra pianta, il transgène scoppia e si inserisce in modo
incontrollato. Le critiche più violente si sono concentrate soprattutto su questa
parte dello studio, denunciando la nostra incompetenza tecnica e la nostra
mancanza di esperienza nel valutare questo tipo di fenomeno.» Il fatto che i
«transgèni siano instabili» ha «implicazioni gravi», commenta Science nel marzo
2002: «Considerando che il comportamento di un gene dipende dalla sua
posizione nel genòma, il DNA trasferito potrebbe generare effetti assolutamente
imprevedibili».7 «Questo annulla la premessa fondamentale secondo cui la
manipolazione genetica è una scienza sicura ed esatta», afferma tre mesi dopo una
giornalista dell’East Bay Express} «Questo studio è puro misticismo travestito da
scienza»,9 replica Matthevv Metz, ex studente di Chapela a Berkeley e ora
microbiologo all’Università di Washington, che denigrerà Ignacio Chapela e
David Quist, al punto da concludere che sono incappati in errore a causa di «falsi
risultati positivi» dovuti alla «contaminazione del loro laboratorio».10

«Da dove è partita l’offensiva?» domando a Ignacio Chapela.

«Da due punti», mormora. «Innanzitutto da alcuni colleghi di Berkeley, con cui
mi ero già scontrato in passato riguardo a un contratto di venticinque milioni di
dollari che il mio dipartimento di biologia aveva firmato nel 1998 con la Novartis-
Syngenta, miei ex datori di lavoro. Quel contratto quinquennale dava diritto
all’azienda di depositare brevetti per un terzo delle nostre scoperte. Quella storia
aveva creato due fazioni a Berkeley, due concezioni antagoniste della scienza: da
un lato quelli che, come me, vogliono che rimanga indipendente, dall’altro quelli
pronti a vendere l’anima per ottenere finanziamenti.» Nel giugno 2002 la rivista
New Scientist identifica questi «colleghi», che nel dicembre 2001 scrivono una
lettera minatoria aNature, chiedendo di rinnegare l’articolo. Una cosa inaudita.
Sono Matthevv Metz, già citato, Nick Kaplinsky, Mike Freeling e Johannes
Futterer, un ricercatore svizzero al servizio di Wilhelm Gruissem, «unanimemente
considerato l’uomo che aveva portato a Berkeley la Novartis».11

«Ma il peggio è venuto dalla Monsanto», afferma Chapela, «che tra l’altro ha
ricevuto una copia del nostro studio prima [corsivo mio] della pubblicazione.» I
«colpi bassi della Monsanto» L’azienda di Saint Louis ha dato il meglio di
sé, nonostante la storia che sto per raccontare abbia dell’incredibile. Il giorno
stesso della pubblicazione dell’articolo di Chapela e Quist su Nature, cioè il 29
novembre 2001, una certa Mary Murphy, evidentemente bene informata, invia
una e-mail al sito scientifico prò OGM AgBioWorld, in cui scrive: «Gli attivisti
spargeranno la voce che il mais messicano è stato contaminato da geni di mais
OGM. [... ] Da notare che l’autore dell’articolo di Nature, Ignacio H. Chapela, fa
parte del Pesticìde Action Netvvork North America (PANNA), un gruppo di
attivisti, per l’appunto. [... ] Non è esattamente quello che si dice un autore
imparziale».12
Lo stesso giorno una certa Andura Smetacek invia allo stesso sito una e-mail
con oggetto «Ignatio [sic] Chapela: più attivista che scienziato», in cui afferma:
«Purtroppo la recente pubblicazione sulla rivista Afatare di una lettera (e non di
un articolo di ricerca sottoposto all’analisi scientifica di scienziati indipendenti)
dell’ecologista di Berkeley Ignatio [sic]

Chapela è stata manipolata da attivisti dell’antitecnologia (come Greenpeace,


Friends of the Earth e la Organic Consumers Association) e dai media dominanti
per affermare, falsamente, l’esistenza di malattie associate alla biotecnologia
agricola. [... ] Una semplice ricerca nella storia delle relazioni di Chapela con
questi gruppi [ecoradicali] chiarisce il suo rapporto con la biotecnologia, il libero
scambio, i diritti di proprietà intellettuale e altri argomenti politici».13

Nel momento in cui parte la «campagna diffamatoria»14 che rovinerà la


carriera di Ignacio Chapela, un uomo «si imbatte per caso» in quelle strane e-
mail. Si chiama Jonathan Matthevvs e dirige GMWatch, un servizio di
informazione sugli OGM con sede a Norvvich, nel Sud dell’Inghilterra.
«All’epoca conducevo un’inchiesta su AgBioWorld», mi spiega quando lo
incontro nel novembre 2006. «Le due e-mail inviate da Mary Murphy e Andura
Smetacek sono state mandate ai tremilaquattrocento scienziati registrati sulla
nevvsletter di AgBioWorld. Da lì la campagna ha raggiunto alcuni scienziati come
il professor Anthony Trevvavas dell’Università di Edinburgo, portando alla
richiesta di smentità dello studio da parte di Nature o al licenziamento di Ignacio
Chapela.» «Chi c’è dietro AgBioWorld?» gli domando.

«Ufficialmente è una fondazione senza scopo di lucro che afferma di ‘fornire


informazioni scientifiche sull’agricoltura biologica in tutto il mondo’», dice
Jonathan Matthevvs leggendo dal sito di AgBioWorld.15 «È diretta dal professor
Channapatna S. Prakash, capo del centro di ricerca sulla biotecnologia vegetale
dell’università Tuskegee, in Alabama. Di origini indiane, Channapatna è
consulente della United States Agency for International Development (USAID), e
a questo titolo interviene regolarmente in India e in Africa per promuovere la
biotecnologia. Si è reso celebre lanciando, nel 2000, la Dichiarazione di supporto
alla biotecnologia agricola, che ha fatto firmare a tremilaquattrocento scienziati,
fra cui venticinque premi Nobel.16 Sul suo sito non esita ad accusare i difensori
dell’ambiente di ‘fascismo, comuniSmo, terrorismo e pure di genocìdio’. Un
giorno, mentre consultavo gli archivi di AgBioWorld, ho ricevuto un messaggio di
errore che mi indicava il nome del server che ospita il sito: appollo.bivings.corn.
Il Gruppo Bivings, con sede a Washington, è un’azienda di comunicazioni che
conta fra i propri clienti la Monsanto,17 ed è specializzata in lobbying su
Internet».

A questo punto Jonathan Matthevvs mi mostra un articolo pubblicato sul


Guardian nel 2002 dal giornalista George Monbiot, in cui si scopre che l’azienda
ha presentato il proprio knovv-hovv in un documento on-line intitolato
«Marketing virale: come infettare il mondo»: «Per certe campagne pubblicitarie
non è augurabile, anzi è persino disastroso, che l’azienda ne risulti apertamente
implicata», spiega ai clienti. «In termini di pubbliche relazioni non è una buona
cosa. In quei casi è innanzitutto importante ‘ascoltare’ ciò che viene detto sul
Web. [... ] Una volta che siete bene istruiti, potete connettervi e presentare la
vostra posizione facendo credere che provenga da terzi. [... ] Il grande vantaggio
del marketing virale è che il messaggio ha più possibilità di essere preso sul
serio.» Il giornalista del Guardian sottolinea che Bivings cita inoltre un «dirigente
della Monsanto» che «si complimenta con l’azienda» per «l’eccellente lavoro».18

«Sa chi sono Mary Murphy e Andura Smetacek?» domando a Jonathan


Matthevvs, con l’impressione di trovarmi in un film poliziesco...

«Ah!» mi risponde il direttore di GMWatch con un sorriso. «Come ha


riassunto il Guardian,19 a cui ho inviato le mie scoperte, sono ‘fantasmi’

‘cittadini feticcio’! Ho passato molto tempo a cercare queste due ‘scienziate’


che avevano scatenato la campagna contro Ignacio Chapela. Per quanto riguarda
Mary Murphy, ha inviato almeno un migliaio di e-mail al sito di AgBioWorld.
Inoltre, ha pubblicato on-line un falso articolo dell’Associated Press che critica gli
‘attivisti anti OGM’. Risalendo all’indirizzo del server da cui dipende il suo
indirizzo di posta elettronica, si ottiene bvv6.bivvvood.corn! ‘Mary Murphy’ è
quindi una dipendente della Binvings! Quanto ad ‘Andura Smetacek’, pensavo
fosse facile rintracciare una scienziata con un nome così poco comune, tanto più
che diceva di scrivere da Londra. Era stata lei ad avere scritto una petizione per
l’incarcerazione di José Bové. Ho ispezionato l’annuario elettronico, il registro
degli elettori e delle carte bancarie, ma è impossibile trovarne traccia... Ho
assunto un detective privato negli Stati Uniti, ma nemmeno lui ha trovato niente.
Alla fine ho analizzato i particolari tecnici in fondo alle sue e-mail che indicano
l’indirizzo di protocollo Internet 199.89.

234.124. Copiandolo in un annuario dei siti Internet, ho scoperto che si trova


su gatekeeper2.monsanto.corn!» «Chi si nasconde, secondo lei, dietro ‘Mary
Murphy’?» «Con George Monbiot del Guardian pensiamo si tratti di Jay Byrne,
responsabile della strategia Internet della Monsanto. In una riunione con alcuni
industriali alla fine del 2001, Byrne ha dichiarato: ‘Bisogna considerare Internet
come un’arma appoggiata su un tavolo: o te ne impadronisci tu, o lo fa il tuo
avversario, ma in ogni caso uno dei due verrà ucciso’.»20

«Falsi scienziati e falsi articoli, è incredibile!» «Sì», risponde Jonathan


Matthevvs, «sono proprio dei colpi bassi, l’esatto opposto delle qualità che la
Monsanto dice di incarnare nel suo Pledge Report: ‘Dialogo, trasparenza,
condivisione’.21 Questi sono i metodi di un’azienda che non ha nessuna voglia di
convincere con le argomentazioni, ma è pronta a tutto per imporre i suoi prodotti
nel mondo, anche a costo di distruggere la reputazione di chi potrebbe
ostacolarla.» Un «potere assoluto» Nel frattempo la «cospirazione»,22 per
riprendere le parole dì Ecologist, ha dato i suoi frutti: il 4 aprile 2002, dopo avere
preteso invano che gli autori ritrattassero, Nature pubblicava una «nota editoriale
insolita»,23 che costituisce una «smentità senza precedenti»24 nei centotrentatré
anni di esistenza della rispettabile rivista: «Le prove disponibili non sono
sufficienti per giustificare la pubblicazione dell’articolo originale», scrive. «Unico
nella storia dell’editoria tecnica»,26 questo ripiego ha creato scompiglio nel
microcosmo scientifico internazionale: «Dipinge un’immagine assai triste della
linea editoriale e del processo di revisione di Nature», si stupisce Andrevv Suarez,
dell’Università di Berkeley, in una lettera al giornale. «In questo caso, perché
Nature ha evitato di procedere a ritrattazioni simili per pubblicazioni precedenti
che si sono rivelate non corrette o suscettibili di interpretazioni diverse?»26 La
risposta viene suggerita da Miguel Altieri, un altro ricercatore di Berkeley: «Il
finanziamento di Nature dipende dalle grandi aziende», afferma. «Guardate
l’ultima pagina della rivista e vedrete chi paga gli sponsor: l’80 per cento sono
aziende tecnologiche che sborsano da duemila a diecimila dollari all’anno per
annuncio...»27

La «retromarcia»28 di Nature è ancora più sorprendente se consideriamo che,


un mese prima, secondo Science «due équipe di ricercatori americani» avevano
confermato i «risultati esplosivi del biologo Ignacio Chapela».29 Una delle due
squadre, diretta da Exequiel Ezcurra, il rispettatissimo presidente dell’istituto
messicano di ecologia, aveva analizzato campioni di mais prelevati in ventidue
comunità di Puebla e Oaxaca. Una contaminazione genetica dal 3 al 13 per cento
era stata rilevata in undici campioni, e dal 20 al 60 per cento in altri quattro. Il
dottor Ezcurra aveva sottoposto un articolo a Nature, che è stato respinto
nell’ottobre 2002. «Il rifiuto è dovuto a motivi ideologici», ha denunciato,
sottolineando le «spiegazioni contraddìttorie» dei revisori, uno dei quali avrebbe
detto che i risultati erano «evidenti» e l’altro «difficili da accettare».30
Nel frattempo Ignacio Chapela riceve una triste notizia: nel dicembre la
direzione di Berkeley lo informa di essere tornata sulla decisione (sebbene già
approvata con trentadue voti contro uno) di nominarlo docente di ruolo, e che
pertanto dovrà lasciare l’università alla scadenza del contratto, cioè sei mesi dopo.
In poche parole, l’insegnante viene licenziato. Lui si appella in giudizio e vince la
causa nel maggio 2005: «Da allora», mi ha spiegato, «continuo con la mia attività
di vvhistleblovver.

Non posso permettermi di condurre le ricerche che mi interessano, perché


ormai negli Stati Uniti non puoi più lavorare in biologia se rifiuti il sostegno
finanziario delle aziende biotecnologiche. C’è stato un tempo in cui la scienza e
l’università rivendicavano forte e chiaro la propria indipendenza rispetto agli
organismi governativi, militari o industriali. Adesso, invece, non solo gli
scienziati dipendono dalle aziende per vivere, ma fanno parte loro stessi
dell’industria. Viviamo in un mondo totalitario, governato dagli interessi delle
multinazionali che si sentono responsabili solo verso i propri azionisti. Di fronte a
questo potere assoluto è difficile resistere. Guardi che cos’è successo a Exequiel
Ezcurra... » Purtroppo non ho potuto incontrare Ezcurra, il quale nel 2004, poco
dopo essere insorto contro Nature perché non ha voluto pubblicare il suo studio
sulla contaminazione del mais criollo, è stato nominato direttore della ricerca
scientifica del Museo di storia naturale di San Diego, in California, dove dal 1988
al 2001 aveva diretto un centro di ricerca sulla biodiversità. Nel 2005 sono
rimasta sorpresa di vedere pubblicato a suo nome un studio su Proceedings of the
National Academy of Sciences, che dipende dall’Accademia delle scienze degli
Stati Uniti. Pubblicato dalla Washington University di Saint Louis* l’articolo
dichiarava «l’assenza di transgèni rintracciabili nelle varietà locali di mais a
Oaxaca».31

* La Monsanto ha depositato i propri archivi presso la stessa università, ma


purtroppo non sono accessibili.

Tuttavia, nell’ottobre 2006 ho incontrato una delle sue collaboratrici, la


dottoressa Elena Àlvarez-Buylla, nel laboratorio dell’istituto messicano di
ecologia.

«Come spiega che il dottor Ezcurra abbia firmato uno studio che contraddìce a
tal punto i suoi precedenti lavori?» «Solo lui lo sa», mi risponde cauta la biologa.
«Posso soltanto dire che abbiamo cominciato quei lavori insieme e che poi sono
stata allontanata.

Sono stata sostituita da un’americana, Allison Snovv dell’Università dell’Ohio,


che è subentrata a studio già avviato. Poi hanno deciso di pubblicare dei risultati
preliminari, che io ritengo poco rigorosi dal punto di vista scientifico.» Àlvarez-
Buylla non è l’unica a pensarla così: anche cinque ricercatori internazionali, fra
cui Paul Gepts, che avevo incontrato nel luglio 2004 all’Università di Davis a
proposito dei brevetti sugli organismi viventi (vedi Capitolo 10), hanno stimato
che le «conclusioni dello studio non sono scientificamente giustificate».32
Tuttavia, quei risultati sono stati riportati da numerosi giornali internazionali,
come Le Monde.™

«Da allora», mi dice Elena Àlvarez-Buylla, «il mio laboratorio ha condotto un


nuovo studio in tutto il Paese, secondo cui il tasso nazionale di contaminazione è,
in media, dal 2 al 3 per cento secondo il tipo di transgène, con picchi anche più
elevati.» «Che cosa ne pensa di questa polemica?» «Credo non abbia nulla a che
vedere con il rigore scientifico», risponde la biologa, «e che nasconda altri
interessi... Ormai ciò che mi importa è sapere quali potranno essere, a medio
termine, le conseguenze della contaminazione sul mais criollo. Per questo con la
mia équipe ho condotto un esperimento su un fiore semplicissimo, l’Arabidopsis
thaliana, che ha il più piccolo genòma del mondo vegetale, in cui abbiamo
introdotto un gene attraverso la manipolazione genetica.34 Abbiamo constatato
che due piante strettamente identiche dal punto di vista genetico con lo stesso
genòma, gli stessi cromosomi e lo stesso transgène - possono presentare fenotipi,
cioè forme florali, molto diversi: alcuni hanno fiori identici al modello naturale,
con quattro petali e quattro sepali; ma altri hanno fiori aberranti, con peli anormali
o petali bizzarri. Alcuni sono mostruosi! In realtà, l’unica differenza fra queste
piante è la localizzazione del transgène, che è stato inserito del tutto alla cieca e
ha modificato il metabolismo vegetale.» «In che cosa può essere utile per il
mais?» chiedo, contemplando un fiore orribile che la scienziata mi mostra al
computer.

«Questo modello sperimentale permette di osservare ciò che rischia di


accadere quando il mais transgènico si incrocerà, tramite l’impollinazione, con le
varietà locali. È preoccupante, perché si ha ragione di temere che l’inserimento
aleatorio del transgène influisca sui fondi genetici del mais criollo in modo del
tutto incontrollato.» I «mostri» di Oaxaca «I mostri popolano già le nostre
montagne», mi dice Aldo Gonzàlez, dirigente dell’Unione delle organizzazioni
indigene della Sierra Juàrez di Oaxaca, a cui ho raccontato la mia conversazione
con la dottoressa Àlvarez-Buylla. In una mattina dell’ottobre 2006 lasciamo
Oaxaca per raggiungere una comunità zapoteca che vive sperduta fra i monti. Sul
sedile posteriore dell’auto, Aldo appoggia un computer portatile. «Contiene il mio
bottino di guerra», sorride, «il frutto di un lavoro di tre anni.» Infatti, nel 2003 la
sua organizzazione è stata contattata da alcuni contadini preoccupati per avere
visto crescere nei loro campi piante di mais «dall’aria malata e deforme». Alcune
erano troppo alte, altre presentavano pannocchie anomale o foglie insolite. Aldo si
sposta, scatta foto e preleva campioni da testare in laboratorio, munito dei famosi
kit che permettono alle dogane europee di individuare transgèni nella soia o nel
mais importato dall’America del Nord. «Ogni volta il risultato era positivo», mi
racconta Aldo. «Oggi ho quasi trecento fotografie scattate un po’ ovunque nella
Sierra Juàrez.» Arriviamo nel piccolo villaggio di Gelatao. Dopo le dovute
presentazioni al capo della comunità, Aldo si impadronisce di un altoparlante e la
sua voce risuona in mezzo a quello splendore naturale: «Siete invitati a
partecipare a una riunione sulle nuove malattie che colpiscono il nostro mais a
causa della contaminazione transgènica», spiega mentre viene installato uno
schermo nella piazza del villaggio. Gli uomini, con il machete appeso alla cintura,
arrivano accompagnati dalle mogli, che portano il fagotto di tela variopinto dove
riporranno, a breve, le pannocchie del raccolto.

«Vi mostrerò delle foto di piante di mais che abbiamo scattato nella nostra
regione», spiega Aldo all’assemblea. «Vorrei sapere se avete già visto questo tipo
di piante nella vostra comunità. Come vedete, succedono cose strane: questa
pianta, per esempio, ha un ramo qui e un altro qui...

Di solito una pianta di mais non è così: c’è sempre una foglia da cui esce una
sola pannocchia, ma guardate bene, ci sono tre pannocchie che escono dalla stessa
foglia. Sono dei veri mostri! In generale, abbiamo incontrato questo tipo di piante
ai margini di una strada, nei giardini... È possibile che qualcuno sia andato a
comprare del mais in una drogheria e abbia perso qualche chicco per strada.
Questi chicchi hanno germinato e così il mais tradizionale è stato contaminato.»
«Ho avuto una pianta simile l’anno scorso», dice un giovane contadino. «L’ho
fatta vedere agli anziani, che mi hanno detto di non averla mai vista prima. È una
nuova malattia?» «Sì... » risponde Aldo. «Ma il problema è che non si può
curare... » «Se ho capìto bene», interviene un altro, «o riusciamo a fermare questa
proliferazione nei nostri campi, o presto saremo costretti a comprare i semi
di mais, perché il nostro non darà più niente. È molto preoccupante, ma che cosa
si può fare?» «La prima raccomandazione è che se trovate una pianta strana,
bisogna subito strapparne la spighetta, per evitare che emetta polline e contamini
il resto del campo. In generale, dovete stare molto attenti e sorvegliare da vicino il
mais... » «Se la contaminazione si diffonde, quali possono essere le
conseguenze?» domando.

«Sarà la fine del mais criollo, ma anche di tutta l’economia rurale che lo
riguarda», risponde Aldo. «Più ci penso, più mi convinco che tutto ciò sia
intenzionale, perché alla fine dalla contaminazione ci guadagnano solo le
multinazionali come la Monsanto. Quando tutto sarà contaminato, l’azienda potrà
mettere mano sul cereale più coltivato del mondo e incassare i diritti, come in
Argentina o in Brasile... » Infatti, la contaminazione degli OGM non riguarda solo
l’America del Nord e il Messico, ma anche l’America del Sud, in particolare
l’Argentina, dove in qualche anno la soia transgènica è diventata la prima risorsa
economica del Paese e, probabilmente, anche la sua prima maledizione.
13. In Argentina: la soia della fame

«Il continuo aumento delle superfici coltivate è una dimostrazione dei vantaggi
portati dalle colture transgèniche, e soprattutto dell’effetto positivo
sull’ambiente.» Monsanto, The Pledge Report 2005, p. 18

Il 13 aprile 2005, a Buenos Aires, Miguel Campos fatica a nascondere il


proprio sdegno. Da settimane il ministro argentino dell’Agricoltura,
dell’allevamento, della pesca e dell’alimentazione è invischiato in un rischioso
braccio di ferro con la Monsanto. Non che questo ingegnere agronomo si opponga
alla biotecnologia, anzi: se è stato nominato in questa posizione, come tutti i suoi
predecessori da dieci anni, è proprio perché è un sostenitore incondizionato degli
OGM.

Nelle due ore di colloquio che ho avuto con lui non ha mai smesso di vantare i
meriti agricoli e finanziari della soia Round-up Ready, ammettendo tuttavia che il
comportamento dell’azienda di Saint Louis è vile e inspiegabile.

«La Monsanto non ha mai potuto far brevettare il gene Round-up Ready in
Argentina, perché le nostre leggi non lo permettono», mi spiega Miguel Campos.
«L’azienda ha quindi accettato di rinunciare ai diritti sulle sementi e si è
impegnata a non perseguire penalmente i contadini che riseminavano una parte
del raccolto, come fanno da sempre in tutta legalità. Oggi la Monsanto torna sulle
proprie promesse, esigendo tre dollari per tonnellata di grano o di farina di soia in
partenza dai porti argentini, o quindici dollari all’arrivo dei carichi nei porti
europei. È inammissibile!» Colpo basso all’Argentina Miguel Campos ha
l’espressione dell’alunno modello ingiustamente maltrattato dall’adorato maestro.
Infatti, se c’è un Paese in cui la multinazionale ha potuto fare ciò che ha voluto
senza il minimo ostacolo, è proprio l’Argentina. Quando incontro Campos la metà
delle terre coltivate sono seminate con soia transgènica, cioè quattordici milioni di
ettari e trentasette milioni di tonnellate di raccolto, il 90 per cento delle quali
vengono esportate soprattutto verso l’Europa e la Cina. Se la Monsanto
raggiungerà i propri scopi, guadagnerà centosessanta milioni di dollari all’anno
per le sole esportazioni europee.

«Lei non crede che sia stata una trappola?» domando a Miguel Campos.

«Una trappola?» dice, fingendo di non capire la domanda.


«La Monsanto ha creato condizioni favorevoli per l’espansione della soia
Round-up Ready in tutto il Paese, poi chiede di passare alla cassa per pagare...»
«Se era una strategia, si è rivelata sbagliata. Non si cambiano le regole del gioco
dieci anni dopo.» «Pagherete?» «Il conflitto è serio, perché la Monsanto minaccia
di attaccare tutte le esportazioni argentine...» In una dichiarazione riportata dalla
rivista Dovv Jones Newsvvires il 17 marzo 2005, Miguel Campos aveva preso
meno precauzioni, denunciando apertamente l’atteggiamento «criminale» della
Monsanto.

Tuttavia, dieci anni prima l’avventura transgènica era cominciata come una
fiaba nel Paese dei bovini e dei gauchos. Quando nel 1994 la FDA autorizza la
commercializzazione della soia Round-up Ready nell’America del Nord, è ormai
chiaro che la Monsanto vuole anche il Sud. Obiettivo: il Brasile, secondo
produttore mondiale di soia. Ma l’affare è ben lontano dal concludersi, visto che
la Costituzione brasiliana esige che le colture transgèniche siano sottoposte a test
preliminari sull’effetto ambientale prima di autorizzarne la «liberazione». Allora il
gigante di Saint Louis dirotta le proprie attenzioni Sull’Argentina, dove il governo
di Carlos Menem, così come l’amministrazione Bush, ha in mente una sola
parola: «deregolamentazione». L’uomo dalle lunghe basette - che nel 2007 vive in
esilio in Cile per sfuggire a due accuse di corruzione legate a un traffico d’armi -
si è impegnato, nei dieci anni di incarico (1989 - 1999), a portare a termine il
lavoro da tempo iniziato dalla dittatura militare (1976 - 1983): smantellare ciò che
rimaneva dello Stato argentino, privatizzando e aprendo le porte del Rio de la
Plata ai capitali esteri. Questa politica ultraliberale ha colpito in pieno il settore
agricolo, i cui meccanismi di protezione sono stati annientati, sottoponendo così
la produzione alle sole leggi di mercato.

La Monsanto non si è sbagliata a buttarsi nella mischia fin dai primi anni
Novanta, diventando l’interlocutore privilegiato della Commissione nazionale di
consiglio della biotecnologia agricola (CONABIA), creata da Menem nel 1991
per dare all’Argentina una parvenza di regolamentazione in materia di OGM. La
commissione, dipendente dal ministero dell’Agricoltura, dell’allevamento, della
pesca e dell’alimentazione e con statuto consultivo, è costituita esclusivamente da
rappresentanti di organismi pubblici, come l’istituto nazionale delle sementi
(INASE) o l’istituto nazionale della tecnologia agricola (INTA), e da operatori
privati dell’industria biotecnologica come la Syngenta, la Novartis e naturalmente
la Monsanto. In realtà, le decisioni della CONABIA si ispirano direttamente al
dispositivo nordamericano, poiché fin dalle origini adotta il principio di
equivalenza sostanziale, come afferma anche il suo sito: «La norma argentina si
basa sulle caratteristiche e sui rischi identificati del prodotto biotecnologico, e non
sul processo che ha permesso di ottenere tale prodotto». In pratica, la
commissione si limita ad analizzare i dati forniti dalle multinazionali, e se
vengono realizzati esperimenti è solo per testare l’adattabilità delle sementi
transgèniche alle condizioni agronomiche argentine.

A partire dal 1994 la Monsanto vende licenze alle principali aziende di sementi
del Paese, come la Nidera o la Don Mario, che si incaricano di introdurre il gene
Round-up Ready nelle varietà del loro catalogo. Per una fortunata coincidenza, i
due principali quotidiani del Paese, La Nación e soprattutto Clarìn (che gode della
maggiore tiratura nazionale), si impegnano a promuovere - alcuni parlano di
«propaganda» - la biotecnologia* riducendo gli oppositori, anche i più moderati,
al rango di esaltati antiprogresso o «luddisti», come dice Dan Glickman (vedi
Capitolo 8). A colpi di editoriali, quindi, vengono esaltati i meriti della
rivoluzione biotecnologica, con argomentazioni che ricordano quelle di una certa
azienda del Missouri: «Con gli OGM la scienza ha dato un contributo decisivo
alla guerra contro la fame nel mondo», dichiara Carlos Menem a una rivista di
settore.1 «Le biotecnologie permettono di avere raccolti di maggiore qualità, oltre
che una migliore produttività e un’agricoltura sostenibile che tutela l’ambiente»,
garantisce da parte sua William Konsinsky, l’«educatore alle biotecnologie» della
Monsanto.2

«L’introduzione degli OGM in Argentina è avvenuta senza alcun dibattito


pubblico, né parlamentare», si indigna Walter Pengue, agronomo dell’Università
di Buenos Aires specializzato nella selezione genetica,3 che incontro nella
capitale argentina nell’aprile 2005. «Non esiste ancora nessuna legge che ne
inquadri la commercializzazione. Inoltre la società civile, che nella CONABIA
non è nemmeno rappresentata, è esclusa da tutte le decisioni. Dopo essere stata
autorizzata nel 1996, la soia Round-up Ready si è diffusa in Argentina a una
velocità incredibile: una media di oltre un milione di ettari all’anno! È un vero e
proprio deserto verde che divora uno dei granai del mondo.» Le «sementi
magiche» Lasciando Buenos Aires per risalire verso nord, il paesaggio è
sconcertante: soia a perdita d’occhio, talvolta intervallata da pascoli con grandi
mandrie di bovini. In questo autunno australe il raccolto è già avanzato, e la ruta
nacional 9 è trafficata di camion che fanno la spola tra i silos di soia e i porti del
Rio Paranà. Ci troviamo nel cuore della pampa, vasta e mitica pianura argentina
che copre il 20 per cento del territorio nazionale: seicentocinquantamila
chilometri quadrati limitati a nord dalla regione del Chaco, a est dal Rio Paranà, a
sud dal Rio Colorado e a ovest dalle Ande. La llanura pampeana (pianura della
pampa) ha alcuni dei campi migliori del mondo e dal XIX secolo è una zona di
sfruttamento agricolo intensivo dove si coltivavano, fino all’arrivo degli OGM,
cereali (mais, grano, sorgo), oleaginose (girasole, arachidi, soia), ma anche frutta
e verdura, senza dimenticare la produzione di latte, sviluppata al punto da definire
quest’area «bacino del latte».

* Il più determinato difensore argentino degli OGM è Héctor Huergo,


direttore del supplemento Clarìn Rural.

Nell’immaginario nazionale, la pampa è l’orgoglio del Paese, poiché produce


alimenti per dieci volte la sua popolazione, quindi anche per una grande
esportazione. Coltivare la terra è servire la patria, dice un cartello all’entrata della
sede della Società rurale argentina (SRA).

L’uomo che mi riceve, dopo cinque ore di viaggio, è un contadino di una


famiglia in cui la tradizione agricola si tramanda di padre in figlio.

Héctor Barchetta, sulla quarantina, coltiva centoventisette ettari a circa


sessanta chilometri da Rosario, la capitale dell’impero transgènico.

Membro della Federazione agraria argentina (FAA), che raggruppa


settantamila aziende agricole piccole e medie, confessa di essere «completamente
disorientato». Mentre percorre i campi di soia Round-up Ready, che occupa ormai
il 70 per cento dei suoi terreni, mi racconta la storia di un miracolo che si sta
trasformando in un incubo.

Negli anni Novanta si trova di fronte a un problema che riguarda tutti i


contadini della pampa: l’erosione del suolo dovuta allo sfruttamento troppo
intensivo. Secondo l’INTA, i rendimenti sono crollati del 30 per cento. «Non
sapevamo più a che santo votarci», spiega Héctor, «ed è in questo contesto che è
arrivata la soia Round-up Ready. All’inizio erano sementi davvero magiche,
perché davano rendimenti elevati, meno spese di produzione e meno lavoro.» In
realtà, come negli Stati Uniti, la coltura transgènica si sviluppa con la tecnica
della siembra directa (semina diretta), che permette di seminare senza nessuna
lavorazione preliminare sui resti del raccolto precedente. La promozione e
l’inquadramento tecnico sono garantiti dall’Associazione argentina di produttori a
semina diretta (AAPRESID), che assomiglia incredibilmente all’ASA
nòrdamericana (vedi Capitolo 8).
L’AAPRESID, con i suoi millecinquecento grandi produttori, è il principale
promotore di soia Round-up Ready e il più devoto alleato della Monsanto in
Argentina. «La tecnica della siembra directa è parte integrante del modello di
coltura transgènica», commenta l’agronomo Walter Pengue. «In un primo tempo
comporta un ritorno della fertilità del suolo, grazie a un aumento di materia
organica fornita dai residui di superficie che trattengono l’acqua. Questa tecnica
non è dissociabile da ciò che la Monsanto chiama ‘pacchetto tecnologico’, cioè le
sementi transgèniche e il Round-up, che qui sono venduti insieme a un prezzo tre
volte inferiore a quello degli Stati Uniti.» Un costo talmente basso che i produttori
nordamericani, pur ricevendo sostanziose sovvenzioni, denunciano a gran voce
come «concorrenza sleale».

«Prima», racconta Héctor entusiasta, «per distruggere le erbacce dovevo


applicare quattro o cinque erbicìdi diversi, ma con la soia della Monsanto due
applicazioni di Round-up erano sufficienti. Poi la crisi della mucca pazza ha fatto
impennare le quotazioni della soia, così ho smesso di produrre mais, grano,
girasole, lenticchie, come tutti i miei vicini.» Infatti, il divieto delle farine animali
in Europa comporta una domanda crescente di proteìne vegetali, quindi di soia.
Le quotazioni dell’oleaginosa raggiungono record storici, provocando nella
pampa una corsa al nuovo oro verde. «Solo grazie al boom della soia sono riuscito
a sopravvivere alla crisi», continua Héctor. «Hanno fatto di tutto perché i
produttori venissero risparmiati. Mentre i tassi di interesse prendevano il volo, noi
potevamo procurarci il pacchetto della Monsanto e pagarlo solo dopo il
raccolto.» Nel 2001 l’Argentina è sull’orlo del fallimento. Sotto costanti
pressioni, il governo di Fernando de la Rua è costretto a dimettersi. Mentre i
piqueteros, i disoccupati in rivolta, manifestano, la miseria si impadronisce del
Paese, dove il 45 per cento della popolazione vive ormai al di sotto della soglia
minima di sopravvivenza. I governi di Eduardo Duhalde prima, poi di Nestor
Kirchner, soffocati da un debito estero colossale, usano la soia come ultima
possibilità. «È il motore della nostra economia», afferma Miguel Campos. «Lo
Stato preleva un’imposta del 20 per cento sugli oli e del 23 per cento sui semi,
cioè dieci miliardi di dollari all’anno, il 30 per cento delle riserve nazionali. Senza
la soia il Paese sarebbe semplicemente crollato.» La «soizzazione» del Paese Per
la Monsanto la crisi argentina è una manna che supera ogni aspettativa. Dalla
pampa la soia Round-up Ready si diffonde a macchia d’olio, sempre più verso
nord, nelle province del Chaco, di Santiago del Estero, Salta e Formosa. Mentre
nel 1971 coprivano solo trentasettemila ettari, le colture dell’oleaginosa passano a
8,3 milioni di ettari nel 2000, 9,8 nel 2001 e 11,6 nel 2002, per raggiungere i
sedici milioni di ettari nel 2007, cioè il 60 per cento delle terre coltivate. Il
fenomeno è talmente esteso da far parlare di «soizzazione» del Paese, un
neologismo che indica una riparazione profonda del mondo agricolo, i cui effetti
funesti non tarderanno a manifestarsi.

In un primo tempo, quando la crisi mette in ginocchio l’economia nazionale, il


prezzo della terra impenna, perché garantisce investimenti fruttuosi e rapidi. «Nel
mio settore», racconta Héctor Barchetta, «il prezzo dell’ettaro è passato da
duemila a ottomila dollari. I produttori più deboli hanno finito con il vendere,
cosa che ha comportato una concentrazione della proprietà terriera.» In un
decennio la superficie media delle aziende agricole della pampa è passata da 250
a 538 ettari, mentre il numero delle fattorie si è ridotto del 30 per cento. Secondo
il censimento agricolo realizzato dall’istituto nazionale di statistica e censimenti
(INDEC), centocinquantamila contadini hanno abbandonato l’azienda fra il 1991
e il 2001, centotremila dei quali dall’arrivo della soia transgènica. Nello stesso
periodo seimila proprietari circa detenevano la metà delle terre coltivate del
Paese, mentre sedici milioni di ettari appartenevano già a stranieri, processo che
da allora si è notevolmente accentuato.

«Si assiste a un’espansione senza precedenti dell’agrobusiness, dell’agricoltura


industriale rivolta alle esportazioni, a scapìto dell’agricoltura familiare»,
conferma Eduardo Buzzi, presidente della FAA. «I contadini che abbandonano
vengono sostituiti da operatori che non provengono dal mondo agricolo. Gente
che investe il proprio denaro nel ‘pool della semina’ e si lancia nella monocoltura
della soia Round-up Ready, in accordo con multinazionali come la Cargill o la
Monsanto. Tutto ciò a danno delle colture alimentari.» Mentre la soia Round-up
Ready avanza inarrestabile, trasformando l’ex granaio del mondo in un produttore
di foraggio per il bestiame europeo, le coltivazioni a scopo alimentare si riducono
a vista d’occhio.

Da fonti ufficiali, negli anni 1996 - 1997 e 2001 - 2002 il numero di tambos, le
aziende agricole che producono latte, si è ridotto del 27 per cento, e per la prima
volta nella sua storia il Paese dei bovini ha dovuto importare latte dall’Uruguay.
Allo stesso modo, la produzione di riso è crollata del 44 per cento, quella di mais
del 26 per cento, di girasole del 34 e di carne suina del 36 per cento. Si registra
nel frattempo un aumento del prezzo dei prodotti di consumo di base: nel 2003,
per esempio, il prezzo della farina è aumentato del 162 per cento, quello delle
lenticchie - molto apprezzate nella cucina nazionale - del 272 per cento e del riso
del 130 per cento. «L’argentino medio mangia molto peggio di trent’anni fa»,
sottolinea Walter Pengue. «L’aspetto ‘divertente’ è che ci invitano a sostituire il
latte di mucca e la carne di manzo, che hanno sempre fatto parte
dell’alimentazione nazionale, con latte e bistecche di soia... » L’affermazione
dell’agronomo argentino non è una barzelletta di cattivo gusto, ma rispecchia la
realtà. In un Paese in cui il dulce de leche e la carne de vaca sono parte essenziale
del patrimonio culturale, lo stesso ministro dell’Agricoltura, Miguel Campos, è
pronto a fornire l’indirizzo di «un buon ristorante sojero» a Buenos Aires. Esalta
inoltre la generosità del programma Soja Solidaria lanciato nel 2002
dall’AAPRESID, che decide di «aiutare» a suo modo i dieci milioni di emarginati
che soffrono di malnutrizione, di cui uno su sei è un bambino. L’idea è semplice:
«Regalare un chilogrammo di soia per ogni tonnellata esportata». La campagna
ottiene il supporto dei media, che non esitano a presentare Soja Solidaria come
un’«idea brillante che cambierà la storia».4 Quanto all’incorreggibile Héctor
Huergo, incoraggia il governo a «sostituire i prògrammi attuali di aiuti sociali con
una catena solidale a costo zero, grazie a una rete di distribuzione della soia, uno
degli alimenti più completi che dobbiamo far entrare nella nostra cultura».5

Pertanto, i promotori degli OGM non lesinano sui mezzi: grazie al gasolio
gentilmente fornito dalla Chevron-Texaco, vengono consegnati carichi di soia a
centinaia di mense popolari e scolastiche dei quartieri poveri e delle bidonville,
agli ospizi, agli ospedali e a tutte le opere di carità. Un po’ in tutto il Paese si
creano laboratori o centri di volontariato - all’Università cattolica di Cordoba si
parla persino di «brigatisti della soia» - per insegnare ai «cuochi» come produrre
il «latte», gli hamburger e le bistecche di soia. Il sito nutri.corn rende noto che a
Chimbas, ai confini della provincia di San Juan, un «programma municipale» ha
permesso di «formare al consumo della soia» seimila persone, e mille volontari
sono stati mobilitati per distribuire latte di soia a dodicimila bambini.

Quando Soja Solidaria festeggia il primo anniversario, Victor Trucco,


presidente dell’AAPRESID, non nasconde la propria soddisfazione: «Con il
tempo», scrive su Clarìn, «ci si ricorderà del 2002 come dell’anno
dell’ingresso della soia nell’alimentazione degli argentini».6 Trucco compìla
inoltre un bilancio: «Abbiamo reso disponibili settecentomila tonnellate di soia,
cioè duecentoottanta chili di proteìne di alto valore, oppure otto milioni di litri di
latte, o 2,3 milioni di chili di uova o 1,5 milioni di chili di carne». Un resoconto
scientifico che dovrebbe celare un obiettivo che il sito di Soja Solidaria riassume
in una frase: «Il piano ha contribuito alla diffusione della soia» nel Paese.7

La «soia ribelle»: verso la sterilizzazione del suolo Lo stesso giorno Walter


Pengue ha in programma una visita a Jésus Bello, un contadino della pampa che si
è lanciato nella coltivazione della soia Round-up Ready nel 1997. Da sette anni
l’agronomo effettua un monitoraggio di molte fattorie della regione,
analizzandone scrupolosamente i conti. «All’inizio», spiega, «ero favorevole alla
soia transgènica, perché pensavo che con una rotazione delle colture e un uso
ragionevole del glifosato potesse essere una buona cosa per l’ambiente e per le
finanze dei produttori, visto che il controllo delle erbe infestanti rappresentava
fino al 40 per cento dei costi di produzione. Ma oggi sono molto preoccupato,
perché tutte le aziende sono in rosso... » Accanto a lui, Jésus Bello dice la sua:
«Così non va. Si spende sempre di più e i terreni sono diventati sterili». Jésus,
come Héctor Barchetta a trecento chilometri di distanza, si trova di fronte a un
problema che si accentua di anno in anno: la resistenza delle erbe infestanti al
glifosato (vedi Capitolo 10). «Dal punto di vista agronomico era ovvio», sospira
Walter. «Prima della soia transgènica i produttori usavano quattro o cinque
erbicìdi diversi, alcuni dei quali molto tossici, come il 2,4-D, l’atrazina o il
paraquat.* Ma l’alternanza fra i vari prodotti impediva alle erbe infestanti di
sviluppare una resistenza all’uno o all’altro. Oggi l’uso esclusivo del Round-up,
in qualunque momento dell’anno, ha comportato la comparsa di biotipi
inizialmente ‘tolleranti’ al glifosato: per liberarsi delle erbacce** è stato
necessario aumentare le dosi dell’erbicìda. Dopodiché la tolleranza ha vinto sulla
resistenza, come si può constatare in certe zone della pampa. »
«L’argomentazione commerciale della Monsanto, secondo cui la tecnologia
Round-up Ready permette di ridurre il consumo di erbicìda, sarebbe quindi
falsa?» «Ma certo!» mi risponde Jésus Bello. «Io faccio due applicazioni di
glifosato, una dopo la semina e l’altra due mesi prima del raccolto. All’inizio
usavo due litri di erbicìda per ogni ettaro, oggi me ne serve il doppio!» «Prima
della soia Round-up Ready l’Argentina consumava una media annuale di un
milione di litri di glifosato», continua Walter Pengue. «Siamo passati a
centocinquanta milioni di litri! La Monsanto non nega che ci sia stato un
problema di resistenza e annuncia un nuovo erbicìda più potente, con una nuova
generazione di OGM, ma non si riesce a uscire dal circolo vizioso!»

* Il 2,4-D costituisce, come abbiamo visto, un componente dell’agente


arancio, e oggi è (teoricamente) vietato in Europa e negli Stati Uniti. L’atrazina è
stata vietata nell’Unione europea nel 2003. Quanto al paraquat, che con il Round-
up era uno degli erbicìdi più venduti al mondo, è stato vietato nell’Unione
europea il 10 luglio 2007.

** Le erbe infestanti sono soprattutto Paritaria debilis, Petunia aocilaris,


Verbena litoralis, Verbena bonariensis, Hybanthus parviflorm, Iresine diffusa,
Commelina erecta, Ipomeasp.
Per i produttori il conto è salato. È finita l’epoca in cui, per rimpolpare le
casse, la Monsanto riduceva di due terzi il prezzo dell’erbicìda.

Presto il costo è tornato alla normalità, costringendo i produttori a ricorrere ai


generici (soprattutto cinesi) dopo la scadenza del brevetto dell’azienda nel 2000
{vedi Capitolo 4). Ma nello stesso tempo compare un nuovo problema, che
appesantisce ancora di più i conti: la «soia ribelle», come la chiamano in
Argentina (o «spontanea» in Canada), conferma del fatto che, dal Nord al Sud
dell’America, le stesse cause producono gli stessi effetti. E come negli Stati Uniti,
la Syngenta, concorrente svizzero della Monsanto che produce paraquat e
atrazina, non si è sbagliata. Nel 2003 una delle sue pubblicità diceva: «La soia è
un’erba infestante!» Inoltre, l’uso intensivo del Round-up tende a rendere sterile il
terreno. «Uso sempre più concìme», ammette Jésus Bello, «altrimenti la terra non
rende.» Non si capisce come un «erbicìda totale», capace di eliminare qualsiasi
pianta, possa risparmiare la flora microbica, essenziale per la fertilità del suolo.
«La scomparsa di certi battèri rende la terra inerme», spiega Walter Pengue,
«impedendo il processo di decomposizione e attirando lumache e funghi come il
Fusarium.» Infine, a coronare il tutto, nel 2004 le quotazioni della soia registrano
una tendenza al ribasso, poi confermata nel 2005* al punto da preoccupare
costantemente i piccoli e medi produttori come Jésus Bello o Héctor Barchetta.
«Che cosa dobbiamo fare?» mormora Barchetta con gli occhi puntati sul campo
che presto mieterà. «Prima producevo una quindicina di alimenti diversi, adesso
solo soia transgènica. Forse siamo caduti in una trappola... Forse stiamo
sacrificando la terra e il futuro dei nostri figli.»

* Dopo avere raggiunto i duecentotrenta dollari a tonnellata nel 2003, le


quotazioni sono crollate a duecento dollari nel 2004, poi a centocinquanta a metà
2005. Invece, nel 2006 si è verificata una rimonta spettacolare, con picchi
altissimi nel 2007 grazie alla corsa ai biocarburanti.

Un disastro sanitario «Guardi», si infuria il dottor Dario Gianfelìci al volante


della sua auto, «piantano soia fino ai margini della strada e nella stagione delle
irrorazioni l’erbicìda ti arriva persino addosso: le autorità sanitarie di questo Paese
sono del tutto irresponsabili!» Quando lo incontro nell’aprile 2005

Dario è medico a Cerrito, una cittadina di cinquemila abitanti a cinquanta


chilometri da Paranà, nella provincia di Entre Rios, praticamente nel cuore
dell’impero della soia. In questa regione della pampa, un tempo nota per la
diversità agricola, la coltura dell’oleaginosa è passata dai seicentomila ettari del
2000 al milione e duecentomila di tre anni dopo.

Nello stesso periodo la produzione di riso crolla da 151.000 a 51.700 ettari.8


Minimo due volte all’anno gli aerei per le irrorazioni o i mosquitos* inondano la
regione di Round-up, spesso fino alle porte delle case, dato che qui la soia Round-
up Ready ha invaso tutto.

«È come una febbre, un’epidemia», sospira Dario Gianfelìci, che dall’auto mi


mostra i famosi chorizos. Non sapendo più dove stoccare i semi, perché le
infrastrutture non tengono il passo con i tempi, i produttori hanno inventato dei
silos a forma di salsiccia (chorizo), che ora costeggiano le strade. Se il dottore è
diventato un militante anti OGM non è per ideologia, ma perché si preoccupa
dell’evoluzione delle patologie che si ritrova di fronte nel suo studio. «Non so se
la tecnica biotecnologica sia un pericolo per la salute», tiene a precisare, «ma io
denuncio i danni sanitari che provocano le irrorazioni massicce di Round-up, e
anche l’abuso di soia Round-up Ready.» Ricorda inoltre la tossicità del glifosato e
soprattutto, come abbiamo visto, dei surfattanti, sostanze inermi che permettono
al glifosato di penetrare nella pianta, come il polioxietilene. In Soprannome dato
ai macchinari agricoli trainati dai trattori che spruzzano l’erbicìda attraverso
lunghe braccia meccaniche a forma di ali, da cui il soprannome di «zanzare».

In Argentina più che altrove, la pubblicità della Monsanto, secondo cui il


Round-up è «biodegradabile e amico dell’ambiente», ha fatto sì che non venissero
prese precauzioni per le irrorazioni, che contaminano l’aria, la terra e le falde
freatiche. Infatti, il rappresentante dello Stato, Miguel Campos, afferma con
sicurezza che il «Round-up è l’erbicìda meno tossico che esista».

Dario Gianfelìci è più formale e scientifico: «Con molti colleghi della regione
abbiamo constatato un aumento significativo delle anomalie nella fecondità, come
aborti o morti fetali premature, disfunzioni della tiroide e dell’apparato
respiratorio, come gli edemi polmonari, oppure renali endocrine, e malattie
epatiche e dermatologiche o problemi oculari gravi. Molto preoccupanti sono
anche gli effetti che possono avere i residui di Round-up ingeriti dai consumatori
di soia, perché sappiamo che alcuni surfattanti sono perturbatori endocrini. Nella
regione si constata una quantità significativa di criptorchidìe e ipospadìe* nei
giovani maschi, oltre a disfunzioni ormonali nelle ragazze, alcune delle quali
hanno le mestruazioni dall’età di tre anni... » Sono rari quelli che, come Dario
Gianfelìci, osano pronunciarsi contro gli effetti devastanti della politica della soia.
Alcune organizzazioni come Greenpeace o gli ecologisti radicali del Gruppo di
riflessione rurale (GRR) avevano denunciato la commercializzazione degli OGM,
sottolineando i pericoli della biotecnologia, ma i loro sforzi erano stati vani.

«Con la crisi c’erano altri mille problemi», mi ha spiegato Horacio Verbitsky,


editorialista del quotidiano di sinistra Pàgina 12, che non ha mai dedicato un
articolo alla soia transgènica. «Persino io confesso di non saperne niente.» È il
programma Soja Solidaria ad avere provocato le prime inquietudini istituzionali,
riguardanti non gli OGM in quanto tali, bensì i rischi per i bambini legati al
consumo eccessivo di soia. Così nel luglio 2002 il Consiglio nazionale di
coordinamento delle politiche sociali (CNCPS) ha organizzato un forum sulla
questione, in cui si ricordava che «il succo di soia non deve essere chiamato ‘latte’
e che non può in nessun caso sostituirlo». I professionisti della salute sottolineano
che la soia è molto meno ricca di calcio del latte di mucca e che la forte
concentrazione di Stati* impedisce l’assorbimento dei metalli come ferro o zinco
da parte dell’organismo, comportando così il rischio di anemìa. Inoltre,
sconsigliano il consumo dell’oleaginosa ai bambini di età inferiore ai cinque anni,
e per un motivo ben preciso: come abbiamo visto, la soia è ricca di isoflavoni,**
che fungono da sostituti ormonali per le donne in premenopausa e possono quindi
provocare disturbi ormonali gravi in un organismo in pieno sviluppo.

* La criptorchidìa è una malformazione congenita caratterizzata dall’assenza


dei testìcoli nello scroto (testicoli non discesi); l’ipospadìa è invece una
malformazione dell’uretra (che non arriva alla fine del pene).

«Ci prepariamo a un vero e proprio disastro sanitario», afferma Dario


Gianfelìci, «ma purtroppo le autorità non hanno idea delle conseguenze di tutto
questo, e quelli che osano parlarne sono considerati pazzi che si oppongono al
benessere del Paese.» Quel giorno il dottore ha un appuntamento in una scuola
cattolica gestita da religiosi tedeschi. L’imponente edificio rosa ocra in stile
coloniale spicca in mezzo a una vasta coltivazione di soia. «La scorsa settimana»,
spiega la direttrice, «hanno irrorato di Round-up appena prima che piovesse. Poi
c’è stato un bel sole, e l’erbicìda è evaporato. Molti studenti hanno vomitato e
sofferto di mal di testa.» La religiosa ha richiesto un’indagine dei servizi sanitari
della provincia, i quali hanno concluso che si trattava di un «virus». «Eppure»,
continua la donna, «hanno fatto analizzare l’acqua, ma non hanno trovato niente.»
«Hanno considerato l’eventualità di un’intossicazione dovuta ai prodotti
chimici?» domanda Dario.
«No», risponde Angela, un’insegnante. «Quando abbiamo parlato di questa
ipotesi, l’hanno subito scartata.» Angela sa di che cosa parla. Abita in una piccola
casa circondata da campi di soia. A ogni irrorazione le vengono una fortissima
emicrania, nausea, irritazione agli occhi e dolori articolari. «Ho parlato con i
tecnici», continua. «L’unica cosa che ho ottenuto è che mi avvertiranno prima di
ogni irrorazione, così faccio in tempo ad allontanarmi con la mia famiglia per un
paio di giorni. Mi hanno consigliato di vendere la casa, ma per andare dove? La
soia vale più delle nostre vite... »

* Stati sono composti fosfati che si legano ad alcuni metalli, per esempio il
ferro, e ne impediscono l’assorbimento nell’intestino.

** Spesso qualificati come «fitoestrogeni», gli isoflavoni sono simili agli


estrogeni femminili.

Il vaso di coccio e il vaso di ferro Osservando Miguel Campos arrabbiarsi


quando viene interrogato sulle conseguenze ambientali e sanitarie delle irrorazioni
di Round-up, è chiaro che l’argomento non fa parte delle priorità del governo.
«Posta da una giornalista europea, questa domanda è davvero il colmo», dice. «Il
nostro consumo di erbicìdi è ancora molto inferiore a quello della Francia! La
verità è che siamo la nazione meno inquinata del mondo!» Evidentemente, il
ministro dell’Agricoltura non legge i giornali del suo Paese. Sfogliandoli si
scopre, per esempio, che a Rosario un giudice ha aperto un’istruttoria in seguito
alle accuse di una coppia, la cui abitazione è circondata da campi di soia. Il loro
figlio, Axel, è nato senza l’alluce sinistro e con gravi problemi ai testicoli e ai
reni.9 Allo stesso modo, a Cordoba le madri del quartiere di Ituzaingó hanno
avviato un’azione collettiva per far cessare le irrorazioni nei campi circostanti,
dopo avere rilevato un tasso anomalo di tumori soprattutto nei bambini e nelle
giovani donne. Il caso ha provocato subbuglio in Parlamento, per poi infangarsi
nei meandri della giustizia. «Va sempre così», sospira Luis Castellàn, un
agronomo che lavora per un’organizzazione di sviluppo agricolo a Formosa, nel
Nord dell’Argentina: «Quando c’è un problema ambientale grave, nessun esperto
osa affrontare la potente lobby della soia».

Luis parla con cognizione di causa: nel febbraio 2003 viene contattato da
alcuni contadini della Colonia Loma Senes, una comunità rurale della provincia di
Formosa situata al confine con il Paraguày. Cercavano disperatamente un esperto
per valutare i danni provocati sulle loro colture a uso alimentare da un’irrorazione
di Round-up e di 2,4-D, precisamente su un campo di trenta ettari, invaso dalla
famosa «soia ribelle». La soia apparteneva a un vicino che viveva a Paranà ma
che affittava la terra a un’azienda della provincia di Salta, la quale subappaltava
semina e irrorazioni a un’altra azienda ancora...

Benvenuti nel regno degli OGM! I «tecnici» - molto spesso lavoratori di


giornata senza protezioni e un salario da miseria - arrivano un sabato mattina e
irrorano fino al mattino della domenica. «Quel giorno faceva molto caldo e
soffiava un vento forte», ricorda Felipe Franco, che coltiva una decina di ettari.
«Il prodotto, estremamente volatile, è stato trasportato per quattrocento metri.»
Ventitré famiglie, rifugiate nelle loro case, sono state contaminate. «Quando sono
arrivato», racconta Luis Castellàn, «avevano gli occhi rossi e grandi macchie sul
viso e sul busto. Molti soffrivano di violenti mal di testa e di nausea, e
lamentavano vampate di calore e secchezza alla gola.» Alcuni non si sono mai
ripresi, come una donna anziana, che ha dovuto essere curata per otto mesi a
Buenos Aires e che tuttora ha dolori insopportabili alle ossa e alle articolazioni.
La comunità ha chiesto ai servizi sanitari del governo provinciale di fare rapporto,
ma loro hanno concluso che all’origine di quei malesseri c’era la mancanza di
igiene. Le famiglie hanno sporto denuncia presso il tribunale di E1 Colorado, ma
la procedura si è incagliata per mancanza di un rapporto sanitario. Solo Luis
Castellàn ha accettato di redigere una relazione scientifica sui danni provocati alle
colture.

«Abbiamo perso tutto», spiega Felipe. «La manioca, le patate dolci e il


cotone sono stati distrutti. I polli e le anatre sono morti, le scrofe hanno
abortito e quelle che hanno partorito hanno dato alla luce porcellini rachitici. Il
giorno dell’irrorazione ai cavalli da traino è venuta la diarrea e si buttavano per
terra. Alcuni sono morti.» Luis ha scattato fotografie e prelevato campioni delle
piante colpite, che ha fatto analizzare da un laboratorio dell’Università di Santa
Fe. «Ho riflettuto molto prima di fare questo lavoro», confessa Luis, «perché
sapevo che avrei corso dei rischi.» «Tutti gli agronomi del ministero della
Produzione hanno rifiutato», conferma infatti Felipe. «Abbiamo dovuto affrontare
la polizia e i politici che volevano farci tacere. Alcuni vicini hanno rinunciato a
sporgere denuncia e hanno preferito andare nelle bidonville di Formosa.» «La
Monsanto dice che la soia transgènica può coesistere con le colture a uso
alimentare. Che cosa ne pensa?» «È impossibile», mi risponde Luis, «soprattutto
in zone come questa, dove i piccoli produttori sono circondati da grandi
coltivazioni di OGM.

Se un evento simile si verificasse di nuovo, non so quanti piccoli produttori


rimarrebbero ancora sulle loro terre.» «Il problema è anche la finalità di questo
modello di produzione», continua Felipe. «Quelli che producono soia transgènica
hanno solo uno scopo commerciale, non vivono sul posto e quindi non devono
sopportarne gli effetti collaterali; mentre noi produciamo per vivere, rispettiamo
l’ambiente e la qualità della produzione, perché i nostri alimenti li consumiamo
direttamente o li vendiamo nei mercati. La tecnologia transgènica non è al
servizio del contadino, ma di un’azienda pronta a tutto pur di arricchirsi.»
Espulsioni e disboscamento Milli è una piccola comunità rurale di novantotto
famiglie che vivono su un territorio di tremila ettari semiaridi a una sessantina di
chilometri da Santiago del Estero, nel Nord dell’Argentina. Ci si arriva tramite
una pista rossiccia e sconnessa, che serpeggia attraverso una steppa di arbusti da
cui emergono rari quebrachos, alberi dal legno così pregiato da essere minacciati
di estinzione. Questo paesaggio è tipico della regione del Gran Chaco, che si
estende fino al confine boliviano.

«Qui lo chiamiamo semplicemente el monte», mi spiega Luis Santucho,


l’avvocato del Movimento dei contadini di Santiago del Estero (MOCASE), che
mi riceve nell’aprile 2005. «Fino all’arrivo degli OGM nessuno voleva queste
terre povere, in cui vivono in autarchìa migliaia di piccoli contadini da parecchie
generazioni.» Luis Santucho ha voluto farmi incontrare i responsabili della
comunità di Milli, la cui sopravvivenza è minacciata dai produttori di soia, che
continuano a spingere il confine agricolo sempre più a nord. Un anno prima della
mia visita un giudice’del Chaco è venuto con uomini armati e bulldozer. «Sono
terre comunitarie senza titolo di proprietà», precisa Luis, «ma con il denaro della
soia tutte le manipolazioni sono possibili.» Quel giorno gli abitanti di Milli sono
riusciti a respingere gli assalitori sbarrando loro il cammino. I sojeros (coltivatori
di soia) hanno quindi cambiato tattica. Hanno tentato di dividere la comunità,
proponendo di acquistare in contanti dieci ettari ad alcune famiglie, le quali hanno
esitato, poiché non avevano mai immaginato di poter possedere, un giorno, tanto
denaro.

«Così hanno seminato zizzania», racconta Luis, «ma alla fine non abbiamo
accettato, perché queste terre sono della comunità, non appartengono a nessuno in
particolare. E poi dove saremmo andati? Qui la vita è dura, ma almeno riusciamo
a mangiare ogni giorno.» Nel cortile di terra battuta razzolano polli e anatre,
insieme con un gruppetto di maiali neri.

Vicino a un ruscello, dietro la piccola baracca, pascolano una mucca e un


cavallo. Ogni famiglia coltiva manioca, patate, riso o mais. «El monte è uno stile
di vita», mi spiega Luis Santucho, «ma anche un luogo di grande biodiversità
vegetale e animale, oggi minacciata.» La provincia di Santiago del Estero ha
anche, purtroppo, uno dei tassi di disboscamento più alti del mondo. Ogni anno
una media dello 0,81 per cento delle foreste viene sradicata, rispetto allo 0,23 per
cento mondiale.

Così, fra il 1998 e il 2002 duecentoventimila ettari di territorio vengono


disboscati per essere seminati a soia Round-up Ready.* «Fra il 1998 e il 2004 in
Argentina sono stati deforestati ottocentomila ettari», mi spiega Jorge Menéndez,
responsabile delle foreste presso il ministero dell’Ambiente e dello sviluppo
sostenibile. «La situazione è così preoccupante da non dormirci la notte. Tutti i
bosques nativos (foreste primitive) sono minacciati: sono foreste con una grande
biodiversità, le cui fauna e flora sono anteriori alla scoperta delle Americhe.
Alcune specie animali, come i puma, i giaguari, i gatti delle Ande e i tapiri, non
possono vivere fuori da questo ecosistema specifico. Se non verrànno imposte
delle regole allo sviluppo della soia, i danni saranno irreparabili.» «Non è compito
del suo ministero definire tali regole?» Nello stesso periodo centodiciottomila
ettari venivano ripuliti nella vicina provincia del Chaco, e centosettantamila in
quella di Salta.

«Sì, ma non abbiamo molto peso... » Per rendersi conto della portata della
catastrofe basta prendere la ruta nacional 16 in direzione di Salta o del Chaco.
Tronchi d’albero vengono regolarmente accatastati al margine della strada. A
volte una fumata nera tradisce l’attività dei carboneros (carbonai), in genere
piccoli contadini che hanno finito con il lasciare le loro terre e prestare la loro
opera per sopravvivere.

Cinismo assoluto: cacciati dalla belva che ora si sono ridotti a nutrire.

Un custode sorveglia l’ingresso alla zona. Lo convinco a lasciarmi passare. Il


4x4 si avventura lungo una strada di pura desolazione. A perdita d’occhio si
vedono arbusti frantumati, alberi dilaniati e cespugli sventrati. «I bulldozer...»
mormora Guido Lorenz con voce rotta. Guido è un geografo tedesco che lavora
all’Università di Santiago del Estero. Con Pedro Colonel, ingegnere delle acque e
delle foreste, ispeziona regolarmente la regione per misurare l’estensione del
flagello. Ci avviciniamo a dei forni a carbone. Uomini ricoperti di fuliggine
stanno scaricando carriole di legname. Il «capo» mi spiega che era disoccupato e
che ha trovato questo lavoro per due anni. Si tratta di «smontare» un campo di
milleseicento ettari che appartiene al figlio del governatore della vicina provincia
di Tucumàn. Il governatore in persona possiede parecchie migliaia di ettari di
terreno non lontano da qui. «Strappiamo e bruciamo, poi pianteremo la soia», mi
dice l’uomo senza età.
Proseguiamo il nostro viaggio. Guido e Pedro hanno sentito di una vasta
operazione di disboscamento illegale a un centinaio di chilometri da qui. Si tratta
di un campo di ventiquattromila ettari, recentemente acquistato da un investitore.
Sulla carta la legge argentina è molto severa: per poter disboscare, i proprietari
devono procurarsi un permesso che stabilisca la percentuale di disboscamento
autorizzato, che varia secondo il tipo di terreno. In questo settore, classificato
come «fragile», la percentuale non sarebbe superiore al 15 per cento. «Ma ancora
una volta», continua Pedro, «il denaro della soia concede tutto.» Nel concreto, la
corruzione e l’assenza di sanzioni fanno la gioia dei bulldozer, che seminano
distruzione a perdita d’occhio.

«Dicono che spostano il confine agricolo, ma in realtà lasciano un deserto»,


afferma l’ingegnere. «Coltiveranno soia per uno o due anni, poi saranno costretti
ad andarsene, perché la fertilità di questo terreno è legata a una vegetazione
millenaria; quando questa scompare il suolo si impoverisce molto rapidamente.»
«È un ambiente fragile, perché ci troviamo in un’area dal clima arido semiarido»,
spiega Guido. «Il disboscamento comporta una diminuzione delle riserve di
materie organiche, da cui un’erosione del terreno, che perde la capacità di
trattenere l’acqua. Al livello dei bacini, le acque di dilavamento causano
inondazioni in altre zone. Il disboscamento è all’origine delle inondazioni
eccezionali che abbiamo avuto di recente nella provincia di Santa Fe. Inoltre, con
la tecnica della semina diretta il Round-up irrorato rimane in superficie; quando
piove, i residui degli erbicìdi vengono portati via dalle acque di scolo e inquinano
altri settori del bacino. Esiste anche una contaminazione dei mammiferi che
bevono l’acqua, e di conseguenza del latte delle mucche e così via.» «Ma questo
per i sojeros non è un problema», continua Pedro. «Sono grandi società o capi
d’azienda che vengono da Santa Fe o da Cordoba e che trattano la soia come una
materia prima. Un subappaltatore manda un uomo con un macchinario per
seminare, poi un altro con un aereo per spruzzare l’erbicìda e infine un altro con
una mietitrebbia a mietere il raccolto. Non impiegano manodopera del posto,
tranne che per il disboscamento e per accatastare il legname.» «È una situazione
di profonda emergenza, ma a livello ufficiale nessuno l’ha ancora capìto»,
conclude Guido. «È gravissimo, perché i danni sono irreversibili.»
14. Paraguày, Brasile, Argentina: la «Repubblica unita
della soia»

«La buona notizia è che l’esperienza concreta mostra chiaramente che la


coesistenza fra colture OGM, convenzionali e biologiche non solo è possibile, ma
avviene senza problemi in tutto il mondo.» Monsanto, The Pledge Report 2005, p.
30

Petrona Talavera è una donnina con uno sguardo di una dolcezza infinita, che
ha scoperto a proprie spese come la soia transgènica sia un nemico mortale. Per
incontrarla, nel gennaio 2007, viaggio otto ore, da Asunción, la capitale del
Paraguày, al confine argentino. Fino a Iguazu la ruta nacional 7 attraversa un
paesaggio di pampa verdeggiante in cui pascolano immense mandrie di bestiame,
disseminato di palme e di colline coperte di boschi. Poi ci si dirige verso
Encarnación, nel dipartimento di Itapuà. Centinaia di ettari di soia Round-up
Ready si estendono a perdita d’occhio a nord, verso il vicino Brasile, e a sud fino
alla provincia argentina di Formosa.

Silvino, undici anni, ucciso dal Round-up in Paraguày A quarantasei anni,


Petrona Talavera mi riceve nella sua umile dimora, che si trova alla fine di una
pista di terra rossa che serpeggia in mezzo agli OGM della Monsanto. «È su
questa strada che mio figlio Silvino ha incontrato la morte», mormora porgendomi
un bicchiere di mate in segno di benvenuto. «Mi batterò sino in fondo perché i
bambini paraguaiani smettano di essere avvelenati da un’agricoltura assassina.»
Accanto a lei Juan, suo marito, con cui ha cresciuto undici figli, ascolta in
silenzio.

Era il 2 gennaio 2003. Il piccolo Silvino stava tornando a casa in bicicletta


dopo avere fatto la spesa (pasta e un pezzo di carne) nell’unico negozio della
zona, a parecchi chilometri da dove vive la sua famiglia.

Durante il tragitto viene letteralmente irrorato di Round-up dalle «ali» di un


mosquito, pilotato da un sojero di nome Herman Schelender. «È arrivato fradicio,
lamentandosi per la nausea e una violenta emicrania», mi racconta Petrona. «Gli
ho detto di andare a sdraiarsi, mentre io preparavo la cena. Non sapevo che quel
prodotto fosse tanto pericoloso... Nel pomeriggio tutta la famiglia è stata colta da
attacchi di vomito e di diarrea. Quanto a Silvino, stava sempre peggio e ho dovuto
farlo ricoverare.» Dopo tre giorni di cure intensive il bambino torna a casa, ma
l’indomani un altro produttore di soia, All’redo Laustenlager, decide di irrorare il
suo campo, che si trova a quindici metri dall’abitazione di Petrona. Silvino non
sopravvive al nuovo avvelenamento, e muore il 7 gennaio in ospedale.

Comincia così per Petrona una dura lotta, perché questo crimine non rimanga
impunito. Sostenuta dal Coordinamento nazionale delle organizzazioni di donne
lavoratrici e indigene (CONAMURI), si appella al tribunale di Encarnación.
Nell’aprile 2004 i due sojeros sono condannati a due anni di prigione ciascuno e a
una multa di venticinque milioni di guarani (circa quattromila euro): è la prima
volta che succede nella nazione. Nella sentenza il tribunale stabilisce che il
bambino è morto in seguito a un’intossicazione dovuta a un prodotto agrotossico,
«penetrato nelle vie respiratorie e orali, ma anche nella pelle». I due sojeros
ricorrono in appello, grazie al sostegno della Camera paraguaiana degli
esportatori di cereali e oleaginose (CAPECO), l’associazione dei grandi
produttori di soia, versione paraguaiana dell’ASA americana o dell’AAPRESID
argentina. La pena è confermata nel luglio 2006, ma i due si rivolgono alla
Cassazione.

Nel dicembre 2006 il ricorso viene rifiutato, ma quando faccio visita a Petrona,
nel gennaio 2007, sono ancora in libertà. Durante i tre anni del processo si è
creato un collettivo di ONG che organizza regolarmente azioni perché il caso non
venga insabbiato. «I sojeros sono molto potenti», sospira Petrona, «più potenti del
governo. Mi hanno minacciata di morte. Hanno pagato molti nostri vicini per
renderci la vita impossibile e costringerci ad andarcene. Ma per andare dove? In
una bidonville? Silvino aveva una compagna di classe, anche lei morta di recente
in seguito a un’intossicazione, ma la famiglia non ha sporto denuncia, per timore
della rappresaglie e per mancanza di mezzi. Quanti bambini paraguaiani sono già
morti nell’indifferenza generale?» Difficile rispondere a questa domanda. Al
ministero della Sanità la dottoressa Graciela Camarra ammette che
l’inquinamento da Round-up è diventato un vero e proprio problema di sanità
pubblica, ma per ora è impossibile censire le vittime. «Cerchiamo di mettere in
atto un sistema di sorveglianza per essere informati appena compare un caso
sospetto, ma non è facile», mi spiega. «Ho saputo dei due bambini morti dopo
avere consumato frutti irrorati di erbicìda. Poi del piccolo Antonio Ocampo
Benitez, finito anche lui sui giornali, che ha rischiato di morire dopo avere fatto il
bagno in un fiume inquinato. C’è stato un altro dramma in una comunità indigena
del dipartimento di San Pedro, dove tre bambini non hanno resistito alle
irrorazioni. Al ministero della Sanità cerchiamo di convincere i colleghi
dell’agricoltura a far applicare le regole, per un uso corretto dell’erbicìda, ma di
fronte ai sojeros nessuno può fare niente...

Eppure ci riguarda tutti, anche qui ad Asunción, perché la frutta e la verdura


che compriamo vengono dalla campagna.» Il contrabbando delle sementi «La
produzione di soia per abitante ci pone al primo posto nel mondo, con una media
di settecentoventisette chili a testa», dichiara senza problemi Tranquilo Bavero il
12 giugno 2004 in un’intervista al quotidiano argentino Clarìn, giornale che, come
abbiamo visto, è un fervente sostenitore degli OGM. Il «re della soia»
paraguayano precisa inoltre che anche lui contribuisce in larga misura a quel
record, perché solo lui coltiva cinquantamila ettari nei dipartimenti di Alto Paranà
e Amambay.

Questo è il Paraguày, che in dieci anni è diventato il sesto produttore e il quarto


esportatore mondiale di soia! Dal 1996 al 2006 le superfici dedicate alla
coltivazione dell’oleaginosa sono passate da meno di un milione di ettari a due
milioni, con una progressione del 10 per cento all’anno.

Per minimizzare la cosa, il giornalista del grande quotidiano di Buenos Aires


ha ricordato che il «boom paraguayano» era dovuto al «modello di coltivazione»
fornito dall’AAPRESID, l’associazione argentina dei grandi sojeros, vicina, come
abbiamo visto, alla Monsanto. Se fosse stato del tutto sincero, avrebbe potuto
aggiungere che la suddetta organizzazione non si era limitata a trasmettere agli
omologhi della CAPECO la tecnica della semina diretta, ma anche a fornire le
sementi illegali di soia Round-up Ready. Di fatto nel 2004 - e nemmeno nel 2007
- nessuna legge paraguayana autorizzava la coltivazione degli OGM, che tuttavia
coprivano quasi la metà delle terre coltivate.

«Corn’è possibile?» La domanda fa sussultare Roberto Franco, viceministro


dell’Agricoltura che incontro ad Asunción il 17 gennaio 2007.

Sembra contento di ricevermi, perché è raro che dei giornalisti europei si


interessino al suo Paese, schiacciato per più di quarant’anni sotto il peso della
dittatura di All’redo Stroessner (1954 - 1989).

«Le sementi transgèniche sono entrate in Paraguày in modo irregolare», dice


con un sorriso nervoso. «Le chiamiamo bolsas blancas, perché sono arrivate in
sacchi bianchi senza indicazioni sulla provenienza... » «Da dove venivano?»
«Principalmente dall’Argentina, ma anche dal Brasile... » «Chi ha organizzato il
contrabbando?» «I grandi produttori di soia paraguayani, che hanno legàmi molto
stretti con i colleghi argentini... » «Pensa che la Monsanto abbia avuto una parte
in questo contrabbando?» «Beh, non abbiamo prove... Ma è possibile che le
aziende implicate in questa tecnologia abbiano sostenuto la promozione delle loro
varietà.

Di fronte a questa situazione il governo ha dovuto reagire, perché esportiamo


la quasi totalità dei nostri raccolti, il 23 per cento dei quali verso l’Unione
europea, che esige prodotti agricoli etichettati qualora contengano OGM. Non
avevamo mezzi per sapere se la soia fosse transgènica o meno. La soia
rappresenta il 10 per cento del nostro PNL, e per evitare di perdere i mercati
abbiamo dovuto... legalizzare le colture illegali.» «In pratica il governo è stato
messo di fronte al fatto compiuto?» «Sì... Abbiamo lo stesso problema oggi con il
cotone Bt, che si sta diffondendo senza autorizzazione ufficiale e senza una legge
di regolamentazione.» «Non crede si sia trattato di una trappola?» «Non siamo gli
unici. Al Brasile è toccata la nostra stessa sorte... » Strana coincidenza, in effetti.
Nel 1998, mentre la soia Round-up Ready invade le praterie nordamericane e la
pampa argentina, la Monsanto scalpita in Brasile, secondo produttore mondiale
dell’oleaginosa.

Un ricorso depositato da Greenpeace e dall’istituto brasiliano per la difesa del


consumatore (IDEC) sospende provvisoriamente la commercializzazione degli
OGM, perché «senza studi preliminari sull’effetto ambientale e sui rischi per la
salute dei consumatori, viola il principio di precauzione della convenzione sulla
biodiversità», firmata nel 1992 a Rio de Janeiro.

Per uno strano caso, il contrabbando viene organizzato nello Stato brasiliano di
Rio Grande do Sul. Le sementi vengono importate clandestinamente dalla vicina
Argentina, cosa che vale loro il soprannome di «Maradona». Sostenuta
dall’AAPRESID, l’Associazione dei produttori e commercianti di sementi dello
Stato del Rio Grande do Sul (APASSUL) organizza generose churrascadas
(grigliate) per promuovere le colture transgèniche, in barba alle autorità
pubbliche, che lasciano fare. «Non è raro vedere nei campi brasiliani tecnici
argentini venuti a dare manforte ai loro colleghi locali», scrive nel 2003 Daniel
Vernet, giornalista di Le Monde, che riporta la testimonianza di Odacir Klein, il
ministro dell’Agricoltura dello Stato di Rio Grande do Sul: «La polizia federale
effettua controlli nelle fattorie e sulle strade per multare i contravventori, e
trasmette le varie denunce alla giustizia che, quasi sempre, le ignora».1

Risultato: quando nel 2002 Luis Inàcio Lula da Silva, detto Lula, aspira per la
quarta volta alla presidenza della Repubblica, facendo una campagna contro gli
OGM, in realtà i nuovi semi sono già diffusi in tutto lo Stato di Rio Grande do
Sul, ma anche negli Stati vicini del Paranà e del Mato Grosso do Sul. Il 22
settembre 2003, nove mesi dopo l’insediamento del partito dei lavoratori al
palazzo presidenziale del Planalto, a Brasilia, la Commissione europea adotta due
regolamentazioni sulla tracciabilità e l’etichettatura degli OGM per i prodotti
alimentari destinati al consumo umano e animale. Come in Paraguày, questa
decisione minaccia direttamente le esportazioni del Brasile, incapace di
distinguere fra soia convenzionale e soia transgènica, poiché quest’ultima non
esiste ufficialmente.

Tre giorni dopo Lula firma un decreto che autorizza - provvisoriamente - la


vendita della soia Round-up Ready per il raccolto 2003, oltre che la semina e la
commercializzazione per la stagione 2004 * Lula propone un’amnistia a tutti i
produttori di OGM, invitati a uscire allo scoperto dichiarando i propri raccolti per
poter organizzare l’indispensabile segregazione. La decisione scatena una protesta
fra le organizzazioni contadine ed ecologiste, ma anche all’interno del partito dei
lavoratori, che si era impegnato a non liberalizzare le sementi transgèniche finché
il loro effetto ambientale, sanitario e sociale non fosse stato seriamente valutato.

Consapevole delle conseguenze che la «soizzazione» non mancherà di


provocare, Joào Pedro Stedile, il capo del Movimento dei lavoratori agricoli Sem
Terra (MST), definisce Lula un «transgènico della politica», mentre Marina Silva,
ministro dell’Ambiente, pensa seriamente di dare le dimissioni. Per gli oppositori
degli OGM, il decreto presidenziale segna l’abdicazione del nuovo governo di
fronte all’agrobusiness, incarnato dal ministro dell’Agricoltura Roberto
Rodrigues, e soprattutto di fronte alla Monsanto.

Prego, passare alla cassa!

L’azienda di Saint Louis è da tempo ai blocchi di partenza. La sua strategia in


Brasile dimostra che aveva largamente anticipato la «soizzazione» - e la
«transgènizzazione» - del Paese. Presente in Brasile dagli anni Cinquanta, dove
commercializzava gli erbicìdi, la Monsanto aveva aperto il primo stabilimento per
la produzione di glifosato nel 1976, a San Paolo. Ma negli anni Novanta, mentre
la soia Round-up Ready viene diffusa illegalmente, l’azienda si lancia nella
costruzione di un nuovo impianto produttivo che la pagina Web brasiliana
presenta con tutta l’enfasi del caso: «Nel dicembre 2001 la Monsanto ha
inaugurato nel polo petrolchimico di Camagari, nello Stato di Bahia, la prima
unità dell’azienda concepita per produrre materie prime per l’erbicìda Round-up
in America latina. Lo stabilimento di Camacari, risultato di un investimento di
cinquecento milioni di dollari, [...] è il più grande della Monsanto fuori dagli Stati
Uniti. [... ] È anche l’unico a produrre gli elementi costitutivi del Round-up. La
produzione alimenterà le aziende di Sào José dos Campos, Zarate, in Argentina, e
Anversa, in Belgio. Prima questi stabilimenti ricevevano i prodotti di base dagli
Stati Uniti».2

*» * Il decreto è stato prorogato nell’ottobre 2004. Poi, nel marzo 2005, la


camera bassa del Congresso brasiliano ha adottato una legge che autorizzava
definitivamente le colture transgèniche.

Mentre adatta la capacità di produzione del Round-up all’enorme mercato che


cerca di sviluppare, la multinazionale mette mano alle sementi brasiliane,
acquistando nel 1997 Agroceres, la più grande azienda di sementi del Brasile, o
entrando nelle filiali brasiliane dei produttori di sementi americani già assorbiti
negli Stati Uniti, come Cargill Seeds, DeKalb e Asgrovv. Nel 2007 la Monsanto è
primo fornitore di sementi di mais in Brasile e secondo di soia, appena dopo
l’istituto brasiliano di ricerca agricola (EMBRAPA), che lotta duramente per la
sopravvivenza.

Infine, ultima tappa della strategia: la raccolta dei diritti, prima in Brasile, poi
in Paraguày e in Argentina. Appena Lula legalizza le colture illegali, la Monsanto
avvia i negoziati con i produttori, gli esportatori e i trasformatori del prezioso
seme, brandendo i propri diritti di proprietà intellettuale sul gene Round-up
Ready. Di fronte alle minacce di tagliare gli approvvigionamenti di sementi,
questi non resistono a lungo: nel gennaio 2004 firmano un accordo secondo cui la
raccolta dei diritti si sarebbe effettuata quando i produttori avrebbero portato il
raccolto nei silos dei negozianti e degli esportatori di soia, come Bunge o Cargill,
il gigante americano di cui la Monsanto aveva acquistato le operazioni esterne.
L’ammontare dei diritti era fissato a dieci dollari per tonnellata nel primo anno, e
a venti dollari per il raccolto del 2004. Sapendo che nel 2003 il 30 per cento della
soia brasiliana era transgènica, per un totale di circa sedici milioni di tonnellate
raccolte, il calcolo è semplice: solo per quel primo anno, i «diritti di proprietà
intellettuale» fanno affluire centosessanta milioni di dollari nelle casse
dell’azienda di Saint Louis.

Nell’ottobre 2004 tocca ai produttori paraguayani pagare. A dire il vero,


nemmeno loro oppongono molta resistenza, perché il pagamento ufficiale dei
diritti ratifica un trionfo. L’accordo prevede il versamento iniziale di tre dollari
per tonnellata di soia, che sarebbero dovuti raddoppiare entro cinque anni. Come
in Brasile, la tassa sarà prelevata in occasione della spedizione del raccolto da
parte dei negozianti, che la verseranno alla Monsanto dopo averne dedotto una
commissione. Una settimana dopo, il 22 ottobre 2004, il ministro dell’Agricoltura
Antonio Ibànez firma una circolare che autorizza la vendita di quattro varietà di
soia transgènica appartenenti alla Monsanto.

«In questa storia il governo si è limitato a legalizzare un crimine?» domando a


Roberto Franco.

«Diciamo che abbiamo accompagnato il movimento», balbetta il viceministro


dell’Agricoltura paraguayano. «Sono i grandi produttori ad avere condotto i
negoziati direttamente con la Monsanto. Non è come in Argentina, dove fin
dall’inizio il governo si è occupato del dossier dei diritti.» Certo. E si può dire che
in Argentina la Monsanto sia incappata in un osso duro che, dal 2004, avvelena i
rapporti con il fedele alleato del Rio de la Plata. In occasione del lancio della soia
Round-up Ready, l’azienda aveva dato prova di un’infinita generosità, accettando
che i produttori non pagassero i diritti sulle sementi. Otto anni dopo si stimava
che solo il 18 per cento delle sementi utilizzate erano certificate, cioè acquistate a
prezzo pieno da negozianti che dipendevano dalla Monsanto per la questione delle
licenze, mentre il resto erano semi conservati o comprati sul mercato nero. La
Monsanto non ha mosso un dito fino al gennaio 2004, poi, all’improvviso, ha
minacciato di ritirarsi dall’Argentina, se tutti i produttori non avessero pagato la
«tassa tecnologica».

In un primo momento Miguel Campos, ministro dell’Agricoltura, non ha


battuto ciglio. Ha persino proposto di creare un «fondo dei diritti», alimentato da
un’imposta che il governo avrebbe prelevato dai produttori e versato alla
Monsanto, per un totale di trentaquattro milioni di dollari all’anno. Perché
entrasse in vigore, la misura doveva essere approvata dal Congresso, che ha
esitato per timore di rappresaglie del settore agricolo. «Non pagheremo un bel
niente», dichiara nell’aprile 2005 Eduardo Buzzi, presidente della FAA. Prima di
tutto, la Monsanto non ha fatto brevettare qui il suo gene; poi i contadini sono
protetti dalla legge 2247, che garantisce il ‘principio di eccezione
dell’agricoltore’, cioè il diritto di riseminare una parte del raccolto, anche se le
sementi di origine sono certificate dai selezionatori. Non c’è motivo per cui la
Monsanto debba godere di uno statuto particolare.» «Eppure, all’inizio la sua
organizzazione ha incoraggiato lo sviluppo della soia transgènica... » «È vero, ci
siamo fatti ingannare! Come immaginare tanto cinismo?
L’azienda aveva pianificato tutto a lungo termine, basandosi sull’AAPRESID,
che desidera solo promuovere i propri prodotti con la complicità di funzionari del
governo e dei mezzi di comunicazione. Era stato tutto calcolato, compreso il
contrabbando verso il Paraguày e il Brasile, e noi siamo caduti in trappola!» «È
scoppiata una guerra?» «Sì, la guerra delle sementi. Solo che per noi non si tratta
di generare dividendi per soddisfare gli azionisti, ma semplicemente di vivere... »
Qualche giorno dopo il nostro incontro Eduardo Buzzi parte per Monaco, dove ha
sede l’Ufficio europeo dei brevetti, per difendere la propria causa. Infatti, il 14
marzo 2005 la Monsanto inviava una lettera agli esportatori di soia, informandoli
che l’azienda avrebbe «perseguito qualunque carico di semi, di farina o di olio di
soia lascerà i porti argentini verso i Paesi in cui il gene Round-up Ready è
brevettato». Pertanto avrebbe chiesto «la collaborazione delle dogane, al fine di
prelevare campioni e rilevare la presenza del gene». Se il test fosse risultato
positivo, avrebbe perseguito gli esportatori di fronte ai tribunali europei,
reclamando un’ammenda di quindici dollari a tonnellata, più le spese giudiziarie.
Per ora, nonostante l’Ufficio europeo dei brevetti abbia concesso un brevetto sul
gene Round-up Ready, solo cinque Paesi lo riconoscono: il Belgio, la Danimarca,
l’Italia, i Paesi Bassi e la Spagna. Nel 2004 solo loro hanno importato
centoquarantaquattromila tonnellate di semi e quasi nove milioni di tonnellate di
farina di soia dall’Argentina. «La richiesta della Monsanto è del tutto illegale»,
afferma Miguel Campos. «Il brevetto riguarda solo le sementi, ma non le
granaglie, la farina e l’olio!

Le leggi europee non permettono alla Monsanto di raccogliere diritti sui


prodotti argentini!» Vedremo... Ovviamente, l’azienda di Saint Louis afferma che
il gene le appartiene ovunque si trovi, nella pianta così come nei prodotti derivati.
Nella logica infernale del meccanismo dei brevetti sugli organismi viventi, il
ragionamento fila. Intanto la multinazionale non esita a fare ciò che aveva
minacciato: dal giugno 2005 fa ispezionare navi in Olanda e in Danimarca, e
all’inizio del 2006 tre carichi di farina di soia in Spagna.

I casi finiscono davanti alla Corte di giustizia europea di Bruxelles. Questi


precedenti minacciano seriamente le esportazioni argentine, perché per evitare
grattacapi dai risultati incerti i negozianti europei cominciano a rivolgersi ad altre
fonti di approvvigionamento. «Non è giusto», insiste Miguel Campos. «La
Monsanto ha approfittato dell’audacia dell’Argentina che ha autorizzato le sue
sementi in un periodo in cui erano molto controverse. È grazie all’Argentina che
ha potuto fare passi avanti anche in altri Paesi del continente.» I nuovi
conquistadores Ritorno in Paraguày. L’«avanzata» di cui parla Campos assume
toni da catastrofe ecologica e sociale. «È una nuova conquista», ammette Jorge
Galeano, presidente del Movimento agrario e popolare (MAP). «Niente sembra
poter fermare i sojeros, che hanno usato gli stessi mezzi dei conquistadores per
espandere il proprio impero.» In occasione della mia visita nel gennaio 2007, il
leader contadino mi mostra l’ultima linea della «frontiera della soia», che non
cessa di estendersi verso l’interno del Paese. Siamo partiti con un 4x4 da
Vaqueria, una cittadina a duecento chilometri a nordest di Asunción, nel
dipartimento di Caaguazu. Poi abbiamo attraversato piste rosse in mezzo a un
paesaggio ondulato e boschivo di una bellezza stupefacente. Durante il tragitto
abbiamo incrociato degli indios guarani, che trasportavano carichi di legname;
qua e là piccole case con il tetto di paglia, disperse nella vegetazione
lussureggiante; un fiume dove facevano il bagno bambini nudi sotto il sole
cocente. «Qui cresce tutto», mi dice Jorge, «mais, tapioca, patate dolci, ogni tipo
di fagioli, manioca, canna da zucchero, frutta come agrumi e banane, mate. Le
famiglie vivono in autarchìa su un minuscolo pezzo di terra, perché aspettiamo
ancora la riforma agraria che la soia minaccia in modo definitivo.» Jorge
ripercorre la storia del suo Paese, uno dei più poveri dell’America latina, in cui il
2 per cento della popolazione detiene il 70 per cento delle terre. Un’ingiustizia
che risàle all’epoca della conquista spagnola, ma che si è accentuata con la guerra
del 1870 contro la Triplice Alleanza, in cui il Paraguày ha dovuto chinarsi
all’Argentina, al Brasile e all’Uruguay. Per liberarsi delle riparazioni pretese dai
vincitori, il governo di Asunción ha svenduto le terre di proprietà pubblica,
privatizzando, fra il 1870 e il 1914, circa ventisei milioni di ettari, a vantaggio di
aziende e cittadini brasiliani e argentini. All’epoca sussistevano ancora proprietà
enormi, fino a ottantamila ettari. A partire dal 1954 la dittatura di All’redo
Stroessner accentua ancora la concentrazione delle terre, a scapìto dei piccoli
contadini: dodici milioni di ettari cadono nelle mani degli alleati di questo
generale sanguinario, figlio di un produttore di birra bavarese, che li distribuisce a
magnati locali o ad aziende straniere. Negli anni Settanta, in occasione della
prima espansione della soia (non transgènica), una nuova distorsione della riforma
agraria, rimandata di continuo, si chiude con la vendita di immensi territori di
proprietà pubblica a produttori brasiliani del Rio Grande do Sul e della regione di
Paranà, i famosi «brasiguayani», che organizzeranno, vent’anni dopo, il traffico di
sementi Round-up Ready. Oggi si stima che sessantamila produttori si dividano il
bottino transgènico, il 24 per cento dei quali sono paraguayani, e il resto stranieri
di origine brasiliana, tedesca e giapponese* o «investitori internazionali del nuovo
oro verde», per riprendere le parole del viceministro dell’Agricoltura Roberto
Franco. Insomma, le aziende straniere che acquistano immense proprietà per
piantare OGM non esitano a schiacciare i piccoli contadini che ostacolano il loro
cammino.

«Guardi», mi dice Jorge Galeano, «oggi la frontiera della soia arriva qui.» È
sconvolgente. Procediamo ormai su un sentiero rettilineo che corre per parecchi
chilometri. Alla nostra sinistra, verso est, soia a perdita d’occhio dalla quale
emergono rari e minuscoli boschetti. Alla nostra destra il paesaggio boschivo e
biodiversamente ricco che abbiamo attraversato per due ore abbondanti. «Meno di
due anni fa questi territori erano popolati da comunità contadine e indigene, che
hanno finito tutte con l’andarsene», mi spiega Jorge. «La tecnica dei sojeros è
sempre la stessa: prima prendono contatti con le famiglie, offrendo loro cibo e
giocattoli per il compleanno dei bambini, poi tornano e propongono loro di
affittare i campi con un contratto di tre anni. Le famiglie rimangono a vivere sul
posto, riservandosi una porzione di terra per le coltivazioni a uso familiare.
Presto, però, anche queste vengono colpite dalle irrorazioni, quindi i sojeros
propongono loro di vendere definitivamente tutte le terre. Poiché di solito queste
terre non hanno titoli di proprietà, perché destinate alla riforma agraria che non ha
mai avuto luogo, i produttori le acquistano da funzionari di Asunción e diventano
proprietari legali di terreni ‘liberi’, come dicono loro. A questo punto arrivano con
i bulldozer, che distruggono l’habitat naturale di territori molto fertili e, l’anno
dopo, avviano la monocoltura. Allora è ovvio che si parli di nuova conquista,
perché l’espansione della soia si basa sulla semplice eliminazione di comunità
umane e stili di vita.» «È un fenomeno reversibile?» «Purtroppo no! Anche
immaginando che un giorno i piccoli contadini riescano a recuperare le terre,
saranno così contaminate dai prodotti chimici che ci vorranno anni per riavere la
qualità iniziale del suolo. La soia transgènica è un vero e proprio flagello mortale,
contro cui ci opponiamo con tutte le nostre forze.»

* L’Agenzia di cooperazione internazionale del Giappone incoraggia


l’insediamento di coloni giapponesi.

Le forti braccia della soia e la repressione Contrariamente all’Argentina, dove


l’espansione transgènica incontra poca resistenza organizzata, in Paraguày, a
partire dal 2002, le azioni collettive contro la soia Round-up Ready si sono
moltiplicate. Raggruppate all’interno del Fronte nazionale per la sovranità e la
vita, le organizzazioni contadine come il MAP di Jorge Galeano o il Movimento
contadino paraguayano (MCP) e le associazioni della società civile come la
CONAMURI, a cui appartiene Petrona Talavera, conducono strenue campagne
contro la «soizzazione» del Paese. Non passa settimana senza che venga
organizzata una manifestazione, un blocco stradale o un’occupazione delle terre
per frenare gli OGM della Monsanto.

Di fronte a questa situazione, il governo del presidente Nicanor Duarte ha


scelto di rispondere con la repressione e l’incriminazione del movimento anti
OGM. Nel 2002 centinaia di contadini sono stati incarcerati e una decina
assassinati. In certi casi la polizia locale si comporta come una milizia armata
assoldata dai sojeros, che non esita a sparare a vista sugli oppositori. Come in
quel giorno di febbraio 2004, quando un camion con a bordo una cinquantina di
contadini venuti a bloccare i mosquitos nel dipartimento di Caaguazu è stato
mitragliato a colpi di M16, provocando due morti e dieci feriti gravi. Un po’
ovunque nel Paese, con l’approvazione del presidente Duarte, forti braccia armate
sono state reclutate per proteggere i meccanismi di irrorazione e le grandi
proprietà di soia.

Convinti della propria impunità, alcuni sojeros tornano alle tecniche rodate
della lunga dittatura di Stroessner, facendo semplicemente eliminare i leader
contadini troppo ingombranti. Così il 19 settembre 2005, a Mbuyapey, nel
dipartimento di Paraguari, due poliziotti tentano di fare fuori Benito Gavilàn
sparandogli alla testa. L’uomo sopravvive per miracolo, ma perde un occhio. Nei
settori confinanti con la «frontiera della soia», che i produttori cercano di spostare
sempre più verso l’interno del Paese, vengono condotte operazioni di forza allo
scopo di eliminare i piccoli produttori recalcitranti. Il 3 novembre 2004, nel
dipartimento di Alto Paranà, settecento poliziotti vengono mobilitati per espellere
duemila contadini senza terra accampati con le famiglie di fronte a
sessantacinquemila ettari di soia Round-up Ready, recentemente acquistati da
Agropeco, azienda appartenente a un paraguayano di origine tedesca e a un
investitore italiano.31 due avevano comprato l’immenso terreno dal figlio del
dittatore Stroessner, che l’aveva ottenuto manipolando la riforma agraria! Le
famiglie coltivavano una striscia di terra lungo la ruta nacional 6, e durante
l’operazione, in cui tredici contadini sono stati incarcerati, le coltivazioni e gli
accampamenti sono andati distrutti.

Ma il simbolo dei metodi dittatoriali introdotti dal modello transgènico è la


comunità rurale di Tekojoja, situata a settanta chilometri da Caaguazù, non
lontano dalla «frontiera della soia». Cinquantasei famiglie conducono una lotta
disperata contro gli appetiti di due potenti sojeros di origine brasiliana: Ademir
Opperman, un magnate locale, e Adelmar Arcario, che possiede cinquantamila
ettari in Paraguày e cinque importanti silos nella regione. Il 3 dicembre 2004 i due
complici organizzano un primo tentativo di annientamento delle famiglie,
bruciando case e distruggendo venti ettari di raccolto.4 Tuttavia, sostenute dal
MAP, le famiglie resistono e rioccupano le terre.

Il 24 giugno 2005, alle cinque del mattino, centoventi poliziotti, supportati da


miliziani privati reclutati da Opperman, prendono d’assalto la comunità in
presenza di due avvocati che mostrano un ordine di espulsione firmato da un
giudice. «Erano falsi titoli di proprietà acquisiti illegalmente dall’istituto
nazionale di sviluppo rurale e della terra [INDERT]», mi spiega Jorge Galeano,
accorso sul posto appena saputo dell’operazione. «La Corte suprema di Asunción
ha riconosciuto l’irregolarità dell’acquisizione nel settembre 2006, ma da allora le
famiglie vivono in condizioni di grave precarietà.» Nel gennaio 2007 lasciano le
tende di plastica per riunirsi nel luogo della tragedia che ha sconvolto le loro vite,
sperando che il mio reportage le proteggerà da una nuova azione violenta. «È
stato tremendo», racconta una donna anziana. «I poliziotti hanno arrestato
centosessanta persone, fra cui quaranta bambini. Abbiamo passato giorni e giorni
in prigione. Quando siamo stati rilasciati, le nostre case erano state bruciate, i
raccolti distrutti e gli animali uccisi. Poi abbiamo perso due compagni...» In
silenzio, le famiglie si avvicinano a due mausolèi fioriti che si innalzano in mezzo
a una radura. «Qui sono stati assassinati Angel Cristallo, che aveva appena
vent’anni, e Leoncio Torres, padre di famiglia di quarantanove anni. Cercavano di
sbarrare la strada ai bulldozer», spiega Jorge Galeano. «La polizia ha prima voluto
far credere che erano morti durante uno scontro tra forze dell’ordine e contadini
armati, ma abbiamo la prova che si tratta di omicìdio.» Infatti, il giorno
dell’assalto un antropologo canadese, Kregg Hetherington, che indagava nella
comunità di Tekojoja, è stato testimone di tutta l’operazione e ha scattato delle
fotografie. Nelle immagini, di cui Jorge mi ha dato una copia, si vedono i
poliziotti in uniforme circondare i camion carichi di mobili che gli uomini di
Opperman hanno preso dalle modeste baracche di legno prima che andassero in
fiamme. Uomini armati si affannano attorno ai trattori che distruggono le
coltivazioni, mentre contadini cercano di frenarne l’avanzata a mani nude. Un
uomo in maglietta blu giace al suolo con il petto insanguinato. Un altro, sempre in
maglietta blu, ha il braccio aperto da una ferita. Volti sconvolti dal dolore.
«Anch’io indossavo una maglietta blu», mormora Jorge Galeano. «Gli uomini di
Opperman hanno sbagliato persona...» Grazie alla testimonianza di Kregg
Hetherington viene emesso un mandato d’arresto contro il sojero che, nel periodo
in cui sono a Tekojoja, è ancora in fuga...
Bisogna già ripartire, perché a una decina di chilometri un’altra comunità ci
aspetta per testimoniare il proprio dolore: quella di Pariri, dove sopravvivono
centinaia di famiglie circondate da campi di OGM. Ho viaggiato dal Nord al Sud
delle Americhe, dove le colture transgèniche proliferano, ma non avevo mai visto
tanta soia. È un oceano verde che occupa ogni lembo di terra fino alla piazzola in
terra battuta della chiesetta dove si sono riuniti gli abitanti di Pariri. Un uomo si
avvicina a Jorge con il figlio di una decina d’anni, le cui gambe sono coperte di
bruciature. Per andare a scuola il piccolo deve attraversare un campo di soia che è
appena stato irrorato di Round-up. Una donna si lamenta di emicranie persistenti,
un’altra di attacchi di vomito, un uomo dice di non avere più la forza di lavorare
da quando sono riprese le irrorazioni. «Che cosa possiamo fare?» chiede un
anziano. «Andarcene come hanno già fatto una quarantina di famiglie? Per fare la
fame in una bidonville? Aiutateci!» Jorge è commosso. Io sono infuriata. Accendo
una sigaretta e ascolto il discorso che lui improvvisa di fronte a quegli uomini e
quelle donne che muoiono perché i maiali e i polli della grande Europa possano
nutrirsi di soia, perché noi europei non siamo più capaci di alimentarli con i
prodotti locali. «Non andatevene!» grida Jorge. «Bisogna resistere al modello di
produzione transgènica delle multinazionali come la Monsanto, perché impone
un’agricoltura senza agricoltori. La coltivazione familiare come la pratichiamo
noi dà lavoro a cinque persone per ogni ettaro coltivato, mentre la soia Round-up
Ready impiega un solo operaio a tempo pieno per venticinque ettari* L’obiettivo
della Monsanto è controllare la produzione mondiale degli alimenti, e per farlo
vuole impedirci di praticare il nostro mestiere. Il modello transgènico è un
crimine: inquina l’ambiente, distrugge le risorse naturali, crea disoccupazione,
miseria, violenza e minaccia la sicurezza. Ci rende dipendenti dall’esterno per
qualcosa di fondamentale come il cibo. Minaccia la vita, e una volta insediatosi è
difficilissimo sradicarlo. Dobbiamo lottare per noi e soprattutto per il futuro dei
nostri figli.» La dittatura della soia Il 23 gennaio 2007 Tomàs Palau mi riceve in
un’abitazione familiare a un centinaio di chilometri da Asunción, dove ha preso
l’abitudine di ritirarsi per scrivere e leggere lontano dal furore della capitale. Quel
giorno il sociologo specialista di questioni agrarie affronta un articolo
sullaRepubblica unita della soia», lo slogan pubblicitario della campagna lanciata
all’inizio del 2004 dalla Syngenta, il concorrente svizzero della Monsanto.
Diffusa in tutta l’America meridionale, la campagna mostra una cartina verde che
comprende la Bolivia, il Paraguày, il Brasile e l’Argentina, i cui contorni formano
un chicco di soia. «La soia non conosce confini», precisa l’azienda nel testo, che
vanta i meriti di un servizio di assistenza tecnica in grado di fornire ai produttori
di soia Round-up Ready concìmi e prodotti fitosanitari.
* In Argentina i dati forniti dal ministero dell’Agricoltura mostrano un
impiego stipendiato ogni duecentocinquanta ettari coltivati.

«Si può parlare di una vera e propria ‘soizzazione’ della zona», mi spiega
Tomàs Palau, «perché oggi, nei quattro Paesi citati sulla cartina, gli OGM della
Monsanto coprono quaranta milioni di ettari. Ma questa espansione vertiginosa,
che avviene a scapìto dei piccoli contadini della regione, rappresenta ben più di
un semplice fenomeno agricolo. È anche un vero e proprio progetto politico
egemonico e, in tal senso, lo slogan pubblicitario della Syngenta è perfetto, quasi
simile a una confessione.

Oggi la Monsanto controlla la politica agroalimentare e commerciale del


Brasile, del Paraguày, dell’Argentina, della Bolivia e presto dell’Uruguay, e il suo
potere supera di gran lunga quello dei governi nazionali. È lei che decide quali
sementi e quali prodotti chimici saranno utilizzati in questi Paesi, quali colture
saranno soppresse e di che cosa si nutriranno i popoli, e a quale prezzo,
naturalmente. I recalcitranti vengono portati in tribunale, perché i brevetti
costituiscono l’ultimo vincolo di questo progetto totalitario. Tutto ciò avviene con
l’approvazione delle associazioni di produttori come l’AAPRESID e la CAPECO,
che stringono accordi con l’ASA di Saint Louis.» Ho potuto constatare di persona
i legàmi che uniscono i tre sostenitori della Monsanto. Alla fine del nostro
incontro, Roberto Franco, il viceministro dell’Agricoltura, mi aveva proposto di
accompagnarlo a un ricevimento organizzato il giorno dopo sulla proprietà di
Jorge Heisecke, presidente della CAPECO. Per quella sera era attesa una
delegazione di venti membri dell’ASA provenienti dall’Argentina con a capo John
Hofman, che mi aveva ricevuta così bene nella sua azienda agricola dell’Iowa
(vedi Capitolo 9). Avevo quindi cambiato i miei piani per cogliere
quell’opportunità. Peccato che dopo sei ore di strada non sia riuscita a entrare
nell’immenso terreno di Heisecke, perché sono stata fermata dalle sentinelle
armate. Neppure l’intervento del ministro è servito a dissuaderli. E allora viva la
«Repubblica unita della soia»!

«Si sa quanti piccoli contadini paraguayani hanno abbandonato l’agricoltura a


causa della soia?» chiedo a Tomàs Palau.

«Nell’ultimo censimento le statistiche nazionali parlano di centomila persone


che lasciano ogni anno la campagna per venire a stabilirsi in città, su un totale di
sei milioni di abitanti», afferma il sociologo, per nulla sorpreso dalle mie
domande. «Equivale a sedici-diciottomila famiglie.

Si stima che il 70 per cento circa dei migranti partano a causa della soia.

È una cifra enorme, sapendo che in generale queste famiglie finiscono nelle
bidonville o vivono in situazioni di estrema povertà. Ma al di là dei problemi
sociali creati dagli OGM, l’effetto più significativo è la perdita della sicurezza
alimentare. Lasciando le proprie terre, i piccoli contadini smettono di produrre per
se stessi, ma anche per gli altri. Dal 1995 il Paraguày è passato da un bilancio
alimentare in positivo a uno in negativo, perché oggi si importano più alimenti di
quanti se ne esportino. Ecco perché dico che la Monsanto e i suoi alleati - in realtà
concorrenti, come la Syngenta o la Novartis, che forse finiranno con il fondersi -
sono impegnati in una strategia imperialista, se non dittatoriale, che mira a
sottomettere politicamente i popoli attraverso lo strangolamento alimentare.

Si ricordi il famoso ‘documento di Santa Fe’ pubblicato nel 1980, che ha


costituito i fondamenti della ‘dottrina Reagan’, in cui i consulenti di sicurezza
nazionale parlano dell’alimentazione come di un’arma politica da controllare per
annientare i governi nemici. Beh, è esattamente ciò che sta facendo la Monsanto...
» Ripartendo per Asunción, dove mi imbarcherò per tornare in Francia, ripenso
alla conversazione che avevo avuto, due anni prima, con Walter Pengue,
l’agronomo argentino divenuto uno dei più grandi specialisti mondiali sugli effetti
della soia transgènica.

«Il modello transgènico è l’ultimo flagello dell’agricoltura industriale», mi


aveva detto sorseggiando un cabernet sauvignon argentino. «È l’ultimo anello di
un sistema di produzione intensiva, fondato su un ‘pacchetto tecnologico’ che
comprende non solo le sementi e gli erbicìdi, ma anche tutta una serie di altri
prodotti venduti dalle multinazionali del Nord ai Paesi del Sud, come concìmi o
insetticìdi, senza i quali non esiste rendimento. Per questo si può parlare di
seconda rivoluzione agricola: la prima, quella del dopoguerra, era stata pilotata
dagli organismi agronomici nazionali, come FINTA in Argentina, e mirava a
sviluppare le capacità agroalimentari dei Paesi appoggiandosi alla classe
contadina; la seconda è stata provocata da interessi sopranazionali e aveva portato
a un modello agricolo rivolto all’esportazione, in cui nei campi non ci sono più
operatori. Questo modello mira unicamente ad approvvigionare di foraggio a
basso prezzo i grandi allevamenti industriali dei Paesi del Nord, e comporta lo
sviluppo di monocolture che minacciano la sicurezza alimentare dei Paesi del
Sud. In dieci anni l’economia argentina è tornata indietro di un secolo, diventando
dipendente dall’esportazione di materie prime le cui quotazioni sono fissate da
mercati mondiali in cui il potere delle multinazionali è determinante. Il giorno in
cui le quotazioni della soia crolleranno si potrà temere il peggio.

«Quali sono le conseguenze della soia Round-up Ready per la soia


convenzionale e biologica?» «È un’altra questione molto importante
dell’agricoltura transgènica, perché sfocia nella biouniformità, altro pericolo per
la sicurezza alimentare. La soia OGM ha praticamente fatto scomparire la soia
convenzionale e biologica, che risulta contaminata e, pertanto, ha subito un crollo
drastico dei prezzi. Ma c’è di peggio: se la metà delle terre di un Paese sono
coltivate con un’unica varietà, si apre la strada a flagelli naturali in grado di
annientare tutta la produzione agricola. Attualmente sull’oleaginosa grava una
minaccia per cui non esistono risposte fitosanitarie: la ruggine della soia. È
apparsa in Brasile, per poi estendersi in Paraguày e in Argentina. L’assenza di
diversità di specie vegetali impedisce di resistere all’attacco delle malattie. Non
dimentichiamo ciò che è successo nel XIX secolo in Irlanda con le patate: la
grande carestìa che aveva decimato, dal 1845 al 1849, gran parte della
popolazione e costretto all’esilio decine di migliaia di persone, era stata provocata
soprattutto dalla scarsa biodiversità, che aveva favorito lo sviluppo della
peronospora, a cui nessuna barriera naturale poteva opporsi.» «Qual è l’obiettivo
della Monsanto?» «Penso che cerchi di controllare gli alimenti prodotti nel
mondo. Perciò deve mettere mano alle sementi là dove vengono utilizzate, cioè
presso gli agricoltori. Prima di tutto si appropria delle sementi, poi della
trasformazione, dei supermercati e, infine, controlla tutta la catena alimentare. Le
sementi sono il primo anello della catena alimentare: chi le gestisce controlla
l’offerta di cibo, e quindi l’uomo... » Nel dicembre 2006, un mese prima della mia
visita in Paraguày, avevo potuto osservare gli effetti di questa logica infernale
dall’altro lato del Pianeta, in un contesto ancora più drammatico, cioè l’ìndia,
dove la coltivazione del cotone transgènico della Monsanto sembra ormai
associata alla morte.
15. India: le sementi del suicìdio

«I nostri prodotti offrono vantaggi economici significativi non solo ai grandi


produttori, ma anche ai piccoli. In generale, permettono di ottenere raccolti di
migliore qualità e un rendimento più elevato.» Monsanto, The Pledge Report
2006, p. 29

Nel dicembre 2006, appena arriviamo, il corteo funebre compare sulla curva di
una stradina bianca di calce, a disturbare il torpore di questo piccolo villaggio
indiano baciato dal sole. Vestiti con gli abiti tradizionali tunica e pantaloni di
cotone bianchi - i suonatori di tamburo guidano la marcia, che procede verso la
riva del fiume dove è stato preparato il rogo. In mezzo al corteo, alcune donne in
lacrime si aggrappano disperate ai ragazzi robusti dallo sguardo triste, che portano
sulle spalle una lettiga ricoperta di fiori variopinti. Colta da forte emozione,
individuo il viso giovane del morto, che spunta da un lenzuolo bianco: palpebre
chiuse, naso aquilino e baffi bruni. Non dimenticherò mai quell’immagine, che
macchia d’infamia le «belle promesse» della Monsanto.

«Tre suicìdi al giorno» «Possiamo filmare?» chiedo, in preda al dubbio, mentre


il cameraman mi interroga con un cenno del capo. «Certo», mi risponde Kate
Tarak, un agronomo che dirige una ONG specializzata nell’agricoltura biologica.
È lui ad accompagnarmi in questo viaggio nella regione cotoniera di Vidarbha,
nello Stato indiano del Maharashtra. «È per questo che Kishor Tiwari ci ha portati
qui. Sapeva che ci sarebbero stati i funerali di un contadino suicida... » Kishor
Tiwari è il leader del Vidarbha Jan Andolan Samiti (VJAS), un movimento
contadino i cui membri sono perseguiti dalla polizia, perché continuano a
denunciare il «genocìdio» provocato dal cotone transgènico Bt in questa regione
agricola, un tempo nota per la qualità del suo «oro bianco». Quando sente la
risposta di Kate Tarak, Kishor fa un cenno del capo: «Non le avevo detto niente
per questioni di sicurezza. Gli abitanti del villaggio ci avvisano quando si suicida
un agricoltore, e noi partecipiamo a tutti i funerali. Attualmente nella regione c’è
una media di tre suicìdi al giorno. Questo giovane ha bevuto un litro di pesticìda.
È così che i contadini mettono fine ai loro giorni: usano i prodotti chimici che il
cotone transgènico avrebbe dovuto fargli risparmiare... » Mentre il corteo si
allontana verso il fiume, dove il corpo del giovane verrà cremato, un gruppo di
uomini si avvicina alla mia équipe. Gli sguardi sono diffidenti, ma la presenza di
Kishor li rassicura: «Dite a tutto il mondo che il cotone Bt è una tragedia»,
esclama un uomo anziano. «Nel nostro villaggio è il secondo suicìdio dall’inizio
del raccolto, e le cose possono solo peggiorare, perché le sementi transgèniche
non hanno dato nessun risultato!» «Ci hanno mentito», continua il capo del
villaggio. «Avevano detto che queste sementi magiche ci avrebbero permesso di
guadagnare, invece siamo tutti indebitati e il raccolto è nullo! Dove andremo a
finire?» Ci spostiamo verso un villaggio vicino a Bhadumari, dove Kishor Tiwari
vuole presentarmi una vedova di venticinque anni il cui marito si è suicidato tre
mesi prima. «Ha già ricevuto un giornalista del New York Times»,1 mi spiega il
leader contadino, «ed è pronta a testimoniare di nuovo. È un caso molto raro,
perché in genere le famiglie hanno paura.» La giovane, nel suo elegante sari blu,
ci riceve nel cortile della modesta casa di terra battuta, circondata dai due figli,
uno di tre anni e l’altro di dieci mesi. Il più piccolo si è addormentato su
un’amaca e durante la nostra conversazione la madre lo culla con un gesto della
mano, mentre in piedi, dietro di lei, la suocera ci mostra, senza dire nulla, la foto
del figlio defunto. «Si è ucciso proprio qui», mormora la giovane vedova. «Ha
approfittato della mia assenza per bere un bidoncino di pesticìda. Quando sono
arrivata era agonizzante... Non c’è stato niente da fare.» Ascoltandola ripenso a un
articolo comparso sull’International Herald Tribune nel maggio 2006, in cui un
medico descriveva il calvario delle vittime dell’epopèa transgènica: «I pesticìdi
agiscono sul sistema nervoso. Prima di tutto provocano convulsioni, poi i prodotti
chimici cominciano ad attaccare lo stomaco, che si mette a sanguinare; poi si
hanno gravi difficoltà respiratorie, e infine si muore per attacco cardiaco».2

Anil Kondba Shend, il marito della giovane vedova, aveva trentacinque anni.
Coltivava «tre acri e mezzo», cioè poco più di un ettaro di terra.

Nel 2006 aveva deciso di provare le famose sementi di cotone Bt della


Monsanto, le Bollgard, tanto elogiate dalla pubblicità in televisione, in cui si
vedevano bruchi grassocci sgominati dalle piante di cotone transgènico:
«Bollgard vi protegge! Meno irrorazioni, più profitto! Sementi di cotone
Bollgard: il potere di battere gli insetti!» Per procurarsi le preziose sementi,
vendute a un prezzo quattro volte superiore rispetto ai semi convenzionali, il
contadino aveva dovuto chiedere un prestito: «Ne ha fatti tre», ricorda la vedova,
«perché ogni volta i semi non resistevano alla pioggia. Credo dovesse ai
negozianti sessantamila rupìe* Non l’ho mai saputo con esattezza, perché nelle
settimane precedenti alla sua morte non parlava più... Era ossessionato da quel
debito».

«Chi sono i negozianti?» «Quelli che vendono le sementi transgèniche», mi


risponde Kishor Tiwari. «Riforniscono anche di concìmi e pesticìdi, e prestano
denaro a tassi da usurai. Gli agricoltori sono legati ai negozianti della Monsanto a
causa dei debiti... » «È un circolo vizioso», aggiunge Kate Tarak, «una tragedia
umana. Il problema è che gli OGM non sono adatti al nostro terreno, che appena
arrivano i monsoni si riempie d’acqua. Inoltre gli OGM rendono i contadini
completamente dipendenti dalle forze del mercato. Non solo devono pagare le
sementi molto di più, ma devono anche acquistare i concìmi, senza i quali la
coltivazione è destinata al fallimento, e i pesticìdi, perché il Bollgard dovrebbe
proteggere dagli attacchi del ‘verme americano della capsula’, un insetto
infestante del cotone, ma non dagli insetti succhiatori. Se a tutto questo si
aggiunge il fatto che, al contrario di ciò che afferma la pubblicità, il Bollgard non
basta a respingere i vermi americani, a quel punto è una catastrofe, perché in più
bisogna usare gli insetticìdi.»

* Cioè 1090 euro (allora 1 euro equivaleva a circa 55 rupìe). Non esiste un
salario minimo in India, ma nel 2006 la maggior parte degli operai o impiegati
guadagnavano meno di seimila rupìe al mese.

«La Monsanto dice che gli OGM sono adatti ai piccoli contadini: che cosa ne
pensa?» chiedo, ripensando alle affermazioni dell’azienda nel suo Pledge Report
del 2006.

«La nostra esperienza dimostra che è una menzogna», commenta l’agronomo.


«Nel migliore dei casi, possono andare bene per i grandi agricoltori che
possiedono le terre migliori e hanno i mezzi per drenarle e irrigarle secondo le
necessità, ma non per i piccoli, che rappresentano il 70 per cento della
popolazione di questo Paese!» «Guardi!» interviene Kishor Tiwari, aprendo una
cartina che è andato a prendere nel bagagliaio dell’auto.

Una visione sconvolgente: una distesa di teschi ricopre quella che a Vidarbha
si chiama «cintura del cotone». «Sono tutti i suicìdi che abbiamo registrato fra
giugno 2005, data dell’introduzione del cotone Bt nello Stato del Maharashtra, e
dicembre 2006», mi spiega il leader contadino.

«Sono 1280 morti. Uno ogni otto ore! Invece questa zona bianca è dove si
produce il riso: praticamente non ci sono stati suicìdi! È il cotone Bt che sta
provocando un vero e proprio genocìdio... »*

Kate Tarak, che insieme con me vede per la prima volta quella cartina, mi
mostra un piccolo spazio senza teschi: «È il settore di Ghatanji, nel distretto di
Yavatmal», mi spiega con un sorriso. «È qui che la mia associazione promuove la
coltivazione biologica. Ci vivono cinquecento famiglie, suddivise in venti
villaggi. Come vede, non ci sono suicìdi... » «Certo, ma il suicìdio dei produttori
di cotone non è un fenomeno nuovo. Non esisteva anche prima dell’arrivo degli
OGM?» «È vero», mi risponde l’agronomo. «Ma con il cotone Bt si è
conoiderevolmente accentuato. C’è stata la stessa evoluzione nell’Andhra
Pradesh, il primo Stato ad autorizzare le colture transgèniche, prima di entrare in
conflitto con la Monsanto.»

* Da gennaio a dicembre 2007 l’organizzazione VJAS ha registrato 1168


suicìdi.

Secondo il governo del Maharashtra, 1920 contadini si sono suicidati fra il 1°


gennaio 2001 e il 19 agosto 2006 in tutto il Paese, cosa che conferma l’accelerata
del fenomeno dopo l’arrivo delle sementi Bt sul mercato, nel giugno 2005.3

«Hold-up sul cotone indiano» Prima di mettermi in viaggio per l’immenso


Stato dell’Andhra Pradesh, nell’india sudorientale, Kishor Tiwari ci tiene a
mostrarmi il mercato del cotone di Pandharkavvada, uno dei più grandi del
Maharashtra. Lungo la strada incrociamo una colonna di carri trainati da bufali e
carichi di sacchi di cotone. «La avverto», mi dice Kishor Tiwari, «il mercato è
sull’orlo dell’esplosione. I contadini sono estenuati: il rendimento è stato
catastrofico e le quotazioni del cotone non sono mai state così basse. È il risultato
delle sovvenzioni che l’amministrazione americana concede agli agricoltori, con
un effetto dumping [esportazione sottocosto] sui prezzi internazionali.»*

Appena varchiamo l’imponente portone del mercato veniamo assaliti da


centinaia di produttori di cotone, che ci accerchiano senza lasciarci libertà di
movimento. «Sono giorni che siamo qui con il raccolto», dice uno di loro con una
palla di cotone in mano. «I negozianti ci propongono prezzi bassissimi. Abbiamo
tutti un debito da pagare.» «A quanto ammonta il suo debito?» chiede Kate Tarak.

«Cinquantaduemila rupìe», risponde il contadino.

Segue una scena allucinante in cui spontaneamente decine di contadini


declamano, a turno, l’ammontare del proprio debito.
* Le sovvenzioni concesse agli agricoltori americani ammontavano a diciotto
miliardi di dollari nel 2006 {vedi Nota 1). Tre giorni dopo la nostra visita, al
mercato scoppia una rivolta: molti contadini vengono arrestati dalla polizia, fra
cui anche Kishor Tiwari.

”Non vogliamo più cotone Bt!» urla un uomo che non riesco nemmeno a
vedere.

«Basta!» ruggiscono decine di voci.

«Quanti di voi non ripianteranno cotone Bt l’anno prossimo?» insiste Kate


Tarak, visibilmente commosso.

Al che si alza una selva di mani che, per miracolo, Guillaume Martin, il
cameraman, riesce a filmare, mentre veniamo letteralmente sommersi da quella
marea umana. «Il problema», sospira Kate Tarak, «è che questi contadini
faticheranno molto a trovare sementi di cotone non transgèniche, perché la
Monsanto controlla quasi tutto il mercato.» All’inizio degli anni Novanta, mentre
guardava al Brasile, l’azienda di Saint Louis preparava minuziosamente il lancio
dei suoi OGM in India, terzo produttore mondiale di cotone dopo la Cina e gli
Stati Uniti. Pianta simbolica del Paese del Mahatma Gandhi, che ha fatto della sua
coltivazione l’emblema della resistenza non violenta all’occupazione britannica, il
cotone è coltivato da oltre cinquemila anni nel subcontinente indiano. Oggi dà da
vivere a più di diciassette milioni di famiglie, soprattutto negli Stati del Sud
(Maharashtra, Gujarat, Tamil Nadu e Andhra Pradesh).

La Monsanto, in India dal 1949, rappresenta uno dei maggiori fornitori di


prodotti fitosanitari, di erbicìdi e soprattutto di insetticìdi che costituiscono un
mercato importante, perché il cotone è molto sensibile a una serie di agenti
infestanti come il verme americano della capsula, l’antonomo del cotone, la
cocciniglia, il ragno rosso, la larva spinòsa del cotone e le pulci. Prima
dell’avvento della rivoluzione verde, che ha portato alla monocoltura intensiva del
cotone con varietà ibride ad alto rendimento, i contadini indiani riuscivano a
gestire l’attacco degli insetti con un sistema di rotazione delle colture e con l’uso
di un insetticìda biologico, ottenuto a partire da foglie di neem. Le molteplici
proprietà terapeutiche di quest’albero millenario, venerato come l’«albero
gratuito» in tutti i villaggi del subcontinente, sono così famose da essere diventate
oggetto di una decina di brevetti depositati da imprese internazionali: evidenti casi
di biopirateria che hanno portato a interminabili contenziosi di fronte agli uffici
dei brevetti. Così nel settembre 1994 l’azienda chimica americana W.R. Grace,
una concorrente della Monsanto, otteneva un brevetto europeo proprio sulla
funzione fungicìda del neem,4 impedendo alle imprese indiane di
commercializzare i loro prodotti all’estero, se non pagando i diritti alla
multinazionale che, d’altra parte, irrorava il Paese di pesticìdi chimici.

Sono stati proprio questi pesticìdi chimici a provocare la prima ondata di


suicìdi fra i produttori di cotone indebitati alla fine degli anni Novanta. L’uso
intensivo di insetticìdi sintetici ha comportato un fenomeno assai noto agli
entomologi: lo sviluppo, da parte degli insetti, dell’immunità ai prodotti che
avrebbero dovuto distruggerli. Risultato: per scacciare i parassiti, i contadini
hanno dovuto aumentare le dosi e ricorrere a molecole sempre più tossiche. È così
che in India, nella sola coltivazione del cotone, che rappresenta il 5 per cento
delle terre coltivate, si consuma il 55 per cento dei pesticìdi del settore agricolo.

Ironia della sorte, la Monsanto ha saputo approfittare di questa spirale infernale


che i suoi prodotti avevano contribuito a creare e che, insieme con il crollo delle
quotazioni del cotone (da 98,2 dollari per tonnellata nel 1995 a 49,1 nel 2001),
aveva portato alla morte di migliaia di piccoli contadini: l’azienda ha vantato i
meriti del cotone Bt come ultima panacèa, che avrebbe dovuto «ridurre o
eliminare» l’uso dei pesticìdi, come dichiara il sito Internet della filiale indiana.

Dal 1993, in effetti, il leader degli OGM negozia una licenza d’uso della
tecnologia Bt con la Maharashtra Hybrid Seeds Company (Mahyco), la principale
azienda di sementi dell’india. Due anni dopo il governo indiano autorizza
l’importazione di una varietà di cotone Bt coltivata negli Stati Uniti (la Cocker
312, che contiene il gene CrylAc), perché i tecnici della Mahyco possano
incrociarla con varietà ibride locali. Nell’aprile 1998 l’azienda di Saint Louis
annuncia di avere acquistato il 26 per cento delle quote della Mahyco e di avere
creato con il socio indiano una joint venture alla pari, battezzata Mahyco
Monsanto Biotech (MMB) e impegnata nella commercializzazione delle future
sementi transgèniche di cotone. Nello stesso momento il governo indiano
autorizza la multinazionale a condurre i primi esperimenti sul campo per quanto
riguarda il cotone Bt.

«La decisione è stata presa al di fuori da qualunque quadro legale», denuncia


Vandana Shiva, che incontro negli uffici della sua Research Foundation for
Science, Technology and Natural Resource Policy, a Nuova Delhi, nel dicembre
2006. Laureata in fisica e in filosofia delle scienze, questa figura internazionale
dell’altromondismo ha ricevuto nel 1993 il «premio Nobel alternativo» per
l’impegno a favore dell’ecologia e contro l’influenza delle multinazionali
agrochimiche sull’agricoltura indiana. «Nel 1999», mi spiega, «la mia
organizzazione ha fatto ricorso presso la Corte suprema per denunciare l’illegalità
degli esperimenti realizzati dalla MMB. Nel luglio 2000, mentre la nostra
richiesta non era ancora stata esaminata, gli esperimenti venivano autorizzati su
scala più ampia, cioè in una quarantina di luoghi sparsi in sei Stati, ma i risultati
sono ancora e solo confidenziali. Il Comitato indiano di approvazione
dell’ingegneria genetica aveva chiesto che fosse testata la sicurezza alimentare dei
semi di cotone Bt, usati come foraggio per bovini e bufali, e quindi in grado di
influire sulla qualità del latte, oltre che su quella dell’olio di cotone destinato al
consumo umano, ma tutto ciò non è mai stato fatto. In qualche anno la Monsanto
ha compiuto un vero e proprio hold-up sul cotone indiano, con la complicità delle
autorità governative, che hanno aperto la via agli OGM oltraggiando il principio
di precauzione che l’india aveva sempre difeso.» «Corn’è potuto accadere?»
«Chissà!» sospira Vandana Shiva. «La Monsanto ha fatto un’opera di lobbying
considerevole. Per esempio, nel gennaio 2001 una delegazione americana
composta da magistrati e scienziati ha incontrato il presidente della Corte
suprema, Justice A.S. Anand, presso il quale ha lodato i benefìci delle
biotecnologie, nel momento in cui il giudice avrebbe dovuto pronunciarsi sulla
nostra causa. Sotto la direzione dell’istituto Einstein per la scienza e la salute, ai
tribunali è stato proposto di creare dei laboratori per formare i giudici sulla
questione degli OGM.5 La Monsanto ha anche organizzato diversi viaggi alla
sede di Saint Louis, ai quali venivano invitati a partecipare giornalisti, scienziati e
giudici indiani. Inoltre, la stampa è stata caldamente sollecitata a diffondere la
buona novella. È incredibile quante personalità riescano a difendere e sostenere le
biotecnologie senza saperne nulla... » In realtà, non sono solo le «personalità»
indiane a essere cadute nella trappola della Monsanto. Un comunicato stampa
dell’azienda, datato 3 luglio 2002, afferma con evidente soddisfazione che una
«delegazione europea» ha partecipato a un «tour» al Chesterfield Village, il centro
di ricerca sulle biotecnologie di Saint Louis. «Questa delegazione di visitatori
comprendeva rappresentanti di agenzie governative, organizzazioni non
governative, istituti scientifici, agricoltori, consumatori e giornalisti di dodici
Paesi interessati alle biotecnologie e alla sicurezza alimentare», si legge nel
comunicato.6

«Pensa ci siano state anche manovre di corruzione?» domando a Vandana


Shiva.
«Veramente... » sorride, cercando le parole giuste. «Non ne ho la prova, ma
non lo escludo. Guardi che cos’è successo in Indonesia... » Il 6 gennaio 2005 la
SEC, l’organismo americano incaricato della regolamentazione e del controllo dei
mercati finanziari, intentava una doppia procedura contro la multinazionale,
accusata di corruzione in Indonesia. Secondo il procuratore della SEC, le cui
conclusioni sono consultabili su Internet,7 i rappresentanti della Monsanto a
Giacarta avrebbero versato, fra il 1997 e il 2002, somme fino a settecentomila
dollari a centoquaranta funzionari indonesiani, perché favorissero l’introduzione
del cotone Bt nel Paese. Altri trecentosettantaquattromila dollari sarebbero stati
«donati» alla moglie di un alto funzionario del ministero dell’Agricoltura per la
costruzione di una lussuosa dimora. Tali generose donazioni sarebbero state
coperte da false fatture di vendita di pesticìdi. Inoltre, nel 2002 la filiale asiatica
della multinazionale avrebbe versato cinquantamila dollari a un alto funzionario
del ministero dell’Ambiente perché facesse annullare un decreto secondo cui
l’effetto ambientale del cotone Bt doveva essere valutato prima della
commercializzazione. Ben lungi dal negare le accuse, nell’aprile 2005 il leader
degli OGM ha firmato un accordo amichevole con la giustizia, che lo condannava
a pagare 1,5 milioni di dollari di penale. «La Monsanto si attribuisce l’intera
responsabilità di questi atteggiamenti scorretti», dichiara in un comunicato stampa
Charles Burson, capo del servizio giuridico dell’azienda. «Siamo sinceramente
dispiaciuti del fatto che qualcuno che lavora in nostro nome si sia permesso di
comportarsi in questo modo.»8

Il drammatico fallimento del cotone transgènico della Monsanto Il 20 febbraio


2002, purtroppo per le organizzazioni ecologiste e contadine, il Comitato di
approvazione dell’ingegneria genetica del governo indiano dà il via libera alla
coltivazione di cotone Bt. Già da tempo i famosi negozianti della MMB
ispezionano le campagne del subcontinente per vendere i prodotti transgènici, in
un momento in cui la prima ondata di suicìdi decima i villaggi. Per attirare i
clienti l’azienda non lesina sui mezzi: ingaggia una stella di Bollyvvood per
promuovere gli OGM in televisione (molto guardata in India), mentre in tutto il
Paese vengono affissi decine di migliaia di manifesti in cui contadini sorridenti
posano accanto a un trattore nuovo di zecca, acquistato grazie ai guadagni del
cotone Bt.

Nel primo anno cinquantacinquemila contadini, cioè il 2 per cento dei


produttori di cotone indiani, accettano di lanciarsi nell’avventura transgènica. «Ho
sentito parlare di quelle sementi miracolose che mi avrebbero liberato dalla
schiavitù dei pesticìdi», testimonia nel 2003 al Washington Post un contadino di
ventisei anni dell’Andhra Pradesh, uno dei primi Stati ad avere autorizzato la
commercializzazione degli OGM

(marzo 2002). «La stagione scorsa, appena vedevo i parassiti andavo nel
panico. Ho irrorato pesticìdi sulle mie colture almeno venti volte, invece
quest’anno solo tre.»9

Indipendentemente da questo palese vantaggio (che, come vedremo,


scomparirà rapidamente a causa dell’immunità alle piante Bt sviluppata dagli
insetti), il resto del quadro è molto meno brillante, così come diranno i contadini
intervistàti dal Washington Post dopo il primo raccolto OGM: «Per il cotone Bt
mi hanno pagato molto meno, perché gli acquirenti hanno detto che la lunghezza
della fibra non era sufficiente», dice uno di loro. «Il rendimento non è aumentato,
e con un prezzo delle sementi così alto mi chiedo se ne sia valsa la pena.»10

Siccome in India i brevetti sulle sementi sono (per ora) vietati, l’azienda di
Saint Louis non può applicare lo stesso sistema dell’America del Nord,
pretendendo che i contadini acquistino ogni anno le loro sementi, poiché finirebbe
in tribunale; per compensare queste «perdite», ha quindi deciso di rifarsi sui
prezzi delle sementi, quadruplicandoli: se una confezione di sementi
convenzionali da 450 grammi costa 450 rupìe, per gli OGM il prezzo sale a 1850
rupìe. Infine, osserva il collega del Washington Post, «il fastidioso verme
americano non è scomparso».

Questi risultati poco più che mediocri non impediscono a Ranjana Smetacek*
direttrice delle pubbliche relazioni della Monsanto India, di dichiarare: «Il cotone
Bt è andato molto bene nei cinque Stati dove è stato coltivato».11

Le testimonianze riportate dal Washington Post sono state confermate da più di


uno studio. Il primo viene commissionato nel 2002 dall’Andhra Pradesh Coalition
in Defence of Diversity (APCDD), che raggruppa centoquaranta organizzazioni
della società civile, fra cui la Deccan Development Society (DDS), una ONG
molto rispettata, specializzata nell’agricoltura ragionata e nello sviluppo
sostenibile. L’APCDD ha chiesto a due agronomi, il dottor Abdul Qayum, ex
dirigente del ministero dell’Agricoltura dello Stato, e Kiran Sakkhari, di
confrontare i risultati agricoli ed economici del cotone Bollgard con quelli del
cotone non transgènico nel distretto del Warangal, dove milleduecento contadini
avevano ceduto alle promesse della Monsanto.
* Ricordate i «falsi scienziati» che avevano lanciato la campagna
diffamatoria contro Ignacio Chapela nel caso del mais messicano (vedi Capitolo
12)? Uno di loro si chiamava Andura Smetacek, e Jonathan Matthevvs, il
britannico che aveva smascherato la frode, aveva notato la stranezza di questo
«nome poco comune». Forse i manipolatori di Saint Louis l’hanno semplicemente
pescato dai dipendenti indiani?

I due scienziati hanno osservato una metodologia molto rigorosa, che


consisteva nel seguire mensilmente le colture transgèniche, dalla semina (agosto
2002) alla fine della stagione (marzo 2003), in tre gruppi sperimentali: in due
villaggi, in cui ventidue contadini avevano piantato degli OGM, ne sono stati
selezionati quattro estraendo a sorte; a metà stagione (novembre 2002) ventuno
contadini provenienti da undici villaggi sono stati interrogati sullo stato delle loro
colture transgèniche, con una visita sui campi; da ultimo, alla fine della stagione è
stato stilato un bilancio su duecentoventicinque contadini scelti in modo aleatorio
fra i milleduecento produttori OGM del distretto, il 38,2 per cento dei quali
possedevano meno di cinque acri (due ettari) di terra, il 37,4 per cento fra cinque
e dieci acri e il 24,4 per cento più di dieci acri (in India questi erano considerati
grandi contadini). Evidentemente, nello stesso periodo venivano registrate con lo
stesso rigore le performance dei produttori di cotone convenzionale (gruppo di
controllo). Riporto questi particolari per sottolineare che uno studio scientifico
degno di tale nome deve essere condotto in questo modo, altrimenti è solo
propaganda.

I risultati di questa ampia ricerca sul campo sono inappellabili: «I costi di


produzione del cotone Bt sono stati in media più alti di 1092 rupìe (per acro)
rispetto al cotone non Bt, perché la riduzione del consumo di pesticìdi è stata
molto limitata», scrivono i due agronomi. «Inoltre, il calo del rendimento è
stato significativo (35 per cento) per il cotone Bt, che ha comportato una perdita
netta di 1295 rupìe, il cotone non transgènico, invece, ha registrato un profitto
netto di 5368 rupìe. Il 78 per cento degli agricoltori che avevano coltivato cotone
Bt hanno dichiarato che l’anno successivo non l’avrebbero più seminato.»12

Per dare corpo a questo dispositivo irreprensibile dal punto di vista scientifico,
la DDS ha unito all’iniziativa un’équipe di «sei cameravvomen scalze», per
riprendere le parole del dottor P.V. Satheesh,* fondatore e direttore
dell’associazione ecologista. Queste sei donne, tutte contadine analfabete e dalit
(«intoccabili», gli ultimi della scala sociale indiana) sono state formate come
tecnici video in un laboratorio aperto dalla DDS

Il nome esatto del direttore della DDS è Periyapatna Venkatasubbaiah


Satheesh, ma tutti lo chiamano P.V. Satheesh. nell’ottobre 2001 nel piccolo
villaggio di Pastapur. Dall’agosto 2002 al marzo 2003 le donne hanno filmato le
aziende agricole di sei piccoli produttori di cotone Bt del distretto di Warangal, gli
stessi seguìti anche dai due agronomi dello studio.

Il risultato è un documentario eccezionale sul fallimento delle colture


transgèniche. Vi si avverte innanzitutto la speranza che i contadini hanno riposto
nelle sementi Bt. Per i primi due mesi, infatti, va tutto bene: le piante godono di
buona salute e gli insetti non ci sono. Presto però arriva il disincanto: la
dimensione delle piante è molto piccola e le capsule meno numerose che nei
campi di cotone convenzionali adiacenti; in ottobre, quando con la siccità i
parassiti hanno disertato le colture tradizionali, le piante OGM sono assediate da
tisanotteri del cotone e mosche bianche; a novembre, con l’inizio del raccolto,
l’angoscia compare sui volti, perché i rendimenti sono molto bassi, le capsule
difficili da cogliere e la fibra di cotone più corta, da cui un prezzo più basso del 20
per cento.

Ho incontrato le mie colleghe indiane nel dicembre 2006 in un campo di


cotone del Warangal, dove erano venute a filmare insieme con Abdul Qayum e
Kiran Sakkhari. Sono rimasta colpita dalla professionalità di quelle donne
bellissime che, con un neonato addormentato sulla schiena, hanno montato
telecamera, treppiedi, microfoni e luci per intervistare un gruppo di contadini
disperati per il catastrofico fallimento delle colture Bt.

Infatti, dal primo rapporto pubblicato dai due agronomi, la situazione non ha
fatto altro che peggiorare, innescando la seconda ondata di suicìdi, che presto si è
diffusa nel Maharashtra. Il governo dell’Andhra Pradesh, preoccupato, ha
condotto a sua volta uno studio che ha confermato i risultati ottenuti da Qayum e
Sakkhari.13 Consapevole delle conseguenze elettorali che un simile disastro
poteva comportare, il ministro dell’Agricoltura Raghuveera Reddy ha ordinato
alla MMB di indennizzare gli agricoltori per il fallimento delle colture, cosa che
naturalmente l’azienda non ha fatto.

Propaganda e monopolio Per difendersi, la multinazionale di Saint Louis ha


sfoderato un lungo articolo, opportunamente pubblicato su Science il 7 febbraio
2003.14 Incredibili questi studi che fanno il bello e il cattivo tempo appena
compaiono su riviste scientifiche prestigiose, che di rado, per non dire mai, hanno
la voglia di verificare l’origine dei dati presentati. Qui gli autori, Martin Qaim
dell’Università di Berkeley e David Zilberman dell’Università di Bonn, che «non
hanno mai messo piede in India», come dice Vandana Shiva, hanno concluso che,
secondo esperimenti realizzati sul campo nei «vari Stati indiani», il cotone Bt
«riduce i danni causati dagli insetti nocivi e aumenta il rendimento in modo
sostanziale», addirittura «fino all’88 per cento»! «Ciò che dello studio stupisce di
più», commenterà il Times of India, «è che si basa esclusivamente su dati forniti
dalla MMB, riguardanti un piccolo numero di esperimenti selezionati
dall’azienda, e non sui risultati provenienti dai campi dei contadini al momento
del primo raccolto di cotone Bt.»15 «Tuttavia», prosegue il giornale ed è proprio
questo lo scopo della pubblicazione su Science -, «lo studio è stato
abbondantemente citato da diversi organismi come dimostrazione delle
spettacolari performance delle colture transgèniche.» Nel 2004 lo studio verrà
ampiamente commentato in un rapporto della FAO,16 che si dilunga in una difesa
appassionata degli OGM, «capaci», secondo Jacques Diouf, direttore generale
dell’organizzazione, di «aumentare ovunque la produttività agricola» e di «ridurre
i danni ambientali causati dai prodotti chimici tossici». Naturalmente, il rapporto
ha riempito di gioia la Monsanto, che si è affrettata a pubblicarlo on-line.17

In Francia, il giorno prima della pubblicazione dello studio su Science, la


France Presse ne diffondeva un resoconto ricco di elògi, di cui riporto un estratto
perché dimostra come la disinformazione regni sovrana. Tuttavia, non si può dare
la colpa all’agenzia di stampa che, dopotutto, non ha fatto altro che estrapolare i
calcolatissimi sottintesi dall’articolo: «Il cotone geneticamente modificato per
resistere a un insetto nocivo potrebbe aumentare il rendimento fino all’80 per
cento, secondo alcuni ricercatori che hanno eseguito esperimenti in India [corsivo
mio]», spiega France Presse. Poi precisa: «I risultati dei lavori sono sorprendenti:
finora studi simili condotti in Cina e negli Stati Uniti avevano osservato una
crescita solo irrisoria dei rendimenti...»18 Possiamo immaginare l’effetto di
questa informazione - in larga misura ripresa dai media, per esempio dal Bulletin
des agriculteurs in Québec - sui contadini (piccoli e medi) che ogni giorno si
battono per la sopravvivenza.

Tanto più che, tralasciando tutti i dati registrati sul posto, Martin Qaim non
esita a dichiarare: «Nonostante il costo più elevato delle sementi, con il cotone
geneticamente modificato gli agricoltori hanno quintuplicato il loro reddito». Il
suo collega, David Zilberman, ha il merito di avere esposto chiaramente il vero
obiettivo dello «studio» in un’intervista al Washington Post nel maggio 2003:
«Sarebbe una vergogna se i timori di chi si oppone agli OGM impedissero ad altri
di beneficiare di questa importante tecnologia».18

Il Times of India è invece più prosàico: «Chi pagherà per il fallimento del
cotone Bt?» si interroga, ricordando che una legge indiana del 2001 sulla «tutela
delle varietà vegetali e dei diritti degli agricoltori» impone ai selezionatori di
indennizzare i contadini quando vengono «imbrogliati» con sementi che per
«qualità, rendimento o resistenza agli insetti nocivi»20 non valgono quanto
dovrebbero.

Il ministro dell’Agricoltura dell’Andhra Pradesh, infatti, ha voluto far


applicare proprio questa legge, ma senza esiti positivi, tanto che nel maggio 2005
decide di bandire dallo Stato tre varietà di cotone Bt prodotte dalla MMB (che
saranno introdotte, poco dopo, nello Stato del Maharashtra).21 Nel gennaio 2006
il conflitto con l’azienda di Saint Louis si intensifica: il ministro Raghuveera
Reddy denuncia la MMB presso la Monopolies and Restrictive Trade Practices
Commission (MRTPC), l’organismo indiano incaricato del controllo delle
pratiche commerciali e delle misure antitrust, perché intervenga sul prezzo
esorbitante delle sementi transgèniche. L’11 maggio 2006 la MRTPC accoglie la
denuncia del ministro e ordina che il prezzo della confezione da 450 grammi di
sementi sia uguale a quello applicato dalla Monsanto negli Stati Uniti o in Cina,
cioè 750 rupìe (anziché 1850 rupìe). Cinque giorni dopo la multinazionale
contesta la decisione di fronte alla Corte suprema, ma la richiesta viene respinta il
6 giugno 2006, perché i giudici ritengono di non doversi intromettere in una
questione che compete solo i vari Stati.22

Nel dicembre 2006, quando sono arrivata nell’Andhra Pradesh, la situazione


era questa: la MMB aveva finalmente abbassato il prezzo delle sementi, ma il
conflitto non era certo terminato, perché rimaneva lo spinòso problema delle
compensazioni finanziarie. «Nel gennaio 2006», mi spiega Kiran Sakkhari, «il
ministero dell’Agricoltura ha minacciato di ritirare le licenze di sfruttamento
all’azienda se non avesse indennizzato i contadini per gli ultimi tre raccolti.»
«Credevo che l’Andhra Pradesh avesse bandito tre varietà di cotone Bt nel
2005...» «Infatti», mi risponde l’agronomo, «ma la MMB le ha immediatamente
sostituite con nuove varietà transgèniche! Il governo provinciale non ha potuto
impedirlo, sebbene abbia chiesto a Nuova Delhi di vietare definitivamente gli
OGM. Il risultato è stato catastrofico, come abbiamo raccontato in un secondo
studio.23 E quest’anno rischia di essere anche peggio perché, come vede in
questo campo di cotone Bollgard, le piante sono affette da una malattia chiamata
‘rizottoniosi’, che provoca una necrosi a livello del colletto, cioè tra la radice e il
gambo. Alla fine la pianta secca e muore.» «Gli agricoltori dicono di non avere
mai visto una cosa simile», dice il dottor Abdul Qayum. «Nel nostro primo studio
abbiamo osservato la malattia solo in qualche pianta di cotone Bt. Con il tempo
però si è diffusa e adesso è presente in molti campi, che cominciano a
contaminare anche le coltivazioni non transgèniche. Personalmente, credo vi sia
una cattiva interazione fra la pianta recettrice e il gene introdotto. Questo provoca
un indebolimento della pianta, che non resiste più alla rizottoniosi.» «In
generale», aggiunge Kiran Sakkhari, «il cotone Bt non resiste alla siccità o alle
forti precipitazioni che abbiamo qui.» «Eppure», dico io, «secondo la Monsanto la
vendita di sementi transgèniche in India continua ad aumentare... »24

«È ciò che afferma l’azienda, e in generale è vero, anche se le cifre di cui parla
sono difficili da verificare», mi risponde l’agronomo. «Questa situazione si spiega
soprattutto con il monopolio che ha saputo stabilire in India, dove è diventato
molto difficile trovare sementi di cotone non transgèniche. È piuttosto inquietante
perché, come abbiamo riscontrato nel nostro secondo studio, la promessa che il Bt
avrebbe ridotto il consumo di pesticìdi non è stata mantenuta, anzi.» La resistenza
degli insetti alle piante Bt: una «bomba a orologeria» Kiran Sakkhari mi mostra i
risultati del secondo studio che, lo ricordo, riguarda la stagione 2005 - 2006. Se
durante la stagione 2002 - 2003, cioè nell’anno successivo all’introduzione delle
sementi Bt, il consumo di insetticìda era lievemente inferiore per il cotone
transgènico rispetto al cotone convenzionale, tre anni dopo la «bella promessa» è
definitivamente scomparsa: le spese per i pesticìdi sono state, in media, di 1311
rupìe per acro per i produttori di cotone convenzionale, e di 1351 rupìe per quelli
di cotone OGM. «Questo risultato non ci ha sorpreso, e può solo peggiorare»,
mi spiega il dottor Abdul Qayum, «perché qualunque agronomo o entomologo
serio sa che gli insetti sviluppano una resistenza ai prodotti chimici. Il fatto che le
piante Bt producano di continuo la tossina insetticìda è come una bomba a
orologeria, di cui un giorno si pagherànno le conseguenze, che rischiano di essere
molto gravi dal punto di vista sia economico, sia ambientale.» L’eventualità che i
parassiti del cotone (o del mais) sviluppassero una resistenza alla tossina Bt è
stata sollevata ancora prima che la Monsanto mettesse i suoi OGM sul mercato.
Dalla metà degli anni Novanta la strategia della multinazionale, in accordo con
l’EPA, prevedeva che i produttori di piante Bt si impegnassero contrattualmente a
conservare campi di colture non Bt, chiamati «rifugi», da cui prelevare gli insetti
«normali» e farli incrociare con i cugini ormai resistenti al Bacillus thuringiensis,
provocando così una «diluizione genetica». Effettivamente, gli insetti inondati da
una dose di veleno a priori mortale vengono tutti sterminati, tranne quelli dotati di
un gene che resiste alla sostanza velenosa. I sopravvissuti si accoppiano con i
propri congeneri, trasmettendo così il famoso gene alle prossime generazioni. È la
«coevoluzione», che nel corso della lunga epopea dei viventi ha permesso a
specie minacciate di estinzione di adattarsi per sopravvivere al flagello.

Una volta stabilito questo, rimaneva da determinare la dimensione dei famosi


«rifugi» affinché il tutto funzionasse a dovere. L’argomento è stato oggetto dei
negoziati fra la Monsanto e gli scienziati, poiché l’EPA si è limitata a registrare il
risultato dello scontro. All’inizio alcuni entomologi spingevano perché la
superficie dei rifugi fosse almeno equivalente a quella dei campi transgènici. La
Monsanto, naturalmente, ha protestato, proponendo un primo compromesso, cioè
il 3 per cento della superficie OGM. Nel 1997 un gruppo di ricercatori universitàri
che lavorava nella corn belt statunitense (la cintura del grano che attraversa Iowa,
Illinois, Indiana e Ohio) si è lanciato coraggiosamente nell’arena, raccomandando
che i rifugi fossero equivalenti al 20 per cento dei campi transgènici, e addirittura
il doppio in caso questi ultimi fossero stati trattati con pesticìdi diversi dal Bt.

Per l’azienda di Saint Louis è sempre troppo, come afferma Daniel Charles nel
suo Lords of the Harvest: «La Monsanto ha reagito dicendo: ‘Così non potremo
sopravvivere’, dice Scott McFarland, un avvocato che ha seguito il dossier molto
da vicino. La multinazionale contatta allora l’Associazione nazionale dei
produttori di mais, che ha sede a Saint Louis. Questa riesce a convincere i suoi
rappresentanti che ‘grandi rifugi costituirebbero una minaccia per la libertà degli
agricoltori di usare le sementi Bt’».25 Così fino al settembre 1998, quando le parti
si incontrano a Kansas City per trovare un accordo. Mentre i dibattiti si
susseguono in una lotta all’ultima percentuale, un economista dell’Università del
Minnesota, specializzato in agricoltura, dimostra che, secondo le sue stime, se i
rifugi saranno grandi solo il 10 per cento delle colture transgèniche, le piralidi - il
parassita del mais Bt - avranno il 50 per cento di possibilità di sviluppare una
resistenza a breve termine, e ciò costerà molto caro ai contadini. Loro, punti sul
vivo, cioè il portafoglio, stanno dalla parte degli entomologi.

Ecco perché da allora, un po’ in tutto il mondo, i manuali di colture Bt esigono


che le zone rifugio equivalgano ad almeno il 20 per cento delle superfici OGM.
Eppure, tutto ciò è ancora una volta l’esito dell’improvvisazione, poiché nessuno
studio serio è stato realizzato per verificare che il compromesso strappato in un
angolo del Missouri avesse una validità scientifica. Quando nel 1998 il giornalista
del New York Times Michael Pollan interroga i rappresentanti della Monsanto
sulla questione {vedi Capitolo 11), loro rispondono che «se tutto va bene, la
resistenza può essere respinta in trent’anni».26 Poi, quando il collega insiste con
Jerry Hjelle, vicepresidente dell’azienda incaricato degli affari regolatori, per
sapere che cosa succederà dopo quella fatidica data, «la risposta è ancora più
inquietante»: «Ci sono migliaia di altri Bt sparsi ovunque; potremo trattare questo
problema con altri prodotti. Quelli che ci criticano non sanno che cosa abbiamo
ancora in serbo. [...] Fidatevi di noi!» Dieci anni dopo il lancio delle colture Bt è
possibile tracciare un primo bilancio. Prima di tutto, come sottolineava dal
gennaio 2001 un documento dell’Associated Press, secondo un sondaggio
condotto nel 2000 «il 30 per cento dei produttori [americani] di mais Bt non segue
le raccomandazioni sulla gestione della resistenza»,27 perché le ritengono troppo
rigide. A dire il vero posso capirli, solo che, naturalmente, dovrebbero smettere di
sostenere un sistema tanto assurdo, che prima o poi finirà con il crollare come un
castello di sabbia, come afferma uno studio realizzato nel 2006 da alcuni
ricercatori della Cornell University in collaborazione con l’Accademia cinese
delle scienze.28 Considerato il «primo studio sugli effetti economici a lungo
termine del cotone Bt», è stato condotto su quattrocentottantuno produttori di
OGM in Cina, fra i cinque milioni presenti nel Paese. Lo studio dimostra che i
«profitti sostanziali degli anni in cui si risparmiavano pesticìdi sono ormai finiti».
In effetti, scrivono gli autori, se nei tre anni successivi all’introduzione delle
colture Bt i contadini sono riusciti a «ridurre del 70 per cento l’uso di pesticìdi e
ad aumentare del 36 per cento i guadagni», nel 2004 «hanno dovuto usare la
stessa quantità di insetticìdi dei produttori convenzionali, cosa che si è tradotta in
un reddito netto medio inferiore dell’8 per cento rispetto a quello dei produttori
convenzionali, perché il costo delle sementi transgèniche è tre volte più alto».
Infine, nel giro di sette anni «le popolazioni di insetti [... ] sono aumentate così
tanto che i contadini devono irrorare le colture fino a venti volte nel corso di una
stagione». La conclusione degli autori, sebbene siano sostenitori degli OGM, è
senza appello: «Questi risultati costituiscono un segnale d’allarme molto forte per
i ricercatori e per i governi, che devono trovare soluzioni adatte ai produttori di
cotone Bt, i quali altrimenti saranno costretti a sospendere le coltivazioni
transgèniche».

L’argomentazione fa sorridere Abdul Qayum e il collega Kiran Sakkhari: «In


India, dove la maggior parte dei contadini coltiva in uno o due ettari di terreno, la
strategia delle zone rifugio è ridicola», mi spiegano.

«Questo dimostra come gli OGM, che rappresentano l’ultimo flagello della
rivoluzione verde, siano stati inventati soprattutto per i grandi agricoltori dei Paesi
del Nord.»
16. Come le multinazionali controllano gli alimenti del
mondo

«Grazie al dialogo, la Monsanto ha preso consapevolezza del fatto che


l’agricoltura transgènica solleva questioni morali ed etiche che vanno al di là della
scienza. Tali questioni riguardano la libertà di scelta, la democrazia, la
globalizzazione, chi possiede cosa e chi godrà dei benefìci che ne derivano.»
Monsanto, The Pledge Report 2005, p. 32

Qualcuno che in India conosce bene la rivoluzione verde è sicuramente


Vandana Shiva, che nel 1989 ha scritto un libro sull’argomento.1 In quest’opera,
la femminile e femminista altromondista smonta le malefatte della «rivoluzione»
agricola, lanciata all’indomani della seconda guerra mondiale e più tardi
qualificata come «verde», perché avrebbe dovuto frenare l’espansione della
«rivoluzione rossa» nei Paesi «sottosviluppati», soprattutto in Asia, dove l’ascesa
al potere di Mao Tse Dong in Cina nel 1949 rischiava di creare non pochi emuli.

«L’unico scopo della seconda rivoluzione verde è aumentare i profitti della


Monsanto» «Non dico che la rivoluzione verde non sia partita da buone
intenzioni, come quella di aumentare la produzione alimentare nei Paesi del terzo
mondo», mi spiega Vandana Shiva, «ma gli effetti perversi del modello agricolo
industriale che la sottintendono hanno avuto conseguenze ambientali e sociali
drammatiche, in particolare per i piccoli contadini.» In occasione di questo
secondo incontro, nel dicembre 2004, l’intellettuale e militante indiana mi riceve
nella fattoria di Navdanya (letteralmente, «i nove semi»), un’associazione per la
conservazione della biodiversità e per la tutela dei diritti degli agricoltori da lei
creata nel 1987, e situata nello Stato dell’Uttaranchal, nell’india del Nord, ai
confini con il Tibet e il Nepal. A qualche chilometro da Dehra Dun, ai piedi
dell’Himalaya, dove lei è nata, Vandana ha aperto un centro di formazione
agricola per promuovere la coltivazione delle sementi tradizionali di grano e di
riso che la rivoluzione verde aveva rischiato di far scomparire, a vantaggio di
varietà dette «ad alto rendimento» importate dal Messico.

Il concetto agroindustriale che verrà definito «rivoluzione verde» nel 1968* è


nato, infatti, nel 1943 nella capitale messicana. Quell’anno Henry Wallace,
vicepresidente degli Stati Uniti (e proprietario, come abbiamo visto nel Capitolo
9, di Pioneer Hi-Bred, che ha inventato gli ibridi di mais), propone al suo
omologo messicano di creare una «missione scientifica» per aumentare la
produzione nazionale di grano. Sostenuto anche dalla Fondazione Rockefeller,
sotto l’egida del ministero dell’Agricoltura messicano, questo progetto pilota
viene avviato nella periferia di Città del Messico, dove nel 1965 prenderà il nome
di Centro internazionale di miglioramento del mais e del grano (CIMMYT).

Nell’ottobre 2004 mi sono recata presso questo organismo di ricerca, che


funziona sul modello di un’associazione senza scopo di lucro e oggi impiega un
centinaio di ricercatori internazionali altamente qualificati, oltre a cinquecento
collaboratori provenienti da una quarantina di Paesi. All’ingresso, un immenso
quadro rende omaggio al padre della rivoluzione verde, Norman Borlaug, nato in
una fattoria dell’Iowa nel 1914 e reclutato dalla fondazione Rockefeller nel 1944.
Borlaug ha ottenuto il Nobel per la pace nel 1970, «in onore del suo importante
contributo alla rivoluzione verde»,2 come riporta la commissione del prestigioso
premio.

Per vent’anni questo agronomo, che oggi è un fervido difensore degli OGM,
ha avuto un’unica ossessione: aumentare la produttività del grano, creando varietà
che permettano di decuplicarne il rendimento. Per riuscirci ha avuto l’idea di
incrociare le varietà del CIMMYT con una varietà giapponese nana, la Norin 10.
Aumentare il rendimento significa costringere la pianta a produrre semi più grossi
e in maggiore quantità, con il rischio di rompere il gambo. Da qui l’astuzia di
«accorciare le cannucce», come detta il gergo dei selezionatori, introducendo un
gene di nanismo.*

* L’espressione è stata utilizzata per la prima volta l’8 marzo 1968 da William
Gaud, direttore della USAID, in un discorso pronunciato a Washington.

Così nel giro di un secolo il rendimento del grano passa da dieci quintali
all’ettaro (1910) a una media di ottanta quintali, mentre la dimensione delle
spighe perde quasi un metro di altezza. A questo boom si accompagna però un
altro incremento, denunciato dai detrattori della rivoluzione verde: il maggiore
consumo di prodotti fitosanitari, senza i quali le «sementi miracolose», come sono
state soprannominate dal CIMMYT, non servono a nulla. Infatti, per riuscire a
produrre una quantità tale di semi, la pianta deve essere letteralmente rimpinzata
di concìmi (azoto, fosforo, potassio), trattamento che con il tempo provoca un
indebolimento della fertilità naturale dei terreni. Inoltre, deve essere
abbondantemente innaffiata, cosa che riduce le riserve d’acqua. Del resto,
l’estrema concentrazione vegetale è un paradiso per gli insetti infestanti e i
funghi, da cui l’uso massiccio di insetticìdi e fungicìdi. Infine, l’ossessione del
rendimento ha causato un calo generale della qualità nutrizionale dei semi,
nonché una riduzione della biodiversità del grano, di cui numerose varietà sono
semplicemente scomparse.

Negli anni Sessanta, consapevole delle perdite legate alla promozione delle
varietà ad alto rendimento, il CIMMYT ha aperto una «banca del germoplasma»,
in cui oggi vengono conservate, a circa 3 °C sotto zero, centosessantaseimila
varietà di grano. Per alimentare questo «tesoro» i collaboratori ispezionano le
campagne del mondo in cerca di specie rare, come quelle di grano selvatico
ritrovate sul confine iraniano della Mezzaluna fertile, che i tecnici stavano
etichettando nel periodo in cui visitavo il centro.

Eppure, le varietà nane del CIMMYT hanno fatto il giro del mondo: nei Paesi
del Nord, compresi quelli comunisti, i selezionatori le hanno usate nei programmi
di incroci. Al Sud, con l’ìndia in testa, hanno inviato tecnici a formarsi presso il
centro messicano, soprannominato la «Scuola degli apostoli del grano». Nel 1965
una siccità eccezionale colpisce il raccolto di grano nel subcontinente indiano, e la
carestìa è alle porte. Il governo di Indirà Gandhi decide di acquistare diciottomila
tonnellate di sementi ad alto rendimento importate dal Messico. È il più grande
trasferimento di sementi mai compiuto nella storia. Gli agronomi indiani
propagano la rivoluzione verde nelle regioni del Punjab e dell’Haryana,
considerate il granaio dell’india. Sono sostenuti finanziariamente dalla
Fondazione Ford, che fornisce trattori e macchine agricole.

* Oggi, per accorciare ancora le cannucce, i grandi produttori di cereali non


esitano a versare sulle proprie colture un ormone pudicamente chiamato
«regolatore di crescita vegetale».

Allo stesso tempo le varietà di riso ad alto rendimento vengono introdotte nel
Paese su richiesta dell’International Rice Research Institute (IRRI), creato nel
1960 dalle fondazioni Rockefeller e Ford sul modello del CIMMYT.

«Si dice sempre che grazie alla rivoluzione verde l’india abbia raggiunto
l’autosufficienza alimentare, e che in cinque anni, dal 1965 al 1970, la produzione
di grano sia passata da dodici a venti milioni di tonnellate», mi spiega Vandana
Shiva, che è anche autrice, insieme con altri, di Seeds of Suicide (Semi del
suicìdio).3 «Oggi il Paese è il secondo produttore mondiale di grano, con
settantaquattro milioni di tonnellate, ma a quale prezzo? Terreni stremati, una
preoccupante riduzione delle riserve d’acqua, un inquinamento generalizzato,
un’estensione delle monocolture a scapìto delle colture a uso alimentare e
l’esclusione di decine di migliaia di piccoli contadini, che hanno raggiunto le
bidonville perché non riuscivano a integrarsi in un modello agricolo
estremamente costoso. La prima ondata di suicìdi segna il fallimento della prima
rivoluzione verde. Purtroppo, la seconda rivoluzione verde, quella degli OGM,
sarà ancora più mortifera, anche se in linea con la prima.» «In che cosa sono
diverse?» «La differenza è che la prima rivoluzione verde era diretta dal settore
pubblico: le agenzie governative controllavano la ricerca e lo sviluppo agricolo.
La seconda, invece, è diretta dalla Monsanto. L’altra differenza è che la prima
aveva l’obiettivo di vendere più prodotti chimici e macchine agricole, ma la
motivazione principale era fornire più alimenti e garantire la sicurezza alimentare.
In fin dei conti, anche se questo è andato a scapìto di altre colture, come le
leguminose, sono stati prodotti più riso e più grano per nutrire le persone. La
seconda rivoluzione verde non ha nulla a che vedere con la sicurezza alimentare.
Il suo unico scopo è aumentare i profitti della Monsanto, che è riuscita a imporre
la propria legge un po’ in tutto il mondo.» «Qual è la legge della Monsanto?»
«Quella dei brevetti. L’azienda ha sempre affermato che la manipolazione
genetica è un mezzo per ottenere dei brevetti. Se osserviamo la strategia di ricerca
che applica in India, notiamo come stia testando una ventina di piante in cui ha
introdotto geni Bt: la senape, il gumbo, la melanzana, il riso e il cavolfiore... Una
volta che avrà imposto come norma il diritto di proprietà sui semi geneticamente
modificati, potrà incassarne i diritti; così dipenderemo da tale norma per ogni
seme che seminiamo e ogni campo che coltiviamo. E se controlla le sementi,
controlla anche il cibo. È questo il suo obiettivo. Il cibo è più potente delle
bombe, più delle armi, ed è il mezzo migliore per controllare le popolazioni del
mondo.» «Eppure, in India è vietato brevettare le sementi», ribatto, sconvolta dal
quadro appena descritto da Vandana Shiva.

«Certo. Ma fino a quando? Sono dieci anni che la Monsanto e il governo


americano fanno pressione sul governo indiano perché applichi l’accordo TRIPS
dell’OMC, e temo che l’ìndia finirà con il cedere.» I brevetti sugli organismi
viventi, o «colonizzazione economica» Prima di spiegare che cos’è l’Accordo
sugli aspetti della proprietà intellettuale legati al commercio (TRIPS), vero e
proprio rompicapo dell’OMC fin dalla sua creazione nel gennaio 1995, devo
tornare sulla questione dei brevetti, che è molto importante per il futuro del
Pianeta. A sentire Vandana Shiva si potrebbe pensare che i brevetti delle sementi,
tutto sommato, non ci riguardino granché. Il lettore scettico si disilluda: i brevetti
sugli organismi viventi, e in particolare sulle sementi, sono lo strumento grazie al
quale la Monsanto potrebbe appropriarsi del più lucrativo dei mercati, quello del
nutrimento mondiale. E l’azienda di Saint Louis ha fatto di tutto perché ciò
accadesse.

Se Vandana Shiva si è interessata a questa colossale posta in gioco,


dedicandovi anche più di un libro,4 è «a causa della catastrofe di Bhopal», così
come l’ha chiamata la prima volta in cui ci siamo incontrate, proprio a Bhopal,
alla cerimonia del ventesimo anniversario della tragedia. È accaduto nella notte
tra il 2 e il 3 dicembre 1984, quando a mezzanotte una nube di gas tossico si è
abbattuta sulla città indiana: in poche ore diecimila persone sono morte fra atroci
sofferenze, e ventimila sono decedute nelle settimane successive. Il gas mortale
proveniva da uno stabilimento della multinazionale americana Union Carbide,
una concorrente della Monsanto che produceva pesticìdi chimici.

«È stata la tragedia di Bhopal a convincermi che bisognava promuovere


l’agricoltura biologica, e quindi il neem come alternativa ai pesticìdi mortali delle
multinazionali», ricorda Vandana Shiva. Il neem, come abbiamo visto, è stato
oggetto di un brevetto concesso dall’Ufficio europeo dei brevetti all’azienda
chimica W.R. Grace nel settembre 1994. Da allora questi attestati sugli organismi
viventi sono divenuti il cavallo di battaglia di Vandana: con il sostegno di
Greenpeace, infatti, dieci anni dopo è riuscita a far annullare il brevetto sul neem,
ma anche un altro, questa volta americano, su una varietà di riso basmati * Da
allora Vandana Vandana lotta contro un brevetto americano ed europeo, detenuto
dalla Monsanto, su una varietà di grano famosa per la produzione di chapati e
biscotti a basso contenuto di glutine.6 Secondo i termini del brevetto, l’azienda di
Saint Louis possiede il monopolio sulla coltivazione, l’incrocio e la
trasformazione di questa varietà proveniente dal Nord dell’india.

* Questo brevetto era stato ottenuto dalla texana RiceTec (n. 5663454).

«I brevetti sugli organismi viventi rientrano nella continuità della prima


colonizzazione», commenta la fisica indiana. «La stessa parola ‘patent, ‘brevetto’
in inglese, spagnolo e tedesco, viene dall’epoca della conquista. Era tramite una
‘lettera patente’, cioè un documento ufficiale e pubblico - in latino patens
significa ‘aperto’ o ‘evidente’ - con il sigillo dei sovrani d’Europa, che veniva
concesso ad avventurieri o pirati il diritto esclusivo di conquistare terre straniere.
Quando l’Europa colonizzava il mondo, i patent servivano per una conquista
territoriale, mentre oggi i brevetti riguardano una conquista economica, che si
compie attraverso l’appropriazione degli organismi viventi da parte dei nuovi
sovrani, cioè le multinazionali come la Monsanto. Il principio è sempre lo stesso,
perché i brevetti di ieri e di oggi si basano su una negazione della vita esistente
prima dell’arrivo dell’uomo bianco. Quando gli europei hanno colonizzato
l’America, le terre del ‘nuovo mondo’ sono state dichiarate terra nullius, cioè
‘vuote’, sottinteso Vuote di uomini bianchi’. Allo stesso modo i brevetti sugli
organismi viventi e la biopirateria si basano su un’affermazione di ‘vita vuota’,
perché finché gli organismi viventi non vengono smembrati dai propri geni in un
laboratorio, non hanno valore.

È una negazione del lavoro e del knovv-hovv di milioni di persone che hanno
sostenuto la biodiversità della vita da millenni, e che quindi vivono di questo.»
«Quali sono le conseguenze dei brevetti sugli organismi viventi per le popolazioni
del Sud?» chiedo, affascinata dalla sua chiarezza di idee.

«Sono enormi!» mi risponde. «Perché i brevetti hanno la stessa funzione del


movimento delle enclosures nell’Inghilterra del XVI secolo. Nato all’inizio della
rivoluzione industriale, questo movimento consisteva nel privatizzare,
circondandoli di steccati, alcuni spazi comunali un tempo destinati all’uso
collettivo, dove gli abitanti più poveri del villaggio potevano, per esempio, far
pascolare gli animali. Allo stesso modo, il brevetto rinchiude gli organismi
viventi, come le piante che servono a nutrire o a curare l’uomo, e contribuisce
all’esclusione dei più poveri, privi di mezzi per vivere o sopravvivere. Infatti,
come succede con le sementi o con i farmaci, quando viene rilasciato un brevetto
arrivano le royalty e un aumento dei prezzi. Ecco perché gli alimenti, i prodotti
per la cura delle coltivazioni e i farmaci sono esclusi dalla legge indiana sui
brevetti, in modo da rimanere accessibili per tutti. L’estensione del sistema
occidentale dei brevetti, così come è descritta dall’OMC e, prima di lei,
dall’ultimo ciclo del GATT, infanga i diritti economici dei più poveri.» La
Monsanto e le multinazionali dietro l’accordo TRIPS dell’OMC

Il GATT è stato voluto nel 1947 dalle grandi potenze capitaliste dell’epoca,
allo scopo di regolare i diritti doganali sul commercio internazionale. Nel 1986 si
apre la conferenza ministeriale di Punta del Este, inaugurando quello che passerà
alla storia come l’«Uruguay Round», poiché segna una svolta decisiva nella storia
del GATT, decretandone la morte.

Infatti, in occasione di questo ottavo e ultimo ciclo di negoziati commerciali


intergovernativi, che durerà fino al 1994, il governo americano ottiene che vi
siano integrati quattro settori che prima rientravano esclusivamente nelle politiche
nazionali: l’agricoltura, gli investimenti, i servizi (telecomunicazioni, trasporti
eccetera) e i diritti di proprietà intellettuale. Riguardo a questi ultimi, che ci
interessano in modo particolare, il rappresentante del commercio di Washington
ne ha giustificato l’inclusione poiché «circa duecento aziende transnazionali
americane venivano private di ventiquattro miliardi di dollari di diritti d’autore
ogni anno, a causa della debolezza o della mancanza di protezione della proprietà
intellettuale in alcuni Paesi, soprattutto nel Sud del mondo», come afferma uno
studio dell’Università del Québec.6

L’integrazione di questi nuovi settori fra le competenze del GATT, che in


origine era una semplice unione doganiera, ha dato luogo a negoziati molto duri,
perché sono state sollevate «questioni che vanno oltre il commercio», toccando
alcuni «diritti fondamentali» come quello «al lavoro, alla salute, al cibo e
all’autodeterminazione»,7 sottolinea Vandana Shiva. Nel dicembre 1999 Arthur
Dunkel, direttore generale del GATT, propone un progetto finale, ma sarà solo
nell’aprile 1994 che l’accordo definitivo verrà firmato dai centoventitré Paesi
membri a Marrakech, ratificando così la nascita dell’OMC, che succederà
ufficialmente al GATT il 1° gennaio 1995.

L’atto fondante dell’OMC, con sede a Ginevra, comprende ventinove accordi


settoriali che permettono di sottoporre alle leggi del mercato ogni bene o servizio,
e quindi di trasferire a imprese private, su cui i governi e i cittadini non hanno
alcun mezzo di controllo, settori che rientravano per tradizione nelle politiche
pubbliche. Il legàme di questi settori con il commercio è così poco evidente che i
redattori degli accordi hanno sviato il problema aggiungendo l’espressione trade-
related («legati al commercio»).

È soprattutto il caso del famoso accordo TRIPS, di cui si verrà a sapere che «è
stato in gran parte concepito da una coalizione di aziende riunite sotto il nome di
Intellectual Property Committee (IPC), e che comprende i «principali operatori
del campo delle biotecnologie», come sottolineano gli universitàri canadesi.8
L’IPC, creato nel marzo 1986 negli Stati Uniti, riunisce tredici multinazionali
appartenenti principalmente ai settori chimico, farmaceutico e informatico:
Bristol-Myers, DuPont, FMC Corporation, General Electric, General Motors,
Hevvlett-Packard, IBM, Johnson and Johnson, Merck, Pfizer, Rockvvell
International, Warner Communications e naturalmente la Monsanto.

Fin dalla sua creazione, il comitato contatta la Union of Industrial and


Employers’ Confederations of Europe (UNICE), portavoce ufficiale del mondo
degli affari europei, e il Nippon Keidanren, patronato delle aziende del Giappone,
per redigere un documento comune consegnato al GATT nel giugno 1988.
Intitolato «Disposizioni fondamentali della protezione dei diritti di proprietà
intellettuale per il GATT. Punto di vista delle comunità di aziende europee,
giapponesi e americane»,9 questo testo, che farà da base all’accordo TRIPS, mira
a diffondere al resto del mondo il sistema dei brevetti già esistente nei Paesi
industrializzati, che solo da parte loro, tramite gli uffici di Washington, Monaco e
Tokyo, registrano il 97 per cento dei brevetti depositati dalle aziende (provenienti
nella stragrande maggioranza dal Nord del mondo). «La disparità dei sistemi di
protezione della proprietà intellettuale comporta perdite enormi in termini di
risorse in fase di acquisizione e difesa dei diritti», affermano gli autori. «I
detentori constatano che l’esercizio del loro diritto sia ostacolato da leggi e regole
tali da limitare l’accesso al mercato e il rimpatrio dei profitti.» Segue poi un
piccolo paragrafo, attribuito da alcuni alla Monsanto: «La biotecnologia o l’uso
dei microrganismi nella produzione costituisce un settore in cui la tutela dei
brevetti vede un grosso ritardo sui rapidi progressi della medicina,
dell’agricoltura, della lotta all’inquinamento e dell’industria. [...] Questa tutela
deve applicarsi ai processi delle biotecnologie come ai loro prodotti, che si tratti
di microrganismi, di parti di microrganismi (plasmidi e altri vettori) o di piante».

L’azienda di Saint Louis, lungi dal negare quello che effettivamente è un


«hold-up sul GATT», l’ha rivendicato pienamente nel giugno 1990, in
un’intervista che da allora ha fatto scorrere fiumi di inchiostro e in cui si scopre
che l’IPC era stato creato proprio per condurre l’offensiva contro l’unione
doganiera: «Il primo compito dell’IPC è stato quello di predicare la buona novella
non più negli Stati Uniti, come all’inizio, ma in Europa e in Giappone», racconta
James Enyart, direttore degli affari internazionali della Monsanto. «Abbiamo
dovuto convincere tutti che si sarebbe ottenuto un codice. Non è stato facile, ma
la nostra ‘trilaterale’ ha finito con l’individuare i principi essenziali della tutela
della proprietà intellettuale sotto ogni forma, a partire dalla legislazione dei Paesi
più avanzati.

Dopo avere venduto questi concetti da noi, siamo andati a Ginevra per
presentare il documento alla segreteria del GATT. L’industria considera il
commercio internazionale un problema molto grave. Immagina una soluzione, ne
trae una proposta concreta e la vende ai vari governi. Le industrie e gli operatori
del commercio mondiale assumono a turno il ruolo del paziente, del medico che
emette la diagnosi e del promotore.»10

Nonostante questa lobbying collettiva condotta con mano esperta, nei molti
settori coperti dall’accordo TRIPS (diritti d’autore, marchi di fabbrica, appellativi
d’origine, disegni e modelli industriali, informazioni non divulgate, compresi i
segreti commerciali), è proprio la Monsanto a inceppare, dal 1995, l’implacabile
macchina dell’OMC. Per la precisione, con l’articolo 27.3(b), relativo agli
«oggetti brevettabili». Che cosa dice questa clausola controversa? Ecco il testo
ufficiale: «I membri potranno escludere dalla brevettabilità i vegetali e gli animali
diversi dai microrganismi, i processi essenzialmente biologici per l’ottenimento di
vegetali o animali diversi dai processi non biologici e microbiologici. Tuttavia, i
membri provvederanno alla protezione delle varietà vegetali mediante brevetti,
con un sistema sui generis efficace o mediante una combinazione dei due mezzi.
Le disposizioni del presente paragrafo saranno riesaminate quattro anni dopo la
data di entrata in vigore dell’accordo».

Questo articolo è così astruso da avere provocato, in parte, la paralisi della


terza conferenza ministeriale dell’OMC, organizzata a Seattle nel dicembre 1999.
Dopo averlo letto e riletto, si capisce che possono essere esclusi dal sistema dei
brevetti gli animali e i vegetali, a eccezione dei microrganismi. Del resto, però, si
stipula che «le varietà vegetali [che sono dei vegetali] devono poter essere
protette da brevetti o da un sistema appositamente creato». Questa precisazione
mira in realtà alle sementi transgèniche: ormai potranno, sanzioni alla mano,
essere «protette» (i produttori potranno cioè prenderne i diritti) secondo il sistema
messo in atto dall’UPOV. Poiché la «protezione» delle sementi comporta anche
quella degli alimenti, ne consegue che i numerosi Paesi del Sud, Africa, India e
Brasile in testa, pretendono la revisione dell’articolo 27.3(b). Si preoccupano
anche delle conseguenze dei brevetti sui «microrganismi», cosa che può solo
incoraggiare la biopirateria, cioè il furto delle risorse genetiche e delle conoscenze
tradizionali a loro legate (vedi Capitolo 10), a scapìto delle comunità rurali e
indigene che le hanno conservate per millenni.

L’OMC, un «vero e proprio incubo» Il 13 gennaio 2005, a Ginevra, incontro


Adrian Otten, direttore del dipartimento della proprietà intellettuale dell’OMC.
Gli pongo subito la domanda principale, che lo mette in difficoltà: «Qual è lo
scopo dell’accordo TRIPS?» Balbettando un po’, ma non senza una certa
schiettezza, Otten mi risponde: «Beh, suppongo che uno degli obiettivi
fondamentali sia... stabilire regole internazionali perché i governi membri
dell’OMC possano proteggere i diritti di proprietà intellettuale di... certi Paesi
membri dell’OMC, così come dei... loro cittadini e delle loro aziende».

«Qual è l’articolo che pone problemi?» insisto, per vedere se avevo capìto
bene il linguaggio astruso dell’OMC.

«Beh...» mi risponde Otten, «è l’articolo 27.3(b), che regola una clausola


nell’accordo TRIPS secondo cui le invenzioni legate alle piante e agli animali
devono poter essere brevettate...» Detto così, è chiaro come il sole...

«Lo scopo dell’accordo TRIPS è che un brevetto ottenuto negli Stati Uniti, per
esempio dalla Monsanto, sia applicabile automaticamente ovunque nel mondo»,
mi aveva spiegato Devinder Sharma un mese prima a Nuova Delhi. Questo
giornalista indiano, dirigente del Forum per la sicurezza della biotecnologia e
dell’alimentazione, è uno strenuo oppositore dell’OMC: «L’evoluzione
internazionale del sistema dei brevetti segue esattamente quella dell’Ufficio
americano dei brevetti. Con l’accordo TRIPS tutti i Paesi dovranno seguire il
modello degli Stati Uniti, pena sanzioni commerciali pesanti, perché l’OMC
dispone di un potere di coercizione e di rappresaglia esorbitante. Ciò significa che
se un Paese non fa rispettare i diritti di proprietà intellettuale della Monsanto, per
esempio su una semente brevettata, la multinazionale si rivolgerà al governo
americano, che farà causa presso l’organo di regolamentazione dell’OMC.
D’altronde, l’accordo TRIPS è stato concepito dalle multinazionali per
impadronirsi delle risorse genetiche del Pianeta, soprattutto dei Paesi del terzo
mondo che detengono la maggiore biodiversità. L’India è particolarmente colpita,
perché è uno dei Paesi detti mega-diverse [ad alta biodiversità], in cui si contano
quarantacinquemila specie di piante e ottantunomila specie animali. Ecco perché
siamo in molti a dire che il settore degli organismi viventi non riguarda l’OMC,
ma dipende dalla convenzione sulla biodiversità firmata nel 1992 a Rio de Janeiro
sotto l’auspicio dell’ONU. Questo trattato, firmato da duecento Paesi, dichiara
che le risorse genetiche sono proprietà esclusiva degli Stati, che devono
impegnarsi a preservarle e a organizzare una suddivisione equa dello sfruttamento
delle competenze tradizionali a loro legate».

«Si può conciliare l’accordo TRIPS con la convenzione sulla biodiversità?»


«Assolutamente no, perché i due testi sono contraddìttori. Ed è proprio per questo
che gli Stati Uniti non hanno firmato la convenzione. Il problema è che l’accordo
TRIPS si situa al di sopra della convenzione, perché dipende dall’OMC, che
obbedisce agli ordini delle multinazionali come la Monsanto, le quali, sotto la
copertura della globalizzazione degli scambi, dirigono il mondo», mi aveva detto
Devinder Sharma.

Per chiunque ritenga che queste parole siano eccessive, citerò un rapporto
dell’ONU pubblicato nel giugno 2000 dalla sottocommissione per la promozione
e la protezione dei diritti dell’uomo: «La maggior parte del commercio mondiale
è controllato da potenti aziende transnazionali. In un contesto simile, la nozione di
libero scambio sottostante alle regole [dell’OMC] è un inganno. [...] Il risultato è
che per certi gruppi dell’umanità, in particolare i Paesi in via di sviluppo del Sud
del mondo, l’OMC rappresenta un vero e proprio incubo».11
Conclusioni

Un colosso con i piedi d’argilla «La gente di quest’azienda è veleno allo stato
puro: si prendono le vite, come fa il dio della morte.» Una contadina di Pastapur,
nell’Andhra Pradesh La scena che sto per descrivere si svolge nel luglio 2006
presso la sede della Teachers Insurance and Annuity Association, College
Retirement Equities Fund (TIAA-CREF) di New York, nei bei quartieri di
Manhattan.

Creato novant’anni prima, questo prestigioso fondo pensionistico rappresenta


una delle più importanti istituzioni finanziarie degli Stati Uniti, con un attivo di
quattrocentotrentasette miliardi di dollari. Classificato all’ottantesimo posto
nell’elenco delle cinquecento imprese più potenti d’America dalla rivista Fortune,
TIAA-CREF che fornisce, come si legge accanto a ogni riproduzione del suo
logo, «servizi finanziari per il bene di tutti».

Possono accedere ai fondi pensionistici solo coloro che servono «l’interesse


generale», che lavorano nell’istruzione, nella ricerca, nella medicina, nella cultura
o nelle associazioni, per un totale di 3,2 milioni di membri. Dal 1990 TIAA-
CREF ha aperto un dipartimento specializzato in «investimenti responsabili», a
cui aderiscono quattrocentotrentamila clienti.

Personalmente, ho chiesto di incontrare un rappresentante di questa istituzione


perché ho scoperto che faceva parte dei primi venti azionisti della Monsanto, di
cui allora deteneva l’1,5 per cento delle azioni, cosa che mi ha parecchio
incuriosita.

«La reputazione è un fattore di rischio per le imprese...» Quel giorno mi ritrovo


di fronte a John Wilcox, responsabile della «pratica di governance dell’azienda»,
e ad Amy O’Brien, direttrice del dipartimento per l’investimento responsabile.

«Considerata la particolarità della vostra clientela, esistono aziende in cui


rifiutate di investire il vostro denaro?» domando loro, un po’ tesa, dato che oltre ai
miei due interlocutori, dietro di me c’è il responsabile delle pubbliche relazioni
che prende appunti.

«Certo», risponde Amy O’Brien, «i nostri investitori non vogliono, per


esempio, che investiamo il loro denaro nei produttori del tabacco, per ciò che
comportano nella società; e in generale sono sensibili al comportamento delle
aziende in campo sociale e ambientale.» «Ciò significa che tenete conto della
reputazione dell’azienda?» «Certo», risponde senza esitare John Wilcox. «La
reputazione è sempre più considerata un fattore di rischio. Fino a poco tempo fa
questi aspetti non finanziari della performance di un’azienda, come la reputazione
o le pratiche ambientali, non interessavano agli analisti di Wall Street,
probabilmente perché difficili da misurare e perché riguardano il lungo periodo.
Ma le cose stanno cambiando. Sempre più cittadini vogliono investire i propri
risparmi in aziende che condividono i loro stessi valori.» «Ho letto che TIAA-
CREF deteneva l’1,5 per cento delle azioni della Monsanto...»*

«È possibile», afferma John Wilcox, «non saprèi con precisione... » «La


reputazione di questa azienda è molto controversa, come spiega questo
investimento?» «Non credevo che la proponessimo nei nostri portafogli di azioni
per l’investimento responsabile», esita Amy O’Brien, visibilmente colpita.

* Secondo la SEC, nel giugno 2006 i principali azionisti della Monsanto


erano Fidelity Investment (9,1 per cento), Axa (6,1 per cento), Deutsche Bank
(3,6 per cento), Primecap Management (3,6 per cento), State Street Corp (3 per
cento), Barclays (3 per cento), Morgan Stanley (2,9 per cento), Goldman Sachs
Group (2,7 per cénto), Vanguard Group Ine. (2,5 per cento), Lord Abbett & Co
(2,4 per cento), American Century Investment Management Inc. (2,4 per cento) e
General Electric (2,3 per cento).

«Non ne sono certa, ma credo che l’immagine di questa azienda sia


danneggiata soprattutto in Europa, a causa degli organismi geneticamente
modificati, non negli Stati Uniti... » «Ma l’agente arancio, i PCB, l’ormone della
crescita bovina, non sono forse questioni americane? Avete informato i vostri
clienti dei processi che ha dovuto affrontare la Monsanto negli ultimi anni? »
«No», risponde John Wilcox. «Esaminerò i fattori di rischio della Monsanto e
chiederò il parere dei gestori dei nostri portafogli di azioni.» Un’azienda a
«rischio» per gli investitori Ancora Manhattan, a poca distanza dalla sede di
TIAA-CREF. Questa volta incontro Marc Brammer, che lavora per Innovest
Strategie Value Advisor, leader di quella che si chiama «analisi extrafinanziaria»,
che consiste nell’annotare le performance sociali e ambientali delle aziende,
secondo una classificazione da AAA (le aziende migliori) a CCC (le peggiori).
Queste annotazioni servono a consigliare gli investitori, perché possano ridurre i
rischi finanziari e aumentare il rendimento dei loro investimenti. Innovest, con
sedi a New York, Londra, Tokyo e, da poco, anche a Parigi, ha una missione, cioè
sviluppare la clientela dei portafogli incentrati sullo sviluppo sostenibile. Nel
gennaio 2005 Marc Brammer pubblica un rapporto intitolato «La Monsanto e
l’ingegneria genetica: rischi per gli investitori»,1 in cui compìla un bilancio
dell’attività dell’azienda di Saint Louis e ne descrive la «gestione e la strategia»
nel campo delle biotecnologie.

Risultato: CCC. «È la peggiore valutazione ambientale», mi spiega l’analista


finanziario. «Abbiamo constatato che in quasi tutti i settori industriali le
compagnie con stime ambientali superiori alla media danno, sul mercato dei
valori, risultati migliori di quelle con stime inferiori, da trecento a tremila punti
all’anno. Ciò significa che l’azienda di Saint Louis rappresenta un investimento a
rischio per gli azionisti a medio e a lungo termine.» «Chi sono gli azionisti della
Monsanto?» «Sono di vario tipo, ma i principali investitori sono i fondi
pensionistici e le banche, che rappresentano decine di migliaia di piccoli
risparmiatori.» «Come spiegate il fatto che un fondo come TIAA-CREF abbia
investito nella Monsanto?» «È sorprendente», mi risponde Marc Brammer,
«perché è un’istituzione che incoraggia davvero l’investimento responsabile.
D’altra parte, è abbastanza caratteristico del funzionamento dei fondi
pensionistici, che calcolano a brevissimo termine e sono molto sensibili alle
variazioni della Borsa. Nel caso della Monsanto è chiaro che viene
sopravvalutata, grazie a un sostegno incondizionato di Wall Street.» «Quali sono i
principali fattori di rischio per gli investitori?» «Il primo fra tutti è il rifiuto dei
mercati, che per la Monsanto costituisce una vera e propria bomba a orologeria.
Gli OGM sono tra i prodotti più rifiutati del mondo. Più di trentacinque Paesi
hanno adottato o annunciato legislazioni che limitano le importazioni di OGM o
esigono l’etichettatura degli alimenti con ingredienti transgènici. La maggior
parte dei distributori alimentari europei ha stabilito delle misure per garantire che
nei loro prodotti non vi siano OGM. È il caso di Nestlé, Unilever, Heinz, ASDA
(Wal-Mart), Carrefour, Teseo e molti altri. Anche fuori dall’Europa esiste una
forte opposizione dei consumatori agli OGM, come in Asia o in Africa. Persino
negli Stati Uniti la Monsanto ha dovuto ritirare le patate Bt dal mercato, dopo che
aziende come McDonald’s, Buger King, McCain e Pringles hanno rifiutato di
acquistarne. Sono certa che se la FDA decidesse di etichettare gli OGM, la
Monsanto perderebbe il 25 per cento del suo mercato. Una ventina di sondaggi,
realizzati fra il 2000 e il 2004, indicano chiaramente che più dell’80 per cento
degli americani vuole l’etichetta sui prodotti transgènici.* Una delle conseguenze
della non etichettatura degli OGM negli Stati Uniti, infatti, è la crescita
esponenziale del mercato dei prodotti biologici.»
* I sondaggi citati nel rapporto di Innovest sono: ABC News (93 per cento),
Rutgers University (90 per cento), Harris Poli (86 per cento), USA Today (79 per
cento), MSNBC

(81 per cento), Gallup Poli (68 per cento), Grocery Manufacturers of America
(92 per cento), Time Magazine (81 per cento), Novartis (93 per cento),
Oxygen/Market-Pulse (85 per cento).

La Monsanto è consapevole del pericolo che rappresenta l’etichettatura per il


suo giro d’affari transgènico. Quando nel 2002 un’iniziativa cittadina ha ottenuto
dallo Stato dell’Oregon un referendum sull’etichettatura degli OGM, l’azienda
non ha esitato a indire una campagna, chiamata «Coalizione contro la legge
sull’etichettatura costosa», con il sostegno degli «alleati delle biotecnologie e
dell’industria alimentare», per cui ha speso la modesta cifra di sei milioni di
dollari. «La sensazione generale», ribatteva allora Shannon Troughton, portavoce
della Monsanto, «è che se questa misura passerà, creerà un nuovo pacchetto di
regole burocratiche, fornendo un’informazione senza importanza a spese dei
consumatori.»2 Alla fine l’iniziativa, che costituiva un primo caso negli Stati
Uniti, è stata respinta dal 73 per cento dei votanti, perché l’etichettatura sarebbe
costata troppo...

«L’altro fattore di rischio che intacca la reputazione della Monsanto sono le


falle del sistema di regolamentazione, che illustrano perfettamente il disastro dello
StarLink», continua Marc Brammer. «Abbiamo calcolato che se si trovasse in una
situazione simile, l’azienda perderebbe 3,83 dollari per azione. Il problema
fondamentale con gli OGM è che solo la Monsanto ne trae beneficio: i rischi li
corrono gli altri, visto che le agenzie di regolamentazione hanno abdicato dal loro
ruolo di valutazione e di controllo. Negli Stati Uniti l’opacità del processo
regolatorio alimenta il rifiuto dei consumatori, che non hanno il diritto di scegliere
che cosa mangiare; ma anche in Europa, come dimostra il caso del mais MON

863.» «Le falle del sistema di regolamentazione»: l’esempio del mais MON
863

Mentre il governo francese annuncia, nel gennaio 2008, che attiverà delle
«clausole di tutela» per il mais MON 810, sospendendo la coltivazione di questo
mais Bt della Monsanto finché l’Unione europea non ne avrà riesaminato
l’autorizzazione, vorrei ricordare la storia del MON 863, un cugino del MON
810: il MON 863 contiene una tossina (Cry3Bbl) che avrebbe dovuto proteggerlo
dalla crisomelide delle radici del mais,* mentre il MON 810 è stato manipolato
(CrylAb) per resistere agli attacchi della piralide.

Il caso del MON 863 illustra perfettamente il modo a dire poco preoccupante
in cui sono regolamentati gli OGM in Europa.

Tutto comincia nell’agosto 2002, quando l’azienda di Saint Louis inoltra una
richiesta di commercializzazione presso le autorità tedesche, a cui consegna un
dossier tecnico che comprende uno studio tossicologico condotto per novanta
giorni su dei topi. In conformità con la regolamentazione europea (vedi Capitolo
9), le autorità esaminano i dati forniti dalla Monsanto, poi trasmettono un parere
negativo alla Commissione di Bruxelles, perché l’OGM contiene un indicatore di
resistenza a un antibiotico che infrange la direttiva 2001/18, che ne sconsiglia
fortemente l’utilizzo. La Commissione è allora tenuta a distribuire il dossier agli
Stati membri, per raccogliere pareri che saranno poi esaminati dalla European
Food Safety Authority (EFSA), il comitato scientifico europeo incaricato di
valutare la sicurezza alimentare degli OGM.

In Francia è la Commissione dell’ingegneria biomolecolare (CGB) a


recuperare il dossier, nel giugno 2003. Cinque mesi dopo, il 28 ottobre 2003, la
CGB emette a sua volta un parere sfavorevole, non a causa dell’indicatore
antibiotico, ma perché, come spiegherà Hervé Kempf a Le Monde, «sconvolta
dalle malformazioni osservate su un campione di topi nutriti con mais MON
863».3 «La cosa che mi ha colpito di questo dossier è il numero di anomalie»,
spiega Gérard Pascal, direttore della ricerca all’INRA e membro della CGB fin
dalla sua creazione nel 1986. «Ci sono troppi elementi in cui si osservano
variazioni significative. Non ho mai visto una cosa simile in un dossier.»4

* Secondo Greenpeace, questo insetto è parecchio nocivo ed è stato


introdotto in Europa durante la guerra dei Balcani: sarebbe giunto a bordo degli
aerei dell’esercito americano.

Le «variazioni» includono un «aumento significativo dei globuli bianchi e dei


linfociti nei maschi del campione nutrito con MON 863, una riduzione dei
reticolociti (globuli rossi giovani) nelle femmine, un aumento significativo della
glicemìa nelle femmine e una frequenza più elevata di anomalie (infiammazione,
rigenerazione) nei reni dei maschi»,5 oltre a una riduzione di peso delle cavie.
Come sottolinea il mio collega di Le Monde, «nessuno ne avrebbe saputo niente»
se l’avvocato Corinne Lepage, ex ministro dell’Ambiente di Alain Juppé e
presidente del CRIlGEN, «non avesse forzato l’ingresso della CGB» per ottenere,
dopo una battaglia giudiziaria di un anno e «grazie alla Commissione di accesso
ai documenti amministrativi [CADA]», i verbali dei dibattiti che hanno portato al
giudizio negativo della CGB, «cosa eccezionale in una commissione che è sempre
stata favorevole agli OGM». Infatti, le delibere dei comitati scientifici dei Paesi
dell’Unione europea, come del resto quelli dell’EFSA, sono confidenziali, cosa
che dà un’idea della trasparenza del processo di valutazione degli OGM...

Eppure, il caso torna alla carica il 19 aprile 2004, quando l’EFSA, per
l’appunto, emette un parere favorevole alla commercializzazione del MON 863.
Secondo l’EFSA, le anomalie osservate dalla CGB «rientrano nella variazione
normale delle popolazioni di controllo»; quanto alle malformazioni renali, sono
«di un’importanza minimale».6

Come possono due comitati scientifici emettere pareri tanto diversi su uno
stesso dossier? La risposta a questa domanda è data dalla sezione europea di
Friends of the Earth, che nel novembre 2004 pubblica un rapporto molto
dettagliato (e inquietante) sul funzionamento dell’EFSA.7

Creato nel 2002 nel quadro della direttiva europea 178/2002 sulla sicurezza dei
prodotti alimentari, questo istituto conta otto comitati scientifici, uno dei quali è
incaricato esclusivamente della valutazione degli OGM. È proprio quest’ultimo,
che chiameremo «comitato OGM», l’oggetto del rapporto.

Prima constatazione di Friends of the Earth: «Dopo un anno di attività il


comitato ha emesso dieci pareri scientifici, tutti favorevoli all’industria delle
biotecnologie. Tali pareri sono stati utilizzati dalla Commissione europea, che
subisce una pressione crescente da parte degli industriali e degli Stati Uniti,
affinché introduca i nuovi prodotti transgenici sul mercato. Sono anche serviti a
creare la falsa impressione che ci fosse un consenso scientifico, mentre in realtà
esiste [all’interno del comitato] un dibattito acceso, continuo e assai incerto.
Inquietudini sull’uso politico del loro parere sono state espresse dagli stessi
membri dell’EFSA».

Secondo il rapporto, questa situazione sarebbe dovuta agli stretti legàmi fra
«certi membri» del comitato OGM e i giganti delle biotecnologie, primo fra tutti
il presidente, il professor Harry Kuiper. Lui è in effetti coordinatore di
Entransfood, un progetto sostenuto dall’Unione europea per «favorire
l’introduzione degli OGM sul mercato europeo e rendere competitiva l’industria
europea»; a questo titolo, fa parte di un gruppo di lavoro che comprende la
Monsanto e la Syngenta. Allo stesso modo Mike Gasson lavora per Danisco,
partner della Monsanto; Pere Puigdomenech è il copresidente del settimo
Congresso internazionale sulla biologia molecolare vegetale, sponsorizzato da
Monsanto, Bayer e DuPont; Hans-Yorg Buhk e Detlef Bartsch sono «noti per il
loro impegno a favore degli OGM, al punto da apparire in video promozionali
finanziati dall’industria delle biotecnologie»; fra i (rari) esperti esterni interrogati
dal comitato, c’è soprattutto il dottor Richard Phipps, che ha firmato una petizione
a favore delle biotecnologie per AgBioWorld8 (vedi Capitolo 12) e compare sul
sito della Monsanto per sostenere l’ormone della crescita bovina.9

Friends of the Earth esamina allora più casi, fra cui quello del MON

863. Pare che i dubbi espressi dal governo tedesco riguardo all’indicatore di
resistenza a un antibiotico siano stati scacciati in un lampo dal comitato OGM,
che ha fatto leva su un parere pubblicato il 19 aprile 2004 in un comunicato
stampa: «Il comitato conferma che gli indicatori di resistenza agli antibiotici sono,
nella maggior parte dei casi, necessari per permettere una selezione efficace degli
OGM», dichiarava il presidente Harry Kuiper. Commento di Friends of the Earth:
«La direttiva europea non chiede di confermare se gli indicatori di resistenza agli
antibiotici siano uno strumento efficace per l’industria biotecnologica, ma se
possano avere effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute umana».

La fine della storia è del tutto esemplare: dopo la pubblicazione del parere
positivo dell’EFSA, Greenpeace chiede al ministero dell’Agricoltura tedesco di
rendere pubblico il dossier tecnico fornito dalla Monsanto (1139 pagine), perché
sia sottoposto a una controperizia. Risposta del ministero: impossibile, la
Monsanto rifiuta che i dati siano comunicati, perché coperti da «segreto
commerciale». Dopo una battaglia giudiziaria di parecchi mesi, l’azienda di Saint
Louis sarà finalmente costretta a renderli pubblici con una decisione della corte
d’appello di Monaco il 9 giugno 2005.

«Eppure è incredibile che, trattandosi di verificare la sicurezza di una pianta


pesticìda destinata a integrare la catena alimentare, la Monsanto invochi il
‘segreto commerciale’, per poi intentare due azioni legali allo scopo di impedire
l’accesso ai dati bruti dello studio», denuncia il professor Gilles-Éric Séralini, che
ha seguito da vicino il caso. Lo scienziato dell’Università di Caen ha realizzato,
su richiesta di Greenpeace e del dottor Arpad Pusztai, il «dissidente» del Rovvett
Institute, una valutazione del dossier tossicologico strappato all’azienda di Saint
Louis, confermando le «anomalie» constatate dal CRIlGEN.10 Poi, sempre nel
quadro del CRIlGEN, ha condotto una controperizia sui dati bruti dello studio
applicando una metodologia statistica più sottile, e tenendo conto soprattutto degli
organi interessati, delle dosi e del tempo di esposizione agli OGM. Quest’ultima
ha rivelato che gli effetti del mais MON 863 sui topi erano ben più gravi di quelli
constatati inizialmente, «cosa che indica la necessità di proseguire con i test».11

«In realtà», commenta il professor Séralini, «la storia del mais MON

863 sottolinea l’insufficienza del processo di omologazione degli OGM, che


dovrebbero essere valutati allo stesso modo di qualunque altro pesticìda o
farmaco, cioè su tre specie mammifere per due anni, in modo da riuscire a
misurarne la tossicità a lungo termine, e non solo gli eventuali effetti tossici
acuti.» Nel frattempo, di fronte a quelle rivelazioni ingombranti, la Commissione
europea ha messo discretamente il mais MON

863 sotto copertura, impedendone la coltivazione, ma non l’importazione e


nemmeno il consumo.

«E se gli OGM fossero l’agente arancio del domani?» «Contrariamente a ciò


che afferma, la Monsanto non è un’azienda agricola, ma chimica», dice Marc
Brammer. «Lo dimostra il fatto che gli unici OGM che è riuscita a mettere sul
mercato sono piante resistenti al suo erbicìda più venduto, il Round-up, che
rappresenta sempre il 30 per cento del fatturato aziendale* oppure piante
insetticìde. Questi prodotti non interessano ai consumatori, che ancora aspettano
gli OGM miracolosi come il riso dorato, che l’azienda non ha mai smesso di
promettere.» A essere precisi, l’azienda di Saint Louis non ha inventato il famoso
«riso dorato», ottenuto invece, con le migliori intenzioni, da due ricercatori
europei: lo svizzero Ingo Potrykus, di Zurigo, e il tedesco Peter Beyer, di
Friburgo. Questo riso OGM avrebbe dovuto produrre betacarotene, la vitamina A,
che si trova in abbondanza nelle carote, la cui mancanza comporta ogni anno la
morte di un milione di bambini del terzo mondo e provoca la cecità di altri
trecentomila. Pubblicati su Science nel 2000,12 i dati di laboratorio sembravano
così promettenti che il «riso dorato» è finito sulle prime pagine di numerosi
giornali come incarnazione delle «belle promesse» della biotecnologia. Finanziati
dalla Fondazione Rockefeller, i due ricercatori decidono di lanciare la loro
scoperta sul mercato, ma si ritrovano di fronte a un inestricabile problema di
brevetti: per produrre il loro riso hanno usato geni e processi coperti da non meno
di settanta brevetti appartenenti a trentadue aziende o centri di ricerca! La
questione è destinata al fallimento, a meno di vendere i preziosi cereali a prezzo
d’oro, appunto. Così interviene un’«associazione filantropica», la Monsanto.
Durante una conferenza agricola organizzata in India nell’agosto 2000, l’azienda
«regalerà alcuni suoi brevetti per accelerare l’approvazione del riso OGM, che
potrà salvare milioni di bambini denutriti».13 «Questo riso», garantisce allora
Hendrik Verfaillie, che presto succederà a Robert Shapiro, «mostra chiaramente
come le biotecnologie possano aiutare non solo i Paesi occidentali, ma anche
quelli in via di sviluppo.»14

* Secondo il Form 10K, nel 2006 il fatturato della Monsanto ammontava a


7,3 miliardi di dollari, 2,2 miliardi dei quali solo per il Round-up.

Peccato che il riso dorato sia finito nel dimenticatoio, perché appena è stato
coltivato in condizioni reali ha prodotto quantità irrisorie, e quindi inutili, di
betacarotene. «Non abbiamo mai capìto perché», commenta Marc Brammer, «ma
questa storia illustra bene le incognite del processo di manipolazione genetica.
Sono un rischio per la performance della Monsanto sul breve e sul lungo termine:
niente può garantire che gli OGM non saranno l’agente arancio del futuro... » Non
mi metterò certo a elencare tutte le sorprese che hanno riservato negli anni i
prodotti provenienti dalle manipolazioni genetiche, come la «scoperta», da parte
di uno scienziato belga, di un «frammento di DNA sconosciuto»16 nella soia
Round-up Ready. Mi limiterò a rimandare i lettori a un indirizzo Internet della
Commissione europea dove sono recensiti gli studi scientifici sulla sicurezza degli
OGM. Per esempio, consiglio di leggere una ricerca intitolata «I meccanismi e il
controllo della ricombinazione genetica nelle piante».16 Nella presentazione del
progetto, gli autori sottolineano: «Uno dei maggiori problemi della tecnologia
attuale è che non si può prevedere dove si integreranno i transgèni», cosa che può
«indurre mutazioni imprevedibili e indesiderabili nel genòma ospite». I ricercatori
si propongono quindi di verificare di che cosa si tratti, premettendo che gli OGM
si sono integrati nella catena alimentare senza che la questione fosse
preventivamente analizzata.

Un altro esempio è uno studio intitolato «Effetti e meccanismi dei transgèni Bt


sulla biodiversità degli insetti non bersaglio: impollinatori, erbivori e loro nemici
naturali».17 Forse la graziosa farfalla monarca avrebbe preferito che questo studio
fosse stato realizzato prima della commercializzazione del mais Bt. Infine un
ultimo esempio: «Valutazione sanitaria del trasferimento orizzontale di geni di
OGM verso la microflora della catena alimentare e dell’intestino umano».18
Ormai i risultati di questo studio britannico sono stati pubblicati e non sono certo
rassicuranti: i ricercatori hanno dato da mangiare un hamburger e un latte
shakerato contenenti soia Round-up Ready a sette volontari, poi hanno analizzato
i battèri del loro intestino. In tre casi su sette hanno «individuato il gene di
resistenza all’erbicìda a un livello molto basso».19 Sarebbe sicuramente utile, in
nome del famoso principio di precauzione, che l’esperimento fosse ripetuto per
due anni con un apporto quotidiano di soia della Monsanto (cosa normale negli
Stati Uniti), e che se ne osservassero i risultati...

«La contaminazione genetica è un fattore di rischio fondamentale» Leggendo a


fondo i rapporti di attività della Monsanto dal 1997 (i Form 10K), colpisce lo
spazio occupato dalle litigations, i contenziosi.

Prima sono processi intentati dalle vittime delle attività chimiche, come gli
abitanti di Anniston {vedi Capitolo 1), poi quelli dei veterani della guerra del
Vietnam (vedi Capitolo 3).

«Se la seconda class action dei veterani avesse successo, potrebbe comportare
il fallimento della Monsanto», afferma Marc Brammer nell’estate del 2006. «Per
non dimenticare i PCB, gli ormoni della crescita e il Round-up, che possono
comportare nuovi processi. Ai rischi legati alle attività chimiche presenti e
passate, si aggiungono quelli legati alla contaminazione genetica, fonte
inesauribile di potenziali contenziosi. Finora la catastrofe dello StarLink è costata
un miliardo di dollari alla Aventis.

Tuttavia, la contaminazione continua ed è quindi impossibile stimare il costo


definitivo per la multinazionale.» Non si può dimenticare lo scompiglio suscitato
nel 2006 dalla scoperta di «tracce di OGM non autorizzate nel riso americano»:20
prodotto dalla Bayer CropScience, uno dei concorrenti della Monsanto, questo
riso non era mai stato autorizzato né al consumo, né alla coltivazione, poiché
proveniva da sperimentazioni sul campo realizzate in un’azienda agricola della
Louisiana fra il 1998 e il 2001! La contaminazione, che ha colpito una trentina di
Paesi, ha comportato un crollo delle esportazioni americane di riso e «almeno
duecentocinquanta milioni di dollari» di indennizzo a negozianti e distributori
europei.21

«Siamo implicati in vari processi e procedure legali riguardo a proprietà


intellettuale, biotecnologie, crimini, contratti, antitrust, vantaggi dei dipendenti,
questioni ambientali eccetera, così come in parecchie investigazioni
governative.»22 Questo scrive la Monsanto nel rapporto di attività del 2005, nella
rubrica «Contenziosi e altre contingenze», in un inglese così caotico da risultare
praticamente intraducibile. Nella rubrica «Procedure legali»,23 l’azienda elenca,
in un inventario che non so se paragonare a Prévert o a Kafka, tutti i processi in
cui è coinvolta, sia come querelante, sia come querelata. Un certo numero di
procedure la vedono contro alcuni concorrenti, la svizzera Syngenta, la tedesca
Bayer o l’americana Dovv Chemicals, gli altri giganti degli OGM, per capire «chi
è il primo ad avere scoperto un determinato gene oppure un principio attivo». Allo
stesso modo, l’Università della California l’ha citata in giudizio per violazione di
un brevetto sull’ormone della crescita bovina! Si scopre poi che la Syngenta l’ha
trascinata in tribunale per denunciare il monopolio sulle sementi di mais tolleranti
al glifosato, nel quadro di un’azione antitrust. «Di fatto», si interroga l’agenzia di
stampa Reuters, «il dominio della Monsanto sul mercato delle colture
transgèniche è indiscutibile, ma è legale?»24

«Sulla Monsanto incombe lo stesso pericolo che, a suo tempo, gravava sulla
Microsoft», mi spiega Marc Brammer. «Non è escluso che un giorno l’azienda
venga condannata per violazione delle leggi antitrust e antiracket americane. Se
così fosse, la pagherebbe molto cara... » Dal 1999 una prima class action di
agricoltori aveva attaccato la multinazionale presso il tribunale di Saint Louis,
accusandola di avere «cospirato», soprattutto con Pioneer Hi-Bred, per «fissare il
prezzo» delle sementi a un livello molto elevato. Ma le richieste dei querelanti
sono state respinte nel 2003 dal giudice Rodney Sippel, lo stesso che aveva
mostrato il dente avvelenato con i contadini accusati di avere violato il brevetto
della Monsanto {vedi Capitolo 10).26

Un anno dopo il New York Times pubblicava un’inchiesta in cui, dopo avere
incontrato «decine di proprietari» di aziende produttrici di sementi, confermava i
sospetti di «cospirazione» che gravavano sul leader mondiale degli OGM, il
quale, fra le altre cose, avrebbe avvicinato la Mycogen, un produttore di sementi
californiano, perché rinunciasse «a entrare in competizione sul prezzo delle
sementi in cambio di un accesso a certe tecnologie brevettate, secondo ex
dirigenti dell’azienda»26 (poi acquistata dalla Dovv Chemicals). In seguito queste
accuse sono state riprese in quattordici class action, depositate presso altrettanti
tribunali americani, così come affermava la stessa multinazionale nel Form 10K
del 2005.

«Denunciamo il monopolio sulle sementi che la Monsanto ha acquisito con


mezzi illegali», mi spiega Adam Levitt, uno degli avvocati dei querelanti che
lavora per uno studio molto rinomato di Chicago, in cui mi riceve nell’ottobre
2006. «Ha abusato dei diritti che conferiscono i brevetti, come il divieto imposto
ai contadini di conservare le sementi o l’obbligo di acquistare solo Round-up, e
non un glifosato generico; oppure l’obbligo imposto ai negozianti di vendere una
percentuale elevata di prodotti della Monsanto. Accusiamo inoltre l’azienda di
avere soffocato la concorrenza con azioni commerciali sleali e di avere cospirato
per fissare il prezzo delle sementi a un livello esorbitante. Tutto ciò costituisce per
noi una violazione delle leggi americane.» «Pensate di vincere?» La domanda fa
sorridere Adam Levitt, che mi ricorda di essere «pagato sulla percentuale» e
conclude: «Il fatto che la Monsanto abbia ingaggiato i più grandi studi legali del
Paese per difendersi ci porta a pensare che per l’azienda sia una questione molto
seria».

Aggiungerò, in conclusione, che anche per noi cittadini e cittadine del buon
vecchio Pianeta Terra «la questione è molto seria». Dopo avere seguìto per
quattro anni le tracce della multinazionale di Saint Louis, credo di poter affermare
che non è più concesso dire «non sapevo», e che sarebbe irresponsabile lasciare il
nutrimento umano in certe mani. Infatti, di una cosa sono sicura: non voglio, né
per me, né per le mie tre figlie, un mondo secondo la Monsanto.
Appendice

Un successo durevole di Marie'Monique Robin *

(Traduzione di Giuseppe Giaccio)

Scrivo questa postfazione all’edizione tascabile del mio libro, pubblicata nel
marzo 2009, da una stanza d’albergo di Lima, in Perù, dove ero invitata, il 28 e 29
gennaio 2009, a partecipare a un convegno intitolato «I semi della diversità di
fronte agli OGM», organizzato da una decina di associazioni impegnate sui temi
dello sviluppo durevole e dei diritti dell’uomo.

Per questo paese “megadiverso” - il Perù, la Bolivia, il Brasile, la Colombia, il


Costarìca, l’Ecuador, il Messico e il Venezuela concentrano il 70% della
biodiversità del mondo - la posta in gioco è enorme: in Parlamento, sarà presto
discusso un progetto di legge per inquadrare le colture transgèniche. Se la legge
passerà, in Perù farà il suo ingresso il mais transgènico di Monsanto (Bt), che
minaccerà così di contaminare le centinaia di varietà criollas (tradizionali) del
mitico cereale degli Incas, «capace di crescere nelle zone litoranee, ma anche a
3000 metri di quota», come ha ricordato in occasione del convegno la dottoressa
Antonieta Gutiérrez, professoressa all’Università nazionale di agronomia di La
Molina, a Lima.

Prova, se ce ne fosse bisogno, che i milioni di contadini peruviani che da


millenni conservano questa straordinaria biodiversità non hanno atteso
l’“ingegneria genetica” di multinazionali come Monsanto per sviluppare delle
varietà adattate ai terreni agricoli, ai climi e alle aree agronomiche.

Il presente testo è apparso come postfazione dell’autrice all’edizione tascabile


del libro uscita in Francia nel marzo 2009.

Lo stesso discorso vale per la patata o il quinoa, di cui il Perù costituisce il


centro d’origine, con migliaia di varietà coltivate ovunque nel paese.

Il problema, per Monsanto e soci, è che queste varietà non sono brevettate e
che i contadini continuano a sviluppare i propri semi, all’occorrenza scambiandoli
con i loro vicini. Ora, curiosa coincidenza, il Perù ha per l’appunto adottato, il 14
gennaio 2009, una legge che autorizza la brevettatura dei semi, il che apre la
strada agli OGM. Nello stesso tempo, il governo peruviano subiva numerose
pressioni per vietare l’etichettatura degli OGM che già entrano nel paese, in
particolare sotto forma di olio di soia importato dal Brasile, con la motivazione
che questa etichettatura sarebbe pregiudizievole per il consumatore, provocando
un aumento dei prezzi (tesi già sostenuta da Monsanto, in particolare negli Stati
Uniti). Infine, informazioni concordanti segnalano la presenza di colture
transgèniche illegali in almeno una regione peruviana, grazie a un molto
tempestivo traffico di semi organizzato dai paesi vicini.

Come il lettore di questo libro avrà capìto, ritroviamo qui gli abituali
ingredienti tipici della strategia della ditta di Saint Louis per imporre con tutti i
mezzi le sue piante transgèniche pesticìde: pressione sui governi per modificare le
leggi concernenti la brevettatura del vivente, o per impedire l’etichettatura degli
OGM, mentre oscuri agenti creano uno “stato di fatto” (come in Paraguày o in
Brasile, e più recentemente in Messico) che permette defacto alla multinazionale
di rivendicare i suoi “diritti di proprietà intellettuale” sulle colture transgèniche
illegali e, dunque, sostanziose royalties, che provocano alla fine la legalizzazione
delle colture di contrabbando.

Il convegno di Lima è iniziato con la proiezione del mio film davanti a circa
trecento partecipanti. Nello stesso momento, era organizzata per venticinque
giornalisti un’altra proiezione, seguìta da una conferenza stampa durata quasi due
ore, tanto numerose erano le domande. Ho poi raggiunto la sala del convegno per
ascoltare il discorso di apertura del ministro dell’Ambiente Antonio Brack, uno
stimato ecologista. Questi ha ripetuto la sua proposta di dichiarare il Perù “libero
dagli OGM”, sottolineando che il governo era lungi dall’accoglierla all’unanimità.
Essa è anzi oggetto di intense frizioni con il ministero dell’Agricoltura che, come
in Brasile, sostiene accanitamente gli OGM di Monsanto, ritenuti in grado di
provocare un aumento della produttività agricola. Durante il pranzo, Antonio
Brack mi ha “confessato”, con un grande sorriso, che il suo gabinetto era
colpevole di “pirateria”: «Poiché non ci siamo potuti procurare il suo film in
spagnolo mi ha spiegato - abbiamo dunque visto la versione pirata messa in linea
da Google!». Di fatto, non essendo allora disponibile sul mercato alcun DVD
spagnolo, un internauta avveduto si è preso il disturbo di sottotitolare interamente
il film e di mettere su Internet la sua versione pirata!2

In Francia come all’estero, una eco stupefacente L’aneddoto peruviano è


esemplare dell’incredibile successo planetario riscosso dalla mia inchiesta su
Monsanto. Dal marzo 2008, data di pubblicazione della prima edizione di questo
libro e della diffusione su Arte del mio documentario eponimo3, sono finita a
tutt’oggi in un vortice che nessuno - né io, né La Découverte o Arte - avrebbe
potuto sperare nemmeno nei sogni più folli. Sollecitata da ogni parte (dall’Europa,
dall’America del Nord e del Sud, ma anche dall’Africa), ho dovuto destreggiarmi
alla meno peggio con le centinaia di richieste di interviste dei mezzi di
informazione o di proiezioni-dibattito che mi sono state rivolte da associazioni,
responsabili politici o istituzionali, e rispondere ai molteplici interrogativi
sollevati da questo lavoro. Ero fermamente convinta di aver messo a nudo i
perversi intrighi di una delle grandi multinazionali della tecnoscienza
contemporanea, ma non immaginavo che il mio libro e il mio film, che presentano
in particolare i lavori, fino a quel momento insabbiati, di tanti che hanno “lanciato
l’allarme”, avrebbero avuto un tale impatto internazionale.

Curiosamente, mentre la mia lunga inchiesta ha esordito su Internet, è proprio


dal Web che è partito l’incredibile sconvolgimento. Nel mio blog, aperto il 18
febbraio 2008 4, tre settimane prima della diffusione del mio film su Arte,
scrivevo, il 29 febbraio: «Sul Web si verifica davvero uno strano fenomeno.
Mentre la stampa comincia appena a commentare il mio film (e libro), se si digita
“Il mondo secondo Monsanto” su Google, si ottengono 22.000 accessi! E da due
settimane, questo numero non smette di crescere. A dire il vero, ciò è confortante
e spero che nel marzo l’indice di ascolto su Arte sarà all’altezza dell’attesa
suscitata da questo film». Di fatto, lo fu, con due volte più telespettatori
dell’abituale indice di ascolto di Arte per questo genere di documentario, e il
migliore indice di ascolto dell’anno per il canale. Vi si aggiungano oltre 150.000
visioni su Arte +7, che permette di visionare i fdm in linea per una settimana,
senza dimenticare le repliche e le vendite di DVD, che la sera stessa della messa
in onda sono stati letteralmente contesi. A tutt’oggi, sono state vendute più di
50.000 copie del DVD.

Il 14 marzo 2008, tre giorni dopo la messa in onda del film, sul sito Web di
Arte si poteva leggere: «Il mondo secondo Monsanto ha suscitato un passaparola
abbastanza colossale nella blogosfèra [...]. Sono stati identificati più di 338 blog
francofoni che citano il titolo del documentario, 224 dei quali dopo la messa in
onda». Oggi, ossia dieci mesi più tardi, una ricerca «Le monde selon Monsanto»
sul Service Blog Search di Google dà...

8.669 blog francofoni; per «The World According to Monsanto» il risultato è di


9.428 blog anglofoni; e, con «E1 mundo segun Monsanto», di 3.314 blog
ispanofoni, mentre il film ha avuto una diffusione solo confidenziale sul canale
spagnolo Tele Cinco e il DVD spagnolo non era ancora disponibile. Al di là dei
blog, si contano a centinaia di migliaia gli accessi del motore di ricerca con il
titolo del libro/film in francese, inglese o spagnolo.
A tutt’oggi, il documentario è stato diffuso o programmato su una ventina di
canali in Europa, ma anche in Australia, in Venezuela, in Giappone, in Canada e
negli Stati Uniti - dove è stato acquistato da Sundance Channel. Stesso fenomeno
per il libro, di cui sono state vendute 100.000 copie nel mondo francofono, mentre
editori di tredici paesi hanno deciso di tradurlo (compresa la Corèa del Sud, dove
degli agenti si sono letteralmente battuti per ottenere i diritti di edizione).

In Canada, ho accompagnato l’uscita del libro (pubblicato dalla casa editrice


Stanké) e del film - l’“Office national du film” del Canada (ONF), coproduttore,
aveva deciso di lanciare il documentario prima nelle sale, dove è stato visto da
quasi 20.000 spettatori nel Quebec, un risultato eccellente per un documentario.
Mi ci sono recata per due volte, nel maggio e nel settembre 2008, e ho inanellato
interviste, constatando con stupore che i giornalisti di questo paese - che pure
conta 7 milioni di ettari di coltivazioni transgèniche - non sapevano, per la
maggior parte, quali OGM avessero nei loro campi, e dunque nei loro piatti.
Quando spiegavo loro che acquistando olio di colza (non etichettato),
consumavano molto probabilmente dei residui di Round-up, i miei colleghi
spalancavano immancabilmente gli occhi, confermando che scoprivano la «realtà
degli OGM di Monsanto».

Ho fatto la stessa constatazione in Spagna, nel novembre 2008, dove sono


andata per il lancio della versione spagnola del mio libro (pubblicata da
Peninsula). In questo paese - l’unico dell’Unione europea ad autorizzare le colture
transgèniche - 80.000 ettari, principalmente in Catalogna e Aragòna, sono piantati
a mais Bt 810, lo stesso che è stato provvisoriamente sospeso dal governo
francese nel febbraio 2008. Prima di ogni intervista (una buona ventina), facevo
un piccolo test: «Sapete quali OGM sono coltivati in Spagna?». Seguiva, ogni
volta, un lungo silenzio e, talvolta, questa sbalorditiva risposta: «Piante
manipolate geneticamente per resistere alla siccità». Immancabilmente, ero
costretta a rispondere: «Purtroppo, queste magnifiche piante non esistono! Gli
unici OGM coltivati in Spagna sono piante insetticìde, il che vuol dire che, senza
saperlo, voi consumate - voi o gli animali che voi mangiate - dei residui di
insetticìda». Non dimenticherò mai lo sguardo inquieto dei miei colleghi della
penisola iberica.

Secondo aneddoto: quando il film non era ancora disponibile negli Stati Uniti,
degli accorti internauti lo hanno acquistato, poi lo hanno ritagliato in dieci parti
per metterlo su Google Video, You Tube o Daily Motion. Responsabile della
distribuzione della versione inglese del documentario nell’America del Nord,
l’ONF canadese è intervenuto a più riprese per chiederne il ritiro dalla Rete,
fintantoché non fosse stato regolarmente commercializzato. Il lettore potrà
verificare che sul Web sono immediatamente circolati dei documenti intitolati
«The documentary you vvon’t ever see» (il documentario che non vedrete mai),
che spiegavano, a torto, che era colpa di... Monsanto, che si sarebbe avvalsa della
sua leggendaria abilità per censurarlo.

Le azioni che si attribuiscono a qualcuno si fondano sulla sua fama...

Come spiegare una tale eco? Credo, in primo luogo, con la violenza stessa
delle pratiche di una multinazionale che esibisce, paradossalmente, un
comportamento “al di sopra di ogni sospetto”. Ma anche con l’effetto sotterraneo
del lavoro ostinato svolto da decenni, nel mondo intero, da tutti coloro, uomini e
donne, che vi si sono opposti e ai quali ho qui tentato di restituire la parola: i
sindacati e i movimenti contadini dell’india e dell’America Latina esposti ai danni
degli OGM, i “falciatori volontari” dei campi di OGM in Francia, gli scienziati
che hanno “lanciato l’allarme” in America e in Europa, o gli avvocati, in
particolare americani, delle vittime delle pratiche di Monsanto, dal PCB di ieri
agli OGM di oggi. Infine, e forse soprattutto, col fatto che la multinazionale di
Saint Louis rappresenta un paradigma del mortifero modello industriale che si è
imposto un po’ dovunque nel mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ora,
questo modello, basato sulla corsa sfrenata al profitto, alimenta una paura diffusa
dovuta ai suoi effetti nefasti sull’ambiente e la salute dell’uomo.

A tutte queste ragioni, che un sociologo sarebbe capace di esaminare


minuziosamente, se ne aggiunge un’altra, assolutamente fondamentale: la potenza
delle reti del Web, che si sono impadronite della mia inchiesta come di uno
strumento democratico di informazione, con alla testa il sito combat-
monsanto.org, creato sulla scia del mio libro/film e che da allora prosegue il mio
lavoro, arricchendolo con rigore e tenacia. Concepito su iniziativa di un collettivo
di associazioni - tra cui Greenpeace, la Fondation sciences citoyennes del
professor Jacques Testart, Via Campesina, Attac, Les Amis de la Terre, Sherpa - e
patrocinato dalla Fondazione Charles Léopold Mayer per il progresso dell’uomo,
Arte e La Découverte, questo sito trilingue (francese, inglese, spagnolo) si
prefigge di centralizzare tutte le informazioni internazionali sulla ditta di Saint
Louis e gli OGM e di mettere in sinergia le reti che, un po’ ovunque nel mondo, si
battono «perché il mondo di Monsanto non divenga mai il nostro».

Le reazioni di Monsanto e dei suoi sostenitori Come ha reagito Monsanto a


tutte queste chiamate in causa? Per più di nove mesi, col silenzio, come se la ditta
avesse ritenuto preferibile tacere, per tentare di “limitare i danni”. In Francia, i
giornalisti che hanno contattato la sede della sua filiale francese, nella periferia
lionese, si sono fatti gentilmente mettere alla porta, conformemente a ciò che
aveva annunciato il sito francese di Monsanto: «Il film e il libro di Marie-
Monique Robin sono le ultime illustrazioni della frustrazione di quanti si
oppongono alle biotecnologie. Questi lavori sono talmente parziali da non
richiedere alcun commento da parte della nostra impresa». Di qui questo
commento del mio collega Hervé Kempf, grande specialista degli OGM a Le
Monde, che ho spesso citato in questo libro: «Chi tace acconsente».6

La prima critica non è dunque venuta dalla ditta, ma da una oscura


associazione, l’Associazione francese per l’informazione scientifica (AFIS), sul
suo sito pseudo-sciences.org.6 Come scrivevo nel mio blog, il 9 marzo 2008, due
giorni prima della diffusione del mio film su Arte, «degli internauti vigili mi
hanno segnalato un articolo messo in linea (quattro giorni prima) sul sito
dell’AFIS, che “si prefigge di promuovere la scienza contro coloro che negano i
suoi valori culturali, la sviano verso opere nocive o ancora si avvalgono del suo
nome per coprire imprese ciarlatanesche”. [... ] Questa associazione è conosciuta
per le sue prese di posizione scientiste pure e dure, e il suo sostegno senza
incrinature all’establishment scientifico, la cui parola e i cui lavori essa ritiene
non possano essere interrogati da cittadini tanto ignoranti quanto empi perché non
scienziati.

È appunto in nome di questa scienza “al di sopra della mischia” e che non deve
rendere conto a nessuno, che hanno potuto aver luogo i grandi scandali sanitari
degli ultimi venti anni: affare del sangue contaminato, crisi di mucca pazza,
dramma dell’ormone della crescita o disastro criminale dell’amianto».

Questo articolo critico dell’AFIS, firmato da un certo Marcel Kuntz, biologo e


direttore di ricerca al CNRS, era preceduto da una «prefazione» di Michel Naud,
«ingegnere e dirigente d’azienda», presidente dell’AFIS, il quale rivendicava
peraltro il suo essere un «razionalista scientifico» e un bright - termine traducibile
con «brillante, intelligente, illuminato», strana denominazione per un movimento
che promuove una credenza quasi messianica nel progresso scientifico.7 È
interessante notare che, per lanciare la loro “messa in guardia” contro ciò che
Michel Naud definisce le «controverità e approssimazioni alternate senza spirito
critico» della mia inchiesta su Monsanto, i redattori dell’AFIS non hanno trovato
niente di meglio che far ricorso alla calunnia e alla disinformazione. Tra i quasi
duecento servizi e documentari che ho realizzato per la televisione, ne hanno
ricordati due che, secondo loro, potevano gettare il discredito sul mio lavoro:
l’uno, intitolato Ladri di organi, che mi è valso nel 1995 sette premi
internazionali, tra cui il premio Albert Londres; e l’altro, intitolato La scienza di
fronte al paranormale, trasmesso nel 2004 su Canal Plus e Arte.8

Non ritornerò sulla sostanziosa risposta che ho indirizzato all’AFIS e invito il


lettore a leggere i nove messaggi postati sul mio blog a questo riguardo (nella
rubrica «Le notizie della rete»).9 Ma devo qui sottolineare che, nel lungo articolo
di Marcel Kuntz, questi sembra a disagio, perché è incapace di smontare ciò che,
agli occhi di tutti i commentatori onesti, costituisce il cuore della mia indagine,
ossia, come ho scritto nel mio blog: «1) Il “principio di equivalenza sostanziale”
non si basa su alcun dato scientifico, ma su una “decisione politica” della Casa
Bianca, destinata a favorire, al più presto, la commercializzazione degli OGM,
permettendo che i prodotti di origine biotecnologica sfuggano ai test sanitari o
ambientali; questo principio di equivalenza sostanziale era aspramente criticato
dagli stessi scienziati della FDA i quali pensavano, al contrario, che il processo di
manipolazione genetica potesse provocare dei “rischi specifici” e
raccomandavano dunque che gli OGM fossero minuziosamente testati prima della
loro commercializzazione, ma non sono stati ascoltati; effettivamente, questo
“principio ha conosciuto un’evoluzione rispetto alla sua formulazione originaria”,
poiché il Codex alimentarius dell’ONU raccomanda dal... 2000 che sia
considerato come una “tappa”.

Ma era quattro anni dopo la commercializzazione della soia Round-up ready,


che ricopre oggi milioni di ettari; i ricercatori europei hanno brillato per il loro
silenzio quando questo principio è stato introdotto, sotto l’influenza della FDA e
di Monsanto, all’inizio degli anni Novanta, all’OMS, la FAO e l’OCSE, mentre
nessun OGM era ancora coltivato (cfr. il capìtolo 3 del mio libro)».

Con ogni evidenza, l’AFIS non era molto lontana dalle tesi di Monsanto, così
come ha potuto verificare, nel marzo 2008, la giornalista Christina Palmeira,
corrispondente parigina del giornale brasiliano Carta Capital, alla quale i
rappresentanti francesi della ditta hanno declinato la sua richiesta d’intervista,
rinviandola su... l’AFIS!10

E poi, colmo di sfortuna per i miei detrattori, il 29 marzo 2008, potevo


pubblicare sul mio blog una lettera disponibile su Internet, indirizzata dal dottor
Marcel-Francis Kahn a Christian Vélot, insegnante-ricercatore di ingegneria
genetica molecolare all’università Parigi-Sud, uno dei pochi scienziati francesi
che ha avuto il coraggio di denunciare l’assenza di una seria valutazione delle
piante pesticìde di Monsanto, e che fu minacciato di perdere il suo lavoro. Ecco
ciò che scriveva il dottor Kahn, dimessosi dall’associazione scientista
denunciando i suoi legàmi - e in particolare quelli del dottor Marcel Kuntz - con
Monsanto: «Ho appena firmato la petizione di protesta contro la soppressione
delle facilitazioni di ricerca di cui lei beneficia. L’elemento seguente può
interessarla. Facevo parte del comitato scientifico e di patrocinio dell’AFIS, che
edita il bollettino Science et pseudo-sciences. Combatto da molto tempo in ambito
medico tutte le ciarlatanerie.

Non le è forse sfuggito che, per influenza del suo redattore capo JeanPaul
Krivine, l’AFIS si è trasformata, senza che nessuno abbia sollecitato il nostro
parere, in una vera lobby pro-OGM. Certo, io non sono pienamente persuaso che
il mais 810 o di altro tipo sia tossico. Ciò che ho letto non me ne convince. Ma,
per contro, combatto l’aggressiva strategia monopolistica di Monsanto e delle sue
diverse società ombra. Ho dunque chiesto alla redazione di Science et pseudo-
sciences che [... ] Marcel Kuntz e Louis-Marie Houbedine indichino i loro legàmi
con Monsanto e le sue filiali, come una in medicina (mi occupo di un giornale
scientifico medico ed è diventato obbligatorio precisare quello che si chiama
“conflitto di interessi”)».

Bisognerà attendere l’uscita, nel novembre 2008, dell’edizione portoghese di


questo libro in Brasile - dove erano coltivati nel 2007, come si è visto, più di 15
milioni di ettari di soia RR - per registrare una prima reazione ufficiale della ditta
di Saint Louis, che spiegava sin dal giorno del mio arrivo nel paese (l’8 dicembre
2008) sul sito Web della sua filiale brasiliana11 che il mio «libro-documentario»
«tende a denigrare l’immagine di Monsanto». Il comunicato passa in rassegna
tutti gli argomenti trattati nella mia indagine e che manifestamente irritano la
multinazionale (e a questo titolo è molto istruttivo): i PCB, l’ormone della
crescita, l’agente arancio, il Round-up, i revolving doors, la polizia dei geni, ecc.,
con la cattiva fede e il diniego abituali: vi si può leggere, ad esempio, che
«nessuno studio scientifico ha potuto dimostrare il legàme causale tra
un’esposizione ai PCB e il cancro»! Il 20 dicembre, Annie Gasnier,
corrispondente di Le Monde in Brasile, e che era presente alla proiezione-dibattito
organizzata dal console di Francia a Rio de Janeiro, ha avuto la buona idea di
chiamare il servizio di comunicazione di Monsanto Brasile, che ha confessato che
il comunicato era «una traduzione letterale del testo inviato dalla sede americana
della ditta». Di qui il commento della giornalista: «La reazione pubblicata
manifesta l’importanza del Brasile nella strategia della multinazionale». Di
sfuggita, la mia collega rivela un’informazione che conferma tutto ciò che ho
scritto in questo libro: «Nel Sud, gli agricoltori tentano di abbandonare la soia
OGM, delusi dai rendimenti, ma non trovano più semi tradizionali da coltivare».
Mentre ero in Brasile, Soazig Quemener, giornalista al Journal du dimanche,
ha cercato di intervistarmi. Purtroppo, il mio programma molto intenso e lo
sfalsamento orario non mi hanno permesso di rispondere alle sue domande. Il 14
dicembre 2008, il giornale ha pubblicato un’intervista di Laurent Martel, direttore
di Monsanto France, che costituisce una antologia di stereotipi. Commentando il
mio libro, dichiara: «È una requisitoria che enuncia in tono assertivo un sacco di
errori». Di quali errori si tratti non è dato saperlo, perché subito il dirigente di
Monsanto inforca l’abituale cavallo di battaglia della ditta: «In Francia, siamo
anzitutto degli agronomi che lavorano al servizio degli agricoltori. Monsanto
partecipa a sfide essenziali. Siamo 6,5 miliardi di abitanti sulla Terra, tra
quarant’anni saremo 9 miliardi».

Ma, prima, sono stata oggetto di una abbastanza straordinaria campagna di


denigrazione del mio lavoro, condotta sul Web da alcuni internauti che si
atteggiavano a specialisti, firmando i loro attacchi con diversi pseudonimi
(«Anton», «Gatteca», «Zobi», «Ryuujin» o «GPF»). Postando iloro commenti a
ogni ora del giorno e della notte - compresa la sera dell’anno nuovo! - sul mio
blog e su molti altri12, come se non avessero niente altro di meglio da fare, questi
fanatici sostenitori degli OGM hanno preteso di demolire, punto per punto, la mia
indagine. Curiosamente, tutti - a meno che non si tratti di una sola persona che
lavora per conto di un’agenzia di comunicazione specializzata nel «marketing
virale», pratica che ho già evocato in questo libro - hanno declinato la mia
proposta di partecipare insieme a un dibattito pubblico, preferendo conservare il
loro anonimato tutto sommato molto confortevole. Così come sottolineavo
precedentemente, coloro che definisco sul mio blog “i miei detrattori personali” e
che hanno confessato, in qualche caso, che non avevano letto il mio libro né visto
il mio film, si guardano bene, ad ogni modo, dal tornare sui punti essenziali della
mia indagine: l’inanità del “principio di equivalenza sostanziale”, da cui deriva
l’assenza (se non addirittura la manipolazione) di studi scientifici seri sugli OGM
(come prima sui PCB, la rBGH, ecc.) e il sistema dei revolving doors che
permette di mettere tutto sotto chiave.

Qualcosa si muove!

Al di là delle obiezioni, in definitiva molto minoritarie, al mio lavoro da parte


dei sostenitori di Monsanto e delle multinazionali produttrici di OGM, il mio
libro/film ha suscitato molte altre reazioni che permettono di affermare che,
lentamente ma sicuramente, le cose si muovono. Così, in occasione dell’esame
parlamentare della legge francese sugli OGM nella primavera del 2008, abbiamo
visto alcuni eletti molto coraggiosi dell’UMP battersi per denunciare le pressioni
esercitate da Monsanto sui loro colleghi. Nell’aprile 2008, il senatore della
Manica Jean-Frangois Legrand, che aveva espresso «seri dubbi» sul MON 810
quando presiedeva il comitato di prefigurazione dell’Alta Autorità sugli OGM,
dichiarava a Le Monde-. «Alcuni hanno fatto man bassa dell’UMP per difendere
degli interessi mercantili, “riverniciati” per renderli simpatici: si è parlato
dell’avvenire della scienza, di quello della ricerca... La forza d’urto di Monsanto e
degli altri semenzieri è fenomenale. Bisognava vedere la violenza delle reazioni
di Bernard Accoyer (presidente dell’Assemblea nazionale) e di altri all’indomani
del parere fornito dal comitato di prefigurazione. Basta paragonare le tesi degli
uni e degli altri - identiche - per comprendere l’origine della loro collera. Sono
stati azionati. Io sono stato avvicinato da Monsanto, ma ho rifiutato di parlar loro.
Voglio restare libero».13

Il 10 giugno 2008, in un’intervista a L’Express, il senatore - che è stato in


definitiva messo al bando dal gruppo UMP al Senato in occasione dell’esame
della legge - confermava il ruolo che la mia inchiesta aveva svolto nella sua presa
di posizione: «Ho visto il film e sono stato veramente impressionato»,
testimoniava, notando che alcuni suoi colleghi sono stati ugualmente «scossi».
«Ma non posso fare nomi», aggiungeva. Quanto ad Antoine Herth, relatore del
testo sugli OGM all’Assemblea, confessava al mio collega de L’Express:
«L’effetto è stato soprattutto indiretto: c’è stato un tale clamore intorno alla sua
diffusione che siamo stati assillati. Ricevevamo duecento messaggi di
altermondialisti al giorno!».14

Nello stesso momento, il deputato UMP della Mosella Francois Grosdidier15


si esprimeva, dal canto suo, su Libération per denunciare l’attivismo della
FNSEA, il principale sindacato agricolo, e della lobby semenziera, affinché il
progetto di legge fosse demolito: «I miei colleghi sono grandemente intossicati.
[... ] I deputati rurali sono sottoposti a forti pressioni». Egli evocava degli
«approcci individuali fatti presso i deputati rurali, che costituiscono la
maggioranza dei deputati della maggioranza, tramite le branche dipartimentali
della FNSEA con più o meno, diciamo, veemenza. [... ] Alcuni dei miei colleghi,
di cui tacerò i nomi, si sono sentiti dire che il loro ufficio rischiava di essere
saccheggiato».16

Dopo, ho incontrato Francois Grosdidier a più riprese. Egli mi ha confermato


che, senza il forsennato lobbying di Monsanto, dei semenzieri come Limagrain e
della FNSEA, la legge sugli OGM non sarebbe mai passata. Nei fatti, essa, a parte
un voto, è stata respinta, poi in definitiva imposta dal governo di Fillon,che ha
tirato fuori dal suo cappello una commissione paritaria che permetteva di aggirare
il rigetto del parlamento. È ciò che nel mio blog ho definito un «puro e semplice
diniego di democrazia».

Il 26 novembre 2008, Francois Grosdidier e Serge Lepeltier, sindaco di


Bourges ed ex ministro dell’Ambiente di Alain Juppé, che hanno creato
un’associazione battezzata “Valeurs écologiques”, mi hanno invitata ad animare
una colazione-conferenza all’Assemblea nazionale. Con loro grande sorpresa,
sono venuti quasi settanta eletti e membri di diverse istituzioni.

Ho concentrato il mio intervento sulla posta in gioco dei semi brevettati e sul
disegno di Monsanto di impadronirsi del controllo della catena alimentare
attraverso lo strumento degli OGM (un tema completamente assente dal dibattito
parlamentare), sulla inevitabile contaminazione delle filiere convenzionali e
biologiche se le colture transgèniche fossero autorizzate in Francia e, infine, sulla
necessità di rivedere l’omologazione del Round-up.

Nel frattempo, infatti, la condanna di Monsanto per «pubblicità menzognèra»


(relativa al Round-up) era stata confermata il 29 ottobre 2008 dalla corte
d’appello di Lione, mentre un nuovo studio pubblicato dal professor Gilles-Éric
Séralini con a sua collega Nora Benachour, nella rivista Chemical Research in
Toxicology, confermava «l’impatto di diverse formulazioni e costituenti» del
Round-up «su linee cellulari umane. E ciò a dosi molto deboli», per riprendere i
termini Ai Le Monde.u Nello stesso momento, in Argentina, dove le colture
transgèniche coprono oggi almeno 17 milioni di ettari, il governo di Cristina
Kirchner decideva, finalmente, di muoversi: segnatamente in seguito a differenti
articoli pubblicati nel quotidiano Pàgina 12, largamente influenzati dal mio
libro/film, la presidente ha creato per decreto, il 16 gennaio 2008, una
commissione nazionale di inchiesta per studiare le drammatiche conseguenze
sanitarie degli «agrotossici», in particolare gli spargimenti di Round-up nelle zone
di produzione di soia transgènica. Alcuni giorni prima, a Cordoba, il giudice
Carlos Matheu ha preso una decisione che, secondo l’opinione generale, farà
giurisprudenza, la quale vieta gli spargimenti del veleno di Monsanto a meno di
1.500 metri dai luoghi abitati. Nello stesso tempo, venivano sporte una serie di
querele in seguito a un moltiplicarsi di cancri, in particolare tra i bambini nati
nelle zone di coltivazione della soia RR. Particolarmente allarmante è il caso del
quartiere di Ituzaingó a Cordoba, dove le madri si battono da anni affinché cessi
questo avvelenamento, responsabile di un tasso particolarmente elevato di cancri,
malformazioni fetali e patologie multiple. Infine, nel maggio 2008, una équipe
medica dell’ospedale italiano di Rosario, diretta dal dottor Alejandro Oliva, ha
confermato le disastrose conseguenze sanitarie del modello transgènico.18
In tutte le mie conferenze, insisto particolarmente sull’importanza di rivedere
l’omologazione del Round-up, che costituisce ai miei occhi una urgenza sanitaria
e che, inoltre, è legata al 70% delle piante transgèniche coltivate sul pianeta.
Questa tesi sembra farsi strada: un po’ ovunque in Francia, ma anche in Canada,
vi sono cittadini che hanno deciso di restituire al venditore i loro bidoni
dell’erbicìda più venduto al mondo, e numerosi sono i comuni che hanno già
vietato (o vieteranno) il suo uso, così come quello di altri prodotti simili
ugualmente pericolosi.

Ad esempio, nel giugno 2008, sono stata invitata a tenere una relazione sul
Round-up dalla regione Poitou-Charentes, che organizzava un «forum
partecipativo regionale per la riduzione dei pesticìdi nelle collettività». Più di
centocinquanta eletti e tecnici degli spazi verdi avevano risposto all’appello,
rivelando la loro inquietudine di fronte alla catastrofe sanitaria che l’uso
massiccio di pesticìdi ha già cominciato a provocare, persino nei luoghi riservati
alla ricreazione scolastica. Il 24 novembre 2008, un articolo di Le Monde
denunciava, per la prima volta, gli effetti nefasti sulla fertilità maschile dei
pesticìdi (e delle materie plastiche), che sono dei perturbatori endocrini (come il
Round-up di Monsanto). La loro «presenza diffusa nell’ambiente» potrebbe
spiegare che «il numero e la qualità degli spermatozoi» degli uomini siano
«diminuiti circa del 50% rispetto al 1950».19

In occasione delle mie proiezioni-dibattiti, che riunivano sempre tra duecento e


seicento persone, pongo immancabilmente la stessa domanda: «Chi ha nella sua
cerchia più intima qualcuno che soffre di un cancro, della malattia di Parkinson o
di Alzheimer?». Sistematicamente, circa l’80% delle persone presenti nella sala
alzano la mano. Seguono allora, invariabilmente, le stesse due domande, poste,
stavolta, dal pubblico: «Perché? Che cosa si può fare?».

Per una combinazione di calendario, Il mondo secondo Monsanto è arrivato


nel momento buono, contribuendo a cristallizzare le inquietudini della società
civile di fronte a quella enorme posta in gioco rappresentata dalle piante
transgèniche e, ancor di più, di fronte all’angosciosa epidemia di cancri, malattie
neurologiche o autoimmuni e di disfunzioni della riproduzione, che si estende
oggi nei paesi cosiddetti «sviluppati».
Note

Introduzione. Il caso Monsanto Trasmissione del 15 novembre 2005.

Disponibile in DVD nella collana Alerte Verte (alerte-verte.corn), il filmato ha


ricevuto il gran premio del Festival internazionale del gran reportage di attualità e
del documentario sociale (FIGRA-Le Touquet), il premio Buffon del Festival
internazionale del filmato scientifico di Parigi e i premi per il migliore reportage
Ushuaia TV del Festival internazionale del filmato ecologico di Bourges.

Reportage trasmesso su Arte il 18 ottobre 2005. È disponibile anche in DVD


nella collana Alerte Verte.

Secondo le affermazioni dell’International Service for the Acquisition for the


Agri-biotech Applications (ISAAA), un’organizzazione prò OGM che fornisce i
dati (isaaa.org).

Monsanto, The Pledge Report 2005, p. 12. Tutti i The Pledge Report dal al
2006 sono disponibili all’indirizzo monsanto.corn/vvho_vve_are/our_
pledge/recent_reports.asp.

Ibidem, p. 3.

Ibidem, p. 30.

Ibidem, p. 9.

Ibidem, p. 2.

Capitolo 1. PCB: un crimine da colletti bianchi Dennis Love, My City Was


Gone. One American Toum’s Toxic Secret, Its Angry Band of Locals and a $700
Million Day in Court, William Morrovv, New York 2006.

«Technical Report Evaluation of Monsanto’s Polychlorinated Biphenil (PCB).


Process for PCB Losses at the Anniston Plant», EPA, marzo 2005,
epa.gov/region4/vvaste/sf/annistonsf710302197.PDF.
chemicalindustryarchives.org/dirtysecrets/annistonindepth/toxicity.asp.

Soren Jensen, «Report of a New Chemical Hazard», in New Sdentisi, voi.


32,1966, p. 612.
L’aneddoto è stato raccontato dall’uomo nel corso di un’udienza («Trial
Transcript», in Ovvens vs. Monsanto, CV-96-J-440-E, N.D. Alabama, 5 aprile
2001, p. 551).

San Francisco Chronicle, 24 settembre 1969.

7 .LeDauphinéLibéré, 17 agosto 2007.

Si tratta della direttiva 96/59/CE. Vedi Marc Laimé, «Le Rhòne pollué par les
PCB: un Tchernobyl frangais?», blog.mondediplo.net/2007-08-14-LeRhone-
pollue-par-les-PCB-un-Tchernobyl.

9.Industrie-Déchets, n. 30, febbraio 2007.

US Public Health Service ed EPA, «Public Health Implications of Exposure to


Polychlorinated Biphenyls (PCB)», epa.gov/vvaterscience/fish/files/ pcb99.pdf.
due studi sono presentati nell’opera scientifica di Ruth Stringer e Paul Johnston,
Chlorine and the Environment. An Overvievv of the Chlorine Industry, Kluvver
Academic Publishers, Dordrecth 2001.

«Whales in Sound Imperilled», mAnchorage Daily News, 22 luglio 2001.

Chemical and Engineering News, 14 gennaio 2002, pubs.acs.org/cen/


topstory/8002/8002notvvl .html.

Invito a leggere questo articolo, che trovate all’indirizzo


vvashingtonpost.corn/ac2/vvp-dyn?pagename=article&contentId=A46648-
2001Dec31.

Anniston Star, 23 febbraio 2002.

Anniston Star, 8 agosto 2003; Wall Street Journal, 21 agosto 2003.

«US: General Electric Workers Sue Monsanto Over PCBs», Reuters, 4 gennaio
2006.

The Ecologist, 22 marzo 2007; Sunday Times, 3 giugno f973.

Capitolo 2. Diossina: un inquinante al servizio del Pentagono Renate D.


Kimbrough, «Epidemiology and Pathology of a Tetrachlorodibenzodioxin
Poisoning Episode», in Archives of Environmental Health, marzo-aprile 1977; e
TheLancet, 2 aprile 1977, p. 748.

The New York Times, 28 agosto 1974.


Coleman D. Carter, «Tetrachlorodibenzodioxin: an Accidental Poisoning
Episode in Horse Arenas», in Science, 16 maggio 1975.

Robert Reinhold, «Missouri Novv Fears 100 Sites Could Be Tainted by


Dioxin», in The New York Times, 18 gennaio 1983.

The New York Times, 13 agosto 1983, 18 novembre 1983, 29 novembre 1983
e 1° dicembre 1983.

James Troyer, «In the Beginning: the Multiple Discovery of the First Hormone
Herbicìdes», in Weed Science, n. 49,2001, pp. 290-297.

Raymond R. Suskind et ai, «Progress Report. Patients from Monsanto


Chemical Company, Nitro, West Virginia», in Unpublished Kettering Report,
lugliol950.

J. Kimmig e Karl Heinz Schultz, «Berufliche Akne (sog. chlorakne) durch


chlorierte aromatische zyklische Àther», in Dermatologia, n. 115, 1957, pp. 540-

Peter Dovvns, «Cover up: Story of Dioxin Seems Intentionally Murky», in St.
Louis Joumalism Revievv, 1° giugno 1998. Vedi anche Robert Alien, The Dioxin
Wars. Trues and Lies About a Perfect Poison, Pluto Press, Londra 2004.

«The Monsanto Files», in The Ecologist, settembre-ottobre 1998,


Web.archive.org/Web/20000902182550/vvvvvv.zpok.hu/mirror/ecologist/SeptOct
. Assolutamente da consultare!

Brian Tokar, «Agribusiness, Biotechnology and War», Institute for Social


Ecology, 2 dicembre 2003, social-ecology.org/article.php?story=2003120

2095804101&query=Agribusiness%252C%2BBiotechnology%2Band
%2BWar.

William Buckingham jr, Operation Ranch Hand. The Air Force and Herbicìdes
in Southeast Asia, 1961-1971, Office of Air Force History, Washington 1982, p.
IV.

Ibidem, p. IlI.

Ibidem, p. 10.

Ih. Ibidem, p. 30.

Le stime più attendibili sono state pubblicate da Jane Mager Stellman, 407
«The Extent and Patterns of Usage of Agent Orange and Other Herbicìdes in
Vietnam», in Nature, 17 aprile 2003.

Le Monde, 26 aprile 2005.

GAO, «Ground Troops in South Vietnam Were in Areas Sprayed With Agent
Orange», FPCD 80-23,16 novembre 1979, p. 1.

Redatta il 19 settembre 1988, questa lettera è stata letta dal senatore Tom
Daschle di fronte a una commissione senatoriale il 21 novembre 1989.

Diane Courtney, «Tetratogenic Evaluation of 2,4,5-T», in Science, 15 maggio


1970.

Nel 1978 l’EPA ordina la sospensione delle irrorazioni di 2,4,5-T nelle foreste
nazionali dopo avere constatato un «aumento statisticamente significativo degli
aborti» nelle donne residenti nei pressi delle zone irrorate (Bioscience, n. 454,
agosto 1979).

Joe Thornton, Science for Sale. Critics of Monsanto Studies on Worker Health
Effects Due to Exposure to 2,3,7,8-Tetrachlorodibenzo-P-Dioxin (TCDD),
Greenpeace, 29 novembre 1990. Questo studio è stato presentato al National Press
Club di Washington (The Washington Post, 30 novembre 1990).

Istruzione dei querelanti, 3 ottobre 1989; vedi anche Alien, TheDioxin Wars,
cit.

Judith A. Zack e Raymond R. Suskind, «The Mortality Experience of Workers


Exposed to Tetrachlorodibenzodioxin in a Trichlorophenol Process Accident», in
Journal of Occupational Medicine, voi. 22, n. 1,1980, pp. 11-14; Judith A. Zack e
William R. Gaffey, «A Mortality Study of Workers Employed at the Monsanto
Company Plant in Nitro, West Virginia», in Environmental Science Research, voi.
26, 1983, pp. 575-591; Raymond R. Suskind e Vicki S.

Hertzberg, «Human Health Effects of 2,4,5-T and Its Toxic Contaminants», in


Journal of the American Medical Association, voi. 251, n. 18,1984, pp. 23722380.

Peter Schuk, Agent Orange on Trial. Mass Toxic Disaster in the Courts,
Harvard Università Press, Cambridge 1987, pp. 86-87, 155-164. La Monsanto ha
prodotto il 29,5 per cento dell’agente arancio utilizzato in Vietnam, contro il 28,6
per cento della Dovv Chemicals, ma alcuni suoi lotti contenevano una quantità di
diossina quarantasette volte maggiore di quelli della Dovv Chemicals.

Capitolo 3. Diossina: manipolazioni e corruzione Wall Street Journal, gennaio


1987 (data del giorno illeggibile sulla copia in mio possesso).

North Eastem Reporter, seconda serie, IlI, p. 1340.

Kemner vs. Monsanto, istruzione dei querelanti, 3 ottobre 1989.

Marilyn Fingerhut, «Cancer Mortality in Workers Exposed to 2,3,7,8-


Tetrachlorodibenzo-P-Dioxin», in New England Journal of Medicine, voi. 324, n.
4,24 gennaio 1991, pp. 212-218.

Anthony B. Miller, «Public Health and Hazardous Wastes», in Environmental


Epidemiology, voi. 1, National Academy Press, Washington 1991, p.

Thornton, Science for Sale, cit.

Raymond R. Suskind, «Testimony and Cross Examination», in Bogges et al.


vs. Monsanto, causa civile n. 81-2098-265, et seq. (USDC S.D. W.VA), 1986.

Alastair Hay ed Ellen Silberberg, «Dioxin Exposure at Monsanto», in Nature,


voi. 320,17 aprile 1986, p. 569.

Zack e Gaffey, «A Mortality Study», cit.

Alastair Hay, Ellen Silberberg, «Assessing the Risk of Dioxin Exposure»,


inNature, voi. 315,9 maggio 1985, pp. 102-103.

Report of Proceedings. Testimony of Dr. George Roush, Kemner vs.

Monsanto Company, causa civile n. 80-L-970, Circuit Court, St. Clair County,
Illinois, 8 luglio 1985, pp. 1-147; 9 luglio 1985, pp. 1-137.

Kemner vs. Monsanto, istruzione dei querelanti, 3 ottobre 1989.

Harrovvsmith, marzo-aprile 1990.

EPA, Drinking Water Criteria Document for 2,3,7,8-Tetrachlorodibenzo-P-


Dioxin, Office of Research and Development, Cincinnati, ECAO-CIN405, aprile
1988.

Cate Jenkins, «Memo to Raymond Loehr: Newly Revealed Fraud by Monsanto


in an Epidemiological Study Used by EPA to Assess Human Health Effects from
Dioxins», 23 febbraio 1990.
«Sentinel at the EPA. An Intervievv With William Sai\jour by Dick Carezza»,
in Fraud Magazine, settembre-ottobre 2007.

La sentenza della Corte d’appello è consultabile all’indirizzo


vvhistleblovvers.org/sanjourcase.htm.

William Sanjour, The Monsanto Investigation, 20 luglio 1994, pvvp.


lincs.net/sanjour/Monsanto.htm.

«Key Dioxin Study, a Fraud, EPA Says», in Charleston Gazette, 23 marzo


1990.

Apertura inchiesta, EPA, n. 90-07-06-101 (10Q), 20 agosto 1990; Cate Jenkins,


«Cover-Up of Dioxin Contamination in Products, Falsification of Dioxin Health
Studies», EPA, 15 novembre 1990, mindfully.org/Pesticìde/Monsanto-Coverup-
Dioxin-USEPA15nov90.htm.

Cate Jenkins vs. EPA, causa n. 92-CAA-6 presso l’Office of Administrative


Lavv Judges del dipartimento del Lavoro, verbale dell’udienza del querelante, 23
novembre 1992.

Dipartimento del Lavoro, Washington, 18 maggio 1994 (causa n. 92CAA-6).

Cate Jenkins vs. EPA, trascrizione del 29 settembre 1992.

The Washington Post, 17 maggio 1990.

Elmo R. Zumvvalt jr, «Report to the Secretary of the Department of Veterans


Affairs on the Association Betvveen Adverse Health Effects and Exposure to
Agent Orange», 5 maggio 1990, gulfvvarvets.corn/ao.html.

«A Cover-Up on Agent Orange?», in Time, 23 luglio 1990.

Thomas Daschle, «Agent Orange Hearing», documento del Congresso, S


2550,21 novembre 1989, iom.edu.

All’red M. Thiess, R. Frentzel-Beyme e R. Link, «Mortality Study of Persons


Exposed to Dioxin in a Trichlorophenol-Process Accident that Occurred in the
BASF AG on November 17,1953», in American Journal of Industrial Medicine,
voi. 3, n. 2,1982, pp. 179-189.

Stephanie Wanchinski, «New Analysis Links Dioxin to Cancer», in New


Scientist, 28 ottobre 1989. La frode era stata inoltre rivelata da Friedemann
Rohleder in occasione di una conferenza sulla diossina tenutosi a Toronto dal 17
al 22 settembre 1989.

R.C. Brovvnson, J.S. Reif, J.C. Chang e J.R. Davis, «Cancer Risks Among
Missouri Farmers», in Cancer, voi. 64, n. 11,1° dicembre 1989, pp. 2381-2386.

Aaron Blair, «Herbicìdes and non-Hodgkin’s Lymphoma: New Evidence from


a Study of Saskatchevvan Farmers», in Journal of the National Cancer Institute,
voi. 82,1990, pp. 544-545.

Pier Alberto Bertazzi et al., «Cancer Incidence in a Population Accidentally


Exposed to 2,3,7,8-Tetrachlorodibenzo-P-Dioxin», in Epidemiology, voi. 4,
settembre 1993, pp. 398-406.

Lennart Hardell e A. Sandstrom, «Case-Control Study: Soft Tissue Sarcomas


and Exposure to Phenoxyacetic Acids or Chlorophenols», in British Journal of
Cancer, voi. 39, 1979, pp. 711-717; Mikael Eriksson, Lennart Har410 dell, N.O.
Berg, T. Moller e Olav Axelson, «Soft Tissue Sarcoma and Exposure to Chemical
Substances: a Case Referent Study», in British Journal of Industrial Medicine,
voi. 38,1981, pp. 27-33; Lennart Hardell, Mikael Eriksson, P.

Lenner ed E. Lundgren, «Malignant Lymphoma and Exposure to Chemicals,


Especially Organic Solvents, Chlorophenols and Phenoxy Acids», in British
Journal of Cancer, voi. 43,1981, pp. 169-176; Lennart Hardell e Mikael Eriksson,
«The Association Betvveen Soft-Tissue Sarcomas and Exposure to Phenoxyacetic
Acids: a New Case Referent Study», in Cancer, voi. 62, 1988, pp.

652-656.

Royal Commission on the Use and Effects of Chemical Agents on Australian


Personnel in Vietnam, Final Report, voi. 1-9, Australian Government Publishing
Service, Canberra 1985.

«Agent Orange: the New Controversy. Brian Martin Looks at the Royal
Commission that Acquitted Agent Orange», in Australian Society, voi. 5, n.

11, novembre 1986, pp. 25-26.

Monsanto Australia Ltd., «Axelson and Hardell. The Odd Men Out»,
sottoposto alla Royal Commission on the Use and Effects of Chemical Agents on
Australian Personnel in Vietnam, reperto 1881,1985.
Citato in Lennart Hardell, Mikael Eriksson e Olav Axelson, «On the
Misinterpretation of Epidemiological Evidence, Relating to Dioxin-Containing
Phenoxyacetic Acids, Chlorophenols and Cancer Effects», in New Solutions,
primavera 1994.

Richard Doli e Richard Peto, «The Causes of Cancer: Quantitative Estimates


of Avoidable Risks of Cancer in the United States Today», in Journal of the
National Cancer Institute, voi. 66, n. 6, giugno 1981, pp. 1191-1308.

«Renovvned Cancer Scientist Was Paid by Chemical Firm for 20 Years», in


The Guardian, 8 dicembre 2006.

Lennart Hardell, Martin J. Walker, Bo Wahljalt, Lee S. Friedman ed Elihu D.


Richter, «Secret Ties to Industry and Conflicting Interests in Cancer Research», in
American Journal of Industrial Medicine, 3 novembre 2006.

Arnold Schecter, Hoang Trong Quynh, Marian Pavuk, Olaf Papke, Rainer
Malisch e John D. Constable, «Food as a Source of Dioxin Exposure in the
Residents of Bien Hoa City, Vietnam», in Journal of Occupational and
Environmental Medicine, voi. 45, n. 8, agosto 2003, pp. 781-788.

Le Cao Dai et al, «A Comparison of Infant Mortality Rates Betvveen Tvvo


Vietnamese Villages Sprayed by Defoliants in Wartime and One Unsprayed
Village», in Chemosphere, voi. 20, agosto 1990, pp. 1005-1012.

New Scientist, 20 marzo 2005.

The New York Times, 10 marzo 2005.

Corpvvatch, 4 novembre 2004.

Capitolo 4. Round-up: operazione intossicazione Round-up-


jardin.corn/page.php?rub=service_Round-up_Round-up.

Sustainable Agriculture Week, voi. 3, n. 7,11 aprile 1994, IATP, Minneapolis.

Problems Plague the EPA Pesticìde Registration Activities, Congresso degli


Stati Uniti, Camera dei rappresentanti, rapporto della Camera 98-1147, 1984.

EPA, Office of Pesticìdes and Toxic Substances, Summary of the IBT

Revievv Program, Washington, luglio 1983.

EPA, Data Validation. Memo from K. Locke, Toxicology Branch, to R.


Taylor, Registration Branch, Washington, 9 agosto 1978.

EPA, Communications and Public Affairs, Note to Correspondents,


Washington, 1° marzo 1991.

The New York Times, 2 marzo 1991.

Ibidem.

«Testing Fraud. IBT and Craven Laboratories», giugno 2005, monsanto.


corn/products/techandsafety/herbicìde_scipubs.asp.

Caroline Cox, «Gliphosate Factsheet», in Journal of Pesticìde Reform, voi.


108, n. 3, autunno 1998, mindfully.org/Pesticìde/Round-up-GlyphosateFactsheet-
Cox.htm. Questo articolo è un eccellente riassunto di tutte le questioni sollevate
dal Round-up. mindfully.org/Pesticìde/Monsanto-v-AGNYnov96.htm.

Procuratore dello Stato di New York, Consumer Frauds and Protection Bureau,
Environmental Protection Bureau, In the Matter of Monsanto Company,
Respondent. Assurance of Discontinuance Pursuant to Executive Lavv § 63(15),
New York, aprile 1998.

Isabelle Tron, Odile Piquet e Sandra Cohuet, Ejfets chroniques des pesticìdes
sur la santé: état actuel des connaissances, Observatoire regional de santé de
Bretagne, gennaio 2001.

Sheldon Rampton e John Stauber, Fidati, gli esperti siamo noi, Nuovi Mondi
Media, San Lazzaro di Savena (BO) 2004.

Fabrice Nicolino e Francois Veillerette, Pesticìdes, révélations sur una


scandalefrangais, Fayard, Parigi 2007.

Julie Marc, Effets toxiques d’herbicìdes à base de glyphosate sur la régulation


du cycle cellulaire et le développement précoce en utilisant l’embryon d’oursin,
Università di Rennes, 10 settembre 2004.

Helen H. McDuffie et al., «Non-Hodgkin’s Lymphoma and Specific Pesticìde


Exposures in Men: Cross-Canada Study of Pesticìdes and Health», in Cancer
Epidemiology Biomarkers and Prevention, voi. 10, novembre 2001, pp. 1155-
1163.

Lennart Hardell, Mikael Eriksson e Marie Nordstrom, «Exposure to Pesticìdes


as Risk Factor for Non-Hodgkin’s Lymphoma and Hairy Celi Leukaemia: Pooled
Analysis of Tvvo Svvedish Case-Control Studies», in Leukaemia and lymphoma,
voi. 43,2002, pp. 1043-1049.

Anneclaire J. De Roos et al, «Integrative Assessment of Multiple Pesticìdes as


Risk Factors for Non-Hodgkin’s Lymphoma Among Men», in Occupational
Environmental Medicine, voi. 60, n. 9, 2005.

Anneclaire J. De Roos et al., «Cancer Incidence Among GlyphosateExposed


Pesticìde Applicators in the Agricultural Health Study», in Environmental Health
Perspectives, voi. 113,2005, pp. 49-54.

Marc, Effets toxiques, cit.

Il rapporto intitolato Étude phyto air, finanziato dalla regione NordPas-de-


Calais e condotto dall’istituto Pasteur di Lille, è un’ottima fonte di informazioni
sui problemi posti dagli adiuvanti contenuti negli erbicìdi: pasteur-
lille.fr/images/images_accueil/Rapport%20Phytoair.pdf.

Institute of Science in Society, comunicato stampa del 7 marzo 2005.

Julie Marc, Odile Mulner-Lorillon e Robert Bellé, «Glyphosate-Based


Pesticìdes Affect Celi Cycle Regulation», inBiology ofthe Celi, voi. 96, 2004, pp.
245-249. iye E. Arbuckle, Zhiqiu Lin e Leslie S. Mery, «An Exploratory Analysis
of the Effect of Pesticìde Exposure on the Risk of Spontaneous Abortion in an
Ontario Farm Population», in Environmental Health Perspectives, voi. 109, 1°
agosto 2001, pp. 851-857.

John F. Acquavella et al, «Glyphosate Biomonitoring for Farmers and their


Families Results from the Farm Family Exposure Study», in Environmental
Health Perspectives, voi. 112,2004, pp. 321-326.

Lance P. Walsh, «Round-up Inhibits Steroidogenesis by Disrupting


Steroidogenic Acute Regulatory (StAR) Proteìn Expression», in Environmental
Health Perspectives, voi. 108, 2004, pp. 769-776.

Eliane Daliegrave et al., «The Teratogenic Potential of the Herbicìde 413

Glyphosate Round-up® in Wistar Rats», in Toxicology Letters, voi. 142, 2003,


pp. 45-52.

Gilles-Éric Séralini et al., «Differential Effects of Glyphosate and Round-up on


Human Placental Cells and Aromatase», in Environmental Health Perspectives,
voi. 113, n. 6, 25 febbraio 2005; Nora Benachour et al., «Time and Dose
Dependent Effects of Round-up on Human Embryonic and Placental Cells», in
Archives of Environmental Contamination and Toxicology, voi.

53,n. 1, luglio 2007, pp. 126-133.

Christian Ménard, «Rapport fait au nom de la Mission d’information sur les


enjeux des essays et de l’utilisation des organismes génétiquement modifiés»,
Assemblea nazionale francese, 13 aprile 2005, assemblee-nationale. fr/12/rap-
info/i2254-tl.asp.

Marc, Effets toxiques, cit.

Rick A. Relyea et al., «Pesticìdes and Amphibians: the Importance of


Community Context», in Ecological Applications, voi. 15, n. 4, 1° luglio 2005.

Università di Pittsburgh, comunicato stampa del 1° aprile 2005.

Hsin-Ling Lee et al., «Clinical Presentations and Prognostic Factors of a


Glyphosate Surfactant Herbicìde Intoxication: a Revievv of 131 Cases»,
mAcademic Emergency Medicine, voi. 7, n. 8,2000, pp. 906-910.

Pesticìdes News, n. 33, settembre 1996, pp. 28-29.

Earthjustice Legai Defence Fund, «Spraying Toxic Herbicìdes on Rural


Colombian and Ecuadorian Communities», 15 gennaio 2002, mindfully.org/

Pesticìde/2002/Round-up-Human-Rights24jan02.htm.

Capitolo 5. Il caso dell’ormone della crescita bovina (parte prima): l’influenza


sulla FDA

The Los Angeles Times, 1° agosto 1989. Nello stesso periodo Samuel Epstein
scrive un articolo scientifico: «Potential Public Health Hazards of Biosynthetic
Milk Hormones», in International Journal of Health Services, voi. 20, n.l, 1990,
pp. 73-84.

A questo articolo ne segue un altro di Samuel Epstein: «Questions and


Ansvvers on Synthetic Bovine Grovvth Hormones», in International Journal of
Health Services, voi. 20, n. 4,1990, pp. 573-582. termini usati dal Congresso sono
«knovving acts of non disclosure » (atti consapevoli di dissimulazione) e
«reckless acts» (atti sconsiderati): Sa414 muel Epstein, Testimony on White
Collar Crime, H.R. 4973, presso il Subcommittee on Crime of the House
Judiciary Committee, 13 dicembre 1979.
«FDA Accused of Improper Ties in Revievv of Drug for Milk Covvs», in The
New York Times, 12 giugno 1990.

Judith C. Juskevich e C. Greg Guyer, «Bovine Grovvth Hormone: Human


Food Safety Evaluation», in Science, voi. 249, n. 4971,24 agosto 1990, pp.
875884.

Frederick Bever, «Canadian Agency Questions Approvai of Covv Drug by


US», Associated Press, 6 ottobre 1998.

7.LeMonde, 30 agosto 1990.

Secondo le fonti disponibili, il tasso di IGF1 presente nel latte proveniente da


animali trattati può essere da due a dieci volte superiore a quello rilevato nel latte
naturale. Nella richiesta di omologazione che la Monsanto ha rivolto alle autorità
britanniche, l’azienda parla di un livello «fino a cinque volte superiore» (T. Ben
Mepham et al., «Safety of Milk from Covvs Treated With Bovine
Somatotropine», in The Lancet, voi. 344, 19 novembre 1994, pp.

1445-1446).

C. Xian, «Degradation of IGF1 in the Adult Rat Gastrointestinal Tract is


Limited by a Specific Antiserum or the Dietary Proteìn Casein», in Journal of
Endocrinology, voi. 146, n. 2,1° agosto 1995, p. 215.

June M. Chan et al., «Plasma Insulin-Like Grovvth Factor 1 and Prostate


Cancer Risk: a Prospective Study», in Science, voi. 279, 23 gennaio 1998, pp.

563-566.

Susan E. Hankinson et al., «Circulating Concentrations of Insulin-Like


Grovvth Factor 1 and Risk of Breast Cancer», in The Lancet, voi. 351, n. 9113,
1998, pp. 1393-1396.

The Milkvveed, agosto 2006. Questo articolo recensisce tutta la letteratura


scientifica disponibile sui legàmi fra l’IGF1 e il tumore al seno.

The Journal of Reproductive Medicine, maggio 2006; The Milkvveed, giugno


2006; The New York Times, 30 maggio 2006. Il tasso di gemelli negli Stati Uniti
è passato dall’1,89 per cento delle nascite nel 1977 al 3,1 nel 2002

(due volte di più rispetto al Regno Unito).


«NIH Technology Assessment Conference Statement on Bovine
Somatotropine», in Journal of the American Medical Association, voi. 265, n. 11,
20 marzo 1991, pp. 1423-1425.

AMA, «Biotechnology and the American Agricultural Industry», in Journal


ofthe American Medical Association, voi. 265, n. 11, 20 marzo 1991, p.

1433.

Eliot Marshall, «Scientists Endorse Ban on Antibiotics in Feeds», in Science,


voi. 222,11 novembre 1983, p. 601.

Barry R. Bloom e Christopher J.L. Murray, «Tubercolosis: Commentary on a


Reemergent Killer», in Science, voi. 257,21 agosto 1992, pp. 1055-1064.

Sharon Begley, «The End of Antibiotics», in Newsvveek, voi. 123,28 marzo


1994, pp. 47-52.

Il GAO ha redatto un rapporto specifico sulla questione dei residui di


antibiotici nel latte: si viene così a sapere che esistono pochi test disponibili per
misurarli; la FDA dispone solo di quattro di questi, di cui uno è per la penicillina.
Trenta farmaci risultano autorizzati per gli allevamenti da latte e sessantadue
sarebbero usati in modo illegale (GAO, Food Safety and Quality.

FDA Strategy Needed to Address Drugs Animai Residues in Milk,


GAO/PMED-92-26,1992).

Erik Millstone, Eric Brunner e Ian White, «Plagiarism or Protecting Public


Health?», mNature, voi. 371,20 ottobre 1994, pp. 647-648.

Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, Baldini & Castoldi Dalai, Milano 2003.

Samuel Epstein aveva già espresso la propria rabbia sul Los Angeles Times, 20
marzo 1994.

Capitolo 6. Il caso dell’ormone della crescita bovina (parte seconda): l’arte di


mettere a tacere le voci discordanti Federal Register, voi. 59, n. 28,10 febbraio
1994, p. 6279. cfsan.fda.gov/~lrd/fr940210.html.

Questo testo di trentadue pagine è stato firmato da Richard A. Merrill, Jess H.


Stribling e Frederick H. Degnan.

Capital Times, 19-20 febbraio 1994.

The Washington Post, 18 maggio 1994.


The New York Times, 12 luglio 2003.

«Oakhurst to Alter Its Label», in The Portland Press Herald, 25 dicembre 2003.

Associated Press, 18 febbraio 2005.

Mark Kastel, «Dovvn on the Farm: the Reai BGH Story Animai Health
Problems, Financial Troubles», mindfully.org/GE/Dovvn-On-The-Farm-BGH

1995.htm. ^

.Metroland, 11 agosto 1994.

St. Louis Post-Dispatch, 15 marzo 1995.

La storia dei due giornalisti è al centro di un capìtolo del libro di Kristina


Borjesson, Into the Buzzsavv. Leading Joumalists Expose the Myth of a Free
Press, Prometheus Books, New York 2002.

Consultabili sul sito foxbghsuit.corn.

Capitolo 7. L’invenzione degli OGM

Edvvard L. Tatum, «A Case History in Biological Research», conferenza per la


cerimonia di consegna del Premio Nobel, 11 dicembre 1958 (citato in Hervé
Kempf, La guerre secrète des OGM, Seuil, Parigi 2003, p. 16).

Arnaud Apoteker, Du poisson dans les fraises, La Découverte, Parigi 1999


(trad. it. L’invasione del pesce fragola, Editori Riuniti, Roma 2000).

Citato in Robert Shapiro, «The Welcome Tension of Technology: the Need for
Dialog About Agricultural Biotechnology», in CEO Series Issues, n.

37,Center for the Study of American Business, febbraio 2000.

Citato in Kempf, La guerre secrète, cit., p. 23.

Ibidem, p. 25.

Susan Wright, Molecular Politics. Developing American and British


Regulatory Policyfor Genetic Engineering, 1972-1982, Università of Chicago
Press, Chicago 1994, p. 107 (citato in Kempf, La Guerre secrète, cit., p. 49).

Daniel Charles, Lords ofthe Harvest, Basic Books, New York 2002, p. 24.

Citato in Kempf, La guerre secrète, cit., p. 57.


Citato in Charles, Lords of the Harvest, cit., p. 38.

Ibidem, p. 37.

Luca Cornai et al, «Expression in Plants of a Mutant aro A Gene from


Salmonella typhimurium Confers Tolerance to Glyphosate», in Nature, n.

317,24 ottobre 1985, pp. 741-744.

Citato in Charles, Lords of the Harvest, cit., p. 67.

Stephanie Simon, «Biotech Soybeans Plant Seed of Risky Revolution», in The


Los Angeles Times, 1° luglio 2001.

Ibidem.

CropChoice News, 16 novembre 2003.

Citato in Charles, Lords of the Harvest, cit., p. 75.

Simon, «Biotech Soybeans», cit.

Apoteker, Du poisson, cit., pp. 36-37.

Kurt Eichenvvald, Gina Kolata e Melody Peterson, «Biotechnology Food:


from the Lad to a Debacle», in The New York Times, 25 gennaio 2001.

417

Coordinated Framevvork for Regulation of Biotechnology, Office of Science


and Technology Policy, 51 FR 23302, 26 giugno 1986, usbiotechreg. nbii.gov/.

Eichenvvald, Kolata e Peterson, «Biotechnology Food», cit.

Ibidem.

Charles, lords of the Harvest, cit., p. 28.

Eichenvvald, Kolata e Peterson, «Biotechnology Food», cit.

Citato in Jeffrey M. Smith, Seeds ofDeception, Exposing Industry and


Government Lies about the Safety of the Genetically Engineered Foods You 're
Eating, Yes! Books, Fairfield 2003, p. 130 (trad. it. L’inganno a tavola. Le bugie
delle industrie e dei governi sulla sicurezza dei cibi geneticamente modificati,
Nuovi Mondi Media, Modena 2004).
FDA, «Statement of Policy: Foods Derived from New Plant Varieties», in
Federal Register, 29 maggio 1992, voi. 57, n. 104, p. 22983, vm.cfsan.fda.gov/

~lrd/biocon.html.

Ibidem, p. 22985.

Citato in Charles, Lords of the Harvest, cit., p. 143.

FAO, Les Organismes génétiquement modifiés, les consommateurs, la sécurité


des aliments et l’environnement, Roma 2001, fao.org/docrep/003

/X9602F/x9602f00.HTM.

Smith, Seeds ofDeception, cit., pp. 107-127; dello stesso autore, Genetic
Roulette. The Documented Health Risks of Genetically Engineered Foods,
Chelsea Green Publishing, White River 2007, pp. 60-61, seedsofdeception.corn
/Public/Home/index.cfm.

FDA’s Regulation of the Dietary Supplement L-Tryptophan, Human Resources


and Intergovernmental Subcommittee of the Committee on Government
Operations, Camera dei rappresentanti, Washington 1991.

Arthur N. Mayeno e Gerald J. Gleich, «Eosinophilia Myalgia Syndrome and


Tryptophan Production: a Cautionary Tale», in Trends Biotechnology, voi.

12,1994, pp. 346-352.

Citato in Smith, Genetic Roulette, cit., p. 61.

«Information Paper on L-Tryptophan and 5-Hydroxy-L-Tryptophan», FDA,


Office of Nutritional Products, Labeling and Dietary Supplements, febbraio 2001,
vm.cfsan.fda.gov/%7Edms/ds-trypl.html.

Memorandum di James Maryanski su un incontro con Bill Layden e Michelle


Bernard, FDA, 27 novembre 1991.

FDA, «Statement of Policy», cit., p.22991.

Smith, Genetic Roulette, cit., p. 61.

Capitolo 8. Scienziati messi a tacere biointegrity.org.

Vedi soprattutto la deposizione di Steven Druker del 30 novembre 1999 di


fronte alla FDA: «Why FDA Policy on Genetically Engineered Foods Violates
Sound Science and US Lavv», Panel of Scientific Safety and Regulatory Issues,
psrast.org/drukeratfda.htm.

Causa registrata con il nome di Alliance for Bio-Integrity vs. Shalala et al.

The New York Times, 4 ottobre 2000.

«Genetically Engineered Foods», in FDA Consumer, gennaio-febbraio 1993, p.


14. biointegrity.org/list.html.

«Memorandum from the FDA Division of Food Chemistry & Technology to


James Maryanski, FDA Biotechnology Coordinator», 1° novembre 1991.

Samuel Shibko, «Memorandum to Dr. James Maryanski. Subject: Revision of


Toxicology Section of the Statement of Policy: Foods Derived from Genetically
Modified Plants», 31 gennaio 1992, biointegrity.org/FDAdocs/03

Mevvl.html.

Gerald Guest, «Memorandum to Dr. James Maryanski. Subject: Regulation of


Transgènic Plants, FDA draft Federal Register Notice on Food Biotechnology», 5
febbraio 1992, biointegrity.org/FDAdocs/08/vievvl.html.

Louis Pribyl, «Comments on Biotechnology Draft Document», 27 febbraio


1992, biointegrity.org/FDAdocs/04/vievvl.html.

Lettera di James Maryanski al dottor Bill Murray, presidente del Food


Directorate, Canada, 23 ottobre 1991, biointegrity.org/FDAdocs/06/vievvl.html.

Linda Kahl, «Memorandum to James Maryanski, FDA Biotechnology


Coordinator», 8 gennaio 1992, biointegrity.org/FDAdocs/01/vievvl.html.

FDA, «Statement of Policy», cit., p. 23000 (punto 17d).

Michael Hansen e Jean Halloran, «Why We Need Labeling of Genetically


Engineered Food», in Consumers International, Consumer Policy Institute, aprile
1998; «Compilation and Analysis of Public Opinion Polis on Genetically
Engineered Foods», CFS, 11 febbraio 1999.

Time Magazine, 11 febbraio 1999.

«Citizen Petition Before the United States Food and Drug Administration», 21
marzo 2000, fda.gov/ohrms/dockets/dailys/00/mar00/032200/ cp00001.pdf.

Douglas Gurian-Sherman, «Holes in the Biotech Safety Nest. FDA Policy 419
Does not Assure the Safety of Genetically Engineered Foods», Center for
Science in the Public Interest, Washington 2001.

«Pathology Branch’s Evaluation of Rats With Stomach Lesions from Three


Four-Week Orai (Gavage) Toxicity Studies/Flavr Savr Tornato», memorandum
del dottor Fred Hines alla dottoressa Linda Kahl, 16 giugno 1993,
biointegrity.org/FDAdocs/18/vievvl.html.
biointegrity.org/FDAdocs/19/vievvl.html. ilsi.org. Vedi anche
ilsi.org/AboutILSI/IFBIC.

Sarah Bosely, «WHO ‘Infiltrated by Food Industry’», in The Guardian, 9


gennaio 2003.

IFBiC, «Biotechnologies and Food: Assuring the Safety of Foods Produced by


Genetic Modification», in Regulatory Toxicology and Pharmacology, voi. 12, n.
3,1990.

FDA, «Statement of Policy», cit., p. 23003.

«Monsanto Employees and Government Regulatory Agencies are the Same


People!», in Green Block, 8 dicembre 2000,
purefood.org/Monsanto/revolvedoor.cfm. Vedi anche Agribusiness Exarniner
Newsletter, 16 giugno 1999, e The Washington Post, 7 febbraio 2001.

Philip Mattera, «USDA Inc.: Hovv Agribusiness Has Hyacked Regulatory


Policy at the US Department of Agriculture», intervento alla conferenza su
alimenti e agricoltura dell’Organizzazione dei mercati competitivi tenutasi a
Omaha, nel Nebraska, il 23 luglio 2004.

St. Louis Post-Dispatch, 30 maggio 1999.

Federal News Service, «Remarks of Secretary of Agriculture Dan Glickman


Before the Council for Biotechnology Information», 18 aprile 2000.

Dan Glickman, «Hovv Will Scientists, Farmers and Consumers Learn to Love
Biotechnology and What Happens if They Don’t?», 13 luglio 1999,
usda.gov/nevvs/releases/1999/07/0285. ratical.org/co-
globalize/MonsantoRpt.html.

Juskevich e Guyer, «Bovine Grovvth Hormone», cit.

Erik Millstone, Eric Brunner e Sue Mayer, «Beyond Substantial Equivalence»,


inNature, 7 ottobre 1999.
Stephen Padgette, Nancy Biest Taylor, Debbie Nida, Michele Bailey, John
MacDonald, Larry Holden e Roy Fuchs, «The Composition of
GlyphosateTolerant Soybean Seeds is Equivalent to That of Conventional
Soybeans», in The Journal ofNutrition, voi. 126, n. 4, aprile 1996.

Barbara Keeler e Marc Lappé, «Some Food for FDA Regulation», in The Los
Angeles Times, 7 gennaio 2001.

Marc Lappé, Britt Bailey, Chandra Childress e Kenneth Setchell, «Alterations


in Clinically Important Phytoestrogens in Genetically Modified,
HerbicìdeTolerant Soybeans», in Journal ofMedid.mil Food, voi. 1, n. 4,1° luglio
1999. monsanto.co.uk/nevvs/ukshovvlib.phtml?uid=1612. Da notare che il
comunicato è datato 23 giugno 1999.

Marc Lappé e Britt Bailey, Against the Grain. Biotechnology and the
Corporate Takeover ofYour Food, Common Courage Press, Monroe 1998.

The New York Times, 25 ottobre 1998.

Ian Pryme e Rolf Lembcke, «In vivo Studies on Possible Health Consequences
of Genetically Modified Food and Feed With Particular Regard to Ingredients
Consisting of Genetically Modified Plant Materials», inNutrition and Health, voi.
17,2003.

Bruce Hammond, John Vicini, Gary Hartnell, Mark Naylor, Christopher


Knight, Edvvin Robinson, Roy Fuchs e Stephen Padgette, «The Feeding Value of
Soybeans Fed the Rats, Chickens, Catfish and Dairy Cattle is Not Altered by
Genetic Incorporation of Glyphosate Tolerance», in The Journal ofNutrition,
aprile 1996, voi. 126, n. 3, pp. 717-727.

Manuela Malatesta et al., «Ultrastructural Analysis of Pancreatic Acinar Cells


from Mice Fed on Genetically Modified Soybean», in Journal of Anatomy, voi.
201, novembre 2002, pp. 409-415; Manuela Malastesta et al., «Fine Structural
Analyses of Pancreatic Acinar Celi Nuclei from Mice Fed on Genetically
Modified Soybean», in European Journal of Histochemistry, ottobre-dicembre
2003, pp. 385-388. Vedi anche «Nouveaux soupcons sur les OGM», in Le Monde,
9 febbraio 2006.

Capitolo 9. 1995-1999: la Monsanto tesse la tela Vedi Francois Dufour, «Les


savants fous de l’agroalimentaire», in Le Monde diplomatique, luglio 1999. Da
notare che, per la campagna 1996-1997, il tasso di autosufficienza della Francia
per le tre oleaginose era del 22 per cento.
«Scientist’s Potato Alert Was False, Laboratory Admits», in The Times, luglio
1998.

«Doctor’s Monster Mistake», in Scottish Daily Record & Sunday Mail, ottobre
1998.

The Daily Telegraph, 10 giugno 1999.

«Le Transgénique, la pomme de terre et le soufflé médiatique», in Le Monde,


15 agosto 1998.

«Genetically Modified Organisms. Audit Report of Rovvett Research on


Lectines», comunicato stampa, Rovvett Institute, 28 ottobre 1998.

The Guardian, 12 febbraio 1999; «Le Rat et la patate, chronique d’un scandale
britannique», in Le Monde, 17 febbraio 1999; «Peer Revievv Vindicates Scientist
Let Go for ‘Improper’ Warning About Genetically Modified Food», inNatuaral
Science Journal, 11 marzo 1999.

The Scotsman, 13 agosto 1998.

«Testimony of Professor Philip James and Dr. Andrevv Chesson», analisi delle
testimonianze, caso 247, 8 marzo 1999, parliament.the-stationery-
office.co.uk/pa/cml99899/cmselect/cmsctech/286/9030817.htm.

«Loss of Innocence: Genetically Modified Food», in New Statesman, 26


febbraio 1999, p. 47 (citato in Smith, Seeds ofDeception, cit., p. 24).

«Furor Food: the Man With the Worst Job in Britain», in The Observer,
febbraio 1999.

Citato in Smith, Seeds ofDeception, cit., p. 24.

«People Distrust Government on GM Foods», in Sunday Independent, maggio


1999.

«Labour’s Reai Aim on GM Food», in Sunday Independent, 23 maggio 1999.

Memorandum del dottor Stanley William Barclay Evven, dipartimento di


patologia, Università di Aberdeen, 26 febbraio 1999, parliament.the-stationery-
office.co.uk/pa/cml99899/cmseleciycmsctech/286/9030804.htm.

Laurie Flynn e Michael Sean Gillard, «Pro-Gm Food Scientist ‘Threatened


Editor’», in The Guardian, 1° novembre 1999.
Stanley Evven e Arpad Pusztai, «Effects of Diets Containing Genetically
Modified Potatoes Expressing Galanthus Nivalis Lectin on Rat Small Intestines»,
inTheLancet, n. 354,1999, pp. 1353-1354.

Steve Connor, «Scientists Revolt at Publication of ‘Flavved GM Study’», in


The Independent, 11 ottobre 1999 (citato in Kempf, La Guerre secrète, cit., p.

181).

Flynn e Gillard, «Pro-GM Food Scientist», cit.

Andrevv Rovvell, «The Sinister Sacking of the World’s Leading GM Expert -


and the Trail That Leads to Tony Blair and the White House», in The Daily Mail,
7 luglio 2003.

Rapporto annuale della Monsanto per il 1997 (citato in The Washington Post,
1° novembre 1999).

The New Yorker, 10 aprile 2000.

The Ecologist, settembre-ottobre 1998.

Kempf, La Guerre secrète, cit., p. 110.

The New Yorker, 10 aprile 2000.

«Grovvth Through Global Sustainability. An Intervievv With Robert Shapiro,


Monsanto’s CEO», in Harvard Business Revievv, 1° gennaio 1997.

Ibidem.

«Intervievv Robert Shapiro: Can We Trust the Maker of Agent Orange to


Genetically Engineer Our Food?», in Business Ethics, gennaio-febbraio 1997.

Consiglio agli anglofoni la lettura di questo appassionante articolo: Michael


Specter, «The Pharmaggedon Riddle», in The New Yorker, 10 aprile 2000.

«Intervievv Robert Shapiro», cit.

The Ecologist, voi. 28, n. 5, settembre-ottobre 1998.

Citato in Charles, Lords of the Harvest, cit., p. 119.

Ibidem, p. 120.

Ibidem, p. 179.
Ibidem, p. 151.

Ibidem, p. 177.

Ibidem, p. 200.

Chemistry and Industry, 20 luglio 1998.

The Daily Telegraph, 7 giugno 1998.

Associated Press, 7 giugno 1998.

Reuters, 11 agosto 1998. Nel febbraio 1999 l’azienda sarà finalmente


condannata per falsa pubblicità (The Guardian, 28 febbraio 1999). In tutto sono
state istruite trenta cause.

The Ecologist, settembre-ottobre 1998. Assolutamente da leggere!

Inoltre, il 1° luglio 1999 il settimanale francese Courrier International ha


pubblicato il dossier in francese, cosa che ha comportato una richiesta di diritto di
replica da parte della Monsanto, pubblicata nell’edizione del 29 luglio.

Vi si legge: «Per quanto riguarda l’agente arancio, gli autori di Ecologist hanno
dimenticato di segnalare che studi approfonditi condotti per anni dall’Aviazione
americana e da altri organismi hanno dimostrato che non esistono effetti nocivi
gravi per la salute associati a questo defogliante».

The Guardian, 29 settembre 1998.

Justin Gillis e Anne Svvardson, «Crop Busters Take on Monsanto Backlash


Against Biotech Foods Exacts a High Price», in The Washington Post, 27

423 ottobre 1999. Il 26 ottobre 1999 un’azione della Monsanto era quotata a
39,18 dollari alla Borsa di New York, contro i 62,72 dollari dell’agosto 1998.

Véronique Lorelle, «L’Arrogance de Monsanto a mis à mal son rève de nourrir


la planète», in Le Monde, 8 ottobre 1999.

Gillis e Svvardson, «Crop Busters», cit.

Michael Watkins, «Robert Shapiro and Monsanto», Harvard Business School,


2 gennaio 2003.

Véronique Lorelle, «Le Patron de Monsanto, prophète des OGM, démissionne


pour cause de mauvais résultats», in Le Monde, 20 dicembre 2002. Nel l’azienda
ha registrato una perdita netta di 1,7 miliardi di dollari.
Capitolo 10. La legge ferrea dei brevetti sugli organismi viventi Per ulteriori
informazioni sui brevetti per gli organismi viventi, si veda il mio documentario
Les pirates du vivant, disponibile in DVD nella collana Alerte Verte (alerte-
verte.corn).

Monsanto, The Pledge Report 2005, cit., p. 42.

Monsanto, 2005 Technology Use Guide, art. 19 (citato nel rapporto del CFS,
Monsanto vs. US Farmers, novembre 2005, p. 20, centerforfoodsafety.
org/Monsantovsusfarmersreport.cfm.)

Charles, Lords of the Harvest, cit., p. 185.

Ibidem, p. 155.

Ibidem, p. 187.

Rich Weiss, «Seeds of Discord: Monsanto’s Gene Police Raise Alarm on


Farmer’s Rights, Rural Tradition», in The Washington Post, 3 febbraio 1999.

CFS, Monsanto vs. US Farmers, cit.

The Chicago Tribune, 14 gennaio 2005.

«Lavvsuits Filed Against American Farmers by Monsanto», Administrative


Office of the US Courts, pacer.uspci.uscourts.gov.

Citato in Charles, Lords of the Harvest, cit., p. 187.

Ibidem.

Weiss, «Seeds of Discord», cit.

Associated Press, 28 aprile 2004.

Citato in CFS, Monsanto vs. US Farmers, cit., p. 44. fc.

Intervista realizzata da Robert Schuman per Cropchoice News, 6 aprile 2001.

Questa storia è riportata in CFS, Monsanto vs. US Farmers, cit. Inoltre, ne ho


parlato con l’avvocato di Mitchell Scrugg, James Robertson, che possiede
immagini filmate del dispositivo utilizzato dagli agenti della Monsanto.

Associated Press, 10 maggio 2003.

Andrevv Martin, «Monsanto ‘Ruthless’ in Suing Farmers, Food Group Says»,


in Chicago Tribune, 14 gennaio 2005. Secondo questo articolo, dei novanta
processi intentati dalla Monsanto fino al 2005, quarantasei si sono svolti a Saint
Louis.

St. Louis Business Journal, 21 dicembre 2001.


record.vvustl.edu/archive/2000/10-09-00/articles/lavv.html.
populist.corn/02.18.mcmillen.html.

Hervé Kempf, «Percy Schmeiser, un rebelle contre les OGM», in Le Monde,


17 ottobre 2002.

Invito i lettori a consultare il sito di Percy Schmeiser, in cui illustra tutti i


particolari del suo caso: percyschmeiser.corn.

Hervé Kempf, «Le Trouble d’une piaine du Saskatchevvan», in Le Monde, 26


gennaio 2000.

Toronto Star e Star Phoenix, 6 giugno 2000.

Kempf, «Percy Schmeiser», cit.

28.«Monsanto Canada Inc. vs. Percy Schmeiser», 29 marzo 2001. pp. 5155,
citato inStarPhoenix, 30 marzo 2001.

The Washington Post, 30 marzo 2001.

Citato in Kempf, «Percy Schmeiser», cit.

The Sacramento Bee, 22 maggio 2004.

Ibidem.

Monsanto, The Pledge Report 2001-2002, p. 19.

CBCNews and CurrentAffairs, 21 giugno 2001.

Conferenza annuale della Canadian Bar Association’s, agosto 2001.

Soil Association, Seeds ofDoubt. North American Farmers’Experiences of GM


Crops, settembre 2002, soilassociation.org/seedsofdoubt. Invito a leggere questo
documento fondamentale, che è disponibile anche in traduzione italiana in
formato PDF.

37.New Scientist, 24 novembre 2001. Da allora il sito del governo canadese


sugli OGM (ogm.gouv.qc.ca/envi_canolagm.html) afferma che «il polline può
spostarsi di almeno quattro chilometri», dato confermato da studi britannici e
australiani.
«GM Volunteer Canola Causes Havoc», in The Western Producer, 6 settembre
2001.

The Guardian, 8 ottobre 2003.

Soil Association, Seeds ofDoubt, cit., p. 47.

«Firms Move to Avoid Risk of Contamination», in The Times, 29 maggio


2000.

Kempf, «Le Trouble», cit. patentstorm.us/patents/6239072-claims.html.

Soil Association, Seeds ofDoubt, cit., p. 24; vedi anche «Monsanto Sees
Opportunity in Glyphosate Resistant Volunteer Weeds», in CropchoiceNews, 3
settembre 2001.

Science e The Independent, 10 ottobre 2003.

«Introducing Round-up Ready Soybeans. The Seeds of Revolution»,


documento non datato in mio possesso.

Monsanto, The Pledge Report 2005, cit., p. 18.

Charles Benbrook, «Genetic Engineered Crops and Pesticìdes Use in the


United States: the First Nine Years», ottobre 2004, biotech-info.net
/Full_version_first_nine.pdf.

AgBioTech InfoNet Technical Paper, n. 4,3 maggio 2001.

Ibidem. Nello stesso anno un documento della Monsanto («The Round-up


Ready Soybean System: Sustainability and Herbicìde Use», Monsanto, aprile
1998) affermava che «il consumo di erbicìdi era in media più basso nei campi di
soia Round-up Ready rispetto agli altri campi».

Secondo il Los Angeles Times del 1° luglio 2001, il Round-up era usato sul 20
per cento delle coltivazioni americane nel 1995 e sul 62 per cento quattro anni
dopo.

Benbrook, «Genetic Engineered Crops», cit., p. 7.

Indianapolis Star, 20 febbraio 2001. mindfully.org/GE/GE4/Glyphosate-


Resistant-SyngentaDec02.htm.
Intervento di Charles Benbrook alla Pevv Initiative on Food and
Biotechnology, 4 febbraio 2002, documento video all’indirizzo
connectlive.corn /events/pevvagbiotech020402/.

«Introducing Round-up Ready Soybeans», cit.

Roger Elmore et al., «Glyphosate-Resistant Soybean Cultivar Yields


Compared With Sister Lines», in Agronomy Journal, n. 93,2001, pp. 408-412.

Charles Benbrook, «Evidence of the Magnitude and Consequences of the


Round-up Ready Soybean Yield Drag from Università-Based Varietal Trials in
1998», in AgBioTech InfoNet Technical Paper, n. 1,13 luglio 1999.

C. Andy King, Larry C. Purcell ed Earl D. Vories, «Plant Grovvth and


Nitrogenase Activity of Glyphosate-Tolerant Soybeans in Response to Foliar
Glyphosate Application», in Agronomy Journal, voi. 93,2001, pp. 179-186.

Intervento di Charles Benbrook alla Pevv Initiative on Food and


Biotechnology, cit.

Andy Coghlan, «Splitting Headache. Monsanto’s Modified Soybeans Are


Cracking Up in the Heat», in New Scientist, 20 novembre 1999.

Michael Duffy, «Who Benefits from Biotechnology?». Considerato un punto


di riferimento, questo documento è stato presentato alla riunione dell’American
Seed Trade Association, a Chicago, il 5-7 dicembre 2001, econ.
iastate.edu/faculty/duffy/Pages/biotechpaper.pdf.

Secondo un sondaggio realizzato nel 1997 da Eurobarometer («European


Opinions On Modern Biotechnology», European Commission Directorate
General XIl, n. 46.1,1997), gran parte dei cittadini europei era a favore
dell’etichettatura degli OGM: Austria 73 per cento, Belgio 74 per cento,
Danimarca 85 per cento, Finlandia 82 per cento, Francia 78 per cento, Germania
72 per cento, Grecia 81 per cento, Irlanda 61 per cento, Italia 61 per cento,
Spagna 69 per cento, Regno Unito 82 per cento.

The Washington Post, 12 novembre 1999.

«US Agriculture Loses Huge Markets Thanks to GMO’s», Reuters, 3 marzo


1999.

Reuters, 17 settembre 2002.


Capitolo 11. Grano transgènico: la battaglia persa della Monsanto
nell’America del Nord Monsanto, The Pledge Report 2004, p. 24.

Ibidem.

In proposito, consiglio di vedere il mio documentario Blé: chronique d’une


mort annoncée?, Arte France, 2005.

Stevvart Wells e Holly Penfound, «Canadian Wheat Board Speaks Out Against
Round-up Ready Wheat», in Toronto Star, 25 febbraio 2003.

«Italian Miller to Reject Genetically Modified Wheat», in St. Louis Business


Journal, 30 gennaio 2003.

«Japan Wheat Buyers Warn Against Biotech Wheat in US», Reuters, 10


settembre 2003.

The New York Times, 11 aprile 2004.

Robert Wisner, «The Commercial Introduction of Genetically Modified Wheat


Would Severely Depress US Wheat Industry», comunicato stampa, Western
Organization of Resource Councils, 30 ottobre 2003.

Justin Gillis, «The Heartland Wrestles With Biotechnology», in The


Washington Post, 22 aprile 2003.

Ibidem.

Pierre-Benoìt Joly e Claire Marris, «Les Américains ont-ils accepté les OGM?
Analyse comparée de la construction des OGM comme problème public en
France et aux États-Unis», in Cahiers d’économie et de sociologie rurales, n. 68-
69, 2003, p. 19.

Ibidem, p. 18.

John Losey, Linda Rayor e Maureen Carter, «Transgènic Pollen Harms


Monarch Larvae», in Nature, voi. 399, n. 6733,20 maggio 1999.

Hervé Morin, «Les Doutes s’accumulent sur l’innocuité du mais


transgénique», in Le Monde, 26 maggio 1999. Fra gli studi: Angelika Hilbeck et
al., «Effects of Transgènic Bacillus thuringiensis Corn-Fed Prey on Mortality and
Development Time of Immature Chrysoperla carnea», in Environmental
Entomologi/, n- 27,1998, pp. 480-487.

Morin, «Les Doutes», cit.


Ibidem.

Carol Kaesuk Yoon, «Pollen from Genetically Altered Corn Threatens


Monarch Butterfly, Study Finds», in The New York Times, 20 maggio 1999.

Lincoln Brovver, «Canary in the Cornfield. The Monarch and the Bt Corn
Controversy», in Orion Magazine, primavera 2001,
orionmagazine.org/index.php/articles/article/85/.

«Scientific Symposium to Shovv No Harm to Monarch Butterfly», comunicato


stampa, Biotechnology Industry Organization, 2 novembre 1999.

Carol Kaesuk Yoon, «Non Consensus on the Effects of Engineering on Corn


Crops», in The New York Times, 4 novembre 1999.

Vedi per esempio «Scientists Discount Threat to Butterflies from Altered


Corn», in<% LouisPost-Dispatch, 2 novembre 1999.

Laura Hansen, John Obrycki, «Field Deposition of Bt Transgènic Corn Pollen:


Lethal Effects on the Monarch Butterfly», in (Ecologia, voi. 125, n. 2, 2000,
pp. 241-248.

News in Science, 24 agosto 2000; vedi anche Le Monde, 25 agosto 2000.

Marc Kaufman, «‘Biotech Corn is Test Case for Industry’. Engineered Food’s
Future Hinges on Allergy Study», in The Washington Post, 19 marzo 2001.

Joly e Marris, «Les Américains», cit., p. 21.

Michael Pollan, «Playing God in the Garden», in The New York Times Sunday
Magazine, 25 ottobre 1998.

Documento consultabile all’indirizzo Internet cfsan.fda.gov/~acrobat2/


bnfl041.pdf.

«Life-Threatening Food? More Than 50 Americans Claim Reactions to


Recalled StarLink Corn», CBS News, 17 maggio 2001.

Bill Freese, «The StarLink Affair. A Critique of the Government/Industry


Response to Contamination of the Food Supply With StarLink Corn and an
Examination of the Potential Allergènicity of StarLink’s Cry9C Proteìn», Friends
of the Earth, 17 luglio 2001, foe.org/safefood/starlink.pdf.

Ibidem, p. 36.
Smith, Seeds ofDeception, cit., p. 171.

Marc Kaufman, «EPA Reject Biotech Corn as Human Food: Federal Tests do
not Eliminate Possibility That it Could Cause Allergie Reactions, Agency Told»,
in The Washington Post, 18 luglio 2001.

The Washington Post, 18 marzo 2001; Boston Globe, 3 e 17 maggio 2001.

Nature, 23 novembre 2000.

Reuters, 18 marzo 2001.

Financial Times, 27 giugno 2003.

Éric Darier e Holly Penfound, «Lettre à Paul Steckle», Greenpeace Canada, 27


maggio 2003.

In un’intervista per Canadian Press del 9 gennaio 2004, Jim Bole, un


rappresentante di AAC, indicava che il «contratto del dipartimento con la
Monsanto era di natura confidenziale». Secondo lui, l’AAC ha speso
cinquecentomila dollari canadesi e la Monsanto 1,3 milioni di dollari per lo
sviluppo del grano Round-up Ready.

Ibidem.

Vedi il sito di Marc e Anita Loiselle: loiselle.ma.googlepages.corn/home.

Canadian Press, 10 aprile 2004. Per i particolari di questa class action, vedi il
sito dell’Organic Agriculture Protection Fund: saskorganic.corn/ oapf/.

René Van Acker, Anita Brulé-Babel e Lyle Friesen, «An Environmental Safety
Assessment of Round-up Ready Wheat: Risks for Direct Seeding Systems in
Western Canada», relazione del Canadian Board for Submission to Plant
Biosafety Office della CFIA, giugno 2003; «Study: Modified Wheat Poses a
Threat», Canadian Press, 9 luglio 2003.

«New Survey Indicates Strong Grain Elevator Concern Over GM Wheat»,


IATP, Minneapolis, comunicato stampa, 8 aprile 2003.

Comunicazione ottenuta da Ken Ruben con la collaborazione di Greenpeace


Canada, in virtù della legge sull’accesso all’informazione. Vedi anche: Tom
Spears, «Federal Memo Warns Against GM Wheat; Canada Stili Working With
Monsanto to Create Country’s First Modified Seed», in The Ottawa Citizen, 1°
agosto 2001, disponibile all’indirizzo thecampaign.org/nevvsupdates
/august01a.htm#Federal.

Greenpeace Europa, «EU Suppresses Study Shovving Genetically Engineered


Crops Add High Costs for all Farmers and Threaten Organic», comunicato
stampa, 16 maggio 2002, disponibile all’indirizzo biotech-info.net/
high_costs.html.

Capitolo 12. Messico: colpo basso alla biodiversità Stuart Laidlavv, «StarLink
Fallout Could Cost Billions», in The Toronto Star, 9 gennaio 2001, disponibile
all’indirizzo biotech-info.net/starlink_ fallout.html.

David Quist e Ignacio Chapela, «Transgènic DNA Introgressed Into


Traditional Maize Landraces in Oaxaca, Mexico», mNature, n. 414,2001, pp.
541543.

Comunicato stampa dell’Università di Berkeley, 28 novembre 2001.

The New York Times, 2 ottobre 2001; The Guardian, 30 novembre 2001.

Kara Platoni, «Kernels of Truth», inEast Bay Express, 29 maggio 2002.

Monsanto, The Pledge Report 2001-2002, cit., p. 13. La Monsanto userà le


stesse parole nel Form 10K del 2006, a p. 47.

Robert Mann, «Has GM Corn ‘Invaded’ Mexico?», in Science, voi. 295, n.

5560,1° marzo 2002, pp. 1617-1619.

Platoni, «Kernels of Truth», cit.

Marc Kaufman, «The Biotech Corn Debate Grovvs Hot in Mexico», in The
Washington Post, 25 marzo 2002.

Mann, «Has GM Corn», cit.

Fred Pearce, «Special Investigation: the Great Mexican Maize Scandal», in


New Scientist, 15 giugno 2002.

Questa e-mail è consultabile negli archivi del sito Web di AgBioWorld:


agbiovvorld.org/nevvsletter_vvm/index.php?caseid=archive&nevvsid=1267.
agbiovvorld.org/nevvsletter_vvm/index.php?caseid=archive&nevvsid=1268.

George Monbiot, «Corporate Ghosts», in The Guardian, 29 maggi 2002.


agbiovvorld.org/about/index.html.
«Scientists in Support of Agricultural Biotechnology», agbiovvorld.or
declaration/petition/petition.php. bivings.corn/client/index.html.

George Monbiot, «The Fake Persuaders. Corporations Are Inventi: People to


Rubbish Their Opponents on the Internet», in The Guardian, ] maggio 2002.

Monbiot, «Corporate Ghosts», cit.

Citato in George Monbiot, «The Battle to Put a Corporate GM Padlo< on Our


Food Chain is Being Fought on the Net», in The Guardian, 19 novei bre 2002.

Monsanto, The Pledge Report 2001-2002, cit., p. 1.

«Amazing Disgrace», in The Ecologist, voi. 32, n. 4, maggio 2002.

«Journal Editors Disavovv Artide on Biotech Corn», in The Washingh Post, 4


aprile 2002.

Pearce, «Special Investigation», cit.

Wil Lepkovvski, «Maize, Genes, and Peer Revievv», Center for Sciem Policy
and Outcomes, n. 14,31 ottobre 2002.

Andrevv Suarez, «Conflict Around a Study of Mexican Crops», in Natu 27


giugno 2002.

Platoni, «Kernels of Truth», cit.

Ibidem.

Mann, «Has GM Corn», cit.

«Corn Rovv», in Science, 6 novembre 2002.

Sol Ortiz-Garcia, Exequiel Ezcurra, Bernd Schoel, Francisca Aceve Jorge


Soberón e Allison A. Snovv, «Absence of Detectable Transgènes in Lo Landraces
of Maize in Oaxaca, Mexico, 2003-2004», in Proceedings of the 1 tional
Academy of Sciences, 30 agosto 2005, voi. 102, n. 35, pp. 12338-1234: David A.
Cleveland, Daniela Soleri, Flavio Aragon Cuevas, José Cross Paul Gepts,
«Detecting (Trans)gene Flovv to Landraces in Centers of Ci Origin: Lessons from
the Case of Maize in Mexico», in Environmental Bio fety Research, voi. 4, n.
4,2005, pp. 197-208.

Hervé Morin, «La Contamination du mais par les OGM en question» Le


Monde, 7 settembre 2005.
Vedi Elena R. Àlvarez-Buylla e Berenice Garcia-Ponce, «Unique and dundant
Functional Domains of APETALAl and CAULIFLOWER, Tvvo Ree tly
Duplicateci Arabidopsis thaliana Fiorai MADS-Box Genes», in The Journal of
Experimental Botany, voi. 57, n. 12,7 agosto 2006, pp. 3099-3107.

Capitolo 13. In Argentina: la soia della fame Àmbito Financiero, 11 agosto


2000, pp. 4-5.

La Nación, 23 luglio 2000.

Vedi Walter Pengue, Cultivos transgénicos: hacia dónde vamos?, Lugar


Editorial, Buenos Aires 2000.

Revista Gente, 29 gennaio 2002.

Ibidem.

Clarin, 11 gennaio 2003. sojasolidaria.org.ar.

La Nación, 14 febbraio 2003.

La Capital, 25 marzo 2005.

Capitolo 14. Paraguày, Brasile, Argentina: la «Repubblica unità della soia»


Daniel Vernet, «Libres OGM du Brésil», in Le Monde, 27 novembre 2003.
monsanto.corn/monsanto/layout/about_us/locations/brazil01.asp.

Javiera Rulli, Stella Semino e Lilian Joensen, Paraguày Sojero. Soy Expansion
and Its Violent Attack on Locai and Indigenous Communities in Paraguày, GRR,
Buenos Aires, marzo 2006, grr.org.ar.

Ibidem.

Capitolo 15. India: le sementi del suicìdio Favvzan Husain, «On India’s Farms,
a Plague of Suicide», in The New York Times, 19 settembre 2006.

Amelia Gentleman, «Despair Takes Toll on Indian Farmers», in International


Herald Tribune, 31 maggio 2006.

Jaideep Hardikar, «One Suicide EVèry 8 Hours», inZW^ India, 26 agosto


2006. In questo articolo il giornale di Mumbai (ex Bombay) precisa che, 432 da
fonti governative, 2,8 milioni di contadini del Paese (su un totale di 3,2 milioni)
sono indebitati.

Si tratta del brevetto n. 0436257 Bl.


Gargi Parsai, «Transgènics: US Team Meets CJI», in The Hindu, 5 gennaio
2001.

«Food, Feed Safety Promote Dialogue With European Delegation»,


comunicato stampa della Monsanto, 3 luglio 2002.
sec.gov/litigation/litreleases/lrl9023.htm. Vedi anche Peter Fritsch e Timothy
Mapes, «Seed Money. In Indonesia, Tangle of Bribes Creates Trouble for
Monsanto», in The Wall Street Journal, 5 aprile 2005; AFP, 7 gennaio 2005.

Citato in Fritsch e Mapes, «Seed Money», cit.; AFP, 7 gennaio 2005.

Citato in The Washington Post, 4 maggio 2003.

Ibidem. lì.Ibidem.

Abdul Qayum e Kiran Sakkhari, «Did Bt Cotton Save Farmers in Warangal? A


Season Long Impact Study of Bt Cotton - Kharif 2002 in Warangal District of
Andhra Pradesh», APCDD e DDS, Hyderabad, giugno 2003, ddsindia.
corn/vvvvvv/pdf/English%20Report.pdf.

«Performance Report of Bt Cotton in Andhra Pradesh. Report of State


Department of Agriculture», 2003, grain.org/research_files/AP_state.pdf.

Matin Qaim e David Zilberman, «Yield Effects of Genetically Modified Crops


in Developing Countries», in Science, voi. 299, n. 5608, 7 febbraio 2003, pp. 900-
902.

The Times of India, 15 marzo 2003.

The State of Food and Agriculture 2003-2004. Agricultural Biotechnoloqy


Meeting the Needs of the Poor?, FAO, Roma 2004, fao.org/docrep/006/

Y5160E/Y5160E00.HTM. monsanto.co.uk/nevvs/ukshovvlib.phtml?uid=7983.

«Le Coton génétiquement modifié augmente sensiblement les rendements»,


AFP, 6 febbraio 2003.

The Washington Post, 4 maggio 2003.

The Times of India, 15 marzo 2003.

The Hindu Business Line, 23 gennaio 2006. Si tratta delle varietà Mech-12 Bt,
Mech-162 Bt e Mech-184 Bt.
«Court Rejects Monsanto Plea for Bt Cotton Seed Price Hike», in The Hindu,
6 giugno 2006.

Abdul Qayum e Kiran Sakkhari, «False Hope, Festering Failures. Bt Cotton in


Andhra Pradesh 2005-2006. Fourth Successive Year of the Study Recon433 firms
the Failure of Bt Cotton», APCDD e DDS, novembre 2006, grain.org/
research_files/APCIDD%20report-bt%20cotton%20in%20AP-2005-06.pdf.

«Monsanto Boosts GM Cotton Seed Sales to India Five-Fold», in Dovv Jones


Newsvvires, 7 settembre 2004. Secondo questo articolo l’azienda avrebbe
venduto 1,3 milioni di pacchi di sementi Bt nel 2004, rispetto ai 230.000 del
2003.

Charles, Lords of the Harvest, cit., p. 182.

Pollan, «Playing God in the Garden», cit.

«Farmers Violating Biotech Corn Rules», Associated Press, 31 gennaio 2001.

Susan Lang, «Seven-Year Glitch: Cornell Warns That Chinese GM Cotton


Farmers Are Losing Money Due to ‘Secondary’ Pests», in Cornell Chronicle
Online, 25 luglio 2006, nevvs.cornell.edu/stories/July06/Bt.cotton.China. ssl.html.

Capitolo 16. Come le multinazionali controllano gli alimenti del mondo


Vandana Shiva, The Violence of the Green Revolution. Ecological Degradation
and Politicai Conflict in Punjab, Dehra Dun, Natraj 1989. nobel-
paix.ch/bio/borlaug.htm.

Vandana Shiva et al., Seeds of Suicide. The Ecological and Human Costs of
Globalisation ofAgriculture, Research Foundation for Science, Technology and
Ecology, gennaio 2002, disponibile all’indirizzo navdanya.org/publications/seeds-
of-suicide.htm.

Vandana Shiva, Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2003; Vacche sacre
e mucche pazze: il furto delle riserve alimentari globali, DeriveApprodi, Roma
2004; Éthique et agro-industrie. Main basse sur la vie, L’Harmattan, Parigi 1996.

Acquistando la sezione grano della britannica Unilever nel 1998, la Monsanto


ha recuperato questo brevetto (vedi «Monsanto Wheat Patent Disputed», in The
Scientist, 5 febbraio 2004).

Mounira Badro, Benoìt Martimort-Asso e Nadia Karina Ponce Morales, «Les


Enjeux des droits de propriété intellectuelle sur le vivant dans les nouveaux pays
industrialisés: le cas du Mexique», in Continentalisation, Cahiers de recherche,
voi. 1, n. 6, agosto 200l’, p. 8.

Shiva, Éthique et agro-industrie, cit., p. 8.

Badro, Martimort-Asso e Ponce Morales, «Les Enjeux des droits», cit., p. 8.

Citato in Shiva, Éthique et agro-industrie, cit., pp. 12-13; ma anche in Badro,


Martimort-Asso e Ponce Morales, «Les Enjeux des droits», cit., p. 9.

James R. Enyart, «A GATT Intellectual Property Code», in Les Nouvelles,


giugno 1990 (citato in Shiva, Éthique et agro-industrie, cit., pp. 12-13).

«La Mondialisation et ses effets sur la pieine jouissance de tous les droits de
l’homme», rapporto preliminare presentato da Joseph OlokaOnyango e Deepika
Udagama, Commissione dei diritti dell’uomo dell’ONU, 15 giugno 2000.

Conclusioni. Un colosso con i piedi d’argilla «Monsanto & Genetic


Engineering: Risks for Investors», gennaio 2005,
asyousovv.org/publications/2005_GE_Innovest_Monsanto.pdf.

«Monsanto Helps Battle Oregon Voter Initiative on Food Labeling», in St.


Louis Post-Dispatch, 20 settembre 2002.

Hervé Kempf, «L’Expertise confidentielle sur un inquiétant mais


transgénique», in Le Monde, 23 aprile 2004.

Ibidem.

Ibidem.

Ibidem.

Friends of the Earth Europe, «Throvving Caution to the Wind. A Revievv of


the European Food Safety Authority and Its Work on Genetically Modified Foods
and Crops», novembre 2004, foeeurope.org/GMOs/publications/EFSA report.pdf.
agbiovvorld.org/declaration/petition/petition_fr.php.
monsanto.co.uk/nevvs/ukshovvlib.phtml?uid=2330.

Gilles-Éric Séralini, «Report on MON 863 GM Maize Produced by Monsanto


Company», giugno 2005, greenpeace.de/fileadmin/gpd/user_upload/
themen/gentechnik/bevvertung_monsanto_studie_mon863_seralini.pdf. Vedi
anche «Uproar in EU As Secret Monsanto Documents Reveal Significant Damage
to Lab Rats Fed GE Corn», in The Independent, 22 maggio 2005.
Gilles-Éric Séralini, Dominique Sellier e Joèl Spiroux de Vendomois, «New
Analysis of a Rat Feeding Study With a Genetically Modified Maize Reveals
Signs of Hepatorenal Toxicity», in Arekives of Environmental Contamination and
Toxicology, 2007, n. 52, pp. 596-602.

Ingo Potrykus et al., «Engineering the Provitamin A (Beta-Carotene)

Biosynthetic Pathvvay Into (Carotenoid-Free) Rice Endosperma, in Science,


gennaio 2000, voi. 287, pp. 303-305.

«Monsanto Offers Patent Waiver», in The Washington Post, 4 agosto Più di


sette anni dopo, la buona notizia era ancora on-line sul sito della Monsanto:
monsanto.co.uk/nevvs/ukshovvlib.phtml?uid=3791.

«Monsanto Plants to Offer Right to Its Altered Rice Technology», in The New
York Times, 4 agosto 2000.

Ih. Le Monde, 19 agosto 2001.

«The Mechanisms and Control of Genetic Recombination in Plants»,


ec.europa.eu/research/quality-of-life/gmo/01-plants/01-14-project.html.

«Effects and Mechanisms of Bt Transgènes on Biodiverstity of Non-Target


Insects: Pollinators, Herbivores and Their Natural Enemies», ec.europa.
eu/research/quality-of-life/gmo/01-plants/01-08-project.html.

«Safety Evaluation of Horizontal Gene Transfer from Genetically Modified


Organisms to the Microflora of the Food Chain and Human Gut», ec.europa.
eu/research/quality-of-life/gmo/04-food/04-07-project.html.

Reuters, 7 luglio 2002.

AFP, 22 agosto 2006.

Reuters, 5 novembre 2007.

Form 10K, 2005, p. 49.

23.Ibidem, pp. 10-11.

«Monsanto Market Povver Scrutinized in Lavvsuit», Reuters, 25 agosto 2004.

The New York Times, 17 ottobre 2003.

David Barboza, «Questions Seen on Seed Prices Set in the 90’s», in The New
York Times, 6 gennaio 2004.
Appendice. Un successo durevole Prendo a prestito questo titolo da quello di
un articolo del settimanale professionale Livres Hebdo del 18 aprile 2008, il quale
riferisce che Il mondo secondo Monsanto «è il secondo libro più venduto tra i
saggi».

Successivamente, Arte ha prodotto una versione spagnola del mio film,


disponibile peraltro in tedesco, inglese e portoghese.

Si veda la sua presentazione all’indirizzo vvvvvv.arte.tv/monsanto.


http://blogs.arte.tv/LemondeselonMonsanto.

.Le Monde, 10 maro 2008.

Marcel Kuntz, «Le Monde selon Monsanto. Un film de Marie-Monique


Robin», vvvvvv.pseudo-sciences.org, 5 marzo 2008.

«Un bright è un individuo che volge uno sguardo naturalistico sul mondo.

La comprensione che un bright ha dell’universo è priva di ogni elemento


sovrannaturale o mistico. I brights fondano la loro etica e il loro comportamento
su una comprensione naturalistica dell’universo» (http://brightsfrance.free.fr.).

Sullo stesso sito, all’indirizzo http://brightsfrance.free.fr/michel.naud.htm, è


disponibile la professione di fede di Michel Naud.

Cfr. anche i miei due libri: Voleurs d’organes. Enquète sur un trofie, Bayard
Éditions, Paris 1996; e Le sixième sens. Science et paranormal, Éditions du
Chène, Paris 2002.

Cfr. anche due critiche molto acute dell’articolo dell’AFIS :


vvvvvv.alexis.lautre.net/vvp/2008/03/131e-monde-selon-monsanto/.

Christina Palmeira, «Sementes do poder», vvvvvv.cartacapital.corn.br, 20


marzo 2008.
vvvvvv.monsanto.corn.br/monsanto/para_sua_informacao/documentario_frances.
asp.

Cfr. in particolare http://imposteurs.over-blog.corn.

«Un senatore dell’UMP ritiene che dei parlamentari pro-OGM siano “azionati”
dai semenzieri», Le Monde, 2 aprile 2008.

L’Express, 12 giugno 2008.

Cfr. il suo libro: Francois Grosdidier, Taons-nous les uns les autres.
Qu’avons-nous retenu des grandes catastrophes sanitaires?, Le Rocher, Paris
2008.

Libération, 1 aprile 2008.

Hervé Morin, «Sotto accusa il diserbante più venduto al mondo», Le Monde,


10 gennaio 2009.

Dario Aranda, «Diverse generazioni sono compromesse», in Pagina 12,


maggio 2008.

Paul Benkimoun, «La riproduzione umana minacciata dalla chimica», Le


Monde, 24 novembre 2008.
Sigle e acronimi

AAC - Agriculture and Agri-Food Canada, Canada agricoltura e agroalimenti.

AAPRESID - Asociación argentina de productores en siembra directa,


Associazione argentina di produttori a semina diretta.

ABSWG - Agricultural Biotechnology Stevvardship Working Group, Gruppo


di amministrazione della biotecnologia agricola.

ADEME - Agence de l’environnement et de la maìtrise de l’energie, Agenzia


per l’ambiente e il controllo dell’energia.

AMA - American Medical Association, Associazione medica americana.

APASSUL - Associalo dos produtores e comerciantes de sementes e mudas do


Rio Grande do Sul, Associazione dei produttori e commercianti di sementi dello
Stato del Rio Grande do Sul.

APCDD - Andhra Pradesh Coalition in Defence of Diversity, Coalizione


dell’Andhra Pradesh in difesa della biodiversità.

APPO - Asamblea popular del los pueblos de Oaxaca, Assemblea popolare


degli abitanti di Oaxaca.

ASA - American Soybean Association, Associazione americana dei coltivatori


di soia.

AWIC - Alabama Water Improvement Commission, Commissione per il


miglioramento delle acque dell’Alabama.

BGH - Bovine grovvth hormone, Ormone della crescita bovina.

BST - Bovine somatotropin, Somatotropina bovina.

BVD - Bureau des médicaments vétérinaires, Ufficio farmaci veterinari.

CADA - Commissione di accesso ai documenti amministrativi (parlamento


europeo).

CAP - Community Against Pollution, Comunità contro l’inquinamento.


CAPECO - Càmara paraguaya de exportadores de cereales y oleaginosa,
Camera paraguaiana degli esportatori di cereali e oleaginose.

CDC - Center for Disease Control, Centro di controllo delle malattie.

CETOS - Center for Ethics and Toxics, Centro per l’etica e la tossicità.

CFIA - Canadian Food Inspection Agency, Agenzia canadese delle ispezioni


sul cibo.

CFS - Center for Food Safety, Centro per la sicurezza del cibo.

CGB - Commission du génie biomoléculaire, Commissione dell’ingegneria


biomolecolare.

CGIAR - Consultive Group on International Agricultural Research, Gruppo


consultivo sulla ricerca agricola internazionale.

CIMMYT - Centro internacional de mejoramiento de maiz y trigo, Centro


internazionale di miglioramento del mais e del grano.

CNCPS - Consejo nacional de coordinación de politicas sociales, Consiglio


nazionale di coordinamento delle politiche sociali.

CNRS - Centre nationale de la recherce scientifique, Centro nazionale della


ricerca scientifica.

CONABIA - Comisión nacional asesora de biotecnologia agropecuaria,


Commissione nazionale di consiglio della biotecnologia agricola.

CONAMURI - Coordinadora nacional de organizaciones de mujeres


trabajadoras rurales e indìgenas, Coordinamento nazionale delle organizzazioni di
donne lavoratrici e indigene.

CRIlGEN - Comité de recherche et d’information indépendantes sur le génie


génétique, Comitato di ricerca e di informazione indipendente sull’ingegneria
genetica.

CSA - Conseil supérieur de l’audiovisuel, Consiglio superiore degli


audiovisivi.

CVM - Center for Veterinary Medicine, Centro di medicina veterinaria.

CWB - Canadian Wheat Board, Ufficio canadese del grano.

DDS - Deccan Development Society, Società di sviluppo Deccan.


DDT - Dichloro-diphenyl-trichloroethane, Diclorodifeniltricloroetano.

EFSA - European Food Safety Authority, Autorità europea per la sicurezza


alimentare.

EMBRAPA - Empresa brasileira de pesquisa agropecuaria, Istituto brasiliano


di ricerca agricola.

EPA - Environmental Protection Agency, Agenzia per la tutela dell’ambiente.

ETC Group - Erosion, Technology, Concentration Group, Gruppo di erosione,


tecnologia, concentrazione.

EWG - Environmental Working Group, Gruppo di lavoro ambientale.

FAA - Federación agraria argentina, Federazione agraria argentina.

FAO - Food and Agriculture Organization, Organizzazione per il cibo e


l’agricoltuta.

FDA - Food and Drug Administration, Amministrazione cibo e medicinali.

FNE - France nature environnement, Francia natura e ambiente.

GAO - Government Accountability Office, Ufficio di responsabilità


governativa.

GATT - General Agreement on Tariffs and Trade, Accordo generale sulle


tariffe e il commercio.

GRR - Grupo de reflexión rural, Gruppo di riflessione rurale.

IATP - Institute for Agriculture and Trade Policy, Istituto per l’agricoltura e la
politica del commercio.

IBT - Industrial Bio-Test Labs.

IDEC - Instituto brasileiro de defesa do consumidor, Istituto brasiliano per la


difesa del consumatore.

IDFA - International Dairy Foods Association, Associazione internazionale per


i latticini.

IFBiC - International Food Biotechnology Committee, Comitato internazionale


per il cibo e la biotecnologia.

IGF1 - Insulin-like grovvth factor 1, Fattore 1 di crescita insulino-simile.


ILSI - International Life Sciences Institute, Istituto internazionale delle scienze
della vita.

INASE - l’Instituto nacional de semillas, Istituto nazionale delle sementi.

INDEC - Instituto nacional de estadìstica y censos, Istituto nazionale di


statistica e censimenti.

INDERT - Instituto nacional de desarrollo rural y de la tierra, Istituto nazionale


di sviluppo rurale e della terra.

INRA - Institut scientifique de recherche agronomique, Istituto scientifico di


ricerca agronomica.

INSERM - Institut national del la santé et de la recherce médicale, Istituto


nazionale della sanità e della ricerca medica.

INTA - Instituto nacional de tecnologia agropecuaria, Istituto nazionale della


tecnologia agricola.

IPC - Intellectual Property Committee, Comitato per la proprietà intellettuale.

IRRI - International Rice Research Institute, Istituto di ricerca internazionale


sul riso.

JECFA - Joint Expert Committee on Food Additives, Comitato congiunto di


esperti sugli additivi alimentari.

NAFTA - North American Free Trade Agreement, Accordo di libero scambio


nordamericano (anche noto come ALENA, Accord de libre-échange
nordaméricain, o TLCAN, Tratado de libre comercio de América del norte,
rispettivamente in Canada e in Messico).

NASS - National Agriculture Statistics Service, Servizio nazionale per le


statistiche agricole.

NEPACCO - Northeastern Pharmaceutical and Chemical Company, Azienda


chimica e farmaceutica del Nordest.

NIH - National Institute of Health, Istituto nazionale della sanità.

NIOSH - National Institute for Occupational Safety and Health, Istituto


nazionale per la salute e la sicurezza sul lavoro.

NRC - National Research Council, Consiglio nazionale di ricerca.


MAP - Movimiento agrario y popular, Movimento agrario e popolare.

MCP - Movimiento campesino paraguayo, Movimento contadino paraguayano.

MMB - Mahyco Monsanto Biotech.

MOCASE - Movimiento de campesinos de Santiago del Estero, Movimento


dei contadini di Santiago del Estero.

MRTPC - Monopolies and Restrictive Trade Practices Commission,


Commissione sul monopolio e le pratiche restrittive della concorrenza.

MST - Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra, Movimento dei


lavoratori agricoli Sem Terra.

OCE - Office of Criminal Enforcement, Ufficio delle pene criminali.

OECD - Organization for Economie Co-operation and Development,


Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo.

OGE - Office of Government Ethics, Ufficio etico del governo.

OGM - Organismi geneticamente modificati OMC - Organizzazione mondiale


del commercio.

OMS - Organizzazione mondiale della sanità.

PANNA - Pesticìde Action Netvvork North America, Rete nordamericana


sull’azione dei pesticìdi.

PCB - Polychlorinated biphenyls, Policlorobifenili.

RAFI - Rural Advancement Foundation International, Fondazione


internazionale per il progresso rurale.

SEC - Security and Exchange Commission, Commissione sullo scambio e la


sicurezza.

SRA - Sociedad rural argentina, Società rurale argentina.

TIAA-CREF - Teachers Insurance and Annuity Association-College


Retirement Equities Fund, Associazione per l’assicurazione e il vitalizio dei
docentiFondo per la pensione universitària.

TCDD - Tetrachlorodibenzo-p-dioxin, Tetracloro-p-dibenzodiossina.


TRIPS - Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rigths,
Accordo sugli aspetti della proprietà intellettuale legati al commercio.

UNICE - Union of Industrial and Employers’ Confederations of Europe,


Unione delle confederazioni industriali e imprenditoriali d’Europa.

UPOV - International Union for the Protection of New Varieties of Plants,


Unione per la tutela delle nuove varietà vegetali.

USAID - United States Agency for International Development, Agenzia


americana per lo sviluppo internazionale.

USDA - United States Department of Agriculture, dipartimento americano


dell’Agricoltura.

Potrebbero piacerti anche