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SULLA DOTTRINA DEL PIACERE IN EPICURO

Author(s): Domenico Pesce


Source: Rivista di Filosofia Neo-Scolastica , gennaio-marzo 1982, Vol. 74, No. 1 (gennaio-
marzo 1982), pp. 3-26
Published by: Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Stable URL: https://www.jstor.org/stable/43060974

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STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA

Domenico Pesce *

SULLA DOTTRINA DEL PIACERE IN EPICURO

LE « APORIE ETICHE » DI EPICURO

La storia della fortuna di Epicuro nei tempi moderni


primi apprezzamenti degli Umanisti e segnatamente dall
zione del Gassendi, è la storia della sua progressiva rival
riserve non manchino anche nei grandi interpreti dell'Otto
cento dairUsener al Bailey, dal Bignone al Diano, pure se
data l'opinione che Epicuro sia un filosofo di prima gran
che a rinnovare le accuse degli Antichi interviene uno s
Guido Bonelli, che nella prestigiosa collezione belga « La
un volumetto il cui stesso titolo è già tutto un programma
Epicuro 1, aporie appunto che restano irrisolte e che ri
dimensioni di Epicuro a quelle di un filosofo di secondar
lavoro è diviso in due parti nella prima delle quali si studiano le varie
contraddizioni che sarebbero presenti in Epicuro, mentre nella seconda si
criticano alcuni interpreti moderni che hanno invece cercato di rivalutarlo a
partire dal Brochard fino a concludere con chi scrive queste pagine pas-
sando attraverso le posizioni di Bailey, Bignone, Diano, Mondolfo, Steckel
e Farrington.
La più grave e fondamentale delle contraddizioni che, secondo il Bonel-
li, inficiano il sistema è proprio quella che concerne la sua base stessa, e
cioè il concetto del piacere, per il quale Epicuro si ricollega alla discussione
dei pensatori precedenti, da cui desume problematica e categorie, ma pre-
tendendo di conciliare le due soluzioni opposte che erano state date rispet-
tivamente dai Cirenaici e da Platone. E difatti da questa discussione erano
emerse due posizioni contrarie: o il bene si fa consistere nella soddisfazione
degli āppetiti o al contrario si ripone nella soppressione degli appetiti
stessi; nel primo caso la condizione di chi appetiti non abbia è da respin-
gere, perché è simile a quella di un cadavere, nel secondo caso la condizione
di chi agli appetiti indulga è da respingere perché moralmente riprovevole;
da una parte dunque il più aperto immoralismo che trova il suo correttivo
soltanto nell'utilitarismo, dall'altro il più rigido moralismo che conduce
all'ascetismo. Ebbene Epicuro, con la sua teoria del piacere cinetico e del

* Università di Parma.
1 Bruxelles 1979.

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4 D. Pesce

piacere catastem
distinzione all'in
« riprende... dai
tre mutua dai p
tutta la sua teor
sull'ascesi, l'uno
da questa interna
temporaneamen
tra loro in apert
tavoli » sia « riu
invocando i testi
e di asceta (fra l
tanto ascetismo)
come il difenso
acqua » 4.
Di questa « grave incoerenza » 5 già si erano accorti gli antichi e in
particolare Cicerone il cui discorso nel secondo libro del de finibus « è in
genere agile, convincente, tale che coglie il nucleo dei problemi e confuta le
tesi epicuree con chiarezza e profondità, mostrandone vividamente le incon-
gruenze talora grottesche » 6. Cicerone in definitiva già anticipa la conclu-
sione cui perviene il Bonelli, e cioè che « Epicuro con l'impiego del termine
di "piacere" perseguiva il superamento verbalistico di una contraddizione
che era viceversa nelle cose. A questo modo egli mistificava l'alterità dei
contrari, garantendo ad essi, come copertura, un'apparenza di unità » 7.
Questa soluzione puramente verbale era inoltre, secondo Cicerone, otte-
nuta facendo violenza all'uso linguistico corrente, perché il termine « piace-
re » ( voluptas ), con cui di solito si designa un movimento che agita grade-
volmente i sensi 8, e cioè il solo piacere cinetico, era piegato ad indicare
altresì una' cosa tutt'affatto diversa, com'è il piacere catastematico, la man-
canza di dolore. A questo modo Epicuro pretendeva di identificare due
posizioni storicamente del tutto diverse, quella cirenaica che pone il sommo
bene nel piacere e quella del peripatetico Ieronimo di Rodi che lo pone
invece nella mancanza del dolore, neìY indolentia, senza per questo ricono-
scere francamente che per lui il sommo bene consisteva non in una cosa
soltanto, ma in due nettamente distinte che debbono sommarsi tra loro9
(ma in realtà del tutto inconciliabili, perché tra loro opposte come opposti
sono il moto e la quiete). «Piacere» viene insomma paradossalmente a
designare per Epicuro due situazioni profondamente diverse tra loro come
sono quella di chi avendo sete sta bevendo e quella di chi invece ha già
estinta la sete e non beve più10.
Per Cicerone incoerenze e contraddizioni si riportavano al disprezzo
che Epicuro professava per la dialettica ed al suo conseguente rifiuto di

2 Aporie etiche, cit., pp. 20 s.


3 Ibid., p. 25.
4 Ibid., p. 26.
5 Ibid., p. 22.
Ä Ibid., p. 33.
7 Ibid.
8 Cíe. de fin., 2.3.6.: 3.8.
9 Ibid., 2.6.19.
10 Ibid., 2.3.9.

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Sul piacere in Epicuro 5

definire esattamente il termine hedoné (pe


latino voluptas) di cui egli si valeva per
Per tornare al Bonelli, egli porta fino in
e vi mette una violenza polemica12 che ricorda quella degli antichi detrat-
tori di parte platonica; nel contempo, che egli ponga in luce difficoltà reali
della dottrina epicurea è provato dal fatto che le sue accuse, anche se con
ben altra moderazione e rispetto, si ritrovavano già in altri studiosi. Un
profondo conoscitore, ad esempio, come il Bignone, di cui è noto l'atteg-
giamento simpatetico nei confronti dell'antico filosofo, a proposito dello
stesso problema del rapporto tra le due forme di piacere, il cinetico ed il
catastematico, non si peritava di parlare di « incertezze » « per avere (Epi-
curo) ammessi insieme piaceri in moto e piaceri stabili », giustificando in
certo modo le critiche degli avversari; Epicuro si sarebbe fermato a mezza
strada nel tragitto che dalla posizione cirenaica ed accademica conduce a
quella sostenuta dall'Aristotele maturo della Nicomachea; «egli è dunque
stato irretito dalla stessa formulazione del problema fatta dagli edonisti
precedenti e dai suoi avversari e non l'ha saputo interamente superare »13.
Nel secondo volume poi della sua opera Bignone parla di « gravissimi con-
trasti e difficoltà » 14 che permangono nel sistema epicureo. E, per venire a
studiosi più vicini a noi, che altro significa se non riprendere l'antica accusa
di non essere riuscito a conciliare i due significati attribuiti áiYhedoné,
l'osservazione del Rist 15, ricordata recentemente con lode da Goldschmidt 16,
non doversi caratterizzare la posizione di Epicuro come edonismo, perché
per lui il fine non è tanto il piacere quanto la mancanza del dolore?
Se, d'altra parte, il sistema di Epicuro fosse veramente viziato da una
contraddizione fondamentale proprio in quella concezione del piacere che
ne costituisce il nucleo più profondo, come si spiegherebbe il successo così
largo che esso ebbe nell'antichità e di cui si fa eco, tra gli altri, Diogene
Laerzio che non nasconde le sue simpatie per il filosofo di Samo, e come si
spiegherebbero il rispetto e l'ammirazione che, in età imperiale, mostrano
verso Epicuro spiriti così alti, che pure appartenevano alla scuola avversa-
ria, come sono Seneca e Marco Aurelio? È possibile infine che l'intera
tradizione interpretativa moderna sia completamente in errore?
Il problema pertanto sussiste ed è problema che la penuria dei testi
rende di difficilissima soluzione. Infatti noi non siamo informati per l'etica
epicurea così come lo siamo per la fisica, dove pure i problemi non manca-
no (basti pensare alla questione del clinamen), giacché la Lettera a Meneceo
non costituisce affatto per l'etica quel che la Lettera ad Erodoto è per la
fisica. Come ha mostrato Bignone17, la Lettera a Meneceo è uno scritto di
carattere protrettico, non è un trattato in compendio, ma è piuttosto un
programma e soprattutto un'esortazione ad accogliere la dottrina della

11 Ibid., 2.2.4-6.
12 Ecco alcune delle espressioni di cui si vale: « cavilli » (p. 47), « lambiccati proce-
dimenti del pensiero » (p. 50), « cavillosità gesuitica » (p. 55), « luce sinistra » (p. 59),
« fumisterie » (p. 60), « risposte grottesche » (p. 61).
13 E. Bignone, L'Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro , 2 voli., 2m
ed., Firenze 1973, vol. I, pp. 666 ss. Cfr. anche p. 356, ove si parla di « contraddizioni ».
14 Ibid., II, p. 94.
15 J.M. Rist, Epicurus. An Introduction, Cambridge 1972, p. 125.
16 V. Goldschmidt, La doctrine d'Ëpicure et le droit, Paris 1977, p. 257.
17 L'Aristotele perduto..., cit., I, pp. 108 e 124 ss.

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6 D. Pesce

scuola. Gli altri testi poi di Epicuro che trattano di etica sono scarsissimi,
ond'è che, per la ricostruzione della dottrina del piacere, siamo costretti a
ricorrere ai primi due libri del de finibus di Cicerone ed all'opuscolo di
Plutarco Non posse suaviter vivi secundum Epicurum, è cioè alle esposi-
zioni fortemente critiche (Cicerone per fortuna tiene distinte l'esposizione
dalla critica) di due dichiarati avversari di Epicuro.
Comunque, io mi sforzerò di mostrare come quegli stessi testi su cui si
fonda il Bonelli consentano lina ricostruzione della dottrina del piacere
tutťafřatto diversa, intrinsecamente coerente e molto profonda, in linea con
la tradizione interpretativa di gran lunga prevalente in questi ultimi anni 18,
ma che forse questa interpretazione conduce un poco più innanzi. Si tratta
soprattutto di individuare e di interpretare esattamente quelle che sono le
tesi fondamentali dell'etica epicurea e che perciò ritengo opportuno elen-
care fin dal principio:
1. Il pathos come canone del bene e del male.
2. La divisione del pathos nel piacere e nel dolore e la conseguente
negazione di un terzo stato che non sia né piacere né dolore.
3. Il limite posto dalla natura.
Di particolare importanza è la seconda tesi con la quale Epicuro si
distacca radicalmente dal modo consueto, ai suoi tempi come ora, di pro-
spettare le cose. Chi non avrà afferrato questo punto, chi cioè non abbia
compreso la singolare psicologia di Epicuro, si sarà preclusa ogni possibi-
lità di accesso al suo pensiero, il quale riuscirà certamente discutibile, come
quello di ogni filosofo, ma straordinariamente coerente, come quello di ogni
filosofo serio.

IL « PATHOS » COME CANONE

Fondamento dell'intera etica di Epicuro è, come ho già detto, la


iniziale, essere il pathos criterio del bene così come Yaisthesis lo è d
Leggiamo in Diogene Laerzio 19: « Nel Canone Epicuro dice che i cri
verità sono le sensazioni, le prolessi e le passioni ( pathe ) » e nella L
Meneceo « giudicando ogni bene, valendosi del pathos come di ca
Sia nella conoscenza che nell'azione, si vuole assegnare alla ragione un
ruolo del tutto subordinato: essa può analizzare le situazioni, confrontare i
dati, trarre conclusioni, ma deve sottomettersi alla fine ad un verdetto che è
sempre pronunciato dal senso. Nel caso dell'azione pratica, la ragione può
indicare i mezzi, può prevedere le conseguenze, ma nulla può dire del fine
che è scoperto soltanto dall'immediato sentire, dal pathos appunto.
È evidente la decisa polemica contro la tradizione intellettualistica che
da Socrate ad Aristotele aveva invece affidato alla ragione il compito di
scoprire quale fosse il bene per l'uomo, contro Platone soprattutto che del
bene aveva fatto addirittura un'entità in sé sussistente, ma in generale
contro ogni forma di idealismo (tale sarà anche lo Stoicismo) che, conce-

18 In particolare con quanto sostiene H. Steckel nella sua dissertazione Epikūrs


Prinzip der Einheit von Schmerzlosigkeit und Lust , Diss. Goettingen, München 1960.
19 10.31.
20 129.

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Sul piacere in Epicuro 7

pendo oggettivamente il valore, finisce


logia in quella ontologica. All'idealismo Epicuro oppone il suo rigoroso
materialismo che non ammette se non Tunica categoria del « fatto » ed in
essa fa rientrare egualmente disordine e ordine, caos e cosmo, atomi vagan-
ti nel vuoto infinito ed atomi imbrigliati a costituire cose e mondi. In una
simile concezione l'indifferente fattualità dell'esistere può dar luogo all'op-
posizione di valore soltanto con il riferimento a quel fatto singolare che è il
sentire di un soggetto, il quale si scinde in uno stato positivo e in uno
negativo, nel piacere e nel dolore.
Perciò ha ragione il Diano 21 nell'osservare che per Epicuro il fine non è
qualcosa di prescritto, ma è un dato. Contro Platone (e poi contro gli Stoici)
gli Epicurei sostengono che il bene per l'uomo non consiste nell'assolvi-
mento di un compito, nell'adeguazione ad un ordine dotato di intrinseco
valore, ma è semplicemente una fruizione, un'esperienza interiore. Contro
gli Stoici essi proclameranno che quel loro dovere, quelle loro virtù reste-
ranno semplici parole prive di senso, parole vuote, a meno che ad esse non
si faccia corrispondere appunto nel soggetto una particolare esperienza
positiva, in ultima analisi il piacere.
È questo il senso dell'affermazione apparentemente sconcertante che
risolve la virtù nel piacere (la risoluzione di senso contrario del piacere
nella virtù riuscirà chiara quando si sia compreso, cosa che vedremo in
seguito, come l'edonismo epicureo conduca all'ascetismo); come giustamen-
te interpreta il Bignone 22 : « non è possibile vivere vita saggia e temperante
senza che il suo pregio e valore si riveli nell'intima gioia che ne è il necessa-
rio riflesso », dove forse anziché « riflesso » andava detto « sostanza stessa ».
Se ci riferiamo alla stratificazione aristotelica dell'attività umana, mes-
sa da parte l'azione poietica che si chiude tutta nell'ambito dei mezzi,
laddove il bene è il fine, per Epicuro il bene non è né contemplazione
teoretica della realtà stessa eterna e immutabile del Valore (Idea del Bene
in Platone, Dio in Aristotele) né azione pratica intesa ad ordinare conforme
al modello trascendente il mondo interiore dell'individuo e quello esteriore
della società, e questo perché il bene non è attività affatto, ma semplice
sentire, non azione, ma passione.
È questa identificazione del bene con il patire anziché con l'agire che ha
fatto a volte accostare la figura di Epicuro ai filosofi dell'Oriente, ma in
realtà in lui non c'è mai un allargamento dei limiti dell'individualità né un
superamento dei confini dell'essere ed in definitiva Epicuro appartiene tutto
alla cultura dell'Eliade del cui politeismo antropomorfico fu, tra l'altro, uno
dei massimi interpreti.
La tesi del pathos come canone del bene fornisce altresì una risposta a
Cicerone ed a quanti contestano l'uso che Epicuro fa del termine « piace-
re ». Quando gli Epicurei affermano che « di pathe ce ne sono due, piacere e
dolore, presenti in ogni animale » 23 , non fanno altro che appellarsi ad un
dato dell'esperienza comune e servirsi di un uso linguistico corrente, anche
se la rappresentazione del mondo del sentire viene ad essere schematizzata
nella sua dicotomia fondamentale. « Piacere » e « dolore » sono termini che

21 C. Diano, Scritti epicurei, Firenze 1974, p. 205.


22 L'Aristotele perduto..., cit., ï, p. 646.
23 D.L., 10.34.

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8 D. Pesce

designano dei ge
se di piaceri e di dolori, diversi ad esempio per il corpo e per l'anima,
usando talora vocaboli distinti 24, ma sempre tutti riportando gli stati d'ani-
mo alla distinzione fondamentale del sentire immediato nel positivo e nel
negativo.
Il rifiuto pertanto di definire il piacere, che Cicerone fa risalire al-
l'avversione che Epicuro manifestava per la dialettica e ad una conseguente
supposta scarsa familiarità con quest'arte, nasceva invece dalla convinzione
che il piacere fosse un fatto ultimo e semplice non ulteriormente analizza-
bile. Spiegare il piacere, dimostrare che il piacere vada ricercato (sia cioè il
bene) sarebbe altrettanto impossibile ed inutile quanto pretendere di spie-
gare il caldo o il bianco e dimostrare che il fuoco è caldo e la neve bianca 25 .
In tutti questi casi non c'è bisogno di ricercare ragionamenti, ma basta un
semplice appello all'attenzione perché si rivolga all'esperienza immediata
(Cicerone dice admonere).

DAL SOGGETTIVO ALL'OGGETTIVO:


LA FONDAZIONE FISICA DEL PIACERE

Senonché la riconduzione del valore al semplice sentire non porta in


Epicuro a quel relativismo soggettivo, di cui ci offre un esempio certa sofi-
stica (in particolare Protagora), nella rappresentazione che ce ne dà Platone,
per il quale la coscienza, chiudendosi in se stessa, riduce il reale (almeno il
reale conosciuto) a semplice fenomeno. Per Epicuro, di cui è nota l'avver-
sione per ogni forma di scetticismo, come la sensazione esterna ha la
capacità di cogliere la realtà effettiva delle cose, così la sensazione interna,
il pathos , ha la capacità di rivelare la struttura intima dell'essere vivente
nella sua realtà e perciò nella sua universalità. Nel passo di Diogene Laerzio
già citato (10.34), in cui si dice che il pathos si scinde nel piacere e nel
dolore « presenti in ogni animale », si aggiunge subito dopo che il primo è
« proprio » ( oikèion ), l'altro « alieno » ( allótrion ) e che ad essi si riportano
rispettivamente ogni « scelta » ed ogni « fuga ».
La coppia di termini « proprio-alieno » la ritroveremo poi negli Stoici 26 ,
di che non farà meraviglia chi pensi che ambedue le scuole radicano la
morale nella natura (che è primieramente la natura biologica comune al-
l'uomo come all'animale); ma, pur connettendo ambedue il soggettivo pia-
cere all'oggettiva conservazione in vita dell'organismo, interpretano in un
modo opposto la relazione, vedendo gli Stoici nel piacere un semplice mezzo
rispetto alla conservazione di sé, che è il fine, mentre gli Epicurei fanno del
piacere il fine e della conservazione di sé il suo semplice correlato oggettivo.
Giacché il fondamento oggettivo della morale sta per Epicuro nel fatto
che nel pathos si riflette la struttura dell'organismo e piacere e dolore
corrispondono rispettivamente alla salute e alla malattia, alla conservazione
ed alla distruzione di sé, in definitiva alla vita ed alla morte. Leggiamo nella

24 Ad. es., M.C., III e D.L., 10.136 (= 2 Us., 7 Arr.).


25 Cíe. de ûn., 1.9.30.
26 Per un confronto tra la posizione epicurea e la dottrina stoica dell' oikèiosis, cfr.
H. Steckel, Epikūrs Prinzip..., cit., pp. 23 ss.

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Sul piacere in Epicuro 9

Sentenza Vaticana 37 che la natura è « salvata » dai piaceri, mentre è


« distrutta » dai dolori.
Del resto la fondazione fisica del piacere aveva caratterizzato Finterò
pensiero greco sull'argomento dalle scuole mediche e dai Cirenaici fino
Platone. Di particolare importanza per Epicuro è l'utilizzazione che i Cir
naici fanno delle categorie moto-quiete anche se la distinzione, all'intern
del movimento, tra piacere e dolore, è ricondotta a concetti (lieve-aspr
che, più che riportarsi alla fisica, restano in sostanza psicologici. Ma ancora
più importante, per quello che qui ci interessa, è la connessione, non pi
genericamente fisica ma specificamente biologica, che si trova in un tes
del « Corpo ippocratico»27, tra la fame e la malattia, mediata dall'equiv
lenza in cui tutti e due gli stati si trovano con il dolore (« ora infatti la fam
è malattia, ed infatti quel che addolora l'uomo, questo si chiama malattia »),
perché qui appunto il dato soggettivo del dolore viene riportato a quell
oggettivo della malattia.
Il « movimento » dei Cirenaici si precisa in Platone, sotto l'influsso d
un'altra nozione ippocratica28, nella coppia svuotamento-riempimento c
viene riportato il ritmo ricorrente del bisogno e della soddisfazione, don
poi l'interpretazione, in termini ontologici, del piacere come «genesi»
cioè come quel processo che muove verso l'esserci di qualcosa, Yousia , e
dolore come « dissoluzione della natura » 29 . Di qui, poiché ogni movimento
non può che valere meno dell'essere a cui conduce, la radicale svalutazio
ontologica del piacere che si traduce nella svalutazione psicologica, perc
il positivo (l'essere) e il negativo (il non-essere) che caratterizzano ogn
movimento diventano mescolanza di piacere e di dolore. Corrispondendo
rispettivamente al bisogno e alla soddisfazione, dolore e piacere nascono
assieme e muoiono assieme vivendo soltanto nella loro unione, donde il
carattere falso e illusorio del piacere che contiene sempre in sé il propr
opposto.
La rappresentazione che Platone si fa degli stati emotivi è dunque
identica a quella dei Cirenaici: essi sono tre, perché lo stato di quiete a cui
il completo appagamento del bisogno conduce non è avvertito, quando si
prolunghi, né come piacere (mancando il processo della soddisfazione) né
come dolore (mancando il bisogno). Nel Gorgia questp stato di quiete,
corrispondendo alla salute, e cioè (giusta la dottrina di Alcmeone della
salute come accordo proporzionale tra i vari elementi che costituiscono il
corpo) alla realizzazione nell'organismo dell'ordine cosmico, viene apprezza-
to eticamente ma ritenuto dal punto di vista dell'emozione come uno stato
neutrale. Nella Repubblica si aggiunge che, quando esso venga avvertito
come piacere, il che avviene quando coincide con la cessazione di un dolore,
si tratta di un'illusione prospettica dovuta al fatto che si considera « alto »
quella che in realtà è la posizione mediana. L'edonista insomma, ignaro del
vero « alto », che è costituito dalla verace realtà dello spirito, dal puro
essere delle Idee, vive l'intera sua vita chiuso nell'orizzonte del mondo
sensibile, scambiando per bene reale quel che è soltanto bene apparente,
falso ed ingannevole 30. Piaceri veri sono per Platone soltanto quelli « puri »,

27 de flatibus, 1 (ed. Jones, vol. II, p. 229).


28 Aphor., 2.22 (ed. Jones, vol/ IV, p. 112); de nat. hom., 9 (ed. Jones, vol. IV, p. 24).
29 Phil.f 31 d.
30 Cfr. il mio articolo, La fondazione ontologica del piacere nella « Repubblica » di
Platone, « Rivista di Filosofia neo-scolastica », LXVII, 1975, pp. 417421.

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10 D. Pesce

e cioè quelli non accompagnati o preceduti dal dolore, come sono, nel
campo del sensibile, il piacere dell'odorato e alcuni piaceri della vista e
dell'udito, e, nel campo dello spirituale, le gioie che si accompagnano alla
conoscenza.

Questo sfondo fisico (biologico)-metafisico (o


della teoria epicurea del piacere ed è di capitale importanza per la sua
corretta comprensione. Naturalmente nei confronti di Platone la prospet-
tiva è completamente capovolta; se spirituale vuol dire incorporeo, tale
nella realtà effettiva delle cose è per Epicuro soltanto il vuoto e cioè
qualcosa che si avvicina al niente e che si definisce per la sua incapacità e
di agire e di patire, ond'è che i confini del sensibile (dell'attualmente sensi-
bile e del potenzialmente sensibile) coincidono perfettamente con i limiti
dell'esistenza. Perciò chi questo esistere sensibile vive nella sua pienezza ha
veramente raggiunto il bene, perché quello stato che a Platone era apparso
come neutrale, se non è dolore, segno è che è piacere; è il piacere « cata-
stematico », il piacere proprio della costituzione stessa dell'organismo, il
piacere sommo.
Quanto poi ad Aristotele, nonostante la tesi oggi prevalente, resto del-
l'opinione del Bignone che Epicuro non conoscesse la trattazione aristote-
lica del piacere nell'Etica Nicomachea. Quand'anche l'abbia conosciuta, re-
sta il fatto che, pur nell'apparente somiglianza, le due dottrine non hanno
niente a che fare l'una con l'altra. L'apparente somiglianza sta nel punto
capitale che Aristotele critica la tesi platonica del piacere come movimento
e come genesi ed ammette che c'è un piacere nella quiete, ma per lui
piacere è attività, o qualcosa che si accompagna all'attività, mentre per
Epicuro il piacere è, come stiamo vedendo, pathos. La distanza non potreb-
be essere maggiore, perché per Epicuro il piacere riempie interamente la
coscienza, mentre questa per Aristotele è occupata dall'attività che ha
sempre un suo contenuto proprio specifico (l'attività più alta ha come
contenuto proprio la vita teoretica) ed il piacere è soltanto qualcosa che le
si accompagna, una sorta di risonanza emotiva che appunto l'accompagna,
quando l'attività si svolga in modo agevole, senza impedimento. Il progresso
che si compie nel passaggio dal libro settimo della Nicomachea al libro
decimo non sta in altro che nel progressivo chiarimento di questo punto.

LA STRUTTURA FORMALE DEL PIACERE

La dottrina del piacere di Epicuro si fonda su di una concezion


stati emotivi che è molto lontana da quella dell'uomo comune di ogni
tempo. Chi non afferra questo punto e non si rende conto della vera e
propria rivoluzione che Epicuro opera in fatto di psicologia si precluderà
ogni possibilità di intendere i testi e perverrà alla conclusione assurda che
Epicuro qualifichi come piacere, anzi come il piacere sommo in cui consiste
la beatitudine, quello stato, familiare a tutti noi, di indifferente apatia,
quando niente succede o di male o di bene e la coscienza, non sollecitata da
niente, né di negativo né di positivo, sembra quasi priva di ogni emozione
fuor di quella, quando questo stato si prolunghi, della noia. Se Epicuro si
fosse limitato a chiamare piacere quel che è in realtà indifferenza e noia, la
sua filosofia si ridurrebbe effettivamente, come ritengono Cicerone e Bonel-

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Sul piacere in Epicuro 11

li, ad un semplice mutare il nome delle cose,


perché non rispondente affatto all'esperienza
interpreta non si avvede che la beatitudine, quale Epicuro la concepisce,
non è affatto uno stato emotivo dell'esperienza ordinaria, da tutti quoti-
dianamente provato, ma è uno stato straordinario cui conduce soltanto
una lunga ed ardua preparazione, un modo di vita singolare di cui Epicuro
fu giustamente ritenuto F« architetto » 31. Del resto comune a tutte le filo-
sofie ellenistiche, con la sola eccezione dell'Accademia riformata, è la
convinzione che la saggezza non si esaurisce in un sapere e che la validità di
una dottrina si possa verificare soltanto dall'interno, in una esperienza di
vita vissuta. Ecco perché del « piacere » di cui parla Epicuro occorre con-
durre un'analisi assai accurata che ne studi dapprima la struttura formale
e ne indaghi quindi il contenuto.
La struttura formale del piacere è interamente condizionata da una tesi
che già apparve agli Antichi fondamentale, e cioè dalla negazione di un
terzo stato intermedio che non sia né piacere né dolore, terzo stato invece
che non soltanto era stato riconosciuto dai Ciranaici e da Platone, ma che
sembra corrispondere ad un dato inoppugnabile dell'esperienza immediata
di ciascuno. Per Epicuro invece piacere e dolore sono contrari che non
ammettono un méson 32, di modo che per essi si pone un aut aut esclusivo
che non ammette una terza ipotesi: o il piacere o il dolore e, se non c'è il
piacere, c'è il dolore e, se non c'è il dolore, c'è il piacere. Leggiamo questa
precisa testimonianza di Plutarco 33: « Non asserite, contro il sentire di tutti,
che tra il dolore e il piacere non esiste uno stato intermedio {méson) chia-
mando provar piacere il non provar dolore e soffrire il non provar piacere? ».
L'originalità della tesi è provata dalla difficoltà insuperabile che gli
interpreti hanno sempre trovato nell'accettarla, a partire da Cicerone che
nel secondo libro del de finibus 34 afferma: « quis enim est qui non videat
haec esse in natura rerum tria? unum, cum in voluptate sumus, alterum,
cum in dolore, tertium hoc, in quo nunc equidem sum, credo item vos, nec
in dolore nec in voluptate », e nelle Tusculanae 35 esclama: « alterum pecca-
tum, quod, cum in natura tria sint, unum gaudere, alterum dolere, tertium
nec gaudere nec dolere, hic primům et tertium putat idem esse nec distin-
guit a non dolendo voluptatem »; dove è da notare, in primo luogo, il
ricorrere nei due passi del termine « natura », per cui si dà per scontato che
nella realtà gli stati emotivi siano tre e, in secondo luogo, gli errori cui
conduce la trascrizione nei termini del linguaggio comune della particolare
dottrina di Epicuro, perché questi non identifica, come si dice nel passo
delle Tusculanae y il «gaudere» con il «nec gaudere nec dolere», il che
sarebbe palesemente contraddittorio, ma nega che esista un « nec gaudere
nec dolere » ed identifica il « gaudere » con il semplice « non dolere ».

31 Cic .de Un ., 1.10.32.


32 Stranamente il Moreau {Le naturalisme ďĚpicure, in Stoïcisme-épicurisme-tra-
ditìon hellénique, Paris 1979, p. 145) ritiene che i contrari debbano tutti ammettere un
termine intermedio e dello stesso avviso sembra essere il Long {Hellenistic Philosophy,
London 1974, p. 63), quando ritiene che piacere e dolore siano per Epicuro contraddittori
e non contrari. Essi sono invece contrari, perché ambedue sussistono all'interno di un
« genere » che è il pathos. Di contrari che non ammettono termine intermedio parla
espressamente Aristotele nelle Categorie, lib 38 ss. V. infra.
33 adv. Col, 1123 A = fr. 420 Us., di cui seguo la lezione.
34 5.16.
35 3.20.47.

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12 D. Pesce

Della negazione di
zione, una fisica e
quella divisione del pathos nel piacere e nel dolore, di cui ho già parlato:
un pathos che non fosse né positivo né negativo sarebbe per Epicuro
inconcepibile, giacché « quisquís... sentit, quem ad modum sit affectus, eum
necesse est aut in voluptate esse aut in dolore » 36 š
Quanto alla giustificazione fisica, essa è desunta dal fatto, di cui pure ho
parlato, che piacere e dolore non sono altro che il rispecchiarsi nella co-
scienza della struttura effettiva dell'organismo vivente nella sua tensione tra
salute e malattia; e si ricordi che nel concetto di malattia rientravano tanto
il patologico quanto il fisiologico, tanto la malattia vera e propria quanto il
bisogno, come è confermato del resto dal fatto che di fame, di sete e di
freddo si può morire. Ora salute e malattia costituivano già per Aristotele
una coppia di contrari che non ammettono termine intermedio: o si è sani o
si è malati, tertium non datur e, se non si è sani, si è malati e, se non si è
malati, si è sani: « quanti dei contrari sono tali che è necessario che l'uno o
l'altro di essi sia nelle cose in cui naturalmente si generano o di cui si
predicano, di questi non c'è termine intermedio ( méson ). Per esempio la
malattia e la salute si generano naturalmente nel corpo dell'animale ed è
necessario che nel corpo dell'animale ci sia l'una o l'altra, o la malattia o la
salute » 37 (l'esempio invece di contrari senza termine intermedio che si
« predicano » anziché « generarsi » sono il pari e il dispari riferiti al
numero).
La relazione di esclusione assoluta tra i due termini tanto più doveva
essere sentita in quanto salute e malattia si riportano rispettivamente alla
vita ed alla morte e, per l'eleatismo di fondo di Epicuro, all'essere e al
non-essere.

Senonché, come aveva mostrato Platone nell'ultima parte del quinto


libro della Repubblica 38, essere e non-essere, se escludono il « né-né », nel
senso che non può esserci un più rispetto all'essere e un meno rispetto al
non-essere, di modo che essere e non-essere segnano i limiti del pensabile
non essendoci rispetto ad essi un « oltre », ammettono invece 1'« e-e », una
zona intermedia in cui essere e non-essere si mescolano, dando luogo al
divenire e alla molteplicità. Ebbene, del tutto analoga a me sembra che sia
la situazione del piacere e del dolore nella concezione di Epicuro: non vi è
un terzo stato che non sia né piacere né dolore, perché, come abbiamo visto,
non esiste una terza condizione oltre a quelle del positivo e del negativo, ma
esiste uno stato intermedio in cui dolore e piacere si mescolano assieme e
che viene ad essere qualificato rispettivamente come dolore o come piacere
a seconda che sia ciascuno di essi a prevalere. Ed infatti, se nella terza
Massima capitale si parla di un limite di grandezza nei piaceri che coincide
con l'eliminazione di tutto il dolore, segno è che vi sono vari stadi prece-
denti in cui via via un meno di piacere si accompagna ad un più di dolore,
passando per uno stadio, di cui si parla nella Massima successiva, di un
« dolore che appena supera il piacere ». Piacere e dolore sono dunque con-
cepiti come due quantità variabili tali che al crescere dell'una sempre
corrisponde il decrescere dell'altra, come risulta evidente da questo grafico:

36 Cic. de fin., 1.11.38.


37 Arist. Cat., lib 38-12 a 6.
38 476a-fine del libro.

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Sul piacere in Epicuro 13

Il punto A indica il massimo del dolore che, secondo Epicuro, coincide


sempre con la perdita della coscienza o nello svenimento o nella morte e
che perciò non si prolunga in un segmento, come avviene invece per il
punto B che indica invece quel massimo del piacere di cui appunto parla la
Massima terza, coincidente con l'eliminazione di tutto il dolore, e che si
prolunga nel segmento BC simboleggiante il piacere catastematico. La dia-
gonale AB rappresenta nella sua prima metà il dolore che va sempre decre-
scendo e nella sua seconda metà il piacere cinetico che va invece sempre
aumentando, perché essa sta ad indicare non già uno stato, ma un processo.
Non soltanto infatti il piacere cinetico è movimento, ma lo è anche sempre
il dolore il quale non viene caratterizzato come cinetico, perché non occorre
distinguerlo da un dolore catastematico che non esiste (sarebbe una con-
traddizione in termini, in quanto la « costituzione » - catastema - propria
dell'organismo è la vita e non già la morte). Che il dolore sia sempre
movimento e mai stasi è testimoniato dai noti versi di Lucrezio 39: « Praete-
rea quoniam dolor est ubi materiai / corpora vi quadam per viscera viva
per artus / sollicitata suis trepidant in sedibus intus, / inque locum quando
remigrant, fit blanda voluptas.../ ».
Qualche altra osservazione, prima di abbandonare il diagramma. Se la
diagonale AB è presa, per esempio, a simboleggiare il piacere del mangiare
avendo fame, la situazione normale è rappresentata soltanto da quella
parte del segmento che si approssima a B, perché via via che ci avviciniamo
ad A abbiamo la situazione di chi invece via via si approssima al morir di
fame. Inoltre la figura pone in evidenza tutto il persistente platonismo di
fondo del materialismo epicureo: il mescolarsi del nero del dolore con il
bianco del piacere produce il grigio del divenire, mentre la condizione di
stasi si trasferisce dalla contemplazione del luminoso mondo delle Idee alla
fruizione goduta della vita corporea.
Il piacere è dunque concepito come una quantità omogenea che cresce
da un minimo ad un massimo restando nella sua essenza sempre lo stesso.
Donde Terrore di quanti, tratti in inganno dalle qualifiche di « cinetico » e
di « catastematico », hanno invece creduto che le due forme di piacere si
trovassero tra loro nella relazione di opposti. L'errore, ancor più che dal-
l'equivoco che nasce dall'uso della coppia di termini « moto-quiete », deriva
dal non aver compreso a quale profonda rivoluzione nella prospettiva psico-
logica conducesse la negazione del terzo stato di indifferenza. Giacché, nel
processo del piacere cinetico, per esempio nel bere con cui si soddisfa la
sete, il piacere non va via via diminuendo, come comunemente si crede e
come crede Platone, via via che diminuisce la sete, ma va per Epicuro
aumentando, e correlativamente il movimento non va via via aumentando di

39 2.963 ss.

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14 D. Pesce

velocità, come cre


passaggio dal moto alla quiete, dal cinetico al catastematico, non rappre-
senta, come ritiene assieme ad altri interpreti il Bonelli 41, una subitanea
inversione di stato, ma si produce in tutta continuità. Quantità di piacere e
quantità di moto si trovano insomma in proporzione inversa, ond'è che il
massimo del piacere coincide con il minimo di moto ed il piacere cataste-
matico, che è il piacere sommo, si produce quando la velocità si sia ridotta
a zero, quando cioè il moto si è convertito nella quiete.
Già il Brochard42 aveva visto come piacere cinetico e piacere cataste-
matico fossero due gradi di uno stesso sentimento e sull'unità del piacere
insistono giustamente lo Steckel43 e il De Witt44.
La concezione di Epicuro è insomma rigorosamente coerente: se pia-
cere sommo è quello della quiete, nella condizione del moto si ha piacere
soltanto in quanto questo moto si approssima alla quiete, alla quiete con-
duce e vorremmo perfino dire della quiete partecipa. Il carattere parados-
sale di quest'ultima espressione sarà eliminato, quando il discorso sia tra-
dotto nei termini della salute e della malattia, della vita e della morte,
dell'essere e del non-essere. Il piacere sta essenzialmente nella salute, nel
vita e nell'essere e perciò tanto più piacere vi sarà quanto più vi sarà di
salute, di vita, di essere, e cioè quanto meno vi sarà di malattia, di morte,
di non-essere. La negazione del non-essere (dolore, male) coincide con l'af
fermazione dell'essere (piacere, bene). Si legga la Sentenza Vaticana 42:
« Lo stesso è il tempo della generazione del massimo bene e della distru-
zione del male ».
Senonché all'interpretazione che ho proposto del piacere cinetic
brano opporsi due precisi testi spessissimo citati, la Massima capit
il fr. 421 Us., che sembrano negare che per Epicuro si possa mai pa
coesistenza di piacere e di dolore.
La seconda parte della Massima dice: « e dovunque sia il piacevole e
per tutto il tempo in cui ci sia, non c'è dolore né tormento né l'uno e
l'altro »; ma, poiché nella prima parte si parla del massimo del piacere che
coincide con la soppressione di tutto il dolore, mi sembra evidente che la
negazione di una coesistenza di piacere e dolore si riferisca qui al piacere
catastematico, la cui essenza stessa richiede la soppressione di ogni dolore
sia del corpo che dell'anima.
Il fr. 421 Us. riporta questa testimonianza di Olimpiodoro: « Non crede
Epicuro che il dolore si mescoli al piacere, giacché nemmeno il male si
mescola al bene ». Bignone e Diano, per conciliare questa affermazione con
la dottrina generale di Epicuro, hanno pensato ad una discontinuità, l'uno
temporale, l'altro spaziale. Il Bignone, che dà molta importanza al principio
della puntualità del piacere, pensa ad un rapido succedersi di istanti l'uno
piacevole l'altro doloroso, mentre il Diano, che invece accorda molta impor-
tanza al principio della sensazione in loco, pensa a punti diversi del corpo

40 E. Bignone, Nuove ricerche sull'etica di Epicuro e nuove testimonianze mancanti


agli « Epicurea » delVUsener, « Atene e Roma », 1936, p. 10.
41 Aporie etiche..., cit., p. 121.
42 V. Brochard, La théorie du plaisir ď apres Êpicure , m Études de philosophie an-
cienne et de philosophie moderne, Paris 1966, p. 272.
43 Epikūrs Prinzip.-., cit., p. 110.
44 N.W. De Witt, Epicurus and his Philosophy, Minneapolis 19622, p. 216.

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Sul piacere in Epicuro 15

(o al corpo e all'anima), dove sono diversamente localizzati piaceri e dolori.


Le due spiegazioni, ingegnose e sottili, concernono piuttosto il piano fisico
che non quello propriamente psicologico della teoria, e può darsi che esse,
da questo loro punto di vista, colgano nel segno, essendosi Epicuro, ad
esempio, rappresentato la coesistenza di piacere e dolore come l'unione
dell'acqua con l'olio che danno luogo ad un'emulsione anziché ad una solu-
zione. Ma mi sembra molto più semplice riferire, come fa pure il Bonelli 4S,
anche la testimonianza di Olimpiodoro a quello che per Epicuro è il piacere
per eccellenza, e cioè al piacere catastematico.
Se dunque la mia interpretazione del rapporto che sussiste tra piacere
cinetico e piacere catastematico è esatta, essa vale anche a mostrare l'infon-
datezza dell'antica accusa di Cicerone (ripresa oggi dal Bonelli) avere Epi-
curo fuso assieme due cose diverse come sono la voluptas e Yindolentia. Del
resto già il Brochard 46 aveva molto giustamente osservato che Yindolentia è
soltanto la condizione necessaria e sufficiente di qualcosa che, in sé conside-
rato, è perfettamente positivo e reale. Ma positiva è la stessa denominazione
di piacere catastematico, che fa riferimento al katástema, e cioè alla costi-
tuzione dell'organismo e positiva è l'altra designazione dell 'eustdtheia che
pure si trova47. Perfettamente positive sono le espressioni di cui tutta una
tradizione interpretativa si è valsa per tradurre in un linguaggio moderno la
nozione del piacere catastematico: Brochard 48 parla di «equilibrio fisiolo-
gico», De Witt49 di «stato normale dell'essere», Long50 di «condizione
naturale e normale degli esseri viventi ». In tutte queste formule si sottoli-
nea il fatto che si tratta, non di un processo, ma di uno stato che, come tale,
può essere duraturo e continuo, tanto che negli dei diventa coestensivo con
la loro immortale esistenza. Se Epicuro, per definire il telos, si vale di solito
di espressioni negative e, per designare questa condizione, all'espressione
« piacere catastematico » preferisce le altre di « aponia » e « atarassia », lo
fa per sottolineare il fatto che il piacere catastematico nasce dalla costitu-
zione stessa dell'organismo e non da circostanze esterne. È questo un punto
che ha visto molto bene il Merlan 51 che si vale costantemente della formula:
un piacere « la cui fonte non è più un qualche stimolo esterno, ma l'orga-
nismo stesso ». Si tratta di una tesi di importanza capitale in cui si riflette
quella rivoluzione psicologica di cui ho parlato e che conduce Epicuro a
distaccarsi radicalmente dalla concezione corrente che lega di necessità
l'insorgere del piacere alla presenza di particolari circostanze.
Negativo non è pertanto il piacere catastematico in sé considerato, ma
negativa è la via che vi conduce, perché si tratta appunto di provocare non
già la presenza di condizioni necessarie, ma l'assenza di quegli impedimenti
che sono costituiti dai bisogni, dai dolori e dai timori, si tratta cioè, non di
aggiungere, ma di eliminare qualcosa. Perciò Epicuro proclama che da
movente funge sempre soltanto il dolore e mai il piacere che costituisce
invece il fine: « allora abbiamo bisogno del piacere, quando, per non essere

45 Aporie etiche..., cit., pp. 32 e 106.


46 La théorie du plaisir..., cit., pp. 271 s.
47 Fr. 8 Us., p. 95; 10.
48 La théorie du plaisir..., cit., p. 270.
49 Epicurus..., cit., pp. 240-243.
50 Hellenistic Philosophy, cit., p. 64.
51 Ph. Merlan, Studies in Epicurus and Aristotle, Wiesbaden 1960, p. 2 e passim.

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16 D. Pesce

presente il piacere, proviamo dolore » Quel che muove infatti non è la


sazietà, ma la fame, di modo che appare del tutto infondata la critica di
Cicerone 53 che il non provar dolore non può servire da movente, perché da
movente, secondo Epicuro, funge appunto il dolore e non già il non pro-
vare dolore.
La distinzione tra il movente, che è sempre negativo, e il fine, che è
invece positivo, chiarisce ancor meglio la relazione in cui il piacere cata-
stematico si trova rispetto a quello cinetico. Il piacere, ad esempio, del
mangiare si pone tra la fame (movente negativo) e la sazietà (fine positivo),
di modo che il processo del mangiare non ha valore per sé (a prescindere
• dalla questione del gusto, di cui parlerò in seguito), ma soltanto in quanto
elimina la fame e conduce alla sazietà. Quel che grida la carne non è
insomma il mangiare, bere e riscaldarsi, ma di non avere più fame, più sete,
più freddo Ancora una volta si conferma che nelle due condizioni del
cinetico e del catastematico il piacere è lo stesso.

IL PIACERE CINETICO E LA « VARIATIO »

Dall'interpretazione che ho dato della relazione che intercorre tra le


due specie di piacere, come risulta evidente dalla figura, consegue che il
piacere cinetico debba sempre precedere il piacere catastematico. È questa
l'interpretazione che indubbiamente suggeriscono i testi, soprattutto quelli
di Cicerone 55, fondamentali per questo problema, giacché è chiaro che pri-
ma si ha il processo con cui si elimina il dolore (si soddisfa il bisogno) e poi
lo stato del dolore eliminato (del bisogno soddisfatto) ed è questa l'inter-
pretazione che è stata sempre sostenuta 56 , fino a quando il Diano, con una
serie di studi 57 in cui la dottrina è pari alla sottigliezza, non è venuto à
capovolgere la situazione ed a sostenere certe sue tesi che da allora hanno
riscosso non pochi consensi 58 , anche se accompagnati da vivaci critiche (tra
cui quelle del Bonelli, in questo caso giuste).
Queste tesi del Diano sono essenzialmente tre e possono essere così
riassunte:

1. Il piacere cinetico corrisponde ai desideri naturali non necessari e si


identifica con la variatio.

2. Esso non è mai preceduto dal dolore del corpo, ma presuppone


soddisfazione già conseguita.
3. Pertanto il piacere cinetico segue sempre il piacere catastematico.
Al punto in cui siamo una confutazione di queste tesi dovrebbe riuscire
inutile, risultando essa dall'intera ricostruzione della dottrina del piacere

52 ad Men., 128.
53 de fin ., 2.10.32. « Nec enim haec movere potest appetitimi animi, nec ullum habet
ictum, quo pellai animum, status hic non dolendi ».
54 S.V., 33.
55 de fin., 1.11.37 e 2.3.9.
56 Ancora, ad es., dal Long ( Hellenistic Philosophy, cit., p. 65).
57 Che sono stati raccolti m Scritti epicurei, cit.
58 Esse sono state accolte, per es., dal Rist (Epicurus..., cit., Appendix D) e dal no-
stro Barigazzi ( Epicuro , in Storia della filosofia, diretta da M. Dal Pra, vol. IV, Milano
1975, p.. 53).

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Sul piacere in Epicuro 17

che si è offerta. Conviene piuttosto con


variado, che presenta un problema reale
Di quanto dice il Diano accettabile è la connessione che egli pone tra
variado e piacere cinetico, ma non certo la loro identificazione, perché, se è
vero che senza piacere cinetico, non può darsi variado (essendo invece
inconcepibile una variado nel piacere catas tematico), è vero invece che può
esserci piacere cinetico senza variado , come quando si mangia pane e si
beve acqua (ma questi del mangiare è del bere sono per Diano piaceri
catastematici, perché in essi il passaggio dal dolore al piacere è istantaneo
ed il processo concerne soltanto l'estendersi progressivo del piacere ad un
numero sempre maggiore di parti dell'organismo); ed accettabile è altresì
l'altra connessione, attestata del resto già dallo scolio alla Massima XXIX,
tra la variado e il desiderio naturale e non necessario.
Il problema dunque che si impone è il seguente: se la variado con
il piacere cinetico e questo (a mio avviso) precede sempre il piacere cata-
stematico, come mai precisi testi epicurei sembrano far credere invece che
la variado segue il piacere catastematico? Il testo fondamentale è costituito
dalla Massima capitale XVIII che dice: « Non aumenta nella carne il piace-
re dopoché ( epeidán ) una volta sia sottratto il dolore secondo il bisogno, ma
soltanto si varia »; testo che viene riecheggiato da un passo di Cicerone:
« omnis autem privatione doloris putat Epicurus terminará summām volup-
tatem ut postea variari voluptas distinguique possit, augeri amplificarique
non possit » 59, e da un altro: « cum omnis dolor detractus esset, variari, non
augeri voluptatem »
II Bigiione 61 crede di risolvere il problema, distinguendo due specie di
piacere in moto, uno che precede ed uno che segue (nel quale appunto si
avrebbe lá variado) il piacere catastematico, ma con ciò non toglie la
difficoltà che è intrinseca al fatto di un variarsi del piacere che segua la
condizione catas tematica. Giacché che senso ha dire che soltanto allora si
possono gustare cibi e bevande raffinati, quando non si senta più il bi
di cibo e bevanda, perché si è già raggiunta la sazietà? Possibile che Epi-
curo voglia dire una cosa tanto assurda come questa, che prima dobbiamo
sfamarci e dissetarci semplicemente con pane ed acqua, dopo di che saremo
in grado di apprezzare debitamente cibi squisiti e vini prelibati?
Non rimane dunque altra soluzione all'infuori di quella di vedere se le
espressioni « epeidán », « postea », « cum », anziché avere un senso tempo-
rale e riferirsi a due distinti momenti successivi nel tempo, non possano
invece significare la relazione sussistente tra due aspetti solo mentalmente
distinguibili di uno stesso processo. Ed infatti, nel piacere cinetico, che
consiste come sappiamo nella soddisfazione di un bisogno, si possono di-
stinguere come due strati concernenti il primo il bisogno naturale nella sua
necessarietà, che può essere soddisfatto da un minimum di beni, e l'altro
invece il bisogno non necessario richiedente un di più e un meglio. Nel caso
del mangiare e del bere, la distinzione è ancora più accentuata, perché essa
concerne, da una parte la soddisfazione del bisogno, l'estinzione della fame
e della sete, e, dall'altra, la soddisfazione del gusto. A quest'ultimo si rife-

59 de fin., 1.11.38.
60 Ibid., 2.3.10.
61 Nuove ricerche..., cit., p. 16.

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18 D. Pesce

risce Lucrezio 62 ,
dalle fauci, non si sente più piacere. Egli non vuol dire, come crede il
Diano 63 , che il mangiare e il bere non producono piacere in moto, ma vuol
dire semplicemente che allora cessa il piacere del gusto il quale è localiz-
zato nella bocca; giacché qui Lucrezio sta appunto parlando del gusto, e
soltanto del gusto, in un'indagine che prende in esame uno per uno i sensi.
In quei passi dunque che ho citati, credo che Epicuro voglia dire che,
quando si sia provveduto al soddisfacimento del bisogno naturale con il
minimo dei mezzi, non c'è modo di aumentare il piacere che ne risulta,
arricchendo la qualità di questi mezzi, perché questo piacere deriva soltan-
to dalla soddisfazione del bisogno. La qualità viene sì anch'essa avvertita,
ma come un'aggiunta non necessaria, registrata dai sensi che ne sono solle-
ticati; nel caso del mangiare e del bere, da quel senso particolare che è il
gusto. Si tratta di una distinzione, interna al piacere, tra l'essenziale e l'acci-
dentale: la variado provoca anch'essa piacere, ma piacere appunto acciden-
tale, non essenziale.
Sul bisogno insomma in quanto tale incide la quantità e non la qualità
e perciò in ogni momento del processo la misura del piacere è data dalla
quantità del dolore eliminato, fino a pervenire a quel massimo che corri-
sponde all'eliminazione di tutto il dolore. Più in là non c'è modo di spin-
gersi, allo stesso modo, dice Seneca64, che non può esserci maggior sereno
di quello di un cielo perfettamente sgombro da nuvole. Nel caso del piacere
« si qua extra blandimenta contingunt, non augent summum bonům, sed, ut
ita dicam, condiunt et oblectant »; « extra », e cioè estranei al processo di
soddisfazione del bisogno e, come tali, capaci di « condire piacevolmente » il
sommo bene, ma non di influire sulla sostanza.
La variado riguarda propriamente il piacere cinetico, ma retrospetti-
vamente esso incide anche sul piacere catastematico, per quel persistere dei
ricordi cui tanta importanza attribuisce Epicuro.

dall'edonismo all'ascetismo

« Non vi può essere vita piacevole senza che essa sia saggia bella e
giusta » 65; l'affermazione è veramente sconcertante e, per il Bonelli 66 , addi-
rittura contraddittoria, perché l'edonismo dovrebbe di necessità condurre
all'immoralismo, di modo che questa svolta si deve soltanto al sopravvenire
di una nuova e diversa motivazione, al desiderio cioè di Epicuro di far
concorrenza al platonismo sul suo stesso terreno. Ma, ancora una volta,
queste incomprensioni nascono dal non aver tenuto conto della rivoluzione
che Epicuro opera in fatto di psicologia e del conseguente carattere tutto
particolare che ha la sua concezione del piacere. Chi afferri questo punto
fondamentale, si renderà conto invece della rigorosa coerenza della dottrina
epicurea e si avvedrà che il contenimento dei desideri non risponde già a

62 4.628 ss.
63 Scritti epicurei, cit., pp. 42 s.
64 Ep., 66, 45 = fr. 434 Us.
65 ad Men., 132.
66 Aporie etiche..., cit., pp. 45 ss., 56, 72.

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Sul piacere in Epicuro 19

preoccupazioni estrinseche, ma viene richiesto dalla nozione stessa del pia-


cere. Le opposte conclusioni insomma cui conduce l'edonismo in Platone e
in Epicuro si spiegano ove si tenga presente l'opposto concetto che i due
filosofi si fanno del piacere e del desiderio.
Platone infatti aveva fatto suo il punto di vista comune, per il quale nel
processo della soddisfazione di un bisogno via via che il bisogno diminuisce,
diminuisce anche il piacere fino a che, con il cessare del primo, si ha anche
il cessare del secondo. Di qui il carattere infinito del desiderio, perché,
nascendo il piacere dalla sua coesistenza con il bisogno, chi voglia di questo
piacere godere il più a lungo possibile si augurerà che il bisogno non abbia
mai a cessare e, potendolo, procurerà di eccitarlo artificialmente. Tale la
posizione dell'edonista coerente che, come il Callide del Gorgia, pretenderà
che i desideri siano, non già moderati e soppressi, ma al contrario lasciati
liberi e disfrenati.
Ma, come abbiamo visto, Epicuro capovolge le premesse da cui parte
Platone ed afferma che, via via che diminuisce il bisogno, il piacere, anziché
decrescere, aumenta fino alla completa divaricazione finale: dolore (biso-
gno) minimo, ridotto a zero, e piacere massimo. Raggiunto il massimo, il
piacere, che è ora quello catastematico, si mantiene costante fino a che, per
il ritmo alterno che caratterizza la vita umana e la differenzia da quella degli
dei, non insorgano nuovi bisogni.
Da qui quella nozione del limite, che è veramente capitale per la fonda-
zione dell'etica di Epicuro. La negazione di un terzo stadio intermedio che
non sia né piacere né dolore, ponendo piacere e dolore a diretto contatto
tra loro, fa sì che il piacere acquisti, dalla completa negazione del dolore,
una sua forma, allo stesso modo che la negazione del vuoto dà al pieno
dell'atomo la sua figura.
Se il piacere, nel suo massimo, e cioè nella sua verace essenza, coincide
con la completa eliminazione del dolore, il bisogno (che è la forma fisiolo-
gica del dolore) va appunto eliminato ed il desiderio (in cui il bisogno si fa
avvertire dalla coscienza) va contenuto e anch'esso eliminato, convertendosi
così l'edonismo nell'ascetismo. Giacché la via che conduce alla beatitudine
è, come sappiamo, quella negativa dell'eliminare alcunché, non quella
tiva dell'acquistare; quella della rinuncia e non quella del possesso. Lu
perciò dallo schierarsi con Callide, Epicuro si schiera invece con Socr
nel vagheggiare anch'egli, anche se con una ben diversa motivazione
condizione di chi bisogni non abbia né provi desideri, la condizione ch
Epicuro è quella divina.
Questo carattere finito compete però soltanto a quei desideri che sono
radicati nella natura ed anzi vale ad individuarli; si tratta di quei bisogni
dell'organismo che, ove a lungo non siano soddisfatti, conducono alla morte
e che Epicuro, che poco si preoccupa della sopravvivenza della specie,
riduce a tre: non aver fame, non aver sete, non aver freddo. Poiché in questi
casi il soddisfacimento consiste nel ristabilimento della condizione di salute
e di benessere, che era stata dal bisogno compromessa, il limite è posto
dalla natura stessa e viene avvertito, nel caso del mangiare e del bere, come
sazietà.
Carattere infinito invece conservano quei desideri che, o come quelli
che si riportano all'onore e alla gloria, non hanno nessun fondamento nella
natura, ma sono frutto esclusivo di vuote opinioni, o che, pur radicandosi

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20 D. Pesce

nella natura, vanno al di là di quanto la natura strettamente esige, come


quelli di cui ho parlato a proposito della variatio. Su questi desideri, che
nella terminologia di Epicuro si chiamano né naturali né necessari i primi e
naturali non necessari i secondi, si fondano la brama della potenza e l'amo-
re della ricchezza; brama e amore che procedono necessariamente verso
l'infinito, perché, privi come sono di per sé di un loro limite naturale, non
possono trovarlo nella quantità dei beni che li soddisfano, la quale, com'è
ovvio, può aumentare indefinitamente; per ogni meta raggiunta, in fatto di
potenza e di ricchezza, c'è sempre una meta ulteriore, perché sono sempre
possibili una potenza e una ricchezza maggiori.
Per Platone anche l'amore della potenza e quello della ricchezza si
radicavano nella natura umana, perché si riportavano rispettivamente alla
parte irascibile e alla parte concupiscibile dell'anima, di modo che per lui la
norma della vita etica era da riportare non alla natura, che è contraddi-
stinta da un interiore conflitto, ma alla ragione; laddove per gli Epicurei,
come poi per gli Stoici, la norma è riposta nella stessa natura.
Per gli Stoici l'affermazione non desta meraviglia, perché per essi la
natura è ordine divino; ma come si spiega la posizione analoga negli Epicu-
rei, per i quali essa è invece pura fattualità destituita, parrebbe, di ogni
valore? La risposta sta nel fatto che, in primo luogo, nell'universo infinito
già una prima delimitazione delle possibilità si compie per i caratteri propri
e definiti degli atomi (numero finito delle figure) e del moto (che è inizial-
mente sempre quello di caduta) e, in secondo luogo, nel fatto che il passag-
gio alla realtà di un mondo coincide con la nascita di un ordine che assegna
ad ogni cosa una sua « finita potestas » e la chiude entro un suo « alte
terminus haerens » 67 . In particolare il mondo si costituisce proprio come un
sistema di limiti che costringono tutte le variazioni possibili entro un mi-
nimo ed un massimo. Si pensi di nuovo a Lucrezio68 ed al suo convinci-
mento che ogni mutamento qualitativo si tiene entro un limite inferiore ed
uno superiore, tra un peggio e un meglio che non ammettono gradi rispetti-
vamente inferiori e superiori, come ad esempio non c'è un caldo maggiore
di quello della fiamma né un freddo minore di quello della neve. La stessa
legge, applicata questa volta alla natura interna dell'uomo, esige che ci
siano un massimo ed un minimo per i piaceri e per i dolori, coincidendo
come sappiamo, il minimo del dolore con il massimo del piacere.
Se i desideri della ricchezza e della potenza sono per loro essenza
illimitati, questo dipende dal fatto cfye essi appartengono non già alla realtà
effettiva delle cose, alla natura69, ma al mondo illusorio creato dalle vane
opinioni. A questo modo gli Epicurei precedono gli Stoici nel collegare le
passioni malvage con le opinioni e nell'assegnare quindi alla scienza la
funzione della liberazione dalle passioni.
Il « sapiens », « amputata circumcisaque inanitate omni et errore », vive
« naturae finibus contentus sine cupiditate » 70. Egli sa infatti che, risiedendo
il massimo piacere non nel processo del soddisfacimento, ma nello stato

67 Lucr. 1.76 s.
68 2.500 ss.
69 Giustamente il Konstan ( Some Aspects of Epicurean Psychology, Leiden 1973, p.
19) osserva: « la psicologia epicurea rigetta la premessa che certi desideri siano illimitati
per natura ».
70 Cic. de fin., 1.13.44.

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Sul piacere in Epicuro 21

della soddisfazione già conseguita, la felici


solo quel tanto che basti ad eliminare nel
dolore del bisogno. Di qui l'elogio dell'autarchia e la convinzione che il
saggio, restringendo al massimo l'ambito della propria vita, ben poca presa
offra ai poteri della fortuna71 e si faccia in definitiva padrone del pro-
prio destino.
La prescrizione di mantenersi entro i confini assegnati dalla natura
porta altresì alla condanna del desiderio di immortalità ed alla conseguente
serena accettazione della morte.
L'ascetismo a cui conduce coerentemente l'edonismo epicureo h
un carattere singolarmente moderato. Ed infatti, mentre per quel ch
cerne il non naturale, e cioè l'amore della gloria e della potenza, E
richiede la sua soppressione totale, differenziandosi radicalmente
ne, di cui sono note le simpatie per l'etica aristocratica dell'onore,
che riguarda invece il non necessario nell'ambito del naturale, s
soltanto che se ne riconosca la natura propria e che non lo si scam
necessario. Del superfluo infatti si richiede, non che si debba , m
possa fare a meno: « E un bene grande stimiamo l'autarchia, non p
debba sempre servirci del poco, ma affinché, se non abbiamo il m
serviamo del poco, nella schietta persuasione che più piacevolmente d
godono dell'abbondanza quelli che meno ne sentono la mancan
tutto quel che è naturale è anche facile da procurare, difficile inv
che è vuoto » 12 . Si direbbe quasi che la distinzione tra il necessario
necessario sia riportata all'altra tra il quotidiano e il festivo e che
fia di Epicuro si preoccupi tra l'altro di recuperare appunto il sen
della festa.

IL CONTENUTO DEL PIACERE

L'antitesi tra Platone ed Epicuro non potrebbe essere più netta


primo il mondo della verace realtà incomincia là dove cessa il sens
dischiude il regno del puro intelligibile; l'uomo vero è l'anima, sost
tutto spirituale la quale, finché è unita ad un corpo, è come prigi
inizia la sua vera vita soltanto dopo la morte; l'attività più alta è la co
plazione dell'identico e dell'immutabile. Per il secondo invece, è pr
senso, in particolare il tatto, che ci fa conoscere la realtà effettiva, e
il termine « incorporeo » null'altro che un sinonimo di « vuoto »; l'uo
è la « carne » cui l'anima, anch'essa corporea, è strettamente cong
beatitudine non consiste nella teoria e nemmeno nella prassi, ma nel sem-
plice pathos . L'opposizione può misurarsi da questo completo rovescia-
mento di posizione, perché l'insistenza e l'accanimento che Platone mette
per dimostrare, nel Fedone , l'immortalità dell'anima, sono impiegate da
Lucrezio - e lo stesso doveva aver già fatto Epicuro nel suo peri physeos -
nel terzo libro del suo poema, per dimostrarne al contrario la mortalità:
ambedue moltiplicano gli argomenti per convincere il lettore.

71 « Optime vero Epicurus quod exiguam dixit fortunám intervenire sapienti » (ibid.,
1.19.63).
72 ad Men., 130.

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22 D. Pesce

Pure l'appello all


piamo, Faccoglime
tutto, egli conserv
e la sicura scienza dei saggi, anch'egli presentandosi come colui che rivela
agli uomini la verità nascosta e li salva dall'errore. « Scopritore della veri-
tà », « architetto della vita beata » lo dice Torquato nel primo libro del de
finibus 73 di Cicerone ed altrettanto farà con commosse parole Lucrezio.
Epicuro si presenta da sé, e tale appare ai suoi discepoli, come un
maestro di vita capace di indicare agli uomini la vera via della beatitudine;
anch'egli, come il Socrate dell'Apologia, va predicando che i più si ingan-
nano nel ritenere che la ricchezza e gli onori costituiscano il fine della vita e
che in generale la felicità va riposta, non nelle circostanze e nelle condizio-
ni esterne, ma nell'intimo dell'uomo.
Ma l'accordo con il Socrate dell'Apologia si ferma a questa pars
destruens , a questa polemica contro gli ideali di vita comuni, perché in
luogo della scoperta dell'anima spirituale, si ha in Epicuro la sconcertante
affermazione del piacere riposto nel ventre. La demolizione delle sovra-
strutture create dalla vuota immaginazione, comune a Platone e ad Epicuro,
porta infatti i due filosofi ad esiti opposti, alla rivelazione per Platone de
divino nascosto nell'uomo e per Epicuro-parrebbe-a quello della bestia.
Senonché il paradosso dell'etica epicurea sta nella pretesa che, quel che
sembrava abbassamento ad un livello subumano, è proprio esso invece
innalzamento ad un livello più che umano e propriamente divino: «Grido
della carne il non soffrire la fame, il non soffrire la sete, il non soffrire il
freddo. Chi queste cose possegga e speri di possederle anche con Zeus
potrebbe gareggiare in felicità » 74.
Come intendere un'affermazione così sconcertante? In che cosa consiste
insomma il « piacere » di cui parla Epicuro? Questo è il vero problema, ed
è, come si vede, problema di interpretazione della dottrina, non già proble-
ma della traduzione di un termine. Ché, quanto alla resa in italiano della
parola hedoné , non c'è da esitare a tradurla con « piacere », così come
Cicerone75 giustamente sosteneva non esservi dubbio che andava tradotta
con voluptas . Chi, come fa il Merlan76, si pone alla ricerca di un nuovo
vocabolo riduce a problema di linguaggio quel che è invece questione di
pensiero e non si avvede che, traducendo con « gioia », sposta ad hedoné
quel che è invece il significato di chará, un termine cui Epicuro sembra
assegnare un valore tecnico, designando con esso il piacere cinetico del-
l'anima 77 (hedoné dunque è genus, chará, species).
Qual è dunque, per riprendere il filo del discorso, il contenuto del
piacere in cui Epicuro ripone la beatitudine? Credo che il punto fondamen-
tale sia questo: quell'apparente abbassamento al livello ferino, mercé del-
l'eliminazione del vano (desideri non naturali) e Idei superfluo (desideri non
necessari), isola quel che è l'essenziale nella vita, rivelando il gusto del
semplice esistere. È un punto che Diano78, riecheggiato dall'Arrighetti 19 , ha

73 1.10.32.
74 S.V., 33.
75 de Un., 2.4.13.
76 Studies..., cit., pp. 1, 13 ss.
77 D.L., 10.136 = fr. 2 Us. 7 Arr.
78 Scritti epicurei, cit., pp. 199 ss.
79 Epicuro, Opere, Introduzione, trad, e note di G. Arrighetti, Torino 1967, p. XL.

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Sul piacere in Epicuro 23

intravisto, quando afferma che « Epicuro


dell'essere », che « piacere ed essere fanno... uno », quando si chiede: « che
altro è se non una relazione al non-essere il dolore con cui la carne doman-
da il piacere che l'ha lasciata? » 20 ; ma poi il Diano si perde nel tentativ
dimostrare la strana tesi che per Epicuro l'essere è visto soprattutto nella
categoria della relazione.
In realtà Epicuro conserva quell'equazione, fondamentale per la metafi-
sica classica, che identifica la dimensione ontologica con quella assiologica,
ma la sposta dal piano dell'essenza, in cui essa si poneva per Platone e per
Aristotele, a quello della semplice esistenza, con la conseguenza di sostituire
il sentire (il pathos) al rapporto intellettivo della teoresi (del logos) ed a
quello volitivo della prassi. Perciò il piacere epicureo si può dire che consi-
sta nel sentimento dell'esistere nella sua radicale positività.
Poiché si tratta di un'esperienza che fa toccare il fondo ultimo delle
cose, siamo trasportati al livello della mistica e Diano ha torto, quando
conclude i suoi studi con questo giudizio: « In questo senso Epicuro ha
nella storia del pensiero un posto se non di prima fila, perché questi
spettano ai santi dello spirito, del pensiero cioè che non s'arresta, e non a
quello della carne, un posto unico e distinto»81. Epicuro è invece molto
vicino alla santità e condivide posizioni che sono certamente religiose; così
la convinzione che il bene si realizza fondamentalmente in un'esperienza del
sentire e che, come tale, non richiede doti particolari di cultura e nemmeno
in un certo senso di intelligenza, riuscendo accessibile alle donne ed agli
schiavi.
Siamo di nuovo agli antipodi di un Platone; questi sminuisce il valore
degli scritti, disdegna il trattato, privilegia il dialogo ed esige che il disce-
polo, dopo lunghi e faticosi studi preparatori, gli si faccia compagno nel-
l'ardua ricerca dialettica fino a pervenire alla folgorante intuizione della
verità; Epicuro non soltanto scrive trattati, ma egli stesso li compendia fino
a ricavarne brevi catechismi, accontentandosi che i suoi seguaci siano con-
vinti della dimostrabilità della dottrina, anche se essi stessi sono poi inca-
paci di condurre queste dimostrazioni e di andare al di là di una esposi-
zione elementare.
Carattere religioso ha altresì l'apprezzamento altissimo della vita deg
affetti (di nuovo quale abisso tra l'eros platonico e la philia epicurea), di
dirò qualcosa ancora nel prossimo paragrafo, ed ancor più il culto della
beatitudine, alla quale viene ricondotta l'essenza stessa della vita divina.
Religiosa è soprattutto l'intuizione profondissima che, tradotta in un lin-
guaggio cristiano, suonerebbe essere la vita terrena radicata nella carne
(non parliamo forse dell'« Incarnazione » di nostro Signore?) un dono di Dio
(per Platone era una prigione frutto di una caduta).
Il saggio epicureo, sgombra la mente da ogni timore, soprattutto dalla
paura della morte (un punto importantissimo di cui non ho parlato, perché
bastevolmente illustrato dalla critica), fiducioso nel futuro per le poche
esigenze e per gli aiuti che, all'occorrenza, gli verranno dagli amici, sgombro
il cuore da ogni desiderio di ricchezza e di onori, gusta veramente il sapore
della vita nel soddisfacimento dei bisogni elementari ed ancor più nella
■. h

80 Scritti epicurei, cit., p. 279.


81 Ibid .

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24 D. Pesce

pace interiore dell


zione; se si aggiu
vede il contenuto stesso della felicità), si avrà veramente il ritratto della
beatitudine.
Poiché si tratta, come ho detto, di un'esperienza che ha un carattere
mistico, e che come tale andrebbe vissuta e verificata dall'interno, riesce
molto difficile descriverla dall'esterno. Chi non l'abbia provata può soltanto
intravvederne la natura, ove rifletta su certe esperienze singolari come
quelle ad esempio vissute in alcune fasi dell'ultima guerra, quando un pezzo
di pane e perfino una bottiglia di acqua acquistavano il carattere di un dono
e quando nei rifugi antiaerei si riscopriva il senso della fraternità umana.
Anche allora la vita era ridotta ai suoi termini più elementari, ma, poiché
l'elementare coincideva con l'essenziale, l'animo, rimosse avidità e ambi-
zione, ne era come purificato ed era posto in grado di avvertire il valore
supremo del semplice vivere, di appartenere al regno dell'essere e non a
quello del non-essere.
Se perciò quelle formule che sono state proposte dello « stato normale »
e dell'« equilibrio organico » sono obiettivamente valide, esse però riescono
del tutto fuorvianti, ove non si metta in luce il carattere del tutto eccezio-
nale dell'esperienza di vita vissuta che si accompagna a questo stato con-
traddistinto come « normale ».
Quanto poi al problema del perché Epicuro, per designare una condi-
zione così poco comune, si valga di un vocabolo che è invece corrente qual è
quello di « piacere », credo di aver già data la risposta: non c'era (e non c'è)
altro termine che possa meglio indicare, in tutta la sua ampiezza, lo stato
positivo del sentire (del pathos ). Insomma accade ad Epicuro quello stesso
che capita a Platone, quando parla del « bene » (l'Idea del Bene) e si vale
anch'egli di un termine che potrebbe sembrare altrettanto equivoco, quanto
lo è « piacere ». Ma in realtà non si tratta di un uso equivoco bensì di un
uso analogo, giacché tanto Platone quanto Epicuro vogliono riferirsi rispet-
tivamente al vero bene e al vero piacere, all'essenza stessa del bene e del
piacere, che, come tale, è più o meno presente in ogni bene e in ogni
piacere. Che è quanto dire che per i due filosofi ogni uomo, dovunque e
comunque ricerchi il bene o il piacere, in realtà aspira, anche se non se ne
rende conto, al vero bene o al vero piacere che, soli, possono assicurare la
beatitudine.
Senonché le due posizioni non sono affatto parallele, come potrebbe fa
credere il discorso che sto facendo, ma contrastanti, perché per Epicüro il
piacere è il bene (il vero bene) ed in un certo senso per Platone il bene,
come esperienza vissuta, è il piacere (il vero piacere) anche se una simile
espressione, così alla lettera, non si trova nei suoi scritti (ma si trova in
Aristotele). La differenza sta, come ho detto, nell'opposto riferimento che
fanno, Platone all'essenza e al logos , Epicuro all'esistenza e al pathos.

LA GIUSTIZIA E L'AMICIZIA

La contraddizione, insita nel sistema stesso di Epicuro, si fa, secondo il

82 A.M. Festxjgière, Epicuro e i suoi dei, trad, it., Brescia 1952, p. 77.

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Sul piacere in Epicuro 25

Bonelli, ancor più manifesta nella dottrina della giustizia e dell'amicizia:


« ...l'aver egli in vario modo fatto posto alla vita morale, alla giustizia,
all'amicizia è il segno della sua difficoltà a rimanere sul piano del mero
utilitarismo; ma, anche qui, il superamento dell'utilitarismo è pur sempre
tentato nei termini dell'utile - interpretandosi la virtù come piacere - e
quindi in termini contradditori » 83.
Anzitutto bisogna intendersi sull'utilitarismo di Epicuro, che io nego,
benché non soltanto ne parli il Bonelli, ma su di esso fondi la sua interpre-
tazione uno dei maggiori studiosi di Epicuro, il Bailey. Vero è che sembra
che Epicuro ne parli espressamente nei paragrafi 129-130 della sua Lettera
a Meneceo, dove è questione del calcolo di piaceri e di dolori, ma, dopo
quanto si è detto, dovrebbe risultar chiaro che questo calcolo non può che
applicarsi ai piaceri connessi con i desideri naturali e non necessari dove ha
luogo la variatio e dove si apre un ambito ampio di scelte, giacché per quel
che cpncerne i desideri necessari e quelli non naturali, non si presenta che
l'unica possibilità rispettivamente di secondarli e di eliminarli.
Senonché l'ambito del non necessario occupa un posto di importanza
marginale nell'etica di Epicuro, la quale è tutta incentrata sul concetto del
piacere catastematico o meglio, come abbiamo visto, su di una singolare
dottrina del piacere visto nella sua unità e continuità, ed a questo propo-
sito, come risulta dai paragrafi 131-132 della stessa Lettera, non è più que-
stione di calcolo, ma semplicemente di «scelta» (nel senso tecnico del
termine) e di « fuga ». Giacché, come osserva Platone nel Fedone allora si
può parlare di calcolo utilitario, quando vi sia scambio tra cose dello stesso
genere, mentre il piacere, quale l'intende Epicuro, e quale l'intende il volgo,
sono cose che differiscono per qualità e non per semplice quantità.
Venendo ora al concetto della giustizia, il punto fondamentale è di
rendersi conto che -Epicuro ne parla in due sensi totalmente diversi a
seconda che si riferisca al saggio o alla moltitudine degli insipienti. Quando
egli afferma che vi è una completa identità tra vita piacevole e vita virtuosa,
sostenendo che esse si implicano a vicenda 85 , allora i tre avverbi « saggia-
mente, bellamente e giustamente » mi sembra che siano adoperati come
sinonimi e che, anziché riferirsi ad aspetti o specie diverse della virtù, essi
designano ciascuno la virtù tutta intera. Si vuol dire insomma che, come
abbiamo visto, quando siano stati sradicati dall'animo i desideri della ric-
chezza e della potenza, come il piacere rettamente inteso esige, allora cade
ogni motivo di condotta malvagia e cade in particolare ogni motivo di
arrecare torti agli altri, di commettere ingiustizia.
Se i saggi sono intrinsecamente virtuosi e perciò autonomi nel loro
comportamento, non altrettanto può dirsi degli « insipienti », che sono i più,
i quali sono invece dominati dal desiderio insaziabile della ricchezza e degli
onori. I non saggi perciò saranno condotti a realizzare un ordine sociale,
mossi da un calcolo utilitario che pesi danni e vantaggi, e sul fondamento di
un patto reciproco che imponga di non commettere ed assicuri di non
ricevere ingiustizia veruna. È questa la giustizia di cui trattano le Massime
capitali XXXI-XXXVIII, ed è questa la giustizia che analizza Cicerone nel

83 Aporie etiche ..., cit., p. 51.


84 69 a-b.
85 ad Men., 132.

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26 D. Pesce

de finibus 86, applicando agli Epicurei lo schema platonico delle quattro


virtù cardinali.
La condizione dei non saggi è dunque eteronoma, essi, se si astengono
dal male, lo fanno per la minaccia delle sanzioni previste dalla legge, mi-
naccia sempre incombente, perché, se possono sperare di eludere la pena,
non possono sperare di vincere altresì il timore della pena. È la risposta che
Epicuro, la cui concezione della giustizia è molto simile a quella avanzata
da Glaucone nel secondo libro della Repubblica, dà al problema platonico
dell'anello di Gige.
Aderendo alla tesi di Glaucone, Epicuro si pone in decisa polemica
contro la concezione platonica di una giustizia intesa come ordine obiettivo
in cui si rispecchia nella società l'Idea del Bene, allo stesso modo con cui
rigetta la nozione di uno stato educatore, creatore di un ethos , donde
l'assoluto disinteresse del saggio nei confronti della politica e dello stato, da
cui, per suo conto, egli non si ripromette che la « sicurezza dagli uomini » 87.
Come si vede, si tratta di una concezione del tutto coerente che si pone
dichiaratamente nell'ambito dell'utilitarismo e pertanto del tutto al di fuori
del campo della morale.
Non sulla giustizia infatti si fonda la società dei saggi, il Giardino, la
scuola, ma sull'amicizia. A questo riguardo Epicuro rompe con la tradizione
filosofica precedente, culminante nella trattazione di Aristotele, che del-
l'amicizia aveva fatto una virtù, sostenendo che nella persona dell'amico è
in realtà il Bene che vi si incarna che si ama e concependo l'amicizia come
un rapporto educativo. Per Epicuro l'amicizia non è tanto una virtù quanto
un sentimento, essa è l'affetto rivolto verso la persona dell'amico, è il
rapporto interumano che si instaura spontaneamente tra i saggi e cioè tra
uomini che, come ho detto più volte, avendo spento in sé ogni desiderio di
ricchezza e di potenza, nessun motivo hanno oramai di rivalità e di odio. Io
penso che anche qui Epicuro applichi quel suo rigoroso schema logico di
origine eleatica che, come già per il piacere e il dolore, così anche per
l'amore e per l'odio (distinto nei suoi tre aspetti dell'invidia verso il supe-
riore, del disprezzo verso l'inferiore e dell'odio verso l'eguale88), nega l'esi-
stenza di un terzo stadio intermedio. Che l'amicizia sia disposizione poten-
zialmente rivolta verso tutti, mi pare provato dalla difficile Sentenza vati-
cana 61 che incomincia: «Bellissima è la vista del prossimo...».
Vero è che, a differenza di quanto accade per la giustizia, i testi epicurei
sull'amicizia sembrano presentare una qualche difficoltà, oscillando tra l'uti-
lità e il disinteresse. Ma, a parte la soluzione offerta dalla Sentenza Vati-
cana 23 che sembra assegnare all'utilità e al disinteresse tempi diversi
(all'utilità l'inizio, al disinteresse la prosecuzione), non si vede perché la
confidente attesa di poter contare sugli amici in caso di bisogno e la dispo-
sizione a sacrificare tutto, perfino la propria vita, per l'amico non possano
coesistere nello stesso sentimento, come del resto reclama la Sentenza
Vaticana 39. Si tratta di quelle ragioni del cuore, che non sempre la logica
astratta della ragione riesce a comprendere.

86 1.16.50 ss. A questa tematica è dedicato il libro di V. Goldschmidt, La doctrine


ďÉvicure..., cit.
87 M.C., VI.
88 D.L., 10.117.

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