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sbobinature di

FISICA TECNICA
-
tutto quello che avreste voluto sapere
sulla fisica tecnica ma non
avete mai osato studiare

A.A. 2017/2018 - Ing Meccanica


versione del 07/06/2018
Il seguente volume è stato realizzato al solo
scopo didattico e, pertanto, ne è severamente
vietata la vendita. L’autore inoltre non ha
tratto nessun beneficio economico dalla sua
realizzazione.

Per contribuire allo sviluppo del seguente


volume, puoi segnalare errori ed imprecisioni
scrivendo a fisicatecnica@hotmail.com.
Versioni aggiornate verranno rilasciate in
seguito a segnalazioni.
1

05/03/2018
Si definisce sistema termodinamico, o semplicemente sistema, la quantità di
materia o la regione di spazio che si si pende in considerazione. La massa o la
regione al di fuori del sistema è detta ambiente, mentre la superficie reale o

ria
immaginaria che separa il sistema dall’ambiente è detta contorno del
sistema. Il contorno del sistema può essere fisso o mobile, come ad esempio
in un sistema cilindro pistone, in cui le pareti del cilindro rappresentano il
contorno fisso, mentre la superficie del pistone ce trasla rappresenta il
contorno mobile. In termini matematici il contorno ha spessore nullo e
pertanto non può né contenere massa né occupare volume. I sistemi possono risultare chiusi o

gne
aperti a seconda che si scelga di considerare una fissata quantità di materia o un fissato volume.
Un sistema chiuso, detto anche massa di controllo, è costituito da una
determinata quantità di materia ed è caratterizzato dal fatto che il suo
contorno non permette il passaggio di materia. Mentre la massa non può
né entrare né uscire da un sistema chiuso, come mostrato in figura,
l’energia può attraversare il suo contorno sotto forma di calore o di
nge
lavoro. Nel caso particolare in cui anche all’energia non sia consentito
attraversare il contorno, il sistema è detto isolato.
Un sistema aperto o, come spesso viene chiamato, un volume di
controllo è una regione dello spazio delimitata da un contorno,
detto superficie di controllo, che almeno parzialmente permette il
passaggio di materia. Tra i sistemi aperti vanno inclusi i dispositivi
I
interessati da un flusso di massa come compressori, turbine o
ugelli. Il flusso attraverso questi dispositivi viene analizzato meglio
individuando come volume di controllo la regione interna al
dispositivo. Massa ed energia possono entrambe attraversare il contorno di un volume di controllo.
Uno scaldacqua, un radiatore automobilistico, una turbina e un compressore implicano un flusso di
ere

massa e quindi dovrebbero essere analizzati come volumi di controllo (sistemi aperti) invece che
come massa di controllo (sistemi chiusi). In generale si può scegliere come volume di controllo
qualsiasi regione arbitraria nello spazio. Non esistono regole pratiche per la scelta dei volumi di
controllo, ma di certo la scelta appropriata facilita molto l’analisi.
Le proprietà di un sistema
Viv

Ogni caratteristica di un sistema termodinamico è chiamata proprietà; per esempio, la pressione P,


la temperatura T, il volume V e la massa m. l’elenco può essere esteso a proprietà meno familiari,
come la viscosità, la conducibilità termica, il modulo di elasticità etc. le proprietà dei sistemi possono
essere classificate in:

 Intensive: sono quelle che non dipendono dalle dimensioni del sistema, per esempio la
temperatura, la pressione e la densità
 Estensive: sono quelle che dipendono dalle dimensioni (o estensione) del sistema, per
esempio la massa m, il volume V e l’energia totale E.
2

Un metodo semplice per stabilire se una proprietà è intensiva o estensiva consiste nel suddividere
il sistema in due parti uguali con un divisorio. Le proprietà che conservano gli stessi valori del sistema
originario sono intensive, mentre quelle assumono un valore ridotto alla metà sono estensive.
Le proprietà estensive riferite all’unità di massa, vengono chiamate proprietà specifiche. Per

ria
esempio, il volume specifico 𝑣 = 𝑉/𝑚, l’energia totale specifica 𝑒 = 𝐸/𝑚 e l’energia interna
specifica 𝑢 = 𝑈/𝑚 . l’utilità delle grandezze specifiche è che esse si comportano come grandezze
intensive (e non più estensive) perché non dipendono dall’estensione ma sono riferite all’unità di
massa.
Continuum

gne
La materia è costituita da atomi che, nella fase gassosa, sono situati a grandi distanze reciproche.
Conviene tuttavia trascurare la natura atomica di una sostanza e considerarla come materia
omogenea continua, senza discontinuità, come un continuum. L’idealizzazione del continuum
permette di trattare le proprietà come funzioni di punto e di supporre che le proprietà varino con
continuità nello spazio, senza discontinuità. Il modello del continuum è valido purchè la lunghezza
caratteristica del sistema (quale il suo diametro) sia molto maggiore del cammino libero medio delle
molecole. In condizioni di vuoto molto spinto, il cammino libero medio diventa molto grande. In
nge
questi casi tale modello non è più utilizzabile, ma noi ci limiteremo alla trattazione dei sistemi
modellizzabili come un continuum.
La densità, la densità relativa e il peso specifico
La densità è, per definizione, la massa riferita all’unità di volume, ovvero
𝑚 𝑘𝑔
I
𝜌= [ ]
𝑉 𝑚3
Il reciproco della densità è il volume specifico, per definizione il volume riferito all’unità di massa
𝑉 1
𝑣= =
𝑚 𝜌
ere

La densità relativa è per definizione il rapporto tra la densità di una sostanza e la densità di una
sostanza di riferimento a una temperatura specificata (generalmente acqua a 4°C, per la quale la
densità vale 1000 Kg/𝑚3
𝜌
𝑑=
𝜌𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎
Viv

Il peso specifico è il peso di un volume unitario di una sostanza.


𝑁
𝛾 = 𝜌𝑔 [ ]
𝑚3
3

06/03/2018
Un sistema chiuso laddove abbia una frontiera anch’essa impermeabile anche al transito di energia
non si denomina più solo chiuso ma anche isolato, ossia il sistema isolato è un caso particolare di
sistema chiuso che non permette il transito di energie (vedere figure testo). I sistemi che hanno

ria
fluido in ingresso ed in uscita, hanno un contorno che può essere fisico o virtuale ed ha un volume
che è oggetto del nostro studio. Decidiamo noi cosa è sistema termodinamico, e stabiliremo noi i
confini isolando il volume che vogliamo studiare. Lo stato di equilibrio termodinamico vi è se sono
soddisfatte le condizioni di equilibrio

 Termico, stessa temperatura punto per punto

gne
 Meccanico, nessuna variazione di pressione nel tempo
 Fase, stessa massa
 Chimico, non avvengono reazioni

Lo stato di equilibrio comporta quindi condizioni di invarianza. Se un sistema non è in equilibrio,


esso evolverà fino al raggiungimento di quest’ultimo. Ecco che se ho un sistema che presenta due
differenti temperature, questo tenderà ad evolvere in un sistema che abbia in tutti i suoi punti la
nge
stessa temperatura, raggiungendo l’equilibrio. I sistemi che permangono nel loro stato sono sistemi
che non ci interessano più di tanto. Studieremo i processi attraverso i quali i fluidi cambiano il loro
stato termodinamico variando le loro proprietà termodinamiche. È molto utile per questo lo studio
delle evoluzioni o trasformazioni termodinamiche dei fluidi di lavoro su piani di stato. Un piano di
stato è un diagramma cartesiano nel quale sugli assi riportiamo i valori di proprietà termodinamiche
del fluido. Pressione, temperatura, densità collocati in ascissa e in ordinata in un diagramma ci
permettono di osservare graficamente come evolve lungo una trasformazione lo stato
I
termodinamico di un sistema. Se immaginiamo un piano di stato con in ascissa una pressione ed in
ordinata una temperatura, il punto sarà caratterizzato da una certa condizione di temperatura e
pressione e possiamo vedere come evolve la sua trasformazione quando esso viene riscaldato e/o
pressurizzato. Una cosa molto importante è cosa vuol dire piazzare un puntino nel diagramma di
stato: stiamo dicendo che lo stato termodinamico del sistema ha quella precisa T in ordinata e quel
ere

preciso valore di P in ascissa. Ad un sistema che si presenta in stato non di equilibrio termodinamico,
non posso associare nessun punto sul piano di stato. La collocazione di un punto nel diagramma
presuppone lo studio di un preciso stato termodinamico. La trasformazione tracciata sul diagramma
rappresenta una sequenza di stati di equilibrio attraversati dal mio sistema sino al raggiungimento
dello stato finale.
Viv

Immaginiamo un gas chiuso in un cilindro con un pistone mobile, ed allo stato uno il gas sia ad una
certa pressione e temperatura ben precisi. Immaginiamo di far seguire a questo fluido una
trasformazione termodinamica comprimendo il sistema dall’esterno attraverso il pistone.
Facendolo con rapidità, le molecole disturbate in prossimità del pistone si addensano prima che lo
facciano quelle lontane dal pistone. Quindi si crea una disomogeneità di pressione che non
rappresenta uno stato di equilibrio. Lo stesso avviene se rapidamente tiro il pistone espandendo il
volume del contenitore, creando una più bassa pressione vicino al pistone.
Se invece io provassi a spingere il pistone in maniera infinitamente lenta, aspettando che il fluido si
possa omogeneizzare di nuovo. È chiaro che la pressione, alla fine della mia compressione aumenta,
tuttavia tutto ciò avviene attraverso cambiamenti di stato assicurandomi che tutto il fluido ne
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risenta allo stesso modo, attraversando quindi stati di equilibrio. Si denomina trasformazione quasi
statica, che avviene in un tempo così lungo da garantire la percorrenza di una sequenza di stati di
equilibrio.
Le trasformazioni che noi realizziamo non sono di questo tipo perché non abbiamo tempo per

ria
permettere che ciò avvenga, ma il poterlo teorizzare ci permette di attraversare stati di equilibrio e
rappresentare una linea su un diagramma che segua i vari stati di equilibrio. Tuttavia, se in una
trasformazione posso determinare con certezza l’equilibrio iniziale e finale ma non gli stati
intermedi, rappresento la trasformazione con linea tratteggiata. Se invece posso determinare la
sequenza di stati di equilibrio allora uso una linea continua. Tutti i sistemi reali hanno trasformazioni
non quasi statiche. Si è scoperto che è più preferibile studiare le trasformazioni ideali per poi

gne
applicare al caso ideale delle correzioni di cui si deve tenere conto. Calcolarlo in maniera ideale è
comunque un riferimento, un’indicazione di massima. Provando poi in un secondo momento quali
termini contemplare per calcolare il valore reale che a me serve.
Spessissimo, per sistemi chiusi, conviene studiare su un
piano di stato che lega pressione e volume (piano P-V).
comprimere da uno stato 1 a 2 seguendo due linee di
nge trasformazione diverse, sono effettivamente due
trasformazioni diverse. Specificare come variano pressione
e volume significa dire come avviene la trasformazione (in
figura una trasformazione di compressione).
Esiste un postulato degli stati il quale specifica: per un
sistema semplice comprimibile lo stato termodinamico è
I
univocamente identificato tramite valori di due proprietà
termodinamiche intensive o specifiche tra loro indipendenti.
Un sistema semplice comprimibile è un sistema nel quale
sono assenti effetti di campi magnetici ed elettrici e di forze
gravitazionali. ES: acqua in una bottiglia, piena a metà, nella
ere

quale abbiamo prima creato il vuoto. Non è un sistema semplice comprimibile perché a causa della
gravità, l’acqua liquida sta sotto ed il vapore sta sopra. Di contro, l’aria nella stanza, anche se
formata da diversi componenti non presenta la stratificazione dei gas ed è quindi un sistema
semplice comprimibile.

Vediamo cosa vuole dire il postulato: uno stato termodinamico è caratterizzato da numerose
Viv

proprietà termodinamiche. Significa che per precisare lo stato di un sistema semplice comprimibile,
appena assegno i valori a solo due di queste proprietà indipendenti tra loro, allora lo stato
termodinamico non può che essere uno e uno solo, e quindi tutte le altre proprietà non possono
che essere ricavabili univocamente.
Grazie a questo postulato possiamo ricavare analiticamente tutte le proprietà attraverso due
indipendenti. Ecco perché ha senso fare diagrammi di stato sul piano.
Risultano particolarmente frequenti, per semplicità, le trasformazioni cosiddette isoparametriche.
Spesso avvengono trasformazioni che non comportino particolari variazioni di un parametro di
stato, che viene tenuto fisso, anche se cambia il suo stato termodinamico.
5

Definiamo dunque:

 Trasformazione isoterma: temperatura costante lungo la linea di trasformazione


 Trasformazione isocora: volume costante lungo la linea di trasformazione
 Trasformazione isobara: pressione costante lungo la linea di trasformazione

ria
 Trasformazione isoentalpica: entalpia costante lungo la linea di trasformazione
 Trasformazione isoentropica: entropia costante lungo la linea di trasformazione
ES: a volte i riscaldamenti di sostanza, possono modificare la densità di un fluido a prescindere dalla
variazione del volume di controllo. Il suo volume specifico, cambiando la densità, cambia, e tale
trasformazione non può essere considerata isocora.

gne
Alcune trasformazioni vengono definite cicliche (o ciclo termodinamico) ovvero, trasformazioni in
cui attraversando le varie sequenze, lo stato finale e quello iniziale del ciclo successivo coincidono.
Definiamo inoltre:
Sistema stazionario: sistema che si presenta nelle medesime condizioni al variare del tempo.
Sistema uniforme: sistema con valori costanti delle proprietà termodinamiche nello spazio, cioè
nge
punto per punto del sistema, tra una posizione e l’altra non vi sono differenze.
La stazionarietà non implica la uniformità e viceversa.
Consideriamo la seguente “camera”. Non via è omogeneità di stato, la temperatura varia da punto
a punto, quindi non è un sistema uniforme. Tuttavia
mantiene punto per punto, costanti nel tempo, le sue
proprietà. Il tempo non è una variabile termodinamica.
I
Quindi il sistema risulta stazionario ma non uniforme. Se
invece ho un tubo pieno di gas e in maniera estremamente
lenta lo riscaldo dall’esterno, fornendo energia, nel tempo il
mio sistema cambia, ma la temperatura cambia
ere

uniformemente. Ecco un sistema uniforme, ma non


stazionario. La maggior parte degli impianti oggetto del nostro studio, lavorano attraverso sequenze
pressoché stazionarie.
Cosa cambia quando un sistema opera in regime di stazionarietà? Fissato il mio volumetto di
controllo (linea tratteggiata) sia la massa che l’energia in esso contenuti, non possono variare nel
tempo. La massa che c’è in questo volumetto è la somma di tutte la massecole all’interno. Posso
Viv

quindi scrivere: 𝑚 = ∫𝑉 𝑑𝑚 e poiché 𝑑𝑚 = 𝜌𝑑𝑉 allora 𝑚 = ∫𝑉 𝜌𝑑𝑉. La densità è una proprietà


termodinamica di stato. Quindi la densità del punto a 300° è diversa da quella del punto a 250° e
così via. Quindi devo per forza calcolare la massa intera come prodotto tra la densità in ogni punto
per il suo rispettivo volumetto infinitesimo. Nel tempo, accade che il volumetto che era a 300 gradi,
nel sistema stazionario, ci sarà sempre. Quella massecola è la stessa al variare nel tempo. Quindi nel
complesso, non variando nulla in ogni volumetto infinitesimo, non può cambiare nulla nel mio
volume generale di controllo. La massa cambia, fluisce, ne arriva nuova, sostituendo quella prima,
addotta dal tubo afferente. Ma in quel punto la massa avrà sempre quello stato termodinamico. E
se lo stato termodinamico non cambia, anche la sua energia interna non varia.
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Per misurare la temperatura, abbiamo bisogno di scale riproducibili, sapere associare un valore
numerico ad una condizione alla quale un sistema si può trovare secondo concetti di caldo e freddo.
La scala Celsius, o centigrada è basata sull’assunzione di due punti fissi, ai quali vengono assegnati
due valori di temperatura. Questi due punti sono: il punto di fusione del ghiaccio e il punto di

ria
ebollizione dell’acqua a pressione atmosferica. Sono stati assegnati i valori rispettivamente di 0° e
100°. Stabiliti questi due valori tuttavia ancora non abbiamo modo di sapere come dividere la scala.
La termometria storica ha cercato di fissare una scala di temperatura valutando il comportamento
di una sostanza esposta a varie condizioni di temperatura, valutandone quindi la condizione. Le
sostanze rispondono alle sollecitazioni termiche, quindi le loro variazioni possono essere misurate,
e su queste variazioni posso mappare la mia scala di temperatura. Un esempio semplice è dato dal

gne
cosiddetto termometro a gas a volume costante. È una cannula rigida, con un bulbo che sta a volume
costante che contiene un gas a bassa pressione. La espongo a due ambienti uno A ed uno B dei quali
ho arbitrariamente fissato la temperatura. E registro due diverse pressioni. Se adesso le confronto
con un terzo ambiente, registrando una certa pressione, si è visto sperimentalmente che per il gas
vale una proporzionalità diretta tra pressione e temperatura e quindi posso determinare quella del
punto C con una proporzionalità lineare. Definita dunque una retta che passa tra i valori di A e B
(caratterizzati da una temperatura arbitraria ed una pressione misurata) posso ricavare la
nge
temperatura solo registrando (con lo stesso strumento) una pressione. Tuttavia serve che il gas sia
abbastanza rarefatto, a bassa pressione. La temperatura, stando anche al principio zero della
termodinamica, che afferma che se due corpo sono in equilibrio termico con un terzo corpo, allora
sono anche in equilibrio termico tra loro, non è un qualcosa che esiste (esiste solo il flusso di calore
misurabile) ma è una invenzione dell’uomo. (rivedere con l’ausilio del cap. 2.6 e 2.6.1). generando
un grafico in cui la pressione sta in ordinata e la temperatura in ascissa, la legge lineare di
temperatura ha intercetta pari a zero (quindi pressione nulla) in corrispondenza della temperatura
I
peri a -273,16°C. la scala Kelvin è una scala avente ampiezza di grado pari a quella del grado celsius,
ma traslata rispetto a quella celsius di +273,16. Viene definita scala termodinamica o assoluta.
Parliamo di pressione
L’unità base del sistema internazionale è il pascal, cioè la pressione di una forza di 1 N agente su una
ere

superficie di 1 𝑚2 . Alcune conversioni:

1 𝑏𝑎𝑟 = 105 𝑃𝑎 = 0,1 𝑀𝑃𝑎 = 100 𝑘𝑃𝑎


1 𝑎𝑡𝑚 = 101325 𝑃𝑎 = 101,325 𝑘𝑃𝑎 = 1,01325 𝑏𝑎𝑟
Pressione relativa e pressione al vacuometro
Viv

Ipotizzo una bombola che contiene un gas in pressione, precisamente a 5 bar, immersa in una stanza
anch’essa in pressione a 5 bar. Sulle pareti della bombola non viene esercitata nessuna
sollecitazione perché a generarle non è tanto la pressione assoluto, quanto la differenza di
pressione. Accade quindi che quasi tutti i recipienti sono esposti alla pressione atmosferica, con
all’interno una data pressione diversa dalla atmosferica. Ha quindi senso parlare di pressione
relativa come differenza tra il valore di pressione assoluta e pressione atmosferica
𝑃𝑟 = 𝑃𝑎 − 𝑃𝑎𝑡𝑚
Quindi una bombola che trovo a 6 bar, è soggetta orientativamente a 6 bar di pressione assoluta ma
circa 5 di pressione relativa, assumendo la atmosferica come circa 1 bar. Allo steso modo, utilizzo la
7

pressione al vacuometro per poter lavorare con pressioni inferiori a quelle atmosferiche, scriverò
quindi
𝑃𝑣 = 𝑃𝑎𝑡𝑚 − 𝑃𝑎

ria
Serve a lavorare con pressioni positive ma inferiori a quella atmosferica. A P=0 corrisponde il vuoto
assoluto. Nelle relazioni e nelle tabelle con p si indicherà la pressione assoluta salvo dove sia
diversamente indicato. La pressione è una forza di compressione riferita all’unità di area, quindi
potrebbe dare l’idea di essere una grandezza vettoriale. Però, la pressione in un punto qualsiasi in
un fluido è la stessa in tutte le direzioni. Questo significa che ha un valore numerico ma non ha una
particolare direzione e un particolare verso, quindi è una grandezza scalare. In altre parole, la

gne
pressione in un punto in un fluido ha lo stesso valore numerico in tutte le direzioni. Si può dimostrare
che, in assenza di forza di taglio, questo risultato è valido per tutti i fluidi in moto oltre che per i
fluidi in quiete.
07/03/2018
Isoliamo un volumetto di fluido elementare
all’interno di un volume più ampio in qui
nge specifichiamo la direzione degli assi. Essendo un
fluido fermo, le spinte sulle facce, devono
necessariamente equilibrarsi. Lungo l’orizzontale
presumibilmente la pressione non può cambiare. Se
deve farlo, può cambiare solo lungo la verticale,
perché soggetta alla forza gravitazionale. La
pressione di un fluido aumenta con l’aumentare
I
della profondità, perché sugli strati più profondi
grava più fluido, e l’effetto di questo “peso
addizionale” su uno strato più profondo bilanciato
da un aumento della pressione. Per ottenere una
relazione per la variazione della pressione al variare della profondità, si consideri un elemento
ere

parallelepipedo di altezza Δ𝑧 , lunghezza Δ𝑥 e profondità unitaria (Δ𝑦 = 1) in equilibrio, come


mostrato in figura. Supponendo che la densità ρ del fluido sia costante, un bilancio delle forze nella
direzione z verticale dà:

∑ F𝑧 = 𝑚𝑎𝑧 = 0: 𝑃2 Δ𝑥Δ𝑦 − 𝑃1 Δ𝑥Δ𝑦 − 𝜌𝑔Δ𝑥Δ𝑦Δ𝑧 = 0


Viv

Dove 𝑃 = 𝑚𝑔 = 𝜌𝑔Δ𝑥Δ𝑦Δ𝑧 è il peso dell’elemento di fluido. Dividendo entrambi i membri per


Δ𝑥Δ𝑦 e riordinando, si ottiene
Δ𝑃 = 𝑚𝑔 = 𝑃2 − 𝑃1 = 𝜌𝑔Δ𝑧 = 𝛾Δ𝑧
Si vede dunque come la pressione aumenta linearmente con la quota. Supponiamo
adesso di avere un recipiente con un fluido, come posso rappresentare
l’andamento della pressione in maniera schematica? Rappresento l’andamento
della pressione come una linea posta alla sinistra del contenitore, e poiché essa
cresce linearmente con la profondità, è inclinata come in figura. È prassi
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rappresentare la pressione relativa e non quella assoluta, quindi decurtata della pressione
atmosferica. Si parlerà allora di triangolo delle pressioni.
tan 𝛼 = 𝜌𝑔 = 𝛾

ria
L’angolo di inclinazione varia con la densità del fluido.
Legge di Stevino
La pressione di un fluido in quiete è indipendente dalla forma e dalla sezione trasversale del
recipiente, variando in verticale ma non nelle altre direzioni
𝑝 = 𝑝𝑎𝑡𝑚 + 𝜌𝑔ℎ

gne
Dunque la pressione è la stessa in tutti i punti su un piano orizzontale del fluido. È importante notare
come la pressione nei punti A,
B, C, D, E, F e G sono identichè
perché questi punti sono alla
stessa profondità e sono
interconnessi dallo stesso
nge fluido in quiete. Tuttavia, le
pressioni nei punti H e I, non
sono identiche perché questi
due punti non possono essere
interconnessi dallo stesso fluido (cioè, non si può tracciare una curva dal punto I al punto H
rimanendo sempre nello stesso fluido), anche se questi due punti sono alla stessa profondità.
Questo perché la pressione nel punto H è influenzata dalla presenza del mercurio, che ha una
I
densità superiore dell’acqua (ed è quindi maggiore). Se è possibile tracciare una linea continua che
collega i due punti che si trova interamente nella regione occupata da un unico fluido, allora se i
punti sono alla stessa quota, hanno la stessa pressione.
Legge di Pascal
ere

Una conseguenza della costanza della pressione in un fluido in una direzione orizzontale è il fatto
che la pressione applicata ad un fluido confinato aumenta della stessa quantità la pressione in tutto
il fluido. Questo fenomeno costituisce la legge di Pascal. Egli si rese conto
che si potevano collegare due cilindri idraulici di aree diverse e si poteva
usare quello più grande per esercitare una forza proporzionalmente
maggiore di quella applicata al cilindro più piccolo. Il “torchio idraulico”,
Viv

la macchina basata sulla legge di Pascal, ha ispirato molte invenzioni che


fanno parte della vita quotidiana dai freni idraulici a vari tipi di elevatori e
sollevatore idraulici. Poiché 𝑝1 = 𝑝2 , perché punti alla stessa quota, si può
determinare il rapporto tra la forza sviluppata e la forza applicata:
𝐹1 𝐹2 𝐹2 𝐴2
= ⟶ =
𝐴1 𝐴2 𝐹1 𝐴1
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Il barometro di Torricelli
La pressione atmosferica si misura con uno strumento chiamato barometro e, pertanto, prende
anche il nome di pressione barometrica. Torricelli fu il primo a dimostrare con certezza che la
pressione atmosferica si può misurare capovolgendo un tubo

ria
di mercurio in una vaschetta di mercurio in comunicazione
con l’atmosfera. La pressione nel punto B è uguale alla
pressione atmosferica, mentre la pressione in C può essere
assunta nulla poiché, superiormente, vi è soltanto vapore di
mercurio che, in equilibrio con la fase liquida, esercita una
pressione trascurabile. Scrivendo il bilancio delle forze della

gne
direzione verticale si ottiene:
𝑝𝑎𝑡𝑚 = 𝜌𝑔ℎ(𝑃𝑎)
Dove 𝜌 è la densità del mercurio, g è l’accelerazione locale di
gravità e h è l’altezza della colonna di mercurio al di sopra del
pelo libero della vaschetta. Si osservi che la lunghezza del tubo e l’area della sua sezione trasversale
non hanno alcun effetto sull’altezza della colonna fluida del barometro. L’atmosfera standard è
nge
definita come la pressione prodotta da una colonna di mercurio di 760 mm di altezza a 0°C. se al
posto del mercurio si utilizza l’acqua, l’atmosfera standard corrisponde, invece, alla pressione
prodotta da una colonna d’acqua dell’altezza di circa 10,3 m.
Le forme di energia
L’energia di un sistema può esistere in numerose forme: energia termica, cinetica, potenziale,
I
elettrica, chimica, nucleare, la cui somma è l’energia totale E del sistema. L’energia totale di un
sistema riferita all’unità di massa viene indicata con e ed è definita dalla relazione
𝐸 𝑘𝐽
𝑒= [ ]
𝑚 𝑘𝑔
ere

La termodinamica non fornisce alcuna informazione circa il valore assoluto dell’energia totale di un
sistema, perché tratta esclusivamente le variazioni dell’energia totale, le uniche ad avere
importanza nei problemi ingegneristici. Nell’analisi termodinamica spesso è utile classificare le varie
forme di energia che costituiscono l’energia totale di un sistema in due gruppi:

 Macroscopiche: sono quelle che un sistema possiede nel suo complesso, rispetto a un
qualche sistema sterno di riferimento, per esempio l’energia cinetica o l’energia potenziale.
Viv

 Microscopiche: sono quelle legate alla struttura molecolare del sistema e al grado di attività
molecolare; esse sono indipendenti dal sistema di riferimento esterno. La somma di tutte le
forme microscopiche dell’energia è detta energia interna e viene indicata con la lettera U.
L’energia macroscopica di un sistema è legata al movimento e all’influenza di alcuni fenomeni
esterni come la gravità, il magnetismo, l’elettricità e la tensione superficiale.
Energia cinetica
È l’energia che un sistema possiede per effetto del suo moto, riferito a un fissato sistema di
riferimento. L’energia cinetica del sistema nel suo complesso è espressa dalla relazione
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𝑤2
𝐸𝑐𝑖𝑛 = 𝑚 [𝑘𝐽]
2
E riferita all’unità di massa
𝑤2

ria
𝑘𝐽
𝑒𝑐𝑖𝑛 = [ ]
2 𝑘𝑔
Ovvero l’energia cinetica specifica, in cui w è la velocità del sistema di riferimento
Energia potenziale
È l’energia che un sistema possiede per effetto della quota in un campo gravitazionale

gne
𝐸𝑝𝑜𝑡 = 𝑚𝑔𝑧 [𝑘𝐽]

E riferita all’unità di massa


𝑘𝐽
𝑒𝑝𝑜𝑡 = 𝑔𝑧 [ ]
𝑘𝑔
Gli effetti dovuti ai fenomeni magnetici, elettrici e di tensione superficiale sono significativi soltanto
nge
in alcuni casi particolari e non sono considerati in questo testo.
L’energia totale di un sistema sarà quindi data dalla somma
𝑤2
𝐸 = 𝑈 + 𝐸𝑐𝑖𝑛 + 𝐸𝑝𝑜𝑡 = 𝑈 + 𝑚 + 𝑚𝑔𝑧 [𝑘𝐽]
2
E riferita all’unità di massa
I
𝑤2 𝑘𝐽
𝑒 = 𝑢 + 𝑒𝑐𝑖𝑛 + 𝑒𝑝𝑜𝑡 =𝑢+ + 𝑔𝑧 [ ]
2 𝑘𝑔
Durante una trasformazione la maggior parte dei sistemi chiusi non subisce variazioni della propria
energia cinetica e potenziale. I sistemi chiusi, la cui velocità e quota del centro di massa restano
ere

constanti durante una trasformazione, sono spesso chiamati sistemi in regime stazionario o sistemi
stazionari. La variazione di energia totale Δ𝑈 di un sistema in regime stazionario coincide con la
variazione della sua energia interna Δ𝑈. I volumi di controllo implicano tipicamente un flusso fluido
durante lunghi intervalli di tempo e quindi conviene esprimere il flusso di energia associato a una
corrente fluida sotto forma di portata. A questo scopo, si introduce la portata massica, 𝑚̇ che è la
quantità di massa che fluisce attraverso una sezione trasversale riferita all’unità di tempo. È
Viv

correlata con la portata volumetrica, 𝑉̇ che è il volume di un fluido che fluisce attraverso una sezione
trasversale riferito all’unità di tempo, dalla relazione
𝑘𝑔
𝑚̇ = 𝜌𝑉̇ = 𝜌𝐴𝑤𝑚𝑒𝑑 [ ] ⇒ equazione di continuità
𝑠
Che è analoga alla relazione 𝑚 = 𝜌𝑉. Dove 𝜌 è la densità del fluido, A è l’area della sezione
trasversale della corrente fluida e 𝑤𝑚𝑒𝑑 è la velocità della corrente fluida nella direzione normale
alla sezione A. Il punto posta sulla grandezza denota una derivata temporale.
11

08/03/2018
Approfondimenti sull’energia interna
Per comprendere meglio l’energia interna, si esamini un sistema a livello molecolare,

ria
distinguendone due componenti principali:

 energia interna sensibile: dovuta al moto di traslazione, rotazione, vibrazione e rivoluzione


elettronica e di spin. La velocità media e il grado di attività delle molecole sono direttamente
proporzionali alla temperatura del gas. Perciò al crescere della temperatura, cresce l’energia
cinetica delle molecole e quindi cresce l’energia interna del sistema.
 Energia latente: non dipende dalla temperatura ma è legata a forze intermolecolari che

gne
dipendono essenzialmente dalla struttura microscopica della materia, essa può cambiare
anche a parità di temperatura.
Le forme di energia appena discusse, che costituiscono l’energia totale di un sistema, sono quelle
contenute o immagazzinate in un sistema e perciò possono essere considerate come forme statiche
di energia. Invece, le forme di energie che non sono immagazzinate all’interno di un sistema possono
essere considerate come forme dinamiche di energia o di energia scambiata. Queste si manifestano
nge
al contorno del sistema nel momento in cui lo attraversano e rappresentano l’energia ricevuta o
persa dal sistema durante una trasformazione. Per un sistema chiuso vi sono soltanto due forme di
energia scambiata. Il calore e il lavoro. Il calore è una forma dinamica di energia che si scambia sotto
l’azione di una differenza di temperatura. Nella vita quotidiana si è abituati a riferirsi alle forme di
energia interna sensibile e latente con il termine calore e si parla di contenuto di calore dei corpi; in
termodinamica, invece, è preferibile riferirsi alle forme di energia interna sensibile e latente con il
termine energia termica per evitare confusioni con il calore, il quale è, piuttosto, una forma
I
dinamica di energia.
Trasferimento di energia sotto forma di calore e scambio di lavoro
L’energia è capace di attraversare il contorno di un sistema chiuso sotto due forme distinte: calore
ere

e lavoro. Esaminiamo prima di tutto il calore. Per esperienza si sa che una lattina di bibita fredda
lasciata su un tavolo alla fine si riscalda e che una patata calda cotta al forno lasciata sullo stesso
tavolo si raffredda. Quando un corpo è immerso in un mezzo a temperatura differente, si verifica
un trasferimento di energia tra il corpo e il mezzo circostante, finché non si stabilisce l’equilibrio
termico, vale a dire finché il corpo e il mezzo non raggiungono la stessa temperatura. Nei processi
appena descritti, si dice che l’energia si trasferisce sotto forma di calore. Il calore è dunque definito
Viv

come la forma di energia che si trasferisce tra due sistemi (o tra un sistema e l’ambiente) in virtù di
una differenza di temperatura. In pratica, uno scambio di energia si presenta sotto forma di calore
soltanto se avviane a causa di una differenza di temperatura; ne consegue, quindi che non può
esistere alcuna trasmissione di calore tra due sistemi alla stessa temperatura.
Il calore è energia in transito, riconoscibile solo al momento in cui attraversa il contorno di un
sistema. Un processo durante il quale non vi è trasmissione di calore è detto trasformazione
adiabatica. Una trasformazione può risultare adiabatica quando il sistema è ben isolato
termicamente, cosicché solo una quantità trascurabile di calore può attraversare il contorno,
oppure quando il sistema e l’ambiente sono alla stessa temperatura, per cui non si può verificare
alcuna trasmissione di calore. Una trasformazione adiabatica non va confusa con una
12

trasformazione isotermica; infatti, sebbene durante una trasformazione adiabatica non vi sia alcuna
trasmissione di calore, il contenuto di energia e, quindi, la temperatura del sistema possono ancora
modificarsi, per esempio a seguito di uno scambio di lavoro.
La quantità di energia trasferita durante la trasformazione tra due stati si indica con Q, mentre il

ria
calore trasmesso riferito all’unità di massa di un sistema si indica con q ed è dato dalla relazione:
𝑄 𝑘𝐽
𝑞= [ ]
𝑚 𝑘𝑔

La potenza termica trasmessa in 𝑄̇ è espressa nel SI in Joule al secondo, equivalente al watt (W).
Quando 𝑄̇ varia al variare del tempo, la quantità di calore trasferita durante una trasformazione si

gne
ottiene integrando 𝑄̇ sull’intervallo di tempo della trasformazione.
𝑡2
𝑄 = ∫ 𝑄̇ 𝑑𝑡 [𝑘𝐽]
𝑡1

Quando 𝑄̇ rimane costante durante una trasformazione, questa relazione si riduce a:

𝑄 = 𝑄̇ Δ𝑡 [𝑘𝐽]
nge
Dove Δ𝑡 = 𝑡2 − 𝑡1 è l’intervallo di tempo durante il quale si svolge la trasformazione.
Il lavoro
Uno scambio di energia (da parte di un sistema chiuso) che non è calore, ossia non riconducibile
all’esistenza di una differenza di temperatura, è senza dubbio associato all’effetto combinato di una
forza e di uno spostamento e quindi rappresenta uno scambio di lavoro. Il lavoro scambiato
I
complessivamente da un sistema è indicato con la lettera L, mentre il lavoro scambiato riferito
all’unità di massa di un sistema si indica con l, ed è dato dalla relazione:
𝐿 𝑘𝐽
𝑙= [ ]
𝑚 𝑘𝑔
ere

La potenza meccanica trasmessa, analogamente alla potenza termica, sarà 𝐿̇, espressa nel SI in Joule
al secondo, equivalente al watt (W). Calore e lavoro sono grandezze dotate di verso; quindi per
descrivere completamente uno scambio di calore o di lavoro si devono specificare il valore numerico
e il verso della grandezza in questione. Per convenzione:

 Il calore è positivo se dall’ambiente va al sistema (entrante).


Viv

 Il calore è negativo se dal sistema va all’ambiente (uscente).


 Il lavoro è positivo se il sistema lo compie sull’ambiente (uscente).
 Il lavoro è negativo se l’ambiente lo compie sul sistema (entrante).
È importante notare che una grandezza che viene trasferita dall’esterno all’interno di un sistema o
viceversa durante un’interazione non è una proprietà perché la quantità di tale grandezza non
dipende soltanto dallo stato del sistema. Calore e lavoro sono interazioni tra un sistema e l’ambiente
e hanno molte caratteristiche comuni:
1. Entrambi si riconoscono al contorno del sistema quando lo attraversano
2. Nessuno dei due può essere posseduto dal sistema
13

3. Entrambi sono associati a una trasformazione e non a uno stato


4. Entrambi sono funzioni di linea (vale a dire, la loro entità dipende dal percorso seguito
durante una trasformazione così come dagli stati iniziale e finale).
Le funzioni di linea hanno differenziali non esatti indicati dal simbolo 𝛿. Quindi, una quantità

ria
infinitesima di calore o lavoro è rappresentata, rispettivamente, da 𝛿𝑄 o 𝛿𝐿. Le proprietà, tuttavia,
sono funzioni di punto o di stato (vale a dire, dipendono solo dallo
stato e non da come il sistema raggiunge quello stato) e hanno
differenziali esatti indicati dal simbolo d. Una variazione infinitesima
di volume durante una trasformazione tra gli stati 1 e 2 è

gne
2
∫ 𝑑𝑉 = 𝑉2 − 𝑉1 = Δ𝑉
1

Cioè, la modificazione di volume durante una trasformazione 1-2


corrisponde sempre al volume nello stato 2, meno il volume nello
stato 1, indipendente dal percorso seguito, come in figura. Il lavoro
totale scambiato durante la trasformazione 1-2, invece, è:
nge 2
∫ 𝛿𝐿 = 𝐿1−2 non Δ𝐿
1

Cioè, il lavoro totale è ottenuto seguendo la linea di trasformazione e sommando le quantità


infinitesime di lavoro 𝛿𝐿 scambiate lungo la trasformazione. Il lavoro è quindi differente se si segue
il processo A o il processo B.
Primo principio della termodinamica per sistemi chiusi
I
È denominato principio di conservazione dell’energia. Consideriamo una prima trasformazione che
implica uno scambio di calore ma non di lavoro. Se il mio sistema assorbe calore, osserviamo che si
riscalda e che quindi aumenta il suo contenuto energetico, almeno relativamente alla frazione che
avevamo denominato energia interna sensibile. Poiché attraverso il suo contorno il sistema non
ere

scambia lavoro con l’ambiente, è intuitivo che, in ottica di conservazione dell’energia, tutto il calore
da essa ricevuto si traduce in un incremento della sua energia totale, cioè:
𝑄 = Δ𝐸 = 𝐸2 − 𝐸1
E poiché è il sistema a ricevere calore, allora secondo la convenzione dei segni va inteso positivo.
Con la restrizione dell’assenza di lavoro, è come se la quantità di calore diventasse funzione di stato.
Viv

Si considerino adesso delle trasformazioni che implicano scambi di lavoro tra sistema (assunto
adiabatico) ed ambiente, in una qualsivoglia forma, ad esempio sotto forma di lavoro elettrico o
lavoro compiuto da un’elica rotante. Essendo adiabatico, il sistema non scambia calore, quindi
l’aumento di energia registrato deve essere
−𝐿 = Δ𝐸 = 𝐸2 − 𝐸1
E poiché è l’ambiente a compiere lavoro sul sistema, secondo la convenzione dei segni questo risulta
essere negativo. Con la restrizione dell’assenza di calore, è come se la quantità di lavoro diventasse
funzione di stato.
14

Bilancio energetico
Alla luce delle trattazioni precedenti, il principio di conservazione dell’energia può essere enunciato
come segue: la variazione netta (aumento o diminuzione) dell’energia totale del sistema durante
una trasformazione è uguale alla differenza tra l’anergia totale entrante nel sistema e l’energia

ria
totale uscente dal sistema durante la trasformazione. Cioè:

Ossia:

gne
Δ𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 = 𝐸𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 − 𝐸𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒
Questa relazione, detta bilancio energetico, è applicabile ad ogni tipo di sistema soggetto a qualsiasi
tipo di trasformazione. Il successo dell’impiego di questa relazione per risolvere problemi
ingegneristici si basa sulla comprensione delle varie forme di energie e sul riconoscimento delle
forme di trasferimento di energia. Per determinare la variazione di energia di un sistema durante
una trasformazione si deve valutare l’energia del sistema all’inizio e alla fine della trasformazione e
nge
calcolare la differenza. È importante notare che l’energia non è una proprietà ed il valore di una
proprietà rimane invariato salvo che non vari lo stato del sistema. Perciò, la variazione di energia di
un sistema è zero se lo stato del sistema non varia durante la trasformazione. Inoltre, l’energia può
esistere in numerose forme quale l’energia interna, l’energia cinetica, potenziale, etc. e la loro
somma contribuisce all’energia totale E di un sistema. Come detto in precedenza, trascureremo gli
effetti elettrici, magnetici e di tensione superficiale, e quindi possiamo scrivere:
Δ𝐸 = Δ𝑈 + Δ𝐸𝑐𝑖𝑛 + Δ𝐸𝑝𝑜𝑡
I
Dove:
Δ𝑈 = 𝑚(𝑢2 − 𝑢1 )
1
ere

Δ𝐸𝑐𝑖𝑛 = 𝑚(𝑤22 − 𝑤12 )


2
Δ𝐸𝑝𝑜𝑡 = 𝑚𝑔(𝑧2 − 𝑧1 )

Quando lo stato iniziale e lo stato finale sono specificati, i valori delle energie interne si possono
determinare direttamente in base alle tabelle delle proprietà o alle relazioni delle proprietà
termodinamiche. Molti sistemi che si incontrano in pratica sono sistemi in regime stazionario, cioè
Viv

che non implicano variazione della loro velocità o della loro quota, durante una trasformazione.
Perciò, nel caso dei sistemi stazionari, la variazione dell’energia cinetica e dell’energia potenziale
sono nulla, e la relazione per la variazione totale di energia si riduce a Δ𝐸 = Δ𝑈.
Trasferimento di energia
Distinguiamo tra diversi modi di trasferire l’energia:
1. Scambio di calore: il trasferimento di calore dall’ambiente al sistema rappresenterà per
questo un guadagno di energia, che può essere accumulata ad esempio sotto forma di
energia interna (e viceversa);
15

2. Trasferimento di lavoro: uno scambio di energia dall’ambiente al sistema non associato a


trasferimento di calore e determinato invece da interazioni quali un pistone che si solleva,
un albero con elica che ruota, un conduttore elettrico percorso da corrente, etc, rappresenta
anch’esso un guadagno di energia del sistema, che può essere accumulata sotto forma di

ria
energia interna (e viceversa);
3. Flusso di massa: un flusso di massa entrante o uscente provoca un conseguente transito di
energia (trasportata dalla massa stessa). Es. quando acqua cala esce da uno scaldacqua e
viene sostituita da acqua fredda, è chiaro che il volume di controllo delimitante lo scaldacqua
diminuisca il suo contenuto energetico.
Esprimeremo spesso il bilancio dell’energia in termini

gne
dE𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
 Di derivate temporali 𝐸𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 − 𝐸𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 = 𝑑𝑡
 Riferiti all’unità di massa 𝑒𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 − 𝑒𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 = Δ𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
 Infinitesimi 𝛿𝐸𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 − 𝛿𝐸𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 = 𝛿𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎

12/03/2018
nge
Se indichiamo con n il numero preciso di proprietà di stato che possiamo avere, è sufficiente averne
un opportuno numero m con m<n per definirlo, e ricavare le altre attraverso i metodi analitici. Nel
caso del sistema semplice comprimibile abbiamo bisogno di due proprietà intensive indipendenti.
Tuttavia il sistema semplice comprimibile, è stato assunto tale quando trascurabili gli effetti della
gravitazione, e quindi senza stratificazione tra fasi. Adesso proviamo ad espandere il bacino di
interesse del nostro studio, cominciando a trattare lo studio delle sostanze pure
I
Intendiamo per sostanza pura una sostanza che non vede tra le varie parti del sistema, una
variabilità di composizione chimica, quindi che presenta una certa omogeneità. Vi sono sistemi che
a rigore non possiamo definire sistemi semplici comprimibili, ma che però rientrano nella definizione
di omogeneità di sostanza pura. Supponiamo dei recipienti, uno contenente azoto ed uno
ere

contenente aria, entrambi allo stato gassoso. Sono costituiti da una sostanza pura? Si, perché in
particolare: l’azoto è azoto in ogni punto del sistema. L’aria, sebbene è miscela di più componenti,
su scala macroscopica è assimilabile a sostanza pura. Anche non essendo chimicamente omogenea,
è dal punto di vista del nostro approccio assimilabile a sostanza pura.
A differenza della definizione di sistema semplice comprimibile, quando abbiamo una sostanza pura
in due fasi diverse, in equilibrio tra loro, parliamo sempre di sostanza pura, la sua composizione
Viv

chimica non cambia, cambia solo la fase (stato di aggregazione). Tuttavia anche quando una miscela
è considerata per il nostro studio una sostanza pura quando è tutta in uno stesso stato di
aggregazione, non possiamo dire lo stesso di quando via è la compresenza di due fasi, per esempio
liquida e gassosa. Infatti in una miscela come l’aria, allo stato aeriforme, vi sarà una maggiore
presenza degli elementi più volatili, e non possiamo più assimilarla ad una sostanza pura.
Stati di aggregazioni della materia

 Solido
 Liquido
 Aeriforme
16

Le molecole all’interno di un solido sono disposte secondo una architettura che chiamiamo reticolo
tridimensionale. Le molecole sono così vicine che vedono le forze di attrazione intermolecolari
particolarmente forti tali da garantire il non scorrimento delle molecole le une sulle altre. Pur
essendo spazialmente collocate in una posizione più o meno fissa, ogni molecola “vibra” attorno ad

ria
una posizione. Tale agitazione dipende dalla temperatura. Riscaldando un solido, accade che
aumentiamo questo moto di agitazione molecolare, e se lo riscaldiamo molto, conferiamo più
energia alle molecole, rendendole così energetiche che riescono a vincere le forze intermolecolari
e sono libere di scorrere. È ciò che accade con la fusione. Diversi solidi, aumentano la loro distanza
molecolare nel passaggio dalla fase solida a liquida (l’opposto avviene per l’acqua). Un elemento in
fase solida ha meno contenuto energetico dello stesso elemento in fase liquida. Continuando la

gne
somministrazione energetica alla sostanza in esame, si osserva, tendenzialmente a gradino, le
molecole vincono anche le residue forze di attrazione e riescono ad allontanarsi le une dalle altre,
transitando allo stato aeriforme, vaporizzando. Solo a livelli energetici molto elevati, il liquido è in
grado di rompere ulteriormente questi legami e passa allo stato aeriforme.
Ciascuna specie presenta particolari condizioni in termini di livello energetico richiesto per transitare
da una forma all’altra, e quindi somministrazione di energia per produrre il cambiamento di fase, ed
inoltre, ogni sostanza pura mostra che innescando allo stesso modo i vari passaggi di fase, se ne
nge deduce una riproducibilità degli stessi.
Quindi ha senso studiare le superfici PVT di
una sostanza pura (in figura 1), che
rappresenta nello spazio tridimensionale
una superficie funzione di Pressione, Volume
e Temperatura.
I
Immaginiamo di disporre una massa
arbitraria di un liquido, per esempio acqua,
all’interno di un sistema cilindro pistone,
come in figura 2 in basso. Il pistone è libero
e dotato di un peso proprio che noi
ere

trascureremo, esercitando quindi una


pressione che è semplicemente quella
atmosferica. L’equilibrio del pistone mi
Figura 1
garantisce che la pressione all’interno del
cilindro è pari a quella atmosferica.
Lasciando il pistone sempre libero di
Viv

scorrere, non c’è dubbio che in ogni


condizione, la pressione resta costante e pari
a quella atmosferica. La condizione iniziale
del nostro studio (stato 1) è acqua a 20°C, e
P=1 atm. Da questo stato iniziale, attraverso
una sorgente esterna cominciamo a
somministrare calore. Osserviamo che la
pressione non cambia (perché non può
cambiare, per costruzione dell’esperimento)
Figura 2
e che l’acqua aumenta la sua temperatura,
17

fino ad una particolare condizione, che per


l’acqua corrisponde ad una T=100°C (stato 2).
Arrivati a questa condizione accade che la
temperatura dell’acqua cessa di aumentare, e

ria
la ulteriore somministrazione di calore si
traduce nella formazione di una fase di vapore
che si dispone in alto, il liquido in basso, e tale
aumento di vapore si traduce in una risalita del
pistone (stato 3). Continuando a
somministrare calore, la quantità di vapore

gne
aumenta a discapito del liquido che continua a
vaporizzare, fino a quando tutto il liquido
scompare (stato 4) e tutto il vapore (in grigio)
Figura 3
occupa il volume del cilindro. Adesso le
condizioni fisiche sono sempre P= 1 atm e
T=100°C. A partire da questo punto in poi, ulteriori somministrazioni di calore cominciano
nuovamente ad aumentarne la temperatura. Il pistone sale ancora, ma la temperatura sale ancora
nge
(stato 5). I punti 1, 2, 3, 4 e 5 sono disposti come in figura 3 (in alto) di un piano di stato T-v. il primo
punto sta a temperatura T=20°C e v specifico pari a quello occupato dal fluido nel cilindro. Da questo
punto in poi ho somministrato calore, osservando un incremento di temperatura ed un aumento
quasi nullo di volume specifico (la retta 1-2 la pendenza è quasi verticale). Dal punto 2 al punto 4, il
liquido più il vapore non aumenta la temperatura, ma aumenta il volume specifico (dal punto 2 al 4
il processo è detto isotermo). Dal punto 4 in poi, il fluido è tutto allo stato di vapore, e da questo
momento in poi, osservo incrementi della temperatura, e del volume specifico. Vado verso destra e
I
verso l’alto. Da 1 a 2, la somministrazione di calore si è tradotta nell’aumento di agitazione
molecolare, quindi aumento di energia interna sensibile. Dal punto 2 al punto 4 invece, l’energia
fornita rompe le forze intermolecolari, manifestandosi non come energia interna sensibile ma è
energia latente. La linea tracciata sul piano T-v è una linea isobara (tutto il processo avviene alla
stessa P=1 atm). Tutti gli stati che su questa linea sono a sinistra del punto 2, sono denominati stati
ere

di liquido sottoraffreddato o compresso (compressed liquid). Invece, le condizioni comprese tra 2 e


4, in cui si ha coesistenza di liquido e vapore, si chiamano stati di vapore saturo o vapore in equilibrio
con la fase liquida (saturated misture). Gli stati a
destra del punto 4 si chiamano stati di vapore
surriscaldato (superheated vapor). In particolare
i punti 2 e 4 rappresentano punti di discontinuità
Viv

e vengono denominati rispettivamente punto di


liquido saturo o punto di liquido in incipiente
stato di vaporizzazione e punto di vapore saturo
secco. Immaginiamo di ripetere l’esperimento
con un pistone che non ha più peso nullo, ma
che possiede un certo peso. È chiaro che sulla
faccia inferiore del pistone vi sarà una pressione
superiore a quella atmosferica, dovuta al
rapporto tra forza peso e area del pistone. Cosa
Figura 4
accade se conduco queste esperienze a varie
18

pressioni? L’andamento complessivo dei processi non cambia. Quello che ottengo è un’altra isobara
sul piano T-v (come si vede in figura). L’isobara a pressione maggiore, vede la sua linea traslata verso
l’alto, quindi i punti 2 e 4 avvengono a temperature più elevate. Inoltre, quanto più è alta la
pressione, tanto più il tratto 2-4 si restringe. Addirittura, se metto un peso molto elevato, si arriva

ria
ad avere un processo nel quale il tratto orizzontale di cambiamento di fase isotermo, viene a
stringersi così tanto che degenera in un punto. Tutto il liquido transita in fase vapore, in una
transizione continua, senza distinzione delle due fasi. La pressione critica è quella pressione alla
quale vi è la sovrapposizione dei punti 2 e 4, che per l’acqua corrisponde alla pressione di P=22,06
MPa e T=374,14°C. immaginiamo ora di volere collocare tutti questi punti non più sul piano ma su
una superficie (esattamente come la superficie PVT rappresentata in figura 1). Se la pressione è in

gne
ordinata, allora tutti i punti stanno tutti alla stessa ordinata su un piano perpendicolare all’asse
verticale. Quello che noi vediamo in figura 3, altro non è che la vista dall’alto della superficie PVT in
figura 1. Immaginando di condurre non pochi ma moltissimi esperimenti analoghi alle più svariate
pressioni, poiché la natura non fa salti, posso comporre il mio diagramma e disegnarlo con linea
continua, interpolando gli stati intermedi tra due esperimenti. Tutti i punti 2 si disporranno
disegnando il ramo di una curva, detta curva limite inferiore, e i punti 4 un’altra curva, che si chiama
curva limite superiore, che insieme formano una sorta di campana, che è l’unione di tutti i punti 2 e
nge
4, delle varie isobare alle quali abbiamo condotto gli esperimenti. L’intersezione delle due curve, è
detto punto critico. La linea 2-4 che si viene a disegnare, è perpendicolare all’asse delle temperature,
parallela a quella della pressione e del volume, ed è una campana che rappresenta la zona bifasica
del nostro fluido in cui coesistono liquido e vapore. Che succede se prendo un’isobara superiore alla
pressione critica? (oltre il punto critico) la curva che rappresenta la transizione di fase non interseca
la zona bifasica.
I
NOTA: tutte le trasformazioni appena descritte, ottenute fornendo calore, possono avvenire anche
in maniera inversa, sottraendo calore.
Immaginiamo ora una cosa diversa, ovvero
di avere sempre il fluido all’interno del
cilindro, considerando però uno stato
ere

iniziale (stato 1) a T=100°C e P=0,2 atm e


operiamo variando la pressione
mantenendo la T costante. Il fondo del
cilindro è posto sopra un serbatoio di
calore, che immaginiamo come un
ambiente molto grande che, qualsiasi cosa
Viv

io faccia, mantenga la temperatura


costante. A partire da questa condizione,
in maniera molto lenta, comincio a
spingere il pistone comprimendo il volume del gas. Appena comincio a comprimere, osservo che la
pressione comincia ad aumentare e il serbatoio di calore (unito alla lentezza) mi garantisce che la
trasformazione avvenga alla stessa temperatura. Allo stato 2, raggiungo la pressione atmosferica,
ed in questa fase, la pressione non aumenta ma diminuisce il volume specifico (stato 3). Spingendo
ulteriormente il pistone, ma registro un aumento di liquido che si deposita sul fondo del mio
19

recipiente. Continuando a premere il pistone, la mia


pressione non aumenta finché tutto il mio vapore
non si è condensato in liquido (stato 4) e continuando
a premere il pistone, quello che noto, è che il suo

ria
volume non cambia più, ma la pressione torna ad
aumentare (stato 5). Riporto i dati ottenuti su un
grafico P-v, ottenendo una campana come quella in
basso. Mentre invece sulla superficie PVT, tutti i punti
giacciono su un piano perpendicolare all’asse della
temperatura.

gne
Un punto posizionato al di fuori della superficie, è un
punto che la materia può raggiungere? No. Qualsiasi
punto che non sta su queste superficie PVT ricavate
sperimentalmente, è una condizione che la materia
non può raggiungere. Una sostanza può solo
raggiungere condizioni che sono appartenenti a
questa superficie PVT. Conoscere la superficie PVT di
nge una sostanza consente di identificare gli stati
termodinamici di una sostanza.
Il passaggio solido vapore o solido liquido non
vengono esaminati a fondo, poiché di base non
ritroviamo applicazioni nell’utilizzo del fluido in fase
solida, a differenza di un fluido allo stato liquido o
I
allo stato aeriforme. Tuttavia spendiamo qualche parola su questo
Immaginiamo un solido che alla pressione
atmosferica e a temperatura ambiente
viene riscaldato. Appena riscaldato,
ere

osserviamo minimi incrementi di volume


specifico, ma grandi aumenti di
temperatura. Si osserva che la
trasformazione di un solido che si riscalda,
una volta raggiunto il punto di liquefazione,
non comporta più un aumento di
Viv

temperatura, ma aumenta la sua fase


liquida, aumentando in maniera più o
meno marcata il suo volume specifico. È
una fase di equilibrio tra solido e liquido,
spostandomi verso destra, verso volumi
specifici più elevati, finchè non ottengo
tutto liquido. Continuando a
somministrare calore al liquido, il suo
comportamento è analogo a quello visto in precedenza. Il comportamento è analogo anche al
variare della pressione, traslando esattamente come prima, la mia curva di trasformazione verso
20

l’alto. Tale comportamento, tuttavia, non è comune ad alcune sostanze (tra le quali, per il notevole
impatto sull’ecosistema, si ricorda l’acqua) che aumentano il proprio volume specifico
solidificandosi.
In ben determinate condizioni, tutte e tre le

ria
fasi di una sostanza pura possono coesistere
in equilibrio. Sui diagrammi P-v, e T-v,
l’insieme di tutti questi stati trifasi
costituiscono una linea, detta linea del
punto triplo (triple line). Gli stati
corrispondenti alla linea del punto triplo di

gne
una sostanza hanno la stessa pressione e la
stessa temperatura, ma differenti volumi
specifici. Nel diagramma P-T, la linea del
punto triplo appare come un punto che
prende il nome di punto triplo. La temperatura e la pressione del punto triplo di varie sostanze sono
riportate in tabelle ricavate sperimentalmente. Per esempio, per l’acqua i valori della temperatura
e della pressione del punto triplo sono 0,01 °C, e 0,6113 kPa rispettivamente. Una sostanza pura
nge
può passare dalla fase solida alla fase vapore secondo due modalità differenti: dapprima fonde, e
successivamente evapora o evapora direttamente senza prima fondere. Quest’ultima possibilità
sussiste soltanto a pressioni inferiori a quella del punto triplo, poiché a tali pressioni una sostanza
pura non può esistere in fase liquida. Il passaggio di fase diretto da solido a vapore prende il nome
di sublimazione. Alla pressione atmosferica la sublimazione, è l’unico modo di passare dalla fase
solida alla fase vapore per quelle sostanze che hanno la pressione del punto triplo superiore alla
I
pressione atmosferica, come il diossido di carbonio (ovvero l’anidride carbonica) che allo stato
solido viene denominato ghiaccio secco.
13/03/2018
Ci siamo mossi in precedenza, sia sul piano T-v, che sul piano P-v, quello che ancora ci manca da
ere

esplorare è il piano P-T. immaginiamo di guardare quindi la superficie PVT parallelamente all’asse v.
Di conseguenza, la linea tripla del grafico viene vista come un punto, detto punto triplo. Il piano P-T
(pressione in ordinata,
temperatura in ascissa) che noi
ricaviamo non è una sezione della
superficie corrispondente, quindi
Viv

ad un certo volume specifico, ma è


una proiezione di questa superficie
cilindrica. Vengono evidenziati tutti
gli spigoli di transizione di fase.
Questo piano è anche detto campo
di esistenza stabile delle varie fasi.
Immaginiamo di muoverci sulla
linea tra liquido e vapore. Il luogo
dei punti di questa linea, è
l’insieme dei punti in cui coesistono fase liquida e vapore. Ogni linea del diagramma quindi
21

rappresenta il punto di coesistenza delle fasi che quella stessa linea suddivide. È detto diagramma
delle fasi, perché con solo pressione e temperatura risaliamo univocamente alla fase della sostanza.
Identifichiamo tre linee principali:

 Linea di sublimazione: tra solido e vapore

ria
 Linea di vaporizzazione: tra liquido e gas
 Linea di fusione: tra solido e liquido
Quando la linea di fusione è inclinata a sinistra rispetto alla verticale, siamo in presenza di sostanza
che aumenta il suo volume in fase di solidificazione (come nel nostro grafico). Se la linea di fusione
è invece inclinata a destra, allora siamo in presenza di una sostanza che aumenta il suo volume

gne
fondendo. A valle della conoscenza del diagramma delle fasi e della superficie PVT può essere utile
formulare la regola della varianza di Gibbs che applichiamo ai sistemi a singolo componente non
reattivi. Quindi non solo hanno una precisa uniformità spaziale ma anche assenza di reazioni
chimiche in corso (caratterizzate da un dato valore Kp costante di equilibrio). La varianza, ossia il
numero di parametri che posso fare variare del mio sistema è data dalla relazione seguente:
𝑉 = 𝐶𝑖𝑛𝑑 − 𝐹 + 2 = 3 − 𝐹
nge
Dove 𝐶𝑖𝑛𝑑 è il numero dei componenti indipendenti, quindi non reattivi, ed F è il numero delle fasi.
Poiché il numero di componenti indipendenti è solitamente 1 (avremo a che fare con una sola specie
chimica, per esempio solo acqua), essenzialmente la relazione è pari a 3 - F. Di conseguenza:

 F=1: sistema monofasico: V=2. Pressione p e temperatura T sono indipendenti, il sistema è


bivariante.
 F=2: sistema bifasico: V=1. Pressione p e temperatura T sono dipendenti, il sistema è
I
monovariante
 F=3: sistema trifasico: V=0. Pressione p e temperatura T sono fissate ai valori di pressione e
temperatura tripla, caratteristici della sostanza, il sistema è zerovariante.
Se il sistema è monofasico, vuol dire che il sistema è come se avesse due gradi di libertà. In queste
ere

condizioni per la mia sostanza pura, pressione e temperatura sono indipendenti, noto uno non è
noto l’altro, e posso fissarlo arbitrariamente. Essendo monofase, posso scegliere un punto qualsiasi
del diagramma P-T, scegliendo arbitrariamente entrambi i parametri. Il sistema monofasico rispetta
il postulato di stato. Allo stesso
modo, anche il sistema bifasico
rispetta il postulato di stato, ma in
Viv

questo caso pressione e


temperatura non sono
indipendenti: fissata la pressione (o
la temperatura) la temperatura (o
la pressione) è univocamente
determinata. Se sono infatti in
presenza di due fasi vuol dire che
mi muovo sulle linee del mio
diagramma P-T, e fissata una l’altra
Figura 5 è determinata. Ho un solo grado di
libertà. Se ci viene detto: assegnata
22

temperatura e pressione di un fluido bifasico, si può conoscere lo stato termodinamico del sistema?
La risposta è no, perché in questo caso non sono due parametri indipendenti, e quindi non posso
risalire allo stato termodinamico. Se il sistema è trifasico, non posso scegliere a piacere né la P né la
T, che risultano non solo dipendenti ma determinate a priori (sono infatti la P tripla e la T tripla).

ria
Proviamo a seguire un processo come quello in figura 5 partendo dal punto B nelle condizioni di
vapore surriscaldato. Sottraendo calore, ci spostiamo lungo l’isobara sino al punto D, in cui il vapore
comincia a formare le prime gocce di liquido. Continuando a sottrarre calore, diminuisce la quantità
di vapore, che diventa liquido, fino a quando tutto il vapore condensa, e ulteriore sottrazione di
calore raffredda tutto il liquido ottenuto, sino al
punto A. seguiamo lo stesso processo sul

gne
diagramma delle fasi in figura 6. All’inizio il punto
B si trova in una condizione monofasica, tutto
vapore surriscaldato, alla temperatura e
pressione indicate. Il punto D corrisponde alla
zona bifasica composta da numerosi punti D, sino
al punto A in cui torna ad essere monofasico.
Questo processo vede un abbassamento di

Figura 6
nge temperatura a pressione costante, quindi
muovendosi lungo l’orizzontale. Guardiamo ora al
punto E: intanto ci si accorge della denominazione
di liquido sottoraffreddato, ovvero non saturo,
più a sinistra della curva. È quello al quale possiamo arrivare se, superata la condensazione,
continuiamo a sottrarre calore. Lo possiamo chiamare anche liquido compresso, perché possiamo
immaginare un diverso processo che ci porta allo stato A. il punto E, è caratterizzato dalla medesima
I
temperatura del mio fluido al punto A, ma ad una pressione decisamente inferiore. Quindi il liquido
nel punto A, è compresso rispetto al punto E, trovandosi ad una pressione più alta. Stesso discorso
se dal punto E ci spostiamo a
destra andando verso i vapori
surriscaldati. Nel punto E
ere

coesiste del vapore, e


spostandoci ulteriormente a
destra verso l’aumento di
temperatura, lo surriscaldiamo.
Oltre il punto critico C, il
passaggio tra vapore e liquido
Viv

non è ben identificato e quindi


non vi è nessuna linea definita.
La linea di equilibrio liquido
vapore è molto importante per
le sue possibilità applicative.
Viene solitamente posta in
forma tabellata. L’insieme di
coppie di valori T e P sono
indicate in tabelle dette di
pressione e temperatura di
23

saturazione dell’acqua. Per esempio, leggendo il valore di temperatura T=100°C, troviamo una
pressione pari a quella atmosferica (ed infatti alla pressione atmosferica, l’acqua bolle a quella data
temperatura). Se volessimo fare bollire l’acqua a 150°C, allora dovremmo portarla ad una pressione
di 476,2 KPa, ovvero quasi cinque volte quella atmosferica. Analogamente, se volessi portarla ad

ria
ebollizione a 30°C portandola ad una depressione, a circa 4,25 kPa. Supponiamo di volere portare
l’acqua a 130°C ma in forma liquida. Cosa si deve fare? Intersecando l’isobara del piano T-v con la
temperatura T=130°C. supponendo l’isobara a P=1 atm, l’intersezione ricade nella zona del vapore
surriscaldato (infatti a P atmosferica a 130°C l’acqua si trova sottoforma di vapore). Tabellati
conosco gli andamenti della isobara a P= 101,4 kPa, e P= 476,2 kPa corrispondenti rispettivamente
a T=100°C e T=150°C. Poiché cerco quella pressione che mi garantisce l’acqua liquida a 130°C, posso

gne
utilizzare l’isobara P=476,2 perché mi garantisce che l’acqua inizierà il suo cambio di fase a 150°C (e
quindi alla temperatura richiesta è ancora in fase liquida).
La temperatura critica dell’acqua è di 374,1°C, mentre la pressione critica è 22,064 MPa.
14/03/2018
I nge
ere

Una precisazione, la differenza tra gas e vapore: tendiamo a chiamare gas quegli stati di un fluido in
fase aeriforme a temperature superiori di quella critica. Chiamiamo invece vapore tutto l’aeriforme
Viv

al di sotto della temperatura critica.


Non tutti i fluidi si comportano come l’acqua. A titolo di esempio, nella figura superiore vediamo
l’anidride carbonica. Quando la CO2 si trova a pressione atmosferica e temperatura ambiente, il suo
stato si identifica come vapore. Ma è possibile a questa stessa pressione, una transizione diretta,
dalla fase vapore a quella solida. Per questo motivo, le sue applicazioni per raffreddare (ghiaccio
secco) sono molto importanti. Passa dal solido all’aeriforme, se lasciato a temperatura ambiente,
mantenendo una temperatura, allo stato solido, bassissima. Ciò consente di sottrarre calore in
maniera estremamente rapida. Quindi abbiamo in piccole quantità di materia, freddo a bassa
temperatura, con elevata densità di energia frigorifera e sublimazione a temperatura ambiente,
senza formazione di liquido.
24

L’acqua è il fluido con il quale lavoreremo di più.


Introduciamo le tabelle relative alla zona dei vapori saturi. Di
solito le tabelle recano sulla prima colonna la temperatura e
sulla seconda la pressione, in altre tabelle in prima colonna vi

ria
sono le pressioni e nella seconda la temperatura. Nella zona
dei vapori saturi, vi è la coesistenza di due fasi, di
conseguenza pressione e temperatura non sono
indipendenti. L’andamento della variazione della pressione a
temperature assegnate (e viceversa) non è lineare. Quindi
può risultare comodo, nel caso di una temperatura fissata

gne
presente in tabella, utilizzare il valore di pressione
corrispondente. Di contro, a pressione fissata con cifra tonda,
per esempio 1 bar, non troveremo tale valore nella tabella, e
la sua temperatura corrispondente. Dovremo quindi operare
con una interpolazione lineare, oppure utilizzare la tabella in
cui la pressione è il primo dato in ingresso nella prima
colonna. Se volessimo diagrammare i valori numerici della
nge pressione e della temperatura otterremmo degli andamenti
di tipo decisamente non lineare. È possibile utilizzare, con
buona approssimazione, soprattutto per t<340°C (entro la
quale l’errore si mantiene inferiore all’8%), la seguente
formulazione empirica:

𝑡𝑠𝑎𝑡 (°𝐶) 4
𝑝𝑠𝑎𝑡 (𝑃𝑎) = 101325 ( )
I
100
Che lega la pressione espressa in Pascal, e la temperatura in
gradi Celsius.
ES: temperatura di saturazione dell’acqua quando si trova
ere

alla pressione di 2 bar. Devo invertire la formula, scrivendo

4 𝑝𝑠𝑎𝑡 (𝑃𝑎)
𝑡𝑠𝑎𝑡 (°𝐶 ) = 100 √ ≅ 120,5°𝐶
101325

Che è approssimativamente la temperatura che in tabella vediamo corrispondere alla pressione di


Viv

1,98 bar (198,67 kPa). Poiché raramente si lavora con pressioni e/o temperature troppe elevate, sia
le tabelle che la formula empirica hanno un ampissimo campo di validità.
Le altre due colonne riportate in tabella sono riferite a due
volumi specifici, di liquido saturo (saturated liquid) e di
vapore saturo (saturated vapor). Sono quei punti estremi
del campo di saturazione, primo ed ultimo punto della
linea di saturazione. A pressioni molto elevate, i volumi si
avvicinano (ricordiamoci che le curve della campana convergono nel punto critico) e proprio in
prossimità del punto critico dell’acqua, i due valori coincidono. Utilizzeremo v con il pedice l per
indicare il volume del liquido saturo, e v con il pedice v per indicare il volume del vapore saturo. In
25

una scala di rappresentazione che vede l’andamento del volume in funzione della temperatura, noi
siamo abituati a vederlo con una campana abbastanza “dilatata”. I valori reali tuttavia si dispongono
in maniera diversa, secondo l’andamento in figura. Questo perché, il ramo sinistro della campana (il
blu) si presenta praticamente verticale, perché

ria
a tutte le pressioni, il volume resta pressoché
invariato (l’acqua è un fluido incomprimibile).
L’acqua non risponde a variazioni di volume
specifico con l’aumento della pressione.
Vediamo non solo che la linea blu è quasi
verticale, ma sono anche prossimi allo zero

gne
rispetto ai valori assunti dal vapore. Il vapore a
bassissime pressioni raggiunge valori centinaia
di migliaia di volte superiori al corrispondente
valore di liquido. Alle pressioni più alte ha valori
di volume specifico più contenuti. A sinistra
vengono mostrate varie scale di
rappresentazione. Verranno comunque
nge utilizzate rappresentazioni che “dilatano” la
campana, più comprensibile per i nostri studi,
fermo restando che la forma reale della
campana è quella rappresentata a sinistra.
Da ricordare: il volume specifico a bassissime
pressione aumenta a dismisura, e ciò ci sarà
I
utile nello studio di numerose applicazioni,
soprattutto nello studio dell’estrazione di
potenza dalle turbine.
Introduciamo una nuova grandezza, l’entalpia
ere

Indicheremo con il simbolo H in riferimento alla quantità estensiva di un sistema. Riferita all’unità
di massa, la indicheremo con h.
𝐻 = 𝑈 + 𝑝𝑉 [𝑘𝐽]
𝑘𝐽
ℎ = 𝑢 + 𝑝𝑣 [ ]
𝑘𝑔
Viv

ha le stesse dimensioni dell’energia. Ricordiamoci che, essendo le sue unità di misura espresse in kJ,
ricordiamoci che la pressione deve essere espressa in kPa. Questa grandezza è definita come somma
di funzioni di stato, e di conseguenza, se ad ogni stato termodinamico corrisponde un preciso valore
di pressione, volume ed energia interna, corrisponde allora anche un preciso valore di entalpia, che
è anche essa funzione di stato. L’entalpia è molto importante, perché quando avremo
trasformazioni isobare, a pressione costante, realizzate da un sistema chiuso, per esempio un gas
nel pistone che riscaldato mantiene tutto alla stessa pressione, ed in questo caso l’entalpia ci darà
una rapida valutazione della trasformazione in esame. Inoltre, qualsiasi trasformazione di un fluido
in un sistema aperto, porta un carico energetico in ingresso e poi ne avrà uno in uscita, che sono
perfettamente misurabili sfruttando il concetto di entalpia. In questo senso, studiando
26

numerosissimi sistemi aperti, l’entalpia risulta per noi estremamente importante. La principale
applicazione dell’entalpia, è quindi per i sistemi aperti. Anche l’entalpia è presente in tabelle simili
a quelle che avevamo per i volumi di liquido e vapore saturi. una prima terna, dalla quinta alla

ria
gne
settima colonna, abbiamo in tabella i valori di energia interna. La successiva terna, dalla 8 alla 10,
invece presenta i valori di entalpia. Le ultime tre invece riportano i valori di entropia (che
conosceremo dopo). nge
Rappresentiamo tre valori perché vengono riportati:
1. Condizione di liquido saturo o in incipiente stato di vaporizzazione corrisponde al valore di
ogni prima colonna delle tre terne. Entro con una data temperatura e leggo il corrispettivo
valore di energia interna, entalpia o entropia specifiche dalla prima colonna di ogni terna
2. Condizione di vapore saturo secco corrisponde al valore della terza colonna.
3. Nella seconda colonna invece, troviamo il pedice lv in tutte e tre le funzioni di stato. Viene
I
inserito il valore inteso come differenza tra il valore della terza colonna e quello che c’è nella
prima, che sarebbe la variazione di energia interna, entalpia ed entropia che c’è nel
passaggio dal valore della prima colonna alla terza.
Questa grandezza (il valore riportato nella seconda colonna dell’entalpia) è la quantità di calore da
ere

fornire isobaricamente all’unità di massa di fluido per produrne la completa vaporizzazione a partire
dallo stato di liquido saturo. Pertanto viene definita come calore latente di vaporizzazione (o
entalpia di vaporizzazione). Questa è la medesima quantità di calore che verrebbe rilasciata quando
il fluido condensa tramite raffreddamento. È quindi un calore latente.
Che succede quando io ho la compresenza di liquido e vapore? Ovvero quando sono all’interno della
campana. Ciascuna delle due fasi mantiene lo stesso stato termodinamico che aveva quella di
Viv

liquido saturo e di vapore saturo. Se sono più vicino alla curva limite inferiore avrò più liquido alla
condizione di liquido saturo e meno vapore alla condizione di vapore surriscaldato; se sono più
vicino alla curva limite superiore avrò più vapore alla condizione di vapore surriscaldato e meno
liquido alla condizione di liquido saturo. Lo stato termodinamico è invariato rispetto alle condizioni
di liquido e vapore saturi: all’interno della campana ciò che cambia è la percentuale in massa di
liquido e di vapore presenti.

Indipendentemente dalla quantità di liquido e di vapore sotto la campana, il volume che viene
calcolato è il totale del volume che io mi ritrovo diviso la massa totale del mio fluido. Se sono in
condizioni di liquido saturo, il volume occupato è interamente di liquido, e quindi la massa totale è
rappresentata solo dalla massa della fase liquida, così come il volume, che è quello interamente
27

occupato dalla fase liquida. Spostandomi a destra, sotto la campana, comincia a diminuire il liquido
e formarsi vapore. Aumenta quindi il volume, che sarà dato come somma dei due volumi parziali
uno di liquido ed uno di vapore, ed il volume specifico medio sarà dato dalla media pesata del
volume totale diviso la massa totale, ovvero sommatoria della massa del vapore e della massa del

ria
liquido. Pertanto, anche se nella zona bifasica, liquido e vapore posseggono i volumi specifici forniti
in tabella per il liquido saturo ed il vapore saturo secco, all’interno la differenza di massa ne fa
variare il “contributo”, ovvero i pesi. Le proprietà medie della miscela saranno più vicine a quelle
della fase presente maggiormente. Definiamo dunque il titolo di una miscela bifasica come:
𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡
𝑥=
𝑚𝑡𝑜𝑡

gne
Tale relazione ha significato solo all’interno della
campana e sulla sua frontiera, all’esterno, per la
definizione data, non ha più significato fisico, il titolo non
è definito (nota: nel punto critico, il titolo non è definito
a causa della non distinguibilità delle fasi). Quando ci
troviamo nel punto di liquido saturo, il numeratore si
nge annulla, e la massa totale è solo quella del liquido.
Quindi x = 0. La curva limite inferiore viene anche
chiamata curva di x = 0. Analogamente, nel caso della
curva limite superiore, in cui ho la massa totale
coincidente con la massa del vapore saturo secco, allora
x = 1, e viene indicata anche come curva di x = 1.
All’interno della campana il titolo assume valori compresi tra 0 e 1, estremi esclusi. All’interno della
I
campana dobbiamo immaginare di avere una sostanza bifasica le cui proprietà non sono
univocamente determinate dalla sola presenza delle due fasi, ma piuttosto la sostanza presenterà
proprietà intermedie, più vicine a quelle della fase più presente nella mia miscela. Il volume totale
della mia miscela, non può che essere:
ere

𝑉𝑡𝑜𝑡 = 𝑉𝑣 𝑠𝑎𝑡 + 𝑉𝑙 𝑠𝑎𝑡 [𝑚 3 ]

E inoltre
𝑚𝑡𝑜𝑡 = 𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡 + 𝑚𝑙 𝑠𝑎𝑡 [𝑘𝑔]
Se lo volessi esprimere in termini specifici, posso scrivere
Viv

𝑉𝑡𝑜𝑡 = 𝑚𝑡𝑜𝑡 𝑣𝑚𝑒𝑑 = 𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡 𝑣𝑣 𝑠𝑎𝑡 + 𝑚𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑣𝑙 𝑠𝑎𝑡


Questa relazione introduce la definizione di 𝑣𝑚𝑒𝑑 come il volume totale della miscela sulla massa
totale della miscela. Dalla relazione sulle masse, esplicito quella del liquido, e la sostituisco alla
seconda per eliminarla dall’equazione. Avrò quindi
𝑚𝑡𝑜𝑡 = 𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡 + 𝑚𝑙 𝑠𝑎𝑡 → 𝑚𝑙 𝑠𝑎𝑡 = 𝑚𝑡𝑜𝑡 − 𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡
𝑚𝑡𝑜𝑡 𝑣𝑚𝑒𝑑 = 𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡 𝑣𝑣 𝑠𝑎𝑡 + 𝑚𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑣𝑙 𝑠𝑎𝑡 → 𝑚𝑡𝑜𝑡 𝑣𝑚𝑒𝑑 = (𝑚𝑡𝑜𝑡 − 𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡 )𝑣𝑙 𝑠𝑎𝑡 + 𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡 𝑣𝑣 𝑠𝑎𝑡
E dividendo tutto per la massa totale ottengo
28

𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡 𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡
𝑣𝑚𝑒𝑑 = (1 − ) 𝑣𝑙 𝑠𝑎𝑡 + 𝑣
𝑚𝑡𝑜𝑡 𝑚𝑡𝑜𝑡 𝑣 𝑠𝑎𝑡
𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡
Dove però = 𝑥 , quindi:
𝑚𝑡𝑜𝑡

ria
𝑣𝑚𝑒𝑑 = (1 − 𝑥 )𝑣𝑙 𝑠𝑎𝑡 + 𝑥𝑣𝑣 𝑠𝑎𝑡
Ossia
𝑣𝑚𝑒𝑑 = 𝑣𝑙 𝑠𝑎𝑡 + 𝑥 (𝑣𝑣 𝑠𝑎𝑡 − 𝑣𝑙 𝑠𝑎𝑡 )
Ora possiamo esprimere il titolo come

gne
(𝑣𝑚𝑒𝑑 − 𝑣𝑙 𝑠𝑎𝑡 ) ̅̅̅̅
𝐴𝐵
𝑥= =
(𝑣𝑣 𝑠𝑎𝑡 − 𝑣𝑙 𝑠𝑎𝑡 ) ̅̅̅̅
𝐴𝐶
Ed in particolare, nel grafico in alto definiamo la linea blu come curva di isotitolo ovvero, per diverse
coppie di punti A e C sulla campana, il punto B che intermedio tra i due con lo stesso titolo, si troverà
all’intersezione tra la linea isoterma AC e la linea blu di isotitolo. Per intenderci, tutti i titoli pari a
0,3, sono posizionati su tutte le isoterme esattamente a tre decimi dal punto A.
nge
Questa proprietà che abbiamo ricavato per il volume specifico, vale esattamente anche per le altre
proprietà estensive (per esempio l’energia interna e l’entalpia).
Nel campo di vapore surriscaldato ho una sola fase, di conseguenza per trovare lo stato
termodinamico ho nuovamente bisogno di due parametri indipendenti di pressione e temperatura.
Tuttavia questi due parametri sono assolutamente sufficienti a identificare lo stato termodinamico.
Molti valori sono tabellati. Ma se io avessi dati in ingresso non presenti in tabella? Posso ragionare
I
in termini di proprietà intermedie, attraverso i valori vicini presenti in tabella.
19/03/2018
Le tabelle del vapore surriscaldato ci danno tutte le informazioni che ci servono per le proprietà del
fluido che si trova a destra della campana, completamente vaporizzato. Gli unici dati in ingresso che
ere

ci servono sono pressione e temperatura. Dall’incontro tra una isobara e una isoterma
identifichiamo un punto, un preciso stato del nostro sistema. le tabelle che ci vengono fornite
Viv

presentano i dati così come nella porzione di tabella A.6 in esempio. Qualora i dati richiesti non si
trovano nelle tabelle occorrerà procedere per interpolazione.
Vediamo la struttura delle tabelle: ogni porzione di tabella ha in testa un valore di pressione, quindi
ogni porzione fornisce le informazioni del vapore surriscaldato a quella data isobara. Es: P=0,1MPa,
tra parentesi viene fornita la temperatura 99,63 che è quella di saturazione corrispondente alla
pressione appena indicata. La prima colonna di tutta la tabella rappresenta le varie temperature
29

(dove è scritto sat. si intende la temperatura tra parentesi), le altre colonne sono quattro per ogni
pressione, e sono i valori di volume, energia interna entalpia ed entropia specifici relative alla
pressione indicata. La temperatura si verifica in ingresso nella colonna a sinistra. Notiamo che, se io
mi chiedessi, che entalpia, volume specifico etc possiede il fluido nello stato di vapore surriscaldato

ria
a 0,05 MPa ma a 70°C? dovrei entrare nella tabella e leggere i valori, ma non è disponibile in ingresso
il valore di 70°C questo perché la temperatura di saturazione a quella data pressione (si legge in
tabella) è di 81,33°C e quindi è questo il primo valore disponibile. Al di sotto, siamo nel ramo di
liquido sottoraffreddato, al di sopra di vapore saturo. Per questo viene indicata la prima riga con
sat., perché vale la temperatura di saturazione espressa tra parentesi alla relativa pressione. Se noi
volessimo le condizioni del vapore saturo sempre a 0,05 Mpa, ed a 220°C, sicuramente il suo stato

gne
termodinamico è di vapore saturo, ma 220°C non è presente come temperatura in ingresso. Cosa
posso dire? Di disporre dei valori esatti della temperatura di 200°C e 250°C, tra le quali 220°C è
compresa. Naturalmente le proprietà del punto cercato saranno più vicine del punto a 200°C, perché
220°C è più vicina a 200°C che a 250°C. Dovrò procedere per interpolazione. Altre tabelle sono
relative allo stato di liquido sottoraffreddato con gli ingressi in pressione. Tuttavia, per il liquido
sottoraffreddato è possibile utilizzare semplici calcoli per il calcolo delle proprietà piuttosto che
ricorrere alle tabelle. Il ramo sinistro della campana, la curva limite inferiore, è praticamente
nge
verticale e schiacciata sull’asse delle ordinate (come mostrato in precedenza su grafici in scala della
campana, giorno 14/03/2018). Le isobare sono praticamente tutte estremamente prossime alla
curva limite inferiore, e graficamente è difficile da mostrare. Ma se è così vicina, vuol dire che le
proprietà di un punto nel liquido sottoraffreddato è estremamente prossima del liquido saturo alla
medesima temperatura. Pertanto si è soliti non calcolare le proprietà del liquido sottoraffreddato
tramite tabelle, ma assimilare quelle proprietà a quelle del punto alla stessa temperatura che sta
sulla curva limite inferiore (liquido saturo). L’acqua è un fluido incomprimibile allo stato liquido,
I
quindi variazioni di pressione praticamente non provocano cambi di volume. Quindi non è un errore
considerare il volume specifico dell’acqua a 5 bar uguale a quello dell’acqua a 2 bar alla stessa
temperatura. Questo perché i liquidi non rispondono alle sollecitazioni dovute alla variazione di
pressione, ma rispondono molto alle variazioni di temperatura che influenza l’energia interna legata
allo stato di agitazione delle molecole. Questo vuol dire che se io provo a comprimere un liquido,
ere

non gli fornisco nessuna energia. Ecco perché non ha senso, tentare di “energizzare” un liquido
precomprimendolo. Per un gas è diverso: precomprimerlo vuol dire riscaldarlo, e quindi energia da
fornire in meno per aumentare la sua temperatura. L’unico parametro per il quale questa
approssimazione appena spiegata è poco corretta è l’entalpia, soprattutto alle altissime pressioni.
Ma nei nostri calcoli continueremo a non usare le tabelle neppure per l’entalpia, basta sapere
dell’approssimazione che si fa e dell’errore che si può commettere.
Viv

Conosciuto il comportamento delle sostanze pure in prossimità della campana liquido vapore,
vediamo ora il comportamento dei fluidi negli stati di vapore estremamente surriscaldato ossia di
gas. Studiamo rapidamente il comportamento dei gas perfetti dal punto di vista delle equazioni che
ci servono per i nostri calcoli
Esperienza di Boyle: in un processo isotermo, la pressione evolve man mano che il sistema cambia
il suo stato in maniera inversamente proporzionale al volume.
Esperienza di Guy-Lussac: per un processo isobaro, l’evoluzione di un gas rarefatto, fissata la massa
esaminata, porta a volumi aumentare linearmente con la temperatura assoluta.
30

Tutto ciò si sintetizza nella espressione:


𝑃𝑉 = 𝑛𝑅𝑢 𝑇
Che è l’equazione di stato dei gas ideali, che ci porta a dire che un gas è considerato ideale, se

ria
rispetta la legge appena scritta in ogni suo stato, durante la sua evoluzione. Dimensionalmente:
𝑁 3]
𝐽
[ ] [ 𝑚 = [ 𝑚𝑜𝑙 ] [ ] [𝐾 ]
𝑚3 𝑚𝑜𝑙𝐾
Dal punto di vista teorico, il gas che si comporta in maniera ideale, deve anche rispettare le seguenti
assunzioni semplificative (rispetto al gas reale):

gne
 Le molecole sono considerate puntiformi. Ovvero il volume occupato dalle molecole, è
trascurabile rispetto al volume assunto dal gas. Ovvero, il diametro medio delle molecole è
molto piccolo rispetto al cammino libero medio, che è la distanza che mediamente le
molecole percorrono prima di incontrare ostacoli
 Le molecole devono presentare tra di loro urti perfettamente elastici, ovvero che non
disperdano energia.
 Le molecole del gas non devono essere caratterizzate da forza a distanza significative

nge
Le molecole devono essere tra loro indistinguibili (uguali).
Quella precedentemente fornita è la formula riferita alla quantità molare, dove:
1. P è la pressione
2. V è il volume
3. n è il numero di moli
4. 𝑅𝑢 è la costante universale dei gas
I
5. T è la temperatura assoluta
Il valore di 𝑅𝑢 è:
𝑘𝐽
𝑅𝑢 = 8,314 [ ]
ere

𝑘𝑚𝑜𝑙𝐾
Se volessi esprimere la costante non più con il suo valore universale, ma specifica per una sostanza,
dovrò divere per la massa molecolare M della sostanza:
𝑘𝐽
𝑅𝑢 𝑘𝐽
𝑅𝑔 = 𝑅 = [ 𝑘𝑚𝑜𝑙𝐾 ] = [ ]
𝑀 𝑘𝑔 𝑘𝑔𝐾
Viv

𝑘𝑚𝑜𝑙
𝑘𝐽
𝑅𝑎𝑟𝑖𝑎 = 0,2867 [ ]
𝑘𝑔𝐾
𝑘𝐽
𝑅𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎 = 0,4165 [ ]
𝑘𝑔𝐾
L’adozione di questa costante specifica del gas, ci permette una riformulazione della legge di stato
dei gas perfetti. Infatti se prendo:
𝑃𝑉 = 𝑛𝑅𝑢 𝑇
31

E moltiplico e divido per M, avrò


𝑅𝑢
𝑃𝑉 = 𝑛𝑀 𝑇 → 𝑃𝑉 = 𝑚𝑅𝑇 = 𝑠𝑢 𝑏𝑎𝑠𝑒 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑎
𝑀
Ovvero, considerando i volumi specifici, dividendo per m

ria
𝑃𝑣 = 𝑅𝑇
Sappiamo che l’approssimazione a gas perfetti è mera astrazione teorica quindi, ciò che è davvero
importante per noi, è sapere quando poter operare con queste equazioni, assumendo il
comportamento del gas reale a ideale con errore tutto sommato trascurabile. Introduciamo ora il

gne
fattore di compressibilità di un gas reale, che serve a identificare l’entità dello scostamento di un
gas reale da un gas ideale. Lo indichiamo con la lettera z e lo definiamo:
𝑃𝑣 𝑃 1
𝑧= = ( )𝑣 = 𝑣
𝑅𝑇 𝑅𝑇 𝑣𝑖𝑑𝑒𝑎𝑙𝑒
Se io mi stessi chiedendo: il vapore d’acqua a 300°C e 20 bar, si comporta come un gas perfetto? Di
quanto si scosta il suo comportamento? Utilizziamo il fattore z: al posto di P e T metto i valori appena
nge
presi. Al posto di R metto la costante del gas e al posto di v metto il volume specifico derivante dalle
tabelle. Scopriremo che questo z non risulta 1, cosa che invece vale per i gas perfetti. Se viene con
buona approssimazione l’unità, vuol dire che bene approssima il comportamento del gas ideale.
L’unità del fattore di compressibilità
dipende dal fatto che il gas ideale
risponde perfettamente alla equazione di
stato dei gas ideali. La zona segnata in
I
rosa nel grafico corrisponde proprio alla
zona in cui il valore di z è più prossimo alla
unità. I valori diagrammati di z oscillano
intorno allo zero. Questo perché sono
state fatte opportune manipolazioni
ere

matematiche. Il comportamento ideale si


ha quando
𝑣𝑟𝑒𝑎𝑙𝑒
𝑧= =1
𝑣𝑖𝑑𝑒𝑎𝑙𝑒
Possiamo anche riscrivere
Viv

1 𝑣𝑖𝑑𝑒𝑎𝑙𝑒
=
𝑧 𝑣𝑟𝑒𝑎𝑙𝑒
Ovvero, se 𝑣𝑖𝑑𝑒𝑎𝑙𝑒 = 𝑣𝑟𝑒𝑎𝑙𝑒
1
1− =0
𝑧
Gli zeri di questa grandezza corrispondono appunto alle zone in cui z = 1. Questo si verifica per alte
temperature o basse pressioni. Come riferimento alle alte temperature, si usa il punto critico:
temperature superiori al punto critico sono considerate alte. Più il parametro devia dallo zero, meno
il gas si comporta come gas perfetto. Il gas quindi bene approssima il comportamento di gas perfetto
32

quando è rarefatto ed a alte temperature. Proviamo a sistematizzare questo comportamento:


definiamo una pressione ridotta ed una temperatura ridotta di un gas date rispettivamente dalla
pressione reale di un fluido e la sua pressione critica. E la temperatura ridotta tra il valore della
temperatura assoluta e la temperatura assoluta critica.

ria
𝑃 𝑇
𝑃𝑟𝑖𝑑 = e 𝑇𝑟𝑖𝑑 =
𝑃𝑐𝑟𝑖𝑡 𝑇𝑐𝑟𝑖𝑡
Prendiamo per esempio l’acqua a 20 bar e a 300°C come calcolo pressione e temperatura ridotta?
La pressione critica dell’acqua è 221 bar circa quindi ha una pressione ridotta 0,09 circa (per
esempio). Similmente l’acqua ha 373°C circa di temperatura critica. Mi aiutano a capire come la

gne
temperatura e la pressione effettive si collocano rispetto alla sua campana. Più la pressione ridotta
e la T ridotta si approssimano alla unità, più sono prossime alla campana. Questa coppia di dati ci
dice come il fluido si colloca rispetto alla sua campana. Ogni fluido ha sua pressione e temperatura
critica. Prendiamo il metano per esempio: la sua temperatura critica è di -80°C. quindi
immaginandolo a 0°C come l’acqua, il metano sta molto più in alto rispetto alla sua propria campana,
l’acqua invece sta da tutt’altra parte. A decidere se un fluido si comporta come gas ideale, è la più
o meno vicinanza alla propria campana. Pressione ridotta e temperatura ridotta sono una sorta di
nge
adimensionalizzazione dei dati P e T del mio fluido rispetto alle proprietà del fluido stesso. Mi dicono
quando è a pressione o temperatura molto basse o molto elevate rispetto alla sua critica.
Vale la cosiddetta legge degli sati corrispondenti: diversi gas con caratteristiche fisiche
completamente diversi presentano, a parità di pressione e temperature ridotti, valori di
compressibilità approssimativamente uguali.

Se per due gas


I
diversi, prendo i
rispettivi valori di
pressione e
temperatura ridotte,
e le confronto tra
ere

loro, trovandoli
molto simili, allora la
loro collocazione
rispetto alle
rispettive campane è
la medesima. Avere
Viv

metano a -80°C,
rispetto alla
deviazione dal
comportamento di
gas perfetto, è come
avere acqua a 373°C.
In figura di vedono diverse sostanze, plottate secondo il fattore di z in funzione della pressione. Ogni
curva rappresenta una determinata pressione ridotta. Si nota che immaginando di condurre per
fluidi diversi una indagine alla temperatura ridotta pari a 1,20, in funzione della pressione, notiamo
che fluidi diversi si collocano nella stessa curva. A parità di temperatura ridotta e pressione ridotta,
33

il fattore di compressibilità è lo stesso e quindi fluidi diversi si comportano allo stesso modo. Inoltre,
i fluidi, quali che siano, si comportano come gas perfetti tanto più l’ordinata tende all’unità. Come
si vede dal grafico, alcuni fluidi deviano anche molto rispetto alla curva. Questo perché alcuni gas
hanno una densità troppo elevata ed a alcuni una dimensione molecolare troppo grande, per poter

ria
essere trascurate.
È utile quindi introdurre dei fattori correttivi, di cui tiene conto l’equazione di Van der Waals:
𝑎
(𝑃 + ) (𝑣 − 𝑏) = 𝑅𝑇
𝑣2
Per tenere conto della non puntualità delle molecole si inserisce un termine sottrattivo –b, che tiene

gne
conto del volume proprio delle molecole, diminuendo il volume disponibile per il moto. Similmente,
il fatto che ad alte pressione l’interazione delle molecole non è più trascurabile, viene introdotto un
termine aggiuntivo alla pressione. a e b sono coefficienti ricavati sperimentalmente che variano da
fluido a fluido. Questa equazione meglio approssima il comportamento del gas reale, e possiamo
utilizzarla per modellizzare il comportamento dei gas reali quando la modellizzazione secondo
l’equazione di stato dei gas perfetti non funziona più tanto bene. Da sottolineare l’esistenza di
un’altra equazione che approssima il comportamento dei gas reali, detti del viriale che però risulta
nge
poco pratica da maneggiare per via di una serie di coefficienti che vanno ricavati tutti
sperimentalmente:
𝑅𝑇 𝑎(𝑇) 𝑏(𝑇) 𝑐(𝑇) 𝑑(𝑇)
𝑃= + 2 + 3 + 4 + 5 …
𝑣 𝑣 𝑣 𝑣 𝑣
È utile conoscerne l’esistenza per sapere, in un futuro, se dovesse capitare, come trattarla.
I
Lavoro di variazione di volume
La seguente trattazione è molto importanti per i motori a combustione
interna che vedono di solito un gas contenuto in un cilindro. Sia il gas
contenuto in questo cilindro ad una certa pressione p, e consideriamo una
piccola traslazione verso l’alto del pistoncino pari a ds. Lo fa mentre il fluido
ere

aveva una certa pressione p. visto che ds è infinitesimo, per tutto l’itnervallo
di questo spostamento, possiamo ipotizzare la pressione costante. Qual è il
lavoro elementare che il gas dentro il cilindro ha compiuto? La pressione è
solo una forza di compressione, quindi lo spostamento è vettorialmente
concorde alla forza della pressione, e il lavoro elementare risulta essere:
Viv

𝛿𝐿𝑣 = 𝐹𝑑𝑠 = 𝑝𝑑𝐴𝑑𝑠 = 𝑝𝑑𝑉


Scritto in questo modo, ricordiamo, si riferisce ad una quantità infinitesima,
non ad una variazione infinitesima. Fds è chiaramente l’espressione del
lavoro, e la F viene scritta come pdA. E quindi dAds=dV. P è la pressione che
ha il gas all’interno del cilindro. Poco importa contro chi o cosa il pistone
“preme” nella sua risalita, ciò che conta è la pressione del gas, è quella che
ci dà la misura del lavoro compiuto. Dall’altra parte si potrebbe avere una
molla che accumula energia elastica, o un grave che si solleva, ma il lavoro espresso dal gas è
commisurato con la pressione che esso raggiunge nel cilindro. Vediamo che il lavoro compiuto dal
punto di vista numerico, essendo dV positivo, ha segno positivo, ed infatti è il lavoro che viene fatto
34

dal fluido verso l’esterno, compiuto quindi dal mio sistema, coerentemente con la convenzione dei
segni trattata precedentemente. Se questo pistone nel tempo si sposta significativamente, quindi
dopo questo ds ne compie una grande quantità di vari piccoli ds, la loro somma alla fine daranno un
dV significativo. Ma in tutto questo processo p non può restare

ria
costante come nel caso di un singolo spostamento ds. Se il volume
raddoppia, la pressione non può restare costante, ma sicuramente
dovrà diminuire, secondo l’equazione di stato di gas (fermo
restando che deve avvenire a T costante). Se io voglio lungo una
trasformazione finita, che da una quota del pistone ad un'altra,
per esempio dal punto 1 al punto 2, calcolare il lavoro totale

gne
compiuto, devo ricorrere all’integrale come sommatoria di
infinitesimi contributi dV:
2
𝐿𝑣 = ∫ 𝑝𝑑𝑉 [𝑘𝐽]
Figura 7 1

Immaginiamo di voler rappresentare sul piano di Clapeyron (piano


P-v) la nostra trasformazione (figura 7), caratterizzata dallo stato 1. Inizialmente il pistone era in
nge
posizione secondo quella linea tratteggiata. Aumentando il volume, la curva si va spostando verso
destra, con il pistone che avanza verso la linea tratteggiata corrispondente allo stato 2, spazzando
via via un volume sempre più ampio.
20/03/2018
Se fra le miriadi di possibili trasformazioni che portano il pistone dallo stato 1 allo stato 2 ne stiamo
seguendo una in particolare che vede ad ogni volume del gas competere una pressione che colloco
I
via via in ordinata sul piano, misuro e colloco il corrispondente valore di pressione ad ogni variazione
di volume. Questi punti rappresentano la linea di trasformazione. Possiamo dire che in quanto linea
che congiunge una sequenza di punti ciascuno associato ad uno stato termodinamico via via
attraversato dal sistema, possiamo parlare di trasformazione quasistatica. E solo per una
ere

trasformazione quasistatica gli stati intermedi sono associabili ad uno stato termodinamica.
Abbiamo compreso che qualora questo pistone si muovesse rapidamente, la pressione all’interno
del sistema non sarebbe unica e non potremmo valutare correttamente il valore di ordinata.
Tracciando la linea in questo modo stiamo dicendo che la pressione è la stessa in ogni punto del mio
sistema. l’entità del lavoro di variazione di volume compiuto durante la corsa infinitesima del
pistone è pari a pdV. Se tale pdV è sufficientemente ristretto da trascurare la variazione di p, e che
Viv

quindi per tutto il dV sia unico il valore di p, possiamo associare ogni


variazione di dA ad un preciso valore di P. l’area sottesa alla curva,
espressa dall’integrale, è proprio il lavoro compiuto durante tutta la
mia trasformazione. Questo è un lavoro espresso in kJ perché P è in
Pascala e V e in metri cubi. Osserviamo che se è vero, che al variare
delle condizioni al contorno imposte, io posso fare evolvere lo stato
del gas in vari modi dal punto 1 al punto 2, ovvero posso seguire
linee di trasformazione diverse, che dipendono essenzialmente
dalle altre condizioni al contorno, per esempio calore che fluisce
all’interno durante la trasformazione, etc. e quindi evolvere in maniera diversa. Osserviamo che per
il significato grafico appena attribuito concepita come quasi statica, la trasformazione A vede quella
35

sviluppare un’area più elevata rispetto alla trasformazione B e C, e che quindi il lavoro non è solo da
considerarsi come variazione tra gli stati 2 ed 1, ma dipende dal particolare percorso seguito per
andare da 1 a 2: è una funzione di linea. Questa è una delle proprietà più importanti del lavoro di
variazione di volume, perché è quella che rende legittima l’estrazione di lavoro da processi ciclici.

ria
Supponiamo una trasformazione nel cilindro che sia di tipo ciclico,
quindi stato iniziale e finale coincidenti, come quella in figura.
Poniamoci dunque nello stato 1, comprimendo il pistone e
portandomi, lungo il percorso B allo stato due, aumentandone quindi
la pressione. V2 è minore di V1, naturalmente così come P2 è
maggiore di P1. Successivamente dallo stato 2 allo stato 1, favorisco

gne
la trasformazione attraverso una sequenza distinta di stati intermedi,
intervenendo su altri parametri, in modo tale che la mia linea di
trasformazione non sia più uguale alla linea B ma alla linea A. accade che possiamo, della
trasformazione B+A, immaginare una qualitativa scomposizione di due trasformazioni, seguendo
prima la B e poi la A. nell’andare da 1 a 2, calcolando l’area sottesa, faccio l’integrale di pdV. Essendo
dV variazione di proprietà di stato, nell’andare da 1 a 2, ogni dV vede diminuire il volume e quindi
di segno negativo. L’area sottesa alla trasformazione B, è un lavoro inteso negativo e quindi fatto
nge
sul mio sistema dall’ambiente. Stiamo infatti comprimendo il pistone dall’esterno. Invece,
nell’andare da 2 a 1, ogni dV è positivo, quindi i lavori elementari sono positivi, e fatto l’integrale,
l’area sottesa corrisponde al lavoro compiuto dal sistema sull’ambiente. Nella trasformazione B,
assorbe quella quantità di lavoro, nella trasformazione A ci restituisce quel lavoro, quindi il lavoro
totale è banalmente la somma algebrica dei lavori compiuti lungo i vari tratti della trasformazione:
2 1
𝐿𝑡𝑜𝑡 = ∫ 𝑝𝑑𝑉 + ∫ 𝑝𝑑𝑉 = 𝐿𝐴 − 𝐿𝐵 con 𝐿𝐴 > 𝐿𝐵
I
1 2

Il lavoro netto compiuto è proprio uguale in modulo alla zona racchiusa tra le due trasformazioni,
segnata in rosa in figura. Il segno risulta positivo se percorso in senso orario, negativo se percorso
in senso antiorario. Il lavoro estratto dal sistema maggiore dal lavoro compiuto sul sistema nel primo
ere

caso e viceversa nel secondo.


La trasformazione politropica

Si definisce trasformazione politropica una trasformazione lungo la quale la sequenza di stati


termodinamici di equilibrio attraversati dal fluido (o dal sistema) vede valere la seguente relazione:
𝑃𝑉 𝑛 = 𝐶 (𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒)
Viv

Dove P e V sono la pressione ed il volume del fluido. n è un opportuno


numero fisso che chiamiamo esponente o indice della politropica (𝑛 ≥
0). Supponiamo ad esempio che veda il fluido evolvere lungo una
sequenza di stati, la V va cambiando e misuro la P nei passaggi
intermedi. Immaginiamo la trasformazione quasistatica, e colloco i miei
punti nel diagramma. Quindi a variazioni di volume, misuro diverse
pressioni corrispondenti. Ebbene, questa trasformazione, è una
politropica di esponente n se vale:
𝑃𝐴 𝑉𝐴𝑛 = 𝑃𝐵 𝑉𝐵𝑛 = 𝑃𝐶 𝑉𝐶𝑛 = 𝑃𝐷 𝑉𝐷𝑛
36

Chiamiamo politropica una condizione del fluido che rispetti questa condizione. Perché è così
importante la trasformazione politropica? Perché al variare di n vedremo che questo tipo di
trasformazioni permette di rappresentare moltissime trasformazioni che possiamo incontrare.
Chiariamo la valenza che hanno le costanti C ed n in questa espressione. Vogliamo capire qual è il

ria
significato della grandezza C. immaginiamo delle evoluzioni di
un fluido che evolva con medesimi valori di n, quindi con
politropiche di uguale esponente, ma con diversi valori di C.
ipotizziamo di voler considerare tante politropiche con n = 2.
Tracciamo la politropica che il fluido può seguire a partire da
P=100kPa e V=1 metro cubo. Poiché vale l’espressione:

gne
𝑃𝑉 𝑛 = 𝐶
Allora 𝐶 = 100 𝑘𝑃𝑎 ∙ 𝑚3 . Di conseguenza, volendo ipotizzare
una espansione sino a portare il mio fluido a 3 m3 , quanto
varrà la pressione? dalla formula:
𝐶 100
𝑃= 𝑛
= = 11,11 𝑘𝑃𝑎
𝑉 9
nge
Da notare che, anche per unità di misura diverse, il risultato non cambierebbe. L’importanza di C è
solo nel valore numerico, non ha nessun significato fisico. Inoltre, facendo l’operazione per diversi
stati intermedi (volume a 1,5 a 2 a 2,5 etc) posso tracciare la mia curva unendo i valori
corrispondenti. Che succede so ora io voglio una diversa politropica di esponente n = 2 piazzata per
un punto passante per 150 kPa e 3 m3 ? è naturalmente cambiato il valore della costante C adesso
pari a 450 e ripetendo i calcoli troveremo un’altra sequenza di punti. Le curve presentano un
I
andamento qualitativamente simile ma non passano per gli stessi punti. La costante C quindi ha la
seguente valenza: fra tutte le politropiche di un dato indice, che presentano un andamento
qualitativamente simile, ci permette di identificare quella che passa realmente per un dato punto
considerato (stato iniziale o finale del sistema). l’esponente caratterizza l’andamento della
politropica, ma la costante C mi dice che fra tutte le curve che hanno quell’andamento, la politropica
ere

è una sola che passa per un preciso stato.

Per titolare l’effetto di n, andiamo a valutare come varia la


politropica considerando tutte le curve che passano per un preciso
stato P1, V1. Prendiamo vari valori da n, partendo per comodità da
n = 0. Questo vuol dire che V elevato a 0, vale 1 e quindi resta P =
Viv

costante. La linea isobara che passa per P1, è una politropica ad


esponente n = 0. Mettiamoci ora nell’ipotesi che n valga infinito (o
comunque cresca a valori estremamente elevati). Per capire bene
che succede possiamo provare a modificare la relazione elevando
1 1
ambo i membri a 1/n, ottenendo 𝑃 𝑛 𝑉 = 𝐶 𝑛 . notiamo che se n
tende ad infinito P e C tendono a 0. Quindi l’influenza della pressione essendo elevata ad un
esponente piccolissimo, tende a diventare 1*V = cost. P è un numero finito che elevato ad un
numero che tende a zero, ma la stessa cosa non si può dire di C, il cui valore non è finito e neppure
definito. C è il valore che rende la politropica passante per un certo punto, e quando n tende ad
infinito non è che C è un numero che tende alla unità, ma è solo quel parametro che mi identifica la
37

politropica passante per quel valore di V. quindi, se n tende ad infinito, la pressione è ininfluente, e
quindi la mia politropica avrà V = costante.
Andiamo a vedere qualche altro valore notevole. Si può dire che per n = 1, se operiamo ad alti valori
di temperatura, il mio fluido rispetta l’ipotesi di gas perfetto. Infatti,

ria
𝑃𝑉 1 = 𝑃𝑉 = 𝐶
Nell’equazione di stato dei gas perfetti, dire che PV è uguale a costante, considerando che R è
costante, vale a dire che anche T è costante. Quindi n = 1 (solo se il mio fluido si comporta come gas
perfetto), corrisponde T = cost, ovvero una trasformazione isoterma. Se PV = cost, ad un raddoppio
del volume corrisponde un dimezzamento della pressione, e viceversa: è quindi una iperbole

gne
equilatera. Provando con vari valori di n (come nel grafico in alto) si vede come n rappresenta la
rapidità con cui il fluido varia la pressione in relazione al suo volume.
Fra tutte queste politropiche ve ne sono alcune che, associate a un dato valore di n, precisamente
n = k, sono di particolare importanza. k è infatti una costante del gas, che varia solo al variare con la
sua molecola:

 k = 1,6: è la condizione di tutti i gas monoatomici




nge
k = 1,4: è la condizione di tutti i gas biatomici
k = 1,33: è la condizione di tutti i gas con molecole complesse (da triatomiche in su)
per ciascun gas, quale che sia il suo valore di k, capita che, la particolare politropica di esponente n
= k, che quindi risulta poco più pendente rispetto alla isoterma n = 1, ha delle proprietà molto
particolari. Nell’ipotesi ovvia in cui il processo avvenga reversibilmente (trasformazione
quasistatica) è la trasformazione nella quale il gas non scambia calore, quindi evolve
I
adiabaticamente.
Potrebbe capitare di vedere la trasformazione politropica esplicitata in maniera diversa. Talvolta la
domanda può essere posta in questo modo: un gas perfetto si trova ad una data P ed una particolare
T. il fluido evolve con una politropica di 1,2. Quale sarà la temperatura del fluido quando la pressione
ere

si è ridotta? La legge della politropica studiata, non lega pressione e temperatura ma pressione e
volume. Come si può operare se si hanno pressione e temperatura? Siccome abbiamo detto che è
un gas perfetto, vale l’equazione di stato dei gas perfetti, quindi posso ricavare, dallo stato iniziale,
il valore iniziale di V, e da questo calcolare il valore della costante C avendo esponente, pressione e
volume appena calcolato. E posso quindi calcolare V finale, avendo la pressione finale. E sempre
dalla equazione di stato ricavare la temperatura. Vi sono diversi passaggi da fare, ma il problema è
Viv

risolvibile. Vediamo come poter operare affinché si possa arrivare ad una formulazione che ci
permetta di operare immediatamente:
𝑃𝑉 𝑛 = 𝐶
𝑃𝑉 = 𝑚𝑅𝑇
Proviamo a combinarle, cominciando col scrivere:
𝑃𝑉𝑉 𝑛−1 = 𝐶
E sostituisco al gruppo PV l’equazione di stato:
38

𝑚𝑅𝑇𝑉 𝑛−1 = 𝐶
Divido tutto per mR:
𝐶
𝑇𝑉 𝑛−1 = → 𝑇𝑉 𝑛−1 = 𝑐𝑜𝑠𝑡.

ria
𝑚𝑅
Ho quindi trovato una espressione che lega la temperatura e il volume. Posso anche riformularla in
maniera diversa. Dalla equazione di stato dei gas isolo il volume:
𝑃𝑉 𝑛 = 𝐶
𝑚𝑅𝑇

gne
𝑉=
𝑃
Sostituisco nella espressione della politropica:
𝑚𝑅𝑇 𝑛
𝑃( ) =𝐶
𝑃
E con opportuni passaggi matematici ottengo:
nge 𝑛
1−𝑛 √𝐶 1−𝑛
𝑇𝑃 𝑛 = → 𝑇𝑃 𝑛 = 𝑐𝑜𝑠𝑡.
𝑚𝑅
In base alla proprietà che ho a disposizione, posso usare indistintamente una o l’altra espressione
della politropica.
Il lavoro di variazione di volume durante una politropica
Dire che 𝑃𝑉 𝑛 = 𝐶 vuol dire sapere quale valore di P associare al variare di V. è una legge che lega
I
quindi pressione e volume e che ci aiuta a risolvere l’integrale del lavoro associato alla variazione di
volume. Proviamo semplicemente a ricavare P dalla espressione e sostituirla nell’integrale:
𝑃 = 𝐶𝑉 −𝑛
ere

2 1
−𝑛
𝑉2−𝑛+1 − 𝑉1−𝑛+1
𝐿𝑣 = ∫ 𝑝𝑑𝑉 = ∫ 𝐶𝑉 𝑑𝑉 = 𝐶
1 2 −𝑛 + 1
Ma poiché dalla espressione della politropica, risulta che
𝑃1 𝑉1𝑛 = 𝑃2 𝑉2𝑛 = 𝐶
Posso scrivere:
Viv

𝑃2 𝑉2 − 𝑃1 𝑉1
𝐿𝑣 =
1−𝑛
Risulta chiaro che questa espressione non è definita per n = 1. Nel caso particolare di n = 1, il lavoro
di variazione di volume diventa
2 1
𝑉2
𝐿𝑣 = ∫ 𝑝𝑑𝑉 = ∫ 𝐶𝑉 −𝑛 𝑑𝑉 = 𝑃𝑉𝑙𝑛
1 2 𝑉1
39

21/03/2018
Primo principio della termodinamica per sistemi chiusi
Abbiamo dato una prima formulazione dicendo che tutta l’energia entrante nel mio sistema, meno

ria
tutta l’energia uscente dal mio sistema deve essere accumulata dal sistema stesso e quindi intesa
come variazione dell’energia del mio sistema. tale formulazione è stata espressa in tre diversi modi,
che possono risultarci diversamente utili a seconda del caso alle quali le stiamo applicando. In
particolare possiamo esprimerla in termini di derivate temporali:
𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
𝐸𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 − 𝐸𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 =
𝑑𝑡

gne
Che può risultare molto utili nei sistemi aperti. Molto più importante per sistemi chiusi è più utile
riferire l’equazione in termini specifici. Ovvero:
𝑒𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 − 𝑒𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 = Δ𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
La terza formulazione che ci servirà per seguire in itinere i processi di scambio energetico, è quella
relativa ad una trasformazione di tipo infinitesimi, ovvero quando immaginiamo una piccolissima
quantità in esame.
nge
𝛿𝐸𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 − 𝛿𝐸𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 = 𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
Abbiamo altresì riscontrato, in casi specifici (esempi di pagina 13) che in assenza o di calore o di
lavoro, la formulazione del primo principio come variazione di qualsiasi forma di energia assumeva
una forma ben precisa. In particolare (seguendo la convenzione dei segni) per processi in cui non
avvenivano scambi di lavoro avevamo:
I
𝑄 = Δ𝐸 = 𝐸2 − 𝐸1
E nei processi dove invece non avvenivano scambi di calore, avevamo:
−𝐿 = Δ𝐸 = 𝐸2 − 𝐸1
ere

Quando per un sistema generico, non sia inibita nessuna delle due modalità di scambio energetico,
e quindi sussistano scambi sia di calore che di lavoro, allora in questo caso il primo principio assume
la formulazione generale:
𝑄 − 𝐿 = Δ𝐸
Come visto sopra, poiché si può tutto esprimere in termini infinitesimi, allora posso scrivere
Viv

𝛿𝑄 − 𝛿𝐿 = d𝐸
Accadrà che quando un sistema vedrà una intera evoluzione tra stati
iniziali e finali con interazioni finite in termini di scambio energetico con
l’ambiente, anche il suo stato termodinamico cambia. Abbiamo già visto
come una data trasformazione, per esempio ciclica sul piano P-V, possa
essere associata a una seria di stati gradualmente percorsi dal mio sistema
ed al contempo di interazioni di tipo energetico. In ogni trattino di questa
curva vi era un lavoro scambiato dato dalla variazione di volume, dato
dall’areola sottesa al trattino della linea di trasformazione. Abbiamo altresì
40

osservato che in alcuni tratti di questo ciclo, alcuni tratti il lavoro risulta positivo, in altri tratti
negativo.
NOTA (domanda e precisazione): calore e lavoro, abbiamo detto essere funzioni di linea e non di
stato. Quando sono presenti entrambi, scriviamo che la loro somma (comprensiva dei segni) è pari

ria
alla variazione di energia, e che l’energia è funzione di stato. Tuttavia notiamo proprio che, per un
preciso stato energetico, abbiamo infinite combinazioni di lavoro e calore che possono portare allo
stesso risultato. 10 kJ possono essere ottenuti come 100-90, 80-70, 5+5, etc. calore e lavoro
diventano funzioni di stato solo quando una delle due è assente. Allora l’intera variazione di energia,
che è funzione di stato, è associata o solo alla variazione di calore o solo alla variazione di lavoro.
Solo in questi termini è possibile pensare calore e lavoro come funzione di stato. In generale restano

gne
intesi come funzioni di linea.
Ritorniamo alla nostra relazione in termini infinitesimi
𝛿𝑄 − 𝛿𝐿 = d𝐸
Lungo il ciclo, abbiamo visto che nge 𝐿 = ∮ 𝛿𝐿

E lungo tutto il ciclo il lavoro è non nullo (proprio perché è funzione di linea), derivante dalla
sommatoria di tutti i lavori infinitesimi (positivi e negativi). E lo stesso accade (anche se non lo
possiamo vedere nel piano P-V) con il calore

𝑄 = ∮ 𝛿𝑄
I
In cui il totale del calore scambiato, esattamente come per il lavoro, è sommatoria di tutti gli
infinitesimi di calore scambiati lungo il ciclo.
Questa relazione va riletta in termini di lavoro netto e calore scambiato netto, ovvero il saldo finale,
ere

positivo o negativo derivante dalla sommatoria di termini infinitesimi. Cosa accade per un ciclo
chiuso? Per le trasformazioni cicliche, poiché il punto 1 ed il punto 2 sono coincidenti, non può che
valere
Δ𝐸 = 𝐸2 − 𝐸1 = 0
Perché stato iniziale e stato finale coincidono. Allora per un tale ciclo, vale
Viv

𝐿𝑛𝑒𝑡𝑡𝑜 = 𝑄𝑛𝑒𝑡𝑡𝑜
Quindi solo sulla base di un intero ciclo io riesco a dire che, se sul piano P-V identifico un valore
numerico di L, allora questo sarà numericamente pari a Q. E quindi se positivo è il lavoro compiuto
dal sistema, il calore sarà anch’esso positivo in modulo.
Quello che stiamo scrivendo, vale per sistemi chiusi (senza passaggio di massa). Possiamo assumere
per questi sistemi, considerati statici o non dinamici la trascurabilità dei contenuti di energia cinetica
e potenziale. Potremo quindi scrivere
→0 →0
𝑄 − 𝐿 = Δ𝐸 = Δ𝑈 + Δ𝐸𝑐𝑖𝑛 + Δ𝐸𝑝𝑜𝑡 ⇒ 𝑄 − 𝐿 = Δ𝑈 = 𝑈2 − 𝑈1
41

Tale relazione va sempre ricordata come la formulazione del primo principio della termodinamica
per sistemi chiusi.
Calore specifico di una sostanza

ria
DEF: Quantità di energia richiesta per innalzare di un grado, indifferentemente °C o K (poiché hanno
stessa ampiezza di scala), dell’unità di massa della sostanza
𝑘𝐽 𝑘𝐽
𝑐=[ ] oppure [ ]
𝑘𝑔𝐾 𝑘𝑔°𝐶
Nell’innalzare di un grado la temperatura del sistema, essendo calore e lavoro funzioni di linea, io

gne
posso scegliere percorsi differenti per poter fare questa operazione. Ragion per cui non esiste un
solo calore specifico, ma infiniti calori specifici per ogni sostanza. Ed è per questo necessario
specificare il calore specifico riferendolo ad una particolare tipologia di trasformazione.
Immaginiamo una quantità di materia, 1 kg, chiusa dentro un recipiente rigido, un gas ad esempio,
e V=cost. fornisco energia dall’esterno e mi chiedo, quanta energia devo fornire affinché la T
aumenti di un grado? Misuro questa quantità e chiamo questa quantità calore specifico a volume
costante (perché il volume è confinato in un contenitore rigido). Conduciamo una seconda
nge
esperienza mettendo il solito kg di sostanza in un contenitore rigido ma con un pistone mobile,
lasciandolo libero di scorrere. Succederà che il processo sarà isobaro. Queste due quantità di calore,
se misurate, si presentano più piccola quella per il riscaldamento a volume costante e più grande
quella a pressione costante. Ci vorrà quindi più energia per riscaldare a pressione costante.
L’interpretazione fisica di questo, deriva dal fatto che quando io trasferisco calore ad un fluido che
lavora a P costante, il fluido si espande. Quindi l’energia che io fornisco serve non solo per innalzare
la temperatura ma anche per far compiere lavoro verso l’esterno al fluido.
I
Riepilogando:

 𝑐𝑝 : quando la trasformazione avviene a pressione costante


 𝑐𝑣 : quando la trasformazione avviene a volume costante
ere

Solitamente 𝑐𝑝 > 𝑐𝑣

Vediamo ora una trattazione analitica, partendo dalla formulazione del primo principio come:
𝛿𝑒𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 − 𝛿𝑒𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 = 𝑑𝑢
Cominciamo a vedere la trasformazione isocora.
Viv

In questo caso, ci sono termini nulli? L’energia uscente risulta zero, perché tutta la mia energia
entrante contribuisce alla variazione della energia interna. In un tratto infinitesimo della mia
trasformazione, io ho una certa quantità di energia entrante, che contribuirà a variare la
temperatura di un certo dT. Allora se il calore specifico a volume costante, l’abbiamo definito come
tutta l’energia da fornire diviso il delta T pari ad un grado di escursione termica, a livello infinitesimo,
la variazione sarà sempre la stessa (ovvero, se voglio innalzarla di 1 grado, ci vorranno 10, 2 gradi
20j, 3 gradi 30j etc). è chiara quindi la relazione
𝑐𝑣 𝑑𝑇 = 𝑑𝑢
Ricavando il calore specifico diremo
42

𝑑𝑢
𝑐𝑣 =
𝑑𝑇
Immaginiamo la nostra campana T-v. Cosa è il Cv per il fluido in esame? Abbiamo detto che volendo
innalzare la T di un grado, lungo la verticale, perché a volume costante, la quantità di energia fornita

ria
è proprio Cv. Se io scrivessi banalmente
𝑑𝑢
𝑐𝑣 =
𝑑𝑇
Dove il du è una infinitesima variazione di energia interna e dT una infinitesima, isolando questo
rapporto, non ho nessuna informazione sul tipo di trasformazione che sto seguendo. Quindi la prima

gne
cosa da fare è esplicitare in qualche modo che stiamo operando a volume costante. Ma è altresì
giusto scrivere questo rapporto così come lo abbiamo scritto? In questo modo è scritto in termini di
differenziali totali, e ci dice solo che, quale che sia il valore di energia iniziale e finale, e il valore della
temperatura iniziale e finale, il rapporto delle differenze dei rispettivi stati è pari al Cv. L’energia
interna non può che essere funzione dello stato termodinamico, e in quanto tale, come già spiegato
in precedenza, non può che dipendere da due parametri intensivi indipendenti. Come si esprimerà
il du in termini di T e v? dalla analisi, la variazione di u=f(T,v) si scrive:
nge
𝑑𝑢 = (
𝜕𝑢 𝜕𝑢
) 𝑑𝑇 + ( ) 𝑑𝑣
𝜕𝑇 𝑣 𝜕𝑣 𝑇
Il fatto che, u dipenda simultaneamente da più parametri, ci obbliga a calcolare la variazione di u
come differenziali parziali moltiplicati per differenziali totali. Il secondo termine però, considerando
una isocora, vale zero. E quindi solo nell’isocora
I
𝜕𝑢
𝑐𝑣 = ( )
𝜕𝑇 𝑣
Quando la varianza è unitaria perché sono in zona di cambiamento di fase, abbiamo notato che
finché il fluido non vaporizza tutto, non cambia la sua temperatura. Allora un fluido bifasico, è per
definizione un fluido che non cambia la sua temperatura, e di conseguenza, non esiste un calore
ere

specifico (sempre per definizione). Solo i fluidi all’esterno della campana posseggono un calore
specifico.
Vediamo ora il calore specifico a pressione costante
Vale sempre la relazione
Viv

𝛿𝑒𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 − 𝛿𝑒𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 = 𝑑𝑢
Ma a differenza del calore specifico a volume costante, l’energia uscente è il lavoro che il pistone
compie verso l’ambiente. Quindi sarà
𝛿𝑒𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 = 𝑑𝑢 + 𝑝𝑑𝑉
Stiamo seguendo un processo a pressione costante. Se a questa relazione aggiungo a secondo
membro Vdp, sto aggiungendo un termine nulla, in quanto dp = 0. Scriverò quindi:
𝛿𝑒𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 = 𝑑𝑢 + 𝑝𝑑𝑉 + 𝑉𝑑𝑝
43

Lo aggiungo per poter semplificare l’espressione finale. In questo modo infatti, aggiungendo quel
binomio, non faccio altro che dire che:
𝑑 (𝑝𝑉 ) = 𝑝𝑑𝑉 + 𝑉𝑑𝑝

ria
e tornando alla espressione di prima
𝛿𝑒𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 = 𝑑𝑢 + 𝑑(𝑝𝑉)
Posso raccogliere i differenziali
𝛿𝑒𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 = 𝑑(𝑢 + 𝑝𝑉)

gne
Ma u + pV è quello che avevamo definito entalpia specifica h. posso quindi scrivere:
𝛿𝑒𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 = 𝑑ℎ
E quindi la scrittura più corretta del calore specifico a pressione costante risulta essere
𝜕ℎ
𝑐𝑝 = ( )
nge 𝜕𝑇 𝑝

Esempio: se conosco il valore di Cp di un particolare stato termodinamico di un fluido nello stato di


vapore surriscaldato, come potrei trovare l’entalpia di un altro stato termodinamico che si trova
sulla stessa isobara ma ad un diverso livello di temperatura nota? Supponiamo di chiamare i due
stati A e B. dalla relazione precedentemente trovata, avrò che:
𝑐𝑝 (𝑇𝐵 − 𝑇𝐴 ) = ℎ𝐵 − ℎ𝐴

E posso isolare il valore di ℎ𝐵 e calcolarlo agevolmente, ipotizzando però che il valore del calore
I
specifico rimanga costante nel salto termico. Per capire sino a che punto cambia il valore di calore
specifico per dato scarto termico, proviamo ora ad utilizzare la relazione appena scritta, non per
calcolare il valore di entalpia ma il calore specifico noti due ben precisi stati termodinamici su un
intervallo di temperatura però più ampio dell’esempio precedente.
ere

ℎ2 − ℎ1
𝑐𝑝 =
𝑇2 − 𝑇1
Quello che trovo è che il calore specifico medio che corrisponde a questo salto entalpico diviso
questo salto di temperatura non è tanto dissimile dal valore che trovo tra altri valori di entalpia e di
temperatura che presentano scarti ancora maggiori. Questo perché pur aumentando lo scarto
entalpico, a quello stesso stato corrisponde anche un maggior scarto termico, mantenendo il calore
Viv

specifico a valori abbastanza costanti (non possono essere perfettamente costanti, ma in prima
approssimazione li consideriamo accettabili)
L’energia interna, l’entalpia e i calori specifici dei gas ideali: l’esperienza di Joule
Analizziamo prima di tutto l’esperienza di joule per poi analizzare le conclusioni tratte dalle evidenze
sperimentali. Joule approntò una camera realizzata in questo modo: c’è una camera contente un
bagno d’acqua rappresentato in rosa. All’interno del bagno d’acqua è inserita una coppia di ampolle
caratterizzate da pareti rigide e le ampolle sono separate da una valvola che può sezionare i due
volumi o renderli comunicanti tramite la sua apertura. La camera è circondata da questo strato
grigio che è da concepire come perfetto isolamento termico. Il sistema sarà nel complesso
44

adiabatico perché l’acqua non può scambiare calore con


l’esterno. Nella camera è infine inserito un termometro. Prima di
cominciare l’esperienza è collocata nella ampolla di sinistra una
quantità di gas relativamente pressurizzato ma non poi così tanto

ria
da avvicinarlo alla zona di saturazione, per valutare che esso si
comporterà come gas perfetto. Nella seconda ampolla è
praticato il vuoto. Suddividiamo l’esperienza in passaggi:

1. Realizzato l’impianto come appena descritto, si attende


l’equilibrio termico tra tutte le componenti. Atteso il
tempo necessario, joule legge la temperatura segnata sul

gne
termometro.
2. A questo punto, agisce sulla valvola, comandabile dall’esterno, aprendola, permettendo al
fluido di occupare tutto il volume disponibile
3. Attende nuovamente che il sistema raggiunga l’equilibrio termico prima di misurare
nuovamente la temperatura. Nuovamente joule rileva la temperatura
Il risultato fu che la temperatura dall’acqua prima, era identico a quello dell’acqua dopo. L’acqua
nge
non si era né raffreddata né riscaldata.
Traiamo delle conclusioni:
1. Se l’acqua non ha cambiato temperatura, vuol dire che non ha scambiato calore. L’acqua ha
un suo calore specifico a volume costante, quindi se non ha cambiato temperatura, non ha
neppure scambiato calore. Con chi avrebbe potuto scambiare calore l’acqua? In teoria
l’unico oggetto con cui avrebbe potuto scambiarlo è proprio l’ampolla. E se la temperatura
I
è rimasta invariata allora nemmeno il gas nelle ampolle ha scambiato calore. Quindi
possiamo dire che Q del gas è pari a zero anch’esso.
2. Inoltre, il gas, compie lavoro? Il gas si è espanso, quindi ha avuto dei dV sicuramente positivi
invadendo l’ampolla vuota. Solo che il gas si è espanso osservando sì dei dV ma agendo su
una pressione nulla (incontrando il vuoto). Il lavoro si compie sulla frontiera che avanza,
ere

ovvero verso l’ampolla in cui si era praticato il vuoto, ovvero verso il vuoto. Viene chiamata
espansione libera, e quindi non compiendo lavoro. Risulta anche che L del gas è pari a zero
Se scriviamo allora, per il solo gas, il primo principio della termodinamica, ne deriva subito che la
variazione della energia interna è pari a zero. Possiamo essere certi del fatto che l’espansione libera
del gas non ha prodotto nessuna variazione di energia interna.
Viv

Andiamo alle proprietà fisiche. Il volume è certamente cambiato. La pressione è certamente


cambiata, fattore deducibile dal fatto che la temperatura non è cambiata. Quindi la variazione di
volume deve essere “compensata” dalla variazione di pressione: il volume è aumentato, e la
pressione è diminuita. È cambiata P, è cambiato V, ma non sono cambiate T, e U.
Si deduce che la energia interna è funzione della temperatura. Questa risposta è chiaramente
corretta, ma facciamo un ulteriore passo avanti: noi sappiamo che il sistema essendo bivariante ha
bisogno di due parametri indipendenti per definirne lo stato. Se io decido di utilizzare i parametri di
pressione e volume per definire lo stato del mio sistema allora dirò:
45

𝑝2 < 𝑝1
𝑣2 > 𝑣1
È chiarissimo che lo stato termodinamico del mio sistema è cambiato, ciò è inequivocabile.

ria
Ora, ipotizzo di assumere come parametri indipendenti per identificare il mio stato termodinamico
la temperatura e l’energia interna. Ebbene, sia prima che dopo, io ritrovo gli stessi valori di
temperatura ed energia interna. E se due parametri indipendenti non cambiano tra due stati
termodinamici, vuol dire che il mio stato non è cambiato. Come è possibile che pressione e volume
hanno identificato un cambiamento e temperatura ed energia interna no? Semplicemente perché
temperatura ed energia interna non sono indipendenti come avevamo supposto. Posso quindi

gne
permettermi di scrivere:
𝑢 = 𝑢(𝑇)
Che l’energia interna è funzione solo della temperatura. Inoltre possiamo dire che anche l’entalpia
è funzione solo della temperatura. Infatti
ℎ = 𝑢 + 𝑝𝑣

Sostituendo
nge 𝑝𝑣 = 𝑅𝑇

ℎ = 𝑢 + 𝑅𝑇
è chiaro che anche l’entalpia dipende solo dalla temperatura.
ℎ = ℎ(𝑇)
I
22/03/2018 – Mattina di recupero
Se ad esempio sul piano P-v guardiamo ciò che accade nella zona in cui il fluido approssima il
comportamento di gas perfetto e ci chiedessimo: dei punti posizionati in una data isoterma, e punti
ere

posizionati in un’altra isoterma, come vedono l’uno rispetto all’altro variare l’entalpia o l’energia
interna? Scopriamo da questa dipendenza dalla temperatura che punti che giacciono su una stessa
isoterma hanno stesso entalpia ed energia interna. Pertanto, nel campo del vapore fortemente
surriscaldato, quando il gas approssima il comportamento di gas perfetto, l’andamento delle linee
isoentalpiche e isoenergia interna cioè le linee ad h costante e a u costante sono linee anche a T
costante, orizzontali sul piano P-v. quali conseguenze ha dal punto di vista analitico l’esperienza di
Viv

joule? Abbiamo espresso:


𝜕𝑢
𝑐𝑣 = ( )
𝜕𝑇 𝑣
𝜕ℎ
𝑐𝑝 = ( )
𝜕𝑇 𝑝

In termini di derivate parziali perché essendo h e u funzioni di stato dipendono da una coppia di
parametri. Se noi studiamo la funzione della energia interna come u = u(T,v) ci accorgiamo che tutti
questi punti (presi sulla isoterma nel campo dei gas ideali) hanno medesima T ma v diversa. Allora
la u ha smesso di essere funzione anche del volume. Similmente, punti a medesima temperatura ma
46

su isobare diverse hanno perso la dipendenza di u da p. Il fatto che cessa la dipendenza da un


numero di parametri indipendente tale da identificare uno stato termodinamico ed invece diventa
esclusiva la dipendenza della energia interna dalla temperatura, fa sì che possiamo, solo in questo
caso, solo per i gas perfetti, esprimere il calore specifico a volume e pressione costante senza

ria
precisare la linea di trasformazione che stiamo seguendo. Andare da una isoterma all’altra, lungo
qualsiasi percorso vede sempre il medesimo du/dT, indipendentemente dalla trasformazione
seguita.

NOTA: domanda di precisazione: u dipende dalla temperatura solo ed esclusivamente nei gas
perfetti. Vedremo che negli altri casi energia interna ed entalpia non sono affatto isoterme.

gne
Detto questo, possiamo adesso esprimere:
𝑑𝑢
𝑐𝑣 =
𝑑𝑇
𝑑ℎ
𝑐𝑝 =
𝑑𝑇
Ora possiamo, per un gas perfetto, scrivere che la differenza di energia interna tra 1 e 2, non può
nge
che essere la somma delle variazioni elementari dell’energia interna. Non facciamo nessun
riferimento del percorso seguito e possiamo scrivere:
2
Δ𝑢 = 𝑢2 − 𝑢1 = ∫ 𝑐𝑣 (𝑇)𝑑𝑇 [𝑘𝐽/𝑘𝑔]
1

Perché scriviamo 𝑐𝑣 (𝑇)? L’esperienza di joule ci ha detto che u è solamente legato a T e che il
parametro di proporzionalità è il calore specifico. Ma se anche il calore specifico dipende solo da T,
I
ancora viene rispettato il risultato dell’esperienza di joule, perché non possiamo di certo dire che 𝑐𝑣
sia una costante ma che dipende dalla temperatura.
NOTA: domanda di precisazione: scrivendo la relazione in questo modo, stiamo esprimendo la
dipendenza della variazione di energia interna dalla temperatura attraverso un parametro di
ere

proporzionalità, che è il calore specifico a volume costante anch’esso dipendente dalla temperatura,
lungo qualsiasi percorso. Vuol dire che la variazione di energia interna, è legata alla variazione di
temperatura persino lungo una isobara sempre dal parametro 𝑐𝑣 . Questa relazione è solo un legame
costitutivo della materia operante nel caso di gas ideale.
Similmente, per l’entalpia
Viv

2
Δℎ = ℎ2 − ℎ1 = ∫ 𝑐𝑝 (𝑇)𝑑𝑇 [𝑘𝐽/𝑘𝑔]
1

Abbiamo piena capacità a questo punto, per un gas perfetto, di calcolare la variazione di energia
interna (o entalpia) tra due stati. Ma i valori assoluti, li possiamo calcolare? Ebbene no. I valori
dell’energia interna e dell’entalpia sono definiti da questa legge solo per differenza. A una
assegnazione di valori numerici di u ed h a diversi stati, si procederà fissando convenzionalmente
un dato valore di energia interna ad un preciso stato termodinamico e si procederà alla
identificazione degli altri valori per differenza. Quindi l’approccio seguito è:
47

𝑠𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑖
𝑢𝑠𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑖 = 𝑢0 + ∫ 𝑐𝑣 (𝑇)𝑑𝑇
0

Ovvero, un generico stato i dato come somma del valore di un convenzionale stato u con 0 + la
sommatoria degli infinitesimi valori di stato calcolati tra 0 e il generico stato i.

ria
Per i gas ideali si è soliti assumere come stato 0, la condizione di temperatura pari allo zero assoluto,
e si è soliti assegnare a questo stato il valore di 0 kJ/kg. Questo valore è assegnato in questo modo
per una questione anche di pratica utilizzabilità. Se assumiamo che l’energia interna è un qualcosa
che vuole esprimere tutti quei contributi microscopici di energia, è chiaro che allo zero assoluto,
l’agitazione molecolare è nulla. Allora ha senso dire che allo zero assoluto, se mai ci potessimo

gne
arrivare, convenzionalmente si assume il valore di energia interna pari a 0. Questo in teoria, perché
vengono anche trascurate eventuali componenti di energia chimica, etc.
In realtà, seppur fissato convenzionalmente il valore di energia interna in uno stato di riferimento,
non è del tutto arbitraria la scelta dei valori di riferimento dell’entalpia. E lo vediamo perché ad
esempio, allo zero assoluto poiché stiamo assumendo il comportamento come gas perfetto,
abbiamo mRT = 0 (non c’è pressione, non si muovono, non esercitano forza). Siccome h è definita
nge
localmente come u + pv che vale 0. Quindi non possiamo non assumere h = 0 allo zero assoluto. Fra
sostanza e sostanza, siamo liberi di avere stati diversi di riferimento. Infatti per l’acqua le cose
cambiano sostanzialmente.
Molto spesso su intervalli di temperatura relativamente ampi, sarà lecito, più o meno, accettare la
medesima relazione in questi termini:
𝑢2 − 𝑢1 = 𝑐𝑣,𝑚𝑒𝑑 (𝑇2 − 𝑇1 ) [𝑘𝐽/𝑘𝑔]
I
ℎ2 − ℎ1 = 𝑐𝑝,𝑚𝑒𝑑 (𝑇2 − 𝑇1 ) [𝑘𝐽/𝑘𝑔]

Questo perché, pur se localmente il calore specifico cambia un pò, ha


senso su certi intervalli di temperatura ragionare in questo modo. È
vero che il calore specifico varia, ma varia di poco su elevatissimi salti
ere

termici. Per salti contenuti, lo si può valutare pressoché costante.


Deriviamo ora per un gas perfetto una relazione analitica tra i calori
specifici. Essendo h = u + pv, e pv = RT, si può ottenere differenziando
la relazione:
𝑑ℎ = 𝑑𝑢 + 𝑅𝑑𝑇
Viv

Sostituendo poi
𝑑ℎ = 𝑐𝑝 𝑑𝑇

𝑑𝑢 = 𝑐𝑣 𝑑𝑇
E dividendo l’espressione per dT, si ottiene
𝑐𝑝 = 𝑐𝑣 + 𝑅

Questa relazione è nota come relazione di Mayer. La differenza dei calori specifici eguaglia la
costante universale dei gas. Se vogliamo elaborare questa relazione e definire un parametro k anche
48

questo costante del gas, dato dal rapporto dei calori specifici, e che rappresenta quella costante k
di quando abbiamo studiato la politropica.
𝑐𝑝
𝑘=
𝑐𝑣

ria
Ne deriva che posso scrivere:
𝑘𝑐𝑣 − 𝑐𝑣 = 𝑅
𝑅
𝑐𝑣 =
𝑘−1

gne
E similmente
𝑐𝑝
𝑐𝑝 − =𝑅
𝑘
𝑘
𝑐𝑝 = 𝑅
𝑘−1
Perché è importante? Nell’ipotesi in cui sia perfettamente vero tutto ciò che abbiamo detto, e quindi
nge
il mio fluido si comporti come gas perfetto, abbia un valore k costante, abbia una costante R noto il
peso molecolare, da questa relazione, sapendo se il gas è poliatomico, monoatomico o biatomico e
posso calcolare agevolmente entrambi i calori specifici.
NOTA: domanda di precisazione: da queste relazioni sembra che i calori specifici non dipendano più
dalla temperatura. Questo è vero, solo se il comportamento del fluido fosse perfettamente lo stesso
di quello di un gas ideale. Ma tale modello, è una mera astrazione. In realtà nessun fluido può
I
comportarsi in maniera esatta come un gas perfetto. Il comportamento di un gas reale, anche se si
comporta come gas perfetto, ha invece minime variazione. Tuttavia l’errore che si commette non è
poi così elevato.
Un cenno sulla teoria cinetica dei gas: qual è l’origine del valore di k?
ere

Si osserva che i calori specifici, le relazioni fra essi, dipendono essenzialmente dalle modalità con le
quali la singola molecola, può assumere energia cinetica. Oltre a quella relativa alla traslazione del
suo baricentro, vi sono i moti connessi attorno al baricentro stesso. Quello che si va a studiare con
la teoria cinetica dei gas è la forma della molecola ed i gradi di libertà che la forma della molecola
offre.


Viv

Una molecola monoatomica è assimilabile ad un punto, quindi abbiamo 3 gdl per identificare
la sua posizione nello spazio.
 Una molecola biatomica è assimilabile a due punti materiali a distanza costante, e quindi
sono richiesti 5 gdl.
 Una molecola poliatomica può muoversi liberamente nello spazio e quindi possiede 6 gdl.
Considerando i gradi di liberti pari a 𝜆, si dimostra che:
𝑅 𝑅 𝜆+2
𝑐𝑣 = 𝜆 e 𝑐𝑝 = (𝜆 + 2) → 𝑘=
2 2 𝜆
Deriviamo così alcune relazioni relative ai gas monoatomici, biatomici e poliatomici:
49

3 5 5
𝑐𝑣 = 𝑅 𝑚𝑜𝑛𝑜𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝑐𝑜 𝑐𝑝 = 𝑅 𝑚𝑜𝑛𝑜𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝑐𝑜 𝑘= = 1,67 𝑚𝑜𝑛𝑜𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝑐𝑜
2 2 3
5 7 7
𝑐𝑣 = 𝑅 𝑏𝑖𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝑐𝑜 𝑐𝑝 = 𝑅 𝑏𝑖𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝑐𝑜 𝑘 = = 1,4 𝑏𝑖𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝑐𝑜
2 2 5
6 8 8

ria
{ 𝑐𝑣 = 𝑅 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝑐𝑜 { 𝑐𝑝 = 𝑅 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝑐𝑜 { 𝑘 = = 1,33 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝑐𝑜
2 2 6
I gas reali, quanto bene approssimano questi valori? Sono qui riportati alcuni esempi di gas comuni
a temperatura più o meno quello dell’ambiente. I seguenti risultati sono sperimentali:
300 𝐾 300 𝐾
𝑘𝑎𝑟𝑖𝑎 = 1,401; 𝑘𝐶𝑂2
= 1,314; 𝑘𝑂300
2
𝐾
= 1,398; 𝑘𝑁300
2
𝐾 300 𝐾
= 1,400; 𝑘𝐴𝑟𝑔𝑜𝑛 = 1,667

gne
Come si può notare, i valori sono estremamente prossimi a quelli sperimentali.
Esaminiamo quello che accade a solidi e liquidi
Sono sostanze fondamentalmente incomprimibili. Dalla curva limite inferiore ne avevamo evidenza.
Ciò comporta che qualsiasi trasformazione che noi applichiamo al solido e/o al liquido, la
trasformazione che lo interessa è sostanzialmente isocora, non tende a cambiare il suo volume.
Quindi posso dedurne che
nge 𝑐𝑣 = 𝑐𝑝 = 𝑐

Per solidi e liquidi il valore di calore specifico è uno solo, e possiamo trattarlo senza pedici. E proprio
perché altri parametri non contribuiscono a cambiare lo stato termodinamico del sistema, tutto ciò
che cambia in una sostanza in termini di energia interna o entalpia, non è in questo caso da scrivere
in termini di dipendenza da v o da p.
I
Per questo motivo non ci è utile ricorrere alle tabelle delle proprietà di stato del liquido
sottoraffreddato, perché i valori sono pressoché identici a quelli del liquido saturo in incipiente stato
di vaporizzazione. Solo l’entalpia osserva delle variazioni ma solo in presenza di salti di pressioni
enormi. Possiamo quindi per un solido dire che:
2
ere

Δu = 𝑢2 − 𝑢1 = ∫ 𝑐 (𝑇)𝑑𝑇 [𝑘𝐽/𝑘𝑔]
1
2
Δh = ℎ2 − ℎ1 = ∫ 𝑐 (𝑇)𝑑𝑇 [𝑘𝐽/𝑘𝑔]
1

In pratica, in prima approssimazione, la variazione di entalpia diventa numericamente uguale alla


Viv

variazione dell’energia interna. Su un intervallo sufficientemente contenuto di temperatura, spesso


rinunciamo a seguire le minime variazioni di calore specifico. Se devo riscaldare qualcosa da 30 a 90
gradi, il calore specifico lungo questi 60 gradi non cambia. Quindi non ricorrerò all’integrale ma ad
un valore di calore specifico medio
𝑢2 − 𝑢1 = 𝑐𝑚𝑒𝑑 (𝑇2 − 𝑇1 ) [𝑘𝐽/𝑘𝑔]
ℎ2 − ℎ1 = 𝑐𝑚𝑒𝑑 (𝑇2 − 𝑇1 ) [𝑘𝐽/𝑘𝑔]

Ancora una volta l’energia interna e l’entalpia vengono viste in termini di differenze e vale ciò che
abbiamo detto in precedenza per i gas. L’approssimazione appena esplicitata, non ci va sempre
bene. Se differenziamo il dh, esso è il differenziale del secondo membro, ovvero:
50

𝑑ℎ = 𝑑𝑢 + 𝑣𝑑𝑝 + 𝑝𝑑𝑣 →0 = 𝑑𝑢 + 𝑣𝑑𝑝


Nel caso dei solidi, il termine 𝑣d𝑝 è trascurabile, perché la densità è molto più alta rispetto a quello
dei gas e quindi i volumi specifici sono estremamente piccoli, anche per notevoli valori di variazioni
di pressione. Questa cosa entra un po in crisi quando le trasformazioni coinvolgono enormi

ria
variazioni di pressione. Con questi salti enormi di pressione trascurare questo valore diventa un
errore.
Integrando si ottiene
Δℎ = Δ𝑢 + 𝑣Δ𝑝 = 𝑐𝑚𝑒𝑑 Δ𝑇 + 𝑣Δ𝑝

gne
Per l’acqua noi ci troveremo a seguire processi di due tipi:

 Trasformazioni a pressione costante: quindi l’ultimo termine è rigorosamente zero, e quindi


la variazione di h e di u sono assolutamente uguali. Da ricordare c dell’acqua liquida, da non
dimenticare mai 4,186 kJ/kgK.
 Trasformazioni a pressione fortemente variabile

Ma l’acqua sottoposta a notevole pressione, aumenta la temperatura? No, perché essendo liquido
nge
incomprimibile, lavoro non se ne fa e poiché calore non ne è stato scambiato, allora la sua
temperatura non può aumentare, non variando la sua energia interna.
Tuttavia, la temperatura non è che non cambia, un minimo sì, ed un minimo il
volume cambia. Quindi è concettualmente errato considerare il processo
isotermico. La rappresentazione più corretta non è quella che va dal punto A al
punto C, ma quella che va dal punto A al punto B. la differenza sembra tanta ma
I
non lo è, perché la scala nella curva limite inferiore li porta estremamente vicini.
Tramite uno dei simulatori, si è presa acqua nello stato A di liquido saturo ed
abbiamo imposto di simulare ciò che accade in una pompa imponendo una nuova
pressione di 2000kPa, circa 500 volte più alta dello
stato iniziale. Imponendo l’isoentropicità, trovo che
ere

non viene definito il titolo, perché lo stato B viene a


finire nel campo di liquido sottoraffreddato. Il volume
cambia molto poco, così come la temperatura.
L’entalpia ha subito una variazione di 2,08 kJ circa. Da
dove nasce questa variazione? La variazione di entalpia
deve valere
Viv

Δℎ = 𝑐𝑚𝑒𝑑 Δ𝑇 + 𝑣Δ𝑝
In figura sono riportati i due contributi. La quasi totalità di entropia riscontrata è attribuibile non
alla energia interna, dato che il salto termico è piccolissimo, ma piuttosto alla variazione di
pressione. è quindi un errore trascurare il termine vdp nei processi in cui sono coinvolti grossi salti
di pressione. trascurare questo termine quando non lo si può trascurare è un errore che influenza
negativamente il rendimento, sbagliando l’efficienza della macchina.
51

In realtà questo h dello stato B che abbiamo trovato, non è troppo dissimile dall’h dello stato C
segnato nella figura cerchiata in blu. Quindi nell’andare dal punto B al punto C, l’entalpia cambia
della quota di energia interna, ovvero 0,09 kJ/kg.
Questo risultato appena ottenuto ci porto a sapere formulare un modo agevole per poter calcolare

ria
l’entalpia a qualsiasi pressione e temperatura nel campo di liquido sottoraffreddato. Immaginando
che il mio generico punto sia come quello C in figura. L’entalpia del punto è pari all’entalpia del
liquido saturo, più il volume specifico del liquido saturo per la differenza di pressione del mio fluido
e quella del liquido saturo.
ℎ𝑝,𝑇 = ℎ𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇 + 𝑣𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇 (𝑝 − 𝑝𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇 )

gne
Quindi ipotizzando di voler sapere l’entalpia dell’acqua a 70 gradi e 10 bar, senza tabelle del liquido
sottoraffreddato, vado su quelle del liquido saturo e guardo i corrispondenti valori di entalpia,
volume specifico e pressione a 70 gradi ed applico la relazione.
Applichiamo i valori numerici:

 ℎ𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇 = 293,07 kj/kg





𝑣𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇 = 0,001 m^3
𝑝 = 10 bar = 1000 kPa
𝑝𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇 = 31,34 kPa
nge
Analisi termodinamica dei sistemi aperti – principio di conservazione della massa
La massa netta scambiata da un volume di controllo durante un intervallo di tempo Δ𝑡 è uguale alla
variazione netta (in aumento o in diminuzione) della massa totale contenuta nel volume di controllo
I
durante il medesimo Δ𝑡
ere

A variazione di massa positiva, vuol dire che entra più massa di quella che esce, e viceversa.
In termini analitici
𝑚𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 − 𝑚𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 = Δ𝑚𝑉𝐶
Avendo a che fare con i flussi (o portata massica) scriveremo
Viv

𝑑𝑚𝑉𝐶 𝑑𝑚𝑉𝐶 𝑑
𝑚̇𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 − 𝑚̇𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 = con = ∫ 𝜌𝑑𝑉
𝑑𝑡 𝑑𝑡 𝑑𝑡 𝑉𝐶

Sistema stazionario: da zona a zona possono anche cambiare le


proprietà del mio sistema, ma nel tempo non deve cambiare nulla. Nel
mio sistema stazionario io posso avere puntualmente variazioni di
densità, ma nel tempo, la massa che entra, è la massa che esce.
Pertanto se ho un sistema aperto e stazionario, necessariamente la
52

𝑑𝑚𝑉𝐶
densità localmente non può cambiare e quindi = 0. Un serbatoio che viene caricato, da vuoto
𝑑𝑡
che era, non è un sistema stazionario.
22/03/2018

ria
Immaginiamo un sistema stazionario che abbia un ingresso ed una uscita. Dovrà accadere che
𝑚̇1 = 𝑚̇2 ⇒ 𝜌1 𝑤1 𝐴1 = 𝜌2 𝑤2 𝐴2
per la equazione di continuità. Identifichiamo con A le sezioni trasversali
di ingresso e di uscita, w le velocità medie di ingresso e di uscita e 𝜌 le
densità di ingresso e di uscita. Dalle condizioni in ingresso alle condizioni

gne
di uscita lo stato termodinamico cambia, ma per la definizione di
stazionarietà, 𝑚̇1 = 𝑚̇2 . In generale la costanza della portata massica,
può essere ottenuta in molti modi. Per esempio, immaginando di avere un
aeriforme, supposte uguali le sezioni trasversali di ingresso e di uscita, se
il fluido si riscalda, dovrò vedere un cambiamento di densità maggiore in
ingresso piuttosto che in uscita, e quindi dovrà accadere che la sua velocità
finale, per mantenere la stessa portata, deve essere maggiore di quella
nge
iniziale. Altre volte avremo a che fare con fluidi incomprimibili. In tali casi, se il volume è
incomprimibile, la densità deve restare la stessa, e rimane invariata la portata volumetrica. Quindi:

𝑉̇1 = 𝑉̇2 𝑤1 𝐴1 = 𝑤2 𝐴2
Compressore d’aria
È un organo deputato alla compressione di un fluido in stato aeriforme, ed è schematizzato come in
I
figura, con il fluido ancora non compresso in ingresso nel lato maggiore del trapezio. Nel
compressore abbiamo che, 𝜌1 < 𝜌2 e quindi accadrà che 𝑤1 𝐴1 > 𝑤2 𝐴2 . la portata volumetrica non
si conserva, esiste solo la conservazione della portata massica.
Cosa comporta la costanza della portata volumetrica quando sto trattando un liquido? Se un efflusso
ere

di liquido in un sistema stazionario defluisce lungo un condotto a sezione variabile, dove la sezione
si allarga la velocità si riduce e dove la sezione si restringe la velocità aumenta. Per un fluido
incomprimibile è facile vedere la variazione di velocità al variare della sezione. Questo non si può
vedere se la mia tubazione porta un fluido comprimibile. Perché può essere benissimo che
cambiando la densità da sezione a sezione, pur avendo una restrizione, io posso avere al contempo
un rallentamento se è aumentata la densità. Sono tre i parametri che si devono bilanciare. Nel
Viv

liquido invece sono solo due. Nel caso dell’aeriforme va specificato almeno cosa avviene ad uno dei
tre parametri.
Il lavoro di pulsione e l’energia di un fluido che scorre
esaminiamo il volumetto V posto immediatamente a monte
della sezione di ingresso del mio volume di controllo
(immaginando che fluisca da sinistra a destra, inoltre i pistoni in
figura non sono realmente presenti, spiegheremo poi cosa
rappresentano). Chiamiamo A la sezione trasversale del tubo
che adduce fluido, in questo momento avremo una certa
53

pressione, ed in questo volumetto è racchiusa una certa quantità di materia m dipendente dalla
densità. Inoltre avrà un’altezza s pari al volume diviso la sezione del tubo. Mi chiedo quanta energia
immette questa massa m collocata in questo volume V quando finalmente supera la frontiera di
controllo e riesce ad entrare. Questa massa sarà ad una certa T, una certa P, avrà un certo v, e quindi

ria
ha uno suo stato termodinamico ben definito al quale corrisponde una ben determinata energia.
Quando entrerà nel mio volume di controllo, comporterà l’introduzione di tutta l’energia che
possiede, quindi aumentando l’energia del volume di controllo in termini di energia interna. Ma è
solo questa l’energia che porta? La massa di fluido nell’entrare nel volume di controllo, sta ricevendo
una trasmissione di energia del fluido che sta a monte e che la spinge ad entrare nel mio volume di
controllo. Localmente infatti c’è una certa pressione. concettualmente quindi non via è differenza

gne
tra il ruolo che esercita il mio fluido a monte ed un ipotetico pistoncino (ecco spiegato il significato
dei pistoni in figura) che esercita una data pressione F/A favorendo la spinta di questa massecola.
Se questo cubetto effettivamente si muove, questa forza di pressione del fluido a monte compie un
lavoro. È energia che non vedrò tradotta in termini di innalzamento di temperatura, ma piuttosto
come energia necessaria al transito del mio volumetto nel volume di controllo. La sola presenza di
un fluido a monte che accompagna il fluido entrante comporta una trasmissione di energia che si
riversa come energia nel mio volume di controllo come lavoro. Calcolato come:
nge 𝐿𝑝 = 𝐹𝑠 = 𝑝𝐴𝑠 = 𝑝𝑉

E riferito ad un volume specifico


𝑙𝑝 = 𝑝𝑣 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑢𝑙𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒

Lavoro o energia di pulsione


I
È una denominazione che tuttavia ci lascia un po' perplessi. Perché abbiamo detto che il lavoro è
funzione di linea. In questo caso però è funzione di stato, perché prodotto di funzioni di stato. Più
che un lavoro è una energia da associare al sistema, e quindi come funzione di stato del sistema. Si
preferisce quindi parlare di energia di pulsione. Ma anche in questo caso sorgono dei problemi:
perché in termini energetici in realtà, non è energia che il fluido possiede. Perché se fosse un
ere

contenuto energetico del fluido l’avrebbe anche da fermo. E una sorta di bagaglio aggiuntivo che
porta con sé solo se fluisce dentro un volume di controllo. Ci atterremo alla sua denominazione
come lavoro di pulsione.
Tutto questo discorso rimane valido, e di segno opposto, nel momento in cui il fluido esce dal mio
volume di controllo. Vi sarà nel fluido a valle una certa pressione richiesta che consenta al fluido di
Viv

uscire dal mio volume di controllo. Quindi uscendo dal volume di controllo, il mio fluido porterà con
sé la sua energia interna ed è richiesta un certo lavoro di pulsione per spingere il mio fluido a valle.
Inoltre non è detto che il lavoro di pulsione sia lo stesso tra monte e valle.
In futuro non tenderemo a ricordare questa energia come un lavoro, ma piuttosto come un bagaglio
energetico che si va a sommare a quello interno del fluido e sarà espresso da pv. È un bagaglio che
il fluido introduce nel volume di controllo ogni volta che penetra la frontiera.
La sua energia totale immessa per unità di massa, può essere espressa come
𝑒 = 𝑢 + 𝑒𝑐𝑖𝑛 + 𝑒𝑝𝑜𝑡 [𝑘𝐽/𝑘𝑔]
54

Che è il contributo proprio dell’energia specifica che l’unità di massa introduce nel volume di
controllo, al quale va sommato il contributo pv del lavoro di pulsione
Θ = 𝑒 + 𝑝𝑣 = 𝑢 + 𝑒𝑐𝑖𝑛 + 𝑒𝑝𝑜𝑡 + 𝑝𝑣 [𝑘𝐽/𝑘𝑔]

ria
Quello che indichiamo con Θ è il carico totale, ovvero il contenuto complessivo di energia per unità
di massa che fluisce dentro o fuori dal volume di controllo. Esplicitando i termini avremo
𝑤2
Θ = 𝑢 + 𝑝𝑣 + + 𝑔𝑧 [𝑘𝐽/𝑘𝑔]
2
Ma abbiamo detto che ℎ = 𝑢 + 𝑝𝑣, pertanto

gne
𝑤2
Θ=ℎ+ + 𝑔𝑧 [𝑘𝐽/𝑘𝑔]
2
Abbiamo scoperto come esprimere l’energia introdotto da un fluido, per unità di massa quando
questo entra nel volume di controllo (o estratta quando esce).
Primo principio della termodinamica per un sistema aperto
nge
Visto che tratteremo di deflussi, non ci interesserà la quantità di sostanza e l’energia associata, ma
solo i flussi energetici, ovvero, tutta l’energia sotto qualsiasi forma che entra nell’unità di tempo
meno tutta l’energia sotto qualsiasi forma che esce nell’unità di tempo dovrà essere uguale alla
variazione di energia sotto qualsiasi forma accumulata dal mio sistema nell’unità di tempo.
𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
𝐸̇𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 − 𝐸̇ 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 = ( )
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑡
I
Tuttavia, il 99% dei sistemi aperti che interessano l’ingegnere sono studiabili nel loro funzionamento
stazionario. Per stazionarietà quindi, la variazione di energia del sistema è nulla e quindi
𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
( )=0
𝑑𝑡
ere

E pertanto

𝐸̇ 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 = 𝐸̇ 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑢𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒

Esplicitandola nella sua totalità possiamo quindi scrivere che:

𝑤𝑖2 𝑤𝑢2
Viv

𝑄̇𝑖𝑛𝑔 + 𝐿̇𝑖𝑛𝑔 + ∑ 𝑚̇𝑖 (ℎ𝑖 + + 𝑔𝑧𝑖 ) = 𝑄̇𝑢𝑠𝑐 + 𝐿̇𝑢𝑠𝑐 + ∑ 𝑚̇𝑢 (ℎ𝑢 + + 𝑔𝑧𝑢 )
2 2
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑒

ESEMPIO
Immaginiamo un sistema come in figura a lato, composto da
una camera che vede due portate massiche, una in ingresso
ed una in uscita. La portata massica è la stessa, quindi
consideriamo 𝑚̇1 = 𝑚̇2 . Ogni flusso porta con sé un carico
energetico, diverso l’uno dall’altro. Vi è una resistenza che
porta lavoro elettrico all’interno che nel mio volume diventa
55

calore, quindi lavoro in ingresso, e riscalda il fluido. le pareti non perfettamente adiabatica
consentono che una quota di calore vada all’esterno, quindi calore uscente. Scriviamo quindi
l’espressione del primo principio per i sistemi aperti stazionari.

𝑄̇𝑖𝑛𝑔 + 𝐿̇𝑖𝑛𝑔 + 𝑚̇1 Θ1 = 𝑄̇𝑢𝑠𝑐 + 𝐿̇𝑢𝑠𝑐 + 𝑚̇2 Θ2

ria
E forniamo alcuni valori numerici

 𝑚̇1 Θ1 = 150 kW
 𝐿̇𝑖𝑛𝑔 = 40 kW
 𝑄̇𝑢𝑠𝑐 = 5 kW

gne
Quello che vogliamo sapere è il carico totale del fluido in uscita, ovvero Θ2
Dalla espressione appena scritta possiamo eliminare il termine del calore in ingresso e del lavoro in
uscita perché non presenti. Semplificando viene

𝐿̇𝑖𝑛𝑔 + 𝑚̇1 Θ1 = 𝑄̇𝑢𝑠𝑐 + 𝑚̇2 Θ2

ovvero
nge
𝐿̇𝑖𝑛𝑔 + 𝑚̇1 Θ1 − 𝑄̇𝑢𝑠𝑐 = 𝑚̇2 Θ2

Sostituendo i valori numerici


40 + 150 − 5 = 185
E conoscendo la portata massica posso dividere 185 kW per 𝑚̇1 = 𝑚̇2 e trovo il carico Θ2
I
NOTA: da ricordare che: per sistemi aperti non possiamo parlare solo d Q ed L, ma dobbiamo
necessariamente parlare di flussi di potenza. L’unica cosa che ci è consentito è che, nei sistemi aperti
stazionari ad un ingresso ed un’uscita, in cui le portate massiche devono coincidere, dividere tutto
per 𝑚̇. In questo caso, la potenza che era espressa in kJ/s, si divide per kg/s, ottenendo kJ/kg, ovvero
espressa in termini specifici. Otterremo quindi un valore della potenza che ogni kg di sostanza fa
ere

transitare all’interno del mio sistema. e quindi scriverla nei seguenti termini (rifacendoci all’esempio
precedente):
𝑙𝑖𝑛𝑔 + Θ1 = 𝑞𝑢𝑠𝑐 + Θ2

Che è la quantità di energia scambiata per kg di materia.


Viv

Se abbiamo due ingressi e una uscita, l’uscita degenera come abbiamo già visto in un unico termine
di portata massica, ma i due ingressi restano in sommatoria necessariamente. Quindi non è possibile
dividere per una data portata e ridurre tutto in termini specifici.

Il lavoro 𝐿̇ che compare nella formula, non è certamente un lavoro di variazione di volume (potrebbe
anche capitare una frontiera mobile ma è molto raro). Essendo di norma il volume di controllo
costante, non può essere espresso in termini pv. Non è nemmeno il lavoro di pulsione, contemplato
nel calcolo del carico energetico. Questo lavoro quindi rappresenta quella forma di energia che
viene scambiata con il sistema sotto forma di movimentazione meccanica, o lavoro elettrico. Viene
quindi definito lavoro tecnico in termini specifici, o potenza tecnica in termini di flusso, che è una
56

forma di lavoro che esclude il lavoro per variazione di volume. È il caso per esempio della turbina,
in cui la rotazione di alberi compie lavoro verso l’esterno.
Nella situazione più generale possibile, la formulazione del primo principio per sistemi aperti
sarebbe:

ria
𝑤𝑖2 𝑤𝑢2 𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
𝑄̇ − 𝐿̇ + ∑ 𝑚̇𝑖 (ℎ𝑖 + + 𝑔𝑧𝑖 ) − ∑ 𝑚̇𝑢 (ℎ𝑢 + + 𝑔𝑧𝑢 ) =
2 2 𝑑𝑡
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑒

Questa formulazione vale anche per sistemi non stazionari, infatti è presente la variazione di energia
del sistema al secondo membro. Verifichiamo la bontà dei segni: più è alto il termine Q, a parità di

gne
tutto il resto, la variazione di energia del sistema è positiva, perché per la convenzione dei segni è
calore che riceve il mio sistema, e quindi la variazione di energia è positiva. Di contro, aumentare il
lavoro, con il segno meno davanti perché è il mio sistema che compie lavoro verso l’ambiente, a
parità di tutto il resto, porta ad una variazione di energia del sistema negativa perché sto cedendo
energia sotto forma di lavoro. Stesso discorso vale per i carichi di energia in ingresso ed in uscita che
introducono o estraggono, le mie portate massiche.
Ugelli e diffusori
nge
Proveremo a considerare, uno dopo l’altro, una serie di dispositivi
aperti provando a capire dove ci porta l’applicazione del primo
principio. Partiamo da quelli più ricchi di applicazioni, che sono gli
ugelli e i diffusori, schematizzati come in figura, con diametro
variabile tra la sezione di ingresso e quella di uscita. Cominciamo a
ragionare sull’ugello (condotto convergente): se la sezione decresce
I
può capitare che abbiamo un fluido comprimibile o incomprimibile.
Se il fluido è incomprimibile le cose sono tranquille, perché la densità
è costante e dalla relazione espressa in precedenza, 𝜌1 𝑤1 𝐴1 =
𝜌2 𝑤2 𝐴2 , perché la mia portata massica deve essere costante. È chiaro come vanno le cose perché
ad una riduzione della sezione corrisponde un aumento della velocità per mantenere il prodotto
ere

costante. Il problema c’è con i comprimibili, perché non è affatto detto che la velocità cambi. Infatti,
cambiando le sue proprietà termodinamiche durante l’attraversamento del dispositivo, può
capitare anche un cambiamento di densità, e di conseguenza può capitare che se la densità si riduce
molto, pur aumentando la sezione, il fluido deve andare più veloce pur di far passare la stessa
portata massica. Quindi nel caso del comprimibile, può capitare qualche effetto strano sulla velocità
dipendente dalla densità. La trattazione dell’ugello attraversato da fluidi comprimibili però viene
Viv

fatta in un altro corso. Quello di cui ci occuperemo noi riguarderà una trattazione meramente
energetica e non cinetica. Analizziamoli separatamente:
Ugello: è un dispositivo statico (ovvero senza parti in movimento) usato per ottenere un getto di
fluido ad alta velocità, in genere tramite un processo associato a significativa diminuzione della
pressione. la pressione nel bilancio energetico, è espressa all’interno dell’entalpia. Quindi
applichiamo il bilancio energetico (in rosso segno i termini che trascuro:

𝑤𝑖2 𝑤𝑢2 𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎


𝑄̇ − 𝐿̇ + ∑ 𝑚̇𝑖 (ℎ𝑖 + + 𝑔𝑧𝑖 ) − ∑ 𝑚̇𝑢 (ℎ𝑢 + + 𝑔𝑧𝑢 ) =
2 2 𝑑𝑡
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑒
57

Li trascuro perché, essendo stazionario non ha variazione di energia e la portata massica in ingresso
è uguale a quella in uscita. Essendo statico non ha scambi di lavoro, e le elevate velocità non
consentono scambi di calore (a meno che non vi siano enormi differenze di temperatura, che però
non è il campo di applicazione dell’ugello). Non presenta variazioni di quota, ed avendo un solo

ria
ingresso ed una sola uscita elimino i termini di sommatoria. Riscrivo quindi con i termini che
rimangono:

𝑤𝑖2 𝑤𝑢2
ℎ𝑖 + = ℎ𝑢 +
2 2
Lo stesso identico ragionamento vale per il diffusore che, a spese della energia cinetica del fluido

gne
(ovvero della velocità) si cerca di fargli acquisire energia interna e pressione.
Il fluido nell’ugello porta con sé un bagaglio entalpico che si riduce in uscita per aumentarne la
velocità. Al contrario, nel diffusore, proviamo a fare aumentare il contenuto energetico del fluido a
spese della velocità. Di conseguenza scriveremo:

𝑤𝑢2 𝑤𝑖2
= + (ℎ𝑖 − ℎ𝑢 ) 𝑝𝑒𝑟 𝑙′𝑢𝑔𝑒𝑙𝑙𝑜
2 2
nge 𝑤𝑢2 𝑤𝑖2
ℎ𝑢 = ℎ𝑖 − ( − ) 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑢𝑠𝑜𝑟𝑒
2 2

26/03/2018
Turbocompressori
Sono dispositivi attivi, a differenza degli ugelli e dei diffusori, e vengono utilizzati per aumentare la
I
pressione del fluido utilizzando lavoro fornito da un’agente esterno. Hanno la finalità tipica delle
macchine operatrici, ovvero a spese di energia dall’esterno, cerchiamo di ottenere un risultato che
è quello di pressurizzare il mio fluido.
Esempio: un fluido entra con
ere

P1=100 kPa, T1=280 K ed esce a


P2=600 kPa e T2=400K. La portata
massica è di 0,02 kg. Quale lavoro
va fornito all’albero per realizzare
questa trasformazione di stato?
La denominazione aria all’interno
Viv

del compressore deriva dal fatto


che, per definizione, non
possiamo avere fluidi differenti dagli aeriformi, altrimenti non potremmo comprimerli. Al contrario
la turbina, ha un obiettivo opposto. Si usa infatti per sfruttare espansioni di fluido per generare
lavoro, ossia potenza meccanica. I flussi energetici sono praticamente opposti, il lavoro prima lo
dovevo fornire al mio compressore, ora lo estraggo dalla turbina come lavoro meccanico. Calettando
poi su questo albero un generatore, riesco a produrre energia elettrica. Proviamo adesso ad
utilizzare il bilancio energetico e l’applicazione del primo principio nel caso del compressore:
58

𝑤𝑖2 𝑤𝑢2 𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎


𝑄̇ − 𝐿̇ + ∑ 𝑚̇𝑖 (ℎ𝑖 + + 𝑔𝑧𝑖 ) − ∑ 𝑚̇𝑢 (ℎ𝑢 + + 𝑔𝑧𝑢 ) =
2 2 𝑑𝑡
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑒

Di fatto, sebbene da punto a punto vi è una differenza di proprietà di stato, nel tempo queste non

ria
cambiano, e quindi siamo in presenza di un regime stazionario. Avendo un solo ingresso ed una sola
uscita, possiamo trascurare le sommatorie e le portate massiche sono uguali tra loro (sempre per la
stazionarietà). All’interno di questi organi sono presenti ugelli e diffusori che modificano velocità e
pressione. all’interno di queste “scatolette” si possono raggiungere valori estremamente elevati.
Ma nel nostro caso, nel nostro volume di controllo, le velocità che noi abbiamo nel nostro sistema,
sono relative a quelle di uscite e di ingresso. Operando con velocità modeste (anche se non

gne
all’interno del mio sistema) possiamo quindi trascurare il termine legato all’energia cinetica. Così
come possiamo fare per il termine dell’energia potenziale, considerando che al massimo possiamo
avere dislivelli di pochissimi metri e quindi anch’essi sono trascurabili. La potenza termica è
anch’essa trascurabile perché il compressore si può modellare con buona approssimazione come
adiabatico. Questo perché il fluido transita in maniera molto rapida all’interno e quindi non vi è
fisicamente tempo per scambiare energia termica. L’intera formulazione, si riduce quindi a:

−𝐿̇ = 𝑚̇(ℎ𝑢 − ℎ𝑖 )
nge
Ed in termini specifici, dividendo per la massa
−𝑙 = (ℎ𝑢 − ℎ𝑖 )
Quando abbiamo un compressore, abbiamo detto che spendiamo energia sotto forma di lavoro, e
come conseguenza diretta abbiamo un aumento di entalpia. Questo perché secondo la convenzione
dei segni il lavoro verso il sistema è intrinsecamente negativo, e quindi con il meno della
I
formulazione si ha un valore positivo, al quale corrisponde appunto un aumento di entalpia. Il fluido
riceve potenza meccanica e la traduce in energia di tipo entalpico.
Tutte le assunzioni fatte rimangono identiche nel caso della turbina: il fluido entra ad alta pressione
(alta entalpia) ed esce a bassa pressione (bassa entalpia). Durante il tragitto in turbina il fluido si
ere

espande e si raffredda, diminuisce il suo contenuto entalpico che si traduce in lavoro quindi avremo
𝑙 = (ℎ𝑖 − ℎ𝑢 )
Ed è quindi in linea con la convenzione dei segni.
Valvola di laminazione
Viv

La laminazione di un fluido rappresenta la espansione


rapida indotta in una corrente fluida, tramite
l’interposizione puntuale al flusso che consenta una brusca
diminuzione di pressione associata a una dissipazione di
energia per attrito. Immaginiamo un flusso fatto di numerosi filetti fluidi che incontra un
restringimento di sezione che costringe questi filetti fluidi a restringersi per poi espandersi al di là
del restringimento. In questi casi si generano turbolenze in prossimità del restringimento. La
pressione a valle è decisamente minore di quella a monte (misurate sufficientemente lontane
dall’ostacolo). Questa turbolenza e questo moto irregolare va a convertire dell’energia che il fluido
possedeva in energia termica. Questo processo inoltre è fortemente irregolare, e la turbolenza non
59

ha un modo “ordinato” di replicarsi nel tempo. Durante il passaggio si osserva una forte
discontinuità delle proprietà di stato del fluido. Non possiamo quindi concepirlo come quasistatico:
il passaggio è brusco, violento e genera asimmetrie tra le proprietà locali. Non possiamo
immaginarlo lentissimo ed ordinato (che attraversa quindi una serie infinita di stati di equilibrio),

ria
perché non è questo lo scopo per cui lo realizziamo.
Il modo in cui si può realizzare una valvola di laminazione non è univoco, e ciò che la caratterizza è
il fatto che la pressione si riduce fortemente per effetto dell’attrito in seno al fluido, facendo
diventare qualche forma di energia (meccanica) in calore. Applichiamo ancora una volta il primo
principio, esaminando un volumetto di controllo che comprenda la zona di laminazione

gne
𝑤𝑖2 𝑤𝑢2 𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
𝑄̇ − 𝐿̇ + ∑ 𝑚̇𝑖 (ℎ𝑖 + + 𝑔𝑧𝑖 ) − ∑ 𝑚̇𝑢 (ℎ𝑢 + + 𝑔𝑧𝑢 ) =
2 2 𝑑𝑡
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑒

Quest’organo, nel tempo, mantiene tutto com’è, quindi lo si può considerare stazionario. Non si
registrano particolari velocità e/o variazioni di quota, ed i termini sono trascurabili. Non vi è scambio
di calore (processo troppo rapido) o di lavoro, quindi anche questi termini sono trascurabili. Si ha
un solo ingresso ed una sola uscita quindi anche i termini di sommatoria spariscono e certamente vi
è la stessa portata massica.
nge 𝑚̇ℎ𝑖 − 𝑚̇ℎ𝑢 = 0
E quindi dividendo tutto per la portata massica
ℎ𝑖 = ℎ𝑢
Questo vuol dire che l’entalpia misurata a monte, è uguale alla entalpia misurata a valle. Questo
I
però non vuol dire che l’entalpia è la stessa in ogni suo punto. Durante la laminazione vera e propria
il fluido cambia stato in maniera caotica, e l’entalpia non è proprio definita. La frontiera del volume
di controllo deve essere messa sufficientemente lontana dall’ostacolo in modo da dare il tempo al
sistema per ripristinare l’equilibrio. Possiamo dire con tranquillità che:
l’entalpia iniziale di un processo di laminazione è uguale a quella finale, ma
ere

sicuramente la laminazione non è un processo isoentalpico (la proprietà


esiste ed è uguale in ogni istante, e non è vero). Quando studieremo
quest’organo saremo in grado di fissare uno stato 1, uno stato 2 ma tra i due
non verrà tracciata una linea continua perché non sappiamo come si evolve.
Useremo a questo scopo una linea tratteggiata.
Viv

È molto difficile prevedere quali sono le implicazioni sulle proprietà puntuali del fluido tra monte e
valle a causa di questa entalpia che di fatto rimane costante. Infatti ogni fluido, indifferentemente
dal campo di lavoro, ha delle tendenze a riflettere queste diminuzioni di pressioni sul volume
specifico e sulle altre proprietà di stato in maniera diversa. L’unica cosa di cui siamo certi è che:
𝑢1 + 𝑝1 𝑣1 = 𝑢2 + 𝑝2 𝑣2
Perché l’entalpia iniziale è uguale a quella finale. Ma sappiamo pure che 𝑝2 < 𝑝1 perché è la
caratteristica principale delle valvole di laminazione. Che cosa succedere a volume specifico ed
energia interna? Ebbene non possibile determinarlo, perché dipendono fortemente dal fluido in
esame e dal campo di lavoro. Capiterà che se l’energia di pulsione aumenta durante il processo,
60

ovvero 𝑝2 𝑣2 > 𝑝1 𝑣1 , lo farà a spese della sua energia interna. E allora probabilmente, visto che
l’energia interna dipende dalla temperatura, un fluido siffatto tende a diminuire la sua temperatura
laminandosi. Di contro, un fluido che ha 𝑝2 𝑣2 < 𝑝1 𝑣1 , e quindi vede aumentare la sua energia
interna tenderà a riscaldarsi. Questa cosa a priori non la possiamo sapere, perché discende dalle

ria
caratteristiche del fluido. Perché è una cosa così importante? Noi utilizziamo la laminazione per il
funzionamento delle macchine frigorifere. Tramite una laminazione infatti, alcuni fluidi
diminuiscono la temperatura, anche di molto. Con un fluido che laminandosi si riscalda
naturalmente il frigorifero non posso farlo. Si è soliti discriminare i fluidi sulla base di questa loro
tendenza a rispondere diversamente ad una brusca diminuzione di pressione. il parametro che ci dà
contezza di ciò è il coefficiente di Joule-Thomson.

gne
𝜕𝑇
𝜇𝐽𝑇 = ( )
𝜕𝑝 ℎ=𝑐𝑜𝑠𝑡

È definito come la variazione di temperatura sulla variazione di pressione in un processo in cui


l’entalpia non cambia. Abbiamo bisogno che ad una variazione negativa della pressione, segua una
variazione negativa della temperatura (per poterlo usare come refrigerante) e quindi il loro rapporto
deve essere positivo. Tuttavia ci possono essere fluidi, come l’idrogeno su ampi intervalli di
nge
temperatura, che pur avendo il coefficiente di Joule-Thomson positivo, vedono un aumento della
temperatura laminandosi. Per un gas ideale, il processo di laminazione ci restituisce un fluido alla
medesima temperatura (poiché l’entalpia dipende dalla temperatura e non varia), e quindi non
possiamo realizzare processi frigoriferi con la laminazione.
Camera di miscelazione
È un organo nel quale di solito cerchiamo di ottenere il riscaldamento
I
di un fluido a spese di un’energia termica posseduta da un altro fluido
più caldo. Una camera di miscelazione come quella che noi
adoperiamo nel nostro bagno, che miscela acqua fredda ed acqua
calda, non ci da particolari problemi. Altra storia è quando nella
ere

camera di miscelazione vediamo l’introduzione di due fluidi con fasi


diverse, ed otteniamo una miscela bifasica. Tutte le camere di
miscelazione che studieremo, condividono la schematizzazione in
figura, considerano gli ingressi con pedici 1 e 2, e l’uscita con 3. Ogni ingresso e l’uscita saranno
caratterizzati da un preciso stato termodinamico (pressione, temperatura, etc). applichiamo come
abbiamo sempre fatto il primo principio alla camera di miscelazione:
Viv

𝑤𝑖2 𝑤𝑢2 𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎


𝑄̇ − 𝐿̇ + ∑ 𝑚̇𝑖 (ℎ𝑖 + + 𝑔𝑧𝑖 ) − ∑ 𝑚̇𝑢 (ℎ𝑢 + + 𝑔𝑧𝑢 ) =
2 2 𝑑𝑡
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑒

In particolare, consideriamo una camera di miscelazione che operi in regime stazionario, quindi non
caratterizzata nel tempo da accumulo di massa o di energia. Deve valere quindi che la somma delle
masse entranti è uguali a quelle uscenti. Possiamo ancora trascurare le velocità o le differenze di
quota. Si tratta di un componente passivo, non ho organi meccanici in movimento, quindi non avrò
lavoro tecnico scambiato. Sulla adiabaticità potremmo discutere. È un organo in cui il fluido scorre
abbastanza rapidamente tanto da poter considerare il calore scambiato con l’esterno trascurabile.
61

Se tuttavia, in un caso particolare, la camera scambia grandi quantità di calore dovuti ed ampi salti
di temperatura, allora in quel caso dovremmo tenerne conto. Quindi scriveremo

∑ 𝑚̇𝑖 ℎ𝑖 = ∑ 𝑚̇𝑢 ℎ𝑢

ria
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑒

E per il nostro caso specifico possiamo scrivere:


𝑚̇1 ℎ1 + 𝑚̇2 ℎ2 = 𝑚̇3 ℎ3
Ma abbiamo detto che la portata massica si conserva, quindi
𝑚̇1 ℎ1 + 𝑚̇2 ℎ2 = (𝑚̇1 + 𝑚̇2 )ℎ3

gne
Riordiniamo i termini
𝑚̇1 (ℎ1 − ℎ3 ) = 𝑚̇2 (ℎ3 − ℎ2 )
Per l’acqua allo stato liquido, le variazioni di entalpia le abbiamo scritte come
nge Δℎ = 𝑐𝑝 (𝑇2 − 𝑇1 )

E quindi possiamo scrivere


𝑚̇1 𝑐𝑝 (𝑇1 − 𝑇3 ) = 𝑚̇2 𝑐𝑝 (𝑇3 − 𝑇2 )

Ed immaginando che il calore specifico vari poco con la temperatura, posso riscrivere:
𝑚̇1 (𝑇1 − 𝑇3 ) = 𝑚̇2 (𝑇3 − 𝑇2)
La temperatura uscente deve necessariamente essere intermedia tra la temperatura dei due fluidi
I
in ingresso.
Una piccola notazione va fatta per quello che è il processo di miscelazione non isobaro. Infatti ciò
che accade ad un processo di miscelazione isobaro è molto semplice da studiare, mentre per un
processo non isobaro le cose funzionano in maniera diversa. Quando i due fluidi immessi nella
ere

camera sono a pressione molto diversa tra loro, succedono delle brusche interazioni di tipo
meccanico. Immaginiamo di avere un fluido a T1=120°C e P1=1,6 bar ed un altro fluido a T2=20°C e
P2=1,0 bar. È un esempio molto simile al processo di riscaldamento del latte per il cappuccino.
Iniettiamo una massa molto modesta di vapore rispetto a quella del latte che però ha pressione e
temperatura più elevate del latte. Il suo stato è quello di vapore surriscaldato (da come si evince
dalle tabelle). Il latte invece è liquido a 20°C e a pressione atmosferica. È chiaro che all’uscita della
Viv

nostra camera di miscelazione la pressione è quella atmosferica, esattamente come quella del latte.
Quale sarà lo stato termodinamico finale della mia miscela? Per il fluido riscaldato, quello che
succede è chiaro: la sua pressione non cambia, ma aumenta la sua temperatura lungo l’isobara. Il
problema è riuscire a seguire cosa accade al mio fluido riscaldante, perché è su una isobara diversa.
Tutte le camere di miscelazioni che vedono miscele bifasiche, vedono la pressione di uscita pari alla
più bassa in ingresso. Possiamo quindi immaginare il fluido freddo e a bassa pressione osservante
un processo isobaro ricevente energie. Mentre il fluido riscaldante compie una serie di passi:
quando io inietto il fluido in una camera a pressione inferiore questo fluido tenderà ad avere una
rapida espansione chiamato espansione per flash. È una espansione pressoché istantanea che
avviene non appena il fluido entra nella camera a pressione inferiore. poi una volta espanso il fluido
62

ha tutto il tempo di miscelarsi e scambiare energia. Quello che accade al fluido riscaldante, è quello
che abbiamo visto accadere per la laminazione, ovvero una diminuzione di pressione in cui entalpia
finale e iniziale coincidono. Quindi nel diagramma di stato il fluido si porterà sull’isobara della mia
camera di miscelazione, che è più bassa, ma ad un valore identico di entalpia attraverso quello che

ria
noi abbiamo già identificato con la linea tratteggiata, ovvero un percorso di stati non di equilibrio
che non siamo in grado di tracciare.
27/03/2018

Scambiatore di calore a doppio tubo


Costituito da due cilindri aventi il medesimo asse secondo una

gne
morfologia che in sezione longitudinale apparirebbe come in
figura. Nel cilindro più interno scorre un fluido A mentre un altro
fluido B scorre nella cavità anulare attorno al cilindro interno.
Questi due fluidi occupano chiaramente due regioni diverse e il
sistema può vedere flussi di materia che procedono o nello stesso
verso, o nel verso opposto. Nei due casi gli scambiatori si
denominano: equicorrente (stesso verso di percorrenza) e
nge
controcorrente (verso di scorrimento opposto). Per semplicità
assumiamo il dispositivo adiabatico esternamente. Il dispositivo è concepito per permettere il
transito di calore tra i due fluidi e poco ci importa di eventuali piccole fughe verso l’esterno, anche
perché costruttivamente viene realizzato il più isolato dall’ambiente possibile. Denomineremo con:

 𝑇𝑐𝑖 = temperatura del fluido caldo in ingresso


 𝑇𝑐𝑢 = temperatura del fluido caldo in uscita
I
 𝑇𝑓𝑖 = temperatura del fluido freddo in ingresso
 𝑇𝑓𝑢 = temperatura del fluido caldo in uscita
Vediamo direttamente un caso applicativo:
ere

Immaginiamo che nella tubazione interna scorra una portata massica di fluido freddo 𝑚̇𝑓 = 3 kg/s e
il fluido freddo sia un olio avente le seguenti caratteristiche:

 P = 50 bar con Tsat = 400°C


 𝑐𝑝 = 3 kJ/kgK della fase liquida
 𝑇𝑓𝑖 = 20°C
Viv

Nella cavità esterna anulare scorra in equicorrente una portata massica di fluido caldo 𝑚̇𝑐 = 0,5 kg/s.
questo fluido in ingresso sia acqua nelle seguenti condizioni:

 P = 2 bar
 𝑇𝑐𝑖 = 150°C
Stimare le condizioni dei due fluidi in uscita considerando lo scambiatore infinitamente lungo e
calcolare la potenza termica che complessivamente i due fluidi avranno scambiato tra loro.
La nozione di scambiatore infinitamente lungo ci garantisce che alla fine i due fluidi raggiungeranno
l’equilibrio termico, e quindi cesseranno di scambiare calore. Quindi alla fine:
63

𝑇𝑓𝑢 = 𝑇𝑐𝑢
Alla fine del processo, l’olio potrà trovarsi a più di 150°C? E l’acqua a meno di 20°C? naturalmente
no, perché l’acqua non può cedere più calore di quanto lei stessa ne possieda e di contro l’olio non
può cedere calore ad un corpo più caldo di lui. Quindi la temperatura finale deve necessariamente

ria
trovarsi tra questi due estremi (plausibilmente in una sorta di posizione intermedia).
Cosa ci garantisce la coppia di proprietà dei dati dell’olio? L’olio avrà una sua campana di saturazione
diversa dall’acqua e, se la sua temperatura di saturazione
sull’isobara a 50 bar è di 400°C, certamente a 20°C è allo stato
liquido sottoraffreddato e tale resterà sino alla temperatura di

gne
400°C, poiché l’acqua si trova a 150°C risulta chiaro che l’olio
durante il processo resterà allo stato liquido (anche perché
durante il processo, non vi è nessun organo che possa far variare
la pressione e presumibilmente tutto ciò che accade all’olio
avviene sull’isobara a 50 bar). In prima approssimazione si possono
assumere le variazioni di entalpia, per un processo isobaro, pari
alle variazioni di energia interna e quindi possiamo scrivere (solo perché l’olio rimane allo stato
liquido lungo un processo isobaro):
nge Δℎ = 𝑐𝑝 Δ𝑇

Assumiamo costante anche il valore del calore specifico considerando il salto termico non troppo
elevato.
Per quanto riguarda l’acqua invece, dobbiamo verificare in che
I
fase si trova. Dalla sua campana, risulta che alla pressione di 2 bar,
corrisponde una temperatura di saturazione di circa 120°C.
Questo vuol dire che se si trova a 150°C nella nostra tubazione, e
non varia la sua pressione (per lo stesso motivo per cui non varia
quella dell’olio) allora il suo stato iniziale è certamente quello di
ere

vapore saturo.
Avendo un fluido più caldo ed uno più freddo, certamente il calore verrà scambiato dall’acqua
all’olio. L’olio vedrà aumentare la propria energia, mentre l’acqua una diminuzione. Applichiamo il
primo principio ad un volume di controllo limitato al fluido A.

𝑤𝑖2 𝑤𝑢2 𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎


𝑄̇ − 𝐿̇ +
Viv

∑ 𝑚̇𝑖 (ℎ𝑖 + + 𝑔𝑧𝑖 ) − ∑ 𝑚̇𝑢 (ℎ𝑢 + + 𝑔𝑧𝑢 ) =


2 2 𝑑𝑡
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑒

Siamo chiaramente in regime stazionario, con nessuna adduzione di lavoro tecnico. Le portate
massiche si devono eguagliare ed ho un solo ingresso ed una sola uscita. Inoltre continuo a
trascurare i termini di energia cinetica e potenziale. Ecco quindi che posso riscrivere:

𝑄̇ = 𝑚̇𝑓 (ℎ𝑓𝑢 − ℎ𝑓𝑖 ) ⟶ per l′olio

abbiamo capito che questa variazione di entalpia si potrà esprimere in funzione del calore specifico
e quindi scrivere:
64

𝑄̇ = 𝑚̇𝑓 𝑐𝑝 (𝑇𝑓𝑢 − 𝑇𝑓𝑖 )

Se non avessimo avuto certezza del fatto che l’olio rimane liquido durante il processo, non avremmo
potuto fare questa semplificazione.

ria
Vediamo ora cosa succede all’acqua. Partiamo da una condizione di fluido monofase, ma questo
fluido cede calore. Applico il primo principio ad un volume di controllo che comprenda solo l’acqua:

𝑤𝑖2 𝑤𝑢2 𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎


𝑄̇ − 𝐿̇ + ∑ 𝑚̇𝑖 (ℎ𝑖 + + 𝑔𝑧𝑖 ) − ∑ 𝑚̇𝑢 (ℎ𝑢 + + 𝑔𝑧𝑢 ) =
2 2 𝑑𝑡
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑒

Le assunzioni appena fatte per l’olio rimangono invariate nel caso dell’acqua, quindi i termini che

gne
noi trascuriamo sono esattamente gli stessi.

𝑄̇ = 𝑚̇𝑐 (ℎ𝑐𝑢 − ℎ𝑐𝑖 ) ⟶ per l′acqua


Siccome per l’acqua il calore viene ceduto, allora Q è intrinsecamente negativa, e quindi ℎ𝑐𝑢 < ℎ𝑐𝑖 .
Il problema è che nel campo dei vapori surriscaldati e di liquido sottoraffreddato, questa differenza
di entalpia più essere espressa in funzione del calore specifico e della variazione di temperatura, ma
nge
non all’interno della campana di saturazione. Quindi non sapendo se l’acqua condenserà o meno,
non posso lanciarmi in una considerazione simile e semplificare il calcolo della potenza termica.
Dobbiamo quindi procedere allo studio della trasmissione del calore per step successivi. Quindi la
potenza termica ceduta nel suo complesso la possiamo destrutturare in tre componenti:

𝑄̇𝑡𝑜𝑡 = 𝑄̇𝑐,𝑉𝑆 + 𝑄̇𝑐,𝑣𝑎𝑝 𝑠𝑎𝑡 + 𝑄̇𝑐,𝑠𝑜𝑡𝑡

Il primo termine è la potenza termica scambiata dal fluido in stato di vapore surriscaldato. Se arriva
I
a condensare, anche una componente scambiata nello stato di vapore saturo e se arriva a cambiare
fase, anche una componente di potenza termica scambiata nello stato di liquido sottoraffreddato.
Se fossimo certi del fatto che l’acqua resti monofasica il problema non si porrebbe. In questo caso
dobbiamo valutare cosa succede all’acqua.
ere

La prima cosa che mi devo chiedere è dove si arresterà questo processo, quale temperatura
raggiungerò? Allora il primo passo è capire quanto calore cederà il fluido caldo e
contemporaneamente vedere di quanto si riscalda il fluido freddo ricevuta questa quantità di calore.
Calcoliamo prima di tutto quale potenza termica cede il fluido caldo per portarsi dal suo stato iniziale
alla condizione di vapore saturo secco, ovvero 𝑄̇𝑐,𝑉𝑆 . Ovvero, dalle tabelle:
Viv

𝑘𝐽
𝑄̇𝑐,𝑉𝑆 = 𝑚̇𝑐 (ℎ𝑐𝑖𝑛 − ℎ𝑐𝑉𝑆 ) = 0,5(2706 − 2769) = −31,5 = 𝑘𝑊
𝑠
Quindi questa è la potenza termica che cede l’acqua per portarsi ad una temperatura di 120°C in
condizione di vapore saturo secco.
Assorbendo questa potenza termica, a che temperatura si porterà l’olio? Applicando la relazione
seguente e sostituendo i valori otterrò:

𝑄̇ = 𝑚̇𝑓 𝑐𝑝 (𝑇𝑓𝑓𝑖𝑛 − 𝑇𝑓𝑖 ) ⇒ 31,5 = 3 ∙ 3(𝑇𝑓𝑓𝑖𝑛 − 20) ⇒ 𝑇𝑓𝑓𝑖𝑛 = 23.5°𝐶


65

Se guardiamo a questa prima parte di scambiatore, mentre il vapore cede ciò che gli serve per
portarsi da 150 a 120 gradi, l’olio si riscalda da 20 a 23,5 gradi. Non hanno chiaramente raggiunto
l’equilibrio e di conseguenza l’acqua continuerà a cedere calore all’olio.
Procediamo ora al secondo step: quanto calore cederebbe il vapore se condensasse

ria
completamente? Da tabella abbiamo la differenza delle entalpie tra quella come vapore saturo
secco e quella di liquido saturo. Dalle tabelle verifichiamo quindi che:

𝑄̇𝑐,𝑣𝑎𝑝 𝑠𝑎𝑡 = 𝑚̇𝑐 (ℎ𝑐𝑉𝑆 − ℎ𝑐𝐿𝑆 ) = 0.5 ∙ 2202 = −1101 𝑘𝐽/𝑠

Ovvero, la potenza termica che l’acqua cede per passare dalla condizione di vapore saturo secco a
120°C alla condizione di liquido saturo lungo l’isoterma all’interno della campana di saturazione.

gne
Poiché l’olio è ancora monofase, il suo incremento di temperatura è calcolabile dalla relazione usata
in precedenza:

𝑄̇ = 𝑚̇𝑓 𝑐𝑝 (𝑇𝑓𝑓𝑖𝑛 − 𝑇𝑓𝑖 ) ⇒ 1101 = 3 ∙ 3(𝑇𝑓𝑓𝑖𝑛 − 23,5) ⇒ 𝑇𝑓𝑓𝑖𝑛 = 145,83°𝐶

Ma non è credibile tutto questo trasferimento di calore, perché abbiamo detto che l’olio non può
portarsi ad una temperatura più calda di quella dell’acqua. Il primo passo della soluzione cercata, è
nge
quindi concludere che la temperatura di equilibrio non può che essere di 120°C, e che l’acqua
condenserà parzialmente.
È chiaro che possiamo già fornire la prima parte della richiesta. Infatti l’olio, non cambiando di fase,
resterà alla pressione di 50 bar e la sua temperatura in uscita sarà pari a 120°C. Per l’acqua invece
le cose procederanno diversamente. Come facciamo a conoscere lo stato finale? Possiamo usare
due equazioni diverse:
I
1. Scrivere il bilancio dell’energia per un volume di controllo che comprenda sia il fluido caldo
che il fluido freddo lungo tutto lo sviluppo dello scambiatore. Non avrò più un solo ingresso
ed una sola uscita ma due ingressi e due uscite. Tuttavia ho una semplificazione dovuta al
fatto che non avrò Q, perché lo scambio è interno, non avviene alla frontiera.
ere

𝑤𝑖2 𝑤𝑢2 𝑑𝐸𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎


𝑄̇ − 𝐿̇ + ∑ 𝑚̇𝑖 (ℎ𝑖 + + 𝑔𝑧𝑖 ) − ∑ 𝑚̇𝑢 (ℎ𝑢 + + 𝑔𝑧𝑢 ) =
2 2 𝑑𝑡
𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑒

Ovvero:
Viv

𝑚̇𝑐 (ℎ𝑐𝑖 − ℎ𝑐𝑢 ) = 𝑚̇𝑓 (ℎ𝑓𝑢 − ℎ𝑓𝑖 )

Cosa vogliamo adesso conoscere? Quello che ci serve capire è l’entalpia finale che raggiunge il fluido
caldo, in modo da poter valutare quanto ne condensa. Quindi:
𝑚̇𝑓 (ℎ𝑓𝑖 − ℎ𝑓𝑢 )
ℎ𝑐𝑢 = + ℎ𝑐𝑖
𝑚̇𝑐
Al posto della differenza di entalpia dell’olio, posso scrivere:
Δℎ = 𝑐𝑝 Δ𝑇
66

E quindi avere
𝑚̇𝑓 𝑐𝑝 (𝑇𝑓𝑖 − 𝑇𝑓𝑢 )
ℎ𝑐𝑢 = + ℎ𝑐𝑖
𝑚̇𝑐

ria
Poiché sono note le temperature di ingresso e di uscita dell’olio. Sostituisco i valori numerici
3 ∙ 3(20 − 120) 𝑘𝐽
ℎ𝑐𝑢 = + 2769 = 969
0,5 𝑘𝑔
Conoscendo il valore di entalpia finale dell’acqua posso risalire al suo titolo dalla formula
ℎ𝑐𝑢 − ℎ𝑙𝑠 969 − 504

gne
𝑥= = = 0,21
ℎ𝑙𝑣 2202
28/03/2018 – ESERCITAZIONE
29/03/2018
Una gran quantità di trasformazioni, che pure sarebbero coerenti con il primo principio della
termodinamica (conservazione dell’energia) non sono riscontrabili in natura. Ad esempio una tazza
nge
di acqua calda tende a disperdere calore se immersa in un ambiente più freddo, tuttavia l’opposta,
ovvero il riscaldamento spontaneo di una tazza di caffè, non si verifica. E ancora, una resistenza
elettrica, attraversata da corrente, dissipa calore nell’ambiente, ma qualora si cercasse di fornire ad
essa calore, non si produrrebbe una commisurata quantità di energia elettrica. E ancora, un’elica
mossa dalla caduta di un corpo, produce il mescolamento del fluido contenuto in un recipiente, così
risultando, l’energia potenziale del corpo, convertita in energia interna del fluido, ma se si trasferisse
calore al fluido per aumentarne la sua energia interna, non si riuscirebbe in alcun modo a produrre
I
il sollevamento del corpo. È quindi evidente che le trasformazioni in natura tendono ad avvenire in
un solo verso (e non in quello opposto) quindi il primo principio, che non pone restrizioni al verso
delle trasformazioni, risulta quindi insufficiente a descrivere la realtà che ci circonda e per tale
motivo sarà necessario un secondo principio della termodinamica che non modifica, ma integra il
primo, completando il set di informazioni utili a capire se una trasformazione avverrà o meno.
ere

Serbatoi di energia termica


Il serbatoio di energia termica (o di calore) è un corpo di capacità termica definita
come:
𝐶 =𝑚∙𝑐
Viv

Sufficientemente elevata da poter assorbire o cedere una qualsiasi quantità finita


di calore senza subire alcuna conseguente variazione di temperatura.
Nell’equazione, m è la massa del corpo e c è il calore specifico. È chiaro che
un’elevata capacità termica è propria o dei corpi a massa elevata, o calore specifico elevato o
entrambi (c nei fluidi bifase è infinito per esempio).
I laghi, gli oceani, l’atmosfera, la crosta terrestre sono tipici esempio di sistemi ben assimilabili alla
definizione di serbatoio di calore (sotto-denominazioni di uso frequente: sorgente, dalla quale io
posso prelevare calore, o pozzo, quando invece di prelevare vi riverso calore).
67

I motori termici
Come gli esempi precedenti hanno mostrato, la conversione di lavoro in
calore è molto semplice mentre quella di calore in lavoro non è né
spontanea né semplice da realizzare. La conversione di calore in lavoro si

ria
realizza attraverso dispositivi appositamente progettati, che sono detti
motori termici. Pur essendovene diverse tipologie, esse hanno in comune
che:

 Ricevono calore da una sorgente ad elevata temperatura


(combustione di fonti fossili, nucleare, etc.).

gne
 Convertono solo una parte di questo calore in lavoro (spesso
mettendo in rotazione un albero).
 Cedono la rimanente parte dell’energia ricevuta ad un pozzo a
bassa temperatura.
 Funzionano secondo un ciclo.

Il fluido tramite il quale i motori termici funzionano è detto fluido di lavoro o anche fluido evolvente.
nge
Si chiama evolvente proprio perché, nel percorrere il ciclo termodinamico, evolve tra vari stati
termodinamici. La trasformazione è chiusa anche dal punto di vista termodinamico. Questo può
essere realizzato da due macrofamiglie di motori termici. La prima è una tipologia di motore termico
nella quale il fluido si trova a seguire un ciclo termodinamico chiuso attraverso il passaggio
sequenziale in una serie di organi, ognuno
dei quali cambia il suo stato termodinamico,
sino a concludere il ciclo con lo stato
I
termodinamico di partenza. La seconda
tipologia invece, il fluido non si muove da un
organo all’altro ma, permanendo sempre
all’interno di uno stesso organo, vede il suo
stato termodinamico comunque evolvere
ere

ciclicamente. Il primo caso è evidenziato


nella figura 8.
Nel caso in cui, il fluido è all’interno di uno
stesso organo, è il tipico caso di un fluido
all’interno di un sistema cilindro pistone.
Viv

Quindi, abbiamo due sistemi, trattabili


Figura 8
preferibilmente, uno attraverso massa di
controllo (caso cilindro-pistone). L’altro invece attraverso un volume di
controllo. Nel secondo caso abbiamo in figura 8 il ciclo con i suoi
componenti, mentre a destra il ciclo termodinamico disegnato sul piano
P-v. Il punto 1 va collocato appena prima della pompa in figura 8. Il punto
2 prima della caldaia, il punto 3 prima della turbina ed infine il punto 4
prima del condensatore. Alla fine del percorso, come si può vedere, il suo
stato termodinamico coincide con quello iniziale. Ci concentreremo
principalmente su quest’ultima tipologia di motori termici.
68

Particolarizziamo questa trattazione cominciando a capire cosa possono essere queste


trasformazioni, parlando di quello che è il ciclo motore a vapore, utilizzato principalmente per la
generazione di energia elettrica. Analizziamo i componenti:

 Pompa: Allo stato 1, il fluido è interamente liquido, assorbe lavoro (o meglio potenza

ria
meccanica) e ne eleva la pressione, infatti P1<P2. Comprimendo un liquido, non riesco a
trasferire grandi quantità di energia, quindi non riesco ad innalzarne la temperatura. Tuttavia
la pressione è notevolmente incrementata.
 Caldaia: in questo organo il fluido arriva ad alta pressione e lo riscalda attraverso calore (o
meglio potenza termica) fornita dall’esterno da una sorgente ad alta temperatura. Quando
il fluido transita attraverso tubazioni senza nessun ostacolo particolare, è lecito assumere il

gne
processo generalmente isobaro. Quindi il fluido, ricevendo calore passa dallo stato liquido
ad alta pressione a quello di liquido saturo, attraversa la campana e poi finisce nella zona di
vapore surriscaldato (se fornisco una adeguata quantità di calore). Lo scopo della caldaia in
un ciclo di questo tipo è proprio quello di ricavare vapore ad alta pressione
 Turbina: questo fluido uscente dalla caldaia ad alta pressione e temperatura, entra in turbina
che, a spese di una significativa diminuzione di pressione (espansione in turbina) e
nge
movimentando un albero che ci rende disponibile lavoro meccanico. Nel diminuire la sua
pressione diminuisce molto la sua temperatura, fino ad uno stadio finale che lo vede quasi
interamente vapore e molto prossimo alla condizione di vapore saturo secco. Tuttavia il reale
processo che segue lo vedremo in dettaglio più avanti.
 Condensatore: porta il mio fluido dallo stato di vapore allo stato di liquido, transitando in dei
tubi che scambiano calore con l’esterno in un processo pressoché isobaro. Il processo si
conclude a condensazione completata, tornando allo stato 1 che era il mio punto iniziale.
I
Chiariamo la natura delle interazioni energetiche tra i vari organi.
Nella pompa il fluido riceve un lavoro dell’esterno mentre nella turbina è il fluido che trasferisce
energia per movimentare un albero. Lo scambio di energia è una interazione di tipo meccanico. In
turbina il fluido si raffredda anche ma non è il nostro scopo primario. Gli organi di questo tipo, anche
ere

se ci possono essere piccoli scambi di calore, sono preposti allo scambio di lavoro meccanico che sia
per il mio fluido in negativo (per la pompa) o in positivo (turbina), e quindi i processi che li
interessano sono da considerarsi adiabatici, questo perché l’entità numerica di Q è risibile.
Chiameremo 𝐿𝑖𝑛𝑔 il lavoro fornito alla pompa e 𝐿𝑖𝑛𝑔 il lavoro compiuto dalla turbina. Il lavoro in
ingresso alla pompa, sarà molto piccolo. Mentre nell’espansione,
potendo fare il suo volume specifico molto gioco, il lavoro realizzato
Viv

può essere enormemente superiore a quello della pompa. Se


concepiamo la larghezza della freccia all’inizio il lavoro prodotto in
turbina, e la freccia più piccola che torna indietro come il lavoro
speso per la pompa, allora la freccia che prosegue dritta a destra (la
differenza tra i due lavori) è proprio il lavoro netto utile che riusciamo ad estrarre.
𝐿𝑛,𝑢 = 𝐿𝑢𝑠𝑐 − 𝐿𝑖𝑛𝑔

Questa dicitura ci ricorda che il lavoro che riusciamo ad estrarre e la differenza tra quello prodotto
e quello autoconsumato. Espresso in questo modo, stiamo abbandonando la convenzione dei segni
che avevamo adottato per le interazioni tra sistema e ambiente. Stiamo assumendo di conteggiare
69

i numeri perché le direzioni dei flussi le conosciamo, non dobbiamo fare nessun ragionamento sui
versi, ma solo sui valori.
Se io assumo una frontiera che racchiude tutti i quattro organi che compongono il mio ciclo, quindi
considero il mio sistema formato dai quattro organi uniti, ho una situazione abbastanza difficile da

ria
gestire, perché è chiaro che la massa entro questa frontiera è sempre fissa. Sembrerebbe una massa
di controllo. Ma se noi diciamo che l’acqua è la mia massa di controllo che sta all’interno del sistema,
questo vorrebbe dire che possiede diversi stati termodinamici simultaneamente. E quindi non esiste
lo stato termodinamico dell’acqua. Se invece consideriamo il mio impianto motore, come una
sequenza di organi aperti che operano in regime stazionario, ci troviamo molto meglio: sappiamo
che lo stato dell’acqua sarà diverso in ogni punto ma nel tempo, in quel punto, avrò l’acqua sempre

gne
in quelle condizioni. È così facilmente studiabile come un organo aperto in regime stazionario.
L’approccio che vede tutto il sistema come massa di controllo, non ci permette di dire in che
condizioni si trova l’acqua. Questa frontiera così estesa la useremo solo per considerazioni puntuali,
ma generalmente tratteremo il ciclo motore come una serie di organi aperti che operano in regime
stazionario interconnessi l’uno all’altro. La stazionarietà inoltre, ci fa notare che, la portata massica
dovrà essere costante in ogni organo: essendo collegati tra loro, non possiamo permettere
l’accumulo di massa in un organo piuttosto che in un altro. La portata massica deve essere la stessa
nge
in ogni organo. A rigore, sarà più giusto, visto che per gli organi aperti ciò che accade nel transito di
una certa portata massica e nell’interazione energetica con l’esterno noi scambiamo potenze
termiche e meccaniche, non quantità di calore o lavoro. È solo una semplificazione che noi ci
accolliamo, riferirci alle energie piuttosto che alle potenze, fermo restando che nella trattazione
numerica questa semplificazione non potremo farla, e dovremo necessariamente riferirci alle
potenze (che se restano costanti, possono agevolmente diventare quantità di energia
I
semplicemente moltiplicando per il tempo di esercizio).
Rendimento termico (o efficienza termica)
Per un sistema multicomponente, sebbene i diversi organi singolarmente considerati siano aperti,
assumendo un volume di controllo che racchiuda tutti gli organi, si racchiude un sistema che è
ere

chiuso, e dal bilancio delle energie, tutto ciò che entra, deve anche uscire. Se abbiamo definito il
lavoro netto utile come la differenza del lavoro in ingresso e uscita, questa quantità, per il primo
principio applicato ai sistemi chiusi, deve eguagliare anche la differenza tra il calore in ingresso e
quello in uscita (sempre riferito all’intero sistema in ottica di stazionarietà). Quindi:
𝐿𝑛,𝑢 = 𝑄𝑖𝑛𝑔 − 𝑄𝑢𝑠𝑐
Viv

Se invece siamo in un sistema a singolo componente, come il gas contenuto nel cilindro di un motore
stirling. La ciclicità della trasformazione garantisce che la variazione della energia interna risulta
zero. Inoltre, abbiamo detto in passato che il lavoro va letto nel piano P-v. Tuttavia, se consideriamo
un ciclo chiuso, non essendoci variazione di energia interna (funzione di stato) le due funzioni di
linea, calore e lavoro si devono eguagliare. Pertanto, l’area racchiusa dal mio ciclo nel piano T-v, che
rappresenta il calore, nel ciclo chiuso è anche il lavoro scambiato, valendo ugualmente la relazione:
𝐿𝑛,𝑢 = 𝑄𝑖𝑛𝑔 − 𝑄𝑢𝑠𝑐
70

Poiché in generale, qualsiasi ciclo motore è concepito per generare lavoro dalla somministrazione
di calore, il modo migliore per gerarchizzare la bontà di questa macchine che usiamo per la
conversione di calore in lavoro è introdurre un parametro di rendimento o efficienza termica, come
𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑜𝑡𝑡𝑒𝑛𝑢𝑡𝑎

ria
𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑧𝑎 =
𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑛𝑖𝑡𝑎 (𝑜 𝑠𝑝𝑒𝑠𝑎)
Poiché l’energia ottenuta è proprio il lavoro netto utile, e la spesa è quella che io somministro ad
alta temperatura, quindi il calore entrante, allora potrò scrivere
𝐿𝑛,𝑢 𝑄𝑖𝑛𝑔 − 𝑄𝑢𝑠𝑐 𝑄𝑢𝑠𝑐
𝜂𝑡 = = = 1−
𝑄𝑖𝑛𝑔 𝑄𝑖𝑛𝑔 𝑄𝑖𝑛𝑔

gne
Per semplicità noi studieremo solo macchine che interagiscono con un
serbatoio ad alta temperatura ed uno a bassa temperatura (macchine
bitermiche) schematizzate a lato. Nella realtà una macchina può avere più
sorgenti e/o pozzi termici. Visto che allora i livelli termici saranno
univocamente determinati, nella nomenclatura, invece di portarci simboli
come entranti e uscenti, useremo pedici diversi. Indichiamo la
nge
temperatura più alta come superiore e quella più bassa come inferiore.
avremo quindi:
𝐿𝑛,𝑢 = 𝑄𝑠 − 𝑄𝑖

Ed analogamente
𝐿𝑛,𝑢 𝑄𝑠 − 𝑄𝑖 𝑄𝑖
𝜂𝑡 = = = 1−
I
𝑄𝑠 𝑄𝑠 𝑄𝑠
Che valori può assumere il rendimento così definito? 0 ≤ 𝜂𝑡 < 1 il segno di uguale nella relazione
fra lo zero ed il rendimento è un segno teorico. Può essere realizzato, ma è privo di efficacia e
completamente inutile. Ma la mancanza dell’uguale nel rendimento in rapporto con l’1 ci dice che
nemmeno teoricamente possiamo immaginare una macchina che riesca a convertire tutto il calore
ere

fornito, e questo è il cuore del secondo principio della termodinamica.


Secondo principio (postulato) della termodinamica – enunciato di Kelvin-Planck
È impossibile, con una macchina motrice a funzionamento continuo, ossia ciclico, realizzare una
trasformazione di calore in lavoro, scambiando calore ad un’unica temperatura, ossia con un unico
serbatoio termico.
Viv

PRINCIPIO SECONDO LIBRO: per qualsiasi apparecchiatura che operi secondo un ciclo è impossibile
ricevere calore da una sola sorgente e produrre una quantità di lavoro utile
In pratica, una macchina che possa produrre lavoro deve essere ALMENO bitermico. Non può avere
una sola sorgente.
Un motore monotermico riceve calore da una sola sorgente e produce lavoro. Percorre cicli
termodinamici, ma se percorre dei cicli, la sua energia interna non cambia. Quindi il lavoro è pari al
calore, e sarebbe una macchina a rendimento pari ad 1. E questo non può essere.
71

Per capire meglio questo enunciato occorre confrontarlo con il secondo modo di enunciarlo, ma
occorre prima capire come opera una macchina frigorifera.
Macchina frigorifera (pompa di calore)

ria
Questa doppia dicitura è perché la stessa macchina frigorifera può operare come pompa di calore
semplicemente invertendo il ciclo di funzionamento. Di base, operano allo stesso identico modo.
Macchine frigorifere e pompe di calore, inducono un flusso di calore in maniera opposta rispetto a
quella che la natura consente. Provano a trasferire calore da un ambiente più freddo ad uno più
caldo, forzando il processo naturale di scambio termico. Studieremo solo macchine frigorifere e
pompe di calore concepite come sequenza di organi che una data portata massica di fluido di lavoro

gne
incontrerà in successione sempre operando in condizioni stazionarie. In figura vediamo un ambiente
a bassa temperatura in grigio, ed uno ad alta
temperatura in rosa. Quello in grigio non lo
chiamiamo più pozzo termico ma ambiente
refrigerato. Quello in rosa lo chiamiamo
ambiente sul quale riversare il calore (come il
frigorifero che riversa calore all’esterno,
nge
asportandolo dall’interno). Questo speciale
modo di funzionare per questa macchina
frigorifera è denominato a compressione di
vapore, ed è l’unica che studieremo.
Analizziamo i quattro organi della macchina
frigorifera:
I
 Evaporatore
 Valvola di laminazione (di espansione)
 Condensatore
 Compressore
ere

Vediamo di capire cosa il fluido evolvente di questo ciclo


sperimenta nel suo percorso da un componente all’altro. Il fluido di
lavoro di una macchina frigorifero si chiama fluido refrigerante (o
solo refrigerante). Questo perché la modalità pompa di calore è
successiva alla modalità frigorifera per la quale sono state
concepite. Il compressore e la valvola di laminazione, sono gli
Viv

analoghi nel ciclo dei motori termici, alla pompa ed alla turbina
rispettivamente. Da sottolineare che entrambi i cicli lavorano
compresi tra due isobare. L’evaporatore e il condensatore, sono gli scambiatori di colore, organi in
cui il fluido evolve isobaricamente. Quindi abbiamo una zona tutta ad alta pressione quando il fluido
viene compresso e viene mandato al condensatore e poi alla valvola di espansione, e poi una zona
a bassa pressione che passa dall’evaporatore prima di tornare al compressore.
A differenza del motore termico, in cui la pompa elevava la pressione di un fluido allo stato liquido,
in questo caso parliamo di compressore perché eleviamo la pressione di un fluido allo stato
aeriforme. Se chiamiamo 1 lo stato appena prima dell’ingresso al compressore, il fluido sarà molto
freddo, completamente aeriforme, ed una pressione sostanzialmente bassa, molto prossimo alla
72

condizione di vapore saturo secco. Entra nel compressore che lo porta allo stato 2. Non abbiamo
ancora gli strumenti per valutare bene l’andamento, ma alla fine saremo su una isobara superiore.
Il punto 2 sarà certamente di vapore surriscaldato. Da lì il fluido entra in un condensatore, cedendo
calore. È un processo isobaro perché scorre in un tubo. Completata la condensazione quindi,

ria
portandosi a liquido saturo nel punto 3. Entra nella valvola di laminazione riducendo la sua pressione
portandosi al punto 4. Tuttavia sappiamo che l’entalpia iniziale è uguale alla entalpia finale (ma
come abbiamo già detto per le valvole di laminazione non sapendo che percorso seguirà lo
indicheremo con linea tratteggiata). L’evaporatore prende una miscela che è bifasica e lo porta a
totale evaporazione. Occorre somministrare energia sotto forma di calore.
Vediamo ora come rappresentare i flussi energetici per questi sistemi.

gne
A differenza del ciclo motore, qui abbiamo un unico lavoro scambiato al
compressore. Paghiamo a pieno prezzo la compressione al
compressore, che è lavoro fornito dall’esterno, invece quando il fluido
è ad alta pressione, non sfruttiamo la sua capacità di compiere lavoro,
e semplicemente la abbassiamo attraverso la valvola di laminazione.
Questa scelta sembra per ora uno spreco, ma vedremo dopo perché lo
facciamo (si ricordi il coefficiente di Joule-Thomson). Intanto ci
nge
semplifica l’analisi dei flussi energetici. Per evaporare poi, il mio fluido
preleva calore dalla cella frigorifera, che è proprio il risultato che io
voglio ottenere, e poi ho il processo di condensazione che è
rappresentato dalla grossa freccia che va verso la nuvoletta rosa.
Definiamo per le macchine frigorifere non più il rendimento né
l’efficienza, ma lo chiamiamo coefficiente di prestazione (coefficient of performance), COP. Lo
I
formuleremo in due modi alternativi a seconda che la macchina stia lavorando come macchina
frigorifera o pompa di calore. Lo definiamo come:
𝑄𝑖 𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑢𝑡𝑖𝑙𝑒 (𝑐𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑙𝑒𝑣𝑖𝑎𝑚𝑜)
𝐶𝑂𝑃 = =
𝐿𝑛,𝑢 𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑛𝑖𝑡𝑎 (𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑠𝑝𝑒𝑠𝑜 𝑑𝑎𝑙𝑙 ′ 𝑒𝑠𝑡𝑒𝑟𝑛𝑜)
ere

Tuttavia si nota come, dall’andamento dei flussi energetici che


𝐿𝑛,𝑢 = 𝑄𝑠 − 𝑄𝑖

Parliamo di COP e non di rendimenti, per via dei valori numerici che i COP possono raggiungere. I
rendimenti erano valori compresi tra 0 ed 1, perché derivanti dal rapporto tra quello che io ottenevo
per quello che io spendevo. Ora invece, l’effetto utile non è un effetto che viene da quello che io ho
Viv

speso. I due flussi convergono nel mio sistema a formare quello che butterò nel mio ambiente. Il
calore che prelevo dalla mia cella non è una parte di quello che spendo in termini di lavoro fornito
dall’esterno. I due flussi sono indipendenti. Quindi non sussiste più un vincolo per cui la quantità di
calore prelevato sia minore del lavoro speso. Può essere tranquillamente maggiore. Ne deriva che:
𝑄𝑖 𝑄𝑖 1
𝐶𝑂𝑃 = = =
𝐿𝑛,𝑢 𝑄𝑠 − 𝑄𝑖 𝑄𝑠 − 1
𝑄𝑖
73

Pompe di calore
sono esattamente composte dai medesimi organi che sfruttano i
medesimi principi di funzionamento delle macchine refrigeranti. Cosa
cambia allora quando funzionano come pompe di calore? Cambia il mio

ria
obiettivo: la pompa di calore non deve estrarre calore da un ambiente
freddo, ma è progettata per scaricare calore in un ambiente che voglio
tenere caldo. Lo split domestico può lavorare come pompa di calore o
come frigorifero a seconda di quello che voglio fare. In inverno
vogliamo che in casa vi sia più caldo rispetto a fuori. Quindi l’ambiente
rosa è la mia stanza e l’ambiente grigio è l’esterno. D’estate invece,

gne
devo estrarre calore dalla mia stanza e lo riverso nell’ambiente esterno
più caldo. L’obiettivo in assetto pompa di calore è quello di riversare
calore in un ambiente da tenere caldo. L’ambiente freddo ha una dose
di calore che noi preleviamo, il lavoro che entra nel mio sistema è l’ingresso dell’energia che noi
abbiamo, ma in questo caso, il coefficiente di prestazione non guarda più al più il 𝑄𝑖 ma è il 𝑄𝑠 . Avrò
quindi:
𝑄𝑠 𝑄𝑠 1
nge
𝐶𝑂𝑃𝑃𝐷𝐶 = = =
𝐿𝑛,𝑢 𝑄𝑠 − 𝑄𝑖 1 − 𝑄𝑖
𝑄𝑠
mi accorgo che ancora una volta questo 𝐶𝑂𝑃𝑃𝐷𝐶 è maggiore dell’unità. Esprimiamo adesso una
relazione che c’è tra i due diversi modi di funzionare della stessa macchina.
𝑄𝑠 𝑄𝑠 − 𝑄𝑖 + 𝑄𝑖 𝑄𝑖
𝐶𝑂𝑃𝑃𝐷𝐶 = = = 1+ = 1 + 𝐶𝑂𝑃
𝑄𝑠 − 𝑄𝑖 𝑄𝑠 − 𝑄𝑖 𝑄𝑠 − 𝑄𝑖
I
𝐶𝑂𝑃𝑃𝐷𝐶 = 1 + COP è una relazione valida solo se i cicli fossero identici, ovvero se 𝑄𝑠 , 𝑄𝑖 e 𝐿𝑛,𝑢
fossero gli stessi per entrambe le modalità. Questo non accade praticamente mai, quindi di norma
𝐶𝑂𝑃𝑃𝐷𝐶 > 𝐶𝑂𝑃 ma 𝐶𝑂𝑃𝑃𝐷𝐶 = 1 + COP vale solo alle condizioni sopracitate.
ere

03/04/2018
Secondo principio della termodinamica – enunciato di Clausius

È impossibile realizzare una macchina con funzionamento ciclico il cui unico effetto sia il
trasferimento di una quantità di calore da un corpo a bassa temperatura ad un altro a temperatura
più alta.
Viv

Questo enunciato non vuole dire che non possono esistere le macchine frigorifere o le pompe di
calore, ma dice che non può esistere una macchina che faccia ciò senza ulteriori effetti, quali la
necessità di fornire lavoro per movimentare il compressore. In pratica dobbiamo necessariamente
spendere qualcosa, per poter realizzare questo processo.
I due enunciati così espressi, sembrano completamente differenti. In realtà sono entrambi enunciati
dell’unico principio della termodinamica e sono pertanto equivalenti. Ovvero, bidirezionalmente,
ognuno dei due enunciati implica l’altro. Procediamo ora alla dimostrazione della loro equivalenza.
Il procedimento che useremo per dimostrarla è per assurdo. Questo procedimento trova
applicazione dimostrando che una violazione dell’enunciato secondo kelvin-planck implica una
violazione dell’enunciato secondo clausius.
74

1. Assumiamo per assurdo, che esista un motore termico (figura 9)


che abbia un unico serbatoio termico e, poiché essa è ciclica,
questa macchina assorbendo calore, produrrà un lavoro che non
può che essere pari a tutto il calore assorbito. Ovvero è una

ria
macchina con un rendimento unitario.
2. Consideriamo ora una macchina frigorifera normale, che non viola
nessun principio, che operi tra il medesimo serbatoio caldo ed un
generico serbatoio freddo. Assumiamo che tale macchina sia Figura 10
scelta proprio in modo da richiedere in input, un lavoro pari alla
quantità di calore 𝑄𝑠 che è pari alla quantità di lavoro prodotto

gne
dalla prima macchina (ricordando che nella prima macchina il
lavoro era uguale al calore scambiato in violazione per assurdo del
secondo principio). Questa macchina asporterà dal serbatoio a
bassa temperatura del calore e dovrà riversare su un ambiente a
più alta temperatura Ts esattamente la somma delle quantità di
energie che sono fornite in ingresso. Quindi per la conservazione
di energia, la Q che questa macchina riversa nel pozzo è la somma
nge
𝑄𝑠 + 𝑄𝑖 . Quindi e siccome il lavoro quantitativamente valeva 𝑄𝑠
la quantità di calore riversata è 𝑄𝑖 + 𝐿𝑛,𝑢
Figura 9
3. Poiché abbiamo dimensionato queste macchine, in modo tale che
la quantità di lavoro prodotta da una è la quantità utilizzata
dall’altra, posso decidere di accoppiarle (figura 11) e fare in modo
che sia proprio il lavoro prodotto dalla prima ad alimentare la
seconda. Consideriamo la macchina composita rappresentata
I
dall’insieme delle due macchine, quindi i due cerchi rosa in figura.
È una macchina ciclica perché unione di due macchine cicliche.
Vediamo le interazioni che ha questa macchina composita con i
due serbatoi: asporta una quantità di calore 𝑄𝑖 ed interagisce con
il serbatoio a temperatura più alta in maniera un po' più articolata,
ere

assorbendo 𝑄𝑠 e riversando 𝑄𝑠 + 𝑄𝑖 , con saldo netto peri a 𝑄𝑖


riversato sull’ambiente. Figura 11
4. Possiamo ulteriormente semplificare questa macchina secondo lo
schema in figura 12. È una macchina che rappresenta una
macchina frigorifera che trasferisce la quantità di calore 𝑄𝑖
dall’ambiente a bassa temperatura a quello ad alta temperatura
Viv

senza avere altri effetti sull’ambiente circostante (ossia, non


richiedere lavoro). Tale macchina viola l’enunciato di Clausius. E
quindi abbiamo osservato come la sola violazione dell’enunciato
di kelvin-planck conduca automaticamente alla violazione
dell’enunciato di clausius, dimostrandone quindi l’uguaglianza:
kelvin-planck implica clausius.

Figura 12
75

Macchina a moto perpetuo


È un dispositivo che non può esistere in natura che viola uno dei due principi della termodinamica.
Vediamo due esempi di macchine a moto perpetuo.

ria
Macchina a moto perpetuo di prima specie.
Ossia macchina a moto perpetuo che viola il
primo principio della termodinamica. Questa
macchina è anomala dal punto di vista
dell’alimentazione. Calettando il generatore
sulla turbina, si produce energia elettrica che

gne
alimenta una resistenza e questa resistenza
utilizzarla in parte per alimentare
l’evaporazione del fluido in caldaia. Quello che
rimane in più lo immetto nella rete elettrica.
Questa macchina che pure dal funzionamento
degli organi pare credibile, viola il primo
principio. Se ne postulo un funzionamento ciclico, ed immagino tutti i miei componenti come un
nge
sistema chiuso, vedo che dissipa calore al condensatore e cede lavoro alla rete elettrica. Dove la
prende l’energia per poterne cedere di continuo? È una macchina che palesemente non può
esistere.
Macchina a moto perpetuo di seconda specie.
Vediamo ora questa macchina che è come la
prima privata del condensatore. Vediamo che
I
la quantità di calore immessa, se pari al lavoro
prodotto, rispetta sì il primo principio, ma
sappiamo invece dal secondo principio che
una macchina che funzione da un solo
serbatoio termico non può esistere.
ere

Trasformazioni reversibili e irreversibili


Si dice che un sistema evolve secondo una trasformazione reversibile quando esso può ripercorrere
la medesima trasformazione in senso inverso senza che, a valle del completamento della
trasformazione e della sua inversa rimanga traccia nell’ambiente circostante. Quindi, quando un
sistema compie una trasformazione, poi l’inversa, e nell’ambiente non rimane nessuna traccia per
Viv

esempio in termini di calore fornito, allora questa trasformazione è reversibile. Una trasformazione
che reversibile non è, la chiamiamo irreversibile. Non è irreversibile una trasformazione che non si
può compiere al contrario: ma è una trasformazione che lascia traccia nell’ambiente circostante in
termini di interazioni energetiche. Di solito una trasformazione che non è reversibile, lo è quando vi
è una o più cause di irreversibilità:

 Attrito: cioè che avviene al contatto tra corpi, tra un fluido e la superficie di un corpo che lo
lambisce o ancora, in seno ad un fluido in moto, tra filetti fluidi adiacenti che tendono a
scorrere l’unico rispetto all’altro. È un “freno” al moto relativo, che dissipa calore. Pur
volendo far traslare il corpo al contrario, non possiamo trasformare il calore prodotto in
lavoro. Ammesso e non concesso che riuscissimo a farlo, dal secondo principio, non
76

riusciremmo a convertire tutto quel calore in lavoro, e quindi non riuscirei a rendere nulle
le tracce sul mio ambiente.
 La miscelazione di due gas
 La resistenza elettrica

ria
 Le deformazioni anelastiche nei solidi
 Lo scambio termico attraverso una differenza finita di temperatura: immergiamo un corpo
in un ambiente più caldo. Questo riceverà calore dall’ambiente circostante. Questa
trasformazione è irreversibile perché per potere raffreddare nuovamente il corpo
dovremmo utilizzare una macchina che utilizza lavoro. ad indurre la irreversibilità è la
differenza finita di temperatura. Se e solo se, la differenza di temperatura è infinitesima,

gne
potrei avere una trasformazione reversibile.
 L’espansione libera di un gas nel vuoto o in uno spazio a pressione notevolmente inferiore.
Se consentiamo ad un gas di riversarsi in un ambiente che stava ad una pressione inferiore
rispetto a quella del gas forando la parete che li divide, mi rendo conto che è un processo
intrinsecamente irreversibile: la ricompressione del gas, cosa consentita, mi costerà lavoro,
che rimane come traccia nell’ambiente.
nge
L’origine della reversibilità è spesso connessa alla rapidità e quindi alla non quasistaticità del
processo inverso. Tornando all’esempio della espansione libera, se volessi far sì che il gas si espanda
verso la zona a bassa pressione, così da uniformare la mia pressione su tutto il recipiente, ma lo
volessi fare in maniera quasistatica e non all’improvviso, potrei realizzare questo processo tramite
un pistone mobile e non forando la parete divisoria, creando quindi un evento improvviso e rapido.
Lasciando il pistoncino libero di scorrere con enorme lentezza, dopo un pò di tempo questo
pistoncino si sposterebbe ed io raccoglierei lavoro. immaginando che alla fine del processo, cominci
I
io dall’esterno a voler compiere lavoro di compressione, sempre in maniera enormemente lenta e
riportarlo alla posizione originale. Se questo processo avviene in maniera quasistatica, tutto il lavoro
che sono riuscito ad estrarre prima, l’ho dovuto spendere per la compressione. E sono quindi riuscito
a creare un evento reversibile. Dire reversibile implica quasistatico, che non esiste in natura, perché
richiederebbe un tempo infinito.
ere

Le trasformazioni reali quindi, non sono mai reversibili: per realizzare una trasformazione reversibile
dovremmo assicurare che essa sia quasistatica, in modo che si
svolga senza gradienti finiti di potenziali termodinamici quali la
pressione, la temperatura, etc. In questo esempio a destra
vediamo una parete mobile e l’andamento delle pressioni che
Viv

agisce su di essa ad opera di acqua allo stato liquido contenuto in


un recipiente. Se c’è un vincolo che impone che il movimento sia
estremamente lento il fluido ha il tempo di redistribuirsi
mantenendo il pelo libero orizzontale e mostrando questa
distribuzione di pressione. tutto permette, in assenza di attriti,
questo diagramma delle pressioni ripercorrere i medesimi stati di
equilibrio. Nel momento in cui il movimento è rapido il fluido non
ha tempo di porsi in uno stato di equilibrio, e quindi la pressione
che esercita sulla paratia è minore di quella che potrebbe
generare. In fase di compressione, spingendola rapidamente,
77

vedrei come forza resistente il pelo libero sollevatosi così all’improvviso, decisamente maggiore
rispetto al caso quasistatico.
Studiare i processi quasistatici, anche se non esistono, è utile per poter tracciare agevolmente linee
di trasformazione sui piani di stato, e rappresentano il limite teorico al quale possono tendere i cicli

ria
reali. le macchine motrici (ideali) sviluppano il massimo lavoro, mentre le macchine operatrici (tipo
le macchine frigorifere) consumano il minimo lavoro. Sono astrazioni che ci danno idea del campo
di migliorabilità dei cicli reali.

Una classificazione volta a discriminare tra le diverse tipologie di irreversibilità è la seguente:

 irreversibilità interna: tutti i fenomeni di irreversibilità che avvengono all’interno del mio

gne
sistema. esempio: l’attrito all’interno del fluido.
 irreversibilità esterne: sono quei fenomeni di irreversibilità che avvengono alla frontiera.
Esempio: scambio termico attraverso una differenza di temperatura finita.
Un sistema che non presenta irreversibilità interne si dice internamente reversibile, e la reversibilità
interna è condizione sufficiente perché il sistema evolva attraverso stati di equilibrio e possa, quindi,
essere tracciata una linea di trasformazione su un piano di stato.
nge
Una trasformazione è detta totalmente reversibile, o semplicemente riversibile, se essa non
presenta irreversibilità né interne né esterne.
Ciclo di Carnot
È un ciclo teorico (non realizzabile nella realtà), ma che studiamo per l’enorme importanza
concettuale: è infatti un riferimento per l’analisi di molteplici cicli reali, essendo totalmente
I
reversibile. Offre numerosi spunti di riflessione in virtù degli accorgimenti adottati per renderlo
totalmente reversibile, eliminando quindi qualsiasi possibile fonte di irreversibilità.

Consta di quattro trasformazioni che vedremo riferite ad un sistema chiuso contenuto in un cilindro
pistone, sebbene il ciclo di Carnot possa essere concepito anche per sistemi multi-componente con
ere

deflussi stazionari.
Trasformazione 1: espansione isoterma reversibile
Immaginiamo dentro un sistema cilindro pistone che sia
contenuto, all’interno un gas, che si comporti come gas
perfetto. Il gas perfetto ha completa elasticità di urti tra
Viv

particelle, quindi gli urti non dissipano in qualcos’altro, cosa che


i gas reali hanno. Il pistone all’interfaccia con il cilindro, non ha
nessun attrito, il contatto è quindi non dissipativo. Il pistone è completamente rivestito da un tappo
termico, rendendo impossibile un qualsiasi scambio termico con l’esterno. Sono allo stesso modo
rivestite di tappo termico le pareti del cilindro, ma non il fondo, che però presenta un tappo termico
removibile. Quindi in alcune trasformazioni lo immagineremo posto sul fondo, in altre rimosso, e
quindi in queste ultime sarà possibile scambiare calore. Prima di iniziare la trasformazione il fluido
si trovi a temperatura Ts e ad altra pressione. immaginiamo in questa prima trasformazione di non
avere il tappo termico e di porre il cilindro a contatto sul fondo con un serbatoio di calore che si
trova esattamente alla temperatura Ts. Immaginiamo di consentire una espansione estremamente
lenta di questo gas che proverà a spingere il pistone. Ci garantiamo che il processo sia estremamente
78

lento. L’estrema lentezza ci impone di ragionare in termini di infinitesimi spostamenti. Per ogni ds
farà una quantità infinitesima di lavoro di variazione di volume. Il gas tenderà a raffreddarsi di una
quantità infinitesima e questo lavoro lo farà a spese di una perdita di energia interna (ipotizzando
che ancora non scambi calore e si raffreddi). Ma il fluido è adesso a Ts-dT, ed è a contatto con un

ria
serbatoio a Ts. Questo dT permetterà uno scambio termico infinitesimo che consentirà uno scambio
di calore infinitesimo dalla sorgente più calda a quella più fredda. Lo scambio termico è inoltre
reversibile perché avviene tra due corpi che hanno differenza di temperatura infinitesima. Questi
passaggi non sono sequenziali, ma avvengono contemporaneamente, ed il serbatoio fornisce quel
calore necessario a mantenere la temperatura Ts del gas, e si da tempo al gas di attraversare
infinitesimi stati di equilibrio. È un processo totalmente reversibile perché è:

gne
 Esternamente reversibile: scambio termico attraverso differenza infinitesima di temperatura
ed assenza di attrito tra pistone e cilindro
 Reversibilità interna: assenza di attriti interni e movimento lento del pistone, che consente
omogeneità interna della pressione
Non c’è alcuna delle diverse fonti di irreversibilità esaminate in precedenza. Arrestiamo questo
processo. Fino ad un punto per noi arbitrario nel quale il fluido ha la temperatura che aveva all’inizio,
nge
il volume è aumentato e la pressione è diminuita. Applicando il primo principio, lungo l’isoterma
posso scrivere
𝑄 − 𝐿 = Δ𝑈 = 0
Ovvero
𝑄=𝐿
I
Perché la totale conversione di calore in lavoro non viola il principio di Kelvin-Planck? Perché non è
un ciclo. Nulla vieta che lungo una trasformazione si possa interamente convertire calore in lavoro.
Trasformazione 2: espansione adiabatica reversibile
Immagino ora di rimuovere il serbatoio termico e apporre il
ere

tappo termico sul fondo del mio cilindro e lascio che il mio gas
si espanda compiendo ancora lavoro. è chiaramente una
espansione, perché il gas ha pressione maggiore rispetto
all’esterno, è reversibile perché ci assicuriamo che avvenga in
maniera quasi statica, ed è adiabatica per via del tappo termico
apposto tutto attorno al cilindro e sul pistone. Il fluido in questa trasformazione compie
Viv

ulteriormente lavoro. Ma stavolta, ad ogni microlavoro elementare compiuto, non potrà più
ripristinare la sua temperatura, perché questo lavoro, il gas, lo deve compiere a spese della sua
energia interna. Alla fine il fluido, sarà più freddo, portandosi ad una temperatura Ti < Ts. Infatti
𝑄 = Δ𝑈 + 𝐿 = 0
Ovvero
−𝐿 = Δ𝑈
79

Trasformazione 3: compressione isoterma reversibile


Prima di procedere a questa ulteriore trasformazione, rimuovo il
tappo termico e colloco un serbatoio termico stavolta a
temperatura Ti, ovvero la stessa temperatura che ha il mio fluido

ria
alla fine della trasformazione 2. Comincio la terza trasformazione
di compressione, effettuata agendo in maniera estremamente
lenta cercando stavolta di comprimerlo il mio gas. Succederà esattamente quello che abbiamo visto
per la prima trasformazione ma al contrario, tendendo a riscaldarsi di un dT e porsi a temperatura
più alta Ti+dT. Ma questo fluido, essendo a contatto con il mio serbatoio a Ti, cederà questa quota
dT al serbatoio. è analogo alla prima, ed avrò nuovamente

gne
𝑄 − 𝐿 = Δ𝑈 = 0
Ma stavolta Q ed L sono intrinsecamente negativi: il calore viene ceduto ed il lavoro subito. Ma
l’espressione analitica è la stessa di prima
𝑄=𝐿
Trasformazione 4: compressione adiabatica reversibile
nge
Prima di procedere a questa ulteriore trasformazione, rimuovo
il serbatoio termico ed applico il tappo termico e continuo la
compressione. Questa volta il gas vedrà del lavoro compiuto su
di esso e tenderà a riscaldarsi, esattamente come nella
trasformazione 3, ma avendo rimosso il serbatoio a cui cedere
calore, il gas non può fare altro che aumentare la sua temperatura. Fermerò il processo fin quando
I
il gas non avrà raggiunto la temperatura Ts che aveva all’inizio. Ancora una volta scriverò:
𝑄 = Δ𝑈 + 𝐿 = 0
E quindi
ere

−𝐿 = Δ𝑈
Che però rappresenta un lavoro intrinsecamente negativo, al quale corrisponde un aumento di
energia interna.
04/04/2018
Rappresentazione del ciclo sul piano P-v
Viv

Quindi il ciclo di Carnot è sia internamente che esternamente reversibile. Abbiamo scritto tutti gli
accorgimenti che dobbiamo prendere nel condurre queste trasformazioni e abbiamo visto che il
ciclo si compone di due trasformazioni isoterme e due trasformazioni adiabatiche. Una
rappresentazione sul piano P-v è come in figura sulla destra. Le linee 1-2 e la 3-4, espansione e
compressione isoterma reversibili, hanno l’andamento tipico delle politropiche ad esponente 1.
Inoltre le trasformazioni 2-3 e 4-1 sono due adiabatiche reversibili rappresentabili come politropiche
80

ria
ad esponente k. Non cambia nulla se il punto 2, se invece di essere posizionato dove è collocato
adesso, ma più a destra sulla isoterma. La forma del ciclo può cambiare un po' ma non l’andamento
complessivo. Qualora l’andamento sia questo, il lavoro è quello racchiuso nell’area. Vale infatti ciò

gne
che abbiamo già visto
Il lavoro netto utile è la sottrazione tra le due aree, lavoro fatto
(espansioni) e lavoro speso (compressioni). Questo ciclo è
interamente reversibile, ovvero se io dovessi percorrere al
contrario le medesime trasformazioni, indurrei tra il mio sistema
e l’ambiente tutte le interazioni energetiche cambiate di segno.
nge
Allora è utile concepire il cosiddetto ciclo inverso di Carnot. Se le
quattro trasformazioni vengono invece seguite da una sequenza
inversa, avremo un ciclo che può essere considerato duale
rispetto al ciclo mostrato. Guardiamo le interazioni sotto forma di
calore: sono nulle lungo le trasformazioni adiabatiche ovviamente e quindi solo sulle isoterme. Per
queste due trasformazioni, il calore è uguale al lavoro. Conoscere quindi il verso del lavoro, vuol dire
conoscere il verso del calore ed il relativo valore numerico. Infatti il lavoro non viene compiuto a
I
spese di energia interna del fluido (linea 1-2) perché il corpo viene riscaldato. Allo stesso modo, nella
3-4 il lavoro è negativo e quindi anche il calore è negativo e quindi uscente. Le frecce quindi
rappresentano la direzione dei flussi termici.
Il ciclo di Carnot inverso vede lungo la 2-3 compiuto un lavoro e
ere

quindi necessario che dall’esterno giunga energia. Al contrario


lungo la isoterma 1-4 viene speso lavoro e quindi il calore è
uscente. L’area in rosa va presa col segno negativo e come tutti i
cicli presi sul piano in senso antiorario presentano un lavoro
negativo. Questo ciclo opera un trasferimento di calore da una
temperatura inferiore Ti ad una temperatura superiore Ts. A
Viv

spese del lavoro consumato noi riusciamo a realizzare un ciclo


refrigerante. Per questo motivo il ciclo inverso di Carnot è anche
detto frigorifero di Carnot.
Introduciamo alcuni teoremi di un certo interesse, e si denominano primo e secondo teorema di
Carnot (anche se nulla hanno a che vedere con i cicli di Carnot).
Primo teorema di Carnot: il rendimento di un motore termico irreversibile è sempre inferiore a
quello di un motore reversibile che operi tra gli stessi due serbatoi di calore.
81

A questa formulazione non è possibile togliere nemmeno una parola, è da imparare così com’è. Per
esempio, esistono molti motori irreversibili che hanno un rendimento maggiore di motori reversibili,
ma non che operano tra gli stessi serbatoi di calore.
Dimostriamo l’enunciato operando per assurdo, e quindi negando la tesi, supponendo che possa

ria
esistere un motore irreversibile con rendimento più alto di un motore reversibile operante tra due
serbatoi.
Partiamo due macchine,
una irreversible HE e l’altra
reversible HE. Supponiamo

gne
come tutti i motori termici
che assorbano Qs, che
producano lavoro L e che
riversino nel pozzo termico
un Qi in eccesso. Poiché
ogni macchina avrà i suoi
valori di calore e lavoro,
inseriamo dei pedici per
identificarli:
nge
 𝑄𝑠,𝑟𝑒𝑣 e 𝑄𝑠,𝑖𝑟𝑟
 𝑄𝑖,𝑟𝑒𝑣 e 𝑄𝑖,𝑖𝑟𝑟
 𝐿𝑟𝑒𝑣 e 𝐿𝑖𝑟𝑟
Abbiamo assunto per assurdo che il rendimento della macchina irreversibile è maggiore di quella
I
reversibile, pertanto
𝜂𝑖𝑟𝑟 > 𝜂𝑟𝑒𝑣
La dimostrazione può essere condotta in vario modo. Possiamo immaginare di fare assorbire ad
ere

entrambe le macchine la stessa quantità di calore, quindi 𝑄𝑠,𝑖𝑟𝑟 = 𝑄𝑠,𝑟𝑒𝑣 , oppure far loro produrre
la stessa quantità di lavoro quindi 𝐿𝑟𝑒𝑣 = 𝐿𝑖𝑟𝑟 o anche che riversino la stessa quantità di calore nel
pozzo termico e quindi 𝑄𝑖,𝑖𝑟𝑟 = 𝑄𝑖,𝑟𝑒𝑣 . Ebbene scegliamo di imporre:

𝑄𝑠,𝑖𝑟𝑟 = 𝑄𝑠,𝑟𝑒𝑣 = 𝑄𝑠

Cosa succedere in virtù di questa assunzione? Visto che il rendimento di una macchina è definito
Viv

come il rapporto tra lavoro prodotto e calore somministrato avremo che:


𝐿𝑖𝑟𝑟 𝐿𝑟𝑒𝑣
𝜂𝑖𝑟𝑟 = > 𝜂𝑟𝑒𝑣 =
𝑄𝑠,𝑖𝑟𝑟 𝑄𝑠,𝑟𝑒𝑣

Se questa relazione deve valere per assurdo, nell’ipotesi di fornire la stessa quantità di calore ad
entrambe le macchine, va da sé che il lavoro prodotto dalla macchina irreversibile è maggiore di
quello prodotto dalla macchina reversibile. Passiamo adesso alle quantità di calore ceduto al pozzo
termico: per il primo principio della termodinamica, questa non può che essere la differenza, in
modulo, tra il calore assorbito ed il lavoro compiuto.

|𝑄𝑖,𝑖𝑟𝑟 | = 𝑄𝑠 − 𝐿𝑖𝑟𝑟 < 𝑄𝑠 − 𝐿𝑟𝑒𝑣 = |𝑄𝑖,𝑟𝑒𝑣 |


82

Che relazione sussisterà tra le due quantità di calore? È chiaro che la macchina che compie più lavoro
butta meno calore, convertendo quindi più calore dello steso Qs, e viceversa. Quindi la macchina
irreversibile butta meno calore nel pozzo termico. Ricapitolando:
𝑄𝑠,𝑖𝑟𝑟 = 𝑄𝑠,𝑟𝑒𝑣

ria
𝐿𝑖𝑟𝑟 > 𝐿𝑟𝑒𝑣
|𝑄𝑖,𝑖𝑟𝑟 | < |𝑄𝑖,𝑟𝑒𝑣 |

Ora utilizziamo la proprietà della macchina reversibile di essere tale, e quindi decidiamo di invertirne
il funzionamento, perché se procedesse al contrario, vedrebbe i medesimi flussi energetici cambiati

gne
solo di direzione, non di quantità. Diventando macchina frigorifera, adesso assorbe dal pozzo
freddo, assorbe il lavoro e scarica sul pozzo caldo. Immaginiamo adesso queste due macchine
comprendendole in una macchina combinata, i cui effetti complessivo non possono che essere i
complessivi delle due macchine. Poiché adesso
𝑄𝑠,𝑖𝑟𝑟 = −𝑄𝑠,𝑟𝑒𝑣

Di fatto questa unica macchina non scambia calore netto con il serbatoio caldo. Nei confronti del
nge
pozzo termico, questa macchina riversa 𝑄𝑖,𝑖𝑟𝑟 e assorbe 𝑄𝑖,𝑟𝑒𝑣 . La somma algebrica di questi due
flussi ci dà un saldo netto che va dal pozzo freddo verso la macchina, quindi preleva calore. In termini
di saldo netto in termini di lavoro, una macchina lo produce ed una lo consuma. Quella reversibile
però consuma meno lavoro rispetto a quanto ne produce la macchina irreversibile. E quindi
l’interazione netta sottoforma di lavoro e l’esterno, non può che essere una produzione netta di
lavoro. allora, questa macchina viene adoperata dal punto di vista dei flussi energetici, assorbendo
calore dal pozzo freddo e produce lavoro netto, senza scaricare su un secondo pozzo termico,
I
violando così il secondo principio. È quindi dimostrato per assurdo che il rendimento del ciclo
irreversibile è inferiore.
Secondo teorema di Carnot: i rendimenti di tutti i motori termici reversibili che operino tra due
stessi serbatoi di calore sono uguali.
ere

La dimostrazione si fa analogamente al primo teorema, dimostrando per assurdo e finendo col


violare il secondo principio.
Tutti i motori reversibili che operino tra due stessi serbatoi, condividono gli stessi rendimenti.
Questo vuol dire che per due macchine che sono reversibili, se opero tra cicli completamente diversi,
ma tra gli stessi serbatoi avrò lo stesso rendimento. La reversibilità è garanzia del conseguimento di
Viv

quell’unico valore di rendimento. E siccome io so trattare dal punto di vista analitico il semplice ciclo
di Carnot, allora siamo certi che qualsiasi altra macchina reversibile avrebbe lo stesso rendimento
se operante tra due stessi serbatoi. questo valore di rendimento è un limite non valicabile dei cicli
irreversibili che operano tra gli stessi serbatoi. immaginiamo di avere due serbatoi di calore, uno a
Ts = 2000K e l’altro a Ti = 293K. Deduco che, qualsiasi ciclo reversibile tra i due serbatoi avrò lo stesso
rendimento, che io posso calcolare immaginando un ciclo di carnot che operi tra questi due serbatoi.
inoltre, qualsiasi ciclo reale avrà certamente un rendimento inferiore a quello che ottengo con il
ciclo reversibile. Il secondo teorema di carnot ci fa capire che il rendimento di una macchina
bitermica reversibile dipende solo dalla temperatura dei serbatoi di calore tra i quali opera.
Scriviamo quindi:
83

𝜂𝑡,𝑟𝑒𝑣 = 𝑓(𝑇𝑠 , 𝑇𝑖 )

Il fatto che il rendimento di una macchina reversibile è solo funzione delle temperature, offre lo
spunto per parlare della scala termodinamica delle temperature.

ria
Scala termodinamica delle temperature
Il problema della termometria era che, essendo prevalentemente basata sulla risposta diversa che
ogni sostanza aveva se esposta ad ambienti a temperatura diversa, e considerando anche il fatto
che sostanza diverse rispondono in maniera diversa se esposti ad ambienti con la stessa
temperatura, nessuno ci garantiva che questa scala di temperatura fosse indipendente dalla
sostanza stessa. La scala termometrica risulta strettamente connessa alle proprietà della sostanza.

gne
Si vuole ora realizzare una scala termometrica indipendente dalla proprietà della sostanza ma
basate solo sulle quantità di calore scambiate da un corpo. Immaginiamo quindi di sapere misurare
le Q in maniera rigorosa. Come definiamo una scala termometrica? Abbiamo visto che il rendimento
termico di una macchina reversibile che opera tra due serbatoi e solo funzione delle temperature,
ed osservando che il rendimento della macchina reversibile, scritto anche:
𝑄𝑖 𝑄𝑠 1
𝜂𝑡,𝑟𝑒𝑣 = 1 − ⇒ =
nge 𝑄𝑠 𝑄𝑖 1 − 𝜂𝑡,𝑟𝑒𝑣

Non c’è dubbio che da questa relazione ottengo un rapporto di quantità di calore dipendente dal
rendimento che a sua volta dipende dalla temperatura. Quindi:
𝑄𝑠
= 𝑓(𝑇𝑠 , 𝑇𝑖 )
𝑄𝑖
I
quindi possiamo scrivere che il rapporto tra le quantità di calore
è funzione solo delle temperature dei due serbatoi stessi.
Cerchiamo di capire la natura della funzione f attraverso un
esempio: immaginiamo di avere tre motori termici reversibili che
sono collegati in questo modo. Avremo che:
ere

𝑄
 Mot A: 𝑄1 = 𝑓(𝑇1, 𝑇2 )
2
𝑄2
 Mot B: = 𝑓(𝑇2 , 𝑇3 )
𝑄3
𝑄1
 Mot C: 𝑄 = 𝑓(𝑇1 , 𝑇3 )
3

Essendo tutte le macchine reversibili, nel complesso, il combinato


Viv

della macchina A+B non può che essere una macchina reversibile,
e per il secondo teorema di Carnot, ha lo stesso rendimento della
macchina C, perché opera tra gli stessi serbatoi termici. Quindi
non può che produrre, ricevuto Q1, la medesima quantità di
calore e riversare la medesima quantità di calore Q3. Il calore
scaricato dalla macchina A+B non può che essere lo stesso scaricato dalla macchina C. sappiamo per
certo che il rapporto dei calori scambiati della macchina A è funzione della temperatura dei serbatoi
termici. Parimenti per la macchina B e per la macchina C
84

Poiché
𝑄1 𝑄2 𝑄1
∙ =
𝑄2 𝑄3 𝑄3

ria
Allora
𝑓 (𝑇1, 𝑇2 ) ∙ 𝑓(𝑇2 , 𝑇3 ) = 𝑓(𝑇1 , 𝑇3 )
Dobbiamo capire per capire che espressione analitica ha questa funzione. Ci accorgiamo che questa
f deve avere una proprietà molto particolare: deve essere tale che il prodotto 𝑓 (𝑇1, 𝑇2 ) ∙ 𝑓 (𝑇2, 𝑇3 )
deve risultare indipendente da T2. Deve eguagliare una espressione che non dipende da T2, ovvero

gne
𝑓(𝑇1, 𝑇3 ) e questo accade se e solo se, la generica funzione 𝑓(𝑇1 , 𝑇2) può essere espressa come
rapporto di due funzioni distinte di T1 e T2, ovvero:
𝜑𝑇1
𝑓 (𝑇1 , 𝑇2 ) =
𝜑𝑇2
Perché se supponiamo che la funzione ha questa forma, allora anche tutte le altre possono essere
scritte in questo modo, e quindi possiamo effettivamente scrivere:
nge 𝜑𝑇1 𝜑𝑇2 𝜑𝑇1
∙ =
𝜑𝑇2 𝜑𝑇3 𝜑𝑇3
Rendendo quindi la funzione indipendente da T2. La funzione non può che avere questa forma, in
cui dipende singolarmente dalle temperature. Generalizzando per una macchina bitermica si scrive:
𝑄𝑠 𝜑𝑇𝑠
= 𝑓 (𝑇𝑠 , 𝑇𝑖 ) =
𝑄𝑖 𝜑𝑇𝑖
I
Occorre ricordare che la temperatura, di per sé, non esiste. È una nostra rappresentazione, non
dobbiamo chiederci quale sia il valore della funzione che rende vero quel rapporto, perché gli
argomenti li definisco come voglio. Quello che conta è solo Q, che sono flussi energetici che posso
𝑄
misurare. E dato che 𝑄𝑠 è un rapporto tra quantità di calore teoricamente misurabili ed indipendenti
ere

𝑖
dalla tipologia di ciclo utilizzato o dalle proprietà di qualsivoglia fluido evolvente, ad ogni possibile
definizione arbitraria di una funzione 𝜑𝑇, corrisponde automaticamente, una scala termodinamica
di temperature. La funzione 𝜑𝑇 posso definirla arbitrariamente come voglio. Scelte diverse portano
a scale termometriche di temperatura diverse. Per poter definire correttamente una scala
termometrica, devo associare un valore arbitrario di una temperatura di riferimento Ti, un punto
Viv

fisso, ed una funzione. Immaginando di avere un corpo caldo a Ts, infatti posso utilizzare
l’espressione:
𝑄𝑠 𝜑𝑇𝑠
=
𝑄𝑖 𝜑𝑇𝑖
E siccome so misurare i calori scambiati, conosco la funzione, e conosco Ti perché fissato
arbitrariamente, posso calcolare Ts.
Lord Kelvin pose 𝜑𝑇 = 𝑇. Si è scelto di attribuire 273,16 K al punto triplo dell’acqua.
Ci viene offerta una possibilità molto comoda per esprimere il rendimento di macchine bitermiche,
reversibili che operano tra due serbatoi a Ts e Ti, perché abbiamo appena visto che vale
85

𝑄𝑠 𝑇𝑠
=
𝑄𝑖 𝑇𝑖
E quindi posso scrivere, solo per le macchine reversibili

ria
𝑇𝑖
𝜂𝑡,𝑟𝑒𝑣 = 1 −
𝑇𝑠
Dove la temperatura, dalle relazioni precedente, deve essere necessariamente espressa in gradi
kelvin.
Il rendimento del ciclo di Carnot, o di una qualsiasi macchina reversibile che opera tra serbatoi

gne
termici a Ts e Ti, hanno lo stesso rendimento e soprattutto quel rendimento rappresenta un limite
invalicabile per qualsiasi altra macchina reversibile e non. È molto difficile concepire una macchina
interamente reversibile che non abbia una qualche somiglianza o che non condivida trasformazioni
con quella ideale di Carnot. Cosa nella realtà ci rende difficile eliminare i fenomeni di irreversibilità?
È lo scambio termico. Nel ciclo di Carnot questo problema viene risolto fornendo tutto il tempo
possibile affinché il processo avvenga con estrema lentezza e quindi reversibilmente. Tuttavia il ciclo
di Carnot ci mostra che, un processo interamente reversibile, ha bisogno di due adiabatiche e due
nge
isoterme. Questa scelta è stata molto felice riguardo la reversibilità degli scambi termici: durante le
adiabatiche non ne ho, e nelle isoterme ho uno scambio termico sempre alla stessa temperatura.
Quindi facilmente riesco a realizzare le isoterme somministrando (o sottraendo) quantità
infinitesime di calore. Tuttavia, un ciclo di questo tipo, affinché veda somministrato calore, non può
essere solo bitermico, non può esserci una sola sorgente ad una data T che somministri calore
perché presto il salto termico diventa finito, e quindi tutti questi scambi termici diventano
irreversibili. Con una sola temperatura posso fornire calore reversibilmente solo se tutto il mio fluido
I
è tutto alla stessa T e differisce di un dT dalla mia fonte di calore. Come potrei generare questo ciclo
in maniera reversibile? Dovrebbe essere un ciclo non bitermico, con una quantità infinita di sorgenti
differenti tra loro di dT, in modo da poter fornire al mio fluido i dT di cui ha bisogno ogni volta da
una sorgente diversa.
ere

Dal punto di vista concettuale è possibile concepire un ciclo interamente reversibile che non sia di
Carnot, ma non può essere un ciclo bitermico. Avrebbe bisogno di una quantità infinita di sorgenti
e di pozzi, ciascuno interagente con il fluido per garantire come reversibile il microscambio di calore.
Conseguenze
I principi enunciati sopra, sebbene derivati da una espressione rigorosamente valida solo per motori
Viv

reversibili, valgono anche per i cicli reali, i quali possono essere associati a cicli reversibili cui più
somigliano ma che presentano, rispetto a questi, rendimenti peggiori. I cicli reali si comportano di
norma, come i cicli reversibili non dei peggioramenti. in qualche misura, i concetti che valgono per
i cicli reversibili funzionano per i cicli reali. il rendimento di una macchina reversibile bitermica,
cresce al crescere della temperatura Ts di somministrazione del calore. Parimenti, aumenta al
decrescere della Ti alla quale è sottratto il calore. Dal punto di vista termodinamico si cerca di fornire
Ts più alta possibile, salvo resistenza dei materiali, e di scaricare a Ti più basse possibili.
86

05/04/2018
Abbiamo derivato una scala termodinamica di temperatura che ci ha permesso di formulare in una
maniera semplice la dipendenza del rendimento di una macchina reversibile bitermica che è
associato ai soli livelli termici dei due serbatoi con i quali la macchina si interfaccia. Il rendimento

ria
teoricamente massimo raggiungibile varia al variare delle temperature del pozzo caldo e del pozzo
freddo. Focalizziamo il punto su una espressione: si è soliti dire che il secondo principio riesce a
discriminare sulla qualità dell’energia, mentre il primo considera l’energia solo in termini di quantità.
Il secondo principio ci dice che forme diverse di energie sono interamente convertibili, altre no.
C’era quindi un verso nelle trasformazioni, ed abbiamo riconosciuto una superiorità del lavoro nella
conversione in altre energie. È più facile convertire lavoro in calore ma il contrario non è altrettanto

gne
facile. In che termini quindi il secondo principio discrimina l’energia in termini qualitativi? Ci ha fatto
capire questa asimmetrie di convertibilità, associato quindi al fatto che forme diverse di energie
sono differentemente convertibili. E per rendere ancora più concreta questa misurazione della
qualità dell’energia dobbiamo chiarire su come concepire la qualità dell’energia, con riferimento
alla stessa tipologia di vettore energetici. Il secondo principio di permette di gerarchizzare la qualità
dell’energia. Se consideriamo la qualità dell’energia termica come associato ad un parametro che ci
dica quanto ne riusciamo a convertire in lavoro, osserviamo che c’è un limite di convertibilità di
nge
calore in lavoro che discende dalla temperatura alla quale quel calore è disponibile. Infatti
immaginando un unico serbatoio freddo che funge da pozzo, a Ti = 303 K, possiamo dire che, al
variare della temperatura Ts, cambia la quantità di calore che riesco a convertire in lavoro, perché
il limite superiore è quello di una macchina reversibile che lavori tra Ti e Ts. Ma una macchina
reversibile qualsiasi, che lavori tra queste due temperature, ha il rendimento pari alla macchina di
Carnot che lavoro tra le medesime temperature. E quindi il rendimento vale:
I
𝑇𝑖
𝜂𝑡,𝑟𝑒𝑣 = 1 −
𝑇𝑠
Si capisce così che, una quantità di calore scambiata a Ts = 1010 K, e che quindi presenta un
rendimento dello 0,70, rappresenta un limite invalicabile per tutte le macchine, reversibili e non,
ere

che lavorano tre le stesse temperature, con il rendimento delle macchine irreversibili decisamente
inferiore.
Il livello di convertibilità delle altre forme di energie, soprattutto per il calore, dipende quindi dalla
temperatura alla quale esso si rende disponibile.
Breve cenno anche sul COP della macchina inversa di Carnot. Abbiamo già derivato l’espressione del
Viv

rendimento di una generica macchina frigorifera. Ma se noi immaginiamo il rendimento della


macchina frigorifera di Carnot, e quindi totalmente reversibile, possiamo scrivere
𝑄𝑖 1 1
𝐶𝑂𝑃𝑟𝑒𝑣 = = =
𝑄𝑠 − 𝑄𝑖 𝑄𝑠 − 1 𝑇𝑠 − 1
𝑄𝑖 𝑇𝑖
Parimenti
𝑄𝑠 1 1
𝐶𝑂𝑃𝑃𝐷𝐶,𝑟𝑒𝑣 = = =
𝑄𝑠 − 𝑄𝑖 1 − 𝑄𝑖 1 − 𝑇𝑖
𝑄 𝑇
𝑠 𝑠
87

Dal punto di vista concettuale del comportamento, le macchine reali hanno un andamento simile.
Pur non raggiungendo gli stessi rendimenti delle macchine reversibili. Il frigorifero domestico è solo
un ciclo inverso di Carnot peggiorato.

ria
gne
in questi diagrammi sono rappresentati in uno l’andamento del rendimento in funzione della
massima temperatura di esercizio e Ti fissata per la macchina frigorifera di Carnot e quello della
pompa di calore di Carnot a Ts fissata ed in funzione di Ti. E quindi reversibili. La macchina frigorifera
funziona prelevando dall’ambiente a Ti e riversa nell’ambiente a Ts. Immaginiamo che Ti sia la stanza
che vogliamo raffrescare e Ts l’ambiente esterno. In virtù di quella relazione, il COP di quella
nge
macchina va decrescendo al crescere della temperatura esterna, ovvero quanto più alto è il mio
salto termico. Il condizionatore domestico, pur non raggiungendo quei valori di COP, in realtà
mostra lo stesso andamento. Ecco perché abbiamo parlato di scambio termico che diventa
reversibile attraverso differenze infinitesime di temperature. Scambi infinitesimi di calore, sono
reversibilmente prodotti attraverso un ciclo frigorifero che richiederebbe un infinitesimo di lavoro
esterno, e quindi presentando un COP infinito. Non avendo una quantità finita di lavoro, ma
infinitesima, praticamente non restano tracce nell’ambiente. Analogo ragionamento vale per la
I
pompa di calore di Carnot. Cosa cambia nel COP della pompa di calore al variare della temperatura
Ti? Dobbiamo prelevare calore dall’esterno e portarlo all’interno della nostra stanza. Quando il clima
esterno è molto rigido, la pompa di calore ha un COP peggiore.
Disuguaglianza di Clausius
ere

Partiamo dall’enunciato della disuguaglianza, che dice: per qualsiasi ciclo chiuso, seguito da una
sostanza, reversibile o irreversibile, l’integrale esteso all’intero ciclo chiuso del rapporto tra la
quantità di calore infinitesimo sulla temperatura di è minore o uguale a zero. Il calore infinitesimo a
numeratore è il calore scambiato dal mio sistema con l’ambiente comprensiva del suo segno, vale
un infinitesimo positivo se ricevuto dalla mia sostanza, mentre è negativo se è ceduto dalla sostanza.
Viv

Ogni infinitesimo di calore è diviso per la temperatura che ha la sostanza nel momento in cui sta
scambiando quel calore. In termini analitici:
𝛿𝑄
∮ ≤0
𝑇
Vediamo ora come si dimostra questa disuguaglianza, che pone tanti problemi per i processi
irreversibili. Per esempio, quale T mettere per un processo irreversibile che non attraversa stati di
equilibrio? Una soluzione è quella di considerare la T che il fluido ha in quel punto. Ma passiamo alla
dimostrazione.
88

Immaginiamo un apparato come quello in figura a destra che è


composto da un sistema cilindro pistone a massa di controllo
(contorno rosa tratteggiato) che riceve calore 𝛿𝑄 da una
macchina reversibile che lavora prelevando da un pozzo a Ts.

ria
Quindi le interazioni che si hanno sono le seguenti: ogni
qualvolta la macchina reversibile riceve una quantità 𝛿𝑄𝑠 dalla
sorgente a Ts, produrrà un lavoro 𝛿𝐿𝑟𝑒𝑣 e dovrà smaltire un 𝛿𝑄
che fluisce nel sistema che è alla temperatura T. Il sistema
produrrà ciclicamente un lavoro infinitesimo 𝛿𝐿𝑠𝑖𝑠 . Il sistema
può evolvere sia attraverso cicli reversibili che irreversibili.

gne
Mentre la Ts è costante, la T non è costante, perché il sistema
man mano che evolve, cambia il suo stato termodinamico, e si
suppone che il 𝛿𝑄 glielo fornisca a temperature diverse. Per
questo fotografiamo un momento in cui si stanno scambiando
quantità infinitesime. Allora abbiamo chiaro che la prima è la
macchina reversibile, il secondo è quello che chiamiamo sistema, mentre come sistema combinato
è tutto quello che sta dentro la linea tratteggiata. Possiamo esprimere il primo principio per questo
nge
processo infinitesimo seguito dal sistema combinato
𝛿𝐿𝑐𝑜𝑚𝑏𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜 = 𝛿𝑄𝑠 − 𝑑𝐸𝑐𝑜𝑚𝑏𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜
Dove
𝛿𝐿𝑐𝑜𝑚𝑏𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜 = 𝛿𝐿𝑠𝑖𝑠 + 𝛿𝐿𝑟𝑒𝑣
Ora, il calore infinitesimo che questo sistema riceva, è chiaramente 𝛿𝑄𝑠 . Ma, la macchina reversibile,
I
non può che rispettare per la scala termodinamica di temperatura che abbiamo introdotto, deve
rispettare la
𝛿𝑄𝑠 𝛿𝑄
=
𝑇 𝑇
ere

Perché per le macchine reversibili abbiamo scritto


𝑄𝑠 𝑇𝑠 𝑄𝑠 𝑄𝑖
= ⟹ =
𝑄𝑖 𝑇𝑖 𝑇𝑠 𝑇𝑖
Quindi il rapporto tra la quantità di calore scambiato con la sorgente a Ts, e Ts stessa, non può che
essere uguale al rapporto tra la quantità di calore scambiata con il sistema e la T del sistema stesso:
Viv

quindi posso scrivere, al posto di 𝛿𝑄𝑠


𝛿𝑄
𝛿𝑄𝑠 = 𝑇𝑠 ∮
𝑇
Ovvero
𝛿𝑄
𝛿𝐿𝑐𝑜𝑚𝑏𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜 = 𝑇𝑠 ∮ − 𝑑𝐸𝑐𝑜𝑚𝑏𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜
𝑇
Abbiamo entrambe le macchine che sono cicliche. In teoria non è detto che abbiano lo stesso ciclo:
possono avere periodi diversi. Poco importa: il fatto che entrambe le macchine siano cicliche è
89

possibile trovare un tempo per cui i due cicli vanno a coincidere, una sorta di minimo comune
denominatore. Se io sviluppo l’integrale per un ciclo completo della macchina combinata nella sa
interezza, trovo che tutte le sue proprietà sono tornate ai valori che aveva all’inizio del ciclo.
Integrando ad un ciclo del sistema combinato avremo:

ria
𝛿𝑄
𝐿𝑐𝑜𝑚𝑏𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜 = ∮ 𝛿𝐿𝑐𝑜𝑚𝑏𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜 = 𝑇𝑠 ∮
𝑇
Perché la variazione dell’energia del sistema combinato sarà zero su un intero ciclo. Se questo
sistema combinato producesse lavoro, quindi se questa quantità risultasse positiva, quindi lavoro
compiuto dal mio sistema combinato, violerei il secondo principio secondo l’enunciato di kelvin-

gne
planck, perché avrei una macchina che produce lavoro da una sola fonte termica. E quindi questo
lavoro combinato non può rappresentare un lavoro compiuto. Deve per forza essere minore o
uguale a zero. Poiché Ts non può essere negativa, in quanto temperatura assoluta, allora ne deriva
che
𝛿𝑄
∮ ≤0
nge 𝑇
E questo è derivato senza precisare se il mio sistema funzioni in maniera reversibile o irreversibile.
Cosa accadrebbe nel caso in cui anche il sistema cilindro pistone fosse reversibile. Se lo fosse,
saremmo certi che esso può operare anche al contrario senza lasciare alcuna traccia sull’ambiente,
quindi invertendo il valore di tutti i flussi. E quindi i flussi a parità di modulo avrebbero segno
opposto al precedente. Nel solo caso in cui questo sistema è pure reversibile, risulterebbe:
𝛿𝑄
∮ =0
𝑇
I
Perché tutto il calore è convertito in lavoro, non può dissipare, e sull’intero ciclo il bilancio non più
che essere nullo. Ricordiamo che questi infinitesimi di calore sono presi col segno, ma hanno
intrinsecamente un segno, altrimenti l’integrale sarebbe maggiore di zero. Ci saranno tratti in cui
queste variazioni infinitesime saranno negative ed altre positive. Questa scrittura, è coerente con
ere

altre macchine conosciute? Vediamo se è coerente con la macchina di Carnot provando a scrivere il
rendimento.
𝐿𝑛,𝑢 𝑄𝑖 𝑇𝑖
𝜂𝑡,𝑐𝑎𝑟𝑛𝑜𝑡 = =1− = 1−
𝑄𝑠 𝑄𝑠 𝑇𝑠
Ma questa assunzione ci permette di lavorare solo esclusivamente sui moduli, senza valutare il
Viv

segno dei flussi energetici. Se io invece voglio sfruttare la convenzione sui segni, allora Qi è
intrinsecamente negativo. A rigore le cose andrebbero così. Allora, la scrittura del rendimento del
ciclo di Carnot, che tiene conto della convenzione dei segni, risulta essere
𝐿𝑛,𝑢 𝑄𝑖
𝜂𝑡,𝑐𝑎𝑟𝑛𝑜𝑡 = = 1+
𝑄𝑠 𝑄𝑠
Con Qi, come dicevamo, intrinsecamente negativo. E abbiamo dimostrato che vale anche
𝑇𝑖
𝜂𝑡,𝑐𝑎𝑟𝑛𝑜𝑡 = 1 −
𝑇𝑠
90

Elaborandola un attimo vediamo che vale:


𝑇𝑖 𝑄𝑖
1− =1+
𝑇𝑠 𝑄𝑠

ria
Ovvero
𝑇𝑖 𝑄𝑖 𝑄𝑠 𝑄𝑖 𝑄𝑠 𝑄𝑖
− = ⇒ =− ⇒ + =0
𝑇𝑠 𝑄𝑠 𝑇𝑠 𝑇𝑖 𝑇𝑠 𝑇𝑖
Questa relazione, è diversa da quella sopra presentata? È solamente un caso particolare. Perché
l’integrale di Q su T per un ciclo di Carnot si scrive:

gne
2 3 4 1
𝛿𝑄 𝛿𝑄 𝛿𝑄 𝛿𝑄 𝛿𝑄 1 2 1 4
∮ =∫ +∫ +∫ +∫ = ∫ 𝛿𝑄 + ∫ 𝛿𝑄
𝑇 1 𝑇 2 𝑇 3 𝑇 4 𝑇 𝑇𝑠 1 𝑇𝑖 3

Elidendo i termini in rosso perché adiabatiche, e non presentano scambi di calore. Le altre due sono
isoterme, per cui le temperature sono costanti, e possono essere portate fuori dal segno
dell’integrale. Gli integrali valgono:

1 2 𝑄𝑠
nge ∫ 𝛿𝑄 =
𝑇𝑠 1 𝑇𝑠
E analogamente, con la convenzione dei segni
1 4 𝑄𝑖
∫ 𝛿𝑄 = −
𝑇𝑖 3 𝑇𝑖

Questa cosa ci aiuta a mettere a fuoco come questa espressione ci aiuta a contemplare Qi con il suo
I
segno.
NOTA: domanda di precisazione: perché prima non abbiamo tenuto conto della convenzione sui
segni ed ora lo facciamo? Perché se noi vogliamo verificare come il ciclo di Carnot, che è un ciclo
reversibile, lo dobbiamo fare contemplando il fatto che quella relazione considera le quantità di
ere

calore scambiato con i propri segni, e quindi così dobbiamo fare anche per Carnot.
Si è osservato come: per i cicli totalmente reversibili, cioè nel caso in cui questo sistema cilindro
pistone, fosse reversibile, ma in realtà si può dimostrare che la stessa cosa vale anche per i cicli solo
internamente reversibili. Questo si intuisce perché si può fare vedere che, anche se vi fosse uno
scambio termico attraverso temperature finite, questo non inficerebbe sul ragionamento appena
Viv

fatto (perché lo scambio è interno al mio sistema combinato). Per essere tracciata sul piano di stato,
una trasformazione deve essere internamente o totalmente reversibile? Possiamo tracciare anche
le trasformazioni internamente reversibili. Se noi con una sorgente a Ts diamo calore al mio sistema
cilindro-pistone che si trova ad una temperatura diversa da Ts, supposta minore. Accadrà che calore
fluirà da Ts a T. se il processo è internamente reversibile dobbiamo verificare che non vi siano fonti
di irreversibilità al suo interno, quindi che non vi siano zone a T troppo diverse tra loro. Dobbiamo
garantire che ad ogni cessione di calore, dare il tempo al fluido di omogeneizzare la nuova
temperatura. Quindi la garanzia della assenza di irreversibilità interne è l’omogeneità dei parametri.
Questa omogeneità sussiste anche se dell’esterno arriva qualcosa che genera un po' di irreversibilità
esterna. Quindi la relazione che abbiamo scritto, che l’integrale esteso al ciclo del rapporto tra calore
91

scambiato e temperatura alla quale è scambiato è uguale a zero se il processo è reversibile, è esteso
anche ai casi in cui sia solo internamente reversibile, e lo indicheremo con il pedice rev.
𝛿𝑄𝑟𝑒𝑣
∮ =0
𝑇

ria
Se invece il processo è generico, immagineremo che il processo sia di qualsiasi natura e quindi
scriveremo minore o uguale a zero. Per togliere il segno di minore va specificato che il processo sia
reversibile (anche solo internamente). Dire che l’integrale ciclico di una quantità infinitesima è
uguale a zero, vuol dire che l’argomento dell’integrale è un differenziale esatto. Ossia ha il significato
di variazione infinitesima di qualcosa. Se durante il ciclo questo qualcosa è nullo, vuol dire che

gne
assommate assieme, punto iniziale e punto finale coincidono. Se parto da un punto qualsiasi, da uno
stato qualsiasi del mio sistema, che evolve scambiando una quantità di calore a determinate
temperature, è alla fine del ciclo questa variazione complessiva è zero, allora è chiaro che questa
variazione hanno portato a contributi sia positivi che negativi che alla fine del ciclo sono risultati
nulli se sommati, rappresentando quindi una variazione infinitesima di una funzione di stato. Questo
per una trasformazione internamente reversibile. Questa funzione di stato la chiamiamo Entropia,
e la definiamo con il simbolo S.
nge (
𝛿𝑄
) = 𝑑𝑆
𝑇 𝑟𝑒𝑣
L’entropia è quindi una funzione di stato, estensiva, il cui differenziale è rappresentato dalla quantità
infinitesima di calore scambiata dal sistema rapportata con la sua temperatura. Pur se abbiamo la
dicitura reversibile, il calore scambiato resta una quantità infinitesima. Questo vuol dire 1/T è il
fattore integrante del calore scambiato reversibilmente, ossia è la grandezza che, moltiplicata per il
I
differenziale non esatto, lo rende differenziale esatto. Questo vale solo assumendo la T assoluta. Il
calore scambiato in questo modo è sempre differenziale di linea. Diviso per T lo rende esatto.
Diremo quindi che 1/T è il fattore integrante dal calore scambiato reversibilmente. L’entropia è
estensiva perché dipende dalla quantità di sostanza che scambia calore. Come è ovvio si esprime di
kJ/K. Per le medesime ragioni viste in passato, è utile definire una entropia specifica:
ere

𝑑𝑆 𝛿𝑞 𝑘𝐽
𝑑𝑠 = = [ ]
𝑚 𝑇 𝑘𝑔𝐾
Integrando il differenziale tra due stati termodinamici avrò:
2
𝛿𝑄 𝑘𝐽
Δ𝑆 = 𝑆2 − 𝑆1 = ∫ ( ) [ ]
Viv

1 𝑇 𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣 𝐾

L’entropia per come è definita è fisiologicamente una grandezza definita per differenze. Possiamo
dire analiticamente quanto vale la differenza di entropia, ma non i suoi valori assoluti. Allora ancora
una volta si identificherà uno stato termodinamico di riferimento al quale si attribuirà il valore di
zero dell’entropia. Immaginiamo su un piano di lavoro T-v, due stati 1 e 2 ed immaginiamo due
trasformazioni, evolvere dallo stato 1 allo stato 2, una segnata in linea continua, e l’altra
tratteggiata, la prima reversibile la seconda no. Se voglio misurare S1 e S2 accade che S2-S1, qualsiasi
sia il modo in cui lo stato evolve, vale sempre lo stesso numero, a prescindere delle trasformazioni
che seguo. Fissata una convenzione, entrambi i punti hanno un preciso valore di entropia. Quello
che però accade è che, per come abbiamo definito l’entropia, la differenza di entropia tra i due stati
92

è espressa da quell’integrale solo se segue un processo reversibile. Fissato che sia S1 e S2, lungo il
processo reversibile, facendo l’integrale, troverò la differenza S2 e S1. Ma se provo a farlo lungo il
processo irreversibile, intanto non potrei perché non ho la temperatura punto per punto, ma inoltre
non mi verrebbe l’integrale. Lungo la linea irreversibile non vale l’integrale scritto in precedenza. Il

ria
valore della variazione di entropia tuttavia, non è diverso: essendo funzione di stato la differenza di
entropia dal punto S1 al punto S2 è la stessa sia che il processo fosse reversibile, sia che fosse
irreversibile. Non è più vera l’uguaglianza con l’integrale. È stato quindi condurre una volta per tutte
i calcoli per le entropie specifiche dei diversi fluidi nei diversi stati termodinamici tramite assunzioni
di stati di riferimento e l’effettuazione di calcoli basati su particolari percorsi reversibili. Valori
tabellati esattamente come per le entalpie, l’energia interna etc.

gne
Ora però non vogliamo accontentarci più di dire che lungo una trasformazione irreversibile non è
vero che l’integrale sia valido. Voglio cercare di capire che succederebbe all’integrale lungo un
processo irreversibile (se mai riuscissi a calcolarlo). Per farlo, consideriamo un processo ciclico che
vede evolvere il mio sistemo dallo stato 1 allo stato 2 in maniera o irreversibile o reversibile, da
identificare. E poi dallo stato 2 allo stato 1 in maniera reversibile. Ci chiediamo cosa la disuguaglianza
di Clausius prevede: è chiaro che il segno di minore va posto se il ciclo da 1 a 2 fosse irreversibile. Se
invece fosse reversibile, possiamo mettere l’uguale. Questo integrale va calcolato lungo il ciclo e
nge
quindi può essere decomposto in due integrali. Ma la corsa da 2 ad uno è un processo certamente
reversibile. Otterremo dunque:
2 1
𝛿𝑄 𝛿𝑄
∫ +∫ ( ) ≤0
1 𝑇 2 𝑇 𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣

L’integrale da 2 a 1, è per quello appena scritto, la variazione di entropia. Quindi avremo:


I
1
𝛿𝑄
∫ ( ) = 𝑆1 − 𝑆2
2 𝑇 𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣

Troveremmo che S1 – S2, portato a secondo membro, e sostituita nella espressione precedente
varrà:
ere

2
𝛿𝑄
𝑆2 − 𝑆1 ≥ ∫
1 𝑇

Che posso scrivere in forma differenziale come:


𝛿𝑄
𝑑𝑆 ≥
Viv

𝑇
Il segno maggiore vale se la corsa di andata 1-2 è irreversibile. È valido quindi se il processo è
irreversibile. Se invece è reversibile, ottengo una eguaglianza e nel totale avrò che la variazione di
entropia di un ciclo chiuso reversibile è zero, come è giusto che sia. Vediamo quindi di riscrivere nel
caso in cui la trasformazione da 1 a 2 sia irreversibile. Proviamo a riscrivere tutto in termini di
uguaglianza. Se il termine di una disuguaglianza è maggiore del secondo, è possibile scrivere che il
primo termine è uguale al secondo più una certa quantità. Ovvero:
se 𝐴 > 𝐵, allora 𝐴 = 𝐵 + 𝐶
93

posso quindi riformulare la disuguaglianza esplicitando:


2
𝛿𝑄
Δ𝑆 = 𝑆2 − 𝑆1 = ∫ + 𝑆𝑔𝑒𝑛
1 𝑇

ria
In cui 𝑆𝑔𝑒𝑛 può essere zero nel caso di processi reversibili o maggiore di zero nel caso di processi
irreversibili. L’aumento di entropia è associato ai processi irreversibili. Anzi, più è irreversibile il
processo, più è alto il valore di entropia generato. Un mio sistema può variare la sua entropia in due
modi:
1. Ogni scambio termico che vede una T finita, genera un aumento di entropia derivante

gne
dall’integrale
2. L’altro è che oltre al calore scambiato, l’entropia si può pure generare. Un sistema isolato
adiabatico ma irreversibile vede la sua entropia aumentare, solo perché è irreversibile
Δ𝑆𝑖𝑠𝑜𝑙𝑎𝑡𝑜 = 𝑆𝑔𝑒𝑛 ≥ 0 → principio dell′ aumento di entropia

In assenza di scambio termico l’aumento di entropia è dovuto alle sole irreversibilità. L’entropia è
una proprietà estensiva e perciò l’entropia totale di un sistema è uguale alla somma delle entropie
nge
delle parti che lo compongono. Un sistema isolato può essere costituito da un numero qualsiasi di
sottosistemi. Un sistema e l’ambiente circostante, per esempio, costituiscono un sistema isolato dal
momento che entrambi possono essere racchiusi da un contorno arbitrario sufficientemente ampio
attraverso il quale non ci sia scambio di calore, lavoro o trasporto di massa. Un sistema e l’ambiente
circostante possono perciò essere visti come due sottosistemi di un sistema isolato e la variazione
di entropia di tale sistema isolato durante una trasformazione è la somma della variazione di
entropia del sistema e dell’ambiente ed è uguale all’entropia generata, in quanto un sistema isolato
I
non presenta entropia di trasferimento. Si ha quindi:
Δ𝑆𝑖𝑠𝑜𝑙𝑎𝑡𝑜 = Δ𝑆𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 + Δ𝑆𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 = 𝑆𝑔𝑒𝑛 ≥ 0

Dove l’uguaglianza vale per processi reversibili, e la disuguaglianza per processi irreversibili. Dal
momento che nessuna trasformazione reale è reversibile, si può affermare che ogni trasformazione
ere

comporta la generazione di una quantità di entropia e l’aumento dell’entropia dell’universo


considerato come sistema isolato. Da notare:
1. Il principio dell’aumento dell’entropia non esclude che l’entropia di un qualsiasi sistema
possa diminuire (nell’espressione precedente uno dei due termini può essere minore di o).
2. Quando l’entropia arriva ad un valore massimo (associato all’annullamento degli squilibri di
Viv

tutti i potenziali) non possono più avvenire trasformazioni.


Tutto ciò che ci circonda si evolve riducendo il suo potenziale, aumentando l’entropia. Da un lato
siamo contenti che le cose avvengano, ma ogni volta che avviene qualcosa si genera entropia, si
perde omogeneità e potenziale perché il processo inverso è impossibile. Se piano piano con le
generazioni entropiche evolviamo verso uno stato teorico di massima entropia, dove non vi sarà più
omogeneità, da quel momento in poi non può avvenire più nulla, sarà un universo concettualmente
morto.
94

Le trasformazioni possono avvenire spontaneamente in un solo verso, che sia in accordo con il
principio di aumento dell’entropia, quindi in qualche modo l’entropia è un indicatore dell’unico
verso lungo il quale le trasformazioni possono avvenire

ria
𝛿𝑄 𝛿𝑄 1 1
𝑑𝑆𝑖𝑠𝑜𝑙𝑎𝑡𝑜 = 𝑑𝑆𝐴 + 𝑑𝑆𝐵 = − + = 𝛿𝑄 ( − ) > 0
𝑇𝐴 𝑇𝐵 𝑇𝐵 𝑇𝐴

𝛿𝑄 𝛿𝑄 1 1
𝑑𝑆𝑖𝑠𝑜𝑙𝑎𝑡𝑜 = 𝑑𝑆𝐴 + 𝑑𝑆𝐵 = − = 𝛿𝑄 ( − ) < 0

gne
𝑇𝐴 𝑇𝐵 𝑇𝐴 𝑇𝐵

Ci accorgiamo che il verso delle trasformazioni risulta automaticamente dettato. Immaginiamo


come in figura un corpo caldo (in rosso) ed uno freddo (in blu). Se immaginiamo il complesso,
ambiente più sistema, abbiamo un sistema isolato. Accade che il calore fluirà dall’ambiente caldo a
quello freddo. Vediamo dal punto di vista entropico che succede. L’entropia è una quantità
nge
estensiva, per cui la variazione complessiva di entropia è la somma della variazione di entropia delle
sue parti. Quindi
𝑑𝑆𝑖𝑠𝑜𝑙𝑎𝑡𝑜 = 𝑑𝑆𝐴 + 𝑑𝑆𝐵
Calcoliamo i singoli contributi: il corpo A, cede calore quindi ha un calore infinitesimo negativo.
Quello stesso calore infinitesimo è preso dal corpo freddo. Ma il calore scambiato deve essere diviso
per le rispettive temperature al quale viene scambiato. Di conseguenza posso raccoglierlo e portarlo
I
fuori dalla parentesi. Poiché la temperatura del corpo A è maggiore di quella del corpo B, allora il
valore tra parentesi è positivo. Quindi maggiore di zero. Abbiamo una generazione di entropia.
Ipotizziamo ora una trasformazione non reale. Quindi il calore fluisce dal corpo più freddo al corpo
più caldo. La quantità infinitesima di calore è sempre la stessa, il procedimento è analogo. Quello
ere

che cambia è la convenzione dei segni. Essendo opposti i segni in questo caso, allora la mia entropia
diminuisce. E questo abbiamo già visto che non è possibile.
09/04/2018
L’entropia si conserva solo durante le trasformazioni reversibili, mentre nel caso di trasformazioni
irreversibili abbiamo una generazione di entropia.
Viv

Piano di Gibbs (o piano entropico)


In quanto funzione di stato l’entropia può essere utilizzata
come tutti i parametri di stato, per una rappresentazione di
una sequenza di stati ipotetici di equilibrio di un sistema
lungo una trasformazione. Se abbiamo un piano in cui in
ascissa abbiamo l’entropia (o entropia specifica) ed in
ordinata la temperatura. Immaginiamo che un processo
evolva in modo internamente reversibile dallo stato A allo
stato B. abbiamo detto che vale:
95

𝛿𝑞
𝑑𝑠 =
𝑇
Quindi
𝛿𝑞 = 𝑇𝑑𝑠

ria
Allora, questa relazione ci dice che, se il tratto della mia trasformazione è davvero infinitesimo, in
realtà la differenza di temperatura che sembra finita, è anch’essa infinitesima, per cui questa sorta
di trapezoide sotteso dalla mia linea di trasformazione è assimilabile ad un rettandolo di base dS e
altezza T. Quindi TdS, che è l’area sottesa, viene ad assumere il significato di quantità infinitesima di
calore scambiato. Quindi questa areola dA, la possiamo esprimere come TdS. Quindi avrò:

gne
𝐵
𝐴𝑟𝑒𝑎 = ∫ 𝑇𝑑𝑆 = 𝑄
𝐴

Ovvero, se io seguissi interamente il processo da A a B, lungo il quale la quantità di calore Q


complessivamente scambiata non può che essere la somma degli infiniti 𝛿𝑄 ,ciascuno infinitesimo,
scambiati all’interno del processo, e quindi vale l’integrale scritto sopra. Ossia è graficamente
rappresentato dall’intera area sottesa dalla linea di trasformazione. Si può scrivere sia in termini
nge
estensivi TdS, o in termini specifici Tds.
Abbiamo trovato un piano di stato dove le aree sottese da una linea di trasformazione, a differenza
di quanto osservato sul piano P-v, come lavoro scambiato, in questo caso abbiamo la quantità di
calore scambiato. Questo integrale vede la T essere sempre positiva, ma nel processo inverso,
l’entropia ha segno negativo perché andiamo verso entropie decrescenti. Quindi la quantità di
calore scambiato è negativa. Quindi per le trasformazioni ad entropia crescente il calore scambiato
I
è positivo, e per la convenzione dei segni è calore somministrato al mio sistema. Per entropie
decrescenti il calore ha segno negativo ed è calore che il mio sistema cede all’ambiente. È un
ragionamento che tiene conto del segno.
Alcune trasformazioni
ere

Ipotizziamo una trasformazione 1-2 isoterma T2 = T1.


2 2
𝑞1−2 = ∫ 𝛿𝑞𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣 = ∫ 𝑇𝑑𝑠 = 𝑇1(𝑠2 − 𝑠1 )
1 1

In questo caso la q scambiata per unità di massa, visto che T è


costante, allora si può scrivere come T per delta S. l’area
Viv

sottesa è il calore scambiato, e banalmente si calcola base per


altezza.
Per un processo irreversibile, l’integrale non esiste, perché non esiste puntualmente una T che ci
permette di calcolare aree sottese.
Se invece abbiamo un processo che è internamente sì reversibile, ma adiabatico, succede che la
linea di trasformazione è verticale, in quanto essendo adiabatico, l’integrale deve risultare nullo.
Quindi nel caso di un raffreddamento adiabatico, la linea evolve dall’alto in basso e viceversa. Quindi
il caso di una trasformazione internamente reversibile adiabatica, è il caso di una isoentropica.
Ricordando che la definizione di iso-qualcosa consente di dire che è uguale in tutti gli stati intermedi,
96

non solo che quella iniziale e finale coincidono. Possiamo dire quindi con certezza che la
trasformazione adiabatica reversibile è isoentropica, ma è vero il contrario? Una isoentropica è una
adiabatica reversibile? La risposta è ni. Se è isoentropica vuol dire che esiste negli stati intermedi,
quindi deve essere reversibile. Se è entropia costante allora deve essere adiabatica. La risposta più

ria
corretta sarebbe sì, ma bisogna stare attenti, al concetto espresso prima: se si considera una
trasformazione in cui l’entropia iniziale e finale coincidono, allora non è strettamente adiabatica
(ma attenzione, non è una isoentropica!).

Quest’ ultima trasformazione è di particolare importanza perché assurge a riferimento di estremo


interesse: per ogni organo il cui funzionamento è approssimativamente adiabatico (turbine,
compressori, pompe), un organo reale vedrà nella trasformazione isoentropica (che è l’unica

gne
riversibile tra le adiabatiche) la condizione ideale di funzionamento. nella turbina, per esempio, il
processo è certamente non isoentropico, ma lo si può considerare come un processo isentropico un
po' peggiorato. L’espansione adiabatica reversibile, è la migliore tra le migliori espansioni (così come
l compressione) possibile. Studiare il comportamento dei casi ideali rappresenta una condizione
ottimale al quale posso solo tendere con una turbina reale.
Esempio turbina
nge
In una turbina entra vapore d’acqua nella condizione di P1 = 5 MPa e
T1 = 450°C. Proviamo a tracciare due possibili espansioni fino alla P2 =
1,4 MPa, una reversibile ed una no. Quella irreversibile che generi una
entropia pari a 0,3 kJ/kgK. La campana dell’acqua sul piano T-s è una
campana particolarmente regolare.
I
ere
Viv
97

l’andamento delle isobare sul piano di lavoro T-s è assolutamente


identico dal punto di vista qualitativo sul piano T-v. Disegniamo ora le
due isobare che ci interessano sulla campana T-s. il punto 1 è
univocamente determinato dalla temperatura e dalla pressione che

ria
sono dati in ingresso. Qual è il corretto andamento qualitativo
dell’espansione in una turbina ideale e quindi reversibile? Poiché la
turbina è adiabatica, e considerata reversibile, allora è una
trasformazione isoentropica. Quindi il punto 2, lo troviamo tracciando
la linea continua verticale di una trasformazione isoentropica che
interseca l’isobara a pressione inferiore, trovando quindi l’unico punto sull’isobara 1,4 Mpa che ha

gne
la stessa entropia del punto 1. La trasformazione 1-2 è tracciata con linea continua in quanto
reversibile. Come tracciamo la stessa trasformazione che però avviene in maniera irreversibile? Sarà
sempre adiabatica ma non più reversibile. E quindi, nella scrittura
2
𝛿𝑞
Δ𝑠 = 𝑠2 − 𝑠1 = ∫ + 𝑠𝑔𝑒𝑛
1 𝑇

L’integrale continuerà ad essere nullo perché è sempre una adiabatica. Ma l’entropia generata, in
nge
quanto irreversibile non può più essere zero. E l’entropia generata può essere solo positivo. Quindi,
se s2 è s1+sgen, allora s2 > s1. Quindi sempre sulla isobara 1,4 MPa, ma ad entropia maggiore, per
esempio il punto 2’. Naturalmente a linea tratteggiata perché il processo è irreversibile. Quali
conseguenze ha l’irreversibilità appena introdotta? La finalità della turbina è quella di ottenere
lavoro dall’espansione del fluido. immaginiamo di scrivere il primo principio per questo sistema
aperto, in termini specifici.
I
𝑤𝑢2 𝑤𝑖2
𝑞̇ − 𝑙 ̇ = (ℎ𝑢 + + 𝑔𝑧𝑢 ) + (ℎ𝑖 + + 𝑔𝑧𝑖 )
2 2

Trascuriamo la componente cinetica e potenziale, la variazione di energia è nulla perché stazionario


e il calore scambiato è nullo perché adiabatica. Resta dunque
ere

𝑙 ̇ = ℎ𝑖 − ℎ𝑢
L’entropia non viene contemplata perché la conservazione dell’energia non ha nulla a che fare con
l’entropia. Il primo principio si scrive esattamente come abbiamo sempre fatto. Il fluido si
impoverisce di contenuto energetico, di entalpia, e tanto è l’impoverimento, tanto è il lavoro che
riesco ad ottenere. questa formulazione è quindi adatta sia per la turbina reversibile che per la
Viv

turbina irreversibile. Quello che cambia è che


𝑠𝑒 𝑟𝑒𝑣 ⇒ 𝑙 = ℎ1 − ℎ2
𝑙 ̇ = ℎ𝑖 − ℎ𝑢 {
𝑠𝑒 𝑖𝑟𝑟𝑒𝑣 ⇒ 𝑙 = ℎ1 − ℎ2′
In entrambe le espansioni, il fluido entra nelle stesse condizioni ma se reversibile, esce nello stato
2, se è irreversibile esce nello stato 2’. Muovendomi verso destra della campana, l’entalpia aumenta.
Quindi l’entalpia nel punto 2’ è maggiore rispetto a quella nel punto 2, ed essendo sottrattivo, il
lavoro generato è minore nella trasformazione irreversibile. Ovvero, non siamo riusciti a convertire
parte del calore in lavoro. La quantità di lavoro che posso ottenere dalla conversione è direttamente
proporzionale alla irreversibilità di un processo: quanto più un processo è irreversibile, tanto meno
lavoro posso ottenere dalla conversione del contenuto energetico del mio fluido. esiste un processo
98

un po meno irreversibile che ci porta ad uno stato migliore rispetto a 2’? certo, così come può
esistere un processo peggiore. Il grado di irreversibilità è una misura della entropia generata. Tanto
più entropia genero, tanto più il mio punto di fine trasformazione è spostato a destra, e tanto più
piccolo è il lavoro ottenuto. Immaginiamo ora di tracciare tra tutte le trasformazioni irreversibili,

ria
quella che vede il punto h2* = h1. Questo processo ha lavoro nullo, e corrisponde al processo di una
valvola di laminazione. Si può seguire una linea di trasformazione in cui h2* < h2’ ? Sì, ma il lavoro
cambia segno: vuol dire che devo fornirlo il lavoro affinché possa avvenire questo processo.

Relazioni del TdS


Riflettiamo sul fatto che S è una funzione di stato: questo comporta la sua identificazione da parte

gne
di due parametri indipendenti. Scriviamo quindi qualche relazioni, denominate appunto relazioni
del TdS. Sono relazioni che risultano costitutive della materia, mettendo in relazione l’entropia con
altri parametri di stato della materia.
Immaginiamo un sistema chiuso e stazionario, semplice e comprimibile. Supponiamo che un fluido
evolva secondo un tratto infinitesimo di un processo internamente reversibile (un gas chiuso in un
sistema cilindro pistone). l’unico lavoro che il pistone compie è verso l’esterno secondo la variazione
di volume. Scriviamo il primo principio per questo sistema:
nge
𝛿𝑄𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣 − 𝛿𝐿𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣 = 𝑑𝑈
Dove lavoro e calore sono quantità infinitesime e l’energia interna ha il differenziale esatto. Essendo
internamente reversibile, posso scrivere:
𝛿𝑄𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣 = 𝑇𝑑𝑆
Visto che il lavoro compiuto è solo quello di variazione di volume avrò:
I
𝛿𝐿𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣 = 𝑝𝑑𝑉
Quindi:
𝑇𝑑𝑆 − 𝑝𝑑𝑉 = 𝑑𝑈 ⇒ 𝑇𝑑𝑆 = 𝑑𝑈 + 𝑝𝑑𝑉
ere

E quindi, per l’unità di massa:


𝑇𝑑𝑠 = 𝑑𝑢 + 𝑝𝑑𝑣 (1)

E poiché h=u+pv e differenziata risulta dh = du + pdv + vdp, e sostituendo du + pdv = dh – vdp,


quindi:
Viv

𝑇𝑑𝑠 = 𝑑ℎ − 𝑣𝑑𝑝 (2)

Sono note come prima e seconda relazione del TdS. Cioè, due modi diversi di scrivere il TdS relativo
ad una variazione infinitesima di un fluido, legata o alla energia interna ed alla variazione di volume,
o all’entalpia e alla variazione di pressione.
Tali relazioni, sebbene siano state ottenute con riferimento ad una trasformazione internamente
reversibile poiché legano proprietà intensive o specifiche di stato della materia, sono valide in
assoluto. Muovendosi in qualsiasi modo (tramite processi reversibili e non) tra due stati
termodinamici infinitamente prossimi tra loro, le variazioni infinitesime delle proprietà di stato del
fluido rispetteranno questo relazioni.
99

Queste relazioni rappresentano quindi parametri numerici che legano solo parametri di stato. Tra
uno stato 1 ed uno stato 2, i valori dell’entalpia non cambiano se io vado secondo un processo o un
altro, reversibile o no. Essendo funzioni di stato dipendono solo da condizione iniziale e finale.
Quindi queste relazioni, pur se derivate in maniera semplificate, una volta ottenute legano funzioni

ria
di stato e ci danno proprietà costitutive della materia, e tra due punti estremamente vicini non
possono che rispettare queste relazioni. Per processi finiti, queste relazioni non valgono più: basti
pensare alla temperatura, che non può restare costante (o essere considerata tale) lungo un
processo finito. Sono quindi relazioni che hanno validità puntuale.
Queste relazioni sono importanti perché da queste relazioni ricaviamo il ds, ovvero:

gne
𝑑𝑢 𝑝𝑑𝑣
𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑎 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒: 𝑑𝑠 = +
𝑇 𝑇
𝑑ℎ 𝑣𝑑𝑝
𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑎 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒: 𝑑𝑠 = −
𝑇 𝑇
Riuscire a calcolare le variazioni di entropia richiede la capacità di integrare il secondo membro.
Dobbiamo quindi scrivere il du o il dh in funzione della temperatura. Cosa che di fatto sappiamo fare
nge
per i solidi e i liquidi perché il calore specifico è pressochè costante, ed inoltre è unico, cv = cp = c.
liquido o solido, è praticamente incomprimibile. otteniamo quindi:
𝑑𝑢 𝑐𝑑𝑇 𝑑ℎ
𝑑𝑠 = = ≅
𝑇 𝑇 𝑇
Perché abbiamo detto che cv = cp = c. la seconda relazione è solo approssimata, perché vale a patto
𝑣𝑑𝑝
di non avere salti enormi di pressione. infatti dalla seconda relazione, stiamo trascurando e
𝑇
I
possiamo farlo solo se la variazione di pressione non è troppo elevata. Se provassi ad integrare tra
due stati generici questa relazione, troverei:
2
𝑑𝑇 𝑇2
Δ𝑠 = 𝑠2 − 𝑠1 = ∫ 𝑐(𝑇) ≅ 𝑐𝑚𝑒𝑑 ∙ ln
1 𝑇 𝑇1
ere

E siccome abbiamo compreso che il calore specifico non cambia significativamente, ha senso parlare
di calore specifico medio e tirarlo fuori dal segno di integrale.
Ci chiediamo ora: un processo isoentropico per un liquido o un solido, che caratteristiche ha?
Abbiamo visto che:
2
𝑑𝑇
Viv

𝑠2 − 𝑠1 = ∫ 𝑐(𝑇) =0
1 𝑇

Ovvero che T2 = T1. Un processo isoentropico per un liquido o solido è praticamente un processo
isotermo. In riferimento alla campana di saturazione dell’acqua nel piano T-s, si può notare come
per le isoterme occorre spostarsi orizzontalmente, mentre per le isoentropiche, verticalmente.
Come è possibile dunque affermare che per un solido o liquido il processo isoentropico è isotermo?
La chiave sta nella parola “pressoché”. Non possiamo stabilire una uguaglianza esatta, ma le isobare
nella curva limite inferiore sono staccate ma estremamente vicine. La variazione è quindi
trascurabile. Fisiologicamente, il processo è isoentropico. Ma si può dire che è anche isotermo
perché le temperature cambiano di valori estremamente ridotti.
100

Applicazione numerica:
ricordiamo che abbiamo conosciuto le tabelle dell’acqua satura e dei vapori surriscaldati che
riportano i valori di entalpia, energia interna, ed entropia. ciò che abbiamo visto per i valori di
entropia entalpia ed energia interna nella campana T-v, valgono anche per la campana T-s. vediamo

ria
se la relazione ottenuta è valida oppure no. Immaginiamo due punti, uno sia liquido saturo a 30°C e
l’altro liquido saturo a 120°C. la prima domanda è: i due punti sono alla stessa pressione? No,
essendo entrambi liquido saturo sono sulla campana e quindi necessariamente a pressioni diverse.
A 30°C il mio fluido si trova a 4,4 kPa, dalla tabella dell’acqua satura. Leggiamo che l’entropia per il
liquido a 30°C è 0,4369. Il liquido saturo a 120°C è a 0,19 Mpa e la sua entropia è pari a 1,5276.
Questi valori sono stati ricavati dalla lettura delle tabelle. Ora, immaginando nota l’entropia del

gne
fluido a 30°C, dalla relazione precedente, posso ricavare quella del liquido a 120°C? avrò che:
𝑇2 393,15
𝑠 𝑙𝑖𝑞 𝑠𝑎𝑡 𝑎 120°𝐶 ≅ 𝑠 𝑙𝑖𝑞 𝑠𝑎𝑡 𝑎 30°𝐶 + 𝑐𝑚𝑒𝑑 ∙ ln = 4,186 ∙ ln = 1,5251
𝑇1 303,15
Il cui valore è pressoché lo stesso ricavato dalle tabelle.
Variazione di entropia dei gas ideali
nge
Ricordando le relazioni che legano nei gas ideali l’energia interna e l’entalpia alla sola temperatura,
ed utilizzando l’equazione di stato dei gas perfetti, avrò:
𝑑𝑢 𝑝𝑑𝑣 𝑅𝑇
𝑑𝑠 = + 𝑒 𝑝= 𝑒 𝑑𝑢 = 𝑐𝑣 (𝑇)𝑑𝑇
𝑇 𝑇 𝑣
Sostituendo ottengo:
I
𝑑𝑇 𝑑𝑣
𝑑𝑠 = 𝑐𝑣 (𝑇) +𝑅
𝑇 𝑣
Da cui, integrando:
2
𝑑𝑇 𝑣2
ere

Δ𝑠 = 𝑠2 − 𝑠1 = ∫ 𝑐𝑣 (𝑇) + 𝑅 ln
1 𝑇 𝑣1

Analogamente, per la seconda relazione del TdS


𝑑ℎ 𝑣𝑑𝑝 𝑅𝑇
𝑑𝑠 = − 𝑒 𝑣= 𝑒 𝑑ℎ = 𝑐𝑝 (𝑇)𝑑𝑇
𝑇 𝑇 𝑝
Viv

Sostituendo ottengo:
𝑑𝑇 𝑑𝑝
𝑑𝑠 = 𝑐𝑝 (𝑇) −𝑅
𝑇 𝑝
Da cui, integrando:
2
𝑑𝑇 𝑝2
Δ𝑠 = 𝑠2 − 𝑠1 = ∫ 𝑐𝑝 (𝑇) − 𝑅 ln
1 𝑇 𝑝1

Il calore specifico non si può decidere di tirarlo fuori arbitrariamente, possiamo farlo sapendo di
commettere un piccolo errore, altrimenti lo lascio sapendo che dipende dalla temperatura.
101

10/04/2018
Verifichiamo la validità di queste relazioni calcolando l’entropia di un punto nel campo del vapore
surriscaldato, noto che sia un altro punto nel medesimo campo del vapore surriscaldato, vedendo
se i valori in tabella corrispondono a quelli calcolati. In particolare:

ria
1. P1 = 10 bar e T1 = 250°C
2. P2 = 20 bar e T2 = 600°C
Cominciamo col calcolare i calori specifici medi relative alle isobare, per poter risolvere gli integrali
in maniera semplificata, questo perché la funzione calore specifico è una funzione debole della
temperatura (varia poco) quindi possiamo approssimare un valore di calore specifico medio,

gne
approssimato costante per le variazioni di temperatura:
Δu 3290,9 − 2709,9 𝑘𝐽
𝑐𝑣 𝑚𝑒𝑑 = = = 1,66
Δ𝑇 600 − 250 𝑘𝑔°𝐶
Δh 3690,1 − 2942,6 𝑘𝐽
𝑐𝑝 𝑚𝑒𝑑 = = = 2,136
Δ𝑇
nge 600 − 250 𝑘𝑔°𝐶
Il valore esatto della variazione di entropia, ricavato dalle tabelle relativo ai due punti in esame è
pari a 0,777 kJ/kgK. Calcoliamolo ora attraverso le relazioni ricavate in precedenza
2
𝑑𝑇 𝑣2 𝑘𝐽
Δ𝑠 = 𝑠2 − 𝑠1 = ∫ 𝑐𝑣 𝑚𝑒𝑑 + 𝑅 ln = 0,7794
1 𝑇 𝑣1 𝑘𝑔𝐾
2
𝑑𝑇 𝑝2 𝑘𝐽
Δ𝑠 = 𝑠2 − 𝑠1 = ∫ 𝑐𝑝 𝑚𝑒𝑑 − 𝑅 ln = 0,7139
𝑇 𝑝1 𝑘𝑔𝐾
I
1

Proprietà del piano T-s


Vediamo ora il significato fisico che ha la pendenza di una linea di
ere

trasformazione. Immaginiamo una generica trasformazione


internamente reversibile disegnata in rosso. Prendiamo il punto A,
caratterizzato da una generica temperatura T e una entropia s. Ha
significato fisico la pendenza della curva nel punto A? Se ce l’ha,
questo è valido per ogni trasformazione. Ricordiamo che il calore
specifico è per definizione una funzione di trasformazione. Abbiamo
Viv

visto che in genere ci interesseranno i calori specifici a volume e


pressione costante ma in generale possiamo scrivere un pedice 𝑐𝑡𝑟 (c trasformazione) indicando che
stiamo misurando l’energia per innalzare di un grado l’unità di massa lungo una generica
trasformazione. Il calore specifico è la quantità di energia da somministrare sotto forma di calore o
lavoro necessaria per innalzare la temperatura dell’unità di massa di un grado. Ovvero:
𝛿𝑞
𝑐𝑡𝑟 = ( )
𝑑𝑇 𝑡𝑟
Ma per il significato che le quantità infinitesime hanno sul piano T-s, la quantità di calore più essere
espressa come
102

𝛿𝑞 = 𝑇𝜕𝑠
Questo perché s è funzione di stato e dipende da due parametri. Quindi non possiamo esprimerlo
come differenziale esatto ma in termini di derivate parziali rapportandola al variare del solo
parametro di temperatura. Scriverò quindi:

ria
𝜕𝑠 𝑇 ̅̅̅̅
𝑁𝐴
𝑐𝑡𝑟 = 𝑇 ( ) = = = ̅̅̅̅̅
𝑀𝑁
𝜕𝑇 𝑡𝑟 (𝜕𝑇 ) tan 𝜑
𝜕𝑠

Questo perché T altro non è che l’ordinata del punto A e quindi 𝑁𝐴 ̅̅̅̅. La variazione 𝜕𝑇 è invece la
𝜕𝑠
pendenza della retta, quindi la tangente dell’angolo in figura. Il rapporto ci fornisce appunto ̅̅̅̅̅
𝑀𝑁.

gne
Vediamo quindi che il calore specifico viene ad assumere un significato fisico ben preciso: esso è
misura della sottotangente alla linea di trasformazione nel punto considerato. Se volessi sapere il
calore specifico in un qualsiasi punto di quella trasformazione, basta fare la tangente in quel punto
e misurare l’ampiezza della sottotangente appunto.
Superiorità del ciclo di Carnot nge
Evidenziamo la superiorità del ciclo di Carnot rispetto a tutti
i cicli internamente reversibili operanti fra le due medesime
temperature estreme. Questa cosa è sostanzialmente
diversa dal primo teorema di Carnot che diceva che la
macchina reversibile è superiore a tutte le macchine
irreversibili che lavorano tra le medesime fonti di calore.
Qui parliamo solo di temperature estreme di un ciclo.
I
Quindi vogliamo confrontare un ciclo di Carnot ed un altro
solo internamente reversibile che operano entrambi tra le
stesse temperature estreme. Per prima cosa tracciamo il
ciclo di Carnot sul piano T-s: esso è rappresentato da un quadrato ABCD, perché è costituito da una
espansione reversibile isoterma (riceve calore, l’entropia aumenta) AB, da una espansione
ere

adiabatica reversibile (quindi isoentropica) BC, una compressione isoterma reversibile (cede calore,
calore scambiato negativo) CD e da una compressione adiabatica reversibile DA. L’entropia generata
è pari a zero perché tutta la trasformazione è reversibile, e quindi c’è solo entropia scambiata.
Deriviamo l’espressione del rendimento di Carnot:

𝑄𝑖 𝐴𝐷𝐶𝐸𝐹𝐷 ̅̅̅̅
𝐹𝐷 ∙ ̅̅̅̅
𝐹𝐸 𝑇𝑖 ∆𝑠 𝑇𝑖
𝜂𝑡,𝑐𝑎𝑟𝑛𝑜𝑡 = 1 − =1− = 1− = 1− = 1−
̅̅̅̅ ∙ 𝐹𝐸
̅̅̅̅
Viv

𝑄𝑠 𝐴𝐴𝐵𝐸𝐹𝐴 𝐹𝐴 𝑇𝑠 ∆𝑠 𝑇𝑠
Questo perché abbiamo già dimostrato come per una macchina totalmente reversibile il rendimento
si può scrivere in funzione della temperatura assoluta dei due serbatoi termica tra i quali opera.
Generiamo adesso un ciclo che condivida col ciclo di Carnot solo le temperature estreme, ovvero il
ciclo MPNRM, tracciato con linea continua, quindi che attraversa stati di equilibrio. Tale ciclo è, o
totalmente reversibile con un numero di sorgenti/pozzi infinito arbitrario, oppure reversibile solo
internamente ed operante tra i due serbatoi Ts e Ti. Affinché si possa considerarlo totalmente
reversibile, dobbiamo eliminare le irreversibilità interne, quindi scambiare infinitesimi quantitativi
di calore con salti infinitesimi di temperatura. Da qui la necessità di avere infinite sorgenti di calore.
Può essere altresì considerato un ciclo bitermico solo internamente reversibile operante tra le
103

temperature estreme ma riceve calore attraverso salti finiti di temperatura. In che relazione sta il
rendimento del ciclo appena disegnato rispetto al ciclo di Carnot? Si può sempre scrivere
𝑄𝑖
𝜂𝑡 = 1 −
𝑄𝑠

ria
Ma la quantità di calore scambiata con il pozzo a temperatura più bassa in questo caso è l’area
sottesa dalla linea di trasformazione MRNEFM. Parimenti, la quantità di calore scambiata con la
sorgente a temperatura più alta è MPNEFM. Quindi scriverò:
𝑄𝑖 𝐴𝑀𝑅𝑁𝐸𝐹𝑀
𝜂𝑡 = 1 − =1− < 𝜂𝑡,𝑐𝑎𝑟𝑛𝑜𝑡
𝑄𝑠 𝐴𝑀𝑃𝑁𝐸𝐹𝑀

gne
Questo perché 𝐴𝑀𝑅𝑁𝐸𝐹𝑀 > 𝐴𝐷𝐶𝐸𝐹𝐷 e 𝐴𝑀𝑃𝑁𝐸𝐹𝑀 < 𝐴𝐴𝐵𝐸𝐹𝐴 .
Il ciclo di Carnot risulta quindi superiore a tutti i cicli reversibili operanti tra le stesse temperature
estreme, e non contravveniamo a quanto dimostrato nel secondo teorema di Carnot, perché il
riferimento non è tra “gli stessi serbatoi di calore”, andiamo in un campo che va al di là del secondo
teorema di Carnot. Abbiamo infatti detto che è o totalmente reversibile ma non bitermica, oppure
solo internamente reversibile e bitermica.
nge
Ci chiediamo se è possibile riformulare il rendimento di questo ciclo di forma generica andando a
ricercare il ciclo di Carnot che ha il medesimo rendimento. Prima il rendimento del ciclo di Carnot
era superiore a quello di forma generica. Ora cerchiamo un ciclo di Carnot che abbia il rendimento
pari a quello di forma generica, che ricordiamo, è internamente. Tuttavia, il problema della
identificazione di questo ciclo di Carnot, sta nella identificazione della sua Ti e Ts. Andiamo a ritroso:
sappiamo che per il ciclo reale il rendimento si trova
I
𝐴𝑀𝑅𝑁𝐸𝐹𝑀
𝜂𝑡 = 1 −
𝐴𝑀𝑃𝑁𝐸𝐹𝑀
Dobbiamo quindi trovare un rettangolo, tale che la Qi e la Qs di questo nuovo ciclo siano le stesse
del mio ciclo generico. Quindi ci chiediamo dove devono essere piazzate Ti e Ts, tale che il calore
ere

ceduto durante il ciclo generico sia pari al calore ceduto isotermicamente per il ciclo di Carnot
ricercato. Dal disegno evidenziamo un valore intermedio nel quale l’area del rettangolo (ciclo di
Carnot) eguaglia la linea di trasformazione del ciclo generico (nel disegno due porzioni colorate
diversamente). Come si trova analiticamente questa quantità? Io conosco la mia linea MRN, quindi
conosco l’area MRNEFM e vogliamo che sia espressa da un ciclo di Carnot lungo lo stesso dS. Quindi,
se nel ciclo di Carnot la temperatura è Q/dS, allora analogamente scriverò:
Viv

𝑞𝑠 𝐴𝑀𝑃𝑁𝐸𝐹𝑀
𝑇𝑠,𝑚𝑒𝑑 = =
𝑆𝐸 − 𝑆𝐹 ̅̅̅̅
𝐹𝐸
|𝑞𝑖 | 𝐴𝑀𝑅𝑁𝐸𝐹𝑀
𝑇𝑖,𝑚𝑒𝑑 = =
𝑆𝐸 − 𝑆𝐹 ̅̅̅̅
𝐹𝐸
Trovando così una temperatura che chiameremo media, inferiore ed una superiore. E quindi avrò:
𝑇𝑖,𝑚𝑒𝑑
𝜂𝑡 = 1 −
𝑇𝑠,𝑚𝑒𝑑
104

Questa temperatura è una temperatura fittizia, è una temperatura media di somministrazione del
calore. Se il mio ciclo di forma generica, di forma generica non fosse, ma fosse di Carnot che opera
tra queste due temperature appena trovate, cosa accadrebbe se somministrassi calore ad una Ts un
pò più elevata della Ts,med appena trovata? Ovviamente avrebbe un rendimento maggiore.

ria
Abbiamo capito che un ciclo generico, non di Carnot, beneficia di un innalzamento della sua
temperatura media di somministrazione di calore e beneficia di un abbassamento della sua
temperatura media di sottrazione del calore. Ogni intervento che produce innalzamento della
Ts,med e/o un abbassamento Ti,med migliora il rendimento del ciclo. È quello che ci spinge nella
pratica reale, come modificare i cicli per renderli più efficienti. Questo perché nella realtà nessun
ciclo ha la forma come quella del ciclo ci Carnot. Occorre quindi lavorare sulla temperatura media.

gne
Abbiamo in precedenza detto che, riguardo alle politropiche, la isoterma l’abbiamo per n=k.
Dimostriamo adesso questa cosa. Scriviamo le variazioni di entropia per un gas perfetto:
𝑇2 𝑣2
𝑠2 − 𝑠1 ≅ 𝑐𝑣 𝑚𝑒𝑑 ln + 𝑅 ln
𝑇1 𝑣1
𝑇2 𝑝2
𝑠2 − 𝑠1 ≅ 𝑐𝑝 𝑚𝑒𝑑 ln − 𝑅 ln
𝑇1 𝑝1
nge
Verifichiamo ora l’ipotesi di imporre una isoentropica ovvero:
∆𝑠 = 0
Quindi in entrambe le espressioni impongo nullo il primo membro, e svolgendo i calcoli ottengo:
𝑅 𝑅
𝑇2 𝑣2 𝑇2 𝑣2 −𝑐𝑣 𝑚𝑒𝑑 𝑇2 𝑣1 𝑐𝑣
𝑐𝑣 𝑚𝑒𝑑 ln = −𝑅 ln ⇒ ln = ln ( ) ⇒ = ( ) 𝑚𝑒𝑑
I
𝑇1 𝑣1 𝑇1 𝑣1 𝑇1 𝑣2
𝑅 𝑅
𝑇2 𝑝2 𝑇2 𝑝2 𝑐𝑝 𝑇2 𝑝2 𝑐𝑝
𝑐𝑝 𝑚𝑒𝑑 ln = 𝑅 ln ⇒ ln = ln ( ) 𝑚𝑒𝑑 ⇒ = ( ) 𝑚𝑒𝑑
𝑇1 𝑝1 𝑇1 𝑝1 𝑇1 𝑝1
Dalla relazione di Mayer abbiamo ricavato:
ere

𝑅 𝑅 𝐾−1
=𝐾−1 e =
𝑐𝑣 𝑚𝑒𝑑 𝑐𝑝 𝑚𝑒𝑑 𝐾

E come vediamo, portando T1 a destra e V2 (o P1) elevato al suo esponente a sinistra, ci accorgiamo
che, in generale vale:
Viv

𝑇𝑣 𝐾−1 = 𝑐𝑜𝑠𝑡
𝐾−1
𝑇𝑝 𝐾 = 𝑐𝑜𝑠𝑡
Posso quindi scrivere, uguagliando i termini:
𝐾−1
𝑣1 𝐾−1 𝑝2 𝐾 𝑝2 𝑣1 𝐾
( ) =( ) ⇒ ( ) = ( ) ovvero 𝑝𝑣 𝐾 = 𝑐𝑜𝑠𝑡
𝑣2 𝑝1 𝑝1 𝑆=𝑐𝑜𝑠𝑡 𝑣2

Avendo così dimostrato ciò che volevamo.


105

Introduciamo un’altra conseguenza del concetto di entropia che ci permette un’agevole espressione
del lavoro ottenibile per trasformazioni reversibili per organi a deflusso stazionario. Finora abbiamo
studiato solo il lavoro associato alla variazione di volume. Abbiamo visto dalla turbina come poter
esprimere il lavoro scambiato per unità di massa avendo due diversi stati termodinamici. Ma

ria
fisicamente, cosa aiuta a generare il lavoro? possiamo formulare la quantità di lavoro prodotta in
un processo di un sistema aperto reversibile in deflusso stazionario, scrivendo il primo principio in
termini infinitesimi:
𝛿𝑞𝑟𝑒𝑣 − 𝛿𝑙𝑟𝑒𝑣 = 𝑑ℎ + 𝑑𝑒𝑐𝑖𝑛 + 𝑑𝑒𝑝𝑜𝑡

Poiché il processo è reversibile, possiamo scrivere:

gne
𝛿𝑞𝑟𝑒𝑣 = 𝑇𝑑𝑠
{ ⇒ 𝛿𝑞𝑟𝑒𝑣 = 𝑑ℎ − 𝑣𝑑𝑝
𝑇𝑑𝑠 = 𝑑ℎ − 𝑣𝑑𝑝
Avendo studiato le relazioni del Tds, abbiamo semplicemente riscritto secondo le relazioni ricavate,
e poi sostituito nella prima relazione, portando tutto a secondo membro tranne il lavoro:
−𝛿𝑙𝑟𝑒𝑣 = 𝑣𝑑𝑝 + 𝑑ℎ − 𝑑ℎ + 𝑑𝑒𝑐𝑖𝑛 + 𝑑𝑒𝑝𝑜𝑡
nge
Semplificando ed integrando lungo un processo reversibile:
2
𝑙𝑟𝑒𝑣 = − ∫ 𝑣𝑑𝑝 − 𝑑𝑒𝑐𝑖𝑛 − 𝑑𝑒𝑝𝑜𝑡
1

Ed ancora, poiché ho organi aperti, posso, come abbiamo già visto in passato, trascurare i contenuti
energetici cinetico e potenziale, avrò:
2
I
𝑙𝑟𝑒𝑣 = − ∫ 𝑣𝑑𝑝
1

Siamo arrivati a questa relazione valida solo per processi reversibili, perché discende da quello
scritto sopra, riguardo le relazioni del Tds. Ricordiamo che la pressione deve essere espressa in kPa.
ere

Questa espressione scritta in questo modo ci dà un’idea del lavoro che occorre spendere sull’acqua
liquida in una compressione reversibile. Per quanto l’acqua sia incomprimibile, una minima
variazione di volume c’è sempre, ma come si evince, anche la differenza di pressione entra in gioco.
E per salti di pressione molto elevati anche la minima variazione di volume influenza il lavoro.
Quando occorrerà ricavare lavoro da questa espressione, l’elevato volume specifico a noi fa
comodo. Perché se io ho decrementi di pressione, usando l’espansione del fluido, più è alto il suo
Viv

volume specifico più lavoro riesco a ricavare. In espansione, il dp ha segno negativo, quindi il lavoro
è positivo, ed è tutto lavoro che posso estrarre. Se invece sono in fase di spesa, e devo effettuare
una compressione, è molto più pratico per me che il volume specifico sia basso. Tale relazione si
applica a sistemi aperti in deflusso stazionario e non si deve confondere con quella del lavoro di
variazione di volume per un sistema chiuso calcolato come integrale di pdv.
12/04/2018
Prendendo un organo stazionario passivo, per esempio un condotto, in cui scorre un liquido
incomprimibile. Riprendendo l’espressione:
106

2
𝑙𝑟𝑒𝑣 = − ∫ 𝑣𝑑𝑝 − 𝑑𝑒𝑐𝑖𝑛 − 𝑑𝑒𝑝𝑜𝑡
1

Riscrivendola come:

ria
𝑤22 − 𝑤12
𝑙𝑟𝑒𝑣 = −𝑣(𝑝2 − 𝑝1 ) − − 𝑔(𝑧2 − 𝑧1)
2
E considerando come detto il dispositivo stazionario passivo, senza scambi di lavoro, attraversato
da un fluido incomprimibile, l’espressione di sopra si scrive:
𝑤22 − 𝑤12
𝑣 (𝑝2 − 𝑝1 ) + + 𝑔(𝑧2 − 𝑧1 ) = 0

gne
2
Che posso anche scrivere come:
𝑤2
𝑣𝑝 + + 𝑔𝑧 = 𝑐𝑜𝑠𝑡
2
La costanza della somma di questi termini, non vuol dire che ogni termine non cambia, ma piuttosto
suggerisce che l’energia si converte da una forma all’altra, e la somma resta costante. Questa è nota
nge
come equazione di Bernoulli, che suggerisce come, in assenza di fenomeni dissipativi (trasformazioni
internamente reversibili) il trinomio indicato si mantenga costante. Se un sistema ha dissipazioni, il
trinomio non può vedersi costante, perché non ci sarebbe una conversione “pura” dell’energia.
Inoltre l’ipotesi è quella di condotto passivo, non sempre nella realtà avremo condotti solo passivi,
e quindi il termine relativo al lavoro specifico può essere non nullo.
Bilancio di entropia
I
I bilanci visti finora erano tutti bilanci di conservazione (relativi per esempio all’energia, che si
converte ma non si crea o si distrugge). Il problema nei bilanci di entropia è il fatto che l’entropia
non è una grandezza conservativa: i processi irreversibili, generano entropia. non è che se un
sistema è stazionario tutta l’energia entrante deve uscire, perché se ne può sempre generare
ere

durante il processo. La non conservatività dell’entropia, ci impone di formulare il bilancio in questi


termini:
entropia entropia entropia variazione della
( totale ) − ( totale ) + ( totale ) = ( entropia totale )
entrante uscente generata del sistema
Di solito ci limitavamo ad enunciare i primi due termini del primo membro e li ponevamo uguali alla
Viv

variazione del contenuto energetico del sistema, perché l’energia è conservativa. Ora che abbiamo
a che fare con l’entropia, occorre aggiungere al primo membro l’entropia che si genera durante il
processo per irreversibilità. In termini estensivi:
𝑆𝑒 − 𝑆𝑢 + 𝑆𝑔𝑒𝑛 = Δ𝑆𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎

Dobbiamo adesso valutare come l’entropia può fluire all’interno del mio sistema o all’esterno. I
termini Se e Su, concretamente, sotto che forma si possono verificare? Cosa porta entropia nel mio
sistema? Sicuramente trasporto di massa: essendo l’entropia una proprietà di stato, se entra una
quantità di materia che ha un certo contenuto di entropia per il suo stato termodinamico, questo
viene tutto apportato nel mio sistema. Quindi in generale posso scrivere:
107

2
𝑆𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 = ∫ 𝑆𝑑𝑚
1

Oppure se ho come accade spesso che so che entra una certa quantità di massa in un preciso stato
termidinamico, banalmente posso moltiplicare quella massa per il suo corrispettivo valore di

ria
entropia.
A volte può capitare che non abbiamo una quantità di massa ma piuttosto una portata massica, ed
allora parlerò di flusso di entropia, ovvero:
𝑘𝑔 𝑘𝐽 𝑘𝐽 1 𝑘𝑊
𝑆̇ = 𝑚̇𝑠 [ ]=[ ]=[ ]
𝑠 𝑘𝑔𝐾 𝑠 𝐾 𝐾

gne
Quindi dire quanta entropia entra in ogni secondo. Questo è il primo e più importante modo di
vedere l’entropia entrare ed uscire dal mio sistema. Il secondo è invece attraverso gli scambi di
calore. Supponendo che il calore venga scambiato ad una ben precisa temperatura, varrà:
2
𝛿𝑄 𝑄𝑘
𝑆𝑐𝑎𝑙 = ∫ ≅∑
nge 1 𝑇 𝑇𝑘

Considerando il calore scambiato positivo se entrante, e negativo se uscente dal mio sistema, e
presa come sommatoria di tutte le quantità di calore scambiate alle relative temperature assolute.
Il lavoro invece, non apporta entropia. Se adduco lavoro o estraggo lavoro, sotto qualsiasi forma, il
fluido non riceve entropia per come è stato definito. Quindi non compare nel bilancio dell’entropia.
Riscriviamo dunque il bilancio di entropia alla luce di quanto abbiamo detto, riferiti a:
𝑄𝑘
I
∑ + 𝑆𝑔𝑒𝑛 = Δ𝑆𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 = 𝑆2 − 𝑆1 ⇒ 𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑖 𝑐ℎ𝑖𝑢𝑠𝑖
𝑇𝑘
Perché non può esserci variazione di massa, e quindi la variazione di entropia può essere dovuta
solo a scambi termici e generata in caso di irreversibilità.

𝑄̇𝑘
ere

𝑆𝑉𝐶
∑ ̇
+ ∑ 𝑚̇𝑖 𝑠𝑖 − ∑ 𝑚̇𝑢 𝑠𝑢 + 𝑆𝑔𝑒𝑛 =𝑑 ⇒ 𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑖 𝑎𝑝𝑒𝑟𝑡𝑖
𝑇𝑘 𝑑𝑡
Perché nei sistemi aperti abbiamo chiaramente dei flussi di massa, calore espresso in termini di
potenza termica e variazioni di entropia nel tempo.
Ciclo di Carnot a vapore
Viv

Immaginiamo di voler realizzare un ciclo naturalmente efficiente, pensando subito al ciclo più
efficiente che conosciamo, che è il ciclo di Carnot. il problema del ciclo di Carnot ha una
somministrazione di calore isoterma. In generale è un problema perché somministrare calore a
temperatura costante vuol dire dare tempo al fluido di raggiungere l’equilibrio termico, e non siamo
in gradi di realizzarli. Il modo in cui noi somministriamo calore più facilmente, è quello di riscaldare
dall’esterno un fluido che viaggia in un condotto. Questo processo però non sarebbe isotermo. Ma
anche se non è isotermo, questo processo ipotizzato, avrà la pressione pressoché costante, e quindi
un fluido che scorre in un condotto e viene riscaldato, a meno di perdite di carico, si può considerare
coinvolto in un processo isobaro (che siamo in grado di realizzare facilmente). In quale regione della
campana T-s le trasformazioni sono sia isobare che isoterme? All’interno, nella zona in cui riceve
108

calore senza aumentare la temperatura ed in maniera isobara e


isoterma cambia fase. Quindi l’ideale per noi è lavorare con
fluidi bifasici all’interno della campana di saturazione. Come da
esempio in figura. Quali sono i problemi associati alla

ria
realizzazione pratica di questo ciclo così esposto? Sono diversi:
1. Se il mio ciclo deve stare tutto dentro la campana, è
vincolato dalla temperatura critica. Immaginandolo di
poterlo fare più stretto, la sua temperatura massima di
certo non può superare quella critica, quindi Ts < 374°C.
ho certamente un limite relativo alla temperatura

gne
massima.
2. Osserviamo la 2-3: l’espansione avviene in turbina che è un organo che presenta in sequenza
vari stadi ed una sequenza di palette che creano nei loro interstizi dei profili opportunamente
sagomati. Vogliamo convertire, nelle turbine, energie di pressione in lavoro. Ci sono degli
stati cosiddetti statorici nei quali un blocco di metalli fisso è calettato in modo da fungere da
ugello per convogliare il fluido nel successivo stadio rotorico. Fungendo da ugello il fluido
riduce la sua pressione ed aumenta notevolmente la sua velocità. Questo stadio rotorico non
nge
deve accelerare il fluido, ma devono solo defletterlo, e per il teorema della quantità di moto,
il fluido deflesso spinge la paletta movimentando il rotore, ed il fluido entra in un nuovo
stadio statorico. Tutto questo processo non può essere facilmente progettato e seguito e la
miscela fosse bifasica. Questo perché coesistono due fasi che si muovono in maniera
completamente diversa. Quindi non riusciamo a condurre una espansione di miscela
bifasica.
I
3. Osserviamo la 4-1: la nostra miscela è sempre bifasica, in cui però vi è molto più liquido che
vapore. Troviamo che la maggior parte della sezione è comunque occupata da vapore,
perché il suo volume specifico è maggiore del liquido. Il liquido, rappresenta la maggior parte
della massa della mia miscela in termini di massa ma non di volume, con grandi problemi
nella compressione.
ere

Potremmo pensare di risolvere questi problemi con un ciclo di


Carnot come in figura a lato, perché la somministrazione di calore
posso spingerla ben al di sopra della temperatura critica.
L’espansione è tutta secca, senza liquido, la condensazione 3-4 è
facilmente realizzabile, e la compressione la posso condurre tutta
in fase liquida. Nonostante sembri migliore, il problema è che
Viv

essendo fuori dalla campana, questa somministrazione di calore,


nel passaggio 1-2 non è più isobara, e quindi difficile da realizzare
in maniera isoterma. Inoltre siamo a pressioni ipercritiche, ovvero
oltre 221 bar, che sono ingestibili. La soluzione è quella di
rinunciare ad eseguire un ciclo di Carnot.
109

Ciclo Rankine
Il ciclo di Carnot, è il migliore tra quelli operanti
tra i medesimi serbatoi di calore, non
necessariamente migliore di un qualsiasi ciclo

ria
irreversibile. Si opera quindi come in figura a
lato, attenzionando il fluido evolvente senza
preoccuparsi delle eventuali irreversibilità. Nel
ciclo Rankine ideale quindi si considera il fluido
avere reversibilità interna. Quindi attraversa
una sequenza di stati di equilibrio, rendendo

gne
possibile il tracciamento con linea continua
delle varie linee di trasformazione. La sequenza
di organi attraversati è quella in figura: pompa,
caldaia, turbina e infine condensatore. Viene identificato il fluido
ad un preciso stato termodinamico in ingresso ad ogni organo.
Quindi lo stato 1 è identificativo del fluido in ingresso alla
pompa, lo stato 2 in ingresso alla caldaia e così via. Abbiamo già
nge
compreso come in ciascuno di questi organi il fluido interagisce
con l’esterno: la pompa incrementa la pressione di un liquido,
quindi devo immettere liquido saturo monofasico. Per
l’assunzione di reversibilità interna appena fatta, e per la
adiabaticità della pompa vista in precedenza, la trasformazione
1-2 è una adiabatica reversibile e quindi isoentropica. Quindi si
I
porta lungo la verticale di un piano T-s sino alla isobara superiore
nel punto 2. Così compresso il fluido entra in caldaia, scorrendo liberamente in una tubazione e
ricevendo calore, procedendo isobaricamente, portando il fluido da liquido sottoraffreddato a
vapore surriscaldato. La caldaia consta di tra sezioni: un preriscaldatore, un vaporizzatore ed un
surriscaldatore. Appena il fluido raggiunge lo stato 3 viene ammesso in turbina, che immaginiamo
ere

anch’essa ideale, e nella quale il fluido scorre così rapidamente da poter essere considerata
praticamente adiabatica. Al suo interno l’espansione avverrà quindi in maniera adiabatica e
reversibile e quindi isoentropica. La sua temperatura finale non può che essere la stessa dello stato
1, temperatura di ingresso alla pompa. Il fluido nello stato 4 cede calore ad un pozzo termico,
condensa, e viene riammesso alla pompa.
Se volessimo tratteggiare un ciclo di Carnot e paragonarlo a quello appena descritto dovremmo
Viv

iscriverlo all’interno della campana e come si deduce, il punto 3 del nostro ciclo Rankine è ad una
temperatura maggiore di quella del ciclo di Carnot, e se opportunamente realizzato potrebbe anche
superare la temperatura critica, perché essendo nella zona del vapore surriscaldato può farlo senza
problemi. Analizziamo gli organi che compongono il ciclo Rankine dal punto di vista energetico,
scrivendo il primo principio considerandone la stazionarità, ogni ingresso ha poi un solo ingresso ed
una sola uscita per le portate massiche (che sono uguali), e possiamo sempre trascurare le
componenti cinetiche e potenziali e quindi riducendo tutto a:
𝑞 − 𝑙 = ℎ𝑢 − ℎ𝑖
Particolarizzandolo poi per ogni organo avremo che:
110

1. Per la pompa: −𝑙𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎 = ℎ2 − ℎ1 ⇒ 𝑙𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎 = ℎ1 − ℎ2


2. Per la caldaia: 𝑞𝑒 = ℎ3 − ℎ2
3. Per la turbina: −𝑙𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 = ℎ4 − ℎ3 ⇒ 𝑙𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 = ℎ3 − ℎ4
4. Per il condensatore: −𝑞𝑢 = ℎ1 − ℎ4 ⇒ 𝑞𝑢 = ℎ4 − ℎ1

ria
L’entalpia del punto 1 la conosciamo perché è quella di liquido saturo. L’entalpia del punto 2 viene
calcolata.
Se scriviamo il rendimento di questo ciclo, scriveremo:
𝑙𝑛,𝑢
𝜂𝑡 =
𝑞𝑒

gne
A rigore noi generiamo potenze, e quindi usare la simbologia dei flussi di potenza, ovvero:

𝐿̇𝑛,𝑢 𝑚̇𝑙𝑛,𝑢
𝜂𝑡 = =
𝑄̇𝑒 𝑚̇𝑞𝑒

Ma poiché la portata massica è la stessa, possiamo semplificarla e ottenere un rendimento in termini


specifici. Posso ulteriormente scrivere il lavoro come:

𝜂𝑡 =
𝑞𝑒
=
nge
𝑙𝑛,𝑢 𝑙𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 − |𝑙𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎 | (ℎ3 − ℎ4 ) − (ℎ2 − ℎ1 )
𝑞𝑒
=
ℎ3 − ℎ2
Altro modo è quello di vedere questo ciclo, è quello di considerare il lavoro netto utile come tutto
quello che fornisco (in termini energetici) meno tutto quello che estraggo. Ovvero in termini di
calore scambiato. E quindi posso scrivere:
I
𝑞𝑒 − 𝑞𝑢 (ℎ3 − ℎ2 ) − (ℎ4 − ℎ1 )
𝜂𝑡 = =
𝑞𝑒 ℎ3 − ℎ2
I due modi di scrivere i rendimenti sono assolutamente identici. In questo piano T-s il lavoro ha un
significato grafico? Abbiamo già detto che solo il calore ha un significato grafico nel piano T-s.
ere

tuttavia, avendo potuto scrivere il lavoro netto utile come differenza di calore scambiato, allora
deve valere:

∮ 𝛿𝑞 = ∮ 𝛿𝑙

E quindi per questo ciclo interamente reversibile l’area sottesa al ciclo ha anche il significato di
Viv

lavoro. quando una trasformazione è irreversibile (linea tratteggiata) l’area all’interno del grafico
non ha nessun significato fisico.
Il ciclo reale che gli impianti possono generare non è uguale a questo. Vediamo ora gli aspetti reali
che abbiamo trascurato al fine di ottenere questo ciclo ideale:
1. Non è vero che dentro la caldaia e dentro il condensatore i preocessi risultano isobari, ovvero
senza perdite di carico. Nella realtà i fluidi non scorrono mai senza perdite di carico.
Entrambe le trasformazioni 2-3 e 4-1 in realtà sono a pressione leggermente decrescente.
Quindi risulta P3 < P2 e P4 > P1. Un fluido si muove solo se in uscita c’è una pressione un po
più bassa rispetto a quella in ingresso, quindi non può essere isobaro questo passaggio
111

2. L’irreversibilità delle trasformazioni nella pompa e nella turbina (nel caso reale non
perfettamente adiabatiche) portano alla generazione di un po di entropia. quindi nell’andare
da 1-2 mi muovo verso entropie crescenti, così come tra 3-4.

ria
gne
Fra le perdite di carico e la generazione entropica, le perdite di carico pesano di meno, quindi
nell’analisi di cicli si tende a considerare le presunte isobare come tali, ma non si trascura la
generazione di entropia (immagine a destra).
nge
Proviamo a ragionare su come rendere questo ciclo efficiente. Aumentare il rendimento non vuol
dire solo produrre di più, ma consumare meno combustibili a parità di potenza meccanica generata.
Tenendo conto che:
tutti i metodi per il miglioramento del ciclo si basano sull’obiettivo di aumentare la temperatura
media di somministrazione del calore al fluido di lavoro e ridurre più possibile quella media di
sottrazione del calore.
I
Metodi per l’innalzamento del rendimento
1. Abbassamento della pressione di condensazione
Consideriamo il ciclo di partenza 1-2-3-4. Cosa succede se
ere

riesco a diminuire la p di condensazione e seguire il ciclo 1’-2’-


3-4’? La difficoltà tecnologica che incontro è che se abbasso la
pressione di condensazione, a parità di tutto il resto, ottengo
un fluido a fine espansione che cade dentro la campana
rispetto al punto 4. Quindi può avere effetti negativi come
visto in precedenza, ma non ce ne occuperemo tanto perché
Viv

vedremo che possiamo aggirare il problema intervenendo


opportunamente su altri parametri che vedremo dopo. Cosa
accade al rendimento? La più sbagliata delle risposte sulla
variazione del rendimento è quella che vede un aumento
dell’area del nuovo ciclo. Poiché l’area rappresenta il lavoro netto utile e l’area è aumentata, ed il
lavoro sta al numeratore, allora il rendimento aumenta: nulla di più sbagliato. Perché il lavoro che
aumenta migliora il rendimento, se il denominatore resta lo stesso. Il denominatore prima andava
da 2 a 3, ora va da 2’ a 3, e quindi non è detto che migliora. Non occorre mai comparare di quanto
aumenta uno e di quanto aumenta l’altro. Non è la strada giusta. Il rendimento migliora
decisamente guardando solo alle temperature di somministrazione e sottrazione del calore. A
112

rigore, è vero ed è palese che la temperatura media di sottrazione diminuisce migliorando il


rendimento, ma è altresì vero che la temperatura media si somministrazione diminuisce un minimo.
Ma siccome il calore che si somministra alla Ts è così piccola che posso ragionevolmente pensare
che la Ts,med non sia affatto cambiata. Mentre la Ti,med lo è decisamente. E siccome posso scrivere

ria
il rendimento come
𝑇𝑖,𝑚𝑒𝑑
𝜂𝑡 = 1 −
𝑇𝑠,𝑚𝑒𝑑

Con il rapporto Ti,med/Ts,med ridotto, e quindi un rendimento maggiore. Sino a quanto posso
diminuire questa pressione di condensazione? Il fluido deve condensare cedendo calore a qualcosa,

gne
che deve essere più freddo del fluido su cui riversare il calore. Quindi l’ambiente. Può essere aria,
acqua etc. quindi il mio limite è la temperatura del pozzo termico sul quale riversare il calore. Se la
mia acqua di mare è a 20°C, non posso certamente pensare di raffreddare il mio fluido a 19°C. Se io
ho acqua di mare a 20°C e ho condensa a 35°C questo processo è migliorabile portando la
condensazione a 32°C. Ma questo processo, fino a che punto posso portarlo? Posso arrivare ad una
temperatura estremamente prossima a quella del mare, ma c’è una relazione tra il salto termico e
il tempo di scambio di calore. Altresì, il flusso di calore è favorito dall’aumento di superficie preposta
nge
allo scambio termico, perché riesco a smaltire più calore. Il calore scambiato è una funzione del salto
di temperatura e della superficie di scambio. Ma poiché gli scambiatori occupano spazio e hanno
dei costi, non è sempre la soluzione più saggia abbassare questa temperatura, ma va valutato
l’investimento di volta in volta. Quindi il processo logico più normale è quello di valutare qual è la
temperatura del mio pozzo termico, ed abbassare la temperatura di condensazione il più possibile
compatibilmente con i costi dell’impianto.
I
2. Aumento della temperatura di surriscaldamento del vapore
Sempre partendo dal ciclo 1-2-3-4 rappresentato, mi chiedo
che succede se porto il mio ciclo ad essere 1-2-3’-4’, quindi
portando il punto 3’ ad una temperatura maggiore rispetto al
punto 3. La cosa dal punto di vista termodinamico è certamente
ere

conveniente, vediamo perché. Il ciclo 1-2-3’-4’ può essere visto


come somma di due cicli: l’1-2-3-4 e il 3-3’-4’-4. Percorrendo
singolarmente i due cicli in verso orario, io realizzo la
trasformazione 3-4 in espansione per il primo ciclo, ed in
compressione per il secondo ciclo, e necessariamente il lavoro
prima generato e poi speso deve essere lo stesso (la
Viv

trasformazione è identica). La somma dei due effetti è quindi


nulla. Il ciclo completo è quindi concepibile come la somma degli effetti dei due cicli. Quindi scriverò:
𝑞𝑒′ = 𝑞𝑒 + 𝛿𝑞𝑒 e 𝑙𝑛′ = 𝑙𝑛 + 𝛿𝑙𝑛
Ovvero il calore del ciclo 1-2-3’-4’ è dato dalla somma del calore del ciclo 1-2-3-4 e del nuovo ciclo.
Lo stesso vale per il lavoro. Il ciclo che ho aggiunto, ha un rendimento più alto, perché la Ti,med è la
stessa del ciclo 1-2-3-4, ma ha una Ts,med più alta. Quindi il rendimento è più alto. Posso allora
scrivere:
113

𝑙𝑛′ 𝑙𝑛 + 𝛿𝑙𝑛 𝑙𝑛
𝜂𝑡 ′ = ′
= > = 𝜂𝑡
𝑞𝑒 𝑞𝑒 + 𝛿𝑞𝑒 𝑞𝑒
Risolviamo anche il problema precedente: riscaldando di più, sposto il punto 4 più vicino alla
campana di saturazione e quindi verso una espansione più secca. Riscaldare ulteriormente del

ria
vapore secco si fa il più possibile, compatibilmente coi limiti di resistenza dei materiali. In alcuni casi,
per poter spingere ulteriormente più in alto la temperatura si usano palette interefrigeranti. I limiti
tecnici attuali ci portano ad usare vapore in ingresso in turbina a temperature intorno ai 600°C.
17/04/2018
3. Aumento della pressione in caldaia

gne
A parità di altre condizioni, l’innalzamento della pressione in
caldaia, si concretizza nel nuovo ciclo 1-2’-3’-4’. Il tratto
isotermo associato alla vaporizzazione tende ad avvenire ad
una più alta temperatura, innalzando la temperatura media più
di quanto non avvenisse nella trasformazione 2-3. Nel
passaggio dall’isobara 2-3 all’isobara 2’-3’, si accresce dell’area
nge
rosa e diminuisce dell’area grigia. Tale raffronto però non è
quantitativo, ma solo qualitativo. Resta sempre valido il
principio dell’innalzamento della temperatura media di
somministrazione che ci garantisce un certo guadagno.
Contemporaneamente però, riscontriamo una diminuzione di
titolo, passando dal punto 4 al punto 4’. Ma ancora una volta, come visto nel metodo precedente,
il punto 4’ può essere avvicinato molto alla campana, vedendo una espansione secca o molto secca.
I
Questi metodi di innalzamento del rendimento vanno applicato solitamente tutti insieme al fine di
ottimizzare il più possibile il ciclo. Quindi poco senso ha valutare singolarmente i benefici che ogni
metodo porta, ma piuttosto nel loro complesso. Questi metodi prevedono il miglioramento del
rendimento ottimizzando il ciclo considerando sempre e solo i quattro organi principali coinvolti.
ere

Nulla vieta una modifica all’impianto al fine di migliorare il rendimento, ma questi tre metodi
vengono implementati senza modifiche all’impianto base.
Vediamo ora due ulteriori soluzioni che però complicano un pò il ciclo dal punto di vista strutturale:
1. Ciclo Rankine con risurriscaldamento.
È sempre un ciclo ideale quello che consideriamo, e
Viv

presenta una modifica rispetto al ciclo base che vediamo


nella figura a destra. Si parte sempre dallo stato 1 di liquido
saturo in ingresso alla pompa, quindi compressione, sino
allo stato 2 quando entra in caldaia e segue un
riscaldamento isobaro sino allo stato 3. Adesso però, invece
che entrare in una turbina lungo la quale espandersi dalla
pressione di caldaia alla pressione di condensazione, entra
in sequenza in due turbine, una chiamata di alta pressione,
nella quale si espande sino ad una pressione intermedia più
alta di quella di condensazione, sino allo stato 4. Quindi sto frazionando questa espansione in due
114

turbine distinte. Dallo stato 4 viene rimandato all’interno


della caldaia in modo da ricevere ancora isobaricamente
calore. Di solito si concepisce il punto 5 di uscita imponendo
la T3 = T5 (compatibilmente con la resistenza dei materiali).

ria
A questo punto il fluido nello stato 5 entra, ad una pressione
minore rispetto a quella dello stato 3, in una turbina a bassa
pressione e lì si espande sino allo stato 6, iniziando da lì la
condensazione sino al punto 1. L’aumento di rendimento, è
dovuto al fatto che sto aggiungendo un piccolo ciclo
secondario al mio ciclo originale a più alta efficienza,

gne
operando ad una temperatura media di somministrazione
più elevata. Cosa accade alla espressione del rendimento del ciclo? Si modifica leggermente pur
mantenendo le stesse impostazioni. Infatti ora il lavoro generato è somma del lavoro estratto dai
due cicli, il lavoro della pompa resta invariato ma abbiamo aumentato il calore somministrato dalla
caldaia, somma del calore fornito per la 2-3 e per la 4-5. Nel complesso però il rendimento è
migliorato:

𝑙𝑡𝑢𝑟𝑏𝐴𝑃 + 𝑙𝑡𝑢𝑟𝑏𝐵𝑃 − |𝑙𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎 | (ℎ3 − ℎ4 ) + (ℎ5 − ℎ6 ) − (ℎ2 − ℎ1 )


𝜂𝑡 =
nge
𝑞𝑒,𝑐𝑎𝑙𝑑𝑎𝑖𝑎 + 𝑞𝑒,𝑟𝑖𝑠𝑢𝑟𝑟𝑖𝑠𝑐𝑎𝑙𝑑𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒
=
(ℎ3 − ℎ2 ) + (ℎ5 − ℎ4 )

Lavoriamo in termini specifici perché ancor auna volta, la portata massica risulta costante lungo
tutto il ciclo. Questo metodo, spostando il punto di fine espansione a destra, garantisce una
espansione completamente secca o quasi. Esiste un valore ottimale di pressione alla quale fare
avvenire il risurriscaldamento. Questo risurriscaldamento può essere effettuato più volte anche se
nei cicli reali si è visto che l’ottimizzazione avviene quando lo si fa una sola volta (bilancio costi
I
benefici).
2. Ciclo Rankine con rigenerazione
È un ciclo ulteriormente più complesso di quello visto
ere

finora. Importiamo questa soluzione all’interno del ciclo


Rankine originale, senza però inserire il
risurriscaldamento (che pure si potrebbe inserire). Viene
riconosciuto che nel ciclo Rankine la parte più
penalizzante per il rendimento è il tratto di
somministrazione del calore, in particolare la parte di
Viv

riscaldamento del fluido. Posso effettuare il passaggio dal


punto 2 sino in prossimità della campana, senza
somministrazione di calore in caldaia? Non tramite
preriscaldamento a spese di combustibile, ma in qualche altro modo? Si può fare, se sacrifico una
parte di fluido a temperatura sufficientemente elevata per poter riscaldare il mio liquido compresso.
Considerando fissate le pressioni di condensazione e di somministrazione del calore, si eleva il fluido
dallo stato 1 e quindi a pressione di condensazione, allo stato 2 ad una pressione che non è quella
di caldaia, ma intermedia. Allo stato 2, il fluido entra in una camera di miscelazione, in cui viene
miscelato con un fluido nello stato 6, che è vapore alla medesima pressione, estratto dalla turbina.
In una camera di miscelazione isobara in cui entrano liquido e vapore surriscaldato, il vapore cede
calore al liquido, in proporzione alle portate massiche. Questa cessione di calore è progettata in
115

modo tale da condurre il liquido sino al punto 3,


precisamente sulla curva di liquido saturo. In particolare
avrò:
𝑚̇𝑠𝑝𝑖𝑙𝑙 + 𝑚̇𝑐𝑜𝑛𝑑 = 𝑚̇𝑡𝑜𝑡

ria
{
ℎ6 𝑚̇𝑠𝑝𝑖𝑙𝑙 + ℎ2 𝑚̇𝑐𝑜𝑛𝑑 = ℎ3 𝑚̇𝑡𝑜𝑡

Che è quello che avviene in una camera di miscelazione. Se


il punto 2 è chiaramente noto, e qualora fosse noto il punto
6, note le portate massiche il punto 3 è determinabile
facilmente. Una volta allo stato 3, occorre comprimerlo

gne
ulteriormente lungo la trasformazione 3-4 entrando così in
caldaia nello stato 4, sino al punto 5, per poi entrare in
turbina ed espandersi sino al punto 7, fermo restando che una quota di vapore verrà estratta allo
stato 6 e portato alla camera di miscelazione. Questa soluzione appena identificata, è così
conveniente che di miscelatori come questo in un ciclo reale se ne compiono sei o sette. il ciclo
migliora perché: la Ti,med non cambia, mentre il calore somministrato che prima veniva immesso
dal punto 2 al 5, adesso è come se lo riuscissimo a portare gratis fino ad una temperatura a noi più
nge
conveniente e solo poi fornire calore dall’esterno. Quindi la Ts,med è certamente più alta perché
l’ho ridotta del tratto più penalizzante. Il prezzo che paghiamo per riscaldare il fluido, è che una
quantità di vapore non segue più la 6-7. Ma kg di vapore estratti non contribuiscono più a produrre
lavoro. Non è un ciclo quindi ad unica portata circolante nell’impianto come abbiamo visto in
precedenza. Se è 1kg/s la portata in caldaia, e detta x la quantità spillata, quella che contribuirà al
lavoro della turbina è chiaramente 1-x. Non possiamo quindi scrivere il rendimento in termini di
proprietà specifiche.
I
𝐿̇𝑡𝑢𝑟𝑏5−6 + 𝐿̇𝑡𝑢𝑟𝑏6−7 − 𝐿̇𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎1−2 − 𝐿̇𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎3−4
𝜂𝑡 =
𝑞𝑒,𝑐𝑎𝑙𝑑𝑎𝑖𝑎

In cui:
ere

𝐿̇𝑡𝑢𝑟𝑏5−6 = 𝑚̇𝑡𝑜𝑡 (ℎ5 − ℎ6 )

𝐿̇𝑡𝑢𝑟𝑏6−7 = 𝑚̇𝑐𝑜𝑛𝑑 (ℎ6 − ℎ7 )


𝐿̇𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎1−2 = 𝑚̇𝑐𝑜𝑛𝑑 (ℎ2 − ℎ1 )

𝐿̇𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎3−4 = 𝑚̇𝑡𝑜𝑡 (ℎ4 − ℎ3 )


Viv

𝑞𝑒,𝑐𝑎𝑙𝑑𝑎𝑖𝑎 = 𝑚̇𝑡𝑜𝑡 (ℎ5 − ℎ4 )

E di conseguenza:
𝑚̇𝑡𝑜𝑡 (ℎ5 − ℎ6 ) + 𝑚̇𝑐𝑜𝑛𝑑 (ℎ6 − ℎ7 ) − 𝑚̇𝑐𝑜𝑛𝑑 (ℎ2 − ℎ1 ) − 𝑚̇𝑡𝑜𝑡 (ℎ4 − ℎ3 )
𝜂𝑡 =
𝑚̇𝑡𝑜𝑡 (ℎ5 − ℎ4 )
Posso poi dividere tutto per la portata massica totale:
𝑚̇𝑐𝑜𝑛𝑑 𝑚̇
(ℎ5 − ℎ6 ) + (ℎ6 − ℎ7 ) − 𝑐𝑜𝑛𝑑 (ℎ2 − ℎ1 ) − (ℎ4 − ℎ3 )
𝑚̇𝑡𝑜𝑡 𝑚̇𝑡𝑜𝑡
𝜂𝑡 =
(ℎ5 − ℎ4 )
116

Riducendo tutto quindi ad entalpie specifiche e rapporto di portata massica che resta nella turbina
fino alla fine su quella totale.
02/05/2018

ria
Le macchine frigorifere e pompe di calore
Denominiamo le macchine che stiamo per studiare a ciclo inverso,
o macchine operatrici in quanto lavorano in maniera diversa dalle
macchine motrici (dalle quali estraiamo lavoro). Queste macchine,
fornendo lavoro meccanico, trasferiscono calore da un’ambiente
all’altro. le macchine frigorifere sottraggono calore all’ambiente

gne
refrigerato per mantenerlo o portarlo a temperatura inferiore
rispetto a quella dell’ambiente esterno. Le pompe di calore
somministrano calore al mio sistema per innalzarne la temperatura
rispetto a quella dell’ambiente esterno. Abbiamo formulato il
coefficiente di prestazione per le due macchine come rapporto tra
flusso utile e lavoro speso, ottenendo:
nge
𝑄𝑖 1
𝐶𝑂𝑃𝐹 = =
𝐿𝑛 𝑄𝑠 − 1
𝑄𝑖
𝑄𝑠 1
𝐶𝑂𝑃𝑃𝑑𝐶 = =
𝐿𝑛 1 − 𝑄𝑖
𝑄 𝑠

Come solito concetto, possiamo partire dalla ipotesi di voler realizzare il frigorifero dalla macchina
I
inversa di Carnot. Abbiamo dedotto come alla scrittura:
1 1
𝐶𝑂𝑃𝐹 = e 𝐶𝑂𝑃𝑃𝑑𝐶 =
𝑄𝑠 𝑄
𝑄𝑖 − 1 1 − 𝑄𝑖
𝑠
ere

Possa essere fatta corrispondere, per la definizione di temperatura che abbiamo dato:
1 1
𝐶𝑂𝑃𝐹,𝐶𝑎𝑟𝑛𝑜𝑡 = e 𝐶𝑂𝑃𝑃𝑑𝐶,𝐶𝑎𝑟𝑛𝑜𝑡 =
𝑇𝑠 𝑇𝑖
− 1 1 −
𝑇𝑖 𝑇𝑠
E quindi sostituire al rapporto dei calori scambiati, quello equivalente delle temperature assolute.
Viv

La macchina di Carnot è utile come riferimento per l’ottimo realizzabile nell’ipotesi di tempo infinito
di realizzazione del ciclo operante in totale reversibilità, ovvero che è in grado, fornendo una certa
quantità di calore di estrarre la massima quantità di lavoro possibile. In questo senso la macchina
motrice reversibile di Carnot è la migliore, perché è quella che, operante tra due temperature,
consente il massimo rendimento. La macchina operatrice di Carnot è la migliore perché per dato
risultato utile, ovvero trasferimento di calore, è quella che richiede il minimo lavoro. in un caso è il
massimo lavoro prodotto, nell’altro è il minimo speso. Se vogliamo realizzare la macchina inversa di
Carnot, dobbiamo provare a renderla praticamente realizzabile. Una delle principali difficoltà che si
riscontrano è quella di fornire calore isotermicamente (visto nel ciclo Rankine). Ci viene
particolarmente semplice invece trasferire calore isobaricamente. Quindi se volessi realizzare
117

praticamente il ciclo ci Carnot dovrei inquadrarlo all’interno della


campana di saturazione, all’interno della quale una isobara è
fisiologicamente isoterma. Il ciclo è naturalmente condotto in
senso inverso, come si evince dalla numerazione degli stati. Ci

ria
sarà un fluido di lavoro che, per evaporare durante la 1-2,
assorbe calore, mentre condensando nella 3-4 rilascia calore.
Quali difficoltà incontriamo nella realizzazione? Esattamente
quelle viste per il ciclo Rankine: le trasformazioni 2-3 e la 4-1,
essendo in questo ciclo operanti con una miscela bifasica,
presentano gli stessi problemi già visti nel ciclo Rankine. In

gne
particolare la compressione 2-3 è particolarmente rischiosa e
tecnicamente impossibile da realizzare perché, introducendo un
fluido che è in parte liquido (e quindi incomprimibile) all’interno
di un compressore, la rottura di quest’ultimo è immediata.
Mentre invece ci sono vari studi che cercano di realizzare la 4-1.
A lato una macchina che idealmente potrebbe realizzare il ciclo
di Carnot, fermo restando i problemi tecnici di cui abbiamo
nge
parlato sopra. Una soluzione potrebbe essere quella di portare il
ciclo al di fuori della campana ma questo comporterebbe che le
isobare non sono più isoterme. E quindi non è una via
perseguibile.
Quello che si realizza, è un ciclo inverso leggermente modificato
(figura 13) e viene denominato ciclo inverso a compressione di
I
vapore ideale. Detta così perché assume ideali alcune
trasformazioni, non perché è reversibile. Differisce dal ciclo di
Carnot per due motivi:
1. Si fa in modo di prolungare l’evaporazione 4-1 sino a
titolo unitario, collocando il punto 1 sulla campana di
ere

saturazione. In questo modo, posso operare una


compressione in campo monofasico, con la sola fase
vapore, e quindi non si presentano più le criticità sopra
citate. Di negativo c’è il fatto che la compressione ideale
compiuta a partire da un vapore saturo secco, ci conduce
isoentropicamente ad un punto 2 di fine compressione
Viv

che deve stare sull’isobara superiore del mio ciclo che Figura 13
ricade non più nel campo bifasico ma nel campo dei
vapori surriscaldati. Allora questo vapore compresso, quando proverò a sottrarre calore,
dovrà isobaricamente dapprima desurriscaldarsi, e solo quando sarà arrivato allo stato di
vapore saturo secco, ogni cessione di calore comporterà condensazione isoterma.
2. L’altra criticità era quella relativa alla espansione ideale umida o a basso titolo. Si ovvia a
questa ulteriore difficoltà termica sostituendo l’espansore che prima veniva condotta
isoentropicamente, si sostituisce un espansore che è non ideale, anzi è il più irreversibile di
tutti, ovvero un organo di laminazione, accontentandosi di generare entropia.
118

Nel ciclo ideale quindi gli organi presenti sono:

 Compressore
 Condensatore
 Valvola di laminazione

ria
 Evaporatore
Quando il fluido è nello stato 3 attraversa una trasformazione
che tratteggiamo perché non è isoentalpica ma ha entalpia
finale uguale a quella iniziale, e che soprattutto non può più
essere isoentropico, quindi non verticale, di fatto rinunciando

gne
ad estrarre lavoro da quest’organo. Questo ciclo è dal punto
di vista morfologico quale che sia l’obiettivo che il ciclo vuole
realizzare, quindi è lo stesso per una macchina frigorifera e per
una pompa di calore, con la differenza che il calore utile è
quello che cede il condensatore nel caso di una pompa di
calore, è quello estratto all’evaporatore nel caso di una
macchina frigorifera. La figura mostra uno schema generale,
nge
che nella realtà può avere piccole variazioni. Una differenza è
che noi abbiamo sempre rappresentato la valvola di
laminazione come un condotto con un restringimento
puntuale. In realtà in molti dispositivi l’organo di laminazione
presenta una struttura capillare, come avviane per esempio
nei frigoriferi domestici (schematizzato in figura).
I
Analisi energetica
Ciascuno degli organi che stiamo analizzando è un sistema
aperto, caratterizzati da un unico ingresso ed unica uscita.
Tutti gli organi operano in regime stazionario, ed essendo il
ere

volume di controllo scelto sulla frontiera dell’organo stesso al


quale adduce il fluido una tubazione, e ne sottrae un’altra,
possiamo trascurare il contributo cinetico e quello potenziale.
Pertanto il primo principio della termodinamica si riduce alla seguente scrittura, in termini di
potenza ed in termini specifici.

𝑄̇ − 𝐿̇ = 𝑚̇Δℎ
Viv

{
𝑞 − 𝑙 = Δℎ
Perché è molto importante sapere lavorare in termini massici? Perché noi lavoreremo spesso con le
proprietà di stato della sostanza durante il ciclo, che sono tabellate in riferimento all’unità di massa.
Ed è quindi più comodo lavorare in termini specifici. Le macchine frigorifere non lavorano con
l’acqua come fluido evolvente, perché il suo punto di congelamento avviene ad una temperatura
troppo alta. Poiché a noi spesso serve operare a temperature inferiori al punto di congelamento
dell’acqua, in quei casi ci occorre ricorrere ad un fluido refrigerante scelto in maniera opportuna a
seconda delle temperature delle condizioni di lavoro all’interno delle quali intendo operare.
Compresa la modalità di formulazione dell’equazioni di nostro interesse, applichiamo
119

sequenzialmente il primo principio nella forma appena scritta, ai


quattro organi del nostro ciclo partendo dal compressore:
−𝑙𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟 = ℎ2 − ℎ1 > 0 ⟹ 𝑙𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟 < 0

ria
Poiché h2 è certamente maggiore di h1, ne deriva che il secondo
termine è positivo, e quindi il lavoro del compressore è un lavoro
che devo fornire dall’esterno al mio sistema. entrambi i valori di
entalpia sono ricavabili dalle tabelle, il punto 1 da lettura diretta,
il punto 2 con semplice interpolazione. Al condensatore, non
avendo nessun lavoro né fornito, né estratto posso scrivere

gne
agevolmente:
𝑞𝑆 = ℎ3 − ℎ2 < 0
Essendo h3 molto minore di h2, questa differenza è negativa, e per la convenzione dei segni è quindi
calore che io cedo all’ambiente. L’organo di laminazione non produce né consuma lavoro ed è
adiabatico. Banalmente scrivo
0 = ℎ4 − ℎ3
nge
Leggendo h3 dalle tabelle, scopro h4 e con la regola della leva posso dedurre il titolo della mia
miscela nel punto 4. L’evaporatore presenta h1 maggiore di h4 ed è quindi in ingresso per il mio
fluido, che infatti il sistema estrae dall’ambiente e quindi avrò.
𝑞𝑖 = ℎ1 − ℎ4 > 0
Scriviamo adesso in termini più utili e pratici il COP delle mie macchine, in termini di potenze
I
frigorifere o termiche realizzate e rapportando queste alla potenza meccanica assorbita, e poiché
abbiamo detto che la portata massica è costante, posso dividere entrambi i termini con i loro valori
specifici. E come visto sopra, posso sostituire i termini specifici secondo le differenze di entalpia
specifica. Ottengo quindi per la macchina frigorifera:
ere

𝑄̇𝑖 𝑞𝑖 ℎ1 − ℎ4
𝐶𝑂𝑃𝐹 = = =
|𝐿̇𝑛 | |𝑙𝑛 | ℎ2 − ℎ1

E per la mia pompa di calore:

𝑄̇𝑠 𝑞𝑠 ℎ2 − ℎ3
𝐶𝑂𝑃𝑃𝑑𝐶 = = =
|𝐿̇𝑛 | |𝑙𝑛 | ℎ2 − ℎ1
Viv

Chiamiamo effetto utile, il numeratore del COP che è ovviamente differente per le due macchine.
Per la macchina frigorifera è il calore che l’evaporatore riesce ad esportare dall’ambiente
refrigerato, mentre nel secondo caso è quello che il condensatore riversa nell’ambiente. Mentre Qi
e Qs (ossia l’effetto utile) hanno un significato nel mio piano di lavoro, l’area sottesa del mio piano
T-s ha un significato fisico. Per quanto riguarda il lavoro invece, poiché la 3-4 è irreversibile e quindi
non è tracciata con linea continua, non esiste un riscontro grafico per la quantità di lavoro.

Se abbiamo compreso che il calore fluisce spontaneamente solo da un ambiente a più alta
temperatura ad uno a più bassa temperatura, qual è l’artificio che le macchine frigorifere provano
a realizzare per realizzare per garantire un flusso di calore da un ambiente a più bassa ad uno a più
120

alta temperatura. Cioè, c’è un momento in cui del calore fluisce in modo diretto da un ambiente a
temperatura più bassa ed uno a temperatura più alta? Se io riesco a porre a contatto con il mio
ambiente freddo a Ti un fluido che è ad una temperatura ancora più bassa, supposta di 10°C più
bassa, per esempio, io riesco ad estrarre calore dal mio ambiente refrigerato. Se poi io lo arrivo a

ria
comprimere e portarlo ad una temperatura superiore a quella di Ts allora sarà in grado di cedere
calore all’ambiente esterno. Quello che noi facciamo non è certamente quello di modificare quella
che è la natura degli scambi termici che noi abbiamo visto, ma piuttosto sfruttiamo proprietà di
fluidi che ci permettono di realizzare questi artifici. Nel nostro caso, per una macchina frigorifera,
occorrerà che il fluido abbia punto di evaporazione a T = -20°C o inferiore, se vogliamo realizzare
una macchina frigorifera che mantenga l’ambiente refrigerato a -10°C. quindi deve affrontare una

gne
trasformazione 4-1 più bassa rispetto alla temperatura del mio ambiente refrigerato. Parimenti,
nella trasformazione 2-3 devo poter garantire che la temperatura del mio fluido sia maggiore
rispetto a quella dell’ambiente al quale riverso calore.
Facciamo ora qualche piccola valutazione termodinamica. Immaginiamo di voler tenere il
pescespada a -20°C, quindi Tcella = -20°C e di trovarci in un ambiente in cui all’esterno Tambiente =
30°C. Come si realizza il ciclo frigorifero di Carnot? Non potrà che essere un ciclo rettangolare che
operi tra Tcella e Tambiente, ovvero tra -20°C e 30°C. Questo perché il ciclo di Carnot è quello
nge
realizzato in modo tale da scambiare calore in tempi infiniti, e non presenta né irreversibilità interne
né esterne, quindi senza salti termici finiti. La temperatura del fluido evaporante nella ipotesi di
irreversibilità nulle, deve essere proprio alla medesima temperatura della mia cella o al massimo di
un dT, perché deve avvenire in maniera isoterma. Questo naturalmente non vale per i cicli reali.
Abbiamo in passato dedotto la superiorità del ciclo di Carnot
su tutti gli altri cicli operante tra le medesime temperature,
I
confrontandolo con un ciclo di forma generica operante tra
infiniti serbatoi e pozzi termici (immagine di richiamo a
destra). Questo ciclo e quello frigorifero non possono essere
confrontati, perché il ciclo diretto opera per la maggior parte
del tempo a temperature superiori a quella della cella che
ere

mi interessa tenere refrigerata. Il ciclo col quale posso fare


confronti è un ciclo non iscritto ma circoscritto a quello di
Carnot. Questo perché opera a temperature più basse della
mia cella e più alte del mio ambiente. Quindi, nel caso di ciclo diretto di Carnot, il confronto con cicli
generici è condotto per cicli inscritti al ciclo di Carnot, che opera tra Ts e Ti. Nel caso di cicli generici
confrontati con il ciclo inverso di Carnot, tale confronto può essere effettuato solo per cicli generici
Viv

circoscritti a quello ideale di Carnot perché deve necessariamente operare con Ti inferiori a quelle
di Carnot e Ts superiori.
03/05/2018
Metodi per l’innalzamento del COP. Esattamente come per i cicli diretti ci poniamo l’obiettivo di
innalzare i rendimenti, e quindi limitare i consumi di combustibile, parimenti massimizzare il COP
equivale a minimizzare l’energia meccanica necessaria a realizzare lo scambio di calore desiderato.
Solo dal punto di vista termodinamico è conveniente avere temperature di evaporazione e
condensazione quanto più vicine possibili alle temperature della cella frigorifera e dell’ambiente al
quale riverso il calore. È l’ipotesi però di un frigorifero con scambiatori molti grandi, in gradi di
121

scambiare grandi quantità di calore nonostante i piccoli salti termici. Altra soluzione, è quella di
operare un ciclo formalmente identico ma con temperatura inferiore molto più bassa di quella della
cella, e quella di rilascio molto più alta di quella dell’ambiente. In questo modo, necessito di
scambiatori più piccoli, perché ho salti termici maggiori, ma peggioro il mio COP per le valutazioni

ria
termodinamiche fatte prima. Tra le due soluzioni, chiaramente la prima è quella che mi permette di
innalzare il mio COP. Quindi la prima cosa da fare, limitatamente ai costi di investimento, è utilizzare
scambiatori grandi in modo da poter approssimare le mie temperature di esercizio a quella di cella
e a quella ambiente. Un’altra soluzione che di solito si evidenzia per l’aumento del rendimento del
ciclo frigorifero è quella di garantire un adeguato sottoraffreddamento del fluido che esce dal
condensatore. Nel ciclo visto finora, il punto 3 era sempre di

gne
liquido saturo. Questa condizione, è soddisfacente?
Assolutamente no. Questo perché la valvola di laminazione (o
il capillare) è un organo attraverso il quale il fluido passa in
una sezione molto piccola, ed è costretto a perdere pressione.
quindi, ricordando l’equazione di continuità, che ci dice che la
portata massica di un fluido può essere scritta come:
𝑚̇ = 𝜌𝐴𝑤𝑚𝑒𝑑
nge
Nel passaggio da una elevata sezione, ad una piccola, A si
riduce di molto e quindi il prodotto 𝜌𝑤𝑚𝑒𝑑 deve aumentare
molto. Se io mi porto al punto 3 all’uscita del condensatore e in ingresso alla valvola di laminazione
per un caso accidentale il mio fluido riceve calore, questo comincia subito ad evaporare. Quindi il
liquido che mi arriva è in parte vapore. Quella piccola parte di vapore, ha un volume specifico
enorme rispetto al liquido, e appena queste sacche di vapore vanno ad occupare quella sezione,
I
occupano pochissimo spazio e fanno passare poca massa. Devo quindi premurarmi che alla valvola
di laminazione arrivi fluido che sia tutto liquido. La migliore garanzia per alimentare questa valvola
con fluido che sia tutto liquido non è quella di portarsi allo stato di liquido saturo ma di liquido
sottoraffreddato, in modo da scongiurare evaporazioni accidentali. È importante sottolineare che il
problema è all’ingresso della valvola: se viene alimentata da liquido che al suo interno cambia fase,
ere

quello che succede è che aumenta la sua velocità, ma ciò è previsto, e la valvola è progettata ad hoc.
Il problema c’è se il fluido è bifasico prima di entrare nella valvola. Procederemo quindi ad un leggero
sottoraffreddamento, portandoci dal punto 3 al punto 3’. Peraltro, abbassare la temperatura dal
punto 3 al punto 3’, permette un leggero innalzamento del COP. Questo perché l’entalpia del punto
3’ sarà minore di quella del punto 3, e avrò prodotto un incremento del COP perché avrò
incrementato l’effetto utile h1-h4’ senza modificare la quantità h2-h1 che è il lavoro che devo
Viv

spendere dall’esterno. Quindi avrò di fatto incrementato il mio numeratore senza che il
denominatore vari, aumentando di fatto il COP. Il sottoraffreddamento quindi, non è solo un
processo che mette in sicurezza l’impianto, ma che permette di innalzare il COP. Per questi motivi
si cerca di farlo il più possibile. Il problema nel produrre un sottoraffreddamento il più elevato
possibile è come realizzarlo. Lungo la 2-3 il fluido cedeva calore all’aria dell’ambiente. Peraltro,
vogliamo cercare di fare in modo che il punto 3 sia quanto più prossimo alla temperatura
dell’ambiente, che come abbiamo visto, ci garantisce prestazioni migliori. Quindi come portarlo dal
punto 3 al punto 3’? tecnicamente dovrebbe riversarlo ancora nel mio ambiente, ma quando il
liquido si sottoraffredda, non può scendere comunque sotto la temperatura ambiente ma
diminuisce il salto termico. Se il sottoraffreddamento è ottenuto direttamente con l’ambiente
122

esterno, non può che essere limitato, e quindi dovrò


accontentarmi. Per migliorare le cose si può immaginare un ciclo
che ha una struttura leggermente diversa, ovvero con un
ulteriore scambiatore di calore (racchiuso nell’ottagono al centro,

ria
in figura a lato). in questo modo si mettono a contatto il fluido
che esce dal condensatore e sta per entrare nella valvola di
laminazione con quello che esce dall’evaporatore e sta per
entrare al compressore. Se il fluido che esce allo stato 1,
estremamente freddo, viene mandato allo scambiatore di calore
al centro dello schema, esso scambia calore con il fluido allo stato

gne
3 che è ad una temperatura superiore a quella del mio ambiente,
quindi il calore viene scambiato con estrema facilità. Quindi il
calore fluisce dal fluido allo stato 3, al mio fluido allo stato 1,
portandosi ad una temperatura decisamente inferiore a quella
del mio ambiente, portandosi al punto 3’. Ma anche il punto 1
non sarà più quello perché il fluido si sarà riscaldato, portandosi
allo stato 1’. Quale sarà il saldo netto di questa operazione? È
nge
vero che come abbiamo detto prima, portandoci dal punto 3 al
punto 3’, il mio fluido evolverà nell’organo di laminazione sino al
punto 4’ aumentando di fatto il rendimento, ma ora anche il
lavoro speso è maggiore, perché la mia trasformazione non sarà più la 1-2 ma la 1’-2’ e poiché il mio
fluido è vapore secco surriscaldato occupa più volume, ed il lavoro speso in compressione è
proporzionale al volume. E quindi maggiore. Il nuovo rendimento sarà:
𝑞𝑖 ℎ1′ − ℎ4′
I
𝐶𝑂𝑃𝐹 ′ = =
|𝑙𝑛 | ℎ2′ − ℎ1′

Tuttavia, fatti i conti, entro certi limiti, si ha un beneficio per il COP che risulta leggermente più alto
del ciclo originale. Non è detto che questa soluzione tecnica viene sempre adottata: va valutata di
volta in volta in base a quello che è il campo di lavoro.
ere

Questo ciclo appena studiato l’abbiamo chiamato ideale, perché differisce da quello reale per alcune
cose:
1. Abbiamo supposto la compressione adiabatica reversibile, ma nella realtà non è possibile
realizzare compressioni totalmente reversibili e di conseguenza dell’entropia viene sempre
generata. La trasformazione 1-2 di fatto non può essere una verticale ma procedendo verso
Viv

il punto 2 sbieca leggermente a destra verso entropie crescenti. Di fatto quindi, il lavoro di
compressione aumenta leggermente, costandoci di più rispetto al ciclo ideale
2. Gli scambiatori di calore nei quali abbiamo supposto il deflusso come evolvente lungo un
processo isobaro, trascurando le perdite di carico, che in realtà sono presenti. Quindi la 4-1
e la 2-3 non sono linee perfettamente isobare perdendo pressione.
NOTA: considerando nel ciclo reale le perdite di carico, ci aspetteremmo che la linea di
trasformazione 4-1 sia inclinata verso il basso, diminuendo la pressione diminuisce la temperatura.
Tuttavia a volte capita di trovarla inclinata verso l’alto verso temperature crescenti. Perché questo?
Cenni sui fluidi frigoriferi: l’industria chimica si è impegnata fortemente nella realizzazione di fluidi
123

capaci di operare nel migliore dei modi. Tra gli anni ’70 sino a metà degli anni ’90 erano diffusi i CFC
(clorofluorocarburi) e pur avendo buoni rendimenti erano estremamente nocivi per l’ambiente. La
molecola di cloro e fluoro contenuta in essi (soprattutto il cloro) si legava con l’ozono in atmosfera
riducendone la presenza in atmosfera. Banditi intorno al 1997, vennero sostituiti dagli HFC

ria
(Idrofluorocarburi), che però vennero anche loro decommissionati e a breve verranno banditi. C’è
attualmente una corsa alla realizzazione di liquidi refrigeranti ecofriendly. I fluidi ricercati
dall’industria chimica non sono sostanze pure, ma spessissimo sono miscele di sostanze, che
vengono brevettati, e quindi chiunque costruisca macchine frigorifere deve acquistare i brevetti per
poterli utilizzare. Che succede quindi se conduco l’evaporazione e la condensazione di una miscela
che non è pura ma è binaria? Quando le fasi coesistenti sono due, per la regola di Gibbs, il grado di

gne
libertà per noi disponibile è uno: fissata la temperatura (nota la composizione) il suo stato
termodinamico è fissato. Questo si può evincere dai
diagrammi di miscibilità per fluidi binari. Quindi
pressione e temperatura non sono più
biunivocamente legati. Se io faccio entrare una
miscela con una ben precisa composizione, e con un
riscaldamento la porto alla curva blu del liquido,
nge
somministrando ulteriore calore comincio a creare
una separazione di fase vaporizzando parzialmente
la mia miscela. La parte di vapore sarà più ricca della
componente più volatile, mentre la fase liquida sarà più ricca di quella meno volatile, secondo la
regola della leva. Vediamo che il processo di evaporazione non è più isotermo, ma isobaro (p =
costante) stavolta c’è tutto un salto termico tra i punti di evaporazione e condensazione dovuta al
fatto che la miscela è bicomponente. Per questo motivo riscontriamo una temperatura più alta nella
I
trasformazione 4-1, perché occorrerà fornire una certa quantità di calore in più per completare
l’evaporazione di entrambe le componenti della mia miscela. Questo però avviene se non sono
contemplate perdite di carico: qualora le perdite di carico non siano compensate dall’aumento della
temperatura, la mia trasformazione vedrà diminuire la temperatura. Qualora le perdite di carico
fossero compensate dalla somministrazione di calore, allora non vedrei la mia trasformazione
ere

procedere verso il basso.


Chiamiamo glide di temperatura l’innalzamento della temperatura di evaporazione che avviene
lungo il processo isobaro di evaporazione. Se immaginiamo un fluido che dalla fase liquida alla fase
vapore vede innalzare la sua temperatura di tre gradi, connessa al fatto che a mano a mano che
cambia fase cambia la sua composizione liquido-
Viv

vapore, diremo che esso ha tre gradi di glide


termico. Il glide termico è una caratteristica
intrinseca del refrigerante, che viene fornito dal
produttore. Si chiamano azeotrope o azeotropiche
le miscele di più componenti che hanno glide di
temperatura nullo, che quindi si presentano come
una sostanza pura. Per definizione una sostanza
pura ha glide nullo. Sono quei fluidi la cui curva di
cambiamento di fase presenta una sorta di collo di
bottiglia, una concentrazione alla quale il fluido
124

evapora direttamente perché le curve del liquido e del vapore si toccano. Poiché il comportamento
azeotropico si verifica anche per determinate condizioni di utilizzo, vengono principalmente usate
sostanze che sono quasi azetropiche.
Introduciamo ora l’utilizzo di un nuovo piano di lavoro per lo studio dei cicli frigoriferi, denominato

ria
piano del frigorista. in ordinata presenta le pressioni che in realtà stante l’elevato range e la prassi

gne
I nge
nella redazione di questo piano, viene espresso in scala logaritmica. In ascissa vi sono le entalpie.
Esso ha la caratteristica di presentare agevolmente il ciclo frigorifero ideale, che si svolge tra due
precisi livelli di pressione (a destra una semplificazione): la pressione di evaporazione tra la 4-1 e
quella di condensazione tra la 2-3,
ere

svolgendosi quindi tutto tra due


linee orizzontali. Su questo piano
di lavoro la campana di
saturazione presenta una forma
che vagamente ricorda quella già
vista nel piano T-s. la differenza
Viv

sta nel fatto che il ramo destro si


presenta con pendenze negative.
Vediamo come rappresentare il
ciclo sul piano di lavoro, tornando
al ciclo ideale: la 2-3 e la 4-1 sono
isobare facilmente determinabili
perché sulle tabelle trovo le
informazioni che mi servono. Posso quindi benissimo tracciare le due isobare. Il mio ciclo si sviluppa
tra queste due linee. Tracciamo i quattro punti fondamentali. Se il mio ciclo è allo stato di vapore
saturo secco sarà collocato sulla campana. Se invece prima è stato surriscaldato, allora sarà quello
125

rappresentato come punto 1’. Le isoterme al di fuori della campana, sono anch’esse orizzontali. Nel
compressore la pressione aumenta, quindi deve necessariamente andare verso l’alto questa linea
di trasformazione, ma anche verso entalpie crescenti. Quindi la linea 1-2 sarà orientata come in
figura. Da 2 a 3 comincia il processo di desurriscaldamento condensazione e raffreddamento, ed

ria
essendo isobaro non può che essere orizzontale. A partire dal punto 3’ si avvia il processo di
espansione in valvola, quindi l’entalpia finale è uguale a quella iniziale, e la trasformazione non può
che essere verticale. È altresì comodo perché leggiamo il COP dal punto di vista grafico. L’effetto
frigorifero realizzato è h1’-h4. Invece h2-h1’ è il lavoro di compressione ed il lavoro di h2-h3 è il
calore ceduto lungo tutti i tre tratti. Il mio COP altro non è che qi/ln. Quindi la lunghezza del
segmento blu diviso la lunghezza del tratto nero.

gne
NOTA: lo schema in alto si riferisce ad un sistema che non ha lo scambiatore di calore visto prima
per il miglioramento del COP. Tuttavia fa lo stesso riferimento al punto 1’ e non al punto 1. Questo
perché, come abbiamo detto prima che per ragioni di sicurezza non si fa cadere il punto 3 sulla
campana ma si tende a sottoraffreddare illiquido, parimenti si tende a surriscaldare il vapore per
portarlo fuori dalla campana prima che venga mandato al compressore, per evitare i cosiddetti colpi
di liquido e scongiurare la rottura del compressore
nge
Macchine frigorifere e pompe di calore invertibili
Finora le abbiamo trattato come apparecchi diversi
e principio di funzionamento diversi ma in realtà
nell’uso quotidiano, sono lo stesso apparecchio che
funziona prima in modo e poi in un altro. Queste
macchine sono composte da due cassoni, uno
I
all’interno ed uno all’interno, e risulta chiaro che,
d’estate il cassone interno (split) funzionerà da
evaporatore, in modo tale che il mio fluido asporti il
calore dall’ambiente. Tuttavia di inverno, ho bisogno
che questo split ceda calore all’ambiente, ovvero che
ere

funzioni da condensatore. Quindi su base stagionale,


lo stesso apparecchio deve funzionare prima da
evaporatore e poi da condensatore. Occorre
garantire l’automatica conversione del
funzionamento. Per fare ciò innanzi tutto vanno
progettati con criteri per cui possano funzionare
Viv

entrambi in modo diverso. Vediamo due schemi


semplificativi qui a destra. Costruttivamente
parlando, sono la stessa macchina: si può notare
come la disposizione dei vari organi di cui è
composta non cambia (da notare che anche se la valvola di laminazione è disegnata in un punto
diverso e posta nel ciclo nel medesimo punto). La ventola a destra è collocata nella stanza, mentre
la ventola a sinistra è quella esterna. D’inverno deve entrare nel mio condensatore il vapore alo
stato 2, definito dal grafico high-pressure vapor in modo che, andando dal punto 2 al punto 3 rilasci
calore nell’ambiente. Condensando diventa liquido ad alta pressione allo stato 3 (high-pressure
liquid) e si porta nella valvola di espansione sino al punto 4 come low-pressure liquid-vapor.
126

All’esterno della mia camera, nell’ambiente, evapora


prelevando calore e si porta allo stato 1 come low-
pressure vapor prima di entrare nel compressore. La
stessa identica legenda vale per la macchina in funzione

ria
di raffrescamento, con la sola differenza che preleviamo
calore dalla camera per rilasciarlo nell’ambiente. Quindi
la differenza, sta nel fatto che d’estate, dalla valvola di
espansione deve andare allo split interno, e dallo split al
compressore. D’inverno invece quando esce dal
compressore deve andare al mio split. Ecco che come si

gne
può notare dalla figura, lasciando tutti gli organi nelle
loro posizioni, vi è un quinto organo, detto valvola di inversione (o valvola a quattro vie,
schematizzata come un cerchio nello schema che devia i flussi) che opera questo direzionamento di
flussi. Qui si può vedere una immagine di una tipica valvola a quattro vie sulle quali vengono
riportate delle lettere, per meglio comprendere lo schema seguente. Questo schema ci illustra come
I nge
ere
Viv

questo ciclo va realmente a funzionare. Il tutto è determinato dalla struttura interna di questa
valvola e degli organi di comando che è essenzialmente un’elettrovalvola rappresentata in figura
come una bobina arancione. L’interno della valvola a quattro vie sezionata in figura, presenta un
setto di colore nero che si può spostare a destra o a sinistra direzionando i flussi in base al
funzionamento che abbiamo previsto. Tale direzionamento è determinato dalla pressione della
spinta che il fluido gli dà attraverso i tubi capillari in figura. È l’elettrovalvola che decide di chiudere
o aprire questi tubi capillari che mettono in comunicazione le parti della valvola a quattro via e
127

direzionare il fluido a più alta pressione o da una parte o dall’altra e permettere così lo slittamento
orizzontale della guida scorrevole. Quando la bobina è energizzata, la molla è compressa e il piccolo
condotto che mette in collegamento la parte sinistra della valvola con il condotto A, viene
attraversato dal fluido ad alta pressione e spinge la guida a destra. Quando invece l’elettrovalvola è

ria
spenta, la molla chiude il primo tubo ed apre l’altro, a destra, e la guida viene spinta a sinistra.
07/05/2018
Elementi di meccanica dei fluidi (incomprimibili)

Brevemente ripartiamo da una cosa parzialmente


visto, ovvero l’andamento delle pressioni di un

gne
fluido in quiete. Procediamo a realizzare l’equilibrio
meccanico di un elementino di fluido in quiete,
stabilendo una terna orientata in modo che l’asse z
risulti sulla verticale (e di conseguenza asse x e y non
possono che essere orientate in quel modo).
Dall’equilibrio meccanico la risultante delle forze in
ogni direzione deve essere pari a zero.
nge
Sull’elemento di fluido di dimensioni infinitesime
𝛿𝑥𝛿𝑦𝛿𝑧 agiscono su ogni faccia le forze descritte in
figura (pressioni moltiplicate per l’area danno luogo
a forze). Inoltre sul baricentro agisce la forza peso W, esprimibile come prodotto tra il peso specifico
ed il volume dell’elementino di fluido, ovvero:
𝛿𝑊 = 𝛾𝛿𝑥𝛿𝑦𝛿𝑧
I
Ricordando che il peso specifico di un fluido è il prodotto tra la sua densità e l’accelerazione di
gravità, ovvero:
𝑘𝑔 𝑚 1 𝑚𝑘𝑔 𝑁
𝛾 = 𝜌∙𝑔 [ ] [ ] = [ ] [ ] = [ ]
𝑚3 𝑠 2 𝑚3 𝑠 2 𝑚3
ere

Scriviamo l’equilibrio lungo i tre assi, ovvero:


𝛿𝐹𝑥 = (𝑝𝑅𝑒𝑡𝑟𝑜 − 𝑝𝐹𝑟𝑜𝑛𝑡𝑒 )𝛿𝑦𝛿𝑧 = 0
𝛿𝐹𝑦 = (𝑝𝑆𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎 − 𝑝𝐷𝑒𝑠𝑡𝑟𝑎 )𝛿𝑥𝛿𝑧 = 0

𝛿𝐹𝑧 = 𝑝𝛿𝑥𝛿𝑦 − (𝑝 + 𝑑𝑝)𝛿𝑥𝛿𝑦 − 𝛾𝛿𝑥𝛿𝑦𝛿𝑧 = −𝑑𝑝𝛿𝑥𝛿𝑦 − 𝛾𝛿𝑥𝛿𝑦𝛿𝑧 = 0


Viv

E ne deriva che, la pressione a destra e a sinistra del fluido è uguale, la pressione sul retro e sul
fronte è uguale, e che la variazione di pressione sulla variazione di quota è uguale al peso specifico
(in segno negativo perché dallo schema si vede come noi abbiamo supposto una pressione in
aumento verso l’alto, e quindi implicitamente abbiamo dimostrato che invece la pressione aumenta
procedendo verso il basso). Ne deriva che il peso specifico è una
𝑑𝑝
𝑝𝑅 = 𝑝𝐹 𝑝𝑆 = 𝑝𝐷 = −𝛾
𝑑𝑧
Ne deriva che si integro l’ultima relazione trovata, tra due diverse quote z1 e z2, caratterizzate da
p1 e p2, allora avrò:
128

𝑝1 − 𝑝2
𝑝1 − 𝑝2 = 𝛾 (𝑧2 − 𝑧1) = 𝛾ℎ ⇒ ℎ =
𝛾
Quando io mi trovo ad avere un recipiente con un certo pelo libero
sopra il quale insiste ad esempio o l’aria atmosferico o ad una

ria
pressione atmosferica generica, questa legge ci porta a evidenziare che
aumenta proporzionalmente con l’affondamento la pressione che c’è
in seno al liquido. Quindi se io guardo il mio recipiente e mi chiedo qual
è la pressione a due metri di profondità, posso dire che un elemento
fluido posizionato a quella quota dal il pelo libero a p0, ha una p1 tale
che:

gne
𝑝1 − 𝑝0 = 𝛾 (𝑧1 − 𝑧0 )
E se consideriamo h la variazione di quota rispetto al pelo libero posso scrivere:
𝑝1 = 𝑝0 + 𝛾ℎ ⇒ 𝑙𝑒𝑔𝑔𝑒 𝑑𝑖 𝑆𝑡𝑒𝑣𝑖𝑛𝑜
Ad un qualsiasi livello di affondamento, la pressione si quell’elemento di fluido vale la pressione in
seno al fluido più la pressione agente sul pelo libero.
nge
Spinte idrostatiche sulle superfici di confinamento
Molto spesso ci troviamo a contenere fluidi all’interno di recipienti, e si può essere chiamati a
progettare gli elementi di confinamento del recipiente che devono garantire la resistenza meccanica
al fluido che deve contenere. Il fluido esercita spinte sulle pareti del contenitore, spinte che devono
essere calcolate al fine di una corretta progettazione. Le spinte possono essere su superfici piane e
su superfici curve.
I
Spinte su superfici piane
Con riferimento a questo serbatoio che contiene, vincolato
in questo modo, un fluido di peso specifico noto, con pelo
ere

libero esposto alla superficie esterna, la stessa che è sul


fondo ed altezza h nota. L’altezza h genera sul fondo del
recipiente una spinta che non dipende dall’estensione della
superficie, ma che dipende solo dall’altezza del pelo libero.
Vogliamo quindi calcolare la spinta che agisce su questo
fondo: essendo il fondo orizzontale, tutti i punti di contatto
Viv

tra fluido e superficie di fondo, sono tutti alla stessa


pressione, e il diagramma delle pressioni è costante per
tutta la larghezza, e la pressione vale
𝑝 = 𝑝0 + 𝛾ℎ
Questo perché sul fluido agisce una p0 dall’alto. Ma abbiamo altresì detto, che anche sul fondo
agisce una p0 pari a quella che abbiamo sul pelo libero per cui, indipendentemente dal valore di p0,
che può essere la pressione atmosferica o quella di una camera pressurizzata, ritrovando sotto la
stessa che ho sul pelo libero, sul fondo viene neutralizzata, e quindi la pressione sul fondo è solo:
129

𝑑𝑝 = 𝛾𝑑ℎ ⇒ 𝑝 = ∫ 𝛾𝑑ℎ ⇒ 𝑝 = 𝛾ℎ
0

Questo discorso non vale più se il serbatoio fosse chiuso e contenesse un fluido in pressione solo

ria
all’interno. La forza risultante agente verso il basso è pari a:
𝐹𝑅 = 𝑝 ∙ 𝐴 = 𝛾 ∙ ℎ ∙ 𝐴
La cosa si complica un po' se le spinte, invece di essere
sul fondo orizzontale, sono sulle pareti laterali del mio
contenitore. In questo caso ogni elementino dA vede

gne
una pressione che localmente gli impone una microforza
normale di spinta dipendente dallo specifico
affondamento che il mio elementino A. Quindi, più
vicino al pelo libero, avrà una forza modesta rispetto a
quella che agisce in prossimità del fondo. Per poterla
calcolare occorrerà procedere ad una integrazione lungo
tutta la parete l’insieme delle forzucole elementari.
nge
Presa un’areola generica conosciamo l’affondamento,
che moltiplicato per il peso specifico mi fornisce la pressione in quel punto. Essendo la forza
prodotto tra pressione e area, potrò scrivere:
𝑑𝐹 = 𝛾ℎ𝑑𝐴
Ovviamente perpendicolare alla superficie. Vediamo adesso di lavorare su un caso generale in cui le
pareti non sono perfettamente verticali.
I
Immaginiamo questo recipiente in cui è
contenuto un fluido di peso specifico noti.
Sia la linea obliqua la sezione della parete del
mio recipiente, inclinata di angolo theta
ere

rispetto al mio pelo libero. Vogliamo


calcolare la spinta che il fluido interno
esercita su una porzione (in grigio) di questa
faccia laterale che ha una forma il più
generica possibile. Ci serve quindi la spinta
su questa superficie grigia. Ancora una volta
Viv

ogni elemento di questa superficie avrà un


affondamento diverso, che vedrà agire una
pressione dipendente da esso. La forza
risultante sarà quindi, l’integrale delle forze
elementari agenti su di esso. Poiché
l’affondamento è espresso come h = ysin 𝜃
allora avrò:

𝐹𝑅 = ∫ 𝛾ℎ𝑑𝐴 = 𝛾 sin 𝜃 ∫ 𝑦𝑑𝐴 = 𝛾𝐴𝑦𝐶 sin 𝜃


𝐴 𝐴
130

Poiché ∫𝐴 𝑦𝑑𝐴 è uguale al momento statico della mia figura piana rispetto all’asse delle x, si può
scrivere come l’intera area della mia figura moltiplicato per il baricentro della mia figura. Da questo
deriva la scrittura a cui siamo pervenuti sopra. Naturalmente il baricentro moltiplicato per il sin 𝜃 è
l’affondamento del baricentro. E quindi posso scrivere

ria
𝐹𝑅 = 𝛾ℎ𝐶 𝐴
Come si evince dalla formula, la spinta non dipende più dall’angolo di inclinazione, ma solo
dall’affondamento del baricentro e dalla estensione dell’area. Ricordiamo che tutti questi calcoli
possiamo effettuarli tenendo conto della costanza del peso specifico, in quanto fluido
incomprimibile.

gne
Dobbiamo essere in grado di progettare i fissaggi non solo affinché resistano alla spinta, ma anche
eventuali momenti rotazionali che si possono generare. Quindi dobbiamo trovare il centro delle
pressioni (che non coincide necessariamente col baricentro). Il punto di applicazione della risultante
è quel punto nel quale posso immaginare la risultante applicata calcolando conseguentemente un
momento di questa forza rispetto ad esempio alla mia origine degli assi che eguaglia il reale
momento che tutte queste forze diverse tra loro una per una vanno esercitando in modo da flettere
nge
questa parete. In sintesi, il punto di applicazione della forza risultante è quel punto nel quale posso
immaginare applicata la risultante deducendone un momento pari a quello che è il reale momento
che le mie forzucole elementari esercitano rispetto all’asse delle x. Quindi scriverò:

Ι𝑥𝑐
𝐹𝑅 𝑦𝑅 = ∫ 𝑦𝑑𝐹 = ∫ 𝛾 sin 𝜃 𝑦 2 𝑑𝐴 ⇒ 𝑦𝑅 = 𝑦𝐶 +
𝑦𝐶 𝐴
𝐴 𝐴
I
Capita spesso di dover calcolare spinte esercitate su una superficie curva soggetta da un lato alla
pressione esterna, dall’altro a quella di un fluido che presenta un determinato andamento delle
pressioni idrostatiche. In simili casi risulta poco agevole l’approccio basato sull’integrazione delle
forze elementari applicate dal fluido sulle singole areole, e molto più comodo invece un approccio
basato sull’equazione globale di equilibrio meccanico. Immaginiamo un elemento di fluido generico
ere

isolato all’interno di un fluido in quiete. Esso sarà ovviamente


in equilibrio. Possiamo quindi dire che le forze agenti su di
esso sono in equilibrio tra loro. Questo elemento fluido è
soggetto dalla forza peso del suo volume, ed alle spinte che
riceve dal fluido circostante in ogni direzione, quindi la
somma delle forze di volume e quelle di superficie sono in
Viv

equilibrio, e devono risultare 0. Scriveremo quindi:

𝐺̅ + Π
̅=0

Prendiamo adesso una porzione di fluido confinata in una


zona del mio recipiente, e ci occorre sapere la spinta che
esercita sulla parete al fine di procedere ad una corretta
progettazione. Come abbiamo già visto prima, forze di
volume e di superficie devono risultare in equilibrio. Quindi
scriveremo la formulazione precedente, tenendo però conto
che le forze di superficie sono suddivisibili in due: una parte
131

che compete alla superficie di frontiera con il resto del fluido, e una parte che proviene dalla
reazione della parete di forma generica. Posso quindi scrivere
𝐺̅ + Π
̅ = 0 ⇒ 𝐺̅ + Π
̅1 + Π
̅2 = 0 ⇒ Π
̅ 𝑠𝑢 𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 = −Π
̅ 2 = 𝐺̅ + Π
̅1

ria
E posso quindi calcolare la spinta che il mio fluido esercita sulla parete di forma generica come
somma tra le forze di volume e quelle che si scambia con la frontiera del resto del fluido.
08/05/2018
Dinamica dei fluidi: equazioni della quantità di moto
Abbiamo giù visto come i fluidi esercitino, al loro interno, forze superficiali con componente normale

gne
legate alla pressione, ovvero:
𝐹𝑛𝑜𝑟𝑚𝑎𝑙𝑒 = 𝑝 ∙ 𝐴
I fluidi reali tuttavia, riescono a trasmettere anche un altro tipo di
sforzo, che agisce tangenzialmente alla superficie di interfaccia fra
elemento fluido e parete che lo lambisce. Analogamente a come
nge
abbiamo scritto per lo sforzo normale, scriveremo:
𝐹𝑡𝑎𝑛𝑔𝑒𝑛𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒 = 𝜏 ∙ 𝐴

Dove 𝜏 è chiamato sforzo di taglio, ossia la forza tangenziale trasmessa per unità di superficie
(dimensionalmente è come una pressione). Abbiamo visto che la pressione non viene esercitata dal
fluido solo sulle pareti del mio contenitore, ma viene esercitata dal fluido anche su altri elementi di
fluido. Analogamente lo sforzo di taglio agisce su filetti adiacenti di fluido. L’entità degli sforzi di
I
taglio che si ingenerano sia tra un fluido ed una parete, sia tra filetti adiacenti di un fluido, dipendono
sia dalle caratteristiche del fluido che dal suo moto.
Immaginiamo di avere uno strato di fluido compreso tra due
pareti piane e parallele, poste ad una distanza b l’una
ere

dall’altra. La parete inferiore è ferma, così come quella


superiore. Ad un certo punto comincio a trascinare la parete
superiore verso destra, e la faccio muovere con velocità pari
ad U. Osserverò che, sperimentalmente, si può rilevare la
seguente condizione: il fluido viene ad assumere una
velocità che nei filetti al contatto con le due pareti, eguaglia
Viv

le velocità della piastra con la quale è a contatto. Quindi il filetto fluido a contatto con la parete
inferiore non assume nessuna velocità, mentre quello a contatto con la piastra superiore avrà la
stessa velocità U della piastra, muovendosi solidalmente. In pratica il fluido tende in entrambi i casi
ad assumere una condizione di scorrimento nullo. Se andiamo a guardare come all’interno del
profilo dalla piastra ferma alla piastra in movimento varia, con la quota y, la velocità locale del filetto
fluido, osserviamo che varia secondo questa legge di tipo lineare:
𝑦
𝑢 (𝑦 ) = 𝑈 ∙
𝑏
Cioè, linearmente con y, da 0 a b, la velocità locale varia, ed è funzione di y.
132

A che cosa è dovuto questo andamento delle velocità appena dedotto sperimentalmente? Il fluido
sa trasmettere sforzi di taglio, come già detto. Ma un fluido in quiete, non trasmette nessun sforzo
di taglio. Mentre i solidi sono indeformabili, a meno della loro risposta elastica o anelastica, quindi
seppur immobili, essi possono avere al loro interno sforzi di taglio, se opportunamente sollecitati

ria
(ricordare scienze delle costruzioni). Invece il fluido, manifesta questo instaurarsi di sforzi di taglio
solo quando vie è una tendenza di fluido a deformarsi, ovvero la tendenza di un filetto fluido a
scorrere sull’altro. Accade che ogni filetto fluido (per esempio quello riquadrato in blu in figura a
lato), assume questa velocità per effetto di due concorrenti
azioni: viene trascinato in avanti dal filetto superiore che tende a
muoversi più velocemente di lui in avanti, e quindi tende ad

gne
avere uno scorrimento relativo in avanti. Lo sforzo di taglio cerca
di opporsi a questo moto, e al contrario il mio filetto in esame si
muove più velocemente di quello posto immediatamente sotto,
e da quest’ultimo viene trattenuto. Analogamente, il filetto
posto sotto viene trascinato per il principio di azione e reazione
e trattenuto da quello di sotto. Il primo fra i filetti fluidi a contatto
con la piastra è stato sollecitato ad andare in avanti e quindi trascinato in avanti. Tutto questo mutuo
nge
scambio di forze tangenziale ha instaurato questo andamento di velocità, che è lineare (dedotto
sperimentalmente). Qual è il parametro che caratterizza tutto questo instaurarsi di sforzi di taglio?
È quello basato sulla definizione di una nuova grandezza, che è un fattore di proporzionalità fra il
gradiente di velocità presente tra filetti fluidi adiacenti e lo sforzo di tagli che questi filetti fluidi
esercitano l’uno sull’altro. dirò che lo sforzo di taglio è calcolabile come prodotto tra una grandezza
caratteristica del fluido 𝜇 , che chiameremo viscosità dinamica, ed il gradiente di velocità di filetti
fluidi adiacenti.
I
𝑑𝑢
𝜏=𝜇∙
𝑑𝑦
Se la velocità ha un profilo lineare, il du/dy è costante, quindi lungo tutti i filetti fluidi, la legge
appena scritta è una costante. Ovvero, l’intensità con la quale il filetto fluido spinge quello
ere

sottostante è la stessa con la quale quello sotto ancora lo trattiene. Quindi con il bilancio di forze
che sono uguali fra loro, il filetto fluido è in equilibrio dinamico e per il principio della meccanica
tende a continuare nel suo stato di quiete o di moto, mantenendo costante la loro velocità. Così
definendo una viscosità, la distribuzione di velocità lineare equivale ad una distribuzione costante
delle velocità. Se voglio mantenere costante l’andamento delle velocità, devo mantenere costante
la forza che agisce sulla piastra, che deve essere pari allo sforzo di taglio. Calcoliamo la viscosità
Viv

dinamica come:

−1 𝑚 −1
𝑑𝑢 𝑁 𝑁∙𝑠
[𝜇 ] = [𝜏] ∙ [ ] = [ 2] ∙ [ 𝑠 ] = [ 2 ]
𝑑𝑦 𝑚 𝑚 𝑚

In ogni caso, un filetto fluido non può che assumere la velocità della parete che lo lambisce. Ciò è
dovuto al fatto che i fluidi in natura non sanno trasmettere forzi di taglio infiniti, ma solo finiti. Un
fluido caratterizzato da una ben precisa viscosità, se un filetto fluido avesse una velocità e quello
immediatamente vicino avesse una velocità completamente diversa, ci sarebbe un differenziale in
termini finiti, e quindi du/dy risulterebbe infinito, e quindi il fluido dovrebbe essere capace di
133

trasmettere uno sforzo di taglio infinito. E questo non è possibile. La velocità deve avere un
andamento continuo. Vediamo a lato gli andamenti
degli sforzi di taglio al variare del gradiente velocità
che sono dedotti sperimentalmente. Quindi per un

ria
dato fluido la viscosità si può definire costante. Come
si vede, l’acqua ad una ben precisa temperatura, ha
un certo valore di viscosità, diverso da quello ad
un'altra temperatura. Questo vuol dire che la
viscosità è funzione dello stato termodinamico. Nei
liquidi, la viscosità diminuisce al crescere della

gne
temperatura, ed è quasi insensibile alla pressione. se
io devo far viaggiare un fluido (acqua), dando per
buono che la viscosità dipende dagli attriti, mi
conviene avere acqua calda o fredda? Chiaramente
calda, perché viaggia con minori attriti e dissipazioni di energia. Per esempio per estrarre il petrolio,
viene fatto circolare nel condotto di estrazioni acqua calda in modo che il petrolio sia meno viscoso.
Non tutti i fluidi però si comportano in questo modo. Tutti quelli che manifestano una viscosità
nge
costante, sono denominati fluidi newtoniani. I fluidi non newtoniani e la viscosità è una proprietà
reologica dei fluidi. L’esempio più banale è il dentifricio: c’è bisogno che il tubetto pieno di dentifricio
non ne perda se viene lasciato aperto, ma che esca quando viene sollecitato.
Equazione della quantità di moto
La legge di Newton può essere applicata ad ogni corpo e quindi anche ad una particella di fluido
I
𝑭= 𝑚∙𝒂
Vediamo F ed a scritte in grassetto per sottolineare la loro natura vettoriale. L’accelerazione di un
punto materiale (o di una particella di fluido), può essere scritta come
𝑑𝒘
𝒂=
ere

𝑑𝑡
Dove anche w è un vettore velocità, quindi un fluido potrebbe muoversi di modulo costante ma che
deflette e quindi ha senso parlare di derivata vettoriale. Sostituiamo sopra l’accelerazione, e
otteniamo:
𝑑𝒘 𝑑 (𝑚𝒘)
𝑭=𝑚∙ =
Viv

𝑑𝑡 𝑑𝑡
Che abbiamo identificato come teorema
dell’impulso: l’impulso della risultante
delle forze eguaglia la variazione della
quantità di moto. Proviamo ora a
ragionare non più con riferimento ad un
solo elemento materiale ma all’intera
quantità di fluido che sta in un volume
di controllo. Immaginiamo un condotto
come in figura, nel quale entri un fluido
134

con portata massica 𝑚̇ e stazionario e che quindi per la conservazione della massa, la portata deve
mantenersi invariata. Ma immaginandolo incomprimibile, per l’equazione di continuità, essendo le
sezioni di ingresso e uscita diverse, allora deve variare la sua velocità (mantenendo densità
costante). Questo perché, identificato per un determinato flusso un volume di controllo come quello

ria
rappresentato in figura, con un solo ingresso ed una sola uscita, e supponendo il flusso
monodimensionale (ossia con proprietà intensive uniformi lungo ciascuna sezione di ingresso e di
uscita), scriviamo un bilancio della quantità di moto, e quindi:
𝑡𝑟𝑎𝑠𝑓𝑒𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑖𝑡à
𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙 ′𝑢𝑛𝑖𝑡à 𝑓𝑜𝑟𝑧𝑎 𝑟𝑖𝑠𝑢𝑙𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒
𝑑𝑖 𝑚𝑜𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙 ′𝑢𝑛𝑖𝑡à𝑑𝑖 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜
( 𝑑𝑖 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑖𝑡à ) = (𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑢𝑙 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 ) + ( ′ )
𝑎𝑙𝑙 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑜𝑑𝑒𝑙 𝑉𝐶 𝑢𝑛𝑖𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒

gne

𝑑𝑖 𝑚𝑜𝑡𝑜 𝑎𝑙𝑙 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑉𝐶 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜𝑙𝑙𝑜
𝑎𝑙 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎
E poiché l’abbiamo supposto stazionario, ed è un sistema aperto, non può cambiare la quantità di
moto del sistema (per la stazionarietà), quindi è nulla la variazione della quantità di moto nel tempo.
Allora, fermo restando che la forza la devo dedurre, se il mio volume di controllo non acquisisce
quantità di moto, allora il saldo netto di variazione di quantità di moto nel mio volume deve
eguagliare la forza, allora posso scrivere:
nge
𝑭 = 𝑚̇2 ∙ 𝒘𝟐 − 𝑚̇1 ∙ 𝒘𝟏 = 𝑚̇(𝒘𝟐 − 𝒘𝟏 )
Si tratta di un’equazione vettoriale, che deve essere proiettata lungo i tre generici assi x, y e z per
derivare tre relazioni scalari.
Applichiamo questa legge sulla variazione di
quantità di moto applicandola all’interazione tra
una vena fluida ed una pala meccanica che ne vuole
I
deflettere il flusso (a destra). In grigio abbiamo la
sezione della pala di una turbina idraulica
agganciata ad un rotore. Immaginiamo che una
vena fluida venga mandata verso la pala e venga da
ere

questa deflessa. Immaginiamo la sezione trasversale della vena (costante nel suo moto) e del valore
indicato in figura, così come la velocità in uscita dall’ugello. La pala è sagomata in modo da avere
una deflessione indicata dall’angolo theta. Ci viene chiesto di calcolare la forza che deve trasmettere
l’ancoraggio del deflettore indicato in figura. Consideriamo prima di tutto un appropriato volume di
controllo, e consideriamo tutto quello all’interno della linea tratteggiata in rosso. Conosciamo la
densità dell’acqua, la sezione di passaggio è sempre
Viv

costante, e poiché siamo nel caso ipotizzato in


precedenza di deflusso in organo aperto e
stazionario, allora posso scrivere le forze lungo l’asse
x e l’asse y, immaginando due ipotetici versi di forze
di reazione dell’ancoraggio.
𝐹𝐴𝑥 = 𝑚̇(𝑢2 − 𝑢1 ) = 𝑚̇(𝑤 cos 𝜃 − 𝑤)
𝐹𝐴𝑦 = 𝑚̇(𝑣2 − 𝑣1 ) = 𝑚̇(𝑤 sin 𝜃 − 0)

E sostituendo i valori numerici otteniamo:


𝐹𝐴𝑥 = −45(1 − cos 𝜃 ) [𝑁]
135

𝐹𝐴𝑦 = 45(1 − cos 𝜃 ) [𝑁]

Rispetto alla direzione da noi supposta, la forza lungo l’asse x è in verso opposto. Guardiamo la fisica
del problema: il fluido lungo la verticale, non aveva una quantità di moto. Ha dovuto ricevere una
spinta (di reazione) dalla pala, dal basso verso l’alto per poterla acquisire. Di contro, lungo

ria
l’orizzontale aveva una quantità di moto che si è ridotta in uscita, e quindi ha ricevuto una spinta
all’indietro. Sull’ancoraggio, che forze agiscono? Naturalmente le forze opposte, essendo quelle
trovate di reazione. Il fatto di deflettere il fluido comporta una forza tangenziale che è in grado di
mettere in rotazione un albero.

Equazione di Bernoulli

gne
Avevamo visto quando abbiamo spiegato l’equazione del Tds e poi applicato ad un condotto privo
di componenti attivi, e quindi privo di attriti e/o dissipazioni (e quindi interamente reversibile) e
considerando anche un fluido incomprimibile, come sei perveniva a questa scrittura
𝑤22 − 𝑤12
𝑣 (𝑝2 − 𝑝1 ) + + 𝑔(𝑧2 − 𝑧1 ) = 0
2
Portando tutti i termini col pedice 2 da un lato e quelli con il pedice 1 dall’altro, posso scrivere:
nge 𝑣𝑝 +
𝑤2
+ 𝑔𝑧 = 𝑐𝑜𝑠𝑡
2
Esso afferma che, in assenza di fenomeni dissipativi, il trinomio si mantiene
costante. Proviamo adesso a dedurla per un campo di moto più generale
possibile relativamente al campo di moto di un fluido. immaginiamo di avere
una massa d’acqua che si muove e di inondare questa massa d’acqua di
I
piccolissime particelle colorate che ci aiutano a vedere come ogni massecola
si muove. Immaginando di fotografare due momenti diversi di una massecola
d’acqua, all’istante zero e ad un dt infinitesimo dopo, e di trovarla
naturalmente in altra posizione. La particella si muove quindi dalla posizione 1
ere

alla posizione 2, estremamente vicine. Deduciamo che la posizione s (che


presenta tre coordinate in uno spazio tridimensionale) e che quindi posso
considerare ds (spostamenti infinitesimi) che avvengono in tempo infinitesimo. Otterrò vettori
velocità se eseguo il rapporto:
𝑑𝑠
𝑤=
𝑑𝑡
Viv

Posso fare questo per tutte le posizioni e quindi posso sperimentalmente dire con quale velocità si
muove ogni particella fluido. La “fotografia” di ogni vettore velocità del mio fluido ad un dato istante
è detto campo di moto del fluido. è possibile che se un elemento ha una certa velocità istantanea,
l’elemento fluido immediatamente accanto ne ha una completamente diversa? certamente no,
perché contravverrebbe a ciò che abbiamo detto prima sull’incapacità di trasmettere sforzi di taglio
infiniti. Se due punti estremamente vicini avessero differenza finita di velocità, avrebbero sforzi di
taglio infiniti, ed abbiamo visto che non è possibile. Quindi, presenterà una sorta di continuità nei
suoi cambiamenti.
136

Per i processi stazionari, in cui localmente nel tempo le velocità rimangono costanti, come può
convenire studiare il mio moto fluido? si distinguono due approcci possibili: quello euleriano e
quello lagrangiano. L’approccio euleriano consiste nella scelta di un ben preciso punto nello spazio,
quindi di una ben precisa (x,y,z) nel quale guardare a posizione fissa cosa accade nel tempo,

ria
riuscendo a cogliere solo cosa accade nel tempo. La massa che istante per istante troverò sarà
sempre diversa, quindi non ho una identità di particella fluida, ma ho una costanza di posizione. Se
applicato ad un flusso stazionario, è una cosa abbastanza inutile, perché per la stazionarietà nel
tempo non deve cambiare nulla in un punto del mio volume di controllo. L’approccio lagrangiano
invece è diverso, e suggerisce di osservare cosa accade nel tempo alla particella materiale che in un
certo istante si trova ad una determinata posizione. Quindi se in un dato istante ed in una ben

gne
precisa posizione metto un tracciante colorato, seguo ciò che le accade nel tempo. Quindi non segue
un'unica posizione ma segue quello che accade ad una ben precisa particella materiale. I due
approcci vengono usati o l’uno o l’altro a seconda del problema in esame.
Definiamo linea di flusso di un fluido, una linea punto per punto tangente al vettore velocità del
fluido. per un fluido in moto stazionario, la linea di flusso coincide con il percorso lungo il quale di
muove la particella di fluido, nell’andare ad esempio dal punto uno al punto due, ossia con la sua
traiettoria. Di per sè, traiettorie e linee di flusso non hanno un legame naturale. La traiettoria è un
nge
concetto tipicamente lagrangiano, quindi vede i vari punti in tempi diverso. Coincidono solo in un
sistema stazionario, perché punto per punto nel tempo non deve cambiare nulla, nemmeno il
campo di moto. Quindi vedremo punto per punto gli stessi vettori velocità. E quindi coincideranno
con le traiettorie. Noi useremo l’equazione di bernoulli solo per flussi stazionari.
La posizione di una particella è identificabile da tre coordinate spaziali. Tuttavia, fissata una linea di
flusso e la direzione di percorrenza, ci basta definire quella che si chiama ascissa curvilinea, ovvero
I
la distanza percorsa lungo una determinata curva a partire da una origine fissata.
09/05/2018
Studiamo ciò che accade all’elemento
di fluido muovendosi lungo la sua linea
ere

di flusso. Ci riferiamo ad un elemento


di fluido che si posiziona in una data
zona che per semplicità assumiamo,
ovviamente di volume infinitesima, ma
che abbia forma cilindrica il cui
sviluppo coincide con ds ascissa
Viv

curvilinea ed abbia area circolare di base pari a dA. Di conseguenza il suo volume è dAds. La linea di
flusso e l’elementino sono rappresentate in figura. L’asse z è orientata come la forza di gravità.
Esprimiamo la velocità del fluido come:
𝑑𝑠
𝑤=
𝑑𝑡
Scalare e non vettoriale perché abbiamo già particolarizzato la velocità lungo la linea di flusso.
L’accelerazione invece ha bisogno di essere espressa in termini vettoriali, perché l’accelerazione può
non solo fare accelerare il mio elementino ma anche averlo deviato, e quindi avere componenti non
dirette lungo la linea di flusso. La scriveremo come:
137

𝑑𝒘
𝒂=
𝑑𝑡
L’elementino considerato sale leggermente, formando con il suo asse un angolo theta rispetto
all’orizzontale. Ragioniamo adesso sulla grandezza accelerazione: in generale essa rappresenta

ria
quanto varia la velocità durante il moto ed è un concetto tipicamente lagrangiano, che vede ad un
certo punto la mia particella avere una certa velocità ed in un altro punto un’altra, ed è la variazione
di velocità rispetto al tempo che mi dà l’accelerazione. Dal punto di vista euleriano, la velocità è una
costante, presa una posizione. E quindi non avrebbe senso considerare l’accelerazione dal punto di
vista euleriano. In un campo di moto, l’accelerazione di una particella, e quindi la sua variazione
complessiva della velocità, a che cosa è dovuta? Studiamo la sola componente della accelerazione

gne
rivolta nello stesso verso della linea di flusso, quindi la componente 𝑎𝑠 . Fermo restando che il
vettore accelerazione può essere orientato in ogni direzione nello spazio, certamente avrà una
componente orientata come la linea di flusso, e di quella ci occuperemo, che può essere espressa:
𝐷𝑤 𝑑𝑤 𝑑𝑤
𝑎𝑠 = = +𝑤
𝐷𝑡 𝑑𝑡 𝑑𝑠
Dove la D è adoperata con il significato di derivata sostanziale. Perché lungo la linea di flusso il fluido
nge
presenta una accelerazione? Essenzialmente per due ragioni:
1. Immaginiamo un fluido che scorre in un condotto, un fluido non viscoso (profilo delle
velocità retto). Il condotto è cilindrico e a raggio decrescente, ed il fluido incomprimibili. In
regime stazionario, considerando la costanza della portata, la velocità all’uscita del condotto
è più elevata che in ingresso. Immaginiamo il condotto lungo 1 metro e che le sezioni di
ingresso e uscita siano tali che in ingresso la velocità sia di 1 m/s e all’uscita di 3 m/s. Perché
I
una particella materiale viene a cambiare la sua velocità man mano che passa il tempo
scorrendo all’interno del condotto? Appena passa un po di tempo, la particella si trova in
una posizione successiva rispetto all’ingresso del condotto alla quale compete una velocità
sempre uguale nel tempo localmente ma più alta rispetto a quella nella posizione
precedente. Dall’inizio alla fine del condotto, l’incremento di velocità per unità di strada
ere

percorsa è pari a:
Δ𝑤 1
=2 [ ]
Δ𝑠 𝑠
Tale è il tasso di variazione della velocità con la posizione del fluido. man mano che va avanti,
si trova in zone in cui deve andare più veloce. Immaginiamo che questo tasso di variazione
sia costante. Allora ad una precisa posizione nel tubo, a che velocità va la particella? per ogni
Viv

ds di spostamento in avanti il fluido cambia la sua velocità di dw tale per cui il loro rapporto
sia sempre 2 su secondo. E quindi in una certa posizione sarà:
𝑑𝑤
𝑤(𝑥 ) = 𝑤(0) + 𝑥 ∙
𝑑𝑠
Allora, se noi ci chiediamo, per effetto di cosa il fluido cambia la sua velocità e quindi
accelera? Un primo motivo è per il fatto che a passare del tempo si trova in nuove posizioni
alla quale competono nuovi valori di velocità. E questo fatto è vero anche se il campo di
moto è stazionario. Questo perché anche in campi di moto stazionari, punto per punto,
localmente la velocità è diversa. e allora come si quantifica questa variazione di velocità del
fluido lungo la linea di flusso connessa al cambiamento della sua posizione all’interno del
campo di moto? Attraverso il termine:
138

𝑑𝑤
𝑤
𝑑𝑠

Questo perché come accelerazione desidero esprimere come varia la velocità nel tempo, e
allora come esplicitare questo cambiamento di posizione con conseguente cambiamento di

ria
velocità del fluido rapportando la variazione di velocità al tempo trascorso? Dobbiamo non
solo capire quanto cambia la velocità per centimetro percorso, ma dire anche nell’unità di
tempo quanti centimetri è andato avanti. Dobbiamo immaginare questo termine scritto
come:
𝑑𝑤 𝑑𝑠 𝑑𝑤
𝑤 =

gne
𝑑𝑠 𝑑𝑡 𝑑𝑠
Il primo termine serve a dirmi, trascorso un dt quanto si è spostato in avanti. Il secondo
termine mi dice quanto lo spostamento in avanti fa cambiare la mia velocità, perché mi trovo
in un’altra posizione nel mio campo di moto. Questa è una componente che è chiaramente
presente anche in campo stazionario.
2. Volendo scrivere l’accelerazione nel modo più generale possibile, l’accelerazione non cambia
solo perché cambia la sua posizione nel campo di moto (che nel caso generale non è
nge
stazionario). Quindi non essendo stazionario, è possibile che tutte le velocità nel tempo sono
cambiate perché tutto il fluido sta accelerando. Quindi c’è una componente addizionale di
accelerazione di come localmente nel tempo cambia la velocità e questa la scriviamo:
𝑑𝑤
𝑑𝑡
Quest’ultimo termine in un campo stazionario, è sempre nullo.
Poiché stiamo cercando di caratterizzare l’equazione di Bernoulli per un campo stazionario, allora
I
scriveremo sempre
𝐷𝑤 𝑑𝑤
𝑎𝑠 = =𝑤
𝐷𝑡 𝑑𝑠
L’accelerazione ci è servita per scrivere la legge di newton lungo la linea di flusso del mio elementino.
ere

Quest’ultimo sarà soggetto da una forza di pressione, come si vede dal disegno, da sinistra a destra
in direzione del moto, che prova a spingere il fluido. Una forza di pressione che si oppone al moto
del fluido da destra a sinistra, e la forza peso. La somma di tutte le forze elementari, proiettate lungo
la mia linea di flusso, deve eguagliare la massa della mia massecola per la sua accelerazione lungo
la linea di flusso. Scriveremo quindi la forza lungo la linea di flusso:
Viv

𝑑𝑤 𝑑𝑤
∑ 𝛿𝐹𝑠 = 𝛿𝑚𝑎𝑠 = 𝛿𝑚 ∙ 𝑤 = 𝜌 ∙ 𝑑𝑠 ∙ 𝑑𝐴 ∙ 𝑤
𝑑𝑠 𝑑𝑠
In generale la forza peso risulterà:
𝛿𝑊 = 𝛾 ∙ 𝑑𝑠 ∙ 𝑑𝐴
E lungo la linea di flusso:
𝛿𝑊𝑠 = −𝛿𝑊 sin 𝜃 = −𝛾 ∙ 𝑑𝑠 ∙ 𝑑𝐴 ∙ sin 𝜃
Infine, la forza netta di pressione sulla particella nella direzione della linea di flusso vale:
139

𝑑𝑝
𝛿𝐹𝑓𝑝 = 𝑝 ∙ 𝑑𝐴 − (𝑝 + 𝑑𝑝)𝑑𝐴 = −𝑑𝑝 ∙ 𝑑𝐴 = − ( ) 𝑑𝑠 ∙ 𝑑𝐴
𝑑𝑠
La variazione dp non è connessa a variazioni di pressioni nel tempo, ma è solo connessa al fatto che
a punti diversi del mio fluido competono valore di pressione diversi. A questo punto eguagliamo le

ria
forze:
𝑑𝑝 𝑑𝑤
∑ 𝛿𝐹𝑠 = 𝛿𝑊𝑠 + 𝛿𝐹𝑓𝑝 = 𝛿𝑚𝑎𝑠 = (−𝛾 sin 𝜃 − ) 𝑑𝑠 ∙ 𝑑𝐴 = 𝜌 ∙ 𝑑𝑠 ∙ 𝑑𝐴 ∙ 𝑤
𝑑𝑠 𝑑𝑠
𝑑𝑝 𝑑𝑤
−𝛾 sin 𝜃 − =𝜌∙𝑤
𝑑𝑠 𝑑𝑠

gne
Inoltre, considerando che il sin 𝜃 può essere scritto come rapporto tra la variazione di quota e
𝑑𝑤
l’ascissa, e riscrivendo il prodotto 𝑤 in termini diversi:
𝑑𝑠

𝑑𝑧 𝑑𝑤 1 𝑑(𝑤 2 )
sin 𝜃 = e 𝑤 =
𝑑𝑠 𝑑𝑠 2 𝑑𝑠
E sostituendo, e moltiplicando tutto per ds posso scrivere:
nge
𝑑𝑧 𝑑𝑝 1 𝑑 (𝑤 2 ) 1
−𝛾 − =𝜌 ⇒ 𝑑𝑝 + 𝜌𝑑 (𝑤 2 ) + 𝛾𝑑𝑧 = 0
𝑑𝑠 𝑑𝑠 2 𝑑𝑠 2
Questa equazione è vera lungo una linea di flusso, quando il flusso è non viscoso, incomprimibile e
in campo stazionario. Considerando la densità costante, l’integrazione porta alla nota espressione:
1
𝑝 + 𝜌𝑤 2 + 𝛾𝑧 = 𝑐𝑜𝑠𝑡.
2
I
Questa è l’equazione di Bernoulli che abbiamo verificato essere valida lungo una linea di flusso.
Aveva già conosciuto questa legge in termini leggermente diversi, ovvero:
1
𝑝𝑣 + 𝑤 2 + 𝑔𝑧 = 𝑐𝑜𝑠𝑡.
2
ere

Che è la stessa identica legge scritta in termini di conservazione dell’energia massica. Adesso invece
l’abbiamo scritta in un modo in cui tutti i termini di tale espressione, rappresentano,
dimensionalmente, delle pressioni:

 𝑝 : è la pressione statica del fluido ed attribuiamo la ragione di questo nome, in quanto è


quella che abbiamo concepito un po come termodinamica, perché è quella che misurerebbe
Viv

un misuratore di pressione che vede il fluido rispetto a sè fermo. Quella che esclude la
componente successiva.
1
 𝜌𝑤 2 : in antitesi alla pressione statica appena definita, chiamiamo questo termine
2
pressione dinamica. È quella pressione che un misuratore rivelerebbe della conversione
dell’energia cinetica posseduta dal fluido in energia di pressione. un fluido in quiete non ha
pressione dinamica. La si può rilevare facendo in modo di convertire questa componente
legata al fluido in guadagno di pressione di tipo statico.
 𝛾𝑧 : rappresenta la pressione idrostatica, così denominata in analogia a quanto visto
analizzando la statica dei fluidi, in quanto tiene conto del cambiamento di pressione dovuto
a variazioni di energia potenziale del fluido in relazione a cambiamenti di quota nello stesso.
140

La legge di Bernoulli dice quindi che in un fluido incomprimibile ed in flusso stazionario, privo di
fenomeni dissipativi al suo interno (trasf. Reversibile, assenza di effetti viscosi), lungo una linea di
flusso la somma delle componenti statica, idrostatica e dinamica di pressione si conserva, pur
essendo possibili conversioni dall’una o all’altra forma. La conservazione della somma di tali termini

ria
è alla base del principio di funzionamento di una serie di dispositivi, e consente la risoluzione
approssimata (ossia, con restrizione di idealità del processo) di un gran numero di semplici problemi.
Tubo di Pitot

Immaginiamo di avere un condotto in cui scorre un


fluido non viscoso con velocità w. Questo condotto

gne
vede anche all’interno il fluido scorrere con velocità
praticamente costante. Identifichiamo alcuni punti
all’interno di questo condotto. In una sezione
consideriamo il punto 1 ed il punto 3, il primo al
centro del condotto, l’altro all’attacco di una presa
di pressione che chiamiamo statica, ossia una
cannula che il fluido ha possibilità di occupare
nge
parzialmente che è saldata alla tubazione con la
quale è messa in comunicazione. Relativamente più
avanti, ad una distanza tale per cui il fluido non risente della prima cannula, ne collochiamo un’altra,
in maniera diversa. Non la limitiamo ad un fissaggio periferico ma la introduciamo in seno al
condotto. Essa termina con una piccola curva sagomata in modo tale da presentare l’apertura in
controcorrente rispetto alla vena fluida che sta viaggiando. All’imbocco, identifichiamo il punto 2.
Le due cannule vengono parzialmente invase dal fluido, ma sulle due cannule osserviamo che il
I
fluido si porta a due quote diverse. Ciò perché in prossimità della zona 2, avviene un fenomeno che
si chiama ristagno del fluido. Se immaginiamo il momento di allocazione di questa cannula, quindi
inizialmente vuota, il fluido comincia ad invadere la cannula, ed il pelo libero va salendo. Appena il
fluido arriva ad una pressione sufficiente, questa pressione è tale da riuscire a resistere alla
pressione del fluido che cerca di entrare. Quindi nel punto 2, a regime, il fluido è fermo. Quindi il
ere

fluido è costretto a deviare e si crea una piccola regione in cui il fluido si può considerare
perfettamente fermo, proprio in prossimità del punto 2. Il punto 1 l’abbiamo preso a monte ed in
corrispondenza di una sezione sulla quale abbiamo posto una cannula chiamando l’imbocco col
punto 3. Tra il punto 3 ed il punto 1 a rigore non posso applicare la legge di Bernoulli perché non
appartengono alla stessa linea di flusso. Tuttavia il fluido è non viscoso, quindi la velocità del punto
1 è la stessa del punto 3. La pressione al punto 3 si può calcolare come pressione atmosferica più
Viv

l’altezza del liquido nella cannula per il suo peso specifico. Ma la pressione del punto 3 è pari anche
alla pressione che c’è nel mio condotto. Non è una grave violazione concettuale se noi assumiamo
p1 = p3 perché di fatto sono due punti su una stessa sezione. E quindi:
𝑝3 = 𝑝1 = 𝑝0 + 𝛾ℎ
Applichiamo ora la legge di Bernoulli tra il punto 1 ed il punto 2. Poiché appartengono alla stessa
linea di flusso e quindi z1 = z2, e la velocità nel punto 2 è zero perché è punto di ristagno:
1
𝑝2 = 𝑝1 + 𝜌𝑤1 2
2
141

Nel punto 2, la pressione statica è maggiore rispetto a quello del punto 1. Questo perché la
componente dinamica si è convertita in componente statica, per via del ristagno. Poiché la pressione
nel punto 2 si può scrivere anche come
𝑝2 = 𝑝0 + 𝛾𝐻

ria
La differenza di quota H – h, moltiplicata per il peso specifico, ci fornisce proprio la differenza di
pressione tra il punto 1 ed il punto 2, ovvero la componente dinamica. Quindi un misuratore
differenziale di pressione, capace di misurare la differenza di
pressione, ci dà a mezzo della metà della densità, posso ottenere
la velocità al quadrato. Per cui i Pitot sono utilizzati come

gne
misuratori di velocità. Lo strumento così sagomato è collocato
sulla fusoliera dell’aereo. L’aereo, procedendo ad una certa
velocità, vede venire incontro aria ferma. L’aria continua il suo
moto a grande velocità lungo il flusso b che comincia ad invaderlo
ed occuparlo spingendo il fluido. dall’altra estremità del fluido
viene mantenuta la pressione atmosferica. Quindi si instaura una
differenza di quota che moltiplicata per il peso specifico è misura
della componente dinamica.
nge
Efflusso da un recipiente a pressione atmosferica
immaginiamo un recipiente pieno di acqua molto largo, per
poter trascurare la variazione del pelo libero. Da una apertura
sul fondo il fluido può uscire, e l’apertura di questo recipiente
è ad una quota h con il pelo libero. Ci chiediamo, siamo in
I
condizione tramite l’equazione di Bernoulli di calcolare la
velocità di efflusso attraverso l’apertura prodotta sul fondo?
Cominciamo con l’identificare una linea di flusso e scegliamo
due punti tra i quali applicare l’equazione di Bernoulli:
ere

1 1
𝑝1 + 𝜌𝑤1 2 + 𝛾𝑧1 = 𝑝2 + 𝜌𝑤2 2 + 𝛾𝑧2
2 2
Visto che la particella è posta sul pelo libero, la velocità del punto 1 è pari a zero. Inoltre p1 e p2,
avendo scelto due punti a contatto con la pressione atmosferica, la loro componente statica di
pressione è identica e si possono elidere. Quindi, considerando z2 = 0 e z1 = h, posso scrivere:
Viv

1 𝛾ℎ
𝛾𝑧1 = 𝜌𝑤 2 ⇒ 𝑤2 = √2 = √2𝑔ℎ
2 2 𝜌

10/05/2018
Tutta la trattazione vista è stata (formulazione dell’equazione di Bernoulli per tubo di flusso e
relative applicazione) molto utile per introdurre una serie di concetti quali le linee di flusso, le
traiettorie, le condizioni di ristagno, etc. torniamo però ora a dare un taglio di applicazione pratica
al problema perché, come ingegneri, ci si può trovare a trattare semplici condotti in cui un fluido
scorre in maniera talvolta approssimabile a reversibile, e a volte no.
142

Ripartiamo dall’equazione del primo principio che, a valle delle equazioni del Tds, avevamo scritto

𝐿̇𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣 2
= 𝑙𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣 = − ∫ 𝑣𝑑𝑝 − Δ𝑒𝑐𝑖𝑛 − Δ𝑒𝑝𝑜𝑡
𝑚̇ 1

ria
Dove questo lavoro, in un organo aperto, essendo energia massica, è il rapporto tra la potenza e la
portata massica circolante. L’espressione di Bernoulli l’avevamo ottenuta considerando il processo
internamente reversibile, l’organo è passivo, e se il fluido è incomprimibile:

𝐿̇𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣 𝑤12 − 𝑤22


= 𝑙𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣 = −𝑣(𝑝2 − 𝑝1 ) + ( ) + 𝑔(𝑧1 − 𝑧2 ) = 0
𝑚̇ 2

gne
Questa è proprio l’equazione di Bernoulli appena ottenuta. Ma capiamo che, nel caso in cui il mio
sistema non sia affatto un tratto di condotto passivo, ma veda presente un lavoro tecnico scambiato
in maniera ancora internamente reversibile, l’unica cosa che cambia è che non posso dire che quel
trinomio si conserva, ma può cambiare in base al lavoro tecnico che può farne variare il contenuto.
Quindi scriveremo:

𝑤1 2 𝑤2 2 𝐿̇𝑖𝑛𝑡 𝑟𝑒𝑣
𝑝1 𝑣 + + 𝑔𝑧1 = 𝑝2 𝑣 + + 𝑔𝑧2 +
2
nge 2 𝑚̇
Questa equazione è una sorta di ampliamento concettuale dell’eq. di Bernoulli, perché nel caso di
condotto passivo, tutta la somma di contenuti energetici sotto le tre forme associate alle correnti
fluide, deve mantenersi costante e quindi una forma può tramutarsi in un'altra, ma la somma resta
costante. Ma se c’è il termine di potenza scambiata, questo trinomio non si deve mantenere
costante in virtù del fatto che c’è un apporto o sottrazione di energia. Questa equazione si chiama,
equazione di bilancio dell’energia meccanica. Ricordiamo che è stata scritta a partire dall’equazione
I
scritta sopra, che a sua volta deriva dal primo principio della termodinamica tenendo conto di alcune
condizioni. E nel primo principio della termodinamica il lavoro è stato scritto con una precisa
convenzione. Ed anche in questa equazione il lavoro è scritto seguendo questa condizione. Se ho un
tratto di condotto in cui entra nello stato 1, ed esce nello stato 2, qualora generi una potenza
ere

meccanica positiva, l’equazione scritta in quel modo ci dice che il contenuto energetico dello stato
1 (termini con il pedice 1) si sarà convertito una parte in energia dello stato 2 (termini con il pedice
2) ed una parte in potenza meccanica estratta, che quindi il contenuto energetico dello stato 2 è
minore di quello dello stato 1 a meno della potenza meccanica generata. Al contrario, se il lavoro è
negativo, allora il termine viene portato a sinistra, e ci dice che lo stato 2 ha un contenuto di energia
maggiore dello stato 1, e questo è ovvio, perché il mio sistema ha ricevuto lavoro dall’esterno e ha
Viv

arricchito il suo contenuto energetico. Questa equazione non si deve mai confondere con il bilancio
di energia del primo principio. Mentre quello vale per qualsiasi processo, reversibile o irreversibile,
la conservazione dell’energia meccanica vale solo per un processo internamente reversibile. Se noi
abbiamo un organo, per esempio la valvola di laminazione, scelto un opportuno VC, la legge di
conservazione dell’energia vale. Sebbene il fluido converta energia meccanica in calore ed attrito e
quindi dissipi energia, nel complesso non avendo interazioni con l’esterno, la somma di contenuti
energetici si deve conservare. Ma in un processo di questo tipo che è irreversibile l’equazione di
bilancio dell’energia meccanica non vale. L’energia meccanica non ha nessun obbligo di
conservazione anzi, nei processi reali non si conserva mai, perché presentano sempre dei gradi di
irreversibilità. Se si conserva l’energia meccanica, allora il processo è internamente reversibile.
143

Questa relazione è stata ottenuta con una particolare unità di misura, J/kg. Invece, in un processo
irreversibile, dell’energia meccanica si perde trasformandosi in qualcos’altro. Se il condotto è
passivo, i trinomi dell’equazione di Bernoulli non si mantengono costanti, il primo sarà maggiore
(sempre in caso di perdite). Parimenti, per condotti attivi, l’equazione di bilancio dell’energia

ria
meccanica diventa anch’essa una diseguaglianza.

𝑤1 2 𝑤2 2 𝐿̇𝑖𝑟𝑟𝑒𝑣
𝑝1 𝑣 + + 𝑔𝑧1 > 𝑝2 𝑣 + + 𝑔𝑧2 +
2 2 𝑚̇
Quindi non abbiamo più un processo internamente reversibile ma è irreversibile. Quindi per un
sistema ad un ingresso ed una uscita, in presenza di attrito e/o irreversibilità interne, l’energia

gne
meccanica totale che entra nel VC supera quella totale che esce dallo stesso. Ma quando abbiamo
studiato il bilancio entropico e l’equazione di clausius, avevamo una situazione simile, ed abbiamo
detto che ogni diseguaglianza può essere riscritta come eguaglianza più un termine che la bilancia.
Introduciamo un termine aggiuntivo che identifichiamo con R che rappresentano le mie perdite di
energia meccanica. E va posto al secondo termine per bilanciare l’equazione. R a cui volta per volta
aggiungeremo un pedice per ricordare la sua unità di misura. Quindi posso scrivere:

𝑤1 2 𝑤2 2 𝐿̇𝑖𝑟𝑟𝑒𝑣
𝑝1 𝑣 +
2
nge
+ 𝑔𝑧1 = 𝑝2 𝑣 +
2
+ 𝑔𝑧2 +
𝑚̇
+ 𝑅𝑒𝑛 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎

Questa relazione non è più vincolata dalla restrizione di reversibilità del processo. È l’equazione
generalizzata di bilancio di energia meccanica, tenendo conto di reversibilità o no, di passività o no,
del mio sistema. a volte lavoriamo con la medesima equazione ma con diverse unità di misura.
Vediamo ora delle scritture diverse. La prima è quella appena introdotta in termini di energia
specifica:
I
𝑤1 2 𝑤2 2 𝐿̇𝑖𝑟𝑟𝑒𝑣 𝐽
1) 𝑝1 𝑣 + + 𝑔𝑧1 = 𝑝2 𝑣 + + 𝑔𝑧2 + + 𝑅𝑒𝑛 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎 [ ]
2 2 𝑚̇ 𝑘𝑔
Ci dice che l’energia meccanica del fluido si può convertire da una forma all’altra e può essere
dissipata in forme non meccanica.
ere

Se volessimo lavorare in termini di pressione invece, basta dividere per v (o moltiplicare per la
densità), lasciando invariato il suo significato fisico:

𝑤1 2 𝑤2 2 𝐿̇𝑖𝑟𝑟𝑒𝑣 𝑁
2) 𝑝1 + 𝜌 + 𝛾𝑧1 = 𝑝2 + 𝜌 + 𝛾𝑧2 + + 𝑅𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 [ 3 ]
2 2 𝑉̇ 𝑚
Viv

Questa forma ci dice come la pressione del fluido si possa convertire tra le forme statica, idrostatica
e dinamica, e come il lavoro fornito dall’esterno possa contribuire ad accrescere questo “carico di
pressione totale” (l’opposto per una turbina che estrae lavoro e “consuma” pressione totale) e
come, parzialmente, possa essere dissipata in forma non meccaniche. Quindi, ad esempio, in un
condotto passivo, in cui non vi è lavoro di volume, vede lo stesso impoverirsi di pressione perché R
con il pedice pressione rappresenta proprio le perdite di carico. Passiamo ad una terza modalità di
rappresentazione: una volta scritta in termini di pressione ed energia, la possiamo riformulare in
termini di altezza. Vediamo come fare: basta prendere la prima equazione in termini energetici e
dividere per una accelerazione, e risulta conveniente farlo per la accelerazione di gravità, in modo
da ottenere metri.
144

𝐿̇𝑖𝑟𝑟𝑒𝑣⁄
𝑝1 𝑤1 2 𝑝2 𝑤2 2 𝑚̇ + 𝑅
3) + + 𝑧1 = + + 𝑧2 + 𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 [𝑚]
𝛾 2𝑔 𝛾 2𝑔 𝑔
In termini di altezza (o quota), con tutte le grandezze espresse in metri. Questa forma ci dice come

ria
la quota piezometrica, la quota cinetica e la quota geodetica del fluido si possano convertire le une
nelle altre, e come il lavoro fornito dall’esterno possa contribuire ad accrescere questa “quota” o
“altezza” totale (l’opposto per una turbina che estrae lavoro e “consuma” carico totale) e come,
parzialmente, tale “altezza” totale possa essere dissipata in forme non meccaniche. Parliamo adesso
𝐿̇𝑖𝑟𝑟𝑒𝑣⁄
𝑚̇
del termine che scritto così risulta abbastanza ostico. Ragioniamo su quali possono essere i
𝑔

gne
dispositivi con i quali L può essere scambiato. A conferire energia meccanica sarà una pompa,
mentre nel caso di una potenza estratta sarà una turbina idraulica. Allora, per non portare questa
noiosa notazione, al posto di quella dicitura scriveremo.

𝐿̇𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎⁄
̇
ℎ𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎 = 𝑚̇ = 𝐿𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎
nge 𝑔 𝛾𝑉̇
𝐿̇𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎⁄
ℎ𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 = 𝑚̇ = 𝐿̇𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎
𝑔 𝛾𝑉̇
Intesi con il pedice pompa o turbina nel caso rispettivamente, di apporto o esportazione di energia
meccanica. Naturalmente la valenza dell’h non è l’entalpia specifica, ma è un’altezza!!! R sarà
sempre una altezza. Ovvero quanti metri di energia meccanica equivalente perdiamo per effetto
degli attriti (vedremo che cosa vogliono dire questi metri).
I
Cerchiamo ora di dare una lettura energetica a questa relazione: in termini di altezza è come se il
fluido possedesse tante capacità meccaniche. Esso ha in ogni istante una quota. Ha una energia
energetica che viene convertita in una quota equivalente. Ha una pressione che pure può essere
tradotta in una quota equivalente. Mettiamoci nel caso di un sistema privo di organi attivi, quindi L
ere

non c’è. Se non ci sono attriti R non c’è. Quindi è come se avessimo tre quote che mantengono la
loro somma. Immaginiamo quindi un condotto che porta acqua in salita in maniera stazionaria. Il
fluido, procedendo, aumenta la sua z, ovvero la sua quota. se chiamo la sezione in ingresso 1 e quella
in uscita 2, e il condotto sia di diametro costante e abbastanza ridotto. Il fluido è incomprimibile, e
siccome è stazionario, la velocità in 1 è uguale a quella in 2. Quindi scriverò:
𝑝1 𝑤1 2 𝑝2 𝑤2 2
Viv

+ + 𝑧1 = + + 𝑧2
𝛾 2𝑔 𝛾 2𝑔
Ma w1 = w2, quindi si elidono:
𝑝1 𝑝2
+ 𝑧1 = + 𝑧2
𝛾 𝛾
Accade che man mano che avanza nel condotto, z2 > z1, allora ciò che guadagnerà come quota
geodetica (ovvero come quota di riferimento), lo perderà in pressione espressa in metri. Questo è
un carico energetico totale, espresso in unità di metri. Qualora invece, il condotto fosse stato
leggermente convergente, cosa sarebbe accaduto? Che w non sarebbe più stato cosante e che
quindi w2 > w1. Allora, la quota aumenta, l’energia cinetica aumenta, entrambi questi aumenti
145

devono essere fatti a spese di altezza legati alla pressione, che diminuirebbe ancora di più, perché
il terzo termine deve compensare entrambi i termini che aumentano. Complichiamo la cosa
mettendo una turbina idraulica, che tira fuori potenza meccanica. In quella relazione, il termine h
della turbina, non sarà più nulla. Quindi il fluido deve: aumentare la sua quota, aumentare l’energia

ria
cinetica e fornire energia meccanica. Ancora di più il contributo iniziale di pressione si impoverisce.
E se ci sono pure perdite di carico, vuol dire che tutta l’energia in uscita sarà ancora meno di quella
entrata perché una parte viene dissipata. La situazione cambia drasticamente se il condotto diventa
discendente, se ci metto una pompa: la quota viene persa, quindi verrà trasferita in qualche altra
forma, la pompa fornisce energia dall’esterno che si convertirà in altre forme.
Vediamo questa rappresentazione che è solitamente studiata. È un condotto che ha una sequenza

gne
di discontinuità per capire come adoperare la formula appena scritta: una parte di tubo di grande

I nge
diametro è specificato che non dissipa energia per attrito. Quindi immaginiamo il fluido poco viscoso
ed anche che stia scorrendo in un tubo molto liscio. Poi il fluido viene ad incanalarsi in questo tratto
ere

convergente, anch’esso contenuto come liscio. Poi entra in un tratto di condotto più piccolo e
fortemente scabro, quindi si comporta come reale e dissipa energia in calore d’attrito. Il fluido in
seguito entra in una pompa che ne innalza la pressione. il fluido procedendo perde quota per via
dell’inclinazione. Volendo ricorrere, ad una rappresentazione in termini di quota, dobbiamo
ricorrere ad un sistema di assi cartesiani, che vediamo a sinistra. Proviamo a rappresentare delle
linee che hanno una serie di significati.
Viv

 Quota geodetica – la linea blu sia rappresentativa della grandezza z. Quindi con la linea blu
traccerò qualcosa che è misura diretta della sola componente geodetica legata alla posizione
verticale del fluido. Consideriamo questo condotto sufficientemente stretto per
rappresentare tutti i filetti fluidi in un’unica quota che passa per l’asse della tubazione. Ad
ogni ascissa ci dice esattamente a che quota è arrivato il mio fluido.
𝑝
 Quota piezometrica – con la linea rossa tracciamo l’andamento del termine +𝑧 .
𝛾
𝑝
Chiamiamo 𝛾 altezza piezometrica, mentre la somma con z è la quota piezometrica.
146

 Chiamiamo invece, carico totale o altezza totale o quota totale – la linea nera, la somma dei
𝑝 𝑤2
termini + + 𝑧.
𝛾 2𝑔

Quando ho un tratto passivo di tubazione, cosa succede? Che questo trinomio si conserva. Essendo

ria
una quantità espressa in metri, la somma dei tre si conserva. Quindi il tratto nero risulta essere
orizzontale. Se il condotto è passivo e privo di irreversibilità il carico totale deve mantenersi
costante. Quindi la linea nera, la quota totale deve essere una linea orizzontale. Come si vede dalla
figura, anche la quota piezometrica è costante. Questo perché, poiché il carico totale è costante, e
la componente cinetica non cambia (il condotto ha sezione costante, la densità del fluido non
cambia e siamo in regime stazionario e la portata massica non varia). La componente cinetica è

gne
rappresentata dalla differenza tra la linea nera e la linea rossa. Se la linea nera si mantiene costante
e la differenza deve restare costante, allora la linea rossa resta costante. Ma la linea rossa è la
somma di due termini. Del termine piezometrico e della quota geodetica. Se la loro somma si
mantiene costante, e abbiamo detto che la linea blu è la quota, che diminuisce, allora deve
necessariamente aumentare la quota piezometrica. Quindi aumenta la pressione del fluido. Adesso
entriamo in un tratto in cui il tubo ha un imbocco che è maggiore in diametro di quello in uscita, ma
mantiene la sua stazionarietà e l’assenza di perdite. Il carico totale deve continuare a restare
nge
costante, e la quota continua a decrescere. Quello che notiamo però, è che non mantenendosi più
costante la sezione, la velocità deve aumentare, per l’equazione di continuità. Quindi aumenta il
“gap” tra la linea rossa e quella nera, ovvero, la quota piezometrica diminuisce a scapito di quella
cinetica. Affrontiamo adesso il tratto in cui il tubo presenta pareti non più liscissime ma scabre, e
quindi introduciamo fattori di perdita. Quindi la quota totale deve diminuire (con una pendenza che
dipende da R che impareremo a calcolare). Il tubo si mantiene a sezione costante ed il fluido è a
densità costante e quindi anche la sua velocità deve mantenersi tale. La quota piezometrica non
I
può che mantenere la distanza con la quota totale costante e quindi la linea rossa sarà parallela a
quella nera. Arriviamo alla pompa: la consideriamo un organo compatto lungo la quale la differenza
di quota è trascurabile, e la consideriamo ideale. La linea dei carichi totali si eleva in corrispondenza
di una pompa perché il trinomio iniziale aumenta il suo valore grazie agli h metri che la pompa gli
ere

conferisce. Poiché il tratto a valle della pompa è identico a quello a monte della pompa, la linea nera
continuerà ad essere pendente per via delle perdite e quella rossa è parallela a distanza costante.
Prevalenza della pompa e della turbina
Abbiamo già scritto il termine del lavoro meccanico di pompa e turbina in termini di altezza come:

𝐿̇𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎⁄
̇ ̇
Viv

ℎ𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎 = 𝑚̇ = 𝐿𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎 = 𝐿𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎


𝑔 𝛾𝑉̇ 𝛾𝑄̇
𝐿̇𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎⁄
ℎ𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 = 𝑚̇ = 𝐿̇𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 = 𝐿̇𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎
𝑔 𝛾𝑉̇ 𝛾𝑄̇
Il termine, come si vede può anche essere scritto come lavoro su portata volumetrica per peso
specifico (a volte la portata volumetrica si trova indicata con Q). Questa dicitura è importante perché
spesso le specifiche tecniche danno conto della portata volumetrica piuttosto che altri parametri.
Scriviamo alla luce di questa dicitura il bilancio dell’energia meccanica scritta prima:
147

𝑝1 𝑤1 2 𝑝2 𝑤2 2
+ + 𝑧1 + ℎ𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎 − ℎ𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 − 𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 = + + 𝑧2
𝛾 2𝑔 𝛾 2𝑔
Come si evince, la pompa “energizza” il mio sistema all’esterno, quindi è con il segno positivo. La
turbina invece preleva energia meccanica dal mio sistema ed è quindi in segno negativo, così come

ria
le perdite, che dissipano energia.
Vediamo un paio di esempi numerici.
I parametri noti sono:

 Z1 = 0 e Z2 = 2 m

gne
 d = costante, incomprimibile, moto
stazionario
 sezione costante, w1 = w2
 assenza di pompe o turbine
 altezze piezometriche rilevate tramite
due deriviazioni nge
Dobbiamo calcolare le perdite di carico da uno a due. Applichiamo l’equazione che conosciamo:
𝑝1 𝑤1 2 𝑝2 𝑤2 2
+ + 𝑧1 + ℎ𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎 − ℎ𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 − 𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 = + + 𝑧2
𝛾 2𝑔 𝛾 2𝑔
Abbiamo eliso i contributi cinetici, quelli degli organi meccanici (perché non presenti) ed il termine
z1 perché è uguale a 0. Quindi:
𝑝1 𝑝2 𝑝1 𝑝2
I
− 𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 = + 𝑧2 ⇒ 𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 = − − 𝑧2
𝛾 𝛾 𝛾 𝛾
Poiché dal grafico conosciamo le componenti piezometriche, sostituendo i valori numerici risulta:
𝑝1 𝑝2
𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 = − − 𝑧2 = 3 − 0,5 − 2 = 0,5 𝑚
𝛾 𝛾
ere

I parametri noti sono:

 flusso stazionario e flusso incomprimibile


 w1 = 0 (serbatoio ampio) w2 = 6 m/s
 p atmosferica sia in 1 che in 2
 z1 = 100 m z2 = 0
Viv

Dobbiamo calcolare la massima potenza ottenibile


dalla turbina. A differenza di prima, abbiamo stavolta
proprio la portata volumetrica della turbina. Nel senso
che conosciamo il diametro del condotto e quindi
possiamo calcolare la portata volumetrica, ovvero
𝑉̇ = 𝐴2 𝑤2 . Applichiamo l’equazione che conosciamo:
𝑝1 𝑤1 2 𝑝2 𝑤2 2
+ + 𝑧1 + ℎ𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎 − ℎ𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 − 𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 = + + 𝑧2
𝛾 2𝑔 𝛾 2𝑔
148

Questo perché non ho pompe, suppongo le perdite nulle affinché possa estrarre la potenza
meccanica massima, abbiamo assunto la stessa pressione nei punti 1 e 2, quindi posso eliderli, il
fluido non ha velocità nel punto 1 e la quota z2 = 0. Pertanto:
𝑤2 2 𝑤2 2

ria
𝑧1 − ℎ𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 = ⇒ ℎ𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 = 𝑧1 −
2𝑔 2𝑔
E sostituendo i valori:
𝑤2 2 (6)2
ℎ𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 = 𝑧1 − = 100 − = 98,2 𝑚
2𝑔 2 ∙ 9,81

gne
Come abbiamo detto prima, possiamo calcolare la portata volumetrica della turbina, quindi
scriveremo:

𝐿̇𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 1
ℎ𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 = ⇒ 𝐿̇𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 = ℎ𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 ∙ 𝛾 ∙ 𝑉̇ = 98,2 ∙ 9810 ∙ 𝜋 ∙ 6 = 4537,34 𝑘𝑊
𝛾𝑉̇ 4
Il fluido, ha una linea di carico totale pendente in presenza di attriti. Quindi se io voglio trasportarlo
per grandi distanze devo dargli un innalzamento di pressione che possa ricondurre il valore di
nge
energia totale ad un valore che gli permetta di dissipare ulteriormente questo valore di pressione e
farlo avanzare nel mio condotto. Se in ingresso e in uscita ho lo stesso valore di pressione, il mio
fluido non avanzerà mai. Distinguiamo due tipi di pompe:

 aspiranti
 sottobattenti
se devo pompare il fluido di un serbatoio e portarlo
I
ad una certa distanza, di solito cerco di innalzare la
linea di carico totale in modo che, durante il
percorso vengono compensate le perdite di carico.
Una pompa sottobattente aspira da un livello
ere

inferiore rispetto al liquido stesso, quindi


quest’ultimo non ha difficoltà ad entrare
nell’aspirazione della pompa. Una pompa ad
aspirazione in vece, aspira da un livello più alto del
liquido da pompare e quindi necessita di un
adeguato adescamento per funzionare correttamente. Una tipica applicazione dell’equazione
Viv

dell’energia meccanica è quella dell’identificazione di condizioni sicure di esercizio, rispetto al


rischio di cavitazione, di una pompa aspirante (il problema non sussiste per pompe prementi o
sottobattenti). Immaginiamo di collocare la sezione 1 sulla flangia di attacco alla pompa e quindi,
rispetto al pelo libero avrà una quota di aspirazione pari a z1 – z0. Cerchiamo di studiare applicando
l’equazione dell’energia meccanica, tutto ciò che riguarda il corretto posizionamento di questa
pompa. È comodo scegliere i punti di riferimento in modo tale che qualche termine si possa
facilmente elidere. E allora applichiamo l’equazione fra il punto sul pelo libero e la flangia di attacco.
Il tratto considerato, dalla sezione 0 alla sezione 1 è un tratto passivo, che è quello prima della
pompa. Quindi avrò:
149

𝑝0 𝑤0 2 𝑝1 𝑤1 2
+ + 𝑔𝑧0 + ℎ𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎 − ℎ𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 − 𝑅𝑒𝑛 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎,0−1 = + + 𝑔𝑧1
𝜌 2 𝜌 2
𝑝1
E naturalmente la velocità sul pelo libero è nulla. Ora isoliamo il termine portando tutto a secondo
𝜌

ria
membro. Avremo:
𝑝1 𝑝0 𝑤1 2
= − − 𝑔ℎ𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟 − 𝑅𝑒𝑛 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎,0−1
𝜌 𝜌 2
Con:
ℎ𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟 = 𝑧1 − 𝑧0

gne
Ma se ho un pelo libero che è di un recipiente aperto, allora la p0 è certamente la pressione
atmosferica. Pertanto:
𝑝1 𝑝𝑎𝑡𝑚 𝑤1 2
= − − 𝑔ℎ𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟 − 𝑅𝑒𝑛 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎,0−1
𝜌 𝜌 2
La scelta di avere una pompa aspirata conduce ad avere nella sezione 1 una energia specifica o una
nge
pressione, se moltiplico tutto per la densità. Avrò dunque:
𝑤1 2
𝑝1 = 𝑝𝑎𝑡𝑚 − 𝜌 − 𝛾ℎ𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟 − 𝑅𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒,0−1
2
quindi p1 è la pressione atmosferica meno tre contributi che sottraggono pressione. il primo è
quello connesso al fluido che deve potersi muovere. Ma deve andare in quota e quindi pressione
idrostatica. E le dissipazioni che sottraggono energia. Ora, il condotto, è quindi tutto in depressione.
I
Perché la pressione all’imbocco della pompa è inferiore a quella atmosferica. È chiaro che andando
dalla sezione 0 alla sezione 1, non c’è motivo che cambi la sua temperatura. Ma abbiamo detto che
sarà a pressione minore di quella atmosferica (che ricordiamo ha saturazione a 100°C). E quindi
abbassando la sua pressione, avrà una temperatura di saturazione inferiore. Rischia di andare in
ebollizione per depressione e non per scambio di calore, rischiando quello che si chiama fenomeno
ere

di cavitazione. Questo fenomeno è estremamente dannoso per le pompe che vengono erose nel
tempo dalla miscela bifasica. Scriviamo la condizione teorica che mi consente di risolvere il problema
che mi permette di avere la massima altezza di aspirazione possibile. Poiché la velocità del fluido
non posso sceglierla, perché è implicitamente insita nella pompa, avendo il produttore scelto il
diametro della flangia, io posso intervenire su:
Viv

 Posizione della pompa, cambio l’altezza di aspirazione.


 Perdite di carico, che scopriremo dipendere da parametri progettuali
Crediamo che sia sufficiente porre nel punto di attacco della pompa, una pressione p1 che sia
maggiore della pressione di vapore saturo dell’acqua che sto prelevando. Quindi se sono a
temperatura ambiente, 20°C, è circa 0,02 bar. Basta che la pressione nel punto di aspirazione sia
maggiore di questo valore che ho garanzia che il mio fluido resti liquido sottoraffreddato. Questa
cosa è sostanzialmente vero. chiariamo però perché questa considerazione non è proprio
sufficiente. Una considerazione è che di fatto la flangia non è proprio il punto più rischioso della
flangia stessa. La pompa conferisce pressione al fluido accelerandolo e innalzandone la pressione
dinamica, e dopo averlo accelerato viene nuovamente rallentato affinché la pressione dinamica
150

venga convertita in pressione statica. All’interno della pompa ci sono punti in cui raggiunge pressioni
anche più basse rispetto a quelle della flangia. Immaginiamo quindi una diminuzione di pressione
all’interno della pompa di un ∆𝑝. Questa differenza è conosciuta solo dal produttore. Quindi quello
che dobbiamo garantire non è che p1 sia maggiore della pressione di saturazione, ma p1-∆𝑝

ria
maggiore della pressione di saturazione. Inoltre, c’è un altro fatto da considerare: la legge di harry
dice che a contatto con un liquido, un aeriforme si discioglie in proporzione alla pressione. Quindi
se invece di avere il pelo libero a contatto con l’atmosfera, l’ho chiuso in un recipiente pressurizzato,
disciolgo più gas. Questo gas in fase di depressurizzazione viene rilasciato (effetto spumante). La
pressione di saturazione quindi non dipende dalla pressione totale, ma dalla sola pressione parziale.
Quindi:

gne
𝑝1 − ∆𝑝 𝑝𝑣 + 𝑝𝑔𝑎𝑠
>
𝜌 𝜌
Cioè, la pressione più bassa che si arriva ad ottenere all’interno della pompa deve essere maggiore
della pressione di vapore saturo alla mia temperatura più la pressione parziale dei gas disciolti che
si può calcolare (ma noi non lo facciamo). Ricordiamo che prima abbiamo ottenuto una equazione
𝑝
in termini di energia specifica isolando il termine 1. Quindi sostituiamo quella relazione in questa
nge 𝜌
appena trovata di condizione limite per evitare la cavitazione e riorganizziamo i termini, trovando:
𝑝𝑎𝑡𝑚 𝑝𝑣 + 𝑝𝑔𝑎𝑠 𝑤1 2 ∆𝑝
− 𝑔ℎ𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟 − 𝑅𝑒𝑛 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎,0−1 − > + ⇒ 𝑁𝑃𝑆𝐻𝑖𝑚𝑝 > 𝑁𝑃𝑆𝐻𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎
𝜌 𝜌 2 𝜌
Tutto il secondo membro è ciò di cui è a conoscenza il costruttore, che la fabbrica sapendo la portata
massica nominale della pompa, così come perdita di carico in seno alla pompa. Quindi tutto il
secondo membro è noto al produttore e ci viene fornito. È indicato come NPSH (net positive suction
I
head, prevalenza netta positiva all’aspirazione). Il primo membro invece è di competenza del
progettista, perché dipende dalle condizioni di impiego. Una pompa non va in cavitazione se tutto il
primo membro è maggiore del secondo.
14/05/2018
ere

Dobbiamo ora andare avanti col nostro studio perché finora ci siamo lasciati una modalità
semplificata che però non risolve il problema per trattare il parametro R delle perdite. Dobbiamo
imparare a calcolarlo anche al variare dei parametri del nostro studio. La problematica in cui
incorriamo nel calcolare il fattore di carica sia in meccanica dei fluidi che in termofluidodinamica è
che in genere le perdite di carico come pure le potenzialità termiche trasferite, dipendono da un
Viv

numero elevatissimo di variabili. Il numero elevatissimo di variabili ha una evidente implicazione


negativa relativa al fatto che: se io voglio studiare come evolvono le perdite di carico, devo tenere
conto della loro dipendenza da tante variabili. Allora, posso stabilire una legge analitica di
dipendenza che contempli tutte queste variabili, oppure conduco esperienze che le correlino
tramite esperienze sperimentali. Tuttavia risulta quasi impossibile procedere analiticamente ed
occorre condurre esperienze. Ma anche così, per creare correlazioni o tabelle relative a tutte le
possibili combinazioni di variabili/dati, ci vorrebbe un numero elevatissimo di indagini sperimentali
(spesso non agevole da realizzare). A priori, infatti, il risultato di ciascuna sperimentazione sarebbe
utilizzabile solo nel caso di perfetta coincidenza di tutte le condizioni con quelle della
sperimentazione effettuata. Cominciamo da un esempio, che riguarda il calcolo delle perdite di
151

carico osservate da un fluido viscoso (newtoniano, pseudoreale


o reale) che scorre in un tubo a sezione circolare di diametro D
posto orizzontalmente. il fluido sia ben specifico, per esempio
acqua a 72°C, in modo che abbia un ben preciso stato W

ria
termodinamico, specificando ben precisi valori di densità e
viscosità dinamica. Inoltre il fluido fluisca con una ben precisa
velocità w media che ci consenta il calcolo semplificato della
portata massica. Il fluido fluisca in condizioni stazionarie. E sia
il fluido oltre che viscoso, anche incomprimibile. Ci proponiamo
di calcolare le cadute di pressione sperimentate dal fluido nel

gne
suo moto per unità di lunghezza di tubo. Ci sarà quindi una differenza di pressione tra il punto 1 ed
il punto 2 che divideremo per la lunghezza del tubo per ottenere le perdite per unità di lunghezza.
Analisi teoriche e sperimentali di primo livello possono agevolmente suggerire i diversi parametri
da cui le perdite di carico specifiche possono dipendere, conducendo esperimenti multipli, e nel
nostro caso specifico:
nge Δ𝑝𝑙 = 𝑓(𝐷, 𝜌, 𝜇, 𝑤)
Facilmente identifichiamo che le perdite di carico dipendono da questi parametri. Il problema è
adesso ricavare una relazione che ci permette di ricavare la funzione f. Qualora decidessimo di
lavorare su base sperimentale, osserviamo che questa relazione mette in relazione cinque
parametri, quattro indipendenti ed uno dipendente. Immaginiamo di avere un tubo con un ben
preciso diametro, una ben precisa viscosità e densità per il mio fluido, e volessi isolare la funzione
che lega la variazione pressione diviso la lunghezza a w. Devo immaginare di condurre diverse
portate massiche attraverso il mio tubo, ogni volta misurare il Δ𝑝𝑙 vedendo come varia al variare
I
delle portate massiche condotte. Siamo certi che le dipendenze dei vari parametri siano disgiunte?
Assolutamente no, queste variabili entrano in modo combinato nella funzione. Quindi per il solo
isolamento di una variabile dovrei condurre una serie di esperimenti con vari diametri, densità etc.
e fare così per ogni parametro! Quindi il numero di sperimentazioni da condurre per avere un
quadro complessivo, è estremamente elevato in base al numero di parametri. Se fossi interessato
ere

ad un certo intervallo di diametri, potrei dividere ciascuno di questi intervalli in step per avere una
griglia sufficientemente fitta e fare variare ogni parametro. Questo mi condurrebbe ad un numero
elevatissimo di prove.
Ci viene incontro uno strumento che è quello dell’analisi dimensionale e utilizzo di parametri
adimensionali. Un fenomeno fisico è spesso descrivibile tramite un numero di variabili adimensionali
Viv

(opportune combinazioni delle variabili dimensionali in gioco), chiamate variabili Pi Greco o


Π𝑖 , inferiore al numero di variabili dimensionali. Ogni parametro ha delle dimensioni e sappiamo
che dobbiamo estrapolare tra loro delle relazioni. Ciò appena scritto si può anche leggere: esiste la
possibilità di combinare queste variabili dimensionali, isolando dei gruppi adimensionali, e si
dimostra che il fenomeno che si sta cercando può essere rappresentato da una relazione di queste
variabili adimensionali. Dobbiamo quindi fare tutto il percorso che ci permette di giungere alla
definizione di queste variabili adimensionali.
Innanzi tutto, diamo qualche cenno sull’analisi dimensionali. In meccanica dei fluidi ed in
termofluidodinamica, si osserva che quasi tutte le grandezze fisiche di interesse possono essere
espresse tramite un numero ridotto di “quantità primarie”, che sono:
152

 Meccanica dei fluidi: la lunghezza (a prescindere


dall’unità di misura), il tempo, la massa M o la forza
F
 Termofluidodinamica (per fenomeni di meccanica

ria
dei fluidi che coinvolgono gli scambi termici): oltre
ai tre sopracitati, la temperatura T
A titolo di esempio vediamo infatti:
𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à: [𝑤 ] = 𝐿 ∙ 𝑡 −1
𝑓𝑜𝑟𝑧𝑎: [𝐹 ] = 𝑀 ∙ 𝐿 ∙ 𝑡 −2

gne
𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎: [𝑀] = 𝐹 ∙ 𝐿−1 ∙ 𝑡 −2
Ogni grandezza esprimibile in funzione di M, L e t è altresì
esprimibile in funzione di F, L e t. Come vediamo in tabella,
si possono usare indifferentemente il sistema FLt o MLt.
Abbiamo adesso gli strumenti per lavorare col nostro
problema, partendo dall’enunciazione di un teorema:
nge
Teorema pi greco o teorema di Buckingham
Se un’equazione espressa da k variabili è dimensionalmente omogenea (superfluo, deve esserlo
sempre!), essa può essere ridotto a una relazione k-r prodotti adimensionali indipendenti, dove r è
il numero minimo di dimensioni fondamentali necessarie per descrivere le variabili.
Se un fenomeno fisico ha una rappresentazione del tipo:
I
𝑢1 = 𝑓(𝑢2 , 𝑢3 , … , 𝑢𝑘 )
In totale, quanti parametri sono quelli messi in relazione? Sono naturalmente k parametri (k
parametri fisici messi in relazione, somma tra dipendenti e indipendenti). Se le variabili 𝑢1 , 𝑢2 , … , 𝑢𝑘
sono esprimibili tramite in numero minimo r di dimensioni fondamentali (L,t,M o F,T,…) è possibile
ere

derivare una formulazione alternativa che leghi solo prodotti adimensionali (ossia parametri Π𝑖 )
Π1 = 𝜙(Π2 , Π3 , … , Π𝑘−𝑟 )
Quanti sono i parametri adimensionali messi in relazione? Sono k-r dove r è il numero di grandezze
fondamentali utili ad esprimere i miei parametri adimensionali. Torniamo al nostro esempio. k è il
uguale a cinque. Perché sono cinque i parametri indipendenti e dipendenti che ho bisogno di
Viv

collegare insieme.
𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖 = {Δ𝑝1 , 𝐷, 𝜌, 𝜇, 𝑤 }
Il nostro problema, avendo natura fluidodinamica, ha bisogno di tre grandezze fondamentali:
[Δ𝑝1 ] = 𝐹 ∙ 𝐿−3
[𝐷 ] = 𝐿
[𝜌] = 𝐹 ∙ 𝐿−4 ∙ 𝑡 2
[𝜇 ] = 𝐹 ∙ 𝐿−2 ∙ 𝑡
{[𝑤] = 𝐿 ∙ 𝑡 −1
153

Come si vede dalla parentesi abbiamo espresso tutti i nostri parametri con grandezze nel sistema
FLt. Abbiamo verificato che r è proprio tre. Quindi il teorema ci dice che il mio problema può essere
ricondotto ad un legame di k-r=due parametri adimensionali.
𝑘=5 𝑟 = 3 (𝑖𝑛 𝐹, 𝐿, 𝑡) 𝑘−𝑟 =2

ria
Adesso occorre selezionare le variabili da ripetere, ossia quelle che dovranno comparire in tutti i
parametri adimensionali identificati, il cui numero è pari al numero delle dimensioni fondamentali.
Dall’elenco delle k variabili si scarta preliminarmente quella dipendente (ossia quella che si vuole
calcolare), perché questa deve stare in un solo parametro adimensionale (e quindi non va ripetuta).
Tra le restanti, si opta per la ripetizione di quelle più semplici dimensionalmente. In altri termini: io

gne
ho cinque parametri, e devo riuscire ad isolare due soli parametri adimensionali che vorrei fossero
il più ricchi possibile dei miei parametri. Come si fa ad estrapolarli? Se devo ipotizzare che i miei
parametri devono comparire il più possibile nei parametri adimensionali, posso sceglierne tre che
compaiano in entrambi i parametri dimensionali, e gli altri due li alloco in un parametro
adimensionali uno, e nell’altro parametro adimensionale l’altro, in modo da avere i miei parametri
il più ricchi possibili. Più complessi sono i parametri adimensionali, più rappresentativa è la relazione
che si ottiene, perché siamo certi di poter correlare al meglio tutti i fenomeni fisici. Nel nostro caso:
nge
variabili da ripetere: tra a scelta tra 𝐷, 𝜌, 𝜇 e 𝑤 scelti: 𝐷, 𝜌 e 𝑤
Adesso si deve formare un termine pi greco moltiplicando una delle variabili non ripetute con il
prodotto delle variabili ripetute, ciascuna elevata a un esponente che renda la combinazione
adimensionale. Ogni parametro pi greco sarà della forma:

Π = 𝑤𝑖 ∙ 𝑤1 𝑎𝑖 ∙ 𝑤2 𝑏𝑖 ∙ 𝑤3 𝑐𝑖
I
Dove 𝑤𝑖 è una delle variabili non ripetute, mentre 𝑤1 , 𝑤2 e 𝑤3 sono le variabili ripetute e gli
esponenti sono determinati in modo tale che la combinazione risulti adimensionale. Nel nostro caso:

Π1 = Δ𝑝1 ∙ 𝐷 𝑎 ∙ 𝑤 𝑏 ∙ 𝜇 𝑐
Per determinare a,b e c teniamo conto del fatto che le tra grandezze FLt devono risultare
ere

adimensionali. Quindi moltiplichiamo tutti i termini, li eleviamo ad un esponente incognito, in modo


che, per ogni grandezza, ci ritroviamo l’esponente pari a zero (che ci fornisce appunto
l’adimensionalità). In particolare:
(𝐹 ∙ 𝐿−3 ) ∙ (𝐿)𝑎 ∙ (𝐿 ∙ 𝑡 −1 )𝑏 ∙ (𝐹 ∙ 𝐿−4 ∙ 𝑡 2 )𝑐 = 𝐹 0 ∙ 𝐿0 ∙ 𝑡 0

Poiché quando si procede alla moltiplicazione, gli esponenti si sommano, risulta un semplice sistema
Viv

di tre equazioni in tre variabili. Quindi, prendendo a titolo di esempio F, risulta nel primo termine
elevato a 1, poi elevato a c, che deve dare come risultato 0. Quindi 1+c=0. Si fa così per tutti i
parametri e si ottiene:
1+𝑐 =0 (𝑒𝑠𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝐹)
{−3 + 𝑎 + 𝑏 − 4𝑐 = 0 (𝑒𝑠𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑑𝑖 𝑑𝑖 𝐿) ⇒ 𝑎 = 1, 𝑏 = −2, 𝑐 = −1
−𝑏 + 2𝑐 = 0 (𝑒𝑠𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑑𝑖 𝑑𝑖 𝑡)

Quindi ottengo:
Π1 = Δ𝑝1 ∙ 𝐷1 ∙ 𝑤 −2 ∙ 𝜇 −1
154

Ovvero:
Δ𝑝1 𝐷
Π1 =
𝜌𝑤 2

ria
Ripetiamo tutto per il secondo parametro adimensionale, considerando sempre le tre variabili scelte
prima ed inserendo l’altro parametro dimensionale rimasto fuori, ovvero la viscosità:

Π2 = 𝜇 ∙ 𝐷 𝑎 ∙ 𝑤 𝑏 ∙ 𝜌 𝑐
(𝐹 ∙ 𝐿−2 ∙ 𝑡) ∙ (𝐿)𝑎 ∙ (𝐿 ∙ 𝑡 −1 )𝑏 ∙ (𝐹 ∙ 𝐿−4 ∙ 𝑡 2 )𝑐 = 𝐹 0 ∙ 𝐿0 ∙ 𝑡 0

1+𝑐 = 0 (𝑒𝑠𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝐹)

gne
{−2 + 𝑎 + 𝑏 − 4𝑐 = 0 (𝑒𝑠𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑑𝑖 𝑑𝑖 𝐿) ⇒ 𝑎 = −1, 𝑏 = −1, 𝑐 = −1
1 − 𝑏 + 2𝑐 = 0 (𝑒𝑠𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑑𝑖 𝑑𝑖 𝑡)

E di nuovo otteniamo:
Π2 = 𝜇 ∙ 𝐷 −1 ∙ 𝑤 −1 ∙ 𝜌 −1
Ovvero:
nge Π2 =
μ
𝐷𝜌𝑤
Il teorema diceva che il mio fenomeno fisico, che vede una relazione tra k parametri dimensionali
può essere rappresentato tra una relazione diretta tra k-r adimensionali. Quindi ora posso
sintetizzare il mio problema attraverso una relazione diretta che lega i miei due parametri appena
ottenuti. Non conosco la mia funzione ancora, ma so che esiste:
I
Δ𝑝𝑙 𝐷 μ
Π1 = 𝜙̃ (Π2 ) ⇒ = ̃(
𝜙 )
𝜌𝑤 2 𝐷𝜌𝑤
Questa scoperta è una cosa di importanza capitale. Abbiamo scoperto che i vari parametri
dimensionali che hanno un legame fra loro, non hanno un legame impredicibile, ma che si
ere

concretizza nell’effetto che i vari valori di queste variabili hanno sui parametri. Immaginiamo di
avere acqua a 72°C, una tubazione che ha un ben preciso D, con una sua densità e viscosità. Mi
chiedo come variano le perdite di carico quando si agisce sul diametro o sulla velocità di flusso.
Ragioniamo prima sulla velocità. Tengo fisso il diametro, e comincio a portare sempre più acqua,
misurando di volta in volta le varie perdite di carico. Trovo i vari Δ𝑝𝑙 . Ma notiamo che fissando
densità, diametro e viscosità, e fisso per ogni test una determina w, sto fissando anche un valore di
Viv

μ
Π2 = 𝐷𝜌𝑤 , ovvero del mio parametro adimensionale. Quando faccio il nuovo test con le medesime
densità, viscosità e diametro ma con una differente velocità, di fatto ho cambiato il mio parametro
adimensionale Π2 . Tutti questi test che vedono, tenendo fermi tre parametri ed uno variabile,
variare anche il mio parametro adimensionale Π2 , possono essere visti
come test il cui effetto è quello di variare il mio parametro Π2 , e quindi
considerarlo proprio una variabile del mio problema. Ma ancora una volta,
misurando Δ𝑝𝑙 , tenuti fissi diametro, densità e variando la velocità, di fatto
ad ogni test misuro anche Π1 . Quindi in ogni esperienza che effettuo al
variare di Π2 posso misurare Π1 . Questa relazione è suscettibile di una
rappresentazione in un grafico, che mi dice come varia il parametro Π1 al
155

variare di Π2 che mi permette di ricavare sperimentalmente una legge che li lega. Metto in ascissa
Π2 e in ordinata Π1 . Per ogni coppia di valori trovo un punto, e potendo interpolare vari punti
troverò una legge matematica che li lega. Immaginiamo ora di fare un altro test: se io per data
densità e viscosità (le stesse di prima), tengo la stessa velocità di prima ma raddoppio il diametro,

ria
mi chiedo, devo fare un test per trovare la perdita di carico? Π2 si è dimezzato, avendo il diametro
al denominatore. Con questo esperimento, Π2 varrebbe esattamente quanto valeva prima. Quindi
se più condizioni operative mi permettono di ottenere lo stesso Π2 , sempre lo stesso Π1 otterrò.
Quindi non ho bisogno di effettuare il test per le perdite di carico, so già il valore delle perdite di
carico. I parametri influenzano le perdite di carico solo nella misura con la quale influenzano i
parametri adimensionali che li racchiudono. Se il mio problema avesse avuto natura non

gne
fluidodinamica, ma termofluidodinamica, avremmo dovuto inserire anche il parametro
temperatura. Se ci pensiamo bene, abbiamo capito che Π1 dipende da una precisa legge di Π2 ma
abbiamo dei margini entro i quali questi termini possono essere riarrangiati. Per esempio, nella
pratica comune si tende a considerare l’inverso di Π2 ovvero:
𝐷𝜌𝑤
Π2 =
nge 𝜇
E di conseguenza, Π1 sarà funzione di Π2 secondo una funzione inversa rispetto a quella che li legava
in precedenza, senza che nulla cambi.
Δ𝑝1 𝐷 μ Δ𝑝1 𝐷 𝐷𝜌𝑤
2
= 𝜙̃ ( ) ⇒ 2
= 𝜙( )
𝜌𝑤 𝐷𝜌𝑤 𝜌𝑤 𝜇
Questo Π2 appena definito, diventa il numero più importante in ambito fluidodinamico, denominato
numero di Reynolds. È una grandezza adimensionale che caratterizza sia i regimi di moto che le
I
perdite di carico. In certi casi viene anche indicato come:
𝐿𝜌𝑤
𝑅𝑒 =
𝜇
In cui con L si vuole esprimere il generico parametro geometrico (per esempio, la larghezza di un
ere

passaggio non circolare, dove non ha senso parlare di diametro). Tuttavia, è utile che chi ha condotto
esperimenti sul numero di Reynolds dia anche indicazioni su quali parametri geometrici ha condotto
i suoi esperimenti: se invece di usare un condotto circolare ne uno rettangolare, e scelgo una
dimensione piuttosto che un’altra, devo specificare in base a cosa calcolo il mio numero di Reynolds.
È quindi un valore ancorato ad una precisa convenzione sul parametro lunghezza in esame (per
esempio utilizzare, per sezioni non convenzionali, il diametro equivalente). Il numero di Reynolds
Viv

così definito ha anche una valenza fisica. In particolare:


𝐿𝜌𝑤 𝑓𝑜𝑟𝑧𝑒 𝑑′𝑖𝑛𝑒𝑟𝑧𝑖𝑎
𝑅𝑒 = =
𝜇 𝑓𝑜𝑟𝑧𝑒 𝑣𝑖𝑠𝑐𝑜𝑠𝑒
Guardiamo al numero di Reynolds non tanto per il significato che i vari termini hanno, quanto per
una mera analisi dimensionale, stando attenti a cosa intendiamo. Reynolds è un numero puro,
quindi può essere dimensionalmente un rapporto tra due quantità dimensionalmente identiche.
Tuttavia numeratore e denominatore, presentano dei parametri dimensionali tipici delle forze di
inerzia e di forza viscose. Per esempio, guardiamo alle forze di inerzia come:
156

𝐹𝑖𝑛𝑒𝑟𝑧𝑖𝑎 = 𝑚 ∙ 𝑎
Che non esiste, essendo risultante di forze. Tuttavia, questo prodotto ci dice che è una risposta
cinetica (l’accelerazione) ad uno squilibrio di forze (F risultante). Allo stesso modo, le forze viscose
da cosa dipendono? Sforzi di taglio per superficie. È la capacità dei filetti fluidi di scambiarsi sforzi di

ria
taglio:
𝐹𝑣𝑖𝑠𝑐𝑜𝑠𝑒 = 𝜏 ∙ 𝑆
Vediamo dimensionalmente come si possono esprimere:
[𝑚] = 𝜌 ∙ 𝐿3

gne
𝐿 𝐿
[𝑤 ] = ⇒ [𝑎] = 2
𝑡 𝑡
𝐿 𝜌 ∙ 𝐿4
[𝐹𝑖𝑛𝑒𝑟𝑧𝑖𝑎 ] = 𝜌 ∙ 𝐿3 ∙ =
𝑡2 𝑡2
𝑑𝑤 𝐿 1 𝜇
[𝜏] = [𝜇 ∙ ]=𝜇∙ ∙ =
𝑑𝑦 𝑡 𝐿 𝑡
nge [𝑆] = 𝐿2
𝜇 ∙ 𝐿2
[𝐹𝑣𝑖𝑠𝑐𝑜𝑠𝑒 ] =
𝑡
E quindi, sostituendo nel numero di Reynolds:
𝜌 ∙ 𝐿4 𝜌 ∙ 𝐿2
I
[𝐹𝑖𝑛𝑒𝑟𝑧𝑖𝑎 ] 2 𝜌𝑤𝐿
𝑅𝑒 = = 𝑡 2 = 𝑡 =
[𝐹𝑣𝑖𝑠𝑐𝑜𝑠𝑒 ] 𝜇 ∙ 𝐿 𝜇 𝜇
𝑡
15/05/2018
ere

Abbiamo visto come i parametri che influenzano le perdite di carico nel moto stazionario della
corrente di un fluido incomprimibile che scorre orizzontalmente, non sono slegati l’uno dall’altro,
ma mostrano un comportamento coordinato che rende possibile l’identificazione di alcuni
parametri adimensionali che in maniera sintetica danno una visione aggregata delle influenze di
questi parametri. Quindi ricondurre tutto a campagne sperimentali molto ridotte perché basate su
una impalcatura teorica che ci ha consentito di ridurre moltissimo le prove sperimentali necessarie.
Viv

Ed abbiamo infine introdotto, opportunamente elaborando i risultati, il numero di Reynolds, e ne


abbiamo chiarito il significato fisico, e quindi una misura immediata di come uno sbilancio
momentaneo di forze, vari la cinetica di una particella, trovando nella forza d’inerzia una tendenza
al movimento e nelle forze viscose, qualora molto presenti, vedere questo moto inibito. Inoltre, il
numero di Reynolds così ottenuto, sperimentalmente parlando, deve necessariamente essere
considerato entro un preciso campo di validità che deve essere indicato. La legge matematica che
lega i parametri adimensionali, essendo stata ottenuta per interpolazione, deve essere definita
entro certi limiti, che confinano il numero di Reynolds in un campo di validità oltre il quale non posso
più considerarlo nel modo in cui è stato definito dagli esperimenti condotti.
157

Regimi di moto
Iniziamo da una
descrizione di un
esperimento alla

ria
base dello studio dei
regimi di moto.
Immaginiamo che
da un recipiente si
dirami un tubo
realizzato in

gne
materiale
trasparente
all’interno del quale scorra un fluido, acqua, e supponiamo di innestare una cannula estremamente
sottile che possa rilasciare nel fluido una sostanza colorante. Immaginiamo di poter regolare la
portata (per esempio variando la pressione del recipiente a monte). Ora facciamo partire questo
esperimento in condizioni di campo di moto e portata estremamente basse. Osserviamo che la vena
di tracciante che viene a inserirsi in seno alla corrente fluida tende a muoversi non mescolandosi
nge
affatto con i filetti fluidi adiacenti e quindi proseguendo il moto orizzontalmente esattamente come
la vena fluida che la “trascina”. Questo comportamento viene osservato sempre alle ridottissime
portate che vado piano piano aumentando. Si arriverà ad un valore di portata alla quale questa vena
di tracciante che proseguiva in maniera perfettamente lineare comincia a subire piccole ondulazioni,
che si fanno via via più significative aumentando la portata, finchè il moto non diventa così irregolare
da provocare il mescolamento dei filetti fluidi e si vede il tracciante mescolarsi con i filetti fluidi
I
adiacenti.

 Moto laminare: chiamiamo così il regime di moto in cui i filetti fluidi che costituiscono il
campo di moto rimangono sempre paralleli a sé stessi, senza mescolarsi, come tante
“lamine” parallele da cui la definizione laminare
 Moto turbolento: in cui i fenomeni inerziali (dovuti alla velocità) come i vortici, vincono sui
ere

fenomeni viscosi (che tendono a mantenere i filetti in moto parallelo tra loro), e tali
componenti rotazionali inducono un mescolamento dei filetti fluidi tra loro, rompendone
l’originario parallelismo (mantenuto invece in un flusso a regime laminare). Esistono vari
gradi di regime turbolento
 Moto di transizione: è lo stato intermedio tra i due regimi di moto.
Viv

Cosa connota dal punto di visto cinetico questi regimi di moto? Nel regime laminare, la velocità è
perfettamente diretta lungo l’orizzontale. Quindi è un regime in cui ogni filetto di fluido ha velocità
diretta secondo la direzione prevalente del moto e vede assente ogni componente trasversale di
velocità. Invece, la velocità in un regime turbolento deve vedere, in ogni filetto fluido, anche altre
componenti dirette in altre direzione oltre a quella prevalente di direzione del moto. Allora si è soliti,
per un regime di moto stazionario e turbolento, scrivere la velocità di una particella elementare di
fluido tramite la seguente notazione vettoriale:

̅∗ = 𝑤
𝑤 ̅ ′ = 𝑖̅𝑤𝑥′ + 𝑗̅𝑤𝑦′ + 𝑘̅ 𝑤𝑧′
̅ +𝑤
158

In cui 𝑤
̅ è la velocità che la particella fluida ha nella direzione prevalente del moto, intesa come
componente stabile della velocità in quel punto, connessa al campo di moto stazionario. Questa è
la componente della velocità che contribuisce al trasporto della massa verso destra, l’unica che si
avrebbe in regime di moto laminare. Oltre a questa, nel regime di moto turbolento, si instaura una

ria
componente aleatoria e variabile da punto a punto della velocità che chiamiamo 𝑤 ̅ ′ e non è affatto
diretta nella direzione prevalente del moto, anzi può assumere modulo, direzione e verso
completamente diversi. È in pratica l’elemento di disturbo, di irregolarità, che si presenta
istantaneamente in un punto. Questa 𝑤 ̅ ′ può avere componenti in tutte e tre le direzioni spaziali
rendendo non lineare il percorso della vena fluida. Questa componente, ha la caratteristiche che se
in una data posizione mediamo questa componente 𝑤 ̅ ′ su un intervallo di tempo finito, quindi

gne
guardiamo ad un punto, ed integriamo nel tempo i valori di 𝑤 ̅ ′ /dt su tutto l’intervallo di tempo.
𝑡+∆𝑡
1
∙∫ ̅ ′𝑑𝑡 = 0
𝑤
∆𝑡 𝑡

Troviamo che questo integrale, questa media, risulta sempre zero. Per cui questa componente, ha
effetti complessivi nel tempo nulli, in termini di trasporto di massa. Il moto turbolento può essere
visto come un moto nel quale, alla componente orizzontale della velocità, che garantisce il trasporto
nge
di massa, si somma una componente imprevedibile e aleatoria, i cui effetti complessivi sono nulli
mediamente nel tempo, che è responsabile solo del rimescolamento dei filetti fluidi ma non del
trasporto di massa.
Comportamento del fluido che scorre in un condotto
Ciò che diremo adesso, è slegato dal fatto che il moto sia turbolento o laminare valendo
indipendentemente sia per l’uno che per l’altro, salvo per piccole differenze che vedremo dopo.
I
Immaginiamo di avere un recipiente dal quale si dirama un condotto come in figura. cosa accade
ere
Viv

quando il fluido avanza nella tubazione? Per semplicità immaginiamo che nella sezione di imbocco
(1) esso presenti un profilo rettangolare di velocità. Quella che stiamo assumendo come condizione
di inizio è una condizione teorica, che non esiste in un caso reale. Il fluido che facciamo scorrere è
incomprimibile e viscoso che viene immesso con portata costante, quindi processo stazionario.
Accade che, in virtù della viscosità del fluido, il filetto fluido che sta attaccato alla parete si trova
immediatamente costretto a rallentare, cosìcchè si debba portare a velocità nulla. Ma gli altri filetti,
non hanno avuto il tempo di accorgersi del disturbo della parete e continuano a viaggiare con la loro
velocità. Ma allo step successivo, anche il filetto fluido immediatamente sotto al primo viene
159

rallentato da quello a contatto con la parete che è fermo. Ma ancora nella zona centrale ci sono
tanti filetti fluidi che continuano a viaggiare tranquillamente. Man mano che si va avanti, i filetti
fluidi che si trovano sulla parte periferica della tubazione, che sono già stati gradualmente rallentati
da un disturbo che pian piano si è propagato, ora vedono il disturbo propagarsi anche ai filetti fluidi

ria
posti più al centro. Quindi piano piano questa corona definita strato limite meccanico, in bianco in
sezione, si va estendendo, riducendo la sezione centrale dei filetti fluidi che non risentono del
rallentamento degli altri filetti fluidi. Arrivati al punto (2), la corrente, nel suo complesso, lungo tutto
la sezione, non ha più tratti rettangolari con i filetti fluidi alla stessa velocità. Da questo punto in poi
tutto proseguirà secondo questo profilo di velocità paraboloide. L’asse del tubo è l’unico punto in
cui la velocità non cambia, che non risente degli sforzi di taglio. Possiamo dire che lo strato limite,

gne
inizialmente nullo in spessore (1), comincia a svilupparsi aumentando la sua estensione man mano
che il fluido avanza, sino ad arrivare ad una sezione (2) dove si presenta esteso a tutta la sezione di
tubo. La caratteristica principale dello strato limite è che al suo interno sono visibili gli effetti della
viscosità del fluido. poiché la portata è l’integrale della densità per la velocità esteso all’area, a mano
a mano che la velocità media si riduce in prossimità delle pareti, a parità di densità e in regime
stazionario, quindi a portata costante, w deve aumentare. Quindi la zona al centro vede un aumento
della velocità dei filetti fluidi, per compensare la riduzione di velocità dei filetti alle pareti, tale che,
nge
il valore dell’integrale si mantenga costante. Chiamiamo regione di imbocco o di ingresso, tutta
quella che si colloca fra la sezione iniziale di imbocco (1) e la sezione alla quale il campo di moto
diventa completamente sviluppato (2), cioè alla quale lo strato limite invade tutta la sezione e
propaga gli effetti della parete sino all’asse della tubazione. Indichiamo con il simbolo 𝑥𝑐𝑠 la
coordinata di avanzamento del fluido dove il pedice cs sta per “completamente sviluppato”. È la
coordinata alla quale il campo di voto è completamente sviluppato. Il campo di moto si può
disturbare non solo per effetti della parete ma anche per effetti secondari, per esempio la curvatura
I
del tubo, basti guardare in figura il profilo delle velocità deformarsi per effetto delle forze di inerzia.
Quindi ci sono regioni di sviluppo del campo di moto anche dopo le curve. Cosa decide se la portata
del mio fluido mi consente un moto laminare o turbolento? È il numero di Reynolds: ai bassissimi
numeri di Reynolds, le forze viscose prevalgono su quelle di inerzia, e quando si presentano molto
più forti quelle viscose, queste ultime ne inibiscono le traslazioni, le aleatorietà del moto. Di contro,
ere

a numeri di Reynolds molto elevati, le forze di inerzia vincono su quelle viscose che non riescono più
a contenere la tendenza dei filetti fluidi a mescolarsi. Il valore del numero di Reynolds (per una data
geometria) che tende ad innescare la transizione dal regime laminare a quello turbolento è
denominato Reynolds critico e vale approssimativamente 2300 (perché ricordiamo che il numero di
Reynolds è proporzionale alla velocità, più aumenta più Reynolds cresce). Teniamo presente che
2300 non è un valore da prendere come esatto. fornisce un’idea di massima che ci consente di dire
Viv

che se siamo intorno ad un valore di 1600, il moto è sicuramente laminare, 4000 è sicuramente
turbolento, ma se siamo tra i 2000-2600, non sappiamo bene come funzionano le cose, perché
dipende dalle altre condizioni al contorno. Nel moto laminare, vale la relazione:
𝑥𝑐𝑠
= 0,05𝑅𝑒
𝐷
Mentre si è trovato sperimentalmente, per il moto turbolento, un range di validità:
𝑥𝑐𝑠
10 ≤ ≤ 60
𝐷
160

Cominciamo adesso il problema del calcolo delle perdite di carico per l’unico regime di moto che ci
permette una trattazione analitica, ovvero il moto laminare. Nel caso di moto turbolento invece ci
permette di determinarle solo sperimentalmente.
Flusso laminare completamente sviluppato

ria
Immaginiamo un flusso laminare completamente sviluppato che scorre in una regione di tubo. Il
profilo delle velocità si presenta
ovviamente paraboloide come abbiamo
visto, e siamo in regime stazionario, e lo
identifichiamo come una funzione w(r)

gne
(indicata u(r) in figura). Applichiamo la
legge di Newton, quindi ragioniamo sulle
forze in equilibrio sull’elemento di fluido
evidenziato in figura e riprodotto
evidenziato a lato. la risultante delle forze
su questo elemento cilindrico coassiale col
tubo e di lunghezza l, deve essere nulla
perché il fluido, essendo in regime
nge
stazionario, non accelera, né decelera. Le
forse che su di esso agiscono sono
essenzialmente tre: una è la spinta che a monte lo spinge sulla faccia di sinistra. Avrà una
controspinta da destra verso sinistra. Ed inoltre, essendo viscoso, avrà un’azione tangenziale estesa
a tutta la superficie laterale del mio elemento fluido. quindi scriverò:
𝑝1 𝜋𝑟 2 − (𝑝1 − ∆𝑝)𝜋𝑟 2 − 𝜏2𝜋𝑟𝑙 = 0
I
Poiché la pressione a monte è un pò maggiore rispetto a quella a valle dovuta alle perdite di carico,
allora quella a destra sarà inferiore di quella a sinistra per un ∆𝑝 . Da cui deriva, semplificando:
ere

∆𝑝 2𝜏
=
𝑙 𝑟
Ovvero:
∆𝑝 𝑟
𝜏=
𝑙 2
Viv

∆𝑝
Ma la 𝑙 è la perdita di carico per unità di lunghezza. Ci accorgiamo che lo sforzo
di taglio cambia linearmente con il raggio, assumendo valore nullo per r = 0 e
valore massimo per r = D/2 della mia tubatura. Quello che abbiamo ottenuto è
una distribuzione di forze, e poiché lo sforzo di taglio è responsabile del profilo
di velocità, ora che l’abbiamo definito possiamo calcolare questo profilo.
L’andamento di velocità rispetto al raggio, è
𝑑𝑤
𝜏=𝜇
𝑑𝑟
161

Quindi si procede ad una separazione delle variabili e si esplicita lo sforzo di taglio in funzione di r,
ed integrando tra 0 e D/2, applicando una opportuna condizione al contorno, si ottiene:

2𝑟 2
𝑤(𝑟) = 𝑤𝑐 ∙ [1 − ( ) ]
𝐷

ria
Dove:
∆𝑝𝐷 2
𝑤𝑐 =
16𝜇𝑙
Se al valore di r si sostituisce il valore D/2, allora la distribuzione delle velocità assume il valore di 0,

gne
come è giusto che sia in prossimità delle pareti. Se ad r si sostituisce il valore di 0, ovvero in
prossimità dell’asse, si avrà il valore di 𝑤𝑐 velocità massima come è giusto che sia. L’espressione è
inoltre una parabola esatta ed è la distribuzione delle velocità in un moto laminare. Per trovare il
valore di 𝑤𝑐 mi ricordo che:
𝑑𝑤 𝑑𝑤 ∆𝑝 𝑟
𝜏=𝜇 ⇒ =
nge 𝑑𝑟 𝑑𝑟 𝑙 2𝜇
Posso poi prendere la mia distribuzione di velocità, e derivarla rispetto ad r, ottenendo:

2𝑟 2 𝑑𝑤 8𝑟
𝑤 (𝑟) = 𝑤𝑐 − 𝑤𝑐 ( ) ⇒ = −𝑤𝑐 2
𝐷 𝑑𝑟 𝐷
Ed eguagliando le due espressioni ottengo:
∆𝑝 𝑟 8𝑟 ∆𝑝 𝐷 2
= 𝑤𝑐 2 ⇒ 𝑤𝑐 =
I
𝑙 2𝜇 𝐷 𝑙 16𝜇
Senza contemplare il segno negativo. Questo perché quel segno, derivava dal verso dello sforzo
normale che abbiamo visto essere sempre opposto al moto, e quindi a 𝑤𝑐 . Essendo noi interessati
a valutare il modulo, lo scriveremo col segno positivo. Ma ancora una volta non risultando calcolate
ere

le perdite. Conoscere però il profilo delle velocità è già un passo in avanti. Ma se è tutto noto, sono
nelle condizioni di calcolare la portata volumetrica, ovvero l’integrale del mio profilo di velocità
esteso alla sezione infinitesima, che riscrivo come areola circolare in funzione del raggio (sono quelle
areole circolari di spessore dr alle quali competono le stesse velocità, ricordando la simmetria
circolare della distribuzione delle velocità). Quindi scriverò:
𝑟=𝑅 𝑟=𝑅 𝑟=𝑅
𝑟 2 𝜋𝑅2 𝑤𝑐
Viv

𝑄=∫ 𝑤(𝑟)𝑑𝐴 = ∫ 𝑤(𝑟)2𝜋𝑟𝑑𝑟 = 2𝜋𝑤𝑐 ∫ [1 − ( ) ] 𝑟𝑑𝑟 = ⋯ =


𝑟=0 𝑟=0 𝑟=0 𝑅 2

Ovvero come se tutta l’area fosse interessata dalla stessa velocità pari a metà di quella massima. Al
posto di 𝑤𝑐 sostituisco la grandezza trovata precedentemente e quindi sostituendo:
𝜋𝐷 4 ∆𝑝
𝑄= ⇒ legge di Hagen − Poiseuille
128𝜇𝑙
Questa legge è una scrittura analitica delle perdite di carico che le lega biunivocamente alla portata
volumica circolante. Se io in un condotto raddoppio la velocità media, quindi faccio passare il doppio
della massa e quindi il doppio della portata volumica, raddoppio anche il fattore di perdita.
162

Ricordiamo infatti che la portata volumica è la velocità per l’area. Nel moto laminare, le perdite di
carico per unità di lunghezza di tubo sono linearmente proporzionali alla portata volumica.
16/05/2018

ria
Flusso turbolento completamente sviluppato
Nel caso di regime turbolento non si possono applicare le equazioni viste finora per il calcolo delle
perdite come nel regime laminare perché discendevano dal fatto che, le uniche interazioni tra il mio
cilindretto ed il fluido che lo circonda fossero in termini di scambio di forze di pressione a monte e
a valle e sforzi tangenziali. Con il moto turbolento però, io non ho più i filetti fluidi che scorrono
adiacenti l’uno all’altro quindi se io provassi a prendere il mio volumetto cilindrico visto nel moto

gne
laminare, troverei che, in virtù delle componenti irregolari aleatorie e a media nulla che
caratterizzano il moto turbolento, il mio elemento fluido che prima era in una certa posizione può
finire in una posizione vicina senza possibilità di previsione. Questa cosa è molto impattante per la
quantità di moto del mio volumetto, perché gli elementi che stanno dentro sono certamente più
veloci di quelli che stanno fuori, quindi quando un elemento fluido passa all’esterno del mio
cilindretto porta con sè quantità di moto, e viceversa. La natura dalla interazione meccanica si fa
così complessa che si rinuncia alla trattazione analitica del moto turbolento, dedicandosi di fatto
nge
solo a prove sperimentali. Si trova che la legge
di distribuzione delle velocità, che nel moto
laminare rappresentava una perfetta
parabola derivata analiticamente, non è
univoca. Analisi sperimentali e di carattere
semiempirico hanno permesso di derivare più
I
relazioni analitiche rappresentative del profilo
di velocità media assiale. Una correlazione
empirica semplice e spesso utilizzata e la legge
del profilo turbolento di velocità:
1
ere

𝑤
̅(𝑟) 2𝑟 𝑛
= 1−( )
𝑤𝑐 𝐷
In cui n dipende dal numero di Reynolds, e
cresce con esso valendo in genere tra 6 e 10.
Tale equazione è valida anche in moto laminare sostituendo ad n il valore 0,5. Formalmente è
identica alla equazione del moto laminare. Che succede però se il moto non è più laminare?
Viv

Naturalmente n non vale più 0,5 ma assume valori crescenti al crescere del grado di turbolenza.
Tracciato in maniera parametrica al variare di n, mostra vari profili di velocità. Queste curve
rappresentano un preciso quadrante della distribuzione delle velocità che
vediamo riquadrato di rosso nella figura a lato. Dal punto di vista
meccanico, vediamo che il fluido adiacente alla parete, è quello che per
effetto della viscosità tenderebbe ad andare più piano. Nel moto
turbolento, l’inaspettata intrusione di filetti più veloci nella regione di
spazio adiacente alle pareti, la destabilizza, e questi filetti fluidi più veloci
tentano di portare quantità di moto accelerando i filetti che erano
rallentati dalla parete, facendoli andare più veloci. Quindi questo fluido,
163

che in virtù dei soli effetti delle forze viscosi tendeva ad andare piano in prossimità delle pareti ora
va più veloce (da qui il diverso profilo di velocità). Questo è effetto è tanto più evidente quanto il
moto è più turbolento, perché tanto maggiori sono le componenti irregolari, tanto più è la quantità
di moto. Solo in una zona estremamente vicina alle pareti si riscontrano velocità nulle. Il profilo che

ria
ne risulta è un paraboloide schiacciato. Per n che tende ad infinito (turbolenze estreme) il profilo
tenderebbe ad essere rettangolare. Questo differente profilo di velocità rispetto al moto laminare,
presenta in prossimità della parete gradienti di velocità du/dy maggiori, per cui lo sforzo di taglio
esercitato sulla parete è più elevato nel caso di moto turbolento. Se io devo mettere un blocco sulla
tubazione e calcolo con un dinamometro lo sforzo necessario a trattenere il fluido, mi accorgo che
serve molta più forza per trattenere il fluido in regime turbolento.

gne
Avere un fluido in regime laminare, costringe a portate estremamente limitate. Solitamente nelle
tubazioni i fluidi scorrono in regime turbolento, più o meno turbolento. Occorre quindi trovare
un’altra espressione per calcolare le perdite di carico, di derivazione sperimentale. Finora abbiamo
sempre semplificato la finitura superficiale delle tubazioni considerandola liscia. In regime di moto
laminare, non fa molta differenza avere un tubo scabro o liscio, non influenzando le perdite di carico.
Ma nel moto turbolento, dobbiamo introdurre il
concetto di rugosità (o scabrezza), indicata con il
nge
simbolo 𝜀. In idraulica si considera una scabrezza
equivalente, che viene ricavata da prove
sperimentali e che viene tabellata per vari
materiali. Quando cerco di calcolare le perdite di
carico di un fluido che scorre in una tubazione,
l’indagine preliminare che effettuo per scoprire
I
quali fattori contribuiscono alle mie perdite di
carico, mi porta a vedere che essa dipende dai
fattori tra parentesi nella formula qui riportata:
𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑖𝑏𝑢𝑖𝑡𝑎 = 𝐹 (𝑤, 𝐷, 𝑙, 𝜀, 𝜇, 𝜌)
ere

Spuntano tutti gli argomenti già valutati per il moto


laminare ed in più la rugosità. Questo perché il caso di moto laminare non è altro che un particolare
caso di moto turbolento. Questo termine inoltre, presenta il pedice “distribuita”. Scopriremo che
non tutte le perdite sono distribuite lungo uno sviluppo di un tubo, alcune si definiranno concentrate
(per esempio in caso di strizione in alcune valvole). Il pedice altezza invece, indica che la medesima
perdita si possa scrivere in unità di pressione, in termini energetici o di altezza appunto. Quindi ci
Viv

dice solo che il termine R delle perdite che andremo a vedere è calcolato in termini di metri.
Sperimentalmente si osserva che il carico perduto per unità di lunghezza, che sia in moto laminare
o turbolento, dipende dai parametri visti sopra. Ma in che modo ne dipende? La formulazione che
si usa per il calcolo nel moto turbolento, è nota come equazione di Darcy-Weisbach, valida sia per
moto laminare e turbolento:
𝑙 𝑤2
𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑖𝑏𝑢𝑖𝑡𝑎 = 𝑓
𝐷 2𝑔
In questa espressione f è una grandezza adimensionale denominata fattore d’attrito. Tale
espressione si può anche esplicitare per f, diventando:
164

2𝐷𝑔
𝑓= 𝑅
𝑙𝑤 2 𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑖𝑏𝑢𝑖𝑡𝑎
Di fatto, f non è per nulla una costante che dipende da molti parametri, e gli autori della equazione
non hanno fatto altro che introdurre un fattore di proporzionalità da introdurre in una formulazione

ria
semplice. Ma il problema adesso è nella determinazione di f, che è il cuore di questa semplificazione.
Quindi è del tutto falsa, la deduzione che le perdite di carico dipendessero dal quadrato della
velocità: se infatti il fattore f ha in sé una dipendenza dalla velocità, allora l’affermazione precedente
non sarebbe più vera. Proviamo ora a ragionare su questo parametro f.
Abbiamo appena scritto che:

gne
𝑙 𝑤2
𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑖𝑏𝑢𝑖𝑡𝑎 = 𝑓
𝐷 2𝑔
Ma abbiamo osservato, quando abbiamo parlato di analisi dimensionale, che le perdite di carico si
potevano scrivere:
Δ𝑝𝑙 𝐷 𝐷𝜌𝑤
= 𝜙 ( ) = 𝜙(𝑅𝑒)
𝜌𝑤 2 𝜇
nge
Ciò che abbiamo scritto in passato, è coerente con ciò che cerchiamo di definire adesso?
Immaginiamo un condotto orizzontale a sezione costante: la perdita di pressione è espressa come
effetto della resistenza per unità di pressione. e quindi posso scrivere:
∆𝑝 = 𝑅𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒

Ma la perdita di pressione, come è legata alla perdita medesima espressa in unità di lunghezza?
I
Semplicemente moltiplicando per il peso specifico.
𝑅𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝛾𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎

Allora, se le perdite per l’altezza le scrivo come ho scritto prima, sostituendo avrò:
ere

𝑙 𝑤2 ∆𝑝 1 𝑤2 ∆𝑝𝑙 𝐷 1
∆𝑝 = 𝛾𝑓 ⇒ = 𝜌𝑓 ⇒ = 𝑓
𝐷 2𝑔 𝑙 𝐷 2 𝜌𝑤 2 2
Se f dipende da Reynolds abbiamo perfettamente ottenuto l’equazione di sopra. L’unica piccola
differenza sta nel fatto che, cosa che non avevamo precisato in sede di analisi dimensionale, nel
caso del moto turbolento compare una dipendenza anche da un nuovo parametro che è la scabrezza
𝜀. Abbiamo detto dalla legge di hagen poiseuille, che le perdite di carico dipendono linearmente con
Viv

la velocità, mentre dalla legge di Darcy-Weisbach sembra che dipendano dal quadrato. Ma abbiamo
altresì detto che f non è una costante. In regime di molto laminare, f ha un ben preciso valore,
ovvero:
64 𝜇
𝑓= = 64
𝑅𝑒 𝐷𝜌𝑤
E che non si deve mai dimenticare. Appena io sostituisco questa espressione di Reynolds nella
formula trovata sopra ottengo:
165

64 𝜇 𝜇 𝑙 𝑤2 𝑙𝜇𝑤
𝑓= = 64 ⇒ 𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 = 64 = 64 2
𝑅𝑒 𝐷𝜌𝑤 𝐷𝜌𝑤 𝐷 2𝑔 𝐷 𝜌2𝑔
Trovando quindi riscontro del fatto che, ciò che abbiamo appena ottenuto è coerente con la scrittura
fatta per il moto laminare.

ria
Ma ancora non abbiamo scritto f. per il calcolo di f ci sono tantissime relazioni, ma riportiamo quella
più usata detta formula di Colebrook:
1 𝜀 2,51
= −2,0 ∙ log10 ( + )
√𝑓 3,7𝐷 𝑅𝑒√𝑓

gne
Questa equazione è trascendente e non esplicitabile in f. comparendo al primo termine ed al
secondo, f non è trattabile analiticamente ma numericamente. Notare che la rugosità e il diametro,
agiscono tra loro in base al rapporto, questo per dire che non conta la rugosità assoluta, ma relativa
al diametro della tubazione. Per una tubazione liscia, con rugosità pari a zero, l’espressione
precedente si può agevolmente scrivere:
1
𝑓 = 0,316𝑅𝑒 −4
nge
Poiché la formula di Colebrook è così ostica da trattare, si è deciso di condurre esperimenti una sola
volta, per popolare un diagramma, noto come diagramma di Moody. Un ingegnere meccanico che
non conosce questo diagramma, è un ingegnere meccanico che deve andare a zappare. Esso è
I
ere
Viv
166

rappresentato in scala logaritmica, in cui in ascissa ritroviamo il numero di Reynolds. In ordinata il


fattore d’attrito f. Nella scala leggiamo i reali valori di f e Reynolds ma la rappresentazione è
logaritmica. Esso presenta una linea in alto a sinistra, retta con coefficiente angolare negativo che è
la curva del flusso laminare. A destra si possono leggere i valori di 𝜀⁄𝐷 relativi alla curva che riporta

ria
i valori di quella scabrezza relativa. Notiamo che tutte queste curve a scabrezza relativa decrescente,
vanno a chiudersi con quella curva a scabrezza zero che è il tubo liscio. Si nota che il regime laminare
si estende da valori di Reynolds pari a zero sino a valori di circa duemila. Poi inizia quella che abbiamo
chiamato regione di transizione. La relazione che abbiamo espresso per il flusso laminare, ovvero
che f è pari a 64/Re, al variare di Reynolds, presenta un andamento ad iperbole. In scala logaritmica
è rappresentato da una retta a coefficiente angolare negativo.

gne
17/05/2018
Notiamo peraltro un comportamento particolare ai vari 𝜀⁄𝐷 . Vi è un primo tratto in cui f risulta
funzione sia della scabrezza relativa, ma anche, a parità di 𝜀⁄𝐷 risulta funzione del numero di
Reynolds. Si arriva però, per data curva, ad una condizione limite per cui f diventa una costante per
quella tubazione e superato un certo valore di Reynolds la curva risulta essere orizzontale. Questa
regione in cui Reynolds è ininfluente per f, si ha un moto che è così turbolento che f dipende solo
nge
dalla scabrezza, e siamo in regime pienamente turbolento. Dalla formula di Colebrook ce ne
accorgiamo anche analiticamente: per Reynolds molto elevati, il rapporto tende a zero. Tramite la
linea tratteggiata sul diagramma di Moody abbiamo inviluppato tutti i gomiti delle curve (il punto in
cui la curva comincia a diventare orizzontale) e abbiamo distinto due zone: quella a sinistra in cui f
dipende ancora dal valore di Reynolds e quella a destra di regime pienamente turbolento. Superato
per ogni tubo un certo Reynolds e la f dipende solo dalla scabrezza relativa. Non si devono attribuire
significati fisici all’andamento delle curve: dove sono presenti tratti discendenti non vuol dire che
I
avrò meno perdite di carico. Infatti questo diagramma serve solo per identificare i corretti valori di
f. può sembrare che nel tratto a sinistra della linea tratteggiata la curva si innalzi, e quindi si tende
a spostarsi su valori di Reynolds elevati (verso destra) per far diminuire f. Ma si ricordi che Reynolds
dipende dalla velocità, quindi Reynolds più alti vuol dire portate più elevate e perdite di carico
ere

maggiori. Non è quindi detto che le perdite diminuiscano, sono conti a farsi. A titolo di esempio
vediamo la situazione tra i punti B e C, immaginando di fare scorrere del fluido in una tubazione dal
diametro di 5cm, che trasporta acqua a 27°C, e ci chiediamo di calcolare le perdite di carico su 10
metri di tubo quando lo stato rappresentativo del mio fluido su questo diagramma è proprio sui
punti B e C (NOTA: la slide differisce da quella presentata in aula dal professore. Si consideri il punto
C per valori di Reynolds pari a 200000 e scabrezza relativa pari a 0,03). Proviamo a risolvere questo
Viv

problema. Il primo passaggio è capire la portata massica, e quindi la velocità del fluido. poiché
conosco Reynolds, posso scrivere:
𝜌𝑤𝐷 𝜇𝑅𝑒
= 𝑅𝑒 ⇒ 𝑤 = = 3,4 𝑚/𝑠
𝜇 𝜌𝐷
E la portata massica:
𝑚̇ = 𝑤𝜌𝐴 = 3,4 ∗ 1000 ∗ 0,00196 = 6,67 𝑘𝑔/𝑠
Le perdite di carico si calcolano:
167

𝑙 𝑤2
𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑖𝑏𝑢𝑖𝑡𝑎 = 𝑓
𝐷 2𝑔
Dove f lo leggiamo nel diagramma di Moody, entrando con una scabrezza relativa di 0,03 e Reynold
200000. Quindi avrò:

ria
𝑙 𝑤2 10 ∗ 11,56
𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑖𝑏𝑢𝑖𝑡𝑎 = 𝑓 = 0,058 ∗ = 6,83 𝑚
𝐷 2𝑔 0,05 ∗ 2 ∗ 9,81
Sono perdite di carico molto elevate e molto più spesso le applicazioni pratiche sono collocate per
valori di Reynolds compresi tra i 5000 e i 15000. Facendo i conti per il punto B, abbiamo un valore
di f ben più basso. Tuttavia, il numero di Reynolds è elevatissimo, con portata massica elevatissima.

gne
A conti fatti le perdite di carico saranno maggiori rispetto al punto C, nonostante f sia più basso.
L’obiettivo finale non è tanto avere f piccolo, quanto 𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 . Se f diventa una costante, le perdite
dipendono dal quadrato della velocità e quindi dalla portata.
Perdite di carico concentrate
Sono le perdite legate ad una precipua discontinuità geometrica o irregolarità del flusso laddove la
nge
perdita di carico si può attribuire fisicamente al fatto che i vari filetti si trovano costretti a deflettere
da un ostacolo geometrico (restrizioni, curve, etc). questi filetti fluidi che incontrano ostacoli,
devono modificare la loro traiettoria. Una curvatura in seno ad un condotto già sono origine di
perdite di carico concentrate. Altri esempi sono le perdite di imbocco, che vedono il fluido fluire da
un recipiente ad un tubo: i filetti fluidi posti al centro dell’imbocco non vedono ostacoli e continuano
per la loro strada, mentre quelli in prossimità degli angoli sono costretti a deflettere verso l’imbocco,
modificando la loro traiettoria. L’entità di queste deflessioni osservate dal fluido rappresentano
I
quelle che poi saranno le perdite di carico. A lato, osserviamo le figure (a) e (b), in cui (a) presenta
uno spigolo vivo, che vede i filetti fluidi deflettere molto per aggirarlo. In (b) invece, l’elevata
superficie di accompagnamento consente ai filetti fluidi di passare facendo meno “evoluzioni”. In
(a) quindi le perdite di carico
saranno maggiori che in (b). queste
ere

perdite di carico non possono essere


trattate come abbiamo fatto per
quelle distribuite, perché non hanno
una “lunghezza”, non possono
essere considerate distribuite. La
perdita è puntuale, localizzata e
Viv

dipenderà dalla specifica geometria.


Non si possono passare in rassegna
tutte le geometrie ma esistono
parametri tabellati. Si applica
l’espressione:
𝑤2 𝑤1 2 − 𝑤2 2
𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑐 = 𝐾𝐶 o 𝑅𝑎𝑙𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑐 = 𝐾𝐶
2𝑔 2𝑔
168

In cui 𝐾𝐶 è una costante trovata


sperimentalmente in funzione
della geometria, e la seconda
espressione dipende da

ria
eventuali condotti con
restringimenti o allargamenti. La
prima espressione invece
solitamente si utilizza nei casi di
recipienti in cui inizialmente il
fluido è fermo. Un pò diverso è il

gne
caso di sbocco, che vediamo
nell’immagine precedente in
figura (c) e (d). Nonostante in (d)
lo sbocco avvenga con una
geometria che sembra
accompagnare il fluido, si nota
che il parametro 𝐾𝐶 sia lo stesso
per entrambi i casi. A lato, a
titolo di esempio, è riportata la
nge
tabella con i valori di 𝐾𝐶 , ricavati
sperimentalmente per i casi più
comuni.
Flussi esterni: strato limite su una lastra piana
I
Ossia, non più correnti fluide
incanalate in un condotto,
bensì correnti fluide che
lambiscono dall’esterno o in
maniera adiacente una
ere

superficie. Prendiamo il caso


di una piastra piana,
orizzontale, indicata in figura
in colore grigio più scuro,
lambita da una corrente
fluida. Per intenderci, questo potrebbe benissimo essere il caso di un ventilatore collocato davanti
Viv

ad un tavolo che forza una corrente fluida a scorrere su di esso. Il profilo di velocità, prima di
incontrare la piastra, è rettangolare (in figura indicato come U) mentre noi lo indichiamo con W∞ . Il
pedice infinito sta ad indicare che è la velocità con profilo rettangolare che osserva alle varie quote
sopra la piastra prima di lambire quello che in figura è indicato come bordo d’attacco. Fissiamo
alcuni riferimenti geometrici: in profondità non cambia nulla, quindi ne indichiamo solo la sezione,
ma dobbiamo pensare che la trattazione è estesa a tutta la larghezza della piastra. Fissiamo due assi,
x e y, la cui origine coincide col bordo del tavolo. X è diretto come la corrente fluida, y invece lungo
la verticale. Non appena questi filetti fluidi che viaggiavano indisturbati arrivano sul bordo del
tavolo, accade che il primo filetto fluidi più vicino al tavolo, si trova in contatto con una superficie
ferma, e se continuasse con la sua velocità, avrebbe un dw/dy infinito, e non è possibile. Quindi il
169

primo filetto fluido, proprio a quota della piastra, non potrà andare avanti e verrà fermato. Gli altri
filetti fluidi non hanno nessun vincolo imposto e continuano a scorrere. Tuttavia, andando un dx in
avanti, il secondo filetto fluido più vicino alla piastra, si accorgerà che il filetto fluido sotto di lui si è
fermato, e dovrà anche lui rallentare per effetto delle forze viscose. Ciò è identico a ciò che capitava

ria
nel condotto come abbiamo già visto, dove i filetti fluidi più vicini alle pareti rallentavano quelli via
via più distanti “propagando” il rallentamento dovuto alle forze viscose. Solo che qui non c’è più una
simmetria circolare, che fa convergere questa propagazione al centro, coincidente con l’asse del
tubo. In questo caso, questo disturbo, si va semplicemente estendendo in regioni sempre più
distanti dalla piastra. Tuttavia, il fluido che sta molto distante dalla piastra, non può risentire di
quest’ultima. Sebbene il fluido nell’estrema vicinanza della piastra è trattenuto, e a mano a mano

gne
che avanza il rallentamento si propaga, questo non è vero per i filetti che sono troppo distanti dalla
piastra. La demarcazione tra le due condizioni, dipende dall’avanzamento lungo l’asse x del fluido.
all’inizio infatti è solo il primo filetto ad essere fermato, e a mano a
mano che la corrente avanza, si estende la regione disturbata dagli
sforzi di taglio. Denominiamo allora strato limite meccanico la regione
di spazio (o di fluido) nel quale si verifica l’instaurarsi di sforzi di taglio
e gradienti di velocità fra i filetti fluidi. È comodo quantificare o
nge
identificare dal punto di vista numerico l’estensione di questo strato
limite, identificata in figura in alto come una linea nera che separa la
corrente che prosegue indisturbata da quella disturbata vicino alla
piastra. Non è la linea nera lo strato limite, ma la sezione in grigio
chiaro. La linea nera è la frontiera superiore dello strato limite. Lo
spessore dello strato limite 𝛿(𝑥) è convenzionalmente fissato in modo
che si assuma già compiuta dalla piastra al punto in esame, una data percentuale (in genere fissata
I
pari al 99%) dell’intera variazione di velocità tra piastra e corrente fluida indisturbata:

𝑤(𝛿 (𝑥 )) = 0,99 ∙ 𝑊∞

Tuttavia, ci riferiremo a questa dicitura in altri termini, ovvero:


ere

𝑤(𝛿 (𝑥 )) − 0 = 0,99 ∙ (𝑊∞ − 0)

Questo tipo di scrittura, che numericamente non sposta nulla, è concettualmente più corretta: in
pratica, abbiamo concepito conclusi gli effetti della piastra a quella quota alla quale la differenza di
velocità fra questo filetto fluido e la piastra ferma (quindi lo zero in parentesi ha valore di velocità
della piastra) è pari al 99% della velocità della corrente indisturbata. In figura in alto si possono
Viv

vedere elementi di fluido colorati in rosso, e si decide di questi di seguirne l’avanzamento. Come si
può vedere, quelli più alto fuori dallo strato limite, continuano indisturbati il loro avanzamento
senza mai deformarsi, perché viaggia alla stessa velocità degli elementini adiacenti. Non appena
però un elementino entra nello strato limite, esso si deforma perché gli elementini adiacenti
avanzano con differenti velocità.
Spessore e lunghezza dello strato limite
Nel calcolare il numero di Reynolds per flussi esterni, ci si rende conto che non abbiamo più diametri
a cui fare riferimento. Ma nella prima formulazione di Reynolds, non compariva il diametro bensì
una lunghezza generica L, che stava a dimostrare la dipendenza da un parametro di lunghezza del
numero di Reynolds. In particolare nel caso della piastra, questo parametro di lunghezza, è espresso
170

proprio dall’avanzamento del fluido sulla piastra. Si è


infatti visto sperimentalmente, che le variazioni dei
regimi di moto, cambia con l’avanzare del fluido. Non
appena lo strato limite si innesta, per un po' si vede

ria
avanzare il fluido in regime laminare. Si arriverà ad un
punto in cui questi filetti fluidi cominciano a
manifestare primi segni di instabilità ed innestarsi un
regime di moto di transizione. Esisterà una coordinata x
in corrispondenza della quale, le instabilità diventano
tali che il mio regime di moto si definisce turbolento. La

gne
necessità di ricavare Reynolds è quella di valutare
l’ascissa alla quale si instaura il moto turbolento. Tutte
queste deduzioni sono di carattere sperimentale, e si osserva che la frontiera dello strato limite, non
ha un andamento regolare. Ma come si vede dalla figura, nel passare da un regime di moto laminare,
in cui lo strato limite cresce in maniera regolare, ad un moto turbolento, la frontiera subisce una
brusca variazione, e lo strato limite diventa più spesso. I filetti di sotto, nel moto turbolento, ci sono
filetti lenti che vanno sopra lo strato limite e filetti veloci che penetrano lo strato limite, innescando
nge
scambi di quantità di moto sulla frontiera propagando il disturbo in maniera diversa. si scopre altresì,
che anche in regime turbolento, esiste una zona estremamente vicino alla piastra che si chiama
sottostrato laminare, in cui non si riesce ad innestare il regime turbolento. Molte sperimentazioni
sono state effettuate per capire quando si innesta questo moto turbolento, e si è scoperto che
definendo un numero di Reynolds che usa come grandezza L dimensionale x, distanza dal bordo di
attacco, otteniamo:
𝜌𝑤∞ 𝑥𝑐𝑟
I
𝑅𝑒𝑥,𝑐𝑟 = ≅ 5 ∙ 105
𝜇
Dove 𝑥𝑐𝑟 rappresenta appunto la distanza dal bordo della piastra. È un numero di Reynolds
crescente con l’avanzamento del fluido. E si osserva che il passaggio da moto laminare, a moto
turbolento, si verifica per valori di Reynolds intorno a 500000. Poiché è tutto fissato, è proprio
ere

l’avanzamento del fluido che determina l’ascissa esatta alla quale si instaura il moto turbolento. Nel
caso di acqua a 3 m/s sulla piastra, effettuando i calcoli, fissati densità, viscosità e numero di
Reynolds, si ottiene una 𝑥𝑐𝑟 pari a 0,025m. ovvero che dopo appena 2,5cm il moto passa da laminare
a turbolento. Vediamo che nella regione di flusso laminare, è possibile calcolare come lo strato limiti
aumenti con la distanza d’attacco della piastra attraverso questa equazione:
Viv

𝜇 𝑥 𝜈 1
𝛿 (𝑥 ) ≅ 5 ∙ √ ∙ =5∙√ ∙ 𝑥2
𝜌 𝑤∞ 𝑤∞

𝜇
Dove ⁄𝜌 è detta viscosità cinematica o diffusività della quantità di moto 𝜈 , misura la tendenza del
fluido alla propagazione del moto tra filetti adiacenti.
21/05/2018
𝜇 𝑚2
Questo rapporto ⁄𝜌 , ha unità di misura [ 𝑠 ] che è del tutto nuova, non l’abbiamo mai incontrato.
È una grandezza il cui significato fisico non è immediato da riconoscere. Tuttavia dobbiamo intuirne
171

la natura, osservando che la sua denominazione, diffusività della quantità di moto, ci deve dare una
misura di quanto l’entità di moto tende a propagarsi. Mentre la viscosità esprime la tendenza dei
filetti fluidi a scambiare tra loro sforzi di taglio, la densità esprima una tendenza del fluido a rimanere
in quiete. Quindi quando il rapporto è molto elevato, le forze viscose sono molto elevate (o

ria
numeratore alto, o denominatore basso), vuol dire che il fluido, se sollecitato, vede subito innestarsi
sforzi di taglio proporzionali alla viscosità, e tendono ad accelerare in maniera inversamente
proporzionale alla densità, che ha il significato fisico di inerzia in questo caso. Alla luce di quanto
abbiamo detto, è possibile talvolta trovare il numero di Reynolds espresso come
𝑤𝐿
𝑅𝑒 =
𝜈

gne
𝜇
Sostituendo di fatto a ⁄𝜌, proprio 𝜈.

Forze tra superficie e fluido


Quando una corrente fluida investe una superficie, tra loro vi è uno scambio di forze che derivano
dalla integrazione di forze di pressione estese su tutte la superficie di contatto. Denominiamo forza
di resistenza la forza superficiale che la vena fluida e la superficie si scambiano nella direzione del
nge
moto della vena fluida. In generale a seconda di come
è sagomato l’oggetto si possono avere scambi di forza
che agiscono in maniera ortogonale rispetto al moto
relativo tra vena fluida e superficie, e si denominano
forze di portanza (di fondamentale importanza nello
studio aerodinamico). Nel nostro caso studio, molto
semplice, vediamo una superficie piana orizzontale
I
lambita dal fluido, che immaginiamo indefinita verso il
basso. In questo caso si è riusciti a formulare l’entità
delle forze che si scambiano lungo l’asse del moto
questo fluido e la superficie. In particolare inoltre, se la piastra la consideriamo lambita sino
all’ascissa critica dal fluido in moto laminare, ed a seguire dal fluido in moto turbolento, ebbene si
ere

suole esprimere la forza di resistenza che questa vena fluida scambia con la superficie con la lettera
𝒟 che sta per drag. L’entità di questa forza viene espressa nel seguente modo:
1 2
𝒟 = 𝐶𝐷 𝜌𝑤∞ 𝐴
2
Dove riconosciamo la densità del fluido che è nota, A è la superficie della parete lambita, w è la
Viv

velocità della corrente indisturbata. Di questa relazione non dobbiamo soffermarci troppo sul suo
significato fisico, perché come detto in precedenza per altre grandezze, questa relazione può essere
intesa come definizione del parametro 𝐶𝐷 .
𝒟
𝐶𝐷 =
1 2
2 𝜌𝑤∞ 𝐴
Dove 𝐶𝐷 è un coefficiente adimensionale di resistenza. Determinare questo parametro equivale
essere in grado di calcolare le forze. Il 𝐶𝐷 si è calcolato sperimentalmente con esperimenti condotti
da tanti omini in galleria del vento.
172

Secondo l’equazione di Blasius, vediamo che il 𝐶𝐷 cambia continuamente al variare della ascissa
𝑥𝑐𝑟 𝐿
1
̅
𝐶𝐷,0−𝐿 = (∫ 𝐶𝐷,𝑥 𝑙𝑎𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑥 + ∫ 𝐶𝐷,𝑥 𝑡𝑢𝑟𝑏. 𝑑𝑥)
𝐿 0 𝑥𝑐𝑟

ria
E per il regime laminare vale:
0,664
𝐶𝐷,𝑥 = 1⁄
2
𝑅𝑒𝑥

𝑅𝑒𝑥 < 5 ∙ 105

gne
Mentre in regime turbolento:
0,059
𝐶𝐷,𝑥 = 1⁄
5
𝑅𝑒𝑥

5 ∙ 105 < 𝑅𝑒𝑥 < 107 (𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 𝑙𝑖𝑠𝑐𝑖𝑎)


Nel caso di flusso pienamente turbolento, quindi ad elevati
nge
numeri di Reynolds, dipende dalla scabrezza relativa e si calcola:
𝜀 −2,5
𝐶𝐷,𝑥 = (1,89 − 1,62 log ) (𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓. 𝑠𝑐𝑎𝑏𝑟𝑎, 𝑓𝑙𝑢𝑠𝑠𝑜 𝑝𝑖𝑒𝑛𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑡𝑢𝑟𝑏. )
𝐿
Trasmissione del calore
Finora il calore è stato solo rilevato in termini di quantità di energia che trasporta, e quindi l’abbiamo
visto alla luce del primo principio come un modo di fluire da un sistema verso l’ambiente o viceversa
I
di energia per effetto di differenze di temperatura. Non siamo ancora affatto in grado di dire nulla
su quanto rapidamente transita questa energia e le espressioni analitiche che legano la potenza
termica che fluisce con la differenza di temperatura. Il calore viene scambiato per:

 Conduzione
ere

 Convezione
 Irraggiamento
Conduzione
Chiamiamo conduzione termica un trasferimento di energia, ovviamente
fra sostanze o corpi a differente temperatura, che si verifica a causa di
Viv

interazioni a livello molecolare tra alcune particelle dotate di maggiore


energia (corpo a temperatura superiore) e quelle dotate di minore
energia (corpo a temperatura inferiore):

 Nei gas e nei liquidi lo scambio di energia avviene per collisione


tra le molecole
 Nei solidi avviene per il moto vibrazionale delle molecole attorno
alla loro posizione di equilibrio nel reticolo elementare e per
trasporto di energia da parte di elettroni liberi
173

Quest’aspetto del trasferimento di energia, attraverso gli elettroni, è preponderante nello scambio
termico tra i solidi. Partiamo da un caso studio molto semplice, di cui poi forniremo la genesi.
Immaginiamo di avere una parete come in figura in alto, con le due facce parallele tra loro. La parete
è indefinita (al di sotto, al di sopra ed in profondità) ed ha spessore pari a ∆𝑥 imponiamo sulle facce

ria
di questa parete due diverse temperature, che tutta una faccia sia a T1 e tutte l’altra a T2. Di questa
parete attenzioniamo una sua area A. ebbene, se misuriamo la potenza termica che fluisce
attraverso questa parete e quindi i kW di energia che fluiscono sotto forma di scambio termico,
troviamo che viene ad essere calcolata nel seguente modo
𝑇1 − 𝑇2
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 = 𝜆 ∙ 𝐴 ∙ [𝑊 ]
∆𝑥

gne
Con 𝜆 coefficiente di proporzionalità ed A superficie di scambio. Questa legge è stata ricavata
sperimentalmente variando i vari parametri, scoprendo i legami tra queste quantità. 𝜆 abbiamo
detto che è la costante di proporzionalità tra questa relazione. A rigore, devo tenere conto del fatto
che, la potenza termica, oltre ad avere un modulo, ha anche un verso. Per rielaborare questa
relazione e tenere conto del verso di propagazione, assumiamo un riferimento, come in figura.
L’asse x è orientato da sinistra e destra e, a x minori, poniamo una T1>T2, che è invece sul lato di
nge
parete a x maggiori. Sperimentalmente di vede che la potenza termica fluisce da sinistra a destra,
quindi nel verso delle temperature decrescenti. dT rapportato a dx, dà la variazione della
temperatura lungo lo spessore. Nel nostro esempio in figura, tale rapporto è negativo, perché devo
porre (T2-T1)/(x2-x1) ma T2<T1. Il contrario è comunque negativo (sarebbe negativo il
denominatore). Tale rapporto è intrinsecamente negativo, ma poiché la potenza termica deve fluire
verso temperature inferiori, allora occorre porre un segno negativo che da coerenza algebrica ai
flussi di energia
I
𝑇1 − 𝑇2
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 = 𝜆 ∙ 𝐴 ∙ [𝑊 ]
∆𝑥
Tale relazione viene ricavata dal postulato di Fourier per la conduzione. Considerando un generico
strato infinitesimo di parete dx, e imponendo fra le sue due facce una differenza di temperatura dT,
ere

si osserva che la potenza termica che attraverso la superficie è data da


𝑑𝑇
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 = −𝜆 ∙ 𝐴 ∙
𝑑𝑥
Quella detta in precedenza deriva dall’avere integrato quest’ultima legge appena ricavata. Questa
relazione conduce alla precedente quando ci si mette nell’ipotesi di processo stazionario.
Viv

Immaginiamo che le due temperature siano stazionariamente imposte tra le due facce. Perché in
condizioni stazionarie una conduce all’altra?
Immaginiamo di ricondurre la mia parete reale in infiniti strati infinitamente sottili. Ebbene, ogni
straterello vede una potenza termica in ingresso, ed una in uscita. Se ogni mio generico straterello
ha una temperatura T a sinistra e a destra un’altra temperatura che differisce di un dT, avrà una
potenza termica che si calcola proprio:
𝑑𝑇
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 = −𝜆 ∙ 𝐴 ∙
𝑑𝑥
174

Ma questa potenza termica che lo attraversa, va a finire nello straterello successivo, che affinchè
operi in maniera stazionare non dovrà accumularla ma lasciarlo passare. Ogni strato quindi deve
fare transitare la medesima quantità di energia in regime di stazionarietà. Ogni straterello condivide
il valore della potenza termica, che deve essere uguale. Se fosse diverso vi sarebbe un accumulo o

ria
una perdita nel tempo. Ogni straterello intermedio deve essere attraversato dalla medesima
potenza termica. Da questo postulato, in una parete piana, visto che la potenza termica deve essere
costante strato per strato, discende che dT/dx deve essere uguale, posto che 𝜆 sia un fattore di
proporzionalità e A sia la stessa durante il processo. In condizioni stazionarie questa legge ci dice
che dT in dx è costante, e quindi il profilo di temperatura deve essere rettilineo. Se dT/dx è una
costante, si può scrivere:

gne
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑
𝑑𝑇 = − 𝑑𝑥
𝜆∙𝐴
Integrando questa relazione. Il senso del segno negativo è solo volto a rendere coerente dal punto
di vista analitico il verso del flusso di potenza termica quale che sia il sistema di riferimento. In realtà
il postulato di Fourier posto in questi termini, è meno potente rispetto alla formulazione originale
che è in notazione vettoriale.
nge
In notazione vettoriale ci conviene ricordare il gradiente di un campo scalare. È un vettore le cui
componenti lungo una terna di riferimento orientata, sono derivate parziali del campo scalare lungo
le tre direzioni di riferimento. Il postulato di Fourier si scrive quindi:
𝜕𝑇 𝜕𝑇 𝜕𝑇
𝑞 = −𝜆 ∙ ∇(T) = −𝜆 ∙ ( 𝑖̅ + 𝑗̅ + 𝑘̅ )
𝜕𝑥 𝜕𝑦 𝜕𝑧
q è il vettore flusso termico specifico ed è un vettore che ha
I
𝛿𝑄̇⁄
modulo pari a 𝑑𝐴 quindi è una potenza che a livello
infinitesimo attraversa una superficie infinitesima. Il verso è
quello della propagazione del calore quindi verso la temperatura
inferiore. Per ottenere la potenza termica totale in transito devo
ere

integrare su tutte le superfici tenendo presente anche la


direzione. Il postulato ci dice che il vettore q è in verso opposto
al vettore gradiente. Vediamo come dalla formulazione secondo
il postulato di Fourier giungiamo alla prima formula scritta.
Guardiamo questa relazione in riferimento alla parete piana di poc’anzi. Avevamo imposto
condizioni di T1 e T2 costanti su tutta la parete. Quindi se creiamo la nostra terna orientata, z lungo
Viv

la profondità della parete, y lungo l’altezza e x normale alla parete, lungo z e lungo y la temperatura
sulle facce non cambia. E abbiamo pure capito che la temperatura andrà cambiando solo lungo la x.
Per cui ci sarà un certo profilo di temperatura e le varie superfici della parete ortogonali ad x saranno
isoterme (lungo la y e z costanza di temperatura). Allora il mio campo di temperatura è un campo
tridimensionale ma ha derivate parziali lungo z e y nulle, e quindi degenera nella scrittura:
𝜕𝑇 𝑑𝑇
𝑞 = −𝜆 ∙ ( 𝑖̅) = −𝜆 ∙ 𝑖̅
𝜕𝑥 𝑑𝑥
Perché la temperatura varia solo con x. dT/dx ha il segno negativo intrinsecamente. Integrate sulla
superficie A ci fornisce proprio la potenza termica che transita attraverso quella superficie. Abbiamo
175

quindi visto che, il vettore flusso termico è un vettore diretto lungo l’asse x e diretto nel verso delle
temperature decrescenti. Il vettore del campo di temperatura ha la stessa direzione del vettore
flusso termico ma verso temperatura crescenti (da qui il segno negativo della formula), e il
coefficiente 𝜆 è proprio un fattore di proporzionalità. se io decido di tracciare il mio vettore q in

ria
verde (come in figura) il vettore gradiente è in verso opposto, stessa direzione, ed entrambi
ortogonali alle superfici isoterme.

𝛿𝑄̇ = 𝑞 𝑥 𝑛̅ ∙ 𝑑𝐴 = −𝜆 ∙ 𝑑𝐴 ∙ ∇(𝑇) 𝑥 𝑛̅
Dalla relazione appena scritta, va da se che se il vettore flusso termico è ortogonale al vettore
direzione i, il prodotto scalare fa zero. Ovvero non transita calore lungo le isoterme. Il postulato di

gne
Fourier, per concludere, dice che, se ho un campo di temperature comunque orientato e riesco ad
ottenere una mappa delle isoterme, in ogni punto il calore sta fluendo perpendicolarmente alle
isoterme e verso il punto di massima diminuzione di temperatura.
Finora non ci siamo soffermati più d tanto sul fattore 𝜆, introdotto come fattore di proporzionalità.
Ne daremo ora una definizione più analitica: secondo il libro di testo, 𝜆, conducibilità termica, è una
misura della capacità di un materiale di condurre calore. Ciò è vero, ma è errato dal punto di vista
della definizione fisica, perché la capacità di condurre calore non può essere racchiusa in un numero.
nge
𝜆 è un fattore di proporzionalità che vale numeri esatti, e non può essere definito qualitativamente.
Quindi scriveremo:
𝑑𝑇 𝑑𝑥 𝑊
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 = 𝜆 ∙ 𝐴 ∙ ⇒ 𝜆 = 𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 ∙ [ ]
𝑑𝑥 𝐴 ∙ 𝑑𝑇 𝑚°𝐶
Senza preoccuparci del segno, che ci dà solo il verso, guardiamo al
modulo. Come posso calcolare 𝜆? Posso prendere una parete di
I
spessore unitario, ovvero un metro e prendiamo un metro quadro
di superficie, imponendo tra le due facce la differenza di
temperatura di un grado. Vediamo che se realizzo questa geometria
e so misurare questa potenza termica, il valore che ottengo è
ere

proprio 𝜆, perché rendo unitario il secondo termine della seconda


espressione. Quindi 𝜆 può essere quantitativamente definito come
la potenza termica che si trasmette attraverso una parete di
spessore unitario e superficie unitaria quando tra le due facce della
parete si è imposta una differenza di temperatura pari ad un grado.
La sua unità di misura deriva proprio da questa relazione. Vediamo
Viv

adesso alcuni valori di 𝜆 nella tabella a lato. è importante non tanto


ricordare i valori esatti quanto l’ordine di grandezza. 𝜆 nei gas e nei
liquidi, varia con la temperatura: nei gas aumentando, perché l’agitazione molecolare aumenta la
conducibilità termica. Nei liquidi invece diminuisce leggermente con temperature crescenti.

𝑇
𝜆𝑔𝑎𝑠 ∝ √
𝑀
176

22/05/2018
Abbiamo compreso come sia utile acquisire per 𝜆 almeno l’ordine di grandezza dei vari materiali, e
vediamo dalla tabella, come la schiuma uretanica rigida abbia lo stesso valore dell’aria. Questo
perché quasi tutti gli isolanti termici, ovvero materiali artificialmente prodotti al fine di inibire il

ria
trasferimento di calore sono realizzati utilizzando schiume che quando opportunamente prodotte,
sono costituite da cellette adiacenti che vedono intrappolate piccole camere d’aria che vedono il
calore fluire in questa matrice mista di aria a materiale solido. Sono materiali estremamente leggeri,
perché il volume di aria è preponderante rispetto alla matrice rigida. Il modo in cui vengono realizzati
è quello di intrappolare
queste piccole camere

gne
d’aria all’interno della
matrice rigida. Il
vantaggio della schiuma
è che, essendo solida,
può essere plasmata a
piacere, avendo però i
vantaggi di isolamento
termico pari a quelli
dell’aria.
nge
Nella figura a lato
vediamo riportati alcuni
valori di 𝜆 aggregati per
categorie. Una piccola
I
nota su questa
conducibilità, facendo
un esempio sulla
determinazione sperimentale della conducibilità termica nei
materiali solidi. Se abbiamo un materiale e lo realizziamo
ere

come una parete piana di spessore L e superficie A (vedere


figura a lato). La parete così realizzata è rivestita di isolante e
sul retro una resistenza elettrica regolabile. Una volta
approntato il tutto, avvio una sperimentazione alimentando
la resistenza, e si innesca un processo transitorio: la resistenza
si scalda per effetto joule, ma all’istante 0, tutta la parete
Viv

esterna del mio esperimento, si trova a temperatura


ambiente e quindi non si trasmette potenza termica, che
riscalda la parete di sinistra. Appena qualche strato diventerà
più caldo si creeranno all’interno della parete dei gradienti
termici, ed immaginando di fotografare la situazione, la
parete di destra si sarà riscaldata non di molto, e non tende ancora a dissipare perché il gradiente è
ancora modesto. Se 500 W si stanno generando nella resistenza, e solo 15 W transitano, vuol dire
che potenza termica si sta accumulando nella parete. Il processo continua in maniera instazionaria
fino a quando la zona destra della parete non si riscalda a tal punto da riuscire a raggiungere una
condizione di smaltimento pari a 500 W. Appena ciò avviene, siamo in regime stazionario. Estinto
177

questo transitorio iniziale si raggiunge la stazionarietà, condizione alla quale è possibile misurare la
temperatura sulla faccia sinistra della parete e sulla faccia destra. Allora in condizioni stazionarie,
quindi una volta osservato che il segnale di misura della termocoppia su entrambe le
facce diventa costante, posso risolverlo analiticamente, esseno noti L, A, temperature e

ria
potenza termica che transita. Unica incognita rimane 𝜆. Occorre però vedere se questa
relazione è applicabile. Vediamo perché non è sempre applicabile, riflettendo su quella
che è l’assunzione di parete piana indefinita per riuscire a tracciare l’andamento di
temperatura in seno alla parete (a lato simbologia di parete indefinita). Perché è così
importante che la parete sia indefinita? Quando una parete non è indefinita ma anzi ben
delimitata, accade che sulle facce si instaurerà una situazione che dipende dalle condizioni a

gne
contorno. Prendiamo ad esempio la parete di un edifico che vede in alto magari l’attaccatura del
solaio che all’esterno presenta un balcone ed all’interno
l’appartamento del piano superiore. Quindi
l’andamento della temperatura segue le leggi del
postulato di Fourier e vedrà localmente l’innestarsi di
temperature che dipendono dalle condizioni a
contorno, come in figura. La complessa geometria porta
nge
a far sì che in presenza di bordi ed innesti il calore non
fluisce proprio ortogonale alla parete, perché le
isoterme non sono parallele alle facce della parete, ma
curvano in presenza di questi gradini (vedere la
differente colorazione del solaio a destra). Il gradiente
della temperatura in questo caso non è strettamente
orientato perpendicolarmente alla parete, ma il calore può assumere componenti di trasporto non
I
ortogonali alla parete. La parete indefinita quindi non è altro che un’assunzione di parete che non
risente di effetti di bordo e quindi le isoterme sono parallele alla parete. In realtà le pareti indefinite
non esistono, ma anche in una parete finita nella quale sono presenti gli effetti di bordo e le
discontinuità del campo termico, posso assumere una regione di parete centrale in cui sono
sufficientemente lontano dai bordi tanto da considerare ragionevolmente valida l’assunzione di
ere

parete indefinita perché non ho effetti di bordo. Le discontinuità geometriche che abbiamo nei
nostri edifici si chiamano ponti termici. Nella realtà si conducono simulazioni con i calcolatori che
calcolano le perdite aggiuntive dovute appunto ai ponti termici. Abbiamo capito che, quando
assumiamo la parete indefinite, lo scambio termico avviene lungo la direzione x. Da un bilancio di
energia possiamo dire che:
Viv

potenza termica potenza termica potenza termica


( )−( )=( )
entrante uscente accumulata
In termini analitici:
𝑑𝐸𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒
𝑄̇𝑒 − 𝑄̇𝑢 =
𝑑𝑡
In condizioni stazionarie, abbiamo detto che deve valere:

𝑄̇𝑒 = 𝑄̇𝑢 ⇒ in un processo stazionario


178

Perché non si può accumulare energia termica all’interno della parete. Ogni sezione trasversale deve
essere quindi attraversata dalla medesima potenza termica. Se in una parete però vi è generazione
di calore, allora in questo caso succederà che la potenza che si dissipa dovrà, in condizioni
stazionarie, poter uscire perché non si accumuli potenza. solo per una parete passiva, priva di

ria
generazione interna di calore vale questa costanza di potenza termica espressa. Forniamo un
preliminare accenno sulle altre modalità di trasferimento di calore, perché ci serviranno nella
risoluzione di alcuni problemi riguardanti la stessa conduzione.

Oltre che per conduzione il calore si può trasmetter per convezione e irraggiamento. La convezione
è associata all’interazione fra una superficie solida ed un fluido. poiché il fluido può spostarsi, è
soggetto a trasporto macroscopico di massa. Quando tra un solido ed un fluido, si ha un trasporto

gne
di massa, il trasferimento di calore avviene per convezione. Denominiamo invece scambio termico
per irraggiamento uno scambio che avviene per propagazione di onde elettromagnetiche. Avviene
senza trasporto di massa né scambi di energie tra molecole, e può avvenire anche nel vuoto. Le
equazioni fondamentali che dominano queste modalità di scambio termico sono le seguenti:
Convezione
Immaginiamo di avere una parete come in figura che presenta una
nge
temperatura superficiale Tparete. Se il fluido che la lambisce, adiacente
alla parete, presente una temperatura 𝑇∞ rilevata a sufficiente distanza
dalla parete, quindi una temperatura del fluida laddove non risente degli
influssi diretti della parete (il pedice infinito è lo stesso incontrato in
meccanica dei fluidi). Si dimostra valida la relazione per il calcolo della
potenza termica trasmessa per convezione:
I
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑣 = ℎ ∙ 𝐴 ∙ (𝑇𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 − 𝑇∞ ) [𝑊 ]

Denominata legge di newton per la convezione, è una relazione solo apparentemente semplice. La
potenza termica risulta proporzionale alla superficie di contatto e alla differenza di temperatura. h
è invece il coefficiente convettivo. Che costante non è, e che dipende da moltissimi parametri. Il
ere

calcolo dei coefficienti convettivi è quanto di più complesso ci sia in termofluidodinamica. Questa è
la legge che domina il calcolo del flusso termico che transita per convezione.
Irraggiamento
La potenza trasmessa per irraggiamento è scritta in questa formulazione:

𝑄̇𝑖𝑟𝑟 = 𝜀 ∙ 𝜎 ∙ 𝐴 ∙ (𝑇𝑠4 − 𝑇𝑎𝑚𝑏


4 ) [ ]
Viv

𝑊
Dove 𝜀 è il fattore di emissività, ed è una proprietà radiativa del
materiale della piastra. Mentre 𝜎 è una costante. Considerando
una temperatura superficiale della piastra Ts, e una Tambiente, la
formula ci fornisce la potenza termica scambiata tra l’ambiente e
la piastra.
Mentre sia conduzione e convezione vedono la potenza scambiata direttamente proporzionale alla
differenza di temperatura, l’irraggiamento invece, presenta una differenza tra quarte potenze della
temperatura (che in questo caso deve essere necessariamente essere espressa in Kelvin).
179

Se noi introduciamo una grandezza nuova che per una parete piana indefinita di superficie A e
spessore L, chiamata resistenza termica della parete, e pari a:
𝐿 °𝐶
𝑅𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 = [ ]
𝜆∙𝐴 𝑊

ria
Osserviamo che la potenza termica che fluisce attraverso la parete per conduzione si può riscrivere
come:
𝑇1 − 𝑇2
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 =
𝑅𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒

gne
Quindi ha senso definire quel rapporto come una resistenza, maggiore è, meno potenza passa.
Infatti, maggiore è la superficie più potenza transita, quindi resistenza minore. Più la parete è spessa
più difficilmente la potenza termica passerà, e quindi la resistenza termica aumenta. Stesso discorso
vale per la conducibilità termica, più è alta meno la parete resistenza al passaggio di potenza
termica. Riscrivere la relazione in questi termini si presenta estremamente simile a quella che nel
campo dell’elettrotecnica abbiamo chiamato legge di ohm. Infatti, l’intensità di corrente è data da:
𝑉1 − 𝑉2
nge 𝐼𝑐𝑜𝑟𝑟𝑒𝑛𝑡𝑒 =

Ed effettivamente la resistenza elettrica è calcolata come:


𝑅𝑒𝑙

𝐿
𝑅𝑒𝑙 = [𝑜ℎ𝑚]
𝜎𝑒𝑙 ∙ 𝐴
Si può notare la forte analogia tra le due formulazioni. Questo parallelismo formale che ci è stato
I
possibile introducendo la resistenza della parete. T1 e T2 (così come in analogia V1 e V2) rappresenta
la cosiddetta driving force, ovvero l’innesco di questo processo (non può esserci flusso di potenza
termica senza differenza di temperatura). Si può trattare la resistenza termica anche come:
𝑇1 − 𝑇2
𝑅𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 =
ere

𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑
Che rappresenta la differenza di temperatura tra le facce della parete che devo imporre affinché
possa transitare potenza unitaria. Questo parallelismo si denomina analogia elettrica delle reti
termiche, e consente la trattazione semplificata degli scambi termici, quindi la potenza termica che
fluisce si può trattare esattamente come la corrente elettrica. Avremo inoltre resistenze termiche
in serie e/o in parallelo, che possono essere trattate in totale analogia con quelle elettriche. Questo
Viv

concetto di resistenza termica si può estendere anche alle altre modalità di scambio termico. Per la
convezione infatti:

𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑣 = ℎ ∙ 𝐴 ∙ (𝑇𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 − 𝑇∞ )

E rielaborata in termini di resistenza convettiva:


1 °𝐶
𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣 = [ ]
ℎ∙𝐴 𝑊
Parimenti a ciò che abbiamo visto per la conduzione, possiamo scrivere:
180

𝑇𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 − 𝑇∞
𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣 =
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑣
Non abbiamo finora compreso nel dettaglio come evolve la temperatura su una parete calda se
lambita da un fluido freddo che la lambisce, ma possiamo rifarci allo studio della meccanica dei

ria
fluidi. Esso, se viscoso, raggiunge in prossimità della parete scorrimento nullo. Analogamente, un
filetto fluido che ha tempo infinito per stare a contatto con la parete, non può fare altro che
raggiungere la stessa temperatura della parete. Se è ovvio che ad una distanza elevata il fluido non
possa risentire dell’effetto della parete ma che però il primo filetto fluido sia alla stessa temperatura
della parete è altrettanto vero. deve quindi instaurarsi in seno al fluido un gradiente di temperatura
che gradualmente e asintoticamente passa dalla temperatura a parete a quella del fluido

gne
indisturbato. Ci sarà una distanza dalla parete alla quale possiamo immaginare il fluido non risentire
più dell’effetto parete. Vi sarà un profilo di temperatura che, dal punto di vista energetico,
esattamente come visto nell’equilibrio meccanico per il profilo di velocità, rifiuta i punti angolosi, e
quindi tenderà asintoticamente dalla temperatura della parete ad una temperatura che non risente
degli effetti parete: questo spessore verrà chiamato strato limite termico, in cui si instaura un
gradiente di temperatura non nullo. nge
Nel caso dell’irraggiamento, nel quale la potenza termica era espressa come:

𝑄̇𝑖𝑟𝑟 = 𝜀 ∙ 𝜎 ∙ 𝐴 ∙ (𝑇𝑠4 − 𝑇𝑎𝑚𝑏


4 )

In questo caso, ogni tentativo di scrivere questa relazione come dT/R non è possibile, perché di fatto
la potenza termica non è lineare con il dT. Si può provare ed elaborarla in modo un po artificioso
ricorrendo ai prodotti notevoli di differenze di quadrati:

𝑄̇𝑖𝑟𝑟 = 𝜀 ∙ 𝜎 ∙ 𝐴 ∙ (𝑇𝑠4 − 𝑇𝑎𝑚𝑏


4 ) 2 )( 2 2 )
I
= 𝜀 ∙ 𝜎 ∙ 𝐴 ∙ (𝑇𝑠2 − 𝑇𝑎𝑚𝑏 𝑇𝑠 + 𝑇𝑎𝑚𝑏 =
2 )(
= 𝜀 ∙ 𝜎 ∙ 𝐴 ∙ (𝑇𝑠2 + 𝑇𝑎𝑚𝑏 𝑇𝑠 + 𝑇𝑎𝑚𝑏 )(𝑇𝑠 − 𝑇𝑎𝑚𝑏 )
E chiamando:
2 )(
ℎ𝑖𝑟𝑟 = 𝜀 ∙ 𝜎 ∙ (𝑇𝑠2 + 𝑇𝑎𝑚𝑏 𝑇𝑠 + 𝑇𝑎𝑚𝑏 )
ere

Possiamo scrivere:

𝑄̇𝑖𝑟𝑟 = ℎ𝑖𝑟𝑟 ∙ 𝐴 ∙ (𝑇𝑠 − 𝑇𝑎𝑚𝑏 )


Questo ℎ𝑖𝑟𝑟 dipende in maniera stretta dalle temperature. In alcuni casi, tra superfici esposte al sole
e l’ambiente, poiché la temperatura dell’ambiente riscaldato del sole è più o meno costante, allora
Viv

la scrittura di ℎ𝑖𝑟𝑟 risulta più agevole. Ricordiamo che per l’irraggiamento la temperatura deve
essere necessariamente essere espresse in gradi Kelvin. Solo in questo caso possiamo quindi
scrivere:
1 𝐾
𝑅𝑖𝑟𝑟 = [ ]
ℎ𝑖𝑟𝑟 ∙ 𝐴 𝑊
Abbiamo finalmente acquisito gli strumenti per risolvere situazioni quanto più simili alle situazioni
reali. immaginiamo una parete, caratterizzata da una certa conducibilità termica, e da due
temperature ambiente diverse a destra e a sinistra. Quello che ci è ignoto, sono proprio le
temperature superficiali della parete. Molto più spesso saprò la temperatura ambiente, interno ed
181

esterno. come possiamo calcolare la potenza termica che


transita dalla mia parete in condizioni stazionarie? Quello
che accadrà è che, in condizioni stazionarie, se della
potenza termica vorrà fluire attraverso la parete, prima

ria
dovrà passare da una condizione di temperatura
ambiente che non risente della parete, sino alla parete
stessa. E quindi lo scambio termico in questo caso avverrà
per convezione, e sarà espressa come:

𝑄̇1→𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 = ℎ1 𝐴(𝑇∞1 − 𝑇1 )

gne
perché il calore fluisca dovrà localmente instaurarsi un DT
e quindi la parete deve portarsi ad una temperatura leggermente inferiore rispeto a quella del fluido
della lambisce, affinchè questo differenziale possa innescare un fluire di potenza termica. Questa
potenza termica, in condizioni stazionarie dovrà penetrare nella parete, e fluire dall’altra parte senza
che possa accumularsi (altrimenti non potrà più essere stazionario). Non c’è dubbio che la medesima
potenza termica dovrò propagarsi attraverso la parete. Consideriamo ora la sola parete, sulla quale
si instaurano due temperature superficiali differenti, e tale transito di potenza termica è regolato
dalla legge sulla conduzione:
nge (𝑇1 − 𝑇2 )
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 = 𝜆𝐴
𝐿
Con L spessore della parete. Parimenti, dalla parete sino all’ambiente si avrà una terza potenza
termica scritta come:

𝑄̇𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒→2 = ℎ2 𝐴(𝑇2 − 𝑇∞2)


I
E per la stazionarietà del problema, non essendoci accumulo di energia nel processo, perché
stazionario, queste tre potenze termiche devono essere uguali.
𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑡𝑒𝑟𝑚𝑖𝑐𝑎 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑡𝑒𝑟𝑚𝑖𝑐𝑎 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑡𝑒𝑟𝑚𝑖𝑐𝑎
ere

( 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑎 ) = ( 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑢𝑡𝑡𝑖𝑣𝑎 ) = ( 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑎 )


𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑙𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 𝑎𝑡𝑡𝑟𝑎𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑙𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒
Ovvero, in termini analitici:
(𝑇1 − 𝑇2 )
𝑄̇1→𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 = ℎ1 𝐴(𝑇∞1 − 𝑇1) = 𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 = 𝜆𝐴 = 𝑄̇𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒→2 = ℎ2 𝐴(𝑇2 − 𝑇∞2 )
𝐿
Viv

Ed espressa invece in termini di resistenza come abbiamo visto in precedenza, possiamo scrivere:
(𝑇∞1 − 𝑇1) (𝑇1 − 𝑇2 ) (𝑇2 − 𝑇∞2 ) (𝑇∞1 − 𝑇1 ) (𝑇1 − 𝑇2) (𝑇2 − 𝑇∞2 )
𝑄̇ = = = = = =
1 𝐿 1 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣1 𝑅𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣2
ℎ1 𝐴 𝜆𝐴 ℎ2 𝐴
Ricordando quella che è la regola del componendo o proprietà del comporre, ci dice che:
𝑎 𝑐 𝑒 𝑎+𝑐+𝑒
𝑆= = = ⇒ 𝑆=
𝑏 𝑑 𝑓 𝑏+𝑑+𝑓
Poiché nel nostro caso, le potenze termiche espresse come rapporto tra la differenza di temperatura
e la resistenza termica sono uguali tra loro, per la regola del comporre posso scrivere:
182

𝑇∞1 − 𝑇1 + 𝑇1 − 𝑇2 + 𝑇2 − 𝑇∞2 𝑇∞1 − 𝑇∞2


𝑄̇ = =
𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣1 + 𝑅𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 + 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣2 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣1 + 𝑅𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 + 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣2

E sommando tutte le resistenze ottenere:

ria
𝑅𝑡𝑜𝑡 = 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣1 + 𝑅𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒 + 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣2

In perfetta analogia con le reti elettriche.


23/05/2018
La metodologia appena acquisita può essere applicata a situazioni monodimensionali e stazionarie
di qualsivoglia complessità. Nell’esempio precedente abbiamo avuto un passaggio di potenza

gne
termica di tipo conduttivo e due di tipo convettivo, espresse in termini di rapporti tra differenze di
temperatura e resistenze termiche, in analogia con le reti elettriche. Sempre richiamando questa
analogia, essendo la potenza termica (l’analogo della corrente) la stessa che fluisce attraverso le
varie resistenze termiche, quest’ultime si possono considerare in serie, e la loro risultante, la
resistenza totale, è chiaramente la loro somma. Sempre nell’esempio precedente, avevamo tre
incognite, ovvero la potenza termica totale e le due temperature superficiali. Grazie alla regola del
nge
comporre abbiamo potuto eliminare due incognite dal problema e di fatto ricavare la potenza
termica in transito, unica incognita rimasta. Ma se ora noi volessimo trovare la temperatura
superficiale, attraverso la potenza termica totale appena ricavata, basta prendere una delle
espressioni degli scambi convettivi, in cui o T1 o T2 sono uniche incognite, e sostituendo il valore di
potenza termica ricavarle. Ovvero:

𝑄̇
𝑇1 = 𝑇∞1 −
ℎ1 𝐴
I
Parimenti posso ricavare T2. Ricavare le temperature intermedie ci permette di tracciare tutto il
profilo di temperatura. Infatti, su una scala arbitraria di temperatura, fissata 𝑇∞1 e 𝑇∞2 , calcoliamo
come abbiamo già visto T1 e T2, e sappiamo che il profilo di temperatura all’interno della parete è
lineare. Sulle pareti a contatto col fluido siamo in presenza di uno strato limite termico, e
ere

l’andamento di temperatura è continuo a derivabili. Quindi si raccorda T1 con 𝑇∞1 con un profilo
parabolico. Parimenti per T2 e 𝑇∞2 (definiremo meglio in seguito lo strato limite termico). Come già
visto nel campo dello strato limite meccanico, anche sulla parete non è possibile ammettere un
punto angoloso. Immaginiamo uno straterello che giace sulla frontiera dello strato limite termico,
con una parte immersa dentro lo strado limite e una parte fuori. In quella fuori, necessariamente
dT/dx è zero, quindi un gradiente nullo della temperatura. Ovvero non vi è transito di potenza
Viv

termica. Mentre a contatto con la parete, le cose funzionano diversamente: questo perché notiamo
che il fenomeno tramite il quale il calore si scambia è diverso, tra parete-parete e parete-fluido. è
vero che se consideriamo lo strato di fluido attaccato alla parete lo scambio è sempre per
conduzione, ma sono diversi i coefficienti di conducibilità termica. Allora, la potenza termica che
attraversa la parete in prossimità dello straterello di fluido transita con la stessa legge, ma con
coefficienti di conducibilità diversi. Il fatto che questi fenomeni conduttivi si verificano all’interno di
fluidi comunque distinti comporta che la differente conducibilità locale comporta anche un diverso
gradiente di temperatura a parità di potenza termica. Questo fenomeno è ancora più evidente nelle
pareti multistrato, in cui differenti conducibilità termiche creano punti angolosi nel profilo di
temperatura all’interno della parete stessa. La convezione è una modalità di scambio termico che
183

comporta non solo scambi di energia tra le molecole (come per la conduzione) ma anche
spostamenti di massa, movimentati o naturalmente o forzatamente. In prossimità della parete,
l’aria è praticamente stagnante, ed i fenomeni di scambio convettivi praticamente assenti, vedendo
una prevalenza di quelli conduttivi.

ria
Quasi mai sia nella stratificazione delle pareti
perimetrali di involucri edilizi sia nella stratificazione di
tubazioni si avrà a che fare con un solo materiale. Nella
maggior parte dei casi il flusso di potenza termica
attraversa più strati diversi (diversi tipi di mattoni,
malta, intonaco etc). come in figura, si utilizzano una

gne
serie di strati con diversi coefficienti di conducibilità.
Ancora una volta immaginiamo la parete indefinita, per
poter ignorare gli effetti di bordo. Il primo materiale
presenta una 𝜆1 ed uno spessore L1, il secondo invece
presenta una diversa conducibilità termica, 𝜆2 ed uno spessore L2. Immaginiamo di poter conoscere
le temperature che lambiscono la parete da entrambi i casi. Ancora una volta, per stazionarietà, la
potenza termica che transita deve essere la stessa attraverso ogni strato. L’espressione scritta in
nge
precedenza, la ritroviamo qui, fermo restando che stavolta le temperature intermedie sono tre,
ovvero T1 e T3 a contatto col fluido e T2 quella intermedia tra i due strati di parete. Avrò:
𝑇∞1 − 𝑇∞2
𝑄̇ =
𝑅𝑡𝑜𝑡
Dove la resistenza termica è data dalla somma delle varie resistenze termiche. A differenza di prima,
ritroviamo un termine in più relativo al secondo strato di parete, ma la sostanza della nostra formula
I
non cambia:
𝑅𝑡𝑜𝑡 = 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣1 + 𝑅𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒1 + 𝑅𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒2 + 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣2

Naturalmente i singoli termini delle resistenze termiche si scrivono esattamente come abbiamo già
ere

visto per un singolo strato. Nel caso più generale, quando gli strati sono più di uno, adotteremo la
scrittura generalizzata:
𝐿𝑗
𝑅𝑡𝑜𝑡 = 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣1 + ∑ + 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣2
𝜆𝑗 ∙ 𝐴
𝑗∈{𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑖}

Calcolata tramite questa relazione la potenza termica che transita, esattamente come fatto in
Viv

precedenza, possiamo calcolare ogni temperatura intermedia. Gli approcci visti però, ci consentono
di calcolare T2 dopo avere preliminarmente calcolato T1 e T3 non richieste. Allora possiamo
utilizzare la proprietà del componendo in maniera più accorta. Infatti, una volta trovata la potenza
termica (dato imprescindibile) e ricordando la regola del componendo, posso limitarmi a riflettere
sul fatto che la potenza termica in transito si possa fermare proprio in corrispondenza di T2 e
scrivere:
𝑇∞1 − 𝑇1 + 𝑇1 − 𝑇2
𝑄̇ = ⇒ 𝑇2 = 𝑇∞1 − 𝑄̇ (𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣1 + 𝑅𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒1 )
𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣1 + 𝑅𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒1
184

E quindi posso calcolare T2 senza transitare dal calcolo di T1 e T3. Se ho quattordici strati e mi serve
la temperatura della nona interfaccia, posso applicare questa regola invece di calcolare tutte le
temperature intermedie.
Abbiamo già visto che, all’interno di una parete che ha un ben preciso valore di conducibilità

ria
termica, la costanza della potenza termica che transita, garantisce una costanza del dT/dx e quindi
un profilo di temperatura rettilineo. Adesso in una parete multistrato, ed in particolare ne
immaginiamo una come la figura precedente in esame, con conducibilità diverse, notiamo che il
profilo di temperatura all’interno di tutta la parete non è più rettilineo: è una spezzata che risulta
rettilinea all’interno di ogni strato con pendenze diverse da uno strato all’altro. poiché siamo in
regime stazionario, e la potenza termica che transita è la stessa, allora avremo:

gne
𝑇1 − 𝑇2 𝑑𝑇
𝑄̇𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒1 = 𝜆1 𝐴 = 𝜆1 𝐴 ( )
𝐿1 𝑑𝑥 1
𝑇2 − 𝑇3 𝑑𝑇
𝑄̇𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒2 = 𝜆2 𝐴 = 𝜆2 𝐴 ( )
𝐿2 𝑑𝑥 2
Ed eguagliando le espressioni avremo:
nge 𝜆1 (
𝑑𝑇 𝑑𝑇
) = 𝜆2 ( )
𝑑𝑥 1 𝑑𝑥 2
È chiaro che per il primo strato avremo una certa conducibilità termica ed una pendenza incognita
del profilo di temperatura. stessa cosa per il secondo strato, con una conducibilità termica diversa
ed una certa pendenza. Notiamo che proprio per la costanza della potenza termica (i due termini li
abbiamo infatti posti uguali) a conducibilità termiche diverse, devono appartenere pendenze
I
diverse. E in particolare devono variare i profili di temperatura ed i gradienti di temperatura in modo
tale che il loro prodotto su ogni strato assuma lo stesso valore. In quale dei due strati il profilo è più
pendente? A conducibilità maggiore corrisponde una pendenza minore, mentre a conducibilità
minore corrisponde una pendenza maggiore.
ere

Immaginiamo quindi un involucro edilizio suddiviso come


in figura, con una parete che vede uno strato di intonaco,
di isolante, di tufo e di nuovo intonaco. Conosco i matariali,
gli spessori e le temperature che lambiscono la parete.
L’isolante è una conducibilità molto minore di quella del
tufo, e quindi per poter fare transitare la stessa potenza
Viv

termica il gradiente di temperatura deve essere più


elevato. Vedremo in altre circostanze (non in fisica tecnica)
che mettere il cappotto termico, l’isolante quindi,
all’esterno, permette di relegare molto vicino all’esterno il
primo punto freddo dell’impianto, risolvendo alcuni
problemi di condensa.
Finora abbiamo assunto che all’interfaccia di due strati ci sia un unico valore di temperatura, e quindi
il profilo di temperatura, giunto all’interfaccia con una certa pendenza che abbiamo visto prosegue
con un’altra pendenza che dipende dalla conducibilità del materiale. Questo profilo di temperatura,
risulterebbe reale solo se si avesse, all’interfaccia, un perfetto contatto termico, ovvero se non vi
185

fosse ulteriore resistenza termica connessa al fatto che la potenza


transita da uno strato all’altro. Tuttavia in realtà, le micro-asperità
superficiali (rugosità) fanno sì che il contatto tra due superfici non sia
perfetto. La potenza termica fluisce quindi in maniera un pò disturbata:

ria
la rugosità può creare piccole sacche d’aria. Macroscopicamente quindi,
l’interfaccia tra due strati, non può essere considerata a resistenza nulla,
ma si deve considerare una sorta di resistenza di contatto dovuta
appunto al non perfetto combaciare tra le due superfici. Non è
certamente possibile andare a valutare asperità per asperità il
problema, ma invece si tratta l’interfaccia tramite la catalogazione di

gne
opportuni coefficienti che ci diano resistenze di contatto tipiche
dell’interfaccia tra le due pareti. E per scelta, visto che l’interfaccia per
definizione non ha uno spessore, è sembrato comodo immaginare di
esprimere il transito della potenza termica che attraversa questa parete
con riferimento ad un ostacolo localizzato che incontra all’interfaccia
tramite una legge che ricordi la legge di Newton, trattandola quindi
come una convezione equivalente (pur non trattandosi
nge
specificatamente di convezione come impareremo a conoscerla). La
potenza termica che transita tra i due strati sarà quindi espressa:

𝑄̇ = ℎ𝑐𝑜𝑛𝑡𝑎𝑡𝑡𝑜 ∙ 𝐴 ∙ ∆𝑇𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑓𝑎𝑐𝑐𝑖𝑎

Dove ∆𝑇𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑓𝑎𝑐𝑐𝑖𝑎 e da intendersi come differenza piccolissima di


temperatura che consente quel fluire di potenza termica. L’h di contatto
dipende dalla rugosità, dal tipo di fluido intrappolato in queste micro
I
sacche, dalla pressione. tipicamente si trova tabellata la resistenza di
contatto che dipende dall’h di contatto naturalmente:
1 ∆𝑇𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑓𝑎𝑐𝑐𝑖𝑎
𝑅𝑐𝑜𝑛𝑡𝑎𝑡𝑡𝑜 = =
ℎ𝑐𝑜𝑛𝑡𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑞̇
ere

Tuttavia non è una resistenza come l’abbiamo vista finora, perché vi era sempre l’area di scambio.
Tuttavia non è possibile tabellare relative ad una specifica area, ma piuttosto mi interessa una
resistenza per unità di area, così che possa applicare i valori in tabella quale che sia l’area in esame.
Questa resistenza di contatto è definita come l’inverso dell’h di contatto. la resistenza così calcolata
non può essere sommata ad altri termini di resistenza, perché non è dimensionalmente omogenea
Viv

con le altre resistenza che noi conosciamo: occorre dividerla per l’area. Così facendo otteniamo una
resistenza che possiamo sommare alle altre per il calcolo della resistenza totale.
Consideriamo ora un’altra situazione: finora abbiamo avuto facilità di considerare le resistenze
termiche sempre in serie perché la potenza termica attraversava lo stesso materiale. Capita però
spesso di avere geometrie che pur essendo piane, vedano ortogonalmente una pluralità di elementi
di disturbo al flusso termico, come per esempio nella figura seguente, che vede una struttura di
isolante e vari mattoni forati. Ipotizzando un fluido caldo a sinistra, ed un fluido freddo a destra: è
chiaro che il calore fluirà da sinistra a destra, e passerà per vie preferenziali, ovvero dove vi è
presenza di mattone e non di vuoto, in quanto il mattone presenta una conducibilità maggiore
dell’aria. se da qualche parte il vettore flusso termico trova comodo curvarsi, è perché le isoterme
186

si “piegano” in virtù della non omogeneità dalla parete creandosi


situazioni di bidimensionalità. Notiamo tuttavia che tutta la
potenza termica che attraversa lo strato rosa, troverà necessario
per fluire, suddividersi lungo i diversi percorsi possibili. Questo

ria
non è nulla di dissimile rispetto a quello che troviamo in un
conduttore che vede a corrente suddividersi su diversi rami del
circuito in base alla resistenza dei rami stessi, esattamente come
in un parallelo di resistenza, in cui la corrente fluirà
maggiormente dove troverà minore resistenza.
Consideriamo ora quest’altro esempio: immaginiamo un

gne
elemento che pensiamo costante in profondità,
opportunamente isolato inferiormente e superiormente, tale da
consentire il fluire della potenza termica solo da sinistra a destra.
Tale elemento ha questa geometria interna: due parallelepipedi
di aree diverse, quindi A1 e A2 diverse tra loro, ed un terzo
parallelepipedo con A3 somma di A1 e A2. Una rappresentazione
è in figura a lato. supponiamo di imporre T1 sulle facce di sinistra
nge
A1 e A2, e sulla faccia A3 a destra la 𝑇∞ del fluido. all’interfaccia
tra gli strati 1 e 2 con lo strato 3, avrò T2. La potenza termica che
attraversa lo strato 1 è diversa dalla potenza termica che
attraversa lo strato 2. Tuttavia, all’interfaccia con lo strato 3, tali
potenze devono comunque rappresentare la potenza totale in
transito attraverso questo elemento. Se volessi rappresentare
I
una resistenza totale che questi due strati, 1 e 2, impongono alla
potenza termica, scriverò:
𝑇1 − 𝑇2 𝑇1 − 𝑇2 1 1
𝑄̇ = 𝑄̇1 + 𝑄̇2 = + = (𝑇1 − 𝑇2 ) +
𝑅1 𝑅2 𝑅1 𝑅2
ere

Ovvero, ricordando il calcolo delle resistenze in parallelo nelle


reti elettriche
𝑇1 − 𝑇2 𝑅1 𝑅2
𝑄̇ = con 𝑅𝑡𝑜𝑡 =
𝑅𝑡𝑜𝑡 𝑅1 + 𝑅2
Quindi gli strati 1 e 2 si comportano come uno strato unico con una resistenza equivalente che si
Viv

calcola esattamente come si fa per le reti elettriche. Però mentre in elettrotecnica è vero che il
punto di interfaccia tra 1 e 2 e lo strato 3 è a potenziale unico, in questo caso abbiamo un campo di
flusso termico inevitabilmente bidimensionale: questo perché non si possono evitare gli scambi tra
lo strato 1 e lo strato 2. Questa modellizzazione però non comporta un errore rilevante, quindi
continueremo a trattare questi casi in questo modo. Qualora però fosse rilevante conoscere la
temperatura esatta in ogni punto, non possiamo trascurare il fatto che il vettore flusso termico non
è più solamente orizzontale
Un’altra geometria di grande interesse è quella cilindrica. Anche la sferica è molto importante, ma
quella cilindrica (per cavi, tubazioni) è decisamente più importante. Quella sferica è molto meno
comune, quindi non vi dedicheremo molto tempo. Il nostro problema tipico sarà il seguente:
187

abbiamo un cilindro cavo, con raggio interno ed esterno. in genere all’interno potrà esserci un fluido,
così come all’esterno o anche altre strati cilindrici sempre all’esterno. il libro, nell’ipotesi di una
temperatura interna T1 e temperatura esterna T2, e nell’ipotesi semplificata di conoscenza della
conducibilità del materiale di cui è composto il cilindro, la prima cosa che dice è: le temperature in

ria
seno alla matrice cilindrica variano solo con il raggio, e pertanto, se è solo il raggio a determinare la
temperatura, quindi T è esclusivamente T(r), tutti i punti con medesima r, hanno medesima T
rispetto all’asse del cilindro, quindi saranno su corone cilindriche concentriche al cilindro stesso.
Quindi il problema termico si presenta solo come simmetria cilindrica. Questa che il libro tratta
come ipotesi, in realtà deriva da condizioni che è necessario precisare prima di ritenere questa
assunzione assolutamente vera.

gne
24/05/2018
Una piccola nota integrativa a ciò che abbiamo detto precedentemente. In molte strutture si utilizza
l’aria con le sue proprietà di isolante termico tramite vetri camera, ossia inibizione dello scambio
termico tramite due strati di vetro che intrappolano l’aria all’interno aumentando di molto la
resistenza termica. Però l’ambiguità di concetto viene dal fatto che abbiamo trattato lo scambio
termico dell’aria che lambisce una parete come scambio convettivo. Ma la convenzione è quello
nge
scambio termico che ha a che fare con il moto macroscopico del fluido che lambisce la parete. Allora
in un caso come il vetro camera, uno strato d’aria intrappolato tra due lastre di vetro, come si tratta
il problema di scambio termico? A discriminare il fatto che ciò che accade nel transito della potenza
termica, dal vetro all’aria e poi di nuovo al vetro è il considerare o lo strato d’aria come una parete
solida con conducibilità bassissima e quindi come fenomeno conduttivo, o come fenomeno
convettivo duplice, da vetro a fluido e poi da fluido a vetro è, a fare da discriminante appunto,
l’eventualità di moti macroscopici in seno al fluido. accade che in genere, se ricordiamo cosa accade
I
dal punto di vista meccanico all’interfaccia tra fluido e parete, al contatto certamente il fluido è
fermo perché a contatto con la parete. Quindi entrambe le pareti presentano il fluido fermo, e se lo
strato d’aria è sufficientemente ridotto da poter concepire che l’aria ha difficoltà ad innescare moti
macroscopici, è presumibile che l’aria sia assimilabile ad aria ferma. Nei casi di spessore
particolarmente sottile (1-3 mm) o di segmentazione dell’intercapedine, l’aria si comporta come un
ere

fluido fermo, ed allora è giusto trattarla come una sostanza che trasmette potenza termica per
conduzione. E quindi trattato come un’ulteriore strato di parete con conducibilità molto bassa,
come se fosse uno strato materiale, un isolante tipo schiuma poliuretanica già visto. Se invece
l’intercapedine fosse di uno spessore importante (1-2 cm) allora del moto c’è, è quindi la
modellizzazione come fenomeno convettivo è corretta. Entrambi i modelli fanno naturalmente
riferimento a profili di temperatura diversi che abbiamo già visti.
Viv

Ritorniamo ora alla trasmissione del calore in uno stato cilindrico:


come dicevamo, non è automatico che le superfici isoterme sono
corone circolari. Questa condizione discenda da una serie di
assunzioni. La prima precondizione da verificare è che vi sia una
condizione di assialsimmetria, ossia condizioni al contorno
indipendenti dall’angolo azimutale. Ad esempio facendo sì che una
parte esterna del cilindro sia ad elevata temperatura, ed un’altra ad
una temperatura minore (in figura in rosso ed in blu). In questo caso,
188

io ho una variazione che dipende dall’angolo, ma è


precondizione che questa cosa invece non cambi con l’angolo
azimutale. Questa differenza di temperatura tra due porzioni
superficiali di cilindro non mi permetterà di trovare la stessa

ria
temperatura su tutta una corona circolare, ma essa dipenderà
dal raggio e dall’angolo. Quindi al fine di garantire la isotermia
delle corone circolari, nulla deve variare con l’angolo azimutale.
La seconda precondizione è che il materiale sia omogeneo ed
isotropo: l’omogeneità ha a che fare con il materiale e quindi
risulterebbe fortemente errata di superfici cilindriche isoterme

gne
se per esempio in un cilindro costituito per metà di rame e metà
di acciaio, imponendo stessa T su tutta la superficie, anche i
cilindri all’interno del mio solido risultassero isoterme, e per
materiale non omogeneo, non sarebbe vero. l’isotropia del
materiale, intesa come isotropia rispetto allo scambio termico, e
quindi che lo scambio punto per punto è indipendente dalla
direzione del flusso di potenza (cosa non vera per materiali non
nge
isotropi che invece presentano conducibilità differente in base
alla diversa disposizione delle fibre, tipo il
legno, che propaga differentemente il
calore nelle diverse direzioni). Terza
precondizione è che il cilindro deve
essere snello, ossia non tozzo, il che è
essenzialmente riconducibile alla
I
condizione per cui il suo sviluppo
longitudinale lungo l’asse deve essere
maggiore del suo sviluppo radiale. Un
cilindro tozzo è difficilmente studiabile
perché influenzato dagli effetti di bordo (come avveniva per le pareti non indefinite). Cosa che
ere

invece non avviene nel cilindro snello, in cui gli effetti di bordo sono trascurabili. se tutte queste
ipotesi sono verificate, allora l’ipotesi iniziale, ovvero T(r) risulta valida.

Ora dobbiamo provare a determinare l’espressione analitica della


resistenza termica in un cilindro. Le nostre condizioni a contorno, sono
che su tutta la superficie interna del cilindro via è la stessa temperatura
Viv

T1 e all’esterno T2, mantenute in maniera stazionaria ed uniforme.


Indipendentemente da T1 > T2 o viceversa, in condizioni stazionarie,
siamo certi che tutta la potenza termica fluirà attraverso la superficie
senza che questa si accumuli nel cilindro. Quini il flusso termico
attraverso il cilindro sarà costante:

𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑,𝑐𝑖𝑙 (𝑟) = 𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑,𝑐𝑖𝑙 = 𝑐𝑜𝑠𝑡

E per la monodimensionalità del problema, dato che varia solo lungo r, il postulato di Fourier è:
𝑑𝑇
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑,𝑐𝑖𝑙 = −𝜆 ∙ 𝐴 ∙ [𝑊 ]
𝑑𝑟
189

Dove 𝐴 = 2𝜋𝑟 ∙ 𝐿 è la superficie cilindrica attraversata, in corrispondenza della generica corona


circolare infinitesima di raggio r. A differenza di quanto non avvenisse nella parete piana, si nota che
qui A dipende da r, e cresce man mano che si considerano corone circolari via via più esterne e
quindi lontane dall’asse del cilindro. Il flusso termico specifico quindi diminuisce a mano a mano che

ria
i raggi si vanno riducendo. Separando le variabili, è possibile procedere ad una integrazione:
𝑑𝑇 𝑑𝑟
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑,𝑐𝑖𝑙 = −𝜆 ∙ 2𝜋𝑟𝐿 ∙ ⇒ 𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑,𝑐𝑖𝑙 ∙ = −𝜆 ∙ 2𝜋𝐿 ∙ 𝑑𝑇 ⇒
𝑑𝑟 𝑟
𝑟2 𝑇2
𝑑𝑟 𝑟 𝑇
∫ 𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑,𝑐𝑖𝑙 ∙ = ∫ −𝜆 ∙ 2𝜋𝐿 ∙ 𝑑𝑇 ⇒ 𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑,𝑐𝑖𝑙 ∙ [ln 𝑟]𝑟21 = −𝜆 ∙ 2𝜋𝐿 ∙ [𝑇] 𝑇21 ⇒
𝑟1 𝑟 𝑇1

gne
𝑟2 𝜆 ∙ 2𝜋𝐿 ∙ (𝑇1 − 𝑇2 )
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑,𝑐𝑖𝑙 ∙ ln = 𝜆 ∙ 2𝜋𝐿 ∙ (𝑇1 − 𝑇2 ) ⇒ 𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑,𝑐𝑖𝑙 = 𝑟
𝑟1 ln 𝑟2
1

Quest’ultima espressione ottenuta è la ricercata espressione della potenza termica che attraversa il
mio cilindro, quando tra le sue superfici interna ed esterna è applicata una differenza di temperatura
T1 - T2. Ci può risultare utile comprendere, per riprendere l’analogia elettrica, come poter esprimere
nge
la potenza termica in termini di differenza di temperatura diviso una resistenza termica. In
particolare dobbiamo poter esprimere la resistenza termica:
𝑟2
ln
𝑟1
𝑅𝑐𝑖𝑙 =
𝜆 ∙ 2𝜋𝐿
Formulazione decisamente diversa da quella che abbiamo conosciuto per la parete piana, ma dove
il logaritmo naturale si può intendere come una sorta di spessore equivalente. è qualitativamente
I
diversa ma la ricorda. La medesima cosa si può fare per uno strato sferico. Non eseguiamo
l’integrazione, ma il procedimento è analogo, con la sola differenza che l’area in questione è quella
di una sfera, ovvero 𝐴 = 4𝜋𝑟 2. Procedendo come prima ad una separazione di variabili ed
integrando, otteniamo:
ere

(𝑇1 − 𝑇2 ) 𝑟2 − 𝑟1
𝑄̇𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑠𝑓𝑒𝑟𝑖𝑐𝑜 = con: 𝑅𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑠𝑓𝑒𝑟𝑖𝑐𝑜 =
𝑅𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑠𝑓𝑒𝑟𝑖𝑐𝑜 4𝜋𝑟2 𝑟1 𝜆

Entrambe le espressioni, per cilindri e sfere, sono state ottenute imponendo condizioni al contorno
di Dirichlet (ossia, uno specifico valore della temperatura sulla superficie). Quelle condizioni in cui
invece imponiamo le temperature dei fluidi che lambiscono indisturbati le pareti, allora stabiliamo
Viv

una condizione al contorno convettiva, ovvero la temperatura del fluido indisturbato.


Cilindri e sfere con condizione al contorno convettiva
Molto spesso ci capiterà, esattamente come accadeva per la parete piana, di sapere la temperatura
del fluido in contatto con la faccia esterna ed interna del cilindro e non le temperature delle
superfici. A rigore, il concetto di 𝑇∞1 è un po' brutto, perché avendo il cilindro chiuso, non è possibile
fornire una distanza tale per cui il fluido non risenta della presenza della parete. Il centro del cilindro,
l’asse, è la massima distanza alla quale possiamo porci. Ma siccome di solito avremo portate
190

massiche di fluido trascinato in un tubo, assumiamo di


chiamare 𝑇∞1 la temperatura che riscontriamo in
quella precisa sezione (come quando abbiamo visto i
sistemi aperti ed assunta la temperatura variare con il

ria
suo avanzamento). Quindi 𝑇∞1 sarà di fatto una
temperatura media. 𝑇∞2 invece è quella che abbiamo
considerato, sufficientemente lontana dal tubo tanto
da non esserne influenzata. Se sono a noi noti tutti gli
spessori, le distanze, i coefficienti convettivi e di
conducibilità termica, come calcoliamo la potenza

gne
termica che transita in condizioni stazionarie? Tale
potenza termica dovrà tutta propagarsi mantenendosi
costante. Allora siamo certi che ancora una volta abbiamo una serie di tre resistenze: una convettiva
interna, del fluido che scorre, una conduttiva lungo lo spessore del tubo, ed un’altra convettivo
verso la 𝑇∞2 del mio fluido esterno. quindi:

𝑇∞1 − 𝑇∞2
𝑄̇ =

Dove:
nge 𝑅𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒

𝑟
1 ln( 2⁄𝑟1 ) 1
𝑅𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 = 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣,1 + 𝑅𝑐𝑖𝑙 + 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣,2 = + +
(2𝜋𝑟1 𝐿) ∙ ℎ1 2𝜋𝜆𝐿 (2𝜋𝑟2 𝐿) ∙ ℎ2

E similmente, nel caso in cui ad essere lambita dai fluidi interno ed esterno sia una sfera, vale:
I
1 𝑟2 − 𝑟1 1
𝑅𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 = 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣,1 + 𝑅𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑠𝑓𝑒𝑟𝑖𝑐𝑜 + 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣,2 = + +
(4𝜋𝑟1 2 ) ∙ ℎ1 4𝜋𝑟2 𝑟1 𝜆 (4𝜋𝑟2 2 ) ∙ ℎ2

Una piccola nota su una terza tipologia di condizione al contorno che possiamo trovare: oltra a
ere

quella di Dirichlet e convettiva, possiamo trovarne una terza detta di Neumann, che consiste
nell’imposizione su una parete di un flusso termico costante (e quindi, visto il postulato di Fourier,
nell’imposizione di dT/dn= costante).

L’andamento della temperatura attraverso uno strato cilindrico, in


funzione del raggio, ha un andamento come nel grafico a lato. Questo
Viv

perché, non avendo problema di discontinuità, non possiamo


utilizzare le solite condizioni al contorno. Ma ricordiamo però che il
profilo di temperatura è dato da dT/dr, che è più alto dove l’area è
minore (essendo la potenza termica costante, il prodotto tra il
gradiente e l’area deve essere costante. Ma non è costante in termini
lineari, poiché l’area è in funzione del raggio. L’andamento quindi deve
necessariamente essere di tipo logaritmico.
191

Che succede se ho invece


due o tre diversi cilindri?
Quindi una parete
cilindrica multistrato.

ria
Continuo ad avere le mie
condizioni al contorno ed
una serie di resistenze
dovute ai diversi strati
cilindrici. Cambia solo il
fatto che ora la mia

gne
potenza termica deve
attraversare tutti questi
strati ma la mia
espressione resta
invariata. Pertanto scriverò:

𝑇∞1 − 𝑇∞2
𝑄̇ =

Dove:
nge 𝑅𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒

𝑅𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 = 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣,1 + 𝑅𝑐𝑖𝑙,1 + 𝑅𝑐𝑖𝑙,2 + 𝑅𝑐𝑖𝑙,3 + 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣,2 =

𝑟 𝑟 𝑟
1 ln( 2⁄𝑟1 ) ln( 3⁄𝑟2 ) ln( 4⁄𝑟3 ) 1
= + + + +
(2𝜋𝑟1 𝐿) ∙ ℎ1 2𝜋𝜆1 𝐿 2𝜋𝜆2 𝐿 2𝜋𝜆3 𝐿 (2𝜋𝑟4 𝐿) ∙ ℎ2
I
E la stessa cosa avviene per strati sferici:

𝑅𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 = 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣,1 + 𝑅𝑠𝑡𝑟.𝑠𝑓𝑒𝑟𝑖𝑐𝑜,1 + 𝑅𝑠𝑡𝑟.𝑠𝑓𝑒𝑟𝑖𝑐𝑜,2 + 𝑅𝑠𝑡𝑟.𝑠𝑓𝑒𝑟𝑖𝑐𝑜,3 + 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣,2 = ⋯


ere

Con l’espressione sulle resistenze degli strati sferici visti in precedenza. È ovviamente ancora
possibile determinare una generica temperatura intermedia, a partire da una nota, in funzione della
potenza termica e delle resistenze interposte tra i due punti come abbiamo visto per la parete
multistrato.

Passiamo ora ad esaminare uno dei casi più interessanti che il problema di scambio termico nelle
Viv

superfici cilindriche presenta, ovvero l’esistenza di un raggio critico di isolamento. Abbiamo capito
che se noi nella parete abbiamo problemi perché consumo troppo di riscaldamento, ovvero le mie
pareti disperdono troppo, è naturale pensare di mettere un isolante in modo da aumentare la
resistenza termica, sono tranquillo che da casa mia esce meno calore. In maniera sorprendente
questa cosa non è detta che accada nelle tubazioni. A volte se aggiungo uno strato di isolamento,
rischio addirittura di peggiorare la situazione, questo perché l’isolamento addizionale fa senz’altro
aumentare la resistenza conduttiva, ma riduce la resistenza convettiva esterna in quanto aumenta
l’area della superficie di scambio termico convettivo con il fluido esterno. Si assuma come
riferimento un cilindro, di raggio esterno r1, che supponiamo si voglia isolare tramite la collocazione
al suo esterno di uno strato isolante che avrà ovviamente raggio interno r1 e raggio esterno r2.
192

Immaginiamo che la temperatura T1 esterna del cilindro da


isolare sia mantenuta costante. Ipotesi spesso realistica, se
ad esempio si tratta di un tubo metallico (quindi pressochè
privo di salto termico tra interno ed esterno) che trasporta

ria
un fluido con elevata conducibilità. In tali casi T1 non sarà
troppo dissimile da 𝑇∞1 . Il problema che ci poniamo è:
conviene per ridurre la potenza termica che si disperde
attraverso il tubo (in rosa) mettere uno strato di isolante?
(in grigio). Diamo per scontata l’esistenza del tubo con
temperatura esterna pari a T1, e studiare cosa accade

gne
interponendo uno strato di isolante e quale sia il raggio ideale di questo isolante. Quindi
immaginiamo di isolarlo che abbiamo una precisa conducibilità termica. All’esterno ci sia aria a 𝑇∞,
perché questo tubo è esposto all’aria. Per capire gli effetti della presenza di isolante, immaginiamo
le seguenti situazioni al contorno: ovvero che la temperatura T1 sia quella dell’acqua che vi scorre
dentro, ovvero 80°C, e quella esterna 𝑇∞ pari a 20°C (temperatura del mio ambiente). È noto anche
r1. In che modo la potenza termica trasferita dipenderà da r2? Abbiamo un problema nel quale la
potenza termica va scritta come salto termico complessivo, resistenza termica complessiva.
nge 𝑄̇ =
𝑇1 − 𝑇∞
𝑅𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒

Dove:

𝑅𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 = 𝑅𝑖𝑠𝑜𝑙𝑎𝑛𝑡𝑒 + 𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣


I
Come queste due resistenze dipendono da r2? La resistenza conduttiva di uno strato cilindrico
cresce col crescere di r2. Siccome il raggio interno non cambia, più spesso è l’isolante più aumento
la resistenza conduttiva, ovvero:
𝑟
ln( 2⁄𝑟1 )
ere

𝑅𝑖𝑠𝑜𝑙𝑎𝑛𝑡𝑒 =
2𝜋𝜆𝐿

Ma la resistenza convettiva, ha una legge diversa:

1
𝑅𝑐𝑜𝑛𝑣 =
2𝜋𝑟2 𝐿 ∙ ℎ
Viv

Più aumento r2, più si riduce la resistenza convettiva. Aumentando lo spessore dello strato isolante,
aumento la resistenza conduttiva ma diminuisco quella convettiva, e quindi dobbiamo capire qual è
lo spessore critico di isolante. Occorre derivare la potenza termica al variare di r2, e quindi sapere
l’andamento al variare di r2. Se voglio trovare un minimo o un massimo devo porre uguale a zero
questa derivata e risolverla per r2. In questo caso, se faccio dQ/dr2, è una funziona decisamente
complessa, allora si capisce che il numeratore (la differenza di temperatura) è una costante, allora
l’andamento che presenta la potenza termica è speculare a quello della resistenza termica che è al
denominatore. Quindi se io analiticamente studio come varia il denominatore, so che in
corrispondenza del minimo della resistenza, io avrò un massimo della potenza termica, e viceversa.
Molto più semplicemente, studiamo dR/dr2=0, ovvero:
193

𝑟
ln( 2⁄𝑟1 ) 1
𝑑 ( 2𝜋𝜆𝐿 + 2𝜋𝑟 𝐿 ∙ ℎ)
2
=0
𝑑𝑟2

ria
E troveremo:

𝜆
𝑟2,𝑐𝑟𝑖𝑡 = [𝑚]

Questo raggio corrisponde certamente o a un massimo o a

gne
un minimo della funzione resistenza totale. Per capire se c’è
un massimo o un minimo dovremmo fare la derivata seconda
(che non facciamo) si trova che in corrispondenza di questo
punto estremante presenta un minimo (perché la derivata
seconda viene positiva). E quindi presenta un massimo per la
potenza termica. Al variare dello spessore di isolante, la resistenza totale e la potenza scambiata
non variano in maniera monotona ma esiste un raggio critico di isolamento, in corrispondenza del
nge
quale la potenza termica scambiata risulta massima. Dobbiamo capire fisicamente come vanno le
cose: fatti i diagrammi per bene, si trova che la potenza termica, diagrammata al variare di r2,
presenta un andamento come in figura in alto, che in genere, a partire da r2 = r1, cioè isolante nullo,
sotto la quale non ha alcun senso tracciare la curva. In genere si osserva che aggiungendo isolante,
la potenza termica, rispetto a quella scambiata in assenza di isolante, dapprima cresce, quindi ho
condizioni per cui io scambio persino più potenza di quando non avevo lo strato di isolante, fino ad
una condizione limite, che corrisponde al raggio critico calcolato, che si ha il massimo della potenza
I
scambiata. Se continuo ad aumentare lo spessore di isolante, allora vedo che la potenza diminuisce
fino ad arrivare ad un valore più basso di quello iniziale. Nel primo tratto, aumentare l’isolante,
diminuisce la resistenza totale, mentre avviene l’inverso superando il raggio critico. Alla domanda
effettuata da un progettista, ma conviene isolare il tubo? Se l’obiettivo è ridurre la potenza termica,
conviene aggiungere isolante solo se installo uno spessore molto elevato, ovvero tale che r2 > rA.
ere

Ogni strato di isolante sotto rA non isola, anzi peggiora la situazione. In altri problemi, nel quale
l’obiettivo è facilitare la dispersione di calore (come cavi elettrici) allora in quel caso cercherò di
progettare le cose in modo da aumentare le dispersioni.

Poniamoci adesso il problema dello scambio termico tra una parete, dalla quale vogliamo disperdere
potenza termica, ed un fluido. Utilizzeremo la formula di Newton che conosciamo
Viv

𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑣 = ℎ ∙ 𝐴 ∙ (𝑇𝑠 − 𝑇∞ )

E si osserva che, per aumentare la potenza termica scambiata, qualora le temperature Ts e 𝑇∞ siano,
come accade in genere, vincolate dalle condizioni al contorno, si può agire solo:

 aumentando h, ad esempio aumentando tramite pompe o ventilatori la velocità del fluido


(ma si aumentano conseguentemente le perdite di carico ed i costi, ed inoltre ricordando
come la convezione sia una sorta di conduzione potenziata dal flusso di materia, se il fluido
è poco conduttivo i valori di h rimarranno limitati)
194

 aumentando A, cosa che si fa tramite l’adozione di


superfici estese, denominate alette, spesso prodotte
per estrusione o tramite saldatura di materiale
aggiuntivo

ria
l’alettatura consiste nell’aggiungere lingue metalliche uscenti
come in figura. Lo studio della bontà dell’effetto che
l’aggiunta di questi materiali comporta, è abbastanza
complesso che però noi condurremo sotto alcune ipotesi
semplificative. Assumeremo che tutto il materiale che

gne
aggiungiamo, quindi l’intera aletta che andremo ad apporre
abbia un unico valore di conducibilità termica del materiale
costante. E assumeremo pure che le alettature siano ad h costante lungo tutta la superficie
dell’aletta. Ciò a rigore non è vero, in quanto h dipende fortemente dal moto del fluido rispetto alla
superficie e quindi è in genere molto minore alla base dell’aletta rispetto a quanto non sia alla sua
estremità. Ed ecco che nasce il problema dell’ottimizzazione: qualora si aumentasse eccessivamente
la densità delle alette, il moto del fluido potrebbe risultare “soffocato” ed avremmo quindi un
nge
effetto opposto rispetto a quello auspicato.

Immaginiamo di avere una superficie della quale vogliamo


disperdere calore, e immaginiamo di saldare un’aletta a
sezione costante (ipotizzando quindi costante anche il
punto di saldatura). Se io guardo la mia parete ortogonale
al foglio, vedrò solo una aletta in sezione, ma devo
I
supporre che alla mia parete, non ne innesti una sola, ma
diverse, e tutte molto vicine tra loro. Il fluido che prima si
muoveva, adesso deve muoversi all’interno di
intercapedini, quindi probabilmente andrà un po più
piano rispetto a quando avevamo una sola aletta. Vicino
ere

alla radice della aletta, si trova quasi in condizioni di


ristagno, quindi anche lungo l’aletta non è corretto
immaginare h costante, proprio per questi motivi. Ma
pensare di scrivere h in funzione della posizione, complicherebbe non poco la trattazione analitica,
senza contare che vedremo come non convenga collocare alette troppo vicine tra loro, perché
rischiamo di diminuire così tanto il coefficiente convettivo da risultare inefficace questo espediente
Viv

tecnico. Pur consapevoli dei limiti di questa assunzione, la considereremo valida per la nostra
trattazione. Andiamo a capire adesso dove sta il problema: vogliamo mettere questa aletta perché
da questa aletta potrà fluire per convezione, calore verso il fluido, aumentando notevolmente la
superficie di scambio. Ragioniamo su ciò che accade ad una piccola fettina (in rosa) della aletta,
prendiamo una striscia larga ∆𝑥 lateralmente questo rettangolino dovrà dissipare un po di potenza
termica, che viene dalla piastra. Perché se l’elemento deve dissipare, l’energia gli deve poter
arrivare, quindi deve essere energia che entra sulla sua faccia sinistra. Ma affinchè anche
l’elementino successivo possa dissipare, deve ricevere potenza termica, che via via decresce a mano
a mano che fluisce per convezione. Ogni elementino quindi deve vedere una potenza in ingresso da
195

sinistra, pari a quella che disperde verso il resto dell’aletta, per conduzione, e quella che dissipa
lateralmente (per convezione). Ovvero potrò scrivere:

𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎


𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎
𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑓𝑢𝑜𝑟𝑖

ria
( )=( ) + ( 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑎𝑙 )
𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑑𝑎𝑙 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑡𝑡𝑜
𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑎𝑙 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜
𝑝𝑜𝑠𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑥 𝑝𝑜𝑠𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑥 − Δ𝑥

In termini analitici avrò:

𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑,𝑥 = 𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 𝑥−Δ𝑥 + 𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑣

gne
Dove:

𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑣 = ℎ ∙ 𝐴𝑙 ∙ (𝑇 − 𝑇∞ )

Considerando 𝐴𝑙 la sezione laterale dell’aletta a contatto col fluido, ∆𝑥 lo spessore del generico
volumetto (come da figura) e p il perimetro, e quindi potrò scrivere 𝐴𝑙 = ∆𝑥 ∙ 𝑝, che è l’area laterale
a contatto col fluido, e quindi:
nge
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑣 = ℎ ∙ (𝑝∆𝑥 ) ∙ (𝑇 − 𝑇∞ )

E come ipotesi iniziale ricordiamo che h è costante. La differenza di temperatura fra aletta e fluido,
è temperatura locale dell’aletta, meno temperatura locale del fluido, che immaginiamo sia alla
stessa temperatura ovunque. La temperatura dell’aletta però, non può essere la stessa su tutta
l’aletta, anzi siamo certi che dalla radice alla punta, la temperatura deve essere decrescente, e deve
I
essere una funzione della x. Per la nostra trattazione per ora non scriveremo T(x) ma teniamo
presente che la temperatura deve variare con la ascissa. Sostituiamo la relazione appena scritta in
quella di sopra e portiamo tutto a primo membro e dividiamo per ∆𝑥. Avremo:

𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 𝑥−Δ𝑥 − 𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑,𝑥


+ ℎ ∙ 𝑝 ∙ (𝑇 − 𝑇∞ ) = 0
ere

∆𝑥

Se ∆𝑥 tende a zero, diventa un dx e quindi potrò ulteriormente scrivere:

𝑑𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑
∆𝑥 → 0, si ha: + ℎ ∙ 𝑝 ∙ (𝑇 − 𝑇∞ ) = 0
𝑑𝑥
Viv

La potenza termica che viaggia all’interna dell’aletta è, ricordiamo, in condizioni stazionarie e quindi
applico il postulato di Fourier, scrivendo:

𝑑𝑇
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑑 = −𝜆 ∙ 𝐴𝐶
𝑑𝑥

Dove in questo caso, 𝐴𝐶 è la sezione trasversale dell’aletta, ovvero quella superficie che scambia per
conduzione all’interno della aletta, quella superficie che hanno in comune sezioni successive di
aletta. E quindi, sostituendo questa relazione appena trovata nella formulazione precedente, e
cambiando di segno, avrò:
196

𝑑 𝑑𝑇
(𝜆 ∙ 𝐴𝐶 ) − ℎ ∙ 𝑝 ∙ (𝑇 − 𝑇∞ ) = 0
𝑑𝑥 𝑑𝑥

Questa equazione, piuttosto complicata da risolvere quando 𝐴𝐶 ed il perimetro p dell’aletta

ria
dipendono dalla posizione x, è di più semplice risoluzione quando si considerino alette a sezione
trasversale costante e con conducibilità termica costante. Poiché la sezione è costante così come la
conducibilità, potrò scrivere:

𝑑2𝑇
𝜆 ∙ 𝐴𝐶 − ℎ ∙ 𝑝 ∙ (𝑇 − 𝑇∞ ) = 0
𝑑𝑥 2

gne
Possiamo operare una sostituzione di variabili, scrivendo 𝜃 = 𝑇 − 𝑇∞ che chiamiamo eccesso di
temperatura. Ovvero, se ipotizziamo l’aria a 20°C e la piastra ad 80°C, ricordiamo che T è la
temperatura che ha la piastra localmente, quindi la nuova variabile ci dice quanto è più calda l’aletta
punto per punto rispetto al fluido. L’equazione può essere riscritta come:

𝑑2𝜃 2 2
ℎ∙𝑝
− 𝑚 𝜃 = 0 dove 𝑚 =
𝑑𝑥 2 𝜆 ∙ 𝐴𝐶
nge 28/05/2018

La soluzione generale di questa equazione differenziale lineare, omogenea, del secondo ordine ed
a coefficienti costanti è la combinazione lineare di due soluzioni linearmente indipendenti.
Verifichiamo perché abbiamo scritto 𝑚2 e perché le due espressioni 𝜃1 = 𝑒 𝑚𝑥 e 𝜃2 = 𝑒 −𝑚𝑥 sono
due soluzioni particolari dell’equazione. Se 𝜃1 è una soluzione particolare, devo verificarlo, e quindi
derivo due volte, ottenendo proprio 𝑚2 𝜃1 e sostituendo, risolve l’equazione. Parimenti per 𝜃2 :
I
𝑑𝜃1 𝑑 2 𝜃1
𝜃1 = 𝑒 𝑚𝑥 … = 𝑚𝑒 𝑚𝑥 … = 𝑚2 𝑒 𝑚𝑥 = 𝑚2 𝜃1
𝑑𝑥 𝑑𝑥 2

𝑑𝜃2 𝑑 2 𝜃2
ere

𝜃2 = 𝑒 −𝑚𝑥 … = −𝑚𝑒 −𝑚𝑥 … = 𝑚2 𝑒 −𝑚𝑥 = 𝑚2 𝜃2


𝑑𝑥 𝑑𝑥 2

Allora la mia soluzione generica potrà essere espressa come combinazione lineare di queste due
soluzioni indipendenti:

𝜃(𝑥 ) = 𝐶1 𝑒 𝑚𝑥 + 𝐶2 𝑒 −𝑚𝑥
Viv

Questa equazione generale va però particolarizzata imponendo condizioni al contorno per


determinare C1 e C2. La prima condizione al contorno, la valutiamo operando una astrazione,
ovvero che l’aletta sia estremamente lunga. Alla punta dell’aletta, se questa è infinitamente lunga,
poiché disperde calore, la sua temperatura locale sarà pari a quella del fluido, avendo tutto il tempo
di entrare in equilibrio termico. Portandosi alla medesima temperatura, possiamo dire che:

𝜃 (𝐿) = 𝑇𝐿 − 𝑇∞ = 0 per 𝐿 → ∞

Dove 𝑇𝐿 e la temperatura locale all’estremo dell’aletta. L’imposizione di questa condizione al


contorno, che è logica anche se la nostra aletta non è infinita, ci permette di determinare:
197

𝐶1 = 0

Poiché abbiamo scritto:

𝜃(𝑥 ) = 𝐶1 𝑒 𝑚𝑥 + 𝐶2 𝑒 −𝑚𝑥

ria
Quando 𝑥 → ∞ m è un numero positivo per come l’abbiamo definito e quindi, mentre 𝐶2 𝑒 −𝑚𝑥 tende
a zero, e vogliamo che anche la nostra 𝜃(𝑥 ) tenda a zero (ricordiamoci che la funzione così definita
è la differenza di temperatura locale con il fluido e alla fine dell’aletta vogliamo che le due
temperatura coincidano) e, mentre 𝐶2 𝑒 −𝑚𝑥 contribuisce a ciò, questo non è vero per 𝐶1 𝑒 𝑚𝑥 che
tenderebbe anch’esso ad infinito. Pertanto deve necessariamente essere C1 = 0. La nostra soluzione

gne
sarebbe dunque:

𝜃 (𝑥 ) = 𝐶2 𝑒 −𝑚𝑥

Ci occorre un’altra condizione al contorno per determinare C2. Supponiamo allora nota la radice alla
base dell’aletta. Il che è naturale, io voglio progettare l’aletta in modo che disperda una quantità di
calore che deriva dalla temperatura della mia piastra che io conosco, ed è quindi lecito pensare che
nge
tale temperatura della piastra sia la medesima alla radice dell’aletta. Pertanto la mia seconda
condizione al contorno, per x = 0 (quindi alla radice) sarà:

𝜃(0) = 𝜃𝑏 = 𝐶2 𝑒 −𝑚0 = 𝐶2

Dove 𝜃𝑏 è la differenza di temperatura con il fluido in


corrispondenza della radice. Quindi 𝜃𝑏 = 𝐶2 (ricordiamo che
per x = 0, l’esponenziale è elevato a 0 e quindi è pari ad 1). E
I
quindi:

𝜃 (𝑥 )
𝜃(𝑥 ) = 𝜃𝑏 ∙ 𝑒 −𝑚𝑥 ⇒ = 𝑒 −𝑚𝑥
𝜃𝑏
ere

Ovvero la differenza di temperatura tra aletta e fluido decresce


esponenzialmente da 𝑇𝑏 a 𝑇∞. Ossia:

𝑇(𝑥 ) − 𝑇∞ ℎ∙𝑝
−𝑥∙√
= 𝑒 −𝑚𝑥 = 𝑒 𝜆∙𝐴𝐶
𝑇𝑏 − 𝑇∞
Viv

Ciò comporta che la parte dell’aletta più prossima alla radice è


molto più efficace in termini di potenza trasmessa, della zona
più lontana. Dall’equazione posso naturalmente ricavare la
temperatura che cerco, note le altre, in particolare:

ℎ∙𝑝
−𝑥∙√
𝑇(𝑥 ) = 𝑇∞ + (𝑇𝑏 − 𝑇∞ ) ∙ 𝑒 𝜆∙𝐴𝐶

Il nostro problema era provare a dissipare calore, e si è capito che ogni elementino dissipa calore
sulla base della legge di Newton che vede la potenza termica proporzionale alla differenza di
temperatura, all’area di scambio e al coefficiente convettivo. Dalla relazione ricavata sopra,
198

abbiamo altresì visto che la zona più vicina alla radice della aletta è molto più efficace per lo scambio
termico e, a mano a mano che si procede verso l’estremità, la potenza termica per unità di superficie
scambiata si riduce, sino all’estremità dove è nulla la differenza di temperatura. Definiamo ora due
parametri di merito che ci aiutano a quantificare l’entità del beneficio che l’alettatura offre sulla

ria
dispersione di potenza e proporre anche diversi spunti per la loro ottimizzazione.

Efficienza dell’aletta

Riflettiamo per un attimo considerando la situazione pre-


installazione dell’aletta, ed immaginando quindi la parete a Tb e
considerando una sua areola Ab, quella su cui decidere o meno di

gne
installare una aletta. Il concetto di efficienza dell’aletta è legato al
rapporto fra la potenza termica che l’aletta mi permette di
trasmettere al fluido e la massima potenza termica che posso
immaginare l’aletta disperderebbe qualora questa fosse realizzata
da materiale di conducibilità termica infinita. In quale ipotesi,
questa mia aletta sarebbe performante al massimo? Abbiamo
capito che l’aletta si rende efficace dove la differenza di
nge
temperatura tra aletta e fluido è molto elevata. Il gradiente di
temperatura dalla radice alla punta dell’aletta c’è perché, per il
postulato di Fourier affinché il calore transiti le varie posizioni
dell’aletta c’è bisogno di una temperatura decrescente. Ma la
potenza termica che fluisce è proporzionale alla conducibilità
termica. E se come abbiamo ipotizzato, la conducibilità termica è
I
infinita, allora questa potenza termica per transitare non ha
bisogno di nessun gradiente. Quindi l’aletta migliore, sarebbe
proprio quella di conducibilità infinita, osservando tutto il suo
sviluppo con la stessa temperatura della radice. E se è ovunque nell’aletta la stessa della radice,
allora la differenza di temperatura con il fluido è sempre la più alta possibile. Siamo nel caso di una
ere

aletta ideale:

𝑄̇𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 𝑚𝑎𝑥 = ℎ ∙ 𝐴𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 ∙ (𝑇𝑏 − 𝑇∞ )

Ebbene, una aletta reale, ha invece di fatto una potenza termica scambiata inferiore. Rispetto ad
una alettatura ideale, si tende ad introdurre un parametro di efficienza per le alettature reali definita
come rapporto tra la potenza termica della mia aletta reale e la potenza termica ideale.
Viv

𝑄̇𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 potenza termica reale trasmessa dall′aletta


𝜂𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 = = <1
𝑄̇𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 𝑚𝑎𝑥 potenza termica ideale trasmessa dall′ aletta
se tutta l′ alettafosse alla temperatura della base

Tuttavia questa relazione, non si usa per ricavare l’efficienza a partire dalla potenza termica
scambiata da una aletta reale e di quella scambiata da una ideale. Ma piuttosto la si usa per ricavare
la potenza termica scambiate da una mia aletta reale, a partire da valori di efficienza ricavati da
numerose prove di laboratorio e tabellati. Quindi:
199

𝑄̇𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 = 𝜂𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 ∙ 𝑄̇𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 𝑚𝑎𝑥 = 𝜂𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 ∙ ℎ ∙ 𝐴𝑏 ∙ (𝑇𝑏 − 𝑇∞ )

Ebbene, esistono tabelle che per varie geometrie di alettature, sia in forma analitica sia in forma
grafica. Nota l’efficienza, posso ricavare il valore dalla potenza termica trasmessa dalla mia aletta

ria
reale. Tale efficienza dalla alettatura, non va confusa con la efficacia dell’alettatura che ha un
significato del tutto diverso: mentre l’efficienza comparava quello che disperde, con quello che
avrebbe disperso se si fosse trattato di una alettatura ideale, questo parametro tende a rispondere
ad una domanda più banale: l’inserimento dell’alettatura, in aggiunta alla mia superficie, aumenta
la dispersione termica, o no? Cioè, la presenza dell’alettatura, presenta un beneficio oppure no?
L’efficacia dell’aletta ci dice proprio questo, ed è calcolato come:

gne
potenza termica trasmessa
𝑄̇𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 ̇
𝑄𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 dall′ aletta di area di base Ab
𝜀𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 = = =
𝑄̇𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 ℎ ∙ 𝐴𝑏 ∙ (𝑇𝑏 − 𝑇∞ ) potenza termica trasmessa
dalla superficie di area Ab

Dove il numeratore è ovviamente la potenza termica della mia aletta


reale. Mentre il denominatore è la dispersione che si avrebbe per
nge
semplice convezione qualora non vi fosse l’aletta. Ovvero una normale
convezione con area pari alla sezione della eventuale aletta. Se si
presume che l’alettatura porti benefici, va da sè che il numeratore sia
decisamente superiore al denominatore, e quindi l’efficacia è un
numero molto maggiore di uno che ci indica quante volte la presenza
dell’aletta è migliore rispetto alla sua assenza. Nei casi in cui questa
efficacia è pari o minore di uno, vuol dire che l’aletta funziona male,
I
ovvero che l’ho inserita per dissipare ma non porta nessun beneficio.
L’espressione generale dell’efficacia dall’aletta è dunque:

𝑄̇𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 𝜂𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 ∙ ℎ ∙ 𝐴𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 ∙ (𝑇𝑏 − 𝑇∞) 𝐴𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎


𝜀𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 = = = ∙ 𝜂𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎
𝑄̇𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 ℎ ∙ 𝐴𝑏 ∙ (𝑇𝑏 − 𝑇∞) 𝐴𝑏
ere

Ma in quali casi tale parametro può essere uguale o inferiore a 1? Il primo motivo è che posso avere,
in virtù della presenza dell’aletta, se quest’ultima ostacola di molto il moto del fluido rendendolo
poco mobile, il coefficiente convettivo si riduce di molto, e quindi potrebbe esserci un effetto
negativo. Il secondo motivo è che la mia aletta è stata realizzata in materiale poco conduttivo e di
conseguenza non riesce a funzionare a dovere. È chiaro che se io devo disperdere calore non
Viv

realizzerò mai una aletta in materiale poco conduttivo, ma è un ragionamento teorico che ci aiuta a
capire quali parametri influenzano l’efficacia dell’aletta.

Per l’aletta infinitamente lunga esaminata per il calcolo di un profilo teorico di temperatura, si
osserva che:

𝑄̇𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 𝜆∙𝑝
𝜀𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 = =⋯=√
𝑄̇𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 ℎ ∙ 𝐴𝐶

E da ciò deduciamo che:


200

 L conducibilità termica del materiale che costituisce l’aletta deve essere più elevata possibile.
Ciò spiega perché le alette sono in genere realizzate in rame, alluminio, ecc.
 Il rapporto tra perimetro p ed are della sezione dell’aletta deve essere il più elevato possibile.
Pertanto si realizzano spesso alette a lamina sottile o a spillo.

ria
 L’uso delle alette è più efficace nelle applicazioni in cui sia ha un coefficiente convettivo h
molto basso. Pertanto l’uso delle alette è molto più giustificato, ad esempio, quando il fluido
è un gas (rispetto al caso di un liquido) o quando il fluido è stagnante (convezione naturale)
piuttosto che messo energicamente in movimento da una forzante esterna (convezione
forzata).

gne
Il progettista deve fare attenzione alla giusta lunghezza
dell’aletta: poiché la temperatura dell’aletta decresce
esponenzialmente, la parte di una aletta oltre una certa
distanza dalla base non contribuisce allo scambio termico e
rappresenta spreco di materiale, aumento di peso ed ingombro
ed immotivato ostacolo al flusso di fluido riducendo il
coefficiente convettivo.
nge
Conduzione termica in regime variabile

Solitamente in un problema fisico, la temperatura sarà


funzione sia della posizione sia del tempo. Nello studio non
stazionario e quindi in regime variabile di un campo di
temperatura, risulta molto agevole la trattazione dei cosiddetti sistemi a parametri concentrati,
sistemi per i quali è possibile trascurare la differenza di temperatura tra una posizione e un'altra,
I
quindi assumendo ovunque la stessa temperatura, e così riconducendo la funzione temperatura
dipendere esclusivamente dal tempo:

𝑇 = 𝑇(𝑥, 𝑦, 𝑧, 𝑡) ⇒ 𝑇 = 𝑇(𝑡)
ere

Immaginiamo in un forno una sfera di rame ed un tocco di carne. L’esperienza ci dice che, ad un
dato istante, estraendo i due corpi dal forno, la sfera di rame si presenta molto calda in superficie
ma sarà altrettanto calda in profondità, in virtù della sua conducibilità termica. Diversamente accade
per il tocco di carne, che prima che riscaldi in profondità occorre che passi un tempo
sufficientemente lungo. Ci limiteremo allo studio dei corpi che possono essere assimilati a parametri
concentrati.
Viv

Immaginiamo dunque un corpo solido generico con una certa area


superficiale. Abbia una massa m, calcolabile anche come prodotto tra
volume e densità (che assumiamo costante). Il mio corpo abbia
inizialmente una temperatura Ti, e venga al tempo t=0 venga esposto ad
un fluido che ha una temperatura 𝑇∞ costante nel tempo. Inoltre, al
contatto fra fluido e corpo, sia ha uno scambio termico (per convezione)
computabile con un coefficiente convettivo h noto. Se Ti è minore di 𝑇∞
succederà che questo mio corpo, supposto a parametri concentrati, è un
corpo freddo immerso in un fluido caldo, che gli fornirà calore
201

riscaldandolo. Quindi punto per punto il mio corpo si porterà, col tempo, a 𝑇∞. Se invece Ti è
maggiore di 𝑇∞ si andrà incontro raffreddamento. In un generico istante, se la sua temperatura è T,
la potenza termica che egli riceve dal fluido, è la stessa che esso userà per innalzare la sua
temperatura, quindi:

ria
ℎ ∙ 𝐴 ∙ (𝑇∞ − 𝑇)𝑑𝑡 = 𝑚𝑐𝑝 𝑑𝑇

questo è un bilancio dell’energia che dice che la potenza termica ricevuto dal fluido diventa
contenuto energetico della mia sostanza che si riscalda. Ancora una volta ci conviene modificare
leggermente questa espressione per renderla più facilmente integrabile. Considerando che 𝑑𝑇 =
𝑇∞ − 𝑇 e 𝑚 = 𝑉𝜌 avrò, cambiando di segno:

gne
𝑑(𝑇 − 𝑇∞) ℎ𝐴
=− 𝑑𝑡
𝑇𝑖 − 𝑇∞ 𝜌𝑉𝑐𝑝

Tale relazione è semplice da integrare, ottenendo sino ad un generico istante t:

𝑇(𝑡) − 𝑇∞ ℎ𝐴
ln =− 𝑡

E facendo la potenza in base e:


nge 𝑇𝑖 − 𝑇∞ 𝜌𝑉𝑐𝑝

𝑇(𝑡) − 𝑇∞ ℎ𝐴 1
= 𝑒 −𝑏𝑡 dove 𝑏= [ ]
𝑇 − 𝑇∞ 𝜌𝑉𝑐𝑝 𝑠

Tale relazione consente di valutare la T(t) del corpo in un generico istante t, o al contrario di calcolare
I
il tempo necessario affinché la temperatura del corpo raggiunga un determinato valore. La rapidità
con cui un corpo raggiunge la temperatura del fluido dipende
proprio dal coefficiente b, più è grande, più rapidamente vi arriva,
e quindi più rapido è il transitorio di riscaldamento. Per un dato
ere

tempo, se b che è un valore positivo, l’esponenziale che è elevato


ad un numero negativo che va crescendo, tende presto all’unità.
Per far raggiungere al mio solido la temperatura desiderata il più
rapidamente possibile, posso intervenire su quei parametri che
influenzano il parametro b.

L’energia scambiata da t=0 ad un generico t, vale:


Viv

𝑄 = 𝑚𝑐𝑝 (𝑇(𝑡) − 𝑇∞)

E si sarebbe potuta trovare anche come:


𝑡 𝑡
𝑄 = ∫ 𝑄 ∙ 𝑑𝑡 = ∫ ℎ𝐴[𝑇(𝑡) − 𝑇∞ ] ∙ 𝑑𝑡
𝑡=0 𝑡=0

Ma l’assunzione del corpo come un solido a parametri concentrati, è corretta? Dal punto di vista
fisico come facciamo a dire che un corpo di proprietà intermedie può essere considerato a parametri
202

concentrati? Introduciamo una grandezza chiamata lunghezza caratteristica, definita come rapporto
tra volume e superficie

𝑉
𝐿𝑐 = (𝑚 )
𝐴

ria
Il significato fisico di questa lunghezza, per esempio per una sfera, è r/3. Presa per un cubo per
esempio è l/6. Vediamo che questo rapporto ci dà sempre un’idea indiretta, mediata, della distanza
media che i vari elementini di solido hanno dalla superficie del solido stesso. Definita questa
lunghezza caratteristica, introduciamo il numero di Biot:

gne
ℎ ∙ 𝐿𝑐
𝐵𝑖 =
𝜆

Immaginiamo di moltiplicare e dividere per Δ𝑇 . ciò non cambia nulla, ma adesso il numeratore
sembra una potenza termica specifica scambiata per convezione mentre il denominatore sembra
una potenza termica specifica scambiata per conduzione. Convezione che avviene tra fluido e
superficie e conduzione all’interno del corpo stesso.
nge
ℎ Δ𝑇 convezione sulla superficie del corpo
𝐵𝑖 = =
𝜆⁄ Δ𝑇 conduzione all′interno del corpo
𝐿𝑐

Tale parametro può essere quindi visto come un rapporto tra la facilità con la quale il calore si
trasmette tra fluido e corpo e la facilità con cui il calore si trasmette all’interno del corpo stesso.
Posso anche riscriverlo come:
I
𝐿𝑐⁄ ′
𝐵𝑖 = 𝜆 = resistenza conduttiva per unità di superficie all interno del corpo
1⁄ resistenza convettiva per unità di superficie esterna del corpo

Ad un valore basso del numero di Biot, corrisponde una piccola resistenza alla conduzione termica
ere

(rispetto alla convezione) e quindi la necessità di gradienti di temperatura in seno al corpo molto
modesti per consentire il passaggio di calore. Il sistema a parametri perfettamente concentrati è
quindi quello a Biot=0, e sono in genere modellizzabili tramite l’assunzione di parametri concentrati
quei corpi per cui risulta.

𝐵𝑖 < 0,1
Viv

La sferetta di rame, ha una resistenza conduttiva così bassa al suo interno, che la sua unica resistenza
era convettiva sulla sua superficie. Al contrario il tocco di carne ha valore di conduzione interna
molto basso. Tanto più è basso il numero di Biot, tanto più è corretta l’assunzione di sistema a
parametri concentrati.

29/05/2018

Cominciamo lo studio più accurato e sistematico della trasmissione del calore per convezione a
partire da un caso semplice, che è la convezione forzata in flusso esterno su lastra piana. Chiariamo
203

innanzi tutto la distinzione tra convezione forzata e convezione naturale. Tale distinzione è basata
sulla causa che origina il moto:

 Nella convezione forzata il fluido è costretto a scorrere su una superficie o in un condotto da


dispositivi o fenomeni esterni, come una pompa, un ventilatore o il vento. Tale moto è quindi

ria
presente indipendentemente dalla temperatura a cui si trovano la piastra ed il fluido
 Nella convezione naturale il moto del fluido è dovuto al fenomeno del galleggiamento, che
provoca la risalita del fluido più caldo (ad esempio in prossimità di una parete calda) rispetto
a quello più freddo, per effetto della variazione di densità con la temperatura. quindi, poiché
tale moto è indotto indirettamente dallo scambio termico, esso si presenta solo se il fluido

gne
lambisce una temperatura diversa dalla sua temperatura indisturbata, e non è dovuto ad
alcuna forzante esterna.

Richiamiamo sinteticamente alcuni concetti di fluidodinamica: studiando una parete piana lambita
da un fluido, abbiamo visto come si ingenera uno strato limite meccanico, in cui i filetti fluido
risentono della presenza della piastra, e ne abbiamo definito lo spessore come quello in cui, alla
quota della periferia dello strato limite il fluido raggiunga il 99% della velocità del fluido indisturbato.
nge
Abbiamo altresì visto come a contatto con la piastra ferma i filetti fluidi hanno velocità pari a quella
della piastra, quindi 0. Ed infine, la transizione da strato limite laminare a turbolento, in
corrispondenza di una ascissa critica tale che risulti, in essa Re= 5*10^5.

Adesso supporremo la piastra ad una temperatura 𝑇𝑠𝑢𝑝 diversa da quella del fluido che la lambisce.
Ragion per cui succederà tutta una serie di fenomeni. Intanto partiamo dalla definizione già
avanzata della entità del flusso termico tra fluido e parete, che si calcola tramite la legge di Newton
già vista, ovvero:
I
𝑊
𝑄̇𝑐𝑜𝑛𝑣 = ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝 ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇∞ ) [𝑊 ] ⇒ 𝑞𝑐𝑜𝑛𝑣 = ℎ ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇∞ ) [ ]
𝑚2

Spesso sarà più utile ragionare in termini di flusso specifico riferito alla unità di superficie.
ere

La condizione di scorrimento nullo, comporta che il primo filetto fluido a contatto con la parete sia
necessariamente fermo, allora il fenomeno fisico di passaggio di potenza termica, quando la piastra
è più calda del fluido, è un passaggio di potenza che va dalla piastra al fluido ed ha un andamento
che noi abbiamo scritto come sopra. Ma dal punto di vista fisico, come fa questa potenza termica a
fluire dalla parete al fluido? se è supposto fermo il primo filetto fluido, il passaggio non può avvenire
Viv

per convezione, ma per conduzione e deve quindi valere:

𝜕𝑇
𝑞𝑐𝑜𝑛𝑣 = 𝑞𝑐𝑜𝑛𝑑 = −𝜆𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 ∙ |
𝜕𝑦 𝑦=0

La medesima potenza termica, che fluisce in maniera complessiva tra parete e fluido, è quella che
attraversa il primo filettino per mera conduzione (dove y è la distanza dalla parete). Pertanto, il
flusso termico scambiato per convezione tra parete e fluido altro non è che il flusso termico
conduttivo scambiato dalla superficie solita con lo straterello di fluido ad essa adiacente. Se
ricordiamo che 𝑞𝑐𝑜𝑛𝑣 si può scrivere come abbiamo imparato dalla legge di Newton e lo poniamo
uguale al calore specifico scambiato per conduzione, otteniamo:
204

𝜆𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 ∙ (𝜕𝑇⁄𝜕𝑦 )
𝜕𝑇 𝑦=0
ℎ ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇∞ ) = −𝜆𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 ∙ | ⇒ ℎ=−
𝜕𝑦 𝑦=0 𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇∞

ria
e possiamo ricavare h. cioè, se io sapessi che andamento ha il profilo di temperatura in
corrispondenza della parete, avrei tutti i dati per poter ricavare h calcolandolo tramite questa
relazione. Di fatto però non si può usare in quanto (𝜕𝑇⁄𝜕𝑦 ) ovvero la pendenza del profilo di
𝑦=0
temperatura in seno al fluido non ce la fornisce nessuno. Allora si preferisce ricavare h tramite
analisi sperimentali. Ancora una volta vale per la convezione quello che si diceva in fluidodinamica,

gne
ovvero prima di voler calcolare h occorre valutare da quali parametri questo h dipende. Ebbene si
trova che il numero di parametri fisici è particolarmente elevato ancor più di quanto non accadesse
per fattore delle perdite di carico in fluidodinamica, tra cui viscosità del fluido, conducibilità termica,
densità, calore specifico, velocità, etc. ancora una volta si beneficia dell’analisi dimensionale, e
quindi del noto teorema di Buckingham. Non deriveremo i numeri adimensionali ma li definiremo
tal quali. Il primo e probabilmente uno tra i più rilevanti è il numero Nusselt:

ℎ ∙ 𝐿𝑐
nge 𝑁𝑢 =
𝜆

In cui 𝜆 è la conducibilità termica del fluido, h il coefficiente convettivo e 𝐿𝑐 è una grandezza


caratteristica del problema. Qualcosa che ci vuole far cogliere il significato fisico del numero di
Nusselt è questo: consideriamo uno strato di fluido che immaginiamo interposto tra due pareti
piane T1 e T2. Per l’ipotesi di scorrimento nullo siamo certi che i
filetti a contatto con le pareti sono fermi ed alla stessa
I
temperatura delle piastre. Consideriamo T2 maggiore di T1,
quindi il salto termico varrà T2 – T1. Se noi ci chiedessimo quanto
questo strato di fluido scambierebbe calore se il trasferimento
avvenisse per mera conduzione, considerando la distanza tra le
piastre L, avremmo:
ere

∆𝑇
𝑞𝑐𝑜𝑛𝑑 = 𝜆 ∙
𝐿

Invece abbiamo visto che la potenza termica scambiata per convezione, che è quella della legge di
Newton, che abbiamo calcolato come:
Viv

𝑞𝑐𝑜𝑛𝑣 = ℎ ∙ ∆𝑇

Calcolando un rapporto tra la potenza termica trasferita per convezione, e quella trasmessa per
conduzione, ne deriva:

𝑞𝑐𝑜𝑛𝑣 ℎ ∙ ∆𝑇 ℎ ∙ 𝐿
= = = 𝑁𝑢
𝑞𝑐𝑜𝑛𝑑 𝜆 ∙ ∆𝑇 𝜆
𝐿

Ossia quello che abbiamo appena definito numero di Nusselt, che assume il significato di rapporto
tra la potenza termica che si scambia per convezione tra fluido e parete e quella che si scambierebbe
205

per mera conduzione. Allora si è soliti dire che il numero di Nusselt è una misura di quanto la
convezione consente un trasferimento di calore più energico rispetto a quello che si avrebbe per
mera conduzione. Cioè, un numero di Nusselt pari a 10 starebbe ad indicare che la potenza termica
che si scambia per convezione è 10 volte superiore a quella che un analogo strato di fluido

ria
scambierebbe se ciò avvenisse per sola conduzione. Vediamo che esiste una precisa analogia
formale tra il numero di Nusselt e quello di Biolt. Quest’ultimo pur avendo la medesima
formulazione analitica, ha un significato fisico completamente diverso, perché determinava il campo
di temperatura in seno ad un oggetto, valutandone la possibilità di modellizzazione di quest’ultimo
come un corpo a parametri concentrati. Adesso invece stiamo osservando la medesima funzionalità
di questa espressione, per valutare quanto più energica sia la trasmissione di calore per convezione

gne
rispetto a quella per conduzione. Infatti, nel numero di Biolt la conducibilità termica era quella del
solito, stavolta è quella del fluido. Ed L, era la lunghezza caratteristica della geometria in esame, qui
corrisponde ad una lunghezza caratteristica generica, che è scelta in maniera differente per ogni
geometria. L’analogia formale non deve confondere i due diversi significati fisici delle due
espressioni. Proprio per questo motivo non bisogna esasperare il significato fisico del valore
numerico del numero di Nusselt, infatti la definizione era volta a farne intuire un significato fisico,
ma è stata derivata per una specifica geometria: strato di fluido di spessore L assunto come
nge
grandezza caratteristica. Per un tubo tale grandezza potrebbe corrispondere al diametro per
esempio. Per la piastra piana, ad esempio, la lunghezza caratteristica è quella L della piastra assunta
come distanza dall’imbocco della piastra, ed è una situazione ben diversa.

Lo strato limite di temperatura in convezione forzata

Chiamiamo strato limite termico la regione in


I
prossimità della parete nella quale possiamo
supporre che il fluido risenta del disturbo termico
connesso alla piastra calda o fredda. Al di fuori dello
strato limite siamo in una condizione di fluido
indisturbato e quindi presenta ovunque la
ere

temperatura 𝑇∞ di corrente indisturbata. Dobbiamo


valutare e decidere quanto deve essere esteso questo
strato limite. Nel caso della fluidodinamica, abbiamo
fissato lo spessore come corrispondente al 99% della
velocità della corrente indisturbata. Ma questa dicitura:
Viv

𝑤(𝛿(𝑥 )) = 0,99 ∙ 𝑤∞

Nasceva dal fatto che la velocità locale del fluido, a contatto della parete è pari a zero. Ma in questo
caso, la piastra non è a temperatura zero. Già quando abbiamo trattato questa scrittura in
fluidodinamica si era detto di concepirla diversamente. Ovvero come:

𝑤(𝛿 (𝑥 )) − 𝑤(0) = 0,99 ∙ (𝑊∞ − 0)

Questa legge scritta in questo modo, è identica a questa:

𝑇(𝑦, 𝑥 ) − 𝑇𝑠𝑢𝑝 = 0,99 ∙ (𝑇∞ − 𝑇𝑠𝑢𝑝 )


206

Questa relazione scritta così, ci dice meglio che, consideriamo estinto il transitorio meccanico
quando la differenza complessiva si è estinta al 99%. In questo caso, nel caso termico, definiamo lo
strato limite come quella quota alla quale il fluido ha già colmato il 99% della variazione di
temperatura che deve osservare tra parete e temperatura indisturbata. Ovvero:

ria
𝑇(𝑥) − 𝑇𝑠𝑢𝑝
𝛿𝑡 (𝑥 ) = 𝑦(𝑥 ) = = 0,99
𝑇∞ − 𝑇𝑠𝑢𝑝

Significa che, se ho la piastra a 20°C, ed il fluido a 80°C la differenza è 60°C. il 99% di 60 è 59,4 circa.
Quindi 59,4+20=79,4. Quando cioè il mio fluido è a 79,4 io considero estinto il mio transitorio. Il
significato dello strato limite è quindi la distanza alla quale il fluido ha coperto il 99% della variazione

gne
delle sue proprietà (in questo caso termiche, ma possono essere meccaniche) dalla condizione di
contatto con la piastra a quella dei filetti indisturbati. Si dimostra che l’andamento qualitativo dello
spessore dello strato limite termico ricorda quello dello strato limite meccanico presentando questo
andamento a parabola. Nella precedente figura sono mostrati i profili di temperatura tipici, in una
sezione, per il caso con 𝑇∞ > 𝑇𝑠𝑢𝑝 . A lato
invece, è mostrato il tipico profilo di
nge
temperatura in una sezione nel caso in cui
valga 𝑇∞ < 𝑇𝑠𝑢𝑝 . Nelle due figure è
mostrato anche l’andamento della linea
convenzionale che delimita lo strato limite
meccanico 𝛿𝑚 . Vediamo che lo strato
limite nella prima figura è posto
inferiormente allo strato limite termico. Ciò cosa vorrebbe dire? Se è vero che al di fuori di uno
I
strato limite il fenomeno da esso rappresentato si considera estinto, e quindi da lì in poi il fluido non
risente più del disturbo della piastra, un profilo di questo tipo ci dice che il disturbo viscoso, quello
meccanico, interessa solo una ristretta regione in prossimità di esse. Invece la temperatura più
fredda della piastra, influenza il fluido ad una distanza maggiore da quest’ultima. Nella seconda
figura invece avviene l’esatto contrario, il disturbo termico avviene in prossimità della piastra
ere

mentre quello meccanico si estende ad una distanza maggiore. Questa tuttavia non è una regola,
non è detto che la piastra più calda del fluido presenta uno strato limite meccanico maggiore di
quello termico, ma dipende solo da proprietà intrinseche del fluido in esame. Per capirlo
introduciamo un ulteriore numero adimensionale di grande importanza, il numero di Prandtl.

𝜈 diffusività molecolare della quantità di moto


𝑃𝑟 = =
Viv

𝛼 diffusività molecolare del calore

Abbiamo già definito la diffusività molecolare della quantità di moto quando abbiamo parlato di
fluidodinamica come:

𝜇 𝑚2
𝜈= [ ]
𝜌 𝑠

Mentre abbiamo la necessità di introdurre la diffusività del calore, che definiamo:


207

𝜆 𝑚2
𝛼= [ ]
𝜌 ∙ 𝑐𝑝 𝑠

Fisicamente queste grandezze ci dicono che: quando ho la mia piastra ferma, ed ho un moto

ria
indisturbato di fluido, appena comincia a lambire la piastra, i filetti che sono prossimi alla piastra
rallentano. In che modo il disturbo di velocità si va propagando? Ogni filetto già rallentato esercita
sul filetto adiacente uno sforzo di taglio atto a trattenerlo. Quindi la forza con la quale il filetto posto
sotto cerca di trattenerlo è proporzionale alla viscosità. Ma quanto facilmente una volta che il filetto
di sotto prova a trattenerlo il filetto che andava veloce sarà trattenuto? Dipende dalla sua inerzia:
se ha molta massa, riuscirà per inerzia, ad essere meno decelerato. Diversamente questa forza sarà

gne
sufficiente a rallentarlo. Quindi è il rapporto tra la viscosità e la densità che mi dà una misura di
quanto questo effetto influenzi il fenomeno. Più è alta la diffusività, più il fluido è capace di
infondere in tutto lo spazio la quantità di moto che localmente ha assunto. Ragioniamo ora su cosa
è questa diffusività del calore. In qualche modo deve essere la medesima cosa: ovvero deve essere
un parametro che ci indica la facilità con il quale il fluido diffonde gli effetti di scambio termico. Tale
parametro dipende dalla conducibilità termica, ovvero quanto facilmente ogni filetto trasmette per
conduzione al filetto adiacente. Ma se un filetto che era più caldo prova a trasmettere potenza al
nge
filetto adiacente, riesce ad aumentarne la temperatura? dipende dalla sua capacità termica, ovvero
densità e calore specifico. Con la conducibilità termica,
abbiamo una misura della facilità di scambio termico, mentre
con il denominatore abbiamo una riluttanza del fluido ad
aumentare la sua temperatura. ricapitolando: il significato di
tali due grandezze è intuitivo: esse rappresentano la tendenza
del fluido a propagare nello spazio, rispettivamente per effetto
I
della viscosità dinamica e della conducibilità termica, il calore;
al denominatore delle due diffusività vi sono delle componenti
collegate all’inerzia della propagazione della quantità di moto e
del calore. Poiché il calore si diffonde molto più velocemente
ere

della quantità di moto nei metalli liquidi (Pr<<1) e molto più lentamente negli oli (Pr>>1), lo strato
limite di temperatura è molto più spesso di quello di velocità per i metalli liquidi e molto più sottile
per gli oli. Una piccola nota merita il calcolo delle proprietà del fluido da utilizzare per il computo
dei numeri adimensionali nel numero di Nusselt per esempio ma ancora più nel calcolo del numero
di Prandtl entrano in gioco una serie di fattori, che sono proprietà termodinamiche di stato del
fluido, che sono funzioni della temperatura. una piastra calda ed un fluido che la lambisce freddo (o
Viv

viceversa) non ci garantisce la costanza dei parametri, che invece variano localmente. Dobbiamo
quindi decidere a quale temperatura calcolare le proprietà di stato. Convenzionalmente, si sceglie
di calcolare tali proprietà a quella che si definisce temperatura di film, che si calcola:

𝑇𝑠𝑢𝑝 + 𝑇∞
𝑇𝑓𝑖𝑙𝑚 =
2

La temperatura che ci interessa è quella all’interno dello strato limite, la cui temperatura media è
ragionevolmente rappresentata dalla temperatura di film. Molto rapidamente, ricordiamo
l’introduzione che abbiamo già fatto in fluidodinamica, del coefficiente di resistenza per il calcolo
degli sforzi di taglio.
208

𝐹𝑡𝑎𝑔𝑙𝑖𝑜 2 𝐹𝑡𝑎𝑔𝑙𝑖𝑜
𝜌 ∙ 𝑤∞
𝜏𝑠𝑢𝑝 = = 𝐶𝐷 ⇒ 𝐶𝐷 =
𝐴 2 1 2
2 𝜌 ∙ 𝑤∞ 𝐴

Ed abbiamo visto come il calcolo della forza di trascinamento esercitata dal fluido su una parete

ria
piana venga poi effettuato sulla base di un valore medio di 𝐶𝐷 su tutta l’area, calcolato come:

0,664
𝐶𝐷,𝑥 = 1⁄ 𝑙𝑎𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑒
𝑅𝑒𝑥 2
𝑥𝑐𝑟 𝐿
1 𝐿 1
𝐶𝐷 = ∫ 𝐶
𝐶 𝑑𝑥 𝐷 = ∙ (∫ 𝐶 𝑑𝑥 + ∫ 𝐶𝐷,𝑥 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑜𝑙𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑥 ) 𝑚𝑖𝑠𝑡𝑜

gne
𝐷,𝑥 𝑙𝑎𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑒
𝐿 0 𝐷,𝑥 𝐿 0 𝑥𝑐𝑟
0,059
𝐶𝐷,𝑥 = 1⁄ 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑜𝑙𝑒𝑛𝑡𝑜
5
{ 𝑅𝑒𝑥

Orbene, nel caso dello scambio termico, si opera esattamente allo stesso modo, deducendo
teoricamente espressioni del numero di Nusselt locale o, tramite integrazioni, globale, con
parametri calcolati tutti alla temperatura di film e nei quali i valori delle costanti (oltre alla
nge
congruenza con la fenomenologia in esame) devono essere verificati sperimentalmente. Le
espressioni che si ottengono per una piastra piana sono del tipo:

𝑁𝑢 = 𝐶 ∙ 𝑅𝑒 𝑚 ∙ 𝑃𝑟 𝑛

Che esprime Nusselt come una espressione monomia composta da tre costanti. I valori di queste
costanti vengono solitamente dedotte sperimentalmente, ed occasionalmente corroborate da
I
calcoli numerici. Proviamo a seguire questo processo logico: se lo sperimentatore mi fornisce il
valore di Prandtl e di Reynolds e di C, ed il numero di Nusselt, indicandomi anche i parametri
geometrici per il calcolo della lunghezza caratteristica, conosco la conducibilità termica perché è
quella del mio fluido alla temperatura di film, così come tutte le altre sue proprietà di stato dedotte
per quella temperatura, l’unica incognita della mia espressione è proprio il coefficiente convettivo.
ere

Tutto l’obiettivo di questa trattazione è ricavare Nusselt, perché una volta ricavato quello, trovare
h è estremamente facile. Le correlazioni sperimentali permettono di trovare Nusselt in funzione di
x, ovvero in funzione di quel parametro che maggiormente influenza il fenomeno di scambio
termico. Questo Nusselt basato su x, è definito come h in funzione di x per x locale su conducibilità
termica, e valgono queste due relazioni, per il moto laminare e per il moto turbolento.
Viv

ℎ𝑥 𝑥 1
𝑁𝑢𝑥 = = 0,332 ∙ 𝑅𝑒𝑥0,5 𝑃𝑟 3 𝑙𝑎𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑒
𝜆
ℎ𝑥 𝑥 1
𝑁𝑢𝑥 = = 0,0296 ∙ 𝑅𝑒𝑥0,8 𝑃𝑟 3 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑜𝑙𝑒𝑛𝑡𝑜
𝜆

Si nota che ℎ𝑥 è proporzionale a 𝑅𝑒𝑥0,5 e quindi a 𝑥 −0,5 nel


moto laminare. Ne consegue che ℎ𝑥 è infinito al bordo
d’attacco (x=0) e decresce proporzionalmente a 𝑥 −0,5 nella
direzione del flusso. La variazione dello spessore dello strato
limite e dei coefficienti di attrito e di scambio termico lungo
209

una piastra isoterma sono mostrati nella precedente figura: i coefficienti di attrito e di scambio
termico sono maggiori nel flusso turbolento rispetto al laminare. Inoltre, ℎ𝑥 raggiunge il suo
massimo valore quando il flusso diventa completamente turbolento e decresce poi
proporzionalmente a 𝑥 −0,2 nella direzione del flusso. Il numero di Nusselt medio sull’intera piastra

ria
viene determinato sostituendo le relazioni precedenti nella espressione:

1 𝐿
ℎ= ∫ ℎ 𝑑𝑥
𝐿 0 𝑥

ed integrando si ottiene:

gne
ℎ∙𝐿 1
𝑁𝑢𝐿 = = 0,664 ∙ 𝑅𝑒𝐿0,5 𝑃𝑟 3 𝑙𝑎𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑒
𝜆
ℎ𝑥 𝑥 1
𝑁𝑢𝑥 = = 0,037 ∙ 𝑅𝑒𝐿0,8 𝑃𝑟 3 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑜𝑙𝑒𝑛𝑡𝑜
𝜆

La prima relazione fornisce il coefficiente di scambio termico medio per l’intera piastra quando il
flusso è laminare sull’intera piastra, mentre la seconda relazione dà il valore medio del coefficiente
nge
di scambio termico medio per l’intera piastra solo quando il flusso è turbolento sull’intera piastra, o
quando la regione interessata da flusso laminar sia molto piccola rispetto alla regione con flusso
turbolento. In alcuni casi, una piastra piana è sufficientemente lunga per trascurare la regione di
flusso laminare. In tali casi, il coefficiente di scambio termico medio sull’intera piastra è determinato
integrando l’equazione precedente in due parti, come:
𝑥𝑐𝑟 𝐿
1
I
ℎ= ∙ (∫ ℎ𝑥 𝑙𝑎𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑥 + ∫ ℎ𝑥 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑜𝑙𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑥 )
𝐿 0 𝑥𝑐𝑟

ponendo ancora il numero di Reynolds critico pari a 500000 e integrando l’equazione appena scritta,
si trova il Nusselt medio su tutta la piastra.
ere

30/05/2018

Convezione forzata interna: correnti fluidi entro tubi

Dobbiamo osservare, per prima cosa, che è inevitabile che si ripresenti una situazione che abbiamo
già compreso: quando un fluido entra in una tubazione con un profilo di temperatura rettangolare,
Viv

se la tubazione è a temperatura diversa da esso, i filetti fluidi a contatto con la parete subiscono un
rallentamento meccanico, e vanno incontro ad una influenza anche di tipo termico, esattamente
come abbiamo visto per una parete piana. Appena il fluido comincio ad entrare, i primi filetti a
contatto con la parete vengono influenzati, sia meccanicamente che termicamente, e quindi per
primi vedono mutare il loro profilo di temperatura. ancora una volta si può discriminare tra una
regione nella quale il fluido risente degli effetti della parete ed una regione più centrale che vede il
fluido di fatto non ancora influenzato dalla presenza della parete. Come abbiamo già compreso, ciò
presenterà un profilo, uno strato limite termico vicino alla parete nella quale dal punto di vista
termico appunto il fluido risente della presenza della parete e presenta un gradiente di temperatura.
la zona centrale del tubo rappresenta invece il confine dello strato limite. Man mano che il fluido
210

avanza, grazie ai filetti più vicini al centro si propaga verso il centro, fino ad una condizione, a partire
dalla quale, tutta la sezione del tubo vede filetti che sono stati in qualche modo influenzati dalla
presenza della parete e lo strato limite coinvolge tutta la mia sezione. La regione di imbocco termica
è la regione in cui lo strato limite non ha ancora influenzato tutta la sezione, mentre la regione

ria
completamente sviluppata è quella dove lo strato limite ha influenzato tutta la sezione. Tuttavia
quando andiamo a
studiare queste cose per
un fluido dal punto di
vista termico e non più
meccanico, le cose sono

gne
più complicate. In
fluidodinamica,
l’integrale esteso all’area
della densità per la
velocità, aveva il
significato di una portata massica, che in condizioni stazionarie si doveva conservare. Quindi doveva
capitare che, una volta formato il paraboloide di velocità, sull’asse si doveva avere una velocità
nge
maggiore rispetto a quella in ingresso tale che, la portata massica, in virtù della velocità inferiore
dei filetti adiacenti alla parete, si mantenesse costante. Una cosa del genere, vale dal punto di vista
del bilancio dell’energia? Se la parte è più calda o più fredda del fluido che in essa viene immesso,
oltre ad aversi un disturbo sul profilo di temperatura, si innesca un flusso termico. Allora tra parete
fredda e fluido caldo ci sarà un flusso termico che fuoriesce dal fluido e va fuori dalla parete. Allora
perde energia di tipo termico. Allora dovrà avere graduali diminuzioni del suo flusso energetico, ed
a differenza della portata massica che si dovrà conservare, qui il fluido dovrà subire una diminuzione
I
di energia. Al contrario, se il fluido è freddo e il tubo è caldo, dovrà arricchirsi di energia. Quindi il
totale di energia termica trasportata, andrebbero aumentando non essendoci affatto una legge di
conservazione dell’energia. Non possiamo dire che questo volumetto fisiologicamente identificato
dal profilo trasversale di temperatura si mantenga costante perché qualche cosa dovrà conservarsi,
niente affatto. Allora dobbiamo riuscire ad esprimere in una maniera comoda, ciò che accade al
ere

fluido dal punto di vista termico ed energetico man mano che avanza, e dobbiamo introdurre il
concetto di temperatura media del fluido in una sezione. Infatti, se da un lato è vero che ogni filetto
a seconda di dove si trovi ha una diversa temperatura rispetto a quelli adiacenti, il più importante
dei fenomeni che si osserva è a variazione complessiva di contenuto energetico man mano che
avanza. In una caldaia, il problema non è quanto vale la temperatura in una sezione generica, ma
come la temperatura va variando, e quindi se raggiunge la temperatura desiderata in uscita.
Viv

All’interno dei tubi, la difficoltà è proprio quello di seguire le temperature del fluido lungo il suo
percorso. Sempre tornando all’esempio della caldaia, se in uscita vogliamo una certa temperatura,
non possiamo parlare di temperatura unitaria, perché non è detto che tutti i filetti fluidi siano alla
stessa temperatura: in uscita parleremo di temperature al plurale, e d è solo una temperatura media
tra queste che a noi interesserà. Ci interesserà che solo mediamente il fluido sia ad una certa
temperatura. Quindi dobbiamo introdurre questa temperatura media sulla base di questo
semplicissimo concetto: una temperatura che, se fosse costante lungo tutta la sezione, vedrebbe il
mio flusso localmente trasportare esattamente la quantità di energia termica che trasporta. In
termini analitici:
211

𝐸𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 = ∫ 𝜌 ∙ 𝑐𝑝 ∙ 𝑇(𝑟) ∙ 𝑢(𝑟)𝑑𝐴𝐶 = 𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝 ∙ 𝑇𝑚𝑒𝑑


𝐴𝐶

Stiamo supponendo, stante l’assialsimmetria del problema, che tutti i filetti appartenenti ad una

ria
corona circolare siano alla medesima temperatura. Ragion per cui, se guardo ad una generica corona
circolare, di spessore dr, tutti i punti posseggono una specifica T(r) e u(r). il loro contenuto
energetico sarà, la loro portata, per il loro calore specifico, per la temperatura. trascuriamo in una
sezione le differenti densità tra filetto e filetto e la consideriamo costante. L’integrale rappresenta
la totalità del contenuto energetico associato a quella temperatura. vogliamo definire una
temperatura media come quel valore che, se fosse costante lungo tutta la sezione porterebbe al

gne
transito di quella determinata energia. E quindi scriviamo che l’integrale esteso alla sezione deve
essere uguale alla portata, per il calore specifico, per appunto la temperatura media. Nelle nostre
applicazioni, mai verrà risolto l’integrale, che risulta poco agevole, ma piuttosto faremo riferimento
al concetto di temperatura media. Tranne rarissimi casi, che sono quelli dello studio del coefficiente
convettivo, si lavorerà sempre con la temperatura media. Abbiamo già visto come varia il
coefficiente convettivo di un fluido che lambisce una piastra, come cambia con la ascissa e se siamo
in regime laminare o turbolento. Ma come varia all’interno di un tubo? Ebbene ancora una volta, la
nge
condizione concettuale che ci porta a quantificare il coefficiente convettivo è il fatto che, l’approccio
basato sulla convezione ci permette di esprimere la potenza termica specifica convettiva, guardando
in ottica globale, come h per la differenza di temperatura. Tuttavia c’è un problema: questa volta
non abbiamo una 𝑇∞. Perché il fluido, avendo l’asse come punto più distane dalla parete, non ha
neanche un punto per definizione che vede il fluido indisturbato. Allora in questo caso non è
esprimibile la formula di Newton. Convenzionalmente, si è assunto di utilizzare come sostituivo la
temperatura media del fluido. Certamente, questa potenza termica che fluisce tra tubo e fluido, in
I
virtù dei filetti a scorrimento nullo sulla parete, potremo dire che in ottica globale, è quella che si
scambiano parete e fluido per conduzione, come abbiamo già visto per la parete piana (con la
differenza che stavolta il gradiente è in funzione di r). Deduciamo che h locale, valido in una certa
sezione è determinabile come:
ere

𝜕𝑇 𝜆 ∙ (𝜕𝑇⁄𝜕𝑟 )
𝑟=𝑅
𝑞𝑐𝑜𝑛𝑣 = ℎ𝑥 ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑 ) = 𝑞𝑐𝑜𝑛𝑑 = 𝜆𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 ∙ | ⇒ ℎ𝑥 =
𝜕𝑟 𝑟=𝑅 𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑

Ottenuto eguagliando le due potenze. Mettiamoci ora in una situazione di una parete a 10°C ed
immaginiamo di fare arrivare in questa tubazione un fluido a 90°C. il suo profilo di temperatura è
Viv

inizialmente rettangolare a 90°C. Avanzando, succederà che i filetti a contatto dovranno portarsi
alla temperatura della parete quindi di 10°C. ma non possiamo dire come si comporta al centro,
perché certamente starà cedendo energia. Di sicuro avrà diminuito un po il suo contenuto
energetico. Andando ancora un po più avanti, ben più ristretta è la zona dove la temperatura è
elevata, ben più estesa è quella dove si risente della temperatura della parete, e la temperatura
media è certamente diminuita essendo più filetti fluidi influenzati dalla parete. Andando ancora più
avanti il flusso è completamente sviluppato, ed andando ulteriormente più avanti, il profilo di
temperatura, ritorna ad essere un rettangolo ma a 10°C (il fluido disperde finché non raggiungono
l’equilibrio termico). La parte disturbata dalla parete va piano piano invadendo la sezione. Il profilo
di temperatura si va riducendo, e naturalmente cambia anche la pendenza del gradiente di
212

temperatura, che risulta essere perfettamente orizzontale all’imbocco, man mano che si avanza, la
sua pendenza si abbassa sino a diventare perfettamente verticale in corrispondenza del profilo di
temperatura rettangolare a 10°C. diminuendo il gradiente di temperatura, diminuisce anche la
differenza di temperatura. si dimostra analiticamente che, la pendenza del profilo di temperatura

ria
alla parete, e la differenza di temperatura fra la parete ed il fluido mediamente, variano nella
regione di flusso almeno completamente sviluppato, in una maniera perfettamente lineare, in modo
che il loro rapporto rimanga costante. Questo accade, ripetiamo, solo nella regione completamente
sviluppata. Ma poiché in questa regione tale rapporto resta costante, e il coefficiente di conducibilità
termica è una costante, allora dalla formula precedente si
deduce che anche h è costante. E quindi lo possiamo

gne
tracciare come nel grafico a lato. nella regione di imbocco
questa cosa non è valida, e si osserva, sia analiticamente
che sperimentalmente, in virtù del fatto che il gradiente di
temperatura si presenta elevatissimo, anche infinito nel
primissimo tratto, si riscontra un massimo nel coefficiente
convettivo, avendo persino un asintoto nella sezione di
imbocco. Quindi, nel primo tratto, nella regione di
nge
imbocco, si ha h elevatissimo che si va riducendo. Quando
poi si entra nella regione completamente sviluppata
termicamente parlando, h diventa costante. Abbiamo visto
come in generale, la rapidità con cui cresce la regione di
strato limite termico, non cresce come quella meccanica,
ma l’uno più crescere più rapidamente dell’altro in base al
rapporto delle diffusività che abbiamo già visto per la
I
parete piana. Le lunghezze di imbocco, meccanico e
termico, sono legate dal numero di Pr, nel senso che la
lunghezza della regione di imbocco termico è quella meccanica moltiplicata per il numero di Prandtl
che è il rapporto tra la diffusività della quantità di moto e quella termica. In flusso laminare il numero
di Prandtl è una misura dell’accrescimento relativo degli strati limite di temperatura e di velocità.
ere

Ovviamente, lo strato limite che cresce più rapidamente è quello che raggiunge prima la condizione
di pieno sviluppo del profilo in sezione.

𝐿𝑖𝑚𝑏𝑜𝑐𝑐𝑜 𝑙𝑎𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑒 = 0,05 ∙ 𝑅𝑒 ∙ 𝐷

𝐿𝑡,𝑖𝑚𝑏𝑜𝑐𝑐𝑜 𝑙𝑎𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑒 = 0,05 ∙ 𝑅𝑒 ∙ 𝑃𝑟 ∙ 𝐷


Viv

In regime turbolento, la regione di imbocco termico e idrodinamico coincidono. Questo perché in


regime turbolento non c’è il moto ordinato tra i filetti, quindi è l’invasione dei filetti contigui dovuti
al rimescolamento il fenomeno col quale il disturbo di temperatura si propaga dalla parete all’asse,
e quindi cessa la dipendenza dal numero di Prandtl la lunghezza di imbocco, e diventa qualcosa che
dipende solo da Reynolds. La lunghezza di imbocco laminare resta comunque maggiore, perché si
deve avere il tempo di far propagare il disturbo. Con la turbolenza i filetti fluidi raggiungono più
rapidamente gli effetti di propagazione verso l’asse.
1
𝐿𝑖𝑑𝑟𝑜𝑑 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑜𝑙𝑒𝑛𝑡𝑜 = 𝐿𝑡𝑒𝑟𝑚𝑖𝑐𝑜 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑜𝑙𝑒𝑛𝑡𝑜 = 1,359 ∙ 𝐷 ∙ 𝑅𝑒 −4 ≪ 𝐿𝑡,𝑙𝑎𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑒
213

Lo studio della convezione tra un fluido ed un tubo, la studieremo con riferimento a due particolare
situazioni che possono essere di utilità pratica. Esistono casi, per esempio, in cui è lecito supporre
la temperatura del tubo costante. In altri casi, potremmo avere una situazione di flusso termico
superficiale costante, per esempio una tubazione immersa in un combustibile che sappiamo fornire

ria
una precisa potenza termica, o una tubazione avvolta da una resistenza. In entrambi i casi non
abbiamo una temperatura, ma una precisa potenza.
procediamo quindi con lo studiare il caso di una tubazione alla
quale viene fornita potenza termica. (nel grafico sono indicate
Ti e Te come rispettivamente T entrata e uscita. Nella
trattazione useremo i pedici, rispettivamente di Te e Tu). La

gne
potenza termica che fluisce verso il mio fluido, conduce ad un
incremento di temperatura, quindi con Tu > Te.

𝑄̇ = 𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝 ∙ (𝑇𝑢 − 𝑇𝑒 )

Questa medesima potenza è anche quella che fluisce dalle pareti al mio fluido. Riferendoci ad una
unità di superficie, il flusso termico che si trasmette è pari a:
nge 𝑊
𝑞̇ = ℎ𝑥 ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 ) [ ]
𝑚2

Il problema viene approcciato ponendo un paio di significative condizioni al contorno, ossia:

 Temperatura superficiale costante


 Flusso termico superficiale costante
I
Immaginiamo di conoscere la temperatura del fluido che viene immesso, laddove vi sia un flusso
termico superficiale costante e noto. Ci chiediamo, come varia la temperatura del fluido lungo la
tubazione (intesa sempre come Tmedia)? E quanto vale la temperatura della tubazione?
Conosciamo solo il flusso termico superficiale e la temperatura di ingresso del fluido. se io prendo
ere

un certo tratto di tubo, e questa lunghezza sia tale che la superficie laterale di contatto del tubo
valga Asup. In questo tratto, varrà:

𝑄̇ = 𝑞̇ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝 = 𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝 ∙ (𝑇𝑢 − 𝑇𝑒 ) [𝑊 ]

E la temperatura media del fluido all’uscita del tubo risulta:


Viv

𝑞̇ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝
𝑇𝑢 = 𝑇𝑒 +
𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝

Tale relazione, la potremmo anche scrivere in una forma


generica in riferimento ad una x arbitraria, ponendo Asup= p*x
(con x variabile da 0 ad L). Semplicemente la superficie di
scambio sarà la metà (perché dipenderà da L). la temperatura
non può che crescere linearmente con l’avanzamento. La
temperatura cresce linearmente con la x (come si evince dal
grafico precedente). Però dobbiamo guardare come a livello
214

locale, il flusso termico riesce a viaggiare di fatto dalla parete al mio fluido. se il mio tubo è avvolto
in una resistenza elettrica, il flusso termico viene scambiato per convezione. Ma h, non è sempre
costante: non c’è dubbio che in una generica sezione, localmente, il flusso termico sarà esprimibile
come:

ria
𝑞̇
𝑞̇ = ℎ ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑 ) → 𝑇𝑠𝑢𝑝 = 𝑇𝑚𝑒𝑑 + (1)

Questa relazione, ci può aiutare, se io conosco la legge di h, ricavabile dalla regola di scambio
termico vista precedentemente, perché abbiamo visto come varia h locale all’interno del tubo. La
Tmed la conosco, perché ha l’andamento in rosa visto nel grafico sopra. Allora localmente, la Tsup

gne
sarà calcolabile come scritto nella (1). Perché solo se la temperatura si porta a questo livello più alto
sulla superficie rispetto a quello locale del fluido riesce a far transitare quel flusso termico. Sarà
spontaneo per la parete raggiungere quella temperatura per far transitare quel flusso termico.
Questa relazione ci permette qualitativamente, in maniera agevole, di risolvere Tsup: nella regione
completamente sviluppata, h sarà una costante, e q è una costante, quindi è costante il loro
rapporto. Nella regione di flusso completamente sviluppato, il profilo di temperatura, localmente,
non può che essere parallelo a quello della temperatura del fluido e traslato in alto di q/h (linea nera
nge
nel grafico). Nella regione di imbocco, la relazione continua a valere ma, il profilo di temperatura si
appiattisce perché h è elevato: c’è bisogno di meno salto termico al fine di garantire il passaggio di
calore, proprio perché h è elevato. Se volessimo studiare la pendenza del profilo di temperatura
tracciato in rosa potremmo scrivere l’eguaglianza dei flussi termici specifici legandoli al bilancio
dell’energia e alle leggi di scambio termico considerando un generico tratto di questa tubazione di
sviluppo assiale dx. se noi consideriamo una microfettina di questo tubo, potremmo dire che la
potenza termica immessa dalla superficie è:
I
𝑄̇ = 𝑞̇ ∙ (𝑝𝑑𝑥 )

E invece l’incremento di contenuto energetico del fluido sarà:


ere

𝑄̇ = 𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝 ∙ 𝑑𝑇𝑚𝑒𝑑

Dall’eguaglianza risulta:

𝑑𝑇𝑚𝑒𝑑 𝑞̇ ∙ 𝑝
𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝 ∙ 𝑑𝑇𝑚𝑒𝑑 = 𝑞̇ ∙ (𝑝𝑑𝑥 ) → =
𝑑𝑥 𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝
Viv

E da qui possiamo ragionare su quei parametri dalla quale dipende la pendenza del profilo di
temperatura. Passiamo ora al caso di temperatura superficiale costante. Immaginiamo di avere una
parete che sia a Tsup costante, ovviamente diversa dalla temperatura di ingresso del fluido, per
esempio Tsup=70°C ed il fluido a Te=20°C. accadrà che del calore fluirà dalla parete al fluido, che si
riscalderà. Immaginiamo di volere scrivere la potenza termica che si trasmette per convezione tra
fluido e parete. Il flusso termico, supponendo che siamo già in una regione di flusso completamente
sviluppato, non può essere costante (come nel caso precedente) perché mentre prima abbiamo
visto come Tsup aumentava con la stessa pendenza di Tmed, adesso la differenza tra i due non si
mantiene costante, perché Tmed si avvicinerà sempre più a Tsup. Se volessi scrivere la potenza
215

termica trasmessa tra fluido e parete sulla base della legge di Newton vorrei scrivere una cosa del
tipo:

𝑄̇ = ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝 ∙ ∆𝑇
̅̅̅̅ = ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝 ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑 )

ria
Questa ∆𝑇̅̅̅̅ deve essere una media di temperatura efficace, tra Tsup e Tmed. Io so bene che Tsup
non cambia, come dato del problema. Ma cosa posso scrivere al posto di Tmed visto che cambia da
punto a punto? Ricordiamo che ∆𝑇 ̅̅̅̅ è una media efficace, ovvero una media fatta lungo tutto lo
sviluppo. Io una temperatura media di uscita la posso grossolanamente approsimare alla differenza
media aritmetica di temperatura, che sembra una ragionevole stima, e ci permetterebbe di risolvere

gne
il mio problema. Assumere che la differenza di temperatura media efficace tra parete e fluido è pari
alla semisomma tra le differenze di temperatura tra ingresso e uscita, è come immaginare che
mediamente il fluido ha la temperatura pari alla semisomma tra temperatura di ingresso e di uscita.
In termini analitici:

∆𝑇𝑒 + ∆𝑇𝑢 (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑒 ) + (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑢 ) (𝑇𝑒 + 𝑇𝑢 )


̅̅̅̅
∆𝑇 = ∆𝑇𝑚𝑒𝑑 = = = 𝑇𝑠𝑢𝑝 − = 𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚,𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜
2 nge 2 2

Assumendo quindi che il fluido mediamente assuma una temperatura calcolata in questo modo, ci
permette di risolvere il problema, sbagliando. L’errore che si commette è tanto più significativo
quanto maggiore è la differenza di temperatura in esame. Adottando questo sistema quando il gap
di temperatura è di pochissimi gradi, non commetto grandi errori. Tuttavia, più è elevata questa
differenza di temperatura, più grande è l’errore che commetto.

31/05/2018_mattina
I
Se volessimo seguire una via più rigorosa, dovremmo impostare l’equazione di bilancio dell’energia
e la legge di Newton in termini infinitesimi. In un tratto infinitesimo è unico il valore di temperatura
media, e quindi univocamente determinato il valore della differenza tra Tsup e Tmed. Potrò scrivere
che, per la legge di Newton varrà:
ere

𝛿𝑄̇ = ℎ ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑 ) ∙ 𝑑𝐴𝑠𝑢𝑝

con dAsup infinitesima, considerata per un dx, che potrò appunto scrivere p*dx. questa è la potenza
termica infinitesima che si scambiano le corone di fluido. ma questa potenza termica è anche il
quantitativo di calore che viene trasferito al fluido per aumentare la sua temperatura, quindi:
Viv

𝛿𝑄̇ = 𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝 ∙ 𝑑𝑇𝑚𝑒𝑑

E quindi:

𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝 ∙ 𝑑𝑇𝑚𝑒𝑑 = ℎ ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑 ) ∙ 𝑑𝐴𝑠𝑢𝑝

Posto che:

𝑑𝑇𝑚𝑒𝑑 = −𝑑(𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑 )


216

Questo perché Tsup è una costanza, quindi resterebbe 𝑑𝑇𝑚𝑒𝑑 = −𝑑(−𝑇𝑚𝑒𝑑 ). Sostituendo
all’espressione precedente e portando il meno a secondo membro:

𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝 ∙ 𝑑(𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑 ) = −ℎ ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑 ) ∙ 𝑝 ∙ 𝑑𝑥

ria
Ovvero:

𝑑(𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑 ) ℎ∙𝑝


=− 𝑑𝑥
𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚𝑒𝑑 𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝

Ed integrata per la lunghezza del tubo, dalla sezione di ingresso alla sezione di uscita, otteniamo:

gne
𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑢 ℎ∙𝑝 ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝
ln =− 𝐿=
𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑒 𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝 𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝

Dove h rappresenterà il coefficiente convettivo medio, perché se volessi contemplare ciò che accade
nel primo tratto, h non è costante lungo tutto il tubo, ma lo diventa solo nella regione di flusso
completamente sviluppato. Lungo un condotto tuttavia, nella maggior parte dei casi avremo a che
nge
fare con moto turbolento, e quindi avere una regione di imbocco molto ridotta. Passando dal
logaritmo all’esponenziale, avremo:
ℎ∙𝐴𝑠𝑢𝑝
− ̇
𝑚∙𝑐𝑝
𝑇𝑢 = 𝑇𝑠𝑢𝑝 − (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑒 ) ∙ 𝑒

Tale espressione può essere utilizzata anche per calcolare la


temperatura media del fluido ad una generica distanza x
I
dall’imbocco, semplicemente esprimendo Asup come p*x.
Questo tipo di legge ci parla di un aumento con la lunghezza, di
tipo esponenziale, della temperatura che presenta un asintoto al
valore Tsup quando la lunghezza dello scambiatore tende a
ere

diventare infinito. Quando Asup diventa infinita, l’esponente


diventa – infinito, e l’esponenziale va a zero, e quindi Tsup = Tu.
Notiamo che l’efficacia nello scambio termico dei vari elementi
di superficie decresce in maniera esponenziale. Se la potenzialità
termica dipende localmente dalla differenza di temperatura, questa si va riducendo piano piano, e
quindi gli elementi di superficie tenderanno a scambiare sempre meno calore. La rapidità con la
Viv

quale questa differenza di temperatura si riduce dipende dall’esponente, che denominiamo:

ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝
𝑁𝑇𝑈 = (𝑁𝑢𝑚𝑏𝑒𝑟 𝑇𝑟𝑎𝑛𝑠𝑓𝑒𝑟 𝑈𝑛𝑖𝑡 − 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑖𝑡à 𝑑𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑓𝑒𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜)
𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝

Quanto più l’esponente è grande, tanto più rapidamente si arriverà a tendere a Tsup, quanto più
l’esponente e ridotto, tanto più sarà graduale lo scambio termico. L’NTU va visto in quest’ottica: in
molti casi io studio come progettare al meglio la mia applicazione, con un fluido che sarà ben
identificato, quindi saprò h, saprò il calore specifico, e solitamente saprò la sezione della mia
tubazione. NTU è quindi da intendersi noto a meno della lunghezza della mia tubazione. Quindi se
decidiamo di fare uno scambiatore più lungo andiamo ad aumentare Asup e quindi un maggiore
217

NTU. Diversamente, scambiatori di lunghezza ridotta riducono NTU. Questo numero diventa quindi
una indicazione indiretta della capacità del tubo di scambiare calore commisurato alla superficie di
scambio. Cosa cambia considerando adesso NTU? Andiamo a cambiare di fatto la possibile
temperatura di uscita e quindi la possibile potenzialità termica. Tanto più lunga sarà la mia

ria
tubazione, tanto maggiore è lo scambio termico e di conseguenza più alta è la temperatura media
di uscita del mio fluido. Riflettiamo adesso sulla convenienza di prolungare questa tubazione:
conviene fare uno scambiatore così grande in grado di scambiare il massimo della potenza termica?
Se abbiamo detto che il primo tratto è quello più efficace e via via lo diventa sempre meno. Se io
pongo NTU = 3, sostituendo alla espressione di prima e facendo i calcoli, ci ritroveremo con una
driving force di 1/20 circa, un salto termico decisamente basso per un efficace scambio di calore.

gne
Ricapitolando: NTU rappresenta una misura dell’efficienza di apparecchiature di scambio termico.
Per NTU abbastanza elevati (maggiori di 3 o meglio ancora maggiori di 5) la temperatura di uscita
del fluido è molto prossima a quella della superficie. La temperatura del fluido può avvicinarsi, ma
mai superare, la temperatura della superficie. NTU è un parametro che guida nel dimensionamento
di apparecchiature di scambio termico. Infatti:

 Un valore basso di NTU indica che un eventuale aumento di lunghezza del tubo comporta


nge
significativi aumento dello scambio termico conseguito.
Un valore elevato di NTU indica un’ottima performance termica, ma probabilmente risulta
scarsamente conveniente dal punto di vista economico, in quanto lunghezze extra di
tubazione sono poco performanti.

Dall’equazione vista prima:

𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑢 ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝
I
ln =−
𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑒 𝑚 ∙ 𝑐𝑝

E si deduce:

ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝
ere

𝑚 ∙ 𝑐𝑝 = −
𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑢
ln 𝑇 − 𝑇
𝑠𝑢𝑝 𝑒

E sostituendolo alla 𝑄̇ = 𝑚̇ ∙ 𝑐𝑝 ∙ (𝑇𝑢 − 𝑇𝑒 ) che è la potenza termica guardando al bilancio di energia


del fluido. Cambiando di segno ed invertendo Te e Tu, ed inserendo poi nella differenza di
temperatura +Tsup e –Tsup, che non cambiano la sostanza, posso riordinare i termini in maniera
Viv

diversa ed operare alcuni passaggi matematici:

ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝 ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝
𝑄̇ = − ∙ (𝑇𝑢 − 𝑇𝑒 ) = ∙ [(𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑢 ) − (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑒 )]
𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑢 𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑢
ln 𝑇 − 𝑇 ln 𝑇 − 𝑇
𝑠𝑢𝑝 𝑒 𝑠𝑢𝑝 𝑒
∆𝑇𝑢 − ∆𝑇𝑒
= ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝 ∙ = ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝 ∙ ∆𝑇𝑚𝑙
∆𝑇
ln 𝑢
∆𝑇𝑒

𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑒 è il salto termico che vi è tra la parete ed il fluido in ingresso, mentre 𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑢 quello tra
parete e fluido in uscita. Cioè, questi due termini che compaiono nella espressione, sono i ∆𝑇 locali
218

tra temperatura del fluido in ingresso, ed in uscita. Per questo li abbiamo scritti come ∆𝑇𝑒 e ∆𝑇𝑢 .
Questa relazione scritta in questo modo, ci ricorda da vicino la relazione dalla quale siamo partiti,
ovvero scrivere la legge di Newton in termini di h, per la superficie di scambio, per il salto termico.
Ed il nostro problema era proprio scrivere il salto termico in maniera efficace, ed abbiamo visto che

ria
scritto in termini di semisomma non funzionava. Il ∆𝑇 vero che rende congruente questa relazione,
è da calcolare in questa forma:

∆𝑇𝑢 − ∆𝑇𝑒
∆𝑇𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎 𝑙𝑜𝑔𝑎𝑟𝑖𝑡𝑚𝑖𝑐𝑎 =∙ ∆𝑇𝑚𝑙 =
∆𝑇
ln ∆𝑇𝑢
𝑒

gne
Essa viene a rappresentare quel valore di salto medio di temperatura tra parete e fluido, tale che,
se fosse costante lungo tutto il tubo, porterebbe al computo della corretta potenza termica
scambiata.

ESEMPIO:

dati: nge
 𝑇𝑠𝑢𝑝 = 90°𝐶
 𝑇𝑒 = 30°𝐶
 𝑇𝑢 = 70°𝐶
 𝐴 = 4 𝑚2
 ℎ = 15 𝑊/𝑚2

Calcolare 𝑄̇
I
Approccio approssimato:

(30 + 70)
𝑇𝑚 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 = = 50°𝐶
2
ere

∆𝑇𝑚𝑒𝑑 = 𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇𝑚 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 = 90 − 50 = 40°𝐶

𝑄̇ = ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝 ∙ ∆𝑇𝑚𝑒𝑑 = 15 ∙ 4 ∙ 40 = 2400 𝑊

Approccio rigoroso:
Viv

∆𝑇𝑢 = 90 − 70 = 20°𝐶

∆𝑇𝑒 = 90 − 30 = 60°𝐶

20 − 60
∆𝑇𝑚𝑙 = = 36,41°𝐶
20
ln 60

𝑄̇ = ℎ ∙ 𝐴𝑠𝑢𝑝 ∙ ∆𝑇𝑚𝑙 = 15 ∙ 4 ∙ 36,41 = 2181 𝑊


219

Ancora però non sappiamo calcolare h. come al solito, il caso di moto laminare, è un caso
particolarmente semplice che consente una trattazione analitica del problema, e si è trovato che
valgono i seguenti numeri di Nusselt costanti basati sul diametro:

1. condizione di flusso termico specifico costante, moto laminare:

ria
ℎ∙𝐷
𝑁𝑢𝐷 = = 4,36
𝜆

2. condizione di temperatura superficiale costante, moto laminare:

gne
ℎ∙𝐷
𝑁𝑢𝐷 = = 3,66
𝜆

Se io, caso rarissimo nella vita, ho un caso di moto in regime laminare, posso pensare di utilizzare
queste relazioni e ricavare subito h. la conducibilità è nota essendo del fluido, il diametro della
tubazione la conosco, e Nusselt lo conosco. Tuttavia, di ben maggiore interesse pratico sono le
correlazioni sviluppate per i fluidi in moto turbolento all’interno di condotti (Re > 10000) tra queste
quella di gran lunga più nota è la seguente:

𝑁𝑢𝐷 =
ℎ∙𝐷
nge
= 0,023 ∙ 𝑅𝑒𝐷0,8 ∙ 𝑃𝑟 𝑛 (
0,7 ≤ 𝑃𝑟 ≤ 160
) |
n = 0,4 fluido in riscaldamento
𝜆 𝑅𝑒 > 10000 n = 0,3 fluido in raffreddamento

Nota come equazione di Dittus-Boelter, la quale somiglia alla equazione di Colburn, da cui differisce
solo perché in quest’ultima n è fisso a 1/3 sia per il riscaldamento che per il raffreddamento. Tutte
queste espressioni sono composte da numeri adimensionali che però rappresentano proprietà di
I
stato, che cambiano con la temperatura. Non esistendo nel nostro caso una T, allorquando non
sussiste una notevole differenza di temperatura tra parete e fluido, i valori delle proprietà sono
spesso calcolati alla temperatura media del fluido tra ingresso ed uscita 𝑇𝑚 = (𝑇𝑢 + 𝑇𝑒 )/2 .

Convezione naturale
ere

È il caso di un corpo, o di una superficie, calda o fredda, che viene a contatto con un fluido stagnante,
ovvero privo di un moto macroscopico. Se l’aria attorno al nostro corpo caldo fosse assolutamente
costretta a rimanere immobile, ben presto lo strato di fluido adiacente al corpo si riscalderebbe e lo
scambio termico avverrebbe per mera conduzione tra il corpo caldo ed il fluido che lo circonda,
risultando decisamente poco efficace. Accade invece che il fluido, più caldo o più freddo di quello a
Viv

notevole distanza dalla superficie calda o fredda, viene ad avere significativa differenza di densità
rispetto a tale fluido indisturbato a 𝑇∞ così che si possano innescare, per effetto di galleggiamento,
fenomeni di moto detti correnti di convezione naturale, che agiscono nella direzione di un ricambio
del fluido caldo a freddo vicino alla pareti con un fluido “nuovo”. Tale ricambio favorisce quindi un
incremento della potenza termica, che si dice scambiata per convezione naturale. Abbiamo detto
che il fluido a contatto con il corpo, caldo o freddo, per effetto del riscaldamento o raffreddamento,
varia la sua densità. Più si riscalda più la sua densità diminuisce rispetto al fluido caldo, e quindi
viene spinto dal fluido più denso, verso l’alto. Richiamiamo a tal proposito la legge di Archimede:

𝐹𝑔𝑎𝑙𝑙 = 𝜌𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 ∙ 𝑔 ∙ 𝑉𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜


220

Il bilancio di forze di un corpo, parzialmente o totalmente immerso in un fluido, fornisce quindi:

𝐹𝑛𝑒𝑡𝑡𝑎 = 𝑃 − 𝐹𝑔𝑎𝑙𝑙 = 𝜌𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜 ∙ 𝑔 ∙ 𝑉𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜 − 𝜌𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 ∙ 𝑔 ∙ 𝑉𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜 = (𝜌𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜 − 𝜌𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 ) ∙ 𝑔 ∙ 𝑉𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜

La forza netta è proporzionale alla differenza tra densità dell’elemento/corpo in esame e quella del

ria
fluido in cui è immerso. Quindi se la densità dell’elemento o del corpo è minore di quella del fluido
in cui immerso, la forza netta è negativa rispetto alla spinta gravitazione, e quindi è dal basso verso
l’alto. La risultante netta dipende quindi dalla differente densità dell’elemento esaminato e del
fluido che lo circonda. Proviamo allora ad approcciare il nostro problema per quanto riguarda un
fluido che, lambendo la superficie di un corpo con Tsup maggiore o minore di 𝑇∞, e capire come

gne
quantificare il fenomeno del galleggiamento. Il fenomeno adesso è ben più complesso rispetto un
cubetto immerso in acqua: questo perché la densità è una funzione continua della temperatura, e
nel nostro caso, cambiando la temperatura, varia anche la densità. Abbiamo un gradiente di
temperatura variabile da punto a punto, che comporta gradienti locali di densità. Ci dobbiamo fidare
di un approccio più qualitativo che faccia emergere quei fattori chiave che ci conducono ad un
approccio sperimentale. La prima cosa da capire, è se un fluido, quando si riscalda o si raffredda,
cambia la sua densità di molto o di poco. Sappiamo che cambia, ma quanto? Se cambia di molto,
nge
l’effetto del galleggiamento è più vistoso, mentre se cambia di poco il fenomeno è poco rilevante.
Si introduce quindi un coefficiente di dilatazione cubica, definito come:

1 𝜕𝑣 1 𝜕𝜌 1
𝛽= ( ) =− ( ) [ ]
𝑣 𝜕𝑇 𝑝 𝜌 𝜕𝑇 𝑝 𝐾

Dove v è il volume specifico, a pressione costante. Essendo la densità l’inverso del volume specifico,
con il meno davanti l’eguaglianza è rispettata. Essendo la densità e il volume specifico riferiti al
I
metro cubo, è detto coefficiente di dilatazione cubica. Avendo differenze di temperatura, si
potrebbe scrivere anche in celsius, ma poiché dopo introdurremo l’eq dei gas perfetti, è consigliabile
considerarlo in Kelvin. Questo coefficiente è importante perché, anche se il gradiente fondamentale
che spinge al galleggiamento è la differenza tra la densità che il fluido presenta a distanza infinita
ere

dalla parete e quella che presenta ad una generica temperatura T in prossimità della parete, in tali
casi può essere utile esprimere il coefficiente di dilatazione cubica in maniera approssimata (quindi
un coefficiente medio) utilizzando differenze finite:

1 Δ𝜌 1 𝜌∞ − 𝜌
𝛽=− =−
𝜌 Δ𝑇 𝜌 𝑇∞ − 𝑇
Viv

𝜌∞ − 𝜌 = 𝜌 ∙ 𝛽 ∙ (𝑇∞ − 𝑇)

È evidente come la differenza di densità (commisurata alla forza di galleggiamento):

 aumenta con la differenza di temperatura


 aumenta con il coefficiente di dilatazione cubica

𝑅𝑇
𝑝𝑣 = 𝑅𝑇 ⇒ 𝑣 =
𝑝
per un gas perfetto si trova:
1 𝜕𝑣 𝑝 𝑅 1
𝛽 = = ∙ = (𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠. 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒)
{ 𝑔𝑎𝑠 𝑖𝑑𝑒𝑎𝑙𝑒 𝑣 𝜕𝑇 𝑅𝑇 𝑝 𝑇
221

visto che il fenomeno della convezione naturale è abbastanza lungo e articolato dal punto di vista
analitico, ci limiteremo ad un approccio di tipo grafico qualitativo.

Descrizione qualitativa del problema termofluidodinamico

ria
Immaginiamo una parete come in figura a lato definiamo una
coppia di assi orientati, y che va orizzontalmente a destra, e
x verso l’alto (per assumere x lungo la piastra). Ora
immaginiamo che la parete sia calda, e chiediamoci cosa
avviene se questa parete calda si trova a Tparete > Tfluido.
Seguiamo un elementino fluido che si trova all’origine del

gne
nostro asse orientato. È attaccato alla parete e quindi si crea
una condizione di scorrimento nullo, ma al contempo si
riscalda. Lo stesso avverrà all’elementino successivo.
Tuttavia questi elementini tendono a propagare il calore per
conduzione verso gli straterelli adiacenti, che osservano un
cambio di densità ricevendo calore, e quindi diminuisce la
sua densità. Quindi si vede la spinta di galleggiamento
nge
prevalere sulla loro forza peso e mandarli verso l’alto. Questa
spinta è presente anche per quei filetti attaccati alla parete,
che però continuano a non muoversi per effetto delle forze
viscose. Il secondo filetto adiacente che vuole allontanarsi
invece, può cominciare a muoversi per effetto del
galleggiamento, che viene trattenuto dal filetto adiacente
I
alla parete ma trascina quelli ancora più lontani. Al contempo
il calore continua a propagarsi, rendendo anch’essi più
leggeri. Quindi vedremo che, i filetti cominciano a riscaldarsi,
propagano il calore, diventano più leggeri e cercano di movimentarsi, trascinando con loro quelli
adiacenti. Si innesca questo fenomeno di graduale propagazione del disturbo che va a confinarsi in
ere

uno strato limite la cui estensione va accrescendosi nella direzione del moto, cresce lo spessore
dello strato limite invadendo zone sempre più lontane. Nel caso di piastra più fredda, lo strato limite
si innesca in maniera perfettamente identica ma allargandosi verso il basso. Così come i profili di
velocità e temperatura. nel caso di raffreddamento la figura è quindi identica ma specchiata
orizzontalmente. Notiamo che, mentre in passato abbiamo definito due strati limiti, uno meccanico
ed uno termico, in questo caso di strato limite ce ne è uno solo: questo perché il moto è determinato
Viv

dall’esistenza del gradiente termico, e quindi il moto cessa dove cessa il gradiente di temperatura.
dove cessa il gradiente di temperatura infatti, non vi è più variazione di densità. Ma senza variazione
di densità, non vi è galleggiamento e quindi nessun moto degli elementini.

Approccio quantitativo al problema

Fatta una serie di studi sperimentali, Grashof ha tirato fuori questo numero adimensionale che
determina il regime di moto che si instaura per effetto della convezione naturale e che viene a
giocare il medesimo ruolo che giocava il numero di Reynolds in convezione forzata. Viene indicato
col pedice L che indica la grandezza fondamentale tenuta in considerazione:
222

𝑔 ∙ 𝛽 ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇∞ ) ∙ 𝐿𝐶 3
𝐺𝑟𝐿 =
𝑣2

In qualche modo, avere la viscosità cinematica al denominatore, comporta una tendenza a frenare

ria
il fenomeno del moto dei filetti fluidi, mentre invece fattori che contribuiscono alla loro
movimentazione sono g, beta e dT. Il significato fisico del numero di Grashof è quello di rapporto
tra spinta di galleggiamento e forza viscosa agenti sulla superficie dell’elemento di fluido. anche per
le piastre verticali si identifica un Grashof critico, che vale circa 10^9. Se fatti i conti, ottengo un
valore superiore di 10^9, allora sono in regime turbolento. Diversamente, sono in laminare. Può
capitare di essere in dubbio a volte, se modellizzare il mio problema come convezione forzata o

gne
naturale, quando per esempio il fluido non è proprio stagnante ma non si è certi se questa velocità
influenza più o meno la trattazione della convezione come forzata piuttosto che come naturale.
Questo si può valutare rapportando il numero di Grashof con il quadrato del numero di Reynolds:
𝐺𝑟
≫ 1 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎𝑙𝑒
𝑅𝑒 2
𝐺𝑟 𝐺𝑟
= 1 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑖𝑠𝑡𝑎 𝑛𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎𝑙𝑒 − 𝑓𝑜𝑟𝑧𝑎𝑡𝑎
𝑅𝑒 2 𝑅𝑒 2
𝐺𝑟
nge
{ 𝑅𝑒 2 ≪ 1 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑓𝑜𝑟𝑧𝑎𝑡𝑎

31/05/2018_pomeriggio

Nonostante tutto, ci manca ancora la possibilità di calcolare il coefficiente convettivo. Ancora una
volta, in virtù della natura piuttosto complessa del moto che si instaura non è in genere approcciato
tramite formulazioni analitiche ma tramite studi sperimentali, sviluppati per ciascuna geometria.
I
Pressochè tutte le relazioni empiriche semplici sono riconducibili alla seguente forma:
ℎ ∙ 𝐿𝑐
𝑁𝑢 = = 𝐶 ∙ (𝐺𝑟𝐿 ∙ 𝑃𝑟)𝑛 = 𝐶 ∙ 𝑅𝑎𝐿𝑛
𝜆
ere

Dove C è una costante che si determina sperimentalmente. Viene introdotto il numero di Rayleigh
che è il prodotto tra il numero di Grashof per il numero di Prandtl.

𝑔 ∙ 𝛽 ∙ (𝑇𝑠𝑢𝑝 − 𝑇∞ ) ∙ 𝐿𝐶 3
𝑅𝑎𝐿 = 𝐺𝑟𝐿 ∙ 𝑃𝑟 = ∙ 𝑃𝑟
𝑣2
Nella tabella 9-1 a seguire, si osservano per una serie di configurazioni geometriche, sia la
Viv

specificazione della grandezza dimensionale che più caratterizza il fenomeno di scambio termico
che meglio si correla al coefficiente convettivo ed a Nusselt, sia il campo di validità della correlazione
fornita e la sua espressione analitca. Vediamo il caso di una parete verticale: viene suggerito di
utilizzare, come grandezza dimensionale, la lunghezza L lungo la verticale. Certamente questa
parete avrà anche una profondità ma la relazione fornita, viene legata solo alla lunghezza verticale.
Quindi le relazioni fornite non dipendono dalla profondità, che non influenza il fenomeno del
galleggiamento. Può capitare di avere pareti disposti non in maniera perfettamente verticale, ed in
questo caso viene suggerito di utilizzare l’equazione della parete verticale per la superficie superiore
di una parete fredda, e quella inferiore per una calda. Questo perché, se quella calda fosse quella
superiore, l’aria riscaldata si allontanerebbe dalla parete senza lambirla, e analogamente quella
fredda scenderebbe senza problemi se la faccia fredda fosse quella inferiore. inoltre suggerisce di
223

ria
gne
I nge
ere
Viv

moltiplicare g per il coseno dell’angolo. La tabella ci fornisce anche indicazioni su come considerare
una superficie orizzontale riscaldata (per esempio un pavimento radiante) o anche un soffitto.
Certamente l’aria scambierà con la pavimentazione o soffitto con un certo coefficiente convettivo.
Intuitivamente si può stabilire una gerarchia tra le tre diverse disposizioni: tra queste tre ipotesi, nel
caso di soffitto caldo, l’aria si riscalda e prova a galleggiare verso l’alto, stratificandosi, quindi il moto
convettivo che si innesca è praticamente nulla o comunque poco energico. Al contrario, quando
l’aria lambisce dall’alto la parete calda, ha tutta la possibilità di viaggiare verso l’alto innestando
moti convettivi importanti. Chiaramente la superficie verticale sarà una soluzione intermedia tra le
224

due, ma probabilmente meno efficiente della pavimentazione. Applichiamo queste correlazioni ad


un caso numerico.
Data una piastra di:

ria
 geometria fissata (0,6m x 0,6m), con una faccia isolata termicamente
 𝑇∞ = 30°𝐶 e 𝑇𝑠𝑢𝑝 = 90°𝐶 fissate

Si calcoli la potenza termica trasmessa per:


a) Piastra verticale
b) Faccia calda rivolta verso l’alto

gne
c) Faccia calda rivolta verso il basso
Ricaviamo alcuni valori per i tre casi. Innanzi tutto la lunghezza dimensionale caratteristica, come
suggerisce la tabella vale (indichiamo con l’apice la lettera del caso corrispondente):
(0,6∙0,6)
 𝐿𝑎 = 0,6 𝑚 , 𝐿𝑏,𝑐 = (0,6∙4)
= 0,15 𝑚
 𝑅𝑎𝐿𝑎 = 7,65 ∙ 108 , 𝑅𝑎𝐿𝑏,𝑐 = 1,195 ∙ 107

 𝑁𝑢𝑎 = 113,3
nge
Calcoliamo il numero di Nusselt secondo la formulazione che suggerisce la tabella:

 𝑁𝑢𝑏 = 31,75
 𝑁𝑢𝑐 = 15,87
E di conseguenza, avendo la conducibilità dell’aria nota:
I
𝑊
 ℎ𝑎 = 5,3 𝑚2 𝐾
𝑊
 ℎ𝑏 = 5,94 𝑚2 𝐾
𝑊
 𝑐
ℎ = 2,97 𝑚2 𝐾
ere

E le relative potenze termiche:

 𝑄̇ 𝑎 = 115 𝑊
 𝑄̇ 𝑏 = 128 𝑊
 𝑄̇ 𝑐 = 64,2 𝑊
Sembrerebbe da questi risultati che quello più efficace, sarebbe la parete verticale, stando al
Viv

numero di Nusselt. Ma poiché poi occorre passare dalla grandezza caratteristica, si trovano valori di
coefficienti convettivi decisamente diversi, risultando quindi più performante per lo scambio
termico il pavimento radiante e non la superficie verticale. Decisamente bocciato il soffitto radiante.
Guardiamo adesso una tabella che ci dà indicazioni sugli ordini di grandezza di alcuni coefficienti
convettivi associati a vari categorie di materiali, in convezione forzata e convezione naturale.
Confrontando due celle adiacenti abbiamo in mente l’ordine di grandezza di come cambiano le cose
passando da un movimento forzato ad uno naturale. Cambiando invece fluido, cambia anche la
conducibilità termica e quindi i valori dei coefficienti convettivi.
225

Convezione naturale Convezione forzata


Aeriformi 𝑊 𝑊
5 ÷ 50 [ ] 20 ÷ 150 [ ]
°𝐶 ∙ 𝑚2 °𝐶 ∙ 𝑚2
Liquidi 𝑊 𝑊

ria
100 ↑ [ ] 200 ÷ 1500 [ ]
°𝐶 ∙ 𝑚2 °𝐶 ∙ 𝑚2
Fluidi bifasici in ev. o cond. 𝑊 𝑊
2000 ÷ 3000 [ ] 10000 ÷ 50000 [ ]
°𝐶 ∙ 𝑚2 °𝐶 ∙ 𝑚2

gne
Irraggiamento termico
Partiamo da una banale osservazione sperimentale: se pongo
(come in figura) un oggetto caldo in una camera con le pareti più
fredde dell’oggetto, ed immaginando di poterlo tenere sospeso,
pratichiamo il vuoto. Notiamo che dopo un po il mio oggetto si
raffredda, e se perfettamente coibentata, la superficie interna
della mia camera si è riscaldata. Quindi si intuisce che i due oggetti
nge
hanno scambiato calore, che però non può essere analizzata in
nessuno de due modi visti precedentemente: non vi è contatto,
quindi non vi è conduzione. Vi è il vuoto, quindi non può esserci
convezione. I due oggetti si scambiano calore in un modo che ancora dobbiamo studiare ma che
chiameremo irraggiamento. Anticipiamone alcune caratteristiche:

1. Può avvenire attraverso il vuoto, ossia non necessità di un mezzo per avere luogo (vedi il
I
sole);
2. È la modalità di trasporto del calore più veloce, in quanto avviene alla velocità della luce nel
mezzo di trasmissione;
3. Mentre la trasmissione di calore per conduzione o convezione ha luogo strettamente nel
verso delle temperature decrescenti, quella per irraggiamento può avvenire anche in
ere

presenza di un mezzo di separazione più freddo rispetto ad entrambi i corpi scambiantisi


calore (esempio: radiazione solare che attraversa gli strati esterni e freddi dell’atmosfera).
L’irraggiamento è un fenomeno di propagazione del calore, che è da inquadrare in un calderone più
ampio di fenomeni fisici che è quello della propagazione delle onde o radiazioni elettromagnetiche.
Queste onde trasportano con sé energia, e questa energia quando investe con opportune
Viv

caratteristiche un oggetto, può diventare energia termica trasferita all’oggetto. Non tutte le
radiazioni elettromagnetico producono effetti termici, ma una buona parte, nel trasportare energia
nella loro propagazione sono capaci di innescare effetti termici. Qualche breve nota su alcune
caratteristiche delle onde elettromagnetiche. Queste onde, trasportano energia non in quantità
infinitamente divisibili (continua), perché planck ne ha dimostrato la struttura impacchettata,
ovvero l’energia viene trasferita per pacchetti elementari ovvero quanti ovvero fotoni. Quando
l’onda si propaga, trasferisce pacchetti elementari in quantità di energia dipendenti dalle
caratteristiche delle onde stesse. In particolare, l’unità di misura elementare di energia è stata
incorporata da Planck all’interno di questa sua costante, e si riesce così a definire l’energia di un
fotone, legandola alla costante h di planck moltiplicata per la frequenza della radiazione
elettromagnetica:
226

ℎ∙𝑐
𝑒 =ℎ∙𝜈 = ℎ = 6,625 ∙ 10−34 [𝐽 ∙ 𝑠]
𝜆

𝜈 è la frequenza della lunghezza d’onda e 𝜆 è la lunghezza d’onda e c è la velocità della luce. Ebbene

ria
Planck dimostrò che i fotoni di un’onda elettromagnetica contengono quanta più energia
elementare tanto più alta è la loro frequenza. Essendo c la velocità della luce nel mezzo (dipendente
dall’indice di rifrazione del mezzo stesso), alla quale si propaga la radiazione elettromagnetica, e 𝜆
è la lunghezza d’onda (anch’essa dipendente dall’indice di rifrazione, mentre la frequenza non
dipende dall’indice di rifrazione). Se la mia radiazione passa dal vuoto, ad un mezzo, ebbene la
velocità della luce cambia, portandosi da c a c0 e quindi anche il prodotto della frequenza per la

gne
lunghezza d’onda cambia. Ma tra i due valori, la frequenza resta la stessa, mentre la lunghezza
d’onda cambia. La frequenza non si modifica al variare del mezzo esaminato ma l’onda si accorcia o
si allunga. Può essere utile studiare quello che è lo spettro della radiazione elettromagnetica in
figura a destra, che viene esaminato in base alle lunghezze d’onda, che implica una duale
interpretazione della frequenza. Dove la lunghezza d’onda è elevato, la frequenza è bassa, e
viceversa. In particolare tutto lo spettro può essere compreso tra lunghezze d’onda variabile tra
10^10 e 10^-9 micrometri (10^-6).


nge
Tutte le onde che stanno al di sopra degli 10^5 micrometri
sono definite onde radio. Sono quelle più facili da generare
tramite impulsi e non trasmettono grandi carichi energetici,
quindi sono adatte per l’invio dei segnali.
 Da 10^2 a 10^5 micrometri invece abbiamo le microonde che
sono le prime a cominciare a portare energia.
I
 Da 10^2 a 0,79 micrometri c’è la radiazione infrarossa
 Da 0,78 a 0,39 micrometri c’è invece la banda del visibile
talvolta indicati come 780 e 390 nanometri.
 Da 0,38 a 10^-2 micrometri siamo nel campo degli
ultravioletti
ere

 Sotto i 10^-2 micrometri vi sono poi altre radiazioni,


potenzialmente dannose per il corpo umano perché a più alto
contenuto energetico.

È importante capire quale campo di lunghezza d’onda ci interessa


quando parliamo di radiazione termica: quest’ultima comprende
Viv

l’infrarosso, il visibile, e parte dell’ultravioletto. Queste radiazioni in


qualche modo, entrano in risonanza con le nostre molecole
provocando un’agitazione e quindi un aumento di temperatura.
qualsiasi corpo a temperature superiore allo zero assoluto, è una
sorgente di radiazioni elettromagnetiche. Ciascun corpo quindi
emette energie sotto forma di radiazione elettromagnetica. Quando
parleremo di scambio di calore per irraggiamento, parleremo sempre di scambio netto di quantità
di calore, perché due corpi vicini emetteranno l’uno verso l’altro radiazioni elettromagnetiche.
Anche ciò che noi percepiamo come calore che riceviamo deriva da un saldo netto: se riceviamo più
di quanto emettiamo, avremo una sensazione di tepore. Per sua natura, il fenomeno
227

dell’irraggiamento prescinde dalla presenza o assenza della


conduzione e della convezione. Quindi è una quantità di calore
che si somma a quelle studiate in precedenza. Una piccola
notazione che avviene nel campo del visibile: all’interno del

ria
visibile abbiamo l’usanza di definire cromaticamente alcune
bande di lunghezza d’onda, definite nella tabella accanto.
Scopriremo che il corpo non emette egualmente radiazioni a
tutte le lunghezze d’onda. O meglio, emette tutte le lunghezze
d’onda ma in maniera variabile, concentrando la sua emissione in un campo ben preciso. Il massimo
del sole, è compreso proprio nella banda del visibile. Ovvero che la maggior parte dell’energia che

gne
il sole irradia sulla terra è compresa nella banda del visibile. Il nostro occhio si è evoluto per
massimizzare la risposta proprio a queste radiazioni emesse dal sole. Quello che noi vediamo bianco
con la luce solare, altro non è che un mix di lunghezze d’onda che il nostro cervello elabora come
bianco. Il sole però, come già detto, emette a tutte le lunghezze d’onda. Tutti i fenomeni di
cambiamento di colorazione di luce solare sono dovuti al cambio di spessore di atmosfera (che
posseggono un coefficiente di rifrazione) facendoci percepire dunque un mix diverso di lunghezze
d’onda (vedi tramonto e/o alba).
nge
A rigore, in un corpo, ogni sua parte che si trovi ad una
temperatura diversa dallo zero assoluto, emette radiazioni
elettromagnetiche. È un problema, a livello intrinseco, di tipo
volumetrico. Non solo la superficie, ma è tutto il volume che
emette radiazioni. Tuttavia, per solidi opachi (solidi che hanno
un elevato coefficiente di assorbimento), esso è spesso
I
modellizzato come fenomeno superficiale, in quanto la
radiazione emessa dalle zone interne è assorbita entro pochi
micrometri dal punto di emissione e non può raggiungere la
superficie. Allora di fatto, l’irraggiamento almeno nei solidi
opachi, è un fenomeno prevalentemente superficiale.
ere

La radiazione di un corpo nero

Un corpo reale, si comporta in una maniera estremamente complessa relativamente alla emissione
di radiazioni, in quanto ciò che esso emette (immaginiamo dalla superficie) sulla sua superficie, è
variabile in base alla sua temperatura, finitura superficiale, lunghezza d’onda, direzione di
Viv

emissione. Ogni corpo a T > 0, come detto, emette ad ogni lunghezza d’onda in minore o maggiore
quantità. Per tale complessità relativa allo studio dei corpi reali, si è deciso di ricorrere ad un modello
detto corpo nero: è un corpo ideale, una mera astrazione teorica, identificato come perfetto
emettitore ed assorbitore di radiazione. Ci permette di studiare in maniera semplificata le radiazioni
in modo da poter poi applicare i risultati trovati ai corpi reali con le dovute caratterizzazioni.
L’attributo “perfetto” relativo all’assorbimento e all’emissione, ha due significati diversi in base a
ciò di cui si parla:

 Il corpo nero è detto perfetto assorbitore poiché assorbe tutta la radiazione incidente,
indipendentemente dalla sua lunghezza d’onda e dalla direzione alla quale viene investito.
228

 Il corpo nero è perfetto emettitore poiché emette (in maniera diffusa, quindi uniformemente
in tutte le direzioni), ad ogni temperatura e lunghezza d’onda, la massima radiazione rispetto
a qualsiasi corpo reale. Non è perfetto emettitore nel senso che emette a tutte le lunghezze
d’onda, non è un perfetto emettitore in termini assoluti, ma relativi: emette in maniera

ria
perfetta rispetto ad un corpo reale a parità di condizioni.

Esempio: se ho due corpi, uno nero ed uno reale, a 350 K, e


voglio sapere quanto emettono a 200 micrometri, ebbene il
corpo nero emetterà certamente più di quello reale. Possiede
inoltre una tendenza ad invadere l’emisfero circostante la

gne
superficie emittente in maniera uniforme rispetto ad un corpo
reale che ha invece direzioni preferenziali di emissioni. Il corpo
nero si definisce diffondente o lambertiano, il che vuol dire che
emette in egual modo in tutte le direzioni.

04/06/2018

La potenza radiante emessa da un corpo nero in virtù della sua temperatura diversa dallo zero
nge
assoluto, per unità di area superficiale, è detta potere emissivo del corpo nero, ed è espressa dalla
seguente relazione di Stefan (di derivazione sperimentale), che si dimostra dipendere solo dalla sua
temperatura:

𝑊
𝐸𝑛 (𝑇) = 𝜎 ∙ 𝑇 4 [ ]
𝑚2
I
NOTA: NON è una energia, è un potere emissivo PER UNITA’ DI SUPERFICIE. Fondamentale ricordarlo

Dove il pedice n sta per “nero”, T è la temperatura espressa in Kelvin, e 𝜎 è la costante di Stefan-
Boltzmann che vale:

𝑊
ere

𝜎 = 5,67 ∙ 10−8 [ ]
𝑚2 𝐾 4

Nonostante il fatto che la costante di S-B sia molto piccola, occorre considerare che la temperatura
è assoluta ed elevata alla quarta potenza.

I corpi che vediamo neri, hanno un certo comportamento caratteristico del corpo nero. Questo
Viv

perché i corpi ci appaiono di una tonalità cromatica che discende dal loro comportamento rispetto
alla radiazione visibili che su di essi incide. Un corpo infatti, colpito dalla radiazione visibile può
assorbirla o rifletterla. Qualora l’assorbisse, non rimbalzerebbe sul corpo e non raggiungerebbe il
nostro occhio. Se un corpo è interamente riflettente, quando investito da luce bianca, riflette tutta
la radiazione visibile. Quindi il corpo che vediamo bianco, altro non è che un corpo, investito da luce
bianca, la riflette interamente. Quando un corpo appare rosso, è perché è assorbente su tutte le
frequenze cromatiche meno quelle sul rosso, che vengono riflesse e giungono al nostro occhio. Il
corpo nero, è un corpo che ci appare tale, perché assorbe tutta la radiazione visibile. Non riflettendo
radiazione visibile quindi, lo vediamo nero. Il corpo che noi vediamo nero, si comporta come il corpo
229

termodinamicamente visibile, solo con riferimento alle lunghezze d’onda a noi visibili! Quando
parliamo del corpo nero termodinamico è a TUTTE le lunghezze d’onda un perfetto assorbitore.

In fisica un corpo nero (approssimato) è realizzato come una grossa


cavità con una apertura di modestissima sezione. Tale dispositivo,

ria
approssima il corpo nero dal punto di vista del fatto che, la radiazione
su di esso incidente, per effetto di una sorgente di emissione posta
all’esterno, si propaga seguendo le leggi delle riflessioni delle onde
per tutte le pareti del nostro dispositivo. Accade che in genere, una
radiazione incidente subirà riflessioni multiple prima di trovare la via

gne
dell’ingresso. Poiché ad ogni riflessione successiva, il materiale di cui è costituito questo dispositivo,
provvederà ad assorbire una parte dell’energia che viaggia con la radiazione, si osserva che dopo
numerose riflessioni, il carico energetico dell’onda sarà pressoché assorbito, e solo una
modestissima parte riuscirà ad uscire dalla apertura. Un corpo siffatto quindi approssima bene un
perfetto assorbitore quale è il corpo nero termodinamico. Lo studio del comportamento rispetto
alle emissioni del corpo nero non può essere semplicemente basato sulla quantificazione del suo
potere emissivo, perché quest’ultimo è riferito alla potenza totalmente emessa, per unità di
nge
superficie, dal corpo nero. Ma nulla ci dice a quali lunghezza d’onda tale potenza viene emessa. C’è
bisogno di studiare il comportamento della radiazione emessa del corpo nero a variare della
lunghezza d’onda. Si introduce quindi quello che si chiama potere emissivo monocromatico del
corpo nero:

𝑑𝐸𝑛 (𝑇)
𝐸𝑛,𝜆 (𝜆, 𝑇) =
𝑑𝜆
I
Il pedice 𝜆 sta ad indicare la dipendenza dalla lunghezza d’onda della potenza emessa. Viene
espressa come derivata per indicare la frazione infinitesima della potenza emessa per metro quadro
dal corpo nero ricadente in un particolare intervallo 𝑑𝜆 relativo a specifiche lunghezza d’onda. Se
volessi sapere quanti 𝑊 ⁄𝑚2 il mio corpo nero emette in un intervallo di lunghezze d’onda compreso
ere

tra 0,39 e 0,49 micrometri, ovvero all’inizio del campo visibile. Ebbene basta guardare quanta
potenza un captatore tarato per quella lunghezza d’onda riesce a rilevare e dividerla per l’intervallo
di lunghezza d’onda considerato, nel nostro caso 0,1 micrometri ed abbiamo definito il potere
emissivo monocromatico del corpo nero a questa precisa lunghezza d’onda. Questa funzione è stata
studiata soprattutto da Planck che ne ha determinato la legge analitica che per tale motivo si
denomina legge della distribuzione di Planck.
Viv

𝑊 ∙ 𝜇𝑚4
𝐶1 𝐶1 = 2𝜋ℎ𝑐0 2 = 3,74177 ∙ 108 [ ]
𝑚2
𝐸𝑛,𝜆 (𝜆, 𝑇) = 𝐶2⁄ con:
𝜆5 ∙ (𝑒 ( 𝜆𝑇)
− 1) ℎ ∙ 𝑐0
{ 𝐶2 = = 1,43878 ∙ 104 [𝜇𝑚 ∙ 𝐾 ]
𝑘

Osserviamo che questa legge vede il potere emissivo dipendere simultaneamente dalla temperatura
del corpo nero e dalla lunghezza d’onda. È una legge che non è importantissimo ricordare
perfettamente a memoria. Quello che è importantissimo e ricordarne l’andamento grafico. È altresì
utilizzabile per corpi che emettono nel vuoto o in un mezzo. Andiamo al grafico dell’equazione: in
ordinata c’è il potere emissivo monocromatico ed in ascissa la lunghezza d’onda espressa in
230

micrometri. Le varie curve che


vediamo in rosa. Sono curve
dedotte da questa equazione
associando per ogni curva a T un

ria
ben preciso valore. Se noi
studiamo l’emissione del corpo
nero a 1000K mettiamo al posto di
T il valore 1000 e deduciamo una
espressione che dipende solo dalla
lunghezza d’onda. Ci viene data

gne
appunto la curva, alle varie
lunghezza d’onda, corrispondente
a 1000K. La si ottiene tutta e segue
quella legge analitica vista prima.
Se invece al posto di T mettiamo
2000K, troviamo una nuova curva
rappresentativa, anch’essa
nge
plottata nel grafico a lato. Notiamo
che il corpo nero presenta delle
regolarità nel suo modo di
emettere le radiazioni: quale che
sia la sua temperatura esso emette
in maniera continua a tutte le
lunghezze d’onda con un
I
andamento che è dapprima
crescente, raggiunge un massimo
di emissione ad una ben specifica
lunghezza d’onda, e da quel punto va diminuendo. La forma a campana ci indica che, quale che sia
la temperatura quindi, possiamo chiaramente identificare un massimo di emissione corrispondente
ere

ad una ben specifica lunghezza d’onda. Fissata la lunghezza d’onda, la radiazione aumenta con la
temperatura: muovendomi lungo una verticale, vado incontrando curve del corpo nero a T
crescenti. Le curve infatti, non si intersecano. Al crescere della temperatura si vanno spostando, con
i loro massimi, verso sinistra. I corpi neri relativamente freddi, emettono a frequenza d’onda più
elevate. La radiazione del sole si comporta, in maniera molto prossima, come quella di un corpo
nero che emette a 5800K. Vediamo che, tutta la banda visibile, viene a trovarsi in corrispondenza
Viv

del massimo della emissione solare, proprio in virtù di quello che abbiamo detto prima: l’occhio
umano si è evoluto in modo da poter captare la maggior parte della radiazione emessa dal sole.
L’essere umano emette a circa 309K. Allora ci chiediamo: è possibile che vediamo le radiazioni che
noi stessi emettiamo? La risposta è no. Si vede chiaramente dal grafico, come tutta la curva dei 300K
sia ben lontana dalla banda del visibile. Quindi ciò che vediamo non può essere frutto dell’emissione
propria dei corpi a 309K. Altro esempio: quando viene accesa una stufa a resistenza, dopo alcuni
secondi, sentiamo calore ma ancora non riusciamo a vedere effetti cromatici significativi. Vuol dire
che ancora la sua temperatura non emette radiazioni nel campo del visibile. Più si riscalda, piano
piano la sua curva comincia ad entrare nella banda del visibile, ed il rosso è il primo colore che si
vede. Più si riscalda e più radiazioni nel campo del visibile emette. Ciò che quindi vediamo nei corpi
231

non può che essere ciò che viene riflesso dall’emissioni di altri corpi. Per ogni curva abbiamo visto
che esiste un massimo di emissione corrispondente ad una precisa lunghezza d’onda. Cerchiamo
una funzione tra le ascisse e i massimi, e notiamo che, più alta è la temperatura, più è bassa la
lunghezza d’onda alla quale è presente il massimo. La cosa avviene con regolarità, ed è espressa

ria
dalla legge di Wien:

(𝜆 ∙ 𝑇)max 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 = 2897,8 [𝜇𝑚 ∙ 𝐾 ]

Dimostrando quindi una perfetta proporzionalità tra la lunghezza d’onda e l’inverso della
temperatura.

gne
1
𝜆𝑚𝑎𝑥 ∝
𝑇

Quindi, se mi chiedessi, a quale lunghezza d’onda corrisponde il massimo di emissione per un corpo
a 1000K, non devo fare altro che dividere il valore di 2897,8 per 1000, e trovare così la lunghezza
d’onda corrispondente. Su una scala bilogaritmica, come è il grafico appena mostrato, la curva che
congiunge i massimi, è una retta. C’è un legame tra il potere emissivo monocromatico ed il potere
nge
emissivo totale? Ebbene, partendo dalla definizione del potere emissivo monocromatico, possiamo
scrivere:

𝑊
𝑑𝐸𝑛 (𝑇) = 𝐸𝑛,𝜆 (𝜆, 𝑇) ∙ 𝑑𝜆 ⇒ 𝐸𝑛 (𝑇) = ∫ 𝐸𝑛,𝜆 (𝜆, 𝑇) ∙ 𝑑𝜆 = 𝜎 ∙ 𝑇 4 [ ]
0 𝑚2

Ovvero, la frazione di potere emissivo totale del mio corpo, è


uguale al prodotto tra il potere emissivo monocromatico e
I
l’intervallo di lunghezza d’onda alla quale emette questa frazione
di potere emissivo totale. Integrando per tutto l’intervallo di
lunghezze d’onda, otteniamo il potere emissivo totale. Pertanto, il
potere emissivo totale ad una data temperatura ha, sul piano
ere

𝐸𝑛,𝜆 − 𝜆 , il significato di area sottesa dalla curva che descrive


l’andamento del potere emissivo monocromatico. Ricordiamo che
stiamo parlando di integrale, ma che in effetti, l’energia viene
trasmesse in unità discrete (come detto in precedenza). Possiamo
parlare però di integrale perché l’unità elementare di energia che viene scambiata è comunque
molto più piccola della quantità infinitesima 𝑑𝐸𝑛 (𝑇) che noi consideriamo. Vediamo ora come
Viv

valutare la quantità di potenza che il corpo emette all’interno di uno specifico intervallo di lunghezza
d’onda. Infatti, la potenza radiante emessa da un corpo nero per
unità di area nella banda di lunghezza d’onda compresa tra 0 e 𝜆 è
data dalla relazione:
𝜆
𝐸𝑛,0→𝜆 (𝑇) = ∫ 𝐸𝑛,𝜆 (𝜆, 𝑇) ∙ 𝑑𝜆
0

Poiché questa integrazione non ha una soluzione analitica


semplice, ed effettuare un’integrazione numerica ogni volta che
232

serve un valore di 𝐸𝑛,0→𝜆 è scomodo, si


definisce una quantità adimensionale 𝑓𝜆
detta funzione di radiazione del corpo nero:
𝜆

ria
∫ 𝐸𝑛,𝜆 (𝜆, 𝑇) ∙ 𝑑𝜆
𝑓𝜆 (𝑇) = 0
𝜎 ∙ 𝑇4

la funzione 𝑓𝜆 rappresenta la frazione di


radiazione emessa dal corpo nero a
temperatura T nella banda di lunghezza

gne
d’onda da 0 a 𝜆; i valori di 𝑓𝜆 sono tabellati in
funzione di 𝜆𝑇. Quindi, la frazione di
radiazione emessa da un corpo nero alla
temperatura T in una banda compresa tra
due lunghezze d’onda, è data dalla relazione:

𝑓𝜆1 →𝜆2 (𝑇) = 𝑓𝜆2 (𝑇) − 𝑓𝜆1 (𝑇)


nge
Applichiamo questa relazione al sole, chiedendoci che frazione del suo potere emissivo emette nel
campo del visibile: il sole si può trattare come un corpo nero a 5800K. I limiti della banda del visibile
sono 0,38 e 0,78 micrometri. Allora calcoliamo 0,39*5800 = 2262 e 0,78*5800 = 4524. Se entro con
il valore di 2262 non lo trovo ma procedo per interpolazione, e
posso supporre che sia 0,11. Vuol dire che, al di sotto di questa
lunghezza d’onda, il sole emette l’11% del suo potere emissivo.
Facciamo lo stesso con 4524, (non presente in tabella che è a
I
titolo di esempio) che potrebbe ragionevolmente essere a 0,56.
Sottraendo a 0,56 lo 0,11 trovato prima ottengo 0,45. Ovvero,
il 45% delle radiazioni che emette il sole, vengono emesse nella
banda del visibile. Se invece io volessi la potenza irradiata,
ere

basta ricordarsi che questa è la frazione del potere emissivo


totale, quindi basta fare 0,45 ∙ 𝜎 ∙ 𝑇 4 ottenendo il potere
emissivo al metro quadro che il sole irradia all’interno della
scala del visibile.

Emissività
Viv

Si definisce emissività 𝜀 di una superficie il rapporto tra la radiazione che essa emette e quella
emessa dal corpo nero alla stessa temperatura. Tuttavia questa definizione è purtroppo
semplicistica per definire la realtà, questo perché il corpo non ha qualità di corpo uniformemente
diffondente (emette diversamente in diverse direzioni) ed inoltre, il corpo nere emette con uno
spettro regolare mentre il corpo reale emette in maniera imprevedibile a tutte le lunghezze d’onda.
Inoltre dipende anche dalla temperatura. quindi a rigore, l’emissività di un corpo dovrebbe essere
in funzione della lunghezza d’onda, della temperatura e dell’angolo di direzione. Per semplificare, si
rinuncia a seguire l’angolo di direzione e ci si chiede semplicemente quanto emisfericamente, cioè
in tutte le direzioni, il corpo reale emette, paragonato a quanto, in tutte le direzioni, il corpo nero
233

emette, definendo così una emissività emisferica spettrale 𝜀𝜆 che rimane funzione della lunghezza
d’onda e della temperatura:

𝐸𝜆 (𝜆, 𝑇)
𝜀𝜆 (𝜆, 𝑇) =
𝐸𝑛,𝜆 (𝜆, 𝑇)

ria
Rimane il fatto che, quale che sia la lunghezza d’onda e la temperatura, così definito, va da sè che
l’emissività deve essere un numero minore dell’unità. Talvolta si fa anche una integrazione al variare
di tutte le lunghezze d’onda, e quindi ci si chiede: dato il complesso della potenza irradiata dal corpo
nero ad una certa temperatura, il mio corpo reale, quanto emette rispetto al corpo nero?
Brutalmente si fa un integrale su tutte le lunghezze d’onda

gne
𝐸 (𝑇 )
𝜀 (𝑇 ) =
𝐸𝑛 (𝑇)

Tutti questi 𝜀 sono minori dell’unità. Una nota merita la semplificazione, applicabile a molti corpi
reali, di superficie grigia. Tali corpi, emettono diversamente dal corpo nero, però ha una
semplificazione rispetto ai corpi reali nel senso che la sua emissione, rapportata al corpo nero, è
nge
indipendente dalla lunghezza d’onda. Ovvero si comporta, in relazione al corpo nero, sempre allo
stesso modo al variare della
lunghezza d’onda. Questi
due grafici ci permettono di
capire la differenza tra un
corpo reale, un corpo nero
ed un corpo grigio. Il primo
I
ha in ascissa la lunghezza
d’onda e l’emissività in
ordinata. Si vede come nel
corpo nero, sia una retta
orizzontale peri ad uno,
ere

perché perfetto
emettitore. Il corpo reale
invece ha un andamento molto variabile con la lunghezza d’onda. Il corpo grigio, ha un
comportamento intermedio ai due: ha un fattore di emissione decisamente inferiore a quello del
corpo nero, però ha un valore costante indipendentemente dalla lunghezza d’onda. Il secondo
grafico è invece un grafico del potere emissivo in funzione della lunghezza d’onda. Quasi tutti i corpi
Viv

che ci circondando, nello studio dello scambio tra corpi, se li consideriamo corpi neri commettiamo
grandi errori. Tuttavia, se li consideriamo grigi, non commettiamo grandi errori perché molti corpi
reali vengono ben approssimati come corpi grigi.

Comportamento dei corpi reali rispetto alla radiazione incidente

Ci poniamo ora il problema del comportamento dei corpi alla radiazione emessa da altri corpi e su
esso incidente. Per prima cosa, dobbiamo introdurre una nuova grandezza, che definiamo
irradiazione G: rappresenta la potenza incidente su un metro quadro di superficie associata a quella
incidente sul corpo. È una potenza su unità di superficie, ma ha un significato completamente
234

diverso dal potere emissivo: quest’ultimo è una potenza emessa


per unità di superficie che viene radiata da un corpo emissivo.
L’irradiazione G è invece la quota incidente espressa in watt per
unità di superficie della radiazione emessa da altri corpi. Che

ria
cosa può succedere alla radiazione elettromagnetica quando
questa incide su una superficie? Può essere:

 Riflessa;
 Assorbita;
 Trasmessa oltre.

gne
In pratica queste tre opzioni non sono alternative, ma si
verificano in maniera indipendente tra loro che però dipende
dalle caratteristiche del corpo. Si introducono quindi tre coefficienti:

𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑠𝑠𝑜𝑟𝑏𝑖𝑡𝑎 𝐺𝑎𝑠𝑠


∎Coeff. di assorbimento: 𝛼 = 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑖𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒 = 𝐺 ,0 ≤ 𝛼 ≤ 1
𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑎 𝐺𝑟𝑖𝑓
∎Coeff. di riflessione: 𝜌 = 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑖𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒 = 𝐺 , 0 ≤ 𝜌 ≤ 1
nge 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝐺
∎Coeff. di trasmissione: 𝜏 = 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑖𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒 = 𝐺𝑡𝑟 , 0 ≤ 𝜏 ≤ 1

Valendo ovviamente 𝛼 + 𝜌 + 𝜏 = 1, identificando i tre possibili destini della radiazione incidente,


la totalità non può che essere pari all’unità. Questi coefficienti, variano con la lunghezza d’onda e
vengono definiti come:
I
𝐺𝑎𝑠𝑠 (𝜆) 𝐺𝑟𝑖𝑓 (𝜆) 𝐺𝑡𝑟 (𝜆)
𝛼𝜆 (𝜆) = ; 𝜌𝜆 (𝜆) = ; 𝜏𝜆 (𝜆) =
𝐺 (𝜆 ) 𝐺 (𝜆 ) 𝐺(𝜆)

E si possono nuovamente calcolare valori medi di tali coefficienti come:


∞ ∞ ∞
ere

∫0 𝛼𝜆 𝐺𝜆 𝑑𝜆 ∫0 𝜌𝜆 𝐺𝜆 𝑑𝜆 ∫0 𝜏𝜆 𝐺𝜆 𝑑𝜆
𝛼̅ = ∞ ; 𝜌̅ = ∞ ; 𝜏̅ = ∞
∫0 𝐺𝜆 𝑑𝜆 ∫0 𝐺𝜆 𝑑𝜆 ∫0 𝐺𝜆 𝑑𝜆

NOTA: questi coefficienti non variano solo con il materiale ma anche con la geometria: basti pensare
al diverso comportamento di una lastra di vetro sottile o spessa, o anche un prisma.
Viv

Un corpo che si presenta opaco, chiaramente 𝜏 = 0, quindi rimane 𝛼 + 𝜌 = 1. Ovvero l’energia


viene in parte assorbita e in parte riflessa.

Legge di Kirchoff

Con riferimento alla radiazione proveniente da un corpo nero ad una data T, per qualsiasi corpo il
coefficiente di assorbimento emisferico totale alla stessa T eguaglia l’emissività emisferica totale del
corpo stesso, cioè:

𝜀 ( 𝑇 ) = 𝛼 (𝑇 )
235

Ovvero, se abbiamo la capacità di vedere come il corpo si comporta all’assorbimento della


radiazione, possiamo anche valutare come si comporta l’emissività del corpo.

Radiazione solare incidente al suolo

ria
abbiamo capito che il sole emette una certa potenza per unità di superficie comportandosi come un
corpo nero a 5800K. Ma sulla superficie terrestre, quanta di questa potenza arriva? Certamente non
tutta: emettendo in tutte le direzioni, non tutto quelle che emette arriva a noi. Anche per un fattore
di distanza: più siamo lontani meno ne arrivano perché, rispetto alle onde emesse in ogni direzione,
più siamo lontani meno ne captiamo. Inoltre la terra è circondata da diversi strati di atmosfera che
in parte hanno coefficienti di assorbimento ed in parte si lasciano attraversare. Quindi è chiaro che

gne
l’emissione non è a che fare con G che dipende da numerosi fattori. Poiché può risultare complicato
trattare la radiazione incidente sulla terra a partire da quella emessa dal sole, si usa come
riferimento quella che effettivamente arriva ai confini della nostra atmosfera. Quindi per prima cosa
ci chiediamo quanto vale: non sarà un valore fisso, perché nel moto di rivoluzione terrestre questo
valore cambia. Tuttavia il valore non cambia di molto, e se ne definisce un valore medio chiamata
costante solare: nge 𝑊
𝐺̅ = 1353 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒
𝑚2

Questa è la potenza che


mediamente, nel corso
dell’anno, incide su una unità di
superficie, ortogonale alla
I
congiungente sole-terra, posta ai
confini della nostra atmosfera.
Se noi andiamo a guardare
l’irradianza spettrale alle varie
lunghezza d’onda, risulta una
ere

curva anche questa a campana e


notiamo che l’integrale di questa
curva vale proprio 𝐺̅ . Ma questa
stessa curva, come abbiamo
detto, è integrata per ogni
lunghezza d’onda e quindi ne è lo
Viv

spettro. Abbiamo diagrammato


non solo l’intera potenza che incide per unità di superficie ma anche il suo andamento spettrale. È
una curva che presenta il suo massimo esattamente nel campo del visibile e notiamo che guardando
quella che arriva al suolo, il suo valore massimo è decisamente inferiore, e presenta una serie di
creste e valli che 𝐺̅ non ha. Questo perché, i gas presenti nell’atmosfera “schermano” la radiazione,
ed in base ai vari gas presenti in atmosfera, questi assorbano radiazioni a ben precise lunghezze
d’onda. Le altre frequenze invece passano il gas senza essere assorbite.
236

05/06/2018

L’effetto serra

È la trappola di calore che si viene a generare in certi ambienti

ria
chiusi (che studieremo portando a titolo di esempio
l’automobile (mezzo con il quale tutti abbiamo familiarità),
quali appunto le serre per le quali si è riscontrato questo
fenomeno. Viene mostrata in figura al variare della lunghezza
d’onda, il coefficiente di trasmissione che assume una lastra di
vetro di spessore diverso (sono plottate tre diverse curve)

gne
perché come abbiamo detto, non dipende solo dal materiale
ma anche dalla sua geometria. Al di là del fatto che lo spessore
influenza il coefficiente di trasmissione, quale che sia lo
spessore, si nota che la curva di trasmissione al variare della lunghezza d’onda, si presenta come
una U rovesciata. Mostra un coefficiente molto elevato, prossimo all’unità, nella banda del visibile
ed anche un po' dell’infrarosso, mentre invece manifesta un decremento molto importante sopra i
tre micrometri. Ora dobbiamo studiare che caratteristiche di spettro possiede la radiazione solare
nge
che incide sul nostro veicolo perché irradiata dal sole, e la successiva reirradiazione che il nostro
abitacolo, che si porta ad elevata temperatura. Vediamo in quest’altra figura le emissioni alle varie
temperature relative ai corpi neri. Il sole
approssima molto bene il comportamento del
corpo nero ed osserviamo che, buonissima parte
della potenza trasmessa, il sole la irradia tra 0,3 e
I
3 micrometri (le bande rosse tratteggiate). Quindi
la frazione di energia irradiata dal sole all’interno
di queste bande di frequenza è certamente molte
elevate. Immaginiamo che irradi circa il 70% della
sua energia all’interno di questa banda. Questa
ere

energia, quando giunge sul nostro veicolo, e


prova a passare la lastra di vetro, trova un
coefficiente di trasmissione molto elevato, circa
0,9. E quindi circa il 90% della radiazione incidente
passa dai vetri, riscaldando ragionevolmente
l’abitacolo a temperature comprese tra i 40°C e i
Viv

50°C. Ebbene succederà che anche i sedili, in virtù


della temperatura propria, reirradieranno verso
l’ambiente circostante su lunghezze d’onda che
però sono quelle di un corpo compreso tra i 313K
e i 323k (bande blu tratteggiate). Per questo
campo di lunghezze d’onda, il coefficiente di trasmissione del vetro vede un repentino
abbassamento, portandosi a valori estremamente bassi, di fatto intrappolando la radiazione che
viene irradiata dall’abitacolo. Questa sorta di trappola alla radiazione che si manifesta in virtù della
variabilità del coefficiente di trasmissione del vetro alle varie lunghezze d’onda, è proprio detto
effetto serra. La stessa cosa avviene con certi gas nell’atmosfera, che risultano praticamente
237

trasparenti alla radiazione solare, ma una volta che questa riscalda la terra, e la terra reirradia
attorno a sè, queste radiazioni vengono trattenute da questi strati di gas. Quando si modellizza la
reirradiazione della terra sulla volta celeste, si immagina la volta celesta come un involucro della
terra ad una temperatura fittizia che varia in base alla nuvolosità. Fatti i conti, si nota che quando il

ria
cielo è perfettamente limpido la volta celeste si comporta come un corpo a -50°C. quando invece ci
sono condizione di significativa nuvolosità, è come se fittiziamente questa temperatura percepita
della volta celeste al suolo aumentasse portandosi a circa 0-8°C. Quindi la terra reirradia di più in
condizioni di cielo limpido piuttosto che in condizioni di cielo coperto: infatti, ricordando le sere
d’estate in cui il cielo era limpido, al mattino l’aria era più fredda, perché la terra, molto riscaldata
durante la giornata limpida, è stata poi in grado di reirradiare una maggiore quantità di energie in

gne
virtù della minore temperatura apparente della volta celeste, e quindi si è impoverita di calore in
maniera più rapida, decrescendo di più nelle ore notturne.

Premesse allo scambio termico tra superfici: i fattori di vista

Se ci mettiamo davanti al camino, la irradiazione che viene dalla fiamma, genera una sensazione di
calore. Se però passa qualcuno che si mette in mezzo, se la fiamma non vede più direttamente il
nostro corpo, si viene a ridurre fortemente il flusso radiativo verso di noi. Segno che il calore viene
nge
a viaggiare per irraggiamento in maniera diretta verso di noi e non è capace di aggirare ipotetici
ostacoli. Lo stesso si può osservare se, invece di metterci di fronte, ci mettiamo di profilo nei
confronti della sorgente di calore, e contribuiamo alla riduzione della potenza trasmessa perché la
sorgente di calore ci “vede” meno. Ma cerchiamo di capirci meglio. Se abbiamo detto che una
sorgente emette emisfericamente in tutte le direzioni, che rappresentiamo con vettori, risulta
chiaro che l’energia che viene emessa in direzioni che non incidono su di noi, non contribuiscono
I
all’irraggiamento. Allora, abbiamo bisogno di qualcosa che ci permetta di quantificare la frazione di
energia emessa che va a incidere sul corpo captante, ovvero l’angolo solido sotto cui la superficie
captante viene vista dalla superficie emittente. Questo angolo solido non è analiticamente facile,
perché deriva da un processo di integrazione molto complesso, che porta poi ad un semplice
numero che si denomina fattore di vista fra due superfici:
ere

𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑒𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 𝑖


𝐹𝑖→𝑗 =
𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑖𝑑𝑒 𝑑𝑖𝑟𝑒𝑡𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 𝑗

Che indicherà la frazione della radiazione che, emessa dalla superficie


i, investe diretta mente la superficie j. 𝐹𝑠𝑜𝑙𝑒→𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎 è tanto più grande
quanto più la terra è vicina al sole, perché maggiore è l’angolo solido
Viv

sotto la quale viene vista. La notazione così scritta, ci dice che la i è la


superficie emittente mentre j è quella captante. Notiamo delle prime
caratteristiche: immaginiamo di avere un corpo diffondente e
notiamo che una superficie piana, per definizione, ha un fattore di
vista nullo rispetto a sè stessa (1). Stesso discorso vale per la
superficie convessa (2). Se invece la superficie è concava, l’emissione
che viene a prodursi in tutto l’emisfero da una parte della superficie,
può incidere sulla superficie stessa. E quindi il fattore di ferma per
superfici concave rispetto a loro stesse, può non essere zero (3). I
valori limite del fattore di vista sono 0 e 1: 0 vuol dire che nessuna
238

radiazione emessa investa la radiazione captante, oppure 1, che


vuol dire che ogni componente irradiata vada ad incidere sulla
superficie captante. È il tipico caso di geometrie contenute in altre
geometrie: ogni elemento della superficie interna emette una

ria
radiazione che investe la superficie che la racchiude.

Sono state effettuate numerose misurazioni e calcoli integrali per


poter popolare una tabella con i vari fattori di forma di geometrie
note. Vediamo per esempio il caso delle superficie quadrate: ci
dobbiamo immaginare che se le superfici sono più distanti il

gne
fattore di forma diminuisca, e se invece si avvicinano aumenta.

I nge
ere
Viv
239

A facilitare ulteriormente lo studio dei fattori di vista, ci aiutano delle regole che si dimostrano
sviluppando l’integrale, quindi non le verifichiamo, ma sono state ampiamente dimostrate:

Regola di reciprocità: tra due superfici i e j di forma generica, comunque disposte nello spazio l’una
rispetto all’altra, vale sempre:

ria
𝐴𝑖 𝐹𝑖→𝑗 = 𝐴𝑗 𝐹𝑗→𝑖

Ovvero, il fattore di vista della superficie emittente verso la superficie captante, moltiplicato per
l’area della superficie emittente è pari al prodotto tra il fattore di vista della superficie captante
verso la superficie emittente, moltiplicato per l’area della superficie captante. Quindi questa

gne
relazione ci può permettere in molti casi, noto uno dei due fattori di vista, se sono note entrambe
le aree, di calcolare l’altro fattore di vista. Immaginiamo di
avere una sfera 1 al cui interno sono poste, prima una sfera 2
e poi una sfera 3 di raggio maggiore rispetto a quello della 2.
Ci chiediamo come calcolare il fattore di vista dalla 1 alla 2 (o
alla 3). Ebbene, notiamo che 𝐹1→2 non può che essere più
piccolo di 𝐹1→3 . La conoscenza della regola della reciprocità
nge
rende il calcolo più semplice: essendo le sferette 2 e 3 all’interno della cavità, hanno fattore di vista
pari ad 1 (l’abbiamo detto prima, nel caso dei valori limite). E allora, se nella relazione inserisco le
aree (che conosco) e considerando che 𝐹2→1 = 1, allora posso facilmente trovare 𝐹1→2. Stessa cosa
vale per il fattore di forma 𝐹1→3.

Regola della somma per una cavità: per il principio di conservazione


dell’energia, poiché tutta la radiazione emessa dalla superficie interna di
I
una cavità deve essere intercettata dalla superficie della cavità stessa, si ha
che la somma dei fattori di vista della superficie di una cavità verso tutte le
altre, essa stessa inclusa, è sempre uguale ad 1
𝑁
ere

∑ 𝐹𝑖→𝑗 = 1
𝑗=1

Regola della sovrapposizione: se il fattore di vista non è


disponibile nelle tabelle, è possibile esprimere la geometria
Viv

data in forma di somma o differenza di geometrie con fattori


di vista noti ed applicare la regola della sovrapposizione: il
fattore di vista tra una superficie i ed una j è pari alla somma
dei fattori di vista tra la superficie i e le parti che compongono
la superficie j.
240

La trasmissione di calore per irraggiamento tra superfici nere

lo scambio nero tra due superfici risulta relativamente complesso


quando le superfici non sono nere, perché in questo caso, accade che se
una irradia, una parte già non raggiunge l’altra superficie, quella che

ria
arriva in parte può essere trasmessa e/o riflessa. Tra superfici nere
invece, avendo assorbimento pari ad 1 a qualsiasi lunghezza d’onda, si
semplifica notevolmente lo studio. Consideriamo due superfici nere di
forma arbitraria come in figura. La potenza termica che le due superfici si
scambiano, considerando T1>T2, varrà:

gne
𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑒𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑒𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎
̇
𝑄1→2 = ( 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 1 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑖𝑑𝑒 ) − ( 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 2 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑖𝑑𝑒 )
𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 2 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 1

Questo perché entrambi i corpi emettono energia radiante. Quindi la potenza termica scambiata, è
in realtà una potenza termica netta, che deriva dalla differenza di entrambi gli effetti.
Analiticamente vale:
nge
𝑄̇1→2 = 𝐴1 𝐸𝑛1 𝐹1→2 − 𝐴2 𝐸𝑛2 𝐹2→1

Ovvero, il suo potere emissivo per la superficie, ottenendo quindi Watt, corrispondono a tutta la
potenza termica che la superficie nera emette, in tutte le direzioni. Quindi si moltiplica per il fattore
di forma dalla 1 alla 2, che tiene conto di quanta potenza va a incidere sulla superficie 2. A questa
deve essere sottratta quella che viene emessa dal corpo 2 e che incide sul corpo 1. Tuttavia,
I
considerando la regola della reciprocità espressa in precedenza, varrà:

𝐴1 𝐹1→2 = 𝐴2 𝐹2→1

E quindi possiamo scrivere:


ere

𝑄̇1→2 = 𝐴1 ∙ 𝐹1→2 ∙ (𝐸𝑛1 − 𝐸𝑛2 ) = 𝐴1 ∙ 𝐹1→2 ∙ 𝜎 ∙ (𝑇14 − 𝑇24 )

Ricordando che 𝐸𝑛 (𝑇) = 𝜎 ∙ 𝑇 4 .

Applicazione numerica: interposizione di schermi oscuranti

Supponiamo di avere due superfici piane e indefinite, quindi


Viv

estremamente lunghe. Le due superfici inoltre si comportano


come corpi neri (coefficiente di assorbimento = 1) e stanno a T
costante T1 e T2 con T1 > T2. Prendiamo un’unità di superficie
su entrambe le pareti, e ci chiediamo quanta potenza termica
si scambiano queste due pareti. Questo studio può essere
particolarmente complicato, perché la superficie 1 emette in
tutte le direzioni. Allora, data questa distanza, ci saranno delle
frazioni di radiazione che vanno a colpire la superficie 2 ma ci
saranno delle componenti di radiazione emessa che non
colpiscono la superficie. Ma poiché le abbiamo supposte
241

indefinitamente lunghe, per ogni unità di superficie che emette, ci sarà, anche adiacente, una unità
di superficie della seconda parete che capta questa radiazione. Cioè, se nel complesso la superficie
1 emetterà una certa potenza non c’è dubbio che, stante la estensione indefinita della parete, tutte
queste radiazione incideranno sulla parete 2. Quindi, la certezza che tutta la parete 1 emette

ria
andando ad investire la parete 2, deriva dal fatto che, pareti così disposte, hanno fattore di vista
pari ad 1. La potenza trasferita, per unità di area, in assenza di schermi oscuranti varrà:

𝑄̇1→2
𝑞̇ 1→2 = = 𝐹1→2 ∙ 𝜎 ∙ (𝑇14 − 𝑇24 )
𝐴

Adesso interponiamo una superficie 3, anch’essa indefinita ed anch’essa nera:

gne
che succede in regime stazionario (ovvero dopo aver posto lo schermo attendo
che passi il transitorio e che tutto sia in equilibrio termico)? Appena inserisco la
superficie 3, è certamente una parete più fredda delle altre due, e riceverà
potenza termica da entrambe. L’equilibrio termico verrà raggiunto quando T3
sarà intermedia tra T1 e T2 in modo tale che, la potenza termica che viene
trasmessa dalla superficie più calda (ipotizziamo ancora T1 > T2) verrà ad essere
captata dalla superficie 3 che poi la smaltirà a sua volta verso la più fredda.
nge
Quindi se T1 = 100°C, e T2 = 90°C, ragionevolmente T3 si porterà a circa 93-
94°C. in condizioni stazionarie, quando la piastra 3, estinto il transitorio,
raggiunge T3 di equilibrio, come posso scrivere il flusso termico da 1 a 3? Posso
applicare la stessa relazione scritta prima. Ma la piastra 3 si trova a T3 > T2, e
reirradierà la piastra 2. E possiamo di nuovo riscrivere la relazione precedente.

𝑄̇1→3
I
𝑞̇ 1→3 = = 𝐹1→3 ∙ 𝜎 ∙ (𝑇14 − 𝑇34 ) = 𝜎 ∙ (𝑇14 − 𝑇34 )
𝐴
𝑄̇3→2
{𝑞̇ 3→2 = = 𝐹3→2 ∙ 𝜎 ∙ (𝑇34 − 𝑇24 ) = 𝜎 ∙ (𝑇34 − 𝑇24 )
𝐴

Ma in condizioni stazionarie, deve necessariamente valere 𝑞̇ 1→3 = 𝑞̇ 3→2 , quindi scriverò:


ere

𝑇14 + 𝑇24
𝑇14 − 𝑇34 = 𝑇34 − 𝑇24 ⇒ 𝑇34 =
2

La piastra si dovrà portare ad una temperatura che è pari alla semisomma delle temperature delle
altre due piastre (naturalmente considerate alla quarta potenza). sostituendo questo valore in una
Viv

delle due otterrò:

(𝑇14 − 𝑇24 ) 𝑞̇ 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑠𝑐ℎ𝑒𝑟𝑚𝑜


𝑞̇ 𝑐𝑜𝑛 𝑠𝑐ℎ𝑒𝑟𝑚𝑜 = 𝑞̇ 1→3 = 𝑞̇ 3→2 =𝜎∙ =
2 2

E si nota che la potenza termica che transita dalla 1 alla 3, che è la stessa che transita dalla 3 alle 2,
altra non è che la potenza termica che transitava da 1 a 2 (prima dell’inserimento della superficie 3)
diviso due. Si verifica che, interponendo un numero generico di schermi, la potenza termica che si
viene a trasferire sarà pari a:

𝑞̇ 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑠𝑐ℎ𝑒𝑟𝑚𝑖
𝑞̇ 𝑐𝑜𝑛 𝑁 𝑠𝑐ℎ𝑒𝑟𝑚𝑖 =
𝑁+1
242

Mentre nella conduzione aggiungevamo strati di isolante, nell’irraggiamento dobbiamo schermare


per ridurre la potenza termica.

Trasmissione tra due superfici opache, grigie e diffondenti

ria
Abbandoniamo la semplificazione di corpo nero che, in virtù
della sua idealità è facile da studiare, e cerchiamo ora di studiare
il comportamento delle superfici reali. Denominata con G la
radiazione su di esso incidente, perché emessa da un altro corpo
e giungente sulla sua superficie, non tutta la G verrà assorbita
dal corpo, bensì una parte sarà riflessa, e la parte riflessa sarà

gne
esprimibile come 𝜌𝐺 , essendo 𝜌 il coefficiente di riflessione. Il
comportamento del corpo, rispetto alla radiazione incidente su
di esso, che ha una sorgente diversa dal corpo stesso, si
sovrappone ed è distinta dal fenomeno di emissione propria che i corpi hanno a T diversa dallo zero
assoluto. In più, se oltra ad emettere, è investito da una radiazione G, allora anche 𝜌𝐺 è una
componente di energia che esce dal corpo non per emissione ma per riflessione. Chiamiamo
radiosità di una superficie (non nera) e la indichiamo con J tutta la radiazione che abbandona un
nge
metro quadro di superficie. È quindi una grandezza che si misura ancora una volta in 𝑊/𝑚2 però è
un computo di una quantità che rappresenta tutto ciò che allontana la mia superficie, imputabile a
due effetti. Uno è il contributo dell’emissione propria, ma anche la frazione eventualmente riflessa
dalla mia superficie. Entrambi i flussi rappresentano energia che esce dalla mia superficie:

𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑒𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑎


𝐽𝑖 = ( )+( )
𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 𝑖 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 𝑖
I
Ed in termini analitici:

𝐽𝑖 = 𝜀𝑖 𝐸𝑛𝑖 + 𝜌𝑖 𝐺𝑖 [𝑊/𝑚2 ]
ere

Dove 𝐸𝑛𝑖 è il potere emissivo del corpo nero alla temperatura della mia superficie, moltiplicata per
l’emissività 𝜀𝑖 . 𝜌𝑖 𝐺𝑖 è la componente analitica della radiazione riflessa. Supposto questo corpo
opaco, e quindi a coefficiente di trasmissione nullo, e quindi 𝛼 + 𝜌 = 1 . Ma dalla legge di Kirchoff,
𝛼 = 𝜀 e quindi 𝜀 + 𝜌 = 1. Per questo motivo possiamo riscrivere:

𝐽𝑖 = 𝜀𝑖 𝐸𝑛𝑖 + 𝜌𝑖 𝐺𝑖 = 𝜀𝑖 𝐸𝑛𝑖 + (1 − 𝜀𝑖 )𝐺𝑖 [𝑊/𝑚2 ]


Viv

Ed abbiamo ottenuto una espressione della radiosità tutta in termini di emissività, potere emissivo
del corpo nero, e radiazione incidente G. Ci chiediamo ora, quant’è, la potenza termica netta
trasmessa dalla mia superficie? Se la mia superficie vede incidere 100 W, e ne vede emessi 80W,
non può che averne assorbiti 20W. Al contrario, se ne arrivano 100W e ne emette 150W, vuol dire
che il saldo netto è di 50W. È chiaro quindi che il saldo netto della potenza per metro quadro netta
sulla mia superficie deve essere computato come differenza tra tutto ciò che arriva e tutto ciò che
esce o viceversa, in base a quale termine voglio considerare negativo. Consideriamo quindi:

𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑒
̇ 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑖𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑄𝑖 = ( 𝑎𝑏𝑏𝑎𝑛𝑑𝑜𝑛𝑎 𝑙𝑎 ) − ( )
𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 𝑖
𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 𝑖
243

In modo che risulti positiva quando il corpo si impoverisce, quindi che ne esce più di quanto arrivi.
Avendo appena definito la radiosità come tutto ciò che lascia la mia superficie, come sommatoria di
vari contributi, e G la potenza incidente, posso scrivere, considerando una superficie A:

𝑄̇𝑖 = 𝐴𝑖 ∙ 𝐽𝑖 − 𝐴𝑖 ∙ 𝐺𝑖 = 𝐴𝑖 ∙ (𝐽𝑖 − 𝐺𝑖 ) [𝑊 ]

ria
Che è proprio la differenza tra tutta l’energia che lascia la mia superficie, meno tutta l’energia che
incide sulla mia superficie. Ricavando G dall’espressione generale della radiosità scritta prima, e
sostituita all’interno di quest’ultima espressione, otteniamo:

𝐽𝑖 − 𝜀𝑖 𝐸𝑛𝑖 𝐴𝑖 ∙ 𝜀𝑖
𝑄̇𝑖 = 𝐴𝑖 ∙ (𝐽𝑖 −

gne
)= ∙ (𝐸𝑛𝑖 − 𝐽𝑖 ) [𝑊 ]
1 − 𝜀𝑖 1 − 𝜀𝑖

Introduciamo una nuova grandezza, ricorrendo alla analogia elettrica: concepiamo la differenza di
potere emissivo del corpo nero ad una data temperatura e la relativa radiosità della superficie reale
alla stessa temperatura come driving force e, dividendo per una resistenza otteniamo la potenza
termica netta. Ovvero, in termini analitici:
nge 𝐸𝑛𝑖 − 𝐽𝑖 1 − 𝜀𝑖
𝑄̇𝑖 = 𝑐𝑜𝑛 𝑅𝑖 =
𝑅𝑖 𝐴𝑖 ∙ 𝜀𝑖

Questa resistenza così espressa rappresenta la resistenza da vincere


affinché la potenza termica abbandoni la superficie. Abbiamo preso la
potenza termica positiva se uscente, quindi è come se la potenza termica
positiva si manifesta, e quindi rilascia potenza termica netta, allorquando
il potere emissivo che il corpo nero avrebbe alla sua temperatura è più
I
elevato della sua radiosità. È come se il potere emissivo del corpo nero
rappresentasse il potenziale di emissione della mia parete, mentre la radiosità una sorta di forzante
che cerca di fare entrare potenza termica nella mia parete. Se la potenza termica è positiva, vuol
dire che questo potere emissivo è maggiore dalla potenza termica che la radiosità cerca di fare
ere

entrare nella mia parete. questo fenomeno, l’esistenza di questa resistenza alla trasmissione per
irraggiamento ha a che fare solo con la tendenza di una superficie di fare uscire questa potenza
termica verso l’esterno, senza però specificare dove questa
potenza va a finire, influenzata dai fattori di forma etc. nel caso di
un corpo nero, questa resistenza non c’è, valendo 1 l’emissività, e
quindi la resistenza va a zero. Il concetto stesso di radiosità non ha
Viv

significato nel corpo nero mancando la riflessione, emettendo


secondo il suo potenziale di corpo nero senza alcun ostacolo. Ci
chiediamo come calcolare, tra due ipotetiche superfici reali non
nere, la potenza termica scambiata. Ebbene, la schematizzazione
con la quale si tratta la propagazione nello spazio di potenza
termica tra due superfici reali è la seguente: si modellizza lo
scambio termico tra una superficie e l’altra, che non sono nere,
come se le due superfici avessero un potenziale locale dato dal
corpo nero alla loro temperatura, e poi si modellizza una serie di
resistenze, disposte una dopo l’altra che servono a quantificare la
244

potenza termica che fluisce da una superficie all’altra. Cosa deve fare la potenza termica per uscire
dalla mia superficie non nera? Deve, partendo da un potenziale pari a quello del corpo nero, poter
vincere questa prima resistenza di cui abbiamo parlato, e quindi vede legata la sua radiosità al
potenziale del corpo nero da una resistenza appena esaminata. Solo se il potenziale di corpo nero è

ria
maggiore della radiosità, allora questa potenza può vincere questa resistenza. Appena questa
potenza vince la resistenza, allora abbandona la mia superficie, e va in tutte le direzioni come
abbiamo visto. Quale frazione andrà sulla superficie ricevente j? Solo la frazione 𝐹𝑖→𝑗 (come già visto
con il fattore di forma). Quindi scriveremo:

𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑎𝑏𝑏𝑎𝑛𝑑𝑜𝑛𝑎 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑎𝑏𝑏𝑎𝑛𝑑𝑜𝑛𝑎


𝑄̇𝑖→𝑗 = ( )−( )
𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 𝑖 𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑖𝑑𝑒 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑗 𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 𝑗 𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑖𝑑𝑒 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑖

gne
Ed in termini analitici:

𝑄̇𝑖→𝑗 = 𝐽𝑖 𝐴𝑖 𝐹𝑖→𝑗 − 𝐽𝑗 𝐴𝑗 𝐹𝑗→𝑖 = 𝐴𝑖 𝐹𝑖→𝑗 ∙ (𝐽𝑖→𝑗 − 𝐽𝑗→𝑖 )

Sempre per la regola della reciprocità.


nge
07/06/2018_parte1_mattina

Ed ancora, in accordo con l’analogia elettrica:

𝐽𝑖 − 𝐽𝑗 1
𝑄̇𝑖→𝑗 = 𝑐𝑜𝑛 𝑅𝑖→𝑗 =
𝑅𝑖→𝑗 𝐴𝑖 𝐹𝑖→𝑗

Questa resistenza è definita resistenza spaziale all’irraggiamento, relativa alla propagazione nello
I
spazio della potenza termica. vediamo che situazioni questa modellizzazione ci porta ad esaminare.
Nel caso in cui abbiamo una superficie i (per esempio il fondo
di un cilindro) la cui emissione non può che andare
all’interno di un’altra serie di superficie che rappresentano
una cavità chiusa insieme alla superficie i esaminata, ebbene
ere

l’emissione complessiva di potenza dalla superficie sarà


modellizzabile in questo modo: nota la temperatura della
superficie e note le sue caratteristiche, abbiamo che:

𝐸𝑛𝑖 − 𝐽𝑖
𝑄̇𝑖 =
𝑅𝑖
Viv

Che è la potenza netta che abbandona la superficie e che si propagherà verso tutte le altre superfici
secondo le relative resistenza spaziali, che dipenderà dai relativi fattori di vista. Quindi vediamo che
si può imporre uno schema di resistenze che costituiscono un nodo da cui la potenza termica si
dirama verso le varie superfici posta all’interno della cavità a seconda di come esse sono disposte
nello spazio, e di quale frazione della potenza emessa andrà a colpire la mia superficie. A titolo di
245

ria
gne
esempio vediamo questo problema che sottopone il libro di testo che presenta una cavità formata
da tre superfici. Le superfici hanno proprietà radiative note, così come l’estensione delle superfici,
e le relative temperature. Come calcolare quindi le potenze termiche che si scambiano? Si costruisce
la corretta rete di resistenze e si esegue poi il calcolo dei relativi potenziali. Abbiamo che ciascuna
nge
delle mie superfici avrà uno scambio netto sulla superficie stessa dipendente dalla differenza di
potenziale, pari a 𝐸𝑛𝑖 − 𝐽𝑖 quindi vi sarà un nodo il cui potenziale è dato dalla sua radiosità e tale che
la differenza di potenziale appena scritta rappresenta la misura della tendenza della potenza termica
ad entrare o ad uscire dalla mia superficie. Questo accade per tutte e tre le superfici, perché non
nere. Ma in ciascuno di questi nodi, questo potenziale è quello che visto prima, che vede la potenza
disponibile ed irradiata in tutte le direzioni. Non c’è dubbio che la somma dei fattori di vista sia
unitario per una cavità chiusa. La potenza netta che abbandona la superficie 1, o va verso 2 o verso
I
3, passando da resistenze spaziali come abbiamo visto prima. E lo stesso accade per le altre due
superfici verso le altre. Questa è la schematizzazione corretta, secondo l’analogia elettrica. A priori,
non è facile dire in che direzione viaggerà la potenza termica (che dipende dai coefficienti di
riflessione, infatti non è detto che tutte le pareti della cavità abbiano lo stesso coefficiente). Ancora
utilizzando l’analogia elettrica, si ipotizzano i versi delle potenze termiche all’interno della maglia di
ere

resistenza e si eseguono i calcoli, tenendo conto che, in caso di segno negativo, occorre cambiare
verso al flusso di potenza termica. Possiamo certamente assumere note le 𝐸𝑛𝑖 che dipendono dalle
temperature delle superfici. Le radiosità non sono affatto note, anzi, sono le incognite del mio
problema. Posso scrivere, a questi tre nodi che si presentano, tre equazioni di bilancio della potenza
termica che transita secondo la legge di Kirchoff per le reti elettriche. Ovvero, supposti i versi dei
flussi come in figura, avrò:
Viv

𝐸𝑛1 − 𝐽1 𝐽2 − 𝐽1 𝐽3 − 𝐽1
+ + =0
𝑅1 𝑅12 𝑅13
𝐽1 − 𝐽2 𝐸𝑛2 − 𝐽2 𝐽3 − 𝐽2
+ + =0
𝑅12 𝑅2 𝑅23
𝐽1 − 𝐽3 𝐽2 − 𝐽3 𝐸𝑛3 − 𝐽3
+ + =0
{ 𝑅13 𝑅23 𝑅3

Perché al nodo la somma delle potenze termiche deve essere pari a zero (per la conservazione
dell’energia). Ovviamente tra questi tre termini qualcuno sarà necessariamente negativo. In questo
246

sistema le resistenze sono tutte note, le 𝐸𝑛𝑖 sono tutte note, e le mie incognite sono proprio le
radiosità.

Miscele di gas

ria
Qualche cenno preliminare sulle miscele di gas. Se abbiamo una miscela costituita da più
componenti, in numero generico k, ovviamente, quando presenti in miscela, la massa totale è pari
alla somma dei singoli componenti (con pedice m relativo a miscela):
𝑘

𝑚𝑚 = ∑ 𝑚𝑖

gne
𝑖=1

Simile discorso vale per il numero di moli:


𝑘

𝑁𝑚 = ∑ 𝑁𝑖
𝑖=1 nge
Definiamo una massa molare apparente (o media) della miscela definita come la massa totale della
miscela diviso il numero di moli della miscela:
𝑘
𝑚𝑚 ∑ 𝑚𝑖 ∑ 𝑁𝑖 𝑀𝑖
𝑀𝑚 = = = = ∑ 𝑦𝑖 𝑀𝑖 [𝑘𝑔/𝑘𝑚𝑜𝑙 ]
𝑁𝑚 𝑁𝑚 𝑁𝑚
𝑖=1

Ci dice quanto pesa mediamente una mole o una kmole della miscela, che è somme dei pesi relativi
I
alle componenti. Infatti, ricordando che la massa di una sostanza è pari al numero di moli della
sostanza per la sua massa molare, otteniamo che la massa molare media della miscela è pari alla
sommatoria della frazione molare per la relativa massa molare (con 𝑦𝑖 appunto frazione molare).
Tale massa molare apparente ci permette di calcolare una costante apparente dei gas come:
ere

𝑅𝑢
𝑅𝑚 = [𝑘𝐽/𝑘𝑔 ∙ 𝐾 ]
𝑀𝑚

Ora esaminiamo un altro breve discorso e richiamiamo la legge di Dalton. In una miscela di gas che
approssima il comportamento dei gas ideali, non si accorge nemmeno della diversità di specie in
miscela e quindi si dimostra (anche analiticamente)
Viv

che: se in un dato recipiente di volume A+B e sono


presente due specie A e B, che si comportano come gas
ideali, ebbene all’interno della miscela, che avrà una
certa pressione totale, ciascuno dei gas presenta una pressione parziale che è pari alla pressione
che assumerebbe se si trovasse da solo ad occupare il medesimo volume alla medesima
temperatura:

𝑁𝑖 𝑅𝑢 𝑇𝑚
𝑝𝑖 (𝑇𝑚 , 𝑉𝑚 ) 𝑉𝑚 𝑁𝑖
= = = 𝑦𝑖 ⇒ 𝑝𝑖 = 𝑦𝑖 ∙ 𝑝𝑚
𝑝𝑚 𝑁 𝑅
𝑚 𝑢 𝑚𝑇 𝑁𝑚
𝑉𝑚
247

Con 𝑝𝑖 la pressione parziale, 𝑦𝑖 la frazione molare e 𝑝𝑚 la pressione totale della miscela.

Le miscele di gas e vapore: l’aria atmosferica (o “aria umida”)

L’aria atmosferica è una miscela complessa perché ha tanti costituenti. Questi elementi però, hanno

ria
una differenza: hanno temperature di saturazione particolarmente basse, per cui sono molecole
non a rischio condensazione. Se riscaldo o raffreddo l’aria, non c’è rischio che condensino (o che
evaporano da liquido). Invece il vapore acqueo nell’atmosferica, si trova n condizioni in cui i
cambiamenti di fase sono possibili a seguito di riscaldamenti o raffreddamenti. Distinguiamo quindi
nell’aria due componenti distinti, non perché solo due sono i componenti dell’aria, ma perché due
sono i componenti che si comportano in maniera diversa. l’aria che contiene tutti i suoi componenti

gne
tranne il vapore d’acqua è detta aria secca, mentre la totalità di aria secca più il vapore d’acqua
costituisce l’aria atmosferica. Quest’ultima è quindi una miscela composta da due componenti: aria
secca e vapore d’acqua. La composizione dell’aria secca è in genere costante, mentre la presenza
della seconda è fortemente variabile, in relazione alla presenza di fenomeni quali l’evaporazione e
la condensazione.

Andiamo a precisare come studiare l’energia contenuta nell’ara atmosferica. L’entalpia è una
nge
quantità estensiva, e quindi additiva. Entro certi limiti, la formazione di miscele tra costituenti, se le
soluzioni si comportano in modo ideale, vede l’entalpia totale come somma delle entalpie delle
singole specie. Queste non vale quando la miscela è fortemente esotermica o endotermica, se
miscelo acqua e farine etc. ma tra i gas che si comportano in modo ideale, posso pensare di sommare
l’entalpia dell’aria secca all’entalpia del vapore d’acqua per avere l’entalpia totale della mia miscela.
Come calcolare la entalpia dell’aria secca che sta in miscela col vapore d’acqua? La temperatura
dell’aria nelle applicazioni di condizionamento che considereremo varia in genere tra i -10 e +50°C,
I
𝑘𝐽
e l’aria secca si comporterà come un gas ideale, con 𝑐𝑝 = 1,005 [𝑘𝑔°𝐶 ] e considerano l’entalpia di
riferimento calcolata a T = 0°C (ovvero entalpia nulla) si può esprimere l’entalpia specifica come:

𝑘𝐽 𝑘𝐽
ℎ𝑎 = 𝑐𝑝 𝑇 = 1,005 ∙ 𝑇 [ ] ⇒ ∆ℎ𝑎 = 𝑐𝑝 ∆𝑇 = 1,005 ∙ ∆𝑇 [ ]
ere

𝑘𝑔 𝑘𝑔

Andiamo a ciò che accade al vapore acquo presenta nella


mia miscela, che è molto prossimo alla sua zona di
saturazione. Vicino alla campana, un fluido può cambiare
il suo comportamento da gas perfetto (vedere fattore di
Viv

compressibilità pag.31). Ma se ci pensiamo bene, vicino


alla campana dell’acqua, la zona dove il comportamento
da gas perfetto dell’acqua diventa meno approssimato, è
sì vicino alla campana ma a pressioni molto alte. Quando
siamo a pressioni molto basse o temperature molto basse, le isoentalpiche si presentano quasi
orizzontali, il che rappresenta una misura di approssimabilità di comportamento a gas perfetto.
Quindi possiamo certamente dire che, all’interno dell’intervallo di temperatura definito prima,
l’acqua ha un comportamento a gas perfetto. Ricordiamo tuttavia, che se dovessimo trovarci a
temperature inferiori agli 0°C, la coesistenza della fase vapore non sarebbe più con la fase liquida,
ma con quella solida. Poiché dunque il vapore d’acqua contenuto nell’aria atmosferica, sebbene
248

vicino alla zona di saturazione, può essere trattato come gas perfetto con errore trascurabile,
possiamo trattare l’aria come miscela di gas ideali, con pressione espressa in termini di somma delle
pressioni parziali (dove il pedice a vuol dire aria secca, e pedice vap, vapore acqueo:

𝑝 = 𝑝𝑎 + 𝑝𝑣𝑎𝑝 [𝑃𝑎]

ria
Ed inoltre, il vapore, quando si trova sotto i 50°C, è in una zona in cui la sua entalpia dipende solo
dalla sua temperatura. Poiché spesso avremo situazioni complicate, per semplicità, si può assumere
la sua entalpia pari a quella di saturazione.

ℎ𝑣𝑎𝑝 (𝑇, 𝑏𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑝) ≅ ℎ𝑣 𝑠𝑎𝑡 (𝑇)

gne
Ma per calcolare l’entalpia del vapore ad una certa temperatura, occorre avere a disposizione le
tabelle del vapore saturo. Allora si calcola l’entalpia del vapore in un qualsiasi stato supponendo il
seguente processo: considerando l’entalpia a T = 0°C, che è pari a 2501,3 kJ/kg ed il valore medio
del calore specifico dell’acqua nel campo di temperature compreso tra -10°C e +50°C, pari a 1,82
kJ/kg°C, l’entalpia del vapore d’acqua nel campo di variazione appena indicato può essere
determinata con un errore trascurabile con la relazione:
nge
ℎ𝑣𝑎𝑝 (𝑇, 𝑏𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑝) ≅ ℎ𝑣 𝑠𝑎𝑡 (𝑇) = 2501,3 + 1,82 ∙ 𝑇 [
𝑘𝐽
𝑘𝑔
] 𝑇 in °𝐶

Umidità assoluta ed umidità relativa


I
Si definisce umidità assoluta di una miscela aria-vapore, talvolta impropriamente detta titolo della
aria umida, la quantità di vapore contenuta in miscela per unità di massa di aria secca. Quindi x è la
massa di vapore della mia miscela diviso la massa d’aria secca. Questo numero è definito in un modo
un po' particolare: immaginiamo di avere 150kg d’aria secca e 2 kg di vapore. La totalità della miscela
ere

sarà pari a 152kg. Avrei immaginato di dover definire la quantità di vapore come 2/152. Invece ci
viene suggerito di rapportare la massa di vapore a quella dell’altro componente:

𝑚𝑣𝑎𝑝 𝑘𝑔𝑣𝑎𝑝 𝑔𝑣𝑎𝑝


𝑥= [ o più spesso ]
𝑚𝑎 𝑘𝑔𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑘𝑔𝑎𝑟𝑖𝑎

Questo perché, abbiamo detto che l’aria secca non è a rischio condensazione, mentre il vapore sì.
Viv

Se io provo a raffreddare questa miscela, i 150kg dell’aria secca restano costanti mentre il vapore
scende a 1kg. Se l’avessi definita come massa di vapore su massa totale, sarebbe stata 1/151 perché
cambiavano numeratore e denominatore, e non riuscivo a capire bene come variano le cose.
Tenendo il denominatore costante invece, ho una misura ben precisa di ciò che succede: passando
da 2/150 a 1/150 vedo chiaramente un dimezzamento, proprio in termini numerici. L’unità di misura
di questa grandezza è ovviamente kg di vapore / kg di aria, oppure grammi di vapore / kg di aria.
vediamo come questa umidità assoluta si può scrivere in maniera comoda per una miscela.
Considerando che le masse di aria e di vapore della mia miscela occupano un dato volume
indistintamente, volendo scriverle secondo l’equazione dei gas perfetti, perché entrambe le specie
sono approssimabili a gas perfetto, scriverò:
249

𝑝𝑣𝑎𝑝 𝑉 𝑝𝑣𝑎𝑝
𝑚𝑣𝑎𝑝 𝑅𝑣𝑎𝑝 𝑇 ⁄𝑅 1 𝑝𝑣𝑎𝑝 1 𝑝𝑣𝑎𝑝 𝑝𝑣𝑎𝑝
𝑣𝑎𝑝
𝑥= = = 𝑝 = ∙ = ∙ = 0,622
𝑚𝑎 𝑝𝑎 𝑉 𝑎
⁄𝑅 𝑅𝑣𝑎𝑝 𝑝𝑎 0,4615 𝑝𝑎 𝑝𝑎
𝑅𝑎 𝑇 𝑎 𝑅𝑎 0,2871

ria
Dove la costante dei gas non può più essere quella universale ma specifica delle due componenti. Il
volume e la temperatura sono esattamente le stesse, e quindi posso semplificarli. Le masse
dipendono solo dalle pressioni parziali e dalle costanti dei gas. Esplicitando le costanti dei gas in
esame pari a 𝑅𝑣𝑎𝑝 = 0,4615 𝑘𝐽/𝑘𝑔𝐾 e 𝑅𝑎 = 0,2871 𝑘𝐽/𝑘𝑔𝐾. E per la legge di Dalton vista prima:

𝑝𝑣𝑎𝑝

gne
𝑥 = 0,622
𝑝 − 𝑝𝑣𝑎𝑝

Abbiamo dedotto una relazione tra i g di vapore su kg di aria, e pressione di vapore su pressione di
aria secca. La p è una pressione nota, perché è quella atmosferica (ricordando che varia con
l’altitudine, ma ipotizzando una pressione pari a quella a livello del mare, la considero pari a quella
atmosferica). Quanto più è elevata la massa di vapore all’interno della mia miscela, tanto più elevata
sarà la pressione parziale del vapore. Si deve ricordare questa biunivocità di legame tra pressione
nge
parziale di vapore e grammi di acqua. Se voglio modificare la pressione parziale devo modificare i
grammi di acqua presenti nell’aria.

Ipotizziamo la seguente esperienza:

1. Si disponga di 1 kg di aria perfettamente secca (x = 0)


2. Si cominci a vaporizzare in essa dell’acqua, ovviamente rimanendo tale vapore in miscela
I
con l’aria, x tenderà ad aumentare.
3. Arrivati ad un certo punto, si osserverà che l’aria non sarà più in grado di contenere altro
vapore, ed eventuali ulteriori immissioni di acqua nebulizzata provocheranno il suo
depositarsi in forma liquida. Diremo che in queste condizioni l’aria è satura di vapore
d’acqua.
ere

In tali condizioni di saturazione, il vapore d’acqua sospeso nell’aria deve essere in equilibrio alla
temperatura della miscela con l’acqua che eventualmente si condensa… pertanto, la pressione del
vapore 𝑝𝑣𝑎𝑝 risulterà in tali condizioni pari a 𝑝𝑣 𝑠𝑎𝑡 , che rappresenta la pressione di saturazione
dell’acqua a quella temperatura. Cerchiamo di capirlo meglio: abbiamo questo kg di aria e
cominciato a nebulizzare vapore, a 20°C. succede che sul piano T-s dell’acqua, l’unica cosa che
Viv

stiamo assumendo certa, è che immettendo vapore, sempre a 20°C siamo, quindi su una precisa
isoterma. Sono partito da una pressione dell’acqua pari a zero, quindi diciamo un’isobara nulla.
Appena ho cominciato a mettere acqua, è aumentata x e la pressione di vapore, muovendomi su
isobare via via più alte. La pressione può aumentare solo fino alla pressione di saturazione a quella
temperatura. La quantità di vapore d’acqua contenuta nell’aria ha effetto sul benessere delle
persone. Questo perché noi scambiamo con l’ambiente circostante del calore, e lo possiamo
smaltire in vari modi: per convezione certamente, ma la maggior parte di calore, noi lo scambiamo
sotto forma di vapore d’acqua per effetto di respirazione, traspirazione e sudorazione. Quando
respiriamo, nella fase di espirazione, immettiamo nell’ambiente circostante vapore acqueo, perché
una volta passata dai nostri polmoni, l’aria si carica di umidità. Il corpo fa questo perché nel
250

convertire l’acqua del nostro corpo in vapore, noi gli trasmettiamo calore latente di vaporizzazione
e quindi è un modo eccellente di dissipare calore. La traspirazione avviene attraverso la nostra pelle,
sulla cui superficie, a livello microscopico, c’è una piccola pressione di vapore superiore a quella
esterna. Per cui a livello microscopico, sulla nostra pelle, c’è del vapore acqueo che si separa.

ria
Quando i primi due meccanismi non sono sufficienti interviene la sudorazione, provando a
depositare in superficie, un velo d’acqua e spera che, a contatto diretto con l’aria circostante, questa
evapori asportando quantità di calore. Il problema è che questi meccanismi dipendono da quanto
l’aria è pronta ad accogliere vapore. Se l’aria è satura, non riesco a trasferire vapore e quindi a
smaltire calore immettendo vapore d’acqua nell’aria. Al contrario se l’aria è estremamente secca,
questi fenomeni sono iper accelerati e posso avere altri tipi di problemi, proprio in virtù dell’aria

gne
troppo secca. Abbiamo quindi visto come il livello di benessere dipende principalmente dalla
quantità di vapore che l’aria contiene (𝑚𝑣𝑎𝑝 ) rapportato alla massima quantità che essa potrebbe
contenere alla stessa temperatura (𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡 ). Il rapporto tra queste due grandezze prende il nome di
umidità relativa U.R. Tale parametro è quindi di fondamentale importanza ed è definita come:

𝑝𝑣𝑎𝑝 𝑉
𝑚𝑣𝑎𝑝 𝑅𝑣𝑎𝑝 𝑇 𝑝𝑣𝑎𝑝
𝑈. 𝑅. = = = dove si intende 𝑝𝑣 𝑠𝑎𝑡 = 𝑝𝑠𝑎𝑡 a data 𝑇
𝑚𝑣 𝑠𝑎𝑡
nge
𝑝𝑣 𝑠𝑎𝑡 𝑉 𝑝𝑣 𝑠𝑎𝑡
𝑅𝑣 𝑠𝑎𝑡 𝑇

È il rapporto tra la massa di vapore contenuta nell’aria, e la massima quantità di vapore che
quell’aria può contenere a quella temperatura. L’umidità relativa varia naturalmente tra 0 e 1, dove
l’unità rappresenta una quantità di vapore che satura l’aria, quindi si ha il 100%. Una umidità relativa
del 70% significa che l’aria sta contenendo il 70% della quantità massima di vapore che potrebbe
contenere. Questa umidità relativa la si può legare alla umidità assoluta vista prima attraverso la
I
relazione:

𝑥∙𝑝 0,622 ∙ 𝑈. 𝑅. ∙ 𝑝𝑣 𝑠𝑎𝑡


𝑈. 𝑅. = e 𝑥=
(0,622 + 𝑥) 𝑝𝑣 𝑠𝑎𝑡 𝑝 − 𝑈. 𝑅. ∙ 𝑝𝑣 𝑠𝑎𝑡
ere

Se sapessimo l’umidità relativa, o quella assoluta, potremmo facilmente ricavare l’altra.


Supponiamo che in una stanza ci sono 27°C (grazie alla quale si ricava la pressione di saturazione,
che supponiamo essere 0,04 bar) e supponiamo che ci siano 5 grammi di acqua nell’aria. è una
condizione possibile? E quanto vale l’umidità relativa? Per prima cosa, occorre trovare la U.R. dalle
relazioni di prima e fatti i conti viene 19%. Notiamo che l’umidità relativa non dipende solo da
quanta acqua c’è ma da quanta ce ne può stare. Quindi io posso decidere di tenere fisso x e cambiare
Viv

la temperatura, cambiando le pressioni parziali e quindi in un’aria più calda ci potrebbe stare più
vapore.

07/06/2018_parte2_mattina

Avevamo anticipato prima, che l’entalpia, in quanto estensiva, in una miscela di aria e vapore, avrà
un valore totale dato dalla somma dell’entalpia di aria e dell’entalpia di vapore. Quindi, l’entalpia H
di una massa miscela è data da:

𝐻 = 𝐻𝑎 + 𝐻𝑣𝑎𝑝 = 𝑚𝑎 ℎ𝑎 + 𝑚𝑣𝑎𝑝 ℎ𝑣𝑎𝑝


251

Dobbiamo adesso decidere come esprimere l’entalpia specifica della miscela, ovvero l’entalpia per
unità di massa. Ma come abbiamo già visto in precedenza, riferirsi alla massa della miscela potrebbe
essere poco agevole, in quanto la massa totale della miscela è variabile, mentre la massa dell’aria
secca resta costante. Allora è comodo anche in questo caso, affrancarsi dalla variazione della

ria
quantità di massa totale della mia miscela, definendo quindi l’entalpia specifica riferita alla massa
dell’aria secca. Dividiamo quindi per 𝑚𝑎 :

𝐻 𝑚𝑣𝑎𝑝 𝑘𝐽
ℎ= = ℎ𝑎 + ℎ = ℎ𝑎 + 𝑥 ∙ ℎ𝑣𝑎𝑝 ≅ ℎ𝑎 + 𝑥 ∙ ℎ𝑣 𝑠𝑎𝑡 [ ]
𝑚𝑎 𝑚𝑎 𝑣𝑎𝑝 𝑘𝑔𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑠𝑒𝑐𝑐𝑎

il circa alla fine deriva da ciò che abbiamo detto sull’entalpia del vapore che è circa l’entalpia del

gne
vapore saturo secco. L’entalpia specifica calcolata in questo modo è kJ riferita al kg di aria secca.
Questo non vuol dire che è l’entalpia dell’aria secca, ma è riferita all’aria secca. Tiene conto del
contenuto energetico del vapore che è in miscela combinato con un kg di aria secca. Se noi abbiamo
1kg di aria secca e 0,02 kg di vapore. La mia miscela è 1,02Kg, l’entalpia di questa quantità di miscela
si trova prendendo l’entalpia dell’aria secca, più 0,02/1 kg per l’entalpia di vapore. Scritta in questo
modo, se questa miscela cambia, ma mantiene costante il kg di aria secca, la grandezza così calcolata
è specchio della nuova miscela sempre riferita al kg di aria secca. Non vi è nessun significato fisico
nge
in ciò, è pura convenzione. Ma è una convenzione che mi permette di tenere meglio conto
dell’entalpia del vapore. L’entalpia così definita è detta entalpia associata, questo perché è associata
ad un kg di aria secca. E a parole va detta così: è l’entalpia di quella quantità di miscela che contiene
un kg di aria secca, che include entrambi i contenuti di entalpia dell’aria secca e del vapore in essa
disciolto.

Temperatura di rugiada di una miscela aria-vapore


I
La facciamo discendere da un discorso semplificativo ed intuitivo. La denominazione di temperatura
di rugiada (o condensazione) deriva da quel fenomeno che osserviamo quando, di solito in estate,
in un mattino di cielo sereno, troviamo questo velo d’acqua sulle superfici. La ragione di questo
fenomeno, che altro non è che una condensazione del vapore presente nell’aria, è dovuta al
ere

seguente fatto: innanzi tutto, perché avviene d’estate? Nel corso della giornata precedente, se ha
fatto caldo, è evaporata una grande quantità di acqua. Ma inoltre, la temperatura dell’aria era molto
calda, ed abbiamo già visto che se l’aria si riscalda è in grado di tenere in sospensione una maggiore
quantità di vapore, perché la pressione di saturazione era molto elevata. Quest’acqua è sospesa in
fase vapore e può starci perché fa caldo. Durante la
notte però l’aria si raffredda, e si raffredda di più in
Viv

prossimità delle superfici fredde. Rimanendo


questa quantità di vapore in aria, scendendo la
temperatura, scende anche la pressione di
saturazione. La pressione parziale di vapore resta la
stessa ma diminuendo quella di saturazione si
giunge preso ad una umidità relativa pari ad 1, e
quindi comincia la condensazione.

𝑇𝑑𝑝 = 𝑇𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑝𝑣𝑎𝑝


252

La temperatura di rugiada 𝑇𝑑𝑝 (temperatura di dupont) alla quale si forma la condensa non come
visto prima per un parziale arricchimento dell’aria di vapore (aggiungendo alla stessa T vapore
acqueo in sospensione) è definita come la temperatura alla quale inizierebbe la condensazione
qualora si imponesse all’aria atmosferica un raffreddamento isobaro, e quindi rendendo l’aria non

ria
più in grado di tenere in sospensione quella quantità di vapore acqueo in sospensione. Ma cosa si
intende per raffreddamento isobaro? È chiaro che durante la notte la pressione resta costante, ma
questo isobaro vuol dire che non solo la pressione atmosferica deve restare costante ma anche la
pressione parziale del vapore deve rimanere costante. Dire quindi processo isobaro equivale a dire
pressione di vapore costante e quindi x costante (e quindi a contenuto di vapore nell’aria costante).
Immaginiamo che in questa stanza ci siano 30°C e U.R. = 60%. Ci viene chiesta una riflessione sullo

gne
stato di vapore che passi attraverso i seguenti calcoli: calcolare la pressione parziale del vapore, e
calcolare la temperatura di rugiada. U.R. è pressione di vapore su pressione di saturazione. Siccome
questo rapporto vale 0,6 e sono sull’isoterma a 30°C posso calcolare la pressione di saturazione che
è 0,042 bar (da tabella) allora la mia pressione parziale di vapore è 0,6*0,042 = 0,0252 bar. Allora la
mia situazione è questa, la mia isobara sarà più in basso la pressione di vapore. Ci chiediamo, a che
temperatura, una lattina comincia a condensare? Il processo di raffreddamento è un processo a
pressione di vapore costante, quindi guardo l’isobara della pressione di vapore. Guardo sulle tabelle
nge
la temperatura di saturazione a quella pressione e risulta T=21,08°C. quindi su un corpo a
temperatura inferiore si forma condensa. E se il corpo è ben più freddo di questa temperatura? ci
accorgiamo che si separa acqua dal mio vapore, quindi la sua x si abbasserà e si sposterà su isobare
di pressione di vapore più base. Ma lo stato rappresentativo, quale sarà? Quali punti incontrerà? Si
sposterà sempre sulla curva liquida, in modo che le goccioline si separano solo nella quantità
consentita dalla temperatura della lattina (vede la freccia lungo la campana nell’immagine
precedente).
I
Temperatura di saturazione adiabatica

Un Modo per determinare analiticamente/sperimentalmente l’umidità relativa di una miscela aria-


vapore è quello di effettuare sulla stessa una trasformazione di saturazione adiabatica realizzata con
ere

un dispositivo come quello mostrato in


figura, provvisto di tappo termico (per
l’adiabaticità). Della portata d’aria in
ingresso supponiamo che alcune condizioni
siano note ed altre no. Supponiamo che io
conosca la temperatura T1 di ingresso ma
Viv

che non conosco né x1 né U.R.1. Inviamo


l’aria in un dispositivo fatto come in figura, che presenta sul fondo un bagno d’acqua sul cui fondo
si adduce una portata d’acqua fredda. Ancora meglio, potrei introdurla tramite ugelli nebulizzatori.
Immaginiamo che questa camera sia sufficientemente lunga in modo che l’aria rimanga a lungo
tempo con l’acqua sottostante. Il dispositivo opera in maniera stazionaria da ogni punto di vista:
questo vuol dire che una parte di quest’acqua verrà catturata dall’aria e trasformata in vapore, e
che quindi l’acqua che io immetto avrà una portata pari a quella che vaporizzerà nell’aria, tale che
il pelo libero del mio bagno d’acqua resti costante. Se la superficie è sufficientemente estesa da
poter concepire che alla fine del percorso, l’aria abbia avuto tutto il tempo di saturarsi, l’unica cosa
di cui siamo certi è che l’U.R. in uscita è pari al 100%. Il dispositivo è detto per questo motivo, camera
253

di saturazione adiabatica. Osserveremo sperimentalmente che l’aria uscirà ad una temperatura T2


diversa da quella in ingresso (nella figura la temperatura del liquido è a T2, perché il libro la ipotizza
uguale. Abbandoniamo questa ipotesi ed immaginiamola semplicemente fredda). La T2 di solito
viene registrata più bassa, rispetto a T1. Quindi l’acqua nel suo saturarsi, si è raffreddata. Questo

ria
perché qualcuno ha dovuto dare l’energia all’acqua per vaporizzare. Quest’acqua immessa allo stato
liquido, ha dovuto ricevere calore latente di vaporizzazione per poter andare in sospensione
nell’aria. Questo calore l’ha preso dall’aria che abbiamo immesso, sotto forma di calore sensibile,
che si è raffreddata. Per questo motivo il libro ipotizza T2 la stessa sia per l’aria che per il bagno
d’acqua. Quindi il processo di saturazione adiabatico porta ad una diminuzione della temperatura
dell’aria ad un aumento della sua umidità relativa. Al fine di risolvere problemi di carattere

gne
quantitativo e poter procedere al corretto dimensionamento dell’impianto, dobbiamo ricorrere a:

1. Bilancio di massa dell’aria secca


2. Bilancio di massa dell’acqua
3. Bilancio dell’energia

Questo perché: la massa dell’aria secca si deve conservare, mentre il bilancio di massa dell’acqua si
deve conservare. Ma a differenza dell’aria secca, la cui massa in ingresso ed in uscita deve
nge
conservarsi, per la massa d’acqua vale che tutto il quantitativo che entra, sia sotto forma di liquido
che di vapore, deve poi uscire del mio sistema, sia come liquido o come vapore (perché il mio
sistema deve operare in regime stazionario). Il bilancio dell’energia è naturale che vada considerato
perché l’energia necessariamente deve conservarsi.

Scriviamo adesso i vari bilanci:


I
poiché la portata di aria secca non dovrà cambiare, il quantitativo che immetto è quello che poi deve
uscire in regime stazionario. Non c’è nulla nel mio dispositivo che possa far aumentare o diminuire
questa quantità. Quindi avrò:

𝑚̇𝑎1 = 𝑚̇𝑎2 = 𝑚̇𝑎


ere

Il bilancio dell’acqua invece è un po' diverso, questo perché in condizioni stazionarie, il contenuto
di vapore nell’aria, aumenta in quantità pari all’acqua evaporata.

𝑚̇𝑥1 + 𝑚̇𝑙𝑖𝑞 𝑒𝑣𝑎𝑝 = 𝑚̇𝑥2


Viv

Dove 𝑚̇𝑥1 è la massa di vapore associata alla mia miscela in ingresso ed 𝑚̇𝑥2 quella associata alla
miscela in uscita, e 𝑚̇𝑙𝑖𝑞 𝑒𝑣𝑎𝑝 quella liquida che evapora e va in soluzione con l’aria secca. Scritto in
funzione della massa d’aria secca (ricordando che 𝑥 = 𝑚̇𝑣𝑎𝑝 ⁄𝑚̇𝑎 ) si può riscrivere come:

𝑚̇𝑎 𝑥1 + 𝑚̇𝑙𝑖𝑞 𝑒𝑣𝑎𝑝 = 𝑚̇𝑎 𝑥2

Poiché è una camera adiabatica senza lavori esterni, ed in regime stazionario, il bilancio dell’energia
sarà scritto come:

∑ 𝑚̇𝑒 ℎ𝑒 = ∑ 𝑚̇𝑎 ℎ𝑎 (poichè 𝑄̇ = 0 e 𝐿̇ = 0)


254

Ed esplicitando le sommatorie, posso scrivere:

𝑚̇𝑎1 ℎ1 + 𝑚̇𝑙𝑖𝑞 𝑒𝑣𝑎𝑝 ℎ𝑙𝑖𝑞 𝑒𝑣𝑎𝑝 = 𝑚̇𝑎 ℎ2

Dove h1 è l’entalpia associata vista prima (quindi entalpia della miscela per kg di aria secca), il liquido

ria
naturalmente apporta la sua entalpia, e la somma degli ingressi, deve eguagliare quella delle uscite,
che è solo la portata che transita (solo di aria secca!) e l’entalpia associata.

NOTA: può sembrare che non venga contemplata la massa di vapore, ma in realtà viene conteggiata
associata al contenuto entalpico che è riferito all’unità di massa di aria secca. Senza contare che è
presente, sotto forma di umidità assoluta nel bilancio delle masse d’acqua nella seconda equazione

gne
scritta.

Poiché la portata di liquido, dal bilancio precedente può essere scritta come:

𝑚̇𝑙𝑖𝑞 𝑒𝑣𝑎𝑝 = (𝑥2 − 𝑥1 )ℎ𝑙𝑖𝑞 𝑒𝑣𝑎𝑝

Sostituisco al bilancio dell’energia:nge


𝑚̇𝑎 ℎ1 + 𝑚̇𝑎 ∙ (𝑥2 − 𝑥1 )ℎ𝑙𝑖𝑞 𝑒𝑣𝑎𝑝 = 𝑚̇𝑎 ℎ2

E semplifico la massa di aria secca:

ℎ1 + (𝑥2 − 𝑥1 )ℎ𝑙𝑖𝑞 𝑒𝑣𝑎𝑝 = ℎ2

Vediamo ora come meglio possiamo esplicitare questa relazione: l’entalpia associata in ingresso non
I
è altro che l’entalpia dell’unità di massa d’aria più l’entalpia del vapore per l’umidità relativa, pag
251). Quindi scriveremo:

(𝑐𝑝 𝑇1 + ℎ𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇1 𝑥1 ) + (𝑥2 − 𝑥1 )ℎ𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇2 = 𝑐𝑝 𝑇2 + ℎ𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇2 𝑥2


ere

Con ℎ𝑎 = 𝑐𝑝 𝑇1. E ℎ𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇1 o la si pone circa uguale a quella di saturazione oppure la si calcola con
la formula vista a pag 248. Se io isolo x1, ottengo:

𝑐𝑝 (𝑇2 − 𝑇1 ) + 𝑥2 ℎ𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇2
𝑥1 =
ℎ𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇1 − ℎ𝑙 𝑠𝑎𝑡 𝑎 𝑇2

Che è proprio la mia incognita. I parametri sono tutti noti o misurabili facilmente, come le
Viv

temperature, ma quello che ancora non so è x2. Ma in realtà,


se in uscita ho aria satura, con U.R. 100%, allora posso
calcolare x2 dalla formula vista a pag. 249:

0,622 𝑝𝑣 𝑠𝑎𝑡2
𝑥2 =
𝑝 − 𝑝𝑣 𝑠𝑎𝑡2

Se io volessi tracciare qualitativamente sul piano di lavoro


cosa succede all’aria, è sempre un processo di saturazione,
ma la pressione parziale di vapore sarà aumentata. Quindi il
255

mio punto, che originariamente era a 1, andrà verso 2 non a p costante ma a p crescenti (aumento
della pressione parziale di vapore).

07/06/2018_pomeriggio

ria
Prima dello sviluppo della camera di trasformazione adiabatica,
veniva utilizzato, per misurare l’umidità relativa dell’aria, uno
psicrometro a fionda come quello in figura a lato. Si tratta di un
termometro che presenta due bulbi. I due bulbi sono due bulbi
normalissimi di un termometro, ma uno dei due è volto
semplicemente a misurare la temperatura dell’aria. l’altro invece è

gne
solidamente fissato su un mezzo (di solito tessuto tipo garza)
capace di impregnarsi di acqua, in modo tale che questo bulbo sia
sempre circondato da garza bagnata. Se questo termometro viene
investito da una corrente d’aria, accade che, il bulbo esposto
all’aria, denominato quindi bulbo secco, semplicemente misura la
temperatura dell’aria che denomineremo 𝑇𝑏𝑠 (temperatura di
bulbo secco e considerando trascurabili i fenomeni di ristagno).
nge
Invece il secondo termometro, vede avvenire un fenomeno
transitorio che, una volta esaurito, diventa stazionario. Questa
garza è investita da corrente d’aria che normalmente non è satura
e che quindi, a contatto con la garza, arricchisce il suo contenuto di
vapore d’acqua. In qualche modo, se il processo viene a diventare
quasi stazionario, perché la corrente d’aria fluisce in maniera
I
energica, la temperatura di questo bulbo, in qualche modo, anche
se strutturato in maniera diversa, replica quanto già visto per la
camera di trasformazione adiabatica. L’aria che lambisce il bulbo
raggiunge una condizione di equilibrio che presenta una
temperatura più bassa perché ha ceduto calore sensibile che è
ere

diventato calore latente di evaporazione. La temperatura così


rilevata, è detta temperatura di bulbo umido 𝑇𝑏𝑢 , ed approssima
bene quella di saturazione adiabatica. In realtà il termometro non
funziona esattamente così, ma ciò che rileva è un moto relativo tra aria e bulbi. In pratica si
denomina a fionda, perché in aria stagnante, viene afferrato per la manovella in figura e fatto
roteare. Ci interessava identificare questa coppia di denominazioni che sono temperatura di bulbo
Viv

secco e temperatura di bulbo umido e quindi, da ora in poi, chiameremo con temperatura di bulbo
secco la temperatura vera della mia miscela, quella rilevabile con qualsiasi termometro, mentre con
temperatura di bulbo umido quella a cui un bulbo umido giungerebbe, ovvero come quella
temperatura di saturazione in uscita dalla camera di trasformazione adiabatica. Vediamo un piccolo
processo in cui il fluido si satura adiabaticamente: guardiamo il bilancio dell’energia della mia
camera di saturazione adiabatica:

ℎ1 + (𝑥2 − 𝑥1 )ℎ𝑙𝑖𝑞 𝑒𝑣𝑎𝑝 = ℎ2


256

Le due entalpie associate, variano significativamente? Si dimostra che ℎ1 risulta estremamente


prossima ad ℎ2 e questo per due motivi:

1. 𝑥2 − 𝑥1 è solitamente un numero molto piccolo, non perché non possa cambiare


significativamente ma perché la stessa umidità assoluta, è espressa in kg di vapore,

ria
rappresenta una quantità risibile di acqua aggiunta. Quindi la massa apportata è
relativamente poca
2. Inoltre l’entalpia associata a quest’acqua è estremamente bassa, mentre invece dentro le
due entalpia associate c’è anche l’entalpia dell’aria secca, che ha una massa decisamente più
importante, e poi c’è l’entalpia dell’acqua allo stato vapore.

gne
Quindi, ricapitolando, non solo la variazione di massa di vapore disciolta in miscela è un valore in kg
estremamente basso, ma anche il contenuto energetico lo è, in virtù della preponderanza del
contenuto energetico della massa di aria secca contenuta in miscela. Per questo motivo, la
trasformazione in camera di saturazione adiabatica è un processo che si può considerare quasi
isoentalpico o meglio isoentalpia associata. Ovvero, nel saturarsi, l’aria non aumenta di molto la sua
entalpia associata. Questa cosa non è vera se io l’apporto di vapore non lo do tramite acqua fredda
ma lo do direttamente iniettando vapore: se opero una saturazione iniettando vapore, è vero che
nge
la massa continua ad essere poca, ma ogni grammo di vapore iniettato contiene un elevatissimo
contenuto energetico. E allora, nell’umidificazione a vapore, non è più vero che le due entalpie
associate sono quasi uguali, ma quella in uscita è decisamente maggiore di quella in ingresso.

Il diagramma psicrometrico

Rappresenta uno strumento volto a risparmiarci di


I
condurre una miriade di volte tutti i calcoli di umidità
assoluta, relativa, pressione di saturazione ecc. che
altrimenti dovremmo valutare sulle tabelle ed eseguire
calcoli, interpolazioni e quant’altro. ora invece c’è
qualcuno che si è preso la briga d fare una sola volta questi
ere

conti, perché le equazioni sono sempre le stesse. In realtà


nei nostri problemi vi sono più variabili rispetto alle due
che supponiamo nel diagramma. Il legame
apparentemente biunivoco tra l’umidità e assoluta e
relativo: tale legame è veramente biunivoco se
ragioniamo con la stessa pressione atmosferica. Ebbene si
Viv

osserva, che tutte le equazioni mostrate, hanno valori che dipendono dalla pressione totale della
mia miscela. Solitamente però accade che per un sito, la pressione atmosferica può essere
approssimata ad un valore pressochè costante. Allora al fine di non sviluppare diagrammi 3d al
variare della pressione totale, e visto che di fatto opereremo sempre a pressione atmosferica,
considereremo costante il parametro p al quale associare un preciso valore. Quindi il diagramma
psicrometrico nasce assumendo una ben precisa pressione totale che è unica e costante. Vediamo
che cosa ci mostra questo diagramma. In ascissa reca la temperatura di bulbo secco. In ordinata è
presente un doppio asse: uno con scala graduata di umidità specifica, ed un'altra di pressione
parziale del vapore espressa in kPa. Questo doppio asse, in realtà è un unico asse che presenta una
sola scala graduata con doppio valore in due unità di misura diverse (ricordando come è stata
257

definita la x). La più importante linea che troviamo è quella di saturazione, che rappresenta il luogo
dei punti identificativi di miscele di aria satura. Tutte le volte che in una miscela U.R. = 100%, lo stato
di quella miscela giace su quella curva. Le altre curve con lo stesso andamento a U.R. = cost sono
linee isoumidità relative, via via decrescenti spostandosi verso destra. Ci sono poi linee isocore, a

ria
volume specifico dell’aria costante presentando un andamento come quello in figura, e sono fra le
meno importanti per le nostre analisi. Innanzi tutto perché il volume specifico vede modeste
variazioni di volume specifico e densità, variando in un intervallo
tra gli 0,8-0,9 m^3/kg. E densità media di circa 1,18 kg/m^3.
Decisamente più importanti sono le linee a temperatura di bulbo
umido costante e quelle di entalpia associata: il loro andamento

gne
è pressoché costante. Questo perché il processo di saturazione
adiabatica è un processo praticamente isoentalpico e presenta la
stessa temperatura di bulbo umido.

Abbiamo parlato della temperatura di rugiada, quindi un fluido


che a bassa pressione di vapore e saturo, veniva raffreddato senza
sottrarre vapore. Sul diagramma, sappiamo leggere la
nge
temperatura di rugiada? Il mio fluido ha umidità relativo minore di 1. Raffreddandolo diminuisco la
sua temperatura senza però modificare la pressione parziale, quindi non cambia l’ordinata. Quindi
la temperatura di rugiada è l’ascissa del punto che si trova muovendomi lungo l’orizzontale sino alla
saturazione. Tutti i punti che stanno su un tratto orizzontale sono tutti punti che hanno la medesima
temperatura di rugiada. Avevamo già capito che tutti i punti che stanno a T di bulbo umido hanno
I
ere
Viv
258

la stessa T di saturazione, mentre le verticali sono vere isoterme. Sul diagramma psicrometrico si
può osservare come un punto posto sulla curva di saturazione abbia la medesima temperatura di
bulbo secco, di rugiada e di bulbo umido. Perché avviene questo? In condizioni già sature, se lo porto
in una camera adiabatica non fa evaporare neppure una gocciolina d’acqua. Quindi la temperatura

ria
di bulbo secco ed umido coincidono, perché non cede calore per evaporare. Essendo già satura, ha
naturalmente anche la stessa temperatura di rugiada, perché il raffreddamento sino a formare la
prima gocciolina è già avvenuto, è già quella la temperatura. Nella pagina precedente in basso, viene
mostrato come si presenta un vero diagramma psicrometrico e vengono evidenziate alcune linee
utili per una applicazione. Come si può notare, abbiamo detto che le linee di isotemperatura di bulbo
umido sono anche isoentalpiche, e viene riportata sulla sinistra, oltre la linea U.R. 100% una linea

gne
retta graduata, sulla quale leggere più facilmente le entalpie. Si ignori il semicerchio in alto a sinistra
di cui non ci occuperemo.

Trasformazioni per il condizionamento dell’aria

Queste trasformazioni sono funzionali al


conseguimento di condizioni di comfort
termoigrometrico, cioè a garantire agli occupanti di un
nge
locale, esposti ad una temperatura e umidità relativa
dell’aria che generi loro comfort. Chi si occupa di
comfort si è studiato il metabolismo umano, condizioni
di U.R. etc. e i progettisti hanno quindi i dati della
temperatura e di umidità più adatti a garantire il
comfort termoigrometrico. Purtroppo ci si ritrova però
I
ad avere a che fare con una aria esterna che è ben
lontana da queste condizioni di comfort e quindi
dobbiamo tecnicamente garantire tutte le
trasformazioni dell’aria volte e portarla al punto
desiderato. Nella figura a lato vediamo le varie direzioni che seguono le trasformazioni che possiamo
ere

realizzare seguendo il diagramma psicrometrico. Da sinistra a destra e viceversa, si procede a


riscaldamento e raffreddamento. I processi di umidificazioni sono quelli volti ad aumentare l’umidità
assoluta dell’aria, quindi la x, non quella relativa. Similmente è processo di deumidificazione quel
processo che porta a x decrescenti. Non tutte le trasformazioni sono fisicamente realizzabili nella
maniera mostrata in figura: studieremo quindi brevemente le reali possibilità tecniche di
realizzazione dei processi di trattamento, esaminando singolarmente i dispositivi atti a realizzarle.
Viv

Quale che sia il dispositivo esaminato, per lo studio analitico dei processi di trasformazione ci
potremo avvalere dei seguenti strumenti:

Bilancio di massa di aria secca: ∑ 𝑚̇𝑎,𝑒 = ∑ 𝑚̇𝑎,𝑢 [𝑘𝑔/𝑠]

Bilancio di massa di vapore: ∑ 𝑚̇𝑎,𝑒 𝑥𝑒 + ∑ 𝑚̇𝑙𝑖𝑞,𝑒 = ∑ 𝑚̇𝑎,𝑢 𝑥𝑢 + ∑ 𝑚̇𝑙𝑖𝑞,𝑢 [𝑘𝑔/𝑠]

̇ ̇
{Bilancio di energia: 𝑄 − 𝐿 + ∑ 𝑚̇𝑎,𝑒 ℎ𝑒 − ∑ 𝑚̇𝑎,𝑢 ℎ𝑢 = 0 [𝑘𝑊 ]

Studieremo infatti solo dispositivi a funzionamento stazionario.


259

Semplice riscaldamento o raffreddamento

Sono molto usati in ambito civile, per la loro semplicità,


dispositivi che realizzano semplici trasformazioni di
riscaldamento e raffreddamento dell’aria, conseguiti

ria
tramite semplici dispositivi che prevedono una
batteria (alettata) di scambio termico entro le cui
tubazioni scorra un fluido caldo o freddo, che cede o
assorbe calore dall’aria. Nel caso di riscaldamento,
abbiamo un fluido mediamente caldo (punto 1

gne
sull’orizzontale rossa), che deve essere riscaldato sino
al punto 2. Il punto finale sarà sulla medesima
orizzontale (come visto prima) dovrò avere un
dispositivo del tipo in figura successiva: un canale in cui
è presente una serpentina in cui scorra un fluido caldo
che trasmetta calore all’aria in ingresso in modo da
riscaldarla sino alla temperatura desiderata. Questo
nge
processo non fa nulla per cambiare quantità di acqua
nell’aria, né per sottrarla e quindi il processo si
svolgerà lungo l’orizzontale. Quanta potenza deve
assorbire l’aria affinché avvenga questo
riscaldamento? Lo vediamo considerando come
volume di controllo la porzione di tubazione fra monte
e valle della serpentina, ma per semplificare le cose,
I
lascio la serpentina all’esterno del mio volume di controllo. In questo modo la mia 𝑄̇ entra nel
computo dell’energia, ma non dovrò immediatamente considerare l’entalpia del fluido che scorre
all’interno di essa e che entra ed esce dal mio volume di controllo. Il bilancio dell’energia diventa:

𝑄̇ + 𝑚̇𝑎 ℎ1 = 𝑚̇𝑎 ℎ2
ere

Ovvero:

𝑄̇ = 𝑚̇𝑎 (ℎ2 − ℎ1 )

O per unità di massa di aria secca:


Viv

𝑞̇ = ℎ2 − ℎ1

Dal diagramma psicrometrico, mandando le linee isotemperatura sull’asse per leggere direttamente
le entalpie associate. Questa stessa potenza che io calcolo è quella di cui si impoverirà il fluido che
scorre all’interno della serpentina. Analogo discorso vale se devo raffreddare, solo che stavolta il
fluido nella serpentina deve essere più freddo in modo che possa assorbire calore dall’aria. il resto
è esattamente identico, seguendo stavolta il processo verso sinistra lungo l’orizzontale blu in figura.
260

Riscaldamento con umidificazione

Talvolta il processo di riscaldamento come visto poco fa, non


mi va più bene, perché se siamo nella situazione in cui siamo
spesso di inverno, di aria fredda e non troppo umida, accade

ria
che il suo semplice riscaldamento, mentre da un lato la rende
più gradevole dal punto di vista termico, nel frattempo ne
riduce l’umidità relativa. E quindi ho la percezione che sia
troppo secca, le mucose si asciugano, etc. ed ho una
sensazione di dscomfort. Quindi il processo di riscaldamento è

gne
spesso associato a necessità di umidificazione. Si può pensare
di riscaldare e di fare seguire al riscaldamento la
umidificazione, iniettando massa d’acqua nell’aria. si suppone
un’evoluzione dai punti 1, 2 e 3. A partire dal punto 2, come ci
andiamo vero l’alto? Nel libro di testo è
rappresentata solo la linea 2-3, ma in effetti potrei
anche avere 3’, 3’’ e così via. Questo perché si deve
nge
comprendere che l’aggiunta di acqua ha
conseguenze diverse sul contenuto energetico del
fluido a valle in base al contenuto energetico
dell’acqua che immetto. Se invece metto vapore, invece di acqua, porto dentro pure il calore latente
di vaporizzazione e quindi l’entalpia aumenta significativamente. Sono condizioni connesse quindi
al contenuto energetico del fluido aggiunto. Distinguiamo quindi da acqua fredda, per un processo
quasi isoentalpico, acqua tiepida, e vapore, in quest’ordine come contenuto energetico che
I
apportano. La 2-3’’’ è la situazione meno energivora di tutte. Ma in un processo del genere è
opportuno iniettare solo l’acqua necessaria, stando sicuro che all’uscita avrò le condizioni
desiderate? Il problema è che l’iniezione di acqua è una operazione
un pò delicata perché l’acqua ha una densità molto diversa
dell’aria. Allora mentre io la inietto, l’acqua segue due fenomeni:
ere

innanzi tutto la gravità tende a farla cadere verso il basso, mentre


l’aria che la circonda tende a farla evaporare. Siamo sicuri che il
processo di evaporazione avvenga prima del processo di caduta
senza avere il tempo di vaporizzare? Si tende, in pratica tecnica, a
non immettere l’esatta quantità di acqua necessaria, perché si
corre il rischio di dimensionare qualcosa male, che vede evaporata
Viv

meno acqua di quella prevista e depositi indesiderati di acqua


rimasta allo stato liquido. ciò che si preferisce, è fare un processo Figura 14
più robusto. L’unica cosa che mi fa
sentire certo che in aria si disciolga
la giusta quantità di acqua è quella
di sovrabbondare con il dosaggio
perché questo mi dice che il punto
finale starà certamente sulla curva
di saturazione. È vero che tanta
precipiterà, ma intanto sono sicuro
261

che l’aria sarà satura. Si tende quindi a seguire un processo come quello in figura 14, per cui dal
punto E si preriscalda sino al punto 1. Poi dal punto 1 al punto 2 immettendo nella corrente d’aria
una quantità d’acqua fortemente sovrabbondante, si è sicuri che l’aria esca satura nello stato 2
(anche se facendo in questo modo, T2 < T1). Dal punto 2 al punto I si procede poi ad un

ria
postriscaldamento in modo da portarci alle condizioni desiderate. In questo modo l’impianto è più
articolato rispetto a prima, ma è più certo nel risultato e singolarmente i vari organi sono facilmente
dimensionabili.

Raffreddamento con deumidificazione (condizionamento estivo)

Siamo nella situazione estiva in cui spesso ci ritroviamo

gne
a elaborare un’aria a temperatura elevata con un
elevato contenuto di vapore d’acqua, perché d’estate i
bacini d’acqua hanno elevate evaporazioni e quindi
l’aria si carica. La situazione può essere perfettamente
compatibile con lo stato 1 in figura, ricordando che
l’umidità relativa potrebbe anche non essere molto
elevata perché abbiamo già detto che ad alte
nge
temperature può esserci molto vapore in sospensione
che fa aumentare l’umidità assoluta ma che potrebbe
ancora permettere la vaporizzazione di grandi quantità
d’acqua. Vogliamo avere una condizione di temperatura
certamente più bassa e con una umidità relativa non
troppo alta. Come faccio quindi ad andare dal punto 1 al punto 4? Dovrò diminuire x innanzi tutto,
I
perché 4 si trova più in basso rispetto ad 1. Dovrò quindi togliere l’acqua dalla mia aria, portandola
a condizione di rugiada e costringendo l’acqua a condensare. Devo quindi raffreddarla sino al punto
di rugiada, raffreddarla ancora, in modo che percorra la linea di saturazione U.R. 100%, quindi la
mia unità dovrà essere dotata di una batteria di raffreddamento capace di sottrarre calore in modo
da portarla sino a 2 e continuare a sottrarlo in modo da portarla al punto 3. Come capire quanto
ere

deve raffreddare in modo che avvenga l’effetto desiderato? Tale batteria di raffreddamento innanzi
tutto lavora in due fasi, una secca ed una umida: all’inizio infatti raffredderà l’aria sino a portarla
alla temperatura di rugiada e umidità relativa pari al 100%. Ulteriori raffreddamenti produrranno
condensa. Dove collocare il punto 3? Questo dipende dal punto 4. Infatti, una volta che separo tutta
l’acqua che devo separare, abbassando la x, la ritrovo con U.R. pari a 100%. E per poterla portare ad
umidità relative più basse e più comfortevoli (il corpo umano ben gradisce umidità comprese tra il
Viv

40% ed il 60%), dovrò postriscaldarla. Quindi il punto 3 dovrò avere la stessa x del mio punto finale.
Dopodichè il riscaldamento servirà solo ad aumentare l’umidità relativa. Questo post riscaldamento
rappresenta però un aggravio in
termini di consumi, perché dovrò
utilizzare energia per effettuarlo.
Quindi se volessi trattare 3 kg/s di
aria secca in questo modo, e mi
venisse chiesto che potenza deve
avere il frigorifero che produce
262

l’acqua fredda per questa batteria? Vale la portata di aria secca moltiplicata per h3 – h1.

Miscelazione adiabatica di flussi d’aria umida

Un tema di grande interesse, per finalità connesse al ricircolo

ria
dell’aria e quindi al possibile risparmio energetico (cosa non valida
per gli ospedali in cui è imposto l’utilizzo di aria fresca), è quello
della determinazione delle condizioni di una miscela aria-vapore
ottenuta per miscelazione di due correnti d’aria umida, ciascuna
con sue specifiche proprietà. Queste correnti d’aria sono
prelevate da altri ambienti e ricondizionate, per questo parliamo

gne
di ricircolo dell’aria. immaginiamo infatti di non avere necessità di
aria fresca come negli ospedali: all’esterno ho un’aria a 35°C,
all’interno il mio ambiente ha aria a 27°C, che voglio portare a
22°C. Mi conviene immettere aria dall’esterno ed elaborarla da 35°C a 22°C, o mi conviene elaborare
quella interna? La risposta è ovvia. Questa però è una cosa, che per altrettanti ovvi motivi legati alla
salute, non posso fare al 100%. Infatti l’aria di ambienti chiusi si carica di CO2 ed altri elementi che
possono risultare nocivi per la salute. Quindi dell’aria dall’esterno la devo introdurre ugualmente e
nge
miscelarla con quella interna. Quando due correnti d’aria si mescolano, la miscela risultante, in che
condizioni termoigrometriche la trovo? In figura vediamo una sezione di miscelazione. Quindi
scrivendo il bilancio di massa, le due portate si dovranno sommare per dare la portata 3. Stesso
discorso vale per il bilancio della massa di vapore e il bilancio di energia.

𝑚̇𝑎1 + 𝑚̇𝑎2 = 𝑚̇𝑎3


{ 𝑥1 𝑚̇𝑎1 + 𝑥2 𝑚̇𝑎2 = 𝑥3 𝑚̇𝑎3
I
𝑚̇𝑎1 ℎ1 + 𝑚̇𝑎2 ℎ2 = 𝑚̇𝑎3 ℎ3

Sostituendo ad 𝑚̇𝑎3 nelle ultime due equazioni come somma


delle due portate massiche in ingresso, e rielaborando i termini,
ere

ricaviamo queste due relazioni:

𝑚̇𝑎1 𝑥2 − 𝑥3 𝑚̇𝑎1 ℎ2 − ℎ3
= e =
𝑚̇𝑎2 𝑥3 − 𝑥1 𝑚̇𝑎2 ℎ3 − ℎ1

Queste relazioni ci portano a dire che se io miscelo qualcosa che ha x1 e x2 ed h1 e h2, quindi un
fluido che ha proprietà x1 h1 ed un altro che ha proprietà x2 h2 e vengono miscelati
Viv

adiabaticamente, e mi chiedo dove sta il punto 3, posso concludere che questo punto, sul
diagramma psicometrico si troverà sulla congiungente i punti 1 e 2 e che il rapporto delle distanze
2 – 3 su 3 – 1 è pari al rapporto tra le portate 𝑚̇𝑎1 e 𝑚̇𝑎2 .

Quesito: Si è deciso, come dei pazzi, di andare al mare ad aprile. Si ipotizza che all’esterno vi siano
18°C e l’acqua è a 20°C. Ci si spoglia e ci si tuffa in acqua. Una volta entrati si è avuta una terribile
sensazione di freddo. Una volta usciti, pure. Perché? in immersione, anche se l’acqua è più calda
della temperatura dell’aria che ci circonda, la sua conducibilità termica è molto alta e quindi il suo
coefficiente convettivo è molto più elevato. L’aria non ne vuole sapere di scambiare calore in virtù
della sua bassa conducibilità, quindi il gap termico è molto più efficace con l’acqua che con l’aria. E
263

quando usciamo, il velo di acqua che dovrà evaporare, sottrae al nostro corpo una enorme quantità
di calore. Quando si fa il bagno sotto la pioggia, uscendo dall’acqua non si sente tanto freddo perché
l’aria è prossima alla sua umidità relativa massima e quindi l’acqua a contatto con la nostra pelle
non ne vuole sapere di evaporare e non ci sottrae calore.

ria
Applicazione numerica:

In un giorno estivo, nel quale le condizioni esterne siano Te = 35°C e U.R.e = 50%, si desideri
raffrescare un’aula fino ad immettere, in essa, aria nelle condizioni Timmissione = 20 °C ed
U.R.=50%. Sia richiesto, per il mantenimento delle desiderate condizioni di comfort olfattivo, il
ricambio (e quindi l’immissione, stante l’assenza di ricircolo) di 1,5 Volumi/h.

gne
Quesiti:

1. Si dimensionino tutte le batterie di scambio termico


2. Si calcoli il tempo necessario per il riempimento del serbatoio di raccolta della condensa,
supposto di volume pari a 50 litri.
nge
Svolgimento:

Per prima cosa, sul diagramma psicometrico, si intercetta la curva U.R. 50% in due punti: il primo è
quello dell’aria estera a Te = 35°C e il secondo è Ti = 20°C. Nei punti che chiameremo rispettivamente
E ed I, abbiamo una temperatura di bulbo umido pari per E, a 26°C, e per I, a 11°C. Queste
temperature si leggono sulla linea di saturazione procedendo lungo linee isoentalpiche. Il percorso
da seguire è quello segnato in figura E – A – B – Immissione. Quindi come visto prima, un ciclo di
I
raffreddamento ed uno di postriscaldamento. Quindi ci sarà una batteria di acqua fredda che ci
servirà per fare il percorso E-A-B ed una batteria di acqua calda per portarti da B a Immissione. Il
bilancio dell’energia per la batteria di raffreddamento si scriverà:

𝑄̇ = 𝑚̇𝑎 (ℎ𝐵 − ℎ𝐸 )
ere

Il numero risulterà negativo


ad indicare potenza
asportata, ed il modulo dà la
potenza frigorifera. Le
entalpie le leggiamo dal
diagramma e sono pari ℎ𝐵 a
Viv

26 e ℎ𝐸 a 81. 𝑚̇𝑎 è la portata


si calcola considerando il
volume della stanza
(approssimato a 1050 m^3)
e siccome dobbiamo
garantire l’immissione di
1,5volumi/h, allora
dobbiamo considerare
l’immissione di 1575m^3/h.
sempre dal diagramma, nel
264

punto corrispondente all’immissione, leggiamo un volume specifico di 0,84, e considerando


l’inverso otteniamo una densità di 1,19. E quindi dobbiamo fornire 1575*1,19 kg/h, ovvero 0,53
kg/s. la mia batteria di raffreddamento, che vede l’aria entrare nello stato E, ed uscire nel punto B,
vedrà sottrarre:

ria
𝑄̇ = 𝑚̇𝑎 (ℎ𝐵 − ℎ𝐸 ) = 0,53(26 − 81) = −29 𝑘𝑊

La batteria di postriscaldamento dovrà dare:

𝑄̇ = 𝑚̇𝑎 (ℎ𝑖𝑚𝑚𝑖𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 − ℎ𝐵 ) = 0,53(38 − 26) = 5 𝑘𝑊

gne
Ora dobbiamo calcolare il tempo in cui raccogliamo 50litri di condensa. La condensazione tra E e I si
calcola facendo la differenza di xE e di xI. Dal diagramma vediamo che xE = 18 g/kg e xI = 7,5 g/kg.
Quindi ogni kg di aria secca, si vede sottrarre 10,5 g di acqua al kg. Siccome ho una portata di 0,53kg
al secondo, ottengo i g di acqua al secondo. 10,5*0,53 = 5,56 g/s è la portata di condensa. Essendo
il recipiente da 50 litri contiene 50kg di acqua ovvero 50000 g di acqua. Quindi 8992 secondi, ovvero
circa 2,5 ore. nge
I
ere
Viv

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