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I media e il governo del corpo
Televisione, Internet e pratiche bio-politiche
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La radio: mass media democratico?
Importanza della radio nella società della comunicazione
O. Ricci
Orientalismo tecnologico
La rappresentazione della tecnologia nei magazines
di divulgazione scientifica
A. Sfardini
Reality tv. Pubblici fan, protagonisti, performer
S. Splendore
Sociologia del format. Dall’idea al prodotto televisivo
Andrea Pogliano
EDIZIONI UNICOPLI
Prima edizione: settembre 2009
p. 7 Introduzione
11 1. NEWSMAKING E FOTOGIORNALISMO
185 Conclusioni
6
INTRODUZIONE
ai lavori sul newsmaking dei quali scriverò a breve, sono risultati molto
utili due manuali: Bruni, A., Lo studio etnografico delle organizzazioni,
Roma, Carocci, 2003; Piccardo, C., Benozzo, A., Etnografia organizzativa.
Una proposta di metodo per l’analisi delle organizzazioni come culture,
Milano, Cortina, 1996.
Introduzione 9
NEWSMAKING E FOTOGIORNALISMO
Gli studi di sociologia delle emittenti sono una parte del ben
noto approccio trialogico che caratterizza i media studies, lad-
dove il processo della comunicazione mediata è frazionato in tre
parti: quella della codifica dei messaggi (encoding), quella dei
messaggi in sé, ossia dei testi, e infine quella della decodifica
(decoding), ossia della ricezione da parte dei pubblici dei sud-
detti messaggi1. Le tre parti sono considerate le componenti es-
senziali dell’intero processo o circuito della comunicazione me-
diata e corrispondono storicamente a tre momenti e tre contesti
separati per lo studio.
Studiare le emittenti significa dunque concentrare l’atten-
zione sulla fase di codifica dei messaggi operata dai media, lad-
dove per messaggio si possono intendere sia le informazioni di
tipo giornalistico (che si tratti della radio, della stampa scritta,
della televisione o del web), sia i messaggi veicolati nella produ-
zione di programmi chiaramente non giornalistici o non pro-
priamente giornalistici (di intrattenimento, di divulgazione spe-
cializzata, ecc). Se lo studio dei messaggi in sé (dei testi mediali)
costituisce oggetto privilegiato per le discipline semiologiche, va
tuttavia segnalato che i testi possono essere essi stessi studiati
con approccio etnografico2 e che, allo stesso tempo, le fasi di co-
1 Il classico testo di riferimento, riguardo a questa ripartizione è il se-
in Curran, J., Gurevitch, M., Media and Society, London, Arnold, 2000.
Newsmaking e fotogiornalismo 17
10 Pearce, F., The British press and the “placing” of male homosexual-
ity, in Cohen, S., Young, J., The manufacture of news. Deviance, social
problems & the mass media (Revised Edition), Beverly Hills, Sage, 1981,
pp. 303-316.
18 CAPITOLO 1
ble, 1978.
14 Gans, H., Deciding Wath’s News, New York, Pantheon, 1979.
15 Golding, P., Elliott, P., Making the News, London, Longman, 1979.
16 Tuchman, G., Making News. A Study in the Construction of Reality,
Once a news item has been selected what makes it newsworthy ac-
cording to the factors will be accentuated22.
22 Galtung, J., Ruge, M., Structuring and selecting news, in Cohen, S.,
Young, J., The manufacture of news. Deviance, social problems & the mass
media (Revised Edition), Beverly Hills, Sage, 1981, p. 61.
22 CAPITOLO 1
Ces “reportages” sont par leur sujet à peu de choses près ce qu’ils
seront un siècle plus tard: paysages, portraits, catastrophes, images de
guerre, autant d’événements que l’illustrateur nous montre habituel-
lement en train de se produire: la maison s’écroule, et l’on voit tuiles et
gravats voler dans les airs. L’assassin tue, et on le voit tirer son coup de
feu. Un grand souci d’exactitude guide la réalisation de ces images27.
yen. Essai sur les usages sociaux de la photographie, Paris, Minuit, 1965.
27 Boltanski, L., op. cit., pp. 166-167.
24 CAPITOLO 1
30 Hall, S., The Determination of News Photos, in Cohen, S., Young, J.,
The Manufacture of News. Deviance, Social Propblems & the Mass Media,
Beverly Hills, Sage, 1981.
31 Il concetto di frame viene dalla micro sociologia di Goffman ed è uti-
lizzato per riferirsi a una cornice simbolica che gli attori producono per da-
re senso ai fatti sociali. Questa cornice è prodotta all’interno di specifici
contesti ed è continuamente negoziata attraverso le interazioni che gli indi-
vidui instaurano tra loro e con altri elementi del contesto. Una volta defini-
te, queste cornici simboliche offrono una struttura per l’azione. Il termine
framing fa riferimento al processo di identificazione/costruzione di queste
cornici di senso. Nei media studies questo concetto viene adoperato sia nel
senso appena specificato, sia come strumento d’analisi dei testi mediali, sia
infine in relazione con gli effetti che i processi di framing giornalistici han-
no in relazione ai processi di framing dei pubblici dei media. A tal pro-
Newsmaking e fotogiornalismo 27
Prentice-Hall, 1986.
41 Kobre, K., Photojournalism: The Professional’s Approach, Boston,
farò ampio ricorso nel testo alle note etnografiche e porterò co-
stantemente su esempi concreti che fotografi e giornalisti hanno
proposto alla mia attenzione, nel tentativo di restituire ai lettori
le atmosfere, i processi e gli account dei protagonisti.
Nel 1995 Bill Gates compra l’archivio Bettman che contiene tutte le
fotografie delle vecchie agenzie di stampa americane International
News Photo, Acme e United Press Associated” 2.
Nell’arco di cinque anni Getty acquisisce a sua volta, per citarne al-
cune, l’archivio Hulton, le agenzie di fotografie di stock Tony Stone e
Image Bank, quelle giornalistiche Liason Agency, Online USA, Image
Direct e All Sport, la più quotata agenzia produttrice di fotografie spor-
tive di alta qualità nel mondo3.
I giornali adesso pagano molto meno perché hanno più scelta. È fi-
nita questa cosa del “adesso il servizio me lo fai tu, perché di te mi fi-
do”. È diventata un po’ una cosa che il primo che arriva, se hanno biso-
gno, ti comprano la fotografia. E poi pagano uguale una foto fatta in
Afghanistan e una fatta qui. C’è pochissima differenza.
Commissionano ancora ma solo in virtù di un’amicizia personale e
se casualmente capiti lì al momento giusto, ma loro se no non ci pensa-
no neanche. E poi nessun giornale ti dà più l’anticipo. Nel 1988 per il
lavoro dell’Albania mi hanno dato 6 milioni e in anticipo. Ancora nel
1992 il giornale mi aveva mandato a Sarajevo con un giornalista, forniti
entrambi di giubbotti antiproiettili e di 500 dollari al giorno a testa.
Ora ti darebbero 1500 euro e te li darebbero un mese dopo il tuo rien-
tro. (Fotografo di cooperativa, ex freelance).
Siamo a casa sua, a Roma, nel quartiere San Lorenzo. Il suo desk è
ricavato in una stanza di casa. C’è il computer e sopra, attaccato al mu-
ro, un foglio con segnati i nomi di due testate di quotidiani italiani e
due di periodici, con una serie di nomi, numeri di telefono e indirizzi e-
mail. Lui è seduto sulla sedia “di lavoro” e io sono seduto dietro di lui,
in punta al divano attaccato alla parete opposta. Da qui riesco a vedere
bene il monitor (lui si è spostato leggermente di lato per permettermelo
e la stanza è molto stretta).
Mi sta mostrando le fotografie del suo archivio personale. Siamo al-
le fotografie prese durante uno sgombero avvenuto a Roma qualche
mese prima del nostro incontro.
IO: “Segui sovente questi temi?”.
LUI: “Sì. Anche se come sai sono dei temi che non vendono. Poca
roba nella cronaca locale. Se escludi questi giornali per cui lavoro, che a
volte li mettono anche in prima pagina, gli altri molto raramente sono
interessati a questo tipo di storie”.
IO: “Vedo che ti concentri poco sulle azioni che fanno l’avvenimen-
to principale e molto invece sui momenti teneri, diciamo marginali ri-
spetto allo sgombero vero e proprio… [l’ho detto perché la maggior par-
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 51
LUI: Beh, vedi, stava correndo. Io ero su un’auto. È una foto scatta-
ta in fretta dal finestrino dell’auto (Fotografo d’agenzia fotografica
francese).
images that do not record anything but evoke an idea or a feeling and
can be used to add interest to a page13.
The search terms play a key role in the visual language of Getty –
and they can also provide a frame work for an investigation of it. They
allow us to ask not “What does this image mean?”, but “What, accor-
ding to Getty, can (and what cannot) be said with this image, and with
the Getty visual language as a whole?”14
it does not matter much that the image of the Guatemalan child tells us
little if anything at all about western Guatemala. What matters is that it
says something about childhood innocence or cheekiness.15
Questo lavoro sull’Africa l’ho fatto nel 1994. Era un lavoro su una
comunità che ho fatto per approfondire perché avevo avuto la possibili-
tà di trovare il supporto di una ONG che opera sul territorio. Pensa che
Vietnam, mettendo in risalto luci e ombre di quello che si propone oggi co-
me un mito del giornalismo è il seguente: Hallin, D., The “Uncensored
War”: The Media and Vietnam, New York, Oxford University Press, 1989.
21 Un testo che propone in chiave socio-storica i mutamenti nei rapporti
C’era un fotografo che è partito per conto suo, è arrivato fino a Na-
jaf e a un certo punto ha trovato i rangers americani che lo hanno ri-
mandato indietro, perché il tesserino di accredito non aveva nessun
valore se non eri con loro (Fotografo freelance italiano).
sanction against unilaterals was that the US military would report them
to the Saudi authorities, who could revoke credentials and visas23.
Alcune mie foto sono uscite sul Corriere e qualcosa all’estero. Però
fai conto che tu andavi a cercare delle storie e lo dovevi fare con una
certa fretta, mentre le fotografie più ricercate erano quelle degli em-
bedded. La notizia era che facevano 50 prigionieri e i giornali volevano
quelle che glieli mostrassero e quelle le avevano gli embedded. I giorna-
li durante la guerra preferiscono la fotografia di una caccia militare che
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 69
3 Sulla distinzione tra categorie e tipologie ho già scritto nel primo capi-
dente che per quel caso specifico lui stesso aveva deciso, facen-
dolo capire agli altri giornalisti, che non ne valeva lo sforzo (cioè
il tempo). Questo esempio ci fornisce alcune indicazioni. Innan-
zitutto, rende evidente che esiste una gerarchia di importanza
delle immagini alle quali corrisponde – è questo il punto – una
gerarchia di ruoli decisionali, ridefinita eventualmente a secon-
da delle oscillazioni momentanee di quel bene fondamentale del
giornalismo che è il tempo. Inoltre, queste immagini, relativa-
mente inattuali (a volte sono vecchie di anni) non solo hanno il
loro spazio e il loro significato redazionale, ma vengono solleci-
tate dal richiamo al risparmio economico, sostenuto dalla regola
di cercare le immagini prima e a volte unicamente – come è il
caso di questo esempio – tra il materiale d’archivio, nel quale
sono sempre presenti anche le immagini datate, che si accumu-
lano giorno per giorno. Detto altrimenti: la questione della divi-
sione tra tipologie di immagini (da intendersi sempre congiun-
tamente alla loro ubicazione nel testo) implica sia una questione
di gerarchia operativa tra ruoli redazionali, sia la questione del
rapporto tra immagini ed alcuni principi giornalistici, su tutti
quello di attualizzazione riferito al luogo e al tempo dell’attualità.
In tempi “normali” si può comunque dire che al Corriere
della Sera le cose stiano così: redattori e caporedattori delle se-
zioni (politica, estera, ecc.) si occupano di cercare e mettere in
pagina le fotografie d’archivio con una funzione perlopiù illu-
strativa o di semplice rimando visivo – come nel caso dei fran-
cobolli. Per le fotografie più spiccatamente d’attualità è regola
implicita che sia la sezione grafica ad occuparsi della loro sele-
zione e messa in pagina, ma questo varia al variare degli impe-
gni grafici giornalieri e dell’importanza definita nelle riunioni
per i singoli eventi. Può quindi capitare, e capita quotidiana-
mente, che i giornalisti scriventi e i loro capi si occupino anche
della selezione di immagini meno ovvie e più critiche come è il
caso di quelle di avvenimenti di stretta attualità. In genere, se
l’evento da coprire anche fotograficamente è ritenuto di una cer-
ta importanza, la sezione grafica se ne occuperà in via priorita-
ria, operando una selezione attenta da tutto ciò che è pervenuto
via abbonamento o persino andando alla ricerca di fotografie
“extra abbonamento”. Le ragioni di questo maggiore sforzo di
ricerca comprendono anche la volontà costante di distinzione
nei confronti del diretto concorrente, la Repubblica. Ogni gior-
86 Capitolo 3
landola come fotografia spaziale. Credo che mezza Italia ci abbia riso
dietro!
Siamo sempre di più noi due a sceglierle, perché i grafici adesso co-
struiscono le pagine direttamente sul computer, saltando cioè un pas-
saggio che di solito nelle redazioni è compito di altre figure che però
noi non abbiamo più. Perciò il loro lavoro di grafici, come tempo dedi-
cato, è aumentato e hanno sempre meno tempo a disposizione per
guardare le fotografie che arrivano, anche quelle che arrivano da AP,
che sono le più immediate da consultare.
magini cartacee che erano state archiviate dal giornale negli anni. Non di
tutte però, ma solo di quel 20% circa che ancora possono essere ri-
attualizzate.
102 Capitolo 3
che fanno capo a principi pratici che ogni testata segue per rap-
presentare il mondo in immagini, evitando le critiche e mante-
nendo vive le esigenze che di volta in volta la fotografia soddisfa
nell’economia del racconto giornalistico.
Ma – per tornare al discorso principale di questo paragrafo –
l’archiviazione di fotografie non riutilizzabili può tornare di una
certa utilità in questo giornale per il caso particolarissimo della
fotografia di prima pagina che qui è meno legata all’esigenza di
essere o di sembrare attuale, perché non è presa in considera-
zione in maniera indipendente, ma esplicitamente nell’insieme
del significato che crea con il titolo. La struttura della foto-
notizia può produrre un senso connotato di attualità anche
quando l’immagine usata è datata, purché sia riconoscibile in
quanto immagine del passato, acquisendo quel significato in re-
lazione all’attualità del titolo.
Il primo incontro nel quale si gettano le basi per la selezione
dell’immagine di prima pagina avviene intorno alle 19, incontro
ancora aperto a tutti, ma al quale partecipano solitamente, oltre
ai vertici, i capo-sezione e il photoeditor, e nel quale si arriva a
decidere quale sarà il discorso di apertura. Parlo di discorso e
non di evento, perché perlopiù la questione è definita in termini
di commento, presa di posizione su uno o più accadimenti della
giornata. Perlopiù questo lo decidono i vertici, ma siccome que-
sta particolare formula della foto-titolo rende il discorso da
produrre dipendente dall’immagine più di quanto lo siano le
immagini di prima pagina sugli altri giornali, ogni proposta di
fotografia che viene fatta durante la discussione fa slittare il si-
gnificato polisemico del “gioco” e di fatto è un modo di negozia-
re le direzioni che assumerà questo commento. Spiega il photo-
editor:
A volte viene fuori prima il titolo e allora siamo noi del fotografico a
inseguire, andando alla ricerca di immagini che facciano il gioco im-
maginato; altre volte invece si parte da un’immagine che abbiamo se-
gnalato noi e sono gli altri a inseguire, cercando un titolo opportuno.
Ecco, qui era arrivato un nuovo video di Bin Laden. Volevamo iro-
nizzare su questo aspetto perché come sai i video di Bin Laden sono
come dei giocattoli che arrivano di tanto in tanto e soprattutto quando
bisogna spostare l’attenzione da una questione spinosa verso qualcosa
ritenuto più pericoloso e grave. Volevamo dare questa interpretazione,
allora abbiamo ripescato una foto dall’archivio, perché poi non è che
l’AP la manda, perché non fa cose così ardite. Questi sono dei giocattoli
in vetrina tra i quali c’è un Bin Laden giocattolo. La foto è scattata in
non so quale paese arabo a una vetrina di negozio. Qui si tratta di un
grande lavoro di ricerca e di memoria.
Abbiamo una pagina delle lettere. Lì, ogni giorno, mettiamo una fo-
tografia che fa discorso a sé, scorrendo l’archivio AP, indipendente-
mente dalle notizie e proprio alla ricerca di una notizia non trattata.
Ovviamente deve essere una fotografia su cui si possa scrivere qualco-
sa, perché alla base ha una didascalia che fa da mini-articolo. […] Di
solito sono immagini di esteri.
vietate), tranne nella stanza dei photoeditor, dove sono state at-
taccate a parete una ventina di fotografie di circa 10x15cm l’una.
Si tratta di fotografie di stock dai colori molto intensi e acidi,
sullo stile delle immagini pubblicitarie o d’agenzie di viaggi. Un
tramonto, un gatto (ma non quello di qualcuno dei redattori), la
savana, un aereo militare in controluce durante il volo, e altre
fotografie del genere. Non ci sono libri di fotogiornalismo né al-
cun segno di un interesse specifico per un immaginario di quel
genere.
La compartimentazione è l’elemento d’insieme più marcante
la struttura spaziale della redazione e come vedremo ha le sue
implicazioni sulle pratiche organizzate in questa redazione. Un
primo elemento di descrizione organizzativa viene da questa
lontananza spaziale tra il fotografico e il settore grafico del gior-
nale. È questo un elemento che provoca disagi ai giornalisti del
fotografico, che mi hanno raccontato più volte delle loro diffi-
coltà a gestire questa scarsa comunicazione con i “maquetti-
stes”. Nel racconto di un archivista:
Quella che dovrebbe essere la prassi, e cioè che i disegni delle pagi-
ne vengano prima della scelta delle fotografie, qui è un fatto raro. Que-
sto comporta che noi si scelga delle immagini senza conoscere il forma-
to richiesto. Una volta mi è stata chiesta una fotografia della Tour Eif-
fel. Non avevo dubbi sul fatto che ci fosse un buco in pagina in formato
verticale e che, parlando di un fatto nazionale, mi avessero chiesto quel
simbolo. Così ho inviato due fotografie della Tour Eiffel in quel forma-
to. Alla fine si è scoperto che avevano bisogno di una fotografia pano-
ramica. Come se mi avessero chiesto una verticale del Pentagono, per
dare l’idea! Queste sono cose che succedono di continuo7.
grafica che seguiranno sono proposti nella loro traduzione italiana che ho
fatto personalmente, cercando di mantenere la massima fedeltà al testo
francese.
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 111
9 Nelle mie brevi interviste con i vertici della redazione, è emerso chia-
Vi sono però casi (la guerra non è uno di questi!) in cui è pra-
ticamente impossibile fare richieste precise sui soggetti delle
immagini. È il caso ad esempio degli eventi fulminei e inattesi,
come l’attentato a Londra. In quei casi, eccezionalmente, il con-
direttore passa sovente al fotografico per guardare le immagini
dell’evento che di volta in volta i photoeditor hanno individuato
e stampato, propone alcuni soggetti e chiede loro di andare alla
ricerca di altre fotografie. Nel caso di Londra, ad esempio, il
photoeditor mi ha raccontato di aver passato un’ora e mezza a
cercare soltanto le foto dei bus squarciati dalle bombe, ma senza
120 Capitolo 3
dare idee anche per la prima pagina, il che interessa ancora più
direttamente il fotografico, dal momento che l’immagine è
l’elemento prevalente sulla prima di questo giornale. Tornato
dalla riunione, il photoeditor chiama a sé gli altri membri della
sezione e viene creata una piccola riunione in sede. Qui ci si di-
vide le ricerche di immagini; ognuno segue un “soggetto”
dall’inizio alla fine e si pianificano i lavori anche per gli eventi
attesi che accadranno in futuro. A quel punto il photoeditor va a
dialogo con i grafici specializzati per pensare la struttura delle
pagine relativamente agli spazi delle immagini. Fatta ferma una
struttura di base, il disegno delle pagine in questo giornale è
molto flessibile e, grazie alle comunicazioni rapide e continue si
possono cambiare giorno per giorno le esigenze della messa in
pagina in maniera più marcata rispetto alle altre redazioni dove
ho svolto la mia osservazione. Una volta decisi i temi, il fotogra-
fico gode di totale autonomia nella scelta delle fotografie, nella
quale ha pieno potere fino alla selezione delle immagini finali
che andranno in pagina, ad eccezione della foto di prima pagina.
Nessun altro nella redazione guarda le fotografie, né nelle altre
sezioni, né in direzione.
Spesso i due eventi che il giornale decide di mettere in evi-
denza, impaginandoli tra la prima e le sezioni più classiche, re-
stano gli stessi dalla prima riunione fino alla fine della giornata,
e il photoeditor se ne occupa personalmente, delegando le altre
fotografie ai ricercatori iconografici. Ma può anche avvenire che
la ricerca delle fotografie di uno di questi eventi sia lasciata a un
ricercatore iconografico e – le due volte che questo è successo
durante la mia osservazione – il photoeditor si è limitato a qual-
che suggerimento iniziale ma ha poi accettato la selezione fatta
dal suo subordinato. Quando l’ho interrogata sulla questione, il
photoeditor mi ha risposto così:
4.1. Attualizzazione
3 Sulla maniera in cui utilizzo questo termine è bene che spenda qui
ca. Come emerge dai lavori citati di Tuchman (1972) e Shudson (1978), il
giornalismo ha sviluppato certi rituali strategici sostenuti da un insieme di
procedure formalizzate che offrono certi riscontri e ancorano il discorso
giornalistico (talvolta in bilico tra fatti e commenti) a un elemento forma-
lizzato come “oggettivante”. È il caso dell’uso delle virgolette, e di altre pro-
cedure individuate dagli autori. A mio avviso, la fotografia assume pieno
senso nel giornalismo per la sua capacità di ancorare un discorso a una pre-
sentificazione dell’oggetto del quale si scrive. La fotografia comprova, nelle
intenzioni dei giornalisti, un certo discorso. Spesso il suo valore di prova è
ambiguo e dubbio, ma in generale la fotografia, beneficiando di un grande
credito sociale (il mito della trasparenza), è utilizzata dai giornalisti per
aumentare il valore di verità di quanto si tenta di dimostrare con le parole
scritte.
Etnografia della produzione 139
le armi chimiche, tanto che nella stessa pagina compare una co-
lonna dove alcune risposte passate come oggettive seguono cin-
que domande. L’ultima domanda è la seguente: “Perché gli i-
spettori ONU faticano a trovare bombe e sostanze”. Viene offer-
ta questa risposta: “Si tratta di materiale facile da nascondere.
[…] Gli iracheni hanno avuto anni di tempo per organizzare ri-
fugi segreti”. Anche in questo caso, l’immagine, attualizzata (si
tratta di armi non convenzionali, in Iraq, ma non c’è didascalia)
permette di dare maggior vigore a un insieme testuale che pro-
pone una notizia incerta come se fosse certa.
Il principio di attualità funziona quindi come un rituale stra-
tegico di selezione e messa in pagina dell’immagine (e dei testi)
ed è accuratamente corredato da un uso della didascalia che,
pur senza mentire, si limita a segnalare ciò che fa di quell’im-
magine un’immagine appunto attuale, evitando di segnalare gli
elementi di inattualità. Dal momento che la fotografia sui quoti-
diani è in larghissima misura utilizzata per offrire una prova
giornalistica di quanto viene affermato, essa contribuisce, attra-
verso questo utilizzo accorto, a forzare un’interpretazione senza
incappare peraltro nelle critiche. Inoltre, poiché questo rituale
strategico, che è articolato secondo le coordinate qui individua-
te, è comune a tutto il giornalismo quotidiano, rimanere all’in-
terno di questi parametri pratici è condizione sufficiente a ripa-
rarsi da certe critiche e dalla perdita di credibilità che ne derive-
rebbe. La fotografia assicura in questo modo al giornalismo il
suo apporto in quanto presentificazione di quanto viene asseri-
to. Nei casi più controversi, laddove la notizia è incerta o impos-
sibile da appurare per via delle smentite di una parte in causa o
per il suo carattere intrinsecamente opinabile (laddove la noti-
zia confina col commento) la fotografia così attualizzata svolge
un’importante funzione di conferma, sebbene attraverso un gio-
co sottile tra il detto e il non detto del legendum, che ne veicola i
significati. Ancora: il venir meno di un confronto diretto con i
fotografi e quindi di una negoziazione d’uso delle immagini e,
contemporaneamente, le grandi possibilità offerte dalle banche
d’immagini on-line, sono perfettamente funzionali per un gior-
nalismo che si è sviluppato lungo queste due direttive e cioè
quella di poter illustrare sempre di più anche i commenti e le
notizie incerte e quella di utilizzare l’immagine il più possibile
142 Capitolo 4
4.2. Bilanciamento
[sono le 20, 10]. Il vice art-director rientra in ufficio [arriva dalla sala
della direzione] e si mette a guardare le fotografie stampate e appese a
parete. L’archivista si alza e si posiziona accanto a lui. Tutti i giornalisti
grafici sono al lavoro ai loro desk.
(le fotografie appese sono 125. Otto sono inquadrature differenti
della stessa immagine che il condirettore stesso, passando, aveva loda-
to: quella della donna con una maschera bianca che le copre il volto e
un uomo al suo fianco che la accompagna lontano da lì. Sedici sono
immagini recuperate dagli archivi – talune anche datate – sul generico
tema della sicurezza in altri paesi del mondo: controlli agli aeroporti,
ecc. Anche queste sono state cercate su esplicita richiesta del condiret-
tore).
Il vice art-director dice all’archivista: “Beh, si può dire che non è
una tragedia fotografica”. E l’archivista: “Magari qualcuna arriverà nei
prossimi giorni. Forse c’è stata una sorta di filtro”. Un giornalista grafi-
co si è alzato ed è giunto anche lui accanto agli altri due. Indica le foto-
grafie della donna con la maschera bianca e dice: “Questa però è bella”.
Il vice art-director replica: “Infatti finirà in prima pagina. Anche la
mappa è venuta bene”. E il giornalista: “Sì. E poi ci sono tutti i simboli
che la gente riconosce, gli abbiamo anche fatto aggiungere [agli info-
grafici] le fotine dei monumenti”. E subito aggiunge, indicando la foto-
grafia del bus londinese squarciato dalla bomba: “Anche questa è bel-
la”. Il vice art-director: “Infatti ci finirà anche quella”. E, dopo una
breve pausa contemplativa: “Abbiamo tanti volti, metteremo degli a-
dulti e dei giovani…questa delle ragazze mi sembra possa andare. I luo-
ghi li abbiamo, il bus, poi c’è la mappa. Qualche foto surreale c’è. Il te-
ma della sicurezza, bene… Cosa manca?” E, dopo una breve pausa: “Ec-
co cosa mi manca: una sul politico”. E, rivolgendosi alla giornalista gra-
fica: “Cos’abbiamo sul politico?” Lei risponde: “So che hanno preso
qualcosa dal vertice del G8. Stanno aspettando ancora qualcosa sulle
dichiarazioni di Blair”.
lo: “Fronte Occidentale”, che rimanda a una guerra più ampia in corso nel
pianeta e all’interno della quale si inscriverebbe l’evento di Londra. Anche
il titolo dell’editoriale di Gabriele Polo conferma il frame di riferimento. Il
titolo è per l’appunto “Tempo di guerra”.
Etnografia della produzione 153
rion, 1991.
Etnografia della produzione 155
tion, in Durand, R., Poivert, M., L’Événement. Les images comme acteurs
de l’histoire, Paris, Hazan/Jeu de paume, 2007, p. 122-143 ; Chéroux, C., Le
déjà-vu du 11-Septembre, in Etudes Photographiques, n.20, 2007.
Etnografia della produzione 157
Ricordo molto bene che questa immagine avrei preferito non met-
terla. Perché ricordava troppo da vicino quelle scattate dai fotografi al
seguito degli eserciti che per primi sono entrati nei lager dopo la cac-
ciata dei tedeschi. […] Non c’è motivo di riproporre quell’iconografia
che tocca le vertigini della nostra storia. […] Abbiamo avuto grandi di-
scussioni con i redattori degli esteri e col direttore per fare questa scel-
ta. L’unica giustificazione possibile riguardava la gravità storica
dell’evento, il numero di morti.
parentesi, che a pagina 3 dello stesso numero c’è una foto choc
che ritrae un cadavere riverso per terra e si riferisce a un atten-
tato terroristico di marca islamica in Arabia Saudita, una foto-
grafia questa che a Le Figaro non avrebbero mai messo, se non
per “bilanciare” le immagini di sevizie in prima pagina e le suc-
cessive, a pagina quattro: il “Cristo di Abu Ghraib” e quella di un
uomo intento a leggere il Daily Mirror, sul quale sono stampate
le due fotografia (poi scoperte false) delle presunte torture in-
ferte dai soldati inglesi ai prigionieri iracheni. Se il 4, il 5 e il 6
maggio non compaiono altre fotografie di torture su questo
giornale, il 7 invece ne viene pubblicata una seconda, quella del-
la soldatessa Lynndie England che tiene al laccio un prigioniero
nudo. La didascalia è la seguente: “La photo de Lynndie En-
gland tenant en lasse un détenu irakien dénudé a fait la Une,
jeudi, du Washington Post. En page intérieures, le journal a
reproduit trois autres photos, prises entre l’été et l’hiver 2003,
et qui sembleraient confirmer que ces exactions étaient pratique
courante à la prison d’Abou Ghraib” (Le Figaro, 07.04.2004,
pag. 2, corsivo mio).
Come si vede, in questi casi l’immagine è posta a distanza in
diversi modi: attraverso una meta-immagine che rimanda al
percorso sociale di quella fotografia, piuttosto che utilizzarla
come fonte notiziaria diretta; attraverso la strategia di “bilan-
ciamento” e infine attraverso una didascalia che ha il compito di
riferirsi ad altre fonti straniere (il Washington Post) e di spostare
l’attenzione nuovamente sul percorso sociale compiuto dall’im-
magine.
In questo caso (Abu Ghraib), la questione della fonte e quella
del registro dell’immagine (“era pornografia”), si rinsaldano
mutuamente. Non solo queste immagini non rientrano nelle a-
bitudini giornalistiche (che la fotografia segua una notizia scrit-
ta e sia prodotta da un professionista), cosa in sé superabile e
tante altre volte di fatto superata, ma in più il loro registro non è
chiaro (sono immagini di tortura, ma sono funzionali alla tortu-
ra stessa, non sono prodotte per informare, ma per altri motivi).
Oltretutto, molte di queste immagini giungevano dalle agenzie
appositamente tagliate (in alcune questo era evidente, perché
erano tagliate per escludere i genitali delle vittime) o, laddove
non era possibile tagliarle senza distruggerne il senso, erano pi-
xelate, ossia rese illeggibili (ancora, per oscurare le parti intime
Etnografia della produzione 163
4.6. Contrastare
morti. Ma non c’era stato nessun morto, fino a quel momento. La noti-
zia era anticipatoria, se vuoi, che poi l’ha in qualche modo evocata. Il
bello è che il responsabile della comunicazione del governo sloveno ha
poi rivendicato come merito questa scelta, perché dissero che fu una
scelta consapevole per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica
mondiale su quello che poteva succedere. […] I quotidiani sono usciti
con questa notizia, ma non l’hanno illustrata. Ti farò vedere la prima
pagina de il Piccolo; c’era un titolo a tutta pagina “Bagno di sangue Lu-
biana, oltre cento morti”. E non c’era nessuna foto.
Quello che invece fa critiche all’interno del giornale sono le foto du-
re, di cadaveri, di attentati… In questi casi si discute molto. Ci si chie-
de: se fosse mio marito? Cosa farei? Però dall’altra parte bisogna mo-
strare le cose. Perciò in questi casi siamo sempre in piena contraddi-
zione. Bisogna discutere caso per caso: è l’unico modo.
4.8. Restituire
media studies, in Guerevich, M., Bennet, T., Curran, J., Culture, society
and the media, London, Methuen, 1982, pp. 56-90.
Etnografia della produzione 175
Come vedi le fotografie che abbiamo scelto per le prime pagine del
2 e del 3 settembre sono fotografie di speranza. Qui [il 2 settembre] c’è
un uomo che porta in salvo una bambina, mentre qui [il 3] c’è una
donna che tiene in braccio il suo bambino, uno dei sedici appena libe-
rati. I loro occhi erano i nostri occhi. Lì c’è dipinta tutta l’angoscia, ma
anche tutta la speranza. Noi del giornale in quel momento eravamo lì, e
stavamo facendo il tifo.
4.9. Conservare
È questione di punti di vista. C’è una guerra in corso e una foto che
dovrebbe essere uguale per tutti ma che in realtà non lo è. Basta guar-
dare i giornali e Striscia la Notizia che puntualmente ieri sera ha fatto
notare ciò che qualcuno aveva già visto. In breve: una foto scattata in
piena battaglia ritrae un palestinese che “cerca riparo – come riporta
esattamente la didascalia del Corriere della Sera – mentre altri suoi
compagni lanciano pietre all'indirizzo del nemico”. Giusto? Sbagliato,
almeno per il Manifesto che, fedele alla causa antisionista, pubblica la
stessa foto (sotto) ma con un ritocchino. Titolo: “La caccia di Naza-
reth”. Sommario: “Spedizione di morte contro palestinesi: gli israeliani
sparano e uccidono nelle case.” E i tiratori di pietre, direte voi? Spariti
nel mouse di un non tanto abile (il ritocco si vede, e come) tipografo.
Come dire: c’est la guerre...
inscrivano dei rapporti, oggi peraltro sempre più rari, che coin-
volgono redazioni e singoli fotografi limitatamente alla copertu-
ra di eventi intorno ai quali la posizione morale del fotografo e
quella del giornale si presume che siano simili. Sono questi per
esempio i casi dei fotografi “amici” de il Manifesto per le coper-
ture delle manifestazioni di piazza e per quelle di alcuni fatti di
cronaca locale, e sono anche questi i casi della parziale copertu-
ra finanziaria che Libération ha offerto ai due fotografi che, du-
rante la guerra in Iraq nel 2003, hanno raccontato fotografica-
mente Baghdad e il Kurdistan iracheno.
Ma, tra queste due logiche, entrambe marginali, la via oggi di
gran lunga più seguita appare senza dubbio quella della ricerca
di immagini dai grandi archivi on-line messi a disposizione dal-
le agenzie. Come ho mostrato, sono proprio le modalità che la
rendono possibile (indicizzazione) e con le quali è condotta
(key-wording-research su un materiale che resta indifferente
alla soggettività fotografica), ad amplificare delle conseguenze
già in atto, forse da sempre, nel fotogiornalismo quotidiano.
Queste conseguenze riguardano sia i significati che la fotografia
finisce per assumere nelle redazioni dei giornali, sia, come for-
ma di retroazione, la distinzione sempre più netta che i fotografi
che non sono direttamente immersi nelle regole delle agenzie
fotogiornalistiche pongono tra fotografia per i quotidiani e foto-
grafia di approfondimento, laddove la seconda è vista come la
fotografia d’attualità sociale tout court, mentre la prima è con-
siderata uno scarto di produzione, perché eccessivamente sem-
plificata, stilizzata e in larga parte disinteressata a porre delle
domande e a produrre una visione del mutamento.
In sostanza, pare che l’overshooting come pratica fotografica
che permette di offrire coperture accettabili per ogni testata del
mondo, la maniera di dare significato a questa varietà controlla-
ta attraverso un set standardizzato di parole-chiave che si im-
pongono sull’immagine e ne fondano la possibilità di essere tro-
vata, nonché le modalità stesse attraverso le quali si opera la ri-
cerca della fotografia d’attualità nelle redazioni, portino a un re-
gime di visibilità quotidiana fondato sulla legge dell’eterno ri-
torno. L’immaginario pare riproporsi, sempre più ripulito di
ambiguità intrinseche, come forma illustrativa, anche in conse-
guenza del bisogno ostentato dal giornalismo a stampa di illu-
strare qualunque cosa, anche i commenti e i temi privi di
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