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COMUNICAZIONE E SOCIETÀ

Collana diretta da Gianpietro Mazzoleni

Comitato editoriale: Adam Arvidsson (Università Studi di Mi-


lano), Fausto Colombo (Università Cattolica di Milano), Giorgio
Grossi (Università di Milano Bicocca), Luisa Leonini (Universi-
tà Studi di Milano)

Comunicazione e società è una collana nata dal crescente inte-


resse accordato alla comunicazione da parte delle scienze uma-
ne e sociali. Tale interesse riguarda tanto la dimensione della
comunicazione interpersonale, dove gli attori sociali sono colti
nelle loro interazioni quotidiane che strutturano e conferiscono
senso alla loro realtà condivisa, quanto la dimensione mediati-
ca, dove la produzione, i testi e il consumo dei prodotti dei me-
dia “vecchi” e “nuovi” verranno indagati – con taglio teorico ed
empirico – nella loro interazione con le principali questioni cultu-
rali e sociali.
Volumi pubblicati:

F. Boni
I media e il governo del corpo
Televisione, Internet e pratiche bio-politiche

F. Boni (a cura di)


Nel fantastico mondo di Oz
La costruzione mediatica dell’identità australiana a Sydney

F. Boni, M. Villa (a cura di)


Dal rito all’evento
La copertura mediatica del G8 di Genova (luglio 2001)

AA.VV.
La radio: mass media democratico?
Importanza della radio nella società della comunicazione

O. Ricci
Orientalismo tecnologico
La rappresentazione della tecnologia nei magazines
di divulgazione scientifica

A. Sfardini
Reality tv. Pubblici fan, protagonisti, performer

S. Splendore
Sociologia del format. Dall’idea al prodotto televisivo
Andrea Pogliano

LE IMMAGINI DELLE NOTIZIE

Sociologia del fotogiornalismo

EDIZIONI UNICOPLI
Prima edizione: settembre 2009

Copyright © 2009 by Edizioni Unicopli,


via Festa del Perdono, 12 - 20122 Milano - tel. 02/42299666
http://www.edizioniunicopli.it

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nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla Siae del
compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile
1941, n. 633, ovvero dall’accordo stipulato fra Siae, Aie, Sns e Cna,
Confartigianato, Casa, Claai, Confcommercio, Confesercenti il 18
dicembre 2000.
INDICE

p. 7 Introduzione

11 1. NEWSMAKING E FOTOGIORNALISMO

11 1.1. Dal gatekeeping al newsmaking:


una rivisitazione
22 1.2. Spunti per un newsmaking visuale
23 1.2.1. Luc Boltanski: La rethorique de la figure
26 1.2.2. Stuart Hall: The determination
of news photographs
30 1.2.3. Barbara Rosenblum: Photographers at work
33 1.2.4. To tell the truth
36 1.2.5. Cyril Lemieux: Mauvaise presse
39 1.3. Verso un newsmaking visuale

43 2. ETNOGRAFIA DELLA PRODUZIONE


I FOTOGRAFI E LE AGENZIE

43 2.1. Il mercato del fotogiornalismo


48 2.2. I fotografi: collaboratori o fonti?
51 2.2.1. Overshooting vs. providing the standard
pictures
56 2.3. Classificare, archiviare, proporre
59 2.4. Durata dell’immagine
64 2.5. L’ingranaggio controllato: della guerra e oltre
6

p. 73 3. ETNOGRAFIA DELLA PRODUZIONE


L’ORGANIZZAZIONE REDAZIONALE

73 3.1. Le fonti delle foto-notizie


80 3.2. Strutture organizzative e tipizzazione
degli eventi-notizia
82 3.2.1. Struttura e pratiche organizzate al Corriere
della Sera
96 3.2.2. Struttura e pratiche organizzate a il Manifesto
109 3.2.3. Struttura e pratiche organizzate a Le Figaro
121 3.2.4. Struttura e pratiche organizzate a Libération

133 4. ETNOGRAFIA DELLA PRODUZIONE


CRITERI DI SELEZIONE E PRESENTAZIONE

135 4.1. Attualizzazione


142 4.2. Bilanciamento
147 4.3. Completezza generalista
154 4.4. Sequel e analogie
161 4.5. Meta-immagini e decryptages
164 4.6. Contrastare
167 4.7. Censurare, denunciare, evocare
174 4.8. Restituire
179 4.9. Conservare

185 Conclusioni

197 Riferimenti bibliografici

6
INTRODUZIONE

Questo libro si apre con la constatazione di un vuoto cono-


scitivo. In un’epoca storica dominata dalle immagini, ben poco è
stato scritto sulle pratiche professionali che informano la pro-
duzione, la selezione e la messa in pagina delle fotografie che
riempiono la nostra quotidianità e presentificano le realtà del
mondo.
La produzione di notizie nel giornalismo a stampa è stata
oggetto di diverse analisi etnografiche, a partire dagli anni 50 e
con sempre maggiore intensità fino agli 80, specie nel contesto
anglo-americano. La questione del significato della notizia e dei
criteri professionali che sottostanno alla sua selezione, è stato
l’oggetto di tutto un filone di studi detti di newsmaking.
Che le notizie siano specifici prodotti industriali soggetti a
certe costanti frutto di un insieme di routine organizzative cala-
te in un contesto di negoziazione del potere, la cui posta in gioco
sono concrete rappresentazioni, precise definizioni delle situa-
zioni, piuttosto che fatti reali tradotti “semplicemente” sulla car-
ta dei giornali o, piuttosto, il frutto di una selezione del tutto vo-
lontaristica e priva di compromessi (secondo il vecchio modello
della manipolazione), è una questione che oggi può apparire
persino banale, ma che non lo era in maniera così definita fino a
pochi anni fa. I lavori etnografici che hanno apportato alla co-
munità scientifica questa consapevolezza, con tutte le differenze
di orientamento e di punti di vista che li distinguono, hanno tut-
tavia un punto in comune: evitano di considerare la fotografia
come un oggetto rilevante nella produzione delle notizie giorna-
listiche.
8 A. POGLIANO

Questo libro si propone di porre al centro dell’attenzione so-


ciologica la fotografia giornalistica, di comprendere i significati
che i fotografi, le agenzie e le redazioni attribuiscono all’imma-
gine, di indagare gli usi e le ragioni organizzative ai/alle quali le
fotografie sono sottoposte, considerandole sempre come degli
strumenti a disposizione dell’industria dell’informazione. Si
tratta di strumenti molto particolari, come mostrerò, dal mo-
mento che la conoscenza (l’informazione) che esse apportano
costituisce solo l’elemento indiretto dell’attenzione che i profes-
sionisti nelle redazioni pongono alle immagini, mentre gli ele-
menti di attenzione diretta sono intimamente legati alle routine
di selezione e presentazione delle immagini, inserite in un con-
testo di divisione del lavoro e di controllo che muta in base alle
tipologie di eventi e al grado di coesione interna delle singole
redazioni.
Se indagate con metodologia etnografica, e ponendo atten-
zione al loro legame con altre parti del paratesto (le testatine, i
titoli, le didascalie), le fotografie pubblicate sui giornali raccon-
tano perciò molte cose in più rispetto a quanto esse rappresen-
tino, finendo per rivelare, in un modo sovente più diretto rispet-
to ai testi scritti, alcune dinamiche di potere (di definizione del-
le situazioni) che scandiscono la vita lavorativa nelle “fabbriche
delle notizie”.
Questo libro si occupa quindi delle dinamiche di produzione
di foto-notizie nel giornalismo quotidiano attraverso uno studio
etnografico condotto in parti uguali in Italia e in Francia1.
Nel primo capitolo, opererò una rapida rivisitazione del pas-
saggio dagli studi sul gatekeeping a quelli sul newsmaking, for-
nendo un’interpretazione del perché l’immagine non sia stata
integrata come strumento giornalistico significativo in quei la-
vori d’analisi. Successivamente, vaglierò cinque contributi che
mi paiono particolarmente rilevanti nella direzione di un news-
making visuale, passando in rapida rassegna gli spunti che mi
sono sembrati più significativi, indicandone i limiti complessivi

1 Si tratta quindi di un’etnografia dell’organizzazione, nella quale, oltre

ai lavori sul newsmaking dei quali scriverò a breve, sono risultati molto
utili due manuali: Bruni, A., Lo studio etnografico delle organizzazioni,
Roma, Carocci, 2003; Piccardo, C., Benozzo, A., Etnografia organizzativa.
Una proposta di metodo per l’analisi delle organizzazioni come culture,
Milano, Cortina, 1996.
Introduzione 9

e segnalando come la strada verso un newsmaking visuale non


fosse certo una strada già tracciata.
Attraverso i capitoli successivi tenterò di restituire una vi-
sione complessiva della produzione visuale, capace di includere
la raccolta (visual newsgathering), la selezione di fotografie
nelle redazioni e la presentazione (o messa in pagina) delle stesse.
Nel secondo mi concentrerò sulle trasformazioni tecnologi-
che e economiche che in anni recenti hanno mutato radicalmen-
te l’aspetto del fotogiornalismo per quanto attiene ai rapporti
tra le agenzie e tra queste e i fotografi, condizionando anche il
rapporto tra i fotografi e le agenzie da una parte e tra questi e le
redazioni dei giornali dall’altra parte. Con lo strumento dell’in-
tervista tenterò di ricostruire queste relazioni, soffermandomi
sulle pratiche emergenti da questa trasformazione.
Il terzo capitolo varrà da presentazione delle quattro reda-
zioni giornalistiche studiate: Corriere della Sera, il Manifesto,
Le Figaro, Libération2. Attraverso l’osservazione partecipante
nelle sezioni delle redazioni delegate alla selezione e messa in
pagina delle fotografie, mostrerò il setting, darò conto degli
strumenti a disposizione e dei legami con agenzie e fotografi,
indagherò la divisione del lavoro interna, le dinamiche di cen-
tralizzazione e de-centralizzazione decisionale, e inizierò a e-
splorare il significato che alla fotografia viene attribuito, ini-
ziando cioè a dare conto di alcune selezioni concrete.
Infine, nel quarto capitolo mi concentrerò sui rituali strate-
gici di selezione e presentazione delle fotografie. Qui, il resocon-
to etnografico attraverserà trasversalmente le quattro testate, il
testo si farà pertanto più dinamico e i riferimenti a coperture
concrete saranno essenziali per mettere in luce i rituali, sempre
calati nel più generale contesto organizzativo presentato nel ca-
pitolo precedente. Oltre all’osservazione, per l’analisi che so-
stiene il capitolo, mi sono affidato ad alcune interviste etnogra-
fiche con il supporto di testi giornalistici.

2 La scelta di queste quattro redazioni è stata fatta seguendo criteri in-

terni al fotogiornalismo. Si tratta infatti, come vedremo, di redazioni che


propongono modelli organizzativi e culturali molto diversi tra loro in rela-
zione alla fotografia. Non si è trattato quindi di una scelta legata alle politi-
che di testata alla ricerca di una comparazione tra giornalismo francese e
giornalismo italiano. Come infatti emergerà dall’analisi la distinzione Ita-
lia-Francia appare irrilevante per l’oggetto d’analisi trattato rispetto ad al-
tre dimensioni sulle quali ho concentrato le mie attenzioni.
10 A. POGLIANO

Gli esempi delle fotografie delle torture nel carcere iracheno


di Abu Ghraib, dei cittadini di New Orleans colpiti dall’uragano
Katrina, le fotografie provenienti da Londra il giorno dell’atten-
tato terroristico di matrice islamica, sono solo alcuni degli e-
sempi particolarmente efficaci per analizzare certi problemi no-
dali del giornalismo a stampa e al tempo stesso per ridefinire il
significato della fotografia giornalistica in un’epoca dominata
dai media elettronici.
Lungo tutto il lavoro, degli spazi specifici sono riservati al
caso della fotografia bellica, con un’attenzione particolare alla
guerra irachena iniziata nel 2003, dal momento che il testo che
propongo qui è una parte rivisitata della mia tesi di dottorato, la
quale comprendeva una parte più ampia dedicata alle rappre-
sentazioni belliche. Ma le coperture fotografiche della guerra
non esauriscono affatto questo studio.
Come avrò modo di mostrare, la guerra è sì vissuta come un
evento eccezionale che porta a una ristrutturazione organizzati-
va degna di nota, ma similmente alla guerra, altri eventi quali le
catastrofi naturali, gli attentati terroristici (che poi possono e
forse dovrebbero oggi esser letti come atti di una guerra più este-
sa, diffusa e permanente) e ancora altri sporadici eventi compor-
tano simili condizioni di riscrittura della trama organizzativa.
È proprio parlando di scrittura di una trama organizzativa,
cioè di etnografia della produzione giornalistica, che intendo in
primo luogo la guerra e la pace, laddove la guerra rimanda alla
dimensione del conflitto e dell’imprevisto, mentre la pace a
quello dell’assenza di conflitto e della routine.

Ringrazio Gianpietro Mazzoleni e Federico Boni che mi hanno se-


guito lungo il percorso di tesi di dottorato; Enzo Colombo per alcuni
preziosi consigli; i molti studiosi dell’IRESCO-CNRS di Parigi con i
quali mi sono confrontato a più riprese durante la mia permanenza in
Francia; FIERI (Forum Internazionale di Ricerche sull’Immigrazione)
e in particolare Pietro Cingolani, Riccardo Zanini e Luigi Gariglio, col-
leghi nella ricerca Lo Sguardo sull’Altro. Fotografia e immigrazione in
Italia dagli anni 80 a oggi, che mi ha permesso di approfondire ulte-
riormente lo studio del campo fotogiornalistico. Ringrazio i fotografi e i
giornalisti incontrati lungo il percorso per la disponibilità che mi han-
no dimostrato e chiedo scusa per eventuali errori di interpretazione
delle loro azioni e dei loro racconti.
Ringrazio Micol e nostra figlia Nora.
1

NEWSMAKING E FOTOGIORNALISMO

1.1. Dal gatekeeping al newsmaking: una rivisitazione

Gli studi di sociologia delle emittenti sono una parte del ben
noto approccio trialogico che caratterizza i media studies, lad-
dove il processo della comunicazione mediata è frazionato in tre
parti: quella della codifica dei messaggi (encoding), quella dei
messaggi in sé, ossia dei testi, e infine quella della decodifica
(decoding), ossia della ricezione da parte dei pubblici dei sud-
detti messaggi1. Le tre parti sono considerate le componenti es-
senziali dell’intero processo o circuito della comunicazione me-
diata e corrispondono storicamente a tre momenti e tre contesti
separati per lo studio.
Studiare le emittenti significa dunque concentrare l’atten-
zione sulla fase di codifica dei messaggi operata dai media, lad-
dove per messaggio si possono intendere sia le informazioni di
tipo giornalistico (che si tratti della radio, della stampa scritta,
della televisione o del web), sia i messaggi veicolati nella produ-
zione di programmi chiaramente non giornalistici o non pro-
priamente giornalistici (di intrattenimento, di divulgazione spe-
cializzata, ecc). Se lo studio dei messaggi in sé (dei testi mediali)
costituisce oggetto privilegiato per le discipline semiologiche, va
tuttavia segnalato che i testi possono essere essi stessi studiati
con approccio etnografico2 e che, allo stesso tempo, le fasi di co-
1 Il classico testo di riferimento, riguardo a questa ripartizione è il se-

guente: Hall, S., Encoding/Decoding, in Hall, S. et al., Culture, Media,


Language, New York, Routledge, 1980.
2 A tal proposito si veda Altheide, D., L’analisi qualitativa dei media,

Catanzaro, Rubbettino, 2000. In particolare, Altheide parla di “analisi et-


nografica dei documenti”.
12 CAPITOLO 1

difica e di decodifica possono essere fatte oggetto di varie meto-


dologie interne alla disciplina sociologica (dai questionari a ri-
sposta multipla, sul tipo delle survey, alle interviste aperte,
all’osservazione partecipante). È tuttavia piuttosto evidente che
l’approccio etnografico si è rivelato in anni recenti quello gene-
ralmente più fruttuoso nel campo dei media studies3.
L’utilizzo dei metodi etnografici, dopo una prima concentra-
zione sui processi di codifica delle notizie giornalistiche, pare
essersi diretto in maniera prioritaria sullo studio della ricezione
da parte dei pubblici dei media (gli audience studies), tanto che,
come ricorda sempre Boni4, l’etnografia dei media ha finito per
sovrapporsi, nella vulgata sociologica, alla fase della decodifica.
È altresì vero che gli studi dei processi di produzione dei
messaggi mediali (nello specifico, dei messaggi prodotti dai
news-media), iniziati a cavallo tra gli anni 40 e 50 del secolo
scorso e proseguiti, ed evolutisi, negli anni 70 e 80, non hanno
prodotto, nelle quasi tre decadi successive, degli importanti e-
lementi di novità, né in termini di ipotesi teoriche né in termini
di conoscenze euristiche.
Le domanda che hanno aperto questo genere di studi posso-
no essere sintetizzate in questo modo: chi ha il potere di in-
fluenzare il processo tramite cui vengono selezionate le notizie?
In che modo opera questa stessa selezione? Le prime risposte
che la ricerca sociologica ha tentato di dare rispetto a questo
duplice quesito hanno a che fare con l’agire individuale delle
persone che occupano ed interpretano i differenti ruoli assegna-
ti loro nell’organizzazione. Nasce così il concetto di gatekeeper
inteso proprio come decisore individuale nel processo di sele-
zione delle notizie.
La teorizzazione del gatekeeping nasce specificamente nel
contesto della psicologia sociale ed è dovuta a Kurt Lewin, il
quale intendeva individuare la funzione di cancello (gate) as-
sunta da uno o più membri di un gruppo sociale; egli intendeva
quindi mostrare come, attraverso il lavoro di selezione di questi
attori designati come gatekeeper in virtù della particolare
leadership riconosciuta all’interno del gruppo, venivano infine a
penetrare, all’interno del gruppo stesso, delle nuove abitudini
(Lewin si interessò alle abitudini alimentari), che diventavano

3 Si veda Boni, F., Etnografia dei media, Bari, Laterza, 2004.


4 Boni, F., op. cit.
Newsmaking e fotogiornalismo 13

in seguito patrimonio comune e venivano praticate da tutti i


membri del gruppo sociale studiato.
David Manning White fu lo studioso che tradusse per primo
le ricerche di Lewin nell’ambito dei media studies. La ben nota
ricerca di White5, condotta all’interno di un giornale che rag-
giungeva la tiratura di 30.000 copie, fu effettuata in una città
del Midwest degli Stati Uniti. Mr Gates era un giornalista con
25 anni di esperienza, capo redattore, cui era affidato il compito
di selezionare le notizie provenienti dalle agenzie di stampa e di
farle pervenire alle distinte sezioni del giornale. White impostò
la sua ricerca sull’analisi delle motivazioni che questo particola-
re soggetto redazionale addiceva nel tentativo di spiegare al ri-
cercatore stesso i motivi che lo portavano ad accettare o più
spesso a rifiutare le notizie che gli pervenivano attraverso le a-
genzie.
Le risposte ottenute, spinsero White a concludere che la se-
lezione delle notizie per un quotidiano era dovuta alla sensibili-
tà personale di un’unica persona, di colui che, in virtù di un par-
ticolare posizionamento nell’organigramma redazionale, rico-
priva il ruolo del gatekeeper.
Era evidente che l’influenza dei lavori all’interno dei quali il
concetto stesso era stato elaborato – lavori, come si è scritto, se-
gnati dall’impostazione della psicologia sociale – avevano in-
fluenzato il ricercatore, se non altro portandolo a strutturare un
disegno di ricerca che non teneva conto di molte variabili socio-
logicamente rilevanti. Concepita intorno all’ipotesi della distor-
sione e ancora debitrice di una concezione che postulava l’og-
gettività quale standard raggiungibile nel lavoro informativo,
questa ricerca conduce alla domanda finale: quali le norme (og-
gettive) e quali invece gli spazi esterni a queste norme per via
dei quali l’attore sopravanza le stesse imponendo una distorsio-
ne di tipo soggettivo a una presunta obiettività dell’informare?
In una certa misura White ottenne gli unici risultati possibili
che l’impianto stesso della sua ricerca poteva offrirgli. Inoltre –
ma non erano ancora anni in cui il dibattito sulla riflessività a-
veva penetrato le scienze sociali – il ricercatore non si pose la
questione inerente all’influenza della sua stessa presenza sul ti-

5 White, D.M., The «Gate Keeper»: A Case Study in the Selection of

News, in Journalism Quarterly, 27, 1950, pp. 383-390.


14 CAPITOLO 1

po di risposte che poteva ottenere e perciò non si cautelò (inclu-


dendo, ad esempio, un controllo per via comparativa) in merito
a tale rischio.
Pochi anni dopo, una proposta di ricerca comparata, pur
all’interno del paradigma teorico del gatekeeping, la propose
Gieber6 che effettuò uno studio su sedici redattori capo di altret-
tanti giornali. La principale scoperta fu che il processo di sele-
zione avveniva, nei diversi giornali, in maniera speculare e che
le spiegazioni fornite al ricercatore per giustificare le scelte
compiute erano di fatto simili. Piuttosto che dare conferma alle
conclusioni di White, questi risultati portavano semmai a ridi-
mensionare il fattore causale della sensibilità personale del ga-
tekeeper, spingendo il ricercatore a porsi delle dovute domande
in merito agli elementi strutturali e organizzativi che conduce-
vano a quella curiosa omogeneità.
I lavori nel campo della sociologia delle emittenti che segui-
rono, si inscrivevano in un contesto conoscitivo già ben diverso
da quello all’interno del quale si collocavano le ricerche di White
e di Gieber. In particolare, va qui segnalato l’emergere, negli
anni successivi a questi due lavori, del paradigma costruttivista
nelle scienze sociali. L’ormai classico testo di Peter L. Berger e
Thomas Luckmann usciva nel 19667, cioè dieci anni dopo rispet-
to alla ricerca di Gieber, e si poneva subito come un testo in
grado di sintetizzare e dare consolidamento a una consapevo-
lezza generica che informava già da qualche tempo una parte
della ricerca sociologica e non solo sociologica.
Collocandosi all’interno di questo paradigma emergente, i
messaggi dei news-media sono considerati quali risultante di
processi organizzativi strutturati e al contempo strutturanti le
azioni dei singoli all’interno del gruppo. Questa concezione di
fondo sposta l’attenzione sugli aspetti interattivi e rituali del
processo, restituendo alle norme stesse un carattere tempora-
neo e instabile, in quanto al tempo stesso esiti di processi di ne-
goziazione quotidiana e elementi interpretati e partecipati, par-
te di un set di competenze individuali sullo sfondo delle quali si
instaurano i rituali organizzativi. L’intrusione inevitabile, quali

6 Gieber, A., Across the Desk: A Study of 16 Telegraph Editors, in

Journalism Quarterly, n.33, 1956, pp. 423-432.


7 Berger, P.L., Luckmann, T., The Social Construction of Reality, New

York, Garden City, 1966.


Newsmaking e fotogiornalismo 15

dimensioni essenziali dell’analisi sociologica, della distribuzione


gerarchica del potere e della rete di feedback, operano come una
dichiarazione d’impegno, da parte del ricercatore, di restituire
la complessità del processo. Queste due dimensioni tagliano in-
fatti trasversalmente tutti gli studi di sociologia delle emittenti,
dal lavoro pionieristico di Breed8 fino ai lavori più recenti. Ciò
ha permesso di (e in parte obbligato ad) ampliare, sia spazial-
mente, sia socialmente, sia infine temporalmente, l’ambito rela-
zionale all’interno del quale intraprendere lo studio. É proprio
questo passaggio a dare conto della dilatazione temporale che
questo approccio domanda al ricercatore, così come la presa in
conto dei valori e dei criteri professionali e organizzativi (l’effi-
cienza, la velocità, ecc), intesi come costruzioni costantemente
negoziate, implicano la dilatazione degli ambiti spaziali e sociali
da prendere in conto nello studio.
Ovviamente, al ricercatore non è dato di seguire la nascita
dal nulla di una redazione giornalistica e di potersi così limitare
a descriverne le evoluzioni per spiegare come determinate rou-
tine di gestione dell’imprevisto si consolidino, né una genesi di
questo tipo è realistica, dal momento che ogni nuova formazio-
ne giornalistica porta in sé un sapere precedente e dei codici già
sperimentati. Il ricercatore ha però a disposizione una serie di
strumenti e di conoscenze teoriche di fondo, una cassetta degli
attrezzi, come si usa dire, grazie alla quale tentare di scorgere
ciò che per i soggetti che agiscono quotidianamente in un’orga-
nizzazione è ormai ovvio e sul quale non sentono il bisogno di
esplicitare i presupposti stessi del loro agire collettivo. Sta al ri-
cercatore la capacità di porre le domande giuste o piuttosto di
riconoscere nell’osservazione i momenti di rottura delle consue-
tudini (secondo la proposta dell’etnometodologia) e dare conto
delle maniere attraverso le quali gli attori sociali si impegnano a
restituire un ordine alla trama delle pratiche quotidiane. E sta
sempre al ricercatore la capacità di individuare i limiti entro i
quali i singoli giornalisti possono o non possono negoziare alcu-
ni aspetti del loro lavoro quotidiano, ovvero la capacità di co-
gliere la relazione tra il potere diffuso nell’ambiente studiato e le
pratiche attraverso le quali le notizie vengono scelte e messe in
forma testuale.

8 Breed, W., Social Control in the News Room: a Functional Analysis,

in Social Forces, n. 33,1955, pp. 326-335.


16 CAPITOLO 1

Si può dire in generale che gli studi di sociologia delle emit-


tenti sono passati dall’ipotesi teorica del gatekeeping a quella
più articolata del newsmaking in virtù di un insieme di fattori
in buona parte interni alla teoria sociologica stessa. Ho già ac-
cennato alla questione della svolta costruttivista; un altro fatto-
re è dato dalla parallela e in buona parte sovrapponibile “svolta
culturologica” che subordina la questione della comunicazione
mediata (e dell’ipotesi della distorsione comunicativa), alla più
ampia questione della cultura, ossia della spinta a studiare le
organizzazioni come culture. A questo passaggio corrisponde
una svolta nella metodologia di ricerca: l’etnografia, metodo
centrale negli studi antropologici sulle culture “altre”, perlopiù
lontane ed esotiche, ripiega sull’estraneità interna alle nostre
stesse società occidentali.
Studiare gli aspetti organizzativi-burocratici finisce per so-
vrapporsi – nonostante i due aspetti possano essere in parte di-
stinti nell’analisi – allo studio degli aspetti culturali, come ri-
corda Schudson9 nella sua ricognizione sulle molte ricerche che
tendono a spiegare sociologicamente i processi che sottostanno
alla produzione delle notizie.
L’approccio organizzativo-burocratico è segnato, secondo
questo autore, da due paradigmi teorici, quello costruttivista e
interazionista e quello complementare della teoria più classica
delle organizzazioni e degli aspetti formali. I due approcci si as-
sommano, finendo per orientare l’attenzione dell’etnografo
sull’incontro tra i fatti esterni (gli eventi: pianificati o piuttosto
inattesi) e un sistema chiuso di relazioni più o meno standardiz-
zate. Questo sguardo etnografico tende a spiegare la produzione
di notizie attraverso interpretazioni che riposano all’interno del-
le azioni stesse dell’organizzazione (in maniera endogena).
L’approccio culturologico (l’autore lo chiama anche “antro-
pologico”), dall’altra parte, si concentra maggiormente sugli
scambi simbolici attraverso i quali l’evento si forma e viene fatto
oggetto di interpretazione. In questo senso, un sistema simboli-
co più generale, sia interno sia esterno all’organizzazione stessa,
è attivato nell’interpretazione dei fatti e nella costruzione delle

9 Schudson, M., The sociology of News Production Revisited (Again),

in Curran, J., Gurevitch, M., Media and Society, London, Arnold, 2000.
Newsmaking e fotogiornalismo 17

notizie. Schudson fornisce l’esempio della ricerca di Pearce10


sulle coperture dell’omosessualità sui media britannici. Rifa-
cendosi ad un sapere costruito in seno agli studi antropologici,
Pearce vede in azione una struttura simbolico-morale dominan-
te della società (che oppone maschile e femminile in una manie-
ra per la quale l’omossessualità è letta come un’anomalia che
non ricade nella categorizzazione “normale”, e non si adatta alla
forma mentale diffusa, per l’appunto socializzata) che agisce
prima di qualunque specifica forma dell’organizzazione giorna-
listica in esame e condiziona di fatto la maniera di trattare pro-
fessionalmente quegli stessi eventi.
Per comprendere meglio la problematica, bisogna pensare
che l’etnografo è preso da una doppia necessità. Una è quella di
orientare il proprio sguardo su aspetti specifici e “controllabili”
in linea con i propri presupposti di ricerca, per non disperdere
le energie e ritrovarsi poi con un insieme di dati incapaci di for-
nirgli strumenti per un’interpretazione finale coerente. Da qui
l’esigenza di non aprire a fattori sicuramente interessanti ma
che passano di sfuggita di fronte al suo sguardo e non compon-
gono il quadro necessariamente ristretto della sua indagine.
L’altra necessità è quella, già in parte compresente nella prima,
di fornire un resoconto sufficientemente ricco di indizi da non
risultare il frutto di mere intuizioni impressionistiche che trag-
gono spunto dall’ascolto di poche conversazioni estemporanee,
ma che siano ricorrenti e confermate da più fonti o scovate co-
me strutture di senso nascoste dietro momenti che l’etnografo
deve riuscire a dimostrare essere centrali di alcune relazioni, co-
sì che possano valere come metafore a buon grado esplicative di
un sistema simbolico consolidato.
È innegabile che gli aspetti culturali penetrino le organizza-
zioni in mille modi. Sarebbe impensabile un luogo chiuso dove
tutto ciò che conta nella produzione ha la sua genesi in quello
stesso luogo, se non altro in virtù dell’inevitabile legame del
giornalismo con la realtà esterna che esso ha il compito di tra-
sformare, di mettere in forma. Anche autori che privilegiano in
maniera marcata un’attenzione di ricerca agli aspetti organizza-

10 Pearce, F., The British press and the “placing” of male homosexual-

ity, in Cohen, S., Young, J., The manufacture of news. Deviance, social
problems & the mass media (Revised Edition), Beverly Hills, Sage, 1981,
pp. 303-316.
18 CAPITOLO 1

tivi prima di ogni aspetto culturale più generale, invitano co-


munque a guardare a tutti quegli elementi simbolici interni alle
redazioni stesse (documenti interni, affissioni negli spazi comu-
ni, ecc.) che sovente hanno una traiettoria che investe ciò che
degli attori sta fuori dal luogo di lavoro.
Figura centrale delle ricerche sull’organizzazione giornalisti-
ca in quanto cultura, da studiare in riferimento ai riti e alle pra-
tiche comunitarie che conducono alla costruzione delle notizie,
fu Gaye Tuchman, che dedicò alcuni anni della sua vita di ricer-
catrice proprio a questo campo di indagine. Altre ricerche, come
quelle ormai classiche di Galtung e Ruge11, di Altheide12, di
Schlesinger13, di Gans14 e di Golding-Elliott15 – per citare solo
alcuni dei nomi più rappresentativi – pur con le dovute diffe-
renze di approccio (che a dispetto di quanto si scrive nei manua-
li non sono poche), hanno in comune l’attenzione alla notizia
quale oggetto costruito dalle comunità giornalistiche: oggetto
portatore di specifici valori sociali costituitisi attraverso un in-
sieme di routine organizzative che caratterizzano il lavoro
nell’industria dell’informazione.
In termini generali, queste ricerche si muovono sia sul terre-
no delle relazioni tra i giornali e le fonti istituzionali – su tutti
Tuchman16– mettendo in evidenza l’effetto di conservazione di
una gerarchia di valori e di relazioni di potere attraverso la ri-
corsività delle abitudini di raccolta e scambio delle notizie, sia
sul terreno dei criteri che internamente alle redazioni vengono
costruiti e conservati perché la macchina burocratizzata della
selezione delle notizie possa avanzare giornalmente senza ri-
schio di intoppi. In questo secondo caso, viene mostrato come i
criteri di selezione anticipino le notizie (si parla di aspettative e
di consonanza delle notizie con i criteri organizzativi). Il concet-
to di valori-notizia è una trasposizione di questi criteri sul ma-

11 Galtung, J., Ruge, M., The structure of Foreign News, in Journal of

Peace Research, vol. 1, 1965.


12 Altheide, D.L., Creating Reality. How Tv News Distorts Events, Bev-

erly Hills, Sage, 1976.


13 Schlesinger, Putting “reality” together. BBC news, London, Consta-

ble, 1978.
14 Gans, H., Deciding Wath’s News, New York, Pantheon, 1979.
15 Golding, P., Elliott, P., Making the News, London, Longman, 1979.
16 Tuchman, G., Making News. A Study in the Construction of Reality,

New York, The Free Press, 1978.


Newsmaking e fotogiornalismo 19

teriale delle notizie che giungono ogni giorno in redazione at-


traverso il giro di telefonate agli uffici stampa istituzionali e, og-
gi soprattutto, attraverso le agenzie (foto)giornalistiche. Secon-
do questo approccio la notiziabilità (newsworthiness), non è
una caratteristica delle notizie (e quindi, prima ancora, della re-
altà) ma, in quanto probabilità che certe notizie siano selezio-
nate, viene propriamente costruita sovrapponendo i criteri for-
malizzati alle notizie. Questo secondo approccio è quindi ristret-
to all’interno delle redazioni e, non aprendosi al rapporto tra
queste e le fonti (se non vedendo le fonti di riflesso, stando
all’interno delle redazioni), non permette di sviluppare un di-
scorso pienamente costruttivista (si parla qui di costruzione del-
le notizie, non di costruzione della realtà). Nel caso del primo
approccio citato (quello di Tuchman in particolare) le retroazio-
ni tra fonti istituzionali e redazioni giornalistiche portano a in-
travedere una progressiva interdipendenza tra la realtà e le no-
tizie, laddove le notizie, già influenzate dalla messa in forma
delle stesse offerte dalle istituzioni, influenzano a loro volta le
istituzioni, ossia la percezione della realtà che i membri fanno
propria, ciò che comporta mutamenti nelle pratiche (un esem-
pio può essere quello della relazione tra pratiche di controllo del
crimine e notizie giornalistiche sui crimini).
Tuttavia, questo approccio marca ancora di più, rispetto
all’altro, la tendenza a concentrare l’attenzione solo su alcune
tipologie di notizie, quelle più ricorrenti e di routine, quelle cioè
dove il rapporto tra redazioni e fonti (nell’esempio fatto la fonte
è l’ufficio stampa della questura) è costante e giornaliero.
Ed eccomi così giunto a toccare una questione che finisce per
investire il mio lavoro. Si tratta della distinzione tra lo studio
etnografico della produzione giornalistica relativamente a eventi
eccezionali e lo studio etnografico di una cosiddetta “normalità”,
ossia dell’andamento “normale” della copertura informativa. Per-
ché metto qui tra virgolette le parole “normalità” e “normale”?
Mi pare evidente – e i risultati delle ricerche d’altronde lo
confermano – che gli stessi eventi eccezionali sono “lavorati” in
maniera da restituire una routine all’imprevisto. Se non erro, la
vera differenza che sottostà a questa formulazione riguarda
piuttosto la quantità di tempo che il ricercatore investe
nell’osservazione, ovvero la lunghezza del periodo di studio sul
campo che varia anche in base allo specifico interesse di ricerca.
20 CAPITOLO 1

Mauro Wolf17, riprendendo le annotazioni di Golding e El-


liott18 segnalava il passaggio tra il gatekeeping e il newsmaking,
individuando alcune ricerche di confine, di passaggio (soprat-
tutto quelle dei Lang19). Stando alla sua autorevole ricognizione,
questi lavori non erano ancora propriamente lavori di newsma-
king, sebbene si inscrivessero già in parte al loro interno per al-
cuni presupposti fondamentali nell’impostazione della ricerca e
nel focus dell’osservazione. Riprendendo le parole di Wolf20, le
ricerche di Lang anticipavano gli studi sul newsmaking perché
prendevano in considerazione tutti e due questi aspetti fonda-
mentali: da una parte “[I] sistemi di valori, di rappresentazioni,
di immaginario collettivo che essi [i media] propongono”,
dall’altra “il modo, i processi, le restrizioni e limitazioni con cui
ciò avviene”. Ovvero, per dirla sempre con Wolf, da una parte i
fattori più propriamente comunicativi, dall’altra quelli più pro-
priamente organizzativi.
Eppure, le ricerche di Lang, e anche quella di Halloran, El-
liott e Murdock21, sulla copertura da parte dei media inglesi di
una manifestazione di piazza contro la guerra del Vietnam, non
erano ancora propriamente studi sul newsmaking proprio per il
loro carattere di “casi studio”, cioè per l’attenzione a una singola
copertura, per quanto analizzata in profondità e con riguardo
agli aspetti appena segnalati. In sostanza, questi lavori non
permettono né la definizione dei criteri generali di selezione
delle notizie, né la ricostruzione delle relazioni tra redazioni e
fonti.
Non si tratta quindi di una distinzione tra eventi “normali”
(cioè a certi gradi prevedibili) e eventi eccezionali (cioè imprevi-
sti), ma della possibilità di restituire il senso di una tipizzazione
operativa o piuttosto di limitarsi all’analisi di un caso studio.

17 Wolf, M., Teorie delle Comunicazioni di Massa, Milano, Bompiani,


1985.
18Golding, P., Elliott, P., op. cit.
19Lang, K, Lang, G.E., The Unique Perspective of Television and its Ef-
fect: a Pilot Study, in American Sociological Review, 18, 1, 1953, pp. 3-12.
Lang, K, Lang, G.E., The Inferenctial Structure of Political Communi-
cations: a Study in Unwitting Bias, in Public Opinion Quarterly, Summer
1955, pp. 168-183.
20 Wolf, M., op. cit.
21 Halloran, J., Elliott, P., Murdock, G., Demonstrations and Communi-

cation: A Case Study, London, Penguin, 1970.


Newsmaking e fotogiornalismo 21

Stando così le cose, va fatto notare che la differenza di ap-


procci comporta limiti da entrambe le parti e non solo nel se-
condo caso. Anche la volontà di pervenire alla descrizione della
suddetta tipizzazione può e deve essere letta come limitante, dal
momento che non si prefigge (per gli intenti stessi della ricerca)
il compito di creare un ponte tra processi organizzativi e rappre-
sentazioni concrete (cioè i testi specifici) che vengono offerti in
lettura e visione (o ascolto e visione se parliamo di telegiornali)
ai pubblici dei media.
Mi pare che l’assenza di un’attenzione alla produzione di e-
lementi visivi negli studi di newsmaking sia proprio il portato
di questa evoluzione nelle modalità di fare ricerca sociologica
sulle emittenti, così come è andata configurandosi. Le immagini
concrete sono state relegate fuori dagli interessi dei ricercatori,
perché fuori sono stati relegati gli output.
Le fotografie dei quotidiani, escluse da questo genere di ri-
cerche, diventavano un oggetto di interesse quasi esclusivamen-
te semiologico, per chi si occupava e si occupa di analisi testua-
le. In questo modo si è abbandonato lo studio etnograficamente
informato degli elementi visivi che contribuiscono in maniera
importante alla produzione delle notizie.
Proprio per gli obiettivi che si prefiggevano, gli studiosi del
newsmaking hanno dedicato molte più attenzioni alla selezione
che non alla presentazione (messa in pagina) delle notizie e nei
rari casi in cui hanno preso in esame la presentazione delle no-
tizie si sono concentrati prioritariamente sulle questioni interne
alla scrittura, in due direzioni distinte. Seguendo la prima dire-
zione, hanno ricercato quelle “forzature” nei testi scritti che por-
tavano a rimarcare i “valori notizia”, per giungere alla conclu-
sione che questi ultimi erano validi criteri non soltanto
nell’orientare la selezione degli eventi da trasformare in notizie,
ma venivano anche accentuati una volta che la notizia era stata
selezionata. Nelle parole di Galtung e Ruge:

Once a news item has been selected what makes it newsworthy ac-
cording to the factors will be accentuated22.

22 Galtung, J., Ruge, M., Structuring and selecting news, in Cohen, S.,

Young, J., The manufacture of news. Deviance, social problems & the mass
media (Revised Edition), Beverly Hills, Sage, 1981, p. 61.
22 CAPITOLO 1

Seguendo la seconda direzione, alcuni di questi studiosi – in


particolare Tuchman23 e Schudson24 – hanno posto attenzione
al discorso dell’obiettività giornalistica come costruzione retori-
ca nelle pratiche di presentazione, ma si sono limitati alle reto-
riche di scrittura, che Tuchman ha definito “rituali strategici” di
presentazione delle notizie, lasciando in secondo piano sia gli
aspetti grafici (non indagando quindi i rituali strategici che po-
tremmo chiamare di collegamento e gerarchizzazione tra singo-
le componenti del testo giornalistico) sia quelli fotografici.
Questi aspetti sono oggi studiati da alcuni analisti del discor-
so mediale25 e risultano così posti fuori dall’investigazione etno-
grafica. Nel quarto capitolo fermerò l’attenzione proprio su que-
sti aspetti, rifacendomi alla categoria concettuale di rituale stra-
tegico, giungendo ad alcuni risultati di analisi che mi paiono in-
teressanti e in buona parte indeducibili da un’analisi del discor-
so mediale.

1.2. Spunti per un newsmaking visuale

Si è dunque creata una netta scollatura, tra chi compiva et-


nografie della produzione di notizie giornalistiche ignorando il
ruolo giocato dalle immagini e chi, da analista testuale, da sag-
gista e molto raramente da etnografo si occupava della fotogra-
fia giornalistica senza occuparsi però (nelle intenzioni della ri-
cerca o dello studio) del suo ineludibile legame con i testi, oppu-
re occupandosene “di passaggio”, in maniera non sistematica.
Tra questo secondo gruppo di studiosi e ricercatori, alcuni meri-
tano nonostante tutto un’attenzione speciale. Discuterò qui bre-
vemente gli approcci e i risultati cui sono pervenuti nello studio
della fotografia d’attualità sui media a stampa, trattandoli – per
chiarezza e semplicità, ma anche per una reale difficoltà a unifi-

23 Tuchman, G, Objectivity as a Strategical Ritual. An Examination of

Newspapersmen’s Notion of Objectivity, in American Journal of Sociol-


ogy, 77, 4, 1972, pp. 660-679.
24 Schudson, M., Discovering the News: A Social History of American

Newspaper, New York, Basic Book, 1978.


25 Kress, G., van Leeuwen, T., Front Pages: (The Critical) Analysis of

Newspaper Layout, in Bell, A., Garret, P., Approaches to Media Discourse,


Oxford, Blackwell, 1998.
Newsmaking e fotogiornalismo 23

carne le esperienze – uno alla volta, sintetizzando e interpre-


tando gli spunti a mio parere più significativi che emergono dai
loro lavori.

1.2.1. Luc Boltanski: La rethorique de la figure

L’articolo di Boltanski26 appare nel 1965 in un libro colletti-


vo, che ha l’intento più generale di analizzare le pratiche della
fotografia da diversi punti di vista (sociologico, semiotico, psi-
coanalitico, ecc.). Nello specifico, La rethorique de la figure si
ripropone due intenti distinti ma collegati tra loro nell’argo-
mentazione. Il primo è quello di ripassare la storia del connubio
tra il giornalismo a stampa e la fotografia. Il secondo è quello di
analizzare le retoriche che informano la produzione di fotografie
tra i fotografi di redazione di un periodico e di un quotidiano
francese. Affrontiamo qui una problematica alla volta e vediamo
in sintesi come le due questioni vengono risolte da Boltanski.
Rispetto alla prima, l’autore sottolinea in particolare come il
giornalismo a stampa fosse preparato a ricevere la fotografia, in
virtù dei rapporti che già si erano instaurati tra questo e le im-
magini. É questa armonia prestabilita tra esigenze del giornali-
smo e possibilità socialmente accordate alla fotografia a costi-
tuire il punto di partenza delle sue argomentazioni. Il disegno
d’attualità si poneva da anni come uno strumento a disposizione
della stampa, almeno da quando, a metà del XIX secolo, i pro-
gressi dell’incisione su legno avevano consentito di adoperare le
illustrazioni sui giornali d’informazione. Ciò non va senza impli-
cazioni.

Ces “reportages” sont par leur sujet à peu de choses près ce qu’ils
seront un siècle plus tard: paysages, portraits, catastrophes, images de
guerre, autant d’événements que l’illustrateur nous montre habituel-
lement en train de se produire: la maison s’écroule, et l’on voit tuiles et
gravats voler dans les airs. L’assassin tue, et on le voit tirer son coup de
feu. Un grand souci d’exactitude guide la réalisation de ces images27.

L’imperativo di attualizzare gli avvenimenti del mondo, a


partire dal quale l’informazione quotidiana a stampa costruiva il

26 Boltanski, L., La rethorique de la figure, in Bourdieu, P., Un art mo-

yen. Essai sur les usages sociaux de la photographie, Paris, Minuit, 1965.
27 Boltanski, L., op. cit., pp. 166-167.
24 CAPITOLO 1

suo significato sociale (Boltanski pensa alla cronaca), richiede-


vano al disegno una ricostruzione che mettesse in evidenza il
momento fatale, l’istante preciso nel quale l’azione e l’attività
quotidiana diventano evento, fatto degno di essere riportato. Al
disegno era insomma richiesto di rappresentare l’ “istante deci-
sivo” – per usare l’espressione che fu propriamente resa celebre
dalla pratica fotogiornalistica e da uno dei suoi autori più em-
blematici, Henri Cartier-Bresson28.
Gli esempi che fa Boltanski rendono l’idea: la casa crolla, e
vediamo le tegole e i calcinacci volare in aria; l’assassino uccide,
e lo vediamo mentre spara il suo colpo di fucile. Se la fotografia
viene a rimpiazzare il disegno insediandosi con “naturale conti-
nuità d’intenti” al suo posto, questa sostituzione non va senza
difficoltà. La fotografia, rispetto al disegno, porta alla stampa
tutta la forza del realismo e dell’obiettività su cui si è costruito il
credo sociale della trasparenza dell’immagine fotografica. Se il
disegnatore d’attualità si rendeva sui luoghi, intervistava i te-
stimoni e ricostruiva l’evento così da poterne riprodurre
l’istante fatale, il fotografo non è tenuto a fare il lavoro del gior-
nalista. Al fotografo è richiesto di “fiutare l’avvenimento” e di
impegnarsi nell’azione.

Parce que l’on peut pas photographier le souvenir et que la mémoi-


re des faits est perdue pour le photographe, la photographie exige un
engagement physique dans l’événement29.

Ancora più importante: ciò che segue non è di sua compe-


tenza. Abbiamo così l’insediarsi all’interno dei giornali di una
logica “altra” che si affianca a quella del giornalista ma se ne di-
stingue profondamente. Non solo: le redazioni chiedono alle
immagini del fotografo una certa rappresentazione – che era ti-
pica del disegno d’attualità – che non sempre si rende possibile.
Se sarebbe stato logico ipotizzare il mantenimento di entrambi
gli strumenti (disegno e fotografia), sfruttando appieno le pos-
sibilità offerte, ciò si rivelò ben presto impossibile. La pretesa
obiettività dell’immagine fotografica rese persino ridicolo il di-
segno d’attualità, che fu ben presto soggetto a critiche quando –

28 Henri Cartier-Bresson, L’instant décisif, in Images à la sauvette,

Paris, Verve, 1952.


29 Boltanski, L., op. cit., p. 178.
Newsmaking e fotogiornalismo 25

sostituendo la fotografia – continuava ad essere adoperato nella


sua ormai vecchia funzione. Esposto al giudizio del pubblico, il
disegno d’attualità fu visto, nel suo confronto con il mezzo foto-
grafico, come manipolatore e non più solo come manipolazione.
Insomma, quel medium era diventato vecchio, non più capace
di mostrare un momento di verità, cosa che solo la fotografia
era adesso in grado di fare.
Attraverso questa ricostruzione, Boltanski pone le basi per
enfatizzare un’ambiguità di fondo, quella che vede il fotografo
spesso impossibilitato a produrre un’immagine dell’avvenimen-
to nel momento stesso in cui esso si verifica e di doversi quindi
inventare retoriche visive sostitutive. Intorno a questa ambigui-
tà, l’autore costruisce l’analisi delle retoriche che informano la
produzione di fotografie tra i fotografi di redazione di un perio-
dico e di un quotidiano francese. La scelta di un quotidiano e di
un settimanale non è casuale. Infatti, mentre per la fotografia
del quotidiano la logica dell’azione si impone – scrive Boltanski
– indipendentemente dalla conoscenza dei valori che costrui-
scono la politica della testata, per quella del settimanale, la logi-
ca prioritaria è invece quella della ricostruzione simbolica, della
messa in scena, sviluppata, questa, attraverso la partecipazione
ad un sapere diffuso nella redazione (la politica della testata).
Boltanski giunge a questo risultato a partire da un insieme di
interviste ai fotografi che mostrano e commentano le loro im-
magini.
Al di là di alcuni spunti brillanti, questo stesso risultato ap-
pare oggi decisamente datato. Infatti, come mostrerò, il mercato
della fotografia d’attualità è cambiato e la sua frammentarietà
rende impossibile la generalizzazione proposta da Boltanski.
Resta comunque importante la considerazione di una differenza
generale (salvo alcune importanti concordanze) tra la fotografia
diretta al mercato dei quotidiani e quella diretta invece al mer-
cato dei settimanali (o dei libri e delle mostre), ma questa diffe-
renza non è più oggi il frutto di diverse socializzazioni redazio-
nali, quanto piuttosto il risultato di una esternalizzazione del
lavoro di produzione di fotografie, come mostrerò più in giù nel
testo.
È senz’altro vero che le relazioni che si instaurano tra retori-
che visive, valore dato dall’industria dell’informazione a specifi-
ci eventi e tipologia di news-media interessati alla fotografia de-
26 CAPITOLO 1

terminano il ciclo di vita delle immagini nel mercato dell’attua-


lità, e quindi il quadro generale delle loro ricorrenze e della
formazione di stereotipi visivi sui nostri media. Ma queste rela-
zioni reciproche hanno trovato una loro strutturazione contin-
gente nella forma che ha assunto oggi il mercato del fotogiorna-
lismo e nelle concrete possibilità dei singoli fotografi di relazio-
narsi alle redazioni dei giornali, nonché dei modi attraverso i
quali queste comunicazioni avvengono oggi, dopo il passaggio al
digitale e all’informatizzazione delle banche-immagini.
Il merito di Boltanski è quello, a mio avviso, di puntare per
primo il dito sui processi di costruzione dell’attualità attraverso
l’uso delle fotografie, ossia sul legame tra temporalità, evento e
mercato informativo. La fotografia, in quanto strumento del
giornalismo ma al tempo stesso medium al quale la società ac-
corda un alto valore di realismo e di obiettività, costruisce le
forme di visibilità del suo stesso realismo e della sua stessa o-
biettività in relazione alle definizioni di “attualità” che i diversi
media, prodotti di consumo in concorrenza tra loro, stabiliscono
in rapporto a un mercato.

1.2.2. Stuart Hall: The determinations of news photographs

L’articolo di Hall30 appare nel 1981 in un bellissimo libro col-


lettivo che analizza i processi di selezione e di presentazione del-
le notizie nei news-media (a stampa e televisivi). Il lavoro di
Hall si occupa di fotogiornalismo in relazione alla selezione e
presentazione delle notizie (la loro messa in pagina), ossia del
loro uso in rapporto ai frame31 attraverso i quali le redazioni de-

30 Hall, S., The Determination of News Photos, in Cohen, S., Young, J.,

The Manufacture of News. Deviance, Social Propblems & the Mass Media,
Beverly Hills, Sage, 1981.
31 Il concetto di frame viene dalla micro sociologia di Goffman ed è uti-

lizzato per riferirsi a una cornice simbolica che gli attori producono per da-
re senso ai fatti sociali. Questa cornice è prodotta all’interno di specifici
contesti ed è continuamente negoziata attraverso le interazioni che gli indi-
vidui instaurano tra loro e con altri elementi del contesto. Una volta defini-
te, queste cornici simboliche offrono una struttura per l’azione. Il termine
framing fa riferimento al processo di identificazione/costruzione di queste
cornici di senso. Nei media studies questo concetto viene adoperato sia nel
senso appena specificato, sia come strumento d’analisi dei testi mediali, sia
infine in relazione con gli effetti che i processi di framing giornalistici han-
no in relazione ai processi di framing dei pubblici dei media. A tal pro-
Newsmaking e fotogiornalismo 27

finiscono il senso di un evento. Va subito notato che questo arti-


colo, pur facendo propri i concetti sviluppati dagli studiosi del
newsmaking (in particolare Hall cita a più riprese il lavoro di
Galtung e Ruge del 196532) non è il frutto di una ricerca etnogra-
fica, ma si sviluppa a partire da alcuni prodotti finiti, dalla lettu-
ra e dalla visualizzazione cioè dei testi giornalistici.
Tre mi paiono essere le riflessioni importanti in questo lavo-
ro. La prima riguarda la fotografia quale strumento di costru-
zione delle storie giornalistiche attraverso la personificazione.
La seconda riguarda la distinzione tra news values e ideological
level nella presentazione di fotografie d’attualità. La terza ri-
guarda l’oscillare tra riconoscibilità e novità (originalità) tipica
del processo di costruzione sia delle notizie che delle foto-
notizie, in un mutuo rinforzo tra strumenti informativi. Le tre
riflessioni risultano nel testo di Hall intrecciate tra loro, ma in-
tendo qui affrontarle brevemente una alla volta.
Quello della personificazione è innanzitutto un modus ope-
randi del giornalismo che permette, nella narrazione di un e-
vento, il movimento definitorio dal piano della storia a quello di
singoli soggetti e viceversa. Il fine è quello di trasferire determi-
nate qualità da un livello all’altro, marcando il tono e la direzio-
ne del racconto.

A newspaper can account for an event, or deepen its account, by at-


taching an individual to it, or by bringing personal attributes, isolated
from their social context, to bear on their account as an explanation33.

La fotografia gioca qui un ruolo importante, perché i soggetti


umani sono i soggetti per eccellenza della fotografia d’attualità e
anche perché molta fotografia (e la fotografia sociale innanzitut-
to) ha inscritto nella sua storia il tentativo di dare forma a cate-
gorie di soggetti socialmente identificabili per il solo riscontro

posito si veda Scheufele, D..A., Framing as a Theory of Media Effects, in


Journal of Communication, 49, 1, 1999. Il frame è uno strumento concet-
tuale che viene adoperato anche in riferimento allo studio dell’agenda set-
ting e dell’agenda building, perché permette di costruire dei modelli per
porre in relazione i temi dell’agenda politica, mediatica e delle audiences.
Un recente lavoro in questa direzione è il seguente: Auerbach, Y., Bloch-
Eikon, Y., Media Framing and Foreign Policy, in Journal of peace research,
42, 1, 2005, pp. 83-89.
32 Galtung, J, Ruge, M., op. cit.
33 Hall, S., op. cit., p. 237
28 CAPITOLO 1

visivo (senza fare uso di testi scritti)34. Connotare certe figure


umane rappresentate con determinati tratti che possono riferir-
si a una condizione sociale, all’indole, all’emotività, ecc, permet-
te, tramite precisi accostamenti di testi scritti e di fotografie, il
trasferimento di tali qualità dal soggetto alla storia o il ripiega-
mento di alcuni tratti della storia sulla personalità del soggetto.
Inoltre, la personificazione era già stata segnalata come uno dei
criteri di riferimento per la selezione delle notizie da parte degli
studiosi di newsmaking. La fotografia (intesa come strumento
giornalistico) era già stata posta all’interno del discorso della
notiziabilità, segnalando come essa contribuisca a rinforzare il
valore-notizia della personificazione, da Galtung e Ruge nello
stesso volume del 1981 (che è una riproposizione del lavoro del
1965):

Personification is more in agreement with modern techniques of


news gathering and news presentations. Thus, it is easier to take a
photo of a person than of a “structure”…35

La personificazione fa parte, nell’argomentazione di Hall, di


quell’ “ideological level” che riguarda la fotografia giornalistica,
ma non ne esaurisce certo la casistica, dal momento che l’uso
ideologico della fotografia d’attualità si estende a tutti quei casi
in cui la fotografia si inserisce all’interno di un’interpretazione
tematica e così ne rafforza il significato ideologico offrendo un
riscontro visivo immediato e traendone in cambio un’indica-
zione di lettura che porta a un tutto coerente tra lo scritto e
l’immagine. Hall non distingue nella pratica questo uso ideolo-
gico da altri usi giornalistici, quelli che lui identifica con le pro-
cedure che riportano le fotografie ai parametri stessi della noti-
ziabilità, riconducibili a quelli individuati da Galtung e Ruge
(1965), che insieme ai due importanti parametri dell’azione e
dell’attualità (temporal recency) formano, a suo giudizio, i cri-
teri per la selezione e la presentazione delle immagini sulla
stampa. Ma mentre l’autore indaga attraverso l’analisi di dati
(testi) l’uso ideologico delle fotografie sui giornali, riguardo a
quei tre parametri (che esplodono in un numero ampio quanti

34 Si veda in particolare il seguente libro: Lugon, O., Lo stile documen-

tario in fotografia, Electa 2008.


35 Galtung, J, Ruge, M., op. cit., p. 57
Newsmaking e fotogiornalismo 29

sono i “valori notizia”36) egli fornisce delle speculazioni e nulla


più, indicandoli come “regole” della news visibility, regole che
organizzano le routine della raccolta (gathering) e della selezio-
ne delle fotografie a tutti i livelli (dai corrispondenti-fotografi,
alle agenzie di fotogiornalismo, alle redazioni dei giornali).
Passiamo infine alla terza riflessione. I concetti ideologici
espressi tramite accostamenti di fotografie e testi scritti hanno
per Hall a che fare non con il polo della novità (apportare nuove
conoscenze), bensì con quello del riconoscimento (del mondo
come ci è stato già insegnato), mentre le tre regole della news
visibility imporrebbero a certi gradi la novità (il riferimento
all’azione attuale che la fotografia traduce in immagine ha pro-
prio lo scopo di mostrare che qualcosa di nuovo sta avvenendo).
Nell’argomentazione di Hall, le fotografie nel giornalismo a
stampa sono strumenti per produrre riconoscimento sotto la
pretesa di produrre novità (news). Il livello ideologico della
messa in pagina di fotografie che servono a replicare i valori
dominanti (valori che si esprimono proprio nel gioco di conno-
tazione col testo) appare all’autore preponderante.
Le news photographs avrebbero quindi un ruolo principal-
mente di rinforzo e amplificazione dei temi e dei valori portanti
la politica editoriale delle testate, ma avrebbero al contempo il
ruolo essenziale di supporto alla credibilità del giornalismo,
passando sia per la credenza sociale nell’oggettività della foto-
grafia, sia per il legame con l’attualità e l’azione, ovvero con la
novità (news) espresso dalle immagini giornalistiche.
Secondo Hall, la fotografia, anche quando è piegata attraver-
so utilizzi ideologici, si presenta pur sempre come una trasposi-
zione immediata di un pezzo di realtà, così che, nella distinzione
tra fatti e valori (un mito che nel giornalismo si traduce nella
distinzione tra fatti e interpretazioni, o commenti), la fotografia
permette di ancorare il giornalismo al linguaggio dei fatti, te-
nendo vivo il presupposto di un legame diretto e scarsamente
mediato con la realtà esterna.
36 Hall ne cita alcuni: intensità, rarità, imprevedibilità, chiarezza (non-

ambiguità), etnocentrismo, nonché presenza di persone e di nazioni facenti


parte delle élite, ecc. Sembrerebbe che questi criteri di selezione prodotti
dall’incontro tra avvenimenti esterni e organizzazione giornalistica e indi-
viduati da Galtung e Ruge in rapporto alla formazione delle notizie
dall’estero siano, secondo Hall, sia generalizzabili sia trasponibili senza al-
cuna problematicità alle fotografie.
30 CAPITOLO 1

Con questo lavoro, Hall pone delle importantissime basi


concettuali per un’etnografia del fotogiornalismo, ma non le e-
saurisce affatto, proprio perché non entra nei dettagli delle arti-
colazioni delle pratiche di selezione e presentazione nelle reda-
zioni, non essendo il suo un lavoro di etnografia organizzativa.
Trasferendo anche alle fotografie i criteri di selezione individua-
ti in riferimento ai testi scritti e sommando ad essi quello
dell’attualità e dell’azione, l’autore limita il lavoro in due modi.
Da una parte esaurisce il newsmaking nel discorso della sele-
zione (l’individuazione dei valori-notizia non è che una piccola
parte dello studio della produzione di notizie), dall’altra riduce
l’analisi alle fotografie attualizzate e presentate sotto il discorso
dell’azione, mentre le fotografie sui quotidiani, come mostrerò
non sono sempre legate a queste necessità discorsive.

1.2.3. Barbara Rosenblum: Photographers at work

Nella sua monografia del 197837 dedicata alle diverse manie-


re di produrre fotografie in contesti di specializzazione profes-
sionale e che portano alla costruzione di generi anch’essi diffe-
renziati (ciò che l’autrice chiama forse un po’ impropriamente
styles), al fotogiornalismo viene dedicato un capitolo (altri sono
dedicati alla fotografia pubblicitaria e alla “fine art photo-
graphy”). L’ambizione dell’autrice è quella di collegare attitudi-
ni professionali, vincoli organizzativi, pratiche e precise retori-
che della figura (come direbbe Boltanski) attraverso delle pun-
tate etnografiche in tre mondi professionali della fotografia. Di
fatto, nelle venti pagine complessive dedicate al fotogiornali-
smo, questa ambizione pare farsi un po’ da parte e ciò che inve-
ce emerge sono alcune importanti riflessioni nutrite dall’osser-
vazione nelle redazioni dei giornali sul trattamento redazionale
delle fotografie, in riferimento principalmente alla loro selezio-
ne. Queste pagine sono di fatto le uniche di cui sono a cono-
scenza nelle quali la tecnica dell’osservazione partecipante è
impiegata a supporto di un lavoro che, se non fosse così limitato
per via dell’obiettivo “altro” che lo caratterizza, sarebbe di fatto
un lavoro di visual-newsmaking, lavoro che prende in conto sia
le pratiche dei fotografi sia la selezione all’interno delle redazio-

37 Rosenblum, B., Photographers at Work. A Sociology of Photo-

graphic Styles, New York, Holmes & Meier, 1978.


Newsmaking e fotogiornalismo 31

ni dei quotidiani (compreso il setting, sia fisico che tecnologico)


e le intreccia senza però approfondirle oltre. Di fatto, quello che
resta in mano sono dei frammenti all’interno dei quali segnalo
qui di seguito quelli che apportano nuovi argomenti nella dire-
zione di un newsmaking visuale.
1. L’autrice pone una distinzione in fase di selezione delle fo-
tografie nelle redazioni tra criteri estetici (chiarezza espositiva,
leggibilità, ricchezza di tonalità, ecc.) e criteri di notiziabilità. A
tal proposito fa l’esempio di una fotografia della guerra tra India
e Pakistan che il photoeditor decide di selezionare, scartandone
altre che lui stesso preferiva perché mostrano una zona dei
combattimenti ancora poco coperta visivamente nei giorni che
avevano preceduto. Rosenblum presenta così l’esistenza di una
diversità di criteri di selezione operanti nella medesima reda-
zione giornalistica, cioè di una doppia logica, per cui, nell’e-
sempio, il photoeditor sceglie una fotografia seguendo una logi-
ca e rifiutandone un’altra, all’interno della quale si era inizial-
mente mosso. Inoltre, l’esempio pone implicitamente la que-
stione delle aspettative redazionali.
2. In un altro passaggio, l’autrice segnala come la selezione
sia talvolta frutto di contingenze di tipo economico e/o di vinco-
li solidaristici. Porta infatti l’esempio di come nelle redazioni da
lei studiate si optasse di preferenza per le fotografie dei propri
fotografi interni, laddove queste provenivano dagli stessi eventi
di fotografie di agenzia reputate anche migliori e più pertinenti.
Anche in questo caso, l’approccio etnografico si dimostra poco
propenso alle generalizzazioni astratte e tende a mostrare i con-
testi concreti, i vincoli all’interno dei quali si opera il processo di
selezione.
3. In un altro momento, viene ipotizzata una relazione tra ca-
tegorie utilizzate dai redattori per selezionare le immagini e di-
visione del lavoro interna alle redazioni. Viene in questo modo
ipotizzata l’esistenza di pratiche significative che seguono logi-
che distinte in base alla specifica organizzazione del lavoro e che
stanno al di sotto delle logiche generali e comuni a tutto il gior-
nalismo (le logiche dei media, determinate dalle finalità e dagli
strumenti che accomunano tutte le testate facenti parti della
medesima industria).
4. In riferimento alla fase della raccolta (il news-gathering
va inteso come processo che partecipa del news-making ma non
32 CAPITOLO 1

tocca le fasi di selezione e presentazione operate nelle redazioni


giornalistiche), l’autrice segnala la presenza di due pratiche or-
dinarie che chiama “overshooting” e “providing the standard
picture”, entrambe adattamenti strategici che i fotografi fanno
propri per andare incontro alle necessità editoriali. Le “standard
pictures” si riferiscono a cliché che i fotografi credono (in base
alla socializzazione professionale) che verranno utilizzati dai re-
dattori per illustrare determinate notizie. L’autrice sostiene qui
la seguente tesi: ogni storia è trattata come un esempio di una
più ampia categoria astratta (calamità naturale, elezioni politi-
che, storia eroica, ecc.). Queste categorie producono immagini
mentali standardizzate che i redattori tenderanno a reiterare se-
condo il principio della similarità iconica. Si postula così un cir-
colo vizioso tra selezione e produzione, in un gioco di aspettati-
ve reciproche. Rosenblum scrive che i fotografi esperti sanno
bene cosa funziona per i quotidiani e capiscono benissimo di
aver preso o di non aver preso la “standard picture”. Attraverso
quest’ultima annotazione l’autrice traspone il discorso sulla ri-
conoscibilità, visto prima con Hall, sul piano delle pratiche di
raccolta, attraverso il ricorso al concetto di socializzazione reda-
zionale.
L’overshooting viene presentato come la pratica antagonista,
frutto di un rifiuto dei fotografi di limitarsi a cogliere l’immagi-
ne standard che la redazione si presume utilizzerà, per fornire
invece una scelta più ampia, frutto di un lavoro di interpreta-
zione dell’evento personale. Dai selezionatori (i photoeditor)
questi intenti non vengono compresi, la pratica risulta sempli-
cemente sbagliata, uno spreco di rullini, il segno che il fotografo
non sappia fare adeguatamente il proprio lavoro.
Seppur frammentario e poco approfondito, il lavoro di Ro-
senblum rende quindi evidente la necessità dell’osservazione
per indagare le pratiche, inestricabilmente legate a contesti con-
creti di lavoro, a relazioni e scambi specifici (simbolici, econo-
mici, ecc.). Permette di estendere il discorso della produzione
alla problematica delle relazioni tra fotografi e redazioni e lascia
intravedere una dimensione conflittuale interna al fotogiornali-
smo, la possibile esistenza di una subcultura fotografica nelle
redazioni giornalistiche, riproponendo il tema della negoziazio-
ne di significati.
Newsmaking e fotogiornalismo 33

1.2.4. Dona Schwartz: To tell the truth

In questo articolo del 1992, Schwartz38, fotografa professio-


nista e studiosa dei media, propone un ragionamento intorno ai
codici che strutturano la fase della raccolta di fotografie giorna-
listiche. Sebbene questo lavoro non si basi su una ricerca empi-
rica e neppure intenda ricostruire le differenze interne al merca-
to delle fotografie giornalistiche (il mondo sociale delle fonti vi-
sive), esso fa nondimeno delle deduzioni a partire dalle ricerche
di newsmaking, ma soprattutto ha il pregio di portare all’atten-
zione dei lettori alcuni testi scritti con lo specifico intento di of-
frire formazione professionale ai fotogiornalisti (almeno delle
grandi agenzie internazionali). Riproponendo il discorso sul si-
gnificato sociale della fotografia e di quella d’attualità in parti-
colare (trasparenza, obiettività, realismo implicito), l’autrice de-
costruisce queste credenze portando l’attenzione sui codici di
costruzione delle fotografie e mostrando quanto i codici del fo-
togiornalismo differiscano da altri codici che regolano la crea-
zione di immagini di altro genere (le immagini di moda ad e-
sempio). A differenza però del lavoro di Barbara Rosenblum,
l’autrice propone una classificazione dei codici secondo le cate-
gorie tipiche del fotogiornalismo: spot news, general news, fea-
tures, sports action, sports feature, people, ecc. Riportando nel-
lo specifico i consigli dispensati dagli autori di questi manuali di
fotogiornalismo (Edom39; Hoy40; Kobre41), l’autrice giunge a
concepire il fotogiornalismo come il risultato di specifiche for-
me codificate di racconto espresso con lo strumento fotografico.
È all’interno della dimensione della serialità che Schwartz sco-
pre questa dimensione del racconto fotografico che investe sia i
soggetti da trattare, sia, congiuntamente i modi nei quali trat-
tarli (sia la sostanza che la forma).

38 Scwartz, D., To Tell the Truth: Codes of Objectivity in Photojourna-

lism, in Communication, 13, 1992, pp. 95-109.


39 Edom, C., Photojournalism: Principles and Practices. C. Brown

Company Publishers, 1976.


40 Hoy, F.P., Photojournalism: The Visual Approach, New Jersey,

Prentice-Hall, 1986.
41 Kobre, K., Photojournalism: The Professional’s Approach, Boston,

Focal Press, 1980.


34 CAPITOLO 1

Riporto qui di seguito un passaggio significativo, ripreso da


Schwartz, laddove riporta i consigli di Kobre42 su cosa bisogna
fotografare quando si va a “fare” la cronaca di un incendio:

Photo coverage should include: 1. a record shot; 2. an overall shot,


perhaps from a high angle, in order to establish the location and the
size of the fire; 3. the human side of the tragedy; 4. firefighters at work;
5. the psychological attraction of the fire (“the crowd stares with wide
eyes and open mouths, seemingly transfixed”); 6. the economic angle:
the type of building burning, it’s proximity to other buildings in the
neighbourhood, the extent of the damage, the cause of the fire, investi-
gators at work; 7. the scene of the fire on the following day: charred
buildings, residents returning to examine belongings.

Leggendo queste righe è facile ritrovare nei propri ricordi i


cliché che giornali e telegiornali ci propongono per tutti quei
fatti di cronaca a certi gradi comparabili (proprio perché questa
maniera di produrre immagini ce li rende tali), come i terremo-
ti, gli sgomberi forzati dai grandi fabbricati occupati (si pensi
alla Pantanella romana occupata da migranti all’inizio degli an-
ni 90), lo tsunami, ecc. Basta sostituire il fuoco ad altri elementi
(come l’acqua nel caso dello tsunami) o rimuoverlo del tutto, e
basta sostituire il gruppo che rappresenta le forze istituzionali
(dai vigili del fuoco alla polizia, alla croce rossa, alla protezione
civile). Ma non si tratta solo dell’immaginario. Questo esempio
propone un raccordo strettissimo tra la struttura del racconto
scritto e di quello visivo.
In generale, l’interesse di questo discorso vale per i reportage
per il mercato dei periodici ma vale anche oggi più che mai per
le scelte redazionali dei settimanali e dei quotidiani per quanto
riguarda la copertura di quegli eventi caratterizzati da un ampio
uso illustrativo, come metterò in luce nell’etnografia e come non
è invece indicato dall’autrice, la quale si limita a porre il discor-
so sul versante dei fotografi senza indicare gli slittamenti tra
questo e quello delle redazioni giornalistiche. Come avrò modo
di mostrare, la differenza non è da poco.
Questo lavoro pone quindi la massima attenzione agli stan-
dard codes attraverso i quali vengono costruiti i racconti foto-
giornalistici, segnalando, senza però renderne conto empirica-
mente, l’importanza che giocano le aspettative e la socializza-

42 Kobre, K., op. cit., p. 52.


Newsmaking e fotogiornalismo 35

zione nel rapporto tra i fotografi e i redattori del fotografico. Si


tratta di un aspetto che spinge a porsi domande di ricerca sulle
modalità di comunicazione e di organizzazione nel passaggio tra
le agenzie fotografiche e fotogiornalistiche da una parte e i gior-
nali dall’altra, aspetto questo che era già stato peraltro segnalato
e non risolto da Rosenblum. Diversamente da quest’ultima pe-
rò, Schwartz postula anche un legame diretto tra costruzione del
racconto fotogiornalistico e drammatizzazione dello stesso rac-
conto. Viene cioè indicato come il fattore emozionale strutturi in
modo evidente le scelte sul cosa fotografare e sul come fotogra-
farlo. Si tratta qui anche di un’attribuzione di significato preci-
sa. Parrebbe infatti, seguendo l’autrice, che una delle funzioni
principali attribuite dal giornalismo all’immagine sia quello di
creare emotività nel lettore e al tempo stesso di controllarne la
portata, di codificarla, offrendola per mezzo di forme fotografi-
che date a priori. Il nodo dell’argomentazione sta quindi nel
rapporto tra codici, routine lavorative e realtà degli avvenimenti
esterni. Esattamente come nelle classiche ricerche sul newsma-
king, l’autrice sottolinea come questi codici e queste routine
vengano in soccorso alle esigenze di produrre notizie (in questo
caso fotografie giornalistiche) in tempi brevi, per soddisfare le
deadlines.

Because many of the circumstances confronting photojournalists


demand split-second responses, these formal decisions are often made
tacitly, carried out as a part of the routine of the job. Unlike other pho-
tographers, photojournalists usually have little time to consider a va-
riety of approaches. They rely upon the codes of photojournalism, in-
ternalized through professional practice, to guide the process of ma-
king pictures43.

Con questo lavoro, l’autrice ci riporta al concetto di ricono-


scibilità, sviluppandolo però in maniera diversa rispetto a Hall,
che lo collegava al livello ideologico di riproduzione di un di-
scorso egemonico, dove la novità era mantenuta all’interno dei
codici di riconoscibilità del discorso stesso (espressi in singole
messe in pagina di fotografie e testi nelle redazioni). Per
Schwartz sono invece le esigenze dell’industria a imporre dei
codici ai fotogiornalisti. È nella fase della raccolta che le imma-
gini sono costruite secondo standard omogenei, con il risultato
43 Schwartz, op. cit., p. 105
36 CAPITOLO 1

di produrre, già nella fase della raccolta, rappresentazioni che


devono più alla ripetitività dei codici che non alla variabilità de-
gli accadimenti.
Infine, anche Schwartz, come già aveva fatto Rosenblum, ri-
manda al concetto di socializzazione professionale e solleva la
questione (non indagata) delle relazioni tra le redazioni giorna-
listiche e le fonti (fotografi e agenzie).

1.2.5. Cyril Lemieux: Mauvaise presse

Il libro di Cyril Lemieux44 uscito nel 2000 come risultato di


una tesi di dottorato in sociologia rappresenta uno dei più ori-
ginali lavori di etnografia del giornalismo prodotti in anni re-
centi. L’interesse dell’autore è rivolto prioritariamente ai discor-
si e alle procedure che su di essi si fondano. Egli mostra come le
procedure che regolano il lavoro giornalistico a vari livelli entri-
no a fare parte di discorsi piuttosto specifici, quelli cioè intesi
come critiche e come giustificazioni “situate”, facenti cioè account
sulle procedure stesse45.
Ciò che rende originale e ricco di spunti interessanti questo
ampio lavoro di ricerca sul campo è anche ciò che inevitabil-
mente ne costituisce i limiti, nel senso che la costruzione teorica
che sta alla base del lavoro empirico è piuttosto rigida e assolu-
tizzante. Essa si costruisce intorno ad alcune “grammatiche”,
ossia a degli insiemi discorsivi in sé coerenti ma tra essi in rap-
porto di contraddizione. Queste grammatiche (grammatica
pubblica, grammatica della realizzazione, grammatica naturale)
vengono intese come degli assoluti antropologici dai quali di-
scendono delle regole che informano le procedure che a loro
volta strutturano delle pratiche di lavoro giornalistico. Secondo
questo modello teorico, gli errori (“tromperies” e “fautes”) nel
lavoro giornalistico sussistono in quanto segnalati, fatti notare,
per mezzo della critica. La giustificazione, per essere efficace,
deve riuscire a risalire la catena che dalle pratiche porta alle
procedure e alle regole specifiche (situate) che – nota l’analista –
44 Lemieux, C., Mauvaise presse. Une sociologie compréhensive du

travail journalistique et de ses critiques, Paris, Métailié, 2000.


45 Il modello d’analisi cui si ispira Lemieux sottostà a un paradigma teo-

rico emerso attraverso i libri di Boltanski e Thévenot. Si veda in particolare


il seguente: Boltanski, L., Thévenot, De la justification. Les économies de la
grandeur, Paris, Gallimard, 1993.
Newsmaking e fotogiornalismo 37

riportano a un certo regime discorsivo in sé coerente (una


grammatica). In ogni situazione concreta, i rapporti gerarchici
tra le diverse grammatiche mutano, definite dal contesto storico
e culturale. In quest’ottica, l’incomprensione deriva sovente da
una confusione tra tali regimi discorsivi o da una rimessa in di-
scussione delle gerarchie discorsive interne (dalle quali discen-
dono certe procedure e non altre).
Sebbene tutto questo appaia complesso e forse eccessiva-
mente astratto, il legame tra dati empirici e modello teorico tie-
ne piuttosto bene nell’analisi che conduce Lemieux. Tuttavia
non si può pretendere da questo lavoro ciò che esso non vuole
essere. In quanto orientato soltanto a ciò che muove critiche e
teso a risolverne la problematicità questo studio ha il pregio di
proporre nuove norme pratiche per risolvere le controversie e
introdurre una maggiore trasparenza nei rapporti che legano i
giornalisti sia alle fonti delle notizie sia ai loro pubblici. Questo
pregio, visto da un’altra angolatura, costituisce il limite di un
lavoro che, non mettendo in luce a sufficienza i processi interni
alle redazioni né i rituali e le strategie di utilizzo delle notizie da
parte dei giornalisti, elude completamente il discorso del potere
e della sua distribuzione, anche solo all’interno delle redazioni.
Questa elusione comporta un’incapacità di mostrare sia le diffe-
renze tra modelli redazionali, sia i cambiamenti, che sempre so-
no latenti nei processi di negoziazione dei significati tra gruppi
che si differenziano tra loro, sia infine la possibilità che queste
stesse catene che legano coerentemente discorsi, regole e prati-
che siano esse stesse il frutto di relazioni segnate da distribuzio-
ni asimmetriche di potere. L’unico cambiamento nel lavoro di
Lemieux può essere portato ridefinendo le normative (anche
implicite), e/o portando i giornalisti a prendere coscienza delle
contraddizioni che si instaurano tra pratiche e discorsi.
Detto altrimenti, quando a essere “situate” sono soltanto del-
le possibilità discorsive legate a delle procedure, le situazioni
variano al variare delle procedure o alla maggior “leggibilità” dei
discorsi ad esse legati, ma non sono soggette a importanti varia-
zioni tra diversi contesi redazionali, nel momento stesso in cui
si presume che tali procedure attraversino tutti i giornalismi
possibili (perché collegati a grammatiche che sono degli “asso-
luti”).
38 CAPITOLO 1

E tuttavia, al di là dei suoi limiti, questo ricco lavoro etnogra-


fico propone alcuni elementi che contribuiscono a fare avanzare
il discorso verso un newsmaking visuale. Infatti, sebbene l’im-
magine non rientri nella ricerca di Lemieux se non in parte mi-
nore, alcuni aspetti vengono nondimeno rilevati. Si tratta di tut-
te quelle aree poco o male regolate da norme, come il caso delle
relazioni tra i fotografi e i soggetti fotografati, che producono
questioni nelle redazioni dei giornali intorno alla necessità o
meno di mostrare, e in base a quali obiettivi perseguiti si acqui-
sisce tale diritto (valore informativo in sé, necessità di denuncia,
ecc.). Un altro aspetto messo in luce è quello del rapporto so-
vente ambiguo tra verità e verosimiglianza e sui confini tra que-
sti due piani, nonché quello inerente al contesto che sta dietro
alle fotografie impaginate (si tratta di una fotografia di un foto-
grafo professionista, di una fotografia prodotta dalle forze
dell’ordine o ancora da un fotografo al seguito dei militari, come
sono i fotografi embedded nelle guerre recenti)? Al lettore viene
data la possibilità di sapere da dove e da chi proviene quell’im-
magine, o gli viene concesso di conoscere soltanto il soggetto
che rappresenta?
Per chiarire la maniera di ragionare di Lemieux, riporto il
seguente esempio. Nel caso di fotografie criticate di voyeurismo
ad esempio, la critica muove per quella via che porta alla rottura
della “grammatica naturale”, le cui regole sono il rispetto
dell’intimità e della reciprocità, che dovrebbe caratterizzare i
rapporti tra fotografi e soggetti fotografati (ma si badi che la cri-
tica toccherà piuttosto il giornale per la sua scelta di pubblicare
la fotografia). In questo caso, rileva Lemieux, la giustificazione
ha la possibilità di mettere in alto nella gerarchia un altro tipo
di grammatica, quella pubblica, segnalando l’importanza di
quella pubblicazione per motivi di denuncia destinata a suscita-
re una legittima azione (o indign-azione) da parte dei lettori. Se
la giustificazione passasse invece semplicemente per la gram-
matica della realizzazione (vantaggi di tipo commerciale/
concorrenziale, nel caso specifico), difficilmente questo tipo di
strutturazione gerarchica tra “grammatiche” risulterebbe accet-
tabile e la pratica adottata ne risulterebbe screditata.
Un aspetto prezioso del lavoro di Lemieux sta nella scollatu-
ra che egli intravede tra regole deontologiche formali e regole
giornalistiche informali, tacite, che orientano le azioni dei gior-
Newsmaking e fotogiornalismo 39

nalisti, dalle fonti (la produzione/raccolta delle notizie e delle


foto-notizie) alle redazioni dei giornali in merito alla presenta-
zione delle notizie. Risulta un presupposto essenziale nel suo
lavoro che le procedure giornalistiche dipendano meno dalle re-
gole formali e più dall’insieme di critiche e di giustificazioni che
nascono sia internamente alle redazioni, sia tra di esse, sia tra
diversi media. I giornalisti sarebbero in sostanza controllati più
dai loro colleghi che non da enti e istituzioni esterne e questa
trama di discorsi avrebbero un ruolo fondamentale nell’ade-
guamento e nella riscrittura delle pratiche professionali.

1.3. Verso un newsmaking visuale

Ai contributi qui sopra sintetizzati e interpretati se ne po-


trebbero aggiungere degli altri, come ad esempio i lavori di Bar-
bie Zelizer46 e quelli di John Taylor47, entrambi ex giornalisti ac-
comunati da un metodo di lavoro che partendo dall’analisi delle
fotografie sui quotidiani porta delle deduzioni sui processi di
produzione che derivano da letture di ricerche altrui e da perso-
nali esperienze professionali. In generale, mi pare che questi in-
teressanti lavori non offrano però molto di nuovo oltre ai testi
già trattati nella specifica direzione che qui intendo sviluppare,
ossia verso un approccio di newsmaking visuale, sebbene solle-
vino questioni importanti per lo studio del fotogiornalismo.
Giunti a questo punto la domanda è: i lavori qui riportati
permettono di porre il newsmaking visuale alla stessa afferma-
zione teorica raggiunta dai lavori di newsmaking non visuale
(basato cioè sulle notizie in quanto testi scritti e orali)? La ri-
sposta, negativa, sta nella frammentarietà dei contributi,
nell’eterogeneità dei metodi e dei concetti utilizzati. In partico-
lare i metodi mi pare giochino qui un ruolo importante. Se, co-

46 Zelizer, B., Journalism’s “last” stand: wirephoto and the discourse of

resistance, in Journal of Communication, 45, 2, 1995, pp. 78-92; Zelizer,


B., Photography, journalism and trauma, in Allen, S., Zelizer, B., Journal-
ism after September 11, New York, Routledge, 2002, pp. 48-68; Zelizer, B.,
When war is reduced to a photograph, in Allen, S., Zelizer, B., Reporting
War. Journalism in Wartime, London, Routledge, 2004, pp. 115 - 135
47 Taylor, J., War Photography: Realism in the Press, London,

Routledge, 1991; Taylor, J., Body Horror: Photojournalism, Catastrophe


and War, Manchester, Manchester University Press, 1998.
40 CAPITOLO 1

me è noto, le ricerche sul newsmaking si caratterizzano per


l’utilizzo di metodi etnografici e prioritariamente della tecnica
dell’osservazione partecipante, allora ci si può facilmente rende-
re conto che, dei cinque contributi presi in esame, soltanto in un
caso quella tecnica viene utilizzata. Non solo: la ricerca in ogget-
to pone l’analisi del lavoro fotogiornalistico come uno dei tre
ambienti di lavoro studiati, dal momento che l’obiettivo
dell’autrice si pone al di là (e quindi anche al di qua) rispetto al
tema di questo libro.
Inoltre, se la produzione fotogiornalistica si può separare
(come è per quella giornalistica) nelle tre fasi della raccolta, del-
la selezione e della presentazione (messa in pagina), ci si rende
anche qui facilmente conto che nessuno dei cinque lavori citati
offre un quadro completo della produzione. Qualcuno si limita
alla fase della raccolta (Boltanski e Schwartz), qualcun altro a
quello della presentazione (Hall e Lemieux), mentre Rosenblum
fa riferimento sia alla raccolta che alla selezione, ma tratta la
prima solo indirettamente.
Ciò che manca è dunque un’etnografia organizzativa che
tocchi le tre fasi indicate. Manca soprattutto un lavoro di osser-
vazione che metta in luce la dimensione processuale; che prima
di proporre delle generalizzazioni abbia la capacità di restituire
le differenze interne al mondo sociale del fotogiornalismo, trop-
po sovente ridotto a unità nei testi che ho appena trattato.
La ricerca che qui di seguito propongo mira proprio a colma-
re questa lacuna, sviluppando, com’è ovvio in un lavoro di os-
servazione, un’attenzione speciale per le tipizzazioni, ossia le
distinzioni operative significative per i professionisti negli am-
bienti di lavoro studiati, rifiutando di offrire innanzitutto delle
categorizzazioni promosse dal ricercatore48. Per questo motivo
48 La distinzione tra categorizzazioni e tipizzazioni nell’etnografia orga-

nizzativa si deve a Tuchman: “Il termine “categoria” si riferisce alla classifi-


cazione degli oggetti sulla base di una o più caratteristiche codificate come
salienti dai classificatori, spesso mediante quella che gli antropologi deno-
minano “analisi formale”. […] L’uso del termine “categoria” sottintende una
richiesta di definizioni da soggetti informanti e una sistematizzazione di tali
definizioni secondo dimensioni specificate dal ricercatore. Per “tipizzazio-
ne”, invece, si intende una classificazione in cui le caratteristiche rilevanti
sono centrali per la soluzione di compiti pratici o di problemi immediati, e
che hanno origine e fondamento nell’attività quotidiana. L’uso del termine
“tipizzazione” implica il tentativo di collocare le classificazioni degli infor-
manti nel loro contesto di tutti i giorni; le tipizzazioni infatti sono connatu-
Newsmaking e fotogiornalismo 41

farò ampio ricorso nel testo alle note etnografiche e porterò co-
stantemente su esempi concreti che fotografi e giornalisti hanno
proposto alla mia attenzione, nel tentativo di restituire ai lettori
le atmosfere, i processi e gli account dei protagonisti.

rate all’ambiente in cui vengono usate e alle occasioni che ne richiedono


l’uso, ed è da ciò che traggono significato”. Tuchman, G., Making news by
doing work, in American Journal of Sociology, 79, 1973, pp. 110-131; trad
it. in Garbarino, A., Sociologia del giornalismo, Torino, ERI, 1985.
2

ETNOGRAFIA DELLA PRODUZIONE


I fotografi e le agenzie1

2.1. Il mercato del fotogiornalismo quotidiano

Iniziamo ponendo una distinzione tra agenzie fotogiornali-


stiche internazionali e nazionali, agenzie fotografiche, agenzie
autoriali o cooperative di fotografi, fotografi freelance e fotogra-
fi interni alle redazioni.
Le agenzie fotogiornalistiche producono sia notizie che im-
magini e lo fanno per tutto il mondo (le agenzie internazionali
sono tre) o per tutta la nazione (in Italia, l’ANSA). Queste agen-
zie hanno al loro servizio molti collaboratori dislocati per aree
geografiche (i cosiddetti stringer), nonché dei dipendenti le cui
fotografie sono di fatto di proprietà dell’agenzia. In entrambi i
casi è l’agenzia a gestire l’iniziativa dei fotografi, contattandoli
secondo le esigenze (nel caso degli stringer) oppure inviandoli
nei luoghi di interesse (nel caso dei dipendenti), seguendo di
fatto le notizie che loro stessi producono attraverso i contatti i-
stituzionali.
Le agenzie fotografiche sono presenti nelle principali aree
metropolitane (in Italia in particolar modo a Roma e a Milano).
Non producono notizie ma si occupano di fotografia per il mer-
cato dell’attualità quotidiana, della cronaca locale ma anche di
avvenimenti internazionali (come vedremo questo oggi avviene
sempre meno).
Le agenzie autoriali e le cooperative di fotografi mi interes-
sano qui per la parte che riguarda la stampa quotidiana (che per
molte di loro è nulla e per altre decisamente minoritaria) e

1 Il presente capitolo si basa su un insieme di 40 interviste semi-

strutturate a fotografi professionisti, tutte compiute tra il 2005 e il 2006.


44 Capitolo 2

quindi le intendo qua alla stregua dei freelance. Si tratta cioè di


fotografi che agiscono per iniziativa personale, senza avere alle
spalle una struttura segnata da una divisione di ruoli e da una
più o meno forte gerarchizzazione interna. I loro contatti con i
quotidiani vanno storicamente in due direzioni opposte: in un
caso sono i giornali a contattare i fotografi e in tal caso si parla
di commissionati (il giornale contatta il fotografo per coprire un
avvenimento sotto compenso); nell’altro caso sono i fotografi a
presentare e proporre ai giornali le loro immagini e questi deci-
dono se acquistarle o meno.
Infine vi sono i fotografi interni alle redazioni, caso oggi mol-
to raro per un quotidiano (in Italia anche per i periodici) che
storicamente si occupano della cronaca locale – a livello cioè
principalmente della regione nella quale il giornale ha la sua se-
de centrale e il cui lavoro viene pianificato in redazione in rife-
rimento agli eventi programmati.
Il mercato del fotogiornalismo è stato segnato recentemente
da una profonda trasformazione. I cambiamenti più importanti
da registrare possono essere indicati con i due termine di mon-
dializzazione e digitalizzazione. Ne ricostruisco qui brevemente
la storia per poi indagarne gli effetti, ossia i riflessi sulle prati-
che del fotogiornalismo quotidiano.
La grande agenzia di fotogiornalismo basata negli Stati Uni-
ti, l’Associated Press (AP), fu la prima a distribuire immagini
digitali ai giornali (nel 1991) e successivamente (nel 1994) a
rendere sistematica la digitalizzazione, con la creazione dell’ar-
chivio on-line e con la distribuzione di apparecchi digitali ai
suoi fotografi. Fu una vera rivoluzione per il fotogiornalismo. In
breve tempo l’AP aprì filiali ovunque nel mondo, fino ad arriva-
re alle 236 sedi odierne e moltiplicò il numero dei suoi collabo-
ratori, andando a coprire ogni regione del pianeta. Quattro anni
dopo, nel 1998 la Reuters e l’AFP (agenzie britannica e francese
attive nella fotografia dal 1985, ossia molti anni dopo l’AP) se-
guirono l’esempio.
Questi tre colossi producono notizie scritte, fotografie, im-
magini televisive. Da allora circa l’80% delle fotografie della
stampa d’informazione mondiale provengono da questo trium-
viro di potenze indiscusse. Ma il mercato si è ulteriormente evo-
luto con la creazione di nuovi giganteschi archivi che avanzano
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 45

per acquisizioni e fusioni, che non sempre si limitano al foto-


giornalismo ma finiscono per includerlo.

Nel 1995 Bill Gates compra l’archivio Bettman che contiene tutte le
fotografie delle vecchie agenzie di stampa americane International
News Photo, Acme e United Press Associated” 2.

Nasce così la Corbis che negli anni successivi acquisterà gli


archivi di altre agenzie internazionali, di Sport News e anche
della Sygma, storica agenzia francese nata sul finire degli anni
60 sul modello della cooperativa di fotografi.
Il 1995 è anche l’anno dell’entrata sul mercato della principa-
le concorrente di Corbis, l’agenzia Getty Images, fondata da
Mark Getty.

Nell’arco di cinque anni Getty acquisisce a sua volta, per citarne al-
cune, l’archivio Hulton, le agenzie di fotografie di stock Tony Stone e
Image Bank, quelle giornalistiche Liason Agency, Online USA, Image
Direct e All Sport, la più quotata agenzia produttrice di fotografie spor-
tive di alta qualità nel mondo3.

La principale entrata di Getty proviene dalle fotografie pub-


blicitarie. Ma anche Getty attacca da subito il mercato d’attuali-
tà e con maggior impegno dal 2001, rinunciando alla comple-
tezza della copertura, ma concentrandosi sullo sport e sui gran-
di avvenimenti internazionali: nel 2003 in Iraq, Getty ha inviato
17 fotografi.
La razionalizzazione dell’industria fotografica, che è dal
principio nelle intenzioni dichiarate di Gates e di Getty, si effet-
tua attraverso ingenti sforzi economici rivolti alla conversione
digitale dell’enorme quantità di materiale analogico via via acqui-
sito, e a un’archiviazione rigorosa che consenta la distribuzione
razionale delle immagini attraverso internet. Nel 1999, dopo che
Corbis acquista l’archivio Sygma, il gruppo Hachette (HFM) fa
altrettanto con quello Gamma, altra agenzia-cooperativa nata
insieme a Sygma, conservando anche 17 dei 30 fotografi della
agenzia e modificando le modalità contrattuali, alzando gli sti-

2 Cerchioli, C., Il nuovo mercato, in Problemi dell’informazione,

XXVIII, n. 2, giugno 2003.


3 Cerchioli, C., op. cit.
46 Capitolo 2

pendi e la quota d’investimenti a carico dell’agenzia ma perve-


nendo alla proprietà delle immagini prodotte dai fotografi.
Alla fine degli anni novanta, sei grandi agenzie multinazio-
nali, di cui tre prettamente giornalistiche, gestiscono la grandis-
sima parte delle immagini fotografiche prodotte nel mondo e
sono proprietarie a parte intera di tutte quelle immagini. Le sedi
centrali di queste sei agenzie sono concentrate in tre paesi: Stati
Uniti, Inghilterra e Francia.

Nel 2003, AFP e Getty stipulano un accordo [di distribuzione] “che


dà a Getty l’esclusiva sulla commercializzazione delle fotografie
dell’AFP nel mercato nord americano e inglese, mentre AFP potrà ven-
dere le fotografie di attualità prodotte da Getty ai quotidiani suoi ab-
bonati nel resto del mondo4.

Come diceva Mark Getty, il futuro sta negli accordi di distri-


buzione e nell’implemenazione dell’archiviazione digitale e delle
banche dati informatizzate5.
Ma le grandi agenzie non si limitano a allearsi tra loro per
migliorare le loro posizioni nel mercato concorrenziale. Molti
accordi sono stipulati anche con agenzie minori nei paesi dove
non hanno una loro sede, così da coprire tutto il globo con i loro
servizi fotografici. Ad esempio in Italia l’agenzia Contrasto ha la
rappresentanza di Corbis e di Gamma (che adesso è proprietà
di Hachette), mentre l’agenzia La Presse ha la rappresentanza
di Getty Images e la gestione dell’archivio AP per l’Italia.
Tutto ciò ha delle conseguenze sugli incentivi delle agenzie
minori a mandare propri fotografi laddove ce ne sono già delle
grandi. Tra tutte le agenzie fotografiche italiane, ad esempio, sol-
tanto una ha affrontato le elevate spese e mandato un suo fotografo
in Iraq nel 2003. Tutte le altre non lo hanno fatto. Un fotografo di
grande esperienza che ho intervistato lo spiega proprio così:

Le altre agenzie italiane non si sono accollate la spesa dell’inviato in


Iraq per risparmiare, ma non solo. Le agenzie che hanno i contratti di
distribuzione di agenzie estere (perlopiù statunitensi e inglesi), devono
assicurare una distribuzione e una vendita. Questo succede già nor-
malmente, poi ovviamente in guerra chi è lì contatta le agenzie e gli di-
ce: Noi siamo qui, facciamo un contratto di distribuzione? E a te agen-
zia va bene così, e poi non vai a spendere altri soldi, perché comunque
4 Cerchioli, C., op. cit.
5 Da un’intervista rilasciata a Le Monde il 19/11/2003.
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 47

prima devi assicurarti di vendere il loro prodotto, che è un prodotto che


ti arriva continuamente e regge la tua economia (Fotografo di agenzia
fotografica italiana).

Parallelamente allo sviluppo di queste grandi agenzie e a


quello della tecnologia digitale, i giornali di tutto il mondo han-
no sviluppato degli abbonamenti con gli archivi di queste agen-
zie (con AP, Reuters, AFP), abbonamenti a prezzi fissi che con-
sentono di scaricare e mettere in pagina le immagini distribuite
giornalmente da questi colossi senza pagare ulteriori costi
all’unità, il che ha inevitabilmente prodotto delle conseguenze
nei rapporti diretti tra fotografi e redazioni giornalistiche, se si
pensa alle redazioni (com’è opportuno fare) come a delle azien-
de che non sono certo indifferenti agli aspetti economici. Come
emerge da questa intervista:

I giornali adesso pagano molto meno perché hanno più scelta. È fi-
nita questa cosa del “adesso il servizio me lo fai tu, perché di te mi fi-
do”. È diventata un po’ una cosa che il primo che arriva, se hanno biso-
gno, ti comprano la fotografia. E poi pagano uguale una foto fatta in
Afghanistan e una fatta qui. C’è pochissima differenza.
Commissionano ancora ma solo in virtù di un’amicizia personale e
se casualmente capiti lì al momento giusto, ma loro se no non ci pensa-
no neanche. E poi nessun giornale ti dà più l’anticipo. Nel 1988 per il
lavoro dell’Albania mi hanno dato 6 milioni e in anticipo. Ancora nel
1992 il giornale mi aveva mandato a Sarajevo con un giornalista, forniti
entrambi di giubbotti antiproiettili e di 500 dollari al giorno a testa.
Ora ti darebbero 1500 euro e te li darebbero un mese dopo il tuo rien-
tro. (Fotografo di cooperativa, ex freelance).

È venuto così a crearsi un progressivo sganciamento tra i fo-


tografi e le redazioni, poiché i primi operano senza l’ausilio di-
retto dei secondi, con le conseguenze che esplorerò tra poco.
Mentre le grandi agenzie fotogiornalistiche finiscono per de-
terminare in buona parte le esigenze dei quotidiani, soprattutto
per tutti quegli avvenimenti che implicano una spesa economica
rilevante che i fotografi non strutturati in grandi agenzie non rie-
scono a coprire da soli, questo rende difficile la sopravvivenza dei
freelance che debbono sempre di più orientarsi verso altri media6.
6 Si veda al riguardo il testo seguente: Halstead, D., How the agencies

are destroying freelance photojournalism, The Digital Journalist, sept.


2002 (http://www.digitaljournalist.org/issue0209/editorial.htm)
48 Capitolo 2

Il caso di Raffaele Ciriello, nella sua drammaticità, è un caso


emblematico di questa nuova configurazione. Accreditato dal
Corriere della Sera per coprire come fotografo la situazione
mediorientale, fu ucciso a Ramallah il 14 marzo del 2002. Il
giornale si trovò costretto a spiegare la situazione inquadrando-
la come una collaborazione informale. Non essendo dipendente,
Ciriello aveva ottenuto l’accredito in cambio della promessa
dell’esclusiva delle sue immagini, che avrebbe passato al Corrie-
re della Sera prima che a qualsiasi altra testata. Il caso ha crea-
to il drammatico “precedente” che rafforza ancora di più questo
modello di distanziazione e di assenza di contatto diretto tra le
redazioni e i fotogiornalisti.

2.2. I fotografi: collaboratori o fonti?

Quando lavoravo in Inghilterra, a inizio carriera, il giornale mi


mandava in giro. Io sapevo se la mia fotografia sarebbe finita su una
doppia pagina o su una pagina singola; sapevo se volevano i colori o il
bianco e nero; sapevo se quel fatto o personaggio che andavo a fotogra-
fare era ben visto o mal visto in redazione, insomma, il senso comples-
sivo che gli veniva dato… […] Partecipavo alle riunioni di redazione e
avevo un’idea piuttosto chiara su come si pensava il mondo in quella
stanza. Insomma, sapevo tante di quelle cose e tutto questo orientava il
mio modo di fotografare, fermo restando che poi il fotografo ero io e mi
riservavo la libertà di esprimere il mio punto di vista e magari di anda-
re contro l’idea del giornale. Poi tornavo e se ne discuteva. A volte suc-
cedeva che tra le mie foto io ne proponessi una per l’apertura e loro ne
volessero un’altra. Allora si parlava: è chiaro che lì vincevano loro. Ma
io sapevo chi erano e perché volevano quell’altra. […] Se non volevo
stare al loro gioco, perché non ero d’accordo, una foto non gliela porta-
vo o non la facevo proprio. […] Adesso non sai più niente. (Fotografo
freelance italiano).

Leggendo questo stralcio di intervista concessa da un impor-


tante fotografo italiano, mi viene naturale associare tra loro due
parole, testimonianza e negoziazione. Intanto è chiaro che il te-
stimone non può che essere una persona concreta, nel nostro
caso un fotografo e in virtù della sua presenza concreta è insie-
me a lui che le sue fotografie vengono viste e commentate in re-
dazione. Oppure, nel caso piuttosto comune in cui il fotografo
invia le sue immagini quando ancora è altrove, le sue immagini
sono da intendersi come l’espressione di una soggettività nota ai
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 49

membri della redazione che si occuperanno di selezionarle, ap-


profittando inoltre delle sue indicazioni sul servizio, inviate in-
sieme alle immagini e/o risolte con un colloquio telefonico.
La conoscenza reciproca e prolungata nel tempo tra fotografi
e membri delle redazioni giornalistiche permette di ridurre pro-
gressivamente le incomprensioni, le quali assumono un signifi-
cato. Questo rapporto inoltre non si riduce a una maggior affini-
tà tra le due parti in causa, ma implica in maniera rilevante i
contenuti informativi, in questo caso i contenuti delle immagini.

Mi capitava di arrivare in redazione con i provini a contatto delle


mie immagini. Ci mettevamo lì con chi di dovere e le guardavamo con
la lente. Prima si chinava lui e le guardava tutte, una per una, soffer-
mandosi di più su quelle che avevo già incorniciato con un pennarello.
Poi con un altro pennarello ne incorniciava altre, per farmi capire che
gli piacevano e ripassava su una o due che avevo già incorniciato. A
quel punto mi passava la lente e toccava a me. A questo punto ero io a
guardare le mie foto che lui aveva incorniciato. Era come al mercato
arabo: si contrattava. Poi io gli dicevo perché continuavo a preferire le
mie. Gli spiegavo quello che non si poteva leggere nelle foto ma che io
avevo visto: una storia. E allora lui le riguardava. Un po’ il mercato a-
rabo e un po’ una partita di carte. (Fotografo freelance italiano).

In realtà pare che molte volte il tempo limitato non consen-


tisse queste grandi partite di carte, ma c’era sempre un margine
per giocare e cercare di capirsi e di capire la testimonianza del
fotografo, quel che sta oltre i bordi della fotografia o che sta
dentro l’immagine ma necessita di un’imbeccata per essere vi-
sto. La capacità di visione dipende sì da un bagaglio di cono-
scenze, ma anche da un insieme di relazioni. Un conto è vedere,
un conto è riconoscere gli elementi, metterli in rapporto tra lo-
ro, capire quello che è importante guardare e, di conseguenza,
mostrare. È così per il fotografo sul terreno ed è così per il re-
dattore in redazione.
Per molti fotografi questi racconti si inscrivono nel registro
della nostalgia. I fotografi interni sono sempre di meno (la mag-
gior parte delle redazioni che avevano una tradizione in tal senso
l’hanno dismessa) e laddove non esistevano neanche prima, ciò
che viene sempre meno sono i commissionati (assignments).
Era infatti piuttosto usuale un tempo che le redazioni avessero i
loro fotografi di riferimento che, seppure non fossero interni al-
la redazione, erano però dei collaboratori abituali e con i mem-
50 Capitolo 2

bri della redazione delegati alla fotografia mantenevano gli stes-


si legami di conoscenza reciproca progressiva che abbiamo det-
to. La pratica dei commissionati è oggi rara e sporadica, al pun-
to che questa continuità di reciproca conoscenza che fonda la
negoziazione all’interno del registro della testimonianza è per-
lopiù perduta.
Ho scritto sopra come i contatti professionali diretti tra foto-
grafi e redazioni si siano svolti storicamente secondo due dire-
zioni opposte: in un caso sono i giornali a contattare i fotografi,
nell’altro caso sono i fotografi a presentare e proporre ai giornali
le loro immagini. Questa seconda modalità è oggi ancora viva,
ma si riduce perlopiù, parlando di giornalismo quotidiano, alla
copertura di eventi locali e riguarda principalmente le testate
più direttamente schierate. La relazione avanza in virtù di
un’amicizia sovente connotata da una comune visione politica,
si sviluppa in maniera informale ed è molto ridotta sul piano
economico.
Riporto qui, per esemplificare quanto scritto, un estratto di
intervista svolta a casa di un freelance romano che lavora pro-
ponendo le sue immagini a quattro testate unicamente (oltre a
rivolgersi talvolta al mercato dei libri di fotografia o alle collabo-
razioni con realtà non-giornalistiche):

Siamo a casa sua, a Roma, nel quartiere San Lorenzo. Il suo desk è
ricavato in una stanza di casa. C’è il computer e sopra, attaccato al mu-
ro, un foglio con segnati i nomi di due testate di quotidiani italiani e
due di periodici, con una serie di nomi, numeri di telefono e indirizzi e-
mail. Lui è seduto sulla sedia “di lavoro” e io sono seduto dietro di lui,
in punta al divano attaccato alla parete opposta. Da qui riesco a vedere
bene il monitor (lui si è spostato leggermente di lato per permettermelo
e la stanza è molto stretta).
Mi sta mostrando le fotografie del suo archivio personale. Siamo al-
le fotografie prese durante uno sgombero avvenuto a Roma qualche
mese prima del nostro incontro.
IO: “Segui sovente questi temi?”.
LUI: “Sì. Anche se come sai sono dei temi che non vendono. Poca
roba nella cronaca locale. Se escludi questi giornali per cui lavoro, che a
volte li mettono anche in prima pagina, gli altri molto raramente sono
interessati a questo tipo di storie”.
IO: “Vedo che ti concentri poco sulle azioni che fanno l’avvenimen-
to principale e molto invece sui momenti teneri, diciamo marginali ri-
spetto allo sgombero vero e proprio… [l’ho detto perché la maggior par-
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 51

te delle immagini ritraggono scene di sostegno e conforto tra i membri


del gruppo di ex occupanti che viene sfrattato].
LUI: “Sì, voglio mostrare le reazioni, diciamo le conseguenze su
queste persone di quello che gli sta accadendo. È una forma di rispetto
verso i soggetti deboli che condivido con i giornali ai quali passo le im-
magini”.
IO: “Ci sono poche fotografie che diano un senso complessivo
dell’accadimento, del tipo, palazzo, poliziotti e ex-occupanti tutti den-
tro la stessa immagine”.
LUI: [cerca] “Sì, è vero. Ce n’è una sola. Un’immagine che tiene
dentro tutti gli elementi raramente è capace di dare un racconto di un
certo tipo”.
IO: “Cioè? Che tipo di racconto?”.
LUI: “Un racconto che stia sulla storia di questi qua. Un’immagine
che tiene dentro tutto di solito è piuttosto neutra. Potrebbe interessare
altri giornali. Di sicuro queste [mi mostra le foto di due uomini che si
abbracciano e di un uomo e una donna che si guardano tra loro portando
le valige e i sacchi] sono più indicate (Fotografo freelance italiano).

2.2.1. Overshooting vs. providing the standard pictures

Queste due espressioni inglesi sono riportate da Rosenblum7


nel capitolo dedicato al fotogiornalismo del suo più ampio lavo-
ro etnografico. La studiosa anglosassone segnalava queste due
forme di azione come le due pratiche più evidenti fatte proprie
dai fotogiornalisti. Esattamente, scriveva:

We can now see “overshooting” and “providing the standard pictu-


re” as forms of strategic adaptations photographers utilize to cope with
editorial demands.

Per overshooting l’autrice intendeva un’eccessiva produzio-


ne di fotografie di uno stesso evento: prese da angolazioni di-
stinte, moltiplicando quindi i punti di vista, piuttosto che con-
centrarsi sulla fotografia adatta al giornale, quella che i fotografi
avrebbero dovuto sapere essere la fotografia voluta dalla reda-
zione (la standard picture). La fotografia standard passava, se-
condo l’autrice per un sistema di classificazioni e stereotipi che
distinguevano gli eventi tra loro e richiedevano per ogni evento
un’icona standard piuttosto comune. La conclusione ovvia era
che questi codici stereotipici portassero a una omogeneità di

7 Rosenblum, B., op. cit.


52 Capitolo 2

trattamento fotografico, cosa che alcuni fotografi rifiutavano,


proponendo invece un gran numero di cliché diversi.
Stando ai risultati della mia investigazione, la situazione oggi
si presenta in maniera alquanto diversa, ma i due concetti di
overshooting e di standard picture possono essere utilizzati, a
patto di ridefinirne il significato. Il processo di prendere la foto-
grafia standard parrebbe legato alla vicinanza del fotografo con
la politica editoriale di un giornale, come ho mostrato sopra, e
quindi, più che portare a una omogeneizzazione porterebbe
semmai a un mantenimento di distinzioni, ma soprattutto si in-
scriverebbe nel discorso della testimonianza. Prendiamo bre-
vemente in esame un’altra distinzione, quella tra documento
soggettivo e documento oggettivo, distinzione proposta da Ha-
milton8. Il documento soggettivo sarebbe in questo caso il frutto
di un lavoro fotografico nel quale l’autore rivendica la propria
autorialità, il proprio approccio personale, la propria interpre-
tazione dell’avvenimento coperto. Il documento oggettivo sa-
rebbe invece il frutto di un tentativo di rendere la fotografia il
prodotto della macchina e di una visione oggettiva dell’avveni-
mento coperto. Per quanto attiene al mio lavoro, la soggettività
del fotografo è essenziale perché si possa parlare del fotografo
come di un testimone, ma la sua soggettività va intesa come il
frutto di una socializzazione alle esigenze redazionali. É nello
scambio, a monte e a valle del suo lavoro (con la negoziazione
dei significati) che la testimonianza assume il suo senso pieno,
laddove il fotografo viene inteso come un fotografo di redazione
o un collaboratore abituale, come uno che, per dirla con il pho-
toeditor de il Manifesto “ha uno sguardo nel quale noi ci ricono-
sciamo”.
I fotografi che trattano l’attualità devono inventarsi una serie
più o meno ampia di “loro” in base alle proprie preferenze o
possibilità, dal freelance che propone le sue immagini sempre
solo a tre giornali, a quello che, mettendole in rete tramite la
grande agenzia globale, le propone a tutti i giornali del mondo.
Inserita nel circuito della stampa d’informazione, la fotografia,
pur essendo un’istantanea, funziona quanto più riesce a collo-
carsi al crocevia di una serie distinta e complessa di aspettative.

8 Hamilton, P., Representing the social: France and frenchness in post-

war humanist photography, in Hall, S., Representation: Cultural Repre-


sentations and Signifying Practices, London, Sage, 1977.
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 53

Punto interno a una rete fatta di attese e ricerche, la fotogra-


fia d’attualità, più che un incontro tra un fotografo, una reda-
zione e un avvenimento è il risultato della capacità di un foto-
grafo di trovare la giusta posizione all’interno di questa rete.
Più il fotografo è vicino a una o più redazioni e distante da
altre, più sarà in grado di collocarsi; più è equidistante dalle re-
dazioni – e più si moltiplica il loro numero – più dovrà supplire
all’impossibilità di collocarsi attraverso la moltiplicazione di
immagini e punti di vista (l’overshooting).

Prima di lavorare per AP andavo là dove succedeva qualcosa e cer-


cavo di fare delle belle fotografie, delle fotografie che facessero vedere
le cose più importanti e che le mettessero in un certo modo. Non facevo
delle brutte foto, anzi, alcune mi piacevano, però ero giovane e non a-
vevo il metodo. […] Lavorare per AP mi ha reso un professionista. […]
Ora vado lì e so perfettamente come fotografare. […] Quando il lavoro è
compiuto lo so, mi rendo conto che posso tornare a casa, mentre prima
non sapevo mai se avevo fatto tutto il possibile oppure no. […] Adesso
fotografo più di prima, ma non spreco… Non faccio quelle foto che non
servono a nessuno. […] Vuol dire che… facciamo l’esempio di un perso-
naggio, che viene meglio. Quando sono davanti al personaggio che devo
fotografare, lo prendo intanto più volte sia in inquadratura verticale
che in inquadratura orizzontale, così che possa essere adattato per una
pagina interna o una prima pagina, poi scatto fino a che non ho una
serie di espressioni, non so, felice, triste, malinconico… Per farti esem-
pi molto facili. […]. In una situazione più complicata, dovrò moltiplica-
re gli sforzi. […] Ma arrivo sempre a capire quando ho preso tutto quel-
lo che dovevo prendere (Fotografo di agenzia fotogiornalistica interna-
zionale).

La capacità di moltiplicare i punti di vista, non equivale, co-


me vediamo, a un’infinità di scatti. Sebbene il fotografo ammet-
ta che adesso scatta più di prima, egli arriva alla consapevolezza
di una fine del lavoro per sufficienza di cliché prodotti, e tutte le
fotografie che prende sono orientate da un metodo. Al fotografo
di agenzia non è richiesta un’immersione nell’evento, intesa
come possibilità di giungere a una interpretazione personale di
quello che sta accadendo, a cui seguirebbe la ricerca di certi e-
lementi visivi e non altri che siano strumento per sviluppare la
propria tematizzazione. La soggettività si ricostruisce in una
moltitudine di soggettività altrui, che egli – non conoscendole
direttamente – di fatto restringe all’interno di un numero di cli-
ché, e così facendo le inventa. O meglio: definisce il numero di
54 Capitolo 2

alternative all’interno delle quali le singole redazioni possono


scegliere, ritenendo più opportuna una certa immagine e non
un’altra. Ma questa offerta deve comprendere quante più posi-
zioni e testate possibili e, se l’evento ha portata internazionale,
deve addirittura colmare gli interessi delle testate di molti paesi
differenti. Grazie all’istantanea, che blocca il soggetto in un cen-
tesimo di secondo del suo apparire, da uno stesso volto si pos-
sono catturare, nel giro di pochi secondi, un’espressione “feli-
ce”, “triste” o “malinconica”, per fare solo un esempio “molto
facile”.
Per farne uno più complesso ci torna utile il testo di
Schwartz9 che, rifacendosi ai manuali professionali per foto-
giornalisti, propone una serie di indicazioni che si adattano a
diverse tipologie di eventi. Produrre per una testata della quale
si conoscono gli orientamenti e produrre per il mercato, cioè per
un astratto insieme di aspettative assai diversificate e in molti
casi opposte, non è propriamente la stessa cosa.
La macchina digitale, che permette di scattare un numero
praticamente illimitato di fotografie, è il perfetto strumento in
mano al fotografo delle grandi agenzie globali di fotogiornali-
smo. Infatti, nel conclamato passaggio dall’analogico al digitale
o, come si dice in Francia, dalla “photographie argentique”
(l’accento è sulla chimica, sui sali d’argento del negativo), alla
“photographie numérique”, non è così importante segnalare il
fatto che la prima è una traccia dell’oggetto luminoso, mentre la
seconda è una ricostruzione informatica (un’interpretazione)
della luminosità dell’oggetto. Le cose da far notare sono piutto-
sto altre.
La prima è che l’avvento del digitale rende possibile la tra-
sformazione al plurale della pratica fotografica, cosa questa che
va incontro al cambiamento dei rapporti tra fotografi e redazio-
ni giornalistiche. Il digitale consente, con più semplicità e mino-
ri costi dell’analogico, quella moltiplicazione dei punti di vista
(cioè delle rappresentazioni che hanno il loro senso nel venta-
glio di tematizzazioni possibili che l’immagine tenta di soddisfa-
re), che è la nuova formula di certe pratiche fotogiornalistiche.
Questo vantaggio apportato dal digitale è tanto più sentito
quanto più è forte la distanza tra un fotografo e le redazioni o, il
che spesso significa dire la stessa cosa, quante più sono le reda-
9 Schwartz, D., op. cit.
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 55

zioni alle quali un fotografo propone le sue immagini. La pre-


sunta omogeneità delle rappresentazioni visive globali (data
proprio dal fatto che pochissime agenzie offrono la gran parte
delle immagini a tutte le testate del mondo) va sempre pondera-
ta su questo aspetto dagli effetti contrari: la riduzione “per e-
splosione” delle sensibilità (espresse in punti di vista) peculiari
ai singoli fotografi.
Non va quindi visto come se si trattasse di un’assurdità il
comportamento di quei pochissimi freelance che si rifiutano di
passare al digitale, continuando a lavorare in pellicola nono-
stante ciò comporti un’esclusione dalla maggior parte delle oc-
casioni – per quanto sporadiche – di ottenere il commissionato
di qualche giornale. Questo rifiuto estremo, più che all’abitudi-
ne, va messo in relazione alla difesa orgogliosa di una concezio-
ne del fotogiornalismo, di un’idea alla quale sottostanno certe
pratiche e non altre, un certo tempo, necessario per giungere a
un’interpretazione soggettiva dell’evento senza affidarsi unica-
mente a pregiudizi, e un numero ridotto di scatti.

Arrivare nel luogo e iniziare a scattare a ripetizione senza essersi


ancora formati una propria idea va bene per quegli eventi organizzati,
per le fotografie ai soggetti politici alle conferenze stampa…per questa
roba qua, che è già in posa perché il fatto che i fotografi siano lì fa parte
integrante dell’evento. Ma quando ci si comporta così anche in tutti gli
altri casi in cui il fotografo dovrebbe innanzitutto capire per non porta-
re a far credere cose sbagliate e talvolta pericolose…beh, quella è la fine
del fotogiornalismo (Fotografo freelance italiano).

Il fotogiornalismo va avanti, anzi, i giornali dedicano sempre


più attenzione all’immagine, sia quantitativamente che per qua-
lità di stampa. Ciò che si è perso quasi interamente è la visione
del fotogiornalismo come testimonianza, il che rende pressante
capire quali significati attribuire oggi al fotogiornalismo, quali i
limiti e quali le risorse di queste nuove pratiche e posture mora-
li, per non limitarsi a dire che tutto il nuovo è male, ma argo-
mentare con cura e studiando i mutamenti dall’interno. Per in-
tanto possiamo dire che le due pratiche dell’overshooting e del
providing the standard picture segnalate a suo tempo da Ro-
senblum hanno assunto, nel nuovo mercato del fotogiornali-
smo, significati opposti a quelli che l’autrice attribuiva loro.
Lungi dall’essere una resistenza della soggettività a codici trop-
56 Capitolo 2

po rigidi imposti dalle redazioni (la richiesta della fotografia


standard che poco aveva a che fare con bisogni di distinzione),
la moltiplicazione degli scatti è oggi proprio il frutto dell’astrat-
tezza dei codici, unico riferimento per i fotografi che lavorano
per il mercato.

2.3. Classificare, archiviare, proporre

Il passaggio al digitale è interpretato dai fotografi più critici e


insoddisfatti come la causa principale dei recenti mutamenti.
Ho già portato l’attenzione sulle possibilità maggiori che il digi-
tale porta alla pratica dell’overshooting, ma anche la rapidità di
trasferimento delle immagini che esso consente per via informa-
tica e la possibilità per questa via che hanno le agenzie di essere
presenti per i giornali di tutto il mondo è senza dubbio un fatto-
re importante. Questa possibilità tecnica tende a ridurre i tempi
della produzione di fotografie, nel senso che la concorrenza tra
agenzie comporta una gara sui tempi di distribuzione. Ciò che si
riduce in conseguenza della riduzione dei tempi di trasmissione
è però soprattutto il tempo per produrre fotografie di eventi af-
frontati in un clima concorrenziale.
Ma c’è anche un terzo punto che riguarda il digitale ed è
anch’esso ricco di conseguenze: l’archiviazione informatizzata,
la nuova archiviazione, che poi significa nuova significazione
attribuita alle immagini dagli stessi fotografi e nuove forme di
comunicazione tra i fotografi e le redazioni. È un punto centrale.
Per quanto riguarda le agenzie, la maniera che hanno i foto-
grafi di indirizzare i giornalisti a guardare le immagini è l’indi-
cizzazione, cioè la scelta delle parole chiave per l’archiviazione.
È attraverso una ricerca per parole chiave che i giornalisti per-
vengono alle immagini delle agenzie fotografiche. In questo
modo le fotografie vengono rintracciate indipendentemente
dall’autore. Un’indicizzazione costante e standardizzata è neces-
saria alle agenzie per portare all’attenzione dei giornali le pro-
prie immagini. In quest’agenzia francese, due fotografi sono sta-
ti mandati in Iraq: entrambi erano embedded. Riporto di segui-
to uno stralcio di intervista (da me tradotto in italiano), prodot-
ta con uno di questi due fotografi in agenzia, davanti all’archivio
on-line, mentre mi mostra le sue foto dell’Iraq:
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 57

LUI: Vedi, qui ho messo guerra, Irak e marine, soldato.


IO: Quindi per rintracciarla devono andare sul vostro sito e com-
porre una di queste parole?
LUI: Sì. È chiaro che se mettono Irak, gli usciranno tutte le imma-
gini dell’Iraq che abbiamo in agenzia. Per questo c’è la possibilità di
affinare la ricerca.
IO: Ma se la affinassero, in ogni caso verrebbero fuori tutte le im-
magini di soldati in questa guerra, tue o del tuo collega, di un evento o
di un altro?.
LUI: Sì. Però una volta selezionata un’immagine e non un’altra, la
didascalia gli spiega tutto quello che abbiamo ritenuto doveroso spie-
gare, nonché il nome del fotografo, sempre che gliene freghi qualcosa a
qualcuno.
IO: Ma questo dopo. Nel senso…la didascalia non orienterà la scelta?
LUI: No. Nessuno si mette sulle didascalie. La guardano, se la
guardano, solo per essere certi di non fare un errore grave…per con-
trollare che non ci siamo sbagliati con le parole-chiave. (Fotografo
d’agenzia fotografica francese).

Non è che manchino le didascalie dettagliate, ma è attraver-


so un sistema facile e semplice di parole-chiave che le agenzie
gestiscono la comunicazione con i giornali, intesi nel loro insie-
me generico. Capita che non siano nemmeno i fotografi a inse-
rirle, i quali, sempre più spesso, non hanno nessuna relazione
con i giornali. Ad esempio, i fotografi di guerra sono ancora “sul
terreno” quando inviano le immagini alle rispettive agenzie. Le
didascalie sono regolarmente mandate con l’e-mail insieme alle
immagini. Ma l’indicizzazione viene fatta da altri in agenzia. La
maniera d’archiviare è perlopiù identica in tutte le agenzie dove
sono stato, in Italia e in Francia. Ci si affida a parole semplici
che identificano la categoria generazionale (quando è ritenuta
importante per la notizia), il ruolo del soggetto nella guerra, per
ciò che è nell’evidenza dell’immagine (un bambino in lacrime è
sia un bambino che un civile che una vittima, un uomo in divisa
ufficiale è un soldato); ma a volte quest’evidenza è interpretabile:

IO: Qui l’avete segnalato come combattente iracheno. È perché sa-


pevi che si trattava di un combattente?.
LUI: È perché ha un fucile.
IO: Solo per questo o perché avevi elementi che te lo facessero dire?
LUI: (legge la sua didascalia) No, vedi: io ho scritto solo “iracheno
in fuga a Baghdad di fronte all’arrivo in città dei soldati della coalizio-
ne”. Combattente l’ha messo il mio collega da qui. Per via del fucile.
IO: E in fuga l’hai scritto perché stava scappando?
58 Capitolo 2

LUI: Beh, vedi, stava correndo. Io ero su un’auto. È una foto scatta-
ta in fretta dal finestrino dell’auto (Fotografo d’agenzia fotografica
francese).

Se l’indicizzazione è la pratica sostitutiva della comunicazio-


ne faccia a faccia o telefonica, nell’epoca del digitale e degli ar-
chivi on-line, va anticipato qui brevissimamente che la sua con-
troparte redazionale, la key-wording research, trasforma le
modalità di visualizzazione delle immagini nelle redazioni, ge-
nerando anche profonde novità nelle comunicazioni interne
all’ambito redazionale. Il digitale comporta un’innovazione delle
pratiche di monitoraggio e di visualizzazione, instaura nuove
modalità di comunicazione e crea nuove routine professionali.
Come avrò modo di dire, parlando del lavoro in redazione, tutto
ciò trasforma profondamente il significato del fotogiornalismo.
La nuova congiuntura aperta dal mercato e dalle nuove tec-
nologie digitali, dall’aumento vertiginoso del numero di fotogra-
fie a disposizione via abbonamento ai giornali, dalle modalità
comunicative, che si limitano all’indicizzazione quale strumento
standardizzato del “dare a vedere”, non implicano la fine della
fotografia d’attualità, ma uno stravolgimento del suo significato
o perlomeno l’accentuarsi di certe tendenze da sempre in atto.
Una di queste è quella di sottomettere la fotografia, per quanto
magari di grande interesse storico, alla logica della concorrenza
tra testate che la globalizzazione degli archivi (le stesse foto
giungono a tutti i giornali del mondo) ha probabilmente accen-
tuato.
Il pericolo messo in evidenza dai fotografi esterni alle agen-
zie è che la logica del giornale si imponga su quella del fotografo
con una forza senza precedenti, obbligando molti di loro a ri-
mettere in discussione le proprie pratiche e a cercare oltre il
giornalismo la soddisfazione della propria professionalità. La
logica del giornale, stando alle interviste, è avvertita come una
logica concorrenziale che si basa su una visione della fotografia
come semplice strumento illustrativo, che giunge a seguito della
notizia e non contribuisce a costruirla10.

10 Sulla distinzione tra illustrare e informare in fotografia, si veda

l’estratto della tesi per l’esame di stato da giornalista di Rino Pucci, un


giornalista grafico del Corriere della Sera, all’indirizzo web seguente:
http://www.fotoinfo.net/articoli/detail.php?ID=118.
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 59

2.4. Durata dell’immagine

Fin dalla ripresa, un reportage fatto di immagini è pensato per esse-


re abbinato, al momento della sua prima diffusione, a un testo, articolo
o commento, o quanto meno a esplicite didascalie. Il testo scritto o ora-
le, a seconda del mezzo di diffusione ha una sola vita. Una volta pubbli-
cato, andrà a raggiungere i fondi d’archivio e di documentazione, “co-
me riferimento”. Al contrario, le immagini dispongono di una seconda
vita. Svincolate dal loro progetto e proposito iniziale, seguono la via del
testo scritto andando a raggiungere i fondi di documentazione o gli ar-
chivi di un certo numero di agenzie; ma a differenza del testo, stanno lì
per essere riutilizzate. […] Ora, se determinate fotografie, plastiche o a-
temporali, hanno un valore illustrativo intrinseco, il “riciclaggio” di
un’immagine di attualità, soprattutto quando è privata della sua dida-
scalia e del suo contesto originario, non è al riparo dai controsensi11.

Questo testo di Roskis permette di approcciare una questio-


ne centrale, quella del rapporto tra fotografie e tempo dell’at-
tualità, un tema sul quale tornerò a più riprese. Gli argomenti
sui quali costruire il discorso mi paiono i seguenti:
1. Quale rapporto si crea tra durata e stereotipo, ovvero, per
ciò che qui mi interessa, quale impatto ha il fotogiornalismo
nella costruzione di stereotipi durevoli?
2. Quale rapporto esiste tra il fotogiornalismo contempora-
neo e la costruzione dell’attualità visiva intesa come mutamen-
to, azione o piuttosto intesa come immobilità, inazione?
Affronterò brevemente queste due questioni con riferimento
alle pratiche, calando queste problematiche all’interno delle nuo-
ve congiunture di mercato e tecnologia che vengo di descrivere.
Ma questi argomenti si potranno dire esauriti soltanto dopo a-
verne raccontate le conseguenze in riferimento all’altra sponda,
quella delle redazioni dei giornali.
Partiamo dalla prima questione. Abbiamo visto che Roskis
usa l’espressione “plastiche o a-temporali” per indicare le quali-
tà delle fotografie che “stanno lì per essere riutilizzate”. David
Machin12 si è occupato delle relazioni tra fotografie (intese come
contenuti precisi) e banche immagini. L’autore segnala come

11 Roskis, E., La deuxiéme vie de l’image, in Le Monde Diplomatique,

aprile 1998 (versione italiana pubblicata da il Manifesto).


12 Machin, D., Building the World’s Visual Language: The Increasing

Global Importance of Image Banks in Corporate Media, in Visual Com-


munication, 3, 2004, pp. 316-336.
60 Capitolo 2

molte delle fotografie che troviamo oggi su materiale promozio-


nale e pubblicitario, ma anche sui giornali d’informazione pro-
vengono dalle banche immagini di Corbis e di Getty Images. Si
tratta di immagini economiche, facilmente rintracciabili e di
grande qualità tecnica. Sono immagini cosiddette di stock che
Machin riassume così:

images that do not record anything but evoke an idea or a feeling and
can be used to add interest to a page13.

Queste fotografie razionalizzate con un sistema standard di


archiviazione rendono semplice e sbrigativa la possibilità di illu-
strare, non solo ricercando tipologie di soggetti astratti (le don-
ne, il lavoro, negli esempi dell’autore), ma anche tipologie di
concetti e immagini mentali (la libertà, l’indipendenza). Succes-
sivamente, Machin passa a indicare gli elementi che accomuna-
no queste fotografie, giungendo a ricostruire la precisa logistica
che porta alla costruzione di fotografie che hanno la qualità di
essere di immediata comprensione, prive di ogni ambiguità o
confusione interna, generiche, prive di temporalità. Sono foto-
grafie che devono essere generiche piuttosto che specifiche, do-
ve lo sfondo è fuori fuoco o costituito da una tinta unita, ma do-
ve uno o due attributi simbolici ancorano il soggetto a un tipo,
secondo un codice di connotazione semplice e fondato su stereo-
tipi.
In questo modo le fotografie riducono la loro complessità e
diventano leggibili senza ambiguità, funzionando proprio come
un insieme di segni stabili che formano un lessico (al modo in
cui Barthes studiava la fotografia pubblicitaria). Ogni dettaglio
in eccesso è eliminato; ciò che apporta significato è il rapporto
di connotazione, mentre la denotazione non ha più importanza.
Queste fotografie sono soggette a un’indicizzazione al pari di
tutte le altre, ossia per tramite di parole chiave semplici e stan-
dardizzate che offrono il frame nel quale non soltanto leggere le
fotografie, ma senza il quale non verrebbero nemmeno trovate.
Detto con le parole di Machin:

The search terms play a key role in the visual language of Getty –
and they can also provide a frame work for an investigation of it. They

13 Machin, D., op. cit., p. 323


Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 61

allow us to ask not “What does this image mean?”, but “What, accor-
ding to Getty, can (and what cannot) be said with this image, and with
the Getty visual language as a whole?”14

Proprio sul terreno delle parole associate alle immagini si


gioca il significato della fotografia come mera illustrazione, lad-
dove ciò che conta davvero è la costruzione di una relazione tra
concetti semplici, spesso astratti e fotografie concrete. Nell’ana-
lisi compiuta da Machin sull’archivio di Getty sono state indivi-
duate 81 parole concettuali ognuna associata a moltissime foto-
grafie. La citazione seguente è cruciale:

it does not matter much that the image of the Guatemalan child tells us
little if anything at all about western Guatemala. What matters is that it
says something about childhood innocence or cheekiness.15

A questo punto il discorso di Machin porta a riflettere su


come queste categorie siano leggibili come mappa dei valori del
nuovo capitalismo, mentre io mi prefiggo qui un’altra strada, in
linea con la mia argomentazione. Ciò che mi interessa qui è col-
legare il discorso di Roskis sulla durata di certe fotografie nel
tempo e la costruzione delle fotografie a-temporali e generiche
riassunta da Machin passando per l’archiviazione on-line. Mi
pare infatti che il ragionamento appena riportato sull’archivio
della fotografia espressamente di stock abbia diversi aspetti in
comune con le pratiche di produzione, archiviazione e utilizzo di
buona parte delle fotografie che interessano il mercato del gior-
nalismo quotidiano. In particolare posso qui dare conto di alcu-
ne tipologie di immagini soggette a questa seconda vita:
1. Immagini di persone la cui stessa presenza ha una lunga
durata sulla ribalta della scena pubblica e dell’informazione. Si
tratta della questione meno astratta, dal momento che i soggetti
sono identificabili come personaggi che valgono proprio in virtù
dei loro attributi singolari. Eppure non tutte le fotografie di per-
sonaggi pubblici stanno lì per essere riutilizzate. Tra le tante,
quelle che durano nel tempo sono fotografie distaccate da un
avvenimento specifico e capaci di promuovere una lettura sim-
bolica in riferimento al personaggio in questione. Si tratta della

14 Machin, D., op. cit., p. 328


15 Machin, D., op. cit., p. 330
62 Capitolo 2

questione della personificazione già trattata da Hall16 e che è


ben visibile sui nostri giornali, con punte massime in alcuni casi
emblematici (ad esempio il rapporto tra le coperture de il Mani-
festo e le immagini di Silvio Berlusconi.
2. Immagini che si ricollegano a temi giornalistici ricorrenti,
che vengono riproposti, a singhiozzi, per lunghi archi di tempo.
Proprio la presenza perennemente latente e talvolta manifesta
di questi temi nell’agenda dei media fa sì che i seguenti temi
siano, intanto temi i cui confini sono ben tracciati e poi temi che
vengono sovente trattati con una certa astrattezza, senza colle-
garli sempre a sottotemi più specifici legati ad avvenimenti con-
creti e dotati di una propria visibilità (la news visibility di cui
parla Hall17). In questi casi i soggetti della fotografia si ricolle-
gano al tema astratto in questione per tramite di alcuni attributi
generici che permettono un immediato riconoscimento della
tematica. Sono esempi di questo tipo, tra gli altri, l’immigrazio-
ne in Italia e, più di recente, il terrorismo islamico internaziona-
le. In entrambi questi casi, la ricerca di attributi generici e ricor-
renti nei soggetti fotografati, la de-contestualizzazione ottenuta
con l’inquadratura e l’associazione di parole standardizzate in
fase di indicizzazione portano alla costruzione di stereotipi di
lunga durata, costantemente riutilizzabili. Va qui fatto notare
che riutilizzare le immagini, nel contesto del giornalismo, equi-
vale a ri-attualizzarle, essendo l’attualità, ovvero il presente, il
terreno di legittimità delle notizie. L’effetto è quello di produrre
una paralisi della visione, di trattare fenomeni dinamici, com-
plessi e sfaccettati proponendo un eterno ritorno di icone sem-
plificate, senza indagare visivamente i mutamenti e le trasfor-
mazioni.
3. Immagini di aree del mondo poco coperte dai media. Si
tratta qui di zone del pianeta che rimangono quasi sempre fuori
dall’agenda dei media. Le fotografie dall’Africa costituiscono
proprio l’esempio più lampante di questa durata delle fotografie
nel mercato del fotogiornalismo.

Questo lavoro sull’Africa l’ho fatto nel 1994. Era un lavoro su una
comunità che ho fatto per approfondire perché avevo avuto la possibili-
tà di trovare il supporto di una ONG che opera sul territorio. Pensa che

16 Hall. S., op. cit.


17 Hall, S., op. cit.
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 63

fino al 2002, quando c’è stata la conferenza di Johannesburg sull’am-


biente mondiale, non ho venduto nulla. Poi le ho vendute. Ai giornali
mi chiedevano quando avevo fatto le foto e io dicevo di averle fatte
l’anno prima. Dovevo vendere un po’ d’immagini e ho colto l’occasione.
Ci ho un po’ marciato. Tanto l’Africa per i giornali è immobile, no?
Questa foto potrebbe essere stata fatta quindici anni fa, come dieci,
come cinque. Sull’Africa quello che conta è che te le faccia qualcuno
che garantisce un’immagine artistica. I dettagli non dicono nulla sul
passare del tempo (Fotografo freelance italiano).

Il fatto interessante da rilevare è che queste immagini acqui-


stano una durata proprio in virtù del loro legame con i soggetti e
i temi del giornalismo, laddove si pongono ai due lati estremi
della sovraesposizione e della sottoesposizione.
Ecco allora che i controsensi dei quali parla Roskin non sono
soltanto di ordine tematico/illustrativo. L’ esempio proposto da
Roskis è il seguente:

William Klein ha sempre protestato contro l'uso ricorrente, nel


momento in cui si tratta di “illustrare” un “tema” come la violenza degli
adolescenti, di una delle sue fotografie più celebri, con il pretesto che il
suo titolo derisorio è Minigang. [La fotografia] rappresenta un ragaz-
zetto che con la faccia cattiva punta sull’obiettivo una pistola, proba-
bilmente ad acqua. In origine non si trattava affatto di violenza e nep-
pure di cattiveria, ma di un semplice gioco di bambini: un'immagine
catturata nel 1954 sull'Amsterdam Avenue a New York18.

Nonostante questo aspetto sia altrettanto interessante, il di-


scorso, come ho tentato di mostrare, è più complesso e soprat-
tutto va a toccare la questione centrale del rapporto tra attualità
rappresentata e mutamento sociale reale del contesto che si
rappresenta, questione che ha un grande significato politico.
Per concludere questa riflessione, lo spunto di Roskis visto
all’inizio del paragrafo va allora declinato lungo tre direttrici che
si intersecano: la relazione tra mutamento sociale, immobilità
sociale e rappresentazioni visive, che porta, tra gli altri, i rischi
di una visione etnocentrica che si alimenta del mito del progres-
so nord-occidentale di contro alla immobilità tradizionalista del
sud del mondo; la produzione di stereotipi, laddove l’inattuale
visivo si collega all’attuale tematico in virtù di una stilizzazione
(genericità nella costruzione estetica) collegata all’uso di catego-

18 Roskis, E., op. cit.


64 Capitolo 2

rie astratte che vengono continuamente riprodotte con il si-


stema standardizzato di indicizzazione; infine, per ritornare
sull’esempio di Roskis, la perdita progressiva della testimonian-
za intesa qui nel senso ristretto della impossibilità o della non
convenienza per le redazioni di avvalersi delle conoscenze ma-
turate sul terreno dai reporter.

Le foto dei profughi sono le più manipolabili. Questi sono profughi


croati. Se ho bisogno di profughi serbi, cambio la didascalia. Tranne
quando ci sono elementi del tipo… ecco, una gonna lunga di questo tipo
identifica una contadina musulmana. Ma tanto poi non è che i photoe-
ditor badino a questi dettagli. Non credo neppure che sappiano deci-
frarne il senso. Mi è capitato più volte di essere vittima di questi errori
grossolani e quando ho protestato con le redazioni non hanno nemme-
no rettificato nel numero seguente (Fotografo freelance italiano).

In tutte e tre queste significazioni nelle quali ho ri-articolato


lo spunto di Roskis, il sistema di archiviazione e distribuzione
on-line, a distanza, come modalità quasi esclusiva di una comu-
nicazione tra fotografi/agenzie e redazioni non costituisce
l’unica forza in campo, ma è indubbio che debba essere conside-
rata una importante concausa e che funzioni come un accelera-
tore di processi che erano già in corso prima della digitalizza-
zione.

2.5. L’ingranaggio controllato: della guerra e oltre

Una visione consolidata della fotografia di guerra tende a i-


dentificare il conflitto armato come spazio sociale caratterizzato
dall’alta visibilità dei gesti estremi del morire e del far morire e
di conseguenza a riassumere la fotografia bellica con l’immagi-
nario del campo di battaglia. La fotografia del miliziano moren-
te di Robert Capa può essere presa ad esempio emblematico
dell’immaginario di guerra, e non è raro ritrovarla come illu-
strazione dei libri che parlano della guerra, quale simbolo foto-
grafico per eccellenza di quello spazio di relazioni sociali media-
te dalle armi. L’immagine di Capa è per l’appunto l’immagine
dell’istante decisivo, dell’istante fatale, cioè il momento del pas-
saggio dalla vita alla morte. Si adopera in questo caso un’e-
spressione curiosa: “cogliere la morte sul vivo”. C’è un’altra e-
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 65

spressione significativa che connota la fotografia di guerra, è


quella inglese “shooting war”, laddove, il verbo “to shoot” sta sia
per sparare (premere il grilletto dell’arma), sia per fotografare
(premere il pulsante della macchina). Logica dell’azione e logica
dell’istantaneità dei gesti (in guerra basta un gesto per morire e
per far morire) sono entrambe connaturate allo spazio sociale
della guerra e al mito della professione fotogiornalistica, quella
che ha innalzato il valore dell’istante decisivo a massimo valore
del reportage, in grado di cogliere l’azione sul vivo attraverso la
massima immersione del fotografo nel flusso dell’avvenimen-
to19. Questo mito del fotografo di guerra come di un testimone
capace anche di inchiodare governi e milizie alle proprie re-
sponsabilità affonda le radici nella guerra del Vietnam, che resta
come il simbolo del ruolo del giornalismo in difesa di una vera
democrazia, laddove la cittadinanza, per tramite dei giornalisti e
dei fotografi, acquisisce la possibilità di valutare l’operato dei
propri governanti e del loro braccio destro (l’armata)20.
Dopo il Vietnam i governi e gli eserciti hanno rafforzato il lo-
ro controllo sui reporter e oggi tutti sanno cosa significhi la pa-
rola embedded associata al giornalismo di guerra21. Per i foto-
grafi delle agenzie, la guerra rappresenta la grande opportunità
di produrre immagini che siano congegnali alle loro aspettative
professionali, sia per l’impatto internazionale dell’evento, sia
perché sono proprio loro a dominare la scena fotografica, nei
giorni del conflitto più che mai. Solo loro e i pochi fotografi dei
quotidiani e dei magazine principalmente statunitensi, inglesi e
spagnoli, hanno la possibilità di raccontare la guerra seguendo
la linea del fronte, collocandosi là dove “l’azione erompe”. Que-
sto significa oggi avere il privilegio di essere selezionato come
fotografo embedded, di essere cioè preso a seguito di un contin-

19 Per approfondire l’articolazione di questa mitologia professionale il

testo di partenza fondamentale è quello di Cartier-Bresson (op. cit.).


20 Un testo che ha indagato sul rapporto effettivo tra media e guerra del

Vietnam, mettendo in risalto luci e ombre di quello che si propone oggi co-
me un mito del giornalismo è il seguente: Hallin, D., The “Uncensored
War”: The Media and Vietnam, New York, Oxford University Press, 1989.
21 Un testo che propone in chiave socio-storica i mutamenti nei rapporti

tra la politica, gli eserciti e i giornalisti sul terreno di guerra è il seguente:


Carruthers, S., The Media at War, London, MacMillan Press, 2000.
66 Capitolo 2

gente militare e di avanzare nel paese occupato al seguito dei


militari, sempre a ridosso delle linee del fronte22.
Tuttavia, alcuni reporters tentano ancora di seguire una via
diversa, in accordo con i presupposti di indipendenza di quel
giornalismo che assume un senso passando, nella pratica, per
certi principi detti di neutralità e di libertà di movimento, prin-
cipi che risultano fortemente minati dalla condivisione della
quotidianità con una parte in causa: dormire, mangiare e chiac-
chierare continuamente con i soldati di un medesimo contin-
gente, come emerge dai racconti dei reporter, non è propria-
mente una garanzia di neutralità. Inoltre, il forte controllo pro-
dotto dai militari sulla loro possibilità di movimento mina pro-
fondamente anche l’altro principio.
Unilateral, nella letteratura anglosassone, è il termine che
designa il giornalista o il fotografo che nel suo lavoro di testi-
monianza sul terreno di guerra rifiuta sia di essere inquadrato
in un plotone militare occidentale, sia di rimanere sotto la stret-
ta sorveglianza del regime del paese occupato, altra opzione in
contrasto con i principi suddetti.
I fotografi unilateral nell’ultima guerra in Iraq erano pochi e
sono diventati presto pochissimi. Le cause sono tante. La prima
e più evidente risiede nel fatto che i militari della coalizione non
permettevano ai giornalisti e ai fotografi di muoversi sul territo-
rio iracheno senza essere controllati dai loro esperti in comuni-
cazione.

C’era un fotografo che è partito per conto suo, è arrivato fino a Na-
jaf e a un certo punto ha trovato i rangers americani che lo hanno ri-
mandato indietro, perché il tesserino di accredito non aveva nessun
valore se non eri con loro (Fotografo freelance italiano).

Anche durante la guerra del Golfo questo modello di control-


lo era ampiamente praticato.

[S]ome American correspondents (unilaterals) later reported being


beaten and harassed by their own troops, though formally the only

22 Sul rapporto tra l’embeddedness e la possibilità di districarsi tra le

notizie del fronte, filtrate da un sistema di controlli e censure si veda il testo


seguente: MacArthur, J., Second Front: Censorship and Propaganda in
the Gulf War, Berkeley, CA University of California Press, 1993.
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 67

sanction against unilaterals was that the US military would report them
to the Saudi authorities, who could revoke credentials and visas23.

Anche quando non si arriva direttamente a queste dimostra-


zioni di forza (che rischiano sempre di essere testimoniate e
nuocere alla lunga a chi le pratica), altre strategie più sottili, che
fanno leva sul rischio dell’incolumità, vengono sviluppate per
tentare di allontanare definitivamente gli unilateral dal terreno
di guerra.

Noi ci spostavamo seguendo i fronti che mano a mano si aprivano.


Tendevamo ad andare avanti. Cioè, l’idea era arrivare a Baghdad.
Non essendo embedded ci cacciavano via regolarmente, chi ci tro-
vava, gli eserciti, eccetera. Una volta, molto dentro al territorio irache-
no abbiamo chiesto ospitalità perché non sapevamo dove andare a
dormire e c’è il rischio dei gruppi di militari iracheni che si ritirano e
hanno le armi, formano nuovi gruppi di disperati che qualunque cosa
trovano possono uccidere o saccheggiare.
E lì gli eserciti ci negavano l’ospitalità, non ci volevano perché sa-
remmo diventati un rischio, un peso. Nessun militare voleva aggregati,
oltre gli embedded che avevano. Gli inglesi ci hanno dato da dormire
una notte in un campo ma poi il giorno dopo ci hanno sbattuto fuori. E
tentavano di terrorizzarci in modo che tornassimo in Kuwait.
Invece un’altra volta, mentre eravamo accampati, sono arrivati de-
gli inglesi dicendoci che avevano intercettato delle trasmissioni, in cui
si sentivano i nemici che sapevano di noi giornalisti ed erano interessa-
ti a prendere qualcuno. Poi non si sa mai se sono vere queste cose qui.
Comunque ci hanno sradicato le tende e ci hanno obbligati a seguirli a
fari spenti per un bel tratto e ci hanno portato a dormire in un campo
dicendoci che era circondato da campi minati. E anche questo, tu non
puoi sapere se è vero o se te lo dicono perché tu non ti muova più du-
rante la notte. E infatti, solo al mattino ci siamo poi mossi, cercando di
capire dove eravamo, e riorganizzandoci (Fotografo di agenzia fotogra-
fica italiana).

Sebbene giornalisti e fotografi che scelgono di evitare sia il


pool sia il controllo del governo avverso per percorrere una
strada da unilateral traggano le possibilità di una loro libertà di
movimento dall’indipendenza tecnologica di cui molti ormai di-
spongono, essi devono affrontare alcuni rischi piuttosto evidenti
che di fatto ne limitano di molto la libertà.

23 Fialka, J., Hotel Warriors: Covering the Gulf, Washington, The

Woodrow Wilson Center, 1991, pp. 47-48.


68 Capitolo 2

Gli unilateras sono portatori di una concezione del giornali-


smo che trae la sua forza dal valore soggettivo della testimo-
nianza. Eppure, le nuove condizioni hanno reso i reporter sem-
pre più scettici rispetto alla possibilità di agire in questo modo.

L’ideale sarebbe quello di avere piena libertà di movimento. Ma


questo significa poter sia seguire i militari durante le loro avanzate, sia
potersi trattenere in un luogo dopo che i militari se ne vanno, per capi-
re quello che avviene, le situazioni che si creano tra civili, militari e pa-
ramilitari. Oggi questo non lo puoi più fare: o stai con loro, o stai per
conto tuo (Fotografo francese di agenzia fotogiornalistica internazio-
nale).

Ma non è nemmeno più così. Perché essere privi della prote-


zione dei militari significa esporsi a rischi troppo elevati e
d’altronde, come abbiamo visto, i militari occidentali stessi fan-
no di tutto per ostacolare i reporter indipendenti. Un fotografo
dell’AFP, uno dei rarissimi fotografi di grande agenzia interna-
zionale che ha scelto di agire da unilateral, lo segnala:

Ho scelto questa strada perché credo che agire come fotografo-


giornalista significa non essere obbligato nei propri movimenti. Così
posso fotografare quello che voglio. Però in Iraq i pericoli erano troppo
grandi. La sera cercavo sempre rifugio presso i soldati per avere prote-
zione per la notte. Il che significa che non dovevo mantenermi incollato
alla zona del fronte e non potevo fermarmi a lungo nei posti che veni-
vano superati dai soldati della coalizione. Qualcuno mi accordava il
permesso di restare per la notte, specie gli inglesi, ma il più delle volte
venivo mandato via. Quando la situazione in Iraq è precipitata, ho capi-
to che non potevo più restare. (Fotografo francese di agenzia fotogior-
nalistica internazionale).

Gli unilateral scoprono loro malgrado di non poter fotogra-


fare il fronte, e al tempo stesso non possono concedersi di rima-
nere a lungo in un posto per raccontare la società civile del pae-
se colpito. Si fa così largo l’idea, tra molti fotografi, che agire da
unilateral sia poco conveniente da tutti i punti di vista.

Alcune mie foto sono uscite sul Corriere e qualcosa all’estero. Però
fai conto che tu andavi a cercare delle storie e lo dovevi fare con una
certa fretta, mentre le fotografie più ricercate erano quelle degli em-
bedded. La notizia era che facevano 50 prigionieri e i giornali volevano
quelle che glieli mostrassero e quelle le avevano gli embedded. I giorna-
li durante la guerra preferiscono la fotografia di una caccia militare che
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 69

sorvola il cielo a un reportage sulla popolazione locale, perché l’aereo


assomiglia di più alla guerra […] Loro in questo senso hanno lavorato
meglio di noi e hanno raccontato Baghdad, che potevano raccontare
solo loro. L’invasione la raccontavi solo da embedded (Fotografo di a-
genzia fotografica italiana).

È molto significativo notare come i fotografi più anziani ri-


vendichino il loro legame con un giornalismo inteso nel senso di
una relazione di testimonianza che implica una comprensione e
un’interpretazione degli avvenimenti vissuti. Proprio oggi che i
giornali si sono liberati dei fotografi interni si fanno strada delle
modalità di azione riflessiva nelle quali i fotografi rivendicano
per sé quei processi interpretativi e selettivi che prima erano
negoziati nelle redazioni giornalistiche.

Consideravo di avere una responsabilità giornalistica precisa. Non


dovevo produrre un immaginario di tipo teatrale che ricordasse per
l’ennesima volta le immagini del Vietnam delle quali i fotografi di guer-
ra vanno perlopiù alla ricerca. C’erano molte occasioni di fotografare i
soldati in azione, che si richiamano urlando, che corrono, che saltano
un ponte… Tutto questo c’era, ma non corrispondeva alla verità di que-
sta guerra che si caratterizzava invece per la quasi mancanza di un ne-
mico, per i pochissimi rischi che correvano i soldati. Una testimonianza
corretta avrebbe dovuto fare le debite proporzioni e rinunciare a certe
immagini di sicuro fascino ma di fatto inadeguate a raccontare quello
che stava realmente avvenendo. È quello che ho tentato di fare (Foto-
grafo di agenzia fotogiornalistica internazionale).

Eppure, in assenza di un legame personale diretto con un


giornale sotto forma di esclusività in cambio di compenso o faci-
litazione24, questo atteggiamento equivale a un canto del cigno,
dal momento che le fotografie di un fotografo si mescolano ogni
giorno a quelle di tutti gli altri fotografi ed è in questo mare cao-
tico di immagini di tutti i tipi che i giornalisti vanno a cercare,
ignorando le differenti etiche adottate dai singoli. Come ricono-
sce lo stesso fotografo:

Il problema è che la concorrenza è enorme. Molti fotografi sono


giovani, non hanno mai lavorato per dei giornali. Per loro – e li capisco,

24 Sono due i casi di questo genere rintracciati per il periodo ufficiale di

guerra all’Iraq sulle quattro testate esaminate: si tratta di Elio Colavolpe


(fotografo dell’agenzia Emblema) per il Corriere della Sera e di Bruno Ste-
vens per Libération.
70 Capitolo 2

perché nessuno in redazione gli ha mai insegnato il mestiere – si tratta


di prendere il maggior numero possibile di fotografie, e più sono spet-
tacolari o si ricollegano alle immagini di guerra dei loro ricordi, più
vanno bene. Tutti li incitano a fare così: dalle agenzie che ci chiedono il
maggior numero possibile di fotografie, ai giornali, che con la loro as-
senza non fanno che confermare che così facendo si è sulla giusta stra-
da. Trattenendosi, decidendo di non prendere certe fotografie, si va in-
contro a una strigliata e ai rischi di perdere il lavoro. Credo che ormai
questo atteggiamento sia diventato impossibile e anche inutile. (Foto-
grafo di agenzia fotogiornalistica internazionale).

Il risultato, in Iraq, è stato quello di una partizione tra foto-


grafi al seguito dei contingenti alleati e fotografi sottoposti al
controllo del governo iracheno di stanza a Baghdad: i primi
hanno fotografato i carri armati, i caccia, i soldati al riposo e in
esercitazione o intenti a sfregiare qualche murale di Saddam
Hussein lungo l’avanzata, raramente i cadaveri dei combattenti
iracheni, mai i soldati nell’atto di aggredire o subire aggressioni;
i secondi hanno fotografato i palazzi distrutti dalle bombe, i vec-
chi al bar, le trincee di sabbia improvvisate a bordo strada, i ra-
gazzi per strada e i feriti negli ospedali. La copertura della guer-
ra è stata quindi segnata in partenza da alcuni condizionamenti
molto rilevanti e le agenzie di fotogiornalismo l’hanno gestita,
nel suo complesso, come se si trattasse di un overshooting al-
largato a tutti gli spazi possibili del contesto iracheno, arrivando
al punto di utilizzare fermi immagini di video e persino fotogra-
fie fatte a schermi televisivi (come è da alcuni anni pratica ricor-
rente) per immettere in circuito pseudo-fotografie che andasse-
ro a coprire dei vuoti illustrativi, in un’ottica concorrenziale
molto forte. Il tutto è confluito in un calderone comune, distinto
sempre per mezzo delle parole-chiave standardizzate che tra-
sformano molte fotografie in concetti che i fotografi sul terreno
sempre più spesso non sono in grado di verificare e accertare,
né questo pare essere il senso della loro professione.
Se da un lato quindi si recuperano quante più immagini sia
possibile, dall’altro diventa sempre più difficile capirle, inter-
pretarle, coglierne le forzature e le deformazioni apportate dal
contesto. Si giunge così a una sovraesposizione visiva nella qua-
le talvolta si provano a far parlare alcuni dettagli (certe divise
militari comprate dai civili; i fazzoletti bianchi utilizzati sia da
soldati che da normali cittadini, ecc.) senza però avere, come
strumento per interpretarli, null’altro che altre fotografie pro-
Etnografia della produzione. I fotografi e le agenzie 71

venienti magari da altre regioni del paese. Ci si domanda quali


di quelle fotografie siano delle photo opportunities, cioè propo-
sizioni di eventi o pseudo-eventi25 orchestrati intorno alla pos-
sibilità stessa dell’immagine e ai quali i fotografi vengono chia-
mati a presenziare in massa (certe distribuzioni di cibo ai civili?
Le scene degli abbattimenti delle statue di Saddam?) e quali di
quelle fotografie siano invece il risultato di una capacità del fo-
tografo di emanciparsi dal controllo.
Ma la guerra non fa che rendere più evidente questa confu-
sione che sempre di più si avverte nell’attualità del mondo tra-
smessa in fotografia. Da una parte il controllo politico sull’im-
magine e soprattutto la gestione politica dell’immagine che si fa
sempre più accorta in tutti i contesti che riguardano le istituzio-
ni, dall’altra flussi di fotografie sempre più cospicui, frutto degli
scatti di professionisti e di non professionisti, “fotografi per ca-
so” che talvolta riescono più dei professionisti a bucare la rete
del controllo. È inevitabilmente all’interno di questa contraddi-
zione di fondo e del contesto sociale e tecnologico descritto fin
qui che va collocata la lettura dei due capitoli che seguono, nei
quali tento di comprendere come stiano agendo le redazioni dei
quotidiani e quali significati pratici questa fotografia finisca per
assumere nel giornalismo a stampa.

25 Per i concetti correlati di pseudo-eventi e di photo opportunity, il ri-

ferimento essenziale è Boorstin, D., The Image: A Guide to Pseudo-Events


in America, New York, Harper & Row, 1961. Più in generale il concetto
chiave di questa nuova pianificazione delle notizie è quello di newsmana-
gement.
3

ETNOGRAFIA DELLA PRODUZIONE


L’organizzazione redazionale1

3.1. Le fonti delle foto-notizie

Che la fotografia abbia abbandonato il suo significato di te-


stimonianza giornalistica (sebbene non l’abbia mai posseduto
pienamente) non sembra essere un problema fondamentale per
le redazioni giornalistiche che in effetti fanno ben poco affinché
le cose tornino com’erano. Pare esserci piuttosto un certo van-
taggio nel poter approfittare senza bisogno di confronti e spie-
gazioni della enorme quantità di immagini fornite dalle agenzie
attraverso gli archivi on-line. Nel lavoro “normale” di redazione,
questa opportunità ha anche consentito una disseminazione dei
centri di visualizzazione e selezione delle immagini (visto che
ormai bastano un PC e una connessione a internet) che – se
sgrava le sezioni competenti di una responsabilità su tutte le
immagini che finiscono in pagina – alimenta una certa incom-
prensione e insoddisfazione da parte dei giornalisti più specifi-
camente formatisi (in Italia perlopiù autonomamente) in gior-
nalismo visuale.
Un primo dato che emerge da questa ricerca e che è ben noto
a tutti coloro che si sono occupati negli ultimi anni di fotogior-
nalismo, è la sostanziale fretta (che rasenta la noncuranza) con
la quale molte delle fotografie che finiscono in pagina sono di
fatto selezionate, e anche la capillarità con la quale questo av-

1 Il presente capitolo e quello successivo si basano su un percorso di os-

servazione e interviste etnografiche da me sviluppato in quattro redazioni


giornalistiche: Corriere della Sera (luglio 2005), Le Figaro (novembre 2005
e marzo 2006) il Manifesto (gennaio 2006); Libération (aprile/maggio
2006).
74 Capitolo 3

viene nelle redazioni delle testate quotidiane, laddove un nume-


ro di giornalisti sempre più esteso ha facoltà di cercare e sele-
zionare l’immagine da accostare al proprio “pezzo” o a quello di
un redattore subordinato facente capo alla propria sezione.
Dal momento che circa l’80% delle immagini pubblicate dai
quotidiani provengono esclusivamente dalle grandi agenzie di
giornalismo con le quali i giornali hanno contratto abbonamen-
to, sarebbe naturale pensare che la vera ricerca sulla selezione
delle immagini che “vanno in pagina” sia da compiere in quelle
strutture più che nelle redazioni dei quotidiani. In parte ho te-
nuto quest’attenzione durante il presente lavoro, ma sarebbe
superficiale e erroneo pensare che il discorso sulla codifica delle
immagini quotidiane possa concludersi così. E questo non solo
in riferimento a quel 20% circa che non proviene dalle fonti più
diffuse, ma anche e soprattutto per le differenze nella selezione
specifica che viene compiuta da quel “bacino comune”, e per le
messe in pagina spesso così differenti che si sviluppano a partire
da immagini identiche.
Molti studiosi che si occupano oggi di rappresentazioni foto-
giornalistiche, concludono con grande enfasi sull’omogeneità
che oggi contraddistingue le scelte fotografiche delle testate ri-
guardo a medesimi eventi. Questo aspetto non va certo mini-
mizzato. Ad esempio, mentre mi trovavo al Corriere della Sera
a compiere la mia osservazione, ho avuto modo di vedere le
prime pagine di quaranta giornali di tutto il mondo stampate e
messe in una cartella dai giornalisti per ottenere un confronto
con le altre testate sullo stesso evento: l’attentato alla metropo-
litana e ai bus londinesi del 7 luglio 2005. Ventuno su quaranta
giornali avevano scelto per la prima pagina la stessa fotografia
che avevo visto scegliere il giorno precedente ai giornalisti del
Corriere della Sera. E tre fotografie (compresa quella) riempi-
vano da sole 36 prime pagine su 40. Non è quindi certamente il
caso di sottovalutare l’omogeneità, ma la mia esperienza di ri-
cerca mi ha portato a ritenere più interessante soffermarmi sul-
la creazione delle distinzioni proprio a partire dalle stesse fonti
informative.
Quello che qui mi interessa sottolineare è il fatto che il quasi-
oligopolio delle immagini detenuto dalle tre grandi agenzie
giornalistiche non è sempre la questione più pregnante da met-
tere in evidenza quando si parla di immaginario fotogiornalisti-
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 75

co. E questo per molte ragioni. In guerra ad esempio, la diffe-


renza non si dà tanto tra essere un fotografo di AP o di
un’agenzia minore, quanto nella relazione che si instaura con
altre organizzazioni presenti sul terreno. A Londra, l’unica foto-
grafia presa all’interno delle zone “a divieto d’accesso” non è
stata l’immagine di un freelance o di un fotografo di piccola a-
genzia. Si è trattato piuttosto di una fotografia presa col video-
fonino da una delle vittime, in fila con gli sventurati compagni
nel tunnel metropolitano dopo le esplosioni. La fotografia priva-
ta si somma alla fotografia pubblica, essa diviene uno strumento
ulteriore nelle mani dei giornali e apre al contempo importanti
questioni di controllo delle fonti informative.
Inoltre, ciò che fa grande differenza riguarda la definizione
operativa che i redattori (e le organizzazioni giornalistiche nel
loro complesso) danno agli eventi, le forme di divisione del la-
voro e le dinamiche organizzative che queste divisioni compor-
tano, le modalità specifiche di presentazione delle fotografie in
pagina. Resta tuttavia più che giustificato il discorso del mag-
gior controllo sulle immagini ottenuto dai leader politici e dai
militari addetti alla comunicazione. Se ciò non esclude mai che
qualche immagine scappi dalla rete (e con la diffusione a basso
costo delle macchine fotografiche digitali questo è ormai alta-
mente probabile), i suddetti attori si assicurano nondimeno che
la maggior parte delle immagini che saranno prodotte su un da-
to evento soggetto a controllo premeditato non convocheranno
mai o quasi mai alcune tipologie di “figure visive” in evidente
contraddizione con il racconto dominante.
Ma ancora: i giornalisti – anche quelli che più hanno fatto
propria la scuola dell’advocacy journalism, stando alla mia ri-
cerca – non si sentono particolarmente minacciati o sminuiti
nelle loro possibilità comunicative da questo stato delle cose.
Per quasi tutti, la possibilità di avere a disposizione ogni giorno
un serbatoio particolarmente ampio di immagini a cui attingere
a basso costo senza le complicazioni delle negoziazioni dirette
con i reporter, è un’opportunità nel complesso positiva2.
Insomma, senza che la questione sia stata problematizzata,
si è arrivati oggi a una perdita pressoché generalizzata dell’im-

2 Mediamente, una redazione che usufruisce dell’abbonamento a forfait

completo con le grandi agenzie internazionali (AP, Reuters, AFP) riceve


2.500 immagini al giorno.
76 Capitolo 3

magine come prodotto di una negoziazione comunicativa tra un


giornale e un fotografo/testimone. Se ritorno su questo punto è
perché non ho ancora scritto tutto ciò che di significativo v’è da
scrivere. La questione del contatto diretto antecedente, o imme-
diatamente successivo che sia, con un fotografo sul terreno, non
è del tutto superfluo o perlomeno non lo è per tutti i giornali,
ma questo non in generale, come regola giornalistica che d’al-
tronde non sussiste più nemmeno a livello delle notizie scritte.
Anzi, in questo senso la possibilità di aumentare quantitativa-
mente il numero di immagini a disposizione grazie agli abbo-
namenti non mina in nessun modo – anzi agevola – la questio-
ne della “sicurezza della fonte” che è poi la traduzione profes-
sionale della questione dell’affidabilità della testimonianza.
AP, Reuters e AFP, offrono più che una certezza in questo
senso, offrono la possibilità di delegare eventuali responsabilità
nei rari ma talvolta importanti casi nei quali le immagini messe
in pagina sono oggetto di controversia deontologica o querela
legale. I quotidiani italiani e francesi si limitano oggi ad avere
contatti diretti con i fotografi in ambito regionale, talvolta più
estesamente nazionale per via della mobilità dei fotografi. È il
caso dello staff di fotografi interno a Le Figaro che lavorano e-
sclusivamente per il giornale ma operano pressoché unicamente
nella regione parigina (l’Ile de France). È il caso, più informal-
mente, del mantenimento di contatti precedenti tra i photoedi-
tor o art-director de il Manifesto e del Corriere della Sera e al-
cuni fotografi dell’area romana e milanese. Per il Manifesto
questi contatti sono ancora oggi piuttosto importanti perché –
facendo leva sull’amicizia e sul comune orientamento politico-
ideologico – offrono al giornale la possibilità di allargare il pro-
prio ventaglio di scelta su quegli avvenimenti (specialmente le
manifestazioni di piazza e altre questioni locali che interessano
il giornale) che sono di norma poco coperti dalle grandi agenzie
o coperti con “uno sguardo che non è quello nostro”. Faccio riferi-
mento all’amicizia e al comune orientamento politico-ideologico
perché il budget molto limitato del giornale è un grosso limite
per l’acquisizione di fotografie fuori dalla base fornita dagli ab-
bonamenti. Questi contatti diretti permettono sporadicamente
di ottenere immagini prodotte (a spese del fotografo) anche ol-
tre i confini nazionali. Per il Corriere della Sera la questione dei
contatti personali è meno rilevante, ma talvolta garantisce la
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 77

possibilità di ottenere una fotografia sostanzialmente diversa da


quelle recuperabili on-line su un determinato evento, il che ha
una sua importanza dal momento che la concorrenza con il
giornale la Repubblica è particolarmente sentita anche nella ri-
cerca delle immagini da mettere in pagina.
In generale sono comunque i fotografi a cercare i giornali e
sempre più raramente accade il contrario, ma questi contatti
personali (e la questione della remunerazione) giocano tuttavia
un ruolo importante in quelle che saranno alcune scelte dei fo-
tografi in determinate situazioni. È stato così nel caso dell’unico
fotografo di agenzia italiana presente in Iraq nel 2003 che, in
virtù di certi contatti con giornalisti del Corriere della Sera (pe-
raltro maturati autonomamente sul campo, fuori dalla redazio-
ne) ha concesso al giornale qualche esclusiva a tempo sulle sue
immagini.
Queste situazioni fanno certamente comodo ai giornali, ma
non sono più ricercate in quanto tasselli rilevanti nella costru-
zione delle “notizie fotografiche”. Eppure, in certe situazioni sa-
rebbe corretto ipotizzare che la testimonianza controllata (cioè
la possibilità di dialogare con il testimone oculare delle scene
raccontate) sia di una certa utilità giornalistica, come è senza
dubbio il caso di una guerra, per via di tutti gli elementi di con-
fusione e di incertezza che caratterizzano il flusso di notizie bel-
liche. Non è casuale il fatto che la maggior precisione didascali-
ca (ossia il maggior rispetto del significato delle immagini pro-
poste dal fotografo) la si possa rilevare nelle messe in pagina di
quelle fotografie prodotte dai rari fotografi con i quali i giornali
avevano un rapporto di esclusività. È il caso di quelle di Elio Co-
lavolpe dell’agenzia Emblema per il Corriere della Sera, dal
momento che il fotografo ha viaggiato in territorio iracheno co-
me unilateral al fianco di alcuni giornalisti italiani e stranieri
tra i quali due facevano capo a questa testata. Ed è il caso delle
fotografie di Bruno Stevens dell’agenzia Cosmos, a Baghdad
dall’inizio dei bombardamenti aerei, e di Ben Khelifa, fotografo
freelance che ha seguito l’avanzare da nord dei peshmerga cur-
di, entrambi professionisti il cui lavoro è stato in parte finanzia-
to da Libération che ha così mantenuto un controllo relativo sul
loro operato. Ma tra impossibilità economica a sviluppare una
rete di contatti diretti e vera e propria convenienza offerta dalla
libertà di usufruire del materiale fotografico piegando l’inter-
78 Capitolo 3

pretazione originaria dei testimoni a vantaggio della significa-


zione connotata della messa in pagina, il confine è incerto.
Per capire tutto questo bisogna chiedersi quali sono i signifi-
cati d’uso delle fotografie sui quotidiani oggi, quali le pratiche
che si dipanano intorno all’oggetto fotografico, e mettere in ri-
salto le differenze di cultura organizzativa tra le testate prese in
esame.
Per concludere questo paragrafo è bene che segnali quelle
che sono le differenze basilari rispetto all’uso degli archivi
d’agenzia e in particolare il caso de il Manifesto, unico tra i
giornali presi in esame a non avere l’abbonamento con tutte e
tre le agenzie giornalistiche internazionali. Nel caso di questo
giornale, l’Agence France Presse è esclusa per motivi economi-
ci, mentre l’abbonamento con la Reuters è ridotto e soggetto a
condizioni particolari. Solo con l’Associated Press, l’agenzia sta-
tunitense, il contratto di abbonamento è analogo a quello stipu-
lato dalle altre redazioni. Vi sono inoltre implicite regole che
spingono ad acquistare il meno possibile da agenzie il cui paga-
mento dell’immagine pubblicata si effettua all’unità (com’è il
caso per tutte le agenzie che hanno un archivio on-line e per i
freelance). In definitiva, l’ideale per questo giornale è quello di
riuscire a offrire le proprie rappresentazioni visive sfruttando al
massimo gli abbonamenti con la Reuters e con l’AP, approfittare
dell’archivio consolidato negli anni e dei rapporti favorevoli svi-
luppati con quei fotografi che accettano di passare le loro im-
magini per dei prezzi inferiori a quelli offerti dalle altre testate
nazionali.
Questa tendenza al risparmio, anche laddove non è così evi-
dente, struttura comunque delle procedure anche nelle altre re-
dazioni. Al Corriere della Sera ad esempio è regola informale
ma seguita quella che prevede di ricercare le immagini prima
nell’archivio del giornale e solo successivamente, e per motivi
precisi, su altre fonti on-line. Certo è che l’archivio di questo
giornale è davvero esteso. Comprende sia le vecchie fotografie
acquisite a suo tempo (almeno la parte digitalizzata di questo
materiale), sia le fotografie fornite per abbonamento a costi fissi
dalle tre agenzie internazionali e dall’agenzia italiana ANSA
(comprese quindi le fotografie di agenzie straniere delle quali
l’ANSA si fa distributrice per l’Italia).
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 79

Le grandi agenzie inoltre accumulano esse stesse degli archi-


vi poderosi e alcune di queste “vecchie” immagini – quando
hanno attinenza con i fatti che via via vengono notiziati – sono
riproposte insieme alle immagini più recenti. Si viene così a cre-
are un’abbondanza di scelta, anche in virtù di quella moltiplica-
zione dei punti di vista soggettivi di cui ho parlato in riferimento
all’operato dei fotografi di queste grandi agenzie giornalistiche.
Vi è dunque una profonda differenza tra le possibilità con-
crete di attingere a materiale fotografico a seconda delle testate.
Se il Manifesto è costretto a fare di necessità virtù, il Corriere
della Sera è una struttura relativamente potente, che può ap-
profittare di quest’abbondanza e può inoltre permettersi spese
notevoli per acquisire delle esclusive sulle immagini e di fatto
sovente lo fa, specie durante gli avvenimenti considerati foto-
graficamente più rilevanti: grandi eventi sportivi (mondiali, o-
limpiadi); eventi eccezionali (la morte del papa, calamità natu-
rali, attentati terroristici…); guerre che coinvolgono stati occi-
dentali.
Le esclusive sono di vario tipo, a seconda del contratto che di
volta in volta viene stipulato. L’esclusiva può essere per l’Italia,
per l’Europa o per il mondo. Può essere un’esclusiva per un
giorno, due giorni, tre giorni…a vita. Per i quotidiani, per i set-
timanali, per tutto. Più ampia è e più è costosa. Spesso il Corrie-
re della Sera è interessato ad avere un’esclusiva per un giorno
per i quotidiani italiani, cioè vuole la certezza che non sia fatta
la stessa proposta ad altri quotidiani quello stesso giorno.
È il caso, fra i tanti, della fotografia di Mauro Galligani raffi-
gurante Pierre Gemayel da bambino, il ministro libanese ucciso
in un attentato il 21 novembre del 2006. Questa immagine, sug-
gerita al Corriere della Sera da una telefonata fatta dall’agenzia
italiana Contrasto è stata oggetto di questo tipo di contratto di
esclusività. In altri casi, come per la fotografia di Massimo Se-
stini, la veduta aerea di Linate dopo l’incidente dell’8 ottobre del
2001, l’esclusiva era stata presa nei confronti di tutti i quotidia-
ni italiani, ma per sempre. Questo significa che quell’immagine
a tutt’oggi può essere rivenduta a tutti i settimanali e i mensili
ma non ai quotidiani. A volte le esclusive non riguardano una
singola foto già prodotta, bensì un fotografo o un intero pool di
fotografi e il loro operato su un evento specifico. Durante le ul-
time olimpiadi invernali, il Corriere della Sera ha avuto, per e-
80 Capitolo 3

sempio, l’esclusiva per i quotidiani italiani su tutte le immagini


prodotte dai fotografi di Getty Images presenti nel torinese.
Sulla questione delle esclusive tornerò più in giù per quanto es-
se rivelano dei significati redazionali attribuiti all’immaginario
di un evento.
Le Figaro e Libération sono anch’esse strutture che conce-
dono alla ricerca di immagini una parte importante del proprio
budget. Anche per questi giornali vale il discorso degli abbona-
menti a costi fissi con le tre grandi agenzie internazionali, e la
disponibilità di acquistare immagini con costi all’unità sugli al-
tri archivi on-line di agenzie e fotografi freelance. Riguardo poi
al produrre in proprio, o al commissionare reportage fotografici,
Le Figaro ha il proprio staff di fotografi attivi unicamente nella
regione parigina, come ho avuto modo di scrivere, ma non ha
sviluppato interesse per il commissionato né si interessa all’ac-
quisto di fotografie in esclusività (questa situazione potrebbe
cambiare adesso che il concorrente diretto, Le Monde, ha im-
prontato una politica redazionale più orientata alla fotografia,
dopo anni di reticenza). A Libération sono invece interessati a
entrambe le forme, in virtù dell’importanza attribuita alla foto-
grafia in questa redazione, che non ha equivalenti sui quotidiani
europei. Relativamente al budget complessivo del giornale, que-
sta testata è quella che dedica percentualmente più risorse alla
ricerca iconografica tra tutte quelle prese da me in esame. Nel
caso della guerra irachena, il giornale ha contribuito alle spese
sul terreno di due fotografi. In entrambi i casi, Libération non
era committente dei reportage, ma contribuiva, insieme ad altre
testate periodiche e/o agenzie fotografiche alla copertura dei co-
sti affrontati dai fotografi e si assicurava così un’implicita esclu-
siva per i quotidiani.

3.2. Strutture organizzative e tipizzazione degli eventi-notizia

Non soltanto i budget messi a disposizione dagli editori, ma


anche i luoghi delegati alla visualizzazione, scelta, selezione ul-
tima e messa in pagina delle immagini differiscono a seconda
della struttura interna e dell’importanza che alla fotografia vie-
ne attribuita nelle redazioni giornalistiche. Eppure non è lecito
trarne nessuna equazione del tipo, per esempio, più importanza
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 81

uguale più passaggi interorganizzativi e più immagini pubblica-


te. Sempre che si possa trovare un modo stabile per misurare
l’importanza attribuita all’immagine in una redazione spesso
molto articolata e relativamente disomogenea al suo interno
com’è il caso, su tutti e quattro, del Corriere della Sera, questo
rapporto di fatto non sussiste in una formulazione così semplice
e lineare. La realtà è chiaramente più complessa.
Inizierò col descrivere queste differenze organizzative così
come mi sono state presentate e così come ho potuto verificarle
durante l’osservazione, indagando, al contempo, le questioni
che derivano dall’incontro tra un certo sistema organizzativo e
un set di eventi. Qui mi interessano le distinzioni operative e or-
ganizzative poste nelle redazioni, così che le distinzioni tra e-
venti siano mostrate a partire dalle tipizzazioni, per giungere,
solo successivamente, a delle categorizzazioni3. Prenderò qui già
in esame i criteri di selezione delle fotografie nelle redazioni,
per quanto questo discorso appare essenziale per mettere in lu-
ce le divisioni del lavoro interno e le distinzioni pratiche poste
dagli attori. Nel capitolo seguente, i processi di selezione saran-
no invece indagati in riferimento alla presentazione delle foto-
grafie (e di altre parti del paratesto). In sostanza, il processo di
selezione emergerà in entrambi i capitoli come passaggio chiave
per rivelare gli altri aspetti direttamente indagati (divisione del
lavoro e messa in pagina). Come emergerà dal lavoro, infatti,
trattando della fotografia in redazione è molto difficile isolare i
processi, come avviene più facilmente per le notizie scritte.
Si tratta di una specificità che è solo in parte dovuta alle par-
ticolarità del medium, il cui contenuto è inseparabile dall’og-
getto4 e che è invece in grande parte il risultato di precise regole

3 Sulla distinzione tra categorie e tipologie ho già scritto nel primo capi-

tolo rifacendomi al lavoro di Tuchman, G. (1973), op. cit.


Per riprendere qui brevemente il concetto basti dire che le prime sono
frutto del lavoro analitico del ricercatore che prende forma a partire da un
vaglio critico delle seconde, prodotte dai redattori nel loro lavoro quotidiano.
4 Barthes parla al proposito dell’autorità della cosa o del soggetto, nel

senso che il referente rappresentato aderisce e si impone sull’oggetto, ren-


dendo invisibile la fotografia. Nelle sue parole: “Quoi qu’elle donne à voir et
quelle que soit sa manière, une photo est toujours invisible, ce n’est pas elle
qu’on voit”. Barthes, R., La Chambre claire. Note sur la photographie, Pa-
ris, Gallimard, 1980, pp.18-19. Per una critica a questa concezione si veda
Rouillé, A., op. cit., in particolare pp. 84-89.
82 Capitolo 3

di trattamento e d’uso dell’immagine all’interno dei processi or-


ganizzativi.

3.2.1. Struttura e pratiche organizzate al Corriere della Sera

La redazione del Corriere della Sera non comprende una se-


zione eminentemente delegata alla fotografia e neppure la figu-
ra di un photoeditor (un soggetto il cui ruolo è unicamente quel-
lo di coordinare i propri subordinati nella ricerca delle fotogra-
fie e di responsabilità sulla selezione delle immagini che an-
dranno in pagina). Questa sezione è di fatto inglobata priorita-
riamente nella sezione grafica mentre il ruolo del photoeditor è
coperto di volta in volta da una pluralità di soggetti, su tutti
dall’art-director o dal suo vice che non esercitano però la fun-
zione di selezionatori ultimi delle immagini se non quale man-
sione secondaria del loro lavoro che è prioritariamente di capo e
vice capo della sezione grafica.
La sezione grafica del Corriere della Sera vede impegnati nel
lavoro quotidianamente un numero di giornalisti variabile, da
un minimo di cinque a un massimo di otto, a seconda dei turni
di riposo e delle emergenze lavorative, compreso uno tra art-
director e vice art-director. Nel periodo durante il quale ho svol-
to la mia osservazione, nella sezione grafica erano mediamente
presenti sette persone: il vice art-director, quattro giornalisti
grafici, una stagista e un archivista che non si occupava della
messa a punto dei menabò (cosa che era compito prioritario di
tutti gli altri) e che, oltre a compiere una serie di mansioni di
supporto, aveva il compito specifico di guardare le fotografie
che giungevano dalle agenzie via abbonamento e fare una prima
“selezione larga” su determinati eventi definiti nella riunione di
redazione del mattino come eventi ai quali sarebbe stato dedica-
to più spazio per le immagini (o per eventi programmati e attesi
o protratti nel tempo). Inoltre, aveva il compito di archiviare le
immagini più significative che arrivavano dalle agenzie.
Oltre all’archivista, ad occuparsi di fotografia poteva essere
chiunque, relativamente alla messa in pagina. Per quanto attie-
ne alla selezione invece la gerarchia era piuttosto evidente e a
quale figura spettasse la scelta definitiva dipendeva dall’impor-
tanza attribuita all’evento. Continuamente, a cominciare dalle
15,30 circa, entravano nell’ufficio grafico giornalisti di altre se-
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 83

zioni, spesso con un’idea già precisa dell’immagine da affiancare


al proprio pezzo. Si sedevano al tavolo del giornalista grafico
che in quel momento aveva tempo a disposizione o si impone-
vano all’attenzione nonostante i giornalisti fossero già impegna-
ti in altro, nel caso che la tal pagina avesse una deadline pros-
sima. A quel punto il giornalista grafico si impegnava a produr-
re il menabò e – attraverso un lavoro a volte autonomo, altre
richiedente la supervisione dell’art-director – decideva, dise-
gnando, l’eventuale spazio da dedicare all’immagine.
Per molte di queste situazioni alle quali ho assistito, l’inter-
vento del giornalista grafico sulla fotografia pre-selezionata dal
giornalista scrivente si limitava a questioni tecniche e di spazio
immaginato. A volte la fotografia richiedeva un ritocco “legge-
ro”, di illuminazione o tono; altre volte richiedeva un ritocco
“più deciso”, perlopiù il bisogno di tagliarla diversamente affin-
ché calzasse con lo spazio deciso per la messa in pagina. Questa
situazione era accettata e ormai acquisita, dal momento che la
grande mole di immagini pubblicate ogni giorno dal giornale e
l’assenza di un ufficio eminentemente fotografico non permet-
tevano ai giornalisti grafici di sviluppare piena attenzione e tutte
le fotografie. Capita anche che siano i giornalisti scriventi stessi
a pre-impaginare le fotografie, senza passare dai grafici. Questo
avviene per tutte quelle fotografie “neutre”, dette francobolli
per via del minimo spazio occupato in pagina e che riguardano
nella maggior parte dei casi primi piani di uomini politici. Queste
fotografie, a costo zero per il giornale perché attinte dall’archi-
vio, svolgono una doppia funzione: riempitiva, per evitare spazi
vuoti in pagina, e indicativa, di rimando visivo, ossia di agevola-
zione per il lettore nell’individuare immediatamente il perso-
naggio a cui fa capo una certa frase riportata accanto all’artico-
lo, o semplicemente il personaggio principale di cui parla l’arti-
colo (è una modalità anche molto usata per indicare che si tratta
di un’intervista a quel personaggio compiuta da un giornalista).
L’uso dei francobolli è molto comune nell’editoria quotidiana,
specie italiana, visti i grandi spazi dedicati abitualmente alla po-
litica o ai commenti sui fatti dei personaggi politici, ma questi
possono riguardare anche personaggi pubblici dello spettacolo o
di qualunque altro settore del mondo sociale. A volte queste
immagini scelte autonomamente nelle altre sezioni del giornale
e talvolta pre-impaginate sono leggermente più complesse, ma
84 Capitolo 3

non sono oggetto di comunicazione e controversia quando sono


ritenute di secondaria importanza. Quando i giornalisti scriventi
non hanno il tempo o la capacità di trovare quello che vorrebbe-
ro, si rivolgono ai giornalisti grafici. È il caso proposto attraver-
so questo estratto di nota etnografica:

Una giornalista politica entra con evidente fretta nell’ufficio grafico.


Ha appena passato la porta ed è ancora in piedi in quella zona che è
equidistante dai desk dei vari giornalisti, che si mette a dire con un alto
volume della voce: “Ho bisogno di una fotografia di Tremonti e Sini-
scalco che non riesco a trovare!”. A quel punto qualche giornalista gra-
fico alza la testa e la guarda, segnalandole attenzione. “Cerco una foto
che giustifichi la trama del C’Eravamo Tanto Amati. Calzerebbe bene
con il tema della notizia”. A questo punto un giornalista-grafico (il più
esperto di immagini fotografiche tra quelli presenti – escluso il vice
art-director – e che è tenuto in conto ogni volta che c’è da pensare
all’iconografia) prende la parola: “Ci sarebbe quella di loro due che si
guardano sui banchi del parlamento, con Siniscalco che fa una faccia
languida… Ce l’hai presente? L’abbiamo pubblicata poche settimane
fa…”. A questo punto tutti, nell’ufficio, hanno tirato su la testa e stanno
assistendo alla conversazione. La giornalista replica: “Sì, quella an-
drebbe bene, ma la pubblichiamo sempre…”. “Beh, proprio sempre non
direi…”, dice il giornalista grafico. In quel momento interviene il vice
art-director: “Quella va bene”, dice in tono lapidario, poi dà un’occhia-
ta d’intesa al giornalista grafico e subito riabbassa la testa sul suo lavo-
ro, seguito dagli altri. A quel punto la giornalista politica si avvicina al
desk del grafico e la loro conversazione prosegue a un volume di voce
minore. Lui recupera dall’archivio quell’immagine e guarda velocemen-
te se ce ne sono altre potenzialmente interessanti uscite con un paio di
ricerche per parole-chiave. Le commentano insieme e si accordano per
quella che era stata detta. Nel giro di tre minuti la giornalista politica
ha lasciato l’ufficio. Una volta uscita, il vice art-director commenta ad
alta voce: “Non possiamo certo perdere mezz’ora per questa cosa”.

Come mi è stato spiegato il giorno seguente dal vice art-


director stesso, durante la cena in mensa, se le fotografie pre-
senti in archivio non soddisfano la richiesta, e nessuno di loro
ne ricorda una che farebbe al caso e della quale si conosce a
memoria l’ubicazione, bisognerebbe cercarle sugli archivi on-
line delle altre agenzie o dei freelance, oppure contattare diret-
tamente dei fotografi che si occupano di politica per chiedere
loro di fornire una selezione da visualizzare via e-mail. Ma vi
sono alcuni parametri che vanno considerati: quanto è impor-
tante che si trovi una tal foto? Vale la spesa aggiuntiva? È evi-
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 85

dente che per quel caso specifico lui stesso aveva deciso, facen-
dolo capire agli altri giornalisti, che non ne valeva lo sforzo (cioè
il tempo). Questo esempio ci fornisce alcune indicazioni. Innan-
zitutto, rende evidente che esiste una gerarchia di importanza
delle immagini alle quali corrisponde – è questo il punto – una
gerarchia di ruoli decisionali, ridefinita eventualmente a secon-
da delle oscillazioni momentanee di quel bene fondamentale del
giornalismo che è il tempo. Inoltre, queste immagini, relativa-
mente inattuali (a volte sono vecchie di anni) non solo hanno il
loro spazio e il loro significato redazionale, ma vengono solleci-
tate dal richiamo al risparmio economico, sostenuto dalla regola
di cercare le immagini prima e a volte unicamente – come è il
caso di questo esempio – tra il materiale d’archivio, nel quale
sono sempre presenti anche le immagini datate, che si accumu-
lano giorno per giorno. Detto altrimenti: la questione della divi-
sione tra tipologie di immagini (da intendersi sempre congiun-
tamente alla loro ubicazione nel testo) implica sia una questione
di gerarchia operativa tra ruoli redazionali, sia la questione del
rapporto tra immagini ed alcuni principi giornalistici, su tutti
quello di attualizzazione riferito al luogo e al tempo dell’attualità.
In tempi “normali” si può comunque dire che al Corriere
della Sera le cose stiano così: redattori e caporedattori delle se-
zioni (politica, estera, ecc.) si occupano di cercare e mettere in
pagina le fotografie d’archivio con una funzione perlopiù illu-
strativa o di semplice rimando visivo – come nel caso dei fran-
cobolli. Per le fotografie più spiccatamente d’attualità è regola
implicita che sia la sezione grafica ad occuparsi della loro sele-
zione e messa in pagina, ma questo varia al variare degli impe-
gni grafici giornalieri e dell’importanza definita nelle riunioni
per i singoli eventi. Può quindi capitare, e capita quotidiana-
mente, che i giornalisti scriventi e i loro capi si occupino anche
della selezione di immagini meno ovvie e più critiche come è il
caso di quelle di avvenimenti di stretta attualità. In genere, se
l’evento da coprire anche fotograficamente è ritenuto di una cer-
ta importanza, la sezione grafica se ne occuperà in via priorita-
ria, operando una selezione attenta da tutto ciò che è pervenuto
via abbonamento o persino andando alla ricerca di fotografie
“extra abbonamento”. Le ragioni di questo maggiore sforzo di
ricerca comprendono anche la volontà costante di distinzione
nei confronti del diretto concorrente, la Repubblica. Ogni gior-
86 Capitolo 3

no, alcune fotografie del giorno precedente vengono confrontate


con quelle scelte da questo giornale e i commenti sono sovente
insofferenti quando la scelta è stata analoga o quando giungono
lamentele dalla direzione perché si ritiene che la scelta del gior-
nale concorrente sia stata “migliore”, “più azzeccata”, “più au-
dace”, ecc. In generale i giornalisti grafici si occupano sempre
della selezione di immagini che riguardano eventi che passano
in primo piano (le pagine dalla due fino all’inizio delle testatine
classiche: politica interna, esteri, cronaca, cultura…). Se l’evento
messo in primo piano è di portata internazionale, questo avvie-
ne costantemente e i confronti operati il giorno dopo non si li-
mitano a la Repubblica e agli altri quotidiani nazionali italiani,
ma si allargano a giornali stranieri, con questo principio genera-
le: differenziarsi dai concorrenti diretti, e utilizzare gli altri
giornali stranieri considerati esemplari, su tutti il New York
Times, come parametri affidabili nel ritenere di aver fatto una
buona scelta. Questa soddisfazione provata quando la scelta fo-
tografica effettuata da questo o altri giornali ritenuti autorevoli
è identica a quella del Corriere della Sera mi è stata più volte
riferita e ho avuto modo di contestarla l’8 luglio del 2005, il
giorno dopo il tragico evento londinese. E sempre lì ho avuto
occasione di comprendere quanto sia importante per questo
giornale il bisogno di distinguere le proprie scelte fotografiche
da quelle operate dai concorrenti nazionali. Si può quindi dire
che la selezione non avviene nel confronto unico tra un’orga-
nizzazione redazionale e un insieme di fotografie dal mondo, ma
i continui confronti operati a posteriori finiscono con buone
probabilità per svolgere una funzione, nel tempo, di miglior de-
finizione della propria “cultura fotografica” costruita anche per
differenze e analogie con le altre testate.
Nella selezione delle immagini poste in primo piano dal
giornale, il ruolo centrale è ricoperto dal vice dell’art-director.
La sua figura diventa particolarmente importante perché attra-
versa due mondi generalmente tenuti a grande distanza: quello
del direttivo del giornale, avente le sue logiche e le sue volontà,
e quello dei giornalisti grafici per i quali le immagini contano
prima di tutto per la loro forza espressiva, per il valore composi-
tivo e per l’originalità. La doppia socializzazione del vice art-
director crea il ponte tra questi due ambienti comunicativamen-
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 87

te quasi-isolati l’uno dall’altro. È bene che mi dilunghi su questo


punto, attraverso un uso puntuale delle note etnografiche.
I giornalisti grafici sono posti, nella distribuzione del sapere
interno alla redazione, in una posizione intermedia. Innanzitut-
to fa da presenza costante il loro bisogno di distinguersi dagli
infografici, tecnici che occupano una sezione a parte, molto vi-
cina fisicamente a quella occupata dall’ufficio grafico. Siccome il
giornale fa largo uso dell’infografia come modalità visiva sinte-
tica per riassumere questioni complesse o per apportare cono-
scenze con un immediato impatto visivo, spesso i giornalisti
grafici hanno il compito di confrontarsi con gli infografici per
mettere a punto alcune strategie comuni di messa in pagina tra
elementi di disegno grafico e fotografie, o semplicemente per
decidere lo spazio che il lavoro infografico andrà ad occupare
nella pagina, per poter realizzare adeguati menabò. Tutte le vol-
te che mi è capitato di assistere a casi di questo genere, ciò che
non mancava mai era un certo discredito, manifestato dai gior-
nalisti grafici nei confronti degli infografici. Questo atteggia-
mento ha attirato la mia attenzione per la capacità che aveva di
aumentare l’unità del gruppo (in-group) che si compattava nel
confronto con un gruppo esterno (out-group) considerato per le
sue carenze.
La rivendicata autonomia di pensiero e di azione nel con-
fronto con quegli altri membri della redazione non è a mio avvi-
so comprensibile in tutto il vigore con il quale è espressa dai
giornalisti grafici se non la si legge nel contesto più ampio. Pur
avendo una discreta autonomia quando si tratta del lavoro più
marcatamente grafico (di produzione dei menabò), questi sog-
getti lamentano tutti una eccessiva e ai loro occhi ingiusta limi-
tazione quando si parla di iconografia. Questo discorso è conse-
guenza diretta della situazione strutturale e dell’assenza già
menzionata di un insieme di figure eminentemente impegnate
nella scelta delle fotografie. La questione cardine riguarda la
prima pagina del quotidiano, la cui immagine viene scelta gior-
nalmente in modo diretto da un consultivo composto dai vertici
della redazione, dal quale sono esclusi i membri della sezione
grafica, che pure vengono sempre citati come coloro che di fatto
scelgono e impaginano le fotografie più importanti per il giorna-
le. Quando ho chiesto al vice art-director se avesse potuto in-
tercedere per me affinché mi si concedesse di partecipare alla
88 Capitolo 3

riunione nella quale viene scelta l’immagine della prima pagina,


lui mi ha risposto così:

La prima pagina è un problema enorme. Pensa che nemmeno noi


ne sappiamo nulla. Questa cosa la dice lunga, no? Non ci è dato accede-
re alla sua preparazione se non in casi eccezionali e comunque senza
mai presenziare apertamente. La fotografia la scelgono loro, guardando
loro stessi le fotografie che entrano in archivio. Prova a chiedere al vi-
ce-caporedattore centrale. Lui è sempre presente alle sedute, ma dubito
che ti si permetta di assistere.

Quando gliel’ho domandato eravamo in mensa e oltre a lui e


me erano seduti al nostro tavolo due giornalisti grafici che han-
no fatto dei commenti su questa situazione concordando sul fat-
to che non aveva per loro nessun senso. Successivamente mi è
sembrato di capire che quella risposta così netta fornitami dal
vice art-director fosse condizionata dalla presenza degli altri
giornalisti. Ho infatti avuto modo di constatare che le cose non
stavano proprio così. L’art-director e il suo vice sono interpella-
ti ogniqualvolta le immagini disponibili sull’archivio via abbo-
namenti non vanno incontro alle esigenze della prima pagina.
In quel caso sono loro a proporre idee alternative e a cercare al-
trove una fotografia adatta. A non essere mai interpellati per la
prima pagina sono gli altri giornalisti grafici, che pure hanno in
alcuni casi (ben riconosciuti) una certa conoscenza dell’icono-
grafia e degli ambienti del fotogiornalismo.
Ho avuto modo di cogliere un meccanismo in atto costante-
mente, e cioè quello delle diverse logiche cui facevo riferimento
prima e del ruolo essenziale di mediatore tra queste due logiche
svolto dal vice art-director.
In termini generali, i giornalisti grafici rivendicano una mag-
gior familiarità alle immagini che ne renderebbe prezioso il con-
sulto da parte dei vertici. Sono tanti i casi durante i quali questi
soggetti esprimono questa distinzione di merito tra loro (intesi
come gruppo coeso) e i vertici del giornale; tutti questi momenti
di sfogo hanno in comune la denuncia per un mancato ricono-
scimento delle proprie (mai individuali, bensì di gruppo) com-
petenze in materia. Ecco alcuni esempi tratti dall’etnografia:

L’8 luglio 2005 alle 21 entra nell’ufficio grafico il condirettore del


giornale. L’archivista, che per tutto il giorno si è occupato di pre-
selezionare le immagini del “day after la strage di Londra”, stampan-
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 89

dole e affiggendole alla parete accanto al suo desk è momentaneamente


fuori sede, così come il vice art-director. Il condirettore domanda ad
alta voce chi si stia occupando di guardare le fotografie. Gli viene rispo-
sto: “Un po’ tutti” e lui replica: “Tutti vuol dire nessuno”. Ha una certa
fretta, al che un giornalista grafico lo accompagna alla parete per guar-
dare le immagini affisse. Gli viene detto che due di loro le stanno guar-
dando continuamente. Domanda: “Hanno fatto una selezione più accu-
rata?”. “Non credo che l’abbiano già fatta”, gli viene detto. Al che allar-
ga le braccia e si mette a guardare le fotografie affisse. Dopo un breve
minuto ne stacca una e esce con essa. Due minuti dopo rientrano il vice
art-director e l’archivista. Vengono subito informati dell’accaduto e
domandano quale immagine abbia scelto. “Quella della vigilessa che
depone un mazzo di fiori ai piedi della cancellata”. L’archivista si la-
menta: “In prima mettiamo un mazzo di fiori?!”. “Brutta, vero?”, gli
viene chiesto di rimando. “È banale”, chiosa lui. E una collega aggiun-
ge: “Era la più banale che c’era”. E un altro grafico: “È proprio il Cor-
riere. Non cambiano mai”.

Va fatto notare che la situazione particolare che vede una


collaborazione (anche se poi sfumata: la fotografia ad andare in
pagina sarà effettivamente quella scelta dal condirettore) che è
occasionale tra vertici del giornale e giornalisti grafici, è parte di
una riorganizzazione del lavoro e della sua coordinazione che
per il momento preferisco lasciare da parte, ma che riprenderò
tra poco. Il vice art-director in questo caso specifico non ha
commentato l’accaduto, fatto piuttosto curioso, visto il suo in-
terventismo spiccato su tutte le questioni inerenti le scelte delle
immagini. Quando ho chiesto al giornalista che ha pronunciato
l’ultima frase riportata di commentarla per farmi comprendere
cosa intendesse dire, lui mi ha risposto così: “È che al Corriere
c’è chi crede di capire la fotografia, e allora, anziché lasciare che
ce ne si occupi qui dove ne vediamo di continuo, fanno loro. E
vedi che scelte vengono fuori!”.
Due giorni prima lo stesso giornalista mi aveva fatto
l’esempio di una fotografia andata in prima pagina quel giorno.
Si trattava della fotografia satellitare di un asteroide (che era
stato bombardato per deviarne la rotta). Si era espresso così:

Noi grafici siamo talmente stupidi che la prima pagina non ce la


fanno fare. E guarda cos’hanno fatto quelli della direzione!.. C’è il gior-
nale di oggi? [lo cerca velocemente ma non ne trova una copia a portata
di mano]. Insomma: hanno messo l’immagine creata al computer.
C’era anche quella reale, invece loro hanno messo quella fittizia segna-
90 Capitolo 3

landola come fotografia spaziale. Credo che mezza Italia ci abbia riso
dietro!

Non voglio qui entrare nel merito delle critiche. Ma è da no-


tare quest’insoddisfazione corale per un ruolo (quello di sele-
zione delle fotografie) che è affidato loro solo in parte. Di fondo,
i giornalisti sono consapevoli che il problema è strutturale (“Con
una sezione prettamente fotografica il giornale farebbe un salto
di qualità”, è l’espressione concordata che mi è stata passata).
Gli esempi di questa insoddisfazione potrebbero essere molti-
plicati e aprono talvolta anche problematiche lavorative più pra-
tiche, come quando, raccontano i giornalisti grafici, i vertici
scelgono per la prima pagina un’immagine che era già stata se-
lezionata per le pagine interne (e già pre-impaginata), oppure
quando non scelgono una fotografia che i grafici aspettavano
che sarebbe stata scelta, come nel caso che riguarda una foto-
grafia scattata dopo lo tsunami che ha travolto le coste asiatiche
il 26 dicembre del 2004. Il ricordo di quell’evento era ancora
molto vivo al momento della mia osservazione. La fotografia in
questione è quella che ha poi vinto il World Press Photo, l’im-
magine di una donna inginocchiata, con la schiena piegata in
avanti, il viso che sfiora la terra, arida e segnata da profonde
crepe, e le braccia tese, allungate su di essa, in una visione gene-
rale che comunica prioritariamente e in maniera quasi inequi-
vocabile il dolore l’impotenza di fronte alla natura. Racconta un
giornalista grafico:

Quando, a tarda sera, abbiamo avuto finalmente l’onore di vedere la


prima pagina e ci siamo accorti che non avevano preso quella foto, ab-
biamo fatto il possibile per metterla nella seconda pagina. E volevamo
stamparla anche molto grande, perché era una fotografia che meritava
spazio. Perciò c’è stato un effetto domino per risistemare le cose in ma-
niera che il tutto funzionasse. È stata una lotta con il tempo.

Le relazioni strette tra potere e sapere mi pare giochino un


ruolo importante nell’organizzazione della redazione in riferi-
mento alla scelta delle fotografie. Che il vice art-director fosse
la persona posta al crocevia tra queste due forme di sapere, mi è
apparso evidente in riferimento a un paio di circostanze che ri-
porto qui di seguito e nelle quali veniva esplicitata la sua cono-
scenza rispetto a certe scelte passate che apparivano ai colleghi
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 91

di sezione, e in particolare all’archivista, come ingiustificate e


semplicemente sbagliate. Ad esempio, riguardo alla fotografia
dello Tsunami alla quale ho fatto riferimento, il vice art director
mi ha detto che il fatto che non fosse selezionata per la prima
pagina era in realtà comprensibile e si spiegava con il fatto che
– essendo quello “un fenomeno naturale, di lettura scientifica”
– era probabile che i vertici avrebbero optato per una ricostru-
zione sulla prima pagina per dare poi spazio alle immagini di
sofferenza nelle pagine interne, come poi avevano fatto. Questa
semplice considerazione fa emergere un sapere che si estende
alla “costruzione della visione” che ha un importante sfondo
morale e si riconduce alla politica redazionale della testata. Si
tratta qui della capacità di uscire da una logica che si concentra
sulle caratteristiche interne all’immagine (e al più ampio corpus
di immagini disponibili) per entrare in quella della restituzione
di una cornice di senso pensata per l’evento, al punto da rica-
varne una regola tacita che informa le procedure di selezione e
di impaginazione. Anche riguardo alla scelta dell’immagine ras-
sicurante e “normalizzante” della vigilessa (che poi in realtà è
un’agente di polizia) che deposita un mazzo di fiori ai piedi di
una cancellata londinese l’8 luglio del 2005, il vice art director è
stato l’unico a dirmi che in realtà era logico attenderselo, perché
“era giusto dare un’immagine di apertura che rasserenasse sul
ripristino della normalità a Londra”. Si passa così a un giudizio
di natura morale che prende in considerazione la testata come
un soggetto agente che, anziché riflettere le immagini “più inte-
ressanti” che giungono dal mondo, usa le immagini per dare
conto di una scala emozionale ben ponderata. Che il dolore dei
sopravvissuti allo tsunami debba andare nelle pagine interne e
che l’immagine del day after gli attentati terroristici a Londra
debba in quel momento rasserenare i lettori sono due espres-
sioni che sottintendono una visione del giornale come di un ap-
parato di amministrazione passionale degli eventi.
Credo sia in definitiva più conveniente, onde evitare batti-
becchi e perdite di tempo, passare oltre certe incomprensioni,
anche perché il giornale ha bisogno di preservare entrambe le
logiche, sia quella più marcatamente estetica, sia quella più di-
rettamente politica, ma di operare scelte in tempi molto rapidi e
ripartendo gli impegni nella maniera più funzionale possibile.
92 Capitolo 3

Quando ho chiesto all’archivista di segnalarmi quali fossero


stati gli eventi recenti che più avevano coinvolto l’immagine e
durante i quali lui aveva partecipato con un ruolo importante
alla selezione, lui mi ha risposto che il più significativo era stato
senza dubbio lo Tsunami. A quel punto gli ho chiesto se anche
durante la guerra in Iraq le cose fossero andate così e lui ha
cambiato immediatamente espressione. È stato elusivo e ha cer-
cato subito di piantarmi in asso e di occuparsi diversamente. Mi
ha detto soltanto, prima di tornare al suo desk, che lì le cose e-
rano diverse perché si trattava di un evento completamente di-
verso.
Che un disastro naturale e una guerra siano eventi differenti
è indiscutibile. Ma dal momento che la mia domanda verteva
sulle pratiche organizzate e sulle comunicazioni professionali,
ho iniziato a chiedermi cosa vi fosse di sostanzialmente diverso.
Ho avuto molte riconferme del fatto che anche durante i primi
tempi della guerra in Iraq, le cose avvenivano così: le immagini
venivano via via stampate e affisse alla parete, vi era un grande
viavai di redattori che le guardavano e le commentavano con lo-
ro. Insomma, stando ai racconti le cose andavano nello stesso
modo.
Andando oltre nella mia indagine, sono giunto ad alcune
considerazioni. Gli eventi eccezionali – quelli che comportano
un alto grado di investimento da parte della redazione – pur es-
sendo i più rilevanti per la fotografia in termini sia quantitativi
che di impegno di forze – non sono considerati momenti parti-
colarmente interessanti per i giornalisti grafici, o perlomeno
vengono menzionati al pari delle scelte compiute su avvenimen-
ti minori. E tra questi eventi eccezionali, quelli più menzionati
riguardano questioni umanitarie che non comportano tensioni
politiche di rilievo. Al tempo stesso, eventi sportivi di grandi
proporzioni sono comparati – sotto questo punto di vista – a
eventi drammatici e sicuramente più rilevanti per le questioni
politiche che comportano. Le guerre che vedono impegnata una
o più nazioni occidentali – pur essendo gli eventi che comporta-
no la maggior quantità di fotografie pubblicate – non sono mai
menzionate.
Queste considerazioni hanno trovato un possibile accordo
con i dati direttamente osservativi quando ho assistito alla gior-
nata particolare segnata dall’attentato terroristico nella città di
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 93

Londra. In quella giornata, sulla quale tornerò ancora, le scelte


definitive sulle immagini sono state fatte dai vertici della reda-
zione con il consulto del vice art-director per quanto riguardava
la prima pagina e dal vice art-director unicamente per tutte le
altre immagini. Escluso l’archivista, che si è occupato anche in
questo caso di stampare e appendere a parete quante più imma-
gini possibile; i giornalisti grafici hanno dovuto piuttosto con-
centrarsi più che mai sui menabò per supplire al tempo maggio-
re investito nella visualizzazione e scelta delle fotografie dal vice
art-director.
In sostanza, la selezione è stata accentrata nella sua figura e
le consultazioni con i vertici impegnavano solo lui e con fre-
quenze molto superiori alla norma. Ho così capito che nel rap-
presentare fotograficamente gli eventi politicamente più delica-
ti, la redazione ha messo a punto dei meccanismi piuttosto effi-
caci per accentrare il lavoro ed evitare lo scontro tra logiche di-
verse. Le scelte vere e proprie le ha effettuate nel giro di pochis-
simi minuti, alla fine della giornata, quando l’evento era stato
analizzato in direzione e si era giunti alla definizione di una cor-
nice di senso che ho potuto dedurre dall’osservazione del suo
lavoro e da una illuminante conversazione tra lui e il condiretto-
re. Ai giornalisti grafici erano affidati compiti precisi, come
quello di trattare l’acquisto di un’esclusiva sulla quale c’era già
stato il consenso del direttore. Oltre a questi compiti, questi e-
rano tenuti a scovare quante più immagini possibili, in una sor-
ta di febbre concorrenziale. La pressione su cosa potesse aver
trovato la Repubblica era mantenuta costante dal vice art-
director e a un certo momento del pomeriggio il condirettore è
entrato nell’ufficio dicendo che sul sito web de la Repubblica
c’era una bella fotografia che loro si erano fatti scappare, facen-
do insomma una ramanzina che si è poi rivelata peraltro ingiu-
stificata.
In pratica, ho compreso che gli eventi si possono distinguere
innanzitutto in due categorie principali: quelli che comportano
un’esposizione a parete delle immagini (gli eventi considerati
eccezionali – che occupano le prime pagine del giornale facendo
retrocedere le sezioni classiche e riducendone il numero di pa-
gine) e tutti gli altri. Mentre gli eventi “normali” comportano
comunicazioni sporadiche tra giornalisti delle altre sezioni e
giornalisti grafici, e prioritariamente in materia di menabò, gli
94 Capitolo 3

eventi eccezionali escludono o riducono al minimo l’autonomia


delle altre sezioni, mentre prevedono un intervento costante dei
membri della direzione nel visionarle e nel dare istruzioni sulla
selezione. Questi eventi eccezionali si suddividono in due tipi
ulteriori. Vi sono quelli politicamente meno rilevanti (dai giochi
olimpici fino alla catastrofe naturale “lontana”) durante i quali
la direzione si limita a qualche indicazione di massima e lascia
che la selezione sia operata principalmente da un confronto tra
vice art-director e giornalisti grafici, durante la quale questi
hanno un certo potere negoziale sulle scelte ultime. Vi sono poi
quelli politicamente delicati, in cui il potere di selezione sulle
immagini si consuma quasi unicamente nel confronto tra i ver-
tici del giornale e l’art-director e/o il suo vice. In questi casi i
giornalisti grafici si occupano di ricercare quante più immagini
possibile, ma hanno un potere decisionale scarso e sporadico
per quanto attiene alla selezione e alla messa in pagina.
Quando l’evento eccezionale – di qualunque tipo sia – impli-
ca la messa in pagina di un gran numero di immagini e quando
la copertura dell’evento è protratta nel tempo, allora le sezioni
interessate (gli esteri, nel caso della guerra e di crisi umanitarie
o catastrofi naturali, o lo sport, nel caso delle Olimpiadi e dei
Mondiali di calcio) collaborano alla ricerca e alla selezione di
alcune immagini, per non sovraccaricare il lavoro dell’art-
director e del suo vice. Anche in questo caso vi è una distinzione
importante: mentre per gli eventi politicamente di scarsa rile-
vanza possono essere i redattori ordinari a scegliere alcune im-
magini (così come fanno i giornalisti grafici), per gli eventi con-
siderati politicamente delicati, la scelta in questi casi è affidata
unicamente al caporedattore, ed egli partecipa attivamente alle
discussioni tra art-director e vertici della direzione (direttore
editoriale, condirettore, caporedattore centrale e vice capore-
dattore centrale). Sono giunto in questo modo a una categoriz-
zazione di eventi per quanto riguarda il lavoro redazionale di
selezione e messa in pagina delle fotografie che non è sovrappo-
nibile alla tipizzazione offerta in prima battuta dai giornalisti.
Il meccanismo di accentramento decisionale sulle fotografie
è poi rafforzato in maniera significativa dal discorso che riguar-
da la stesura delle didascalie, soggette alla stessa distinzione.
Mentre durante eventi normali sono gestite direttamente dai
redattori ordinari, per gli eventi eccezionali meno problematici
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 95

sono di competenza dei giornalisti grafici sotto la supervisione


del vice art-director, per quelli più problematici la loro stesura
è invece affidata al direttivo, e vengono prodotte per ultime, se-
guendone la concordanza con il resto del paratesto. La fotogra-
fia finisce in questi casi per essere uno strumento eccellente di
comunicazione delle politiche editoriali, e in particolar modo
andrebbe in questi casi analizzata prioritariamente in un con-
fronto con le testatine (anch’esse decise centralmente dai vertici
e dall’art-director), con gli editoriali, ovviamente, e infine con il
resto del paratesto (occhielli, titoli, sommari, didascalie).
Durante l’osservazione ho infatti avuto modo di parlare di-
verse volte con giornalisti scriventi e quando chiedevo loro se
fossero frequenti le correzioni dei loro scritti, la risposta era
sempre la stessa. Mi veniva detto che gli scritti erano corretti di
rado e per motivi che comprendevano, mentre ciò che era spes-
so cambiato senza che se ne spiegassero sempre i motivi erano
piuttosto i titoli. Parlando poi con il vice art-director e chieden-
dogli se quando sceglie le fotografie è già al corrente degli ar-
gomenti e dei tagli interpretativi specifici che verranno dati agli
articoli e dei titoli che verranno attribuiti, lui mi ha risposto che
l’argomento lo si sa quasi sempre, mentre il titolo viene scelto
nella grandissima maggioranza dei casi dopo la fotografia e
quindi svolge anche una funzione di legame con essa. Altre volte
capita che si sappia prima il titolo e in quei casi la scelta della
fotografia è fatta tenendone conto. Il paratesto svolge princi-
palmente la funzione di segnalare “un orientamento coerente”
(come scriveva Breed) e, aggiungo, unitario, della testata nel suo
prendere certe posizioni su un evento.
Va infine rimarcata la diversità d’attenzione che ricopre la
fotografia per i vertici del giornale a seconda della definizione
degli eventi cui si perviene nelle riunioni di redazione. Se, du-
rante la quotidiana attività routinaria, questi non prestano at-
tenzione se non alla fotografia della prima pagina (che in quei
casi merita un discorso a sé), rimanendo indifferenti a un con-
trollo diretto sulle scelte di tutte le fotografie delle pagine inter-
ne, durante le coperture eccezionali di eventi definiti come poli-
ticamente e moralmente rilevanti per il proprio lettorato, dimo-
strano invece un’attenzione notevole alla scelta e alla presenta-
zione delle immagini, stabilendo un controllo totale sugli usi
96 Capitolo 3

dell’immagine, ben al di là di quanto tendono a riferire nelle in-


terviste.

3.2.2. Struttura e pratiche organizzate a il Manifesto

Il Manifesto, a differenza del Corriere della Sera, ha un pho-


toeditor che è di stanza nell’ufficio grafico della redazione. Ciò
significa che vi è una persona il cui ruolo è unicamente quello di
occuparsi della ricerca e selezione delle fotografie. Nell’ufficio
grafico sono presenti altri quattro giornalisti grafici, e un’ assi-
stente del photoeditor per la ricerca delle immagini, la cui man-
sione è ufficialmente quella di lavorare sull’archivio fotografico.
La presenza di due persone interamente dedicate alla fotografia
è una novità che fu introdotta dal 1998, cioè da quando la tecno-
logia digitale e lo sviluppo di internet hanno trasformato la ma-
niera di inviare e ottenere le immagini, con lo sviluppo degli ar-
chivi on-line.
Mentre nell’ufficio grafico del Corriere della Sera vi era una
sola donna, qui, al contrario, vi è un solo uomo. Ma è tutto
l’insieme a presentarsi in un modo diverso, a partire dall’am-
biente e dai documenti che sono stati affissi alle pareti dai gior-
nalisti, segnali anch’essi di un’identità collettiva. E qui la diffe-
renza con il Corriere della Sera è piuttosto marcata. In quella
redazione, erano stati affisse tre cose. La prima era una pagina
di periodico con la citazione di un news-designer statunitense
“Always design with reader in mind”, attaccato dal vice art-
director sul muro dietro il suo desk. Il secondo foglio attaccato
era un piccolo poster con su scritta la celebre frase di un film ca-
tastrofico, nella versione spagnola: “Huston, tenemos un pro-
blema”. Il giornalista grafico che l’aveva affissa mi ha detto:
“L’ho messa perché era divertente. In direzione vogliono fare
spesso tutto loro, ma poi a volte soprattutto sulle fotografie
prendono delle cantonate. Allora quando se ne accorgono ci
chiedono di correggere l’errore, spesso all’ultimo momento,
quando siamo in chiusura. […] Lanciano un mayday, proprio
come accade agli astronauti del film che contattano la base spa-
ziale terrestre”. Il terzo foglio invece era un foglio dattiloscritto
da un giornalista grafico che recitava: “COMMA 7: L’ OCCVAR a
volte unisce, a volte divide”. Quando gli ho domandato tradu-
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 97

zione, mi ha detto che si trattava di un vecchio contenzioso con


l’art-director:

Questo OCCVAR nel linguaggio grafico non si capiva proprio per


cosa diavolo stesse. Quando abbiamo chiesto spiegazioni all’art-
director, lui ha risposto in questo modo. […] Secondo me esprime bene
lo spirito dell’organizzazione del giornale. Cioè, qui un giorno si dice
una cosa e il giorno dopo quella opposta.

Mi sono dilungato su questi elementi perché anche da questo


– e con grande immediatezza – si può notare come nell’ufficio
grafico di quel giornale, l’enfasi sia posta sulle procedure, sul
lavoro e sulle problematiche di coordinazione interna, spesso in
un’ottica critica che diventa ironia, occasione per demarcare
l’identità di un gruppo (i grafici) contro un altro (la direzione, i
vertici). L’enfasi è posta tutta sulle dinamiche interne, per via
delle questioni organizzative di fondo che ho segnalato
nell’analisi o su una metodologia lavorativa (pensare ai lettori).
Ma l’interesse qui è anche comparativo. Nell’ufficio grafico de il
Manifesto, come dicevo, il tono è un altro. Le affissioni sono di
due tipi: o strettamente personali (fotografie dei figli, del con-
giunto, dell’animale domestico), oppure di elementi esterni al
giornale che possono essere letti come “nemici comuni” non so-
lo dei giornalisti grafici e del photoeditor, ma di tutta la reda-
zione. Anche qui il registro è quello ironico. C’è un’elaborazione
grafica di una fotografia della famiglia estesa di Berlusconi, do-
ve ogni volto è stato sostituito attraverso un adattamento (con i
capelli, l’eventuale cappello, ecc.) dal volto di Silvio Berlusconi.
C’è poi una prima pagina del quotidiano Libero in cui la fotogra-
fia di un uomo di colore avvolto nella bandiera della Lega Nord
è impaginata con un grande titolo che suona così: “il Manifesto
ha sbagliato negro”. E nel sommario si spiega che l’uomo, sog-
getto di una fotografia del “giornale comunista” messa in pagina
il giorno prima per illustrare un articolo critico sulle negazioni
del diritto di voto agli immigrati, ritrae in realtà un immigrato
che vive nel nostro paese, ma che, curiosamente, è da anni un
sostenitore della Lega. Oltre a queste due affissioni, vi sono del-
le fotografie di Mario Dondero, un freelance italiano che ha col-
laborato per anni con il giornale. Inoltre è presente nell’ufficio
uno scaffale di libri, molti dei quali sono di fotogiornalismo.
98 Capitolo 3

Che l’ambiente redazionale sia meno stratificato e più coeso


rispetto a quello del Corriere della Sera è un aspetto prevedibile
ma di grande importanza per ciò che comporta a livello organiz-
zativo. Qui i redattori tra loro si chiamano ancora “compagni” e
anche gli avvisi che vengono affissi sulle colonne di passaggio
per l’ingresso nella sala della direzione iniziano così: “Cari com-
pagni…”. La politica di testata è chiara sin dalla necessità di
mantenere in prima pagina la dizione di “quotidiano comuni-
sta”. Insomma, come è risaputo non ci sono grandi speculazioni
da fare al riguardo. È interessante però vedere in quali modi
questo assunto ideologico di base che fa da collante culturale si
trasponga nelle scelte concrete, nelle pratiche quotidiane.
Il photoeditor e la sua assistente (l’archivista) non scelgono
da sole tutte le fotografie. Ma – mi racconta l’archivista:

Siamo sempre di più noi due a sceglierle, perché i grafici adesso co-
struiscono le pagine direttamente sul computer, saltando cioè un pas-
saggio che di solito nelle redazioni è compito di altre figure che però
noi non abbiamo più. Perciò il loro lavoro di grafici, come tempo dedi-
cato, è aumentato e hanno sempre meno tempo a disposizione per
guardare le fotografie che arrivano, anche quelle che arrivano da AP,
che sono le più immediate da consultare.

Ad occuparsi della selezione delle immagini sono però molte


persone: i redattori scriventi possono anche qui pre-selezionare
alcune fotografie. Eppure è molto raro che la situazione di fretta
faccia sì che queste immagini non siano più negoziate se non
per quanto riguarda gli eventuali accorgimenti tecnici, come av-
viene più sovente al Corriere della Sera. Tanto più un evento è
considerato importante, quante più persone parteciperanno alla
selezione delle fotografie. La prima selezione è fatta in questi
casi (prendendo un esempio di notizia dagli esteri) dai redattori
della sezione “esteri” e da archivista e photoeditor, con la diffe-
renza che i redattori scriventi hanno a disposizione solamente
AP, mentre archivista e photoeditor possono approfittare
dell’abbonamento ridotto con Reuters o decidere di comprare
qualche immagine all’unità anche dall’ANSA (e quindi dalle a-
genzie che di volta in volta – di evento in evento – l’ANSA di-
stribuisce per l’Italia). Come mi racconta il photoeditor:
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 99

Guardiamo le immagini di AP, prima di tutto, perché abbiamo AP


anche come agenzia di notizie. Poi cerchiamo su Reuters. Con loro non
abbiamo un vero e proprio abbonamento. Ci forniscono una selezione
campionaria e nulla più. Possiamo prendere foto solo da quella selezione
che è molto ricca sullo sport e molto meno sul resto. Se poi vogliamo
cercare ulteriori immagini, lo facciamo prioritariamente sull’archivio
ANSA, ma non avendo una formula di abbonamento, ogni fotografia
che vogliamo prendere da loro la dobbiamo comprare.

Una volta compiuta la pre-selezione, le immagini vengono


discusse principalmente tra photoeditor e redattori esteri che si
incontrano più volte in entrambe le sedi. Questo permette di
chiarire alcuni criteri per stringere ulteriormente la selezione e
presentarsi la sera in direzione con una numero di fotografie ac-
cettabile (“che non comporti una perdita di tempo eccessiva, dal
momento che le cose da discutere sono sempre molte”, dice
l’archivista). Durante queste discussioni tra redattori e photoe-
ditor si negozia il senso delle immagini relativamente ai compiti
specifici che queste sono chiamate ad assolvere nelle intenzioni
dei membri del giornale. Queste discussioni possono veder in-
tervenire nel dibattito chiunque si trovi in quel momento a por-
tata (altri redattori o giornalisti-grafici) in un clima di apertura
che però ovviamente prevede una differente distribuzione di po-
tere simbolico a seconda dei ruoli. In linea generale l’ultima pa-
rola prima di arrivare alla sessione in direzione spetta al photo-
editor, ma sovente i redattori arrivano con delle fotografie che
la photoeditor considera meno opportune o addirittura sbaglia-
te per i criteri che vuole seguire.
In direzione, arrivano con le immagini i redattori e il photo-
editor (ma a volte anche l’archivista) e qui le immagini selezio-
nate vengono guardate e discusse con i direttori (a il Manifesto
al momento dell’osservazione erano in due) e gli altri vertici re-
dazionali (caporedattore, ecc.). C’è da dire che nessuno dei ver-
tici della redazione ha guardato fino a quel momento le fotogra-
fie. Questo non succede infatti mai – nemmeno per la prima pa-
gina. Le differenti opinioni che a volte hanno caratterizzato la
giornata di negoziazione tra photoeditor e redattori esteri ven-
gono riproposte. “Alla fine l’ultima parola ce l’ha il direttore, e
meno male – dice l’archivista – se no non se ne uscirebbe mai”.
Questo iter si ripropone invariabilmente per tutti quegli eventi
che al giornale sono considerati di grande importanza. Per even-
100 Capitolo 3

ti ritenuti importanti ma più fugaci e che prendono anche meno


spazio in pagina, viene a volte saltato il percorso di discussione
in direzione. In quei casi, i vertici guardano le immagini soltan-
to quando le pagine sono già state composte, come controllo fi-
nale, e solo in casi rarissimi e tutto sommato trascurabili conte-
stano qualche scelta comportando una discussione e un’even-
tuale nuova selezione.
Si può dire che vi sia in questo giornale una sola distinzione
tra tipizzazioni da fare: tra scelte considerate di routine (che
perlopiù vengono fatte dai redattori direttamente e concordate
coi grafici, senza un impegno diretto del photoeditor né dei ver-
tici) e scelte su eventi definiti come rilevanti per il giornale o in
assoluto per i media (e in questo caso il percorso è quello de-
scritto e investe tanti soggetti in più quanto più è considerato
anche fotograficamente importante). Nel caso della guerra ira-
chena, la scelta delle immagini ha coinvolto in momenti diversi
quasi tutti i redattori del giornale, dal momento che la strategia
per eccellenza de il Manifesto sulla copertura di quell’evento è
stata proprio quella di disseminarne il più possibile la copertura
su tutte le pagine e le sezioni del quotidiano.
Questa semplificazione dei processi organizzativi è senza
dubbio possibile in virtù della coesione e della comune visione
politico/ideologica di fondo dei giornalisti che qui lavorano. Ma
è anche – e congiuntamente, in un processo che si auto-rafforza
– il frutto di un’apertura costante che raggiunge il suo apice nel-
la strutturazione totalmente inclusiva della riunione di redazio-
ne. Qui tutti i membri del giornale possono partecipare e dire la
loro sugli argomenti che di volta in volta vengono discussi. Io
stesso non ho avuto nessuna interdizione all’accesso e ho potuto
assistere a tutte queste riunioni durante il periodo osservativo.
Qui vengono continuamente poste le basi della partecipazio-
ne collettiva al giornale. Ritornando alla fotografia, una que-
stione interessante riguarda l’archivio. Osservando le modalità
di archiviazione delle immagini ho potuto infatti comprendere
meglio che in altri contesti certe questioni attinenti all’uso delle
immagini in questo giornale.
L’archivista del giornale e il photoeditor dedicano ogni dieci
giorni alcune ore del loro tempo all’archiviazione delle fotogra-
fie. Anche se non sarebbe permesso archiviare le immagini che
le agenzie inviano (il divieto è scritto al fondo di ogni pagina
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 101

web che si apre con immagine, credito e didascalia), questa pra-


tica di archiviazione è comune alla maggior parte dei quotidiani
e anche al Corriere della Sera viene praticata abitualmente5.
L’archiviazione ha un valore perché consente di salvare in me-
moria le immagini che – dopo un periodo di tempo che oscilla
tra il mese e i tre a seconda dell’afflusso di immagini – le agen-
zie non rendono più accessibili via abbonamento. A il Manifesto
vengono archiviate una quantità notevole di immagini, e questo
viene fatto secondo due logiche distinte. Una prima logica segue
criteri che possiamo dire di interesse sia storico che fotogiorna-
listico. Mi ha raccontato l’archivista:

Della strage di Madrid ad esempio, abbiamo archiviato centinaia di


immagini. È stato un lavoro notevole, ma lo abbiamo fatto sia per
l’interesse che ricopre quell’evento nella nostra storia, sia perché erano
di una intensità e drammaticità tale che ci sembrava un delitto lasciare
che il sistema le cancellasse per sempre.

Sia lei che il photoeditor sono tuttavia consapevoli della


scarsa utilità pratica – l’uso giornalistico – che segue questa lo-
gica di archiviazione:

Tutte quelle fotografie non ci serviranno mai. Al limite se ne rimette


qualcuna durante le ricorrenze, una volta l’anno. Ma ad esempio quelle
particolarmente drammatiche non le riproporremo mai, perché non
hanno senso immagini così violente per le ricorrenze.

A questa logica poco utile ai fini dell’uso giornalistico, si


somma una logica più chiaramente strategica. È il caso dell’ar-
chiviazione di tutte quelle fotografie che sono caratterizzate da
una certa durata e che come ho scritto nel capitolo precedente,
sono sempre più numerose nel fotogiornalismo contemporaneo.
Le fotografie che hanno maggior durata ai fini giornalistici sono
quelle immagini di personaggi o luoghi che hanno essi stessi
una durata come soggetti e oggetti dell’attualità. Si va dagli uomini
politici alle immagini dei pozzi petroliferi o di luoghi importanti
come il Parlamento, la Casa Bianca, il palazzo dell’ONU, per fa-

5 Al Corriere della Sera è stata anche fatta la digitalizzazione delle im-

magini cartacee che erano state archiviate dal giornale negli anni. Non di
tutte però, ma solo di quel 20% circa che ancora possono essere ri-
attualizzate.
102 Capitolo 3

re solo alcuni esempi. Inoltre, a questa categoria appartengono


tutte le immagini considerate puramente “simboliche” (laddove
il simbolo è ancora attualizzabile) e quelle in parte decontestua-
lizzate e in parte ancorate a un contesto per la presenza di un
elemento simbolico. Queste ultime sono quelle che, come ho
avuto modo di scrivere, sono costruite per sottrazione di ele-
menti e rimarcando soprattutto i simboli durevoli presenti nella
fotografia. Il principio è quello della fotografia di stock, che tan-
to ha marcato le politiche della Corbis di Bill Gates e che sta pe-
netrando tutti gli ambienti del nuovo fotogiornalismo on-line.
Rende l’idea questo estratto di intervista all’assistente del pho-
toeditor (l’archivista del giornale):

Ti faccio un esempio: le foto di industria. Quelle invecchiano velo-


cissimamente. Perché una macchina che si produceva quindici anni fa,
la vedi oggi e ti accorgi che è vecchia. Non è più credibile la foto di un
operaio che ti mostra una macchina di 10 anni fa.

Ovviamente l’invecchiamento di un’immagine (e la sua per-


dita di credibilità) è il portato delle rappresentazioni giornalisti-
che sulle conoscenze che i lettori hanno di certe questioni. Si
tratta perlopiù di false inferenze, dal momento che i giornalisti
fanno account su se stessi. In fondo sono proprio i media a co-
struire buona parte delle nostre conoscenze sull’attualità. Se
una questione è generalmente poco mediatizzata o lo è in modo
stereotipato e poco dettagliato, è presupposto che un possibile
elemento ormai vecchio per quel tale contesto, pur presente
nell’immagine, non sia riconosciuto come vecchio dal lettore.
Qui si può vedere quanto la nostra conoscenza dei cambiamenti,
cioè la nostra capacità di distinguere l’attualità e l’inattualità di
un racconto, sia dipendente dal sistema dei media. L’utilizzo
sempre più massiccio di fotografie dette di stock, specie su alcu-
ne questioni, è un segno tangibile di come i media possano gio-
care un ruolo centrale nel rappresentare il cambiamento o
l’immobilità di certe realtà del mondo. Con la regola che tanto
più un evento è lontano dai nostri interessi (storici, economici,
politici) e avente un basso valore-notizia, tanto più l’immagine
da usare passandola per attuale può essere datata.
Come dirò meglio tra poco, la logica del vero e quella del ve-
rosimile si incrociano nei discorsi fotogiornalistici fatti nelle re-
dazioni e rispondono a criteri precisi di utilizzo delle immagini
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 103

che fanno capo a principi pratici che ogni testata segue per rap-
presentare il mondo in immagini, evitando le critiche e mante-
nendo vive le esigenze che di volta in volta la fotografia soddisfa
nell’economia del racconto giornalistico.
Ma – per tornare al discorso principale di questo paragrafo –
l’archiviazione di fotografie non riutilizzabili può tornare di una
certa utilità in questo giornale per il caso particolarissimo della
fotografia di prima pagina che qui è meno legata all’esigenza di
essere o di sembrare attuale, perché non è presa in considera-
zione in maniera indipendente, ma esplicitamente nell’insieme
del significato che crea con il titolo. La struttura della foto-
notizia può produrre un senso connotato di attualità anche
quando l’immagine usata è datata, purché sia riconoscibile in
quanto immagine del passato, acquisendo quel significato in re-
lazione all’attualità del titolo.
Il primo incontro nel quale si gettano le basi per la selezione
dell’immagine di prima pagina avviene intorno alle 19, incontro
ancora aperto a tutti, ma al quale partecipano solitamente, oltre
ai vertici, i capo-sezione e il photoeditor, e nel quale si arriva a
decidere quale sarà il discorso di apertura. Parlo di discorso e
non di evento, perché perlopiù la questione è definita in termini
di commento, presa di posizione su uno o più accadimenti della
giornata. Perlopiù questo lo decidono i vertici, ma siccome que-
sta particolare formula della foto-titolo rende il discorso da
produrre dipendente dall’immagine più di quanto lo siano le
immagini di prima pagina sugli altri giornali, ogni proposta di
fotografia che viene fatta durante la discussione fa slittare il si-
gnificato polisemico del “gioco” e di fatto è un modo di negozia-
re le direzioni che assumerà questo commento. Spiega il photo-
editor:

Da queste prime idee parte il brainstorming a cui tutti possono


partecipare, anche se poi di solito si è pochi ma questo non per esplicite
restrizioni, ma perché i più creativi alla fine si dimostrano sempre gli
stessi.

La regola basilare di questo “gioco” è che, spiega sempre il


photoeditor, “la foto non racconta mai il titolo e il titolo non
racconta mai la foto”. I risultati migliori, come mi viene detto,
sono quelli in cui si riescono a ottenere due aspetti della giornata
con foto e titolo (cioè a rendere polisemico il commento/presa
104 Capitolo 3

di posizione così ottenuto). Il lavoro organizzativo per la prima


pagina è anch’esso corale (tutti possono partecipare) e può sov-
vertire i rapporti gerarchici interni alla redazione. Come mi rac-
conta sempre il photoeditor:

A volte viene fuori prima il titolo e allora siamo noi del fotografico a
inseguire, andando alla ricerca di immagini che facciano il gioco im-
maginato; altre volte invece si parte da un’immagine che abbiamo se-
gnalato noi e sono gli altri a inseguire, cercando un titolo opportuno.

Ancora, la possibilità di questa formula della foto-titolo è il


risultato di un livello di partecipazione alle principali decisioni
rappresentative che è possibile in virtù di una comune auto-
rappresentazione che le riunioni aperte e l’alto grado di comu-
nicazione a tutti i livelli rinsaldano giorno dopo giorno. Siccome
i giochi del foto-titolo sono talvolta audaci e non immediati,
l’archiviazione è necessaria. Mostrandomi una copia de il Mani-
festo, l’archivista mi dice:

Ecco, qui era arrivato un nuovo video di Bin Laden. Volevamo iro-
nizzare su questo aspetto perché come sai i video di Bin Laden sono
come dei giocattoli che arrivano di tanto in tanto e soprattutto quando
bisogna spostare l’attenzione da una questione spinosa verso qualcosa
ritenuto più pericoloso e grave. Volevamo dare questa interpretazione,
allora abbiamo ripescato una foto dall’archivio, perché poi non è che
l’AP la manda, perché non fa cose così ardite. Questi sono dei giocattoli
in vetrina tra i quali c’è un Bin Laden giocattolo. La foto è scattata in
non so quale paese arabo a una vetrina di negozio. Qui si tratta di un
grande lavoro di ricerca e di memoria.

Tuttavia, anche in questo giornale, per esigenze di coerenza


rappresentativa, le didascalie sono sottratte al fotografico. A
stenderle sono i redattori, così che non entrino in contraddizio-
ne con i pezzi scritti. E anche questo aspetto è interessante, per-
ché il legendum svolge un ruolo fondamentale. A volte viene
trascurato perché considerato non necessario; altre volte è fon-
damentale per far vedere qualcosa di un’immagine (magari un
dettaglio o il contesto invisibile che però solo le può dare un cer-
to significato) o per spingere l’attenzione su un elemento a sca-
pito di un altro che è considerato meno coerente con il senso dei
pezzi in pagina o con l’enfasi specifica che si vuole porre nel suo
legame con i titoli. Quando la didascalia è trascurata o quando
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 105

sono trascurati i crediti fotografici, il photoeditor e l’archivista


si lamentano, e qui si scorge come vi sia una tensione verso una
correttezza fotogiornalistica che non è comunemente sentita.
Non è solo un fatto di cultura, ma anche di quanto l’immagine
sia asservita a certi fini editoriali e quanto invece sia considerata
importante in sé. Si tratta di concezioni differenti di giornalismo
che a volte arrivano a scontrarsi su scelte specifiche di fotografie
da mettere in pagina. Riguardo alle didascalie, l’archivista mi ha
detto ciò che segue:

Poi noi controlliamo che le abbiano messe. Questo è un problema,


perché a volte non vengono messe ed è successo che l’immagine per-
desse di senso. Oltre al fatto che ci teniamo al credito e alla didascalia
come valori in sé. Ultimamente abbiamo messo una foto di processo ai
brigatisti anni 80. È andata in pagina senza la didascalia. La foto era
piccola: si vedeva solo una gabbia con queste persone dentro e due ca-
rabinieri davanti. Lì un po’ il titolo anche ti aiuta però non sempre c’è
una connessione così stretta che fa sì che tu possa capire. Loro le met-
tono solo quando devono piegare l’immagine ai testi, mentre se questo
non è necessario non pensano alla didascalia come qualcosa che è co-
munque importante.

Come si vede, la fotografia non è considerata mai – né qui né


altrove – come notizia in sé. Le immagini sono sempre cercate
dopo che l’agenda degli eventi da trattare è stata delineata sulla
base delle veline di agenzia e degli eventi programmati e attesi e
della discussione che ne segue nella riunione di redazione. È in-
teressante a questo proposito un racconto che mi è stato fatto
dalla photoeditor. Riguarda le immagini giunte da New Orleans
dopo che l’uragano Katrina si è abbattuto sulla città alla fine di
agosto del 2005:

La notizia di New Orleans si chiuse per i nostri giornali su un tot di


morti. Poi venne fuori che erano molti, molti di più e ci si disse che per
le proporzioni del disastro il numero di fotografie pubblicate era stato
limitato. Inoltre, dopo che la notizia non era più di attualità sono co-
minciate ad arrivare in archivio molte fotografie estremamente dram-
matiche, molte immagini di cadaveri che prima non erano disponibili
perché per diversi giorni la maggior parte dei corpi era in fondo
all’acqua.

A quel punto, c’erano le immagini che forse andavano mo-


strate, per offrire al lettore l’impatto tremendo e drammatico
106 Capitolo 3

della catastrofe. Ma la notizia era passata. Le fotografie non a-


vevano più un vero spazio giornalistico. A il Manifesto hanno
pubblicato, mesi dopo, le fotografie di un giornalista che ha fat-
to un reportage sulle zone colpite dall’uragano. Era un espe-
diente per parlare dell’America e della ricostruzione con i gravi
ritardi imputati all’amministrazione Bush. Si trattava quindi di
un reportage a puntate che rientrava negli interessi tematici del
giornale. Ma le immagini più drammatiche, quelle delle agenzie
giornalistiche sono state archiviate ma non sono state utilizzate,
né qui né sugli altri giornali. Capita invece che fotografie datate
e che non avevano trovato a suo tempo un interesse giornalisti-
co per la mancanza di una notizia definita come tale, tornino at-
tuali un po’ di tempo dopo e vengano “riciclate” come immagini
adatte a illustrare una notizia. È il caso di tutte quelle fotografie
che ho detto essere sufficientemente generiche ma anche suffi-
cientemente connotate (grazie alla presenza di oggetti o soggetti
simbolo) che le agenzie stesse rimettono in circuito quando si
accorgono che una notizia dell’ultima ora potrebbe essere effi-
cacemente illustrata con una di quelle “vecchie immagini”.
Due sono le lezioni da trarre: la prima è che la fotografia,
quando si colloca oltre la notizia, al di qua o al di là di essa, dif-
ficilmente troverà un suo senso giornalistico. La seconda lezione
riguarda il legame tra attualità e immagini con forti risvolti e-
mozionali. Nell’esempio di New Orleans, sul quale tornerò, si
nota la specificità dell’immagine rispetto ai testi scritti. Laddove
le redazioni ritengono che “mostrare direttamente” certe tipolo-
gie di immagini quando la notizia si è allontanata dall’attualità
più stretta sia un atto da evitare, il testo scritto può nondimeno
permettersi di “dare a vedere”, purché il processo di costruzione
delle immagini sia lasciato all’immaginazione dei lettori. La
scelta di evocare l’immagine piuttosto che mostrarla ci porta al
cuore del discorso sulla gestione di un’emozionalità lecita, ovve-
ro del discorso sul giornalismo come guardiano di una morale
della visione, mantenuta attraverso scelte e strategie di messa in
pagina non sempre regolate da una deontologia, ma sviluppate e
negoziate per vie informali, sia dentro le singole redazioni, sia
nel monitoraggio delle altre testate che ogni redazione porta avan-
ti. Tutto questo sarà trattato e dibattuto nel prossimo capitolo.
Sebbene non vi sia in generale spazio per una fotografia che
preceda o segua una notizia scritta, il Manifesto (e anche, come
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 107

vedremo, Libération) mantengono uno spazio da dedicare a una


fotografia, uno spazio questa volta autonomo, indipendente dal
suo legarsi ai titoli dei pezzi presenti nella pagina.

Abbiamo una pagina delle lettere. Lì, ogni giorno, mettiamo una fo-
tografia che fa discorso a sé, scorrendo l’archivio AP, indipendente-
mente dalle notizie e proprio alla ricerca di una notizia non trattata.
Ovviamente deve essere una fotografia su cui si possa scrivere qualco-
sa, perché alla base ha una didascalia che fa da mini-articolo. […] Di
solito sono immagini di esteri.

In questo caso, si parte dalla visualizzazione delle immagini,


escludendo le fotografie relative a eventi già trattati ed è a parti-
re da qui che la notizia (per l’appunto una foto-notizia) viene
fuori. Questo discorso è importante da segnalare non tanto per
dire che questa modalità è possibile ma per far notare quanto
non è considerata interessante. Pochissimi giornali la contem-
plano e chi lo fa la rilega – come è il caso qui – nelle pagine in-
terne, alla rubrica delle lettere. Considerare le fotografie come
fonti di notizie non rientra per nulla nella mentalità giornalisti-
ca, anche se uno spazio di questo tipo si può rivelare utile pro-
prio per quei rari casi in cui davvero sia la fotografia ad essere la
materia stessa della notizia, come fu nel caso delle torture nel
carcere iracheno di Abu Ghraib. A il Manifesto non fu tuttavia
usato quello spazio perché quelle fotografie non rientravano tra
gli eventi interessanti non ancora coperti a fine giornata, ma a
Libération, dove quello spazio viene riempito secondo criteri
differenti, sebbene sempre interni all’articolazione tra notizie
scritte e fotografie, l’immagine fu messa proprio lì, come ve-
dremo tra poco. Eppure, per restare sull’esempio di Abu Ghraib,
a il Manifesto venne fatta una cosa che negli altri giornali non si
farebbe e questo per esemplificare ulteriormente le caratteristi-
che dell’organizzazione di questo giornale. Mi è stato raccontato
che quando uscirono su AP le prime fotografie delle torture di
Abu Ghraib (cioè dopo che la CBS aveva già consumato la sua
esclusiva), né la photoeditor, né la archivista si erano accorti
della fotografia della soldatessa England che teneva al laccio un
prigioniero nudo, costringendolo ad avanzare gattoni. La foto-
grafia fu vista solo molto tardi, quando il giornale era già siste-
mato e non c’era il tempo per cambiare o per inserire un’ulte-
riore immagine, vista la complessità della riorganizzazione gra-
108 Capitolo 3

fica generale (l’effetto domino). A quel punto, mi viene raccon-


tato, il direttore di allora, ossia Riccardo Barenghi (Jena), che è
oggi passato a La Stampa e che nel momento della mia osserva-
zione non era più direttore, ha offerto la sua rubrica di com-
mento in prima pagina perché venisse introdotta, con un mini-
mo sforzo grafico, quell’immagine, rinunciando in questo modo
al suo pezzo. E proprio qui risiede la specificità più evidente di
questa relazione rispetto alle altre esaminate. Il maggior con-
formismo interno, sulla base di una visione del mondo condivi-
sa, ma soprattutto la costruzione continua di questa comune
narrazione rafforzata dalle riunioni quotidiane aperte6, produ-
cono un’organizzazione interna che riduce la richiesta di rigide
gerarchie nella presa di decisione (sebbene alcune siano essen-
ziali ai bisogni giornalistici e sono chiaramente mantenute) e
attenua le necessità di separatezze e segretezze, pur mantenen-
done alcuni (come la pratica delle stesure delle didascalie sepa-
rata da quella di selezione e messa in pagina delle relative im-
magini).
Tornando ora all’esempio della guerra, si può dire che la co-
pertura di un tale evento ha portato allo sviluppo di strategie
organizzative molto differenti da quelle esaminate nel caso del
Corriere della Sera. Se in linea generale non c’è stato nessun
riordinamento rispetto alle modalità abituali nel trattare le im-
magini di eventi considerati di grande interesse, la comune inte-
sa sulla posizione presa dinnanzi all’evento (rafforzata dalle di-
scussioni nelle riunioni di redazione) ha portato semmai ad un
allargamento delle persone coinvolte nella scelta e discussione
delle immagini. Inoltre, questa comunione di intenti ha permes-
so di sviluppare dei “racconti per immagini” coerenti e costruiti
su un terreno comune dal principio alla fine, nonché la produ-
zione di un linguaggio di guerra anche nel trattare notizie di
tutt’altro genere, persino sportive, come si può facilmente evin-
cere da una lettura dei titoli del giornale nel primo periodo di
guerra all’Iraq. Nelle parole del capo-sezione esteri:
6 Non che in queste riunioni manchino i diverbi, ma la narrazione co-

mune è sempre richiamata per risolvere i contenziosi a favore di una parte


o dell’altra. Spesso mi è capitato di assistere a dibattiti su un tema da trat-
tare nel giornale dove di fatto la discussione sui perché diventava immedia-
tamente discussione sui valori chiave della narrazione comune che viene
così riscritta giorno per giorno, alla presenza di un grande numero di redat-
tori, potenzialmente di tutti.
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 109

Quando abbiamo un evento importante che prende tante pagine


come è stato per la guerra all’Iraq, prima si disegnano le pagine, poi
quando abbiamo un’idea chiara sulla direzione dei pezzi, allora si scel-
gono tutte le foto insieme e le si mette tutte in una volta, il che ci con-
sente anche di fare un racconto fotografico, oppure di bilanciarle me-
glio, di evitare ripetizioni, di dare un ritmo bilanciato alle foto. […]
Quando ci sono tante pagine, allora si pensa proprio all’insieme.

Il risultato è quello di una rappresentazione fortemente se-


gnata da una grande coerenza interna e da un alto grado di con-
senso sul trattamento da riservare a certe tipologie di soggetti
riprodotti in fotografia.

3.2.3. Struttura e pratiche organizzate a Le Figaro

A Le Figaro c’è una sezione fotografica distinta da quella


grafica, sia per compiti che per collocazione nello spazio fisico
della redazione. Isolata fisicamente, la sezione fotografica è
composta da due photoeditor (poco dopo che ho compiuto la
mia osservazione uno dei due photoeditor è stato licenziato), da
cinque archivisti (detti “documentalistes”), dai fotografi di reda-
zione (che perlopiù sono impegnati in esterna) e da un tecnico
addetto al ritocco delle immagini. Durante il periodo della mia
osservazione, gli archivisti erano in numero variabile da due a
tre (fanno i turni); i due photoeditor invece erano presenti en-
trambi quattro giorni su sei, mentre ne era presente solo uno gli
altri due giorni della settimana (per via del “giorno libero”).
La sede della redazione de Le Figaro è grandissima, su quat-
tro piani, e comprende anche la redazione del magazine. Gli
spazi sono molto ampi e fortemente compartimentati. L’am-
biente è in generale piuttosto asettico e ai giornalisti piace poco.
C’è anche pochissimo viavai nei corridoi e nelle singole sezioni.
I giornalisti delle diverse sezioni comunicano tra loro soprat-
tutto via telefono e col sistema di intranet. La sezione fotografica
è costituita da un’ampia stanza rettangolare nella quale vi sono i
desk degli archivisti, dei fotografi interni e quello dell’addetto al
ritocco. Da questa grande stanza è ricavata una stanza più pic-
cola, divisa da pareti di vetro opaco e con un’apertura che fa da
passaggio. In questa stanza ricavata vi sono i due desk dei pho-
toeditor. Il carattere asettico si unisce a un tocco di impersona-
lità piuttosto marcato. Non vi sono affissioni (sono addirittura
110 Capitolo 3

vietate), tranne nella stanza dei photoeditor, dove sono state at-
taccate a parete una ventina di fotografie di circa 10x15cm l’una.
Si tratta di fotografie di stock dai colori molto intensi e acidi,
sullo stile delle immagini pubblicitarie o d’agenzie di viaggi. Un
tramonto, un gatto (ma non quello di qualcuno dei redattori), la
savana, un aereo militare in controluce durante il volo, e altre
fotografie del genere. Non ci sono libri di fotogiornalismo né al-
cun segno di un interesse specifico per un immaginario di quel
genere.
La compartimentazione è l’elemento d’insieme più marcante
la struttura spaziale della redazione e come vedremo ha le sue
implicazioni sulle pratiche organizzate in questa redazione. Un
primo elemento di descrizione organizzativa viene da questa
lontananza spaziale tra il fotografico e il settore grafico del gior-
nale. È questo un elemento che provoca disagi ai giornalisti del
fotografico, che mi hanno raccontato più volte delle loro diffi-
coltà a gestire questa scarsa comunicazione con i “maquetti-
stes”. Nel racconto di un archivista:

Quella che dovrebbe essere la prassi, e cioè che i disegni delle pagi-
ne vengano prima della scelta delle fotografie, qui è un fatto raro. Que-
sto comporta che noi si scelga delle immagini senza conoscere il forma-
to richiesto. Una volta mi è stata chiesta una fotografia della Tour Eif-
fel. Non avevo dubbi sul fatto che ci fosse un buco in pagina in formato
verticale e che, parlando di un fatto nazionale, mi avessero chiesto quel
simbolo. Così ho inviato due fotografie della Tour Eiffel in quel forma-
to. Alla fine si è scoperto che avevano bisogno di una fotografia pano-
ramica. Come se mi avessero chiesto una verticale del Pentagono, per
dare l’idea! Queste sono cose che succedono di continuo7.

L’isolamento dal settore grafico non è l’unico isolamento im-


portante che caratterizza la posizione del fotografico nella più
complessiva struttura della redazione. Anche qui le didascalie
sono scritte dai redattori, ma a differenza delle altre redazioni
qui non è previsto che i giornalisti che selezionano le immagini
diano un ultimo controllo alla loro presentazione finale, né vi
sono incontri diretti tra giornalisti scriventi e giornalisti del fo-
tografico, come avviene invece sempre quando il fotografico è di
7 Per semplificare la lettura, questo e gli altri estratti di intervista etno-

grafica che seguiranno sono proposti nella loro traduzione italiana che ho
fatto personalmente, cercando di mantenere la massima fedeltà al testo
francese.
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 111

fatto gestito nell’ufficio dove vengono disegnate le pagine. Au-


mentando la catena dei passaggi e riducendo la comunicazione,
la situazione complessiva è spesso di difficile gestione. Uno dei
due photoeditor è stato licenziato proprio per un errore legato a
questi problemi organizzativi. Spiega un archivista molto giovane:

Serviva una fotografia di un importante uomo della finanza france-


se. La richiesta è arrivata al photoeditor, ma non gli è stato chiesto di
cercare la foto di Tizio, cioè, non gli è stato fatto il nome e il cognome
della persona da cercare. È stato detto: nella tal pagina ci serve una fo-
to del presidente di quella tal cosa. Cioè, è stato detto il ruolo che rico-
priva, ma non il nome. Il photoeditor ha girato a me la richiesta, perché
sono io ad occuparmi di fotografie dal mondo dell’economia e questo,
bada, senza averne specifiche conoscenze. Figurati che io da tre anni
lavoravo al sito web ma senza occuparmi affatto di economia. Poi di
colpo mi hanno spostato qui. Insomma, per farla breve, faccio la ricerca
sull’archivio e trovo qualche foto. Siccome avevo fretta in quel momen-
to, ne ho aperte soltanto due. Non ho letto la didascalia, non ci ho
nemmeno pensato. Ho mandato quelle due. Il giorno dopo è venuto
fuori il casino. Avevano messo la didascalia col nome e cognome, ma la
fotografia era dell’ex presidente di quella tal cosa. Facendo la ricerca in
quel modo, mi era uscita una foto vecchia. C’è stata una lavata di capo
enorme che è culminata con il licenziamento del photoeditor.

Tutti sperano che questi problemi verranno risolti attraverso


l’acquisto di un sistema di gestione, il sistema Eidon che do-
vrebbe permettere a tutti i giornalisti di vedere a monitor le co-
struzioni delle pagine mano a mano che vengono fatte. Tuttavia
l’acquisto di questo sistema non è certo. Al fotografico dicono
che forse, una volta che questo sistema sarà operativo, ci sarà
anche qualche possibilità che sia la struttura della pagina a po-
tersi adattare alla fotografia, qualora un’immagine migliore ma
con un formato inadatto al primo disegno di pagina venga pro-
posta come alternativa, cosa che al momento non avviene.
Nonostante il numero di persone coinvolte e la spesa com-
plessiva (al giornale hanno l’abbonamento con tutte le agenzie
che utilizzano questa formula e hanno diritto a comperare im-
magini all’unità da altre agenzie senza troppe restrizioni di bu-
dget), nessun membro del fotografico (nemmeno i photoeditor)
sono sollecitati a partecipare attivamente alle riunioni più im-
portanti, né a dire la loro sulla messa in pagina o a controllare le
didascalie. Questo insieme di uomini e mezzi serve fino alla pre-
selezione di immagini, peraltro richieste loro con criteri strettis-
112 Capitolo 3

simi, e senza che abbiano la possibilità di prendere alcuna deci-


sione ultima. Anche durante la guerra, le richieste che venivano
fatte riguardavano il soggetto esatto della fotografia (cercare
l’immagine di un carro armato, per esempio, o di un soldato
mentre spara). Queste richieste vengono fatte senza avere la
minima idea delle fotografie che stanno arrivando via abbona-
mento, perché nessuno oltre ai membri del fotografico ha acces-
so alle banche d’immagini. Il lavoro dei photoeditor (tranne per
il coordinamento dei fotografi interni e per la “partecipazione” –
di cui dirò meglio – alla riunione per la prima pagina) non diffe-
risce sostanzialmente da quello degli archivisti, se non per il fat-
to che per gli eventi più significativi le immagini vengono guar-
date più frequentemente da loro che dai subalterni. Eppure, no-
nostante i loro compiti si limitino a questo, tutti loro passano le
giornate davanti ai PC a compiere ricerche per parole chiave e a
visualizzare le immagini a monitor. Il tutto avviene in un silen-
zio quasi continuo, rotto talvolta da una telefonata o da suoni
elettronici emessi dai computer, più raramente da brevi dialo-
ghi. I desk sono tutti uguali, con la stessa disposizione di PC e
telefono; i divisori di plastica non permettono agli archivisti di
vedersi pur lavorando uno di fronte all’altro. In un contesto del
genere fare osservazione del lavoro di redazione diventa
un’impresa comica. Mi sono quindi sistemato nella stanza dei
photoeditor e ho deciso di interrompere di tanto in tanto il lavo-
ro di uno di loro, chiedendo spiegazioni sui suoi movimenti di
occhi e di mano. Cercavo in tutti i modi di farlo “pensare ad alta
voce”, così da cogliere almeno qualche criterio di selezione.
Privati della possibilità di spostarsi da un soggetto a un altro
inerente allo stesso evento ma considerato per qualche motivo
più adatto, i photoeditor del giornale non possono fare altro che
andare alla ricerca di timide variazioni sul tema, verso qualcosa
di nuovo, di “non ancora visto”, in una tensione verso la curiosi-
tà o la eccezionalità di un’immagine partendo però perlopiù da
richieste precise (in direzione sanno quello che vogliono) e al
tempo stesso vaghe (in direzione non hanno sotto agli occhi le
fotografie reali). Un esempio permetterà di capire meglio quan-
to sto dicendo:

Squilla il telefono. Un photoeditor alza il ricevitore senza smettere


di guardare le foto sul monitor. Dopo un breve silenzio annuncia che
hanno trovato qualcosa, ma si trattava perlopiù di immagini di scontri.
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 113

Un altro silenzio, poi dà conferma. “Sì, va bene. Me ne occupo subito”,


dice, e riaggancia l’apparecchio. Sbuffa, si alza dalla sedia e si affaccia
alla sala degli archivisti. Chiama uno di loro e dice ad alta voce: “Devi
cercare una fotografia degli scontri alla Sorbona [tra gli studenti e la
polizia] dove però non si vedano gli scontri”. Io no, ma l’archivista dà
segno di aver capito. Lui torna a sedersi e riprende il lavoro. […] [sono
passate due ore]. Il photoeditor si affaccia [di nuovo] alla sala degli ar-
chivisti [e richiama la stessa persona di prima]. “L’avevi fatta la sele-
zione della Sorbona?”, chiede. Gli viene data una risposta affermativa.
L’archivista a questo punto gli invia la selezione sul computer e lui tor-
na alla postazione e apre la cartella con la selezione delle immagini.
Mano a mano che le visualizza – una alla volta – si lascia scappare dei
piccoli commenti di insoddisfazione. (Le immagini sono cinque. Due
ritraggono la facciata della Sorbona coperta dal fumo di un presunto
incendio prodotto in strada, con tagli diversi l’una dall’altra; due sono
dettagli dall’interno dell’Università di una stanza messa sottosopra;
una mostra alcuni manifestanti tra fumi di lacrimogeni). Giunto
all’ultima immagine il photoeditor chiama a sé l’archivista che si pre-
senta nella stanza. In tono acceso di rimprovero gli fa notare che le
immagini scelte non vanno bene. L’archivista si scusa e mette in dubbio
il fatto di aver capito quello che serviva. Al che lui replica: “Bisognava
trovare qualcosa di forte che alludesse agli scontri senza mostrare i
partecipanti”. L’archivista dice che secondo lui quelle immagini dicono
proprio questo. Il photoeditor sbuffa e si rimette al lavoro. L’archivista
fa spallucce e torna di là. Il photoeditor si mette a cercare le fotografie
della Sorbona e dopo dieci minuti ne trova una e commenta con orgo-
glio. “Eccola! Dovevo mettermi io per trovarla!”. (È la fotografia di una
barricata fatta con divisori metallici, bastoni di legno e altri oggetti. È
mezza oscurata dai fumi e illuminata dai fuochi accesi. Nessuna perso-
na è presente nell’inquadratura, ma sullo sfondo si intravede la facciata
della Sorbona, che identifica il luogo e l’evento specifico. L’insieme re-
stituisce un’atmosfera drammatica).

Come si capisce bene anche da questo esempio, i soggetti e le


sfumature di significato che si vogliono illustrare in immagini
sono pre-ordinate dai vertici della redazione. Certo, non per tut-
ti gli eventi i criteri comunicati sono così stringenti, ma per
quelli reputati più importanti i vertici vogliono il pieno controllo
sulle immagini, senza però vederle essi stessi. In sostanza chie-
dono ai photoeditor di approfittare degli sconfinati archivi on-
line per trovare quello che loro hanno in mente. Ho avuto modo
di scrivere, rifacendomi a Boltanski8, che l’uso delle immagini
fotografiche sui quotidiani è un’operazione che sostituisce il più

8 Boltanski, L., op. cit.


114 Capitolo 3

antico uso delle illustrazioni, sostituendole senza però alterarne


eccessivamente i presupposti, occupandone cioè lo spazio con-
cettuale. In tutte le redazioni da me esaminate tuttavia la foto-
grafia ha imposto almeno in parte le sue caratteristiche creando
spazi di negoziazione interni alle redazioni e portando alla for-
mazione di criteri vari e compositi per compiere la selezione e la
presentazione delle immagini in pagina. Se oggi che non è più
necessario discutere con i singoli fotografi, grazie alla presenza
degli archivi on-line, la tentazione dei redattori è manifesta-
mente quella di piegare la polisemia delle immagini al volere
redazionale (tentazione che si dice non sia mai cessata) i giorna-
listi più impegnati nella selezione hanno tuttavia sviluppato
un’etica fotogiornalistica e certe regole che tentano di negoziare
con i redattori. Qui a Le Figaro invece la logica è una sola. La
presenza degli archivi on-line ha permesso di avere a disposi-
zione un bacino di immagini così vasto da poter supporre – cosa
che viene fatta regolarmente – di arrivare a recuperare proprio
quell’immagine che si ha in testa. Queste immagini vengono
pensate nella riunione di redazione, vengono poi comunicate e
interpretate dal photoeditor e quindi cercate tra le tante foto-
grafie dei tanti fotografi d’agenzia che si recano nei luoghi
dell’attualità, i quali per primi lavorano seguendo la strategia
operativa della moltiplicazione di punti di vista possibili su uno
stesso soggetto di cui ho scritto nel capitolo precedente.
Diverso è invece il processo per la selezione dell’immagine
che andrà sulla prima pagina e che viene definitivamente sele-
zionata durante le riunioni che si svolgono la sera, verso le 18,
30. La riunione da cui parte la ricerca iconografica avviene inve-
ce intorno alle 15, 30. Da quel momento – e con priorità su tutto
il resto – i due photoeditor si mettono a cercare le immagini dei
due eventi che si ipotizza faranno l’apertura. A quella prima
riunione i photoeditor non possono partecipare, ma appena
conclusa vengono loro comunicate le decisioni.
A differenza di tutti gli altri casi, in questo della prima pagi-
na le indicazioni sulle immagini da selezionare non sono così
rigide. I photoeditor arrivano alla sera con una pre-selezione di
quattro o cinque immagini per tema e con quelle immagini
stampate si recano alla riunione. Ho avuto modo di assistere a
quattro di queste riunioni. Il photoeditor (solo uno dei due si
reca a questa riunione) porta le fotografie. Lo attendono il diret-
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 115

tore e i redattori capo. Guardano insieme le immagini e il pho-


toeditor normalmente fa qualche commento sul perché ha scel-
to quella e quell’altra e esprime una o due preferenze. I vertici lo
ascoltano e poi iniziano a parlare. A volte sono d’accordo con
lui, altre volte scelgono un’altra immagine, premurandosi però
sempre di spiegargli il perché. Perlopiù queste spiegazioni sono
fatte sulla base di considerazioni tecniche, di spazio in pagina,
di formato. La scelta dell’immagine comporta la decisione su
quale dei due temi prescelti diventerà prioritario. Entrambi sa-
ranno presenti in prima pagina, ma quello illustrato dalla foto-
grafia avrà più risonanza. Quando io ho assistito, non è mai ca-
pitato che il photoeditor replicasse. L’aspetto interessante è che
gli argomenti usati sono sovente in contraddizione tra loro, co-
me mi ha fatto notare il photoeditor di ritorno da una di queste
riunioni:

Una volta enunciano un principio e il giorno dopo lo smentiscono.


Non riesco proprio a capire cosa vogliano. C’è la volta che dicono che
preferiscono quella fotografia perché è più adatta allo spazio da dedi-
carvi, ma succede che tra quelle che io avevo segnalato ce ne fosse
un’altra che si sarebbe adattata altrettanto bene. […] Sono strani. Han-
no delle idee che non capisco.

Un giorno (io ero rimasto al fotografico con l’altro photoedi-


tor) lui è tornato dalla riunione dicendo al collega: “Gli ho mo-
strato la fotografia del manifestante con il cartello di De Ville-
pin. Sai cos’hanno detto?” Il collega sorrideva. E lui ha conti-
nuato, in falsetto: “Non ne avresti un’altra?”. Si sono messi en-
trambi a ridere. Per chiarezza va detto che si trattava di un’im-
magine di manifestazione a Parigi contro il CPE del 18 marzo
2006. La fotografia raffigurava un manifestante per le vie di Pa-
rigi con un grande cartello sul quale il ministro De Villepin era
disegnato seduto su una latrina,con un layout sopra il capo che
riporta un suo presunto pensiero. Si trattava di una vignetta sa-
tirica uscita su Le Canard Enchainé che veniva riutilizzata dal
manifestante. Ho assistito anche a un altro caso del genere. E
anche da altre battute che si scambiavano tra loro nei brevi
tempi morti ho capito ampiamente che identificano certe scelte
dei vertici (e certi rifiuti di immagini da loro stessi proposte)
come chiaramente “politiche”. Nel periodo della mia osserva-
zione, era stata appesa, sia in ascensore, sia nella stanza fuma-
116 Capitolo 3

tori e anche nella sezione politica una doppia immagine rappre-


sentante la prima un uomo dai tratti asiatici e la seconda la stes-
sa fotografia dell’uomo ma questa volta al suo fianco vi era an-
che Jacques Chirac. L’uomo era un banchiere giapponese che
era stato sentito per “l’affaire Clearstream” in rapporto a un
presunto legame con Chirac e con un conto in banca che Chirac
avrebbe avuto in Giappone. Era un momento un po’ controverso
che riguardava l’allora presidente e il suo eventuale coinvolgi-
mento nell’affaire. A Le Figaro si era scelto di mettere la foto-
grafia del banchiere, ma non si voleva mettere quella di Chirac.
Dal momento che la sola fotografia di questo banchiere che era
stata trovata lo raffigurava proprio in compagnia di Chirac, fu
chiesto al photoeditor di tagliarla, eliminando la figura del pre-
sidente francese. Il giorno dopo la fotografia integrale uscì su
altri giornali, così alcuni giornalisti politici hanno appeso un po’
ovunque le due fotografie. Lo hanno fatto con il proposito che
mi ha spiegato uno di loro:

Abbiamo colto l’occasione per protestare contro alcune scelte della


direzione che a volte sono eccessivamente parziali. In realtà questa
immagine ci ha dato l’occasione per sollevare la questione dell’indi-
pendenza dei giornalisti nei confronti degli uomini politici. Qui al gior-
nale succede troppe volte che alcuni passaggi scritti vengano ammorbi-
diti. C’è un rispetto per le figure istituzionali che a volte è davvero ec-
cessivo.

Ciò che mi appare d’interesse specifico, in questo caso, è il


fatto che la fotografia viene investita di uno statuto che un pro-
fano potrebbe anche credere eccessivo. In effetti, mettere
un’immagine di quel tipo (come ha fatto ad esempio Le Monde)
non dovrebbe significare il dare adito dalle colonne del giornale
a un dubbio giudiziario, di fatto sostenendone la versione più
cupa. Se questo timore esiste è in virtù di un’abitudine a usare la
fotografia come strumento allusivo, come mostrerò più in giù
nel lavoro. È da notare inoltre che – nonostante sia pratica co-
mune quella di tagliare le immagini originali (tra l’altro già so-
vente rimesse in quadro sia dai fotografi che dai picture editors
delle agenzie) – la possibilità di inscenare una protesta interna a
partire da quella fotografia è dovuto unicamente al fatto che il
ritaglio è stato reso evidente dal confronto con gli altri quotidia-
ni. Il giornalista politico intervistato ha detto:
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 117

Non siamo così ingenui da non sapere qual è la posizione politica


della testata, però quando avvengono cose di questa evidenza, allora si
tratta anche di essere smascherati esplicitamente dalle altre testate. I
colleghi degli altri giornali possono dire “Ecco, vedi, a Le Figaro hanno
precise linee politiche che portano avanti contro la realtà stessa”. Ci
andiamo di mezzo tutti e non è giusto, perché qui nella redazione le ve-
dute sono diverse da giornalista a giornalista. Non stiamo tutti dalla
stessa parte e anche tra chi sta da quella parte le singole questioni sol-
levano dibattiti anche molto accesi.

Reclamare la propria libertà di espressione e di pensiero, in


autonomia rispetto ai poteri forti, è una necessità della stampa
moderna. La fotografia, così spesso tenuta per il suo valore di
realtà oggettiva è un elemento chiave che accompagna anche
strategicamente questo bisogno di rifarsi, anche quando si e-
sprimono commenti, a un elemento di “pura realtà” (sebbene si
sappia che non è mai davvero tale), a un fatto. L’evidenza
dell’immagine può avere questo ruolo e di fatto ce l’ha sempre
se si considera che la sua manipolazione suscita polemiche di
questo tipo e fa crollare la credibilità di un giornale. È un punto
anche questo sul quale tornerò.
Stando adesso alla redazione di questo giornale, segnalo un
ultimo esempio importante: un giorno, durante il mio periodo
osservativo, al photoeditor era stato commissionato di cercare le
immagini di un palestinese e di un israeliano che erano stati en-
trambi vittime di omicidio. Secondo una prassi tipica del gior-
nale, le immagini che riconducono a fatti violenti tendono ad
essere o metaforizzate, e “alleggerite”, oppure, quando ce n’è
l’opportunità, bilanciate, mostrando cioè le immagini violente di
più parti contrapposte, l’ una accanto all’altra, come se si inten-
desse così neutralizzare i presunti effetti perversi delle immagini9.

9 Nelle mie brevi interviste con i vertici della redazione, è emerso chia-

ramente un timore condiviso sugli effetti delle fotografie violente. I riferi-


menti al bisogno di non scioccare i lettori (specie i più piccoli) con pubbli-
cazioni di immagini violente è stato sostenuto più volte. Ma più in generale,
è emersa una vera e propria iconoclastia. “La scelta dell’immagine - mi ha
detto il condirettore - va sempre ponderata, perché il suo impatto è molto
più forte e immediato rispetto allo scritto. E può produrre un annebbia-
mento della ragione più di quanto possa stimolare la comprensione. Perciò,
la scelta delle immagini è un processo delicato”. Questo timore per gli effet-
ti ottundenti delle immagini ho avuto modo di coglierlo anche direttamente
attraverso le brevi osservazioni in direzione, sebbene mi resti il dubbio che
certe frasi normative fossero enfatizzate per via della mia presenza.
118 Capitolo 3

Quel giorno però squillò il telefono e venne detto al photoeditor


(che aveva già trovato le fotografie), di non inviare quella del ra-
gazzo palestinese, perché non serviva più. Il photoeditor si la-
mentò col segretario di redazione e tanto fece che dovette arri-
vare al fotografico il caporedattore centrale per spiegargli che il
problema era di disegno della pagina e che, non essendoci spa-
zio a sufficienza per due immagini, ne avevano sacrificata una. A
quel punto il photoeditor gli disse che non era d’accordo, che
piuttosto avrebbero potuto rimpicciolire le immagini e usare lo
spazio di una fotografia per metterne due. Era piuttosto imba-
razzato, ma insisteva appellandosi esplicitamente all’abitudine
di bilanciamento cui ho appena accennato e lamentando il fatto
che la fotografia è sempre la prima a doversi adattare, mentre
gli scritti e l’impianto grafico non sono mai modificati per far
spazio a una fotografia. Il caporedattore si sedette, gli posò una
mano sulla spalla e gli disse di non agitarsi e che la scelta era già
stata presa. Lui abbassò gli occhi. Il caporedattore si alzò e,
cambiato radicalmente tono di voce, gli chiese con ingenua na-
turalezza come andava il lavoro. Il photoeditor rispose che an-
dava bene, ma era ancora visibilmente imbarazzato e non lo
guardò in faccia. A quel punto il caporedattore uscì salutandolo
molto cordialmente. Quando il caporedattore lasciò la sala ci fu-
rono un paio di minuti di silenzio durante i quali non ci siamo
guardati negli occhi e io dal canto mio continuai la consultazio-
ne del diario sul quale vengono appuntati i turni di lavoro dei
fotografi interni, finché il photoeditor non mi rivolse la parola e
mi disse: “Secondo me questa è una scelta politica. Non c’è dub-
bio”.
Come si vede, i vertici del giornale a volte non danno rispo-
ste, altre volte quelle che danno sono avvertite come contraddit-
torie o poco chiare da parte dei photoeditor. Questo provoca
delle polemiche, ma i rapporti di potere in gioco e la minaccia
implicita di licenziamenti può provocare la fine dei dibattimenti
e la chiusura verso generiche considerazioni di partigianeria. In
questo clima poco trasparente, la frustrazione dei membri del
fotografico è accentuata dal fatto che la messa in pagina finale e
la stesura delle didascalie non comprende la presenza dei pho-
toeditor. Quest’ultimo passaggio avviene nella stanza dei grafici,
dove i segretari di redazione e i vertici del giornale si riuniscono
verso le otto di sera per “completare il giornale” (fatte salve va-
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 119

riazioni dell’ultima ora). Qui la mia presenza non era partico-


larmente gradita, e questo in tutta evidenza. Perciò, dopo qual-
che tentativo camaleontico di rendermi poco visibile e di pre-
senziare ugualmente, ho deciso di evitare, per non compromet-
tere i miei rapporti con i membri della redazione.
Va ribadito un punto essenziale: che cioè i vertici della reda-
zione non guardano le immagini che arrivano via abbonamento,
così le richieste di fotografie sono subordinate alle notizie sele-
zionate (il che funziona per il fatto che le stesse agenzie – par-
lando di AFP, AP e Reuters – forniscono entrambi i materiali).
Quello che comporta questo procedimento è senz’altro una ulte-
riore riduzione dell’immagine al suo stereotipo (un carro arma-
to, un soldato mentre spara come ho già scritto rifacendomi a
esempi di richieste che mi sono stati fatti dai photoeditor).
Un esempio interessante che viene dalla copertura della
guerra all’Iraq è quello dell’immagine di Ali Ishamel Abbas,
bambino iracheno che durante un bombardamento statunitense
ha perso tutti i parenti ed è rimasto mutilato a entrambe le
braccia. Il giornale ha pubblicato la sua immagine l’8 aprile del
2003 a pagina 2. Racconta il photoeditor:

Era da giorni che chiedevamo al direttore la possibilità di mettere


in pagina qualche immagine di vittime civili irachene. Ci sembrava in-
giustificato il fatto che si mostrassero così poco i danni di questa guer-
ra. Poi arrivarono le immagini del piccolo Ali che sono subito diventate
le immagini esemplari dei danni ai civili. Noi le segnalammo subito, ma
ancora non ci venne chiesto di selezionarne una per metterla in pagina.
Accadde qualche giorno dopo. La cosa divertente, se vogliamo dire così,
è che il condirettore ci ha telefonato e ci ha detto: “Ma come, non
l’abbiamo ancora messa? Ne stanno parlando tutti i telegiornali!”.
L’avevano vista in TV, per quello adesso la volevano.

Vi sono però casi (la guerra non è uno di questi!) in cui è pra-
ticamente impossibile fare richieste precise sui soggetti delle
immagini. È il caso ad esempio degli eventi fulminei e inattesi,
come l’attentato a Londra. In quei casi, eccezionalmente, il con-
direttore passa sovente al fotografico per guardare le immagini
dell’evento che di volta in volta i photoeditor hanno individuato
e stampato, propone alcuni soggetti e chiede loro di andare alla
ricerca di altre fotografie. Nel caso di Londra, ad esempio, il
photoeditor mi ha raccontato di aver passato un’ora e mezza a
cercare soltanto le foto dei bus squarciati dalle bombe, ma senza
120 Capitolo 3

trovare niente oltre a quelle che aveva visto sin da subito. Ma


fatta eccezione per casi così inattesi e repentini, per il resto il
processo organizzativo rimane immutato.
È anche essenziale che io dica che al tempo della guerra in
Iraq il direttore non era quello presente al tempo della mia os-
servazione. Se le pratiche organizzate non hanno subito cam-
biamenti rilevanti, tuttavia i photoeditor riconoscono alcuni
cambiamenti di cultura visuale e di apertura a certe immagini
che prima venivano puntualmente escluse.

Il direttore di prima non voleva mai immagini violente di nessun ti-


po. Rifiutava puntualmente fotografie del genere. E inoltre dava meno
spazio alla fotografia rispetto alla direzione odierna, sia come quantità
che come spazio in pagina. C’era la regola esplicita di non mettere ca-
daveri in prima pagina e nemmeno immagini truculente, con del san-
gue. Era una linea ferrea. Tutto questo è un po’ cambiato.

Uno dei maggiori successi professionali dei photoeditor ai


tempi della direzione di allora, riguarda la copertura dello Tsu-
nami. Siccome le immagini richieste tendevano a eludere i sog-
getti sofferenti, i corpi offesi, i cadaveri, e si limitavano perlopiù
ai paesaggi o ai soggetti attivi (i soccorsi, la diplomazia interna-
zionale, ecc.), i photoeditor riuscirono, dopo molte insistenze, a
proporre una pagina interamente dedicata alle immagini di volti
di persone sofferenti o scomparse, riuscirono cioè a mostrare
anche le vittime della catastrofe. Racconta il photoeditor:

Tutti gli altri giornali lo stavano facendo. E poi era il momento in


cui arrivavano di continuo fotografie di bambini scomparsi, appese dai
genitori sui muri delle case, negli uffici di polizia. Tutti quei volti dove-
vano avere una visibilità. Dopo molte insistenze siamo riusciti a fare
una pagina di sole fotografie. È stata l’ultima pagina del giornale, una
cosa mai vista, del tutto eccezionale.

Non riuscendo a far passare le loro proposte in alternativa a


quelle decise nella riunione di redazione, per una volta e in via
del tutto eccezionale, fu concesso al fotografico di impegnare
una pagina a parte rispetto alla normale struttura del giornale.
Questo esempio, più che dare conto di una flessibilità, dimostra
piuttosto l’impossibilità costante per i photoeditor di rompere la
catena decisionale, presentando con successo alcune immagini
reputate importanti al di là delle richieste che vengono fatte a
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 121

priori da chi le fotografie che riempiono gli archivi online non le


guarda neppure.
Per chiudere, voglio segnalare come a Le Figaro ci sia scarso
interesse per le esclusive e come i contatti con singoli fotografi e
agenzie non siano ritenuti interessanti. Quando l’immagine che
si vorrebbe non è trovata sui siti delle agenzie, si cerca di farne a
meno o ci si accontenta di un’alternativa, nella maggior parte
dei casi ricorrendo a una fotografia di un soggetto istituzionale
implicato nella faccenda, come il volto di un personaggio politi-
co o di qualche altro attore coinvolto anche indirettamente.
Come ho già avuto modo di dire, adesso che Le Monde è diven-
tato più attivo sul fotografico, è possibile che si apra una stagio-
ne più direttamente concorrenziale e che il ricorso all’esclusiva
assuma senso per il giornale. Ma è un’ipotesi tra le altre, visto
che la linea seguita da Le Monde sul fotografico pare essere de-
cisamente diversa. Lo dimostra il fatto che il giornale ha assunto
come direttore del fotografico Laurent Abadjian, ex direttore di
Libération e noto per la sua attenzione all’immagine e alla de-
ontologia fotogiornalistica, mentre i photoeditor di Le Figaro
provengono dalla redazione di Voir, un giornale scandalistico
che pubblica quasi unicamente fotografia people. La selezione
del personale è evidentemente il primo passo che testimonia di
una volontà redazionale di trattamento dell’immagine. Abadjian
non potrà certo occuparsi solamente del newsgathering (della
raccolta attiva delle fotografie d’attualità), ma sarà certamente
anche un newsprocessor (cioè addetto anche al trattamento e
all’elaborazione interna delle immagini selezionate), il che por-
terà la sua deontologia professionale a confrontarsi con quella
dei vertici di quel giornale, cosa questa che a Le Figaro non è
desiderata. Inoltre Le Monde è un giornale della sera, che viene
cioè prodotto dal mattino presto e che esce in edicola la sera,
mentre Le Figaro è, più comunemente, un giornale del mattino.
Questo scarto temporale gioca anch’esso contro una concorren-
za troppo marcata, specie in fatto di scelta fotografica.

3.2.4. Struttura e pratiche organizzate a Libération

La redazione di Libération è costruita su più piani dai quali


sono stati ricavati dei piani intermedi. Si sale e si scende lungo
una rampa a spirale che era un tempo una rampa per automobi-
122 Capitolo 3

li. Il servizio fotografico si trova nel plateau centrale, nel quale,


oltre alla sezione fotografica vi sono anche quella grafica,
l’edizione centrale, la direzione e una sala dove vengono affisse,
la sera, le pagine per essere riviste su carta, eventualmente cor-
rette, e inviate alla tipografia. Tutti i divisori tra una sessione e
l’altra sono di vetro trasparente, offrendo così l’impressione di
un grande open space dove tutti possono vedersi. Il fotografico
è uno dei servizi più quotati, e anche il servizio per il quale il
giornale spende la porzione maggiore del budget (alla pari con il
servizio “esteri”). È formato da un photoeditor (capo servizio),
due archivisti (addetti unicamente all’archiviazione delle imma-
gini e non alla loro ricerca), un assistente di servizio, due addetti
al laboratorio, cioè ai ritocchi (perlopiù cromatici) delle fotogra-
fie, e nove tra ricercatori iconografici e grafici specializzati (cioè
addetti alla messa in pagina unicamente delle fotografie sele-
zionate). Di queste due ultime figure professionali, che lavorano
a turno, durante il mio periodo osservativo erano presenti me-
diamente tre ricercatori e due grafici. Collegato direttamente
all’ufficio da un’apertura nella parete di vetro, vi è l’ufficio grafi-
co del giornale, dove si producono i menabò e si elaborano le
pagine. La prossimità è resa necessaria anche dalla presenza dei
grafici specializzati che devono necessariamente dialogare in
tempi brevi con entrambi gli uffici.
In tutto il piano c’è un grande movimento di persone. Il pho-
toeditor si muove sovente dal suo desk a quelli dei ricercatori
iconografici e dei grafici specializzati, i giornalisti scriventi arri-
vano per i disegni di pagina nell’ufficio dei grafici e spesso si
fermano a colloquio con i membri del fotografico. Le interazioni
faccia a faccia sono tante e ci si scambia informazioni sul taglio
che si sta dando al pezzo, sullo spazio per la fotografia all’inter-
no della pagina. Capita che il photoeditor informi il giornalista
scrivente sulla prima selezione di immagini che è stata fatta per
la pagina in cui comparirà il suo pezzo. È insomma un lavoro
molto dinamico, dove gli scambi sono incessanti.
A un livello più formale, l’iter procedurale è il seguente: il
photoeditor presenzia sempre alla riunione di redazione, alla
quale peraltro tutti sono ammessi, come a il Manifesto. Nella
riunione i capi delle sezioni prendono a turno la parola, mode-
rati dal direttore, e vengono decisi i soggetti da trattare (che ov-
viamente possono cambiare durante la giornata). Si iniziano a
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 123

dare idee anche per la prima pagina, il che interessa ancora più
direttamente il fotografico, dal momento che l’immagine è
l’elemento prevalente sulla prima di questo giornale. Tornato
dalla riunione, il photoeditor chiama a sé gli altri membri della
sezione e viene creata una piccola riunione in sede. Qui ci si di-
vide le ricerche di immagini; ognuno segue un “soggetto”
dall’inizio alla fine e si pianificano i lavori anche per gli eventi
attesi che accadranno in futuro. A quel punto il photoeditor va a
dialogo con i grafici specializzati per pensare la struttura delle
pagine relativamente agli spazi delle immagini. Fatta ferma una
struttura di base, il disegno delle pagine in questo giornale è
molto flessibile e, grazie alle comunicazioni rapide e continue si
possono cambiare giorno per giorno le esigenze della messa in
pagina in maniera più marcata rispetto alle altre redazioni dove
ho svolto la mia osservazione. Una volta decisi i temi, il fotogra-
fico gode di totale autonomia nella scelta delle fotografie, nella
quale ha pieno potere fino alla selezione delle immagini finali
che andranno in pagina, ad eccezione della foto di prima pagina.
Nessun altro nella redazione guarda le fotografie, né nelle altre
sezioni, né in direzione.
Spesso i due eventi che il giornale decide di mettere in evi-
denza, impaginandoli tra la prima e le sezioni più classiche, re-
stano gli stessi dalla prima riunione fino alla fine della giornata,
e il photoeditor se ne occupa personalmente, delegando le altre
fotografie ai ricercatori iconografici. Ma può anche avvenire che
la ricerca delle fotografie di uno di questi eventi sia lasciata a un
ricercatore iconografico e – le due volte che questo è successo
durante la mia osservazione – il photoeditor si è limitato a qual-
che suggerimento iniziale ma ha poi accettato la selezione fatta
dal suo subordinato. Quando l’ho interrogata sulla questione, il
photoeditor mi ha risposto così:

Ci conosciamo tutti da parecchio tempo. Ho una grande fiducia nel


loro lavoro ed è capitato che individuassi delle fotografie per me mi-
gliori di quelle scelte da loro, ma in questi casi, se giustificavano coe-
rentemente la loro scelta, non imponevo un cambiamento. Li considero
su un piano paritario e non faccio valere la mia posizione quando que-
sto non è strettamente necessario per questioni pratiche.

Molto tempo del lavoro del photoeditor è occupato al telefo-


no o a colloquio con altri giornalisti o con alcuni fotografi free-
124 Capitolo 3

lance che – pur non essendo interni alla redazione – passano


per parlare di possibili lavori, dal momento che alcuni di essi
collaborano abitualmente con questa testata e “sono di casa” a
Libération. Praticamente meno della metà del tempo lo passa
davanti al monitor a cercare immagini dagli archivi on-line. Di-
ce sempre il photoeditor:

Abbiamo molti collaboratori, alcuni più occasionali, altri più conti-


nuativi. Sono tutti freelance, francesi ma anche stranieri, ai quali pro-
poniamo o ci lasciamo proporre dei lavori. Anche se molte fotografie
che usiamo sono d’agenzia, per tutti gli eventi che reputiamo prioritari
cerchiamo di avere dei fotografi che lavorino per noi in via preferenziale.

Pur non essendo quasi mai dei veri e propri commissionati,


il giornale si impegna a coprire una parte delle spese del foto-
grafo e in cambio ne ricava l’esclusiva per i quotidiani. Come mi
ha spiegato un ricercatore iconografico che lavora da quattro
anni al giornale:

Perlopiù sono esclusive per un giorno, ma ad esempio su eventi più


lunghi cerchiamo di tenere l’esclusiva per tutta la durata dell’avveni-
mento, come nel caso delle campagne elettorali.

Queste immagini – sia quelle effettivamente finite in pagina


che le altre fatte da questi fotografi – vengono accuratamente
archiviate dai due archivisti del giornale, insieme a una selezio-
ne di immagini che giungono via abbonamento.
Durante la guerra irachena, fu il fotografo Bruno Stevens
che, collaboratore abituale del giornale, propose al photoeditor
di andare a Baghdad a testimoniare la guerra dal punto di vista
della popolazione civile. Come mi ha detto il photoeditor:

Ci fidavamo di Bruno, perché sappiamo come lavora, sappiamo che


ha un’attenzione giornalistica molto forte e un taglio fotografico origi-
nale. E poi è uno intraprendente, che prende molte iniziative. Per noi
avere un fotografo a Baghdad era una cosa fantastica. Non avendo fo-
tografi interni, godiamo di queste proposte. Abbiamo contribuito a fi-
nanziare la sua avventura, e abbiamo anche proposto di tenere due pa-
gine delle quattordici che si era deciso di dedicare all’evento per le fo-
tografie di Bruno. […] Ogni giorno aspettavamo fino all’ultimo per ve-
dere cosa riusciva a mandarci. […] Non sempre potevamo fare le due
pagine con le sue foto, ma ne abbiamo fatte di importanti e le altre vol-
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 125

te abbiamo creato dei reportage assemblando altre immagini che rice-


vevamo via abbonamento.

Questa modalità di mettere in pagina dei reportage fotogra-


fici (cioè una selezione di un servizio fotografico anziché la foto
singola) è uno degli elementi distintivi del giornale, che permet-
te di parlare di uno statuto ibrido tra quotidiano e settimanale.
D’altronde il photoeditor di Libération si è formato proprio sui
settimanali di attualità e non su quotidiani (e nemmeno sui set-
timanali scandalistici, come per il caso di Le Figaro) e questo
comporta sia un bagaglio di conoscenze e di pratiche, sia una
consuetudine che il giornale sostiene, a lavorare per la produ-
zione di immagini e non soltanto per il loro acquisto. Inoltre, il
giornale è molto impegnato nella promozione di eventi culturali
che abbiano al loro centro la fotografia e questa posizione
all’interno del campo fotogiornalistico consente ai suoi membri
di conoscere molto bene i fotografi e selezionarne di volta in vol-
ta alcuni reputati in linea con la visione politico/estetica della
testata, meno dichiarata che a il Manifesto ma anch’essa ovvia e
pienamente condivisa da tutti i membri della redazione.
Proprio in virtù dell’importanza attribuita alla fotografia e
più in generale al visuale in questa redazione, è qui molto forte
un linguaggio e un’attenzione alle questioni più prettamente fo-
tografiche. Una delle espressioni più usate è quella di “scrittura
fotografica”, che è anche uno dei concetti operativi intorno al
quale ruota il lavoro di selezione delle immagini. Qui il rischio
più grosso sentito da tutti è quello della ripetitività, dell’incapa-
cità di trovare forme originali di scrittura fotografica.
Faccio subito un esempio tratto dall’osservazione, per calare
questa generalizzazione nel concreto.

Sto assistendo al lavoro di un ricercatore iconografico impegnato a


lavorare sulla questione dello scontro politico che vede coinvolti Sar-
kozy e De Villepin. Il ricercatore iconografico ha già contattato per tele-
fono un fotografo freelance parigino che segue la politica. Nell’attesa di
avere le sue immagini, sta compiendo un’ampia ricerca sugli archivi
on-line. Di tanto in tanto seleziona una foto e la mette da parte in una
cartella apposita. A un certo punto chiama a sé il photoeditor che arri-
va alla sua postazione.
LUI: Ce n’è una bella che non abbiamo ancora messo dove sono
spalla contro spalla.
LEI: Fammi vedere.
126 Capitolo 3

Lui apre la schermata con quell’immagine. In realà non sono spalla


contro spalla, ma l’effetto è quello, per via dell’inquadratura. Sono su
piani diversi, e Sarkozy appare più alto di De Villepin. Hanno due e-
pressioni concilianti che potrebbero far pensare a una sospensione del-
le ostilità.
LEI: Mi piace. Però non possiamo continuare a fare questo gioco.
LUI: Lo so. È sempre la stessa scrittura, ma te la segnalo perché mi
sembra una bella foto.
LEI: Anche a me. Teniamola comunque da parte, ma cerchiamo so-
prattutto qualcosa di nuovo.
Quando lei se ne va, lui si gira verso di me e mi spiega: “Stiamo cer-
cando di trovare una nuova forma per questo evento. Ma siamo tutti
frustrati. Abbiamo già fatto di tutto: fuoco e fuori fuoco; abbiamo fatto
il faccia a faccia, schiena a schiena, primo piano e sfondo. Adesso stia-
mo cercando qualcosa di nuovo, ma non ne possiamo più. Speriamo
che l’attenzione generale si sposti su qualcos’altro”.

Un altro esempio viene dalle manifestazioni contro il CPE.


Anche qui Libération sta seguendo da un po’ di giorni le prote-
ste e sta dedicando molto spazio alle fotografie delle manifesta-
zioni studentesche. Il photoeditor è particolarmente nervoso
perché non riesce a trovare più nulla di “originale”. Ripete agli
altri, di tanto in tanto: “Dobbiamo pensare a un altro linguaggio
visivo, ma quale?”. Quello stesso giorno alle sei è arrivato in re-
dazione un freelance che collabora da diversi anni con il giorna-
le. Ha aperto il suo portatile sul desk del photoeditor e gli ha
mostrato alcune fotografie della manifestazione. Vedendone
una in particolare, lei ha cominciato a dire: “Ma sì… ma sì, ecco
quello che ci vuole!” Era al settimo cielo e ha ringraziato più vol-
te il fotografo, chiedendogli di farne altre del genere perché si-
curamente gliele avrebbero pubblicate.
Si trattava di una fotografia in bianco e nero, di un ritratto a
due giovani studentesse. Come mi ha poi spiegato il photoeditor:
È stata una rivelazione. Non sapevamo proprio più come farle vede-
re, queste manifestazioni. Ma con i primi piani si cambia completa-
mente scrittura. Si passa dal far vedere la pressione di piazza e quindi
la questione politica, a un’idea di galleria di ritratti intimi che raccon-
tano una generazione, la generazione anti CPE, la generazione del pre-
cariato. È tutta un’altra maniera di mostrare la cosa.

Prendere sul serio la fotografia e conferirle uno statuto di


primo piano significa sottostare anche al suo linguaggio e alle
sue esigenze. È proprio dalla scrittura fotografica del ritratto
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 127

ambientato (tipica del reportage) che nasce la formula ormai


acquisita dell’ultima pagina dedicata appunto al ritratto – sia
fotografico sia scritto, sviluppato come un racconto di vita - di
un personaggio rintracciato per qualche attività singolare e di
impatto sociale che lo ha visto protagonista. Ancora, l’originalità
contraddistingue le scelte del giornale, laddove delle vere e pro-
prie inchieste vengono mosse per individuare un soggetto (lon-
tano dai personaggi istituzionali o popolari) di cui raccontare la
storia. La rubrica si chiama proprio Ritratto (Portrait), e non è
l’unica a prendere in prestito già nel titolo il linguaggio della fo-
tografia. Un’altra rubrica, Grand angle, è abitualmente consa-
crata al reportage, nella forma più tipica di un settimanale illu-
strato. Qui a predominare sono le immagini, ma è anche l’occa-
sione per raccontare una storia che non si risolve nella stretta
attualità tipica della cronaca. In entrambi questi casi, il giornale
contatta un fotografo per seguire il giornalista o addirittura può
capitare che si parta da un servizio fotografico già acquisito per
produrre un reportage giornalistico. Ovviamente queste rubri-
che hanno una pianificazione diversa rispetto agli eventi del
giorno per giorno e la loro organizzazione è gestita attraverso un
dialogo costante tra photoeditor e capi degli altri servizi.
Ma, al di là di questi esempi più evidenti e più visibili, il lin-
guaggio e le logiche del fotogiornalismo condizionano le scelte
di questa testata costantemente, spingendola, in maniera evi-
dente, verso uno stile soggettivo (tipico per l’appunto del più re-
cente approccio fotogiornalistico alla realtà) e verso la necessità
di una continua innovazione, sperimentazione, alla ricerca di
un’originalità che invecchia e sbiadisce in fretta.
I continui cambiamenti che spesso partono da una ristruttu-
razione del visuale (e della grafica soprattutto) per investire il
modo di fare giornalismo fanno parte della storia del giornale.
Un giornale che non ha mai trovato una vera stabilità e la cui
norma tende a essere il mutamento. Durante il mio periodo os-
servativo è stato proposto ai redattori, dal responsabile del
marketing, il risultato di uno studio semiologico che avrebbe
dovuto – nelle intenzioni appunto dell’ufficio marketing, che
l’aveva commissionato – mettere in luce i punti di forza e di de-
bolezza di Libération. Ne era emerso il quadro di un giornale
che proprio in virtù di questa sua mutevolezza e per l’apertura
emozionale del linguaggio (visivo e scritto), attirava soprattutto
128 Capitolo 3

un pubblico giovanile, ma faticava a raggiungere altre “porzioni


di mercato”. Eppure, al tempo stesso, il linguaggio visivo è così
caratteristico dell’identità della testata, che lo stesso studio non
suggeriva affatto di giungere a una forma più stabile e conven-
zionale.
La fragilità di un approccio così fortemente visivo alla realtà
è l’orgoglio e lo spauracchio dei giornalisti di Libération. Son-
tag10 scriveva che:

Uno dei criteri di valutazione che pittura e fotografia hanno in co-


mune è la qualità innovativa: quadri e fotografie vengono spesso ap-
prezzati perché impongono nuovi schemi formali e modificazioni del
linguaggio visivo.

Parrebbe che questo criterio di valutazione dell’immagine


abbia coinvolto, in questa redazione, l’intera struttura del gior-
nale, abbia cioè permeato la maniera stessa di intendere il gior-
nalismo.
Tutta questa libertà del fotografico nel suo gestire con i gra-
fici lo spazio delle immagini e nel selezionarle e metterle in pa-
gina è limitata solamente a monte, nella generica scelta degli
avvenimenti e viene contaminata dalle continue discussioni con
i redattori delle altre sezioni, che suggeriscono, spiegano, ascol-
tano e danno un’occhiata alle immagini. Tutto ciò avviene senza
che i vertici interferiscano.
L’unico caso a sé è costituito dalla prima pagina, anche qui
ritenuta del tutto particolare. In questo caso avviene come a il
Manifesto, nel senso che il fotografico fa una selezione del ma-
teriale sulla base dell’argomento che si è deciso faccia l’apertura.
Una volta fatta questa selezione, i membri del giornale si incon-
trano nuovamente, guardano e discutono insieme le immagini,
anche qui da accostare a un titolo. Le strategie in questo caso
variano a seconda della reazione redazionale all’evento e agli al-
tri eventi della giornata. Accade che la fotografia prenda tutta la
pagina, oppure accade che si lasci una colonna per i richiami a-
gli altri pezzi interni.
La prima pagina è comunque pensata come un manifesto
(une affiche), laddove l’immagine ingloba nei suoi spazi sia il

10 Sontag, S., Sulla fotografia: realtà ed immagine nella nostra società,

Torino, Einaudi, 1976.


Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 129

titolo (e l’eventuale sommario), sia il logotipo di Libération e


questo perché, sin dall’impostazione che gli diede Claude Mag-
giori, lo storico art-director del giornale, la testata deve essere
assorbita nell’evento, impegnata nell’attualità, senza possibilità
di distacco (ossia, ancora, un’enfasi soggettiva e emotivamente e
politicamente engagé).
Anche qui l’ultima parola è del direttore, ma il photoeditor
ha piena possibilità di discussione e quando io ho assistito è ca-
pitato solo una volta che il direttore insistesse per una fotografia
diversa da quella suggerita come più adatta dal photoeditor.
Anche Libération approfitta sovente dell’archivio per la fotogra-
fia di prima pagina, dal momento che anche qui la ricerca
dell’originalità e della pluralità di significati ottenuti attraverso
due elementi soltanto (il titolo e l’immagine), sono sentite come
prove di una vitalità alla quale la testata non può rinunciare.
C’è poi il caso dello spazio riservato a un’immagine-notizia.
A differenza di quanto avviene nel giornale il Manifesto, qui non
si tratta di una prassi quotidiana. La foto-notizia, che là è inseri-
ta nella pagina delle lettere e che viene cercata (unicamente tra
le fotografie inviate da AP) per segnalare un evento che non ha
avuto spazio tra le notizie selezionate dal giornale, è qui mante-
nuta come eventualità che va di volta in volta giustificata.

Abbiamo questo spazio a disposizione, ma l’immagine, qualora ri-


tenessimo utile inserirla, va motivata al direttore e i criteri sono quelli
informativi. La foto deve apportare informazioni ritenute importanti.
[…] Di solito è una fotografia che non ha notizia scritta, che troviamo
durante il nostro lavoro di ricerca, magari ci capitiamo sopra per caso,
ma la inseriamo solo se ci accorgiamo che non ha il corrispettivo di una
notizia scritta.

È quindi una logica diversa da quella ravvisata nell’altro


giornale. Non si tratta di andare a coprire una notizia che il
giornale non ha avuto modo (per questioni anche di spazio) di
corredare con dei pezzi. È piuttosto l’occasione (rara) di pensare
che la fotografia possa avere un valore informativo anche laddo-
ve non è stata fatta oggetto del più classico lavoro giornalistico.
Qui non è quasi mai una fotografia delle grandi agenzie, perché
queste producono immagini proprio a partire da ciò che è stato
già identificato come notizia. È invece sempre di più il caso di
fotografie di non-professionisti che arrivano al giornale, perché
130 Capitolo 3

un’altra attività di Libération è quella di richiedere alla gente


comune (attraverso il sito internet) di inviare immagini alla re-
dazione, laddove si ritengano di una certa importanza. Questa
operazione (che può essere anche letta come un modo alternati-
vo di produrre immagini, ma che è ancora molto poco utilizzato
per via dei problemi di fonte giornalistica che questa modalità
“aperta” comporta) è comunque tentata dal giornale. Normal-
mente le fotografie di non professionisti sono cercate solo in ca-
si in cui si ritiene che la copertura ufficiale sia scarsa (si veda il
Corriere della Sera per la strage di Londra) o in casi estrema-
mente particolari, come fu il G8 di Genova, dove le immagini
avevano un valore di prova anche giudiziaria. In quel caso capi-
tò che il Manifesto facesse esplicita richiesta ai lettori di inviare
immagini amatoriali sull’evento. Fu un caso quasi unico, anche
perché il Manifesto sapeva che molti dei suoi lettori potevano
essere presenti a Genova o perlomeno postulava una certa corri-
spondenza e decise pertanto di lanciare un appello esplicito.
Un caso già menzionato e sul quale tornerò ancora riguarda
la prima immagine che Libération pubblicò delle torture di Abu
Ghraib. Decise di costruire una foto-notizia nella pagina 2 del
giornale, proprio perché si trattava di una notizia che esisteva
prima di tutto attraverso la fotografia e – visto lo statuto molto
ambiguo della fonte – preferì distinguere la messa in pagina di
quest’immagine da quelle più abitualmente prodotte con le fo-
tografie dei professionisti.
Per concludere, va detto che anche in questo giornale duran-
te gli eventi eccezionali nessun cambiamento rilevante investe
l’organizzazione del lavoro redazionale. Durante la guerra in I-
raq, venne deciso, come ho già scritto, di dedicare mediamente
quattordici pagine del giornale a questo evento e, una volta ride-
finito il volume di pagine complessivo, ogni cosa procedeva abi-
tualmente, stando a quanto mi hanno raccontato tutti i giornali-
sti ai quali ho domandato. Non c’erano grandi cambiamenti, se
non che la mole di lavoro era ovviamente maggiore. Il fotografi-
co insistette sin da subito per dedicare due pagine ogni giorno al
reportage da Baghdad e, laddove non fu possibile, vennero e-
stromesse senza difficoltà volta per volta.
Anziché concentrare le scelte nelle mani di pochi, la copertu-
ra di questa guerra ha semmai portato i giornalisti di Libération
a confrontarsi più che mai e anche i redattori delle altre sezioni
Etnografia della produzione. L’organizzazione redazionale 131

si fermavano più del solito a guardare le immagini e a fare dei


commenti su esse senza però nessuna alterazione dei rapporti
decisionali acquisiti e sviluppati nei periodi di “normalità”.
L’alto livello di comunicazione, la prossimità e complicità tra il
settore grafico e fotografico e infine la coesione di base inerente
a un implicito credo politico comune che si è tradotto in modo
univoco sulla posizione assunta dai giornalisti di fronte alla
guerra irachena, sono tutti elementi che hanno contribuito a
non rendere necessaria alcuna riorganizzazione del lavoro di se-
lezione e messa in pagina delle fotografie.
4

ETNOGRAFIA DELLA PRODUZIONE


Criteri di selezione e presentazione

Le ricerche sul newsmaking focalizzano su connessioni e


rapporti che si articolano tra l’organizzazione dei processi pro-
duttivi e la cultura professionale dei giornalisti, in una prospet-
tiva che però pone poca attenzione alle subculture interne, dal
momento che l’attenzione è perlopiù diretta alle modalità trami-
te le quali, all’interno della struttura redazionale, si crea una co-
esione e un insieme stabile di routine lavorative che assicurano
la produzione di notizie.
Prendendo in considerazione le sezioni fotografiche dei gior-
nali ho invece avuto modo di constatare come esista effettiva-
mente all’interno di alcune redazioni una subcultura professio-
nale, portatrice di alcuni valori e criteri di valutazione estranei a
quelli del giornalismo scritto. Non si tratta solamente di dire,
come si potrebbe fare a tutti i livelli, che vi è un rapporto stretto
tra ruoli decisionali (posizione nella redazione) e conoscenza
delle logiche dominanti. Boltanski concludeva la sua doppia et-
nografia nelle redazioni di Paris Match e di France Soir, scri-
vendo:

La place (et le statut) que l’on occupe dans le journal dépendent de


la connaissance des normes, mais inversement, la connaissance des
normes dépend de la place dans le journal. Loin de faire obstacle,
l’intervention d’un grand nombre de personnes apportant, chacune,
des bribes de signification apparait comme la condition de la standar-
disation du message1.

1 Boltanski, L., op. cit. , p. 167.


134 Capitolo 4

È lecito assumere che esistano criteri di valutazione delle


immagini che, per chi viene da una cultura fotogiornalistica o
più genericamente visiva, finiscono per contrapporsi alla più
generale cultura giornalistica, nel momento in cui la fotografia
assume sui giornali sempre più importanza (di spazio, di messa
in valore, anche con il passaggio al full color che sta investendo
tutti i quotidiani). Questa subcultura fotografica può essere con-
trollata in maniera molto rigida (come avviene a Le Figaro),
oppure valorizzata, fino a darle grande spazio nel processo di
produzione delle notizie (come avviene a Libération). Che vi sia
una struttura organizzativa generale più orientata al consenso
(il Manifesto, Libération) o che sia necessaria un’organizzazio-
ne gerarchica più importante per mantenere una coerenza del
messaggio (Corriere della Sera, Le Figaro), in ogni caso resta
evidente che la fotografia non è quasi mai trattata come un dato
di prima mano, come una notizia. Nonostante arrivi per gran
parte dalla stessa fonte (le agenzie giornalistiche), l’immagine si
presta a illustrare tanto i fatti quanto i commenti. La sua evi-
dente polisemia pone notevoli problemi di controllo e il suo uti-
lizzo suscita dibattiti, critiche e contrasti sia all’interno della re-
dazione, sia tra testate, sia infine tra una testata e il suo pubbli-
co (attraverso la posta dei lettori).
Vorrei volgere l’attenzione precisamente su queste questioni
prima di entrare nel merito di una descrizione dei diversi usi
giornalistici della fotografia sui quotidiani, e sui limiti e le con-
traddizioni sollevate da questi usi.
Lemieux2 fa notare come il controllo sul lavoro giornalistico
sia principalmente interno al mondo giornalistico stesso. Ven-
gono così a crearsi delle regole implicite di trattamento delle no-
tizie (e delle immagini) che devono molto agli esempi del passa-
to nei quali una certa messa in pagina fatta da qualche giornale
è stata criticata da altri o piuttosto ha provocato un dibattito in-
terno alla redazione stessa. È in buona parte attraverso questi
“casi esemplari” che i giornalisti disegnano i limiti e i rischi del-
le azioni presenti e future in materia di selezione e di messa in
pagina delle immagini. Ed è in buona parte a partire da qui che
vengono formalizzandosi certi criteri di scelta che finiscono per
determinare delle costanti del lavoro giornalistico. Siamo pie-
namente all’interno di un approccio interazionista, dove le scel-
2 Lemieux, C., op. cit.
Etnografia della produzione 135

te sono tanto più rischiose – nel senso che possono incappare


nella critica pubblica o interna – tanto più esse (e le critiche
stesse, dalle quali si tenta di ripararsi) investono la sfera morale.
Come è evidente, non tutte le fotografie provocano dibattiti
ma, lo abbiamo visto, in alcune redazioni l’intervento dei vertici
del giornale su questioni di immagini provoca sovente una
grande incomprensione tra i giornalisti che più sono occupati
dalla selezione delle fotografie nelle varie sezioni. Questi pro-
blemi che investono la possibilità di comprendersi tra membri
dello stesso giornale hanno un equivalente soltanto negli inter-
venti che i vertici compiono sulle titolazioni degli articoli com-
posti dai giornalisti scriventi. Vi è in tutta evidenza un interesse
congiunto nelle redazioni per quegli elementi visivamente prio-
ritari (testatine, titoli, fotografie) che si presume arrivino al let-
tore prima e in maniera più generale della lettura di singoli pez-
zi. Questo atteggiamento complessivo non è però sovente colto
da chi nelle redazioni si occupa prioritariamente (o esclusiva-
mente) di fotografia. Bisogna quindi rendere conto della costru-
zione di quella particolare messa in scena che è testo+immagine
e che è la forma di gran lunga maggioritaria di presentazione
delle immagini fotografiche nella nostra società. Tenterò dun-
que di pervenire all’identificazione di alcuni principi che orien-
tano la selezione e la messa in pagina delle fotografie, approfit-
tando ancora delle osservazioni etnografiche compiute nelle
quattro redazioni, ponendo proprio l’accento su quanto questi
principi siano debitori della volontà generale di evitare le criti-
che aperte e al tempo stesso pervenire a una rappresentazione
degli eventi coerente con la politica editoriale e anche in qualche
misura originale (diversa dai concorrenti).

4.1. Attualizzazione

La prima questione che va segnalata è quella del più generale


uso dell’immagine nel contesto del giornalismo quotidiano. La
fotografia cosiddetta d’attualità è perlopiù soggetta proprio alla
questione del suo legame con le figure, i luoghi e i tempi delle
notizie.
Se quello dell’attualità è un principio, i suoi criteri sono proprio
quelli di mantenere un contatto con la definizione dell’evento,
136 Capitolo 4

cioè con il contesto figurativo e spazio-temporale definito come


“il contesto dell’avvenimento”. Le immagini che debbono ri-
spondere a questi criteri non sono tutte quelle che vengono
messe in pagina sui quotidiani. In linea generale ci sono eventi
che sollevano la necessità di una copertura per immagini che sia
legata a filo doppio sia al luogo che al tempo dell’evento da noti-
ziare. Eppure abbiamo visto come, nelle redazioni, le immagini
non siano avvertite come notizie, ma vengano cercate proprio in
seguito alla notizia, attraverso un sistema di parole-chiave che
investono anche immagini archiviate (e quindi datate); ho anche
avuto modo di dire che le agenzie stesse ripropongono immagi-
ni datate che potrebbero a buon grado venire ri-attualizzate.
Questo è solo uno dei problemi che a prima vista renderebbe
difficoltosa l’applicazione di questo principio. Un altro riguarda
ad esempio la definizione di evento (e la sua ampiezza spaziale e
durata temporale). Vi sono eventi-lampo e circoscritti a un luo-
go preciso, come è stato il caso di Londra ed eventi, come la
guerra, che possono durare anche diversi anni e che si svolgono
su un territorio piuttosto esteso. In questo caso, un’immagine
del conflitto presente nell’archivio-abbonati rischia di essere sia
datata che “fuori luogo” rispetto all’evolversi delle notizie.
Cercherò di andare per gradi. Il primo punto riguarda una
tipologia di eventi (e contesti degli eventi) e il confine ambiguo
tra attualità dell’immagine e livello di attualizzazione dell’im-
magine. Come ho avuto modo di segnalare, compiendo l’osser-
vazione sul lato delle agenzie e dei fotografi, un’immagine che
giunge da luoghi abitualmente poco seguiti o seguiti solo spora-
dicamente dai media, come è il caso di molte zone del globo,
può essere attualizzata anche laddove non sia molto recente e
può anche essere spostata di luogo dal momento che la sua rap-
presentazione si fonda su alcuni cliché dati per scontati. Un
bambino nero può illustrare la questione dell’infanzia in Africa,
sia quando l’articolo porta nello specifico su una nazione, sia
quando porta su un’altra, indifferentemente. Ho avuto modo di
assistere a una questione di questo tipo nella redazione de il
Manifesto, ma credo che questo non faccia differenza dal mo-
mento che il rispetto del principio di attualità è subordinato alle
critiche (dei lettori e soprattutto delle altre redazioni, che pos-
sono rendere pubblico l’errore) ed è quindi subordinato alla
questione della credibilità del giornale di fronte alla generica
Etnografia della produzione 137

“opinione pubblica”. La decisione se essere fedeli al principio di


attualità (il che comporta un lavoro di controllo a volte anche
difficile sul materiale che si riceve o piuttosto una ricerca sup-
plementare sottoposta al rischio di non trovare l’immagine ade-
guata) o se accontentarsi di una “credibile” attualizzazione delle
immagini, dipende da una scommessa sulla possibilità che le
altre redazioni e un buon numero di lettori possano criticare la
scelta (possano cioè accorgersi dell’errore ed esserne turbati o
infastiditi).
Il fatto che l’immagine debba essere attuale o attualizzata
non è una costante del giornalismo. Come ho mostrato, vi sono
spazi ben identificati dai lettori nei quali le fotografie non sono
soggette a questo principio. È il caso dei cosiddetti francobolli,
ma anche di tutte quelle fotografie che servono per agevolare la
lettura del quotidiano e per individuare rapidamente il soggetto
del quale si scrive. Eppure vi sono casi in cui l’attualizzazione (il
rapporto di un’immagine con i soggetti, i luoghi e/o i tempi di
un avvenimento) è svolta strategicamente proprio per conferire
valore di prova giornalistica a una direzione presa dallo scritto3.

3 Sulla maniera in cui utilizzo questo termine è bene che spenda qui

qualche parola. La fotografia può svolgere la funzione di prova in vari modi


e in riferimento a diversi contesti istituzionali. In casi estremi si può parla-
re della fotografia come prova legale. Ad esempio, durante il G8 di Genova,
è interessante il caso di due fotografie riguardanti il momento in cui il ca-
rabiniere Mario Placanica sparò a Carlo Giuliani. Una era presa da un foto-
grafo della Reuters, da un punto alle spalle di Giuliani. L’immagine fu presa
con il teleobiettivo (che, come si sa, schiaccia la prospettiva dell’immagine)
e faceva credere che Giuliani fosse vicinissimo al Defender dei carabinieri al
momento dello sparo. Questa immagine alimentava il discorso legale della
legittima difesa. Successivamente però si rinvenne un’altra fotografia, scat-
tata da un non-professionista, che rappresentava lo stesso istante ma da un
altro punto di vista, laterale rispetto alla scena. Questa immagine mostrava
che tra Giuliani e il Defender vi era una distanza, al momento dello sparo,
molto maggiore di quanto ipotizzato analizzando la prima fotografia. In un
caso come questo, la fotografia ha un valore di prova in ambito giuridico.
Per come intendo qui il termine prova, l’ambito di mio interesse resta quel-
lo giornalistico. Come mostrerò tra poco parlando del caso delle armi al fo-
sforo su Falluja, non è escluso che il senso di prova in termini più rigorosi
sia un elemento rilevante che condiziona certe scelte giornalistiche di mes-
sa in pagina, capace di imporsi rispetto a altre convenzioni giornalistiche
che porterebbero a un diverso trattamento della stessa fotografia. Tuttavia,
il significato di prova giornalistica è qui usato in termini generali per sottin-
tendere che l’uso della fotografia sui quotidiani è sovente subordinato a
un’idea (ormai ampiamente acquisita) di prova, per l’appunto, giornalisti-
138 Capitolo 4

Un esempio è tratto dall’osservazione nella redazione de il Ma-


nifesto. È giunta la notizia (e immediatamente la smentita) che
riguarda l’uso da parte dell’esercito statunitense di prigioni
dell’est Europa per “ospitare” i detenuti arrestati come possibili
terroristi. La notizia non è comprovata, ma è di quello stesso
giorno (12/01/2006) l’altra notizia trapelata da un’intercetta-
zione fatta dall’intelligence svizzera dove viene segnalato l’uso,
da parte di aerei militari statunitensi non ufficialmente registra-
ti, di aeroporti minori in territorio rumeno.

Arriva nell’ufficio grafico un giornalista degli esteri che si sta occu-


pando della notizia degli scali segreti. Ha individuato una fotografia
sull’archivio AP e ne porta una stampa. Il photoeditor raggiunge il
giornalista degli esteri e la giornalista grafica che si sta occupando di
disegnare la pagina. Tutti guardano la fotografia che lui ha portato su.
(Nell’immagine si vedono un soldato rumeno e sullo sfondo la pista di
un aeroporto e la coda di un aereo in transito. Sulla coda è impressa
una bandiera degli Stati Uniti). Il photoeditor dice: “Sì, l’immagine va
bene”. Al che io domando: “È una fotografia degli scali segreti?”. Il
giornalista degli esteri si gira verso di me, piuttosto stupito e mi ri-
sponde: “Figurati! Se ce l’avessimo secondo te la metteremmo qui?”. La
giornalista grafica, viene in mio soccorso: “No, è una fotografia simbo-
lica”. E il photoeditor aggiunge: “Però l’aeroporto è proprio quello che
hanno segnalato. Ma l’aereo è un normale aereo di linea”.

L’immagine viene messa ugualmente, perché “l’aeroporto è


proprio quello” (attualità del luogo), nonostante il fatto che la
fotografia sia temporalmente inattuale. Il militare rumeno e la
coda dell’aereo (inattuali rispetto alla notizia) sono elementi
tuttavia essenziali nella selezione dell’immagine. Dicono “mili-
tare” nonostante l’aereo sia civile e dicono Stati Uniti: insomma,

ca. Come emerge dai lavori citati di Tuchman (1972) e Shudson (1978), il
giornalismo ha sviluppato certi rituali strategici sostenuti da un insieme di
procedure formalizzate che offrono certi riscontri e ancorano il discorso
giornalistico (talvolta in bilico tra fatti e commenti) a un elemento forma-
lizzato come “oggettivante”. È il caso dell’uso delle virgolette, e di altre pro-
cedure individuate dagli autori. A mio avviso, la fotografia assume pieno
senso nel giornalismo per la sua capacità di ancorare un discorso a una pre-
sentificazione dell’oggetto del quale si scrive. La fotografia comprova, nelle
intenzioni dei giornalisti, un certo discorso. Spesso il suo valore di prova è
ambiguo e dubbio, ma in generale la fotografia, beneficiando di un grande
credito sociale (il mito della trasparenza), è utilizzata dai giornalisti per
aumentare il valore di verità di quanto si tenta di dimostrare con le parole
scritte.
Etnografia della produzione 139

esprimono gli altri elementi sui quali si costruisce la notizia


scritta. Attraverso l’attualità del luogo è possibile utilizzare
l’inattualità degli altri elementi presenti nella fotografia, ovvia-
mente senza mentire, cioè senza dire (in didascalia) che quella
fotografia rappresenta ciò di cui non c’è (ancora?) un’iconogra-
fia. L’ambiguità della messa in pagina sta nella capacità di man-
tenere almeno un elemento attuale che tenga ancorata la foto-
grafia a un suo senso giornalistico. Il principio di attualità com-
porta insomma una serie di decisioni al confine tra ciò che è
giornalisticamente lecito e ciò che attirerebbe sicure critiche e
getterebbe discredito sulla testata. In questo caso inoltre, la li-
ceità della selezione è garantita dal fatto che sia stata l’AP stessa
a mettere in circuito quell’immagine, anticipando in questo mo-
do possibili scelte giornalistiche.
Anche durante la guerra irachena il principio di attualità ha
giocato un ruolo importante su alcune scelte. Un caso che mi
sembra molto interessante è quello di utilizzare alcune immagi-
ni per segnalare (e rendere presente) qualcosa su cui non si di-
spone di un’iconografia. È capitato che vi fossero notizie di
bombardamenti precisi che avevano coinvolto dei civili (i cosid-
detti “danni collaterali” della strategia dei “bombardamenti chi-
rurgici” con “armi intelligenti”). Partendo dal presupposto che
queste notizie fossero in numero minore di quelle che si sareb-
bero avute immaginando una rete di inviati capillare e libera di
indagare su tutto il territorio iracheno, i giornali si sono sentiti
legittimati a dare un riscontro iconografico a queste notizie an-
che laddove non era possibile avere immagini che si riferissero
specificatamente a quel bombardamento. Dal momento che le
immagini di civili danneggiati dai bombardamenti della coali-
zione erano comunque presenti negli archivi via abbonamento,
è sovente accaduto che in redazione se ne scegliesse una per da-
re conto visivamente della notizia. In questi casi i legami con
l’attualità stavano sia nei soggetti delle immagini (civili colpiti),
sia nel luogo, laddove veniva identificato con l’insieme del paese
sottoposto ai bombardamenti della coalizione (l’Iraq). L’inat-
tualità temporale poteva essere confutata dal fatto che le imma-
gini si riferivano pur sempre all’evento “guerra in Iraq”. Ovvia-
mente la scelta della fotografia non doveva in questi casi cadere
su un’immagine già pubblicata dalla testata in riferimento a un
altro caso.
140 Capitolo 4

Se, nel caso dell’evento precedente, la didascalia si limitava a


indicare il luogo, in questi casi frequenti (di più o di meno a se-
conda della più o meno marcata posizione della testata nei con-
fronti della guerra), in didascalia ci si limita a segnalare gli ele-
menti di fatto attuali, senza menzionare i dettagli del luogo e del
giorno. Si scriverà semplicemente “civili iracheni colpiti dai
bombardamenti della coalizione” o qualche variante sul genere.
Insomma, si affermerà qualcosa di comprovabile, dal momento
che la didascalia del fotografo diceva proprio quello (ma non so-
lo quello).
Messa accanto a un articolo che parla di quel bombardamen-
to, l’immagine assume un valore di prova giornalistica, nono-
stante di fatto non lo sia, o, nel caso dell’aeroporto rumeno, da-
rà più forza a un sospetto, cioè a una notizia data da alcuni e
smentita da altri.
Un altro esempio interessante viene dal Corriere della Sera
del 3 marzo. La pagina 13 è dedicata al ritrovamento da parte
del regime iracheno di alcune armi illecite. Nello specifico si
trattava di 120 missili Al Samoud2 e di 8 bombe “all’antrace”. I
missili Al Samoud2 non sono armi chimiche, ma rientravano
nel catalogo delle armi proibite dall’ONU dopo il 1991 perché
aventi un raggio d’azione superiore ai 150 Km autorizzati, per la
verità di molto poco, visto che i missili avevano un raggio
d’azione di 183 Km, cioè 33 in più rispetto a ciò che era stato de-
finito come lecito nei trattati. Di armi chimiche vi erano soltanto
le 8 bombe di piccolissime dimensioni.
In un impianto infografico che faceva da supporto informati-
vo, al Corriere della Sera, una fotografia d’archivio raffigurante
una fila di missili Al Samoud2 è stata posta (senza alcuna dida-
scalia) al fondo di tre colonne inserite in un riquadro intitolato
“L’arsenale segreto di Saddam”. Nella prima colonna ci si riferi-
sce a “tonnellate di gas nervino”; nella seconda a “550 proiettili
all’iprite” e nella terza a “157 bombe all’antrace”. Questi dati si
riferiscono ai sospetti dell’intelligence statunitense, ma l’imma-
gine dei missili offre una presentificazione degli armamenti “se-
greti” che – così priva di didascalia – può essere a buon diritto
confusa nella sua specificità (chi conosce la forma degli Al Sa-
moud2?). D’altronde il giornale (inteso qui riferendosi a ciò che
va in pagina e non alle molte individualità che vi lavorano) non
mostra dubbi sulla reale presenza in territorio iracheno di quel-
Etnografia della produzione 141

le armi chimiche, tanto che nella stessa pagina compare una co-
lonna dove alcune risposte passate come oggettive seguono cin-
que domande. L’ultima domanda è la seguente: “Perché gli i-
spettori ONU faticano a trovare bombe e sostanze”. Viene offer-
ta questa risposta: “Si tratta di materiale facile da nascondere.
[…] Gli iracheni hanno avuto anni di tempo per organizzare ri-
fugi segreti”. Anche in questo caso, l’immagine, attualizzata (si
tratta di armi non convenzionali, in Iraq, ma non c’è didascalia)
permette di dare maggior vigore a un insieme testuale che pro-
pone una notizia incerta come se fosse certa.
Il principio di attualità funziona quindi come un rituale stra-
tegico di selezione e messa in pagina dell’immagine (e dei testi)
ed è accuratamente corredato da un uso della didascalia che,
pur senza mentire, si limita a segnalare ciò che fa di quell’im-
magine un’immagine appunto attuale, evitando di segnalare gli
elementi di inattualità. Dal momento che la fotografia sui quoti-
diani è in larghissima misura utilizzata per offrire una prova
giornalistica di quanto viene affermato, essa contribuisce, attra-
verso questo utilizzo accorto, a forzare un’interpretazione senza
incappare peraltro nelle critiche. Inoltre, poiché questo rituale
strategico, che è articolato secondo le coordinate qui individua-
te, è comune a tutto il giornalismo quotidiano, rimanere all’in-
terno di questi parametri pratici è condizione sufficiente a ripa-
rarsi da certe critiche e dalla perdita di credibilità che ne derive-
rebbe. La fotografia assicura in questo modo al giornalismo il
suo apporto in quanto presentificazione di quanto viene asseri-
to. Nei casi più controversi, laddove la notizia è incerta o impos-
sibile da appurare per via delle smentite di una parte in causa o
per il suo carattere intrinsecamente opinabile (laddove la noti-
zia confina col commento) la fotografia così attualizzata svolge
un’importante funzione di conferma, sebbene attraverso un gio-
co sottile tra il detto e il non detto del legendum, che ne veicola i
significati. Ancora: il venir meno di un confronto diretto con i
fotografi e quindi di una negoziazione d’uso delle immagini e,
contemporaneamente, le grandi possibilità offerte dalle banche
d’immagini on-line, sono perfettamente funzionali per un gior-
nalismo che si è sviluppato lungo queste due direttive e cioè
quella di poter illustrare sempre di più anche i commenti e le
notizie incerte e quella di utilizzare l’immagine il più possibile
142 Capitolo 4

come elemento di presentificazione e di attualizzazione di quei


commenti e di quelle notizie.

4.2. Bilanciamento

L’attualizzazione non è tuttavia l’unica questione rilevante


per i quotidiani quando si parla di immagini. Un’altra questione
riguarda ad esempio quella di tenere sotto controllo l’impatto
emotivo di certe immagini considerate particolarmente “forti” e
che si presume possano disorientare il lettorato. Sontag4 faceva
notare che l’immagine è sempre stata tenuta in conto per la sua
capacità di coinvolgere la sfera emozionale e morale di chi la
guarda. L’autrice sostiene che l’immagine in sé non produce
nulla di preciso; essa contribuisce a produrre una reazione solo
quando il terreno sia già stato preparato perché l’indignazione o
l’orrore che essa può provocare trovino una direzione e un pro-
gramma di discorso e/o d’azione coerente. Boltanski5 ha dedica-
to un intero lavoro alla questione del passaggio tra la compas-
sione suscitata dai media e l’azione concreta, e alle critiche che
storicamente si sono poste come ostacoli nei confronti di certe
rappresentazioni della sofferenza distante (cioè vista e sentita
attraverso i media). A il Manifesto, ad esempio, per dirla nel
linguaggio di Boltanski, una costante nella copertura della guer-
ra irachena era lo sviluppo di una “topica della denuncia” per la
quale certe immagini erano fatte oggetto di una messa in pagina
che spingeva il lettore (attraverso un’adeguata codifica del mes-
saggio) all’indignazione. Sugli altri giornali tuttavia, pur preva-
lendo di volta in volta una certa presa di posizione nei confronti
di alcune questioni centrali inerenti la rappresentazione di que-
sta guerra, il discorso generale era meno unitario e determinato.
In questi casi una strategia per fronteggiare la messa in pagina
di fotografie avvertite come particolarmente violente è quella,
che adesso vedremo, del bilanciamento. Questa strategia è la
prima di una serie di criteri che analizzerò che mostrano quanta
enfasi le strutture giornalistiche pongano sul loro ruolo di am-
ministratori dei sentimenti e delle passioni, ossia sul loro com-

Sontag, S., Davanti al dolore degli altri, Milano, Mondadori, 2003.


4

Boltanski, L., Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e


5

politica, Milano, Cortina, 2000.


Etnografia della produzione 143

pito più direttamente morale, legato alla necessità di mettere


ordine non soltanto tra le notizie, ma anche tra le emozioni che
esse (e le immagini soprattutto) si presume portino con sé.
Ho già avuto modo di scrivere che una strategia utilizzata a
Le Figaro per affrontare immagini particolarmente cruente,
considerate di grande impatto emotivo e temute per la loro ca-
pacità di forzare i sentimenti dell’opinione pubblica a monte di
qualsiasi ragionamento ponderato, sia quella del “bilanciamen-
to”. Con questa parola intendo la possibilità – laddove si pre-
senta – di mostrare il pluralismo degli effetti della violenza, os-
sia le atrocità commesse da entrambe le parti in conflitto su una
stessa pagina, contribuendo a neutralizzare quello che viene av-
vertito come il pericolo insito nel mostrare immagini dal forte
impatto emotivo. Ho scritto del contenzioso tra il condirettore
del giornale e uno dei due photoeditor in riferimento alle imma-
gini di un palestinese e di un israeliano assassinati nello stesso
giorno. In quel caso, la modalità di bilanciare le rappresentazio-
ni degli atti di violenza è avvertita dal photoeditor come una
prassi standard del giornale, alla quale appellarsi per contestare
la scelta della direzione di escludere l’immagine del palestinese.
Come mi ha poi raccontato:

È successo tante volte che proponessimo un’immagine più forte di


quanto loro si aspettassero e, quando non la rifiutavano direttamente,
ci facevano capire che avrebbero potuto anche metterla a patto di non
mettere solo quella, ma di dare a vedere anche la controparte. […] In
quei casi noi cercavamo anche un’altra foto che mostrasse quella parte,
che l’immagine identificava indirettamente come carnefice, anche co-
me vittima, e loro si impegnavano a ricavare uno spazio in pagina per
questa seconda immagine.

Questo meccanismo è diventato abituale, al punto che du-


rante la guerra irachena, alcune delle poche immagini di cada-
veri o di uomini sofferenti pubblicate dal giornale sono state
“naturalmente” affiancate dalla sofferenza subita dalla contro-
parte.
Il caso più clamoroso è quello della copertura del 2 aprile del
2003, laddove una fotografia a pagina 5 di un uomo iracheno
che piange sulle bare ancora aperte dei parenti morti in un at-
tacco della coalizione è messa in pagina con la fotografia di una
cerimonia militare funebre in una base da campo statunitense,
144 Capitolo 4

dove la bara avvolta nella bandiera americana è al centro delle


preghiere dei marines e dei generali. Piccola questione: questa
fotografia, pur essendo sotto la testatina “Guerra in Iraq”, è trat-
ta dal territorio di guerra afgano. Racconta il photoeditor:

Cercavamo una fotografia di un caduto statunitense ma, come sa-


prai, queste immagini non erano ancora arrivate. Poi arrivò qualcosa
del genere, nei giorni seguenti, ma a quel punto della guerra ancora
non ce n’erano. […] Avevamo un paio di immagini di soldati feriti e le
abbiamo proposte, ma ci hanno poi detto che volevano una foto di un
funerale, con una bara, così come era la fotografia di un funerale
quell’altra che avevamo proposto. Perciò abbiamo proposto questa, an-
che se ci sembrava che potesse essere sbagliato mettere un’immagine
dall’Afghanistan per controbilanciarne una che veniva dall’Iraq.

Per superare questa problematica, le fotografie andarono in


pagina con un articolo (e un titolo d’articolo, ovviamente) che
tracciavano la storia che, dagli attentati dell’11 settembre ha
portato prima all’Afghanistan e poi all’Iraq. Inserita in questo
contesto, la fotografia dell’uomo che si dispera sulle bare dei fi-
gli e della moglie, una delle immagini più drammatiche perve-
nute dai primi giorni di guerra, viene posta a distanza, divenen-
do uno degli esempi di una cronistoria che ha origine un anno e
mezzo prima. In questi casi il bilanciamento diviene una strate-
gia di messa a distanza del dolore e della sofferenza, attraverso
un racconto che ne veicola l’impatto diretto sul pubblico, e una
messa in pagina in grado di proporre la fotografia come parte di
un discorso più ampio e ragionato, avente cioè la sua catena di
cause o la sua “contropartita”.
Che le vittime non siano mai soltanto vittime è l’assunto di
un giornalismo che tende a evitare la personalizzazione a favore
di un resoconto che consideri ogni soggetto giornalisticamente
interessante solo in quanto parte di un gruppo (non importa
quanto variegato) che ha la sua ragion d’essere in una precisa
cornice di senso attribuita all’evento. L’ampiezza e la direzione
di questa cornice (frame) è precisamente l’elemento da cui trae
giustificazione una strategia di messa in pagina. Ovviamente
con ciò non sto dicendo che a Le Figaro questa rappresentazio-
ne sia seguita come l’unica possibile, ma che di volta in volta, e
in base alla disponibilità di materiale, una necessità del giornale
(quella di bilanciare le immagini sentite come eccessivamente
Etnografia della produzione 145

drammatiche) ha bisogno di allargare o restringere l’ampiezza


di questa cornice interpretativa per poter dare significato alla
messa in pagina, mantenendo attiva la conformità al principio
di attualità.
Non avendo costruito un’unica cornice interpretativa in gra-
do di riempire di senso ogni notizia selezionata dall’Iraq (seb-
bene la selezione iniziale segua in parte delle coordinate di sen-
so negoziate nelle riunioni di redazione), al giornale alcuni fra-
me si sostituiscono ad altri, mano a mano che gli eventi (e non
solo quelli strettamente bellici) si susseguono e che il materiale
disponibile per notiziarli sia più o meno vicino alla restituzione
dei significati che vengono di volta in volta negoziati tra i vertici
della redazione.
Quella del bilanciamento è una strategia che viene utilizzata
in questo modo solo per particolari fotografie. Dice sempre il
photoeditor:

Lo facciamo quando ci rendiamo conto che l’immagine è davvero


molto forte. Il direttore è in linea generale contrario a mostrare certe
cose. Pensa che possano turbare i lettori. Perciò, questa cosa succede
solo quando si decide che una fotografia forte va comunque messa.

Al fotografico di Le Figaro si è fatta strada l’idea che la que-


stione riguardi unicamente una sorta di pudore che è tipico di
questa testata nel far vedere le conseguenze talvolta atroci di un
avvenimento. Avendone tratta questa conclusione generale, al-
cune richieste che vanno contro quest’idea, o il rifiuto di certi
bilanciamenti laddove l’immagine è considerata di eccessivo
impatto drammatico, non sono comprese e finiscono per essere
afferrate fuori dal dialogo giornalistico, cioè comprese come fos-
sero delle mere “scelte politiche”. Questa espressione ricorrente,
“è una scelta politica” (“Ça c’est de la politique”), demarca il li-
mite della comprensione reciproca tra le decisioni dei vertici del
giornale e i giornalisti del fotografico.
La strategia del bilanciamento è utilizzata sovente anche da-
gli altri giornali. Ad esempio, sul Corriere della Sera del 30
marzo 2003, su due pagine (pagine 9 e 10) vengono messe tre
fotografie di dolore di famigliari delle vittime del conflitto: pri-
ma donne irachene in lacrime per la morte dei parenti durante
un raid aereo statunitense, poi due immagini dai funerali di un
146 Capitolo 4

marine britannico in una chiesa inglese, con i parenti dei soldati


che si tengono le mani per lenire il dolore.
E, su Libération del 24/3, alle pagine 10 e 11 compare un
“falso reportage”, ossia un montaggio in pagina di un certo nu-
mero di fotografie presenti negli archivi, che rispondano a un
unico tema, talvolta generico, che in questo caso era “I volti del-
la guerra” (“Les visages de la guerre”).
Su un totale di dodici fotografie pubblicate (alcune molto
piccole), sei ritraggono degli iracheni (quattro ritraggono dei
feriti in ospedale e due ritraggono dei morti sul terreno), e le al-
tre sei ritraggono degli americani. Va notato che queste ultime
sei sono tutte dei video grabs fatti nella sede dell’AFP allo
schermo della televisione, dal canale arabo Al Jazeera. Quattro
sono primi piani dei soldati statunitensi catturati e mostrati in
TV dal regime (che anche AP e Reuters hanno distribuito, sem-
pre come video grabs), mentre le altre due sono le uniche due
immagini di marines caduti sul terreno che si siano viste (e che
AP e Reuters, a differenza di AFP, non hanno distribuito).
In questo caso, l’esigenza di bilanciare non è tuttavia
l’espressione di una volontà di messa a distanza del generico do-
lore che la guerra (e si potrebbe dire ogni guerra) causa a chi vi
prende direttamente parte. Non si tratta cioè di una volontà di
privare di specificità le sofferenze provate dai due gruppi (ma
difficilmente si può parlare di due gruppi soltanto) in guerra.
Come racconta il photoeditor:

Erano giunte queste fotografie [in realtà si trattava di video grabs]


dei soldati statunitensi fatti prigionieri in Iraq e esposti alla gogna me-
diatica dal governo iracheno. Era ovvio che le avremmo mostrate, ma
non volevamo che queste immagini si imponessero all’attenzione gene-
rale e facessero dire soltanto “poveri soldati americani!”. Non volevamo
certo che questo non fosse detto, ma non c’era solo questo da dire. Per-
ciò abbiamo deciso di approfittare della doppia pagina consacrata al
reportage per mettere queste immagini insieme a quelle della sofferen-
za degli iracheni, che era comunque assai più grande quantitativamen-
te, oltre al fatto che la maggior parte di loro non erano soldati, non ave-
vano scelto quel rischio, ma si erano trovati all’improvviso sotto le
bombe.

Il bilanciamento ha svolto in questo caso una funzione preci-


sa che sottostà a una lettura della realtà bellica compiuta in re-
dazione. Ai primi piani dei soldati catturati, vengono aggiunte
Etnografia della produzione 147

due immagini fornite da AFP e ignorate dagli altri giornali ana-


lizzati (escluso il Manifesto che l’ha comperata dall’ANSA), dei
due marines caduti in battaglia. L’operazione consente di bilan-
ciare, mostrando non solo dei feriti, ma anche dei cadaveri tra le
fila degli iracheni, le cui immagini vengono prima in pagina e
hanno un formato più grande di quelle dei soldati USA, a sotto-
lineare una priorità che è prima di tutto una gerarchia delle e-
mozioni che il giornale prescrive al suo lettorato. Una medesima
strategia di presentazione (il bilanciamento) si presta pertanto a
esigenze narrative molto diverse ma, in tutti i casi, questa stra-
tegia ha lo scopo di spostare l’attenzione da un’immagine, po-
nendola a distanza per via della comparazione.

4.3. Completezza generalista

Un altro criterio che informa la selezione e la messa in pagi-


na è quello che sottostà al discorso della “completezza”. Al Cor-
riere della Sera, molto più che altrove, la questione del bilan-
ciamento si sovrappone a quella della completezza informativa.
In questo giornale, uno dei metodi per prevenire eventuali criti-
che e rafforzare un’identità di testata che ancora fa molto credi-
to sull’obiettività, è quello del bilanciamento/completezza delle
immagini messe in pagina.
Durante la guerra irachena, il grandissimo numero di imma-
gini pubblicate (di gran lunga maggiore rispetto a quello degli
altri giornali esaminati) è sì conseguenza di un numero di pagi-
ne maggiori dedicate al conflitto, ma anche il frutto di un’esi-
genza di completezza visiva che merita di essere analizzata.
Partirò dall’esempio della copertura della “strage di Londra”,
alla quale ho assistito personalmente, per dare conto di questo
discorso. Ho già avuto modo di scrivere quali procedure orga-
nizzative hanno portato alla selezione delle immagini atte a rap-
presentare questo evento sulle pagine del Corriere della Sera.
Non ho ancora fornito un resoconto etnografico del come questa
scelta è stata trasposta in parole. Lo faccio subito, partendo
proprio dal passaggio finale, quello in cui il vice art-director de-
cide quali immagini andranno in pagina.
148 Capitolo 4

[sono le 20, 10]. Il vice art-director rientra in ufficio [arriva dalla sala
della direzione] e si mette a guardare le fotografie stampate e appese a
parete. L’archivista si alza e si posiziona accanto a lui. Tutti i giornalisti
grafici sono al lavoro ai loro desk.
(le fotografie appese sono 125. Otto sono inquadrature differenti
della stessa immagine che il condirettore stesso, passando, aveva loda-
to: quella della donna con una maschera bianca che le copre il volto e
un uomo al suo fianco che la accompagna lontano da lì. Sedici sono
immagini recuperate dagli archivi – talune anche datate – sul generico
tema della sicurezza in altri paesi del mondo: controlli agli aeroporti,
ecc. Anche queste sono state cercate su esplicita richiesta del condiret-
tore).
Il vice art-director dice all’archivista: “Beh, si può dire che non è
una tragedia fotografica”. E l’archivista: “Magari qualcuna arriverà nei
prossimi giorni. Forse c’è stata una sorta di filtro”. Un giornalista grafi-
co si è alzato ed è giunto anche lui accanto agli altri due. Indica le foto-
grafie della donna con la maschera bianca e dice: “Questa però è bella”.
Il vice art-director replica: “Infatti finirà in prima pagina. Anche la
mappa è venuta bene”. E il giornalista: “Sì. E poi ci sono tutti i simboli
che la gente riconosce, gli abbiamo anche fatto aggiungere [agli info-
grafici] le fotine dei monumenti”. E subito aggiunge, indicando la foto-
grafia del bus londinese squarciato dalla bomba: “Anche questa è bel-
la”. Il vice art-director: “Infatti ci finirà anche quella”. E, dopo una
breve pausa contemplativa: “Abbiamo tanti volti, metteremo degli a-
dulti e dei giovani…questa delle ragazze mi sembra possa andare. I luo-
ghi li abbiamo, il bus, poi c’è la mappa. Qualche foto surreale c’è. Il te-
ma della sicurezza, bene… Cosa manca?” E, dopo una breve pausa: “Ec-
co cosa mi manca: una sul politico”. E, rivolgendosi alla giornalista gra-
fica: “Cos’abbiamo sul politico?” Lei risponde: “So che hanno preso
qualcosa dal vertice del G8. Stanno aspettando ancora qualcosa sulle
dichiarazioni di Blair”.

Dopo questo dialogo il vice art-director è uscito e ha rag-


giunto la sezione politica del giornale. Nel frattempo è giunta
una e-mail di un corrispondente dell’agenzia fotografica La-
presse che offriva tre immagini in esclusiva dei treni metropoli-
tani colpiti. Tre fotografie scattate nell’underground londinese.
Appena il vice art-director è rientrato, la giornalista grafica gli
ha mostrato i preview, le basse risoluzioni in bianco e nero delle
tre fotografie. Il vice art-director ha dato l’assenso perché par-
tisse la trattativa. La giornalista grafica ha così fatto da media-
trice tra Lapresse e i vertici del giornale per fissare una cifra e
capire se il giornale avrebbe o meno accettato la spesa. La trat-
tativa è poi andata in porto. Le tre immagini sono costate
20.000 euro. Due di esse erano piuttosto buie e di difficile lettu-
Etnografia della produzione 149

ra. La terza – l’unica che il giornale ha poi davvero utilizzato,


inserendola a pagina 3 – raffigurava il treno sotterraneo, visto
dalla banchina, con uno squarcio nella lamiera e le porte dei va-
goni aperte. Era stata scattata dopo che tutte le persone coinvol-
te nell’incidente avevano già abbandonato la zona. Nella foto-
grafia si intravede un vigile del fuoco sui binari e un uomo in
camice bianco dentro un vagone (presumibilmente un poliziotto
scientifico che sta facendo l’ispezione). Quando ho chiesto al vi-
ce art-director, il giorno dopo, perché secondo lui ne era valsa
la spesa, lui mi ha risposto dicendomi che, mentre di immagini
dei bus ce n’erano diverse, non c’era però nessuna foto dei va-
goni metropolitani. E dicendomelo dava per scontato che ne
fosse valsa la pena.
La completezza dell’informazione visiva è dunque in parte
misurata su alcune categorie di soggetti raffigurati (giovani, ma
anche adulti; maschi, ma anche femmine; i bus, ma anche i tre-
ni sotterranei, ecc.), su categorie espressive legate alla lettura
delle immagini (realismo ma anche surrealismo), ecc. L’effetto
surreale è creato sia dalla maschera bianca che porta la donna
ferita, sia dal poliziotto a cavallo che fronteggia una folla di lon-
dinesi che lo guardano con espressioni perplesse, sia infine dal
bus di due piani ridotto a una carcassa di un piano.
Queste fotografie sono state infatti inserite dal vice art-
director alle 21.40, quando, ritornando a guardare le fotografie
appese a parete, ha riproposto praticamente gli stessi commenti
fatti prima e ha indicato quelle immagini proprio parlando di
surrealismo e, subito dopo, di “assurdo”.
Inoltre, è interessante parlare, ai fini di questo discorso, del-
la fotografia di Abu Hamza, un capo religioso islamico che vive
in Inghilterra e che desta particolare stupore (visivamente par-
lando) per avere un uncino di metallo al posto di una mano. È
proprio questo particolare “curioso” a attivare la proposta di re-
cuperare in archivio una sua immagine piuttosto che quella di
un qualsiasi altro “religioso islamico estremista” che vive in Eu-
ropa. La fotografia viene selezionata da un giornalista grafico
che la porta in infografia perché venga trattata e accostata a un
riquadro. Questa fotografia illustrerà un articolo (apparso poi a
pagina 6) che intende tracciare un profilo degli estremisti islamici
che vivono nel nostro continente. Il titolo è il seguente: “Parla
inglese, tifa Chelsea, gioca a cricket: ecco l’euro-mujaheddin”.
150 Capitolo 4

La didascalia invece, che ha come titolo “Il profilo dei terroristi


in Europa” è la seguente: “È di origine nordafricana o asiatica,
ma nato in Europa (specialmente in Francia e Gran Bretagna).
Oppure immigrato. Età: tra i 20 e i 37 anni. I miti: Osama, la
guerra in Iraq, la causa palestinese”.
L’assurdità è qui data sia dalla scelta del soggetto (e del suo
uncino), sia da questi scritti, che vorrebbero trasferire la loro
stessa assurdità sui soggetti che trattano. Alle categorie “da co-
prire” (abbiamo visto: giovani e adulti, maschi e femmine, reali-
smo e surrealismo, ecc.) in maniera bilanciata, si affiancano al-
tre possibilità: quella dell’evocazione di eventi simili avvenuti in
passato o proposti dall’industria culturale. Nel pomeriggio del 7
luglio fu chiamato al telefono il signor Mereghetti, il critico ci-
nematografico italiano noto al grande pubblico per il suo dizio-
nario. Gli venne chiesto se non ci fossero film la cui trama si
strutturasse intorno a un attentato a Londra. Mereghetti ri-
chiamò poco dopo per segnalare un film di Alfred Hitchcock e,
dopo una contrattazione, giunse al giornale per portare un paio
di fotografie di scena che aveva recuperato su quel film. La deci-
sione se inserirle o meno fu dibattuta e il vice art-director ven-
ne chiamato a discuterne con il condirettore nella Sala Albertini.
Per quanto riguarda invece la Storia, il Corriere della Sera abi-
tualmente opta per un impianto infografico che permette di ri-
percorrere visivamente gli eventi o i temi definiti come sequen-
ziali. Ad esempio, nel periodo da me esaminato della guerra in
Iraq, un’occasione si presentò per l’impiego del Settimo Cavalle-
ria: furono impiegate fotografie dello sbarco ad Anzio del 1944,
della guerra del Vietnam (fotografia del 1965), nonché la foto-
grafia di un dipinto della battaglia del Little Big Horn del 1876.
Un’altra fu quella delle manifestazioni antiguerra a New York:
anche questa immagine fu accompagnata da una immagine del
1969 di manifestazioni di piazza contro la guerra del Vietnam.
Un altro caso ancora fu quello della rabbia degli iracheni mani-
festatasi contro le statue di Saddam Hussein abbattute dai sol-
dati della coalizione: qui si scomodarono le immagini della rab-
bia di giovani italiani contro una statua di Mussolini nel 1945 e
quella della gente lituana contro un monumento a Lenin.
Per Londra, l’evento direttamente collegato era per tutti
l’attentato alla stazione Atocha di Madrid, ma le immagini di
quella strage (molto più drammatiche di quelle pervenute da
Etnografia della produzione 151

Londra) non potevano essere utilizzate e questo per due motivi.


Il primo era che quell’evento era ancora troppo vicino nel tempo
per poterne fare una mera citazione. Il secondo, anch’esso ri-
guardante la questione delle emozioni suscitate dalle fotografie,
riguardava proprio l’impatto di quelle immagini e il loro contra-
sto con le fotografie molto più “deboli” provenienti da Londra
(ciò che ha fatto dire al vice art-director che quella di Londra
non era “una tragedia fotografica”). Una questione di equilibrio
sull’ipotesi delle reazioni emotive prodotte dalle immagini sul
pubblico, ha in questo caso spostato l’esigenza di rappresenta-
zione comparativa, dalle fotografie all’impianto grafico.
Il vice art-director ha infatti voluto che si recuperassero in
archivio i giornali della copertura di Madrid per utilizzare lo
stesso impianto grafico di allora (lo stesso font, la stessa dimen-
sione e impaginazione della testatina, ecc).
La completezza informativa è ovviamente un obiettivo ambi-
guo, specie quando si parla di completezza visiva ottenuta attra-
verso l’uso di immagini – le fotografie – che traggono la loro
forza tanto da ciò che includono quanto da ciò che riescono a
tenere fuori dal campo visivo. La completezza è tuttavia una
strategia usata da alcuni giornali per prevenire le critiche e per
fissare una propria autorevolezza nel campo concorrenziale (di-
rei che sta soprattutto qui il senso di essere “un giornale genera-
lista”). E la completezza, in fotografia, si costruisce anche attra-
verso tattiche di bilanciamento che sovente implicano delle ipo-
tesi sull’impatto emozionale delle immagini.
Queste tattiche, che si riscontrano in pratiche e rappresenta-
zioni condivise, hanno tuttavia i loro limiti e i loro interdetti.
Solo certi temi e solo certi accostamenti sono logici e ragionevo-
li, mentre altri non lo sono. Il complesso lavoro di definizione
della situazione, cioè il processo di framing, viene condotto
all’interno di un campo di forze precise, all’interno di un siste-
ma di relazioni di potere dove ogni attore coinvolto contribuisce
a negoziare il senso da dare all’evento. Se, a il Manifesto, la
prima pagina su questo stesso evento è stata costruita intorno a
un’immagine che si caratterizza per il suo realismo (si tratta del-
la fotografia scattata col videofonino sui binari sotterranei du-
rante la fuga in fila indiana dei passeggeri), e questa scelta era
funzionale alla definizione della situazione (“Dovevamo mostra-
re che viviamo in un periodo di guerra, in un mondo in cui fatti
152 Capitolo 4

del genere possono accadere ormai ovunque”, mi ha detto il


photoeditor di quel giornale)6, al Corriere della Sera la defini-
zione era invece decisamente diversa. Qui il tema era l’assurdo,
il surreale che invade il mondo reale, il mondo cioè della razio-
nalità. Per la prima fu scelta un’immagine che colpiva più per
quanto estraniava che per quanto avvicinava alla situazione
concreta dei feriti. La maschera bianca sul volto della donna
stava lì come un enigma: maschera per proteggere da ustioni
subite, oppure addirittura strategia per non permettere di vede-
re i volti feriti, in continuità con i teli bianchi posti dalla polizia
per nascondere alla vista e agli obiettivi dei fotografi le immagi-
ni dell’angoscia e della paura? Qualunque fosse la risposta,
quest’immagine proietta in un mondo altro e la ricerca di im-
magini surreali per le pagine interne alimenta questa volontà di
raccontare l’evento come un’intrusione inattesa e incomprensi-
bile nel mondo della realtà più ordinata e nota (il surrealismo).
Quando il condirettore è entrato nell’ufficio grafico, a tarda se-
ra, dicendo che forse era meglio mettere l’immagine presa col
videofonino (la stessa che avrebbe messo il Manifesto) perché
“quella è il dramma in diretta!”, il vice art-director ha buttato
giù le braccia e ha detto: “Ma se è tutto il giorno che diciamo che
questo è un atto assurdo e ingiustificabile!”, con un tono tra
l’arrabbiato e il lamentevole, al punto che il condirettore gli ha
domandato scusa. E ancora: il vignettista del giornale, in vacan-
za, ha chiamato al telefono il condirettore e questi, che in quel
momento stazionava nell’ufficio grafico, si è consultato con il
vice art-director:

“Dice che vuole disegnare un Cristo in croce, dove la croce è la ban-


diera britannica. Mi sembra possa andare. Tu cosa ne dici?”, domanda
il condirettore al vice art-director tenendo il telefono all’orecchio. Il
vice art-director ci pensa su un attimo e risponde: “Direi proprio di sì”.
[…] Dopo aver spento il telefono, il condirettore guarda il vice art-
director e gli dice: “Mi pare vada benissimo con quello che stiamo di-
cendo”.

6 A il Manifesto quest’immagine è andata in pagina con il seguente tito-

lo: “Fronte Occidentale”, che rimanda a una guerra più ampia in corso nel
pianeta e all’interno della quale si inscriverebbe l’evento di Londra. Anche
il titolo dell’editoriale di Gabriele Polo conferma il frame di riferimento. Il
titolo è per l’appunto “Tempo di guerra”.
Etnografia della produzione 153

Il risultato è una rappresentazione iconografica che, se da


una parte insiste sull’assurdità dell’evento, sulla sua inaccettabi-
lità e incomprensibilità, dall’altra propone un’immagine dei
londinesi relativamente sobria e privata di patetismo (il sangue
è evitato, le immagini più deprimenti sono anch’esse escluse o
raggruppate tutte in un unico montaggio a pagina 10). Come mi
è stato detto dall’art-director, durante l’intervista:

Bisogna poi sempre considerare che Londra arriva dopo Madrid. È


già il sequel dell’evento. Non è più il caso di mostrare la disperazione e
l’angoscia. Non c’è motivo di replicare il sangue. Questo è un evento
che viene dopo e bisogna tenerne conto.

Il bilanciamento e la completezza tematica sono sempre su-


bordinate a un più generale frame che, deciso in direzione, è in-
terpretato e tradotto in immagini dall’art-director e/o dal suo
vice, attraverso un lavoro di selezione che tiene conto dei limiti
di questa stessa cornice di senso. Se le immagini di Madrid non
possono essere affiancate, il film di Hitchcock è invece una pos-
sibilità da prendere in considerazione per alimentare il gioco tra
mondo reale (razionale, logico, ordinato) e mondo surreale (a
cui legare il fanatismo religioso, la finzione filmica, l’assurdità e
il disordine). Se è giusto dare spazio sia a femmine che a ma-
schi, sia a adulti che a giovani, non c’è però posto per feriti in-
sanguinati, né per volti eccessivamente disperati.
Si può dire che la completezza, comunque definita, da otte-
nersi mediante le immagini, può riguardare un evento circo-
scritto a una sola giornata così come un evento di lunga durata
com’è appunto una guerra. In questo caso tutti i giornali che si
definiscono “generalisti” aspirano in qualche misura alla com-
pletezza, la quale ancora una volta ha a che fare con la credibili-
tà del giornale, con la difesa della propria onestà e – a diversi
gradi – obiettività. Anche a Le Figaro, il giornale che ha mostra-
to meno immagini dal contesto iracheno e che – specie sotto la
direzione di allora – ha in generale una politica molto parca ri-
spetto all’uso delle fotografie, l’esigenza di dare spazio a tutta
una serie di categorie di soggetti attraverso le immagini era co-
munque sentita. Come mi ha detto il vice-direttore durante la
mia osservazione:
154 Capitolo 4

Di fronte a un evento importante come una guerra, sarebbe impen-


sabile escludere le fotografie anche molto violente, così come quelle più
umanizzanti. […] La guerra ha sempre in sé un insieme di contrasti
molto forti, di soggetti impegnati e di persone che lottano in direzioni
contrastanti. Tutto questo deve essere mostrato. […] Anche se certe
immagini tendiamo sempre ad evitarle, una manchevolezza evidente in
una direzione o in un’altra sarebbe comunque grave.

4.4. Sequel e analogie

Come abbiamo appena visto, riportando lo stralcio d’inter-


vista all’art-director del Corriere della Sera, i giornalisti pon-
gono attenzione al ripetersi di eventi considerati simili, appar-
tenenti alla stessa famiglia, tematizzati nello stesso modo. È da
notare che una delle accuse più spesso mosse ai media dagli
studiosi di scienze sociali riguarda la loro incapacità di memo-
ria, la loro inadeguatezza nell’offrire un giusto contesto storico
agli eventi notiziati. Nell’imperativo della velocità, nell’eccessiva
drammatizzazione (nel sensazionalismo), nel bisogno di creare
continuamente la novità che attragga i lettori e alzi le vendite,
Wolton7 rinviene tre meccanismi che portano spesso alla perdi-
ta di prospettiva storica. La questione è senza dubbio importan-
te. Ritornando ancora una volta sul caso della copertura degli
attentati a Londra al Corriere della Sera, si può a buon diritto
evidenziare come il giornalismo sia sovente preso all’interno di
una doppia esigenza: da una parte mantenere un legame con
certe coperture passate (elemento che contribuisce a prendere
in carico quella funzione di ordinamento della realtà) e dall’altra
il bisogno di distanziarsene, di mostrare qualcosa di diverso e di
nuovo. La prima esigenza è in questo caso particolare sviluppata
attraverso l’attenzione al supporto grafico (il font, l’impagina-
zione) e alla costruzione della testatina, che riprende quella che
il giornale produsse per la strage di Madrid. La seconda esigen-
za è duplice. La più evidente risponde alla necessità di offrire
una rappresentazione più sobria e meno violenta rispetto a
quella costruita per Madrid: evitare il sangue, la disperazione,
perché quello è già stato mostrato allora e perché “il giornale
non vuole fare il gioco dei terroristi”.

7 Wolton, D., War Game. L’information et la guerre, Paris, Flamma-

rion, 1991.
Etnografia della produzione 155

L’esigenza meno evidente ma che in parte si sovrappone a


questa riguarda invece la necessità sempre presente nel lavoro
dei giornalisti (icono)grafici di trovare delle immagini che sotto-
lineino l’unicità e la specificità dell’evento. Questo si traduce
nella necessità di mostrare qualcosa di figurativamente nuovo,
di mai visto. Come mi racconta un giornalista grafico di quel
giornale:

Per tutti questi grandi eventi, eventi importanti e eccezionali, ab-


biamo poi sempre bisogno di trovare l’icona: l’immagine che calza
l’avvenimento in un modo speciale. Che diventa poi l’icona, appunto,
cioè una fotografia che se un domani ricordo quell’evento mi viene su-
bito in mente, perché una foto così l’ho vista solo in quell’occasione.

L’icona è importante perché ha un ruolo nella costruzione


della memoria. Va nella direzione opposta rispetto al bisogno di
creare un collegamento evidente con qualche avvenimento tra-
scorso, ma anche quest’operazione ha a che fare con la memoria
e con il legame che l’immagine instaura con la nostra capacità di
ricordare. Secondo questo giornalista non vi sono dubbi: l’im-
magine della donna con la maschera bianca sul volto è stata
scelta per la prima pagina da un numero così elevato di giornali
proprio perché in tanti si sono accorti che poteva diventare ico-
na meglio e con maggior successo rispetto alle altre fotografie
pervenute da Londra, perché – restando su questa intervista –
“un’immagine così non si era mai vista”.
La fotografia-icona ha uno statuto intermedio tra il docu-
mento e il monumento. E non è un caso se queste immagini (lo
stesso si dica per l’immagine che è diventata il simbolo di Abu
Ghraib, quella del prigioniero incappucciato sul trespolo con le
braccia allargate, rinominata “il Cristo di Abu Ghraib”) passino
di medium in medium, illustrando ora il rapporto di Amnesty
International sulla tortura nel mondo, ora la copertina di un li-
bro, o addirittura diventino vere e proprie maschere pubbliche
per una rappresentazione di protesta, in piazza, che si fa nuo-
vamente evento, immagine, copertura mediatica. La loro forza,
parlando in termini sia formali che pratici, è la semplicità e in-
sieme la relativa novità di quelle forme. Il cappuccio e le braccia
“in croce” sono elementi semplici e in grado di evocare
un’iconografia pregressa (Cristo e il Ku Klux Klan?) che può
giocare una funzione di stimolo e curiosità a livello inconscio.
156 Capitolo 4

Ma il discorso non è così semplice. L’icona diventa tale anche


e proprio in virtù della ripetizione con la quale è mostrata dai
media, con la quale passa da un giornale all’altro e con la quale
compie il percorso dalle televisioni alla carta stampata e ritorno.
L’icona perfetta è perlopiù un’immagine che contiene elementi
visivi ben noti mostrati in contesti e in modi inediti, inattesi e
sorprendenti. Risponde al bisogno di novità tipico del giornali-
smo tanto quanto è costruita sul già visto, sul riconoscibile.
L’immagine è quindi anche uno strumento in grado di sollevare,
facendo leva sulla memoria iconografica comune e quindi sulla
storia attraverso le sue forme di rappresentazione iconiche, cer-
te interpretazioni degli eventi. Faccio qui riferimento a un dop-
pio lavoro di analisi compiuto da uno storico francese di foto-
grafia8. Analizzando le coperture in immagini dei quotidiani sta-
tunitensi relativamente ai primissimi giorni seguiti all’11 set-
tembre 2001, Chéroux ha mostrato come, tra le tante istantanee
e i frame TV raffiguranti l’impatto dei due aerei con le torri del
World Trade Center, il 95% delle immagini selezionate per le
prime pagine (su un campione di 400 quotidiani pubblicati tra
l’11 e il 12 settembre) riguardavano quelle fotografie che aveva-
no forti elementi in analogia (per il taglio delle riprese e per la
forma assunta dal fumo denso che saliva verso il cielo) con
l’immagine-simbolo di Pearl Harbour. Quell’immagine era stata
tra l’altro appena ripresa e riproposta (in quegli stessi giorni) in
versione hollywoodiana nelle sale cinematografiche statunitensi
in occasione dell’uscita del film su quell’evento lontano.
L’autore ha poi notato che soltanto una percentuale molto più
bassa delle prime pagine dei giornali francesi di quegli stessi
giorni riproducevano quelle immagini. Ma, ancora più interes-
sante: l’immagine che è divenuta simbolo dell’eroismo della so-
cietà civile statunitense di fronte all’evento (quella dei pompieri
di New York che issano la bandiera sulle macerie del World
Trade Center) è praticamente identica – per gli elementi esteti-
co-figurativi che le danno forma – alla ben nota immagine della
battaglia di Iwo Jima del 1945, la fotografia di Joe Rosenthal dei
marines statunitensi che issano la bandiera sulla vetta del mon-

8 Cheroux, C., 11 septembre 2001, l’événement à l’ère de la globalisa-

tion, in Durand, R., Poivert, M., L’Événement. Les images comme acteurs
de l’histoire, Paris, Hazan/Jeu de paume, 2007, p. 122-143 ; Chéroux, C., Le
déjà-vu du 11-Septembre, in Etudes Photographiques, n.20, 2007.
Etnografia della produzione 157

te Suribachi e che è stata anche ripresa in forma scultorea, dive-


nendo il Marine Corps War Memorial, ossia un monumento
celebrativo9. La fotografia dei pompieri al World Trade Center è
stata pubblicata innumerevoli volte nei giorni a seguire e ripro-
dotta sui monitor televisivi, fino a diventare gadget, statuetta,
soprammobile natalizio (sì, nella palla di vetro con la neve), o-
gni sorta di oggetto di consumo. Chéroux segnala come, attra-
verso le immagini e i loro rimandi (la questione delle analogie
intericoniche) si sia prodotta da subito (e in buona parte con ogni
probabilità, inconsciamente) una rappresentazione dell’evento
“11 settembre” che, attraverso il suo doppio legame figurativo-
simbolico con la seconda guerra mondiale e la sfida giapponese,
si orientava sin dal principio verso una definizione di “guerra”,
di “atto bellico”, senza che si offrisse la possibilità di un ragio-
namento su “come definire quell’evento”. In questo caso, secon-
do Cheroux, l’immaginario ha in parte imposto le sue logiche al
pensiero. Mi è parso interessante riassumere qui questo suo la-
voro per dare un esempio di quanto le immagini e la loro sele-
zione possano giocare un ruolo nel produrre memoria e
nell’approvvigionarsi della memoria già prodotta attraverso
l’iconografia passata.
Durante il mio periodo osservativo a il Manifesto ho avuto
diverse occasioni di confrontarmi con il photoeditor in merito a
certe scelte fotografiche fatte in passato dal giornale (guarda-
vamo insieme gli archivi cartacei e commentavamo certe scelte).
Il photoeditor poneva grande attenzione alle rassomiglianze che
certe fotografie potevano avere con altre importanti immagini
storiche del passato. In particolare l’iconografia dell’Olocausto
si riproponeva come metafora e limite della rappresentazione.
Di fronte a un’immagine molto “forte” che rappresentava un
mucchio di cadaveri recuperati con le ruspe dalla terra che li a-

9 La fotografia risultò poi essere una fotografia di posa anziché una

istantanea dello storico momento. Venne commissionata e messa in scena


dai vertici militari statunitensi per motivi contingenti. Nel suo film Flags of
our Fathers, il regista Clint Eastwood ripercorre la storia della produzione
di questa immagine e delle vicissitudini dei marines lì raffigurati che furono
spinti a girare l’America per riprodurre scenograficamente il momento im-
presso nell’immagine, fino a marciare su una collinetta di cartapesta in
mezzo a uno stadio di football prima della partita. Quei marines non ave-
vano neppure preso parte alla battaglia di Iwo Jima ma la loro immagine fu
sfruttata a fini di propaganda.
158 Capitolo 4

veva ricoperti (si trattava di una fotografia dello Tsunami), il


photoeditor mi ha detto:

Ricordo molto bene che questa immagine avrei preferito non met-
terla. Perché ricordava troppo da vicino quelle scattate dai fotografi al
seguito degli eserciti che per primi sono entrati nei lager dopo la cac-
ciata dei tedeschi. […] Non c’è motivo di riproporre quell’iconografia
che tocca le vertigini della nostra storia. […] Abbiamo avuto grandi di-
scussioni con i redattori degli esteri e col direttore per fare questa scel-
ta. L’unica giustificazione possibile riguardava la gravità storica
dell’evento, il numero di morti.

Insomma, un valore-notizia (la quantità) si contrapponeva a


una rappresentazione estetico-figurativa che “scomodava” un
immaginario limite. Proprio perché i due eventi erano di natura
decisamente differente, il paragone che l’immagine portava per
analogia era avvertito come “sbagliato”, “privo di motivo”. Sia-
mo di fronte alla necessità di mantenere distinte certe rappre-
sentazioni iconografiche per conservare il valore di memoriale
che certe immagini racchiudono in sé. Soltanto un valore-
notizia come la quantità (di morti) che trova la sua giusta misu-
ra nella Storia è accettabile agli occhi del photoeditor per fare
una scelta di quel tipo.
Qui è opportuno rifarsi al discorso della subcultura redazio-
nale. Il photoeditor de il Manifesto ha sovente dovuto negoziare
la selezione di certe immagini con il resto dei redattori. Nelle
sue parole:

A volte devo fare la guardiana del fotogiornalismo, perché – è nor-


male – chi non ha una formazione di questo tipo tende a mescolare le
immagini viste, quelle fotogiornalistiche con quelle di finzione, cinema-
tografiche, e a non avere il senso delle misure. […] È successo più volte
che un’immagine sia piaciuta ai redattori o al direttore perché evocava
qualcosa di già visto, ma a volte questo qualcosa non è storia della foto-
grafia, ma cinema o televisione. Per questo tante volte mi ritrovo a do-
ver insistere perché l’immaginario del fotogiornalismo venga tenuto
separato e trattato con riguardo.

Ma anche rimanendo al di qua della questione piuttosto dif-


ficile da delineare dei rimandi intericonici (mi sono limitato a
far notare che alcuni giornalisti fotografici ne tengono conto per
negoziare le scelte con i redattori), c’è da dire che le immagini
talvolta si presentano come sequel. Quando, nel gennaio del
Etnografia della produzione 159

2005, sono pervenute via abbonamento nuove immagini sulle


torture al carcere di Abu Ghraib, il photoeditor di Libération ha
scelto di non pubblicarle perché ha ritenuto che la cosa fosse già
nota e non c’erano più ragioni per farlo. Nonostante le immagini
rincarassero la dose, mostrando nuove e diverse scene di violen-
za e metodi di tortura, la convinzione era di aver già dato a ve-
dere quanto era sufficiente per informare sull’evento. Nelle pa-
role del photoeditor:

Lì l’interesse poteva essere semmai proprio quello del percorso di


queste immagini, prima ostacolate dalle autorità statunitensi, ritardate
nella diffusione, poi… Quella è la notizia a quel punto! Ma non è una
ragione per mostrare altre di quelle fotografie terribili.

Ben diverso è stato l’atteggiamento nella redazione del Cor-


riere della Sera che, avendo dato poco e tardivo risalto alle pri-
me fotografie uscite (sui circuiti delle agenzie) nel maggio del
2004, diede questa volta ampio risalto alle nuove immagini,
trattandole come se fossero state le prime.
La scelta può essere tra il dare più o meno risalto o addirittu-
ra tra il mostrare e il non mostrare. Quando una fotografia già
mostrata si presume abbia già fatto vedere quello che serviva
per esaurire la notizia e il commento che un giornale sente di
dover dare, il sequel può anche essere ignorato, sotto certe con-
dizioni. Ovviamente sarebbe impensabile per chiunque rinun-
ciare a far vedere le immagini di Londra perché si erano già mo-
strate quelle di Madrid. Al limite in quel caso si pensa di mo-
strarne di più sobrie. Quando però l’evento è proprio lo stesso
(anche se le fotografie sono diverse), si può pensare di non darle
a vedere: è il caso di questo esempio di Abu Ghraib nella scelta
di Libération ed è il caso dell’esempio già citato delle fotografie
da New Orleans dopo che il ritirarsi delle acque ha scoperto i
corpi sommersi, ma quando la notizia era già “passata”. In quel
caso il Manifesto pur decidendo di continuare a parlare
dell’evento evitò quelle immagini perché intendeva mettere in
risalto le deficienze dell’amministrazione nel fronteggiare la ca-
tastrofe, cosa che non avrebbe giustificato in termini giornalisti-
ci un’ iconografia così macabra come corredo illustrativo. Una
scelta di quel tipo avrebbe sicuramente attirato delle critiche
pubbliche.
160 Capitolo 4

Ho già scritto del bisogno avvertito nella redazione di Libé-


ration di cambiare scrittura fotografica per evitare le ripetizioni
laddove un evento che produce una scarsa iconografia (e quindi
scarse variazioni illustrative) si presenti a più riprese come e-
vento da notiziare. Ho fatto gli esempi della protesta giovanile
contro il CPE e quello del dibattito tra Sarkozy e De Villepin du-
rante il cosiddetto “affaire Clearstream”. A Le Figaro la stessa
questione della ripetitività è molto più sentita, dal momento che
il fotografico ha una scarsissima possibilità di spostarsi da un
soggetto ad un altro, collegato ma differente, durante le ricerche
sugli archivi, commissionate dai vertici con parametri spesso
molto stretti. Siccome spesso la tipologia di immagini di volta in
volta richiesta è ridondante, per evitare ripetizioni i photoeditor
di questo giornale spingono al massimo la rappresentazione.
Faccio qui di seguito un esempio tratto dalle note etnografiche:

Al photoeditor è stato chiesto di cercare una fotografia di una cen-


trale nucleare. Durante la ricerca a più riprese fa commenti con il suo
collega, dicendogli che ci sono sempre in circuito le stesse fotografie. Il
collega gli dice di evitare di prenderne una già messa in passato. Lui si
lamenta del fatto che le agenzie ripropongono sempre quelle vecchie,
ed è difficile ricordarsi quali sono già state scelte e quali no. (Le imma-
gini che passa in rassegna sono perlopiù immagini di luoghi e di cen-
trali prive di presenze umane). A un certo punto ne trova una di grande
impatto di un’esercitazione. Uomini in tuta bianca e maschere antigas,
di cui uno in primissimo piano, stanno correndo. Sullo sfondo c’è la
centrale. Il photoeditor dice che finalmente ha trovato ciò che fa per
lui. Io la guardo e gli chiedo se la notizia a cui dovrà legarsi è di
un’emergenza. Lui mi dice di no, che non c’è nessuna emergenza, ma è
meglio quella foto rispetto alle solite fotografie che mettono quando
bisogna scrivere di energia nucleare.

Come si vede, questo dell’attenzione a ciò che è già accaduto


e a ciò che è già stato mostrato, non sempre si può pensare co-
me un vero criterio di selezione e esso assume comunque moda-
lità molto diverse da redazione a redazione e da una tipologia di
notizia a un’altra. Molti fattori entrano in gioco: fattori burocra-
tici organizzativi, culturali e di sensibilità personale.
Etnografia della produzione 161

4.5. Meta-immagini e decryptages

Un’altra strategia per mediare tra la messa in mostra di


un’immagine e i suoi presunti effetti sull’audience consiste nel
trattare l’immagine non più come un frammento di realtà dato,
che si impone proprio per il suo presunto inequivocabile reali-
smo, ma come un oggetto costruito e prodotto in un contesto
specifico da attori soggetti a certe condizioni, o piuttosto pren-
dendo di punta proprio il discorso dei suoi effetti su una società
o su una porzione di essa. È il caso delle meta-immagini e di
quello che in Francia chiamano il decryptage, intendendolo
come una modalità di messa in pagina.
Un primo esempio possibile riguarda il trattamento delle
prime immagini delle torture di Abu Ghraib sui due giornali
francesi Libération e Le Figaro. Ho già accennato alla questio-
ne, ma è bene che qui la riprenda. Riporto uno stralcio di inter-
vista fatta al photoeditor di Libération:

C’era molto disgusto a pubblicare quelle immagini; abbiamo avuto


molte discussioni sul cosa pubblicare e non ne abbiamo mai fatta una
prima pagina, perché non era più fotografia, era qualcos’altro. Anche
quando arrivavano i video degli ostaggi, nel nostro giornale si tendeva
a non voler pubblicare quelle immagini, e sempre per questo motivo:
non era fotografia, era pornografia. Poi le si pubblica perché non si può
non pubblicarle, dal momento che sono la notizia, ma non lo si fa vo-
lentieri. Erano fotografie amatoriali, destinate a usi interni tra camera-
ti. Queste foto andavano decriptate. Ci volevano dei commenti che par-
lavano delle foto e del loro senso.

Come ho già detto, la prima immagine di Abu Ghraib fu una


foto-didascalia, messa cioè in pagina indipendentemente dal le-
game con un articolo, mentre le successive furono per l’appunto
accompagnate da commenti che raccontavano il percorso di
quelle fotografie.
Su Le Figaro invece si optò per un’altra strategia: quella di
non mostrare direttamente le fotografie, ma di farle vedere indi-
rettamente, attraverso fotografie fatte alle pagine di giornali
stranieri, meglio se in chiave reportagistica, cioè mentre dei
soggetti le stanno leggendo. La prima immagine esce in prima
pagina il 3 maggio del 2004. Si vedono due uomini di spalle in-
tenti a guardare un giornale in lingua araba sul quale sono
stampate alcune delle fotografie delle torture. È da notare, tra
162 Capitolo 4

parentesi, che a pagina 3 dello stesso numero c’è una foto choc
che ritrae un cadavere riverso per terra e si riferisce a un atten-
tato terroristico di marca islamica in Arabia Saudita, una foto-
grafia questa che a Le Figaro non avrebbero mai messo, se non
per “bilanciare” le immagini di sevizie in prima pagina e le suc-
cessive, a pagina quattro: il “Cristo di Abu Ghraib” e quella di un
uomo intento a leggere il Daily Mirror, sul quale sono stampate
le due fotografia (poi scoperte false) delle presunte torture in-
ferte dai soldati inglesi ai prigionieri iracheni. Se il 4, il 5 e il 6
maggio non compaiono altre fotografie di torture su questo
giornale, il 7 invece ne viene pubblicata una seconda, quella del-
la soldatessa Lynndie England che tiene al laccio un prigioniero
nudo. La didascalia è la seguente: “La photo de Lynndie En-
gland tenant en lasse un détenu irakien dénudé a fait la Une,
jeudi, du Washington Post. En page intérieures, le journal a
reproduit trois autres photos, prises entre l’été et l’hiver 2003,
et qui sembleraient confirmer que ces exactions étaient pratique
courante à la prison d’Abou Ghraib” (Le Figaro, 07.04.2004,
pag. 2, corsivo mio).
Come si vede, in questi casi l’immagine è posta a distanza in
diversi modi: attraverso una meta-immagine che rimanda al
percorso sociale di quella fotografia, piuttosto che utilizzarla
come fonte notiziaria diretta; attraverso la strategia di “bilan-
ciamento” e infine attraverso una didascalia che ha il compito di
riferirsi ad altre fonti straniere (il Washington Post) e di spostare
l’attenzione nuovamente sul percorso sociale compiuto dall’im-
magine.
In questo caso (Abu Ghraib), la questione della fonte e quella
del registro dell’immagine (“era pornografia”), si rinsaldano
mutuamente. Non solo queste immagini non rientrano nelle a-
bitudini giornalistiche (che la fotografia segua una notizia scrit-
ta e sia prodotta da un professionista), cosa in sé superabile e
tante altre volte di fatto superata, ma in più il loro registro non è
chiaro (sono immagini di tortura, ma sono funzionali alla tortu-
ra stessa, non sono prodotte per informare, ma per altri motivi).
Oltretutto, molte di queste immagini giungevano dalle agenzie
appositamente tagliate (in alcune questo era evidente, perché
erano tagliate per escludere i genitali delle vittime) o, laddove
non era possibile tagliarle senza distruggerne il senso, erano pi-
xelate, ossia rese illeggibili (ancora, per oscurare le parti intime
Etnografia della produzione 163

delle vittime). Siccome sarebbe stato forse più lecito attendersi


che ad essere oscurati fossero i volti e non i genitali, cosa che
evidentemente è sfuggita a chi ha fatto il lavoro, le redazioni si
trovavano di fronte immagini che – anche per via di questo det-
taglio ingombrante – avevano più a che fare con la censura che
si applica a materiale pornografico piuttosto che con quella co-
mune alla deontologia giornalistica. Immagini ambigue come
queste sono poste a distanza attraverso una messa in scena che
da esse si muove al loro contesto di produzione o di ricezione.
Durante il periodo di copertura della guerra all’Iraq, il rife-
rimento principale è alla propaganda. In più occasioni i giornali,
mettendo in pagina certe immagini, ne sottolineano l’uso pro-
pagandistico più o meno evidente da parte dei governi dei paesi
coinvolti (sia di parte occidentale che di parte irachena) inse-
rendo le fotografie in riquadri accompagnate da articoli che par-
tono dalla fotografia per portare l’attenzione al contesto nel
quale è stata prodotta. Non tutte le redazioni sviluppano però lo
stesso tipo di attenzione alle medesime immagini. Ognuna pre-
sta particolari riguardi a certe tipologie di immagini e non ad
altre, oppure produce delle messe in pagina che mettono a di-
stanza certe fotografie salvo poi trattare fotografie analoghe
come puri prodotti giornalistici privi di un legame con la propa-
ganda, al punto che diventa difficile comprendere quanto essa
sia il sintomo generale di una reale resistenza delle testate alle
rappresentazioni ufficiali (e al sistema dell’embedded journa-
lism) e quanto invece sia un’ulteriore strategia per portare avan-
ti la propria politica di testata.
All’interno del discorso delle meta-immagini possiamo poi
collocare anche i video-grabs. Si tratta, come ho già avuto modo
di segnalare, di fotografie fatte direttamente allo schermo tele-
visivo. È questa una pratica che da alcuni anni ha preso piede
nel giornalismo a stampa, dal momento che sono le stesse agen-
zie fotogiornalistiche a distribuire i video-grabs immettendoli
in archivio. Non tutte queste immagini vengono usate come me-
ta-immagini, nel senso che, laddove non compaiano loghi di ca-
nali tv o sovrimpressioni, la fotografia del girato televisivo, pur
avendo una definizione peggiore può funzionare come se fosse
una fotografia diretta. Le agenzie introducono queste immagini
con lo scopo dichiarato di riempire dei vuoti informativi. Ad e-
sempio, le fotografie tratte dai video di Bin Laden o dai video
164 Capitolo 4

rilasciati ad Al-Jazeera vengono a supplire la presenza di foto-


grafie. Nel caso della guerra all’Iraq del 2003 ad esempio, le
immagini dei soldati americani fatti prigionieri dall’esercito ira-
cheno, le prime immagini di soldati della coalizione sconfitti che
si siano viste, erano video grabs. Eppure, in altri casi, la presen-
za ben visibile del logo tv o delle sovrimpressioni nei video
mandati in onda permettono ai giornali di utilizzarle in maniera
esplicita come fonti indirette. In questo caso, la notizia non è
più illustrata con l’immagine, ma l’immagine propone la se-
guente notizia: la televisione di quel paese ha mandato in onda
la tale immagine (questo discorso in guerra vale ancora per por-
re l’accento sulla propaganda). Oppure, all’interno dei contesti
nazionali, la notizia può essere la seguente: la tale rete televisi-
va, di proprietà del tal gruppo ha mostrato la tal cosa. In en-
trambi i casi l’immagine riguarda i media (è appunto, un’im-
magine mediata), ma non può essere comparata al caso fatto
precedentemente (quello delle fotografie di Abu Ghraib viste sui
giornali stranieri), perché il rapporto non è più tra media analo-
ghi, ma diventa inter-media. Il fatto che le notizie televisive ar-
rivino costantemente prima di quelle della stampa, permette ai
redattori della stampa di ri-posizionarsi e di commentare (an-
che tramite le immagini, qui sta la novità) le notizie del giorno.

4.6. Contrastare

Si tratta in questo caso di recuperare il valore di prova gior-


nalistica della fotografia in un rapporto invertito rispetto alle
strategie di presentazione mostrate sopra, dove la fotografia è la
smentita di una notizia, e non la notizia una sorta di smentita
della “verità” della fotografia, come avviene in alcuni casi di de-
cryptage. Questa modalità funziona in virtù di un contrasto tra
la fotografia e una parte del testo scritto, accuratamente posta
in evidenza per rendere esplicito lo scontro. Dei quattro giornali
studiati, è senza dubbio il Manifesto quello nel quale tale strate-
gia è più comunemente utilizzata, come filiazione della tecnica
del foto-titolo.
Tornando sull’esempio bellico, su il Manifesto le fotografie
dei feriti, del dolore, dei morti, sono sovente (per modalità di
messa in pagina) delle prese di distanza dalle dichiarazioni uffi-
Etnografia della produzione 165

ciali (quelle delle bombe intelligenti). Questo effetto è ottenuto


contrapponendo alla fotografia di un ferito civile in guerra,
l’estratto, virgolettato, di una dichiarazione ufficiale sul tema
della “guerra zero morti” consentita dalle nuove tecnologie. An-
cora una volta, è il rapporto foto+testi ad essere particolarmente
pregnante per cogliere le strategie di rappresentazione.
Questa modalità ci permette di approfondire il discorso in-
torno al valore di prova giornalistica della fotografia e di notare
come la fotografia d’attualità, una volta entrata negli ingranaggi
dell’informazione giornalistica, piegata alle sue logiche, subordini
il suo valore probatorio alla capacità di mostrare dell’azione e
risulti impotente qualora non vi riesca. Detto altrimenti, la
possibilità giornalistica di dare una smentita avvalendosi della
forza probatoria della fotografia si dà unicamente nel regime
dell’azione.
È il caso di spendere due parole, a mo’ di excursus su una
storia che permette di esemplificare quanto sto cercando di dire.
Si tratta di un episodio che mi è stato raccontato durante un’in-
tervista da un fotografo freelance italiano che ne aveva anche
scritto su Alias, inserto de il Manifesto. Racconterò l’episodio
servendomi delle due fonti.
“Il 30 giugno 1991, nel press-center della capitale slovena, il
ministro per l’informazione annuncia al mondo che aerei
dell’esercito jugoslavo stanno per bombardare la città. Mentre le
sirene di allarme eseguono la colonna sonora, corro fuori con
altri colleghi ansiosi. Gente vera, corre nei rifugi, piange, con le
radioline incollate all’orecchio. […] Sentiamo un’esplosione che
non riusciamo a identificare, niente fumo, niente ambulanze.
Niente. Ci prendiamo un caffè, seduti ai tavoli di un bar con la
serranda mezzo abbassata. Poi ascoltiamo la sirena del cessato
allarme. La sera, alle nove e mezza, arriva la notizia ufficiale
dell’agenzia di stato, con la lista degli obiettivi mitragliati tra i
quali il palazzo della Presidenza slovena, di fronte al quale era-
vamo noi” (Alias, 15/03/2003, p. 4). Nel racconto a voce del fo-
tografo:

Io allora lavoravo per un’agenzia e c’era questa insopportabile si-


gnora che mi telefonava e mi diceva: “Mi devi mandare le foto dei mor-
ti!”. E io le dicevo: “Signora, qui di morti non ce ne sono. Sono andato
anche all’ospedale, e non ci sono feriti. Devo uccidere della gente io?”.
[…] Perché la notizia ufficiale era di un bagno di sangue di oltre 100
166 Capitolo 4

morti. Ma non c’era stato nessun morto, fino a quel momento. La noti-
zia era anticipatoria, se vuoi, che poi l’ha in qualche modo evocata. Il
bello è che il responsabile della comunicazione del governo sloveno ha
poi rivendicato come merito questa scelta, perché dissero che fu una
scelta consapevole per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica
mondiale su quello che poteva succedere. […] I quotidiani sono usciti
con questa notizia, ma non l’hanno illustrata. Ti farò vedere la prima
pagina de il Piccolo; c’era un titolo a tutta pagina “Bagno di sangue Lu-
biana, oltre cento morti”. E non c’era nessuna foto.

La questione che più mi interessa per il discorso che sto fa-


cendo è la seguente:

LUI: La notizia non viene smentita, è questo il punto. Il giornale


non smentisce più la notizia, perché la notizia è ufficiale: viene
dall’agenzia di stampa legata al governo e non può essere smentita. […]
E poi un inviato di un giornale inizia a dire: “Ma tu cosa fai? Il tuo
giornale dà la notizia?”. E quello: “Dicono che è una notizia ufficiale e
non possiamo non darla”. Allora l’altro, che lavora per il giornale con-
corrente dice: “Allora se la dai tu, la devo dare anch’io se no buco la no-
tizia”. E il giorno dopo esce su tutti i giornali una notizia falsa, ma sic-
come esce su tutti, la notizia diventa vera. L’unica cosa che manca sono
le fotografie, ma a quel punto diventa un dettaglio.
IO: Ma una fotografia, ad esempio fatta al palazzo integro, fatta da
te che sei lì, non smentisce?
LUI: Eh no, perché potrebbe essere stata fatta una settimana prima
(Int. Foto C/I/FR).

Questa risposta rivela qualcosa di fondamentale sul foto-


giornalismo e sulla possibilità della fotografia di avere un ruolo
probatorio nella complessa “fabbrica delle notizie”. L’immagine
non è parte di un percorso di testimonianza, ma un oggetto che
trae senso dalle pratiche di messa in pagina e dall’ordine visuale
più generale. La fotografia di un uomo ferito può smentire una
notizia o un discorso ufficiale, se opportunamente messa in pa-
gina, mentre la fotografia della facciata di un palazzo (il palazzo
della Presidenza slovena a Lubiana) non è altro che una fotogra-
fia oggettiva che può essere trovata ovunque, in internet o sul
catalogo di un’agenzia di viaggi. Il suo senso sta fuori dal tempo,
non è attualizzabile.
Etnografia della produzione 167

4.7. Censurare, denunciare, evocare

La questione avvertita di gran lunga come più problematica


nelle redazioni dei quotidiani è quella delle fotografie cosiddette
“di macelleria”. Le fotografie di cadaveri, di feriti, di corpi de-
turpati: queste vengono di solito chiamate le fotografie choc. In
tutte le redazioni, qualunque redattore con il quale ho parlato si
è sentito in dovere di dichiarare che il loro giornale rifugge le
fotografie di questo genere. Ed è questo genere di fotografie,
senza dubbio, il più problematico, quello che solleva le più
grandi critiche pubbliche sia tra giornali, sia tra questi e l’Ordi-
ne dei giornalisti, sia tra questi e i propri lettori. Le critiche di
sensazionalismo e voyeurismo mosse negli anni al giornalismo
da tanti ambienti diversi (anche gli studi accademici non si sono
mai risparmiati in questo senso) sembrano aver prodotto i loro
effetti. Ecco cosa mi ha detto ad esempio il photoeditor di Libé-
ration:

Quello che invece fa critiche all’interno del giornale sono le foto du-
re, di cadaveri, di attentati… In questi casi si discute molto. Ci si chie-
de: se fosse mio marito? Cosa farei? Però dall’altra parte bisogna mo-
strare le cose. Perciò in questi casi siamo sempre in piena contraddi-
zione. Bisogna discutere caso per caso: è l’unico modo.

Qualcosa di molto simile mi viene detto dal photoeditor de il


Manifesto:

Le immagini più discusse sono quelle che noi chiamiamo di macel-


leria. Lì ci sarebbe proprio la tendenza a non metterle. Delle volte però
bisogna metterle.

L’art-director del Corriere della Sera risponde così alla mia


domanda nella quale investigavo quali fossero i maggiori punti
d’onore che egli imputava al suo giornale riguardo al più generi-
co approccio visivo della testata:

La prima cosa è un’etica nella scelta delle immagini, cioè la capacità


di evitare quelle immagini spettacolari, che creano una sorta di voyeu-
rismo intorno al dolore. C’è una pornografia del dolore, ecco. Io e i miei
collaboratori, le persone con cui lavoro, lo staff del giornale, cerchiamo
tutti di evitare queste fotografie. Noi cerchiamo di scegliere delle foto-
grafie che non vadano mai a alimentare questa pornografia della visione.
168 Capitolo 4

Ma il rifiuto generalizzato è moderato da alcuni criteri gior-


nalistici che a volte si impongono e sui quali si spinge perché
certe immagini vengano comunque messe in pagina. Anche in
questi casi comunque le discussioni all’interno del giornale sono
talvolta aspre, o comunque si crea puntualmente un dibattito
nel quale chi propone una certa immagine deve poterla giustifi-
care. Il photoeditor di Libération mi racconta:

Durante l’attentato di Madrid c’era la foto di una donna morta, in


mezzo alle macerie. Come fare a scappare alle foto di cadaveri quando
ce ne sono stati così tanti? Certo, limito al minimo, non la propongo
per la prima pagina, ma all’interno la devo mettere. L’ho messa e mi è
stato contestato. Il giorno dopo alcuni redattori hanno detto che avevo
fatto male, perché non avevo motivo di far vedere direttamente la mor-
te, dovevo optare per immagini più simulate, che facessero capire senza
dare troppo a vedere. Io ero convinta di aver fatto una scelta giusta,
perché quando la notizia è questa, e le immagini sono in così larga par-
te queste immagini, non ci si può del tutto astenere.

La selezione e messa in pagina di queste immagini può pro-


vocare critiche in tutte le direzioni: sia dall’Ordine dei giornali-
sti, sia dal pubblico, sia dagli altri giornali.
I due concetti cardine delle critiche sono quello della gratuità
(cioè dell’assenza di una necessità giornalistica) nel far vedere
certe immagini, e quello ad esso comunque correlato di non a-
ver tutelato la dignità delle persone coinvolte. Riporto un altro
stralcio dell’intervista fatta all’art-director del Corriere della
Sera:

Io ricordo un’immagine… questa non è legata alla guerra… ma in-


somma, ci fu durante la scorsa estate un aereo caduto sul mare di Sici-
lia. E La Stampa pubblicò una fotografia in cui si vedeva una donna in
acqua, in mare, presa ovviamente dall’alto in cui era in una specie di
sottoveste, perché era quello che rimaneva di lei, con le mutandine
quasi leggermente abbassate. Allora: una fotografia inutile, inutile.
Non c’era nessuna necessità di denuncia, non c’era niente. Era una fo-
tografia inutile. E se io fossi stato il marito di quella donna…mia moglie
fosse precipitata in quell’aereo, non so, io mi sarei… Cioè, è stata
un’ulteriore violenza a un dolore. Allora: non so, avresti voluto tu vede-
re tua moglie così, io chiedo a quel giornalista de La Stampa. Sono in-
terrogativi che bisogna sempre porsi, un rispetto della dignità
dell’uomo. Io credo che questa sia una questione etica fondamentale,
sulla quale il Corriere della Sera a differenza di altri giornali, tenta di
tutelare il lettore.
Etnografia della produzione 169

È già chiaro che se il rispetto si orienta nella direzione dei


parenti e dei cari che possono vedere certe immagini, allora i
criteri saranno dipendenti dal grado di prossimità e distanza di
un certo evento. Più l’evento è vicino (e soprattutto se si tratta
di una questione nazionale) più si tende a evitare a tutti i costi
una rappresentazione fotografica che possa arrecare dolore ai
parenti delle vittime, potenziali lettori del giornale. Ovviamente,
più l’evento è distante e più questi rischi scompaiono. Tuttavia,
anche riguardo a fatti lontani e che non coinvolgono connazio-
nali, l’Ordine dei giornalisti manda segnalazioni ai giornali per
la pubblicazione di certe immagini considerate eccessivamente
violente e lesive della dignità dei lettori. Ecco ciò che mi ha rac-
contato un giornalista grafico del Corriere della Sera:

Noi adesso al Corriere siamo sotto mira di Abruzzo, il presidente


dell’Ordine dei giornalisti. Sta mandando avvisi ai nostri capi per pub-
blicazioni di immagini raccapriccianti e impressionanti, soprattutto
sulla guerra in Medio Oriente. Il mio capo ha un procedimento disci-
plinare. Sai per quale immagine? Per quella di bambini morti che ab-
biamo pubblicato in prima, anche bella grande, di tre bambini palesti-
nesi morti a seguito di un raid israeliano.
A noi quotidianamente arrivano immagini raccapriccianti da AP,
AFP e Reuters, cioè, teste mozzate di kamikaze sull’asfalto; lo sceicco
Yassin ucciso dagli israeliani, quel che resta del suo corpo, testa spap-
polata, ecc. Io le sto raccogliendo perché serve come difesa al mio capo
per dire: sono queste le vere immagini raccapriccianti. A noi arriva
questo e noi questo non lo pubblichiamo. Però sono cose che arrivano
continuamente.

Dopo aver criticato per anni la tendenza dei media al sensa-


zionalismo, all’uso di fotografie choc al solo scopo di alzare le
vendite e suscitare una curiosità morbosa da parte dei lettori,
adesso alcuni studiosi incominciano a muovere critiche in senso
inverso. Ci si chiede se non sia profondamente sbagliato rifiuta-
re sistematicamente di mostrare la morte, la sofferenza e la di-
sperazione laddove pure esistono e sono quanto vi è di più visi-
bile e presente intorno a un avvenimento.
Le questioni di decenza non sono che una parte delle giusti-
ficazioni prodotte dai giornalisti; vi sono questioni a monte,
come il rischio di essere denunciati dai cittadini comuni e quello
di essere ammoniti dall’Ordine. Questi timori e le esperienze in
tal senso producono una difesa che tende a trasformarsi in una
170 Capitolo 4

pratica comune e condivisa tra i membri di una redazione, che


tentano di fissare delle regole informali che orientino le selezio-
ni. Riguardo poi ai singoli casi, molte scelte sono dibattute e ne-
goziate e in questo sono fondamentali i rapporti di potere inter-
ni, le culture e subculture presenti in una stessa redazione e gli
orientamenti politici di una testata. La più generale questione
della decenza (cui si lega il discorso della salvaguardia della di-
gnità dei soggetti) si articola di volta in volta con questi elemen-
ti organizzativi e ideologico/culturali e finisce per produrre de-
gli specifici modelli di giustificazione che mutano da giornale a
giornale e da un contesto a un altro, anche in rapporto al legame
con avvenimenti passati e presenti e con le definizioni delle si-
tuazioni che di volta in volta vengono negoziate e prodotte. A il
Manifesto ad esempio la questione della messa in mostra di fo-
tografie choc trova giustificazione (e solo in alcuni casi) grazie
alla volontà di denuncia che caratterizza la politica di testata. È
il caso ad esempio delle bombe al fosforo su Falluja.

In quel caso noi discutemmo molto la prima, perché avevamo sia i


fermo-immagini che mandò Rainews24 e sia trovammo delle foto
mandate da AP di questi razzi che illuminavano il cielo sopra Falluja.
Erano foto che allora avevamo ignorato, ma naturalmente vennero
reinterpretate alla luce dell’inchiesta compiuta da Rainews24. Le foto-
grafie estratte dai video di Rainews24 erano forti: corpi carbonizzati,
ecc. In quel caso, scegliemmo la meno orribile di quelle foto, ma deci-
demmo comunque di metterla perché era importante la denuncia e la
prova giornalistica che quella fotografia offriva. […] Non è una cosa che
facciamo volentieri quella di mettere fotografie di cadaveri in prima
pagina. In quel caso era però essenziale farlo, perché i corpi e le ustioni
su quei corpi erano proprio le prove dell’uso di bombe al fosforo. Non
c’era altro modo. In quel caso la denuncia passava per la prova dei corpi.
[…] Mi ricordo che si era discusso tantissimo. Io non ero nemmeno
d’accordo. Avrei messo un’immagine dei razzi che illuminavano il cielo,
quelle di AP, in prima pagina e avrei messo le altre, più piccole, nelle pa-
gine interne. Il direttore si oppose dicendo che era nostro compito per
eccellenza dare risalto a questa notizia e a rischio dello choc, questa volta
andava fatto. […] Io mi sono dissociata apertamente, anche perché era
tutto il giorno che discutevo la messa in pagina con i redattori degli este-
ri e ci eravamo accordati per evitare una fotografia di cadaveri in prima
pagina. La denuncia si può fare ugualmente evitando un’immagine così
forte. Ci eravamo accordati per tagliare le immagini su dei dettagli che
facevano da prova fotografica senza tuttavia mostrare i corpi in manie-
ra così scoperta. […] Era quasi una rappresentazione in stile medico
quella che volevamo fare: d’altronde il punto era proprio quello.
Etnografia della produzione 171

Da un lato fu scelto di mostrare (altri giornali non lo fecero),


dall’altro ci si interrogò a lungo su come farlo. Nel complesso, la
giustificazione addotta fu comunque quella della necessità di
denuncia per la scelta di mostrare, e della prova “quasi medica”
che la fotografia dei corpi costituiva per la scelta di mostrare co-
se di quella natura (ferite, escoriazioni, ossa). Il corpo umano
rappresentato in fotografia è qui il corpo probatorio che induce
una ricostruzione (le immagini di AP che allora furono intese
come immagini di razzi convenzionali nella notte, furono a quel
punto reinterpretate) e che consente la denuncia.
Anche in un caso come questo tuttavia la discussione fu piut-
tosto forte, fino ad arrivare alla dissociazione palese da parte del
photoeditor che avrebbe evitato una tale immagine in prima pa-
gina. In un altro caso, lo stesso giornale, pur avendo avuto
l’intenzione di denunciare l’accaduto (civili palestinesi uccisi dai
razzi israeliani) decise di farlo fotograficamente in maniera
“leggera”, perché le immagini più forti che pervengono attraver-
so AP non sono considerate accettabili:

Per le fotografie dei civili ammazzati sulle spiagge di Gaza da razzi


israeliani non abbiamo avuto dubbi. Vennero uccise anche tre bambi-
ne. E la bambina più piccola, ai funerali, venne esposta dai militanti di
Hamas in un modo tremendo. Ecco: noi una foto così non la mettiamo
assolutamente. Dove la foto è di denuncia, allora sì, ma siamo contro la
foto choc, pensiamo che la complessità delle cose si possa raccontare in
un modo diverso.

La questione di come mostrare certe brutalità può condurre


a una soluzione strategica di fatto sovente adottata: quella di e-
vitare i corpi direttamente offesi e concentrarsi invece su una
modalità di rappresentazione che potremmo dire evocativa,
modalità che ha il pregio, a detta dei giornalisti, di comunicare
tutta la complessità della situazione, evitando però la “porno-
grafia del dolore”. Ovviamente anche qui la maggior complessi-
tà potrebbe essere tradotta nei termini di un diverso frame con-
cordato nella redazione, frame che investe una definizione delle
emozioni lecite e di quelle che invece non rientrano nella defini-
zione della situazione e il cui rischio è da evitare nel momento
della scelta di rappresentazione dell’evento. Un esempio mi vie-
ne fatto dal photoeditor di Libération:
172 Capitolo 4

Recentemente c’è stato il terremoto in Indonesia. Arrivavano tan-


tissime foto orribili, ma davvero orribili, mostruose. Allora lì ho deciso
di mettere piuttosto una foto di desolazione totale, ma senza mostrare i
morti. Una foto di distruzione totale e in mezzo a questa distruzione
c’era un muro con uno specchio e riflessi nello specchio due persone
che stavano piangendo. Io ho preferito mettere questo, perché suggeri-
va la morte e la distruzione che era stata senza mostrare in maniera di-
retta.

L’immagine scelta evoca senza però mostrare direttamente.


Questa modalità evocativa è oggi molto diffusa sui quotidiani e
si pone come alternativa alla pornografia del dolore. Dal mo-
mento che raramente l’immagine viene evitata tout court, la
strategia più diffusa per mostrare evitando le critiche di voyeu-
rismo e sensazionalismo è ormai proprio questa, che tra l’altro
risponde anche al bisogno di originalità. L’immagine resta at-
tuale, suscita delle emozioni forti, ma lo fa senza mostrare diret-
tamente il sangue, la morte, la disperazione. Ovviamente queste
scelte sono subordinate alla possibilità offerta dalle fonti e a tut-
ta una serie di criteri alternativi e di definizione dell’evento e del
compito della testata di fronte a quell’evento. Ma le immagini
evocative sono in ogni caso sempre più diffuse. Spesso si tratta
di immagini metonimiche, che mostrano un oggetto e attraverso
quello informano di una perdita umana che però resta fuori dal
campo visivo.
Il 31 marzo 2003 a pagina 2, il Corriere della Sera pubblica
tra le altre, una fotografia di un fotografo italiano di AP. La fo-
tografia viene da Israele ed è prodotta a seguito di un attentato
suicida. Il fotografo, che è presente sul luogo quando ancora
nella scena sono presenti i cadaveri, fotografa anche un ciuccio
in primo piano, abbandonato sulla strada. L’immagine metoni-
mica restituisce la tragedia senza mostrare il corpo del bambino.
In maniera analoga, il Manifesto del 7 aprile 2004 pubblica
in prima pagina l’immagine di un paio di sandali abbandonati
sul selciato accanto a una pozza di sangue. Il titolo è “Made in
Italy” e l’immagine sta lì ad evocare gli iracheni uccisi dal fuoco
dei soldati italiani a Nassiriya. Il photoeditor mi spiega che bi-
sognava mostrare qualcosa di quella sparatoria perché l’intento
del giornale era denunciare il ruolo di forze di pace rivendicato
puntualmente per l’impiego delle truppe italiane in Iraq. Mo-
strare qualcosa si accordava con la notizia che le truppe italiane
Etnografia della produzione 173

avessero aperto il fuoco su ordine del comando anglo-americano,


secondo una strategia da truppa di occupazione e non di difesa
della pace. Diversamente, il Manifesto pubblica in prima pagi-
na, il 21 giugno 2003, l’immagine di un uomo africano recupe-
rato dopo un naufragio al largo della Tunisia, durante il tentati-
vo di raggiungere le coste italiane. Mostrando il suo corpo affa-
ticato, tenuto a stento in piedi da due militari italiani, il giornale
titola: “Gli altri sono morti”.
Se da una parte i giornali si fanno sempre più prudenti nel
mostrare immagini cruente, dall’altra questo diventa possibile
laddove le immagini che vengono mostrate sono dei video-
grabs, questo perché, come mostrato sopra, la modalità del video-
grab, laddove esplicitamente presentata come meta-immagine,
consente una presa di distanza. Come si vede, le strategie che
vengo di descrivere si incrociano sovente tra loro, funzionando
come un insieme di tecniche attraverso le quali giustificare la
pubblicazione di immagini, gli accostamenti tra esse e le rinunce.
Quest’ultima possibilità trattata (pensiamo alle fotografie
tratte dai video diffusi dai guerriglieri per la causa islamica dei
rapimenti e delle decapitazioni) ha anche una portata ideologi-
ca, nel momento in cui, a un atteggiamento prudente verso le
brutalità occidentali10 si affianca un atteggiamento più libertario
nel mostrare le brutalità provenienti da mondi di culture pre-
sentate come diverse e distanti, purché proposte come rimando
visivo a immagini video che sono essi stessi la notizia o riprese
di video-notizie di networks non-occidentali. A tal proposito, è
importante citare l’articolo di Anna Banks nel quale l’autrice ri-
porta interessanti esempi di fotografie choc in alcuni casi messe
in pagina e in altri invece censurate dal Time11. La sua analisi
mostra che i motivi dichiarati per le censure (si trattava di foto-
grafie troppo scioccanti) non reggevano, dal momento che le
10 Da una parte, le immagini choc di cronaca sono ormai quasi bandite e

basta confrontare le fotografie di cronaca degli anni 80 con quelle di oggi


per rendersi conto della pulizia visiva attuale; dall’altra parte, le immagini
di aggressioni compiute dai soldati occidentali, che mostrano cioè azioni
brutali che coinvolgono corpi di uomini occidentali sono espunte dalle rap-
presentazioni delle guerre, almeno dai tempi del Golfo, attraverso un con-
trollo sui fotografi embedded. Ciò che ci è dato di vedere sono solo i fumi
delle bombe e le conseguenze sui corpi delle vittime, mai la violenza in sé.
11 Banks, A., Images Trapped in Two Discourses: Photojournalism

Codes and the International News Flow, in Journal of Communication


Inquiry, 18, 1994, pp. 118-134.
174 Capitolo 4

immagini escluse non erano più cruenti di quelle messe in pagi-


na. L’autrice arriva alla conclusione che a rendere possibile o
meno tali pubblicazioni sia il clima di aspettative creato dai me-
dia ai propri lettori nel contesto storico in questione, cosa che
promuove la fotografia come una conferma di quanto già soste-
nuto. Banks parla al riguardo di una creazione di famigliarità tra
immagini mentali proposte attraverso l’attività di commento
protratta nel tempo e il materiale iconografico messo in pagina.
L’autrice cita Hall12, laddove sostiene che i media possono so-
pravvivere soltanto fintanto che operano all’interno dei confini
dell’accordo e del consenso. Questo accordo può essere ben dif-
ferenziato all’interno di una stessa nazione per le diverse posi-
zioni politiche e ideologiche assunte da testate concorrenti, ma
può anche riguardare un’intera cultura, anzi, può costituire le
fondamenta della continua riproduzione di quella stessa cultu-
ra, operando per differenza. La scelta di mostrare certe imma-
gini e di non mostrarne sistematicamente altre rientrerebbe nel-
le operazioni ideologiche, laddove i rituali strategici qui discussi
(in questo caso la messa in pagina di video-grabs) costituireb-
bero gli strumenti pratici e i supporti giustificativi di tale ideo-
logia. Secondo questa impostazione, le scelte di selezione e pre-
sentazione delle immagini agirebbero in piccola parte come
strategie coscienti e in parte maggiore come routine lavorativa,
secondo il modello della distorsione involontaria sostenuto da
buona parte degli studiosi dei processi di newsmaking. Il con-
cetto di rituale strategico tiene dentro entrambi i piani, perché
diverso è – come ho mostrato – il grado di coscienza tra gli atto-
ri di una stessa redazione.

4.8. Restituire

Ho già avuto modo di mostrare che il frame all’interno del


quale assumono senso le attività di selezione e presentazione
delle fotografie è spesso connotato in termini emozionali. La
questione dell’emotività, pur essendo comune a tutte le testate è
particolarmente sentita nella redazione di Libération, laddove

12 Hall, S., The rediscovery of “ideology”: return of the repressed in

media studies, in Guerevich, M., Bennet, T., Curran, J., Culture, society
and the media, London, Methuen, 1982, pp. 56-90.
Etnografia della produzione 175

la presenza forte della fotografia comporta tra le altre cose


l’appropriazione di un linguaggio e di un insieme di procedure
di selezione legate in certa misura al registro emozionale. D’al-
tronde che l’immagine abbia a che fare con l’emotività è un di-
scorso comune a tutti coloro che se ne occupano, dai teorici
dell’effetto CNN ai policy-makers che a certe immagini talvolta
si rifanno per dichiarare il proprio orrore e il proprio sdegno, ai
vertici delle redazioni. A Le Figaro, come ho avuto modo di dire,
la fotografia è tanto temuta per i suoi possibili effetti sull’emo-
tività del lettorato (e sul supposto offuscamento della ragione)
che il suo uso è accuratamente controllato.
I quotidiani che come Libération fanno maggiore affidamen-
to sul mezzo fotografico per produrre dei resoconti degli avve-
nimenti sono particolarmente soggetti al linguaggio delle emo-
zioni, a tal punto che certe scelte vengono a giustificarsi proprio
in virtù dell’emozione provata dai giornalisti stessi di fronte alle
fotografie ricevute. Parlandomi di una scelta compiuta dal foto-
grafico di Le Monde, che aveva attirato le critiche dei lettori di
quel giornale, non abituati alla presenza della fotografia, il pho-
toeditor di Libération ha usato queste parole:

Qualche giorno fa sulla prima pagina, Le Monde ha pubblicato una


fotografia scattata in una prigione brasiliana. Quella fotografia era di
una violenza estrema: un uomo che ne frustava un altro a torso nudo. E
ai piedi tre corpi incatenati. Questo, frustato, coi pantaloni abbassati.
L’immagine ha ricevuto ampie critiche dal lettorato: missive di protesta
che il giornale ha pubblicato. Il mediatore di Le Monde ha dovuto spie-
gare qualche giorno dopo i motivi di quella scelta, e l’ha raccontata
senza giudicarla. Raccontava come l’hanno scelta per la prima, senza
prendere parte. E nell’articolo parlava dell’emozione che aveva suscita-
to quest’immagine nella redazione. E io penso che questa foto si giusti-
ficava proprio così. Noi non l’abbiamo pubblicata, perché Le Monde è
un giornale della sera, mentre il nostro è un giornale che esce al matti-
no. Credo che quest’immagine sia uscita tra mezzanotte e le sette del
mattino. Quindi loro ci hanno anticipato. Ma l’avrei pubblicata anche
io e con le stesse motivazioni.

D’altronde questo linguaggio emotivamente connotato è un


linguaggio comunemente speso in questa redazione per rendere
conto delle scelte fatte e per discutere di selezioni passate o fu-
ture.
176 Capitolo 4

Rispondere alle critiche giustificandosi semplicemente of-


frendo un feedback delle emozioni provate in redazione è anche
un modo di postulare una sensibilità comune tra la testata e il
proprio lettorato, e soprattutto è un modo per tentare di co-
struirla. Parlando di alcuni eventi ai quali ero particolarmente
interessato come ricercatore, la frase che mi è stata più volte of-
ferta per spiegare certi approcci fotografici è stata la seguente:
“Di fronte agli eventi eccezionali il giornale deve reagire
all’evento”. Non bisogna nemmeno credere che Libération co-
stituisca un caso così diverso dagli altri. La questione della rea-
zione emotiva che le fotografie dovrebbero rendere esplicita è
certo più sentita in quelle redazioni relativamente coese, nelle
quali tutti i giornalisti condividono lo stesso credo politico, sul
quale costruire una sensibilità comune che viene rinsaldata
giorno per giorno nelle discussioni che avvengono alle riunioni
di direzione aperte a tutti. Ma, a certi gradi, nella copertura di
tutti quegli eventi avvertiti come importanti e sui quali la testata
è costretta in certa misura a prendere una posizione morale, la
fotografia è uno strumento piuttosto utile per dare conto del ti-
po di emozione provata.
Durante la mia osservazione nella redazione de il Manifesto
ebbi modo di discutere con il photoeditor della copertura foto-
grafica che il giornale fece nel caso della strage di Beslan, avve-
nuta nei primi giorni di settembre del 2004 e durante la quale
persero la vita, tra gli altri, 186 bambini. In un caso come que-
sto, dai connotati morali fortissimi, i giornalisti sono prima di
tutto essi stessi spettatori passivi e emotivamente coinvolti.
Come mi ha detto il photoeditor davanti a quelle pagine:

Come vedi le fotografie che abbiamo scelto per le prime pagine del
2 e del 3 settembre sono fotografie di speranza. Qui [il 2 settembre] c’è
un uomo che porta in salvo una bambina, mentre qui [il 3] c’è una
donna che tiene in braccio il suo bambino, uno dei sedici appena libe-
rati. I loro occhi erano i nostri occhi. Lì c’è dipinta tutta l’angoscia, ma
anche tutta la speranza. Noi del giornale in quel momento eravamo lì, e
stavamo facendo il tifo.

È per questo che la fotografia che i vertici scelsero per la


prima pagina del 4 settembre, quando ormai la strage si era
consumata, non trova d’accordo il photoeditor. L’immagine è
Etnografia della produzione 177

quella di un uomo molto robusto che porta in salvo il corpo di


una bambina ferita. Il photoeditor lo racconta così:

Quando tutto è andato male e la speranza non c’era più, in direzio-


ne hanno visto questa fotografia sul sito de La Repubblica ed è piaciuta
a tutti moltissimo. Tra l’altro abbiamo dovuto comperarla perché era
una fotografia che arrivava dall’ANSA e noi non abbiamo l’abbona-
mento con loro. È effettivamente una bella fotografia. Forse è piaciuta
perché questo macho russo ha qualcosa di cinematografico. Poi il brac-
cio teso della bambina, il modo in cui tiene la mano mi ricorda una cer-
ta iconografia cristiana. Ma non è coerente con la sequenza delle vicen-
de, perché è ancora, come quelle dei giorni precedenti, una fotografia
che dà speranza. Quel giorno io di speranza non ne avevo proprio più e
neanche gli altri. Infatti guarda: una foto che dà speranza messa su un
titolo senza speranza [“Senza domani”] e con un editoriale che parla di
morte [“Morte della pietà”]. Viene a mancare anche una coerenza di
pagina. È come se non fosse cambiato niente, e non ha senso, perché le
nostre emozioni erano cambiate completamente.

Come si vede, il photoeditor postula un legame stretto tra le


emozioni provate, l’immagine selezionata e ciò che va restituito
ai lettori, come se l’immagine fosse una componente essenziale
per parlare delle passioni redazionali di fronte all’evento e non
soltanto per raccontare l’evento.
Inoltre, la sequenza della rappresentazione, la necessità di
mantenere una coerenza con i titoli e con l’editoriale dimostrano
ulteriormente che l’insieme titoli-testatina-editoriale-fotografie
ha proprio il compito di offrire questa coerenza della rappresen-
tazione che è anche una coerenza di tono emotivo. Il fatto che i
giornalisti stessero “facendo il tifo” è piuttosto interessante per-
ché decostruisce il discorso che vuole i giornalisti come produt-
tori di notizie, quasi degli elementi interni alle stesse, mentre
sempre di più oggi essi sono prima di tutto spettatori di notizie e
di immagini che vengono prodotte altrove e senza che essi ne
abbiano una prossimità fisica né che questa prossimità gli venga
restituita attraverso i contatti faccia a faccia o telefonici con un
testimone oculare. Nelle loro redazioni, i giornalisti entrano in
contatto con le immagini del mondo proprio come tutti gli altri,
ma essendo loro i mediatori tra le agenzie e il pubblico, le loro
emozioni sono parte dei racconti che confezionano per noi. No-
nostante tentino di darsi delle regole nel loro tentativo di mette-
re ordine tra le emozioni che le immagini veicolano, talvolta
178 Capitolo 4

l’emozione provata di fronte a una fotografia è tale che il giorna-


le sente di doverla restituire, indipendentemente dalle regole
formali che si è dato. Ad esempio, a Libération è una regola in-
formale ma molto seguita quella di evitare i cadaveri sulla prima
pagina. Eppure, racconta il photoeditor:

Abbiamo messo un cadavere in prima a durante il G8 di Genova. Fu


un’eccezione unica, ma ci siamo detti che non potevamo non metterla.
Come avremmo aperto diversamente sapendo che era successo quello?
Ci siamo detti che era impossibile non farlo. Lì, dovevamo anche con-
dividere l’emozione che stavamo provando tutti. Vedere quella scena in
televisione è stata una scossa tremenda per tutti noi.

Ed è sempre il discorso emotivo a giustificare la scelta della


prima pagina per la strage di Londra: la fotografia di un uomo
della city che, bendato alla testa, regge sotto il braccio un gior-
nale annerito dal fumo dell’esplosione. Racconta il photoeditor:

Ho visto questa immagine quando eravamo già in chiusura. Sebbe-


ne ne avessimo già scelta un’altra per la prima, sono corsa dal direttore
a proporgli di cambiarla. Questa fotografia mi ha dato delle emozioni
fortissime. Lo sguardo di quell’uomo restituiva tutta la dignità di chi
rimane in piedi nonostante la violenza di ciò che ha subito. La sua figu-
ra restituiva una grande speranza e tutta la forza della dignità e
dell’orgoglio. Era più forte di ciò che era accaduto e non aveva inten-
zione di cedergli.

In diversi casi, le fotografie selezionate dai giornali si giusti-


ficano attraverso un percorso discorsivo che si nutre del vocabo-
lario delle emozioni. E non c’è dubbio che una delle funzioni
primarie della fotografia sui giornali sia proprio quella di creare
un ponte tra le emozioni di una redazione e quelle del proprio
pubblico. La fotografia è essenziale alla costruzione di
un’identità di testata, perché l’immagine tocca, con più imme-
diatezza delle parole, la sfera emotiva. Ne sanno qualcosa i pub-
blicitari.
I casi più estremi di questo uso emotivo-identitario delle fo-
tografie come ponte tra la redazione e i suoi lettori provengono
dalle situazioni particolari che hanno coinvolto i giornali Libé-
ration e il Manifesto durante la guerra in Iraq. Sto parlando del
rilascio dei propri giornalisti fatti ostaggio da gruppi di iracheni.
Il caso più clamoroso è quello della copertura del 15 giugno del
Etnografia della produzione 179

2005 fatta da Libération, dove in prima pagina e poi ancora nel-


le pagine 9, 10 e 11 sono proposte le immagini degli indumenti e
dei prodotti che Florence Aubenas indossava e utilizzava duran-
te i suoi cinque mesi di detenzione: i calzoncini, i sandali, il fla-
cone del deodorante, il velo. Questo scambio intimo, che passa
attraverso la figura della Aubenas, costituisce l’esempio più ra-
dicale di questo tentativo di utilizzare l’immagine per creare una
prossimità e una condivisione di sentimenti tra la testata e il suo
pubblico.

4.9. Conservare

Nonostante sia evidente che la fotografia è un mezzo che nel-


le mani dei giornalisti si presta agli usi più vari, come ho mo-
strato fin qui, è tuttavia un bisogno essenziale dei giornali quel-
lo di mantenere vivo il mito della trasparenza che accompagna
la fotografia e la sua ricezione sociale.
Come ho avuto modo di scrivere, la fotografia è stata a lungo
considerata un perfetto analogon della realtà e il giornalismo ha
svolto un ruolo essenziale nel consolidare questa credenza. No-
nostante oggi si sia in pieno nell’era digitale, il che comporta
una facilità estrema nel manipolare le immagini, gli studiosi so-
no concordi nel dire, talvolta con sorpresa, che il mito della tra-
sparenza della fotografia resiste ostinatamente. Ho già mostrato
quanta attenzione i giornalisti pongano al bisogno di attualizza-
zione come strategia di utilizzo delle immagini che ha come
scopo primario proprio il mantenimento della credenza nella
trasparenza della fotografia. Mantenere credibile l’attualità del-
la fotografia significa mantenere reale il suo referente, reale
proprio perché adattato alla definizione della realtà fornita dalla
notizia. L’immagine proviene proprio da lì, è un resoconto visi-
vo di quel momento e raffigura proprio quel soggetto. Nono-
stante la loro ambiguità, certe strategie di presentazione sono
essenziali al mantenimento della fiducia generale verso la tra-
sparenza della fotografia.
Ma vi sono situazioni ancora più emblematiche per dare con-
to di quanto la trasparenza sia sentita come un ideale da con-
servare: in fondo, dato il legame costante che il giornalismo ha
instaurato con la fotografia, e la direzione che questo legame ha
180 Capitolo 4

preso negli anni, una perdita di fiducia nell’uso dell’immagine


comporta una perdita di fiducia verso la testata e verso il gior-
nalismo in generale.
È noto a chi si interessa di fotogiornalismo l’episodio che vi-
de coinvolta la redazione de il Manifesto il 10 ottobre del 2000.
Quel giorno il giornale pubblicò in prima pagina una fotografia
raffigurante in primo piano un palestinese (ancora: riconoscibi-
le in quanto tale per via della kefiah) accovacciato che si ripara
la testa con le braccia. La fotografia è inserita in pagina con la
seguente didascalia: “Spedizione di morte contro i palestinesi di
Nazareth: gli israeliani sparano e uccidono nelle case. Finisce
così uno Yom Kippur di sangue in Israele e nei Territori. Scade
l’ultimatum di Barak ad Arafat, la diplomazia internazionale ar-
ranca. Alle soglie della guerra”. E con il seguente titolo: “La cac-
cia di Nazareth”.
Il problema è dato dal fatto che la fotografia, passata da AP
via abbonamento, è stata pubblicata quello stesso giorno anche
dal Corriere della Sera e da la Repubblica e si è così notato che
nella fotografia apparsa su il Manifesto erano stati cancellati i
corpi di altri due palestinesi uno dei quali evidentemente inten-
to a lanciare qualcosa (la didascalia del fotografo parlava di sas-
si) contro un nemico non visibile all’orizzonte. Sul Corriere del-
la Sera la didascalia era la seguente: “AI RIPARI: Un giovane
palestinese cerca riparo dalle pallottole israeliane mentre altri
suoi compagni lanciano pietre all’indirizzo del nemico”; mentre
quella de La Repubblica sposta addirittura l’attenzione unica-
mente sui secondi: “Dimostranti palestinesi lanciano pietre con-
tro i soldati israeliani a Ramallah”. Appurata per questa via la
manipolazione fatta da il Manifesto, a rendere pubblica la que-
stione è però la televisione. Mi racconta l’archivista del giornale:

Per la foto ritoccata siamo stati sputtanati da Striscia la Notizia.


Telefonarono e parlarono con Antonella [una giornalista grafica]. Sicu-
ramente era stata un’idea brillante di qualcuno qua agli esteri. Noi ne-
anche lo sapevamo. Perché quelli di Striscia ancora cercavano di capire
se era una foto presa magari da un’altra angolatura. Antonella disse:
No, ma per chi ci avete preso? Noi queste cose assolutamente non le
facciamo”.

Striscia la Notizia fece il suo servizio e, il giorno dopo il


giornale fece uscire la seguente nota: “Qualcuno ha protestato,
Etnografia della produzione 181

‘Striscia’ ci ha presi in giro: avete manipolato la foto di ieri in


prima pagina? Sì, l’abbiamo manipolata. Non si dovrebbe fare,
in realtà volevamo procedere a uno scontorno, cioè evidenzia-
re il particolare che ci interessava. Non l’abbiamo fatto per
motivi di tempo, ma l’idea che volevamo comunicare era quella:
un palestinese con una fionda in mano che si ripara dai proietti-
li. L’immagine delle gambe dell’altro palestinese l’abbiamo can-
cellata non solo perché rovinava a nostro giudizio una bella foto
ma anche perché non aggiungeva nulla al fatto. Non certo per-
ché ci vergogniamo dei palestinesi che tirano le pietre. Anzi:
pubblichiamo da anni le loro foto, scriviamo da sempre che fan-
no bene a ribellarsi” (il Manifesto, 11 ottobre 2000, corsivo
mio). Il giorno seguente su il Giornale esce il seguente articolo
intitolato: “Nelle foto corrette da il Manifesto spariscono i rivol-
tosi con i sassi”. Ecco l’articolo de il Giornale del 12.03.2000:

È questione di punti di vista. C’è una guerra in corso e una foto che
dovrebbe essere uguale per tutti ma che in realtà non lo è. Basta guar-
dare i giornali e Striscia la Notizia che puntualmente ieri sera ha fatto
notare ciò che qualcuno aveva già visto. In breve: una foto scattata in
piena battaglia ritrae un palestinese che “cerca riparo – come riporta
esattamente la didascalia del Corriere della Sera – mentre altri suoi
compagni lanciano pietre all'indirizzo del nemico”. Giusto? Sbagliato,
almeno per il Manifesto che, fedele alla causa antisionista, pubblica la
stessa foto (sotto) ma con un ritocchino. Titolo: “La caccia di Naza-
reth”. Sommario: “Spedizione di morte contro palestinesi: gli israeliani
sparano e uccidono nelle case.” E i tiratori di pietre, direte voi? Spariti
nel mouse di un non tanto abile (il ritocco si vede, e come) tipografo.
Come dire: c’est la guerre...

È interessante che nella nota apparsa su il Manifesto si scri-


va che l’intenzione era quella di “procedere a uno scontorno”,
intendendo che in tal caso nessuno avrebbe avuto nulla da con-
testare.
Un giornalista grafico del Corriere della Sera, che è anche
fotografo per hobby, durante un’intervista mi ha detto:

Io sono uno che per esempio odia girare le foto, e mi oppongo


quando vedo che dei colleghi le girano. Succede raramente. Io sono per
non cambiarle per principio. Poi certo, il problema subentra quando
cambia il senso, però ci sono dei volti, delle situazioni, in cui anche gi-
rando…come dire, non ti accorgi nemmeno che la foto è cambiata, ma
mi seccherebbe vederla domani su un altro giornale, dritta. Ecco. Però
182 Capitolo 4

soprattutto non mi piace proprio girarla, concettualmente, per via di


vecchie regole che si ripetono un po’ come un mantra e che poi non
sempre sono vere, tipo “la foto non deve mai guardare fuori dalla pagi-
na”, che non sempre è vero. Ci dev’essere una misura in tutto, compre-
so in questo, tipo non mettere i titoli dentro alle foto, non scriverci so-
pra. Da fotografo non sono così talebano, cioè nel senso che una foto si
può tagliare, gli si può scrivere un titolo dentro. Certe volte addirittura
la si valorizza. Tutto sta a farlo con un po’ di misura, insomma. Puoi
scontornarla e valorizzarla, come facciamo spesso nello sport. Però in-
somma, ogni categoria di fotografia ha le sue regole: io non scontorne-
rei mai una foto di cronaca e purtroppo è una cosa che in questo gior-
nale a volte succede.

Le regole non sono fisse, non c’è un decalogo di riferimento


valido per tutte le testate, per cui le regole vengono a formarsi
proprio in virtù delle eventuali critiche passate e presenti. Si
tratta di regole d’uso, di regole informali che orientano le prati-
che e che sono sempre soggette alla capacità di giustificare le
scelte fatte.
Ma la critica batte sulla genuinità dell’immagine, sul fatto
che questa sia in qualche modo un pezzetto di realtà visiva e
non un mezzo sempre soggetto ai più svariati utilizzi.
Durante la guerra all’Iraq c’è stato un caso ancora più istrut-
tivo al riguardo. Il giornale Daily Mirror pubblicò le immagini
di presunti soldati inglesi che sottoponevano a torture dei pre-
sunti iracheni. Le fotografie giunsero al giornale con una lettera
anonima. Il giornale non poteva appurare la fonte, ma si mise a
raccogliere informazioni su questa evenienza. Alcune notizie
mai comprovate parlavano effettivamente di casi di torture
commesse dai soldati inglesi ai danni dei prigionieri iracheni.
Ma il giornale attese ancora, limitandosi a pubblicare le notizie
scritte, con tutti i condizionali e gli artifici retorici del caso.
Quando finalmente la CBS mandò in onda le fotografie dal car-
cere di Abu Ghraib, dove si mostravano le torture perpetrate dai
soldati statunitensi, il giornale ruppe finalmente gli indugi e
pubblicò le fotografie. Tanto più che i cappucci sulle teste dei
prigionieri, nelle foto del Daily Mirror erano molto simili a
quelli delle fotografie dal carcere di Abu Ghraib (in realtà erano
stati ripresi da fotografo e attori attingendo all’iconografia di-
sponibile: i cappucci neri sulla testa dei prigionieri erano già vi-
sibili in altre fotografie anche prima di Abu Ghraib). La pubbli-
cazione provocò un polverone politico che coinvolse i ministri.
Etnografia della produzione 183

Dopo un’accurata indagine, si dimostrò che quelle fotografie e-


rano dei falsi e che erano state messe in scena da un gruppo di
porno-attori ungheresi. La questione per me interessante viene
adesso. Nella parole del photoeditor de il Manifesto:

Mi ricordo che il direttore del Daily Mirror, prima di dimettersi uf-


ficialmente dalla guida del giornale, scrisse una nota, che fu pubblicata,
nella quale diceva che in fondo quelle fotografie non erano un falso,
perché comunque le notizie delle torture c’erano e quindi quelle foto-
grafie in fondo illustravano qualcosa di cui diverse indagini avevano
parlato.

Questa dichiarazione è stata ritenuta assurda, ai limiti del ri-


dicolo, da tutti i giornalisti con i quali ho avuto modo di parlare.
Ed è proprio questo che trovo particolarmente interessante. In
fondo – per quanto ho avuto modo di osservare nel mio lavoro
– con questa dichiarazione non si fa che spingere al limite alcu-
ne modalità di utilizzo dell’immagine che pure sono comuni al
giornalismo e che si traducono regolarmente in pratica quoti-
diana: la fotografia segue la notizia; la fotografia illustra la noti-
zia e spesso lo fa con scarsa attenzione al contesto dell’immagi-
ne e senza interesse al legame diretto di testimonianza con chi
quell’immagine ha prodotto; la fotografia serve a presentificare
qualcosa, dando forza a una notizia ambigua e soggetta a smen-
tite; la fotografia spesso confonde i soggetti, secondo una logica
di verosimiglianza e non di verità, ecc. Tutto questo è considera-
to lecito e normale. Discorso opposto vale per i casi di manipo-
lazioni e di falsi (comprovati); in quei casi il giornalismo riven-
dica il valore di verità della fotografia, la naturale trasparenza
del mezzo.
Il ritocco dell’immagine, secondo uno studioso della fotogra-
fia come André Gunthert, è un uso tecnico che per decenni ha
avuto il valore morale di un tabù13. Lo studioso nota come il ri-
tocco si sia affrancato da questa storia in quasi tutti i contesti
sociali nei quali la fotografia è adoperata, primo fra tutti quello
della moda. Ma, prosegue Gunthert, un territorio dove il ritocco
continua a suscitare condanne morali è proprio quello del gior-
nalismo laddove in questo ambito si è avuta la pretesa di fare
come se la rivoluzione del digitale e l’avvento di un software di
13 Gunthert, A., Sans retouche. Histoire d’un mythe photographique,

Etudes photographiques, n.22, 2008.


184 Capitolo 4

ritocco accessibile a tutti come Photoshop non intaccassero in


nessun modo i criteri e le abitudini del fotogiornalismo.
Nell’articolo, l’autore porta l’esempio della fotografia ritoccata
dei bombardamenti aerei su Beirut dell’agosto del 2006, distri-
buita in tutto il mondo dall’agenzia Reuters il 5 agosto. La foto-
grafia, presa dall’ultimo piano di un alto palazzo della città fu
ritoccata, aggiungendo all’immagine delle colonne di fumo den-
so di bombardamenti. In questo caso il ritocco era piuttosto evi-
dente e venne fatto notare da alcuni giornali. La Reuters si dife-
se licenziando in tronco il suo dipendente, il fotografo Adnan
Hajj, autore del fotoritocco e proclamando la “tolleranza zero”
verso questa pratica. Gunthert fa notare che la concorrenza
spietata tra fotografi e tra agenzie per vendere le loro immagini
ha reso in realtà quella del ritocco una pratica comune, insieme
a quella della messa in scena di fotografie (la manipolazione sul
contesto della fotografia e non sulla fotografia). Tracciare dei
confini netti tra diverse tipologie di manipolazione è alquanto
difficile, ma resta il dato importante dei tentativi portati avanti
dal mondo giornalistico per mantenere la classica visione della
fotografia d’attualità come documento attendibile perché intan-
gibile, il mito appunto della trasparenza.
CONCLUSIONI

Il primo risultato empirico al quale sono giunto con questo


lavoro riguarda la perdita relativa del valore di testimonianza
del fotogiornalismo.
Per logica della testimonianza ho inteso la risultante del rap-
porto, sviluppato nel tempo, tra una soggettività socializzata a
una comunità professionale e quella stessa comunità professio-
nale, la redazione, laddove il rapporto si fondi sulla negoziazio-
ne di convinzioni prodotte attraverso due forme distinte di sa-
pere1. Sebbene questa logica non abbia mai dominato il giorna-
lismo visivo, ho però mostrato come in anni recenti una tra-
sformazione nella tecnologia e una sostanziale riorganizzazione
del mercato abbiano reso sempre più impraticabile un agire im-
perniato su questa logica.

1 Ci sono, da una parte un sapere diretto, sviluppato sul campo attraver-

so l’immersione nell’azione, ossia la presenza fisica nei luoghi e tra i prota-


gonisti degli avvenimenti e, dall’altra parte, un sapere a distanza. Questo
sapere redazionale (dei giornalisti da desk), si costruisce sull’assenza di
coinvolgimento diretto negli eventi concreti e al contempo sulla costante
immersione in una pletora di eventi già mediati e soprattutto su una conti-
nua proposizione di racconti unificanti che tentano di connettere tra loro
alcuni di questi eventi mediati alla luce di una visione della società e dei
suoi protagonisti più ricorrenti. Le quotidiane riunioni di redazione si pos-
sono leggere in due modi: in termini pragmatico-burocratici, organizzativi,
e in termini ritualisti, guardandole in questo caso come momenti in cui si
tesse continuamente il filo della narrazione ideologica che conferisce senso
e coerenza alle scelte di una redazione, ne rinsalda i ruoli e ne ricorda i va-
lori di fondo, riproducendo il senso di una comunità interpretativa coerente
e distinta dalle comunità concorrenti. Il confronto protratto nel tempo tra
queste due forme di sapere sorregge e fonda una certa logica del fotografare
e del selezionare le fotografie per il pubblico. Arricchisce la policy con i det-
tagli dal campo e inscrive quei dettagli in una policy.
186 A. POGLIANO

Per meglio chiarire i termini e per avanzare nel ragionamen-


to di sintesi, pongo una distinzione tra collaborazione abituale
(come base della logica della testimonianza) e rapporto di esclu-
sività una tantum.
A prima vista, i significati che supportano queste due moda-
lità relazionali sono tra loro inconciliabili. Entrambe si inscri-
vono nel bisogno di diversificazione rispetto alla concorrenza,
ma qui finiscono i punti in comune. Nel caso dell’esclusività la
distinzione si fonda su un aumento quantitativo delle possibilità
illustrative, laddove la realtà visiva si frammenta e si ripropone
per categorie di temi e di soggetti che possono esaurire i bisogni
di una copertura (nell’ottica di una “completezza informativa”),
oppure la distinzione si fonda sulla possibilità di ottenere una
quantità di immagini maggiori dei concorrenti su un evento at-
teso, indipendentemente dalla vicinanza sentita tra una sogget-
tività fotografica e una politica redazionale. Esempio del primo
caso è quello dell’acquisto della fotografia del treno sotterraneo
dilaniato dalla bomba, nel caso proposto del Corriere della Sera
il giorno dell’attentato a Londra; esempio del secondo è quello
dell’esclusiva per i quotidiani italiani, sempre acquisita dal Cor-
riere della Sera, su tutte le fotografie prodotte dall’agenzia
Getty Images riguardanti le olimpiadi invernali di Torino. La
mia tesi qui è che a sviluppare maggiormente questa modalità
operativa siano i giornali generalisti, come conseguenza del fat-
to che la loro politica di testata è sempre a certi gradi ambigua,
non condivisa da tutti i redattori, anche in virtù di una maggiore
complessità interna e di una maggiore separatezza, il che riduce
le possibilità di (e l’interesse a) immaginare un’affinità interpre-
tativa tra la redazione e un collaboratore-fotografo. Inoltre, que-
sta modalità diventa interessante qualora la testata sia coinvolta
in un rapporto di concorrenza diretta e evidente.
Il fatto che Le Monde, ai tempi della mia osservazione, dedi-
casse pochissimo spazio alla fotografia, consentiva al concorren-
te Le Figaro di considerare poco appetibile questa formula. Al
contrario, al Corriere della Sera viene seguita e si giustifica
sempre in riferimento al diretto concorrente: La Repubblica.
Il caso della collaborazione abituale si gioca invece intera-
mente su una comunione di sensibilità interpretativa tra i foto-
grafi ben noti alla redazione e la politica di testata. Ho dato con-
to di come, all’interno di questa logica (della testimonianza), si
Conclusioni 187

inscrivano dei rapporti, oggi peraltro sempre più rari, che coin-
volgono redazioni e singoli fotografi limitatamente alla copertu-
ra di eventi intorno ai quali la posizione morale del fotografo e
quella del giornale si presume che siano simili. Sono questi per
esempio i casi dei fotografi “amici” de il Manifesto per le coper-
ture delle manifestazioni di piazza e per quelle di alcuni fatti di
cronaca locale, e sono anche questi i casi della parziale copertu-
ra finanziaria che Libération ha offerto ai due fotografi che, du-
rante la guerra in Iraq nel 2003, hanno raccontato fotografica-
mente Baghdad e il Kurdistan iracheno.
Ma, tra queste due logiche, entrambe marginali, la via oggi di
gran lunga più seguita appare senza dubbio quella della ricerca
di immagini dai grandi archivi on-line messi a disposizione dal-
le agenzie. Come ho mostrato, sono proprio le modalità che la
rendono possibile (indicizzazione) e con le quali è condotta
(key-wording-research su un materiale che resta indifferente
alla soggettività fotografica), ad amplificare delle conseguenze
già in atto, forse da sempre, nel fotogiornalismo quotidiano.
Queste conseguenze riguardano sia i significati che la fotografia
finisce per assumere nelle redazioni dei giornali, sia, come for-
ma di retroazione, la distinzione sempre più netta che i fotografi
che non sono direttamente immersi nelle regole delle agenzie
fotogiornalistiche pongono tra fotografia per i quotidiani e foto-
grafia di approfondimento, laddove la seconda è vista come la
fotografia d’attualità sociale tout court, mentre la prima è con-
siderata uno scarto di produzione, perché eccessivamente sem-
plificata, stilizzata e in larga parte disinteressata a porre delle
domande e a produrre una visione del mutamento.
In sostanza, pare che l’overshooting come pratica fotografica
che permette di offrire coperture accettabili per ogni testata del
mondo, la maniera di dare significato a questa varietà controlla-
ta attraverso un set standardizzato di parole-chiave che si im-
pongono sull’immagine e ne fondano la possibilità di essere tro-
vata, nonché le modalità stesse attraverso le quali si opera la ri-
cerca della fotografia d’attualità nelle redazioni, portino a un re-
gime di visibilità quotidiana fondato sulla legge dell’eterno ri-
torno. L’immaginario pare riproporsi, sempre più ripulito di
ambiguità intrinseche, come forma illustrativa, anche in conse-
guenza del bisogno ostentato dal giornalismo a stampa di illu-
strare qualunque cosa, anche i commenti e i temi privi di
188 A. POGLIANO

un’intrinseca visibilità, instaurando persino quel paradosso di


dover inventare la visibilità e quindi un sovrappiù di informa-
zione che già aveva messo in luce Bourdieu riferendosi alle im-
magini televisive2. Entra così in gioco la distinzione che alcuni
teorici dell’immagine francesi pongono tra “image” e “visuelle”3.
Ma si tratta anche di una riproposizione dell’idea di riconoscibi-
lità, che Stuart Hall4 segnalava essere uno degli aspetti più im-
portanti che reggono le pratiche del giornalismo (anche di quel-
lo visivo), laddove la fotografia, proprio perché controllata, pie-
gata all’ideologia che supporta le logiche delle news, funziona
come un oggetto che propone riconoscibilità nel lettore (mostra
l’atteso e il già detto) sotto la pretesa di essere una news, una
novità che porta una rottura della normalità “che non fa notizia”.
Ancora nel 1992 Dona Schwartz5 parlava di standardizzazio-
ne dei codici che regolano la produzione fotogiornalistica, rife-
rendosi a lavori resi tuttavia unitari dal fatto che a produrli fos-
sero pur sempre singoli autori: sebbene ognuno facesse propri
dei codici standardizzati, ognuno nondimeno manteneva il con-
trollo dell’intero racconto fotografico. Laddove, come accade
ormai abitualmente, la news visibility è il risultato di un editing
redazionale su una mole di materiale anonimo, nuove proble-
matiche possono essere messe sul tappeto.
La perdita della logica della testimonianza e le sterminate
possibilità illustrative degli archivi on-line sono fatti vissuti,
nell’insieme, come una risorsa per le redazioni. Intanto perché
nei costi contenuti degli abbonamenti a forfait con le agenzie è
pur viva la promessa di poter illustrare quasi qualunque tema
notiziabile, dal momento che le tre agenzie internazionali e
quelle nazionali di fotogiornalismo producono sia informazioni
scritte che visive e sono molto attente a offrire delle coperture
2 Bourdieu, P., Sulla televisione, Milano, Feltrinelli, 1997.
3 Gli studiosi e i critici di fotografia e di cinema francesi (da Gunthert, a
Roskis, da Godard a Daney) pongono una differenza simile a quella tra in-
formare e illustrare, tra immagine e visuale, laddove il visuale sarebbe tipi-
co del regime televisivo e di un certo fotogiornalismo e si caratterizzerebbe
proprio per il suo carattere ridondante rispetto al testo parlato o scritto,
mentre l’immagine costituirebbe una rottura e un allargamento di orizzon-
ti, per l’ambiguità della sua lettura, per il fatto di prevedere sempre un suo
alter possibile, un controcampo o un fuoricampo a certi gradi già percepi-
bile nell’immagine, come tensione formale.
4 Hall, S., 1981, op. cit.
5 Schwartz, D., op. cit.
Conclusioni 189

razionalizzate che offrano possibilità congiunte di presentare sia


notizie che illustrazioni delle stesse. Ma è una risorsa anche per-
ché questo modello facile, quantitativamente ricco e inesauribile
di approvvigionamento consente di abbattere i costi di produzio-
ne e di gestione, dal momento che bastano i PC già in dotazione
per permettere a qualunque redattore di cercare in qualunque
momento l’immagine che vada bene per accompagnare il pezzo.
C’è poi ancora da dire che per molti degli eventi coperti dal
giornalismo quotidiano il fatto che un fotografo-collaboratore
apporti un’interpretazione in linea con i bisogni identitari di
una testata non è, e non è mai stato, un requisito importante e
in certi casi questa opportunità non ha addirittura senso di esi-
stere. Laddove l’evento è fulmineo, poco visibile e dislocato nel-
lo spazio geografico in un certo numero di accadimenti (pren-
diamo ad esempio il caso dell’attentato terroristico a Londra) è
più importante per un quotidiano poter avere tanti occhi qual-
siasi a disposizione piuttosto che due occhi capaci di produrre
uno sguardo nel quale riconoscersi.
La fotografia d’informazione assume, per questa via, il senso
sempre più marcato di uno strumento che si comprende al me-
glio leggendolo all’interno dei rituali di selezione e presentazio-
ne che ho descritto nel quarto capitolo. Questi rituali, trasversali
alle redazioni, al punto da poter essere intesi come codici di si-
gnificazione e d’uso della fotografia giornalistica, assumono pe-
rò connotati specifici una volta calati all’interno dei contesti or-
ganizzativi, che comprendono forme distinte di divisione del la-
voro, diversi gradi di centralizzazione e decentralizzazione del
processo decisionale e di negoziazione in atto tra cultura domi-
nante e subcultura fotografica e che supportano dei modelli di
giornalismo e di giornalismo visivo differenti.
Ho ritenuto utile adottare il concetto di rituale strategico,
mutuandolo in particolare dal lavoro di Gaye Tuchman6. Queste
forme convenzionali, frutto della sedimentazione di pratiche or-
ganizzative (i rituali) vengono di fatto adoperate (talvolta as-
sommati producendo combinazioni ad hoc) all’interno di vere e
proprie strategie di costruzione del messaggio, tanto che gli
stessi rituali possono veicolare significati generali anche molto
diversi, caso per caso e soprattutto da una forma organizzativa a
un’altra.
6 Tuchman, G., 1972, op. cit.
190 A. POGLIANO

Mi pare che, stabilendo dei confini alla varietà dei rituali


strategici si stabiliscano di fatto anche i confini di significazione
della fotografia giornalistica. La risposta alla domanda “che
cos’è la fotografia giornalistica?” non può che passare, sociolo-
gicamente, per questa via. Spero di essere stato in grado di so-
stenere alcune delle risposte possibili, muovendomi agilmente
tra gli esempi e tra le note etnografiche.
Per tornare poi al discorso della riconoscibilità, è evidente
come questa passi anche da qui e proprio qui assuma nuovi si-
gnificati, legandola in particolare a quei rituali che investono la
sfera emotiva e funzionano come gestori del presunto apporto
patemico delle immagini (il bilanciamento, il decryptage, ecc.).
Uno dei risultati prodotti è proprio quello della sovra-
codificazione. Le forme di presentazione delle immagini si ripe-
tono, le connessioni che esprimono incorporano già un discorso
morale e queste forme non moralmente neutre si trasferiscono
sulle coperture di avvenimenti dalla portata etica e dal valore
storico tra loro incommensurabili. Questo giornalismo propone
e anticipa una riconoscibilità che è a certi gradi indifferente alle
novità discrete che ne costituiscono i contenuti, restituendoci
un mondo dove l’indignazione è sempre già attesa o sempre già
criticata; dove la liceità delle reazioni morali è essenzialmente
definita in anticipo, all’interno di schemi generali ripetuti e con-
solidati. Anche quando l’emozione è rivendicata come motivo di
selezione al di là della misura che il giornale intende preservare,
questa giustificazione ripropone al contempo i limiti della liceità
del mostrare, ponendosi come eccezione per riproporre al letto-
rato un metro di sensibilità comune.
In queste forme di riconoscibilità morale, trascritte sul mate-
riale controllatissimo dall’apparenza incontrollabile che è ambi-
guamente il materiale visivo (nella sua doppia veste di “image” e
di “visuelle”), il giornalismo mostra con più nettezza che altrove
il suo ruolo di amministratore passionale degli eventi, traccian-
do e oltrepassando confini, proponendo connessioni e analogie,
segnando i legami tra il trascorrere del tempo e la forza
dell’indignazione ancora possibile, o piuttosto denunciando le
proposizioni altrui come fuori misura, indegne e incivili.
Un altro tema da portare all’attenzione in queste conclusioni
è quello relativo al rapporto tra le immagini dei notiziari televi-
sivi e le immagini del giornalismo a stampa.
Conclusioni 191

Innanzitutto va detto che tra telegiornali e giornali esiste un


rapporto importante, perché nel processo di costruzione
dell’agenda informativa le redazioni giornalistiche si affidano
anche ai telegiornali. I redattori sono sempre anche spettatori
dei notiziari televisivi, li guardano, talvolta li commentano, ne
colgono gli spunti. È significativo il fatto che al Corriere della
Sera si guardino principalmente il tg1 e il tg5 e la CNN per le
notizie estere importanti, mentre a il Manifesto si guardi preva-
lentemente il tg3. Mi pare che il senso stesso di dirsi una testata
generalista passi anche attraverso una somiglianza rinvenuta
“per confronto” con le scelte di altri media considerati ugual-
mente generalisti, seguendo l’idea che un giornale “leader” e
“generalista” debba confrontarsi prioritariamente con gli altri
giornali e telegiornali “leader” e “generalisti”. È una riflessione
che meriterebbe un ampio approfondimento, dal momento che
il senso della realtà rappresentata da un giornale non generali-
sta, a detta dei professionisti “non funzionerebbe” su un giorna-
le generalista e non solo per quanto concerne l’agenda, le possi-
bili omissioni e la presunta parzialità, ma anche riguardo al mo-
strare o no una medesima immagine fornita pur sempre da un
professionista d’agenzia.
Nel rapporto tra telegiornali e giornali sono infatti coinvolte
anche singole immagini. Ho avuto modo di riportare il racconto
relativo all’immagine di Ali Ishamel Abbas, bambino iracheno
che durante un bombardamento statunitense ha perso tutti i pa-
renti ed è rimasto mutilato a entrambe le braccia. Quell’imma-
gine è stata esplicitamente richiesta dai vertici di Le Figaro al
photoeditor del giornale, proprio perché vista in televisione. Per
il fatto stesso di essere già passata in tv, come ho mostrato,
quell’immagine acquisiva una sua liceità, si rendeva improvvi-
samente visibile, accettabile e sostenibile.
Ma il rapporto tra immagini televisive e fotografie giornali-
stiche comprende anche i video frames e i video grabs. Il video
frame è un fermo-immagine estrapolato dal video prodotto da
un operatore d’agenzia che produce immagini per le televisioni.
Non è raro che le agenzie approfittino di questo materiale lad-
dove immagini lì rinvenibili non siano state prodotte anche da
fotografi. In questi casi la presunta fotografia è letteralmente
già nel telegiornale.
192 A. POGLIANO

Il caso dei video grabs va invece trattato in maniera più arti-


colata. In un senso il video grab, che è la fotografia fatta allo
schermo televisivo dai fotografi delle agenzie posti davanti ai
notiziari in studio, viene prodotto in agenzia con finalità analo-
ghe alle precedenti. La differenza è che in questo secondo caso
la presunta fotografia è il prodotto della visione del telegiorna-
le. Laddove questa visione non solo diviene esplicita, riconosci-
bile in quanto tale (per la presenza di loghi o sovrimpressioni),
ma viene strategicamente presentata dai giornali in tal senso,
allora il significato muta. L’immagine così impaginata diviene
strumento di una messa a distanza del suo contenuto che assu-
me interesse proprio in quanto immagine già mediata. Ho forni-
to alcuni esempi del genere nel lavoro.
Questo rituale di presentazione dell’immagine è solo l’esem-
pio più emblematico di uno slittamento generale che ha ridise-
gnato negli ultimi anni il significato della fotografia giornalisti-
ca, rendendo talvolta più evidenti i fenomeni di negoziazione
del significato della realtà sociale e morale che la coinvolgono.
Oggi più che mai si può dire che il significato sociale della foto-
grafia giornalistica si riduca ai suoi usi e tra questi resista, come
abbiamo visto, quello che mantiene vivo il tabù della sua mani-
polazione diretta. Si tratta dell’ultima strategia, mantenuta an-
che in epoca digitale, per tenere distinti i fatti dai valori, quel
mito delle nostre società che, come ho ricordato, si trascrive nel
giornalismo con la divisione tra i fatti e le interpretazioni dei
fatti, i commenti.
Blu Tirohl, in un interessante articolo del 20007 mostra co-
me il codice deontologico inglese richieda che sia i testi scritti,
sia le fotografie, non vengano utilizzati per distorcere la realtà
offrendo rappresentazioni inaccurate, distorsioni volontarie del
senso della realtà espresso nei fatti. Eppure, la richiesta di una
distinzione tra commenti, congetture e fatti, prosegue l’autrice,
è posta laddove si fa riferimento, nel codice, ai testi scritti, men-
tre la stessa separazione non viene sostenuta esplicitamente per
la fotografia.
Sottomessa alle pratiche dell’overshooting, prodotta in quan-
tità mai viste prima della digitalizzazione, accostata senza pro-
blemi a fotografie ricavate dal girato televisivo e a fotografie

7 Tirhol, B., The photo-journals and the changing news image, in New

media & society, vol.2, 2000


Conclusioni 193

prodotte dal pubblico dei non-professionisti con strumenti di


fortuna come i telefoni cellulari, la fotografia rinnova semmai la
sensazione di essere nel suo insieme una massa composta da
piccoli frammenti di visibilità reale e non interpretata. Le prati-
che del video-grabing promosse nelle agenzie significano pro-
priamente indifferenza all’interpretazione soggettiva dei foto-
grafi che sorregge la logica della testimonianza. Forse, contra-
riamente ai dubbi che hanno circondato lo statuto della fotogra-
fia giornalistica alle soglie della digitalizzazione, questa tra-
sformazione tecnologica ha in realtà rinverdito la fiducia nella
fotografia come diretta riproduzione del reale, almeno tra chi,
nelle redazioni, si trova nella condizione di vedere arrivare con-
tinuamente frammenti di visibilità del mondo, senza sosta e
senza che l’autorialità abbia alcuna importanza.
Ciò che si tace per questa via è il legame indispensabile tra
parole e immagini, laddove le immagini d’agenzia non sono se
non la risultante di un procedimento di archiviazione che si
fonda sulle distinzioni categoriali offerte dalle parole e che nel
legame con le parole (titoli, didascalie, testatine) trova ancora la
sua significazione, una volta reinterpretata e trattata strategi-
camente dai redattori.
Non soltanto la fotografia continua ad avere più a che fare
con le interpretazioni che con i fatti, ma queste interpretazioni
sono sempre di più già date, date in anticipo, prima che le im-
magini siano state prodotte o addirittura già date come imma-
gini potenziali, nella messa in scena di eventi e di pseudo-
eventi. I segni iconici nascono già per legarsi a un concetto e a
un tema, al punto che, lo abbiamo visto laddove ho descritto
l’organizzazione interna a Le Figaro, l’immaginazione anticipa
le immagini e ne detta la ricerca e la selezione senza neppure il
bisogno di vederle. Si tratta di un caso-limite, ma offre il senso
di un destino che poco si combatte perché la sfida non è appeti-
bile economicamente e perché ormai la fotografia giornalistica è
il suo uso ed è sulle strategie che si differenziano le coperture,
partendo da immagini e da rituali comuni.
Desidero chiudere riportando il ragionamento sulla produ-
zione della news visibility contestualizzandolo nelle diverse
forme di organizzazione del lavoro di redazione messe in luce,
ponendo, tra la mole di materiale iconografico che viene impa-
194 A. POGLIANO

ginato giornalmente, le distinzioni seguenti, per fermare alcuni


punti evidenziati nella ricerca:
a) Fotografie che svolgono la funzione esplicita di conferire
immediata riconoscibilità alle tipologie di notizie in pagina.
Si tratta di immagini prese dagli archivi dei giornali attraver-
so una semplice ricerca per parole-chiave. Le scelte in questo
caso sono fatte abbastanza frettolosamente, senza una ricerca
più importante che comporta dei confronti tra immagini possi-
bili. Sono immagini che servono a illustrare principalmente le
brevi di cronaca, ma anche altri articoli ritenuti meno importan-
ti. Lo stesso discorso vale per i cosiddetti francobolli, i santini di
uomini politici o di personaggi noti della società civile, laddove
la notizia non sia riportata nelle prime pagine del giornale. Dei
quattro giornali studiati, queste immagini sono più frequenti al
Corriere della Sera, per via dell’assenza della figura del photoe-
ditor, ma riguardano anche gli altri, sebbene con alcune diffe-
renze rilevanti. Al Corriere della Sera sono selezionate diretta-
mente dai redattori scriventi, mentre a Le Figaro se ne occupa-
no gli archivisti della sezione fotografica. Caratteristica di que-
ste immagini è la non-necessità di un legame diretto con
l’attualità, nel senso che queste immagini possono essere anche
datate. Come ho scritto, esse svolgono una funzione di ricono-
scibilità immediata: il loro scopo è consentire al lettore di muo-
versi rapidamente tra le notizie, riconoscendo subito il tema
trattato, tramite il legame diretto con il volto di un personaggio
o con un cliché della cronaca (presenza nell’immagine delle for-
ze dell’ordine o di altre figure istituzionali, ecc.). Qui si coglie la
banalità dell’immagine e si costruiscono alcuni stereotipi visivi
durevoli, secondo i significati che ho messo in evidenza nel se-
condo capitolo. Molti quotidiani, specialmente nelle sezioni del-
la cronaca locale, utilizzano anche immagini cosiddette generi-
che, ossia ricostruzioni di scene che valgono come pura illustra-
zione di un fatto racchiuso in una notizia, con indifferenza al
principio della corrispondenza tra soggetti mostrati e soggetti
coinvolti. A Libération questo tipo di immagini sono evitate il
più possibile e si cerca sempre di proporle portando avanti non-
dimeno una retorica del cambiamento (cambiando scrittura fo-
tografica) per evitare la cristallizzazione degli stereotipi. Escluso
il caso specifico, a cui va aggiunta la cronaca locale laddove il
giornale abbia i suoi fotografi (Le Figaro) o sia interessato a
Conclusioni 195

contattarne, queste immagini ricevono nella maggioranza dei


casi attenzioni minime, eppure delle sviste nella loro selezione
possono costare anche molto care, come ho mostrato raccon-
tando l’episodio del licenziamento del photoeditor di Le Figaro,
reo di aver causato un danno d’immagine a un importante uomo
d’affari francese. Più in generale la banalità di queste forme vi-
sive, quando non è contrastata, produce nel tempo alcune con-
trapposizioni nelle rappresentazioni tra la trasformazione e il
mutamento di parti della società e l’immobilismo di altre. In
particolare, alcune fasce deboli (principalmente delinquenti e
immigrati) vengono costretti in forme di rappresentazioni visive
che li privano di specificità; la ripetitività dell’immaginario pro-
duce l’effetto di convocare figure tipizzate per esprimere discor-
si ormai comprovati su criminalità e emarginazione.
b) Fotografie che illustrano fatti isolati e di breve durata
trattati con attenzione.
Si tratta di fotografie singole utilizzate per illustrare un fatto
che riceve gli onori delle prime pagine. Sono selezionate sempre
dai giornalisti delle sezioni fotografiche (grafica, nel caso del
Corriere della Sera); sono frutto di una scelta più complessa,
con maggiore investimento di tempo. Sono soggette ad alcuni
dei rituali strategici segnalati nel quarto capitolo, a seconda dei
casi specifici. A Le Figaro sono sovente pre-ordinate alla sezio-
ne fotografica dai vertici del giornale, che talvolta portano ri-
chieste che si spingono nei dettagli dell’effetto che con tali im-
magini si tenta di produrre, costringendo i photoeditor a im-
mersioni lunghissime negli archivi. A il Manifesto e al Corriere
della Sera vengono invece discusse e cercate a partire da richie-
ste mosse da singoli redattori scriventi che talvolta giungono al-
la sezione (foto)grafica con delle proposte concrete già in mano.
A Libération, infine, sono il frutto di un lavoro più autonomo
della sezione fotografica. Da qui il risultato, in questo giornale,
di una maggiore scollatura tra testi e immagini, dove i due piani
del discorso si assommano senza che il primo costringa il se-
condo.
c) Fotografie di eventi eccezionali di breve durata
La peculiarità qui è data dal fatto che le immagini vengono
proposte in una sequenza che restituisce una storia. Si tratta di
situazioni dove la fotografia svolge funzioni di raccordo, di coe-
renza generale (molto importante nei giornali meno coesi inter-
196 A. POGLIANO

namente nei quali convivono molti punti di vista) e viene con-


cepita all’interno di discorsi connotati dal linguaggio morale ed
emotivo e dalla presunzione di completezza della copertura secon-
do codici consolidati, simili a quelli messi in evidenza da Schwartz
in riferimento al reportage e qui traslati nell’editing al desk. An-
che qui le distinzioni tra redazioni sono importanti e riguardano
principalmente i gradi di centralizzazione/decentralizzazione
del lavoro, il ruolo coperto dalla subcultura fotografica e la sua
autonomia nell’imporre logiche non sempre compatibili con
quelle dominanti.
d) Fotografie di eventi eccezionali di lunga durata
Il caso più affrontato nel libro è stato quello della guerra in
Iraq iniziata nel 2003. Si tratta di situazioni in cui la produzione
di storie fotografiche complesse si protrae nel tempo, finendo
per essere influenzata ancora più che altrove da fatti esterni e da
convinzioni e aspettative che la redazione tutta (Libération e il
Manifesto) o la sua parte più coinvolta (Le Figaro e Corriere
della Sera) sviluppa verso certi accadimenti. Il rapporto tra no-
tizie scritte e immagini si fa più complicato e da qui sorgono an-
che delle aspettative verso immagini delle quali si hanno soltan-
to notizie. Non è invece praticamente mai valido il rapporto in-
verso. La dimensione attuale dell’evento bellico e quella della
permanenza di immagini del medesimo macro-evento negli ar-
chivi delle agenzie tendono a sovrapporsi. Più aumenta la con-
fusione e si perde il senso delle specificità (di tempo, di località
geografiche interne alla macro-area interessata, ecc.), più i ri-
tuali strategici descritti si propongono come misure e strumenti
per rappresentare l’avvenimento.
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