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ISBN 978-88-6570-484-4
Ernesto Masina
L’oro di Breno
MACCHIONE
L o chiamavano il Binda, il campione che stava dominando su
tutte le strade d’Europa, perché proveniva da una valle del vare-
sotto vicino a Cittiglio dove era nato ma soprattutto perché viveva
costantemente con la sua bicicletta a fianco: una Ganna da corsa che
trattava come se fosse la sua amante.
Nicola Albizzati era arrivato a Breno dopo aver bastonato, insieme ad
altri camerati, un grosso industriale della Valcuvia che tra l’altro era,
oltre che un buon fascista, un generoso finanziatore della Sezione del
Partito Nazionale Fascista di Luino e della locale Colonia Elioterapica.
Era stato un errore. Lui e due suoi compari, che spadroneggiavano
nella valle forti della divisa da squadristi che indossavano, avevano
scambiato l’uomo per un sovversivo che gli assomigliava.
L’Albizzati, che aveva già procurato qualche imbarazzo al Partito per
la sua predisposizione a menar le mani, doveva togliersi dai piedi.
Fu convocato a Varese presso la sede del Partito. Dopo un paio d’ore
di attesa il segretario lo introdusse nell’ufficio del Federale.
Questi lo squadrò dalla testa ai piedi e poi urlò: “Voi dovete cambia-
re aria e testa. Ve ne dovete andare lontano dove non vi conoscono e
non sappiano chi siete. Non ne possiamo più di voi!”.
Il Binda rimase per un attimo in silenzio spaventato. Poi con un filo
di voce: “Va ben, ma perché el ga da andà via anca quest chi” disse
indicando il Segretario.
“Cosa c’entra il mio aiutante” urlò con una tonalità più.
“Cosa state dicendo?” continuò.
“Ho capì mal o avèe dit che dovem andà via?”.
“Ho detto che voi ve ne dovete andare” urlò il Federale paonazzo.
“Ah allura ho capì ben Ma” aggiunse in italiano “Voi non siamo noi?”
gli rispose l’Albizzati anche lui con una tonalità di voce più alta ed
un poco più sicuro.
A questo punto il Federale si lasciò cadere sulla sedia. Allungò una
mano e presa una campanella la agitò con violenza. Immediatamen-
te comparvero un paio di camicie nere.
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“Buttatelo fuori che mi ha rotto i coglioni! Buttatelo fuori a calci nel
culo questo stronzo” urlò con quanto fiato aveva in gola, e gliene era
rimasto veramente poco.
Poi rivolto all’Albizzati: “State attento, la radiazione dal Partito può
avvenire per molto meno”.
E così era partito, chissà perché, per Breno dove gli avevano trovato
un posto alle Scuole Medie come insegnante di Educazione Fisica,
l’unico posto da insegnante di nomina del Preside che non aveva
potuto dire di no alle insistenze del Segretario del Fascio di Brescia.
La Ganna non la usava solo se pioveva perché non voleva che si ro-
vinasse, ma negli altri giorni faceva su e giù per il paese ma arrivava
anche sino a Edolo o Iseo come diceva lui “per tenere le gambe in
allenamento”.
Aveva perso parecchie centinaia di lire scommettendo che sarebbe
riuscito a percorrere il tragitto Piazza Mercato-Piazzale della Colonia
di Bazena tenendo sempre solo una mano sul manubrio.
Superato Campolaro pensava di avercela fatta ma all’altezza della
cascata, appena sotto Bazena, aveva forato la ruota anteriore. Per
riparare la camera d’aria aveva ovviamente dovuto togliere la mano
dal manubrio e questo era stato il pretesto sostenuto dagli scommet-
titori per farsi pagare la somma messa in palio.
Viveva per la sua bicicletta e per il Duce.
Il capo dei fascisti era per lui il padre, la madre, il fratello, la sposa. Il
punto di riferimento. Il mandante di quanto faceva. Il padrone dei
suoi pensieri.
Avete presente Dio per un santo? Bene, di più!
Avrebbe voluto vivergli accanto, pronto a scattare a qualsiasi suo
ordine, a nutrirlo se avesse avuto fame, a porgergli da bere se avesse
avuto sete, a vegliare sui suoi sonni perché potessero essere tranquilli.
Visse quell’autunno del 1935 con grande eccitazione.
Quando il 3 Ottobre i soldati italiani entrarono in Somalia inneggiò
alla grandezza del Duce che avrebbe portato l’Italia al più alto posto
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nel consesso delle nazioni.
Il 6 dello stesso mese si sdegnò per la condanna dell’azione delle
truppe italiane da parte della Società delle Nazioni.
Quella Società della quale facevano parte stati che avevano vissuto e
si erano arricchiti col colonialismo.
Il 3 Novembre, quando si decise di applicare le sanzioni all’Italia,
inveì contro i comunisti ed i socialisti europei che volevano la distru-
zione della potenza fascista.
Il 17 dello stesso mese, il giorno dell’entrata in vigore delle sanzioni,
pianse per l’umiliazione che avevano subito il suo Duce ed il Re
Imperatore.
Ma che giornata splendida fu per lui quella del 18 Dicembre! La
giornata della fede. Della doppia fede!
Quella della Fede con la F maiuscola che la maggioranza degli ita-
liani dimostrava spontaneamente al Fascismo (con la F maiuscola)
ed al suo DUCE (tutto maiuscolo) e quella fede che tutti gli stessi
italiani si toglievano dall’anulare per darla alla patria.
Ma la gioia del Binda fu di breve durata. Alla sera quando si fece il
conto delle fedi versate in tutta la Valcamonica queste risultarono
solo 2007.
Non era possibile che quei montanari non capissero che quello di con-
segnare le fedi fosse un atto dovuto per salvare la Patria che con il suo
Duce sarebbe diventata addirittura un esempio per tutta l’Europa.
Fu allora che prese una decisione. Per il suo Capo avrebbe percor-
so tutta la valle, avrebbe girato casa per casa ed avrebbe convinto,
o se necessario costretto, tutti quelli che non lo avevano fatto, a
donare la fede.
Poi, informando la stampa fascista, sarebbe partito in bicicletta per
Roma per portare quanto raccolto personalmente a Mussolini.
I giornali avrebbero sicuramente esaltato la sua impresa e nella Capi-
tale si sarebbe organizzato il suo arrivo. Un arrivo trionfale.
Mussolini stesso lo avrebbe ricevuto e sentiva già le sue mani cinger-
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gli le spalle in un abbraccio riconoscente.
Sarebbe stato esaltato ed invidiato.
Calcolò che per compiere la raccolta delle fedi avrebbe potuto im-
piegare una ventina di giorni.
Iniziando il 21 dicembre, saltando Natale, la vigilia, il 31 Dicem-
bre e Capodanno, avrebbe potuto terminare la raccolta verso il 13
di Gennaio.
Esaltato dalla sua fantastica decisione si precipitò dal suo Preside e
gli chiese l’autorizzazione di saltare le lezioni del 21 e quelle dei 6
giorni successivi alla fine delle vacanze di Natale.
Il preside, che non aveva nessuna stima dell’Albizzati e che riteneva
del tutto superflua la sua presenza a scuola, gli concesse ben volen-
tieri l’autorizzazione.
In fin dei conti se il Binda avesse avuto successo un po’ di merito se
lo sarebbe preso anche lui che gli aveva concesso libertà nei giorni
di scuola.
Se tutto fosse finito nel nulla nessuno si sarebbe ricordato delle as-
senze dell’Albizzati.
Per darsi maggiore visibilità il Nicola decise di farsi confezionare
uno stendardo nero con ricamato in oro “VALCAMONICA FA-
SCISTA” ed affidò l’incarico di realizzarlo alle suore dell’asilo che
davano lezione alle bambine di ricamo e cucito.
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E così all’alba del 21, alla presenza del Sindaco, di tutta la Consul-
ta Municipale e di uno sparuto gruppo di brenesi, il Binda, con
lo stendardo appeso ad un bastone di legno assicurato al sellino della
bicicletta, partì per compiere la sua impresa.
Quella mattina veramente avrebbe volentieri rinunciato ai suoi
programmi. Faceva un freddo boia e cadeva qualche fiocco di
neve.
Ma che figura avrebbe fatto davanti a tutti se avesse trovato una scu-
sa e rimandata la partenza?
Nello zaino aveva un panino col salame ed una borraccia di vino. Di
scorta, sperava, perché era sicuro che qualche camerata informato
della sua missione si sarebbe sentito sicuramente onorato di invitarlo
a pranzo.
Verso le quindici avrebbe ripreso la strada per Breno per arrivare
quando ancora non fosse buio pesto.
Giunse a Edolo quasi congelato verso le 10 del mattino. Aveva smes-
so di nevicare, la temperatura era scesa notevolmente sotto zero ed
un sole pallidissimo era apparso da dietro le nuvole.
Si recò dal Podestà che era già stato informato dal collega di Breno
del suo arrivo e di quanto questi avesse intenzione di fare.
Dopo un panino condito da un paio di grappini offerti dal Podestà
al bar Tonale, il Nicola iniziò il giro del paese e la raccolta delle fedi.
Non fu un inizio felice.
Alla prima porta alla quale bussò aprì una donna grande e grossa e
completamente sorda.
Non capì neanche una delle parole del Binda e questi allora le prese
la mano sinistra ove, probabilmente perché la donna era vedova,
nell’anulare vi erano ben due fedi e fece il cenno di sfilarle.
La donna che pensò di aver davanti un ladro non sembrò scomporsi
più di tanto. Presa una scopa che teneva dietro l’uscio la picchiò
violentemente e ripetutamente in testa al Binda chiudendo quindi
repentinamente la porta.
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Al secondo tentativo si trovò davanti un uomo anziano che lo ascol-
tò con attenzione.
Il vecchio parve riflettere e poi mostrando il braccio sinistro che era
privo della mano gli rispose senza comunque alzare la voce: “Ma tu e
il tuo Duce sapete cosa vuol dire guerra? Guarda qui cosa vuol dire!”
e gli mostrò il braccio monco.
“Allora che tu lo sappia o no va’ a cagare e non rompere i coglioni!”
e gli sbatté il portoncino in faccia.
Alla terza porta gli aprì una bella donna, prosperosa quanto bastò
per farlo rimanere a bocca aperta.
Aveva un paio di tette che le uscivano da una maglietta nera attillata
da far venir gola ad un lattante.
Gli fece un ampio sorriso e con voce suadente gli disse: “Di solito
non ricevo alla mattina. Ma per un bel moretto come te posso fare
un’eccezione. Accomodati che metto a posto il letto e poi ci diamo
da fare”.
Il Binda rimase interdetto. La fregola gli era venuta ma non poteva
tradire la sua missione e impiegare tempo in divertimenti. Non con
il suo Duce che lo aspettava a Roma.
“Va beh, magari ripasso un altro momento”.
“Ma sei venuto solo per vedere la mercanzia? Non ti soddisfa? O
invece sei frocio e non ti interessano le belle donne? Comunque fai
quello che vuoi, ma non sai cosa perdi”.
Nicola non sapeva più cosa fare. L’occasione infatti era ghiotta e
poi quanto tempo era che non andava al casino che frequentava
non potendosi soddisfare né con la moglie che non aveva né con la
fidanzata che gli concedeva solo qualche frettoloso bacio.
“Beh una botta e via, che sono di fretta”. Si disse ed entrò nella casa.
Dentro faceva un bel caldo, uno grossa stufa a legna riscaldava tutto
il piccolo appartamento. Tre locali soli ma tenuti a lucido e con un
buon profumo di pulito.
Lei gli sorrise. “Vedrai che belle cose che so fare. Sarai soddisfatto.
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Comunque si paga prima. Con 20 lire te la cavi e vedrai che risparmi
anche. Valgo molto di più e poi alla mattina sono fresca e riposata e
rendo meglio”.
Lo fece accomodare su un divano e dopo poco gli portò una tazzina
di caffè, beh di surrogato più che caffè, bello caldo.
“Aspetta un attimo che appena pronta ti chiamo. A proposito, mi
chiamo Ofelia” e se ne andò in camera da letto.
Dopo un’oretta non rimpianse le 20 lire pagate. Erano state spese
veramente bene! Ma dopo i trenta chilometri percorsi al gelo e
la stanchezza per l’atto sessuale compiuto senza accorgersi si ad-
dormentò.
Lo chiamò la donna alle tre e mezza quando già cominciava ad
imbrunire. Incazzato nero si rivestì in fretta e furia, diede un ra-
pido bacio sulla gota di Ofelia e si precipitò fuori.
Appena in strada si imbatté nel podestà che lo guardò meravigliato,
scuro in volto.
“Te che cosa ci fai qui? Sei stato a scopare? Non potevi farlo a Breno?
Qui non dovevi solo andar per fedi?”.
“La carne a volte è più forte della volontà fascista”. Disse la prima
cosa che gli veniva in mente a difesa del suo comportamento. “Pode-
stà, resta tra noi uomini questa storia, vero?”.
“Va là, va là che tu mi pare sei solo un puttaniere. Ha voglia di
aspettarti il Duce. Quante ne hai fatte di fedi? Mi sa che torni a casa
a mani vuote se vai avanti così”.
Dopo aver mangiato il panino che aveva nello zaino e bevuto qual-
che sorso di vino si mise in bicicletta per rientrare a casa.
Arrivò dopo le cinque.
All’inizio del paese, giù verso la stazione, un gruppo di sfaccendati
lo stava aspettando.
“Come le andada Binda? Quante fedi hai fatto? Sei pieno come una
cassetta di sicurezza?”.
“Segreto, segreto che se no poi mi derubate”. rispose con quel poco
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di fiato che aveva ancora in corpo.
“Vedrete alla fine che sorpresa!” e si rimise a pedalare per arrivare a
casa più svelto possibile che aveva la vescica che gli scoppiava.
Nei giorni seguenti le cose erano andate molto meglio. Un po’ da
solo un po’ con la collaborazione di altri squadristi aveva avvicina-
to qualche migliaio di coppie. Alcune le aveva convinte, altre spa-
ventate ed alla fine del lungo lavoro il Nicola aveva raccolto 3621
fedi. Un bel po’ di oro!
Non aveva voluto dire nulla a nessuno. Non potendo partire verso
Roma con un sacchetto pieno di fedi aveva deciso di farle fondere e
di portare al Duce dei bei lingotti lucenti.
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L ’unico che potesse fare il lavoro era l’Americo Sciaccaluga detto il
Lanterna, un genovese arrivato a Breno quasi per le stesse ragioni
del Binda.
Quasi, ma all’inverso. L’Americo era infatti un comunista sfegatato
ma soprattutto un nemico giurato dei fascisti.
Ricordate cosa pensava il Binda del Duce? Bene, lui tutto l’inverso.
Il fatto era che il Lanterna doveva essere un po’ masochista, infatti
invece di coltivare i suoi pensieri e le sue valutazioni in silenzio si
gloriava nel continuare a parlar male del fascismo nonostante già gli
avessero propinato quattro bevute di olio di ricino ed una valanga di
manganellate.
Suo padre, buon’anima, prima di passare a miglior vita preoccupato
per ciò che di brutto sarebbe potuto capitare a suo figlio, sul letto di
morte gli aveva strappato la promessa che avrebbe lasciato Sanpier-
darena dove tutti lo conoscevano come sovversivo e se ne sarebbe
andato il più lontano possibile giurando di non confidare più a nes-
suno le sue credenze politiche.
Aveva per caso saputo che in tutta la Valcamonica non vi era neppu-
re un gioielliere e lui, che aveva lavorato a lungo presso la “Premiata
Gioielleria Bacigalupo” in Piazza De Ferraris a Genova, decise di
tentare l’avventura a Breno, proprio al centro della Valle.
Come orafo era bravo, aveva inventiva e si presentava bene.
Con quei quattro soldi ereditati dal padre (ma per un genovese quat-
tro soldi non hanno un valore preciso all’insegna di “Chi non ciagne
non teta”) e con quanto ricavato dalla vendita del piccolo apparta-
mento di famiglia era partito per Breno con i suoi attrezzi da lavoro.
Aveva preso in affitto un negozietto sul corso principale e aveva
esposto un cartello “Acquistasi oro anche da protesi dentali”. Altro
metallo lo aveva comprato da un commerciante di Bergamo ed aveva
quindi iniziato a creare qualche semplice gioiello che tutte le mattine
toglieva dalla robusta cassaforte ed esponeva nella piccola vetrina.
Ben presto capì perché in Valle non esistessero gioiellieri.
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Durante i primi sei mesi non riuscì a vendere un pezzo. Non vi era
veramente amore per i preziosi (ma forse era questione di soldi che
mancavano) se si pensa che in tutto quel periodo in negozio non
erano entrate più di 6 o 7 persone.
Una al mese, in media, solo per vendere qualche vecchio rottame
d’oro ma non certo per comprare.
Cominciò a lavorare solo quando espose un grosso cartello: “Si ripa-
rano orologi ed articoli domestici”.
Ci fu chi portò la vecchia pendola di famiglia, chi orologi da polso
o da tavolo ma chi anche vecchie caffettiere, abat jour o borsettine,
quelle fatte di maglia di fili d’argento o di metalli meno nobili, che
in quel periodo erano ancora di moda.
Nei momenti nei quali non aveva nulla da fare il Lanterna si
divertiva a comporre puzzle, via via sempre più grandi e colora-
ti. Soprattutto delle città d’arte, delle vette innevate delle vicine
Alpi o di fiori.
Aveva tappezzato le pareti del locale di queste ricostruzioni e si
potevano vedere il Colosseo vicino al Monte Rosa od al bleu di
una genziana.
Un giorno, una ricca signora che era venuta a ritirare un orologio
riparato insieme a suoi due figli, chiese se i puzzle erano in vendita.
Lo Sciaccaluga che aveva sempre fame di soldi pensò di aver trovato
la possibilità di un affare.
Chiese poco più del costo dei pezzi del mosaico e riuscì a vendere
due lavori che andò a consegnare la sera stessa a casa dell’acquirente.
Si sparse la voce non solo in paese ma addirittura in Valle e ben pre-
sto la composizione di puzzle divenne l’attività principale del man-
cato gioielliere.
Per trovare nuove vedute e quindi nuove composizioni fu costretto
persino a recarsi da un rivenditore di Milano.
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L ’Albizzati era preoccupato. Avrebbe potuto fidarsi a consegnare
all’Americo tutto quell’oro?
In fin dei conti del Lanterna in zona non si sapeva nulla. Più volte il
Binda aveva pensato che fosse una persona strana e si era fatto certo
che avesse qualcosa da nascondere.
Uno mica viene in Valle a mettere in piedi un’attività non remune-
rativa se non è costretto a scappare da qualcosa.
Ma sapere da che cosa fuggisse era un’impresa difficile se non addi-
rittura impossibile.
Decise di bluffare con lui e di vedere che cosa sarebbe successo. Una
mattina andò in negozio e con voce sprezzante gli disse: “Te Sciacca-
luga o come cavolo ti chiami. Guarda che io di te so tutto e se non
ti denuncio è solo perché ho da farti fare un lavoro.
Ma se non ti comporti come si deve ti faccio sistemare io. D’ac-
cordo?”.
Il povero Lanterna a quelle parole era impallidito ed al Binda la cosa
non era sfuggita.
“Ci ho azzeccato” pensò. “Ce l’ho in mano!”.
La mattina seguente le 3.621 fedi cambiarono custodia. Da una pen-
tola della cucina del Binda alla cassaforte del negozio dell’Americo.
Si erano messi d’accordo che questi avrebbe fuso le fedi per ricavarne
lingotti da 500 gr. ed insieme avevano pesato tutte le fedi sulla bilan-
cia di precisione del gioielliere: 9.052 grammi.
Quindi 18 lingotti e quello che avanzava rimaneva al Lanterna per
il disturbo.
“Guarda che però a lavoro finito li ripeso uno per uno. Che non ti
passi per la testa di rubarci sopra qualche grammo. Attento, te!”.
La gioielleria fu chiusa “Per imbiancatura e riparazioni varie” come
diceva il cartello esposto.
Non si poteva mettere tutto quell’oro in mostra ed il negozio era
anche l’unico posto nel quale si potessero fare le fusioni.
Dopo 7 giorni il lavoro era finito ed il Binda, che non poteva con-
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trollare che tutto andasse bene dato che per entrare dal Lanterna
avrebbe dovuto ogni volta far alzare la saracinesca, tirò un sospiro
di sollievo.
Dopo cena l’Americo andò a casa sua e dalla capace borsa che aveva
con sé tolse uno dopo l’altro 18 splendenti, grassi lingotti che posò
sul tavolo della cucina.
Il Binda sembrava un bambino impazzito per la gioia. Baciò uno per
uno i lingotti e poi prese una bottiglia di vino pregiato che gli aveva
regalato un amico della Franciacorta e brindò con il Lanterna.
Poi si sedettero intorno al tavolo. L’Albizzati, con gli occhi lucidi,
non smetteva di rimirare il piccolo tesoro sforzandosi di ricordare
qualcuno dei visi dei donatori che gli avevano permesso l’insperata
impresa.
Solo quando ebbero finito in silenzio di scolare la bottiglia il Binda
accompagnò il Lanterna al negozio e lo aiutò a mettere tutto l’oro in
cassaforte ed a richiuderla per bene.
L’indomani mattina si sarebbe recato dal Podestà per organizzare l’e-
sposizione dei lingotti in Municipio.
Che tutta la popolazione della Valle venisse a vedere ed a compli-
mentarsi con lui.
E poi via, sulla sua fiammante Ganna, verso la capitale ed il suo
Duce.
Verso il trionfo.
Con il collega professore di geografia aveva calcolato che per raggiun-
gere Roma avrebbe dovuto percorrere circa 700 chilometri. Pensava
di poter macinare un centoventi chilometri al giorno, quindi in cin-
que o sei giorni più un giorno di riposo sarebbe arrivato alla capitale.
Il Federale di Brescia si era offerto di contattare i suoi colleghi delle
città nelle quali avrebbe fatto sosta perché gli trovassero un posto
dove passare la notte ma soprattutto per organizzare di riceverlo con
tutti gli onori.
La stampa, tutta la stampa nazionale, doveva parlare di lui.
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Chissà quanta invidia avrebbe creato in quelli che lo avevano critica-
to, in primis il Federale di Varese che lo aveva cacciato dalla Valcuvia
e minacciato di espulsione dal Partito.
Se ne tornò a casa, si mise a letto ma non riusciva a dormire un po’
per l’eccitazione ed un po’ perché gli era venuta un’idea.
A volte è più importante il gesto che il contenuto, pensava. Se lui
avesse portato 14 lingotti al Duce o 18 sarebbe stata la stessa cosa.
Quello che contava era l’impresa che aveva compiuto non il suo
valore venale.
Quattro avrebbe potuto tenerli per sé.
Più ci pensava e più riteneva la cosa possibile.
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P rima di andare in Municipio a parlare col Podestà passò in ne-
gozio dal Lanterna. Come al solito a quell’ora non c’era neppure
l’ombra di un cliente.
“Sta attento ed ascoltami bene”. iniziò il Binda. “Ho deciso una
cosa. 18 lingotti sono tanti da portare in spalla sino a Roma.
Allora facciamo così. 14 li porto via e 4 li tieni in cassaforte. Quando
torno poi decidiamo cosa farne. Ma sta attento a non fare il furbo
che io ti tengo in mano e se tu pensassi di scappare ti vengo a trovare
anche se fosse l’ultima cosa che faccio nella vita. Ci vediamo”. E se
ne andò.
Dopo un attimo rientrò in negozio.
“Mi sono dimenticato di dirti che se ne fai parola con qualcuno
rimpiangi di essere nato”.
L’Americo più che essere contento per la possibilità di avere parte
dell’oro lo era perché ai maledetti seguaci del Duce arrivava un paio
di chili di metallo in meno. Era come vincere una piccola battaglia.
Col Podestà l’Albizzati prese accordi per portare in Municipio il
giorno successivo i lingotti e per organizzare con la Consulta Muni-
cipale una specie di mostra per i brenesi.
In quella occasione avrebbe presentato anche i nominativi della città
presso le quali avrebbe fatto sosta perché il Federale di Brescia com-
pisse quanto promesso.
Cremona, Bologna, Firenze, giornata riposo, Perugia, Viterbo ed in-
fine Roma questo il percorso che aveva studiato.
Per organizzare la cerimonia della partenza ci volle più di una setti-
mana.
Un giorno era occupato il Podestà di Breno, un altro il Federale di
Brescia era in visita a Roma, un altro ancora il Segretario Provinciale
aveva una riunione con i vari colleghi della Lombardia e poi biso-
gnava che anche nelle città nelle quali il Binda intendeva fermarsi le
autorità fossero disponibili ad accoglierlo.
Finalmente si decise che l’Albizzati sarebbe partito, alla presenza di
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tutte le alte cariche fasciste della provincia di Brescia, di una delega-
zione proveniente da Milano e dal Federale di Varese che non aveva
potuto rifiutare l’invito, con la benedizione del Vescovo di Brescia,
alle 10 di mattina del 27 di gennaio del 1936.
Il Binda si presentò alla partenza nella sua divisa da squadrista con
tanto di cappello col pon-pon e stivali neri lucidissimi. Come al so-
lito lo stendardo era legato al sellino della bicicletta.
Lo zainetto nel quale sarebbero stati trasportati i lingotti aveva rica-
mato a mano un fascio in oro zecchino.
Era il dono che le giovani fasciste della valle avevano confezionato
per quello che era diventato un po’ il loro idolo.
La cerimonia fu breve ma solenne. Il Federale, dopo uno stringa-
to ma tonante discorso nel quale si inneggiava ovviamente al Duce
“Luce della Patria” aveva dedicato solo un breve cenno a quanto
aveva fatto l’Albizzati “proveniente dalle valli fasciste del Varesotto”.
Quindi prese uno per uno i 14 lingotti, mostrandoli uno per uno ai
presenti, e ponendoli uno per uno nello zaino che alla fine il Binda
indossò.
Poi come uno starter (ma i giornalisti non poterono usare questo
termine proveniente dalla Perfida Albione e quindi vietatissimo) il
Federale abbassò, davanti all’Albizzati già in sella, una bandiera ita-
liana ed il Binda partì gagliardetto al vento.
Due ali di folla, praticamente tutto il paese (in quella mattina le
fabbriche e le scuole erano state chiuse per permettere la presenza di
tutti ai lati della strada) applaudì il ciclista che ben presto sparì lungo
la strada per Brescia giù verso il Lanico.
I primi due giorni passarono veloci. Il clima quasi primaverile facili-
tava la “cavalcata del Binda” come la stampa aveva chiamato l’impre-
sa che il ciclista stava compiendo.
A Cremona ed a Bologna l’accoglienza non era stata quella sperata
ma lungo la strada in tutti i paesi che l’Albizzati attraversava vi erano
alcuni cittadini e tutta la scolaresca portata ad acclamarlo.
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Fu nell’attraversamento degli Appennini sotto un diluvio di pioggia
e vento che del Binda si persero le tracce.
Non vedendolo giungere a Firenze dal capoluogo toscano e da quello
emiliano furono avviate le ricerche.
Ma del Nicola Albizzati detto il Binda non si seppe più nulla.
Sparito lui, la sua bicicletta ed il carico d’or. L’uomo forse era stato
sequestrato da uno dei briganti che ancora imperversavano sull’Ap-
pennino.
Si fecero mille congetture, le ricerche si ampliarono a tutto l’Ap-
pennino tosco-emiliano, furono interrogate migliaia di persone ma
invano.
E dopo un paio di settimane che si erano perse le tracce del Binda
anche nella memoria degli italiani l’impresa incompiuta cadde nel
dimenticatoio.
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C ol passare dei giorni il Lanterna era sempre più preoccupato.
Lui non aveva parlato con nessuno ma l’Albizzati, che era
un gran chiacchierone e che si gloriava in continuazione dell’im-
presa che stava per portare a termine, avrebbe potuto essersi con-
fidato con qualcuno raccontando la storia dei quattro lingotti
lasciati a Breno.
Se li avessero cercati e trovati nel suo laboratorio ove tutti sapevano
erano stati confezionati chissà cosa poteva accadergli.
Ma d’altra parte il Binda era stato chiarissimo. Nell’ultimo colloquio
avuto con lui aveva detto al povero Americo esattamente: “Se ne fai
parola con qualcuno ti pentirai di essere nato”.
E a lui quando ricordava quelle parola veniva subito un inizio di
diarrea e tanta, tanta nausea.
Non dormiva già da una settimana e non riusciva più a comporre
puzzle tanto gli tremavano le mani.
Alla fine quando ormai l’Albizzati era dato per morto, si decise a par-
larne con il Giacomino Domenighini che tra tutti i fascisti di Breno
gli sembrava il meno peggio.
Lo chiamavano il “Co bass” perché quando camminava per strada
sembrava avesse una strana attrattiva per il piano viabile sul quale
fissava sempre gli occhi, cosa che continuava a fare anche se parlava
con qualcuno.
Il padre del Lanterna, uomo saggio e navigato, se fosse stato ancora
in vita ed avesse avuto l’opportunità di farlo avrebbe consigliato il
figlio di non fidarsi di chi non guarda mai in faccia nessuno.
Ma lui era morto e l’Americo non sapeva neppure lontanamente
cosa fosse la prudenza e soprattutto non aveva la capacità di valutare
le persone.
Fatto sta che messi i quattro lingotti nella solita borsa una sera senza
preavviso andò a casa del Domenighini che viveva da scapolo appena
fuori il paese e gli raccontò tutto.
“Hai fatto bene a venire. Ma quello stronzo del Binda se non l’hanno
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già fatto fuori se mi capita a tiro lo faccio fuori io! Il Duce, il Duce...
Ce lo aveva sempre in bocca e poi voleva metterglielo nel culo!
Hai fatto bene a venire. Lascia qua tutto che ci penso io a far avere
almeno questo po’ di oro al Duce e poi ti faccio sapere qualche cosa.
E sta zitto che non si sa mai chi c’è in giro e per un po’ di oro si fa in
fretta a perdere la vita. Vai, vai che poi ci risentiamo”.
Presi i lingotti accompagnò il Lanterna sino alla porta e lo fece usci-
re. Poi, spente le luci, andò a guardare in strada da tutte le finestre
per accertarsi che il Lanterna fosse venuto da solo e da solo se ne
andasse.
Quando l’Americo seppe per caso che il “Co bass” il giorno dopo
aveva lasciato Breno con una scusa ed era rientrato solo dopo 2
giorni capì che non avrebbe più saputo nulla dell’oro nè che fine
avesse fatto.
D’altra parte meglio così. Se non fosse rispuntato il Binda poteva
ritenersi fuori da ogni pericolo.
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E rano giunti a Breno nell’autunno del 1937.
Avigail (che strano nome pensarono i brenesi che non conosce-
vano la Bibbia) era malata di polmoni e qualcuno aveva detto che
l’aria della Valcamonica fosse particolarmente sana e avrebbe potuto
giovarle.
In effetti a quei tempi la Ferriera Tassara, con i soli primi due forni
in funzione, non aveva ancora cominciato a inquinare l’ambiente.
Ma da qui a far ritenere l’aria di Breno benefica per la cura della
tubercolosi ce ne passava.
Arrivarono su una Balilla del 1932, prima serie ma ancora in ottime
condizioni, e presero possesso dell’appartamento in Piazza Caccia-
tori delle Alpi, proprio all’inizio del paese, che Isacco Sonnino, il
marito di Avigail, aveva visto ed acquistato qualche settimana prima.
Sotto il grande appartamento ed oltre il retro della casa vi erano degli
ampi locali che il Sonnino intendeva utilizzare per continuare il suo
lavoro di linotipista e rilegatore.
Aveva accertato che da Edolo a Darfo non avrebbe incontrato con-
correnti e che per trovare un rilegatore degno di quella qualifica bi-
sognava addirittura andare sino a Bergamo.
Avrebbe potuto servire diversi uffici comunali, la Pretura di Breno
per non parlare dei numerosi studi legali e notarili di tutta la valle.
Aveva effettuato un’indagine precisa valutando i pro ed i contro e
stabilendo con una incredibile precisione, come accertò più tardi,
quanto gli avrebbe reso l’attività e in quanto tempo avrebbe potuto
raggiungere i guadagni sperati.
Fu un grosso problema quello di scaricare la vecchia linotype e il
grande torchio spediti da Milano su un vagone merci.
La piccola stazione di Breno era del tutto priva di argani o di mac-
chine di sollevamento.
Ma una robusta coppia di buoi e dei cavi metallici prestati dalla Tas-
sara facilitarono le cose.
Quando i macchinari furono sistemati il Sonnino si mise in cerca di
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tre dipendenti.
Non era cosa facile trovare persone che avessero dimestichezza con i
macchinari, che sapessero leggere e scrivere correttamente e che non
pretendessero salari troppo alti.
Fu fortunato con il primo. Gli si presentò infatti il Gianrico Felicetti
già maestro nella scuola di Breno epurato l’anno prima perché rite-
nuto sovversivo e ridotto, lui e la sua famiglia, alla fame.
Isacco, che in quanto ebreo già doveva muoversi con circospezione,
fece una rapida indagine in paese ed accertò che il Felicetti era una
gran brava persona e che aveva subito la scomunica fascista più che
per le sue idee politiche (di sinistra sì, ma molto moderate) per una
lontana parentela con un tale Bertazzoli, uno dei primi seguaci di
Mussolini divenuto poi un suo violento detrattore.
Dopo aver capito che più che fargliene una colpa l’assumerlo avreb-
be ricevuto l’approvazione dei brenesi, Isacco si decise a prenderlo
con sé.
Tra l’altro Gianrico aveva proposto una cosa molto interessante. Tro-
vare altre due persone predisposte alla meccanica e di fare con loro
uno scambio di conoscenze.
Lui avrebbe dato ai due lezioni di italiano ricevendo in cambio quel-
lo che loro conoscevano.
E fu così che la “Nuova Premiata Stamperia e Legatoria Isacco Son-
nino” iniziò la propria attività.
E fu subito un successo.
Isacco ci sapeva fare con la gente. Convinto il primo professionista
che non potesse fare a meno di carta intestata e biglietti da visita
tutti gli altri arrivarono di conseguenza.
E fu una gara a chi voleva le scritte in caratteri ed in altezza diversi.
Qualcuno aveva addirittura richiesto di avere l’intestazione a colori.
Durante la visita presso lo studio di un notaio fu invitato a visitarne
la casa. Giunto nel locale ove erano conservati libri antichi il Sonni-
no si offrì di rilegarne uno gratis.
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Fu un colpo geniale. Quando il volume ritornò al proprietario questi
rimase stupefatto.
Quell’ammasso di fogli con una copertina mezza strappata abbando-
nato da tempo in mezzo ad altre vecchie carte era diventato un tomo
da esposizione agli Uffizi.
Ebbe una quantità tale di ordinazioni da pensare di assumere alme-
no altri due dipendenti e di acquistare un nuovo torchio.
Nonostante gli importanti guadagni Isacco e Avigail continuavano
la loro semplice vita.
Qualche volta passeggiavano, soprattutto nelle serate non ventilate
perché lei non poteva essere esposta a colpi di vento, lungo il corso
prima di cena.
Salutavano con un sorriso accattivante tutti quelli che incrociavano
anche se sconosciuti, ai clienti Isacco riservava anche un piccolo ma
deferente inchino.
Da quando uscivano di casa sino al rientro qualsiasi cosa facessero,
dalla spesa o al prendere un caffè al bar, si tenevano costantemente e
teneramente per mano.
Avigail sempre alla destra del marito, leggermente arretrata come per
un atto di deferenza nei suoi riguardi.
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Dopo un breve conciliabolo i tre si erano diretti verso la Caserma dei
Carabinieri per segnalare il fatto.
Il Felicetti era molto preoccupato. Era al corrente di quanto stesse
avvenendo nei riguardi degli ebrei e delle ulteriori sanzioni che pre-
sto Mussolini avrebbe preso contro la razza ebraica.
Gli sembrava comunque strano che in un paese tranquillo e religioso
come Breno potesse essere stato organizzato e compiuto qualcosa di
grave contro due degnissime persone.
Il Maresciallo dei Carabinieri fu molto sbrigativo. Mandò a chiama-
re il Mensi, fabbro ed idraulico del paese, e con lui ed un carabiniere
di scorta si recò all’abitazione dei Sonnino.
Il Mensi non ebbe neppure bisogno di forzare la serratura. Con un
cacciavite ed una molletta per capelli riuscì ad aprire la porta in un
minuto.
All’interno tutto appariva in ordine.
Cucina e gabinetto puliti, letto rifatto, contatore della luce staccato
come se i proprietari dell’alloggio avessero preparato con estrema
precisione e tranquillità la loro partenza.
Solo sul piano del tavolo in cucina era rimasto il pacchetto della
carne acquistata dall’Isacco la sera precedente e probabilmente di-
menticata.
Dopo due giorni il Felicetti e gli altri due dipendenti venivano in-
formati dalla Sede Centrale della Banca di Vallecamonica che era a
loro disposizione una cifra lasciata dal Sonnino che comprendeva il
pagamento del lavoro svolto nell’ultimo mese ed una congrua liqui-
dazione.
Questo confermava in tutti la speranza che la coppia si fosse allonta-
nata da Breno di propria spontanea volontà.
Come erano spariti, i coniugi Sonnino riapparvero in paese all’inizio
del 1946.
Invecchiati, con gli occhi privi di espressione, magri da far spavento,
giunsero a bordo della vecchia Balilla che, anche lei, dimostrava gli
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anni passati probabilmente all’aperto dopo la partenza da Breno.
Si fermarono davanti alla loro abitazione ma non scesero subito dalla
vettura come se avessero avuto la premonizione dello spettacolo che
sarebbe apparso ai loro occhi appena aperta la porta di casa.
I tedeschi infatti, ritornati numerosi in Valle dopo la precedente
drammatica esperienza, si erano dapprima installati nell’abitazione
dei Sonnino, requisita come altre in paese, e quindi, al momento
della fuga prima di abbandonarla avevano distrutto mobili e suppel-
lettili di proprietà degli odiati ebrei.
Avevano perfino rimosso parte del pavimento in belle lastre di abete
ed abbattuto un muro divisorio.
I Sonnino dopo lo sgomento iniziale avevano gestito la loro situazio-
ne con grande dignità e compostezza.
Probabilmente negli anni passati lontani da Breno ne dovevano aver
viste ben di peggio.
Nell’impossibilità di abitare l’appartamento così come era apparso
ai loro occhi, si erano recati all’Albergo Fumo ove avevano affittato
una stanza matrimoniale.
Dopo aver aiutato la moglie, che non smetteva di tossire, a mettersi
a letto per riposare, Isacco si era recato presso la locale Stazione Ca-
rabinieri per sporgere denuncia per i danni subiti.
Il Maresciallo Costamagna, davanti a quell’uomo che con estrema
semplicità e senza piagnistei denunciava il sopruso ricevuto, non
ebbe coraggio di informarlo che nulla si sarebbe potuto fare per otte-
nere un risarcimento ma, quasi per rendersi partecipe alla situazione
nella quale si trovava il Sonnino, di persona volle stillare il partico-
lareggiato verbale.
Quando il sottufficiale dell’Arma gli chiese se oltre agli atti vandalici
denunciasse anche la sottrazione di qualche bene il Sonnino prima
di rispondere rimase a lungo in silenzio.
“Anche se avessi subito un furto ovviamente non potrei dimostralo.
Grazie, ma lasciamo perdere” rispose alla fine.
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Mai nessuno infatti avrebbe creduto che i quattro lingotti di oro
zecchino da 500 gr l’uno, nascosti sotto il pavimento della camera
da letto, fossero spariti insieme ai ladri.
Dopo due ore il Sonnino lasciava la caserma apparentemente più
sereno mentre il Costamagna rimaneva alquanto perplesso.
Gli era sembrato di capire che in effetti un furto fosse stato perpetra-
to ma che il denunciante non né avesse voluto parlare.
Un furto di cosa? Sicuramente di qualche valore celato sotto il pavi-
mento o all’interno del muro che era stato abbattuto.
Ma era solo un’ipotesi.
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comprò in paese una vecchia villa con un ampio giardino.
Sin dai primi mesi di servizio presso la Società Nazionale Ferrovie
aveva deciso di impiegare parte dello stipendio nell’acquisto di azio-
ni della società stessa ed ora era orgoglioso della propria decisione.
Le azioni avevano decuplicato il loro valore ed il Rusconi ora era un
uomo ricco.
Aveva avuto la fortuna anche di diventare intimo di Giuseppe To-
vini, fondatore della Banca di Valcamonica, che dopo la sua morte
venne elevato agli onori dell’altare per le innumerevoli opere di mi-
sericordia compiute.
Dal Tovini che comunque non aveva perso la sua natura di uomo
d’affari aveva avuto il consiglio di dividere il suo patrimonio come
se fosse un giardinetto.
Una parte in immobili, un’altra in azioni ed una terza in oro, quello
che è sempre stato il bene rifugio nei periodi di grande incertezza.
E l’ingegnere ci prese gusto. Una volta all’anno quando si recava a
Milano alla Direzione Generale della Società Nazionale Ferrovie e
Tramvie per gli auguri di Natale ma soprattutto per ritirare il pre-
mio che ogni anno gli veniva elargito a riconoscimento dell’ottimo
lavoro che stava facendo in Valle, passava in Corso di Porta Nuova
presso la “Premiata Ditta Fabbricazione Medaglie Johnson” ed ac-
quistava un lingotto d’oro.
Più o meno grande a seconda delle disponibilità.
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Anni ’30 voleva dire essere considerato non solo un depravato ma
addirittura persona da tenere lontana dai bambini.
Tra omosessualità e pedofilia non si faceva alcuna differenza né
tra il popolo né tra le persone cosiddette colte per la totale igno-
ranza in materia e per l’accanimento che la Chiesa di Roma, con
grande spirito cristiano, metteva nel condannare questi poveri
disgraziati.
La notizia della “diversità” di Stefano, messa in giro da non si sa
chi, era venuta a conoscenza di tutto il paese scandalizzando i buoni
brenesi.
E così dopo lo scandalo il ragazzo aveva abbandonato la scuola pub-
blica ed aveva proseguito gli studi con un vecchio prete cacciato
dalla Chiesa per essersi perdutamente innamorato di una suora della
comunità nella quale si recava come direttore spirituale.
Era stato anche accusato dalla religiosa di aver tentato di violentarla
ma ciò non era stato mai provato.
L’unica cosa sicura era che la donna fosse un’isterica che viveva le
sue allucinazioni come se fossero sempre fatti veramente accaduti
(o magari in questo caso sperati) e c’era il dubbio si fosse inven-
tata tutto.
Il sacerdote aveva tentato di difendersi ma quando aveva ammesso
onestamente di essersi innamorato della consorella ma niente più,
era stato sospeso “a divinis” ed esposto al vituperio dei suoi parroc-
chiani e di quanti lo conoscevano e lo apprezzavano.
Nessuno, per evitare eventuali grane con la Chiesa Cattolica
Apostolica Romana, ebbe il coraggio di alzare una voce per di-
fenderlo.
Il sacerdote aveva quindi abbandonato il paese nel quale viveva e si
era trasferito a Breno presso una vecchia zia.
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S tefano nelle ore libere dallo studio lavorava con accani-
mento e passione, senza poter mai godere della compagnia
di alcun coetaneo, alla realizzazione di uno dei tanti progetti
che si poneva.
Aveva una manualità eccezionale con il gusto e la raffinatezza che
spesso gli omosessuali hanno ricevuto dalla loro stessa natura.
Sapeva scolpire piccole statue in legno, dipingere bei quadri, colti-
vare in una piccola serra le piante da fiori più sconosciute creando
addirittura nuovi ibridi.
Era in continuo contatto con Pietro Franchi, il titolare dell’o-
monima azienda di Grassobbio specializzata in ogni tipo di se-
menza.
Entrambi grandi appassionati tenevano una fitta corrispondenza
scambiandosi consigli e pareri.
Dalla parte del Franchi vi era tutta l’esperienza accumulata dalla sua
famiglia in centinaia di anni (l’azienda si occupava di sementi nien-
temeno che dal 1797) mentre da parte di Stefano si trovavano la
passione e la curiosità di un neofita innamorato della natura e delle
sue più colorite manifestazioni.
Ma quello che più lo coinvolgeva erano le costruzioni con il “Mecca-
no”. Disegnava prima con estrema precisione ed accuratezza quello
che intendeva realizzare: palazzi, ponti, impianti di irrigazione, e poi
li costruiva.
A volte chiedeva consiglio al padre, con il quale discuteva sostenen-
do le proprie idee anche quando il genitore gli dimostrava la impos-
sibile stabilità di un’opera,
Il padre doveva comunque ammettere che le idee del figlio a volte
erano illuminanti ed innovative.
Finita la costruzione la rimirava magari per un intero pomeriggio
estasiato e felice per il risultato raggiunto.
Poi senza mostrarla ad alcuno al di fuori dei genitori cominciava a
smontarla più velocemente possibile, quasi con rabbia.
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Sembrava non volesse rendere partecipe della sua bravura nessun
rappresentante di quella società che lo rifiutava.
Agli esami di maturità, sostenuti presso un liceo di Brescia per evita-
re qualche ricatto morale da parte di un professore bacchettone che
fosse a conoscenza della sua diversità, ottenne pieni voti e la lode del
presidente della commissione.
Per un paio di anni si recò regolarmente a Milano il lunedì di ogni
settimana per rientrare la sera del giovedì. Frequentava il Politecnico
che poi abbandonò per chiudersi nella villa di proprietà dei genitori.
In primavera ed in estate quasi tutti i giorni usciva di casa all’alba per
lunghe passeggiate solitarie in montagna.
Sembrava molto interessato alla natura ma nessuno sapeva quanto
avesse studiato la flora alpina sino a quando, alla sua morte, non si
scoprì che aveva dato alle stampe un libro con i disegni di tutte le
piante che aveva incontrato nelle sue gite dando a ciascuna il proprio
nome scientifico.
Il volume intitolato “ANLEITUNG ZUR CULTUR DER AL-
PENPLANZEN” era stato stampato da un famoso editore di Praga
e ritenuto una delle raccolte più complete esistenti in Europa.
Stefano perse i genitori a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro per
una violenta forma virale.
Accompagnò con estremo decoro e grande dolore prima la madre e
poi il padre al cimitero del paese e quindi si rinchiuse in casa nella
sua tristezza e nessuno lo vide più in giro per lungo tempo.
Aveva assunto un cameriere che lasciava la villa solo una volta al
giorno per fare la spesa e che non dava confidenza a nessuno.
In paese era voce comune che fosse l’amante del padrone che ormai
tutti chiamavano “el mat Ruscu”.
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E ra una fredda sera del febbraio 1944 quando suonarono al cam-
panello all’ingresso della villa.
Stefano, persona molto sensibile, ebbe subito la percezione che stes-
sero arrivando dei guai.
Fedele, il domestico, si affacciò alla finestra della sala scrutando il can-
celletto dietro al quale si intravvedeva una sagoma grande e grossa.
“Chi è?” chiese.
La risposta fu un grugnito quasi incomprensibile al quale fece segui-
to un “Aprire! Polizei!”.
Fedele si precipitò dal padrone gridando “C’è la polizia tedesca, cosa
devo fare? Devo aprire?”.
“Certo” rispose Stefano che si era reso conto che non avevano altre
alternative se non far imbestialire chi aveva suonato.
Dopo poco entrava in casa, sbattendo gli scarponi sul lucido pavi-
mento di legno, forse più che per pulirli per evidenziare la propria
presenza e dimostrare quasi una presa di possesso della villa, un ser-
gente tedesco.
Era grande e grosso e puzzava di piscio e di alcool. Quando si tolse
il cappello, per comodità non certo per educazione, apparve una
capigliatura di un colore rosso che sembrava tinta.
Buttò il cappotto su una sedia dell’ingresso e si diresse, sempre senza
nessun invito, nell’ampio salone sdraiandosi quasi su una poltrona
vicino al camino acceso.
Stefano ed il cameriere lo seguirono come due automi.
Il tedesco non li degnò di uno sguardo e dopo un attimo di silenzio
disse con profonda voce gutturale e con forte accento teutonico: “Tu
conte siedi lì e tu servo porta bere. No grappa, che fa, come dite,
schifo. Vino, buono vino rosso. Subito”.
Il sergente non aprì più bocca sino a quando non arrivò Fedele con
un bicchiere ed una bottiglia di vino appena aperta.
Riempì il bicchiere e lo offrì al tedesco che tracannò il contenuto in
un sorso solo.
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“Riempi ancora e poi via. Io e conte parlare di affari. Grossi affari!”.
Il domestico ubbidì e poi, lieto di poter lasciare il militare che gli
incuteva grande paura, se ne tornò in cucina.
Questa volta il sergente vuotò il bicchiere a piccoli sorsi ed in silen-
zio, come se stesse mettendo in ordine le idee e cercasse le parole
italiane per esprimersi con chiarezza.
Stefano che aveva studiato e parlava perfettamente il tedesco si guar-
dò bene dal dirlo per conservare un piccolo margine di vantaggio.
“Grande Führer” e nel pronunciare l’appellativo del suo capo si alzò
in piedi ma senza allungare il braccio nel tradizionale saluto limitan-
dosi a battere sonoramente i tacchi degli scarponi, “Ha detto ordine:
Actung via ebrei, via nemici di nazionalsocialismo, via, come dite
voi, zingari e omosessuali. Nur Lager per essi e lavoro. Lavoro, lavoro
finalmente che nessuno lavorato mai.
Noi in Vallegamonika non trovato ebrei, non catturato partigiani.
Ma solo per ora. Tu, come dite, pederasta. Io prendo te e Führer
contento di me.
Fascisti non vuole aiutare dice tu buona persona, grande testa, non
far male a nessuno ma tu omosesuale. Nemico mein Führer. Io te por-
to in prigione e poi spedisco in lager. Non porto solo se noi mettere
d’accordo. Tu dai me cose di valore ed io do te liberazione”.
Stefano continuava a guardare il suo interlocutore con occhi che
dimostravano tanta paura ma anche disprezzo.
Quando gli aveva dato del pederasta si era sentito offeso e smarrito.
Mai nessuno gli aveva gettato in faccia la sua omosessualità tanto
volgarmente.
Non si era mai sentito colpevole di nulla, era nato così, non aveva
fatto niente per diventarlo.
Gli unici rapporti sessuali che aveva avuto e continuava ad avere
erano con Fedele.
Rapporti consenzienti. Non aveva mai preteso nulla. L’intesa era nata
quando si erano incontrati la prima volta e subito avevano capito tutto.
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Stefano comunque per liberare la sua coscienza da qualche piccola
remora faceva spesso al suo amante dei regali di un certo valore che
non volevano significare un pagamento per le sue prestazioni ma più
che altro un gesto d’affetto.
Ma non era il momento di fare polemiche.
Stefano pur rendendosi pienamente conto della terribile situazione
nella quale si trovava riuscì a controllarsi e a mantenere la calma
necessaria per gestire il da farsi.
Cercò di assumere un atteggiamento pensieroso quasi stesse deci-
dendo se prendere o meno in considerazione la minaccia del tedesco,
ma in cuor suo aveva già deciso di assecondarlo.
Ma sarebbe riuscito a concludere il “baratto” dopo questo pagamen-
to o doveva temere successive richieste?
“Quanti soldi volete?” disse alla fine con la voce più ferma che potesse.
“Ah, va bene allora!” riprese il tedesco e poi continuò: “Molto intelli-
gente, ma non soldi. No valore quelli. Oggi si domani no. Io voglio,
come dite, preziosi. Oro, pietre, non so cosa avete”.
Il conte teneva i lingotti d’oro della collezione del padre in tre diver-
se casseforti, ma il grosso era sotterrato sotto il pollaio, in un luogo
assolutamente sicuro.
Quattro lingotti da 500 grammi erano nella cassaforte nascosta die-
tro un quadro in quella stessa stanza.
Stefano ancora una volta prese tempo. Voleva dimostrare al suo in-
terlocutore che non era così pronto a cedere e soprattutto a concede-
re qualsiasi valore il tedesco avesse preteso.
Poi si alzò e si diresse verso la cassaforte. Si mise col corpo tra il ser-
gente e l’apertura e compose la teoria di numeri per aprirla. Poi prese
due dei lingotti, richiuse la cassaforte e li consegnò al tedesco.
A questi si illuminarono gli occhi felice per la vittoria ottenuta. Poi
soppesò i lingotti e con un ampio sorriso disse: “Questo oro poco.
Anche servo è uno pederasta. Pagare anche per lui. Subito”.
Mentre Stefano ritornava nuovamente verso la cassaforte il sergente
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lo seguì e, appena compiuta l’operazione per sbloccare la chiusura,
fu lui a spalancare il portello.
Voleva accertarsi quanti lingotti vi fossero ancora all’interno, lingotti
o altri pezzi preziosi per alzare eventualmente la richiesta.
Rimase deluso ma prese velocemente gli altri due pezzi di metallo e
li nascose nelle tasche della divisa.
Ritornò vicino alla poltrona nella quale era stato seduto si riempì
nuovamente il bicchiere di vino e lo tracannò in un sorso solo.
Quindi si diresse all’ingresso, indossò cappotto e cappello e, tutto
allegro, disse “Tu ora uomo libero. Pederasta sì ma libero, parola di
soldato del Reich”.
Si diresse alla porta, la aprì e sparì nel buio del giardino.
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vera ricchezza era, per vivere in un paese estero, solo l’oro che gli
rimaneva.
Ma non poteva certo mettersi in viaggio con un carico di lingotti
correndo il rischio che gli potesse essere rubato o sequestrato, se sco-
perto, alla frontiera.
Forse trasferirsi in Toscana dagli unici parenti che aveva ma con i
quali non era mai stato in contatto?
Con quale scusa avrebbe potuto presentarsi da loro? Cosa avrebbe
dovuto raccontare? Che era omosessuale e che doveva fuggire alla
cattura dei tedeschi?
Solo verso l’alba riuscì ad addormentarsi ma poco dopo le dieci ven-
ne svegliato bruscamente da un Fedele pallido e tremante.
“E’ arrivato un altro tedesco. Quando hanno suonato credevo fosse
il lattaio ed ho aperto il cancelletto e poi me lo sono trovato davanti
alla porta.
Questo sembra gentile. Ha chiesto scusa. Ma vuole parlare con lei,
subito.
Cosa faccio, cosa facciamo? Ci viene a parlare Lei o lo mando via?”.
“Ma no, cosa dici? Lo mandi via? Ma non hai mica capito che adesso
comandano loro?
Dammi una camicia pulita che mi metto un paio di pantaloni e
vengo. Chiedigli se vuole qualcosa da bere.
Trattalo con gentilezza, che è sempre meglio. Ma cosa vorrà mai,
non sarà venuto ad arrestarmi?
Fedele, Fedele ma dove vai? Aspetta un momento. Io ho sempre
dimostrato fiducia in te. Guarda che sotto il pollaio c’è un piccolo
tesoro. Se mi arrestano vedi di usarlo per aiutarmi. Se mi arrestano
vai dall’avvocato Conti che lui saprà darmi aiuto.
Mi raccomando Fedele. Io posso contare solo su di te.
Ma adesso vai, vai.
Cosa fai qui che lui sta aspettando.
Offrigli qualcosa da bere.
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Ah forse te l’ho già detto.
Sii gentile con lui, io vengo subito.
Ah ma forse ti ho già detto anche questo.
Io non so, non riesco più a ragionare.
Ah Fedele, ma tu sei già andato ed io sto parlando da solo. Vengo,
vengo subito. Svuoto la vescica e vengo.
Ma tu questo non dirlo al tedesco se no lui capisce che ho paura.
E chi ha paura ha qualcosa da nascondere. Hai capito?
Ah già ma tu non mi senti perché sei già andato”.
Spettinato e mezzo vestito arrivò in salotto. Il tedesco si alzò di scatto
dalla poltrona nella quale era seduto e si avvicinò a Stefano.
Fedele intanto stava accendendo il camino per cercare di combattere
il gelo che era nella stanza.
Con un piccolo inchino ed un batter di tacchi si presentò in perfetto
italiano: “Signor Conte buongiorno. Sono il tenente Amadeus Hul-
bert comandante il distaccamento di Breno.
Mi dispiace averla disturbata mentre stava riposando ma desideravo
incontrarla al più presto”.
Stefano a quelle parole ed a quel modo di fare rimase piacevolmente
sbalordito. Immediatamente e con meraviglia si rese conto di come il
tenente parlasse perfettamente l’italiano quasi senza nessuna durezza.
Se era venuto ad arrestarlo almeno lo stava facendo con gentilezza e
dignità.
Si schiarì la voce e con un sorriso forzato Stefano disse “Si accomodi,
signor tenente. Ma si immagini non mi disturba.
È che questa notte sono stato leggermente indisposto e non ho dor-
mito quasi nulla. Comunque stavo per alzarmi. Posso offrirle una
tisana? La bevo volentieri anch’io”.
Prese dal tavolino vicino al camino una campanella e la suonò bre-
vemente.
Subito apparve Fedele. “Due tisane di erbe da mattina, Fedele. E
qualche biscotto. Sentirà come sono buoni, signor Tenente. Sono la
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specialità di Fedele. Sentirà”.
Nel dire questo si mise a sedere su una poltrona lasciando l’altra
all’ospite.
Dal fuoco del camino dove stavano bruciando due grossi ciocchi
aveva cominciato a provenire un piacevole calore.
L’ufficiale aveva tutt’altro che un’aria guerresca ed appariva notevol-
mente imbarazzato.
Dopo aver ringraziato per l’offerta continuò: “Capisco che Lei non si
sia sentito molto bene dopo l’offesa ed il ricatto che ha subito ieri sera.
Io sono venuto a chiederle scusa per come si è comportato il mio
dipendente che è indegno di portare la divisa che condividiamo.
È un essere spregevole che anch’io devo sopportare, purtroppo.
Mi è stato messo vicino da mio padre, generale della Wermacht
quando sono partito per l’Italia.
Quasi una guardia del corpo. È una persona sicuramente coraggiosa
ma spregevole.
È figlio di un nostro dipendente amministratore delle terre di fami-
glia ed io non posso mettermi apertamente contro di lui.
Creerei problemi con mio padre e rischierei chissà cosa con le SS
delle quali lui è confidente”.
Stefano si sentì commosso per le parole del tedesco. Chissà quanto
gli era costata quella visita e la presentazione delle scuse.
Allungò la mano per stringere quella di Amadeus e sussurrò un som-
messo “Grazie”.
Poi dopo un lungo silenzio mentre Fedele serviva la tisana ed i bi-
scotti cambiò argomento per mettere a suo agio l’ospite.
“Signor tenente, ma come mai parla così bene l’italiano? Non si nota
neppure l’accento tedesco? È quasi incredibile”.
“Veramente squisiti questi biscotti”. Si rivolse con un sorriso al ca-
meriere che non se ne era andato forse proprio in attesa di un com-
mento del tedesco.
“Vede signor conte, io ho mezzo sangue italiano. Mio padre che è un
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nobile della Baviera quando faceva l’attaché militare all’ambasciata
di Germania a Roma ebbe l’occasione di conoscere mia madre che è
una contessa Guidobaldi di Firenze.
La corteggiò a lungo prima di riuscire a sposarla ed a portarla a vive-
re in Germania nella nostra tenuta.
Una donna di grande cultura, come poche anche in Italia lo sono.
A Penzberg dove vivevamo prima della guerra, era riuscita a sconvol-
gere la vita della cittadina.
Organizzava concerti, grande fanatica di Mozart come dimostra il no-
me che porto, incontri culturali ed addirittura un concorso letterario.
Era amata e stimata da tutta la popolazione che le era grata per la
ventata di cultura che aveva portato nella cittadina e per la sua di-
sponibilità verso i poveri e gli ammalati che non oscurava certo la
sua grande classe.
Quando morì, in quel tristissimo 1939 nel periodo in cui la Ger-
mania invase la Polonia dando inizio a questa terribile guerra, tutta
Penzberg partecipò alle sue esequie e vennero anche da altre nazioni
autorità del mondo culturale.
Lo stesso Führer, ma questo non è che ci fece molto piacere, inviò
una delegazione del Bundestag.
Mi ha lasciato un grande amore per l’arte ed io mi sono imposto, per
non dimenticare la sua terra e il dolce stil nuovo, di parlare (magari
un soliloquio) almeno un’ora tutti i giorni in italiano”.
L’incontro tra i due uomini, così diversi tra loro ma così ricchi di
cultura, durò a lungo.
Stefano gli fece vedere i suoi studi sulla natura regalandogli una co-
pia dell’opera sulla raccolta dei fiori di montagna che fu molto ap-
prezzata.
Al momento della separazione si augurarono reciprocamente buona
fortuna auspicando potesse avvenire un altro incontro in un periodo
meno triste.
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L a vecchia colonia di Bazena era stata voluta nel 1923 da un grup-
po di brenesi guidati dal Generale di Corpo d’Armata Pietro
Ronchi, Presidente dell’associazione Alpini e brenese doc.
Alla realizzazione dell’opera, che doveva servire ad ospitare per l’esta-
te i figli degli alpini morti nella Grande Guerra, avevano partecipato
a tempo perso centinaia di “veci” che a turno occupavano la tendo-
poli allestita a Bazena.
Era stato difficile con i mezzi dell’epoca portare sino ai 1800 metri
d’altezza, che si raggiungevano solo attraverso una vecchia e ripida
strada militare, il necessario per le fondamenta della nuova costru-
zione e tutti i serramenti.
Per i muri erano state usate solo le pietre raccolte in zona e pazien-
temente squadrate in condizioni quasi impossibili ma sicuramente
incredibili.
Ma la passione che gli alpini mettono sempre in qualsiasi impresa
intendano realizzare aveva dato i frutti sperati.
La costruzione aveva una sagoma semplice ma elegante, con un rap-
porto tra le dimensioni del tutto armonioso.
I sassi, di tutti i colori a seconda della loro composizione chimica,
conferivano una nota allegra.
L’acqua per gli usi domestici arrivava direttamente dai nevai che cir-
condavano la conca e veniva raccolta in una capace vasca in mura-
tura sotterrata per evitare chi di inverno gelasse; anche se di inverno
la colonia veniva usata solo come riparo per qualche sciatore o per
gruppi di cacciatori che dovevano comunque chiedere il permesso
per accedervi.
L’inaugurazione sembrava quasi un raduno degli alpini tante erano
le penne nere che vi parteciparono.
Il vegliardo coadiutore di Breno, don Arlocchi, con il Podestà, anche
lui di una certa età, erano arrivati a Bazena a dorso di mulo ed ora si
massaggiavano vistosamente le vecchie chiappe non abituate al basto
di duro cuoio.
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Il Generale Ronchi aveva voluto invece raggiungere la colonia a pie-
di anche se si era fermato a dormire la sera precedente a Campolaro.
Un gruppo di squadristi che cercava di rendere fascista la cerimonia
venne bonariamente allontanato dagli alpini che volevano che l’i-
naugurazione fosse solo una festa per loro.
Una cosa allegra, alla buona. Un paio di brevi discorsi tenuti dal Vice
parroco, che era conosciuto per la sua parsimonia di parole eviden-
ziata nelle brevissime prediche domenicali e per le sue frasi sempre
ingarbugliate ed a volte incomprensibili, e dal Generale Ronchi.
Quest’ultimo aveva ringraziato commosso i suoi alpini sia per la bra-
vura dimostrata sia per quel senso del dovere che lui, uno dei pochi
ufficiali che al fronte della prima guerra mondiale aveva con loro
condiviso la trincea, aveva conosciuto ed apprezzato.
Poi l’assalto alla griglia, dove sfrigolavano costine e nodini di maiale,
ma soprattutto ai fiaschi di vino.
Alla sera il rientro a Breno.
Due ore di marcia tra canti e allegre battute che erano continuate
in paese sino a quando, finito il vino, anche i più resistenti avevano
ritenuto opportuno andare a dormire.
All’inizio del 1944, qualche mese dopo il loro arrivo, i tedeschi ave-
vano deciso di far saltare in aria la costruzione che era diventata asilo
per squadre partigiane.
Poi nel 1948 Filippo Tassara, uno dei principali azionisti della Tassa-
ra Spa ed Amministratore Delegato del grosso stabilimento di Bre-
no, decise di ricostruire a sue spese un rifugio a Bazena.
Da uno spartano progetto si passò poi a quello per la realizzazione
di un vero e proprio albergo che poteva ospitare sino a 40 persone.
Il Tassara, alpino e figlio di alpino anche se genovese e quindi ma-
rinaro d’origine, era perplesso su quale nome dare all’opera da lui
voluta. Se dedicarla cioè al Generale Ronchi o al padre Carlo.
Alla fine prevalse giustamente lo spirito di famiglia ed il grande ri-
spetto ed amore che aveva per il padre e scelse la seconda soluzione.
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E ra veramente costruito benissimo. Le pietre perfettamente
squadrate si incastravano una nell’altra senza lasciare quasi
spazio tra loro.
Il poco cemento usato per edificare il muro serviva non tanto per le-
gare le pietre tra loro ma soprattutto per chiudere i piccoli interstizi
ed evitare che il vento gelido dell’inverno entrasse all’interno.
Bortolo e Giacomino, che avevano passato una vita a costruire
case, erano veramente amareggiati e non avevano il coraggio
di mettere mano al piccone e cominciare ad abbattere quell’o-
pera d’arte.
Avevano cercato di risparmiarla parlando con l’architetto al quale
era stato dato l’incarico di progettare il nuovo rifugio ma questi, un
giovane ignorante e supponente, non aveva neppure preso in consi-
derazione le parole del capomastro e del muratore.
Per lui, appena laureato, solo le costruzioni moderne potevano spe-
rare di appartenere alle cose belle.
L’ordine era stato perentorio. Finire di abbattere la vecchia costruzio-
ne in toto. Aveva proprio detto così: “in toto”, ed i due erano rimasti
perplessi davanti a quella parola sconosciuta.
Erano stati costretti ad arrendersi e ad ubbidire agli ordini. In fin dei
conti erano pagati per questo.
Sul lato sinistro del lungo muro si apriva la grande bocca del camino.
Almeno due metri per uno e mezzo.
Costruito a regola d’arte per bruciare grossi tronchi d’albero con un
tiraggio perfetto.
Lo spiedo era rimasto ancora tra gli alari, uno spiedo lungo lungo,
lungo e capace di portare infilzato o un maialino da latte o quattro
o cinque polli, un paio di conigli selvatici od una dozzina di pernici.
La canna fumaria era nascosta da un muro che chiudeva l’angolo
formato dal camino e poggiava su una lunga trave di quercia sgrez-
zata a mano.
“Dai Giacomino. Diamoci da fare” disse Bortolo e sputatosi sui pal-
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mi delle mani prese in mano il piccone. “Io comincio dal camino e
tu parti da là in fondo e vieni in su. Ciao muro cercheremo di trat-
tarti con rispetto”.
E giù la prima picconata.
Al terzo colpo però Bortolo rimase perplesso. Il suono rimandato
dall’urto del piccone non aveva il rumore dei precedenti ma un che
di metallico.
Si fermò. Guardò di sbieco nel buco creato dall’ultima picconata e
vide luccicare qualcosa.
Con la grossa mazza allargò la breccia e si rese conto che effettiva-
mente tra le pietre del muro era stata inserita una cassetta di metallo
lunga una cinquantina di centimetri.
Era appoggiata su due sbarrette di ferro poste alla base della camera
di tiraggio. Probabilmente era stata nascosta passando direttamente
dalla bocca del camino senza toccare il muro.
“Giacomino sa chè a idì”1 chiamò il compagno.
Allargarono il buco, tolsero un paio di grossi sassi stando attenti a
non far franare il muro ed estrassero una cassetta di metallo.
Sul coperchio c’era scritto qualcosa che loro non riuscirono a com-
prendere:
“OBEN. NICHT WERFEN. LUFTDICHT VERPACKT. MU-
NITION”
La cassetta era ottimamente conservata e dovettero impiegare tutte
le loro forze per far saltare il lucchetto che la chiudeva.
Quando aprirono il coperchio rimasero imbambolati a guardare il
contenuto che consisteva in quattro lingotti che se fossero stati d’oro
potevano valere una fortuna.
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I due si guardarono a lungo negli occhi ciascuno aspettando che
l’altro parlasse.
Bortolo si rese immediatamente conto che doveva assolutamente
trattarsi di oro perché chi avrebbe pensato di nascondere così bene
una cassetta senza un contenuto di valore?
Il metallo appariva ricoperto da uno strato di polvere e leggermente
ossidato ma quando Bortolo prese una pietra e la sfregò sulla super-
ficie di uno dei lingotti sotto apparve un bel colore giallo.
Giacomino era stato allevato dalla madre ma soprattutto dalla zia
suora, alla piena osservanza delle leggi di Dio.
Ma non un Dio caritatevole, ma un terribile giudice che faceva veni-
re al mondo gli uomini solo perché accettassero qualsiasi sofferenza
arrivasse loro e solo attraverso quelle avrebbero potuto redimersi dai
peccati che avevano o avrebbero commesso.
Giacomino non era mai riuscito a capire quali peccati avesse potuto
compiere da piccolo e quali grosse mancanze da grande, tali da ren-
derlo inviso al Signore.
Ma comunque tutti i sensi di colpa non riusciva proprio a togliersi
dalla mente.
Fu lui a parlare per primo. “Bisogna che lo restituiamo al pro-
prietario!”.
Il suo compagno lo guardò stralunato.
“Ma de che propietare straparlet, gnorant! 2 Come facciamo a sa-
pere di chi è? E poi se qualcuno l’ha nascosto novanta su cento è
roba rubata”.
“Ma perché” fu pronto a rispondere “rubare a un ladro non è
peccato?”.
Bortolo sbuffò. Quel testone proprio non capiva niente.
“Ma pensa te! Mettiamo che sia roba lasciata dai tedeschi quan-
do sono scappati. Cosa facciamo? Partom per la Germania e me
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la gira tota3 con uno striscione con sopra scritto - ABBIAMO
TROVATO UN TESORO NELLA VECCHIA COLONIA DI
BAZENA. IL PROPRIETARIO È PREGATO DI VENIRE A
RIPRENDERLO”.
E dopo un po’: “Io delle volte non ti capisco. Fai dei ragionamenti
che neanche un caprone”.
Giacomino questa volta non trovò argomenti per ribattere. In fin
dei conti il suo compagno aveva ragione, ma non voleva lasciargli
l’ultima parola.
“Parliamone al Russì, consigliamoci con lui. E poi magari lui sa di
chi è ‘sta roba”.
I l Russì era una leggenda in valle ma lo era soprattutto per chi fre-
quentava le montagne.
Era considerato un po’ il padrone morale di quelle vette delle quali
conosceva ogni anfratto, ogni passaggio dove aveva guidato le muc-
che affidategli per condurle agli alpeggi senza mai perderne o azzop-
parne una anche quando i sentieri erano stretti un palmo e la salita
a ottanta gradi.
Sapeva tutto degli animali che vivevano tra quelle rocce: dove aveva
la tana la marmotta o il nido il gallo cedrone o dove andavano a pa-
scolare all’alba i pochi daini rimasti dopo la guerra decimati da chi
aveva uno schioppo ed un arretrato di fame.
Aveva seguito, tenendosi distante, cento rastrellamenti che i repub-
blichini e i tedeschi avevano compiuto per stanare i partigiani.
Tante volte era riuscito ad avvisarli in tempo del pericolo ed a farli
fuggire, lui che sapeva cogliere ogni movimento ed ogni rumore nel
bosco prima di tutti.
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“Va bè sta olta lè dita giusta.4 Stasera andiamo a cercarlo, però ci parlo
io perché sono stato io a trovare la cassetta e perché so quello che
devo o non devo dire.
Tu hai la bocca troppo larga e magari gli dici anche delle cose che è
meglio che per adesso le conosciamo solo noi. D’accordo?”.
Dopo queste parole riprese in mano il piccone e ricominciò a lavo-
rare. “Oro o non oro per adesso se voglio dar da mangiare alla mia
famiglia devo finire di buttar giù sto muro” pensò.
Alle 5 smisero di lavorare e si accinsero a scendere a valle.
Quella notte, dopo aver parlato col Russì, l’avrebbero passata a casa
e sarebbero risaliti l’indomani prima dell’alba.
Raccolsero un po’ di erbacce e le disposero a strati nello zaino e tra
uno strato e l’altro appoggiarono i lingotti, due a testa.
Chiusa la tenda dove avrebbero passato le notti durante i lavori e
verificato che fosse ben ancorata al terreno iniziarono la discesa.
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fosse giusto trattenere il tesoro o cercare in qualche modo di conse-
gnarlo al legittimo proprietario.
Lui aveva sempre condotto una vita povera ma onesta e non voleva
rovinarsi la reputazione, soprattutto quella col Padreterno, per un af-
fare di soldi. “Che poi quanto poteva valere quell’oro?” si domandò.
Decise che l’unica cosa sensata da fare era di andare a parlarne con il
don Arlocchi, il vice parroco.
Lui era un sacerdote e aveva studiato e, alla sua età, di esperienza do-
veva averne e tanta. Ma soprattutto era sempre disponibile a sentire
ed ad aiutare tutti.
Arrivato all’ospedale di Breno girò decisamente a sinistra e si diresse
a passo veloce verso la povera casa del Coadiutore.
Lo trovò in cucina a leggere il breviario in attesa di andare in chiesa
a celebrare i Vespri.
“Ehi Giacomino, cosa ci fai a casa mia? È un piacere vederti. Ma non
eri in Bazena a lavorare?
Me l’ha detto il geometra Giulini che tu e il Bortolo state finendo
di demolire la vecchia colonia per far posto alla costruzione del
Tassara”.
“Sì don Arlocchi, tutto vero”. Poi per istinto biascicò “Sempre sia
lodato”. In risposta a un non ricevuto “Sia lodato Gesù Cristo”.
Si accorse subito dell’errore e questo lo mandò in confusione. Si era
preparato un discorso chiaro e conciso ma adesso ne aveva perso il filo.
“Dunque, signor Coadiutore” principiò titubante, “vediamo di fare
un esempio. Uno, per caso, solo per caso non mica che ci sia andato
a cercare, che poi mica sempre chi cerca trova, ha trovato una cosa
che non è sua ma non sa chi sia il proprietario.
Non sa dove andare a cercare chi è il padrone di quella cosa che
potrebbe anche essere un tedesco e mica ci va in Germania con un
cartello perché chi ha perso quella cosa sappia che qualcuno l’ha
trovata. Insomma come si fa?”.
Don Arlocchi, che era uno specialista nel creare frasi ingarbugliate e
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quindi capace di decifrare quelle degli altri, non aveva fatto fatica a
seguire quello che aveva cercato di dire il Giacomino.
Gli disse: “In Bazena buttando giù un muro hai trovato qualcosa che
era stato nascosto?”.
“Sì” rispose con impeto l’uomo.
E dopo poco con apprensione: “Ma lu siur curat come fa a sail?”.5
“Lasciamo perdere come l’ho saputo, Giacomino. Ma adesso tu vuoi
sapere la mia opinione su come ti devi comportare? Giusto?”.
“Sì e poi se lo sapeva già ci avrà anche già pensato e quindi la risposta
ce l’ha già bella e pronta”.
Il buon prete sorrise. Era veramente uno spirito semplice quel suo
parrocchiano.
Si era imbrogliato da solo.
“Vediamo, vediamo... Né tu né il Bortolo, perché anche il Bortolo
è coinvolto nel ritrovamento, avete nessuna idea di chi possa essere
il proprietario di quanto trovato. Non lo sapete e non potete imma-
ginarlo? Vero?”.
“No, ce lo giuro, don Arlocchi. Anzi, scusi, sì. Sì nel senso che è
vero. Neanche lontanamente. Ma lei come fa a sapere tutto che sa
anche che l’abbiamo trovato io e il Bortolo?”.
Il prete fece finta di non sentire. L’aveva già imbrogliato troppo e
non era leale continuare in quel gioco.
“Io posso provare a chiedere al Maresciallo dei Carabinieri, così senza
dirgli più di tanto, se qualcuno ha perso o gli hanno rubato qualcosa.
Non ci faccio né il tuo nome né quello del tuo socio. Soprattutto
non prendo impegni per conto vostro.
Come se avessi avuto notizie in confessionale di un ritrovamento e
che quindi non posso fare nomi e cognomi.
Proviamo a sentire. Magari glielo chiedo quando lo incontro per
strada così è meno ufficiale. Tanto lo vedo quasi tutti i giorni.
Tu stai tranquillo per ora non sei in peccato. Quando scendi la pros-
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sima volta? Domenica, penso. Ci vediamo domenica dopo la santa
messa delle 10”.
Lo accompagnò alla porta e “Sia lodato Gesù Cristo!” disse.
Ma non ottenne alcuna risposta da un Giacomino troppo distratto a
pensare a chi potesse aver fornito al prete tutte quelle notizie.
Ne avrebbe dovuto parlare con Bortolo?
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vivendo, decise di andarsene.
Con la scusa di avere necessità corporali discese dal treno, si diresse
verso un radura circondata da una fitta vegetazione di arbusti e, dopo
aver abbandonato moschetto ed elmetto ed essersi strappate le mostri-
ne dal bavero della giacca, si era diretto verso il centro della città.
Per le strade, dove rari passanti procedevano a testa bassa pensando
alla loro disperata situazione, nessuno sembrava accorgersi di lui e
forse altrettanto era avvenuto tra i suoi commilitoni.
Un pallido sole illuminava il pomeriggio e Giacomino, da esperto
montanaro sapendo che la sua Breno era a sud rispetto a Marmaros
Szighe (durante il viaggio il sole prima di sparire all’orizzonte era
sempre alla sinistra), cominciò il suo viaggio lasciando questa volta
alla sua destra l’astro che stava tramontando.
Iniziava, forse senza rendersi conto di quali e quante situazioni
drammatiche avrebbe dovuto affrontare, il suo viaggio verso casa.
Più di mille chilometri a piedi col pericolo di essere arrestato dai
tedeschi e fucilato come disertore o, a causa della divisa che portava,
ucciso dai gruppi di partigiani che lottavano contro i tedeschi.
Aiutato dalle tante persone caritatevoli che aveva incontrato lungo la
strada del ritornò impiegò trenta mesi per arrivare in Valcamonica.
Per lo più aveva vissuto di carità e passato le notti nei fienili; ma a
volte si era fermato per alcune settimane a lavorare presso qualche
fattoria con la certezza di avere due pasti caldi ed un letto per ripo-
sare e rimettersi in forze.
Dovette nascondersi per giorni patendo fame e sete in qualche rifu-
gio per evitare di essere catturato dai tedeschi presenti ancora nelle
zone dove lui si trovava. Partecipò a qualche scaramuccia alleandosi
con i partigiani e dividendo l’odio verso gli invasori.
Fu curato, unicamente con gli infusi preparati da una vecchia mege-
ra, e guarì da una polmonite. Una cosa quasi miracolosa!
Insomma non basterebbe un libro di mille pagine per raccontare
quali e quante cose ebbe a sopportare.
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Q uando arrivò a Breno era veramente pelle ed ossa, con lunghi
capelli ormai quasi completamente grigi che gli arrivavano alle
spalle ed una barba incolta.
Aveva percorso, dopo essere rientrato in Italia, quell’ultimo paio di
centinaia di chilometri solo con la forza della disperazione e con il
grandissimo desiderio di rivedere la sua sposa ed i suoi bambini.
Attraversò il paese senza essere riconosciuto da nessuno e si diresse
al Punt de la Madona.
Il cuore gli batteva forte e respirava a fatica per l’emozione. Arrivò
davanti alla casa e si fermò un attimo per riprendere fiato.
Nell’angolo in fondo al giardino un bambino giocava con una vec-
chia ruota di bicicletta. Chi poteva essere dei tre figli? Forse Valenti-
no che ormai doveva avere più di sei anni.
Attraversò quindi il piccolo spiazzo e arrivato alla porta che cercò di
aprire senza riuscirvi.
Bussò con le mani che gli tremavano. Passò un attimo che gli sembrò
un’eternità e poi la porta si spalancò.
Sua moglie Lucia, che teneva in braccio un bambino che non poteva
avere più di sei mesi, senza riconoscerlo lo guardò con sospetto e poi
domandò “Cosa vuole?”.
Dopo un lungo silenzio indicando il piccolo Giacomino domandò:
“Chi è?”.
“Mio figlio, perché? E poi cosa le interessa?” domandò la donna.
Dalla bocca dell’uomo uscì una voce straziata che non era la sua: “Mi
interessa sapere chi ti ha scopato e ti ha messo incinta. Brutta troia!”.
Poi la testa cominciò a girargli e cadde svenuto all’indietro.
Quando si riprese era sdraiato sul letto di quando era ragazzo in casa
dei genitori.
Doveva avere la febbre alta se la sua mamma, seduta di fianco a lui,
continuava a mettergli sulla fronte pezzuole bagnate di acqua fredda.
Il dottor Tonolini, il medico del paese, lo aveva visitato. A parte un
forte deperimento fisico non aveva trovato nulla di grave nel paziente.
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Infatti la malattia di Giacomino era nella mente e negli occhi che
continuavano a vedere, nel delirio della febbre, la sua donna con un
bambino tra le braccia che non era suo.
6) Un tesoro a Bazena?
7) E mi volete prendere in giro?
8) La bocca del camino era bella larga e con un po’ di sforzo la si poteva far passare.
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Per lui ogni donna andava bene. Giovane, vecchia, magra o grassa,
nobile o contadina se ci riusciva non se ne faceva scappare una.
Per questo suo modo di agire era stato soprannominato il Tappabuchi.
D’altra parte l’uomo era bello. Un paio di occhi azzurrissimi gli illu-
minavano il viso maschio. Era grande e grosso e con un portamento
fiero ed elegante.
Sempre ben vestito, ben rasato e profumato era veramente irresistibile.
Inoltre girava voce in paese che madre natura non avesse lesinato nel
dotarlo di attributi veramente pregevoli.
Il Santagata intervallava la sua giornata tra il bar, ove passava ore ed
ore a leggere il giornale ma soprattutto a giocare a “Tresette”, e lun-
ghe sieste pomeridiane che preludevano a serate amatorie.
La solita voce in paese sosteneva che, nonostante l’età, riuscisse a fare
sesso una sera sì ed una no.
A vuta l’autorizzazione dai due amici il Russì si mise in cerca del Pre-
tore. Gli era diventato amico ed era il miglior cliente che lui avesse.
Lo forniva nelle stagioni giuste di mirtilli e di funghi dei quali il
Pretore andava ghiotto. In autunno, all’apertura della caccia, lepri e
pernici e, al tempo della passata, grassi tordi.
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Addirittura a volte gli cucinava le cappelle dei funghi alla milanese,
che lui sapeva preparare alla perfezione passandole prima nell’uo-
vo sbattuto e pane grattato, quindi cuocendoli a fuoco lento in un
mare di burro senza che le superfici si seccassero rimanendo morbide
come natura le aveva create.
Gli aveva anche insegnato a mangiare la polenta (“Io la polenta mai,
è un cibo insipido buono solo per quelli col gozzo e per le galline”
aveva dichiarato la prima volta il pretore).
Ma poi alle insistenze del Russì aveva ceduto e gustato l’accoppiata
polenta più uovo in tegamino ma soprattutto quella con i “peruc” che
il montanaro sapeva cogliere al momento giusto quando le foglie era-
no diventate consistenti ma non ancora dure, cuocendole nel burro.
Quando gli aveva cucinato la prima lepre in salmì il Pretore aveva
enormemente gradito quel sapore forte che lo aveva lasciato estasiato.
Aveva preteso dopo pochi giorni il bis fornendo al Russì per la frol-
latura una di quelle bottiglie di Barolo vecchia di dieci anni che
conservava con amore nella cantina della sua casa.
A furia di frequentarlo e di cucinare per lui erano diventati amici ed
il Santagata si era fatto raccontare i fatti salienti della vita da sbanda-
to che il montanaro aveva vissuto sin da bambino.
“Un giorno io quelle storie le scriverò col tuo permesso e ti farò di-
ventare celebre” gli aveva assicurato.
Se fosse stata sera “no” l’avrebbe trovato al bar Silistrini.
E così infatti lo vide al solito tavolo d’angolo ove stava centellinando
il terzo Campari del pomeriggio.
“Ben trovato, dottore” lo salutò allegramente il Russì ed aggiunse
“sempre dal Silistrini a quest’ora!”.
“Hic manebimus optime”. Gli rispose il Pretore.
“Caro Russì cosa ti posso offrire? Che tu sia qui mi fa ricordare la
favola di Fedro. “Lupus ed agnus ad rivum eundem venerunt siti com-
pulsi” ove chiaramente tu lupus ed ego agnus”.
E vedendo l’espressione stranita del montanaro aggiunse: “Sì, lascia-
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mo perdere è ovvio che tu non sappia di che cosa io stia parlando.
Quale è il quesito che mi poni questa volta? Perché quando mi appa-
ri innanzi senza qualcosa da vendermi e con quella faccia da impuni-
to è perché devi sfruttare la mia mente e la mia cultura.
Avanti, parla tu che sei riuscito a far breccia nel mio cuore, non so
per quale inspiegabile motivo, ed io ora non riesco più a scacciarti”.
In effetti il Santagata si era più volte domandato perché avesse quella
predilezione per il rude uomo di montagna, ma non era mai riuscito
a darsi una risposta certa.
Forse perché era così diverso da lui ed aveva avuto una vita così piena
ed interessante?
Lo giudicava una persona ignorante ma che possedeva una saggezza
che esprimeva con sobrietà e dignità.
Il Russì raccontò per sommi capi quanto era successo al Bortolo ed
al Giacomino stando ben attento a non fare i nomi dei due amici né
quello della località in cui si era verificato il ritrovamento.
“Signor Pretore, i due miei amici vorrebbero sapere da Lei se com-
piono un reato tenendosi quello che hanno trovato. Da Lei che è
ancora per noi brenesi la Legge”.
Il Santagata si sistemò meglio sulla poltroncina gratificato dalle pa-
role del Russì. Lo conosceva come un gran figlio di puttana e doveva
quindi stare attento a come gli rispondeva.
Prendere una posizione netta poteva voler dire che poi avrebbe po-
tuto essere messo in piazza dagli eventi e dalla propensione del Russì
a non tenere la bocca chiusa.
“Dunque vediamo: Diritto della proprietà. Ma sai, caro amico, non
è una risposta tanto facile da dare.
Quella che tu mi esponi è una situazione che i romani avrebbero
chiamato “duplex dominium”. E allora il giudice avrebbe spiegato:
“SED POSTEA DIVISIONEM ACCEPIT DOMINIUM UT
ALIUS POSSIT EX IURE QUINTIUM DOMINUS, ALIUS IN
BONIS HABERE”.
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In poche parole, sperando che tu capisca: qui siamo davanti a due
possessori, uno che è il proprietario del bene ma non ha il bene, ed
uno che ha il bene ma non ne ha la proprietà. Ed il proprietario non
sa neppure chi in effetti abbia il bene.
Bella situazione. Bella situazione da studiare. Ottimo quesito, otti-
mo quesito mi hai sottoposto. Da studiare, da studiare.
Ma non ora caro Russì che adesso me ne vado a casa che è venuto
tardi e questa sera ho un impegno.
Ti prometto, lo studierò. Lo studierò” continuò alzandosi “e ti darò
una risposta ponderata. Ponderata e sicura. Come una sentenza!”.
Quindi uscì dal locale lasciando il povero Russì che era rimasto se-
duto al tavolino più stralunato che mai.
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Ma neppure lui ne era convinto e in cuor suo sapeva che gli piaceva-
no le donne giovani e se non si lanciano gli ami in acqua è difficile
prender pesci.
In diversi casi era riuscito a passare ore facendo l’amore con amanti
appena conosciute, nonostante le difficoltà di trovare un luogo di-
screto il più lontano possibile da Breno che accogliesse una coppia
clandestina.
Se i suoi superiori avessero saputo qualcosa il trasferimento, presu-
mibilmente in Sardegna, sarebbe stato certo.
“Ossequi, signor Coadiutore” disse a don Arlocchi con un ampio
sorriso tendendogli la mano dopo averla portata alla visiera del cap-
pello per un breve saluto militare.
“Oh signor Maresciallo, che piacere che mi fa vederla. Ci penso sem-
pre, sa, che se non ci foste voi dell’Arma in questa valle di lacrime si
vivrebbe ancora peggio.
Fortunati noi che abbiamo i Reali Carabinieri che ci proteggono,
dico sempre. Reali, ah no, faccio sempre confusione. Reali eravate,
ora siete anche voi repubblicani, come tutti noi d’altra parte.
Ma in fin dei conti siete poi sempre gli stessi e ci fa comodo avervi”.
Il Costamagna sorrise al vecchio prete che gli provocava sempre un
senso di tenerezza e di rispetto.
Ma era anche contento per le sue parole perché gli faceva piacere che
don Arlocchi si sentisse protetto dalla sua presenza.
“Un giorno o l’altro verrò a mettere ai suoi piedi quella valanga di
peccati che ho sulla coscienza, don Arlocchi.
Si dovrà prendere una mezza giornata di libertà per ascoltarli tutti.
Però mi raccomando, poi sia indulgente nel comminarmi la peniten-
za che se no non me la cavo più”.
“Comminarmi? Che sia un vocabolo nuovo che io non l’ho mai
sentito?” pensò il buon prete. “Magari adesso con tutti questi mo-
dernismi anche nella chiesa non si sa più che parole usare.
Mah, Signore dammi una mano perché io non è che ci ho tanta
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voglia di rimettermi a studiare”.
“Ma no, ma no, cosa dice. Un carabiniere non può mica farne tanti
di peccati. E poi lei si vede che è un bravo ragazzo. E tenga anche
presente il proverbio “La ceza l’è grànda ma i sancc i è pòch” come
diciamo noi”.
“Signor Coadiutore grazie per “il bravo ragazzo” ed i miei rispetti.
Buona giornata e spero di poterla rincontrare presto”. E battendo i
tacchi si riportò la mano alla visiera.
“Buongiorno, buongiorno signor Maresciallo. Anche per me, anche
per me è stato un piacere”.
Il prete prese la strada in discesa ma dopo due o tre passi gli venne in
mente la promessa fatta a Giacomino e allora si rigirò e “Ah, signor
Maresciallo, dimenticavo. Ho una cosa da chiederci. Me lo regala
ancora un minuto?”.
“Certo, volentieri!” gli rispose il Costamagna che gli si riavvicinò.
“Dunque ci vorrei chiedere... Uhm è una cosa un po’ complicata
perché non l’ho sentita in confessionale ma è come se la avessi sentita
in confessionale. Insomma una cosa complicata e riservata.
Lei sa mica, ma non deve mica rispondermi se non può rispondermi
per ragioni di ufficio, sia chiaro. Segreto d’ufficio si chiama, se non
sbaglio?
Lei sa mica, dicevo, se qualcuno ha perso, che so dei monili, mi pare
che si dica così, insomma dei braccialetti o spille o quelle cose lì da
donne. Li ha persi.
Magari anche dei lingotti di oro, persi o rubati. Insomma che ci sia
in giro della roba di valore ma non giusta? Così per dire, insomma”.
“Ma mi sarò spiegato bene che mi sa che, guardandolo in faccia,
sembra di capire che il Maresciallo non ha capito niente di quello
che gli volevo far capire”. Pensò il prete.
Il sottufficiale sembrava in effetti riflettere sulle parole dell’Arlocchi
quasi non capisse dove il don Arlocchi volesse andare a parare o se
invece non sapesse come rispondere.
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“Senta” disse alla fine “se lei vuol sapere se è stato denunciato il furto
o comunque la perdita di preziosi Le posso assicurare che non mi
risulta nessuna denuncia.
Se i preziosi siano stati invece persi e la perdita non denunciata in
questo caso, ovviamente, non posso saper nulla”.
“Risposta sibillina” parve a don Arlocchi che però non poteva rinfac-
ciarla al suo interlocutore.
“Va bene, va bene signor Maresciallo. Allora che Lei sappia nessun
furto”. E poi pensando di buttarla in ridere “Tutti onesti in questo
paese! Grazie ancora, grazie e buona giornata!” e se ne andò.
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nascosta in un muro o in qualsiasi altro luogo, e della quale si deve
reputare essere impossibile individuare l’originario proprietario, do-
vrebbe permettere a chi la trova di ritenersela per suo godimento.
Però ne potrebbe venire in proprietà, diciamo riconosciuta, solo
dopo un anno dalla pubblicazione del ritrovamento e se nessuno
avanzasse pretese sul bene dimostrando che è suo.
Attenti però che il bene non abbia valore storico o culturale perché
in questo caso appartiene al patrimonio indisponibile dello Stato ed
a lui va consegnato.
E qui caro Russì finisce l’uomo di legge.
Stammi a sentire ma comprendi bene che il mio sussurro non è quel-
lo dell’angelo custode della legge ma dell’uomo di strada.
Quello che è stato ritrovato è un, chiamiamolo, residuato bellico. Fa
parte della tragica storia che si è consumata su queste montagne ed
in questa valle.
Che vanno a cercare i tuoi amici? Facciano conto che invece di una
bella cesta di porcini si siano trovati dell’oro.
E se lo tengano, perdio.
Come diceva il Vate: - Memento audere semper - e loro osino, osino
almeno qualche volta, perdio!
Sono dei poveri lavoratori, mi par di aver capito. Se lo tengano. Se lo
tengano perché se lo meritano.
C’è un sacco di gente che ha fatto i milioni con la guerra e allora la-
sciamo qualcosa anche a chi ha vissuto onestamente e poveramente!
E qui finisce anche l’uomo di strada.
Russì tu mi trascuri, mi fai mancare il meglio della mia vita. Dalle
tue montagne non mi porti più nulla. Sarò costretto a toglierti l’a-
micizia. Perché la mia è solo un’amicizia interessata!”.
E fece il gesto di girar le spalle al Russì.
“Ma possibile che lei pensi che una vita debba essere fatta solo di
scopate e mangiate. Guardi che non ci ha mica più l’età per farlo che
un giorno o l’altro ci viene una sincope e ci rimane secco.
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Mangiare troppo fa male, bere no. Come si dice da noi “Lòm che ‘l
va so e zò da la cantina al pàsa l’otantina”.
Va beh per questa volta perdono le sue parole. Prima di venire qui ci
ho portato a casa 12 belle lumache, le prime della stagione. Lavate e
purgate. Pronte da mangiare”.
“Amico mio, amico mio! Come farei a vivere senza di te. Però tu non
puoi lasciare le lumache perché me le cucini quella zotica della mia
servetta.
Quella sa far solo da mangiare per le capre. Al massimo può mettere
tutte le sue capacità per fare un piatto di pasta in bianco. Non ha
cultura, non ha passione, non ha amore per niente”.
“Ma ha due poppe così” lo interruppe il Russi “per non parlare del
culo. Ma, dicendola tra noi. Ci ha già tentato?”.
“Nondum maturam est nolo acerbam sumere” sentenziò il Pretore e
poi traducendo ammise facendo suo il senso della favoletta di Fe-
dro: “Non è che non la voglio è che non ci riesco. Ma “perseverare,
dico io, umanum est” ed io, Russì, persevero, persevero. E quando
sarà matura io sarò lì a coglierla.
Comunque quando vai a casa mia a cuocere le lumache stai con la
bocca e le mani a posto che non vorrei che ci riuscissi prima tu.
Sei pericoloso, so che piaci alle donne anche se non conosci la raffi-
nata arte dell’amore. Montanaro zoticone”.
E lo guardò ridendo.
U na sera rientrando alla sua povera casa Giacomino trovò la... non
sapeva come chiamarla, appoggiata al muro che lo aspettava.
Dire la sua “ex sposa” gli dava fastidio; non poteva neppure dire “la
madre dei suoi figli” perché i figli della donna erano 4 ma con lui
ne aveva fatti solo 3; “quella troia” lo trovava troppo forte ora che
l’aveva perdonata.
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“Ciao” gli disse la donna, “E’de che te stét mèi!”9 continuò.
A lui si strozzò la voce in gola. Non gli era mai sembrata così bella e
solo trovandosela davanti capì quanto le mancasse.
Allungò una mano quasi avesse voluto accarezzarle il viso ma la ritirò
bruscamente.
Se lei si fosse ritratta oltre che pazzo di dolore si sarebbe anche sen-
tito ridicolo.
Dovette deglutire un paio di volte prima di poter dire: “E te e i to fioi
come stai?”.10
La donna non rispose alla domanda ma “A proposito di bambini ho
bisogno di parlarti”.
“Vieni dentro che ci sediamo” le rispose Giacomino.
“Preferisco di no. Facciamo due passi”. E senza attendere risposta si
incamminò.
Dopo un po’ fermandosi ad aspettare il marito che la seguiva tenen-
dosi a due passi di distanza: “Io lavoro come una bestia dalla mattina
alla sera ma una donna la pagano poco. Io non ho da dargli da man-
giare ai bambini. Non so più che cosa fare. Bisogna che tu pensi ai
tuoi figli se non vuoi andare al loro funerale”.
“Ai miei figli è giusto che ci pensi, ma per il bastardo ci deve pensare
suo padre.
El chi che ta mitit encinta? 11 Nessuno me lo vuol dire ma tu hai un obbligo.
Te mé tradite el ma par giust che me el saes.12 Come si chiama il pic-
colo bastardo?”.
“Io lo chiamo Giacomino”.
“Ma se pol!” urlò l’uomo: “Mia ciamà en fiol col nom del pare!”.13
“Ma difatti tu non sei suo padre”rispose con logica la donna.
“Chi è che ti ha messo incinta?”.
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“I l farmacista, chi vuoi che si stato”. Come se il Temperini fosse
l’unico uomo sessualmente attivo in tutta la Valcamonica.
“Bestia, bruta carogna!” urlò Giacomino. “Ma lu la sa che ‘l tà mitit
encinta?”.14
“Non credo. Abbiamo fatto all’amore...”.
“Non dire così” riprese ad urlare l’uomo “Avete solo scopato, altro
che amore. Lui ha sempre scopato tutte le donne che trovava con le
gambe aperte. E tu sei stata una di loro!”.
“Io non ci avevo mai pensato di farlo. Io ho sempre desiderato solo
te. Ma lui veniva spesso a trovarmi. Tutte le volte portava qualcosa
da mangiare per i bambini. Magari anche un giocattolo.
Mi guardava sempre con quegli occhi che si vedeva che gli piacevo.
Ormai pensae che tè foset mort e na sera lo contentat.15
Ma non si è più ripetuto. Lui ha continuato a venire ancora un po’ di
volte, portando qualche cosa ma non è più entrato in casa.
Ci era rimasto male quella sera. Mentre lo facevamo si era svegliato il
Valentino che aveva sete ed era entrato in cucina. Non so come un bam-
bino di 4 anni riuscisse a capire cosa stavamo facendo. Ma lue l là capit.16
Aveva guardato il Temperini e gli aveva detto: “Ma te te sé minga el
me pare”.17 E poi se ne era tornato a dormire”.
I l Giacomino le aveva dato un po’ di soldi per i suoi figli solo dopo
aver ottenuto la promessa che lei gli avrebbe portato il bastardo
che voleva far conoscere al farmacista.
Non era per ricattarlo ma costringerlo ad interessarsi al piccolo. Era
anche sicuro che il Temperini sapesse di averla messa incinta.
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“In un paese vuoi che il farmacista non sia al corrente delle nuove
nascite come delle morti?” aveva pensato.
“Doppiamente e vigliaccamente bastardo! Avrebbe dovuto prendersi
le sue responsabilità”.
Il farmacista, che per anni aveva visitato le cascine fuori Breno dove sape-
va essere ben accetto da tante giovani mogli che avevano i mariti lontani
o per lavoro o perché in guerra aveva alla fine rimesso la testa a posto e
dopo tanti anni di vedovanza si era risposato con la maestra del paese.
Dopo qualche giorno si incontrarono al Crusal. Lei arrivò dal Punt
della Madona tenendo il bambino per mano. Quando fu a pochi
passi Giacomino guardò il piccolo con attenzione: se avesse avuto i
baffi sarebbe stato uguale identico al farmacista.
Lo prese per mano senza che il piccolo mostrasse meraviglia e si di-
ressero verso la farmacia.
Entrò tenendolo sempre per mano e disse che aveva bisogno di par-
lare col Temperini per una cosa che riguardava il bambino.
Il farmacista apparve dal retrobottega e gli fece cenno di raggiun-
gerlo pensando che l’uomo gli avesse portato il figlio per avere un
consiglio su qualche cura.
“Cos’ha questo bel bambino?” domandò.
“Un padre stronzo” gli rispose prontamente Giacomino.
“Perché, cosa gli ha fatto?” chiese nuovamente il farmacista pensan-
do che l’uomo avesse provocato qualche danno al piccolo.
“A lu negot. Ma el ga trombat la mama e po l’è sparit”.18
A queste parole al Temperini, che aveva capito tutto al volo, girò
leggermente la testa e si sentì mancare.
“E tu chi sei?” domandò con voce tremante.
“Me? Ah me so chei col coregn. Ma poderese anche eser l’asasino”.19
Il farmacista si lasciò andare su una sedia. Si sentiva cadere il mondo
addosso e non sapeva cosa fare.
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“T i va bene se ci vediamo in Piazza Mercato tra un’ora?” sussur-
rò con affanno dopo qualche tempo.
Giacomino non disse neppure una parola. Si girò ed uscì tutto im-
pettito dalla farmacia.
Ritornò al Crusal, riconsegnò il bambino a sua madre dicendole
“Domani ti faccio sapere qualcosa”.
Rimase un attimo imbarazzato a guardare quello che lui chiamava il
bastardo. Il piccolo era rimasto sempre serio-serio al suo fianco strin-
gendo, quasi fiducioso, con la manina le sue grosse dita da muratore.
In fin dei conti lui che colpa ne aveva di quanto era successo? Sareb-
be stato solo l’unico a pagarne le conseguenze. Allungò una mano e
gli accarezzò la guancia.
Il piccolo lo guardò sorpreso e gli sorrise.
20) Cosa voglio fare io? Mica sono io il padre del bambino, farmacista dei miei stivali.
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sistemare tutta la questione.
Ma non sapeva come gestire la trattativa. Perché trattativa era la pa-
rola giusta. Prima o poi si sarebbe parlato di soldi ma quanti e versati
con quali modalità?
Il Giacomino li avrebbe voluti per il piccolo o per tutta la famiglia?
Lui non aveva la più pallida idea di quanto fosse giusto offrire. Aveva
esaminato tutto il male che aveva provocato approfittando, quella
maledetta sera, della disponibilità di Lucia.
Lei era rimasta incinta e sicuramente aveva dovuto rinunciare a lavo-
rare ed a procurarsi quelle poche lire che guadagnava.
I bambini quindi dovevano di sicuro aver sofferto la fame e magari
anche il freddo in quella povera casa.
Doveva considerare anche il male che aveva provocato al Giacomino
che si era trovato nella parte del marito cornuto?
Sia Lucia che il marito separandosi avevano iniziato una vita ancora
più dolorosa e triste di quella che avevano vissuto.
Mentre lui, che era il padre e non aveva fatto nulla per il bambino,
aveva continuato a vivere nell’agiatezza, a godere della presenza, pri-
ma come amante e poi come moglie, di una giovane e bella donna
della quale era innamorato perso.
Quanto poteva valere il danno che aveva provocato?
E poi doveva stare attento. Il Giacomino gli aveva detto “Io sono il
cornuto ma potrei anche essere l’assassino”.
Si sapeva che l’uomo era una gran brava persona ma nel momento
dell’ira non si poteva prevedere quale potesse essere il comportamen-
to di un uomo.
Dopo un lungo silenzio il Temperini disse “Ascolta Giacomino, non
è che possiamo decidere qui sui due piedi il destino del piccolo.
Devi lasciarmi il tempo di cercare di avere qualche consiglio e di
raccogliere la somma che riterrò di doverti offrire. Perché di questo
si tratta, vero?”.
Non ricevendo alcuna risposta continuò: “È passato tanto tempo.
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Lasciami ancora una settimana e poi ci rincontriamo. E mi racco-
mando, o meglio ti prego di non farne parola con nessuno. Se non
parli lo prendo come prova di buona volontà e questo potrebbe esse-
re importante nel valutare l’offerta. Capito?”.
A Giacomino l’immediata arrendevolezza del farmacista parve di
buon auspicio ma per paura di dire qualcosa di sbagliato rispose solo
“Va bene”. E se ne andò.
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Il viceparroco sembrava, con i suoi discorsi strampalati, un po’ fuori
di testa ma, lui ne era convinto, doveva avere un cervello fino.
Non avrebbe potuto chiedergli nulla per quanto riguardasse la parte
finanziaria ma sicuramente poteva avere un aiuto sul come gestire
la “pratica” e, soprattutto, una valutazione sulla gravità morale della
sua responsabilità.
Alle 10 cominciò ad aggirarsi nelle vicinanze della casa del coadiu-
tore. Voleva che l’incontro apparisse casuale per non permettere al
prete di agitarsi fissando uno strano ed insolito appuntamento.
Lui era un pessimo cristiano, non frequentava la chiesa neppure a
Pasqua ed a Natale e non era conosciuto come uno disponibile ad
aiutare i bisognosi.
Tutto questo era ben noto al viceparroco.
Ma nella sua ben conosciuta disponibilità verso il prossimo il buon
prete lo avrebbe sicuramente ascoltato.
Verso le 11 apparve don Arlocchi. Ultimamente camminava sempre
più piano e con evidente difficoltà soprattutto in salita.
Per percorrere il breve tratto di strada che portava alla sua abitazione
ci mise un bel cinque minuti.
Ogni pochi metri doveva fermarsi a tirare il fiato appoggiandosi al
bastone che da poco tempo aveva cominciato ad usare.
Il Temperini gli andò incontro sorridendo e lo salutò nel modo più
affettuoso possibile ma cercando di non farlo suonare falso.
Veramente lui aveva un vero affetto per il prete e non avrebbe mai
potuto dimenticare che al momento dell’attentato ai tedeschi, da
lui compiuto insieme ad altri paesani, il sacerdote lo aveva aiutato
dimostrando un grande coraggio.
A quel saluto così rumoroso Don Arlocchi si fermò quasi spaventa-
to. Poi, riconoscendo il farmacista, si limitò a sorridergli non avendo
fiato per rispondergli.
“Caro don Arlocchi” gli disse il Temperini “tornando dal cimitero
dove sono stato a trovare la mia povera moglie ho voluto allungare
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un po’ la strada passando davanti a casa sua con la speranza di in-
contrarla.
E Dio, che è sempre così buono con me anche se io non lo onoro
come piacerebbe a don Arlocchi, mi accontenta sempre.
È un bel po’ di tempo che non la vedo e mi pare che lei sia una roccia
indistruttibile.
Nonostante l’età e gli acciacchi non si ferma mai. Sempre in chiesa o
a far del bene ai suoi parrocchiani.
Un santo, veramente un santo! A Breno, quando il più tardi possibi-
le Lei lascerà questa valle di lacrime, tutti la ricorderanno per lustri
e secoli!”.
“Signor farmacista” iniziò con affanno il coadiutore “quanti compli-
menti. Grazie, grazie davvero! Ma lei, mi scusi, sa? Non è abituato a
fare complimenti a vanvera.
Sospettare è un peccato ma io ho veramente il sospetto che lei abbia
bisogno di me. Mi perdoni se sbaglio”.
“Beh, veramente quando l’ho vista arrivare mi è venuto in mente
che, per sfruttare l’occasione, le avrei potuto chiedere un piccolo
aiuto. Sempre che la cosa non la disturbi, mi raccomando”.
Il prete fece un sorrisino quasi a compiacersi di averci visto giusto
e poi rivolto al farmacista “Venga, venga su in casa da me che se è
venuto apposta a cercare il povero vecchio don Arlocchi la questione
deve essere importante e complicata”.
Per compiere gli ultimi metri e salire le due rampe di scale il povero
prete impiegò altri dieci minuti abbondanti.
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che sembrava averlo rigenerato. Respirava ancora a fatica ma con
meno affanno.
“Allora?” cercò di essere sintetico per risparmiare fiato.
Dopo un imbarazzato silenzio il farmacista, che se ne stava seduto
in punto ad una sedia dirimpetto al prete, schiaritosi la voce: “Senta
signor coadiutore io ci vorrei parlare del Giacomino Falocchi, sa il
muratore, credo che lo conosca”.
In un attimo nella mente del prete passarono, come delle fotografie:
muro, Bazena, lingotti d’oro...
Rimase a bocca aperta quasi stralunato. Ma come, il Giacomino gli
aveva detto di non dire nulla ed ora il farmacista ne era a conoscenza
e, sicuramente data la sua qualità di pettegolo, anche almeno la metà
del paese?
“Ah guardi, dottore. Io, sia chiaro, del Falocchi ne so ben poco e quel
poco che so me lo tengo per me, sia chiaro”.
“Ma come” pensò a sua volta il farmacista “avevo detto al Giacomi-
no di non parlarne con nessuno e quello stupido è andato subito a
parlarne con il prete?”.
“Ma don Arlocchi, io sono pronto ad ampliare quel poco che lei sa.
Io sono venuto a chiedere un consiglio ed a raccontarle tutto”.
“Dottore, per non creare confusione è meglio mettere le carte
in tavola sin dall’inizio. Ma cosa centra lei con l’oro e come fa a
saperlo?”.
“Con l’oro? Ma di quale oro sta parlando che io non ne so nulla”.
Domandò stupito il Temperini.
“Come di quale oro” riprese subito il coadiutore “lei mi ha detto
che voleva parlarmi del Giacomino Falocchi. Ma per che cosa,
allora?”.
Preso dalla foga del discorso il farmacista quasi urlò: “Volevo dirle
che io sono il padre di un suo figlio, l’ultimo.
Ma perché pensa all’oro. Glielo ha detto il Giacomino che vuole
dell’oro per stare zitto? Ma io l’oro dove lo prendo? Cosa ci faccio?”.
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Il don Arlocchi all’affermazione del farmacista sulla sua paternità era
rimasto quasi pietrificato.
“Ma, dottore, fermo. Andiamo con calma che io sono vecchio e mi
si ingarbugliano le idee in quel poco cervello che ho!
Ricominciamo da capo.
Come se ci vedessimo solo ora.
Ma aspetti un attimo che mi calmo. Oh Signur ma possibile che
quando viene a trovarmi questo signore qui mi porta sempre delle
notizie che sarebbe meglio non sapere.
Una volta viene e mi dice di aver ammazzato un uomo, un’altra volta
mi viene a dire di averne messo al mondo un altro. O almeno di aver
aiutato la madre a farlo.
Ma no, ma cosa sto dicendo. O Signur, o Madonnina datemi una
mano!” e preso da un violento affanno con estrema fatica e con l’a-
iuto del Temperini si alzò dalla poltrona per riempire il bicchiere di
acqua e tracannarlo.
Un po’ gliene andò di traverso ed allora cominciò a tossire che sem-
brava dovesse morire.
Dopo qualche minuto la situazione migliorò ed il buon prete riprese
posto nella sua poltrona.
“Allora, ricominciamo e cerchi di essere chiaro”. Disse con un fil
di voce.
Il farmacista che si sentiva in colpa per aver quasi fatto morire soffo-
cato il coadiutore non sapeva più se riprendere il racconto o riman-
dare ad un’altra occasione.
Poi pensò che un’altra volta non avrebbe più trovato il coraggio di
andare a parlare col don Arlocchi e ricominciò.
“Sì don Arlocchi. Io, quando il Giacomino era in guerra, una sera a
sua moglie ci ho fatto quelle cose da farla rimanere incinta.
E, per Diana, è rimasta veramente incinta ma io non lo sapevo che
se lo avessi saputo le avrei almeno offerto di abortire...”.
“Lei cosa?” urlò il prete con tutte le forze possibili. “Lei cosa? E me
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lo viene a dire a me come se mi stesse dicendo che poteva offrirle di
bere un bicchiere di vino?
Ma lei è il diavolo, il diavolo in persona caro il mio farmacista.
Ma lei come si permette di dirmi queste cose?
Vade retro satana. Signore, Signore aiutami tu che quest’uomo sic-
come non è riuscito ad ammazzare un bambino vuol uccidere un
povero prete. Io non so, non capisco.
Ma a me devono sempre capitare, ora che sono vecchio, delle
cose che non mi sono mai capitate in tutta la vita. Oh Signur
libera nos ad malo. Ma cosa dico che non so neanche più pre-
gare”.
E si appoggiò alla spalliera della poltrona come se fosse svenuto.
S olo dopo due ore il farmacista era uscito dalla casa del Don Ar-
locchi.
Il prete dopo l’ammissione del Temperini di essere il padre di uno
dei figli del Giacomino lo aveva subissato di domande fino a fargli
ammettere di essere stato con una infinità di donne, tante da non
ricordarne neppure i nomi.
Quando il sacerdote aveva insinuato il dubbio che potesse essere
padre di chissà quanti altri figli il Temperini era stato preso da un
grande panico ed aveva cominciato a sudare freddo ed a balbettare
quasi stesse per avere un attacco di cuore.
Don Arlocchi aveva usato una valanga di parole molto forti se non
dei veri e propri insulti tanto da lasciare non solo il farmacista ma
anche sé stesso impressionato. Lui che era sempre molto discreto e
non era capace neppure di alzare la voce.
Poi il prete aveva veramente preso in mano la situazione.
Dopo aver convinto il Temperini a farsi un profondo esame di co-
scienza e di tornare quindi a confessare i propri peccati, aveva anche
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deciso che nel pomeriggio si sarebbero recati insieme alla sede della
Direzione della Banca di Vallecamonica a conferire con il Direttore
Generale ragionier Bonettini per chiedere a lui consigli e pareri su
come creare un fondo, o qualcosa del genere, che potesse servire al
mantenimento del figlio del farmacista.
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complessivamente il menage.
Le resistenze del farmacista furono indebolite dall’intervento di don
Arlocchi che con veemenza sostenne che si meravigliava molto che
davanti ad una situazione di immoralità così manifesta si cercasse di
lesinare dal punto di vista finanziario.
Alla fine il Temperini preso tra due fuochi dovette arrendersi.
Non di minore importanza e di pari gravità decidere come far giun-
gere l’aiuto monetario alla famiglia di Giacomino.
Nominare un tutore era assolutamente impossibile data l’assoluta
necessità di mantenere il segreto posta come “conditio sine qua non”
dal farmacista.
Lasciare che il Temperini provvedesse tutti i mesi a versare la cifra
che si sarebbe stabilita era da considerarsi insicura.
Se il farmacista avesse cessato di vivere, magari improvvisamente
per un incidente o per un malore, non sarebbe ovviamente più
stato in grado di continuare i versamenti e nessuno lo avrebbe
potuto fare per lui.
A causa di qualche imprevisto avrebbe anche potuto cambiare idea
facendo ripiombare la vita del figlio in una triste miseria.
Senza nessuna dichiarazione scritta, di nessun impegno messo su
carta gli aiuti sarebbero cessati immediatamente.
E poi bisognava decidere sino a quale età si sarebbe dovuto ricono-
scere il contributo al Giacomino?
Ovvio che il figlio di contadini intorno ai dodici anni, a quei tempi,
andava a lavorare e qualche volta anche prima, subito dopo la terza
elementare.
Ma il figlio di un farmacista abitualmente dopo le scuole medie su-
periori continuava gli studi all’università.
Che destino programmare per Giacomino? Quali diritti ricono-
scergli?
A furia di discutere era giunta l’ora dei Vespri e la riunione venne
sospesa per consentite al don Arlocchi di andare a recitarli.
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Al mattino successivo il prete non si sarebbe recato in Banca: quello
che aveva da dire l’avevo detto e con estrema chiarezza.
Ora il Temperini doveva solo ascoltare il Bonettini e raggiungere con
lui un accordo sensato.
“L’aspetto per la confessione, caro dottore. E non si faccia troppo
aspettare che non si sa mai!”.
Il farmacista dopo essersi toccato per scaramanzia (era la seconda
volta in quel pomeriggio che si accennava ad una sua possibile mor-
te) salutò il prete, lo ringraziò e rivolse quindi la sua attenzione al
Direttore per fissare l’ora del prossimo incontro.
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non so. Scusate, scusate.
Bisogna informarsi, informarsi. Chiamare il padre del bambino. Ma
no, ma no bisogna chiamare quello che dovrebbe essere il padre del
bambino ma che invece è il farmacista. Il padre.
Ma non ci si può mica mandare il farmacista che non può mica an-
dare a dire che è suo figlio.
Come siamo stati d’accordo.
Ma forse la mamma lo sa. Perché che sia la mamma è sicuro. Tanto
il Giacomino, ma il Giacomino quello che avrebbe dovuto essere il
padre non il figlio, mica neanche lo può sapere che quando è nato
era in Russia.
Non il figlio era in Russia, non volevo dire questo, lui è nato a Breno.
Insomma bisogna verificare”.
“Un problema di più, questo”. Disse calmo ma pensieroso il
ragionier Bonettini. “Chi farà la denuncia, se denuncia bisogna
fare, come spiegherà allo Stato Civile un ritardo di quasi due
anni?”.
Poi dopo qualche minuto di silenzio guardando verso il soffitto
come se stesse meditando una strategia da mettere in campo: “Ma
una soluzione la troveremo. Vedrete la troveremo.
Don Arlocchi la signora Falocchi la cerca Lei o devo provvedere io?”.
“Lo faccia Lei, per favore, che io non ci ho i mezzi. E poi lei sa trat-
tare tutto e tutti nel migliore dei modi mentre io con i peccatori uso
misericordia, sa?
Uso misericordia ma sono duro con quelli che non hanno rispetto
per la volontà di Dio in maniera così grave come non far battezzare
un innocente. Due anni che è nato e ancora non l’hanno battezzato.
Che se fosse morto...
Non lo voglio neanche pensare. Un innocente!”.
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I l Bettino Pedersoli di professione faceva il “bontempù”. Sfruttava la
pensione del padre, invalido di guerra, e la rendita fornita dall’af-
fitto di due piccoli appartamenti di proprietà della mamma. Viveva
con i genitori e passava tutte le giornate al bar Monte Grappa.
L’unica preoccupazione che aveva settimanalmente era come trascor-
rere il lunedì, giornata di chiusura dell’esercizio.
Lo chiamavano “Orecchione” perché possedeva una strana qualità.
Riusciva a captare le voci che lo interessavano anche a distanze incre-
dibili. Persino i sussurri non gli sfuggivano.
Poteva concentrarsi e catturare un discorso fatto da due persone an-
che se molte altre parlassero a voce alta nello stesso locale.
Insomma riusciva, non si sapeva per quale dote nascosta, a seleziona-
re i colloqui che gli interessavano riuscendo ad ignorare tutti gli altri.
E lui, che viveva di pettegolezzi, aveva affinato anche un’altra capaci-
tà: quella di leggere le labbra al punto che qualsiasi discorso si facesse
intorno a lui ne veniva a conoscenza.
La sera nella quale il Russì si era incontrato al bar con il Bortolo
ed il Giacomino, cosa che aveva incuriosito tutti non essendosi
mai verificata la presenza dei due muratori che non usavano
frequentare il locale, non riuscì proprio a capire tutto quello
che si dicevano.
Infatti quel cazzone del Perteghetta urlava più del solito parlando
dell’Ambrosiana che da 15 anni era diventata Inter ma che lui con-
tinuava a chiamare con il vecchio glorioso nome.
Era tutto eccitato perché dopo l’ultima vittoria la squadra era ar-
rivata in testa alla classifica provvisoria del campionato di serie A.
Il Bortolo e il Giacomino poi gli voltavano le spalle e non poteva
quindi “leggere” il movimento delle loro labbra.
Comunque “tesoro”, “trovato”, “lingotti”, “oro”, “Bazena” e “Tappabu-
chi” li aveva compresi chiaramente e questo bastava per ragionarci sopra.
Quella sera dopo cena invece di tornare al bar, si era fermato a casa
e lasciati i genitori, increduli che il figlio non uscisse (“Starà mica
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male?” aveva domandato la madre preoccupata al marito), ad ascol-
tare la radio in cucina si era accomodato sul divano del salottino a
meditare.
Il fatto doveva essere sicuramente importante se il Russì aveva nomi-
nato l’ex Pretore. Forse voleva rivolgersi a lui per chiedere un parere
od un aiuto.
Ben presto raggiunse la certezza che i due muratori avessero tro-
vato un tesoro in lingotti d’oro in Bazena e non sapessero come
comportarsi.
Dopo una notte insonne passata a rimuginare sui possibili signi-
ficati delle parole che aveva captato l’indomani mattina, con la
scusa di sapere se fosse arrivata una carta dal Distretto di Brescia
relativa al suo congedo definitivo, sarebbe andato alla Caserma
dei Carabinieri ed avrebbe cercato di sapere qualcosa dal mare-
sciallo Costamagna.
Se questi nulla sapeva lo avrebbe informato lui sperando di fargli un
favore.
Aveva bisogno di conquistare la sua riconoscenza perché aveva an-
cora in ballo quella denuncia relativa a quando era stato trovato,
l’unica volta che era andato a caccia in vita sua, privo di licenza col
vecchio fucile di suo padre.
Aveva impallinato, e non si riusciva a capire come avesse fatto perché
in quanto a mira proprio non ci stava, un paio di tordi che gli erano
costati 400 lire di multa.
Veramente le 400 lire erano costate ai suoi genitori non possedendo
lui neppure un centesimo.
Il pagamento aveva chiuso la pratica amministrativa ma rimane-
va in atto una denuncia penale che il Pedersoli sperava venisse
archiviata.
Il maresciallo poteva essere decisivo su una eventuale archiviazio-
ne del procedimento a suo carico se avesse potuto rilasciare su di
lui buone informazioni al giudice competente.
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A lle 8 era già davanti alla Caserma dei Carabinieri. Si era alzato
alle sette, ora per lui assolutamente insolita, lasciando la madre
sempre più preoccupata.
“Ma che saral ucidit al Maurizio che l’è isè strano? 21 Non mi pare che
sia malato. Al me somea chel’ gaes en na bela cera.22 Ma io sono spa-
ventata lo stesso”. Aveva detto al marito.
“El sarà namurat”23 gli aveva risposto l’uomo.
“Ma innamorato come? Innamorato di una ragazza?” aveva ripreso
la donna.
“No, sarà innamorato del sindaco o del curato! Di chi vuoi che sia
innamorato? Stupida! Non è mica come il Rusconi, lui”.
Per la fretta Bettino non si era neppure fermato al bar per un caffè
ed era a digiuno.
Ma dopo la notte insonne l’unico suo desiderio era accertarsi se i
suoi ragionamenti ed i suoi sospetti fossero giusti e l’unica conferma
poteva averla solo dal Costamagna.
Suonò decisamente alla porta ed al piantone che gli aprì chiese di
parlare col Comandante.
“Arriverà tardi in ufficio. Ha passato la notte fuori per degli accerta-
menti. Non credo verrà prima del pomeriggio. Se vuole parlare con
lui torni verso le tre”. e detto così chiuse la porta lasciando il giovane
del tutto deluso.
Andò al caffè e vi trovò, seduto ad un tavolo intento a dare una scor-
sa al giornale, il Russì.
“Segno del destino” disse fra sé e poi a voce alta: “Russì lo bevi un
caffè con me?” sperando che l’uomo accettasse e gli desse l’occasione
di sedersi al suo tavolo.
“Non è più ora di caffè, questa. Il caffè lo bevo alle 6 quando mi alzo.
Ma se vuoi offrirmi qualche cosa, un bianchino lo bevo volentieri.
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Vieni, siediti che ti accontento. Se mi offri qualcosa è perché hai
bisogno di me che io non ti ho mai visto offrire qualcosa a qualcuno
gratis. Mi sbaglio o no?”.
disse il montanaro che ne sapeva una più del diavolo.
Bettino a queste parole si sentì disarmato. Aveva perso il vantaggio
ed ora, non potendo affrontare il discorso che gli interessava, doveva
trovare un altro argomento.
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che doveva essere di pessimo umore dopo la notte passata in bianco.
Lo guardò con fare severo ed interrogativo come a comunicargli
“Stai rompendo le cosiddette, sbrigati a parlare che non ho tempo
da perdere”.
Bettino rimase un poco imbarazzato. Non si aspettava una tale ac-
coglienza perché sempre il maresciallo si era intrattenuto con lui
scherzosamente.
“Volevo sapere, se è possibile naturalmente, se ci sono novità su
quella storia della licenza di caccia. Sa io vorrei precisare...”.
“Pedersoli, lei non è un cretino e quindi avrà perfettamente capito
che la cosa è in mano al Giudice ed è lui che deve prendere delle
decisioni nei suoi riguardi. Comunque, no, non ci sono novità. E
se questo è tutto, arrivederci Pedersoli e buona giornata!”.
“Buona giornata anche a lei, signor comandante” disse Bettino al-
zandosi. Gli era andata male.
Poi pensò, o sfrutto ora il momento o non mi capiterà più.
Arrivato alla porta si voltò verso il sottufficiale che aveva cominciato
a scrivere qualcosa su un foglio e sussurrò: “Un’ultima cosa, se mi
permette di chiederlo. Ma le indagini sul tesoro ritrovato sono già
iniziate?”.
Il maresciallo smise immediatamente di scrivere e rimase con la
mano sospesa.
Ricordò immediatamente la strana domanda che gli aveva rivolto
don Arlocchi il giorno prima.
Com’era possibile che un prete ed un pettegolo facessero domande
sullo stesso argomento?
Ci doveva essere sotto veramente qualcosa di losco o almeno di stra-
no. La curiosità del buon investigatore ebbe il sopravvento sul suo
stato d’animo e sull’antipatia che aveva per il Pedersoli.
“Si rimetta a sedere” disse il sottufficiale con tono più conciliante
“e mi racconti tutto quello che sa sull’argomento. E non si inventi
niente. Solo quello che sa, mi raccomando!”.
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Bettino sorrise e si sedette con estremo piacere. Le cose si erano ri-
voltate. Ora era lui che teneva in pugno il Costamagna.
Gli avrebbe centellinato le notizie in suo possesso per renderlo più
curioso ed assumere ai suoi occhi maggior importanza.
“Si dice in paese” cominciò “che due brenesi nel fare dei lavori si
siano imbattuti in un tesoro. Una cassetta piena d’oro, insomma.
Una bella fortuna!
Ma sembra che non sappiano cosa farne perché hanno paura di pas-
sare per ladri tenendosi il tesoro”.
“Ma questo chi ve l’ha raccontato Pedersoli?”
“Eh no, signor maresciallo, questo non può mica chiedermelo. Se
l’avessero rubato allora sarei in obbligo, ma da come si sono svolti i
fatti diventerei solo un pettegolo. E lei sa quanto ci tengo alla mia
reputazione!”.
“Pedersoli, ma mi vuole prendere per il culo, per dirla chiaramente?
La sua reputazione? Ma se tutti in paese la conoscono come il più
grande pettegolo.
Con i pettegolezzi ci mangia, ci beve e ci passa la vita. Non riesco a
capire come mai in paese nessuno l’abbia mai denunciato”.
“Perché quello che dico non sono dicerie. È sempre la pura sacro-
santa verità. E quando la verità fa male nessuno la vuole diffondere.
Quindi stanno buoni e non mi denunciano che perderebbero la cau-
sa e tutti in paese saprebbero i fatti loro”.
“Questo bastardo ha anche ragione” pensò il Costamagna che era
sempre più intrigato dall’argomento.
“Io non faccio patti con uno come lei” disse. “Comunque sappia
che se lei mi fornisce qualche informazione interessante io potrei
intervenire con il giudice che ha grande stima per me e mi potrebbe
ascoltare.
E adesso fuori dalle palle che devo scrivere una relazione per i miei
superiori”.
“Va bene, va bene” gli rispose il Bettino. “Patti chiari ed amicizia
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lunga. Buon giorno signor Maresciallo. Appena ho novità per lei mi
faccio vivo”.
E se ne andò.
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I l Sonnino saputa la notizia del ritrovamento del tesoro aveva su-
bito pensato che potesse trattarsi dei lingotti che gli erano stati
rubati.
Dopo il ritorno a Breno il lavoro non andava più molto bene e le
spese per le cure della moglie stavano prosciugando i risparmi.
Avigail poi, che non riusciva a dimenticare il momento in cui entrati
in casa si erano trovati davanti tutti gli atti di vandalismo, non vole-
va più ritornare nella vecchia abitazione e quindi i due continuavano
a risiedere all’Albergo Fumo.
Isacco era riuscito a patteggiare un prezzo abbastanza basso per la
pensione completa ma la spesa era comunque rilevante.
Se il ritrovamento fosse effettivamente quello dei lingotti d’oro sot-
tratti a lui e se fosse riuscito a rientrarne in possesso sarebbe stato
veramente provvidenziale.
Ci pensò lungamente ed infine decise di andare a trovare il Mare-
sciallo dei Carabinieri.
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Aveva studiato tutto quello che era stato scritto dal medico tedesco
Samuel Hahnemann, il grande studioso che il secolo prima aveva
pubblicato i suoi studi sull’omeopatia e conosceva, praticamente a
memoria, la principale opera scritta dallo studioso “Orgazon der
heiikunst” da poco tradotta in italiano.
Non prestò quindi nessuna attenzione alle notizie portategli da Fe-
dele lasciando cadere il discorso.
Ma il cameriere, che ancora ogni tanto aveva incubi legati alla dram-
maticità della serata passata, decise che avrebbe agito da solo e che si
sarebbe recato dal Comandante della Stazione Carabinieri per rac-
contargli tutto.
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N eanche si fossero dati appuntamento!
Tra le 8 e le 8,30 di un giovedì piovoso e triste arrivarono in
caserma il Sonnino, Fedele e lo Sciaccaluga.
Non si conoscevano tra loro e quindi si salutarono in modo formale
ma senza nessun sospetto.
Il Maresciallo era nel suo ufficio e si capiva attraverso la porta semi-
aperta che stesse parlando al telefono con un suo superiore perché
si udiva molto chiaramente il Costamagna che con fare premuroso
diceva “Agli ordini”, “Sicuramente, signor Capitano”, “Sarà fatto” o
più semplicemente “Comandi”.
Dopo una buona mezz’ora il Maresciallo chiuse la telefonata con un
“Come preferisce lei, signor capitano” ed un “Sarà fatto”.
Cinque minuti di rilassante silenzio nel quale presumibilmente il
Maresciallo stava riordinando le idee e gli ordini ricevuti e poi “Ap-
puntato, fate entrare!”.
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lo bevve quasi completamente e con avidità.
Il Costamagna che non era riuscito a capire il contenuto del discorso
del pover’uomo non volle porgli subito delle domande lasciandogli
il tempo di riprendersi.
“Vede signor Maresciallo” iniziò alla fine il Sonnino con voce spenta
ma sicura e senza mai interrompersi “quando al mio ritorno a Breno
venni a disturbarla per fare la denuncia sui danneggiamenti che avevo
subito non fui del tutto sincero. Omisi di dirle che sotto le assi del
pavimento della camera da letto avevo nascosto quattro lingotti d’oro
che, se io e mia moglie avessimo potuto sopravvivere a tutto quello che
stava succedendo, ci sarebbero serviti a riprendere una vita decente.
Quando rientrammo a Breno ovviamente i lingotti erano spariti.
Da quello che ho sentito in giro mi par di capire che sia stato ritro-
vato un tesoro ed ho pensato che potrebbe trattarsi dei lingotti che
mi sono stati rubati.
La mia è solo una speranza, l’ultima speranza che ho...”.
Abbassò per l’imbarazzo e forse per il timore di essere smentito il
viso guardandosi le mani che teneva in grembo e che muoveva con-
vulsamente.
Due lacrime gli rigarono le guance perdendosi oltre il mento.
A quel punto nell’ufficio vi erano due persone imbarazzate perché
anche il Costamagna non sapeva più cosa fare o cosa dire.
Non poteva mentire dicendo di essere all’oscuro che un tesoro fosse
stato ritrovato ma gli seccava dover ammettere di non conoscere in
cosa in effetti consistesse.
Cercò di prendere tempo.
“Vede signor Sonnino, in effetti si sta svolgendo una indagine su
questo ritrovamento ma esiste ancora il segreto d’ufficio e io non
posso darle una risposta senza violare questo segreto.
Facciamo una cosa. Lei ora mi fa una bella denuncia a completa-
mento di quella già fatta nella quale specifica che oltre ai danni su-
biti e denunciati a suo tempo ha accertato anche l’asportazione di
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quattro lingotti d’oro.
Specifichi tutto quello che è possibile sui suddetti lingotti: peso, mi-
sure, eventuali contrassegni, che so. Tutto quello che ricorda insom-
ma. Non si preoccupi io la terrò informata di qualsiasi svolgimento
delle indagini.
La affido all’appuntato Nicoletti. Nicoletti, Nicoletti” chiamò “vieni
subito! È un bravo ragazzo ed è a sua completa disposizione”.
Poi al Nicoletti che era nel frattempo entrato in ufficio: “Ti affido il
signor Sonnino che deve fare una denuncia. Mi raccomando di stare
a sua disposizione sino a quando ha bisogno. A lei, signor Sonnino”
disse alzandosi in piedi “i più vivi auguri che vorrà porgere anche
alla sua signora”.
D opo cinque minuti aveva davanti, seduto nella stessa sedia già oc-
cupata dal Sonnino, il Fedele che non conosceva personalmente
ma che sapeva essere il cameriere e il compagno del conte Rusconi.
Si esprimeva veramente bene per una persona che aveva fatto sì e no
la terza elementare.
Usava una proprietà di linguaggio che aveva sicuramente appreso dal
Rusconi e che meravigliò il Costamagna.
Fedele non perse tempo a dilungarsi sui fatti. Chiarì con poche frasi
quanto fosse avvenuto in quella lontana sera del febbraio del 1944.
Si capiva che era ancora scioccato per l’esperienza vissuta e grato al
Rusconi per averlo salvato pagando anche la sua libertà.
Il racconto era così coinvolgente che il Maresciallo solo alla fine si
rese conto che altri quattro lingotti entravano in gioco.
Ma era tutta una presa in giro o davvero si trovava davanti ad una
situazione avvincente ma, forse, più grande di lui?
Anche in questa occasione si tenne sul vago. Disse a Fedele che non
poteva accettare una denuncia se non fatta dal derubato.
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Che lui ne parlasse con il Rusconi e se questi si fosse rifiutato di ve-
nire in caserma gli avrebbe inviato qualcuno a raccogliere la denun-
cia. E magari, curioso com’era, ci sarebbe andato lui personalmente
creandosi l’occasione di conoscere meglio quell’uomo così strano e
l’ambiente nel quale viveva.
Chiarì a Fedele che una persona che ha subito un reato ha l’obbligo
morale e penale di denunciarlo.
Ma questo, pensò, un uomo della cultura del Rusconi lo sapeva be-
nissimo.
Congedò quindi il cameriere ricordandogli ancora una volta che ri-
maneva in attesa di notizie da parte del suo padrone.
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E rano le 8,57 quando guardò l’orologio. Era sicuro di essere
arrivato in caserma alle 8,20. In poco più di mezz’ora ben tre
persone erano entrate nel suo ufficio e ciascuna di loro gli aveva
raccontato una storia diversa, ma ognuna aveva come argomento la
sparizione di quattro lingotti d’oro.
Si alzò precipitosamente ed andò ad aprire la porta che dava sulla
sala d’attesa per sincerarsi che non vi fossero altri che volessero par-
lare con lui.
Per quella mattina poteva bastare.
Non riusciva a riordinare le idee. Scartando l’ipotesi che avessero or-
ganizzato una burla per renderlo ridicolo rischiando la sua reazione,
doveva ritenere che i tre fossero in buona fede.
Lo Sciaccaluga poi aveva fatto un nome Giacomino Domenighini.
E il Domenighini era vivo ed abitava ancora a Breno. Lo si poteva
interrogare, quindi.
Ma cosa chiedergli. Se davvero avesse rubato quattro lingotti d’oro?
E poi rubati a chi?
A Mussolini?
Al Partito fascista?
Alla Patria?
Al Nicola Albizzati che a sua volta, come sosteneva lo Sciaccaluga,
era un ladro?
Erano passati tanti anni e il reato caduto in prescrizione.
Era finita una guerra.
Era caduto il Fascismo.
Chi avrebbe avuto voglia di andare a rivangare il passato?
Ma se questi lingotti fossero stati effettivamente sottratti o al Son-
nino o al conte Rusconi questi avrebbero avuto il diritto di riaverli.
“Ma tutti i lingotti sono uguali tra loro?” si domandò. “Oppure i
due derubati avrebbero potuto descriverli in modo da poterli iden-
tificare. Lo Sciaccaluga, quelli che aveva confezionato lui, li avrebbe
potuti certamente riconoscere.
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Ma soprattutto il “tesoro” che era stato ritrovato consisteva effettiva-
mente in quattro lingotti d’oro?
“Speriamo si tratti di altri oggetti” concluse.
“Allora la storia si sarebbe sgonfiata da sola”.
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cucina in una bacinella di metallo.
Insomma un posto come aveva visto nelle case dei signori.
Giacomino aveva anche lui problemi di abitazione. Non avrebbe
potuto continuare a vivere in quel fondaco umido e freddo.
Non c’era acqua corrente e quindi tutte le sere doveva andare a pren-
derla alla fontana.
Ma soprattutto non aveva una latrina e quindi i suoi escrementi li fa-
ceva in un “vaso da notte” che tutte le mattine doveva vuotare in una
profonda buca che aveva fatto in un orto abbandonato di fronte a casa.
E poi... Sì e poi doveva confessarlo. Dopo gli incontri che aveva
avuto ultimamente con sua moglie, sistemata la questione col farma-
cista, gli era venuta una gran voglia di tornarci insieme.
In fin dei conti lei aveva peccato una volta sola e con le sofferenze
che aveva patito e che stava patendo si meritava il perdono.
Anche don Arlocchi, che si era dato molto da fare per costringere il
farmacista ad assumersi le sue responsabilità e ad accettare di versare
una grossa cifra per i bambini, sarebbe stato molto contento se gli
avesse comunicato che intendeva ritornare con sua moglie.
Avrebbe dovuto passare anche a ringraziare il ragionier Bonettini
(“Che se non ci fosse stato lui a risolvere la faccenda”) ma non riusci-
va mai a trovare il tempo ora che erano partiti i lavori di costruzione
del rifugio in Bazena ed al Tassara erano venute le fregole di vederlo
realizzato al più presto, pretendendo che si lavorasse anche la dome-
nica pagando un premio.
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Il farmacista poteva scegliere se conservare le proprietà ripagando
la Banca oppure lasciare che il debito si accumulasse sino al valore
dell’ipoteca.
Il direttore della Banca di Valle Camonica, considerando anche
gli interessi che sarebbero maturati sulle cifre del debito, e una
rivalutazione delle somme mensili da elargire, aveva ritenuto che
tutto potesse proseguire liscio per almeno 15 anni.
Di più non poteva fare ma era comunque una cosa che mai avreb-
be pensato di riuscire a realizzare.
“Si vede” aveva pensato “che il Beato Giuseppe Tovini dall’alto
ispira ancora chi segue, indegnamente, la strada da lui tracciata
per la protezione dei poveri e dei derelitti. Penso sia giusto inse-
rire, tra i costi di istruzione della pratica, anche l’offerta da con-
segnare alla Parrocchia per tre Messe solenni da dedicare al mio
Beato predecessore”.
Il farmacista, ricco com’era ed abituato a condurre un menage da
gran signore, non si era reso conto che con la cifra concordata ci
potevano vivere tutti e quattro i bambini e la loro mamma che
avrebbe potuto quindi far a meno di andare a lavorare.
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Convenevoli veloci e quindi il Sottufficiale cominciò a portare il
discorso sui lingotti d’oro.
Voleva sapere come venivano confezionati; se avessero tutti lo stesso
peso; se fosse possibile riconoscere chi ne era stato il produttore; se
si potesse risalire, che so a seconda dell’ossidazione presente su un
pezzo o dalle condizioni generali, alla data della preparazione.
“Insomma” concluse il Costamagna “Io i lingotti non so come si
fabbrichino e non ne ho neppure mai visto uno. Per favore lei mi
dica tutto quello che sa”.
“Parlare di ’ste cose mi fa ringiovanire di 15 anni, signor Mare-
sciallo. Ritorno a quando lavoravo a Genova dal Bacigalupo. Un
orefice che lo conoscevano in tutto il mondo. Dopo Cartier era
lui il numero uno. Disegnava dei pezzi il Filippo Bacigalupo che
neanche Michelangelo.
E noi a realizzarli. Si lavoravano almeno due lingotti da mezzo chilo
al giorno. E forse di più.
Ma i lingotti erano un po’ tutti differenti tra loro. Se erano della
Zecca di Stato ce l’avevano stampato sopra.
Ma li fabbricavano in tanti i lingotti. Quelli che recuperavano i pezzi
d’oro di gioielli rottamati o quelli usati per protesi per i denti.
Anche l’oro che arrivava dai furti. I ricettatori in un modo o nell’al-
tro li riciclavano presso piccoli fonditori e poi, rifatta la verginità, li
mettevano in circolo.
Ma il Bacigalupo solo dalla Zecca li comprava. - Mica voglio avere
grane, io - diceva sempre.
Riconoscere quelli che era messi in vendita dagli altri fonditori era
difficile capire.
Usavano tutti degli stampi in terracotta che si rompevano dopo la
colata. Gli stampi erano fatti a mano ed erano tutti differenti l’uno
dall’altro.
Lei chiede se si può giudicare la loro età dall’ossidazione o da
quant’altro.
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Ma l’oro è l’unico metallo che non si ossida e graffiare la superficie
di un lingotto è mica facile.
È un metallo duro l’oro e farci delle rigature bisogna farle apposta.
Io i miei lingotti li posso riconoscere. Ci ho fatto una piccolissima
croce in uno degli angoli. Voleva essere quasi una firma. Ma ad oc-
chio nudo, come si dice, non si vede proprio” concluse.
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rendosi a quanto sopra un po’ perché non appariva molto sveglio e
faceva veramente fatica a seguire gli studi.
Un giorno era apparsa sulla parte esterna del muro dell’Accademia
una scritta lasciata da qualche collega che diceva: “Daniele Pestazzo
- poco cervello molto cazzo”.
Era stata subito fatta cancellare dal Generale comandante che non
aveva ritenuto opportuno svolgere un’inchiesta per rintracciare il
colpevole e la cosa era stata ben presto dimenticata.
Era diventato Tenente anche perché in quegli anni, dopo le numero-
se epurazioni e l’alto numero di ufficiali caduti in guerra, l’Arma dei
Carabinieri doveva ricostituirsi e rinforzare i suoi ranghi.
Arrivato a Lovere aveva sotto controllo quattro Stazioni dove, per
sua fortuna, comandavano Marescialli veramente preparati e sempre
disponibili.
A dire il vero stava un po’ sulle palle a tutti e tre i sottufficiali dei
paesi vicini che per tenerlo lontano, erano spinti a svolgere con par-
ticolare attenzione i loro compiti così da evitare l’intervento del su-
periore lasciando che se lo godesse tutto il loro collega di Lovere.
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ma sorpresa e sgomento del Maresciallo aveva deciso di volerle dirigere.
Dal mattino del giorno seguente si era installato praticamente a Breno.
Arrivava alla mattina alle 8 e ripartiva solo all’imbrunire.
“È perché continua a piovere e non può andare a pesca” aveva pen-
sato il Comandante la Stazione Carabinieri.
Ma invece quando arrivò il buon tempo con un sole caldo per la
stagione il Pestazzo continuò ad arrivare alle 8 della mattina ed a
ripartire a sera fatta.
Aveva sconvolto la vita del Maresciallo e di tutta la Stazione Ca-
rabinieri. Arrivava sempre con una nuova pensata e comandava di
svolgere accertamenti per verificare se avesse fondamento.
Aveva interrogato 8 volte il povero don Arlocchi sino a quando il
prete tra le lacrime quasi ammise di avere lui il tesoro purché cessas-
sero le pressioni psicologiche.
Il Pedersoli poi viveva praticamente in caserma. Non si faceva nep-
pure più chiamare.
Alle nove, nove e mezza si presentava ed aspettava che il Tenente gli
rivolgesse qualche domanda. Prima o poi lo faceva sempre.
Lui però non voleva cedere, non voleva dare quelle notizie che co-
nosceva e che avrebbero condotto facilmente alla fine della storia.
Non sentendosi sufficientemente occupato dalla conduzione delle
indagini il Tenente aveva cominciato a convivere con il suo dipen-
dente affiancandolo in tutto e creando al Maresciallo un sacco di
problemi e di imbarazzi.
Per fortuna a furia di andare in motocicletta su e giù per la valle nelle
prime fredde giornate di autunno sotto la pioggia il Tenente Pestazzo
si prese una gran brutta bronchite che lo tenne a letto febbricitante
per una quindicina di giorni.
Al Costamagna sembrò di rivivere ed approfittando dell’assenza del
superiore decise di giocare il tutto per tutto e di convocare in caser-
ma Bortolo e Giacomino.
Non doveva perdere tempo. Chiamò l’appuntato Nicoletti e gli or-
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dinò di andare di domenica a casa dei due e convocarli per lunedì
pomeriggio. Che non trovassero scuse che lui li voleva assolutamente
interrogare.
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riappacificare con la vita.
Vieni, vieni che ti offro un bicchiere di quello buono, non il vinaccio
che ti scoli al bar fatto di seconde spremiture.
Ma forse ormai non hai più il gusto per le cose buone ed il mio vino
è sprecato per una boccaccia devastata come la tua”.
Lo fece accomodare in cucina, gli versò il vino, e mentre il Russì
lo beveva e gli raccontava i suoi problemi, cominciò a mangiarsi la
mascherpa con un grosso cucchiaio da minestra.
Finirono insieme. Il Russì di bere e raccontare ed il Santagata di
mangiare pulendo per bene anche le foglie di fico sulle quali erano
rimaste tracce del formaggio.
Il Santagata fu lapidario: “Russi, se ti chiamano i Carabinieri tu non
hai l’obbligo di dire nulla.
Hai avuto una confidenza e quella deve rimanere tale.
Se ti avessero messo al corrente di un delitto grande o piccolo avresti
sì il dovere di informare la Legge. Ma così non è. Nessun delitto e
quindi nessuna informazione da fornire”.
“Non avendoti prestato nessuna consulenza” proseguì dopo un atti-
mo di silenzio “non mi sento in credito di nulla.
Dimmi quindi quanto ti devo per quella delizia che hai avuto l’intel-
ligenza di portarmi e non fare troppo il signore.
È mio obbligo pagare il nettare che mi rifornisci ed essertene anche
grato.
E poi vattene che non si sa mai che alla prima palpatina non possa
seguire qualcosa di altrettanto piacevole”.
Richiuso il portafoglio dal quale aveva preso un biglietto di banca
che aveva consegnato al Russì, lo accompagnò alla porta spingendo-
lo fuori.
100
L ’Amerigo era tutto contento.
La giornata era iniziata alla grande da non ricordarne un’altra
così.
Alle 9, subito dopo l’apertura, era arrivata una vecchia signora che
aveva acquistato un paio di orecchini d’oro (“Non pesanti” aveva
raccomandato) da regalare alla nipotina che la domenica successiva
avrebbe “fatto” la Cresima.
Non una cosa importante, ma sempre oro era e per lui un bel gua-
dagno.
Ora stava trattando con un signore la vendita di un orologio di quel-
li moderni non a carica manuale ma con inserita la pila.
Durante la trattativa era entrato un terzo cliente che dopo aver ac-
cennato un saluto gli aveva dato le spalle e si era messo a guardare la
vetrina dall’interno.
Se anche quello avesse acquistato qualcosa la giornata per il Lanterna
sarebbe passata alla storia. Tre vendite in una sola mattinata!
L’orefice era impaziente ma il compratore voleva che lui gli regalasse
un contenitore per l’orologio, uno di quelli di cartonaccio verniciato
e con all’interno il finto raso che non rappresentava un gran costo
ma che lui concedeva gratis solo a chi acquistava un gioiello.
Alla fine raggiunsero un accordo e l’acquirente uscì soddisfatto.
“Buon giorno, signore” ripetè l’Americo.
Ma quando l’uomo si girò per poco non cadde svenuto.
Aveva riconosciuto immediatamente, anche se il viso era notevol-
mente invecchiato ed una corta barba ricopriva guance e mento,
l’Albizzati detto il Binda.
O era lui o il suo fantasma.
“Ma i fantasmi non esistono”. Aveva pensato immediatamente e
quindi era di sicuro l’Albizzati, quello che era sparito 10 anni prima
ed era stato dato da tutti per morto.
Invece era lì in carne ed ossa con quel ghigno caratteristico e quegli
occhi da esaltato.
101
“Come va?” chiese il Binda con un tono mellifluo. “State bene tu e
i miei lingotti?”.
Lo Sciaccaluga non riusciva a parlare. Aveva le mascelle bloccate ed
anche la lingua non sembrava avesse voglia di muoversi.
Rimase a guardarlo mentre un groppo gli stringeva la gola impeden-
dogli di mettersi a piangere.
Dopo tanti anni aveva smesso di pensare a quel fascistone che gli
aveva lasciato quattro lingotti d’oro intimandogli di custodirli in at-
tesa del suo ritorno.
Molte cose nel frattempo erano cambiate. Pian pianino il negozio
del Lanterna si era fatto conoscere in valle ed ora vantava una sod-
disfacente clientela che permetteva al proprietario una vita se non
agiata almeno accettabile.
Ed ora gli sembrava che tutto gli crollasse addosso.
Come si sarebbe concluso il ritorno dell’Albizzati che sicuramente
non avrebbe perdonato?
Un denso odore di escrementi riempì l’aria del negozio. Senza accor-
gersi lo Sciaccaluga se l’era fatta addosso.
102
Altre volte agivano da novelli Robin Hood organizzando delle spe-
dizioni per svuotare i depositi di alimentari dei signorotti della zona
distribuendo tutto ai poveri creandosi amicizie preziose e riconoscenti.
L’importante comunque era portare a casa quello che era necessario
per sopravvivere, che fosse farina, formaggi ed anche qualche piccolo
capo di bestiame.
Col tempo avevano accumulato una grossa quantità di oro e piccole
pietre preziose che tenevano in un vecchio abbeveratoio ben nascoste.
Il capo della banda era il vecchio Wagner, figlio di un appassionato,
come tanti emiliani, di opera lirica che gli aveva dato quel nome per
ricordare il grande musicista tedesco che tanto amava.
Conosceva a memoria tutte le parole del “Tristano e Isotta” e si
piccava di cantarle sostituendosi ai vari personaggi tra lo spasso
di tutti.
In effetti chi comandava era la figlia Vendetta. Wagner, come
suo padre, aveva lottato lungamente con il parroco di Coviglia-
io, paese dove risultavano residenti, per battezzare la figlia con
quel nome.
O il parroco accettava o niente battesimo.
Vendetta era un pezzo di donna con grossi muscoli e due tette che
sembravano se non angurie almeno meloni. Vestiva sempre un paio
di pantalonacci di fustagno ed una camicia da uomo. Nient’altro
sia di inverno che d’estate. Diceva che lei il caldo ed il freddo non
lo sentiva.
La donna non si risparmiava i lavori pesanti e se uno della banda non
ubbidiva al suo volere volavano certi schiaffoni da lasciare tramortiti.
Non aveva mai avuto il tempo, diceva lei, di trovar marito. In effetti
nessuno l’avrebbe voluta.
Quando aveva voglia di far l’amore prendeva uno degli uomini ai
suoi ordini e lo faceva. E il prescelto accettava sempre anche se non
ne aveva voglia.
Meglio una botta e via che scatenare l’ira della donna.
103
Q uando il Binda fu portato al covo per Vendetta fu un colpo
di fulmine. Lasciò che gli altri si interessassero del tesoro che
trovarono nello zaino mentre lei, dopo aver legato l’Albizzati ad un
albero, cominciò a lavorare di trincetto togliendogli i vestiti pezzo
per pezzo sino a farlo rimanere nudo.
A questo punto, dopo aver verificato che tutto fosse a posto, si recò
dal padre e gli disse: “Dell’oro non mi importa niente, tgnivol voja-
tor e mi a m’ tén al ragas24 e ci faccio quello che voglio. A podris anca
farogh un fiòl tant al me piaz”.25
Il Wagner capì che era inutile stare a discutere con la figlia fa-
cendole capire che mica si poteva costringere un uomo a farle
da schiavo e ad evitare che potesse fuggire e, magari, andare a
denunciarli.
Se Vendetta aveva deciso così, così doveva essere.
A suo tempo Wagner andò dal Binda e: “Adesso io ti dico una cosa.
S’a ne t’capiss miga ben dimmol ch’al digh un’altra volta.26
Tu sei uno sporco fascista e noi per programma gli sporchi fascisti di
solito li attacchiamo per il collo ad un albero e lasciamo che diven-
tino pasto per gli uccelli.
Ma tu sei fortunato. Mia figlia vuole che tu diventi il suo uomo.
Se accetti bene, se no torniamo al primo programma con qualche
variante.
Invece di attaccarti ad un albero per il collo, ch’a ‘csi a t’ mòr subitt,27
ti leghiamo ben bene al tronco di un castagno che tu non possa
muovere neanche un dito. Niente acqua e niente mangiare.
O morirai di stenti o ci penseranno a mangiarti gli animali del bo-
sco. Sceglieremo un albero lontano per non essere disturbati dalle
tue grida, che ci saranno, sai.
104
Qui tutti hanno fame. Gli uomini e gli animali. Ci sono in giro certi
lupi che vorranno sicuramente assaggiarti e se ti trovano buono le
voci nel bosco si spargono presto...”.
All’Albizzati, terrorizzato, fu messo un collare al collo chiuso con un
lucchetto. Lo lasciavano spesso legato ad un albero o, se pioveva, ad
una gamba del tavolo della cucina. Un mobile lungo e largo e che
pesava un paio di quintali.
Ogni tanto Vendetta o qualcuno della banda lo veniva a prendere
e gli faceva fare un giro nei boschi dove era costretto anche a fare i
propri bisogni.
Capì ben presto che il gruppo era molto efficiente e che Vendetta era
un vero capo ed era meglio ubbidirle.
Passarono così un paio di mesi.
Una mattina piovosa il Binda fu prelevato dal piccolo locale ove
passava la notte su un pagliericcio di foglie.
Un paio di banditi gli fecero indossare un vestito grigio ed una cami-
cia bianca che avevano rubato nella casa di un benestante di un paese
vicino e lo portarono in cucina.
In un angolo un pretino giovane, giovane se ne stava seduto su una
seggiola tutto tremante.
Si aprì una porta ed entrò il Wagner con al braccio Vendetta che
tutta vestita di bianco sembrava ancora più grande e grossa.
Al Binda rivolse un radioso sorriso che lo colpì.
I più vecchi della banda furono i testimoni ed il pretino celebrò il
matrimonio con la massima velocità possibile e poi sparì.
Tagliarono una crostata di frutti di bosco ed aprirono un paio di
bottiglie di quello buono. Ognuno ebbe la sua fetta di dolce ed il
suo bicchiere di vino.
Alla fine Vendetta chiese il silenzio e pronunciò: “Adésa andèmma
a far ch’aféri28” e prendendo il marito per un braccio lo trascinò in
camera da letto.
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Probabilmente al Binda la cosa non dispiacque perché i due sposi
si fecero rivedere solo a sera inoltrata quando si avventarono su due
piatti di spaghetti che potevano bastare a sfamare una famiglia: ge-
nitori e quattro figli.
106
Sembrava proprio che i risultati li ottenesse. C’erano centinaia di
persone che giuravano di aver accertato i suoi miracoli o le sue ma-
gie, a secondo dei punti di vista.
Anche il parroco del paese, dopo aver informato il suo superiore,
il Vescovo di Bologna, lasciava fare perché il Monti non si era mai
fatto vedere in chiesa ma tutti sapevano che dopo ogni “miracolo”
ottenuto si raccoglieva con la propria famiglia, e con chi altri volesse
partecipare, a recitare rosari completi.
Quando giunsero all’officina dell’Augusto, dopo quattro ore di mar-
cia veloce durante la quale avevano dovuto quasi trascinare il Binda
che non era assolutamente allenato, trovarono il Monti a petto nudo
a lavorare con un grosso martello un pezzo di ferro incandescente
mentre con la gamba destra continuava ad azionare il mantice per
mantenere le braci rosse.
Era un uomo enorme, con una massa di muscoli da far invidia a
Carnera ed un sorriso dolcissimo da bambino piccolo.
Senza smettere di lavorare si rivolse a Vendetta che sicuramente già
conosceva.
“Cosa ci fai stavolta da chil parti chi?”29 domandò. “Sei venuta a
rubare come al solito o gh’at in ménta n’ator cuél 30 di brutto? Guarda
che io di te e dei tuoi compari non ci ho mica paura. La Madonna
mi protegge e se non mi protegge Lei ci pensano i miei muscoli!”.
“Ma no, ma no”. Gli rispose la donna con la voce più dolce possibile.
Cioè con il suono di un tuono un po’ lontano.
“Missione di pace! Ho bisogno dei tuoi poteri o di quelli della tua
Madonna”.
“Fermati lì che devo finire di lavorare questo ferro e poi ti ascolto. Se
intanto volete mangiare qualche fico guarda che ci sono ancora sulla
pianta dei bei fioroni e se volete bere c’è attaccato al cancello l’orcio
con l’acqua fresca”.
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E ricominciò a battere. Si, ma a battere con più lentezza e meno
forza per far prolungare a Vendetta il tempo di attesa.
Era pericoloso farlo con una donna del genere e con il rischio di farla
arrabbiare. Ma lui era fatto così.
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Q uando tornarono all’officina “ei frabaz” stava rianimando il
fuoco mettendo legna sotto le braci.
Si fermò di malavoglia e rivolta a Vendetta le chiese: “Chi è l’uo-
mo?”. Lei prese il Binda per un braccio e lo accompagnò dall’Augu-
sto senza dire neanche una parola.
Entrarono in casa. Lo sposo fu fatto sedere su una sedia sgangherata
da una parte del grosso tavolo che era in mezzo alla stanza. Dall’altra
si accomodò il padrone di casa.
“Tu sei cristiano?” chiese al Binda guardandolo profondamente negli
occhi.
“A gh’crèddot ala Madonna?33 Attento a non raccontar balle che mi al
capiss al vòl”34 continuando a scrutarlo.
“Si, si!” rispose con veemenza l’Albizzati che era terrorizzato perché
non riusciva a capire cosa stesse succedendo.
“Allora” riprese “ei frabaz” “Lo sai che hai fatto un matrimonio cri-
stiano e quello che Dio unisce non può mica essere diviso. Adesso io
ti faccio mangiare una cosa naturale che se ci hai voglia di lasciare la
tua sposa ti fa passare questa voglia. Capito? Guarda che è una cosa
naturale mica una cosa che ti fa male. Fidati!”.
Prese una piccola tazzina e la riempì con parte del contenuto di un
pentolino che era sulla stufa economica. Mise un cucchiaio nella
tazzina e disse: “Su mangia”, e per fargli capire che non lo avvelenava
con un altro cucchiaio vuotò il pentolino mangiando di gusto.
Il Binda che a quel punto, spaventato com’era avrebbe fatto qual-
siasi cosa gli avessero ordinato, cominciò anche lui ad ingurgitare
l’intruglio.
Dal sapore e dalla consistenza sembrava una polenta taragna e non
era per nulla cattiva.
Quando ebbe vuotato la scodella guardò negli occhi il Monti quasi
a chiedergli che altro dovesse fare.
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“Conosot l’Ave Maria?”.35 Ad un cenno di assenso del Binda riprese:
“Va bén, alòra dilla con mi”.36 Ed incominciò a recitare la preghiera.
Alla fine Vendetta si rivolse al Monti: “Grazie, grazie molte e questo
è per il disturbo” e togliendo dal sacco che aveva in spalla un piccolo
prosciutto di cinghiale lo diede all’uomo.
Questi non ringraziò ma si limitò a dire: “Per i poveri”.
E senza aggiungere altro uscì fuori, prese un grosso pezzo di ferro lo
pose sopra le braci che avevano assunto un bel colore rosso vivo e
riprese ad azionare il mantice.
N essuno riuscì a capire se fosse per l’intruglio che gli aveva som-
ministrato il mago o se perché si era affezionato a Vendetta,
ma il Binda ormai si sentiva quasi contento di vivere questa nuova
avventura.
Dormiva tutte le notti nel lettone della moglie ed era lui a cercarla
più di una volta alla settimana.
L’unica cosa che gli era stata vietata era partecipare alle azioni della
banda, soprattutto se potevano essere pericolose. Vendetta ci teneva
al suo uomo e non voleva rischiare di perderlo.
In quelle occasioni la donna prima di partire lo abbracciava tanto
forte da rischiare di rompergli qualche costola e gli dava lunghi baci
quasi a soffocarlo.
Quando rimaneva solo a guardia del rifugio il Binda si metteva con
un temperino a lavorare piccoli nodi di castagno che andava a pro-
curarsi nel bosco.
Aveva intenzione di intagliarne una dozzina per rappresentare i per-
sonaggi di un Presepe che voleva regalare alla sua donna per Natale.
Scoprì cosi che il lavoro di precisione lo divertiva e gli permetteva di
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ottenere ottimi risultati.
Una mattina piovosa di Ottobre se ne stava intento ad intagliare,
seduto sulla porta di casa quando improvvisamente vide qualcosa
che si muoveva nel bosco davanti a lui.
Pensò ad un gruppo di caprioli che in autunno scendevano dalle
vette dei monti più alti per procurarsi il cibo.
Erano sempre meno numerosi perché lacci e tagliole, collocate da
chi non aveva di che sfamare la propria famiglia, li avevano decimati.
Improvvisamente invece dall’altra parte dell’aia apparve un uomo
uscito dal bosco.
Piccolo, magro con una barba incolta e capelli sino alle spalle, aveva
tra le mani un fucile.
Lo puntò contro l’Albizzati e gli gridò: “In quanti siete?”.
“Sono solo” rispose il Binda ed alzò istintivamente le mani sopra il
capo.
“Se conti palle il primo a morire sarai tu. Ti tengo di mira e non
sbaglio mai un colpo!” riprese l’uomo ed iniziò ad attraversare lo
spiazzo.
Dietro di lui si materializzarono, uscendo anche loro dal bosco, una
dozzina di uomini tutti armati.
L’Albizzati, che se la faceva addosso dalla paura e che mentalmente
malediceva la moglie che lo aveva piantato là da solo e disarmato,
riuscì a trovare le forze per parlare con un accenno di spavalderia:
“Che cazzo volete? Chi siete? Io sono solo ma da un momento all’al-
tro arrivano una cinquantina di amici e se mi vedono in pericolo
non ci pensano un momento a farvi tutti fuori. Io posso anche mo-
rire ma per voi non ci sarebbe scampo!”.
“Ma che palle stai contando? Lo sappiamo benissimo che siete in 8
compresa la donna. E poi avete delle armi che sono della guerra 15-
18 e per ricaricarle ci vuole un anno.
Guarda un po’ le nostre! Queste sono moderne e sparano un colpo
ogni tre secondi.
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Cosa vuoi che ci facciano i tuoi amici”.
Intanto aveva abbassato il fucile appoggiandolo al ginocchio e estrat-
ti da una tasca del giubbotto tabacco e cartine si era messo ad arro-
tolarsi una sigaretta.
Quando l’ebbe accesa riprese: “Comunque siamo venuti in pace.
Vogliamo solo parlare con Vendetta ed il vecchio Wagner. Quando
pensi torneranno?”.
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Praticamente la parte sporca che permetteva ai partigiani di soprav-
vivere l’avrebbe lasciata a quelli che sapevano rubare così bene.
Vendetta ed i suoi inoltre avrebbero fornito un appoggio logistico e li
avrebbero informati sugli eventuali spostamenti di fascisti e tedeschi.
I partigiani poi non conoscevano bene la zona e avrebbero loro dato
informazioni sui sentieri e sugli alpeggi abbandonati ove trovare ri-
fugio in caso di pericolo.
Nel frattempo in attesa di una migliore sistemazione tutti avrebbero
alloggiato nell’attuale covo dividendosi le stanze.
Aveva poi aggiunto che tutti i giorni nei quali non sarebbe stata
effettuata nessuna azione gli uomini dovevano essere per qualche
ora a sua disposizione per permettergli di indottrinarli e far loro
conoscere il nuovo paradiso che Stalin e tutti i suoi seguaci stavano
preparando.
Wagner non riusciva a distogliere gli occhi dal fucile del “Professo-
re”. Era veramente un gioiello che sicuramente era arrivato o dall’In-
ghilterra o dall’America.
Avrebbe venduto anche tutta la sua banda per averne uno.
Ma lì, come si sapeva, comandava Vendetta e la decisione se accetta-
re o meno l’avrebbe presa lei.
113
ta era stata costretta, vergognandosi e tenendolo segreto, a comprare
alimenti alla borsa nera.
Una sera poi il “Professore” dopo essersi lamentato che si mangiava
troppo poco e male aveva lanciato la proposta di ammazzare Car-
melo, il vecchio mulo che anni prima Wagner aveva ereditato da
uno zio e che era ormai considerato uno della banda. Voleva farne
bistecche e salami.
Vendetta mandò il Professore al diavolo e decise che così non si po-
teva continuare.
Bisognava prendere una decisione e farlo subito.
Disse a tutti i suoi uomini di aver organizzato di andare a perlustra-
re nuovi territori per cercare di trovare quantitativi più concreti di
alimenti.
Partirono tutti all’alba e dopo un paio d’ore di cammino, sicura di
essere ad una distanza di sicurezza dal covo, Vendetta si fermò.
Li fece sedere in circolo, si schiarì un paio di volte la voce il cui tono
dimostrava la sua commozione e affrontò l’argomento che le stava
a cuore.
“Ragazzi, mi vien di piangere a me che non ho mai pianto in vita mia,
neanche quando mi è morta la mia mamma che avevo pochi anni”.
A quelle parole e con quel tono tutti gli uomini si tesero attenti verso
di lei. Chi stava arrotolando una sigaretta fermò i suoi gesti. Chi sta-
va svitando il tappo di una borraccia fece altrettanto. Non avevano
mai visto Vendetta in quelle condizioni e mai avevano sentito quel
tono di voce.
“Quello che sto per dirvi” riprese “è una cosa che non avrei mai
voluto dire. Ci ho pensato almeno per dieci notti ma anche i giorni
scorsi. Non possiamo più andare avanti così. Dobbiamo sciogliere la
banda e che ognuno vada per la sua strada.
Prendiamo tutto quello che abbiamo accumulato in questi anni, lo
dividiamo e ci diciamo addio.
Magari ci ritroveremo tra qualche anno quando questa maledetta
114
guerra sarà finita e i tedeschi se ne saranno ritornati a casa loro.
Stasera quando torneremo a casa ci conteremo una balla a quello
stronzo del Professore in modo che domani vadano il più lontano
possibile in caccia di tedeschi e si tolgano dalle palle per tutto il
giorno. Così avremo tempo di fare le cose per bene e per salutarci.
Questa è la mia decisione e non intendo discuterla. L’ho presa anche
per voi, per la vostra sicurezza perché almeno una volta lo voglio
dire, vi voglio bene e vi ringrazio di aver accettato me e quella merda
di carattere che ho. Fine. Non ne parliamo più”.
Si alzò e si allontanò dal gruppo solo per non far vedere quanto fosse
commossa.
115
con quelle facce da assassini che si stringevano abbracciandosi tra
loro con gli occhi lucidi di pianto.
Uno ad uno andarono dalla Vendetta e le schioccarono due baci
sulle guance sussurrandole “Grazie”.
E poi via, sparendo nel bosco.
116
Sorrise pensando alla prima volta che quasi era stato costretto a fare
all’amore. Ma poi quanto gli era piaciuto!
In fine si misero in marcia. Il Wagner aveva convinto sua figlia a rifu-
giarsi a Robbio Lomellina dove viveva il fratello Sigfrido che faceva
il contadino e coltivava riso.
Si ricordava che una volta Sigfrido gli aveva raccontato che a parte
le zanzare per un paio di chilometri intorno alla sua cascina non vi
erano esseri viventi.
Lì avrebbero potuto stare nascosti ed aspettare tempi migliori.
Non sapevano bene che strada prendere ma l’importante era scen-
dere gli Appennini verso il mar Tirreno e poi andare a nord sino a
quando fossero arrivati a Genova e poi ancora a nord sino a superare
il Po. Poi avrebbero chiesto.
Secondo il Wagner a buon passo in una ventina di giorni avrebbero
potuto farcela.
Qualcosa da mangiare l’avevano, un po’ di soldi, che Vendetta aveva
avuto la furberia (o la disonestà) di non dividere con la banda, anche.
Se si fossero tenuti alla larga dalle strade troppo battute e dai paesi
che avrebbero incontrato lungo la strada, arrivare alla meta non sa-
rebbe stata cosa impossibile.
A parte che con i tempi che correvano una donna, un vecchio ed uno
zoppo non avrebbero suscitato l’interesse di nessuno.
117
agli ospiti ma alla fine, ripresosi, iniziò a raccontare tutte le disgrazie
che gli erano capitate e non la smetteva più.
La moglie era morta l’inverno passato, un figlio era disperso in Rus-
sia e l’altro se ne era andato l’anno prima che cominciasse “Questa
boia di guerra” in America e non aveva più dato notizie.
Lui si spezzava la schiena a coltivare il riso, e subito chiese: “Ma voi
a braccia come state perché io vi posso anche tenere ma dovete gua-
dagnarvi la pagnotta!”.
Rimase un po’ sovrappensiero e poi riprese: “Andate a dormire che è
tardi e se poi mangiate troppo vi rimane tutto sullo stomaco.
E domani sveglia presto che cominciamo, con l’aiuto del vostro
mulo, ad arare i campi che poi seminiamo. Se siamo in quattro pos-
so prendere un po’ di terreno in affitto ed aumentare il raccolto. Ma
quello mica lo divido. Mangiare e dormire va bene, ma non c’è da
pretendere altro, sia chiaro!”.
Tutti rimasero persuasi che non sarebbe stata una gran bella vita spe-
rando almeno che ci fosse a sufficienza per sfamarsi perché il Sigfrido
doveva essere un gran tirchio!
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degli ori che si era portata dal covo e contribuire all’acquisto, alla
borsa nera, di che sfamarsi.
Chiedere soldi al Sigfrido era quasi inutile. Non si sapeva se ne avesse
o no. Quando andava a vendere il raccolto rifiutava ogni compagnia
e non si riusciva a capire se quello che portava a casa fosse l’effettivo
ricavato o se prima di rientrare avesse visitato la Banca a depositarne
una parte.
Comunque Wagner, Vendetta ed il Binda dovevano sopportare tutto
perché non avevano possibili alternative.
Alla cascina erano arrivati una decina di volte i fascisti ma, nascosto
il marito, Vendetta aveva saputo come trattarli e non avevano fatto
né domande né verifiche.
Davanti a quella donna grande e grossa e poco raccomandabile si
erano limitati a sequestrare qualche salame ed un po’ di riso.
Tedeschi non se ne erano mai visti se non, in lontananza, quando in
fretta e furia avevano abbandonato poco prima del 25 Aprile i posti
occupati, per fuggire verso la Germania.
Alla fine del 1946, dopo il raccolto, il Sigfrido ebbe un ictus e rimase
quasi completamente paralizzato.
Wagner e la figlia discussero a lungo su cosa fare. Poi, quando il Bin-
da intervenne nella discussione sostenendo che aveva ben in mente
tutte le procedure per compiere il ciclo di coltivazione del riso, deci-
sero di continuare a lavorare i terreni.
All’inizio della primavera del 1947 l’Albizzati e la Vendetta si re-
carono in treno a Vercelli ove si teneva il mercato delle sementi ed
acquistarono 90 quintali di semi che sarebbero bastati per la semina
dei 60 ettari da coltivare.
Il terreno era stato lavorato con l’aiuto di un bue di un contadino
vicino perché il vecchio Carmelo non ce la faceva più.
Erano state aperte parzialmente le acque e le vasche presentavano il
terreno fangoso adatto ad una buona semina.
Ma solo al momento della crescita delle piantine il Binda e Vendetta
119
si accorsero che qualcosa non andava.
Crescevano stentate e con un colore giallastro.
Spaventati ricorsero ad un agronomo che fu perentorio: “Vi hanno
venduto una semente non giusta per questi terreni e questi climi.
Dovevate chiamarmi prima se non sapete nulla di risicultura. Ora è
tardi. Praticamente non avrete raccolto”.
Stravolti dalla notizia si sedettero intorno al tavolo della cucina. Per
fortuna non avevano fatto debiti perché nascosto sotto la biancheria
del Sigfrido avevano trovato un bel gruzzolo di soldi, ma erano ba-
stati solo per pagare quelle maledette sementi.
E in ottobre il raccolto fu disastroso. Sette quintali per ettaro mentre
quell’anno la produzione media per ettaro fu altissima ed i prezzi
crollarono.
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L’Albizzati allungò la mano sinistra e sbottonò la patta dei pantaloni
della sua vittima.
Dal pertugio introdusse la mano sinistra che si impossessò dei testi-
coli del malcapitato che strinse violentemente.
“Mazzarti non ti mazzo che non l’ho mai fatto, ma se non mi rispondi
ammodo e subito questi te li taglio via!” gli disse portando il proprio
viso ad un palmo dal naso dell’altro.
“Voglio sapere”.
Improvvisamente dalla nebbia si materializzò una figura tutta ve-
stita di nero che “Buona sera, buona sera. Anche voi in giro con
questo freddo! Ah se io non avessi dovuto andare ad accompagnare
con l’Estremo Unzione l’anima di una povera malata al Signore sarei
stato ben al caldo davanti al mio caminetto! Ma voi chi siete? Non
vi raffreddate a stare così fermi in piazza in giacchetta con il freddo
che fa?”.
Dicendo così si era avvicinato ai due per cercare di guardarli in faccia
e riconoscerli.
“Ah ma tu sei il figlio della Catina la moglie del Pedersoli. Te invece
non ti conosco che quando vedo una faccia me la ricordo almeno per
5 anni. Te non sei mica di Breno, sei un forestiero”.
Poi rivolto al Bettino: “È un tuo amico mi pare. Magari avete fatto la
naia insieme? Ma scusa, scusa non è che voglia sapere le cose degli altri.
Un buon prete, ma io, lo sa il Signore, non lo sono, non deve es-
sere curioso. È un peccato sai, anzi sapete, dato che siete in due ad
ascoltarmi.
È un po’ come desiderare la roba d’altri sai, uffa, sapete?
Il comandamento che io non mi ricordo mai se è il nono o il deci-
mo. Ah la vecchiaia! Beh ma adesso me ne vado che se no vi faccio
perdere tempo e prendere freddo. Buona notte e ‘Sia lodato Gesù
Cristo’ ”.
“No aspetti don Arlocchi” si affrettò a dire il Bettino con un tono
di voce bassa e chioccia come se l’Albizzati avesse già fatto quanto
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aveva minacciato.
“Venga con noi al bar che ci facciamo una grappa e che ci scaldiamo
un po’ ed io le presento il mio amico. Cosa da cinque minuti. Venga
la prego”.
“Ah, ah tu mi tenti con un peccato di gola. Ma penso che uno debba
avere anche un po’ di cura per il suo corpo per servire meglio il Si-
gnore e un po’ di roba forte non può che farmi bene. Ma poca roba,
però, che non sono abituato all’alcool”.
Il Bettino tirò un gran sospiro di sollievo, guardò il suo persecutore
con un ghigno che voleva dire “Per stavolta te l’ho fatta” e preso sot-
tobraccio il prete si avviò verso la sua salvezza.
Nicola grugnì di rabbia ma poi per mantenere un contegno, rivolto a
don Arlocchi disse “Scusatemi ho un po’ di fretta. Devo andare. Con
te ci vediamo domani”.
E deviando a destra sparì nella nebbia.
122
“Be, be” rispose secco il Bettino. “Stanot me so nsognat la zia Lelia e
go penat de na a troarla?39
Poi continuò in italiano quasi a voler dare maggior valore alle sue
parole. “È tanto che non la vediamo e penserà che siamo morti.
Anzi probabilmente mi fermo da lei qualche giorno. Aveva sempre
qualche lavoro da farmi fare e magari ha bisogno anche adesso. Mi
ricordo che verso le sette c’è un treno e lo prendo”. E senza dire altro
si lavò nel lavandino senza farsi la barba, andò in camera a vestirsi e
a mettere qualche ricambio nello zaino per ripresentarsi di nuovo in
cucina per fare colazione.
Dopo il monologo del figlio la mamma non si era più mossa, quasi
paralizzata. C’era qualcosa di strano nelle parole del figlio e nel suo
comportamento e la decisione presa l’aveva spaventata.
Bettino non aveva mai voluto veramente bene alla zia. Anzi quando
andavano a trovarla e lei lo incaricava di fare qualche lavoretto in
una casa priva di maschi borbottava maledizioni nei riguardi dell’an-
ziana donna.
La sopportava solo perché non si era mai sposata, sapeva di essere il
suo unico erede.
Sempreché il parroco del paese non fosse riuscito a convincerla a
lasciare quei quattro beni che possedeva alla parrocchia.
Comunque zia o non zia lui da Breno doveva andarsene e l’unico
posto facilmente raggiungibile dove passare qualche giorno era la
casa della Lelia a Vezza d’Oglio.
Quando il padre arrivò in cucina lo salutò con un grugnito conti-
nuando ad ingurgitare il caffè latte con il pane e marmellata.
Finito si pulì la bocca, diede un bacio alla madre ed una pacca sulla
spalla all’uomo, prese lo zaino ed uscì.
Il padre, che entrato in cucina si era fermato anche lui meravigliato
della presenza del figlio a quell’ora, era rimasto in silenzio.
39) Bene, bene. Stanotte mi sono sognato la zia Lelia e ho pensato di andarla a
trovare.
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Dopo l’uscita di Bettino si rivolse alla moglie: “L’è sciopat en notra
guera e i l’à riciamat?”.40
Per risposta gli arrivarono i singhiozzi della povera donna.
124
Il suo ragazzo non aveva mai lasciato quei posti se non anni ad-
dietro per il servizio militare e quindi era difficile avesse degli
amici forestieri.
“Non c’è. È partito”. Rispose prontamente. “È andato per un mese
a” cercò di pensare al posto più lontano che conoscesse “a Milano.
Magari sta anche via di più, se trova lavoro. Ci devo dire qualche
cosa se dovesse scrivermi e lasciarmi un indirizzo per rispondere?”.
L’Albizzati capì che era una bugia ma non pensò fosse opportuno
insistere, tanto quella non avrebbe mai tradito il figlio.
Salutò facendo un passo indietro e per la fretta andò ad urtare con
violenza un uomo che passava alle sua spalle.
Quello perse l’equilibrio ed andò a finire a terra mentre la mamma
del Bettino cominciava ad urlare: “Aiuto, aiuto! Hanno buttato a
terra il don Arlocchi. POVERINO, ACCORRETE. Si è fatto male.
VENITE, VENITE!”.
Il Binda non sapeva cosa fare e preso dal panico fuggì a gambe levate.
Intanto intorno al povero prete si era raccolta una piccola folla.
“Figlioli, figli miei dilettissimi. Non mi sono fatto mica male, sapete?
Con questo posteriore che ho i colpi sono ammortizzati. Non li sento.
Aiutatemi ad alzarmi, per favore. Che Dio ve ne renda merito. Grazie.
Ecco piano, piano. Togliete le mani che provo a vedere se le gambe
mi tengono in piedi. Ecco, ecco”.
Ma ricadde a terra. Aveva preso una storta al piede destro e la caviglia
che spuntava da sotto la tonaca si stava gonfiando a vista d’occhio.
“Oh Signur, oh Signur, questa proprio non ci voleva che ho già le
gambe che vanno dove vogliono e la testa che sempre un po’ mi gira.
Madonnina aiutami tu che ci aiuti sempre. Sii buona e misericordio-
sa come lo sai essere solo Tu.
E adesso cosa faccio? Come faccio a tornare a casa che la Perpetua mi
ha preparato da mangiare”. Cominciò a brontolare.
Tra i curiosi ed i caritatevoli si fece largo il Maresciallo Costamagna:
“Cosa è successo. Su fate largo, lasciate passare. Ma don Arlocchi è
125
lei! Cosa le è successo? Faccia vedere. Qualcuno chiami l’ambulanza
che lo portiamo in Ospedale.
Coraggio, coraggio signor Arciprete. Vedrà che tutto si sistema! Ma
come è successo, come ha fatto a cadere”.
Il buon prete rispose: “Non lo so, non me ne sono neppure accorto”.
Ma alle spalle del sottufficiale qualcuno dichiarò: “Gli ha dato uno
spintone l’Albizzati, quel fascista schifoso”.
Il Costamagna non si rese immediatamente conto dell’importanza
della dichiarazione alla quale ripensò solo dopo aver aiutato don
Arlocchi a mettersi seduto con la schiena poggiata al muro della casa
dei Pedersoli.
Ma a quel punto chi aveva fatto quella denuncia si era allontanato
rimanendo sconosciuto.
Caricato il povero prete sull’ambulanza il Costamagna si diede da
fare per interrogare più persone possibili cercando di identificare chi
avesse provocato l’incidente.
La mamma di Bettino raccontò quanto accaduto e che lo sconosciu-
to cercava suo figlio che era partito improvvisamente come se avesse
saputo che in paese fosse arrivato Satana in persona.
Disse anche che l’uomo non era sicuramente della valle e che non
doveva essere un amico di Bettino, ma che non riusciva a capire cosa
volesse da lui.
Come era fatto? Si era talmente spaventata che non lo aveva neppure
guardato bene e non poteva dare nessuna notizia.
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“Certo che se qualcuno lo ha riconosciuto e sapeva anche che era un
fascista l’uomo doveva sicuramente aver abitato o almeno agito in
paese” pensò.
“Albizzati, Albizzati. Io questo cognome l’ho già sentito. Qualcuno
mi ha fatto questo nome ma vatti a ricordare”.
Stava riordinando le carte quando gli venne in mano il fascicolo
relativo all’indagine sui lingotti d’oro e: “Ecco che mi è venuto in
mente. Ma certo l’Albizzati, il fascistone, è quello delle fedi d’oro. Il
nome me lo ha fatto l’Amerigo. Ma non era morto quello?
Ma se l’Albizzati è a Breno l’Amerigo è in pericolo, bisogna avvisar-
lo. E subito” si disse.
Prese la bandoliera e la pistola d’ordinanza e “Nicoletti, lascia tutto
e vieni con me” disse all’appuntato avviandosi alla porta ed uscendo
in strada.
Quasi di corsa raggiunsero il negozio dello Sciaccaluga.
La saracinesca era abbassata e del genovese nessuna traccia.
L’Amerigo, che non aveva raccontato al Binda che aveva riferito tut-
ta la storia delle fedi al Maresciallo dei Carabinieri, aveva pensato an-
che lui di togliersi dalla circolazione e dalle grinfie del suo ex socio.
Aveva da tempo una relazione con una giovane vedova che abitava a
Campolaro che lo avrebbe ospitato volentieri anzi forse non aspet-
tava altro.
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Ma chi altri poteva aiutarlo in un paese dove tutti ricordavano il suo
passato di fascista e di somministratore di olio di ricino?
Capace che i brenesi se lo avessero visto ammazzato sarebbero stati
contenti.
Poi gli venne in mente il don Arlocchi. Poteva sperare che il prete, se
avesse saputo che lui era in pericolo di vita, avrebbe trovato il modo
di nasconderlo o addirittura di ospitarlo per qualche giorno.
Girando alla larga dal centro del paese raggiunse la povera casa del
coadiutore.
Bussò alla porta e gli aprì la vecchia perpetua in lacrime che si la-
mentava biascicando parole che le uscivano incomprensibili dalla
bocca.
“Sta a vedere che è morto anche lui!” pensò sconvolto il Giacomino.
Prese la donna per le spalle e la riportò dentro casa. Cercò di calmar-
la ed infine riuscì a capire che il prete era stato portato in ospedale
ma che lei non sapeva se fosse grave.
“Oh poer cristo, che ghè saral mai capitat, che ghè saral mai? I me la dit
ma me lo miga capit. Parlavano di una storpa. Sa mica cosa sia una
storpa? E se sia una malattia grave?”.41
Il Domenighini decise di andarsene e di correre in Ospedale a ve-
rificare. Magari il prete se dovesse essere ricoverato avrebbe potuto
lasciargli per qualche tempo la sua casa.
O lui avrebbe potuto offrirsi di custodirla.
Ma che fosse chiaro curare la casa mica il don Arlocchi che a lui
quelli che stavano male facevano impressione.
Infatti quando aveva somministrato l’olio di ricino ai nemici del
Fascio aveva sempre avuto cura di andarsene prima che il “purgato”
si sentisse male.
Arrivato al Pronto Soccorso dell’Ospedale trovò il prete su una ba-
rella poco oltre l’ingresso.
41) Oh poverino cosa gli sarà mai successo? Cosa gli sarà mai? Me l’hanno detto
ma io non ho mica capito.
128
Gli avevano fatto una radiografia al piede e la stavano sviluppando
per vedere se vi era qualcosa di rotto.
“Stai male?” si preoccupò il buon prete quando lo vide pallido e
trafelato. Era fatto così, anche se stava male si preoccupava sempre
per gli altri.
129
Sentendo parlare di quattro lingotti d’oro al vecchio prete venne
immediatamente da pensare al Giacomino ed al suo ritrovamento.
“Ma perché tutti vengono a parlarmi di tesori a me che di soldi e di
valori non mi sono mai interessato.
Io che ho vissuto come gli uccellini degli alberi ai quali il buon Dio
manda il necessario. Veramente a me ha mandato anche il mal di
schiena ed alle gambe ma pazienza! Però mi ha dato tante cose belle
che sono sempre in debito con lui”. pensò e poi rispose al Giacomi-
no: “Ma io adesso non so proprio cosa dirti. Non so se sono malato
o no, se ho un piede rotto o solo storto. Non so se mi lasciano tor-
nare a casa o se mi tengono qui. Come faccio a risponderti. Devi
aspettare anche tu che così siamo in due che si aspetta meglio. E poi
vediamo cosa si può fare.
Ma in chiesa non ti vedo mai. Però quando c’è bisogno vieni dal don
Arlocchi. Va bene, va bene, buon Gesù ogni tanto devi verificare
come si comporta questo vecchio prete e mi mandi qualche proble-
ma da risolvere.
Ma attento io senza il Tuo aiuto o quello della tua Santa Mamma
non sono capace di fare niente. E quindi sembra quasi che Tu voglia
controllare anche Te stesso e vedere se mi dai tutto il cervello che mi
occorre. Ma no scusami Signore, ma cosa dico mai. Sembra quasi
che mi sia fatto male alla testa invece che a un piede”.
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stretti ma che erano ancora in buone condizioni avendo avuto rare
occasioni per essere indossati.
Seduti in silenzio sulla panca della sala d’aspetto erano nervosissimi.
Cosa sarebbe accaduto e come avrebbero dovuto comportarsi.
La sera prima avevano cercato il Russì che era corso a chiedere con-
siglio al vecchio pretore ed erano stati rincuorati. Nulla di preoccu-
pante avrebbe potuto succedere loro.
Nel suo ufficio anche il Maresciallo Costamagna stava in silenzio a
meditare.
Forse aveva fatto male a convocare i due.
Avrebbe dovuto far continuare la gestione dell’inchiesta al suo giova-
ne superiore. Attendere che il tenente li sentisse e poi, eventualmen-
te, intervenire lui per rimettere le cose a posto se il Tenente avesse
fatto, come prevedibile, danni.
Si sentiva in colpa anche perché sicuramente i due dovevano aver
passato una brutta nottata ed una mattinata agitati e senza poter
lavorare spaventati da quella convocazione.
Decise che appena ricevuti avrebbe dovuto cercare di metterli a loro
agio magari chiedendo qualche notizia sulla costruzione dell’albergo
al quale stavano lavorando o magari sulle loro famiglie.
Si era preparato delle frasi fatte per iniziare ad interrogarli ma gli
sembrava che fossero poco chiare e non inducessero i due a delle
risposte soddisfacenti.
E poi lui era abituato ad interrogare solo malfattori od almeno qual-
cuno sospettato di qualche delitto e adottava sempre quel fare bur-
bero che metteva a disagio volutamente l’interrogato.
Ora avrebbe dovuto addolcire il tono della voce perché adesso si sareb-
be trovato davanti due poveretti che non avevano commesso nessun
reato e che al massimo potevano essere responsabili per essersi tenuto,
senza dirlo a nessuno, qualcosa che avevano fortuitamente trovato.
“Accidenti” pensò “quando mai ho deciso di farli venire”.
Poi si fece coraggio, si tolse la giacca e si slacciò la cravatta per appa-
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rire meno formale.
Si alzò ed andò lui stesso ad aprire la porta e ad invitarli ad entrare.
Appena apparve il sottufficiale i due andarono veramente fuori di te-
sta. Scattarono in piedi contemporaneamente e si precipitarono ver-
so l’uscio che il Costamagna teneva aperto facendo a gara, spingen-
dosi e urtando il sottufficiale, per entrare per primo dentro l’ufficio.
Quasi per dimostrare al Maresciallo quanto fossero disponibili ad
ubbidire velocemente ai suoi ordini.
132
tolo per tutta la durata del suo discorso non si fosse mai fermato
per riprendere fiato.
Infatti l’uomo ora respirava con affanno ed era diventato tutto rosso
e le mani gli tremavano leggermente.
“Ma guarda quanto dolore sto provocando a questi due poveretti
solo perché mi interesso dei fatti degli altri anche quando non è il
mio lavoro”. Pensò. “Ed adesso cosa gli dico?”.
Ma non ebbe il tempo per preparare una domanda perché Giacomi-
no con un sussurro chiese: “È per i lingotti d’oro?”.
Il Costamagna esultò! Non aveva dovuto fare ai due altra violenza e
si sentì obbligato per l’intervento provvidenziale.
Il Bortolo aveva dato un poderoso calcio allo stinco della gamba si-
nistra di Giacomino, quella più a portata di piede, e gli aveva rivolto
anche un’occhiataccia.
Ma subito si riprese e rivolgendosi al Maresciallo: “Sa anch’io stavo
per chiederci ma il mio amico l’ha fatto prima di me. Se vuole ci rac-
contiamo tutto. Basta che comandi”. E si mise a fissare il pavimento.
133
nel locale ove ancora abitava ed in effetti tutti e due si dissero preoc-
cupati di poter essere derubati.
“Ma non è che ce li possiamo portare qui in caserma così che sono al si-
curo se ce li tiene lei se non la disturbiamo mica con tutto rispetto. O sì”.
Il sottufficiale continuava a meravigliarsi dello strano modo di par-
lare del Giacomino.
Sembrava prendesse la rincorsa e poi senza mai cambiare tono o
modulazione della voce snocciolava una parola dietro l’altra a tutta
velocità e sino a quando aveva fiato.
Poi ricadeva nel più assoluto mutismo.
“Quasi quasi faccio finta che siano dei corpi di reato e me li faccio
portare e così li vedo, finalmente, questi benedetti lingotti”. Pensò
il Maresciallo.
Era così curioso che le tentava tutte e già si sentiva euforico quasi
come un bambino che sta aspettando di entrare nella stanza dove
troverà i doni portati da Santa Lucia.
“Veramente non potrei. Non sono corpi di reato. Ma se potessi forse
ritenere che sono beni in pericolo”. Disse “Voi sapete che in paese
circola un brutto ceffo che li cerca perché sostiene siano suoi ed il
pericolo di furto in effetti esiste. Forse non è una cosa molto regolare
ma se resta tra noi e poi se voi continuaste ad insistere”.
“Continuiamo ad insistere” risposero in coro i due muratori alzan-
dosi decisi ad andare a prendere il loro piccolo tesoro.
E dopo poco meno di un’ora erano di ritorno con i quattro pezzi di
metallo avvolti in fogli di giornale.
Il Costamagna rilasciò una breve ricevuta ed i due se ne andarono
tutti contenti.
Il Maresciallo invece era tutto agitato. Chiamò l’appuntato Nicoletti
che lo aveva sempre aiutato nelle indagini e gli disse: “Nicoletti tu
adesso molli tutto e ti metti a cercare l’Amerigo Sciaccaluga. Chiedi
in giro, datti da fare e scopri dov’è. Poi lo vai a prendere, usa pure
la macchina di servizio, e per le 4 del pomeriggio me lo porti qui.
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Guarda che conto su di te, non mi deludere!”.
Chiuse a chiave la porta dell’ufficio, gridò ai suoi dipendenti un
“NON VOGLIO ESSERE DISTURBATO” ed iniziò una nervosa
ma soprattutto curiosa attesa sperando che il Lanterna riuscisse a
stabilire chi avesse confezionato i quattro lingotti.
Intanto li aveva posizionati sulla scrivania, li rimirava, poi, come un
bambino li muoveva per formare un quadrato; un triangolo a mo’ di
pino con il quarto pezzo come tronco; accoppiati per lungo come un
binario. Insomma come un bambino annoiato che deve far passare
il tempo e non abbia a disposizione altri giochi se non quei freddi
biondi pezzi di metallo.
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bisogno me lo dica. Non le auguro di avere qualche problema di
salute ma se disgraziatamente dovesse capitare io sono sempre a sua
disposizione, senza complimenti”.
“Grazie, grazie per la sua generosità, professore. Sono sicuro che Dio
gliene renderà merito. E allora io ne approfitto subito. Vede questo si-
gnore qui” disse mostrando il Giacomino Domeneghini “non è ancora
malato ma lui è sicuro che starà male al più presto. Non è che ci può
dare un’occhiata così magari comincia a curarsi prima di diventare ma-
lato? Lei che è così bravo e sa fare delle diagnosi che non sbaglia mai”.
Il Parola rimase perplesso e, cercando di prendere tempo, rispose:
“Don Arlocchi mi stanno aspettando in sala operatoria. Dica pure al
suo amico di accomodarsi in ambulatorio che appena finisco di ope-
rare lo visito. Di nuovo saluti signor coadiutore. E mi raccomando
usi le stampelle!” e, giratosi, se ne andò.
136
E allora lavorando di seconda e di terza e con gli occhi appiccicati al
parabrezza mal pulito dalle “spazzole” che avevano la gomma presso-
ché consumata, iniziò la salita.
Non trovando neppure una macchina che scendesse in senso contra-
rio, forse perché nessuno si era fidato a mettersi in viaggio con quel
tempo da lupi, in poco meno di un’ora raggiunse il piccolo villaggio.
Faceva tanto freddo che pensò potesse mettersi a nevicare. Ci sareb-
be mancato solo quello.
Comunque l’autunno era inoltrato e Campolaro era a 1200 metri di
altezza e quindi la cosa poteva anche essere possibile.
Il Nicoletti parcheggiò la vettura con le ruote anteriori rivolte ver-
so valle nel caso cominciasse a nevicare e raccolta una grossa pila
che veniva tenuta sempre carica nella tasca della portiera, scese
dalla vettura.
Si guardò intorno. Tutte le case, una cinquantina di piccole costru-
zioni in pietra del luogo, abbandonate in quella stagione dai conta-
dini o dai piccoli allevatori di bestiame, avevano le finestre sprangate
e da dietro le persiane non proveniva un raggio di luce come da
nessun camino usciva anche solo un filo di fumo.
Il Nicoletti si addentrò in uno stretto vicolo che portava ad una pic-
cola piazza dove al centro una grossa vasca in pietra raccoglieva con
gran rumore l’acqua che usciva da una cannella posta al termine di
un muretto che sopravanzava la vasca di circa un metro.
Non si vedeva anima viva ed il solo rumore che si udiva era quello
della fontana e della pioggia che cadeva violentemente sui tetti della
case, sul selciato e sulle foglie ancora verdi degli alberi che incorni-
ciavano il villaggio.
Il Nicoletti continuò il suo giro ed improvvisamente notò una porta
socchiusa. Si avvicinò e la spinse trovandosi in un ampio corridoio.
Lo illuminò e vide a destra ed a sinistra due porte chiuse. Aprì la
prima a destra ed accese nuovamente la pila rimanendo paralizzato
per lo spavento. Quattro o cinque galline spaventate si misero a svo-
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lazzare emettendo gridi. Una per poco non gli finì sul viso.
Dopo un attimo di smarrimento trovò le forze per chiudere la porta
e si girò trovandosi a contatto con le canne di una doppietta imbrac-
ciata saldamente da una donna che lo guardava con rabbia.
“Pelandrone, a momenti ti sparo che pensavo fossi la volpe! Ma sei
matto ad entrare in una casa senza bussare. Guarda che ti denuncio”.
si mise ad urlare la padrona di casa.
“Fuori, fuori” proseguì con un tono di voce meno autoritario che
anche lei doveva essersi spaventata.
Dalla stanza dalla quale la donna era uscita arrivò la voce di un
uomo: “Ma che cazzo è successo. Laura? Ci sei? Cosa stai combinan-
do? Ma c’è qualcuno?”.
“Forse un ladro di polli, non so”, rispose la donna. “Vieni a darmi
una mano. Se si muove gli sparo così impara ad entrare nelle case
degli altri senza chiedere il permesso”.
Dietro ad una candela accesa apparve l’Amerigo in mutande e ma-
glietta.
“Ma cosa cazzo succede?” ripeté. E poi rivolto alla donna: “Tu ab-
bassa quel fucile che qualcuno si potrebbe far male. E tu” rivolto
all’uomo “che belin stai facendo. Spiegati!”.
Il Lanterna alzò la candela per vederci meglio e “Ma sei vestito da
carabiniere. Ma lo sei veramente o la divisa l’hai rubata?” e siccome
quello non rispondeva “Ohè sveglia! Hai perso la lingua? Guarda che
qui non scherziamo mica”.
“Appuntato Nicoletti Silvano, in forza alla Stazione Carabinieri di
Breno”. Disse lo sconosciuto sbattendo i tacchi come si trovasse da-
vanti ad un suo superiore.
“Sono in missione alla ricerca di tale Sciaccaluga Amerigo con il
quale il mio Comandante vuole conferire con urgenza”. continuò
con tono formale.
“Ah ma sei il Nicoletti” disse il Lanterna. “Ma cosa ci fai con questo
tempo da lupi a Campolaro? Hai detto che il Maresciallo vuole ve-
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dermi. Ma non poteva venire lui, allora?”.
“Io ho ricevuto l’ordine e sono venuto. Non mi posso mica mettere a
discutere gli ordini di un superiore. Obbedire è il mio compito mica
discutere”. Rispose il carabiniere sempre con il tono di recitare una
parte imparata a memoria.
“E adesso” riprese dopo un attimo di silenzio “per favore si vesta che
dobbiamo andare in Caserma dove è atteso”.
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aveva neppure mai cercate.
Magari era morti anche loro e quindi poteva essere che le case di sua
proprietà fossero due.
Quella dei genitori era, almeno quando lasciò il paese, in ottime
condizioni.
Una bella villetta con un giardino ed un orto che il padre, che faceva
per scelta il conduttore dei treni notturni delle Ferrovie Nord Mila-
no, nei pomeriggi liberi lavorava con cura.
Chissà come l’avrebbe trovata. Ma comunque ben tenuta o mal te-
nuta con la penuria di case che c’era ancora avrebbe potuto ricavarne
un bel gruzzolo.
Quindi destinazione paese, nuovi documenti, uno o due comprato-
ri, un notaio e via un’altra volta con i soldi.
140
ed a mettersi a letto e mica lo può fare la Perpetua. Che chissà poi
cosa penserebbe la gente se la Perpetua la vedesse nudo.
Io rimango qui. Vedrà non darò assolutamente fastidio. Anzi Lei po-
trà contare sul mio aiuto giorno e notte. In qualsiasi momento abbia
bisogno. Vedrà come sono bravo ad assistere i malati!”.
“E va bene”. sussurrò don Arlocchi che non aveva più la forza per
mettersi a discutere.
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Con voce roca gli disse: “Guarda che ti spetto, sai! Me l’hai promesso
e devi mantenere, porca vacca!”.
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“Cosa vuol dire?” domandò precipitosamente il Sottufficiale tutto
incuriosito.
“Maresciallo” rispose ridendo lo Sciaccaluga “è oro del Giappone
che in Italia si chiama ottone.
Mi sembra così a vederlo che sia ottone “dolce” che una volta veniva
usato per fare le camicie delle munizioni”.
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L o Sciaccaluga nell’uscire dalla Caserma si era imbattuto nel Russì
e pur non essendo con lui in confidenza gli aveva chiesto il per-
messo di parlargli.
Tutti ormai in paese sapevano che lui era il confidente di Giacomino
e di Bortolo e quindi forse poteva essere la persona giusta per avvisa-
re i due che il sogno che avevano fatto era svanito.
Avrebbe potuto trovare le parole giuste perché ora il sogno non di-
ventasse un incubo.
Al suo racconto la stessa espressione che aveva visto sul viso del Ma-
resciallo si ricreò sulla faccia del montanaro.
Si vedeva che lui aveva veramente affetto per quei due disgraziati ed
era molto dispiaciuto che le loro speranze fossero andate deluse.
Accettò comunque l’incarico e ringraziò il Lanterna per averci pensato.
Non sarebbe stata una cosa piacevole da sistemare ma avrebbe fatto
di tutto per rendere la notizia il meno sgradevole possibile.
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Poi sulla base di quanto saputo avrebbe chiamato ancora una volta
quel prete, si quello con un cognome strano, ah sì don Arlocchi che
aveva fatto delle domande che avevano suscitato la perplessità del
Costamagna e lo avrebbe sottoposto a stringente interrogatorio.
E poi c’era il Pedersoli. Quello doveva sapere tutto! Liberata la cella
ci avrebbe ficcato dentro lui. Altro che i timori del Maresciallo di
Breno che diceva sempre “Prendiamolo con le buone che se no quel-
lo non parla”.
Gli avrebbe fatto vedere lui chi è la Legge.
Un casino avrebbe piantato. Il Tenente Pestazzo, diceva tra sé e sé, è
buono e caro ma quando gli girano le palle sa come farsi rispettare.
La mattina nella quale si sentì definitivamente guarito indossata la
divisa raggiunse il suo ufficio.
Mentre stava conferendo con il Maresciallo comandante la Stazione
di Lovere bussò alla porta il piantone.
“Un cablogramma dal Comando della Legione di Brescia per lei,
signor Tenente”.
Il Pestazzo prese il foglio e lesse “La Signoria Vostra è stata trasferita
alla Tenenza di Salò ove deve assumerne il comando entro 24 ore.
Si ritenga quindi sollevato dall’attuale incarico con effetto imme-
diato.
Il Comando provvisorio della Tenenza di Lovere sarà preso dal Mare-
sciallo Maggiore Astuti attuale Comandante della Stazione della stessa
località”. Firmato il Comandante della Legione di Brescia Generale...
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Ma comunque sempre graditissimo.
La donna era entrata di corsa in casa ed aveva chiamato i figli. “Ve-
nite è ritornato il papà!”.
E lui li aveva abbracciati e baciati tutti. Seppure con un certo imba-
razzo anche il figlio del farmacista.
D on Arlocchi non aveva voluto accettare gli ordini del suo Parro-
co ed aveva continuato tutte le mattine a dire messa.
Per raggiungere la chiesa lo aiutava il Domenighini che, anche se il
pericolo per lui fosse passato, non aveva avuto cuore di abbandonare
il vecchio prete.
D’altra parte nella sua vita di peccati ne aveva fatti tanti ed il com-
piere un po’ di bene avrebbe aggiustato, almeno in parte, i conti che
aveva in sospeso con il Padreterno.
Una mattina alle 7 mentre si trovava in confessionale il buon prete
ricevette la visita del farmacista.
L’incontro durò più di un’ora. Il Temperini non si era mai reso con-
to di quante cattive azioni avesse compiuto approfittando della sua
posizione sociale.
Don Arlocchi, con un’indagine da servizi segreti, era andato a rin-
tracciarle, se non tutte almeno in buona parte, rinfacciandole al far-
macista.
Quel vecchio prete quando ci si metteva non aveva eguali nel perse-
guitare chi aveva fatto del male al proprio prossimo.
Alla fine, a parte il Rosario che aveva da recitare come penitenza, l’uo-
mo si sentiva, dopo le parole del confessore, veramente un verme.
Sarebbe riuscito a cambiar vita in tempo prima di andare all’altro
mondo ed a finire all’Inferno?
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I l più soddisfatto di tutti in paese era il Costamagna.
L’improvviso trasferimento del suo Comandante l’aveva tolto
dall’imbarazzo.
Questi era partito senza sapere quanto fosse successo a Breno negli
ultimi giorni e nella telefonata di saluto al Maresciallo aveva detto:
“Costamagna la invidio. Ha in mano una delle indagini più coin-
volgenti che un Carabiniere possa trovare nel corso del suo lavoro.
Risolva tutto e mi faccia sapere. Con tutti i consigli che le ho dato
me lo merito”.
“Non dubiti. Sarà mia premura”. Aveva impunemente risposto al
superiore.
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Finito di stampare nel mese di aprile 2018