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Modernismo Abortito

(La nozione di relatività nella trattazione della nozione di tempo


nel "Parmenide" di Platone)

Abstract: The mane objective of the present contribution is to clarify


basic linguistic categories as: negation, verb, subject and predicate. On the
other hand, the key expressions employed are: productivity of negation,
metaphysical monism, formal opposition, being, and not being.

Il tema centrale del presente testo sono le categorie linguistiche,


negazione, verbo, soggetto, e predicato. Espressioni chiave si possono
considerare invece, le espressioni: produttività della negazione, monismo
metafisico, opposizione formale, essere, e non essere.

"vuoi che stabiliamo, disse, due categorie

di tutto ciò che è, l'una del visibile, l'altra

dell'invisibile?" (Fedone 79 a 6-7)

Niente avrebbe più senso, se non vi è una realtà fisica, eppure, i res
extensa, come Cartesio aveva chiamato le sensazioni generati della
percezione tattile o visiva, permangono un fenomeno impossibile a
razionalizzare. Anche se pensati come agglomerati simili a massa
gelatinosa, io sono costretto a pensare un insieme particolare dei
componenti variabili. In questa singolarità dell'insieme pensato non resta
che individuare un'idea o un fenomeno. Ma se da un lato devo riconoscere
la necessità di ridurre le unità fisiche a meri fenomeni, né l'idealismo
generico, e ancora meno la Fenomenologia, sono in grado di giustificare la
nozione di direzione con la quale Parmenide aveva messo in moto la saga
dell'essere.
1. Il Monismo

Nonostante il mistero in cui rimane avvolta l'antitesi tra ciò che è e ciò
che non è, non vi è alcun dubbio che esiste un unico modo per pensare, ed è
quello che ammette qualche forma di differenziazione.
Una prima osservazione sul coinvolgimento della nozione di direzione
nei ragionamenti di Parmenide, riguarda la maniera con cui la dea viene
introdotta sulla scena, ed il piuttosto casuale contrasto con la formulazione
dell'aspetto più importante del delineato curriculum educativo… Se, con la
benevolenza della dea della giustizia, la quale perderebbe la sua funzione se
non era capace di infliggere una punizione con la sua mano sinistra, ad una
rappresentazione che appartiene ad un mondo ultraterreno viene attribuita
una differenziazione spaziale, l'espressione <<la ben rotonda verità>>
attribuisce al sostantivo dell'espressione una caratteristica come la
perfezione. Di differenziazione qualitativa della verità tutta tonda non esiste
proprio modo di parlare, eppure, una volta circoscritto l'obiettivo del viaggio
intrapreso nel regno della giustizia, durante il percorso della via che era
rimasta nascosta per i mortali, la caratteristica già attribuita alla verità del
cuore irremovibile, viene arricchita di attributi complementari dell'essere.
Ho intenzione di tornare sul tema dei segni diverse volte ancora, prima
di arrivare ad una esposizione in grado di compensare i passaggi blindati di un
italiano imparato svolgendo lavori precari, quasi esclusivamente a nero.
Perciò, chiederei un po' di pazienza, se alcune delle formulazioni che
seguiranno dovrebbero richiedere uno sforzo maggiore per la comprensione
rispetto alla precedente: Ogni oggetto matematico, così come qualsiasi
rappresentazione formale, prima di essere riportati a qualcosa diverso di sé,
esigono una differenziazione quantitativa riconducibile ad un concetto, a
partire del quale per analogia vengono create il resto delle rappresentazioni
numeriche. D'altronde, l'opposizione <divisibile-indivisibile>, di cui fa parte
una delle determinazioni dell'essere, viene Istituita, perché permette a
dividere i costruiti in precedenza numeri naturali in unità decomponibili ad
altre unità qualitativamente distinguibili, oppure a costituenti che non
ammettono più qualche determinazione significativa.
Ho insistito sulla nozione di relatività nel sottotitolo che ho dato al
testo, perché vi è un'importante differenza tra l'indagine sulla Natura
condotta da Parmenide, e quella sulla natura dell'uno effettuata in seguito da
Platone. Nonostante le perplessità che i rispettivi risultati suscitano,
nell'indagine di Parmenide l'essere viene ambientato solo occasionalmente e
solo metaforicamente da rappresentazioni spaziali. Nell'indagine orchestrata
da Platone invece, il vecchio Eleate non si stanca di utilizzare come argomento
una supposta immediatezza del luogo, che si potrà definire nelle metafore del
Parmenide storico, una malcapitata reiterazione della verità di cui il cuore non
conosce il tremore.

Devo dire già, da subito, poiché non avrò occasione di farlo in seguito,
che nel dialogo di Platone vi è estrema saggezza, così come una certa dose di
noncuranza nella costruzione degli argomenti, e che la descrizione appena
fatta della sua indagine non rende interamente giustizia al metodo utilizzato.
Tuttavia, per giustificare l'ironia della comparazione, mi permoto a riportare
un'altra maniera di concepire il luogo, come quella proposta dal filosofo
australiano Jeff Malpas nell'articolo: "Pensare topograficamente, luogo,
spazio, e geografia", (il cannocchiale n. 1-2 2017). "L'omogeneità e
l'uniformità dello spazio implica che lo spazio è quantificabile o misurabile, e
questo si chiarisce dall'etimologia del termine: in effetti, << spazio >> deriva
dal termine latino spazium , ed il greco spadion o stadion , termini che
comportano una sensazione di distanza misurabile o comunque di intervallo.
[....] Il luogo invece, è qualcosa di definito, essendo relazionato con la nozione
di limite: connessione, o superficie, la quale in sé è un limite. Il luogo fa parte
del termine greco chora , come sostrato di matrice, e in questo senso associa
la concezione contemporanea della nozione di luogo come posizionamento
del significato;la memoria. In questo senso il luogo, come contrapposto allo
spazio, assume caratteristiche che gli appartengono, e come tale il luogo è
essenzialmente una qualità - nello stesso tempo, le caratteristiche ascritte al
luogo, sono tali da dissociarlo da un altro luogo".

Quali sono i pregi di una distinzione del genere: per il momento


preferisco limitarmi a osservare, che l'omogeneità attribuita allo spazio lo
annovera tra le rappresentazioni quantificabili, mentre sarebbe assurdo
parlare di quantificazione a proposito di una significazione come quella di
vuoto, sia che la si intende come una nozione complementare della nozione
di movimento, oppure, come un concetto fondamentale della Geometria.

Mi è venuto per la prima volta in mente che la nozione di spazio


abbia un rapporto particolare con la nozione di differenza, mentre
osservavo un'illustrazione allegata nel capitolo "Percezione" di un manuale
di psicologia, la quale riproduce in contorni grafici trattorie seguite dagli
occhi durante la percezione di un oggetto. Nel caso concreto, la testa di
Nefertiti in profilo. L'immagine che ne risulta è costituita da aree
completamente coperte, e intrecci di linee che formano una specie di
ragnatela deformata, costituita a sua volta da piccoli raggruppamenti di
punti, alcuni più intensi degli altri, (più o meno ravvicinati), ed altri punti
piuttosto dispersi. Durante uno degli occasionali esami dell'immagine, mi
sono reso conto che in qualsiasi altra situazione sono in grado di prendere
nota di stimoli con differente provenienza spaziale, alcuni più intensi degli
altri e con differente distanza tra essi. Da buon empirista, quale mi sono
sempre ritenuto, mi sono chiesto: di che cosa avrebbe potuto prendere
nota uno dei primi organismi apparsi sulla Terra?

Visto che per definizione un organismo è in grado di accumulare


energia e di produrre eventi non necessariamente legati ad un contesto
ambientale, in una maniera alquanto ridotta, anche i primi organismi
dovevano essere in grado di produrre eventi, rilasciando energia; se non
per altro, per mantenere un equilibrio energetico estremamente precario. E
non ho motivo a dubitare che questo è stata l'unica cosa che una materia a
malapena coscienziata avrebbe potuto registrare. Indubbiamente un
organismo più complesso di quello primordiale è in grado di produrre
eventi che si possono definire <atti riflettivi uniformi>, in configurazioni
temporali sempre più complesse, che si possono chiamare a sua volta <atti
riflettivi preconcettuali> o <intuitivi>. Quale sia poi il meccanismo
attraverso il quale gli eventi prodotti vengono memorizzati, suppongo che
anche i neuro-fisiologi non hanno una risposta del tutto soddisfacente. Sia
come sia, in seguito mi proporrò di esaminare il comportamento di un
microorganismo, il quale dopo un lungo periodo di trasformazione ha
trovato habitat nelle viscere dell'uomo. Messo in condizioni di laboratorio,
in un ambiente in cui sono presenti sostanze nutritive, l'organismo procede
con il seguente metodo: Per un tempo relativamente breve viene prodotta
un'intensa ruotazine, interrotta bruscamente in seguito, con l'effetto di
propellerlo in una direzione arbitraria, cosicché la successiva constatazione
di cambiamento dell'intensità degli eventi prodotti dal contatto con
l'ambiente, determina la durata di questa specie di volo libero, al termine
della quale l'organismo ripete di nuovo la procedura, la quale lo propella di
nuovo in una direzione casuale, che determina di nuovo la durata del volo.
In questa maniera, solo per via di apprezzamento quantitativo
dell'ambiente l'organismo è in grado di trovare la sua strada verso l'aria con
maggiore concentrazione di sostanze nutritive… In un ambiente in cui sono
presenti sostanze nocive, il meccanismo di locomozione è lo stesso, con
l'effetto opposto... E' evidente che il microrganismo in questione, chiamato
Escherichia Coli, è in grado di fare quello che viene chiamato distinzione
qualitativa, intesa come controparte delle qualità primarie degli oggetti.

Ho fatto riferimento ad un esperimento come questo, perché la


relazione spesso istituita tra il concetto di qualità e la nozione di direzione
non è così innocente, come il comportamento tradizionalmente attribuito
all'"impuro" nell'eventuale scorgimento dell'"acqua santa". Tornando a
Parmenide invece, se si cerchi di affrontare il problema dei segni indicativi a
cui si fa riferimento nel poema, da un punto di vista grammaticale si potrà
dire che si tratta di aggettivi, che implicano una qualche forma di
comportamento, come suggerisce anche l'etimologia del termine utilizzato.
Da un punto di vista strettamente gnoseologico invece, con l'argomento
dell'ingenerabilità di ciò che è impossibile che non sia, molti degli aggettivi
impiegati in seguito vengano sprecati in un tentativo di guadagnare ulteriori
informazioni dei diversi modi di non essere, eccetto uno in particolare, che
sconvolge completamente il metodo prescritto dalla dea nella sua
istruttoria.

Anche se non sono in grado di aggiungere qualcosa sulle motivazioni


di Parmenide di dare un 'allure' mistico alle sue indagini, con le continui
riflessioni sul destino riservato a ciò che è veramente, sono giunto alla
conclusione che la maniera nella quale viene affrontato l'oggetto delle
indagini, oltre a facilitare il fortunato accesso al sapere divino, rende anche
molto più naturale una consacrazione iniziatica, riducendo
significativamente i rischi di suscitare indebiti sospetti. Va detto anche, che
persino con un testo integrale a disposizione, e competenze lessicali assai
più idonee di quelle di un interprete di un'epoca diversa, il testo presentava
più di una difficoltà di comprensione.
Tanto per cominciare, in difesa dell'interpretazione proposta qui,
ritengo l'esagerato utilizzo della negazione una distrazione da ambedue
delle figure formalmente coinvolte, l'una nella formulazione, l'altra
nell'interpretazione, della domanda che ha dato inizio al discorso affidabile.
Senza addentrarmi in sottigliezze sulla struttura sintática del costrutto,
vorrei chiamare l'attenzione sul sostantivo che serve di appoggio alle due
forme di attività sostantivizzate che appaiano nella domanda: A differenza
del senso mediato della via, come terreno fermo che facilita lo spostamento
in tale, o talaltra direzione, impiegata in un senso meno radicalizzato come
corrente che assorbe degli urti diversamente accentuati, coinvolge in
maniera subordinata la nozione cambiamento. Inoltre, non ci vuole molto a
pensare che qualsiasi ricerca, o investigazione, persino quelle svolte come
attività ricreativa in età diverse, si ricongiunge con l'atto di pensare, come si
insiste in diverse occasioni nel poema, con metodi più calzanti al uffizio di
un sciamano, che ad un investigatore sulla Natura.

Detto in un altro modo, in un caso come questo, un po' più


complicato di quanto possa apparire a prima vista, non è affatto
indifferente a chi dare la colpa per una serie di slittamenti tra considerazioni
sulla generazione delle rappresentazioni da un lato, e la produttività della
negazione, dall'altro, costretta ad entrare in unioni forzate in più di
un'occasione, con conseguenze frattali per l'indagine.

Nonostante le limitazioni di uno che va poco oltre al riconoscimento


delle lettere degli antichi greci, non ho molti scrupoli ad affermare che
l'argomento dell'ingenerabilità di un concetto con la verve insaziabile di un
tiranno, si applica con molto più naturalezza alla nozione di movimento, di
quel che spetta ad un concetto come quello di sostanza, in virtù
dell'argomento dell'improduttività del nulla; approfondito poco dopo da
Melisso tralasciando l'improduttività del non movimento,... ripresa da
Hegel invece, una ventina di secoli più tardi.

Gli aggettivi impiegati subito dopo quelli che si riferiscono


all'ingenerabilità e l'immortalità della sostanza: come, 'oulon' <ininterrotto>
, impiegato da Senofane per indicare la stretta rassomiglianza tra nozioni
come vedere pensare e udire (+); 'monogenes' <uniforme>, che denota se si
chiude un occhio per il pluriforme impiego della nozione di divenire,
l'impossibilità di qualcosa di ingenerato di assumere aspetti diversi;
'atremes' <saldo>, la cui fermezza del carattere non perde tutto il suo vigore
da un'interpretazione meno rigida; o 'ateleston' < illimitato>, che chiude la
prima serie di attributi concessi all'essere, si prestano a interpretazioni
concomitanti senza grandi forzature.

"né un tempo era diverso, né un tempo lo sarà, perché è tutto ora


inseparabile, uno e continuo. Quale inizio cercheresti di esso? Come e da
dove si sarebbe originato? Dalla sua negazione inesprimibile? Non te lo
permetto né a pensarlo né a pronunciarlo. Infatti non è pensabile né
esprimibile diversamente. Quale ragione avrebbe causato la sua
apparizione, a generarsi più tardi o piuttosto prima? Perciò è necessario che
sia tutto insieme o che non sia per niente. Né mai potrà avverarsi il caso che
accanto a ciò che è ingenerato avvenga generazione di altro." Per questo,
etc. etc. B8 4 - 14

Quale che sia la realtà a cui si ricollegano i segni, fino a questo


momento gli argomenti si susseguono con quasi irreprimibile naturalezza.
La via non presenta raggiri ingombranti; né delle svolte troppo brusche,
tranne le indiscrezioni da parte mia. Prima dell'inizio del discorso sulle
opinioni dei mortali invece, il discorso sulla verità si fa di volta in volta più
ripetitivo. Alcune delle formulazioni riassumono il tenore delle dichiarazioni
iniziali della dea, altre una via di mezzo tra determinismo pitagorico e un
canto epico, fino al trionfo finale della verità mutilata:

"a partire dal centro ovunque di ugual consistenza, giacché è


necessario che esso non sia in qualche misura di più o in qualche misura di
meno, da una parte o dall'altra. Non vi è, infatti, non essere che possa
impedirgli di giungere a omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di
ciò che è - qui più, lì meno, poiché è tutto inviolabile"[...].

1.1 Teorema fondamentale della Metafisica

Ponderazione: Ci sono costruzioni mentali necessariamente vere


come la sostanza ingenerata e l'intero registro delle rappresentazioni
correlate ai sensi, alcune correlate a sua volta in maniera immediata alla
nozione di vuoto, senza cui sarebbe impossibile avere nozione di che che
sia. Nel caso contrario, risulterebbe che la realtà abbia un cuore
smisuratamente dilatato, a partire dal concetto di singolarità della fisica
moderna.

Argomentazione: L'assurdità della supposizione si conferma dal fatto


che il concetto contrapposto alle nozioni assomiglia molto ad una sfera
stretta nei suoi limiti inviolabili.

Corollario: Se come dice Platone: "in quanto si trova a essere diverso


dagli altri, proprio per questo motivo l'uno sarà completamente simile a
tutti gli altri", bisogna ammettere, che oltre ad essere una delle
determinazioni di ciò che è uno, l'inviolabilità diventa anche il tratto
distintivo del monismo metafisico.

2. La Diade

Se dovessi descrivere in poche parole il messaggio non


completamente svelato nella parte conclusiva del discorso sulla verità, direi
che proprio dalla differenziazione spaziale a cui si fa riferimento, ha preso
spunto il contributo più significativo dell'intera storia delle indagini sulla
Natura, per l'istituzione di un concetto come quello di scienza.

In un luogo e dettagliato resoconto, che punta a evidenziare il nesso


dottrinale tra Platone e Aristotele, nel capitolo dedicato alle dottrine non
scritte del primo, Giovanni Reale si riferisce alle indagini svolte da Paula
Philippson, di cui parlerò in breve, dopo una selezione di passi del capitolo
in questione.

" l'essere è prodotto da due principi originari, e quindi è una sintesi, un


misto di unità e molteplicità, di determinante e indeterminato, di
limitante e illimitato."

Ne segue un commento intento a precisare che sullo statuto dell'Uno


concepito come al di sopra dell'essere, le testimonianze sono piuttosto
esigue, mentre sullo statuto della diade come non essere, o, il che sarebbe lo
stesso di <<al di sotto dell'essere>>, viene offerta una testimonianza di
Simplicio.

" Cosicché siffatta cosa viene detta instancabile, informe, indefinita e


non essere in virtù della negazione dell'essere. Con questa non ha
nulla a che fare né il principio né l'essenza, ma si muove in una
situazione di disordine."

Prosegue di nuovo Reale.

"Questa concezione dei due principi supremi legati dal nesso bipolare e
la conseguente concezione dell'essere (a tutti i livelli dal più alto al più
basso) come una <<mescolanza>> di struttura sempre bipolare,
rispecchiano in maniera perfetta in dimensione metafisica, la
caratteristica tipica del pensare dei Greci a tutti i livelli, in particolare a
livello teologico, filosofico e morale."[.....]"Dai due principi supremi,
dunque, derivano i Numeri ideali, così come le Idee, che hanno
struttura numerica, e, di conseguenza, tutte le cose. Tuttavia Platone
non si è limitato a questa deduzione, e , a ghisa di riprova, ossia come
argomentazione di rincalzo essenziale, ha presentato anche uno
schema generale di divisione categoriale dell'intera realtà allo scopo di
dimostrare come tutti gli esseri siano effettivamente riportabili ai due
Principi, in quanto derivano dalla loro mescolanza. [....] Ecco lo schema
sinottico:

Gli esseri si dividono in:

1) esseri per sé (esempi: uomo, cavallo, terra, acqua, ecc.)


2) esseri che sono in rapporto ad altro. Si dividono in:

2a) opposti contrari ( esempi: uguale- disuguale, immobile- mosso,


conveniente, sconveniente, ecc.)

2b) correlativi (esempi: grande-piccolo, alto-basso, destro-sinistro, ecc.)

"Può sorprendere a primo acchito, la distinzione fra contrari (2a) e


correlativi (2b), dato che ambedue sono esseri-in-relazione-ad-altro.
Ma i primi si distinguono nettamente dai secondi: infatti i contrari non
possono coesistere insieme, e la scomparsa di uno dei contrari coincide
con il prodursi dell'altro ( si pensi ad esempio alla vita e alla morte, al
mobile e all'immobile); per contro i correlativi sono caratterizzati dal
coesistere e dallo scomparire insieme (non c'è l'alto se non c'è il basso
non c'è il destro senza il sinistro, e così di seguito.)"

A proposito dei numeri ideali nel quarto paragrafo si legge:

"Un altro punto, che è stato sempre di grave ostacolo alla


comprensione della protologia platonica, è costituito dalla dottrina dei
Numeri ideali e della tipica riduzione platonica delle Idee a Numeri,
ossia della concezione delle idee come Idee-Numeri. Sappiamo che
questa connessione tra le idee e i Numeri non ebbe luogo in
coincidenza con la scoperta della teoria delle Idee, ma
successivamente. Verosimilmente ebbe luogo insieme alla formazione
sistematica e globale della teoria dei Principi, ossia quando Platone fu
in grado di fornire la fondazione protologia della sua ontologia delle
Idee. Un primo chiarimento eviterà una serie di confusioni e di
equivoci. I numeri ideali dei quali stiamo occupandoci non sono quelli
matematici, ma quelli metafisici: sono, cioè, ad esempio, il Due come
essenza della dualità, il Tre come essenza della trialità, e così di
seguito. I numeri ideali sono, quindi, le essenze dei numeri matematici
e come tali sono perciò <<inoperabili>>, ossia non sottoponibili ad
operazioni aritmetiche. Essi hanno quindi uno status metafisico,
differente da quello dei numeri matematici, appunto per il motivo che
non rappresentano semplicemente dei numeri, ma costituiscono
l'essenza dei numeri."

Il primo pensiero che mi è venuto in mente leggendo i commenti di


Giovanni Reale, è che, se era davvero questa la maniera di Platone di
Immagine dei numeri o quantità ideali, cambia poco o niente rispetto alla
teoria degli insiemi, così come viene esposta da Bertrand Russell nella
variante divulgativa dei principi della Matematica, o: "La definizione di
numero", come viene formulata, per l'esattezza, senza il peso di una
rimuginazione su fatti e misfatti di generazioni intere di filosofi con interesse
per la Matematica.
Per quel che riguarda le conclusioni di Paula Philippson (p.110), di cui
parlerò di nuovo in un altro contesto, mi farebbe piacere se riuscissi a
rendere un po' più esplicito: che se in una raccolta di cronache genealogiche
viene presa in considerazione in primo luogo l'opposizione ordine-disordine,
con l'avvenimento degli dei olimpici, come nel caso della mitologia greca, il
paradigma delle opposizioni benché continua a tenere conto
dell'opposizione iniziale, va spostato verso opposizioni ordinate; mentre con
l'intensificazione degli studi sull'ordine virtuale, la supremazia delle
opposizioni classiche: giorno-notte, celeste-sotterraneo, viene contestata da
concetti come quelli di sinus e cosinus, dove il fattore bipolare
dell'opposizione si risolve in rappresentazioni quantitative.

Ci tenevo a fare un commento come questo, perché qualsiasi cosa


aveva in mente Platone con la creazione del concetto di numeri ideali, un
principio come quello della diade indefinita, oltre a costituire un'opposizione
categoriale rispetto alla sobrietà dell'uno, allude inesorabilmente alla
nozione di quantità, la quale, in fin dei conti, diventa la ragione di fondo della
teoria delle idee. Il microrganismo menzionato prima si orienta
nell'ambiente, non perché tiene conto di una riflessione simmetrica dello
spazio, quantitativamente indifferenziata, ma perché è in grado di prendere
nota di stimoli quantitativamente discernibili, responsabili per l'involontaria
attivazione di atti riflettivi elaborati in precedenza, oltre i quali nella tappa
intermedia dell'esperimento si registra un spostamento relativo molto
ridotto, in completa assenza della nozione di direzione.

Per quel che sono in grado di immaginare io, c'è voluto molto tempo,
un'enormità di eventi e avventure azzardate, prima che la composizione
degli organismi primordiali aveva raggiunto una tale differenziazione a
permettere durante un primo stadio evolutivo l'acquisizione di una nozione
di direzione rudimentale, con l'apparizione di piccole isole abitate in mezzo
di un oceano vastissimo di atti riflettivi diversamente riconoscibili. Quello che
differenzia l'uomo dagli altri animali, costituendo un vantaggio rispetto alla
sua ridotta capacità di discriminare stimoli provenienti dagli organi percettivi,
è, che con la generazione di una sempre più complessa espressione emotiva
nella forma di comunicazione verbale, la nozione di direzione, di cui fa parte
la distinzione intuitiva di un qua e un là, ha assunto uno statuto
indipendente, puramente formale, di cui lo schema sinottico delle divisioni
categoriali di Platone ne prende atto, permettendo di stabilire un ordine
nell'apparizione dei concetti, con una necessaria inversione di 2a) e 2b).

Se gli esseri, come si esprime l'autore, si dividono in, per sé, e in


relazione di altro, quelli correlativi esprimono un'autentica relazione, e
ammettono una gradualità naturale in entrambi i corni dell'opposizione. I
contrari invece, si distinguono per la unilaterale omogeneità di uno dei
termini correlati, (il principio posizionato in seguito come sovrastante la
bilaterale fluidità dei correlativi), che richiede già un elevata capacità di
astrarre. Alcuni degli esempi riportati da Giovanni Reale non illustrano del
tutto correttamente questo aspetto dei contrari, poiché gli esempi come
conveniente-sconveniente, e tutti quelli che fanno appello ad un
componente emotivo in una rappresentazione, non sono molto audaci,
giacché ammettono gradualità ad entrambi i corni dell'opposizione, e
rimandano piuttosto ad un'azione del soggetto, e non ad un oggetto, (un
"essere in sé"), o un'idea astratta come nel caso dei contrari veri e propri. Del
resto, la coppia dei contrari non ammette un medio termine, perché il medio
termine ha le stesse caratteristiche del termine monovalente in
un'opposizione contraddittoria che non sia del tutto artificiale. Ossia,
quando non si tratta di una copia costituita tramite l'utilizzo illegittimo della
nozione di differenza.

Vi è un verso nella seconda parte del poema di Parmenide: "I maschi


a destra, le femine a sinistra". Si potrebbe avanzare con molta cautela
l'ipotesi, che il passaggio perduto di cui faceva parte il frammento,
conteneva un riferimento all'accreditata ai pitagorici concezione secondo
quale, ai numeri dispari corrisponde il principio maschile, mentre quello
femminile verrebbe espresso dai numeri pari. Ma anche se una tale
separazione dei generi non aveva niente a che vedere con i numeri, e si
tratta soltanto di una concezione parmenidea del senso originale del
termine, il verso si può ricondurre ad Eulero, per quel che riguarda il
teorema dei numeri pentagonali e le diverse maniere di cui è possibile
rappresentare la funzione Zeta; come prodotto di tre somme distinte, per
esempio: quelle delle frazioni delle potenze del numero due e il numero
tre nelle prime due, mentre come terzo componente dell'operazione
rimane la somma delle frazioni dei numeri non multipli a due e a tre, tra
cui si trovano il resto dei numeri primi e le rispettive potenze, così come i
prodotti combinati e le potenze coinvolte.
I numeri non multipli a due e a tre si possono ottenere a partire dei
numeri relativi, tramite l'algoritmo dei numeri pentagonali unificato, visto
che l'elevazione a quadrato neutralizza il collocato completamente fuori
posto concetto di qualità. Una tale possibilità permette a dare alle prodotti
spremuti dalle operazioni algebriche un senso di qualità a varie entrate,
come quella che accoppia un numero non multiplo a due e a tre e un
numero pentagonale.
Dividendo formalmente i numeri naturali una volta in pari e dispari,
creando in seguito un insieme di numeri positivi e numeri negativi,
assegnando in questa maniera ai componenti dell'insieme così definito due
distinzioni qualitative in equa misura, si crea una simmetria fittizia. A
differenza dei numeri pari, i numeri dispari rappresentano un'estensione
della distinzione iniziale, la quale li rende qualitativamente distinguibili
l'uno dall'altro in maniera iniqua, secondo l'eseguibilità o meno
dell'operazione inversa a quella di moltiplicazione. Inoltre, ai numeri dispari
non multipli a tre, divisi una volta in primi e decomponibili, è possibile
attribuire un'ulteriore distinzione formale, secondo il ruolo che svolgono in
un gruppo di simmetria: tali, che elevati a qualsiasi potenza al prodotto
ottenuto corrisponde un numero pentagonale ottenuto tramite
l'operazione elementare positiva, e tali, che elevati ad una potenza impari
al numero ottenuto corrisponde un numero pentagonale ottenuto tramite
l'operazione elementare negativa. Perciò, anziché avere come punto di
riferimento due insiemi diametralmente opposti, i membri dei quali
assumono caratteristiche quantitative sovrapposte, conviene dividere i
numeri primi in straordinari e ordinari, per esempio, definendo a sua volta
il numero tre come capitale, visto che il numero due è a tempo stesso
quello dell'alternativa, e presupposto essenziale del concetto di simmetria.
Si possono costruire diversi varianti di crivelli simmetrici, tra cui il
più semplice è quello che ha come obiettivo i numeri primi gemelli, con
asse di simmetria pari a ½, se i numeri negativi vengono presi in
considerazione, cosa che permette in questo caso di far funzionare il
crivello con la metà degli algoritmi altrimenti necessari. I cosiddetti numeri
primi gemelli si possono arrangiare in coppie di due configurazioni distinti,
la cui generabilità infinita è inequivocabilmente dimostrabile dalla logica
del crivello, che esclude la possibilità che si possa giungere ad una
situazione a partire della quale il resto delle posizioni rimarranno tutte
marcate, perché una dimostrazione del genere non richiede una distinzione
tra l'opposizione divisibile-indivisibile, ma una differenza quantitativa tra le
posizioni marcate e le posizioni non marcate in ogni ciclo successivo del
crivello, la cui proporzione anche se cambia con l'applicazione di un
algoritmo facilmente deducibile, con l'introduzione di sempre nuovi numeri
primi nella procedura, (aumentando in questa maniera all'infinito la
potenzialità del crivello), tende all'infinito ad entrambi i lati della
distinzione tra le posizioni, che nel limite del primo compimento di
ciascuno dei cicli, danno origine a numeri naturali con caratteristiche
qualitative diverse.
Come è stato menzionato prima, si possono creare diversi varianti di
crivelli simmetrici, ed altri schemi di opposizione simmetrica che
producono infinitamente numeri primi, e anche se è molto più difficile a
conseguire una dimostrazione inequivoca, ci sono indizi a sufficienza per
sostenere che la creazione infinita di numeri primi disposti in maniera
simmetrica, non può superare un limite di sei numeri coinvolti. -- {Tali indizi
riguardano il ruolo che i numeri pentagonali assumono non solo per la
diversa valenza dei componenti di un gruppo di simmetria triviale, ma
anche per la disambiguazione della diversa natura dei ventisei gruppi di
simmetria sporadici, i quali permettono inoltre, a individuare diversi livelli
di limitazione dell'operazione algebrica a cui viene assegnata la possibilità
di elevare unità formali a gradi sempre più potenti}. Devo avvisare che si
tratta di una esposizione molto limitativa di alcuni degli aspetti più
importanti dello stretto rapporto tra i numeri pentagonali e il concetto di
simmetria, che potrebbe dare l'impressione di una complessità
irrappresentabile, al punto di apparire completamente inutile senza una
dettagliata descrizione della logica di crivelli simmetrici con più di due
ordini diversi dei componenti; la cui logica è riconducibile alle potenze del
numero due, coinvolte in maniera implicita nella costruzione del crivello.
Umanamente parlando, sarebbe un'ambizione sproporzionata a
intraprendere la suddetta descrizione in questa sede, o ad addurre ulteriori
considerazioni sul concetto di simmetria prima di averlo fatto . Detto
questo, come conseguenza delle considerazioni esposte poco prima, non
ho un motivo valido a dubitare che ogni tentativo di far quadrare
l'impostazione concettuale della teoria dell'Elettromagnetismo di J. C.
Maxwell, con la trasformazione di valori quantitativi di quattro algoritmi, è
destinato a trasformarsi in distorsione quantitativa in una delle prospettive
concepite. Come accade del resto anche in una coppia di contrari. Ma se in
quel caso la differenza discorsiva tra i diversi modi di concepire la realtà ne
assorbe spesso e volentieri considerazioni inattuali, in una relazione tra
valori quantitativi assume rilevanza in primo luogo la valenza identitaria
delle espressioni "elementari" sottoposte alle manipolazioni… Per di più,
un vettore può cambiare la sua caratteristica quantitativa senza cambiare
direzione soltanto in un contesto puramente formale, ma se la luce viene
considerata un vettore, è impossibile che cambi una delle sue
caratteristiche senza che cambi anche l'altra: il che, insieme alla trattazione
di un'operazione come quella di potenziamento, è uno dei pochi meriti
della prima parte del trattato sul monismo di Hegel.

Nello stesso ordine di considerazioni, ritengo importante a ricordare


che la moltiplicazione è un'addizione multidimensionale, priva di senso se
presa in sé stessa, e che il teorema di Gödel non concerne le operazioni di
primo grado, a differenza delle operazioni che conferiscono alle idee
"primitive" una connotazione qualitativa, nell'autentico senso del termine.
Concetti come antimateria o "dark energy" invece, seguono una logica la
cui applicazione porterebbe alla distinzione tra un Universo ed un
anti-Universo. Ma questo non è tutta la storia. La già concepita dai
pitagorici anti-Terra del loro modello dell'Universo, la quale denota la
nozione di differenza in maniera del tutto formale, ha perlomeno il merito
di distinguere il modello dei pitagorici dal modello accademico delle sfere
omocentriche, per l'utilizzo tecnico della nozione di direzione, un po' prima
dell'utilizzo del verbo essere con simile funzione.
I paradossi logici che coinvolgono un sdoppiamento radicale della
sensibilità dello spirito, come quello del mentitore, occorrono, perché
l'omogeneizzazione dei comportamenti di membri riuniti sotto un
denominatore comune, li rende formalmente quantitativamente
indiscernibili. Perciò, la reiterazione del denominatore comune da parte di
uno dei membri, (l'atto di auto predicarsi), che è già un'azione o
comportamento a parte, diverso della descrizione comportamentale data
nella premessa, lo rende automaticamente diverso, ossia: uno non
membro... È impossibile attribuire una caratteristica qualitativa all'insieme
di tutti gli insiemi, perché in questo caso l'unica alternativa sarà che esso
non sia, visto che tutte le altre forme di differenziazione sono già incluse nel
concetto così definito: in questo caso, un insieme che fa tutt'un uno
qualitativamente omogeneizzato con i suoi membri, quantitativamente
diversi invece, l'uno dall'altro.

È evidente che dell'aporia del mentitore appaiano due diverse


caratteristiche attribuite ai membri dell'insieme: quella di dire il falso, e
quella di appartenere ad una delimitazione territoriale, (o qualche altra
caratteristica assunta formalmente compatibile con un comportamento
espressamente attribuito). È da notare che non vi è un nesso causale tra
esse, ma soltanto asserito. Perciò, l'imbarazzo finale risulta dallo
smembramento della premessa coerenza comportamentale, rendendo la
caratteristica territoriale autonoma: ossia, essenzialmente diversa dal
comportamento attribuito di dire quello che non è mai successo... "Né
potrà mai avverarsi il caso, che accanto a ciò che è ingenerato avvenga
generazione di altro".

Come ha avuto modo di osservare Nicola Galgano nell'articolo


"PARMENIDE INVENTORE DEL NON ESSERE" , ( Bollettino della società
filosofica italiana, n.206 maggio/agosto 2012): <<... che cosa è ciò che non
è? Non è facile intraprendere questo cammino e seguirlo fino in fondo.
Questa situazione concettuale può anche passare per un giochetto e lo
studioso può facilmente lasciar perdere e dedicarsi a studi più "seri". Ciò è
successo molte volte nella storia. Per esempio, un destino a questo tipo
capitò a Zenone e ai suoi paradossi che tante volte sono stati considerati,
dagli "studiosi seri", al massimo delle curiosità logiche o linguistiche, e
quindi furono lasciati da parte. Ci vollero gli studi di logica del secolo XX, a
cominciare dal Bertrand Russell, per capire la portata, circa 2400 anni
dopo...>>..., si tratta di argomenti seri, discussi forse in abbondanza in
passato, la cui trattazione ho intenzione a riprendere di nuovo, dopo l'esame
di alcune delle posizioni di Platone, espresse durante la diventata ormai
mitica esercitazione con riferimento all'uno, non tanto per la trattazione
sistematica del problema della predicazione, quanto per i continui giochi di
forza tra l'uno e gli altri.

"Ma è possibile che qualcosa partecipi dell'essere in un modo


diverso da qualcuno di quelli elencati? -- Non è possibile. -- Dunque l'uno
non partecipa in nessun modo dell'essere. -- Sembra di no. -- Perciò l'uno
non è in nessun modo. -- Pare di no." /143 e 7 - 10/

"L'uno se si muove, si altera anche. -- Si. -- E se non si muove in


nessun modo, non si altera affatto. -- No, infatti. -- L'uno che non è, in
quanto si muove si altera, in quanto non si muove non si altera. -- No,
infatti." /163 2 - 6/

Per capire se vi è effettiva differenza tra il significato che il


Parmenide storico attribuiva al termine utilizzato nel poema, e la maniera
con cui quest'ultimo viene utilizzato da Platone, basta osservare che nel
primo passo citato, ciò che concerne l'esistenza viene correlato al modo
come strumento investigativo.

Nella seconda delle citazioni invece, riferendosi ai diversi modi di


essere, Platone compie un colpo basso di doppia snaturalezza, visto che
l'uno in quanto si altera non è proprio uno, mentre in quattro non si altera,
lo è, se si vuole che l'ipotesi avanzata mantenga un minimo di coerenza. La
fase successiva dell'argomento - " Allora l'uno che non è si altera e non si
altera. -- Risulta. -- Non è necessario che ciò che si altera diventi diverso di
prima, cioè che venga meno alla sua condizione precedente: mentre che ciò
che non si altera non diventi diverso e non venga meno alla sua precedente
condizione?" - non regge, non tanto in virtù della precedente condizione di
ciò che non si altera, ma soprattutto perché l'uno che non è uno rimane
costantemente un'unità fluida, e la suggestione che sia in grado di subire
un'alterazione contro natura, diventando un unità inalterabile, si riferisce
alla possibilità di ricongiungere in una rappresentazione due condizioni che
si escludono a vicenda. Indubbiamente il dialogo più enigmatico di Platone
ha lasciato molte incognite irrisolte, attirando l'attenzione di filosofi con
interessi più svariati in epoche diverse, e in tempi più moderni, con
intensità crescente tra quelli con un interesse particolare per la
Matematica. Non ha tutti i torti Franco Ferrari a ripetere in più occasioni nel
saggio introduttivo della sua traduzione del dialogo, che il tentativo a
riconciliare tutte le tendenze interpretative proposte, o quello di riunire in
qualche sorta di direttiva dottrinale tutti i temi abbordati, è destinato a
fallire. Devo dire che ho apprezzato molto il saggio, nonostante ciò non
sono disposto a condividere una parte delle tesi sostenute, perché le mie
letture del sostenitore della teoria delle idee sono state orientale in primo
luogo al rapporto dell'ultimo con la teoria della verità di Parmenide. A
differenza di molti altri, il tema delle grandezze rimane l'unico
indispensabile per la trattazione dei concetti che hanno avuto più fortuna, o
che comunque sono rimasti maggiormente associati al dialogo, nonostante
la classificazione che gli è stata attribuita dai primi esegeti. Già all'apertura
delle discussioni, con la lettura dei 'logoi' di Zenone, il tema delle grandezze
si profila sotto sotto, e mi sembra una questione secondaria a congetturare,
se si tratti di uno stratagemma premeditato di Platone, che parte da
premesse remote, come ha avuto modo di osservare il personaggio di
Parmenide (133b9), o il tema delle grandezze ha affiorato in maniera del
tutto naturale, come la fenice dalle ceneri. Senza dubbio, nell'ambito
accademico sono stati dibattiti, anche prolungati a proposito. L'argomento
che ha dato inizio alla discussione tra il già avanzato con gli anni Parmenide
e l'ancora giovane Socrate sull'eventuale esistenza di forme sovrasensibili, è
proprio una delle funzioni più importanti dell'anima, evocata in seguito in
sostegno della validità dell'argomento: Il problema della partecipazione, al
quale vengono dedicate di nuovo due pagine a parte, durante l'esame della
relazione tra l'intero e la parte, non avrebbe alcun senso senza la nozione di
differenza quantitativa. Inoltre, soltanto uno degli argomenti della seconda
deduzione della prima ipotesi, da l'impressione di non attingere in qualche
misura al pozzo delle coppie definite. Ma se vi è un posto durante l'esercizio
di ragionare di Platone dove l'importanza del tema delle grandezze si fa
sentire con tanta efficienza, a rimanere persino un poco divertiti, se non
proprio sorpresi dalle parole messe in bocca del vecchio Eleate, questo è
l'inizio dell'ipotesi in cui, con una contorsione delle tendenze significative
del concetto coniato da Parmenide si pretende che l'uno non sia, riducendo
la produttività della negazione in poco meno di una legittimazione
dell'immobilità di ciò che è veramente.

Come ho menzionato prima, le mie conoscenze di greco antico sono


più che rudimentali, e non mi posso permettere comenti esperti. Questo
però, non mi impedisce a confidare che la lingua greca non ha mai avuto
sfumature semantiche dell'espressione "l'uno in sé", a differenza di molti
termini che esprimono in diverso modo la nozione di differenza. Perciò, se
un tale uno viene inteso esclusivamente come inalterabile, e allo stesso
tempo in relazione con l'intero, sarebbe assurdo non accorgersi della diversa
funzione di simili rappresentazioni, nonché del carattere problematico della
relazione, la quale conferisce all'uno una relazione con l'intero in uno
scorrere del tempo inidoneo a spiegare una relazione del genere, dal
momento che l'uno inalterabile non può relazionarsi che con il simile. Di
conseguenza, soltanto un contatto fisico è in grado di giustificare il concetto
di istante, che aveva causato tanta perplessità al vecchio Eleate.

Ormai deve essere diventato evidente che il testo si trascina con una
incidenza espressiva, a dir poco, accidentata, che tende a esagerare con le
comparizioni nei passaggi da un argomento all'altro, o a assottigliare troppo
il filo dell'esposizione, saltando da un'insinuazione all'altra, rischiando a
compromettere definitivamente una reputazione già compromessa in
partenza della gravità degli argomenti trattati. Ebbene, proprio perché la
reputazione di un profano conta più meno come quella di un ventriloquo
errante, in difesa dell'indecisione partitaria del portavoce del giovane
Socrate, posso permettermi ad osservare, che non di rado è estremamente
difficile a distinguere quello che si può chiamare un concetto, da quello che
è effettivamente una nozione; come la nozione di vuoto e il concetto di non
essere, per esempio, o la nozione di contraddizione dal concetto di
viceddizione... Per non parlare della misura e altri strumenti ancora,
indispensabili per lo svolgimento delle diverse funzioni dell'anima.
Si è già parlato della comunicazione verbale come tratto distintivo del
comportamento umano, ma prima di approfondire l'argomento ritengo utile
una triplice anticipazione: Al termine della prima deduzione della prima
ipotesi, Platone rifiuta a concedere esistenza all'uno esageratamente
identitario, prima di dare una piega diversa all'ipotesi: e se per ragioni
altrimenti non comprensibili la sostanzialità dell'uno che non sia indicibile
viene correlata tradizionalmente all'essenza del corrispettivo concetto, in
seguito cercherò a rendere comprensibile, perché l'essenza è un concetto a
parte, semanticamente più vicino al modo, e perché il ruolo esercitato dalla
nozione di direzione in una proposizione permette a smascherare l'impiego
illegittimo della nozione di differenza, transformado la scelta degli aggettivi
nel lavoro più estenuante durante la formulazione di un argomento.

Nonostante la riluttanza del memorabile Ferdinand de Saussure di


ricondurre le origini del linguaggio alle onomatopee, l'ipotesi più plausibile
è che la comunicazione verbale ha fatto le prime mosse sfruttando la
capacità della stragrande parte degli organismi vertebrali di associare uno
stimolo proveniente dai sensi ad un determinato sentimento.

Come spesso accade, un turbamento di un certo spessore viene


accompagnato di un suono, e nonostante la mancanza di indizi che in
questo caso, quel suono sia in grado di richiamare un determinato oggetto
nella coscienza di un altro animale compatibile con la continuazione della
specie, persino nella coscienza di un' altro animale di aspetto sommario
non particolarmente differente riesce a evocare un sentimento
riconoscibile.

Non vedo motivo a dubitare che oltre al assai più vasto registro di
sentimenti d'affetto rispetto ai suoi predecessori - o di frustrazioni di ogni
immaginabile sorta - gli ominidi, o almeno alcuni di loro, possedevano anche
la capacità di produrre un vasto gamma di suoni. Inoltre, non vedo possibile
spiegazione, che in una maniera o in un'altra, non include un periodo in cui
quel gruppo di individui che ha dato origine ad una specie in inarrestabile
espansione, hanno cominciato a imitare i suoni emessi dagli altri animali,
così come il cigolio di un albero, o il gorgoglio dell'acqua.

Benché si tratti di un processo ,evidentemente meno riconoscibile


come tale rispetto ad una vera e propria agitazione emotiva, nella coscienza
dell'imitatore la reminiscenza di un particolare suono, poco alla volta, ha
cominciato a prendere la forma di un atto riflettivo concettuale. Soltanto in
una fase successiva ad un oggetto già sufficientemente addomesticato era
associata esplicitamente anche un'attività con un altro suono caratteristico.

Mi pare anche sufficientemente sensata l'affermazione, che il


carattere associativo di ogni forma di comunicazione richiede un, più, o
meno raffinato processo di generalizzazione, cosicché, tramite associazioni
sempre più astratte e percorsi di analogie a volte fin troppo azzardate,
l'incontenibile propulsore effettivo dell'atto comunicativo dette luogo ad
una, per così dire, immobilizzazione motivata.

Un effetto collaterale del tortuoso processo di civilizzazione, è che il


verbo, (il soggetto nel caso specifico), dalla sua iniziale appartenenza ad
un agente apriensibile dai sensi, con l'introduzione di agenti sempre più
astratti finì per assumere un significato universale - in realtà, la reattività
del soggetto, ausiliato nella coordinazione dei diversi prototipi di delegati
da un'estensione sostantivizzata del verbo, quale è in effetti il predicato in
una proposizione. Proposizioni come "A è B" fanno senso, in quanto uno
dei termini della proposizione denomina formalmente un oggetto - il
principio materiale, "ciò che viene informato", e l'altro, implicitamente o
esplicitamente un comportamento - il principio formale, "ciò che
informa"... Se B è C, e A è B, A è anche C perché sia B che C riferiscono in
una maniera o in altra ad un comportamento ascrivibile ad A, al quale in
termini strettamente formali si potrebbe riferire come caratteristica o
determinazione... E, se B contraddice C, sia che A è B, sia che non lo è, in
entrambi i casi A non è C. Perciò, quando l'immaterialità formale di un
concetto come quello di non essere subentra come predicato di un
soggetto proposizionale, si deve escludere categoricamente che un tale
concetto possa avere realtà al di fuori delle manipolazioni astratte
dell'oggetto pensante.

Sarebbe forse sciocco da parte mia ad osservare, che con, o senza


catene, un essere solitario è condannato a rimanere eternamente
immobile; se si esclude per eccesso di purezza il cosiddetto essere sé
movente, infinitamente elusivo e autoreferenziale. D'altronde, avrei
preteso forse troppo con la trattazione di una mezza dozzina di argomenti
in una maniera tanto sbrigativa. Eppure, se non è con le buone maniere
che riuscirò a far valere le mie ragioni, non saprei come spiegare a chi non
si è mai distanziato da quelle poco produttive, che ogni volta quando
viene coinvolta una differenziazione qualitativa in un ragionamento
scientifico, non si fa altro che trasformare in stampelle correttive
sensazioni, (o affetti, per dirla con Spinoza), come del resto cercano a
spiegare le conclusioni di Paula Philippson, che mi è sembrato inutile a
riproporre in un contesto inteso a spiegare la logica delle divisioni
categoriali di Platone.

"Lá forma polare del pensiero vede, concepisce, modella e


organizza il mondo, come unità, in coppie di contrari. Esse sono la forma
in cui il mondo si presenta allo spirito greco, in cui questo trasforma e
concepisce in ordinamenti e come ordinamenti la molteplicità del mondo.
Queste coppie di contrari della forma polare del pensiero sono
fondamentalmente differenti dalle coppie di contrari della forma di
pensiero monistica o di quella dualistica, nell'ambito delle quali esse si
escludono, oppure combattendosi a vicenda, si distruggono, o, infine,
conciliandosi, cessano di essere come contrari [ … ]. Nella forma di
pensiero polare invece i contrari di una coppia non sono soltanto tra loro
indissolubilmente collegati, come i poli dell'asse di una sfera, ma essi nella
loro più intima esistenza logica, precisamente cioè polare, sono
condizionati alla loro opposizione: perdendo il polo opposto, essi
perderebbero il loro stesso senso. Tale senso consiste appunto nel fatto
che essi, come contrari -- allo stesso modo dell'asse che li separa e
tuttavia li collega -- sono parte di una unità più grande che non è definibile
esclusivamente in base a loro: per esprimermi in termini geometrici, essi
sono punti di una sfera perfetta in sé. Questa forma polare del pensiero
informa necessariamente ogni obiettivazione del pensiero greco. Perciò
anche la visione greca del divino è formata nel suo segno ."

A parte la dubbia opportunità dell'analogia con un certo tipo di


termini geometrici, almeno io riesco a cogliere più affinità con tesi
sostenute da Eraclito che da Platone, il quale, come spiega in seguito
l'autore della citazione, è rimasto molto più legato a Parmenide, a
differenza del suo discepolo, diventato rivale nel perfezionamento della
seconda navigazione.

Per quanto inconcludente rimane la disambiguazione delle


tecniche della caccia adottata da Platone nel tentativo di smascherare il
sofista, si potrebbe assumere che l'ideatore di un principio come quello
della diade indefinita, aveva preso molto sul serio la lezione di Parmenide
formulata nelle righe 56-59 di B8 e le ultime due righe di B9:

"da una parte dalla fiamma etereo fuoco che è mite, molto
leggero, a sé stesso in ogni direzione identico, rispetto all'altro, invece,
non identico; dall'altra parte anche quello in sé stesso, le caratteristiche
opposte: notte oscura, corpo denso e pesante"... "tutto pieno ugualmente
di luce e notte invisibile di entrambi alla pari, perché insieme a nessuna
delle due corrisponde il nulla".

Come aveva raccomandato la dea, bisogna stare attenti a non


scambiare le sue parole con quelle di un semplice mortale. Ebbene,
nonostante tutti i difetti dei metodi di comunicazione con i dei, l'incrociata
opposizione tra la leggerezza della luce e la pesantezza con cui sembra
impregnata l'oscurità della notte, oltre ad indicare in che cosa consiste la
difficoltà di interpretare i propri pensieri, allude anche ad una realtà che
ama nascondersi. In tutt'un'altro senso avrà compreso invece le sentenze
di Eraclito Aristotele. La sua concezione dei principi e dei diversi modi
risolutivi di risonanze prodotte da un motore invisibile, insieme a
l'incomparabile contributo per la sistematizzazione delle rappresentazioni,
ha esasperato il formalismo speculativo, elevando l'improduttività della
negazione nel rango di un bene: <<Inoltre ci sono cose piacevoli per
natura e cose piacevoli per accidente: quelle piacevoli per natura, che
consistono nell'esercizio di un attività naturale, sono certamente dei beni,
come lo è ad esempio il piacere che prova "il dio" esercitando la sua
attività immobile 46. Insomma per Aristotele il piacere è certamente un
bene, anche se non è il bene supremo, e lo è in un senso ben preciso, cioè
in quanto si accompagna ad un attività che è, essa, il piacere supremo.>>,
Enrico Berti, "Sumphilosophein. La vita nell'Accademia di Platone". -- Se
non altro, tra gli innumerevoli meriti degli eccellenti libri di Enrico Berti, il
commento appena riportato riesce a chiarire la differenza
manifestamente conflittuale tra il piacere e il bene supremo.

Approfittando dell'opportunità oferta da Giovanni Reali nell'ultimo


capitolo della sua relazione (p. 598-599), per dare la dovuta enfasi
all'importanza dei diversi dibattiti in corso sul contributo di Aristotele per
la filosofia, mi permetto a esprimere il giudizio poco lusinghiero che
l'approccio degli studiosi seri sulle divergenze di fondo tra maestro e
discepolo non ha prodotto niente significativo negli ultimi cent'anni.

Come puntualizza R. Loredana Cardullo in uno dei suoi saggi della


solita impeccabile chiarezza dell'esposizione, "l'argomento del terzo uomo
era già noto a Platone, il quale nel Parmenide ne presenta due differenti
versioni, [....]. In entrambi i contesti l'aporia del terzo uomo - o, come
sarebbe più corretto dire, della "terza grandezza", perché per la precisione,
quella del "terzo uomo" è la denominazione che l'argomento acquisirà con
Aristotele - nasce, come sua diretta conseguenza, dall'argomento dell'ėn
epi pollos, che Parmenide in 132 a, illustra in questi termini: << quando ti
sembra che molte cose siano grandi, forse ti pare che esista un'unica
identica idea, se volgi lo sguardo su tutte quelle cose, e da ciò ritieni che il
grande sia uno>>; << ma - prosegue l'Eleate, avviandosi verso l'aporia - il
grande in sé e le altre cose grandi, se analogamente con lo sguardo volgi lo
sguardo su tutte, non ti appariranno forse a loro volta un qualcosa di
unitario, un grande in virtù del quale tutte queste cose appaiano
grandi?>>. Ed ecco, in conclusione, l'aporia del regresso infinito: <<Farà
allora apparizione un un'altra idea di grandezza nata accanto alla grandezza
in sé e alle cose che parteciperanno di essa; e sopra tutte queste un'altra
ancora, in virtù della quale tutte queste saranno grandi. E così ciascuna
delle idee non sarà più una per te, ma illimitata molteplicità>>."... Questo è
un estratto leggermente semplificato del saggio - IL PERI IDEON DI
ARISTOTELE E IL PARMENIDE DI PLATONE, OVVERO: DA UN COMUNE
TENTATIVO DI "SALVARE" LE IDEE VERSO UN INEVITABILE SCONTRO
DOTTRINALE. R. Loredana Cardullo prosegue con una dettagliata analisi
dello scontro dottrinale tra due dei maggiori maestri della riflessione
speculativa di tutti i tempi, insistendo sul carattere pseudo razionale di
unità sovrasensibili. Quello che mi sento di aggiungere io per la
comprensione dell'aporia delle grandezze si potrebbe formulare nella
seguente maniera: Ad un oggetto ritenuto per grande corrisponde
indubbiamente un comportamento diverso di quello di un oggetto più
piccolo. E siccome almeno in teoria, (a ghisa delle monade di Leibniz), è
possibile immaginare oggetti infinitamente piccoli o infinitamente grandi,
(con l'eccezione, evidentemente, della sintesi eccezionale dell'Assoluto),
ad ognuno di questi oggetti compete un comportamento tutto suo, così
come a ciascuno degli individui della razza umana, o un altro animale con
una certa rassomiglianza, tanto nell'aspetto sommario, quanto nel
comportamento degli altri individui.

A me sembra che l'aporia della predicazione sia la conferma più


stringente dell'inviolabilità del monismo metafisico, nonché della contorta
interpretazione della sensibilità dello spirito, proposta da Kant nella "Critica
della ragione pura".

Se decido a dividere in diversi segmenti una rappresentazione


grafica del concetto di retta, dovrei ricorrere per forza ad unità la cui
quantitatività non coincide soltanto con quella della retta, ma coinvolge
anche la nozione di direzione in un senso diverso.

Dopo tutto, il connubio spazio-temporale si traduce nella relazione


tra quantità ingenerate, che per qualche strana combinazione
contribuiscono per la bipolare sensibilizzazione sia dello spirito che di Gea.
A differenza della retta, la nozione di differenze individuali ha poco a che
fare con un concetto mono-costitutivo come quello di punto, ed è una
concezione di radici mistiche quella che interpreta in un primo momento la
nozione di spazio come qualcosa di adirezionale, quale è in effetti il
concetto del caos, per trasformarsi in seguito in ramificazioni sempre più
complesse di un mondo, oltre il mondo considerato dall'inventore del
calcolo infinitesimale, "il migliore tra tutti i mondi possibili". Allo stesso
modo, l'adottato in seguito di esperienze concrete concetto di aleatorietà,
ha poco a che vedere con l'accezione tecnica della sensazione di un ordine
estremamente disturbato, la quale è un prodotto accidentale
dell'immaginazione, a pari passo con l'idea di uno stabilizzatore
trascendentale dei comportamenti di anime dotate di un eccesso di
intelligenza.*

Ma se per amore della verità, o di coerenza formale, per la


stabilizzazione delle unità fisiche viene incaricato lo stesso stabilizzatore
trascendentale, la supposizione che l'ordine deve provenire per forza dal
totale disordine si può giustificare soltanto se si assume in concordanza
con le correzioni di Melisso, che il concetto di Universo sia riconducibile ad
un puro spirito radiofonico; o caso mai ad una radiazione di fondo, per la
spiegazione della quale occorre prendere in considerazione un criterio
temporale, come la giovinezza o la vecchiaia, oltre che un principio
costituito da una causa e un effetto - essenzialmente frequenziale.

Io direi che come caratteristiche ascrivibili ad un oggetto di interesse


scientifico, la giovinezza e la vecchiaia si possono applicare senza troppa
spregiudicatezza alle diverse fasi dell'onda, la quale, anche nel senso
formale del termine, rimane un concetto indissociabile della nozione di
intensità, come quella che ha contribuito per l'attribuzione di due
comportamenti alterni della Luna.

A dire il vero, con il riferimento a due diverse maniere di esprimere


un ordine temporale, non ci tenevo tanto a ribadire l'inestricabile nesso
causale tra la nozione di intensità e la nozione di direzione, quanto a
richiamare l'attenzione sulla variabile fortuna di Platone nella costruzione
dei suoi argomenti, molti dei quali vengono allestiti da ramificazioni portati
avanti per il mero piacere di speculare. Il caso più emblematico dell'intero
esercizio, riguarda la trattazione della nozione di tempo, e il ripiegato a 720
gradi argomento del continuo invecchiamento e ringiovanire dell'uno,
seguito dall'immancabile punto di vista alternativo: "Principio, o una
qualsiasi altra parte dell'uno o di un'altra cosa
qualunque, sempre che sia parte e non parti, non è necessario che sia uno,
dal momento che è parte? -- È necessario. -- Dunque, l'uno si genera sia
insieme a ciò che viene per primo, sia insieme a ciò che viene ad essere per
secondo, e non manca a nessuno degli altri che si generano, quale che sia la
posizione della serie, finché, una volta giunto al punto estremo, diventa una
totalità unitaria, senza mancare né al mezzo né al primo elemento né al
punto estremo né a nessun altro nel processo di generazione. -- È vero. --
L'uno, allora, possiede la medesima età di tutti gli altri, cosicché, se l'uno in
sé non si e generato contro la propria natura, non sarà venuto ad essere né
prima né dopo gli altri, ma contemporaneamente. E in base a questo
ragionamento, l'uno non è né più vecchio né più giovane degli altri e
neppure gli altri lo sono dell'uno. ...." /153 d 5 - 154 a 2/
Benché si tratti di un passaggio breve, probabilmente non troppo
viziato per i gusti del tempo, una volta chiariti i significati delle espressioni:
<<l'uno in sé>> e <<i diversi dall'uno>>, le unità fisiche e con esse la nozione
di differenza diventano un attributo incontornabile dell'esistenza, in pieno
contrasto con la caotica distribuzione della materia prima che cominciasse a
prendere forma a qualche distanza dal Big Bang; o per quel che riguarda
l'autore del ragionamento, la sua versione ufficiale, così come viene esposta
nel "Timeo".

………….
*O insufficienza mentale, come considerava i suoi contemporanei l'autore di "Così parlò Zarathustra" per
le loro credenze in un mondo oltre quel mondo che lui considerava l'unico modo veridico, prendendosela
tanto con l'autore della "Repubblica".

Bibliografia ragionata
Рада Михайловна Граноская, Əлементьl практической психологии -
Издательство Ленинградското университета, 1984 (Rada Mihailovna
Granovskaja, Editoria dell'Universita di Leningrado, 1984) p. 28

Thomas D.Brock, Michael T. Madiha, Biology of Microorganisms -


Prentice Hall International Editions 1988. 3.9. Chemotaxis in Bacteria p.
89-91

Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, II. Platone e Aristotele


- Vita e Pensiero, Milano 1988

Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale - PAYOT,


PARIS 1969 p. 101-102, 1°, 2°…, p.105, (+) p. 179

Enrico Berti, Sumphilosophein La vita nell'Accademia di Platone -


Edizioni Laterza, Edizione digitale: luglio 2015 p. 120. Nota 46, Etica
Nicomachea Vll 15 1154 b 15-31

Franco Ferrari, "Parmenide", BUR Rizzoli 2016

"Parmenide" di Platone, Atti del Convegno di Napoli (27-28


Ottobre 1988), letto il Febbraio 2019 nella biblioteca centrale di Napoli.

R. E. ALLEN, PLATO'S PARMENIDES - Jale University Press, New


Haven and London, letto fino alla pagina 76, dall'edizione digitale
disponibile sul Google Play

Gilles Deleuze and Felix Guattari, What is Philosophy? - Columbia


University Press New York 1994, letto fino alla pagina 35 per le
medesime ragioni

N.B. Tutte dirette riferrenze a Parmenide, così come la citazione del


"Fedone", sono prese da "PARMENIDE - SULLA NATURA" di Dario
Zucchello (p. 180), 'academia.edu'. Un'importante fonte di ispirazione
sono state uno dei lavori sull'Alchimia di C. G. Jung "Psychology and
Alchemy" e diverse opere di Giorgio Colli, con particolare peso di "La
filosofia dell'espressione". Infine, il concetto di viceddizione è stato
preso in prestito da "Differenza e Ripetizione" di Gilles Deleuze.
18.06.2021

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