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MONTALE ANALISI DEL TESTO

NON CHIEDERCI LA PAROLA

La poesia è tratta dalla raccolta Ossi di seppia (1925), prima raccolta poetica montaliana, che porta
avanti la prima fase della poesia dell’autore. Il titolo della raccolta fa riferimento alla conchiglia
interna della seppia (di colore bianco e dalla consistenza schiumosa) che altro non è che la
testimonianza di un organismo vivente che è stato scartato dal mare. Montale ritiene che le sue
poesie abbiano la stessa caratteristica, in quanto sono tracce di ciò che rimane di una vita consumata
dalla presa di coscienza di non poter decodificare il senso dell’esistenza e del dolore, sia dal senso
d’impotenza provato dall’uomo, attanagliato dal “male di vivere”. Già partendo dal titolo dell’intera
raccolta e della particolare sezione in cui risiede la poesia, è possibile segnalare alcune
caratteristiche fondanti di tutta l’opera. La poesia di Ossi di seppia è una poesia che, come l’osso di
seppia, si lima, si fa «scabra ed essenziale», riduce le pretese eroiche e celebrative dei “poeti
laureati” (in particolare Gabriele d’Annunzio, come si legge nei I limoni), per avvicinarsi alla
quotidianità, alla concretezza delle cose e spostandosi verso l’uso di toni ironici e colloquiali
desunti in parte dal crepuscolare Guido Gozzano. D’altro canto però, non manca da parte di
Montale il recupero di forme colte e preziose (non di rado attinte proprio da D’Annunzio) e la
ripresa, a livello propriamente metrico, delle forme tradizionali della letteratura italiana (rifiutando
lo stravolgimento metrico dalle avanguardie storiche): recupera in particolar modo l’endecasillabo e
la rima. Potremmo dire che Montale rinnova la grande tradizione letteraria italiana (caratterizzata da
forme ampie) su una nuova base linguistica. Nell’intera opera, Montale indaga il male di vivere, che
si rivela nitidamente in un paesaggio scarno ed arido (di cui l’Osso di seppia è evidentemente
simbolo) ed in cui tutta la vita si rivela nel suo sgretolarsi. Il poeta è intento, con difficoltà, ad
interrogare la natura tentanto di recuperare un qualche «sterile segreto», e la poesia Spesso il male
di vivere ho incontrato non può che essere una delle poesie in cui l’indagine che il poeta svolge si fa
maggiormente serrata ed evidente.
Lo sfondo di queste liriche è il paesaggio della Liguria, la terra natale del poeta, che simboleggia
anch’essa l’aridità della vita. La raccolta si colloca, secondo la dichiarazione di poetica contenuta ne
I limoni, contro la poesia retorica di maestri come Carducci e D’Annunzio. In particolare Montale si
propone di “attraversare” D’Annunzio, il “poeta laureato” che si muove “fra le piante/ dai nomi
poco usati: bossi ligustri o acanti. La raccolta contiene ventidue brevi liriche semplici e chiare, con
un linguaggio semplice e comune, che testimoniano la solitudine esistenziale del poeta. Montale
scrive la raccolta negli anni in cui si sta affermando il Fascismo, per cui il messaggio contenuto
nella lirica è anche rivolto contro la veemenza e le false certezze del regime.
Il titolo della poesia invece, come in tutte le poesie di Montale, è in realtà la semplice ripresa del
primo verso del componimento, alla maniera dei poeti medievali italiani, in particolare gli
stilnovisti, caratteristica peculiare della produzione dell’autore che lo innesta sulla linea della
tradizione poetica italiana.
METRICA: tre quartine formate da versi di varia lunghezza e con rime ABBA, CDDC, EFEF. La
rima D è imperfetta perché ipermetra (amico/canicola).
Il componimento è costruito con una struttura circolare. Le strofe 1 e 3 si corrispondono
simmetricamente: il primo verso è costituito da un ottonario + un settenario, il secondo è un doppio
settenario, gli ultimi due sono endecasillabi; esse si oppongono perciò alla strofa 2, che si presenta
con quattro versi disuguali, rispettivamente di 10-9-12-11 sillabe.

CONTENUTO: un paesaggio di aridità e di solitudine – il vuoto dei valori e la mancanza di


certezze - l'errore di chi presume di aver capito tutto e di essere padrone della propria vita – il ruolo
della poesia: testimoniare la crisi.
Nella prima strofa Montale si rivolge ad un ipotetico lettore abituato ad ascoltare formule
rassicuranti e lo invita a non chiedergli più certezze positive, in grado di spiegare tutto. In essa il
poeta mette in contrapposizione due modelli di poesia:
•da una parte il modello della poesia retoricamente intonata dei poeti-vati ottocenteschi;
•dall'altra parte, i poeti della nuova generazione caratterizzati da un animo informe: essi perciò non
possono offrire una parola risolutiva (al v. 9 Montale riprenderà il concetto, parlando di formula che
mondi possa aprirti): infatti un animo informe non si lascia facilmente definire dalle parole. Dunque
la poesia non può avere una funzione consolatoria, non può più fornire immagini belle ma fini a se
stesse, come il fiore splendido di colori in mezzo a un prato polveroso dei vv. 3-4. I versi di Montale
offriranno al lettore solo sillabe – neanche parole – storte e secche (il contrario del fiore lietamente
colorato).

La seconda strofa presenta la satira dell'uomo che procede sicuro per la sua strada, nonostante i
turbamenti della storia e che non si preoccupa dei dubbi esistenziali e non è consapevole della
precarietà del vivere, per cui fa sfoggio della loro apparente sicurezza.. L’immagine ha almeno due
valenze. Anzitutto una chiara valenza politica (si ricordi che il componimento fu scritto nel 1923):
la poesia montaliana divenne all'epoca un punto di riferimento per chi negava il fascismo e i suoi
sterili dogmatismi;
Ma l’immagine dell’uomo-ombra ha un valore anche esistenziale: neppure chi crede di essere agli
altri ed a se stesso amico è preservato, in realtà, da un destino di lacerazione e di fallimento.
Il poeta invece lo sa; egli è, per ora, l’unico consapevole del male di vivere, come Montale
riassumerà in un altro osso breve della medesima serie. Lo scalcinato muro del v. 8 altro non è,
come il polveroso prato del v. 4 (che sottolineava l’aridità del vivere) che un correlativo oggettivo,
cioè un oggetto che evoca un concetto e un’emozione.

Nella terza strofa sono rimasti famosi i due versi finali:


Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Non è più il tempo, dice Montale, dei miti consolatori o dei facili ammaestramenti; dobbiamo
prendere coscienza della crisi storica in atto e della debolezza dell’arte stessa. Inoltre il poeta
sottolinea di non possedere delle formule magiche e di non poter fornire alcuna certezza, ma di
poter soltanto accettare il male del vivere.
Sul piano tematico, la prima e la terza strofa affrontano il medesimo argomento, sottolineato
dall'identico incipit negativo (Non chiederci la parola che / Non domandarci la formula che),
mentre la seconda strofa presenta l’immagine (falsamente positiva) dell’uomo che se ne va sicuro.
STILE: Dal punto di vista dello stile, la lirica procede con un ritmo meditativo, da ragionamento in
versi. Per enunciare la propria verità (la persuasione che non esiste alcuna verità certa) il poeta
utilizza un linguaggio prosastico. Rinuncia perciò alle immagini poetiche, o ne fa poco uso. Una
delle metafore presenti nel testo è il "croco /perduto in mezzo a un polveroso prato": un fiore
solitario, che cresce nel deserto del mondo, e che richiama il fiore della ginestra leopardiana.
Poetica è anche l’immagine della "storta sillaba e secca come un ramo", una delle più intense
espressioni dell’aridità montaliana, che sembra un tipico verso dell’Inferno dantesco, in particolare
in riferimento al canto XIII con la selva dei suicidi.
Varie sono le figure retoriche individuabili in questa celebre poesia di Montale: nella richiesta del
primo verso (Non chiederci…) è ravvisabile la figura dell’apostrofe (discorso fatto con toni
accorati, di affetto o di rimprovero, a persone scomparse o assenti o a cose personificate). Ai vv 2, 4
e 8 possiamo notare tre suggestive immagini metaforiche (lettere di fuoco; polveroso prato;
scalcinato muro). Varie volte ricorre l’anastrofe (l’animo nostro, polveroso prato; l’ombra sua;
scalcinato muro; che mondi possa aprirti, storta sillaba). Sia al v. 3 che al v. 10 è presente la figura
della similitudine (risplenda come un croco; secca come un ramo). Notiamo anche l’anafora dei vv.
1 e 9 (Non… / Non…). Di notevole impatto l’epifonema dei vv. 11-12 (Codesto solo oggi possiamo
dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo). L’epifonema è una figura retorica che consiste nel
chiudere un discorso con una frase caratterizzata da enfasi e/o solennità. Sono presenti numerosi
enjambement (vv. 1-2, 2-3, v.3-4, 7-8, 9-10) e allitterazioni (della r: chiederci, domandarci, croco;
della p: perduto, polveroso, prato; della s: sì, storta, sillaba, secca).

COMMENTO
La posizione occupata dalla lirica “Non chiederci la parola” all’interno della raccolta e il suo
contenuto la rendono un vero e proprio manifesto poetico. I versi in questione esprimono la crisi
spirituale di Montale e di un’intera generazione d’intellettuali che, negli anni in cui si afferma il
Fascismo, rifiuta di compromettersi col regime. La poesia ha il compito di esplorare il male di
vivere dell’uomo novecentesco e di cercare di spiegare la sofferenza provata dall’uomo, ma la
mancanza di certezze portano ad un’unica certezza, in negativo: “ciò che non siamo, ciò che non
vogliamo” (v. 12). I poeti dunque non hanno più lo sguardo da veggente da loro posseduto in
passato e sono smarriti come tutti gli uomini comuni. Montale dichiara, come tutti i poeti del 900,
ed anche per questo parla al plurale, di non essere in grado di offrire all'uomo, al lettore, un
messaggio forte, un messaggio di certezza, di sicurezza, di verità. Per questo i poeti possono
solamente parlare al negativo; possono solamente dare la testimonianza della sofferenza, del disagio
esistenziale che attraversa l'uomo contemporaneo. È da notare, come già abbiamo detto, l'uso del
correlativo oggettivo, cioè l'oggetto che simboleggia la condizione esistenziale del soggetto; inoltre
c’è anche l'uso di suoni volutamente allitteranti, per dare l'idea di una sofferenza, di una fatica
nell'espressione della propria intimità, del proprio modo di essere. Con il suo paesaggio di aridità, e
con la sua parodia dell'uomo che se ne va senza problemi, sicuro e che evita di porsi le domande
fondamentali, Non chiederci la parola illustra con ammirevole sinteticità la condizione di solitudine
e di amarezza spirituale in cui si muove l’umanità contemporanea. Non solo: Montale aggiunge che
è finito il tempo in cui ai poeti si riconosceva l’ultima parola o la possibilità di soluzioni positive.
La poesia di oggi non può che presentarsi come nuda (e fraterna) testimonianza della crisi in atto. Si
parla dunque di una vera e propria teologia (laica ovviamente) negativa, in quanto questa crisi può
portare il poeta soltanto a dire “ciò che non è e ciò che non vuole” senza però avere una base solida,
per cui la poesia stessa può partire solo da questa “conoscenza per esclusione”.
Molto frequenti nella lirica sono anche i riferimenti dannunziani: infatti secondo Montale la
grandezza di D’Annunzio e tanto vasta da dover essere per forza attraversata e non scavalcata.
Infatti, nonostante la poetica montaliana non potrebbe essere più distante da quella di D’Annunzio, i
riferimenti a quest’ultimo sono numerosi: “croco”, la figura dell’uomo sicuro, facilmente
identificabile con il poeta vate dannunziano, la cosidetta “ora panica” ripresa nella seconda strofa.
SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO
La poesia è tratta dalla raccolta Ossi di seppia. (per il discorso sulla raccolta vedi sopra=Raccolta di
poesie antieloquenti, essenziali nel lessico, ambientate nell’arido paesaggio marino ligure – quello
dell’infanzia e giovinezza del poeta – legate nei contenuti a condizioni di disagio e disarmonia con
il reale. Sono poesie in negativo, non hanno nessuna verità da rivelare ma si limitano a registrare il
malessere del vivere del poeta. )
Il titolo è la semplice ripetizione del primo verso del componimento (anche qui vedi sopra lol) e già
da esso emerge il tema fondamentale della poesia: il male di vivere
Metrica: sono due quartine di endecasillabi tranne l'ultimo (un settenario doppio), a rime incrociate
(ABBA), ma l'ultimo verso rima con il primo della I quartina ed è ipermetro.
Contenuto: l'universalità del dolore, connaturato alla vita stessa - l'indifferenza come antidoto al
male di vivere. La lirica famosissima, è tra quelle che più esplicitamente esprimono il doloroso
senso dell'esistere che caratterizza un po' l'opera di Montale. Il poeta ha una visione pessimistica
della condizione dell’uomo e vede la vita come sofferenza (il male di vivere) , egli incarna questo
suo concetto in tre successive immagini, prese dai vari Regni della natura: il ruscello che gorgoglia,
e il gorgoglio sembra un gemito di dolore, perché ostacolato da qualcosa nel suo percorso, la foglia
che riarsa si accartoccia (ed anche questo è un segno di dolore), il cavallo che stramazza.
L’uomo partecipa a questa condizione di dolore universale da cui può preservarsi solo attraverso
una divina indifferenza. Quest’ultimo concetto è esplicato, in contrapposizione con le 3 precedenti
immagini di dolore, in tre figurazioni espressione di immobilità: la statua, la nuvola e il falco.
Nello specifico la prima quartina dichiara inizialmente il tema fondamentale: il male di vivere
(v.1). Esso viene espresso con tre immagini (correlativi oggettivi):
1.il ruscello impedito nel suo libero scorrere;
2.la foglia che inaridisce per la calura e si accartoccia su di sé;
3.il cavallo caduto (stramazzato dice il poeta).
Gli aggettivi collegati alle tre realtà sono scelti dal poeta per sottolineare questo stato di cose:
"strozzato", "riarsa", "stramazzato". Montale parte da immagini dimesse e quotidiane per affermare
l’esistenza di un universale male di vivere, che accomuna tutti in un uguale destino di dolore e
sofferenza.
Anche la seconda quartina comincia (vv. 5-6) con un'affermazione: quel poco di bene (precario
bene) che è concesso agli uomini coincide con la divina Indifferenza. Altre tre immagini vengono a
illustrare tale affermazione:
1.la statua;
2.la nuvola;
3.il falco che volteggia in cielo.
Alla condizione insanabile di malessere dell’esistenza dunque non è possibile opporre altro se non il
distacco, l’Indifferenza (scritta con la i maiuscola) che in questo contesto acquisisce valore positivo,
l'uomo deve assume un atteggiamento di "divina Indifferenza" per tutto ciò che è contrassegnato dal
male e dal dolore. Il male di vivere non può essere annullato ma può essere alleggerito attraverso il
distacco dalla realtà e quindi dal dolore. L’indifferenza viene definita divina perché propria degli
Dei, o secondo un’altra interpretazione, perché “dono degli Dei”, e considerata prodigiosa in quanto
rara ed eccezionale come un prodigio, un miracolo, uno spiraglio nella dolorosa realtà.
Simbologia nella lirica (CORRELATIVO OGGETTIVO): I riferimenti di Montale ad un mondo di
realtà naturali, cose, oggetti, animali è strumentale ad affermare il concetto che sta alla base della
lirica. Gli oggetti, anche i più banali e insignificanti, non significano solo se stessi ma diventano
simbolo di una sensazione, di un sentimento, di una situazione esistenziale in cui tutti possono
riconoscersi (correlativi oggettivi). Simmetricamente il poeta contrappone a tre emblemi del male
(rivo, foglia, cavallo) tre immagini esempio del bene: "la statua", "la nuvola" e il "falco", tre
immagini che si elevano verso il cielo, immagini-simbolo dell’immobilità e quindi
dell’indifferenza: la statua si caratterizza per la sua fredda, marmorea staticità inerte,
completamente insensibile; la nuvola per la sua inconsistenza con cui si staglia nel cielo; il falco
perché afferma la sua libertà volando alto al di sopra della miseria del mondo.
Contrasto tra bene e male: Il contrasto tra bene e male è alla base della struttura binaria della
poesia: così come la prima strofa, si apre sul termine “male” e si caratterizza nel segno della
negatività, la seconda strofa esordisce con il termine “bene” e si basa sulla positività; il fluire
faticoso del rivo si contrappone alla tranquilla staticità della statua, l’appassire per l’arsura della
foglia si contrappone all’umidità della nuvola, il cavallo stramazzato a terra si contrappone al falco
che vola alto nel cielo; anche fonicamente la poesia propone questo contrapporsi: parole dure e
suoni aspri sono propri della prima quartina (strozzato, incartocciarsi, riarsa, stramazzato), in
sintonia con le immagini aride e negative che rimandano all’angoscia esistenziale, mentre i suoni
sono chiari e distesi nella seconda quartina (prodigio, divina indifferenza, sonnolenza), in sintonia
con l’immagine dell’indifferenza e del distacco. Accanto all’opposizione male vs bene vi è anche
quella basso vs alto: alle immagini “terrestri” (quindi basse) della prima quartina si contrappongono
quelle che propendono verso il cielo (quindi alte) della seconda quartina.
Il male di vivere che Montale descrive è un male oggettivo, radicato ed evidente già
dall’osservazione della natura quotidiana. Non c’è violenza nella poesia di Montale e la tecnica del
correlativo oggettivo (=evocare un’idea o una sensazione indicandola con gli oggetti, le cose) tende
ad identificare questo male così radicato con il rivo strozzato, con l’incartocciarsi della foglia riarsa,
con il cavallo stramazzato. Un dolore ed un male che è dunque presente nella normalità della vita e
non derivante da un qualsivoglia atto violento. Il significante (=forma esteriore della parola) della
prima quartina, dato con forza dalle allitterazioni del gruppo “rs”, “rt”, e comunque dalla forte
presenza di consonati come “r”, “s” e “z”, realizza, a livello ritmico/musicale (evocando suoni duri
ed aspri) il male di vivere di cui Montale ci parla. Nella seconda quartina invece, il tono si acquieta
e la maggior presenza delle vocali interrompe il malessere di quella precedente. Montale individua
l’unico bene esistente che risiede, cito dal verso, nel «prodigio/che schiude la divina indifferenza».
Un bene che consiste in un puro esistere senza tempo e senza memoria; dunque la statua nella
sonnolenza del meriggio, la nuvola e il falco alto levato.
STILE: Stilisticamente la poesia ha un andamento discorsivo, con lessico scarno ed essenziale e
rimanda, come di consueto nelle liriche di Montale, a immagini realistiche e concrete.
I suoni aspri caratterizzano la prima quartina a cui si contrappongono i suoni chiari e distesi della
seconda quartina. Figure retoriche:
Allitterazione, suoni aspri e duri = "era il rivo strozzato che gorgòglia" (v. 2), "era l'incartocciarsi
della foglia/riarsa" (vv. 3-4), "era il cavallo stramazzato" (v. 4), "e il falco alto levato" (v. 8).
Enjambement: vv. 3-4; 5-6; 7-8.
Anafora: "era" (vv. 2-3-4-6-7)
Climax ascendente = "stramazzato" (v. 4).
Antitesi = "stramazzato" (v. 4) che indica un movimento dall'alto verso il basso e "levato" (v. 8) che
indica un momento dal basso verso l'alto.
"era il rivo strozzato che gorgoglia" = correlativo oggettivo e simboleggia il suo stato d'animo..
"era l'incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato"= correlativo oggettivo come una
metafora del male.
"era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola , e il falco alto levato" = correlativo
oggettivo come metafora del bene.

COMMENTO
Eugenio Montale interpreta le inquietudini, il malessere e l'impotenza dell'uomo di cultura che vede
sgretolarsi i propri punti di riferimento e avverte l'impotenza della cultura e della ragione di fronte
alle devastazioni di due guerre mondiali e alla nascita di regimi illiberali e totalitari in Europa.
Registra con un linguaggio arido, scabro ed essenziale, l'impossibilità dell'uomo di comunicare e la
sua disarmonia col mondo. Il poeta non ha verità o certezze da rivelare; di fronte all'impossibilità di
ogni consolazione non resta che l'accettazione dignitosa della propria condizione di angoscia e di
sconfitta.
Nella vita, dice il poeta, domina il dolore. Intorno all'uomo è sofferenza: sofferenza nelle cose, negli
animali, nelle persone. È il male di vivere, una concezione pessimistica dell'esistenza che avvicina
Montale a Leopardi. L'unico rimedio al male di vivere è l'indifferenza, che è divina perché ci
consente di restare sereni e impassibili come gli dei del mondo antico. Al male di vivere, a questa
ferrea necessità dell'esistenza, il poeta contrappone la sua scelta morale, l'impassibilità,
l'isolamento. Sono questi il suo bene di vivere, la sua filosofia della vita, una sorta di apatia stoica o
di atarassia epicurea, che risente degli influssi di Schopenhauer e della sua noluntas.
Nella formula montaliana del male del vivere si è riconosciuta l'intera cultura tra le due guerre.
Questo male di vivere è: il disagio contemporaneo di fronte a un mondo di odio e d'incomprensione;
l'angoscia per la caduta dei valori e degli ideali che avevano reso più accettabile l'esistenza alle
generazioni precedenti; il sentimento doloroso di chi non sa più conferire significato e scopo ai
propri giorni. Il poeta rappresenta tutto ciò con la forza di alcuni eloquenti oggetti poetici. Si tratta
di oggetti emblematici, che si caricano di un valore generale di simbolo: spesso, in Montale, cose
concrete diventano segno di concetti astratti. Si comincia individuando gli emblemi del male: il
ruscello strozzato, la foglia incartocciata sul terreno, il cavallo caduto; tutti elementi simbolo di una
Natura “matrigna” evidenziata dai vocaboli negtativi e spettrali (“stramazzato”) e anche dalla figura
del sole, e quindi della vita, che brucia e rende la foglia “riarsa” (non come in D’Annunzio dove il
sole e l’ora “panica” erano il culmine del vitalismo).
Il bene per contro, non c'è, o meglio, consiste nell'assenza del male. Da qui l'invito del poeta a
fuggire: bisogna fuggire in ciò che egli chiama indifferenza. Essa è l'unica realtà divina, perché ci
porta fuori dall'esistente, fuori come sono già altri oggetti emblematici: la statua, inattaccabile dai
sentimenti e dalla sofferenza, la nuvola e il falco staccati dal mondo e preservati così da ogni
bruttura. In ciò risiede il precario messaggio che il poeta può offrirci in positivo: bisogna
contemplare ogni cosa dall'alto, secondo il tipico volo del falco, e da fermi, come una statua. Questo
è l'unico bene concesso agli uomini.

NON RECIDERE FORBICE QUEL VOLTO


La poesia è tratta dalla raccolta Le occasioni (1940), seconda opera di Montale in cui esprime la
seconda fase della sua poetica. Le occasioni fu pubblicata per la prima volta a Milano nel 1939 per
la casa editrice Einaudi. Una seconda edizione, con l’aggiunta di alcune liriche, vide la luce nel
1940. In totale sono state raccolte 54 poesie scritte tra il 1928 e il 1939, quando in Italia si stava
affermando il Fascismo e si avvicinava il disastro della Seconda Guerra Mondiale.
La raccolta di Montale segna un punto di svolta rispetto alla precedente Ossi di Seppia: il poeta
vuole sottolineare che esistono delle occasioni di salvezza per gli uomini, da qui deriva infatti il
titolo, “occasioni” che sono rappresentate da eventi irrilevanti ma che possono aprire un varco nel
dolore. La memoria diventa uno strumento fondamentale per recuperare momenti del passato che
possono illuminare il presente. Un ruolo importante all’interno della raccolta è giocato dalle figure
femminili, che spesso hanno un ruolo salvifico, quasi di donne-angelo. In particolare nella sezione
Mottetti, è presente Clizia che ricopre il ruolo di difensore dei valori positivi della giustizia e della
cultura. Anche lo stile cambia perché vengono abbandonati gli sperimentalismi della prima raccolta
per recuperare le forme tradizionali della metrica e rivisitarle in chiave moderna. Le “occasioni” da
cui nascono le poesie altro non sono che alcuni momenti casuali e quotidiani (influenza di Boutroux
e del suo contingentismo), da cui il poeta cerca di carpire il significato della stessa esistenza. Le
liriche contenute in questa raccolta si avvicinano alla corrente ermetica in auge a Firenze negli anni
Trenta, ma hanno delle loro peculiarità.
La seconda sezione di questa raccolta, quella cui appartiene questa poesia, si compone di 22 brevi
liriche e i Mottetti, un canzoniere d’amore per Clizia, il cui tema ricorrente è quello dell’assenza
della donna. Clizia è la fanciulla mitologica innamorata di Apollo, la quale non staccava mai gli
occhi dal suo dio, finché fu trasformata in girasole. Clizia è un nome-schermo: la donna in
questione è Irma Brandeis, una giovane studentessa ebrea-americana conosciuta da Montale a
Firenze nel 1933. Con “Clizia” Montale avrà una relazione che durerà qualche anno, fino al rientro
della donna negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali.
Metrica: due quartine ognuna di tre endecasillabi e un settenario (i due settenari sono posti in
posizione diversa); le rime sono irregolari con variazioni di “quasi rime”
Contenuto: Nella prima strofa il poeta si rivolge alla forbice e chiede di non tagliare il volto della
donna amata e di non far diventare il suo viso parte della nebbia che avvolge il ricordo delle persone
care. La donna è Clizia, ovvero Irma Blandeis, una giovane americana conosciuta a Firenze nel
1933 e costretta dalle leggi razziali a tornare nel suo paese.
La seconda strofa della poesia “Non recidere forbice quel volto” invece evoca un’immagine
concreta: la forbice diventa la cesoia del giardiniere che sta potando un’acacia in autunno, mentre il
guscio della cicala cade dal ramo e finisce nel fango. Il gesto del giardiniere diventa così il
correlativo oggettivo che permette all’autore di collegare un momento apparentemente normale, il
taglio di un ramo, con la perdita della memoria della donna amata. Secondo Montale, infatti, il
poeta deve trovare un oggetto (il correlativo oggettivo) che gli possa servire per rappresentare uno
stato d’animo, che diventa universale. L’espressione al verso 5 “il freddo cala” è un punto chiave
della poesia: indica proprio che la memoria piano piano viene offuscata e il ricordo svanisce.
La poesia è impostata su due metafore (correlativi oggettivi) ben distinte:
- la prima è una invocazione del poeta affinché la forbice del tempo non cancelli dalla memoria il
ricordo di un volto caro;
- la seconda ritrae la realtà della vita: un colpo freddo recide la vetta dell’acacia che, ferita,
abbandona nel fango di novembre (nella prima belletta di novembre) il guscio vuoto della cicala. È
una conclusione dolorosa di quanto aveva auspicato nella prima metafora: come l’acacia scrolla via
da sé il guscio di cicala, così la forbice del tempo spegnerà in lui anche l’immagine di quel volto
caro.
Il tema centrale esprime dunque il suo stato d’animo: il desiderio che il tempo non cancelli anche
quella figura a lui cara. Ma vano è il suo desiderio: tutto è destinato a finire nella dimenticanza.
E’ una concezione pessimistica che non possiamo sempre condividere perché, è risaputo, i ricordi
più cari della giovinezza riaffiorano spesso vivi nella memoria.
Montale sceglie alcuni oggetti per rappresentare la sua condizione interiore e l’idea che la memoria
tenda a sfumare a causa del tempo che passa. La «forbice» dell’incipit è quella del tempo pronto a
colpire e ferire la «memoria» che gradualmente «si sfolla», si svuota dei ricordi, rendendoli
metaforicamente una «nebbia» nella sua mente: il poeta prega affinché almeno il ricordo del
«volto» dell’amata venga risparmiato dal «colpo» del tempo. Nella seconda quartina la “preghiera”
del poeta riceve una risposta attraverso l’immagine della lama dell’accetta, fredda come la stagione
autunnale che ha spazzato via l’estate, che sferra il proprio colpo sui rami dell’acacia, che rimane
«ferita». Lo stesso avviene con i ricordi: l’albero che perde i suoi rami, con il «guscio di cicala» che
cade sul terreno fangoso, è come la «memoria che si sfolla» perdendo anche quel volto, quel «viso
in ascolto» che il poeta sperava di poter mantenere vivo nella sua mente. Il colpo del tempo ferisce,
implacabile e inesorabile.
Stile: Da un punto di vista stilistico, nell’analisi del testo di Non recidere, forbice, quel volto si
evidenzia notevole anche la fitta trama fonica, di richiami tra i suoni, che collega tra loro parole
chiave come recidere e forbice, acacia e cicala che costituiscono due paronomasie o la rima “sfolla-
scrolla” che contribuisce a collegare strettamente fra loro le due strofe. È interessante il termine
“Belletta”, un termine arcaico, già impiegato da Dante e D’Annunzio e indica l’avvento
dell’autunno, che rappresenta una cornice ideale per la dolorosa perdita della memoria.
Figure retoriche: Varie sono le figure retoriche presenti in questo suggestivo componimento
poetico di Montale: Nel v. 1 (Non recidere, forbice, quel volto) possiamo già individuare almeno
quattro figure: quella dell’apostrofe, quella della metafora, quella della personificazione e quella
della paronomasia (recidere/forbice). Altre metafore sono quelle del v. 4 (la mia nebbia di sempre) e
del v. 5 (Un freddo cala). Due sono gli enjambement (vv. 1-2, 6-7).
Commento
“Non recidere, forbice, quel volto” fa parte di quelle che trattano il tema del ricordo, anzi
dell’impossibilità angosciante di conservare il ricordo del volto della donna amata, che, in questo
caso, è Irma Brandeis, come evidenziato sopra. Il viso della donna sembra protendersi ancora in
ascolto verso le parole del poeta, ma la nebbia dell’oblio è destinata ad avvolgerlo, anche se è
“grande”, perché domina nella mente del poeta. A fare da correlativi oggettivi a questa dolorosa
esperienza della perdita della memoria sono tre immagini: la forbice, che è pregata di non tagliare
via il volto della donna (anche se è molto evidente che la preghiera del poeta non potrà essere
esaudita, in quanto la forbice rappresenta l’azione inesorabile del tempo, destinato a eliminare il
ricordo dell’amata), il freddo che giunge improvvisamente e il guscio della cicala che viene fatto
cadere dall’albero colpito da un colpo di accetta. La nebbia è una tipica immagine per indicare i
ricordi che svaniscono. Al di là dell’esperienza individuale del poeta, la forbice che elimina
impietosa il ricordo rappresenta la precarietà della condizione umana e la tristezza degli uomini che
non riescono ad accedere ai propri ricordi per sfuggire all’insensatezza della loro condizione
presente. Quindi la sua personale vicenda sentimentale finisce per diventare il simbolo della
condizione degli uomini, che vivono nella precarietà. Gli uomini non riescono ad accedere ai propri
ricordi per combattere la tristezza del presente. Questa visione estremamente negativa della
memoria è in totale contrasto per esempio con il pensiero di Giuseppe Ungaretti (come anche del
filosofo Bergson) che vede la memoria, e il ricordo, come un qualcosa di estremamente positivo in
grado di salvare anche un semplice istante dallo scorrere inesorabile del tempo (punto di vista quasi
antitetico rispetto a Montale dunque).
Partendo dal termine “belletta” poi si può parlare del rapporto tra Dante e Montale: questi infatti
riprende il sommo poeta in tutti i suoi componimenti, in particolare sotto tre aspetti.
1. linguaggio aspro tipico dell’Inferno (già visto in precedenza)
2. figura della donna angelo (Clizia) che riprende i caratteri salvifici di Beatrice, perdendo però
ovviamente ogni aspetto legato alla teologia sacra medievale
3. correlativo oggettivo, o allegoria moderna, ripreso da Eliot che a sua volta era un grande studioso
di Dante; questo espediente viene definito in tal modo perché si utilizzano immagini concrete per
rimandare a qualcos’altro, con l’unica differenza che per Dante quelle immagini avevano significato
comune per tutta la comunità dell’epoca mentre le immagini usate da montale hanno un significato
che varia a seconda dell’interpretazione (Montale poeta delle cose per questo motivo)

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