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La nota si interroga sul concetto contemporaneo di "fine dell'arte", cercando una terza via estetico-filosofica tra gli opposti estremi del formalismo e del nichilismo.
La nota si interroga sul concetto contemporaneo di "fine dell'arte", cercando una terza via estetico-filosofica tra gli opposti estremi del formalismo e del nichilismo.
La nota si interroga sul concetto contemporaneo di "fine dell'arte", cercando una terza via estetico-filosofica tra gli opposti estremi del formalismo e del nichilismo.
Nelle sue celebri “Lezioni di Estetica” (1835) Hegel, preavvertendo l’imminente
tramonto della moderna civiltà umanistica, poté intuire l’inizio di una nuova età dell’uomo in cui l’Arte sta già mutando radicalmente il proprio volto. A differenza dei Romantici, che ancora si attardavano a favoleggiare sul genio artistico e sul senso estetico come percezione di una realtà superiore rispetto alla realtà prosaica del mondo, Hegel con profonda lucidità riconobbe l’essenza di ciò che avrebbe costituito tra Ottocento e Novecento la grande stagione delle avanguardie: non più un’Arte dell’immediatezza, del puro sentimento contrapposto alla ragione, bensì un’Arte della mediazione totale, pienamente razionale. Arte che è tale insomma nell’unico modo possibile per riuscire a corrispondere dialetticamente ai tempi nuovi: nell’epoca del Concetto, ossia della scienza giunta al suo massimo dispiegamento teoretico, l’Arte – anziché esperienza dell’irrazionale – non può che esistere essa stessa nella forma del Sapere. Noi che di questa profezia filosofica hegeliana oggi siamo gli eredi, giunti forse al culmine estremo dell’era scientifica e tecnologica – in cui conoscere significa sempre più trasformare – apparteniamo in maniera del tutto immersiva alla civiltà dell’Immagine. Nella prassi contemporanea dell’Estetico, travalicando i confini canonici delle belle arti verso l’idea di una Poetica assoluta, reale è ciò che appare: in effetti, anche alla luce delle magistrali riflessioni del compianto Emanuele Severino, l’apparire, lungi dal rappresentare un momento illusorio allucinatorio che si tratterebbe di nientificare, è al contrario la sola via che ciascuna realtà possiede per poter essere. Tale principio ontologico manifestativo, secondo cui ogni immagine è già un’immagine pensante, ovvero un concetto che si rende visibile – paradigma che del resto non riguarda soltanto il mondo delle opere d’arte, ma coinvolge le strutture immaginative che innervano le stesse scienze della natura (com’è il caso emblematico della fisica dei quanti post-einsteiniana) – ci spinge così a porre con rinnovata urgenza la questione sullo statuto della soggettività. Laddove non esiste alcuna esteriorità che non sia in relazione alla nostra interiorità, in quanto ogni cosa è tale unicamente nello spazio- tempo del suo mostrarsi, siamo destinati ad una virtualità onnicomprensiva (come accade nell’universo dell’informatica) che assorbirà integralmente ogni corporeità e naturalità? Se tutto potenzialmente può divenire artificio, quali sono i limiti della umana espressione e come distingueremo l’artisticità dal non-artistico? Se infine l’indissolubile relazionalità materia/pensiero rende definitivamente obsoleta qualunque ipotesi astratta di ritorno al dualismo intellettualistico di tipo cartesiano, potrà tuttavia l’odierna razionalità - che chiamiamo con Nietzsche ‘ultra-umana’ – riorientare l’intelligenza della libertà verso un nuovo umanesimo dello spirito? A questi ed altri cruciali interrogativi conducono le esperienze poetico-figurative e sinestetiche di “TempArte – Sentire l’Oggi” che, pur aperte al polimorfismo espressivo ed alla innovazione dei linguaggi comunicativi, non rinunciano alla costante (talvolta sofferta) ricerca di un ideale unitario di Bellezza: attraverso la partecipazione ad una emozionalità che, al di fuori di facili psicologismi, si ripromette ogni volta di far rispecchiare nella singolarità dell’immagine la coscienza di ognuno. Ma cosa significa, sul piano artistico, “sentire l’Oggi”? Non è forse utopistico ritenere ancora possibile, nel presente, una presa di coscienza che abbia il carattere dell’universalità? Da alcuni anni “TempArte” s’impegna a raccogliere questa sfida epocale. E a fronte della frammentazione ormai babelica delle prospettive e dei punti di vista, lo fa nella coraggiosa convinzione che sia realizzabile – anche in questo tempo della complessità – il fine di una Poesia Compiuta. Senza cedere alle tentazioni del formalismo, ma evitando altresì l’opposto estremo dell’intuizionismo, il Poetico è qui ricondotto non ad un puro oggetto né ad un puro soggetto, bensì viene cólto e riconosciuto nell’aurorale manifestarsi di ciascun essente – dalla rappresentazione naturalistica alla figurazione concettuale, passando per i dispositivi della nuova tecnologia: ogni medium, nella sua sembianza, può diventare una parola-immagine quale simbolo pregnante dell’intera nostra realtà. Ecco perché le composizioni che “TempArte” ospita nel suo museo-laboratorio (siano esse pittoriche, scultoree o fotografiche) sono i segnavia di una poeticità che è compiuta non in quanto preesista alle opere, custodita in un altrove insondabile, ma in quanto messa all’opera che s’incarna nella fenomenologia di relazioni estetiche – percettive e cognitive – tese a coinvolgere artista e spettatore nel medesimo arco d’esperienza. Un’Estetica insomma che intende essere insieme performativa e performante, a suo modo capace di vedere nell’Artistico non un mero momento ludico, una piacevole pausa dalla vita e dal mondo, bensì, ancora una volta hegelianamente, un sentire come autentico sapere: nella duplice accezione originaria di ciò che sa e di ciò che ha sapore, e che – con il Benjamin de “L’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1936) – ritrova unite in forma dialettica, senza contraddizione, la scientificità tutta contemporanea dell’homo sapiens e la primordiale creatività immaginativa dell’homo effigiens.