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INDICE

Cover
Abstract
Kathy Reichs
Frontespizio
Copyright
Dedica
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Ringraziamenti
Per la dottoressa Temperance Brennan le ossa non hanno segreti.
Ne conosce il linguaggio e sa trarre dalla loro analisi la verità su
storie oscure nascoste dal tempo. Non accade lo stesso con il
cuore degli uomini, più inquietante e indecifrabile. Come si può
arrivare a segregare e a far vivere nel terrore una giovane donna?
Questo sembra suggerire alla dottoressa Brennan l’eccentrica
Hazel Strike, una detective dilettante appassionata di casi
irrisolti: un registratore che ha rinvenuto in un bosco riporta in
vita la voce di una ragazza sottoposta a violenze e minacce.
Secondo Strike, quella voce appartiene a una giovane scomparsa
da anni, i cui resti senza nome forse sono ancora archiviati nel
laboratorio di Brennan. Ma Hazel è un vero segugio dotato di
sesto senso per i misteri oppure un’esaltata? Quello che di sicuro
l’antropologa non immagina è di entrare in un incubo in cui
dovrà misurarsi con segreti di famiglia, fanatismo religioso e
fenomeni che sfiorano il soprannaturale. E non immagina
neppure di dover riscontrare l’indecifrabilità del cuore anche su
di sé: l’interpretazione dei propri sentimenti non è infallibile
quanto il suo talento nel risolvere gli enigmi. Cosa risponderà alla
richiesta di matrimonio che le ha rivolto il detective Andrew
Ryan? È vero amore il sentimento che prova per lui?
Kathy Reichs si conferma maestra indiscussa del thriller offrendo
ai lettori una nuova prova in cui mistero e ironia, suspense ed
emozioni si uniscono indissolubilmente.
KATHY REICHS è nata a Chicago, lavora come antropologa
forense in Québec e insegna nel dipartimento di antropologia
dell’Università di Charlotte, nel North Carolina. Autrice di thriller
fra le più affermate a livello mondiale, ha conquistato milioni di
lettori grazie al personaggio della dottoressa Temperance
Brennan, protagonista anche della popolare serie televisiva Bones.
Fra i suoi ultimi romanzi, tutti bestseller pubblicati in Italia da
Rizzoli e in gran parte disponibili nel catalogo BUR, ricordiamo
Le ossa del diavolo (2008), Duecentosei ossa (2009), Le ossa del
ragno (2010), La cacciatrice di ossa (2011), La voce delle ossa
(2012), Le ossa dei perduti (2013) e Le ossa non mentono (2014).
Kathy Reichs

La verità delle ossa


Traduzione di Rosa Prencipe e Michela Brindisi
Proprietà letteraria riservata
© 2015 by Temperance Brennan, L.P.
All rights reserved
© 2015 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-58-68120-6

Titolo originale dell’opera:


SPEAKING IN BONES

Prima edizione digitale 2015 da edizione luglio 2015

Questo libro è il prodotto dell’immaginazione dell’Autrice. Nomi, personaggi, luoghi e


avvenimenti sono fittizi. Ogni riferimento a fatti o a persone reali è puramente casuale.

In copertina: fotografia © Francois Robert


Art Director: Francesca Leoneschi
Graphic Designer: Mauro de Toffol / theWorldofDOT

www.rizzooli.eu

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
La verità delle ossa
Per
Cooper Eldridge Mixon,
nato il 14 luglio 2014
1

«Adesso non sono legata. Mi bruciano i polsi e le caviglie per


via delle cinghie. Ho le costole piene di lividi e un bernoccolo
dietro l’orecchio. Non ricordo di aver battuto la testa. Resto
distesa, immobile, perché mi fa male tutto il corpo. Come se
avessi avuto un incidente. Come la volta in cui mi sono
schiantata con la bici. Perché la mia famiglia non viene a
salvarmi? Nessuno sente la mia mancanza? Ho solo la mia
famiglia. Niente amici. Era troppo difficile. Sono completamente
sola. Così sola. Da quanto tempo sono qui? Dove mi trovo? Il
mondo sta scivolando via. Tutto quanto. Tutti quanti. Sono
sveglia o sto dormendo? Sto sognando oppure è tutto vero? È
giorno o notte?
«Al loro ritorno mi faranno di nuovo male. Perché? Perché sta
succedendo a me? Non sento neanche un suono. No. Non è vero.
Sento il mio cuore che batte. Il sangue che scorre nelle orecchie.
Ho in bocca un sapore amaro. Probabilmente è vomito incastrato
nei denti. Sento l’odore del cemento. Del mio sudore. Dei miei
capelli sporchi. Odio averli sporchi. Adesso voglio aprire gli
occhi. Uno solo. L’altro è incrostato. Non vedo granché. È tutto
sfocato, come se fossi sott’acqua e guardassi in alto.
«Odio l’attesa. È allora che le immagini prendono il
sopravvento sul cervello. Non sono sicura se siano ricordi o
allucinazioni. Vedo lui. Sempre in nero, la faccia paonazza e
imperlata di sudore. Evito i suoi occhi. Continuo a guardargli le
scarpe. Scarpe lucide. La fiamma della candela è un piccolo
verme giallo che danza sul cuoio. Incombe su di me, enorme e
malvagio. Spinge l’orrendo volto puzzolente vicino al mio. Sento
il suo alito rivoltante sulla pelle. Si infuria e mi afferra per i
capelli. Gli si gonfiano le vene. Urla e le sue parole sembrano
provenire da un altro pianeta. O è come se avessi lasciato il mio
corpo e stessi ascoltando da molto lontano. Vedo la sua mano
avvicinarsi a me, stringendo la cosa con tanta forza da farla
vibrare. So che sto tremando, ma sono intorpidita. O sono morta?
«No! Non adesso! Non farlo succedere adesso!
«Le mani mi diventano fredde e formicolanti. Non dovrei
parlare di lui. Non avrei dovuto dire che era orrendo.
«Sì. Stanno arrivando.
«Perché mi sta succedendo questo? Cosa ho fatto? Ho sempre
cercato di essere buona. Di fare quello che diceva la mamma.
Non lasciare che mi uccidano! Mamma, ti prego, non lasciare che
mi uccidano!
«Sento la mente annebbiarsi. Devo smetterla di parlare.»
Silenzio, poi lo scatto-cigolio di una porta che si apre. E che
poi si chiude.
Rumore di passi, senza fretta, sicuri sul pavimento.
«Va’ al tuo posto.»
«No!»
«Non opporre resistenza.»
«Lasciami stare!»
La cadenza del respiro convulso.
Il tonfo di un colpo.
«Vi prego, non uccidetemi.»
«Fa’ come dico.»
Singhiozzi.
Suono di qualcosa che viene trascinato.
Gemiti. Ritmici.
«Sei nelle mie mani?»
«Lurida cagna!» Più forte, più profondo.
Un sommesso raspare.
Uno schiocco metallico.
«Morirai, puttana!»
«Vuoi rispondermi adesso?»
«Troia!»
Tamburellare di dita agitate. Grattare.
«Dammi quello che mi serve!»
Pfff! Un violento getto di saliva.
«Non vuoi rispondere?»
Gemiti.
«Questo è solo l’inizio.»
Scatto-cigolio. Lo sbattere furioso di una porta.
Assoluto silenzio. Singhiozzi sommessi.
«Vi prego, non uccidetemi.
«Vi prego, non uccidetemi.
«Vi prego.
«Uccidetemi.»
2

Le nocche della donna sporgevano pallide sotto la pelle


spaccata e screpolata. Con un dito nodoso premette un pulsante
dell’oggetto nella bustina ermetica.
Nella stanza scese il silenzio.
Rimasi immobile mentre i capelli sulla nuca si sollevavano
come erba nel vento.
Gli occhi della donna rimasero fissi sui miei. Erano verdi,
screziati di giallo, e mi facevano pensare a quelli di un gatto. Un
gatto capace di aspettare, per poi spiccare un balzo con letale
precisione.
Lasciai che il silenzio si prolungasse. In parte per calmare i
nervi. Perlopiù per incoraggiare la donna a spiegare il motivo
della visita. Avevo un volo prenotato di lì a poche ore. E così
tante cose da sbrigare prima di recarmi all’aeroporto. Verso
Montréal e Ryan. Non era proprio il momento. Ma dovevo
conoscere il significato dei terribili suoni che avevo appena
sentito.
La donna rimase allungata in avanti. Rigida. In attesa. Era alta
almeno un metro e ottanta e indossava jeans, stivali e una
camicia denim con le maniche arrotolate sugli avambracci. I
capelli erano tinti del colore della terra rossa del Roland Garros.
Li teneva legati in una stretta crocchia in cima alla testa.
I miei occhi spezzarono il contatto con lo sguardo felino e
vagarono sulla parete alle spalle della donna. Su un certificato
dentro una cornice il quale dichiarava che Temperance Brennan
era un membro dell’American Board of Forensic Anthropology,
l’ABFA. Quell’esame era stato una rogna.
Ero sola con la mia ospite nei trentasei metri quadrati assegnati
all’antropologo forense dell’MCME, il Mecklenburg County
Medical Examiner. Avevo lasciato la porta aperta. Di solito la
chiudo. C’era qualcosa nella donna che mi metteva a disagio.
Dal corridoio giungevano i classici suoni del luogo di lavoro.
Un telefono che squillava. Il sibilo dello sportello di un frigorifero
che si apriva e lo scatto della chiusura. Le ruote di gomma di una
barella che si dirigeva verso una stanza per le autopsie.
«Le chiedo scusa.» Ero lieta che la mia voce sembrasse calma.
«La receptionist mi ha dato il suo nome, ma non riesco più a
trovare l’appunto.»
«Strike. Hazel Strike.»
Uno scampanellio risuonò nella mia mente. Come mai?
«La gente mi chiama Lucky.» Fortunata.
Non dissi nulla.
«Ma non mi affido mai alla fortuna. Metto impegno in quello
che faccio.» Anche se collocavo l’età di Strike oltre la sessantina,
aveva la voce forte di una ventenne. L’accento suggeriva che
probabilmente era del posto.
«E di cosa si occupa, signorina Strike?»
«Signora. Mio marito è mancato sei anni fa.»
«Mi dispiace.»
«Conosceva i rischi, ma ha scelto di fumare.» L’impercettibile
sollevarsi di una spalla. «Il prezzo si paga.»
«Di cosa si occupa?» ripetei. Volevo che Strike tornasse al
punto.
«Faccio tornare i morti a casa.»
«Temo di non capire.»
«Abbino i corpi alle persone scomparse.»
«Questo è il compito delle forze dell’ordine insieme ai coroner
e ai medici legali» dissi.
«E voi professionisti ci azzeccate sempre.»
Trattenni un’altra replica saccente. Strike non si sbagliava. Le
statistiche che avevo letto collocavano il numero di persone
scomparse negli Stati Uniti intorno a novantamila in qualsiasi
periodo, e il numero di resti non identificati negli ultimi
cinquant’anni a più di quarantamila. Secondo l’ultimo conteggio
che avevo visto, il totale dei resti non identificati del North
Carolina ammontava a centoquindici.
«Come posso aiutarla, signora Strike?»
«Lucky.»
«Lucky.»
Strike posò il sacchetto accanto a un fascicolo giallo sulla mia
scrivania. All’interno c’era un rettangolo di plastica grigia, largo
più o meno un paio di centimetri, lungo cinque e spesso uno. Un
anello metallico a un’estremità suggeriva la duplice funzione di
registratore e portachiavi. Un cerchio di denim sbiadito faceva
pensare che il dispositivo un tempo fosse appeso in vita a un paio
di jeans.
«Aggeggino notevole» disse Strike. «Attivazione vocale. Due
giga di memoria flash interna. Per meno di cento verdoni.»
Il fascicolo giallo mi chiamava. Con aspetto accusatorio. Due
mesi prima un uomo era morto sulla sua poltrona reclinabile, il
telecomando della tv stretto in una mano. La settimana
precedente il suo corpo mummificato era stato rinvenuto da un
padrone di casa molto scontento. Dovevo concludere questa
faccenda e tornare alle mie analisi. Poi a casa a preparare i
bagagli e a lasciare il gatto ai vicini. Ma quelle voci… Il mio
battito faticava a tornare normale. Aspettai.
«La registrazione dura quasi ventitré minuti. Però i cinque che
ha ascoltato bastano per capire la situazione.» Strike scosse la
testa. Il movimento destabilizzò la crocchia. «Da morire di paura,
vero?»
«L’audio è inquietante.» Un eufemismo.
«Dice?»
«Forse dovrebbe farlo ascoltare alla polizia.»
«Lo sto facendo ascoltare a lei, doc.»
«Credo di aver sentito tre voci.» La curiosità stava prenden-do
il sopravvento sulla reticenza a farmi coinvolgere. E anche
sull’apprensione.
«Questa è la mia ipotesi. Due uomini e la ragazza.»
«Cosa stava succedendo?»
«Non lo so.»
«Chi parlava?»
«Ho una teoria su uno dei due.»
«E sarebbe?»
«Possiamo tornare un po’ indietro?»
Gettai una fugace occhiata all’orologio. Non discreta quanto
pensavo.
«A meno che non debba svolgere il “compito” di trovare i nomi
ai morti.» Strike tracciò ironiche virgolette intorno alla parola
che avevo usato poco prima.
Mi appoggiai allo schienale e assunsi la mia espressione da
ascolto.
«Cosa sa dei cybersegugi?»
Ecco di cosa si trattava. Mi imposi un tono paziente, ma
risposte brevi.
«I cybersegugi sono dilettanti che si sfidano online per risolvere
vecchi casi irrisolti.» Aspiranti scienziati forensi e poliziotti.
Spettatori fin troppo zelanti di NCIS, Cold Case, CSI e Bones.
Questo non lo aggiunsi.
Le sopracciglia di Strike si congiunsero sopra al naso. Erano
scure e sembravano incongruenti con la pelle chiara e il finto
color carota dei capelli. Mi studiò a lungo prima di replicare.
«La maggior parte della gente muore, ha un funerale, una
veglia, una commemorazione. Ci sono elogi funebri, un
necrologio sul giornale. A qualcuno vengono dedicati ricordini
con l’imagine del volto circondato da angeli, santi e quant’altro.
Se sei un pezzo grosso, magari ti viene intitolata una scuola o un
ponte. Questa è la normalità. È così che affrontiamo la morte.
Offrendo un giusto riconoscimento alle conquiste di una persona.
«Ma cosa succede quando qualcuno scompare? Puf!» Strike
simulò un’esplosione con le dita. «Un uomo esce per andare al
lavoro e svanisce? Una donna sale sull’autobus e non ne scende
più?»
Feci per intervenire, ma Strike continuò imperterrita.
«E cosa succede quando salta fuori un corpo senza identità? Sul
ciglio di una strada, in uno stagno, arrotolato in un tappeto e
infilato in un capanno?»
«Come ho già detto, questo è il lavoro della polizia e dei medici
legali. Qui facciamo il possibile perché tutti i resti umani
vengano identificati, qualunque siano le circostanze o le loro
condizioni.»
«Quello che lei dice potrebbe essere vero in questa struttura.
Ma lei sa bene quanto me che altrove non è così. Un cadavere
potrebbe avere un destino fortunato, potrebbe essere esaminato
alla ricerca di cicatrici, piercing, tatuaggi, vecchi traumi,
sottoposto al rilevamento delle impronte e dei campioni di DNA.
Un resto decomposto o uno scheletro potrebbe finire sotto gli
occhi di un esperto come lei, che prenderebbe le impronte dentali
e inserirebbe nel database sesso, età, razza e altezza. In un’altra
giurisdizione resti simili potrebbero ricevere un rapido esame e
finire in un freezer, magari in una stanza sul retro o nel
seminterrato. Un corpo senza nome potrebbe essere conservato
per qualche settimana, forse qualche giorno, per poi essere
cremato o sepolto in un campo comune.»
«Signora Strike…»
«Perduti. Assassinati. Buttati via. Sconosciuti. Questo paese
straripa di morti dimenticati. E da qualche parte c’è qualcuno che
si interroga su ciascuna di quelle anime.»
«E i cybersegugi sono un modo per risolvere il problema.»
«Esatto, cavolo.» Strike sollevò le maniche, come se i polsini
fossero all’improvviso diventati troppo stretti sulla pelle.
«Capisco.»
«Sul serio? Ha mai navigato in un sito di cybersegugi?»
«No.»
«Sa cosa succede in quei forum?»
Riconoscendo il quesito come una domanda retorica, non
risposi.
«Agli UID, i resti non identificati, vengono dati graziosi
nomignoli. Princess Doe. The Lady of the Dunes. Tent Girl. Little
Miss Panasoffkee. Baby Hope.»
Lo scampanellio esplose in una sinapsi completa.
«Lei ha identificato Old Bernie» dissi.
Old Bernie era uno scheletro parziale trovato da un gruppo di
escursionisti nel 1974 dietro un rifugio sul Neusiok Trail nella
Croatan National Forest. I resti erano stati mandati all’OCME,
l’ufficio del capo medico legale sito a quei tempi a Chapel Hill, e
attribuiti a un maschio bianco anziano. Un detective di New Bern
assegnato al caso non aveva avuto fortuna nello stabilirne
l’identità.
Per anni lo scheletro era rimasto in una scatola nel magazzino
dell’OCME. A un certo punto, era diventato noto come Old Bernie
da New Bern, la cittadina più vicina al punto in cui era stato
trovato.
Al tempo del ritrovamento erano stati pubblicati diversi articoli
a Raleigh, Charlotte, New Bern e nelle località circostanti. Il caso
era stato riproposto, con la foto di una ricostruzione facciale, sul
«Sun Journal» di New Bern il 24 marzo 2004, in occasione del
trentesimo anniversario della scoperta del gentiluomo. Nessuno si
era mai presentato per reclamarne i resti.
Nel 2007 un tecnico dell’OCME mi aveva parlato del caso.
Avevo acconsentito a darci un’occhiata.
Concordavo sul fatto che si trattasse di un edentulo
afroamericano, morto tra i sessantacinque e gli ottanta anni. Ma,
in disaccordo con una delle conclusioni chiave del mio
predecessore, avevo suggerito di cambiare il nomignolo della
vittima da Bernie a Bernice. Le caratteristiche pelviche erano
chiaramente quelle di una femmina.
Avevo prelevato campioni per eventuali esami del DNA e infine
Old Bernie era tornata alla sua scatola di cartone a Chapel Hill.
L’anno seguente il NamUs fu messo online. Si tratta di un
database per i resti non identificati e le persone scomparse
(rispettivamente UID e MP nel gergo della polizia) il cui accesso è
gratuito e disponibile a chiunque. Avevo inserito i descrittori del
caso nella sezione dedicata agli UID. Ben presto i cybersegugi
erano arrivati come mosche.
«Già» disse Strike. «Sono io.»
«Come ci è riuscita?»
«Pura caparbietà.»
«Un po’ vago.»
«Ho esaminato miliardi di foto su NamUs e altri siti di persone
scomparse. Ho fatto un sacco di telefonate chiedendo di anziane
signore senza denti. Niente su entrambi i fronti. Poi ho lasciato
perdere Internet, ho raccolto articoli di giornali locali, ho parlato
con i poliziotti di New Bern e Craven County, i ranger della
foresta Croatan… insomma, questo genere di cose. Niente.
«Seguendo un presentimento ho iniziato a chiamare le case di
riposo. Ho trovato una struttura in cui una paziente era sparita
nel 1972. Charity Dillard. L’amministratore ne aveva denunciato
la scomparsa, ma nessuno si era impegnato più di tanto a
cercarla. La casa è vicina a un pontile per barche, così hanno
pensato che la signora Dillard fosse caduta nel lago e affogata.
Quando Old Bernie è saltata fuori un paio di anni dopo, nessuno
ci ha fatto caso perché si supponeva che lo scheletro appartenesse
a un uomo. Fine della storia.»
«Fino a che lei non ha stabilito il collegamento.» Ne ero venuta
a conoscenza tramite voci di corridoio.
«Dillard aveva un unico nipote vivente, a Los Angeles. Ha
fornito un tampone. I suoi campioni ossei contenevano DNA.
Caso chiuso.»
«Dov’è Dillard adesso?»
«Il ragazzo ha fatto preparare una lapide. È perfino venuto per
la sepoltura.»
«Bel lavoro.»
«Non era giusto farle prendere polvere in una scatola.» Ancora
l’alzata di spalle.
Adesso sapevo perché Strike era nel mio ufficio.
«È venuta per dei resti non identificati» dissi.
«Sì, signora.»
Le feci segno di andare avanti.
«Cora Teague. Femmina, bianca, diciotto anni. Scomparsa nella
contea di Avery tre anni e mezzo fa.»
«Ne è stata denunciata la scomparsa?»
«Non ufficialmente.»
«Che significa?»
«Nessuno ha compilato una denuncia di sparizione. L’ho
trovata su un sito di cybersegugi. La famiglia crede che se ne sia
andata per conto suo.»
«Ha parlato con i famigliari?»
«Certo.»
«È una pratica comune per i cybersegugi?»
«È accaduto qualcosa a questa ragazza e nessuno sta
combinando un cavolo.»
«Ha contattato le autorità locali?»
«A diciotto anni è un’adulta. Può andare e venire come le pare.
Bla, bla, bla.»
«Questo è vero.»
Strike fece scattare un pollice in direzione del sacchetto.
«Sembra forse una che fa come le pare?»
«Pensa che Cora Teague sia la ragazza della registrazione?»
Strike annuì adagio.
«Perché è venuta da me?»
«Credo che lei abbia parti di Cora Teague conservate qui.»
3

«Dovrei chiedere a un detective di unirsi a noi.»


«No.» Accorgendosi del tono brusco, Strike aggiunse: «Non
ancora».
«Okay.» Per adesso. «Mi parli di Cora Teague.»
«Se avrà pazienza con me, condividerò quello che so.»
Strike compì di nuovo quel movimento. Non proprio un’alzata
di spalle, ma qualcosa di più simile a un tic al rallentatore. O a
un inconsapevole tentativo di regolare la colonna vertebrale.
«Cora è nata nel ’93, quarta di cinque figli. Il padre, John
Teague, possiede un’attività che è una combinazione di
minimarket, distributore di benzina, ferramenta e negozio di
pesca. La madre, Fatima, è una casalinga. A volte sta alla cassa in
negozio.
«Il fratello maggiore, Owen Lee, e le due sorelle più grandi,
Marie e Veronica, sono sposati. Lui vendeva immobili, senza
successo, e quando è colato a picco ha messo in piedi un’attività
per l’addestramento dei cani. Le sorelle vivono entrambe fuori
dallo Stato. Non sono sicura di ciò che riguarda Eli. È il più
giovane. Immagino sia sui diciannove anni. Owen Lee e i genitori
vivono nel raggio di qualche chilometro l’uno dagli altri nella
contea di Avery.»
Le Blue Ridge Mountains. Spontanea, un’immagine di mamma
apparve e svanì.
Annuii per indicare che stavo ascoltando.
«Secondo un post su CLUES.net, circa tre anni e mezzo fa Cora
è scomparsa misteriosamente.»
«CLUES.net?»
«Citizens Looking Under Every Stone, Cittadini che Guardano
Sotto Ogni Pietra. Il sito permette a chiunque di postare notizie
su una persona scomparsa. È come NamUs, solo che è privato.»
«Ha trovato un appello su CLUES per Cora Teague.» Volevo
essere sicura di capire bene.
«Sì.»
«Chi l’ha postato?»
«Qui la cosa si fa complicata.» Strike piantò i gomiti sulle cosce
e lasciò penzolare le mani tra le ginocchia. «CLUES consente agli
utenti il completo anonimato.»
«È normale per i siti di cybersegugi?»
«No. Ma il tizio che gestisce CLUES pensa che le persone si
sentano più incoraggiate a fornire informazioni se non viene
richiesto loro di identificarsi.»
«Perciò l’utente non deve fornire un nome per postare una
denuncia di sparizione o partecipare a una discussione nel
forum.»
«Esatto. E non è necessario che le persone inserite come
scomparse siano passate attraverso i canali ufficiali.»
«Ovvero non è richiesto un rapporto di polizia.» Questo mi
faceva sembrare il tutto poco attendibile.
«Ha capito bene. Dunque non c’è per forza un’agenzia
investigativa che indaga sul conto di ogni singola persona
scomparsa. In tal caso, l’operatore del sito funge da camera di
compensazione per le soffiate.»
«Perciò ogni fuori di testa del pianeta può inserire tutte le
cavolate che vuole.»
«Non è così facile.» Sulla difensiva.
«Ma lei non ha idea di chi abbia inserito il caso Teague.»
«Vuole ascoltarmi?»
«Vada avanti.»
«Poiché Cora Teague non è mai stata dichiarata ufficialmente
scomparsa, il suo caso non ha ricevuto attenzione da parte dei
media. E altrettanto è accaduto sul sito. Ho pensato che se fosse
venuto fuori che era morta da qualche parte, ed era inserita in un
database di resti non identificati, allora nessuno stava lavorando
per trovarle un nome. Era tutta mia.»
«La sua sfida.»
«Già.»
«E a lei piacciono le sfide.» Iniziavo ad avvertire una
vibrazione davvero brutta.
«C’è qualcosa di male in questo?»
«Allora, cos’è successo?»
«Secondo il post, si sono perse le tracce di Teague a metà
dell’estate del 2011.»
«L’ultima volta che è stata vista viva?»
«Contea di Avery. Questo è più o meno ciò che sanno tutti.»
«Teague era presente su Internet?»
«Non ho trovato nulla. Niente MySpace, Facebook o Twitter.
Nessun indirizzo e-mail. Non utilizzava Buzznet, Blogster,
Foursquare, LinkedIn. Niente iTunes…»
«Cellulare?»
«No.»
Una diciottenne senza cellulare? Bizzarro.
«Ha contattato la famiglia. Cosa dicono?»
«Credono che sia fuggita col suo ragazzo.»
«Spesso è così.»
«Ho parlato con qualcuno di questa ipotesi. Il quadro che ne è
uscito non combacia con quella teoria.»
«Come mai?»
«Teague era una solitaria. Non certo il tipo che usciva con i
ragazzi. E non ho trovato una sola persona che abbia sentito
parlare di un fidanzato o lo abbia visto. Nessuna amica del cuore.
Nessun vicino. Nessun autista di autobus. Nessun allenatore.»
«Solo la famiglia.»
«Solo loro.»
«Lui chi è?»
«Non lo sanno. O non lo dicono.»
«Quindi ha mantenuto la relazione segreta. I ragazzi lo fanno.»
«In campagna è difficile riuscirci. E Cora si muoveva in una
cerchia molto ristretta. Famiglia. Casa. Chiesa.»
«Forse incontrava il ragazzo a scuola.»
Strike scosse la testa. «Impossibile, secondo quelli che ho
contattato.»
«Era una brava studentessa?»
«Non proprio. Ha frequentato le elementari e le medie in una
scuola cattolica. È riuscita a diplomarsi alla Avery County High.
Nessuno lì si ricorda molto di lei. Non era in nessuna squadra
sportiva, non seguiva attività extrascolastiche. La donna con cui
ho parlato – una consulente all’orientamento degli studenti,
credo – ha detto che la accompagnavano e la andavano a
riprendere il fratello o una sorella o un genitore.»
«Un momento. Ha chiamato la scuola?»
«Ho detto che stavo aiutando la famiglia.»
Gesù. Quella donna era un fenomeno.
«Una faccenda insolita» proseguì Strike, incurante della mia
disapprovazione. «Cora Teague non compare nell’annuario
scolastico.»
«Potrebbero esserci un sacco di ragioni per questo. Aveva i
capelli in disordine e odiava farsi fotografare. Era a casa malata
quando le foto sono state scattate.»
«Forse. Ma la consulente ha detto che il fascicolo di Cora rivela
un assenteismo cronico.»
«Problemi di alcol o droga?»
«Macché.»
«Reati minorili?»
«Non lo so. Dopo il diploma si è messa a fare la tata. Il lavoro è
durato qualche mese, poi ha piantato tutto.»
«Perché?»
«Motivi di salute.»
«Che tipo di motivi di salute?»
«Nessuno ha voluto dirlo.»
«Dov’è andata poi?»
«A casa.»
Aspettai che Strike continuasse. Non lo fece.
«Vediamo se ho capito bene. Sono più di tre anni e mezzo che
nessuno ha più visto Cora Teague.»
«Proprio così.»
«Ma alla polizia non è mai stata presentata alcuna denuncia di
scomparsa.»
«Esatto.»
«La famiglia crede che se ne sia andata volontariamente.»
«Sì.»
«Ma lei lo ritiene improbabile.»
«Io e chiunque abbia postato il suo nome su CLUES.»
Annuii, riconoscendo la validità del suo ragionamento.
«Sospetta che quella della registrazione sia la voce di Cora
Teague.» Indicando il sacchetto.
«Sì.»
«Pensa che sia stata uccisa e abbandonata. E che parte del suo
corpo sia stato ritrovato e mandato a questo laboratorio.»
«Le sto suggerendo di prendere in considerazione tale
possibilità.»
«Cosa le fa pensare che Teague sia in questa struttura?»
«Circa un anno e mezzo fa lei ha inserito nel NamUs una voce
riguardante un torso parziale trovato nella contea di Burke.
Burke è subito dopo Avery. La linea temporale corrisponde.»
Strike raddrizzò la schiena e allargò le braccia. «Mi dia pure della
pazza, ma credo che valga la pena buttarci un’occhio.»
Un carrello di campioni sferragliò nel corridoio. Una porta si
aprì lasciando uscire il gemito di una sega da autopsia al lavoro
su un osso. Si chiuse poi bruscamente, troncando il suono.
Nella testa udii la voce esile e disgraziata sul nastro.
Vi prego, non uccidetemi.
Vi prego.
Uccidetemi.
Come prima, un brivido mi attraversò la schiena.
Indicai il registratore-portachiavi. «Come ne è venuta in
possesso?»
Strike si appoggiò allo schienale.
«Gliel’ho detto, ho continuato a esaminare siti che elencavano
UID con la speranza di trovare qualcosa che potesse collegarsi a
Cora Teague. Niente. Poi alcune faccende personali mi hanno
distolta. Per un po’ ho dovuto lasciar perdere.»
Strike fece una pausa, forse riflettendo sulle questioni che
avevano temporaneamente arrestato la sua ricerca.
«La settimana scorsa sono tornata a indagare. Quando ho visto
il suo inserimento su NamUs, è stato come se un suono di arpe si
sprigionasse all’improvviso. Sa, come alla tv.»
Non lo sapevo. Ma annuii.
«La sua voce comprendeva informazioni su dove il torso era
stato rinvenuto, perciò ho pensato: che cavolo, in auto non ci
vuole molto. Perché non andare lassù e curiosare in giro?»
«È andata nella contea di Burke? Sul serio?»
«Sì. Una volta lì, ho visto subito che c’era un unico posto in cui
una persona di fretta avrebbe scaricato un corpo da quella
posizione. Sono scesa a valle seguendo uno schema. Per ore non
ho trovato altro che insetti. Stavo per mollare quando ho scorto
un portachiavi incastrato nelle radici di un vecchio albero. Ho
pensato che quell’affare probabilmente si trovava lì per caso. Ma,
per sicurezza, l’ho portato a casa.»
Strike abbozzò una smorfia e smise di parlare.
«Ha scoperto che si trattava di un registratore e ha ascoltato
l’audio» dissi al posto suo.
«Già.» Tesa.
«E poi?»
«E poi ho chiamato lei.»
Un lungo silenzio si allungò tra noi. Lo spezzai, usando parole
scelte con cura.
«Signora Strike, sono colpita dal suo entusiasmo. E dal suo
impegno nell’obiettivo di restituire vittime senza nome alle
rispettive famiglie. Ma…»
«Lei non può parlare dei dettagli di un caso.»
«Esatto.»
«Più o meno quello che mi aspettavo.» Strike trasse un rapido
respiro e assunse un’espressione determinata. Si preparava a
discutere? O ad accettare un rifiuto?
«Ma le assicuro che controllerò la situazione» dissi.
«Già.» Strike sbuffò col naso. «Non lasci che la porta le sbatta
sul culo mentre esce.»
Agguantò il sacchetto di plastica e si alzò.
Mi alzai anch’io. «Se lascia il portachiavi, chiederò a qualcuno
della Scientifica di analizzare l’audio.»
Strike ripeté la sarcastica risata nasale. Non si fidava. «Non
credo.» Riprese il sacchetto nello zaino.
Tesi la mano. «La chiamerò. In un modo o nell’altro.»
Strike annuì e accettò la stretta di mano. «Gliene sarei grata.
Così come apprezzerei la sua discrezione.»
Dovevo avere un’aria confusa.
«Fino a quando l’identità non è confermata, non ha senso
coinvolgere i media.»
«Non concedo mai interviste.» A meno che non ci sia un ordine
da parte di quelli più in alto nella catena di comando. Questo non
lo dissi.
«Chiedo scusa. Non era necessario sottolinearlo. È solo che
preferisco fare ciò che è meglio per la famiglia.»
«Naturalmente.»
Accompagnai Strike nel corridoio e la vidi sparire nell’atrio,
pensando per tutto il tempo se fosse il caso di condividere o
meno il suo racconto con il mio superiore, il capo medico legale
della contea di Mecklenburg. Immaginavo il tipo di occhiata che
Larabee mi avrebbe rivolto. Così come il tenore delle sue
domande.
Di ritorno alla mia scrivania, ripensai alla visita di Strike.
Considerai le diverse possibilità.
Strike era una malata di mente. Un genio della truffa. Un’astuta
detective senza distintivo.
Cominciai dalla porta numero tre. Strike era un cybersegugio
dalle buone intenzioni, anche se un po’ troppo zelante. Aveva
trovato il registratore proprio nel modo che aveva raccontato.
Problemi: come aveva fatto la polizia a non notarlo quando
avevano recuperato il torso? Come era sopravvissuto all’azione
degli elementi così a lungo?
Prendiamo il caso che la ragazza dell’audio fosse veramente
Cora Teague. Ipotizziamo che Strike avesse ragione: Teague era
morta e io avevo i suoi resti in magazzino. Il portachiavi
apparteneva a lei? Aveva registrato i suoi pensieri mentre era
trattenuta in una sorta di brutale prigionia? Era stata assassinata?
Passai a una spiegazione alternativa. Strike aveva confezionato
l’intera vicenda e contraffatto l’audio. Problema: la truffa sarebbe
stata scoperta subito e Strike smascherata come imbrogliona.
Perché farlo? Perché è matta? Perché brama l’attenzione dei
media? Porta uno e due.
O forse l’imbrogliona era Cora Teague e Strike la vittima
ingenua. Forse Teague e due complici maschi avevano inscenato
il dialogo registrato e, in qualche modo, condotto Strike al
portachiavi. Teague era uccel di bosco da tre anni e mezzo. Forse
voleva restare tale. Problema: il nastro sembrava sinistramente
reale. L’angoscia in quella voce avrebbe sortito l’effetto contrario
su chiunque all’ascolto.
O forse Teague era in combutta con Strike. Stessa domanda:
perché? Cosa speravano di ottenere?
Nel mio ambiente di lavoro mi imbatto in una gamma di
motivazioni umane vasta quanto il Mar cinese meridionale. Me la
cavo bene a individuare l’inganno. A valutare il carattere.
Rimuginando su quell’incontro, sono costretta ad ammetterlo:
non avevo idea di cosa pensare a proposito di Hazel «Lucky»
Strike.
4

Fissai il fascicolo giallo sulla scrivania. Larabee doveva essere


in spasmodica attesa di notizie sul corpo mummificato.
Avevo ancora lo sguardo fisso quando il mio iPhone trillò per
l’arrivo di un messaggio. Il promemoria del volo innescò dentro
di me un’inattesa ondata di disagio.
Decisione.
Un respiro profondo, poi composi il numero. Mentre la mia
chiamata volava verso nord, visualizzai Ryan e scelsi le parole
giuste per spiegare la situazione.
Andrew Ryan, lieutenant-détective, Service des enquêtes sur les
crimes contre la personne, Sûreté du Québec. Traduzione: Ryan è
nella squadra Omicidi della polizia provinciale del Québec. Io
sono antropologa forense per il Bureau du Coroner nella
provincia di La Belle. Per anni abbiamo indagato insieme sui
delitti.
Per un periodo Ryan e io eravamo anche una coppia. Avevamo
deciso di mettere fine alla storia di comune accordo. Poi lui
aveva scelto di far perdere le sue tracce. Ultimamente aveva
scelto di tornare dall’esilio e mi aveva chiesto di sposarlo. Mesi
dopo, la mia mente era ancora troppo tramortita per pensarci.
Immaginai il viso di Ryan. Non più giovane, ma con le asperità
e i solchi tutti al posto giusto. Capelli color sabbia e occhi blu
elettrico. Occhi che adesso avrebbero mostrato la delusione.
Sorrisi, malgrado l’ansia per l’imminente conversazione. Ryan
produceva quell’effetto su di me. Mi mancava davvero.
Ryan rispose, allegro quanto un palloncino attaccato a un filo.
«Madame! Ho prenotato un ottimo tavolo per due da Milos. E ho
organizzato una gamma completa di attività postprandiali.
Anch’esse per due.»
«Ryan…»
«“Postprandiale” significa “dopo il pasto”. Suddette attività
avranno luogo nella privacy di casa mia.»
«Odio farlo, ma devo annullare.»
Ryan non disse niente.
«È venuto fuori un caso. Anzi, due. Mi dispiace.»
«Be’, ci sono cose da cui un uomo non può fuggire.» Una
pessima imitazione di John Wayne.
«Ombre rosse.» Indovinai il titolo del film. Facevamo questo
gioco. «Vuoi sapere dei casi?»
«Magari dopo. A quando posticipiamo?»
«Non appena avrò finito.»
Un istante, poi: «Tempe, dentro di me temo che quella
citazione sia proprio azzeccata».
«Cosa intendi dire?»
«Sei sicura che il motivo per cui stai annullando il viaggio sia il
lavoro?»
«Certo che è per via del lavoro.» Era davvero così? Avevo un
groppo in gola e gli occhi mi bruciavano. «Ti chiamo stasera?»
«Sicuro.»
La linea divenne muta.
Rimasi seduta per un momento, sentendomi sola e confusa. Mi
ero quasi decisa a richiamare Ryan per dirgli che avevo cambiato
idea. Telefonai invece alla US Airways.
Mentre parlavo con l’addetto, il mio sguardo cadde sul
fascicolo giallo.
Avevo dato buca a Ryan. Anche l’uomo della poltrona poteva
aspettare.
Prima di parlare di Strike col capo, però, avrei verificato i fatti.
Del caso avevo solo vaghi ricordi. Avevo effettuato le analisi
come richiesta speciale, dal momento che l’MCME normalmente
non indaga sui decessi avvenuti nella contea di Burke. Non mi
tornava alla mente il motivo per cui ero stata interpellata per
questo caso.
Grazie a Strike sapevo che i resti erano saltati fuori più o meno
diciotto mesi prima. E che li avevo inseriti nel database NamUs.
Dopo aver effettuato il login nel mio computer, usai le parole
chiave «contea di Burke» e un intervallo per le date. Ci volle solo
qualche istante. Il deceduto era stato registrato presso la nostra
struttura come ME229-13. Presi il mio rapporto ed esaminai il
contenuto.
ME229-13 era arrivato il 25 agosto 2013. I resti erano stati
trovati da un cacciatore. Per essere corretti, dal suo cane Mort.
Ricordai di aver ridacchiato per l’ironia del nome. Un
comportamento inappropriato, ma non avevo potuto farne a
meno.
Mort aveva compiuto la macabra scoperta una trentina di
chilometri a nord di Morganton, poco lontano dalla Highway
181. Le ossa giacevano sulla scarpata di un belvedere, sparse nel
raggio di ottanta metri quadrati e coperte di foglie e detriti. A
quanto pare, il vecchio Mort possedeva un fiuto formidabile.
L’agente assegnato al caso era una vicesceriffo della contea di
Burke di nome Opal Ferris. Adesso mi tornava alla mente.
Ricordai la mia sorpresa per l’abilità mostrata da Ferris
nell’individuare tutto ciò che suggerisse l’origine umana dei resti,
per il fatto che si fosse recata sul posto a recuperarne altri e per
aver recapitato il bottino di Mort al medico legale locale.
Lessi la sezione del mio rapporto intitolata «Condizioni
postmortem».
Era rimasto ben poco dei tessuti molli, a causa dell’opera dei
saprofagi e dell’inevitabile marcia della natura. La piccola
quantità ancora presente consisteva in coriacei pezzetti di
legamenti, bastanti a mantenere uniti due segmenti di colonna
vertebrale. Il resto era sopravvissuto in forma di elementi isolati.
Il mio inventario osseo elencava diciotto costole parziali, quindici
complete e tre vertebre frammentate, due clavicole parziali,
frammenti di scapole destra e sinistra e un frammento di sterno.
Nella sezione intitolata «Età al decesso» avevo inserito un
intervallo dai diciassette ai ventiquattro anni. La mia stima si
basava sull’aspetto giovanile delle estremità delle tre costole
sternali, i punti in cui le costole, tramite la cartilagine, si
congiungono allo sterno; nonché sulla fusione recente della
piastra di crescita nell’estremità mediale della clavicola destra. La
clavicola sinistra era troppo danneggiata per fornire indicazioni.
Usando le misurazioni prese dai pezzi di spina dorsale intatta,
avevo collocato l’altezza tra un metro e cinquantadue e un metro
e ottantadue. Un intervallo così ampio da essere praticamente
inutile.
Sulla base della qualità delle ossa e sulla presenza e quantità di
tessuti molli essiccati, avevo collocato il PMI, l’intervallo
postmortem, tra un minimo di tre mesi a un massimo di due anni.
Non ero stata in grado di determinare né il genere né le origini.
Questo era tutto.
Lasciai il sistema dell’MCME, andai su Internet e digitai
www.NamUs.gov. Dopo aver inserito le mie credenziali, scelsi il
database delle persone non identificate e fornii il numero
assegnato al torso della contea di Burke. La sezione
contrassegnata con il nome «Informazioni sul caso» includeva il
giorno e il luogo del rinvenimento e la data di creazione del file.
E da allora non c’erano state modifiche. Lo stato dell’individuo
restava «non identificato». Io ero indicata sia come il contatto
locale che come il responsabile del caso. Bene. Ecco come mi
aveva trovata Strike.
Diedi una scorsa alle pagine del rapporto.
Non avevo potuto inserire niente che riguardasse peso, peli
facciali e corporei, colore di occhi o capelli. Niente su
amputazioni, deformità, cicatrici, tatuaggi o piercing. Nessuna
segno di impianti chirurgici o organi mancanti. Zero su
indumenti, calzature, gioielli, occhiali o documenti. Niente DNA.
Niente impronte digitali, né dentali.
Non c’era da meravigliarsi del fatto che le ossa si trovassero
ancora su uno scaffale nel mio magazzino. ME229-13 consisteva
di un torso parziale senza testa, senza arti e inscheletrito.
Mi alzai dalla scrivania e, attraversato il corridoio, mi recai in
una piccola stanza le cui pareti erano rivestite di scaffali dal
pavimento al soffitto. Ciascuno scaffale era ricolmo di scatole di
cartone. Ciascuna scatola era etichettata con un numero scritto
col pennarello nero.
ME229-13 era proprio sulla parete di fronte alla porta, nel
secondo ripiano a partire dall’alto. Presi la scatola e la portai
nella «sala puzzolente», una piccola stanza per le autopsie dotata
di ventilazione speciale per accogliere i morti dall’odore più
forte. Quelli decomposti. Gli annegati. Il genere del mio caso.
Dopo aver posato la scatola sul tavolo delle autopsie, da un
cassetto in basso presi guanti di lattice e un grembiule di plastica,
li indossai e sollevai il coperchio. Come previsto, il contenuto
della scatola consisteva in una manciata di ossa. A eccezione
delle dieci vertebre toraciche che avevo fatto bollire per ripulirle
dai tessuti molli, tutte quante erano di un cupo marrone simile al
colore del mogano.
Disposi le ossa a una a una in posizione anatomica. Una volta
finito, il puzzle di una gabbia toracica apparve sull’acciaio
inossidabile. I vuoti lasciati dalle ossa mancanti sembravano
pezzi non ancora inseriti.
Durante l’ora successiva esaminai ogni osso e frammento con
una lente d’ingrandimento illuminata. Individuai traumi
postmortem: bordi rosicchiati e punture coniche lasciate dai denti
degli animali saprofagi. Alcune punture presentavano in
profondità tessuto osseo spugnoso dal colore giallo chiaro.
L’assenza di macchie mi diceva che questo danno poteva essere
imputato a Mort.
Non vidi segni di traumi antemortem. Nessuna costola
fratturata che si fosse consolidata o che sembrasse in via di
consolidamento. Nessuna ricostruzione di giunture a seguito della
slogatura di una clavicola o una vertebra.
Non c’erano nemmeno segni di traumi perimortem. Nessuna
frattura non saldata dovuta a un brusco e violento attacco o a
una ferita da impatto a rapida decelerazione. Nessun foro di
entrata o uscita di proiettili. Niente graffi o tagli causati da uno
strumento affilato. Nulla che suggerisse violenza al momento
della morte.
Non trovai traccia di patologie. Nessuna porosità, ispessimento,
irregolarità o lesioni che indicassero malnutrizione, malattie
infettive o disturbi del metabolismo.
Scoraggiata, sollevai la schiena e mi sgranchii le spalle. Come
già in precedenza, non sapevo un bel nulla sul genere, la razza, lo
stato di salute o la modalità della morte di ME229-13.
L’orologio indicava le 14:37. Larabee era in attesa di un
aggiornamento sull’uomo col telecomando.
Allora, cosa poteva aiutarmi a far luce sulla teoria di Hazel
Strike?
Guardai il torso-puzzle.
La dimensione delle ossa era nella media, coerente con quella
di una femmina robusta o di un maschio minuto. L’età stimata al
momento del decesso, dai diciassette ai ventiquattro anni, era
coerente con quella di Cora Teague. L’altezza, da un metro e
cinquantadue a un metro e ottantadue, era coerente con metà
della popolazione del Nord America.
«Coerente con»: l’espressione preferita degli esperti forensi. Né
una corrispondenza, né un’esclusione. Presi l’appunto mentale di
informarmi sull’altezza di Cora Teague.
Ancora una volta mi trovai a riflettere: Strike era una
ciarlatana o una svitata? Oppure si era imbattuta in qualcosa di
veramente malvagio?
Non avevo individuato nessun elemento sulle ossa che facesse
pensare a un crimine. Tranne il fatto che si trovavano disperse in
mezzo al nulla, lungo una scarpata a fianco di una strada a due
corsie.
In che modo ME229-13 era finito in un posto tanto remoto? La
vittima aveva vagato sulla statale? Era caduta dal belvedere?
Gettata da un’auto nel cuore della notte?
Sentii nella mente la vocina tremante sul nastro. Di nuovo il
brivido.
Servendomi di una piccola sega per autopsia tagliai un tassello
dalla diafisi della clavicola meno danneggiata, lo chiusi
ermeticamente in una provetta e ne contrassegnai il coperchio col
numero assegnato dall’MCME, la data e le mie iniziali. Non
credevo che l’osso contenesse DNA, ma perlomeno avremmo
avuto un campione da analizzare.
Nel caso la teoria di Strike avesse avuto fondamento. Nel caso
un membro della famiglia Teague avesse fornito un campione per
il raffronto. Nel caso Larabee avesse accettato di pagare il conto
delle analisi.
C’erano degli aspetti della storia di Strike che non tornavano.
La vicesceriffo Ferris si era recata sul posto, aveva trovato altre
ossa e, tuttavia, non aveva visto il portachiavi? Mentre Hazel
Strike sì?
Sopra di me le luci fluorescenti emettevano un sommesso
ronzio. Sentivo il collo e le spalle contratti, e alla base del cranio
un bruciore annunciava un mal di testa imminente.
Basta così.
Dopo aver riportato ME229-13 in magazzino tornai in ufficio.
Passando davanti alle altre stanze per le autopsie non sentii un
solo cigolio o sferragliamento. Per quel giorno i patologi avevano
finito con le loro incisioni a Y.
Continuavo a tenere le copie cartacee delle scartoffie di tutti i
miei casi. Un metodo antidiluviano, ma efficace. Andai dritta al
mio schedario ed estrassi il fascicolo dal colore giallo
fosforescente con scritto a mano ME229-13 sull’etichetta.
Sembrava davvero esile.
Mi sedetti alla scrivania e lo aprii. Dentro c’era il pacchettino
marrone che cercavo, tenuto fermo da una graffetta all’interno
della copertina.
Con calma analizzai le foto della «scena del crimine» di Opal
Ferris. Come nel 2013 rimasi colpita dall’intuizione della vice
riguardo al bisogno di documentazione. E per niente colpita dalle
sue doti di fotografa.
Il primo scatto immortalava il belvedere, anche se gran parte
dei dettagli erano sfocati dal momento che l’obiettivo era puntato
verso il sole. Lo stesso valeva per i due successivi. Il terzo
mostrava una zona pianeggiante con un corrimano di legno e, al
di là di esso, un ripido pendio. La foresta in lontananza. Diversi
altri scatti ritraevano alberi, perlopiù pini, e fitti allori montani.
Presumibilmente l’area della scoperta di Mort.
La serie finale di fotografie era costituita da primi piani delle
ossa in situ: un gruppetto di costole screziate dall’ombra, un
segmento di colonna vertebrale mezza sepolta nella terra, una
vertebra isolata che spuntava dal terreno alla base di un pino.
Ciascuna immagine conteneva un piccolo indicatore di plastica
gialla, privo però di scala o freccia direzionale. Alcune erano
nitide, altre sfocate per via della luce non adatta o dell’instabilità
della fotocamera. E si notava chiaramente che Ferris aveva fatto
un po’ di pulizie e di spostamenti prima di scattare alcune foto.
L’ultima fotografia mostrava la clavicola destra a schermo
pieno, con la serpeggiante linea di fusione perfettamente a fuoco.
Osservai l’inequivocabile indicatore della giovane età: quando era
stata vista l’ultima volta Cora Teague aveva diciotto anni. L’osso
apparteneva a lei? Se non si trattava di Teague, chi era
l’adolescente morto su quella montagna?
Era il momento di parlare con Opal Ferris. Poi mi sarei
dedicata completamente all’uomo della poltrona.
Composi il numero dopo averlo verificato nel fascicolo.
Ricevetti risposta al primo squillo.
«Dipartimento dello sceriffo della contea di Burke. Chiama per
un’emergenza?» La voce era femminile, le parole robotiche.
«No. Vorrei…»
«Attenda, prego.»
Attesi.
«Va bene, signora, può dirmi il suo nome?»
«Dottoressa Temperance Brennan.»
«Qual è il motivo della sua chiamata?»
«Vorrei parlare con il vicesceriffo Opal Ferris.»
«Può descrivere la natura del suo interesse?»
«Resti umani rinvenuti nei pressi della Highway 181.»
«Attenda, prego.»
Aspettai ancora. Dopo un intero minuto, misi il vivavoce e
posai il ricevitore.
«D’accordo. Quando sono stati trovati questi resti?»
«Agosto 2013.» Ero stata più concisa di quanto volessi. Ma mi
faceva male la testa. E trovavo il terzo grado irritante da morire.
«Può dirmi altro?»
«No.» Secco.
Una leggera esitazione, poi: «Attenda, prego».
Aspettai. Più a lungo di entrambe le volte precedenti.
Stavo tamburellando sulla scrivania con una mano e tracciando
cerchi sulla tempia destra con l’altra, quando si udì un «clic»
all’altro capo della linea. Poi la stessa voce mi raggiunse
attraverso i forellini quadrati del telefono.
«Il vicesceriffo Ferris non è disponibile. Vuol lasciare
informazioni per essere contattata?»
Le diedi sia il numero della linea fissa dell’MCME che quello
del mio cellulare. E feci notare che il primo era la sede di un
medico legale. Bruscamente.
La donna mi augurò una buona giornata e sparì.
Calcai il dito sul pulsante per disconnettere. Un inutile
tentativo per mantenere il controllo.
Il mondo al di là della mia porta era diventato silenzioso. Gli
investigatori si trovavano fuori a imbustare corpi o nei loro
cubicoli occupati con le scartoffie. I patologi si rintanavano negli
uffici o erano via per altri incarichi.
Il mio sguardo cadde sul fascicolo sopra la scrivania. Poi si
spostò sull’orologio. Le 15:55.
Volevo andare a casa, condividere la cena col mio gatto, Birdie,
passare il tempo a chiacchierare con Ryan. Fare pace?
Immaginai la faccia di Larabee. L’occhiata pigra, preoccupata-
ma-non-troppo che mi sarei attirata per aver snobbato la
mummia.
«Bene.»
Presi il fascicolo con l’intenzione di tornare nella sala
puzzolente. Stavo per voltarmi sulla poltroncina quando il mio
iPhone squillò. Risposi pensando che potesse essere Opal Ferris.
Non era così.
La telefonata mandò in orbita il mal di testa.
5

«Sono Allan.» L’accento era della Carolina con una sfumatura


del Bronx.
Merda. Merda. Merda.
«Ehi, Allan» risposi con l’entusiasmo che riservo alle lumache
del mio giardino.
«Sicuramente sai perché ti chiamo.»
«Ci sto lavorando.» Falso. Odiavo pensarci. Erano mesi che lo
stavo evitando.
«Oggi è il 13 marzo.»
«Sì.»
«Sicuramente sai cosa significa.»
Molari superiori e inferiori si incontrarono a metà strada. Era
già la seconda volta. Allan Fink usava quell’espressione
ripetutamente in ogni conversazione.
«Sicuramente sì.» Vivace come gli alluci di Campanellino.
«È una cosa seria.»
«Su il morale, Allan. Abbiamo più di due settimane prima della
scadenza dei termini.»
«Tempe.» Un finto sospiro paziente. «Ho bisogno di quel
materiale per calcolare il totale dovuto.»
«Ti farò avere tutto entro venerdì.»
«Domani.»
«Sono davvero incasinata al laboratorio.»
«Faccio il consulente fiscale. Questa è la mia stagione
incasinata.»
«Capisco.»
«È da novembre che te lo chiedo.»
«Farò del mio meglio.»
«Non sei la mia unica cliente.»
Tra me e me, aggiunsi: «Sono sicuro che lo sai». Me l’aveva
ricordato almeno un miliardo di volte.
«Donazioni benefiche, spese d’affari e di viaggio, modelli 1099
per ciascun onorario che mi è stato pagato. Qualcos’altro?»
Una pausa censoria, poi: «Ti rimando la lista dei documenti che
mi mancano».
«So di aver conservato le ricevute.» Da qualche parte.
«Sarebbe un’ottima cosa.»
«È davvero così importante?»
«L’Agenzia delle entrate tende a credere che lo sia.»
«Prendo meno di uno scimpanzé del circo.»
«Quanto guadagnano di questi tempi i primati che si
esibiscono?»
«Noccioline.»
«Gli elefanti devono essere arrabbiati.» Allan riappese.
Erano le otto passate quando finii. Mentre riportavo l’uomo
della poltrona nella cella frigorifera, nell’MCME ronzava
quell’esagerato silenzio caratteristico degli edifici abbandonati
dopo il brusio di un’intera giornata.
Sulla base degli indicatori scheletrici e dentali, i resti
mummificati erano quelli dell’anziano inquilino in questione.
Non trovai sulle sue ossa o nelle radiografie niente che facesse
pensare a un delitto. Il vecchio signore aveva tirato le cuoia
durante un’overdose di Sopranos o di soap opera.
Pur essendo contrariato dal ritardo del mio rapporto
preliminare, Larabee sarebbe stato soddisfatto del contenuto. Il
resto adesso spettava a lui.
Fuori l’aria era tiepida e molto umida; l’orizzonte virava dal
color zenzero al grigio. Nuvole serpeggianti si allungavano scure
sopra i fili del telefono che bordavano entrambi i lati di Queens
Road.
La telefonata di Allan mi aveva innervosita e seccata. L’ultima
cosa che volevo era passare la serata alla ricerca di vecchie
ricevute di ristoranti e carte d’imbarco. Ogni anno mi riprometto
di essere più organizzata. Ogni anno vengo meno alla promessa.
Il fatto che il problema fosse creato da me non contribuì a farmi
sbollire l’irritazione.
Feci una sosta per un sushi da asporto e arrivai a casa mentre il
crepuscolo stava per battere in ritirata. La villa sembrava un
mastodontico bunker nero nella luce sempre più fioca, con le
magnolie e le querce simili a gigantesche sentinelle a guardia del
prato.
Mi immisi nel vialetto circolare, superando Sharon Hall e la
rimessa delle carrozze, e raggiunsi la struttura più piccola del
complesso: due piani, cinque stanze e un bagno. L’Annesso, il cui
scopo originario era per sempre perduto nella storia.
Pensando di tornare a casa molto prima che facesse buio, non
avevo lasciato luci accese. Ogni finestra mi fissava buia e opaca.
Anche se non vedevo il suo peloso muso bianco, sapevo che,
attraverso un vetro, un gatto molto affamato seguiva il mio
arrivo.
Presi il sushi, scesi dall’auto e attraversai il patio diretta alla
porta sul retro. Mentre nel mazzo pesantissimo individuavo la
chiave giusta, sentivo le auto che partivano dalla chiesa battista
di Myers Park sull’altro lato della strada. Un cane abbaiava. Una
sirena in lontananza.
«Ehi, Bird.» Accesi un interruttore e posai il sacchetto sul
bancone. Birdie tracciò un otto intorno alle mie gambe.
«Spiacente, ragazzone. Starai morendo di fame.»
Birdie si mise seduto e mi guardò con aria di disapprovazione.
Poi, colto l’aroma di tonno crudo, dimenticò le lamentele e balzò
sul bancone.
Gli riempii la ciotola, certa che avrebbe ignorato i croccantini
per farsi dare qualcosa da me. Poi presi un piatto, una Diet Coke
e mi misi a tavola. Birdie saltò sulla sedia accanto alla mia.
«Allora…» Gli misi davanti un pezzetto di hamachi.
«Raccontami la tua giornata.»
Birdie, con una zampa delicatamente curvata, raccolse l’offerta,
la annusò e poi la divorò. Nessun commento sulle sue attività
diurne.
«La mia non è andata esattamente come previsto.»
Mangiando un involtino California, descrissi gli incontri con
Lucky Strike e l’uomo della poltrona. Ai gatti non importa se
parli con la bocca piena. È un tratto del loro carattere che
ammiro molto.
«Ho ricevuto una telefonata da Allan Fink.» Condivisi i miei
sentimenti sulla scadenza dei termini.
Birdie ascoltò, seguendo con lo sguardo le bacchette mentre
prendevo due amago e li mangiavo. Gli diedi un ebi e mangiai il
riso. Lui curvò di nuovo la zampa e spazzolò il gamberetto in un
solo boccone.
Una confessione. Tra tutte, una faccenda mi metteva in
subbuglio. La sorprendente proposta di Andrew Ryan.
«Cosa ne pensi? Dovrei sposarlo?»
Bird mi guardò, ma non offrì alcun contributo alla soluzione
del problema.
«Sono d’accordo. Più tardi. Ti va di rovistare nelle scatole?»
Lo stesso modo di non rispondere.
Salii su per le scale, feci una doccia veloce e indossai t-shirt e
pantaloni del pigiama. Poi andai in soffitta, in fondo al corridoio.
Ecco il mio sistema di archiviazione in tre mosse. Un metodo
non verrà mai rivelato ad Allan Fink. Hai una ricevuta, un
tagliando o un documento che potrebbero tornare utili più avanti
nel tempo? Gettali in una scatola, scrivici sopra la data, ficca la
scatola in soffitta alla fine dell’anno.
Trovai subito la scatola, tra una pila di obsoleti manuali e due
racchette da tennis che non avrei mai fatto incordare di nuovo.
La portai in sala da pranzo, un po’ a disagio per il suo scarso
peso.
Seduta a tavola, sollevai il coperchio. Non dovevo
preoccuparmi. Quell’affare era zeppo di più fogli di quanti una
cartiera ne produca in un decennio. Gemendo tra me e me, iniziai
a sbrogliare, decifrare e suddividere il mucchio. Taxi. Alberghi.
Human Society. Animals Asia. Cestino.
Mentre mi sforzavo di mettere a fuoco numeri di carta di
credito sbiaditi e codici di registratori di cassa, la mia mente
tornò a Lucky Strike e alla registrazione. La ragazza mi era
sembrata terrorizzata, e gli uomini orribilmente crudeli. Le voci
risuonarono nella mia testa, acute e frastagliate come vetri rotti.
La ragazza dell’audio era davvero Cora Teague? Se non era lei,
allora chi? Chi era finito sotto quel belvedere della contea di
Burke?
Avrei dovuto confiscare il registratore. Certo, l’avevo chiesto e
Strike si era rifiutata di darmelo. Ma avrei potuto essere più
persuasiva se avessi usato il cervello. Perché non l’avevo fatto?
Perché Opal Ferris non mi aveva richiamata?
Senso di colpa, ancora e ancora. Irritazione. Ansia dovuta alla
prospettiva dei voti coniugali.
Dopo un’ora avevo eroso la montagna di carta forse di cinque
centimetri. E mi era tornato un mal di testa coi controfiocchi. Al
diavolo.
Mi trasferii nello studio e, dopo aver acceso il Mac, cercai su
Google il termine «cybersegugio». Rimasi allibita dal numero di
link risultanti dalla ricerca. Articoli. Video. Siti con nomi tipo
Websleuths, Official Cold Case Investigations, Justice Quest.
Cliccai una pagina dopo l’altra, affascinata. A un certo punto
Birdie mi raggiunse e si raggomitolò sulla scrivania. Le sue fusa
ininterrotte fornivano un placido sfondo all’intermittente
ticchettio dei tasti.
C’erano somiglianze tra un sito e l’altro. Chat. Forum.
Discussioni che seguivano casi particolari o ambiti di ricerca.
Omicidi irrisolti e persone scomparse sembravano attrarre gran
parte dell’attenzione. Le regole variavano. Alcuni siti esigevano
un controllo delle persone che affermavano di essere
professionisti e di avere informazioni dall’interno: dottori,
giornalisti, poliziotti, eccetera. Altri no. Alcuni proibivano gli
«inviti», ovvero le richieste di contatti privati tra utenti. Altri li
consentivano.
Lessi a fondo un articolo riguardante Websleuths.com e appresi
che il sito era nato negli anni Novanta come forum online per
discutere dell’omicidio Jon Benét Ramsey. Si prendeva il merito
di aver scoperto un indizio cruciale nel caso Casey Anthony e per
aver aiutato a risolvere l’assassinio di Abraham Shakespeare, un
bracciante della Florida ucciso dopo la vincita di trenta milioni di
dollari alla lotteria. Lessi un commento secondo cui gli
amministratori vantavano sessantasettemila membri registrati al
sito e fino a trentamila visite quotidiane. Impossibile dire se
quelle cifre fossero vere.
Fornii le informazioni richieste per iscrivermi e scelsi un
argomento a caso. La discussione riguardava una parrucchiera
ventinovenne sparita da Lincoln, Nebraska. La ragazza
scomparsa, Sarah McCall, aveva lasciato il luogo di lavoro in
gennaio, con l’intenzione di andare a bere qualcosa con gli amici.
La sua auto era stata ritrovata due giorni dopo in un’area di sosta
sull’Interstate 80. Niente borsa. Niente chiavi. Nessuna traccia di
McCall.
Il numero di persone che seguiva il caso era davvero
impressionante. Come la quantità di informazioni che
affermavano di aver raccolto. Nel corso di due mesi, i
cybersegugi avevano trovato la pagina Facebook di McCall e i
video online; avevano inoltre scoperto i suoi diversi pseudonimi
Twitter, compresi @singleandfree (single e libera), @silverlining
(risvolto positivo) e @curlupanddye (arriccia e tingi). Un esperto
di informatica, il cui nickname era candotekkie, aveva recuperato
migliaia di post Twitter cancellati. Altri cybersegugi ne avevano
esaminato il contenuto per distinguere ciò che era rilevante da
ciò che non lo era.
E questa gente era minuziosa. Un membro di nome RIP aveva
mandato via e-mail una foto di McCall in ogni rifugio per donne,
ospedale e struttura di medicina legale del Nebraska. Purtroppo
Sarah McCall non era ancora stata ritrovata.
Mentre mi preparavo un tè non potei fare a meno di pensare al
modo in cui McCall aveva inconsapevolmente contribuito
all’indagine sulla propria sparizione. La donna era stata un’utente
di social media di proporzioni epiche. L’esatto contrario di Cora
Teague.
Tornata alla tastiera, mi collegai a CLUES.net. Il sito era meno
facile da utilizzare dell’altro, e questo indicava il lavoro di un
webmaster meno esperto nell’uso dei template. Però Strike aveva
ragione. Non erano richiesti dati per registrarsi.
Dopo un po’ di ricerche trovai finalmente un forum su Cora
Teague. A differenza degli altri a cui avevo dato un’occhiata, su
quel caso c’erano davvero poche conversazioni e con solo una
manciata di partecipanti, molti dei quali avevano presto
abbandonato il forum.
La prima conversazione risaliva al 22 agosto 2011, ed era stata
iniziata da qualcuno che si faceva chiamare OMG. Il post
affermava che Cora Teague era scomparsa e si trovava in pericolo
a causa delle sue condizioni di salute. Sottolineava una mancanza
di interesse nei suoi confronti da parte della famiglia e delle
locali forze dell’ordine. OMG descriveva Teague come una
femmina bianca alta uno e sessantacinque, di costituzione esile,
con occhi verdi e lunghi capelli biondi. Dichiarava di averla vista
l’ultima volta il 14 luglio 2011 fuori dalla casa dei Teague, nella
contea di Avery, North Carolina. Cora Teague indossava una
maglietta blu a maniche lunghe, un leggero parka bianco e stivali
di pelle. OMG non descriveva le circostanze dell’avvistamento e
nessun dettaglio era venuto fuori nei brevi scambi che erano
seguiti.
Un segugio che usava il nome di luckyloo si era unito alla
conversazione il 24 febbraio 2012. Fino a quel periodo nessuno
aveva postato un solo commento per oltre sei mesi. Ipotizzai che
luckyloo fosse Hazel Strike.
C’era stato un incremento negli interventi a seguito della
comparsa di Strike, ma alla fine la conversazione si era ridotta a
due soli partecipanti. OMG non era uno di loro. Nel gennaio
2013, dopo due mesi di silenzio, Strike aveva chiesto un incontro
con OMG. Non c’era stata risposta. OMG aveva da tempo fatto
perdere le sue tracce.
Sono caparbia di natura. Non so tirarmi indietro davanti a un
problema che non riesco a risolvere.
Sorseggiando l’ormai tiepido Earl Grey, pensai a quanto avevo
appena letto. Alla teoria di Strike.
All’audio.
Mi chiesi cos’era che turbava Cora Teague. Quale misteriosa
malattia l’avesse fatta tornare a casa dei genitori.
Mi interrogai sull’identità di OMG. Oh My God, oh, mio Dio?
Mi chiesi perché OMG ritenesse Teague in pericolo.
E, per la centesima volta, mi chiesi se Cora Teague fosse viva o
morta.
Cora Teague adesso era un mistero che bramavo risolvere.
Passai a NamUs.gov e riaprii il file che avevo creato sul torso
della contea di Burke. Dopo aver inserito una descrizione del
portachiavi-registratore e del passante di denim, spensi tutto e
me ne andai a letto.
Ignara della spirale di morte che avevo evocato.
6

L’orologio sul comodino segnava le 11:48. Avevo deciso che


era troppo tardi per chiamare Ryan quando il mio iPhone esplose
con Girl on Fire. Un appunto mentale: cambiare suoneria.
Controllai il display, accettai la chiamata e mi infilai sotto le
coperte.
«Ehi.»
«Ehi cosa?» La classica replica di Ryan.
«È il sud» dissi sorridendo. «Noi salutiamo così.»
«Com’è andata la tua giornata?»
«Sembri me quando cerco di fare conversazione col mio gatto.»
Ryan rise. Si era ripreso dalla delusione per il fatto che avevo
annullato il viaggio ed era di buon umore. «Come sta il Birddog?»
«Scocciato che la cena sia stata servita solo alle nove.»
«Perché così tardi?»
«Adesso vuoi sapere dei casi?»
«Potremmo parlare delle offerte speciali al Costco.»
Immaginai Ryan nel suo appartamento con vista sullo scuro e
minaccioso fiume San Lorenzo. Steso sul divano, con le gambe
allungate, le caviglie incrociate e appoggiate sul tavolino da
caffè. Ryan non telefona mai dal letto. Per lui, il letto serve a due
sole attività. Ed è bravo in entrambe.
Per quanto riguarda la prima: quando la sua testa tocca il
cuscino, Ryan si addormenta all’istante. L’altra, invece… Pensieri
riguardanti la seconda attività mi provocarono una minuscola
capriola nel basso ventre.
«Un caso riguarda un vecchio mummificato. Identificazione
inequivocabile. Il secondo caso invece è cominciato con una
strana visita.» Dissi a Ryan di Lucky Strike. Cora Teague. I resti
etichettati ME229-13. La registrazione. «Le voci erano davvero
inquietanti.»
«Come mai?»
«La ragazza sembrava assolutamente pietrificata. Poi sono
arrivati gli uomini e hanno iniziato a tormentarla.» Rievocare la
scena mi provocò un’ondata di gelo lungo la schiena. «Non lo so.
Forse l’intera faccenda è una bufala.»
«A quale scopo?»
«Non riesco a capirlo.»
«Chi è questa Strike?»
«Un cybersegugio.»
«Mi devi spiegare di cosa si tratta.»
«Sono detective dilettanti che setacciano Internet cercando di
spiegare casi irrisolti.»
«Dio ci aiuti!»
«Molti sembrano piuttosto competenti. E incredibilmente
dediti.»
Silenzio.
«Puoi almeno sforzarti di avere vedute più larghe?» chiesi.
Ryan emise un grugnito che interpretai come un sì.
«Alcuni si occupano di vecchi omicidi insoluti. Altri cercano di
associare persone scomparse a resti non identificati. Quelli che
mi interessavano.»
«Comprensibilmente.»
Gli parlai dei siti, dei forum, delle discussioni. «Alcune persone
passano ore a guardare le immagini create a partire dai corpi
decomposti e dagli scheletri. Poi passano al vaglio le foto
antemortem delle persone scomparse, alla ricerca di
corrispondenze.»
«E noi sappiamo quanto sono accurate gran parte delle
ricostruzioni facciali…»
Ryan non aveva torto. Nella mia breve incursione in una serie
di gallerie online avevo visto il consueto assembramento di
ritratti artistici a colori, rozzi disegni a matita, bozzetti simili a
fumetti, busti d’argilla con la parrucca e lineamenti da
spaventapasseri, grafiche computerizzate innaturalmente
simmetriche. Per esperienza sapevo che molte di queste immagini
erano tristemente inesatte. Alcuni siti contenevano vere foto da
obitorio, con le facce grottesche e distorte dalla morte.
«Altri iniziano con rapporti riguardanti resti non identificati
con segni particolari inequivocabili: una vecchia cicatrice, un
tatuaggio originale, una frattura insolita, un impianto, una parte
del corpo artificiale. Poi setacciano i siti di persone scomparse
alla ricerca di individui che possiedono caratteristiche simili.»
Avevo ignorato il commento di Ryan. «Altri ancora partono da
persone dichiarate scomparse da un’area in cui sono stati
rinvenuti dei resti e poi procedono verso l’esterno, la contea, lo
Stato…»
«Il futuro, l’orizzonte…»
«Scambiamo battute o vuoi sentire questa storia?»
«Amo come la tua voce diventa sexy quando sei scocciata.»
«Ho visitato un sito dedicato a un’adolescente assassinata,
soprannominata Princess Doe. Il suo corpo fu scoperto a
Blairstown, New Jersey, nel 1982. Il viso era talmente martoriato
da essere irriconoscibile. Erano inserite quasi un centinaio di
possibili corrispondenze, Ryan, tutte giovani donne che
vagamente corrispondevano alla descrizione della ragazza. Tutte
dichiarate scomparse dopo il 1975.»
Lui tentò di commentare. Io continuai a parlare.
«E ce ne sono dozzine e dozzine, come Princess Doe. Caledonia
Jane Doe. Tent Girl. The Lady of the Dunes. Jane Arroyo Grande
Doe.»
«Sembrano un sacco di ore di lavoro per un uomo.»
«E per una donna.»
«Ne prendo atto.»
«I resti non identificati sono un grosso problema, Ryan. Sia
negli Stati Uniti che in Canada.»
«Come i dermatteri.»
«Stai cercando di farmi arrabbiare?»
«Amo come la tua voce diventa…»
«Il National Institute of Justice calcola che ci siano decine di
migliaia di corpi non identificati negli obitori o sepolti in fosse
anonime nei campi comuni di questo paese.» Mio Dio. Mi
sembrava di parlare come Strike.
«Pensavo che quello fosse lo scopo dell’NCIC.»
Ryan si riferiva al National Crime Information Center, un polo
informatico con sede a Clarksburg, West Virginia, contenente
informazioni su tutto ciò che riguarda il crimine. Pistole rubate,
auto, imbarcazioni. Titoli contraffatti, assegni rubati. Impronte
digitali. Nomi di terroristi, membri di gang, criminali violenti. E,
negli ultimi anni, resti non identificati e determinate categorie di
persone scomparse.
«Sai bene quanto me che l’NCIC non risolve il problema.
Diamine, fino al 1999 non era neanche obbligatorio per lo Stato e
le agenzie locali registrare gli scomparsi o i non identificati.
Appena nel 2007, il National Institute of Justice ha calcolato che
solo il quindici per cento di tutti i resti non identificati era stato
registrato.» Mentre ero online avevo passato un po’ di tempo a
informarmi sull’argomento. «Nel 2009 una commissione del
National Research Council ha reso noto che l’ottanta per cento
dei coroner e dei medici legali interpellati ha risposto “di rado” o
“mai” alla domanda se si servissero dell’NCIC per abbinare i loro
resti non identificati alle denunce di scomparsa.»
«Perché un utilizzo tanto scarso?»
«Tanto per cominciare, il database è aperto solo alle forze
dell’ordine.»
«Non puoi lasciare che ogni oca giuliva con uno zio scomparso
acceda al sistema.»
«Vero. Ma un altro problema deriva dal fatto che la
registrazione di un caso è incredibilmente laboriosa. L’intero
protocollo consta di più di trenta pagine. Pensi che i poliziotti si
mettano seduti con i membri della famiglia ed esaminino ogni
casella che va spuntata?»
Ryan non disse niente.
«Spesso accade che un poliziotto inserisca le informazioni di
base: genere, una razza tra le tre principali, ampi intervalli per
età e altezza. Magari la data del rinvenimento. Il profilo è così
vago che il programma sputa fuori centinaia di possibili
corrispondenze. Quanto è probabile che un tizio si metta a
esaminare tutte quelle informazioni?»
«O una tizia.»
«Ne prendo atto.»
«I poliziotti sono sovraccarichi, di questi tempi.» Ryan
sembrava un tantino sulla difensiva.
«E poi c’è il problema dell’incompatibilità nelle denunce. Per
esempio, le impronte dentali di un resto non identificato vengono
inserite usando un sistema di classificazione e quelle di una
persona scomparsa vengono inserite usandone uno diverso: anche
se entrambi i casi possono essere nel database, l’uno non verrà
mai collegato all’altro.»
«Stai dicendo che l’NCIC è inutile e poco utilizzato.»
«Per il furto di un’auto o di un passaporto è fantastico. Per
collegare dei resti a una persona scomparsa non così tanto. Ma le
cose stanno migliorando.»
«Perciò i cybersegugi affrontano il problema usando siti di
pubblico accesso.»
«Sì.»
«Alcuni dei quali accolgono qualsiasi idiota voglia postare la
taglia del suo cappello.»
Lo ignorai. «Alcuni segugi hanno avuto un discreto successo.»
«Come la vecchia Obbligo-o-Verità Strike.»
«Lucky.»
«Cosa?»
«Si fa chiamare Lucky.»
«Se Strike ha davvero contattato la famiglia e la scuola della
ragazza, direi che non rientra nella definizione che mi hai appena
dato.»
«Si chiama andare offline.»
«Se Strike sta dicendo la verità, è finita con le chiappe su una
potenziale scena del crimine.»
«Ascolta. Il torso può essere quello di Cora Teague. Oppure non
esserlo.» La mia voce era anni luce dal sembrare sexy.
L’atteggiamento di Ryan cominciava a farmi incavolare. «Ma
Strike ha dato origine a una pista.»
«O ti ha fregata, facendoti perdere tempo ed energie.»
«Verificare le soffiate fa parte del mio lavoro.»
«Strike ha le palle, di questo gliene do atto.»
«Forse dovremmo parlare di qualcos’altro.»
«No, no, no.»
«Bell’uso di trilogia.»
Ci fu un lungo silenzio accresciuto dalla mia irritazione e dal
suo scetticismo.
«Come sta Daisy?»
L’offerta di pace di Ryan non era il massimo.
Katherine Daessee Lee Brennan. Daisy. La mia madre-fantoccio
matta da legare.
Quando avevo otto anni mio padre era morto in un incidente
d’auto e il mio fratellino si trovava in terapia intensiva pediatrica
dopo aver perso una straziante battaglia che riguardava i suoi
globuli bianchi. Ero stata trasferita da Chicago nel North Carolina
e avevo vissuto il resto dell’infanzia migrando tra la casa di
famiglia al mare a Pawleys Island e la dimora vittoriana di mia
nonna a Charlotte.
Dopo aver passato decenni a traghettare la figlia attraverso
un’infinita serie di crisi mentali, alla fine nonna si era spenta
all’età di novantasei anni. Penso che la pazzia di mamma l’avesse
logorata.
Poco dopo la morte della nonna, mamma era scomparsa senza
una scusa né una spiegazione. Quattro anni dopo mia sorella
Harry e io venimmo a sapere che viveva a Parigi con una badante
di nome Cécile Gosselin, che lei chiamava Goose.
Quando avevo trentacinque anni, mamma era tornata negli
Stati Uniti con Goose. Da allora avevano fatto la spola tra la casa
di Pawleys Island e un immenso appartamento nell’Upper East
Side di Manhattan. La cosa mi stava bene. Visite durante le
vacanze. E-mail e SMS. Brevi chiacchierate al telefono.
Poi, senza preavviso, mamma si era ripresentata nella mia vita
poco prima della ricomparsa della stessa Harry. Con il suo
bagaglio Louis Vuitton, i foulard di Hermès e lo Chanel N° 5, si
era insediata nell’unica struttura in grado di soddisfare i suoi
standard di vita straordinariamente elevati. Viaggiava al suo
seguito anche un tumore maligno incontrollato che alla fine
l’avrebbe uccisa.
«Mamma continua a terrorizzare lo staff di Heatherhill Farm»
risposi.
«Goose è ancora accampata nel bed & breakfast in fondo alla
strada?»
«Sì. Quella donna è una santa.»
«Probabilmente Daisy le ha promesso l’eredità di famiglia.»
«Secondo la pianificazione successoria di mamma, gli assegni
che compila vengono respinti dal primo all’ultimo. Non lo so. È
difficile capire Goose. Quella donna parla di rado.»
«Noi francesi siamo enigmatici.»
«Ma producete ottimi formaggi.»
«E ottimi vini.»
«E ottimi vini.»
«Daisy sarebbe uno spaventoso cybersegugio.»
«Non osare parlargliene.» Ryan aveva ragione. Le doti di mia
madre nel setacciare il web sono insuperate. Ma c’è una
controindicazione. Quando è in fase maniacale, per mia madre
una leggera curiosità può diventare una divorante ossessione.
«Ricevuto. Notizie di Katy?»
Un altro argomento che mi teneva costantemente in ansia. Due
anni prima mia figlia si era arruolata nell’esercito ed era stata
mandata in Afghanistan. Era sopravvissuta alla sua missione e
ritornata a casa ma, con mio grande orrore, si era offerta
volontaria per farsi mandare di nuovo laggiù. Adesso era nel
primo mese del suo incarico.
«Sana e felice.» O almeno lo era all’epoca della nostra ultima
chiamata su Skype.
«Bene.»
Ci fu una pausa molto lunga. Mi preparai, sapendo cos’era in
arrivo.
«Capisco il motivo per cui hai dovuto annullare il viaggio a
Montréal. Ma hai pensato almeno un po’ alla mia proposta?» Il
tono di Ryan era accuratamente neutro.
La proposta.
«Sì.» Mi passai una mano tra i capelli. Inspirai. Espirai.
«E…?»
«È difficile, Ryan. Con mamma.»
«Sì.»
«E Katy.»
«Katy starà benone.»
«Sì.»
«Ti amo.»
Sapevo di dover rispondere a tono. Invece lottai contro il folle
impulso di chiudere la comunicazione.
«La prendo come “nessuna nuova, buona nuova”.»
D’istinto alzai le spalle. Che stupida. Ryan non poteva vedermi.
«Ecco il mio suggerimento.» Cambiò di nuovo argomento.
«Manda quella registrazione ai tuoi tecnici audio.»
«Non ce l’ho.»
«Come mai?» Ancora il tono neutro. Nessuno riesce a
mantenerlo come Ryan.
«Strike si è rifiutata di lasciarmela.» Sola al buio, mi sentii
arrossire di umiliazione per la mia inettitudine. «Ho telefonato
alla vicesceriffo della contea di Burke che ha recuperato le ossa.»
«Cos’ha detto?»
«Sto aspettando che mi richiami.»
«Forse sarebbe saggio far analizzare l’audio.» Ryan puntualizzò
l’ovvio.
«Chiamerò Strike domani mattina.»
Si rivelò una pessima idea.
7

Quella notte partecipai a un macabro party del Cappellaio


Matto.
Ero seduta a un tavolo che si allungava a perdita d’occhio in
entrambe le direzioni. Con tovaglia e tovaglioli di lino bianco,
cucchiai e candelieri d’argento e un servizio da tè di porcellana.
Ryan era di fronte a me e indossava papillon, smoking e
berretto di lana rossa. Accanto a lui c’era una donna che a stento
gli arrivava all’altezza della spalla. I suoi capelli erano una
nuvola che le creava un alone intorno alla testa, i lineamenti un
misterioso paesaggio a cui mancavano dettagli e definizione. Il
corpo della donna terminava in fondo a una gabbia toracica che
spuntava sotto una maglietta blu a maniche lunghe.
Dietro Ryan e la donna, un’enorme finestra ad arco
incorniciava un tramonto al neon. Gialli, arancioni e rossi
sgargianti sovrapposti strato su strato, sostenevano un sinistro
disco nero che fluttuava proprio sopra l’orizzonte.
Sapevo che era sbagliato. Che il sole doveva essere luminoso.
Cercavo di dirlo a Ryan. Ma lui continuava a parlare con la
donna al suo fianco.
Più in là, alla mia sinistra, mamma e Larabee erano impegnati
in un’animata discussione. Larabee aveva un camice sporco di
sangue. Mamma indossava il completo nero di Chanel che aveva
comprato per il funerale di papà, ma che non aveva mai messo.
All’estremità destra Hazel Strike era seduta da sola, in jeans e
stivali, lo zaino accanto a sé sulla tovaglia candida. L’acceso
tramonto faceva sembrare il suo chignon una meringa d’ottone.
Tutti quanti avevano in mano una tazzina di porcellana. Le dita
di Ryan apparivano enormi sul manico sinuoso e piccolo.
Mamma e Larabee si fecero più rumorosi, ma non riuscivo a
distinguere quello che dicevano. Riconoscendo una nota
pericolosa nel tono di mia madre, cercai di alzarmi ma scoprii di
essere incollata alla sedia.
Cominciò a cadere una pioggia fine. Nessuno parve
accorgersene tranne me.
Guardai Ryan.
«Ti scioglierai?» mi chiese.
Tentai di rispondere. Le mie labbra non volevano formare le
parole.
«Lascerai che Cora Teague si sciolga?» Continuò, con un tono
brusco.
La mia bocca continuava a rifiutarsi di funzionare.
«Sciogliti» intonarono all’unisono Larabee, mamma e Strike. La
parola riverberò, come se rimbalzasse contro le pareti di
un’enorme sala. Mi guardai intorno. Tutti e tre mi stavano
fissando.
«Lascerai che io mi sciolga?» Con voce tagliente, senza eco.
Mi concentrai nuovamente su Ryan. I suoi occhi erano furiose
fiamme azzurre.
«Scompaio nel buco nero?»
Prima che potessi rispondere, Ryan fu risucchiato all’indietro e
svanì nel minaccioso sole nero. I capelli nebulosi della donna
turbinarono, aspirati verso l’alto dall’improvviso allontanamento
di Ryan. Il suo viso, adesso scoperto, era privo di carne, con le
orbite vuote puntate su di me in segno di accusa implorante. Un
battito di ciglia e la donna sparì nella stessa direzione di Ryan.
Terrorizzata, mi girai di scatto a sinistra. Mamma e Larabee
erano scomparsi.
A destra invece c’era Strike, in piedi e con le dita nodose strette
a pugno; mi diceva di unirmi a lei.
Distolsi lo sguardo. Cercai di scrutare nel condotto spazio
temporale che aveva inghiottito Ryan e la donna. Non vidi altro
che un fondo nero come una tomba.
«Ryan!» urlai.
Mi svegliai col cuore che batteva all’impazzata e madida di
sudore. Disorientata, impiegai un momento per capire dove mi
trovavo.
L’orologio segnava le 2:47 del mattino.
Birdie era sulle quattro zampe, con la schiena inarcata:
indubbiamente seccato per il fatto che avessi interrotto il suo
sonno. Gli accarezzai il capo e si raggomitolò accanto al mio
ginocchio.
Chiusi gli occhi.
Inspira.
Espira.
Calma.
Ripetei più volte il mantra. Naturalmente il sonno non venne.
La mia mente era impegnata ad analizzare in modo ossessivo il
sogno. Cosa che in genere non richiede l’aiuto di Freud. Il mio
subconscio che non è per nulla creativo si limita a rielaborare gli
eventi più recenti.
Lo smoking e la tavolata formale rappresentavano il desiderio
di matrimonio di Ryan, il berretto le sue radici canadesi e l’amore
per il Québec. La sua sparizione nel buco nero non aveva bisogno
di alcuna spiegazione.
La donna accanto a Ryan era Cora Teague. Stesso discorso per
il suo sguardo implorante e l’improvvisa uscita di scena.
Strike interpretava se stessa. Voleva che cercassi Teague.
Larabee, dall’altro lato del tavolo, probabilmente si sarebbe
opposto, visto il poco che sapevamo su Strike o sui resti
etichettati ME229-13.
E Daisy? Facile. Ultimamente mamma era sempre nei miei
pensieri.
Il completo Chanel e il camice insanguinato? Chissà…
L’ultima volta che controllai l’ora, le cifre arancioni indicavano
le 5:54. La sveglia suonò alle 7.

Alle otto ero all’MCME, passai due ore a ingurgitare caffè e a


compilare una relazione definitiva sul cadavere mummificato, un
anziano signore di nome Burgess Chamblin. Appena la ebbi
terminata, presi il fascicolo ME229-13, percorsi il corridoio e
bussai alla porta di Larabee.
«Ehi.»
Entrai e mi fermai in mezzo alla stanza, incerta se andare
avanti o lasciar perdere tutto quanto. Ebbi un duplice flashback.
Il volto del sogno. L’audio.
Larabee era intento a scrivere, vestito ancora in abiti civili.
«Come va?»
«Tutto rose e fiori.»
«Bene.» Scrisse ancora. Prestandomi ascolto solo parzialmente.
«Hai visto il mio rapporto preliminare sull’uomo della poltrona
reclinabile?»
«Sì.» Larabee mise il puntino su una i. O forse una j. Infilò una
manciata di foto in una cartellina e la chiuse. «Grazie per averlo
preparato subito.»
«Ho terminato quello definitivo.»
Alzò lo sguardo. «Ottimo. Grazie.» Dal momento che non me ne
andavo, disse: «Hai qualcosa che ti gira per la testa?».
«Se hai un minuto…»
«Siediti pure.»
Spinsi avanti una sedia e mi sedetti.
Larabee si appoggiò allo schienale e intrecciò le lunghe dita
ossute sul petto. Che sembrava scarno e concavo sotto la polo
bianca, risultato di una zelante dedizione trentennale alla corsa.
«Che razza di storia. Nessuno va a trovare il nonno per quasi
due anni e tutt’a un tratto i ragazzi non vedono l’ora di seppellire
il vecchio.»
«Questione di soldi?»
«Non proprio.» La fronte di Larabee, perennemente segnata
dalle ore passate a pestare il marciapiede, si aggrottò ancora di
più. «Che succede?»
«Voglio che mi ascolti fino alla fine» esordii.
«Non lo faccio sempre?»
Abbozzai una smorfia e poi continuai. «Ieri è venuta da me una
donna. Hazel Strike. Strike è convinta che uno dei nostri resti non
identificati sia una ragazza di nome Cora Teague.» Diedi un
colpetto al fascicolo che avevo in grembo.
«È fantastico. Approfondisci.»
«Non è così semplice.»
«Va’ avanti.»
«I resti consistono in una manciata di ossa trovate nella contea
di Burke nel 2013.»
«Perché il caso è finito qui?»
«Non ne sono sicura.»
«Sei in grado di ricavare il DNA?»
«Questo può essere problematico per due motivi. Primo, le ossa
sono gravemente deteriorate. Terra acida, saprofagi…»
«Secondo?»
«La famiglia potrebbe non essere disposta a fornire campioni
per il raffronto.»
«Perché?»
«Non credono che la ragazza sia morta.»
La fronte di Larabee si inarcò e le rughe si compressero.
«Pensano che sia andata via di sua spontanea volontà.»
«Allora per quale motivo questa Strike pensa che i nostri resti
non identificati appartengano a Teague?»
Spiegai il mio inserimento degli identificatori di ME229-13 nel
database NamUs e lo informai sul fenomeno dei cybersegugi.
Sulla visita di Strike alla contea di Burke e l’inquietante
registrazione. Man mano che parlavo, l’espressione di Larabee
passò dall’interesse allo sdegno.
«Stai scherzando?»
Feci segno di no con la testa.
«Bene. Sentiamo questo momento alla Blair Witch Project.»
«Strike si è rifiutata di lasciarmi il registratore.»
«Gesù, Tempe.»
«Cosa dovevo fare, strapparglielo di mano?»
Il telefono di Larabee squillò. Lui lo ignorò.
«Cosa proponi?» mi chiese.
«Forse dovrei andare lassù. Magari prendere Joe, portare un
cane da cadaveri nei boschi sotto il belvedere.» Joe Hawkins è un
investigatore che è con l’MCME sin dai tempi di Eisenhower. Se
qualche osso fosse rimasto su quella montagna, Joe Hawkins
l’avrebbe trovato. O l’avrebbe fatto il cane.
Larabee rifletté un po’ sull’idea. Poi aggiunse: «Dici che i resti
erano già deteriorati al loro arrivo nel 2013. Che probabilità ci
sono che ne siano sopravvissuti altri?».
«È possibile.»
«Probabile?»
Mi strinsi nelle spalle.
«Chi si è occupato del recupero?»
«Un vicesceriffo della contea di Burke.»
«Hai parlato con lui?»
«Lei. Opal Ferris. Non era in sede. Ho lasciato un messaggio.»
«Il NOK ha presentato denuncia di scomparsa?» Larabee usò
l’abbreviazione che indicava i congiunti: Next Of Kin.
Scossi la testa.
«Chi ha inserito Teague sul sito CLUES?»
«Non c’è modo di saperlo. Tutti gli utenti possono restare
anonimi.»
Il volto di Larabee assunse un’espressione a metà tra una
smorfia e un sentore di minaccia. La mantenne per diversi istanti.
Poi disse quello che mi aspettavo.
«Non posso impiegare fondi o personale in una faccenda tanto
esile. Richiama la contea di Burke. Parla con Ferris. Vedi come
prosegue.»
Annuii. Mi alzai e tornai nel mio ufficio.
Stavolta Opal Ferris si rese disponibile.
Mi presentai. Ferris si ricordava di me. E delle ossa. Oltre che
della sua escursione in montagna con Mort. Chiese se fossero
emerse nuove informazioni.
Per quella che parve la centesima volta, ripercorsi la recente
linea temporale, concentrandomi sugli sviluppi sconosciuti a
Ferris. I cybersegugi. L’apparizione di Strike su NamUs e la sua
visita alla contea di Burke. Cora Teague. La registrazione.
Ferris ascoltò. Credo. Sembrava esserci parecchio movimento
in sottofondo.
«Questo portachiavi era lì a terra?» Ferris aveva la voce roca,
forse per il fumo, forse a causa di un nodulo alle corde vocali.
«Così afferma Strike.»
«E la famiglia pensa che la ragazza sia fuggita con un tipo del
posto?»
«Non ho conferme riguardo al fatto che si trattasse di un tizio
delle sue parti.»
«Ma la conclusione è che non è stata denunciata la scomparsa
della ragazza.»
«Tranne su CLUES.»
«A cui può accedere qualsiasi svitato.»
Non dissi nulla.
«Teague ha un cellulare?»
«No.»
«Presenza su Internet?»
«Nulla, secondo Strike.»
«Uh-uh. Spiacente, doc. Ma pare che lei non abbia in mano un
fico secco. Qualche osso a Burke, qualcuno che forse è scomparso
o forse no a Avery. Una tizia che ha diciotto anni ed è libera di
non farsi trovare, se vuole così.»
Difficile ribattere.
«Può fare un paio di telefonate?» chiesi. «Per vedere se la
madre o una delle sorelle si rende disponibile a fornire un
campione di DNA?»
Aspettai. Un bel po’. Quando ero sicura che stesse per
liquidarmi, Ferris disse: «La richiamo».
Ferris non mi richiamò. Ma lo fece un vicesceriffo della contea
di Avery di nome Zeb Ramsey. Alle quattro di quel pomeriggio,
mentre stavo entrando nel mio vialetto.
La madre ed entrambe le sorelle si erano rifiutate di fornire
campioni. Anche se nessuna di loro aveva notizie di Cora dal
2011, tutte credevano che fosse viva e che stesse benone.
Il vice Ramsey dimostrò per la vicenda lo stesso entusiasmo di
Ferris. Chiuse la comunicazione prima che potessi abbozzare una
sola domanda sulla famiglia Teague.
Prima Ryan, adesso Larabee, Ferris e Ramsey. Il livello di
entusiasmo mi stava provocando fitte di tensione alla schiena.
Gettai il cellulare sul cruscotto e alzai il dito medio nella sua
direzione. Per tutta risposta, cominciò a squillare. Lo agguantai
pensando che Ramsey mi stesse richiamando.
«Brennan.»
«Pare che le sia capitata una pessima giornata.»
«Sono fuori servizio, signorina Strike.»
«Signora.»
Sospirai, incerta se scusarmi o se riattaccare semplicemente.
«Non le consumerò le orecchie. Volevo solo invitarla, per fare
in modo che tutto quanto sia legittimo. Mi voglio concedere un
altro giro su quel belvedere, domani.»
«Sta tornando nella contea di Burke?»
«Già.»
«Non dovrebbe farlo.»
«Se non spetta a me, a chi allora?»
«Apprezzo quello che ha fatto. Ma è il momento di lasciare
l’indagine nelle mani dei professionisti.»
«Sì? Hanno trovato qualche pista?»
Fino a quel momento, a nessuno di coloro che avevo contattato
importava un bel niente di tutta la storia. Lo tenni per me.
«Be’, io sì.» Strike tacque a lungo, forse per dimostrare chi
comandava. «Ricorda il più giovane dei Teague? Quello che le ho
detto di non sapere dove fosse finito?»
«Eli.»
«Il piccolo Eli è morto poco dopo il suo dodicesimo
compleanno.»
«Morto come?»
«Non lo so. Non ho accesso alla documentazione medica.»
«I bambini muoiono. Potrebbe non avere alcun significato.»
«O potrebbe significare qualcosa.»
«Come ha saputo della sua morte?»
«Ho i miei modi.»
«Quando andrà lassù?»
«Ho intenzione di essere lì entro le otto del mattino.»
Pensai alla strigliata che mi sarei beccata da Larabee. E al
danno che Strike poteva provocare se su quella montagna ci
fossero state ulteriori prove o resti.
Pescai dalla borsa un piccolo blocco per appunti. «Mi dia delle
indicazioni.»
Strike lo fece. Le annotai.
«Non si muova fino al mio arrivo» dissi. «E porti la
registrazione.»
«Non guasta mai chiedere per favore.»
La linea divenne muta.
Rimasi seduta un momento, con l’iPhone caldo nella mano.
Strike aveva trovato qualcosa? Uno dei genitori Teague aveva
fatto del male a Eli? Uno dei due aveva ucciso Cora e poi gettato
il suo corpo dal belvedere?
O mi stavo facendo trascinare in una follia che esisteva solo
nella mente di Hazel Strike?
Non volevo andare su quella montagna.
Ma qualcosa mi diceva che non andarci sarebbe stato un
grosso, grossissimo errore.
Presi una decisione.
Premetti un tasto del cellulare e aspettai.
8

Sulle Blue Ridge Mountains del North Carolina, al confine tra


le contee di Burke e Caldwell, un grosso sperone di roccia ignea e
metamorfica si erge dalla rigogliosa vegetazione della Pisgah
National Forest. Tra le altre vette, quella gobba non è poi così
notevole: settecentottanta metri di altezza e due chilometri e
mezzo di lunghezza. Tuttavia la piccola cima ha ispirato miti
cherokee, leggende popolari, studi scientifici, siti web, filmati su
YouTube, una modesta industria del turismo e almeno una
canzone famosa. Compare in ogni elenco di località misteriose
del Nord America. Tutto per via di certe strane luci.
Per secoli, queste luci sono state osservate a Brown Mountain e
nel cielo sovrastante. Secondo i racconti dei testimoni, i piccoli
globi ardenti appaiono, salgono fino a una certa altezza e poi
scompaiono al di sotto del crinale. In centinaia hanno riferito di
aver visto le luci. Gente del posto, turisti e visitatori recatisi nel
North Carolina proprio per inseguire quegli avvistamenti.
Le teorie in merito abbondano. Si è parlato di riflessi dei fuochi
delle distillerie clandestine, di metano, vedove cherokee che, alla
luce di lanterne, cercano le anime dei mariti perduti in battaglia.
Le «luci fantasma» si sono meritate due indagini da parte dello
United States Geological Survey, la prima nel 1913 e l’altra nel
1922. Rapporti ufficiali attribuiscono il fenomeno al passaggio di
locomotive, automobili e a occasionali incendi boschivi. Molta
gente non si beve queste spiegazioni. Soprattutto i cherokee.
Mentre seguivo le indicazioni scribacchiate e a stento leggibili,
non avevo idea di essere diretta a un belvedere costruito
appositamente per ammirare Brown Mountain. Né ero ben
informata sulle prodigiose luci. Appresi tutto quanto dopo aver
essere arrivata, leggendo un cartello ed effettuando una rapida
ricerca su Google mentre aspettavo il resto della squadra.
Nelle ore che precedevano l’alba, il traffico era trascurabile,
perciò presi la strada panoramica: la I-40 fino a Morganton, poi
la NC-181 in direzione nord verso Jonas Ridge e Pineola. Mentre
mi immettevo sulla due corsie, c’era abbastanza luce per godersi
la vista. Il ghiaccio che copriva ancora le pendici e i fianchi della
montagna donava al paesaggio un aspetto etereo e glassato.
Quando il sole mandò fuori i primi esitanti raggi, vidi gli spazi
tra le vette virare dal nero, al grigio al giallo rosato.
Sapendo che era facile mancare il bivio, Strike mi aveva dato
anche le coordinate GPS. Quella donna era meticolosa, dovevo
concederglielo. E aveva ragione. Non l’avrei mai visto.
Novanta minuti dopo aver lasciato Charlotte, il mio iPhone
trillò per informarmi che ero giunta a destinazione. Rallentai,
uscii dalla statale e mi fermai in un’area di sosta asfaltata. Il mio
era l’unico veicolo presente.
Spensi il motore e abbassai il finestrino. Nell’aria c’era un forte
odore di pini e di vegetazione ghiacciata, con una nota di benzina
rimasta nella ghiaia sul ciglio della strada.
Nei boschi intorno a me regnava il silenzio assoluto. Non un
solo uccello cinguettava né emetteva un richiamo di benvenuto o
un avvertimento. Nessuna piccola creatura faceva frusciare il
sottobosco affrettandosi a rientrare nella tana dopo una notte di
caccia o a uscirne per procurarsi la colazione.
Afferrai un giubbotto dal sedile posteriore e mi infilai i guanti.
Poi, muovendomi adagio per non fare rumore, scesi dall’auto.
Inutile, visto che ero sola.
Il belvedere era recintato da una bassa barriera d’acciaio
munita di cartelli. Mi incamminai verso uno di essi; i tacchi degli
scarponcini ticchettarono nel silenzio. Secondo l’ente del turismo
della contea di Burke, Brown Mountain era visibile proprio lì
davanti, di fronte a Jonas Ridge, che invece si trovava alle mie
spalle.
Strizzai gli occhi per guardare in lontananza. Riuscii a
distinguere una sbavatura color fumo a cavallo dell’orizzonte.
Nessuna traccia di luci. Ma non ero giunta lì per scattarmi un
selfie con vapori spettrali. Rientrai nei panni dello scienziato e
studiai l’ambiente circostante.
Se dovevo giudicare in base a quel giorno, il belvedere era
spesso deserto. Una rapida uscita dalla statale, un breve tragitto
fino al guardrail, un veloce rientro sulla corsia in direzione nord
o sud, e… Il belvedere era un luogo perfetto per disfarsi di un
corpo.
Dopo diciannove mesi, c’erano poche possibilità di trovare
tracce lasciate da quel veicolo. Una traccia di pneumatico, una
scheggia di vernice, la fibra di un tappetino. Per la miliardesima
volta, mi chiesi cosa diavolo sperassi di ottenere.
Il rumore di un motore mi fece voltare.
Una Range Rover nera stava accostando accanto alla mia
Mazda. Il logo del Dipartimento dello sceriffo della contea di
Avery mi indicò che il vice Ramsey era arrivato. Sul sedile
posteriore si vedeva la sagoma di un cane.
Mentre Ramsey si sganciava la cintura gli andai incontro. Il
cane allungò il collo verso di me, guardando dal finestrino come
un newyorkese dal taxi.
«Dottoressa Brennan?» Il mio nome uscì dalle labbra di Ramsey
insieme a una nuvoletta bianca.
«Tempe. Lei deve essere il vicesceriffo Ramsey.»
Si sfilò il guanto per darmi la mano. «Zeb.»
La stretta di Ramsey era forte, ma non una bomba di
testosterone. Mi piacque.
«Mi dispiace che la cosa sia ricaduta su di lei» dissi.
«Se ha una ragazzina di Avery morta, la faccenda è compito
mio.»
«La vicesceriffo Ferris era restia a farsi coinvolgere.» Per usare
un eufemismo.
«Così mi è parso di capire.»
«Spero di non averla trascinata qui per una ricerca senza
senso.»
«Se sarà così, dovrà spiegarlo a Gunner.» Ramsey inclinò il
capo in direzione del socio canino. Sul quale nutrivo dei dubbi. Li
avevo espressi al telefono, peraltro, il giorno prima.
«Sicuro che sia addestrato per la ricerca di cadaveri?» chiesi.
«Cadaveri, droga, fuggiaschi. Gliel’ho insegnato io stesso.»
«Se lo dice lei…» Cercai di nascondere lo scetticismo. Ho
lavorato con un sacco di cani da cadaveri, animali addestrati
appositamente per localizzare corpi. È un’abilità particolare,
diversa dal fiutare droga o rintracciare individui vivi, e richiede
uno speciale protocollo di addestramento. Non avevo mai
incontrato un cane efficace in tutti e tre i compiti. Né uno
addestrato da un dilettante.
Vi fu un momento di imbarazzo.
«La vice Ferris le ha parlato di Hazel Strike?» chiesi poi a
Ramsey, domandandomi in che modo l’avesse descritta.
«Sì.»
«Strike è un tipo eccentrico.»
«È in ritardo?» Un suggerimento. Ramsey voleva procedere.
«Ha detto che sarebbe stata qui alle otto. Possiamo darle
qualche altro minuto?»
Un secco cenno di assenso.
I lineamenti di Zeb Ramsey erano abbastanza gradevoli: occhi
castani, naso dritto, sopracciglia che non si incontravano a metà
della fronte. Poi sorrise, e in quel momento tutto l’insieme
assunse un meraviglioso allineamento.
Caspita!
«Tanto vale che faccia le presentazioni.» Ramsey andò all’auto
e aprì uno sportello posteriore.
Gli antenati di Gunner dovevano essere stati animali di grossa
taglia. La colorazione nera, marrone e bianca e una vivace
arricciatura della coda suggerivano un incrocio tra un cane da
pastore e un chow chow.
Pete, il mio pseudo-ex, ha un chow chow. Gunner non si
comportò come avrebbe fatto Boyd, ovvero volando fuori
dall’auto e raspando con le zampe mentre toccava terra. Balzò
fuori con controllata eleganza e, senza mai distogliere lo sguardo
da Ramsey, si diresse a passo felpato verso di me e si mise
seduto.
Guardai Ramsey. Mi diede il permesso con un cenno del capo.
Allungai una mano, col palmo rivolto in basso, per lasciare che
Gunner controllasse il mio odore. Il cane annusò, poi mi leccò le
dita con la lunga lingua viola. Decisamente geni di chow chow.
Stavo accarezzando il capo di Gunner quando una malconcia
Corolla rossa arrivò dalla statale. Fermandosi bruscamente
accanto alla mia Mazda, Hazel Strike spense il motore e si lanciò
fuori dall’auto, senza neanche una briciola del riserbo dimostrato
dal cane. Mentre Strike ci veniva incontro come una furia,
Ramsey irrigidì le gambe e si avvolse un capo del guinzaglio
intorno alla mano. Il corpo di Gunner si fece teso.
«Non sapevo che avremmo avuto compagnia» mi disse Strike
accigliata, rivolgendo di proposito le spalle a Ramsey.
«Signora Strike, questo è il vicesceriffo Ramsey.»
«Non vedo il motivo per convocare un esercito di poliziotti.»
Una minuscola vena, blu e sinuosa, attraversava la fronte di
Strike pulsando impazzita.
Ero incerta sull’origine della rabbia di Strike ma, francamente,
non me ne curai. Ignorai la sua osservazione. «Il cane si chiama
Gunner.»
Altra occhiataccia, dopodiché fece per parlare. La interruppi.
«Il vice Ramsey e io faremo seguire a Gunner uno schema
sistematico, usando procedure di ricerca standard. Se troveremo
resti o tracce, tutti i materiali verranno fotografati sul posto e
sigillati in contenitori, seguendo il protocollo della catena di
custodia. Lei può accompagnarci camminando dietro di noi sul
terreno che è già stato perlustrato. Se non è d’accordo, dovrò
chiederle di aspettare quassù in auto.» Con tono deciso, e non
così gentile.
«Dio onnipotente» disse Strike, rivolta al cielo.
Un’imprecazione o forse una preghiera.
Mi sentii un po’ in colpa per i modi bruschi. «Può indicarci
dove ha trovato il portachiavi?»
«Certo che posso. Non sono un’idiota.»
Mi rivolsi a Ramsey. «I resti sono stati ritrovati a dieci metri
lungo la scarpata, sul versante di Brown Mountain.» La sera
prima avevo riesaminato il fascicolo di ME229-13 e le mediocri
foto di Opal Ferris. «Vado a prendere il mio kit, ci vediamo al
guardrail.»
Ramsey agganciò il guinzaglio di Gunner e i due si
incamminarono. Li seguii. Strike era in posizione di retroguardia.
Sotto il guardrail la pendenza aumentava bruscamente. Mentre
scendevamo, afferrandoci ai rami di alloro montano per non
scivolare, sentivo Strike ansimare dietro di me. Il suo sguardo
torvo era puntato sulla mia schiena.
Dopo sei metri di sfida alla gravità, raggiungemmo una cengia
piuttosto ampia. Malgrado l’alba dal colore giallo rosato avesse
ceduto all’azzurro cristallino del giorno, i pini svettanti
oscuravano praticamente ogni centimetro quadrato di cielo.
L’ombra perenne creata dai rami in alto e la ripidità dei fianchi
della vallata mantenevano lo spazio tra i tronchi privo di
sterpaglia. Un folto tappeto di aghi copriva il terreno.
Una volta sfilato lo zaino dalle spalle, tirai fuori le foto di
Ferris e le osservai in cerca di un punto di riferimento. Gli altri
rimasero a guardare: Strike ansante, Ramsey stoico. O annoiato.
Tutti gli alberi intorno a me sembravano uguali. Rievocai
mentalmente la descrizione verbale di Ferris. Sebbene non fosse
precisissima, sulla base delle parole che aveva utilizzato
sospettavo che avessimo iniziato la discesa dalla stessa estremità
del guardrail.
«Secondo Ferris, i resti furono trovati sparsi in quella
direzione.» Puntai un dito verso est.
Ci incamminammo sugli aghi soffici e spugnosi. Non avevamo
percorso neanche cinque metri quando Strike parlò. Sembrava
senza fiato e di cattivo umore.
«Vedete quell’albero laggiù? È lì che ho trovato il portachiavi.»
Mi girai, stupita dalla sua sicurezza. Dagli indizi che lei stava
notando e io no.
Dietro di me, Ramsey domandò: «Quale portachiavi?».
Gli feci segno che l’avrei aggiornato più tardi. Gunner continuò
a fiutare il terreno, senza distrarsi.
«È sicura?»
«Possiamo saltare la parte in cui lei e il poliziotto mi trattate
come una stupida idiota?»
Senza aspettare istruzioni, Strike si diresse verso un pino che
sembrava del tutto identico a quelli che lo circondavano. La
seguii. Ramsey e Gunner fecero altrettanto.
«Ecco il mio segno.» Strike indicò un’incisione a V nella
corteccia, a circa un metro d’altezza. «L’ho intagliato col
coltello.» Si calò su un ginocchio e scostò gli aghi, scoprendo
radici per metà sepolte che sparivano nel terreno. «Quell’affare
era proprio qui.» Indicò una cavità dove due nodosi rami
affluenti si congiungevano.
Osservai Ramsey. Lui ricambiò lo sguardo.
«Quest’albero va bene quanto un altro come punto di partenza
per la griglia» disse.
«Suggerisco di tenere il cane al guinzaglio al primo passaggio e
di lasciarlo libero dopo, se niente lo eccita.»
«Va bene.»
Ma Gunner aveva le proprie idee a riguardo. Un suono si levò
dalla sua gola, più un «ehi» che un «urrà». Gli occhi di tutti si
focalizzarono su di lui.
Il cane teneva il capo chino e proteso in avanti. Il suo sguardo
era fisso su un punto oltre le spalle di Strike.
Ramsey si abbassò per sganciare il guinzaglio. «Vai.»
Gunner si avviò, fiutando aghi a destra e sinistra. Circa tre
metri a sudest dalla nostra posizione diede un’ultima sniffata,
espirò sonoramente e si gettò con il ventre a terra alla base di un
pino che era grande il doppio rispetto agli alberi vicini.
«Quello è il suo segnale di allerta.» Ramsey si stava già
muovendo.
Mi misi subito alle sue calcagna. Dietro di me, sentii Strike
grugnire mentre arrancava per rimettersi in moto.
Scrutai l’ambiente seguendo la traiettoria del naso di Gunner.
Non vidi nulla.
Mentre Ramsey lodava il cane, feci scorrere adagio lo sguardo
sul terreno. Ancora niente.
Falso allarme?
Un vento gelido mi sollevò alcune ciocche di capelli. I rami si
mossero impercettibilmente. Una scheggia di luce tagliò la
calotta della vegetazione e ricadde sul tappeto bruno che copriva
la terra. In fondo al fitto intreccio di aghi vidi un guizzo di rosso
e poi più nulla.
Dopo aver sostituito i guanti di lana con un paio di lattice,
avanzai poco per volta e mi inginocchiai vicino all’albero. Con
movimenti cauti raccolsi manciate di aghi e le scostai da una
parte.
Come alla base del pino dove Strike aveva trovato il
portachiavi, anche ai piedi di questo un plesso di radici si
irradiava verso l’esterno, scuro e legnoso. Sembrava una mano
primordiale che artigliava il suolo della foresta. Incastrato in un
avvallamento sotto una nocca, c’era un grumo giallo e rosso,
grande quanto un nocciolo di pesca.
Un frutto marcio? Un roditore o un uccello morto?
Picchiettai il grumo con un dito guantato. Era duro al tatto.
Tirai fuori la Nikon, annotai qualche informazione su un
cartellino per le prove e scattai foto da diverse angolazioni.
Completata la documentazione, rimisi la fotocamera nello zaino.
Per tutto il tempo, Ramsey e Strike assisterono in perplesso
silenzio.
Cercai di ruotare la massa a destra, stringendola tra pollice e
indice. La sentii muoversi. Forse. Ruotai a sinistra, poi a destra,
ripetutamente. Adagio, a malincuore, la nocca mollò la presa e
l’oggetto sgusciò via.
Appoggiai la piccola massa sul palmo. Era semitrasparente,
rossa e gialla da una parte, marrone dall’altra. Quando la
capovolsi, due pomelli incrostati erano visibili sul lato inferiore.
Presi dallo zaino una lente di ingrandimento e misi a fuoco i
pomelli.
Sentii i battiti del cuore accelerare.
«Cos’è?» chiese Strike.
Ero troppo scioccata per rispondere.
9

«Ossa di dita?» Comprensibilmente, Strike sembrava confusa.


Lo ero anch’io.
«Non solo ossa.» Continuai a studiare la lucida massa che
tenevo nel palmo. «Forse vedo due polpastrelli parziali.»
«Dentro a quella roba viscida?»
«Sì.»
«È resina di pino.»
L’osservazione di Ramsey mi fece alzare lo sguardo.
«I pini trasudano resina, soprattutto lungo la base. Col tempo,
quella roba si solidifica.»
«Come l’ambra.»
«Con qualche migliaio di anni di tempo, sì.»
Certo. La resina era batteriostatica, teneva fuori l’ossigeno e
forniva una barriera contro i saprofagi: tutte condizioni
favorevoli alla preservazione dei tessuti molli. Una volta mi era
capitato un caso in cui un grosso grumo di resina era stato
inavvertitamente raccolto insieme a resti umani. Inserita nel
grumo, c’era una testa di topo in perfetto stato di conservazione.
Appeso all’esterno, c’era il resto dello scheletro.
Come le falangi che spuntavano dalla massa sul mio palmo.
«Perciò lei cade quaggiù a seguito di un’aggressione oppure il
suo corpo finisce qui dopo essere stato scaricato dal belvedere.
Una mano atterra alla base del pino.» Strike indicò l’albero. «Col
tempo la resina trasuda, cola, o quel che diavolo fa, e ricopre un
paio di dita.»
Lo scenario descritto da Strike sembrava tristemente realistico.
Ma la stavo ascoltando con un solo orecchio. Mentre sigillavo la
repellente scoperta in un sacchetto da freezer, i miei occhi
scrutavano il terreno alla ricerca di altro.

Il sole era ormai basso quando finalmente ce ne andammo. Non


era un avvenimento importante nel profondo del nostro santuario
di pini. Non c’erano più raggi che si insinuavano tra i rami in
alto. Niente più reticoli di luci e ombre che cambiavano forma sul
terreno. Adesso solo oscurità perenne.
Anche se conducemmo Gunner lungo la griglia e poi gli
lasciammo campo libero, il cane diede il segnale di allerta solo
altre due volte. E in entrambe non inutilmente.
Alla fine trovammo sei falangi, due metacarpi, uno scafoide e
un osso uncinato, tutti segnati dalle intemperie e rosicchiati.
Accidenti! Un fantastico risultato di dieci su cinquantaquattro
ossa della mano. Trovammo anche un cacciavite arrugginito, otto
lattine di alluminio e un pezzo di quello che sembrava un vecchio
paletto da tenda.
Tutte le ossa erano adulte e di dimensioni indeterminate.
Dubitavo che contenessero molte informazioni.
Ma la carne all’interno della resina era un’altra storia. Che mi
aveva assolutamente esaltata. Qualcuno era morto o era stato
scaricato sulla montagna. Un’impronta leggibile poteva
ricollegare a un’identità.
Se quella persona era registrata nel sistema. O se si riusciva a
ottenere un campione valido per un raffronto.
Ramsey insisté perché portassi i resti con me. Fu irremovibile,
ed era logico. Avevo ME229-13 nel mio laboratorio. C’erano
buone possibilità che la mano fosse della stessa persona.
Quando ebbi trovato un punto coperto dalla rete dell’AT&T,
telefonai a Larabee. Come previsto, non era contento del mio
viaggio nella contea di Burke. Dopo una filippica parecchio
lunga, gli comunicai la nostra scoperta.
Volendo evitare complicazioni giurisdizionali, nonché le ire del
suo capo, Larabee mi ordinò di aspettare fino a quando non
avesse contattato l’OCME a Raleigh. Mi ritelefonò dieci minuti
dopo. Il capo medico legale dello Stato, sebbene sorpreso che i
resti della contea di Burke fossero stati mandati in origine a
Charlotte-Mecklenburg, assegnava il caso direttamente a me.
Strike rimase fino alla fine, poi ripartì a tutta velocità facendo
schizzare la ghiaia. Stronza. Ancora una volta, non ero riuscita a
farmi consegnare il registratore.
Per tutto il giorno l’atteggiamento di Strike aveva oscillato tra
l’imbronciato e lo stizzoso. Mi chiesi il motivo della sua ostilità.
Ma non ci pensai più di tanto.
Mentre stavo facendo il numero di Larabee, era arrivato un
SMS da parte di mamma. L’avevo letto mentre aspettavo che lui
mi richiamasse. Niente di urgente. Voleva solo avere notizie sulla
mia salute e sul mio umore.
Volevo andare a casa e fare una doccia molto lunga e molto
calda. Poi cenare. E dopo raggomitolarmi nel letto e condividere
le notizie del giorno con Birdie. Magari anche con Ryan.
Ma non c’è nessuno che riesca a essere passivo-aggressivo
quanto mamma. Il sottinteso del suo messaggio era: sono vecchia,
ho il cancro e ricevo pochissime visite.
Tua madre è a trentacinque chilometri di distanza, intervenne
la mia coscienza.
Controllai l’ora. Le cinque e mezza. Potevo cenare con lei ed
essere a casa entro le nove.
L’euforia svanì con un rantolo, lasciando il posto al senso di
colpa.
Così, invece di andare a casa, mi ritrovai a guidare in direzione
est, i capelli sudati sotto il berretto dei Charlotte Knights, i vestiti
luridi, le unghie incrostate di fango. E per nulla ansiosa di
affrontare l’esame di Daisy.
Nei pressi di Marion, svoltai a est dalla Highway 221.
Heatherhill Farm apparve subito, se non in modo teatrale. Il
cartello è così elegantemente discreto che coloro i quali hanno
bisogno delle sue indicazioni lo superano senza accorgersene. Mi
immisi su un’anonima striscia d’asfalto che passava attraverso
allori montani più alti della mia testa. Quasi subito, il folto
intrico cedeva il posto a un terreno più finemente curato.
Al buio, Heatherhill sembrava il campus di un piccolo college.
Oltre all’ospedale principale c’erano strutture con giardino di
varie dimensioni. Comignoli coperti di edera, lunghe verande,
rivestimenti bianchi, persiane nere. Per via delle mie molte visite
sapevo che i padiglioni comprendevano un centro per il dolore
cronico, una palestra, la biblioteca e il laboratorio informatico.
Ancora non distinguevo un settore dall’altro.
Svoltai in un viottolo e, dopo cinquanta metri, entrai in un
rettangolo di ghiaia chiuso su tre lati da uno steccato bianco.
Parcheggiai e imboccai un sentiero lastricato fino a un villino dal
colore marrone con le fioriere sotto ogni finestra. Sopra un
cartello appeso sulla porta c’era scritto RIVER HOUSE.
Rimasi lì ferma per un momento, avvertendo una punta di
rabbia. O di rimorso. Oppure un’emozione a lungo negata che
non riuscivo a identificare. Era sempre così. Il momento di
esitazione prima del tuffo.
La brezza pomeridiana era diventata burbera e fredda. Folate
che turbinavano giù dalla montagna agitarono il collo della
giacca e piegarono la tesa del berretto. Alzai lo sguardo. Nel cielo
c’erano un milione di stelle, ma non si vedeva la luna.
Tutt’intorno, a parte il vento, il silenzio era sovrano.
L’interno di River House era conforme al suo aspetto esteriore.
I lucidi pavimenti di quercia erano coperti di tappeti Oushak e
Sarouk. Gli arredi imbottiti presentavano sfumature beige e
marrone chiaro, quelli di legno erano macchiati e trattati per farli
sembrare antichi. L’arredatore, ambendo a comunicare sensazioni
di calma e serenità, aveva raggiunto l’obiettivo trasmettendo
inoltre un senso di illimitata disponibilità economica.
Dopo aver presentato le mie credenziali a una sorridente
addetta dietro una scrivania Luigi Qualcosa, attraversai il salotto
superando le fiamme alimentate dal gas che danzavano in un
caminetto di pietra. La suite di mamma era in un corridoio
laterale, l’ultima a destra.
Prima di girare in quella direzione, gettai un’occhiata a
sinistra, nella sala da pranzo. Una mezza dozzina di commensali
di età diversa sedeva intorno a tavoli ricoperti di lino, con al
centro composizioni floreali che non mostravano il minimo segno
di cedimento. Sapevo che mamma non era tra loro. Daisy
preferisce mangiare da sola, seduta alla piccola scrivania davanti
alla finestra del suo salottino.
La porta era socchiusa. Questo fece scattare un minuscolo
allarme nella mia testa. Normalmente mamma è una carogna in
fatto di sicurezza e privacy. Quella dimenticanza significava
apatia, e quindi una fase buia? Un trionfo di spensieratezza? Un
incidente casuale privo di significato?
Mamma era seduta alla scrivania, la forchetta dimenticata in
una mano e lo sguardo fisso sui boschi al di là del vetro. Forse
con la mente perduta in un ricordo tremolante di un altro tempo.
O forse in nulla.
La studiai per un momento. Era dimagrita, ma per il resto
aveva un bell’aspetto. Questo non mi rivelava un bel niente.
Malgrado la miriade di problemi mentali, o forse a causa di essi,
mia madre è un’attrice da Oscar-Tony-Emmy.
Quando si accorse del mio arrivo si girò e mi fissò coi suoi
luminosi occhi verdi attorniati da morbide zampe di gallina. Il
sorriso sbiadì nel momento in cui notò il mio aspetto. «Oh, cielo.»
«Già.» Ridacchiai. «Elegante, vero?»
«Mia dolce bambina. Sei scappata via dal circo?»
«Bella battuta.» Mi rifiutai di cascarci. Intendevo mantenere la
visita in una atmosfera frivola e dolce. Niente discussioni sul mio
abbigliamento, la mia acconciatura o il mio stato coniugale.
Nessuna pressione su mamma perché cominciasse la chemio a cui
stava opponendo resistenza con ogni fibra dei suoi quaranta chili
di peso.
«Oppure hai fatto a botte col tuo delizioso detective?» Mi
puntò contro la forchetta con nonchalance. «Qual è il nome del
gentiluomo?»
«Andrew Ryan.»
«Aspetta. Ci sono.» La faccia di mamma si illuminò. «Arrivi da
una scena del crimine.» La sua voce si ridusse a un sussurro. Era
affascinata dal mio lavoro. «Hai disseppellito un corpo.»
Niente da fare. Non avrei parlato di omicidi o di morte. Né di
proposte di matrimonio. Mamma ne avrebbe ricavato una
produzione degna di Broadway.
«Stavo facendo una consulenza nella contea di Burke. Niente di
che.» Mi avvicinai per osservare il suo piatto. «Ero nei paraggi,
perciò ho deciso di fare un salto per cena. Cosa c’è sul menu?»
Mamma non si fa dissuadere facilmente. Mai. «Non puoi
parlarne con la tua debole vecchia madre?» Allargò le braccia,
che sembravano fuscelli nello spesso maglione lavorato a punto
irlandese. «Dolce Signore del cielo, dove mai me ne vado? Con
chi discuterei gli intrichi della tua vita professionale?»
Il vento sbatacchiò la finestra alle spalle di Daisy scuotendo il
riflesso della sua faccia capovolta. Un’immagine triste sbocciò
nella mia mente. Mamma era sola nel suo esilio autoimposto, non
parlava con nessuno eccetto Goose e lo staff di Heatherhill, e
aveva poche attività oltre il suo diario o il computer.
La logica di mamma non faceva una piega. Era isolata. Era
inoltre più brava della CIA a mantenere i segreti. In che modo
avrebbe compromesso un caso nel quale non conoscevo l’identità
della vittima né la causa della morte?
«D’accordo, Sherlock.» Sospiro teatrale. «Vado a darmi una
ripulita.»
Mamma mosse la forchetta con lo stesso gesto plateale di un
direttore d’orchestra. «Si aprono le danze.»
Andai in bagno e mi sfregai a fondo mani e faccia. Mi pulii le
unghie. Esaminai i capelli. Decisi che la situazione era senza
speranza e li infilai di nuovo sotto il berretto. Al mio ritorno,
sulla scrivania erano comparsi un secondo piatto e una sedia.
Tra un boccone e l’altro di pollo al forno, purè di patate e
piselli alla menta, le parlai di ME229-13 e delle scoperte del
giorno con Ramsey e Gunner. Descrissi il ritrovamento delle ossa
della mano e del globo di resina di pino. Lasciai fuori Strike. E la
possibilità che la vittima fosse Cora Teague.
Mamma ascoltò rapita. Malgrado i suoi difetti, mia madre è
un’ottima ascoltatrice. Quando ebbi finito, ci fu una lunga pausa,
e un’esortazione a continuare. Invece, volendo restare su un
terreno sicuro, le parlai di quanto avevo appreso su Brown
Mountain. Mamma agitò una mano, con fare derisorio o
noncurante. Quando le dissi che non c’era altro, iniziò a
tempestarmi di domande. Anzi, per tutta l’ora seguente, mi
spremette come un limone.
Le cose andarono bene e mi trattenni più a lungo del previsto.
Fuori, il vento aveva deciso di scatenarsi. Raggiunsi l’auto di
corsa, a testa bassa e tenendomi il berretto schiacciato sul capo,
mentre le siepi che bordavano il vialetto si agitavano come onde
in burrasca.
Arrivai a casa che erano le undici e venti. Tolsi dallo zaino i
sacchetti di plastica e li misi in frigo. Dopo aver dato da
mangiare al gatto, estremamente contrariato, mi spogliai e mi
infilai sotto la doccia. Profumata di bagnoschiuma allo zenzero e
agrumi e shampoo alla lavanda, alle dodici e dieci finalmente mi
misi a letto. Come la notte prima, pensai di chiamare Ryan, ma
decisi di non farlo. Forse era troppo tardi.
Ancora una volta la mia coscienza volle dire la sua. Ryan è un
animale notturno. Perché tanta riluttanza?
Ottima domanda. Intendevo forse fingere di ignorare la
proposta di matrimonio? O il motivo era più recondito? Un
rifiuto di condividere Cora Teague? Un desiderio subliminale di
mantenere separato ciò che era mio?
Malgrado la stanchezza, rimasi sveglia a lungo, accarezzando
la testa di Birdie e aspettando rumori insoliti. Per fortuna non ne
udii nessuno. Sentivo solo la vibrazione delle fusa feline e lo
sbatacchiare della persiana nell’intelaiatura. Infine, un gelido
tamburellare sul vetro. Forse nevischio, forse pioggia. Quello fu il
mio ultimo pensiero vagante.
Poi mi svegliai di soprassalto. Alicia Keys stava cantando
qualcosa a proposito di una ragazza in fiamme.
Le buone notizie non arrivano mai alle due del mattino. Mia
madre aveva il cancro. Mia figlia era in una zona di guerra.
Cercai a tentoni il cellulare. Mi sfuggì di mano. Battei il gomito
per recuperarlo da sotto il letto.
«Spero di non averti svegliata, tesorino.»
«Stai male?»
«Niente affatto.»
«Mamma, siamo in piena notte.»
«Mi dispiace tanto.» Bisbigliava, era sovreccitata. Artefatta.
«Ma ho scoperto qualcosa che penso dovresti sapere.»
«Sei sicura che è tutto a posto?»
«Sto benone.»
«È stata una giornata molto lunga… Possiamo parlarne domani
mattina?»
Mamma sospirò. Un lungo respiro di delusione fatto apposta
perché lo sentissi. «Immagino di sì.»
«Non ti senti bene?»
«Me l’hai già chiesto e ti ho risposto.»
C’era stato un tempo in cui mi sarei impegnata di più per
dissuaderla. Poi mi ero arresa: l’esperienza mi ha insegnato che
mamma, quando è determinata, è una potenza irresistibile.
«Spara.» Mi rotolai sulla schiena, il telefono premuto contro
l’orecchio, prevedendo le parole successive.
«Dopo che te ne sei andata, mi sono collegata a Internet.»
Sì. Avevo indovinato. Me la immaginai a letto, il laptop sulle
ginocchia sollevate, il volto screziato dalla luce riflessa dallo
schermo.
«Uh-uh.» Soffocai uno sbadiglio.
«Stai ascoltando?»
«Sì.»
Sentii il fruscio del piumone e seppi che mamma si stava
mettendo comoda per la sua teatrale rivelazione.
«Non crederai a quello che ho scoperto.»
Aveva ragione. Non riuscii a crederci.
10

Un breve commento su Katherine Daessee Lee Brennan.


Durante tutta la mia infanzia, mamma fu imprevedibile quanto
un pomeriggio estivo in spiaggia. Per mesi era felice, divertente,
attenta: una presenza vibrante quanto la stessa luce del sole. Poi,
senza preavviso, si ritirava nella sua stanza. A volte in qualche
luogo remoto. Harry e io disegnavamo sedute al nostro tavolino,
bisbigliavamo a letto durante la notte. Dov’era andata? Perché?
Sarebbe tornata a casa?
Dottori con diverse specializzazioni formulavano diagnosi
diverse. Bipolare. Schizobipolare. Schizoaffettiva. Affetta da
disturbo dell’umore. Fa’ la tua scelta. Prendi le medicine.
Lorazepam. Litio. Lamotrigina.
Nessun medicinale funzionava a lungo. Nessuna terapia
attecchiva. Un gioioso attimo di tregua e le tenebre tornavano a
reclamarla. Quando ero piccola, gli sbalzi d’umore di mamma mi
spaventavano. Una volta adulta, ho imparato a farci i conti. Ad
accettare. Mia madre è stabile quanto una piuma su un birillo.
Quando mamma si trovava prossima alla soglia dei sessanta, ed
era emersa da poco da una fase particolarmente buia, le avevo
comprato un computer. Nutrivo poche speranze che trovasse il
cybermondo interessante, ma ero alla ricerca disperata di
qualcosa che le occupasse la mente. Qualcosa a parte me.
Le insegnai i fondamentali: e-mail, utilizzo di Word, fogli di
calcolo, Internet. Le diedi informazioni sui browser e i motori di
ricerca. Con mia grande sorpresa, ne era rimasta affascinata.
Aveva seguito un corso dopo l’altro all’Apple Store e poi presso il
centro locale di formazione professionale. Alla fine, come di
consueto, la sua abilità aveva superato di gran lunga la mia.
Non avrei definito mia madre una hacker. Non le interessava
rubare numeri di bancomat o di carte di credito. Non le
importava un bel niente dei meccanismi del Pentagono o della
NASA. Ma, quando era determinata, non c’era niente che non
fosse in grado di cavare al World Wide Web.
Mamma è anche un’incurabile insonne.
Data tale combinazione, non ero sorpresa che avesse usato il
mio racconto su Gunner come punto di partenza. Ma ero un po’
turbata da quello che aveva scoperto.
«Cosa è stato rinvenuto?»
«L’articolo non lo specifica. Questione di tatto, presumo.
Apprezzo una tale discrezione. Il pubblico si fa prendere troppo
dai dettagli…»
«Cosa dice?»
«Riferisce semplicemente la scoperta di possibili parti
anatomiche umane.» Le ultime tre parole pronunciate con
accuratezza. «È una citazione diretta.»
«Di che giornale si tratta?»
«È della contea di Avery. “The Avery Journal-Times”.»
«Lo conosco.»
«Non c’è motivo di essere brusca, Temperance.» Molto brusca.
«Scusa, mamma. Sono mezza addormentata.» Misi i piedi sul
pavimento e, dopo aver acceso la luce, presi una penna e una
vecchia busta dal comodino. «A quando risale l’articolo?»
«29 aprile 2012.»
«Dice dove sono stati trovati i resti?»
«Certo che sì.» Un rapido respiro. «La scoperta è stata fatta nei
pressi del Blue Ridge Parkway, tre chilometri a nord dell’incrocio
con la Highway 181. Sarebbe il chilometro 496. Ho controllato su
Google Earth.»
Certo che l’aveva fatto.
«Sai cosa si trova in quella località?» chiese.
«No.»
«Il belvedere Lost Cove Cliffs.»
Non avevo idea di dove volesse andare a parare. Mi stavo
sforzando di capirci qualcosa quando riprese a parlare.
«Belvedere?» Aveva pronunciato quella parola come se fosse
profondamente significativa. D’accordo. «Mamma, sai quanti
belvedere ci sono sulle Blue Ridge Mountains?»
Seguì un silenzio gelido. Sapevo che avrei ricevuto una risposta
alla mia domanda retorica prima che facesse giorno.
«E cosa si vede da questo particolare belvedere?» Con tono
secco.
«Altre montagne?» Ancora una volta, non la seguivo.
«Brown Mountain. Proprio come il belvedere della contea di
Burke.»
«Una strana coincidenza.»
«Trovo difficile considerarla una coincidenza.»
«Chi ha rinvenuto queste parti anatomiche?»
«Escursionisti.»
«Qualcuno ha stabilito che quella roba fosse umana?»
«Roba?» Uno sbuffo di disapprovazione. «Ma insomma, tesoro.»
«Hai trovato articoli di approfondimento?»
«No. E ho cercato in modo minuzioso. Ricorda che non era una
notizia da prima pagina. Il pezzo originale era molto breve.»
«Il giornalista ha lasciato informazioni per essere contattato?»
Ticchettio di tasti. «Coloro in possesso di notizie a riguardo
sono pregati di contattare il Dipartimento dello sceriffo della
contea di Avery.» Lesse un numero. Lo stesso che era comparso
sul display quando Zeb Ramsey aveva telefonato.
«Puoi inoltrarmi il link?»
«Sì.»
Quella notte sognai luci su un crinale in lontananza.

Com’era prevedibile, mi svegliai tardi. Dei rapidi preparativi,


poi diedi da mangiare a Birdie e mi diressi all’MCME,
pregustando la predica di Larabee con la gioia riservata alle
critiche di mamma.
Attraversando la città immaginai Larabee seduto alla scrivania,
tonificato da una corsa mattutina e pronto a balzare in azione al
suono della porta del mio ufficio.
Non c’era.
Dopo aver inserito i nuovi resti di Burke nel sistema, ai quali
assegnai il numero ME122-15, aprii un fascicolo e annotai le
circostanze del loro rinvenimento. Poi portai i sacchetti di
plastica nella sala puzzolente, misi le ossa su un vassoio e
immersi il globo di resina in un vasetto di acetone. Quando ebbi
terminato, chiamai Joe Hawkins. Aveva accettato di incontrarmi
non appena avessi liberato quello che era conservato nel grumo.
Ingollai velocemente una tazza di brodaglia che passava per
caffè nel salottino dello staff e mi accinsi a fotografare le dieci
ossa della mano, controllando di tanto in tanto la situazione nel
lavello. Per tutta la mattina, il grumo rimase duro come marmo.
Le ossa, come temevo, non indicavano nulla di significativo.
Tentai qualche analisi metrica basandomi sulla misurazione dei
metacarpi. I risultati mi mostrarono una via di mezzo di scarsa
utilità. E le ossa del dito e della mano non rivelarono nulla circa
la razza. Alla fine, tutto quello che potevo dire era che si trattava
di un individuo adulto giovane e sano. Come ME229-13. Le ossa
della mano erano coerenti in tutto e per tutto con quelle del
torso, ma non c’erano prove definitive del fatto che entrambe le
serie di resti provenissero dalla stessa persona. Solo il DNA
poteva stabilire un’associazione valida. E non ero ottimista su
quel fronte.
Scoraggiata, ma non sorpresa, tornai nel mio ufficio e chiamai
Avery. Ramsey era in sede e prese subito la telefonata.
«Perciò questo è quanto?» chiese quando ebbi finito di riferirgli
le mie osservazioni.
«Può cancellare dalla lista i nonnetti che camminano nel
sonno.»
«Un caso praticamente risolto.» Pausa. «Ma sta dicendo che
potremmo avere due persone?»
«Lo ritengo altamente improbabile.»
«E i pezzi dentro alla resina?»
«Ci sto lavorando. Ha fatto ricerche su Cora Teague?»
«Ho inserito il nome e non ho ricevuto nessun risultato. Niente
indirizzo, né telefono, né iscrizione al servizio sanitario
nazionale, nessun passaporto né resoconti bancari o fiscali. C’è un
certificato di nascita, depositato presso il registro degli atti della
contea di Avery nel 1993.»
«I genitori non richiedono un numero di previdenza sociale
contestualmente al certificato di nascita?»
«Lo sta domandando alla persona sbagliata.»
«Secondo Strike, dopo le superiori, Teague ha svolto un breve
periodo di lavoro come tata. A parte quello, non ha mai fatto
altro.»
«Le tate vengono spesso pagate in nero.» Sentivo Ramsey
giocherellare con qualcosa, forse il filo del telefono. «Ascolti, doc.
C’è un Paese sconfinato, là fuori. Se la ragazza ha deciso di
sparire e ha cambiato nome, sarà praticamente impossibile da
trovare.»
Annuii.
«E Strike ha ragione. Non c’è nessuna denuncia di scomparsa.»
«Ha fatto verifiche sul conto dei genitori?» chiesi.
«Sì. Non è saltato fuori niente. Niente arresti, niente denunce,
niente interventi a casa loro.»
«Dove vivono?»
«Larkspur Road, nei pressi della 194. Non c’è nulla laggiù
eccetto pini e poiane.»
Per poco non riattaccai senza toccare l’argomento. «Sono
venuta a conoscenza di qualcosa di strano, ieri sera. Potrebbe non
avere nessun significato.»
Ramsey aspettò, continuando a giocherellare con ciò con cui
stava giocherellando.
«Nel 2012, è apparso un articolo sul “The Avery Journal-
Times”.» Scorsi i messaggi sul telefono e trovai un’e-mail di
mamma, inviata alle 3:12 del mattino. La aprii e cliccai sul link.
«Secondo l’articolo, parti anatomiche sono state ritrovate lungo
una pista montana nei pressi del belvedere di Lost Cove Cliffs.»
«Parti anatomiche… umane?»
«Non è specificato.»
Ramsey fece una piccola pausa, esprimendo scetticismo.
«Quando?»
«Il ventinove aprile.»
«Sei mesi prima che entrassi in servizio.»
«Probabilmente è una coincidenza, ma anche da quel punto si
vede Brown Mountain.»
«Cosa intende dire?»
«Niente. Quale sarà stata la prassi seguita?»
«I resti umani dovrebbero essere stati inviati al coroner.»
«È andata così?»
«Verificherò. E posso controllare se il giornalista è ancora nei
paraggi.»
Una volta chiusa la comunicazione, tornai alle ossa della mano
e al grumo.
Cinque ore di ammollo e spinte finalmente riuscirono
nell’impresa. Alle tre di quel pomeriggio, due raggrinziti pezzi di
carne giacevano nel lavello, circondati da viscidi resti di resina.
Li esaminai entrambi con una lente di ingrandimento. E alzai il
braccio in segno di vittoria. Un gesto sciocco, ma non potei
trattenermi.
Ciascun pezzo aveva una scheggia d’unghia all’estremità e una
falange distale parzialmente visibile all’altra. Feci delle
radiografie e le esaminai alla ricerca di particolari.
Una falange a forma di freccia mi diceva che il pezzo più
grosso era la punta di un pollice. L’altro, in base alle dimensioni,
era la punta di un indice, medio o anulare. Le superfici prossimali
articolari di entrambe le falangi erano schiacciate e frastagliate,
opera di industriosi saprofagi.
Mi sentivo assolutamente entusiasta e chiamai Joe Hawkins. In
attesa del suo arrivo, prelevai il kit dall’armadietto, poi tirai fuori
un tampone inchiostrato e dieci cartellini per prendere le
impronte. Niente sofisticati scanner all’MCME. Lo facciamo alla
vecchia maniera, ruotando e premendo.
Hawkins arrivò, col consueto aspetto cadaverico. Alto e magro,
le guance incavate e i capelli neri tinti: il tipo mandato
dall’agenzia per interpretare il ruolo di becchino.
Mostrai a Hawkins il «soggetto» e gli diedi il numero del caso.
Ascoltò impassibile. Tipico di Hawkins. Nessuna domanda,
nessuna reazione. Nessun errore. Anche se non ha un
comportamento gioviale, è di gran lunga e in assoluto il miglior
tecnico di autopsia del posto. Ha raggiunto questa posizione
decenni prima del mio arrivo.
Mentre Hawkins annotava informazioni sui cartellini delle
impronte, iniziai a realizzare primi piani delle ossa della mano.
Per un po’, gli unici suoni nella stanza furono lo scatto
dell’otturatore e l’occasionale rumore del lavandino.
A meno che le dita non siano essiccate o rigide per il rigor
mortis, prendere le impronte a un cadavere di solito è una
procedura veloce. Ero talmente presa dalle foto che persi la
cognizione del tempo. Quando alzai lo sguardo, era passata una
mezz’ora buona.
Hawkins era ancora chino sul suo lavoro. La tensione nel collo
e nella schiena indicava che c’erano problemi.
«Roba tosta?» chiesi.
Nessuna risposta.
«Ti aiuto volentieri.» Mi era venuto in mente che le mani di
Hawkins erano molto grandi e i polpastrelli molto piccoli.
Ancora nessuna risposta.
Notai diversi cartellini abbandonati sul bancone. Ciascuno
presentava due ovali neri. Immaginai che il più grosso
appartenesse al pollice, il più piccolo all’altro dito.
Hawkins di solito ottiene impronte al primo tentativo. Perché
quel problema? Non avevo idea di quanti anni avesse, ma sapevo
che doveva aver superato da parecchio la sessantina. L’artrite
stava compromettendo la sua abilità? La mia presenza lo
imbarazzava?
Mi avvicinai al bancone e, casualmente, presi un cartellino e
gli diedi un’occhiata. Ne presi un altro. E un altro ancora.
Hawkins si allontanò dal lavandino, con le mani guantate
sollevate e lontane dal corpo. I suoi occhi incontrarono i miei:
avevano l’aria confusa.
«Ma che diavolo?» Allargò le dita perplesso.
Non riuscivo a trovare alcuna spiegazione.
11

Durante il secondo e il terzo mese di gestazione, quando il feto


è lungo da due e mezzo a quasi nove centimetri, minuscoli
cuscinetti si formano sui polpastrelli. Durante il terzo e il quarto
mese, la pelle è prima sottile e trasparente, poi assume una
consistenza simile alla cera, e sui cuscinetti compaiono le prime
creste. Entro il sesto mese, quando la lunghezza media del feto
raggiunge i trenta centimetri, le sue impronte digitali sono
formate e invariabili per la vita.
Gli scienziati non sono unanimemente concordi su come ciò
avvenga. Una teoria sostiene che uno strato di pelle basale o
mediano a rapida crescita venga accartocciato tra il derma
sottostante e l’epidermide sovrastante. La pressione derivante
dalla tensione con gli strati più lenti fa sì che la pelle si increspi
in pieghe, a cui si aggiungono quelle causate dal movimento
all’interno dell’utero. Qualunque sia il processo, il risultato finale
è una sbalorditiva quantità di variazioni.
Le creste delle impronte digitali si dividono in tre tipi
principali: archi, cerchi o spirali. Ciascuna cresta mostra ulteriore
individualità sotto forma di terminazioni, biforcazioni e puntini.
La terminazione è il punto in cui una cresta finisce e ne
comincia un’altra. La biforcazione è il punto in cui una cresta si
divide, formando un motivo a Y. Il puntino è un frammento di
cresta così piccolo che appare come… be’, proprio un puntino.
Ci sono spesso centinaia di «punti» di identificazione su un
dito. La relazione tra ciascun punto e la cresta circostante è così
complessa che si ritiene non esistano due schemi esattamente
uguali.
Conclusione: le impronte digitali sono grandiose per
identificare un individuo.
Non nel caso di ME122-15. I piccoli ovali sui cartellini erano di
un nero compatto. Niente creste. Niente puntini. Non un solo
arco, cerchio o spirale.
«La pelle è danneggiata?» chiesi, temendo che l’acetone fosse
stato corrosivo.
Hawkins scosse la testa. «La pelle è a posto. Solo che non ci
sono impronte.»
«Come può essere?» Inutile: se non avevo alcuna idea, come
poteva averne lui?
Hawkins si limitò a rivolgermi una lunga occhiata solenne.
«Hai mai visto una cosa del genere?»
«Ho preso le impronte a dita che fanno sembrare queste fresche
come pancetta di maiale. Non mi è mai successo di non ottenerne
almeno una parziale.
«È possibile che siano state rimosse di proposito?»
Hawkins si sfilò i guanti, pigiò il pedale del bidone dei rifiuti a
rischio biologico e li gettò dentro. «Tutto è possibile da quando
hanno trapiantato quella faccia.»
Non avevo idea di cosa significasse quel suo commento.
«Dobbiamo fare un altro tentativo?»
«Tempo sprecato.» Il coperchio del bidone si richiuse.
«Immagino che non abbia senso consegnare i cartellini.»
«Già.»
Normalmente le impronte sarebbero state inviate al laboratorio
forense della polizia di Charlotte-Mecklenburg perché venissero
inserite nell’AFIS, il sistema automatico di identificazione delle
impronte digitali. Utilizzando una tecnologia di imaging digitale,
l’AFIS riceve, archivia e analizza dati relativi a impronte
provenienti da tutto il Paese. Il database, creato in origine
dall’FBI, contiene decine di milioni di impronte individuali.
L’AFIS, tuttavia, non effettua una vera e propria identificazione
delle impronte, bensì una ricerca. Tramite l’utilizzo di un
software di riconoscimento di modelli biometrici, il programma
compara un’impronta sconosciuta a quelle contenute nel sistema
e fornisce informazioni su possibili corrispondenze,
classificandole a partire dalle più probabili fino a quelle meno
probabili. Un tecnico paragona poi l’impronta in questione ai
«candidati» suggeriti dal programma. La decisione finale viene
presa da un essere umano.
Ma questo non sarebbe accaduto con ME122-15.
«Vuoi che rimetta questi cosi nel vasetto?» Hawkins indicò il
lavandino.
«Ci penso io.» Ero distratta. «Grazie.»
Mi soffermai a considerare le diverse possibilità.
ME122-15 si era rimosso le impronte? Per eludere la legge? Per
sfuggire a una vita passata? Era stato un assassino a rimuoverle
postmortem? Per celare l’identità della vittima?
Ma la cancellazione totale era poi possibile? O si trattava solo
di una leggenda di Hollywood? Non avevo visto tracce di cicatrici
o ustioni chimiche. La mutilazione intenzionale sembrava
inverosimile.
Un sussurro risuonò da qualche parte negli archivi della mia
memoria. Qualcosa che avevo letto o sentito dire. Un articolo
scientifico? La conversazione con un collega?
La porta si aprì e poi si richiuse, rompendo la mia
concentrazione. Ma eravamo nell’era di Google. Fare congetture
era obsoleto.
Dopo aver prelevato campioni per un eventuale esame del
DNA, chiusi ermeticamente i polpastrelli in un contenitore di
formalina e le ossa nel loro sacchetto, poi misi entrambi nella
cella frigorifera. Dopo corsi al mio ufficio.
Non fu facile come avevo pensato. Alla fine, però, trovai una
pubblicazione online negli «Annali di oncologia». Datata 27
maggio 2009.
Un sessantaduenne che viaggiava da Singapore agli Stati Uniti
era stato trattenuto dai funzionari dell’immigrazione quando un
normale controllo delle impronte aveva mostrato che ne era
sprovvisto. L’uomo, identificato come il signor S., stava curando
un cancro alla testa e al collo con un medicinale chiamato
capecitabina, dal nome commerciale Xeloda. Per effetto della
terapia, il signor S. aveva sviluppato una patologia nota come
sindrome mano-piede, il cui nome ufficiale è eritema acrale da
chemioterapia.
Scavai più a fondo. Trovai un articolo negli «Actas dermo-
sifiliográficas». Del maggio 2008. Era in spagnolo e scritto da
nove autori. Appresi quanto segue.
L’eritema acrale da chemioterapia, noto anche come
eritrodisestesia palmo-plantare o sindrome mano-piede, è una
reazione della pelle a una varietà di sostanze per la cura del
cancro. I sintomi comprendono gonfiore, dolore e spellatura dei
palmi e delle piante dei piedi. Nonché perdita delle impronte
digitali.
Feci qualche ricerca sulla capecitabina. Il farmaco era usato
comunemente nel trattamento di carcinomi cervico-facciali, alla
mammella, allo stomaco e colorettali.
Le probabilità erano minime, ma era pur sempre una pista.
Ramsey poteva contattare medici e ospedali per chiedere se una
persona giovane in cura per il cancro aveva improvvisamente
smesso di presentarsi per la chemioterapia. Risultava che Cora
Teague avesse avuto problemi di salute. Ramsey poteva porre la
domanda anche alla famiglia.
Stavo per afferrare il telefono sulla scrivania, quando squillò.
Fu la prima di una serie di chiamate che avrebbero innescato un
caso di tremenda acidità di stomaco.
Come al solito, Strike non perse tempo coi convenevoli.
«Che razza di mossa sleale era quella?»
«Come, scusi?»
«Condividere le mie informazioni con un estraneo.»
«Non definirei il vicesceriffo Ramsey un estraneo.»
«È lei? È me?»
«Il caso compete al suo dipartimento.» Una giustificazione
opinabile.
«È della contea di Avery. Noi ci trovavamo a Burke.»
«Lei sospetta che i resti in mio possesso siano quelli di Cora
Teague» dissi decisa, ma non così paziente. «Se la sua teoria
dovesse dimostrarsi fondata, la faccenda passa a Ramsey.»
«Cosa gli ha detto dell’audio?»
«Sono lieta che ne abbia parlato. Dato che adesso questa è
un’indagine ufficiale, devo chiederle di consegnarmi il
registratore.» Avevo fatto solo un tentativo, ma abbastanza
preciso.
«Neanche per sogno.»
«Allora farò chiedere un mandato al vicesceriffo Ramsey.»
Ci fu un momento di silenzio. Poi: «Vecchia sciocca. Chissà
come, ho scordato dove ho messo quel dannato affare».
Ho un carattere infiammabile. So che devo tenerlo sotto
controllo. Invece di inveire contro Strike rimasi diplomatica.
«Pensavo che lo scopo dei cybersegugi fosse quello di far luce
sui casi irrisolti.»
«Questo non significa che io voglia condividere col mondo ciò
che ho in mano.»
«Le forze dell’ordine non sono il mondo.»
«È così che definisce quel troglodita?»
«Il vice Ramsey non è un troglodita.»
«Sono sicura che tiene appeso alla parete un diploma di laurea
a Harvard.»
La prima scintilla sprizzò dentro di me.
«Signora Strike, le dice qualcosa l’espressione “intralcio alla
legge”?» dissi in tono freddo.
«Mi informerò.»
«Perché mi sta chiamando?»
«Volevo farle sapere che sto tornando dalla famiglia.»
«È una pessima idea.»
«Forse. Ma è la mia idea.»
«Non…»
Tre acuti bip. Aveva chiuso la comunicazione.
Presi a calci la scrivania. Così forte che dovetti togliermi la
scarpa per vedere quale danno all’alluce mi fossi procurata.
Faceva un male d’inferno, ma non c’era niente di rotto.
Ero di nuovo sul punto di digitare un numero, quando suonò il
cellulare. Dopo aver adocchiato il nome comparso sullo schermo,
respirai a lungo e profondamente, misi il vivavoce e appoggiai il
telefono sulla scrivania.
«Buongiorno, mamma.»
«Buongiorno, tesorino. Spero tu abbia dormito bene. Sembravi
così stanca, quando abbiamo parlato.»
«Sì.» Non era così, ma che senso aveva puntualizzare?
«Hai parlato col tuo vicesceriffo? Com’è che si chiama?»
«Ramsey. Non ancora. Ho intenzione di telefonargli a breve.»
«Hai esaminato le ossa della mano?»
«Sì. Mi hanno detto ben poco.»
Mamma si concesse una pausa teatrale. Poi disse: «C’è
dell’altro».
Nel sentire il familiare tono sussurrato, scrutai la scrivania alla
ricerca di qualcosa da leggiucchiare. «Dell’altro?»
«Ne ho trovato un altro.»
«Un altro… cosa?»
«Belvedere. Per Brown Mountain.»
«Immagino che ce ne siano tanti.»
«Be’, ti sbagli. Per quanto abbia scavato a fondo, hanno
continuato a saltare fuori gli stessi tre. E solo quei tre.»
«Davvero?»
«Si chiama Wiseman’s View.»
«Dove si trova?» domandai distrattamente.
«Poco a sud di Linville. Nella contea di Avery.»
«Mmh.»
«Mi stai ascoltando?»
«Sì.» Non era così. Stavo dando un’occhiata al sommario
dell’ultimo numero del «Journal of Forensic Sciences».
Mamma smise di parlare. Un test. Il silenzio attirò la mia
attenzione.
«Cosa mi stai cercando di dire?»
«Devi fare delle ricerche.»
«Al Wiseman’s View.»
«Certo, al Wiseman’s View.»
«Per trovare altre ossa.»
«Insomma, Tempe. Sei considerata eccellente, nel tuo campo.
Devo proprio dirti tutto?»
«Stai dicendo che delle parti anatomiche potrebbero essere
state gettate da tutti e tre i belvedere che si affacciano su Brown
Mountain?»
«Alleluia, che la luce risplenda!»
«Mamma, io…»
«Cos’hai trovato finora? Parti di una mano e parti di un torso?»
«Sì.» Non le avevo detto delle dita. Non so bene perché.
«Combaciano?»
«Potrebbero.»
«Ma non hai ancora né arti né testa.»
«No.» La piccola scintilla stava diventando più calda e iniziava
a propagarsi.
«Correggimi se sbaglio, ma una testa potrebbe forse – solo forse
– rivelarsi utile nel determinare a chi appartengono le parti del
corpo che stanno saltando fuori?»
«Sì.»
Una breve pausa, poi mamma continuò: «Non vuoi perlomeno
discutere della mia teoria col tuo vicesceriffo?».
Lo slancio nella sua voce mi scavò un buco nel cuore. Mamma
ultimamente aveva mostrato così poco interesse. La sua unica
gioia sembrava provenire dall’indiretto coinvolgimento nel mio
lavoro. Da emozioni di seconda mano.
Era ciò che accadeva a Hazel Strike e ai suoi colleghi segugi?
«Certo, mamma» dissi. «Ottimo lavoro.»
«Mi terrai informata su tutto?»
«Lo farò.»
«Ciao.»
«Ciao.»
Sbuffai. Mi sentivo combattuta. Quella di mia madre era
davvero un’idea strampalata? Oppure una solida strategia
investigativa? Dovevo parlarne a Larabee? A Ramsey? Avrebbero
acconsentito a un’altra scarpinata nei boschi?
Mi sentivo come nel Giorno della marmotta: stesso tentativo di
telefonare dalla linea fissa, stessa pausa quando il cellulare
squillò. O meglio, suonò. Dovevo ancora cambiare la suoneria.
Stessa rapida verifica del nome apparso sullo schermo.
Allan Fink.
Merda.
Stavolta non risposi. Né ascoltai il messaggio. Sapevo cosa
voleva Allan. In quel momento non ero in grado di reggere
un’altra lezione sulla responsabilità fiscale.
Il mio sguardo cadde sul calendario dell’agenda. Giovedì, due
aprile. Niente panico. L’indomani avrei trovato tutto quello di cui
Allan Fink aveva bisogno per l’Agenzia delle entrate.
Ormai la scintilla nel mio petto era diventata un falò.
Presi la borsa dal cassetto e ne tirai fuori due pastiglie. Me le
gettai in bocca. Ingoiai.
Poi chiamò Ramsey.
«Ho rintracciato l’articolo» disse senza un saluto. «Ma non il
giornalista, che è morto da tempo. Aveva ragione. Un gruppo di
ragazzi della WCU si sono imbattuti nelle ossa e hanno chiamato
il dipartimento.» Aveva usato l’acronimo della Western Carolina
University. «Dozzine di piste per escursionisti attraversano l’area
di Lost Cove Cliffs. A ogni modo, un vice è andato a recuperare
quello che avevano trovato.»
«Perché i ragazzi hanno pensato che le ossa fossero umane?»
«È proprio quello che ho chiesto loro. Questo le piacerà. Erano
specializzandi in antropologia.»
«Cosa ne è stato della roba?» Scusa, mamma.
«Il coroner era in vacanza. Lo sceriffo dell’epoca non aveva
idea di cosa farsene di quelle che considerava “vecchie ossa”, non
era così interessato. I ragazzi hanno proposto di mandarle al loro
professore che, guarda caso, era un antropologo forense.»
«Marlene Penny.» La conoscevo tramite l’American Academy of
Forensic Sciences. Non molto brillante, e di età superiore ai
settant’anni, era un membro riconosciuto dell’American Board of
Forensic Anthropology e una persona ragionevolmente
competente.
Sentii un fruscio di carte. «Già, proprio lei. Ho una copia del
suo rapporto. Vuole che glielo legga?»
«Giusto le informazioni principali.»
«Non è che si sia sforzata. Ha scritto una sola pagina. Un
inventario dell’apparato scheletrico che comprende una tibia
parziale, perone, calcagno e astragalo.» Ci fu una brevissima
pausa mentre Ramsey cercava dati rilevanti. «Le due ossa tarsali
erano collegate da tessuto essiccato. Le ossa della gamba erano
separate.»
«Ci sono ventuali stime riguardanti età, sesso, o altre
informazioni di questo genere?»
«Le ossa erano troppo frammentarie.» Pausa. «Per la maggior
parte erano state portate via dagli animali. Ma la sua collega
pensava che provenissero tutte da un unico esemplare.»
«E quell’esemplare era umano?»
«Su questo si dice sicura.»
«Dove sono i resti adesso?»
«Non è specificato.»
Inspirai a fondo. Espirai. Poi continuai: «Ha qualche minuto?».
«Certo.»
Dissi a Ramsey della registrazione. Dei cybersegugi. Della
strana ostilità di Hazel Strike nei suoi confronti. Per tutto il
tempo sentii il ritmo del suo respiro contro il ricevitore. Sapevo
che stava ascoltando con attenzione.
Quando ebbi finito, chiese: «Le ossa della mano che ha trovato
Gunner le suggeriscono qualcosa?».
«Sono coerenti con quelle del torso di Burke.»
«Tutto qui?»
«Tutto qui.»
«E i polpastrelli?»
Gli dissi delle impronte mancanti. Dell’eritema acrale da
chemioterapia. Della possibilità che la vittima fosse stata un
malato di cancro in cura presso un ospedale del luogo. Di Cora
Teague che aveva lasciato il lavoro di tata a quanto pareva per
motivi di salute.
Poi gli dissi di Wiseman’s View.
La linea rimase muta così a lungo da farmi pensare che Ramsey
avesse riattaccato. Stavo per parlare quando il vicesceriffo avanzò
una proposta. Accettai il suo piano e chiudemmo la
comunicazione.
Utilizzando una mano per reggermi la testa, appoggiai l’altra
sul torace in fiamme.
12

Riuscii a uscire senza dover strisciare sul tappeto di Larabee. In


senso metaforico, ovviamente. I nostri uffici hanno il pavimento
di piastrelle.
Telefonò alle quattro, mentre ero in giro a fare la spesa. Un
compito che evito fino a quando la mia dispensa non assomiglia a
un bunker dell’Iraq postbellico. O se ho finito il cibo per gatti.
Pensai di ignorare la chiamata. Decisi che tanto valeva
affrontare l’inevitabile.
«Dove sei?» Il tono di Larabee era affilato.
«Scusa se non sono passata oggi.» In tono allegro, come i tre
personaggi che mi sorridevano dalla confezione di cereali.
«Sei in ufficio?»
«Al supermercato su Providence Road. Ti serve qualcosa?»
Larabee ignorò la mia offerta. Sentivo un sacco di rumore in
sottofondo. Si capiva che era all’aperto. «È tutto il giorno che
sono all’aeroporto e non credo che mi libererò presto.»
Mi fermai mentre prendevo dallo scaffale una lattina di piselli.
«Che succede?»
«Un regista coglione è finito contro il rotore posteriore di un
elicottero mentre girava un film.»
«Decapitato?»
«A voler essere gentili.»
«Aveva l’autorizzazione a girare in un eliporto attivo?»
«Al Wilson Air Center, la parte per gli spocchiosi.»
Ero stata al Wilson, una struttura per voli privati e aziendali.
Purtroppo, non abbastanza spesso. «Mi vuoi sulla scena?» Ti
prego, dimmi di no.
«No. Ma potrei aver bisogno di te domani. Il danno è esteso.»
«Sono libera tutto il giorno.»
«Farò l’autopsia come prima cosa domani mattina. Sempre che
abbiamo finito di raccogliere tutto sulla pista.»
Non prometteva bene. «Su col morale» dissi.
«E giù la testa» aggiunse. Poi riattaccò.
Mentre gettavo articoli a casaccio nel carrello, la conversazione
si ripeté nella mia mente. Lato positivo: nessun accenno alla
spedizione nella contea di Burke. Lato negativo: Allan e l’Agenzia
delle entrate erano stati ancora una volta fatti fuori.
Il menu per quella sera prevedeva pollo al chili. Rischioso, dato
lo stato delle mie viscere. Ma la ricetta richiede cinque
ingredienti. Il mio genere di cucina. Inoltre, congelo gli avanzi
per cene future.
Mangiai mentre guardavo distrattamente il notiziario locale.
Un mezzobusto dall’acconciatura perfetta riferì, con adeguata
solennità, la scoperta di tre corpi in una casa di Shelby. La
promozione dell’ospedale presbiteriano a centro traumatologico
di secondo livello la rese solare. Di nuovo cupa mentre
descriveva la fatalità al Wilson Air.
Lo schermo mostrò un filmato del terminal privato,
indubbiamente girato dall’altro lato del nastro giallo della
polizia. Riconobbi Larabee e uno degli investigatori dell’MCME. Il
furgone dell’obitorio. Il nome della vittima non era stato
divulgato in attesa della notifica alla famiglia; il segmento
terminava con questa informazione.
Dopo aver sparecchiato, pensai per un istante di tornare ai
mucchi di carte sparse sul tavolo in sala da pranzo. Decisi invece
di studiare più a fondo il fenomeno dei cybersegugi. La
scontrosità esibita da Strike sulla montagna mi irritava e mi
confondeva al tempo stesso. Lo scopo non era risolvere casi
irrisolti?
Per prima cosa, visitai i siti che spiegavano il fenomeno.
Appresi che, in un certo senso, la ricerca era simile al geocaching.
I partecipanti possono essere chiunque. Il tizio che ti sistema la
marmitta. Il ragazzo che ti mette la spesa nei sacchetti. L’anziana
donna che ti ha servito un cappuccino a Roma. O a Riga. O a Rio.
Chiunque dotato di computer e curiosità può entrare nel gioco.
Poi andai sui siti veri e propri. Controllai i blog, i post dei
gruppi di discussione, le conversazioni delle chat. Più navigavo e
leggevo, più cresceva il mio disagio.
Molti segugi sembravano onesti, zelanti nel loro desiderio di
ricondurre alla giustizia assassini del passato, di abbinare resti
senza nome a persone scomparse. Alcuni erano intelligenti, e i
loro post obiettivi e mirati. Wind. Vegasmom. Befound. Altri, pur
altrettanto zelanti, erano meno convincenti nel ragionamento o
nelle espressioni. Crispie. Answerman. Malgrado le capacità
mentali – o la mancanza di esse – la maggioranza di loro
appariva onesta e risoluta, dedita al libero scambio di
informazioni.
Non sono una psicologa, ma percepii che c’era anche una
tipologia molto diverso di partecipanti. Individui che si
portavano dietro un grosso bagaglio e un atteggiamento mentale
derivante da vicende private, da perversioni personali.
In questo secondo gruppo, qualcuno sembrava intenzionato a
seminare zizzania restando a guardare dalla sicurezza
dell’anonimato online. I commenti e le risposte di tali soggetti,
spesso aggressivi, facevano pensare alla megalomania. Alla
paranoia.
Comprendo la natura del dialogo su Internet. Non ci sono
sfumature né tono. Solo parole su uno schermo. E, come avviene
con gli SMS, i messaggi spesso possono essere equivocati,
causando confusione, a volte dolore. Una parte dell’animosità in
alcune discussioni, che era considerevole, si poteva attribuire alla
mancanza di chiarezza. Ma non tutta. Molti post sembravano fatti
per provocare, per suscitare livore.
Era anche evidente che alcuni partecipavano non per la
giustizia, ma per la gloria. Questi giocatori erano evasivi e
circospetti. Avendo creato un archivio di vaste dimensioni, erano
restii a condividere le sudate informazioni, in particolare con siti
legittimi come NamUs o Doe Network. Qualcuno mostrava un
livello di territorialità simile per ferocia a quello dei gorilla
adulti.
E c’era un elemento della sottocultura che trovavo
particolarmente allarmante. I cybersegugi potevano attaccarsi a
vicenda come lupi intorno a una carcassa. Il caso in questione:
Todd Matthews.
Matthews era un cybersegugio veterano e sostenitore del Doe
Network sin dal principio. Quando NamUs era nato e Matthews
era stato assunto come amministratore del sito, una squadra di
vecchi sostenitori l’aveva visto come un disertore, uno che si era
svenduto. Il punto è la giustizia, dicevano, non un guadagno
fisso.
Dopo che era volato parecchio fango in entrambe le direzioni,
il Doe Network aveva accusato Matthews di aver violato la
riservatezza e di non essersi dimostrato all’altezza degli standard
amministrativi. Nell’aprile 2011, il consiglio d’amministrazione
aveva votato per sbatterlo fuori. Lui se n’era andato, ma non col
sorriso sulla faccia.
Il Doe Network non era il solo a litigare per il potere e il
controllo. Cold Case Investigations, Porchlight International,
CLUES: molti siti avevano vissuto i propri melodrammi. Tutti gli
alterchi e gli insulti mi lasciarono la sensazione di aver ficcato il
naso nei messaggi di un branco di ragazzine vezzose della scuola
media.
Alle nove e mezza feci una pausa. Aspettando che la teiera
bollisse, decisi di cambiare tattica. Durante le prime visite a
CLUES per raccogliere informazioni su Cora Teague, avevo
scoperto che Hazel Strike aveva usato l’ID luckyloo. Decisi di
seguire le conversazioni a cui aveva partecipato luckyloo.
E trovai una faida la quale, a confronto, faceva impallidire
tutte le altre. Le frecciate e le accuse che volavano tra luckyloo e
qualcuno che postava come WendellC, tutt’altro che poetiche,
avevano un significato inequivocabile. I due non si sopportavano.
Senza conoscere il suo vero nome, appresi che WendellC era
una leggenda tra i cybersegugi. Aveva all’attivo molti casi risolti,
ma uno in particolare l’aveva reso una superstar. Seguii il link di
un articolo che raccontava il caso nel dettaglio.
Nel 1984, lo scheletro parziale di una adolescente era stato
trovato avvolto dentro una trapunta in un campo della contea di
Cuyahoga, nei pressi di Cleveland, Ohio. Il rinvenimento di un
cranio completo aveva consentito una ricostruzione facciale. Col
tempo, l’immagine – poco più che uno schizzo – era apparsa sui
siti di tutto il cyberuniverso.
Nel corso dei decenni erano stati numerosi quelli che avevano
curiosato, sondato e scavato, senza che però fosse mai trovata
una corrispondenza con una persona scomparsa. La giovane
donna era divenuta nota come Quilt Girl, la ragazza della
trapunta.
Di tanto in tanto uscivano articoli che la riguardavano sui
giornali locali dell’Ohio. Nel 2004, nel ventesimo anniversario
della scoperta dello scheletro, il caso aveva fatto la sua comparsa
ad America’s Most Wanted, insieme alla ricostruzione facciale
originale. C’era stata una valanga di soffiate. Nessuna di esse
aveva dato esito positivo.
Nel 2009, più di due decenni dopo che Quilt Girl era apparsa
tra i germogli di soia, WendellC aveva letto un articolo sulla
rivista «True Sleuth». L’articolo riproponeva il caso di Annette
Wyant, matricola diciottenne scomparsa dall’Oberlin College nel
1979. Il pezzo era corredato di foto e di un’immagine coi
connotati invecchiati che suggeriva l’aspetto di Wyant all’età di
quarantotto anni.
WendellC conosceva la ricostruzione facciale di Quilt Girl. La
foto di Annette Wyant non era affatto somigliante, per questo
non era mai stato proposto alcun collegamento. Ma WendellC
aveva notato un elemento degno di nota. L’Oberlin College era a
meno di sessantacinque chilometri dal campo in cui Quilt Girl era
stata trovata. Aveva telefonato al medico legale della contea di
Cuyahoga richiedendo foto dell’autopsia che mostrassero primi
piani del cranio. A malincuore, il medico legale dell’epoca aveva
acconsentito.
Osservando l’immagine, WendellC aveva notato un altro
particolare. Annette Wyant e Quilt Girl avevano entrambe un
marcato sovramorso, una caratteristica non evidenziata nella
ricostruzione facciale. Aveva richiamato il medico legale,
dichiarandosi certo che lo scheletro appartenesse alla studentessa
scomparsa.
In un fascicolo, archiviato tanto tempo prima, erano state
ritrovate le cartelle odontoiatriche. Ventitré anni dopo il suo
rinvenimento, Quilt Girl era tornata a casa dalla sua famiglia.
Su Google trovai articoli sulla scomparsa, i più recenti relativi
all’identificazione. Annette Wyant era stata sepolta con poco
clamore nella sua città natale di Plainsfield, Illinois. Il «Chicago
Tribune» aveva pubblicato un breve articolo. Come anche il
«Plain Dealer» di Cleveland. In entrambi, era raffigurata una
donna di mezza età in piedi accanto a una tomba. Al suo fianco,
un uomo alto e dai lineamenti duri, con un completo che
indossava in maniera sgraziata. Una didascalia indicava la donna
come la sorella di Annette Wyant, l’uomo come Wendell Clyde di
Huntersville, North Carolina.
Non c’era stato mai alcun arresto. Per esperienza, immaginai
che la causa della morte di Wyant fosse rimasta «indeterminata».
Incuriosita, tornai ai siti dei cybersegugi.
In una discussione dopo l’altra, i colleghi investigatori
dilettanti lodavano la genialità e la perseveranza di Wendell.
Congratulazioni piovevano da ogni parte del globo.
Hazel Strike era furiosa e non aveva usato giri di parole. Post
dopo post, luckyloo definiva WendellC un serpente traditore. Uno
squallido impostore. Uno spregevole truffatore. Strike affermava
che lei e Clyde avevano lavorato in squadra. Lo accusava di
essersi arrogato il merito di scoperte compiute insieme. Le
repliche di WendellC contenevano altrettanto vetriolo.
Avrei trovato la disputa divertente se non fosse stato per il tono
virulento. Resistei ancora mezz’ora. Poi, disgustata dalla natura
infantile del diverbio, me ne andai a letto.

Passai il venerdì immersa fino ai gomiti nel tessuto cerebrale e


nei frammenti ossei insanguinati.
La vittima dell’elicottero era un trentaduenne di nome
Connolly Sanford. La sua prima prova di regia sarebbe stata
anche l’ultima. E il funerale sarebbe dovuto avvenire sicuramente
a bara chiusa.
Mentre Larabee faceva l’autopsia al corpo di Sanford, io
esaminai quanto restava della testa. Che non era molto. A parte
alcune porzioni di parietale e occipitale destro, il pezzo più
grosso recuperato era grande quanto un orecchio. Quelli invece li
avevo entrambi.
L’identità non era in discussione, dal momento che l’intera
troupe aveva assistito all’incidente. Né lo era la modalità della
morte. Larabee voleva semplicemente la conferma che il trauma
cranico fosse solo opera dell’elicottero.
Larabee era ancora al lavoro quando, alle tre, finii. Dopo
essermi lavata e tolta il camice, telefonai a Marlene Penny alla
WCU per chiederle informazioni sulle ossa di Lost Cove Cliffs.
Rispose la segreteria telefonica. Lasciai un messaggio chiedendole
di richiamarmi.
Prima di andarmene, riferii a Larabee che non avevo trovato
nessun proiettile nascosto, nessun dardo avvelenato, niente che
indicasse un colpevole a parte l’elicottero e un pessimo gioco di
gambe. Mi ringraziò, esausto. Gli augurai un buon weekend e me
la filai prima che potesse ricordarmi la sua arrabbiatura per la
ragazzata di Burke. O chiedermi in che modo intendessi
proseguire.
Ramsey chiamò mentre mi lavavo i denti. Confermai che ero
pronta ad andare, come concordato.
Pensai di telefonare a Ryan. Parlare con lui mi sollevava il
morale. Mi aiutava sempre a riordinare le idee in schemi più
produttivi. Quasi sempre. In quel momento mi mancava l’energia
per eludere i discorsi sulla convivenza, o sui voti nuziali. Tolsi
invece la suoneria.
La stanchezza fisica ebbe presto la meglio sull’agitazione
mentale. Il sonno calò come una spessa coperta di lana.
Un’ottima cosa. Il giorno seguente durò circa tre mesi.
13

Birdie, in piedi prima della sveglia, mi persuase a svegliarmi


masticandomi i capelli.
Il gatto si finse sul punto di morire di fame, perciò passammo
direttamente alla colazione. Mentre sgranocchiava Science Diet,
io mangiai un bagel con crema di formaggio e buttai giù un caffè
così forte da mantenere il cucchiaino diritto.
Sazio, Birdie fece una ricognizione delle stanze per il primo
pisolino della mattina. Riempii un thermos col caffè rimasto,
preparai dei panini e li misi nello zaino, meravigliandomi per
tutto il tempo della presenza di salame e formaggio nel frigo. Non
ricordavo affatto di averli comprati.
Mentre mi preparavo, sentii nascere dentro di me sentimenti
contrastanti. Era sabato. C’era la semifinale dell’NCAA, Duke
contro Carolina, e volevo restare a casa, ordinare una pizza e
guardare la partita. Volevo stabilire l’identità di ME229-13.
Tornai in camera e controllai le previsioni del tempo sul
cellulare. Su Charlotte erano previsti sole e una massima di sette
gradi. Un’icona indicava due chiamate perse. Cliccai sopra.
Ryan aveva chiamato, ma senza lasciare un messaggio. Il
familiare, assillante senso di colpa bussò piano. Non lo lasciai
entrare.
Hazel Strike aveva telefonato. Mi chiedeva di ricontattarla.
Sapendo che in alta quota sarebbe stato più freddo, indossai
jeans, maglietta a maniche lunghe, calze di lana e scarponcini.
Presi un maglione in più, mi ficcai il telefono in tasca e scesi di
sotto. Impiegai un momento per recuperare giaccone e zaino,
dopodiché partii. Erano le 6:45.
Presi la I-85 in direzione sud fino a Gastonia, poi la 321 a nord
fino a Hickory e la I-40 in direzione ovest. I grattacieli della città,
poi le case tutte uguali e le aree commerciali dei sobborghi
sfilavano nell’oscurità intorno a me. Non ci badai. I miei pensieri
erano tutti rivolti a mamma. E a Ramsey. E un posto sulle
montagne che non avevo mai visto.
Quando raggiunsi Morganton, il mondo al di là del parabrezza
era un dipinto di Monet dai tenui colori verde e ambra. Tralicci,
alberi e pali da recinzione proiettavano lunghe ombre da casa
degli specchi sulla strada e sui campi che si estendevano su
entrambi i lati.
Mi diressi a nord sulla 181 fino a Jonas Ridge, poi svoltai a
sinistra e andai a sudovest sulla NC-183. Attraversando la Pisgah
National Forest per la seconda volta in una settimana, mi
imbattei in soli altri quattro veicoli. Li contai.
Alla fine scorsi un cartello che indicava la strada per
Wiseman’s View. Svoltai sulla Route 1238, una strada d’accesso
col fondo di ghiaia e larga appena quanto una sola auto. Ero a
pochi chilometri dalla minuscola comunità di Linville Falls.
Dopo circa sei chilometri di curve strette e bruschi cambi di
pendenza, che non posso dire di aver apprezzato, un secondo
cartello apparve tra il fogliame. Svoltai in un’area di sosta
asfaltata chiedendomi quante parti dell’auto e otturazioni dentali
si fossero allentate.
Sorprendentemente, erano presenti diverse macchine. Una
Camry rossa, un pickup con una crepa nel parabrezza a forma di
Cape Cod, un’Audi A3 color argento e un SUV nero. Il logo del
Dipartimento dello sceriffo sul SUV mi avvertì che Ramsey e
Gunner erano già arrivati. Scesi dall’auto e mi guardai intorno.
Non si vedevano né il vicesceriffo né il cane.
L’aria era frizzante per il freddo del primo mattino. Non il
freddo umido del Québec che ti toglie il respiro e ti intorpidisce
la faccia nel giro di pochi secondi. Ma un freddo abbastanza
intenso. E inoltre un vento tagliente turbinava tra le montagne
circostanti.
Indossai il giubbotto e infilai nello zaino maglione, berretto e
guanti. Presi il kit dal bagagliaio e mi fermai un momento in
ascolto.
E udii una sinfonia di minuscoli rumori. Il tic tic tic del motore
della mia auto che si raffreddava. Il costante sussurro del mio
respiro. Il frusciare dei rami in alto.
Alzai lo sguardo. Il vento stava tormentando un usignolo che
lavorava sodo al suo nido.
Augurando buona fortuna all’uccello, andai verso un varco tra
gli alberi, al di là del SUV. Conduceva a un sentiero stretto e,
all’inizio, rivestito di asfalto sgretolato. Il terreno sprofondava
ripido oltre un arrugginito guardrail che ne bordava il lato
destro. Dopo pochi metri, il sentiero tagliava a sinistra,
abbracciando la montagna e sparendo alla vista.
Mi vanto di essere imperturbabile. Perlopiù è vero. Ma, a dirla
tutta, una cosa mi turba: i luoghi elevati privi di protezioni. Non
è la caduta che temo, ma l’atterraggio.
Col cuore che batteva un po’ troppo forte, mi sistemai gli
spallacci dello zaino, rafforzai la presa sul kit e misi i piedi sul
sentiero. La foresta, fatta di pini e alberi decidui, era così fitta
che sembrava di attraversare un murale trompe l’oeil fatto di luci
e ombre. Dal basso, giungeva il suono di acque impetuose.
Avanzai, con le suole degli scarponcini che risuonavano nella
frizzante aria mattutina. Qua e là uno squarcio di luce si
proiettava sull’asfalto e coglievo scorci del ripido burrone alla
mia destra.
Cinquanta metri più avanti, udii un rumore di passi e mi
fermai. Poco dopo, apparve una coppia che veniva verso di me in
fila indiana. Lei camminava sicura, guardandosi intorno. Lui
avanzava cauto, tenendo lo sguardo dritto davanti a sé. Mi
schiacciai contro la facciata della rupe per lasciarli passare.
Quando il rumore dei loro movimenti si attutì, mi misi
nuovamente in ascolto. Niente, se non lo scorrere smorzato
dell’acqua.
Altri cento metri e il sentiero terminava con un affioramento
roccioso circondato dal medesimo guardrail arrugginito.
Piattaforme erano state erette su entrambi i lati, orientate verso
punti di interesse. Quattro persone erano vicine a quella che si
affacciava a ovest, tre in gruppo, una per conto suo. I tre avevano
fatto compere da L.L.Bean. Il solitario sembrava un T-Rex
agghindato per un’escursione.
Ramsey teneva i gomiti appoggiati all’altra ringhiera, Gunner
era al suo fianco.
«Good morning, Carolina!» esclamai in una sommessa
imitazione di Robin William nelle vesti di deejay, all’unico scopo
di calmare la mia agitazione.
Il cane drizzò le orecchie e poi, con la lingua viola penzoloni,
mi venne incontro trotterellando. Gli diedi un buffetto sulla testa.
Il vicesceriffo mi osservò mentre mi avvicinavo per qualche
istante, poi girò di nuovo la testa verso il panorama che stava
ammirando. Per un momento, restammo entrambi a osservare in
silenzio.
«Stiamo guardando a est verso Linville George.»
«Notevole» dissi.
«Uno dei canyon più profondi degli Stati Uniti orientali. E uno
dei più scoscesi. Sa come si è formato?»
Scossi la testa.
«Il Linville River nasce su Grandfather Mountain, copre una
discesa di seicento metri in soli venti chilometri, prima di
scorrere in piano nella Catawba Valley. Tutta quell’acqua
martellante ha scavato la roccia.»
«A che altezza siamo sul fiume?»
«All’incirca quattrocentocinquanta metri, perlopiù a
strapiombo.» Una pausa, poi: «Mai sentito parlare di William e
John Linville?».
«No.»
«Padre e figlio esploratori. Nel 1766, i cherokee ebbero da
ridire sulla loro presenza qui e fecero lo scalpo a entrambi.»
«Ahi.»
Gli angoli della bocca di Ramsey si sollevarono
impercettibilmente. «Il loro nome è finito su una vagonata di
luoghi di interesse.»
Era vero. Oltre alla gola e al fiume, delle grotte, una cascata,
un’area naturalistica e diverse cittadine recavano il nome
Linville.
«Resta pur sempre un brutto modo di farsi pubblicità» dissi.
Ancora una volta, Ramsey poteva aver sorriso. Oppure no. Alzò
un braccio e indicò, le dita dritte e il palmo di traverso. «Al di là
della gola c’è Jonas Ridge.» La sua mano si mosse a taglio mentre
nominava una serie di formazioni rocciose. «Orso Seduto,
Tartaruga, Tavolo, i Comignoli. La zona è un labirinto di
sentieri.»
«Bella parola, labirinto» dissi.
A questa affermazione sorrise. Sotto il berretto di lana, tirato
giù sulla fronte, il suo volto eseguì l’azione di allineamento. Oh,
ragazzi…
«Dov’è Brown Mountain?»
«Vede quella vetta bassa in lontananza, oltre il promontorio?»
Annuii.
«Eccola. Saranno tredici chilometri.»
«Dove avviene il gioco di luci?»
«Molti turisti puntano le fotocamere laggiù.» Indicò il versante
opposto.
«Pensa che siano reali?»
«Io le ho viste.» Alla mia espressione sorpresa, aggiunse: «Una
specie di tremolio, come se qualcuno agitasse delle torce tra gli
alberi».
«Qual è la sua teoria?»
«Qualcuno parla di gas metano.»
«Il gas metano non si accende mai spontaneamente in natura.»
«Sono d’accordo. Ci vuole una particolare combinazione di
sostanze chimiche. I ricercatori l’hanno creata in laboratorio.
Dicono che ha inizio con uno scoppio seguito da una fiamma
verdeazzurra.»
«Niente combustione lenta.»
«Già.»
Il gruppetto alle nostre spalle venne verso di noi e prese
posizione lungo la balaustra. Il solitario seguì gli altri, ma
continuò a restare in disparte.
«Vedove cherokee?» chiesi.
«Quindi conosce il folklore locale.»
«Molto poco.»
«Il problema è che le signore dovrebbero vagare nel cielo, non
sulla terra. Ma le luci non si rifrangono sopra il promontorio:
sono in basso, tra gli alberi.» Come se la mia ipotesi fosse stata
seria. «E dubito che i cherokee possedessero la tecnologia della
lanterna.»
«Portavano torce per i maritini defunti?»
Ramsey ignorò la battuta. Oppure non la capì. «Ho fatto
qualche ricerca. Non ho trovato un solo accenno a questa
leggenda negli scritti cherokee. Gli unici riferimenti si trovano
nella letteratura riguardante le luci. Questo non vuol dire che
non esistano storie locali. Solo che io non le ho trovate.»
«Riflessi provenienti da distillerie clandestine?» Sparai l’unica
altra teoria che conoscevo.
«Pensa che i distillatori clandestini metterebbero su bottega
proprio qui, tra gli escursionisti e gli scalatori, nell’arco della
visuale del belvedere più popolare dello Stato?»
«Nel cuore del labirinto.» Mio Dio, stavo flirtando?
Ramsey raddrizzò la schiena.
«Ma la causa non ha importanza. Ciò che forse importa è che
un sacco di gente crede che le luci siano reali, e che siano di
natura paranormale o mistica o quello che le pare.»
«E credono che la montagna sia infestata da spiriti.»
«In un certo senso.» La mascella di Ramsey si contrasse e si
rilassò. «Qualcuno immagina che siano opera del diavolo.»
Ci volle un momento. Poi il sottinteso andò a segno. «Sta
dicendo che è questo il motivo per cui parti anatomiche umane
possono essere state gettate da questi belvedere? Per una sorta di
culto demoniaco?»
«Demoni? Alieni? Ninfe? Elfi? Chi lo sa? Queste montagne
abbondano di tipi strani.»
Non dissi nulla.
«Sembra folle?» chiese.
«Ho sentito di peggio.»
In fondo alla balaustra, i tre turisti continuavano a fare segni e
a chiacchierare. Il solitario era più vicino a noi. Non stava
ammirando il panorama. Era immobile, gli occhi bassi, come se
tracciasse mentalmente il suo tragitto.
«Folle o meno, nessuno ha gettato niente da qui.»
«Sono d’accordo. Troppo affollato. E di difficile accesso.»
«Andiamo.»
«Dove?»
«Al posto che sceglierei per scaricare un corpo.»
Ramsey si avviò sul sentiero, con Gunner che gli trotterellava
alle calcagna, non lasciandomi nessuna altra scelta che seguirlo.
Quando raggiunsi l’area di sosta, il cane era sul sedile posteriore
e il vice al volante del SUV. Lo sportello dal lato del passeggero e
quello posteriore erano aperti. Un gesto sottile.
Scaricai l’attrezzatura sul retro e salii in auto. Uscito dal
parcheggio, Ramsey mi sorprese continuando a parlare.
«Cosa sa dei Teague?»
«Non molto.» Gli dissi quello che avevo appreso da Hazel
Strike. John. Fatima. Cinque figli. Nessuna denuncia di
scomparsa per Cora, la penultima figlia, avvistata l’ultima volta
tre anni e mezzo prima da un anonimo utente del sito di
cybersegugi CLUES.net.
«Ho fatto un po’ di domande in giro.» Ramsey svoltò sulla 1238
e iniziammo ad avanzare a balzi e scossoni in direzione sud,
lungo il crinale. «I Teague appartengono a un eccentrico gruppo
pentecostale. La congregazione conta forse un centinaio di
membri.»
«Come si chiama?»
«Chiesa della Santità del Signore Gesù.»
«Incantatori di serpenti?»
Mi riferivo al movimento della Santità fondato da George Went
Hensley nel 1910. I membri tengono in mano serpenti velenosi,
ne bevono il veleno e, se riescono a entrare in contatto con lo
Spirito Santo, parlano in altre lingue. Le Chiese della Santità
hanno un grande seguito nella regione degli Appalachi, comprese
le montagne del North Carolina.
Ramsey alzò le spalle. «Non ho idea di cosa consista il loro
credo. Tutto quello che so è che lo tengono per sé.»
«Se appartengono alla Santità, allora non andranno pazzi per
Satana» osservai.
«Immagino di no.» Il sole colpì obliquamente la faccia di
Ramsey, illuminandogli il naso e mettendo in risalto le rughe e le
grinze intorno agli occhi e alla bocca. «Sono passato da casa
Teague.»
Questo mi sorprese. «Hanno collaborato?»
«Non mi hanno invitato a mangiare biscotti, se è questo che
intende. Ho parlato con John attraverso la zanzariera.»
«Che impressione si è fatto?»
«Emotivo.» Rifletté un momento. «Bellicoso.»
«Violento?»
«Può essere.»
«E la madre?»
«Mai vista.»
«Cosa ha detto John di Cora?»
«Se n’è andata con un uomo. Entrambi peccatori. Entrambi
bruceranno all’inferno. Si levi dalla mia proprietà o le rompo il
culo.»
«Pensa che stia dicendo la verità?»
«Sul rompermi il culo?»
«Su Cora.»
«Quel tizio è un fanatico di Dio e non lo definirei indulgente.»
Ramsey accostò sul ciglio della strada e spense il motore. Mi
guardai intorno. Non notai altro che l’identica combinazione di
alberi, la stessa strada sterrata che avevamo percorso negli ultimi
dieci minuti.
Dopo essersi messo le chiavi in tasca, Ramsey appoggiò un
braccio sul volante e si girò verso di me. «Tranne per una cosa.»
Non riuscivo a decifrare l’espressione del vicesceriffo. Ma la
sua voce aveva assunto una durezza mai sfoggiata prima.
Aspettai.
«Seguendo il suo suggerimento, ieri ho fatto un salto al Cannon
Memorial per avere informazioni sui pazienti che avevano
abbandonato la chemio.» Ramsey si riferiva al Charles A. Cannon,
Jr., Memorial Hospital di Linville. «Zero. Ma quando ho
pronunciato il nome di Cora Teague, un dottore ha suggerito di
prendere in esame la morte del fratello minore.»
«Eli è morto quando aveva dodici anni.»
Ramsey mi rivolse una strana occhiata. «Esatto.»
«Causa?»
«Ematoma subdurale acuto traumatico. I genitori dissero che
era caduto dalle scale del seminterrato.»
«Ma questo dottore nutriva delle riserve in merito?»
«All’epoca lavorava al pronto soccorso. Si ricorda del
ragazzino. Non poteva entrare nel dettaglio per via della privacy,
sa com’è la procedura. Ma ha sempre avuto la sensazione che i
conti non tornassero.»
«Cioè che il tipo di ferita non coincidesse con la versione
fornita dai genitori?»
Le dita di Ramsey strinsero il volante. Annuì.
Udii la voce della ragazza terrorizzata della registrazione.
Percepii lo spettro scuro di Brown Mountain fuori dal finestrino.
«Sta pensando a un padre bigotto. A una figlia ribelle.» La mia
voce sembrava smorzata nel silenzioso interno del SUV. «Alla fine
violenta di un fratello minore.»
«Potrebbe trattarsi di un tris mortale» disse Ramsey.
14

«Dove ci troviamo?» chiesi.


Ramsey indicò col mento gli alberi più avanti e sulla sinistra.
«Vede quel varco?»
«Mmh.» Non lo vedevo.
«È l’inizio di un sentiero che porta giù nella gola. Hanno tutti
quanti un nome. Varco del Pino. Picco Bynum. Torre di Babele.
Questo si chiama Coda del Diavolo. Un tempo era popolare tra gli
escursionisti esperti.»
«Un tempo?»
«L’ente parco non si è più occupato della sua manutenzione
dopo che una tempesta ne ha fatto crollare la parte inferiore.» Mi
guardò negli occhi. «La Coda del Diavolo non compare più sui siti
web, perciò solo la gente del posto ne è a conoscenza.»
Annuii, mostrando che avevo capito cosa intendeva.
«Pronta?»
«Porto l’attrezzatura?» domandai.
«Prima vediamo cosa troviamo. Seguiamo il naso di Gunner.»
Nel sentir pronunciare il suo nome, il cane si alzò e agitò la
coda una sola volta. Ramsey e io scendemmo dall’auto. Quando
lo sportello posteriore si aprì, Gunner uscì con la raffinata grazia
che avevo finito per ammirare.
«Attenta a dove mette i piedi» mi avvertì Ramsey.
Oh, sì.
Il «varco» di Ramsey era poco più che un assottigliamento
appena visibile dell’antica foresta. Con Gunner al comando, ci
facemmo strada tra i pini e gli alberi da legno duro lungo una
stretta cicatrice di terra coperta di edera e altri rampicanti.
Esplosioni di sole che attraversavano la cupola di rami e di aghi
di pino creavano un effetto quasi vertiginoso. Ragnatele invisibili
mi sfioravano il viso e rami caduti minacciavano di mitragliarmi
le caviglie. Ma non per molto. A dieci metri dalla strada la terra
sprofondava.
Niente guardrail. Nessun cartello rassicurante dell’ente parco.
Solo il cielo aperto e roccia segnata e antica quanto il pianeta.
Una scarica di adrenalina fece vibrare i miei nervi. Forse era
dovuta al dirupo. Forse al fatto che Ramsey aveva ragione. Il
posto era deserto e facilmente raggiungibile. Un oggetto gettato
da lassù poteva non essere mai ritrovato.
Mentre restavo indietro, Ramsey e Gunner andarono dritti
verso quella che sembrava la fine dell’universo. Trassi un
profondo respiro per calmarmi. Poi, muovendomi con cautela, li
raggiunsi e bloccai un piede contro un masso che sporgeva sul
ciglio del precipizio.
«È un bel salto.» Ramsey parlò senza guardarmi.
Col battito cardiaco nella stratosfera, allacciai un braccio
intorno a un acero, piantai entrambi i piedi, e mi sporsi in avanti.
Sotto, vedevo scorci di quanto restava della Coda del Diavolo,
che scendeva ripida tra gli alberi. Un tratto di foresta, poi il
sentiero ricompariva su una leggera depressione bordata da una
piccola cengia rocciosa. Nell’insieme mi ricordava la formazione
per come appariva sul sito della contea di Burke.
Ma parecchi elementi differivano. Questa cengia era molto più
fitta di alberi. Sopra di essa sembrava esserci un rozzo capanno.
Al di là e in basso, il terreno si corrugava nuovamente, formando
quasi un terzo gradino, e poi sprofondava a picco nella gola.
Guardai Ramsey. Lui stava osservando Gunner. Il cane era teso.
Orecchie all’indietro, testa bassa, occhi fissi sul capanno.
«Cos’è quello?» chiesi.
«Probabilmente un capanno abbandonato della manutenzione.»
«Sta catturando l’attenzione di Gunner.»
«Già.»
«È in grado di fiutare un odore da così lontano?»
«L’ha già fatto in passato.»
«È possibile scendere laggiù?»
«Il sentiero da qui al primo affioramento è in buono stato.»
Dovevo aver assunto un’espressione scettica.
«Che ne dice se controllo cosa sta stuzzicando Gunner?»
propose Ramsey. «Se c’è qualcosa di sospetto, torno a
riferirglielo.»
«Neanche per idea» replicai in tono immensamente più sicuro
di quanto in realtà mi sentissi.
«D’accordo, allora. Muoviamoci.»
Ramsey emise un fischio, breve e acuto. Il cane balzò alla sua
destra, svanì e, pochi istanti dopo, riapparve sulla Coda del
Diavolo. Un lampo marrone, e poi scomparve.
Ramsey partì per primo. Con gli occhi incollati al suolo, lo
seguii.
La parte di sentiero che il vicesceriffo aveva definito «in buono
stato» si rivelò invece ripida e insidiosa. Barcollando di tronco in
tronco mi feci strada verso il basso come se stessi attraversando
un campo minato. Di tanto in tanto un piede slittava, provocando
una cascata di ciottoli e terra davanti a me.
Mentre procedevo, il mio cervello immagazzinava
informazioni. L’aroma dei pini. Un lieve odore di puzzola.
Licheni. Sottili rami neri sopra la testa. Una delicata fila di
halesia carolina ai miei piedi.
Gli uccelli gracchiavano articolate rimostranze. In basso, un
fiume scavava la roccia ignea. A un certo punto sentii un frullo
nel sottobosco, seguito da un verso stridulo interrotto. Mi fermai,
sbuffando minuscole nuvole di nebbia dalla bocca. Immaginai un
povero coniglio o scoiattolo con gli occhi già vitrei, la pelliccia
scurita dal sangue.
Pensai a possibili predatori. Un serpente testa di rame. Un
crotalo dei boschi.
Ignorando la mia immaginazione eccessivamente macabra,
continuai per quelli che mi parvero cinque chilometri. In realtà
dopo altri dieci metri la pendenza si livellò.
Gunner teneva il ventre a terra e lo sguardo fisso su un angolo
del capanno. Ramsey era accanto a lui, con il giubbotto aperto, il
gomito flesso, la mano sul fianco. Le ombre gli screziavano il viso
come ematomi dal colore viola scuro.
Per un folle momento provai una sensazione di gelo, come se
una presenza ferina abitasse lo scuro mondo di vetro colorato che
avevamo invaso.
Scrollati di dosso questa impressione, Brennan.
Mi avvicinai a Ramsey. A quella distanza vedevo che il
capanno stava a stento in piedi. Il tetto era di lamiera arrugginita
e in procinto di staccarsi dai chiodi che dovevano tenerla al suo
posto. Le pareti erano costruite con rozze assi di pino,
probabilmente ricavate a mano e assemblate in fretta e furia. Qua
e là un’asse si era staccata o allentata a un’estremità, ricadendo
sghemba.
In silenzio, Ramsey prese una Maglite dalla cintura e mi fece
segno di ripararmi dietro di lui.
«Sul serio?» chiesi sollevando i palmi e le sopracciglia.
«Un altro motivo per cui la pista è in disuso è la consistente
popolazione di orsi bruni.»
«Giusto.» Mi accodai a Ramsey.
«Non ho visto tracce di feci. Ma è meglio evitare sorprese.»
«E Gunner?» Per qualche ragione mi sentivo obbligata a
bisbigliare.
«Cosa c’entra lui?»
«Non ha problemi con gli orsi?»
«Li ignora e loro ricambiano il favore.»
Senza preavviso, Ramsey assestò un colpo alla lamiera con la
torcia. Facendomi sobbalzare.
Nessun gigante in letargo si svegliò di soprassalto con un
grugnito. Nessuna furiosa mamma orso balzò fuori per
affrontarci.
«Ehi!» urlò Ramsey.
Silenzio.
Accertatosi che non ci fosse nessuno, Ramsey percorse il
perimetro del capanno. Con me al seguito, diede una spinta alla
porta che si aprì sui cardini. Allungammo entrambi il collo.
All’interno del capanno vi era un intrico di ombre. Dove la
lamiera ondulata e le assi allentate avevano creato degli spazi,
deboli squarci grigi si incrociavano nelle angolazioni più
disparate.
Ramsey accese la torcia e la alzò ad altezza spalla. Varcammo
la soglia. L’aria era fredda e umida. Mentre i miei occhi si
abituavano all’oscurità, sentii odore di terra, legno bagnato e
vegetazione marcia.
Ramsey mosse la torcia adagio e con metodo. Particelle di
polvere turbinavano e danzavano nel luminoso fascio bianco.
La parete davanti a noi era rivestita da una scaffalatura di
legno. Notai una bobina di catena, diverse seghe, forbici da
potatura, un’ascia a manico lungo, una scorta di cartelli dell’ente
parco tutti quanti arrugginiti e sporchi. Sopra e in mezzo agli
attrezzi giacevano i resti essiccati di generazioni di ragni e
insetti.
Il fascio di luce continuò a sondare lo spazio. Illuminò un
rastrello e una vanga appoggiati alla parete nord. Una scala alla
sua base.
«Come previsto» disse Ramsey, forse a me. «Un deposito
dell’ente parco.»
Ogni angolo era pieno di ragnatele. In uno c’era un nido
fatiscente. Sotto, rivoletti bianchi macchiavano le pareti e fuscelli
secchi erano sparpagliati a terra.
«Sembra che sia passato un bel po’ da quando qualcuno è stato
qui» disse.
«Così pare.»
Ramsey fece scorrere il raggio della torcia sulle assi del
pavimento.
«Zero tracce di intrusione.»
Mi riferivo all’assenza dei detriti che si rinvenivano solitamente
nelle abitazioni abbandonate: mozziconi, incarti di fast food,
lattine e bottiglie di plastica vuote, preservativi usati. Il lezzo di
feci e urina umane.
«Nessuna» convenne Ramsey.
«Non le sembra strano?»
«Non mi immagino la gente del posto scarpinare fin quaggiù
per sgraffignare vecchi attrezzi. È una faticaccia riportare la roba
fin sulla montagna.»
«Può essere stato una meta per ragazzi in cerca di un posto in
cui passare il tempo?»
«Passare il tempo?»
«Bere birra. Fumare erba.» Mio Dio, ma questo tipo era così
sprovveduto?
«Stessa risposta. Ci sono posti molto più agevoli per fare
casino.»
Fare casino?
«E che mi dice dei forestieri?» chiesi.
«Sono anni che il sentiero non viene segnalato online o inserito
nelle brochure del parco.»
«Lei e io abbiamo scorto il capanno dall’alto.»
«Noi stavamo cercando qualcosa.»
«Non trova sorprendente che nessun escursionista, scalatore,
cacciatore, birdwatcher, cercatore di pipistrelli e funghi o
astronomo sia mai venuto qui ad accamparsi?» aggiunsi in tono
un po’ troppo brusco.
Senza disturbarsi a rispondere, Ramsey fece un altro giro con la
torcia. Aveva ragione, naturalmente. Eppure la cosa non mi dava
pace. Era una questione di fisica elementare. Quando uno spazio
è privo di materia ed energia, qualcosa va a riempire il vuoto.
Nel caso di strutture abbandonate, quel qualcosa è
inevitabilmente l’homo sapiens.
Una gelida folata si insinuò in una crepa e creò un mulinello
intorno a me. Alzai la lampo del giubbotto fino al mento e ficcai
le mani nelle tasche, chiedendomi se quella non fosse la ricerca
più vana e stupida della storia.
O il freddo che sentivo era innescato da forze diverse dal
vento?
«Andiamo.» Un ultimo passaggio della torcia e poi Ramsey la
spense. «Non c’è niente qui.»
Ci stavamo dirigendo verso la porta quando udimmo un
latrato. Uno solo. Forte e deciso.
Ramsey si fermò. Una debole lama di luce grigia gli conferiva
un aspetto cadaverico. «Gunner ha trovato qualcosa.»
Con lo sguardo a trecentosessanta gradi, ci affrettammo a
uscire dal capanno. Gunner non era più nell’angolo.
«Dove sei, ragazzo mio?» chiamò Ramsey.
Il cane diede un solitario guaito, smorzato dagli alberi. Era in
basso rispetto a noi, sulla destra.
Corremmo al ciglio e guardammo nella gola. Il braccio destro
di Ramsey era di nuovo pronto all’azione.
I miei occhi registrarono qualche migliaio di sfumature di
marrone; qua e là vedevo scorci di una pista sulla quale non mi
sarei avventurata neanche con decine d’anni di meno e la sbornia
allegra in corpo.
«Laggiù» indicò Ramsey. «A terra. Lo vede?»
Seguii con lo sguardo il suo dito fino a un guazzabuglio di
alberi che sembravano lo shangai di un gigante. All’inizio non
notai niente se non una catasta di tronchi e rami secchi.
Poi scorsi Gunner, col ventre a terra e il muso puntato verso
qualcosa di azzurro.
«Che roba è?» Strizzai gli occhi e li protessi dalla luce.
«È esattamente quello che si sta chiedendo Gunner.»
Un’immagine balzò fuori da un angolo della mente. Si trattava
di una informazione recente. La accantonai per pensarci in
seguito.
«Possiamo arrivarci?» domandai.
«Mi segua.» La voce di Ramsey tradiva la sua tensione. «Tenga
il peso verso la montagna e metta piedi e mani come faccio io.»
Ramsey scese dalla cengia verso quanto restava della pista e
prese ad avanzare adagio, tenendosi parallelo al pendio. Lo
seguii, col cuore che batteva all’impazzata.
Il terzo gradino della Coda del Diavolo era come i primi due
sotto steroidi. Intenta a imitare ogni presa e respiro di Ramsey,
non pensai al tragitto di ritorno.
Dopo tanto ansimare, sudare e – da parte mia – imprecare,
finalmente compimmo gli ultimi passi. Gunner ci rivolse una
fugace occhiata per poi tornare a concentrarsi sull’odore che
aveva solleticato i suoi recettori olfattivi.
Il cane stava puntando un brandello di plastica azzurra
infilzato su un ramo di pino che il vento aveva sferzato al punto
da renderlo affilato come un coltello. Mi chinai per esaminarlo.
Vidi un segmento di bordo e un piccolo foro tondo nel quale un
tempo era infilato un manico.
«Sembra una parte di un secchio.» Cercai di non avere un tono
deluso.
«Non è per quel motivo che sta in allerta» disse Ramsey.
Raddrizzai la schiena per guardare il cane. Gunner fissava un
sasso leggermente più avanti, incastrato tra le radici divelte di un
albero secco. I suoi occhi, enormi e impazienti, mostravano un
po’ troppo bianco.
Mi avvicinai alla scoperta di Gunner e mi accovacciai.
L’affare sembrava di pietra, ma non lo era. Sebbene solido e
grigio, presentavano ai lati una curvatura simmetrica, mentre la
cima e il fondo erano piatti.
Toccai una delle superfici piatte. Era ruvida e granulosa.
Usando due mani, capovolsi l’oggetto. Pur essendo pesante, lo era
molto meno di quanto mi aspettassi.
Quando vidi la parte inferiore compresi il perché della
mancanza di peso.
Continuai a guardare, perplessa.
Poi, lentamente, un’improbabile eventualità prese forma nella
mente.
Mi misi in ginocchio e cambiai posizione per ottenere una
visuale diversa. Respirando appena, alzai lo sguardo sul
frammento di secchio infilzato.
No.
La mia mente respinse quell’idea.
Sì.
Un freddo di tomba mi travolse.
15

«È cemento.» Il cuore mi batteva forte e veloce.


Ramsey si limitò a guardarmi.
«Il cemento è stato aggiunto al contenuto del secchio e fatto
sedimentare. Il secchio è stato gettato dall’inizio del sentiero,
mirando alla gola. Lungo il volo ha urtato il capanno e si è
crepato.»
Mi accertai che Ramsey seguisse il mio ragionamento. Sì.
«Quando il secchio è atterrato qui infilzandosi sul pino, era già
danneggiato; la plastica è esplosa e il cemento indurito è rotolato
via.»
«Come sa che il secchio ha colpito il capanno?» dissi in tono
assolutamente neutro.
«Gunner ha dato il segnale all’angolo sudest. Ci sono pezzettini
azzurri incastrati tra le assi. Li ho notati prima, ma mi erano
sembrati insignificanti, finora.»
Ramsey ci pensò. «Perché plastica e cemento dovrebbero
interessare a un cane da cadaveri?»
«Non gli interessano.» Indicai quello che era stato il lato
inferiore della massa a forma di secchio. «Dia un’occhiata.»
Ramsey appoggiò un ginocchio a terra e si dispose accanto a
me. Per un momento molto lungo studiò il cemento. Poi disse: «Il
centro è svuotato».
«Sì.»
«E ha la forma di una testa.»
«Mezza testa.»
«Il suddetto contenuto del secchio.»
«Sì.»
«Qualcuno ha messo una testa mozzata in un secchio, ci ha
aggiunto il cemento e poi ha buttato tutto nella gola» riassunse in
modo inespressivo.
Annuii, anche se lui teneva ancora lo sguardo rivolto verso il
basso.
«Allora la testa dov’è?»
«Il cemento è saltato fuori dal secchio e in qualche modo si è
spaccato a metà. Forse l’acqua è entrata in una crepa e si è
congelata. O può essere accaduto qualcos’altro. Una volta esposta
agli elementi, la testa è stata compromessa. I saprofagi hanno
fiutato la decomposizione e organizzato un picnic.»
Ramsey si accigliò, ma non espresse disapprovazione per il mio
modo di dire.
«Il cemento può trattenere tracce di materiale organico. Pelle,
capelli, sangue.» O anche materia cerebrale. Omisi questo dato.
«Che potrebbero contenere DNA?» Ramsey incrociò
all’improvviso il mio sguardo.
Agitai una mano. Forse sì, forse no.
Il volto di Ramsey rimase impassibile, ma potevo quasi vedere i
suoi ragionamenti muoversi come ingranaggi dietro gli occhi. «La
testa ha lasciato un’impronta negativa.»
«Sì. Ha creato un calco.»
«Come quelli usati per realizzare le maschere mortuarie.»
«Un concetto simile.»
«Usando un calco potrebbe creare una forma tridimensionale
della testa e della faccia della vittima.» Stava pensando a voce
alta. «Un busto.»
«Ci si può tentare. Ma questa è solo la metà destra.» Indicai il
cemento e poi la foresta circostante. «La metà sinistra è da
qualche parte là fuori.»
«Bene, allora.» Ramsey si alzò per scrutare il fianco della
montagna. «Dobbiamo trovarla, dannazione.»
Mi alzai anch’io, suscitando la protesta delle ginocchia. Mi
spazzolai la terra dalle mani e dai jeans.
Per poco non feci un sorriso.
Dunque il vice perfettino sapeva imprecare, dopo tutto.
Senza preavviso, qualcosa mi fece rizzare la peluria sulle
braccia e sul collo. Dapprima non proprio un rumore quanto
un’anomalia nell’aria. Mi fermai e mi misi in ascolto.
Prima di riuscire a identificare cosa aveva fatto scattare il
sistema d’allarme dei miei neuroni, una forza mi sbalzò da un
lato a terra. L’aria esplose fuori dai miei polmoni, che si
contrassero spasmodici.
Mentre lottavo per catturare un respiro, il suono si concretizzò
in un cupo brontolio che crebbe di volume. Si aggiunse il forte
schiocco di rami secchi che si spezzavano.
Mio Dio!
Qualcosa di grosso stava slittando e saltando dritto verso di
noi! Portandomi le ginocchia al petto, abbassai il mento e mi
gettai le braccia sopra alla testa.
Appena in tempo. Nel giro di qualche istante, una massa
pesante colpì la catasta di alberi secchi alle mie spalle. Terra e
corteccia saltarono in aria per poi ricadere a pioggia. Udii un
sibilo, un tonfo e poi l’oggetto continuò a ruzzolare giù per la
scarpata.
Con lo stomaco in caduta libera, rimasi in posizione fetale,
mentre i battiti del cuore mi rimbombavano nelle orecchie.
«Tutto bene?» La voce era vicina al mio orecchio e al tempo
stesso lontana un milione di chilometri.
Non riuscivo a muovermi. Non riuscivo a respirare.
Di nuovo la voce. Preoccupata.
Dieci battiti impazziti e i miei polmoni si rilassarono di un
micron.
Inspirai. Inspirai di nuovo, più a fondo.
L’ossigeno mi fu d’aiuto. Il tremore negli arti iniziò a placarsi.
«È stata colpita?»
Non mi fidavo ancora della mia voce per rispondere.
Abbassate le braccia, mi misi carponi e mi passai un polso sulla
bocca. Sputai terra e fango.
«È ferita?»
Scossi la testa. Avevo ancora la mente intorpidita dal panico.
«Ne è sicura?»
«Sì.»
Lanciai un’occhiata di traverso. Ramsey era in ginocchio, il
viso filigranato dall’ombra dei rami in alto. Terra e flora morta
gli decoravano giubbotto e berretto.
«Che diavolo era?» dissi, mettendomi seduta.
«Direi un masso. Che ora è in fondo alla gola.»
«Come è accaduto?»
Prima che Ramsey potesse rispondere, Gunner ricomparve.
«E tu dov’eri, palla di pelo?» Ancora scossa, mi affidai
all’umorismo.
Il cane inclinò il capo, ma non replicò.
Ramsey si alzò in piedi e mi tese una mano. La presi e mi
sollevai. Verificai la stabilità delle gambe. Discreta.
«Ce la fa ad arrampicarsi?» Ramsey sembrava sinceramente
preoccupato.
Annuii. Non ero sicura di farcela.
«Sì?»
«Sì.» Indicai col pollice i frammenti di secchio e cemento.
«E…?»
«Ci penso io.»
La risalita durò quasi quaranta minuti. Ero molto cauta ed
esitante. Potete immaginare. Tralascerò i dettagli. Una volta in
cima, Ramsey guidò fino a quando entrambi i telefoni captarono
il segnale della rete. Di ritorno ai prodigi della comunicazione
senza fili, telefonai all’MCME. Ci vollero tre tentativi. Ancora
carica di adrenalina, continuavo a mancare i tasti.
Come previsto, Larabee mi rimpallò verso il capo medico legale
a Raleigh. Le direttive furono le stesse dell’altra volta.
Raccogliere il materiale di piccole dimensioni e portarlo a
Charlotte. Se c’era roba grossa, richiedere un furgone.
Mentre stavamo parlando, una chiamata in arrivo illuminò lo
schermo. Riconobbi il numero. Hazel Strike. La ignorai.
Ramsey chiamò il suo capo. Lo informò sul secchio e sul
cemento. E sul masso.
Lo sceriffo Kermit Firth, a differenza del suo predecessore, era
un vero investigatore criminale. Firth disse che avrebbe fatto una
segnalazione di cortesia alla contea di Burke, ma era convinto
che il suo dipartimento fosse maggiormente in grado di gestire la
situazione. La squadra di soccorso di Avery avrebbe perlustrato la
montagna e i tecnici si sarebbero occupati di ogni prova
recuperata.
Ascoltando Ramsey che mi illustrava il piano avvertii un’ombra
di ostilità giurisdizionale. Non ne ero sicura, né mi importava.
Quando rientrammo alla Coda del Diavolo il mio stomaco era
tornato a posto e stava brontolando con decisione. Mi offrii di
condividere i panini e il caffè. Ramsey accettò e aggiunse delle
barrette Twix.
Ci recammo all’inizio del sentiero, da dove potevamo vedere il
capanno. Anche se ormai era passato fin troppo tempo per
preoccuparsi di preservare la scena del crimine, l’istinto da
poliziotto è duro a morire.
Mangiammo in silenzio senza perdere d’occhio la piccola
cengia in ombra in basso, la gola e le montagne in lontananza
avvolte da una foschia simile a fumo. Gunner rimase al fianco di
Ramsey senza implorare, ma con l’aria speranzosa e vigile.
Stavo per mettere gli incarti nello zaino osservando pigramente
l’ambiente circostante, quando la mia mano si bloccò.
«Mio Dio!» Un brusco respiro.
Mi rimisi in piedi e andai al punto sul ciglio del promontorio
dove quella mattina io e Ramsey ci eravamo fermati. Il masso sul
quale avevo messo il piede non c’era più. Al suo posto si vedeva
uno squarcio nella terra, scuro e umido, come una ferita fresca
sul bordo di un labbro. Profondi solchi segnavano le pareti dello
squarcio. Il perimetro era bordato da terra rivoltata di fresco.
Nel sentire Ramsey che si avvicinava, mi spostai da un lato. Lui
studiò il buco, i segni, la spolverata di fango. Quando
incrociarono i miei, i suoi occhi erano scuri di rabbia.
«Qualcuno si è dato da fare per smuovere quel piccoletto.»
«Già.»
«Il fatto che fossimo di sotto non è da considerare una
coincidenza probabile.»
«No.»
«Quell’affare poteva ucciderci…»
Il pensiero di Ramsey fu interrotto dal ronzio di motori.
Entrambi ci girammo di scatto verso la strada. Il vicesceriffo
richiamò il cane dandosi uno schiaffo sulla coscia. Gunner ci
raggiunse e ci mettemmo al riparo tra gli alberi.
Il ronzio si fece più forte e poi si interruppe bruscamente.
Rumore di sportelli che sbattevano. Voci.
Aspettammo.
Dopo qualche minuto, sei persone apparvero cariche di
attrezzature. Quattro indossavano giubbotti che le identificavano
come membri della squadra di soccorso. Due erano in borghese.
Con loro c’era un pastore tedesco e una specie di border collie.
Gunner osservò i cani con sospetto, ma restò con noi mentre
uscivamo allo scoperto.
Due dei tizi col giubbotto pesavano forse una cinquantina di
chili messi insieme. Uno era prossimo alla trentina, con l’aspetto
da eterno studente. L’altro aveva qualche anno in più, i capelli
rasati e l’orecchino. Il terzo era biondo, con la pelle chiara e –
sospettavo – esperto in fatto di rossori. Il membro femminile
della squadra aveva passato un sacco di tempo in palestra. Occhi
grandi, frangia unta, di età inferiore ai trent’anni.
Entrambi i tecnici della Scientifica erano bassi e atletici e,
quando si infilarono nelle tute di Tyvek col cappuccio, furono
difficili da distinguere.
Nessuno di loro sorrise. Era facile d’altronde indovinare
l’origine del dispiacere. Erano stati trascinati via dai loro grossi
schermi e dalla partita di basket del secolo.
Mentre la squadra si agganciava il complicato
equipaggiamento che comprendeva cinture e corde, mi scusai per
aver distolto tutti quanti dalla partita. I tecnici non furono
proprio scontrosi, ma quasi.
Mostrai loro il calco di cemento e il secchio e descrissi il
capanno. Li informai delle parti anatomiche ritrovate presso gli
altri due belvedere e sulla teoria secondo cui la vittima, della
quale non pronunciai il nome, poteva essere residente nella
contea di Avery.
Suggerii un possibile intervallo postmortem di tre o quattro
anni e li avvertii che eventuali resti sarebbero stati frammentari.
Nessuno commise l’errore di chiedere perché, dopo un intervallo
così lungo, la ricerca fosse così urgente da doversi compiere
proprio quel giorno.
Alle due e mezza, i cercatori erano dall’altro lato del ciglio,
compresi Ramsey e Gunner. Il caso voleva che il vicesceriffo fosse
un membro dell’AMGA, l’associazione americana delle guide
montane.
Su consiglio di Ramsey, rimasi all’inizio del sentiero insieme ai
tecnici della Scientifica e con in mano una radio palmare. Era la
decisione più logica. Non ho doti di scalatrice, ma sono una forza
sulla scena del crimine.
Scattammo foto della cavità lasciata dal masso e, con una
miscela di gesso odontoiatrico, ottenemmo un calco dei solchi
lasciati nel fango. Sarebbero forse stati utili se si fosse rinvenuto
un attrezzo sospetto. Ipotizzavo si trattasse di un piede di porco.
Un’idea piuttosto vaga.
Mentre il gesso si asciugava, i tecnici passarono al capanno.
Avrebbero cercato impronte, raccolto i frammenti di secchio,
scattato foto e girato video. Nessuno era ottimista.
Una volta imbustato il calco di gesso, mi sedetti con la schiena
appoggiata a un albero e le ginocchia sollevate. Dopo meno di
un’ora i tecnici tornarono, si sedettero sotto un pino a cinque
metri di distanza da me e passarono il tempo fumando e
chiacchierando a bassa voce mentre la squadra di soccorso
continuava il suo lavoro di sotto.
Per tutto il pomeriggio ascoltai le voci che salivano dalla gola.
Domande e istruzioni urlate, repliche, perlopiù troppo sommesse
per distinguere le parole.
Non sono molto brava a starmene in panchina. Mi innervosisco
e ho difficoltà a non muovermi. Soprattutto se l’azione si svolge
proprio davanti a me.
Continuai ad alzarmi per fare brevi camminate. Provai
inutilmente la radio. Pensai. Alle tasse e all’Agenzia delle entrate.
A mamma e al cancro. Alla reale origine del nome Opie Taylor.
Perlopiù a Ryan e alla sua impossibile proposta.
Ero già stata sposata una volta. Gli anelli, i fiori e il pizzo
bianco. Pete e io avevamo passato decenni insieme prima del suo
clamoroso tradimento. Ma il tempo guarisce le ferite. Alla fine mi
ero concessa di amare di nuovo. E poi Andrew Ryan mi aveva
spezzato il cuore un’altra volta.
Ryan non si era mai sposato. Perché aveva deciso di farlo
adesso? Perché con me? Era cambiato? È mai possibile cambiare?
Avevo giurato di non pronunciare mai più promesse
matrimoniali. Era saggio venire meno a quell’impegno?
Ancora e ancora quel pensiero. Come un loop nella mente.
A un certo punto, per distrarmi, mi misi a scorrere le foto sul
mio iPhone. Sapevo che era sciocco, ma lo feci comunque. Al
diavolo. Non c’era campo. Se la batteria si esauriva, potevo usare
la radio.
Guardai i volti che non vedevo da troppo tempo. I sorrisi che
una volta avevo condiviso. La felicità di cui negli anni avevo
goduto.
Mamma, tutta agghindata in un vestito di Gucci. Mia sorella,
Harry, con la voluminosa acconciatura alla texana e un cuore
straordinariamente generoso. Mia figlia, Katy, in tenuta da
combattimento dell’esercito dalla testa ai piedi.
Ryan che mi teneva un braccio intorno alle spalle a Montréal.
Un selfie. Conoscevo il suo maglione verde infeltrito così bene
che mi sembrava di sentire l’odore della lana.
Quella foto mi colpì dritta allo stomaco. Perché ero afferrata da
una improvvisa fitta di dolore? Si trattava di un senso di perdita?
O era euforia? Gesù, cos’era che stavo provando?
Presi una decisione. Al ritorno nella civiltà, avrei prenotato un
volo per Montréal. Di sicuro potevo ritagliarmi qualche giorno. E
anche una breve visita avrebbe reso felice Ryan. Diamine,
avrebbe reso felice me. A meno che la pressione non fosse stata
troppo forte. O l’attrito troppo stressante.
A meno che… A meno che… Più pensavo al matrimonio, più
sentivo che mi sarebbe esplosa la testa.
Intorno alle quattro comparvero le nuvole, innocui ciuffi di
bianco zucchero filato che striavano l’azzurro. Durante le due ore
seguenti, i ciuffi si gonfiarono, si scurirono e si trasformarono in
minacciose nuvole temporalesche.
Alle sette piovigginava e la sera stava calando in fretta. La
squadra terminò il lavoro.
I cercatori avevano fatto del loro meglio. Avevano trovato altri
pezzi del secchio e una manciata di frammenti cranici. Gunner
aveva ottenuto il risultato più importante: la metà mancante del
calco di cemento.
Mentre la squadra si liberava dell’abbondante
equipaggiamento, i tecnici scattarono foto della scarna raccolta
che avevo disposto su una tela cerata. Loro scattarono, io
imbustai ed etichettai. Promisi annotazioni e ulteriori foto. Poi,
ancora afflitti dalla perdita della partita, se ne andarono ognuno
per conto proprio.
Quando Ramsey, Gunner e io salimmo sul SUV, pioveva ormai
a dirotto. Non una pioggia violenta, ma costante e fredda.
Cercai di reggermi forte mentre procedevamo a scossoni lungo
la strada d’accesso alla volta di Wiseman’s View. Passarono
diversi minuti prima che Ramsey parlasse.
«Una lunga giornata.»
«Già» convenni.
«Sarà una faticaccia guidare fino a Charlotte.»
«Diciamo che non muoio dalla voglia.»
Nessuna replica.
Esausta, chiusi gli occhi. No. Meglio restare sveglia. Li aprii.
Guardai le gocce brillare alla luce dei fari e poi sparire nel buio.
Dopo un po’, Ramsey ruppe il silenzio. «Ecco cosa ho pensato.
Domani è domenica. Nessuno si metterà all’opera prima di
lunedì.»
Sterzò per evitare una buca, forse una piccola creatura
notturna. Mi girai verso di lui. Teneva lo sguardo dritto davanti a
sé. Aspettai.
«C’è un grazioso bed & breakfast non lontano dal quartier
generale. Che ne dice di restare quassù per stanotte? Domani
facciamo una bella colazione di montagna e poi una visita a
sorpresa a mamma e papà Teague dopo la funzione della
domenica.»
Mentre riflettevo, il telefono trovò uno spiraglio di campo ed
emise un bip. Controllai la segreteria. Hazel Strike aveva assoluto
bisogno di parlarmi. Anche se il tono della sua voce sembrava
insistente, ignorai il messaggio.
Avevo lasciato al gatto cibo in abbondanza. Potevo affidare il
compito della colazione a un vicino.
Chiamai Joe Hawkins al suo numero privato. Mi scusai per
avergli telefonato di sabato sera. Gli spiegai cosa volevo da lui.
Le tasse? Al diavolo.
Rimasi.
16

Mi svegliai all’improvviso, senza capire dove fossi.


Poi ricordai.
Si dava il caso che il «grazioso» bed & breakfast appartenesse
alla zia di Ramsey, una signora settantenne con un istinto da
chioccia tale da far impallidire la fondatrice della Croce rossa
americana, Clara Barton. E malgrado i capelli candidi,
l’accappatoio verde lime e pantofole a forma di coccodrillo,
ostentava modi da persona che non vuole essere in nessun modo
contrariata.
Eravamo arrivati alle otto, fradici, sporchi e infreddoliti.
Mentre io facevo una doccia e Ramsey si dava una ripulita e si
cambiava la camicia, zia Ruby aveva preparato la sua personale
versione di uno spuntino leggero. Avanzi di polpettone, stinco di
prosciutto e fagioli, barbabietole sott’aceto, maccheroni al
formaggio, crostata alle pesche e gelato. Ero priva di sensi già
prima di posare la testa sul cuscino.
Il mattino dopo rimasi a letto un momento, ascoltando il
cinguettio degli uccelli e guardando l’alba mettere in luce i
dettagli della stanza. Carta da parati a roselline. Acri di tessuto a
quadretti. Arredi di pino così laccati che sembravano di plastica.
Fuori, un gallo annunciò risoluto il sorgere del sole. Da qualche
parte in casa una porta si chiuse. Un sommesso cigolio e poi
l’acqua prese a gocciolare dentro vecchie tubature.
Girai la testa sul cuscino per guardare l’orologio sul comodino,
un affare rotondo sormontato da due campanelle con in mezzo
un minuscolo martello. Entrambe le sinuose lancette erano
puntate dritte in basso.
Scostai la trapunta, misi i piedi sul pavimento e, con le
mutandine e la t-shirt con cui avevo dormito, corsi in punta di
piedi alla sedia a dondolo imbottita che avevo posizionato
davanti a un calorifero. I jeans si erano asciugati sulle ginocchia e
sulla parte posteriore. Li infilai, facendoli seguire dallo stesso
reggiseno, lo stesso maglione, le stesse calze e gli scarponcini con
cui ero partita da casa ventiquattr’ore prima.
Il bagno, che si trovava due porte oltre la mia stanza, in fondo
a un corridoio fiorito, era misericordiosamente vuoto. C’era un
lavabo con piedistallo, piastrelle bianche e nere e una vasca con
una tenda di plastica decorata con granchi e delfini.
Sul lavabo erano appoggiati uno spazzolino incellofanato e un
tubetto di dentifricio. Mi lavai i denti, legai i capelli in una coda
e andai di sotto.
La sala da pranzo era oltre un salottino che si manteneva fedele
al tema del piano di sopra. Al centro c’era un lungo tavolo di
legno affiancato da panche. Lungo le pareti erano disposti dei
tavolini per due persone. Ramsey era seduto a uno di essi, già
all’opera con waffles, bacon e uova strapazzate.
Quando mi avvicinai, il vicesceriffo accennò ad alzarsi come
fanno tipicamente gli uomini in presenza di membri del sesso
opposto. Avevo a stento posato il sedere sulla sedia quando zia
Ruby apparve con una caffettiera di acciaio inossidabile.
Accappatoio e pantofole erano stati rimpiazzati da un vestito a
fiori, cardigan rosa e scarpe comode.
«Buongiorno, signorina.» La donna sollevò la caffettiera.
«Grazie.» Le avvicinai la mia tazza.
«Ha dormito bene?»
«Sì.»
«Pancake o waffle?»
«Non ho proprio voglia di…»
«Non può iniziare la giornata senza cibo nello stomaco.»
«Pancake.»
«Salsicce, bacon o tutti e due?»
«Salsicce.»
«Arrivano subito.»
«Inutile discutere» disse Ramsey quando se ne fu andata.
«Oh, ne so qualcosa.»
Ramsey assunse un’aria interessata. Mai e poi mai avrei parlato
di mamma alle sette del mattino.
«Qual è il piano?» chiesi.
«La prima funzione comincia alle otto. Saremo fuori ad
aspettare, quando sarà finita.»
«È sicuro che i Teague ci saranno?»
«Sì.»
«Perché non andiamo semplicemente a casa loro?»
«Vado matto per le sorprese.»
«Vuole coglierli alla sprovvista.»
«Qualcosa del genere.»
Per un po’ Ramsey mangiò e io sorseggiai il caffè. Stavo per
chiedergli se avesse scoperto altro riguardo alla Chiesa quando
zia Ruby tornò con cibo sufficiente a sfamare una piccola
nazione.
Mio malgrado, spazzolai tutti e tre i pancake, le uova non
richieste e due delle cinque salsicce, oltre a una focaccina alla
zucca.
Ero impegnata col secondo caffè quando sulla soglia comparve
una coppia. L’uomo aveva una treccia grigia che gli scendeva
sulla schiena. La donna, più giovane di almeno dieci anni, era
alta e magra, con i capelli cortissimi. Entrambi portavano
scarponcini, pantaloni cargo e bandane intorno al collo.
Immaginai che fossero escursionisti.
I due stavano parlando in tono sommesso. Nel vedere
l’uniforme di Ramsey la loro conversazione si interruppe
bruscamente. Dopo una rapida occhiata d’ispezione andarono a
sedersi a un tavolo d’angolo, il più lontano dal nostro.
Fissai Ramsey per vedere se l’aveva notato. Con un
impercettibile cenno del capo mi comunicò che se n’era accorto.
Ancora una volta, zia Ruby bloccò la domanda che stavo per
fare. Ci rivolse un’occhiata raggiante da dietro le lenti macchiate
e agitò la caffettiera.
«Basta caffè, grazie.»
«Giusto un goccio» disse Ramsey.
Le labbra rugose emisero un suono simile all’aria che esplode
da un pistone. Poi, rivolta a me: «Zeb dice che lei è un dottore di
Charlotte».
«È vero.»
«Mi ha anche raccontato che si trova qui per ragioni
strettamente professionali.»
«Esatto.»
Ramsey prese due banconote da dieci dal portafogli e le posò
sul tavolo. Zia Ruby lo ignorò.
«È un bravo ragazzo.»
È vicino ai cinquanta, pensai.
«Zeb le ha detto che io sono il motivo per cui ha lasciato la
Georgia?»
«No.»
«Mi sono rotta l’anca.» Con la mano libera, si assestò un
colpetto sull’articolazione in questione. «È venuto per occuparsi
di me. Non se n’è più andato.»
«Sono certa che sia contenta di averlo vicino.»
«Ho solo lui al mondo. Vorrei solo che si trovasse una nuova
moglie. L’ultima non era così bella.»
I miei occhi guizzarono su Ramsey. Un rossore gli stava
salendo su per il collo, coprendogli le guance.
Ignara dell’imbarazzo del nipote, forse non curandosene
affatto, zia Ruby continuò imperterrita.
«Adesso non pensi che io sia un’illusa vecchia sciocca. So che il
motivo per cui Zeb è rimasto era quel matrimonio disastroso.
Oltre che il pasticcio lasciato dallo sceriffo precedente. Be’, ora è
morto… Quello nuovo sembra un po’ più sveglio. Insomma, che
cavolata…» Schiaffeggiò l’aria come per scacciare una mosca.
«L’avvicendamento ha liberato un posto. Perciò… eccolo qui.»
Ramsey si alzò, chiaramente imbarazzato. Lo imitai e andai a
prendere le mie cose. Al momento di allontanarci, zia Ruby fu
irremovibile nel rifiutare il pagamento per la mia stanza.
La ringraziai per la generosità. Poi, mentre Ramsey prendeva il
SUV e, sospettavo, controllava la targa del veicolo appartenente
agli escursionisti, Ruby e io facemmo due chiacchiere.
«Oggi sembra un po’ più caldo.» Le conversazioni sul tempo
sono sempre un terreno sicuro.
«La primavera sta arrivando. È certo.» Pausa. «Allora, dove
siete diretti?»
«In chiesa.» Anche questo era sicuro.
Gli occhi acquosi si socchiusero dietro gli occhiali picchiettati.
«Non avrei detto che Zeb fosse credente.»
«È per lavoro.»
«Quello di lui o il suo?»
«Di entrambi.»
«Quale chiesa?»
«La Santità del Signore Gesù.»
Ancora una volta, il beffardo sbuffo d’aria. Aspettai.
«Ha fatto tutta la strada fin quassù per andare a messa con i
pazzi?»
«Cosa intende?»
«Quella gente è fuori di testa. Svitati. Suonati.» La vecchia
ragazza non usava giri di parole.
«Può spiegarsi meglio?»
«Una volta conoscevo una di loro. Una brava persona fino a
quando non è finita nelle mani di quel branco di bigotti. L’hanno
fatta impazzire.»
«Mi spieghi meglio cosa intende per “impazzire”?»
«Da dove comincio? Ce l’hanno a morte sia con il papa che con
il presidente. A dire la verità, probabilmente sono contrari anche
alla penicillina e alla pizza.» Il tono solenne suggeriva opinioni
forti sull’argomento. «I parrocchiani devono tenere la bocca
cucita su tutto. Ma la mia amica, ex amica, ha rivelato come la
pensano.»
Alcune delle sue parole innescarono un collegamento nella mia
mente.
«Aspetti. Sta dicendo che il gruppo è cattolico?»
«Non sono sicura che il Vaticano rivendicherebbe quella gente.
Ma sì, sono una specie di scheggia impazzita. Carismatici,
pentecostali o come diamine si chiamano… Patiti di guarigioni
miracolose, incontri di preghiera e discorsi in lingue strane.»
Stavo per approfondire, quando Ramsey arrivò con l’auto. Zia
Ruby mi accompagnò alla porta e la tenne aperta con un braccio
da spaventapasseri. La ringraziai ancora e mi affrettai a uscire.
«Voi due fate attenzione, là fuori» starnazzò alle mie spalle.
«Di cosa stavate parlando?» domandò Ramsey mentre mi
agganciavo la cintura.
Feci un riassunto della conversazione che avevo appena
intrattenuto con sua zia.
Scosse adagio la testa. «A volte tende a comportarsi come un
pitbull.»
La sera prima, al buio, la pensione di Ruby non era stata altro
che un lungo vialetto di ghiaia che terminava davanti alla luce
gialla di una veranda. Adesso che c’era luce mi guardai intorno
incuriosita.
Il bed & breakfast era una costruzione a due piani dipinta di
verde, con le rifiniture color lavanda; una vecchia fattoria
indubbiamente trattata con meno estro nella sua vita precedente.
Una veranda, che avvolgeva la parte anteriore e il lato sinistro, si
affacciava su un prato, adesso marrone e molliccio per il disgelo.
Un piccolo cartello indicava il nome della casa: Cedar Creek
Inn. Durante la notte le nuvole erano scomparse e il sole del
mattino illuminava il tetto e le finestre del Cedar Creek.
Il tragitto durò quindici minuti. Ero felice di non doverlo
percorrere da sola. Il luogo verso cui eravamo diretti era immerso
in una piccola valle. Per raggiungerlo erano necessarie svariate
svolte a destra e a sinistra dalla strada asfaltata. Non vidi un solo
cartello per tutto il viaggio. Non incontrammo nessun altro
veicolo.
Ramsey conosceva la strada. E calcolò con precisione il
momento del nostro arrivo.
La chiesa della Santità del Signore Gesù si ergeva dando le
spalle alla montagna. Alla sua sinistra, uno pneumatico
dondolava dal ramo di un’enorme quercia. Vicino all’albero
c’erano tavoli da picnic disposti in quattro file da tre.
Una trentina di auto e pickup erano fermi nel parcheggio
asfaltato davanti alla chiesa. Ramsey raggiunse gli altri veicoli e
spense il motore. Entrambi osservammo l’insieme, studiandolo.
L’edificio principale era piccolo. Forse era stato costruito
appositamente per il culto o forse in precedenza aveva avuto una
funzione diversa. Nelle pareti esterne, dipinte di bianco, si
aprivano finestre semplici, senza eleganti strutture a graticcio né
vetri colorati.
Due gradini conducevano a un sagrato che sembrava lavato a
fondo tutti i giorni. Sulle doppie porte c’era una coppia di
identiche croci in ferro battuto. Sopra le porte, una semplice
croce di legno si ergeva dalla sommità del tetto. Niente campane
né campanile.
Un fabbricato annesso si trovava a una ventina di metri
dall’angolo posteriore destro della chiesa, con uguali doppie
porte e stesso colore delle pareti. Un sentiero di ghiaia si
biforcava dalla strada d’accesso verso la parte posteriore.
Abbassai il finestrino. Dall’interno sentivo giungere il suono
smorzato di un piano suonato con entusiasmo. Inni
gorgheggianti, tipici delle piccole congregazioni.
Tesi le orecchie. Riconobbi un paio di frasi in latino. Il
racconto di Ruby sembrava veritiero.
Ramsey iniziò a tamburellare col pollice sul volante.
«Non ci vorrà molto.»
La mia osservazione suscitò un’occhiata interrogativa.
«Stanno cantando l’Agnus Dei.» L’Agnello di Dio. «La messa
finirà presto.»
«È cattolica?»
Mi limitai a una vaga alzata di spalle.
A messa sei giorni a settimana. Col mio maglioncino verde,
sorvegliata a vista da suore naziste. Con il vestito della domenica,
fiancheggiata da mamma e papà. Quei ricordi continuano a
infilarsi nei miei sogni. Il profumo dolce dell’incenso fumante.
L’organo, cupo e monotono. Il legno duro sotto le ossute
ginocchia infantili.
Dopo dieci minuti di osservazione, un prete e un chierichetto
uscirono in completa tenuta ecclesiastica. Insieme, con le tonache
che si gonfiavano come biancheria stesa ad asciugare,
spalancarono le porte e le fissarono a lucenti anelli di metallo
inseriti nella facciata.
Il ragazzo sparì di nuovo all’interno, poi uno dopo l’altro, due
alla volta, o in gruppi famigliari di varie dimensioni, i fedeli
uscirono. Ogni maschio con più di dieci anni era vestito in
completo e cravatta, ogni donna aveva il cappello o il velo.
Il sacerdote strinse la mano agli uomini, benedì donne e
bambini con un buffetto sulla spalla o sulla testa. Un’ora di
angosciante segregazione, eppure tutti i bambini restavano con i
genitori. Nessuno sfrecciò all’altalena, né giocò a rincorrersi, né
fece la ruota o si mise a correre con le braccia aperte come un
aeroplano.
Il corteo in uscita si stava assottigliando quando il pollice di
Ramsey si fermò.
Il prete stava parlando con una coppia che sembrava sulla
cinquantina. Lui aveva le sembianze di un bulldog. La donna era
più alta, e lo sembrava ancora di più per via del suo copricapo.
Vestivano entrambi di nero.
«Comincia lo spettacolo» disse piano Ramsey.
Mi sganciai la cintura.
«Meglio che parli io.»
«Mi sta bene» dissi.
Ramsey scese dall’auto e iniziò a farsi largo tra i fedeli diretti
alle loro auto. Ignorando le occhiate diffidenti e il brusio di
disapprovazione intorno a me, mi affrettai a stargli dietro.
Il sacerdote era di altezza media e magro come uno
spaventapasseri. Capelli neri impomatati e pettinati all’indietro,
guance segnate dall’acne, occhi indaco. Scorgendoci, abbandonò
la conversazione per osservare il nostro arrivo. I Teague si
voltarono per vedere cosa li avesse privati dell’attenzione del loro
pastore.
Nel riconoscere Ramsey o la sua uniforme, la faccia di John si
fece di marmo. Istintivamente o meno, raddrizzò le spalle e
irrigidì le gambe. Un ragazzino che si preparava a una doppia
sfida.
Senza perderci di vista, il prete si sporse per dirgli qualcosa che
non riuscii a sentire. John annuì, ma rimase teso.
«Buona domenica, vicesceriffo.» La voce era profonda e ricca
come miele su un toast. «Cosa posso fare per lei in questa bella
giornata?»
«Buongiorno, signore. Vorremmo scambiare due parole col
signore e la signora Teague.» Un sorriso cordiale, da semplice
sceriffo di campagna che stava facendo il suo lavoro. «Ci vorrà
solo un minuto e poi ce ne andremo.»
«Certo, certo.» Il prete sorrise e indicò col braccio la chiesa
dietro di sé. La veste che sventolava mi fece pensare a un
gigantesco uccello verde. «Ma nella casa del Signore? Nel giorno
del Signore?»
«E lei sarebbe…» Ramsey stava ancora sorridendo, ma con
meno cordialità.
«Padre Granger Hoke. Padre G per i miei fedeli.»
«Il signore e la signora Teague conoscono il motivo per cui
siamo qui.»
«Posso chiedere di cosa si tratta?» Ci fu un altro sfoggio di
metri di dentizione sacerdotale.
Ramsey puntò gli occhi su John, che ricambiò lo sguardo.
Da vicino, vidi che Teague aveva un muso da topo, con la
mascella poco definita e la carnagione rubiconda. Sua moglie era
scialba e dal colore vago, il tipo che incroci per strada e in
seguito non sei in grado di descrivere. Anche se teneva gli occhi
bassi, il tremito di una palpebra inferiore creava tenui ombre
sulla sua guancia.
Il sorriso di Hoke oscillò tra Ramsey e la coppia al suo fianco,
dapprima reggendo la situazione tesa, ma poi perdendo terreno.
«Prima quella vecchia befana impicciona, adesso lei. Queste
sono molestie.» La voce di John era bassa e rauca. Quella che
avevo sentito nella registrazione? Rallentai il respiro, ansiosa di
cogliere ogni sfumatura.
«Befana?» chiese Ramsey.
«Quella con i capelli da clown. Quella donna ha bisogno di un
buon…»
«Hazel Strike?» La domanda venne fuori prima che io riuscissi
a trattenermi. «Quand’è stata l’ultima volta che ha parlato con
lei?»
Teague guardò nella mia direzione, ma non mi degnò di alcuna
risposta.
«Quando le ragazze scompaiono, prendiamo la situazione sul
serio.» Ramsey tornò al punto.
Hoke serrò le labbra e inarcò leggermente la fronte. Sorpreso?
Guardingo? Le sue mani si ricongiunsero in una forma a V
capovolta davanti all’inguine.
«Nessuno è scomparso» ringhiò Teague.
«Ha avuto notizie di Cora?»
Un istante, poi: «Proverbi 30:17». Il tono di Teague era basso e
minaccioso. «L’occhio che guarda con scherno il padre e
disprezza l’obbedienza alla madre sia cavato dai corvi della valle
e divorato dagli aquilotti.»
«Suvvia, John, non dobbiamo dimenticare.» Hoke appoggiò
una mano con fare paterno sulla spalla di John. «Il nostro buon
Signore Gesù predica anche il perdono.»
«Va tutto bene, padre?»
Hoke e Teague si voltarono. Ramsey e io guardammo dietro di
loro.
Un uomo era apparso sulla soglia aperta. Poteva avere circa
trent’anni ed era molto alto, con le spalle larghe che spiovevano
da un collo possente e la stessa pelle arrossata e i tratti da
roditore di Teague.
«Owen Lee, prego, unisciti a noi.» Ancora una volta, il sorriso e
il broccato sventolante.
Owen Lee venne avanti sul sagrato. Si fermò. Incrociò le
braccia e ci osservò, inespressivo.
«Owen Lee è il figlio maggiore di John e Fatima» spiegò Hoke.
«Oltre che un prezioso membro della nostra parrocchia. Ogni
giorno ringrazio Dio per il sostegno di Owen Lee.»
Ramsey rivolse un cenno del capo al più giovane e tornò a
concentrarsi sul più vecchio.
«Che mi dite di Cora?» Il tono del vicesceriffo adesso era puro
acciaio.
«Ebrei 13:4.» Gli occhi di Teague, fissi su Ramsey, ardevano di
un fanatico fervore. Forse di odio. «I fornicatori e gli adulteri
saranno giudicati da Dio.»
Fatima trasalì, come colpita da una scarica elettrica. Owen Lee
rimase impassibile. Il tizio aveva un’aria vagamente familiare.
Allo stesso modo in cui una carcassa di manzo può avere un’aria
vagamente familiare. Forse la sua stazza le faceva venire in
mente Pete? Oppure il secondo marito di Harry, quello che
chiamavano Hulk?
«Dov’è sua figlia, signore?»
«È fuggita per servire la carne. Per fornicare con un uomo che
del demonio ha…»
«E chi sarebbe questa persona?»
Teague guardò furtivo Hoke, il quale fece un cenno d’assenso.
«Mason Gulley.» Un nome uscito dalla sua bocca come uno
sputo, come un sapore amaro da espellere.
«Mason è un altro dei nostri parrocchiani» aggiunse Hoke. «O
lo era, fino a poco tempo fa.»
«Quanto tempo fa?»
Il sacerdote proruppe in una breve risata nervosa. «Povero me,
vicesceriffo. Dovrei controllare i miei…»
«Più o meno.»
Dopo aver riflettuto, Hoke disse: «Mason ha collaborato al
nostro progetto di ristrutturazione. Non a tutte le fasi, ma almeno
a quella conclusiva. Abbiamo verniciato, apportato migliorie al
centro per le famiglie, sostituito i vecchi gradini. Lo sforzo ha
riguardato tutta la parrocchia, ogni ora di lavoro e ogni grammo
di materiale offerto gratuitamente». Un cenno a Teague. «La
generosità di John ha reso possibile la nuova area parcheggio. È
stato un vero torrente di…»
«Poi Mason ha smesso di frequentare la parrocchia?»
«Credo di sì.»
«Quando è stato?»
«Nel 2011. Ricordo che il progetto si è concluso più o meno
quando è cominciata la scuola.»
Ramsey a Teague. «Cosa le fa pensare che Cora Teague sia
fuggita con Mason Gulley?»
Teague si limitò a un’occhiata torva. Dietro di lui, suo figlio
osservava e ascoltava.
Gli occhi di Ramsey si spostarono sul prete.
Le dita di Hoke aumentarono la pressione sulla robusta spalla
nel frusto completo nero. Ancora una volta, un rassicurante
cenno del capo.
Il pomo d’Adamo di Teague si mosse. Quando rispose, il tono
spietato della sua voce mi provocò un gelido brivido lungo la
schiena.
«Perché il Signore Gesù mi ha sussurrato che Satana stesso è
sceso dalla montagna per richiamare a sé le loro anime
fornicatrici.»
17

La maggior parte delle autopsie seguono una routine standard.


Dopo un esame esterno, viene praticata la leggendaria incisione a
Y. Gli organi vengono rimossi, pesati ed esaminati. Si osservano i
vasi sanguigni e i nervi principali.
Con la cavità addominale svuotata, si pratica un taglio a U
intorno alla sommità della testa, da un orecchio all’altro. La parte
anteriore dello scalpo viene abbassata sulla faccia e quella
posteriore sul collo. Sul duro lato interno dello scalpo si cercano
sangue e lividi, sulla superficie esterna del cranio graffi e fratture.
Poi si utilizza una sega chirurgica manuale. Si crea una calotta
removibile e asimmetrica, per evitare lo scivolamento quando il
cranio viene ricomposto e lo scalpo ricucito sulla testa.
La calotta viene staccata con uno strattone e un sonoro
risucchio, mettendo così a nudo la dura madre, una spessa
membrana che avvolge il cervello. Si esamina la dura madre alla
ricerca di ematomi epidurali, ossia di sangue rappreso che può
aver esercitato pressione sul cervello, causando la morte. Si
cercano inoltre ematomi subdurali sul lato inferiore.
Anche se tutti parlano di «materia grigia», la superficie esterna
del cervello in realtà è bianca e velata dall’aracnoide e dalla pia
madre. A questo punto, si osservano le sottili ragnatele e
fenditure del cervello allo scopo di individuare emorragie
subaracnoidee, ovvero sanguinamenti intercraniali provocati
dalla lacerazione dei delicati vasi superficiali a causa dell’urto
violento del cervello contro il cranio.
Poi si inseriscono le dita sotto la fronte aperta, agganciando e
sollevando i lobi frontali. Nervi e vasi sanguigni che si irradiano
verso la faccia vengono recisi. Il tentorio del cervelletto (il lembo
di dura madre che protegge il cervelletto e il tronco cerebrale, il
«cervello rettiliano») viene tagliato.
Con un bisturi abbastanza lungo da raggiungere la base del
cranio, si incide il midollo spinale e si estrae il cervello.
Telencefalo, cervelletto e midollo allungato sono adesso nelle
mani del patologo. Oppure nella calotta cranica, o forse in una
ciotola di acciaio inossidabile usata come il guanto di un
giocatore di baseball.
Il cervello viene immerso in una soluzione di formaldeide e,
durante le due settimane successive, la sua consistenza cambia:
all’inizio sembra quella della gelatina, dopo del formaggio. Una
volta che ogni centimetro della sua complessa superficie è stata
osservata, viene tagliato con un lungo coltello, più o meno come
una salsiccia. Se ne studia la struttura interna fetta dopo fetta.
Niente di tutto questo, però, sarebbe accaduto con i resti
trovati sul sentiero chiamato Coda del Diavolo.
Poiché non era necessaria la refrigerazione, le ossa, i
frammenti di secchio e il cemento erano stati chiusi a chiave per
il weekend nel deposito della contea di Avery. Ramsey aveva
garantito di consegnare tutto lunedì di prima mattina. Aveva
anche promesso di fare dei controlli su Mason Gulley.
Dopo aver lasciato la chiesa della Santità, Ramsey mi aveva
accompagnata all’auto. Ero stata fornita da zia Ruby di una
provvista di panini, biscotti e mele non richiesti. Avevo fatto una
rapida incursione a Heatherhill Farm e poi ero tornata a casa.
Una volta giunta all’Annesso, avevo prenotato un volo per
Montréal ed ero andata dritta a letto, senza concedere neanche
un’occhiata all’accusatorio mucchio di carte abbandonate sul
tavolo da pranzo. Il mattino dopo avevo attraversato di volata la
cucina ed ero uscita di casa senza indugio.
Per la centesima volta, guardai l’ora. Dieci e diciassette.
Impaziente, telefonai a Ramsey. Disse che era al laboratorio
forense del Dipartimento di polizia di Charlotte-Mecklenburg per
lasciare il secchio. Contava di arrivare all’MCME nel giro di
mezz’ora.
In molte giurisdizioni, nei weekend arrivano le buste paga,
oltre che il tempo per i momenti di ozio e le bevute. Papino si
sbronza e le suona a mammina col frullatore. Junior si spara una
confezione da sei di birra e va a schiantarsi a centocinquanta
all’ora nella Camaro di un amico. La sorellina esce da un bar per
farsi una striscia di droga e finisce in un bidone della spazzatura.
Conclusione: i lunedì spesso sono frenetici per coloro che si
occupano di morti.
Quel giorno non faceva eccezione. L’MCME era in piena
attività e io andai in cerca di Larabee, con l’esile speranza che
avesse già iniziato un’autopsia. Non fui così fortunata. Era al
telefono, ma mi fece segno di entrare nel suo ufficio.
Larabee mi ascoltò reggendosi il mento con una mano. Lo
aggiornai su Ramsey, i Teague (compresi Cora e Eli), Mason
Gulley, la Chiesa della Santità del Signore Gesù, Brown
Mountain, la Coda del Diavolo, il secchio, il cemento e le ossa. Su
tutto, insomma, eccetto la disavventura col masso.
«Ma perché nel weekend non te ne vai al centro commerciale?»
Non meritava alcuna risposta.
«Il prete, un tizio che si fa chiamare padre G, ha consigliato a
Teague di collaborare.»
«La Santità a me non sembra cattolica.»
Riassunsi quanto mi aveva detto zia Ruby e accennai a quella
gente che maneggiava serpenti. Larabee sapeva che tipi fossero,
un suo collega aveva fatto l’autopsia a un predicatore dalle
capacità manipolatorie inferiori alla media.
«Potrei fare qualche domanda a un membro del clero più
tradizionale.» Ne avevo già uno in mente.
«È preoccupante che i genitori non abbiano mai denunciato la
scomparsa.»
«Sì.»
«Tu pensi ancora che sia morta…» Si trattava più di
un’affermazione che di una domanda. È sconcertante il modo in
cui Larabee riesce a leggermi nel pensiero.
«Già.»
«Vuoi fare uno stampo della testa» disse.
«Voglio provarci.»
«Ti sei procurata delle foto antemortem?»
«Ramsey ha detto che le avrebbe chieste ai genitori.»
«Una faccenda che può andare per le lunghe…»
«Come un viaggio sulla luna e ritorno.»
«Pensi davvero che Teague sia capace di uccidere la figlia?»
Mi apparve davanti agli occhi il suo sguardo feroce. Mi sembrò
di udire la voce piena di veleno.
«Lo credo possibile.»
«Be’, è il tuo giorno fortunato. Non è arrivato niente che
necessiti competenze antropologiche.» Ruotò sulla poltrona
girevole, pigiò qualche tasto e passò un dito sul foglio di calcolo
apparso sul monitor.
«Registralo come caso numero ME135-15.»
«Anche il cemento?»
Ci pensò. «Certo. Chissà cosa c’è intrappolato dentro.»
Larabee si alzò. Riunione finita.
Il telefono stava squillando quando entrai nel mio ufficio.
Ramsey mi attendeva nell’atrio. Dissi alla signora Flowers, la
receptionist, di mandarlo da me. Arrivò con una grossa sporta di
tela.
«Cosa hanno detto al laboratorio?» domandai.
«Cercheranno impronte, tracce, fluidi corporei… Le solite cose,
insomma. In base alle circostanze generali che ho riferito, non
erano ottimisti.»
«Ha detto ai Teague che dovrebbero fornire campioni di DNA?»
«L’ho fatto. Manco a parlarne.»
Guardai la sacca. La tensione sui manici e il modo in cui la
stoffa era tirata indicavano che era notevolmente pesante. «Le
dispiace portarla in una stanza per le autopsie?»
«Mi faccia strada.»
«Può lasciare qui il giubbotto.»
«Sì, signora.»
Nella sala puzzolente, chiesi a Ramsey di mettersi i guanti e
prendere i due pezzi di cemento. Li posò su mia indicazione sopra
il ripiano, con il lato cavo rivolto verso l’alto.
Per prima cosa scattai una serie di foto. Poi, indossati i guanti e
la maschera, passai batuffoli e tamponi di cotone sterile
sull’interno di ciascuna cavità e ripetei il processo più volte.
Ramsey osservò, con le gambe rigide e i pollici infilati nella
cintura.
Stavo sigillando i campioni nei sacchetti di plastica per le
prove quando notai due filamenti pallidi intorno al cotone di un
tampone. Guardai più attentamente gli altri tamponi. Sopra
alcuni di essi erano raccolti fili simili.
Potevamo essere tanto fortunati?
Col cuore che batteva un po’ più forte, portai il tampone sotto
un microscopio da dissezione, lo accesi e misi a fuoco.
I filamenti avevano un diametro dell’ordine di micron, come le
fibre della seta; erano solo più ispidi. Ciascuno era chiaro come
una ragnatela, quasi trasparente.
«Dannazione» imprecai sottovoce.
O forse a voce alta. Ramsey si spostò, ma non disse niente.
«Ho pensato che potessero essere capelli, ma sembrano così
sottili…»
I tacchi di Ramsey ticchettarono sulle piastrelle. Senza
pronunciare una parola, gli porsi una maschera. La prese. Mi
allontanai dal microscopio. Il vicesceriffo si piegò e, strizzando
gli occhi, guardò nell’oculare.
Passò qualche istante. Poi disse: «Se si trattasse di un
ragazzino?».
«La cavità è troppo grande per essere stata prodotta dalla testa
di un bambino.»
«Cos’è quella roba luccicante?»
«Cosa intende?»
«Il cotone è lucido in alcuni punti.»
«Mi faccia vedere.» Senza troppi complimenti, lo feci spostare
di lato.
Ramsey aveva ragione. Qua e là la lanugine bianca era unta e
ingiallita. Per via di qualche prodotto per capelli? Per la
decomposizione? O era sudore? Le possibilità rimbalzavano nella
mia testa come palline da ping pong.
Passai un altro milione di tamponi, li etichettai e sigillai.
Quando fui certa che nient’altro potesse essere rimasto nei più
piccoli recessi o fenditure, ispezionai i bordi lungo i quali il
cemento si era spaccato.
I miei ricordi erano esatti. Le superfici erano nette e lisce.
Miracolosamente non c’erano segni di scheggiatura né erosione.
Hawkins aveva esaudito la mia richiesta. Sul bancone c’erano
bombolette di gomma liquida e contenitori di sigillante
siliconico. Nel lavello c’era uno strumento che ritenevo fosse una
morsa, forse destinato alla riparazione di mobili, o forse a
qualche uso completamente diverso. Non mi interessava. Era
perfetto.
Dopo aver spruzzato ogni centimetro della cavità, applicai il
sigillante ai bordi rotti. Poi, sfruttando muscoli che sapevo mi
avrebbero poi chiesto ragione del loro uso, feci da contrappeso a
Ramsey nel momento in cui accostammo con forza le due metà
l’una contro l’altra.
E aspettammo cinque minuti buoni.
Poi, mentre emettevo altri grugniti degni di Maria Sharapova,
infilammo il calco completo nella morsa, col lato inferiore rivolto
verso l’altro. Ramsey lo tenne fermo mentre io serravo gli
strettoi.
Altro sigillante. Altra stretta.
Mi assicurai della tenuta della colla e andai in cerca di un
trapano elettrico. Ne trovai uno in fondo all’ultimo dei ripostigli
che controllai.
Tornai alla sala puzzolente, indossai gli occhialini e ne porsi un
paio a Ramsey. Poi inserii la presa e accostai la punta del trapano
dove pensavo che il cemento fosse più sottile.
Alzai lo sguardo su Ramsey. Mi guardò da dietro le grosse lenti
di plastica. Sollevò un pollice.
Accesi il trapano e in aria volarono polvere e minuscole
schegge. L’odore acre di metallo rovente e roccia bollente permeò
la stanza. Trattenni il respiro, sperando che il cemento non si
spaccasse.
Mi sembrò passare un’eternità. In realtà, in meno di un minuto
la punta sbucò all’interno della cavità. Puntai il trapano verso
l’alto e, con un movimento rotatorio, allargai l’apertura che
avevo creato.
Nessuna crepa a ragnatela. Nessuna raggiera di faglie.
Quasi involontariamente, il mio braccio scattò in alto e la
mano si aprì a richiedere un gesto d’intesa. Con sorpresa, il
palmo del vice incontrò il mio. Un po’ imbarazzati, entrambi ci
voltammo per toglierci gli occhiali protettivi. Poi preparai un
composto di Duraplast, una plastica fibrorinforzata non diversa
dal materiale usato dai tecnici di Avery per prendere le impronte
di segni di attrezzi sulla Coda del Diavolo.
Sotto lo sguardo di Ramsey, inserii un imbuto di plastica
nell’apertura e iniziai a versare il composto. Il sommesso glug glug
glug parve proseguire in eterno.
Quando la cavità fu riempita posai l’imbuto sul bancone. Per
un momento studiammo il pastoso liquido bianco attraverso il
piccolo foro.
Ero impazzita? Mi stavo spingendo troppo oltre? Dire che
avevo dei dubbi sarebbe stato come affermare che Cartesio aveva
degli scrupoli riguardo a Dio.
«Ha ottenuto le foto?» Interruppi il silenzio.
«Sissignora. Sono nel mio giubbotto.»
«Okay. Prima le ossa, poi le foto.»
Ramsey tornò alla sacca e io coprii il tavolo da autopsia con un
foglio di carta plastificata. Mentre appiattivo coi palmi le linee di
piegatura, il vice posò al centro un piccolo contenitore
Tupperware.
Tolsi il coperchio e distribuii i frammenti sulla superficie in
modo da non sovrapporli. Provenivano tutti dal cranio di un
essere umano adulto. Erano tutti segnati dalle intemperie e
rosicchiati.
Feci un rapido inventario. Sei pezzi di parietale. Due pezzi di
occipitale, uno dei quali con un sinuoso resto di sutura
lambdoidea. Quattro pezzi di frontale, uno con una porzione di
bordo sopraorbitale.
La sutura, lunga circa un centimetro, aveva bordi lisci e non
fusi. I solchi vascolari su tutte le superfici endocraniche erano
poco profondi. Si trattava di una persona di giovane età.
La curvatura sull’osso frontale suggeriva un’arcata
sopraccigliare di medie dimensioni. Il che non dava indicazioni
riguardo al sesso.
Non c’erano elementi che lasciassero ipotizzare la razza.
«E adesso?» chiese Ramsey quando glielo dissi.
«Adesso lei consegna i tamponi al laboratorio.» Mi tolsi
occhiali e guanti. «E aspettiamo.»
«Per quanto?»
«Questo maledetto è grosso.» Indicai il calco che si induriva.
«Probabilmente esagero, ma voglio concedergli un paio di
giorni.»
«Mi spiace perdermi il momento…»
«Potrebbe essere un fallimento.»
«Bella rima.»
Niente male, vice. Non ci avevo fatto caso.
Ritornammo nel mio ufficio. Ramsey prese il giubbotto, tirò
fuori una busta da una tasca e me la consegnò.
«Una è un po’ datata, l’altra è stata scattata qualche mese
prima della “fuga” di Cora.» Con le mani tracciò in aria delle
virgolette intorno alla parola fuga. «Ma credo che ci siano le
angolazioni che voleva. Una di profilo, l’altra di faccia. Mamma e
papà non hanno messo a disposizione una vasta scelta.»
«Allora mi farò bastare queste.»
«Ho intenzione di effettuare un po’ di ricerche e di vedere cosa
riesco a scoprire riguardo al periodo in cui Cora ha lavorato come
tata.»
«Ha chiesto ai Teague?»
«John è convinto che rivelare il nome del datore di lavoro di
Cora costituisca una violazione della privacy.»
«Che faccenda bizzarra…»
«Eccome.»
Quando Ramsey se ne andò, diedi un’occhiata al contenuto
della busta: delle stampe bicolore.
Disposi le foto sulla scrivania. La prima raffigurava una
ragazza di dodici o tredici anni con la pelle chiara, le lentiggini e
lunghe trecce bionde. John Teague era dietro di lei e le teneva
una mano sulle spalle. Un secondo uomo, di fronte a lei, le
premeva un pollice sulla fronte. Indossava la tonaca rossa e una
mitra: abito e copricapo cerimoniali da vescovo cattolico. Sul
retro della foto c’era scritto, a mano: «Cresima. 19 marzo 2006».
L’altra fotografia era stata scattata all’aperto. Una giovane
donna sedeva accanto a un tavolo da picnic, le braccia conserte e
gli enormi occhi verdi fissi sull’obiettivo. Aveva i capelli tirati
all’indietro. Lunghe ciocche ondulate le ricadevano sulle spalle,
scintillanti nel sole come oro liquido.
Come i filamenti che avevo ricavato dal cemento?
Rimasi a guardare le due versioni di Cora Teague con la mente
piena di dubbi che svolazzavano come falene spaventate. Era
morta? Avrei trovato lei nella mia maschera funeraria in 3D? Il
calco sarebbe riuscito?
Il telefono squillò interrompendo i miei pensieri.
«Sono nella stanza autopsie numero uno.» Larabee sembrava
carico come una bomba atomica. «Vieni quaggiù. Svelta.»
18

Larabee si trovava davanti a una barella, intento a studiare un


cadavere ancora dentro il suo sacco «da viaggio». La cerniera era
chiusa, ma in base ai rigonfiamenti si capiva che era un adulto di
grosse dimensioni.
L’uomo all’altro lato della barella era di spalle. La sagoma
sembrava familiare: alto, spalle larghe, vita e fianchi stretti.
Eppure c’era qualcosa di sbagliato.
Mentre ero ferma, con la mano ancora premuta sulla porta,
l’uomo si girò. E confermò quello che avevo sperato fosse un caso
di errore di identità.
Erskine «Skinny» Slidell, della squadra omicidi del
Dipartimento di polizia di Charlotte-Mecklenburg, mi osservava
con freddezza. Nella sua mente ristretta, reputava se stesso una
leggenda di dimensioni epocali.
Slidell mi omaggiò di un cenno del capo.
«Detective.» Valutai con discrezione cosa aveva di insolito
l’aspetto di Slidell.
Il suo volto era sudaticcio e grigio. Le autopsie gli facevano
quell’effetto. Per il resto, sembrava più in forma di quanto non lo
vedessi da anni. Forse più di quanto non l’avessi mai visto.
Calcolai che fosse dimagrito di sette o dieci chili. Sfoggiava un
giubbotto scamosciato, non portava la cravatta e aveva i capelli
rasati, alla Bruce Willis.
«Vieni qui.» Larabee mi fece segno di raggiungerlo agitando le
dita guantate..
«Doc, questo non…»
«Abbia pazienza, detective.» Larabee non sembrava disposto a
tollerare i modi di Slidell.
Mentre giravo intorno alla barella, Larabee prese una cartella
portablocco con la scheda di registrazione.
«Femmina, bianca, sessantuno anni. Altezza: un metro e
ottantadue. Peso: ottantadue chili. Trovata da un vicino alle 8:07
questa mattina, sotto il molo del lago più piccolo nella riserva
naturale di Ribbon Walk.»
«Dove si trova?» Charlotte straripa di parchi. Questo non
l’avevo mai sentito nominare.
«A Derita, dalle parti di Nevin Road. Ci sono un paio di
laghetti, una palude, dei sentieri.»
Dall’altro lato della barella, Slidell si schiarì la voce.
Sonoramente.
Larabee ignorò l’incitamento non troppo sottile. «La vittima
viveva a qualche isolato di distanza. Secondo…» controllò uno
dei fogli attaccati alla cartelletta «Franco Saltieri, il vicino, le
piaceva passeggiare lì.»
«Depressione?»
Larabee si strinse nelle spalle. Chi poteva saperlo?
Compresi il significato della presenza di Slidell. «Pensi che si
tratti di omicidio?»
«Be’, se la nonnina non ha voluto fare un tuffo di
mezzanotte…»
Larabee ignorò il tentativo umoristico di Slidell. «Presenta
numerosi traumi facciali.»
«Per quanto tempo è rimasta in acqua?»
«Saltieri dice che l’ha vista intorno alle sette sabato mattina.
Deve essere morta dopo quell’ora.»
Dato il clima freddo e il breve periodo di immersione, il corpo
doveva aver subito pochi cambiamenti postmortem. Mi domandai
perché ero stata convocata. Stavo per chiederlo quando Larabee
tornò alla prima pagina e lesse un nome.
«Hazel Lee Cunningham Strike.»
Le pareti della stanza cominciarono a oscillare intorno a me.
«Non si chiamava Hazel Strike la donna che era venuta qui da
te?» Sentii gli occhi di Larabee puntati sulla mia faccia, sospettosi
e vigili. «La tizia del gruppo dei cybersegugi?»
Riuscii solo ad annuire.
«È quello che pensavo.»
Sentii un portablocco battere contro l’acciaio inossidabile. Il
sibilo di una cerniera che si apriva. Lo sbuffo d’aria nel naso di
Slidell.
«È Strike?»
Ci volle un secondo per schiarirmi le idee. Un respiro profondo.
Poi abbassai lo sguardo.
I capelli sgargianti pendevano bagnati sul lato destro del viso
di Strike. La pelle era cadaverica, in ombra dove l’osso
sottostante era collassato: la guancia e il bordo superiore
dell’orbita. Le labbra erano aperte e pendule, rivelando lividi e
denti rotti.
«Cosa intende quando dice che è venuta da te?» volle sapere
Slidell dall’altro lato della barella.
«Intende che è venuta da me» risposi senza alzare gli occhi.
In quel momento Hawkins aprì la porta. Larabee gli fece cenno
di entrare e poi si rivolse a me e Slidell. «Che ne pensate voi due
di sbrigarvela altrove così noi possiamo procedere con
l’autopsia?»
Lanciai un’ultima occhiata al viso di Hazel Strike. Mi tornarono
in mente i messaggi urgenti in segreteria. Mi aveva pregato di
richiamarla.
Con la mente che già preparava i bagagli per un viaggio nella
terra del rimorso, superai Slidell e uscii nel corridoio. Skinny
esitò un istante e poi mi seguì.
Nel mio ufficio, presi posto dietro la scrivania. Slidell si sedette
di fronte a me, spalle e mascella contratte, già in modalità
conflittuale.
«Quando è venuta qui?»
«Una settimana fa.»
«Perché?»
Parole e immagini erano rotelline che si muovevano nella mia
mente. Cercai di imporre loro un ordine, di disporle in una sorta
di schema dotato di senso logico. Slidell mi concesse almeno
trenta secondi di pazienza.
«Ce la facciamo entro oggi, doc?»
«Va bene.»
Riferii quella che speravo fosse una cronologia accurata:
l’attività di Strike come cybersegugio e la sua visita all’MCME.
Cora Teague; i miei viaggi a Burke, Lost Cove Cliffs e Wiseman’s
View, i tre belvedere di Brown Mountain; i polpastrelli senza
impronte, i resti di scheletro, il cemento del sentiero Coda del
Diavolo, il cui contenuto si stava ora solidificando nella sala per
autopsie numero quattro; il vicesceriffo Zeb Ramsey; John e
Fatima Teague e la Chiesa della Santità del Signore Gesù; la
morte sospetta del loro figlio minore, Eli, all’età di dodici anni; le
chiamate insistenti di Hazel Strike il sabato prima.
Slidell ascoltò senza prendere un solo appunto. Quando ebbi
finito, mi guardò come se avessi detto che Elvis era stonato. Stava
per aprire bocca quando il cellulare che aveva alla cintura vibrò.
Senza scusarsi, si alzò e uscì dall’ufficio. Per i dieci minuti
seguenti sentii la cadenza della sua voce al di là della porta. Una
pausa. Poi una nuova conversazione. Forse l’atto secondo della
prima.
Ero passata a sbrigare un po’ di scartoffie quando finalmente
tornò.
«Quindi la vecchia signora ti ha chiamata…»
«Hazel Strike aveva sessantuno anni.»
Slidell contrasse il mento in un moto di scherno.
«Ha telefonato diverse volte» dissi «e ha lasciato dei messaggi
chiedendomi di richiamarla.»
«Quando è stato?»
«Sabato scorso.»
«Orari?»
«Una volta di prima mattina. Poi nel pomeriggio e dell’altra
non sono sicura.»
«L’hai richiamata?»
«No.»
«Perché no?»
«Avevo da fare.» Ancora una fitta di rimorso. Cosa voleva
Strike? Temeva per la propria vita? Chi altri poteva aver
contattato per farsi aiutare?
«Non la vedevi da questa piccola gita nei boschi?»
«Sì.»
Slidell iniziò a fare dei conti aiutandosi con le dita. Con mia
grande sorpresa, le unghie erano insolitamente pulite e corte, se
non curate.
«Ecco come la vedo io. Primo: Cora Teague non è più una
ragazzina ed è libera di scopare con chi vuole. Secondo: nessuno
ha presentato denuncia di scomparsa…»
«La sua scomparsa è stata denunciata.»
«Non è quello che hai detto.»
«La sua scomparsa è stata segnalata in un sito di cybersegugi
chiamato CLUES.net.»
«Online.» Nella sua voce risuonava una forte nota di disprezzo.
«Sì.»
«Da che persona?»
«Qualcuno che posta come OMG.» Sebbene tentata, non
corressi la sua grammatica.
Slidell inarcò impercettibilmente le sopracciglia.
«Sai… Oh, mio Dio, Oh My God.»
Neanche un guizzo di comprensione.
«Immagino che OMG sia gergo Internet. Come LOL, Laugh Out
Loud. O G2G, Got to Go.»
Slidell fece un lungo sospiro sofferto. «Perciò non hai idea di
chi sia questo fuori di testa.»
«No.»
La conoscenza che Slidell ha di Internet si limita alla verifica di
dati come impronte, armi o targhe automobilistiche, cose che
affibbia ai subordinati. Non possiede un computer. Pienamente
cosciente della follia dell’impresa, continuai imperterrita.
«Ho provato con Twitter, ma non ho trovato nessun utente con
uno pseudonimo contenente solo le lettere OMG. È il massimo
che ho potuto fare prima di dover passare oltre.»
«E non hai idea di chi sia questa Hazel Strike. O meglio, di chi
fosse.»
Un’immagine mi balzò nella mente. Strike seduta sulla sedia
adesso occupata da Slidell, i gomiti sulle ginocchia, il viso acceso
di compassione per i morti dimenticati.
«Lucky» dissi.
«Cosa?»
«Si faceva chiamare Lucky. Sai, come le sigarette…»
«Sì, sì. Poetico.»
«Strike stava indagando su Cora Teague. Ha perfino parlato
con la famiglia. Non può essere una coincidenza. Deve esserci un
legame tra l’omicidio di Strike…»
«Possibile omicidio.»
«… e la scomparsa di Teague» continuai.
«Possibile scomparsa.»
«Il vicesceriffo Ramsey non è troppo occupato per fare qualche
sforzo.» In tono glaciale. Sottinteso: non è troppo zuccone.
«Questa non è la contea di Avery. Ecco come funziona qui nella
grande città. Doc Larabee dice che qualcuno ha fatto fuori Strike
e il bastardo la paga.»
«Cosa posso fare?»
«Starmi fuori dai piedi.»
Feci passare qualche momento per mostrare quanto trovassi
disgustoso il suo atteggiamento. Poi dissi: «Non sono una
dilettante».
«Sei un topo da laboratorio.» Slang da sbirro televisivo. Tipico
di Slidell.
«Sono stata utile in passato.»
«Qui non si tratta di ossa. Niente di personale, ma se dipende
da me, preferisco lavorare al caso senza interferenze.»
Interferenze? Mi venne voglia di prendere a schiaffi quelle
guance sorprendentemente rasate.
Il telefono squillò, mettendomi al riparo dall’impulso. Era
Larabee.
«Come procede?» domandai.
«Come sospettavo.» In sottofondo sentii l’acqua scrosciare in un
lavello e una voce maschile che attribuii a Hawkins. Larabee gli
disse qualcosa che non colsi. «Ho riscontrato traumi cranici,
facciali e toracici. Il risultato di almeno diciassette colpi inferti
con un oggetto contundente.»
«Questo suggerisce un bel po’ di rabbia.»
«Già.»
«La causa della morte?»
«Un massiccio sanguinamento intracranico.»
«Ci sono ferite da difesa?»
«Nessuna.»
Gli occhi di Slidell erano incollati su di me.
«Acqua nei polmoni?»
«No. Era morta prima di finire nel laghetto. Slidell è ancora lì?»
«È qui.»
«Digli che sto registrando il caso di Strike come omicidio.»
«Lo rimando da te.»
«E non è neanche il mio compleanno…»
«È la tua ricompensa per un lavoro ben fatto.»
Riattaccai e riferii quanto aveva detto Larabee.
Mentre Slidell si alzava, una sinapsi scattò nel mio cervello.
«Ho fatto qualche ricerca su Internet» dissi. «C’è un aspetto del
fenomeno dei cybersegugi che ho trovato preoccupante.»
«Gente che gioca a Occhio alla Talpa con mazze virtuali?»
Un commento stupido, perciò lo ignorai.
«Per qualcuno, non per tutti, la caccia è guidata dall’ego ed è
parecchio competitiva.»
«Occhio al Segugio?»
«La cosa ti interessa o no?»
Slidell sospirò e incrociò le braccia sul petto.
«Hazel Strike è stata coinvolta in una lunga e accesa disputa
con un cybersegugio che si fa chiamare WendellC.»
«Che sarebbe il diminutivo di…»
«Il nome dell’uomo è Wendell Clyde.» Descrissi il ruolo di
Clyde nel ritrovamento di Quilt Girl e la popolarità che ne aveva
ricavato. «Strike accusava WendellC di essersi preso il merito di
scoperte che avevano fatto insieme.»
«E allora?»
«La discussione superava le consuete cattiverie. Il linguaggio
era perlopiù aggressivo.»
Slidell sbatté le palpebre, poi aprì la bocca per liquidarmi.
«I servizi giornalistici dicevano che Wendell Clyde viveva a
Huntersville.»
Il telefono alla cintura di Slidell vibrò di nuovo. Stavolta ignorò
la telefonata.
«Quindi stai dicendo che non correva buon sangue tra Strike e
Clyde?»
«I due si odiavano.»
«E il tizio vive proprio in fondo alla strada.»
«Nel 2007 era così. È in quell’anno che sono stati pubblicati gli
articoli.»
«Stai suggerendo che Clyde ha fatto fuori Strike?»
«Oh, lungi da me interferire nelle tue indagini…» Era un
atteggiamento infantile, ma Slidell mi faceva questo effetto.
«Non ti riesce bene la parte della mocciosa, doc.»
«Sto suggerendo che Wendell Clyde è un ottimo punto di
inizio.»
19

Prima di lasciare l’MCME, controllai il programma della mia


palestra. Perfetto. Una sessione serale di yoga alle sei. Stretching
e respirazione per aiutare a controllare lo stress.
Chi volevo prendere in giro? La lezione significava un’ulteriore
ora di distanza dal chilometro quadrato di carte che copriva il
tavolo della mia sala da pranzo.
Arrivai all’Annesso intorno alle sette e mezza, relativamente
rilassata. Uno stato mentale che durò forse dieci minuti.
Il telefono squillò mentre Birdie e io ci dividevamo un pasticcio
di pollo del Fresh Market. Era Zeb Ramsey. Risposi.
«Ho messo a frutto il tempo passato alla guida.» Ramsey stava
mangiando qualcosa, forse patatine fritte. Sentivo rumori di
masticazione intervallati da fruscii. «Ho riscosso qualche favore
riguardo a Mason Gulley, il ragazzo col quale i genitori di Cora
pensano sia fuggita la figlia.»
Aspettai che finisse di masticare.
«Non è stato facile da rintracciare, ma i miei “soci”» sentii le
virgolette intorno alla parola «sono riusciti a smuovere le acque.
Gulley è nato nel ’94. Dunque è di un anno più giovane di Cora.»
Sia Zeb che io ingoiammo un boccone delle nostre rispettive
cene.
«Il padre di Gulley, Francis Gulley, andò via di casa dopo le
superiori per diventare una stella del gospel di Nashville. Sua
madre, Eileen Wall, veniva da un buco di paese vicino al confine
col Tennessee. Eileen abbandonò la scuola all’ultimo anno per le
luci della ribalta di Broadway. Quando si conobbero, lei serviva
hamburger da Wendy’s ad Asheville e lui si arrangiava come
batterista in concerti occasionali. Vivevano insieme da un anno
quando arrivò il piccolo Mason.»
«Si sono sposati?»
«No. E nessuno dei due aveva molta intenzione di fare il
genitore. Se la squagliarono in California, lasciando il bambino
con la madre di Gulley, Martha Regan Gulley.»
«Perché non con i genitori di Eileen?»
«Il padre era un alcolista e la madre aveva la sclerosi multipla.»
«Triste.»
«C’è qualcosa di ancora più triste. Entrambi rimasero uccisi in
un frontale il giorno dopo Natale, nel 2000.»
Mentre ascoltavo, osservai Birdie deporre con la lingua un
pisello senza sugo in un mucchietto di piselli e carote sul
pavimento. Non potei fare a meno di ammirare la sua abilità
nello smistamento.
«Perciò Mason è stato cresciuto da nonna e nonno Gulley.
Perlopiù la nonna. Oscar Gulley è morto di insufficienza cardiaca
congestizia nel 2004. Aveva ottantuno anni.»
«Martha è ancora viva?»
«La nonna aveva oltre dieci anni in meno del marito. Vive
tuttora nella contea di Avery.» Ramsey fece una pausa, ma non
udii né fruscii di carta né movimenti dentali. «Si occupa della
seconda figlia di Eileen, Susan Grace.»
«Davvero?»
«Nel 1999, Eileen mollò Susan Grace all’età di un mese.
D’improvviso se ne andò a Los Angeles. Prima della fine
dell’anno, Eileen si procurò un’overdose di eroina.»
«Stava ancora con Francis all’epoca della morte?»
«Si erano lasciati.»
«Cosa ne è stato di lui?»
«Allora si faceva chiamare Frank Danger. Si è fatto beccare un
paio di volte a Los Angeles per reati minori: vagabondaggio;
schiamazzi; resistenza a pubblico ufficiale. L’ultimo arresto è
stato nel 2006 per possesso di marijuana. È finito in comunità di
recupero e poi in libertà vigilata. Dopodiché le sue tracce si
perdono.»
«Non è mai diventato una rockstar.»
«No.»
Il padre di Mason Gulley era davvero rilevante? E che dire
della fallimentare storia dei suoi genitori?
«Cora Teague andava alla Avery County High» dissi. «Mason
Gulley frequentava quella scuola?»
«No.»
«Allora quale?»
«Sono già sul pezzo.» Un istante di pausa. «A quanto pare
pochissime persone conoscevano questo ragazzo. I miei
collaboratori hanno sentito strani commenti da quelli che erano
in contatto con lui. Un cassiere del Food Lion, un farmacista,
un…»
«Cosa significa “strani”?»
«La gente diceva che era anormale.»
«Anormale?»
«Bizzarro.»
«Bizzarro?»
«Sto solo ripetendo quanto mi hanno riferito.»
Ci pensai mentre masticavo un boccone di pollo.
«È ora di tornare a fare lo sceriffo.» Sentii un movimento.
Probabilmente Ramsey che si girava per rimettere giù il telefono.
«Un momento.» Ingoiai il boccone. «C’è dell’altro.»
Silenzio.
«Hazel Strike è stata uccisa la notte scorsa.»
«La tizia del gruppo dei cybersegugi che è venuta con noi al
belvedere?» Era scioccato.
«Sì.»
«Cos’è successo?»
Gli dissi dell’autopsia, delle ferite che suggerivano un assassino
mosso dalla rabbia, della sua faida con Wendell Clyde e del
rifiuto di Slidell di includermi nelle indagini.
Quando ebbi finito, un pesante silenzio vibrò dalle montagne
alla zona pedemontana. Sapevo che Ramsey e io stavamo
pensando alla stessa cosa: l’improbabilità della coincidenza.
«Ha già lavorato prima con questo tizio?»
«Oh, sì.»
«È affidabile?»
«Slidell ha la personalità di un polipo anale, ma è un bravo
detective.»
«Vuole che gli faccia una telefonata?»
«Dubito che riuscirà a smuovere Skinny. Meglio fare a modo
suo.» Tornai all’argomento principale. «Sia i Gulley che i Teague
appartengono alla Chiesa della Santità del Signore Gesù. Cora e
Mason potrebbero essersi conosciuti lì.»
«I calcoli del prete erano esatti. Gli interrogati hanno
dichiarato che Gulley non si è più visto in giro dal 2011. Questo
colloca la sua sparizione all’incirca nello stesso periodo di quella
di Cora.»
Entrambi rimuginammo su quel fatto e sulla brutale realtà
della morte di Strike.
«E adesso che si fa?» domandai.
«Ci sta a tornare quassù per un altro giro?»
«Sì.»
Prendemmo accordi e ci congedammo.
Birdie e io dedicammo alla questione delle tasse completa
attenzione. Per circa trenta minuti. Poi feci una doccia e ci
mettemmo entrambi a letto.
Sorprendentemente, ero ansiosa di parlare con Ryan.
Probabilmente a causa di Slidell, o per il bisogno di sfogarmi.
Forse avevo bisogno di altro. Ma il motivo aveva poca
importanza. Ero stanca di cercare di classificare i miei confusi
sentimenti.
Ryan rispose dopo due squilli. «Sei proprio la persona che
speravo.»
«Lieta di averti fatto felice.»
«Le tue telefonate mi riempiono sempre di gioia.»
«Cerca di controllare l’euforia.» Sorrisi. Era proprio una bella
sensazione.
«Lo farò.» Sentii Ryan abbassare il volume di un’esagitata
cronaca sportiva in sottofondo. Era a casa. «Cosa mi dici?»
«Ho prenotato un altro volo.»
«C’est fantastique! Quando arrivi?»
«Venerdì prossimo. Purtroppo è solo per un weekend lungo. Ti
mando per e-mail i dettagli del volo.»
«Sono davvero contento.» Lasciò passare un istante. «Allora,
novità nel tuo caso?»
Ci volle un momento per organizzare i pensieri. C’erano stati
molti avvenimenti. Decisi di cominciare con i fatti più recenti e
procedere a ritroso.
«Ricordi la nostra conversazione sui cybersegugi?»
«Sì. E su Lucky Strike.» Sentii un ronzio, poi il suono di cubetti
di ghiaccio che cadevano in un bicchiere. «Stava cercando una
ragazza di nome Cora Teague.»
«Strike è stata uccisa la notte scorsa. Percossa a morte e poi
gettata in un laghetto.»
«Gesù Cristo! Tu come stai?»
«Bene.» Non volevo che il mio coinvolgimento risultasse
esagerato. «Dopo che Strike ha lasciato il mio ufficio lunedì
scorso, mi sono messa a verificare quello che mi aveva detto.»
«La sua teoria regge?» Un liquido, probabilmente scotch,
schizzò sui cubetti.
Gli parlai dei polpastrelli senza impronte trovati a Burke. Dei
frammenti di ossa di Lost Cove Cliffs. Del calco di cemento della
Coda del Diavolo. Di Brown Mountain. Di Zeb Ramsey. Dei
Teague. Dei Gulley. Di Granger Hoke e della Chiesa della Santità
del Signore Gesù. Di Wendell Clyde.
Parlai per mezz’ora. Per tutto il tempo, non sentii altro che il
tintinnio del ghiaccio e un sorso di tanto in tanto.
Mentre ascoltava, Ryan fece le stesse associazioni mentali che
avevo fatto io. Le sue domande furono chiare e succinte.
«Perché niente impronte?»
«Non ne sono sicura. Potrebbe essere il risultato di una
chemioterapia. Ramsey ha chiesto agli ospedali locali, ma non ha
trovato pazienti che si siano assentati ingiustificatamente.»
«Cosa ha detto l’antropologa della WCU?»
«Devo ancora avere sue notizie.» Un appunto per me stessa:
richiamarla.
«E i Teague si rifiutano di fornire il DNA?»
«Insistono sul fatto che Cora è altrove e che sta bene.»
«Non ci sono prove di un crimine, perciò non puoi costringerli
a parlare.»
«Voilà.»
«Hai una vittima di cui ignori la causa di morte e non riesci a
identificarla.»
«O identificarlo. Con quanto è stato rinvenuto, non sono in
grado di determinare né il genere né la razza. Ho mandato
campioni al laboratorio per l’analisi del DNA, per cercare di
stabilire se si tratta di un’unica persona. Ma non credo che
troveranno abbastanza dati da mettere in sequenza. È tutto
quanto rosicchiato e danneggiato dalle intemperie.»
«E il più piccolo della famiglia Teague è morto in circostanze
misteriose.»
«Così dice il medico del pronto soccorso che se n’è occupato.»
Ryan cambiò direzione.
«Stai pensando a Wendell Clyde per l’omicidio di Strike?»
«Dovresti vedere queste conversazioni online, Ryan. Sono
velenose. E il tizio vive appena fuori Charlotte.» O, almeno,
aveva vissuto da quelle parti.
«Skinny non è convinto?»
«Chi sa cosa succede in quel paese lontano che è la mente di
Slidell? A proposito, ha subito una specie di metamorfosi.»
«Cioè?»
«È dimagrito e sembra…» Cercai il termine giusto. «Curato.»
«Ha una ragazza.»
«Sul serio?»
«È tornato con Verlene.»
Slidell e Verlene Wryznyk erano stati insieme all’incirca nel
Paleozoico. Lei l’aveva scaricato ma, nel corso degli anni, erano
rimasti amici. L’inverno prima, Slidell aveva coperto il suo
perduto amore quando lei aveva accidentalmente sparato al suo
uomo del momento, un agente dello State Bureau of Investigation
con un ego molto sviluppato e mani molto lunghe.
«Non ci credo!» Ero così sbalordita dalla notizia che all’inizio
mi sfuggì il sottinteso delle parole di Ryan. «Un momento…
Come lo sai?»
«Mi ha chiamato un paio di settimane fa. Aveva una domanda
sulle scarpe.»
«Scarpe?»
«Apprezza il mio gusto.»
«Skinny?»
«Non posso biasimarlo. Sono il tipo giusto quando si tratta di
calzature.»
«Ryan…» dissi, con una nota di rimprovero nella voce.
«Ti racconto tutto quando sarai qui.»
Prima che potessi insistere, Ryan tornò all’argomento di prima.
«Pensi che la morte di Strike sia collegata alla vicenda di Cora
Teague?»
«Non lo so cosa penso.»
«Ti sei più fatta consegnare il registratore?»
«No. Spero che Skinny lo trovi quando perquisirà la sua casa.»
Un altro appunto mentale: chiamare Slidell.
Un momento di silenzio meditabondo, poi Ryan disse:
«Granger Hoke è un sacerdote cattolico?».
«La Santità del Signore Gesù è un gruppo scissionista che ha
problemi con Roma. La congregazione è piccola, ma fervente. E
accanitamente riservata. John Teague è davvero un soggetto
particolare.»
«I resti che avete trovato potrebbero essere collegati a qualche
sorta di pazzia che coinvolge Brown Mountain e Satana?»
Ramsey aveva accennato alla stessa possibilità.
Un’implicazione del genere non aveva bisogno di spiegazioni per
Hoke e il suo gregge.
Prima che mio padre morisse e nonna portasse mamma, Harry
e me a sud, nella terra dei battisti e dei presbiteriani, la mia
formazione era stata cattolica. Ero andata a scuola da suore che
propagandavano miracoli concernenti acqua e vino, la
gravidanza di una vergine e la resurrezione. La dannazione dei
bambini pagani non battezzati. Il male dei peccati veniali e
mortali. Il potere della cenere sul capo, della penitenza e della
preghiera.
Per la mia giovane mente, la vita eterna era una prospettiva
allettante. Ma il costo del biglietto era molto alto e le possibilità
di raggiungere la meta estremamente basse. Mi sembrava di
essere destinata a fallire in partenza. Ira, avarizia, accidia,
orgoglio, lussuria, invidia e gola mi appartenevano per diritto di
nascita. Il mio corpo di donna era la maligna lusinga del
demonio, ed era fatto per essere coperto e usato solo per la
riproduzione.
L’ubbidienza incondizionata era la mia unica salvezza. Così
come i rituali incessanti. Venerdì pesce. Sabato confessione.
Domenica messa.
Tutti erano chiamati, ma pochi i prescelti, ossia i timorosi di
Dio e coloro che Lo compiacevano. L’alternativa era Satana e le
fiamme dell’inferno.
«… Brennan?» La voce di Ryan era più bassa, il tono più dolce.
«Ci sono.» Ti prego, non farlo.
«Ti amo.»
Dalla bocca mi uscì un verso che poteva significare qualunque
cosa.
«Buono a sapersi» disse Ryan.
«È tardi.»
Una piccola pausa.
«Stai evitando la questione, Tempe. Non si tratta di rimandare
una visita dal dentista o di venire quassù. Sto parlando delle
nostre vite.»
«Lo so» dissi in tono appena udibile.
«L’elusione dei problemi è corrosiva.»
«Odio le discussioni a distanza.» Sapevo bene che la difficoltà
non consisteva nel discutere quell’argomento al telefono. «Ne
parleremo quando sarò lì.»
«Ti amo davvero. E aspetterò. Ma non per sempre.»
Un ghiacciolo di dolore puro e cristallino mi trafisse il petto.
20

Le indicazioni di Ramsey mi guidarono alla fine di una strada


asfaltata, fiancheggiata da baite più carine dei mutandoni di
Heidi, rifugi per brevi vacanze estive o destinati agli appassionati
del fogliame autunnale. Erano tutte sprangate e buie. Nell’ultimo
tratto la strada si trasformava in un cul-de-sac fin troppo largo
per qualsiasi uso in quella località tanto remota.
La famiglia Addams fatta di crack: quello fu il pensiero che mi
attraversò la mente mentre posteggiavo l’auto.
La casa di Martha Gulley era uno sconclusionato colosso a due
piani sul quale non si era posata una goccia di vernice da quando
Babe Ruth aveva firmato per i Red Sox. Era completo di abbaini,
di una torre con banderuola segnatempo, di una veranda
perimetrale e di una serra. Il posto nel complesso sembrava il
rampollo bastardo di un’unione tra il gotico e il vittoriano.
Ne stavo osservando i dettagli quando arrivò Ramsey. Scesi
dall’auto e aspettai che mi raggiungesse.
«Sapeva niente di questa bellezza?»
«Sono passato di qui, ma non ho mai avuto motivo di entrarci.»
Ramsey stava scrutando la proprietà, schermandosi gli occhi con
una mano. «Corre voce che il vecchio Oscar sperasse di creare
una versione East Coast della casa di Sarah Winchester. È morto
dieci anni dopo l’inizio dei lavori.»
«Parla di quella villa di San Jose?»
«Sì. A quei tempi, Sarah perse prima la figlia e poi il marito, e
passò il resto della vita ad ampliare una vecchia fattoria. Quando
morì, il posto aveva centosessanta stanze e si estendeva su sei
acri di terreno. Si dice che l’avesse fatto per sfuggire ai fantasmi
della gente uccisa dai fucili Winchester.»
A Ramsey la storia piaceva senz’altro.
«Pensa che lo zio Fester abbia ancora il suo laboratorio nel
seminterrato?» domandai.
«Chi?» Si girò a guardarmi.
«Come non detto.» Ramsey si intendeva di storia, ma non di
telefilm. «Nonna sa del nostro arrivo?»
«Sì. E non ne è entusiasta.»
Indicai con la testa una Chevy Tahoe nera parcheggiata
accanto alla serra, che sembrava non accogliere flora da parecchi
decenni. «Guida ancora?»
Ramsey si strinse nelle spalle. Chi poteva saperlo?
Attraversammo un tratto di terreno marrone pieno di solchi ed
erbacce che un tempo doveva essere stato un prato, e salimmo
sulla veranda. Ramsey suonò il campanello. Al gesto non seguì
alcun suono.
Bussò alla porta. Una nota stridente, per via del suo aspetto
nuovo ed economico, forse un articolo di Home Depot.
Un minuto buono. Poi si udì lo scatto di un chiavistello, lo
sferragliare di una catena e la porta si aprì. Di una ventina di
centimetri. Attraverso l’apertura vidi una figura che si stagliava
nella scarsa luce. Una figura alta. La statura di nonna Gulley era
tale che dovetti alzare il mento per guardarla negli occhi. Erano
verdi e circospetti dietro gli occhiali dalla pesante montatura
nera da uomo. Calarono su di me in un nanosecondo e poi
rimbalzarono su Ramsey.
«Non so cosa voglia da me, sceriffo.»
«Sono solo un vice, signora.» Un sorriso schivo.
«Lei chi è?» Un cenno del capo nella mia direzione.
«La dottoressa Brennan.»
«Non credo nei dottori.»
«Grazie per aver accettato di incontrarci, signora Gulley.»
Ramsey era cordiale quanto la torta di mele a una fiera. «Ha
detto che il tardo pomeriggio le sarebbe andato bene.»
«Non è che mi abbia dato molta scelta. Si tratta di Mason?»
«Possiamo entrare?»
La nonna alzò le spalle con aria teatrale. Poi si fece indietro e
aprì un po’ di più la porta. Ramsey e io ci infilammo dentro e lei,
dopo averla sbattuta, la chiuse a chiave dietro di noi.
L’ingresso comunicava direttamente con un salottino che, come
la casa, sembrava cristallizzato nel tempo. Le tende erano chiuse
e solo una lampada era accesa. Nella penombra, scorsi un
pianoforte verticale, un’angoliera, tre gruppi di mobili di legno e
tappezzati.
Un caminetto di pietra occupava gran parte della parete alla
nostra sinistra. Davanti a esso, un paio di vecchi divani, l’uno di
fronte all’altro, erano separati da un tavolo fatto di sezioni di
tronchi d’albero coperte da una lastra di vetro.
A un’estremità del divano più lontano sedeva Granger Hoke, il
cui colletto romano era un piccolo quadrato bianco nell’oscurità.
Lisciandosi i capelli neri impomatati, si alzò per venirci incontro.
Seguii nonna Gulley attraverso la stanza, colpita dalle
dimensioni del suo corpo. Anche se il suo collo era tutto pelle e
ossa e la linea del mento flaccida, si capiva che un tempo la
stazza della donna era stata considerevole.
«Vicesceriffo.» Hoke si esibì in un largo sorriso e tese la mano.
«È un vero piacere rivederla.» L’abbagliante benvenuto si
indirizzò su di me. «O meglio, rivedere entrambi.»
«Signore.» Ramsey strinse la mano al sacerdote. «Questa è una
sorpresa.»
«Sì, sì. Spero che la mia presenza non sia un’intrusione. Martha
è alquanto nervosa. Non è mai stata interrogata dalla polizia.»
«Non lo definirei affatto un interrogatorio.»
«Certo che no.» Una risatina complice. Da vecchi amici. «Ma
Martha è una mia parrocchiana. Quando ha chiamato, non ho
potuto rifiutare. Abbiamo pregato perché Gesù le dia la forza.»
Hoke tracciò un arco col braccio, lo stesso gesto che aveva fatto
sul sagrato della chiesa. Non sembrava un uccello verde, adesso.
Invece che la tonaca, indossava un semplice completo nero.
«Prego.»
Tornò al suo posto. Nonna Gulley si accomodò all’altro capo
del divano. Ramsey e io ci sedemmo di fronte a loro, ciascuno a
un’estremità di un ruvido e ultraimbottito orrore.
«La sua casa è incantevole» dissi per mettere nonna Gulley a
suo agio.
«Il Signore Gesù non perdona gli sprechi. In gran parte è
chiusa. Non ha senso riscaldare spazi non necessari.»
«Da quanto tempo vive qui?»
«È importante?»
«No, signora. Ho saputo che suo marito ha lavorato parecchi
anni per costruire la casa.»
«Un’impresa da sciocchi.»
Dopo aver rotto il ghiaccio, cedetti la parola a Ramsey,
secondo i piani. Mentre ascoltavo la conversazione, passai in
rassegna la stanza.
Portacandele di bronzo sporgevano da pareti rivestite a strisce
verdi e beige e contornate da battiscopa e cornici da soffitto
macchiati. In mezzo alla stanza pendeva un lampadario
circondato da un rosone di bronzo ornato.
Al di là del salottino, attraverso una doppia porta di legno,
scorgevo un corridoio rivestito di carta da parati che si dirigeva a
sinistra. La tappezzeria, lì, presentava motivi floreali, non strisce.
Dall’altro lato c’era quella che sembrava una grande cucina. Non
si vedeva altro da dove ero seduta.
A un lato di Hoke, l’angoliera era un santuario di tutto ciò che
è cattolico. Un grande crocifisso sul ripiano centrale, con le spine,
i pali della croce e il corpo di Cristo scolpiti e dipinti in vividi,
seppur imprecisi, dettagli.
Era presente anche un cast di coprotagonisti, alcuni sotto
forma di scultura, altri in cornice e sotto vetro. Nostra Signora di
Qualcosa, con i palmi aperti e il cuore rosso e pulsante. San
Francesco di Assisi, con i piedi nascosti da coniglietti e agnelli.
Santa Teresa di Lisieux, il capo velato e le braccia cariche di rose.
Gli altri, sebbene di aspetto vagamente familiare, non riuscii a
identificarli.
Il volto di Gesù mi guardava dall’alto di un tratto di strisce tra
l’angoliera e il caminetto; i suoi occhi dicevano che non aveva
scrupoli nel leggermi nel pensiero. E che sentiva odore di guai.
I vari tavoli e mensole non ospitavano neanche una foto
personale. Nessun bambino con in testa un cappello buffo.
Nessun ragazzo in tocco e toga. Nessun cane addormentato in
una chiazza di sole.
Tornai a concentrarmi sul colloquio. Ramsey stava ignorando
Hoke e si rivolgeva direttamente a nonna Gulley. Il sacerdote
manteneva un’espressione impassibile. Ma capivo bene che la sua
mente era al lavoro e che stava ascoltando con attenzione.
I capelli dell’anziana donna, di uno spento bianco giallastro,
erano tirati indietro e legati in una complicata pettinatura
composta da trecce. L’orlo del vestito sfiorava le scarpe nere e
basse coi lacci, saldamente piantate a terra e strette l’una contro
l’altra.
«È un peccato che non ci siamo incontrati prima, signora.»
Ramsey stava ancora calcando la mano col fascino del ragazzo di
campagna.
«Non esco molto di casa.»
«Una perdita per la contea di Avery.»
Hoke inarcò un sopracciglio e si finse divertito. «Martha ha
ottantadue anni, vicesceriffo. Tuttavia è sempre presente in
chiesa il mercoledì e la domenica.»
«È sua nipote che l’accompagna? Susan Grace, credo che si
chiami…» disse Ramsey con tono affabile, informando però
entrambi che aveva fatto i compiti a casa.
«Sì.»
«Vive ancora con lei, allora.»
«Si tratta di mio nipote? Se è così, state sprecando il vostro
tempo. Posso dirvelo subito. Mason se n’è andato e non c’è altro
modo di spiegarlo. Ha rubato i miei soldi ed è scappato via con
una donna.»
«Cora Teague.»
«Sì, signore.»
Malgrado le sue risposte fossero decise, si capiva che l’anziana
donna era terrorizzata: dita serrate e sguardo inquieto.
«Dove andava a scuola Mason?» Ramsey usò un vecchio trucco
della comunicazione. Cambiare argomento per disorientare il
soggetto.
«Ero io a fargli da insegnante a casa.»
«Perché?»
«Mason è diverso.»
«Diverso in che senso?»
«Diverso abbastanza da non poterlo mandare alla scuola
pubblica.»
«E cioè?»
«Contro natura.»
«Sa dove sono andati Mason e Cora?» Un’altra brusca svolta.
«No. E non voglio saperlo.»
«È suo nipote.»
«È il diavolo fatto carne.» Una frase sputata con tanto livore da
farmi trasalire.
«Signora?»
«L’anima di Mason appartiene al demonio.»
«Cosa glielo fa dire?»
Gli occhiali maschili si girarono di scatto verso Hoke. Il
sacerdote abbassò il mento senza voltare la testa. La fioca
illuminazione gli metteva in ombra il viso, rendendo impossibile
leggere il suo sguardo.
«Mason non è mai stato a posto, non si è mai comportato come
dovrebbe comportarsi un ragazzo.»
«Cosa vuol dire?» mi sfuggì.
«Porta il marchio di Satana.» Una mano venata di azzurro
tracciò il segno della croce. Fronte, sterno e poi da spalla a spalla.
Perché è gay, vecchiaccia ignorante? Provai un impeto di
rabbia, ed ero sconvolta e confusa da sensazioni del momento e
da altre che si affacciavano nella mia mente dal passato. Ramsey
intervenne prima che sparassi un’altra domanda.
«Possiede una foto di suo nipote?»
«No.»
«Neanche una piccola, vecchia istantanea?» Un sorriso
zuccheroso.
«Le ho bruciate tutte quante.»
«E come mai?»
«Padre G ha detto che avrei dovuto fare così.»
Hoke si protese di lato e chiese alla vecchia signora con voce
sussurrata: «Posso permettermi una confidenza, mia cara?».
«Sì, padre.»
«Pensare a Mason turba molto Martha. Aveva incubi, non
dormiva. Ho pensato che quel gesto potesse darle beneficio. Una
sorta di purificazione.»
Ramsey continuò a fissare nonna Gulley, ma non disse niente.
Un altro trucco. Restare in silenzio, sperando che l’interlocutore
si senta obbligato a riempirlo.
Non sapremo mai se la mossa avrebbe funzionato. Prima che la
donna avesse il tempo di soccombere, il legno crepitò lievemente.
Ci voltammo tutti.
Una ragazza era ferma accanto alle porte sul corridoio. Era
alta, con la stazza di un difensore da squadra di football, ma con
un corpo morbido che suggeriva futuri problemi di peso. Una
folta frangia nera le copriva la metà superiore degli occhi. Stimai
che avesse circa sedici anni.
«Susan Grace.» Hoke fece la sua parte di prete gioviale. «Che
bello! Prego, unisciti a noi.»
La ragazza restò dov’era, le spalle curve, le braccia strette
intorno al corpo. Un momento di silenzio e poi disse: «Perché
sono qui, nonna?».
«Non hai i compiti?» La donna ignorò la domanda della nipote.
«Vogliono sapere di Mason?» La voce di Susan Grace era bassa
e profonda, quasi mascolina.
«I compiti.»
«Lo troveranno?»
«Susan Grace, sai che non ti è permesso di immischiarti nelle
faccende degli adulti.»
«Ma qualcuno almeno ci prova?»
«Signorina!» Forte e imperiosa. «Non devi cadere in preda a
Satana.»
Susan Grace batté le palpebre e la frangia fece un viaggio di
andata e ritorno sulle sue ciglia. «Ho lezione di danza stasera.»
«Non mi piace che vai in auto da sola quando è buio.»
«Prega il Signore Gesù per la mia incolumità» replicò
seccamente.
Hoke e nonna Gulley sussultarono in tandem, come marionette
i cui fili avessero ricevuto un leggero strattone.
Susan Grace ci osservò a lungo con gli occhi totalmente privi di
espressione. Poi si girò e scomparve in fondo al corridoio.
L’atmosfera nella stanza si fece d’un tratto glaciale.
«Accidenti, accidenti, accidenti.» La risatina di Hoke era
disinvolta, ma velata da qualcosa che prima non c’era.
«Ragazzi…»
«Mi dispiace, padre.» Nonna Gulley tenne lo sguardo sulle
vecchie mani nodose serrate in grembo. «Sa che non deve.»
Ramsey mi rivolse una fugace occhiata obliqua. Sollevò
impercettibilmente il mento. Annuii, ignorando una fitta di
nostalgia. Ryan e io avevamo usato lo stesso segnale decine di
volte.
Ci alzammo. Hoke fece altrettanto. Nonna Gulley rimase
dov’era, evitando il contatto visivo.
Pochi istanti dopo, Ramsey e io eravamo fuori nel sole del
tardo pomeriggio. Inspiegabilmente, sentivo un campanello
d’allarme nella testa. Non un segnale di pericolo in piena regola,
ma un messaggio subliminale che consigliava prudenza.
«Era sarcasmo, quello della ragazza?» chiesi.
«Una frecciatina alla nonna? Forse al prete?»
Inarcai le sopracciglia.
Ramsey fece lo stesso.
«Pensa che ci sia qualcosa sotto?» domandai.
«Forse.» Ramsey stava di nuovo guardando la casa.
«Non può ottenere un mandato di perquisizione? Anzi, due.
Uno per qui e l’altro per casa Teague?»
«Sulla base di cosa?»
Stavo per fare un commento sull’inopportunità del quarto
emendamento. Mi fermai, rendendomi conto che avrei parlato
come Slidell.
Arrivai a Heatherhill giusto in tempo per la cena. Il menu
consisteva di lombata di agnello, fagiolini con mandorle
sfilettate, patate novelle al prezzemolo, mousse al pistacchio. Il
cibo era delizioso tanto sul palato quanto sulla carta.
Ma non era così per mamma. Era apatica e non mangiò
praticamente nulla. Cercai di coinvolgerla nella conversazione,
ricavandone perlopiù alzate di spalle. Perfino quelle reazioni
erano fiacche: piccoli movimenti simili a contrazioni.
Eppure i capelli e il trucco di mamma erano impeccabili, la
tuta di cachemire perfettamente abbinata alle scarpe sportive
Coach marrone chiaro. Mi ripromisi di comprare un piccolo
regalo per Goose, che era già andata via nel momento in cui ero
arrivata.
Mamma non mi chiese del lavoro, dei belvedere e dei resti che
l’avevano entusiasmata solo pochi giorni prima. A parte
un’osservazione sullo stato delle mie unghie, non criticò né
giudicò nulla. Perlopiù passò il tempo rinchiusa nel mondo
privato della sua mente.
Nello sforzo disperato di coinvolgerla, introdussi l’argomento
che avevo eluso in modo così diligente. Un argomento che
dovevo ancora condividere con lei.
«Ho delle novità, mamma.»
Mi rivolse il curioso guizzo di un sopracciglio perfettamente
depilato.
«Andrew Ryan mi ha chiesto di sposarlo.»
Questo ottenne la sua completa attenzione. «Il tuo detective
francese?»
«Franco-canadese.»
«Che cosa deliziosa. Quando è il matrimonio?»
«Non ho detto di sì.»
«Ami quest’uomo?» chiese dopo un lungo sguardo indagatore.
«Sì.»
«Allora perché diavolo non l’hai fatto?»
«È difficile da spiegare.»
«Non puoi continuare a rimuginare sull’infedeltà di Pete.»
«La mia esitazione non ha niente a che fare con questo.» Nel
profondo sapevo che il tradimento di Pete mi turbava ancora e
che di tanto in tanto il dolore tornava a bussare alla porta. «Ryan
è complicato.»
L’espressione non cambiò, ma la vidi chiudersi in se stessa per
pensarci. Poi mi prese le mani nelle sue e disse: «L’amore è
composto da una sola anima che vive in due corpi».
«Aristotele.»
Annuì. «Provi un legame del genere con quest’uomo?»
Una gelida morsa si impossessò della mia lingua. Per quanto mi
sforzassi, non mi venne in mente niente da dire.
Mi trattenni un paio d’ore. Non parlammo più di Ryan. Quando
andai via, mi porse distrattamente la guancia perché la baciassi.
Tornando all’auto, non riuscii a scacciare il senso di colpa che
mi assaliva su vari fronti. Mamma era in fase calante. Di recente
l’avevo trascurata parecchio. Parlare di possibili nozze non era
servito a tirarle su il morale.
Hazel Strike era morta, forse perché avevo ignorato le sue
telefonate. Ryan era pronto a levare le tende, seccato che avessi
continuato a eludere la sua proposta.
Non avevo fatto progressi su Cora Teague né sulla ossa di
Brown Mountain. Fino ad allora, le mie azioni avevano portato
solo a vaghi sospetti e nessuna pista concreta. Nessuna lampadina
a cento watt si era accesa sulla mia testa.
Ero così immersa nel rimorso che all’inizio non mi accorsi del
movimento nell’ombra alle mie spalle. Rumori che non avevano
ragione di essere lì. Mi bloccai all’improvviso e con il fiato
sospeso, drizzando le orecchie come una creatura dei boschi
spaventata.
Sì.
Il sibilo leggero del nylon. Il sommesso scricchiolio della
ghiaia, bruscamente interrotto. In lontananza, il confuso
mormorio del vento che si infilava in un passaggio segreto.
Mi si seccò la bocca. Il cuore mi batteva contro le costole.
L’auto era a cinque metri da me. Rovistai nella tracolla.
Un’altra mossa balorda. Perché non tenevo le chiavi in mano?
Perché nessun orco si aggirava a Heatherhill. Ma qualcuno o
qualcosa mi stava seguendo.
Corri! Urlò la mia mente.
E invece mi girai di scatto.
Vidi una sagoma indistinta nel buio.
21

«Chi è?»
Nessuna risposta.
«Chi è là?»
Le ghiandole surrenali pompavano sodo. Al buio quel tipo
sembrava enorme.
Ancora niente.
«Sono armata.» Cercavo affannosamente lo spray al pepe
scaduto da anni.
Finalmente, un guizzo di movimento. Un braccio in alto?
L’ammiccamento di una pelle cerea.
«Ti voglio parlare.» La voce era sorprendentemente calma.
«Stai indietro.» La mia non lo era.
Un altro leggero riallineamento delle ombre. Poi dei passi.
Pesanti. Determinati.
Era un brutto posto per un incontro. Le siepi fiancheggiavano
entrambi i lati del sentiero. L’area di parcheggio alle mie spalle
era completamente deserta. Il mio persecutore bloccava la via di
ritorno a River House.
I passi si avvicinavano rapidamente.
«Fermo!» Nella borsetta, stappai l’erogatore e strinsi
disperatamente il flacone. Se lo spray non avesse funzionato, gli
avrei assestato un calcio nei testicoli tanto forte da farglieli
arrivare nella scatola cranica.
Il riflesso dei capelli neri. Occhi nascosti da una frangia
notevole.
Il mio dito allentò la presa sull’erogatore. Il polso mi rallentò di
un micron.
«Mi hai seguita fino a qui?»
Susan Grace annuì: un vago cambio di forma nell’oscurità.
«Hai mentito a tua nonna sulla lezione di danza.»
«Si potrà confessare al posto nostro.» Aveva una voce profonda,
bassa e neutra. Ed era impossibile leggere l’espressione del suo
viso.
«Ma perché seguirmi?»
«Devo trovare Mason.»
«Non ho niente da dirti.»
«Qualcuno di voi lo sta veramente cercando?»
«Forse Cora e Mason non vogliono farsi trovare.»
«Cora.» Con tono amaro. «Mio fratello non sarebbe fuggito mai
e poi mai senza dirmi dove stava andando.»
«E tu dove pensi che sia?»
Era così vicina che potei sentire un’accelerazione nel suo
respiro. Aspettai il tempo necessario. «Ho qualcosa da mostrarti.»
«Hai l’auto nell’area di parcheggio?» Puntai il pollice al di
sopra della mia spalla.
«Sì.»
«Va bene.» Sperando che la ragazza non fosse una folle
tagliagole. «Andiamo alla mia macchina.»
Due veicoli vagavano senza meta nell’area quadrangolare
altrimenti vuota. Scrutai attentamente cercando segni di una
seconda presenza, ma non vidi altro che cespugli, alberi e una
palizzata bianca. Aprendo la Mazda, trasferii il mio iPhone in una
tasca della giacca per averlo a portata di mano.
Feci scivolare la borsetta tra il petto e il volante. Susan Grace
buttò per terra uno zainetto e si abbandonò sul lato del
passeggero. Quando sistemò i piedi nell’auto, le ginocchia erano
sollevate e schiacciate contro il cruscotto.
«Aggiusta il sedile, se vuoi.»
Lo fece.
I secondi passarono. Un minuto intero. Di nuovo, tenni a freno
la lingua. Non volevo metterle pressione.
«Vivo come quella stupida di Bernadette.» Supposi che
intendesse la protagonista del film di Henry King.
«Ho avuto un’educazione cattolica» dissi, cercando un terreno
comune. «Mio padre amava quel film.»
«Cattolica?» Rise, uno stridio veloce e arrabbiato. «Hai
conosciuto quella psicopatica di mia nonna e il suo prete nazista.
Non siamo semplicemente cattolici. Siamo über-cattolici.
Supercolossali picchiatori cattolici.
«Preghiamo in latino perché l’inglese non è abbastanza pio.
Chiediamo perdono in ginocchio perché Dio chiede una
penitenza per peccati che non abbiamo mai commesso. Peccati
che non abbiamo mai pensato di commettere. Peccati di cui non
abbiamo mai nemmeno sentito parlare.»
«Stai parlando della Santità del Signore Gesù?»
«Certo che sì. Noi siamo i giusti. I devoti. Noi evitiamo i non
consacrati, i non battezzati, i non vergini, gli impuri. Più o meno
chiunque non sia uno di noi. E… wow! Se invece sei uno di noi e
combini casini, fai attenzione. Sappiamo come punire i cattivi!»
«Susan Grace…»
«Seguiamo regole a cui persino il papa ha dato un calcio.» Si
mosse rapidamente di lato per guardarmi in faccia, gli occhi
grandi come piattini da tè e le labbra tremanti. «Siamo così
dannatamente bacchettoni che abbiamo dato un calcio al papa
stesso!»
Rise di nuovo, quello stesso graffio di voce senza umorismo.
Avevo già assistito a sfoghi giovanili. Ho visto ragazzi maledire
un genitore, un allenatore, un insegnante che aveva
tassativamente proibito loro di indossare una maglietta col logo
dei Korn. Ma questa volta era diverso. L’intensità di Susan Grace
suggeriva una furia profonda e potente.
«Scusa» dissi, quasi per giustificarmi.
«Non ho bisogno di una spalla su cui piangere.» Un sorriso
stentato. Era imbarazzata per il suo sfogo.
«Di cosa hai bisogno?» chiesi dolcemente.
«Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a trovare mio fratello.» Si
asciugò le lacrime dalle guance col dorso della mano, tirò
violentemente la chiusura lampo dello zainetto ed estrasse
qualcosa. «Ho sentito il poliziotto chiedere a mia nonna una foto
di Mason.»
«Ne hai una?»
«No. Ma ho questo.»
Spinse l’oggetto verso di me. Lo presi e lo portai verso la luce
al di sopra della mia testa. Era debole, ma sufficiente perché
riconoscessi un’agenda Black n’ Red con i fogli a malapena tenuti
insieme dalla rilegatura.
«C’è una immagine. Usa il nastrino.»
Sollevai l’estremità del sottile segnalibro di satin rosso. Mi
portò nel mezzo del diario.
«Fai attenzione. È vecchio.»
Alla luce fioca vidi quella che sembrava un’illustrazione di un
vecchio testo di medicina. Benché in bianco e nero, l’immagine
aveva sfumature come certe foto color seppia fin de siècle. I
dettagli erano nitidi.
Il soggetto, un adolescente maschio, veniva mostrato da
quattro punti di vista diversi. Una foto della testa da prospettiva
frontale. Una ravvicinata del collo. Una ravvicinata delle dita
delle mani e dei piedi. Una ravvicinata della bocca, il labbro
superiore rivoltato all’indietro da una terza persona per mettere
in mostra la dentatura.
Il ragazzo aveva capelli biondi a ciocche sottili e due
mezzelune scure sotto gli occhi. Tracce di pigmentazione erano
disposte agli angoli della bocca e formavano sul collo una trama
irregolare a forma di rete. Le unghie delle mani sembravano
sfaldate e fragili. Le unghie degli alluci erano tagliate
obliquamente.
Ma l’aspetto più rimarchevole del soggetto era la sua
dentatura. Gli incisivi, sia quelli superiori che quelli inferiori,
erano di misura ridotta e affiancati da canini appuntiti come
pugnali. Su quasi tutti i denti lo smalto era ingrigito e presentava
delle macchie scure.
In alto a destra, la raccolta di foto era identificata come «Lastra
LXXXIV». In basso a sinistra era impressa la scritta: «Copyright,
1905, G.H. Fox». Al centro, sotto il collage, si trovavano le parole
«Sindrome Ectodermico-Dentale di Origine Sconosciuta».
«Chi è?» chiesi.
«Quando trovai queste foto le mostrai a mio nonno. Gli
andarono di traverso. Disse che era suo fratello maggiore,
Edward, che morì molto tempo fa. Insistette perché gli
consegnassi quella pagina e non ne facessi mai parola con la
nonna. Era un argomento completamente vietato. Come parlare
dei miei genitori.» Di nuovo si asciugò le guance, ovviamente
combattendo una guerra lampo di emozioni. «Feci il diavolo a
quattro e mi consentì di tenerla.»
«Perché mi mostri tutto questo?»
«Mio fratello somiglia a Edward.»
Diverso. Innaturale. Il male fatto carne.
«Possiedi il resto del libro?» Mascherai la mia repulsione per
l’interpretazione medievale fornita da nonna Gulley circa le
caratteristiche di Mason.
«No, solo questa pagina. Cioè… è vecchia di cent’anni.
Qualcuno l’ha ritagliata e conservata.»
«Sai chi o per quale motivo?»
«Probabilmente mio nonno. Questo è quello che sono riuscita a
scoprire di lui.»
Una piccola pausa di riflessione.
«Mio nonno prese il nome da Oscar Mason, un fotografo degli
inizi del Novecento. Autore perlopiù di immagini di soggetto
medico. Era abbastanza famoso. La famiglia del nonno viveva a
New York allora ed erano amici di Mason. Forse vicini di casa.
Comunque, Oscar Mason notò qualcosa di strano in Edward e
chiese se gli poteva scattare delle foto. Qualche dottore mise le
foto in un libro e ne diede una copia per ringraziamento al mio
bisnonno.»
Quasi impercettibilmente mi risuonò in testa un campanellino.
Da una galassia remota della mia memoria. Oscar Mason? G.H.
Fox?
«Susan Grace, devo ammetterlo, mi sono persa.»
La giovane donna rimase in silenzio. Forse rimpiangeva
l’impulso che l’aveva spinta a cercare il mio aiuto. Forse stava
decidendo cosa condividere e cosa tenere per sé.
Quindi optò per la prudenza.
«Dovresti parlare con i Brice» disse con voce sussurrante,
mentre i suoi occhi vagavano da destra a sinistra scrutando
l’oscurità fuori dalla nostra piccola luce.
«Chi sono i Brice?»
«Cora Teague ha lavorato per loro come tata.»
«Vai avanti.»
«Sono stati membri della Santità del Signore Gesù.»
«Non lo sono più?»
«No.»
«Perché lasciarono la Chiesa?»
«Non lo so.»
«Perché licenziarono Cora?»
«Non lo so.»
«Non c’è molto che io possa fare.»
Susan Grace si protese verso di me, le mani strette sul bordo
del cruscotto. «Hai saputo di Eli?»
«Eli Teague?»
«Sì.»
«Che cosa?»
Un silenzio gelido.
«Susan Grace?»
«Eli non è mai caduto dalle scale» A voce bassa, ma con tono
bruciante.
«Cosa stai cercando di dire?»
Ancora silenzio.
Il vento diede una leggera spinta all’auto e fischiò nelle
aperture dei finestrini.
«Susan Grace, è tardi. Devo proprio…»
«Il piccolo dei Brice morì mentre Cora si occupava di lui.»
«Morì come?» Una sensazione di gelo cominciò a farsi largo nel
mio petto.
«Non lo so.»
«Per questo Cora fu licenziata?»
«Per questo e per altro. Devi parlare con loro. Credo che
abitino ad Asheville adesso.»
«Stai dicendo che Cora ha ucciso Eli e il figlio dei Brice?» dissi
con un notevole sforzo di autocontrollo per mantenere ferma la
mia voce.
«Mio fratello è pazzo di Cora Teague. Farebbe qualsiasi cosa
per lei. Quella donna è…» Nella luce fangosa, offerta dalla
piccola scatola al di sopra della testa, potei vedere un angolo
delle labbra alzarsi. «Sai mia nonna come la definisce? Un
diavolo di femmina.»
«Sono confusa. Dunque Mason potrebbe essersene andato con
Cora?»
«Non l’avrebbe mai fatto senza dirmelo.»
«Come puoi esserne sicura?»
«È come se fosse posseduto. La ama e la odia allo stesso
tempo.»
Era un’altra risposta equivoca.
«Ma non puoi essere certa che non siano insieme.»
«Sì.» Il viso di Susan Grace si indurì. «Posso.» I lineamenti del
suo viso si contrassero nell’indecisione tra il divulgare le sue
notizie e contenere le perdite. «Mason e Cora scomparvero nello
stesso periodo. Luglio 2011. Questo è vero. Ma ho parlato con
mio fratello quasi ogni giorno dopo che se ne fu andato. E non
era con lei.»
Ero sbalordita. «E lui dove si trovava?»
«A Johnson City, in Tennessee.»
«Perché?»
«Questo non posso dirtelo.»
«Dove andò Cora?»
«Non sono riuscita a scoprirlo. E ho fatto numerosi tentativi.»
«Di che tipo?»
«Mason mi chiese di tenere d’occhio Cora. Di giocare alle spie.
Ero ragazzina, mi sembrava un passatempo divertente, sullo stile
di Mission Impossible o di cose del genere. Eravamo agenti segreti,
ma Mason era sotto copertura, così toccava a me ficcare il naso e
riferire a lui.»
«Ma tu non l’hai mai vista.»
«Forse una volta, in un negozio. Ma io ero in macchina.
Andavamo veloci e non ho potuto veramente guardarla in
faccia.»
«Per quanto tempo andò avanti il gioco?»
«Un mese… forse un po’ di più.»
«Vi parlavate col cellulare?»
Susan Grace sbuffò. «Dio proibì che io camminassi nella
perniciosa terra della tecnologia mobile. A mia nonna sarebbe
venuto un colpo. Mason mi chiamava a un telefono pubblico
fuori dalla mia scuola. Prendevamo un appuntamento di volta in
volta. Faceva parte del gioco.»
«Che accadde?»
«A settembre non chiamò più e basta. Per un paio di settimane
continuai ad aspettare vicino al telefono. Non ha mai più
telefonato.»
«Come arrivò fino a Johnson City?»
«Probabilmente facendo l’autostop. Quando Mason metteva un
berretto sembrava quasi…» guardò in basso le sue mani
«normale.»
«Sai dove Mason alloggiava?»
«In un motel. È tutto quello che mi disse.»
«Spendeva i soldi che aveva rubato a tua nonna.»
«Non fu Mason a rubarli. Lo feci io.»
«E li consegnasti a lui.»
«Sì.»
Pensai al telefono pubblico. Dubitavo che dopo quattro anni le
telefonate potessero essere rintracciate.
«Lo hai mai chiamato?» Chiesi.
«Mason non voleva, ma gli dissi che avrei abbandonato il gioco
se non mi avesse dato il suo numero. Lo chiamai una volta, ma
non ne fu felice. Non l’ho mai più fatto.»
«Esiste una possibilità che tu abbia ancora il numero?»
Mi passò un foglio piegato. «Mi sento friggere. Mason è la
persona con il cuore più gentile sulla faccia della terra.» Il suono
di un singhiozzo sfuggì dalla sua gola. Inspirò, come per
continuare. Un attimo di esitazione, poi lasciò uscire il fiato in un
sospiro.
Volevo dire qualcosa di confortante. Ma la testa mi girava
vorticosamente. E al campanellino di prima adesso si era unita
una voce. Quella voce mi avvisava che la faccenda poteva essere
il frutto delle manie di una adolescente.
Mi trovavo di fronte a un caso del genere? O avevamo
completamente frainteso tutto quanto?
Chi era Cora Teague?
22

Forse era l’allusione aristotelica di mamma. Forse era


adrenalina che restava nel mio corpo dopo l’incontro con Susan
Grace. Di nuovo sentii un desiderio travolgente di parlare con
Ryan.
Mentre guidavo lo chiamai. Mi rispose la voce della segreteria.
Lasciai un messaggio.
Chiamai anche Ramsey. Rispose. Gli riferii la mia
conversazione con Susan Grace.
«Che ne pensa?»
«È una ragazzina arrabbiata.»
«Chi non lo sarebbe vivendo in quella casa?»
Non potevo essere in disaccordo.
«Così la sorellina di Mason spia la sua ragazza mentre lui è
confinato a Johnson City.»
«Susan Grace non l’ha messa proprio così.»
«Non sa perché Mason se ne sia andato.»
«Mi pare piuttosto che non voglia dirlo. E, permettimi, per
avere sedici anni ragiona in modo alquanto articolato.»
«E non è in pensiero per Cora.»
«Decisamente no.»
«Ha detto perché?»
«No.» Due occhi rossi lampeggiarono nel buio: un cerbiatto
nottambulo trasalì davanti alla luce dei fari della mia auto.
Rallentai. «Ha detto che non le piace come suo fratello faccia lo
zerbino di Cora. E che sua nonna la chiamava un diavolo di
femmina.»
«Quel vecchio pipistrello probabilmente pensa che anche lei sia
un diavolo di femmina.»
«Ne sono lusingata.»
«Quindi giocano a fare le spie per un po’, poi Mason si dà alla
macchia.»
«Sì.»
«Dove alloggiava il ragazzo a Johnson City?»
«Susan Grace non lo sapeva, ma ha un numero di telefono. Te
lo mando per SMS.»
«Teme che gli sia accaduto qualcosa?»
«Giura che lui non se ne sarebbe mai andato senza dirle
nemmeno una parola.»
«A meno che non stia cercando di prendere le distanze da un
omicidio.»
«Potrebbe essere così. Oppure potrebbe essere stata Cora…»
«In che senso?»
«… ad aver bisogno di sparire.»
Ramsey riflettè un attimo. Poi disse: «Brice. Non conosco quel
cognome».
«Susan Grace sostiene che la famiglia potrebbe trovarsi ad
Asheville.»
«Quindi pensa che abbiano lasciato Avery.»
«Li troverà?»
«Sono già sul pezzo.» Era la frase preferita di Ramsey.
Gli dissi della foto di Edward Gulley.
«Ecco perché la nonna non ha mandato il nipote a scuola»
disse.
«Sono sorpresa che non lo abbia annegato alla nascita.»
«Qual è il suo problema?»
«Sono già sul pezzo.»
«Che sfacciataggine.»
Ero quasi alla periferia di Charlotte quando Ramsey mi
richiamò.
«Brice, Joel e Katalin. Joel è un saldatore. Katalin una fornaia.
Hanno una figlia, Saffron, che va alle scuole elementari. Persero
un bambino, River, nell’estate del 2011. Aveva nove mesi. Poco
dopo la morte di River si sono trasferiti da Avery ad Asheville.»
«Ha provato a chiamarli?»
«Ho parlato con Joel. Brevemente.»
«Come morì il bambino?»
«Sindrome della morte improvvisa infantile.»
«Magnifico.»
«Cosa?»
«La maggior parte degli esperti definisce quella sindrome come
la morte inspiegabile, che avviene in genere durante il sonno, di
un bambino apparentemente sano di meno di un anno. Significa
“cause indeterminate”. Parlerà col coroner per conoscere tutta la
storia?»
«Sì, se riesco a rintracciarlo.»
«La morte avvenne mentre Cora si occupava di lui?»
«Joel si è rifiutato di parlare di Cora Teague.»
«Avevano conosciuto Cora tramite la Santità del Signore
Gesù?»
«Neanche questo era un argomento gradito.»
«Gli ha chiesto perché la licenziarono?»
«Terribilmente sgradito.»
«Ha chiesto come mai lasciarono la Chiesa?»
«Anche questo era vietato.»
«Come ha reagito?»
«Ha riattaccato.»
«Che sensazione ne ha ricavato?»
Per un lungo momento non sentii altro che il respiro di
Ramsey. Poi disse: «Avevo la sensazione che ci fosse molto di
nascosto».
Cercai di concentrarmi sulla guida. Ma la mente continuava a
girare a vuoto. Che sarebbe successo quella mattina aprendo il
calco di gesso? La mia idea aveva funzionato? Se sì, che volto
avrei visto? Quello di Cora Teague? Perché Hazel Strike mi aveva
chiamata sabato? Perché era così urgente che la richiamassi?
Aveva notizie da darmi? O era allarmata e cercava aiuto? A chi si
era rivolta mentre ero impegnata? Quella persona l’aveva uccisa?
Strike era tornata a trovare John e Fatima Teague, o nonna
Gulley, o i Brice? Uno di loro si era sentito così minacciato o
esasperato da venire a Charlotte per farla smettere con quel
tormento? Le cose erano sfuggite di mano?
Wendell Clyde aveva saputo dell’incontro di Strike con me
all’MCME? Del suo continuo interesse alla sparizione di Cora
Teague? Clyde l’aveva affrontata? L’aveva colpita a morte,
gettando poi il corpo nel lago?
Susan Grace rispuntò nei miei penseri. Per due volte mi aveva
indirizzato domande in modo fastidioso. Una volta in macchina,
una volta a casa.
Era solo un modo di parlare? O dovevo prenderla alla lettera?
Mi chiedevo se Ramsey lo avesse notato. Avrei dovuto
chiederglielo.
Il semaforo all’incrocio tra Queens Road e Queens Road West
era rosso. È Charlotte: inutile fare domande. Aspettando il verde
schiacciai il tasto di chiamata rapida.
Tre squilli, poi uno sbuffo: «Slidell».
«Sono la dottoressa Brennan.»
«Lo so.»
Sto bene, testa di cazzo. Grazie per avermelo chiesto.
«Mi stavo chiedendo se ci sono stati progressi su Strike.»
«No, non abbiamo fatto strike.» Potevo sentire voci di
sottofondo, e un telefono che squillava. Mi immaginai Slidell
nella stanza della squadra omicidi.
«Lavorate fino a tardi» dissi.
«Sei preoccupata per qualcosa in particolare?»
Gli dissi della mia conversazione con Susan Grace.
«La ragazza pensa che al nome di Cora Teague non possa
accompagnarsi nulla di buono.»
«Sì» dissi.
«Teague le ha rubato l’attenzione del suo fratellone. È gelosa.»
«Forse. Ma mi ha posto un paio di domande in un modo che mi
ha dato fastidio.»
La gola di Slidell emise un rumore indecifrabile.
«Ha chiesto a sua nonna: qualcuno almeno ci prova? E ha
chiesto a me: qualcuno di voi lo sta veramente cercando?»
«E quindi?»
«Non sono domande strane?»
«Lo hai detto tu che è una ragazza stramba. Senti, adesso…»
«Significa che altri sono alla ricerca di Mason.»
«Questo cosa ha a che fare con Strike?» Impaziente.
«Forse la ricerca di Cora Teague ha condotto Strike fino a
Mason. E forse non era la sola a cercare.»
«Stai parlando di quel segugio informatico rivale, Wendell
Clyde?»
«Hai un’idea migliore?» dissi in tono brusco. Lo scetticismo di
Slidell mi stava rendendo scorbutica. Ed ero stanca.
«Forse. Sto pensando che è ora di uscire per fare qualche
domanda.»
Calma.
«Strike mi disse che sarebbe tornata ad Avery. Probabilmente
ha fatto visita a John e Fatima Teague, a nonna Gulley e forse ai
Brice. Potrebbe aver fatto arrabbiare o spaventare qualcuno.»
Slidell cominciò a parlare. Proseguii.
«O forse Wendell Clyde ha saputo del viaggio di Strike, è
impazzito e l’ha fatta fuori.»
Un lunga pausa. Poi: «Quando c’è stata questa campagna
telefonica?».
«Strike mi ha chiamato tre volte sabato. Suppongo che lei si
trovasse ad Avery quando anch’io ero lì.»
«Ma non ti ha mai parlato.»
«No.»
Slidell rispose con un silenzio. Lungo.
«Ho visitato il nido di Strike oggi. Un secchio di merda fuori
Derita.»
«Derita è una zona assolutamente rispettabile.»
«Sì. Tutta ragazzini e barboncini e ricami della nonna
incorniciati alle pareti.»
Roteai gli occhi. Data la mia fatica, non era un buon segno.
«Di certo Strike non si intendeva di arredamento. Un paio di
camere da letto, una cucina, un bagno, un soggiorno-stanza da
pranzo, tutto di colore giallo pipì. L’unica cosa artistica di quel
posto era un calendario attaccato col nastro adesivo alla porta del
frigorifero. C’era la pubblicità di una marca di mangime per
uccelli in un angolo.»
Mi chiesi quali eccellenti opere adornassero le pareti di Slidell.
«Segni di effrazione?» Chiesi.
«No.»
«Sembrava che Strike fosse stata uccisa lì?»
«Niente sangue, non c’era mobilio fuori posto, né vetri rotti,
cassetti rovistati.»
«Nessun segno di lotta.»
«O qualcuno ha fatto pulizia.»
«Hai richiesto l’intervento della Scientifica?»
«Non ci ho mai pensato.»
Prendo fiato.
«Sai se hanno trovato un portachiavi contenente un registratore
ad attivazione vocale?»
Sentii il cigolio delle molle e immaginai che Slidell stesse
raggiungendo la lista degli oggetti ritrovati dai tecnici.
«Niente del genere, in quel letamaio. Perché?»
«Strike ne aveva uno quando venne da me la prima volta. Disse
che lo aveva trovato al belvedere della contea di Burke dove
erano stati scoperti i primi resti nel 2013.»
«Cosa c’era sul registratore?»
Descrissi le tre voci.
«Per George Washington! Non l’hai spinta a lasciar perdere?»
«Non avevo motivo di farlo» replicai seccamente.
Sentii una voce. Dal suono sembrava che Slidell avesse
premuto il ricevitore sul suo petto. Stavo svoltando nel vialetto
quando riprese a parlare.
«Quindi la casa non ha fruttato nulla di interessante?» Volevo
entrare in quella casa.
«Non ho detto questo. Una camera da letto era piena fino
all’altezza delle ascelle di cartoni pieni di raccoglitori per
documenti. Un disordine mentale degno di una puntata di
Hoarders.»
«Casi da cybersegugio?»
«Ho messo dei ragazzi a studiare le carte.»
«C’è anche Cora Teague?»
«Ho messo dei ragazzi a studiare le carte.»
«E il computer?»
«Niente cellulare. Niente computer.»
«Hai dato un’occhiata alla sua auto?»
«Non saprei come cavarmela senza di te.»
«Doveva avere un portatile. Con quello passava un sacco di
tempo…»
«Il fantastico mondo del web. La casa ha il wi-fi.»
Spensi il motore. Fuori dai finestrini, i prati e i giardini di
Sharon Hall sembravano bui e deserti quanto i campi di
Heatherhill.
«Avete localizzato Wendell Clyde?» chiesi.
«Sì. Il rospo vive ancora a Huntersville. Come prima cosa,
domani metto quella testa di cazzo in arresto per discutere dei
suoi recenti successi.»
«Vuoi che…»
«Posso farcela da solo.»
Entrambi infrangemmo un record di velocità terrestre nel
chiudere la telefonata.
Erano quasi le undici. Benché esausta, sapevo che quel
campanellino subliminale sarebbe stato spietato nell’impedirmi il
sonno.
Dopo aver placato Birdie, mandai a Ramsey un SMS col
numero di Mason di Johnson City. Poi mi incollai a Internet e
iniziai a cercare. Non c’era molto. Ma quello che trovai spiegava
perché la piccola sinapsi avesse preso fuoco.
Oscar Mason era stato un pioniere nel campo della fotografia e
della radiografia medica e, per oltre quarant’anni, aveva guidato
la sezione fotografica presso il Bellevue Hospital di New York.
Nel corso della sua carriera aveva fornito centinaia di
illustrazioni per lavori pubblicati da medici associati con
l’ospedale e il suo collegio medico. Mason si era ritirato nel 1906
ed era morto nel 1921.
Bene. Calzava. Edward Gulley sarebbe stato tra i suoi ultimi
soggetti.
Mason era stato inoltre presidente della sezione fotografica
dell’American Institute, e aveva occupato una carica presso
l’American Microscopical Society. Impressionante. Ma perché
avevo sentito parlare di lui?
Continuai a leggere.
Tombola.
Nel 1866 al Bellevue era stato costruito un obitorio sul modello
di quello ben più grande di Parigi. All’inizio dell’anno successivo
Mason si era occupato, tra l’altro, di fotografare i deceduti che
non avevano ancora un nome. Foto e cadaveri venivano numerati
in modo corrispondente e i corpi venivano esposti, fino a un
massimo di settantadue ore, su tavole di pietra dietro un muro di
vetro e ferro. I resti non identificati e non reclamati venivano
sepolti nel cimitero cittadino di Hart Island.
In quel momento avvertii un tonfo nella mia mente. Tornando
ai primordi della storia, avevo sentito parlare di Mason in un
corso sull’evoluzione dei sistemi della medicina legale. Avevamo
studiato esempi del suo lavoro e letto un rapporto annuale in cui
egli richiedeva una struttura che gli permettesse di fotografare
cadaveri al coperto. Seguii altri link. Trovai un elemento che
catturò la mia attenzione.
«Le foto più importanti di Oscar Mason sono apparse nei grandi
atlanti di dermatologia di George Henry Fox.»
Il web è una creazione meravigliosa. Dovetti cercare poco per
trovare l’Atlante fotografico delle malattie della pelle di Fox.
Quattro volumi interi, pubblicati tra il 1900 e il 1905 e ora di
pubblico dominio. Erano stati digitalizzati, colorati e caricati.
Guardai immagine dopo immagine. Scorsi l’indice. Non trovai
menzione di una «sindrome ectodermico-dentale di origine
sconosciuta». Nessuna lastra che mostrasse Edward Gulley con i
suoi occhi ombreggiati, la pelle macchiata, le unghie traballanti e
la dentatura rovinata. Ma lo stile era inconfondibile. La pagina di
nonno Gulley veniva da una pubblicazione di Fox.
Benché non fosse necessario, presi la foto che avevo scattato
col mio iPhone prima di separarmi da Susan Grace. Mentre zio
Edward mi fissava tristemente, compilai una lista delle sue
stranezze.
Questo round occupò più tempo. Ma la mia diligenza pagò.
Alle due del mattino avevo la diagnosi di Mason ed Edward
Gulley.
Mi buttai a letto rattristata, ma anche esultante. E confusa.
Il sonno mi colse rapido e pesante.
Anche il subconscio è una creazione meravigliosa.
Un’ora dopo ero completamente sveglia. Questa volta
l’esplosione della sinapsi fu clamorosa.
Sapevo di chi era la faccia che avrei visto al mattino nel calco.
23

Una brezza leggera stava lavorando per rimescolare le cose, ma


con la morbida nonchalance della primavera. La luce del sole
attraverso le magnolie gettava ombre in movimento sui mattoni
del patio. La bellezza delle prime ore del mattino con me era
sprecata. Erano passate due ore da quando avevo chiamato
Hawkins. Non vedevo l’ora di precipitarmi in laboratorio.
Quando arrivai, la signora Flowers era impegnata al suo posto di
receptionist. Le rivolsi un rapido cenno di saluto e corsi a
infilarmi il camice.
Il calcestruzzo era come lo avevo lasciato. Tranne che per lo
strato di solvente chimico che adesso rivestiva il sigillante.
Senza nemmeno fermarmi per un caffè, suonai al piano di
sotto. Hawkins arrivò dopo qualche minuto. Infilò un paio di
guanti e passò un’eternità a rimuovere quella specie di bava
bianca con un piccolo raschietto di plastica. Finalmente il
sigillante andò via lasciando visibili le fessure. Mentre tenevo
fermo il calcestruzzo, cosa che probabilmente non servì a molto,
Hawkins allentò gli strettoi. Insieme togliemmo lo stampo dalla
morsa e lo disponemmo sul bancone.
«Pronta?» mi chiese.
Feci cenno di sì.
Contemporaneamente allentammo la pressione. Il calcestruzzo
si spaccò lungo le fessure. Trattenni il fiato mentre separavamo le
due parti.
Il rivestimento di gomma liquida aveva fatto il suo lavoro. Lo
stampo si staccò facilmente dal gesso odontoiatrico che lo
riempiva all’interno. Liberando le due metà, stabilizzai il gesso e
lo appoggiai sul bancone.
Il frutto del nostro lavoro era lì, a faccia in giù. La testa
appariva ragionevolmente ben formata, benché ammaccata dove
l’aria aveva formato delle bolle o dove il calcestruzzo era stato
danneggiato. La superficie esterna era ricoperta di capelli
impressi. Con entrambe le mani, e di nuovo respirando appena,
feci rotolare delicatamente il gesso e lo misi in piedi poggiandolo
sulla sua superficie piatta.
Ho visto foto di famose maschere mortuarie, qualcuna
originale. John Dillinger. Dante. Napoleone. Maria Stuarda.
Ciascuna di quelle macabre effigi aveva catturato in un modo
freddo e spaventoso lo spirito di una persona che non era più tra
i vivi.
Ogni volta mi veniva la pelle d’oca, e così stava accadendo in
quel momento.
Hawkins e io eravamo spalla a spalla, attoniti, quando Larabee
spinse la porta ed entrò.
«Come andiamo?» Vedendo il busto, il suo largo sorriso si
arrotondò in una O.
Larabee si avvicinò a noi e piantò le mani sui suoi fianchi. «Che
mi venga un accidente.»
«Sì» dissi sommessamente.
I dettagli andavano ben oltre le mie più rosee aspettative.
Tranne che per qualche piccola distorsione alle ciglia, era come
guardare un viso colto nel sonno. Naso lungo e sottile. Zigomi
prominenti. Una mascella che avrebbe beneficiato di un angolo
meno ottuso.
«È Cora Teague?» chiese Larabee.
«No.»
«Qualche idea su chi sia?» Era sorpreso.
«Mason Gulley.»
«Chi diamine è Mason Gulley?»
«Hai qualche minuto?»
«Certo.» Guardò il suo orologio, con la mente rivolta senza
dubbio a un corpo deposto su un tavolo.
«Ci vediamo nel tuo ufficio. Prendo il mio telefono e alcune
stampate.»
Mentre Hawkins puliva la stanza maleodorante, fornii
ragguagli a Larabee su tutto quello che era successo fin da
quando ci eravamo visti, ossia lunedì. Poi gli mostrai sul mio
iPhone l’immagine della lastra di G.H. Fox.
La studiò, con le sopracciglia inarcate a V sopra il suo naso.
«Sembra presa da una di quelle bancarelle con foto d’altri tempi.»
«È una pagina tratta da un manuale storico di medicina. Le
foto sono state scattate da un fotografo del Bellevue Hospital di
nome Oscar Mason.»
Gli mostrai le fotocopie delle immagini scaricate da Internet.
Le guardò, poi guardò nuovamente il telefono.
«Chi è il soggetto?»
Gli dissi di Edward Gulley. E di Mason. E di Susan Grace.
«Devo ammettere che c’è una somiglianza col tuo gesso. Ma
come puoi essere certa che si tratti proprio di quel ragazzo?» Era
chiaramente dubbioso.
«Hai mai sentito parlare della sindrome di Naegeli-
Franceschetti-Jadassohn?»
«Rinfrescami la memoria.»
«La sindrome di NFJ è una condizione genetica ereditata come
autosomica dominante.»
«Quindi, se un genitore ce l’ha, ogni figlio ha il cinquanta per
cento di probabilità di ereditarla.»
«Sì. Chi presenta quella sindrome suda poco o niente, per cui
giornate calde e intensa attività fisica sono mal tollerate. Un
individuo affetto da quella malattia può presentare macchie scure
sull’addome, sul petto o sul collo. Qualche volta intorno alla
bocca e agli occhi. La pigmentazione è a forma di reticolo e tende
a comparire tra uno e cinque anni di età. Può scemare durante
l’adolescenza o protrarsi per tutta la vita.»
«Vedo la pigmentazione anormale…» disse Larabee, ancora
guardando Edward Gulley. «… e il reticolo.» Si riferiva al disegno
formato sulla pelle.
«Altri sintomi sono l’ispessimento della pelle dei palmi delle
mani e delle piante dei piedi, le unghie delle mani fragili e, meno
frequentemente, le unghie degli alluci male allineate. Le
anomalie dentarie sono comuni e includono la mancanza di
denti, lo smalto ingiallito e macchiato, la carie precoce e la
perdita prematura dei denti.»
«Tutto questo lo vedo. Ma concludere che…»
«Un altro difetto associato alla sindrome di NFJ è l’assenza di
impronte digitali.»
Le sopracciglia a V si sollevarono. «Oh.»
«Il pollice e le dita del belvedere della contea di Burke non
avevano impronte.»
«Qual è l’incidenza sulla popolazione della sindrome di NFJ?»
«Un caso su un campione compreso tra due e quattro milioni di
persone.»
«È piuttosto rara, dunque.»
«Sì.»
«Quindi è verosimile che la testa in quel secchio fosse di Mason
Gulley.»
«Sì. Quel campione di capelli biondi sottili. Il fatto che Mason
fosse “strano”, secondo un testimone. La rassomiglianza tra la
maschera mortuaria e le foto di Edward Gulley. L’affermazione di
nonna Gulley secondo cui era contro natura. La mancanza di
impronte sulle punte delle dita nella resina di pino, assumendo
che fossero le sue. Tutto punta verso la sindrome di NFJ. Quindi
verso Mason.»
«Allora tutti gli altri resti trovati finora sono suoi?»
Sollevai entrambi i palmi. «Tutte le ossa sono coerenti in
termini di età e taglia corporea. Non ci sono elementi duplicati.
Non posso dire che siano tutte di una stessa persona. Non posso
dire che non lo siano.»
«Un parente materno di Gulley ci fornirà un campione di
DNA?»
«La nonna certamente no. Susan Grace è minorenne.»
Larabee meditò. «Quindi è possibile che vengano recuperate
anche parti di Cora Teague.»
«O di qualcun altro.»
«Ho l’impressione che non la pensi così.»
«Infatti, non la penso così.»
«Lo sai che non è sufficiente.»
«Lo so.»
«Non daremo una notifica di morte ai parenti prossimi.»
«No.»
Larabee, riflettendo, fece tamburellare le dita sul bracciolo
della sua sedia.
«Mi pare abbastanza chiaro che Gulley è stato ucciso.»
«La sua testa era in un secchio.»
«Riflessioni su questo punto?»
Condivisi i commenti di Susan Grace su Cora Teague, sulla
«caduta» fatale di suo fratello Eli e sulla sindrome della morte
improvvisa del piccolo Brice. Poi chiesi: «Chi era il medico legale
lassù, all’epoca?».
«La contea di Avery ha un coroner» disse Larabee.
«Perfetto.» Diversamente dai medici legali – perlopiù dottori,
sebbene in North Carolina non lo siano tutti – i coroner possono
avere qualsiasi qualifica… dal meccanico all’impresario di pompe
funebri.
«Non sono sicuro di chi sia stato saggiamente eletto nel 2008 o
nel 2011. Fammi dare un’occhiata.»
«Che è successo a Strike?» chiesi mentre Larabee prendeva un
appunto.
«Non ho ancora sentito nemmeno una parola da Slidell.»
«Aveva in programma di interrogare Clyde stamattina.»
«La battaglia dei cybersegugi…» Larabee scosse lievemente la
testa.
«Gli scambi in Internet tra Strike e Clyde erano al vetriolo.»
«Chiamiamo Skinny?» Si chinò in avanti per digitare il numero
sul telefono. Due squilli, poi sentii: «Slidell».
«Sono Tim Larabee.»
«Non posso parlare, doc. Sono sulla scena.» Frastuono. Una
porta sbattuta. Una sirena in lontananza. Voci concitate.
«Che ne dici di un veloce aggiornamento su Hazel Strike?»
«La soap opera ha appena preso un nuovo corso.» Aspettammo
che Slidell abbaiasse un ordine a qualcuno. «Sono in un
condominio in Carmel Road, e sto guardando un bel po’ di
cervello spiaccicato su un muro. Selma Barbeau, settantadue
anni, di razza caucasica e di sesso femminile, vedova. Viveva da
sola. Qualche bastardo le ha rifatto la faccia con una Brooklyn
Smasher che lei teneva vicino al letto come difesa.»
Gli occhi di Larabee incontrarono i miei. «Barbeau è stata
uccisa con una mazza da baseball?»
«Uh-uh.»
«Pensi che si tratti dello stesso tipo che ha ucciso Hazel
Strike?»
«No, doc. Le anziane vedove vengono prese a randellate ogni
volta che mi trovo in servizio.»
Scrissi rapidamente un nome su un foglio e lo alzai davanti a
Larabee.
«Hai già interrogato Wendell Clyde?» chiese a Slidell.
«Clyde si sta rinfrescando le idee giù in centro. Non mi sembra
più il nostro uomo, ma una sudatina gli migliorerà il carattere.»
Mi congratulai con me stessa per non aver commentato
l’immagine contraddittoria di Slidell.
Di ritorno nel mio ufficio, stavo per digitare una chiamata
rapida quando il mio iPhone inziò a vibrare. Utente non
identificato. Non so perché, ma risposi.
«Ciao, mamma. Ti chiamo per un breve saluto.»
«Oh, Dio. Katy! Sono così felice di sentire la tua voce.»
Sembrava lontana un milione di chilometri. Me la figurai in un
call center, con un fucile M16 a tracolla, una fila di soldati dietro
di lei ad aspettare.
«Come stai? Tutto bene? Hai bisogno di qualcosa? Posso
mandarti un pacco…» Parlavo in maniera tanto rapida, che
sembrava balbettassi.
«Sto bene.»
«Com’è l’Afghanistan?»
«Oggi è perfetto, domani sarà meglio.»
«Divertente. Fa ancora freddo?»
«Abbiamo toccato i ventisette gradi ieri.»
«Sei sicura di non aver bisogno di niente?»
«Mamma, sto bene. La mia unità sta andando in missione.
Volevo solo salutarti.»
«In missione?» Calma.
«Niente di preoccupante. Ma per un po’ di tempo potrebbe
essere difficile chiamarti.»
«Un po’ di tempo?» Assolutamente calma.
«Non molto. Novità dal fronte domestico?»
L’avevo detto a mia madre. Mi sembrava carino dirlo anche a
Katy. Carino e prudente. «Andrew Ryan mi ha chiesto di
sposarlo.» Non ho aggiunto che me lo ha chiesto mesi fa.
L’accenno di una pausa, quasi impercettibile. Poi: «E allora?».
«Non gli ho ancora dato una risposta.»
«Perché?»
«Non sono sicura.»
«Tu lo ami?»
«Sì.»
«Allora perché sei in stallo?»
«Non lo chiamerei stallo.»
«Come lo chiameresti?»
«Riflessione.»
«Sei ancora diffidente perché papà ti ha scaricata?»
«No.» Sì.
«È stata una mossa da stronzo, ma questo non significa che
Ryan ti dovrà ingannare.»
«No.»
«Quindi qual è il problema?»
«Non sono sicura.»
«Vai avanti.»
«È troppo rapido…»
«Qualcuno deve pur esserlo. La nonna lo sa?»
«Sì.»
«Cosa ha detto?»
«Vai avanti.»
«Devi voler bene a Daisy.»
«Mmh. Hai parlato con tuo padre?»
«Lo chiamo adesso. Devo proprio andare. Ti voglio bene!»
«Anch’io ti voglio bene, tesoro. Stai attenta.»
«Sempre.»
Chiuse la telefonata.
Mi ci volle un momento per ritornare con i piedi per terra. Poi,
provando un misto di esaltazione e allarme che nascosi con cura,
chiamai Ramsey.
Come quella di Slidell, la voce di Ramsey arrivò scavalcando
un tumulto di suoni. Anche lui stava raccogliendo informazioni
dopo una morte violenta. Il suo incidente aveva coinvolto una
Buik, una Bronco e una bottiglia di whisky.
Sovrastando l’intermittente farfugliare della sua radio, gli dissi
di Mason Gulley. E della nuova teoria di Slidell riguardante Hazel
Strike. Ramsey doveva aver notato qualcosa nella mia voce.
«Non crede che l’omicidio di Strike sia scollegato da quanto
accaduto lassù? Dalle sue indagini su Cora Teague?»
«No.» Un pensiero improvviso si fece strada. «Penso che Strike
fosse nella contea di Avery sabato scorso. Mentre eravamo
insieme a Burke, lei si era arrabbiata. Pensa che possa aver
spedito quel masso sulla nostra strada?»
«Perché?»
«Per distrarci? Perché ce la siamo tolta dalle scatole? Perché
era pazza?»
«Non potrebbe essere Wendell Clyde il nostro uomo? Forse
pensava che Strike fosse laggiù con noi?»
Sempre domande. Mai risposte.
«Novità su quelle tracce?» Mi riferivo alle cavità presso la
roccia.
«I ragazzi del reparto investigazioni scientifiche dicono che è
stato un grimaldello.»
«Di un tipo particolare?»
«No.»
Perfetto. Questo restringe le possibilità a circa dieci
fantastiliardi.
«Il secchio della Coda del Diavolo conteneva decisamente la
testa di Mason Gulley» dissi, sia per organizzare i miei pensieri
sia per continuare a dare informazioni a Ramsey. «E sono sicura
che il pollice e la punta del dito trovati nella contea di Burke
erano i suoi. Questo suggerisce che anche le ossa del torso trovate
a Burke erano di Mason. E lascia fuori solo il materiale di Lost
Cove Cliffs.»
«Notizie da parte della professoressa della WCU a questo
proposito?»
«No.»
Rimanemmo in silenzio durante un’esplosione di interferenze
alla radio. Ramsey doveva aver abbassato il volume, perché quel
gracchiare diminuì di molto.
«Quindi qualcuno ha fatto a pezzi questo ragazzo e ha lanciato
le parti del suo corpo da almeno due, forse tre belvedere.»
«Così pare» dissi.
«Chi?»
«Non mi piace quello che sento dire di Cora Teague. Un fratello
morto. Un bambino morto. Il fatto che venisse definita come un
diavolo di femmina.»
«Assassino, non vittima.» Il tono di Ramsey suggeriva che lui
aveva saggiato con l’alluce le stesse acque cupe.
«Forse stiamo sbagliando tutto.»
Lo sentii inspirare profondamente. Poi espirare. «Che cosa
propone?»
«Proverò di nuovo a contattare l’antropologo che si occupò
dell’analisi dei reperti di Lost Cove Cliffs. Chiamerò anche i nostri
esperti di DNA per vedere se hanno avuto fortuna con le
sequenze. Mi piacerebbe proprio sapere se stiamo guardando una
sola vittima.»
«E io?»
«Che ne pensa se come prima cosa ci incontriamo domani
mattina ad Asheville?» dissi.
«Facciamo una chiacchierata con i Brice.» Un ritorno sulle
montagne era l’ultima cosa che volevo in quel momento.
Sebbene, per fortuna, Asheville si trovava a più breve distanza da
Charlotte rispetto alla contea di Avery.
«Messaggio ricevuto.»
Un secondo, poi Ramsey lesse un indirizzo. Me lo appuntai.
«Nel frattempo vedrò cosa riesco a ricavare sulla morte del
piccolo Brice. Più informazioni abbiamo, più li possiamo
incalzare.»
«E forse occorre approfondire i problemi di salute di Cora
Teague» suggerii.
«Sa come andrà a finire…»
Lo sapevo. Cora era minorenne. Nessuno avrebbe rivelato
alcunché sui suoi trascorsi medici.
«Sia scaltro» dissi.
«Sarò un vicesceriffo subdolo. Vado di corvée.»
Silenzio.
Non ero sicura del significato della battuta di Ramsey. Ma,
ogni volta che avevo a che fare con lui, mi accorgevo che mi
piaceva sempre di più.
Chiamai la sezione DNA. Mi dissero chi si stava occupando dei
campioni da esaminare. Un tecnico di nome Irene Trent, che era
fuori a pranzo. Chiesi di essere richiamata.
La conversazione mi ricordò che non avevo mangiato nulla a
parte un bagel alle sette di quella mattina. L’orologio segnava le
due e quindici.
Feci una puntatina veloce nella stanza dello staff. Feci scaldare
un burrito surgelato e, mentre lo ingurgitavo accompagnandolo
con una bibita, provai a chiamare Ryan. Di nuovo la segreteria.
Per un secondo vidi il viso di Ryan, morbidamente
ombreggiato alla luce gialla della veranda. Nella mia mente
riascoltai la sua proposta incespicante. Non avevamo parlato da
giorni. Perché non mi richiamava?
Una punta di paura. Avevo aspettato troppo a lungo? Aveva
cambiato idea sul fatto di volermi con sé a Montréal? Oppure sul
fatto di volermi in generale?
Passai l’ora successiva fotografando il busto di Mason Gulley.
Angoli diversi. Effetti di luce diversi. In alcuni scatti la
rassomiglianza con lo zio Edward era impressionante. Nel bianco
e nero Mason sembrava spaventosamente vivo.
Osservando il povero volto impassibile, di nuovo ebbi
repulsione per Martha Gulley. Come poteva una donna abusare
verbalmente di un bambino per un errore genetico manifestatosi
al concepimento? Come poteva condannare suo nipote?
Finalmente Trent mi richiamò alle quattro. Non rise quando le
chiesi come procedeva il test del DNA e andò dritta al punto.
Bene così. Avevo fornito i campioni solo una settimana prima. La
sua opinione, su mia insistenza: quell’osso fa schifo, non ci faccia
affidamento.
Quando la conversazione fu terminata, mi ricordai dei
campioni che avevo prelevato dalle cavità del cemento. Volevo
avere dei ragguagli.
Ma sentii la voce della segreteria. Lasciai un messaggio.
Andavamo di bene in meglio.
Poi provai a chiamare Marlene Penny alla WCU. Rimasi
sorpresa quando rispose. E fui seccata per quello che mi disse.
Le ossa, trovate dai suoi studenti nel 2012, rappresentavano
porzioni della parte bassa di una gamba e di un piede. A causa
della estesa superficie abrasa e frammentata, non era stata in
grado di determinarne il genere, né la razza, né l’altezza, né l’età
e tantomeno la causa del decesso. I resti erano stati mandati alla
University of North Texas per un test del DNA. Ma tutti i tentativi
erano falliti. Le ossa si trovavano ora in una scatola nel suo
laboratorio.
«Posso mandarle delle fotocopie delle mie fotografie?»
«Certo, grazie. Avrò bisogno anche delle ossa.»
Le diedi il mio indirizzo di posta elettronica e chiudemmo la
telefonata.
Ero seduta, ingrigita dalla frustrazione, quando il mio telefono
iniziò a vibrare sulla scrivania. Allungai il collo per leggere il
numero.
Perfetto.
Un respiro stabilizzante. Risposi. «Ehi.» Il tono della mia voce
era vivace come una ciliegina su un gelato.
«Oh, Tempe.» Aveva il fiato corto. «Sei incomparabilmente
occupata per parlare?»
«Non sono mai troppo occupata per te, mamma. Che c’è?»
«Avevo così timore di dirtelo. Ero pietrificata all’idea di cosa
avresti pensato… di cosa avresti detto.» Le sue parole erano
talmente tremolanti che iniziò a singhiozzare. «Ecco perché sono
stata imperdonabilmente distratta durante la tua visita. Poi mi
hai detto le tue novità. Be’, ero…»
«Che cosa? Cosa c’è?»
«Oh, tesoro.»
«Dimmi!» La incalzai, con il cuore al galoppo.
Lo fece.
Con lunghi e melodiosi, superlativi e frivoli respiri affannosi.
24

Le parole di mamma ronzarono come un cortocircuito elettrico


nella mia testa. Mi incamminai verso la macchina. Guidai fino a
casa. Preparai dei cheeseburger e li mangiai con Birdie.
Preferivo non pensare a quello che l’euforia di mamma poteva
significare.
In realtà non sapevo cosa pensare del suo racconto.
Mia madre, con i capelli grigi e mentre moriva di cancro, era
follemente innamorata. Non ero andata al telefono di volata né
avevo spedito un SMS o una e-mail. Francamente non ero sicura
di chi avrei dovuto contattare. Il suo dottore di Heatherhill, Luna
Finch? Goose? Harry?
A un certo punto del suo frivolo sfogo, mamma aveva
menzionato mia sorella. Decisi di iniziare da lì.
Harry non rispose al telefono. Una voce cinguettante mi chiese
di «lasciare un messaggio come questo». Lo feci. Ma in modo
molto meno cinguettante.
La mia sorellina mi richiamò mentre mi stavo lavando i denti.
«Hai parlato con mamma?» chiesi, ancora sciacquando e
sputando.
«Suvvia, Tempe, non avere quel tono tagliente. È felice.»
«È pazza.»
«Ma noi non siamo Judge Judy.»
«È vero. Sono stata insensibile. Ma difficilmente potresti
affermare che mamma è una persona stabile.»
«Dice che sta prendendo le sue pillole.»
«Mamma dice sempre che sta prendendo le sue pillole.»
«È sotto il controllo di una squadra di dottori.»
«Questa è una buona cosa.» Nostra madre era maestra nei
giochi di prestigio. Nel corso degli anni era riuscita a evitare le
medicine nei modi più creativi.
«Goose conosce tutti i trucchi di mamma» dissi in tono
difensivo.
«Bene. E chi è il geriatrico gigolo?»
«Clayton Sinitch. E non è affatto vecchio.»
«Ti prego dimmi che non ha trentacinque anni.»
«Non ha trentacinque anni.»
«Harry!»
«Ne ha sessantatré.»
«Che cosa fa?»
«È proprietario di una lavanderia a secco.»
«Be’, alleluia! Mamma potrà avere la biancheria intima stirata
con uno sconto.»
«E tutte le sue pieghe inamidate.»
Colsi quella ronzante insinuazione. Non volevo assolutamente
sapere nulla di quella immagine.
«Di dov’è Sinitch?»
«Arkansas.»
«Come si sono conosciuti?»
«Si sta ricaricando le batterie a Heatherhill.»
«Da quanto tempo si conoscono?»
«Non ha importanza.»
Aspettai.
«Non tengo sotto controllo la sua agenda, Tempe. Non lo so.
Forse un paio di settimane.»
«Harry.» Oh, con voce molto controllata. «È fuori di testa a
farsela con quel tipo.»
«Forse un po’ di romanticismo le farà bene.»
«O forse è una fregatura e lo stronzo le spezzerà il cuore.»
«Ha acconsentito alla chemio.»
«Cosa?» Mamma non me lo aveva detto.
«È d’accordo…»
«A causa di Sinitch?»
«Lui ha giurato che la amerà anche quando sarà calva come
una folaga.»
«Cos’altro sai di lui?» dissi roteando gli occhi e
immediatamente sentendomi colpevole per averlo fatto.
«Lui le compra fiori e cioccolatini. Si tengono per mano.
Pranzano e cenano insieme nella sala da pranzo comune. La
rimprovera se mette il sale sulle pietanze.»
«Davvero?»
«Deduco che passino anche un po’ di tempo nella suite di
mamma.»
«Harry!»
Non ci potevo credere. Ero confusa su cosa provare. L’apatia di
mamma durante la mia ultima visita non era dovuta a una
prossima spirale discendente. Delle due l’una: o era occupata a
sognare a occhi aperti su Sinitch o impegnata a nascondermi la
sua esistenza.
«Non farti scappare che sai della chemio» disse Harry.
«Perché no?»
«Non vuole che tu lo sappia. Adesso prometti.»
«Harry, questo è…»
«È quello che ho detto. Non una parola.»
«Cos’è una folaga?» Ero sconfitta.
«Penso che sia un tipo di uccello.»
Le augurai la buonanotte.
In quel momento non avrei proprio potuto chiamare Ryan.

Una pubblicazione del National Geographic sulle più belle città


del mondo descrive Asheville, North Carolina, come «una mecca
di stupendi scenari montani, arte bohémien e alta cucina del
Sud». La cittadina ha ripetutamente occupato la vetta delle
classifiche delle città con la qualità della vita più alta in America.
Il nome di Asheville è immediatamente connesso con l’arte e la
musica di strada, le piccole fabbriche di birra, l’ottocentesca casa
Vanderbilt e la University of North Carolina-Asheville.
Ma, come Avery a nordest, la contea di Buncombe è uno
schizofrenico mélange di elementi civilizzati e altri più rudi. Al di
fuori di Asheville, il vero gioiello, non ci sono turisti. Niente
negozi di antiquariato, né boutique di Natale, né bistrot vegani.
Passate le piste da sci e i negozi di abbigliamento sportivo, gli
armadietti con le armi sono tenuti ben riforniti e i dieci
comandamenti dominano con pugno d’acciaio.
Quella volta Ramsey era arrivato per primo. Stava aspettando
seduto a un tavolo di cemento fuori Double D’s, un autobus rosso
a due piani trasformato in caffetteria sulla Biltmore Avenue nel
piccolo centro di Asheville.
«Una goccia di caffè della Costa Rica?» Allungò una tazza nella
mia direzione. «Spero sia ancora caldo.»
«Grazie.» La panna era spumosa e versata tracciando un
disegno artistico il cui simbolismo con me era sprecato. Il caffè
era tiepido, ma buono.
«Tutto bene il viaggio?»
«Sì.»
«Prima le signore…»
«Non ho molto da dire. Sto ancora aspettando il DNA dalle ossa
e dalle tracce nel cemento.» Una lobotomia per quanto
riguardava Slidell.
«Bel lavoro.» Ramsey tirò fuori il quaderno a spirale
d’ordinanza dalla sua giacca e scorse qualche pagina. «Joel Brice
ha trentaquattro anni, è uno scultore e fa parte della grande
comunità hippie, se così possiamo chiamarla, di Asheville.
Cristalli. Sandali. Hummus e yogurt.»
«Pensavo fosse un saldatore.»
«Fa lavori in metallo. Katalin ha trentasei anni, inforna pane
biologico da vendere ai ristoranti della zona. Entrambi hanno la
fedina penale pulita. La figlia Saffron ha sette anni.»
«Dove va a scuola Saffron?» Non sapevo perché l’avevo chiesto.
«Viene istruita a casa.»
«Come Mason Gulley.»
«E un sacco di altri bambini. I Brice sono unitariani, adesso, ma
per diversi anni hanno fatto parte della Santità del Signore Gesù.»
«Fino alla morte di River.»
«Sì.»
«È un bel salto filosofico da über-cattolici a unitariani.»
«Forse sono cercatori dello spirito.»
Come al solito, l’espressione di Ramsey era impenetrabile.
Stava prendendo in giro me? Loro?
«I Brice vivono a poca distanza da qui, verso nord.» Rimise in
tasca il quaderno.
«Possiamo chiederlo direttamente a loro.»
Ramsey bevve l’ultimo residuo di caffè. Gli indicai il labbro
superiore, sporco di latte. Si pulì col tovagliolo e si alzò.
Lasciammo la mia auto e prendemmo il SUV. Non c’era
Gunner. In un certo qual modo mi mancava.
La zona non era di recente costruzione. Grandi alberi, cavi
pendenti sopra le nostre teste e abitazioni modeste. Qualcuna più
recente era stata costruita forse negli anni Venti o Trenta. La casa
dei Brice era a un piano, col giardino e una veranda che lasciava
costantemente in ombra la porta e le finestre. Tende drappeggiate
dietro i vetri di un doppio lucernario suggerivano la presenza di
una camera da letto nell’attico. La casa, come quelle vicine,
poggiava su un piccolo crinale sopra il livello della strada. Alla
veranda si accedeva tramite piccoli scalini che salivano dal
marciapiede attraverso i cespugli. Questa caratteristica era
probabilmente molto piacevole d’estate.
Finora non c’erano novità per me e Ramsey. Il vicesceriffo
suonò il campanello e rimanemmo in piedi ai due lati
dell’ingresso. Le piccole finestre di vetro della porta erano divise
da colonnine smerlate che mi ricordavano una cattedrale gotica
in miniatura.
Un cane provò un grande interesse per il suono del campanello.
Un grosso cane. O un piccolo cane con una voce di bronzo.
Dopo pochi secondi la porta si aprì, rilasciando il dolce e caldo
profumo del pane infornato. Una bambina ci scrutò, rilassata ma
curiosa. Cujo non era altrettanto rilassato, ma almeno non diede
l’assalto alla porta.
«Chi è?» disse una voce femminile proveniente da qualche
parte alle spalle della bambina.
«Un poliziotto.» I capelli scuri della bimba avevano la riga al
centro ed erano intrecciati. I suoi occhi, di un verde profondo, ci
fissavano da un viso pallido a forma di cuore.
«Tieni tranquillo Dozer, Saffron.» Dei passi si affrettarono verso
di noi.
La bambina mise una mano sulla testa di Dozer. Il cane smise
di ringhiare, ma continuò a guardarci con aria decisamente
sospettosa. Un grosso mastino che certamente mi superava in
peso. E che sbavava.
La donna apparve tenendo entrambe le braccia in alto e
lontane dal corpo. Erano bianche di farina e la sua faccia era
rossa per lo sforzo fisico.
Il suo sorriso, all’inizio amichevole, mutò nel vedere l’uniforme
del vicesceriffo.
«Katalin Brice?»
«Sì. E voi siete…» I suoi occhi si mossero tra me e Ramsey.
«Vicesceriffo Zeb Ramsey.» Mostrò il suo tesserino. «Questa è la
dottoressa Brennan.» Glissai sui miei titoli. «Vorremmo parlare
con lei un momento.»
«Di cosa?»
«Possiamo entrare?» disse Ramsey, rivolto più a Dozer che alla
sua padrona.
Katalin Brice guardò in strada alle nostre spalle. Al sole del
mattino i suoi corti capelli ricci brillavano come il rame e i suoi
occhi erano come gli zaffiri di una spilla che avevo ereditato da
mia nonna. Aveva un aspetto completamente acqua e sapone, ed
era bellissima.
Forse rassicurata dal simbolo della contea di Avery sul SUV,
Katalin fece un passo indietro. «Dozer, a cuccia.»
Emanando disapprovazione, il cane si ritirò.
«Stavo lavorando il pane e non posso lasciar riposare l’impasto.
Va bene per voi se parliamo mentre continuo?»
«Ma certo» disse Ramsey.
Katalin e Saffron ci condussero sul retro della casa, attraverso
un soggiorno e una stanza da pranzo consunti, ma lindi. Il
pavimento di legno sembrava originale, mentre le pareti erano
state verniciate di recente.
Il mobilio, scarso ed eclettico – sedie papasan, una tenda a
perline sotto l’arco di una porta, un poster di Gandhi incorniciato
– mi ricordava il mio appartamento ai tempi dell’università. Una
targa sul muro recitava: «Un giorno, quando avremo dominato i
venti, le onde, le maree e la gravità, sfrutteremo finalmente le
energie dell’amore».
Ogni superficie orizzontale reggeva un oggetto d’arte in
metallo. Perlopiù erano soggetti astratti, dalle linee curve e dotati
di numerose protuberanze. Altri avevano fattezze di animali,
sebbene appartenenti a specie a me sconosciute.
La cucina era sorprendentemente grande. Al centro si trovava
un pesante tavolo di pino affiancato da panche. Vicino alla stufa
c’era un enorme cuscino ovale occupato da Dozer.
Sul tavolo erano appoggiati una ciotola di acciaio, un
mattarello e un impasto talmente grande da farvi affondare un
cetaceo. Sei stampi per la cottura del pane attendevano allineati
sul bancone.
«Prego» gesticolando col gomito e usando l’interno dell’altro
per spazzolare riccioli vaganti dalla sua fronte.
«Chiedo scusa per il disordine.»
Ramsey e io estraemmo una panca da sotto il tavolo e ci
sedemmo, ognuno a una estremità. Saffron fece scivolare un libro
sulla panca opposta e si sedette. Dozer osservava: gli occhi
seguivano l’azione e la testa non abbandonava mai il cuscino.
«Teilhard de Chardin.» Iniziai per rompere il ghiaccio.
Sulle prime Katalin sembrò confusa. Poi il suo sorriso si
allargò. «Ha notato la targa nella stanza da pranzo. Lo conosce?»
«Non siamo esseri umani con un’esperienza spirituale. Siamo
esseri spirituali con un’esperienza umana.» L’unica citazione del
prete e filosofo francese che riuscii a scovare nella mia memoria.
«Sì. Questa è una delle mie preferite.»
Mentre Katalin impastava, Ramsey incominciò. Appena
pronunciò il nome di River, la lavorazione del pane aumentò di
intensità.
«Ci dispiace veramente molto per lei e la sua famiglia» dissi.
«Non riesco davvero a immaginare il dolore per la perdita di un
neonato…»
«È la volontà della natura.»
«Sindrome della morte improvvisa?»
«Sì.»
«Può dirci qualcosa?» chiesi, più gentilmente che potei.
«River morì nel sonno. Che altro c’è da dire?»
Notando un movimento dall’altra parte del tavolo, gettai
un’occhiata a Saffron. Aveva il corpo teso e gli occhi fissi sul viso
della madre.
«Chiamaste un medico?»
«Il bambino era morto, quindi chiamammo il coroner. Non ci
fu bisogno di un medico.»
«Conosceva quel coroner?»
«No.» Percosse l’impasto con le nocche. Poi disse a Ramsey:
«Lei è quello che ha telefonato. Ha parlato con Joel».
«Sì» rispose il vicesceriffo.
«Joel è nel suo studio. Non sarà felice di sapere che siete stati
qui.»
«Non rimarremo molto tempo.» Un attimo di pausa, poi
continuò: «Lei e suo marito eravate membri della Chiesa della
Santità del Signore Gesù all’epoca, conferma?».
«Frequentammo la Chiesa per un po’.»
«Perché proprio quella?»
«Joel e io crediamo che la vita vada oltre le preoccupazioni
mondane.»
«Perché ve ne siete andati?»
Fece una pausa. Di nuovo usò l’interno del gomito per
smuovere i capelli dal viso.
«Pensavamo che la pienezza spirituale potesse essere raggiunta
più efficacemente attraverso rituali antichi, da persone alla
ricerca di un intimo coinvolgimento con forze esistenti su un
piano più elevato.» Tornò al pane. «Provammo con la Santità del
Signore Gesù. Non faceva per noi. Adesso frequentiamo la Chiesa
unitariana. I suoi principi sono maggiormente in accordo con la
nostra visione del mondo.»
«E cioè?»
Rispose lentamente, facendo precedere ogni frase da una serie
di colpi all’impasto.
«Noi crediamo che tutti gli uomini siano i benvenuti al tavolo
dell’amore e dell’amicizia di Dio. Che le divisioni che ci separano
siano artificiali e che tutte le anime individuali siano in realtà
una sola. Non ci focalizziamo sulla vita dopo la morte, su una
rigida dottrina o su un credo scritto. Esprimiamo la nostra fede
attraverso atti di giustizia e compassione.»
Non sapevo se stesse riassumendo le credenze degli unitariani
oppure quelle sue e di Joel. Ma avevano un suono più
ragionevole del fuoco infernale e delle lingue mistiche
sconosciute.
«Cosa mi può dire di Granger Hoke?» chiese Ramsey.
«Padre G.» Katalin sollevò e poi lasciò cadere l’impasto.
«Preferisco non parlarne.»
«Conosceva Mason Gulley?»
«Ci salutavamo.»
«La sua impressione?»
«Era un ragazzo triste.»
«Cora Teague era la vostra tata?»
Dall’altra parte del tavolo le piccole spalle di Saffron si
alzarono improvvisamente.
Katalin raggiunse sua figlia. «Tutto bene, piccola.»
«Ti ricordi di Cora?» chiesi dolcemente alla bambina.
Saffron si girò di scatto a guardare sua madre, gli occhi in
allarme. «Perché chiedono di Cora?»
«È scomparsa» dissi gentilmente. «Il vicesceriffo Ramsey e io
stiamo tentando di ritrovarla.»
«Verrà a casa nostra, mamma?» La voce della bambina era così
stridula che Dozer scattò in piedi.
«No, tesoro.»
«Quale, mamma?» Gli occhi sgranati della piccola cercavano lo
sguardo di sua madre. «Quale?»
«Vieni qui.»
Saffron scese dalla panca e si precipitò intorno al tavolo.
Katalin abbracciò sua figlia e poi la lasciò andare imprimendo
due impronte bianche sulla schiena della bambina. Prendendole
dolcemente il piccolo mento tra le dita, le disse: «Voglio che porti
Dozer in giardino. Faresti questo per me?».
Un solenne cenno della testa, poi la bimba corse fuori col cane
al seguito.
«È stata una reazione forte» dissi.
«Saffron sente le cose profondamente.»
«Ancora.»
«Non le piace Cora Teague.»
«Sa perché?» Lanciai uno sguardo in direzione di Ramsey.
«Quando Saffron aveva tre anni si ruppe il polso cadendo dal
triciclo. Cora era con lei all’epoca. Sospetto che inconsciamente
associ il dolore alla persona.»
«Ha mai parlato dell’incidente?»
«Cerchiamo di focalizzarci su cose felici.»
«Cora come spiegò l’accaduto?»
«Spiegazioni…» Qualcosa baluginò negli occhi di Katalin, nel
profondo blu, poi sparì. «Non importa che l’acqua sia fredda o
calda, se devi passare il guado bisogna farlo comunque.»
«Sempre Teilhard de Chardin?»
Annuì.
«È lui la ragione per cui vi siete avvicinati al cattolicesimo?»
«Forse.» Puntò il gomito verso gli stampi vuoti. «Perdonatemi.
Ho delle consegne da fare entro mezzogiorno.»
Ramsey e io la seguimmo alla porta. Eravamo sulla veranda
quando le sue parole ci fermarono.
«C’era un cuscino nella culla.» Mi girai. Katalin non stava
guardando noi, ma qualcosa in lontananza. Forse nel tempo.
«Con River?» dissi.
Annuì.
«Non ho mai messo cuscini nella sua culla.» Quasi un sussurro.
«Lo ha raccontato a qualcuno?» chiesi.
Quei profondi occhi color indaco si voltarono verso di me, così
pieni di dolore che il contatto fu come un colpo. «A padre G.»
«Cosa le disse?»
«Tieniti alla larga dai peccatori che pronunciano false
testimonianze.»
25

Il telefono di Ramsey vibrò mentre scendevamo le scale.


Guardò lo schermo e mi passò le chiavi.
Aprii il SUV ed entrai. Mentre lui parlava, fuori dalla sua
macchina, io diedi una rapida occhiata alle e-mail sull’iPhone.
Cercando di non sembrare curiosa, ma guardandolo di sottecchi.
Il linguaggio del corpo di Ramsey era piuttosto concitato, per
come ero abituata a vederlo. Il peso spostato su una gamba. La
mano piantata su un fianco. Il mento assottigliato. Mi chiedevo se
la chiamata fosse personale o di lavoro. In ogni caso, non aveva
preso la piega giusta. Per la prima volta mi trovai a pensare alla
vita privata del vicesceriffo. Zia Ruby diceva che suo nipote
aveva bisogno di una fidanzata. Che era arrivato dalla Georgia e
che il suo matrimonio era finito male. Aveva un cane. Oltre a
questi dettagli non sapevo altro.
Una e-mail era di Larabee. Quando la aprii e la lessi, Ramsey
assicurò il cellulare alla sua cintura e avanzò a grandi passi verso
l’auto. Non sorrideva.
«Scusi.» Avviò il motore, ma senza inserire la marcia.
«Ho appena avuto notizie dal mio capo» dissi. «Il coroner della
contea di Avery che aveva per le mani sia la morte di Eli Teague
sia quella di River Brice si chiamava Fenton Ogilvie. È deceduto
nel 2012.»
«Giusto. Se ne è andato quando sono arrivato al dipartimento.
Un autista di ambulanza in pensione.» Ramsey scosse lievemente
la testa. «Lo trovarono sul fondo della tromba di un ascensore. A
quanto pare Ogilvie era un personaggio particolare.»
«Cioè?»
«Non ha senso sparlare di un defunto. Ma pare che sia
ricordato per due cose in particolare. Mantenersi costantemente
ubriaco e coltivare un fegato enormemente cirrotico.»
«E per la faccenda dell’ascensore.»
«Esatto.» Tamburellò un po’ col pollice sul volante. «Il suo
commento sull’assenza di Cora Teague mi ha fatto pensare. Ho
preso la data dal certificato di morte di Eli, poi ho chiamato la
scuola di Avery. Cora è stata via per sei settimane dopo la morte
del bambino.»
«La morte di un fratello è traumatica.»
«Sei settimane?»
«È un sacco di tempo.»
«Ho anche saputo il nome del medico di Cora.»
«Era in un file della scuola?»
«Terrence O’Tool. Il suo ufficio è a Newland. Se è d’accordo,
possiamo andare adesso a fare un giro da quelle parti.»
«Assolutamente d’accordo.» Mugugnai tra me e me. Dirigersi a
Newland significava tornare ad Avery, ossia una buona ora e un
quarto in più per andare poi a Charlotte.
Seguii Ramsey. La sua guida accorciò di almeno quindici
minuti il viaggio. E la mia vita.
Eravamo quasi arrivati a Newland quando mi sorprese
parcheggiando a bordo strada. Feci altrettanto e lui raggiunse a
piedi la mia auto. Abbassai il finestrino e lui si chinò, una mano
sul tetto. Se qualcuno fosse passato di là avrebbe pensato a una
multa. Da parte di un poliziotto molto negligente.
«Diamo un’occhiata.» Ramsey indicò con la testa una grande
capanna di tronchi sul lato opposto della strada. Nella veranda
sul davanti c’erano un paio di tavoli da picnic, un orso intagliato
a grandezza naturale, un secchio della spazzatura di plastica, una
vasca rettangolare forse riservata alle esche durante la stagione
della pesca. L’unica finestra della capanna era ricoperta
dall’interno di volantini spiegazzati. Sulla porta un’insegna al
neon diceva: J.T.’S FILL UP AND FIX UP, PIENO CARBURANTE E
RICAMBI AUTO DA J.T.
Di fronte c’erano due pompe del gas. Alle spalle, una struttura
bassa, senza finestre, fatta di alluminio ondulato e alla cui base
c’era un’area pavimentata e divisa in rettangoli da una rete
metallica.
Per Ramsey, dovevo avere una faccia interrogativa.
«Il genio imprenditoriale di John Teague. Guide turistiche,
gomme e carburante per automobilisti di passaggio. Intonaco,
pittura e compensato per amanti del fai-da-te del posto.»
«Cosa c’è lì dietro?»
«Il figlio di John addestra dei cani.»
«Owen Lee.»
«Sì.»
«C’è qualcuno che manda i suoi cuccioli in quello squallore?»
«Dubito che questi cagnolini siano cuccioli.»
«Anche se così fosse…»
«A quanto ho capito, Owen Lee lavorava a casa sua fino a
quando la sua mogliettina non ne volle più sapere dei cani che
abbaiavano e che scacazzavano in giro. Quattro estati fa costruì il
pugno nell’occhio che lei può vedere qui e vi trasferì le sue
attività. Deve avere clienti, perché si dedica ancora
all’addestramento dei cani.»
Stavo per chiedere che significato potesse avere tutto ciò
quando l’uomo in questione girò intorno al fabbricato
accompagnato da un pastore tedesco grande come un panzer.
Quando ci vide si fermò. Aveva un volto inespressivo.
Ramsey gli rivolse un cenno di saluto. Ignorando il gesto di
cordialità, Owen Lee aprì un cancello e fece entrare il cane in un
recinto.
Ramsey assestò una pacca al tetto della mia auto, poi tornò al
suo SUV. Di nuovo sulla strada.
Newland un tempo era conosciuta come «The Old Fields of
Toe», un nome che può richiamare le dita del piede, anche se non
è così. Si riferisce invece alla posizione della cittadina alle
sorgenti del fiume Toe. Oggi Newland deve la sua fama
soprattutto al fatto di essere la contea situata alla maggiore
altitudine a est del Mississippi. Non c’è molto lassù: il palazzo di
giustizia, la biblioteca, alcuni negozi, la Shady Lawn Lodge, il
Mason Jar Cafe. Nei dintorni, si estendono chilometri e
chilometri di coltivazioni di alberi di Natale.
Ramsey guidò oltre il palazzo di giustizia della contea di Avery
e il quartier generale del suo dipartimento. Dopo aver
oltrepassato un negozio di mangimi, una ferramenta True Value e
una farmacia, fece un arabesco di manovre e parcheggiò su
un’aiuola di ghiaia di fronte a una villa bifamiliare su due piani
rivestita di mattoncini da un lato e di legno dall’altro. Il lato in
mattoni aveva grandi finestre sulle quali era stampato il nome di
un agente immobiliare.
Il lato in legno era per metà dipinto di bianco e aveva un tetto
appuntito. Al piano superiore c’erano due finestre, entrambe con
le tapparelle abbassate. Al piano di sotto un’altra finestra
anch’essa coperta dall’interno e due scalini di cemento che
conducevano a una porta di alluminio. Una targa molto piccola
identificava la struttura come la Sede Professionale O’Tool.
«Un po’ pretenzioso…» dissi.
«Gli O’Tool, lì, sono due: il medico di Cora e un dentista.»
Ramsey e io entrammo e fu come fare un salto nel tempo.
La sala d’attesa conteneva diverse sedie di vinile incrinate e
tavoli in laminato carichi di vecchie riviste; un attaccapanni a
muro; un contenitore per i giocattoli; una polverosa pianta di
plastica. Le decorazioni artistiche consistevano in manifesti che
mettevano in guardia da condizioni mediche indesiderabili.
Herpes zoster e gengiviti andavano per la maggiore.
Una donna occupava una sedia. Il suo bambino addormentato
sembrava calmo. Lei no. Un uomo più anziano occupava un’altra
sedia e teneva gli occhi incollati su una vecchio numero di
«Caccia & Pesca».
Una scala interna si arrampicava ripida sulla sinistra. Un’unica
porta si apriva in quel muro. Tra la scala e la porta c’era il
bancone della reception con una addetta di circa ottant’anni.
Aveva i capelli biancoazzurri scolpiti dalla permanente in riccioli
piccoli e stretti, lenti bifocali e un camice rosa punteggiato di
coniglietti blu.
Al nostro ingresso, la donna alzò lo sguardo. Ci seguì con
un’espressione egualmente ripartita tra il cordiale e il confuso.
Sopra un rettangolo bianco sulla sua tasca sinistra c’era scritto
MAE FOSTER, R.N.
«Vicesceriffo.» Il sorriso di Foster rivelava denti ingialliti.
«Signora.» Ramsey fece un largo sorriso e un cenno del capo.
«Vorremmo parlare con il dottor O’Tool.»
«Avete un appuntamento?»
«No.» Il tono chiarì subito che per noi non era necessario.
«Un momento, per favore.»
Foster lasciò la postazione per scomparire attraverso una porta
che chiuse con cura e silenziosamente dietro di sé. Mentre
aspettavamo, percepii occhiate attente alle nostre spalle.
Poco dopo la porta si aprì e Foster ci indicò il sancta
sanctorum. Udii la donna col bambino borbottare irritata.
«Prego.» Foster ci scortò in un ufficio. «Il dottor O’Tool sta
visitando un paziente, ma sarà subito da voi.»
Gran parte dell’ufficio era occupato da una grossa scrivania di
legno. Dietro questa c’era una poltrona direzionale ergonomica
che sembrava destinata alla NASA e finita per errore in
quell’ufficio. Contro la parete era appoggiata una credenza.
Di fronte alla scrivania c’erano due poltroncine imbottite.
Ramsey e io ci sedemmo. Senza proferire una parola ci
guardammo intorno.
Le librerie erano stipate di riviste specializzate e volumi. Sul
ripiano della scrivania erano impilate cartelline mediche, alcune
sottili, altre spesse come elenchi del telefono.
Sulla credenza c’erano alcune foto incorniciate, un trofeo di
vetro e una piccola croce d’oro. Cercai di capire se Ramsey
l’avesse notata. Sì. Al di sopra della credenza, un diploma
incorniciato proclamava che Terrence Patrick O’Tool si era
laureato in medicina presso il Quillen College of Medicine della
East Tennessee State University, nell’anno 1963. Stavo facendo il
conto di quanti anni il dottore potesse avere, quando il
brav’uomo arrivò animato da una certa fretta.
Prima che Ramsey e io potessimo alzarci, O’Tool aveva fatto il
giro della scrivania, era piombato sulla poltrona a effetti speciali
e si era voltato verso di noi. I suoi capelli erano bianchi e così
radi che si scorgeva il cuoio capelluto. La pelle, cedevole sotto gli
occhi, era lucida sulla fronte, sul mento e sulle guance; sembrava
tirata troppo strettamente sulle ossa.
Nonostante il camice inamidato da laboratorio nascondesse la
sua corporatura, potevo dire che O’Tool era piccolo e magro e,
ovviamente, arzillo.
«Non ho il piacere di conoscerla, vicesceriffo.» Il tono di O’Tool
sembrava rimarcare il fatto che si trattava di un avvenimento
insolito.
«Zeb Ramsey. Sono relativamente nuovo, signore. E la
dottoressa Brennan è di Charlotte.»
«Il mio benvenuto.» Molto lontano dall’essere caloroso. O
curioso. Un tipo professionale, che tuttavia non fece nemmeno
una domanda sui miei trascorsi o le mie competenze. «La mia
infermiera mi ha detto che è una questione urgente.»
«Non le ruberemo molto tempo.»
«Dicendo questo lo avete appena fatto.»
Un graffio per rompere il ghiaccio. Ramsey andò dritto al
punto. John e Fatima Teague, la Chiesa della Santità del Signore
Gesù, la scomparsa di Cora, l’ipotesi che se ne fosse andata
assieme a Mason Gulley. Mentre Ramsey parlava, O’Tool
cominciò ad annuire.
«Fino a poco prima della sua scomparsa Cora era una sua
paziente. È così, signore?»
«Avete il permesso scritto del signore o della signora Teague
che mi autorizza a discutere dei trascorsi medici della loro
figlia?»
«No.»
«Ammesso e non concesso che Cora sia stata una mia paziente,
voi sapete che sono vincolato dal segreto professionale.»
«Sia stata?»
«Prego?»
«Ha usato il passato.»
«Davvero?»
«Glielo garantisco.»
«Forse ha ragione.»
Una pausa, poi Ramsey tentò di nuovo. «Supponiamo che a
Cora e Mason le cose siano andate storte.»
«Lo sa per certo?»
«Esiste una concreta possibilità.»
O’Tool non disse nulla e Ramsey lo colpì con un affondo.
«È possibile che Cora Teague abbia potuto far del male ad
altri?»
Gli occhi del dottore non batterono ciglio e non rivelarono
alcunché. Non saprei dire se fosse circospetto o semplicemente
ottuso.
«Il fratello di Cora, Eli, morì all’età di dodici anni» continuò
Ramsey.
«Conoscevo Eli.»
«Qualche riflessione sull’incidente?»
«La morte di un bambino è sempre tragica.» La faccia di O’Tool
rimase impassibile e oltremodo composta.
«Come quella di River Brice.»
«Sì. Ho sentito parlare del bambino.»
«Conosceva il coroner Fenton Ogilvie?»
«Sì. Corretto l’uso del passato, in questo caso.»
«Ogilvie dichiarò che in entrambi i casi la morte fu accidentale.
Era competente?»
«Fenton era malato, nell’ultimo periodo della sua vita.»
«Vuol dire che era un alcolizzato?»
«È una domanda?»
«I Brice licenziarono Cora per motivi di salute. Quali erano?»
«Senta, detective…»
«Lasci che le esponga alcuni fatti, dottore.» La voce di Ramsey
era diventata d’acciaio. «River Brice morì mentre Cora Teague si
occupava di lui. Saffron Brice si ruppe un braccio mentre Cora
Teague badava a lei. Saffron si dispera a sentir nominare la sua
ex baby sitter.»
«Sono sicuro che la bambina…»
«Il medico del pronto soccorso che curò Eli Teague espresse
delle riserve sulla spiegazione degli eventi che portarono alla
morte del bambino.»
«Condivise le sue riserve con Ogilvie?»
«Le annotò nella cartella clinica.»
Sguardo fisso e inespressivo.
«Cora saltò sei settimane di scuola dopo la morte di Eli. Dov’è
stata tutto quel tempo?»
Niente.
«Cora potrebbe essere morta o trovarsi là fuori. E potrebbe
essere pericolosa. La dottoressa Brennan e io abbiamo bisogno di
sapere cos’ha che non va.»
Seguì un silenzio lungo e piatto. Quando ero ormai certa che ci
avrebbe messi alla porta, parlò con voce molto bassa.
«I problemi di Cora erano innanzitutto comportamentali.»
«Cosa intende?»
«Le stavo curando l’epilessia.»
Il commento di O’Tool fu da ritardato. «L’epilessia non è un
problema comportamentale» replicai. «L’epilessia è la
conseguenza di una anormale attività elettrica nel cervello.»
«Sì.» Gelido. «Certo.»
«È specializzato in neurologia?»
«Sono un medico di base.»
«Ha mandato Cora da uno specialista?» Ero sempre più
oltraggiata da ogni parola che usciva dalla sua bocca.
«Cora aveva degli attacchi. Un elettroencefalogramma mostrò
un focus epilettico nel lobo temporale destro. Non occorreva uno
specialista per diagnosticare un’epilessia del lobo temporale.»
«Le prescrisse un AED?» Mi riferivo a un farmaco antiepilettico
molto diffuso.
«Per un po’ la bambina prese il Depakote. Ma non fu d’aiuto.
Anzi, i suoi episodi peggiorarono. Alla fine i genitori scelsero di
non utilizzare più alcun farmaco e la curarono a modo loro.»
«Ossia?» chiese Ramsey.
«Cora era a stretto regime perché mangiasse a orari regolari e
dormisse a sufficienza durante la notte. John e Fatima si davano
molto da fare affinché il suo livello di stress fosse il più basso
possibile e perché non facesse uso né di alcool né di droghe.»
«Dice sul serio?» Sembravano considerazioni che provenivano
direttamente da epoche buie.
«Cora aveva…» O’Tool si fermò per correggersi «… ha buoni
periodi e cattivi periodi. Durante i cattivi periodi, quando ha i
suoi attacchi, i suoi genitori la tengono a casa.»
Attacchi?
«Quando l’ha vista l’ultima volta?» Avvertendo la mia crescente
indignazione, Ramsey riprese le redini del colloquio.
«Nell’estate del 2011. Il suo cagnolino morì. Era molto turbata
e incolpava se stessa.»
«Cosa accadde al cane?» domandai, provando quell’ormai
familiare solletico freddo.
Gli occhi di O’Tool erano allo stesso livello dei miei, pieni di
pensieri, o forse completamente senza pensieri. «Cadde dalla
finestra della camera da letto di Cora al piano superiore. Mi sono
chiesto spesso come avesse fatto quell’animale ad arrampicarsi
sul davanzale.»
Stavo per fare un’altra domanda quando qualcuno bussò alla
porta. «Dottor O’Tool?»
«Sì, Mae.»
«La signora Ockelstein sta diventando impaziente.»
«Falla accomodare nella stanza numero due e prendile il peso e
la pressione sanguigna.»
Si rivolse a noi. «Devo tornare dai miei pazienti.»
Fummo liquidati.
Una volta arrivata al SUV espressi a Ramsey la mia
apprensione riguardo a Cora Teague.
«Eli, il bambino, il cagnolino…» Realizzai che stavo parlando a
voce troppo alta, e tentai di abbassarla. «Forse Mason Gulley….»
«Pensa che Cora lo abbia ucciso?»
«È lei il punto di collegamento.»
«L’epilessia può renderla violenta?»
«È inverosimile. Ma un epilettico dovrebbe prendere le sue
medicine.»
«Dubita che O’Tool si fosse preso cura della condizione di
Cora?»
«Quella testa dura non saprebbe guarire nemmeno un’unghia
incarnita senza un manuale. E sono sicura che non è stato
completamente onesto con noi.»
«Pensa che stesse mentendo?»
«Forse. O quantomeno non ha detto tutto.»
«Perché?»
Alzai le mani pensando: chi lo sa?
«Quindi cosa suggerisce?»
«Non lo so. Ma ogni pista riporta a Cora.»
Mentre guidavo, nomi e facce turbinavano nella mia mente
come fiocchi di neve in una palla di vetro. Terrence O’Tool.
Fenton Ogilvie. La nonna, Susan Grace e Mason Gulley. John,
Fatima, Eli e Cora Teague. Joel, Katalin, Saffron e River Brice.
Padre G e la Chiesa della Santità del Signore Gesù.
Ancora una volta un nome emergeva in superficie.
Dopo circa venti chilometri un pensiero si fece spazio.
Improvvisamente compresi.
Accostai la macchina a bordo strada e presi il telefono. E
affiorò il nome di Granger Hoke.
26

Mentre aspettavo di essere richiamata, feci una deviazione


verso Heatherhill.
Come la volta precedente, arrivai all’ora di cena. Con mia
grande sorpresa la suite di mamma era vuota.
Ricordandomi le parole di Harry mi diressi verso la sala da
pranzo comune. Attraverso la spaziosa porta ad arco vidi mamma
a un tavolo per due. Il suo compagno di cena, che supposi fosse
Clayton Sinitch, era basso e così calvo che ciò che si trovava al di
sopra della sua testa vi si rifletteva. Occhiali rotondi, camicia a
quadri, cardigan, cravatta a farfalla. Mi chiedevo se il suo look
fosse intenzionalmente antiquato o solo da vecchio strambo.
Mamma indossava la collana di perle e un maglioncino grigio
chiaro. Il suo viso era rosa di piacere, forse per il vino che
luccicava in un calice vicino al suo piatto.
Mentre osservavo la scena, Sinitch appoggiò la sua mano su
quella di lei. Mamma abbassò il mento e lo guardò attraverso le
ciglia abbassate come una fanciulla innamorata.
Qualcosa mi montò nel petto e fece pressione contro le costole.
Ansia? Amore?
Invidia?
Lacrime inaspettate mi bruciarono le palpebre.
Dietro di me un orologio rintoccò dolcemente. Sentendomi una
guardona mi ritirai in silenzio.
La telefonata arrivò dopo venti minuti, mentre mi allacciavo la
cintura di sicurezza dopo una veloce puntata in un fast food.
Guardai lo schermo, poi risposi.
«Grazie per aver richiamato così velocemente.» Appoggiai la
borsa sulla console e il telefono sul cruscotto.
«Notte tranquilla, nella canonica.»
Non lo sono tutte?, pensai.
«Come sta tua madre?»
«Sa com’è Daisy…» Lo sapeva. Era padre James Morris, il
confessore di mia madre nei periodi in cui si riteneva cattolica,
nonché pastore della chiesa di St. Patrick a Charlotte. Anzi,
parroco, sebbene non fossi del tutto sicura della differenza.
Sapevo che il suo status era superiore rispetto a un prete qualsiasi
e inferiore rispetto a un vescovo.
«La prendo come in senso positivo, allora.»
«Sto guidando, padre. La metto in vivavoce.»
«La conversazione non ti distrarrà?»
«Sono ansiosa di sapere cos’ha appreso.»
«Non molto, purtroppo. Per via dell’ora, tutto quello che
potevo fare era cercare nell’«Official Catholic Directory». È una
pubblicazione ecclesiastica che, tra le altre cose, elenca tutte le
parrocchie e i preti.»
«Lo ha trovato?» Nell’auto si spandeva odore di pollo fritto.
Mentre parlavamo, cercai e scovai una caramella.
«Sì e no. Granger Hoke non è attualmente nell’elenco, così ho
dato una scorsa alle vecchie edizioni. Non si butta mai niente da
queste parti. Ci è voluto un po’, ma la mia perseveranza è stata
ripagata. Granger Hoke è nato a Saint Paul nel 1954.»
«Pensavo che tutta quanta la popolazione del Minnesota fosse
luterana.»
Morris ignorò la battuta. Il senso dell’umorismo non è mai
stato il suo forte. Crescendo, Harry e io lo avevamo
soprannominato «Rigor». Persino la nonna talvolta si era unita
allo scherzo.
«No, affatto. Nel Minnesota ci sono molti cattolici.»
«Lo è anche Garrison Keillor?» suggerii. «Non importa…»
«Hoke fu ordinato sacerdote nel 1979 dopo un periodo di
preparazione a Mundelein.»
«Vicino a Chicago.»
«Sì. È parte dell’università di St. Mary of the Lake. Hoke fu
ministro nel Midwest per quasi quindici anni: Indiana, Iowa,
Illinois. Piccole parrocchie di periferia, per quello che posso dire.
Poi fu spostato nella contea di Watauga County nel North
Carolina.»
«E poi?»
«Poi sparisce.»
«Che significa?»
«Non vorrei perdermi in strane congetture. Farò ulteriori
ricerche domattina.»
La voce di Morris sembrava irrigidita. Mi chiedevo se ci fosse
qualcosa che non mi stava dicendo.
«Grazie, padre. Sono ansiosa di saperne di più.»
Mentre guidavo nell’oscurità, la mia mente iniziò a lavorare
con un incessante fuoco di fila di domande. Dove era andato
Hoke dopo essersi spostato a est? Aveva abbandonato la tonaca?
Era partito come missionario? Era troppo malato per lavorare?
Era stato sollevato dai suoi doveri?
Domande. Altre domande. Nessuna risposta. Ma la mia
attenzione adesso era focalizzata su Hoke.

Durante la notte, la primavera aveva preso il controllo di


Charlotte. Niente più compromessi. L’inverno se ne era ormai
andato.
Quando attraversai il patio, l’aria era morbida come il velluto
sulla mia pelle. Un milione di crochi gialli e bianchi facevano
capolino dalla terra nera e bagnata del mio giardino. Il pero
Chanticleer era fitto di nuove foglie e boccioli rassomiglianti a
minuscoli embrioni rosa.
Il mio umore è fortemente influenzato dal tempo. Nonostante
la frustrazione dovuta alle ossa di Brown Mountain, alla
preoccupazione per mamma, all’agonia per Ryan e a una
chiamata trabocchetto di primo mattino di Allan Fink, il tiranno
delle tasse, mi sentivo rinvigorita e capace di risolvere qualsiasi
indovinello senza risposta. O forse era merito del caffè.
Il mio ottimismo durò quanto una particella virtuale.
Parcheggiata in uno spazio fuori dall’MCME c’era una Ford
Taurus dall’aria familiare. La carrozzeria splendeva di un bianco
brillante, come se fosse stata appena lavata e tirata a lucido.
Passando gettai un’occhiata attraverso il finestrino. L’interno era
pulito, il sedile posteriore vuoto a eccezione di una borsa sportiva
di tela blu. Scioccata dall’aspetto di quell’auto che sembrava
appena uscita dalla fabbrica, corsi dentro sperando che Slidell
avesse portato novità sulla morte di Hazel Strike. Quando entrai
la signora Flowers mi salutò con un movimento del polso a mo’
di uccello.
«Il detective Slidell è nel suo ufficio.» Senza fiato. «Spero sia
tutto a posto.»
Fu quello il momento in cui il mio ottimismo cominciò a
scricchiolare.
«Non è qui per il dottor Larabee?» chiesi.
«No, no. Vuole vedere lei. È stato piuttosto insistente e non
sapevo…»
«Va bene.» Non andava bene. «Da quanto tempo sta
aspettando?»
«Solo pochi minuti.»
Mi incamminai rapidamente.
Un muro di acqua di colonia mi attendeva alla porta del mio
ufficio. Era stata acquistata in un emporio e sparsa in
abbondanza.
«’Giorno, doc.» Slidell non si alzò e nemmeno si allungò dalla
sua sedia.
«Buongiorno, detective.»
Mi sedetti, misi la borsa in un cassetto, incrociai le dita sulla
scrivania e attesi.
«Quel tipo è fuori dai giochi.»
«Il mio tipo?» Non riuscivo a capire.
«Wendell Clyde.»
«Lo hai seguito?»
«Marcato a uomo.»
«Ha dei precedenti?»
«Un paio per ubriachezza e disturbo della quiete pubblica,
risalenti a vent’anni fa. Niente di recente.»
«Che significa che è fuori dai giochi?»
«Che è un coglione, ma non è il nostro uomo.»
«Sul caso Strike?»
«No. Su John Fitzgerald Kennedy. Sto lavorando a nuove
angolazioni di tiro su alcune colline erbose, nel mio tempo
libero.»
Ingoiai una risposta e alzai le sopracciglia.
«Per prima cosa, lo sapevi che Clyde è alto tre metri e mezzo?»
«Ha importanza?»
«Sì, se devi fare un incontro di wrestling per infilare quel
babbuino sul sedile posteriore. Io quasi…»
«I babbuini in media pesano ventitré chili.» Una replica
infantile. E leggermente imprecisa. Ma non stavo discutendo la
variazione della specie con Skinny.
Slidell tirò fuori un pezzo di carta dalla sua giacca e lo buttò
sulla scrivania.
Lo aprii e studiai l’immagine, probabilmente scattata con un
telefono e poi stampata.
Il soggetto era seduto in una delle piccole stanze per gli
interrogatori al Law Enforcement Center. Riconobbi il tavolo in
finto legno e la sedia di metallo grigio, la moquette di patchwork
color malva e la parte alta del muro di diverso colore.
Slidell non aveva esagerato. Wendell Clyde non era
semplicemente alto. Sembrava una testa dell’Isola di Pasqua con
braccia e gambe. Gli occhi con le orbite infossate erano
sormontati da sopracciglia pungenti e separati da un lungo naso
aquilino.
«Hai interrogato Clyde?»
«No. Gli ho letto nel pensiero. E non era un granché.»
«La tua impressione?»
«A volte credi che certi tizi abbiano qualcosa in più di quello
che salta all’occhio. Per quanto riguarda questo coglione, è più
quello che salta all’occhio di ciò che nasconde.»
«Ossia?»
«Fascino in ribasso, T alto» L’abbreviazione di Slidell per
testosterone.
«Clyde è stato aggressivo?»
«A tratti.»
«Fino a quando non lo hai colpito con un asciugamano
bagnato.»
«Qualcosa del genere.»
«Qual è la sua storia?»
«È un onesto stuccatore che cerca gente morta per hobby.»
«Che cosa ha detto di Hazel Strike?»
«Non ha mandato bigliettini di auguri alla signora.»
«Si è fatto sottoporre alla macchina della verità?»
«Ne era felice come una Pasqua. Ma non me ne frega un fico
secco. Clyde ha un alibi.»
«Merda, sul serio?»
«Merda, sul serio.»
«Racconta.» Mi sentivo svuotata. Il crollo dell’umore era ormai
totale.
«Clyde afferma di essere stato al Selwyn Avenue Pub dalle sette
del pomeriggio di sabato fino all’una del mattino di domenica.
Dice che un sacco di gente lo ha visto lì.»
«Questo non prova nulla. Potrebbe aver…»
«Vuoi parlare o ascoltare?»
I molari mi si chiusero stretti.
«Dichiara di essere stato intervistato per un articolo sulle
indagini in rete. Un blogger di Dubuque di nome Dennis
Aslanian.»
Slidell fece una pausa, forse sfidandomi a interromperlo. Non
lo feci.
«Dopo il pub Clyde si diresse con Aslanian verso un altro paio
di bar e poi nella stanza di quel tale al Motel 6 vicino al
palazzetto dello sport. Gli amanti frustrati dal destino sono stati
assieme fino a quando Aslanian non ha lasciato Charlotte lunedì
di primo mattino.»
Slidell aveva ragione. Se Strike è morta di domenica e Aslanian
ha confermato la storia di Clyde, Clyde non può averla uccisa.
«Hai parlato con Aslanian?»
«Questa sì che è una buona idea.»
Inspirai profondamente. Mi raggiunse una zaffata di Stetson o
Brut.
«Ho lasciato dei messaggi avvisando Aslanian di richiamarmi
appena possibile. Oggi farò una passeggiata al Motel 6 e al pub
quando apre, e mostrerò in giro la faccia di Clyde.»
«Dov’è adesso?»
«L’ho dovuto rilasciare.»
«Credi ancora che ci sia un serial killer a Charlotte che uccide
donne di una certa età?»
«Certo.»
«Quindi Clyde non è in cima alla tua lista.»
«Nemmeno nelle vicinanze.»
«Perché lo stai dicendo a me e non a Larabee?»
Slidell non mosse un muscolo e non pronunciò una parola per
un lungo istante. Poi disse: «Raccontami di questa cosa di Brown
Mountain».
«Non so se Brown Mountain sia veramente importante.»
«Sì, sì, sì.» E schioccò le dita.
Gli dissi dei resti, compresi i polpastrelli senza impronte e la
testa nel secchio, di Mason Gulley e della sua sindrome di NFJ, di
Granger Hoke e della Chiesa della Santità del Signore Gesù, di
Cora Teague e della striscia di sangue innocente che lascia dietro
di sé, del coroner alcolizzato, di Fenton Ogilvie, di Terrence
O’Tool e della sua diagnosi da inetto.
Quando finii, fissai Slidell e lui mi guardò a sua volta. Passò un
intero minuto.
Talvolta Skinny mi sorprende, e così fece in quel momento.
«Tu credi che la ragazza non sia epilettica, vero? Potrebbe
essere pazza?»
«Pazza non è un termine che userei.»
«Che forse è fuori come una zucca e ha ucciso suo fratello, il
neonato e il cagnolino? Che forse c’è qualcuno che la sta
coprendo?» Le borse sotto gli occhi di Slidell tremarono mentre
un’altra teoria sfrecciava nella sua mente. «O che forse qualcuno
l’ha uccisa?»
«Chi?»
«Mi hai detto che il padre è un tipetto nervoso.»
«È molto duro. Ma fino al punto di uccidere la propria figlia?»
«Forse era una specie di questione d’onore. O forse lo ha fatto
uno dei fanatici di Hoke.»
«Perché?»
«Un assassino attira gli sguardi. Forse hanno visto la ragazzina
come una minaccia per i loro piccoli e sporchi segreti.»
«Forse hanno ucciso Mason Gulley.» D’impulso girai la sedia,
presi la busta da lettera di Ramsey e piazzai una foto sulla
scrivania. «Questa è Cora Tegue. In qualche modo, non immagino
una teenager smembrare un corpo e spargerne i pezzi da punti
panoramici assortiti. Inoltre la voce registrata non è coerente con
l’idea della ragazza come killer.» Slidell stava dando voce agli
stessi sospetti che mi ero rifiutata di accettare.
Guardò la foto, aprì la bocca, la chiuse. Passò un altro lungo
istante prima che facesse un nuovo tentativo.
«Hazel Strike fu la prima a rompere le uova nel paniere?»
«Sì» dissi.
«Andò ad Avery?»
«Sì, cercò un belvedere e parlò con i Teague. Inoltre chiamò la
scuola di Cora e l’ospedale dove Eli morì. Penso che fosse lassù di
nuovo, il sabato in cui mi chiamò. Il giorno prima di venire
uccisa.»
«Lo era.»
«Sul serio?»
«Ho verificato le chiamate di Strike al telefono. Santo cielo,
pensavi che volessi controllare la linea privata di Obama?»
«E poi?»
«Usava raramente quell’affare, ma i ragazzi hanno ricevuto un
paio di segnali di quella mattina, sul presto. Towers l’ha
individuata sulla I-40, probabilmente era diretta ad Avery. Dopo
l’affare ha taciuto o gli è morta la batteria.»
«Avete trovato il telefono?»
«No.»
«Qualche progresso sul suo portatile?»
«Ho avuto un messaggio dalla sezione IT. Chiedono di essere
richiamati. Ma perché quelle facce da secchioni parlano sempre
come se avessero appena ingoiato un gerbillo?»
La presi come una domanda retorica, per cui non offrii alcuna
teoria in merito.
Di nuovo, le labbra di Slidell si aprirono. Non saprò mai cosa
avesse in mente di dire.
Quando il telefono fisso squillò, il detective inspirò
profondamente e lasciò cadere lo sguardo sulle sue mani.
La chiamata veniva dal laboratorio criminale del Dipartimento
di polizia di Charlotte-Mecklenburg.
Era l’inizio di una cascata di eventi che sarebbe terminata in
maniera raccapricciante.
27

Nei primi anni del Ventesimo secolo un investigatore francese


di nome Edmond Locard osservò che quando due oggetti entrano
in contatto fra loro avviene sempre uno scambio di elementi. Lo
stesso vale per due persone. Io tocco te. Tu tocchi me.
Condividiamo piccoli pezzi di noi stessi. Il concetto divenne noto
come il principio dello scambio di Locard.
Sembra ovvio nell’età di CSI e Bones, ma a quei tempi l’idea
rappresentò un punto di rottura. Oggi quell’intuizione tiene
impegnate migliaia di persone nei laboratori forensi in tutto il
mondo. Capelli, pelo, fibre, tessuto, corda, piume, terra, vetro,
sostanze biologiche o chimiche, qualsiasi cosa. Gli esperti in
tracceologia forense identificano e confrontano elementi
sperando di collegare un individuo sospetto a una vittima o a una
scena del crimine. E il processo può richiedere un cospicuo
utilizzo di alta tecnologia. Questo è il motivo per cui l’analista,
una neofita di nome Bebe Denver, iniziò con le sue incursioni a
mo’ di drone.
Dall’altro lato della scrivania, Slidell tirò fuori un coltellino
svizzero e cominciò a estrarre una sorprendente quantità di
materiale da sotto l’unghia del pollice. Era come rimanere
incollati a osservare un incidente stradale: non avevo alcun
desiderio di guardare, ma non potevo farne a meno.
«… analisi elementare usando l’assorbimento atomico, o con
uno scanning al microscopio elettronico equipaggiato per una
spettroscopia dispersiva. Usando il gas per la cromatografia o lo
spettrometro di massa si possono separare i componenti chimici.
Mi segue dottoressa Brennan?»
Non volevo essere rude o smorzare il suo entusiasmo, ma non
era il mio primo rodeo di tracce. Volevo solo arrivare al punto
prima che Slidell irrorasse di sangue il mio ufficio.
«Sei stata molto meticolosa» dissi.
«Sì.»
«Possiamo soffermarci sui risultati, per adesso? E poi dopo, se
ho domande, discutere del procedimento?»
«Ma certo. Metto tutto nel mio report. Ogni dettaglio.»
Caspita. Una dissertazione di analisi elementare. La vita non
potrebbe andarmi meglio.
«Perfetto» dissi.
«Il cemento è una mistura di Portland e numerosi altri
materiali. Ho identificato idrossido di calcio, shale…»
«Composti di base?»
«Sì. Appare come un miscuglio di cementi, sabbia e ghiaia… un
calcestruzzo pensato per la presa rapida.»
«Come il Quikrete.»
«Esattamente.»
«Disponibile in qualsiasi negozio di materiali edili.»
«Sì.» Un po’ scoraggiata.
Slidell rimaneva concentrato sulle sue unghie. Ma sapevo che
stava ascoltando.
«E il materiale che ho raschiato dalla superficie interna?»
«Questo è interessante.» Un suono di campanellini. «La
sostanza conteneva trigliceroli, trigliceridi o grassi e piccole
quantità di acidi grassi liberi, glicerolo, fosfatidi, pigmenti,
steroli…»
«Quindi che cos’è?»
«Olio d’oliva.»
Denver interpretò il mio silenzio come un segno di confusione.
«I trigliceroli sono in genere composti da una mistura di tre
acidi grassi. Il triglicerolo oleico-oleico-oleico è prevalente
nell’olio d’oliva, seguito dal palmitico-oleico-oleico, poi oleico-
oleico-linoleico, poi palmitico-oleico-linoleico, poi stearico-
oleico-oleico e così via.»
«Olio d’oliva.» Pensavo ad alta voce.
«L’olio d’oliva contiene più acido oleico e meno acido linoleico
e linolenico rispetto ad altri oli vegetali.» Di nuovo interpretò
erroneamente il mio commento per una richiesta di
delucidazioni.
«Sei sicura?»
«Ho anche trovato microscopici pezzi di oliva.»
Rimuginavo su questo quando Denver procedette.
«L’altra sostanza è stata più difficile da individuare. Ne ho
trovata una piccola concentrazione solo su una raschiatura, una
quantità appena sufficiente per essere analizzata.» Altri
campanellini.
«Acido resinico, gomma, acidi boswellici, acido 4-0
metilglucuronico, franchincenso, fellandrene…»
«Traduzione?»
«Non ne sono certa. L’acido boswellico è interessante.»
Qualcosa di inimmaginabile prese il volo da sotto l’unghia di
Slidell e finì sulla mia scrivania. Sfilai un fazzolettino di carta,
raccolsi in fretta la sostanza appiccicosa e la gettai nel cestino.
Slidell iniziò a cercarla.
«L’acido boswellico viene da piante resinose. Nella medicina
tradizionale africana e indiana è usato per lenire le
infiammazioni. Ci sono studi sul suo utilizzo nel trattamento delle
malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide e il morbo di
Crohn. Nonché del cancro al cervello, al seno e della leucemia.»
«Come ci si procura l’acido boswellico?»
«Online, in farmacia oppure in erboristeria. È molto facile da
reperire.»
Come il Quikrete.
«Grazie, Babe.» Nascosi appena il mio disappunto. «Ho
apprezzato la tua precisione.»
Dopo aver chiuso la chiamata, condivisi con Slidell il report di
Denver.
«Quindi perché questa faccenda del secchio di calcestruzzo con
la testa di Mason Gulley?»
Descrissi Edward Gulley con i suoi sfortunati capelli, unghie,
pelle e denti.
«Forse Mason ha mescolato acido boswellico e olio d’oliva per
metterseli sui capelli o sul cuoio capelluto.» Sapevo che il
suggerimento era un po’ stupido mentre lo dicevo. «O lo ha
applicato sulla pelle e sulle cuticole.»
«Che stile…» si concentrò di nuovo sulla manicure.
«Vuoi prenderti una pausa?»
«Cosa?» gli occhi di Slidell rotolarono all’insù.
Gli indicai con un gesto la routine di cura della sua persona.
«Mi distrae.»
Sospirando in modo teatrale, Slidell piegò e ripose il coltellino.
«Dov’è quel tale Ramsey che si occupa della faccenda Gulley?»
«Il vicesceriffo Ramsey sta seguendo una serie di piste.»
Slidell emise un grugnito di disapprovazione, poi iniziò a
canticchiare le note di apertura di Dueling Banjos.
«Tra tutti quanti, tu dovresti capire che non ci si può
permettere il lusso di concentrarsi solo su un caso.»
«Oh, cielo! Ex-cyooz-ay moi.»
Una dozzina di neuroni si accesero all’improvviso. Esplosero le
immagini.
Hazel Strike sulla sedia adesso fluttuante con Skinny. La
conversazione in una chat room di cybersegugi. Una pagina in un
vecchio volume di medicina. Susan Grace Gulley al buio nella
mia auto.
Tutte le informazioni esplosero nella mia mente.
Afferrai il telefono e chiamai Ramsey. Andai dritta al punto
senza preamboli.
«Oscar Gulley fu chiamato così dal nome del fotografo Oscar
Mason, giusto?»
«Sta parlando del nonno?» Ramsey era confuso, ma cercava di
entrare nel ragionamento.
«Sì. Susan Grace ha detto che sia suo fratello sia suo nonno
erano stati chiamati così per via di Oscar Mason. Supponi volesse
intendere che entrambi siano stati chiamati Oscar Mason Gulley.
Ma il nonno fu conosciuto come Oscar, mentre Mason… be’ hai
capito, giusto?»
«Sì.» Esitava. Quindi non aveva capito.
«OMG. La persona che scrisse i post su CLUES a proposito della
sparizione di Cora Teague. Il sito di cybersegugi.» Sapevo che
stavo parlando troppo in fretta. «Pensavo che lo username
significasse Oh My God. E se non fossero iniziali in gergo
informatico?»
Slidell mi stava guardando, col sopracciglio sinistro alzato.
«Oscar Mason Gulley» disse Ramsey.
«Sì.»
«Che mi venga… Come ci sei arrivata?»
«Sono con il detective Slidell. Ha fatto un balletto di
allusioni…» continuai, mettendo la questione in modo gentile
«che mi ha fatto pensare a Susan Grace, al perché mentì a sua
nonna per potermi seguire, alle foto di Edward – il fratello di
Oscar –, all’account di Hazel Strike su CLUES e alla mia ricerca.
Bang. Subito ho collegato tutto.»
«Una mente SuperCollider.»
«Sì.» Ero incerta sull’accuratezza dell’analogia.
«Vuoi che chiami la nonna?»
«Meglio andare al palazzo di giustizia a chiedere il certificato
di nascita.»
«Ci sto andando.»
Dopo aver riattaccato, iniziai a spiegare la faccenda a Slidell.
«Sono tutto orecchie.»
«Dovrei chiedere a Susan Grace della sostanza a base di olio di
oliva?»
«E dire cosa? Ehi, sorellina, non è che il tuo fratellone metteva
della brodaglia sui capelli? Larabee non conferma
l’identificazione, quindi, per quello che ne sa la famiglia, il
ragazzo è vivo e vegeto.»
Slidell aveva ragione. Una domanda così strana avrebbe
destato sospetti. Prima che Slidell mi lasciasse, andai online, feci
il login per entrare su CLUES e controllai le date dei post di
OMG. Il primo risaliva all’agosto 2011, grosso modo un mese
dopo la sparizione di Cora Teague. L’ultimo a settembre, circa un
mese dopo.
Slidell stava uscendo dalla porta quando Ramsey richiamò.
Lo misi in vivavoce.
«Ci hai azzeccato in pieno. Il certificato di nascita di Mason
riporta il suo nome per intero come Oscar Mason Gulley. Lo
registrò la nonna. I genitori non si disturbarono.»
«Slidell e io abbiamo controllato le date» dissi.
«I post di OMG combaciano con la storia di Susan Grace su
Mason che va a Johnson City. I post finiscono grosso modo
quando lui smette di contattarla.»
«Va bene» disse Ramsey. «Diciamo che è così. OMG è Mason
Gulley. Che significa?»
Nessuno di noi era in grado di dare una spiegazione plausibile.
Quando Slidell se ne andò, sedetti un momento a ragionare tra
me e me, soppesando gli obblighi verso una vittima senza nome e
gli impegni personali. Poi, alla velocità di una lumaca, presi il
telefono e cancellai il mio volo per Montréal. Temendo
l’insorgere di una discussione, chiamai Ryan. C’era la segreteria
telefonica. Ero in preda ai rimorsi per la sensazione di aver
scampato un proiettile, allora mandai una lunga e-mail spiegando
la mia decisione. Ryan avrebbe capito. O forse no. Ma quali
erano i miei pensieri? Ero sollevata per aver evitato una
spiacevole conversazione? O per aver evitato il viaggio?
Trovai Larabee nel suo ufficio e gli diedi ragguagli: avevo
promesso a Slidell che lo avrei fatto. Non c’era bisogno di
un’antropologa, così gli dissi che mi sarei diretta verso casa a
lavorare sulle mie tasse.
La faccia di Larabee espresse quello che pensava della mia
procrastinazione. Probabilmente il caso sarebbe stato archiviato a
gennaio.
Avevo veramente pianificato di dedicarmi alla faccenda delle
tasse. E lo feci. Fino alle quattro e un quarto, quando padre
Morris telefonò.
«Ho delle informazioni per te.» Aveva una voce seria da
telegiornale che mi fece rabbrividire.
«Bene.» Cercai una penna.
«Penso che sia meglio se ne parliamo di persona.»
«Certo.» Guardai i fogli impilati intorno a me in modo non
propriamente ordinato. Un cartone mezzo pieno. O mezzo vuoto?
«Vengo alla canonica?»
«Sì. Magari tra un’ora?»
«Ci vediamo lì.»
Chiusi la telefonata e guardai Birdie, che mi stava osservando.
Potrei giurare che il gatto fece spallucce.

La parrocchia di St. Patrick si trova a Dilworth, alla periferia di


Charlotte. Sebbene di struttura modesta, la chiesa è una
cattedrale, l’ammiraglia della diocesi. È in stile neogotico,
all’esterno esibisce stucchi e decorazioni in pietra calcarea, una
navata fornita di cupola, un campanile e delle vetrate. In alto, sul
portale, si trova una statua del buon santo che regge il suo
pastorale. La chiesa aveva quarant’anni quando erano iniziati i
lavori di ammodernamento nel 1979. La lavorazione proseguì a
fasi alterne per tre decenni. Altare di marmo, organo a canne e
campana nuovi di zecca. Un bellissimo tetto di rame, pavimenti
in legno lucido, una croce celtica sul prato. Arrampicata sulla
collina, la vecchia signora si è stirata le rughe e ha un’aria molto
distinta.
Mentre era dalle mie parti qualche anno fa, un’amica di fuori
città mi chiese dell’alto numero di scuole a Charlotte. Non
sapendo nulla della particolare liaison di Charlotte con la
religione, scambiò i numerosi ed estesi complessi religiosi per
istituti di istruzione superiore.
St. Patrick non fa eccezione. Con la sua chiesa principale – il
centro della vita familiare della parrocchia –, i giardini, i prati, le
aree di parcheggio, il convento e la canonica, la zona sembra un
piccolo campus universitario.
Dieci minuti dopo aver lasciato il garage, parcheggiai nel punto
in cui una scalinata conduceva alla canonica. Un dito sul
campanello fece riecheggiare un suono dolce e contemplativo.
Stavo per riprovare quando la porta si aprì.
«Tempe. Scusa il mio abbigliamento informale.» Morris
indossava abiti scarsamente sacerdotali, una camicia a quadri e
un gilè di lana verde.
«Ho completato il mio servizio pastorale per oggi.»
«Sembra molto alla moda.» Santo cielo, era appropriata questa
battuta? Cavolo. Si può dire «Santo cielo»? Cavolo, cavolo. Sono
passati decenni dall’ultima volta che ho indossato la mia piccola
uniforme, però preti e suore ancora mi rendono nervosa.
Morris sorrise. «Andiamo nello studio?»
L’ingresso aveva un arazzo su una parete, una donna
castamente vestita dalla testa ai piedi in un bagno di luce celeste.
Un tappeto persiano rosso sul pavimento, una sedia in legno
intagliato in un angolo, una scala con una ringhiera molto
elaborata sulla destra. Lo studio era a breve distanza dopo un
ingresso molto ampio. Ritratti di ecclesiastici dal volto serio
erano appesi su entrambi i lati a intervalli perfettamente regolari.
Lo studio era rivestito di legno, con tre pareti coperte di
mensole dal soffitto al pavimento. Un altro tappeto persiano sotto
i piedi, in tinta verde. Un camino con la cornice di cemento era al
centro della quarta parete. Davanti a questo, due poltrone in stile
regina Anna e un tavolino. Al di sopra del camino un dipinto a
colori sgargianti. Di lato c’era un piccolo secrétaire con le porte a
vetri.
Morris mi condusse verso le poltrone davanti al camino. Mi
sedetti. Lui non lo fece.
«Ti posso offrire qualcosa? Magari un tè?»
«Un tè sarebbe perfetto, grazie» dissi.
Quasi quasi mi aspettavo che suonasse un campanellino per
dare ordini a una suora strascicante con una gobba austera e una
faccia da mummia grinzosa. Invece uscì dalla stanza a passo
svelto.
Feci il mio solito inventario mentale.
Il dipinto era un paesaggio. Forse. Molti toni arancioni e blu e,
sullo sfondo, quello che pensavo dovesse essere un orizzonte.
Una scrivania occupava il lato più lontano della stanza. Era di
mogano con decorazioni pulite e lucide. Di fronte c’erano due
sedie di legno poco invitanti. Si trattava forse di una manovra per
convincere i supplicanti piagnucolosi o irascibili a raccontare le
loro storie senza esitazione?
Le mensole erano stipate di libri e riviste. Occasionalmente
intervallati da oggetti decorativi. Attraverso il vetro delle porte
del secrétaire si vedevano fotografie incorniciate, un vassoio
d’argento su cui poggiava una fiaschetta di liquido giallo e i resti
di quella che sembrava essere una fronda di palma secca. Inoltre,
un binocolo da teatro in madreperla e un candelabro di ottone.
Morris tornò con una confezione di metallo colma di filtrini,
due tovaglioli, due cucchiaini e due tazze di acqua bollente.
«Spero che non ti dispiaccia il tè in bustina.»
«È il mio veleno abituale.» Santo cielo!
Scelsi il tè alla menta. Lui prese la camomilla. Una volta aperte
e messe in infusione le bustine, iniziò.
«Nessuno vuole parlare di Granger Hoke.»
Sebbene sentissi aumentare le pulsazioni, non mancai di
immergere e sollevare la mia bustina.
«Spero che tu possa tenere per te quanto sto per dirti.»
Appoggiò la sua tazza sul tavolo e la bustina gocciolante sul
tovagliolo.
«Farò del mio meglio, ma…»
Morris alzò una mano. «Capisco che non sarà possibile se Hoke
è coinvolto in qualcosa di criminale. È solo che la Chiesa è stata
nel mirino costante della pubblicità avversa in anni recenti…»
«Padre» lo interruppi, ma mi fermai qui. Non ero sicura di cosa
dire. Il suo preambolo non aveva bisogno di spiegazione.
«Non fraintendermi, Tempe. Quello che è successo a quei
bambini è vile e disgustoso. E peccaminoso. Un prete che si
macchia di certe colpe deve essere punito col massimo della
pena.»
«Ma lei pensa che la situazione sia stata rappresentata dai
media in modo scorretto?»
Non mi piaceva la piega che stava prendendo la discussione.
«Molto di quanto detto era pienamente giustificato. Ma non
tutto. Quello che sto affermando è che un altro scandalo sarebbe
devastante per la Chiesa.»
Morris abbassò la mano per sollevare la tazza. Non bevve.
«Pochi preti delinquenti non rappresentano tutti noi. Non puoi
confondere una parte con il tutto. Nel profondo dell’anima so che
il clero è composto di uomini dalla grande moralità e degni
d’onore. Uomini che amano Dio e tutti gli essere umani e
vogliono fare la differenza in questo mondo.»
Lo sguardo di Morris per un istante si annebbiò. Ma vidi il suo
volto riflesso in un vetro del secrétaire. Vidi il dolore nei suoi
occhi, e forse anche la paura. Sentii la bocca asciutta. Immaginai
che Morris stesse per dirmi che Granger Hoke aveva molestato
dei bambini.
Ma mi sbagliavo di grosso.
28

Morris si voltò nuovamente verso di me. Era stanco e triste.


«Nel 1998 Granger Hoke fu sospeso dall’ufficio sacerdotale per
aver compiuto esorcismi non autorizzati dall’autorità
ecclesiastica.»
«Esorcismi…» La sensazione che provavo era di sollievo o di
shock?
«Sì.»
«Cioè… l’allontanare i demoni?»
«In parole povere, sì.»
«In parole più elaborate?»
«Secondo la definizione fornita dal catechismo della Chiesa
cattolica, un esorcismo è la preghiera pronunciata pubblicamente
e con autorità, nel nome di Gesù Cristo, affinché una persona o
un oggetto siano protetti contro l’influenza del Maligno e sottratti
al suo dominio.»
«Satana.»
«È reale, in certe forme.»
«Non siamo nel Quindicesimo secolo, padre.»
«Certo che no.» Un sorriso paziente. «Ma il male continua a
esistere in questo mondo e gli esorcismi sono ancora praticati.
Infatti il Vaticano ha rivisto il procedimento e revisionato il rito
nel 1999, anche se la tradizionale formula in latino è comunque
permessa.»
«Praticati in quali circostanze?» Avevo visto L’esorcista e Il rito,
ma tutto quello era Hollywood. Avevo difficoltà a inquadrare
Lucifero in America nell’epoca della Silicon Valley e di Twitter.
Morris sorseggiò il suo tè prima di rispondere, forse
compilando una lista nella sua mente.
«Gli indicatori di possessione demoniaca includono l’abilità e la
forza al di là della propria condizione, il parlare lingue straniere
o antiche sconosciute al soggetto, il rendere note cose nascoste o
remote di cui il soggetto non può essere a conoscenza,
l’avversione veemente verso oggetti sacri e verso Dio, la
Madonna e i santi, il sacrilegio…»
Ero perlomeno stupita.
«L’assunto sotteso è che il soggetto conserva la sua libera
volontà, ma il demonio si impadronisce delle forze e dell’attività
fisica della persona ossessa. Il rituale prevede preghiere solenni e
di liberazione e benedizioni che…»
«Chi può pronunciare una preghiera di liberazione?»
«Tecnicamente chiunque.»
«Tecnicamente?»
«Sì, ma la Chiesa conosce i pericoli concernenti l’esorcismo
vero e proprio condotto da persone impreparate o da ciarlatani.
Per questo solo ed esclusivamente un sacerdote può recitare una
preghiera solenne con esplicito permesso del suo vescovo. Non
fraintendere, Tempe, gli esorcismi sono estremamente rari e
vengono eseguiti solo dopo attentissima valutazione medica e
soprattutto psichiatrica.»
«Granger Hoke è stato ordinato prete.»
«E poi è stato sospeso.»
«Bene. Qual era il problema?»
Morris sollevò la tazza alle labbra e l’abbassò senza bere.
«Una volta la funzione di esorcista era parte dei compiti di un
prete. Nella gerarchia, l’ufficio ricadeva al di sopra del diaconato.
Alcuni seminaristi studiano per diventare esorcisti, ma solo un
prete ordinato può eseguire il rito e soltanto con l’espressa
autorizzazione del vescovo o dell’arcivescovo e la benedizione
della Chiesa.»
«Dunque, ci sono esorcisti ufficiali.»
«Sì.»
«Quanti ne esistono?»
«In genere uno per diocesi o arcidiocesi.»
«E Hoke non era tra quelli designati.» Iniziavo a vedere dove ci
stava portando il discorso.
«No.»
«Ma continuò a eseguirne.»
«Sebbene fosse stato rimproverato e invitato all’obbedienza.
Ma gli esorcismi non autorizzati non erano il solo problema.
Hoke fu trasferito dal Midwest al North Carolina. Alla metà degli
anni Novanta, quando era pastore di una piccola parrocchia nella
contea di Watauga, cominciò a deviare dai tradizionali
insegnamenti cattolici, spostandosi verso la dottrina
fondamentalista pentecostale.»
Morris fece un cenno col capo e guardò in basso verso la sua
tazza.
«Sapevi che gli esorcismi sono eseguiti da carismatici,
pentecostali e da cristiani di molte altre denominazioni? Secondo
alcune stime esistono almeno cinque o seicento ministri di
esorcismo evangelici, forse di più.»
«Hoke poneva molto l’accento sulle fiamme dell’inferno
durante le sue preghiere?»
«Sì.»
«Ed è stato mandato via in malo modo.»
«Sospeso a divinis. Dopodiché sparì per un po’, poi riapparve
nella contea di Avery e fondò la Chiesa della Santità del Signore
Gesù. Benché gli fosse stato imposto di non farlo, continuò a
definirsi un prete, a indossare la tonaca e il collare, a dire messa,
ad amministrare i sacramenti e a predicare la sua versione
distorta del cattolicesimo.»
«Che è incentrata sulla figura di Satana.»
«Sì.»
Da qualche parte, dietro la quiete dello studio, una porta si
chiuse.
«Gli esorcismi sono legali?»
«Se il soggetto vi si sottopone di sua spontanea volontà.»
«Quindi la Chiesa non ha modo di fermare quel ciarlatano di
Hoke?»
«No, purtroppo.»
«C’è altro?»
Passò un istante. Quando Morris rispose, la sua voce aveva lo
stesso tono guardingo che avevo sentito al telefono. «No.»
In quella breve esitazione capii che stava mentendo o,
quantomeno, che non diceva tutto.
«Grazie, padre.» Mi alzai.
Morris mi accompagnò alla porta. Mi benedisse dicendomi: «La
Grazia del Signore sia sempre con te». Provai avversione.
«Ricorda ciò che ti ho detto sulla rispettabilità dei preti,
Tempe. Credo fermamente in essa e nella Chiesa.»
Non risposi, temendo che la mia voce avrebbe tradito il mio
sospetto sulla sua sincerità. Cominciai a scendere le scale.
«Tempe.»
Mi girai.
«Fai attenzione.»
Lo lasciai incorniciato dalla donna dell’arazzo nel suo bagno di
luce.

Tornata a casa, mi diressi verso il frigo e preparai un panino


con prosciutto e salame mentre la mia mente si apriva a una
nuova e orribile soluzione dell’indovinello. Ma c’era ancora
qualcosa che non quadrava.
Con i nervi in fermento accesi il Mac, felice di scavare tutto
quello che potevo su Granger Hoke. Per mettere a posto gli ultimi
pezzi del puzzle.
Eureka.
Ma dovetti leggere interi volumi sul tema degli esorcismi.
Ore dopo, mi abbandonai sulla mia sedia. La stanza era avvolta
dall’oscurità. L’affettato freddo e il pane si erano solidificati come
una roccia nella mia pancia.
Conoscevo le vittime. La probabile causa della loro morte. Il
significato delle tracce trovate.
Inspiegabilmente fui sopraffatta dal desiderio di chiamare
Ryan. Era più che un desiderio. Una necessità.
Accesi una lampada e mi spostai sul divano. Composi il
numero.
Ryan rispose con una voce che mi suonava…, be’, neutra.
Quando è motivato, quell’uomo è un maestro nell’arte del
camuffamento.
«Ehi» gli dissi.
«Ehi» replicò.
«Hai ricevuto la mia e-mail?»
«Sì» rispose con voce piatta.
«Capisci, vero, perché ho dovuto cancellare il volo?»
«Siamo in un brutto affare.» C’era una sfumatura nel profondo
della sua voce che non potei cogliere.
«Stai lavorando a qualcosa?» Tentavo di evitare un terreno
pericoloso.
«Omicidio. Un coltivatore trovato a faccia in giù nel suo fienile
fuori Saint-Amable. Jean-Guy Lessard.»
«Sta procedendo per il meglio?»
«Certamente non per lo stronzo che abbiamo nella cassa.»
«Di che si tratta?» Ero a malapena interessata. Desideravo
iniziare a parlare del mio caso.
«Lessard è dispiaciuto per il figlio del vicino, lo assume per
lavori occasionali come scusa per gettare via il denaro a modo
suo» sentii il rumore di un fiammifero accendersi, un sommesso
crepitio, un’espulsione di aria.
«Martedì Lessard va in città, così il ragazzo decide di cercare la
cassaforte. Lessard ritorna prima del previsto e lo sorprende. Il
ragazzo va in panico e gli pianta tre pallottole in petto.»
«Nessuna buona azione rimane impunita.»
«È così.»
«È questa la soluzione, Ryan. Hai fatto il tuo lavoro.»
«Stappa una bottiglia.» Adesso aveva tolto la maschera. Ryan
sembrava logoro e sfinito. «Il povero stronzo lascia una moglie,
tre figli e dieci dannati acri di terreno.»
«Mi dispiace.»
«Ma non aiuta. Sei a casa?»
«Sì. E tu?»
«Sì.» Ryan aspirò un’altra boccata di sigaretta.
«Ho sbagliato tutto» dissi.
Una pausa. Poi: «La faccenda Teague?».
«Sì.»
«Non credi che la ragazza sia morta?»
«Secondo me sono morti sia lei che Mason Gulley.»
«Ti ascolto.»
Gli dissi della mia conversazione con Susan Grace Gulley e con
Katalin Brice. Della testa di Mason Gulley nel cemento. Del report
di Denver sulle tracce.
«Che diamine è l’acido boswellico?»
«Una sostanza estratta dalla resina di alberi della famiglia delle
Burseraceae. Perlopiù proviene dalla Penisola araba, dalla
Somalia e dall’India.»
«Per farne cosa?»
«È un ingrediente di una vasta gamma di prodotti di bellezza e
aromaterapia. Ed è un componente del franchincenso.»
«I re magi che portano doni…»
«Per così dire» Birdie saltò sul divano. Feci una pausa per fare
acciambellare il gatto vicino a me. Forse per accrescere il senso
melodrammatico della scena. «Franchincenso e olio d’oliva sono
comunemente usati durante gli esorcismi.»
«Esorcismi?»
«Sì.»
«Cose come vomito, levitazione e teste che ruotano?»
«Quello è ciarpame cinematografico.»
«Qual è il tuo punto di vista?»
«Milioni di persone credono negli spiriti cattivi.»
Una piccola pausa. «Stai parlando di Hoke e della sua cricca di
fuori di testa?»
Gli fornii una versione condensata di quello che avevo appreso
da Morris. Gli esorcismi non autorizzati. Lo slittamento verso una
teologia delle fiamme dell’inferno. La sospensione dell’ufficio
sacerdotale.
«Aspetta. Un passo indietro. Che cosa stai dicendo?»
«La nonna di Mason parlò di lui come di un individuo contro
natura. Il padre di Cora la definì puttana. Entrambi sono
scomparsi. La prova suggerisce che Mason fu esorcizzato.»
«Fammi capire. Secondo te il prete ha ucciso Cora Teague, l’ha
smembrata e ha gettato il suo corpo in pezzi dai belvedere che
circondano Brown Mountain?»
«Ex prete. E non sto dicendo che sia stato Hoke.»
«E chi, allora?»
«Non lo so.»
«E questo avanzo di galera, chiunque sia, ha ucciso Mason
Gulley dopo o durante un esorcismo, gli ha tagliato la testa, l’ha
sepolta nel cemento e poi ha lanciato le altre parti del corpo dagli
stessi belvedere?» Lo scetticismo di Ryan era denso come una
crema di piselli.
«Potresti essere un po’ più condiscendente?»
«Convincimi.»
«Pensaci. Fu proprio sua nonna a dire che era il male fatto
carne.»
«Ossia?»
«Lei pensava che suo nipote non fosse un ragazzo normale.
Forse era solo la sindrome di NJF. Forse Mason era gay.»
«E allora perché scappare con Cora Teague?» Di nuovo quel
tono di voce.
«Sto solo pensando ad alta voce, Ryan.»
«E Cora Teague?»
«Ramsey e io abbiamo parlato col medico della ragazza, un
buffone che non si aggiorna sul proprio mestiere dall’età del
bronzo. La teneva in cura per l’epilessia.»
«Mi vuoi dire che Gulley fu ucciso perché aveva unghie e denti
in cattivo stato e Teague perché aveva degli attacchi?»
«Se poi davvero ne aveva. Secondo me i problemi di Cora
erano di tipo psichiatrico.»
«Continua.»
Gli raccontai di River Brice, di Eli Teague e del cagnolino.
«Wow. Mi stai dicendo che la ragazza era un’omicida?»
«Diciamo che era circondata da spiacevoli imprevisti.»
Un’altra pausa sigaretta. Ryan fumava quando era stressato. Mi
stavo già pentendo amaramente di avergli voluto raccontare tutta
la storia.
«Per come la vedo io, non hai l’identificazione certa nemmeno
di uno dei resti di Brown Mountain. Niente DNA. E scommetto
che Larabee non ha intenzione di dichiarare che Gulley è morto
sulla base di un pezzo di cemento e di strane punte delle dita.»
«No.»
«Non si conosce la vittima, non c’è una scena del crimine, non
un’arma, un movente, né un sospetto. Non si sa per certo che
Cora Teague sia morta né tantomeno scomparsa. Il suo stato
mentale è pura speculazione.»
La mia faccia era rovente come il carbone acceso. Ryan aveva
ragione. Erano solo congetture.
Non dissi nulla.
Ryan aspirò ancora profondamente, poi chiese: «In che modo
Hazel Strike ha a che fare con tutto ciò?».
«Non ne sono sicura. Strike mi chiamò tre volte, quel sabato.
Forse aveva scoperto qualcosa e ne aveva parlato con la persona
sbagliata.»
Perché l’avevo ignorata? Mi sentivo di nuovo colpevole.
«Hoke?» disse Ryan.
«Non ho mai detto che l’assassino possa essere Hoke!» esclamai
così bruscamente che Birdie balzò sulle zampe.
«Porca puttana! Non c’è bisogno che mi tagli la testa.»
«Scusa.»
«Hai messo al corrente Slidell di quese cose? Non me ne ha
fatto menzione.»
«Quando hai parlato con Slidell?»
«Un paio di volte.»
«Perché?»
«Volevo il suo parere su una questione. Ti dà fastidio?»
Mi dava fastidio l’inferno intorno a me.
«Parliamo di qualcos’altro» dissi.
Mi accorsi dal suono che Ryan aveva appoggiato il telefono
all’altro orecchio. «Com’è il tempo laggiù?»
«Gli alberi sono in fiore. È primavera.»
«Qui sta nevicando.» Un profondo respiro. «Il fiume è ancora
ghiacciato.»
«Stai al caldo.»
«Ho acceso il fuoco.»
La malinconia nella voce di Ryan mi rimandava un milione di
immagini nella mente. Il suo viso, che conoscevo a memoria, con
una cicatrice sul sopracciglio per una bottigliata ricevuta da un
biker. Le piccolissime macchie di colore verde petrolio in quegli
occhi troppo blu. Vidi in dettaglio dove sedeva. Dove ero stata
seduta così tante volte. Il camino di pietra. Il fiume innevato che
scorreva al di là della spessa parete di vetro. Il divano di pelle,
graffiato dalle unghie di Birdie in una imbarazzante giravolta.
Senso di colpa e rabbia si trasformarono in un improvviso
dolore. Un senso di vuoto che reclamava di essere riempito.
«Mi vieni a trovare?» dissi sottovoce.
«Mi piacerebbe.»
«Presto?»
Un battito. Poi Ryan sospirò. «Non intendevo provocarti.»
«Volevi solo giocare all’avvocato del diavolo?»
«Carina, come battuta.»
«Grazie.»
Sorrisi. Mi chiedevo se anche Ryan lo stesse facendo, mille
chilometri a nord.
Il momento di pace, se mai ce ne fu uno, finì subito.
«Esponi la tua teoria a Slidell. Vedi cosa ne pensa.»
«Skinny pensa?»
«È un buon poliziotto.»
Mi addormentai rimuginando sull’apprezzamento di Ryan nei
confronti di Skinny Slidell.
29

Mi svegliai nervosa e di cattivo umore, come se la pelle non


fosse più abbastanza ampia per il mio corpo. Non c’era da
meravigliarsi, data la situazione di stallo delle investigazioni e la
mia invidiabile vita personale. Pioveva a catinelle, così
abbandonai l’idea di fare jogging. Ed ero francamente troppo
seccata per guidare fino alla palestra.
Dopo un bagel e un caffè, con una tuta comoda addosso e un
paio di pantofole a forma di coniglietto, mi misi di buzzo buono
al tavolo della sala da pranzo, determinata a non muovermi fino
a quando non avessi spulciato ogni singola stupidissima ricevuta.
Almeno mi sarei tolta Allan Fink dalle scatole.
Verso le quattro avevo quasi deciso che tirare a sorte e
rischiare un controllo fiscale era preferibile a quella punizione
terrena in forma cartacea. Stavo tentando di decifrare uno
scontrino illeggibile di un ristorante di cui non avevo mai sentito
parlare, quando sentii bussare alla porta sul retro con un colpo
secco. Deliziata da questa inattesa occasione di fuga, mi diressi
verso la cucina.
E rimasi di sale prima di aprire la porta a vento. Dalla finestra
vidi una figura che aspettava. Alta. Un uomo. Che indossava
jeans e una giacca di pelle marrone consumata.
Un nodo mi strinse lo stomaco. Mi sentivo ancora male, anzi
peggio di prima perché adesso avevo gli occhi affaticati. L’ultima
cosa che mi serviva era il rancore o uno scontro. Ma qualcos’altro
faceva capolino dietro il cattivo presentimento che mi si era
gonfiato in petto. Qualcosa che volteggiò leggero, come una
farfalla su una foglia.
Andai ad aprire la porta. «Sorpresa, sorpresa!» Il tono era un
po’ troppo vivace. Ryan tirò fuori un bouquet da dietro la
schiena. «Speciale supermarket. Il meglio che il mio autista ha
potuto fare.»
«Grazie.» Presi i fiori. «Sono bellissimi.»
«Tu sei bellissima.»
«Be’…»
Fin da quando ci siamo conosciuti, Ryan ha sempre avuto la
straordinaria capacità di saltare fuori quando il mio aspetto tocca
i minimi storici. Consapevole di ciò, dei capelli a coda di topo e
dell’assenza di trucco, feci un passo indietro.
Ryan entrò in cucina. Ci baciammo. Lo invitai ad accomodarsi
al tavolo con un gesto. Si tolse la giacca e si sedette. Notai che
aveva con sé solo una sacca da marinaio molto piccola.
«Non posso credere che tu sia qui» dissi.
«Sì. Ho preso il volo all’alba. Meglio questo che dover fare il
cambio.»
Aveva un’aria stanca. Mi chiedevo dove fosse stato dal
momento dell’atterraggio, avvenuto a metà mattina.
«Ti andrebbe una birra? O qualcos’altro?»
Ryan scosse la testa.
«Sei in missione segreta» dissi. «Non ti sei fatto sfuggire niente,
ieri sera al telefono.»
«Ieri sera non lo sapevo. È stato un impulso improvviso, spero
vada bene per te.»
«Ma certo.» Eravamo lontani da quel «ma certo». Benché felice
che avesse fatto il tentativo, mi sentivo… come? In
un’imboscata? Sotto pressione? Decisamente sotto pressione.
Muovendomi con compostezza artefatta, presi un vaso dalla
dispensa. Aprii il rubinetto. Riempii d’acqua il vaso.
«Ho pensato che sarebbe stato meglio parlare di persona» disse
Ryan alle mie spalle.
Stavo per sputare fuori un’osservazione impertinente. La mia
solita reazione all’ansia. Invece liberai i fiori dalla carta.
Ryan andò dritto al punto.
«Ti ho scritto una lettera, Tempe, un ottocentesco comunicato
con penna e inchiostro perché volasse da te grazie a francobolli,
aviazione e sudore umano.»
Continuai a districare e sistemare boccioli.
«L’ho strappata. Erano solo parole su carta. Difficilmente
sarebbero state espressive.»
«Non ti svendere, Ryan. Scrivi in maniera eccellente.»
Lo udii prendere fiato come se stesse per parlare. Una pausa,
poi lasciò perdere e la sedia scricchiolò sommessamente.
Mi volsi a guardarlo.
Ryan mi osservò, con gli stupendi occhi blu completamente
persi nei miei.
«Mi dispiace, Tempe. Mi dispiace per tutto. Perché cerco di fare
di te quello che io voglio che tu sia. Per essere meno di quello
che tu vuoi che io sia. Per amare cose e luoghi che ci tengono
lontani. Per averti lasciata la prima volta. Per essere scappato
quando Lily morì.»
«Ryan…» Il cuore cominciò ad accelerare il battito.
«Ti amo, Tempe. Sono venuto qui per dirtelo. Solo questo. E
per prometterti che non ti ferirò mai più.»
Aprii le labbra per rispondere. Ma non riuscii a trovare le
parole. Passarono i secondi sull’orologio da camino della nonna.
«Niente da dire?» Il tono di Ryan non aveva la benché minima
nota di impazienza.
«Sto aspettando la parte che inizia con “ma”.»
«Niente “ma”. Ti amo.»
«Questo significa che resterai a cena?» Mi pentii non appena
ebbi pronunciato la frase.
La testa gli cadde e rimase penzoloni un istante. Quando la
rialzò mi osservò con uno sguardo di ostinata imperturbabilità.
Nei suoi occhi c’era anche dell’altro. Compassione. Dolcezza. O
forse rimorso?
«Pete ti ha ferito. Ma io non sono Pete. Ti ferisco. Questo non
posso cambiarlo. Ma io sono cambiato.»
Stavo per rispondere. Alzò una mano per fermarmi.
«So che hai degli obblighi. Katy. Tua madre. Il tuo lavoro.
Responsabilità che ti tengono qui tanto strettamente quanto io
sono legato al Québec. Ma possiamo fare in modo che funzioni.»
Deglutii, non fidandomi di quello che stavo per dire.
«Non ti tradirò mai, Tempe.»
Avevo la sensazione che mi fosse stato iniettato azoto liquido
nel sangue. Avevo già sentito quella promessa. La stessa identica
frase.
Ryan notò l’espressione del mio viso. Si alzò e raccolse la sua
sacca.
«Aspetta» dissi dolcemente.
Si fermò. Emozioni contrastanti mi inceppavano i circuiti. I
secondi passarono. Un intero minuto. Non uscì un suono dalle
mie labbra.
«Va bene, Tempe.»
«No. Non va bene. Tu hai ragione. Sono rimasta paralizzata
dall’indecisione. È infantile. Sono indulgente con me e ingiusta
con te.»
«Capisco.»
«Ah, sì? Io no.» Subito le parole sgorgarono, risuonando forte
come l’acqua che scava la gola di montagna. «Lo so che ti amo.
Che sono più felice quando sono con te. Non perché mi compri i
fiori o mi fai ridere. O perché condividi la mia passione per
Giacometti o per la Guida galattica per gli autostoppisti. Non ti
voglio semplicemente bene. Mi piaci veramente. Ti ammiro e ti
rispetto. E, la maggior parte delle volte, tu rispetti me.»
«La maggior parte?»
«Mi riferisco alle volte in cui mi sono trovata in difficoltà e
Ryan è arrivato al galoppo, armi in pugno. Letteralmente. Il tuo
impulso di portarmi in salvo mi terrorizza, Ryan. Forse non pensi
a me come a una persona capace di intendere e di volere.»
«Intendi quando sono intervenuto mentre qualche canaglia
stava per spararti addosso?»
«Per esempio» risposi, sulla difensiva.
«Non voglio che tu ti faccia male.»
«E io non voglio farmi male. Ma il tuo essere così iperprotettivo
sembra voler dire che non so badare a me stessa. Che non sono
capace di gestire situazioni difficili per conto mio. Ti amo, Ryan.
Ma ho bisogno della mia autonomia. Ho bisogno di sapere che
posso fare affidamento su di me.»
«Questo è tutto? Non devo più assumermi il compito di
poliziotto per il salvataggio di routine?»
«Questa è solo una parte del problema.» Aiuto! Qual era il
resto? Ci dovetti pensare un attimo. Poi: «Se dovesse succedere
qualcosa a Katy, cercherei le persone che amo. Mia madre, Harry,
forse te». Mi sentivo le guance infiammate, ma non potevo più
tornare indietro. «Quando Lily morì, mi buttasti via come un
sacchetto di immondizia.»
Ryan tentò di interrompermi. Procedevo spedita.
«Non ho bisogno di te nella mia vita, Ryan. Ho imparato a
vivere senza di te una volta. Due volte. Non mi è piaciuto, ma
sono sopravvissuta.» Il tempo di un respiro veloce. «Non ho
bisogno di protezione. Non mi serve una guardia del corpo.
Voglio qualcuno che mi stia vicino sia fisicamente che
emotivamente. Sia quando la vita va bene che quando va alle
ortiche.»
«E tu dubiti della mia capacità di ricoprire quel ruolo?» Il suo
tono di voce era piatto.
«Non lo so quello che penso, Ryan.» Feci un passo indietro e
abbassai gli occhi fissando i morbidi coniglietti ai miei piedi.
Un silenzio molto lungo e molto pesante piombò tra di noi.
Nessuno si mosse. L’orologio ticchettava.
Dopo un tempo che mi sembrò lungo una vita, alzai lo sguardo.
La tristezza dipinta sul volto di Ryan quasi mi spezzò il cuore.
«Vuoi passare qui la notte?» chiesi, in un sussurro.
Qualcosa guizzò in quei tristi occhi blu come petali di iris, ma
svanì prima che io potessi leggerne il significato. Ancora due
ticchettii dall’orologio della nonna. Tre. Quattro. Poi le labbra di
Ryan si mossero in un inaspettato risolino.
«Ho spedito il mio stimolante e persuasivo messaggio. Tu hai
risposto con altrettanta eloquenza.» Spedito con una leggerezza
che era ovviamente forzata. «Penso che adesso sia meglio per me
levare le tende.»
«Non è quello che voglio.»
«Nemmeno io.» Le sue sopracciglia fecero qualche sobbalzo à la
Groucho Marx.
«Allora…»
Ryan si avvicinò e mi baciò la guancia. Mi fermò una ciocca
errante di capelli dietro l’orecchio. «Hai bisogno di stare per
conto tuo.»
«Dove andrai?» chiesi.
«A casa.»
Anuii, a stento trattenendo le lacrime.
Santo cielo! Non piangere! Non osare piangere!
Prendendo dolcemente il mio mento nel palmo della sua mano,
Ryan mi sollevò il viso fino a quando i miei occhi incontrarono i
suoi.
«Siamo diversi da molti punti di vista, Tempe. Ma le nostre
differenze sono complementari. Insieme eravamo migliori, più
forti. Più della semplice somma di te e di me. Questo lo credo
veramente.»
Morivo dalla voglia di gettargli le braccia al collo e di stringere
la mia guancia sul suo petto. Ma adesso aveva una rigidità nelle
spalle e una tensione sulle labbra che mi gelarono.
Dietro di me, dei passi solcarono il pavimento. Nella mia mente
le parole entravano in collisione. Per conto tuo. E il tempo verbale
scelto da Ryan. Eravamo. Eravamo.
La porta si aprì e si chiuse sommessamente.
Rimasi paralizzata, con un turbinio in testa e un fuoco che
bruciava sotto le costole.
Ero sicura di aver dato un duro colpo alla felicità, ma incerta
sul perché l’avessi fatto.
30

Saturday night.
Gonna keep on dancing to the rock and roll.

Dopo un bel pianto e una cena, decisi che la serenità sarebbe


tornata solo dopo la risoluzione dell’enigma Cora Teague. Decisi,
inoltre che, come me, Slidell probabilmente non era un animale
sociale. Se lo era, decretai che avrebbe mandato tutti i miei piani
all’aria.
Andai nello studio e lo chiamai, come Ryan aveva suggerito.
Skinny ascoltò, interruppe con qualche commento insipido.
Quando ebbi finito, disse: «Sì, be’, c’è solo un problema, doc.
Gli esorcisti puntano a dare un calcio in culo a Satana. Non
puntano a uccidere».
«È vero. Ma i riti possono avere esito mortale.»
Misi Slidell in vivavoce e presi gli appunti della mia ricerca
online, scegliendo i dati salienti mentre leggevo ad alta voce.
«Nel 1995, una donna coreana di venticinque anni di
Emeryville, California, si rivolse a Jean Park e ai ministri della
Jesus-Amen, da lui creata. La donna non riusciva a dormire e le
medicine non servivano, così Park stabilì che era posseduta dai
demoni. Durante un esorcismo di sei ore, la donna fu colpita
centinaia di volte, con conseguenti fratture alle costole e ferite
interne. Dopo la sua morte, i membri della congregazione
sedettero vicino al corpo della donna per cinque giorni perché
Park aveva detto loro che quando si fosse svegliata avrebbe avuto
bisogno di cure.»
Sentii una voce femminile in sottofondo.
«Un momento» disse Slidell.
Il ronzio della linea diventò ovattato. Slidell tornò dopo alcuni
secondi. «Senti, voglio solo…»
Continuai, riassumendo ulteriormente le mie analisi.
«Nel 1997, nel Bronx, una bambina di cinque anni fu legata e
costretta a bere un cocktail di ammoniaca, aceto, pepe e olio
d’oliva. La sua bocca fu chiusa col nastro adesivo. Quando morì,
sua nonna e sua madre avvolsero il corpo nella plastica e lo
misero nella spazzatura. Perché la bambina era stata ritenuta
indemoniata? Perché aveva fatto i capricci.
«Nel 1998, a Sayville, New York, una ragazza di diciassette
anni fu soffocata con una busta di plastica perché sua madre
stava cercando di distruggere un demone dentro di lei.
« Nel 2008, a Henderson, Texas, una bambina di tredici mesi fu
morsa più di venti volte e colpita a morte. La mamma e il
fidanzato sostenevano che la bambina fosse posseduta da un
demone.»
«Non è la stessa cosa. Qui ci sono solo bambini vittime di
genitori di merda…»
«Continuiamo con la serie “Combattere i demoni nel nome di
Dio”. Nel 2011, a Floyd, Virginia, un uomo e i membri della sua
Chiesa sentivano che la figlia di due anni era posseduta da spiriti
cattivi. La bambina fu trovata morta su un letto, circondata da
Bibbie. Il suo corpo presentava costole fratturate, abrasioni,
contusioni polmonari ed emorragie. La causa del decesso fu
strangolamento.
«Nel 2014, a Germantown, Maryland, una madre, agendo con
una complice, accoltellò i suoi quattro figli. Ne uccise due,
convinta che gli spiriti cattivi entrassero e uscissero dai corpi dei
bambini. Le donne dichiararono di appartenere a un gruppo
chiamato Assassini del Diavolo.»
«Cos’è? Una band heavy metal?»
«Questi sono solo alcuni esempi.» Ero sorpresa che Slidell
conoscesse quel genere musicale. «Ci sono dozzine di storie sui
pericoli dell’esorcismo, con siti web dedicati all’argomento.»
«Ma stai parlando di gente improvvisata, senza arte né parte,
giusto? I veri preti sanno il fatto loro, in modo che la cosa non
vada fuori dai binari.»
«Lasciami spiegare alcuni fatti, detective. Durante un
esorcismo, il “posseduto”» le virgolette disegnate in aria con le
dita non avevano molto senso; Slidell non poteva vedermi «è
spesso tenuto sotto controllo, legato, bloccato con una cinghia o
una camicia di forza. Molti esorcisti, preti o altro, non vedono il
rito come una preghiera, ma come uno scontro.»
«Così il prete dice quello che deve e poi comanda al demone di
muovere il culo. La Chiesa gli insegna come fare.»
«Il prete dovrebbe seguire le procedure approvate dal Vaticano.
Ma c’è un sacco di gente improvvisata e non autorizzata. Inoltre,
una volta iniziato, l’esorcismo deve essere portato a compimento,
e non importa se questo richiederà ore, giorni, settimane…»
«Non tutti possono vincere facile…»
«… perché, se l’esorcista interrompe il rito, il demone si
impossessa di lui.»
«Questo sì che ti risveglia la motivazione. Ma cos’ha a che fare
tutto questo con Strike?»
«Ha a che fare con Cora Teague. Teague era epilettica. Penso
che sia morta durante un esorcismo. Lo stesso deve essere
accaduto a Mason Gulley, il quale aveva una patologia genetica
che riguardava il suo aspetto.»
Di nuovo la voce femminile, stavolta più insistente.
«Sto venendo!» Slidell abbaiò, immaginavo, all’indirizzo di
Verlene, senza preoccuparsi di coprire il ricevitore.
«Ricordi il portachiavi-registratore?»
«Tre voci. Due uomini e una ragazza. Forse Cora registrò il suo
stesso esorcismo.»
«Perché?»
«Per ricattare il responsabile? Perché arrivasse alla stampa?
Perché era terrorizzata dall’idea che potessero ucciderla? Ha
importanza?»
«Giusto per saperlo. Di chi sono le altre voci registrate?»
Mi ero posta la stessa domanda. «Forse di Hoke e di suo padre
o di un altro membro della congregazione. Forse di uno
specialista chiamato dall’esterno.»
«Uno specialista?»
«Ci sono organizzazioni professionali come l’Associazione
americana degli esorcisti, l’Associazione cattolica internazionale
degli esorcisti, l’Associazione internazionale degli esorcisti.
Quest’ultima è stata approvata dal Vaticano nel 2014.»
«Non equivocare pensando che io sia d’accordo con te. Ma,
anche se tu avessi ragione, Teague e Gulley non sono casi che mi
riguardano.»
La parola «equivocare»: un esempio di alta oratoria, per
Skinny.
«Strike stava investigando su Teague.» Parlai con esagerata
pazienza. «Strike aveva il registratore. Strike andò ad Avery.
Strike è stata uccisa. La sua morte è necessariamente collegata
con il resto.»
Slidell ci pensò su. O almeno si astenne dal fare commenti per
un po’. Poi disse: «Non c’era niente su Teague in nessuno dei
cartoni di Strike».
«E su Mason Gulley?» chiesi.
«Nada.»
«Cosa c’è in quei documenti?»
«Merda sulle investigazioni di Strike. Controlli incrociati sui
nomi di varia gente.»
«Per quanto tempo…»
«Altra notizia di apertura. L’alibi di Wendell Clyde è solido.»
«È stato con quel blogger tutto il weekend.»
«Aslanian. Sì. Sono sicuro che annunceranno le loro nozze da
un momento all’altro. Oh, c’è una funzione. Devo andare.»
«Pedinerai Granger Hoke? Per vedere cosa spunta fuori?»
«Quel piacere dovrebbe ricadere sul vicesceriffo buona a
nulla.»
«Sono certa che padre Morris stava nascondendo qualcosa sulla
storia di Hoke.»
«Affari del vicesceriffo.»
«Va bene.» Ero impassibile come una sfinge. «Ma sarà
imbarazzante.»
«Di cosa diamine stai parlando adesso?»
«Ramsey ti picchierà sul collo per la storia di Strike.»
Sentii il bip di Slidell che riattaccava.
Guardai il cellulare come se fosse quell’oggetto, anziché Slidell,
la fonte della mia irritazione. O forse lo era davvero. Mi
sembrava di non aver fatto altro che parlare al telefono. Perlopiù
con gente che si interrogava sulla mia capacità di ragionare.
E poi c’era Ryan. No, no. Non pensare a Ryan finché il caso
non è risolto. Finché… No. Lascia stare. Concentrati sul caso.
Avevo bisogno di azione. Coinvolgimento. Ma non c’era niente
che potessi fare. Frustrata, chiamai Ramsey e gli dissi tutto quello
che era successo dall’ultima volta che avevamo parlato. In
maniera chiara, succinta e senza congetture. Senza speculazioni,
nel puro tentativo di ricostruire un puzzle. La sua risposta mi
sorprese non poco.
«Ho fatto le mie ricerche. Hoke ha ucciso una bambina.»
«Orribile.»
«Già. La morte è avvenuta durante un esorcismo.»
«Cos’è successo?» Ero stupefatta.
«Non sono mai stati divulgati dettagli completi riguardo
all’avvenimento.»
«Certo che no.»
«L’incidente accadde a Elkhart, Indiana, nel 1993. Hoke era
l’unico prete di una piccola parrocchia cattolica chiamata Chiesa
del Santo Confortatore.»
Evitai un commento sull’ironia del nome.
«Un mercoledì sera, durante un incontro di preghiera, una
madre richiese un esorcismo per sua figlia di nove anni. Il rito fu
eseguito due giorni dopo a casa della famiglia. La madre teneva
le braccia della bambina mentre Hoke le sedeva sulla schiena.»
«Comprimendole i polmoni e causandole soffocamento.» La
rabbia era così amara che potevo sentirla in gola.
«Sì.»
«Per espellere un demone che viveva dentro di lei.»
«Sì.» Udii Ramsey deglutire. «Più tardi venne fuori che la
ragazza era autistica.»
«Figlio di puttana.» La mia pelle fu percorsa da un brivido
caldo quando mi buttai contro lo schienale della poltrona. Quindi
questo era quanto padre Morris non aveva voluto dirmi. «Hoke fu
accusato?»
«No. A seguito di un’indagine, la morte fu archiviata come
accidentale.»
Collegai i fatti. Esposi la mia teoria su Hoke e sulla molto
discutibile Chiesa da lui fondata.
«Senta doc. Quel tipo è strano forte, ma da qui ad accusarlo di
omicidio ce ne corre.»
«Ha soffocato una bambina di nove anni!» esclamai.
Nel silenzio, potevo praticamente sentire Ramsey incappare
nelle stesse falle del mio ragionamento che Ryan aveva fatto
emergere.
La sua successiva rivelazione mi sorprese almeno quanto la
prima.
«Potremmo avere il portatile di Strike.»
«Sul serio?»
«Un vagabondo ha trovato un vecchio Gateway rovistando tra i
rifiuti dietro Dunn’s Deli a Banner Elk.»
«Lo hai detto a Slidell?»
«Lo chiamerò a breve.»
«Ma dov’è stato quell’affare per cinque giorni?»
«Il bravo cittadino lo ha tenuto con sé, pensando di poterci fare
qualche soldo. Ma la batteria era morta e non aveva modo di
ricaricarla. Non riuscendo a trovare un acquirente, ha deciso di
tentare la strada della ricompensa per averlo riconsegnato. Ci ha
chiamati circa due ore fa. E quell’aggeggio è appena giunto qui al
quartier generale.»
«Cosa le fa pensare che sia appartenuto a Strike?»
«Ci sono le iniziali HLCS sul davanti.»
Hazel Lee Cunningham Strike. L’ormai familiare frecciata di
senso di colpa mi attraversò.
«Riesce ad avviarlo?»
«Stiamo cercando un caricabatteria.»
«Skinny è uscito con la sua ragazza. Lo chiami. Faccia sembrare
la questione importante.»
Ovviamente non riuscii a dormire. Una presentazione in
PowerPoint continuava a rigirarmi in testa senza posa. Immagini.
Voci registrate, due da bullo e una spaventata.
Alle due mi arresi e scesi al pianterreno. Stava diventando un
vizio. Dopo aver fatto un tè, mi sedetti al tavolo della sala da
pranzo. Fissai quell’odiata scatola che mi occhieggiò di rimando.
Ignorando l’aspetto accusatorio degli scontrini ancora non
classificati, tirai verso di me un foglio di carta e una penna.
Ripensando ai commenti di Ryan, tracciai delle colonne.
«Vittime.» «Causa del decesso.» «Luogo del decesso.» «Data del
decesso.» «Moventi.» «Sospetti.» «Armi.»
Esaminai le liste vuote. Provai la stessa sensazione di quando
avevo guardato la scatola.
Strappai e accartocciai il foglio. Cominciai a tracciare un
diagramma. Punti nodali fra nomi e annotazioni. Linee che
collegavano i punti nodali.
Cora Tegue – Diplomata alla scuola superiore, va a lavorare
per i Brice. River muore, Cora torna a casa, poi sparisce.
Eli Tegue – Muore all’età di dodici anni, medico del pronto
soccorso sospettoso.
John Teague – Possiede un emporio-stazione di servizio.
Religioso intransigente, aggressivo.
Fatima Teague – Casalinga, remissiva.
Owen Lee Teague – Agente immobiliare fallito, addestratore
di cani.
Realizzando che sapevo poco su Fatima o su Owen Lee, e
niente sui restanti fratelli e sorelle Teague, compilai una lista di
quesiti su un altro foglio.
Mason Gulley – Sindrome di NJF, scompare nello stesso
periodo di Cora Teague. Johnson City, TN (?). Scrive post
come OMG (?) su Cora Teague sul sito CLUES.net, trovato
morto presso i belvedere di Brown Mountain.
Nonna Gulley – Cattolica, intollerante, molto devota.
Susan Grace Gulley – Mi passa informazioni su Mason, spia
Cora durante il soggiorno di Mason a Johnson City, TN.
Detesta Cora. Ribelle, molto arrabbiata.
Aggiunsi domande sotto quella che riguardava i Teague. Dove
aveva alloggiato Mason a Johnson City? Perché era andato
proprio in quel luogo? Perché Susan Grace non mi aveva voluto
dire il motivo per cui Mason era fuggito in Tennessee?
Hazel Strike – Cybersegugio, trova un post su Cora Teague
sul sito CLUES.net, trova il mio post su NamUs, trova un
registratore al belvedere della contea di Burke, mi
sottopone la sua teoria secondo cui i resti non identificati
classificati come ME229-13 appartengono a Cora Teague.
Che è stata uccisa.
Altre domande. Perché ha interrotto le sue investigazioni?
Dove è stata uccisa? Da chi? Com’è finito nel lago il suo corpo?
Granger Hoke – Prete sospeso a divinis, Chiesa della Santità
del Signore Gesù, ramo deviante del cattolicesimo,
esorcista, morte accidentale di una bambina durante un
rito.
Joel, Katalin, River e Saffron Brice – Membri delusi della
Chiesa della Santità del Signore Gesù. Saffron, braccio
rotto. River, sindrome della morte improvvisa.
Terrence O’Tool – Medico di base, epilessia, trattamento
inadeguato, croce d’oro, non collaborativo.
Fenton Ogilvie – Coroner, alcolizzato, morto per una caduta
nella tromba dell’ascensore.
Studiai l’intrico di linee e punti nodali. Sentii che la mia testa
iniziava a sfrigolare.
Presi un altro foglio e creai una nuova lista che chiamai «resti
umani».
1. Frammenti di ossa di gamba e piede trovati al belvedere di
Lost Cove Cliffs. Mandate a Marlene Penny alla WCU.
2. Torso parziale trovato al belvedere della contea di Burke.
Mandato a me. ME229-13.
3. Osso frammentario e punte di dita senza impronte (Mason
Gulley/sindrome di NJF?) trovati durante un ritorno al
belvedere di Burke County con Strike e Ramsey. ME122-
15.
4. Frammento di osso e impasto di cemento (Mason Gulley?)
trovati con Ramsey al sentiero Coda del Diavolo nei pressi
del belvedere di Wiseman’s View. ME135-15.
Rilessi le quattro voci. Gettai via la penna per la frustrazione.
Le mie domande senza risposta avrebbero continuato a essere
tali. L’esercizio era stato utile come uno schiaffo sul sedere.
Ancora un tentativo. «Date.»

1993: nasce Cora Teague.


1996: nasce Eli Teague.
2008: muore Eli Teague.
2011, primavera: Cora Teague si diploma alla scuola superiore
e va a lavorare per la famiglia Brice. River muore. Cora è
mandata a casa.
2011, luglio: Cora Teague e Mason Gulley spariscono. (Gulley
va a Johnson City, TN?).
2011, agosto: OMG (Mason Gulley?) scrive post su Cora
Teague sul sito CLUES.net.
2011, settembre: I post di OMG finiscono.
La mia mano gelò. Chiusi gli occhi e mi apparve un’immagine.
Una conversazione con un uomo con i paramenti sacri verdi in
una giornata ventosa.
Un impulso ad alto voltaggio si accese nel mio cervello.
Sapevo quando e dove Mason Gulley era stato ucciso.
31

Rimasi sveglia fino alle quattro. Fortunatamente era domenica,


così avrei potuto dormire fino a tardi. Ma il mio cervello, pieno
zeppo di progressi, non ne voleva sapere.
Aspettai fino alle otto prima di iniziare a fare telefonate. La
segreteria telefonica di Ramsey diceva che il vicesceriffo sarebbe
stato irraggiungibile fino a lunedì. Lasciai un messaggio, poi
provai sul fisso al Dipartimento dello sceriffo. La segreteria
recitava un’identica lagna. Lasciai lo stesso messaggio.
Slidell. Messaggio.
Alle nove nessuno mi aveva ancora richiamata. Alle dieci,
sempre calma piatta.
Ero alle prese con quella ripugnante scatola, leggendo sempre
le stesse ricevute, impilandole, pescandone altre e mettendole in
altre pile, quando il mio telefono finalmente annunciò una
chiamata in arrivo.
Risposi.
«Sei stata vista nell’antro del re della montagna.»
«Che?» Assunsi un atteggiamento da analista, incerta se mia
madre fosse criptica o irrazionale.
«Sei stata vista a Heatherhill giovedì sera.»
«Oh.»
«Stavi segretamente complottando con i maghi e gli sciamani
su chi debba sorvegliare sul mio benessere?»
«Mamma, stai prendendo le tue medicine?»
«Certo che sto prendendo le mie medicine. Perché ogni volta
che faccio appena un po’ di poesia mi chiedi sempre delle
pillole?»
«Scusa.» Mi ripromisi di chiamare la dottoressa Luna o Goose.
«Perché non sei venuta a trovarmi, tesoro?»
«Non eri nella tua suite.» Vero. «Ho immaginato che fossi con
la dottoressa Luna o che stessi facendo un trattamento.» Non
tanto vero. «Non volevo interrompere.»
«Un viaggio così lungo per non interrompere…»
«Mi trovavo già nella contea di Avery.»
Mi preparai a un fuoco di fila di domande su Brown Mountain.
Ma non ci fu.
«Ti dispiacerebbe affrontare di nuovo quell’orribile viaggio?»
«Di cosa hai bisogno?»
«Di passare del tempo con le mie figlie.»
«Hai chiamato Harry?» Il polso iniziò a battermi a quell’uso del
plurale. All’implicazione della richiesta di avere presso di sé tutta
la prole.
«L’ho chiamata.»
«Non ti senti bene?»
«Ti adoro, Tempe. Ma sei così noiosamente prevedibile.»
Aspettai.
«Non potrei stare meglio.» Un sospiro altamente
melodrammatico.
«Harry sta venendo nel North Carolina?» chiesi.
«Tua sorella è sempre di così grande sostegno.»
Cosa diamine significava?
«Mi puoi spiegare di che si tratta?»
«Il desiderio di vedere le mie piccoline deve essere per forza
dovuto a qualcosa?»
«No.» Sì.
«Devo veramente andare, ora. Il pranzo è a mezzogiorno. Poi
ho un massaggio. Ci vediamo presto?»
«Certo.»
«È Grieg.»
«Che?» Completamente persa.
«Nell’antro del re della montagna è un brano del compositore
norvegese Edvard Grieg.»
Con questo riattaccò.
Lasciai sul tavolo il telefono. Che ricevette una severa occhiata
da Birdie.
Le convocazioni di mamma avevano a che fare col cancro? Con
la chemio? Questo non potevo chiederlo. Harry mi aveva fatto
giurare di non dire nulla. O era per Clayton Sinitch? Mamma era
spesso avventatamente impulsiva. Stava per prendere una
decisione potenzialmente disastrosa?
Prendendo il telefono digitai un pulsante di chiamata rapida.
Un fastidioso piccolo messaggio di Harry. Ripetei le stesse poche
parole che avevo già pronunciato due volte poco prima.
Chiamami. È urgente.
Lanciai un’occhiata alla scatola e alla catena montuosa di carta
distesa davanti a me.
Il mio sguardo atterrò sul foglio e incontrò la lista di domande.
Le presi in considerazione una per una. Non ricavai niente.
Poi: Perché Susan Grace non voleva divulgare il motivo per cui
Mason era andato in Tennessee?
Come la notte scorsa, ero certa di sapere quando e dove Mason
era morto.
Avevo visto Susan Grace nell’oscurità del salottino di sua
nonna. Richiamai alla memoria l’ammonizione dell’anziana
donna. Non permettere a te stessa di essere ostaggio di Satana.
Avevo visto il viso di Susan Grace nella penombra dentro la
mia auto. Le labbra tremolanti, gli occhi grandi per metà nascosti
dalla frangia. Mi ero sbagliata sul conto della ragazza? La sua
intensità nasceva dalla paura e non dalla furia?
Cora Teague. Mason Gulley.
Improvvisamente l’aria nella stanza diede un morso freddo alla
mia pelle. Nel mondo esiste il male. Il male che richiede
osservanza di dogmi intransigenti. Il male che crede nelle forze
oscure.
In quell’istante capii.
La sfida temuta da Susan Grace poteva essere interpretata
come una lotta contro i demoni.
E lottare contro i demoni può voler dire uccidere.
Che orrore!, pensai. Che orrore!
Presi una decisione. Vado a fare visita a mamma. A Heatherhill
sarò già vicina ad Avery quando Ramsey richiamerà. O quando lo
farà Slidell. Non andrò oltre senza supporto. Solo fino a
Heatherhill.

Mentre gironzolavo per Charlotte, chiamai di nuovo Harry.


Sebbene mamma l’avesse contattata, la mia sorellina non aveva
prenotato il volo. Per una volta eravamo d’accordo. Nostra madre
è insuperabile quanto a manipolazione sdolcinata.
Una volta giunta sulla I-40 riprovai a chiamare Slidell.
«Ma si può sapere cosa cacchio c’è di così urgente che mi devi
rompere nel mio primo weekend libero dopo più di un mese?»
«È Hoke.»
«Che? Sto sentendo uno di quei messaggi trasmessi all’infinito
per gli alieni nello spazio? Questo lo hai già detto.»
«Sono convinta che Cora Teague e Mason Gulley siano morti
per errore durante un esorcismo.»
«Qui pianeta Terra. C’è qualcuno lì fuori? C’è qualcuno lì fuori?
C’è qualcuno lì fuori?»
«Mi stai ascoltando?»
«Dillo a Ramsey.»
«Non è raggiungibile.»
«Nemmeno io lo sono.»
«Tutto riconduce a Hoke. Alla sua Chiesa.»
« Sto lavorando su Strike. Che non è una persona scomparsa. È
un vero cadavere in un obitorio con un’etichetta sull’alluce.
Nell’obitorio della mia zona.»
«Strike è collegata a tutto il resto.»
«Forse chiamo la NASA. Chiedo come preparare il mio bel
messaggio, così lo posso trasmettere all’infinito come risposta.»
Gli lanciai la mia granata direttamente sul plesso solare.
«Mason Gulley è morto nella chiesa di Hoke. O il suo corpo è
stato smembrato lì.»
«Come fai a saperlo?»
«Ramsey e io siamo stati alla Santità del Signore Gesù a parlare
con John e Fatima Teague. Hoke era presente.»
«È la sua chiesa.»
«Abbiamo chiesto di Cora e Mason.»
«E paparino ha detto che non intende camminare con la sua
cattiva ragazza lungo la navata.»
«Abbiamo qualcosa di nuovo qui?»
Le mie dita strinsero il volante.
Calma.
«Mason è morto con olio d’oliva e incenso nei capelli. Queste
sono sostanze usate nel rito di esorcismo.»
«Questo non significa…»
«I Gulley sono membri della Santità del Signore Gesù. Mason
smise di frequentare la chiesa quando un progetto di
rinnovamento della parrocchia era ormai alla fine.» Immaginai
anelli di ottone lucido fissati in posizione perfetta. «Quei lavori
riguardarono una colata di cemento per rimpiazzare le vecchie
scale. Il progetto finì nel settembre 2011.»
Con sorpresa Slidell non mi interruppe.
«Mason e Cora sparirono nel luglio del 2011. In agosto Mason
iniziò a scrivere post su CLUES.net come OMG. Quei post
terminarono a settembre.»
«Allora non si trovava a Johnson City?»
«Penso che Mason sia ritornato dal Tennessee e qualcosa sia
andato storto lì in chiesa. Ci fu un esorcismo e lui morì. C’erano
sacchi di cemento lì intorno, potenti seghe…»
Lasciai in sospeso il pensiero cruento.
«E Strike?»
«Probabilmente scoprì tutto e si scontrò con Hoke. Strike era
ad Avery sabato, il giorno prima che fosse trovato il suo corpo.»
Slidell emise un grugnito.
«Certamente è abbastanza per ottenere un mandato» dissi.
«Finora sono solo speculazioni. Un giudice vorrà di più.»
«Per esempio?» Dovevo sembrare troppo insistente.
«Chiamami pazzo, ma… un’evidenza?»
«Resti umani? Una maschera mortuaria che urla il nome di
Mason Gulley? L’olio d’oliva e l’incenso? Polpastrelli senza
impronte? Due ragazzi scomparsi? Un prete che ha strangolato
una bambina di nove anni?» Decisamente troppo insistente.
«Dov’è Ramsey?»
«Non lo so. Ma considera questo. Susan Grace ha mentito a sua
nonna per contattarmi. Ha rivelato cose che Hoke e la sua cricca
probabilmente non vogliono che si sappiano in giro. Se lo
scoprono le potrebbero riservare lo stesso trattamento di Cora e
Mason.»
«Sto andando in palestra.»
«Palestra?» Una parola che non avrei mai immaginato facesse
parte del vocabolario di Skinny.
«Hai qualcosa in contrario se mi tengo occupato?» Sentii un
sommesso sfregamento: probabilmente Slidell si stava grattando
il viso.
«Scrivi quello che mi hai detto. E tutto quello che ti viene in
mente. Mandamelo. Nel frattempo non fare niente di stupido.»
Guidai fino a una stazione di servizio e spedii una mail a
Skinny come richiesto. La mandai in copia conoscenza a Ramsey.
Poi cliccai sull’icona di Google Earth e digitai un indirizzo che
pensavo fosse vicino al posto che volevo vedere. Ottenni le
coordinate. Usando quelle, feci una stima approssimativa di altre
coordinate e finalmente trovai quello che cercavo.
Passai qualche minuto ingrandendo e rimpicciolendo le
immagini, e controllando la zona. Andai al bagno delle signore,
comprai una bibita e feci il pieno. Poi tornai sulla strada. Superai
risolutamente Heatherhill e mi diressi ad Avery.

Accostai e spensi il motore. Il mio era l’unico veicolo presente


nell’area. Attraverso la polverosa lente del mio parabrezza, la
scena sembrava un paesaggio intitolato Primo accenno di
primavera. Germogli esitanti rinverdivano l’erba che aveva ancora
il colore dell’inverno. Viti delicate inviavano tentacoli come fili
su per i tronchi. In alto, i pini giocavano col vento.
Le costruzioni si stagliavano bianche contro le curve verdi e
blu delle montagne. Non vidi nessuno in giro. Nessun movimento
attraverso le fessure del grande portone d’ingresso. Nessun segno
di presenza umana.
Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro.
Espirando, controllai il segnale del mio iPhone. Forse, ma solo
forse, si vedeva una incerta tacca.
Mandai SMS a Slidell e Ramsey. Il primo sarebbe stato furioso.
Il secondo… chi poteva saperlo? Maledizione. Skinny era troppo
ostinato per ascoltare, Ramsey troppo occupato. Comunque, non
mi stavo intrufolando nel Barker Ranch della famiglia Manson.
Questa, benché spaventosa, era una chiesa. Nella peggiore delle
ipotesi, qualcuno sarebbe comparso, si sarebbe incazzato e mi
avrebbe ordinato di andarmene.
Appena buttai il telefono nella borsa che tenevo a tracolla, una
luce rossa si accese in un angolo della mia mente. Qualcuno ha
fatto a pezzi un ragazzo e ha messo la sua testa nel cemento. Qui!
Ero in giro con meno di tre ore di sonno in corpo. Ero esausta.
Ma dovevo sapere.
Mi feci forza, aprii la porta dell’auto e mi misi in ascolto. Sentii
il piagnucolio staccato di un insetto frustrato. Lo sciabordio di
acqua non lontana. A parte questo, tutto era immobile. Il traffico,
le voci, gli uccelli, il vento.
Volevo rimanere dietro al volante e andarmene. Invece uscii,
aprii il bagagliaio e sollevai con i pollici le fibbie della borsa del
mio equipaggiamento. Presi due fiale, prelevai una compressa da
ognuna, le piazzai entrambe in uno spruzzino vuoto, aggiunsi ciò
che rimaneva della mia acqua da bere e agitai il liquido. Misi lo
spruzzino nella mia borsetta, insieme a una piccola torcia e a una
penna a raggi ultravioletti. Richiusi il bagagliaio e, dopo aver
scandagliato l’ambiente circostante, mi avviai verso la chiesa.
Più mi avvicinavo, più mi sembrava che la temperatura si
abbassasse. La cosa, in effetti, era ridicola. Il sole, sebbene di un
capello più vicino alla linea disegnata dalle creste dei monti, era
luminoso come quando ero arrivata.
Mi fermai ai piedi dei gradini. Poi, col cuore che batteva come
gli zoccoli di un cavallo, salii e appoggiai l’orecchio sulla porta.
Il mio naso coglieva odore di legno riscaldato al sole, polvere e
sigillante poliuretanico. Le mie orecchie registravano assoluto
silenzio. Provai la maniglia. Ovviamente la porta era chiusa a
chiave.
Mentre attraversavo il prato, avevo notato due finestre sul lato
nord. Voltai dietro l’angolo. Entrambe erano troppo alte per
gettare uno sguardo all’interno della chiesa. Ed erano chiuse. Mi
diressi verso il retro dell’edificio.
E mi trovai faccia a faccia con la canna di un fucile Browning
semiautomatico.
32

Mi bloccai. La miglior cosa da fare quando si guarda attraverso


la canna di un fucile calibro venti. Hoke era vicino a una
struttura in legno di abete a un metro e mezzo dal muro del retro
della chiesa. Indossava una camicia nera, pantaloni neri e un
collare da sacerdote bianco. Ombre ispide gli punteggiavano il
viso e i capelli neri come lucido da scarpe.
Sebbene non potessi vedere l’espressione di Hoke, il suo
atteggiamento era inequivocabile. Era teso, con i gomiti
all’infuori e il fucile puntato direttamente sul mio petto.
«Padre Hoke» dissi.
«Padre G. Alzi le mani.»
Lo feci.
«Lei ha oltrepassato il limite.»
«Non sono tutti benvenuti nella casa del Signore?»
«Quello che accade qui non è affar suo.»
«Il vice sceriffo Ramsey sta per arrivare.» Non saprei dire che
impatto avesse il mio bluff. Se mai ne aveva uno. Vorremmo
parlare con lei.
«Volete di nuovo disturbare il nostro Sabbath?»
«Mi dispiace.»
«I vostri affari non possono aspettare un giorno?»
«Il vicesceriffo Ramsey e io eravamo preoccupati. Siamo
preoccupati. Non lasceremo perdere la faccenda.»
La presa di Hoke si fece più stretta sul fucile.
«Non c’è bisogno di usare le armi.» Faticavo per reprimere
l’adrenalina che ruggiva dentro di me.
«Non voglio farle del male. Sono un uomo di Dio.»
«Niente parla di Dio come un Browning carico.»
«Blasfema.»
«Il fucile non è carico?»
Hoke venne in avanti fuori dall’ombra, la canna sempre
all’altezza del mio sterno. «Cosa vuole?»
«Sappiamo di Cora Teague.» Un po’ troppo sicura di me stessa.
Ma era il meglio che il mio cervello privato del sonno e pompato
di adrenalina potesse fare.
«Lei non sa niente.»
«Mi informi.»
«Lasci stare. Provocherà solo dolore.»
«Come il dolore che lei ha causato a Cora?»
Nessuna risposta.
«E Mason Gulley?»
«Avete preso un abbaglio.»
«So anche della bambina a Elkhart.»
«Vedo che lei ha fatto i compiti a casa.»
«Sì. Ho saputo che lei non è più un prete. Che la Chiesa rigetta
la sua interpretazione del cattolicesimo tutta fuoco e zolfo. I suoi
demoni e…»
«Satana esiste.»
«Anche Lady Gaga.»
«Lo trova divertente?»
«Decisamente no.»
«Il suo atteggiamento riflette tutto ciò che c’è di sbagliato nella
società moderna.»
«Cosa c’è che non va nella società moderna?»
«Questo paese è entrato in una spirale discendente di totale
desolazione culturale.»
«Siamo tornati ai tempi delle rocker chick?» Sapevo che
punzecchiarlo sarebbe stato pericoloso, ma non potevo farne a
meno. Era colpa della combinazione di paura e fatica.
«Le piace scherzare. Ma Satana è al lavoro nel mondo.»
«Ha il suo quartier generale a Brown Mountain?»
«Di nuovo, ha voglia di scherzare.»
«Molta gente vede il diavolo come un’allegoria.»
«Un sottoprodotto della libera volontà del genere umano.»
Hoke sbuffò: una piccola esplosione d’aria che mi fece
accapponare la pelle. «Satana è reale. E non si fermerà fino a
quando non avrà spedito il genere umano alla dannazione.»
«Piantando le tende nell’animo di ragazzi come Cora e Mason.»
«Il clima non è mai stato così favorevole per Satana e i suoi
seguaci»
«Perché dice questo?»
«I giovani d’oggi crescono in un tempo in cui ragionare
criticamente è fuori moda. Non potrebbe essere più dura per le
loro fragili e piccole personalità. La moralità non fa parte del
curriculum. Non puoi avere opinioni forti o essere politicamente
scorretto. I giovani sono obbligati a nuotare in un mare
quotidiano di pornografia e avidità, e a funzionare in
un’atmosfera regolata dall’egoismo.»
«La sua critica è un po’ forte.» Sentii una vibrazione nella
borsetta. Ramsey? Slidell? Non potevo rischiare di abbassare le
mani per dissotterrare il telefono.
«Eravamo una nazione costruita su Dio. La gente andava a
messa. Ascoltava il clero.»
«Non tutti i cristiani sono cattolici.» Cercavo di indurlo in un
momento di stallo.
«Metodisti. Battisti. Cattolici. Non importa la denominazione. Il
culto è fuori moda. A nessuno importa della Bibbia, dei
sacramenti, dei dieci comandamenti.»
«Gli americani che ancora vanno in chiesa sono milioni.»
Hoke non mi ascoltava. Si stava tirando su le maniche per un
sermone che aveva senza ombra di dubbio pronunciato ad
nauseam.
«Persino la Madre Chiesa ha svuotato i suoi insegnamenti
tradizionali. Il clero odierno non deve sottolineare l’esistenza
dell’inferno o del purgatorio. Non deve incoraggiare la
confessione. Parlare di peccato significa fare il guastafeste. Non
dobbiamo indurre il senso di colpa. Gli angeli? Se li dimentichi.
Decisamente troppo mistici.»
«Ma questo cosa ha a che vedere con Cora e Mason?»
«La gente annaspa. Senza un codice morale, chi è vulnerabile
non ha la capacità di resistere. I deboli sono terreno fertile per
Satana.»
«Un bersaglio per la possessione satanica.»
«Esatto.» Fremetti per la veemenza di quelle parole. «E una
volta che si è posseduti non c’è rimedio.»
«Qui entra in gioco lei.»
«Le vittime di Satana non sanno a chi rivolgersi.»
«La Chiesa appoggia il concetto di esorcismo. In Vaticano si è
appena tenuta una conferenza sull’argomento. Circa duecento
suore e preti vi hanno preso parte. Il papa ha presieduto i lavori
dell’Associazione internazionale degli esorcisti.» Quelle erano le
uniche notizie che riuscivo a ricordare delle mie ricerche online.
«Il Santo Padre in Vaticano è isolato e circondato da cardinali.
Non ha più potere.» Gli occhi di Hoke, indirizzati verso l’edificio
della chiesa, tornarono a me, infiammati di rabbia e forse di
paura. «Qui fuori, nelle trincee, la maggior parte dei preti e dei
vescovi non ascolta. Pensano che l’esorcismo faccia sembrare la
Chiesa sciocca e anacronistica. Si sbagliano. Il diavolo è reale. Le
forze demoniache sono reali. La Bibbia lo afferma passaggio dopo
passaggio. Efesini 6:11: “Rivestitevi dell’armatura di Dio, per
poter resistere alle insidie del diavolo”.»
Il mio cellulare vibrò di nuovo. C’era segnale, benché solo a
tratti. Bene. Potevo essere individuata.
Parlai per coprire il suono. «La Chiesa dice che un esorcismo
dovrebbe essere praticato solo dopo una attentissima valutazione
medica e psichiatrica.»
«Psichiatri. Con il loro gergo elaborato e la terapia e le bottiglie
di pillole.» Di nuovo quell’antipatica espulsione d’aria. «Fece un
sacco di buona psichiatria la donna che annegò i suoi cinque
figli. O l’adolescente che sparò in una scuola piena di bambini. O
l’uomo che uccise dei ragazzi e li seppellì sotto la sua casa.»
«Cosa la rende in grado di distinguere tra una psicosi e una
possessione?»
«Lo Spirito Santo mi dà il potere di divinazione.»
«E che succederebbe se lei e lo Spirito Santo aveste torto? Se il
vostro soggetto fosse epilettico? Le lanciate dell’acqua e le agitate
il crocifisso sul viso?» Sapevo che dovevo smorzare i toni. Ma ero
pericolosamente stanca e prendevo decisioni stupide. «Ma lei
considera il danno che potrebbe causare?»
«Sento quando qualcuno è afflitto da un demone.»
«Anche se lei ne fosse in grado, la Chiesa richiede che un
esorcismo sia praticato da un prete adeguatamente addestrato.»
«In fondo, i miei colleghi del clero sono scettici.»
«Tutti?»
«Il diavolo è il più antico nemico di Dio e non è uno sciocco.
Quando l’esorcista non crede, il Maligno vince.»
«E lei crede?»
«Con tutto il mio essere.»
«Quindi indossa la corazza e si lancia su Satana da lavoratore
autonomo.»
«La mia autorità viene da Dio, non da Roma. Luca 10:17-19: “I
settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: ‘Signore, anche i
demoni si sottomettono a noi nel tuo nome’. Egli disse: ‘Io vedevo
Satana cadere dal cielo come la folgore. Ecco, io vi ho dato il
potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni
potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare’”.»
Gli occhi di Hoke brillavano di qualcosa che non riuscivo a
identificare. Devozione? Follia? Dovevo andarmene. Tesi un
orecchio leggermente, fingendo di aver sentito un’auto
avvicinarsi.
Hoke ci cascò. Il suo sguardo scivolò lontano da me e si
indirizzò oltre la mia spalla verso la strada.
Scappo? Acchiappo il fucile? Gli do un calcio nei testicoli?
Un nanosecondo di esitazione. Quindi il momento passò.
Quando Hoke mi guardò di nuovo, lo scintillio nei suoi occhi
mi gelò.
«Perché è venuta qui?» sibilò.
«Lei ha fatto un esorcismo a Cora. Le cose sono andate storte.
O forse lei ha avuto un attacco.»
«Non sono quello che lei pensa.»
«So che lei non è un assassino. La morte di Cora fu un
incidente. Come nel caso della bambina nell’Indiana.»
Da dove mi trovavo potevo vedere il respiro di Hoke farsi più
veloce.
«Mason l’ha scoperto? L’ha affrontata?»
La mia voce stava aumentando di volume. La forzai a rimanere
in equilibrio.
«O anche Mason è stato vittima di una delle sue festicciole?»
Persino le ossa di Hoke sembravano irrigidirsi. Ma non disse
nulla.
«Lo abbiamo trovato, sa? Vicino ai belvedere. Cioè… quello
che gli animali hanno lasciato. Le sue ossa. La sua testa nel
secchio di cemento.»
Hoke si leccò le labbra. Un rapido schiocco rosa.
«Cosa ne ha fatto di Cora? Ha fatto a pezzi anche lei?»
«Volevo bene a Cora. Non sarebbe mai dovuto accadere.»
Non mi aspettavo questa risposta.
«Cosa non sarebbe mai dovuto accadere?»
«Una bambina così bella… fino a quando il diavolo non l’ha
reclamata.»
«Il diavolo…» Non tentavo nemmeno di nascondere il mio
disgusto.
«Lei non l’ha vista. Gli occhi rigonfi, lo sguardo cattivo, le
braccia e le gambe contorte…»
«Il diavolo non ha un bel niente a che vedere con questo. Cora
Teague era epilettica. Dove ha gettato il suo corpo?»
Il pomo di Adamo di Hoke si muoveva incessantemente verso
l’alto e verso il basso. L’uomo non disse nulla.
«Anche Cora è stata sacrificata al diavolo di Brown Mountain?»
«No, no. Noi non adoriamo Satana. Lo combattiamo. Offriamo
noi stessi in ostaggio per quelli che lui tormenta.»
«Noi? Chi l’ha aiutata?»
«La smetta.»
«Non accadrà. Il vicesceriffo Ramsey sa che sono qui. Arriverà
a minuti e avrà un mandato. Ha mai sperimentato la ricerca su
una scena del crimine?»
Hoke si limitava a guardare. Nel pallido sole del pomeriggio la
sua carne segnata dall’acne sembrava l’ingrandimento di
un’immagine della superficie della luna.
«Mi faccia tratteggiare uno scenario possibile. Una squadra di
poliziotti arriverà qui dentro un grande camion nero. Passeranno
al setaccio questo posto con nastro, pinzette, polveri e spray di
vario genere.» La mia voce era di nuovo in una spirale
ascendente. «Scaveranno nel suo prato, gireranno video e
scatteranno foto, confischeranno i suoi registri. Troveranno ogni
sporco piccolo segreto che lei avrà nascosto sul pulpito o ficcato
nel cassetto della biancheria.»
Respirai profondamente. Lottai per recuperare il controllo di
me.
Ci furono diversi secondi di assoluta immobilità.
Hoke guardava in basso, verso il fucile nelle sue mani. Batté le
palpebre come se fosse sorpreso di vederlo lì. Poi osservò di
nuovo me. «Vorrei che ci avesse lasciati stare.»
Una pausa, poi la canna indicò la direzione della porta sul
retro della chiesa.
«Dentro» ordinò, con la voce tagliente come la lama di un
rasoio.
Sapevo che trovarmi con le spalle a un muro avrebbe limitato
le mie opzioni. Avrebbe potuto significare la mia fine.
«No» dissi.
«Adesso!»
Rimasi dov’ero.
Il dito di Hoke scivolò in avanti verso la sicura del grilletto.
33

Camminavo tanto lentamente quanto potevo senza provocare


Hoke. Salì i gradini a ridosso dei miei tacchi.
«Apra la porta.»
La mia mente rimbalzava cercando parole che potessero
ribaltare la situazione. Non trovando niente, obbedii.
I cardini cigolarono sommessamente.
La bocca del fucile Browning spronava la mia scapola sinistra.
Attraversai la soglia. Inalai un cocktail di odori che mi
trasportò lontano nel tempo e nello spazio. Cera delle candele.
Cera per lucidare il legno. Incenso. Fumo.
L’unica illuminazione proveniva dalle fessure delle finestre
chiuse – due su ogni lato, una sul retro – a destra della porta da
cui eravamo entrati. La luce del sole che filtrava formava delle
strisce bianche, rettangolari alla base e arcuate al vertice.
Mentre gli occhi faticavano ad abituarsi a quella oscurità, sentii
un clic dietro di me. Un candelabro prese vita, mettendo a fuoco
la stanza. La navata, che non era larga, occupava l’intero edificio.
Una fila di banchi di legno correva su ogni lato, ciascuna disposta
in modo da consentire lo spazio di un corridoio al centro. Ce
n’erano forse venti in tutto.
In alto, a meno di due metri di fronte a noi, c’era un leggio, al
centro davanti ai banchi. Più in là si trovava l’altare, un semplice
tavolo di legno drappeggiato con una tovaglia di lino bianco. Era
sgombro. Un pianoforte occupava un angolo lontano alla nostra
destra. Sopra lo strumento c’era una bacheca per appuntare le
selezioni degli inni. Gli ultimi cantati erano il 304, il 27, il 41 e il
7.
Ogni superficie era di legno, non c’erano decorazioni a stucco.
Le pareti erano color crema. Il soffitto e il pavimento avevano la
stessa tonalità di noce dei banchi.
«Si guardi intorno.»
Mi girai, le braccia ferme e sollevate. Hoke era in piedi a
gambe divaricate, il suo Browning puntato su di me.
«Non capisco.»
«Lei mi accusa di omicidio. Si guardi intorno. Soddisfi la sua
curiosità.»
«Non ho mai usato la parola “omicidio”.»
«Questa è la casa di Dio. Non la deturperei.»
«Preferirei lasciare la ricerca a…»
«Si guardi intorno» disse in tono affilato. «Non ho niente da
nascondere.»
Gli occhi di Hoke fissi sui miei con un’intensità che mi faceva
rizzare i peli sul collo. Sostenni il suo sguardo e non mi mossi.
Fece uno stretto cerchio nell’aria con la bocca del fucile per
indicare, suppongo, lo spazio in cui eravamo.
«Potrei abbassare le mani?»
«La tengo d’occhio.»
Iniziai a lavorare. Girai per la stanza, sentendo brividi lungo la
schiena.
C’era poco da cercare. Niente armadio, né stanza da bagno, né
cantina e nemmeno un vestibolo. Niente cassetti, né armadietti.
Niente sotto l’altare, né sul leggio, né all’interno del pianoforte,
solo spartiti all’interno della panca. Quel luogo era immacolato.
Ma erano passati almeno quattro anni. Un tempo più che
sufficiente per strofinare e ripulire. E comunque, conoscendo la
posizione di Hoke rispetto a Dio, dubitai che avesse scelto la
chiesa per il suo lavoro sporco.
Guardai il mio carceriere. «Ho del luminol nella mia borsetta.
Potrei usarlo?»
«Per cosa?»
«Per individuare la presenza di sangue.»
Hoke annuì, una sola volta, riluttante, e strinse la presa sul
fucile.
Muovendomi lentamente, presi nella borsa la bottiglia di
plastica. Spruzzai il liquido intorno all’altare, vicino al pianoforte
e a un paio di panche. Non si illuminò niente. Nessuna
meraviglia. Ero sicura che quello non fosse il posto. Continuavo a
fare scena più per osservare la reazione di Hoke che per
effettuare un vero test.
Mentre riponevo la bottiglia nella borsa, tentai di sbirciare sul
mio cellulare. Lo schermo era rivolto verso il basso. Non avevo
modo di vedere nemmeno se c’era segnale. E nemmeno avrei
potuto digitare il mio codice e spedire una chiamata rapida senza
attirare l’attenzione.
Mi voltai verso Hoke con fare interrogativo. Lo stavo sfidando?
«Adesso andiamo al centro per le famiglie.» Ripeté la spinta col
fucile.
«Come faccio a sapere che non mi sparerà?»
«Non può.»
Hoke spense la luce e chiuse la porta dietro di lui non appena
fummo usciti in fila indiana. I nostri passi risuonavano alti nel
silenzio. Ogni passo seguito dall’eco di un altro.
Sentii odore di pericolo, un odore caldo e metallico come
sangue fresco. Ma il Browning non mi lasciava scelta.
La luce del sole adesso era obliqua, dorata sulle punte dell’erba
nuova. Gli alberi gettavano lunghe ombre verso l’interno dal lato
occidentale del perimetro del prato.
Una volta vicini al centro per le famiglie notai che, sebbene più
largo, aveva una pianta simile a quella della chiesa. C’era un
ingresso sul davanti e uno sul retro. Ma al livello del suolo.
Niente gradini, né un’area rialzata. Finestre ad arco, in alto sui
lati e sul retro.
La sola caratteristica diversa era un’ala che spuntava fuori dal
lato posteriore. Su quella parete si aprivano due finestre piccole e
quadrate, non chiuse, e un secondo ingresso.
Osservai attentamente, ma non vidi segni che indicavano la
presenza di un piano interrato o di uno scantinato. Non c’erano
finestre all’altezza del suolo o porte di una cantina. Le
fondamenta non sembravano profonde. Immaginai che l’edificio
poggiasse su un lastrone di cemento.
Come nella chiesa, ogni porta sul davanti reggeva una pesante
croce di ferro. Stavo virando in quella direzione quando la bocca
del Browning baciò di nuovo la mia schiena.
«Andiamo sul retro.»
Mi diressi verso il viottolo di ghiaia. Gli stivali scricchiolavano
appena dietro di me. In due passi ci trovammo dietro una Chevy
Tahoe nera e vicini alla porta sul retro dell’edificio.
La mia mente cominciò ad andare in corto circuito. Ero
completamente sola con un uomo esaltato che imbracciava un
fucile carico. Andare lì era stato così ridicolo e stupido da tanti
punti di vista. Che fare?
«È aperta» sentii sibilare vicino al mio orecchio.
Girai la maniglia e la porta si aprì. Entrammo. Come prima,
Hoke accese i lampadari. Qui erano tubi fluorescenti.
Eravamo entrati direttamente in una grande cucina. C’era un
frigo a due ante, un piano di cottura a otto fornelli, un lavello
profondo da fattoria e una superficie di lavoro spaziosa con
armadietti sia sopra che sotto. Tutto di colore bianco standard,
probabilmente acquistato al Best Buy del luogo o da Sears.
Niente vasi di fiori finti, né ciotole di frutta di plastica.
Nemmeno un piccolo tocco di frivolezza a illuminare la stanza.
C’erano due porte sulla sinistra, entrambe chiuse. Hoke fece un
passo di lato nella loro direzione, gli occhi fermi su di me. Senza
abbassare mai il fucile, nemmeno di un centimetro, ruotò
velocemente le maniglie e aprì le porte col dorso della mano.
«Avanti. Spruzzi pure i suoi agenti chimici.»
Una delle porte si apriva su una dispensa. Dentro, c’erano
grandi quantità di farina, fiocchi d’avena e impasto già pronto
per i pancake. Niente seghe, né asce. Nulla catturò la mia
atttenzione.
L’altra porta conduceva in una zona che pensai fosse la
canonica.
Era composta da tre ambienti minuscoli: un soggiorno, una
camera da letto e un bagno perfettamente allineati uno dietro
l’altro.
Potei sentire il respiro di Hoke quando gli passai vicino. Sbuffi
umidi e caldi. Come la mia, la sua adrenalina stava lavorando
sodo.
Il soggiorno era occupato da una scrivania, degli scaffali, un
piccolo tavolo e una sola sedia. Un tappeto ovale di tessuto
intrecciato copriva il pavimento. In un angolo, c’era un
inginocchiatoio imbottito disposto di fronte a un ritratto
incorniciato di un Gesù un po’ troppo biondo.
I miei palmi divennero scivolosi come il petrolio quando vidi la
foto sull’inginocchiatoio. Un ritratto scolastico. La ragazza fissava
l’obbiettivo senza sorridere, gli occhi nascosti da una frangia
decisamente spessa e nera.
Calma. Aspetta.
Nella camera da letto c’erano due letti singoli, un comò e un
armadio.
Prevedibilmente l’armadio conteneva pantaloni, camicie e
giacche (tutto quanto di colore nero) e un assortimento di
paramenti variopinti in broccato.
Un calendario appeso a destra della porta; il santo del mese era
una figura femminile circondata da animali della fattoria. Solo
due promemoria scribacchiati a mano. Li lessi con discrezione.
Alla data del mercoledì precedente c’era scritto Rx., a quella
odierna S.G.
Susan Grace Gulley.
Sentii la testa ribollire.
Respira. Ferma.
Il bagno era un quadrato di meno di due metri per lato; c’era a
malapena lo spazio per la doccia, il lavabo e il gabinetto. Tirai
fuori il luminol e spruzzai il liquido. Niente si illuminò di blu.
Non mi presi il disturbo per le altre due stanze.
Di nuovo in cucina, andai verso il lavello e spruzzai il luminol
più e più volte. Nessuna reazione. Andai in senso orario,
spruzzando a caso. Zero fluorescenza.
Hoke mi osservava, con il volto rigido come le sculture di
roccia di Mount Rushmore.
Passata la cucina, le toilette per donne e uomini si trovavano al
di là di uno stretto vestibolo. Ognuna aveva due gabinetti e un
lavabo con annesso un mobiletto. Le mensole reggevano sapone,
un detersivo disinfettante, rotoli di carta igienica e asciugamani
di carta arrotolati.
Il luminol produsse un trascurabile barlume.
Il resto dell’edificio era occupato da quello che sembrava essere
uno spazio multifunzionale. Lunghi tavoli pieghevoli erano
appoggiati a una parete, le gambe piegate verso l’alto. In attesa
della prossima frittura di pesce o vendita di beneficenza.
All’estremità della stanza una dozzina di sedie pieghevoli erano
sistemate più o meno in circolo. Oltre le sedie, in un angolo, c’era
un vecchio box per bambini, simile a quello che avevo usato per
Katy. Erano anni che non ne vedevo uno così. Al suo interno si
trovava un vasto assortimento di giocattoli e bambole. Di fianco
al box, una scaffalatura reggeva del materiale artistico per
bambini: colori e pennelli, cartoncini, colla e piccole forbici
infilate in una tazza di porcellana.
Tre attaccapanni su ruote erano allineati lungo la parete
opposta, ognuno con una collezione di grucce vuote. A parte
questo, la stanza era spoglia. Mentre spruzzavo e verificavo, mi
facevo delle domande. Hoke era forse molto sicuro dell’efficacia
della sua pulizia o completamente ignaro della sensibilità del
luminol? La luce proveniente dalle finestre si stava affievolendo
quando dovetti ammettere una terza e più verosimile possibilità.
Avevo torto. Né lì né nella chiesa era stato smembrato alcun
corpo. E la mia ricerca su Google Earth non aveva mostrato altri
edifici nella proprietà.
Eppure, d’istinto ero certa che Hoke fosse coinvolto nella morte
di Cora e di Mason.
E allora?
Dovevo trattare la mia uscita da quel posto. O combattere.
«Chiedo scusa» dissi con calma. «Ho commesso un errore.»
Trascorse il tempo di diversi battiti del cuore.
«Devo andare, adesso» dissi.
«Lei porta un vicesceriffo a disonorarmi davanti ai miei
parrocchiani.» Il tono di voce era basso e minaccioso. «E adesso
torna per accusarmi di aver ucciso dei bambini.»
«Faccio un passo indietro.»
Hoke non si mosse.
«Perché sta pregando per Susan Grace Gulley?» domandai,
sperando che un colpo veloce potesse sconcertarlo.
La tensione irrigidì l’intero corpo di Hoke, ma il prete non disse
una parola.
«È stata impudente con sua nonna? È il diavolo che la induce a
comportarsi così?»
Agitai le mani ostentando una falsa trepidazione. «Ucciderà
anche lei?»
Le mascelle di Hoke si serrarono e i suoi occhi scuri bruciavano
nei miei. Le sue mani si strinsero intorno al fucile. In un
momento lo seppi. Non aveva intenzione di lasciarmi andare.
Il panico bruciò nel mio sangue come il contraccolpo di un
movimento di accelerazione. I contorni del viso di Hoke si fecero
sfocati quando partì l’attacco veloce e potente.
In un lampo mi lanciai in avanti, mi girai e sferrai un calcio
con tutta la mia forza. Il mio stivale vicino all’acciaio nero-blu
della canna.
Cullato dalla mia precedente compiacenza, Hoke fu preso di
sorpresa. Il Browning volò dalla sua presa verso il box. Una
spinta a due palmi sul petto lo fece ruotare all’indietro. Mentre
scappavo verso la porta, sentii il rumore tagliente di ossa contro
il legno.
Schizzai sul vialetto di ghiaia, terrorizzata dall’idea che Hoke
potesse seguirmi. Terrorizzata all’idea che la mia schiena potesse
essere colpita da una scarica di pallottole calibro venti.
Braccia e gambe pompavano mentre correvo attraverso il
prato. Erba e foglie morte volavano sotto i miei piedi. Il mondo
adesso era del colore dell’ambra.
Il tempo sembrò rallentare e i miei movimenti si fecero fiacchi,
come se stessi correndo nello sciroppo.
Vidi la mia auto diventare più grande.
Dieci metri. Cinque. E poi fui lì.
I polmoni si sollevavano, il cuore batteva. Aprii la portiera con
uno strattone, mi lanciai dentro la macchina e girai la chiave. Il
motore ruggì. In posizione di guida, sferzai le ruote e filai via di
gran carriera. Con il piede premuto sull’acceleratore fino in
fondo, mi fiondai sulla strada. Sbandavo continuamente, ma non
rallentai finché non raggiunsi il manto nero. Poi diminuii la
velocità. Guidai fino al primo segnale di vita che scorsi, un buco
di tavola calda con lettere al neon blu sul tetto che invitavano DA
CONNIE & PHIL.
Cazzo! Cazzo! Porco cazzo!
Fissai la tavola calda, permettendo al mio battito di calmarsi.
Un’insegna alla finestra prometteva trota affumicata e dolci fatti
in casa. In generose porzioni. Incoraggiava i viandanti a
rimpinzarsi di buon cibo di montagna.
Presi il mio telefono. Una chiamata senza risposta da Ramsey.
Non aveva lasciato messaggi. L’altra era di Ryan. Nessun
messaggio nemmeno da lui.
Richiamai Ramsey. Rispose subito. Rumori di sottofondo, delle
voci e una porta che sbatteva suggerivano che fosse al chiuso.
Descrissi l’incontro con Hoke, spiegai la mia teoria sul perché
avevo puntato alla chiesa della Santità. Il luminol. Il Browning.
Dovevo essermi sbagliata sul fatto che potesse essere quello il
luogo dello smembramento del corpo di Mason. «Non è avvenuto
lì» aggiunsi.
«Hoke ti ha lasciata andare via?»
«Dopo un incoraggiante calcio nei testicoli.» Non era
esattamente vero.
«È stato imprudente andare lì da sola.»
«Già.»
«Manderò qualcuno a prenderlo.»
«Ma io stavo esagerando.»
«Questo non gli dà il diritto di minacciare una persona con
un’arma da fuoco.»
«Pensavo invece che lo avesse.»
Ramsey ignorò quanto avevo detto. «Lei pensa ancora che
Hoke sia l’assassino di Cora e di Mason?» Un’affermazione, non
una domanda.
«Sì. È un demente. E ora potrebbe aver preso di mira anche
Susan Grace Gulley.» Gli dissi della foto sull’inginocchiatoio e
dell’appunto sul calendario. «Questo significa che potrebbe
accadere stanotte. Deve rintracciarla.»
«Sarà fatto.»
«A proposito, ma dove era stato?»
Una pausa di disappunto. «Abbiamo fatto irruzione in un
laboratorio chimico clandestino che produceva metanfetamine.
Dopo aver forzato i genitori a chiudere bottega, ho condotto la
loro figlioletta di sette anni in una casa famiglia a Crossnore.
Laggiù pensano che con molta terapia la bambina potrebbe
togliersi il pollice di bocca e cominciare a spiccicare qualche
parola.»
«Mi scusi.» Mi sentivo una schifezza totale.
Le parole successive di Ramsey mi colsero di sorpresa.
«Ho rintracciato il numero di Johnson City che le ha dato
Susan Grace. Mason alloggiava in un motel non lontano dalla
Bristol Motor Speedway. Stanza con microonde, frigobar,
televisione… tutte le comodità. Arrivò a metà luglio e se ne andò
a metà agosto.»
«Avevano ancora il registro?»
«No. Ho trovato una inserviente che si ricordava di lui. A
quanto pare Mason era un tipo che non si dimentica facilmente.
Mi ha detto che non era un bel vedere, ma era gentile e
raramente usciva dalla sua stanza.»
«Sapeva perché lui era stato là? Dove se ne è andato quando ha
lasciato il motel?»
«L’inserviente ricordava due cose. Mason aveva visto in
televisione un registratore ad attivazione vocale e aveva voluto
sapere dove fosse possibile acquistarlo. Il giorno prima di
andarsene, lui le aveva detto che era diretto a casa.»
«Tornò ad Avery.» Tentavo di dare un senso agli eventi. «Diede
il registratore a Cora. Hoke venne a saperlo, andò su tutte le furie
ed entrambi i ragazzi sono finiti a Brown Mountain.»
«Non saltiamo a conclusioni affrettate.»
«Ha una teoria migliore?»
Per questo quesito Ramsey non aveva una risposta.
«Mason non fu fatto a pezzi alla Santità del Signore Gesù,
probabilmente non è morto lì.» Avevo continuato a pensare a
questo durante tutto il tempo della mia fuga selvaggia, per
quanto i miei nervi esausti me lo avessero permesso. «Quando le
cose andarono storte nell’Indiana, Hoke non era nella sua chiesa.
Stava praticando l’esorcismo a casa della bambina. Devi farti dare
un mandato per setacciare le proprietà dei Gulley e dei Teague.»
«Forse è andata così.»
«Forse?» Notai che aveva abbassato il tono. «Dove si trova
adesso?»
«Alla mia scrivania. Abbiamo un caricabatterie per il portatile
di Strike, ma non riesco a craccare la password. Suggerimenti?»
Fissai l’insegna di Connie e Phil. Non trovai l’ispirazione. Poi
dissi: «Prova luckyloo».
«Scritto come?»
«Una parola, due O.»
Attenzione. Poi Ramsey esclamò: «Per la miseria! Sono
entrato».
«Faccia un controllo sui suoi account di posta.»
Ancora attenzione. Poi il vicesceriffo disse «Non ce ne sono».
«Sul serio? E documenti?»
«Zero.»
«Qualcosa sul desktop?»
«Niente. È strano.»
«Strike era paranoica e non proprio della generazione Z.
Probabilmente tutto il materiale sul caso lo aveva conservato in
formato cartaceo nei cartoni, usava il PC solo per le ricerche
online. Dia un’occhiata al browser e alle sue ultime ricerche.»
«Come?»
Mi spiegai. Aspettai il tempo di un sacco di clic. Finalmente
udii: «Non c’è molto. Nella lista ci sono solo siti visitati nei due
giorni che precedono la morte».
«Probabilmente la ripuliva spesso, pensando di aumentare così
la sicurezza della navigazione. O di evitare gli annunci
pubblicitari indesiderati.»
«È un metodo che funziona?»
«Solo se si indossa un casco di alluminio.»
«Cosa?»
«Niente, niente. Cosa visitava?»
Ramsey lesse qualche nome.
Fu allora che feci il mio ulteriore errore di calcolo.
34

«Medscape.com. EverydayHealth.com. HealthyPlace.com.


Psychiatry.org. “The Journal of Clinical Psychiatry”, “The Journal
of…”»
«Che argomenti?»
Come quegli odori in chiesa, alcuni termini sfrecciavano
direttamente dalla mia infanzia. Schizofrenia. Disturbo
schizoaffettivo. Disturbo bipolare. Altri erano nuovi. Disturbo da
depersonalizzazione. Disturbo dissociativo dell’identità. Disturbo
borderline di personalità.
«Santo cielo, Ramsey. Ecco il criminale e il movente. Strike
aveva capito che Hoke era fuori di testa, lo ha affrontato e lui
l’ha fatta fuori.»
«In chiesa?»
«Non all’interno. Il luminol non ha rilevato tracce di sangue.
Più probabilmente l’ha uccisa a Charlotte.»
«Come l’ha trovata?»
«Sta scherzando? Un pesce rosso con uno smartphone lo
saprebbe fare.»
«Come sapeva del lago?»
«Pronto? Google Earth?»
«Hoke ha un computer? Ha almeno un telefono?»
Dovevo ammettere che nella canonica non ne avevo visti.
«Forse lui è andato a casa sua» continuai. «Forse lui l’ha
chiamata per combinare un incontro. Non ne ho idea. Quello che
so è che deve procurarsi quei mandati. Hoke è un pazzo. Ha
ucciso Cora e Mason e potrebbe fare lo stesso con Susan Grace.»
Ramsey emise un rapido sospiro. «Va bene. Nel frattempo non
si muova da lì. Vada alla tavola calda. Si mangi un po’ di pesce.»
«Certamente» dissi. «E non dimentichi di chiamare Slidell.»
Dopo aver chiuso la conversazione, rimasi a sedere in auto
guardando il cielo tingersi di color peltro dietro il neon blu
elettrico di Connie e Phil. Lo scontro con Hoke unito alla fatica e
alla delusione mi avevano fatto venire il bruciore di stomaco. Ne
presi atto. Appoggiai la testa allo schienale.
Non è accaduto in chiesa. E quindi dove? Chi altro era
implicato?
Cosa aveva scoperto Strike? Come mai quella scoperta aveva
fatto sì che Hoke si sentisse minacciato?
Le palpebre diventarono di piombo, i miei pensieri erano
melma lentamente smossa. Cinque minuti. Devo riposare cinque
minuti. Se mi fossi appisolata, la chiamata di Ramsey mi avrebbe
svegliata.
Strike.
Trota affumicata.
Fumo.
Lucky Strike.
Fumo di incenso.
Odore di Santità.
San Granger Hoke.
L’aureola intorno alla testa.
La testa nel secchio.
Mason Gulley.
Cora Teague.
Le cure di Cora.
La cucina di Connie.
Le porzioni generose di Connie.
La generosità di John.
Ristòrati da Connie & Phil.
Fai il pieno.
Riempi lo stomaco.
Come un serbatoio.
Come una betoniera.
Piena di cemento.
Cemento.
Aprii d’improvviso gli occhi. Alzai le mani così in fretta che le
nocche delle dita urtarono contro il volante. L’orizzonte era rosa
e l’ultima luce del tramonto sanguinava dal cielo. Non sapevo per
quanto tempo avessi dormito, ma ero certa del significato di
quella sorta di filastrocca subliminale.
Accesi il motore e partii a razzo dall’area di parcheggio.
Dopo qualche minuto ero parcheggiata nei pressi di una strada
a due corsie, a circa dieci metri da J.T.’S FILL UP AND FIX UP,
all’incirca dove Ramsey mi aveva indicato. Il business di John
Teague: una stazione di servizio-emporio-ferramenta. Nel negozio
si vendevano secchi e seghe, forse anche cemento. Tutto ciò che
serve per un perfetto smembramento.
Domenica sera. Affari a gonfie vele. Un paio di Harley erano
parcheggiate sul davanti. Un vecchio pickup col parabrezza rotto.
Una Volkswagen che aveva percorso miliardi di chilometri.
Come avevo già fatto in precedenza, mandai uno stringato
SMS. Uscii dall’auto, schizzai velocemente lungo il ciglio della
strada e, oltrepassata la pompa del carburante, mi diressi in
direzione obliqua verso la porta d’ingresso. La luce filtrava
attraverso i volantini attaccati alla finestra. Di tanto in tanto
vedevo balenare un movimento negli spazi tra un foglio e l’altro.
Trattenni il fiato. Sentii delle voci, tutte quante maschili. Presi
un berretto dalla mia borsa per tenere i capelli lontani dagli occhi
ed entrai.
L’interno era a forma di L; all’emporio si accedeva direttamente
dalla porta, e sulla destra spuntava una seconda stanza. Davanti
all’entrata, dietro il bancone della cassa, c’era un ragazzo che
aveva al massimo quindici anni. Alto e asciutto, con la pelle
coperta di macchie e un cespuglio di capelli neri che aveva
bisogno di cure.
Tre file di scaffali ritagliavano nella stanza principale lo spazio
per due corridoi centrali e per uno stretto passaggio lungo le
pareti. Gli scaffali esponevano le solite caramelle, gomme da
masticare e del cibo spazzatura con scarsisssimo valore
alimentare. Dei frigoriferi erano disposti contro i muri. Attraverso
il vetro potevo scorgere latte, succhi di frutta, birra e bibite varie.
I motociclisti – uno sembrava un contabile che giocava a fare il
bullo, l’altro un Billy Gibbons dei poveri – stavano pagando
Cespuglio di capelli per la birra e le sigarette. Il bullo disse
qualcosa che non compresi. Cespuglio sganciò una delle due
chiavi appese al muro del bancone e, con indifferenza, gliela
porse. Quando il bullo si diresse dalla mia parte, mi infilai nella
stanza a destra.
Stessa disposizione di scaffali e corridoi. Ma qui non c’erano
biscottini. La mercanzia andava da pinze e martelli a pali e
cazzuole. Una serie di contenitori offriva un’ampia scelta di
cardini, fermagli, viti e chiodi. I miei sensi erano alla massima
allerta. Mi mossi verso il retro. Mensole più alte reggevano
articoli maggiormente voluminosi: buche delle lettere, casette per
gli uccelli, tubi da giardinaggio, seghe circolari. Zappe e vanghe
erano appoggiate sulla parete di fondo vicino alle scale a pioli
disposte in ordine di altezza.
Il polso accelerò quando li vidi. Sacchi di Quikrete impilati a
terra fino all’altezza della vita.
Nella mia mente si attivarono nuovi collegamenti.
Ramsey aveva detto che il business dei cani era stato
ricollocato vicino al negozio quattro estati prima. La costruzione
del canile risaliva ad allora. Il canile aveva recinti di cemento. Se
avevo capito bene quello che intendeva Ramsey, era accaduto
nell’estate del 2011. Quando Cora e Mason erano scomparsi. Che
orrore. Era successo lì. Susan Grace potrebbe essere qui. Dal mio
stomaco in fiamme una lingua di fuoco si alzò fino a lambire la
gola. Deglutii.
Dietro di me la porta sull’esterno si aprì, sentii un suono
attutito di stivali attraversare la stanza di fianco, e un rumore di
chiavi contro il vetro.
«Sgommiamo» disse il bullo al suo compare.
Il suono attutito raddoppiò, la porta sbatté e le motociclette
ruggirono. Mentre il suono dei motori si allontanava, la porta si
aprì e si chiuse di nuovo. Ancora rumore di passi, stavolta fermi
ma silenziosi. Avanzai furtivamente fino al punto in cui il cibo
spazzatura incontrava la ferramenta e sbirciai dietro l’angolo.
Cespuglio stava posando la chiave della toilette degli uomini sul
suo gancio.
Un uomo occupava lo spazio appena lasciato libero dai due
motociclisti. Per intero. Mi dava la schiena, e i suoi lineamenti
erano nascosti. Indossava jeans, una felpa grigia, scarponi da
montagna con la suola di gomma.
Qualcosa in quel figuro fece addensare nella mia mente un
nugolo di pensieri, come uno sciame di vespe arrabbiate contro il
vetro di una finestra.
Granger Hoke? John Teague?
L’uomo allungò un braccio muscoloso, con il palmo rivolto in
basso, verso una tasca posteriore dei jeans. Il suo gomito volò in
alto e le sue massicce spalle ruotarono, così che potei vederlo
parzialmente di profilo.
Lo sciame di vespe esplose in una collisione di immagini
memorizzate. Un lampo di intuizione. Stavo guardando Owen Lee
Teague, il figlio di John. L’uomo che avevo incontrato alla chiesa
della Santità. L’escursionista che avevo visto al Wiseman’s View.
«Domani lava i recinti con la pompa dell’acqua, per prima
cosa.» Owen Lee lanciò un portachiavi sul bancone. Di metallo,
forse d’argento, a forma di aquila. «Non entrare dentro.»
«Non entro mai dentro.» In tono piatto.
«Ottima cosa.» L’uomo puntò le dita contro Cespuglio,
imitando la forma di una pistola. «I cani ti strapperebbero la
faccia. Dammi quello che c’è nel cassetto.»
Cespuglio aprì il registratore di cassa e consegnò il guadagno
del giorno.
«Adesso chiudi a chiave e vattene. Se hai bisogno di me sono a
casa.»
Owen Lee assestò due colpi sul bancone con le nocche, due
tocchi veloci e duri.
«Ti auguro una buona serata.» Tirando via una bustina di
noccioline dal gancio, si allontanò a grandi passi dal negozio.
Era ora di levare le tende. Ma non lo feci. Volevo qualcosa di
più di secchi, seghe e sacchi di Quikrete. Cercavo la prova che
avrebbe inchiodato Hoke e i suoi folli compari. E volevo essere
sicura che Susan Grace fosse in salvo. Ma non avevo un piano e
nessuna idea su cosa fare. Poi l’opportunità giusta si precipitò
davanti alla mia faccia.
Un uomo incespicò attraverso la porta. I suoi occhi erano rossi
come se avesse passato un’intera giornata a nuotare nel cloro con
addosso troppo alcool. «Quella dannata pompa non funziona.»
Cespuglio lo guardò, inespressivo. Delle due l’una: o la sua
faccia da giocatore di poker era segno di superbia o non era l’ape
più intelligente dell’alveare.
«Ehi! Sai aggiustare questo rottame?»
«Ha strisciato la carta?»
«Sei stupido? Certo che ho strisciato la carta.»
«Provi di nuovo.»
«Il problema non è la mia carta.»
«Cosa vuole che faccia?»
«Che tu riempia il mio dannato serbatoio.»
Cespuglio, pur senza cambiare espressione, sembrò infastidito.
Quindi abbandonò il suo posto e seguì l’ubriaco fuori
dall’emporio.
Non era un vero e proprio piano. Semplicemente agii.
Il mio cuore pompava lentamente e duramente mentre mi
fiondavo al bancone e infilavo il portachiavi a forma di aquila
nella mia borsetta. Poi attraversai la porta e sbirciai fuori.
Cespuglio stava facendo il pieno a una Porsche Panamera, gli
occhi fissi sulla pompa. Il proprietario della Porsche aveva
qualche difficoltà a infilare la sua carta di credito nel portafogli e
a stare in piedi nello stesso tempo.
Sgattaiolai fuori dall’emporio e voltai dietro l’angolo in ombra.
Coprendo lo schermo con entrambe le mani, controllai il mio
iPhone. Nessuna chiamata. Schiacciai sull’icona verde con il
fumetto bianco. Vidi che i miei messaggi non erano stati spediti.
Digitai per spedirli di nuovo. Quel piccolo suono sembrò un
grido nel silenzio delle profondità oceaniche.
Il buio era sceso completamente. Il canile sembrava una tomba
cesellata nel bosco retrostante. Muovendomi con cautela, feci un
giro largo fino a quando raggiunsi un punto da cui potevo
osservare sia il lato anteriore che quello posteriore.
In ginocchio dietro un albero, studiai il mio obiettivo. Vidi solo
una porta, sul retro, fuori dalla vista dell’emporio e della strada.
Il cellulare era nella borsetta. Avrei potuto provare di nuovo a
prenderlo. Non lo feci. Davanti agli occhi avevo solo la faccia
sconsolata di Mason Gulley e la foto di Susan Grace
sull’inginocchiatoio di Hoke. Tutto quello che riuscivo a sentire
era il mio sangue che pompava nelle orecchie.
Mi mossi rapida, le vene gonfie di adrenalina sufficiente a far
galleggiare un cacciatorpediniere. Ero a metà strada dal canile
quando sentii il primo agghiacciante latrato.
Corri! Urlarono i miei centri cerebrali addetti alle reazioni
«combatti-o-fuggi». Invece mi acquattai e rimasi immobile.
Il cane abbaiò ancora, forte e aggressivo. Altri si unirono. Poi
tacquero. Sono chiusi a chiave! Muoviti!
Accovacciata, attraversai di corsa gli ultimi metri, poi mi
fermai alle spalle del canile ad ascoltare. Delle due l’una: o ero
stata sufficientemente silenziosa o Zanna Bianca e i suoi
compagni avevano lasciato perdere. Per il momento.
Stavo pensando alla mia prossima mossa quando l’aria dietro
di me sibilò. Mi voltai. Ogni nervo del mio corpo era attraversato
da scariche elettriche. Un falco stava seguendo una corrente
ascensionale a pochi metri da me: aveva le ali spiegate e
sembrava una doppia virgola nera nel cielo notturno.
Deglutii per riportare il mio cuore nel petto. Nascosi il mento.
Aggrottai le sopracciglia. I miei stivali erano stranamente facili
da scorgere nel crepuscolo.
Guardai lungo la base dell’edificio. Alla mia sinistra, in basso,
un fioco disegno di luce si spandeva sul terreno. Mi spostai a
poco a poco in quella direzione, a tastoni lungo le onduline.
La luce proveniva dalla metà superiore di una finestra del
seminterrato. Il vetro era coperto di sudiciume all’esterno e da
spesse tende all’interno. Lo guardai per un momento. Non vidi
alcun movimento nello spazio vuoto tra una tenda e l’altra.
Perché mai un canile necessitava di uno scantinato? Perché
c’erano delle tende alla finestra di una cantina? Perché lasciare
una luce accesa?
Buone domande. Che avrebbero dovuto spingermi a fermarmi e
a cercare supporto. Invece continuai verso la porta.
Con gli occhi che puntavano in tutte le direzioni
contemporaneamente, frugai nella borsetta finché non trovai
l’aquila d’acciaio. Le mie dita tremolavano. Cercai a tentoni la
toppa e vi inserii la chiave. Non andava. Ne provai un’altra, con
lo stesso risultato.
L’ultima chiave entrò e girò con un clic. Ruotai la maniglia. La
porta si aprì. Penetrai nel buio più totale.
Nell’aria fredda e umida si spandeva un miscuglio di odori di
terra e di sostanze artificiali. Muffa. Cemento freddo. Escrementi.
Carne e cereali trattati. I cani mi sentirono o forse colsero i
feromoni liberati dalla mia paura. Un frenetico abbaiare e
ringhiare eruppe alla mia destra. Unghie che graffiavano. Corpi
che strattonavano le catene.
Frugai di nuovo nella borsa e trovai la mia mini Maglite.
Braccio flesso, cominciai a esplorare da sinistra, nella direzione di
una macchia che stimai si trovasse al di sopra della finestra dello
scantinato. Vidi pile di materiale di scorta per l’emporio. Secchi,
zappe, pale e attrezzatura elettrica nelle scatole. Poi la mia luce
incontrò una scala di legno grezzo. I cani latravano alle mie
spalle e io cominciai a scendere. Otto passi mi portarono in un
piccolo spazio aperto con un pavimento di calcestruzzo. Il mio
minuscolo ovale bianco-blu scivolò su uno scaldabagno, un
pannello di controllo e poi atterrò su una porta.
Un profondo respiro. Avanzai e girai la maniglia. Chiusa.
Poggiai la Maglite sul pannello elettrico e cominciai con le chiavi.
Tombola. Numero uno.
Il sangue nelle mie tempie martellava come la pioggia su una
lattina. Spinsi la porta ed entrai.
La stanza era grande abbastanza per contenere un letto singolo,
un comodino, un cassettone e una pesante sedia di quercia.
Attraverso un’apertura senza porta sul lato opposto potevo
scorgere un minuscolo bagno. Un crocifisso appeso a una parete.
Una stufetta elettrica si illuminava di rosso sul pavimento in un
angolo.
Il comodino era completo di lampada, il cui bulbo da pochi
watt faceva fatica a ricoprire il suo compito. La sedia era
corredata di cinghie di pelle sui braccioli e sulle gambe anteriori.
Una giovane donna sedeva sul letto a gambe incrociate: con le
braccia, le teneva strette al petto. Il suo volto era nascosto e la
fronte appoggiata sulle ginocchia. Una striscia bianca percorreva
il cuoio capelluto: una scriminatura dentellata le separava i
capelli in due trecce bionde.
La ragazza parlò senza guardare in su. Forse si rivolgeva a me.
«Perché sta succedendo?» Un tono di voce tenue, familiare.
Ero confusa. Poi la donna alzò i suoi giganteschi occhi verdi
verso di me.
Il mondo si contrasse in un uno spillo di spazio e di tempo.
Niente esisteva oltre quel viso e la sedia con le sue odiose
cinture.
Impossibile.
Non sapevo se stessi respirando o no. Se il mio cuore stava
battendo. Se la mia mano, ancora appoggiata alla porta, forse era
attaccata al mio corpo.
«Sei qui per aiutarlo?»
La domanda timorosa colpì le mie orecchie come un treno che
ruggisce attraversando una galleria. La squallida verità mi arrivò
addosso con un duro impatto. La paura si dissolse, non
lasciandomi altro che un nodo freddo di rabbia nello stomaco.
Quando risposi, la mia voce non sembrava provenire dal mio
corpo. Era lontana, come se giungesse dalle labbra di qualcun
altro.
«No, Cora. Sono qui per aiutarti.»
35

Mi ci vollero diversi secondi per assimilare completamente


tutta la storia. Per riposizionare i pezzi del puzzle che avevo
unito con tanta cura.
Cora Teague era viva. Prigioniera. Vittima dei fanatici.
«Vattene.»
«Sono qui per aiutarti, Cora» ripetei.
«È tutto malvagio.»
«No.»
«Io sono malvagia.»
«Non è vero.»
«Li farai arrivare.» Quella piccola voce delicata mi attraversò il
ventre come una lama. Era proprio lei la ragazza terrorizzata
nella registrazione.
«Adesso ti porto via da questo posto» dissi.
Nessuna reazione.
«È qui Susan Grace?»
«Chi?»
«Susan Grace Gulley, la sorella di Mason.»
«Oh, no. Oh, no.» Quasi un lamento.
«Sei sola?»
«Sono sempre sola. Devo stare sola.»
«Adesso ce ne andiamo.»
«Andiamo dove?» Un’ombra di panico. «A casa?»
«No, se non vuoi andare lì.»
«Cos’è questo rumore?» Cora avvicinò ancora di più le gambe
al petto.
Mi misi in ascolto. Da sopra giungeva di nuovo il baccano della
furia dei cani. Poi si zittirono rapidamente.
«Va tutto bene.»
«Non dovresti stare qui.» Cora sbatté le palpebre e una lacrima
le gocciolò sulla guancia.
«Mi spaventi.»
Realizzai che ero sul chi va là, con le ginocchia flesse e il peso
sulle punte dei piedi. Supponendo che la mia postura potesse
sembrare aggressiva, mi raddrizzai ed entrai nella stanza.
«Cora, ascoltami.»
«Ho paura.»
«Dove sono le tue scarpe?» dissi in tono calmo, mascherando il
tumulto che mi sconvolgeva.
Cora non rispose.
«Hai una giacca? Una maglia?»
I suoi occhi andarono al cassettone dietro di me, con grande
allarme. E c’era qualcos’altro. Provai un’emozione così intensa
che mi sentii gelare fino al midollo.
«La prendo io» dissi.
«No! No!»
Mi avvicinai al letto e le poggiai una mano sulla spalla. Si
scostò all’indietro come se fosse stata bruciata con un attizzatoio.
«Padre G non ti farà più del male» dissi in tono affabile.
«Oh, Dio.» Di nuovo la fronte le piombò sulle ginocchia.
«Stanno venendo.»
«Non sta venendo nessuno.» Sapevo che le mie parole erano
insincere. Hoke era ansioso. Cespuglio aveva sentito i cani. O
aveva scoperto che la chiave di Owen Lee mancava.
«Non me ne potrò mai andare.» Le sue parole erano appena
udibili.
«Non essere spaventata.»
«Vengono quando sono spaventata. Sono spaventata quando
vengono.»
Disse quelle parole con un ritmo cantilenante, come se stesse
salmodiando o pregando.
Andai verso il mobile. Mi infilai la torcia nella cintura e aprii
un cassetto. Calzini e biancheria intima. Mi piegai per aprirne un
altro.
«Ferma!»
Il cuore mi salì in gola.
Mi girai, aspettando di vedere un Browning puntato sul mio
petto.
Non c’era nessuno sulla porta. Nessuno nella stanza tranne
Cora e me.
«Cora?»
L’unica risposta fu il rumore di un respiro affannoso. Cora si
era ritirata nell’angolo fino a quel momento e non potevo più
vederne i piedi.
«Vattene!» gridò, e la sua voce era così acuta che sembrava
giungere allo stesso tempo da nessun luogo e da ogni punto della
stanza.
Santo cielo! Non avevo controllato il bagno!
Di riflesso mi gettai con la schiena contro il muro e scivolai
verso la porta. Il sangue mi pulsava nelle orecchie; tirai fuori la
luce e ne indirizzai il fascio verso quel piccolo spazio scuro. Non
vidi nulla tranne un gabinetto, un lavandino e una doccia da
campo.
«Vattene!» udii alle mie spalle.
Girai la testa per guardarmi intorno, la schiena ancora
accostata al muro.
Quella luce infelice stava trasformando il corpo di Cora in un
grottesco schizzo vivente fatto di angoli e ombre. Il suo mento
era sollevato e girato di lato così rigidamente da far sembrare i
legamenti del collo tesi come tavole. Le sue dita, strette sulla
trapunta, sembravano ossa senza carne.
Santo cielo! Stava per avere un attacco? Cercai intorno un
oggetto che potessi metterle tra i denti per sicurezza. Ma non vidi
nulla di appropriato. Mi stavo dirigendo in bagno quando un urlo
di comando mi raggelò.
«Vattene!»
Impossibile! Uno stato di allucinazione uditiva indotto
dall’adrenalina. Ma non c’erano dubbi. Si trattava della terza
voce sulla registrazione. E proveniva dall’angolo.
Con la mente che faticava a trovare un senso agli eventi, mi
avvicinai cautamente al letto.
«Takarodj el!» La forza con cui vennero pronunciate quelle
parole quasi mi fece volare via il berretto.
Non volevo vedere, ma ero incapace di guardare altrove.
Puntai la Maglite su Cora. Il fascio illuminò il suo pallido viso
ovale, le labbra allungate in un ghigno spigoloso, gli occhi che
brillavano di uno scintillio misterioso e agghiacciante. Una
sensazione profonda che si era fatta strada dentro di me mi
sconcertava e mi faceva barcollare.
Piano!
Controllai. Il corpo di Cora era teso, ma non percorso da
spasmi.
Mi tornavano in mente ulteriori dettagli. La mia ultima
conversazione con Ramsey. Il disturbo da depersonalizzazione. Il
disturbo dissociativo dell’identità. Le domande angosciate di
Saffron Brice. «Quale, mamma? Quale?» Saffron non stava
chiedendo in quale casa la ex tata avrebbe potuto farle visita.
Stava chiedendo quale Cora.
In quell’istante presi coscienza dell’enormità del mio errore.
«Andiamocene.» Mi scrollai di dosso la giacca. «Ora.»
«Morirai» urlò la ragazza con una profonda voce di basso. Era
sinistro sentire la voce di un uomo che fuoriusciva da una bocca
tanto delicata.
«Non me ne vado senza di te, Cora.»
«Non sono Cora.»
Non avevo idea di come gestire la depersonalizzazione o la
dissociazione. O qualunque cosa fosse. Sarebbe servito un
confronto? Una frase persuasiva? Un elogio?
«Chi sei?» chiesi.
«Elizabeth.»
«Vattene, Elizabeth. Voglio parlare con Cora.»
«Nessuno mi dice cosa devo fare.»
«Vattene e fammi vedere Cora.»
«Faccio quello che desidero.»
«Uccidere è un tuo desiderio?» Sapendo che alcuni preti
intendono l’esorcismo come una battaglia, il mio cervello
pompato di adrenalina scelse il confronto.
Un sorriso lascivo si sollevò dalla bocca.
«Tu hai ucciso Mason.»
«Non è stata una grande perdita. Era un impiccione.»
«Perché?»
«Convinse la piccola vacca a spifferare tutto al mondo intero.»
«E a registrare cosa le stava accadendo.»
«È patetica. Io la proteggo.»
«Tu hai smembrato il corpo di Mason e lo hai gettato sulla
montagna.»
«Altri eseguono i miei comandi. Li ho in mio potere.»
«Tu hai solo quello che Cora ti permette di fare.»
«Un potere demoniaco.»
«Solo un codardo uccide i bambini.»
In quel momento la testa di Cora cominciò a contorcersi
selvaggiamente. Le trecce ballonzolarono e la saliva le colò sulle
guance in rivoli argentati.
«Eli, il fratello di Cora. River Brice.»
Le contorsioni diventarono più violente. Temendo si potesse
ferire, le infilai un cuscino dietro la testa e rapidamente balzai
all’indietro.
Dopo diversi secondi di movimento selvaggio, il mento di Cora
si raddrizzò e gli occhi di smeraldo incontrarono i miei. Dentro di
essi vidi pura cattiveria, originata non da qualche oscu-ra
presenza nell’anima, ma dalla catastrofe nel suo cervello.
Cora credeva che il demone dentro di lei fosse reale. Dovevo
portarla via da quel posto. Lontana dalla psicopatologia
distruttiva di Hoke.
«Non credo nei demoni» la incalzai.
Cora raccolse la saliva e la sputò nella mia direzione. Non
centrò il bersaglio.
«Non è nemmeno una buona imitazione.»
Le pupille di Cora rotolarono all’indietro, lasciando alla mia
vista un bianco lucente che cresceva dal basso in ogni orbita.
«Sei una caricatura.» Avevo i palmi sudati e la bocca asciutta.
Deglutii. «Una cattiva esibizione di quello che padre G si aspetta
da te.»
Le dita di Cora si allungarono, poi si piegarono come artigli
sulla trapunta.
«Fammi parlare con Cora.»
«Eriggy el!»
«Cora.»
«Cora è debole.»
«Tu non esisti. È Cora che ti ha creato.»
«Quella vacca è troppo stupida per creare qualcosa.»
«Vieni via con me.» Il confronto non funzionava. Provai a
convincerla.
«Puoi spiegarmi chi sei.»
«Elizabeth Báthory.»
«Non c’è bisogno di urlare, Elizabeth Báthory.» Conoscevo quel
nome. Dove l’avevo udito? Le cellule della memoria non mi
aiutavano. «Andremo dove fa più caldo.»
«Hagyjàl békén!»
Quando mi girai per prendere la giacca dal pavimento, vidi il
piumino spostarsi. Ero in ritardo di un battito cardiaco. Cora uscì
fuori dal letto e mi balzò addosso prima che potessi reagire.
Girò il mio braccio destro in alto dietro la schiena e mi
spintonò. Il berretto scivolò via e la mia fronte batté contro il
cemento. Il dolore esplose nel cranio.
Il buio scese nei miei occhi. Poi esplose un milione di
minuscoli punti di luce.
Naso e bocca erano schiacciati. I denti mi tagliavano l’interno
della bocca. Non riuscivo a parlare, non riuscivo a respirare.
Sentii il sapore del sangue. Mentre con difficoltà cercavo aria e
lucidità, un ginocchio mi schiacciò con violenza la spina dorsale.
Coi polmoni in fiamme, scalciai con entrambi i piedi e agitai il
gomito libero. Sebbene le forze non mi manchino, con Cora non
c’era partita.
«Halj meg!»
Tesi il collo in un frenetico tentativo di alzare la testa, per
liberare le vie respiratorie. Invano. Cora mi stringeva con molta
violenza.
Il tempo sembrò dilatarsi a dismisura. In realtà trascorse meno
di un minuto.
Finalmente riuscii a muovere una spalla abbastanza da ruotare
il mento. La guancia atterrò in una pozza di sangue sul cemento.
Il mio sangue. Temevo di dover vomitare.
«Cora» riuscii a dire.
Il suo corpo si contrasse. Con le dita mi afferrò per i capelli.
Mi sollevò la testa e poi la schiantò sul pavimento.
«Elizabeth.»
Sentii il peso del suo corpo, poi il respiro caldo e umido sul
mio orecchio.»
«Puttana!»
«Mi stai facendo male.»
«Lurida cagna!»
«No! Basta!»
«Sgualdrina!»
Mi sollevò ancora la testa. Le vertebre del collo urlarono. Una
spinta a mano piena e la mia tempia sinistra sbatté sul cemento.
Mi schiacciò la tempia destra con più forza di quanta avrei
creduto possibile che un corpo di quella taglia fosse in grado di
sprigionare. Una parte della mascella si frantumò.
Le minuscole luci bianche sfavillarono.
Poi vinse l’oscurità.
Mi risvegliai all’interno di una scena che non aveva alcun
senso.
Cora era seduta sulla grande sedia di quercia, un polso e una
caviglia assicurati con delle cinghie. Hoke era riverso sul
pavimento, gli occhi chiusi e un crocifisso che sporgeva con
un’angolazione letale da sotto il suo collare da prete. Il puzzle era
incompleto come incubo perverso e multisensoriale.
Ricordo che i cani abbaiavano furiosamente. Il sangue di Hoke
serpeggiava sul cemento e si mescolava al mio. Cora, con i suoi
occhi selvaggi, artigliava le cinghie di pelle.
Ricordo una voce maschile dal tono concitato che si avvicinava
dall’alto. Frammenti di una conversazione. «… fatto di nuovo.»
«No!» «Bisogna nasconderla e darle una copertura per quando è
ostaggio del serpente. Ma…» «No…» «… il Signore comanda di
non uccidere.»
Ricordo l’immagine di un uomo che mi guardava dall’alto,
tutto ossa e muscoli e un pericoloso sguardo di disapprovazione
negli occhi; l’odore dei suoi scarponi da montagna con la suola di
gomma.
So che ho chiesto di Susan Grace.
So che ho provato a rialzarmi, ma non ci riuscivo.
Nella mia mente sento il boato di una porta che sbatte. Piedi
che corrono giù dalle scale. Voci maschili che gridano.
Vedo Ramsey con un fucile puntato su Owen Lee Teague. La
faccia di Slidell vicina alla mia.
Sento delle dita che tastano i miei capelli. Del tessuto morbido
che pulisce la mia faccia. Delle mani che alzano il mio corpo.
Il resto di quella notte è una tabula rasa contenente piccoli
frammenti. Una morbida coperta di lana mi solletica il mento.
Una traballante corsa sotto le stelle con le cinghie strette sul
petto e sulle cosce. Delle luci rosse lampeggianti. Il retro di
un’ambulanza. Le sirene spiegate.
Pensando…
Pensando cosa?
Non pensando proprio a nulla.
36

Non ho mai più visto nessuna delle persone della contea di


Avery. Nonna Gulley e Susan Grace. Granger Hoke. Cora e la sua
odiosa famiglia.
Eccetto Strike, siamo sopravvissuti tutti. Persino Hoke, anche
se non farà mai un’audizione per un coro di musica sacra. Perse
molto sangue e si ferì alle corde vocali, ma il colpo inferto da
Cora con il crocifisso mancò i vasi sanguigni più grandi. Quando
fu dimesso, padre G tolse la camicia dell’ospedale per indossare
l’uniforme della prigione.
Susan Grace non fu mai in pericolo. Quella sera aveva di nuovo
mentito a sua nonna per rubare un frammento di normalità. Uno
sceriffo la trovò mentre beveva vino nel bosco con i suoi
compagni di scuola. Hoke disse che quella nota sul calendario era
un promemoria per mettere il sigillante sulle grondaie.
Ancora mi meraviglio della drammatica entrata in scena di
Slidell e Ramsey. Del tempismo di Slidell nell’inchiodare la
verità.
Skinny aveva passato ore a visionare i nastri delle telecamere
di sicurezza che coprivano il weekend di quando Hazel Strike era
morta. Registrazioni provenienti dalle ditte vicine alla casa di
Strike e alla riserva naturale di Ribbon Walk, dove il suo corpo
era stato trovato.
Alle quattro del pomeriggio, mentre ero intenta a scappare dal
Browning di Hoke, la meticolosità di Slidell aveva dato i suoi
frutti. La Corolla rossa di Strike era apparsa, su uno dei nastri, in
una stazione di servizio poco distante dalla riserva. Sul lato del
passeggero c’era Cora Teague.
Dai miei messaggi Slidell sapeva che ero andata alla Santità del
Signore Gesù e poi all’emporio di Teague. Subodorando il
pericolo, aveva contattato Ramsey e poi si era precipitato fino ad
Avery.
Ho riportato una commozione cerebrale e una frattura dello
zigomo destro, all’altezza dell’attaccatura dei capelli. Niente di
grave, ma sono stata obbligata a rimanere due giorni al Cannon
Memorial con le infermiere del turno di notte che mi
accendevano luci negli occhi. Quando finalmente potei entrare di
nuovo in possesso dei vestiti, presi le prescrizioni e me ne tornai
a Charlotte.
Zeb Ramsey mi telefonò quando ero ancora sotto effetto delle
medicine e troppo confusa per parlare. Lo richiamai qualche
giorno dopo. Lo ringraziai per avermi salvato le chiappe. Come
ovvio, lo dissi con un linguaggio più elegante.
Stranamente la telefonata sembrò continuare ben oltre il suo
termine. Appena prima di chiudere capii il perché. Ramsey mi
aveva sorpreso chiedendomi di uscire. Una cena, qualche volta.
Sapete come vanno le cose… Strano, no? Non ero sicura di cosa
pensare.
Venne fuori che il nome completo di Ramsey era Zebulon. Pare
che io glielo abbia chiesto sotto l’effetto del dolore. O degli
antidolorifici.
Slidell si fece vedere più raramente quando ebbe compreso che
tutto quello che avevo rimediato era un colpo alla testa, una
spiacevole perdita di pelle e una mascella rotta. In parte era
occupato con scartoffie e interrogatori. E in parte infuriato con
me per essermi mossa con la sconsideratezza di un cowboy.
Queste le sue parole. Non lo biasimo. Andare all’assalto per conto
mio era stata un’idea stupida.
Ci vollero due settimane ma, lavorando su due fronti, Slidell e
Ramsey si adoperarono per mettere insieme i pezzi della storia.
Gran parte di questa fu ricavata da Owen Lee e Fatima Teague,
più qualcos’altro dalle sorelle di Cora che vivevano fuori dallo
Stato, Veronica e Marie. Qualcos’altro ancora dal personale
medico che prese in cura Cora.
Secondo Fatima, Cora aveva avuto il suo primo attacco
epilettico all’età di quattordici anni. Eli era morto pochi mesi
prima. Ricordava che dopo la scomparsa del bambino, il carattere
di sua figlia era andato peggiorando costantemente e aveva
cominciato a «darsi delle arie». Quando le sorelle più grandi se ne
erano andate via di casa, gli sbalzi di umore di Cora si erano
intensificati. Per un po’ John le aveva permesso di vedere un
dottore, ma nella visione illuminata di papà le medicine
l’avevano fatta peggiorare.
Veronica aveva affermato che Cora era costantemente ansiosa e
spaventata da cose ridicolmente innocue. Rane. Attaccapanni. Un
albero dietro casa loro. Marie aveva detto che Cora era spesso
depressa, che aveva problemi di sonno e la memoria debole.
La valutazione professionale, basata su un’intensa disamina
psichiatrica ancora in corso, cancellava tutta la storia a base di
diavoli e demoni. Non avevo dubbi sul fatto che la diagnosi stesse
in piedi.

Stavo trascinando la mia sesta scatola al bordo del


marciapiede, quando una Taurus dall’aria familiare giunse nel
mio viale. Mi raddrizzai e aspettai che Slidell abbassasse il
finestrino.
«Un look degno di Rosie la Rivettatrice.» Si riferiva all’icona
delle donne americane che lavoravano in fabbrica durante la
Seconda guerra mondiale. Indossava una bandana e una camicia
di jeans uguali alle mie.
«Sto ripulendo la soffitta.»
«Ne vuoi fare la stanza dei bambini?»
«No, un ufficio.»
«La faccia sembra a posto.»
Non lo era. «Grazie.»
Con una mano appoggiata sul mento, Slidell guardò quella
spazzatura ammucchiata alla rinfusa. «Questi ruffiani dei camion
della spazzatura non porteranno via molta roba.»
«Li corrompo.»
«Sono un poliziotto. Non me lo devi dire.» La sua voce aveva
come al solito un tono rude; ma lasciava trasparire anche un
livello di cortesia tale da indurmi a pensare che non fosse più
arrabbiato. «Quando parti?»
«Stasera col volo delle otto e venti. La ristrutturazione della
soffitta comincia lunedì.»
«Hai un minuto?»
«Certo. Accomodati.»
Ci sedemmo al tavolo della cucina. Slidell declinò l’offerta di
una birra, ma accettò un bicchiere di tè freddo senza zucchero.
Con discrezione, mentre gli porgevo la bibita, avanzai
un’osservazione. Sebbene molto lontano dall’avere un’aria patita,
Skinny aveva decisamente perso peso. Esercizi? Stress? Merito
dell’amabile Verlene?
«Lo devo ammettere. Non riesco ad afferare la conclusione di
questo tricche tracche.»
«Tricche tracche?» Come al solito, cercai di prevenire la
necessità di un interprete per la conversazione.
«La ragazza ha ucciso tre, forse quattro persone, ma si trova
nella bambagia, in un ospedale, a piangere sui suoi problemi.»
«Cora è stata dichiarata non in grado di intendere e di volere.»
Questa frase lo indusse a scrollare il capo e a emettere un sibilo
dal naso.
«Non è in grado di capire le accuse contro di lei o di essere di
aiuto per la sua stessa difesa.»
«È fuori di testa, questo l’ho capito, ma…»
«È vittima di disturbo dissociativo dell’identità.»
«Ecco, volevo dire proprio quello…» La sua voce aveva il
classico tono accusatorio. «Parli come gli strizzacervelli. E allora?
Dicono che è schizofrenica?»
«No. La schizofrenia è una malattia mentale che include psicosi
croniche o ricorrenti. Uno schizofrenico sente o vede cose che
non sono presenti, pensa o crede a fatti che non hanno un
appiglio nella realtà.»
«Sì, d’accordo. La ragazza non ha allucinazioni. Questo,
appunto, è quello che non ha. Come spieghi invece quello che la
ragazza ha?»
«Personalità multiple.»
«Pensavo che questa roba fosse solo una patacca
hollywoodiana.»
«È una malattia reale. Il disturbo dissociativo dell’identità una
volta veniva chiamato disturbo di personalità multipla. L’identità
delle persone affette da questa patolgia è in grado di scindersi.
Ogni identità risultante dalla scissione esiste indipendentemente
dalle altre e si distingue in un modo specifico. Tono di voce,
linguaggio, caratteristiche, posture, abilità manuali… Insomma,
tutto quello che pensiamo possa costituire una personalità.»
«Di quante identità stiamo parlando?»
«Una persona affetta da disturbo dissociativo dell’identità può
averne da due o tre fino a cento e più. Per le statistiche, la media
è quindici.» Avevo passato ore a fare ricerche sull’argomento.
«L’età della prima manifestazione, in genere, è l’infanzia, poi
nuove identità si possono accumulare nel corso della vita.»
«Chi è che dirige le danze?»
«Gli psichiatri chiamano la personalità principale host. Quella
identità agisce come una sorta di guardiano. Le altre identità
sono chiamate alter e le transizioni sono chiamate switch. Una
transizione può richiedere da pochi secondi a pochi minuti fino a
qualche giorno. Le altre personalità possono essere persone
immaginarie, animali, figure storiche o di fantasia e possono
variare per età, razza o genere.»
«Quindi un macho può avere la personalità di una pollastra e la
pollastra di un macho.»
«Sì.»
«Ecco perché la ragazza sembrava un dannato sergente, nello
scantinato!»
«Esattamente. E così nella registrazione. La voce che
pensavamo appartenesse a un secondo uomo era invece quella di
Cora nei panni di Elizabeth.»
«Che casino!»
«La dissociazione è un meccanismo di difesa. La persona
semplicemente si stacca da situazioni troppo violente,
traumatiche o dolorose da assimilare in maniera cosciente. Si
pensa che la condizione sia il risultato di un prolungato trauma
infantile.»
«Quindi i bastardi la picchiavano o la violentavano?»
«Non è necessario che l’abuso sia di natura fisica o sessuale.
Può essere psicologico. È il caso di Cora: il severo isolamento
impostole per via della sua epilessia combinato con un estremo
fanatismo religioso.»
Slidell guardò una gocciolina scivolare lungo il bicchiere, la
asciugò e si leccò il pollice. «Questo strizzacervelli con cui stavo
parlando pensa che forse non è stata Cora a uccidere Eli. O forse
non l’ha fatto apposta. In ogni caso, ritiene che alla morte di Eli
la ragazza sia andata fuori di testa e abbia dato inizio alla
scissione, o come la chiami tu…»
«Poi le sorelle più grandi avevano cominciato a lasciare casa.»
Ripresi a narrare. «Successivamente Cora era andata a lavorare
per i Brice. Non era mai stata per conto suo prima di allora e
difficilmente aveva potuto incontrare qualcuno al di fuori della
famiglia o della chiesa. Non aveva mai visto la televisione. Non
era capace di gestire la libertà e la responsabilità. Era
completamente sopraffatta. Lei o un alter uccisero River Brice.»
«Ho parlato con Owen Lee. E con Hoke. Le loro storie
combaciano con questo.»
«E John?»
«Un arrogante coglione che si trastulla con l’idea che la ragazza
sia controllata da Satana.»
«Cosa dicono Hoke e Owen Lee?»
«Cora ha ucciso il bambino perché era posseduta da un
demone.»
«Quindi il trattamento che le riservarono fu quello di chiuderla
in un canile completamente nuovo e di agitare crocifissi davanti
a lei.» Avevo intenzione di mantenere la mia voce neutrale, ma
una nota di amarezza avanzò lentamente. Il pensiero di Cora in
quel posto ancora mi faceva stare male. «Mason la amava.
Supponeva che lei fosse in mano loro, ma non sapeva dove
l’avessero portata.»
«Terrorizzato dall’idea di essere il prossimo sulla lista degli
inni, se ne andò a Johnson City. Quando Susan Grace gli disse di
aver visto Cora, ci pensò, comprò il registratore, tornò ad Avery e
glielo consegnò.»
«Mason probabilmente voleva denunciare Hoke dando quel
nastro alla polizia, ai giornali, forse a un prete vero e proprio.» Ci
avevo pensato più e più volte.
«Pensi che Cora abbia fatto quella registrazione apposta?»
chiese Slidell.
«Potremmo non saperlo mai. Il dispositivo era attivato dalla
voce.» Presi un sorso di tè. «Hai saputo come ha fatto Mason a
raggiungerla?»
«Secondo Owen Lee aveva una chiave» Fui sorpresa da quella
notizia.
«Durante i lavori di ristrutturazione della chiesa lo avevano
mandato diverse volte a prendere il materiale all’emporio e al
canile.»
Birdie avanzò lentamente, si fermò a rimuginare, poi decise di
unirsi a noi. Lo guardammo far manovra intorno alle caviglie di
Slidell, entrambi immaginando la scena di quando Mason era
ritornato da Cora nella sua piccola cella. Slidell ragionò a voce
alta.
«Quindi il ragazzo torna a riprendere il registratore. Cora lo
afferra, lo uccide e lo fa a pezzi. Quando Owen Lee si fa vivo, lei
è coperta di sangue e la testa di Mason è in un secchio. Lui
chiama papà e papà gli dice di occuparsi della faccenda. E di
pregare.»
«Allora Owen Lee butta le parti del corpo dai belvedere. Ha
scelto quei luoghi per via di Brown Mountain?»
Slidell scosse la testa. «Là non ci sono riti vudù. Li conosceva
per le sue camminate in montagna.»
«I risultati del DNA sono arrivati ieri» dissi. «Erano i capelli di
Mason, quelli intrappolati nel calcestruzzo. L’olio d’oliva e
l’incenso devono essergli stati trasferiti da Cora.»
«Il polpastrello nella resina di pino?»
«Sempre Mason.»
Una pausa, mentre entrambi riflettevamo.
«Ed era lo stesso scenario per Hazel Strike.» Lucky. Deglutii.
«Strike porta Cora a Charlotte. Cora muta personalità e la uccide.
Owen Lee arriva, butta il corpo di Strike nel lago, poi trasporta la
sorellina di nuovo ad Avery.»
«Questa è la versione di Owen Lee, benché lui neghi che Cora
abbia mai ucciso qualcuno.»
«Chi lo ha fatto?»
«Il Maligno.»
«Giusto.» Non mi interessava nascondere la repulsione.
«Lucifero o no, Owen Lee ammette di aver distrutto il telefono
di Strike e di averlo lanciato oltre il guardrail, prima di gettare il
computer nell’immondizia a Banner Elk.»
«E il registratore?»
«Dice di non averlo mai visto. Scommetto che Strike l’ha
nascosto da qualche parte per impedirci di prenderlo.»
«Non era a casa sua?»
Slidell scosse la testa. «Con buona probabilità non lo troveremo
mai.»
«Dove pensi che sia avvenuto il delitto?»
«Scommetto al parco. È lì che Owen Lee dice di aver trovato
Cora. E la Scientifica ha tirato fuori dal lago un bastone da
trekking. Quando abbiamo perquisito la casa di Strike, ne
abbiamo trovati un paio simili in garage. Scommetto che ne
teneva uno in macchina. Adesso c’è una mia squadra sul posto.»
«Sai come Strike fosse riuscita a portare via Cora?»
«Lo ha detto Fatima. Strike si era fatta viva a casa loro, quel
sabato. John l’aveva buttata fuori, poi più tardi si era accorto che
Cora non c’era più. A quanto pare hanno una serie di stanze
imbottite e chiuse a chiave dove tenevano la ragazza quando
Hoke non aveva ancora iniziato la sua guerra contro i demoni.»
«In qualche modo Cora era riuscita a uscire e a persuadere
Strike a prenderla con sé» dissi.
«Quando John scoprì che se ne era andata chiamò Owen Lee, il
quale si precipitò a Charlotte.»
«Come faceva a sapere dove andare?»
«Strike aveva lasciato il suo contatto nel caso in cui la famiglia
avesse cambiato idea e preso la decisione di parlarle.»
«Incluso l’indirizzo di casa?»
«La signora aveva tenacia, ma non molta cautela.»
«Fu Owen Lee a spingere la roccia giù dalla Coda del Diavolo?»
«Sì. Ascoltò per caso la tua conversazione con Ramsey al
Wiseman’s View, andò nel panico e vi seguì. Ha detto che vi
voleva soltanto spaventare. Owen Lee non è la mente più
brillante che io conosca.»
«No.» Ero d’accordo. «Non lo è.»
«Ma c’è qualcosa che non capisco. Come può un topolino
timido come Cora trasformarsi in un assassino a sangue freddo?»
«Alcune persone affette da disturbo dissociativo hanno la
tendenza all’autosabotaggio. Altre indirizzano la violenza verso
l’esterno. Ma ricorda che, in un certo modo, Owen Lee ha
ragione. Non era Cora a uccidere, ma il suo alter. E penso che tu
abbia messo il dito nella piaga. Non sono una psichiatra, ma
sospetto che Elizabeth Báthory sia emersa a causa del senso di
impotenza di Cora.»
«E questa tizia fa in modo che Cora diventi un’assassina?»
«Non esattamente. Sotto stress Cora si trasforma in Elizabeth. È
Elizabeth che uccide.»
«Ma chi è?»
«La Contessa Sanguinaria.»
«Questo spiega tutto.»
«Elizabeth Báthory è stata definita la più tremenda assassina
seriale della storia. Torturò e uccise centinaia di ragazze.»
«Quando accadde questo?»
«Nel Sedicesimo secolo, in Ungheria.»
«Bel modo di togliersi i sassolini dalle scarpe…»
«Secondo la leggenda amava bagnarsi nel sangue delle vergini
per impadronirsi della loro giovinezza.»
«Un modello esemplare.»
«Il subconscio di Cora ammirava la potenza di Elizabeth.»
«A questa ragazza non era permesso guardare la televisione o
navigare su Internet. I suoi libri erano scelti con attenzione e,
tranne che per andare a scuola o in chiesa, non le era permesso
uscire di casa. Come è venuta a conoscenza della vicenda della
contessa?»
«Katalin Brice è ungherese. Cora probabilmente trovò libri di
storia a casa sua.»
«Così… non erano lingue arcane quelle che parlava.»
Scossi la testa. «No. Era ungherese.»
«Be’, parlava pure il linguaggio del sangue.»
Non feci commenti.
Dopo pochi secondi, continuò: «Sembra che la contessa non
fosse sola, là dentro».
«Cosa?»
«Lo strizzacervelli sta usando l’ipnosi. Pensa di aver fatto
un’altra conoscenza.»
«Non è insolito che altre personalità emergano durante il
trattamento. Di chi si tratta?»
«Non è voluto entrare nei dettagli.»
Slidell e io ci prendemmo una piccola pausa per bere il tè. Poi,
con un tono di voce che non saprei definire, mi chiese: «Quanto è
comune questa roba dissociativa?».
«Chi soffre di disturbo dissociativo dell’identità tende ad avere
anche altri problemi – depressione, ansia, dipendenza da
sostanze, disturbo borderline di personalità –, quindi è difficile da
diagnosticare. Ma la patologia è rara. Ho letto statistiche secondo
cui l’incidenza va dall’uno per mille all’uno per cento dell’intera
popolazione.»
Slidell soffiò un lungo respiro attraverso le narici. «Non lo so.
Mi suona come una difesa legale preparata da uno stregone.»
«Ti ricordi di Herschel Walker?» Sapevo che Slidell è un
appassionato di football.
«Certo che sì. Walker vinse il premio Heisman nell’82.»
«Aspetta un attimo.» Andai nello studio, tornai e posai un libro
sul tavolo. «Sai leggere, vero?»
«Divertente. Che cos’è?»
«Breaking Free.»
«Questo lo vedo.»
«L’autore è Walker. Nel libro parla del proprio disturbo
dissociativo dell’identità.»
«Mi prendi per i fondelli?»
Lo guardai appena. Poi cambiai marcia. «Cosa accadrà a Hoke
e ai Teague?»
«Favoreggiamento, intralcio alla giustizia, occultamento di
cadavere.» La bocca di Slidell si arricciò per il disgusto. «E questi
buffoni non contano sull’aiuto divino, per l’assoluzione. Sono già
scesi a patti con la giustizia.»
«Se un giorno Cora venisse riconosciuta in grado di intendere e
di volere, potrebbe essere accusata? Eccetto Owen Lee, non ci
sono testimoni e nessuna prova scientifica o fisica.»
«Abbiamo il video della ragazza nella macchina di Strike. Forse
le sue impronte. Ma a meno che lei non confessi, o che Hoke e i
membri della sua famiglia siano concordi nel testimoniare che è
in grado d’intendere e di volere, non significa che lo fosse
davvero al momento degli omicidi. E quale delle sue personalità
verrebbe portata in giudizio? Lo strizzacervelli dirà che non era
in grado di distinguere il bene dal male o di perseguire il bene.
Eccetera, eccetera…»
Le possibilità che fosse perseguita erano pari a zero, lo
sapevamo entrambi. Poi Slidell mi sorprese. Con un
complimento.
«Sai, doc, a essere sinceri fino all’osso, sei piuttosto brava.
Forse avrai successo.»
Detto questo, Slidell si alzò. Lo accompagnai alla porta. E se ne
andò.
37

Ventisette aprile. Dieci e quarantadue del mattino.


Il sole attraversava le pareti di vetro riscaldando i muri color
guscio d’uovo e i pavimenti biondo quercia. Le fiamme
danzavano in una buca rettangolare che si allungava in basso in
un grande camino di marmo. Alle nostre spalle, i ripiani e i
pensili splendevano di un bianco brillante e le nostre immagini
erano riflesse nell’acciaio perfetto.
Amavo quel posto. Ma mi terrorizzava.
Attraversai la sala da pranzo per guardare la città dodici piani
più in basso. Dietro di me un agente immobiliare continuava con
la sua aggressiva tattica di vendita.
La zona brulicava dei soliti acquirenti del lunedì mattina, di
chi aveva appuntamenti, di chi portava a spasso il cane, delle
mamme e delle tate con i passeggini. Mi sporsi per guardare oltre
il terrazzo.
A est, gli studenti si affrettavano in entrambe le direzioni verso
i cancelli della McGill. A ovest, il Musée des beaux-arts, le
boutique, le gallerie d’arte, i negozi e gli edifici residenziali erano
allineati ai bordi dei marciapiedi in direzione di Westmount, di
Notre-Dame-de-Grâce e di West Island.
Gli ultimi accumuli invernali di neve si erano sciolti, lasciando
su strade e marciapiedi un’iridescenza solcata da rivoli oleosi.
Qua e là i camini esalavano sottili strisce di fumo che si
stagliavano pallide e vaporose su un cielo spettacolarmente blu.
Presto i rituali primaverili sarebbero iniziati. Giacche e stivali
avrebbero lasciato il posto a braccia nude e sandali. I tavoli
sarebbero apparsi fuori dai ristoranti e dai pub. Gli studenti
avrebbero lanciato frisbee, fatto picnic e si sarebbero stesi sui
prati dell’università appena rinverditi.
«Il marmo di Carrara è uno dei più belli al mondo. Morbido,
caldo e versatile. Non è d’accordo, dottoressa Brennan?»
Mi girai per riprendere la conversazione. Gli occhi dell’agente
immobiliare, Claire o Cher, brillavano attraverso minuscoli
occhiali con una montatura dorata appollaiati sul suo naso.
L’acconciatura da paggetto di quella donna, così rigidamente
disciplinata, mi faceva pensare a Shakespeare. Strano, ma era
così.
«E quella vasca da bagno? Mon dieu! Questo appartamento è
veramente una gemma.»
«Una gemma costosa» dissi.
«Ma la posizione è très magnifique!» La bocca di Claire/Cher
produceva, d’abitudine, un fastidioso risucchio tra uno scoppio
entusiastico e l’altro. Lo fece in quel momento.
«Sfortunatamente è fuori dalla nostra portata.»
Da dietro, Claire/Cher si avvicinò per curiosare. Rimasi
impassibile.
«Oui, ma voi siete una coppia di una tale élégance. Dovevo
mostrarvela.»
«Lui è un poliziotto. Io sono uno scienziato.»
«Ci potremmo spostare verso il mercato.» Pronunciò quella
frase come se abitualmente ci procurassimo il cibo in un
cassonetto dei rifiuti. «Ma devo avvisarvi. Questa proprietà non
rimarrà disponibile a lungo.»
«Merci.» Prelevai la mia giacca e la borsetta da quella pietra
meravigliosa.
«Ci è stata di grandissimo aiuto. Il detective Ryan e io ne
discuteremo.»
I suoi tacchi facevano rumore e mi infastidivano mentre ci
seguiva nel corridoio e poi in ascensore. Fuori ci separammo: lei
si diresse verso Beamer, Ryan e io da Hurley, il pub irlandese di
rue Crescent, tre isolati a sud.
Era presto e potemmo scegliere il tavolo. Volevamo stare
tranquilli, così optammo per un tavolo per due nel séparé. Una
cameriera comparve mentre ci toglievamo le giacche. Siobhan.
Siobhan ci chiese cosa desiderassimo. Ryan ordinò una lager e
del manzo stufato alla Guinness. Io invece optai per fish and chips
e una bibita analcolica. Conoscevamo ogni portata, non avevamo
bisogno del menu.
«Quindi…» dissi.
«Quindi?» mi fece eco Ryan.
«È lontano dal nostro budget» proseguii. «Non dimenticare che
ho ancora delle spese per casa mia a Charlotte. E butteremo via
un sacco di soldi in biglietti aerei.»
«E in lingerie.»
Il commento non meritava una risposta.
«La posizione è ottima» disse Ryan.
«Grazie, Cher.»
«Chantal.»
«Che?»
«Si chiama Chantal.»
«Dovrebbe chiamarsi Shylock.»
«Shylock era un usuraio, non un agente immobiliare.»
«Sarà una discendente.»
«Com’è acida, madame.»
Siobhan arrivò con le nostre bibite, dandomi il tempo di
impostare una controproposta.
«Forse dovremmo prendere una casa in affitto» dissi. «Almeno
fino a quando non sapremo come funziona la nuova
sistemazione.»
Stavo ancora barcollando per le ultime novità di Ryan. Lui e
Slidell si sarebbero ritirati dall’attività e avrebbero collaborato
come investigatori privati al di qua e al di là del confine. Questa
era la ragione di tutte le loro conversazioni al telefono. E
l’obiettivo nascosto di tutte le visite furtive a Charlotte.
«Abbiamo detto che chi non risica non rosica.» Ryan sorrise e
le rughe intorno ai suoi occhi si fecero più profonde.
«Risica? Quel posto ci porterà in competizione con il debito
nazionale.»
«Quale nazione?»
«Una delle due» dissi.
«I nostri affittuari ci daranno una bella somma di denaro.»
Vero. Il pensiero di vendere casa mia mi aveva fatto venire un
nodo allo stomaco. Non dissi nulla.
Siobhan arrivò col nostro cibo. Per un po’ di tempo ci
occupammo solo di tovaglioli, posate e condimenti. Ryan riprese
il filo del discorso.
«Per di più, di quali soldi parliamo? Tu un giorno sarai
straricca. La regina dell’amido e del vapore.»
Ruotai gli occhi; Ryan si riferiva alle prossime nozze di
mamma. Si era scoperto che Clayton Sinitch era il proprietario
non di una lavanderia, ma di un’intera catena. Inoltre aveva
inventato un procedimento chimico che gli faceva guadagnare
cifre astronomiche ogni anno. Harry aveva fatto delle ricerche.
Chiunque conoscesse quel tizio diceva che era un solido, gentile e
generoso vedovo con la nostalgia della vita matrimoniale.
Generoso sicuramente. La pietra dell’anello che mamma
portava al dito era grande quanto un bagel.
Su insistenza di Daisy, la coppia felice aveva posticipato le
nozze fino a quando Katy non fosse stata rimpatriata. Nel
frattempo, lei e Goose stavano preparando una festa che avrebbe
fatto sembrare una sciocchezza quella di Kate e William.
Sì, devo ancora ammetterlo completamente: ma fu mamma a
convincermi che io e Ryan potevamo avere la nostra chance. La
sua esuberanza. La sua fiducia. Il suo credere al fatto che l’amore
non arriva mai troppo tardi nella vita. La massima aristotelica
sull’unica anima che abita in due corpi diversi.
«Forse dovremmo seguire l’esempio di Daisy» disse Ryan
masticando lo stufato.
«Quale esempio?» Ricordandomi di Birdie, mi astenni dal fare
commenti sul galateo a tavola.
«Quello che fai tu, lo faccio anch’io.»
«Fallo tu.»
«Divertente.»
«Ci provo.»
«Sono serio, adesso.»
«Ryan, eravamo d’accordo sul fatto che vivere insieme sia un
buon primo passo. A proposito, la ristrutturazione del tuo ufficio
nell’Annesso comincia stamattina.»
«Posso appendere il poster degli Habs sopra la scrivania?»
«È autografato?»
«Yvan Cournoyer.»
«Deve valere qualcosa.»
«Tu puoi appendere una fotografia di Dale Earnhardt nella
nostra camera da letto qui.»
«Potrei…» dissi. «Possiamo uscire per un attimo dalla modalità
House Hunters?»
«Mais oui, ma chère.» Più tardi Ryan avrebbe acconsentito a
qualunque mia richiesta. «Il tuo viso è molto migliorato.»
«Dio benedica il correttore!»
Ryan sgraffignò una patatina dal mio piatto. «Ti senti meglio a
proposito di Cora e Strike? E di Brown Mountain?»
«Non so. L’indagine mi ha un po’ confusa. Prima Cora mi è
sembrata una vittima. Poi una perfida assassina. Alla fine era
entrambe le cose.»
«Ma una vittima di tipo diverso. Dell’ignoranza e del fanatismo
religioso.»
«Comunque, è tutto molto triste. Cora avrebbe dovuto passare
le estati a giocare a tennis e a spalmarsi di crema solare, e i fine
settimana a bere vino scadente con i compagni di scuola. A
ridacchiare della brutta pettinatura di un’insegnante, a piangere e
ridere dei ragazzi, a sussurrare nel buio confidenze sui primi
baci. Invece, per colpa dello show di Hoke, ha trascorso i giorni
sotto la stretta sorveglianza di papà e le notti nel terrore che il
suo corpo fosse il ricettacolo di Satana.»
Ryan mi accarezzò la guancia. «I credenti fanatici possono
essere i soggetti più pericolosi al mondo» disse dolcemente.
I nostri occhi si incontrarono. Il colore blu dentro il color
nocciola. Inspiegabilmente, avvertii un leggero tremolio di
disagio tagliente e veloce come una puntura, che poi sparì.
Bandita l’incertezza, strinsi la mano di Ryan.
«Hai ragione» dissi.
«Per Hoke e i Teague ci vorrà tempo» disse. «I Brice stanno
meglio. Cora sta ricevendo le cure di cui ha bisogno. È il migliore
dei mondi possibili.»
«Grazie, Candido.»
«Dovrebbe farti piacere.»
«È così.» Era così. E quindi, perché quella confusione?
Bevvi un sorso della bibita. Cercavo di scacciare lo sciame di
emozioni che turbinava dentro di me.
«In un certo qual modo, mi dispiace per nonna Gulley.
L’anziana donna ha perso suo marito, suo figlio e suo nipote.
Hoke, il suo fidato consulente su ogni questione religiosa, sta
andando in prigione. Spero che se ne faccia una ragione e che
recuperi il rapporto con Susan Grace.»
«La ragazza è coraggiosa.»
«Coraggiosa?»
«Susan Grace starà bene.»
Mangiammo senza parlare per un po’, ognuno perso nelle
proprie riflessioni. Interruppi il silenzio con una domanda che mi
dava da pensare.
«Quindi chi di loro aveva l’approccio più irrazionale con la
realtà? Cora con i suoi alter? O Hoke e i Teague con le credenze
nelle forze demoniache?»
«Non dimenticare Sarah Winchester con il suo invincibile senso
di colpa.»
«Il raggiungimento della salvezza tramite l’edificazione…»
Avevo dimenticato di raccontare a Ryan del palazzo a San Jose.
«Dissociazione. Esorcismi. Manie architettoniche. Sono tutti
meccanismi per scendere a patti con un mondo che è
travolgente.»
«Non male, Ryan.»
«Ma, siccome me lo hai chiesto, i genitori di Ramsey mi
sembrano i più pazzi di tutti.»
Alzai un sopracciglio.
«Come si fa a chiamare un figlio Zebulon?»
Gli lanciai addosso il mio tovagliolo appallottolato. Ryan
bloccò con una mano una telefonata in arrivo. «C’è una doman-da
che mi turba» disse.
«Cosa genera le luci di Brown Mountain?»
Alzai i palmi come per dire: «Chi può saperlo?».
«È un mistero senza soluzione» fece Ryan.
«Sì» confermai.
Poi il volto di Ryan assunse un’espressione solenne. Prese la
mia mano nella sua.
«Mi dispiace non essere stato lì ad aiutarti, Tempe. Deve essere
stato terribile, laggiù nel canile. Cora. Hoke. Owen Lee. I cani.»
«Slidell e Ramsey se la sono cavata alla grande.»
«Avrei dovuto essere lì.»
«No, Ryan. È molto meglio che non sia stato tu a salvarmi.»
«Mi piace correre in tuo aiuto.»
«Sono seria. Penso…» Mi fermai. Cosa pensavo? «La possibilità
che ci fosse uno squilibrio tra noi mi impediva di impegnarmi
in…» Cercavo la parola perfetta. «… una relazione stabile.» Ero
di nuovo rilassata.
«A noi.»
«Sì. A noi. Temo di non essere riuscita a spiegarmi bene, il
giorno in cui venisti a Charlotte.»
«Il senso era chiaro.»
«Devo essere me stessa, Ryan. Per combattere le mie battaglie,
per vincerle o perderle. Non possiamo giocare a Galahad e alla
damigella in pericolo.»
«Messaggio ricevuto, adesso come allora. Ricordatene la
prossima volta che hai una gomma a terra.»
Ruotai gli occhi in modo epico.
«E quindi?» Ryan compì uno dei suoi rapidi cambi di
argomento. «Ci possiamo permettere l’appartamento di Shylock?»
Fissai quei meravigliosi occhi blu. Quel viso che avevo amato
per così tanti anni.
«Massì.» Sorrisi. «Mi aspetta una cospicua restituzione di
tasse.»
Alzai un palmo. E Ryan mi diede il cinque.
Quando penso a Hazel «Lucky» Strike – nelle notti in cui non
riesco a dormire e nei giorni in cui mi capita di vedere dello
stesso oltraggioso color carota – c’è un momento luminoso che
ricordo. Fino a quel momento non avevo condiviso quel dettaglio
con Ryan.
«Slidell ha trovato un fascicolo a casa di Strike contenente il
piano di un funerale.»
«Il suo?»
«Stava invecchiando e non aveva una famiglia.» Ed era
dolorosamente conscia di doversi aspettare una sepoltura senza
pianti. Non ci fu bisogno di dire altro.
Ryan aspettò.
«Skinny mi ha raccontato di essere stato al cimitero.»
«Senza di te?»
«Ha detto che ero ancora occupata a leccarmi le ferite.»
«È stato un bel gesto.»
«Pensava che la cerimonia sarebbe stata breve.» Fui colpita da
una nuova ondata di malinconia. «Si sbagliava. Secondo Skinny
erano presenti circa cinquanta persone.»
«Cybersegugi?»
Annuii. «Wendell Clyde le aveva comprato una lapide.»
«Davvero?»
«Incise sotto il nome di Strike c’erano le parole Lucky to have
known you, fortunati di averti conosciuta.»
RINGRAZIAMENTI

Molti credono che la scrittura sia un’attività individuale. Non è


così. Ricevo un sacco di aiuto da un moltissime di persone.
Perciò, come al solito, ho un enorme debito di gratitudine verso
chi ha contribuito a La verità delle ossa.
Voglio ringraziare lo sceriffo della contea di Avery Kevin Frye
per aver esaudito di buon grado le mie richieste riguardanti il
lavoro del suo ufficio. Il dottor Bruce Goldberger mi ha dato
consigli sull’analisi degli oligoelementi. Il dottor William
Rodriguez ha risposto a quei dubbi sulle ossa che andavano al di
là delle mie conoscenze. Judy Jasper ha fornito contributi sulla
lingua e la cultura ungheresi.
Ho apprezzato il continuo supporto di Philip L. Dubois, rettore
della University of North Carolina a Charlotte.
Porgo i miei più profondi ringraziamenti alla mia agente,
Jennifer Rudolph-Walsh e alle mie editor infinitamente pazienti
ed esperte, Jennifer Hershey e Susan Sandon.
Voglio inoltre ringraziare tutti quelli che lavorano duramente
per me. A casa, negli Stati Uniti: Gina Centrello, Libby McGuire,
Kim Hovey, Scott Shannon, Susan Corcoran, Cindy Murray,
Kristin Fassler, Cynthia Lasky e Anne Speyer. Dall’altra parte del
lago: Aslan Byrne, Glenn O’Neill, Georgina Hawtrey Woore e Jen
Doyle. A nord del quarantanovesimo parallelo: Kevin Hanson e
Amy Cormier. Alla William Morris Endeavor Entertainment:
Caitlin Moore, Maggie Shapiro, Tracy Fisher, Cathryn
Summerhayes e Raffaella De Angelis.
Apprezzo i suggerimenti editoriali disinteressati di Paul Reichs.
E l’attenzione costante di Melissa Fish per ogni problema che le
ho sottoposto.
Come sempre, abbraccio tutti quanti i miei lettori. È
confortante che siate così devoti a Tempe. Adoro incontrarvi agli
incontri con l’autrice; visitate il mio sito web (KathyReichs.com),
mettete i vostri like su Facebook e seguitemi su Twitter
(@kathyreichs). Siete la ragione di tutto!
Se mi sono dimenticata di ringraziare qualcuno, me ne scuso. E
prometto di riparare con una birra. Se il libro contiene errori,
sono colpa mia.
Indice

Copertina
Abstract
Kathy Reichs
Frontespizio
Copyright
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Ringraziamenti

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