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19/2/2020 Il calcio italiano nei giorni dell’anomia

Quaderni di Sociologia
34 | 2004
Calciopolitiche
la società italiana / Calciopolitiche

Il calcio italiano nei giorni


dell’anomia
PIPPO RUSSO
p. 19-35
https://doi.org/10.4000/qds.1133

Full text

Premessa
1 Il mondo del calcio italiano presenta attualmente un elevato livello di instabilità, di
cui il caos registrato nell’estate del 2003 ha costituito la manifestazione più clamorosa.
Il bilancio delle conseguenze di tanta disgregazione, stilato in coincidenza con l’avvio
della stagione agonistica 2003-2004, è stato pesantissimo: slittamento di due giornate
nell’avvio del campionato di serie B, spaccatura fra serie A e B con precipitosa
riformulazione dei ranghi del torneo di B (passaggio da 20 a 24 squadre), resa della
giustizia sportiva a quella amministrativa, grave crisi di credibilità delle istituzioni,
tragico ritorno della violenza negli stadi. Gli eventi registrati nella stagione in corso
lasciano presagire che la situazione complessiva, anziché sanarsi, vada verso il
peggioramento.

L’estate del caos


2 La lunga estate calda vissuta dal calcio italiano ha lasciato dietro di sé i segni di una
crisi che il ritorno all’attività agonistica ha soltanto celato, rinviando a un secondo
momento la soluzione dei problemi. Con una struttura istituzionale gravemente minata
nei meccanismi e nella legittimità, e un livello di litigiosità fra attori mai raggiunto in
precedenza, il passaggio registrato prima che la stagione calcistica 2003-2004 iniziasse
ha fatto segnare il punto più basso di credibilità per l’intero movimento. Ne è derivata
una crisi che, toccando il principale fra i movimenti sportivi del paese, colpisce per
proprietà transitiva l’intero assetto politico-istituzionale dello sport italiano. L’avvio
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della stagione, inoltre, non è servito a disinnescare le tensioni provenienti da un altro


fronte: quello ultrà. I tragici fatti avvenuti a Avellino il 20 settembre 2003, con la morte
di un tifoso napoletano e la caccia al carabiniere da parte di un gruppo di teppisti
partenopei, hanno riportato brutalmente all’attualità un’emergenza mai davvero risolta:
quella che riguarda le frange radicali del tifo, attraversate negli ultimi mesi da
significative evoluzioni, non adeguatamente interpretate e comprese.
3 Il quadro che si ricava da questo sommario resoconto veicola dunque un’immagine
dominata da fattori di incertezza e tensione, rispetto ai quali le letture e le soluzioni
sperimentate mostrano un carattere di parzialità e provvisorietà. Se ci sforziamo di
adottare una visione più ampia, collocando cioè i fatti della scorsa estate all’interno di
un passaggio storico-sociale di medio termine, non muta l’impressione di trovarsi al
cospetto di una fase particolarmente acuta di disordine. Di sicuro si può parlare di un
momento di profonda trasformazione attraversato dal calcio italiano. Una
trasformazione che sta avvenendo su tutti i piani che riguardano il fenomeno: da quello
economico a quello socio-culturale, da quello simbolico a quello giuridico-
regolamentare, fino a quello relativo alla produzione massmediale dello spettacolo.
Sulla scorta di ciò, è opportuno interrogarsi sul senso e la portata di questa fase di
passaggio, chiedendosi se essa costituisca una transizione governabile a partire
dall’assetto normativo-istituzionale esistente, o se viceversa si sia in presenza di un
profondo stato di crisi, non risolvibile con le risorse di governo esistenti all’interno del
movimento. Chi scrive propende per la seconda ipotesi; non prima, però, di aver
provato a interrogarsi sull’adeguatezza della prima e di averla confutata.
4 Si potrebbe parlare di transizione qualora il passaggio verso un nuovo equilibrio del
calcio italiano stesse avvenendo secondo caratteri di stabilità ben definibili ed
osservabili. Dovendo enucleare i più significativi tra questi caratteri, potremmo
indicarne tre: la legittimità delle istituzioni, la tenuta dell’apparato normativo, la
concordia fra attori.
5 Per quanto riguarda il primo carattere, quello relativo alla legittimità delle
istituzioni, esso descrive la capacità di tenuta delle strutture di potere e decisione, sia
come interlocutori nei rapporti con gli attori istituzionali esterni, sia nelle relazioni con
gli attori interni che vi sono sottoposti. Una tenuta che si valuta a partire dalla
possibilità di assumere decisioni «a somma zero» (che, scontentando qualcuno,
vengano comunque accettate anche da chi se ne trovi penalizzato) e di renderle cogenti.
In un passaggio di mera transizione, la struttura istituzionale governa con relativa
agevolezza i problemi e le insidie di ogni situazione, vedendo confermata e talvolta
rafforzata la legittimità del suo ruolo.
6 Il secondo carattere, che riguarda la tenuta dell’apparato normativo, deriva
direttamente dal primo. La solidità dell’assetto istituzionale si basa anche sul
riconoscimento e la vigenza di un corpus di norme e regole, da cui trarre indicazioni di
condotta e forza nell’esercizio del potere politico-istituzionale. Elemento cruciale in
questo contesto è la tenuta dell’apparato normativo come espressione di un campo (in
senso bourdieuiano) che si distingue da altri campi istituzionali e dai relativi assetti
normativi. La capacità di far rispettare delle regole all’interno del proprio campo è
essenziale per un attore istituzionale, tanto quanto la tutela dell’apparato normativo nel
confronto-conflitto con altre giurisdizioni. In una fase di transizione, l’apparato
normativo dimostra capacità di adattamento alla realtà in via di trasformazione,
procedendo per aggiustamenti e affrontando senza scossoni gli stress da eccesso di
controversie e sollecitazioni, e gli eventuali conflitti fra sfere giurisdizionali.
7 Infine, il terzo carattere, riguardante la concordia fra attori interni al movimento.
Esso concerne i rapporti fra le unità interne al movimento, sia nelle relazioni reciproche
sia nel confronto coi vertici istituzionali e l’apparato normativo. Nelle fasi di ordinato
svolgimento delle relazioni interne al movimento, tali rapporti sono caratterizzati da un
bilanciamento fra cooperazione e confitto tipico di ogni campo nel quale ci si disputi
delle risorse scarse, sotto il controllo dei vertici istituzionali e in obbedienza a un
apparato normativo cogente.
8 Il discorso fin qui condotto ci induce a fissare un primo punto fermo: la fase
attualmente attraversata dal calcio italiano, a tutti i livelli, non è di transizione, bensì di
crisi. Una crisi caratterizzata da profondo stato di anomia. L’utilizzo di una concetto
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impegnativo come quello durkheimiano (1897) impone l’onere di una dimostrazione


ampia e argomentata; ciò che è obiettivo di questo lavoro. Resta però, prima di
concludere questa premessa, da anticipare lo sviluppo del discorso sullo stato anomico
denotato dal mondo del calcio italiano, riprendendo i tre caratteri passati in rassegna al
momento in cui ci si è interrogati sull’ipotesi che si sia in presenza di una transizione.
In questi termini, si può anticipare adesso, e si argomenta a seguire, che:

sul piano della legittimità delle istituzioni, la scorsa estate si è toccato il livello
di minore credibilità da parte dei poteri calcistici, Federazione e Lega di serie A e
B in primis;
sul piano della tenuta dell’apparato normativo, il sistema di regole è crollato
su se stesso, sia per quello che riguarda la cogenza dei regolamenti all’interno del
campo giurisdizionale, sia nel confronto-scontro con altre giurisdizioni;
sul piano della concordia fra attori, si è registrata una conflittualità mai così
accentuata e sottratta a ogni ipotesi di regolazione normativa e controllo
istituzionale.

9 Altri due aspetti, che verranno considerati in seguito, vanno richiamati in questa
premessa come elementi che aggiungono problematicità alla situazione: il processo di
modernizzazione che il calcio, a livello nazionale e internazionale, sta attraversando; e il
mutamento socio-culturale interno al mondo ultrà, tema ripropostosi con prepotenza
dopo i gravi incidenti avvenuti a Avellino il 20 settembre 2003.

Crisi istituzionale
10 L’insistenza che l’analisi neo-istituzionalista (March e Olsen, 1992; March, 1994;
Slack, 1997) e quella di matrice neo-durkheimiana (Douglas, 1990) pongono sulla
necessità che le istituzioni garantiscano il mantenimento di un ordine simbolico prima
ancora che materiale, trova nelle vicende recenti del calcio italiano una testimonianza
particolarmente significativa. Lo sfascio istituzionale che ha investito i due maggiori
organismi di governo del calcio italiano (la Federazione Italiana Gioco Calcio e la Lega
di Serie A e B) è stato simbolico prima che materiale. Riprendendo il fondamentale
distinguo weberiano (1922), a franare è stata la credenza di legittimità prima ancora
che la legittimità stessa. Il pessimo modo con cui i due organismi hanno fronteggiato le
emergenze estive ha portato a mettere in discussione non soltanto un metodo nella
gestione del potere politico, ma addirittura il fondamento di quello stesso potere. Nel
momento di caos più acuto, infatti, due sono stati gli oggetti del contendere: il ruolo di
Federazione e Lega come organismi capaci di regolare controversie e di assumere
decisioni vincolanti all’interno di esse; e quello dei loro presidenti, indicati come
portatori di istanze particolaristiche e dunque indeboliti nell’immagine di attori super
partes rispetto ai conflitti interni al movimento. Franco Carraro (dirigente sportivo di
lungo corso nonché presidente federale), e Adriano Galliani (braccio destro del premier,
uomo-chiave nel duopolio televisivo italiano nonché presidente della Lega di serie A e
B), hanno visto messa in discussione la loro autorità morale prima ancora che il loro
metodo di leadership. L’impatto che da ciò è derivato per le istituzioni a capo delle quali
i due continuano a trovarsi, spiega però soltanto in parte la crisi di queste. Essa era
preesistente, e abbastanza profonda da lasciar presagire l’approssimarsi di un punto di
rottura. Che i due massimi organi istituzionali del calcio italiano fossero colpiti da un
ampio malessere, del resto, è testimoniato dalle notevoli difficoltà incontrate un anno fa
nell’eleggere i rispettivi presidenti; ciò che portò entrambe le istituzioni sull’orlo del
commissariamento.
11 Detto del pregresso stato di sofferenza esibito da Federazione e Lega, resta da
spiegarne le ragioni. Lo scopo è individuare i prodromi del caos esploso durante l’estate
scorsa e delinearne un quadro contestuale. Sotto questo profilo, le indicazioni che
emergono vengono a delineare percorsi distinti di crisi, convergenti però nella logica di
processo sottostante. La logica in questione è quella che spinge nella direzione di una
deregulation nel mondo del calcio professionistico italiano: spinta rispetto alla quale le
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due istituzioni si sono poste in modo diverso e, soprattutto, con diversa trasparenza
d’atteggiamento. Il tipo di deregulation col quale Federazione e Lega hanno dovuto
confrontarsi è relativo alla dichiarata intenzione, da parte dei club più ricchi del calcio
italiano, di acquisire uno spazio crescente di manovra nella realizzazione dei loro
disegni di sviluppo economico, al riparo dai lacci e lacciuoli di una struttura
istituzionale come quella che fa capo alle federazioni sportive. Dell’argomento si parlerà
più avanti; ciò che a questo punto va esplicitato è il modo in cui le due istituzioni
maggiori del calcio italiano si trovino tirate in ballo, e il distinto atteggiamento con cui
esse hanno affrontato il problema.
12 La Federazione, in quanto espressione di una logica istituzionale centralista, è stata
l’oggetto principale delle manovre di affrancamento cui i club maggiori hanno dato
corso. A tali manovre, la Federcalcio ha cercato di opporre resistenza almeno finché ha
avuto forza politica; e quando è stato evidente che il peso politico-economico dei club
d’élite fosse talmente cresciuto da non lasciar margine a atteggiamenti imperativi nei
loro confronti, essa ha dovuto ripiegare su un approccio negoziale. Più complessa è
stata la condotta della Lega, che ha scontato l’ambiguità di ruolo e collocazione rispetto
alle medesime istanze di deregulation; queste ultime, infatti, provengono da club che
della Lega stessa sono parte integrante, e vengono avversate in primis da tutti gli altri
club affiliati al medesimo organismo. Dilaniata da questo conflitto intestino, la Lega ha
finito col dilapidare il primato recentemente acquisito nei rapporti di potere fra gli
attori istituzionali del calcio italiano, e che l’aveva portata a assumere un ruolo
politicamente più elevato rispetto a quello detenuto dalla federazione. Incarnazione di
questa ambiguità, del resto, è il presidente della Lega stessa, Adriano Galliani: il quale
si trova al centro di almeno tre conflitti d’interessi. In primo luogo, egli è vicepresidente
e amministratore delegato di uno dei club (il Milan) più importanti e influenti nella
definizione della politica attuata dall’organo che egli presiede: ciò che spesso rischia
d’inficiare l’interpretazione super partes richiesta dal ruolo, e di pregiudicarne il
carattere rappresentativo dell’unità. In secondo luogo, da esponente di spicco del polo
televisivo privato (Mediaset), egli è parte in causa nel grande affare relativo
all’assegnazione dei diritti televisivi sui campionati, svolgendo al tempo stesso i ruoli di
controllore e controllato. In terzo luogo, in quanto dirigente responsabile del Milan,
Galliani è anche rappresentante di spicco del G-14. Ovvero, di quel gruppo di grandi
club europei (inizialmente 14, numero successivamente lievitato a 18) che si sono dati
una struttura lobbistica per raggiungere due scopi, uno immediato e uno a lungo
termine: il primo (già realizzato) è ottenere maggiore peso nel governo del calcio
continentale; il secondo ha come punto d’arrivo l’organizzazione di un campionato
europeo d’élite, che vedrebbe i club interessati recedere dalle federazioni nazionali.
Quest’ultimo è un progetto avversato dai piccoli club, in Italia come negli altri paesi
interessati, per ovvie ragioni di prestigio dei tornei nazionali; privati dei principali club,
questi tornei verrebbero ridotti a manifestazioni di scarso profilo tecnico-economico.
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, Galliani si trova nella paradossale situazione di
dover garantire l’unità fra le opposte istanze dei club piccoli e grandi, e di essere al
tempo stesso parte in causa. Un coacervo di conflitti d’interesse, dunque, dal quale
scaturisce per il presidente di Lega una condizione non dissimile da quella che
coinvolge il presidente federale Franco Carraro; indicato, quest’ultimo, come il
portatore degli interessi di un mondo bancario direttamente coinvolto nel salvataggio di
alcuni grossi club. Troppo, per consentirgli di mantenere un atteggiamento inflessibile
in sede di controllo. E proprio sull’opaco comportamento dell’organo federale (la
Covisoc) che avrebbe dovuto controllare la regolarità dei bilanci dei club in sede di
iscrizione ai campionati è esploso uno dei fronti di conflitto estivo, innescando
un’inchiesta penale le cui conseguenze potrebbero essere dolorose per l’intero sistema
calcistico italiano.
13 Dal quadro di episodi appena illustrato deriva uno stato di profonda delegittimazione
per le istituzioni e i loro reggenti. Una delegittimazione che ha mostrato i propri effetti
pratici nell’incapacità di richiamare all’ordine gli attori sottoposti all’autorità,
nemmeno sotto minaccia di pesanti sanzioni. Di ciò si è avuta massima dimostrazione
con la prova di forza effettuata da Galliani, allo scopo di far disputare la seconda
giornata di serie B (in calendario domenica 7 settembre), pena lo 0-3 a tavolino per tutti
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i club che avessero disertato. Delle 12 gare previste, ne vennero disputate soltanto due
(Catania-Cagliari e Napoli-Como). In un contesto di così diffusa disobbedienza (e
dunque di delegittimazione delle autorità calcistiche), spiccarono le parole pronunciate
a Sport2 Sera, la trasmissione Rai del sabato, dal presidente torinista Romero, uno dei
leader della contestazione. Stimolato dal conduttore della trasmissione sul tema delle
sanzioni minacciate dal presidente di Lega, Romero rispose che lui e gli altri presidenti
«ribelli» non si riconoscevano in quella presidenza, e che perciò qualunque
provvedimento fosse stato preso nei loro confronti sarebbe stato rispedito al mittente
«perché irricevibile». Il fatto che da quell’ultimatum la presidenza di Lega abbia dovuto
recedere, consentendo il recupero della giornata non disputata dopo aver concesso ai
club ribelli quasi tutto ciò che essi chiedevano, ha fatto sì che la sua legittimità (e, in
generale, quella delle istituzioni calcistiche italiane) toccasse il livello storicamente più
basso. È questo un episodio che illustra una situazione di anomia, non certo di
transizione in corso.

Tenuta dell’apparato normativo


14 Il disastro istituzionale del calcio italiano si è avviato come disfacimento del suo
apparato normativo: sia nella capacità di quest’ultimo di mostrarsi efficace e adeguato
rispetto alle controversie da dirimere, sia nella sua facoltà di produrre obbedienza e
consenso all’ordinamento. Con riferimento al primo dei due piani, basti ricordare come
l’origine del caos è stata generata da un episodio tutto sommato marginale: la posizione
irregolare di un giocatore in campo (ovvero, l’impiego in gara di un calciatore
squalificato). Il caso in questione, avvenuto in occasione della gara fra Catania e Siena e
riguardante il difensore toscano Martinelli, ha sollevato la questione del pietoso stato in
cui versano i codici di giustizia calcistica, delle loro contraddizioni e della possibilità di
manipolazione cui essi sono esposti. Parafrasando l’approccio luhmaniano (1993), dalla
confusione normativa e interpretativa è derivata per l’intera struttura istituzionale del
calcio italiano una sorta di delegittimazione per procedimento. Dalla complessa e
pasticciata gestione del caso-Martinelli, infatti, è scaturito un incalcolabile nocumento a
quell’apparato normativo, che merita di essere rivisitato sinteticamente.
15 Dunque, col ricorso presentato dal club siciliano per ottenere a tavolino la vittoria
mancata sul campo (dove l’incontro fra Catania e Siena si era chiuso sull’1-1) è
innanzitutto emersa l’esistenza, all’interno del codice, di due norme che si
contraddicevano. La fattispecie sulla quale la contraddizione avveniva, riguardava la
possibilità di impiegare nelle formazioni «Primavera» (la categoria giovanile che
precede la prima squadra) i giocatori squalificati nei campionati maggiori, e se ciò fosse
o meno compatibile con la necessità di scontare la squalifica. Due gradi diversi di
giudizio (quello della Commissione Disciplinare e quello della Corte d’Appello Federale)
avevano fornito opposte interpretazioni della norma: il primo dando torto al Catania, il
secondo ribaltando il giudizio e accogliendo le richieste del club etneo. Fin qui ce ne
sarebbe stato a sufficienza per dare una misura del pessimo stato in cui versa l’assetto
normativo del calcio italiano. È invece accaduto che la controversia si prolungasse
attraverso il coinvolgimento della Corte Federale (tirata in ballo dal ricorso di otto club
di serie B, e dalla presidenza federale): supremo organo giurisdizionale di merito del
calcio, investito del compito di giudicare la legittimità della fattispecie. Un’eterodossia
di procedimento aggravata dal fatto che la Corte Federale ribaltava il giudizio della CAF,
spianando la strada del ricorso ai tribunali ordinari (nel caso, il Tribunale
Amministrativo Regionale di Catania) da parte del club siciliano. Aperta questa falla
nell’ordinamento giuridico del calcio italiano, si è avuto l’effetto di fare campo a una
serie di ricorsi analoghi da parte di altri club; fino a giungere alla grottesca situazione
per la quale il Tar di Catania comandava non soltanto la riammissione del club siciliano
in B, ma addirittura il formato del torneo (che secondo il giudice amministrativo doveva
essere eccezionalmente a 21, anziché a 20 squadre). Soltanto un intervento del governo,
col cosiddetto decreto «stoppa-Tar», ha impedito che il caos generato paralizzasse
l’inizio del torneo.

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16 La seconda incursione consecutiva della politica nel calcio (dopo che l’anno
precedente un’altra si era resa necessaria per risolvere la questione dei diritti televisivi)
ha sancito un netto mutamento simbolico, oltre che materiale, nella sfera istituzionale
del calcio italiano e nel suo assetto normativo: mutamento che ha riguardato due
aspetti essenziali del suo profilo ordinamentale. In primo luogo, esso ha visto scossa la
propria autonomia, requisito che per l’intero sistema sportivo italiano ha sempre
costituito motivo di vanto (Porro, 1995). Ma è il secondo aspetto quello sul quale più
conta riflettere: esso riguarda quella perdita di sacralità che ogni sistema normativo
deve esercitare presso gli attori a esso sottoposti, e che ne costituisce la principale forza
di sopravvivenza. In questo senso, è l’intera sfera giuridico-ordinamentale dello sport (e
dunque, non soltanto quella del calcio italiano, e non soltanto in Italia) a palesare una
difficoltà sempre maggiore nel contenere all’interno della propria giurisdizione gli attori
a essa sottoposti, e a frenarne le tentazioni di richiedere all’esterno la tutela delle
proprie ragioni.
17 Tempo fa, ci trovammo a riflettere su questo specifico aspetto del mutamento insito
ai sistemi sportivi dei paesi più avanzati, con particolare riferimento al caso italiano
(Russo, 2001a, 2001b e 2001c). In quell’occasione, la nostra attenzione si appuntò
sull’istituto della clausola compromissoria e sulla sua sopraggiunta inefficacia. La
clausola compromissoria è quel particolare vincolo giuridico, sancito dallo statuto di
ogni federazione sportiva, che fa esplicito impedimento a ogni tesserato di far ricorso a
un tribunale ordinario per dirimere controversie con altri tesserati, qualora esse siano
state generate all’interno dell’ordinamento sportivo; a meno che le autorità federali non
concedano un’autorizzazione. La violazione di tale vincolo, in termini di regolamento,
comporterebbe sanzioni che possono giungere alla radiazione del tesserato o del club
che se ne rendessero protagonisti. Fino a soltanto un paio di anni fa, la clausola
compromissoria era una sorta di tabù la cui efficacia era il principale baluardo per
l’autonomia ordinamentale e simbolica dello sport come sfera di giustizia. Il proliferare,
presso i tribunali ordinari, di cause aventi oggetto sportivo (a partire dal caso-Bosman,
che nel 1995 segnò un punto di non ritorno) venne da noi interpretato come una perdita
di quel senso di sacralità che ogni ordinamento necessita di conservare per mantenere
la condizione di sfera separata. Nell’avanzare questa ipotesi, riprendemmo la famosa
teoria di Allen Guttmann (1978) sulla modernizzazione che porta i giochi originari a
trasformarsi in discipline sportive, effettuandone una rilettura. Delineando il passaggio
dal rituale al record, infatti, Guttmann metteva in fila sette tappe di sviluppo, la prima
delle quali è quella della secolarizzazione dei giochi. Nel fissare questa prima tappa,
Guttmann si contrapponeva allo storico tedesco Carl Diem; il quale in una ponderosa
opera dedicata alla storia dello sport (1971) rintracciava una matrice religiosa alla base
di ogni pratica ludica che si sarebbe in seguito trasformata in disciplina sportiva.
Revisionando la teoria guttmaniana, ci chiedemmo se la fase della secolarizzazione
degli sport moderni non vada collocata in fondo al percorso, anziché al suo inizio; e se il
crollo della clausola compromissoria, letta come istituto posto a salvaguardia
dell’ordinamento sportivo nella sua sacralità e separatezza, non sia da interpretare
come uno shock da secolarizzazione.
18 Il ricorso ai Tar come strumento ordinario per reclamare un diritto ritenuto leso
all’interno dell’ordinamento sportivo può essere spiegato proprio così: come la
testimonianza dell’avvenuta secolarizzazione di una sfera dell’attività umana che per
lungo tempo aveva mantenuto una propria sacralità. Non sembra peregrina la lettura di
quanti, limitatamente al caso del calcio italiano, associano in buona misura questo
mutamento culturale alla svolta impressa nel 1996 con la legge che ha trasformato i
club calcistici in società con fini di lucro; e in quanto tali, soggette alla sfera del codice
civile. Ciò che ha aperto un cuneo nell’ordinamento sportivo e nella sua capacità di
presa simbolica e di coercizione sugli attori che alle sue norme si trovano assoggettati. A
questo mutamento simbolico-regolamentare si aggiunge l’incidenza esercitata dal
ripetuto ricorso alla sfera della politica e al potere legislativo ordinario, allo scopo di
sciogliere nodi che l’ordinamento calcistico produce senza riuscire a sanare.
19 Anche in questo caso, il carattere di anomia è palese. L’apparato normativo,
sottoposto a pressioni di nuovo tipo, mostra un’obsolescenza che lo rende attaccabile

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senza remore da parte di quegli attori che ad esso dovrebbero obbedienza, e necessita di
interventi esterni per riacquisire una solidità che non riesce più a darsi.

Concordia fra attori


20 La condizione anomica in cui il calcio italiano si è ritrovato nell’estate del 2003 è
scaturita anche dal disordine nelle relazioni fra i principali attori della produzione di
spettacolo calcistico: i club. Inquadrati in un sistema relazionale che come molti altri
mette in palio risorse a somma zero e viene regolato dal principio della meritocrazia,
essi hanno reagito in modo disordinato e talvolta isterico al venir meno di questi due
capisaldi. Messi al cospetto di una realtà che cambia in modo rapido e sregolato, i club
(quelli di serie B in primis) hanno palesato forte difficoltà nell’elaborare una strategia
comune e nel cercare una sponda istituzionale per attuarla.
21 Il venir meno dei capisaldi sopra accennati ha prodotto un grave sconvolgimento di
equilibri che nessuno dei club aveva mai messo precedentemente in discussione. La
necessità di allargare il torneo di B da 20 a 24 squadre ha spazzato via il rapporto fra
attori e risorse disponibili, e i relativi meccanismi premiali. Il «grado zero» attorno al
quale ruotava la somma delle distribuzioni è stato cancellato da un giorno all’altro,
unitamente ai meccanismi che distribuivano risorse sportive (promozioni e
retrocessioni) ed economiche, legate alle prime. L’ampliamento dei ranghi ha infatti
provocato un’affrettata ridiscussione del formato dei campionati (numero di
promozioni e retrocessioni, sia verso la A che verso la C1, e transizione verso una A con
20 squadre e una B con 22 a partire dal 2004-05), che avvenendo in corsa ha comunque
scatenato pressioni e manovre d’interdizione d’ogni tipo. Il raggiungimento di un
sofferto compromesso sulle promozioni (5, più un 6° posto da disputarsi in uno
spareggio fra la sesta di B e la quartultima di A) ha risolto un problema che però rischia
di ripresentarsi alla fine del torneo di B 2004-2005: quando a fronte di 2 squadre in più
rispetto alle 20 che ne componevano i ranghi fino al termine della stagione 2002-2003,
la serie B metterà in palio una promozione in meno. Altrettanto laborioso è stato
l’accordo sulla distribuzione delle risorse economiche trasferite dalla federazione ai club
di B: un ammontare che era stato previsto per una divisione in 20 quote, e alla cui
spartizione avrebbero dovuto partecipare quattro nuovi soci. E il nodo relativo a tale
questione, nel momento in cui scriviamo, sembra lontano dall’essere risolto.
22 Allo stesso modo, la scomparsa della meritocrazia (intesa come rispetto dei verdetti
maturati sul campo a fine torneo) ha diffuso nell’ambiente un clima da disastro delle
regole; che ha spinto i singoli attori a sganciarsi dalle logiche gerarchiche rispetto ai
vertici istituzionali del movimento (Federazione e Lega), e a dar corso a un disordinato
scomporsi e ricomporsi di alleanze e inimicizie. Il disastro delle regole, fra l’altro, ha
colpito anche il livello economico-amministrativo attraverso la vicenda delle false
fideiussioni; nella quale, a prescindere dal fatto che i club coinvolti fossero parti lese, le
società che avevano rispettato i termini si sono sentite doppiamente penalizzate. Come
nel caso dell’Atalanta, che da «migliore delle retrocesse» nel campionato precedente era
arrivata a reclamare il posto in A della Roma, coinvolta nella vicenda.
23 Posti al cospetto di una situazione nella quale avrebbero dovuto mostrare capacità di
far fronte comune, e di inventarsi un riformismo dal basso, i club di serie B hanno
esibito una condotta poco edificante. Il continuo frammentarsi e ricomporsi del fronte
dei ribelli ha fatto lentamente emergere una sempre più marcata incidenza di spinte
particolaristiche, rispetto alle quali la battaglia per la difesa degli ideali e dell’etica
sportiva ha perso gran parte della propria credibilità. In un primo tempo, infatti, si è
composto un fronte comune delle 20 squadre che componevano la B prima dei
ripescaggi, contro le 4 beneficiate. Successivamente, però, la compagine della protesta
si è continuamente rimescolata, arrivando a comprendere club del torneo di serie A (la
cui partecipazione alla protesta era motivata dalla mancata sottoscrizione di un
contratto con la pay-tv), ma anche a perderne altri che ne facevano parte
originariamente. Il perpetuarsi del conflitto ha inoltre differenziato l’atteggiamento dei
singoli club, facendo emergere un’ala dura della protesta e un’altra più sensibile alla

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trattativa. Lo stesso mutamento degli obiettivi (dall’intransigenza sulla B a 20, che era
stata oggetto di un voto espresso dall’assemblea della Lega di A e B, alla sfiancante
trattativa sulle 6 promozioni) ha avuto il duplice effetto di appannare l’immagine
esterna e incrinare il fronte interno della protesta. Anche su questo versante, il punto
più basso della vicenda è stato toccato domenica 7 settembre: allorché i club
procedettero in ordine sparso rispetto al diktat del presidente di Lega, Galliani. Molti di
essi disertarono, altri si presentarono in campo per aggiudicarsi la vittoria a tavolino;
fra essi il Messina, giunto a Livorno dopo che i suoi dirigenti avevano assicurato a quelli
del club avversario che avrebbero aderito alla serrata.
24 Inoltre, lo scollamento fra i club e il loro attore istituzionale di riferimento (la Lega)
ha privato i primi di una possibilità di raccordo e coordinamento. Ciò ha avuto un peso
nel modo in cui la vicenda si è dipanata (specie nel rapporto con la Federazione) e sulle
soluzioni raggiunte. La situazione di litigiosità interna fra i club della Lega di A e B, e il
carattere acefalo del loro movimento di protesta per mancanza di articolazione
istituzionale, si segnalano come tratti di spiccata anomia, il cui risanamento appare
momentaneo. Tale disgregazione, e il carattere fluido della sua ricomposizione,
concorrono a costituire il fattore più preoccupante in vista del futuro riassestamento
verso un nuovo ordine istituzionale del calcio italiano.

Modernizzazione e ultrà
25 Il contesto di anomia in cui il calcio italiano, come campo di relazioni istituzionali, si
muove è costituito non soltanto dai tre caratteri appena passati in rassegna, ma anche
da due ulteriori fattori che concorrono a segnarne il mutamento: un sottostante
processo di modernizzazione, e un profondo cambiamento culturale nel mondo del tifo
ultrà. Entrambi contribuiscono a aggiungere imprevedibilità al percorso verso un nuovo
equilibrio istituzionale del calcio italiano, costituendo poli di tensione la cui gestione
amplifica il carattere aleatorio delle soluzioni da approntare.
26 La scelta di sviluppare in modo unitario l’esame del processo di modernizzazione e
dei mutamenti della cultura ultrà, anziché di considerare separatamente questi due
temi, risponde al fatto che essi appaiono come le due opposte espressioni della
medesima dinamica. L’illustrazione di questa connessione, e delle sue conseguenze
anomiche sull’equilibrio del calcio italiano come campo simbolico, è lo scopo di questo
paragrafo.
27 Avviando l’analisi dal primo dei due processi, cioè la modernizzazione del calcio, non
si può fare a meno di scontrarsi con la vischiosità di un concetto del quale spesso nelle
scienze sociali si è abusato (per una rassegna critica, si veda Martinelli, 1998).
Mantenendoci al complesso di significati che vengono veicolati quando si parla di
modernizzazione a proposito del calcio italiano, il riferimento va a una strategia di
razionalizzazione e massimizzazione economica delle attività legate al fenomeno. Tale
strategia parte da un assunto: il calcio, e lo sport in generale, vanno presi in
considerazione non soltanto a partire dal mero aspetto agonistico, ma calandoli
all’interno di un contesto complessivo (di carattere economico, politico, culturale,
sociale) col quale essi interagiscono. Riprendendo una famosa formula di Marcel
Mauss, essi sono fatti sociali totali, le cui implicazioni a ampio raggio vanno regolate in
modo più accurato e diffuso di quanto non avvenga facendo attenzione alla loro
dimensione esclusivamente agonistica. La modernizzazione che attualmente investe il
calcio italiano (e, nel complesso, il calcio dei paesi euro-occidentali) si avvia dalla
valorizzazione di questo tessuto di relazioni reali e potenziali fra il fenomeno agonistico
e il suo milieu. Si parla di razionalizzazione per illustrare quel complesso di pratiche
orientate alla riduzione della dimensione di alea e delle dinamiche dissipative legate a
un particolare fenomeno. Nel caso del calcio, si è andati incontro a una
razionalizzazione del regolamento di gioco che ha avuto come principale oggetto il
raggiungimento di due obiettivi: l’apertura del gioco in senso offensivo e la repressione
dell’ostruzionismo e delle scorrettezze. Anche il complesso dei ruoli di contorno al
fenomeno agonistico (da profili sanitari a quelli di «servizio al calciatore» come i

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procuratori, fino ai componenti degli staff dei club come i direttori sportivi, i direttori
generali, gli addetti alle relazioni esterne, e i responsabili delle politiche di marketing e
sviluppo) è andato incontro a una crescente professionalizzazione. Ma l’aspetto che più
di ogni altro si segnala in materia di razionalizzazione, e che maggiore impatto ha avuto
nelle relazioni fra mondo del calcio e ambiente esterno, è l’interposizione di una
barriera sempre più elevata fra gli attori agonistici del calcio (i giocatori e i tecnici) e
l’ambiente esterno. Una pronunciata opera di razionalizzazione è infatti avvenuta nella
direzione di sottoporre a stretto contingentamento le occasioni di contatto fra questi
attori e il loro pubblico; un contingentamento che si è manifestato non soltanto nel
crescente isolamento delle attività non agonistiche (la preparazione infrasettimanale,
per i club professionistici, si svolge sempre più di frequente a porte chiuse e in luoghi
d’allenamento distanti dai centri urbani), ma anche in un rapporto restrittivo e iper-
regolamentato col sistema delle comunicazioni di massa, che agisce da elemento di
intermediazione nelle relazioni col pubblico degli appassionati. Si è dunque registrato
un cammino di alta formalizzazione, sia all’interno sia nelle relazioni con l’esterno, che
ha profondamente mutato il mondo del calcio italiano; contribuendo a appannarne
l’immagine di romanticismo e a introdurre tratti di burocratizzazione e separatezza
dalla sfera delle attività quotidiane informali. A ciò va aggiunta la crescente divizzazione
cui la figura del calciatore è stata sottoposta a partire dalla seconda metà degli anni ’90
(nel rispetto di un profilo che, in tempi diversi, il giornalista Gianni Mura e il sociologo
Ivo Germano hanno etichettato con la formula del calciattore).
28 La seconda dinamica di modernizzazione che abbiamo indicato, quella che tende alla
massimizzazione, contiene le strategie orientate alla valorizzazione economico-
finanziaria del prodotto-calcio. Essa obbedisce a una logica che attorno al nucleo
agonistico della disciplina sportiva costruisce una complessa architettura di interessi,
attività e relazioni il cui scopo è far fruttare ogni possibile valore commerciale del
fenomeno sportivo. Tramontata l’epoca in cui i ricavi erano dati quasi esclusivamente
dagli incassi al botteghino e dalle sponsorizzazioni, i club hanno dovuto raccogliere la
sfida dell’individuazione di nuovi fronti di sviluppo commerciale, e dell’elaborazione di
politiche di promozione e ottimizzazione capaci di intercettare nicchie di mercato
inesplorate. Un potente impulso alla dinamica di massimizzazione è stato conferito
dallo sviluppo della risorsa televisiva come volano di crescita commerciale e finanziaria
per i club. Seguendo un percorso che ha avuto nella realtà inglese un test precoce, lo
schema è stato applicato negli altri paesi europei calcisticamente più sviluppati (Italia,
Francia, Germania, Spagna).
29 L’incontro fra calcio e pay-tv è avvenuto in Italia seguendo un percorso che è il
medesimo in tutti i paesi il cui sistema radiotelevisivo superi la barriera costituita dalla
tv generalista via etere per aprire alle neo-televisioni. Secondo uno schema consolidato
(Richeri, 1993; Olivi e Somalvico, 1996; Van Dijk, 2002), queste ultime puntano per il
loro sviluppo come attori di mercato sull’acquisizione di due classi ben precise di
contenuti televisivi: i film in prima visione, e gli eventi sportivi trasmessi in diretta e in
esclusiva. L’apertura di questo nuovo mercato è dunque giunta come punto di raccordo
fra gli interessi di entrambe le parti: gli attori televisivi di nuova generazione, bisognosi
di presentare al pubblico, su un mercato saturo, un pacchetto di contenuti che gli attori
televisivi esistenti non offrono; e gli attori sportivi (federazioni, leghe, club), che in una
prima fase hanno visto espandere a dismisura le occasioni di ricavo.
30 Questo incontro reciprocamente conveniente fra sport (calcio in particolare,
soprattutto in Italia) e neo-televisioni è avvenuto non senza conseguenze. In primo
luogo, col passaggio dal regime di cessione centralizzata dei diritti (che venivano
venduti collettivamente dalla Lega calcio, la quale redistribuiva gli introiti secondo
criteri di equità) a quella individuale (che porta ciascun club a trattare per sé,
spuntando il miglior prezzo possibile) il divario economico fra grandi e piccoli club si è
fatto abissale. In secondo luogo, le esigenze di valorizzazione del prodotto televisivo
hanno portato a uno spezzettamento del calendario, con «spalmatura» delle giornate di
campionato lungo due o più giorni: ciò che ha fatto disperdere il carattere di «rito
collettivo contemporaneo» che ogni turno di campionato possedeva fino all’inizio degli
anni ’90. Sperimentata per la prima volta in Francia, la formula del campionato à la
carte è stata presto esportata nel resto d’Europa, dando luogo quasi ovunque a
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iniziative di protesta come quella che in Germania venne denominata «Movimento


15.30» (l’orario canonico d’inizio delle gare di Bundesliga, ogni sabato, prima che
arrivasse lo spezzettamento del calendario in tre giorni). Questo aspetto della questione
verrà approfondito fra poco, quando si parlerà dei mutamenti intervenuti all’interno del
mondo ultrà.
31 Un altro aspetto del rapporto fra calcio e televisione che invece va illustrato in questa
fase è quello che riguarda i progetti di Superlega europea. Si tratta di un disegno alla cui
definizione lavorano ormai in modo neanche dissimulato i principali club europei. Per i
quali, al momento, la prospettiva del campionato continentale è soprattutto uno
strumento di pressione da esercitare sulla struttura istituzionale interna, modulata
sapientemente lungo un asse hirschmaniano voice-exit (1971); ma che nel medio
periodo vedono quello del torneo continentale come il progetto più favorevole alle loro
strategie. Una prospettiva che nella situazione di caos dei campionati nazionali, come
nel caso italiano avviene, non può che essere ulteriormente favorita.
32 Il mondo ultrà si confronta con questa perdita della ritualità del calcio (italiano e non
solo); ne ricava un stimolo all’unificazione laddove avevano dominato i motivi di
contrapposizione e conflitto. Si deve partire da questa considerazione per interpretare i
mutamenti di un segmento ben preciso di società, rispetto al quale la teoria sociologica
ha registrato una riflessione forte fino ai primi anni ’90 (Elias e Dunning, 1986; Dal
Lago, 1990; Dal Lago e Moscati, 1992; Roversi, 1992), seguita da contributi isolati per
quanto non meno significativi (De Biasi, 1995; Colombo e De Luca, 1996). In questa
precoce liquidazione dell’analisi sulla cultura ultrà, il cui frame analitico privilegiato ha
così finito con l’essere quello del panico morale e dell’emergenza di ordine pubblico,
vanno rintracciati i motivi dello spiazzamento nei confronti di un mutamento che
adesso si stenta a decodificare. La morte di un tifoso napoletano allo stadio di Avellino
ha obbligato a tornare a riflettere sul tema, ponendosi però nuovi interrogativi.
33 Il primo di essi riguarda la permeabilità dei gruppi ultrà da parte di fazioni del
radicalismo politico impegnate a fare proselitismo, o da nuclei di delinquenza
organizzata che vedono nello stadio una zona franca per l’esercizio di violenza. In
presenza di tali gruppi, il carattere rituale della violenza ultrà, sul quale parte della
riflessione sociologica aveva trovato un punto di contatto, viene confutato dalla
strumentalità denotata dall’agire di questi nuclei organizzati.
34 Il secondo interrogativo che con crescente urgenza ci si pone riguarda
l’individuazione delle forze di polizia come oggetto principale di scontro. Essendo ormai
raro il verificarsi di situazioni di contatto violento fra opposte fazioni ultrà, le tensioni
conflittuali vengono sempre più spesso rivolte contro i tutori dell’ordine pubblico
all’interno degli stadi e nelle zone antistanti. Se n’è avuta clamorosa dimostrazione ad
Avellino.
35 È il terzo interrogativo che suscita le riflessioni più interessanti e preoccupanti, alle
quali possono essere ricondotte quelle stimolate dai precedenti due. Esso riguarda
quella dichiarata ribellione contro il «calcio moderno» che da almeno due stagioni
costituisce un tratto unificante delle curve di tutta Italia. L’insofferenza nei confronti
del «calendario-spezzatino» è visibile negli striscioni che fino allo scorso campionato
recitavano più o meno la formula «Basta anticipi e posticipi», e che dall’inizio della
stagione in corso (giocando con le parole sul nome della pay-tv nata dalla fusione di
Telepiù e Stream) ha trovato espressione all’unisono nei drappi recanti la scritta
«Questo calcio ci fa Sky-fo». L’avversione al «calcio moderno» (espressione nella quale
si fa rientrare gli eccessi di televisizzazione, il primato del marketing e del
merchandising sulla bandiera e le tradizioni del club, la sempre più labile
identificazione fra il calciatore e la sua squadra) ha trovato un clamoroso sbocco nella
manifestazione tenuta il 22 giugno 2003 a Milano, alla quale hanno partecipato
rappresentanti dei gruppi ultrà di tutta Italia.
36 Probabilmente è presto per indicare quella del 22 giugno come la data di nascita di
un movimento collettivo; certo è che mai come in questa fase il mondo ultrà si è trovato
unito su temi che non siano quelli della protesta contro la repressione attuata dalle
forze di polizia o l’approvazione di una disciplina penale di carattere emergenziale.
Nella loro contestazione contro «il calcio moderno», i gruppi ultrà (e il loro movimento
allo stato nascente) si fanno portatori di un’idea nostalgica di calcio: quella nella quale
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il rito, e i valori dell’appartenenza e della lealtà alla bandiera, erano elementi primari
del corredo simbolico, e in cui la dimensione del campo e del calcio giocato era
preponderante su ogni altra. In condizioni siffatte, i gruppi ultrà e il movimento cui
danno vita sono i portatori di un’utopia regressiva che rimpiange il «bel tempo andato»
e ne vagheggia il ritorno. Da questo rapido cambiamento di clima socio-culturale e di
orizzonte dei valori scaturisce un nuovo ruolo del mondo ultrà, ma anche una nuova
logica della contrapposizione: che privilegia le solidarietà sub-culturali alle inimicizie
tradizionali, e individua negli attori esterni coi quali più frequentemente si intrecciano
le relazioni di gruppo (soprattutto le forze di polizia, ma anche i calciatori della propria
squadra, sempre più spesso fatti oggetto di «azioni punitive», come se le frange ultrà si
sentissero investite di un ruolo di «amministratori di una giustizia privata») i poli dello
scontro. In un contesto del genere, fatto anche di dichiarata difficoltà da parte dei
gruppi storici nel controllare le nuove leve del tifo ultrà, si inserisce la maggiore
permeabilità delle curve all’infiltrazione di nuclei organizzati portatori di altri codici e
capaci di declinare la cultura dello scontro a partire da motivazioni strumentali.

37 L’intreccio fra la situazione di anomia che caratterizza l’odierno calcio italiano e il


binomio «modernizzazione/mutamento della cultura ultrà» aggiunge elementi
d’imprevedibilità a una situazione già complessa. La peculiarità di questi due elementi,
che è poi il motivo per il quale si è proceduto a trattarli in uno stesso paragrafo, consiste
nel fatto che essi sono portatori (in modo e misura differenti) di capitale nomico in un
contesto di anomia. Sia gli attori che spingono verso la modernizzazione, sia il nascente
movimento ultrà, si caratterizzano per precise e coerenti definizioni della situazione (di
una caotica situazione, aggiungeremmo), per il possesso di quadri normativi e per
l’individuazione di fini e obiettivi chiari. Questa è forse la riflessione più paradossale e
meno rassicurante che scaturisce dalla nostra riflessione.

Conclusioni
38 L’utilizzo del concetto durkheimiano di anomia, come chiave di lettura dell’attuale
fase di disordinato mutamento del calcio italiano, è parso adeguato per descrivere in
modo efficace il carattere scomposto e magmatico di tale passaggio. Il crollo di un
ordine normativo, delle sue strutture valoriali e di legittimazione, e dei legami di
solidarietà fra i principali attori dello spettacolo sportivo, ha prodotto un contesto
caotico i cui tratti non possono essere etichettati come quelli della transizione. È più
appropriato parlare di anomia, poiché quello che si sconta è un vuoto normativo non
ancora colmato, né colmabile attraverso l’utilizzo di strumenti e meccanismi fin qui
adottati. La situazione di anomia del calcio italiano è tagliata trasversalmente da un
processo di modernizzazione che in parte ne è la causa, e che d’altra parte si appresta a
sfruttarne le conseguenze; e da un profondo mutamento culturale all’interno del mondo
ultrà. Da questo ampio rivolgimento degli assetti deriverà giocoforza un nuovo ordine;
il cui profilo è non però al momento individuabile. Sia per assenza di diagnosi serie e
approfondite da parte degli attori istituzionalmente deputati (e politicamente
responsabili dello sfascio); sia per il costituirsi di una provvisorietà, in coincidenza con
l’avvio della stagione agonistica, che sa tanto di rimozione dei problemi irrisolti e di
rinvio a un’altra estate di caos. Rimangono in campo due soli attori portatori di capitale
nomico, teoricamente spendibile per la negoziazione di un nuovo equilibrio normativo-
istituzionale: gli attori che promuovono il processo di modernizzazione (club d’élite e
neo-televisioni, componenti di un nuovo blocco sociale del calcio di vertice), e il
nascente movimento ultrà (difensore di una tradizione calcistica ormai ridotta a una
condizione simulacrale). Praticamente, due attori in possesso di prospettive
inconciliabili, gli opposti estremismi che si fanno la guerra sulle macerie di quella che fu
la struttura istituzionale del calcio italiano. Difficile essere ottimisti, e prevedere
soluzioni felici e rapide, in siffatte condizioni.

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References
Bibliographical reference
Pippo Russo, « Il calcio italiano nei giorni dell’anomia », Quaderni di Sociologia, 34 | 2004, 19-
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Electronic reference
Pippo Russo, « Il calcio italiano nei giorni dell’anomia », Quaderni di Sociologia [Online],
34 | 2004, Online since 30 November 2015, connection on 19 February 2020. URL :
http://journals.openedition.org/qds/1133 ; DOI : https://doi.org/10.4000/qds.1133

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