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Preistoria
Dell’antica origine di Verona poco si sa; si pensa che un primitivo nucleo abitato sia sorto
sull’attuale colle di san Pietro almeno dall’età neolitica.
Purtroppo le possibili tracce di questa antica presenza umana furono cancellate già in epoca
romana, quando gli architetti di Augusto operarono una gigantesca opera di sbancamento del colle
per inserirvi l’imponente teatro e le sovrastanti terrazze.
Possiamo quindi solo ipotizzare un probabile insediamento, considerando che la posizione del
colle era molto appetibile: il sito sopraelevato era difendibile da eventuali attacchi ostili e al riparo
dalle piene rovinose del fiume. Ma a renderlo più interessante era un’altra caratteristica: la
possibilità di controllare l’attraversamento del fiume che qui si restringe.
Infatti l’Adige, sboccando in pianura dalla sua valle tra i monti. un po’ più a nord di Verona,
allarga il suo corso rallentandolo con ampie curve, ma quando trova di fronte a sé il colle di san
Pietro è costretto a curvare e a restringersi, infilandosi tra due speroni di roccia, uno a sinistra, che
scende dal colle, e l’altro che si erge sulla riva opposta.
Qui, dove in alcuni periodi dell’anno era agevole il guado, giungeva probabilmente un’antica pista
e l’attraversamento tra le due sponde era facilmente controllabile dal sovrastante colle di S. Pietro.
Il fiume, oltre a costituire riserva d’acqua e di pesce, era un’importante via di comunicazione tra
le Alpi e la pianura e il mare. Nella preistoria i percorsi dei fiumi erano un po’come autostrade
tracciate dalla natura. Lungo le rive dell’Adige, trasportate a dorso d’asino, transitavano merci
pregiate: dalle sponde del mar Baltico proveniva l’ambra, ricercatissima per la sua bellezza e le
virtù magiche che le erano attribuite. Dal mare Adriatico giungeva il sale indispensabile alla
conservazione di carne e pesce.
Sui monti vicini era reperibile in abbondanza la selce, una pietra compatta e dura, ma facilmente
lavorabile. Percuotendo i nuclei di selce si producevano schegge della dimensione voluta, che poi
erano ritoccate sapientemente per ricavarne strumenti adatti alla caccia e il lavoro, asce, punte di
freccia e lancia o lame taglienti per lavorare la pelle e il legno. La pietra era molto richiesta anche in
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zone lontane, dando vita a un fiorente commercio. L’uomo neolitico riemerso dal ghiacciaio del
Similaun (Austria) aveva strumenti di selce proveniente dalla Lessinia.
Il paesaggio
La geografia dei luoghi era ed è caratterizzata dalla divisione in alta e bassa pianura, segnata dalla
linea delle resorgive, come vengono chiamati i corsi d’acqua sotterranei che dopo essere penetrati
negli strati calcarei di monti e colline riaffiorano improvvisamente incontrando gli strati alluvionali
impermeabili ai margini della bassa pianura. Il paesaggio naturale, senza intervento dell’uomo,
presentava un’alta pianura povera d’acqua e piuttosto brulla e invece una bassa pianura dalla
vegetazione lussureggiante ma con vasti acquitrini alimentati dalle resorgive.
Entrambe le fasce sono percorse dall’Adige, il secondo fiume d’Italia che accogliendo le acque di
un gran numero di affluenti alpini e prealpini mantiene un comportamento torrentizio anche
sfociando in pianura. Esso alterna periodi stagionali di magra a piene improvvise capaci di inondare
vaste aree e di abbattere ogni ostacolo.
Un paesaggio nell’insieme poco ospitale, tanto che le tracce di insediamenti umani nella preistoria
paleolitica sono molto più frequenti nella fascia pedemontana, che offriva meno risorse, ma più
sicurezza sulle sue alture per uomini che vivevano di caccia e raccolta.
Nell’età neolitica e dei metalli la diffusione dell’allevamento e delle prime culture cerealicole
favorì l’aumento della popolazione che portò a una progressiva colonizzazione della pianura e a
cambiamenti del paesaggio con primordiali forme di arginatura e canalizzazione delle acque da
parte dei popoli provenienti da varie direzioni che migrarono nella pianura padana. Ma fu solo con
l’arrivo e l’affermazione dei Romani che questi luoghi subirono un radicale mutamento che li
trasformò in paesaggio agricolo altamente produttivo.
Protostoria
Nel territorio pedemontano e della pianura veronese i reperti paleo e neolitici abbondano in
numerosi siti, ma essi mancano a Verona sulle pendici del colle, dove ci aspetteremmo di trovarne e
ciò per i motivi già detti. I più antichi reperti archeologici rinvenuti a Verona appartengono ai
Paleoveneti, ai Reti e ai Celti, una fase possiamo considerare protostorica.
Durante la costruzione dei poderosi argini dell’Adige, a seguito della disastrosa piena del 1882,
sono emerse testimonianze del più antico periodo paleoveneto sulla riva sinistra dell’Adige nei
dintorni est e ovest del colle, con ogni probabilità appartenenti a sepolture.
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Uno strato appartenente all’età del ferro è venuto alla luce di recente sotto il pavimento della cripta
della chiesa di S. Stefano, ai piedi del colle, tra l’altro qui fu rinvenuta anche una ciotola con
iscrizione in alfabeto leponzio, cioè celtico.
Sulla riva destra non si sono trovati reperti significativi di civiltà preromane, perché, se
esistevano, furono successivamente cancellati dalla costruzione della nuova Verona, edificata dai
Romani nell’ansa dell’Adige.
- Veneti
I Paleoveneti, cioè gli antichi Veneti, erano un popolo indoeuropeo che nell’età del ferro intorno al
X sec. a.C., giunse dall’oriente, e si installò nella parte orientale della fertile pianura a nord del Po,
dalle sponde dell’Adriatico fino a quelle del lago di Garda.
Essi erano allevatori di cavalli e valorosi guerrieri, usavano non solo il bronzo ma anche il ferro,
con cui costruivano le loro armi, ma una volta stanziati in pianura padana, si mostrarono disposti
alla convivenza pacifica con i popoli vicini.
I Veneti portavano una cultura avanzata, erano non solo allevatori, ma coltivavano cereali e
commerciavano intensamente con gli altri popoli, compresi gli Etruschi dei quali adottarono
l’alfabeto, adattandolo alla loro lingua indoeuropea.
Fondarono numerosi villaggi, alcuni dei quali raggiunsero in seguito uno stadio protourbano, cioè
prossimo a quello di città. Il centro più importante e popoloso fu Ateste (oggi Este) che divenne la
capitale dei Veneti. Il nome le deriva probabilmente da Athesis, Adige, il fiume che la attraversava,
finché parecchi secoli dopo non deviò dal suo corso a causa di una imponente alluvione.
Reti
Successivamente scese dalle zone alpine il popolo “montanaro” dei Reti, colonizzando un’ampia
fascia di territorio pedemontano, a cavallo delle Alpi, dall’Austria alla Svizzera, al nord Italia.
All’inizio probabilmente si scontrarono con gli altri popoli, ma in seguito trovarono una qualche
forma di convivenza, stabilendo scambi commerciali sia con i Veneti, sia in particolare con gli
Etruschi, dai quali appresero anch’essi l’alfabeto. I Reti possedevano una cultura abbastanza
sviluppata e costruivano abitazioni tipiche, con pianta rettangolare di solito scavate per metà nel
terreno in pendio con muri di pietre e per metà emergenti con tetti a spioventi di pali e frasche.
Dagli Etruschi impararono anche la coltivazione della vite, tanto che Catone il censore ci parla di
un vino retico molto apprezzato. Fondamenta di case retiche sono state rinvenute anche vicino a
Verona nella Valpolicella.
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- Etruschi in pianura Padana
Gli Etruschi nel VII-VI secolo, forse per compensare la perduta supremazia sul mare Tirreno, a
causa della concorrenza delle navi greche e cartaginesi, cercarono una nuova espansione economica
al di là degli Appennini in pianura Padana creando una serie di empori commerciali. Così sorse
Felsina, al centro della pianura (a Bologna), e sul delta del Po gli empori marittimi di Spina e
Adria, dalla quale il mare Adriatico prenderà il nome. Tali centri commerciali erano collegati da
antiche piste che attraverso la pianura si spingevano fino agli Appennini, Si trattava di villaggi di
capanne di legno alcuni dei quali saranno in seguito rifondati come centri cittadini. Così a metà del
V secolo sulla via di comunicazione tra l’Etruria e la valle Padana, sull’Appennino presso
Marzabotto, sorse Kainua dotata di regolare impianto stradale e urbanistico, di cinta difensiva di
pietra di acropoli e templi. Fu fondato anche un centro oltre Po in località Forcello nei pressi della
futura Mantua (Mantova). Adria e Spina furono trasformati in importanti porti internazionali per il
commercio con le città greche del basso Adriatico e del mar Egeo.
Questa sviluppo urbano fu annullato dall’invasione celtica del IV secolo che cancellò la presenza
etrusca a nord dell’Appennino. Al posto di Felsina i Galli Boi fondarono l’oppidum di Bononia la
loro capitale, sopra la quale nel II secolo Romani dedurranno una colonia latina come segno
manifesto della sottomissione dei Boi..
C’è chi sostiene che gli Etruschi si spinsero fino a fondare un centro a Verona, il cui nome
sarebbe di origine etrusca. Il Pagus Arusnatium, il distretto rurale romano degli Arusnati
appartenente a Verona e corrispondente più o meno alla Valpolicella, secondo molti studiosi rivela
origini etrusche o retiche fortemente influenzate dagli Etruschi, lo proverebbero il nome stesso di
Arusnati e i nomi di alcune divinità del panteon locale.
Tra Etruschi, Veneti e Reti si stabilì un equilibrio politico e commerciale con reciproci vantaggi
che fu sconvolto non molto tempo dopo dalla calata dei Celti.
Celti
All’interno della grande famiglia indoeuropea, i Celti costituirono non un’unica etnia, ma un
complesso di tribù affini per lingua, cultura e religione, presenti in Europa centrale e anche in Italia,
nell’alta Lombardia. Le fonti storiche romane e greche ce li presentano in modo piuttosto negativo,
come barbari violenti e impulsivi, che compivano sacrifici umani alle loro divinità. Dati
archeologici ci parlano invece di una civiltà progredita e articolata.
La loro economia era ben sviluppata, come nomadi erano esperti allevatori di bovini, pecore e
maiali di piccola taglia, una cura speciale riservavano ai cavalli, simbolo di prestigio sociale dei
privilegiati che li montavano in battaglia.
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Diventando stanziali si dedicarono anche all’agricoltura, imparando a coltivare diverse varietà di
cereali, ma continuarono a valutare la ricchezza in base al numero di capi di bestiame.
Divennero inoltre esperti nella metallurgia: in un’epoca di transizione tra l’età del bronzo e quella
del ferro, gli artigiani celti acquisirono un’eccellente abilità nella lavorazione dei due metalli e
anche nell’oreficeria. Ce lo confermano i corredi funerari ritrovati nelle sepolture della nobiltà
guerriera, in cui oltre a preziosi oggetti in oro e argento, recipienti e utensili di bronzo lavorati
artisticamente abbondavano armi di bronzo di pregevole fattura. Nelle tombe più recenti numerose
erano le armi forgiate in ferro, il nuovo metallo molto più resistente, in particolare spade corte e
lunghe che in seguito serviranno di modello agli stessi Romani.
La qualità delle armi diede ai Celti un deciso vantaggio sui popoli vicini e favorì l’emergere di
una classe dominante e ambiziosa di guerrieri, che ostentavano lancia e spada e il fedele cavallo
addestrato al combattimento, il cui scheletro abbiamo trovato in alcune tombe accanto ai resti del
padrone.
La società celtica con lo sviluppo economico si era nettamente diversificata: la ricchezza e il
potere si erano progressivamente concentrati nelle mani di poche famiglie di nobili, il cui prestigio
dipendeva dal valore dimostrato in battaglia, dai beni e dalle proprietà e dal numero di uomini del
loro seguito, essi soli si riunivano in periodiche assemblee per prendere le più importanti decisioni.
Al di sotto si trovava la massa della plebe, formata da uomini liberi, privi però di diritti politici, i
quali pur lavorando duramente potevano ridursi in schiavitù per debiti, per questo si mettevano
sotto la protezione di un potente, divenendone clienti e seguendolo fedelmente in battaglia, per lo
più appiedati, pronti a morire per il proprio signore, combattendo. (G. Cesare, De B.G., VI, 13-15).
Nel gradino più basso c’erano gli schiavi, divenuti tali per debiti o perché prigionieri di guerra.
I nobili celti svilupparono anche una fiorente rete commerciale sia con i vicini sia con il lontano
mondo etrusco e mediterraneo e i nobili affermavano la loro supremazia controllando le vie
commerciali lungo i corsi dei fiumi e imponendo dazi (Cesare, De B.G., I, 17), ma per rinvigorire
la loro natura di guerrieri si lanciavano in periodiche razzie ai danni dei popoli confinanti,
riservando a sé stessi la parte più ambita del bottino. Essi guidarono le loro tribù nella formidabile
espansione che le spinse ad occupare tutta la Francia, le isole Britanniche e parte della Spagna,
cacciandone i precedenti abitanti o sottomettendoli.
Le tribù celtiche, pur stanziandosi in un territorio e conoscendo la coltura dei cereali, rimasero
tendenzialmente seminomadi. È nota a questo proposito l’imponente migrazione dell’intero popolo
degli Elvezi che Cesare dovette fronteggiare all’inizio della sua campagna gallica.
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Nei loro trasferimenti si spostavano su solidi carri su cui trasportavano i beni e le attrezzature di
prima necessità.
Usavano i carri anche in battaglia per assalire e scompigliare le file nemiche, come ci testimonia
Livio (10, 28), “…i nemici [Galli] sopraggiunsero stando in armi sopra carri da guerra e da
trasporto con grande frastuono di cavalli e ruote e atterrirono i cavalli dei Romani non avvezzi a
quel tumulto” oppure li disponevano in cerchio come accampamento trincerato e ultimo baluardo di
difesa, “ [Gli Elvezi] avevano frapposto i carri formando una barricata e dall’alto tiravano dardi sui
nostri che avanzavano e alcuni tra i carri e le ruote lanciavano giavellotti” (Cesare, De B. G., I, 26).
Pari o ancor maggiore importanza dell’aristocrazia guerriera aveva la classe dei druidi, che
temperavano il potere dei capi politici col loro potere sacerdotale e di giudici supremi, garantendo
così l’unità religiosa, anche se i sacerdoti druidi provenivano dalle stesse famiglie dei nobili
guerrieri.
Interpreti della volontà divina e giudici nei casi di omicidio e nelle contese tra tribù, i druidi
erano i gelosi detentori della sapienza sacra e profana, di cui non lasciarono volutamente nulla di
scritto anche quando si diffuse tra loro l’alfabeto (Cesare, De B. G., VI, 14).
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costringendo i popoli autoctoni a ritirarsi nella fascia pedemontana, tranne i Veneti, gli unici in
grado di resistere all’invasione.
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Cerveteri sulla costa, gli Etruschi avevano dato vita a una fiorente e vivace civiltà urbana,
organizzata in numerose città stato, nate probabilmente dall’associazione di più villaggi a scopo
difensivo e di gestione delle risorse.
Con lo sviluppo dell’economia la società sostanzialmente egualitaria del villaggio si era
differenziata in classi sociali: dalla massa di braccianti e operai si distinguevano artigiani e piccoli
coltivatori, su tutti emergeva una élite di aristocratici, grandi proprietari terrieri e imprenditori che
aveva guidato il passaggio dal villaggio alla città, imprimendo un nuovo corso all’economia.
Ogni centro abitato era una città stato indipendente e autonoma, in latino civitas, che dall’altura
su cui in genere sorgeva controllava il circostante territorio del quale era la capitale politica,
religiosa, economica e commerciale. L’unità e l’equilibrio politico della città era garantito
inizialmente dal Lucumone, un capo con pieni poteri politici, militari e religiosi, eletto dalle
famiglie aristocratiche.
Gli Etruschi divennero in breve esperti nell’arte della navigazione. Le città prossime alla costa si
dotarono di porti e di flotte potenti e svilupparono intensi rapporti commerciali con il mediterraneo
occidentale e orientale, al punto di dare il nome al mare Tirreno: Turrénoi erano infatti chiamati gli
Etruschi dai Greci. La prorompente espansione del commercio marittimo nel mar Tirreno,
attraverso i navigatori greci e fenici mise in contatto gli Etruschi con il mondo mediterraneo del
vicino oriente molto più evoluto per cultura e conoscenze tecnologiche. In agricoltura grazie a
nuovi metodi di irrigazione e coltivazione e ai contatti commerciali, la produzione superava il
fabbisogno e permetteva di commerciare le eccedenze.
Si sviluppava nel contempo un’intensa attività estrattiva di minerali e la metallurgia del bronzo
e del ferro e si perfezionavano le tecnologie della ceramica. Dalle cave si estraeva la pietra da
costruzione che esperte maestranze sapevano lavorare e mettere in opera. Nasceva una classe di
artigiani specializzati: fabbri, orafi e vasai etruschi producevano anche per l’esportazione, per conto
di facoltosi mercanti. Le fiorenti città etrusche si dotarono di templi ed edifici pubblici in muratura
e di cinte difensive di pietra, con potenti porte ad arco. In architettura la conoscenza dell’arco e
della volta permise di costruire solide coperture e sistemi fognari urbani all’avanguardia.
A sud della penisola le colonie elleniche punteggiavano le coste, da Cuma, Napoli a Reggio sul
Tirreno, da Crotone a Taranto sullo Ionio stavano trasformando il meridione in una seconda e più
fiorente Grecia.
Le classi dirigenti etrusche familiarizzarono con la cultura e le conoscenze dei Greci dai quali
appresero l’alfabeto adattandolo alla loro lingua. Affinarono il loro gusto procurandosi costosi
prodotti dell’arte ceramica ateniese e corinzia. I loro artigiani non erano da meno nella produzione
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di raffinati oggetti di metallo e terracotta. Alcune statue etrusche di bronzo e di terracotta giunte
fino a noi sono dei veri capolavori. I nobili facevano affrescare le pareti delle tombe di famiglia e
presumibilmente anche delle loro case con scene di vita stilizzate, ma colte con grande efficacia
delle rapide pennellate dai vivaci colori
La civiltà urbana si estese anche al Lazio meridionale presso i Latini e altri popoli laziali, che la
interpretarono, adattandola alle proprie esigenze e capacità. Anche sul Lazio gli Etruschi estero la
loro influenza trasformando la piccola città di Roma in una importante monarchia, come
testimoniano gli ultimi tre re della tradizione provenienti da Tarquinia.
Tra le varie città si stabilivano alleanze e patti commerciali, ma nascevano anche rivalità e
guerre: le più ricche e potenti tendevano a imporsi sulle proprie vicine.
Guerre nascevano anche con genti di altre nazioni. Quando l’emporio greco di Alalia (o Aleria) in
Corsica si trasformò nella metà del VI secolo in una potente città stato portuale, l’iniziale
convivenza tra marineria etrusca e greca si tramutò in una accesa rivalità commerciale, che,
degenerando in atti di pirateria, sfociò in una furiosa battaglia navale al largo Alalia, cui
parteciparono anche i Cartaginesi, a fianco degli Etruschi.
L’odio era a tal punto feroce, che al rientro delle navi superstiti gli abitanti dell’etrusca Caere (in
Lazio), stando almeno al racconto di Erodoto (Storie I, 4), lapidarono tutti i prigionieri greci caduti
nelle loro mani, commettendo orribile sacrilegio, che contaminò il luogo dell’eccidio davanti alle
mura cittadine, tanto che perfino gli animali evitavano di calpestarlo e brucarne l’erba.
Ascesa di Roma
Le “città” latine, racchiuse nella zona dei colli Albani, tra il Preappennino e la pianura, prive di
uno sbocco sul mare, erano poco più che villaggi agricoli pastorali non paragonabili con la potenza
e la ricchezza delle città etrusche.
Nessuno avrebbe scommesso allora sulla fortuna di Roma, un piccolo centro latino tra i tanti, in
più decentrato verso il confine nord. Invece essa iniziò a imporsi proprio sui cugini Latini.
Pur essendo del tutto indipendenti e spesso rivali tra loro, le piccole città stato latine erano
consociate in una lega di carattere religioso, ma con probabili implicazioni commerciali e di difesa
comune (Mommsen I, cap. 3, 5). I federati si radunavano nell’annuale festa latina (le feriae latinae)
sospendendo ogni ostilità tra di loro. Il culto aveva sede sui colli Albani, presso Alba Longa,
considerata la città madre di tutti i Latini.
Circondati a est e a sud da Sabini, Equi e Volsci, tre bellicosi popoli appenninici e da Etruschi a
nord, i Latini abitavano solo una decima parte dell’attuale Lazio, a sud del Tevere, mentre a nord
del fiume iniziava il territorio etrusco.
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Roma condivideva questa scomoda posizione intermedia e trovandosi presso la sponda sinistra
del Tevere era proprio al confine con gli Etruschi e non lontana dai Sabini, mentre aveva nei Latini i
suoi alleati naturali.
A Roma si parlava il latino ma si usavano anche altre lingue: sui suoi colli vivevano gruppi di
Sabini ed Etruschi, perfettamente integrati nella vita politica ed economica della città e che, secondo
una suddivisione arcaica attribuita a Romolo da Livio (X, 6) e Dionigi di Alicarnasso (II, 7),
formavano i Tities e i Luceres due delle tre tribù, la terza, quella dei Ramnes, era la tribù dei Latini.
Questa tripartizione etnica della popolazione, riferita da Livio, non convince alcuni studiosi che
pensano invece a una suddivisione dei cittadini puramente territoriale fin dagli inizi di Roma .
Fin dai tempi del leggendario Romolo, le frequenti tensioni con le città stato vicine, pronte a
degenerare in scaramucce o in vere battaglie, svilupparono nei Romani uno spirito bellicoso che li
spinse a dotarsi di una forza militare di pronto intervento, a cui ciascuna tribù partecipava, secondo
la tradizione, con un migliaio di fanti e un centinaio di cavalieri. Tribuno era il nome del
comandante del contingente militare di ciascuna tribù e tributo era il nome delle imposte dovute
dalle tribù. Un consiglio di anziani capiclan riuniti nel senato collaboravano con il re e lo
consigliavano nel governo della città. Essi appartenevano alla classe privilegiata dei patrizi, le
famiglie originarie che possedevano grandi proprietà terriere. I plebei erano invece tutti gli altri,
artigiani, commercianti, piccoli proprietari. Il re svolgeva un compito di mediazione, per mantenere
la concordia tra le due classi.
Tullo Ostilio e Alba Longa, la prima estensione della cittadinanza romana, secondo Tito Livio.
Sotto il terzo re della tradizione, Tullo Ostilio, Roma, che aveva acquisito una certa importanza
economica e commerciale, si era sentita abbastanza forte da provocare a battaglia e abbattere la rivale Alba
Longa, privando la lega latina della sua guida.
Singolare fu il trattamento che Tullo Ostilio, stando al racconto di Livio (I, 29-30), riservò alla madrepatria
Alba Longa: dopo aver raso al suolo la città, tranne i templi, ne trasferì gli abitanti a Roma accogliendoli
nella cittadinanza, verosimilmente nella condizione di plebei, tranne pochi nobili. Così facendo, Roma
“raddoppiò la popolazione” e, si può presumere, la forza del suo esercito, evitando d’altra parte il risorgere
di una città rivale. L’esempio fu poi seguito dal successivo re Anco Marzio per altri centri latini (Livio I, 33).
Questo racconto, basato solo su tradizioni orali (in mancanza di documenti scritti, distrutti nel sacco e
incendio di Roma del 390 a. C.) forse contiene qualche elemento di verità, ma probabilmente deve essere
spostato in una fase storica più tarda, a meno che Roma non abbia iniziato fin dai primi re un tale processo
di assimilazione del popolo latino, che continuerà in seguito con forme federative e si estenderà poi ad altri
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popoli, attuando una politica inusitata nel mondo antico. Infatti di distruzioni di città è piena la storia, ma
l’accoglimento delle popolazioni sconfitte nella cittadinanza dei vincitori è un fatto veramente straordinario.
Per gli Ateniesi, i più evoluti rappresentanti del mondo antico, l’idea di concedere a gruppi di stranieri, sia
pure greci, la propria cittadinanza era inconcepibile, gelosi com’erano della propria stirpe e identità
culturale.
In seguito Roma cadde sotto l’influenza etrusca come dimostra l’origine degli ultimi tre re,
provenienti da Tarquinia, i quali diedero impulso ai commerci, gettando sul Tevere il ponte Sublicio
e costruendo un porto fluviale (portus tiberinus) a fianco del Foro Boario, che era un mercato fuori
le mura aperto a tutti, latini, etruschi, fenici e greci.
Porto e foro garantivano importanti introiti con i dazi sul transito e lo scambio delle merci. La
futura Urbe si affermò sugli altri centri latini basati essenzialmente sull’agricoltura, grazie al valore
aggiunto di una florida economia commerciale. I Romani da rozzi pastori e contadini si stavano
trasformando anche in abili mercanti e imprenditori.
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I Tarquini, i re etruschi, grazie alla loro avanzata cultura urbanistica furono i veri artefici della
trasformazione di Roma in una città evoluta, dotata di fognature, di robusta cinta difensiva in pietra,
di templi ed edifici pubblici in muratura.
Roma divenne emporio mercantile “internazionale” del Lazio e arrivò a imporre sui Latini
un’egemonia economica e militare, causando una situazione paradossale di scontri intermittenti, con
“rovine di città e devastazioni di campagne” (Livio I, 52, 3) alternati a tregue ed alleanze non
appena si profilasse all’orizzonte la minaccia di nemici comuni, in particolare gli Equi e i Volsci.
L’ultimo e il più ambizioso re, Tarquinio detto il Superbo, strinse con i Latini un’alleanza
difensiva, presentata da lui come patto di reciproca convenienza, che in concreto sanciva invece la
superiorità di Roma (Livio I, 52).
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corazza, elmo, schinieri (gambiere) e armarsi di lancia (hasta), spada e pugnale. Il grande sforzo richiesto
era compensato dal prestigio e dal peso politico che la prima classe aveva nella vita civile.
Ad essa erano aggregate le 18 centurie dei cavalieri ai quali lo stato forniva le cavalcature.
Via via meno pesante era l’armamento della seconda e terza classe. Le ultime due costituivano la fanteria
leggera, dotata solo di armi offensive, giavellotti, archi e frecce. C’era infine una sesta classe di proletari,
capite censi (cioè censiti per testa e non in base ai beni di cui erano privi) esentati dal servizio e arruolati
solo in momenti eccezionali che costituivano, pur numerosissimi, una sola centuria.
Tradizionalmente le centurie dei “giovani”, dai 17 ai 45 anni partivano nelle spedizioni esterne, le centurie
degli anziani restavano invece a disposizione a difesa della città.
Lo schieramento di un tale esercito richiedeva preferibilmente un campo di battaglia aperto, ampio,
meglio se pianeggiante. I cavalieri, schierati in due ali sui fianchi della falange oplitica, avevano il compito di
evitare accerchiamenti.
Gli armati alla leggera della quarta classe si gettavano per primi all’assalto, scagliando giavellotti per poi
rientrare tra le file, mentre arcieri e frombolieri della quinta lanciavano i loro proiettili.
Ma la battaglia si giocava nello scontro tra le due fanterie: i guerrieri si allineavano, stringendosi tra loro e
sovrapponendo in parte i grandi scudi rotondi per una difesa reciproca, obbligati così a non perdere il
contatto con i compagni e ad avanzare o retrocedere solidalmente con loro, formando un muro compatto
di scudi e una selva di lance che, giunti a distanza ravvicinata, andavano alla carica.
I bravi comandanti sapevano regolare la velocità della massa in modo da non lasciare indietro nessuno e
dare però slancio alla formazione al momento del contatto col nemico. Nell’urto formidabile tra le due
schiere contava la spinta degli scudi, mentre le lunghe lance, dette hastae, impugnate dall’alto al basso,
erano spinte alla ricerca di varchi nella difesa nemica. Dietro la prima linea le altre file premevano serrando
i ranghi, per sostenere i compagni. Nel violento parapiglia il fronte si spostava, ora avanzando, ora
retrocedendo, secondo il prevalere dell’uno o dell’altro esercito, lo sforzo della falange era teso a
sospingere con tutta l’energia lo schieramento nemico fino a spezzarlo e a travolgerlo, costringendolo alla
fuga. Entravano allora in azione gli squadroni dei cavalieri, che si lanciavano all’inseguimento dei fuggiaschi
sbandati, infliggendo loro gravi perdite.
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reciproco e coadiuvati da altri magistrati elettivi. Dalle cariche pubbliche maggiori era esclusa la
plebe, la grande maggioranza della popolazione.
Con la repubblica le centurie di arruolamento attribuite a Servio Tullio acquisirono grande
importanza anche nella vita politica: i comizi centuriati divennero la più importante assemblea
popolare, che eleggeva i maggiori magistrati e aveva il potere di approvare o respingere le più
rilevanti proposte di leggi.
Il meccanismo di voto faceva sì che in essa prevalesse nettamente il ristretto gruppo dei ricchi
perché non si votava per testa, ma per centuria, ogni centuria esprimeva un solo voto: le 80 centurie
della prima classe aggiunte alle 18 dei cavalieri votavano per prime e assommavano a 98 voti, cioè
la maggioranza assoluta del totale di 193. Assai raramente vennero chiamate a votare la seconda e
la terza classe, per non parlare delle altre, benché rappresentassero la stragrande maggioranza del
popolo.
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Lega Latina parità di diritti e doveri in ambiti civili, personali e commerciali e il mutuo soccorso
militare contro attacchi nemici.
Probabilmente il foedus contemplava anche la spartizione delle terre confiscate ai nemici (Livio
II, 41) e la fondazione di colonie in comune tra Romani e Latini, come avvenne per Norba, Ardea,
Circei e poi Sutri e Nepi, del resto la stessa Roma era nata secondo il racconto di Livio (I, 6) come
colonia comune di Alba Longa e di altri centri latini.
Il foedus prevedeva anche la costituzione di un esercito comune tra Roma e la lega, guidato a turno
da comandanti latini e romani.
Una prova indiretta del legame tra i due popoli si trova nei trattati commerciali, di navigazione e di
reciproco soccorso, conclusi tra Roma e Cartagine e riportati da Polibio (III, 22, 4-13 e III, 24, 3-
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dei cittadini latini eventualmente catturati e ridotti in schiavitù.
I Romani annettevano tanta importanza al foedus Cassianum, perché riconoscevano in esso una
pietra angolare posta a fondamento della loro potenza, perché aveva legato i Latini a Roma
cointeressandoli a partecipare pienamente alla costruzione dell’impero. Il patto però non sanciva
una vera parità, perché attribuiva a Roma un peso equivalente a quello di tutte le città latine, essa
incamerava da sola metà del bottino e delle terre confiscate ai nemici, mentre i Latini, esclusi dal
diritto di voto a Roma, non potevano influire sulle decisioni politiche complessive.
I Latini furono comunque fedeli all’alleanza e grazie al loro valoroso contributo, spesso ignorato
dagli storici romani, Equi, Volsci, Sabini ed Etruschi furono più volte sconfitti e costretti a venire a
patti, diventando poi alleati di Roma.
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alla pastorizia e all’allevamento e poi evolutosi a contatto con Greci e Etruschi, esso era formato da
tribù, ben organizzate in una lega.
I Sanniti attestati originariamente nel Molise e in Abruzzo si stava espandendo nella fertili pianure
della Campania, sulle quali anche i Romani avevano le loro mire. Romani e Sanniti temendosi a
vicenda, trovarono utile stipulare un patto di non aggressione e fissare le rispettive zone di
influenza.
I Latini guardavano con sospetto e irritazione al patto che avevano dovuto subire, rimanendone
esclusi. Intanto le città campane, subendo continue incursioni e razzie dai guerrieri sanniti,
chiedevano con insistenza soccorso a Roma, che lo negava per rimanere fedele al patto. Gli abitanti
di Capua, la più ricca città campana, esasperati ricorsero a un espediente: inviarono ambasciatori al
senato per consegnare se stessi come dediticii, cioè prigionieri di guerra, per obbligare Roma a
prenderli sotto la sua protezione. In seguito anche il popolo campano dei Sidicini con capitale a
Teano cercò di imitare i Capuani, ma fu rifiutato, forse per non irritare troppo i Sanniti. Allora i
Sidicini chiesero aiuto ai Latini che accettarono e scesero in campo alleandosi anche con Capua.
Agli ambasciatori sanniti inviati a protestare per una guerra loro mossa da alleati di Roma, il
senato diede una risposta ambigua, acconsentì di mettere quieti i Capuani, ma disse di non potere
nulla sui Latini, ai quali il foedus Cassianum non vietava di fare la guerra a chiunque volessero
(Livio, 8, 2).
I Romani stavano a guardare e si accorsero che i Latini pur risultando di solito vittoriosi negli
scontri non riuscivano a ottenere risultati determinanti, suscitando il sospetto, condiviso da Livio,
che Latini e Capuani, col pretesto di combattere i Sanniti stessero preparando una guerra contro
Roma. Quindi Il senato convocò i capi latini ufficialmente per discutere della guerra contro i
Sanniti, in realtà per saggiare le loro supposte intenzioni rivoltose.
La lega latina, secondo Livio, colse l’occasione per avanzare richieste rivoluzionarie, che il
portavoce Annio pose come condizioni preliminari: egli pretendeva un trattamento politico militare
alla pari con Roma e ciò comportava che uno dei due consoli e metà dei senatori fossero latini. Tali
richieste paiono inverosimili ad alcuni storici contemporanei, considerando che la lega latina era
divisa al suo interno e priva di una vera coscienza politica e inoltre esse sembrano fotocopia delle
rivendicazioni che faranno i ribelli Italici, allo scoppio della guerra sociale, più di due secoli dopo.
Queste incongruenze sono attribuibili alle fonti di Livio, annalisti romani chiaramente schierati a
favore di Roma e propensi a scaricare ogni colpa sui Latini, accumunati in modo anacronistico agli
Italici del I secolo a. C.
Di fronte al netto rifiuto del senato scoppiò la “guerra latina”, in cui l’esercito della lega, alleatosi
con Capua e i Campani, fu sconfitto nella battaglia del Vesuvio del 340. La guerra continuò poi per
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altri due anni finché nel 338 le città “ribelli” furono conquistate una ad una. Le condizioni di resa
imposte da Roma furono nel complesso benevole. Dopo la resa le città latine ebbero un trattamento
nel complesso benevolo, ad alcune di esse meno coinvolte nella guerra fu concessa la cittadinanza
romana che fu estesa anche alla classe benestante di Capua, perché sembrava essere stata estranea al
conflitto.
In realtà Roma aveva grande bisogno di alleati per affrontare lo scontro ormai si profilava
inevitabile con i temibili Sanniti.
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legioni, mentre Etruschi e Umbri avrebbero attaccato l’accampamento dei Romani e tagliato loro la
via della ritirata.
Intanto altre truppe romane devastavano L’Etruria, per dividere il fronte, infatti gli Etruschi
abbandonarono il campo per accorrere a difesa del loro territorio e gli Umbri rimasti da soli si
defilarono.
La battaglia fu a lungo incerta, alla fine però Sanniti e Senoni pur combattendo con grande valore
furono sbaragliati. Molti Sanniti scampati allo scontro furono uccisi o catturati dai Peligni.
Venuti meno gli alleati, i Sanniti rimasero soli ad affrontare tutta la potenza militare romana e
ciononostante continuarono per alcuni anni la guerra, finché le loro piazzeforti non furono
conquistate e rase al suolo. La resistenza finì del tutto solo nel 290.
Con la resa i Sanniti furono privati di una parte del territorio, su cui furono dedotte come sentinelle
popolose colonie latine. Campani, Peligni, Lucani e le colonie greche della costa, come Neapoli,
che avevano subito gli attacchi e le razzie dei Sanniti, strinsero forti legami di alleanza con Roma
che li aveva liberati da questa minaccia. Gli Umbri, che non si erano dimostrati veramente ostili
furono premiati con trattati di pace molto favorevoli e divennero fedeli alleati di Roma, rimanendo
leali anche quando Annibale calò in Italia.
Con la resa dei Sanniti Roma attrasse nella sua orbita e nel suo sistema di alleanze tutto il centro
e gran parte del sud della penisola, divenendone la dominatrice incontrastata.
La disciplina militare
A spiegare la superiorità militare di Roma concorrono vari elementi: l’addestramento assiduo, gli
armamenti continuamente perfezionati, le tattiche e strategie rinnovate dall’esperienza, ma queste
caratteristiche erano in comune anche con gli alleati latini. Gli storici antichi e moderni sono concordi nel
considerare la ferrea disciplina, un fattore decisivo per il successo delle armi romane. Tito Livio colloca nel
340 a. C. all’inizio della guerra con la lega latina un episodio emblematico del rigore, per noi incredibile, con
cui tale principio era applicato.
Prima della battaglia decisiva del Vesuvio i consoli avevano vietato di combattere di propria iniziativa,
fuori delle file, proibizione consueta ma più necessaria del solito, per evitare pericolose confusioni in uno
scontro con Latini armati e inquadrati esattamente come i Romani. Il figlio del console Tito Manlio al
comando di uno squadrone di cavalleria si imbatté in una pattuglia nemica guidata da un giovane latino che
conosceva e venne da costui sfidato a un duello, accettata la sfida per salvare il suo onore, uccise
l’avversario e ne riportò le spoglie a suo padre a riprova del proprio valore.
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Ma il console convocò l’assemblea comunicando ai soldati che con suo grande dolore doveva punire
severamente la disobbedienza per non minare la disciplina dell’esercito e diede ordine al littore di
decapitare il figlio senza indugio.
Per queste epoche lontane gli storici latini avevano a disposizione scarse fonti scritte, e o i racconti
tramandati in seno alle grandi famiglie, in cui la realtà era spesso alterata o travisata a scopo celebrativo.
L’episodio dei due Tito Manlio, padre e figlio, ha tutto l’aspetto del racconto a scopo istruttivo, ma
contiene una verità: l’imperium di cui erano dotati i supremi comandanti militari conferiva loro il potere di
vita e morte su tutti i sottoposti. Non solo il singolo ma anche un intero reparto poteva essere punito,
ricorrendo alla decimazione, l’esecuzione per sorteggio di un soldato ogni dieci. Senza arrivare alla morte
c’erano anche forme di punizioni degradanti che bollavano per sempre un soldato, che, espulso
dall’accampamento dai suoi stessi commilitoni, era costretto a sopravvivere all’esterno.
Molti preferivano essere uccisi dal nemico, piuttosto che essere puniti per abbandono della posizione.
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infine, colpevoli di precedenti alleanze con i Galli, come Tivoli e Palestrina, furono punite con la
privazione di una parte del territorio, ridotto ad ager publicus (T. Livio VIII,13-14).
Un’applicazione esemplare del principio del divide et impera (dividi e comanda): le città
avvantaggiate non avrebbero avuto interesse a formare un fronte comune con le altre, per non
perdere i loro privilegi.
Dopo la pace del 338 il legame tra i due popoli si rafforzò in tutti i campi, sul piano militare i
Latini raddoppiavano le forze romane con un esercito parimenti addestrato, armato e disciplinato.
La guida dell’esercito comune fu, però, saldamente presa in mano dai Romani e i Latini vi furono
inquadrati come truppe ausiliarie, guidate da prefetti scelti dai consoli.
Potenziamento dell’esercito.
Una conseguenza del successo di questa politica fu quella di potenziare fortemente l’esercito,
che, sostenuto da una vasta base di arruolamento si raddoppiava con quello fornito dai socii (alleati)
latini e italici che costituivano le alae, truppe ausiliarie che venivano inquadrate nella disciplina e
nelle tecniche romane e inserite nell’accampamento militare in zone loro riservate.
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L’esperienza delle continue guerre e il crescere della potenza e delle risorse dello stato, favorì un
continuo progresso degli armamenti e l’introduzione di nuove tattiche di combattimento.
“… prima i Romani usavano i clipei (scudi rotondi di bronzo) poi, dopo che le truppe ricevettero una paga
(guerra contro Veio), sostituirono i clipei con gli scuta (scudi rettangolari di legno) e la falange simile a
quella macedone, si trasformò in seguito in uno schieramento costituito da manipoli”( Livio VIII, 8). Una
forte spinta all’innovazione fu data dai sanguinosi scontri con i Sanniti, fieri guerrieri appenninici, le cui
tattiche e formazioni, adattabili a terreni diseguali e scoscesi, risultavano vincenti nel loro territorio.
Così nella seconda metà del IV secolo la rigida tattica della falange oplitica fu abbandonata a favore dello
schieramento flessibile per manipoli di 186 uomini. Tale schieramento era simile a una scacchiera di cui i
manipoli occupavano caselle alterne su più file, lasciando spazi vuoti tra loro. Ogni manipolo era addestrato
a muoversi agilmente, sia in autonomia, sia in sintonia con tutto lo schieramento dell’esercito, adattandosi
al terreno e alle situazioni. A capo del manipolo in prima fila era un centurione coadiuvato da un collega,
essi conoscevano uno a uno i loro uomini avendoli duramente addestrati, nelle ultime file due altri
sottufficiali (optiones) spronavano le retroguardie.
Nel contempo gli scudi rotondi di bronzo furono sostituiti da più lunghi e protettivi scudi rettangolari, fatti
di legno ricoperto di cuoio, dotati al centro di un umbone, una grossa conchiglia di ferro, in grado di
rintuzzare lanci di pietre o giavellotti, mentre sugli orli una lamina di ferro assorbiva i colpi di spada. Erano
quindi efficaci e allo stesso tempo più economici del metallo, alla portata delle nuove classi arruolate nella
fanteria, per sostenere guerre che scoppiavano contemporaneamente su vari fronti. Inoltre, accostati uno
all’altro sopra la testa e sui fianchi permettevano a un reparto di assumere la quasi impenetrabile
formazione a testuggine. Scudi rotondi poco pesanti rimasero invece in dotazione alla cavalleria e alla
fanteria leggera.
Dai Sanniti i Romani appresero anche l’uso del gladio, la spada corta appuntita, a due tagli molto
efficace nel corpo a corpo, per penetrare di punta nello spazio lasciato scoperto dallo scudo. Nel frattempo
era stato anche introdotto il pilum un giavellotto da lancio ravvicinato con lunga e acuminata punta di ferro,
capace di perforare gli scudi.
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I firmatari del patto dovevano fornire, quando richiesti, un contingente militare e/o provviste e
attrezzature proporzionati alle loro possibilità, in cambio Roma garantiva la propria protezione diplomatica
e militare e in caso di guerra vittoriosa la spartizione del bottino. In tal modo i popoli non divenivano
sudditi, ma foederati (federati), riconoscendo a Roma la guida della federazione. Chi invece non era con
Roma rischiava prima o poi di trovarsi contro Roma.
Il foedus poteva essere usato per stabilire buoni rapporti tra stati, ma anche per concludere una guerra, in
tal caso le condizioni variavano molto secondo l’esito del conflitto e il comportamento tenuto
dall’avversario.
Dopo una vittoria decisiva e sanguinosa su avversari particolarmente insidiosi, il senato poteva
pretendere la deditio (resa incondizionata) dei perdenti (definiti in tal caso dediticii) e la confisca di un terzo
del loro territorio o proporre in alternativa un più favorevole trattato (foedus), che li trasformava in alleati
(socii).
Il peggior trattamento era riservato agli avversari infedeli, accusati di aver violato senza ragione precedenti
trattati.
Le condizioni erano invece decisamente favorevoli in caso di esito incerto del conflitto e comunque di
comportamento leale e valoroso dell’avversario, cui si offriva senz’altro di divenire socius .
Il foedus, ma anche la deditio lasciavano, perfino agli ex avversari, una grande autonomia interna di
autogoverno, ma avocavano al senato ogni decisione in politica estera e nell’uso dell’esercito, così, da una
parte Roma imponeva un controllo strategico e un’alleanza militare, dall’altra stimolava l’iniziativa e la
ripresa economica di una città e del suo territorio dopo i danni di una guerra.
Nel 430 gli Equi dopo un’ennesima sconfitta chiesero al senato un foedus, ma venne invece loro offerto di
arrendersi con una deditio, accettando la quale ottennero una tregua (indutiae) di otto anni (Livio IV, 30).
La deditio comunque non era disonorevole, perché manteneva ai dediticii la condizione di liberi e
l’autonomia in campo economico amministrativo ed era spesso un primo passo per ottenere il foedus.
Del resto anche i Latini, considerati dediticii dopo la guerra del 340-38, in breve erano tornati ad essere
socii di primaria importanza.
Tre anni prima, nel 343 a. C., gli abitanti di Capua, allora la più fiorente città greca della Campania,
oppressi dalle scorrerie inarrestabili dei guerrieri Sanniti, chiesero aiuto ai Romani, i quali non potevano
darlo a causa di un patto precedente con i Sanniti, allora i Capuani, per obbligarli a difenderli dagli attacchi
nemici, si consegnarono spontaneamente come dediticii, e il senato accettò questa inconsueta resa
spontanea, provocando così la prima guerra sannitica (Livio, VII, 31).
Cinque anni dopo Capua ottenne non solo un foedus, ma anche la cittadinanza (Livio VIII, 14 e XXIII, 5).
Chi invece si ribellava al patto sottoscritto, imbracciando le armi, veniva presto o tardi punito e costretto
alla resa e alla confisca di un terzo del proprio territorio, salvo però, dopo qualche decennio di leale
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sottomissione, ottenere la riammissione nell’alleanza. Infatti i foedera non erano immutabili, ma potevano
essere anche totalmente rivisti, in senso positivo, ma anche negativo, a seconda della lealtà dimostrata.
Il territorio requisito agli sconfitti diveniva ager publicus, proprietà del popolo romano, una parte del
quale poteva essere destinato a una colonia romana o latina e assegnato in proprietà ai coloni. Erano poi
previste assegnazioni individuali a piccoli e medi proprietari. La maggior parte però costituiva latifondi
concessi in affitto a ricchi aristocratici o comunque a chi aveva i mezzi e i capitali per poterli sfruttare. In
certi casi, dopo un certo tempo, una parte del territorio poteva essere riscattata dal popolo che ne era stato
proprietario.
In età repubblicana la guida della federazione e la politica estera erano appannaggio esclusivo del senato
romano che riceveva le ambascerie straniere ed era il garante dei trattati, custoditi gelosamente nel suo
archivio. La normativa che li regolava costituì col tempo una specie di diritto “internazionale”.
Il metodo usato con i Latini apparve così valido ed efficace da essere esteso ai rapporti con gli altri
popoli italici, che si dimostravano disponibili a stringere patti con Roma.
Roma imparò l’arte del compromesso e l’efficacia della concessione seppur molto cauta e oculata
di diritti commerciali e civili e perfino della piena cittadinanza romana.
L’efficiente apparato militare non basta infatti da solo a spiegare il modo lento, paziente, ma
inarrestabile, con cui nel volgere di alcuni secoli i Romani allargarono il loro dominio, da una
piccola città stato sul Tevere all’intero Lazio e poi a tutto il centro sud della penisola italica, dal mar
Tirreno all’Adriatico, inglobandovi molti popoli diversi tra loro, Latini, Equi, Volsci, Etruschi,
Sanniti e altri ancora, comprese le fiorenti ed evolute città greche del meridione.
L’arma vincente fu la novità dell’atteggiamento verso gli altri popoli. A differenza dei Greci, i
Romani non disprezzavano i popoli vicini, anzi ne assumevano gli usi che ritenevano validi, ne
apprendevano le tecniche e le conoscenze in vari campi, dalla religione alla medicina,
all’agricoltura, all’edilizia, all’arte militare e le applicavano apportandovi miglioramenti.
In un passo delle sue storie (VI, 25), il greco Polibio esprime la sua ammirazione per l’intelligente
pragmatismo del popolo romano “ Se ci sono uomini abili a mutare usi e a imitare il meglio, questi
sono i Romani”.
A tale apertura non era estranea l’origine multiculturale di Roma, riferita dalla tradizione e che
anche Cicerone ricorda nel De Re Publica (II, 8), aggiungendo come un fatto encomiabile che il
sabino Tito Tazio fu associato al trono da Romolo. Si tramanda poi che i primi quattro re furono
alternativamente Latini e Sabini, ad essi subentrarono tre re Etruschi, imponendo una dinastia
proveniente dalla vicina Tarquinia.
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Dagli Etruschi i Romani appresero molto: in architettura la costruzione dell’arco e della volta, in
urbanistica le tecniche di fondazione delle città a cominciare dalla rete fognaria, costruita appunto
con il sistema della volta, in agronomia il sistema di irrigazione delle campagne e di bonifica dei
terreni paludosi.
Ottenuta la supremazia sui Latini e sugli altri popoli laziali, Roma si pose il problema di come
difendere stabilmente le sue vie commerciali e i confini , proteggere gli alleati fedeli e sorvegliare
quelli malfidi. Il suo esercito stagionale di possidenti terrieri, arruolato per combattere con i nemici
esterni non poteva essere disperso in guarnigioni permanenti disseminate nella regione.
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Nel mondo antico questa fu una grande innovazione: le colonie degli Ateniesi erano costituite
solo da Ateniesi, così quelle degli altri Greci, dei Fenici e così via, quelle latine erano invece
colonie miste formate da romani, latini e italici, in cui tutti godevano degli stessi diritti.
Le colonie latine presentavano un concreto vantaggio: un’assegnazione di lotti di terra molto
generosa perfino dieci volte superiore rispetto a quella delle colonie romane, 50 iugeri contro 5.
La perdita di un diritto di voto a Roma, piuttosto teorico per un colono che viveva lontano
centinaia di chilometri dalla capitale, sembrava trascurabile se paragonata al concreto beneficio di
diventare un vero proprietario terriero, massima aspirazione di un uomo qualunque perché garanzia
di sicurezza economica e di promozione sociale per sé e la famiglia.
Invece nel 183 le vicine colonie romane di Mutina (Modena) e Parma con 2000 coloni ciascuna ebbero
assegnazioni decisamente inferiori, di 5 iugeri la prima e di 8 la seconda (Livio XXXIX, 55). Con tale
limitazione il senato voleva evitare che questi coloni proletari, che restavano cittadini romani a pieno titolo,
passassero a una classe di censo superiore, modificando gli equilibri tra classi nelle votazioni dei comizi
centuriati.
Le colonie latine, frutto del pragmatismo romano, si rivelarono una prima tappa per far entrare nella res
publica anche chi, avendo un’altra provenienza, ne faceva parte di fatto ma non di diritto.
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Dionigi, chiaramente filoromano, venne a Roma in un momento felice, quando tutto l’impero godeva la
pace e la prosperità garantite da Ottaviano Augusto. Egli idealizza una storia in realtà costellata di guerre
ingiuste e stragi insensate e fa risalire a Romolo iniziative probabilmente molto posteriori, ma coglie un
aspetto costitutivo e peculiare del potere romano: la sua straordinaria capacità di inclusione e
assimilazione, anche attraverso la concessione della cittadinanza e la fondazione di colonie miste.
Diversa era invece la colonizzazione greca che già da tempo punteggiava di fiorenti città le coste siciliane e
del meridione della penisola. I greci, esperti navigatori, si erano impadroniti di importanti rotte commerciali
estese in tutto il mar mediterraneo, basta pensare al mito di Ulisse, sviluppando una vivace economia di
scambi, portatrice di ricchezza e conseguente sviluppo demografico.
Per risolvere i problemi di sovrappopolazione e dei conseguenti conflitti sociali, folti gruppi di coloni
partirono dalle varie contrade dell’Ellade a fondare nuove città, prima sulle coste dell’attuale Turchia e poi in
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direzione opposta ad occidente, dove una delle mete preferite fu, oltre la Sicilia, il meridione della penisola
italica, le cui coste portuose e il fertile entroterra parvero una specie di terra promessa, così ricca di
opportunità da essere chiamata Megàle Ellàs, in latino Magna Graecia, la Grande Grecia.
Diversamente dalle colonie romane queste nuove città, pur conservando forti rapporti culturali e religiosi
con la madrepatria e pur avendo ricevuto da essa supporto logistico e finanziario per superare il difficile
inizio, non avevano con essa legami giuridici o militari, non avevano quindi lo scopo di controllare un
territorio per conto della città di origine, ma formavano stati del tutto indipendenti in un ambito lontano ed
estraneo. Non a caso la colonia greca si chiamava apoikìa che significa “insediamento lontano dalla patria”.
Si trattava di una colonia di popolamento.
Altre colonie nascevano invece soprattutto come empori commerciali, era il caso di alcune colonie fenicie o
etrusche.
Atene fondò nel V secolo colonie militari dette cleruchie (kleruchìai), autosufficienti grazie ai lotti coltivabili
assegnati ai coloni. Erano guarnigioni volute da Pericle per controllare il mare Egeo, le sue rotte marittime e
gli alleati della lega di Delo. I klèruchi, i coloni, costituivano un distaccamento di contadini-soldati, che
restavano cittadini ateniesi .
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Tutti questi soggetti, più o meno autonomi al loro interno, avevano in comune la rinuncia a una propria
politica estera e quindi la perdita dello ius belli et pacis, il diritto di fare guerra o alleanza in modo
autonomo.
Questo complesso sistema raggiungeva il massimo risultato con il minimo sforzo, perché già nel III secolo a.
C. consentiva a Roma un controllo politico militare e un’influenza economica su quasi tutta la penisola,
senza richiedere un costoso e logorante dominio diretto.
Esso si reggeva sul fatto che i federati avevano interesse a far parte di un grande organismo politico e di
un grande mercato, che offrivano sicurezza e notevoli possibilità di sviluppo e dava anche garanzie
giuridiche di tutela, mentre non era per nulla conveniente opporsi a una tale struttura di potere.
Tutta questa varietà di situazioni giuridiche nasceva dalle vicende particolari con cui ciascuna città o
popolazione aveva sviluppato le sue relazioni con Roma, ma era funzionale anche al criterio del divide et
impera che la classe dirigente romana aveva ben presto imparato ad applicare con successo nella politica
estera.
Un caso opposto a quello dei Latini: il trattamento brutale riservato ai galli Senoni.
I Senoni, ultimi Celti a migrare, trovando già occupata dagli altri Celti gran parte dei territori
padani, si erano diretti a sud varcando il Po e stanziandosi tra la Romagna e le Marche, ma
compivano volentieri incursioni nei territori vicini. Nel 390 a. C. avevano varcato/varcarono i passi
appenninici per fare bottino nelle prospere città laziali di cui avevano sentito parlare. Un esercito
romano mandato loro incontro era stato sbaragliato e Roma stessa presa, saccheggiata e incendiata.
I Galli se ne erano andati/andarono solo in cambio di un pesante riscatto in oro.
Nei Romani rimase a lungo il timor gallicus la profonda impressione lasciata dai Galli, come di
spaventosi e possenti guerrieri.
Nei decenni successivi i Senoni non smisero di dare del filo da torcere unendosi ai galli Boi e
Insubri.
Livio (VII, 9 e 11) ricorda come nel 360 essi giunsero di nuovo alle porte di Roma “furono fatte
orribili devastazioni … si combatté con tutte le forze non lontano da porta Collina… dopo una
grande strage reciproca, i Galli alla fine furono cacciati”.
Per circa ottant’anni scontri e devastazioni si alternarono a periodi di tregua, durante i quali,
mentre i Galli restavano divisi e spesso rivali, i Romani rafforzavano la loro supremazia sul Lazio,
su Etruschi, Umbri e Sanniti, insomma su buona parte del centro sud della penisola.
I Senoni, preoccupati della potenza dei Romani, stipularono con loro nel 332 un trattato di
pace (Polibio, 2, 18) che infransero durante la terza guerra sannitica (298-290) unendosi a Sanniti
Etruschi e Umbri nella speranza di bloccare l’espansione romana.
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L’esercito romano varcò senza indugio gli Appennini e affrontò la coalizione proprio nel territorio
senone a Sentino nel 295 a. C (nell’Appennino umbro marchigiano) riportando una grande vittoria,
che scoraggiò ogni ulteriore iniziativa nemica.
Dieci anni dopo (284) gli irriducibili Senoni, sconfissero un esercito romano ad Arezzo,
uccidendo il console e catturando numerosi prigionieri e arrivarono a uccidere gli ambasciatori
inviati a trattare il riscatto dei prigionieri. Questa volta la misura era colma e la reazione fu spietata,
simile a un genocidio con stragi e deportazioni, come narra Polibio (II, 19) “… i Romani si
scontrarono con i Galli detti Senoni e, sconfittili in campo aperto, ne uccisero la più parte,
cacciarono gli altri e si impadronirono del loro territorio. In esso dedussero la prima colonia in terra
gallica”. Il console Curio Dentato ottenne di trasformare il territorio dei Senoni in ager romanus
denominato gallicus, e sulle rovine della loro capitale fece dedurre la colonia romana di Sena
Gallica, Senigallia, la prima colonia romana marittima sull’Adriatico.
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La deduzione di Rimini segnò un deciso spartiacque nella politica coloniale: davanti ai Romani si
era spalancata la Gallia Cisalpina, una pianura ininterrotta non paragonabile per vastità alle altre
della penisola e relativamente poco abitata, che non aveva città, solo alcuni grossi villaggi fortificati
e tanti piccoli nuclei di capanne sparsi nel territorio.
I Romani, che possedevano avanzate conoscenze agronomiche apprese da Etruschi e Greci, non
tardarono a capire le enormi potenzialità della pianura Padana, che i Celti non sapevano sfruttare
appieno: il terreno ricco di humus, una volta disboscato e bonificato si prestava a vari tipi di coltura
o a fornire ricchi pascoli. Quelle terre sembravano fatte apposta per essere suddivise con il metodo
della centuriazione, non ostacolata da speroni rocciosi, andamenti irregolari e scoscesi dei terreni
preappenninici, rompicapo degli agrimensori costretti a calcoli complicati per le assegnazioni dei
terreni.
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romanizzazione del territorio. Così la pensava un energico tribuno della plebe, Gaio Flaminio che le
sostenne e le fece approvare a pieni voti dall’assemblea della plebe.
Un personaggio poco noto, Gaio Flaminio, precursore dei Gracchi e vincitore dei Galli Insubri
Il territorio sottratto ai Senoni e trasformato in ager publicus denominato gallicus, rimase per lunghi anni
non assegnato a causa del ventennale primo conflitto con Cartagine.
Mai prima di allora era stato a disposizione dei Romani un territorio di così vaste proporzioni che destò le
speranze di riscatto di tanti comuni cittadini impoveriti dalle guerre e d’altro canto suscitò la cupidigia della
classe senatoria, desiderosa di incrementare la propria ricchezza.
Intanto a Roma si stava affermando sulla scena politica Gaio Flaminio Nepote, un personaggio non
conosciuto come meriterebbe. Possiamo considerarlo un precursore del partito dei populares, infatti, eletto
tribuno della plebe nel 232 a. C., pur essendo un homo novus, cioè di famiglia estranea alla nobiltà politica,
o forse proprio per questo, aveva osato, scavalcando il senato, proporre direttamente all’assemblea della
plebe la lex Flaminia de agro Gallico, che assegnava viritim, cioè in proprietà a singoli individui, buona parte
dell’ager Gallicus a sud di Rimini, un tipo di assegnazione per consuetudine favorevole alla gente comune,
che aveva combattuto nelle guerre della res publica. La legge, o meglio il plebiscito fu approvato,
nonostante l’avversione e le manovre ostili di tanti senatori, grandi proprietari, che volevano lasciare non
assegnati quei territori per poterli affittare dallo stato. Così avevano fatto con il fertile ager publicus,
confiscato in Etruria, Sannio e Campania e poi in Sicilia, costituendo enormi latifondi, per i quali pagavano
un affitto irrisorio, semplicemente dimostrando di avere i mezzi finanziari per condurli. Questi terreni
restavano nominalmente di proprietà del popolo romano, ma in realtà il possesso, cui l’affitto dava diritto,
si trasmetteva per consuetudine in via ereditaria, senza che fossero sollevate obiezioni.
Quando finalmente i nuovi piccoli e medi proprietari occuparono i loro lotti, i Galli Boi lo considerarono
uno schiaffo intollerabile e trovarono un accordo con Insubri e Taurisci. La coalizione non sentendosi
abbastanza forte, chiamò in aiuto (225) dalla valle del Rodano i galli chiamati Gesati, spietati guerrieri
mercenari, così chiamati dall’arma preferita, il geso un robusto giavellotto da lancio.
In Senato Flaminio fu accusato di essere in parte responsabile del nuovo grande pericolo, che costrinse
Roma a mettere in campo le legioni consolari e le truppe ausiliarie al completo.
I popoli italici federati arruolarono i loro giovani, Veneti e Galli Cenomani che non avevano mai avuto
buoni rapporti con i vicini Insubri si mobilitarono sui confini e perfino gli Etruschi fornirono aiuto.
Torme di Gesati, desiderosi di bottino varcarono le Alpi e riunitisi agli alleati, invece di dirigersi a Rimini,
dove li aspettava un esercito, si diressero verso Roma attraverso l’Etruria, razziando il territorio e
sconfiggendo le truppe schierate a difesa. Sembravano incontenibili, fin quando presso Talamone ai confini
della maremma si trovarono stretti tra due eserciti consolari provenienti da direzioni diverse (Polibio 2, 26-
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28). Dopo aspri combattimenti su due fronti, i Galli furono sopraffatti e a sentire Polibio (2,31) decine di
migliaia di essi furono massacrati e i superstiti caddero prigionieri. Lo storico filoromano forse esagera,
perché l’attività bellica dei Celti continuò per tre anni consecutivi con alterne vicende, un risultato
comunque fu che i Boi si arresero e la guerra rimase confinata a nord degli Appennini.
Gli Insubri, il popolo celtico padano più forte e numeroso, rimaneva a guidare la lotta antiromana.
Flaminio, eletto console nel 223, sostenitore di una politica espansionistica in val Padana a favore dei plebei
e della classe emergente dei cavalieri (imprenditori e commercianti), non cercava accordi con i Celti ma lo
scontro. Il senato decisamente contrario, ricorse a sfavorevoli auspici degli auguri per invalidare le elezioni
dei consoli e sostituirli. Le lettere del senato giunsero a Flaminio che stava attaccando gli Insubri e lui si
rifiutò di aprirle finché, con l’appoggio dei Cenomani, non riportò una vittoria non facile. Solo allora le lesse
e tornò a Roma, dove il senato gli rifiutò il trionfo, che egli riuscì lo stesso a celebrare grazie al favore del
popolo.
L’anno seguente gli Insubri furono sbaragliati a Clastidium, Casteggio, presso Pavia, lasciando aperta la
strada per Medland, Milano, la loro capitale, che fu assaltata e conquistata dalle legioni. “In seguito a ciò -
narra Polibio (2, 35) - i capi degli Insubri persero ogni speranza di salvezza e si arresero ai Romani senza
porre alcuna condizione”: un’ovvia conseguenza dei patti fu la cessione di estesi territori gallici all’ager
publicus del popolo romano, la via alla penetrazione nella pianura Padana era spianata.
Per completare l’opera nel 220 Flaminio, in qualità di censore, fece costruire una strada che collegava
Roma a Rimini attraverso l’Appennino, rendendo così la Gallia Cisalpina raggiungibile dalle legioni in pochi
giorni di marce forzate. La strada così ben costruita da essere in parte visibile ancor oggi, iniziata nel 220, fu
realizzata in un anno, data l’urgenza del collegamento. Flaminio si guadagnò così la gratitudine dei Riminesi
e dei coloni assegnatari dell’ager gallicus.
L’arteria si rivelò provvidenziale un paio d’anni dopo, quando Annibale, conquistata Sagunto, alleata di
Roma in Spagna, mosse l’esercito alla volta dell’Italia.
Nel 217 Flaminio, rieletto console, si gettò, senza aspettare l’esercito del collega, all’inseguimento di
Annibale, che attraversati gli Appennini minacciava Roma e perse la vita da valoroso cadendo con i suoi
soldati in una trappola senza via d’uscita tesagli dal cartaginese su una sponda del lago Trasimeno.
I senatori suoi avversari politici non persero l’occasione di denigrarlo, chiamando in causa la sua
imprudenza, sul campo di battaglia, lasciando intendere che altrettanto sconsiderata fosse stata la sua
politica agraria innovatrice a favore della plebe, che lo storico Polibio, filo conservatore, definisce
“demagogica”.
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Insubri e Boi concordato con i Cartaginesi, decise di stabilire un controllo strategico nel centro della pianura
Padana sull’ager publicus di recente confiscato ai Celti deducendovi in tutta fretta, due popolose colonie
latine, una di fronte all’altra, sulle rive opposte del Po, Piacenza (Placentia) e Cremona, ciascuna con seimila
coloni, un numero superiore agli effettivi di una legione.
Nella primavera del 219 i coloni inviati a fondare Piacenza sotto la guida dei triumviri coloniae
deducendae, sperimentarono sulla loro pelle cosa si rischiava a dedurre una colonia in territorio ostile:
mentre si tracciava la centuriazione dei terreni essi furono assaliti da torme di Galli Boi. Respinto l’attacco,
riuscirono a rifugiarsi a Modena, che allora era solo un avamposto fortificato e qualche decennio dopo
sarebbe divenuto colonia. L’avamposto sostenne l’assedio fino all’arrivo di una legione che allontanò i Galli,
permettendo di portare a termine la fondazione delle due colonie, poi importantissimi caposaldi nella
guerra.
I Boi avevano però catturato i triumviri, personaggi di alto rango, che volevano scambiare con gli ostaggi
da loro precedentemente consegnati ai Romani a garanzia dei trattati cui avevano dovuto sottostare.
L’anno seguente Annibale scese dalle Alpi e dei triumviri non si seppe più niente, furono creduti morti,
finché sedici anni dopo (203), alla fine della guerra, non furono ritrovati dal figlio di uno di loro che divenuto
console guidava una spedizione nella Cisalpina (Livio XXX, 19). Secondo Polibio (III, 67) i Boi dopo la
battaglia della Trebbia avevano offerto quei triumviri come pegno di alleanza ad Annibale, che strinse
amicizia con i Boi, lasciando loro i prigionieri eccellenti per il progettato scambio.
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Durante il II secolo a. C. Roma sostenne un impegno militare incredibile, contemporaneamente su
più fronti, in Occidente contro i popoli Celtiberi della Spagna e i Celto-Liguri della Provenza, in
Italia contro i Galli, i Liguri e gli Istri e in Oriente contro gli stati ellenistici in Macedonia, Grecia,
Siria e Asia Minore.
Sul mediterraneo orientale si affacciavano i grandi e piccoli regni ellenistici, eredi di Alessandro
Magno. Non mancavano pretesti per intromettersi nelle loro lotte e intervenire a fianco di chi
chiedeva alleanza. Il re macedone Filippo V, a cui tutta la Grecia era soggetta, era stato potente
alleato di Annibale, così Roma si alleò con le città greche e con il regno di Pergamo per sconfiggere
lo strapotere del regno di Macedonia.
Sconfitto Filippo, il console Flaminino, che conosceva i Greci e la loro cultura, per contrastare la
voce circolante che il vecchio padrone macedone era stato sostituito da Roma, fece un grande gesto
propagandistico: ai giochi Istmici di Corinto, cui convenivano i Greci da ogni parte, fece
proclamare la libertà delle città greche, suscitando l’entusiasmo travolgente della folla. La parola
libertà per i Greci era magica, così Flaminino fu ringraziato con un gesto altrettanto simbolico.
C’erano sparsi in Grecia più di un migliaio di Romani, caduti prigionieri nella guerra annibalica e
venduti come schiavi. Alcuni di essi avevano visto arrivare l’esercito romano e riconosciuto tra i
soldati dei parenti, ma non potevano sfuggire alla loro condizione. Le città greche a loro spese
ricercarono e liberarono tutti questi e li consegnarono in dono a Flaminino (Plutarco, Vita di Tito
Flaminino, 10, 13).
In seguito l’idillio svanì quando le città greche si accorsero che con i patti di alleanza i Romani
lasciavano una totale libertà interna ma imponevano la loro politica estera: non si poteva fare guerra
o pace senza il permesso di Roma. Anzi in caso di guerra e la minaccia di Filippo, rimasto re di
Macedonia, era ancora presente, le città greche dovevano contribuire con contingenti militari o
rifornire l’esercito romano.
Così via, via anche altri regni e stati ellenistici entrarono in contatto con i Romani e furono
costretti a venire a patti. Le vittorie militari portavano gloria e ricchezza ai generali e notevoli
entrate per l’erario, inoltre aprivano la strada alla penetrazione commerciale e all’influenza politica
su vasti territori.
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combattuto valorosamente al suo fianco, cadendo a migliaia in battaglia. La sconfitta cartaginese
non aveva spento le loro speranza, né attenuato il forte sentimento antiromano che li animava.
In quel decennio quasi ad ogni primavera rinasceva una coalizione di Celti contro Roma.
Immancabilmente nel confronto con le legioni essi avevano la peggio subendo gravi perdite o nel
migliore dei casi non ottenevano qualche risultato tangibile. Nonostante ciò la gioventù celtica non
desisteva dai tentativi di rovesciare la situazione.
Nel 200 a. C., due anni dopo il disastro subito da Cartagine a Zama, Amilcare, un generale
cartaginese rimasto in Italia in incognito, riuscì a coalizzare le sacche di resistenza celtiche e liguri
formando un esercito che entrò di sorpresa in Piacenza mettendola a ferro e fuoco e si diresse poi su
Cremona che fece in tempo a chiudersi nelle mura fino all’arrivo da Rimini dell’esercito consolare.
Tre anni dopo in una battaglia sul Mincio, tra Verona e Mantova gli Insubri, abbandonati da Boi e
Cenomani subirono gravissime perdite (Livio 32,30).
Strano è trovare tra i rivoltosi i Cenomani, di solito fedeli a Roma. Ma sembra dal racconto
liviano che i giovani cenomani avessero agito di testa loro senza consultare i capi e gli anziani, i
quali, in seguito alle rimostranze degli ambasciatori romani, li persuasero a cambiare idea.
Nel 196 la guerra si riaccese, i Boi dopo un iniziale successo, vedendo devastati i loro villaggi
furono costretti ad arrendersi, tranne i giovani guerrieri che si erano dati alla macchia. Gli Insubri
furono battuti presso Como e l’oppidum di Como loro alleato fu conquistato.
Il 194 fu un anno di scontri altalenanti, il più importante dei quali si risolse con un nulla di fatto:
uno dei consoli, in attesa del collega, si era attestato al confine del territorio dei Boi, che gli
andarono incontro e attaccarono contemporaneamente da tutti i lati l’accampamento romano,
creando tale scompiglio che a stento i legionari riuscirono a respingerli. La furiosa battaglia si
concluse con gravi perdite da entrambe le parti e con una ritirata dei due contendenti.
Nel 193 mentre i Liguri assediavano Pisa, i Boi si sollevarono nuovamente, il console L. Cornelio,
lasciato il collega a Pisa, si diresse a Modena fingendo di cadere nelle insidie dei Galli e
costringendoli invece a combattere in campo aperto.
La battaglia di Modena fu molto aspra e cruenta anche per i Romani, ma causò una strage tra i Boi
e mise la parola fine alla loro lotta per l’indipendenza. I celti, stremati da grandi perdite e
devastazioni e puniti con confische di territori, rinunciarono a una lotta impari.
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Nel 190 fu accolta la richiesta di Piacenza e Cremona di rimpiazzare con nuovi coloni la perdita
dei tanti deceduti nelle guerre o emigrati in luoghi più sicuri, perdita che aveva impoverito le due
colonie e impediva loro di fornire il consueto numero di soldati. Seimila capifamiglia furono
distribuiti equamente tra le due città con nuove assegnazioni di terre.
Il segno della sottomissione dei Boi fu la fondazione nel 189 di Bononia, Bologna, dove sorgeva
loro capitale, che era stata la Felsina degli Etruschi. con le generose assegnazioni di 12, 5 ettari ai
numerosi fanti e 17,5 ettari al ristretto gruppo dei cavalieri.
M. Emilio Lepido fu tra i suoi contemporanei il più convinto continuatore della politica di
Flaminio a favore dei piccoli proprietari e degli equites (i cavalieri), una classe sociale di medi
proprietari, imprenditori e appaltatori di imposte, attraverso le assegnazioni sia coloniali, sia
viritane (individuali) di ager publicus nella Gallia cispadana, collegate all’espansione economica
della regione. Ai grandi proprietari della classe senatoria che possedevano enormi estensioni di ager
publicus questa politica non era gradita. Probabilmente per questo e non solo per rivalità personali
come riferisce Livio (38, 43) Emilio Lepido fu ostacolato dai suoi avversari che boicottarono per
due anni consecutivi (189-188) la sua elezione al consolato, finalmente egli fu eletto console per il
187 e si diede subito da fare.
Dopo una vittoriosa campagna contro i Liguri, realizzò in quell’anno una nuova strada militare,
che da lui prese il nome di via Emilia, un rettilineo ininterrotto che allacciandosi alla via Flaminia
partiva da Rimini e raggiungeva Piacenza. Il suo tracciato è rispecchiato dalla odierna statale.
Lungo la via Emilia egli fondò un centro abitato che fu chiamato Forum Lepidi o Regium Lepidi,
l’odierna Reggio Emilia, e nel 183 le colonie di Modena e Parma delle quali fu uno dei triumviri
fondatori.
Nel 173 (Livio 42, 4) troviamo Lepido alla testa dei decemviri incaricati di effettuare le
assegnazioni viritane, cioè date a singoli individui, di ager publicus ligure e gallico, nella zona di
Modena e Reggio. Un’assegnazione discreta di dieci iugeri (due ettari e mezzo) andò ai cittadini
romani e una davvero modesta di soli tre iugeri a latini e italici. Anche in questi casi lo strumento di
suddivisione dei lotti era la centuriazione che comprendeva opere di irrigazione e drenaggio.
I coloni singoli vivevano in abitazioni sparse nella campagna, che, però, facevano capo a un
conciliabulum, mercato e centro amministrativo della lottizzazione, dotato di un tempio e di edifici
comuni, posto sotto la giurisdizione di un praefectus inviato ogni anno da Roma.
Invece il termine Forum, originariamente “piazza, mercato di una città”, servì anche a
denominare un abitato con una vocazione essenzialmente commerciale, che nasceva per favorire lo
sviluppo di un territorio ed era fondato da un magistrato romano che ne diventava il patrono a Roma
e di cui portava il nome. Lungo la via Emilia oltre a quello di Lepido sorsero numerosi fora vicini
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tra loro, Forum Livii, Forlì, Forum Popilii, Forlimpopoli, Forum Cornelii, Imola. Essi dimostravano
il grande interesse economico commerciale che la regione rivestiva per i Romani.
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attorno a Pisa, attratti dalla speranza di bottino, gli Apuani erano diventati il doppio. L’arrivo del console
Quinto Minucio salvò la città, ma non riuscì a capovolgere la situazione, anzi negli scontri successivi
l’esercito romano corse grossi rischi. Per ben due anni al console fu prorogato l’imperium, senza che egli
riuscisse a infliggere sconfitte decisive al nemico. In seguito si aggiunsero nelle scorrerie anche i Liguri
Friniati che vivevano sul versante appenninico tra Modena e Reggio. Le vittorie riportate da vari consoli, tra
cui Emilio Lepido, si rivelavano parziali e non risolutive: i Romani erano costretti a tattiche di
controguerriglia, poiché i Liguri alla battaglia in campo aperto preferivano attacchi improvvisi e imboscate
su terreno selvoso e impervio.
Nel 186 un’intera legione, addentratasi in una boscaglia, fu sterminata, console e alleati compresi, in un
agguato teso dagli Apuani lungo il corso del Magra. Nel 185 entrambi i consoli furono inviati in Liguria, uno
con base a Pisa contro gli Apuani e l’altro nella Riviera di Ponente contro gli Ingauni di Albenga, che erano
insorti e solo tre anni dopo, sconfitti per terra e per mare, furono costretti alla resa.
Gli Apuani ebbero i villaggi incendiati e si rifugiarono sui monti, ma non deposero le armi fino alla
primavera del 180, quando aspettandosi di non dover combattere fino all’entrata in carica dei nuovi
consoli, furono invece sorpresi dall’attacco dei consoli dell’anno precedente, a cui si aggiunsero quelli
nuovi. Stretti tra due eserciti si arresero senza combattere. Il senato decise una soluzione radicale: 40.000
guerrieri apuani con le loro famiglie furono deportati a spese dello stato nell’ager publicus del Sannio tra
Avellino e Benevento con assegnazione di un lotto di terra e un contributo spese iniziali equivalente alla
paga di dieci giorni di un legionario (Livio 40, 38 e 41). Sul territorio a loro sottratto nel 177 fu dedotta la
colonia romana di Luni alla foce della Magra con generosa assegnazione ai 2000 coloni di lotti di ben 52
iugeri (13 ettari) su territorio sottratto ai Liguri Apuani (Livio 41, 13).
Ormai solo poche tribù di Apuani indipendenti erano sopravvissute in vallate isolate.
Il cinquantennale conflitto con i Liguri si concluse del tutto solo nel 155, quando dopo un lungo periodo di
pace fu repressa l’ultima fiammata di insurrezione degli Apuani.
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fedeli alleati di Roma per aver la scusa di disarmarli e al pretore fu ordinato dal senato di riconsegnare le
armi e di lasciare la provincia.
Un episodio ben più grave accadde nel 173 ai danni di una popolazione ligure. Il console M. Popilio
rimasto solo a gestire la situazione militare della Liguria, perché il collega si era dovuto recare in Campania,
non essendo rimasti nemici da combattere, se la prese con i Liguri Statielli o Statiellati, stanziati tra il
Piemonte meridionale e l’appennino Ligure “che non avevano mai preso le armi contro i Romani” (Livio 42,
8) e portò le sue legioni sotto le mura di Carystum, la loro capitale, dove fu poi fondata Aquae Statiellae,
l’attuale Aqui Terme. Inizialmente i Liguri se ne stettero buoni all’interno delle mura, ma vistisi assediati e
provocati, uscirono a battaglia, impegnando i nemici in uno scontro duro e sanguinoso, a lungo indeciso.
Alla fine ebbero la peggio subendo gravi perdite e si arresero. Il console si fece consegnare le armi, rase al
suolo l’oppidum e non contento confiscò e vendette i loro beni e gli stessi Statielli come schiavi.
A Roma tale comportamento disumano fu aspramente biasimato dal senato che impose al console di
riscattare gli schiavi e restituire le armi e i beni confiscati .
Popilio osò disobbedire e, condotti i soldati negli accampamenti invernali, si recò a Roma per attaccare i
suoi oppositori in senato. Non ottenne nulla, anzi gli fu rinfacciato che altri popoli Liguri pacificati, a causa
sua erano insorti in armi vedendo quanto era successo agli Statielli. Il senato ordinò ad altri magistrati di
riscattare i liguri dalla schiavitù e di assegnare loro, a titolo di risarcimento, un territorio a nord del Po
probabilmente tolto agli Insubri.
M. Popilio, sottoposto a processo, grazie all’appoggio del fratello Caio appena eletto console e a un
giudice compiacente riuscì con un artifizio giuridico a rinviare sine die la conclusione del procedimento e la
sentenza.
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A oriente i confini della pianura tra l’Adriatico e le Alpi furono consolidati nel 181 a. C. con la
deduzione della colonia latina di Aquileia in Friuli, nel territorio dei Carni, all’estremità est della
zona lagunare.
Sul mare Adriatico Ancona era il porto in comune ai duumviri, mentre Aquileia, dotata di un
efficiente porto canale, divenne lo scalo di appoggio delle triremi dell’alto Adriatico.
In pochi anni Aquileia divenne una città prospera e potente, grazie alla posizione strategica per il
commercio tra la pianura padana e veneta e il bacino dell’Adriatico e agli importanti legami
commerciali che strinse con la Magna Grecia attraverso i porti di Taranto e Brindisi.
Nel 148 a. C. Genova e Aquileia, due città così lontane tra loro, vennero collegate dalla via
Postumia che dal mar Ligure, attraversando l’Appennino e tutta la pianura Padana, giungeva
all’Adriatico. Era una strada militare, che affermava la supremazia di Roma nell’Italia settentrionale
ed era la premessa indispensabile alla sua espansione a nord del Po, costituendo allo steso tempo un
baluardo contro possibili invasioni dai passi alpini e dai confini orientali.
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così da resistere sia ad incursioni improvvise, sia ad attacchi massicci, perché non basta la scelta di
una buona posizione a garantire la sicurezza. Inoltre una sistemazione disordinata delle tende,
lasciata all’iniziativa dei singoli reparti non può evitare il caos, suscitato ad esempio da un allarme
notturno, perciò la sua struttura deve permettere una rapida e razionale sistemazione dei reparti e
non intralciare la rapidità dei loro movimenti.
Diversamente da quanto secondo Polibio fanno i Greci, i quali “quando si accampano
preferiscono approfittare delle difese naturali” ritenendole più sicure, ed evitare così anche “la
fatica di scavare trincee, … perciò sono costretti ad adattarsi alla natura dei luoghi, cambiando ogni
volta la disposizione del campo e quella reciproca delle sue varie parti, rendendo incerta la
posizione dei singoli soldati e dei reparti.”
Una volta individuato il luogo dal console, agrimensori specializzati delimitano i lati di un vasto
quadrilatero, esteso anche 50 ettari, destinato ad accogliere le due legioni consolari più i due corpi
degli alleati, altrettanto numerosi e addestrati, ma detti semplicemente alae, ali, cioè formazioni di
fiancheggiamento. In totale circa 20.000 uomini, senza contare gli schiavi e un buon numero di
cavalli e bestie da soma.
Occorre trasformare nell’immediato questa enorme area in una tendopoli ordinata e funzionale.
Gli agrimensori hanno uno schema preciso da attuare: anzitutto si fissa il settore quadrato riservato
al console, il Praetorium, punto di riferimento per orientare tutto il campo, da collocare in una
posizione centrale. Si sceglie poi il lato del quadrato più adatto, di fronte al quale innalzare le tende
delle legioni.
A destra e a sinistra di questo lato è prevista la fascia trasversale riservata alle tende degli
ufficiali superiori, i 12 tribuni delle due legioni e i 12 prefetti degli alleati. Questa è la zona del
comando, davanti alla quale si traccia la via Principalis ampia il doppio delle altre, così da
contenere l’adunata della truppa, che affluisce velocemente dalle altre vie, per ascoltare le parole
del console. Infatti sulla via Principalis sfociano, a distanze regolari, cinque vie ad essa
perpendicolari, quella centrale tra loro taglia in due il campo nel senso longitudinale separando le
due legioni. Essa incrocia la via Principalis nel mezzo, formando con essa una T, esattamente
davanti al Praetorium ed è detta perciò via Praetoria. Sui lati di queste vie si affacceranno le tende
dei vari reparti alloggiate in strisce verticali simmetriche, della stessa lunghezza, intorno ai 300 m
circa, e larghe circa 30, dette strigae.
Polibio assicura: “Sono operazioni veloci: la misurazione è facile perché tutti gli intervalli sono
predeterminati e abituali”. Ogni striga verrà suddivisa in dieci quadrilateri della stessa lunghezza
destinati ai dieci reparti di cui è costituito ciascuno dei quattro corpi della legione, tre di fanteria e
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uno di cavalleria. Le vie tutte rettilinee e della stessa ampiezza permettono un facile accesso ai vari
reparti.
Arrivando sul posto, nonostante la vastità della superficie, i soldati non si smarriscono, ma come
dice Polibio: “Quando le legioni si avvicinano e abbracciano il campo con lo sguardo, subito ogni cosa è
nota a tutti, perché intuiscono e calcolano tutto dal vessillo del comandante. Ciascuno sa bene in quale
strada e in quale punto di essa piantare la tenda, poiché tutti occupano sempre lo stesso posto
dell’accampamento … similmente a chi entra nella propria città e, passate le porte, raggiunge
infallibilmente la propria abitazione”.
Per segnalare ai legionari la disposizione del campo sul terreno agli agrimensori basta rizzare
alcune insegne di colore diverso in alcuni punti strategici e piantare file di lance a indicare i
rettilinei delle vie, parallele e perpendicolari tra loro.
Lo sventolare di un vessillo bianco segnala il centro del praetorium, cioè dello spazio riservato alla
tenda del console e ai suoi annessi, un quadrato di almeno 3600 mq, che costituiva il quartiere
generale e il punto di riferimento per la costruzione dell’intero campo.
La posizione è ben scelta, per controllare la grande area e trasmettere facilmente gli ordini a tutti i
reparti. A cento piedi dal vessillo bianco ne è piantato uno rosso che segnava il lato del quadrato
pretorio posto di fronte al futuro accampamento. Più oltre a 50 piedi di distanza un secondo vessillo
rosso segna l’ampiezza (15 /18 m) della striscia riservata alle tende degli ufficiali superiori, tribuni
e prefetti, che devono alloggiare vicino al console, pronti ai suoi ordini,. Le loro tende si affacciano
sulla via Principalis, ampia cento piedi (circa 30 m). A questa distanza è piantato, di fronte al
secondo, un terzo vessillo rosso che segna il limite della via e l’inizio delle strigae, le fasce
parallele estese nel senso della lunghezza del campo, che ospitano gli alloggiamenti dei legionari.
Le quattro vie verticali parallele alla via Praetoria, due alla sua destra due alla sinistra, dividono le
strigae simmetriche delle due legioni. Le due vie esterne separano l’ultima striga di ciascuna
legione dalla prima striga dei due contingenti alleati, posti simmetricamente sui lati esterni. Le teste
delle strigae delle legioni sono poste di fronte alle tende dei 12 tribuni militari. Ai loro lati le teste
delle strigae degli alleati sono di fronte alle tende dei 12 prefetti.
In questo modo il console, i tribuni e i prefetti da una posizione dominante hanno il controllo dei
sottostanti alloggiamenti e convocano agevolmente l’adunata della truppa sulla via Principale posta
davanti alle loro tende.
I comandanti assegnano ai centurioni i vari compiti da svolgere secondo turni prestabiliti. I
centurioni distribuivano i loro uomini nelle diverse mansioni. Alcuni reparti montavano la guardia
ai bagagli e agli animali, radunati in un posto sicuro, squadroni di cavalieri rinforzati da manipoli di
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fanti erano pronti a intervenire in caso di attacco. Migliaia di soldati, distribuiti sul perimetro
dell’area, scavavano il fossato difensivo e con il materiale di risulta erigevano il terrapieno sopra il
quale assi di legno appuntite formavano uno steccato tenuto insieme e rinforzato da pali. Intanto si
erigevano torrette di guardia presso le quattro porte del campo e lungo il perimetro. Ogni lato del
perimetro era assegnato al controllo di tribuni e prefetti.
Intanto squadre scelte montano la prima tenda del campo, il padiglione del console, e subito dopo
le tende di tribuni e prefetti.
Solo dopo aver svolto le svariate attività collettive i soldati potevano pensare alle loro tende.
Lungo la via Praetoria si affacciano simmetricamente le tende delle turmae, gli squadroni dei
cavalieri, alle loro spalle sono accampati i manipoli dei triari, i fanti veterani della retroguardia,
affacciati su una via parallela alla pretoria, che li divide dai principes, il corpo intermedio di
fanteria. Alle spalle dei principes sonno accampati gli hastati, i fanti di prima linea.
Costoro si affacciano sulla via longitudinale esterna che li separa dal contingente degli alleati. I
socii, gli alleati, erano ospitati in due ampie strigae della stessa lunghezza delle altre. Tra i loro
alloggiamenti e la cinta difensiva è lasciato un intervallum, una fascia di rispetto di duecento piedi
(70 m circa), il quale agevola i movimenti della truppa e garantisce alle tende una buona sicurezza
dal lancio di frecce e proiettili dall’esterno.
Dieci sono gli squadroni di cavalleria e altrettanti i manipoli dei tre corpi di fanteria di ciascuna
legione. Poiché ciascun reparto occupava sempre la medesima estensione in lunghezza, gli intervalli
tra i reparti erano sempre gli stessi. Per chi guarda il pretorio dalla via principale, la prima legione è
a sinistra e la seconda a destra. Ogni striga è formata dagli spazi di dieci reparti, allineati in
successione longitudinale dal primo al decimo. Gli alloggiamenti dei quinti reparti erano separati
dai sesti dal percorso della via detta appunto Quintana che tagliava a mezzo la via pretoria e le sue
parallele.
Orientarsi era facile, ad esempio un soldato appartenente al terzo manipolo degli hastati della
prima legione, ponendosi davanti al pretorio dalla via principale aveva a sinistra la propria legione,
gli bastava raggiungere la quarta striga, quella degli hastati e poi scendere lungo la via antistante
fino al terzo settore, quello del manipolo di appartenenza.
Il campo montato assumeva insomma l’aspetto di una città ben pianificata, del resto da un
impianto molto simile prendevano origine le colonie fondate da Roma.
Questa descrizione di Polibio si riferisce a situazioni ottimali, non sempre i luoghi e i tempi a disposizione
permettevano di costruire un accampamento perfettamente regolare.
La disciplina del campo.
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Al calar della sera il tribuno incaricato consegna agli addetti (tesserarii) la parola d’ordine per la notte,
scritta su tavolette contrassegnate (tesserae), ognuna delle quali deve fare un certo percorso, passando di
mano in mano tra i vari comandanti di manipolo, dalla decima fila su fino alla prima, per essere poi
riconsegnata al tribuno, il quale si assicurava così che tutti i reparti siano avvertiti.
I cavalieri sono incaricati delle ronde notturne, controllano i picchetti e i posti di guardia a ogni turno e
ritirano il contrassegno affidato a ciascuna sentinella. Tutte le mattine, all’alba, centurioni e cavalieri si
recavano a rapporto davanti alla tenda del proprio tribuno nella via principale: se manca un tassello, si
avvia un’inchiesta: il soldato colpevole è costretto a passare tra due file di commilitoni che lo bastonano
spesso a morte perché egli ha tradito la loro fides, la fiducia e se sopravvive è comunque finito, condannato
a eterna ignominia.
- La groma
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La divisione della terra in appezzamenti da assegnare ai coloni veniva realizzata con precisi e
collaudati metodi, usati anche nella pianificazione della città, da agronomi professionisti, detti
gromatici, dal nome del loro strumento semplice e geniale detto groma, che permetteva di
tracciare sul terreno linee rette e perpendicolari tra loro.
Si trattava di un paletto robusto, dotato di una punta ferrata da piantare nel terreno; sopra vi
era un braccio metallico, parallelo al terreno, da una parte innestato sul paletto e terminante
all’altra estremità con un perno girevole sul quale era fissato il centro di una croce orizzontale
di legno o ferro con i due bracci esattamente uguali. Dalle quattro estremità della croce
pendevano altrettanti fili tesi da pesi di piombo, che permettevano di posizionare la groma in
modo perfettamente perpendicolare al terreno, allora, traguardando la coppia di fili di un
braccio, si otteneva un allineamento in un senso e traguardando l’altra coppia si aveva un
allineamento ortogonale al primo. Bastava quindi piantare a distanze regolari dei picchetti
esattamente allineati ai fili a piombo per tracciare rettilinei che si incrociavano
ortogonalmente, ad angolo retto.
Le città greche
Nel mondo greco antico e nella stessa Atene lo sviluppo delle città avveniva in modo piuttosto
disordinato. Le esigenze sociali trovavano spazio in alcune aree non pianificate, ma determinate da
consuetudini consolidatesi nel tempo: sull’acropoli sorgevano i templi, il popolo si radunava su una certa
collina per discutere e deliberare, su un’altra collina si riuniva il tribunale, un’ampia zona in piano
diventava l’agorà, la piazza del mercato.
L’edilizia privata si sviluppava in modo piuttosto casuale, in genere i proprietari costruivano le case a
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loro piacimento senza rispettare regole precise, le strade venivano tracciate dopo, costrette a percorsi
tortuosi, di larghezza variabile, con curve e strettoie irrazionali.
Un cambiamento avvenne quando le città greche fondarono colonie in varie aree del mediterraneo, in
Asia Minore, ma in particolare in Occidente, nella penisola italica e in Sicilia. Queste città che nascevano
da zero su principi di uguaglianza si prestavano ad essere programmate, così molti dei fondatori le
progettarono razionalmente, per il loro buon funzionamento e la concordia interna , dividendo la
superficie in “democratici” isolati regolari.
Il modello che prevalse prevedeva alcune strade principali destinate al traffico intenso, larghe circa
una decina di metri, parallele e molto distanziate tra loro, raccordate trasversalmente da vie più strette
di collegamento interno. Questa rete viaria delimitava una griglia di lunghi e stretti rettangoli, paralleli e
uguali tra loro (col rapporto tra lato minore e maggiore di 1 a 4 o a 5) che formavano gli isolati edificabili
divisi in lotti abitativi, come rivela la forma più antica della città rintracciabile a Napoli. Erano questi i
quartieri residenziali, distinti da una zona di solito centrale, dedicata alle attività sociali e mercantili,
dove sorgeva l’agorà, i templi e i loro annessi avevano spazi riservati. Lo si vede chiaramente nella pianta
di Metaponto e soprattutto di Poseidonia (la Paestum romana).
La città ippodamea
L’architetto greco Ippodamo di Mileto, vissuto nel V secolo a. C., studiando questi impianti urbanistici
coloniali, arrivò a teorizzare una città ideale, progettata razionalmente, costituita da quartieri impostati
su scacchiere di isolati uguali, di forma rettangolare molto più corta delle colonie greche, suddivisi da
una rete viaria con successione simmetrica di vie parallele ed equidistanti tra loro, incrociate da altre
perpendicolari.
Non conosciamo testi di Ippodamo, secondo la testimonianza di Aristotele egli non si occupava solo di
urbanistica, ma anche di assetti costituzionali e di ripartizione del territorio agricolo extraurbano. La sua
visione era utopica, per lui la città ideale non superava i 10.000 abitanti, divisi in tre classi, soldati,
contadini e artigiani. Doveva esserci netta distinzione tra le zone residenziali private e quelle pubbliche,
sociali, mercantili e religiose.
Egli divenne famoso come urbanista quando fu incaricato, forse da Pericle, di pianificare il Pireo, che
non era solo il porto di Atene, ma una vera e propria città portuale piuttosto caotica, affacciata su tre
insenature. Ippodamo assegnò la più grande ai traffici commerciali e le altre due alle navi da guerra
necessarie all’impero ateniese. Sembra che Pericle in seguito lo incaricò del progetto di fondazione della
colonia di Thuri in Calabria, vicina a Sibari, che doveva essere non solo ateniese ma panellenica, aperta
cioè a tutte le stirpi greche.
L’impianto ippodameo fu poi applicato a molte città ellenistiche, tra cui Alessandria d’Egitto.
Lo schema ortogonale usato dai Greci nelle loro colonie italiche fu ripreso anche dagli Etruschi e
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reinterpretato sulla base delle loro conoscenze astronomiche e religiose. Da essi e dalle colonie greche
lo appresero i Romani, modificandolo per fondare le loro colonie, e ne misero a punto una variante
adatta alla costruzione degli accampamenti militari, trasformandoli in piccole città.
Gli architetti romani preferirono lo schema urbanistico a scacchiera con vie equidistanti tra loro
in modo da dare agli isolati abitativi una forma pressoché quadrata. Faceva eccezione il rettangolo
allungato del foro individuato dall’incrocio delle due uniche vie principali, il cardo e il decumano
massimi.
Le colonie romane, fondate tra il IV e il III secolo, centri abitati di piccole dimensioni, privi di
autogoverno e dipendenti in tutto e per tutto da Roma, non avevano necessità di edifici pubblici, se
si escludono quelli religiosi, quindi non in esse esisteva un vero foro, come si vede nelle piante
originarie di Ostia, Anzio, Terracina e altre coloniae maritimae. Invece nelle popolose colonie
latine, economicamente vivaci e autonome in politica interna, il foro era una grande piazza, capace
di accogliere per lo meno la popolazione adulta maschile, era il cuore pulsante di tutta la vita
pubblica cittadina, in cui si svolgevano i riti religiosi, i comizi politici, i mercati, si stipulavano i
contratti legali, si celebravano i processi. Sui lati del foro con lo sviluppo della colonia sorgeranno
gli edifici pubblici cittadini, il tempio principale, la curia del senato cittadino, il comizio
dell’assemblea popolare, la basilica.
Durante la guerra annibalica Roma aveva rafforzato il controllo dei mari e le colonie romane
marittime andarono perdendo la funzione militare di controllo costiero. Ostia, originariamente un
castrum, un accampamento fortificato, sviluppò una importante funzione portuale per gli imponenti
rifornimenti necessari a Roma e si espanse notevolmente al di là delle mura divenendo una vera
città.
La contemporanea sottomissione dei Celti padani fece venir meno la necessità di fondare colonie
latine, le ultime furono Aquileia (183) al confine istriano e Lucca (180) vicina al confine con i
Liguri. D’altra parte i cittadini romani non erano più disposti a trasferirsi in una colonia latina
rinunciando alla piena cittadinanza, né ad accontentarsi delle misere assegnazioni spettanti alle
colonie romane.
In seguito furono fondate solo colonie romane, ma con diversi criteri, a cominciare da Luni, sul
fiume Magra dopo la deportazione dei Liguri Apuani, nel cui territorio furono inviati 2000 coloni
provenienti da Roma con 52 iugeri (13 ettari ) di terra a testa, quantità di popolazione ed estensioni
non diverse da quelle di una colonia latina. Così la distinzione tra i due tipi di colonia venne meno.
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La groma e i gromatici
La groma permetteva ai mensores (misuratori), o gromatici di determinare un crocicchio, detto
compitum (da cum-petere, giungere insieme, convergere) in cui convergevano due vie perpendicolari tra
loro. Il compitum nella religione degli avi aveva un valore sacro, era protetto da divinità dette Lares
compitales, a cui in molti crocicchi tanto in città quanto in campagna erano dedicati altari protetti da
edicole, tradizione poi ripresa dalle cappelline della religiosità popolare cristiana.
Nel segnare sul terreno la pianta del futuro abitato, gli architetti fissavano il compitum più importante in
cui si dovevano incontrare le due vie principali della città, qui sarebbe sorto il foro, la grande piazza nella
quale si concentrava la vita economica, politica e religiosa dei cittadini, qui si svolgevano gli antichi riti di
fondazione per propiziare la benevolenza degli dei e purificare il luogo da ogni influenza negativa e
probabilmente uno dei tresviri fondatori, in qualità di sacerdote augure, presiedeva la cerimonia. Qui
veniva piantata la groma, per mezzo della quale, si tracciavano le due rette perpendicolari, corrispondenti
al decumano e al cardo massimi che incrociandosi tra loro suddividevano la superficie cittadina in quattro
grandi quadranti, poi ulteriormente suddivisi da cardi e decumani minori in quadranti più piccoli fino a
formare gli isolati indispensabili all’urbanizzazione.
L’orientamento della città rispecchiava inizialmente la concezione religiosa etrusca: gli auguri etruschi,
sacerdoti ed esperti astronomi, intendevano trasferire sulla terra il divino ordine cosmico del cielo, nel
delimitare lo spazio si basavano sul corso del sole e sulla stella polare. Il decumano aveva un preciso
andamento est ovest basato sul sorgere e il tramontare del sole il giorno dell’equinozio e il cardo ad esso
perpendicolare prendeva nome dal cardine attorno al quale ruotava la volta celeste, indicato dalla stella
polare. La mentalità pragmatica dei Romani rese poi più flessibili le rigide regole etrusche adattandole alle
situazioni concrete, determinate dall’andamento del terreno, dalla presenza di fiumi, di colli, o di altri limiti
naturali, per cui spesso il decumano prendeva un orientamento spostato di alcuni gradi rispetto alla linea
dell’equinozio, oppure prendeva come direttrice l’importante via consolare lungo la quale sorgeva la città.
Il mensor si poneva dietro la groma e ruotava lentamente la croce gromatica allineandone un braccio con
il punto sull’orizzonte scelto come riferimento. Traguardando con l’occhio aggiustava la mira finché i fili a
piombo posti uno davanti all’altro alle due estremità del braccio non si sovrapponevano come un unico filo
perfettamente allineato col punto prescelto.
A questo punto il geometra dava a un assistente indicazioni per piantare nel terreno una serie di paletti
regolarmente distanziati ed esattamente in linea con la direttrice della groma, che corrispondeva alla prima
metà del decumano massimo. Ponendosi poi dalla parte opposta della groma tracciava nella stessa
direzione la seconda metà della via. Infine traguardando i fili dell’altro braccio della croce gromatica
tracciava la direttrice perpendicolare del cardo massimo.
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Alla distanza (una settantina di metri), in cui era previsto l’incrocio del decumano massimo con il primo
cardo minore si piantava un’altra groma allineata con la prima e si tracciava il cardo minore parallelo a
quello massimo. Così si procedeva lungo il cardo massimo negli incroci con i decumani minori, ciò rendeva
possibile tracciare un reticolo viario di decumani paralleli tra loro e perpendicolari ai cardi che suddivideva i
quattro grandi quadranti in tanti quadrilateri che formavano una struttura uniforme a scacchiera.
Cardi e decumani tagliandosi tra loro ad angolo retto e a distanze regolari delimitavano così gli isolati di
forma quadrata o lievemente rettangolare, con lati variabili tra m 71 e 75 (5040-5570 mq),
facilmente divisibili in lotti edificabili, sui quali provvisoriamente ci si accontentava di rizzare delle tende,
mentre sui confini, a difesa dell’urbanizzazione si ergeva per il momento un terrapieno sormontato da una
palizzata, la città in muratura sarebbe sorta poi in breve tempo, nel giro di due o tre anni.
- Centuriazione dell’agro
I gromatici iniziavano nel frattempo anche la limitatio, la misurazione, del vicino agro pubblico assegnato
al sostentamento della nuova comunità. Questo vasto territorio era stato confiscato a una popolazione
sconfitta e costretta a patti di obbedienza a Roma, a garanzia dei quali avrebbe vigilato d’ora in poi la
presenza della colonia stessa.
Il territorio rurale doveva essere parcellizzato, razionalmente suddiviso per essere assegnato ai singoli
coloni, il metodo adottato era analogo a quello usato per la città, su dimensioni ovviamente molto
maggiori, e prendeva appunto il nome di centuriazione.
Anzitutto i tresviri, dopo accurata ispezione dei luoghi, procedevano a seconda delle situazioni, alla
bonifica, al disboscamento e al consolidamento dei terreni, per renderli effettivamente coltivabili, venivano
scavate opere di canalizzazione sia per drenare le acque in eccesso, sia per irrigare le campagne e si
costruivano terrapieni per arginare i corsi d’acqua. Poiché i canali correvano lungo le strade della
lottizzazione anche l’orientamento e il tracciamento di queste tenevano ovviamente conto della
conformazione del terreno.
Gli agrimensori, a partire da un centro detto umbilicus, ombelico, traguardando i fili a piombo delle grome
e piantando a terra serie di picchetti a distanza prefissata, tracciavano i due assi stradali principali
dell’intera area, lunghi alcuni Km: il decumano e il cardo massimi, rettilinei e perpendicolari uno all’altro.
Quindi tracciavano a distanza regolare una serie di decumani e cardi paralleli ai primi, fino a ritagliare le
centurie, quadrati di 20 actus, 710 m, di lato, dieci volte la misura degli isolati cittadini, per una superficie di
circa 50 ettari. I quadrati erano detti centurie, perché venivano suddivisi da una fitta rete di cardi e
decumani minori in cento unità, dette heredia (proprietà ereditabili), di due iugeri ciascuna, corrispondenti
a un medio campo di calcio (circa 5050 mq).
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Lungo la strada che da Verona porta a Legnago in località Pozzo fu rinvenuto un mattone di un tipo
sesquipedale (1 piede e mezzo x 1 piede) cioè di grandi dimensioni e piccolo spessore, lungo non molto
meno di mezzo metro (41 cm), largo quasi 30 cm e spesso 5/6 cm, provvisto di incavo a maniglia per
facilitare il trasporto. Su di esso, però, era stata incisa a fresco (prima della cottura) a grandi lettere la
seguente strana iscrizione, davvero unica:
URB / ACT / RIIG / PAG / IUST / CC XX
che l’epigrafista veronese Ezio Buchi ha così interpretato:
URB<ANUS> / ACT<US> / REG<IONI> / PAG<IS> / IUST<US>,
sembra una specie di promemoria, attestante che l’actus cittadino è valido anche per la regione
(extraurbana) e per i pagi, o distretti rurali.
L’ actus, modulo dell’agrimensura romana, lungo 120 piedi (35,52 m) è collegato al verbo ago, nel suo
originario valore di “guido, spingo animali col pungolo”, nell’arcaica tradizione contadina era il tratto di
solco arato da una coppia di buoi con un colpo di pungolo stimolati una sola volta con il pungolo.
L’actus quadratus ha una superficie di 14400 piedi (1260 m quadri, circa un ottavo di ettaro).
Sommando due actus quadrati si ottiene uno iugero, superficie fondamentale nelle assegnazioni di ager
publicus, due iugeri formano un heredium, (il campicello ereditabile assegnato, secondo la tradizione, da
Romolo ai primi abitatori di Roma). Duecento iugeri costituiscono una centuria, unità fondamentale di
suddivisione agraria, ciò spiegherebbe il numero CC (200) dell’iscrizione, il numero XX (20) può essere
invece la misura del lato della centuria, un quadrato il cui lato è lungo appunto 20 actus ovvero m 710.
Abbiamo qui una conferma della corrispondenza tra centuria urbana e agraria, da notare che un isolato
cittadino era circa mezzo ettaro, corrispondente ad un heredium agrario, un quadrangolo formato
dall’unione di quattro actus, con 71 m di lato (un decimo esatto del lato della centuria).
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riconoscibili le tracce nella viabilità e nella canalizzazione di molte campagne emiliane, lombarde e venete,
come si vede chiaramente nelle mappe, nelle fotografie aeree e con i sofisticati sistemi attuali di
telerilevamento radiometrico o con radar e laser.
Le proprietà assegnate, venivano inserite dagli agronomi in un catasto rurale, che aveva valore giuridico e
fiscale, per determinare il censo dei proprietari e le imposte sui terreni.
Il catasto cartaceo su papiro, essendo un documento molto importante e sensibile per i singoli cittadini e la
società, veniva poi trascritto su materiale più duraturo e resistente, su tavole di bronzo o pietra dette
formae per il tabularium l’archivio cittadino di cui una copia veniva spedita al tabularium statale, l’archivio
centrale di Roma, che faceva fede per ogni eventuale lite o contestazione.
Accanto al catasto rurale veniva redatto anche un catasto cittadino, detto forma urbis. Purtroppo i catasti
urbani in genere sono scomparsi, ma sono stati ritrovati per una insperata fortuna estesi frammenti della
forma urbis di Roma, in marmo.
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Nasce la nuova città
L’assegnazione dei lotti e la costruzione delle case avveniva occupando inizialmente gli isolati
attorno al grande spazio del foro. Man mano che gli abitanti fossero cresciuti, nuove abitazioni si
sarebbero aggiunte, in modo ordinato, negli isolati vuoti, rimasti disponibili tra la zona centrale e le
mura. Nel frattempo le strade sarebbero state lastricate di pietre e dotate di marciapiedi rialzati,
sotto i quali si aprivano bocche di lupo per lo scolo delle acque.
I lati del foro si sarebbero col tempo arricchiti di edifici pubblici, religiosi e civili, portici e
negozi. In quartieri decentrati sarebbero sorte le terme, confortevoli bagni pubblici, e grandi edifici
da spettacolo, teatro, anfiteatro e odeon.
Sul fronte stradale si sarebbero affiancate l’una all’altra le facciate delle casette popolari a
due locali sovrapposti, sostituendo le iniziali abitazioni provvisorie dei coloni. Spesso il piano
superiore era dotato di un balcone e sul retro della casa c’era un cortile interno. Le costruzioni
erano sostenute da robuste travature di legno tamponate da mattoni, pietre o ciottoli, uniti da
malta.
Sarebbero sorte anche le eleganti domus, estese 400/500 mq, costituite da un quadrilatero in
robusta muratura, chiuso all’esterno, tranne qualche alta finestrella e suddiviso in numerose
stanze poste attorno ad un atrio o cortile interno da cui prendevano luce e aria. Un largo
corridoio interrotto a metà da un robusto portone comunicava con l’esterno sulla via
principale, cui si aggiungeva di solito una porticina di servizio, posta su un altro lato.
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loro decreti le scelte riguardanti la vita politica della città e finanziare le relative spese. V’erano
infine i comitia tributa, l’assemblea su base territoriale di tutti i cittadini, alla quale i candidati
presentavano i loro programmi elettorali per essere votati alle varie cariche.
Nella fase iniziale di vita della colonia i decurioni erano nominati a vita dai tresviri fondatori,
sulla base di una duplice dignitas, censo elevato e moralità, successivamente in caso di morte o di
indignitas venivano integrati ad opera dei duoviri, i quali provvedevano a un rigoroso censimento
della popolazione ogni cinque anni. I decurioni dovevano risiedere in città o ad una distanza
massima di un miglio, in una casa ampia e decorosa, in cambio godevano di privilegi, tra cui posti
riservati in prima fila al teatro.
Si trattava di una costituzione marcatamente oligarchica, che consegnava il potere in mano ai
ricchi decurioni, dei cui decreta o sententiae i duoviri erano gli esecutori e ai decurioni essi
dovevano rispondere del loro operato a fine anno, in caso positivo potevano essere cooptati nel
consiglio dei decurioni e acquisire la piena cittadinanza romana.
Di solito al compimento del terzo anno cessava l’incarico dei triumviri e la comunità acquisiva la
sua autonomia, la colonia latina costituiva infatti una città stato, con governo, legislazione e
tribunali propri e poteva persino battere moneta, dipendeva da Roma solo in politica estera e
nell’obbligo di fornire su richiesta soldati e rifornimenti militari.
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Tre anni dopo in una battaglia sul Mincio, tra Verona e Mantova gli Insubri, abbandonati da Boi e
Cenomani subirono gravissime perdite (Livio 32,30).
Strano è trovare tra i rivoltosi i Cenomani, di solito fedeli a Roma. Ma sembra dal racconto
liviano che i giovani cenomani avessero agito di testa loro senza consultare i capi e gli anziani, i
quali, in seguito alle rimostranze degli ambasciatori romani, li persuasero a cambiare idea.
Nel 196 la guerra si riaccese, i Boi dopo un iniziale successo, vedendo devastati i loro villaggi
furono costretti ad arrendersi, tranne i giovani guerrieri che si erano dati alla macchia. Gli Insubri
furono battuti presso Como e l’oppidum di Como loro alleato fu conquistato.
Il 194 fu un anno di scontri altalenanti, il più importante dei quali si risolse con un nulla di fatto:
uno dei consoli, in attesa del collega, si era attestato al confine del territorio dei Boi, che gli
andarono incontro e attaccarono contemporaneamente da tutti i lati l’accampamento romano,
creando tale scompiglio che a stento i legionari riuscirono a respingerli. La furiosa battaglia si
concluse con gravi perdite da entrambe le parti e con una ritirata dei due contendenti.
Nel 193 mentre i Liguri assediavano Pisa, i Boi si sollevarono nuovamente, il console L. Cornelio,
lasciato il collega a Pisa, si diresse a Modena fingendo di cadere nelle insidie dei Galli e
costringendoli invece a combattere in campo aperto.
La battaglia di Modena fu molto aspra e cruenta anche per i Romani, ma causò una strage tra i Boi
e mise la parola fine alla loro lotta per l’indipendenza. I celti, stremati da grandi perdite e
devastazioni e puniti con confische di territori, rinunciarono a una lotta impari.
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publicus questa politica non era gradita. Probabilmente per questo e non solo per rivalità personali
come riferisce Livio (38, 43) Emilio Lepido fu ostacolato dai suoi avversari che boicottarono per
due anni consecutivi (189-188) la sua elezione al consolato, finalmente egli fu eletto console per il
187 e si diede subito da fare.
Dopo una vittoriosa campagna contro i Liguri, realizzò in quell’anno una nuova strada militare,
che da lui prese il nome di via Emilia, un rettilineo ininterrotto che allacciandosi alla via Flaminia
partiva da Rimini e raggiungeva Piacenza. Il suo tracciato è rispecchiato dalla odierna statale.
Lungo la via Emilia egli fondò un centro abitato che fu chiamato Forum Lepidi o Regium Lepidi,
l’odierna Reggio Emilia, e nel 183 le colonie di Modena e Parma delle quali fu uno dei triumviri
fondatori.
Nel 173 (Livio 42, 4) troviamo Lepido alla testa dei decemviri incaricati di effettuare le
assegnazioni viritane, cioè date a singoli individui, di ager publicus ligure e gallico, nella zona di
Modena e Reggio. Un’assegnazione discreta di dieci iugeri (due ettari e mezzo) andò ai cittadini
romani e una davvero modesta di soli tre iugeri a latini e italici. Anche in questi casi lo strumento di
suddivisione dei lotti era la centuriazione che comprendeva opere di irrigazione e drenaggio.
I coloni singoli vivevano in abitazioni sparse nella campagna, che, però, facevano capo a un
conciliabulum, mercato e centro amministrativo della lottizzazione, dotato di un tempio e di edifici
comuni, posto sotto la giurisdizione di un praefectus inviato ogni anno da Roma.
Invece il termine Forum, originariamente “piazza, mercato di una città”, servì anche a
denominare un abitato con una vocazione essenzialmente commerciale, che nasceva per favorire lo
sviluppo di un territorio ed era fondato da un magistrato romano che ne diventava il patrono a Roma
e di cui portava il nome. Lungo la via Emilia oltre a quello di Lepido sorsero numerosi fora vicini
tra loro, Forum Livii, Forlì, Forum Popilii, Forlimpopoli, Forum Cornelii, Imola. Essi dimostravano
il grande interesse economico commerciale che la regione rivestiva per i Romani.
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Il proconsole L. Emilio Paolo, assediato dai liguri Ingauni in un campo trincerato tra le alpi
Marittime e l’Appennino, spronò i legionari a gettarsi fuori dalle quattro porte in una sortita
inaspettata, incitandoli a ricordare i nemici battuti da loro, tra cui gli stessi Liguri, “incalzati e
trafitti mentre fuggivano simili a capre tra dirupi boscosi” (Livio 40, 27). Il comandante voleva
instillare nei soldati disprezzo per il nemico, del quale però mette in luce involontariamente le
eccezionali doti atletiche.
Secondo Livio i Liguri erano i nemici più tenaci e inafferrabili, più dei celti il cui slancio focoso
aveva scarsa durata e più degli eserciti orientali abituati alle comodità e ignari del valore militare.
Non erano solo rudi montanari, i Liguri della costa conoscevano la tecnologia navale, erano abili
marinai e pirati temuti, in particolare gli Ingauni che avevano in Albenga, nel ponente, il capoluogo.
Al confine tra Toscana e Liguria, nel territorio dei Liguri Apuani, i Romani, divenuti dopo la
prima guerra punica padroni del Tirreno controllavano Pisa e Luni (da cui Lunigiana), porti da cui
passavano le spedizioni militari per il nord della Spagna.
Quando Annibale calò in Italia, molti popoli Liguri si schierarono con lui, militando da valorosi
in Italia. Alcuni lo seguirono come mercenari in Africa, combattendo a Zama.
Finita la guerra e la rivolta antiromana guidata dal cartaginese Amilcare, se ne stettero quieti per
un po’, ma improvvisamente nel 193 giunse al senato una lettera del prefetto di Pisa, secondo cui
ventimila liguri Apuani, calati dai monti, avevano razziato e devastato tutto il litorale di Luni e di
Pisa (Livio 34,56). Intanto attorno a Pisa, attratti dalla speranza di bottino, gli Apuani erano
diventati il doppio. L’arrivo del console Quinto Minucio salvò la città, ma non riuscì a capovolgere
la situazione, anzi negli scontri successivi l’esercito romano corse grossi rischi. Per ben due anni al
console fu prorogato l’imperium, senza che egli riuscisse a infliggere sconfitte decisive al nemico.
In seguito si aggiunsero nelle scorrerie anche i Liguri Friniati che vivevano sul versante
appenninico tra Modena e Reggio. Le vittorie riportate da vari consoli, tra cui Emilio Lepido, si
rivelavano parziali e non risolutive: i Romani erano costretti a tattiche di controguerriglia, poiché i
Liguri alla battaglia in campo aperto preferivano attacchi improvvisi e imboscate su terreno selvoso
e impervio.
Nel 186 un’intera legione, addentratasi in una boscaglia, fu sterminata, console e alleati compresi,
in un agguato teso dagli Apuani lungo il corso del Magra. Nel 185 entrambi i consoli furono inviati
in Liguria, uno con base a Pisa contro gli Apuani e l’altro nella Riviera di Ponente contro gli
Ingauni di Albenga, che erano insorti e solo tre anni dopo, sconfitti per terra e per mare, furono
costretti alla resa.
Gli Apuani ebbero i villaggi incendiati e si rifugiarono sui monti, ma non deposero le armi fino
alla primavera del 180, quando aspettandosi di non dover combattere fino all’entrata in carica dei
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nuovi consoli, furono invece sorpresi dall’attacco dei consoli dell’anno precedente, a cui si
aggiunsero quelli nuovi. Stretti tra due eserciti si arresero senza combattere. Il senato decise una
soluzione radicale: 40.000 guerrieri apuani con le loro famiglie furono deportati a spese dello stato
nell’ager publicus del Sannio tra Avellino e Benevento con assegnazione di un lotto di terra e un
contributo spese iniziali equivalente alla paga di dieci giorni di un legionario (Livio 40, 38 e 41).
Sul territorio a loro sottratto nel 177 fu dedotta la colonia romana di Luni alla foce della Magra con
generosa assegnazione ai 2000 coloni di lotti di ben 52 iugeri (13 ettari) su territorio sottratto ai
Liguri Apuani (Livio 41, 13).
Ormai solo poche tribù di Apuani indipendenti erano sopravvissute in vallate isolate.
Il cinquantennale conflitto con i Liguri si concluse del tutto solo nel 155, quando dopo un lungo
periodo di pace fu repressa l’ultima fiammata di insurrezione degli Apuani.
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subendo gravi perdite e si arresero. Il console si fece consegnare le armi, rase al suolo l’oppidum e
non contento confiscò e vendette i loro beni e gli stessi Statielli come schiavi.
A Roma tale comportamento disumano fu aspramente biasimato dal senato che impose al console
di riscattare gli schiavi e restituire le armi e i beni confiscati .
Popilio osò disobbedire e, condotti i soldati negli accampamenti invernali, si recò a Roma per
attaccare i suoi oppositori in senato. Non ottenne nulla, anzi gli fu rinfacciato che altri popoli Liguri
pacificati, a causa sua erano insorti in armi vedendo quanto era successo agli Statielli. Il senato
ordinò ad altri magistrati di riscattare i liguri dalla schiavitù e di assegnare loro, a titolo di
risarcimento, un territorio a nord del Po probabilmente tolto agli Insubri.
M. Popilio, sottoposto a processo, grazie all’appoggio del fratello Caio appena eletto console e a
un giudice compiacente riuscì con un artifizio giuridico a rinviare sine die la conclusione del
procedimento e la sentenza.
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Mentre i Romani erano intenti a scaricare merci e rifornimenti per la campagna militare, gli Istri
guidati dal re Epulo attaccarono di sorpresa penetrando nell’accampamento e provocando il panico
con un fuggi, fuggi generale. Il disastro fu evitato solo perché gli Istri si dispersero nelle razzie,
rendendo possibile un fortunato contrattacco.
L’anno successivo i due nuovi consoli penetrarono con azione congiunta nell’Istria, mettendola a
ferro e a fuoco e ne posero sotto assedio la capitale, l’oppidum di Nesazio, una fortezza a est di
Pola, dove si era rinchiuso Epulo. Costui vistosi senza vie d’uscita, piuttosto di arrendersi si suicidò
con la sua corte, i superstiti furono venduti come schiavi. Nesazio fu poi ricostruita dai Romani, che
sottomisero tutta la penisola istriana.
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Nel 148 a. C. Genova e Aquileia, due città così lontane tra loro, vennero collegate dalla via
Postumia che dal mar Ligure, attraversando l’Appennino e tutta la pianura Padana, giungeva
all’Adriatico. Era una strada militare, che affermava la supremazia di Roma nell’Italia settentrionale
ed era la premessa indispensabile alla sua espansione a nord del Po, costituendo allo steso tempo un
baluardo contro possibili invasioni dai passi alpini e dai confini orientali.
L’interesse dei Romani era sia strategico militare, sia commerciale, economico e finanziario,
come sbocco per l’investimento dei grandi capitali acquisiti con le guerre in occidente e in oriente,
essi infatti ben conoscevano la ricchezza e le potenzialità di questa fertile area, da sfruttare con
moderne tecniche agricole. L’abbondanza di acqua di fiumi e risorgive che formava paludi e
acquitrini nella pianura a nord del Po poteva divenire un grande beneficio se regolata con opportune
opere di drenaggio e irrigazione.
Il greco Polibio nella sua storia sostanzialmente contemporanea afferma, parlando della pianura
padana: “non è facile descrivere la fertilità della regione: il grano … l’orzo … il vino … costano
pochi oboli … l’abbondanza delle ghiande nei querceti è tale che la grande quantità dei suini
macellati in Italia per gli usi privati e degli eserciti si ricava tutta dalla pianura padana …” (Storie
2, 15). Due oboli erano la paga base giornaliera di un soldato semplice della fanteria romana.
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nuclei di capanne sorgevano su terreni preferibilmente elevati, meno esposti alle piene, accanto a
recinti per animali, coltivazioni di viti e alberi da frutto.
Lungo la fascia dell’alta pianura ai confini con la collina, a volte su un’altura e intorno ad essa in
posizione facilmente difendibile si trovavano dei castra, insediamenti fortificati. C’erano poi a
grande distanza l’uno dall’altro gli oppida, centri maggiori, specie di primitive città, capitali
religiose, sedi di fiere commerciali e di produzioni artigiane cui faceva riferimento la popolazione
di un vasto territorio. L’oppidum di Verona insediato sul fianco di un colle lambito dalla corrente
dell’Adige, era la seconda capitale dei Galli Cenomani dopo Brescia, anch’essa posta sulle pendici
di un colle.
- La via Postumia
Ridotte all’obbedienza le popolazioni della pianura Padana e dell’Appennino Ligure, nel 148 a.
C. il senato affidò al console Spurio Postumio Albino la costruzione della via che da lui si chiamerà
Postumia.
Fu questo un evento che contribuì in modo decisivo alla romanizzazione della pianura a nord del
Po. La strada consolare lunga quasi 500 km congiungeva Genova con Aquileia, mare Ligure e
Adriatico, passando per Verona. La via, partendo da Genova, valicava l’Appennino, scendeva in
pianura fino a intercettare la via Emilia a Piacenza, costeggiava il corso del Po e lo oltrepassava a
Cremona, quindi raggiungeva il fiume Oglio e lo passava a Bedriacum (odierno Calvatone ),
dirigendosi a Verona, dove superava l’Adige, quindi, percorrendo l’alta pianura veneta, toccava
Vicenza e Oderzo per arrivare ad Aquileia.
Le vie consolari restano una meraviglia dell’ingegneria militare romana, esse seguono tracciati
incredibilmente rettilinei superando gli ostacoli naturali, con ponti sui fiumi, massicciate
sopraelevate in zone paludose e gallerie attraverso i monti. Anche la Postumia, pur ricalcando in
parte antiche piste preistoriche, viaggiava su rettilinei di lunghezza impressionante. Era possibile
ottenere questa precisione grazie a uno strumento geniale detto groma, con cui i geometri romani
riuscivano a tracciare linee rette anche per decine e decine di chilometri.
Infatti la Postumia da Bedriacum raggiungeva Verona praticamente con una linea retta lunga
decine di chilometri.
Le vie consolari
Con la decisa espansione dei suoi interessi politici, militari e commerciali al di fuori dei confini del Lazio, la
pragmatica Roma aveva capito l’importanza vitale delle vie di comunicazione. Aveva capito che per
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realizzare i propri scopi non bastavano le antiche piste che seguivano vecchi percorsi tortuosi e aveva
concepito il progetto di nuovi percorsi rettificati costruiti su nuove sedi stradali solide e durature, perché
scavate a fondo nel terreno e consolidate da materiale adeguato. Già alla fine del IV secolo era stato
costruito il tratto della via Appia da Roma a Capua, la strada, che poi sarebbe giunta fino a Brindisi, era
un’opera di ingegneria stupefacente per l’antichità.
Roma decise di stabilire una comunicazione veloce e sicuro con le colonie fondate lontano, in terre ostili:
quasi cinquant’anni dopo la fondazione, Rimini fu raggiunta dalla via Flaminia che la collegava direttamente
a Roma, una strada militare poderosa, costruita attraverso gli Appennini dal censore Gaio Flaminio (poi
console caduto contro Annibale nella battaglia del lago Trasimeno del 217) , allargando anche dei passaggi
scavati secoli prima nella roccia dagli Etruschi.
La strada così ben costruita da essere in parte visibile ancor oggi, iniziata nel 220, fu realizzata in un anno,
data l’urgenza di collegare Roma alla Gallia Cisalpina, rendendola così raggiungibile da una legione in pochi
giorni di marce forzate.
Nel 218 furono fondate le colonie latine di Placentia (Piacenza) e Cremona sul Po, alle quali mancava,
però, un collegamento stradale con Rimini e la Flaminia. Vi provvide vent’anni dopo il console M. Emilio
Lepido costruendo la via Emilia (187 a. C.), che darà il nome alla regione. La strada collegò così Rimini e
Piacenza, passando per la colonia latina di Bononia (Bologna), fondata nel 189, sull’oppidum del Galli Boi, e
favorendo decisamente la penetrazione romana nella pianura Padana, tanto che nel 183 lungo l’Emilia
furono dedotte le colonie romane di Mutina (Modena) e Parma.
La colonia latina di Aquileia, fondata nel 181 in Friuli, al confine orientale della pianura, dovrà aspettare
fino al 148 per essere collegata al sistema stradale con la via Postumia.
- La Postumia e Verona,
Il tracciato della Postumia, passato il Po, non salì a nord per raggiungere Milano, ma evitò il
territorio degli Insubri, non si sa se per rispetto della loro autonomia o per punirli dell’ostilità
dimostrata nei decenni precedenti, e puntò direttamente da Cremona al territorio dei Cenomani,
fedeli alleati, verso l’oppidum di Verona, per poi entrare nel territorio dei Veneti e dirigersi ad
Aquileia.
L’abitato celtico di Verona, sulle pendici del colle di san Pietro era sicuramente difeso da un
terrapieno rafforzato da pietrame e palizzate, possedeva officine metallurgiche ed ceramiche ed.
era probabilmente già allora un importante centro commerciale di una zona collinare produttiva e di
una pianura fertile, anche se in parte da bonificare, ed era uno snodo strategico di comunicazione
non solo verso l’oriente, ma anche verso il nord, le Prealpi e le Alpi, attraverso la Val d’Adige.
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La Postumia provenendo da Goito, attraversava Villafranca e arrivava all’Adige praticamente con
un unico rettilineo lungo oltre 40 km, ancora oggi in funzione, il primo tratto fino a Villafranca è
una strada sterrata, il secondo da Villafranca a Verona è asfaltato e coincide con l’attuale statale.
Giunta nell’attuale sobborgo di S. Lucia la via scendeva il balzo dell’antico terrazzamento
fluviale e raggiungeva l’ansa dell’Adige, ma non attraversava il fiume in questo punto, ma
deviava bruscamente dal suo asse per varcare il fiume un po’ più a nord, su un ponte
verosimilmente di legno, costruito su un probabile antico guado ai piedi del colle nella
posizione dell’attuale ponte Pietra, sfruttando l’appoggio naturale dei due speroni rocciosi che
si elevano uno di fronte all’altro sulle due sponde. La deviazione è riconoscibile nella salita
dell’attuale via ponte Pietra, che rispecchia l’assetto viario della Verona romana.
Passato il ponte, la strada proseguiva sulla riva sinistra dell’Adige in direzione di Caldiero e
Vicenza, probabilmente staccandosi dal fiume per raggiungere la zona collinare.
La natura delle strade romane era militare, ma favoriva anche intensi rapporti commerciali e la
romanizzazione del territorio. Grazie alla Postumia mercanti e imprenditori italici, latini e romani
raggiunsero Verona e vi si stabilirono. La moneta, i costumi, il modo di vita, i cibi dei Romani
venivano apprezzati e pian piano si imponevano alla popolazione locale, a cominciare dalla classe
dirigente che ben presto apprese la lingua latina.
Si avviò così un processo per così dire di romanizzazione spontanea da parte della popolazione
indigena. Alla fine anche le divinità di Roma si sovrapposero in parte a quelle del luogo.
Nel contempo alcune facoltose famiglie latine come la gens Gavia e la gens Valeria, da cui
discenderà il poeta Valerio Catullo, si trasferirono qui per investire capitali nei commerci e nei
fertili terreni, trasformandoli in tenute agricole moderne per l’epoca e probabilmente nel volgere di
qualche decennio costruirono nel centro abitato alle pendici del colle confortevoli ed eleganti
domus.
A riprova di ciò, recentissimi scavi nell’area del teatro, hanno riportato alla luce numerosissime
tessere di mosaico di ottima fattura, nella massa di materiale usato come fondamenta della scena e
sotto l’orchestra.
8- Verona e i Cimbri
Alla fine del II secolo a. C., un consistente gruppo di popoli germanici, tra cui si distinguevano i
Cimbri e i Teutoni, migrarono a sud, provenendo dall’attuale Danimarca e si guadagnarono la fama
di guerrieri feroci e invincibili, abbattendo ogni resistenza prima dei Celti e poi dei Romani. Le
fonti parlano di una popolazione complessiva, comprese donne e bambini, di sette-ottocentomila
individui di cui circa trecentomila guerrieri.
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Dal 112 al 101 a. C. essi furono liberi di scorrazzare, nel Norico, regione del Danubio, nel sud della
Gallia transalpina, e in Spagna, sbaragliando uno dopo l’altro interi eserciti romani inviati contro di
loro e preparandosi a scendere in Italia. A Roma si diffuse il panico, si temeva una nuova invasione
della penisola e un assalto alla città, i Romani, contro ogni consuetudine, rinnovarono l’elezione a
console di Gaio Mario, un esponente di spicco della fazione dei populares, malvisto dall’oligarchia
senatoria, ma vincitore in Africa del potente Giugurta, re di Numidia.
Mario per affrontare l’emergenza riformò l’esercito arruolando anche i nullatenenti e nel 102 a. C.
avendo saputo che i Cimbri si erano allontanati diretti verso est, passò a marce forzate nella Gallia
Narbonense (attuale Provenza). Qui affrontò i Teutoni rimasti da soli. annientandoli ad Aquae
Sextiae (Aix en Provence).
Nel frattempo i Cimbri avevano varcato le Alpi, forse presso il Brennero, l’altro console Lutazio
Catulo tentò di bloccarli probabilmente nella val d’Adige, ma non volendo rischiare
l’accerchiamento, si ritirò oltre il Po lasciando via libera agli invasori, che dilagarono nella pianura
da est a ovest terrorizzando gli abitanti e abbandonandosi alle razzie, ma disperdendo le forze e
rimandando la discesa nella penisola. L’anno seguente (101 a. C.) Mario si ricongiunse al collega,
gli eserciti riunti affrontarono i Cimbri e ne fecero strage ai Campi Raudii, una località molto
discussa, forse presso Vercelli, ma più probabilmente tra Mantova e Villafranca di Verona.
I Cimbri forse si limitarono a devastare il ricco territorio, trascurando i centri fortificati, che
richiedevano lunghi assedi, in ogni caso Verona corse un grave pericolo e fece capire ai Romani
l’importanza della sua posizione strategica, allo sbocco della val d’Adige.
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Normalmente un provvedimento del genere avrebbe trovato una forte opposizione nel senato, in
quel momento invece anche le forze più conservatrici acconsentirono. Il tremendo pericolo corso
con Annibale aveva rinsaldato l’unità interna e favorito la concordia tra le classi sociali.
Ma passato il pericolo le cose cambiarono, la sconfitta di Cartagine aveva reso Roma padrona del
Mediterraneo occidentale e le aveva spalancato le porte del ricchissimo Oriente. La nobiltà
senatoria e gli uomini d’affari non si lasciarono sfuggire l’occasione di appagare la loro insaziabile
ambizione di potere e l’avidità di ricchezza.
Sul mediterraneo orientale si affacciavano i grandi e piccoli regni ellenistici, eredi di Alessandro
Magno. Non mancavano pretesti per intromettersi nelle loro lotte e intervenire a fianco di chi
chiedeva alleanza. Il re macedone Filippo V, a cui tutta la Grecia era soggetta, era stato potente
alleato di Annibale, così Roma si alleò con le città greche e con il regno di Pergamo per sconfiggere
lo strapotere del regno di Macedonia.
Sconfitto Filippo, il console Flaminino, che conosceva i Greci e la loro cultura, per contrastare la
voce circolante che il vecchio padrone macedone era stato sostituito da Roma, fece un grande gesto
propagandistico: ai giochi Istmici di Corinto, cui convenivano i Greci da ogni parte, fece
proclamare la libertà delle città greche, suscitando l’entusiasmo travolgente della folla. La parola
libertà per i Greci era magica, così Flaminino fu ringraziato con un gesto altrettanto simbolico.
C’erano sparsi in Grecia più di un migliaio di Romani, caduti prigionieri nella guerra annibalica e
venduti come schiavi. Alcuni di essi avevano visto arrivare l’esercito romano e riconosciuto tra i
soldati dei parenti, ma non potevano sfuggire alla loro condizione. Le città greche a loro spese
ricercarono e liberarono tutti questi e li consegnarono in dono a Flaminino (Plutarco, Vita di Tito
Flaminino, 10, 13).
In seguito l’idillio svanì quando le città greche si accorsero che con i patti di alleanza i Romani
lasciavano una totale libertà interna ma imponevano la loro politica estera: non si poteva fare guerra
o pace senza il permesso di Roma. Anzi in caso di guerra e la minaccia di Filippo, rimasto re di
Macedonia, era ancora presente, le città greche dovevano contribuire con contingenti militari o
rifornire l’esercito romano.
Così via, via anche altri regni e stati ellenistici entrarono in contatto con i Romani e furono
costretti a venire a patti. Le vittorie militari portavano gloria e ricchezza ai generali e notevoli
entrate per l’erario, inoltre aprivano la strada alla penetrazione commerciale e all’influenza politica
su vasti territori.
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cittadini romani impoveriti e degli alleati latini e italici. Gli ottimati non erano disposti a rinunciare
nemmeno in minima parte alle enormi proprietà di cui si erano impossessati approfittando del loro
potere e pretendevano di continuare ad accumulare ricchezze. Essi combattevano a tutti i costi ogni
riforma che colpisse i loro privilegi, facendola passare per un tentativo di sovvertire l’ordine
costituito. Negli ultimi decenni del secolo il partito dei popolari trovò i suoi campioni nei fratelli
Gracchi, che eletti tribuni della plebe fecero approvare, nonostante l’accanita opposizione del
senato, una serie organica di leggi riformatrici, finché non furono travolti e uccisi uno dopo l’altro
da tumulti scatenati dai loro avversari. Gran parte delle loro leggi fu abrogata, e la riforma agraria
fu snaturata da abili sotterfugi.
Gaio Gracco ottenne la fondazione di alcune colonie nel sud Italia e una in Africa sulle rovine di
Cartagine proposta da un collega. Furono bocciate invece le sue proposte di estendere la
cittadinanza prima ai Latini e poi a tutti gli alleati italici, che ormai si sentivano parte dello stato
romano, erano invece molto penalizzati rispetto ai cittadini romani, come era accaduto ad esempio
nelle assegnazione singole (viritane) di terreni in Gallia Cisalpina. Ma anche nella vita quotidiana,
nelle contrattazioni commerciali o nelle liti giudiziarie gli Italici, se non avevano un potente
patrono, erano trattati da sudditi più che da alleati.
Gli ottimati, per screditare il senatore Fulvio Flacco alleato dei Gracchi, lo accusavano senza
fondamento di incitare segretamente gli Italici alla ribellione (Plutarco, Vita di Caio Gracco, 10). Il
malcontento degli Italici era evidentemente ben conosciuto e cresceva di anno in anno, perché le
loro richieste di piena cittadinanza, più volte avanzate, erano state sempre respinte. Esaurita la
pazienza essi cominciarono a prendere accordi per una comune alleanza antiromana, non solo
politica, ma anche militare.
Nel 91 a. C. avevano avuto a Roma contatti col tribuno della plebe Livio Druso che si era
impegnato a loro favore, riprendendo le proposte di Caio Gracco. Il senato si oppose, però,
ferocemente al punto che fece invalidare la procedura di presentazione delle sue leggi. Druso
stesso, al ritorno da una tumultuosa giornata politica, fu assassinato sulla porta di casa. A questo
punto scoppiò la rivolta dei socii italici che sfociò nella guerra detta appunto sociale.
I Romani, contemporaneamente impegnati in oriente contro il potente sovrano Mitridate, si
trovarono in grave difficoltà: avevano di fronte non popoli barbari, ma un esercito di combattenti
addestrati alla stessa disciplina e alle stesse armi dei legionari. L’esercito italico, distribuito al
centro nord e al centro sud, assommava a circa 100.000 uomini. Roma dovette arruolare con
urgenza una decina di nuove legioni e far affluire truppe alleate dalle province di Gallia, Spagna e
Africa.
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I popoli italici si unirono in una federazione statale guidata da consoli e da un senato sul modello
romano, con capitale Corfinium, Corfinio, (vicino a L’Aquila) da loro soprannominata Italica e
batterono moneta su cui comparve per la prima volta il nome Italia, su alcune monete era inciso un
toro che sconfiggeva la lupa romana.
La guerra combattuta tra il 91 e l’88 a. C fu molto dura e con sorti alterne. Per Roma, il rischio era
grande: gli Italici con i quali si era abituati a combattere fianco a fianco erano di colpo divenuti
avversari e inizialmente avevano vinto alcune battaglie. Ammesso che la guerra si fosse vinta,
quanto si sarebbe trascinata, quale prezzo sarebbe costata, l’impero poteva permettersi una lotta
senza quartiere che arrivasse a sterminare i suoi migliori alleati ?
Si decise così di rompere il fronte nemico, ricorrendo alla vecchia tattica del divide et impera. Il
console Lucio Giulio Cesare, zio del famoso Gaio Giulio Cesare, fece approvare nel 90 a. C. la lex
Iulia de civitate, che offriva la piena cittadinanza a tutte le città latine e italiche, che non avevano
preso le armi o le avessero immediatamente deposte, purché accettassero di divenire municipi
romani. Le colonie latine fino al Po poterono così divenire municipi romani.
Tale mossa ebbe successo e riuscì a spaccare il fronte italico, anche se alcuni popoli, come i
Sanniti e i Marsi non cedettero.
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Queste comunità transpadane accettando la cittadinanza latina, mutarono gradualmente le
tradizionali istituzioni, adottando la forma di governo tipica delle colonie latine, basata sui duoviri e
sull’ordo decurionum (il consiglio dei decurioni). Si trattava ormai di comunità miste latino
celtiche: negli ultimi decenni, soprattutto dopo la costruzione della Postumia agli originari abitanti
celti si erano aggiunte numerose famiglie di latini e italici, che investivano i loro capitali nei
commerci o in proprietà terriere comprate o ottenute con assegnazioni individuali.
I duoviri erano i due magistrati supremi della colonia, eletti ogni anno dall’assemblea dei cittadini
a somiglianza dei consoli e come loro erano affiancati da magistrati minori, edili e questori.
I duoviri erano presidenti del tribunale, responsabili del governo cittadino, a loro spettava
convocare il consiglio dei decurioni sulle questioni importanti e poi attuarne le delibere, così come
facevano i consoli con il senato di Roma. Essi avevano anche il delicato compito di effettuare la
leva militare, accontentando le richieste di Roma.
Il Consiglio dei Decurioni, sul modello del Senato di Roma, era formato da varie decine di
personaggi eminenti, scelti in base all’elevato reddito e alla onorabilità sociale, i quali discutevano e
votavano i provvedimenti importanti, le spese e i bilanci e valutavano l’operato dei duoviri.
I magistrati della colonia, a fine mandato, potevano divenire su loro richiesta cittadini romani a
pieno titolo, tale concessione molto conveniente per i beneficiari, era vantaggiosa anche allo stato
romano al fine di garantirsi il consenso e la collaborazione della classe dirigente locale, costituita
sia dai galli indigeni sia dai nuovi venuti latini e italici.
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sacerdoti celti erano studiosi delle stelle per un forte interesse astrologico e astronomico, come
dimostrano resti di allineamenti astronomici segnati con cerchi di pietre, trovati anche nella
Cisalpina. I celti elaborarono un calendario annuale molto avanzato e preciso.
Tra il terzo e il secondo secolo a. C. l’aristocrazia celtica a causa dei frequenti rapporti politici e
commerciali aveva dovuto familiarizzare con la cultura romana dei mercanti e dei soldati,
apprendendo gradualmente il latino orale e scritto.
In Gallia Transpadana a Vercelli abbiamo trovato una lapide bilingue in alfabeto latino e
leponzio, risalente con ogni probabilità all’inizio del I secolo. In essa un maggiorente celta di nome
Acisius definisce la porzione di un terreno che dona come recinto sacro per il culto di una divinità.
Egli avrebbe potuto comunicare la sua volontà solo in celtico, ai suoi connazionali, l’uso del
latino non veniva imposto alle popolazioni locali. Acisio usa invece il latino nella parte iniziale e
più estesa dell’iscrizione e la fa seguire dalla sottostante sintetica traduzione in lingua gallica,
intendendo conferire alla sua donazione ufficialità e universalità. La convivenza delle due culture e
la tipologia dei caratteri latini suggeriscono una datazione prossima alla lex Pompeia (89 a. C.)
quando anche Vercelli diventò una colonia latina.
Acisio riconosce il latino come lingua dominante, ma vuol ribadire l’identità celtica di cui è
orgoglioso, come è orgoglioso del suo titolo di argantocomaterecus, che sembra parola composta di
arganto (argento) e materecos (controllore), riferita a una probabile carica di tesoriere da lui
rivestita nella comunità celtica, precedentemente al conferimento dello status di colonia.
Oltre che nel campo politico, militare e linguistico il processo di romanizzazione si manifestò
anche nell’urbanistica: gli antichi oppida collocati in pianura come Milano, Vicenza, Brescia,
capitale dei Cenomani e altri, cominciarono a trasformarsi in città, a partire dalla zona centrale
dell’abitato trasformata in una grande piazza dalla geometria regolare, il foro, su cui si affacceranno
edifici destinati allo svolgimento della vita religiosa e civile della comunità.
A Verona invece , abbarbicata sul fianco di un colle, il rinnovamento urbanistico era
problematico, ma probabilmente anche qui il nuovo stato di colonia richiese la costruzione di
edifici pubblici per le nuove necessità amministrative. Non ne abbiamo le prove perché la
successiva costruzione del teatro in età augustea, aveva sbancato il fianco della collina da cima a
fondo, eliminando le preesistenze archeologiche.
Sappiamo invece che agli inizi del I secolo a. C., alle pendici del colle di San Pietro e
probabilmente tutto attorno ad esso, fu innalzato un poderoso muro di massi di pietra (calcarenite)
ricavati dalla stessa collina, in modo da rendere sicuro l’abitato che iniziava ad assumere i caratteri
di città. È il muro il più antico di Verona che precede di alcuni decenni la città municipale e la sua
cinta in mattoni sull’altra sponda del fiume.
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È l’unico esempio nella Gallia Cisalpina, all’epoca infatti non esistevano cinte di pietra a nord
del Po e, a sud del fiume, nelle colonie latine o romane, si usavano i mattoni. L’imponente barriera
difensiva di massi squadrati sovrapposti a secco è simile nella tecnica costruttiva a quelle delle città
centro italiche e potrebbe collegarsi con la promozione di Verona al rango di colonia latina. Ma
potrebbe anche risalire a un decennio prima, alla calata dei Cimbri e a una decisione presa in
accordo con Roma di fortificare il centro abitato veronese contro incursioni nemiche. Certo la
potente opera appare consona alla difesa di una vera città più che di un semplice oppidum celtico.
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Nel 148 a. C. il tracciato della Postumia richiese la costruzione di un ponte sull’Adige,
probabilmente sull’antico guado al vertice dell’ansa del fiume dove il suo alveo si stringe a 90
m circa di larghezza, tra due speroni di roccia calcarea, uno che scende dal colle e l’altro che
riaffiora sulla sponda opposta. Il ponte doveva essere di legno, o forse in tecnica mista con
travature lignee appoggiate a pile di pietra, ma fu rifatto interamente in pietra intorno all’89 a.
C. quando Verona assunse lo status di colonia latina.
I Romani erano esperti costruttori di ponti in muratura grazie alla tecnica dell’arco e della
volta appresa dagli Etruschi. L’arco è assai resistente alla compressione, e accostando più
archi nel senso della profondità si ottiene una copertura a volta, in grado di sopportare grandi
pesi. Il tipo di arco preferito era quello a tutto sesto, cioè semicircolare, che dava origine alla
volta a botte.
Le arcate del ponte veronese, probabilmente cinque come ora, erano formate da volte a
botte costruite, come l’intero ponte, con la tecnica muraria dell’opera quadrata (opus
quadratum), cioè con blocchi di pietra squadrati, sovrapposti a secco in filari di altezza
omogenea, e legati tra loro con grappe e perni metallici.
1le cinque arcate, due romane, due veneziane e una scaligera come la torre
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Sulle fiancate dei piloni, proprio alla base delle arcate del ponte sono visibili ancora oggi gli
appositi incassi a forma di unghia, incavati nella fase di costruzione e riutilizzabili per la
futura manutenzione. In essi si inserivano dall’alto le teste delle travi orizzontali che
sostenevano le centine.
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Queste erano impalcature formate da travi disposte come raggi di semicerchi che sostenevano
tavolati ricurvi di assi, su cui si collocavano a semicerchio i blocchi di pietra che formavano la
volta dell’arcata.
Particolare cura si poneva nella posa dei conci di pietra che formavano gli archi delle due
facciate della volta, a monte e a valle del fiume. Essi erano tutti della stessa altezza, tagliati
con una sagoma a trapezio, così da incastrarsi uno accanto all’altro come cunei, in modo da
creare la curva dell’arco e sottolinearne esteticamente la forma costituendo il cosiddetto
archivolto. Da ultimo si inseriva la chiave di volta, il blocco che chiudeva l’arco al suo
vertice, quindi le centine venivano rimosse e i blocchi di pietra, legati anche con grappe
metalliche, sostenendosi tra loro scaricavano il peso sulle potenti basi di appoggio fornite dai
piloni.
Dei due piloni romani, il primo a sinistra è il meglio conservato e può dare un’idea della
originaria forma del ponte. La massa compatta del pilone è alleggerita dal traforo di
un’elegante finestra, slanciata ed arcuata, che è funzionale allo scarico della corrente durante
le piene. Una uguale finestra, secondo lo storico dell’arte Luigi Beschi, doveva essere
presente anche al centro degli altri piloni. È pur vero che il secondo pilone romano ne è privo,
ma la struttura di questo pilone rivela segni evidenti di riparazioni, probabilmente ancora di
epoca tardo romana, con blocchi semplicemente accostati uno sull’altro e legati da grappe,
invece di essere sovrapposti con cura in file sfalsate, come se l’urgenza del rifacimento avesse
costretto a saldare tutto, occupando anche lo spazio della finestra.
.
79
- La struttura romana del ponte Pietra
La struttura del ponte romano era di una semplicità essenziale, Pirro Marconi parla di “pura
struttività” e “mancanza assoluta di ornato esterno, anche (di) semplici orli e cornici” che ne
sottolineino le membrature, a differenza dei più antichi ponti Emilio (o “Rotto”) e Milvio, o del coevo
Fabricio, sul Tevere a Roma, simili per concezione progettuale.
Questo non comporta un giudizio negativo del progetto veronese, che invece doveva essere assai
accurato, nella sua essenzialità. Nella posa in opera le linee di giunzione dei massi di un filare
superiore furono accuratamente sfalsate rispetto a quelle del filare inferiore, contribuendo alla
solidità della muratura e all’estetica del monumento. Secondo il Beschi le quattro pile erano larghe
più o meno m 3,50 e le arcate avevano una simmetrica disposizione, con le due estreme ampie 15 m
e le centrali 16 per un totale di 92, appunto l’attuale lunghezza.
Le arcate sono a sesto di poco ribassato, probabilmente per facilitare il collegamento con il piano
stradale delle rive.
I ponti romani in muratura potevano sfidare i secoli, le arcate, molto resistenti alla compressione,
erano in grado di sostenere carichi assai superiori a quelli cui erano in realtà sottoposte. Il loro
nemico era la corrente fluviale, capace di eroderne a poco a poco le fondamenta o di abbattersi
rovinosamente sui piloni con le piene, per questo le basi delle pile erano difese da speroni o rostri
frangiflutti, sia a monte, sia a valle. Inoltre il ponte presenta una lieve convessità a monte, un
raffinato accorgimento in opposizione alla forza del fiume.
Pile e arcate erano poi oggetto di attenta manutenzione.
L’attuale profilo a schiena d’asino, per un facile deflusso delle acque piovane, risale al rifacimento di
epoca veneziana, non ne conosciamo l’andamento originario. Quanto alle arcate c’è chi pensa, come
Pirro Marconi, che fossero solo quattro, lo proverebbe l’esistenza di una originaria imposta d’arco,
più bassa e troncata a destra della seconda pila. L’imposta suggerisce l’inizio di una arcata a sesto
ribassato di ampiezza doppia (32 m) rispetto alla seconda di sinistra (16 m) che si sarebbe saldata
direttamente alla prima pila di destra eliminando dal progetto il pilone centrale e la terza arcata di 16
m di ampiezza. Sul primo pilone romano di destra si dovrebbe trovare un residuo di questa imposta
più bassa di arcata doppia, ma non ve n’è alcuna traccia nei suoi imponenti resti, caduti nel letto del
fiume e ritrovati durante la costruzione degli argini di fine Ottocento. C’è da dire che un’arcata così
ribassata avrebbe subito fortemente l’impeto delle piene, ostacolandone lo sfogo.
Una testimonianza a favore delle attuali cinque arcate la offre l’Iconografia Rateriana, una
rappresentazione risalente al X secolo ma quasi sicuramente basata su un precedente disegno. In
essa il ponte romano, definito Marmoreus, ha profilo rettilineo e cinque arcate di dimensioni simili,
solo quella di mezzo è lievemente più alta.
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Il ponte nel medioevo sarà chiamato Lapideus o della Pietra, dal momento che gli altri ponti avevano
una struttura lignea .
82
L’esenzione dalle tasse
I cittadini romani furono esentati dalle imposte sul reddito a partire dal 168/7 a. C., quando il console
Lucio Emilio Paolo dopo aver sconfitto Perseo, l’ultimo re di Macedonia, si impadronì del tesoro
accumulato nei secoli dai re macedoni, che comprendeva oro e argento in quantità incalcolabili, statue e
meravigliosi oggetti artistici, il comandante romano non volle tenere nulla per sé, tranne la biblioteca
reale, che donò ai figli.
L’enorme bottino portato a Roma, sfilò in un trionfo senza pari, durato tre giorni e fu donato interamente
, nonostante le vive proteste dei soldati, che pretendevano la tradizionale spartizione, all’erario statale e
come ricorda Plutarco (Vita di Paolo Emilio, 38), permise di esentare tutti i cittadini romani per un secolo e
mezzo, fino al 43 a. C. dai tributa, le imposte dirette basate sul censo, cioè sul reddito, distinte dai
vectigalia le imposte indirette (dazi, tasse su vendite, eredità, acquisto e liberazione degli schiavi ecc.).
Comunque anche dopo questa data la penisola italica godette di ampie esenzioni fino alla riforma fiscale
di Diocleziano della fine del IV secolo d. C.
Il processo di romanizzazione della Cisalpina, ormai maturo, sarebbe stato così giustamente
completato, premiando una regione che si era dimostrata ampiamente meritevole durante tutta la
guerra gallica. Nello stesso tempo Cesare avrebbe ottenuto la gratitudine di queste popolazioni,
legandole alla sua persona e ottenendone l’appoggio politico.
Gli optimates, quando si resero conto che l’ambizioso proconsole progettava una politica di grandi
riforme sociali e istituzionali, cercarono in tutti i modi di ostacolarlo e riuscirono a rendergli nemico
Pompeo, approfittando della morte per parto (54 a. C.) della sua giovane moglie Giulia, figlia
amatissima di Cesare e forte legame tra il padre e il marito.
Cicerone in una lettera del 51 a. C. segnalava preoccupato all’amico Attico (Cic. Att. 5, 2, 3) che
Cesare, andando ben oltre i suoi poteri, incoraggiava le comunità transpadane, aventi lo stato di
colonie latine, a eleggere i propri quattuorviri al posto dei previsti duoviri, come se esse fossero già
municipi romani a pieno titolo.
Nell’inverno del 50, sottomessa definitivamente tutta la Gallia al di là delle Alpi, Cesare visitò,
negli ultimi suoi mesi da governatore, un gran numero di municipi e colonie della pianura padana
per promuovere la propria candidatura a console, accolto dovunque in modo trionfale, ma
suscitando grande turbamento ed ira nel partito avverso.
Nel gennaio del 49 a. C. Cesare, generale vittorioso rappresentava dunque una grave minaccia per i
conservatori che intendevano privarlo delle truppe ed eliminarlo. Allora egli varcò il Rubicone con
una legione e si diresse su Roma: era la guerra civile.
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Mentre incalzava l’esercito nemico capeggiato da Pompeo, Cesare perseguì contemporaneamente
la sua politica: nel dicembre del 49 il tribuno della plebe Roscio, suo amico, riuscì a far approvare
una legge, la lex Roscia che concedeva la cittadinanza romana agli abitanti delle colonie latine a
nord del Po. Ci fu bisogno, però, di una legge di Cesare promulgata nel 45 a. C. (lex Iulia
Municipalis), per attuare la complessa costituzione dei municipi, che doveva armonizzare le leggi di
Roma con gli statuti locali.
Come gli altri abitanti dei centri transpadani, tutti i veronesi di condizione libera divennero allora
cittadini romani a pieno titolo. La colonia latina di Verona divenne Municipio Romano fregiandosi
del titolo di R. P. V. Res Publica Veronensium.
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Fioriva così il mercato e l’economia e con essa la capacità delle città di dotarsi di edifici e servizi pubblici
che miglioravano decisamente la vita dei cittadini.
L’urbanistica romana aveva grande capacità di adattamento alle varie situazioni geomorfologiche, ma
tendeva a uniformare i centri abitati, rendendoli simili tra loro in modo impressionante, anche se non
sempre questa modalità era seguita: in alcune città l’incrocio delle vie principali e la collocazione del foro
avvenivano in posizione decentrata, per meglio sfruttare la conformazione del terreno e adattarvi il tessuto
urbano, oppure perché la città aveva origine dalla struttura di un accampamento militare, imperniato sul
quartiere generale del comandante, come sembra probabile per Torino e Aosta.
Per prima cosa sotto le direttrici delle future vie cittadine si scavava la rete fognaria, formata da ampie
cloache in mattoni con volta a botte, che portavano le acque a un fiume o un canale. Esse erano gallerie in
muratura scavate sotto le vie principali, coperte da robuste volte a botte, sufficientemente alte da
permettere il passaggio di un uomo per la manutenzione. Quindi sopra le fognature si costruivano le sedi
stradali.
L’occupazione degli spazi avveniva inizialmente nella zona centrale, negli isolati sviluppati attorno al
grande spazio del foro. Man mano che gli abitanti fossero cresciuti, nuove abitazioni si sarebbero aggiunte,
in modo ordinato, negli isolati vuoti, rimasti disponibili tra la zona centrale e le mura. Nel frattempo le
strade sarebbero state lastricate di pietre e dotate di marciapiedi rialzati, sotto i quali si aprivano bocche di
lupo per lo scolo delle acque.
I lati del foro si sarebbero col tempo arricchiti di edifici pubblici, religiosi e civili, portici e negozi. In
quartieri decentrati sarebbero sorte le terme, confortevoli bagni pubblici, e grandi edifici da spettacolo,
teatro, anfiteatro e odeon.
Sul fronte strada si sarebbero affiancate l’una all’altra le facciate delle casette popolari a due locali
sovrapposti, sostituendo le iniziali abitazioni provvisorie dei coloni. Spesso il piano superiore era
dotato di un balcone e sul retro della casa c’era un cortile interno. Le costruzioni erano sostenute da
robuste travature di legno tamponate da mattoni, pietre o ciottoli, uniti da malta.
Sarebbero sorte anche le eleganti domus, estese 400/500 mq, costituite da un quadrilatero in
robusta muratura, chiuso all’esterno, tranne qualche alta finestrella e suddiviso in numerose stanze
poste attorno ad un atrio o cortile interno da cui prendevano luce e aria. Un largo corridoio interrotto
a metà da un robusto portone comunicava con l’esterno sulla via principale, cui si aggiungeva di
solito una porticina di servizio, posta su un altro lato.
Così si svilupparono i nuovi centri urbani della Gallia transpadana, come Milano, Brescia, Vicenza Padova e
altri. ma, a differenza di questi, Verona subì una vera e propria rivoluzione urbanistica.
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Con l’acquisizione dello status di municipio romano tra il 49 e 45 a. C. fu predisposto anche per
Verona il progetto di sviluppo cittadino. Qui, però, gli architetti rinunciarono ad uno sviluppo
dell’antico oppidum posto sull’altura di san Pietro, perché urbanizzare la collina presentava
problemi non da poco. Inoltre la pianura padana era ormai un territorio sicuro, “pacificato” e
saldamente controllato, per cui veniva meno la necessità difensiva di una posizione elevata del
centro abitato.
Fu quindi progettata una città del tutto nuova ai piedi del colle, nell’ansa dell’Adige. Qui passava
la via Postumia, una direttrice importante che gli architetti ebbero l’idea di sfruttare, trasformandola
in decumano massimo, nel suo tratto urbano. Le pendici del colle su cui sorgeva l’oppidum furono
abbandonate e in un secondo tempo scavate con un gigantesco lavoro di sbancamento per far posto
alla scenografica architettura del teatro e delle sovrastanti terrazze dominate dal tempio, rimasto
unico testimone della preesistente Verona.
Sparì così la Verona di cui Catullo aveva parlato nei suoi carmi, il poeta infatti morì a trent’anni
intorno al 54 a. C., alcuni anni prima della nascita della nuova Verona.
Gli altri oppida cisalpini, una volta divenuti municipi romani, non divennero immediatamente
nuove città, ma trasformarono gradualmente l’antico abitato, seguendo le direttrici degli urbanisti
romani a cominciare dalla zona riservata al foro, nuovo cuore cittadino. Verona invece venne
trasferita di punto in bianco dal colle al piano e razionalmente ricostruita. Una decisione di tale
portata fa pensare a una volontà politica non locale ma del governo centrale di Roma, perché
comportava la demolizione del vecchio abitato e l’esodo forzato dei suoi abitanti, per cui di recente
si è fatta strada la suggestiva ipotesi che dietro un’operazione di tale arditezza progettuale ci
fossero proprio Cesare e il suo architetto, il famoso Vitruvio Pollione. L’uomo politico ormai
dittatore esercitava un potere incontrastato: i suoi legami con la classe dirigente veronese e la
posizione strategica di Verona potrebbero spiegare il suo interesse per la nostra città.
A conferma dell’ipotesi si aggiunge il fatto che il totale trasferimento di un centro urbano in
pianura aveva un precedente, collegato proprio a Cesare, il quale aveva operato, sempre nella
Cisalpina e precisamente a Como, un intervento urbanistico molto simile. Egli, infatti, una decina
d’anni prima, aveva fatto spostare in piano, dalla collina su cui sorgeva, l’antico oppidum celtico di
Como, costruendo sulla riva del lago omonimo la città ancora oggi esistente.
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spostato l’antico abitato di Comum oppidum, dall’altura su cui sorgeva, al piano presso la sponda del lago,
dandogli l’appellativo di Novum Comum (Catullo 35, 3-4; Strabone 5,1,6).
Il trasferimento in pianura era motivato dalla necessità di costruire una città capace di ospitare le famiglie
dei 5000 coloni-soldati ivi dedotti, e la collocazione sulla riva del lago offriva concrete possibilità di un
futuro sviluppo commerciale. La fondazione di Novum Comum rientrava nei piani di rafforzamento della
presenza romana nella fascia prealpina e di controllo dei valichi verso l’attuale Svizzera, quasi Cesare
presagisse di ottenere la Gallia Cisalpina come provincia.
Tra i 5000 coloni italici e forse in parte autoctoni, egli inserì 500 greci provenienti dalla Sicilia. L’iniziativa
non era così strana come si potrebbe pensare: costoro erano abili mercanti, imprenditori e artigiani,
esperti marinai e armatori, evidentemente l’intento di Cesare era quello di dare impulso all’economia e ai
commerci della città e del lago di Como.
Per convincerli a spostarsi a Novum Comum, in una terra così lontana dalla loro patria, li attirò con
l’eccezionale concessione della cittadinanza romana, avvalendosi dei suoi poteri consolari.
La cosa non mancò di suscitare aspre critiche negli ambienti conservatori che la considerarono un abuso di
potere e uno sfacciato favoritismo per ingraziarsi nuovi e vecchi amici.
Otto anni dopo Marco Claudio Marcello console nel 51 cercò invano di far approvare una legge per
sostituire Cesare, di cui era acerrimo nemico, nel comando delle province, prima della scadenza del
mandato e un provvedimento per privare della cittadinanza romana quei coloni di Novum Comum, cui
Cesare l’aveva concessa.
Non contento, se la prese con un importante personaggio di Como, che si trovava per caso a Roma ed era
anche cittadino romano. Accusandolo di non si sa quale colpa, lo fece percuotere con le verghe dai littori,
dicendogli di andare da Cesare a lamentarsi del trattamento e a mostrargli i lividi (Plutarco, Caes. 29;
Appiano, bell. civ. 2,26,98).
Dal momento che i cittadini romani potevano essere processati da un magistrato, ma non essere
assolutamente fustigati, con il suo gesto plateale Marcello voleva dichiarare inesistente la qualità di
cittadino romano basata sul provvedimento cesariano di otto anni prima. In realtà egli rivelava il
nervosismo degli ottimati e la loro impotenza a contrastare l’ascesa di Cesare e la popolarità da lui
acquisita dopo gli strepitosi successi militari con cui aveva sottomesso l’intera Gallia.
87
Delle due facciate sovrapposte resta solo la metà est, appoggiata ad una casa. Anche dell’epigrafe
resta poco più di una metà, poco visibile perché nascosta dalla nuova facciata, perciò di essa sono
stati fatti dei calchi, uno dei quali è visibile, inserito nel muro dell’edificio retrostante alla porta. La
pietra tenera dell’epigrafe appare corrosa dal tempo, così da rendere alquanto difficoltosa la lettura
del testo qui riportato.
PˑVALERIUSˑ
QˑCAECILIU
QˑSERVILIUSˑQˑ
PˑCORNELIUSˑPˑF ˑ
IIIIˑVIRˑMURUMˑPORTA
CLUACASˑDˑDˑSˑ FACIU P ˑ
VALERIUSˑCˑFˑ
Q ˑ CAECILIUSˑQˑFˑ
L’epigrafe, spezzata e priva della parte destra è stata così integrata dal prof. Ezio Buchi, sulla base
di confronti con molte epigrafi simili, appartenenti ad altre città .
PˑVALERIUSˑ<CˑFˑ >
QˑCAECILIU<SˑQˑFˑ >
QˑSERVILIUSˑQˑ<Fˑ >
PˑCORNELIUSˑPˑFˑ
IIIIˑVIRˑMURUMˑPORTA<MˑTURREIS>
CLUACASˑDˑDˑSˑ FACIU<NDUMˑCOER>
PˑVALERIUSˑCˑFˑ
QˑCAECILIUSˑQˑFˑ <ˑPROBAV>
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anche lo scavo delle fognature, senza dubbio ritenute elemento fondativo di un tessuto urbano. Le
fognature presuppongono ovviamente il tracciato della rete viaria sotto la quale sono scavate.
L’anno di fondazione è imprecisato, poiché, come d’uso non vengono nominati i consoli, che ci
permetterebbero di datare l’evento, ma solo i magistrati locali, esso è comunque collocabile negli
anni del pieno potere di Cesare tra il 49 e il 45 a. C.
L’iscrizione ci testimonia che Verona aveva raggiunto lo status di municipio poiché nomina i
quattro responsabili che provvidero all’appalto dei lavori (faciundum coeraverunt), i quattuorviri,
che sono la magistratura tipica del municipio, diversamente da quella delle colonie costituita dai
duoviri.
Solo i primi due quattuorviri, però, dotati del potere giurisdizionale (iure dicundo) collaudarono
(probaverunt) la validità delle opere.
I quattroviri eseguirono una deliberazione dei decurioni (de decurionum sententia), il senato
veronese, rappresentante della classe dirigente della città e vero detentore del potere locale.
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privilegio di riprodurre l’antico santuario del Campidoglio di Roma e lo ricalca fino nei più piccoli
dettagli.
È innegabile quindi che da parte dell’autorità centrale, a Roma, ci fu per la nostra città una
particolare attenzione ed è facile presumere che ciò avvenisse con il consenso di Cesare.
Impianto urbano
Orientamento
Considerando che il rettilineo della via Postumia attraversava l’ansa dell’Adige dove sarebbe
sorta Verona, l’architetto che la progettò trasformò il tratto urbano della via nel decumano massimo
della città, esso corrisponde agli attuali corsi Porta Borsari e Santa Anastasia e passava tangente al
lato corto nord del rettangolo del Foro, l’attuale piazza Erbe. Il cardo massimo, perpendicolare al
decumano, corrisponde all’attuale via Cappello e sboccava a metà del lato corto sud del Foro, si
bloccava davanti alla mole del Campidoglio, su cui sorge palazzo Maffei, e riprendeva dietro ad
essa lungo l’attuale via sant’Egidio.
In molte altre città romane il cardo non coincide con l’asse astronomico nord sud, a Verona
forma con esso un angolo di circa 35° ovest, acquisendo una direttrice obliqua nord ovest - sud est,
quindi il decumano, ad esso perpendicolare, non è orientato verso il sorgere del sole all’equinozio,
ma piuttosto verso il tramonto nel solstizio d’inverno, in direzione sud ovest. A dicembre inoltrato,
infatti, assistiamo al tramonto del sole dietro porta Borsari dove il decumano massimo si origina
dalla Postumia.
Questo orientamento, sfrutta al meglio la disposizione della scacchiera urbana e della rete viaria,
permettendo sia ai cardi, sia ai decumani di uscire verso la campagna, i primi dal lato sud-est, i
secondi dal lato sud ovest, mentre un esatto orientamento nord sud del cardo massimo avrebbe
costretto i decumani a sboccare sul fiume da entrambi i lati, sia a est, sia a ovest e solo i cardi
avrebbero avuto uno sbocco a sud verso la campagna.
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Seguiamo il braccio occidentale (direttrice nord ovest – sud est) partendo da lungadige Panvinio, una
quarantina di metri a valle a valle del ponte della Vittoria, dove l’originario muro repubblicano iniziava
verosimilmente con una torre quadrangolare sulla sponda del fiume, raggiungiamo via san Michele alla
Porta, corrispondente in parte a un antico decumano minore, che qui si apriva un varco nelle mura per
sboccare sulla campagna attraverso una postierla, una porta secondaria, inserita all’interno di una torre.
Imbocchiamo quindi vicolo Ostie, sotto il cui primo tratto passava il muro, proseguendo diritto sotto le
odierne case, che ne conservano tracce negli scantinati. Stiamo seguendo il muro originario della metà del I
secolo a. C., restaurato da Gallieno tre secoli dopo, circa dieci metri davanti ad esso corre parallelo il
secondo muro aggiunto da Teodorico all’inizio del VI secolo. In via Diaz n. 2 la facciata di palazzo Serenelli-
Benciolini è basata su un tratto ben conservato del muro di Teodorico, mentre all’interno dello stesso
palazzo nelle cantine si trova un tratto dell’antico muro in mattoni, alto quasi 4 metri.
Scendiamo a porta Borsari, un tempo porta Iovia (di Giove), di cui resta solo la facciata esterna di età
imperiale in pietra bianca, ma dietro la quale c’era per la profondità di circa 20 m un vero fortilizio che
proteggeva l’ingresso in città e di cui possiamo vedere i basamenti segnati sul retro, nel piano stradale. Il
muro antico si innestava circa a metà del fianco di questo fortino, il quale sporgeva circa una decina di
metri all’esterno della cinta, protetto da due torri poligonali di 16 lati. Invece il muro di Teodorico, in
analogia con quanto scoperto a porta Leoni, correva davanti alla antica Porta Iovia formando un nuovo
fortino avanzato con un solo ingresso, per motivi di sicurezza.
Continuiamo seguendo il percorso in lieve salita dall’altro lato della porta, lungo vicolo sant’Andrea, vicolo
Del Guasto, passando da corte Farina dove si trova una postierla altomedioevale che ne ricalca una romana,
posta allo sbocco di un decumano minore, di lì oltre via Mazzini imbocchiamo vicolo san Nicolò, usciamo in
piazza san Nicolò e percorriamo via Frattini per poco meno di 100 m, qui sotto un caseggiato di sinistra c’è il
punto in cui questo muro incontrava il braccio orientale proveniente da nord est, all’incrocio tra via Frattini
e via Leoncino. Qui il braccio orientale fu prolungato da Gallieno per raggiungere l’Arena, parallelamente
all’altro muro di collegamento con l’Anfiteatro, che si innestava obliquamente nel braccio occidentale
all’altezza del decumano minore, formato da via Stella e via Anfiteatro.
Il braccio orientale segue l’allineamento di via Leoncino restando però arretrato all’interno delle case. Nei
sotterranei, visitabili su prenotazione, dell’istituto “Figlie di Gesù” sito in via san Cosimo 3, una traversa di
via Leoncino, si trova, ben conservato un tratto di mura in mattoni tardorepubblicano a cui nel I-II secolo fu
appoggiata una ricca domus dai pavimenti marmorei e musivi, c’è poi la base di un torrione di rinforzo di
Gallieno a cui fu aggiunto più tardi uno sperone triangolare difensivo di blocchi di pietra e di fronte ad essi
si erge un imponente resto del muro di pietra di Teodorico in quasi tuta la sua altezza .
In via Leoncino 10 nei sotterranei di Casa De Stefani è stata riportata alla luce la postierla romana
costituita da un fornice carraio largo 3 m, fiancheggiato da due piccoli fornici pedonali, dalla quale usciva
verso la campagna il cardo minore corrispondente a vicolo Stella e a piazzetta Scala.
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La linea delle mura era rafforzata da alte torri quadrangolari sporgenti, poste a distanza regolare (circa
70 m), in corrispondenza dei cardi e decumani minori, i quali sboccavano all’esterno verso la campagna
attraverso postierle carrabili ricavate nelle torri stesse.
Il cardo e il decumano massimi comunicavano entrambi con l’esterno attraverso due ampi passaggi carrai
per i due sensi di marcia, protetti dalle due porte monumentali, porta Leoni e porta Iovia, veri e propri
fortilizi, più alti delle mura e avanzati rispetto ad esse di una decina di metri, tanto all’esterno, quanto
all’interno della città. La facciata esterna delle porte era difesa sugli angoli da due robuste torri poligonali a
sedici lati, alte una ventina di metri.
Da via Leoncino sbocchiamo quindi nello slargo di via Leoni e qui, nello scavo lasciato a cielo aperto,
possiamo vedere l’inserimento del muro tardorepubblicano nel quadrilatero di porta Leoni e, scendendo
nello scavo, il muro teodoriciano che corre davanti alla porta, della quale è miracolosamente rimasta in
piedi la mezza facciata in pietra, di età imperiale, e dietro a poche decine di centimetri la precedente metà
facciata, in mattoni della primitiva porta municipale.
Seguiamo infine il percorso delle mura lungo corticella Leoni e via Amanti, solo per il suo tratto rettilineo,
perché poi è interrotto dalle case sotto le quali continua in linea retta, raggiungendo la sponda orientale
dell’ansa del fiume in lungadige Rubele, tra il ponte Nuovo e il ponte Navi.
Della cinta muraria sulla sinistra dell’Adige non conosciamo l’andamento all’epoca della fondazione del
municipio romano, si può presumere che, partendo dalla sponda del fiume cingesse il colle di san Pietro, di
sicuro secoli dopo Teodorico fortificò con mura nuove l’altura che dominava la città e ai piedi della quale il
re goto volle collocare il suo palatium, la reggia.
Ai piedi del colle, sulla sponda sinistra dell’Adige, di fronte alla nuova Verona, furono costruite altre due
porte urbiche monumentali a protezione degli ingressi in città, una a monte di Ponte Pietra sormontava la
via diretta a Trento, l’altra circa 200 m più a valle, sorgeva a cavallo della via Postumia diretta a Vicenza. Le
due porte erano verosimilmente collegate da una cinta difensiva che abbracciava la sommità del colle,
anche se di essa mancano testimonianze archeologiche
Il braccio occidentale iniziava in lungadige Panvinio poco a valle del ponte della Vittoria,
procedeva in una direzione parallela a via Diaz fino a innestarsi a metà del quadrilatero fortificato di
porta Iovia (porta Borsari). Continuava poi dall’altro lato della porta, e attraversando piazza san
Nicolò giungeva in via Frattini, qui il muro piegava con un angolo di poco più di 90° con l’altro
braccio, il quale seguendo un rettilineo parallelo a via Leoncino raggiungeva Porta Leoni,
proseguiva poi sul lato opposto della porta, raggiungendo la sponda orientale dell’ansa fluviale in
lungadige Rubele, circa a metà strada tra ponte Nuovo e ponte Navi.
Sotto lo slargo di via Leoni, nello scavo lasciato a cielo aperto, è visibile l’inserimento del muro
circa a metà del quadrilatero di porta Leoni, nel suo lato di sud-ovest, all’estremità del quale si
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trovano le fondamenta di una delle due torri poligonali. All’interno di un palazzo sito in via
Leoncino 10 si trovano ben conservate la torre e la postierla in essa inserita, in corrispondenza
dell’uscita del cardo minore proveniente da vicolo Stella e piazzetta sant’Andrea.
La linea delle mura era rafforzata da alte torri quadrangolari sporgenti, poste a distanza regolare
(circa 70 m), in corrispondenza dei cardi e decumani minori, i quali sboccavano all’esterno verso la
campagna attraverso postierle carrabili ricavate nelle torri stesse.
Il cardo e il decumano massimi comunicavano entrambi con l’esterno attraverso due ampi
passaggi carrai per i due sensi di marcia, protetti dalle due porte monumentali, porta Leoni e porta
Iovia, veri e propri fortilizi, più alti delle mura e avanzati rispetto ad esse di una decina di metri,
tanto all’esterno, quanto all’interno della città. La facciata esterna delle porte era difesa sugli angoli
da due robuste torri poligonali a sedici lati, alte una ventina di metri.
Ai piedi del colle, sulla sponda sinistra dell’Adige, di fronte alla nuova Verona, furono costruite
altre due porte urbiche monumentali a protezione degli ingressi in città, una a monte di Ponte Pietra
sormontava la via diretta a Trento, l’altra circa 200 m più a valle, sorgeva a cavallo della via
Postumia diretta a Vicenza. Le due porte erano verosimilmente collegate da una cinta difensiva che
abbracciava la sommità del colle, anche se di essa mancano testimonianze archeologiche.
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Il circuito interno, presumibilmente alto circa otto metri, è tardorepubblicano sella metà del I
secolo a. C., costruito con molta cura in mattoni di ottima qualità e non comprende l’Arena, che
sarà eretta fuori di queste mura, circa un secolo dopo, in età imperiale giulio claudia.
Il circuito esterno, che raggiunge quattordici metri di altezza, è invece costruito in gran parte con
blocchi e lastre di recupero di varie misure, ma ben assemblate e si estende a raccordarsi anche con
l’Arena, unendo la sua formidabile mole al sistema difensivo della città.
Le due cinte murarie appartengono evidentemente ad epoche diverse. La cinta interna, in mattoni
e alta circa 8 m, risale al piano di fondazione della città, all’età di Cesare (metà I secolo a. C.),
un’epoca in cui le mura si potevano erigere con calma e dovizia di mezzi al riparo delle frontiere
salde di uno stato romano florido e potente. La seconda cinta, esterna, in pietra e alta fino a 14 m,
denota l’urgenza costruttiva di tempi difficili, percorsi da incombenti minacce di massicce invasioni
e guerre intestine, che richiedevano mura poderose.
Fino agli anni Ottanta del Novecento archeologi e studiosi attribuivano questa seconda cinta
all’imperatore Gallieno, datandola al 256 d. C., sulla base della maestosa epigrafe incisa sugli
architravi di porta Borsari, l’antica porta Iovia, che celebra la decisione di questo imperatore, grazie
alla quale in pochi mesi “furono fabbricati i muri dei Veronesi”.
Nuove evidenze archeologiche, emerse da scavi già degli anni Settanta portarono a un
ripensamento della cronologia e all’attribuzione di questo secondo circuito al regno del re ostrogoto
Teodorico il Grande (493-526), il quale, come testimonia la Chronica Theodoriciana o Valesiana
(scritta nel 550 a pochi anni dalla sua morte) “cinse di nuove mura la città [di Verona]”, scelta come
una delle sue capitali.
Sembra assodato che l’intervento di Gallieno, avvenuto nella metà del III secolo, in un periodo di
grave crisi dell’impero, non costruì una nuova cinta, ma si limitò a ricostruire l’originario circuito
tardorepubblicano di tre secoli precedente, rafforzandolo con nuove torrette e completandolo con
due nuovi bracci di mura erette in fretta con corsi di ciottoli e laterizi e materiali di reimpiego per
raggiungere l’Arena e collegarla alla cinta difensiva, che cadendo in mano nemica si sarebbe
trasformata in una fortezza gigantesca contro la città, dall’altezza dei suoi trenta metri..
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anteriormente sullo spigolo ovest (la torre est si trova nello scantinato della vicina farmacia). A
circa 18 m dalla facciata in direzione dell’Adige, si notano le fondazioni del muro repubblicano in
mattoni che si raccorda con il fianco ovest del quadrilatero della porta.
Scendendo nello scavo, circa 10 m davanti al primo è accessibile la fondazione di un altro muro
tangente alle torri, è il muro di Teodorico che si raccordava a un fortino avanzato, contenente la
nuova porta con un unico arco di ingresso, più facilmente difendibile.
Con la pace di Augusto, che pose fine alle guerre civili e spostò i confini dell’impero sul Reno e il
Danubio, allontanando pericoli e conflitti, le cinte murarie delle città italiche persero il loro
carattere difensivo, mantenendo però un forte significato simbolico: esse segnalavano un abitato
importante che godeva di autonomia giuridica e amministrativa e in cui non era lecito seppellire i
morti né entrare armati. Su monete, mosaici e bassorilievi appare a volte la rappresentazione di
mura turrite, essa è sufficiente da sola a evocare una città con il suo prestigio e la sua potenza.
Di solito le mura delimitano il confine del territorio cittadino, ma nel caso di Verona i dati
archeologici ci dicono che le mura tardorepubblicane furono innalzate sopra il reticolo viario
precedentemente costruito, intersecandolo e tagliando a metà i rettangoli degli isolati tracciati sul
terreno.
La perdita della funzione difensiva è del tutto evidente in età imperiale, quando l’edilizia
cittadina, alla ricerca di nuovi spazi, si spinse a costruire anche nei pressi delle mura, sfruttandole
come appoggio, al di qua e al di là della cinta senza alcun rispetto della distanza normalmente
prevista. Lo testimoniano le scoperte archeologiche degli ultimi decenni che hanno messo in luce
pavimenti preziosi di ricche domus, addossate alle mura.
Le numerose porte secondarie o postierle, poste eccezionalmente all’uscita di tutti decumani e
cardi minori facilitavano la comunicazione tra la città, i sobborghi e la campagna. Un esempio ben
conservato di postierla è inglobato in un palazzo al n. 10 di via Leoncino ed è in parte intuibile
anche dall’esterno.
La superficie compresa dalle mura era evidentemente non molto estesa, e fu occupata in breve
tempo dall’edilizia privata e pubblica tanto che la città a qualche decennio dalla fondazione
cominciò a espandersi al di là della cinta muraria, a sud ovest della quale fu elevata l’imponente
mole dell’Arena, il grande anfiteatro, mentre pochi decenni prima era stato costruito al di là del
fiume, sulle pendici del colle il teatro, affiancato dall’odeon.
Vicino alle mura e al di là di esse si svilupparono fonderie di metalli e forni di cottura dell’argilla,
che poi si spostarono in zone artigianali più lontane dalla città, lasciando talvolta il posto a domus
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signorili. Nel I e II secolo lungo alcune strade in uscita, soprattutto ai lati della Postumia
cominciarono a sorgere ricche domus, non fu trascurata neppure la collina, dove alcuni facoltosi
personaggi costruirono le loro ville suburbane.
Le porte monumentali
Allo sbocco dei cardi e decumani minori si aprivano nella cinta delle mura, numerose porte
minori, o postierle, ma l’ingresso in città avveniva soprattutto da quattro porte monumentali,
collocate a cavallo delle vie principali, due nella città abbracciata dall’Adige, allo sbocco del
decumano e del cardo massimi (attuali corso porta Borsari e via Cappello), e due al di là dell’Adige,
situate ai due lati del teatro, una subito a monte del ponte Pietra e l’altra a valle del ponte Postumio,
presso l’attuale via Regaste Redentore, in direzione di Vicenza.
Delle prime due, porta Borsari (la romana porta Iovia) e porta Leoni (di cui non è noto il nome
latino) restano miracolosamente in piedi parti significative delle facciate, invece delle due presso il
teatro sono state ritrovati solo fondazioni sotto il livello attuale del suolo.
A dire il vero il semplice nome “porta” non è adeguato, giacché esse erano veri e propri fortini, a
pianta quadrangolare, con circa 20 m di lato, al cui interno si trovava un ampio cortile, circondato
da portici, che alloggiava un corpo di guardia e una dogana per il controllo di merci e passeggeri in
transito. Le fondazioni del fortilizio di porta Leoni sono visibili in parte nello scavo lasciato a cielo
aperto. L’attuale Porta Borsari è solo la facciata esterna in pietra bianca aggiunta in età imperiale,
dietro alla quale a una ventina di metri sono evidenziate sul piano stradale in pietra chiara le
fondazioni dei pilastri della facciata interna dell’antica porta Iovia.
Le porte, alte tre piani, raggiungevano i 13 m e si protendevano per una decina di metri al di
fuori della linea delle mura, protette sugli angoli esterni da due solide torri poligonali alte circa 20
m, incise da feritoie ai vari piani.
Gli ingressi alla città, possibili punti deboli, erano in questo modo potentemente rafforzati e nello
stesso tempo resi più funzionali al traffico in entrata e uscita, che avveniva attraverso quattro fornici
(grandi aperture ad arco), due verso l’esterno e due verso l’interno della città, attraverso i quali i
carri passavano agevolmente nei due sensi di marcia.
La chiusura notturna e in caso di pericolo avveniva probabilmente calando saracinesche verso
l’esterno e chiudendo all’interno robusti portoni.
Nei due piani soprastanti il pianterreno correvano corridoi sui quattro lati, con finestre ad arco,
che davano sull’esterno e sull’interno del cortile.
Il cammino di ronda, posto sulla sommità delle mura, entrava nelle porte all’altezza del primo
piano delle finestre di osservazione.
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Oltre alla funzionalità pratica di custodia del transito e riscossione dei dazi, alle porte era affidata
anche un’importante valenza simbolica, di rappresentanza, lo provano la monumentalità e la cura
architettonica con cui furono costruite. Agli occhi del visitatore, che aveva percorso in solitudine
miglia e miglia di paesaggio rurale attraverso campagne, pascoli e boschi, esse rappresentavano
finalmente un segno tangibile del mondo civile, una prefigurazione della città che contenevano,
della sua importanza, ricchezza e decoro.
Le facciate originarie delle porte di Verona, quando divenne municipio romano in età di Cesare,
erano in mattoni e tufo (più precisamente calcarenite) e presentavano, sia verso l’esterno, sia verso
l’interno della città, un disegno architettonico di derivazione centro italica, che valorizzava le
possibilità decorative dei materiali. Un’idea di queste architetture possiamo ricavarla da
un’attendibile ricostruzione dell’antica facciata interna in mattoni di Porta Leoni, rimasta intatta per
una metà, dietro la successiva facciata in pietra, di età imperiale, che la ricopre.
La superficie in cotto della facciata era movimentata , sopra il piano terra con i due archi di
ingresso, dall’effetto di chiaroscuro creato dalla fila di sei finestre del primo piano e dal loggiato
centrale del secondo. A ciò si aggiungeva il contrasto della bicromia tra il rosso prevalente del
mattone e il giallo dei conci di tufo che sottolineava alcune membrature architettoniche, come la
curvatura delle arcate dei fornici di ingresso e le cornici dei tre piani, le due cornici che marcavano
il piano terra e il primo piano erano decorate con due motivi rettilinei, intagliati a basso rilievo, il
secondo e ultimo piano ospitava il loggiato, scandito da colonne doriche, ed era coronato da una
cornice modanata.
È su questa facciata che si è trovata infissa accanto all’arcata rimasta l’iscrizione corrosa dal
tempo che testimonia la fondazione della città (vedi sopra p.49).
In età imperiale, sotto la dinastia Giulio Claudia, alle facciate in mattoni vennero accostate nuove
facciate in pietra bianca per abbellire e monumentalizzare ulteriormente le porte (vedi sotto).
15- Il Foro
Piazza Erbe occupa ora il luogo dell’antico foro romano, non più visibile, ma non cancellato: le
vestigia della sua pavimentazione, in lastre di pietra calcarea veronese, si trovano, infatti, a circa un
metro sotto il livello del suolo, ne sono state ritrovate nelle cantine di alcune case, che nel corso del
tempo occuparono parti dell’area della piazza romana.
Non solo il dato archeologico del foro è in parte sopravissuto, ma in certo qual modo anche la sua
funzione è sopravvisuta, ripresa, in una specie di continuità plurisecolare, da piazza Erbe, che a
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partire dal medioevo fu il centro commerciale della città, a due passi dai palazzi del governo e della
giustizia.
Le due piazze, separate da un circa un millennio di storia, ma in parte sovrapponibili, sono quanto
di più diverso ci possa essere sotto l’aspetto urbanistico, perché frutto di due concezioni opposte.
Il foro, classico esempio di progettazione romana, era un lungo rettangolo regolare fiancheggiato
da porticati e da edifici pubblici civili e religiosi, secondo una pianificazione urbanistica dalla
geometria esattamente calcolata su rapporti proporzionali, ottenuti moltiplicando precisi moduli di
base.
Piazza Erbe è invece tipico frutto dell’empirismo medievale, grazie al quale gli edifici sono potuti
progressivamente avanzare sui lati lunghi del foro, secondo la volontà e il potere contrattuale dei
vari committenti, lasciando al centro la larghezza originaria, ma occupando spazi adiacenti a tre dei
quattro spigoli, soprattutto ai due a ovest, fino a dare alla piazza una direttrice lievemente obliqua
rispetto al foro e conferendole la caratteristica attuale forma a fuso. Piazza Erbe non è per questo
priva di bellezza, anzi essa esercita un fascino irrepetibile con una armoniosa fusione di architetture
medievali, rinascimentali, barocche e dell’età moderna.
Il foro si trovava alla convergenza di cardo e decumano massimi, la grande piazza, centro e cuore
della città, era un rettangolo lungo 150 m , circa quanto due isolati, nella direzione dei cardi, e largo
56 m, meno di un isolato, nella direzione dei decumani. La forma rettangolare era quindi alquanto
allungata (rapporto 1: 3). Il decumano fiancheggiava a nord il lato corto del foro, il cardo vi entrava
sul lato corto meridionale, un decumano minore lo attraversava nel mezzo.
Sul lato occidentale il foro era fiancheggiato da uno stretto e lungo porticato sul cui retro si
aprivano le tabernae, i negozi dei mercanti e dei cambiavalute.
Il foro costituiva il cuore della vita cittadina, nei giorni di mercato vi affluiva una folla rumorosa,
variegata e vivace, che si raccoglieva attorno ai banchi dei venditori.
Anche i processi venivano celebrati nel foro, attirando centinaia di curiosi che vi assistevano
come ad uno spettacolo sportivo, divisi in fazioni, con applausi o boati di disapprovazione. Nei
periodi elettorali erano invece i discorsi dei politici cittadini ad attrarre la folla. Nella piazza si
celebravano solennità religiose e civili con grande concorso di popolo e prima della costruzione del
teatro e dell’anfiteatro vi si svolgevano anche spettacoli e combattimenti tra gladiatori.
Il foro era luogo di incontro tra domanda e offerta: alle prime luci del giorno vi si recavano i
lavoratori a giornata in cerca di un ingaggio. Si andava nel foro per fare affari, incontrare i
mediatori di varie merci, ma anche per trovarsi con amici e conoscenti, o scambiarsi le ultime
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notizie e i pettegolezzi e passare il tempo libero fuori casa, visto che le abitazioni comuni erano
anguste e poco confortevoli.
Nei pressi del foro era possibile trovare thermopolia (tavole calde) e popinae (osterie) frequentati
da operai, carrettieri, uomini liberi e schiavi, cittadini e stranieri, che con pochi assi (moneta
spicciola) potevano fare uno spuntino nella pausa pranzo di mezzogiorno, cenare a sera o portarsi a
casa cibo già pronto.
Attorno al perimetro del foro sarebbero sorti edifici pubblici indispensabili alla vita politica,
amministrativa e religiosa della città. Sul lato corto settentrionale si iniziò quasi subito a costruire il
maestoso edificio del Capitolium (Campidoglio) e sul lato lungo ovest, al di là dei porticati che
ospitavano le tabernae entro pochi decenni si sarebbero edificati il Comitium (Comizio per le
assemblee cittadine), la Curia (Senato municipale) e la Basilica (mercato al coperto e tribunale)
16- Il Campidoglio
La costruzione del Capitolium (Campidoglio) fu avviata poco dopo la fondazione della città nell’ansa
del fiume e pare che ci vollero più di vent’anni per completarla, a causa della sua complessità e di eventi
che forse interruppero i lavori. Non si trattava semplicemente di un tempio importante, ma di un’ampia ed
elevata struttura, attorniata da portici e criptoportici, con funzioni civili oltre che religiose, dimostrazione
che si facevano grandi progetti su Verona e sul suo futuro sviluppo
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problema di come garantire solida base alle colonne portanti del tempio, posto non su roccia, ma sulle due
strutture artificiali sovrapposte del podio e della terrazza. Lo risolsero con un trattamento particolare
dell’area di fondazione del tempio, o meglio della parte che avrebbe dovuto sostenerne le colonne (non
conosciamo la zona sottostante le tre celle).
Sullo strato di riempimento fu posta una struttura a nido d’ape costituita da file allineate di plinti
(basamenti di colonne) in mattoni sesquipedali (di un piede per un piede e mezzo cm 30 x 45 e spessi circa 6
cm), di ottima qualità e legati accuratamente con malta molto fine. I plinti, quadrati di 3 m di lato alla base,
che si restringevano salendo, erano collegati tra loro, nel mezzo di ogni lato, da muri longitudinali e
trasversali, i quali delimitavano spazi vuoti in genere vagamente cruciformi, che venivano riempiti con strati
di argilla, sabbia e ciottoli fortemente pressati, per evitare un impiego spropositato di mattoni. Questa
piattaforma fu progressivamente elevata di alquanti metri, dalla base di fondazione fino alla
pavimentazione del podio, fornendo un massiccio appoggio alle colonne del tempio sovrastante.
Nel frattempo si compiva il riempimento della terrazza con circa 7000 mc di materiale, poi ricoperto con
lastre di calcare. Quindi si iniziò la costruzione dell’elevato, innalzando con tufo locale le maestose colonne
del tempio e quelle molto più piccole del triportico.
Oltre al brusco troncamento sul retro del tempio, un altro carattere arcaico era costituito dalla
facciata, che risultava notevolmente più larga che alta, con le colonne così distanziate tra loro, da
richiedere architravi di legno (travi di pietra così lunghe si sarebbero facilmente spezzate), ornati
non da fregi di pietra, ma da più leggere lastre di terracotta variopinta. La forma architettonica della
facciata risultava quindi piuttosto pesante, tozza, ben diversa da quella slanciata dei templi greco
ellenistici dalle eleganti proporzioni, ormai presenti da tempo nella penisola e che erano stati
costruiti anche a Verona, quando era divenuta colonia latina.
Il Campidoglio della capitale, innalzato cinque secoli prima dai Tarquini, i re etruschi, e più volte
ricostruito tale e quale dopo incendi o devastazioni rappresentava per Roma un legame profondo
con le proprie radici culturali, sacre e civili, possedere un tempio ricalcato su di esso era un raro
privilegio, un simbolo, religioso e politico, dell’amicizia particolare che legava Roma a Verona,
ottenuta forse grazie a Cesare, che può ben spiegare la struttura volutamente arcaica dell’edificio.
Comunque se l’architettura ci appare un po’ tozza, l’apparato decorativo era un vivace
caleidoscopio di colori. In basso lo stucco dipinto rivestiva le colonne, in alto trionfavano i
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colori della terracotta: vivaci cornici coprivano le travi, lungo gli spioventi del tetto correvano
gronde con disegni vegetali variegati, i pluviali erano abbelliti da teste di leoni o mascheroni
con la bocca spalancata.
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17- Il Campidoglio e l’archivio cittadino o tabularium.
La sacralità dei templi, garantita dalle leggi umane e dalla protezione divina, li rendeva luoghi
inviolabili, presso i quali era consuetudine depositare oggetti e documenti preziosi affidandoli alla
custodia dei sacerdoti e alla benevolenza delle divinità.
Il triplice portico fu annesso al tempio del Campidoglio come tabularium, cioè archivio ufficiale
di documenti pubblici, atti amministrativi ed elenchi catastali, tutti incisi su lastre inchiodate alle
pareti. Tra le rovine del portico, crollate nel sottostante criptoportico, sono stati rinvenuti numerosi
resti di epigrafi di pietra e marmo e due frammenti di bronzo di tavole appartenenti a mappe del
catasto rurale. La superficie bronzea è incisa da linee che la ripartiscono in riquadri, i quali
rappresentano suddivisioni di un territorio veronese non precisabile, si pensa alla centuriazione
della valle d’Illasi . Ciascun riquadro reca incise le coordinate topografiche dei lotti, con
l’identificazione di cardi e decumani, i nomi dei proprietari e il numero di iugeri da loro posseduti.
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Era costume, però, anzi una specie di dovere civico restituire alla comunità una parte delle
ricchezze accumulate, elargendo somme consistenti in donazioni volontarie, che d’altra parte
garantivano ai donatori grande popolarità e riconoscenza dei concittadini, sfruttabili sul piano
politico al momento delle elezioni.
Il sistema quindi in qualche modo si riequilibrava e ridistribuiva la ricchezza, facendo leva
sull’ambizione dei ricchi privati: aristocratici, proprietari di grandi latifondi, potenti commercianti
all’ingrosso e abili imprenditori con fortune incalcolabili, ambivano a un prestigio sociale
corrispondente al loro status e sentivano doveroso contribuire al decoro e al progresso della propria
città. Le donazioni erano apprezzate anche dal governo centrale a Roma, che le incoraggiava con
riconoscimenti e incarichi prestigiosi ai membri delle famiglie locali, che si erano distinte per questi
meriti.
Non c’era personaggio illustre, non c’era carriera politica, che potesse esimersi da queste
pubbliche beneficienze, con le quali anche il lutto per un proprio caro defunto era degnamente
celebrato.
Emblematico è il caso della potente famiglia dei Gavi, arricchitasi col commercio di vini, che
elevò, a cavallo della via Postumia, un maestoso arco commemorativo della propria gens, che era
allo stesso tempo di elegante decoro per l’ingresso in città e ospitava in quattro nicchie altrettante
statue di membri della gens. Un’esponente della famiglia, la matrona Gavia Massima, come
ricordano due epigrafi uguali, donò nel suo testamento, per la costruzione di un acquedotto,
l’enorme cifra di 600.000 sesterzi (tre sesterzi costituivano la paga giornaliera di un legionario).
Un’appartenente ad altra gens, la matrona Apicia, ricordata in un’epigrafe murata in piazzetta
santa Cecilia, contribuì nel suo testamento alla costruzione della Basilica e del suo portico sul lato
occidentale del Foro.
Un’altra matrona, Licinia, in onore del figlio Alpino, dotò l’anfiteatro di fontane per il refrigerio
del pubblico e di una statua di Diana, dea della caccia e quindi degli spettacoli di venationes.
Sappiamo da una lettera di Plinio il giovane che un suo amico, un certo Massimo, forse C. Vibio
Massimo, che rivestì l’alta carica di prefetto d’Egitto, offrì in Arena un grandioso spettacolo
gladiatorio, anche con bestie feroci molto costose, in onore dell’amata moglie defunta.
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Dopo la vittoria di Azio del 31 a. C., Ottaviano, eliminati Antonio e Cleopatra, si trovò da solo a
governare l’immenso impero e qualche anno dopo (27 a. C.) il senato lo insignì del titolo onorifico
di Augusto (consacrato dagli Auguri) . Grazie a lui Roma e il suo impero, dopo tante feroci guerre
civili, godevano finalmente una situazione di pace e prosperità.
I centri della Cisalpina mutarono il loro aspetto: gli spazi e gli edifici pubblici furono
monumentalizzati ed arricchiti con decorazioni, per trasformarli in uno strumento di celebrazione
della nuova era inaugurata dal principe, il quale darà anche il suo nome a nuove città da lui fondate
nell’occidente dell’impero e nella penisola italica, come Augusta Taurinorum (Torino) e Augusta
Praetoria (Aosta).
Augusto volle ripensare e adeguare ai nuovi tempi tutto l’assetto della res publica e renderlo
stabile anche in futuro per i posteri. Per questo non solo lasciò la sua impronta nelle città da lui
fondate o arricchite di monumenti ed edifici pubblici, ma intraprese anche una vasta azione
riformatrice della società romana nel suo complesso, riformò profondamente l’esercito, il fisco
statale, i distretti amministrativi, la costituzione, i poteri del senato e del popolo, riformulò le
carriere politiche di senatori e cavalieri ai vertici della macchina amministrativa e militare dello
stato, definì i rapporti tra il centro e la periferia dell’impero, si occupò di religione, di morale
pubblica, privata e familiare. Augusto e la sua cerchia di potere seppero sfruttare abilmente gli
strumenti della propaganda per creare largo consenso alla loro azione politica. La raggiunta
situazione di stabilità venne celebrata come nuova aurea aetas, la mitica età dell’oro, da poeti e
artisti attratti in una specie di circolo dal raffinato e ricchissimo Mecenate.
Fu promosso il culto della Pax Augustea, cui l’imperatore dedicò lo straordinario monumento
dell’Ara Pacis e il culto del Genius Augusti (il nume tutelare e ispiratore), dopo la sua morte
Augusto stesso venne divinizzato.
Come garanzia duratura e visibile del nuovo assetto politico, Augusto volle che la sua persona
fosse presente ovunque in effige. Il suo volto, più o meno idealizzato, venne riprodotto nel marmo
o nel bronzo di maestose statue collocate nelle piazze, negli edifici pubblici, davanti ai templi delle
città dell’impero, che facevano a gara nel compiacere la propaganda imperiale.
In questo contesto celebrativo si diffusero in modo capillare gli edifici del culto imperiale. Anche a
Verona ne sono presenti almeno due, evidenziati dagli scavi, l’uno sotto l’attuale piazza mercato
vecchio e l’altro a sud-ovest del Foro sotto piazzetta Tirabosco.
Augusto e Verona
Numerose sono le epigrafi funerarie di personaggi che dichiarano con orgoglio di essere stati
seviri augustales, un collegio sacerdotale composto da sei membri eletti annualmente, addetti al
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culto del Genio di Augusto e alla sua persona divinizzata, dopo la morte. I seviri potevano fregiarsi
del titolo anche oltre la durata annuale della carica.
Il culto imperiale si diffuse nei municipi e nelle provincie dopo che Ottaviano fu proclamato
Augusto e a Verona la sua nascita fu abbastanza precoce, forse anche per la gratitudine dei Veronesi
verso l’imperatore, che con le scelte urbanistiche e monumentali da lui promosse riconobbe alla
città una particolare importanza. A ciò si aggiunse anche il ruolo che Augusto le assegnò nella
ristrutturazione amministrativa dello stato. Infatti Verona venne scelta, per la sua posizione centrale,
come sede della riscossione della tassa del 5% sulla liberazione degli schiavi (vicesima libertatis)
per tutta l’Italia a nord del Po, Istria compresa.
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IL TEATRO
Edificio da spettacolo e di grandioso effetto urbanistico.
La città era ormai un centro sviluppato che si espandeva occupando progressivamente gli isolati a
scacchiera dalla zona centrale del Foro verso le mura. Il Campidoglio, quasi completato, dominava
il Foro dall’alto della sua imponente mole, assicurando la protezione divina e custodendo la
documentazione degli atti politici e catastali.
Nel Foro, oltre alle normali attività commerciali, amministrative e giudiziarie, si celebravano
anche feste popolari in ricorrenze religiose e talvolta si allestivano recite o spettacoli da circo,
oppure di gladiatori. In questi casi la folla assisteva in piedi, stipata sui lati della piazza, tranne i
personaggi di riguardo che venivano fatti sedere su scranni mobili in prima fila.
Verona era però incompleta: le mancava un edificio pubblico dedicato agli spettacoli.
Roma e il teatro
I Greci, creatori e appassionati spettatori di tragedie e commedie, avevano inventato l’edificio del teatro e lo
avevano esportato in molte città greche di Sicilia e del sud della penisola italica.
A Roma testi teatrali, tradotti e adattati da modelli greci, cominciarono a essere rappresentati dalla metà
del III secolo a. C., su un provvisorio palcoscenico di legno, spesso il pubblico era costretto ad assistere in
piedi, talvolta si innalzavano anche tribune per gli spettatori, strutture di legno che venivano smontate dopo
lo spettacolo.
Molte città centro e sud italiche, come Pompei, si dotarono di un teatro in muratura, Roma invece ne restò
priva a lungo, per un decreto del senato, contrario a strutture permanenti, molti senatori infatti giudicavano
una spesa inutile costruire un edificio per il puro divertimento delle masse, temevano poi che i costumi dei
Greci contaminassero il mos maiorum, l’austero costume degli antenati: le gradinate potevano divenire luogo
di raduno di fannulloni e sovversivi.
Il primo teatro in muratura della capitale fu costruito a proprie spese intorno al 55 a. C. da Pompeo Magno.
Il potente generale e uomo politico riuscì ad aggirare il divieto senatorio col pretesto, che le gradinate della
cavea sarebbero servite come grandioso accesso al sovrastante tempio dedicato a Venere Vincitrice da lui
stesso fatto edificare su un alto podio.
Nella Gallia Cisalpina, Bononia (Bologna) aveva edificato un teatro già intorno all’80 a. C. e in seguito altre
città ne seguirono l’esempio.
I Veronesi non potevano essere da meno e furono incoraggiati da Augusto a dotarsi di un teatro, un luogo
capace di accogliere la comunità cittadina su gradinate semicircolari, dalle quali fosse possibile godere di una
buona vista su un palcoscenico e fruire di un’ottima acustica, non disturbata dai rumori della città. La
fruizione collettiva di spettacoli avrebbe rafforzato il senso di appartenenza alla comunità cittadina e allo stato
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romano e la coesione sociale.
I Veronesi fecero proprie le indicazioni della politica imperiale e probabilmente contribuirono in modo
consistente al finanziamento della costruzione. Un’epigrafe, purtroppo incompleta, parla a proposito del
theatrum di un patronus, cioè un facoltoso personaggio, vicino al potere imperiale, in grado di beneficare la
città e di patrocinarne gli interessi a Roma.
La progettazione e parte del finanziamento furono probabilmente assunti dal governo centrale, ma
la cittadinanza dovette dare un consistente contributo: i nomi di membri di gentes illustri, come i
Gavii e i Valerii, incisi negli archetti del porticato che coronava la sommità della cavea, ricordano
loro munifiche donazioni per la costruzione o la manutenzione dell’edificio.
Ottenuto il nuovo stato di municipium, Verona era stata trasferita in pianura al di là del fiume, e il
fianco del colle era libero dal preesistente oppidum, l’ignoto architetto pensò quindi di sfruttare il
pendio naturale per inserirvi la cavea del teatro, rifacendosi agli antichi modelli dei Greci, gli
inventori dei teatri. Questa soluzione consentiva un notevole economia di materiali edilizi e
conferiva all’edificio teatrale una posizione dominante sulla città.
In realtà solo la parte centrale della cavea poté essere scavata nel colle, consentendo comunque un
risparmio: le gradinate delle due ali laterali invece dovettero essere appoggiate su apposite
sostruzioni (strutture di sostegno sottostanti) costituite da muri radiali inclinati che sorreggevano
volte a botte inclinate e concentriche.
La scelta del costruttore, però, mirava a ben altro che al solo risparmio: trasformare il fianco del
colle in un grandioso edificio da spettacolo creava uno straordinario sfondo scenografico alle spalle
della città e costituiva il momento più significativo di un progetto di monumentalizzazione di
Verona, in parte probabilmente pensato da Cesare e attuato poi da Ottaviano Augusto, come
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celebrazione della sua persona e della nuova era di pace e di innovazione urbanistica da lui
promossa.
Il Teatro veronese non poteva rivaleggiare per dimensioni con quello di Pompeo a Roma, ma il
diametro della sua cavea era quasi doppio di quello del teatro grande di Pompei, dominava
scenograficamente la città, chiudendo verso est la prospettiva urbana per chi entrava da Porta
Borsari.
L’edificio teatrale sorgeva parallelo al fiume a circa 10 m dall’argine, inquadrato dai due ponti,
Pietra e Postumio e sovrastato dalle architetture di imponenti terrazze coronate dal preesistente
tempio posto sulla sommità del colle, l’unico edificio sopravvissuto alle demolizioni dell’oppidum
in sinistra Adige.
Questa straordinaria soluzione urbanistica, adattata alla morfologia della collina, richiama modelli
di edilizia religiosa centro italica, come quello del santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina
(l’antica Praeneste) costituito da ben sei terrazze sovrapposte, ricavate nel fianco del colle Ginestro,
collegate l’una all’altra da rampe e scalinate e coronate dal tempio.
Rispetto all’imponente costruzione originaria, la vista attuale del Teatro Romano lascia
piuttosto delusi: ciò che resta dopo duemila anni sono solo ruderi, seppur parzialmente
ricostruiti. Possiamo avere un’idea della grandiosità architettonica e scenografica del Teatro
con l’aiuto delle ricostruzioni geniali, anche se un po’ ardite e fantasiose, di Giovanni Caroto
e Andrea Palladio, architetti rinascimentali.
22 - L’intercapedine e la cavea
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Allo scopo di isolare dalle possibili infiltrazioni d’acqua il settore centrale della cavea,
scavato nel pendio del colle, gli antichi costruttori tagliarono nella roccia alle spalle della
cavea una stretta e profonda intercapedine, divisa in tre sezioni, due delle quali liberate dai
detriti risultano lunghe 40 m, larghe 2 e profonde ben 18 metri.
Nella conca della cavea vediamo in parte conservate le 25 file di scalini del settore più basso
(ima cavea), mentre le 10 o 12 file del settore più alto (summa cavea) sono scomparse.
Tra i ruderi della cavea si notano dei muri inclinati dall’alto al basso disposti a ventaglio. La
loro funzione, apparentemente misteriosa, era di base d’appoggio delle volte a botte inclinate,
che sostenevano le gradinate nella parte del teatro non appoggiata al colle. Sono muri radiali
concentrici, disposti appunto come raggi di un cerchio.
I muri radiali e le volte a botte inclinati erano la geniale soluzione adottata dagli ingegneri
romani per sorreggere le gradinate di teatri e anfiteatri.
La cavea era divisa orizzontalmente in due settori o meniani (moeniana) separati da un
gradino molto più ampio degli altri, un ripiano (praecinctio) di smistamento e divisi
verticalmente da scalette che spartivano le gradinate in spicchi o cunei. le scalette in calcare
rosa creavano un effetto di contrasto cromatico con il calcare bianco delle gradinate. Oggi
resta in parte ricostruito solo il primo meniano.
Le gradinate del nostro teatro potevano ospitare circa cinquemila persone. Il pubblico era
distribuito in base al censo, secondo la lex Iulia theatralis voluta da Augusto, che volle
regolamentare l’afflusso disordinato e promiscuo agli spettacoli: la summa cavea era
occupata dal popolo e le gradinate superiori vicine al porticato erano riservate alle donne. Le
classi più agiate sedevano sulle gradinate inferiori, a Verona la zona centrale dell’ima (bassa)
cavea era forse riservata ai cavalieri. Giù in piano ai bordi dell’orchestra su due o tre file di
pedane lignee venivano sistemati i seggi mobili riservati ai senatori e alle autorità civili e
religiose.
La cavea era coronata da una galleria in parte scavata nel colle, sopra alla quale correva un
porticato sorretto da archetti, in cui probabilmente si poteva passeggiare negli intervalli dello
spettacolo.
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dell’azione, esprimendo, per così dire, la voce del popolo di cui interpretava e amplificava le
emozioni.
L’orchestra era la protagonista del teatro: in essa recitavano anche gli attori, perché non
c’era palcoscenico e al di là dell’orchestra c’era la tenda, in greco skené, in cui gli attori si
cambiavano nel corso dello spettacolo, poi si ebbe l’idea di sfruttarla come sfondo dell’azione
teatrale, erigendo al suo posto una costruzione lignea che reggeva una grande tela dipinta, di
qui deriva il nostro termine scena. Solo in un secondo tempo fu costruito per gli attori un
palco rialzato, dietro al quale fu sviluppato uno spazio scenografico.
Col tempo le funzioni del coro diminuirono, fino a scomparire nella commedia ellenistica.
In età ellenistica i Greci cominciarono a trasformare la scena di legno in un edificio in
muratura, dotandola di parasceni e avancorpi laterali. La struttura teatrale, appoggiata al
fianco di un colle di solito discosto dalla città, cominciava a chiudersi, mentre prima era
aperta e inserita nella natura, di cui offriva dalle gradinate una vista panoramica.
I Romani accentuarono decisamente questa tendenza: ridussero il grande spazio circolare
dell’orchestra a un semicerchio, di conseguenza divenne semicircolare anche la cavea che
prima si spingeva ad abbracciare a 240° l’orchestra. Fu invece ampliato il palcoscenico e alle
sue spalle fu elevata una grandiosa scena fissa in muratura alta quanto la cavea, un vero e
proprio edificio di alcuni piani, saldato alla cavea da due poderosi archi di ingresso (parodoi
in greco, aditus in latino), come qui a Verona, cosicché l’edificio divenne una struttura chiusa,
isolata dai disturbi esterni, più simile al nostro concetto di teatro.
Il teatro romano, non più parte del paesaggio naturale, divenne dunque un’architettura
conclusa in sé, perfettamente inserita nel contesto urbanistico. Una struttura che poteva essere
coperta da un sistema di teli a ventaglio, detto velarium, che proteggeva gli spettatori dal sole,
visto che gli spettacoli andavano in scena di giorno.
Tra le innovazioni introdotte dai Romani ci fu il sipario (aulaeum), formato da teli, di solito
innalzati dal basso da un ingegnoso sistema di antenne telescopiche, inserite in fori ricavati in
blocchi di pietra, come sembra qui a Verona. Il sipario durante la rappresentazione,
scendendo, spariva in un incavo della zona anteriore del palcoscenico.
A Verona l’edificio scenico, parallelo all’Adige, aveva come gli altri teatri romani, due
facciate, una rivolta all’interno del teatro, detta frontescena (scenae frons) che ne costituiva la
scena fissa, mentre l’altra, il postscaenium, rivolta verso la città era il prospetto esterno del
teatro.
La facciata interna alle spalle del palcoscenico o proscenio costituiva la scena fissa, con le
porte per le entrate e uscite degli attori, inserite in un’alta muratura ornata di statue e colonne
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e movimentata da sporgenze e rientranze, che formavano nicchie, che contribuivano a
ottimizzare l’acustica.
Di essa resta ben poco, ma se ne può avere un’idea osservando il teatro romano di Orange
in Provenza, anch’esso di età augustea, che ha conservato l’alta struttura in mattoni della
scena, spoglia però di ornamenti architettonici e statue, tranne quella maestosa di Augusto al
centro della struttura. L’armoniosa struttura decorativa in pietra sostenuta da leggiadre
colonne binate, giacché i Romani costruirono teatri in tutto il loro impero, si può ancora
ammirare nel teatro di Leptis Magna in Libia, e in quello di Mérida in Spagna.
La facciata esterna forse si spingeva fino all’argine del fiume, inglobando all’interno delle
sue arcate il tratto antistante della via Postumia. Era una struttura architettonica alta quasi 30
m, visibile da molto lontano, che, come avveniva nei teatri dell’età di Augusto, copriva con la
sua altezza la retrostante cavea. Essa era probabilmente alta tre piani e ripartita nei tre ordini
architettonici, dorico (tuscanico?), ionico e corinzio, scanditi da cornici e da file di finestre ad
arco. La sua lunghezza era notevole: circa 110 metri.
Essa nascondeva la cavea sopra la quale si elevava la scenografia architettonica che
raggiungeva la sommità del colle ed era costituita da due lunghe terrazze rettilinee
sovrapposte, scavate nella roccia, sormontate dalla spianata su cui si elevava il tempio, eretto
dove verosimilmente sorgeva prima la rocca dell’antico abitato. In basso la sponda del fiume
era contenuta da un argine abbellito da un muro di pietra in opera reticolata, del quale resta un
significativo tratto visibile.
Questa complessa e armoniosa struttura, alta 60 m dalla base dell’argine sul letto del fiume
alla terrazza del tempio, costituiva uno stupefacente effetto di scenografia urbana unico nella
Cisalpina.
Già in età augustea il teatro venne abbellito con rivestimenti interni marmorei, statue e
sculture scolpite in marmi pregiati, ci restano bellissime erme (semibusti) di Bacco e satiri e
parapetti delle gradinate elaborati con volute a testa d’ariete sormontate da satirelli.
Cosa si rappresentava in teatro? In epoca imperiale sia le tragedie, sia le commedie, anche
quelle un tempo applaudite di Plauto e Terenzio, erano ormai fuori moda: il pubblico italico
non si emozionava più per le indicibili sofferenze e i dilemmi angosciosi degli eroi tragici e
non reggeva a lungo le complicate e strabilianti traversie amorose delle commedie borghesi.
La gente comune preferiva le compagnie girovaghe di guitti e acrobati con i loro spettacoli
vivaci basati sul susseguirsi di brevi scenette, di parodia della vita quotidiana simili al nostro
varietà, al cabaret, alla satira, il tutto condito da un linguaggio a volte rozzo e farcito di
allusioni, freddure e doppi sensi pur di suscitare le risate del pubblico.
113
L’edificio del teatro veniva probabilmente adibito a spazio politico di assemblee cittadine,
dal momento che era in grado di accogliere la totalità dei veronesi maschi adulti, aventi diritto
di voto.
114
- Gli spettacoli teatrali nel mondo greco romano, organizzazione e pubblico.
Ad Atene la rappresentazione degli spettacoli teatrali avveniva in giornate festive, era
inserita in celebrazioni religiose e organizzata non da imprenditori privati, ma da un alto
magistrato dello stato alto magistrato, mentre i cittadini facoltosi erano tenuti ad assumersi le
spese dello spettacolo, che veniva offerto ai cittadini.
Inizialmente fu la tragedia a prevalere, riscuotendo enorme consenso: per tutti gli Ateniesi
assistere ad una specie di festival tragico per tre giornate di seguito costituiva una fortissima
esperienza emotiva: la rappresentazione tragica scavava nelle profondità oscure dell’inconscio
collettivo. I raffinati versi cantati dai personaggi e dal coro producevano un magico incanto e
una identificazione totale con gli eroi tragici, le loro ascese e gli ineluttabili rovinosi declini per
punizioni divine di orrende colpe personali o risalenti agli antenati, l’inaudita sofferenza
rievocata non era priva di senso, ma educativa, conteneva un insegnamento e la conclusione
della vicenda aveva effetti liberatori sull’animo del pubblico.
Il quarto giorno era riservato alla commedia, grottesca, graffiante, surreale e spesso
carnevalesca presa in giro dei difetti della società ateniese e dei suoi uomini politici.
Con la crisi della polis in età ellenistica declina il genere tragico e la commedia arcaica,
mentre la commedia detta “nuova” perde i forti connotati di satira politica cittadina per
diventare intreccio borghese romanzesco, di innamorati che si scontrano con padri arcigni,
vengono separati da vicende complicate e rocambolesche, ma poi si ritrovano
nell’immancabile lieto fine.
Gli attori per far riconoscere da lontano il personaggio che interpretavano e amplificare la
voce nei teatri, capaci a volte di contenere anche di 15000 spettatori, usavano grandi
maschere tragiche o comiche dotate di una specie di megafono interno.
Anche nella Roma repubblicana il teatro, come tutti gli spettacoli, era organizzato dallo stato
e rientrava tra i vari compiti dei magistrati edili, i quali spesso potenziavano di tasca propria
con somme ingenti il contributo statale, per ottenere popolarità e quindi consenso in vista
della loro carriera politica.
Anche qui il teatro rientrava nelle feste religiose, dette ludi, letteralmente “giochi”,
organizzati in onore di divinità, come Giove, Apollo, Cibele che comprendevano oltre il teatro
(ludi scaenici), il circo (ludi circenses) e combattimenti di gladiatori (munera gladiatoria), che
nei primi tempi, quando non esistevano ancora teatri, spesso avvenivano in concorrenza tra
loro, più o meno in contemporanea nel foro o in aree vicine.
Agli spettacoli, a differenza di quelli greci a Roma potevano assistere tutti, anche le donne e
gli schiavi; c’erano poche panche (subsellia) per sedersi, a volte neppure quelle, bisognava
restare in piedi. Il pubblico alquanto rozzo, non essendo pagante, era indisciplinato, rumoroso,
impaziente, molti andavano al teatro in comitiva come a una scampagnata, per applaudire o
fischiare e rumoreggiare in compagnia. Siccome erano in palio premi per gli attori migliori,
alcuni si portavano la loro claque, in gara con le altre nel fare tifo, sollevando anche cartelli
115
con scritte (v. Plauto, Amphitrio, 65-73).
Famosi autori latini, come Plauto e Terenzio nei prologhi all’inizio di loro commedie si
raccomandano alla benevolenza degli spettatori, invitandoli al silenzio e all’attenzione,
Attualmente il Teatro romano rivive nella bella stagione accogliendo sul suo palcoscenico il
festival Shakespeariano e gli eventi musicali dell’Estate Teatrale Veronese. Inoltre è visitabile
tutto l’anno assieme al civico Museo Archeologico, ospitato negli edifici dell’ex convento dei
Gesuati costruito sulla sua sommità.
33- L’Odeon
Poco dopo la costruzione del Teatro, accanto e allineato ad esso sul suo fianco sud est, fu
elevato un altro edificio da spettacolo, l’Odeon, oggi scomparso e pressoché sconosciuto agli
stessi Veronesi. Una sua traccia è rimasta tuttavia ben visibile nella piazzetta Martiri della
Libertà di fianco alla biglietteria del Museo Archeologico. Raggiungendo il lato verso il colle
della piazzetta troviamo dei lunghi gradini in pietra bianca locale che salgono verso una soglia
per poi scendere sul retro di essa: era questo l’accesso alla zona centrale dell’Odeon, i resti
sottostanti della base della facciata, arrivano a una lunghezza di quasi 60 metri. Non sappiamo
se la soglia rialzata da tre gradini fosse una difesa contro le esondazioni del fiume o solo una
originale scelta architettonica.
Rispetto al teatro grande edificio all’aperto, concepito per gli spettacoli popolari l’odeon è
una costruzione di dimensioni contenute, coperta da un tetto, in grado di accogliere spettatori
in ogni stagione e di offrire un ambiente raccolto, adatto a un genere raffinato di
intrattenimenti, per un pubblico colto ed esigente.
L’odeon di Verona, decisamente più piccolo del suo fratello maggiore, poteva comunque
accogliere diverse centinaia di persone.
Anche l’odeon è un edificio di origine greca (il suo nome deriva da odè, canto), il più
antico era stato costruito ad Atene nel V secolo da Pericle per ospitare i concorsi musicali
delle Panatenee e le prove dei cori drammatici. I Romani ne costruirono molti nelle loro città.
L’odeon di Pompei, posto anch’esso accanto al teatro, è molto ben conservato, tranne il tetto a
quattro spioventi ovviamente distrutto dall’eruzione del Vesuvio.
Nell’odeon si svolgevano concorsi di prosa e poesia, sul suo palcoscenico si davano
spettacoli musicali per intenditori, si tenevano conferenze, si recitavano testi di brani teatrali,
accompagnati da musica, o intere tragedie o commedie.
116
Non dovevano mancare nelle nuove città municipali archi onorari dedicati all’imperatore o ai
membri della sua famiglia, ma a Verona non ne sono sopravvissuti. A volte gli esponenti di
eminenti famiglie delle comunità cittadine presero a modello queste architetture per esaltare il
prestigio del proprio casato.
Arricchitasi con la produzione e il commercio di vini, la potente famiglia ( gens) veronese
dei Gavi, che vantava un proprio rappresentante nel Senato di Roma, fece erigere a cavallo
della via Postumia, circa cinquecento metri prima che essa entrasse in città dalla Porta Iovia,
un maestoso arco celebrativo della propria stirpe e di decoro per la città.
Ne conosciamo eccezionalmente il progettista, a differenza dell’Arena e di tanti altri
monumenti romani, perché l’architetto Lucio Vitruvio Cerdone, fece incidere il suo nome due
volte nei fornici dell’arco.
Il monumento, in pietra bianca, si regge su quattro grandi pilastri e presenta quattro aperture
ad arco a tutto sesto: due molto alte e slanciate sulle facciate dei lati lunghi che attraversavano
la Postumia e due piccole, perpendicolari ad esse, sui lati corti. Le facciate sono slanciate da
un podio che funge da base, sul quale poggiano quattro semicolonne corinzie per lato, le due
coppie interne formano ciascuna un’edicola con architrave e timpano. Tra le colonne si
trovano nicchie rettangolari che ospitavano statue di membri della gens Gavia, di cui non
resta traccia.
Da notare che il soffitto non è costituito da una volta a botte come di solito negli archi
romani, ma è piano, a cassettoni decorati da rosoni e con una testa di Medusa centrale.
L’arco nel corso dei secoli subì non pochi danni e nel XII secolo fu incorporato nelle nuove
mura comunali, diventando una delle porte della città. Nel 1805 fu smontato e rimosso dalle
truppe di occupazione napoleoniche, per ingrandire la strada di accesso in città.
Nel 1932 il monumento fu finalmente rimontato non più nella precedente posizione, ma nel
luogo più vicino possibile, in una piazzetta di fianco a Castelvecchio e ricostruito, pur con
una certa libertà interpretativa, soprattutto nella parte superiore purtroppo scomparsa forma
semplice, armoniosa e solenne.
L’arco era originariamente situato al limite tra la zona di espansione urbana oltre le mura e
la zona cimiteriale sui lati della Postumia, che occupava l’avvallamento dove poi sorgerà
anche porta Palio, quindi esso oltre che celebrare il prestigio di una famiglia influente
assumeva il valore simbolico di confine tra la città dei vivi e quella dei morti.
117
Nella prima metà del I secolo d.C., sotto la famiglia inperiale Giulio-Claudia, fu avviato un piano
generale di riordino e abbellimento dei centri cisalpini e anche a Verona furono programmati
numerosi interventi che riguardarono anzitutto la zona occidentale del foro, arricchita con la
costruzione di importanti edifici pubblici e le quattro porte urbiche principali, rese più monumentali
con la sovrapposizione di nuove facciate di pietra bianca. Una parte del rinnovamento ebbe come
promotore lo stesso imperatore Claudio, il cui nome appare inciso sull’epigrafe dedicatoria di una
delle porte in sinistra Adige.
118
novecento come il tempio del Campidoglio con le tre celle di Giove, Giunone e Minerva, finché nel
1983 non avvenne la scoperta del vero Campidoglio sotto palazzo Maffei.
La Curia fu individuata nel 1986, in occasione di lavori di pavimentazione e di risanamento della
zona: in piazzetta Tirabosco, proprio sopra gli ambienti a volta, si trovarono i resti del pavimento e
le basi delle murature di un’aula larga m 12,50 e lunga circa 13, quindi pressoché quadrata, con
l’unico ingresso sulla parete sud. Lungo le pareti laterali est e ovest furono rinvenuti i resti di
quattro pedane, alte 15 cm, larghe m 1,20: due di esse lunghe 11 m correvano addossate ai due muri
e altre due più interne parallele a queste erano lunghe 10 m, per una lunghezza complessiva di 42
metri. La parete sud era libera, mentre lungo la parete nord di fondo vi era una pedana leggermente
più alta, con un rettangolo centrale avanzato. Le pedane erano originariamente rivestite di sottili
lastre marmoree.
Le pedane e la forma quadrata, prevista da Vitruvio (De Arch. V, 2, 1), evidenziavano la tipica
struttura di una curia, infatti su questi gradoni venivano sistemati gli scranni mobili di legno dei
decurioni, i senatori municipali, in tutto una settantina qui a Verona, come si desume dalla
superficie disponibile, mentre sulla parete di fondo sedevano, al centro, i magistrati della città e, sui
lati, i loro scribi e assistenti (accensi).
I tre ambienti sottostanti, chiaramente funzionali alla Curia, vennero interpretati come carcer
(carcere) ed aerarium (tesoro municipale) che Vitruvio colloca nel foro assieme alla curia (De
Arch. V, 2, 1) e come tabularium (archivio) specializzato. Di solito queste funzioni sono svolte in
edifici separati e non sovrapposti come qui a Verona, ma non mancano esempi di questa tipologia.
La Curia era sopraelevata di circa sei metri su un podio contenente le sottostanti concamerazioni
e il corridoio perimetrale, il quale in realtà si è rivelato un criptoportico ad U rovesciato, con due
porte di accesso, alle due estremità sud.
Una scalinata saliva, incassata dentro il podio e divisa in due rampe da un pianerottolo, fino ad
uno spiazzo, di fronte al quale si trovava la curia, in posizione centrale e preceduta sulla facciata da
un portico che articolandosi poi in due ali est e ovest, raggiungeva l’estremità sud del podio,
sovrapponendosi al sottostante criptoportico. L’effetto era monumentale, anche se la Curia di per sé
era un edificio semplice.
119
D D = Decreto Decurionum (per decreto dei decurioni),
D D P = Decreto Decurionum Publice (a spese pubbliche per decreto dei decurioni),
120
gli altri doveri, l’obbligo di provvedere alla leva militare dei suoi cittadini e alla manutenzione dei
tratti stradali di sua competenza delle vie consolari che la raggiungevano.
Molto importante era la scelta del patronus, di solito un senatore romano, che difendesse gli
interessi della città presso il governo imperiale. Tale scelta richiedeva una presenza sufficiente di
decurioni quorum praesentia sufficit, cioè una maggioranza qualificata e il voto scritto per tabellam e
non per semplice alzata di mano.
121
(aediles). Essi erano responsabili del governo del municipio e dovevano anzitutto eseguire i decreti
dei decurioni ai quali dovevano rispondere.
I candidati si presentavano un anno prima delle elezioni all’assemblea popolare
- 29 La Basilica
Nei mesi freddi e in caso di condizioni meteorologiche avverse le molteplici attività del Foro si
trasferiscono al coperto nel vasto edificio polifunzionale della Basilica, adiacente alla piazza e
capace di accogliere centinaia di persone. Si tratta di un edificio che non può mancare in una città
di una certa importanza e la cui funzione a Verona fu forse svolta nei primi tempi dal triplice
criptoportico del Campidoglio, ma in seguito apparve indispensabile al buon funzionamento della
vita civile che affluiscono dagli ingressi posti a nord e sui due lati lunghi.
L’edificio è lungo quanto un intero isolato, circa 76 m e largo poco meno della metà, circa 30 m ed
è diviso in tre navate da una duplice fila di colonne di pietra, su cui poggiano le travi delle capriate
in grado di sostenere un tetto di così grandi dimensioni.
La basilica è un’aula unica che svolge, a seconda delle ore e dei giorni e a volte
contemporaneamente, le funzioni di tribunale, borsa e mercato, di tribuna per oratori politici e
conferenzieri . Vi stazionano curiosi e perditempo, che vengono cacciati in malo modo all’ora di
chiusura. Di essa sono stati trovati resti delle fondazioni.
122
Il rinnovamento urbanistico di Verona non poteva trascurare gli ingressi principali in città.
Nella prima età imperiale Porta Leoni e Porta Borsari (antica Porta Iovia), pur conservando la
loro struttura, cambiarono l’aspetto esterno, giudicato non più consono al decoro municipale:
gli originari prospetti anteriori e posteriori, in mattoni, furono rivestiti da candide facciate di
pietra, di indubbio effetto scenografico.
La particolarità tecnica delle nuove facciate è di essere strutture per così dire autoportanti,
che si reggono da sé, spesse quasi un metro e costruite con massi legati tra loro da grappe
metalliche, inserite in fori praticati nelle facce di ciascun elemento. Lo possiamo chiaramente
vedere nella facciata esterna, rivolta alla campagna di porta Iovia o Borsari che rimarrà in
piedi da sola fino ai nostri giorni, anche dopo la scomparsa di tutto il retrostante edificio
fortificato.
Le porte si trovavano ad avere così doppie facciate separate tra loro da un’intercapedine di
poche decine di centimetri, che permette di scorgere, dietro le nuove, le vecchie murature.
Ne è evidente testimonianza porta Leoni che, pur avendo perso il prospetto anteriore rivolto
verso la campagna, conserva la metà sinistra del prospetto interno, rivolto verso la città, il
quale presenta la doppia facciata, quella visibile di pietra bianca e quella nascosta
internamente in mattoni.
Facciata di Porta Leoni
La mezza facciata in pietra rimasta è molto slanciata, infatti supera di circa tre m in altezza
quella retrostante in mattoni. Presenta una elaborata decorazione, con archivolti modanati,
semicolonne o lesene corinzie e architravi che incorniciano sia il portale nel piano terra, sia le
finestre nel primo piano, sopra di loro svetta il secondo piano, privo di aperture e articolato
con una rientranza ad esedra che doveva ospitare statue della famiglia imperiale.
C’è un dettaglio architettonico di rilevante interesse storico che, pur essendo piuttosto
nascosto e posto in alto, è possibile cogliere anche da terra, basta porsi sul fianco della porta
in corrispondenza dell’intercapedine tra la facciata in pietra a quella retrostante in mattoni.
Alzando lo sguardo sopra il portale rimasto fino a vedere di scorcio le due file di tre
finestrelle, notiamo che esse non coincidono, a causa di una sfasatura nell’allineamento: le tre
finestre anteriori in pietra sono un po’ più alte e fuori asse rispetto a quelle retrostanti in
mattoni. Le nuove finestre si trovano armonicamente inserite nel prospetto architettonico in
pietra, ben più slanciato di quello antico, ma coprono in parte la visuale delle vecchie finestre,
che permettevano la vista sulla città dal cammino di ronda delle sentinelle. Inoltre il bel
loggiato dorico che coronava l’antica porta repubblicana risulta totalmente occluso dal
secondo piano della facciata imperiale. L’architetto poteva permettersi di trascurare la
123
funzione militare difensiva e pensare solo all’equilibrio estetico della facciata, a conferma
che, in un’epoca di pace interna e sicurezza dei confini, la cinta muraria e le porte della città,
conservavano ormai solo un valore simbolico amministrativo avendo perso la loro funzione
difensiva.
La facciata di Porta Iovia
La solitaria facciata a tre piani dell’antica Porta Iovia sembra quasi una quinta teatrale,
purtroppo incassata nelle case che ne inglobano i fianchi. Al piano terra si aprono i due ampi
portali, mentre le due fasce superiori sono scandite ciascuna da una sequenza di sei finestre.
L’ignoto architetto si rivela un maestro nella multiforme variazione del tema decorativo ad
edicola con cui incornicia gli archi di finestre e portali. Tale motivo architettonico simula la
facciata di piccoli edifici sacri detti edicole (diminutivo di aedes), costituiti da colonne
reggenti architravi su cui poggia un tetto a due spioventi, che si conclude sul davanti con un
frontone triangolare, il cui spazio interno è definito timpano.
Le due edicole che racchiudono i portali sono ben rilevate, sulle semicolonne corinzie dalle
scanalature consunte si appoggiano l’architrave e i triangoli alquanto ribassati dei due
frontoni. Un paio di secoli dopo, l’architrave continuo, sporgente e rientrante, finemente
decorato a tre fasce, fu spianato sopra i portali per ospitare la scritta celebrativa della cinta
muraria ricostruita da Gallieno.
Nel sovrastante primo piano si alternano con simmetria decorativa sei finestrelle, due (la
seconda e la quinta) inserite in pareti lisce e quattro incorniciate da elaborate edicole duplici.
Le due finestre centrali, ornate da edicole con frontoncino triangolare finemente dentellato,
riprendono in piccolo la forma dei due sottostanti portali, esse costituiscono una coppia unita
dentro una più grande e rilevata edicola che le racchiude sotto il lungo architrave, privo di
frontone e sorretto da due semicolonne corinzie solcate da elegante scanalatura a spirale.
Le due finestrelle alle estremità della fila sono incorniciate ciascuna da una duplice edicola,
una inserita nell’altra: le edicole esterne coronate da frontone sono a forte rilievo e con le loro
colonne a spirali racchiudono ciascuna una piccola edicola interna, sul cui architrave posa un
timpano centinato o curvilineo, la cui linea morbida si contrappone agli spigoli dei timpani
triangolari delle finestre di mezzo.
La variante del frontone curvilineo, associato ai frontoni triangolari, nelle cornici di finestre,
sarà ripresa parecchi secoli dopo da Michele Sammicheli (vedi palazzo Bevilacqua) e avrà
molto successo nell’architettura tardorinascimentale e neoclassica veronese e non solo.
124
Le sei finestre al secondo piano hanno una decorazione semplice e meno rilevata, ma con
sporgenze e rientranze inverse, infatti qui sono racchiuse in edicola proprio la seconda e la
quinta finestra al contrario di quelle della fila sottostante.
Queste ultime finestre sono decisamente più alte, una scelta forse dettata dalla volontà di
conferire slancio al prospetto, per compensare un innalzamento del livello stradale, le cui
ragioni ci sfuggono, avvenuto a quel tempo nel tratto del decumano che percorreva l’edificio
della porta. L’altezza degli archi di ingresso risultò ridotta a 4,10 m, così come è attualmente,
mentre l’altezza originaria doveva essere superiore di almeno un metro e corrispondere
all’arco della parallela Porta Leoni, alto m 5,25.
Una linea verticale tracciata idealmente nel mezzo della facciata la divide in due parti del
tutto speculari. La perfetta simmetria decorativa è immediatamente percepibile al piano terra
nei due portali, ma anche le sovrastanti finestre si corrispondono a gruppi di tre per ciascun
piano.
La bianca parete è invece del tutto al grezzo nel retro, che non doveva essere visibile,
perché coperto dal retrostante fortilizio della porta.
L’imperatore Claudio fece rinnovare anche le due porte sulla sinistra Adige ai piedi del
colle. Di quella presso la chiesa di S. Stefano resteranno solo deboli tracce, mentre della porta
a sud est, a cavallo della Postumia, verranno trovate le fondazioni e un’iscrizione posta nel 45
d. C. su un architrave in onore di Claudio e di sua moglie, la celebre Messalina, il cui nome è
però scalpellato perché qualche anno dopo Messalina, colpevole di congiurare contro il marito
fu giustiziata e subirà la damnatio memoriae, la cancellazione della memoria da tutti i
monumenti.
125
L’edificio sacro di non grandi dimensioni fu elevato su un podio appena fuori le mura, tra porta
Jovia e l’Adige, di fronte alla stazione di posta, dove aveva sede un’associazione dei conducenti di
carri e forse un albergo per i viaggiatori.
Il tempio è dedicato a Giove con l’epiteto inusitato di Lustrale (cioè che propizia le purificazioni),
nome inciso su due stele votive trovate nei pressi. Da esso prese il nome la vicina porta Iovia.
Le lastre di calcare bianco del podio del tempio furono scoperte nel 1930 sotto la chiesetta di S.
Michele alla Porta (in questo caso era stata la porta a dare il nome all’edificio sacro), quando essa fu
abbattuta per allargare la strada intitolata al generale Diaz, in prosecuzione del ponte Della Vittoria
che celebrava il felice esito della prima guerra mondiale.
I resti archeologici qui rinvenuti furono rimossi e collocati in seguito presso il cimitero
monumentale della città, dove tuttora si trovano.
34 - L’Anfiteatro o Arena
Il nome e la forma ellittica
Anfiteatro, termine di origine greca per un’invenzione romana, significa “teatro
tutt’intorno”. La sua forma è ellittica, per consentire di aumentare la capienza senza
aumentare l’altezza dell’edificio, che diminuirebbe la capacità di vedere e udire per le ultime
file. Così il centro non è uno solo come nel cerchio, ma si raddoppia nei due fuochi
dell’ellisse, dotati di ottima acustica che amplifica i ringhi delle fiere e i colpi di spada dei
gladiatori. Inoltre lotte di cacciatori con belve, oppure di coppie di gladiatori possono essere
esibite in contemporanea nei due fuochi. La forma allungata dell’ellisse si presta a mettere in
scena le parate variopinte dei gladiatori e a dare spazio ai movimentati combattimenti e alle
cacce alle fiere.
La platea centrale è un’ellisse allungata di m 75,68 x m 44,43 corrispondenti a 250 x 150
piedi, un rapporto di 5 a 3, raccomandato da Vitruvio, che dà la forma a tutta la costruzione
dell’anfiteatro, che da essa si genera. Infatti attorno ad essa corrono, in altrettante ellissi, le 44
file delle gradinate, dalla più bassa, posta a circa due metri dal piano della platea, alla più alta,
posta a circa 20 metri, formando la gigantesca cavea, capace di ospitare fino a trentamila
spettatori. La platea è dunque il cuore dell’anfiteatro, la scena dei sanguinosi spettacoli, tanto
amati dal pubblico.
I gladiatori combattono tra loro o con belve inferocite su un suolo cosparso di sabbia, che
enfatizza i movimenti dei lottatori, ne assorbe il sangue e poi viene accuratamente rinnovata.
La sabbia in latino harena o arena, vedi l’italiano “rena”, diventa un elemento così
significativo dello spettacolo, che il termine “arena” passa a significare la platea stessa e poi,
per “estensione”, come a Verona, l’intero anfiteatro.
126
L’ovale complessivo di tutto l’edificio, comprese le parti mancanti dell’anello esterno, ha
l’asse maggiore di ben 152 m e il minore di 123, mentre il perimetro raggiunge i 435 metri.
Dimensioni che lo collocano ai primi posti tra gli anfiteatri romani.
La committenza
Tra i municipi romani della Gallia Cisalpina, Verona era stata privilegiata fin dal suo
sorgere. Evidentemente il potere centrale aveva grandi progetti sulla città, al punto di dotarla
di vie ampie il doppio del solito, di un Campidoglio imponente e di un teatro inserito in una
scenografia architettonica unica nel nord Italia.
Alcuni decenni dopo la realizzazione del teatro, fu eretto anche un anfiteatro, capace di
contenere 30.000 spettatori, quando gli abitanti di Verona romana probabilmente non
superavano di molto le 10.000 unità.
Una decisione del genere, eccedente di gran lunga le competenze del consiglio municipale,
partì da Roma, probabilmente durante l’impero di Claudio, un imperatore che proseguiva la
politica augustea di sviluppo e abbellimento delle città italiche. Giocavano a favore di Verona
la posizione geografica, crocevia di importanti strade consolari e le potenzialità economiche
della città, il cui anfiteatro poteva servire un vasto territorio oltre i confini del veronese, da
Ostiglia a Mantova, fino a Brescia.
La politica imperiale promuoveva i divertimenti di massa: le cacce ad animali feroci e le lotte
tra gladiatori, con i rischi mortali a cui si esponevano i propri campioni, erano per il pubblico
uno spettacolo eccitante di enorme successo, e quindi per il potere uno strumento
efficacissimo di consenso popolare.
La costruzione dell’anfiteatro, edificio dedicato a questo genere di spettacoli, comportava
una spesa assai elevata, il governo centrale dava un suo contributo e forniva progettazione e
direzione lavori, ma l’impegno finanziario ricadeva anche sulle spalle della comunità
municipale e in particolare dei cittadini più facoltosi, per i quali era un obbligo civico
contribuire con generose donazioni, dopo che il consiglio dei decurioni aveva approvato
l’operazione.
127
La soluzione di appoggiarsi ad una collina come per il teatro apparve non più applicabile
per un edificio dalle dimensioni dieci volte maggiori. Perciò la scelta cadde sulla pianura a
destra Adige, in posizione facilmente raggiungibile dal sistema viario, un’ottantina di metri al
di là delle mura, dove poteva espandersi in tutta la sua imponenza.
Le scelte costruttive decisamente più economiche erano quelle dette a struttura “piena”
come l’anfiteatro di Pompei di età repubblicana, il più antico giunto a noi ben conservato e
ricavato dentro un grande terrapieno che sfrutta su due lati il preesistente bastione delle mura
cittadine.
Altro tipo di struttura piena è quella dell’anfiteatro di Mérida in Spagna, costruito più tardi in età
imperiale, in esso le gradinate sono inserite su terrapieni inclinati, racchiusi da muri radiali di
contenimento, con forte risparmio sui costi di costruzione.
Simile a questo era il sistema che sfruttava la natura del luogo, scavando la cavea nel
terreno, come a Lucera in Puglia, o nella roccia come a Cagliari o a Leptis Magna in Libia,
una modalità costruttiva usata nella stessa Verona per il teatro.
Per l’anfiteatro veronese fu compiuta la scelta diversa e senza risparmio di una struttura
completamente sopraelevata sul terreno, detta “cava”, in opposizione alla struttura “piena”.
Una scelta facilitata anche dal fatto che nella vicina Valpolicella era reperibile in abbondanza
buona pietra da costruzione. Fu così progettata una ardimentosa struttura, formata da
complesse sostruzioni, ovvero architetture funzionali al sostegno delle gradinate. Una
struttura per certi aspetti innovativa, infatti nell’Arena la funzione delle sostruzioni è duplice:
non si limitano a sorreggere la cavea ma ospitano al loro interno percorsi per distribuire
razionalmente l’afflusso del pubblico.
Le sostruzioni si basano sul principio dell’arco a tutto sesto e della volta a botte, cioè a
semicerchio.
Una raggiera di volte a botte, , convergenti dall’esterno verso l’ interno, dette perciò radiali,
svolge la funzione preminente di sostegno, infatti solo alcune di esse costituiscono percorsi di
penetrazione. Esse sono intersecate da tre successive gallerie circolari, concentriche all’ellisse
della platea, che contribuiscono a sostenere la cavea, ma hanno principalmente la funzione di
permettere il passaggio e la distribuzione degli spettatori.
A Pompei, tranne i pochi ingressi diretti all’arena, le arcate esterne sono cieche, non aprono
varchi di ingresso, ma incorniciano nicchioni ricavati nel muro di contenimento del
terrapieno. I privilegiati delle classi elevate accedevano direttamente alle gradinate più basse e
ambite mediante una bassa galleria circolare. La massa del popolo doveva raggiungere da
128
quattro ripide scale esterne un corridoio sulla sommità della cavea e quindi scendere alle
gradinate dall’alto. Un sistema complicato e assai pericoloso in caso di evacuazioni
improvvise quando la folla si accalcava nei colli di bottiglia delle scale.
La struttura cava dell’Arena consentiva di regolare razionalmente l’afflusso e il deflusso
della folla. Gli spettatori accedevano ordinatamente attraverso le arcate numerate dell’anello
esterno per poi salire le numerose scale interne, le quali sfociavano (e sfociano tuttora) sulle
gradinate con ben 64 uscite o vomitorii distribuiti simmetricamente nei vari settori della
cavea, sia in orizzontale, sia in altezza.
All’epoca della sua edificazione l’Arena di Verona fu probabilmente l’anfiteatro più grande
e funzionale d’Italia e lo rimase per un paio di decenni fino alla costruzione a Roma
dell’anfiteatro Flavio o Colosseo, in seguito fu superato di poco dall’anfiteatro di Capua e da
quello di Milano, del quale restano soltanto tracce delle fondazioni.
La piattaforma di fondazione
Gli ignoti architetti erano ben consapevoli dell’enorme peso che sarebbe gravato sui muri
radiali e soprattutto sulle basi dei pilastri, che reggono gli archi, quindi, per evitare
sprofondamenti nel terreno, predisposero alla base dell’edificio una poderosa platea di
fondazione di ghiaia e malta cementizia spessa circa tre metri, in parte scavata nel terreno, in
parte rilevata su di esso e inclinata verso l’ovale interno per favorire il drenaggio delle acque,
in collegamento con il sistema di scolo fognario. L’esterno dell’arena risultava quindi
lievemente sopraelevato rispetto al piano di campagna e non infossato come appare adesso, a
causa dell’innalzamento del suolo circostante.
La piattaforma di fondazione dell’Arena nel corso di due millenni non ha subito cedimenti,
a differenza di quella del Colosseo, in cui un cedimento, dovuto forse a una frattura interna,
ha prodotto una differenza di quota di alcune decine di cm nel lato sud con qualche danno e
crepe della struttura.
129
L’edificio offre quindi allo sguardo l’anello interno della galleria a soli due piani, alto una
ventina di metri, che sembra a prima vista la facciata, simile a quella che molti anfiteatri
dell’impero hanno, a due ordini di arcate. Ma che questo anello fosse un perimetro interno
destinato a rimanere nascosto lo testimoniano le quattro campate archi di pietra, sovrapposti
su tre livelli, rimaste miracolosamente in piedi sul lato nord ovest, che la voce popolare ha
battezzato “Ala dell’Arena”. Sono i resti, accuratamente rifiniti, dell’originaria facciata alta
più di m 30.
La facciata a tre piani e la galleria avvolgevano tutto l’edificio, come si nota dalle basi
d’appoggio dei pilastri di sostegno segnate sul terreno.
I cinque superstiti pilastri dell’Ala che sorreggono gli archi del piano terreno si legano al
perimetro interno con altrettanti archi trasversali collegati da una volta a botte, mentre gli
archi superiori si elevano disancorati da ogni appoggio, a causa della totale scomparsa della
galleria superiore.
A guardare da sotto in su queste arcate di pietra che si innalzano nell’Ala, si prova un senso di
incredula meraviglia per questa struttura autoportante che si regge sul proprio peso con
sapienti incastri e grappe di metallo interne ai poderosi blocchi di pietra, il cui spessore si
assottiglia procedendo verso l’alto.
Su quella che oggi sembra la facciata a due piani, sono ben visibili in corrispondenza dei
pilastri le sporgenze, o imposte, di pietra su cui si appoggiavano gli archi trasversali che si
collegavano verso l’esterno alla facciata originaria, così tra un pilastro e l’altro sono evidenti
le imposte delle volte a botte in conglomerato cementizio (simile a un grossolano
calcestruzzo) che formavano la galleria del piano terra.
Anche sul secondo piano dell’Ala correva una galleria coperta da una volta a botte, sopra
alla prima. Le due gallerie sovrapposte, collegate da scale interne, servivano a distribuire il
pubblico nel momento dell’accesso e durante gli intervalli dello spettacolo. Sopra di esse al
terzo piano correva un portico con tetto ligneo le cui travi di sostegno si appoggiavano su
mensole tuttora visibili nella parete interna del muro dell’Ala.
L’originaria imponenza della facciata a tre ordini di archi, con la sua semplice eleganza in
stile tuscanico, è oggi ridotta a un piccolo tratto, seppur significativo nella sua suggestione.
L’aspetto esterno è quindi oggi fortemente ridimensionato dalla scomparsa quasi totale
della galleria esterna e quindi del terzo piano. È rimasto a fare da facciata l’anello a due ordini
di archi più basso di una decina di metri, rifinito con un bugnato alquanto rustico, perché non
doveva apparire di fuori e che appare monco per le sporgenze che sostenevano la galleria
inferiore.
130
Le sostruzioni: volte radiali e gallerie circolari
Non è facile comprendere la complessità delle sostruzioni che sostengono il grandioso catino
della cavea e il peso delle centinaia di blocchi di pietra che formano le 44 file di sedili di
pietra, sempre più ampie man mano che si sale.
Le sostruzioni consistono in pilastri e arcate in pietra, e in murature e volte a botte in
cementizio, che seguono due diverse direzioni, una direzione radiale, cioè convergente verso i
centri dell’ellisse e una circolare concentrica all’ellisse.
Delle volte radiali quelle immediatamente sottostanti alla cavea sono oblique, con
un’inclinazione corrispondente a quella delle gradinate.
Alcune volte radiali diverse da tutte le altre danno accesso diretto alla platea dell’arena:
lungo l’asse maggiore dell’ellisse l’ingresso ovest n. 1, la porta Triumphalis, attraverso la
quale entrava in Arena la Pompa, il corteo trionfale dei gladiatori, che dava inizio ai giochi,
opposta ad essa l’ingresso est n. 37, la porta Libitinensis, cosiddetta da Libitina, la dea dei
funerali, attraverso la quale uscivano i feretri dei gladiatori uccisi. Le due entrate sono rese
monumentali da una volta sostenuta non da muri radiali ma eccezionalmente da cinque arcate
di blocchi di calcare che prolunga la loro altezza di 9 m fino all’ingresso nella platea.
L’imponenza è ampliata da due ingressi monumentali posti ai loro fianchi che però si
arrestano contro il muro interno della seconda galleria, questi ultimi sono affiancati da due
volte di dimensioni normali che sboccano però direttamente sull’arena. Forse si tratta ingressi
di servizio per gli spettacoli, in mancanza di locali appositi nella zona del podio.
Le volte circolari formano tre successive gallerie anulari di diversa altezza, concentriche
all’ellissi della platea. Le due interne intervallano e intersecano le gallerie radiali. La terza
galleria, che si affacciava sull’esterno dell’anfiteatro ed era formata in realtà da due gallerie
sovrapposte, è da tempo quasi del tutto scomparsa, essa costituiva due piani di corridoi di
accesso e la facciata originaria dell’Arena.
La scomparsa dell’anello esterno ha reso chiaramente visibili, dietro le arcate del prospetto
attuale a due piani, le volte a botte radiali che vi si affacciano. Salta agli occhi una evidente
differenza tra gli ambienti a volta dei due piani: le volte del piano terreno sono diritte,
parallele al suolo, mentre le volte superiori sono visibilmente inclinate. Questo settore di volte
è profondo m 14,50 ed è limitato internamente da una galleria anulare intermedia ellittica alta
circa 9 m e larga 3,30.
Alcune delle volte poste al piano terra attraversano la galleria circolare intermedia
permettendo l’accesso all’interno dell’edificio, la maggior parte di esse è invece chiusa da
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murature: alcune di queste contengono le scalinate di accesso al piano superiore, ma in genere
costituiscono ambienti di servizio, adibiti probabilmente a magazzini, botteghe o taverne.
Le volte del secondo ordine sono invece fortemente oblique, perché nei 14 m della loro
profondità si abbassano di 10 m passando dai 20 m della sommità delle arcate superiori ai 10
del vertice della galleria intermedia, sostenendo l’inclinazione delle sovrastanti gradinate,
quelle della fascia più alta della cavea, la summa cavea.
Procedendo verso l’interno, al di là della galleria intermedia continua un altro settore di
volte inclinate, che sostengono i sedili di pietra della fascia intermedia, la media cavea. Esse
sono profonde 11 m e si abbassano dai 10 m della galleria intermedia ai 4 m della galleria
anulare più interna, larga m 3. Al di là di questa inizia una muratura massiccia, profonda 6,40
m detta podium, che costituisce l’ima cavea, la cavea inferiore con le gradinate più basse e
prestigiose, perché più vicine allo spettacolo.
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è inframmezzata da un’intercapedine riempita uno strato dopo l’altro con cementizio.
Il mixtum è usato nei muri radiali esterni tra la galleria esterna e quella intermedia.
L’ Opus caementicium, con pezzi di arenaria veronese, di terracotta e ciottoli annegati
nella malta, si trova inserito tra i paramenti murari in opus mixtum dei muri esterni ed
è invece a vista nelle volte a botte anulari delle gallerie e trasversali, è inoltre visibile
nei muri radiali interni tra la galleria interna e l’intermedia.
Opus latericium è un paramento murario in mattoni, usato al posto della pietra per
alleggerire il coronamento del secondo ordine di arcate, che un tempo erano interne
all’ultima galleria anulare e non erano in vista, perché coperte dalle arcate anteriori di
facciata, poi scomparse.
Opus reticulatum. Se ne trovano tracce appena visibili sul muro mixtum dell’ingresso n. 1, ma
doveva in origine ricoprire ampie superfici. Ha la particolarità di essere bicromo, rossiccio e
giallo, e doveva ricoprire le murature dei due ingressi monumentali.
Le gallerie anulari
Robusti pilastri e arcate, di grossi conci di pietra calcarea, formano l’ossatura dei tre giri
concentrici di gallerie anulari, che abbracciano a diverse altezze la platea centrale. La galleria
più interna, larga circa 3 m, è alta 3,60 m; la galleria mediana, è alta 9 m e larga circa 3,30; la
galleria esterna è doppia, formata da due gallerie sovrapposte, larghe 4,30 m e alte circa 8 m
ognuna. L’altezza è in forte aumento: i 3,60 m della galleria interna sono quasi triplicati nella
intermedia, di cui quella esterna, la terza è quasi il doppio.
Le due gallerie sovrapposte dell’ultimo giro, erano sorrette ciascuna da due anelli concentrici
di 73 pilastri. Al piano terra i 73 pilastri esterni, di facciata, i più massicci, erano collegati tra
loro da 72 arcate longitudinali che correvano circolarmente. Erano inoltre collegati ai pilastri
dell’anello interno da 72 arcate trasversali, dette radiali, in quanto disposte come raggi
dell’ellisse, le quali formavano l’ossatura della galleria, coperta negli spazi tra un’arcata di
pietra e l’altra da volte a botte in conglomerato cementizio. La stessa struttura si ripeteva al
piano superiore.
Sopra la volta della galleria inferiore un ampio piano di calpestio consentiva al pubblico un
afflusso ordinato alle scale di accesso alla cavea superiore e amene passeggiate con vista
134
panoramica sulla città, durante gli intervalli dello spettacolo. Sopra la volta della galleria
superiore si ergeva un porticato sotto il quale probabilmente era sistemato il palco di legno
riservato alle donne.
Questa doppia galleria è scomparsa (tranne nelle quattro arcate superstiti dell’ala), di essa
resta solo l’anello perimetrale interno con i due ordini di arcate circolari originariamente
nascoste e che costituiscono l’attuale facciata. Ad uno sguardo attento appaiono su di esse i
tronconi di imposta delle arcate di pietra e delle volte in cementizio radiali, che si collegavano
con l’anello esterno, formando le due gallerie sovrapposte.
L’ala superstite conserva in alto anche i quattro archi di un terzo ordine, corrispondente
all’interno ad un porticato che correva tutt’intorno, sopra la galleria superiore. Nel
coronamento di questi quattro archi si trovano infisse a distanza regolare mensole su cui
verisimilmente poggiavano travi di sostegno del tetto ligneo a spiovente che copriva il
portico, le travi dalla parte interna dovevano poggiare su un colonnato. Negli scavi
ottocenteschi dell’Arena furono trovati resti di colonne, quattro di queste si trovano,
ricostruite con capitelli corinzi, nel museo archeologico del teatro romano, esse recano fori
nelle basi e nella zona inferiore dei fusti per l’inserimento di barre di ferro come transenne di
separazione.
135
alcuni vani contengono un sistema di scale più complesso perché queste non potendo salire
dritte per mancanza di spazio, devono compiere un percorso articolato cambiando più volte
direzione, con rampe contrapposte che dalla galleria esterna salgono alla summa cavea
sboccando, secondo la destinazione, sopra la volta della seconda galleria, o raggiungendo un
pianerottolo sopra la terza galleria dal quale si dipartono altre scalette che raggiungono i
vomitoria più alti della summa cavea. Un tempo le scale raggiungevano anche il portico del
terzo piano non più esistente.
- La facciata
L’anello perimetrale esterno testimoniato dall’Ala ha uno spessore di circa 2,50 m alla base,
che si restringe progressivamente in altezza fino a m 1,10. Non era indispensabile alla statica
della cavea, che, come è evidente dallo stato attuale, si regge sulle sostruzioni interne. Esso,
oltre a contenere le due gallerie sovrapposte di distribuzione del pubblico, aveva la funzione
di monumentale facciata, a tre ordini di arcate sovrapposte, alta 30 metri, senza contare il
probabile coronamento. Solo il Colosseo raggiungerà una quarantina d’anni dopo i 50 metri di
altezza.
Esso è sostanzialmente indipendente dal resto, ma rispecchia e ripropone all’esterno,
dilatandola, la forma interna dell’edificio.
Ovviamente una facciata deve mostrare un suo decoro architettonico, che in questo caso è
essenziale ed efficace: essa è costituita nei primi due ordini da arcate vuote a tutto sesto
sostenute da pilastri, la cui superficie, larga più di due metri, è movimentata da lesene
mediane, appena rilevate, che superano in altezza le ghiere degli archi e raggiungono la
trabeazione superiore con capitelli tuscanici come a sostenerla. L’imposta degli archi è
sostenuta da coppie di semicapitelli. Il terzo ordine presenta alcune varianti: oltre ad essere
decisamente meno alto, ha archi un po’ più stretti a forma di grandi finestre, chiuse in basso
da un parapetto e inquadrate dalla sottile sporgenza di arcate complete di piedritti. Tre cornici
marcapiano separano i tre ordini.
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- Sensazione di potenza. Il bugnato rustico
A differenza del Colosseo, che presenta tre stili diversi, dorico, ionico e corinzio, uno per
ciascuno dei suoi tre ordini, i tre ordini di archi dell’Arena sono tutti in austero stile tuscanico
(dorico semplificato) e le superfici non sono rifinite e levigate come in altri anfiteatri, ma
lavorate a bugnato rustico che lascia grossolane e rugose le superfici.
Se ne riceve un’impressione di ruvida potenza, che evidenzia in pilastri e arcate la funzione
di ossatura portante capace di reggere il peso e distribuire le spinte della grande mole.
Un’impressione non disgiunta da quella esteticamente gradevole delle armoniche proporzioni
e della ritmata scansione dello spazio, la cui possibile monotonia è contrastata dall’effetto
coloristico del calcare dei blocchi, che varia dal grigio chiaro alle varie sfumature di rosa,
pallido o intenso. La caratteristica dei blocchi variegati è inoltre valorizzata dalla loro
disposizione volutamente casuale.
Il bugnato presenta tra l’altro il vantaggio di ridurre costi e tempi: i blocchi o conci di pietra
tagliati secondo moduli predefiniti e rozzamente sbozzati nelle cave della Valpolicella, una
volta trasportati a Verona, sono sostanzialmente già pronti all’uso. Il lavoro del cantiere si
limita a rifinire gli spigoli e a incavare le facce di giuntura tra i conci, in modo che aderiscano
perfettamente gli uni agli altri.
Le facce a vista lasciate al grezzo risultano sporgenti rispetto agli spigoli alquanto arretrati,
conferendo appunto l’effetto di bugnato.
Un pregio del bugnato è quello di proteggere con la sua sporgenza le linee di giunzione tra i
blocchi dall’acqua piovana, evitando che vi ristagni.
La posa in opera è perfezionata da un sottile strato di malta tenace che evita il contatto tra pur
minime protuberanze, che sottoposte al carico delle spinte potrebbero dar luogo a piccole ma
pericolose crepe, l’adesione tra i blocchi è rinforzata internamente da grappe e perni metallici,
fissati in appositi fori con piombo fuso.
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notano le imposte troncate degli archi di pietra e delle volte cementizie che dovevano
collegarlo all’anello esterno della facciata.
La funzione di sostegno di queste arcate, che dovevano ovviamente restare nascoste alla
vista, è stata quindi ancor più messa in rilievo e al contempo la struttura mutilata comunica
una sensazione di incompiuto come se l’opera fosse stata lasciata lì all’improvviso per
qualche grave evento sopraggiunto.
L’impressione, chiaramente smentita dai dati archeologici e storici, fece presa però nel
medioevo sulla fantasia dei Veronesi che, vedendo nella straordinaria costruzione un
complesso labirinto, misterioso e sovrumano, favoleggiò di un patto stretto col diavolo, da
parte di un nobiluomo veronese, che promise di creare in una sola notte un grandioso
monumento per salvarsi così da una condanna a morte. Un esercito di demoni si mise
all’opera, innalzando magicamente una serie di arcate, ma il lavoro fu interrotto bruscamente
all’alba dalle campane che suonavano l’Ave Maria.
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Quelle del podio erano le prime file, le gradinate più basse che permettevano la vista migliore
erano riservate all’aristocrazia, ai cittadini che godevano di alto reddito e prestigio, ai
sacerdoti, ai decurioni della città e ai loro ospiti. Forse sopra i due ingressi dell’asse minore, i
punti più vicini al centro dell’elissi, in posizione ottimale per godere lo spettacolo, si
trovavano le tribune d’onore per i magistrati e le alte cariche presenti in città.
Nel primo meniano che formava la media cavea sedeva il ceto borghese, proprietari
benestanti, pubblici funzionari, mercanti facoltosi. Le classi popolari trovavano posto nel
secondo meniano summa cavea, la fascia più alta. Le donne stavano separate nella zona più
alta, forse in un quarto meniano diviso da una precinzione, o forse confinate nel porticato
sopra la galleria superiore.
La separazione formale delle classi sociali era prescritta dalla lex Iulia Theatralis promulgata
dalla volontà moralizzatrice di Augusto, ce ne riferisce alcuni aspetti lo storico Svetonio, che
ricorda anche la separazione dei militari dai civili.
Lo spettacolo era una festa popolare, un grande divertimento offerto a tutti, perfino agli
schiavi dei personaggi influenti, assiepata sulle gradinate la moltitudine stessa costituiva uno
spettacolo, ognuno poteva rispecchiarsi e riconoscersi negli altri e partecipare alle emozioni
collettive. Era un momento di aggregazione che rinforzava i legami sociali, i clienti
scorgevano il proprio patrono sedersi nelle prime file e lo salutavano grati del posto che aveva
ottenuto per loro. L’ordine dell’anfiteatro rispecchiava e confermava l’ordine sociale.
Le due gallerie sovrapposte del giro esterno servivano alla distribuzione della massa degli
spettatori e sono probabilmente una soluzione adottata la prima volta qui nell’anfiteatro di
Verona. Il pubblico, una volta passato attraverso gli ingressi numerati, entrava nelle volte a
botte del secondo anello e qui imboccava un complesso sistema di scale che conduceva ai 64
vomitoria (un termine pregnante per definire gli accessi) che sboccavano a varie altezze nella
cavea. La seconda galleria, oggi scomparsa, permetteva di accedere al porticato. Lunghe e
strette scalette inserite nelle gradinate facilitavano l’accesso ai posti a sedere e dividevano la
cavea in settori verticali (cunei) a forma di V tronca.
L’accesso dei circa 30.000 spettatori risultava così agevole e ordinato e altrettanto dicasi per
l’uscita, che in caso di necessità poteva avvenire in pochi minuti attraverso i 64 vomitoria.
La cavea che vediamo non è quella originaria, irrimediabilmente guastata nel corso dei
secoli dall’abbandono e dalla sistematica spoliazione delle pietre dall’Alto Medioevo al
Rinascimento, essa fu più volte ricostruita in epoca moderna a partire dal XVI secolo sotto il
dominio veneziano, ma senza ripristinarne le divisioni orizzontali o verticali, né l’originaria
altezza dei sedili e dei gradini.
139
-
- Gli spettacoli
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Gli spettacoli cominciavano la mattina con le venationes: combattimenti tra uomini e
animali, o a volte lotte tra bestie feroci aizzate le une contro le altre.
Per la sicurezza del pubblico tra il podio che delimita le gradinate e l’arena doveva essere
interposto un muro o una robusta staccionata capace di intrappolare i balzi delle fiere.
Seguivano i munera gladiatoria, combattimenti tra gladiatori, preceduti dalla pompa, una
parata dei combattenti che, armati di tutto punto, entravano in scena nell’arena dalla porta
trionfale a ritmo di marcia, accompagnati da squilli di trombe e tamburi, tra il visibilio del
pubblico che acclamava a gran voce i suoi campioni.
Dalla opposta porta di Libitina, la dea dei funerali, uscivano invece su un letto funebre i
corpi dei gladiatori uccisi in combattimento, accompagnati da un solenne rito funerario.
Non bisogna pensare che gli spettacoli si concludessero regolarmente con una strage di
gladiatori, essi rappresentavano un investimento prezioso per il lanista, che era capo di una
scuola gladiatoria (ludus) e allo stesso tempo impresario, il quale affittava i suoi campioni
all’organizzatore dei giochi (editor). Il lanista teneva alla vita dei suoi uomini che aveva
allenato con grande impegno e mantenuto a sue spese: essi erano la sua fonte di guadagno.
Anche l’editor era interessato ad evitare uccisioni, perché in caso di morte di un gladiatore
doveva risarcire il lanista.
Augusto nella sua opera moralizzatrice della società romana, si occupò anche dei giochi e
proibì combattimenti all’ultimo sangue (Svetonio, Aug., 45): lo sconfitto doveva essere
missus (lasciato andare, risparmiato).
I gladiatori erano schiavi, prigionieri di guerra, ma anche volontari che accettavano rischi e
sacrifici per uscire da uno stato di povertà divenendo bravi e popolari, così da ottenere buoni
ingaggi e le donazioni dai loro sostenitori, uomini e donne.
In genere gli spettacoli erano offerti da cittadini facoltosi, per rendersi popolari, o per
favorire o celebrare i propri cari, come la matrona Licinia che offre venationes, spettacolo di
cacce a bestie feroci, in onore del giovane figlio Quinto Domizio Alpino.
Un’epistola di Plinio il giovane all’amico Massimo è illuminante a questo proposito.
Caro Massimo,
hai fatto benissimo a promettere un combattimento di gladiatori ai nostri Veronesi, che da tempo
ti amano, ti ammirano e onorano.
Di Verona era anche la tua carissima e stimatissima moglie, la cui memoria meritava qualche
edificio pubblico o meglio uno spettacolo, che è il più adatto ad una celebrazione funebre.
Ti dico anche bravo, perché nell’organizzare non hai badato a spese.
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Peccato che le pantere africane che hai comprato in gran numero non siano arrivate nella data
stabilita, bloccate da una tempesta. Ma il merito tu l’hai comunque, perché la cosa non è dipesa da
te. Stammi bene.
Dal testo di Plinio comprendiamo che uno spettacolo di venationes di buon livello era così costoso
da equivalere alla costruzione di un edificio pubblico.
I gladiatori si affrontavano a coppie, in cui spesso un uomo ben difeso, ma appesantito, da un
robusto armamento era opposto ad un agile armato alla leggera.
Il mosaico pavimentale, trovato in una domus vicina a porta Iovia (Porta Borsari) e visibile
al museo archeologico del Teatro Romano, descrive in modo piuttosto elementare tre scene di
combattimenti tra gladiatori, con brevi scritte esplicative, quasi una striscia di fumetti. Due
riquadri raccontano la conclusione di duelli tra il gladiatore reziario (da rete), e il secutor
(inseguitore), che riscuotevano molto successo per la loro particolarità. Il reziario, seminudo,
impersonava un pescatore ma ricordava anche il dio Nettuno, imbracciando la rete e il
tridente, il secutor ben difeso da elmo e scudo era una preda assai pericolosa, anzi era lui a
incalzare, cercando la distanza ravvicinata, per rendere inutili le armi dell’avversario e colpire
con la sua corta spada, ma era impacciato dal pesante armamento. Il reziario lo sfuggiva
facilmente, sfruttando la sua rapidità di movimenti e tenendolo distante a colpi di tridente. I
due girando in tondo si provocavano con finte e reciproche mosse e contromosse, finché
partiva lo spettacolare attacco del reziario: la robusta rete, lanciata da mano esperta si librava
in aria, allargata dai pesi fissati ai bordi, per ricadere sul nemico, che era facile poi gettare a
terra con uno strattone alla rete, sempre che il secutor non fosse così agile da scansarsi e
respingere l’estremità della rete con il grande scudo, per poi scagliarsi sul rivale, mentre
cercava di recuperare la rete, legata al suo polso.
Nel primo riquadro un reziario occupa baldanzoso il centro della scena, mentre l’avversario
secutor abbassa lo scudo in segno di resa.
Nel secondo, invece, il secutor è riuscito a ferire l’avversario con la corta spada, il reziario
cade in ginocchio in segno di resa e l’arbitro si frappone tra i due.
Nella terza scena un “mirmillone”, dalla pesante armatura, è disteso a terra in un lago di
sangue: il grosso elmo con visiera e il pesante scudo non lo hanno protetto da un agile “trace”,
che armato di sica, una corta spada ricurva, è riuscito a ferirlo gravemente. Su un lato è già
pronta la barella funeraria.
Nell’epigrafe del gladiatore Glauco, morto in combattimento, dopo la dedica della moglie e dei suoi
tifosi, è lo stesso defunto a prendere la parola.
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Agli Dei Mani. A Glauco da Modena che combatté sette volte e morì l’ottava, visse anni 23 e 5
giorni, al caro marito Aurelia e i tifosi di lui dedicano il sepolcro.
Io, Glauco, esorto voi a onorare e scongiurare la vostra stella, non fidatevi della nostra dea
Nemesi: così sono stato ingannato. Addio. State bene.
L’anfiteatro era adorno di grandi statue di marmo e di bronzo, di divinità ed atleti . Una
statua di bronzo di un pugile ci lascerà come testimonianza solo la mano sinistra protetta dal
caestus, specie di mezzo guanto formato da bende di cuoio avvolte in modo da proteggere il
dorso e aumentare la potenza dei pugni. Evidentemente in Arena erano molto seguiti dal
pubblico anche gli incontri di pugilato.
A distanza di quasi duemila anni l’Arena è ancora in piedi nonostante secoli di abbandono e
di spoliazioni o di dannosi riutilizzi nel medioevo. Riscoperta dagli architetti rinascimentali e
restaurata nel Sei-Settecento dalla Repubblica Veneta. Usata occasionalmente per ospitare
giostre di cavalieri, “caccie” di tori e spettacoli teatrali, nel novecento ha riacquistato la sua
funzione vitale come luogo di spettacolo di massa, per un pubblico, attratto non più da giochi
cruenti, bensì dalla passione per il bel canto e le opere liriche, non solo, ma anche per la
musica leggera e i concerti pop e rock.
L’Arena nella stagione estiva diventa un grande teatro all’aperto: sull’antico ovale vengono
sistemati l’impiantito che sostiene la platea delle poltrone, il ridotto dell’orchestra, il
palcoscenico che occupa con le sue imponenti scenografie il settore della cavea opposto
all’ingresso in platea, mentre la cavea si trasforma in un immenso loggione, che accoglie circa
15.000 spettatori.
143
facilmente un centro militare fortificato non lontano dal Danubio che in seguito divenne una
città col nome di Augusta Vindelicorum (Augusta dei Vindelici, l’attuale Augsburg).
La strada, per la sua importanza strategica di collegamento con il mondo germanico, fu
ristrutturata e completata nel 46 d. C. dall’imperatore Claudio, figlio di Druso. Essa collegava
il Po al Danubio: provenendo verisimilmente da Ostiglia, imboccava la val d’Adige a Verona
e dopo Trento probabilmente si sdoppiava dirigendosi con un ramo al passo di Resia e con
l’altro al Brennero, per raggiungere le attuali Austria e Baviera fino al confine del Danubio.
Le tre strade di comunicazione interregionale si incrociavano a Verona ed erano costrette ad
entrarvi per passare il fiume. La via Gallica, provenendo da ovest, si inseriva sulla Postumia
all’altezza dell’arco dei Gavi (a sud di Castelvecchio), cosicché il traffico delle due vie
entrava da porta Iovia ed usciva dal ponte Postumio.
La Claudia Augusta, provenendo da sud sarebbe entrata da porta Leoni per uscire dal ponte
Pietra. Stando così le cose, la città sarebbe risultata ben presto intasata e la situazione
insostenibile. Si corse ai ripari con la costruzione, in aggiunta al ponte Pietra e al Postumio,
di un terzo ponte a sud (poco a monte dell’attuale ponte Navi), su cui doveva passare la via
Claudia Augusta evitando l’entrata in città. Contestualmente si decise di collegare a questa via
le altre due, la Gallica e la Postumia, con una nuova strada, una specie di circonvallazione a
sud dell’abitato, dotata probabilmente di una stazione di sosta, che intercettava tutto il traffico
non interessato ad entrare in città e lo incanalava sul terzo ponte. In questo modo la via
Claudia Augusta, diretta a Trento, passato il nuovo ponte, sboccava nella Postumia, per
proseguire poi verso nord in sinistra Adige e la Postumia e la Gallica proseguivano per
Vicenza, aggirando a sud la città.
Questo ponte nell’alto medioevo scomparirà, lasciandoci solo qualche reperto..
La regolamentazione del traffico pare dettata, oltre che da esigenze locali, da provvedimenti
dello stesso imperatore. Lo storico Svetonio ci informa che Claudio con apposito editto
obbligò i viaggiatori a entrare nelle città italiane a piedi o in lettiga, lasciando fuori carri e
cavalli.
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formando una specie di zona residenziale. Questo tratto della via consolare, in epoca giulio-
claudia, fu trasformato da semplice via glareata (ricoperta di ghiaia) in una grande strada
lastricata di nero basalto e fiancheggiata da due corsie di calcare bianco e rosato per una
larghezza totale di circa 14 metri più 6 di marciapiedi, circa il doppio delle altre vie. La
Postumia divenne così una specie di corso trionfale di accesso alla città.
Il tratto di Postumia divenuto decumano all’interno delle mura fu rialzato, per qualche ragione, di
circa un metro e abbellito con fontane e due archi di pietra simmetrici posti alla due estremità del
lato settentrionale dell’area del Foro, all’incrocio con i due cardi minori che la delimitavano.
Sull’angolo di un negozio, all’incrocio tra corso Porta Borsari e via Quattro Spade è visibile un
piedritto dell’arco posto a ovest della zona forense, che aveva come chiave di volta la testa di Giove
Ammone, un motivo simbolico della propaganda imperiale. L’arco coronava l’accesso al gruppo di
nuovi edifici pubblici costruiti ad occidente del foro.
Anche l’importanza della via Claudia Augusta fu sottolineata nel suo tratto suburbano da una
copertura con blocchi di basalto nero.
38-Acquedotti
Nella nuova città il rifornimento di acqua potabile si ottenne agli inizi scavando pozzi e
probabilmente incanalando verso il piano un’antica sorgente che sgorgava in alto sul colle, ma,
quando la crescita demografica e lo sviluppo commerciale aumentarono i consumi e le esigenze dei
cittadini, divenne necessario far arrivare acqua in abbondanza da fonti collinari distanti alcune
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miglia dalla città e costruire acquedotti, tanto più se si voleva dotare la città di terme, che
ovviamente richiedevano grandi quantità d’acqua.
Un acquedotto fu fatto provenire da nord, dalla sorgente di Novare all’inizio della Valpolicella,
esso richiese anche lo scavo di una corta galleria, il cui sbocco è ancora visibile nei pressi di Parona,
e arrivava in città passando su ponte Pietra sulla cui fiancata sono visibili le mensole che
sostenevano le condotte idriche. Un secondo acquedotto venne derivato da est, dalle risorgive di
Montorio, il quale, fiancheggiando il tratto finale della via Postumia, raggiungeva la città passando
sul ponte Postumio.
Alla costruzione di questo acquedotto si riferisce probabilmente il contributo determinante di
600.000 sesterzi, lasciati nel suo testamento dalla ricca matrona Gavia Massima, donazione
ricordata in due epigrafi, rinvenute lungo il percorso del decumano massimo, una inserita nel muro
di una casa d’angolo tra via Rosa e corso S. Anastasia e l’altra visibile nel museo Maffeiano.
Alcune fistulae (tubazioni) di piombo per la distribuzione dell’acqua sono state rinvenute nei pressi
del ponte Postumio e all’interno del centro storico.
L’acquedotto confluiva di solito in un edificio sopraelevato, che doveva esserci anche a Verona,
sebbene non ne rimanga traccia, detto castellum aquae contenente uno o più serbatoi di raccolta,
decantazione e distribuzione, da cui l’acqua usciva attraverso sbocchi controllati dai calices (calici),
grossi bicchieri di bronzo, con aperture circolari sui lati e dotati superiormente di chiave a
saracinesca di regolazione del flusso.
Gli idraulici, detti plumbarii (lavoratori del piombo), saldavano gli appositi fori dei calici alle
tubazioni di piombo che solitamente erano tre in uscita dal castellum: una serviva le fontane e le
vasche pubbliche, un’altra le case private (domus) e una terza raggiungeva le terme.
Le tubazioni correvano inserite in una muratura di protezione e lungo il percorso cittadino dalle
condutture principali venivano derivate le condotte minori con la saldatura di altri calici dai fori di
diametro variabile, secondo precisi moduli standardizzati, per una distribuzione capillare, che
veniva controllata dagli addetti perché il consumo privato aveva un costo, calcolato sul diametro del
foro del calice di derivazione. Era quindi importante evitare furti d’acqua, frequenti soprattutto a
Roma più che nelle piccole città, attuati con allacciamenti abusivi o forzando le derivazioni per
aumentarne la portata, per questo i calici erano di bronzo, difficilmente deformabile, a differenza
del piombo.
Le spese di allacciamento delle condotte private erano a carico dei singoli proprietari, che ne
ottenevano la concessione, il cui nome poteva essere impresso sul piombo delle condutture, come
quelli di Clodio Rufino e Valerio Crescente, citati da Margherita Bolla in Verona Romana e
impressi su una conduttura secondaria trovata in via Catullo, antico cardo minore, perpendicolare al
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decumano massimo (corso Porta Borsari), sede della conduttura principale: i due proprietari di
domus si erano uniti per condividere le spese di allacciamento alla rete idrica.
Quando l’acqua scarseggiava, come poteva avvenire in certi periodi dell’anno, le fontane
pubbliche avevano la precedenza e l’erogazione alle utenze private poteva essere ridotta o sospesa
del tutto. Alle numerose fontane cittadine, frequentate in genere da donne e schiavi con le loro
anfore, tutti potevano attingere gratuitamente.
Anche le virtù terapeutiche delle acque calde affioranti nella alta pianura padana erano note ai
Romani e prima di loro a Euganei, Veneti e Celti. La famosa cittadina termale di Abano deriva il
suo nome da Aponos con cui i Romani la chiamavano, Aponos era anche il nome di un antico dio
locale delle acque. Così anche le acque di Sirmione (Sirmio) erano ben conosciute e forse anche
quelle di Caldiero, a una ventina di km a est di Verona.
Forse da questi fenomeni naturali, ma anche dall’evoluto mondo greco ellenistico, provenne
l’idea di costruire terme artificiali nelle città, dove solo alcune ricche domus erano dotate di una
piccola stanza da bagno, accanto al focolare della cucina, con uno scolo nelle fognature. Il resto
della popolazione urbana doveva arrangiarsi in qualche modo, accontentandosi di abluzioni con
brocche e catini nella propria casetta o immergendosi in specchi d’acqua nella bella stagione.
I Romani che avevano a cuore i problemi di igiene e salute degli affollati agglomerati cittadini
iniziarono già nel II sec. a. C. ad attrezzare bagni pubblici (balnea) con acqua riscaldata, accessibili
agli abitanti a prezzi modici. Anche a Pompei abbiamo esempi di questa prima fase di piccoli
ambienti essenziali, provvisti di caldaie rudimentali per riscaldare l’acqua e di vasche collegate ai
condotti fognari. Così era originariamente l’impianto balneare di epoca preromana ascrivibile al IV
secolo a. C., su cui sorsero circa due secoli dopo le terme Stabiane, ampliate con una serie di
interventi e abbellimenti protratti fino a qualche anno prima dell’eruzione del Vesuvio.
L’indispensabile rifornimento idrico era garantito da pozzi o cisterne e in un secondo tempo,
quando i balnea si trasformarono in thermae, il problema fu risolto dagli acquedotti.
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La parola thermòs, caldo, testimonia l’origine greca di questi edifici. In alcune città greche e
della Magna Grecia sono emersi dagli scavi resti di primitive strutture termali. Ad Olimpia, sede
delle olimpiadi, vicino alla palestra e al ginnasio sono stati ritrovati i resti di una piscina e di vari
ambienti, alcuni riscaldati, evidentemente funzionali alle esigenze degli atleti. I Romani presero
dunque l’idea dai Greci, ma la perfezionarono decisamente, introducendo tra le altre cose il
praefurnium e il bagno a vapore.
Ai tempi di Cesare, alla fine della repubblica, molti centri abitati possedevano bagni pubblici e
terme ma fu con Augusto e l’impero che avvenne la loro diffusione capillare, una città non poteva
dirsi tale se non possedeva terme pubbliche, adeguate alla sua importanza. L’edificio termale
divenne col tempo un complesso di vari edifici, comprendenti palestre, portici, giardini, biblioteche,
ma l’essenziale che non poteva mancare era costituito da tre ambienti collegati tra loro: tepidarium,
caldarium e frigidarium, ai quali spesso si aggiungeva un quarto: la stanzetta della sauna, detta
assa sudatio (sudatoio asciutto) oppure laconicum, dal nome della speciale stufa.
Per evitare la promiscuità tra i sessi le terme abbastanza grandi raddoppiavano queste sale in due
sezioni, la maschile e la femminile con ingressi separati. Le terme più piccole ricorrevano a turni di
orari diversi nella giornata, riservati ai due sessi .
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Di qui si accedeva al tepidarium, ambiente intermedio in cui si sostava sedendosi per acclimatarsi,
salutare amici e scambiare quattro chiacchiere, quindi si passava al caldarium, calandosi
prudentemente negli ampi gradini della vasca (alveus), rivestita di marmo, o immergendosi del tutto
nell’acqua caldissima. Sul lato opposto della sala, all’interno di un’abside, c’era il labrum
(contrazione di lavabrum), una grande conca di pietra o metallo, posta su piedestallo, nella quale
sgorgava acqua fredda per abluzioni rinfrescanti, infine si giungeva al frigidarium o direttamente o
passando di nuovo attraverso il tepidarium. Il frigidarium nelle terme di grandi dimensioni era
collegato a una grande piscina scoperta poco profonda, la natatio.
Infine nelle grandi terme, fornite di biblioteca e di salette per massaggi si poteva usufruire di
questi servizi. Non mancavano, dietro l’angolo, le popinae (bar/ osterie) pronte a ristorare i clienti
affaticati dai bagni con bevande e spuntini.
Le terme rappresentavano una delle gioie della vita, il benessere fisico degli stimolanti bagni caldi e
freddi si univa a quello sociale e mondano degli incontri. Alle terme ci si dava appuntamento, si
scambiavano notizie e pareri sulle ultime novità, si stringevano amicizie e si imbastivano affari e
alleanze, il tutto in una cornice piacevole e rilassante oltre che esteticamente appagante, calpestando
a piedi nudi marmi preziosi o splendidi mosaici e posando lo sguardo su elaborati ornamenti
architettonici e statue marmoree.
La costruzione delle Terme già in età augustea, ma soprattutto in epoca giulio-claudia venne
incrementata da quella degli acquedotti. Verona nella prima età imperiale dovette senz’altro essere
fornita di terme, ma di esse restano testimonianze molto scarse che non rendono giustizia della
realtà alla ricchezza del loro apparato decorativo e dell’arredo: di epoca augustea sono le Terme
fuori delle mura, poste lungo la via Postumia, fuori Porta Jovia, dopo la stazione di sosta.
Probabilmente all’epoca giulio claudia risalgono resti riferibili a due edifici termali trovati
all’interno delle mura in prossimità dell’ansa dell’Adige, uno tra piazza Duomo e via Garibaldi,
l’altro poco lontano, nei pressi della chiesa di sant’Anastasia, ad essi si riferiscono verosimilmente
due grandi vasche, una in prezioso porfido rosso africano, oggi su un piedestallo nella chiesa di san
Zeno (dove l’avrebbe portata un diavolo per ordine del santo patrono) e l’altra di grandi dimensioni,
in pietra calcarea locale, riutilizzata in età scaligera da Cansignorio, come base della fontana detta
di Madonna Verona, in piazza Erbe.
Una testimonianza dello storico Tacito (hist. III, 10-11) conferma l’esistenza di un impianto
termale privato o pubblico nella fascia suburbana di Verona lungo la Postumia, probabilmente
compresa tra porta Iovia e l’arco dei Gavi. Qui durante la guerra civile del 69 a. C. tra Flavio
Vespasiano e Vitellio si acquartierarono i legionari flaviani. Un loro generale, Aponio Saturnino,
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accusato a torto di intesa col nemico, si salvò dalla furia omicida dei soldati rifugiandosi nel forno,
in quel momento spento, di un ipocausto di terme forse pubbliche o appartenenti a una ricca domus.
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estesa si impiantò a sud ovest dell’Arena (nell’attuale piazza Arditi) con fornaci di mattoni, di
vetro e fonderie.
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La villa della Valdonega
La villa suburbana della Valdonega è situata poco lontano dall’abitato romano, nel punto in
cui si allarga, aprendosi sulla città, la valletta che scende all’Adige fiancheggiando la pendice
occidentale del colle di san Pietro. È una posizione, dalla quale si godeva allora di una
straordinaria vista panoramica sul centro storico.
Dell’edificio, un tempo molto esteso, resta un blocco di tre ambienti con mosaici
pavimentali ben conservati e con circa un metro di alzato dei muri internamente affrescati e le
tracce di un portico che attorniava le stanze.
La loro conservazione è probabilmente dovuta all’accumulo secolare dei detriti trascinati a
valle dalla violenza delle acque meteoriche: fango e ghiaia hanno seppellito e preservato i
preziosi resti, che ora si trovano a tre metri sotto il piano stradale, dove furono scoperti nel
1957, in un periodo di grande ripresa edilizia, quando le villette e gli orti di questa collina
venivano progressivamente sostituiti da condomini a tre o quattro piani. Qui lo scavo delle
fondamenta di un palazzo portò alla luce i mosaici, il ritrovamento era troppo esteso per
essere nascosto e cancellato, l’area fu acquisita dal comune e i resti archeologici furono messi
in sicurezza.
La villa in base ad alcuni elementi decorativi, come un capitello corinzio con delfini
accoppiati, si può assegnare alla prima metà del I secolo d. C., probabilmente all’età di
Tiberio, vi sono, però, tracce di rifacimenti e rimaneggiamenti di varie epoche non facilmente
precisabili.
I tre ambienti rimasti sono collegati tra loro e a un portico che li contorna formando una
specie di L rovesciata, con la base della lettera girata a sinistra. Il lato lungo della L è rivolto a
est e quello corto a sud così da godere di una buona esposizione alla luce solare. Il porticato
doveva mettere in comunicazione la casa con un giardino che la attorniava.
A nord invece una profonda intercapedine difende l’edificio dall’umidità e dagli
smottamenti della collina.
Dal portico si accede alle stanze attraverso vari ingressi, alcuni dei quali con chiusura delle
porte a libro; quello principale è a sud e introduce ad una sala rettangolare ipostila (con
copertura sostenuta da colonne), molto spaziosa di quasi 70 mq. (m 10 x 6,75), le eleganti
colonne interne intonacate di rosso erano disposte su tre lati, distaccate dai muri perimetrali da
stretti corridoi, o ambulacri, di esse resta un unico esemplare e le alcune basi delle altre.
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La funzione delle esili colonne (diametro di 30 cm alla base), con i rocchi sovrapposti a
secco senza grappe metalliche che li collegassero, non era già quella di sostenere un secondo
piano, bensì soltanto la copertura della sala, che inizialmente fu giudicata un peristilio o un
atrio coperto di un tipo nuovo adatto ai climi settentrionali. Ma non s’era mai visto un
peristilio del tutto privo di giardino, né con portici così ridotti a stretti ambulacri. L’atrio poi
che abbia o no l’apertura per l’impluvium e la raccolta dell’acqua piovana, ha comunque una
funzione ordinatrice e centrale della casa, su di lui si affacciano tutt’intorno varie stanze,
questa sala è invece decentrata e a sé stante.
Venne in soccorso il trattato di Vitruvio in cui si trova la descrizione di una sala detta oecus
corinthius (stanza corinzia), come signorile e prestigiosa variante del triclinio che calza quasi
a pennello con questo ambiente della Valdonega. In tal caso la funzione delle colonne è di
portare un architrave leggero, ma largo fino a penetrare nel muro perimetrale, coprendo lo
spazio dello stretto corridoio degli ambulacri.
Sull’architrave poggiava la copertura centrale della sala, realizzata quasi sicuramente non
con un soffitto orizzontale, ma secondo le prescrizioni di Vitruvio, con una volta a botte,
costituita da un incannucciato (sistema di graticci di canne strettamente legate), rivestito da
intonaco e probabilmente affrescato. La volta era fissata con dei tiranti a travetti orizzontali
posti superiormente.
Calcolando un’altezza delle colonne, capitelli, architrave e cornice compresi, superiore ai 3
m e supponendo che la volta fosse a tutto sesto con un diametro attorno ai 5 m e un’altezza al
vertice di circa 2,50 m, la sala doveva avere un’altezza massima di oltre m 5,50, che conferiva
un notevole slancio verticale all’ambiente.
Sul lato corto a sud della sala, l’unico privo di colonne, l’ampio ingresso (m 2,60) sul portico
è affiancato da due finestre larghe 1 m ciascuna e che partivano dal basso a soli 50 cm dal
pavimento. La parete lunga 6 m risulta quindi aperta sul portico per più di due terzi (4,60 m),
cosicché la sala, attraverso il porticato era ben esposta alla calda luce del mezzogiorno e
poteva godere di una eccezionale vista sulla città sottostante.
Il pavimento è ricoperto da un mosaico pregiato, a piccole tessere, negli intercolumni (spazi
tra le colonne) pannelli con semplici cornici a tessere nere si alternano ad altri policromi,
deliziosamente figurati con verdi girali di vite su cui si appoggiano vivaci uccellini variopinti.
L’alzato superstite delle pareti, alto circa un metro, è decorato sulla parete di fondo da
affreschi con riquadri che fingono sfondamenti spaziali e la parete laterale è affrescata da una
pittura naturalistica, che raffigura piante e cespugli tra i quali si trova anche la gabbia di un
uccellino: è la cosiddetta pittura di giardino che andava molto di moda a Roma e a Pompei.
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I mosaici pavimentali e gli affreschi murali si fondevano in armoniosa unità con
l’architettura dell’ampia sala, sottolineandone le sapienti proporzioni.
Qui il munifico padrone di casa offriva sontuosi banchetti ai suoi ospiti, in un contesto
architettonico armonioso e ravvivato dai colori di colonne dipinte e mosaici e affreschi che
riportavano all’interno della casa l’ambiente naturale esterno.
Un piccolo ambiente di servizio mette in comunicazione la sala grande con una sala minore
(m 3.80 x 6.70) decorata anch’essa con mosaici geometrici e raffinati affreschi divisi in due
fasce, quella inferiore naturalistica con ciuffi di erbe di diverse specie alternati ad uccelli
variopinti e la fascia superiore decorata di mitologici grifi, e da una maschera teatrale
femminile.
Sulla parete di fondo, opposta ad una grande finestra, la stanza presenta uno zoccolo
sporgente, una specie di gradone in muratura, coperto da lastre marmoree, alto 90 cm e
profondo 60, coevo o precedente alla decorazione parietale, che da esso non viene interrotta,
troppo alto per essere un sedile, uso oltretutto incompatibile con gli affreschi sottostanti. La
sua funzione poteva essere quella di un ripiano di appoggio per oggetti o rotoli di papiro. Per
questo si è pensato che il vano fosse il tablinum, lo studio del padrone di casa, ma, per la sua
disposizione, risulta più convincente l’ipotesi che si trattasse di un altro oecus, un triclinio
minore e più raccolto, ma non meno bello.
Questo insieme di vani non era certo isolato, ma doveva far parte di un complesso molto più
ampio che comprendeva, stanze di servizio, cucina, camere da letto (cubicula) e magazzini e
che probabilmente si articolava su terrazze scavate nella collina, dove sembrano portare i
pochi gradini di una scala ritrovati a nord degli ambienti superstiti.
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Viceversa a Pompei ed Ercolano, sepolte dal Vesuvio, abbiamo una ricca documentazione della
vita quotidiana, perfino i resti di cibo e i giocattoli dei bambini, e interi quartieri con ricche domus,
semplici case, botteghe, taverne perfettamente conservate e con le scritte elettorali sui muri. Anche
Aquileia, abbandonata dagli abitanti in seguito alle devastazioni di Attila, conserva nel suo museo
una ricca documentazione del quotidiano.
A Verona le varie epoche si sono sovrapposte e hanno cancellato la precedente vita cittadina,
mantenendo solo le architetture monumentali e una evidente traccia della struttura urbanistica
originaria nel tessuto viario del centro storico, ancora basato sul reticolo romano.
Nel basso impero e nel medioevo molte statue, bassorilievi ed elementi architettonici in calcare
finirono sbriciolati per far calce da costruzione e gli oggetti di metallo furono fusi. Anche le
sepolture importanti, nei pressi della città, con i loro ricchi corredi funerari, sono sparite, perché gli
stessi romani ne hanno riutilizzate le pietre per la ricostruzione delle mura cittadine.
La vita quotidiana di Verona romana può dunque essere ricostruita solo per analogia con quella
emersa in altri centri abitati e attraverso testi letterari e documenti dell’epoca.
Professioni una donna medico «(CAIUS) / ECORNELIUS / MELIBOEUS / SIBI ET / SENTIAI /
ELIDI ME(DICAI) / CON(TUBERNALI) / (SENTIAI ASTE)»
44 – Verona e la sua posizione strategica.
Molte città subirono abbandoni e distruzioni più o meno completi e nelle ricostruzioni cambiarono
la loro forma. Verona invece mantenne sostanzialmente attraverso i secoli il suo nucleo originario:
un fattore determinante per questa conservazione fu la sua posizione geografica allo sbocco della
Val d’Adige nella pianura Padana e la conseguente rilevanza strategica e militare che la trasformò
progressivamente in una città fortezza, importante per tutti i potenti che la governarono e resa
perciò difficilmente espugnabile.
Dopo Augusto Verona aveva vissuto due secoli e mezzo di pace e sicurezza, durante i quali fu
coinvolta in un solo episodio di conflitto militare, già citato a proposito delle terme: nel 69 d. C
l’anno dei quattro imperatori, quando, dopo la morte di Nerone, si accese lo scontro per la sua
successione. Eliminati Galba e Otone, lo scontro finale si accese tra Vitellio e Flavio Vespasiano.
Il partito dei vitelliani era padrone della penisola italica, mentre i loro avversari, i flaviani, guidati
dal legato (comandante di legione) Antonio Primo, penetrarono da oriente e dopo aver preso
Aquileia, Este e Padova, scelsero Verona come base operativa e la occuparono con tre legioni, a cui
si aggiunsero poi altre due.
Alle migliaia di soldati non bastava la limitata area cittadina, così essi circondarono Verona con
un campo trincerato (Tacito, hist. III, 10) con tutta probabilità a sud ovest della città in una zona
compresa tra le mura e l’Arco dei Gavi, dove sorgerà Castelvecchio, qui i flaviani eressero un
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vallum, un terrapieno coronato da una palizzata e difeso da una fossa, che forse sfruttava una
diramazione dell’Adige, già allora esistente, il futuro Adigetto. Così essi difesero tutta la città,
Arena compresa (Tacito, hist. III, 10-11).
I soldati flaviani, molto tesi perché penetrati in territorio nemico, temevano un improvviso
attacco dei vitelliani e possibili tradimenti. Cecina il capo dei vitelliani si era trincerato con un forte
esercito poco a sud di Verona, tra Ostiglia e le paludi del fiume Tartaro (Tacito, hist. III, 9). Un
falso allarme, per l’arrivo di cavalieri alleati scambiati per nemici, aveva provocato il panico in una
legione di guardia. Tra i comandanti presenti a Verona c’era Aponio Saturnino governatore della
Mesia, giunto con una legione, che in passato era stato amico di Vitellio. Ciò bastò a far diffondere
voci su presunti messaggi da lui inviati a Vitellio, si scatenò una immediata caccia all’uomo, che
stava riposando in un giardino di una villa suburbana. Saturnino, avvertito dal frastuono, sfuggì alla
cattura e alla morte rifugiandosi nel forno, in quel momento spento, di terme pubbliche o
appartenenti alla villa e quindi, aiutato dai colleghi, riparò alla chetichella a Padova. La battaglia tra
i due schieramenti poi si spostò a Cremona, ma l’episodio aveva rivelato il valore strategico di
Verona.
Di lì a poco Vespasiano prese il potere, iniziando la dinastia dei Flavi (69-96) proseguita dai suoi
due figli, Tito prima e poi Domiziano.
Questi imperatori, che a Roma eressero il Colosseo, l’arco di Tito e grandiosi edifici pubblici, non
lasciarono a Verona tracce significative. La dinastia si concluse tragicamente con Domiziano che
regnò col sospetto ed il terrore, macchiandosi di feroci delitti e fu eliminato da una congiura,
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180, anno in cui morì di peste sul confine danubiano. Sul letto di morte raccomandandolo ai suoi generali
nominò successore il figlio Commodo diciannovenne, abbandonando così il metodo adottivo, scelta che si
rivelò infelice.
Commodo e il senato
La collaborazione tra gli imperatori adottivi e l’aristocrazia senatoria , per gestire il governo dell’immenso
stato romano, era stata buona, ottima con Antonino, che il senato insignì perciò del titolo di Pio.
Invece tra Commodo e il senato i rapporti si guastarono fin da subito; il giovane imperatore fu giudicato
insicuro, succube di consiglieri e cortigiani e inadatto a un così alto compito. Disprezzato dai potenti
senatori che detenevano grandi fortune, oltre al comando di alcune province e legioni, Commodo cercò il
consenso del popolo e dell’esercito con generosi donativi ed elargizioni, anche a costo di svuotare le casse
imperiali.
Egli poi usò la divinizzazione della sua persona come strumento di propaganda politica e religiosa e
sfruttando la sua prestanza fisica si presentava al pubblico come Ercole Romano con tanto di clava e pelle
di leone sulle spalle, scendendo poi nell’arena a cacciare le fiere che trafiggeva con giavellotti senza
sbagliare un colpo, ma scagliando da una corsia sopraelevata, priva di rischi. Questi spettacoli mandavano
in visibilio il popolino, ma erano intollerabili per le classi dirigenti, che fingevano di applaudire.
Egli non esitò a colpire gli oppositori nel senato, confiscandone gli ingenti beni per impinguare le sue
casse. Le numerose congiure anche di parenti, da cui riuscì a sfuggire grazie alla fedeltà dei pretoriani, lo
resero sempre più ombroso, dispotico e spietato. D’altro canto invece rivelò una inconsueta tolleranza
religiosa e doti militari in alcune campagne contro i Germani.
Le sue tendenze negative e stravaganti secondo molte fonti storiche, non sempre attendibili, si
accentuarono negli ultimi due anni di regno 190-192, ma il personaggio è ambivalente e il giudizio degli
storici controverso.
Egli giunse a dare il proprio appellativo a Roma chiamandola Colonia Commodiana e così fece con il
senato, con alcune legioni, una flotta, e con i mesi dell’anno. Era pura megalomania o un utopico
programma di rifondazione teocratica dell’impero basato sulla divinità della sua persona? Anche Adriano
si era richiamato ad Ercole, il cui mito altamente positivo percorreva tutta la storia romana da Romolo ad
Augusto.
Le sue esibizioni come gladiatore regolarmente vincente sembra però risultassero scandalose anche a
una parte del popolo, di cui perse il favore.
A Commodo piaceva umiliare in pubblico i nemici, ma anche i collaboratori più stretti, magari rei di aver
espresso una critica, come il prefetto del pretorio Leto, che fu costretto a un combattimento gladiatorio
con lui, uscendone ovviamente sconfitto. Commodo Rimase al potere 12 anni fino alla notte del 31
dicembre 192, in cui entrò in azione l’ultima congiura, capeggiata da Leto, complice Marcia la sua amante
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e numerosi senatori. Commodo appesantito da una lauta cena l’aveva vomitata, liberandosi del veleno in
essa contenuto e forse sospettava qualcosa. Inoltre pare che il 1 gennaio avesse intenzione, dopo aver
destituito i consoli designati per il 193, di presentarsi in senato in tenuta da gladiatore come nuovo
console, avendo un gladiatore come collega.
Commodo era molto robusto, i pretoriani vigilavano il palazzo. I congiurati passarono immediatamente
al piano B, ricorrendo a Narcisso l’istruttore di lotta personale di Commodo, che gli spezzò il collo fingendo
qualche mossa di allenamento.
Sotto questi imperatori, detti anche Antonini (da Antonino Pio, il quarto e il più amato di loro),
l’impero raggiunse l’apogeo nel secolo che fu detto d’oro, grazie al buon governo, garante di
sicurezza sulle frontiere e di prosperità interna. Ma stranamente nella nostra città si riscontra dai
dati archeologici di questo periodo un rallentamento dell’attività edilizia e probabilmente
dell’economia. Questo, secondo alcuni studiosi fu un fenomeno generalizzato, perché l’impero
raggiunto l’apogeo dell’espansione con Traiano, da Adriano in poi si rinchiuse all’interno dei suoi
confini, iniziando una curva discendente della forza militare ed economica. Lo confermerebbero i
dati archeologici che documenterebbero una diminuzione dei ritrovamenti di navi naufragate, di
inquinamento da piombo e di ossa di animali domestici negli strati antropici di riferimento, sintomi
di un declino commerciale, industriale e alimentare.
Nel 169-70 i Germani, penetrati inaspettatamente nella Venetia, assediarono invano Aquileia e poi
si gettarono su Oderzo (Opitergium) saccheggiandola, ma furono affrontati e battuti dalle truppe di
Marco Aurelio (Ammiano XXIX, 6, 1), Verona fu salva, ma il pericolo scampato fu grande, come
testimonierebbe un tesoro di qualche migliaio di monete d’argento, sepolto forse per paura di questa
invasione poco fuori della città romana, non più recuperato dai proprietari e riscoperto
nell’Ottocento. A quel tempo le mura di Verona reduci da due secoli di totale abbandono non
garantivano certo una solida difesa della città. La grave crisi iniziata con Marco Aurelio ai confini
dell’impero durerà decenni e diventerà anche crisi politica interna dopo l’uccisione del figlio
Commodo.
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In quest’epoca fu infatti ristrutturata la basilica, con l’ampliamento di una grande abside sul lato
corto a sud (la traccia delle cui fondamenta è visibile all’inizio di via Mazzini), all’interno si
intervenne arricchendo la trabeazione posta sopra le due file di colonne, che dividevano l’edificio in
tre navate, trabeazione su cui poggiava un secondo ordine di colonne atto a sopraelevare la navata
centrale e a sostenere le sovrastanti pareti, dalle cui finestre filtrava la luce all’interno della basilica.
Un personaggio facoltoso, console nel 201, Marco Nonio Arrio Muciano ricostruì ed ampliò a sue
spese le Thermae Iuventianae, di cui non conosciamo l’esatta ubicazione e che erano state costruite
precedentemente da un personaggio appartenente alla famiglia Iuventia.
Si provvide anche alla costruzione o alla ristrutturazione di numerose domus urbane e suburbane:
sotto il palazzo dell’ex tribunale, nella citata domus di piazza Nogara (sotto la Banca Popolare), in
piazzetta S. Eufemia, in corso Cavour ecc., i pavimenti di queste domus furono rivestiti di bellissimi
mosaici.
Fine della pace e inizio delle guerre tra generali e delle invasioni
Per circa due secoli a partire dal principato di Augusto, nella pianura padana regna una
durevole pace, interrotta solo dalla guerra civile scatenatasi dopo la morte di Nerone, che
si risolve in poco più di un anno, detto appunto l’anno dei quattro imperatori (68-69), con
l’affermazione di Vespasiano e della nuova dinastia dei Flavi.
I confini, le basi militari e i conflitti sono spostati lontani dall’Italia, sul Danubio e sul
Reno, di conseguenza i centri padano veneti perdono l’importanza militare che avevano
mantenuto durante la campagna gallica di Cesare e fino al secondo triumvirato. Grazie
alla pace e alla sicurezza delle vie commerciali essi raggiungono un alto grado di
benessere e di qualità della vita, testimoniata dai numerosi edifici pubblici e dalle
infrastrutture cittadine.
La prosperità agricola, manifatturiera e commerciale favorisce lo sviluppo dei centri
abitati, in particolare Mediolanum (Milano), al centro dell’area più fertile della pianura, e
Aquileia, principale porto del nord Adriatico, che diventano i due più importanti poli
economici e politici del nord Italia.
Situata a metà strada tra queste due città, Verona si trova in una posizione invidiabile
all’incrocio tra la via Postumia che la collega ad Aquileia e la via Gallica che porta a Milano
e Como. Per Verona passa anche la via Claudia Augusta che congiunge Trento e il
Brennero con Modena.
Ma i tempi cambiano, nel III secolo, finita la sua fase di espansione, l’impero si mette
sulla difensiva, abbandona la Dacia, troppo difficile da difendere al di là del Danubio e va
159
incontro a una grave recessione economica e a una crisi militare permanente, causata da
pericoli esterni ed interni. Diventa cruciale l’importanza strategica della pianura Padana
Centro Orientale, le cui città si trovano esposte alle incursioni barbariche provenienti dai
Balcani e dalle Alpi e sono contemporaneamente minacciate dalle guerre civili tra generali
romani in lotta per il potere. Il guaio è che nel frattempo le mura cittadine, avendo perso la
funzione difensiva, sono state decisamente trascurate dal governo municipale, nel corso
degli anni la fascia di rispetto dentro e fuori la cinta muraria è stata occupata soprattutto da
laboratori artigiani e magazzini che qualche tempo dopo si sono spostati più all’esterno,
lasciando il posto a nuove abitazioni e ricche domus.
Un altro episodio della turbolenta anarchia militare ha invece come sfondo Verona.
Filippo detto l’Arabo, perché figlio di uno sceicco, acclamato anche lui imperatore dalle
truppe nel 244 e poi confermato dal senato, durante i cinque anni del suo regno deve
affrontare numerose rivolte militari. Nel 248 al confine danubiano di Mesia e Pannonia l’esercito
si rivolta proclamando imperatore il proprio comandante Pacaziano per poi pentirsi e ucciderlo,
l’imperatore Filippo l’Arabo invia il senatore Decio, un brillante generale, a ristabilire l’ordine e
punire i colpevoli. I soldati per evitare le punizioni non trovarono di meglio che proclamare Decio
imperatore, costringendolo a rivestire la porpora e a guidare la ribellione .
Dalla Pannonia Decio scende così in armi in Friuli varcando le Alpi orientali., Filippo gli va
incontro con un esercito numericamente superiore. I due eserciti si scontrano nei pressi di
Verona, l’esperienza militare di Decio ha la meglio sul numero e Filippo perde sul campo la
battaglia, il trono e la vita a vantaggio di Decio. L’episodio conferma così l’importanza della
città per la sua posizione strategica.
160
Il cinquantennio di “anarchia militare” nel III secolo.
Nel quarto decennio del III secolo l’impero entrò in una grave crisi di “anarchia militare”, che durò
cinquant’anni dal 235 al 28, durante la quale i militari divennero i protagonisti assoluti, condizionando tutta
la vita politica e sociale. A causa della vastità dell’impero e dei crescenti pericoli di invasione, gli eserciti che
operavano negli immensi confini non rispondevano più al lontano governo di Roma ma ai propri comandanti
e agli ufficiali, molti dei quali provenivano dalla carriera militare e non dalla classe senatoria.
Gli eserciti, in cui erano numerosi i contingenti di barbari più o meno romanizzati, cominciarono a farla da
padroni nella scelta degli imperatori, imponendo al Senato di Roma la nomina dei loro capi, dai quali si
aspettavano ricompense e donativi. Alla morte di un imperatore si scatenava la lotta di successione tra gli
aspiranti al potere. Ma il vincitore non durava in carica più di qualche anno, cadendo in battaglia contro
Germani, Persiani o Unni, ma più spesso assassinato dagli stessi generali che lo avevano eletto e lo volevano
sostituire con uno di loro. Spesso c’erano diversi aspiranti al trono che si autoproclamavano
contemporaneamente augusti e si combattevano tra loro, fino al prevalere di uno solo.
162
La cortina muraria rinnovata e rinforzata da Gallieno fornirà per un lungo periodo a
Verona una valida protezione da minacce esterne e assedi.
163
COLONIA AUGUSTA NOVA GALLIENIANA. VALERIANO II ET LUCILIO CO(N)S(ULIBU)S,
MURI VERONENSIUM FABRICATI EX DIE III NON(ARUM) APRILIU(M), DEDICATI PR(IDIE)
NON(AS) DEC(EMBRES), IUBENTE SANCTISSIMO GALLIENO AUG(USTO) N(OSTRO),
INSISTENTE AUR(ELIO) MARCELLINO V(IRO) P(ERFECTISSIMO), DUC(E) DUC(UM)
CURANTE IUL(IO) MARCELLINO.
“(Questa città è) Colonia rinnovata dall’Augusto Gallieno. I muri dei Veronesi furono edificati a
partire dal 3 aprile e inaugurati il 4 dicembre, durante il consolato di Valeriano II e Lucilio, per
ordine del nostro Venerabile Gallieno Augusto, sotto il sovrintendente Aurelio Marcellino uomo
perfettissimo (massimo grado della carriera equestre) e sotto la direzione del generale (comandante
in capo) Giulio Marcellino”.
I caratteri sono incisi in profondità nella pietra e con linee particolarmente larghe, perché le
incisioni che vediamo non sono le lettere originarie ma in realtà soltanto alloggiamenti, in cui erano
inserite le vere lettere di bronzo dorato in rilievo, che risaltavano sul bianco della pietra. L’epigrafe
comunicando l’impegno profuso dall’amministrazione imperiale nel realizzare un’opera pubblica
indispensabile, era anche un manifesto di propaganda politica tesa a ottenere il consenso e il plauso
popolari .
Chiunque arrivava in città dalla via Postumia non poteva fare a meno di posare gli occhi sulla
scritta, che celebrava la città di Verona rinnovata e adeguata ai tempi con il linguaggio burocratico
della propaganda imperiale. Da essa ricaviamo che nel 265 Verona, nuovamente insignita del titolo
di Colonia da Gallieno Augusto, per suo ordine, nel giro di soli otto mesi ebbe costruita (o meglio
ricostruita) la cinta muraria. Apprendiamo altresì i nomi degli alti funzionari responsabili.
Il titolo di colonia era verosimilmente un riconoscimento delle notevoli risorse finanziarie e
lavorative impiegate dai Veronesi nella costruzione della cinta.
Quale differenza con la scritta posta tre secoli prima sulla porta dei Leoni a compimento della
primitiva cinta muraria!
164
all’opera difensiva. Probabilmente essi imposero sia gravose liturgie ai veronesi facoltosi sia la
precettazione di muratori e capimastri della corporazione edile, obbligandoli alle angarie, le
prestazioni d’opera gratuite. Il comandante militare seguì forse maggiormente la progettazione ed
esecuzione dell’opera con un reparto di genieri dell’esercito.
I tempi erano profondamente cambiati, le due iscrizioni descrivono modalità decisionali molto
diverse, forse entrambe ugualmente efficaci nel perseguire gli obiettivi, ma la prima approvata dal
popolo e dal senato di Roma e frutto della iniziativa responsabile di una comunità municipale
orgogliosa della propria autonomia, la seconda invece calata dall’alto da un apparato burocratico
centralizzato e autoritario, che militarizzava seppure temporaneamente le energie della città.
165
Qualche anno dopo il pericolo di invasioni era aumentato, tanto che la stessa Roma fu dotata di
una nuova cinta di mura, voluta dall’imperatore Aureliano, dal quale prese il nome, una costruzione
imponente, lunga 18 Km, che si protrasse dal 270 al 275 e ancor oggi molto ben conservata.
La città si contrae
Per quanto riguarda l’edilizia si manifestò a Verona, come altrove, un’inversione di tendenza
rispetto all’età precedente: la città smise di espandersi e si contrasse. A causa della crisi economica
la popolazione diminuiva e il pericolo di invasioni rendeva insicuri gli isolati esterni alle mura.
Le domus lungo la Postumia e la Claudia Augusta e in genere le abitazioni extraurbane vennero
progressivamente abbandonate, una tendenza che continuò dopo Gallieno per tutto il secolo III e il
IV; chi continuava ad abitare fuori della città lo faceva a proprio rischio. Al contrario alcune domus
urbane tra il IV e il V secolo furono oggetto di interventi di ristrutturazione e migliorie.
Alcune zone poco fuori le mura divennero cimiteri. Un’ampia zona cimiteriale si formò poco fuori
le mura a qualche decina di metri da porta Iovia occupando edifici residenziali abbandonati e parte
della carreggiata della Postumia.
IL Laterculus Veronensis
In due fogli di un manoscritto del VII secolo alquanto mutilo, conservato nella Biblioteca
Capitolare di Verona, il copista altomedievale ha trascritto un importante e unico
documento della tarda età imperiale, conosciuto come Laterculus Veronensis (Tabella
Veronese), un elenco geograficamente ordinato del centinaio di province dell’impero
romano del III-IV secolo, divise in due sezioni, orientale e occidentale e raggruppate nelle
dodici grandi diocesi create dalla complessa riforma amministrativa promossa da
Diocleziano e portata a termine da Costantino.
Non è forse un caso che il Laterculus si trovi a Verona, perché l’importanza della città
aumenta sotto la tetrarchia, quando la vicina Milano diviene la capitale di Massimiano,
Augusto d’Occidente e Verona assume una nuova funzione militare, nell’ambito delle
riforme dell’esercito di Diocleziano e poi di Costantino.
168
Decenni di anarchia militare avevano prodotto disastrosa instabilità, totale incertezza del futuro e
sfiducia nelle istituzioni. L’impero scricchiolava dalle fondamenta.
Nel penultimo decennio del III secolo una ribellione delle legioni della Pannonia, provincia tra il
Danubio e la Sava, eliminò l’imperatore Probo e portò al potere il suo prefetto del pretorio Caro.
Costui, energico e abile stratega, dopo aver sgominato i popoli invasori sul confine germanico del
Reno, progettò una grande spedizione contro la Persia, eterna minaccia dei confini orientali, era un
uomo in salute, ma avendo passato la sessantina, prima della partenza organizzò la propria
successione associando al potere i due figli Carino e Numeriano.
Lasciò il maggiore, Carino, a governare l’Occidente col titolo di Cesare e si diresse in Oriente con
il giovane Numeriano. La spedizione ebbe un successo senza precedenti, il nemico che incuteva
tanta paura fu sbaragliato, Caro ne raggiunse la capitale Ctesifonte e la conquistò (estate 283), ma,
mentre si accingeva a sfruttare il vantaggio e sferrare il colpo finale, improvvisamente morì durante
un furioso temporale, probabilmente stroncato da una malattia o dalle fatiche, ma corse voce che
fosse stato colpito da un fulmine. Molti soldati, impauriti dal presagio negativo, si rifiutavano di
avanzare oltre. Proclamato ufficialmente successore del padre assieme al fratello, il giovane
Numeriano non riuscì a persuadere le truppe a proseguire e dovette ritirarsi, attirandosi critiche di
alti ufficiali e nella via del ritorno morì in circostanze misteriose, che gettarono il sospetto sui suoi
più alti ufficiali.
Nel frattempo suo fratello Carino, l’unico membro della famiglia imperiale rimasto vivo, era
lontano, impegnato in Britannia a domare una rivolta. Il parziale vuoto di potere era una tentazione
irresistibile per ambiziosi comandanti di eserciti dislocati ai confini.
Si fecero avanti almeno due pretendenti al trono: le legioni della Pannonia proclamarono
imperatore il loro comandante Sabino Giuliano, mentre quelle di Oriente indicarono Diocle, un
valente ufficiale di umili origini, divenuto comandante del corpo di cavalleria imperiale. Diocle poi
muterà il suo barbarico nome dalmata, in quello latineggiante di Diocleziano.
Nei confronti di Diocleziano correva qualche voce malevola, essendo proprio lui il responsabile
dell’incolumità di Numeriano, ma egli aveva fatto arrestare un altro sospettato, l’ufficiale più alto in
grado, il prefetto del pretorio Apro, accusandolo di aver tenuto nascosto la morte dell’imperatore
che era suo genero, perché ne era il colpevole.
Davanti alle truppe schierate per acclamarlo augusto, Diocleziano fece condurre Apro in catene,
prese la parola e giurando a gran voce di essere innocente della morte di Numeriano, indicò
teatralmente in Apro il vero colpevole e, sguainata fulmineamente la spada, lo ammazzò, prima che
questi potesse aprire bocca per discolparsi. Il suo gesto sorprendente, ma risoluto impressionò
positivamente i soldati, assicurandogli la candidatura imperiale.
169
Carino, informato delle inquietanti novità, mosse velocemente dalla Britannia contro gli
usurpatori. Per primo affrontò Giuliano che scendeva in Italia dall’Illiria e avendolo incontrato nei
pressi di Verona all’inizio del 285 lo sconfisse e lo uccise.
Si diresse poi in Oriente contro Diocleziano e attaccò battaglia presso il fiume Margus in Serbia
nel luglio dello stesso anno, ormai stava vincendo quando fu ucciso da suoi ufficiali, in combutta
con il suo rivale.
Ebbe fine così con la vittoria di Diocleziano il lungo cinquantennio di anarchia.
170
Diocleziano, allargando il vertice del potere, pensava di renderlo più stabile: per impadronirsi dello stato
non bastava più eliminare un solo imperatore, ma bisognava lottare contro tutta la tetrarchia.
L’alleanza fu consolidata con legami matrimoniali tra i tetrarchi: in Oriente Diocleziano diede la figlia
Valeria in sposa al suo cesare Galerio, convincendolo a divorziare dalla prima moglie, in Occidente il cesare
Costanzo deve divorziare da Elena, madre di Costantino per sposare la figliastra di Massimiano, Teodora.
. Lo salvarono due imperatori famosi, prima Diocleziano e poi Costantino, che riuscirono a regnare a lungo,
mostrando eccezionali doti di energia, abilità e carisma. Essi non si limitarono ai campi cdi battaglia dove si
mostrarono valorosi e fortunati generali, ma furono dei grandi riformatori dello stato e della società civile e
militare con provvedimenti sostanziali e lungimiranti.
Le riforme attuate da Diocleziano furono completate o modificate dal suo successore Costantino, così che
non sempre riusciamo a distinguere l’opera dell’uno e dell’altro.
Ascesa di Costantino
Il ventenne Costantino quando il padre Costanzo è nominato Cesare (293), resta in Oriente alla corte di
Diocleziano. Secondo l’Anonimo Valesiano (Annales Valesiani 2, 2-4) egli è in condizione di obses, ostaggio
(verosimilmente a garanzia della fedeltà di Costanzo alla tetrarchia) e qui più che ricevere un’educazione
letteraria litteris minus instructus, viene addestrato all’uso delle armi, segnalandosi per il suo valore in
guerra contro i feroci Sarmati. Il Cesare Galerio, forse nella speranza che il giovane sia ucciso in battaglia, gli
affida imprese rischiose dalle quali invece egli esce vittorioso, percorrendo velocemente la carriera militare
fino ai più alti gradi.
Nel 305 Diocleziano, sentendo venir meno le forze e volendo mettere alla prova il sistema della
tetrarchia, compie un gesto inaudito e sorprendente: abdica rinunciando al potere dopo vent’anni di regno
e convince il collega Massimiano a fare altrettanto. I due dimissionari si ritirano a vita privata, a loro
171
subentrano i rispettivi Cesari, Galerio e Costanzo Cloro. Per completare l’opera occorre ora nominare i due
nuovi Cesari, scelta che l’anziano Diocleziano lascia probabilmente al neo Augusto Galerio, suo genero,
senza tener conto dei desideri di Massimiano e Costanzo Cloro, che potrebbero essere tentati di favorire i
loro rispettivi figli, Massenzio e Costantino, entrambi sulla trentina, esperti uomini d’arme e ambiziosi,
ricadendo nella vecchia successione dinastica, contraria ai principi della tetrarchia.
Secondo Lattanzio (De mortibus persecutorum. 19, 1-6) la proclamazione dei Cesari avviene presso
Nicomedia, antica città della Asia Minore, capitale d’Oriente su una collina che domina l’abitato. Diocleziano
si presenta sulla tribuna imperiale per annunciare i nomi dei nuovi Cesari davanti all’esercito schierato.
L’aspettativa è grande, tutti gli occhi sono puntati su Costantino, del quale la scenografica descrizione è
un’esaltazione, come eroe ideale, da parte del cristiano Lattanzio, autore decisamente di parte. Ma tra la
sorpresa generale Diocleziano pronuncia i nomi di Severo e Massimino. Sulle prime c’è chi pensa che
Massimino sia il nuovo nome di Costantino, cambiato come a volte succedeva in occasione di una nomina
così importante. Poi Galerio, lasciando da parte Costantino fa avanzare sulla tribuna due personaggi
pressoché sconosciuti, il suo inesperto nipote Massimino Daia e il suo fedele generale Flavio Severo.
Massimino è designato Cesare per l’Oriente e Severo per l’Occidente per di più gli viene assegnata l’Italia
con capitale Milano, mentre Costanzo, pur essendo Augusto, accetta di restare, come prima, a Treviri sul
Reno a capo delle Gallie.
Tutto sembra funzionare, il più contento è Galerio che attraverso Massimino e Severo arriva a controllare
tre delle quattro parti dell’impero e secondo alcuni storici vorrebbe diventarne padrone assoluto, tanto più
che Costanzo non gode di buona salute, il soprannome Cloro in greco “ verde giallino” allude al colore della
sua pelle, probabile sintomo di anemia. Ma eventi imprevisti mandano all’aria di lì a poco i suoi piani.
Costanzo governa con polso fermo le Gallie e, progettando una spedizione in Britannia, chiede
ripetutamente al collega Galerio di riavere presso di sé il valoroso Costantino. Galerio tergiversa, teme che il
giovane generale amato dai soldati, una volta sfuggito al suo controllo e riunito al padre, diventi un
pericoloso rivale, ma alla fine deve concedergli il permesso di partire.
Costantino non si fida: conosce le insidie della corte, si trova nel palazzo imperiale di Nicomedia, situata
ad est dell’attuale Istanbul e si sente in pericolo, il tragitto per mettersi in salvo presso il padre è davvero
lungo. Dovrebbe mettersi in viaggio l’indomani, ma, dopo la cena di commiato, quando l’imperatore si è
ritirato nelle sue stanze, anticipa la partenza, balzando a cavallo ed uscendo nottetempo dalla reggia. Passa
lo stretto del Bosforo e al galoppo attraversa i Balcani, giungendo in Friuli. Nelle mansiones (stazioni di posta
statale) in cui sosta lungo la via, mostrando il salvacondotto imperiale, sostituisce il cavallo sfiancato con il
migliore a disposizione e partendo recide i garretti degli altri destrieri per ostacolare gli eventuali
inseguitori. Precauzione che, secondo l’anonimo Valesiano egli attua giungendo in Italia, controllata da
Severo. Finalmente arriva in Gallia, al sicuro e raggiunge il padre che si sta imbarcando con le truppe per la
Britannia nel porto di Gesoriacum (Boulogne sur Mer) vicino a Calais.
Qualche mese dopo Costanzo Cloro muore (306) nella reggia di Eboracum (York), dovrebbe succedergli il
Cesare d’Occidente Flavio Severo, ma l’esercito acclama Augusto suo figlio Costantino, suscitando l’ira di
Galerio, erede di Diocleziano. In seguito i due vengono a patti e Costantino rinuncia al titolo di Augusto
accettando quello minore di Cesare, comunque un riconoscimento ufficiale del suo potere. Intanto anche
Massenzio, figlio del dimissionario Massimiano, si autoproclama imperatore a Roma
Contro Massenzio, da Milano capitale d’Occidente, muove Severo, a capo di un esercito che fino poco
prima era agli ordini di Massimiano e Massenzio suo figlio conoscendone bene gli ufficiali riesce a
corromperli. Così Severo durante l’avanzata si trova abbandonato dai suoi soldati e viene eliminato (307). Il
successivo intervento militare di Galerio, primus augustus, augusto anziano della tetrarchia, fallisce
miseramente. Nel 308 Galerio considerando Massenzio usurpatore nomina Augusto per l’Occidente il
172
proprio amico e commilitone Licinio, assegnandogli per il momento l’Illirico.
Massenzio ha quindi interesse ad allearsi con Costantino, che tra l’altro è suo cognato, perché ne ha
sposato la sorellastra Fausta nel 307. I due restano amici per qualche anno finché, dopo la morte di Galerio
nel 311, Costantino promette in moglie un’altra sua sorellastra, Costanza, a Licinio come pegno di amicizia.
Secondo Lattanzio (De mort. pers. 43) Massenzio teme allora l’accerchiamento e riesce a stringere anche lui
amicizia con Licinio, preparando al contempo la guerra contro Costantino. Ma Costantino lo previene
passando le Alpi al Moncenisio e prendendo subito d’assalto la città di Susa, poco dopo Torino passa dalla
sua parte ed egli entra trionfalmente nel palazzo imperiale di Milano, ricevendo ambasciatori da svariate
città padane.
173
ripresentarsi in breve tempo con un esercito per sfidare Costantino ad uno scontro
campale. Il valore di Ruricio è riconosciuto dall’autore, cosa rara in un panegirico, nel
quale di solito si parla solo con disprezzo dei nemici. Al posto suo non tutti avrebbero
avuto il coraggio di tornare ad affrontare l’avversario da cui erano sfuggiti.
All’avvicinarsi del nemico, Costantino lascia un forte presidio a continuare l’assedio e
col resto delle truppe si prepara alla battaglia, quando i due eserciti sono schierati ormai è
quasi il crepuscolo, ciononostante inizia un combattimento furioso che si protrae nella
notte. Costantino vince combattendo in mezzo ai suoi, la luce del giorno rivela la strage
degli avversari, anche il corpo di Ruricio giace sul campo.
Verona apre le porte al vincitore, i soldati di presidio vengono catturati in gran numero e i
Veronesi salvano la vita e la vittoria spalanca a Costantino la via di Roma.
Non sappiamo quanto sia veritiero il racconto, fatto sta che Verona vi conferma il suo
valore strategico di piazzaforte capace di impegnare da sola l’esercito di Costantino.
La sua importanza nella guerra civile con Massenzio era ben presente ai
contemporanei, se è vero che sono veronesi le mura di una città sotto assedio raffigurate
in un bassorilievo dell’arco trionfale presso il Colosseo, che il Senato di Roma dedicò nel
315 a Costantino.
Ci si chiede perché Massenzio sia rimasto chiuso a Roma lasciando solo Ruricio ad
affrontare Costantino, invece di muoversi prendendo il nemico tra due fuochi. Lattanzio se
lo spiega con un oracolo secondo il quale egli sarebbe morto se fosse uscito dalla città. La
spiegazione ci fa sorridere, ma risulta verosimile nel contesto del tempo, anche se
probabilmente Massenzio avrebbe potuto aggirare l’ostacolo ricorrendo a nuovi oracoli
“aggiustati” con responsi più favorevoli.
Poco tempo dopo avvenne, davanti alla capitale, la decisiva battaglia di ponte Milvio,
una grande strage in cui Massenzio, uscito imprudentemente contro il nemico, perì con
moltissimi dei suoi, annegando miseramente nel Tevere. Costantino divenne a caro
prezzo signore dell’occidente.
Le mura di Verona sotto assedio sono rappresentate in un bassorilievo dell’Arco di
trionfo di Costantino, eretto a Roma nel 315.
Le fabbriche di armi
La Notitia Dignitatum et Admnistrationum, “Notizia delle Dignità e delle Amministrazioni”, è un
dettagliato elenco dei funzionari imperiali civili e militari e delle loro amministrazioni, un
documento risalente forse all’epoca di Teodosio, ma alla cui base si trova la riorganizzazione
dioclezianea. Da essa ricaviamo che una novità introdotta da Diocleziano fu l’istituzione di
fabbriche statali di armi, dislocate presso città strategicamente importanti. Evidentemente l’armeria
174
delle singole legioni e le botteghe artigiane non bastavano a coprire il fabbisogno crescente.
L’imperatore volle che le fabbriche fossero per lo più specializzate solo nella produzione di un tipo
armi, in modo che non fosse possibile per un nemico esterno o per un generale ribelle, impadronirsi
in un sol colpo di armamenti completi. Delle 35 fabbriche ricordate nella Notitia, due sorsero nella
Venetia et Histria, una specializzata esclusivamente nelle frecce, a Concordia, e un’altra a Verona
per produrre scudi e armi non ben specificate (da difesa o da offesa?). Verona fu scelta perché
posta lungo la strategica via Postumia, a metà strada tra Milano, nuova capitale dell’occidente, e
Aquileia, la più importante città portuale dell’alto Adriatico e “porta” del confine orientale della
penisola.
Per garantire la continuità di questa fornitura strategica gli operai armaioli furono legati al loro lavoro fino
alla vecchiaia, impediti di trasferirsi altrove e obbligati a trasmettere il loro mestiere ai figli.
175
Cristianesimo
Intanto si diffondevano anche a Verona i culti orientali di Mitra o di Iside e Serapide, che, come
quello del Sol Invictus, avevano grande seguito tra i soldati ed erano praticati anche da imperatori
come Commodo ed Elagabalo (o Eliogabalo). Un tempio dedicato a Iside o Serapide sorse
probabilmente a fianco del teatro, forse nei pressi dell’attuale chiesa di S. Stefano.
Anche il cristianesimo giunse a Verona, seppur in modo graduale e più o meno clandestino, con
riti praticati in case private, adattate al culto e chiamate domus ecclesiae (case dell’assemblea).
Appartiene probabilmente alla metà del III secolo, al periodo attraversato dall’anarchia militare, il
primo vescovo veronese, il cui nome ellenizzante, Euprepio, fa pensare a un’origine orientale,
Primum Veronae praedicavit Euprepus episcopus (Versus de Verona, 14), “Dapprima predicò a
Verona il vescovo Euprepio” .
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formalismo della religione tradizionale.
Così nelle varie città dell’impero erano sorte comunità cristiane, ognuna delle quali eleggeva il
proprio vescovo e attorno a lui si organizzava. La chiesa stava divenendo una specie di stato
nello stato. Diocleziano era sempre stato tollerante, ma i suoi consiglieri lo convinsero a
considerare colma la misura e inaccettabile il fatto che ufficiali e funzionari non sacrificassero
agli dei e al genio dell’imperatore in pubbliche manifestazioni. Per questo egli espulse
dall’esercito e dall’amministrazione i cristiani e verso la fine del suo regno (303), sotto la
pressione della corte e del cesare Galerio, emanò editti sempre più gravi di persecuzione
sistematica contro i cristiani, che prevedevano esilio, confisca dei beni e possibile pena di morte.
Essi furono applicati con ferocia in oriente, dove per colpire la gerarchia religiosa alcuni vescovi
furono arrestati e mandati a lavorare in miniera. Molti cristiani si piegarono e membri del clero
consegnarono i testi sacri che venivano bruciati sul rogo (di qui il significato negativo del
termine traditore, dal verbo tradere, consegnare). Ma non pochi affrontarono coraggiosamente
la morte che essi chiamavano martyrium, testimonianza, sicuri di passare a una gloriosa vita
eterna. Nella parte occidentale dell’impero invece Massimiano e il suo cesare Costanzo Cloro
non si mostrarono inclini a questa politica repressiva e la persecuzione fu molto più blanda.
All’epoca la percentuale dei cristiani doveva comunque essere piuttosto bassa.
… e poi pienamente accettati.
La persecuzione invece di stroncare la nuova religione, l’aveva rafforzata, il popolo che nei
primi due secoli d. C. era stato ostile alla nuova religione, giudicata una occulta setta di
fanatici, aveva cominciato ad apprezzare i cristiani per l’attività umanitaria che i i loro diaconi
svolgevano in quei tempi difficili, soccorrendo i poveri e le vedove e assistendo gli ammalati,
incuteva rispetto poi la loro dirittura etica e la forza morale dimostrata dai martiri.
Perciò Costantino, al contrario del suo predecessore, vide nel cristianesimo, o meglio nella
chiesa cattolica, gerarchicamente organizzata e diffusa sul territorio, una forza sociale positiva,
di potenziale sostegno al potere. ed emanò nel 313 col collega Licinio l’editto detto di Milano
che restituiva ai cristiani la libertà di culto e la proprietà dei beni confiscati.
La chiesa cattolica ricambiò subito dopo, nel 314 con il Concilio di Arles, comminando la
scomunica ai disertori cristiani, che “in pace, abbandonano le armi” (can. 3).
Costantino in seguito favorì la costruzione di grandi basiliche a Roma e altrove ottenendo la
gratitudine e il pieno appoggio dei papi alla sua politica e si fregiò del titolo di isapostolos,
uguale agli apostoli.
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La tradizione veronese attribuisce alla persecuzione di Diocleziano il martirio dei santi Fermo e
Rustico portati a Verona, processati e decapitati sulle rive dell’Adige e così pure la strage di
quaranta giovani veronesi, non attestata da fonti autorevoli, e che forse nacque dalla confusione
popolare con i quaranta martiri di Sebaste (Turchia), quando si diffuse la circolazione delle loro
reliquie.
.
Epigrafe tardoimperiale dal Foro
A quest’epoca tormentata risale un’epigrafe ritrovata nel XVI secolo in una casa sullo
spigolo Nord Est del Foro, ora al Museo Maffeiano. Qui sotto il testo latino e una libera
traduzione.
L’epigrafe è databile tra il 379 e il 383 i quattro anni in cui l’impero è governato da tre
imperatori associati: Graziano, Valentiniano II e Teodosio. Il terminus post quem è il
gennaio del 379, in cui Teodosio è nominato da Graziano augusto d’Oriente; l’ante quem
è l’agosto del 383 quando Graziano è assassinato in Occidente in seguito a un colpo di
stato.
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Sembra strano che il governatore della provincia in persona, un consularis, funzionario
imperiale di alto livello residente nel capoluogo di Aquileia, si occupi della collocazione di
una statua nel Foro di Verona, iniziativa tuttalpiù di competenza del governo municipale.
Probabilmente Valerio Palladio si trovava a passare per Verona, forse per preparare
degnamente la visita dell’imperatore Graziano avvenuta nel 380 e nell’edificio ormai
cadente del Campidoglio gli fu mostrata una bella scultura, buttata sul pavimento. Palladio
decise che la statua meritava di essere recuperata ed esposta nel Foro, dove avrebbe
fatto la sua bella figura sopra un piedestallo. Fu così preparata la base di calcare veronese
che reca l’epigrafe e presenta sul lato superiore degli incavi con tutta probabilità per
l’inserimento dei perni collegati a una statua di bronzo, forse di un personaggio altolocato
o di un imperatore, escluderei l’ipotesi di una divinità, perché gli dei non erano più in voga,
aborriti da Graziano.
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religione di stato. L’intestazione dell’editto ricorda molto da vicino quella dell’epigrafe
veronese.
Qui ovviamente sono i tre augusti sovrani a parlare, presentandosi come “imperatori” che
emanano un editto universale, mentre il committente dell’epigrafe veronese è un
funzionario di rango elevato che pone una propria personale iniziativa sotto la
benevolenza degli augusti “nostri signori”.
L’editto di Tessalonica segnò una svolta epocale, poiché impose per legge a tutti i
popoli dell’impero di seguire la religione cristiana cattolica come unico culto dello stato.
L’epigrafe di Verona parla di beatitudine temporum, felicità dei tempi “dei nostri signori
augusti”, è un’espressione encomiastica usuale nel linguaggio burocratico, ma come
erano in realtà quei tempi?
Se accettiamo la sua datazione al 379 o al 380 lo stato romano era appena uscito da
una gravissima situazione che aveva messo a rischio la sua stessa esistenza, o almeno
quella della parte orientale.
L’anno precedente infatti l’esercito dell'imperatore Valente, valoroso condottiero e zio di
Graziano, era stato annientato da orde di Goti nella spaventosa strage di Adrianopoli in
Tracia, a sud dei Balcani, nell’attuale Turchia europea.
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nel 375 avevano già sottomesso gli Ostrogoti, i Goti dell’est e ben presto misero sotto pressione i
Goti dell’ovest, detti Visigoti, che decisero di emigrare, e una grande moltitudine di loro si diresse a
ovest verso l’impero romano d’oriente, accalcandosi sulla riva sinistra del Danubio, non lontano
dalla foce nel mar Nero.
Una ambasceria visigota raggiunse in Siria l’imperatore Valente impegnato nella guerra contro i
Persiani, e ottenne il permesso di trasferirsi verso le pianure della vicina Mesia (Bulgaria) e di
passare il Danubio, sotto la sorveglianza romana, a patto di consegnare le armi e giovani nobili
come ostaggi.
Valente pensava a un futuro utilizzo dei Goti come soldati, per rinvigorire l’esercito e come
contadini per rendere produttive le campagne abbandonate.
Le cose però si complicarono: il numero di uomini, donne e bambini assiepati sulla riva sinistra
del Danubio superava i duecentomila (Ammiano Marcellino XXXI, 3, 4), una massa molto più
grande del previsto. Nel timore di incidenti e tumulti i soldati romani accelerarono le operazioni, i
Goti consegnarono gli ostaggi, ma in mezzo alla confusione riuscirono a mantenere gran parte delle
armi. Nel frattempo gruppi di Ostrogoti, sfuggiti agli Unni, trovando le barche incustodite, avevano
attraversato il Danubio compiendo razzie e distruzioni.
L’esercito di stanza alla frontiera, radunato in fretta e furia dal comandante delle operazioni, fu
sbaragliato e le fertili pianure della Mesia furono saccheggiate dai Visigoti che si diressero verso
Adrianopoli, la capitale della Tracia e a loro si unirono gli Ostrogoti e i Goti, liberi o schiavi da
tempo presenti nella regione.
Valente, conclusa una rapida pace con i Persiani spostò il grosso dell’esercito mobile verso
Adrianopoli. Graziano, che intanto grazie al generale Mellobaudes aveva sbaragliato gli Alamanni
invasori della Gallia, chiamato in aiuto si stava avvicinando e non distava più di 300 Km. Ma
Valente, invece di attendere il nipote, affrontò il nemico da solo.
La fanteria gota era attestata presso i propri carri, disposti in cerchio, la fanteria romana andò
all’assalto, ma fu privata della copertura della cavalleria, messa in fuga dai veloci cavalieri goti, in
schiacciante superiorità numerica. I cavalieri goti si abbatterono poi sui fianchi della fanteria
romana, che, accerchiata e costretta in piccolo spazio di manovra, fu massacrata. Caddero oltre
30.000 soldati romani e un gran numero di ufficiali e centurioni, compreso l’imperatore Valente, il
cui corpo non fu più ritrovato.
L’eco della strage raggiunse gli angoli più remoti dell’impero e la disfatta fu paragonata a quella
di Canne.
I Goti inebriati dalla vittoria, assalirono città fortificate come Adrianopoli e la stessa
Costantinopoli, ma furono respinti non essendo in grado di assediare cinte murarie ben costruite, si
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riversarono quindi nelle campagne devastando e razziando i Balcani, i territori delle attuali
Bulgaria, Serbia, Croazia e Slovenia, giungendo fino ai piedi delle Alpi Giulie a minacciare i
confini della Venetia .
Graziano, sulle cui spalle a diciannove anni era caduto il peso di tutto l’impero, tallonava i Goti,
ma venne raggiunto da notizie allarmanti provenienti dal confine sul Reno, che richiedevano la sua
presenza in Occidente. Egli allora richiamò in servizio Teodosio un abile generale ispanico, che si
era ritirato a vita privata in patria a causa di intrighi di corte e nel gennaio del 379 lo associò al
regno, nominandolo augusto per l’Oriente .
Conseguenze di Adrianopoli
Teodosio riportò la disciplina nell’esercito, evitò battaglie campali e attuò una tattica di
controguerriglia, cogliendo di sorpresa i distaccamenti goti impegnati in scorrerie e foraggiamenti. I
Goti temporaneamente respinti ritornarono in Tracia che avevano già saccheggiata. Numerosi
scontri si susseguirono senza risultati definitivi. Alla fine, tra una rischiosa battaglia campale
decisiva e il patteggiamento, Teodosio scelse la diplomazia.
Dopo molte trattative nel 382 i capi goti accettarono un foedus per loro particolarmente
conveniente. Ai Visigoti fu permesso di stanziarsi in Tracia e coltivare quelle terre fertili, devastate
da anni di guerra, diventando foederati dei romani, con l’obbligo di difendere il territorio, senza,
però, disperdersi in vari luoghi essi e mantenendo intatta la loro unità nazionale, combattendo sotto
i loro capi e secondo i loro usi. Era un privilegio mai visto: per la prima volta un popolo si stanziava
compatto, armato e autonomo nel territorio dell’impero, un precedente assai pericoloso. L’eccessiva
indipendenza rese assai difficile la romanizzazione, i Goti rimasero in gran parte un corpo estraneo,
con qualche eccezione. Ad esempio uno dei firmatari del foedus, il giovane principe visigoto
Fravitta, molto legato a Teodosio, fece a Costantinopoli una straordinaria carriera militare
diventando magister militum per orientem, comandante in capo dell’esercito d’Asia. Non era un
caso isolato. anche Mellobaudes, comandante delle truppe palatine di Graziano e vincitore degli
Alamanni nel 378 era nel contempo re dei Franchi (Ammiano Marcellino, XXXI, 8).
Data la difficoltà di arruolare i coloni romani, che spesso si tagliavano il pollice destro pur di
evitare il servizio militare, molti goti furono inseriti in reparti dell’esercito. Teodosio però inviò
queste reclute germaniche, non del tutto fidate, in Oriente e in Egitto, da dove viceversa fece
affluire reclute romane sul Danubio.
L’Oriente era quindi sotto la guida esperta ed energica di Teodosio e l’impero d’Occidente era
gestito in realtà da Graziano anche se nominalmente era stato spartito con il fratellastro
Valentiniano II, nominato augusto nel 375 alla morte del loro padre Valentiniano I, all’età di quattro
anni e sottoposto alla tutela della madre.
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I quattro anni di regno associato di questi tre imperatori furono quindi un breve periodo
abbastanza stabile e fortunato. Teodosio in seguito alla morte degli altri due divenne imperatore
unico assumendo anche il governo dell’Occidente, per l’ultima volta un grande sovrano regnava su
tutto l’impero romano, che poi sarebbe stato nettamente diviso tra i suoi figli Arcadio e Onorio.
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Esemplare fu ciò che avvenne alla morte di Teodosio, nel 395, quando Alarico I, re dei Goti
stanziati all’interno dell’impero, si ribellò, perché l’annuale tributo pattuito non veniva versato e
invase la Grecia e poi l’Italia e assediò Verona (403), dove fu sconfitto dal generale Stilicone e
dovette abbandonare l’Italia, ma vi rientrò alla morte di costui nel 408 e, non ricevendo il
risarcimento richiesto all’imperatore Onorio per anni di tributo non versato, arrivò a conquistare e
saccheggiare Roma stessa (410). Il colpo fu durissimo, anche se la capitale imperiale era stata
trasferita a Ravenna, protetta dalle sue paludi.
Quello che restava dell’esercito romano era in larga parte costituito da soldati barbari, per lo più
germanici. Al comando spesso arrivavano uomini dalle origini barbare, ma da tempo romanizzati,
che, avevano percorso i vari gradi della carriera militare, come Stilicone e Flavio Ezio. Spesso essi
avevano rapporti diretti con i popoli barbari e svolgevano una loro politica personale. Il giovane
ufficiale Ezio nel 425 durante una contesa per la successione al trono di Occidente era riuscito ad
arruolare un intero esercito di Unni e a fronteggiare con essi le truppe inviate da Costantinopoli a
sostegno di Valentiniano III, un bimbo di sei anni nominato imperatore d’occidente. Galla Placidia
l’energica madre e tutrice del piccolo, per allontanare la minaccia degli Unni fu costretta a
concedere ad Ezio il comando militare delle Gallie, grazie al quale egli iniziò una folgorante
carriera.
Nel 436/37 Flavio Ezio, divenuto magister militum (generale supremo) dell’occidente si servì
degli Unni come truppe ausiliarie per sbaragliare il popolo germanico dei Burgundi, che invece
decenni prima, nel 369, avevano aiutato l’imperatore Valentiniano contro gli Alemanni. Più tardi,
nel 451 in Provenza (Campi Catalaunici), Ezio assieme agli alleati Alani e Visigoti riuscì a battere il
terribile Attila re degli Unni, che spadroneggiava in tutto l’Occidente.
I successi riportati da questi generali suscitavano la gelosia e il sospetto degli imperatori, che li
consideravano possibili rivali da eliminare, così Stilicone, dopo tante vittorie, fu fatto uccidere a
tradimento a Ravenna da Onorio (408). La stessa sorte capitò ad Ezio, che a seguito di false accuse,
fu improvvisamente assalito e trapassato con la spada da Valentiniano III (454).
Non era solo una questione di eserciti e di congiure, la decadenza era anche civile, economica e
morale, la società romana si reggeva su diseguaglianze sempre più accentuate e insopportabili,
grandi masse analfabete, gravate dall’imposizione fiscale e dall’ereditarietà obbligatoria del
mestiere e del servizio militare di frontiera, erano oppresse da una ristretta categoria privilegiata di
funzionari e burocrati spesso corrotti e spietati.
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L’Impero d’Occidente cominciava a perdere pezzi. Cominciò la Britannia, abbandonata nel 407
dalle legioni romane, che, accorse a fermare l’invasione della Gallia, non rientrarono più nell’isola.
Da quel momento in poi i Britanni furono costretti ad arrangiarsi da soli e qualche decennio dopo
furono invasi e assoggettati da Angli e Sassoni.
I Vandali dopo essere entrati in Gallia e in Spagna si trasferirono in Africa e la occuparono
staccandosi da Roma, privandola così del suo “granaio” africano (439).
Dopo la morte del generale Ezio, i Visigoti stanziati in Aquitania, nella Gallia meridionale, col
permesso dell’imperatore Costanzo (418), si resero sempre più autonomi dall’impero e
conquistarono anche buona parte della penisola iberica (475). I Franchi di Clodoveo si
impadroniranno poi della Gallia, cacciandone i Visigoti (507) e fondando un loro regno.
L’Impero d’Occidente si ridusse così alla penisola italica e alla Dalmazia, sotto il dominio di
imperatori fantoccio succubi di generali barbari che detenevano il potere reale.
Non è da credere che questi popoli nomadi o seminomadi, sbollita la foga della conquista di un
territorio, continuassero con stragi e razzie indiscriminate. Anzi, una volta stanziati e divenuti
proprietari terrieri, cambiavano lentamente le abitudini e i costumi nomadi e sotto la guida dei loro
re cercavano un modus vivendi con le popolazioni preesistenti, trovando accordi con le comunità
romane, spesso anche grazie alla mediazione della chiesa e dei vescovi e creando anche nuove
forme giuridiche per regolare i rapporti tra diverse tradizioni e civiltà.
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I Bagaudi
I Bagaudi non erano un popolo, ma bande organizzate di pastori e contadini guerriglieri, esasperati
dall’insopportabile tassazione e dalle angherie dei latifondisti, che costituirono una specie di movimento di
rivolta contro l’iniquità sociale e la corruzione della burocrazia, arrivando a controllare per quasi due secoli
(280-450 circa) aree difficilmente accessibili delle Alpi e dei Pirenei, imponendo un pedaggio per il transito
sicuro dei valichi alpini a mercanti e perfino a reparti militari e ricorrendo anche al brigantaggio e al
rapimento con riscatto di ricchi proprietari, i quali erano così potenti da permettersi forze armate personali
per difendere le loro ville rustiche. Subirono rastrellamenti e feroci repressioni dalle truppe romane, ma
riuscirono ogni volta a riprendere il controllo dei loro territori.
Il loro movimento anzi si espanse a sud in Spagna e a nord nell’Armorica (Bretagna).
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Divenuto padrone della penisola, Teodorico si propose di far convivere i dominatori Goti e i
Romani in uno stato pacificato, come gli suggeriva l’educazione greca e latina assorbita a
Costantinopoli, dove era stato giovanissimo ostaggio a garanzia di patti tra bizantini e ostrogoti.
Egli mantenne la capitale a Ravenna, ma scelse Verona come una delle capitali sussidiarie, in
quanto posizione chiave per il controllo del territorio a nord est e dedicò ingenti risorse al restauro e
alla fortificazione della città.
Cinse con nuove mura il colle e ai suoi piedi costruì il palatium la sua reggia, probabilmente sulle
fondamenta dell’Odeon, di fianco al Teatro, collegata alla porta urbica orientale (via Redentore),
come si potrebbe intuire dal disegno dell’Iconografia Rateriana. Forse la nuova cinta si estendeva
lungo la Postumia fino all’altezza di via Porta Organa dove sono inseriti nei muri di due case
opposte i pilastri di una grande porta costruiti con riutilizzo di pietre romane.
Teodorico Si prese molta cura anche della città in destra Adige, qui le difese erano state in
precedenza rafforzate con potenti speroni di pietra e calcestruzzo posti a sbarramento degli accessi
alle postierle e in altri punti delicati. Teodorico, giudicando insufficienti tali opere, decise un
intervento radicale. Con massi dell’anello esterno dell’Arena (forse demolito in buona parte in
questa occasione) e con altre pietre e lastre di recupero, ma collocate con cura e legate con malta
tenace fece innalzare una nuova poderosa cinta muraria, alta ben 14 metri e avanzata di circa una
decina di metri rispetto alle precedenti mura di Gallieno. Il secondo circuito circondava il primo con
un’altezza quasi doppia, costituendone un avancorpo poderoso, nella sua essenzialità difensiva,
priva di elementi decorativi ma molto robusta.
La nuova cinta era difficilmente penetrabile: gli ingressi in città erano limitati a due porte
fortificate, aperte nelle nuove mura in corrispondenza delle antiche porte monumentali
Davanti a ciascuna delle due porte principali, rimaste le sole entrate alla città in destra Adige, fu
costruito un avancorpo collegato alle mura e fornito di un solo arco di accesso.
Le nuove mura sono un’opera poderosa costruita con materiali di recupero, ma scelti con cura e
legati con buona malta; vi si reimpiegarono anche epigrafi funerarie, ma soprattutto una grande
quantità di massi ricavati dall’anello esterno dell’Arena, forse in parte crollato o appositamente
demolito nell’occasione. Queste mura, fino a poco tempo fa confuse con quelle di Gallieno, sono
tutt’oggi visibili in alcuni tratti, impressionante quello, quasi intatto, conservato in via S. Cosimo.
Teodorico innalzò anche altri edifici, ripristinò la viabilità dentro e fuori le mura e ricostruì
l’acquedotto disastrato.
Al termine dei lavori Verona era una fortezza formidabile, difesa da una doppia cinta di mura, tali
da scoraggiare qualunque aggressore. Al loro interno la gloriosa città romana, in parte riadattata per
ospitare orti e ricoveri di animali, tornò a vivere una vita relativamente prospera e civile, ma con
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una netta separazione tra la pars Gothorum, la zona occupata dai Goti a sinistra Adige e la città
romana al di là del fiume, segno esterno di una divisione culturale e politica.
Di questa città fortificata, che conserva ancora una struttura monumentale romana abbiamo, oltre
ai dati archeologici, una rappresentazione visiva di straordinaria bellezza e rarità, una fedele copia
settecentesca dell’Iconografia Rateriana, una preziosa pergamena policroma così chiamata da
Raterio il vescovo di Verona, che la fece realizzare nel X secolo. Il disegno è attendibile in rapporto
ai metodi rappresentativi dell’epoca che non si curavano di unità prospettica ma adottavano punti
vista diversi per mettere in rilievo i vari monumenti. La doppia cinta muraria ad esempio è vista
frontalmente su un unico piano ed è resa con due colori, il verde e il rosso sovrapposti.
Pur essendo posteriore di quattro secoli a Teodorico, può darsi che l’iconografia si rifaccia a un
modello molto più antico e vicino a Teodorico.
Verona si avvia con Gallieno e Teodorico ad assumere quella fisionomia di piazzaforte militare
che manterrà nei secoli, dal medioevo all’età moderna, fino a raggiungere il massimo sviluppo in tal
senso nel 1800 sotto il dominio austroungarico, quando diventerà la città militare più importante di
tutto il Lombardo Veneto.
Verona e il cristianesimo
Diffusione
Già pochi anni dopo la crocefissione di Gesù, iniziò la diffusione del cristianesimo al di fuori dei
confini della Palestina, prima in Oriente e poi in Occidente, rivolta a tutti, ma in primo luogo agli
ebrei, sparsi nelle varie regioni dell’impero. Come testimoniano le lettere di Paolo e gli Atti degli
Apostoli la nuova religione si diffondeva lungo le rotte del Mediterraneo, rivolgendosi anzitutto alle
città portuali del Mediterraneo o vicine al mare, dove vivaci comunità ebraiche dedite ai commerci
si erano sviluppate e avevano costruito le loro sinagoghe, basi d’appoggio per la predicazione, che
non aveva, però, vita facile: l’idea che Gesù di Nazareth fosse il Cristo figlio di Dio suscitava
spesso reazioni scandalizzate e anche violente, che sfociavano in tumulti.
Ciò avveniva anche nella stessa capitale dell’impero, al punto che verso la metà del I secolo,
l’imperatore Claudio, sempre benevolo verso gli Ebrei “Espulse da Roma i Giudei che
continuamente tumultuavano per istigazione di Chresto” (Svetonio, Vita Claudii, XXV, 4) l’editto
evidentemente motivato da ragioni di ordine pubblico non fa distinzione tra Giudei e Giudei
cristiani.
Solo molto più tardi e lentamente la nuova religione raggiunse le città dell’entroterra. Le
narrazioni medievali pretendono di far risalire alla predicazione apostolica del I secolo la nascita di
comunità cristiane nei centri della pianura Padana e considerano discepoli diretti degli Apostoli il
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primo vescovo di Milano, Anatolone o Anatolio, il vescovo di Padova, Prosdocimo e anche quello
di Verona, Euprepio, per conferire maggior prestigio all’origine di queste diocesi.
In realtà, secondo calcoli verosimili, basati sui primi vescovi storicamente datati, in quanto
presenti ai sinodi di Roma (313) o Sardica, l’attuale Sofia, (343) e risalendo fino all’inizio delle
serie episcopali tramandate, i primi vescovi della Gallia Cisalpina e quindi le prime comunità
organizzate gerarchicamente si collocano solo verso l’inizio o la metà del III secolo.
Questi primi vescovi portano nomi greco-ellenistici che denotano la provenienza orientale, essi
erano probabilmente missionari, inviati in Occidente a fondare nuove comunità cristiane. Euprepio,
il cui nome significa “Decoroso”, fu il primo vescovo di Verona intorno alla metà del III secolo,
forse dopo il 260 quando l’imperatore Gallieno concesse la libertà di culto ai cristiani, abolendo la
precedente persecuzione attuata da suo padre.
Persecuzioni
Roma era molto tollerante in fatto di religione e accoglieva benevolmente nel proprio panteon le
religioni dei popoli più disparati che entravano a far parte dell’impero, la religione era considerata
fattore di coesione sociale e strumento di controllo politico. L’universalismo dell’impero era anche
religioso. La politica di pace, di inclusione e integrazione voluta da Augusto è simbolicamente
espressa dal grandioso edificio del Panteon eretto a Roma da Agrippa, il potente amico e genero del
primo imperatore.
La società romana, però, non vedeva di buon occhio le sette religiose, soprattutto se praticavano
riunioni segrete riservate agli iniziati: il popolo vedeva in esse un affronto alle divinità tradizionali,
foriero di disgrazie e divine punizioni e il potere diffidava di ciò che sfuggiva al suo controllo.
I cristiani non erano perciò ben visti a causa dei loro misteriosi riti, del rifiuto di onorare gli dei
tradizionali e la divinità dell’imperatore.
Tacito, a cavallo tra il I e il II secolo, giudica il cristianesimo una “superstizione distruttiva”,
(exitiabilis superstitio, Ann. XV, 44), non diversamente dal suo contemporaneo Plinio il Giovane
che parla di una “superstizione perversa e sfrenata” (superstitionem pravam et immodicam, Ep. 96).
Essere denunciati come cristiani comportava processi, confische dei beni, esili o condanne a
morte. Ciononostante l’atteggiamento degli imperatori verso i cristiani non fu univoco: a periodi di
tolleranza si alternarono altri di dura intransigenza. Nei primi due secoli di un impero solido e
fiorente le persecuzioni furono momenti episodici, come quella feroce scatenata da Nerone allo
scopo, secondo Tacito, di deviare sui cristiani il furore popolare per un furioso incendio che aveva
devastato Roma e di cui lo si accusava.
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Il grande Traiano in una lettera a Plinio il Giovane, che dalla lontana Bitinia gli chiede istruzioni,
risponde esortando lo scrupoloso governatore a non mettersi alla ricerca dei cristiani, ma a istruire
processi contro di loro solo su precise accuse di privati, ignorando le denunce anonime e infine gli
ricorda di concedere ad essi la possibilità di ravvedersi, semplicemente invocando in pubblico gli
dei tradizionali.
Solo più tardi quando l’impero fu scosso da gravi crisi esterne ed interne nel III-IV secolo alcuni
imperatori videro nei cristiani una grave minaccia all’unità e alla sicurezza dello stato, che andava
repressa con persecuzioni sistematiche.
La proposta cristiana di nuova umanità egualitaria fondata sull’amore fraterno e la promessa di
una vita eterna oltre la morte, aveva fatto presa non solo sugli umili lavoratori, sui diseredati e gli
schiavi, ma si era diffusa anche nella classe privilegiata dei liberti ricchi, finendo poi per
coinvolgere famiglie di rango equestre e perfino senatorio, anche militari che erano stati di presidio
in Oriente furono veicoli del messaggio cristiano.
I cristiani prima perseguitati …
L’opinione comune sui cristiani tra I e II secolo, rispecchiata da Plinio il Giovane nella lettera 96
a Traiano, era che essi fossero una setta illegale, una “superstizione irrazionale e smodata”, che si
poneva al di fuori dello stato, perché rifiutava il dovere civico del culto all’imperatore, incorrendo
nella lesa maestà, che comportava la pena di morte. Traiano rispose però al governatore Plinio di
non perseguire di sua iniziativa i cristiani, ma solo su denuncia, che non poteva essere anonima,
indegna di uno stato civile, e anche così essi andavano puniti solo se recidivi.
Così
In pratica c’era una certa tolleranza, al punto che le comunità cristiane raccoglievano fondi
erano
destinati al culto e alla beneficienza e col tempo ereditarono o acquisirono edifici e terreni
sorte
in qualche forma legale, intestandoli a prestanome o con altri sistemi. La responsabilità
nelle
amministrativa dei beni faceva capo ai vescovi.
varie
Il cristianesimo era stato colpito da temporanee persecuzioni sotto alcuni imperatori, ma
città
nonostante ciò non solo si era diffuso tra il popolo e gli schiavi, affascinati da una divinità
che condivide le sofferenze degli uomini e promette felicità eterna nell’al di là, ma aveva
fatto presa anche sulle classi dirigenti con la rivoluzione della sua etica spirituale,
contraria al formalismo della precettistica tradizionale.
dell’impero comunità cristiane, ognuna delle quali eleggeva il proprio vescovo e attorno a lui si
organizzava. La chiesa stava divenendo una specie di stato nello stato. Diocleziano vedeva nella
religione tradizionale un indispensabile supporto del suo potere e per questo si proclamò Iovius
(simile a Giove) e dominus et deus, rappresentante sulla terra della volontà degli dei. Tuttavia
Diocleziano era sempre stato tollerante con i cristiani, ma verso la fine del suo regno (303), sotto la
190
pressione dei suoi consiglieri e del cesare Galerio, emanò editti sempre più gravi di persecuzione
sistematica. Essi furono applicati con ferocia in oriente, dove per colpire la gerarchia religiosa
alcuni vescovi furono arrestati e mandati a lavorare in miniera. Molti cristiani si piegarono e
membri del clero consegnarono i testi sacri che venivano bruciati sul rogo (di qui il significato
negativo del termine traditore, dal verbo tradere, consegnare). Ma non pochi affrontarono
coraggiosamente la morte, che essi chiamavano martyrium, testimonianza, sicuri di passare a una
gloriosa vita eterna.
La persecuzione invece di stroncare la nuova religione, l’aveva rafforzata, il popolo che nei primi
due secoli d. C. era stato ostile alla nuova religione, giudicata una occulta setta di fanatici, aveva
cominciato ad apprezzare i cristiani per l’attività umanitaria che i i loro diaconi svolgevano in quei
tempi difficili, soccorrendo i poveri e le vedove e assistendo gli ammalati, incuteva rispetto poi la
loro dirittura etica e la forza morale dimostrata dai martiri.
Perciò Costantino, al contrario del suo predecessore, vide nel cristianesimo, o meglio nella chiesa
cattolica, gerarchicamente organizzata e diffusa sul territorio, una forza sociale positiva, di
potenziale sostegno al potere. ed emanò nel 313 col collega Licinio l’editto detto di Milano che
restituiva ai cristiani la libertà di culto e la proprietà dei beni confiscati.
La chiesa cattolica ricambiò subito dopo, nel 314 con il Concilio di Arles, comminando la
scomunica ai disertori cristiani, che “in pace, abbandonano le armi” (can. 3).
Costantino in seguito favorì la costruzione di grandi basiliche a Roma e altrove ottenendo la
gratitudine e il pieno appoggio dei papi alla sua politica e si fregiò del titolo di isapostolos, uguale
agli apostoli.
Le persecuzioni non riuscirono a stroncare la diffusione della nuova religione, nemmeno la più
terribile attuata da Diocleziano, anzi finirono per rafforzarla spingendola a radicarsi capillarmente
nel territorio dell’impero con comunità solidali e virtuose, gerarchicamente organizzate, efficienti e
socialmente benefiche.
La svolta decisiva nel rapporto tra impero e cristiani fu impressa da Costantino: giunto, dopo
aspri conflitti, a governare una gran parte dell’impero, egli vide nel cristianesimo invece che un
nemico dello stato romano un suo potenziale potente alleato e dopo aver concesso la libertà di culto,
la restituzione dei beni e spazi per costruire nuove chiese, stabilì una costruttiva collaborazione con
la gerarchia cattolica, che arrivò anche all’ingerenza negli affari religiosi. Infatti lo preoccupavano
le divisioni teologiche che laceravano la chiesa, come l’arianesimo che negava la divinità di Cristo.
L’unità della chiesa garantiva l’unità politica dello stato, perciò egli stesso convocò il concilio di
Nicea nel 325, dal quale uscì una nuova formulazione del Credo cattolico.
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Le prime chiese
Gli Apostoli predicavano nelle sinagoghe, o all’aperto, o anche in case private, ma le prime
comunità, per “spezzare il pane”, cioè per celebrare il rito eucaristico, sceglievano spesso ampie
stanze o sale per banchetti, come il cenacolo dell’ultima cena.
Più tardi le comunità sentirono l’esigenza di comprare una casa e trasformarla in luogo di culto, adattando in qualche modo le
stanze allo scopo. Si parla allora di domus ecclesiae, case dell’assemblea.
C’è un esempio archeologicamente significativo, che risale al 232 o 233 ed è in Siria, a Dura Europos, dove fu trovata una casa
che subì qualche trasformazione, per accogliere la comunità, come suggeriscono simboli cristiani dipinti sui resti di alcuni muri. In
particolare c’è una stanza, unica nel suo genere in tutta la città, che doveva essere senz’altro un battistero, con un fonte battesimale
simile a un sarcofago (simbolo di morte e rinascita in Cristo)
Le persecuzioni sistematiche
La strage di cristiani avvenuta sotto Nerone era stata solo un grave episodio isolato, ma, al di là della follia sanguinaria neroniana,
sappiamo da Plinio il giovane che sotto l’ottimo Traiano, imperatore dal 98 al 117 d. C., bastava la denuncia di qualche vicino di
casa, malevolo o invidioso, per essere processati come cristiani e rischiare la vita o quanto meno l’esilio e la confisca dei beni.
Ma fu solo con l’imperatore Decio, salito al potere nel 250, che le persecuzioni divennero sistematiche. In un periodo di grave
anarchia egli vedeva nella religione tradizionale un fattore di coesione sociale e politica, un argine alla profonda crisi che travagliava
l’impero e per ristabilirne i culti impose, sotto pena di morte, che tutti i sudditi dell’impero manifestassero devozione agli dei dello
stato e al culto dell’imperatore. Molti cristiani pur di evitare gravissime pene e torture rinnegarono almeno formalmente la loro
religione, ma molti altri accettarono il martirio.
Il culmine della ferocia si raggiunse, però con Diocleziano e Massimiano, suo collega in Occidente (imperatore dal 284 al 305 d.
C.). La sua persecuzione indiscriminata, iniziata nel 303, portò le denunce e le esecuzioni di cristiani a un livello impressionante.
La tradizione veronese ricorda come vittime illustri di Massimiano il nobile Fermo e
Rustico, suo giovane parente, originari di Bergamo, ma che sarebbero stati processati e
decapitati sulla riva dell’Adige. I loro resti dopo vari spostamenti furono riportati a Verona
nell’ottavo secolo dal vescovo Annone e si trovano sepolti nella chiesa loro dedicata. Ci
sono poi custodite nella chiesa di S. Stefano le reliquie di quaranta martiri che sarebbero
stati uccisi anch’essi sulla riva del fiume.
Succedeva però che più la nuova religione veniva repressa, più si diffondeva a tutti i livelli della società, a tal punto che
Costantino, il successore di Diocleziano, si chiese se non fosse meglio considerare i cristiani una potenziale risorsa per l’impero
piuttosto che nemici da combattere e, con il rescritto imperiale noto come editto di Milano, nel 313 pose fine alle persecuzioni,
concedendo ai cristiani piena libertà religiosa e ordinando la restituzione gratuita dei loro luoghi di culto, precedentemente confiscati
e venduti.
Una delle antichissime leggi delle XII tavole, le prime leggi scritte di Roma (451 – 450 a. C.), vietava di seppellire i morti entro le
mura cittadine. Non si voleva però perdere il rapporto con i propri cari defunti e dimenticarsi di loro, per questo i cimiteri sorgevano
poco fuori dalla città, di preferenza lungo le vie principali, così che i defunti, oltre a ricevere facilmente le visite dei parenti, avessero
la compagnia quotidiana anche dei semplici viandanti.
Anche a Verona sorsero cimiteri in varie zone all’esterno del centro abitato: lungo la via Postumia nelle due direzioni, verso sud –
ovest, presso l’attuale Porta Palio e forse anche più vicino alla città, nella zona dei Santi Apostoli, e verso nord – est, in Veronetta
presso il Seminario e lungo la via Gallica (che andava a Milano), nella zona dove sorsero S. Procolo e S. Zeno.
Un cimitero si trovava anche proprio qui nell’area di S. Stefano, dove la via Claudia Augusta Padana (proveniente da Ostiglia e
diretta a Trento) usciva dalla porta situata a nord di Ponte Pietra. Qui furono sepolti anche i corpi di alcuni dei primi vescovi 1, infatti, i
cristiani si servirono degli stessi cimiteri di tutti gli altri veronesi, con la sola differenza che essi, credendo nella resurrezione dei
corpi, usavano rigorosamente solo l’inumazione.
Le tombe erano sotto la protezione di norme sacre, sappiamo da Plinio il giovane che spostare i resti o reliquiae di un defunto,
anche per buoni motivi, richiedeva il permesso del collegio dei Pontefici.
1
Dimidriano, Simplicio e Saturnino, poi traslati nella basilica dopo la sua costruzione.
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Ma per i primi cristiani il termine reliquiae acquisì un nuovo significato: il corpo di un martire che aveva ospitato un’anima così forte
e santa, da affrontare il sacrificio supremo, doveva conservare un potere benefico capace di trasmettere in qualche modo la santità
a chi lo venerava con fede. Assieme all’anima, anche il corpo di un santo veniva, durante la vita, talmente trasfigurato dalla grazia
divina, che anche dopo la morte doveva conservarne una traccia, capace di mantenere in modo misterioso la presenza della
persona. Al corpo di un santo era perciò attribuito un potere taumaturgico di guarigione, di qui il bisogno di avvicinare e se possibile
toccare le reliquie, o almeno la teca che le conteneva.
S. Petronio, vescovo di Bologna dal 532, autore di un panegirico del vescovo di Verona S. Zeno, morto nel 372 o 380, ci
testimonia che il santo veronese continuava a fare da morto i miracoli che faceva da vivo: “S. Zenone … moltiplica nella tomba i
miracoli che fece durante il suo episcopato … e colui che giace nel sepolcro restituisce la vita ai morti, sana gli infermi … e la
ragione è che lo spirito di Dio vigila in quella cenere non morta e proviene la vita di là ove crediamo essere un cadavere esanime”.
Reliquie divennero anche gli oggetti appartenuti al santo in vita e perfino le cose che erano venute a contatto con il suo corpo,
così con questa moltiplicazione era possibile accontentare la grande richiesta dei devoti.
Grande impulso alla diffusione delle reliquie fu dato dal presunto ritrovamento del legno della croce di Cristo, avvenuto, secondo la
leggenda, nel 326 a Gerusalemme, ad opera della regina Elena, madre di Costantino. Di qui pezzetti del sacro legno raggiunsero i
più lontani luoghi della cristianità, un’antica iscrizione ne ricorda uno anche a santo Stefano.
La predicazione degli Apostoli si svolgeva nelle sinagoghe, o all’aperto, o anche in case private, ma le prime comunità, per
“spezzare il pane”, cioè per celebrare il rito eucaristico, sceglievano spesso ampie stanze o sale per banchetti, come il cenacolo
dell’ultima cena, che in Palestina e in Oriente si trovavano di solito all’ultimo piano sopra le stanze di uso quotidiano. Gli Atti degli
Apostoli (20,7) riferiscono che in una riunione affollata, a Troade in Oriente, un giovane, seduto sul davanzale della finestra, cadde
dal terzo piano e sembrò morto, ma S. Paolo lo rianimò.
Solo più tardi le comunità sentirono l’esigenza di comprare una casa e trasformarla in luogo di culto, adattando in qualche modo le
stanze allo scopo. Si parla allora di domus ecclesiae, case dell’assemblea.
C’è un esempio archeologicamente significativo, che risale al 232 o 233 ed è in Siria, a Dura Europos, dove fu trovata una casa
che subì qualche trasformazione, per accogliere la comunità, come suggeriscono simboli cristiani dipinti sui resti di alcuni muri. In
particolare c’è una stanza, unica nel suo genere in tutta la città, che doveva essere senz’altro un battistero, con un fonte battesimale
simile a un sarcofago (simbolo di morte e rinascita in Cristo).
Secondo Enrico Cattaneo, studioso di liturgia 2, allora “la celebrazione eucaristica non aveva bisogno di alcun apparato, perché
conservava innanzitutto l’aspetto conviviale, una cena familiare”. In origine i vari incarichi assunti dai membri della comunità,
secondo il carisma di ciascuno, erano generosamente svolti al servizio del prossimo e non davano diritto a distinzioni.
Ma già in documenti del III ( Didascalia Apostolorum) e soprattutto del IV secolo (Constitutiones Apostolorum), dopo l’editto di
Costantino del 313 e la libera costruzione degli edifici di culto, troviamo prescritta una netta divisione tra clero e fedeli e una
dettagliata sistemazione dello stesso clero nell’interno della chiesa.
La situazione di accordo con l’impero romano arriva poi, con Teodosio, a trasformare il cristianesimo in religione di stato (380
editto di Tessalonica) e a cambiare profondamente la sua iconografia: a Cristo buon pastore si preferisce l’immagine di Cristo re
dell’universo e della città celeste, cui corrisponde, nella città terrena, la figura dell’imperatore. La gerarchia religiosa assume
atteggiamenti distaccati e sontuosi abiti liturgici, simili a quelli dei funzionari della gerarchia imperiale. Vescovi e clero hanno nelle
chiese una zona loro riservata, la più importante, quella attorno all’altare, detta presbiterio, dal greco “presbitero”, cioè “anziano”,
termine con cui ben presto si identificò il capo della comunità e il “sacerdote”.
La struttura basilicale.
Perché i primi edifici cristiani hanno il nome di basiliche? Quando i cristiani innalzarono i loro primi edifici di culto, scartarono il
modello del tempio greco-romano, perché, oltre ad essere l’emblema dell’esecrata religione pagana, non era funzionale alle
esigenze liturgiche. Infatti, il tempio era concepito come casa delle divinità, non per accogliere il popolo, il quale si radunava
all’esterno, ai piedi della scalinata di accesso, per assistere ai sacrifici celebrati dai sacerdoti sugli altari posti su un alto podio.
Alla comunità cristiana serviva invece un edificio in cui l’ ecclesia, l’assemblea, potesse raccogliersi a pregare e a celebrare
l’eucaristia; per questo fu presa a modello la forma architettonica della basilica romana, edificio non religioso ma civile,
polifunzionale (tribunale al coperto, luogo d’incontro e borsa degli affari), solitamente posto su un lato del foro e adatto a contenere
la moltitudine di persone, che la frequentava.
La pianta rettangolare poteva avere un’abside o anche due absidi contrapposte sui lati corti e in questo caso gli ingressi stavano
solo sui lati lunghi. L’edificio,essendo in genere di grandi dimensioni, difficilmente poteva avere una sola grande copertura, per
questo non era costituito da un’aula unica, ma in genere era diviso in due, in tre o più navate da file di colonne funzionali a sostenere
le travi delle capriate dei tetti lignei o le imposte degli archi delle volte in muratura. L’illuminazione interna poteva provenire da
finestre ricavate nella fascia alta dei muri della navata centrale, quando questa era, come spesso accadeva, sopraelevata rispetto
alle altre.
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Autore del volume Arte e liturgia dalle origini al Vaticano II, v. bibliografia.
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Nella basilica romana gli ingressi erano numerosi, i più frequentati erano quelli posti sul lato lungo che dava sul foro, attraverso i
quali si entrava in un grande spazio indistinto e policentrico, privo di divisioni, una specie di piazza al coperto affollata e rumorosa.
Nella basilica cristiana, invece, l’ingresso è su uno dei due lati corti, cosicché si ha un rovesciamento della concezione spaziale,
che fa convergere l’occhio di chi entra sull’abside, posta sul lontano lato corto opposto. L’abside racchiude e abbraccia la zona
pregna di significato simbolico, che contiene il presbiterio, riservato ai capi della comunità, e l’altare, dove nell’eucaristia si palesa la
presenza di Cristo.
Le prime basiliche sono dette costantiniane perché costruite all’epoca di Costantino e spesso da lui promosse, donando il terreno,
come per la Basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma, o facendole costruire dai suoi architetti come la basilica di S. Pietro a
Roma, la Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme e a Costantinopoli la Basilica Apostolorum, in cui l’imperatore costruì il suo
mausoleo, come tredicesimo apostolo e su cui Giustiniano erigerà la grande chiesa di S. Sofia.
Sotto la chiesa di S. Elena, durante gli scavi degli anni cinquanta del novecento, emersero sia il perimetro dei muri di un edificio
basilicale paleocristiano, sia il pavimento e alcuni riquadri dei raffinati mosaici policromi che lo ricoprono e che riportano i nomi dei
generosi donatori. La basilica a tre navate, che possiamo chiamare zenoniana (lunga 37 metri e larga circa 17, per una superficie
di circa mq. 560), al momento dell’inaugurazione era già insufficiente ad accogliere i numerosi fedeli accorsi, tanto che il vescovo
Zeno dice in un suo sermone: “Esultate dunque, o fratelli,e riconoscete la vostra interiore costruzione da questa novella casa di Dio,
di cui avete già resa angusta la capacità con il felice numero delle vostre presenze. Dallo stesso fatto che non vi contiene, si
capisce che la vostra fede abbraccia Dio”. [Libro II, discorso 6, 2, 5 (I, 4)].
Alcuni decenni dopo, tra la fine del secolo IV e l’inizio del V i successori di Zeno avviarono la costruzione di una basilica imponente,
anch’essa a tre navate, con abside centrale, di dimensioni quasi doppie della precedente. Essa qualche tempo dopo rovinò a terra,
forse per un terremoto o un incendio, ma il disastro risparmiò i vivaci mosaici policromi, che ricoprivano il pavimento, estesi pannelli
dei quali restano ben conservati, sotto il Chiostro dei Canonici.
I primi cristiani usavano gli stessi cimiteri degli altri abitanti, ma con la progressiva
affermazione della nuova religione, anche i cimiteri subirono trasformazioni. Alcune tombe
cristiane venivano chiuse da una lastra (mensa) su cui celebrare i banchetti funebri. Dopo
le persecuzioni di Decio e Diocleziano, in varie città, dove numerose erano state le vittime,
spesso sul luogo di sepoltura di un martire o martyrium, i confratelli usavano innalzare
altari o piccoli monumenti detti memoriae e a volte circondarli di un sedile in muratura per
favorire il banchetto rituale e la venerazione della memoria, appunto. Talvolta il luogo
veniva riparato da un semplice porticato e col tempo si arrivò a costruire un piccolo edificio
sacro o sacellum, attorno alla tomba-altare dei martiri più noti e amati o dei defunti
particolarmente venerabili, per accogliere i fedeli, che desideravano pregare e meditare.
Nel IV-V secolo, anche a Verona furono probabilmente innalzati piccoli edifici, oratori o
sacelli nelle aree cimiteriali extraurbane.
Uno di essi, anche se fortemente rimaneggiato nel tempo, è tuttora esistente e si trova
poco fuori della cinta muraria romana, a sinistra uscendo dall’antica porta Iovia, ora porta
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Borsari, in una probabile zona cimiteriale a fianco della via Postumia: si tratta del sacello di
Teuteria e Tosca, forse originariamente dedicato a S. Apollinare.
Un altro sacello si trovava quasi sicuramente nell’area funeraria vicino alla chiesa di S.
Zeno, sotto o dietro l’attuale chiesa di S. Procolo, dove anticamente esisteva una chiesetta
dedicata ai santi Vito e Modesto.
Infine un terzo sacello, con buona probabilità, esisteva nel già ricordato cimitero, proprio
dove poi sorse S. Stefano, lungo la via Claudia Augusta, appena fuori della porta romana
che potremmo chiamare Tridentina e che in epoca medioevale sarà chiamata Porta di S.
Stefano. Qui, infatti, secondo Da Lisca, forse esisteva un oratorio, detto ad martyres,
probabilmente perché nei pressi erano le sepolture dei ricordati martiri veronesi. 3
Gli stessi vescovi non venivano sepolti nel centro abitato, bensì extra moenia, nei
cimiteri fuori le mura e probabilmente in un secondo tempo i loro resti furono tumulati nelle
chiese che lì sorsero. I primi quattro vescovi da Euprepio a Procolo furono probabilmente
sepolti nella chiesa dedicata appunto a S. Procolo, il quarto vescovo di Verona 4. In seguito
i vescovi a partire dal quinto, Saturnino, furono per lo più sepolti nella chiesa di S. Stefano,
situata più vicino alla cattedrale.
S. Stefano e S. Procolo sorsero, infatti, come basiliche cimiteriali, esterne alle mura
della città, in zone pressoché disabitate e riservate alle sepolture, erano chiese che
garantivano una specie di protezione divina alle tombe e in cui i fedeli potevano
raccogliersi a pregare per i loro defunti, sepolti nell’area circostante e poi, a seconda del
prestigio sociale, all’interno stesso delle chiese.
Non sappiamo con esattezza quando la basilica cimiteriale fuori le mura fu costruita,
quasi sicuramente dopo il 415, quel che è certo è che i muri delle fiancate e dell’abside
dell’attuale edificio risalgono al V secolo e a tutt’oggi sono sostanzialmente quelli originari.
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