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I Romani e Verona 2

I Parte. Dalle origini alla Colonia Latina.

Preistoria
Dell’antica origine di Verona poco si sa; si pensa che un primitivo nucleo abitato sia sorto
sull’attuale colle di san Pietro almeno dall’età neolitica.
Purtroppo le possibili tracce di questa antica presenza umana furono cancellate già in epoca
romana, quando gli architetti di Augusto operarono una gigantesca opera di sbancamento del colle
per inserirvi l’imponente teatro e le sovrastanti terrazze.
Possiamo quindi solo ipotizzare un probabile insediamento, considerando che la posizione del
colle era molto appetibile: il sito sopraelevato era difendibile da eventuali attacchi ostili e al riparo
dalle piene rovinose del fiume. Ma a renderlo più interessante era un’altra caratteristica: la
possibilità di controllare l’attraversamento del fiume che qui si restringe.
Infatti l’Adige, sboccando in pianura dalla sua valle tra i monti. un po’ più a nord di Verona,
allarga il suo corso rallentandolo con ampie curve, ma quando trova di fronte a sé il colle di san
Pietro è costretto a curvare e a restringersi, infilandosi tra due speroni di roccia, uno a sinistra, che
scende dal colle, e l’altro che si erge sulla riva opposta.
Qui, dove in alcuni periodi dell’anno era agevole il guado, giungeva probabilmente un’antica pista
e l’attraversamento tra le due sponde era facilmente controllabile dal sovrastante colle di S. Pietro.
Il fiume, oltre a costituire riserva d’acqua e di pesce, era un’importante via di comunicazione tra
le Alpi e la pianura e il mare. Nella preistoria i percorsi dei fiumi erano un po’come autostrade
tracciate dalla natura. Lungo le rive dell’Adige, trasportate a dorso d’asino, transitavano merci
pregiate: dalle sponde del mar Baltico proveniva l’ambra, ricercatissima per la sua bellezza e le
virtù magiche che le erano attribuite. Dal mare Adriatico giungeva il sale indispensabile alla
conservazione di carne e pesce.
Sui monti vicini era reperibile in abbondanza la selce, una pietra compatta e dura, ma facilmente
lavorabile. Percuotendo i nuclei di selce si producevano schegge della dimensione voluta, che poi
erano ritoccate sapientemente per ricavarne strumenti adatti alla caccia e il lavoro, asce, punte di
freccia e lancia o lame taglienti per lavorare la pelle e il legno. La pietra era molto richiesta anche in

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zone lontane, dando vita a un fiorente commercio. L’uomo neolitico riemerso dal ghiacciaio del
Similaun (Austria) aveva strumenti di selce proveniente dalla Lessinia.
Il paesaggio
La geografia dei luoghi era ed è caratterizzata dalla divisione in alta e bassa pianura, segnata dalla
linea delle resorgive, come vengono chiamati i corsi d’acqua sotterranei che dopo essere penetrati
negli strati calcarei di monti e colline riaffiorano improvvisamente incontrando gli strati alluvionali
impermeabili ai margini della bassa pianura. Il paesaggio naturale, senza intervento dell’uomo,
presentava un’alta pianura povera d’acqua e piuttosto brulla e invece una bassa pianura dalla
vegetazione lussureggiante ma con vasti acquitrini alimentati dalle resorgive.
Entrambe le fasce sono percorse dall’Adige, il secondo fiume d’Italia che accogliendo le acque di
un gran numero di affluenti alpini e prealpini mantiene un comportamento torrentizio anche
sfociando in pianura. Esso alterna periodi stagionali di magra a piene improvvise capaci di inondare
vaste aree e di abbattere ogni ostacolo.
Un paesaggio nell’insieme poco ospitale, tanto che le tracce di insediamenti umani nella preistoria
paleolitica sono molto più frequenti nella fascia pedemontana, che offriva meno risorse, ma più
sicurezza sulle sue alture per uomini che vivevano di caccia e raccolta.
Nell’età neolitica e dei metalli la diffusione dell’allevamento e delle prime culture cerealicole
favorì l’aumento della popolazione che portò a una progressiva colonizzazione della pianura e a
cambiamenti del paesaggio con primordiali forme di arginatura e canalizzazione delle acque da
parte dei popoli provenienti da varie direzioni che migrarono nella pianura padana. Ma fu solo con
l’arrivo e l’affermazione dei Romani che questi luoghi subirono un radicale mutamento che li
trasformò in paesaggio agricolo altamente produttivo.

Protostoria
Nel territorio pedemontano e della pianura veronese i reperti paleo e neolitici abbondano in
numerosi siti, ma essi mancano a Verona sulle pendici del colle, dove ci aspetteremmo di trovarne e
ciò per i motivi già detti. I più antichi reperti archeologici rinvenuti a Verona appartengono ai
Paleoveneti, ai Reti e ai Celti, una fase possiamo considerare protostorica.
Durante la costruzione dei poderosi argini dell’Adige, a seguito della disastrosa piena del 1882,
sono emerse testimonianze del più antico periodo paleoveneto sulla riva sinistra dell’Adige nei
dintorni est e ovest del colle, con ogni probabilità appartenenti a sepolture.

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Uno strato appartenente all’età del ferro è venuto alla luce di recente sotto il pavimento della cripta
della chiesa di S. Stefano, ai piedi del colle, tra l’altro qui fu rinvenuta anche una ciotola con
iscrizione in alfabeto leponzio, cioè celtico.
Sulla riva destra non si sono trovati reperti significativi di civiltà preromane, perché, se
esistevano, furono successivamente cancellati dalla costruzione della nuova Verona, edificata dai
Romani nell’ansa dell’Adige.

- Veneti
I Paleoveneti, cioè gli antichi Veneti, erano un popolo indoeuropeo che nell’età del ferro intorno al
X sec. a.C., giunse dall’oriente, e si installò nella parte orientale della fertile pianura a nord del Po,
dalle sponde dell’Adriatico fino a quelle del lago di Garda.
Essi erano allevatori di cavalli e valorosi guerrieri, usavano non solo il bronzo ma anche il ferro,
con cui costruivano le loro armi, ma una volta stanziati in pianura padana, si mostrarono disposti
alla convivenza pacifica con i popoli vicini.
I Veneti portavano una cultura avanzata, erano non solo allevatori, ma coltivavano cereali e
commerciavano intensamente con gli altri popoli, compresi gli Etruschi dei quali adottarono
l’alfabeto, adattandolo alla loro lingua indoeuropea.
Fondarono numerosi villaggi, alcuni dei quali raggiunsero in seguito uno stadio protourbano, cioè
prossimo a quello di città. Il centro più importante e popoloso fu Ateste (oggi Este) che divenne la
capitale dei Veneti. Il nome le deriva probabilmente da Athesis, Adige, il fiume che la attraversava,
finché parecchi secoli dopo non deviò dal suo corso a causa di una imponente alluvione.

Reti
Successivamente scese dalle zone alpine il popolo “montanaro” dei Reti, colonizzando un’ampia
fascia di territorio pedemontano, a cavallo delle Alpi, dall’Austria alla Svizzera, al nord Italia.
All’inizio probabilmente si scontrarono con gli altri popoli, ma in seguito trovarono una qualche
forma di convivenza, stabilendo scambi commerciali sia con i Veneti, sia in particolare con gli
Etruschi, dai quali appresero anch’essi l’alfabeto. I Reti possedevano una cultura abbastanza
sviluppata e costruivano abitazioni tipiche, con pianta rettangolare di solito scavate per metà nel
terreno in pendio con muri di pietre e per metà emergenti con tetti a spioventi di pali e frasche.
Dagli Etruschi impararono anche la coltivazione della vite, tanto che Catone il censore ci parla di
un vino retico molto apprezzato. Fondamenta di case retiche sono state rinvenute anche vicino a
Verona nella Valpolicella.

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- Etruschi in pianura Padana
Gli Etruschi nel VII-VI secolo, forse per compensare la perduta supremazia sul mare Tirreno, a
causa della concorrenza delle navi greche e cartaginesi, cercarono una nuova espansione economica
al di là degli Appennini in pianura Padana creando una serie di empori commerciali. Così sorse
Felsina, al centro della pianura (a Bologna), e sul delta del Po gli empori marittimi di Spina e
Adria, dalla quale il mare Adriatico prenderà il nome. Tali centri commerciali erano collegati da
antiche piste che attraverso la pianura si spingevano fino agli Appennini, Si trattava di villaggi di
capanne di legno alcuni dei quali saranno in seguito rifondati come centri cittadini. Così a metà del
V secolo sulla via di comunicazione tra l’Etruria e la valle Padana, sull’Appennino presso
Marzabotto, sorse Kainua dotata di regolare impianto stradale e urbanistico, di cinta difensiva di
pietra di acropoli e templi. Fu fondato anche un centro oltre Po in località Forcello nei pressi della
futura Mantua (Mantova). Adria e Spina furono trasformati in importanti porti internazionali per il
commercio con le città greche del basso Adriatico e del mar Egeo.
Questa sviluppo urbano fu annullato dall’invasione celtica del IV secolo che cancellò la presenza
etrusca a nord dell’Appennino. Al posto di Felsina i Galli Boi fondarono l’oppidum di Bononia la
loro capitale, sopra la quale nel II secolo Romani dedurranno una colonia latina come segno
manifesto della sottomissione dei Boi..
C’è chi sostiene che gli Etruschi si spinsero fino a fondare un centro a Verona, il cui nome
sarebbe di origine etrusca. Il Pagus Arusnatium, il distretto rurale romano degli Arusnati
appartenente a Verona e corrispondente più o meno alla Valpolicella, secondo molti studiosi rivela
origini etrusche o retiche fortemente influenzate dagli Etruschi, lo proverebbero il nome stesso di
Arusnati e i nomi di alcune divinità del panteon locale.
Tra Etruschi, Veneti e Reti si stabilì un equilibrio politico e commerciale con reciproci vantaggi
che fu sconvolto non molto tempo dopo dalla calata dei Celti.

Celti
All’interno della grande famiglia indoeuropea, i Celti costituirono non un’unica etnia, ma un
complesso di tribù affini per lingua, cultura e religione, presenti in Europa centrale e anche in Italia,
nell’alta Lombardia. Le fonti storiche romane e greche ce li presentano in modo piuttosto negativo,
come barbari violenti e impulsivi, che compivano sacrifici umani alle loro divinità. Dati
archeologici ci parlano invece di una civiltà progredita e articolata.
La loro economia era ben sviluppata, come nomadi erano esperti allevatori di bovini, pecore e
maiali di piccola taglia, una cura speciale riservavano ai cavalli, simbolo di prestigio sociale dei
privilegiati che li montavano in battaglia.

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Diventando stanziali si dedicarono anche all’agricoltura, imparando a coltivare diverse varietà di
cereali, ma continuarono a valutare la ricchezza in base al numero di capi di bestiame.
Divennero inoltre esperti nella metallurgia: in un’epoca di transizione tra l’età del bronzo e quella
del ferro, gli artigiani celti acquisirono un’eccellente abilità nella lavorazione dei due metalli e
anche nell’oreficeria. Ce lo confermano i corredi funerari ritrovati nelle sepolture della nobiltà
guerriera, in cui oltre a preziosi oggetti in oro e argento, recipienti e utensili di bronzo lavorati
artisticamente abbondavano armi di bronzo di pregevole fattura. Nelle tombe più recenti numerose
erano le armi forgiate in ferro, il nuovo metallo molto più resistente, in particolare spade corte e
lunghe che in seguito serviranno di modello agli stessi Romani.
La qualità delle armi diede ai Celti un deciso vantaggio sui popoli vicini e favorì l’emergere di
una classe dominante e ambiziosa di guerrieri, che ostentavano lancia e spada e il fedele cavallo
addestrato al combattimento, il cui scheletro abbiamo trovato in alcune tombe accanto ai resti del
padrone.
La società celtica con lo sviluppo economico si era nettamente diversificata: la ricchezza e il
potere si erano progressivamente concentrati nelle mani di poche famiglie di nobili, il cui prestigio
dipendeva dal valore dimostrato in battaglia, dai beni e dalle proprietà e dal numero di uomini del
loro seguito, essi soli si riunivano in periodiche assemblee per prendere le più importanti decisioni.
Al di sotto si trovava la massa della plebe, formata da uomini liberi, privi però di diritti politici, i
quali pur lavorando duramente potevano ridursi in schiavitù per debiti, per questo si mettevano
sotto la protezione di un potente, divenendone clienti e seguendolo fedelmente in battaglia, per lo
più appiedati, pronti a morire per il proprio signore, combattendo. (G. Cesare, De B.G., VI, 13-15).
Nel gradino più basso c’erano gli schiavi, divenuti tali per debiti o perché prigionieri di guerra.

I nobili celti svilupparono anche una fiorente rete commerciale sia con i vicini sia con il lontano
mondo etrusco e mediterraneo e i nobili affermavano la loro supremazia controllando le vie
commerciali lungo i corsi dei fiumi e imponendo dazi (Cesare, De B.G., I, 17), ma per rinvigorire
la loro natura di guerrieri si lanciavano in periodiche razzie ai danni dei popoli confinanti,
riservando a sé stessi la parte più ambita del bottino. Essi guidarono le loro tribù nella formidabile
espansione che le spinse ad occupare tutta la Francia, le isole Britanniche e parte della Spagna,
cacciandone i precedenti abitanti o sottomettendoli.
Le tribù celtiche, pur stanziandosi in un territorio e conoscendo la coltura dei cereali, rimasero
tendenzialmente seminomadi. È nota a questo proposito l’imponente migrazione dell’intero popolo
degli Elvezi che Cesare dovette fronteggiare all’inizio della sua campagna gallica.

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Nei loro trasferimenti si spostavano su solidi carri su cui trasportavano i beni e le attrezzature di
prima necessità.
Usavano i carri anche in battaglia per assalire e scompigliare le file nemiche, come ci testimonia
Livio (10, 28), “…i nemici [Galli] sopraggiunsero stando in armi sopra carri da guerra e da
trasporto con grande frastuono di cavalli e ruote e atterrirono i cavalli dei Romani non avvezzi a
quel tumulto” oppure li disponevano in cerchio come accampamento trincerato e ultimo baluardo di
difesa, “ [Gli Elvezi] avevano frapposto i carri formando una barricata e dall’alto tiravano dardi sui
nostri che avanzavano e alcuni tra i carri e le ruote lanciavano giavellotti” (Cesare, De B. G., I, 26).
Pari o ancor maggiore importanza dell’aristocrazia guerriera aveva la classe dei druidi, che
temperavano il potere dei capi politici col loro potere sacerdotale e di giudici supremi, garantendo
così l’unità religiosa, anche se i sacerdoti druidi provenivano dalle stesse famiglie dei nobili
guerrieri.
Interpreti della volontà divina e giudici nei casi di omicidio e nelle contese tra tribù, i druidi
erano i gelosi detentori della sapienza sacra e profana, di cui non lasciarono volutamente nulla di
scritto anche quando si diffuse tra loro l’alfabeto (Cesare, De B. G., VI, 14).

I Celti in val Padana.


Tribù di Celti, che Livio (V, 34) chiama Insubri, erano già presenti in epoca protostorica nella
fascia prealpina, essi assieme ad altre popolazioni avevano dato vita alla cultura di Golasecca,
diffusa nella zona tra Como e Varese, prossima ai valichi alpini e quindi agevole tramite
commerciale tra i popoli padani e i Celti d’oltralpe.
I Celti transalpini compravano prodotti provenienti dalle aree etrusche e greco italiche, vino, olio,
ceramica di qualità, corallo e oggetti artistici che abbiamo trovato in nobili sepolture e offrivano in
cambio metalli, ambra e pelli. Il fiorente commercio garantiva anche buoni rapporti politici.
Ma nel V-IV secolo a. C. tra i Celti d’oltralpe, si verificò un fenomeno di migrazione di massa
(che gli studiosi spiegano con variazioni climatiche o con la crescita demografica) di dimensioni
europee in varie direzioni, verso sud, est e nord. Anche i coloni greci delle coste dell’Anatolia
(Turchia) vennero a contatto con la migrazione dei Celti, che chiamarono Galati (Galaktoi), dal
nome di una potente tribù, da cui i Romani derivarono il loro termine Galli.
I Celti non avevano unità nazionale: le varie tribù, appartenenti a popoli diversi, erano rivali e
spesso in guerra tra loro, ciascuna di esse scese per proprio conto in Italia.
Dai vari popoli transalpini come i Cenomani, i Senoni, i Boi e altri, si staccarono tribù, che guidate
da giovani capi, calarono una dopo l’altra attraverso i valichi centro alpini in cerca di nuove terre
fertili e si impadronirono della pianura Padana, cacciandone progressivamente gli Etruschi e

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costringendo i popoli autoctoni a ritirarsi nella fascia pedemontana, tranne i Veneti, gli unici in
grado di resistere all’invasione.

I Cenomani e l’oppido di Verona


Le tribù Cenomani, trovando la zona centrale della pianura Padana già occupata dagli Insubri, si
diressero a est occupando la Lombardia sudorientale e la fascia attorno alle rive meridionali del lago
di Garda, fino a entrare nel territorio dei Veneti. Probabilmente dopo gli scontri iniziali i due popoli
stabilirono rapporti di buon vicinato e i Veneti cedettero ai Cenomani buona parte del territorio
veronese.
I Cenomani trovarono nei Veneti degli alleati, preferendoli ai cugini Insubri, confinanti a ovest.
Gli Insubri erano il popolo più potente a nord del Po e probabilmente esercitavano una supremazia
sui popoli vicini fino a Eporedia (Ivrea).
I Galli, pur vivendo per lo più in piccoli nuclei di capanne sparse nel territorio, avevano però un
forte senso di appartenenza alla propria tribù e cultura, che esigeva un luogo di incontro
permanente, in cui celebrare le feste religiose, riunire l’assemblea dei capiclan, ospitare i mercati
periodici e le attività degli artigiani specializzati. Nel luogo scelto da ogni tribù sorgeva così un
importante villaggio fortificato, in latino oppidum. Così gli Insubri fondarono l’oppidum di
Medland (Milano), mentre i Cenomani dopo aver eretto Brescia, la loro capitale, “Brixiam… caput
gentis” (Livio XXXII, 30) fondarono più a est un secondo oppidum, Verona, sull’attuale colle di S.
Pietro, cinto presumibilmente, secondo il costume celtico, da un terrapieno rinforzato da tronchi e
pietre e sormontato da una palizzata. Dell’abitato sul colle non v’è più traccia, cancellato dai
Romani per far posto al teatro, ma ne è stata ritrovata la necropoli. Infatti alle pendici del colle
durante recenti scavi sotto il Seminario cittadino sono emerse numerose sepolture celtiche con
ricchi corredi, gioielli e oggetti d’uso quotidiano.
L’oppidum di Verona era lontano dall’essere una città: una fase preurbana si raggiungerà solo
verso la fine del II secolo a. C., come ad esempio a Bibracte, la capitale dei potenti Edui, nella
Gallia centrale (attuale Borgogna), nominata da Cesare (De B. G., I, 23), di cui gli archeologi hanno
riscoperto le mura possenti, la grande estensione e i quartieri specializzati in varie funzioni.

Oltre l’Appennino c’era un altro mondo. Gli Etruschi.


Al di là dell’Appennino già dal IX-VIII secolo, in Toscana, Umbria e Lazio settentrionale, tra i
due fiumi Arno e Tevere, da Volterra, Arezzo e Perugia nel retroterra, a Populonia, Tarquinia e

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Cerveteri sulla costa, gli Etruschi avevano dato vita a una fiorente e vivace civiltà urbana,
organizzata in numerose città stato, nate probabilmente dall’associazione di più villaggi a scopo
difensivo e di gestione delle risorse.
Con lo sviluppo dell’economia la società sostanzialmente egualitaria del villaggio si era
differenziata in classi sociali: dalla massa di braccianti e operai si distinguevano artigiani e piccoli
coltivatori, su tutti emergeva una élite di aristocratici, grandi proprietari terrieri e imprenditori che
aveva guidato il passaggio dal villaggio alla città, imprimendo un nuovo corso all’economia.
Ogni centro abitato era una città stato indipendente e autonoma, in latino civitas, che dall’altura
su cui in genere sorgeva controllava il circostante territorio del quale era la capitale politica,
religiosa, economica e commerciale. L’unità e l’equilibrio politico della città era garantito
inizialmente dal Lucumone, un capo con pieni poteri politici, militari e religiosi, eletto dalle
famiglie aristocratiche.
Gli Etruschi divennero in breve esperti nell’arte della navigazione. Le città prossime alla costa si
dotarono di porti e di flotte potenti e svilupparono intensi rapporti commerciali con il mediterraneo
occidentale e orientale, al punto di dare il nome al mare Tirreno: Turrénoi erano infatti chiamati gli
Etruschi dai Greci. La prorompente espansione del commercio marittimo nel mar Tirreno,
attraverso i navigatori greci e fenici mise in contatto gli Etruschi con il mondo mediterraneo del
vicino oriente molto più evoluto per cultura e conoscenze tecnologiche. In agricoltura grazie a
nuovi metodi di irrigazione e coltivazione e ai contatti commerciali, la produzione superava il
fabbisogno e permetteva di commerciare le eccedenze.
Si sviluppava nel contempo un’intensa attività estrattiva di minerali e la metallurgia del bronzo
e del ferro e si perfezionavano le tecnologie della ceramica. Dalle cave si estraeva la pietra da
costruzione che esperte maestranze sapevano lavorare e mettere in opera. Nasceva una classe di
artigiani specializzati: fabbri, orafi e vasai etruschi producevano anche per l’esportazione, per conto
di facoltosi mercanti. Le fiorenti città etrusche si dotarono di templi ed edifici pubblici in muratura
e di cinte difensive di pietra, con potenti porte ad arco. In architettura la conoscenza dell’arco e
della volta permise di costruire solide coperture e sistemi fognari urbani all’avanguardia.

A sud della penisola le colonie elleniche punteggiavano le coste, da Cuma, Napoli a Reggio sul
Tirreno, da Crotone a Taranto sullo Ionio stavano trasformando il meridione in una seconda e più
fiorente Grecia.
Le classi dirigenti etrusche familiarizzarono con la cultura e le conoscenze dei Greci dai quali
appresero l’alfabeto adattandolo alla loro lingua. Affinarono il loro gusto procurandosi costosi
prodotti dell’arte ceramica ateniese e corinzia. I loro artigiani non erano da meno nella produzione

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di raffinati oggetti di metallo e terracotta. Alcune statue etrusche di bronzo e di terracotta giunte
fino a noi sono dei veri capolavori. I nobili facevano affrescare le pareti delle tombe di famiglia e
presumibilmente anche delle loro case con scene di vita stilizzate, ma colte con grande efficacia
delle rapide pennellate dai vivaci colori
La civiltà urbana si estese anche al Lazio meridionale presso i Latini e altri popoli laziali, che la
interpretarono, adattandola alle proprie esigenze e capacità. Anche sul Lazio gli Etruschi estero la
loro influenza trasformando la piccola città di Roma in una importante monarchia, come
testimoniano gli ultimi tre re della tradizione provenienti da Tarquinia.
Tra le varie città si stabilivano alleanze e patti commerciali, ma nascevano anche rivalità e
guerre: le più ricche e potenti tendevano a imporsi sulle proprie vicine.
Guerre nascevano anche con genti di altre nazioni. Quando l’emporio greco di Alalia (o Aleria) in
Corsica si trasformò nella metà del VI secolo in una potente città stato portuale, l’iniziale
convivenza tra marineria etrusca e greca si tramutò in una accesa rivalità commerciale, che,
degenerando in atti di pirateria, sfociò in una furiosa battaglia navale al largo Alalia, cui
parteciparono anche i Cartaginesi, a fianco degli Etruschi.
L’odio era a tal punto feroce, che al rientro delle navi superstiti gli abitanti dell’etrusca Caere (in
Lazio), stando almeno al racconto di Erodoto (Storie I, 4), lapidarono tutti i prigionieri greci caduti
nelle loro mani, commettendo orribile sacrilegio, che contaminò il luogo dell’eccidio davanti alle
mura cittadine, tanto che perfino gli animali evitavano di calpestarlo e brucarne l’erba.

Ascesa di Roma
Le “città” latine, racchiuse nella zona dei colli Albani, tra il Preappennino e la pianura, prive di
uno sbocco sul mare, erano poco più che villaggi agricoli pastorali non paragonabili con la potenza
e la ricchezza delle città etrusche.
Nessuno avrebbe scommesso allora sulla fortuna di Roma, un piccolo centro latino tra i tanti, in
più decentrato verso il confine nord. Invece essa iniziò a imporsi proprio sui cugini Latini.
Pur essendo del tutto indipendenti e spesso rivali tra loro, le piccole città stato latine erano
consociate in una lega di carattere religioso, ma con probabili implicazioni commerciali e di difesa
comune (Mommsen I, cap. 3, 5). I federati si radunavano nell’annuale festa latina (le feriae latinae)
sospendendo ogni ostilità tra di loro. Il culto aveva sede sui colli Albani, presso Alba Longa,
considerata la città madre di tutti i Latini.
Circondati a est e a sud da Sabini, Equi e Volsci, tre bellicosi popoli appenninici e da Etruschi a
nord, i Latini abitavano solo una decima parte dell’attuale Lazio, a sud del Tevere, mentre a nord
del fiume iniziava il territorio etrusco.

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Roma condivideva questa scomoda posizione intermedia e trovandosi presso la sponda sinistra
del Tevere era proprio al confine con gli Etruschi e non lontana dai Sabini, mentre aveva nei Latini i
suoi alleati naturali.
A Roma si parlava il latino ma si usavano anche altre lingue: sui suoi colli vivevano gruppi di
Sabini ed Etruschi, perfettamente integrati nella vita politica ed economica della città e che, secondo
una suddivisione arcaica attribuita a Romolo da Livio (X, 6) e Dionigi di Alicarnasso (II, 7),
formavano i Tities e i Luceres due delle tre tribù, la terza, quella dei Ramnes, era la tribù dei Latini.
Questa tripartizione etnica della popolazione, riferita da Livio, non convince alcuni studiosi che
pensano invece a una suddivisione dei cittadini puramente territoriale fin dagli inizi di Roma .
Fin dai tempi del leggendario Romolo, le frequenti tensioni con le città stato vicine, pronte a
degenerare in scaramucce o in vere battaglie, svilupparono nei Romani uno spirito bellicoso che li
spinse a dotarsi di una forza militare di pronto intervento, a cui ciascuna tribù partecipava, secondo
la tradizione, con un migliaio di fanti e un centinaio di cavalieri. Tribuno era il nome del
comandante del contingente militare di ciascuna tribù e tributo era il nome delle imposte dovute
dalle tribù. Un consiglio di anziani capiclan riuniti nel senato collaboravano con il re e lo
consigliavano nel governo della città. Essi appartenevano alla classe privilegiata dei patrizi, le
famiglie originarie che possedevano grandi proprietà terriere. I plebei erano invece tutti gli altri,
artigiani, commercianti, piccoli proprietari. Il re svolgeva un compito di mediazione, per mantenere
la concordia tra le due classi.

Tullo Ostilio e Alba Longa, la prima estensione della cittadinanza romana, secondo Tito Livio.
Sotto il terzo re della tradizione, Tullo Ostilio, Roma, che aveva acquisito una certa importanza
economica e commerciale, si era sentita abbastanza forte da provocare a battaglia e abbattere la rivale Alba
Longa, privando la lega latina della sua guida.
Singolare fu il trattamento che Tullo Ostilio, stando al racconto di Livio (I, 29-30), riservò alla madrepatria
Alba Longa: dopo aver raso al suolo la città, tranne i templi, ne trasferì gli abitanti a Roma accogliendoli
nella cittadinanza, verosimilmente nella condizione di plebei, tranne pochi nobili. Così facendo, Roma
“raddoppiò la popolazione” e, si può presumere, la forza del suo esercito, evitando d’altra parte il risorgere
di una città rivale. L’esempio fu poi seguito dal successivo re Anco Marzio per altri centri latini (Livio I, 33).
Questo racconto, basato solo su tradizioni orali (in mancanza di documenti scritti, distrutti nel sacco e
incendio di Roma del 390 a. C.) forse contiene qualche elemento di verità, ma probabilmente deve essere
spostato in una fase storica più tarda, a meno che Roma non abbia iniziato fin dai primi re un tale processo
di assimilazione del popolo latino, che continuerà in seguito con forme federative e si estenderà poi ad altri

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popoli, attuando una politica inusitata nel mondo antico. Infatti di distruzioni di città è piena la storia, ma
l’accoglimento delle popolazioni sconfitte nella cittadinanza dei vincitori è un fatto veramente straordinario.
Per gli Ateniesi, i più evoluti rappresentanti del mondo antico, l’idea di concedere a gruppi di stranieri, sia
pure greci, la propria cittadinanza era inconcepibile, gelosi com’erano della propria stirpe e identità
culturale.

La monarchia e la vocazione commerciale di Roma, la supremazia sui Latini.


Il territorio di Roma ai margini di un difficile confine, era meno esteso e meno fertile di altri centri
latini, l’unico suo sbocco era su una specie di terra di nessuno, una fascia lungo le rive del Tevere
fino al mare, soggetta a periodiche esondazioni, che non faceva gola a nessuno.
I re di Roma trasformarono questi svantaggi in punti di forza. La città controllava un transito sul
Tevere che collegava il sud al nord del Lazio, passeggeri e merci erano traghettati da imbarcazioni
da una sponda all’altra. Quando le barche si attrezzarono a percorrere il Tevere fino al mare,
distante poche miglia, i Romani si resero conto del vantaggio di essere all’incrocio di due vie di
comunicazione, una terrestre in direzione nord - sud e l’altra fluviale da Roma al mare.
Sul litorale tirrenico c’erano le saline della ricca città etrusca di Veio. Il sale era molto richiesto
nella vita quotidiana per la sua importanza nella dieta, nella conservazione di carne e pesce e nella
concia delle pelli, al punto da acquisire valore anche di moneta di scambio, da cui il termine salario.
Il suo commercio e il trasporto dalla costa all’entroterra era così conveniente da rivestire una
importanza strategica.
Al sabino Anco Marzio, il quarto re della tradizione, sono attribuiti il possesso definitivo della
striscia lungo il Tevere e la fondazione sulla sua foce dello scalo marittimo di Ostia, su un tratto di
mare Tirreno in cui incrociavano le navi etrusche, greche e fenicie.

In seguito Roma cadde sotto l’influenza etrusca come dimostra l’origine degli ultimi tre re,
provenienti da Tarquinia, i quali diedero impulso ai commerci, gettando sul Tevere il ponte Sublicio
e costruendo un porto fluviale (portus tiberinus) a fianco del Foro Boario, che era un mercato fuori
le mura aperto a tutti, latini, etruschi, fenici e greci.
Porto e foro garantivano importanti introiti con i dazi sul transito e lo scambio delle merci. La
futura Urbe si affermò sugli altri centri latini basati essenzialmente sull’agricoltura, grazie al valore
aggiunto di una florida economia commerciale. I Romani da rozzi pastori e contadini si stavano
trasformando anche in abili mercanti e imprenditori.

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I Tarquini, i re etruschi, grazie alla loro avanzata cultura urbanistica furono i veri artefici della
trasformazione di Roma in una città evoluta, dotata di fognature, di robusta cinta difensiva in pietra,
di templi ed edifici pubblici in muratura.
Roma divenne emporio mercantile “internazionale” del Lazio e arrivò a imporre sui Latini
un’egemonia economica e militare, causando una situazione paradossale di scontri intermittenti, con
“rovine di città e devastazioni di campagne” (Livio I, 52, 3) alternati a tregue ed alleanze non
appena si profilasse all’orizzonte la minaccia di nemici comuni, in particolare gli Equi e i Volsci.
L’ultimo e il più ambizioso re, Tarquinio detto il Superbo, strinse con i Latini un’alleanza
difensiva, presentata da lui come patto di reciproca convenienza, che in concreto sanciva invece la
superiorità di Roma (Livio I, 52).

L’esercito romano dell’età regia e della prima repubblica


Dalle origini e per alcuni secoli i ranghi dell’esercito romano furono reclutati tra i cittadini, arruolati ogni
anno a primavera e licenziati in autunno, poiché d’inverno non si combatteva. Il cittadino soldato
difendendo la città stato difendeva la propria famiglia e i propri beni. Il servizio militare era obbligatorio e
gratuito, i soldati provvedevano a proprie spese al loro armamento e alla chiamata alle armi tutti dovevano
presentarsi con razioni di cibo per tre giorni. La paga era il bottino di guerra in caso di vittoria. Solo in età
repubblicana durante la guerra contro la città etrusca di Veio (406-396) fu distribuita una paga ai soldati per
non distoglierli da un assedio prolungato ad oltranza anche d’inverno per dieci anni.
La conoscenza della metallurgia aveva favorito in ambito mediterraneo la diffusione della tattica oplitica
che gli Etruschi avevano appreso dai Greci. Essa prevedeva che il nerbo dell’esercito fosse costituito dalla
fanteria pesante e che la cavalleria e la fanteria leggera fossero solo di appoggio.
Oplon indicava le armi pesanti, in particolare il grande scudo metallico rotondo che proteggeva il
guerriero. Assalti violenti e massicci ma disordinati si infrangevano contro gli scudi compatti e le lunghe
lance di una fanteria rivestita da un’armatura completa.
Fu la monarchia etrusca ad organizzare un esercito di leva disciplinato ed efficiente. Grazie ad esso la
monarchia non solo difese lo stato, ma passò all’offensiva con una decisa politica di espansione territoriale
ai danni dei vicini.
La tradizione attribuisce a Servio Tullio, il secondo re etrusco, una riforma sociale e politica funzionale
all’ arruolamento: la creazione di cinque classi di reddito, ognuna delle quali doveva fornire un certo
numero delle 193 centurie che formavano l’esercito (Livio, I, 42-43).
La prima classe formata dai ricchi possidenti costituiva da sola ben 80 centurie che dovevano
equipaggiarsi a proprie spese con armatura completa, scudo rotondo, in greco oplon (clipeus in latino),

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corazza, elmo, schinieri (gambiere) e armarsi di lancia (hasta), spada e pugnale. Il grande sforzo richiesto
era compensato dal prestigio e dal peso politico che la prima classe aveva nella vita civile.
Ad essa erano aggregate le 18 centurie dei cavalieri ai quali lo stato forniva le cavalcature.
Via via meno pesante era l’armamento della seconda e terza classe. Le ultime due costituivano la fanteria
leggera, dotata solo di armi offensive, giavellotti, archi e frecce. C’era infine una sesta classe di proletari,
capite censi (cioè censiti per testa e non in base ai beni di cui erano privi) esentati dal servizio e arruolati
solo in momenti eccezionali che costituivano, pur numerosissimi, una sola centuria.
Tradizionalmente le centurie dei “giovani”, dai 17 ai 45 anni partivano nelle spedizioni esterne, le centurie
degli anziani restavano invece a disposizione a difesa della città.
Lo schieramento di un tale esercito richiedeva preferibilmente un campo di battaglia aperto, ampio,
meglio se pianeggiante. I cavalieri, schierati in due ali sui fianchi della falange oplitica, avevano il compito di
evitare accerchiamenti.
Gli armati alla leggera della quarta classe si gettavano per primi all’assalto, scagliando giavellotti per poi
rientrare tra le file, mentre arcieri e frombolieri della quinta lanciavano i loro proiettili.
Ma la battaglia si giocava nello scontro tra le due fanterie: i guerrieri si allineavano, stringendosi tra loro e
sovrapponendo in parte i grandi scudi rotondi per una difesa reciproca, obbligati così a non perdere il
contatto con i compagni e ad avanzare o retrocedere solidalmente con loro, formando un muro compatto
di scudi e una selva di lance che, giunti a distanza ravvicinata, andavano alla carica.
I bravi comandanti sapevano regolare la velocità della massa in modo da non lasciare indietro nessuno e
dare però slancio alla formazione al momento del contatto col nemico. Nell’urto formidabile tra le due
schiere contava la spinta degli scudi, mentre le lunghe lance, dette hastae, impugnate dall’alto al basso,
erano spinte alla ricerca di varchi nella difesa nemica. Dietro la prima linea le altre file premevano serrando
i ranghi, per sostenere i compagni. Nel violento parapiglia il fronte si spostava, ora avanzando, ora
retrocedendo, secondo il prevalere dell’uno o dell’altro esercito, lo sforzo della falange era teso a
sospingere con tutta l’energia lo schieramento nemico fino a spezzarlo e a travolgerlo, costringendolo alla
fuga. Entravano allora in azione gli squadroni dei cavalieri, che si lanciavano all’inseguimento dei fuggiaschi
sbandati, infliggendo loro gravi perdite.

La cacciata dei re e la res publica,


A due secoli e mezzo dalla fondazione di Roma, gli aristocratici patrizi, che avevano accresciuto
il loro potere politico e militare, si ribellarono contro il re Tarquinio il Superbo e rovesciarono la
monarchia, instaurando la repubblica (509 a. C.). Per evitare il rischio di una rinascita del potere
regio, sostituirono il re con una coppia di magistrati supremi, i consoli, le massime autorità di
governo e capi dell’esercito, ma eletti solo per un anno, dotati di pari poteri con diritto di veto

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reciproco e coadiuvati da altri magistrati elettivi. Dalle cariche pubbliche maggiori era esclusa la
plebe, la grande maggioranza della popolazione.
Con la repubblica le centurie di arruolamento attribuite a Servio Tullio acquisirono grande
importanza anche nella vita politica: i comizi centuriati divennero la più importante assemblea
popolare, che eleggeva i maggiori magistrati e aveva il potere di approvare o respingere le più
rilevanti proposte di leggi.
Il meccanismo di voto faceva sì che in essa prevalesse nettamente il ristretto gruppo dei ricchi
perché non si votava per testa, ma per centuria, ogni centuria esprimeva un solo voto: le 80 centurie
della prima classe aggiunte alle 18 dei cavalieri votavano per prime e assommavano a 98 voti, cioè
la maggioranza assoluta del totale di 193. Assai raramente vennero chiamate a votare la seconda e
la terza classe, per non parlare delle altre, benché rappresentassero la stragrande maggioranza del
popolo.

La rivolta dei Latini e il foedus Cassianum


Il passaggio istituzionale alla repubblica non avvenne senza traumi. Roma attraversò un periodo di
crisi, per le rivalità tra i clan patrizi, ma soprattutto per il forte malumore dei plebei, la grande
maggioranza della popolazione, che prima avevano nel re una figura di mediazione e di protezione e
ora trovandosi esclusi dalle cariche politiche e alla mercé dei patrizi, minacciarono tumulti e rivolte.
I popoli vicini approfittarono del difficile momento per attaccare Roma, soprattutto i Latini che,
desiderosi di scrollarsi di dosso la supremazia romana, misero in campo un esercito in comune,
visto che le singole città erano risultate perdenti.
Ma anche così essi furono sconfitti dai Romani nel 496 a. C. nella battaglia del lago Regillo,
avvolta in un alone leggendario e risolta dalla straordinaria apparizione dei Dioscuri, Castore e
Polluce, alla testa della cavalleria romana. Forse la vittoria non fu così decisiva come Livio la
racconta, fatto sta che, dopo di essa, i Romani, invece di imporre condizioni umilianti, proposero
agli sconfitti un patto di alleanza, per affrontare la comune minaccia di Equi e Volsci che
continuavano a premere sul Lazio.
Fu così che il console Spurio Cassio firmò con la lega latina il foedus Cassianum,,un patto tanto
importante da essere inciso integralmente su una colonna di bronzo collocata nel Foro dietro i
Rostri, la tribuna degli oratori.
La colonna, poi scomparsa, era ancora visibile ai tempi di Cicerone, come lui stesso testimonia
(Pro Balbo, 23,53). Non ci è pervenuto il testo, ma attraverso un parziale riassunto del greco
Dionigi di Alicarnasso e le citazioni occasionali di autori latini, sappiamo che sanciva tra Roma e

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Lega Latina parità di diritti e doveri in ambiti civili, personali e commerciali e il mutuo soccorso
militare contro attacchi nemici.
Probabilmente il foedus contemplava anche la spartizione delle terre confiscate ai nemici (Livio
II, 41) e la fondazione di colonie in comune tra Romani e Latini, come avvenne per Norba, Ardea,
Circei e poi Sutri e Nepi, del resto la stessa Roma era nata secondo il racconto di Livio (I, 6) come
colonia comune di Alba Longa e di altri centri latini.
Il foedus prevedeva anche la costituzione di un esercito comune tra Roma e la lega, guidato a turno
da comandanti latini e romani.
Una prova indiretta del legame tra i due popoli si trova nei trattati commerciali, di navigazione e di
reciproco soccorso, conclusi tra Roma e Cartagine e riportati da Polibio (III, 22, 4-13 e III, 24, 3-
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dei cittadini latini eventualmente catturati e ridotti in schiavitù.
I Romani annettevano tanta importanza al foedus Cassianum, perché riconoscevano in esso una
pietra angolare posta a fondamento della loro potenza, perché aveva legato i Latini a Roma
cointeressandoli a partecipare pienamente alla costruzione dell’impero. Il patto però non sanciva
una vera parità, perché attribuiva a Roma un peso equivalente a quello di tutte le città latine, essa
incamerava da sola metà del bottino e delle terre confiscate ai nemici, mentre i Latini, esclusi dal
diritto di voto a Roma, non potevano influire sulle decisioni politiche complessive.
I Latini furono comunque fedeli all’alleanza e grazie al loro valoroso contributo, spesso ignorato
dagli storici romani, Equi, Volsci, Sabini ed Etruschi furono più volte sconfitti e costretti a venire a
patti, diventando poi alleati di Roma.

Delusioni e rivolte dei Latini


La speranza dei Latini era di ottenere col tempo la concessione di diritti politici in riconoscimento
dei loro meriti di alleati fedeli e valorosi, ma le loro richieste furono sempre respinte o accolte
parzialmente e in modo differenziato tra una città e l’altra.
Per questo nel 390 a. C, un secolo dopo la firma del Foedus, approfittando dell’improvvisa
invasione dei Galli Senoni, che guidati dal loro capo Brenno, presero Roma stessa e la misero a
sacco, non poche città latine vennero meno al patto e alcune arrivarono ad allearsi con i Galli. Ma,
passato il brutto momento, Roma si impose nuovamente e le città latine ribelli furono riammesse
nell’alleanza. Il patto funzionò con alti e bassi per un altro mezzo secolo, finché Roma a metà del
IV secolo non entrò in contatto con i Sanniti, un bellicoso popolo appenninico inizialmente dedito

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alla pastorizia e all’allevamento e poi evolutosi a contatto con Greci e Etruschi, esso era formato da
tribù, ben organizzate in una lega.
I Sanniti attestati originariamente nel Molise e in Abruzzo si stava espandendo nella fertili pianure
della Campania, sulle quali anche i Romani avevano le loro mire. Romani e Sanniti temendosi a
vicenda, trovarono utile stipulare un patto di non aggressione e fissare le rispettive zone di
influenza.
I Latini guardavano con sospetto e irritazione al patto che avevano dovuto subire, rimanendone
esclusi. Intanto le città campane, subendo continue incursioni e razzie dai guerrieri sanniti,
chiedevano con insistenza soccorso a Roma, che lo negava per rimanere fedele al patto. Gli abitanti
di Capua, la più ricca città campana, esasperati ricorsero a un espediente: inviarono ambasciatori al
senato per consegnare se stessi come dediticii, cioè prigionieri di guerra, per obbligare Roma a
prenderli sotto la sua protezione. In seguito anche il popolo campano dei Sidicini con capitale a
Teano cercò di imitare i Capuani, ma fu rifiutato, forse per non irritare troppo i Sanniti. Allora i
Sidicini chiesero aiuto ai Latini che accettarono e scesero in campo alleandosi anche con Capua.
Agli ambasciatori sanniti inviati a protestare per una guerra loro mossa da alleati di Roma, il
senato diede una risposta ambigua, acconsentì di mettere quieti i Capuani, ma disse di non potere
nulla sui Latini, ai quali il foedus Cassianum non vietava di fare la guerra a chiunque volessero
(Livio, 8, 2).
I Romani stavano a guardare e si accorsero che i Latini pur risultando di solito vittoriosi negli
scontri non riuscivano a ottenere risultati determinanti, suscitando il sospetto, condiviso da Livio,
che Latini e Capuani, col pretesto di combattere i Sanniti stessero preparando una guerra contro
Roma. Quindi Il senato convocò i capi latini ufficialmente per discutere della guerra contro i
Sanniti, in realtà per saggiare le loro supposte intenzioni rivoltose.
La lega latina, secondo Livio, colse l’occasione per avanzare richieste rivoluzionarie, che il
portavoce Annio pose come condizioni preliminari: egli pretendeva un trattamento politico militare
alla pari con Roma e ciò comportava che uno dei due consoli e metà dei senatori fossero latini. Tali
richieste paiono inverosimili ad alcuni storici contemporanei, considerando che la lega latina era
divisa al suo interno e priva di una vera coscienza politica e inoltre esse sembrano fotocopia delle
rivendicazioni che faranno i ribelli Italici, allo scoppio della guerra sociale, più di due secoli dopo.
Queste incongruenze sono attribuibili alle fonti di Livio, annalisti romani chiaramente schierati a
favore di Roma e propensi a scaricare ogni colpa sui Latini, accumunati in modo anacronistico agli
Italici del I secolo a. C.
Di fronte al netto rifiuto del senato scoppiò la “guerra latina”, in cui l’esercito della lega, alleatosi
con Capua e i Campani, fu sconfitto nella battaglia del Vesuvio del 340. La guerra continuò poi per

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altri due anni finché nel 338 le città “ribelli” furono conquistate una ad una. Le condizioni di resa
imposte da Roma furono nel complesso benevole. Dopo la resa le città latine ebbero un trattamento
nel complesso benevolo, ad alcune di esse meno coinvolte nella guerra fu concessa la cittadinanza
romana che fu estesa anche alla classe benestante di Capua, perché sembrava essere stata estranea al
conflitto.
In realtà Roma aveva grande bisogno di alleati per affrontare lo scontro ormai si profilava
inevitabile con i temibili Sanniti.

Il conflitto con i Sanniti


Essi si rivelarono i più tenaci avversari che i Romani avessero fino allora incontrato. Ci vollero
ben tre guerre nell’arco di cinquant’anni per piegare questo popolo indomito, abituato a combattere
nelle gole e sulle alture dell’Appennino e su ogni tipo di terreno. La loro forza militare non era
rigida, ma flessibile, suddivisa in formazioni minori, dotate di autonomia.
I legionari sperimentarono sulla propria pelle l’efficacia della tattica sannita, famoso è l’episodio
delle Forche Caudine, località imprecisata dell’Appennino, in cui nel 321, durante la seconda guerra
sannitica, un intero esercito consolare si trovò bloccato in due successive gole tra i monti e
impacciato nel rigido incolonnamento, non potendo contrastare le agili formazioni sannite, fu
costretto ad una resa umiliante. Come altre volte i Romani impararono dalla sconfitta e in seguito
adottarono la tattica dei Sanniti, suddividendo la fanteria in manipoli, formazioni di base di circa
120 uomini, capaci sia di battersi in modo indipendente su terreni impervi, sia di coordinarsi
all’interno dello schieramento complessivo. In campo aperto la falange veniva spezzata in uno
schieramento a scacchiera su tre file in profondità con spazi di manovra in modo che ciascuna fila
potesse arretrare ed essere sostituita dalla fila successiva che lanciava un attacco con le forze
fresche.

La battaglia delle nazioni e la terza guerra sannitica


Pur avendo perso due guerre con i Romani i Sanniti non si erano piegati e cercavano una rivincita,
per ottenere la quale sapevano che le proprie forze erano insufficienti. Cercarono quindi l’alleanza
dei popoli più ostili a Roma e la trovarono con i Galli Senoni e gli Etruschi cui si aggiunsero gli
Umbri. I Romani dal canto loro ottennero l’alleanza di Peligni, da tempo nemici dei Sanniti. I due
consoli non attesero l’attacco, ma passarono all’offensiva varcando l’Appennino con i loro eserciti
diretti a Sentino dove gli avversari si erano concentrati. Qui nel 295 si svolse la battaglia detta delle
nazioni, che coinvolse le popolazioni centro italiche Sanniti e Senoni dovevano affrontare le

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legioni, mentre Etruschi e Umbri avrebbero attaccato l’accampamento dei Romani e tagliato loro la
via della ritirata.
Intanto altre truppe romane devastavano L’Etruria, per dividere il fronte, infatti gli Etruschi
abbandonarono il campo per accorrere a difesa del loro territorio e gli Umbri rimasti da soli si
defilarono.
La battaglia fu a lungo incerta, alla fine però Sanniti e Senoni pur combattendo con grande valore
furono sbaragliati. Molti Sanniti scampati allo scontro furono uccisi o catturati dai Peligni.
Venuti meno gli alleati, i Sanniti rimasero soli ad affrontare tutta la potenza militare romana e
ciononostante continuarono per alcuni anni la guerra, finché le loro piazzeforti non furono
conquistate e rase al suolo. La resistenza finì del tutto solo nel 290.
Con la resa i Sanniti furono privati di una parte del territorio, su cui furono dedotte come sentinelle
popolose colonie latine. Campani, Peligni, Lucani e le colonie greche della costa, come Neapoli,
che avevano subito gli attacchi e le razzie dei Sanniti, strinsero forti legami di alleanza con Roma
che li aveva liberati da questa minaccia. Gli Umbri, che non si erano dimostrati veramente ostili
furono premiati con trattati di pace molto favorevoli e divennero fedeli alleati di Roma, rimanendo
leali anche quando Annibale calò in Italia.
Con la resa dei Sanniti Roma attrasse nella sua orbita e nel suo sistema di alleanze tutto il centro
e gran parte del sud della penisola, divenendone la dominatrice incontrastata.

La disciplina militare
A spiegare la superiorità militare di Roma concorrono vari elementi: l’addestramento assiduo, gli
armamenti continuamente perfezionati, le tattiche e strategie rinnovate dall’esperienza, ma queste
caratteristiche erano in comune anche con gli alleati latini. Gli storici antichi e moderni sono concordi nel
considerare la ferrea disciplina, un fattore decisivo per il successo delle armi romane. Tito Livio colloca nel
340 a. C. all’inizio della guerra con la lega latina un episodio emblematico del rigore, per noi incredibile, con
cui tale principio era applicato.
Prima della battaglia decisiva del Vesuvio i consoli avevano vietato di combattere di propria iniziativa,
fuori delle file, proibizione consueta ma più necessaria del solito, per evitare pericolose confusioni in uno
scontro con Latini armati e inquadrati esattamente come i Romani. Il figlio del console Tito Manlio al
comando di uno squadrone di cavalleria si imbatté in una pattuglia nemica guidata da un giovane latino che
conosceva e venne da costui sfidato a un duello, accettata la sfida per salvare il suo onore, uccise
l’avversario e ne riportò le spoglie a suo padre a riprova del proprio valore.

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Ma il console convocò l’assemblea comunicando ai soldati che con suo grande dolore doveva punire
severamente la disobbedienza per non minare la disciplina dell’esercito e diede ordine al littore di
decapitare il figlio senza indugio.
Per queste epoche lontane gli storici latini avevano a disposizione scarse fonti scritte, e o i racconti
tramandati in seno alle grandi famiglie, in cui la realtà era spesso alterata o travisata a scopo celebrativo.
L’episodio dei due Tito Manlio, padre e figlio, ha tutto l’aspetto del racconto a scopo istruttivo, ma
contiene una verità: l’imperium di cui erano dotati i supremi comandanti militari conferiva loro il potere di
vita e morte su tutti i sottoposti. Non solo il singolo ma anche un intero reparto poteva essere punito,
ricorrendo alla decimazione, l’esecuzione per sorteggio di un soldato ogni dieci. Senza arrivare alla morte
c’erano anche forme di punizioni degradanti che bollavano per sempre un soldato, che, espulso
dall’accampamento dai suoi stessi commilitoni, era costretto a sopravvivere all’esterno.
Molti preferivano essere uccisi dal nemico, piuttosto che essere puniti per abbandono della posizione.

Il valore militare non basta a spiegare il successo di Roma.


La vittoria militare è molto importante, ma da sola non basta, altrettanto importante è l’uso che se
ne fa dopo, che richiede moderazione e lungimiranza, questo i Romani lo sapevano bene: le
condizioni di pace possono essere dure ma non umilianti e oppressive, così da rendere lo sconfitto
un disperato, un nemico implacabile, che non ha nulla da perdere a rinnovare il conflitto.
Nel caso dei Latini sconfitti era saggio calpestare valorosi guerrieri accumunati dalla stessa stirpe
e lingua? Dovendo lottare di continuo con l’ostilità dei popoli vicini, non era meglio riaverli come
fedeli alleati, evitando allo stesso tempo il risorgere di una coalizione latina contro Roma?
Il vincitore, il console L. Furio Camillo, dopo la loro resa incondizionata, trattò la questione
davanti al senato e Livio (VIII, 13, 11-16) gli mette in bocca queste parole per rendere la
drammaticità della decisione: “O senatori … voi potete assicurarvi una pace perpetua con i Latini, o
infierendo o perdonando … Si può distruggere tutto il Lazio, ridurre a una landa deserta la terra, da
cui avete tratto un valoroso esercito alleato in molte dure guerre. Volete, seguendo l’esempio dei
padri, accrescere lo stato romano, accogliendo i vinti nella cittadinanza? … Senza dubbio il potere
di gran lunga più saldo è quello di cui i sottoposti sono contenti”.
I senatori al termine di un lungo dibattito decisero di non infierire con abbattimenti di mura e
deportazioni, ma sciolsero la lega (Livio VIII,14), recidendo i legami tra le città latine e privandole
di autonomia in politica estera. Conclusero poi in tempi diversi singoli trattati con ciascuna di esse,
concedendo ad alcune meno ostili, come Lanuvio, Ariccia e altre, la piena cittadinanza romana, con
lo status di municipi autonomi, optimo iure, con propri magistrati. Altre come Formia e Fondi
divennero civitates sine suffragio, ottenendo una cittadinanza parziale, senza diritto di voto. Altre

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infine, colpevoli di precedenti alleanze con i Galli, come Tivoli e Palestrina, furono punite con la
privazione di una parte del territorio, ridotto ad ager publicus (T. Livio VIII,13-14).
Un’applicazione esemplare del principio del divide et impera (dividi e comanda): le città
avvantaggiate non avrebbero avuto interesse a formare un fronte comune con le altre, per non
perdere i loro privilegi.
Dopo la pace del 338 il legame tra i due popoli si rafforzò in tutti i campi, sul piano militare i
Latini raddoppiavano le forze romane con un esercito parimenti addestrato, armato e disciplinato.
La guida dell’esercito comune fu, però, saldamente presa in mano dai Romani e i Latini vi furono
inquadrati come truppe ausiliarie, guidate da prefetti scelti dai consoli.

Lo ius Latii, il diritto latino.


Roma, riaffermata la propria supremazia, fece concessioni ai Latini che non avevano avuto la
cittadinanza romana: era arrivato il momento di codificare con normative precise il loro status in
modo da trasformare antiche consuetudini in una precisa forma di cittadinanza di un gradino
inferiore a quella romana, lo ius Latii, il diritto del Lazio e che nella pratica era già esistente.
Esso contemplava due importanti diritti: lo ius connubii che permetteva di contrarre matrimoni
misti con i Romani generando figli legittimi e consolidando legami tra clan familiari di diversa
origine e lo ius commercii che consentiva di praticare con Romani scambi e contratti commerciali
riconosciuti e protetti dalle leggi di Roma. Mancavano però i diritti politici garantiti dallo ius
suffragii, il diritto di votare e di esseri eletti nelle assemblee del popolo di Roma.
Lo Ius Latii fu anche la base giuridica delle colonie miste che si sarebbero fondate d’ora in avanti
in comune tra Romani e Latini.

Potenziamento dell’esercito.
Una conseguenza del successo di questa politica fu quella di potenziare fortemente l’esercito,
che, sostenuto da una vasta base di arruolamento si raddoppiava con quello fornito dai socii (alleati)
latini e italici che costituivano le alae, truppe ausiliarie che venivano inquadrate nella disciplina e
nelle tecniche romane e inserite nell’accampamento militare in zone loro riservate.

Nuove tattiche e formazioni, dalla falange ai manipoli.


Nel V-IV, secolo l’esercito fu potenziato dal progressivo ingresso dei plebei nella fanteria pesante, in
parallelo con la loro ascesa sociale, economica e politica, guadagnata grazie ad una lotta secolare. L’antica
legione (= arruolamento), fu raddoppiata, ognuno dei due consoli ebbe la propria legione.

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L’esperienza delle continue guerre e il crescere della potenza e delle risorse dello stato, favorì un
continuo progresso degli armamenti e l’introduzione di nuove tattiche di combattimento.
“… prima i Romani usavano i clipei (scudi rotondi di bronzo) poi, dopo che le truppe ricevettero una paga
(guerra contro Veio), sostituirono i clipei con gli scuta (scudi rettangolari di legno) e la falange simile a
quella macedone, si trasformò in seguito in uno schieramento costituito da manipoli”( Livio VIII, 8). Una
forte spinta all’innovazione fu data dai sanguinosi scontri con i Sanniti, fieri guerrieri appenninici, le cui
tattiche e formazioni, adattabili a terreni diseguali e scoscesi, risultavano vincenti nel loro territorio.
Così nella seconda metà del IV secolo la rigida tattica della falange oplitica fu abbandonata a favore dello
schieramento flessibile per manipoli di 186 uomini. Tale schieramento era simile a una scacchiera di cui i
manipoli occupavano caselle alterne su più file, lasciando spazi vuoti tra loro. Ogni manipolo era addestrato
a muoversi agilmente, sia in autonomia, sia in sintonia con tutto lo schieramento dell’esercito, adattandosi
al terreno e alle situazioni. A capo del manipolo in prima fila era un centurione coadiuvato da un collega,
essi conoscevano uno a uno i loro uomini avendoli duramente addestrati, nelle ultime file due altri
sottufficiali (optiones) spronavano le retroguardie.
Nel contempo gli scudi rotondi di bronzo furono sostituiti da più lunghi e protettivi scudi rettangolari, fatti
di legno ricoperto di cuoio, dotati al centro di un umbone, una grossa conchiglia di ferro, in grado di
rintuzzare lanci di pietre o giavellotti, mentre sugli orli una lamina di ferro assorbiva i colpi di spada. Erano
quindi efficaci e allo stesso tempo più economici del metallo, alla portata delle nuove classi arruolate nella
fanteria, per sostenere guerre che scoppiavano contemporaneamente su vari fronti. Inoltre, accostati uno
all’altro sopra la testa e sui fianchi permettevano a un reparto di assumere la quasi impenetrabile
formazione a testuggine. Scudi rotondi poco pesanti rimasero invece in dotazione alla cavalleria e alla
fanteria leggera.
Dai Sanniti i Romani appresero anche l’uso del gladio, la spada corta appuntita, a due tagli molto
efficace nel corpo a corpo, per penetrare di punta nello spazio lasciato scoperto dallo scudo. Nel frattempo
era stato anche introdotto il pilum un giavellotto da lancio ravvicinato con lunga e acuminata punta di ferro,
capace di perforare gli scudi.

- Due strumenti fondamentali di controllo del territorio: l’espansione


federativa e la fondazione delle colonie.

Politica di espansione federativa


Foedus aut deditio: o il patto o la resa
Alle città stato e ai popoli della penisola italica con cui veniva man mano in contatto Roma proponeva
accordi commerciali ma anche patti, o foedera, militari e di mutuo soccorso.

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I firmatari del patto dovevano fornire, quando richiesti, un contingente militare e/o provviste e
attrezzature proporzionati alle loro possibilità, in cambio Roma garantiva la propria protezione diplomatica
e militare e in caso di guerra vittoriosa la spartizione del bottino. In tal modo i popoli non divenivano
sudditi, ma foederati (federati), riconoscendo a Roma la guida della federazione. Chi invece non era con
Roma rischiava prima o poi di trovarsi contro Roma.
Il foedus poteva essere usato per stabilire buoni rapporti tra stati, ma anche per concludere una guerra, in
tal caso le condizioni variavano molto secondo l’esito del conflitto e il comportamento tenuto
dall’avversario.
Dopo una vittoria decisiva e sanguinosa su avversari particolarmente insidiosi, il senato poteva
pretendere la deditio (resa incondizionata) dei perdenti (definiti in tal caso dediticii) e la confisca di un terzo
del loro territorio o proporre in alternativa un più favorevole trattato (foedus), che li trasformava in alleati
(socii).
Il peggior trattamento era riservato agli avversari infedeli, accusati di aver violato senza ragione precedenti
trattati.
Le condizioni erano invece decisamente favorevoli in caso di esito incerto del conflitto e comunque di
comportamento leale e valoroso dell’avversario, cui si offriva senz’altro di divenire socius .
Il foedus, ma anche la deditio lasciavano, perfino agli ex avversari, una grande autonomia interna di
autogoverno, ma avocavano al senato ogni decisione in politica estera e nell’uso dell’esercito, così, da una
parte Roma imponeva un controllo strategico e un’alleanza militare, dall’altra stimolava l’iniziativa e la
ripresa economica di una città e del suo territorio dopo i danni di una guerra.
Nel 430 gli Equi dopo un’ennesima sconfitta chiesero al senato un foedus, ma venne invece loro offerto di
arrendersi con una deditio, accettando la quale ottennero una tregua (indutiae) di otto anni (Livio IV, 30).
La deditio comunque non era disonorevole, perché manteneva ai dediticii la condizione di liberi e
l’autonomia in campo economico amministrativo ed era spesso un primo passo per ottenere il foedus.
Del resto anche i Latini, considerati dediticii dopo la guerra del 340-38, in breve erano tornati ad essere
socii di primaria importanza.
Tre anni prima, nel 343 a. C., gli abitanti di Capua, allora la più fiorente città greca della Campania,
oppressi dalle scorrerie inarrestabili dei guerrieri Sanniti, chiesero aiuto ai Romani, i quali non potevano
darlo a causa di un patto precedente con i Sanniti, allora i Capuani, per obbligarli a difenderli dagli attacchi
nemici, si consegnarono spontaneamente come dediticii, e il senato accettò questa inconsueta resa
spontanea, provocando così la prima guerra sannitica (Livio, VII, 31).
Cinque anni dopo Capua ottenne non solo un foedus, ma anche la cittadinanza (Livio VIII, 14 e XXIII, 5).

Chi invece si ribellava al patto sottoscritto, imbracciando le armi, veniva presto o tardi punito e costretto
alla resa e alla confisca di un terzo del proprio territorio, salvo però, dopo qualche decennio di leale

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sottomissione, ottenere la riammissione nell’alleanza. Infatti i foedera non erano immutabili, ma potevano
essere anche totalmente rivisti, in senso positivo, ma anche negativo, a seconda della lealtà dimostrata.
Il territorio requisito agli sconfitti diveniva ager publicus, proprietà del popolo romano, una parte del
quale poteva essere destinato a una colonia romana o latina e assegnato in proprietà ai coloni. Erano poi
previste assegnazioni individuali a piccoli e medi proprietari. La maggior parte però costituiva latifondi
concessi in affitto a ricchi aristocratici o comunque a chi aveva i mezzi e i capitali per poterli sfruttare. In
certi casi, dopo un certo tempo, una parte del territorio poteva essere riscattata dal popolo che ne era stato
proprietario.
In età repubblicana la guida della federazione e la politica estera erano appannaggio esclusivo del senato
romano che riceveva le ambascerie straniere ed era il garante dei trattati, custoditi gelosamente nel suo
archivio. La normativa che li regolava costituì col tempo una specie di diritto “internazionale”.

Il metodo usato con i Latini apparve così valido ed efficace da essere esteso ai rapporti con gli altri
popoli italici, che si dimostravano disponibili a stringere patti con Roma.
Roma imparò l’arte del compromesso e l’efficacia della concessione seppur molto cauta e oculata
di diritti commerciali e civili e perfino della piena cittadinanza romana.
L’efficiente apparato militare non basta infatti da solo a spiegare il modo lento, paziente, ma
inarrestabile, con cui nel volgere di alcuni secoli i Romani allargarono il loro dominio, da una
piccola città stato sul Tevere all’intero Lazio e poi a tutto il centro sud della penisola italica, dal mar
Tirreno all’Adriatico, inglobandovi molti popoli diversi tra loro, Latini, Equi, Volsci, Etruschi,
Sanniti e altri ancora, comprese le fiorenti ed evolute città greche del meridione.
L’arma vincente fu la novità dell’atteggiamento verso gli altri popoli. A differenza dei Greci, i
Romani non disprezzavano i popoli vicini, anzi ne assumevano gli usi che ritenevano validi, ne
apprendevano le tecniche e le conoscenze in vari campi, dalla religione alla medicina,
all’agricoltura, all’edilizia, all’arte militare e le applicavano apportandovi miglioramenti.
In un passo delle sue storie (VI, 25), il greco Polibio esprime la sua ammirazione per l’intelligente
pragmatismo del popolo romano “ Se ci sono uomini abili a mutare usi e a imitare il meglio, questi
sono i Romani”.
A tale apertura non era estranea l’origine multiculturale di Roma, riferita dalla tradizione e che
anche Cicerone ricorda nel De Re Publica (II, 8), aggiungendo come un fatto encomiabile che il
sabino Tito Tazio fu associato al trono da Romolo. Si tramanda poi che i primi quattro re furono
alternativamente Latini e Sabini, ad essi subentrarono tre re Etruschi, imponendo una dinastia
proveniente dalla vicina Tarquinia.

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Dagli Etruschi i Romani appresero molto: in architettura la costruzione dell’arco e della volta, in
urbanistica le tecniche di fondazione delle città a cominciare dalla rete fognaria, costruita appunto
con il sistema della volta, in agronomia il sistema di irrigazione delle campagne e di bonifica dei
terreni paludosi.

La fondazione delle colonie

Ottenuta la supremazia sui Latini e sugli altri popoli laziali, Roma si pose il problema di come
difendere stabilmente le sue vie commerciali e i confini , proteggere gli alleati fedeli e sorvegliare
quelli malfidi. Il suo esercito stagionale di possidenti terrieri, arruolato per combattere con i nemici
esterni non poteva essere disperso in guarnigioni permanenti disseminate nella regione.

Perciò Roma adottò la soluzione di inviare in località di importanza strategica comunità di


coloni-soldati a fondare centri abitati fortificati in cui essi si trasferivano con le loro famiglie. Essi
divenivano proprietari di un podere loro assegnato in proprietà, poco fuori delle mura cittadine. Il
territorio da loro abitato e coltivato era ricavato dal terreno demaniale appartenente allo stato
romano, in genere sottratto come preda di guerra alle popolazioni sconfitte. Quindi difendendo gli
interessi di Roma, i coloni difendevano i propri, a questo fine essi erano organizzati militarmente e
assicuravano una sorveglianza armata della zona.
Tito Livio (1,27) sembra far risalire a Romolo la fondazione di una colonia nel territorio
dell’ostile Fidene, città etrusca, ad Anco Marzio attribuisce lo scalo marittimo di Ostia e a
Tarquinio il Superbo le colonie di Circei e Signa, la prima marittima in funzione anti cartaginese e
la seconda presso Firenze in funzione anti etrusca. Forse la vera fondazione va spostata in epoca
successiva e così possono essere interpretati Livio e altri storici quando parlano di rifondazione di
queste colonie in epoca repubblicana, Signa nel 495 e nel 393 Circei in comune con i Latini (Diod.,
14, 102).
Nel IV-III secolo prendono un assetto e una forma giuridica ben definita due tipi di colonie molto
diverse tra loro: le colonie romane e quelle latine.
Coloniae romanae
Dopo la guerra latina furono fondate o rifondate non molto lontano da Roma, sulle coste tirreniche,
le coloniae maritimae di Ostia, Anzio, Terracina e altre, per sorvegliare le rotte e impedire o
segnalare attacchi nemici. Altre poi ne sorsero in Toscana, Puglia, Campania e Abruzzo, sia sulla
costa, sia all’interno in luoghi strategici, che permettessero il controllo di passaggi obbligati e la
sorveglianza su popolazioni considerate infide.
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Non rappresentano una novità nel mondo antico. Si tratta di piccoli agglomerati di circa 300
coloni con le loro famiglie, con funzioni prettamente militari, simili alle cleruchie ateniesi, in
pratica di fortezze, prive di autonomia politica e amministrativa, senza propri organi di governo e
dipendenti in tutto dai magistrati di Roma. Sono soggette al diritto romano: i coloni mantengono
formalmente il loro stato di cittadini romani a pieno titolo, ma ricevono in proprietà un modesto
podere di circa un ettaro da coltivare, integrato dall’utilizzo di aree comuni per il pascolo ed altri usi
e non possono allontanarsi dalla colonia, senza il permesso di un magistrato romano, sono esentati
dal servizio nelle legioni, ma sempre in allerta per presidiare la zona.

Coloniae latinae, loro eccezionale novità di colonie “miste”.


Con l’espandersi del raggio d’azione di Roma, occorreva stabilire colonie sempre più lontane e,
dato che dovevano difendersi da sole, assai popolose, dai duemila ai cinque- seimila uomini (gli
effettivi di una legione), con le rispettive famiglie. Si trattava di colonie non solo militari, ma anche
di popolamento, in vista di una espansione commerciale e di una romanizzazione del territorio,
quindi erano vere e proprie città con migliaia di abitanti, anch’esse fortificate con mura. Nel 303
furono inviati 4000 coloni a Sora nel Lazio meridionale e 6000 ad Alba Fucens in Abruzzo (Livio,
X, 1). Per raggiungere numeri così importanti fu offerto anche ai cittadini latini di partecipare alla
fondazione di queste nuove comunità basate sul diritto latino. Le colonie erano anche uno sfogo
della sovrappopolazione e fattore di pace sociale, Livio riferisce che un anno (il 300 a.C.) fu
tranquillo anche sul fronte interno perché “teneva quieta la plebe il fatto che la moltitudine (= la
popolazione in esubero) fosse stata alleggerita inviandola nelle colonie” (Livio 10, 6).
Le coloniae latinae, date le cospicue assegnazioni di terre ai capifamiglia, erano pienamente
autosufficienti sul piano economico e a differenza delle colonie romane godevano di ampia
autonomia amministrativa, erano libere di commerciare e si autogovernavano con proprie assemblee
e magistrati elettivi, che promulgavano leggi e provvedimenti con valore locale, mentre
dipendevano da Roma sul piano politico generale e in caso di guerra dovevano inviare ai consoli
truppe e rifornimenti.
Tra il III e il II secolo le colonie latine già numerose nel centro sud, diventarono lo strumento per
eccellenza di penetrazione e romanizzazione della pianura padana, ma data l’insufficiente numero
di cittadini romani e latini iscritti nelle apposite liste anche i socii italici, in quanto soldati arruolati,
furono invitati a partecipare alla fondazione di nuove colonie di diritto latino. Così gli italici che vi
si trasferivano assumevano la cittadinanza latina e lo stesso accadeva ai cittadini romani, i quali
perdevano la piena cittadinanza e quindi lo ius suffragii, il diritto di voto.

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Nel mondo antico questa fu una grande innovazione: le colonie degli Ateniesi erano costituite
solo da Ateniesi, così quelle degli altri Greci, dei Fenici e così via, quelle latine erano invece
colonie miste formate da romani, latini e italici, in cui tutti godevano degli stessi diritti.
Le colonie latine presentavano un concreto vantaggio: un’assegnazione di lotti di terra molto
generosa perfino dieci volte superiore rispetto a quella delle colonie romane, 50 iugeri contro 5.
La perdita di un diritto di voto a Roma, piuttosto teorico per un colono che viveva lontano
centinaia di chilometri dalla capitale, sembrava trascurabile se paragonata al concreto beneficio di
diventare un vero proprietario terriero, massima aspirazione di un uomo qualunque perché garanzia
di sicurezza economica e di promozione sociale per sé e la famiglia.

Bononia, Mutina e Parma


Nel 189 a. C. fu dedotta la colonia latina di Bononia (Bologna), in un territorio strappato ai galli Boi, nemici
acerrimi più volte sconfitti e solo da poco domati. Il rischio per i futuri coloni e le loro famiglie era grosso,
per affrontarlo occorreva avere una prospettiva allettante, così il senato decise di essere generoso con i
3000 coloni e stabilì per la maggior parte di loro, semplici fanti, assegnazioni di ben 50 iugeri (12 ettari e
mezzo) e assegnò ai pochi cavalieri lotti di 70 iugeri (17 ettari e mezzo).

Invece nel 183 le vicine colonie romane di Mutina (Modena) e Parma con 2000 coloni ciascuna ebbero
assegnazioni decisamente inferiori, di 5 iugeri la prima e di 8 la seconda (Livio XXXIX, 55). Con tale
limitazione il senato voleva evitare che questi coloni proletari, che restavano cittadini romani a pieno titolo,
passassero a una classe di censo superiore, modificando gli equilibri tra classi nelle votazioni dei comizi
centuriati.
Le colonie latine, frutto del pragmatismo romano, si rivelarono una prima tappa per far entrare nella res
publica anche chi, avendo un’altra provenienza, ne faceva parte di fatto ma non di diritto.

La vera grandezza di Roma secondo Dionigi di Alicarnasso


Lo storico greco Dionigi di Alicarnasso nelle sue Antichità Romane (II, 16-17) fa risalire a Romolo la
creazione delle colonie : “L’istituzione di Romolo migliore di tutte, secondo la mia opinione, … quella che
ebbe una parte non piccolissima tra le cause dell’egemonia romana, fu il non sterminare né ridurre in
schiavitù i giovani delle città conquistate, né ridurne a pascolo o a sterpaglia la terra, ma il mandare in esse
coloni su una parte del territorio e nel rendere colonie di Roma le città sconfitte e ad alcune di esse
concedere la cittadinanza. Con questi provvedimenti … egli rese le colonie grandi da piccole che erano” e
più oltre “[i Greci, Ateniesi, Spartani e Tebani] difendendo a spada tratta la nobiltà della loro stirpe e
cittadinanza e non facendone partecipe nessuno se non pochissimi, oltre a non ottenere nessun vantaggio
da questa superbia, subirono da essa grandissimi danni”.

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Dionigi, chiaramente filoromano, venne a Roma in un momento felice, quando tutto l’impero godeva la
pace e la prosperità garantite da Ottaviano Augusto. Egli idealizza una storia in realtà costellata di guerre
ingiuste e stragi insensate e fa risalire a Romolo iniziative probabilmente molto posteriori, ma coglie un
aspetto costitutivo e peculiare del potere romano: la sua straordinaria capacità di inclusione e
assimilazione, anche attraverso la concessione della cittadinanza e la fondazione di colonie miste.

Le colonie degli antichi e dei Romani


Le colonie del mondo antico erano una cosa molto diversa dagli imperi coloniali dell’età moderna
conquistati dagli stati europei nelle Americhe, in Africa e Asia. Questi assomigliano piuttosto a quelle che i
Romani chiamarono provinciae, quando in seguito alle guerre puniche, assoggettarono grandi territori e stati
del Mediterraneo. Le colonie degli antichi erano invece città fondate da uomini che con le proprie famiglie
migravano alla ricerca di una nuova patria.
Il termine colonia deriva da colonus, coltivatore, in realtà un contadino-soldato, cittadino di Roma o di una
città latina e poi anche di una città italica alleata, che accettava volontariamente di trasferirsi con la propria
famiglia a fondare con altri coloni un nuovo centro abitato.
Ciò avvenne prima nel Lazio, vicino a Roma, poi in territori italici man mano più lontani dalla capitale,
spesso in mezzo a popolazioni ostili, a cui, dopo averle sconfitte, il senato aveva confiscato circa un terzo del
territorio trasformandolo in ager publicus, una parte del quale si attribuiva alle colonie da fondare.
Ad ogni capofamiglia veniva assegnato per sorteggio un appezzamento di terreno da coltivare, per
mantenere sé e i suoi, in cambio il colono era pronto a imbracciare le armi per difendere la sua nuova patria
e gli interessi di Roma, a sua volta pronta ad aiutare la colonia da lei fondata.
La colonia garantiva così la presenza romana in un territorio strategico, mantenendo stretti legami di
reciproca alleanza “difensiva” con la madrepatria e allo stesso tempo ampia autonomia, con proprio statuto,
che prevedeva amministrazione indipendente e governo elettivo, con facoltà di inviare al senato di Roma
ambasciatori per discutere importanti questioni.

Diversa era invece la colonizzazione greca che già da tempo punteggiava di fiorenti città le coste siciliane e
del meridione della penisola. I greci, esperti navigatori, si erano impadroniti di importanti rotte commerciali
estese in tutto il mar mediterraneo, basta pensare al mito di Ulisse, sviluppando una vivace economia di
scambi, portatrice di ricchezza e conseguente sviluppo demografico.
Per risolvere i problemi di sovrappopolazione e dei conseguenti conflitti sociali, folti gruppi di coloni
partirono dalle varie contrade dell’Ellade a fondare nuove città, prima sulle coste dell’attuale Turchia e poi in
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direzione opposta ad occidente, dove una delle mete preferite fu, oltre la Sicilia, il meridione della penisola
italica, le cui coste portuose e il fertile entroterra parvero una specie di terra promessa, così ricca di
opportunità da essere chiamata Megàle Ellàs, in latino Magna Graecia, la Grande Grecia.
Diversamente dalle colonie romane queste nuove città, pur conservando forti rapporti culturali e religiosi
con la madrepatria e pur avendo ricevuto da essa supporto logistico e finanziario per superare il difficile
inizio, non avevano con essa legami giuridici o militari, non avevano quindi lo scopo di controllare un
territorio per conto della città di origine, ma formavano stati del tutto indipendenti in un ambito lontano ed
estraneo. Non a caso la colonia greca si chiamava apoikìa che significa “insediamento lontano dalla patria”.
Si trattava di una colonia di popolamento.
Altre colonie nascevano invece soprattutto come empori commerciali, era il caso di alcune colonie fenicie o
etrusche.
Atene fondò nel V secolo colonie militari dette cleruchie (kleruchìai), autosufficienti grazie ai lotti coltivabili
assegnati ai coloni. Erano guarnigioni volute da Pericle per controllare il mare Egeo, le sue rotte marittime e
gli alleati della lega di Delo. I klèruchi, i coloni, costituivano un distaccamento di contadini-soldati, che
restavano cittadini ateniesi .

Civitates foederatae, municipia, oppida, vici e controllo del terrritorio.


Nel III secolo a. C. nella penisola la maggior parte delle comunità cittadine, civitates, erano foederatae,
alleate di Roma: mantenevano la fisionomia di città stato con propria amministrazione e propri magistrati,
ma erano obbligate a fornire contingenti militari, assoggettandosi alle direttive di Roma in politica estera.
Alcune città avevano il privilegio di un rapporto paritario con Roma (foedus aequum) ma erano anch’esse
obbligate a fornire aiuti militari.
I municipi (municipia), da munia (munera) capere, “assumere i doveri” (propri dei cittadini romani), erano
comunità cittadine che si legavano a Roma con vincoli più stretti e patti differenziati che contemplavano, o
l’acquisizione della cittadinanza romana (municipia optimo iure) come Tuscolo, Lanuvio, Ariccia e altre o
una cittadinanza parziale senza diritto di votare a Roma (municipia sine suffragio) come Acerra e Priverno.
Con popoli che possedevano soltanto vici (piccoli villaggi) e oppida , centri fortificati, inferiori al rango
politico delle civitates (città), come i Galli della pianura o i Reti della fascia alpina, i Romani stringevano
patti di alleanza di natura diversa, di cui non conosciamo le clausole. Alcuni erano sostanzialmente fedeli,
come i Veneti e i Galli Cenomani, gli altri Galli erano invece insofferenti dei patti imposti da Roma e
attendevano l’occasione per recuperare la propria indipendenza.

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Tutti questi soggetti, più o meno autonomi al loro interno, avevano in comune la rinuncia a una propria
politica estera e quindi la perdita dello ius belli et pacis, il diritto di fare guerra o alleanza in modo
autonomo.
Questo complesso sistema raggiungeva il massimo risultato con il minimo sforzo, perché già nel III secolo a.
C. consentiva a Roma un controllo politico militare e un’influenza economica su quasi tutta la penisola,
senza richiedere un costoso e logorante dominio diretto.
Esso si reggeva sul fatto che i federati avevano interesse a far parte di un grande organismo politico e di
un grande mercato, che offrivano sicurezza e notevoli possibilità di sviluppo e dava anche garanzie
giuridiche di tutela, mentre non era per nulla conveniente opporsi a una tale struttura di potere.
Tutta questa varietà di situazioni giuridiche nasceva dalle vicende particolari con cui ciascuna città o
popolazione aveva sviluppato le sue relazioni con Roma, ma era funzionale anche al criterio del divide et
impera che la classe dirigente romana aveva ben presto imparato ad applicare con successo nella politica
estera.

Un caso opposto a quello dei Latini: il trattamento brutale riservato ai galli Senoni.
I Senoni, ultimi Celti a migrare, trovando già occupata dagli altri Celti gran parte dei territori
padani, si erano diretti a sud varcando il Po e stanziandosi tra la Romagna e le Marche, ma
compivano volentieri incursioni nei territori vicini. Nel 390 a. C. avevano varcato/varcarono i passi
appenninici per fare bottino nelle prospere città laziali di cui avevano sentito parlare. Un esercito
romano mandato loro incontro era stato sbaragliato e Roma stessa presa, saccheggiata e incendiata.
I Galli se ne erano andati/andarono solo in cambio di un pesante riscatto in oro.
Nei Romani rimase a lungo il timor gallicus la profonda impressione lasciata dai Galli, come di
spaventosi e possenti guerrieri.
Nei decenni successivi i Senoni non smisero di dare del filo da torcere unendosi ai galli Boi e
Insubri.
Livio (VII, 9 e 11) ricorda come nel 360 essi giunsero di nuovo alle porte di Roma “furono fatte
orribili devastazioni … si combatté con tutte le forze non lontano da porta Collina… dopo una
grande strage reciproca, i Galli alla fine furono cacciati”.
Per circa ottant’anni scontri e devastazioni si alternarono a periodi di tregua, durante i quali,
mentre i Galli restavano divisi e spesso rivali, i Romani rafforzavano la loro supremazia sul Lazio,
su Etruschi, Umbri e Sanniti, insomma su buona parte del centro sud della penisola.
I Senoni, preoccupati della potenza dei Romani, stipularono con loro nel 332 un trattato di
pace (Polibio, 2, 18) che infransero durante la terza guerra sannitica (298-290) unendosi a Sanniti
Etruschi e Umbri nella speranza di bloccare l’espansione romana.

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L’esercito romano varcò senza indugio gli Appennini e affrontò la coalizione proprio nel territorio
senone a Sentino nel 295 a. C (nell’Appennino umbro marchigiano) riportando una grande vittoria,
che scoraggiò ogni ulteriore iniziativa nemica.
Dieci anni dopo (284) gli irriducibili Senoni, sconfissero un esercito romano ad Arezzo,
uccidendo il console e catturando numerosi prigionieri e arrivarono a uccidere gli ambasciatori
inviati a trattare il riscatto dei prigionieri. Questa volta la misura era colma e la reazione fu spietata,
simile a un genocidio con stragi e deportazioni, come narra Polibio (II, 19) “… i Romani si
scontrarono con i Galli detti Senoni e, sconfittili in campo aperto, ne uccisero la più parte,
cacciarono gli altri e si impadronirono del loro territorio. In esso dedussero la prima colonia in terra
gallica”. Il console Curio Dentato ottenne di trasformare il territorio dei Senoni in ager romanus
denominato gallicus, e sulle rovine della loro capitale fece dedurre la colonia romana di Sena
Gallica, Senigallia, la prima colonia romana marittima sull’Adriatico.

I Romani a nord dell’Appennino.

- Fondazione di Rimini e sue ripercussioni


Con la fondazione di Senigallia si aprì ai Romani una nuova prospettiva di espansione nel nord
della penisola, anche se la colonia romana contava solo trecento famiglie, con piccole proprietà
terriere, poca cosa rispetto alla vastità della regione confiscata.
Ben diverso effetto sia a Roma sia in Gallia Cisalpina ebbe anni dopo, nel 268 a.C. la fondazione
della colonia latina di Ariminum, Rimini, una vera città fortificata abitata da alcune migliaia di
famiglie di coloni, ciascuno dei quali assegnatario di vari ettari di terreno fertile. Un così potente
avamposto romano vicino ai propri confini fu sentito come affronto intollerabile dai Galli Boi, i
quali se ne stettero quieti durante la prima guerra con Cartagine, sperando che il conflitto tra le due
superpotenze avrebbe logorato Roma. Essa al contrario ne uscì rafforzata, confermando il proprio
controllo sulla penisola.
Vedendo in pericolo la propria indipendenza, i Boi decisero allora di attaccare e radere al suolo
Rimini, simbolo concreto della supremazia romana e a questo scopo si allearono con i vicini
Insubri. Ma i due popoli ritenendo insufficienti le loro forze, avviarono trattative segrete con
guerrieri Celti d’oltralpe e nel 236 una innumerevole massa di uomini armati puntò su Rimini. La
colonia si preparò a una lotta mortale, ma fu salvata da un’imprevista fortuna: una lite furibonda
scoppiata improvvisamente tra i Galli padani e i cugini transalpini sfociò in una strage reciproca e
nell’abbandono dell’impresa.

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La deduzione di Rimini segnò un deciso spartiacque nella politica coloniale: davanti ai Romani si
era spalancata la Gallia Cisalpina, una pianura ininterrotta non paragonabile per vastità alle altre
della penisola e relativamente poco abitata, che non aveva città, solo alcuni grossi villaggi fortificati
e tanti piccoli nuclei di capanne sparsi nel territorio.
I Romani, che possedevano avanzate conoscenze agronomiche apprese da Etruschi e Greci, non
tardarono a capire le enormi potenzialità della pianura Padana, che i Celti non sapevano sfruttare
appieno: il terreno ricco di humus, una volta disboscato e bonificato si prestava a vari tipi di coltura
o a fornire ricchi pascoli. Quelle terre sembravano fatte apposta per essere suddivise con il metodo
della centuriazione, non ostacolata da speroni rocciosi, andamenti irregolari e scoscesi dei terreni
preappenninici, rompicapo degli agrimensori costretti a calcoli complicati per le assegnazioni dei
terreni.

- Assegnazioni di lotti di ager gallicus ai singoli.


A una popolazione ostile sconfitta in guerra veniva sottratta una parte del territorio di solito
corrispondente a un terzo, che diveniva proprietà dello stato romano ed era detto ager romanus o
publicus, su una parte del quale potevano essere stanziate una o più colonie, così da controllare la
zona e favorirne la romanizzazione.
La cospicua superficie restante veniva suddivisa per essere in parte venduta da un questore
(ager quaestorius), in parte affittata, in parte assegnata in proprietà viritim cioè individualmente (da
vir, uomo), a cittadini meritevoli. La vendita e l’affitto favorivano i ricchi che possedevano capitali
da impiegare, particolarmente favoriti erano i grandi proprietari, capiclan delle potenti famiglie
senatorie, che dietro il pagamento di un modico affitto entravano in possesso a tempo
indeterminato di vastissime estensioni di terre, purché dimostrassero di avere i mezzi economici per
sfruttarle.
L’assegnazione viritana favoriva invece i popolani ex combattenti, soldati semplici e centurioni,
spesso impoveriti dalle guerre prolungate, i quali con i lotti di terra assegnati divenivano piccoli o
medi proprietari terrieri.
I consoli potevano avanzare proposte sull’ager publicus all’assemblea dei comizi centuriati e di
solito lo facevano consultando preventivamente i senatori, i quali si preoccupavano naturalmente di
favorire i propri interessi. Al contrario i tribuni della plebe potevano avanzare proposte
direttamente all’assemblea della plebe, senza passare dal senato.
Le assegnazioni individuali o viritane di parte dell’immenso ager gallicus potevano essere uno
strumento di giustizia sociale e di ridistribuzione della ricchezza, e inoltre contribuivano alla

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romanizzazione del territorio. Così la pensava un energico tribuno della plebe, Gaio Flaminio che le
sostenne e le fece approvare a pieni voti dall’assemblea della plebe.

Un personaggio poco noto, Gaio Flaminio, precursore dei Gracchi e vincitore dei Galli Insubri
Il territorio sottratto ai Senoni e trasformato in ager publicus denominato gallicus, rimase per lunghi anni
non assegnato a causa del ventennale primo conflitto con Cartagine.
Mai prima di allora era stato a disposizione dei Romani un territorio di così vaste proporzioni che destò le
speranze di riscatto di tanti comuni cittadini impoveriti dalle guerre e d’altro canto suscitò la cupidigia della
classe senatoria, desiderosa di incrementare la propria ricchezza.
Intanto a Roma si stava affermando sulla scena politica Gaio Flaminio Nepote, un personaggio non
conosciuto come meriterebbe. Possiamo considerarlo un precursore del partito dei populares, infatti, eletto
tribuno della plebe nel 232 a. C., pur essendo un homo novus, cioè di famiglia estranea alla nobiltà politica,
o forse proprio per questo, aveva osato, scavalcando il senato, proporre direttamente all’assemblea della
plebe la lex Flaminia de agro Gallico, che assegnava viritim, cioè in proprietà a singoli individui, buona parte
dell’ager Gallicus a sud di Rimini, un tipo di assegnazione per consuetudine favorevole alla gente comune,
che aveva combattuto nelle guerre della res publica. La legge, o meglio il plebiscito fu approvato,
nonostante l’avversione e le manovre ostili di tanti senatori, grandi proprietari, che volevano lasciare non
assegnati quei territori per poterli affittare dallo stato. Così avevano fatto con il fertile ager publicus,
confiscato in Etruria, Sannio e Campania e poi in Sicilia, costituendo enormi latifondi, per i quali pagavano
un affitto irrisorio, semplicemente dimostrando di avere i mezzi finanziari per condurli. Questi terreni
restavano nominalmente di proprietà del popolo romano, ma in realtà il possesso, cui l’affitto dava diritto,
si trasmetteva per consuetudine in via ereditaria, senza che fossero sollevate obiezioni.
Quando finalmente i nuovi piccoli e medi proprietari occuparono i loro lotti, i Galli Boi lo considerarono
uno schiaffo intollerabile e trovarono un accordo con Insubri e Taurisci. La coalizione non sentendosi
abbastanza forte, chiamò in aiuto (225) dalla valle del Rodano i galli chiamati Gesati, spietati guerrieri
mercenari, così chiamati dall’arma preferita, il geso un robusto giavellotto da lancio.
In Senato Flaminio fu accusato di essere in parte responsabile del nuovo grande pericolo, che costrinse
Roma a mettere in campo le legioni consolari e le truppe ausiliarie al completo.
I popoli italici federati arruolarono i loro giovani, Veneti e Galli Cenomani che non avevano mai avuto
buoni rapporti con i vicini Insubri si mobilitarono sui confini e perfino gli Etruschi fornirono aiuto.
Torme di Gesati, desiderosi di bottino varcarono le Alpi e riunitisi agli alleati, invece di dirigersi a Rimini,
dove li aspettava un esercito, si diressero verso Roma attraverso l’Etruria, razziando il territorio e
sconfiggendo le truppe schierate a difesa. Sembravano incontenibili, fin quando presso Talamone ai confini
della maremma si trovarono stretti tra due eserciti consolari provenienti da direzioni diverse (Polibio 2, 26-

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28). Dopo aspri combattimenti su due fronti, i Galli furono sopraffatti e a sentire Polibio (2,31) decine di
migliaia di essi furono massacrati e i superstiti caddero prigionieri. Lo storico filoromano forse esagera,
perché l’attività bellica dei Celti continuò per tre anni consecutivi con alterne vicende, un risultato
comunque fu che i Boi si arresero e la guerra rimase confinata a nord degli Appennini.
Gli Insubri, il popolo celtico padano più forte e numeroso, rimaneva a guidare la lotta antiromana.
Flaminio, eletto console nel 223, sostenitore di una politica espansionistica in val Padana a favore dei plebei
e della classe emergente dei cavalieri (imprenditori e commercianti), non cercava accordi con i Celti ma lo
scontro. Il senato decisamente contrario, ricorse a sfavorevoli auspici degli auguri per invalidare le elezioni
dei consoli e sostituirli. Le lettere del senato giunsero a Flaminio che stava attaccando gli Insubri e lui si
rifiutò di aprirle finché, con l’appoggio dei Cenomani, non riportò una vittoria non facile. Solo allora le lesse
e tornò a Roma, dove il senato gli rifiutò il trionfo, che egli riuscì lo stesso a celebrare grazie al favore del
popolo.
L’anno seguente gli Insubri furono sbaragliati a Clastidium, Casteggio, presso Pavia, lasciando aperta la
strada per Medland, Milano, la loro capitale, che fu assaltata e conquistata dalle legioni. “In seguito a ciò -
narra Polibio (2, 35) - i capi degli Insubri persero ogni speranza di salvezza e si arresero ai Romani senza
porre alcuna condizione”: un’ovvia conseguenza dei patti fu la cessione di estesi territori gallici all’ager
publicus del popolo romano, la via alla penetrazione nella pianura Padana era spianata.
Per completare l’opera nel 220 Flaminio, in qualità di censore, fece costruire una strada che collegava
Roma a Rimini attraverso l’Appennino, rendendo così la Gallia Cisalpina raggiungibile dalle legioni in pochi
giorni di marce forzate. La strada così ben costruita da essere in parte visibile ancor oggi, iniziata nel 220, fu
realizzata in un anno, data l’urgenza del collegamento. Flaminio si guadagnò così la gratitudine dei Riminesi
e dei coloni assegnatari dell’ager gallicus.
L’arteria si rivelò provvidenziale un paio d’anni dopo, quando Annibale, conquistata Sagunto, alleata di
Roma in Spagna, mosse l’esercito alla volta dell’Italia.
Nel 217 Flaminio, rieletto console, si gettò, senza aspettare l’esercito del collega, all’inseguimento di
Annibale, che attraversati gli Appennini minacciava Roma e perse la vita da valoroso cadendo con i suoi
soldati in una trappola senza via d’uscita tesagli dal cartaginese su una sponda del lago Trasimeno.
I senatori suoi avversari politici non persero l’occasione di denigrarlo, chiamando in causa la sua
imprudenza, sul campo di battaglia, lasciando intendere che altrettanto sconsiderata fosse stata la sua
politica agraria innovatrice a favore della plebe, che lo storico Polibio, filo conservatore, definisce
“demagogica”.

Colonie latine al centro della pianura padana, Piacenza e Cremona


Roma non immaginava nemmeno possibile un attacco di Annibale dalle Alpi e si preparava a inviare le sue
legioni al di là del mare, in Spagna e Africa, volendo però garantirsi le spalle da un possibile attacco di

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Insubri e Boi concordato con i Cartaginesi, decise di stabilire un controllo strategico nel centro della pianura
Padana sull’ager publicus di recente confiscato ai Celti deducendovi in tutta fretta, due popolose colonie
latine, una di fronte all’altra, sulle rive opposte del Po, Piacenza (Placentia) e Cremona, ciascuna con seimila
coloni, un numero superiore agli effettivi di una legione.
Nella primavera del 219 i coloni inviati a fondare Piacenza sotto la guida dei triumviri coloniae
deducendae, sperimentarono sulla loro pelle cosa si rischiava a dedurre una colonia in territorio ostile:
mentre si tracciava la centuriazione dei terreni essi furono assaliti da torme di Galli Boi. Respinto l’attacco,
riuscirono a rifugiarsi a Modena, che allora era solo un avamposto fortificato e qualche decennio dopo
sarebbe divenuto colonia. L’avamposto sostenne l’assedio fino all’arrivo di una legione che allontanò i Galli,
permettendo di portare a termine la fondazione delle due colonie, poi importantissimi caposaldi nella
guerra.
I Boi avevano però catturato i triumviri, personaggi di alto rango, che volevano scambiare con gli ostaggi
da loro precedentemente consegnati ai Romani a garanzia dei trattati cui avevano dovuto sottostare.
L’anno seguente Annibale scese dalle Alpi e dei triumviri non si seppe più niente, furono creduti morti,
finché sedici anni dopo (203), alla fine della guerra, non furono ritrovati dal figlio di uno di loro che divenuto
console guidava una spedizione nella Cisalpina (Livio XXX, 19). Secondo Polibio (III, 67) i Boi dopo la
battaglia della Trebbia avevano offerto quei triumviri come pegno di alleanza ad Annibale, che strinse
amicizia con i Boi, lasciando loro i prigionieri eccellenti per il progettato scambio.

Il sistema romano regge alla prova della guerra annibalica.


Annibale, poiché le flotte romane sorvegliavano i mari, scelse per attaccare Roma la via di terra
puntando sulla sorpresa e, partendo dalla Spagna nella primavera del 218 superò i Pirenei, riuscì a
passare il Rodano e infine a varcare le Alpi sul finire dell’estate, con una armata di fanteria,
cavalleria ed elefanti, non senza grandi fatiche e perdite.
Gli eserciti romani accorsi a fermarlo furono facilmente battuti sui fiumi Ticino e Trebbia dalle
manovre avvolgenti di Annibale e dalla superiorità della cavalleria numidica. Essi si salvarono da
una grave disfatta solo per l’arrivo di un rigido inverno, che pose fine alle ostilità e permise ai
consoli di ripararsi negli accampamenti invernali proprio presso le nuove colonie di Piacenza e
Cremona. I Celti padani, insofferenti del dominio di Roma, passarono in massa dalla parte del
cartaginese, tranne i Cenomani di Brescia e Verona che combatterono a fianco dei Romani.
L’anno seguente il console Flaminio perse la vita e l’esercito, cadendo in un agguato tesogli da
Annibale sulla riva del lago Trasimeno.
Sul Trasimeno nel 217 fu massacrato uno dei due eserciti consolari, ma nella successiva battaglia di
Canne del 216 Annibale annientò in una sola volta entrambi gli eserciti dei consoli, stringendoli in
una tenaglia mortale.
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Sotto il colpo tremendo di Canne l’edificio dell’impero romano sembrò rovinare, alcuni popoli
federati, alcune città italiche e greche defezionarono, sedotti dalla promesse del cartaginese, Capua
la più ricca città della Campania ripudiò la propria cittadinanza romana e spalancò le porte ad
Annibale, ma il secolare sistema di federazioni e colonie si dimostrò solido, vacillò, ma non si
sfaldò: i Latini, le colonie e i municipi del centro Italia rimasero fedeli, costituendo una specie di
cintura fortificata che cingeva Roma. Annibale l’aveva già sperimentato dopo il Trasimeno, quando
ormai padrone dell’Umbria, con la via aperta per Roma, era stato respinto dalle solide mura di
Spoleto (Livio 22,8), una modesta colonia latina, perdendo tempo e uomini in un assedio, che egli
non poteva permettersi di protrarre a lungo.
Nelle battaglie campali bastava una mezza giornata al suo genio strategico per sbaragliare
l’avversario, ma ponendo sotto assedio Roma si sarebbe bloccato per mesi in lunghe trincee,
esponendosi a contrattacchi dall’esterno che avrebbero permesso ai Romani di prenderlo tra due
fuochi.
Il suo esercito benché vittorioso era stremato, aveva subito ingenti perdite nella lunga marcia per
arrivare in Italia e poi nei duri combattimenti ed era costretto alle razzie per rifornirsi. Solo con
molta fatica Annibale riuscirà a far giungere rifornimenti e truppe da Cartagine. Roma aveva ancora
il controllo del mare e teneva duro con incredibile tenacia: senza più affrontare Annibale in campo
aperto lo incalzava a distanza sottoponendolo a logoramento, arruolando nuovi eserciti e allestendo
flotte con cui colpiva i suoi alleati nel sud Italia, in Spagna e Africa ed eliminava i rinforzi che gli
giungevano da Cartagine..
Roma riusciva ad arruolare sempre nuove legioni traendole da risorse che sembravano inesauribili,
in realtà immane era lo sforzo che imponeva a se stessa e agli alleati italici, tanto che nel decimo
anno di guerra, alle consuete leve primaverili, 12 delle 30 colonie latine si rifiutarono di inviare
soldati, sostenendo di aver esaurito i giovani disponibili.
Fortunatamente le altre 18 colonie inviarono le truppe richieste (Livio 26, 9-10). Il conflitto
continuò finché dopo 16 anni di guerra Annibale, mai vinto in Italia, dovette imbarcarsi per l’Africa
a soccorrere Cartagine minacciata da Cornelio Scipione e là, presso Zama, per la prima volta fu
battuto sul campo, una sconfitta che si rivelò irrimediabile per Cartagine.

Le armi romane da occidente ad oriente

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Durante il II secolo a. C. Roma sostenne un impegno militare incredibile, contemporaneamente su
più fronti, in Occidente contro i popoli Celtiberi della Spagna e i Celto-Liguri della Provenza, in
Italia contro i Galli, i Liguri e gli Istri e in Oriente contro gli stati ellenistici in Macedonia, Grecia,
Siria e Asia Minore.

Sul mediterraneo orientale si affacciavano i grandi e piccoli regni ellenistici, eredi di Alessandro
Magno. Non mancavano pretesti per intromettersi nelle loro lotte e intervenire a fianco di chi
chiedeva alleanza. Il re macedone Filippo V, a cui tutta la Grecia era soggetta, era stato potente
alleato di Annibale, così Roma si alleò con le città greche e con il regno di Pergamo per sconfiggere
lo strapotere del regno di Macedonia.
Sconfitto Filippo, il console Flaminino, che conosceva i Greci e la loro cultura, per contrastare la
voce circolante che il vecchio padrone macedone era stato sostituito da Roma, fece un grande gesto
propagandistico: ai giochi Istmici di Corinto, cui convenivano i Greci da ogni parte, fece
proclamare la libertà delle città greche, suscitando l’entusiasmo travolgente della folla. La parola
libertà per i Greci era magica, così Flaminino fu ringraziato con un gesto altrettanto simbolico.
C’erano sparsi in Grecia più di un migliaio di Romani, caduti prigionieri nella guerra annibalica e
venduti come schiavi. Alcuni di essi avevano visto arrivare l’esercito romano e riconosciuto tra i
soldati dei parenti, ma non potevano sfuggire alla loro condizione. Le città greche a loro spese
ricercarono e liberarono tutti questi e li consegnarono in dono a Flaminino (Plutarco, Vita di Tito
Flaminino, 10, 13).
In seguito l’idillio svanì quando le città greche si accorsero che con i patti di alleanza i Romani
lasciavano una totale libertà interna ma imponevano la loro politica estera: non si poteva fare guerra
o pace senza il permesso di Roma. Anzi in caso di guerra e la minaccia di Filippo, rimasto re di
Macedonia, era ancora presente, le città greche dovevano contribuire con contingenti militari o
rifornire l’esercito romano.
Così via, via anche altri regni e stati ellenistici entrarono in contatto con i Romani e furono
costretti a venire a patti. Le vittorie militari portavano gloria e ricchezza ai generali e notevoli
entrate per l’erario, inoltre aprivano la strada alla penetrazione commerciale e all’influenza politica
su vasti territori.

- Gli ultimi ostacoli alla romanizzazione della pianura padano-veneta


Annibale si era abilmente presentato come liberatore dei popoli padani dal dominio di Roma,
rinfocolandone l’odio e il desiderio di rivalsa e indipendenza. I Celti e i Liguri anche se tra loro non
correva buon sangue s’erano uniti contro il comune nemico, avevano creduto in Annibale e

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combattuto valorosamente al suo fianco, cadendo a migliaia in battaglia. La sconfitta cartaginese
non aveva spento le loro speranza, né attenuato il forte sentimento antiromano che li animava.
In quel decennio quasi ad ogni primavera rinasceva una coalizione di Celti contro Roma.
Immancabilmente nel confronto con le legioni essi avevano la peggio subendo gravi perdite o nel
migliore dei casi non ottenevano qualche risultato tangibile. Nonostante ciò la gioventù celtica non
desisteva dai tentativi di rovesciare la situazione.
Nel 200 a. C., due anni dopo il disastro subito da Cartagine a Zama, Amilcare, un generale
cartaginese rimasto in Italia in incognito, riuscì a coalizzare le sacche di resistenza celtiche e liguri
formando un esercito che entrò di sorpresa in Piacenza mettendola a ferro e fuoco e si diresse poi su
Cremona che fece in tempo a chiudersi nelle mura fino all’arrivo da Rimini dell’esercito consolare.

Tre anni dopo in una battaglia sul Mincio, tra Verona e Mantova gli Insubri, abbandonati da Boi e
Cenomani subirono gravissime perdite (Livio 32,30).
Strano è trovare tra i rivoltosi i Cenomani, di solito fedeli a Roma. Ma sembra dal racconto
liviano che i giovani cenomani avessero agito di testa loro senza consultare i capi e gli anziani, i
quali, in seguito alle rimostranze degli ambasciatori romani, li persuasero a cambiare idea.
Nel 196 la guerra si riaccese, i Boi dopo un iniziale successo, vedendo devastati i loro villaggi
furono costretti ad arrendersi, tranne i giovani guerrieri che si erano dati alla macchia. Gli Insubri
furono battuti presso Como e l’oppidum di Como loro alleato fu conquistato.
Il 194 fu un anno di scontri altalenanti, il più importante dei quali si risolse con un nulla di fatto:
uno dei consoli, in attesa del collega, si era attestato al confine del territorio dei Boi, che gli
andarono incontro e attaccarono contemporaneamente da tutti i lati l’accampamento romano,
creando tale scompiglio che a stento i legionari riuscirono a respingerli. La furiosa battaglia si
concluse con gravi perdite da entrambe le parti e con una ritirata dei due contendenti.
Nel 193 mentre i Liguri assediavano Pisa, i Boi si sollevarono nuovamente, il console L. Cornelio,
lasciato il collega a Pisa, si diresse a Modena fingendo di cadere nelle insidie dei Galli e
costringendoli invece a combattere in campo aperto.
La battaglia di Modena fu molto aspra e cruenta anche per i Romani, ma causò una strage tra i Boi
e mise la parola fine alla loro lotta per l’indipendenza. I celti, stremati da grandi perdite e
devastazioni e puniti con confische di territori, rinunciarono a una lotta impari.

Ripresa della colonizzazione padana


La tregua delle incessanti guerre celtiche favorì la ripresa della colonizzazione.

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Nel 190 fu accolta la richiesta di Piacenza e Cremona di rimpiazzare con nuovi coloni la perdita
dei tanti deceduti nelle guerre o emigrati in luoghi più sicuri, perdita che aveva impoverito le due
colonie e impediva loro di fornire il consueto numero di soldati. Seimila capifamiglia furono
distribuiti equamente tra le due città con nuove assegnazioni di terre.
Il segno della sottomissione dei Boi fu la fondazione nel 189 di Bononia, Bologna, dove sorgeva
loro capitale, che era stata la Felsina degli Etruschi. con le generose assegnazioni di 12, 5 ettari ai
numerosi fanti e 17,5 ettari al ristretto gruppo dei cavalieri.
M. Emilio Lepido fu tra i suoi contemporanei il più convinto continuatore della politica di
Flaminio a favore dei piccoli proprietari e degli equites (i cavalieri), una classe sociale di medi
proprietari, imprenditori e appaltatori di imposte, attraverso le assegnazioni sia coloniali, sia
viritane (individuali) di ager publicus nella Gallia cispadana, collegate all’espansione economica
della regione. Ai grandi proprietari della classe senatoria che possedevano enormi estensioni di ager
publicus questa politica non era gradita. Probabilmente per questo e non solo per rivalità personali
come riferisce Livio (38, 43) Emilio Lepido fu ostacolato dai suoi avversari che boicottarono per
due anni consecutivi (189-188) la sua elezione al consolato, finalmente egli fu eletto console per il
187 e si diede subito da fare.
Dopo una vittoriosa campagna contro i Liguri, realizzò in quell’anno una nuova strada militare,
che da lui prese il nome di via Emilia, un rettilineo ininterrotto che allacciandosi alla via Flaminia
partiva da Rimini e raggiungeva Piacenza. Il suo tracciato è rispecchiato dalla odierna statale.
Lungo la via Emilia egli fondò un centro abitato che fu chiamato Forum Lepidi o Regium Lepidi,
l’odierna Reggio Emilia, e nel 183 le colonie di Modena e Parma delle quali fu uno dei triumviri
fondatori.
Nel 173 (Livio 42, 4) troviamo Lepido alla testa dei decemviri incaricati di effettuare le
assegnazioni viritane, cioè date a singoli individui, di ager publicus ligure e gallico, nella zona di
Modena e Reggio. Un’assegnazione discreta di dieci iugeri (due ettari e mezzo) andò ai cittadini
romani e una davvero modesta di soli tre iugeri a latini e italici. Anche in questi casi lo strumento di
suddivisione dei lotti era la centuriazione che comprendeva opere di irrigazione e drenaggio.
I coloni singoli vivevano in abitazioni sparse nella campagna, che, però, facevano capo a un
conciliabulum, mercato e centro amministrativo della lottizzazione, dotato di un tempio e di edifici
comuni, posto sotto la giurisdizione di un praefectus inviato ogni anno da Roma.
Invece il termine Forum, originariamente “piazza, mercato di una città”, servì anche a
denominare un abitato con una vocazione essenzialmente commerciale, che nasceva per favorire lo
sviluppo di un territorio ed era fondato da un magistrato romano che ne diventava il patrono a Roma
e di cui portava il nome. Lungo la via Emilia oltre a quello di Lepido sorsero numerosi fora vicini

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tra loro, Forum Livii, Forlì, Forum Popilii, Forlimpopoli, Forum Cornelii, Imola. Essi dimostravano
il grande interesse economico commerciale che la regione rivestiva per i Romani.

La minaccia dei Liguri


Domati i Celti, restava sulla parte occidentale della pianura Padana la minaccia dei Liguri.
Costoro anticamente padroni di un vasto territorio, erano stati poi cacciati dall’arrivo dei Celti e
confinati nella fascia pedemontana e preappenninica. Insediati in tutto l’arco appenninico
occidentale dalla Provenza alla Toscana, i Liguri non costituivano una nazione ma un insieme di
popolazioni fiere e combattive, adattate a una vita difficile in un territorio aspro, povero di risorse.
Abituati a grandi fatiche e a muoversi con sorprendente agilità nei gioghi appenninici, in periodi di
carestia non esitavano a compiere incursioni e razzie nella fertile pianura, sorprendendo intere
legioni e assalendo anche città fortificate.
Il proconsole L. Emilio Paolo, assediato dai liguri Ingauni in un campo trincerato tra le alpi
Marittime e l’Appennino, spronò i legionari a gettarsi fuori dalle quattro porte in una sortita
inaspettata, incitandoli a ricordare che tra i nemici battuti da loro c’erano anche gli stessi Liguri, che
erano stati “incalzati e trafitti mentre fuggivano simili a capre tra dirupi boscosi” (Livio 40, 27). Il
comandante volendo instillare nei soldati disprezzo per il nemico, ne mette però in luce
involontariamente le eccezionali doti atletiche.
Secondo Tito Livio i Liguri erano i nemici più tenaci e inafferrabili, più dei celti il cui slancio
focoso aveva scarsa durata e più degli eserciti orientali abituati alle comodità e ignari del valore
militare.
Non erano solo rudi montanari, i Liguri della costa conoscevano la tecnologia navale, erano abili
marinai e pirati temuti, in particolare gli Ingauni che avevano in Albenga, nel ponente, il capoluogo.
Per domare i Liguri definitivamente i Romani impiegarono circa cinquant’anni. Gli ultimi a
piegarsi furono i Liguri Apuani, nel cui territorio, al confine tra Toscana e Liguria, i Romani,
controllavano Pisa e Luni (da cui Lunigiana), porti da cui passavano le spedizioni militari per il
nord della Spagna.

Guerre contro i Liguri.


Quando Annibale calò in Italia, molti popoli Liguri si schierarono con lui, militando da valorosi in Italia.
Alcuni lo seguirono come mercenari in Africa, combattendo a Zama.
Finita la guerra e la rivolta antiromana guidata dal cartaginese Amilcare, se ne stettero quieti per un po’,
ma improvvisamente nel 193 giunse al senato una lettera del prefetto di Pisa, secondo cui ventimila liguri
Apuani, calati dai monti, avevano razziato e devastato tutto il litorale di Luni e di Pisa (Livio 34,56). Intanto

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attorno a Pisa, attratti dalla speranza di bottino, gli Apuani erano diventati il doppio. L’arrivo del console
Quinto Minucio salvò la città, ma non riuscì a capovolgere la situazione, anzi negli scontri successivi
l’esercito romano corse grossi rischi. Per ben due anni al console fu prorogato l’imperium, senza che egli
riuscisse a infliggere sconfitte decisive al nemico. In seguito si aggiunsero nelle scorrerie anche i Liguri
Friniati che vivevano sul versante appenninico tra Modena e Reggio. Le vittorie riportate da vari consoli, tra
cui Emilio Lepido, si rivelavano parziali e non risolutive: i Romani erano costretti a tattiche di
controguerriglia, poiché i Liguri alla battaglia in campo aperto preferivano attacchi improvvisi e imboscate
su terreno selvoso e impervio.
Nel 186 un’intera legione, addentratasi in una boscaglia, fu sterminata, console e alleati compresi, in un
agguato teso dagli Apuani lungo il corso del Magra. Nel 185 entrambi i consoli furono inviati in Liguria, uno
con base a Pisa contro gli Apuani e l’altro nella Riviera di Ponente contro gli Ingauni di Albenga, che erano
insorti e solo tre anni dopo, sconfitti per terra e per mare, furono costretti alla resa.
Gli Apuani ebbero i villaggi incendiati e si rifugiarono sui monti, ma non deposero le armi fino alla
primavera del 180, quando aspettandosi di non dover combattere fino all’entrata in carica dei nuovi
consoli, furono invece sorpresi dall’attacco dei consoli dell’anno precedente, a cui si aggiunsero quelli
nuovi. Stretti tra due eserciti si arresero senza combattere. Il senato decise una soluzione radicale: 40.000
guerrieri apuani con le loro famiglie furono deportati a spese dello stato nell’ager publicus del Sannio tra
Avellino e Benevento con assegnazione di un lotto di terra e un contributo spese iniziali equivalente alla
paga di dieci giorni di un legionario (Livio 40, 38 e 41). Sul territorio a loro sottratto nel 177 fu dedotta la
colonia romana di Luni alla foce della Magra con generosa assegnazione ai 2000 coloni di lotti di ben 52
iugeri (13 ettari) su territorio sottratto ai Liguri Apuani (Livio 41, 13).
Ormai solo poche tribù di Apuani indipendenti erano sopravvissute in vallate isolate.
Il cinquantennale conflitto con i Liguri si concluse del tutto solo nel 155, quando dopo un lungo periodo di
pace fu repressa l’ultima fiammata di insurrezione degli Apuani.

Quando non c’è un nemico ufficiale lo si inventa


Tra gli uomini politici romani c’era una forte competizione per il potere e la carriera o cursus honorum ,
chi riusciva ad essere eletto console o pretore e ad ottenere un comando militare, cercava di sfruttare
l’occasione e di non lasciar passare l’anno del mandato senza compiere qualche impresa a dimostrazione
del proprio valore. Se non c’era un nemico reale si poteva sempre crearne uno, in ciò aveva l’appoggio dei
propri soldati e di una parte degli ufficiali che speravano nel bottino e non volevano tornare a Roma a mani
vuote. Nel 187 il console Emilio Lepido, mentre era impegnato in pianura Padana nella costruzione della via
Emilia, fu incaricato di svolgere un’inchiesta, in seguito alle vibranti proteste presentate dai Galli Cenomani
al senato contro M. Furio, pretore della Cisalpina, che li aveva costretti all’umiliazione di consegnare le armi
senza un vero motivo. Lepido diede ragione ai Cenomani riconoscendo che M. Furio aveva provocato questi

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fedeli alleati di Roma per aver la scusa di disarmarli e al pretore fu ordinato dal senato di riconsegnare le
armi e di lasciare la provincia.
Un episodio ben più grave accadde nel 173 ai danni di una popolazione ligure. Il console M. Popilio
rimasto solo a gestire la situazione militare della Liguria, perché il collega si era dovuto recare in Campania,
non essendo rimasti nemici da combattere, se la prese con i Liguri Statielli o Statiellati, stanziati tra il
Piemonte meridionale e l’appennino Ligure “che non avevano mai preso le armi contro i Romani” (Livio 42,
8) e portò le sue legioni sotto le mura di Carystum, la loro capitale, dove fu poi fondata Aquae Statiellae,
l’attuale Aqui Terme. Inizialmente i Liguri se ne stettero buoni all’interno delle mura, ma vistisi assediati e
provocati, uscirono a battaglia, impegnando i nemici in uno scontro duro e sanguinoso, a lungo indeciso.
Alla fine ebbero la peggio subendo gravi perdite e si arresero. Il console si fece consegnare le armi, rase al
suolo l’oppidum e non contento confiscò e vendette i loro beni e gli stessi Statielli come schiavi.
A Roma tale comportamento disumano fu aspramente biasimato dal senato che impose al console di
riscattare gli schiavi e restituire le armi e i beni confiscati .
Popilio osò disobbedire e, condotti i soldati negli accampamenti invernali, si recò a Roma per attaccare i
suoi oppositori in senato. Non ottenne nulla, anzi gli fu rinfacciato che altri popoli Liguri pacificati, a causa
sua erano insorti in armi vedendo quanto era successo agli Statielli. Il senato ordinò ad altri magistrati di
riscattare i liguri dalla schiavitù e di assegnare loro, a titolo di risarcimento, un territorio a nord del Po
probabilmente tolto agli Insubri.
M. Popilio, sottoposto a processo, grazie all’appoggio del fratello Caio appena eletto console e a un
giudice compiacente riuscì con un artifizio giuridico a rinviare sine die la conclusione del procedimento e la
sentenza.

Guerre ai confini orientali della pianura padana


Mentre “pacificavano” Celti e Liguri a occidente i Romani pensarono anche alla parte orientale
della pianura Padana. I Cenomani di Brixia e Verona, rivali degli Insubri erano amici sicuri, più ad
est si trovavano i Veneti con capitale Ateste (Este) da sempre alleati fedeli, l’ultima parte della
pianura dal mare alle Alpi era abitata dal popolo dei Carni e la penisola istriana dagli Istri, popolo
marinaro dedito al commercio e alla pirateria, così come quello degli Illiri sulle coste rocciose della
Dalmazia.
I Romani nel decennio precedente la guerra annibalica, dopo aver subito danni ai loro commerci
marittimi da pirati Istri e Illiri, avevano sbaragliato le loro flotte, imponendo severe condizioni di
pace a queste nazioni. La venuta di Annibale aveva rimesso tutto in discussione, ma dopo la
sconfitta cartaginese Roma intendeva riportare il suo ordine.
Il varco di ingresso tra l’Adriatico e le Alpi era abitato com’era da popolazioni infide, occorreva
dunque porre un saldo presidio ai confini della pianura, senza penalizzare gli alleati Veneti. Allo
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stesso tempo occorreva controllare l’alto adriatico e renderne sicure le rotte. Nel 181 fu così dedotta
nel territorio dei Carni, sull’estuario di un piccolo fiume, a poca distanza dalla penisola d’Istria, la
colonia di Aquileia. Essa fu dotata di una generosa assegnazione di agro pubblico, per attrarre i
coloni ad affrontare un trasferimento così lontano e pericoloso: i semplici fanti ebbero 50 iugeri
(12,5 ettari), i centurioni il doppio e i cavalieri ben 140 (35 ettari). Alla sua fondazione si opposero
fieramente gli Istri fin dall’inizio, provocando una guerra che si concluse senza esiti risolutivi. Le
ostilità ripresero nel 178: il console Aulo Manlio partì da Aquileia con il suo solo esercito, ponendo
il campo alle foci del Timavo, dove fu raggiunto da navi da carico affiancate dalle triremi di scorta.
Mentre i Romani erano intenti a scaricare merci e rifornimenti per la campagna militare, gli Istri
guidati dal re Epulo attaccarono di sorpresa penetrando nell’accampamento e provocando il panico
con un fuggi, fuggi generale. Il disastro fu evitato solo perché gli Istri si dispersero nelle razzie,
rendendo possibile un fortunato contrattacco.
L’anno successivo i due nuovi consoli penetrarono con azione congiunta nell’Istria, mettendola a
ferro e a fuoco e ne posero sotto assedio la capitale, l’oppidum di Nesazio, una fortezza a est di
Pola, dove si era rinchiuso Epulo. Costui vistosi senza vie d’uscita, piuttosto di arrendersi si suicidò
con la sua corte, i superstiti furono venduti come schiavi. Nesazio fu poi ricostruita dai Romani, che
sottomisero tutta la penisola istriana.

Genua (Genova) e Aquileia


In quegli anni per contrastare la pirateria era stata creata la magistratura straordinaria dei quattro
duumviri navali, a una coppia di duumviri era assegnato il Tirreno e all’altra l’Adriatico. Ciascun
mare era poi suddiviso in area settentrionale e meridionale e ogni duumviro pattugliava una di esse
con dieci triremi.
Nella generale ostilità dei Liguri l’oppidum di Genua, Genova, era alleato di Roma, i Genuati
rimasero fedeli anche quando la maggior parte delle tribù Liguri si unirono ad Annibale. Genova
divenne un porto strategico, una base delle triremi romane per il controllo dell’alto Tirreno e del
sinus Gallicus (Golfo del Leone) lungo la rotta per Marsiglia e la Spagna e per questo fu distrutta da
Magone, fratello minore di Annibale nel 205 e ricostruita meglio di prima dai Romani nel 203.
In seguito Genua divenne una base della guerra navale contro i pirati liguri e uno scalo molto
trafficato e prospero per le merci trasportate sulle rotte tirreniche che, dopo la sottomissione della
Liguria, sviluppò rapporti commerciali con l’entroterra al di là dell’Appennino fino a Dertona
(Tortona) e Piacenza.

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A oriente i confini della pianura tra l’Adriatico e le Alpi furono consolidati nel 181 a. C. con la
deduzione della colonia latina di Aquileia in Friuli, nel territorio dei Carni, all’estremità est della
zona lagunare.
Sul mare Adriatico Ancona era il porto in comune ai duumviri, mentre Aquileia, dotata di un
efficiente porto canale, divenne lo scalo di appoggio delle triremi dell’alto Adriatico.
In pochi anni Aquileia divenne una città prospera e potente, grazie alla posizione strategica per il
commercio tra la pianura padana e veneta e il bacino dell’Adriatico e agli importanti legami
commerciali che strinse con la Magna Grecia attraverso i porti di Taranto e Brindisi.
Nel 148 a. C. Genova e Aquileia, due città così lontane tra loro, vennero collegate dalla via
Postumia che dal mar Ligure, attraversando l’Appennino e tutta la pianura Padana, giungeva
all’Adriatico. Era una strada militare, che affermava la supremazia di Roma nell’Italia settentrionale
ed era la premessa indispensabile alla sua espansione a nord del Po, costituendo allo steso tempo un
baluardo contro possibili invasioni dai passi alpini e dai confini orientali.

Un fattore del successo di Roma, organizzazione e disciplina militare, un esempio:


l’accampamento durante la marcia in zona di guerra (castra aestiva (Pol. VI, 27-42).
Al termine di una giornata di marcia in territori insidiosi, la lunga colonna della legione, deposti i
pesanti zaini dalle spalle, sosta impugnando le armi, mentre il console con l’aiuto degli esploratori
sceglie la migliore posizione per porre il campo. L’esperienza di tante campagne di guerra ha
insegnato ai Romani che questa operazione è un capitolo decisivo dell’arte militare.
A comprenderlo ci aiuta Polibio, un politico greco che, conosceva molto bene Roma per esservi vissuto
a lungo come ostaggio di nobile famiglia e ospitato dalla famiglia degli Scipioni. Egli scrisse la sua
importantissima opera storica nel II secolo a. C., quando gli altezzosi Greci finirono sotto il dominio dei
Romani, un popolo da loro considerato barbaro e rozzo e non se ne capacitavano. Essi erano convinti che il
successo di Roma fosse dovuto ad un capriccio della sorte, di breve durata .
Polibio invece sostiene che la costruzione di un così grande impero non è dovuta al caso, perché i
Romani oltre a possedere un alto grado di civiltà e una salda costituzione statale, hanno un esercito
organizzato e disciplinato in modo straordinario. Ne fornisce una prova tangibile dando una descrizione
dettagliata, per noi preziosa, dell’accampamento di un esercito consolare in marcia (Polibio 6, 27-42).
Dovendo accompagnare gli spostamenti dell’esercito in territorio ostile è necessario che
l’accampamento sia montabile e smontabile velocemente, allo stesso tempo deve essere fortificato

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così da resistere sia ad incursioni improvvise, sia ad attacchi massicci, perché non basta la scelta di
una buona posizione a garantire la sicurezza. Inoltre una sistemazione disordinata delle tende,
lasciata all’iniziativa dei singoli reparti non può evitare il caos, suscitato ad esempio da un allarme
notturno, perciò la sua struttura deve permettere una rapida e razionale sistemazione dei reparti e
non intralciare la rapidità dei loro movimenti.
Diversamente da quanto secondo Polibio fanno i Greci, i quali “quando si accampano
preferiscono approfittare delle difese naturali” ritenendole più sicure, ed evitare così anche “la
fatica di scavare trincee, … perciò sono costretti ad adattarsi alla natura dei luoghi, cambiando ogni
volta la disposizione del campo e quella reciproca delle sue varie parti, rendendo incerta la
posizione dei singoli soldati e dei reparti.”
Una volta individuato il luogo dal console, agrimensori specializzati delimitano i lati di un vasto
quadrilatero, esteso anche 50 ettari, destinato ad accogliere le due legioni consolari più i due corpi
degli alleati, altrettanto numerosi e addestrati, ma detti semplicemente alae, ali, cioè formazioni di
fiancheggiamento. In totale circa 20.000 uomini, senza contare gli schiavi e un buon numero di
cavalli e bestie da soma.
Occorre trasformare nell’immediato questa enorme area in una tendopoli ordinata e funzionale.
Gli agrimensori hanno uno schema preciso da attuare: anzitutto si fissa il settore quadrato riservato
al console, il Praetorium, punto di riferimento per orientare tutto il campo, da collocare in una
posizione centrale. Si sceglie poi il lato del quadrato più adatto, di fronte al quale innalzare le tende
delle legioni.
A destra e a sinistra di questo lato è prevista la fascia trasversale riservata alle tende degli
ufficiali superiori, i 12 tribuni delle due legioni e i 12 prefetti degli alleati. Questa è la zona del
comando, davanti alla quale si traccia la via Principalis ampia il doppio delle altre, così da
contenere l’adunata della truppa, che affluisce velocemente dalle altre vie, per ascoltare le parole
del console. Infatti sulla via Principalis sfociano, a distanze regolari, cinque vie ad essa
perpendicolari, quella centrale tra loro taglia in due il campo nel senso longitudinale separando le
due legioni. Essa incrocia la via Principalis nel mezzo, formando con essa una T, esattamente
davanti al Praetorium ed è detta perciò via Praetoria. Sui lati di queste vie si affacceranno le tende
dei vari reparti alloggiate in strisce verticali simmetriche, della stessa lunghezza, intorno ai 300 m
circa, e larghe circa 30, dette strigae.
Polibio assicura: “Sono operazioni veloci: la misurazione è facile perché tutti gli intervalli sono
predeterminati e abituali”. Ogni striga verrà suddivisa in dieci quadrilateri della stessa lunghezza
destinati ai dieci reparti di cui è costituito ciascuno dei quattro corpi della legione, tre di fanteria e

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uno di cavalleria. Le vie tutte rettilinee e della stessa ampiezza permettono un facile accesso ai vari
reparti.

Arrivando sul posto, nonostante la vastità della superficie, i soldati non si smarriscono, ma come
dice Polibio: “Quando le legioni si avvicinano e abbracciano il campo con lo sguardo, subito ogni cosa è
nota a tutti, perché intuiscono e calcolano tutto dal vessillo del comandante. Ciascuno sa bene in quale
strada e in quale punto di essa piantare la tenda, poiché tutti occupano sempre lo stesso posto
dell’accampamento … similmente a chi entra nella propria città e, passate le porte, raggiunge
infallibilmente la propria abitazione”.
Per segnalare ai legionari la disposizione del campo sul terreno agli agrimensori basta rizzare
alcune insegne di colore diverso in alcuni punti strategici e piantare file di lance a indicare i
rettilinei delle vie, parallele e perpendicolari tra loro.
Lo sventolare di un vessillo bianco segnala il centro del praetorium, cioè dello spazio riservato alla
tenda del console e ai suoi annessi, un quadrato di almeno 3600 mq, che costituiva il quartiere
generale e il punto di riferimento per la costruzione dell’intero campo.
La posizione è ben scelta, per controllare la grande area e trasmettere facilmente gli ordini a tutti i
reparti. A cento piedi dal vessillo bianco ne è piantato uno rosso che segnava il lato del quadrato
pretorio posto di fronte al futuro accampamento. Più oltre a 50 piedi di distanza un secondo vessillo
rosso segna l’ampiezza (15 /18 m) della striscia riservata alle tende degli ufficiali superiori, tribuni
e prefetti, che devono alloggiare vicino al console, pronti ai suoi ordini,. Le loro tende si affacciano
sulla via Principalis, ampia cento piedi (circa 30 m). A questa distanza è piantato, di fronte al
secondo, un terzo vessillo rosso che segna il limite della via e l’inizio delle strigae, le fasce
parallele estese nel senso della lunghezza del campo, che ospitano gli alloggiamenti dei legionari.
Le quattro vie verticali parallele alla via Praetoria, due alla sua destra due alla sinistra, dividono le
strigae simmetriche delle due legioni. Le due vie esterne separano l’ultima striga di ciascuna
legione dalla prima striga dei due contingenti alleati, posti simmetricamente sui lati esterni. Le teste
delle strigae delle legioni sono poste di fronte alle tende dei 12 tribuni militari. Ai loro lati le teste
delle strigae degli alleati sono di fronte alle tende dei 12 prefetti.
In questo modo il console, i tribuni e i prefetti da una posizione dominante hanno il controllo dei
sottostanti alloggiamenti e convocano agevolmente l’adunata della truppa sulla via Principale posta
davanti alle loro tende.
I comandanti assegnano ai centurioni i vari compiti da svolgere secondo turni prestabiliti. I
centurioni distribuivano i loro uomini nelle diverse mansioni. Alcuni reparti montavano la guardia
ai bagagli e agli animali, radunati in un posto sicuro, squadroni di cavalieri rinforzati da manipoli di

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fanti erano pronti a intervenire in caso di attacco. Migliaia di soldati, distribuiti sul perimetro
dell’area, scavavano il fossato difensivo e con il materiale di risulta erigevano il terrapieno sopra il
quale assi di legno appuntite formavano uno steccato tenuto insieme e rinforzato da pali. Intanto si
erigevano torrette di guardia presso le quattro porte del campo e lungo il perimetro. Ogni lato del
perimetro era assegnato al controllo di tribuni e prefetti.
Intanto squadre scelte montano la prima tenda del campo, il padiglione del console, e subito dopo
le tende di tribuni e prefetti.
Solo dopo aver svolto le svariate attività collettive i soldati potevano pensare alle loro tende.
Lungo la via Praetoria si affacciano simmetricamente le tende delle turmae, gli squadroni dei
cavalieri, alle loro spalle sono accampati i manipoli dei triari, i fanti veterani della retroguardia,
affacciati su una via parallela alla pretoria, che li divide dai principes, il corpo intermedio di
fanteria. Alle spalle dei principes sonno accampati gli hastati, i fanti di prima linea.
Costoro si affacciano sulla via longitudinale esterna che li separa dal contingente degli alleati. I
socii, gli alleati, erano ospitati in due ampie strigae della stessa lunghezza delle altre. Tra i loro
alloggiamenti e la cinta difensiva è lasciato un intervallum, una fascia di rispetto di duecento piedi
(70 m circa), il quale agevola i movimenti della truppa e garantisce alle tende una buona sicurezza
dal lancio di frecce e proiettili dall’esterno.
Dieci sono gli squadroni di cavalleria e altrettanti i manipoli dei tre corpi di fanteria di ciascuna
legione. Poiché ciascun reparto occupava sempre la medesima estensione in lunghezza, gli intervalli
tra i reparti erano sempre gli stessi. Per chi guarda il pretorio dalla via principale, la prima legione è
a sinistra e la seconda a destra. Ogni striga è formata dagli spazi di dieci reparti, allineati in
successione longitudinale dal primo al decimo. Gli alloggiamenti dei quinti reparti erano separati
dai sesti dal percorso della via detta appunto Quintana che tagliava a mezzo la via pretoria e le sue
parallele.
Orientarsi era facile, ad esempio un soldato appartenente al terzo manipolo degli hastati della
prima legione, ponendosi davanti al pretorio dalla via principale aveva a sinistra la propria legione,
gli bastava raggiungere la quarta striga, quella degli hastati e poi scendere lungo la via antistante
fino al terzo settore, quello del manipolo di appartenenza.
Il campo montato assumeva insomma l’aspetto di una città ben pianificata, del resto da un
impianto molto simile prendevano origine le colonie fondate da Roma.
Questa descrizione di Polibio si riferisce a situazioni ottimali, non sempre i luoghi e i tempi a disposizione
permettevano di costruire un accampamento perfettamente regolare.
La disciplina del campo.

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Al calar della sera il tribuno incaricato consegna agli addetti (tesserarii) la parola d’ordine per la notte,
scritta su tavolette contrassegnate (tesserae), ognuna delle quali deve fare un certo percorso, passando di
mano in mano tra i vari comandanti di manipolo, dalla decima fila su fino alla prima, per essere poi
riconsegnata al tribuno, il quale si assicurava così che tutti i reparti siano avvertiti.
I cavalieri sono incaricati delle ronde notturne, controllano i picchetti e i posti di guardia a ogni turno e
ritirano il contrassegno affidato a ciascuna sentinella. Tutte le mattine, all’alba, centurioni e cavalieri si
recavano a rapporto davanti alla tenda del proprio tribuno nella via principale: se manca un tassello, si
avvia un’inchiesta: il soldato colpevole è costretto a passare tra due file di commilitoni che lo bastonano
spesso a morte perché egli ha tradito la loro fides, la fiducia e se sopravvive è comunque finito, condannato
a eterna ignominia.

- Procedura di deduzione di una colonia


La fondazione o meglio la deduzione di una colonia era un’operazione complessa ma collaudata da
una lunga pratica, essa rientrava nell’ambito della politica estera ed era quindi di competenza del
senato, che tramite un senatus consultum, individuava la località in cui fondare la nuova città , il
territorio ad essa pertinente e il numero di coloni da inviare, dando così inizio alla procedura.
In seguito, dato il forte interesse che aveva nella cosa, anche la plebe fu coinvolta nella decisione:
un tribuno della plebe si assumeva il compito di trasformare l’indirizzo del senato in una proposta di
legge che doveva essere presentata e approvata dai comitia plebis tributa. Quindi si eleggeva una
commissione di tre membri, di solito ex magistrati, i triumviri (o tresviri) coloniae deducendae.
Costoro dopo la pubblicazione del bando di iscrizione, riservato a capifamiglia con un valido
passato militare, valutavano le richieste degli interessati, tenendo conto anche delle immancabili
raccomandazioni.
I triumviri prima di dedurre la colonia procedevano ad una ricognizione dell’ampia superficie di
ager publicus assegnata alla nascente comunità. Essi erano accompagnati da una scorta armata e da
un reparto di genieri militari comprendente i mensores (misuratori) o gromatici, geometri
professionisti arruolati nell’esercito, i quali misurando il territorio con la groma, il loro strumento
principale, ne tracciavano una pianta accurata, che permetteva di organizzare il futuro insediamento
e la superficie agricola di pertinenza.

- La groma

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La divisione della terra in appezzamenti da assegnare ai coloni veniva realizzata con precisi e
collaudati metodi, usati anche nella pianificazione della città, da agronomi professionisti, detti
gromatici, dal nome del loro strumento semplice e geniale detto groma, che permetteva di
tracciare sul terreno linee rette e perpendicolari tra loro.
Si trattava di un paletto robusto, dotato di una punta ferrata da piantare nel terreno; sopra vi
era un braccio metallico, parallelo al terreno, da una parte innestato sul paletto e terminante
all’altra estremità con un perno girevole sul quale era fissato il centro di una croce orizzontale
di legno o ferro con i due bracci esattamente uguali. Dalle quattro estremità della croce
pendevano altrettanti fili tesi da pesi di piombo, che permettevano di posizionare la groma in
modo perfettamente perpendicolare al terreno, allora, traguardando la coppia di fili di un
braccio, si otteneva un allineamento in un senso e traguardando l’altra coppia si aveva un
allineamento ortogonale al primo. Bastava quindi piantare a distanze regolari dei picchetti
esattamente allineati ai fili a piombo per tracciare rettilinei che si incrociavano
ortogonalmente, ad angolo retto.

- Le nuove città, urbanistica delle colonie


Intorno al VI secolo molte colonie greche della Magna Grecia e della Sicilia erano state fondate
seguendo uno schema urbanistico, una specie di “piano regolatore”, poi rivisitato e applicato anche
dagli Etruschi e infine elaborato in forma teorica dall’architetto greco Ippodàmo di Mileto nel V
secolo. Probabilmente i Romani non conobbero tale teoria, ma in qualche modo indiretto ne furono
influenzati. Essi infatti non lasciarono lo sviluppo urbano alla spontanea iniziativa delle nuove
comunità ma applicarono sistematicamente lo schema modificandolo con delle varianti per adattarlo
alle loro esigenze.

Le città greche
Nel mondo greco antico e nella stessa Atene lo sviluppo delle città avveniva in modo piuttosto
disordinato. Le esigenze sociali trovavano spazio in alcune aree non pianificate, ma determinate da
consuetudini consolidatesi nel tempo: sull’acropoli sorgevano i templi, il popolo si radunava su una certa
collina per discutere e deliberare, su un’altra collina si riuniva il tribunale, un’ampia zona in piano
diventava l’agorà, la piazza del mercato.
L’edilizia privata si sviluppava in modo piuttosto casuale, in genere i proprietari costruivano le case a
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loro piacimento senza rispettare regole precise, le strade venivano tracciate dopo, costrette a percorsi
tortuosi, di larghezza variabile, con curve e strettoie irrazionali.
Un cambiamento avvenne quando le città greche fondarono colonie in varie aree del mediterraneo, in
Asia Minore, ma in particolare in Occidente, nella penisola italica e in Sicilia. Queste città che nascevano
da zero su principi di uguaglianza si prestavano ad essere programmate, così molti dei fondatori le
progettarono razionalmente, per il loro buon funzionamento e la concordia interna , dividendo la
superficie in “democratici” isolati regolari.
Il modello che prevalse prevedeva alcune strade principali destinate al traffico intenso, larghe circa
una decina di metri, parallele e molto distanziate tra loro, raccordate trasversalmente da vie più strette
di collegamento interno. Questa rete viaria delimitava una griglia di lunghi e stretti rettangoli, paralleli e
uguali tra loro (col rapporto tra lato minore e maggiore di 1 a 4 o a 5) che formavano gli isolati edificabili
divisi in lotti abitativi, come rivela la forma più antica della città rintracciabile a Napoli. Erano questi i
quartieri residenziali, distinti da una zona di solito centrale, dedicata alle attività sociali e mercantili,
dove sorgeva l’agorà, i templi e i loro annessi avevano spazi riservati. Lo si vede chiaramente nella pianta
di Metaponto e soprattutto di Poseidonia (la Paestum romana).

La città ippodamea
L’architetto greco Ippodamo di Mileto, vissuto nel V secolo a. C., studiando questi impianti urbanistici
coloniali, arrivò a teorizzare una città ideale, progettata razionalmente, costituita da quartieri impostati
su scacchiere di isolati uguali, di forma rettangolare molto più corta delle colonie greche, suddivisi da
una rete viaria con successione simmetrica di vie parallele ed equidistanti tra loro, incrociate da altre
perpendicolari.
Non conosciamo testi di Ippodamo, secondo la testimonianza di Aristotele egli non si occupava solo di
urbanistica, ma anche di assetti costituzionali e di ripartizione del territorio agricolo extraurbano. La sua
visione era utopica, per lui la città ideale non superava i 10.000 abitanti, divisi in tre classi, soldati,
contadini e artigiani. Doveva esserci netta distinzione tra le zone residenziali private e quelle pubbliche,
sociali, mercantili e religiose.
Egli divenne famoso come urbanista quando fu incaricato, forse da Pericle, di pianificare il Pireo, che
non era solo il porto di Atene, ma una vera e propria città portuale piuttosto caotica, affacciata su tre
insenature. Ippodamo assegnò la più grande ai traffici commerciali e le altre due alle navi da guerra
necessarie all’impero ateniese. Sembra che Pericle in seguito lo incaricò del progetto di fondazione della
colonia di Thuri in Calabria, vicina a Sibari, che doveva essere non solo ateniese ma panellenica, aperta
cioè a tutte le stirpi greche.
L’impianto ippodameo fu poi applicato a molte città ellenistiche, tra cui Alessandria d’Egitto.
Lo schema ortogonale usato dai Greci nelle loro colonie italiche fu ripreso anche dagli Etruschi e

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reinterpretato sulla base delle loro conoscenze astronomiche e religiose. Da essi e dalle colonie greche
lo appresero i Romani, modificandolo per fondare le loro colonie, e ne misero a punto una variante
adatta alla costruzione degli accampamenti militari, trasformandoli in piccole città.

Gli architetti romani preferirono lo schema urbanistico a scacchiera con vie equidistanti tra loro
in modo da dare agli isolati abitativi una forma pressoché quadrata. Faceva eccezione il rettangolo
allungato del foro individuato dall’incrocio delle due uniche vie principali, il cardo e il decumano
massimi.
Le colonie romane, fondate tra il IV e il III secolo, centri abitati di piccole dimensioni, privi di
autogoverno e dipendenti in tutto e per tutto da Roma, non avevano necessità di edifici pubblici, se
si escludono quelli religiosi, quindi non in esse esisteva un vero foro, come si vede nelle piante
originarie di Ostia, Anzio, Terracina e altre coloniae maritimae. Invece nelle popolose colonie
latine, economicamente vivaci e autonome in politica interna, il foro era una grande piazza, capace
di accogliere per lo meno la popolazione adulta maschile, era il cuore pulsante di tutta la vita
pubblica cittadina, in cui si svolgevano i riti religiosi, i comizi politici, i mercati, si stipulavano i
contratti legali, si celebravano i processi. Sui lati del foro con lo sviluppo della colonia sorgeranno
gli edifici pubblici cittadini, il tempio principale, la curia del senato cittadino, il comizio
dell’assemblea popolare, la basilica.
Durante la guerra annibalica Roma aveva rafforzato il controllo dei mari e le colonie romane
marittime andarono perdendo la funzione militare di controllo costiero. Ostia, originariamente un
castrum, un accampamento fortificato, sviluppò una importante funzione portuale per gli imponenti
rifornimenti necessari a Roma e si espanse notevolmente al di là delle mura divenendo una vera
città.
La contemporanea sottomissione dei Celti padani fece venir meno la necessità di fondare colonie
latine, le ultime furono Aquileia (183) al confine istriano e Lucca (180) vicina al confine con i
Liguri. D’altra parte i cittadini romani non erano più disposti a trasferirsi in una colonia latina
rinunciando alla piena cittadinanza, né ad accontentarsi delle misere assegnazioni spettanti alle
colonie romane.
In seguito furono fondate solo colonie romane, ma con diversi criteri, a cominciare da Luni, sul
fiume Magra dopo la deportazione dei Liguri Apuani, nel cui territorio furono inviati 2000 coloni
provenienti da Roma con 52 iugeri (13 ettari ) di terra a testa, quantità di popolazione ed estensioni
non diverse da quelle di una colonia latina. Così la distinzione tra i due tipi di colonia venne meno.

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La groma e i gromatici
La groma permetteva ai mensores (misuratori), o gromatici di determinare un crocicchio, detto
compitum (da cum-petere, giungere insieme, convergere) in cui convergevano due vie perpendicolari tra
loro. Il compitum nella religione degli avi aveva un valore sacro, era protetto da divinità dette Lares
compitales, a cui in molti crocicchi tanto in città quanto in campagna erano dedicati altari protetti da
edicole, tradizione poi ripresa dalle cappelline della religiosità popolare cristiana.
Nel segnare sul terreno la pianta del futuro abitato, gli architetti fissavano il compitum più importante in
cui si dovevano incontrare le due vie principali della città, qui sarebbe sorto il foro, la grande piazza nella
quale si concentrava la vita economica, politica e religiosa dei cittadini, qui si svolgevano gli antichi riti di
fondazione per propiziare la benevolenza degli dei e purificare il luogo da ogni influenza negativa e
probabilmente uno dei tresviri fondatori, in qualità di sacerdote augure, presiedeva la cerimonia. Qui
veniva piantata la groma, per mezzo della quale, si tracciavano le due rette perpendicolari, corrispondenti
al decumano e al cardo massimi che incrociandosi tra loro suddividevano la superficie cittadina in quattro
grandi quadranti, poi ulteriormente suddivisi da cardi e decumani minori in quadranti più piccoli fino a
formare gli isolati indispensabili all’urbanizzazione.
L’orientamento della città rispecchiava inizialmente la concezione religiosa etrusca: gli auguri etruschi,
sacerdoti ed esperti astronomi, intendevano trasferire sulla terra il divino ordine cosmico del cielo, nel
delimitare lo spazio si basavano sul corso del sole e sulla stella polare. Il decumano aveva un preciso
andamento est ovest basato sul sorgere e il tramontare del sole il giorno dell’equinozio e il cardo ad esso
perpendicolare prendeva nome dal cardine attorno al quale ruotava la volta celeste, indicato dalla stella
polare. La mentalità pragmatica dei Romani rese poi più flessibili le rigide regole etrusche adattandole alle
situazioni concrete, determinate dall’andamento del terreno, dalla presenza di fiumi, di colli, o di altri limiti
naturali, per cui spesso il decumano prendeva un orientamento spostato di alcuni gradi rispetto alla linea
dell’equinozio, oppure prendeva come direttrice l’importante via consolare lungo la quale sorgeva la città.

Il mensor si poneva dietro la groma e ruotava lentamente la croce gromatica allineandone un braccio con
il punto sull’orizzonte scelto come riferimento. Traguardando con l’occhio aggiustava la mira finché i fili a
piombo posti uno davanti all’altro alle due estremità del braccio non si sovrapponevano come un unico filo
perfettamente allineato col punto prescelto.
A questo punto il geometra dava a un assistente indicazioni per piantare nel terreno una serie di paletti
regolarmente distanziati ed esattamente in linea con la direttrice della groma, che corrispondeva alla prima
metà del decumano massimo. Ponendosi poi dalla parte opposta della groma tracciava nella stessa
direzione la seconda metà della via. Infine traguardando i fili dell’altro braccio della croce gromatica
tracciava la direttrice perpendicolare del cardo massimo.

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Alla distanza (una settantina di metri), in cui era previsto l’incrocio del decumano massimo con il primo
cardo minore si piantava un’altra groma allineata con la prima e si tracciava il cardo minore parallelo a
quello massimo. Così si procedeva lungo il cardo massimo negli incroci con i decumani minori, ciò rendeva
possibile tracciare un reticolo viario di decumani paralleli tra loro e perpendicolari ai cardi che suddivideva i
quattro grandi quadranti in tanti quadrilateri che formavano una struttura uniforme a scacchiera.
Cardi e decumani tagliandosi tra loro ad angolo retto e a distanze regolari delimitavano così gli isolati di
forma quadrata o lievemente rettangolare, con lati variabili tra m 71 e 75 (5040-5570 mq),
facilmente divisibili in lotti edificabili, sui quali provvisoriamente ci si accontentava di rizzare delle tende,
mentre sui confini, a difesa dell’urbanizzazione si ergeva per il momento un terrapieno sormontato da una
palizzata, la città in muratura sarebbe sorta poi in breve tempo, nel giro di due o tre anni.

- Centuriazione dell’agro
I gromatici iniziavano nel frattempo anche la limitatio, la misurazione, del vicino agro pubblico assegnato
al sostentamento della nuova comunità. Questo vasto territorio era stato confiscato a una popolazione
sconfitta e costretta a patti di obbedienza a Roma, a garanzia dei quali avrebbe vigilato d’ora in poi la
presenza della colonia stessa.
Il territorio rurale doveva essere parcellizzato, razionalmente suddiviso per essere assegnato ai singoli
coloni, il metodo adottato era analogo a quello usato per la città, su dimensioni ovviamente molto
maggiori, e prendeva appunto il nome di centuriazione.
Anzitutto i tresviri, dopo accurata ispezione dei luoghi, procedevano a seconda delle situazioni, alla
bonifica, al disboscamento e al consolidamento dei terreni, per renderli effettivamente coltivabili, venivano
scavate opere di canalizzazione sia per drenare le acque in eccesso, sia per irrigare le campagne e si
costruivano terrapieni per arginare i corsi d’acqua. Poiché i canali correvano lungo le strade della
lottizzazione anche l’orientamento e il tracciamento di queste tenevano ovviamente conto della
conformazione del terreno.
Gli agrimensori, a partire da un centro detto umbilicus, ombelico, traguardando i fili a piombo delle grome
e piantando a terra serie di picchetti a distanza prefissata, tracciavano i due assi stradali principali
dell’intera area, lunghi alcuni Km: il decumano e il cardo massimi, rettilinei e perpendicolari uno all’altro.
Quindi tracciavano a distanza regolare una serie di decumani e cardi paralleli ai primi, fino a ritagliare le
centurie, quadrati di 20 actus, 710 m, di lato, dieci volte la misura degli isolati cittadini, per una superficie di
circa 50 ettari. I quadrati erano detti centurie, perché venivano suddivisi da una fitta rete di cardi e
decumani minori in cento unità, dette heredia (proprietà ereditabili), di due iugeri ciascuna, corrispondenti
a un medio campo di calcio (circa 5050 mq).

Le suddivisioni urbana e agraria in un graffito su mattone

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Lungo la strada che da Verona porta a Legnago in località Pozzo fu rinvenuto un mattone di un tipo
sesquipedale (1 piede e mezzo x 1 piede) cioè di grandi dimensioni e piccolo spessore, lungo non molto
meno di mezzo metro (41 cm), largo quasi 30 cm e spesso 5/6 cm, provvisto di incavo a maniglia per
facilitare il trasporto. Su di esso, però, era stata incisa a fresco (prima della cottura) a grandi lettere la
seguente strana iscrizione, davvero unica:
URB / ACT / RIIG / PAG / IUST / CC XX
che l’epigrafista veronese Ezio Buchi ha così interpretato:
URB<ANUS> / ACT<US> / REG<IONI> / PAG<IS> / IUST<US>,
sembra una specie di promemoria, attestante che l’actus cittadino è valido anche per la regione
(extraurbana) e per i pagi, o distretti rurali.
L’ actus, modulo dell’agrimensura romana, lungo 120 piedi (35,52 m) è collegato al verbo ago, nel suo
originario valore di “guido, spingo animali col pungolo”, nell’arcaica tradizione contadina era il tratto di
solco arato da una coppia di buoi con un colpo di pungolo stimolati una sola volta con il pungolo.
L’actus quadratus ha una superficie di 14400 piedi (1260 m quadri, circa un ottavo di ettaro).
Sommando due actus quadrati si ottiene uno iugero, superficie fondamentale nelle assegnazioni di ager
publicus, due iugeri formano un heredium, (il campicello ereditabile assegnato, secondo la tradizione, da
Romolo ai primi abitatori di Roma). Duecento iugeri costituiscono una centuria, unità fondamentale di
suddivisione agraria, ciò spiegherebbe il numero CC (200) dell’iscrizione, il numero XX (20) può essere
invece la misura del lato della centuria, un quadrato il cui lato è lungo appunto 20 actus ovvero m 710.
Abbiamo qui una conferma della corrispondenza tra centuria urbana e agraria, da notare che un isolato
cittadino era circa mezzo ettaro, corrispondente ad un heredium agrario, un quadrangolo formato
dall’unione di quattro actus, con 71 m di lato (un decimo esatto del lato della centuria).

- Assegnazione dei lotti e mappe catastali


Terminata la centuriazione si procedeva ad assegnare le proprietà terriere.
Ai coloni veniva assegnato un ugual numero di iugeri, per lo più essi erano pedites , cioè fanti, appartenenti
alle classi popolari, ma se tra loro vi era una ristretta minoranza di equites, cavalieri, distinti per il censo
superiore, a costoro veniva assegnata una quota molto più generosa, come nel caso di Aquileia sopra
ricordato.
I lotti erano chiamati sortes, perché assegnati per sorteggio, il quale poteva suscitare nei meno fortunati,
malumori e invidie, sui quali però prevaleva la coesione sociale e inoltre, a differenza del terreno diseguale
centro italico e preappenninico, la pianura padana si adattava molto bene alla centuriazione, prestandosi
assai meno ad ingiustizie.
Nelle grandi estensioni della pianura del Po infatti la centuriazione trovò la sua applicazione ideale,
modificando il paesaggio in modo veramente efficace e duraturo, al punto che ancor oggi ne sono

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riconoscibili le tracce nella viabilità e nella canalizzazione di molte campagne emiliane, lombarde e venete,
come si vede chiaramente nelle mappe, nelle fotografie aeree e con i sofisticati sistemi attuali di
telerilevamento radiometrico o con radar e laser.
Le proprietà assegnate, venivano inserite dagli agronomi in un catasto rurale, che aveva valore giuridico e
fiscale, per determinare il censo dei proprietari e le imposte sui terreni.
Il catasto cartaceo su papiro, essendo un documento molto importante e sensibile per i singoli cittadini e la
società, veniva poi trascritto su materiale più duraturo e resistente, su tavole di bronzo o pietra dette
formae per il tabularium l’archivio cittadino di cui una copia veniva spedita al tabularium statale, l’archivio
centrale di Roma, che faceva fede per ogni eventuale lite o contestazione.
Accanto al catasto rurale veniva redatto anche un catasto cittadino, detto forma urbis. Purtroppo i catasti
urbani in genere sono scomparsi, ma sono stati ritrovati per una insperata fortuna estesi frammenti della
forma urbis di Roma, in marmo.

- Contemporaneo processo di costruzione della città


Con la coltivazione dei lotti agricoli la colonia iniziava ad essere autonoma. Intanto nel centro abitato la
palizzata veniva progressivamente sostituita da un’alta cinta di mura turrite, nella quale si aprivano le porte
fortificate, allo sbocco delle vie principali. In Pianura Padana il materiale da costruzione più facile da
reperire era l’argilla, per questo si allestivano nei dintorni fornaci per produrre la grande quantità di
mattoni indispensabile. La cinta muraria, man mano che prendeva forma con le sue torri e le porte urbiche
simili a fortini, infondeva un senso di orgogliosa sicurezza nei coloni e stupore misto a timore nelle vicine
popolazioni, tra i potenziali nemici.
Accanto alla costruzione imponente della cinta muraria, si procedeva ad un lavoro umile e nascosto, ma
che i Romani ritenevano fondamentale, un vero e proprio “fondamento” per una vita davvero civile. Dagli
Etruschi essi avevano appreso l’importanza dell’igiene urbanistica e la tecnica di costruzione della rete
fognaria, per questo lungo il tracciato delle strade e sotto di esse venivano accuratamente scavate le
canalette fognarie e le cloache con la giusta pendenza per il deflusso delle acque.
Probabilmente i lavori erano organizzati per squadre, che lavoravano a turno in modo che ai coloni fosse
possibile seguire anche la coltivazione del proprio podere, oltre che la costruzione della città. Erano
ovviamente previsti anche turni di sorveglianza armata per difendere la comunità coloniale da possibili
attacchi e incursioni.
La vita dei coloni non era pacifica: a volte, durante la stessa fondazione o subito dopo, essi dovevano
difendersi dagli attacchi del popolo in cui era posta, che vedeva nella colonia un corpo estraneo, simbolo
della prepotente supremazia di Roma, come accadde ai coloni latini di Alba Fucens che difesero
coraggiosamente la loro città contro gli Equi nel 303 (Livio, X, 1). Lo stesso capiterà quasi un secolo dopo
alle colonie di Piacenza e Cremona, assalite dai galli Insubri durante la guerra annibalica (Livio XXVIII, 11).

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Nasce la nuova città
L’assegnazione dei lotti e la costruzione delle case avveniva occupando inizialmente gli isolati
attorno al grande spazio del foro. Man mano che gli abitanti fossero cresciuti, nuove abitazioni si
sarebbero aggiunte, in modo ordinato, negli isolati vuoti, rimasti disponibili tra la zona centrale e le
mura. Nel frattempo le strade sarebbero state lastricate di pietre e dotate di marciapiedi rialzati,
sotto i quali si aprivano bocche di lupo per lo scolo delle acque.
I lati del foro si sarebbero col tempo arricchiti di edifici pubblici, religiosi e civili, portici e
negozi. In quartieri decentrati sarebbero sorte le terme, confortevoli bagni pubblici, e grandi edifici
da spettacolo, teatro, anfiteatro e odeon.
Sul fronte stradale si sarebbero affiancate l’una all’altra le facciate delle casette popolari a
due locali sovrapposti, sostituendo le iniziali abitazioni provvisorie dei coloni. Spesso il piano
superiore era dotato di un balcone e sul retro della casa c’era un cortile interno. Le costruzioni
erano sostenute da robuste travature di legno tamponate da mattoni, pietre o ciottoli, uniti da
malta.
Sarebbero sorte anche le eleganti domus, estese 400/500 mq, costituite da un quadrilatero in
robusta muratura, chiuso all’esterno, tranne qualche alta finestrella e suddiviso in numerose
stanze poste attorno ad un atrio o cortile interno da cui prendevano luce e aria. Un largo
corridoio interrotto a metà da un robusto portone comunicava con l’esterno sulla via
principale, cui si aggiungeva di solito una porticina di servizio, posta su un altro lato.

- Autonomia e governo oligarchico della colonia


Roma esportava nelle colonie il suo modello di stato oligarchico. I tresviri coloniae
deducendae, i tre politici eletti dal popolo di Roma per fondare una colonia, erano forniti di
imperium, il potere assoluto pari a quello dei consoli e con apposita legge dettavano lo statuto che,
con alcune varianti specifiche per ogni colonia, si rifaceva a uno schema generale. In particolare gli
organismi politici ricalcavano quelli romani: alla collegialità dei due consoli corrispondeva la
coppia dei duoviri (o duumviri) iure dicundo, con la doppia funzione di governanti della città e
giudici presidenti del suo tribunale , ad essi si aggiungevano due aediles, responsabili
dell’urbanistica e dei mercati e i quaestores, amministratori del patrimonio, tutte cariche elettive di
durata annuale.
Al senato corrispondeva l’ordo decurionum, il consiglio formato da un certo numero (fino a
cento) di decurioni, gli uomini più influenti e facoltosi della città che, come facevano i senatori a
Roma, si riunivano nella curia sotto la presidenza dei duoviri, per discutere e decidere mediante i

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loro decreti le scelte riguardanti la vita politica della città e finanziare le relative spese. V’erano
infine i comitia tributa, l’assemblea su base territoriale di tutti i cittadini, alla quale i candidati
presentavano i loro programmi elettorali per essere votati alle varie cariche.
Nella fase iniziale di vita della colonia i decurioni erano nominati a vita dai tresviri fondatori,
sulla base di una duplice dignitas, censo elevato e moralità, successivamente in caso di morte o di
indignitas venivano integrati ad opera dei duoviri, i quali provvedevano a un rigoroso censimento
della popolazione ogni cinque anni. I decurioni dovevano risiedere in città o ad una distanza
massima di un miglio, in una casa ampia e decorosa, in cambio godevano di privilegi, tra cui posti
riservati in prima fila al teatro.
Si trattava di una costituzione marcatamente oligarchica, che consegnava il potere in mano ai
ricchi decurioni, dei cui decreta o sententiae i duoviri erano gli esecutori e ai decurioni essi
dovevano rispondere del loro operato a fine anno, in caso positivo potevano essere cooptati nel
consiglio dei decurioni e acquisire la piena cittadinanza romana.
Di solito al compimento del terzo anno cessava l’incarico dei triumviri e la comunità acquisiva la
sua autonomia, la colonia latina costituiva infatti una città stato, con governo, legislazione e
tribunali propri e poteva persino battere moneta, dipendeva da Roma solo in politica estera e
nell’obbligo di fornire su richiesta soldati e rifornimenti militari.

- Gli ultimi ostacoli alla romanizzazione della pianura padano-veneta


Annibale si era abilmente presentato come liberatore dei popoli padani dal dominio di Roma,
rinfocolandone l’odio e il desiderio di rivalsa e indipendenza. I Celti e i Liguri anche se tra loro non
correva buon sangue s’erano uniti contro il comune nemico, avevano creduto in Annibale e
combattuto valorosamente al suo fianco, cadendo a migliaia in battaglia. La sconfitta cartaginese
non aveva spento le loro speranza, né attenuato il forte sentimento antiromano che li animava.
In quel decennio quasi ad ogni primavera rinasceva una coalizione di Celti contro Roma.
Immancabilmente nel confronto con le legioni essi avevano la peggio subendo gravi perdite o nel
migliore dei casi non ottenevano qualche risultato tangibile. Nonostante ciò la gioventù celtica non
desisteva dai tentativi di rovesciare la situazione.
Nel 200 a. C., due anni dopo il disastro subito da Cartagine a Zama, Amilcare, un generale
cartaginese rimasto in Italia in incognito, riuscì a coalizzare le sacche di resistenza celtiche e liguri
formando un esercito che entrò di sorpresa in Piacenza mettendola a ferro e fuoco e si diresse poi su
Cremona che fece in tempo a chiudersi nelle mura fino all’arrivo da Rimini dell’esercito consolare.

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Tre anni dopo in una battaglia sul Mincio, tra Verona e Mantova gli Insubri, abbandonati da Boi e
Cenomani subirono gravissime perdite (Livio 32,30).
Strano è trovare tra i rivoltosi i Cenomani, di solito fedeli a Roma. Ma sembra dal racconto
liviano che i giovani cenomani avessero agito di testa loro senza consultare i capi e gli anziani, i
quali, in seguito alle rimostranze degli ambasciatori romani, li persuasero a cambiare idea.
Nel 196 la guerra si riaccese, i Boi dopo un iniziale successo, vedendo devastati i loro villaggi
furono costretti ad arrendersi, tranne i giovani guerrieri che si erano dati alla macchia. Gli Insubri
furono battuti presso Como e l’oppidum di Como loro alleato fu conquistato.
Il 194 fu un anno di scontri altalenanti, il più importante dei quali si risolse con un nulla di fatto:
uno dei consoli, in attesa del collega, si era attestato al confine del territorio dei Boi, che gli
andarono incontro e attaccarono contemporaneamente da tutti i lati l’accampamento romano,
creando tale scompiglio che a stento i legionari riuscirono a respingerli. La furiosa battaglia si
concluse con gravi perdite da entrambe le parti e con una ritirata dei due contendenti.
Nel 193 mentre i Liguri assediavano Pisa, i Boi si sollevarono nuovamente, il console L. Cornelio,
lasciato il collega a Pisa, si diresse a Modena fingendo di cadere nelle insidie dei Galli e
costringendoli invece a combattere in campo aperto.
La battaglia di Modena fu molto aspra e cruenta anche per i Romani, ma causò una strage tra i Boi
e mise la parola fine alla loro lotta per l’indipendenza. I celti, stremati da grandi perdite e
devastazioni e puniti con confische di territori, rinunciarono a una lotta impari.

Ripresa della colonizzazione padana


La tregua delle incessanti guerre celtiche favorì la ripresa della colonizzazione.
Nel 190 fu accolta la richiesta di Piacenza e Cremona di rimpiazzare con nuovi coloni la perdita
dei tanti deceduti nelle guerre o emigrati in luoghi più sicuri, perdita che aveva impoverito le due
colonie e impediva loro di fornire il consueto numero di soldati. Seimila capifamiglia furono
distribuiti equamente tra le due città con nuove assegnazioni di terre.
Il segno della sottomissione dei Boi fu la fondazione nel 189 di Bononia, Bologna, dove sorgeva
loro capitale, che era stata la Felsina degli Etruschi. con le generose assegnazioni di 12, 5 ettari ai
numerosi fanti e 17,5 ettari al ristretto gruppo dei cavalieri.
M. Emilio Lepido fu tra i suoi contemporanei il più convinto continuatore della politica di
Flaminio a favore dei piccoli proprietari e degli equites (i cavalieri), una classe sociale di medi
proprietari, imprenditori e appaltatori di imposte, attraverso le assegnazioni sia coloniali, sia
viritane (individuali) di ager publicus nella Gallia cispadana, collegate all’espansione economica
della regione. Ai grandi proprietari della classe senatoria che possedevano enormi estensioni di ager

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publicus questa politica non era gradita. Probabilmente per questo e non solo per rivalità personali
come riferisce Livio (38, 43) Emilio Lepido fu ostacolato dai suoi avversari che boicottarono per
due anni consecutivi (189-188) la sua elezione al consolato, finalmente egli fu eletto console per il
187 e si diede subito da fare.
Dopo una vittoriosa campagna contro i Liguri, realizzò in quell’anno una nuova strada militare,
che da lui prese il nome di via Emilia, un rettilineo ininterrotto che allacciandosi alla via Flaminia
partiva da Rimini e raggiungeva Piacenza. Il suo tracciato è rispecchiato dalla odierna statale.
Lungo la via Emilia egli fondò un centro abitato che fu chiamato Forum Lepidi o Regium Lepidi,
l’odierna Reggio Emilia, e nel 183 le colonie di Modena e Parma delle quali fu uno dei triumviri
fondatori.
Nel 173 (Livio 42, 4) troviamo Lepido alla testa dei decemviri incaricati di effettuare le
assegnazioni viritane, cioè date a singoli individui, di ager publicus ligure e gallico, nella zona di
Modena e Reggio. Un’assegnazione discreta di dieci iugeri (due ettari e mezzo) andò ai cittadini
romani e una davvero modesta di soli tre iugeri a latini e italici. Anche in questi casi lo strumento di
suddivisione dei lotti era la centuriazione che comprendeva opere di irrigazione e drenaggio.
I coloni singoli vivevano in abitazioni sparse nella campagna, che, però, facevano capo a un
conciliabulum, mercato e centro amministrativo della lottizzazione, dotato di un tempio e di edifici
comuni, posto sotto la giurisdizione di un praefectus inviato ogni anno da Roma.
Invece il termine Forum, originariamente “piazza, mercato di una città”, servì anche a
denominare un abitato con una vocazione essenzialmente commerciale, che nasceva per favorire lo
sviluppo di un territorio ed era fondato da un magistrato romano che ne diventava il patrono a Roma
e di cui portava il nome. Lungo la via Emilia oltre a quello di Lepido sorsero numerosi fora vicini
tra loro, Forum Livii, Forlì, Forum Popilii, Forlimpopoli, Forum Cornelii, Imola. Essi dimostravano
il grande interesse economico commerciale che la regione rivestiva per i Romani.

Guerre contro i Liguri


Domati i Celti, i problemi di controllo della pianura Padana non erano finiti, perché sulla sua
parte occidentale incombeva la variegata popolazione dei Liguri, anticamente padroni di un vasto
territorio, poi cacciati dall’arrivo dei Celti e confinati nella fascia pedemontana e preappenninica.
Insediati in tutto l’arco appenninico occidentale dalla Provenza alla Toscana, essi non costituivano
una nazione ma un insieme di popolazioni fiere e combattive, adattate a una vita difficile in un
territorio aspro, povero di risorse. Abituati a grandi fatiche e a muoversi con sorprendente agilità nei
gioghi appenninici, in periodi di carestia non esitavano a compiere incursioni e razzie nella fertile
pianura.

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Il proconsole L. Emilio Paolo, assediato dai liguri Ingauni in un campo trincerato tra le alpi
Marittime e l’Appennino, spronò i legionari a gettarsi fuori dalle quattro porte in una sortita
inaspettata, incitandoli a ricordare i nemici battuti da loro, tra cui gli stessi Liguri, “incalzati e
trafitti mentre fuggivano simili a capre tra dirupi boscosi” (Livio 40, 27). Il comandante voleva
instillare nei soldati disprezzo per il nemico, del quale però mette in luce involontariamente le
eccezionali doti atletiche.
Secondo Livio i Liguri erano i nemici più tenaci e inafferrabili, più dei celti il cui slancio focoso
aveva scarsa durata e più degli eserciti orientali abituati alle comodità e ignari del valore militare.
Non erano solo rudi montanari, i Liguri della costa conoscevano la tecnologia navale, erano abili
marinai e pirati temuti, in particolare gli Ingauni che avevano in Albenga, nel ponente, il capoluogo.
Al confine tra Toscana e Liguria, nel territorio dei Liguri Apuani, i Romani, divenuti dopo la
prima guerra punica padroni del Tirreno controllavano Pisa e Luni (da cui Lunigiana), porti da cui
passavano le spedizioni militari per il nord della Spagna.
Quando Annibale calò in Italia, molti popoli Liguri si schierarono con lui, militando da valorosi
in Italia. Alcuni lo seguirono come mercenari in Africa, combattendo a Zama.
Finita la guerra e la rivolta antiromana guidata dal cartaginese Amilcare, se ne stettero quieti per
un po’, ma improvvisamente nel 193 giunse al senato una lettera del prefetto di Pisa, secondo cui
ventimila liguri Apuani, calati dai monti, avevano razziato e devastato tutto il litorale di Luni e di
Pisa (Livio 34,56). Intanto attorno a Pisa, attratti dalla speranza di bottino, gli Apuani erano
diventati il doppio. L’arrivo del console Quinto Minucio salvò la città, ma non riuscì a capovolgere
la situazione, anzi negli scontri successivi l’esercito romano corse grossi rischi. Per ben due anni al
console fu prorogato l’imperium, senza che egli riuscisse a infliggere sconfitte decisive al nemico.
In seguito si aggiunsero nelle scorrerie anche i Liguri Friniati che vivevano sul versante
appenninico tra Modena e Reggio. Le vittorie riportate da vari consoli, tra cui Emilio Lepido, si
rivelavano parziali e non risolutive: i Romani erano costretti a tattiche di controguerriglia, poiché i
Liguri alla battaglia in campo aperto preferivano attacchi improvvisi e imboscate su terreno selvoso
e impervio.
Nel 186 un’intera legione, addentratasi in una boscaglia, fu sterminata, console e alleati compresi,
in un agguato teso dagli Apuani lungo il corso del Magra. Nel 185 entrambi i consoli furono inviati
in Liguria, uno con base a Pisa contro gli Apuani e l’altro nella Riviera di Ponente contro gli
Ingauni di Albenga, che erano insorti e solo tre anni dopo, sconfitti per terra e per mare, furono
costretti alla resa.
Gli Apuani ebbero i villaggi incendiati e si rifugiarono sui monti, ma non deposero le armi fino
alla primavera del 180, quando aspettandosi di non dover combattere fino all’entrata in carica dei

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nuovi consoli, furono invece sorpresi dall’attacco dei consoli dell’anno precedente, a cui si
aggiunsero quelli nuovi. Stretti tra due eserciti si arresero senza combattere. Il senato decise una
soluzione radicale: 40.000 guerrieri apuani con le loro famiglie furono deportati a spese dello stato
nell’ager publicus del Sannio tra Avellino e Benevento con assegnazione di un lotto di terra e un
contributo spese iniziali equivalente alla paga di dieci giorni di un legionario (Livio 40, 38 e 41).
Sul territorio a loro sottratto nel 177 fu dedotta la colonia romana di Luni alla foce della Magra con
generosa assegnazione ai 2000 coloni di lotti di ben 52 iugeri (13 ettari) su territorio sottratto ai
Liguri Apuani (Livio 41, 13).
Ormai solo poche tribù di Apuani indipendenti erano sopravvissute in vallate isolate.
Il cinquantennale conflitto con i Liguri si concluse del tutto solo nel 155, quando dopo un lungo
periodo di pace fu repressa l’ultima fiammata di insurrezione degli Apuani.

Quando non c’è un nemico ufficiale lo si inventa


Tra gli uomini politici romani c’era una forte competizione per il potere e la carriera o cursus
honorum , chi riusciva ad essere eletto console o pretore e ad ottenere un comando militare, cercava
di sfruttare l’occasione e di non lasciar passare l’anno del mandato senza compiere qualche impresa
a dimostrazione del proprio valore. Se non c’era un nemico reale si poteva sempre crearne uno, in
ciò aveva l’appoggio dei propri soldati e di una parte degli ufficiali che speravano nel bottino e non
volevano tornare a Roma a mani vuote. Nel 187 il console Emilio Lepido, mentre era impegnato in
pianura Padana nella costruzione della via Emilia, fu incaricato di svolgere un’inchiesta, in seguito
alle vibranti proteste presentate dai Galli Cenomani al senato contro M. Furio, pretore della
Cisalpina, che li aveva costretti all’umiliazione di consegnare le armi senza un vero motivo. Lepido
diede ragione ai Cenomani riconoscendo che M. Furio aveva provocato questi fedeli alleati di Roma
per aver la scusa di disarmarli e al pretore fu ordinato dal senato di riconsegnare le armi e di lasciare
la provincia.
Un episodio ben più grave accadde nel 173 ai danni di una popolazione ligure. Il console M.
Popilio rimasto solo a gestire la situazione militare della Liguria, perché il collega si era dovuto
recare in Campania, non essendo rimasti nemici da combattere, se la prese con i Liguri Statielli o
Statiellati, stanziati tra il Piemonte meridionale e l’appennino Ligure “che non avevano mai preso le
armi contro i Romani” (Livio 42, 8) e portò le sue legioni sotto le mura di Carystum, la loro
capitale, dove fu poi fondata Aquae Statiellae, l’attuale Aqui Terme. Inizialmente i Liguri se ne
stettero buoni all’interno delle mura, ma vistisi assediati e provocati, uscirono a battaglia,
impegnando i nemici in uno scontro duro e sanguinoso, a lungo indeciso. Alla fine ebbero la peggio

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subendo gravi perdite e si arresero. Il console si fece consegnare le armi, rase al suolo l’oppidum e
non contento confiscò e vendette i loro beni e gli stessi Statielli come schiavi.
A Roma tale comportamento disumano fu aspramente biasimato dal senato che impose al console
di riscattare gli schiavi e restituire le armi e i beni confiscati .
Popilio osò disobbedire e, condotti i soldati negli accampamenti invernali, si recò a Roma per
attaccare i suoi oppositori in senato. Non ottenne nulla, anzi gli fu rinfacciato che altri popoli Liguri
pacificati, a causa sua erano insorti in armi vedendo quanto era successo agli Statielli. Il senato
ordinò ad altri magistrati di riscattare i liguri dalla schiavitù e di assegnare loro, a titolo di
risarcimento, un territorio a nord del Po probabilmente tolto agli Insubri.
M. Popilio, sottoposto a processo, grazie all’appoggio del fratello Caio appena eletto console e a
un giudice compiacente riuscì con un artifizio giuridico a rinviare sine die la conclusione del
procedimento e la sentenza.

Guerre ai confini orientali della pianura padana


Mentre “pacificavano” Celti e Liguri a occidente i Romani pensarono anche alla parte orientale
della pianura Padana. I Cenomani di Brixia e Verona, rivali degli Insubri erano amici sicuri, più ad
est si trovavano i Veneti con capitale Ateste (Este) da sempre alleati fedeli, l’ultima parte della
pianura dal mare alle Alpi era abitata dal popolo dei Carni e la penisola istriana dagli Istri, popolo
marinaro dedito al commercio e alla pirateria, così come quello degli Illiri sulle coste rocciose della
Dalmazia.
I Romani nel decennio precedente la guerra annibalica, dopo aver subito danni ai loro commerci
marittimi da pirati Istri e Illiri, avevano sbaragliato le loro flotte, imponendo severe condizioni di
pace a queste nazioni. La venuta di Annibale aveva rimesso tutto in discussione, ma dopo la
sconfitta cartaginese Roma intendeva riportare il suo ordine.
Il varco di ingresso tra l’Adriatico e le Alpi era abitato com’era da popolazioni infide, occorreva
dunque porre un saldo presidio ai confini della pianura, senza penalizzare gli alleati Veneti. Allo
stesso tempo occorreva controllare l’alto adriatico e renderne sicure le rotte. Nel 181 fu così dedotta
nel territorio dei Carni, sull’estuario di un piccolo fiume, a poca distanza dalla penisola d’Istria, la
colonia di Aquileia. Essa fu dotata di una generosa assegnazione di agro pubblico, per attrarre i
coloni ad affrontare un trasferimento così lontano e pericoloso: i semplici fanti ebbero 50 iugeri
(12,5 ettari), i centurioni il doppio e i cavalieri ben 140 (35 ettari). Alla sua fondazione si opposero
fieramente gli Istri fin dall’inizio, provocando una guerra che si concluse senza esiti risolutivi. Le
ostilità ripresero nel 178: il console Aulo Manlio partì da Aquileia con il suo solo esercito, ponendo
il campo alle foci del Timavo, dove fu raggiunto da navi da carico affiancate dalle triremi di scorta.

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Mentre i Romani erano intenti a scaricare merci e rifornimenti per la campagna militare, gli Istri
guidati dal re Epulo attaccarono di sorpresa penetrando nell’accampamento e provocando il panico
con un fuggi, fuggi generale. Il disastro fu evitato solo perché gli Istri si dispersero nelle razzie,
rendendo possibile un fortunato contrattacco.
L’anno successivo i due nuovi consoli penetrarono con azione congiunta nell’Istria, mettendola a
ferro e a fuoco e ne posero sotto assedio la capitale, l’oppidum di Nesazio, una fortezza a est di
Pola, dove si era rinchiuso Epulo. Costui vistosi senza vie d’uscita, piuttosto di arrendersi si suicidò
con la sua corte, i superstiti furono venduti come schiavi. Nesazio fu poi ricostruita dai Romani, che
sottomisero tutta la penisola istriana.

Genua (Genova) e Aquileia


In quegli anni per contrastare la pirateria era stata creata la magistratura straordinaria dei quattro
duumviri navali, a una coppia di duumviri era assegnato il Tirreno e all’altra l’Adriatico. Ciascun
mare era poi suddiviso in area settentrionale e meridionale e ogni duumviro pattugliava una di esse
con dieci triremi.
Nella generale ostilità dei Liguri l’oppidum di Genua, Genova, era alleato di Roma, i Genuati
rimasero fedeli anche quando la maggior parte delle tribù Liguri si unirono ad Annibale. Genova
divenne un porto strategico, una base delle triremi romane per il controllo dell’alto Tirreno e del
sinus Gallicus (Golfo del Leone) lungo la rotta per Marsiglia e la Spagna e per questo fu distrutta da
Magone, fratello minore di Annibale nel 205 e ricostruita meglio di prima dai Romani nel 203.
In seguito Genua divenne una base della guerra navale contro i pirati liguri e uno scalo molto
trafficato e prospero per le merci trasportate sulle rotte tirreniche che, dopo la sottomissione della
Liguria, sviluppò rapporti commerciali con l’entroterra al di là dell’Appennino fino a Dertona
(Tortona) e Piacenza.
A oriente i confini della pianura tra l’Adriatico e le Alpi furono consolidati nel 181 a. C. con la
deduzione della colonia latina di Aquileia in Friuli, nel territorio dei Carni, all’estremità est della
zona lagunare.
Sul mare Adriatico Ancona era il porto in comune ai duumviri, mentre Aquileia, dotata di un
efficiente porto canale, divenne lo scalo di appoggio delle triremi dell’alto Adriatico.
In pochi anni Aquileia divenne una città prospera e potente, grazie alla posizione strategica per il
commercio tra la pianura padana e veneta e il bacino dell’Adriatico e agli importanti legami
commerciali che strinse con la Magna Grecia attraverso i porti di Taranto e Brindisi.

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Nel 148 a. C. Genova e Aquileia, due città così lontane tra loro, vennero collegate dalla via
Postumia che dal mar Ligure, attraversando l’Appennino e tutta la pianura Padana, giungeva
all’Adriatico. Era una strada militare, che affermava la supremazia di Roma nell’Italia settentrionale
ed era la premessa indispensabile alla sua espansione a nord del Po, costituendo allo steso tempo un
baluardo contro possibili invasioni dai passi alpini e dai confini orientali.

- Espansione nella pianura Transpadana


Per parecchi decenni a cavallo tra il III e il II secolo a. C. i Romani, valicando gli Appennini con
i loro eserciti avevano consolidato le vittorie a sud del Po con caposaldi militari e poi con la
fondazione di colonie di presidio e di popolamento. Il grande fiume costituiva un limite, superato
solo occasionalmente dagli eserciti per inseguire e colpire i nemici; l’unica colonia a nord del Po era
Cremona, appena al di là del fiume, quasi di fronte a Piacenza,.
Solo alla metà del II secolo essi cominciarono a rivolgersi in modo sistematico verso la parte
settentrionale della pianura, da loro detta “transpadana”, al di là del Po.

L’interesse dei Romani era sia strategico militare, sia commerciale, economico e finanziario,
come sbocco per l’investimento dei grandi capitali acquisiti con le guerre in occidente e in oriente,
essi infatti ben conoscevano la ricchezza e le potenzialità di questa fertile area, da sfruttare con
moderne tecniche agricole. L’abbondanza di acqua di fiumi e risorgive che formava paludi e
acquitrini nella pianura a nord del Po poteva divenire un grande beneficio se regolata con opportune
opere di drenaggio e irrigazione.
Il greco Polibio nella sua storia sostanzialmente contemporanea afferma, parlando della pianura
padana: “non è facile descrivere la fertilità della regione: il grano … l’orzo … il vino … costano
pochi oboli … l’abbondanza delle ghiande nei querceti è tale che la grande quantità dei suini
macellati in Italia per gli usi privati e degli eserciti si ricava tutta dalla pianura padana …” (Storie
2, 15). Due oboli erano la paga base giornaliera di un soldato semplice della fanteria romana.

- I Romani e la pianura a nord del Po.


Il paesaggio del territorio padano celtico e veneto era caratterizzato da foreste planiziali e aree
paludose ricche di selvaggina, boschi di querce tenuti a pascolo per i maiali, in ampie aree
disboscate pascolavano greggi e mandrie di bovini ed equini, oppure si coltivavano cereali. Piccoli

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nuclei di capanne sorgevano su terreni preferibilmente elevati, meno esposti alle piene, accanto a
recinti per animali, coltivazioni di viti e alberi da frutto.
Lungo la fascia dell’alta pianura ai confini con la collina, a volte su un’altura e intorno ad essa in
posizione facilmente difendibile si trovavano dei castra, insediamenti fortificati. C’erano poi a
grande distanza l’uno dall’altro gli oppida, centri maggiori, specie di primitive città, capitali
religiose, sedi di fiere commerciali e di produzioni artigiane cui faceva riferimento la popolazione
di un vasto territorio. L’oppidum di Verona insediato sul fianco di un colle lambito dalla corrente
dell’Adige, era la seconda capitale dei Galli Cenomani dopo Brescia, anch’essa posta sulle pendici
di un colle.

- La via Postumia
Ridotte all’obbedienza le popolazioni della pianura Padana e dell’Appennino Ligure, nel 148 a.
C. il senato affidò al console Spurio Postumio Albino la costruzione della via che da lui si chiamerà
Postumia.
Fu questo un evento che contribuì in modo decisivo alla romanizzazione della pianura a nord del
Po. La strada consolare lunga quasi 500 km congiungeva Genova con Aquileia, mare Ligure e
Adriatico, passando per Verona. La via, partendo da Genova, valicava l’Appennino, scendeva in
pianura fino a intercettare la via Emilia a Piacenza, costeggiava il corso del Po e lo oltrepassava a
Cremona, quindi raggiungeva il fiume Oglio e lo passava a Bedriacum (odierno Calvatone ),
dirigendosi a Verona, dove superava l’Adige, quindi, percorrendo l’alta pianura veneta, toccava
Vicenza e Oderzo per arrivare ad Aquileia.
Le vie consolari restano una meraviglia dell’ingegneria militare romana, esse seguono tracciati
incredibilmente rettilinei superando gli ostacoli naturali, con ponti sui fiumi, massicciate
sopraelevate in zone paludose e gallerie attraverso i monti. Anche la Postumia, pur ricalcando in
parte antiche piste preistoriche, viaggiava su rettilinei di lunghezza impressionante. Era possibile
ottenere questa precisione grazie a uno strumento geniale detto groma, con cui i geometri romani
riuscivano a tracciare linee rette anche per decine e decine di chilometri.
Infatti la Postumia da Bedriacum raggiungeva Verona praticamente con una linea retta lunga
decine di chilometri.

Le vie consolari
Con la decisa espansione dei suoi interessi politici, militari e commerciali al di fuori dei confini del Lazio, la
pragmatica Roma aveva capito l’importanza vitale delle vie di comunicazione. Aveva capito che per

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realizzare i propri scopi non bastavano le antiche piste che seguivano vecchi percorsi tortuosi e aveva
concepito il progetto di nuovi percorsi rettificati costruiti su nuove sedi stradali solide e durature, perché
scavate a fondo nel terreno e consolidate da materiale adeguato. Già alla fine del IV secolo era stato
costruito il tratto della via Appia da Roma a Capua, la strada, che poi sarebbe giunta fino a Brindisi, era
un’opera di ingegneria stupefacente per l’antichità.
Roma decise di stabilire una comunicazione veloce e sicuro con le colonie fondate lontano, in terre ostili:
quasi cinquant’anni dopo la fondazione, Rimini fu raggiunta dalla via Flaminia che la collegava direttamente
a Roma, una strada militare poderosa, costruita attraverso gli Appennini dal censore Gaio Flaminio (poi
console caduto contro Annibale nella battaglia del lago Trasimeno del 217) , allargando anche dei passaggi
scavati secoli prima nella roccia dagli Etruschi.
La strada così ben costruita da essere in parte visibile ancor oggi, iniziata nel 220, fu realizzata in un anno,
data l’urgenza di collegare Roma alla Gallia Cisalpina, rendendola così raggiungibile da una legione in pochi
giorni di marce forzate.
Nel 218 furono fondate le colonie latine di Placentia (Piacenza) e Cremona sul Po, alle quali mancava,
però, un collegamento stradale con Rimini e la Flaminia. Vi provvide vent’anni dopo il console M. Emilio
Lepido costruendo la via Emilia (187 a. C.), che darà il nome alla regione. La strada collegò così Rimini e
Piacenza, passando per la colonia latina di Bononia (Bologna), fondata nel 189, sull’oppidum del Galli Boi, e
favorendo decisamente la penetrazione romana nella pianura Padana, tanto che nel 183 lungo l’Emilia
furono dedotte le colonie romane di Mutina (Modena) e Parma.
La colonia latina di Aquileia, fondata nel 181 in Friuli, al confine orientale della pianura, dovrà aspettare
fino al 148 per essere collegata al sistema stradale con la via Postumia.

- La Postumia e Verona,
Il tracciato della Postumia, passato il Po, non salì a nord per raggiungere Milano, ma evitò il
territorio degli Insubri, non si sa se per rispetto della loro autonomia o per punirli dell’ostilità
dimostrata nei decenni precedenti, e puntò direttamente da Cremona al territorio dei Cenomani,
fedeli alleati, verso l’oppidum di Verona, per poi entrare nel territorio dei Veneti e dirigersi ad
Aquileia.
L’abitato celtico di Verona, sulle pendici del colle di san Pietro era sicuramente difeso da un
terrapieno rafforzato da pietrame e palizzate, possedeva officine metallurgiche ed ceramiche ed.
era probabilmente già allora un importante centro commerciale di una zona collinare produttiva e di
una pianura fertile, anche se in parte da bonificare, ed era uno snodo strategico di comunicazione
non solo verso l’oriente, ma anche verso il nord, le Prealpi e le Alpi, attraverso la Val d’Adige.

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La Postumia provenendo da Goito, attraversava Villafranca e arrivava all’Adige praticamente con
un unico rettilineo lungo oltre 40 km, ancora oggi in funzione, il primo tratto fino a Villafranca è
una strada sterrata, il secondo da Villafranca a Verona è asfaltato e coincide con l’attuale statale.
Giunta nell’attuale sobborgo di S. Lucia la via scendeva il balzo dell’antico terrazzamento
fluviale e raggiungeva l’ansa dell’Adige, ma non attraversava il fiume in questo punto, ma
deviava bruscamente dal suo asse per varcare il fiume un po’ più a nord, su un ponte
verosimilmente di legno, costruito su un probabile antico guado ai piedi del colle nella
posizione dell’attuale ponte Pietra, sfruttando l’appoggio naturale dei due speroni rocciosi che
si elevano uno di fronte all’altro sulle due sponde. La deviazione è riconoscibile nella salita
dell’attuale via ponte Pietra, che rispecchia l’assetto viario della Verona romana.
Passato il ponte, la strada proseguiva sulla riva sinistra dell’Adige in direzione di Caldiero e
Vicenza, probabilmente staccandosi dal fiume per raggiungere la zona collinare.
La natura delle strade romane era militare, ma favoriva anche intensi rapporti commerciali e la
romanizzazione del territorio. Grazie alla Postumia mercanti e imprenditori italici, latini e romani
raggiunsero Verona e vi si stabilirono. La moneta, i costumi, il modo di vita, i cibi dei Romani
venivano apprezzati e pian piano si imponevano alla popolazione locale, a cominciare dalla classe
dirigente che ben presto apprese la lingua latina.
Si avviò così un processo per così dire di romanizzazione spontanea da parte della popolazione
indigena. Alla fine anche le divinità di Roma si sovrapposero in parte a quelle del luogo.
Nel contempo alcune facoltose famiglie latine come la gens Gavia e la gens Valeria, da cui
discenderà il poeta Valerio Catullo, si trasferirono qui per investire capitali nei commerci e nei
fertili terreni, trasformandoli in tenute agricole moderne per l’epoca e probabilmente nel volgere di
qualche decennio costruirono nel centro abitato alle pendici del colle confortevoli ed eleganti
domus.
A riprova di ciò, recentissimi scavi nell’area del teatro, hanno riportato alla luce numerosissime
tessere di mosaico di ottima fattura, nella massa di materiale usato come fondamenta della scena e
sotto l’orchestra.

8- Verona e i Cimbri
Alla fine del II secolo a. C., un consistente gruppo di popoli germanici, tra cui si distinguevano i
Cimbri e i Teutoni, migrarono a sud, provenendo dall’attuale Danimarca e si guadagnarono la fama
di guerrieri feroci e invincibili, abbattendo ogni resistenza prima dei Celti e poi dei Romani. Le
fonti parlano di una popolazione complessiva, comprese donne e bambini, di sette-ottocentomila
individui di cui circa trecentomila guerrieri.

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Dal 112 al 101 a. C. essi furono liberi di scorrazzare, nel Norico, regione del Danubio, nel sud della
Gallia transalpina, e in Spagna, sbaragliando uno dopo l’altro interi eserciti romani inviati contro di
loro e preparandosi a scendere in Italia. A Roma si diffuse il panico, si temeva una nuova invasione
della penisola e un assalto alla città, i Romani, contro ogni consuetudine, rinnovarono l’elezione a
console di Gaio Mario, un esponente di spicco della fazione dei populares, malvisto dall’oligarchia
senatoria, ma vincitore in Africa del potente Giugurta, re di Numidia.
Mario per affrontare l’emergenza riformò l’esercito arruolando anche i nullatenenti e nel 102 a. C.
avendo saputo che i Cimbri si erano allontanati diretti verso est, passò a marce forzate nella Gallia
Narbonense (attuale Provenza). Qui affrontò i Teutoni rimasti da soli. annientandoli ad Aquae
Sextiae (Aix en Provence).
Nel frattempo i Cimbri avevano varcato le Alpi, forse presso il Brennero, l’altro console Lutazio
Catulo tentò di bloccarli probabilmente nella val d’Adige, ma non volendo rischiare
l’accerchiamento, si ritirò oltre il Po lasciando via libera agli invasori, che dilagarono nella pianura
da est a ovest terrorizzando gli abitanti e abbandonandosi alle razzie, ma disperdendo le forze e
rimandando la discesa nella penisola. L’anno seguente (101 a. C.) Mario si ricongiunse al collega,
gli eserciti riunti affrontarono i Cimbri e ne fecero strage ai Campi Raudii, una località molto
discussa, forse presso Vercelli, ma più probabilmente tra Mantova e Villafranca di Verona.
I Cimbri forse si limitarono a devastare il ricco territorio, trascurando i centri fortificati, che
richiedevano lunghi assedi, in ogni caso Verona corse un grave pericolo e fece capire ai Romani
l’importanza della sua posizione strategica, allo sbocco della val d’Adige.

- La guerra sociale e le sue cause. Grandi vittorie all’esterno e ingiuste disparità


all’interno.
Il II secolo a. C. era iniziato bene: a conclusione della guerra annibalica Publio Cornelio Scipione,
celebrato il trionfo e salutato col soprannome di Africano, non si accontentò di congedare l’esercito
con la parte spettante di bottino, ma ottenne che una commissione di decemviri assegnasse a
ciascun soldato che aveva militato (con lui) in Spagna o in Africa due iugeri di terreno per ogni
anno di servizio (Livio 31, 49). Era infatti disponibile una notevole estensione di agro pubblico,
tolto a popolazioni del Sannio e dell’Apulia colpevoli di essere passate ad Annibale. Occorreva
risarcire questi combattenti del lungo periodo di ferma, tenendo conto che la minaccia cartaginese
aveva costretto ad arruolare anche molti uomini sotto i limiti di reddito, di solito esentati dal
servizio.

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Normalmente un provvedimento del genere avrebbe trovato una forte opposizione nel senato, in
quel momento invece anche le forze più conservatrici acconsentirono. Il tremendo pericolo corso
con Annibale aveva rinsaldato l’unità interna e favorito la concordia tra le classi sociali.
Ma passato il pericolo le cose cambiarono, la sconfitta di Cartagine aveva reso Roma padrona del
Mediterraneo occidentale e le aveva spalancato le porte del ricchissimo Oriente. La nobiltà
senatoria e gli uomini d’affari non si lasciarono sfuggire l’occasione di appagare la loro insaziabile
ambizione di potere e l’avidità di ricchezza.
Sul mediterraneo orientale si affacciavano i grandi e piccoli regni ellenistici, eredi di Alessandro
Magno. Non mancavano pretesti per intromettersi nelle loro lotte e intervenire a fianco di chi
chiedeva alleanza. Il re macedone Filippo V, a cui tutta la Grecia era soggetta, era stato potente
alleato di Annibale, così Roma si alleò con le città greche e con il regno di Pergamo per sconfiggere
lo strapotere del regno di Macedonia.
Sconfitto Filippo, il console Flaminino, che conosceva i Greci e la loro cultura, per contrastare la
voce circolante che il vecchio padrone macedone era stato sostituito da Roma, fece un grande gesto
propagandistico: ai giochi Istmici di Corinto, cui convenivano i Greci da ogni parte, fece
proclamare la libertà delle città greche, suscitando l’entusiasmo travolgente della folla. La parola
libertà per i Greci era magica, così Flaminino fu ringraziato con un gesto altrettanto simbolico.
C’erano sparsi in Grecia più di un migliaio di Romani, caduti prigionieri nella guerra annibalica e
venduti come schiavi. Alcuni di essi avevano visto arrivare l’esercito romano e riconosciuto tra i
soldati dei parenti, ma non potevano sfuggire alla loro condizione. Le città greche a loro spese
ricercarono e liberarono tutti questi e li consegnarono in dono a Flaminino (Plutarco, Vita di Tito
Flaminino, 10, 13).
In seguito l’idillio svanì quando le città greche si accorsero che con i patti di alleanza i Romani
lasciavano una totale libertà interna ma imponevano la loro politica estera: non si poteva fare guerra
o pace senza il permesso di Roma. Anzi in caso di guerra e la minaccia di Filippo, rimasto re di
Macedonia, era ancora presente, le città greche dovevano contribuire con contingenti militari o
rifornire l’esercito romano.
Così via, via anche altri regni e stati ellenistici entrarono in contatto con i Romani e furono
costretti a venire a patti. Le vittorie militari portavano gloria e ricchezza ai generali e notevoli
entrate per l’erario, inoltre aprivano la strada alla penetrazione commerciale e all’influenza politica
su vasti territori.

Durante il II secolo a. C. Roma sostenne un impegno militare incredibile, contemporaneamente su


più fronti, in Occidente contro i popoli Celtiberi della Spagna e i Celto-Liguri della Provenza, in
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Italia contro i Galli, i Liguri e gli Istri e in Oriente contro gli stati ellenistici in Macedonia, Grecia,
Siria e Asia Minore.
Tutto questo era possibile grazie al valore e al sacrificio di cittadini romani e alleati latini e italici,
arruolati nelle legioni. Particolarmente gravosi erano i servizi militari prolungati che tenevano i
soldati lontani da casa per anni.
I vantaggi delle conquiste andavano a un ristretto gruppo di famiglie nobili che si accaparravano
gran parte dei territori tolti ai nemici e si spartivano le amministrazioni delle province dell’impero.
C’era poi la classe dei cavalieri, dediti alle attività imprenditoriali, commerciali, ai vari appalti,
compresi quelli delle imposte. La speranza per i combattenti era il bottino, una parte del quale
andava all’erario, il resto veniva distribuito in maniera ineguale, la parte del leone la facevano i
consoli e gli ufficiali superiori, appartenenti al ceto senatorio ed equestre. Ai soldati semplici
restava poco da dividere, andava meglio comunque ai cittadini romani, ma agli alleati italici, che
spesso erano mandati avanti e sacrificati nelle battaglie, restavano le briciole. Era il console
vincitore a stabilire la ripartizione del bottino e la sua decisione era insindacabile. Il console Lucio
Emilio Paolo vincitore del re Perseo di Macedonia portò a Roma uno straordinario bottino mai visto
e lo versò totalmente nelle casse dell’erario, invece di distribuirlo ai soldati, che manifestarono il
loro scontento. In compenso con queste enormi ricchezze lo stato poté abolire per più di un secolo
le imposte, ma solo ai cittadini romani. Ancora una volta i cittadini latini e gli alleati Italici erano
esclusi dai benefici di una vittoria che era costata il loro sangue. Ovviamente poi l’esenzione dalle
imposte era un reale beneficio solo per i ricchi possidenti, mentre avvantaggiava poco o nulla i bassi
redditi.
Nei primi decenni del secolo furono fondate in Italia nuove colonie o furono ripopolate alcune
esistenti come Piacenza e Cremona offrendo agli ex combattenti, romani, latini o italici la
possibilità di rifarsi una vita. In seguito si ridusse molto anche la fondazione di colonie, l’Italia
ormai pacificata non richiedeva più stanziamenti di nuove città poste a guardia del territorio.
I piccoli proprietari cittadini romani oppressi dai debiti e costretti a vendere il podere, col
censimento venivano declassati a nullatenenti ed esclusi dall’arruolamento ordinario. Le cose non
andavano meglio per gli alleati di diritto latino e gli italici che assieme ai plebei romani
costituivano il nerbo dell’esercito. Da una parte veniva meno la dignità di tanti capifamiglia,
dall’altra la base dell’arruolamento rischiava una forte riduzione. Si poneva un grave problema
sociale e politico che andava affrontato.
A Roma, anche all’interno della classe dirigente, si erano formate due fazioni contrapposte, una dei
populares e l’altra degli optimates. I popolari volevano una più equa distribuzione delle incredibili
ricchezze affluite nello stato romano e sostenevano la necessità di riforme urgenti a favore dei

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cittadini romani impoveriti e degli alleati latini e italici. Gli ottimati non erano disposti a rinunciare
nemmeno in minima parte alle enormi proprietà di cui si erano impossessati approfittando del loro
potere e pretendevano di continuare ad accumulare ricchezze. Essi combattevano a tutti i costi ogni
riforma che colpisse i loro privilegi, facendola passare per un tentativo di sovvertire l’ordine
costituito. Negli ultimi decenni del secolo il partito dei popolari trovò i suoi campioni nei fratelli
Gracchi, che eletti tribuni della plebe fecero approvare, nonostante l’accanita opposizione del
senato, una serie organica di leggi riformatrici, finché non furono travolti e uccisi uno dopo l’altro
da tumulti scatenati dai loro avversari. Gran parte delle loro leggi fu abrogata, e la riforma agraria
fu snaturata da abili sotterfugi.
Gaio Gracco ottenne la fondazione di alcune colonie nel sud Italia e una in Africa sulle rovine di
Cartagine proposta da un collega. Furono bocciate invece le sue proposte di estendere la
cittadinanza prima ai Latini e poi a tutti gli alleati italici, che ormai si sentivano parte dello stato
romano, erano invece molto penalizzati rispetto ai cittadini romani, come era accaduto ad esempio
nelle assegnazione singole (viritane) di terreni in Gallia Cisalpina. Ma anche nella vita quotidiana,
nelle contrattazioni commerciali o nelle liti giudiziarie gli Italici, se non avevano un potente
patrono, erano trattati da sudditi più che da alleati.
Gli ottimati, per screditare il senatore Fulvio Flacco alleato dei Gracchi, lo accusavano senza
fondamento di incitare segretamente gli Italici alla ribellione (Plutarco, Vita di Caio Gracco, 10). Il
malcontento degli Italici era evidentemente ben conosciuto e cresceva di anno in anno, perché le
loro richieste di piena cittadinanza, più volte avanzate, erano state sempre respinte. Esaurita la
pazienza essi cominciarono a prendere accordi per una comune alleanza antiromana, non solo
politica, ma anche militare.
Nel 91 a. C. avevano avuto a Roma contatti col tribuno della plebe Livio Druso che si era
impegnato a loro favore, riprendendo le proposte di Caio Gracco. Il senato si oppose, però,
ferocemente al punto che fece invalidare la procedura di presentazione delle sue leggi. Druso
stesso, al ritorno da una tumultuosa giornata politica, fu assassinato sulla porta di casa. A questo
punto scoppiò la rivolta dei socii italici che sfociò nella guerra detta appunto sociale.
I Romani, contemporaneamente impegnati in oriente contro il potente sovrano Mitridate, si
trovarono in grave difficoltà: avevano di fronte non popoli barbari, ma un esercito di combattenti
addestrati alla stessa disciplina e alle stesse armi dei legionari. L’esercito italico, distribuito al
centro nord e al centro sud, assommava a circa 100.000 uomini. Roma dovette arruolare con
urgenza una decina di nuove legioni e far affluire truppe alleate dalle province di Gallia, Spagna e
Africa.

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I popoli italici si unirono in una federazione statale guidata da consoli e da un senato sul modello
romano, con capitale Corfinium, Corfinio, (vicino a L’Aquila) da loro soprannominata Italica e
batterono moneta su cui comparve per la prima volta il nome Italia, su alcune monete era inciso un
toro che sconfiggeva la lupa romana.
La guerra combattuta tra il 91 e l’88 a. C fu molto dura e con sorti alterne. Per Roma, il rischio era
grande: gli Italici con i quali si era abituati a combattere fianco a fianco erano di colpo divenuti
avversari e inizialmente avevano vinto alcune battaglie. Ammesso che la guerra si fosse vinta,
quanto si sarebbe trascinata, quale prezzo sarebbe costata, l’impero poteva permettersi una lotta
senza quartiere che arrivasse a sterminare i suoi migliori alleati ?
Si decise così di rompere il fronte nemico, ricorrendo alla vecchia tattica del divide et impera. Il
console Lucio Giulio Cesare, zio del famoso Gaio Giulio Cesare, fece approvare nel 90 a. C. la lex
Iulia de civitate, che offriva la piena cittadinanza a tutte le città latine e italiche, che non avevano
preso le armi o le avessero immediatamente deposte, purché accettassero di divenire municipi
romani. Le colonie latine fino al Po poterono così divenire municipi romani.
Tale mossa ebbe successo e riuscì a spaccare il fronte italico, anche se alcuni popoli, come i
Sanniti e i Marsi non cedettero.

Verona da Oppidum a Colonia Latina “fittizia”a conclusione della guerra sociale.


Per evitare che i popoli a nord del Po fossero tentati di unirsi ai rivoltosi, Roma fece loro
un’importante concessione. Nell’89 il console Gneo Pompeo Strabone, padre di Pompeo Magno,
con la lex Pompeia de Transpadanis offrì ai centri a nord del Po, la possibilità di divenire, da
semplici oppida, colonie latine, come risulta da un frammento dell’erudito Asconio Pediano,
secondo il quale “Pompeo (Strabone) non fondò quelle (colonie transpadane) con nuovi coloni, ma
conferì il diritto latino ai vecchi abitanti, i quali restavano nel loro territorio” si trattava di una
assoluta novità, cosicché alcuni studiosi definiscono queste colonie latine “fittizie”: le popolazioni
infatti non subivano l’insediamento di comunità di coloni con relative confische di terreni, ma
ottenevano tutti i vantaggi del diritto latino.
Verona, Milano, Brescia, Vicenza e molti altri centri abitati accettarono la proposta di Pompeo
Strabone, accogliendo a partire dall’89 a.C. il diritto latino nei propri statuti e acquisendo lo ius
commercii e lo ius connubii grazie ai quali gli scambi commerciali e i matrimoni con i relativi patti
coniugali, conclusi dai transpadani con cittadini romani, erano pienamente riconosciuti e tutelati
dalle leggi di Roma. In cambio la colonia contraeva dei doveri verso Roma, il più rilevante e
oneroso dei quali era l’obbligo di fornire, in caso di mobilitazione dell’esercito, una certa quantità
di fanti e cavalieri o rifornimenti, agli inviati dei consoli romani che ne facevano richiesta.

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Queste comunità transpadane accettando la cittadinanza latina, mutarono gradualmente le
tradizionali istituzioni, adottando la forma di governo tipica delle colonie latine, basata sui duoviri e
sull’ordo decurionum (il consiglio dei decurioni). Si trattava ormai di comunità miste latino
celtiche: negli ultimi decenni, soprattutto dopo la costruzione della Postumia agli originari abitanti
celti si erano aggiunte numerose famiglie di latini e italici, che investivano i loro capitali nei
commerci o in proprietà terriere comprate o ottenute con assegnazioni individuali.
I duoviri erano i due magistrati supremi della colonia, eletti ogni anno dall’assemblea dei cittadini
a somiglianza dei consoli e come loro erano affiancati da magistrati minori, edili e questori.
I duoviri erano presidenti del tribunale, responsabili del governo cittadino, a loro spettava
convocare il consiglio dei decurioni sulle questioni importanti e poi attuarne le delibere, così come
facevano i consoli con il senato di Roma. Essi avevano anche il delicato compito di effettuare la
leva militare, accontentando le richieste di Roma.
Il Consiglio dei Decurioni, sul modello del Senato di Roma, era formato da varie decine di
personaggi eminenti, scelti in base all’elevato reddito e alla onorabilità sociale, i quali discutevano e
votavano i provvedimenti importanti, le spese e i bilanci e valutavano l’operato dei duoviri.
I magistrati della colonia, a fine mandato, potevano divenire su loro richiesta cittadini romani a
pieno titolo, tale concessione molto conveniente per i beneficiari, era vantaggiosa anche allo stato
romano al fine di garantirsi il consenso e la collaborazione della classe dirigente locale, costituita
sia dai galli indigeni sia dai nuovi venuti latini e italici.

Aspetti della romanizzazione nelle colonie fittizie.


La componente celtica non era così barbara e rozza come si potrebbe presumere, anzi possedendo
una propria cultura e avendo imparato a convivere con i Romani, era in grado di partecipare a una
vita politica complessa e articolata conformata sulle leggi di Roma, quale richiedeva lo status di
colonia latina.
I Celti conoscevano la scrittura e nella Cisalpina usavano l’alfabeto leponzio, derivato da quello
etrusco. Infatti il popolo dei Leponzi, forse il primo popolo celta a scendere a sud delle Alpi da loro
dette Lepontine, venuto a contatto fin dal VI secolo con i mercanti degli empori Etruschi, aveva
sperimentato l’importanza della scrittura nelle relazioni e negli scambi commerciali e si era dotato
di un alfabeto poi adottato dagli altri Celti, via, via discesi dai passi alpini. Esso veniva usato per
scopi pratici, non conosciamo lunghi testi in leponzio, ma solo brevi iscrizioni funerarie o votive o
incise su oggetti per indicarne i proprietari.
Tutto il sapere religioso, civile e scientifico era affidato ai versi di poemi sacri non scritti, ma
gelosamente custoditi dalla memoria dei druidi e tramandati oralmente ai loro allievi. Tra l’altro i

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sacerdoti celti erano studiosi delle stelle per un forte interesse astrologico e astronomico, come
dimostrano resti di allineamenti astronomici segnati con cerchi di pietre, trovati anche nella
Cisalpina. I celti elaborarono un calendario annuale molto avanzato e preciso.
Tra il terzo e il secondo secolo a. C. l’aristocrazia celtica a causa dei frequenti rapporti politici e
commerciali aveva dovuto familiarizzare con la cultura romana dei mercanti e dei soldati,
apprendendo gradualmente il latino orale e scritto.
In Gallia Transpadana a Vercelli abbiamo trovato una lapide bilingue in alfabeto latino e
leponzio, risalente con ogni probabilità all’inizio del I secolo. In essa un maggiorente celta di nome
Acisius definisce la porzione di un terreno che dona come recinto sacro per il culto di una divinità.
Egli avrebbe potuto comunicare la sua volontà solo in celtico, ai suoi connazionali, l’uso del
latino non veniva imposto alle popolazioni locali. Acisio usa invece il latino nella parte iniziale e
più estesa dell’iscrizione e la fa seguire dalla sottostante sintetica traduzione in lingua gallica,
intendendo conferire alla sua donazione ufficialità e universalità. La convivenza delle due culture e
la tipologia dei caratteri latini suggeriscono una datazione prossima alla lex Pompeia (89 a. C.)
quando anche Vercelli diventò una colonia latina.
Acisio riconosce il latino come lingua dominante, ma vuol ribadire l’identità celtica di cui è
orgoglioso, come è orgoglioso del suo titolo di argantocomaterecus, che sembra parola composta di
arganto (argento) e materecos (controllore), riferita a una probabile carica di tesoriere da lui
rivestita nella comunità celtica, precedentemente al conferimento dello status di colonia.
Oltre che nel campo politico, militare e linguistico il processo di romanizzazione si manifestò
anche nell’urbanistica: gli antichi oppida collocati in pianura come Milano, Vicenza, Brescia,
capitale dei Cenomani e altri, cominciarono a trasformarsi in città, a partire dalla zona centrale
dell’abitato trasformata in una grande piazza dalla geometria regolare, il foro, su cui si affacceranno
edifici destinati allo svolgimento della vita religiosa e civile della comunità.
A Verona invece , abbarbicata sul fianco di un colle, il rinnovamento urbanistico era
problematico, ma probabilmente anche qui il nuovo stato di colonia richiese la costruzione di
edifici pubblici per le nuove necessità amministrative. Non ne abbiamo le prove perché la
successiva costruzione del teatro in età augustea, aveva sbancato il fianco della collina da cima a
fondo, eliminando le preesistenze archeologiche.
Sappiamo invece che agli inizi del I secolo a. C., alle pendici del colle di San Pietro e
probabilmente tutto attorno ad esso, fu innalzato un poderoso muro di massi di pietra (calcarenite)
ricavati dalla stessa collina, in modo da rendere sicuro l’abitato che iniziava ad assumere i caratteri
di città. È il muro il più antico di Verona che precede di alcuni decenni la città municipale e la sua
cinta in mattoni sull’altra sponda del fiume.

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È l’unico esempio nella Gallia Cisalpina, all’epoca infatti non esistevano cinte di pietra a nord
del Po e, a sud del fiume, nelle colonie latine o romane, si usavano i mattoni. L’imponente barriera
difensiva di massi squadrati sovrapposti a secco è simile nella tecnica costruttiva a quelle delle città
centro italiche e potrebbe collegarsi con la promozione di Verona al rango di colonia latina. Ma
potrebbe anche risalire a un decennio prima, alla calata dei Cimbri e a una decisione presa in
accordo con Roma di fortificare il centro abitato veronese contro incursioni nemiche. Certo la
potente opera appare consona alla difesa di una vera città più che di un semplice oppidum celtico.

Il più antico muro di Verona


Tra il 1990 e il 1993, dove inizia il quartiere di Veronetta poco oltre il Teatro Romano al n. 9 di via
Redentore, tra l’Adige e il colle, durante uno scavo per ricavare un garage si scoprirono le fondazioni di una
porta monumentale in mattoni databile all’età augustea. La scoperta non stupì gli studiosi che
presumevano in zona l’esistenza di una uscita della via Postumia dalla città.
Ma il fatto sorprendente fu il rinvenimento, accanto alla porta, di una corsia di pietre affioranti dal
terreno lunga una quindicina di metri: si scavò in profondità mettendo in luce un tratto di muro in opus
quadratum di pietra “tufacea”(arenaria locale), eretto con blocchi ben squadrati e sovrapposti a secco, con
incastri sapienti, senza bisogno di malta o grappe di metallo, la tecnica costruttiva molto simile a quella
delle città etrusche e laziali, suggerisce la venuta a Verona di maestranze centro italiche, per costruire mura
solide capaci di resistere a scorrerie di popoli invasori.
Il muro conservava alcuni metri di altezza del suo alzato, perché circa un secolo dopo la sua costruzione il
livello originario del suolo, in cui affondavano le sue fondamenta, era stato notevolmente elevato con
terreno di riporto, per costruirvi la porta augustea, mentre la parte superiore dell’antica muratura fu
successivamente demolita. Il tratto di muro riscoperto è visibile nello scantinato della casa di via san
Faustino 9.
Il poderoso muro, spesso m 2,50 alla base, risalente all’inizio del I secolo a. C., proteggeva Verona che
forse era ancora soltanto un oppidum o che era già diventata colonia di latina e patria del poeta Valerio
Catullo (84-54 a. C.).
Il muro precedendo la città municipale e la sua cinta in mattoni, è quindi il più antico di Verona , in esso
erano ricavate due aperture di cui sono visibili le soglie, una porta carraia ed una pedonale attraverso le
quali passava la Postumia.
Non abbiamo trovato altri resti per cui non conosciamo lo sviluppo della cinta che doveva salire a
comprendere l’abitato sul colle e scendere a chiudersi a monte di ponte Pietra.

Due templi ellenistici per celebrare la colonia veronese.


74
In questa fase di crescita verso uno sviluppo cittadino, non poteva mancare l’architettura religiosa:
sono quasi sicuramente collegati all’istituzione della colonia due edifici religiosi in elegante stile
ellenistico, costruiti nella parte iniziale del I secolo a. C., i cui resti sono stati ritrovati in due luoghi
opposti, uno sull’ sull’arce, la rocca che dominava dall’alto il centro abitato, l’altro invece nel piano
al di là dell’Adige, fuori dell’abitato e dove cinquant’anni dopo sarebbe sorta la nuova città,
spostata in pianura dal colle .
In questi ultimi anni la Soprintendenza di Verona ha svolto degli scavi sopra il Teatro Romano
sulla sommità del colle di san Pietro per indagare meglio i resti dell’ampio basamento in pietra di
un tempio, che era già venuto alla luce nella metà dell’Ottocento, durante gli scavi per le
fondamenta della caserma austriaca.
Il tempio, di impronta ellenistica e di pregevole fattura, era stato innalzato probabilmente con il
contributo delle più facoltose famiglie veronesi per garantire alla sottostante città la benevolenza di
una divinità protettrice, cui era dedicato.
A non molti anni fa risale il ritrovamento dei resti di un altro tempio costruito anch’esso agli inizi
del I secolo a. C., ma fuori dell’abitato coloniale, giù nell’ansa dell’Adige, lungo la Postumia, nei
pressi del luogo dove poi sorgerà il foro. I rocchi scanalati di colonne e i capitelli corinzi rivelano
per l’accurata lavorazione l’opera di maestranze centro italiche, forse le stesse che lavorarono per il
tempio posto sul colle. Lo scavo di questo tempio è stato poi ricoperto.

Provincia della Cisalpina


In un momento imprecisato tra la fine del II secolo e l’età di Silla (88-80 a. C.) il territorio
compreso tra le Alpi e gli Appennini, fino a una linea ideale che congiungeva Rimini a Pisa, fu
trasformato in provincia romana con il nome di Gallia Cisalpina.
La provincia era divisa dal Po in due zone: la cispadana, a sud del fiume, geograficamente e
storicamente più vicina a Roma e ormai romanizzata e la transpadana a nord, considerata meno
civilizzata, per la sua maggiore indipendenza politica e culturale dato che le numerose colonie
latine erano per la maggior parte recentissime e fittizie, originate dalla guerra sociale appena
terminata.
La Cisalpina sarà una delle province assegnate a Cesare nel 59 a. C. in seguito agli accordi del
primo triumvirato.

Il ponte Pietra (prima metà I sec. a. C.)


Storia del Ponte e tecnica costruttiva

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Nel 148 a. C. il tracciato della Postumia richiese la costruzione di un ponte sull’Adige,
probabilmente sull’antico guado al vertice dell’ansa del fiume dove il suo alveo si stringe a 90
m circa di larghezza, tra due speroni di roccia calcarea, uno che scende dal colle e l’altro che
riaffiora sulla sponda opposta. Il ponte doveva essere di legno, o forse in tecnica mista con
travature lignee appoggiate a pile di pietra, ma fu rifatto interamente in pietra intorno all’89 a.
C. quando Verona assunse lo status di colonia latina.
I Romani erano esperti costruttori di ponti in muratura grazie alla tecnica dell’arco e della
volta appresa dagli Etruschi. L’arco è assai resistente alla compressione, e accostando più
archi nel senso della profondità si ottiene una copertura a volta, in grado di sopportare grandi
pesi. Il tipo di arco preferito era quello a tutto sesto, cioè semicircolare, che dava origine alla
volta a botte.
Le arcate del ponte veronese, probabilmente cinque come ora, erano formate da volte a
botte costruite, come l’intero ponte, con la tecnica muraria dell’opera quadrata (opus
quadratum), cioè con blocchi di pietra squadrati, sovrapposti a secco in filari di altezza
omogenea, e legati tra loro con grappe e perni metallici.

1le cinque arcate, due romane, due veneziane e una scaligera come la torre

Arcate in pietra e in mattoni


Del ponte romano restano le due arcate di sinistra i cui piloni, poggiando sulla roccia viva,
hanno resistito meglio alle impetuose piene del fiume nel corso dei secoli. Il colore giallo
chiaro del loro calcare contrasta con il rosso del mattone cotto delle tre arcate non romane.
Queste ultime furono ricostruite più volte in seguito a piene rovinose. La prima a destra, con
la torre che la sovrasta, fu ricostruita definitivamente in mattoni nel tardo medioevo, romanico
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gotico, dalla signoria scaligera. La volta presenta alcuni filari di pietra alternati a quelli in
cotto.
Risalgono invece al dominio veneziano, in età rinascimentale (1520) il grande pilone
centrale, caratterizzato dal foro circolare di scarico, e le due arcate in cotto collegate. Gli
architetti intendevano raccordare in armonia i diversi stili e materiali del manufatto, per
questo le facciate di mattoni sono movimentate da tocchi di colore grazie a inserti di conci di
pietra che sottolineano la curvatura delle due arcate e l’abbraccio del pilone che le origina.
Nelle volte delle arcate ai rossi mattoni sono alternati alcuni filari di calcare.
I due piloni, o pile, di destra poggiano su resti di fondamenti di pile romane, quindi i quattro
piloni e le cinque arcate del ponte attuale dovrebbero rispecchiare il numero e l’andamento di
quelli romani.
Alla fine della seconda guerra mondiale, la sera del 24 aprile 1945 il ponte, minato come
tutti gli altri di Verona, fu fatto esplodere dalle truppe tedesche in ritirata per ritardare
l’avanzata dell’esercito alleato. Si salvò solo l’arcata sotto la torre.
Nella ricostruzione del dopoguerra ci fu chi propose di rifare un ponte tutto romano in
pietra, ma il soprintendente di allora Pietro Gazzola lo volle “Com’era e dov’era”, ritenendo
arbitraria ogni altra soluzione. Per questo furono recuperate e catalogate minuziosamente tutte
le pietre cadute nell’alveo.

La costruzione del ponte


Come procedevano gli architetti romani nella costruzione di un’opera così complessa?
Verosimilmente si lavorava in contemporanea partendo dalle due sponde opposte per poi
arrivare al completamento delle cinque arcate. I lavori iniziarono innalzando le spalle del
ponte sulle due rive rocciose, quindi si edificarono i due piloni prossimi ad esse, deviando la
corrente con dighe o paratie di legno a tenuta stagna. Si scavarono nella viva roccia le
fondamenta del pilone di sinistra e per il pilone di destra si preparò una profonda e solida base
d’appoggio nel letto incoerente e ghiaioso.

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Sulle fiancate dei piloni, proprio alla base delle arcate del ponte sono visibili ancora oggi gli
appositi incassi a forma di unghia, incavati nella fase di costruzione e riutilizzabili per la
futura manutenzione. In essi si inserivano dall’alto le teste delle travi orizzontali che
sostenevano le centine.

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Queste erano impalcature formate da travi disposte come raggi di semicerchi che sostenevano
tavolati ricurvi di assi, su cui si collocavano a semicerchio i blocchi di pietra che formavano la
volta dell’arcata.
Particolare cura si poneva nella posa dei conci di pietra che formavano gli archi delle due
facciate della volta, a monte e a valle del fiume. Essi erano tutti della stessa altezza, tagliati
con una sagoma a trapezio, così da incastrarsi uno accanto all’altro come cunei, in modo da
creare la curva dell’arco e sottolinearne esteticamente la forma costituendo il cosiddetto
archivolto. Da ultimo si inseriva la chiave di volta, il blocco che chiudeva l’arco al suo
vertice, quindi le centine venivano rimosse e i blocchi di pietra, legati anche con grappe
metalliche, sostenendosi tra loro scaricavano il peso sulle potenti basi di appoggio fornite dai
piloni.
Dei due piloni romani, il primo a sinistra è il meglio conservato e può dare un’idea della
originaria forma del ponte. La massa compatta del pilone è alleggerita dal traforo di
un’elegante finestra, slanciata ed arcuata, che è funzionale allo scarico della corrente durante
le piene. Una uguale finestra, secondo lo storico dell’arte Luigi Beschi, doveva essere
presente anche al centro degli altri piloni. È pur vero che il secondo pilone romano ne è privo,
ma la struttura di questo pilone rivela segni evidenti di riparazioni, probabilmente ancora di
epoca tardo romana, con blocchi semplicemente accostati uno sull’altro e legati da grappe,
invece di essere sovrapposti con cura in file sfalsate, come se l’urgenza del rifacimento avesse
costretto a saldare tutto, occupando anche lo spazio della finestra.
.
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- La struttura romana del ponte Pietra
La struttura del ponte romano era di una semplicità essenziale, Pirro Marconi parla di “pura
struttività” e “mancanza assoluta di ornato esterno, anche (di) semplici orli e cornici” che ne
sottolineino le membrature, a differenza dei più antichi ponti Emilio (o “Rotto”) e Milvio, o del coevo
Fabricio, sul Tevere a Roma, simili per concezione progettuale.
Questo non comporta un giudizio negativo del progetto veronese, che invece doveva essere assai
accurato, nella sua essenzialità. Nella posa in opera le linee di giunzione dei massi di un filare
superiore furono accuratamente sfalsate rispetto a quelle del filare inferiore, contribuendo alla
solidità della muratura e all’estetica del monumento. Secondo il Beschi le quattro pile erano larghe
più o meno m 3,50 e le arcate avevano una simmetrica disposizione, con le due estreme ampie 15 m
e le centrali 16 per un totale di 92, appunto l’attuale lunghezza.
Le arcate sono a sesto di poco ribassato, probabilmente per facilitare il collegamento con il piano
stradale delle rive.
I ponti romani in muratura potevano sfidare i secoli, le arcate, molto resistenti alla compressione,
erano in grado di sostenere carichi assai superiori a quelli cui erano in realtà sottoposte. Il loro
nemico era la corrente fluviale, capace di eroderne a poco a poco le fondamenta o di abbattersi
rovinosamente sui piloni con le piene, per questo le basi delle pile erano difese da speroni o rostri
frangiflutti, sia a monte, sia a valle. Inoltre il ponte presenta una lieve convessità a monte, un
raffinato accorgimento in opposizione alla forza del fiume.
Pile e arcate erano poi oggetto di attenta manutenzione.
L’attuale profilo a schiena d’asino, per un facile deflusso delle acque piovane, risale al rifacimento di
epoca veneziana, non ne conosciamo l’andamento originario. Quanto alle arcate c’è chi pensa, come
Pirro Marconi, che fossero solo quattro, lo proverebbe l’esistenza di una originaria imposta d’arco,
più bassa e troncata a destra della seconda pila. L’imposta suggerisce l’inizio di una arcata a sesto
ribassato di ampiezza doppia (32 m) rispetto alla seconda di sinistra (16 m) che si sarebbe saldata
direttamente alla prima pila di destra eliminando dal progetto il pilone centrale e la terza arcata di 16
m di ampiezza. Sul primo pilone romano di destra si dovrebbe trovare un residuo di questa imposta
più bassa di arcata doppia, ma non ve n’è alcuna traccia nei suoi imponenti resti, caduti nel letto del
fiume e ritrovati durante la costruzione degli argini di fine Ottocento. C’è da dire che un’arcata così
ribassata avrebbe subito fortemente l’impeto delle piene, ostacolandone lo sfogo.
Una testimonianza a favore delle attuali cinque arcate la offre l’Iconografia Rateriana, una
rappresentazione risalente al X secolo ma quasi sicuramente basata su un precedente disegno. In
essa il ponte romano, definito Marmoreus, ha profilo rettilineo e cinque arcate di dimensioni simili,
solo quella di mezzo è lievemente più alta.

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Il ponte nel medioevo sarà chiamato Lapideus o della Pietra, dal momento che gli altri ponti avevano
una struttura lignea .

II Parte. L’età di Giulio Cesare (59 – 44 a. C.)

Guerra civile e ascesa di Giulio Cesare


Roma non era destinata a stare in pace: terminata la guerra sociale, si scatenò la lotta per il potere tra i
populares, sostenitori di ampie riforme democratiche, e gli optimates, oligarchi decisi a tutto pur di
difendere i propri privilegi, i populares avevano in Mario il loro capo e gli optimates gli contrapposero Silla,
abile luogotenente di Mario nella guerra contro Giugurta.
Lo scontro politico degenerò in una guerra civile combattuta senza quartiere, usando gli eserciti consolari
e arruolando anche eserciti privati. A turno le due fazioni si impadronirono di Roma eliminando quanti più
avversari potessero.
Dopo l’improvvisa morte del vecchio Mario, prevalse Silla che si fece dittatore, instaurando un clima di
terrore con l’eliminazione sistematica degli oppositori veri o presunti, i cui nomi apparivano giornalmente
nelle “liste di proscrizione”. Modificò in senso oligarchico lo stato, svuotando di contenuto il tribunato della
plebe e cancellando leggi e riforme che minacciavano i privilegi dell’oligarchia senatoria.
Morto Silla, ritornò una pace relativa, le leggi e le istituzioni da lui manomesse furono gradualmente
ripristinate, i populares rialzarono la testa e riuscirono di nuovo a far eleggere magistrati e tribuni della loro
fazione, quello che loro mancava era un leader capace di concepire un programma politico e di attuarlo,
superando l’opposizione degli optimates.
Lo trovarono nel giovane aristocratico Giulio Cesare, vigoroso e raffinato oratore e al tempo stesso
infaticabile uomo d’azione, che fin da giovinetto aveva fatto sua la causa dei populares.
Cesare era convinto che ci fosse bisogno di coraggiose riforme per affrontare la profonda crisi dello stato
e della società di Roma; allo stesso tempo egli intravedeva nel “partito democratico” ampio spazio per la
propria affermazione e per arrivare ai vertici della politica.

La carriera, il triumvirato e il proconsolato nelle Gallie


Cesare fece una rapida carriera, ma anche enormi debiti contratti soprattutto con il ricchissimo Licinio
Crasso, per conciliarsi il favore del popolo con dispendiosi spettacoli ed elargizioni. Pretore nel 62 a. C. e nel
61 governatore, come propretore, della Spagna meridionale, tornò a Roma abbastanza ricco da sanare i
suoi debiti, ma la sua carriera era a un punto morto: con il solo appoggio dei populares non sarebbe mai
diventato console. Licinio Crasso lo mise in contatto con Gneo Pompeo, in quel periodo malvisto da molti
senatori, che lo consideravano troppo potente e pericoloso per la popolarità conseguita.
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Pompeo e Crasso come luogotenenti di Silla avevano fatto strage dei populares, ma quel tempo era
passato e lo spregiudicato Cesare propose loro di stipulare nel 60 a. C. un patto segreto che va sotto il nome
di primo triumvirato. Nelle vicine elezioni i triumviri avrebbero fatto convergere i loro massicci consensi
popolari sulla candidatura al consolato di Cesare, il quale poi avrebbe ricambiato il favore promovendo
leggi concordate dai tre. Per sancire il patto Cesare diede sua figlia Giulia in sposa a Pompeo.
Cesare, eletto console per il 59 a. C., riuscì ad accontentare i suoi amici. L’anno dopo, grazie a Pompeo e
Crasso, ottenne il governo di ben tre province l’Illiria, la Gallia Cisalpina e la Gallia Narbonense (l’attuale
Provenza), non per la normale durata annuale, bensì per un quinquennio, poi rinnovato nel 56 a. C. in
seguito al convegno di Lucca.
Inizialmente egli stroncò i tentativi degli Elvezi di forzare i confini delle province, poi intervenne nel cuore
della Gallia e al confine con la Germania. Erano imprese rischiose, ma corrispondenti all’audace progetto
che aveva concepito: attuare una serie di campagne militari di sottomissione progressiva dell’intera Gallia
transalpina (l’attuale Francia), sfruttando le rivalità che dividevano i vari popoli dei Galli e le alleanze con
alcuni di essi, d’altra parte contando sull’ampia possibilità di reclutamento di truppe che gli offriva la
provincia Cisalpina, cioè l’intera pianura padana.
Egli inviava regolari rapporti al senato per giustificare il proprio operato, ma dal momento che non aveva
ricevuto alcun mandato ufficiale di conquistare la Gallia, ai conservatori il suo interventismo suonava come
una sfida all’autorità del senato.

Cesare in Gallia Cisalpina e a Verona


Durante le pause invernali delle campagne militari del suo quasi decennale proconsolato (58 - 50
a.C.) Cesare, lasciati in Gallia Transalpina i suoi luogotenenti trincerati negli hiberna, gli
accampamenti invernali, rientrava in Cisalpina, dove presiedeva il tribunale per le controversie
internazionali tra i popoli delle sue province, il suo quartier generale era Aquileia, ma spesso si
spostava in vari centri, dove coltivava amicizie influenti e riceveva personaggi dalla capitale. Con
tutti costoro stringeva alleanze e scambiava favori per rafforzare i populares e il proprio potere
personale.
In queste occasioni, come ricorda lo storico Svetonio, Cesare si recò più volte a Verona, ospite
del padre del poeta Valerio Catullo, probabilmente in una domus della gens Valeria sul colle di san
Pietro.
Uno dei progetti politici di Cesare era di estendere alle città a nord del Po la cittadinanza romana,
che consentiva l’esenzione dalle imposte sul reddito, un trattamento vantaggioso in tribunale e il
diritto di votare a Roma le leggi e i governanti della Repubblica.

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L’esenzione dalle tasse
I cittadini romani furono esentati dalle imposte sul reddito a partire dal 168/7 a. C., quando il console
Lucio Emilio Paolo dopo aver sconfitto Perseo, l’ultimo re di Macedonia, si impadronì del tesoro
accumulato nei secoli dai re macedoni, che comprendeva oro e argento in quantità incalcolabili, statue e
meravigliosi oggetti artistici, il comandante romano non volle tenere nulla per sé, tranne la biblioteca
reale, che donò ai figli.
L’enorme bottino portato a Roma, sfilò in un trionfo senza pari, durato tre giorni e fu donato interamente
, nonostante le vive proteste dei soldati, che pretendevano la tradizionale spartizione, all’erario statale e
come ricorda Plutarco (Vita di Paolo Emilio, 38), permise di esentare tutti i cittadini romani per un secolo e
mezzo, fino al 43 a. C. dai tributa, le imposte dirette basate sul censo, cioè sul reddito, distinte dai
vectigalia le imposte indirette (dazi, tasse su vendite, eredità, acquisto e liberazione degli schiavi ecc.).
Comunque anche dopo questa data la penisola italica godette di ampie esenzioni fino alla riforma fiscale
di Diocleziano della fine del IV secolo d. C.

Il processo di romanizzazione della Cisalpina, ormai maturo, sarebbe stato così giustamente
completato, premiando una regione che si era dimostrata ampiamente meritevole durante tutta la
guerra gallica. Nello stesso tempo Cesare avrebbe ottenuto la gratitudine di queste popolazioni,
legandole alla sua persona e ottenendone l’appoggio politico.
Gli optimates, quando si resero conto che l’ambizioso proconsole progettava una politica di grandi
riforme sociali e istituzionali, cercarono in tutti i modi di ostacolarlo e riuscirono a rendergli nemico
Pompeo, approfittando della morte per parto (54 a. C.) della sua giovane moglie Giulia, figlia
amatissima di Cesare e forte legame tra il padre e il marito.
Cicerone in una lettera del 51 a. C. segnalava preoccupato all’amico Attico (Cic. Att. 5, 2, 3) che
Cesare, andando ben oltre i suoi poteri, incoraggiava le comunità transpadane, aventi lo stato di
colonie latine, a eleggere i propri quattuorviri al posto dei previsti duoviri, come se esse fossero già
municipi romani a pieno titolo.
Nell’inverno del 50, sottomessa definitivamente tutta la Gallia al di là delle Alpi, Cesare visitò,
negli ultimi suoi mesi da governatore, un gran numero di municipi e colonie della pianura padana
per promuovere la propria candidatura a console, accolto dovunque in modo trionfale, ma
suscitando grande turbamento ed ira nel partito avverso.
Nel gennaio del 49 a. C. Cesare, generale vittorioso rappresentava dunque una grave minaccia per i
conservatori che intendevano privarlo delle truppe ed eliminarlo. Allora egli varcò il Rubicone con
una legione e si diresse su Roma: era la guerra civile.

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Mentre incalzava l’esercito nemico capeggiato da Pompeo, Cesare perseguì contemporaneamente
la sua politica: nel dicembre del 49 il tribuno della plebe Roscio, suo amico, riuscì a far approvare
una legge, la lex Roscia che concedeva la cittadinanza romana agli abitanti delle colonie latine a
nord del Po. Ci fu bisogno, però, di una legge di Cesare promulgata nel 45 a. C. (lex Iulia
Municipalis), per attuare la complessa costituzione dei municipi, che doveva armonizzare le leggi di
Roma con gli statuti locali.
Come gli altri abitanti dei centri transpadani, tutti i veronesi di condizione libera divennero allora
cittadini romani a pieno titolo. La colonia latina di Verona divenne Municipio Romano fregiandosi
del titolo di R. P. V. Res Publica Veronensium.

Le nuove città e l’economia del territorio


Le colonie fittizie erano state incoraggiate ad adeguarsi allo schema urbanistico romano a scacchiera ma
con autonoma gradualità, ora che erano state elevate a municipi dovevano adeguarsi al loro nuovo rango,
completando rapidamente la loro trasformazione in vere città, ordinate e funzionali ad una vita civile
complessa e variegata, simile a quella di Roma.
La fondazione di nuove città, al di là delle esigenze strategiche e militari, era una impegnativa scommessa
economica e finanziaria cui Roma chiamava a partecipare sia le popolazioni locali, sia i latini e gli italici che
si erano trasferiti sul posto per avviare imprese agricole e commerciali, una scommessa per lo più vincente
a condizione che fosse opportuna la scelta del luogo.
L’urbanizzazione infatti era un potente volano economico, che faceva lievitare enormemente il valore
delle aree interessate e innescava una intensa attività edilizia, la quale aveva bisogno di manodopera
generica e qualificata, quest’ultima spesso fatta venire da fuori.
C’era chi già si arrangiava come muratore, chi imparava a farlo, ma i più bravi si specializzavano
apprendendo l’arte da capimastri, fabbri e carpentieri provetti, sorgevano officine di fabbri e tagliapietre e
fornaci per la cottura dell’argilla dei mattoni e dei vasi.
Le città, una volta costruite diventavano il mercato di un vasto territorio circostante e le merci affluivano
nel foro dove i mercanti contrattavano i prezzi dei prodotti destinati a soddisfare le esigenze cittadine, ma
anche quelle dell’esportazione, per una parte selezionata dei prodotti. Così contadini e allevatori erano
invogliati ad aumentare la produzione non solo di cereali, ortaggi e frutta, carni e lana ma anche dei
prodotti derivati dalla trasformazione, olio, vino, formaggi, tessuti e pellami. In città si concentravano anche
attività artigianali legate alla lavorazione di vari materiali, laboratori di fabbri, vasai, falegnami, orafi, tintori,
calzolai. Fuori le mura sorgevano fonderie metallurgiche, fornaci per la terracotta e la ceramica, officine
degli spaccapietre. Si producevano, utensili per gli usi più svariati, armi e oggetti artistici, gioielli, statue di
pietra e bronzo.

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Fioriva così il mercato e l’economia e con essa la capacità delle città di dotarsi di edifici e servizi pubblici
che miglioravano decisamente la vita dei cittadini.
L’urbanistica romana aveva grande capacità di adattamento alle varie situazioni geomorfologiche, ma
tendeva a uniformare i centri abitati, rendendoli simili tra loro in modo impressionante, anche se non
sempre questa modalità era seguita: in alcune città l’incrocio delle vie principali e la collocazione del foro
avvenivano in posizione decentrata, per meglio sfruttare la conformazione del terreno e adattarvi il tessuto
urbano, oppure perché la città aveva origine dalla struttura di un accampamento militare, imperniato sul
quartiere generale del comandante, come sembra probabile per Torino e Aosta.
Per prima cosa sotto le direttrici delle future vie cittadine si scavava la rete fognaria, formata da ampie
cloache in mattoni con volta a botte, che portavano le acque a un fiume o un canale. Esse erano gallerie in
muratura scavate sotto le vie principali, coperte da robuste volte a botte, sufficientemente alte da
permettere il passaggio di un uomo per la manutenzione. Quindi sopra le fognature si costruivano le sedi
stradali.
L’occupazione degli spazi avveniva inizialmente nella zona centrale, negli isolati sviluppati attorno al
grande spazio del foro. Man mano che gli abitanti fossero cresciuti, nuove abitazioni si sarebbero aggiunte,
in modo ordinato, negli isolati vuoti, rimasti disponibili tra la zona centrale e le mura. Nel frattempo le
strade sarebbero state lastricate di pietre e dotate di marciapiedi rialzati, sotto i quali si aprivano bocche di
lupo per lo scolo delle acque.
I lati del foro si sarebbero col tempo arricchiti di edifici pubblici, religiosi e civili, portici e negozi. In
quartieri decentrati sarebbero sorte le terme, confortevoli bagni pubblici, e grandi edifici da spettacolo,
teatro, anfiteatro e odeon.
Sul fronte strada si sarebbero affiancate l’una all’altra le facciate delle casette popolari a due locali
sovrapposti, sostituendo le iniziali abitazioni provvisorie dei coloni. Spesso il piano superiore era
dotato di un balcone e sul retro della casa c’era un cortile interno. Le costruzioni erano sostenute da
robuste travature di legno tamponate da mattoni, pietre o ciottoli, uniti da malta.
Sarebbero sorte anche le eleganti domus, estese 400/500 mq, costituite da un quadrilatero in
robusta muratura, chiuso all’esterno, tranne qualche alta finestrella e suddiviso in numerose stanze
poste attorno ad un atrio o cortile interno da cui prendevano luce e aria. Un largo corridoio interrotto
a metà da un robusto portone comunicava con l’esterno sulla via principale, cui si aggiungeva di
solito una porticina di servizio, posta su un altro lato.
Così si svilupparono i nuovi centri urbani della Gallia transpadana, come Milano, Brescia, Vicenza Padova e
altri. ma, a differenza di questi, Verona subì una vera e propria rivoluzione urbanistica.

Trasferimento di Verona dal colle al piano. Intervento di Cesare?

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Con l’acquisizione dello status di municipio romano tra il 49 e 45 a. C. fu predisposto anche per
Verona il progetto di sviluppo cittadino. Qui, però, gli architetti rinunciarono ad uno sviluppo
dell’antico oppidum posto sull’altura di san Pietro, perché urbanizzare la collina presentava
problemi non da poco. Inoltre la pianura padana era ormai un territorio sicuro, “pacificato” e
saldamente controllato, per cui veniva meno la necessità difensiva di una posizione elevata del
centro abitato.
Fu quindi progettata una città del tutto nuova ai piedi del colle, nell’ansa dell’Adige. Qui passava
la via Postumia, una direttrice importante che gli architetti ebbero l’idea di sfruttare, trasformandola
in decumano massimo, nel suo tratto urbano. Le pendici del colle su cui sorgeva l’oppidum furono
abbandonate e in un secondo tempo scavate con un gigantesco lavoro di sbancamento per far posto
alla scenografica architettura del teatro e delle sovrastanti terrazze dominate dal tempio, rimasto
unico testimone della preesistente Verona.
Sparì così la Verona di cui Catullo aveva parlato nei suoi carmi, il poeta infatti morì a trent’anni
intorno al 54 a. C., alcuni anni prima della nascita della nuova Verona.
Gli altri oppida cisalpini, una volta divenuti municipi romani, non divennero immediatamente
nuove città, ma trasformarono gradualmente l’antico abitato, seguendo le direttrici degli urbanisti
romani a cominciare dalla zona riservata al foro, nuovo cuore cittadino. Verona invece venne
trasferita di punto in bianco dal colle al piano e razionalmente ricostruita. Una decisione di tale
portata fa pensare a una volontà politica non locale ma del governo centrale di Roma, perché
comportava la demolizione del vecchio abitato e l’esodo forzato dei suoi abitanti, per cui di recente
si è fatta strada la suggestiva ipotesi che dietro un’operazione di tale arditezza progettuale ci
fossero proprio Cesare e il suo architetto, il famoso Vitruvio Pollione. L’uomo politico ormai
dittatore esercitava un potere incontrastato: i suoi legami con la classe dirigente veronese e la
posizione strategica di Verona potrebbero spiegare il suo interesse per la nostra città.
A conferma dell’ipotesi si aggiunge il fatto che il totale trasferimento di un centro urbano in
pianura aveva un precedente, collegato proprio a Cesare, il quale aveva operato, sempre nella
Cisalpina e precisamente a Como, un intervento urbanistico molto simile. Egli, infatti, una decina
d’anni prima, aveva fatto spostare in piano, dalla collina su cui sorgeva, l’antico oppidum celtico di
Como, costruendo sulla riva del lago omonimo la città ancora oggi esistente.

Il caso di Novum Comum


Un trasferimento simile a quello di Verona era già accaduto anche a un altro centro della Cisalpina un
decennio prima: nel 59 a. C., l’anno del suo consolato, Giulio Cesare aveva dedotto a Como (un oppidum,
con lo status di colonia latina fittizia, come Verona) una numerosa colonia latina e contestualmente aveva

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spostato l’antico abitato di Comum oppidum, dall’altura su cui sorgeva, al piano presso la sponda del lago,
dandogli l’appellativo di Novum Comum (Catullo 35, 3-4; Strabone 5,1,6).
Il trasferimento in pianura era motivato dalla necessità di costruire una città capace di ospitare le famiglie
dei 5000 coloni-soldati ivi dedotti, e la collocazione sulla riva del lago offriva concrete possibilità di un
futuro sviluppo commerciale. La fondazione di Novum Comum rientrava nei piani di rafforzamento della
presenza romana nella fascia prealpina e di controllo dei valichi verso l’attuale Svizzera, quasi Cesare
presagisse di ottenere la Gallia Cisalpina come provincia.
Tra i 5000 coloni italici e forse in parte autoctoni, egli inserì 500 greci provenienti dalla Sicilia. L’iniziativa
non era così strana come si potrebbe pensare: costoro erano abili mercanti, imprenditori e artigiani,
esperti marinai e armatori, evidentemente l’intento di Cesare era quello di dare impulso all’economia e ai
commerci della città e del lago di Como.
Per convincerli a spostarsi a Novum Comum, in una terra così lontana dalla loro patria, li attirò con
l’eccezionale concessione della cittadinanza romana, avvalendosi dei suoi poteri consolari.
La cosa non mancò di suscitare aspre critiche negli ambienti conservatori che la considerarono un abuso di
potere e uno sfacciato favoritismo per ingraziarsi nuovi e vecchi amici.
Otto anni dopo Marco Claudio Marcello console nel 51 cercò invano di far approvare una legge per
sostituire Cesare, di cui era acerrimo nemico, nel comando delle province, prima della scadenza del
mandato e un provvedimento per privare della cittadinanza romana quei coloni di Novum Comum, cui
Cesare l’aveva concessa.
Non contento, se la prese con un importante personaggio di Como, che si trovava per caso a Roma ed era
anche cittadino romano. Accusandolo di non si sa quale colpa, lo fece percuotere con le verghe dai littori,
dicendogli di andare da Cesare a lamentarsi del trattamento e a mostrargli i lividi (Plutarco, Caes. 29;
Appiano, bell. civ. 2,26,98).
Dal momento che i cittadini romani potevano essere processati da un magistrato, ma non essere
assolutamente fustigati, con il suo gesto plateale Marcello voleva dichiarare inesistente la qualità di
cittadino romano basata sul provvedimento cesariano di otto anni prima. In realtà egli rivelava il
nervosismo degli ottimati e la loro impotenza a contrastare l’ascesa di Cesare e la popolarità da lui
acquisita dopo gli strepitosi successi militari con cui aveva sottomesso l’intera Gallia.

Epigrafe di fondazione della città


Possediamo l’atto di fondazione della nuova Verona romana, perché si è conservato in una lapide
celebrativa, inserita a metà tra i due fornici della facciata originaria in mattoni della porta dei Leoni,
alla quale in età imperiale ne fu sovrapposta una in pietra bianca

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Delle due facciate sovrapposte resta solo la metà est, appoggiata ad una casa. Anche dell’epigrafe
resta poco più di una metà, poco visibile perché nascosta dalla nuova facciata, perciò di essa sono
stati fatti dei calchi, uno dei quali è visibile, inserito nel muro dell’edificio retrostante alla porta. La
pietra tenera dell’epigrafe appare corrosa dal tempo, così da rendere alquanto difficoltosa la lettura
del testo qui riportato.

PˑVALERIUSˑ
QˑCAECILIU
QˑSERVILIUSˑQˑ
PˑCORNELIUSˑPˑF ˑ
IIIIˑVIRˑMURUMˑPORTA
CLUACASˑDˑDˑSˑ FACIU P ˑ
VALERIUSˑCˑFˑ
Q ˑ CAECILIUSˑQˑFˑ

L’epigrafe, spezzata e priva della parte destra è stata così integrata dal prof. Ezio Buchi, sulla base
di confronti con molte epigrafi simili, appartenenti ad altre città .

PˑVALERIUSˑ<CˑFˑ >
QˑCAECILIU<SˑQˑFˑ >
QˑSERVILIUSˑQˑ<Fˑ >
PˑCORNELIUSˑPˑFˑ
IIIIˑVIRˑMURUMˑPORTA<MˑTURREIS>
CLUACASˑDˑDˑSˑ FACIU<NDUMˑCOER>
PˑVALERIUSˑCˑFˑ
QˑCAECILIUSˑQˑFˑ <ˑPROBAV>

P = Publius; Q = Quintus; F = Filius; CˑF = Cai Filius;


IIIIˑVIR = quattuorviri; DˑDˑS = de decurionum sententia; COER = coeraverunt, forma arcaica
per curaverunt; PROBAV = probaverunt.
L’epigrafe dice:
“I quattuorviri, Publio Valerio figlio di Caio, Quinto Cecilio figlio di Quinto, Quinto Servilio figlio
di Quinto, Publio Cornelio figlio di Publio fecero costruire il muro, la porta, le torri, le fognature in
esecuzione di una delibera dei decurioni. Publio Valerio figlio di Caio, Quinto Cecilio figlio di
Quinto li collaudarono”.

L’iscrizione, nonostante la telegrafica forma dell’epigrafia rivela una quantità di informazioni.


Essa celebra, come avviene nelle epigrafi di fondazione, la compiuta realizzazione delle strutture di
una città romana: la cinta muraria difensiva completa di porte e torri e, cosa raramente indicata,

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anche lo scavo delle fognature, senza dubbio ritenute elemento fondativo di un tessuto urbano. Le
fognature presuppongono ovviamente il tracciato della rete viaria sotto la quale sono scavate.
L’anno di fondazione è imprecisato, poiché, come d’uso non vengono nominati i consoli, che ci
permetterebbero di datare l’evento, ma solo i magistrati locali, esso è comunque collocabile negli
anni del pieno potere di Cesare tra il 49 e il 45 a. C.
L’iscrizione ci testimonia che Verona aveva raggiunto lo status di municipio poiché nomina i
quattro responsabili che provvidero all’appalto dei lavori (faciundum coeraverunt), i quattuorviri,
che sono la magistratura tipica del municipio, diversamente da quella delle colonie costituita dai
duoviri.
Solo i primi due quattuorviri, però, dotati del potere giurisdizionale (iure dicundo) collaudarono
(probaverunt) la validità delle opere.
I quattroviri eseguirono una deliberazione dei decurioni (de decurionum sententia), il senato
veronese, rappresentante della classe dirigente della città e vero detentore del potere locale.

- Singolari aspetti urbanistici della nuova Verona.


La nuova città presenta tre particolarità che la rendono unica nel panorama della Gallia Cisalpina:
l’ampiezza straordinaria delle vie, l’insolita grande dimensione e il numero delle porte minori e
l’eccezionale architettura del Campidoglio, il tempio dedicato a Giove, fedelissima riproduzione di
quello di Roma.
Di solito, come accade nelle altre città della Cisalpina, cardi e decumani minori sono larghi circa
la metà del cardo e decumano massimi, a Verona invece hanno eccezionalmente la stessa larghezza
dei due massimi e cioè dodici metri, sei per la carreggiata e tre per ciascuno dei due marciapiedi.
Le porte secondarie o postierle, solitamente sono di piccole dimensioni e dotate di sola apertura
pedonale, quelle veronesi, inserite in alte torri, possiedono invece tre fornici, quello centrale per il
passaggio dei carri e i due laterali per il transito pedonale, come hanno messo in luce scavi recenti.
Esse per di più sono particolarmente numerose, se ne trova una allo sbocco di ogni via diretta verso
la campagna, mentre di solito il numero delle postierle è ridotto al minimo per facilitarne la
sorveglianza.
A Verona la più grande scoperta archeologica degli ultimi decenni è stato il ritrovamento delle
fondamenta del Campidoglio, sotto il seicentesco palazzo Maffei, che chiude a nord Piazza delle
Erbe, così come una volta questo tempio chiudeva a nord il foro romano.
La singolarità del progetto che connota la nuova città e rende manifesti i suoi speciali legami con
Roma è confermata dal tempio veronese, perché è l’unico finora noto nella Gallia cisalpina che ha il

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privilegio di riprodurre l’antico santuario del Campidoglio di Roma e lo ricalca fino nei più piccoli
dettagli.
È innegabile quindi che da parte dell’autorità centrale, a Roma, ci fu per la nostra città una
particolare attenzione ed è facile presumere che ciò avvenisse con il consenso di Cesare.

Impianto urbano
Orientamento
Considerando che il rettilineo della via Postumia attraversava l’ansa dell’Adige dove sarebbe
sorta Verona, l’architetto che la progettò trasformò il tratto urbano della via nel decumano massimo
della città, esso corrisponde agli attuali corsi Porta Borsari e Santa Anastasia e passava tangente al
lato corto nord del rettangolo del Foro, l’attuale piazza Erbe. Il cardo massimo, perpendicolare al
decumano, corrisponde all’attuale via Cappello e sboccava a metà del lato corto sud del Foro, si
bloccava davanti alla mole del Campidoglio, su cui sorge palazzo Maffei, e riprendeva dietro ad
essa lungo l’attuale via sant’Egidio.
In molte altre città romane il cardo non coincide con l’asse astronomico nord sud, a Verona
forma con esso un angolo di circa 35° ovest, acquisendo una direttrice obliqua nord ovest - sud est,
quindi il decumano, ad esso perpendicolare, non è orientato verso il sorgere del sole all’equinozio,
ma piuttosto verso il tramonto nel solstizio d’inverno, in direzione sud ovest. A dicembre inoltrato,
infatti, assistiamo al tramonto del sole dietro porta Borsari dove il decumano massimo si origina
dalla Postumia.
Questo orientamento, sfrutta al meglio la disposizione della scacchiera urbana e della rete viaria,
permettendo sia ai cardi, sia ai decumani di uscire verso la campagna, i primi dal lato sud-est, i
secondi dal lato sud ovest, mentre un esatto orientamento nord sud del cardo massimo avrebbe
costretto i decumani a sboccare sul fiume da entrambi i lati, sia a est, sia a ovest e solo i cardi
avrebbero avuto uno sbocco a sud verso la campagna.

Le mura del municipio romano e il loro percorso.


Come a Milano, Brescia, Vicenza e altre città della cisalpina trasformate in municipi romani
nella metà del I secolo a. C., la cinta muraria di Verona non fu costruita in pietra, ma in mattoni, per
la facile reperibilità dell’argilla nella pianura Padana e per l’alta capacità raggiunta dalle maestranze
in questa tecnica costruttiva.
Le mura hanno uno spessore di m 3, 60 alla base, che si assottiglia progressivamente verso l’alto,
sono una costruzione solida in mattoni sesquipedali, di un piede e mezzo (cm 44) per un piede (cm
29,5), spessi 5/8 cm, ben cotti e legati da robusta malta. Di esse abbiamo solo resti molto parziali,
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alcuni nascosti nelle cantine di privati, altri visibili negli scavi di porta Leoni. Non abbiamo tratti di
elevato completo del muro, ma possiamo calcolarne l’altezza in circa 8 m, perché il cammino di
ronda delle sentinelle doveva comunicare con il piano, alto appunto 8 m della prima fila di finestre
di osservazione della facciata tardorepubblicana di porta Leoni, contemporanea alle mura.
I municipi della Gallia Cisalpina, progettati per ospitare più o meno 10.000 abitanti, appaiono ai
nostri occhi trascurabili cittadine, così non era per i Romani che consideravano Verona una
importante città, anche se occupava solo 43 ettari a nord di un’area ben più vasta formata da
un’ansa dell’Adige.
L’abitato sorto in età tardo repubblicana sulla destra del fiume, era chiuso dalle mura solo sui
due lati meridionali, a sud-est e a sud-ovest. A settentrione il profondo letto del fiume costituiva un
baluardo naturale: lungo la curva dell’Adige non esistevano mura, ma robusti argini di pietra a
difesa dalle frequenti piene, ne sono state ritrovate le basi spesse quasi 3 m nella zona del
Vescovado, sotto la Biblioteca Capitolare.
Il perimetro delle mura, costruito a difesa solo della parte meridionale, non è dunque un circuito
completo ma ha solo due lati e un’estensione limitata, inferiore al km (940 m) e, pur essendo in gran
parte scomparso, è facilmente rintracciabile nel percorso di alcune vie che ne rispecchiano
l’andamento.
Lo costituivano due bracci rettilinei, che partivano uno dalla riva occidentale dell’ansa fluviale e
l’altro da quella orientale. Il braccio occidentale correva parallelo alla direttrice dei cardi, da nord-
ovest e sud-est, il braccio orientale, parallelo ai decumani, correva da nord-est a sud-ovest. I due
bracci si incrociavano a circa metà di via Frattini a un centinaio di metri dietro l’Arena, non lontano
da piazza san Nicolò. Essi formavano due lati di circa 500 m ciascuno di un angolo sostanzialmente
retto con vertice rivolto a sud. Gli altri due lati della città rivolti a nord, più lunghi e privi di mura
avevano un profilo variabile, adattato alla curva del fiume. La regolare scacchiera della città era
compresa insomma in una specie di quadrilatero irregolare.

Percorso delle mura


In destra Adige Il circuito delle mura, di poco inferiore al km, è facilmente percorribile a piedi: anche se
quasi scomparso e visibile solo in alcuni rari tratti, è intuibile seguendo il percorso delle vie attuali che ne
rispecchiano l’andamento.
Esso è costituito da due bracci sostanzialmente rettilinei, che chiudono l’abitato compreso nell’ansa
dell’Adige iniziando dalle rive opposte dell’ansa e incontrandosi vicino a piazza san Nicolò dietro l’Arena,
partendo dalla riva opposta nei pressi di porta Leoni.

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Seguiamo il braccio occidentale (direttrice nord ovest – sud est) partendo da lungadige Panvinio, una
quarantina di metri a valle a valle del ponte della Vittoria, dove l’originario muro repubblicano iniziava
verosimilmente con una torre quadrangolare sulla sponda del fiume, raggiungiamo via san Michele alla
Porta, corrispondente in parte a un antico decumano minore, che qui si apriva un varco nelle mura per
sboccare sulla campagna attraverso una postierla, una porta secondaria, inserita all’interno di una torre.
Imbocchiamo quindi vicolo Ostie, sotto il cui primo tratto passava il muro, proseguendo diritto sotto le
odierne case, che ne conservano tracce negli scantinati. Stiamo seguendo il muro originario della metà del I
secolo a. C., restaurato da Gallieno tre secoli dopo, circa dieci metri davanti ad esso corre parallelo il
secondo muro aggiunto da Teodorico all’inizio del VI secolo. In via Diaz n. 2 la facciata di palazzo Serenelli-
Benciolini è basata su un tratto ben conservato del muro di Teodorico, mentre all’interno dello stesso
palazzo nelle cantine si trova un tratto dell’antico muro in mattoni, alto quasi 4 metri.
Scendiamo a porta Borsari, un tempo porta Iovia (di Giove), di cui resta solo la facciata esterna di età
imperiale in pietra bianca, ma dietro la quale c’era per la profondità di circa 20 m un vero fortilizio che
proteggeva l’ingresso in città e di cui possiamo vedere i basamenti segnati sul retro, nel piano stradale. Il
muro antico si innestava circa a metà del fianco di questo fortino, il quale sporgeva circa una decina di
metri all’esterno della cinta, protetto da due torri poligonali di 16 lati. Invece il muro di Teodorico, in
analogia con quanto scoperto a porta Leoni, correva davanti alla antica Porta Iovia formando un nuovo
fortino avanzato con un solo ingresso, per motivi di sicurezza.
Continuiamo seguendo il percorso in lieve salita dall’altro lato della porta, lungo vicolo sant’Andrea, vicolo
Del Guasto, passando da corte Farina dove si trova una postierla altomedioevale che ne ricalca una romana,
posta allo sbocco di un decumano minore, di lì oltre via Mazzini imbocchiamo vicolo san Nicolò, usciamo in
piazza san Nicolò e percorriamo via Frattini per poco meno di 100 m, qui sotto un caseggiato di sinistra c’è il
punto in cui questo muro incontrava il braccio orientale proveniente da nord est, all’incrocio tra via Frattini
e via Leoncino. Qui il braccio orientale fu prolungato da Gallieno per raggiungere l’Arena, parallelamente
all’altro muro di collegamento con l’Anfiteatro, che si innestava obliquamente nel braccio occidentale
all’altezza del decumano minore, formato da via Stella e via Anfiteatro.
Il braccio orientale segue l’allineamento di via Leoncino restando però arretrato all’interno delle case. Nei
sotterranei, visitabili su prenotazione, dell’istituto “Figlie di Gesù” sito in via san Cosimo 3, una traversa di
via Leoncino, si trova, ben conservato un tratto di mura in mattoni tardorepubblicano a cui nel I-II secolo fu
appoggiata una ricca domus dai pavimenti marmorei e musivi, c’è poi la base di un torrione di rinforzo di
Gallieno a cui fu aggiunto più tardi uno sperone triangolare difensivo di blocchi di pietra e di fronte ad essi
si erge un imponente resto del muro di pietra di Teodorico in quasi tuta la sua altezza .
In via Leoncino 10 nei sotterranei di Casa De Stefani è stata riportata alla luce la postierla romana
costituita da un fornice carraio largo 3 m, fiancheggiato da due piccoli fornici pedonali, dalla quale usciva
verso la campagna il cardo minore corrispondente a vicolo Stella e a piazzetta Scala.

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La linea delle mura era rafforzata da alte torri quadrangolari sporgenti, poste a distanza regolare (circa
70 m), in corrispondenza dei cardi e decumani minori, i quali sboccavano all’esterno verso la campagna
attraverso postierle carrabili ricavate nelle torri stesse.
Il cardo e il decumano massimi comunicavano entrambi con l’esterno attraverso due ampi passaggi carrai
per i due sensi di marcia, protetti dalle due porte monumentali, porta Leoni e porta Iovia, veri e propri
fortilizi, più alti delle mura e avanzati rispetto ad esse di una decina di metri, tanto all’esterno, quanto
all’interno della città. La facciata esterna delle porte era difesa sugli angoli da due robuste torri poligonali a
sedici lati, alte una ventina di metri.
Da via Leoncino sbocchiamo quindi nello slargo di via Leoni e qui, nello scavo lasciato a cielo aperto,
possiamo vedere l’inserimento del muro tardorepubblicano nel quadrilatero di porta Leoni e, scendendo
nello scavo, il muro teodoriciano che corre davanti alla porta, della quale è miracolosamente rimasta in
piedi la mezza facciata in pietra, di età imperiale, e dietro a poche decine di centimetri la precedente metà
facciata, in mattoni della primitiva porta municipale.
Seguiamo infine il percorso delle mura lungo corticella Leoni e via Amanti, solo per il suo tratto rettilineo,
perché poi è interrotto dalle case sotto le quali continua in linea retta, raggiungendo la sponda orientale
dell’ansa del fiume in lungadige Rubele, tra il ponte Nuovo e il ponte Navi.
Della cinta muraria sulla sinistra dell’Adige non conosciamo l’andamento all’epoca della fondazione del
municipio romano, si può presumere che, partendo dalla sponda del fiume cingesse il colle di san Pietro, di
sicuro secoli dopo Teodorico fortificò con mura nuove l’altura che dominava la città e ai piedi della quale il
re goto volle collocare il suo palatium, la reggia.
Ai piedi del colle, sulla sponda sinistra dell’Adige, di fronte alla nuova Verona, furono costruite altre due
porte urbiche monumentali a protezione degli ingressi in città, una a monte di Ponte Pietra sormontava la
via diretta a Trento, l’altra circa 200 m più a valle, sorgeva a cavallo della via Postumia diretta a Vicenza. Le
due porte erano verosimilmente collegate da una cinta difensiva che abbracciava la sommità del colle,
anche se di essa mancano testimonianze archeologiche
Il braccio occidentale iniziava in lungadige Panvinio poco a valle del ponte della Vittoria,
procedeva in una direzione parallela a via Diaz fino a innestarsi a metà del quadrilatero fortificato di
porta Iovia (porta Borsari). Continuava poi dall’altro lato della porta, e attraversando piazza san
Nicolò giungeva in via Frattini, qui il muro piegava con un angolo di poco più di 90° con l’altro
braccio, il quale seguendo un rettilineo parallelo a via Leoncino raggiungeva Porta Leoni,
proseguiva poi sul lato opposto della porta, raggiungendo la sponda orientale dell’ansa fluviale in
lungadige Rubele, circa a metà strada tra ponte Nuovo e ponte Navi.

Sotto lo slargo di via Leoni, nello scavo lasciato a cielo aperto, è visibile l’inserimento del muro
circa a metà del quadrilatero di porta Leoni, nel suo lato di sud-ovest, all’estremità del quale si
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trovano le fondamenta di una delle due torri poligonali. All’interno di un palazzo sito in via
Leoncino 10 si trovano ben conservate la torre e la postierla in essa inserita, in corrispondenza
dell’uscita del cardo minore proveniente da vicolo Stella e piazzetta sant’Andrea.
La linea delle mura era rafforzata da alte torri quadrangolari sporgenti, poste a distanza regolare
(circa 70 m), in corrispondenza dei cardi e decumani minori, i quali sboccavano all’esterno verso la
campagna attraverso postierle carrabili ricavate nelle torri stesse.
Il cardo e il decumano massimi comunicavano entrambi con l’esterno attraverso due ampi
passaggi carrai per i due sensi di marcia, protetti dalle due porte monumentali, porta Leoni e porta
Iovia, veri e propri fortilizi, più alti delle mura e avanzati rispetto ad esse di una decina di metri,
tanto all’esterno, quanto all’interno della città. La facciata esterna delle porte era difesa sugli angoli
da due robuste torri poligonali a sedici lati, alte una ventina di metri.
Ai piedi del colle, sulla sponda sinistra dell’Adige, di fronte alla nuova Verona, furono costruite
altre due porte urbiche monumentali a protezione degli ingressi in città, una a monte di Ponte Pietra
sormontava la via diretta a Trento, l’altra circa 200 m più a valle, sorgeva a cavallo della via
Postumia diretta a Vicenza. Le due porte erano verosimilmente collegate da una cinta difensiva che
abbracciava la sommità del colle, anche se di essa mancano testimonianze archeologiche.

Il doppio circuito delle mura


L’impianto difensivo romano in apparenza così semplice rivela a uno sguardo approfondito una
struttura piuttosto complessa, prima ampliata e in seguito raddoppiata nel corso di cinque secoli e
mezzo, dalla fondazione della città alla sua occupazione da parte dei Goti di Teodorico.
Della doppia cinta muraria possiamo ancora vedere resti significativi nel cuore del centro storico.
Un tratto di muro di pietra, inglobato nella facciata di palazzo Benciolini in via Diaz 2, raggiunge
da nord ovest porta Borsari, nelle cantine del palazzo si trovano, arretrate di una decina di metri da
questo muro, le fondazioni dell’antico muro di mattoni. Dall’altro lato della porta è visibile un più
lungo muro di pietra nella base della fila di case del lato sud-ovest di vicolo del Guasto.
Fondazioni di mura in mattoni parallele ad altre di pietra sono visibili negli scavi presso porta
Leoni e altre si trovano negli scantinati di proprietà private. Un tratto di mura, in materiale misto
(ciottoli, mattoni e pietre), in parte inglobato nelle case, in parte libero in tutta la sua altezza, si
trova in piazzetta Mura di Gallieno, presso l’Arena.
Viene spontaneo chiedersi il perché dell’impiego di diverse tipologie di materiale. La risposta è
che Verona romana possedeva una doppia cerchia di mura, poste solo a una decina di metri l’una
dall’altra.

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Il circuito interno, presumibilmente alto circa otto metri, è tardorepubblicano sella metà del I
secolo a. C., costruito con molta cura in mattoni di ottima qualità e non comprende l’Arena, che
sarà eretta fuori di queste mura, circa un secolo dopo, in età imperiale giulio claudia.
Il circuito esterno, che raggiunge quattordici metri di altezza, è invece costruito in gran parte con
blocchi e lastre di recupero di varie misure, ma ben assemblate e si estende a raccordarsi anche con
l’Arena, unendo la sua formidabile mole al sistema difensivo della città.
Le due cinte murarie appartengono evidentemente ad epoche diverse. La cinta interna, in mattoni
e alta circa 8 m, risale al piano di fondazione della città, all’età di Cesare (metà I secolo a. C.),
un’epoca in cui le mura si potevano erigere con calma e dovizia di mezzi al riparo delle frontiere
salde di uno stato romano florido e potente. La seconda cinta, esterna, in pietra e alta fino a 14 m,
denota l’urgenza costruttiva di tempi difficili, percorsi da incombenti minacce di massicce invasioni
e guerre intestine, che richiedevano mura poderose.
Fino agli anni Ottanta del Novecento archeologi e studiosi attribuivano questa seconda cinta
all’imperatore Gallieno, datandola al 256 d. C., sulla base della maestosa epigrafe incisa sugli
architravi di porta Borsari, l’antica porta Iovia, che celebra la decisione di questo imperatore, grazie
alla quale in pochi mesi “furono fabbricati i muri dei Veronesi”.
Nuove evidenze archeologiche, emerse da scavi già degli anni Settanta portarono a un
ripensamento della cronologia e all’attribuzione di questo secondo circuito al regno del re ostrogoto
Teodorico il Grande (493-526), il quale, come testimonia la Chronica Theodoriciana o Valesiana
(scritta nel 550 a pochi anni dalla sua morte) “cinse di nuove mura la città [di Verona]”, scelta come
una delle sue capitali.
Sembra assodato che l’intervento di Gallieno, avvenuto nella metà del III secolo, in un periodo di
grave crisi dell’impero, non costruì una nuova cinta, ma si limitò a ricostruire l’originario circuito
tardorepubblicano di tre secoli precedente, rafforzandolo con nuove torrette e completandolo con
due nuovi bracci di mura erette in fretta con corsi di ciottoli e laterizi e materiali di reimpiego per
raggiungere l’Arena e collegarla alla cinta difensiva, che cadendo in mano nemica si sarebbe
trasformata in una fortezza gigantesca contro la città, dall’altezza dei suoi trenta metri..

Testimonianza archeologica di porta Leoni


Il sistema difensivo del doppio circuito è ben visibile a porta Leoni, della quale è rimasta
miracolosamente in piedi, addossata a una casa, metà della facciata interna, rivolta verso la città,
con relativo arco di ingresso. Sul retro della scomparsa altra metà, negli scavi lasciati a cielo aperto,
è riconoscibile la fondazione della struttura a fortilizio a pianta quadrata, di circa 25 m di lato, della
porta tardo repubblicana in mattoni, compresa la base di una delle due torri poligonali posta

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anteriormente sullo spigolo ovest (la torre est si trova nello scantinato della vicina farmacia). A
circa 18 m dalla facciata in direzione dell’Adige, si notano le fondazioni del muro repubblicano in
mattoni che si raccorda con il fianco ovest del quadrilatero della porta.
Scendendo nello scavo, circa 10 m davanti al primo è accessibile la fondazione di un altro muro
tangente alle torri, è il muro di Teodorico che si raccordava a un fortino avanzato, contenente la
nuova porta con un unico arco di ingresso, più facilmente difendibile.

Con la pace di Augusto, che pose fine alle guerre civili e spostò i confini dell’impero sul Reno e il
Danubio, allontanando pericoli e conflitti, le cinte murarie delle città italiche persero il loro
carattere difensivo, mantenendo però un forte significato simbolico: esse segnalavano un abitato
importante che godeva di autonomia giuridica e amministrativa e in cui non era lecito seppellire i
morti né entrare armati. Su monete, mosaici e bassorilievi appare a volte la rappresentazione di
mura turrite, essa è sufficiente da sola a evocare una città con il suo prestigio e la sua potenza.
Di solito le mura delimitano il confine del territorio cittadino, ma nel caso di Verona i dati
archeologici ci dicono che le mura tardorepubblicane furono innalzate sopra il reticolo viario
precedentemente costruito, intersecandolo e tagliando a metà i rettangoli degli isolati tracciati sul
terreno.
La perdita della funzione difensiva è del tutto evidente in età imperiale, quando l’edilizia
cittadina, alla ricerca di nuovi spazi, si spinse a costruire anche nei pressi delle mura, sfruttandole
come appoggio, al di qua e al di là della cinta senza alcun rispetto della distanza normalmente
prevista. Lo testimoniano le scoperte archeologiche degli ultimi decenni che hanno messo in luce
pavimenti preziosi di ricche domus, addossate alle mura.
Le numerose porte secondarie o postierle, poste eccezionalmente all’uscita di tutti decumani e
cardi minori facilitavano la comunicazione tra la città, i sobborghi e la campagna. Un esempio ben
conservato di postierla è inglobato in un palazzo al n. 10 di via Leoncino ed è in parte intuibile
anche dall’esterno.
La superficie compresa dalle mura era evidentemente non molto estesa, e fu occupata in breve
tempo dall’edilizia privata e pubblica tanto che la città a qualche decennio dalla fondazione
cominciò a espandersi al di là della cinta muraria, a sud ovest della quale fu elevata l’imponente
mole dell’Arena, il grande anfiteatro, mentre pochi decenni prima era stato costruito al di là del
fiume, sulle pendici del colle il teatro, affiancato dall’odeon.
Vicino alle mura e al di là di esse si svilupparono fonderie di metalli e forni di cottura dell’argilla,
che poi si spostarono in zone artigianali più lontane dalla città, lasciando talvolta il posto a domus

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signorili. Nel I e II secolo lungo alcune strade in uscita, soprattutto ai lati della Postumia
cominciarono a sorgere ricche domus, non fu trascurata neppure la collina, dove alcuni facoltosi
personaggi costruirono le loro ville suburbane.

Le porte monumentali
Allo sbocco dei cardi e decumani minori si aprivano nella cinta delle mura, numerose porte
minori, o postierle, ma l’ingresso in città avveniva soprattutto da quattro porte monumentali,
collocate a cavallo delle vie principali, due nella città abbracciata dall’Adige, allo sbocco del
decumano e del cardo massimi (attuali corso porta Borsari e via Cappello), e due al di là dell’Adige,
situate ai due lati del teatro, una subito a monte del ponte Pietra e l’altra a valle del ponte Postumio,
presso l’attuale via Regaste Redentore, in direzione di Vicenza.
Delle prime due, porta Borsari (la romana porta Iovia) e porta Leoni (di cui non è noto il nome
latino) restano miracolosamente in piedi parti significative delle facciate, invece delle due presso il
teatro sono state ritrovati solo fondazioni sotto il livello attuale del suolo.
A dire il vero il semplice nome “porta” non è adeguato, giacché esse erano veri e propri fortini, a
pianta quadrangolare, con circa 20 m di lato, al cui interno si trovava un ampio cortile, circondato
da portici, che alloggiava un corpo di guardia e una dogana per il controllo di merci e passeggeri in
transito. Le fondazioni del fortilizio di porta Leoni sono visibili in parte nello scavo lasciato a cielo
aperto. L’attuale Porta Borsari è solo la facciata esterna in pietra bianca aggiunta in età imperiale,
dietro alla quale a una ventina di metri sono evidenziate sul piano stradale in pietra chiara le
fondazioni dei pilastri della facciata interna dell’antica porta Iovia.
Le porte, alte tre piani, raggiungevano i 13 m e si protendevano per una decina di metri al di
fuori della linea delle mura, protette sugli angoli esterni da due solide torri poligonali alte circa 20
m, incise da feritoie ai vari piani.
Gli ingressi alla città, possibili punti deboli, erano in questo modo potentemente rafforzati e nello
stesso tempo resi più funzionali al traffico in entrata e uscita, che avveniva attraverso quattro fornici
(grandi aperture ad arco), due verso l’esterno e due verso l’interno della città, attraverso i quali i
carri passavano agevolmente nei due sensi di marcia.
La chiusura notturna e in caso di pericolo avveniva probabilmente calando saracinesche verso
l’esterno e chiudendo all’interno robusti portoni.
Nei due piani soprastanti il pianterreno correvano corridoi sui quattro lati, con finestre ad arco,
che davano sull’esterno e sull’interno del cortile.
Il cammino di ronda, posto sulla sommità delle mura, entrava nelle porte all’altezza del primo
piano delle finestre di osservazione.

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Oltre alla funzionalità pratica di custodia del transito e riscossione dei dazi, alle porte era affidata
anche un’importante valenza simbolica, di rappresentanza, lo provano la monumentalità e la cura
architettonica con cui furono costruite. Agli occhi del visitatore, che aveva percorso in solitudine
miglia e miglia di paesaggio rurale attraverso campagne, pascoli e boschi, esse rappresentavano
finalmente un segno tangibile del mondo civile, una prefigurazione della città che contenevano,
della sua importanza, ricchezza e decoro.
Le facciate originarie delle porte di Verona, quando divenne municipio romano in età di Cesare,
erano in mattoni e tufo (più precisamente calcarenite) e presentavano, sia verso l’esterno, sia verso
l’interno della città, un disegno architettonico di derivazione centro italica, che valorizzava le
possibilità decorative dei materiali. Un’idea di queste architetture possiamo ricavarla da
un’attendibile ricostruzione dell’antica facciata interna in mattoni di Porta Leoni, rimasta intatta per
una metà, dietro la successiva facciata in pietra, di età imperiale, che la ricopre.
La superficie in cotto della facciata era movimentata , sopra il piano terra con i due archi di
ingresso, dall’effetto di chiaroscuro creato dalla fila di sei finestre del primo piano e dal loggiato
centrale del secondo. A ciò si aggiungeva il contrasto della bicromia tra il rosso prevalente del
mattone e il giallo dei conci di tufo che sottolineava alcune membrature architettoniche, come la
curvatura delle arcate dei fornici di ingresso e le cornici dei tre piani, le due cornici che marcavano
il piano terra e il primo piano erano decorate con due motivi rettilinei, intagliati a basso rilievo, il
secondo e ultimo piano ospitava il loggiato, scandito da colonne doriche, ed era coronato da una
cornice modanata.
È su questa facciata che si è trovata infissa accanto all’arcata rimasta l’iscrizione corrosa dal
tempo che testimonia la fondazione della città (vedi sopra p.49).
In età imperiale, sotto la dinastia Giulio Claudia, alle facciate in mattoni vennero accostate nuove
facciate in pietra bianca per abbellire e monumentalizzare ulteriormente le porte (vedi sotto).

15- Il Foro
Piazza Erbe occupa ora il luogo dell’antico foro romano, non più visibile, ma non cancellato: le
vestigia della sua pavimentazione, in lastre di pietra calcarea veronese, si trovano, infatti, a circa un
metro sotto il livello del suolo, ne sono state ritrovate nelle cantine di alcune case, che nel corso del
tempo occuparono parti dell’area della piazza romana.
Non solo il dato archeologico del foro è in parte sopravissuto, ma in certo qual modo anche la sua
funzione è sopravvisuta, ripresa, in una specie di continuità plurisecolare, da piazza Erbe, che a

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partire dal medioevo fu il centro commerciale della città, a due passi dai palazzi del governo e della
giustizia.
Le due piazze, separate da un circa un millennio di storia, ma in parte sovrapponibili, sono quanto
di più diverso ci possa essere sotto l’aspetto urbanistico, perché frutto di due concezioni opposte.
Il foro, classico esempio di progettazione romana, era un lungo rettangolo regolare fiancheggiato
da porticati e da edifici pubblici civili e religiosi, secondo una pianificazione urbanistica dalla
geometria esattamente calcolata su rapporti proporzionali, ottenuti moltiplicando precisi moduli di
base.
Piazza Erbe è invece tipico frutto dell’empirismo medievale, grazie al quale gli edifici sono potuti
progressivamente avanzare sui lati lunghi del foro, secondo la volontà e il potere contrattuale dei
vari committenti, lasciando al centro la larghezza originaria, ma occupando spazi adiacenti a tre dei
quattro spigoli, soprattutto ai due a ovest, fino a dare alla piazza una direttrice lievemente obliqua
rispetto al foro e conferendole la caratteristica attuale forma a fuso. Piazza Erbe non è per questo
priva di bellezza, anzi essa esercita un fascino irrepetibile con una armoniosa fusione di architetture
medievali, rinascimentali, barocche e dell’età moderna.

Il foro si trovava alla convergenza di cardo e decumano massimi, la grande piazza, centro e cuore
della città, era un rettangolo lungo 150 m , circa quanto due isolati, nella direzione dei cardi, e largo
56 m, meno di un isolato, nella direzione dei decumani. La forma rettangolare era quindi alquanto
allungata (rapporto 1: 3). Il decumano fiancheggiava a nord il lato corto del foro, il cardo vi entrava
sul lato corto meridionale, un decumano minore lo attraversava nel mezzo.
Sul lato occidentale il foro era fiancheggiato da uno stretto e lungo porticato sul cui retro si
aprivano le tabernae, i negozi dei mercanti e dei cambiavalute.
Il foro costituiva il cuore della vita cittadina, nei giorni di mercato vi affluiva una folla rumorosa,
variegata e vivace, che si raccoglieva attorno ai banchi dei venditori.
Anche i processi venivano celebrati nel foro, attirando centinaia di curiosi che vi assistevano
come ad uno spettacolo sportivo, divisi in fazioni, con applausi o boati di disapprovazione. Nei
periodi elettorali erano invece i discorsi dei politici cittadini ad attrarre la folla. Nella piazza si
celebravano solennità religiose e civili con grande concorso di popolo e prima della costruzione del
teatro e dell’anfiteatro vi si svolgevano anche spettacoli e combattimenti tra gladiatori.
Il foro era luogo di incontro tra domanda e offerta: alle prime luci del giorno vi si recavano i
lavoratori a giornata in cerca di un ingaggio. Si andava nel foro per fare affari, incontrare i
mediatori di varie merci, ma anche per trovarsi con amici e conoscenti, o scambiarsi le ultime

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notizie e i pettegolezzi e passare il tempo libero fuori casa, visto che le abitazioni comuni erano
anguste e poco confortevoli.
Nei pressi del foro era possibile trovare thermopolia (tavole calde) e popinae (osterie) frequentati
da operai, carrettieri, uomini liberi e schiavi, cittadini e stranieri, che con pochi assi (moneta
spicciola) potevano fare uno spuntino nella pausa pranzo di mezzogiorno, cenare a sera o portarsi a
casa cibo già pronto.
Attorno al perimetro del foro sarebbero sorti edifici pubblici indispensabili alla vita politica,
amministrativa e religiosa della città. Sul lato corto settentrionale si iniziò quasi subito a costruire il
maestoso edificio del Capitolium (Campidoglio) e sul lato lungo ovest, al di là dei porticati che
ospitavano le tabernae entro pochi decenni si sarebbero edificati il Comitium (Comizio per le
assemblee cittadine), la Curia (Senato municipale) e la Basilica (mercato al coperto e tribunale)

16- Il Campidoglio
La costruzione del Capitolium (Campidoglio) fu avviata poco dopo la fondazione della città nell’ansa
del fiume e pare che ci vollero più di vent’anni per completarla, a causa della sua complessità e di eventi
che forse interruppero i lavori. Non si trattava semplicemente di un tempio importante, ma di un’ampia ed
elevata struttura, attorniata da portici e criptoportici, con funzioni civili oltre che religiose, dimostrazione
che si facevano grandi progetti su Verona e sul suo futuro sviluppo

Ambizione e ingegnosità di un progetto.


Il complesso degli edifici capitolini nacque da un progetto architettonico grandioso e geniale: il tempio, la
cui pianta misurava m 35 x 42, doveva elevarsi su di un podio, posto a sua volta al centro di un’ampia
terrazza di m 84 x 78, accessibile con una scalinata dal lato sud e delimitata a ovest, nord ed est da un
triplice portico, con uno sviluppo lineare di più di 200 m e un’ampiezza interna di 12. Esso poggiava sulla
robusta struttura di un criptoportico (portico nascosto) seminterrato, delle medesime dimensioni, che con
la sua a duplice volta in opus coementicium, aveva anche la funzione di contenere il terrapieno artificiale
della terrazza.
Il cantiere partì con lo scavo della fossa di fondazione del tempio, e delle trincee di fondazione dei muri
perimetrali del criptoportico, asportando lo strato inconsistente di sabbie fini e in parte fangose, per
raggiungere il sottostante livello alluvionale di ghiaia compatta con tracce di argilla, solido ed impermeabile.
Lo scavo fu poi riempito con strati ben pressati di argilla e sabbia riportate, ghiaia e scarti di brecciame di
tufo.
Si procedette poi alla costruzione dei tre lati del criptoportico il cui spazio interno si sarebbe riempito con
un’enorme quantità di materiale per formare la terrazza. Gli architetti avevano affrontato, in primo luogo, il

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problema di come garantire solida base alle colonne portanti del tempio, posto non su roccia, ma sulle due
strutture artificiali sovrapposte del podio e della terrazza. Lo risolsero con un trattamento particolare
dell’area di fondazione del tempio, o meglio della parte che avrebbe dovuto sostenerne le colonne (non
conosciamo la zona sottostante le tre celle).
Sullo strato di riempimento fu posta una struttura a nido d’ape costituita da file allineate di plinti
(basamenti di colonne) in mattoni sesquipedali (di un piede per un piede e mezzo cm 30 x 45 e spessi circa 6
cm), di ottima qualità e legati accuratamente con malta molto fine. I plinti, quadrati di 3 m di lato alla base,
che si restringevano salendo, erano collegati tra loro, nel mezzo di ogni lato, da muri longitudinali e
trasversali, i quali delimitavano spazi vuoti in genere vagamente cruciformi, che venivano riempiti con strati
di argilla, sabbia e ciottoli fortemente pressati, per evitare un impiego spropositato di mattoni. Questa
piattaforma fu progressivamente elevata di alquanti metri, dalla base di fondazione fino alla
pavimentazione del podio, fornendo un massiccio appoggio alle colonne del tempio sovrastante.
Nel frattempo si compiva il riempimento della terrazza con circa 7000 mc di materiale, poi ricoperto con
lastre di calcare. Quindi si iniziò la costruzione dell’elevato, innalzando con tufo locale le maestose colonne
del tempio e quelle molto più piccole del triportico.

- Urbanistica e modelli stilistici del Complesso capitolino


L’imponente mole del Campidoglio si ergeva a nord del Foro, immediatamente al di là del
decumano massimo sopra una terrazza che presentava un fronte di 84 m, ben superiore alla
larghezza di 56 m del foro stesso, tale da bloccare a nord la possibilità di uscita dal Foro del cardo
massimo che vi da sud.
All’epoca fu la costruzione cittadina più alta e maestosa: con i suoi 21 m superava di gran lunga
l’altezza delle mura (8 m) e delle porte (13 m), eguagliando le torri (20 m). Al viaggiatore diretto a
Verona cominciava ad apparire da molto lontano, come un simbolo della città, sopravanzato poi
solo dalla costruzione dei grandiosi edifici del Teatro e dell’Arena.
Una scalinata incassata nel suo lato sud raggiungeva la sovrastante terrazza, la cui copertura di
pietra era delimitata su tre lati da un portico fittamente colonnato, una soluzione architettonica di
chiara ispirazione ellenistica. Esattamente sotto il portico correva il criptoportico, che lo sosteneva
ed era formato dai tre lati di un corridoio seminterrato ampio 12 m, diviso in due navate con
copertura continua di due robuste volte a botte in opus coementicium. Le volte poggiavano sui due
muri perimetrali interno ed esterno del criptoportico e centralmente sul muro divisorio di spina ad
archi, sostenuti da solidi pilastri .
Il tempio vero e proprio si innalzava al centro della terrazza su un podio alto circa m 3,50 e a
differenza dei templi greci, aperti sui quattro lati, era accessibile solo dal lato sud, con una seconda
scalinata che saliva dalla terrazza, in asse con la prima.
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Alla sommità dei gradini si era accolti dall’ampio vestibolo (pronao) costituito da un profondo
porticato sostenuto da tre file di sei colonne.
Esse avevano base attica, rocchi di tufo locale a scanalatura ionica, ricoperti da stucco colorato e
terminavano con capitello tuscanico.
Il fronte era costituito da sei colonne alte circa nove metri, di esse le quattro centrali
corrispondevano all’ampiezza del retrostante edificio, sulla facciata del quale si aprivano le tre
celle. Le due colonne laterali estendevano il fronte del pronao oltre l’ampiezza delle celle e
proseguivano posteriormente con una duplice fila di colonne sui due fianchi del tempio, formando
due portici laterali, coperti dalle ampie falde sporgenti del tetto.
L’edificio fondeva quindi caratteri del tempio tuscanico (che sorge su un podio e ha colonne e
portico solo sul davanti) con quelli del tempio periptero (cioè con colonne tutt’intorno), con la
differenza rispetto al periptero che le colonne e il tetto del tempio non si prolungavano sul retro, ma
terminavano con la parete posteriore delle celle, così che l’edificio sembrava troncato, perché
contava la vista frontale, esattamente come avveniva nel tempio di Roma.
Il Campidoglio, raggiungibile solo da una duplice scalinata sembrava lontano, segreto, quasi
inaccessibile, proprio come gli antichi templi etruschi. Al suo interno c’era il sancta sanctorum, la
casa divina, divisa in tre lunghe celle: la centrale, più grande, ospitava la statua di Giove, ai suoi
fianchi erano collocate Giunone e Minerva, queste divinità costituivano la triade capitolina che
dall’alto vedeva e proteggeva la città di Verona, così come quella di Roma.

Oltre al brusco troncamento sul retro del tempio, un altro carattere arcaico era costituito dalla
facciata, che risultava notevolmente più larga che alta, con le colonne così distanziate tra loro, da
richiedere architravi di legno (travi di pietra così lunghe si sarebbero facilmente spezzate), ornati
non da fregi di pietra, ma da più leggere lastre di terracotta variopinta. La forma architettonica della
facciata risultava quindi piuttosto pesante, tozza, ben diversa da quella slanciata dei templi greco
ellenistici dalle eleganti proporzioni, ormai presenti da tempo nella penisola e che erano stati
costruiti anche a Verona, quando era divenuta colonia latina.
Il Campidoglio della capitale, innalzato cinque secoli prima dai Tarquini, i re etruschi, e più volte
ricostruito tale e quale dopo incendi o devastazioni rappresentava per Roma un legame profondo
con le proprie radici culturali, sacre e civili, possedere un tempio ricalcato su di esso era un raro
privilegio, un simbolo, religioso e politico, dell’amicizia particolare che legava Roma a Verona,
ottenuta forse grazie a Cesare, che può ben spiegare la struttura volutamente arcaica dell’edificio.
Comunque se l’architettura ci appare un po’ tozza, l’apparato decorativo era un vivace
caleidoscopio di colori. In basso lo stucco dipinto rivestiva le colonne, in alto trionfavano i

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colori della terracotta: vivaci cornici coprivano le travi, lungo gli spioventi del tetto correvano
gronde con disegni vegetali variegati, i pluviali erano abbelliti da teste di leoni o mascheroni
con la bocca spalancata.

L’abbandono, la spoliazione e il ritrovamento


Il tempio capitolino qualche secolo dopo cadde nell’abbandono per l’affermarsi del cristianesimo
e andò in completa rovina in seguito alla caduta dell’impero romano d’occidente, divenendo allora
una specie di cava di materiale edile: le pietre e i robusti filari di mattoni dei basamenti furono
asportati e riutilizzati in nuovi edifici, i criptoportici furono travolti da crolli. Le macerie
costituirono un rilievo irregolare del terreno, che fu in qualche modo spianato per innalzarvi nuovi
edifici nel corso del medioevo e del Campidoglio si perse così traccia e memoria.
Nel Cinquecento, nel fervore rinascimentale della riscoperta delle antichità, fu rinvenuta
un’epigrafe che menzionava il Capitolium e tra gli studiosi che cercavano di stabilirne l’ubicazione
prevalse l’ipotesi di collocarlo in alto, sul colle, finché ai primi del Novecento un archeologo
americano, il Frothingam ritrovò nelle cantine di case prossime al lato ovest di piazza Erbe tre celle,
che giudicò appartenenti senza alcun dubbio alla tre divinità capitoline, ma la posizione rispetto al
foro e il livello uguale a quello del suolo romano lasciavano qualche dubbio.
Sul finire del Novecento una campagna di scavi condotta nelle cantine di palazzo Maffei, permise
la ricostruzione della planimetria di un edificio, in cui la soprintendente Cavalieri Manasse
riconobbe, fin da subito, una copia del Campidoglio di Roma, in scala di poco ridotta (2:3).
Si vide che l’alzato del tempio e dei portici era stato oggetto di abbattimento e spoliazioni
sistematiche nell’alto medioevo (forse sotto Teodorico). In particolare i plinti di mattoni
sesquipedali, i quali si trovavano ancora in ottimo stato, erano stati progressivamente e
metodicamente segati a partire dall’alto con lo scopo di recuperare quell’ottimo materiale per
riparare o costruire altri edifici.
Le fosse di asportazione erano state riempite con una certa cura per evitare crolli con materiale di
risulta, in parte proveniente dall’edificio stesso. L’esame dei materiali, costituiti da rocchi di
colonne, resti di pietre, di tegole e antefisse di terracotta ha permesso grazie a meticolosi studi
ricostruttivi di restituirci il tempio capitolino fino nei minimi dettagli.
Gli scavi condotti a ovest del tempio, in corte Sgarzerie e sotto l’ex Monte dei Pegni e a nord,
sotto palazzo Malaspina, hanno riportato alla luce anche resti notevoli dei criptoportici in opus
caementicium un robusto calcestruzzo: nonostante i crolli subiti le volte a botte mostrano ancora la
compattezza delle loro potenti strutture.

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17- Il Campidoglio e l’archivio cittadino o tabularium.
La sacralità dei templi, garantita dalle leggi umane e dalla protezione divina, li rendeva luoghi
inviolabili, presso i quali era consuetudine depositare oggetti e documenti preziosi affidandoli alla
custodia dei sacerdoti e alla benevolenza delle divinità.
Il triplice portico fu annesso al tempio del Campidoglio come tabularium, cioè archivio ufficiale
di documenti pubblici, atti amministrativi ed elenchi catastali, tutti incisi su lastre inchiodate alle
pareti. Tra le rovine del portico, crollate nel sottostante criptoportico, sono stati rinvenuti numerosi
resti di epigrafi di pietra e marmo e due frammenti di bronzo di tavole appartenenti a mappe del
catasto rurale. La superficie bronzea è incisa da linee che la ripartiscono in riquadri, i quali
rappresentano suddivisioni di un territorio veronese non precisabile, si pensa alla centuriazione
della valle d’Illasi . Ciascun riquadro reca incise le coordinate topografiche dei lotti, con
l’identificazione di cardi e decumani, i nomi dei proprietari e il numero di iugeri da loro posseduti.

18- Everghetismo: donazioni di privati alla collettività.


Frammenti di pietra iscritti, ritrovati in momenti successivi nelle fondamenta, ma combacianti tra
loro, sono stati ricondotti ad un’unica epigrafe la quale riferisce che Marcus Magius, evidentemente
facoltoso cittadino, cryptam fecit e reposuit porticus , cioè finanziò la costruzione del criptoportico
e la collocazione del sovrastante portico oppure di una parte di essi.
M(arcus) Magius L(uci) f(ilius) cryptam fecit et porticus reposu[i]t d(e) p(ecunia) s(ua)
Il caso di Marcus Magius non è affatto isolato: numerosi furono i ricchi cittadini veronesi che
contribuirono con somme cospicue alla realizzazione o all’abbellimento di opere pubbliche, edifici
civili e religiosi, terme, acquedotti, teatro e anfiteatro.
Le entrate provenienti dai numerosi pedaggi e tasse bastavano a stento per la normale
amministrazione e manutenzione della città, ivi compresi i tratti stradali extraurbani di competenza
veronese, ma erano del tutto insufficienti a coprire le spese straordinarie. La concessione della
cittadinanza romana offriva vantaggi di larghe autonomie e privilegi alle comunità locali, ma
comportava obblighi precisi di costruire o restaurare le opere pubbliche della propria città.
Altrettanto importante era soccorrere i concittadini poveri in tempi di carestia con elargizioni di
frumento e offrire nelle ricorrenze di calendario feste, banchetti, spettacoli e soprattutto organizzare
costosi combattimenti tra gladiatori o contro esotiche bestie feroci, molto amati dal popolo.
La società romana era caratterizzata da incredibili diseguaglianze: nelle mani di pochi erano
concentrati enormi proprietà e capitali, esenti, per di più, dalle imposte dirette se appartenevano a
cittadini a pieno titolo (cives optimo iure).

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Era costume, però, anzi una specie di dovere civico restituire alla comunità una parte delle
ricchezze accumulate, elargendo somme consistenti in donazioni volontarie, che d’altra parte
garantivano ai donatori grande popolarità e riconoscenza dei concittadini, sfruttabili sul piano
politico al momento delle elezioni.
Il sistema quindi in qualche modo si riequilibrava e ridistribuiva la ricchezza, facendo leva
sull’ambizione dei ricchi privati: aristocratici, proprietari di grandi latifondi, potenti commercianti
all’ingrosso e abili imprenditori con fortune incalcolabili, ambivano a un prestigio sociale
corrispondente al loro status e sentivano doveroso contribuire al decoro e al progresso della propria
città. Le donazioni erano apprezzate anche dal governo centrale a Roma, che le incoraggiava con
riconoscimenti e incarichi prestigiosi ai membri delle famiglie locali, che si erano distinte per questi
meriti.
Non c’era personaggio illustre, non c’era carriera politica, che potesse esimersi da queste
pubbliche beneficienze, con le quali anche il lutto per un proprio caro defunto era degnamente
celebrato.
Emblematico è il caso della potente famiglia dei Gavi, arricchitasi col commercio di vini, che
elevò, a cavallo della via Postumia, un maestoso arco commemorativo della propria gens, che era
allo stesso tempo di elegante decoro per l’ingresso in città e ospitava in quattro nicchie altrettante
statue di membri della gens. Un’esponente della famiglia, la matrona Gavia Massima, come
ricordano due epigrafi uguali, donò nel suo testamento, per la costruzione di un acquedotto,
l’enorme cifra di 600.000 sesterzi (tre sesterzi costituivano la paga giornaliera di un legionario).
Un’appartenente ad altra gens, la matrona Apicia, ricordata in un’epigrafe murata in piazzetta
santa Cecilia, contribuì nel suo testamento alla costruzione della Basilica e del suo portico sul lato
occidentale del Foro.
Un’altra matrona, Licinia, in onore del figlio Alpino, dotò l’anfiteatro di fontane per il refrigerio
del pubblico e di una statua di Diana, dea della caccia e quindi degli spettacoli di venationes.
Sappiamo da una lettera di Plinio il giovane che un suo amico, un certo Massimo, forse C. Vibio
Massimo, che rivestì l’alta carica di prefetto d’Egitto, offrì in Arena un grandioso spettacolo
gladiatorio, anche con bestie feroci molto costose, in onore dell’amata moglie defunta.

III Parte. L’età Augustea e Giulio Claudia

- Ottaviano Augusto (42 a. C. – 14 d. C.)


Con l’avvento al potere di Ottaviano Augusto, figlio adottivo di Cesare, finì la repubblica e iniziò la
lunga fase del principato.

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Dopo la vittoria di Azio del 31 a. C., Ottaviano, eliminati Antonio e Cleopatra, si trovò da solo a
governare l’immenso impero e qualche anno dopo (27 a. C.) il senato lo insignì del titolo onorifico
di Augusto (consacrato dagli Auguri) . Grazie a lui Roma e il suo impero, dopo tante feroci guerre
civili, godevano finalmente una situazione di pace e prosperità.
I centri della Cisalpina mutarono il loro aspetto: gli spazi e gli edifici pubblici furono
monumentalizzati ed arricchiti con decorazioni, per trasformarli in uno strumento di celebrazione
della nuova era inaugurata dal principe, il quale darà anche il suo nome a nuove città da lui fondate
nell’occidente dell’impero e nella penisola italica, come Augusta Taurinorum (Torino) e Augusta
Praetoria (Aosta).
Augusto volle ripensare e adeguare ai nuovi tempi tutto l’assetto della res publica e renderlo
stabile anche in futuro per i posteri. Per questo non solo lasciò la sua impronta nelle città da lui
fondate o arricchite di monumenti ed edifici pubblici, ma intraprese anche una vasta azione
riformatrice della società romana nel suo complesso, riformò profondamente l’esercito, il fisco
statale, i distretti amministrativi, la costituzione, i poteri del senato e del popolo, riformulò le
carriere politiche di senatori e cavalieri ai vertici della macchina amministrativa e militare dello
stato, definì i rapporti tra il centro e la periferia dell’impero, si occupò di religione, di morale
pubblica, privata e familiare. Augusto e la sua cerchia di potere seppero sfruttare abilmente gli
strumenti della propaganda per creare largo consenso alla loro azione politica. La raggiunta
situazione di stabilità venne celebrata come nuova aurea aetas, la mitica età dell’oro, da poeti e
artisti attratti in una specie di circolo dal raffinato e ricchissimo Mecenate.
Fu promosso il culto della Pax Augustea, cui l’imperatore dedicò lo straordinario monumento
dell’Ara Pacis e il culto del Genius Augusti (il nume tutelare e ispiratore), dopo la sua morte
Augusto stesso venne divinizzato.
Come garanzia duratura e visibile del nuovo assetto politico, Augusto volle che la sua persona
fosse presente ovunque in effige. Il suo volto, più o meno idealizzato, venne riprodotto nel marmo
o nel bronzo di maestose statue collocate nelle piazze, negli edifici pubblici, davanti ai templi delle
città dell’impero, che facevano a gara nel compiacere la propaganda imperiale.

In questo contesto celebrativo si diffusero in modo capillare gli edifici del culto imperiale. Anche a
Verona ne sono presenti almeno due, evidenziati dagli scavi, l’uno sotto l’attuale piazza mercato
vecchio e l’altro a sud-ovest del Foro sotto piazzetta Tirabosco.

Augusto e Verona
Numerose sono le epigrafi funerarie di personaggi che dichiarano con orgoglio di essere stati
seviri augustales, un collegio sacerdotale composto da sei membri eletti annualmente, addetti al

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culto del Genio di Augusto e alla sua persona divinizzata, dopo la morte. I seviri potevano fregiarsi
del titolo anche oltre la durata annuale della carica.
Il culto imperiale si diffuse nei municipi e nelle provincie dopo che Ottaviano fu proclamato
Augusto e a Verona la sua nascita fu abbastanza precoce, forse anche per la gratitudine dei Veronesi
verso l’imperatore, che con le scelte urbanistiche e monumentali da lui promosse riconobbe alla
città una particolare importanza. A ciò si aggiunse anche il ruolo che Augusto le assegnò nella
ristrutturazione amministrativa dello stato. Infatti Verona venne scelta, per la sua posizione centrale,
come sede della riscossione della tassa del 5% sulla liberazione degli schiavi (vicesima libertatis)
per tutta l’Italia a nord del Po, Istria compresa.

13- I due ponti


Allo sviluppo della nuova città un solo ponte non bastava. La via Postumia, sulla quale il
traffico era progressivamente aumentato, era divenuta nel frattempo decumano massimo della
città, che, dopo essere iniziato da porta Iovia (Borsari), una volta raggiunta la sponda del
fiume era costretto a deviare bruscamente a sinistra verso ponte Pietra. Si decise allora di far
proseguire la via in linea retta lungo l’asse del decumano facendole attraversare l’Adige su un
nuovo ponte anche se era distante solo 200 m dal primo ed era decisamente più lungo,
attraversando l’Adige dove il letto del fiume si allarga.
Dovendo appoggiare interamente su un fondo ghiaioso, le fondamenta dei suoi piloni
vennero difese da robuste palizzate con pali rafforzati da punte ferrate. Ciononostante il ponte
sarà in gran parte abbattuto dalle piene del fiume nell’alto medioevo, le cronache parlano di
un pons fractus che crollerà definitivamente nei secoli successivi. Le sue pietre spariranno, in
parte recuperate e riusate.
Durante gli imponenti lavori di costruzione degli argini dell’Adige, alla fine dell’Ottocento,
ne riemergeranno i resti e gli studiosi gli daranno il nome di ponte Postumio.
Nell’età di Augusto il ponte venne abbellito da statue e rivestimenti di pietra, al punto da
meritare l’appellativo di Marmoreo.
I due ponti paralleli e vicini giungevano sulla sponda sinistra proprio a monte e a valle del
colle, inquadrandolo in una specie di cornice, all’interno della quale fu costruita e in parte
scavata nella roccia la grandiosa struttura del teatro, che dalle arcate dell’argine sull’alveo del
fiume, raggiungeva con le sue terrazze la sommità del colle, creando una straordinaria
scenografia urbanistica.

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IL TEATRO
Edificio da spettacolo e di grandioso effetto urbanistico.
La città era ormai un centro sviluppato che si espandeva occupando progressivamente gli isolati a
scacchiera dalla zona centrale del Foro verso le mura. Il Campidoglio, quasi completato, dominava
il Foro dall’alto della sua imponente mole, assicurando la protezione divina e custodendo la
documentazione degli atti politici e catastali.
Nel Foro, oltre alle normali attività commerciali, amministrative e giudiziarie, si celebravano
anche feste popolari in ricorrenze religiose e talvolta si allestivano recite o spettacoli da circo,
oppure di gladiatori. In questi casi la folla assisteva in piedi, stipata sui lati della piazza, tranne i
personaggi di riguardo che venivano fatti sedere su scranni mobili in prima fila.
Verona era però incompleta: le mancava un edificio pubblico dedicato agli spettacoli.

Roma e il teatro
I Greci, creatori e appassionati spettatori di tragedie e commedie, avevano inventato l’edificio del teatro e lo
avevano esportato in molte città greche di Sicilia e del sud della penisola italica.
A Roma testi teatrali, tradotti e adattati da modelli greci, cominciarono a essere rappresentati dalla metà
del III secolo a. C., su un provvisorio palcoscenico di legno, spesso il pubblico era costretto ad assistere in
piedi, talvolta si innalzavano anche tribune per gli spettatori, strutture di legno che venivano smontate dopo
lo spettacolo.
Molte città centro e sud italiche, come Pompei, si dotarono di un teatro in muratura, Roma invece ne restò
priva a lungo, per un decreto del senato, contrario a strutture permanenti, molti senatori infatti giudicavano
una spesa inutile costruire un edificio per il puro divertimento delle masse, temevano poi che i costumi dei
Greci contaminassero il mos maiorum, l’austero costume degli antenati: le gradinate potevano divenire luogo
di raduno di fannulloni e sovversivi.
Il primo teatro in muratura della capitale fu costruito a proprie spese intorno al 55 a. C. da Pompeo Magno.
Il potente generale e uomo politico riuscì ad aggirare il divieto senatorio col pretesto, che le gradinate della
cavea sarebbero servite come grandioso accesso al sovrastante tempio dedicato a Venere Vincitrice da lui
stesso fatto edificare su un alto podio.
Nella Gallia Cisalpina, Bononia (Bologna) aveva edificato un teatro già intorno all’80 a. C. e in seguito altre
città ne seguirono l’esempio.
I Veronesi non potevano essere da meno e furono incoraggiati da Augusto a dotarsi di un teatro, un luogo
capace di accogliere la comunità cittadina su gradinate semicircolari, dalle quali fosse possibile godere di una
buona vista su un palcoscenico e fruire di un’ottima acustica, non disturbata dai rumori della città. La
fruizione collettiva di spettacoli avrebbe rafforzato il senso di appartenenza alla comunità cittadina e allo stato
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romano e la coesione sociale.
I Veronesi fecero proprie le indicazioni della politica imperiale e probabilmente contribuirono in modo
consistente al finanziamento della costruzione. Un’epigrafe, purtroppo incompleta, parla a proposito del
theatrum di un patronus, cioè un facoltoso personaggio, vicino al potere imperiale, in grado di beneficare la
città e di patrocinarne gli interessi a Roma.

La progettazione e parte del finanziamento furono probabilmente assunti dal governo centrale, ma
la cittadinanza dovette dare un consistente contributo: i nomi di membri di gentes illustri, come i
Gavii e i Valerii, incisi negli archetti del porticato che coronava la sommità della cavea, ricordano
loro munifiche donazioni per la costruzione o la manutenzione dell’edificio.
Ottenuto il nuovo stato di municipium, Verona era stata trasferita in pianura al di là del fiume, e il
fianco del colle era libero dal preesistente oppidum, l’ignoto architetto pensò quindi di sfruttare il
pendio naturale per inserirvi la cavea del teatro, rifacendosi agli antichi modelli dei Greci, gli
inventori dei teatri. Questa soluzione consentiva un notevole economia di materiali edilizi e
conferiva all’edificio teatrale una posizione dominante sulla città.

In realtà solo la parte centrale della cavea poté essere scavata nel colle, consentendo comunque un
risparmio: le gradinate delle due ali laterali invece dovettero essere appoggiate su apposite
sostruzioni (strutture di sostegno sottostanti) costituite da muri radiali inclinati che sorreggevano
volte a botte inclinate e concentriche.
La scelta del costruttore, però, mirava a ben altro che al solo risparmio: trasformare il fianco del
colle in un grandioso edificio da spettacolo creava uno straordinario sfondo scenografico alle spalle
della città e costituiva il momento più significativo di un progetto di monumentalizzazione di
Verona, in parte probabilmente pensato da Cesare e attuato poi da Ottaviano Augusto, come

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celebrazione della sua persona e della nuova era di pace e di innovazione urbanistica da lui
promossa.
Il Teatro veronese non poteva rivaleggiare per dimensioni con quello di Pompeo a Roma, ma il
diametro della sua cavea era quasi doppio di quello del teatro grande di Pompei, dominava
scenograficamente la città, chiudendo verso est la prospettiva urbana per chi entrava da Porta
Borsari.
L’edificio teatrale sorgeva parallelo al fiume a circa 10 m dall’argine, inquadrato dai due ponti,
Pietra e Postumio e sovrastato dalle architetture di imponenti terrazze coronate dal preesistente
tempio posto sulla sommità del colle, l’unico edificio sopravvissuto alle demolizioni dell’oppidum
in sinistra Adige.
Questa straordinaria soluzione urbanistica, adattata alla morfologia della collina, richiama modelli
di edilizia religiosa centro italica, come quello del santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina
(l’antica Praeneste) costituito da ben sei terrazze sovrapposte, ricavate nel fianco del colle Ginestro,
collegate l’una all’altra da rampe e scalinate e coronate dal tempio.
Rispetto all’imponente costruzione originaria, la vista attuale del Teatro Romano lascia
piuttosto delusi: ciò che resta dopo duemila anni sono solo ruderi, seppur parzialmente
ricostruiti. Possiamo avere un’idea della grandiosità architettonica e scenografica del Teatro
con l’aiuto delle ricostruzioni geniali, anche se un po’ ardite e fantasiose, di Giovanni Caroto
e Andrea Palladio, architetti rinascimentali.

Storia recente, tra Otto e Novecento.


Ancora nei primi decenni del 1800 l’area del teatro, era irriconoscibile: cavea, orchestra ed
edificio scenico erano interamente coperti da un pittoresco quartiere sorto fin dal medioevo,
fitto di case, abbarbicate sul declivio, con l’annessa chiesetta romanico-gotica di santa Libera
e dominato dal monastero dei Gesuati.
Il mecenate veronese Andrea Monga, appassionato di archeologia, nel 1834 cominciò ad
acquistare più di trenta edifici insistenti sulla zona e a mettere in evidenza alcune parti del
teatro con metodi di scavo generosi ma non sistematici. Il suo lavoro in parte misconosciuto,
fu comunque prezioso e indusse il comune di Verona alla fine del secolo a prendere in mano
la situazione assieme al competente ministero: gli archeologi con una lunga serie di interventi
liberarono l’area dalle altre case e ricostruirono le antiche murature, fin dove possibile, con
metodo filologico.

22 - L’intercapedine e la cavea

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Allo scopo di isolare dalle possibili infiltrazioni d’acqua il settore centrale della cavea,
scavato nel pendio del colle, gli antichi costruttori tagliarono nella roccia alle spalle della
cavea una stretta e profonda intercapedine, divisa in tre sezioni, due delle quali liberate dai
detriti risultano lunghe 40 m, larghe 2 e profonde ben 18 metri.
Nella conca della cavea vediamo in parte conservate le 25 file di scalini del settore più basso
(ima cavea), mentre le 10 o 12 file del settore più alto (summa cavea) sono scomparse.
Tra i ruderi della cavea si notano dei muri inclinati dall’alto al basso disposti a ventaglio. La
loro funzione, apparentemente misteriosa, era di base d’appoggio delle volte a botte inclinate,
che sostenevano le gradinate nella parte del teatro non appoggiata al colle. Sono muri radiali
concentrici, disposti appunto come raggi di un cerchio.
I muri radiali e le volte a botte inclinati erano la geniale soluzione adottata dagli ingegneri
romani per sorreggere le gradinate di teatri e anfiteatri.
La cavea era divisa orizzontalmente in due settori o meniani (moeniana) separati da un
gradino molto più ampio degli altri, un ripiano (praecinctio) di smistamento e divisi
verticalmente da scalette che spartivano le gradinate in spicchi o cunei. le scalette in calcare
rosa creavano un effetto di contrasto cromatico con il calcare bianco delle gradinate. Oggi
resta in parte ricostruito solo il primo meniano.
Le gradinate del nostro teatro potevano ospitare circa cinquemila persone. Il pubblico era
distribuito in base al censo, secondo la lex Iulia theatralis voluta da Augusto, che volle
regolamentare l’afflusso disordinato e promiscuo agli spettacoli: la summa cavea era
occupata dal popolo e le gradinate superiori vicine al porticato erano riservate alle donne. Le
classi più agiate sedevano sulle gradinate inferiori, a Verona la zona centrale dell’ima (bassa)
cavea era forse riservata ai cavalieri. Giù in piano ai bordi dell’orchestra su due o tre file di
pedane lignee venivano sistemati i seggi mobili riservati ai senatori e alle autorità civili e
religiose.
La cavea era coronata da una galleria in parte scavata nel colle, sopra alla quale correva un
porticato sorretto da archetti, in cui probabilmente si poteva passeggiare negli intervalli dello
spettacolo.

23- Orchestra scena e facciate


Negli antichi teatri greci tra le gradinate e la scena si estendeva una grande platea circolare
chiamata orchestra (dal verbo orcheomai, danzo, salto), dove il coro, entrato all’inizio del
dramma, interveniva con le sue evoluzioni coreografiche e canore nei momenti salienti

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dell’azione, esprimendo, per così dire, la voce del popolo di cui interpretava e amplificava le
emozioni.
L’orchestra era la protagonista del teatro: in essa recitavano anche gli attori, perché non
c’era palcoscenico e al di là dell’orchestra c’era la tenda, in greco skené, in cui gli attori si
cambiavano nel corso dello spettacolo, poi si ebbe l’idea di sfruttarla come sfondo dell’azione
teatrale, erigendo al suo posto una costruzione lignea che reggeva una grande tela dipinta, di
qui deriva il nostro termine scena. Solo in un secondo tempo fu costruito per gli attori un
palco rialzato, dietro al quale fu sviluppato uno spazio scenografico.
Col tempo le funzioni del coro diminuirono, fino a scomparire nella commedia ellenistica.
In età ellenistica i Greci cominciarono a trasformare la scena di legno in un edificio in
muratura, dotandola di parasceni e avancorpi laterali. La struttura teatrale, appoggiata al
fianco di un colle di solito discosto dalla città, cominciava a chiudersi, mentre prima era
aperta e inserita nella natura, di cui offriva dalle gradinate una vista panoramica.
I Romani accentuarono decisamente questa tendenza: ridussero il grande spazio circolare
dell’orchestra a un semicerchio, di conseguenza divenne semicircolare anche la cavea che
prima si spingeva ad abbracciare a 240° l’orchestra. Fu invece ampliato il palcoscenico e alle
sue spalle fu elevata una grandiosa scena fissa in muratura alta quanto la cavea, un vero e
proprio edificio di alcuni piani, saldato alla cavea da due poderosi archi di ingresso (parodoi
in greco, aditus in latino), come qui a Verona, cosicché l’edificio divenne una struttura chiusa,
isolata dai disturbi esterni, più simile al nostro concetto di teatro.
Il teatro romano, non più parte del paesaggio naturale, divenne dunque un’architettura
conclusa in sé, perfettamente inserita nel contesto urbanistico. Una struttura che poteva essere
coperta da un sistema di teli a ventaglio, detto velarium, che proteggeva gli spettatori dal sole,
visto che gli spettacoli andavano in scena di giorno.
Tra le innovazioni introdotte dai Romani ci fu il sipario (aulaeum), formato da teli, di solito
innalzati dal basso da un ingegnoso sistema di antenne telescopiche, inserite in fori ricavati in
blocchi di pietra, come sembra qui a Verona. Il sipario durante la rappresentazione,
scendendo, spariva in un incavo della zona anteriore del palcoscenico.
A Verona l’edificio scenico, parallelo all’Adige, aveva come gli altri teatri romani, due
facciate, una rivolta all’interno del teatro, detta frontescena (scenae frons) che ne costituiva la
scena fissa, mentre l’altra, il postscaenium, rivolta verso la città era il prospetto esterno del
teatro.
La facciata interna alle spalle del palcoscenico o proscenio costituiva la scena fissa, con le
porte per le entrate e uscite degli attori, inserite in un’alta muratura ornata di statue e colonne

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e movimentata da sporgenze e rientranze, che formavano nicchie, che contribuivano a
ottimizzare l’acustica.
Di essa resta ben poco, ma se ne può avere un’idea osservando il teatro romano di Orange
in Provenza, anch’esso di età augustea, che ha conservato l’alta struttura in mattoni della
scena, spoglia però di ornamenti architettonici e statue, tranne quella maestosa di Augusto al
centro della struttura. L’armoniosa struttura decorativa in pietra sostenuta da leggiadre
colonne binate, giacché i Romani costruirono teatri in tutto il loro impero, si può ancora
ammirare nel teatro di Leptis Magna in Libia, e in quello di Mérida in Spagna.
La facciata esterna forse si spingeva fino all’argine del fiume, inglobando all’interno delle
sue arcate il tratto antistante della via Postumia. Era una struttura architettonica alta quasi 30
m, visibile da molto lontano, che, come avveniva nei teatri dell’età di Augusto, copriva con la
sua altezza la retrostante cavea. Essa era probabilmente alta tre piani e ripartita nei tre ordini
architettonici, dorico (tuscanico?), ionico e corinzio, scanditi da cornici e da file di finestre ad
arco. La sua lunghezza era notevole: circa 110 metri.
Essa nascondeva la cavea sopra la quale si elevava la scenografia architettonica che
raggiungeva la sommità del colle ed era costituita da due lunghe terrazze rettilinee
sovrapposte, scavate nella roccia, sormontate dalla spianata su cui si elevava il tempio, eretto
dove verosimilmente sorgeva prima la rocca dell’antico abitato. In basso la sponda del fiume
era contenuta da un argine abbellito da un muro di pietra in opera reticolata, del quale resta un
significativo tratto visibile.
Questa complessa e armoniosa struttura, alta 60 m dalla base dell’argine sul letto del fiume
alla terrazza del tempio, costituiva uno stupefacente effetto di scenografia urbana unico nella
Cisalpina.
Già in età augustea il teatro venne abbellito con rivestimenti interni marmorei, statue e
sculture scolpite in marmi pregiati, ci restano bellissime erme (semibusti) di Bacco e satiri e
parapetti delle gradinate elaborati con volute a testa d’ariete sormontate da satirelli.
Cosa si rappresentava in teatro? In epoca imperiale sia le tragedie, sia le commedie, anche
quelle un tempo applaudite di Plauto e Terenzio, erano ormai fuori moda: il pubblico italico
non si emozionava più per le indicibili sofferenze e i dilemmi angosciosi degli eroi tragici e
non reggeva a lungo le complicate e strabilianti traversie amorose delle commedie borghesi.
La gente comune preferiva le compagnie girovaghe di guitti e acrobati con i loro spettacoli
vivaci basati sul susseguirsi di brevi scenette, di parodia della vita quotidiana simili al nostro
varietà, al cabaret, alla satira, il tutto condito da un linguaggio a volte rozzo e farcito di
allusioni, freddure e doppi sensi pur di suscitare le risate del pubblico.

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L’edificio del teatro veniva probabilmente adibito a spazio politico di assemblee cittadine,
dal momento che era in grado di accogliere la totalità dei veronesi maschi adulti, aventi diritto
di voto.

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- Gli spettacoli teatrali nel mondo greco romano, organizzazione e pubblico.
Ad Atene la rappresentazione degli spettacoli teatrali avveniva in giornate festive, era
inserita in celebrazioni religiose e organizzata non da imprenditori privati, ma da un alto
magistrato dello stato alto magistrato, mentre i cittadini facoltosi erano tenuti ad assumersi le
spese dello spettacolo, che veniva offerto ai cittadini.
Inizialmente fu la tragedia a prevalere, riscuotendo enorme consenso: per tutti gli Ateniesi
assistere ad una specie di festival tragico per tre giornate di seguito costituiva una fortissima
esperienza emotiva: la rappresentazione tragica scavava nelle profondità oscure dell’inconscio
collettivo. I raffinati versi cantati dai personaggi e dal coro producevano un magico incanto e
una identificazione totale con gli eroi tragici, le loro ascese e gli ineluttabili rovinosi declini per
punizioni divine di orrende colpe personali o risalenti agli antenati, l’inaudita sofferenza
rievocata non era priva di senso, ma educativa, conteneva un insegnamento e la conclusione
della vicenda aveva effetti liberatori sull’animo del pubblico.
Il quarto giorno era riservato alla commedia, grottesca, graffiante, surreale e spesso
carnevalesca presa in giro dei difetti della società ateniese e dei suoi uomini politici.
Con la crisi della polis in età ellenistica declina il genere tragico e la commedia arcaica,
mentre la commedia detta “nuova” perde i forti connotati di satira politica cittadina per
diventare intreccio borghese romanzesco, di innamorati che si scontrano con padri arcigni,
vengono separati da vicende complicate e rocambolesche, ma poi si ritrovano
nell’immancabile lieto fine.
Gli attori per far riconoscere da lontano il personaggio che interpretavano e amplificare la
voce nei teatri, capaci a volte di contenere anche di 15000 spettatori, usavano grandi
maschere tragiche o comiche dotate di una specie di megafono interno.
Anche nella Roma repubblicana il teatro, come tutti gli spettacoli, era organizzato dallo stato
e rientrava tra i vari compiti dei magistrati edili, i quali spesso potenziavano di tasca propria
con somme ingenti il contributo statale, per ottenere popolarità e quindi consenso in vista
della loro carriera politica.
Anche qui il teatro rientrava nelle feste religiose, dette ludi, letteralmente “giochi”,
organizzati in onore di divinità, come Giove, Apollo, Cibele che comprendevano oltre il teatro
(ludi scaenici), il circo (ludi circenses) e combattimenti di gladiatori (munera gladiatoria), che
nei primi tempi, quando non esistevano ancora teatri, spesso avvenivano in concorrenza tra
loro, più o meno in contemporanea nel foro o in aree vicine.
Agli spettacoli, a differenza di quelli greci a Roma potevano assistere tutti, anche le donne e
gli schiavi; c’erano poche panche (subsellia) per sedersi, a volte neppure quelle, bisognava
restare in piedi. Il pubblico alquanto rozzo, non essendo pagante, era indisciplinato, rumoroso,
impaziente, molti andavano al teatro in comitiva come a una scampagnata, per applaudire o
fischiare e rumoreggiare in compagnia. Siccome erano in palio premi per gli attori migliori,
alcuni si portavano la loro claque, in gara con le altre nel fare tifo, sollevando anche cartelli
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con scritte (v. Plauto, Amphitrio, 65-73).
Famosi autori latini, come Plauto e Terenzio nei prologhi all’inizio di loro commedie si
raccomandano alla benevolenza degli spettatori, invitandoli al silenzio e all’attenzione,
Attualmente il Teatro romano rivive nella bella stagione accogliendo sul suo palcoscenico il
festival Shakespeariano e gli eventi musicali dell’Estate Teatrale Veronese. Inoltre è visitabile
tutto l’anno assieme al civico Museo Archeologico, ospitato negli edifici dell’ex convento dei
Gesuati costruito sulla sua sommità.

33- L’Odeon
Poco dopo la costruzione del Teatro, accanto e allineato ad esso sul suo fianco sud est, fu
elevato un altro edificio da spettacolo, l’Odeon, oggi scomparso e pressoché sconosciuto agli
stessi Veronesi. Una sua traccia è rimasta tuttavia ben visibile nella piazzetta Martiri della
Libertà di fianco alla biglietteria del Museo Archeologico. Raggiungendo il lato verso il colle
della piazzetta troviamo dei lunghi gradini in pietra bianca locale che salgono verso una soglia
per poi scendere sul retro di essa: era questo l’accesso alla zona centrale dell’Odeon, i resti
sottostanti della base della facciata, arrivano a una lunghezza di quasi 60 metri. Non sappiamo
se la soglia rialzata da tre gradini fosse una difesa contro le esondazioni del fiume o solo una
originale scelta architettonica.
Rispetto al teatro grande edificio all’aperto, concepito per gli spettacoli popolari l’odeon è
una costruzione di dimensioni contenute, coperta da un tetto, in grado di accogliere spettatori
in ogni stagione e di offrire un ambiente raccolto, adatto a un genere raffinato di
intrattenimenti, per un pubblico colto ed esigente.
L’odeon di Verona, decisamente più piccolo del suo fratello maggiore, poteva comunque
accogliere diverse centinaia di persone.
Anche l’odeon è un edificio di origine greca (il suo nome deriva da odè, canto), il più
antico era stato costruito ad Atene nel V secolo da Pericle per ospitare i concorsi musicali
delle Panatenee e le prove dei cori drammatici. I Romani ne costruirono molti nelle loro città.
L’odeon di Pompei, posto anch’esso accanto al teatro, è molto ben conservato, tranne il tetto a
quattro spioventi ovviamente distrutto dall’eruzione del Vesuvio.
Nell’odeon si svolgevano concorsi di prosa e poesia, sul suo palcoscenico si davano
spettacoli musicali per intenditori, si tenevano conferenze, si recitavano testi di brani teatrali,
accompagnati da musica, o intere tragedie o commedie.

25- Archi onorari e Arco dei Gavi


All’incirca coetaneo dell’odeon è l’arco dei Gavi.

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Non dovevano mancare nelle nuove città municipali archi onorari dedicati all’imperatore o ai
membri della sua famiglia, ma a Verona non ne sono sopravvissuti. A volte gli esponenti di
eminenti famiglie delle comunità cittadine presero a modello queste architetture per esaltare il
prestigio del proprio casato.
Arricchitasi con la produzione e il commercio di vini, la potente famiglia ( gens) veronese
dei Gavi, che vantava un proprio rappresentante nel Senato di Roma, fece erigere a cavallo
della via Postumia, circa cinquecento metri prima che essa entrasse in città dalla Porta Iovia,
un maestoso arco celebrativo della propria stirpe e di decoro per la città.
Ne conosciamo eccezionalmente il progettista, a differenza dell’Arena e di tanti altri
monumenti romani, perché l’architetto Lucio Vitruvio Cerdone, fece incidere il suo nome due
volte nei fornici dell’arco.
Il monumento, in pietra bianca, si regge su quattro grandi pilastri e presenta quattro aperture
ad arco a tutto sesto: due molto alte e slanciate sulle facciate dei lati lunghi che attraversavano
la Postumia e due piccole, perpendicolari ad esse, sui lati corti. Le facciate sono slanciate da
un podio che funge da base, sul quale poggiano quattro semicolonne corinzie per lato, le due
coppie interne formano ciascuna un’edicola con architrave e timpano. Tra le colonne si
trovano nicchie rettangolari che ospitavano statue di membri della gens Gavia, di cui non
resta traccia.
Da notare che il soffitto non è costituito da una volta a botte come di solito negli archi
romani, ma è piano, a cassettoni decorati da rosoni e con una testa di Medusa centrale.
L’arco nel corso dei secoli subì non pochi danni e nel XII secolo fu incorporato nelle nuove
mura comunali, diventando una delle porte della città. Nel 1805 fu smontato e rimosso dalle
truppe di occupazione napoleoniche, per ingrandire la strada di accesso in città.
Nel 1932 il monumento fu finalmente rimontato non più nella precedente posizione, ma nel
luogo più vicino possibile, in una piazzetta di fianco a Castelvecchio e ricostruito, pur con
una certa libertà interpretativa, soprattutto nella parte superiore purtroppo scomparsa forma
semplice, armoniosa e solenne.
L’arco era originariamente situato al limite tra la zona di espansione urbana oltre le mura e
la zona cimiteriale sui lati della Postumia, che occupava l’avvallamento dove poi sorgerà
anche porta Palio, quindi esso oltre che celebrare il prestigio di una famiglia influente
assumeva il valore simbolico di confine tra la città dei vivi e quella dei morti.

ETÀ GIULIO-CLAUDIA (14 – 68 d. C.)

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Nella prima metà del I secolo d.C., sotto la famiglia inperiale Giulio-Claudia, fu avviato un piano
generale di riordino e abbellimento dei centri cisalpini e anche a Verona furono programmati
numerosi interventi che riguardarono anzitutto la zona occidentale del foro, arricchita con la
costruzione di importanti edifici pubblici e le quattro porte urbiche principali, rese più monumentali
con la sovrapposizione di nuove facciate di pietra bianca. Una parte del rinnovamento ebbe come
promotore lo stesso imperatore Claudio, il cui nome appare inciso sull’epigrafe dedicatoria di una
delle porte in sinistra Adige.

27-Sistemazione del foro


Nei primi tempi del municipio veronese l’attività politica, amministrativa e giudiziaria si
svolgeva, tempo permettendo, nello spazio aperto del foro, o veniva ospitata in un tempio, forse
nello stesso Campidoglio, oppure in un edifico aggiustato alla meglio. Man mano però che Verona
si espandeva e la sua importanza cresceva, la vita cittadina e le sue esigenze si facevano più
complesse. Era chiara la necessità di costruire anche a Verona edifici appositi, tipici delle città
romane, per svolgere regolarmente le varie funzioni civili ed essi non potevano sorgere in altro
luogo che nei pressi del Foro.
Fu scelta a questo scopo un’area confinante col lato occidentale del Foro per realizzare un piano
organico di edilizia pubblica, comprendente la Curia, ovvero il senato municipale, la Basilica, una
grande aula polifunzionale e, a fianco della Curia, una piazza sopraelevata grande quanto un intero
isolato, la cui destinazione non è chiara.
Fu quindi necessario espropriare le aree residenziali che si trovavano negli isolati a occidente
della piazza e che sappiamo comprendevano ricche domus, come si può desumere dai pregiati
mosaici pavimentali ritrovati sotto la pavimentazione dei nuovi edifici pubblici.

28- La Curia o Senato municipale.


Il grande rettangolo dell’antico Foro romano fu ristretto in particolare sul suo lato ovest nel corso
del medioevo e del rinascimento dall’avanzare degli edifici, che ha conferito la caratteristica forma
affusolata all’attuale piazza Erbe. All’interno degli isolati sorti sul fianco nord occidentale della
piazza, tra corso Porta Borsari e la parallela via Pellicciai, c’è un rialzo del terreno di qualche metro,
che forma piazzetta Tirabosco, cui si accede da via Pellicciai con due piccole scalinate parallele,
dette scaletta san Marco e scaletta Pellicciai, che fiancheggiano degli edifici.
Negli scantinati delle case circostanti, che si prolungano anche sotto piazzetta Tirabosco, erano
noti da tempo tre ambienti coperti da volte a botte, collegati tra loro e a un corridoio che li
circondava. Questa costruzione appariva chiaramente di età romana e fu interpretata ai primi del

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novecento come il tempio del Campidoglio con le tre celle di Giove, Giunone e Minerva, finché nel
1983 non avvenne la scoperta del vero Campidoglio sotto palazzo Maffei.
La Curia fu individuata nel 1986, in occasione di lavori di pavimentazione e di risanamento della
zona: in piazzetta Tirabosco, proprio sopra gli ambienti a volta, si trovarono i resti del pavimento e
le basi delle murature di un’aula larga m 12,50 e lunga circa 13, quindi pressoché quadrata, con
l’unico ingresso sulla parete sud. Lungo le pareti laterali est e ovest furono rinvenuti i resti di
quattro pedane, alte 15 cm, larghe m 1,20: due di esse lunghe 11 m correvano addossate ai due muri
e altre due più interne parallele a queste erano lunghe 10 m, per una lunghezza complessiva di 42
metri. La parete sud era libera, mentre lungo la parete nord di fondo vi era una pedana leggermente
più alta, con un rettangolo centrale avanzato. Le pedane erano originariamente rivestite di sottili
lastre marmoree.
Le pedane e la forma quadrata, prevista da Vitruvio (De Arch. V, 2, 1), evidenziavano la tipica
struttura di una curia, infatti su questi gradoni venivano sistemati gli scranni mobili di legno dei
decurioni, i senatori municipali, in tutto una settantina qui a Verona, come si desume dalla
superficie disponibile, mentre sulla parete di fondo sedevano, al centro, i magistrati della città e, sui
lati, i loro scribi e assistenti (accensi).
I tre ambienti sottostanti, chiaramente funzionali alla Curia, vennero interpretati come carcer
(carcere) ed aerarium (tesoro municipale) che Vitruvio colloca nel foro assieme alla curia (De
Arch. V, 2, 1) e come tabularium (archivio) specializzato. Di solito queste funzioni sono svolte in
edifici separati e non sovrapposti come qui a Verona, ma non mancano esempi di questa tipologia.
La Curia era sopraelevata di circa sei metri su un podio contenente le sottostanti concamerazioni
e il corridoio perimetrale, il quale in realtà si è rivelato un criptoportico ad U rovesciato, con due
porte di accesso, alle due estremità sud.
Una scalinata saliva, incassata dentro il podio e divisa in due rampe da un pianerottolo, fino ad
uno spiazzo, di fronte al quale si trovava la curia, in posizione centrale e preceduta sulla facciata da
un portico che articolandosi poi in due ali est e ovest, raggiungeva l’estremità sud del podio,
sovrapponendosi al sottostante criptoportico. L’effetto era monumentale, anche se la Curia di per sé
era un edificio semplice.

- I decurioni e il governo locale


Nella Curia l’assemblea dei decurioni veronesi (ordo Veronensium), convocata e presieduta dai
magistrati più elevati, prendeva le decisioni riguardanti la vita della città, su molte epigrafi
riguardanti provvedimenti municipali e spese pubbliche troviamo le seguenti sigle di abbreviazione:

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D D = Decreto Decurionum (per decreto dei decurioni),
D D P = Decreto Decurionum Publice (a spese pubbliche per decreto dei decurioni),

D D S = De Decurionum Sententia (per decisione dei decurioni).


Dall’antica città spagnola di Urso, presso Siviglia, provengono quattro tavole in bronzo che riportano
una buona parte dello statuto dato da Giulio Cesare alla colonia romana Genetiva Giulia da lui
fondata nel 44 a. C., da esse si ricavano notizie importanti su funzioni e caratteristiche dei decurioni e
dei magistrati coloniali.
I membri dell’ordine dei decurioni, detti anche senatori, in quanto esponenti delle più ricche e
influenti famiglie cittadine, come i senatori a Roma, non erano eletti, ma venivano scelti all’atto di
fondazione di una colonia o municipio da una apposita commissione, in base alla classe sociale di
appartenenza e alla moralità personale e civile, forse non mancava qualche raccomandazione di
personaggi eminenti della capitale.
I requisiti indispensabili per la nomina a decurione erano essere ingenuus (essere nato libero, ma a
Urso anche un liberto poteva divenire decurione), essere benestante, possedere una abitazione
prestigiosa in città o al massimo nel raggio di un miglio, essere corretto negli affari e nella vita
privata, adempiere totalmente i propri doveri di cittadino, soldato e uomo religioso.
I decurioni duravano in carica a vita, a meno di decadenza per l’accusa provata di indegnità
(indignitas), o per aver perso il domicilio, o essersi impoveriti, come poteva risultare dal censimento
quinquennale.
Era un loro privilegio avere dei posti riservati in prima fila per assistere agli spettacoli (ludi) in
teatro e nell’anfiteatro, un riconoscimento del loro status davanti a tutta la comunità. Ma il vero
privilegio era politico, i decurioni erano i veri detentori del potere: non eleggevano i magistrati che
governavano la città, votati invece dal popolo, ma li controllavano ,obbligandoli a rispondere del loro
operato con dettagliate relazioni.
I magistrati stabilivano gli argomenti trattati all’ordine del giorno dell’assemblea, ma era poi loro
compito eseguire con diligenza i decreti votati dai decurioni, senza contare che gli stessi magistrati
avevano la prospettiva di entrare a far parte dell’ordine, se, alla fine dell’anno del mandato, veniva
espresso su di loro un giudizio positivo dal senato municipale.
Ciò rispondeva alla concezione oligarchica della politica, vigente a Roma che affidava il potere alle
classi dominanti, diffidando della democrazia e degli umori mutevoli del popolo.
I governi locali godevano di varie forme di autonomia, ma su di essi il governo centrale di Roma
esercitava un accurato controllo politico ed economico con censimenti e supervisioni, che
permettevano di avere un quadro generale della situazione dell’impero. Verona aveva ad esempio tra

120
gli altri doveri, l’obbligo di provvedere alla leva militare dei suoi cittadini e alla manutenzione dei
tratti stradali di sua competenza delle vie consolari che la raggiungevano.
Molto importante era la scelta del patronus, di solito un senatore romano, che difendesse gli
interessi della città presso il governo imperiale. Tale scelta richiedeva una presenza sufficiente di
decurioni quorum praesentia sufficit, cioè una maggioranza qualificata e il voto scritto per tabellam e
non per semplice alzata di mano.

Complesso Curia e Comizio


Una recinzione in pietra, alta quasi 6 m, cingeva il podio della Curia, essa era formata da una
lunga parete scandita da lesene e segnata in basso da un semplice zoccolo in pietra. La recinzione
proseguiva però oltre la Curia a contenere un lungo spiazzo rettangolare con pavimentazione
appoggiata su un terrapieno e sopraelevata di circa m 2,70, rispetto al piano stradale del decumano
massimo e comunicante con due scalette laterali con il podio della Curia.
La parete lapidea si estendeva dunque ad abbracciare un rettangolo allungato, largo m 27,5 e lungo
più del doppio, circa 77 m, cioè quanto un intero isolato. Il rettangolo è diviso in due zone distinte:
a nord l’ampio cortile, la cui funzione non è accertata, a sud la Curia e gli edifici annessi.
La pavimentazione del cortile, di un certo pregio, in marmo bianco con inserite piccole lastre di
marmo policromo, contiene un grande cerchio leggermente schiacciato a nord e a sud, del diametro
di circa 16 m e contornato da pochi resti di uno o due gradini perimetrali. L’accesso al cerchio
avveniva per mezzo di una gradinata dal lato nord, cioè dal decumano massimo. Un’ipotesi
plausibile è che si tratti del Comitium, riservato all’assemblea popolare dei cittadini veronesi.
L’abbinamento curia e comizio non è infrequente, sono noti gli esempi delle colonie di diritto
latino di Cosa, sulla costa maremmana, di Fregellae nel Lazio, di Paestum in Campania, che forse
dipendono dall’antichissima Curia Hostilia di Roma, purtroppo del tutto sparita e affacciata
probabilmente all’antico comitium.
Il cerchio del comitium è di solito inserito in un’area quadrangolare che indica la sua
consacrazione ad opera degli auguri, così come l’edificio della curia. Una difficoltà
all’identificazione dell’area veronese come comitium deriva dal fatto che negli altri esempi la curia
è a nord e il comizio a sud, mentre a Verona le posizioni sono invertite.
Convocati nel comitium, i cittadini veronesi eleggevano ogni anno i loro quattro magistrati
supremi (quattuorviri), i due maggiori con potere giurisdizionale (duoviri iure dicundo) e i due edili

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(aediles). Essi erano responsabili del governo del municipio e dovevano anzitutto eseguire i decreti
dei decurioni ai quali dovevano rispondere.
I candidati si presentavano un anno prima delle elezioni all’assemblea popolare

- 29 La Basilica
Nei mesi freddi e in caso di condizioni meteorologiche avverse le molteplici attività del Foro si
trasferiscono al coperto nel vasto edificio polifunzionale della Basilica, adiacente alla piazza e
capace di accogliere centinaia di persone. Si tratta di un edificio che non può mancare in una città
di una certa importanza e la cui funzione a Verona fu forse svolta nei primi tempi dal triplice
criptoportico del Campidoglio, ma in seguito apparve indispensabile al buon funzionamento della
vita civile che affluiscono dagli ingressi posti a nord e sui due lati lunghi.
L’edificio è lungo quanto un intero isolato, circa 76 m e largo poco meno della metà, circa 30 m ed
è diviso in tre navate da una duplice fila di colonne di pietra, su cui poggiano le travi delle capriate
in grado di sostenere un tetto di così grandi dimensioni.
La basilica è un’aula unica che svolge, a seconda delle ore e dei giorni e a volte
contemporaneamente, le funzioni di tribunale, borsa e mercato, di tribuna per oratori politici e
conferenzieri . Vi stazionano curiosi e perditempo, che vengono cacciati in malo modo all’ora di
chiusura. Di essa sono stati trovati resti delle fondazioni.

30- Edificio dedicato al culto imperiale (?)


Vicino al foro, a ovest della curia viene espropriata l’area di un intero isolato per costruirvi un
edificio sopraelevato su un podio rivestito di pietra, formato da un grande cortile, circondato da
portici profondi. L’ipotesi prevalente è che questa struttura sia dedicata al culto imperiale.
Il collegio sacerdotale dei seviri augustales, a Verona come nelle altre città era legato al culto
ufficiale della persona divinizzata di Augusto. Questi collegi erano aperti ai liberti (ex schiavi che
con un lavoro aggiuntivo si sono comprati la libertà dai loro padroni). I sei seviri scelti ogni anno
erano molto fieri della loro carica prestigiosa, che richiedeva il versamento di una notevole somma
per organizzare cerimonie e spettacoli costosi in onore dell’imperatore, motivo di vanto e prova
della ricchezza da loro raggiunta.
Il sevirato è una forma di promozione sociale, istituita da Augusto per la classe intraprendente dei
liberti, che come ex schiavi, sono esclusi dalle cariche politiche ordinarie. Essi fanno incidere con
orgoglio il titolo di sevir (seviro) a chiare lettere sulle loro epigrafi funerarie.

31- La monumentalizzazione delle porte

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Il rinnovamento urbanistico di Verona non poteva trascurare gli ingressi principali in città.
Nella prima età imperiale Porta Leoni e Porta Borsari (antica Porta Iovia), pur conservando la
loro struttura, cambiarono l’aspetto esterno, giudicato non più consono al decoro municipale:
gli originari prospetti anteriori e posteriori, in mattoni, furono rivestiti da candide facciate di
pietra, di indubbio effetto scenografico.
La particolarità tecnica delle nuove facciate è di essere strutture per così dire autoportanti,
che si reggono da sé, spesse quasi un metro e costruite con massi legati tra loro da grappe
metalliche, inserite in fori praticati nelle facce di ciascun elemento. Lo possiamo chiaramente
vedere nella facciata esterna, rivolta alla campagna di porta Iovia o Borsari che rimarrà in
piedi da sola fino ai nostri giorni, anche dopo la scomparsa di tutto il retrostante edificio
fortificato.
Le porte si trovavano ad avere così doppie facciate separate tra loro da un’intercapedine di
poche decine di centimetri, che permette di scorgere, dietro le nuove, le vecchie murature.
Ne è evidente testimonianza porta Leoni che, pur avendo perso il prospetto anteriore rivolto
verso la campagna, conserva la metà sinistra del prospetto interno, rivolto verso la città, il
quale presenta la doppia facciata, quella visibile di pietra bianca e quella nascosta
internamente in mattoni.
Facciata di Porta Leoni
La mezza facciata in pietra rimasta è molto slanciata, infatti supera di circa tre m in altezza
quella retrostante in mattoni. Presenta una elaborata decorazione, con archivolti modanati,
semicolonne o lesene corinzie e architravi che incorniciano sia il portale nel piano terra, sia le
finestre nel primo piano, sopra di loro svetta il secondo piano, privo di aperture e articolato
con una rientranza ad esedra che doveva ospitare statue della famiglia imperiale.
C’è un dettaglio architettonico di rilevante interesse storico che, pur essendo piuttosto
nascosto e posto in alto, è possibile cogliere anche da terra, basta porsi sul fianco della porta
in corrispondenza dell’intercapedine tra la facciata in pietra a quella retrostante in mattoni.
Alzando lo sguardo sopra il portale rimasto fino a vedere di scorcio le due file di tre
finestrelle, notiamo che esse non coincidono, a causa di una sfasatura nell’allineamento: le tre
finestre anteriori in pietra sono un po’ più alte e fuori asse rispetto a quelle retrostanti in
mattoni. Le nuove finestre si trovano armonicamente inserite nel prospetto architettonico in
pietra, ben più slanciato di quello antico, ma coprono in parte la visuale delle vecchie finestre,
che permettevano la vista sulla città dal cammino di ronda delle sentinelle. Inoltre il bel
loggiato dorico che coronava l’antica porta repubblicana risulta totalmente occluso dal
secondo piano della facciata imperiale. L’architetto poteva permettersi di trascurare la

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funzione militare difensiva e pensare solo all’equilibrio estetico della facciata, a conferma
che, in un’epoca di pace interna e sicurezza dei confini, la cinta muraria e le porte della città,
conservavano ormai solo un valore simbolico amministrativo avendo perso la loro funzione
difensiva.
La facciata di Porta Iovia
La solitaria facciata a tre piani dell’antica Porta Iovia sembra quasi una quinta teatrale,
purtroppo incassata nelle case che ne inglobano i fianchi. Al piano terra si aprono i due ampi
portali, mentre le due fasce superiori sono scandite ciascuna da una sequenza di sei finestre.
L’ignoto architetto si rivela un maestro nella multiforme variazione del tema decorativo ad
edicola con cui incornicia gli archi di finestre e portali. Tale motivo architettonico simula la
facciata di piccoli edifici sacri detti edicole (diminutivo di aedes), costituiti da colonne
reggenti architravi su cui poggia un tetto a due spioventi, che si conclude sul davanti con un
frontone triangolare, il cui spazio interno è definito timpano.
Le due edicole che racchiudono i portali sono ben rilevate, sulle semicolonne corinzie dalle
scanalature consunte si appoggiano l’architrave e i triangoli alquanto ribassati dei due
frontoni. Un paio di secoli dopo, l’architrave continuo, sporgente e rientrante, finemente
decorato a tre fasce, fu spianato sopra i portali per ospitare la scritta celebrativa della cinta
muraria ricostruita da Gallieno.
Nel sovrastante primo piano si alternano con simmetria decorativa sei finestrelle, due (la
seconda e la quinta) inserite in pareti lisce e quattro incorniciate da elaborate edicole duplici.
Le due finestre centrali, ornate da edicole con frontoncino triangolare finemente dentellato,
riprendono in piccolo la forma dei due sottostanti portali, esse costituiscono una coppia unita
dentro una più grande e rilevata edicola che le racchiude sotto il lungo architrave, privo di
frontone e sorretto da due semicolonne corinzie solcate da elegante scanalatura a spirale.
Le due finestrelle alle estremità della fila sono incorniciate ciascuna da una duplice edicola,
una inserita nell’altra: le edicole esterne coronate da frontone sono a forte rilievo e con le loro
colonne a spirali racchiudono ciascuna una piccola edicola interna, sul cui architrave posa un
timpano centinato o curvilineo, la cui linea morbida si contrappone agli spigoli dei timpani
triangolari delle finestre di mezzo.
La variante del frontone curvilineo, associato ai frontoni triangolari, nelle cornici di finestre,
sarà ripresa parecchi secoli dopo da Michele Sammicheli (vedi palazzo Bevilacqua) e avrà
molto successo nell’architettura tardorinascimentale e neoclassica veronese e non solo.

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Le sei finestre al secondo piano hanno una decorazione semplice e meno rilevata, ma con
sporgenze e rientranze inverse, infatti qui sono racchiuse in edicola proprio la seconda e la
quinta finestra al contrario di quelle della fila sottostante.
Queste ultime finestre sono decisamente più alte, una scelta forse dettata dalla volontà di
conferire slancio al prospetto, per compensare un innalzamento del livello stradale, le cui
ragioni ci sfuggono, avvenuto a quel tempo nel tratto del decumano che percorreva l’edificio
della porta. L’altezza degli archi di ingresso risultò ridotta a 4,10 m, così come è attualmente,
mentre l’altezza originaria doveva essere superiore di almeno un metro e corrispondere
all’arco della parallela Porta Leoni, alto m 5,25.
Una linea verticale tracciata idealmente nel mezzo della facciata la divide in due parti del
tutto speculari. La perfetta simmetria decorativa è immediatamente percepibile al piano terra
nei due portali, ma anche le sovrastanti finestre si corrispondono a gruppi di tre per ciascun
piano.
La bianca parete è invece del tutto al grezzo nel retro, che non doveva essere visibile,
perché coperto dal retrostante fortilizio della porta.

L’imperatore Claudio fece rinnovare anche le due porte sulla sinistra Adige ai piedi del
colle. Di quella presso la chiesa di S. Stefano resteranno solo deboli tracce, mentre della porta
a sud est, a cavallo della Postumia, verranno trovate le fondazioni e un’iscrizione posta nel 45
d. C. su un architrave in onore di Claudio e di sua moglie, la celebre Messalina, il cui nome è
però scalpellato perché qualche anno dopo Messalina, colpevole di congiurare contro il marito
fu giustiziata e subirà la damnatio memoriae, la cancellazione della memoria da tutti i
monumenti.

Il rinnovamento architettonico veronese dell’età giulio-claudia comprese tanti altri interventi.


Lungo la Postumia, lastricata a nuovo, si costruì il già ricordato Arco dei Gavi e nei pressi delle
mura si elevò un tempio dedicato a Giove Lustrale. La città venne dotata di nuove strutture da
spettacolo: il già descritto Odeon a sud est del Teatro. ma soprattutto la grandiosa mole dell’Arena
fuori le mura.

32- Tempio di Giove Lustrale

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L’edificio sacro di non grandi dimensioni fu elevato su un podio appena fuori le mura, tra porta
Jovia e l’Adige, di fronte alla stazione di posta, dove aveva sede un’associazione dei conducenti di
carri e forse un albergo per i viaggiatori.
Il tempio è dedicato a Giove con l’epiteto inusitato di Lustrale (cioè che propizia le purificazioni),
nome inciso su due stele votive trovate nei pressi. Da esso prese il nome la vicina porta Iovia.
Le lastre di calcare bianco del podio del tempio furono scoperte nel 1930 sotto la chiesetta di S.
Michele alla Porta (in questo caso era stata la porta a dare il nome all’edificio sacro), quando essa fu
abbattuta per allargare la strada intitolata al generale Diaz, in prosecuzione del ponte Della Vittoria
che celebrava il felice esito della prima guerra mondiale.
I resti archeologici qui rinvenuti furono rimossi e collocati in seguito presso il cimitero
monumentale della città, dove tuttora si trovano.

34 - L’Anfiteatro o Arena
Il nome e la forma ellittica
Anfiteatro, termine di origine greca per un’invenzione romana, significa “teatro
tutt’intorno”. La sua forma è ellittica, per consentire  di aumentare la capienza senza
aumentare l’altezza dell’edificio, che diminuirebbe la capacità di vedere e udire per le ultime
file. Così il centro non è uno solo come nel cerchio, ma si raddoppia nei due fuochi
dell’ellisse, dotati di ottima acustica che amplifica i ringhi delle fiere e i colpi di spada dei
gladiatori. Inoltre lotte di cacciatori con belve, oppure di coppie di gladiatori possono essere
esibite in contemporanea nei due fuochi. La forma allungata dell’ellisse si presta a mettere in
scena le parate variopinte dei gladiatori e a dare spazio ai movimentati combattimenti e alle
cacce alle fiere.
La platea centrale è un’ellisse allungata di m 75,68 x m 44,43 corrispondenti a 250 x 150
piedi, un rapporto di 5 a 3, raccomandato da Vitruvio, che dà la forma a tutta la costruzione
dell’anfiteatro, che da essa si genera. Infatti attorno ad essa corrono, in altrettante ellissi, le 44
file delle gradinate, dalla più bassa, posta a circa due metri dal piano della platea, alla più alta,
posta a circa 20 metri, formando la gigantesca cavea, capace di ospitare fino a trentamila
spettatori. La platea è dunque il cuore dell’anfiteatro, la scena dei sanguinosi spettacoli, tanto
amati dal pubblico.
I gladiatori combattono tra loro o con belve inferocite su un suolo cosparso di sabbia, che
enfatizza i movimenti dei lottatori, ne assorbe il sangue e poi viene accuratamente rinnovata.
La sabbia in latino harena o arena, vedi l’italiano “rena”, diventa un elemento così
significativo dello spettacolo, che il termine “arena” passa a significare la platea stessa e poi,
per “estensione”, come a Verona, l’intero anfiteatro.
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L’ovale complessivo di tutto l’edificio, comprese le parti mancanti dell’anello esterno, ha
l’asse maggiore di ben 152 m e il minore di 123, mentre il perimetro raggiunge i 435 metri.
Dimensioni che lo collocano ai primi posti tra gli anfiteatri romani.

La committenza
Tra i municipi romani della Gallia Cisalpina, Verona era stata privilegiata fin dal suo
sorgere. Evidentemente il potere centrale aveva grandi progetti sulla città, al punto di dotarla
di vie ampie il doppio del solito, di un Campidoglio imponente e di un teatro inserito in una
scenografia architettonica unica nel nord Italia.
Alcuni decenni dopo la realizzazione del teatro, fu eretto anche un anfiteatro, capace di
contenere 30.000 spettatori, quando gli abitanti di Verona romana probabilmente non
superavano di molto le 10.000 unità.
Una decisione del genere, eccedente di gran lunga le competenze del consiglio municipale,
partì da Roma, probabilmente durante l’impero di Claudio, un imperatore che proseguiva la
politica augustea di sviluppo e abbellimento delle città italiche. Giocavano a favore di Verona
la posizione geografica, crocevia di importanti strade consolari e le potenzialità economiche
della città, il cui anfiteatro poteva servire un vasto territorio oltre i confini del veronese, da
Ostiglia a Mantova, fino a Brescia.
La politica imperiale promuoveva i divertimenti di massa: le cacce ad animali feroci e le lotte
tra gladiatori, con i rischi mortali a cui si esponevano i propri campioni, erano per il pubblico
uno spettacolo eccitante di enorme successo, e quindi per il potere uno strumento
efficacissimo di consenso popolare.
La costruzione dell’anfiteatro, edificio dedicato a questo genere di spettacoli, comportava
una spesa assai elevata, il governo centrale dava un suo contributo e forniva progettazione e
direzione lavori, ma l’impegno finanziario ricadeva anche sulle spalle della comunità
municipale e in particolare dei cittadini più facoltosi, per i quali era un obbligo civico
contribuire con generose donazioni, dopo che il consiglio dei decurioni aveva approvato
l’operazione.

Scelta del luogo e della tipologia costruttiva


All’interno della città era difficile trovare spazio per il gigantesco edificio e non erano da
trascurare problemi di ordine pubblico legati al flusso di migliaia di spettatori, provenienti
anche dai centri vicini. Molti di loro giungevano a bordo di carri sui quali si accampavano per
tutta la durata degli spettacoli che di solito si protraevano per più giorni.

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La soluzione di appoggiarsi ad una collina come per il teatro apparve non più applicabile
per un edificio dalle dimensioni dieci volte maggiori. Perciò la scelta cadde sulla pianura a
destra Adige, in posizione facilmente raggiungibile dal sistema viario, un’ottantina di metri al
di là delle mura, dove poteva espandersi in tutta la sua imponenza.
Le scelte costruttive decisamente più economiche erano quelle dette a struttura “piena”
come l’anfiteatro di Pompei di età repubblicana, il più antico giunto a noi ben conservato e
ricavato dentro un grande terrapieno che sfrutta su due lati il preesistente bastione delle mura
cittadine.
Altro tipo di struttura piena è quella dell’anfiteatro di Mérida in Spagna, costruito più tardi in età
imperiale, in esso le gradinate sono inserite su terrapieni inclinati, racchiusi da muri radiali di
contenimento, con forte risparmio sui costi di costruzione.

Simile a questo era il sistema che sfruttava la natura del luogo, scavando la cavea nel
terreno, come a Lucera in Puglia, o nella roccia come a Cagliari o a Leptis Magna in Libia,
una modalità costruttiva usata nella stessa Verona per il teatro.
Per l’anfiteatro veronese fu compiuta la scelta diversa e senza risparmio di una struttura
completamente sopraelevata sul terreno, detta “cava”, in opposizione alla struttura “piena”.
Una scelta facilitata anche dal fatto che nella vicina Valpolicella era reperibile in abbondanza
buona pietra da costruzione. Fu così progettata una ardimentosa struttura, formata da
complesse sostruzioni, ovvero architetture funzionali al sostegno delle gradinate. Una
struttura per certi aspetti innovativa, infatti nell’Arena la funzione delle sostruzioni è duplice:
non si limitano a sorreggere la cavea ma ospitano al loro interno percorsi per distribuire
razionalmente l’afflusso del pubblico.
Le sostruzioni si basano sul principio dell’arco a tutto sesto e della volta a botte, cioè a
semicerchio.
Una raggiera di volte a botte, , convergenti dall’esterno verso l’ interno, dette perciò radiali,
svolge la funzione preminente di sostegno, infatti solo alcune di esse costituiscono percorsi di
penetrazione. Esse sono intersecate da tre successive gallerie circolari, concentriche all’ellisse
della platea, che contribuiscono a sostenere la cavea, ma hanno principalmente la funzione di
permettere il passaggio e la distribuzione degli spettatori.

A Pompei, tranne i pochi ingressi diretti all’arena, le arcate esterne sono cieche, non aprono
varchi di ingresso, ma incorniciano nicchioni ricavati nel muro di contenimento del
terrapieno. I privilegiati delle classi elevate accedevano direttamente alle gradinate più basse e
ambite mediante una bassa galleria circolare. La massa del popolo doveva raggiungere da
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quattro ripide scale esterne un corridoio sulla sommità della cavea e quindi scendere alle
gradinate dall’alto. Un sistema complicato e assai pericoloso in caso di evacuazioni
improvvise quando la folla si accalcava nei colli di bottiglia delle scale.
La struttura cava dell’Arena consentiva di regolare razionalmente l’afflusso e il deflusso
della folla. Gli spettatori accedevano ordinatamente attraverso le arcate numerate dell’anello
esterno per poi salire le numerose scale interne, le quali sfociavano (e sfociano tuttora) sulle
gradinate con ben 64 uscite o vomitorii distribuiti simmetricamente nei vari settori della
cavea, sia in orizzontale, sia in altezza.
All’epoca della sua edificazione l’Arena di Verona fu probabilmente l’anfiteatro più grande
e funzionale d’Italia e lo rimase per un paio di decenni fino alla costruzione a Roma
dell’anfiteatro Flavio o Colosseo, in seguito fu superato di poco dall’anfiteatro di Capua e da
quello di Milano, del quale restano soltanto tracce delle fondazioni.

La piattaforma di fondazione
Gli ignoti architetti erano ben consapevoli dell’enorme peso che sarebbe gravato sui muri
radiali e soprattutto sulle basi dei pilastri, che reggono gli archi, quindi, per evitare
sprofondamenti nel terreno, predisposero alla base dell’edificio una poderosa platea di
fondazione di ghiaia e malta cementizia spessa circa tre metri, in parte scavata nel terreno, in
parte rilevata su di esso e inclinata verso l’ovale interno per favorire il drenaggio delle acque,
in collegamento con il sistema di scolo fognario. L’esterno dell’arena risultava quindi
lievemente sopraelevato rispetto al piano di campagna e non infossato come appare adesso, a
causa dell’innalzamento del suolo circostante.
La piattaforma di fondazione dell’Arena nel corso di due millenni non ha subito cedimenti,
a differenza di quella del Colosseo, in cui un cedimento, dovuto forse a una frattura interna,
ha prodotto una differenza di quota di alcune decine di cm nel lato sud con qualche danno e
crepe della struttura.

L’aspetto attuale e la forma originaria dell’Arena


Nel corso dei secoli la galleria esterna dell’Arena e con essa la maestosa facciata a tre
piani di arcate sono quasi totalmente scomparse. Molto probabilmente non a causa di
terremoti, ma per opera degli uomini, a cominciare dal re ostrogoto Teodorico che agli inizi
del VI secolo ne riutilizzò gran parte dei poderosi blocchi per costruire nuove mura di difesa
della città, più alte e sicure delle precedenti in mattoni.

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L’edificio offre quindi allo sguardo l’anello interno della galleria a soli due piani, alto una
ventina di metri, che sembra a prima vista la facciata, simile a quella che molti anfiteatri
dell’impero hanno, a due ordini di arcate. Ma che questo anello fosse un perimetro interno
destinato a rimanere nascosto lo testimoniano le quattro campate archi di pietra, sovrapposti
su tre livelli, rimaste miracolosamente in piedi sul lato nord ovest, che la voce popolare ha
battezzato “Ala dell’Arena”. Sono i resti, accuratamente rifiniti, dell’originaria facciata alta
più di m 30.
La facciata a tre piani e la galleria avvolgevano tutto l’edificio, come si nota dalle basi
d’appoggio dei pilastri di sostegno segnate sul terreno.
I cinque superstiti pilastri dell’Ala che sorreggono gli archi del piano terreno si legano al
perimetro interno con altrettanti archi trasversali collegati da una volta a botte, mentre gli
archi superiori si elevano disancorati da ogni appoggio, a causa della totale scomparsa della
galleria superiore.
A guardare da sotto in su queste arcate di pietra che si innalzano nell’Ala, si prova un senso di
incredula meraviglia per questa struttura autoportante che si regge sul proprio peso con
sapienti incastri e grappe di metallo interne ai poderosi blocchi di pietra, il cui spessore si
assottiglia procedendo verso l’alto.
Su quella che oggi sembra la facciata a due piani, sono ben visibili in corrispondenza dei
pilastri le sporgenze, o imposte, di pietra su cui si appoggiavano gli archi trasversali che si
collegavano verso l’esterno alla facciata originaria, così tra un pilastro e l’altro sono evidenti
le imposte delle volte a botte in conglomerato cementizio (simile a un grossolano
calcestruzzo) che formavano la galleria del piano terra.
Anche sul secondo piano dell’Ala correva una galleria coperta da una volta a botte, sopra
alla prima. Le due gallerie sovrapposte, collegate da scale interne, servivano a distribuire il
pubblico nel momento dell’accesso e durante gli intervalli dello spettacolo. Sopra di esse al
terzo piano correva un portico con tetto ligneo le cui travi di sostegno si appoggiavano su
mensole tuttora visibili nella parete interna del muro dell’Ala.
L’originaria imponenza della facciata a tre ordini di archi, con la sua semplice eleganza in
stile tuscanico, è oggi ridotta a un piccolo tratto, seppur significativo nella sua suggestione.
L’aspetto esterno è quindi oggi fortemente ridimensionato dalla scomparsa quasi totale
della galleria esterna e quindi del terzo piano. È rimasto a fare da facciata l’anello a due ordini
di archi più basso di una decina di metri, rifinito con un bugnato alquanto rustico, perché non
doveva apparire di fuori e che appare monco per le sporgenze che sostenevano la galleria
inferiore.

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Le sostruzioni: volte radiali e gallerie circolari
Non è facile comprendere la complessità delle sostruzioni che sostengono il grandioso catino
della cavea e il peso delle centinaia di blocchi di pietra che formano le 44 file di sedili di
pietra, sempre più ampie man mano che si sale.
Le sostruzioni consistono in pilastri e arcate in pietra, e in murature e volte a botte in
cementizio, che seguono due diverse direzioni, una direzione radiale, cioè convergente verso i
centri dell’ellisse e una circolare concentrica all’ellisse.
Delle volte radiali quelle immediatamente sottostanti alla cavea sono oblique, con
un’inclinazione corrispondente a quella delle gradinate.
Alcune volte radiali diverse da tutte le altre danno accesso diretto alla platea dell’arena:
lungo l’asse maggiore dell’ellisse l’ingresso ovest n. 1, la porta Triumphalis, attraverso la
quale entrava in Arena la Pompa, il corteo trionfale dei gladiatori, che dava inizio ai giochi,
opposta ad essa l’ingresso est n. 37, la porta Libitinensis, cosiddetta da Libitina, la dea dei
funerali, attraverso la quale uscivano i feretri dei gladiatori uccisi. Le due entrate sono rese
monumentali da una volta sostenuta non da muri radiali ma eccezionalmente da cinque arcate
di blocchi di calcare che prolunga la loro altezza di 9 m fino all’ingresso nella platea.
L’imponenza è ampliata da due ingressi monumentali posti ai loro fianchi che però si
arrestano contro il muro interno della seconda galleria, questi ultimi sono affiancati da due
volte di dimensioni normali che sboccano però direttamente sull’arena. Forse si tratta ingressi
di servizio per gli spettacoli, in mancanza di locali appositi nella zona del podio.
Le volte circolari formano tre successive gallerie anulari di diversa altezza, concentriche
all’ellissi della platea. Le due interne intervallano e intersecano le gallerie radiali. La terza
galleria, che si affacciava sull’esterno dell’anfiteatro ed era formata in realtà da due gallerie
sovrapposte, è da tempo quasi del tutto scomparsa, essa costituiva due piani di corridoi di
accesso e la facciata originaria dell’Arena.
La scomparsa dell’anello esterno ha reso chiaramente visibili, dietro le arcate del prospetto
attuale a due piani, le volte a botte radiali che vi si affacciano. Salta agli occhi una evidente
differenza tra gli ambienti a volta dei due piani: le volte del piano terreno sono diritte,
parallele al suolo, mentre le volte superiori sono visibilmente inclinate. Questo settore di volte
è profondo m 14,50 ed è limitato internamente da una galleria anulare intermedia ellittica alta
circa 9 m e larga 3,30.
Alcune delle volte poste al piano terra attraversano la galleria circolare intermedia
permettendo l’accesso all’interno dell’edificio, la maggior parte di esse è invece chiusa da

131
murature: alcune di queste contengono le scalinate di accesso al piano superiore, ma in genere
costituiscono ambienti di servizio, adibiti probabilmente a magazzini, botteghe o taverne.
Le volte del secondo ordine sono invece fortemente oblique, perché nei 14 m della loro
profondità si abbassano di 10 m passando dai 20 m della sommità delle arcate superiori ai 10
del vertice della galleria intermedia, sostenendo l’inclinazione delle sovrastanti gradinate,
quelle della fascia più alta della cavea, la summa cavea.
Procedendo verso l’interno, al di là della galleria intermedia continua un altro settore di
volte inclinate, che sostengono i sedili di pietra della fascia intermedia, la media cavea. Esse
sono profonde 11 m e si abbassano dai 10 m della galleria intermedia ai 4 m della galleria
anulare più interna, larga m 3. Al di là di questa inizia una muratura massiccia, profonda 6,40
m detta podium, che costituisce l’ima cavea, la cavea inferiore con le gradinate più basse e
prestigiose, perché più vicine allo spettacolo.

Evoluzione dei materiali edilizi


Per le costruzioni di un certo rilievo, come le mura di una città, i Romani usarono
inizialmente massi irregolari di pietra messa assieme a secco, senza malta o grappe
metalliche, e riempiendo gli interstizi con sassi e scaglie di pietra. Poi, appresa da
Etruschi e Greci l’arte del taglio di blocchi della grandezza voluta, passarono all’opus
poligonale, in cui blocchi poligonali di pietra venivano lavorati fino a combaciare tra
loro e la faccia a vista era accuratamente rifinita. Si arrivò infine alla tecnica dell’opus
quadratum, l’opera quadrata, fatta di blocchi squadrati a parallelepipedo in modo
uniforme ed esteticamente gradevole.
I Romani usavano molto anche il mattone e la tegola d’argilla non più essiccati al sole,
ma cotti nella fornace. I mattoni venivano posti in opera legandoli con malta tenace a
costituire murature davvero solide. Il loro uso nelle colonie della Gallia Cisalpina ebbe
presto successo, diffondendosi per la facile reperibilità dell’argilla.
La pietra, più robusta del mattone, per certe soluzioni impegnative sembrava
insostituibile, ma era assai costosa e impegnativa: doveva essere tagliata in cava,
sbozzata e trasportata in cantiere, il quale poteva essere lontano decine di miglia e una
volta giunti lì i blocchi andavano lavorati per la finitura e messi in opera con molta cura.
I Romani riuscirono a dare una risposta a questo problema con una geniale
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invenzione: il conglomerato cementizio.
All’inizio del II secolo a. C. essi perfezionarono un materiale edilizio misto, usato come
riempimento di intercapedini murarie nel mondo orientale e greco, e arrivarono alla
messa a punto del conglomerato cementizio, un materiale molto economico, plastico,
di grande resistenza, simile al calcestruzzo, con cui era possibile creare una specie di
roccia artificiale della forma e dimensione volute, costruendo sia murature verticali, sia
coperture a volta o cupole di grandi dimensioni. Esso era costituito da un amalgama
formato da un legante di calce, acqua e sabbia, in cui venivano annegati materiali inerti
i coementa, cioè pietre spezzate, ciottoli, ghiaia e frammenti di terracotta. La malta
iniziava una reazione chimica con l’anidride carbonica dell’aria e, una volta rappreso,
l’amalgama si induriva come roccia. Il conglomerato raggiunse maggior qualità e
leggerezza un secolo dopo, quando la sabbia fu sostituita in percentuali variabili dalla
pozzolana (cenere vulcanica) o dal cocciopesto (terracotta sminuzzata e pressata).
La tecnica di posa in opera dell’opus coementicium, presentava due varianti, o di
riempimento tra due muri, o di gettata in casseforme di legno. Nel primo caso il
conglomerato veniva versato nello spazio tra due paramenti murari in mattoni e conci
di pietra, o ciottoli di fiume aderendo tenacemente e formando con essi un muro di
grande resistenza, in termini moderni un muro a sacco.
Nel secondo caso, ampiamente usato nell’Arena di Verona, si costruiva, come si fa
ancor oggi per il calcestruzzo, una cassaforma, una impalcatura di assi di legno, sorrette
da robusti pali, con la forma del muro, o della volta da costruire, e vi si versavano
dentro gettate di conglomerato a strati successivi per favorire l’essicazione. Quando
questo era ben consolidato si asportava la cassaforma lasciando in vista il cementizio.

Tecniche costruttive presenti nell’Arena di Verona.


Il termine latino opus (genericamente “opera”) significa anche “tecnica costruttiva”.
Nell’edificazione dell’Arena furono utilizzati i seguenti opus.
Opus quadratum, costituito da blocchi sagomati di pietra calcarea veronese,
sovrapposti a formare i pilastri e le arcate delle tre gallerie concentriche, costituenti
l’ossatura dell’edificio.
Opus mixtum consiste in un doppio paramento murario costruito a strati alternando
ciottoli di fiume legati con abbondante malta a tre filari di mattoni. La doppia muratura

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è inframmezzata da un’intercapedine riempita uno strato dopo l’altro con cementizio.
Il mixtum è usato nei muri radiali esterni tra la galleria esterna e quella intermedia.
L’ Opus caementicium, con pezzi di arenaria veronese, di terracotta e ciottoli annegati
nella malta, si trova inserito tra i paramenti murari in opus mixtum dei muri esterni ed
è invece a vista nelle volte a botte anulari delle gallerie e trasversali, è inoltre visibile
nei muri radiali interni tra la galleria interna e l’intermedia.
Opus latericium è un paramento murario in mattoni, usato al posto della pietra per
alleggerire il coronamento del secondo ordine di arcate, che un tempo erano interne
all’ultima galleria anulare e non erano in vista, perché coperte dalle arcate anteriori di
facciata, poi scomparse.
Opus reticulatum. Se ne trovano tracce appena visibili sul muro mixtum dell’ingresso n. 1, ma
doveva in origine ricoprire ampie superfici. Ha la particolarità di essere bicromo, rossiccio e
giallo, e doveva ricoprire le murature dei due ingressi monumentali.

Le gallerie anulari
Robusti pilastri e arcate, di grossi conci di pietra calcarea, formano l’ossatura dei tre giri
concentrici di gallerie anulari, che abbracciano a diverse altezze la platea centrale. La galleria
più interna, larga circa 3 m, è alta 3,60 m; la galleria mediana, è alta 9 m e larga circa 3,30; la
galleria esterna è doppia, formata da due gallerie sovrapposte, larghe 4,30 m e alte circa 8 m
ognuna. L’altezza è in forte aumento: i 3,60 m della galleria interna sono quasi triplicati nella
intermedia, di cui quella esterna, la terza è quasi il doppio.
Le due gallerie sovrapposte dell’ultimo giro, erano sorrette ciascuna da due anelli concentrici
di 73 pilastri. Al piano terra i 73 pilastri esterni, di facciata, i più massicci, erano collegati tra
loro da 72 arcate longitudinali che correvano circolarmente. Erano inoltre collegati ai pilastri
dell’anello interno da 72 arcate trasversali, dette radiali, in quanto disposte come raggi
dell’ellisse, le quali formavano l’ossatura della galleria, coperta negli spazi tra un’arcata di
pietra e l’altra da volte a botte in conglomerato cementizio. La stessa struttura si ripeteva al
piano superiore.
Sopra la volta della galleria inferiore un ampio piano di calpestio consentiva al pubblico un
afflusso ordinato alle scale di accesso alla cavea superiore e amene passeggiate con vista
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panoramica sulla città, durante gli intervalli dello spettacolo. Sopra la volta della galleria
superiore si ergeva un porticato sotto il quale probabilmente era sistemato il palco di legno
riservato alle donne.
Questa doppia galleria è scomparsa (tranne nelle quattro arcate superstiti dell’ala), di essa
resta solo l’anello perimetrale interno con i due ordini di arcate circolari originariamente
nascoste e che costituiscono l’attuale facciata. Ad uno sguardo attento appaiono su di esse i
tronconi di imposta delle arcate di pietra e delle volte in cementizio radiali, che si collegavano
con l’anello esterno, formando le due gallerie sovrapposte.
L’ala superstite conserva in alto anche i quattro archi di un terzo ordine, corrispondente
all’interno ad un porticato che correva tutt’intorno, sopra la galleria superiore. Nel
coronamento di questi quattro archi si trovano infisse a distanza regolare mensole su cui
verisimilmente poggiavano travi di sostegno del tetto ligneo a spiovente che copriva il
portico, le travi dalla parte interna dovevano poggiare su un colonnato. Negli scavi
ottocenteschi dell’Arena furono trovati resti di colonne, quattro di queste si trovano,
ricostruite con capitelli corinzi, nel museo archeologico del teatro romano, esse recano fori
nelle basi e nella zona inferiore dei fusti per l’inserimento di barre di ferro come transenne di
separazione.

Settori di murature tra le gallerie circolari


Tra le tre gallerie circolari e la platea dell’arena sono inseriti tre settori concentrici di muri
radiali .
Tra il margine della platea dell’arena e la prima galleria circolare (la più bassa), un settore
di muratura massiccia largo m 6,50 sostiene i gradoni inferiori della cavea, è l’unico settore
“pieno”, inclinato dai quasi 2 m dell’attuale podio, ai 4 m dell’imposta della galleria.
Solo gli ingressi diretti alla platea (i due monumentali e i quattro laterali) lo attraversano.
Al suo interno a intervalli regolari sono ricavate le scale che salgono dalla galleria ai 12
vomitoria della privilegiata cavea più bassa.
Il secondo settore, tra la galleria interna e quella intermedia è profondo circa 11 m ed è
costituito da muri e volte trasversali rampanti, che si alzano seguendo l’inclinazione della
cavea mediana. Muri e volte formano vani, alcuni dei quali occupati da scalinate che con due
rampe in linea retta collegano la galleria intermedia ai vomitori della media cavea.
Il terzo settore tra la galleria intermedia e quella esterna è profondo circa 14 m ed è
costruito su due livelli: il piano terra ha muri e volte diritti, il piano superiore li ha invece
rampanti che sostengono l’inclinazione delle gradinate della cavea superiore. Anche qui

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alcuni vani contengono un sistema di scale più complesso perché queste non potendo salire
dritte per mancanza di spazio, devono compiere un percorso articolato cambiando più volte
direzione, con rampe contrapposte che dalla galleria esterna salgono alla summa cavea
sboccando, secondo la destinazione, sopra la volta della seconda galleria, o raggiungendo un
pianerottolo sopra la terza galleria dal quale si dipartono altre scalette che raggiungono i
vomitoria più alti della summa cavea. Un tempo le scale raggiungevano anche il portico del
terzo piano non più esistente.

- La facciata
L’anello perimetrale esterno testimoniato dall’Ala ha uno spessore di circa 2,50 m alla base,
che si restringe progressivamente in altezza fino a m 1,10. Non era indispensabile alla statica
della cavea, che, come è evidente dallo stato attuale, si regge sulle sostruzioni interne. Esso,
oltre a contenere le due gallerie sovrapposte di distribuzione del pubblico, aveva la funzione
di monumentale facciata, a tre ordini di arcate sovrapposte, alta 30 metri, senza contare il
probabile coronamento. Solo il Colosseo raggiungerà una quarantina d’anni dopo i 50 metri di
altezza.
Esso è sostanzialmente indipendente dal resto, ma rispecchia e ripropone all’esterno,
dilatandola, la forma interna dell’edificio.
Ovviamente una facciata deve mostrare un suo decoro architettonico, che in questo caso è
essenziale ed efficace: essa è costituita nei primi due ordini da arcate vuote a tutto sesto
sostenute da pilastri, la cui superficie, larga più di due metri, è movimentata da lesene
mediane, appena rilevate, che superano in altezza le ghiere degli archi e raggiungono la
trabeazione superiore con capitelli tuscanici come a sostenerla. L’imposta degli archi è
sostenuta da coppie di semicapitelli. Il terzo ordine presenta alcune varianti: oltre ad essere
decisamente meno alto, ha archi un po’ più stretti a forma di grandi finestre, chiuse in basso
da un parapetto e inquadrate dalla sottile sporgenza di arcate complete di piedritti. Tre cornici
marcapiano separano i tre ordini.

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- Sensazione di potenza. Il bugnato rustico
A differenza del Colosseo, che presenta tre stili diversi, dorico, ionico e corinzio, uno per
ciascuno dei suoi tre ordini, i tre ordini di archi dell’Arena sono tutti in austero stile tuscanico
(dorico semplificato) e le superfici non sono rifinite e levigate come in altri anfiteatri, ma
lavorate a bugnato rustico che lascia grossolane e rugose le superfici.
Se ne riceve un’impressione di ruvida potenza, che evidenzia in pilastri e arcate la funzione
di ossatura portante capace di reggere il peso e distribuire le spinte della grande mole.
Un’impressione non disgiunta da quella esteticamente gradevole delle armoniche proporzioni
e della ritmata scansione dello spazio, la cui possibile monotonia è contrastata dall’effetto
coloristico del calcare dei blocchi, che varia dal grigio chiaro alle varie sfumature di rosa,
pallido o intenso. La caratteristica dei blocchi variegati è inoltre valorizzata dalla loro
disposizione volutamente casuale.
Il bugnato presenta tra l’altro il vantaggio di ridurre costi e tempi: i blocchi o conci di pietra
tagliati secondo moduli predefiniti e rozzamente sbozzati nelle cave della Valpolicella, una
volta trasportati a Verona, sono sostanzialmente già pronti all’uso. Il lavoro del cantiere si
limita a rifinire gli spigoli e a incavare le facce di giuntura tra i conci, in modo che aderiscano
perfettamente gli uni agli altri.
Le facce a vista lasciate al grezzo risultano sporgenti rispetto agli spigoli alquanto arretrati,
conferendo appunto l’effetto di bugnato.
Un pregio del bugnato è quello di proteggere con la sua sporgenza le linee di giunzione tra i
blocchi dall’acqua piovana, evitando che vi ristagni.
La posa in opera è perfezionata da un sottile strato di malta tenace che evita il contatto tra pur
minime protuberanze, che sottoposte al carico delle spinte potrebbero dar luogo a piccole ma
pericolose crepe, l’adesione tra i blocchi è rinforzata internamente da grappe e perni metallici,
fissati in appositi fori con piombo fuso.

- Impressione di incompiuto e suggestioni


Il bugnato è meno accentuato nell’anello esterno, a tre ordini di arcate, che era la facciata
dell’edificio e di cui resta solo l’”ala”, la sua scomparsa quasi completa ha messo a nudo il
bugnato più accentuato dell’anello retrostante, più basso a due ordini di arcate, su cui si

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notano le imposte troncate degli archi di pietra e delle volte cementizie che dovevano
collegarlo all’anello esterno della facciata.
La funzione di sostegno di queste arcate, che dovevano ovviamente restare nascoste alla
vista, è stata quindi ancor più messa in rilievo e al contempo la struttura mutilata comunica
una sensazione di incompiuto come se l’opera fosse stata lasciata lì all’improvviso per
qualche grave evento sopraggiunto.
L’impressione, chiaramente smentita dai dati archeologici e storici, fece presa però nel
medioevo sulla fantasia dei Veronesi che, vedendo nella straordinaria costruzione un
complesso labirinto, misterioso e sovrumano, favoleggiò di un patto stretto col diavolo, da
parte di un nobiluomo veronese, che promise di creare in una sola notte un grandioso
monumento per salvarsi così da una condanna a morte. Un esercito di demoni si mise
all’opera, innalzando magicamente una serie di arcate, ma il lavoro fu interrotto bruscamente
all’alba dalle campane che suonavano l’Ave Maria.

- Accesso del pubblico


I 72 grandi archi di ingresso erano numerati nell’architrave, per orientare l’accesso degli
spettatori, i quali con ogni probabilità ricevevano dagli addetti una tessera contrassegnata con
le indicazioni dei numeri del settore (o cuneo), della fila e del posto assegnati. Essi
accedevano ordinatamente attraverso la galleria esterna alle ampie scale ricavate nelle volte
radiali e uscivano dai vomitori nei vari settori della media e summa cavea, dove ciascuno si
orientava ritrovando le indicazioni della tessera incise sulla pietra del sedile corrispondente.
Erano invece riservati ai cittadini di censo elevato i percorsi privilegiati che portano
direttamente dalle arcate di ingresso alla galleria interna e di lì ai dodici vomitori di accesso
alle gradinate del É.
Come nel teatro, la cavea era divisa in fasce orizzontali (moeniana) nettamente separate da
pianerottoli anulari di una certa ampiezza (praecinctiones). La ima cavea, la cavea inferiore,
sostenuta dal muro pieno del podio, aveva le gradinate più basse, che non scendevano
ovviamente fino all’arena, ma, per sicurezza del pubblico, terminavano su un muro di cui non
conosciamo esattamente l’altezza (quello attuale di 2 m è ricostruito). Le attuali tribune
elevate sopra gli ingressi dell’asse maggiore sono una costruzione fantasiosa del XVII secolo,
se esistevano tribune, queste dovevano essere collocate sull’asse minore.

Funzione sociale degli spettacoli in arena


Nell’anfiteatro si ritrovava tutta la società romana divisa nei vari meniani e settori.

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Quelle del podio erano le prime file, le gradinate più basse che permettevano la vista migliore
erano riservate all’aristocrazia, ai cittadini che godevano di alto reddito e prestigio, ai
sacerdoti, ai decurioni della città e ai loro ospiti. Forse sopra i due ingressi dell’asse minore, i
punti più vicini al centro dell’elissi, in posizione ottimale per godere lo spettacolo, si
trovavano le tribune d’onore per i magistrati e le alte cariche presenti in città.
Nel primo meniano che formava la media cavea sedeva il ceto borghese, proprietari
benestanti, pubblici funzionari, mercanti facoltosi. Le classi popolari trovavano posto nel
secondo meniano summa cavea, la fascia più alta. Le donne stavano separate nella zona più
alta, forse in un quarto meniano diviso da una precinzione, o forse confinate nel porticato
sopra la galleria superiore.
La separazione formale delle classi sociali era prescritta dalla lex Iulia Theatralis promulgata
dalla volontà moralizzatrice di Augusto, ce ne riferisce alcuni aspetti lo storico Svetonio, che
ricorda anche la separazione dei militari dai civili.
Lo spettacolo era una festa popolare, un grande divertimento offerto a tutti, perfino agli
schiavi dei personaggi influenti, assiepata sulle gradinate la moltitudine stessa costituiva uno
spettacolo, ognuno poteva rispecchiarsi e riconoscersi negli altri e partecipare alle emozioni
collettive. Era un momento di aggregazione che rinforzava i legami sociali, i clienti
scorgevano il proprio patrono sedersi nelle prime file e lo salutavano grati del posto che aveva
ottenuto per loro. L’ordine dell’anfiteatro rispecchiava e confermava l’ordine sociale.
Le due gallerie sovrapposte del giro esterno servivano alla distribuzione della massa degli
spettatori e sono probabilmente una soluzione adottata la prima volta qui nell’anfiteatro di
Verona. Il pubblico, una volta passato attraverso gli ingressi numerati, entrava nelle volte a
botte del secondo anello e qui imboccava un complesso sistema di scale che conduceva ai 64
vomitoria (un termine pregnante per definire gli accessi) che sboccavano a varie altezze nella
cavea. La seconda galleria, oggi scomparsa, permetteva di accedere al porticato. Lunghe e
strette scalette inserite nelle gradinate facilitavano l’accesso ai posti a sedere e dividevano la
cavea in settori verticali (cunei) a forma di V tronca.
L’accesso dei circa 30.000 spettatori risultava così agevole e ordinato e altrettanto dicasi per
l’uscita, che in caso di necessità poteva avvenire in pochi minuti attraverso i 64 vomitoria.
La cavea che vediamo non è quella originaria, irrimediabilmente guastata nel corso dei
secoli dall’abbandono e dalla sistematica spoliazione delle pietre dall’Alto Medioevo al
Rinascimento, essa fu più volte ricostruita in epoca moderna a partire dal XVI secolo sotto il
dominio veneziano, ma senza ripristinarne le divisioni orizzontali o verticali, né l’originaria
altezza dei sedili e dei gradini.

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-

- Sistema fognario e scolo delle acque


Sotto la pavimentazione dell’anfiteatro corre un sistema molto razionale di canalizzazioni
fognarie oggi inagibile, ma a suo tempo efficace e capillare. La raccolta delle acque sfruttava
l’inclinazione di 1,60 m tra la base dell’anello esterno e quella della platea centrale.
Sotto il pavimento dell’asse maggiore, entra dall’arco numero I, un canale inclinato verso il
centro dell’harena, che serviva secondo ipotesi attendibili, a portare acqua per lavare la platea
e alimentare fontanelle rinfrescanti. Nel secondo tratto il canale, inclinato verso l’esterno,
usciva dall’opposto arco XXXVII, convogliando tutta l’acqua piovana dell’edificio, sia quella
raccolta dall’euripo (il canale intorno alla base del podio) e dalla cloaca dell’asse minore, sia
le acque delle tre cloache concentriche, scavate centralmente sotto il pavimento delle tre
gallerie anulari. Questo secondo tratto, oggi in gran parte ostruito, fu esplorato nell’Ottocento
fino ai giardini di Palazzo Ridolfi, in corso san Fermo da dove sboccava nel vicino Adige.
È probabile che le cloache anulari sottostanti le gallerie sgombrassero anche le acque nere
delle latrine, necessarie per le migliaia di persone che affollavano l’anfiteatro per intere
giornate. Sul fianco di alcune delle scalinate interne di accesso scendono delle canalette sopra
le quali si “accomodavano” probabilmente gli spettatori rialzando semplicemente i bordi della
tunica.

- Gli spettacoli

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Gli spettacoli cominciavano la mattina con le venationes: combattimenti tra uomini e
animali, o a volte lotte tra bestie feroci aizzate le une contro le altre.
Per la sicurezza del pubblico tra il podio che delimita le gradinate e l’arena doveva essere
interposto un muro o una robusta staccionata capace di intrappolare i balzi delle fiere.
Seguivano i munera gladiatoria, combattimenti tra gladiatori, preceduti dalla pompa, una
parata dei combattenti che, armati di tutto punto, entravano in scena nell’arena dalla porta
trionfale a ritmo di marcia, accompagnati da squilli di trombe e tamburi, tra il visibilio del
pubblico che acclamava a gran voce i suoi campioni.
Dalla opposta porta di Libitina, la dea dei funerali, uscivano invece su un letto funebre i
corpi dei gladiatori uccisi in combattimento, accompagnati da un solenne rito funerario.
Non bisogna pensare che gli spettacoli si concludessero regolarmente con una strage di
gladiatori, essi rappresentavano un investimento prezioso per il lanista, che era capo di una
scuola gladiatoria (ludus) e allo stesso tempo impresario, il quale affittava i suoi campioni
all’organizzatore dei giochi (editor). Il lanista teneva alla vita dei suoi uomini che aveva
allenato con grande impegno e mantenuto a sue spese: essi erano la sua fonte di guadagno.
Anche l’editor era interessato ad evitare uccisioni, perché in caso di morte di un gladiatore
doveva risarcire il lanista.
Augusto nella sua opera moralizzatrice della società romana, si occupò anche dei giochi e
proibì combattimenti all’ultimo sangue (Svetonio, Aug., 45): lo sconfitto doveva essere
missus (lasciato andare, risparmiato).
I gladiatori erano schiavi, prigionieri di guerra, ma anche volontari che accettavano rischi e
sacrifici per uscire da uno stato di povertà divenendo bravi e popolari, così da ottenere buoni
ingaggi e le donazioni dai loro sostenitori, uomini e donne.
In genere gli spettacoli erano offerti da cittadini facoltosi, per rendersi popolari, o per
favorire o celebrare i propri cari, come la matrona Licinia che offre venationes, spettacolo di
cacce a bestie feroci, in onore del giovane figlio Quinto Domizio Alpino.
Un’epistola di Plinio il giovane all’amico Massimo è illuminante a questo proposito.
Caro Massimo,
hai fatto benissimo a promettere un combattimento di gladiatori ai nostri Veronesi, che da tempo
ti amano, ti ammirano e onorano.
Di Verona era anche la tua carissima e stimatissima moglie, la cui memoria meritava qualche
edificio pubblico o meglio uno spettacolo, che è il più adatto ad una celebrazione funebre.
Ti dico anche bravo, perché nell’organizzare non hai badato a spese.

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Peccato che le pantere africane che hai comprato in gran numero non siano arrivate nella data
stabilita, bloccate da una tempesta. Ma il merito tu l’hai comunque, perché la cosa non è dipesa da
te. Stammi bene.
Dal testo di Plinio comprendiamo che uno spettacolo di venationes di buon livello era così costoso
da equivalere alla costruzione di un edificio pubblico.
I gladiatori si affrontavano a coppie, in cui spesso un uomo ben difeso, ma appesantito, da un
robusto armamento era opposto ad un agile armato alla leggera.
Il mosaico pavimentale, trovato in una domus vicina a porta Iovia (Porta Borsari) e visibile
al museo archeologico del Teatro Romano, descrive in modo piuttosto elementare tre scene di
combattimenti tra gladiatori, con brevi scritte esplicative, quasi una striscia di fumetti. Due
riquadri raccontano la conclusione di duelli tra il gladiatore reziario (da rete), e il secutor
(inseguitore), che riscuotevano molto successo per la loro particolarità. Il reziario, seminudo,
impersonava un pescatore ma ricordava anche il dio Nettuno, imbracciando la rete e il
tridente, il secutor ben difeso da elmo e scudo era una preda assai pericolosa, anzi era lui a
incalzare, cercando la distanza ravvicinata, per rendere inutili le armi dell’avversario e colpire
con la sua corta spada, ma era impacciato dal pesante armamento. Il reziario lo sfuggiva
facilmente, sfruttando la sua rapidità di movimenti e tenendolo distante a colpi di tridente. I
due girando in tondo si provocavano con finte e reciproche mosse e contromosse, finché
partiva lo spettacolare attacco del reziario: la robusta rete, lanciata da mano esperta si librava
in aria, allargata dai pesi fissati ai bordi, per ricadere sul nemico, che era facile poi gettare a
terra con uno strattone alla rete, sempre che il secutor non fosse così agile da scansarsi e
respingere l’estremità della rete con il grande scudo, per poi scagliarsi sul rivale, mentre
cercava di recuperare la rete, legata al suo polso.
Nel primo riquadro un reziario occupa baldanzoso il centro della scena, mentre l’avversario
secutor abbassa lo scudo in segno di resa.
Nel secondo, invece, il secutor è riuscito a ferire l’avversario con la corta spada, il reziario
cade in ginocchio in segno di resa e l’arbitro si frappone tra i due.
Nella terza scena un “mirmillone”, dalla pesante armatura, è disteso a terra in un lago di
sangue: il grosso elmo con visiera e il pesante scudo non lo hanno protetto da un agile “trace”,
che armato di sica, una corta spada ricurva, è riuscito a ferirlo gravemente. Su un lato è già
pronta la barella funeraria.

Nell’epigrafe del gladiatore Glauco, morto in combattimento, dopo la dedica della moglie e dei suoi
tifosi, è lo stesso defunto a prendere la parola.

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Agli Dei Mani. A Glauco da Modena che combatté sette volte e morì l’ottava, visse anni 23 e 5
giorni, al caro marito Aurelia e i tifosi di lui dedicano il sepolcro.
Io, Glauco, esorto voi a onorare e scongiurare la vostra stella, non fidatevi della nostra dea
Nemesi: così sono stato ingannato. Addio. State bene.
L’anfiteatro era adorno di grandi statue di marmo e di bronzo, di divinità ed atleti . Una
statua di bronzo di un pugile ci lascerà come testimonianza solo la mano sinistra protetta dal
caestus, specie di mezzo guanto formato da bende di cuoio avvolte in modo da proteggere il
dorso e aumentare la potenza dei pugni. Evidentemente in Arena erano molto seguiti dal
pubblico anche gli incontri di pugilato.
A distanza di quasi duemila anni l’Arena è ancora in piedi nonostante secoli di abbandono e
di spoliazioni o di dannosi riutilizzi nel medioevo. Riscoperta dagli architetti rinascimentali e
restaurata nel Sei-Settecento dalla Repubblica Veneta. Usata occasionalmente per ospitare
giostre di cavalieri, “caccie” di tori e spettacoli teatrali, nel novecento ha riacquistato la sua
funzione vitale come luogo di spettacolo di massa, per un pubblico, attratto non più da giochi
cruenti, bensì dalla passione per il bel canto e le opere liriche, non solo, ma anche per la
musica leggera e i concerti pop e rock.
L’Arena nella stagione estiva diventa un grande teatro all’aperto: sull’antico ovale vengono
sistemati l’impiantito che sostiene la platea delle poltrone, il ridotto dell’orchestra, il
palcoscenico che occupa con le sue imponenti scenografie il settore della cavea opposto
all’ingresso in platea, mentre la cavea si trasforma in un immenso loggione, che accoglie circa
15.000 spettatori.

35- Nuove strade e circolazione extraurbana.


Il rinnovamento della Gallia Cisalpina durante l’età giulio-claudia riguardò anche la rete
stradale, che fu riorganizzata e ampliata.
Verona diventò un crocevia di grande rilievo per il nord Italia, quando nel suo territorio
giunsero incrociandosi con la via Postumia due nuove importanti strade, la via Gallica e la
Claudia Augusta Padana,.
La Gallica fu costruita in età Giulio-Claudia su un antico tracciato che collegava Verona a
Como e a Milano passando da Brescia e Bergamo, un percorso simile al tratto Milano-Verona
dell’attuale statale 11 (Padana superiore).
La Claudia Augusta Padana era stata tracciata sessant’anni prima, nel 15 a. C. da Druso, per
facilitare le campagne militari al di là delle Alpi contro i Reti e i Vindelici e raggiungere

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facilmente un centro militare fortificato non lontano dal Danubio che in seguito divenne una
città col nome di Augusta Vindelicorum (Augusta dei Vindelici, l’attuale Augsburg).
La strada, per la sua importanza strategica di collegamento con il mondo germanico, fu
ristrutturata e completata nel 46 d. C. dall’imperatore Claudio, figlio di Druso. Essa collegava
il Po al Danubio: provenendo verisimilmente da Ostiglia, imboccava la val d’Adige a Verona
e dopo Trento probabilmente si sdoppiava dirigendosi con un ramo al passo di Resia e con
l’altro al Brennero, per raggiungere le attuali Austria e Baviera fino al confine del Danubio.
Le tre strade di comunicazione interregionale si incrociavano a Verona ed erano costrette ad
entrarvi per passare il fiume. La via Gallica, provenendo da ovest, si inseriva sulla Postumia
all’altezza dell’arco dei Gavi (a sud di Castelvecchio), cosicché il traffico delle due vie
entrava da porta Iovia ed usciva dal ponte Postumio.
La Claudia Augusta, provenendo da sud sarebbe entrata da porta Leoni per uscire dal ponte
Pietra. Stando così le cose, la città sarebbe risultata ben presto intasata e la situazione
insostenibile. Si corse ai ripari con la costruzione, in aggiunta al ponte Pietra e al Postumio,
di un terzo ponte a sud (poco a monte dell’attuale ponte Navi), su cui doveva passare la via
Claudia Augusta evitando l’entrata in città. Contestualmente si decise di collegare a questa via
le altre due, la Gallica e la Postumia, con una nuova strada, una specie di circonvallazione a
sud dell’abitato, dotata probabilmente di una stazione di sosta, che intercettava tutto il traffico
non interessato ad entrare in città e lo incanalava sul terzo ponte. In questo modo la via
Claudia Augusta, diretta a Trento, passato il nuovo ponte, sboccava nella Postumia, per
proseguire poi verso nord in sinistra Adige e la Postumia e la Gallica proseguivano per
Vicenza, aggirando a sud la città.
Questo ponte nell’alto medioevo scomparirà, lasciandoci solo qualche reperto..
La regolamentazione del traffico pare dettata, oltre che da esigenze locali, da provvedimenti
dello stesso imperatore. Lo storico Svetonio ci informa che Claudio con apposito editto
obbligò i viaggiatori a entrare nelle città italiane a piedi o in lettiga, lasciando fuori carri e
cavalli.

36-Monumentalizzazione della Postumia.


A Verona le strade urbane erano state rivestite con lastre di calcare mentre quelle extraurbane
avevano una copertura di ghiaia pressata. La città nel frattempo si era allargata al di là delle
mura nella fascia suburbana suddivisa dai cardi minori che uscivano a sud est, ma si era
ampliata anche a sud ovest, lungo la Postumia, nel tratto che usciva da porta Iovia (Borsari) e
giungeva all’Arco dei Gavi, qui erano sorte domus prestigiose, adorne di mosaici e affreschi

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formando una specie di zona residenziale. Questo tratto della via consolare, in epoca giulio-
claudia, fu trasformato da semplice via glareata (ricoperta di ghiaia) in una grande strada
lastricata di nero basalto e fiancheggiata da due corsie di calcare bianco e rosato per una
larghezza totale di circa 14 metri più 6 di marciapiedi, circa il doppio delle altre vie. La
Postumia divenne così una specie di corso trionfale di accesso alla città.
Il tratto di Postumia divenuto decumano all’interno delle mura fu rialzato, per qualche ragione, di
circa un metro e abbellito con fontane e due archi di pietra simmetrici posti alla due estremità del
lato settentrionale dell’area del Foro, all’incrocio con i due cardi minori che la delimitavano.
Sull’angolo di un negozio, all’incrocio tra corso Porta Borsari e via Quattro Spade è visibile un
piedritto dell’arco posto a ovest della zona forense, che aveva come chiave di volta la testa di Giove
Ammone, un motivo simbolico della propaganda imperiale. L’arco coronava l’accesso al gruppo di
nuovi edifici pubblici costruiti ad occidente del foro.
Anche l’importanza della via Claudia Augusta fu sottolineata nel suo tratto suburbano da una
copertura con blocchi di basalto nero.

37- Scuola dei gladiatori


A quest’epoca potrebbe risalire anche un importante rinvenimento avvenuto tra la via Claudia
Augusta Padana e l’Adige, nell’attuale quartiere dei Filippini, si tratta dei resti di un imponente
complesso edilizio, sviluppato su due piani, dotato di criptoportico e di una grande aula con ricco
arredo marmoreo.
Di questa struttura, di cui restano cospicue testimonianze, estese per circa 2.500 mq, non
conosciamo la funzione che per alcuni studiosi era forse commerciale. Altri invece, data la
collocazione esterna alle mura non lontana dall’Arena, la considerano una scuola per gladiatori,
completa di palestre e di alloggi per i combattenti, che dimostrerebbe l’importanza che questo tipo
di spettacoli aveva assunto in città.

38-Acquedotti
Nella nuova città il rifornimento di acqua potabile si ottenne agli inizi scavando pozzi e
probabilmente incanalando verso il piano un’antica sorgente che sgorgava in alto sul colle, ma,
quando la crescita demografica e lo sviluppo commerciale aumentarono i consumi e le esigenze dei
cittadini, divenne necessario far arrivare acqua in abbondanza da fonti collinari distanti alcune

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miglia dalla città e costruire acquedotti, tanto più se si voleva dotare la città di terme, che
ovviamente richiedevano grandi quantità d’acqua.
Un acquedotto fu fatto provenire da nord, dalla sorgente di Novare all’inizio della Valpolicella,
esso richiese anche lo scavo di una corta galleria, il cui sbocco è ancora visibile nei pressi di Parona,
e arrivava in città passando su ponte Pietra sulla cui fiancata sono visibili le mensole che
sostenevano le condotte idriche. Un secondo acquedotto venne derivato da est, dalle risorgive di
Montorio, il quale, fiancheggiando il tratto finale della via Postumia, raggiungeva la città passando
sul ponte Postumio.
Alla costruzione di questo acquedotto si riferisce probabilmente il contributo determinante di
600.000 sesterzi, lasciati nel suo testamento dalla ricca matrona Gavia Massima, donazione
ricordata in due epigrafi, rinvenute lungo il percorso del decumano massimo, una inserita nel muro
di una casa d’angolo tra via Rosa e corso S. Anastasia e l’altra visibile nel museo Maffeiano.
Alcune fistulae (tubazioni) di piombo per la distribuzione dell’acqua sono state rinvenute nei pressi
del ponte Postumio e all’interno del centro storico.
L’acquedotto confluiva di solito in un edificio sopraelevato, che doveva esserci anche a Verona,
sebbene non ne rimanga traccia, detto castellum aquae contenente uno o più serbatoi di raccolta,
decantazione e distribuzione, da cui l’acqua usciva attraverso sbocchi controllati dai calices (calici),
grossi bicchieri di bronzo, con aperture circolari sui lati e dotati superiormente di chiave a
saracinesca di regolazione del flusso.
Gli idraulici, detti plumbarii (lavoratori del piombo), saldavano gli appositi fori dei calici alle
tubazioni di piombo che solitamente erano tre in uscita dal castellum: una serviva le fontane e le
vasche pubbliche, un’altra le case private (domus) e una terza raggiungeva le terme.
Le tubazioni correvano inserite in una muratura di protezione e lungo il percorso cittadino dalle
condutture principali venivano derivate le condotte minori con la saldatura di altri calici dai fori di
diametro variabile, secondo precisi moduli standardizzati, per una distribuzione capillare, che
veniva controllata dagli addetti perché il consumo privato aveva un costo, calcolato sul diametro del
foro del calice di derivazione. Era quindi importante evitare furti d’acqua, frequenti soprattutto a
Roma più che nelle piccole città, attuati con allacciamenti abusivi o forzando le derivazioni per
aumentarne la portata, per questo i calici erano di bronzo, difficilmente deformabile, a differenza
del piombo.
Le spese di allacciamento delle condotte private erano a carico dei singoli proprietari, che ne
ottenevano la concessione, il cui nome poteva essere impresso sul piombo delle condutture, come
quelli di Clodio Rufino e Valerio Crescente, citati da Margherita Bolla in Verona Romana e
impressi su una conduttura secondaria trovata in via Catullo, antico cardo minore, perpendicolare al

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decumano massimo (corso Porta Borsari), sede della conduttura principale: i due proprietari di
domus si erano uniti per condividere le spese di allacciamento alla rete idrica.
Quando l’acqua scarseggiava, come poteva avvenire in certi periodi dell’anno, le fontane
pubbliche avevano la precedenza e l’erogazione alle utenze private poteva essere ridotta o sospesa
del tutto. Alle numerose fontane cittadine, frequentate in genere da donne e schiavi con le loro
anfore, tutti potevano attingere gratuitamente.

39-Terme pubbliche e private


Che le acque calde risalenti dal sottosuolo, in particolare se ricche di zolfo, fossero efficaci nella
cura di molti malanni era noto ai Romani e non solo a loro: a Baia, in Campania, essi avevano
costruito le loro più antiche strutture termali private e pubbliche, sperimentando anche la tecnica
dell’ipocausto, il pavimento sopraelevato su pilastrini per sfruttare sotto di esso il passaggio dei
caldi vapori naturali.

Anche le virtù terapeutiche delle acque calde affioranti nella alta pianura padana erano note ai
Romani e prima di loro a Euganei, Veneti e Celti. La famosa cittadina termale di Abano deriva il
suo nome da Aponos con cui i Romani la chiamavano, Aponos era anche il nome di un antico dio
locale delle acque. Così anche le acque di Sirmione (Sirmio) erano ben conosciute e forse anche
quelle di Caldiero, a una ventina di km a est di Verona.
Forse da questi fenomeni naturali, ma anche dall’evoluto mondo greco ellenistico, provenne
l’idea di costruire terme artificiali nelle città, dove solo alcune ricche domus erano dotate di una
piccola stanza da bagno, accanto al focolare della cucina, con uno scolo nelle fognature. Il resto
della popolazione urbana doveva arrangiarsi in qualche modo, accontentandosi di abluzioni con
brocche e catini nella propria casetta o immergendosi in specchi d’acqua nella bella stagione.
I Romani che avevano a cuore i problemi di igiene e salute degli affollati agglomerati cittadini
iniziarono già nel II sec. a. C. ad attrezzare bagni pubblici (balnea) con acqua riscaldata, accessibili
agli abitanti a prezzi modici. Anche a Pompei abbiamo esempi di questa prima fase di piccoli
ambienti essenziali, provvisti di caldaie rudimentali per riscaldare l’acqua e di vasche collegate ai
condotti fognari. Così era originariamente l’impianto balneare di epoca preromana ascrivibile al IV
secolo a. C., su cui sorsero circa due secoli dopo le terme Stabiane, ampliate con una serie di
interventi e abbellimenti protratti fino a qualche anno prima dell’eruzione del Vesuvio.
L’indispensabile rifornimento idrico era garantito da pozzi o cisterne e in un secondo tempo,
quando i balnea si trasformarono in thermae, il problema fu risolto dagli acquedotti.

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La parola thermòs, caldo, testimonia l’origine greca di questi edifici. In alcune città greche e
della Magna Grecia sono emersi dagli scavi resti di primitive strutture termali. Ad Olimpia, sede
delle olimpiadi, vicino alla palestra e al ginnasio sono stati ritrovati i resti di una piscina e di vari
ambienti, alcuni riscaldati, evidentemente funzionali alle esigenze degli atleti. I Romani presero
dunque l’idea dai Greci, ma la perfezionarono decisamente, introducendo tra le altre cose il
praefurnium e il bagno a vapore.
Ai tempi di Cesare, alla fine della repubblica, molti centri abitati possedevano bagni pubblici e
terme ma fu con Augusto e l’impero che avvenne la loro diffusione capillare, una città non poteva
dirsi tale se non possedeva terme pubbliche, adeguate alla sua importanza. L’edificio termale
divenne col tempo un complesso di vari edifici, comprendenti palestre, portici, giardini, biblioteche,
ma l’essenziale che non poteva mancare era costituito da tre ambienti collegati tra loro: tepidarium,
caldarium e frigidarium, ai quali spesso si aggiungeva un quarto: la stanzetta della sauna, detta
assa sudatio (sudatoio asciutto) oppure laconicum, dal nome della speciale stufa.
Per evitare la promiscuità tra i sessi le terme abbastanza grandi raddoppiavano queste sale in due
sezioni, la maschile e la femminile con ingressi separati. Le terme più piccole ricorrevano a turni di
orari diversi nella giornata, riservati ai due sessi .

Il riscaldamento dei locali avveniva con il sistema ad ipocaustum (riscaldato/riscaldamento da


sotto): l’aria calda proveniente dall’ipocausis (forno sotterraneo) percorreva il praefurnium, un
condotto laterale a una parete del caldarium e si diffondeva sotto il pavimento sospeso (suspensura)
sorretto da una fitta scacchiera di pilastrini (pilae) di mattoni, alti circa 50/60 cm, poggianti su una
sottopavimentazione, saliva poi tra tubi di terracotta inseriti nelle intercapedini delle pareti,
riscaldando in modo completo le sale. L’ipocausis allo stesso tempo riscaldava l’acqua delle
sovrapposte caldaie, che veniva immessa nelle vasche attraverso tubature.
L’orario di apertura delle terme al tempo di Vitruvio (V, 10) andava da mezzogiorno fino al
tramonto, l’ingresso costava pochi spiccioli, perché, considerato il valore sociale di questo servizio,
i costi di gestione erano sostenuti in buona parte, o da intervento pubblico, o da eminenti cittadini
che ottenevano così la gratitudine popolare.
L’ingresso immetteva nello spogliatoio (apodydetrium) fornito di panchine sormontate da file di
nicchie a vista per depositare le vesti e i calzari. Non essendoci chiusure, per evitare i frequenti furti
bisognava lasciare uno schiavo di guardia, o darsi il turno tra amici, o pagare il custode. Accanto
allo spogliatoio era saggiamente prevista di solito la presenza di una latrina.
Se le terme erano fornite di palestra o cortile si cominciava con un buon esercizio fisico per
riscaldare i muscoli e mantenersi in forma.

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Di qui si accedeva al tepidarium, ambiente intermedio in cui si sostava sedendosi per acclimatarsi,
salutare amici e scambiare quattro chiacchiere, quindi si passava al caldarium, calandosi
prudentemente negli ampi gradini della vasca (alveus), rivestita di marmo, o immergendosi del tutto
nell’acqua caldissima. Sul lato opposto della sala, all’interno di un’abside, c’era il labrum
(contrazione di lavabrum), una grande conca di pietra o metallo, posta su piedestallo, nella quale
sgorgava acqua fredda per abluzioni rinfrescanti, infine si giungeva al frigidarium o direttamente o
passando di nuovo attraverso il tepidarium. Il frigidarium nelle terme di grandi dimensioni era
collegato a una grande piscina scoperta poco profonda, la natatio.
Infine nelle grandi terme, fornite di biblioteca e di salette per massaggi si poteva usufruire di
questi servizi. Non mancavano, dietro l’angolo, le popinae (bar/ osterie) pronte a ristorare i clienti
affaticati dai bagni con bevande e spuntini.
Le terme rappresentavano una delle gioie della vita, il benessere fisico degli stimolanti bagni caldi e
freddi si univa a quello sociale e mondano degli incontri. Alle terme ci si dava appuntamento, si
scambiavano notizie e pareri sulle ultime novità, si stringevano amicizie e si imbastivano affari e
alleanze, il tutto in una cornice piacevole e rilassante oltre che esteticamente appagante, calpestando
a piedi nudi marmi preziosi o splendidi mosaici e posando lo sguardo su elaborati ornamenti
architettonici e statue marmoree.
La costruzione delle Terme già in età augustea, ma soprattutto in epoca giulio-claudia venne
incrementata da quella degli acquedotti. Verona nella prima età imperiale dovette senz’altro essere
fornita di terme, ma di esse restano testimonianze molto scarse che non rendono giustizia della
realtà alla ricchezza del loro apparato decorativo e dell’arredo: di epoca augustea sono le Terme
fuori delle mura, poste lungo la via Postumia, fuori Porta Jovia, dopo la stazione di sosta.
Probabilmente all’epoca giulio claudia risalgono resti riferibili a due edifici termali trovati
all’interno delle mura in prossimità dell’ansa dell’Adige, uno tra piazza Duomo e via Garibaldi,
l’altro poco lontano, nei pressi della chiesa di sant’Anastasia, ad essi si riferiscono verosimilmente
due grandi vasche, una in prezioso porfido rosso africano, oggi su un piedestallo nella chiesa di san
Zeno (dove l’avrebbe portata un diavolo per ordine del santo patrono) e l’altra di grandi dimensioni,
in pietra calcarea locale, riutilizzata in età scaligera da Cansignorio, come base della fontana detta
di Madonna Verona, in piazza Erbe.
Una testimonianza dello storico Tacito (hist. III, 10-11) conferma l’esistenza di un impianto
termale privato o pubblico nella fascia suburbana di Verona lungo la Postumia, probabilmente
compresa tra porta Iovia e l’arco dei Gavi. Qui durante la guerra civile del 69 a. C. tra Flavio
Vespasiano e Vitellio si acquartierarono i legionari flaviani. Un loro generale, Aponio Saturnino,

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accusato a torto di intesa col nemico, si salvò dalla furia omicida dei soldati rifugiandosi nel forno,
in quel momento spento, di un ipocausto di terme forse pubbliche o appartenenti a una ricca domus.

40- Sviluppo della città extra moenia


L’oriente mediterraneo, già urbanizzato dalle antiche civiltà e dai regni ellenistici fu in
genere considerato da Roma terra di conquista e di sfruttamento, in cui avidi governatori di
province si arricchivano facilmente.
Un trattamento più benevolo fu invece riservato all’occidente dell’impero, dove Roma,
dopo aver imposto le sue armi o i patti di alleanza, diede grande impulso allo sviluppo
economico ed urbanistico: alle antiche città portuali o prossime al mare si aggiunsero molte
nuove città fondate nelle pianure interne, popolate prima solo da villaggi o da oppida.
L’urbanizzazione e l’estensione della rete stradale in queste zone fertili, accrebbe decisamente
il loro sviluppo produttivo e mercantile. La pace di Augusto in particolare favorì la ripresa
economica e la prosperità della penisola italica e delle province occidentali.
Verona fu centro di riferimento di un territorio fertile, più vasto dell’attuale provincia.
Aveva un’agricoltura fiorente e numerosi allevamenti, in particolare di ovini e praticava
avanzati sistemi di trasformazione che producevano vino pregiato, olio e tessuti di lana. Dalle
sue cave si estraeva calcare variegato, apprezzato non solo localmente ma anche nella vicine
regioni imperiali VIII e XI.
La città, crocevia di importanti strade e delle vie fluviali dell’Adige e del Mincio, era in
grado di cogliere le opportunità di sviluppo economico che le si presentavano e la nuova
prosperità portò ad una crescita demografica.
Con la pace interna e lo spostamento dei limites (i confini) al di là delle Alpi, le mura delle
città italiche persero il loro significato difensivo e a Verona furono scavalcate dall’espansione
edilizia e sfruttate talvolta come muri di appoggio di edifici privati. Nuovi isolati si erano
formati lungo i cardini e i decumani che uscivano verso la campagna. Sorsero così nuove zone
residenziali, anche di pregio come quella lungo la Postumia e nuove zone artigianali
industriali.
In sinistra Adige, sopra un’antica zona cimiteriale poco fuori dell’abitato, si sviluppò un
quartiere artigianale per la lavorazione della terracotta e dei metalli, vi sorsero fornaci,
officine di fabbri e fonderie di bronzo, che fornivano prodotti di massa, ma anche artigianato
di buon livello, come statuaria e oggettistica raffinata. Un’altra zona artigianale ancora più

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estesa si impiantò a sud ovest dell’Arena (nell’attuale piazza Arditi) con fornaci di mattoni, di
vetro e fonderie.

41-Due prestigiose residenze.


Tra le abitazioni signorili veronesi, due sono particolarmente interessanti, per la ricchezza
della decorazione pavimentale conservata: una domus all’interno e una villa suburbana sulla
collina prospiciente il ponte Pietra.

- La domus di piazza Nogara


La domus è situata non lontano dall’incrocio dei due bracci delle mura romane, sul lato nord
est dell’attuale piazza Nogara, sotto il pavimento di una banca, un paio di metri più in basso
dell’odierno piano stradale e aveva l’ingresso sul cardo minore, coincidente con l’attuale via
S. Cosimo.
Essa occupa circa 400 mq di superficie e rivela varie fasi costruttive succedutesi nei secoli.
L’impianto generale risale alla fine del I secolo a. C., cioè a meno di cinquant’anni dalla la
fondazione della nuova città. In assenza dell’atrio, come in altre domus del nord della
penisola, la casa si sviluppava attorno a un semplice cortile in terra battuta che dava luce e
aria ai vari ambienti.
In una seconda fase, appartenente al I secolo d. C., fu costruito su tre lati un portico sorretto
da colonne tuscaniche. Esso ricorda il peristilio delle case mediterranee, ma è privo del
giardino, al cui posto troviamo il cortile, non più in terra battuta, ma lastricato in pietra. Sul
quarto lato, privo di colonne, si costruirono due vasche per l’acqua, collegate da un
inconsueto sistema idraulico, mentre il centro del cortile ospitava una fontanella. Nella terza
fase, a cavallo tra II e III secolo d. C., alcuni locali della domus vennero arricchiti da pregiati
mosaici policromi con articolati disegni geometrici.
La domus possedeva una zona estiva ed una invernale. I locali estivi erano a nord con ampie
aperture sul cortile. I due ambienti di soggiorno invernale, collocati a est e non comunicanti
con il cortile, erano opportunamente adiacenti al locale dell’impianto di riscaldamento, dal
quale l’aria calda passava sotto il pavimento di una piccola stanza vicina.
Le successive ristrutturazioni della domus, le migliorie e gli abbellimenti apportati, che si
riscontrano in numerosi altri esempi veronesi, sono indice di un costante sviluppo
dell’economia e della qualità della vita di Verona che si riscontra fino quasi alla metà del III
secolo.

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La villa della Valdonega
La villa suburbana della Valdonega è situata poco lontano dall’abitato romano, nel punto in
cui si allarga, aprendosi sulla città, la valletta che scende all’Adige fiancheggiando la pendice
occidentale del colle di san Pietro. È una posizione, dalla quale si godeva allora di una
straordinaria vista panoramica sul centro storico.
Dell’edificio, un tempo molto esteso, resta un blocco di tre ambienti con mosaici
pavimentali ben conservati e con circa un metro di alzato dei muri internamente affrescati e le
tracce di un portico che attorniava le stanze.
La loro conservazione è probabilmente dovuta all’accumulo secolare dei detriti trascinati a
valle dalla violenza delle acque meteoriche: fango e ghiaia hanno seppellito e preservato i
preziosi resti, che ora si trovano a tre metri sotto il piano stradale, dove furono scoperti nel
1957, in un periodo di grande ripresa edilizia, quando le villette e gli orti di questa collina
venivano progressivamente sostituiti da condomini a tre o quattro piani. Qui lo scavo delle
fondamenta di un palazzo portò alla luce i mosaici, il ritrovamento era troppo esteso per
essere nascosto e cancellato, l’area fu acquisita dal comune e i resti archeologici furono messi
in sicurezza.
La villa in base ad alcuni elementi decorativi, come un capitello corinzio con delfini
accoppiati, si può assegnare alla prima metà del I secolo d. C., probabilmente all’età di
Tiberio, vi sono, però, tracce di rifacimenti e rimaneggiamenti di varie epoche non facilmente
precisabili.
I tre ambienti rimasti sono collegati tra loro e a un portico che li contorna formando una
specie di L rovesciata, con la base della lettera girata a sinistra. Il lato lungo della L è rivolto a
est e quello corto a sud così da godere di una buona esposizione alla luce solare. Il porticato
doveva mettere in comunicazione la casa con un giardino che la attorniava.
A nord invece una profonda intercapedine difende l’edificio dall’umidità e dagli
smottamenti della collina.
Dal portico si accede alle stanze attraverso vari ingressi, alcuni dei quali con chiusura delle
porte a libro; quello principale è a sud e introduce ad una sala rettangolare ipostila (con
copertura sostenuta da colonne), molto spaziosa di quasi 70 mq. (m 10 x 6,75), le eleganti
colonne interne intonacate di rosso erano disposte su tre lati, distaccate dai muri perimetrali da
stretti corridoi, o ambulacri, di esse resta un unico esemplare e le alcune basi delle altre.

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La funzione delle esili colonne (diametro di 30 cm alla base), con i rocchi sovrapposti a
secco senza grappe metalliche che li collegassero, non era già quella di sostenere un secondo
piano, bensì soltanto la copertura della sala, che inizialmente fu giudicata un peristilio o un
atrio coperto di un tipo nuovo adatto ai climi settentrionali. Ma non s’era mai visto un
peristilio del tutto privo di giardino, né con portici così ridotti a stretti ambulacri. L’atrio poi
che abbia o no l’apertura per l’impluvium e la raccolta dell’acqua piovana, ha comunque una
funzione ordinatrice e centrale della casa, su di lui si affacciano tutt’intorno varie stanze,
questa sala è invece decentrata e a sé stante.
Venne in soccorso il trattato di Vitruvio in cui si trova la descrizione di una sala detta oecus
corinthius (stanza corinzia), come signorile e prestigiosa variante del triclinio che calza quasi
a pennello con questo ambiente della Valdonega. In tal caso la funzione delle colonne è di
portare un architrave leggero, ma largo fino a penetrare nel muro perimetrale, coprendo lo
spazio dello stretto corridoio degli ambulacri.
Sull’architrave poggiava la copertura centrale della sala, realizzata quasi sicuramente non
con un soffitto orizzontale, ma secondo le prescrizioni di Vitruvio, con una volta a botte,
costituita da un incannucciato (sistema di graticci di canne strettamente legate), rivestito da
intonaco e probabilmente affrescato. La volta era fissata con dei tiranti a travetti orizzontali
posti superiormente.
Calcolando un’altezza delle colonne, capitelli, architrave e cornice compresi, superiore ai 3
m e supponendo che la volta fosse a tutto sesto con un diametro attorno ai 5 m e un’altezza al
vertice di circa 2,50 m, la sala doveva avere un’altezza massima di oltre m 5,50, che conferiva
un notevole slancio verticale all’ambiente.
Sul lato corto a sud della sala, l’unico privo di colonne, l’ampio ingresso (m 2,60) sul portico
è affiancato da due finestre larghe 1 m ciascuna e che partivano dal basso a soli 50 cm dal
pavimento. La parete lunga 6 m risulta quindi aperta sul portico per più di due terzi (4,60 m),
cosicché la sala, attraverso il porticato era ben esposta alla calda luce del mezzogiorno e
poteva godere di una eccezionale vista sulla città sottostante.
Il pavimento è ricoperto da un mosaico pregiato, a piccole tessere, negli intercolumni (spazi
tra le colonne) pannelli con semplici cornici a tessere nere si alternano ad altri policromi,
deliziosamente figurati con verdi girali di vite su cui si appoggiano vivaci uccellini variopinti.
L’alzato superstite delle pareti, alto circa un metro, è decorato sulla parete di fondo da
affreschi con riquadri che fingono sfondamenti spaziali e la parete laterale è affrescata da una
pittura naturalistica, che raffigura piante e cespugli tra i quali si trova anche la gabbia di un
uccellino: è la cosiddetta pittura di giardino che andava molto di moda a Roma e a Pompei.

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I mosaici pavimentali e gli affreschi murali si fondevano in armoniosa unità con
l’architettura dell’ampia sala, sottolineandone le sapienti proporzioni.
Qui il munifico padrone di casa offriva sontuosi banchetti ai suoi ospiti, in un contesto
architettonico armonioso e ravvivato dai colori di colonne dipinte e mosaici e affreschi che
riportavano all’interno della casa l’ambiente naturale esterno.
Un piccolo ambiente di servizio mette in comunicazione la sala grande con una sala minore
(m 3.80 x 6.70) decorata anch’essa con mosaici geometrici e raffinati affreschi divisi in due
fasce, quella inferiore naturalistica con ciuffi di erbe di diverse specie alternati ad uccelli
variopinti e la fascia superiore decorata di mitologici grifi, e da una maschera teatrale
femminile.
Sulla parete di fondo, opposta ad una grande finestra, la stanza presenta uno zoccolo
sporgente, una specie di gradone in muratura, coperto da lastre marmoree, alto 90 cm e
profondo 60, coevo o precedente alla decorazione parietale, che da esso non viene interrotta,
troppo alto per essere un sedile, uso oltretutto incompatibile con gli affreschi sottostanti. La
sua funzione poteva essere quella di un ripiano di appoggio per oggetti o rotoli di papiro. Per
questo si è pensato che il vano fosse il tablinum, lo studio del padrone di casa, ma, per la sua
disposizione, risulta più convincente l’ipotesi che si trattasse di un altro oecus, un triclinio
minore e più raccolto, ma non meno bello.
Questo insieme di vani non era certo isolato, ma doveva far parte di un complesso molto più
ampio che comprendeva, stanze di servizio, cucina, camere da letto (cubicula) e magazzini e
che probabilmente si articolava su terrazze scavate nella collina, dove sembrano portare i
pochi gradini di una scala ritrovati a nord degli ambienti superstiti.

43-La vita quotidiana


I resti archeologici ci parlano di Verona romana come di una città non comune, figlia di progetti
urbanistici ambiziosi. Ma non la conosciamo nei dettagli, non sappiamo se in essa le case
“popolari” fossero in quartieri distinti o frammischiate alle ricche domus aristocratiche.
Conosciamo molto poco del vissuto quotidiano sociale, familiare e privato: a parte quello che
possiamo ricavare dai testi di Catullo e di altri autori, il repertorio archeologico si limita ad epigrafi
commemorative, steli funerarie, monete, qualche gioiello, lampade, oggetti votivi o deposti nelle
sepolture, in genere molto povere. Anche la scultura è poco rappresentata, le statue e i bassorilievi
ritrovati sono veramente pochi rispetto all’importanza della città.

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Viceversa a Pompei ed Ercolano, sepolte dal Vesuvio, abbiamo una ricca documentazione della
vita quotidiana, perfino i resti di cibo e i giocattoli dei bambini, e interi quartieri con ricche domus,
semplici case, botteghe, taverne perfettamente conservate e con le scritte elettorali sui muri. Anche
Aquileia, abbandonata dagli abitanti in seguito alle devastazioni di Attila, conserva nel suo museo
una ricca documentazione del quotidiano.
A Verona le varie epoche si sono sovrapposte e hanno cancellato la precedente vita cittadina,
mantenendo solo le architetture monumentali e una evidente traccia della struttura urbanistica
originaria nel tessuto viario del centro storico, ancora basato sul reticolo romano.
Nel basso impero e nel medioevo molte statue, bassorilievi ed elementi architettonici in calcare
finirono sbriciolati per far calce da costruzione e gli oggetti di metallo furono fusi. Anche le
sepolture importanti, nei pressi della città, con i loro ricchi corredi funerari, sono sparite, perché gli
stessi romani ne hanno riutilizzate le pietre per la ricostruzione delle mura cittadine.
La vita quotidiana di Verona romana può dunque essere ricostruita solo per analogia con quella
emersa in altri centri abitati e attraverso testi letterari e documenti dell’epoca.
Professioni una donna medico «(CAIUS) / ECORNELIUS / MELIBOEUS / SIBI ET / SENTIAI /
ELIDI ME(DICAI) / CON(TUBERNALI) / (SENTIAI ASTE)»
44 – Verona e la sua posizione strategica.
Molte città subirono abbandoni e distruzioni più o meno completi e nelle ricostruzioni cambiarono
la loro forma. Verona invece mantenne sostanzialmente attraverso i secoli il suo nucleo originario:
un fattore determinante per questa conservazione fu la sua posizione geografica allo sbocco della
Val d’Adige nella pianura Padana e la conseguente rilevanza strategica e militare che la trasformò
progressivamente in una città fortezza, importante per tutti i potenti che la governarono e resa
perciò difficilmente espugnabile.
Dopo Augusto Verona aveva vissuto due secoli e mezzo di pace e sicurezza, durante i quali fu
coinvolta in un solo episodio di conflitto militare, già citato a proposito delle terme: nel 69 d. C
l’anno dei quattro imperatori, quando, dopo la morte di Nerone, si accese lo scontro per la sua
successione. Eliminati Galba e Otone, lo scontro finale si accese tra Vitellio e Flavio Vespasiano.
Il partito dei vitelliani era padrone della penisola italica, mentre i loro avversari, i flaviani, guidati
dal legato (comandante di legione) Antonio Primo, penetrarono da oriente e dopo aver preso
Aquileia, Este e Padova, scelsero Verona come base operativa e la occuparono con tre legioni, a cui
si aggiunsero poi altre due.
Alle migliaia di soldati non bastava la limitata area cittadina, così essi circondarono Verona con
un campo trincerato (Tacito, hist. III, 10) con tutta probabilità a sud ovest della città in una zona
compresa tra le mura e l’Arco dei Gavi, dove sorgerà Castelvecchio, qui i flaviani eressero un

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vallum, un terrapieno coronato da una palizzata e difeso da una fossa, che forse sfruttava una
diramazione dell’Adige, già allora esistente, il futuro Adigetto. Così essi difesero tutta la città,
Arena compresa (Tacito, hist. III, 10-11).
I soldati flaviani, molto tesi perché penetrati in territorio nemico, temevano un improvviso
attacco dei vitelliani e possibili tradimenti. Cecina il capo dei vitelliani si era trincerato con un forte
esercito poco a sud di Verona, tra Ostiglia e le paludi del fiume Tartaro (Tacito, hist. III, 9). Un
falso allarme, per l’arrivo di cavalieri alleati scambiati per nemici, aveva provocato il panico in una
legione di guardia. Tra i comandanti presenti a Verona c’era Aponio Saturnino governatore della
Mesia, giunto con una legione, che in passato era stato amico di Vitellio. Ciò bastò a far diffondere
voci su presunti messaggi da lui inviati a Vitellio, si scatenò una immediata caccia all’uomo, che
stava riposando in un giardino di una villa suburbana. Saturnino, avvertito dal frastuono, sfuggì alla
cattura e alla morte rifugiandosi nel forno, in quel momento spento, di terme pubbliche o
appartenenti alla villa e quindi, aiutato dai colleghi, riparò alla chetichella a Padova. La battaglia tra
i due schieramenti poi si spostò a Cremona, ma l’episodio aveva rivelato il valore strategico di
Verona.
Di lì a poco Vespasiano prese il potere, iniziando la dinastia dei Flavi (69-96) proseguita dai suoi
due figli, Tito prima e poi Domiziano.

Questi imperatori, che a Roma eressero il Colosseo, l’arco di Tito e grandiosi edifici pubblici, non
lasciarono a Verona tracce significative. La dinastia si concluse tragicamente con Domiziano che
regnò col sospetto ed il terrore, macchiandosi di feroci delitti e fu eliminato da una congiura,

42 – I principi adottivi o Antonini II sec. d.C.


L’anziano senatore Nerva, eletto imperatore nel 96, non scelse nella cerchia dei suoi familiari, ma adottò
come figlio e futuro imperatore lo spagnolo Traiano, il più popolare dei generali dell’esercito, proponendolo
al senato, che approvò con entusiasmo la scelta. Fu così abbandonato il pericoloso sistema dinastico di
successione e iniziò la serie degli imperatori adottivi che regnarono quasi un secolo (dal 96 al 180 ). Traiano
adottò a sua volta Adriano e costui Antonino nominato Pio dai senatori, il quale adottò Marco Aurelio e Lucio
Vero, dando al primo una preminenza.
Durante il governo di Marco Aurelio, serie minacce si abbatterono da più parti sui confini dell’impero, le
tribù germaniche prima divise e rivali si erano riunite in forti coalizioni. Lucio Vero fu inviato in oriente
contro i Parti, eterni nemici e poi in Occidente sul fronte germanico. Morto Lucio di peste, Marco,
l’imperatore filosofo, amante della pace, fu costretto a trascorrere gli ultimi anni della sua vita negli
accampamenti militari a dirigere la difesa contro i Germani, Quadi e Marcomanni e contro i Sarmati, fino al

156
180, anno in cui morì di peste sul confine danubiano. Sul letto di morte raccomandandolo ai suoi generali
nominò successore il figlio Commodo diciannovenne, abbandonando così il metodo adottivo, scelta che si
rivelò infelice.

Commodo e il senato
La collaborazione tra gli imperatori adottivi e l’aristocrazia senatoria , per gestire il governo dell’immenso
stato romano, era stata buona, ottima con Antonino, che il senato insignì perciò del titolo di Pio.
Invece tra Commodo e il senato i rapporti si guastarono fin da subito; il giovane imperatore fu giudicato
insicuro, succube di consiglieri e cortigiani e inadatto a un così alto compito. Disprezzato dai potenti
senatori che detenevano grandi fortune, oltre al comando di alcune province e legioni, Commodo cercò il
consenso del popolo e dell’esercito con generosi donativi ed elargizioni, anche a costo di svuotare le casse
imperiali.
Egli poi usò la divinizzazione della sua persona come strumento di propaganda politica e religiosa e
sfruttando la sua prestanza fisica si presentava al pubblico come Ercole Romano con tanto di clava e pelle
di leone sulle spalle, scendendo poi nell’arena a cacciare le fiere che trafiggeva con giavellotti senza
sbagliare un colpo, ma scagliando da una corsia sopraelevata, priva di rischi. Questi spettacoli mandavano
in visibilio il popolino, ma erano intollerabili per le classi dirigenti, che fingevano di applaudire.
Egli non esitò a colpire gli oppositori nel senato, confiscandone gli ingenti beni per impinguare le sue
casse. Le numerose congiure anche di parenti, da cui riuscì a sfuggire grazie alla fedeltà dei pretoriani, lo
resero sempre più ombroso, dispotico e spietato. D’altro canto invece rivelò una inconsueta tolleranza
religiosa e doti militari in alcune campagne contro i Germani.
Le sue tendenze negative e stravaganti secondo molte fonti storiche, non sempre attendibili, si
accentuarono negli ultimi due anni di regno 190-192, ma il personaggio è ambivalente e il giudizio degli
storici controverso.
Egli giunse a dare il proprio appellativo a Roma chiamandola Colonia Commodiana e così fece con il
senato, con alcune legioni, una flotta, e con i mesi dell’anno. Era pura megalomania o un utopico
programma di rifondazione teocratica dell’impero basato sulla divinità della sua persona? Anche Adriano
si era richiamato ad Ercole, il cui mito altamente positivo percorreva tutta la storia romana da Romolo ad
Augusto.
Le sue esibizioni come gladiatore regolarmente vincente sembra però risultassero scandalose anche a
una parte del popolo, di cui perse il favore.
A Commodo piaceva umiliare in pubblico i nemici, ma anche i collaboratori più stretti, magari rei di aver
espresso una critica, come il prefetto del pretorio Leto, che fu costretto a un combattimento gladiatorio
con lui, uscendone ovviamente sconfitto. Commodo Rimase al potere 12 anni fino alla notte del 31
dicembre 192, in cui entrò in azione l’ultima congiura, capeggiata da Leto, complice Marcia la sua amante

157
e numerosi senatori. Commodo appesantito da una lauta cena l’aveva vomitata, liberandosi del veleno in
essa contenuto e forse sospettava qualcosa. Inoltre pare che il 1 gennaio avesse intenzione, dopo aver
destituito i consoli designati per il 193, di presentarsi in senato in tenuta da gladiatore come nuovo
console, avendo un gladiatore come collega.
Commodo era molto robusto, i pretoriani vigilavano il palazzo. I congiurati passarono immediatamente
al piano B, ricorrendo a Narcisso l’istruttore di lotta personale di Commodo, che gli spezzò il collo fingendo
qualche mossa di allenamento.

Sotto questi imperatori, detti anche Antonini (da Antonino Pio, il quarto e il più amato di loro),
l’impero raggiunse l’apogeo nel secolo che fu detto d’oro, grazie al buon governo, garante di
sicurezza sulle frontiere e di prosperità interna. Ma stranamente nella nostra città si riscontra dai
dati archeologici di questo periodo un rallentamento dell’attività edilizia e probabilmente
dell’economia. Questo, secondo alcuni studiosi fu un fenomeno generalizzato, perché l’impero
raggiunto l’apogeo dell’espansione con Traiano, da Adriano in poi si rinchiuse all’interno dei suoi
confini, iniziando una curva discendente della forza militare ed economica. Lo confermerebbero i
dati archeologici che documenterebbero una diminuzione dei ritrovamenti di navi naufragate, di
inquinamento da piombo e di ossa di animali domestici negli strati antropici di riferimento, sintomi
di un declino commerciale, industriale e alimentare.

Nel 169-70 i Germani, penetrati inaspettatamente nella Venetia, assediarono invano Aquileia e poi
si gettarono su Oderzo (Opitergium) saccheggiandola, ma furono affrontati e battuti dalle truppe di
Marco Aurelio (Ammiano XXIX, 6, 1), Verona fu salva, ma il pericolo scampato fu grande, come
testimonierebbe un tesoro di qualche migliaio di monete d’argento, sepolto forse per paura di questa
invasione poco fuori della città romana, non più recuperato dai proprietari e riscoperto
nell’Ottocento. A quel tempo le mura di Verona reduci da due secoli di totale abbandono non
garantivano certo una solida difesa della città. La grave crisi iniziata con Marco Aurelio ai confini
dell’impero durerà decenni e diventerà anche crisi politica interna dopo l’uccisione del figlio
Commodo.

Verona nell’età dei Severi (193 – 235)


La dinastia dei Severi da Settimio ad Alessandro garantì una apprezzabile stabilità e sicurezza
dell’impero.
A Verona sotto questi imperatori si notano i segni di una ripresa nell’edilizia pubblica e privata.

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In quest’epoca fu infatti ristrutturata la basilica, con l’ampliamento di una grande abside sul lato
corto a sud (la traccia delle cui fondamenta è visibile all’inizio di via Mazzini), all’interno si
intervenne arricchendo la trabeazione posta sopra le due file di colonne, che dividevano l’edificio in
tre navate, trabeazione su cui poggiava un secondo ordine di colonne atto a sopraelevare la navata
centrale e a sostenere le sovrastanti pareti, dalle cui finestre filtrava la luce all’interno della basilica.
Un personaggio facoltoso, console nel 201, Marco Nonio Arrio Muciano ricostruì ed ampliò a sue
spese le Thermae Iuventianae, di cui non conosciamo l’esatta ubicazione e che erano state costruite
precedentemente da un personaggio appartenente alla famiglia Iuventia.
Si provvide anche alla costruzione o alla ristrutturazione di numerose domus urbane e suburbane:
sotto il palazzo dell’ex tribunale, nella citata domus di piazza Nogara (sotto la Banca Popolare), in
piazzetta S. Eufemia, in corso Cavour ecc., i pavimenti di queste domus furono rivestiti di bellissimi
mosaici.

Fine della pace e inizio delle guerre tra generali e delle invasioni
Per circa due secoli a partire dal principato di Augusto, nella pianura padana regna una
durevole pace, interrotta solo dalla guerra civile scatenatasi dopo la morte di Nerone, che
si risolve in poco più di un anno, detto appunto l’anno dei quattro imperatori (68-69), con
l’affermazione di Vespasiano e della nuova dinastia dei Flavi.
I confini, le basi militari e i conflitti sono spostati lontani dall’Italia, sul Danubio e sul
Reno, di conseguenza i centri padano veneti perdono l’importanza militare che avevano
mantenuto durante la campagna gallica di Cesare e fino al secondo triumvirato. Grazie
alla pace e alla sicurezza delle vie commerciali essi raggiungono un alto grado di
benessere e di qualità della vita, testimoniata dai numerosi edifici pubblici e dalle
infrastrutture cittadine.
La prosperità agricola, manifatturiera e commerciale favorisce lo sviluppo dei centri
abitati, in particolare Mediolanum (Milano), al centro dell’area più fertile della pianura, e
Aquileia, principale porto del nord Adriatico, che diventano i due più importanti poli
economici e politici del nord Italia.
Situata a metà strada tra queste due città, Verona si trova in una posizione invidiabile
all’incrocio tra la via Postumia che la collega ad Aquileia e la via Gallica che porta a Milano
e Como. Per Verona passa anche la via Claudia Augusta che congiunge Trento e il
Brennero con Modena.
Ma i tempi cambiano, nel III secolo, finita la sua fase di espansione, l’impero si mette
sulla difensiva, abbandona la Dacia, troppo difficile da difendere al di là del Danubio e va

159
incontro a una grave recessione economica e a una crisi militare permanente, causata da
pericoli esterni ed interni. Diventa cruciale l’importanza strategica della pianura Padana
Centro Orientale, le cui città si trovano esposte alle incursioni barbariche provenienti dai
Balcani e dalle Alpi e sono contemporaneamente minacciate dalle guerre civili tra generali
romani in lotta per il potere. Il guaio è che nel frattempo le mura cittadine, avendo perso la
funzione difensiva, sono state decisamente trascurate dal governo municipale, nel corso
degli anni la fascia di rispetto dentro e fuori la cinta muraria è stata occupata soprattutto da
laboratori artigiani e magazzini che qualche tempo dopo si sono spostati più all’esterno,
lasciando il posto a nuove abitazioni e ricche domus.

L’anarchia militare del III secolo e le città transpadane


Nel 238 Aquileia viene coinvolta nella guerra civile scatenata dal Senato romano che
aveva deposto Massimino il Trace. Il potente esercito di Massimino, reduce da campagne
vittoriose contro Germani e Sarmati muove dalle rive del Danubio, diretto a Roma per
regolare i conti con il Senato, ma trova la strada sbarrata da truppe guidate dal senatore
Pupieno neoimperatore che hanno preventivamente occupato parte del territorio friulano,
facendo terra bruciata davanti al nemico e aiutando gli abitanti di Aquileia a restaurare
frettolosamente le loro mura. Inaspettatamente la città oppone una resistenza accanita,
che può avvalersi della sua flotta. Massimino invece di proseguire per Roma insiste
testardo nell’assedio, finché i suoi soldati ridotti alla fame si ribellano e lo uccidono.

Un altro episodio della turbolenta anarchia militare ha invece come sfondo Verona.
Filippo detto l’Arabo, perché figlio di uno sceicco, acclamato anche lui imperatore dalle
truppe nel 244 e poi confermato dal senato, durante i cinque anni del suo regno deve
affrontare numerose rivolte militari. Nel 248 al confine danubiano di Mesia e Pannonia l’esercito
si rivolta proclamando imperatore il proprio comandante Pacaziano per poi pentirsi e ucciderlo,
l’imperatore Filippo l’Arabo invia il senatore Decio, un brillante generale, a ristabilire l’ordine e
punire i colpevoli. I soldati per evitare le punizioni non trovarono di meglio che proclamare Decio
imperatore, costringendolo a rivestire la porpora e a guidare la ribellione .
Dalla Pannonia Decio scende così in armi in Friuli varcando le Alpi orientali., Filippo gli va
incontro con un esercito numericamente superiore. I due eserciti si scontrano nei pressi di
Verona, l’esperienza militare di Decio ha la meglio sul numero e Filippo perde sul campo la
battaglia, il trono e la vita a vantaggio di Decio. L’episodio conferma così l’importanza della
città per la sua posizione strategica.

160
Il cinquantennio di “anarchia militare” nel III secolo.
Nel quarto decennio del III secolo l’impero entrò in una grave crisi di “anarchia militare”, che durò
cinquant’anni dal 235 al 28, durante la quale i militari divennero i protagonisti assoluti, condizionando tutta
la vita politica e sociale. A causa della vastità dell’impero e dei crescenti pericoli di invasione, gli eserciti che
operavano negli immensi confini non rispondevano più al lontano governo di Roma ma ai propri comandanti
e agli ufficiali, molti dei quali provenivano dalla carriera militare e non dalla classe senatoria.
Gli eserciti, in cui erano numerosi i contingenti di barbari più o meno romanizzati, cominciarono a farla da
padroni nella scelta degli imperatori, imponendo al Senato di Roma la nomina dei loro capi, dai quali si
aspettavano ricompense e donativi. Alla morte di un imperatore si scatenava la lotta di successione tra gli
aspiranti al potere. Ma il vincitore non durava in carica più di qualche anno, cadendo in battaglia contro
Germani, Persiani o Unni, ma più spesso assassinato dagli stessi generali che lo avevano eletto e lo volevano
sostituire con uno di loro. Spesso c’erano diversi aspiranti al trono che si autoproclamavano
contemporaneamente augusti e si combattevano tra loro, fino al prevalere di uno solo.

Massimino il Trace (regno 235-238)


Inaugurò la serie Massimino il Trace, di cui abbiamo notizie di prima mano dalla Storia dell’impero del
contemporaneo Erodiano. Massimino fu il primo imperatore barbaro di nascita, un soldato ausiliario, promosso
ufficiale sul campo da Settimio Severo e ammesso così nella classe dei cavalieri. A dispetto del suo nome era un
gigante dotato di forza erculea e di grande coraggio, ma rozzo e inflessibile, caratteristiche per cui era apprezzato
dai commilitoni. Promosso generale in Gallia nel corso di una campagna contro gli Alamanni, mentre passava in
rassegna i soldati, questi gli gettarono addosso un manto purpureo, proclamandolo imperatore, al posto
dell’ultimo dei Severi, il giovane Alessandro ucciso dopo tredici anni di regno (222-235) sul fronte germanico da
militari che lo accusavano di debolezza, essendo sceso a patti giudicati vili con gli invasori Alemanni e che
oltretutto privavano i soldati dello sperato bottino di guerra (Herod. VI, 7,6) .
Giunto al potere, Massimino attuò umo sterminio sistematico dei suoi avversari, a cominciare dagli alti ufficiali di
Severo Alessandro (Herod. VII, 3,1), ma si rivelò anche abile e valoroso condottiero, combattendo senza sosta
contro i nemici di sempre. Nel volgere di tre anni, inflisse sconfitte pesanti ai Germani, penetrando all’interno dei
loro territori e guidò l’esercito alla vittoria contro i Goti, i Sarmati e i Persiani Sasanidi.
Le costose campagne militari e gli aumenti di paga concessi ai soldati richiedevano somme ingenti ed egli si
procurò denaro in ogni modo dal contado e dalle città, imponendo prelievi fiscali straordinari tali da ridurre in
povertà molti proprietari e giungendo a confiscare perfino i tesori votivi dei templi e le riserve monetarie delle
città, destinate ai servizi pubblici e alla beneficienza verso le famiglie dei poveri. Fece razzia di statue di metallo
per coniare nuove monete (Herod. VII, 3, 3). Suscitò l’odio del senato e rivolte delle popolazioni italiche e
161
provinciali, alle quali reagì con le confische dei beni, le esecuzioni sommarie e il governo del terrore, non solo
contro la classe dirigente, ma contro tutti i ceti sociali, potenziando l’attività di intelligence di frumentarii
(originariamente addetti alle requisizioni per l’esercito) e speculatores (spie), per reprimere il malcontento e la
libertà di parola.
Approfittando del fatto che egli era impegnato al confine, il senato di Roma lo depose dichiarandolo nemico
pubblico e nominando al suo posto i senatori Pupieno e Balbino, due coreggenti forse a somiglianza dei due
consoli dell’antica repubblica. Si reclutò un esercito con l’aiuto e il sostegno economico delle città italiche.
Balbino restò a difesa di Roma e Pupieno si diresse a nord con un esercito.
Massimino rientrò velocemente dal confine danubiano diretto a Roma per regolare i conti col senato, ma
avvicinandosi alle Alpi Giulie trovò un territorio spoglio, abbandonato dagli abitanti, rifugiati nelle città con i loro
beni, secondo le direttive degli inviati dal senato, così da privare il nemico di ogni risorsa. incontrata sulla sua
strada Aquileia, la pose sotto assedio. Ma la città era stata fortificata e, rifornita dal suo porto, resistette
eroicamente, respingendo gli assalitori e incendiando le loro macchine da assedio. All’arrivo dell’esercito di
Pupieno, Massimino si trovò preso tra due fuochi, mentre i suoi soldati erano logorati da gravi perdite, fame e
stanchezza. Alcuni reparti non esitarono ad abbandonare il loro capo e un gruppo di ufficiali entrati nella sua
tenda lo uccisero nel sonno. Pupieno e Balbino rimasero padroni di Roma, ma il loro regno durò in tutto tre mesi,
ognuno dei due cominciò a temere di essere ucciso dall’altro e il disaccordo li indebolì. Pupieno si era portato
dalla Germania di cui era stato governatore una forte e fedele guarnigione dalla quale la guardia pretoriana,
temeva di essere sostituita. I pretoriani erano soldati privilegiati pagati profumatamente e molto potenti e fecero
una li uccise e proclamò un nuovo imperatore, Gordiano III. Si infranse così il breve sogno di ripristinare la
monarchia illuminata degli Antonini e l’autonoma collaborazione del senato e delle città. Ritornò il potere
assoluto inaugurato da Settimio Severo, fondato sul centralismo.

Milano e Verona sotto Gallieno


Milano intanto diventa nodo strategico per il controllo dei passi alpini a nord dei laghi.
L’imperatore Gallieno, che regna dal 253 al 268, nel 260 sbaraglia presso Milano la
grande orda degli Alamanni penetrati attraverso le Alpi Retiche e la val d’Adige e capisce
che gli occorre una forza mobile da poter usare prontamente in caso di pericolo nei diversi
settori. Costituisce così un nuovo corpo di cavalleria pesante sempre pronto ai suoi ordini
e lo pone di base a Milano, dove sposta il suo quartier generale, pur mantenendo Roma
capitale civile.
Nel 265 Gallieno si occupa anche di Verona, la cui importanza strategica è sempre più
evidente e in pochi mesi fa ricostruire e rafforzare la cinta muraria cittadina, ampliandola
fino a racchiudere l’Arena.

162
La cortina muraria rinnovata e rinforzata da Gallieno fornirà per un lungo periodo a
Verona una valida protezione da minacce esterne e assedi.

Verona diventa piazzaforte.


In questo periodo di anarchia, i quindici anni (253- 268) del regno di Gallieno (sette assieme al
padre Valeriano e otto da solo) rappresentarono una durata eccezionale, tanto più che esso fu
travagliato da ripetute rivolte di generali usurpatori e soprattutto da sempre più frequenti e
pericolosi attacchi esterni su tutti i fronti, sul Reno, sul Danubio e in Mesopotamia, tanto che
Valeriano già nel 253 lasciò Roma per mettersi a capo dell’Oriente, invaso dai Persiani Sasanidi e
lasciò al figlio la guida dell’Occidente. Quando Valeriano, sconfitto nel 260, cadde con i suoi
ufficiali nelle mani del re Shapour I (Sapore I), Gallieno era così impegnato da non poter accorrere
a liberare il padre che di lì a poco morì in prigionia.
Gallieno doveva affrontare improvvisi e rapidi sfondamenti delle frontiere da parte di popolazioni
che si spostavano velocemente a cavallo e su carri. La difesa dell’impero affidata alle guarnigioni di
fanteria schierate lungo la linea del limes (confine) appariva troppo rigida e penetrabile, per questo
dopo la difficile battaglia di Milano del 260 contro gli Alamanni, l’imperatore decise di puntare
sulla mobilità, attuando una riforma dell’esercito che, oltre ad aumentare in modo considerevole
l’organico di cavalleria delle singole legioni, istituiva un nuovo corpo di cavalleria corazzata
sempre pronto ai suoi ordini: una riserva strategica mobile, che collocò proprio a Milano da cui era
facile accorrere nelle aree in pericolo presso il confine renano e danubiano.
Nel 258-59 gli Alamanni, discesi in massa dalla Germania meridionale attraverso il Brennero,
erano penetrati nella pianura padana portando devastazioni. Nel 260 furono affrontati e sconfitti
dalle legioni di Gallieno nei pressi di Milano, ma non cessarono di essere una minaccia.
Verona, assieme ad altre città, corse un grave pericolo e se fosse stata attaccata, difficilmente
avrebbe potuto essere difesa dall’antica cinta di mura trascurata e degradata nel corso del tempo.
L’antica funzione difensiva delle mura, del tutto dimenticata da più di due secoli, tornò
urgentemente in auge. Qualche anno dopo l’invasione, Gallieno attuò un programma di
rafforzamento delle difese di Verona, per la sua importante posizione strategica. Egli inviò alti
ufficiali e architetti imperiali a dirigere e supervisionare la ricostruzione delle mura, il cui onere
finanziario fu verosimilmente imposto in larga misura ai Veronesi, anche se con il probabile
intervento di reparti militari.
Al termine dei lavori nel 265 fu posta una imponente iscrizione sulla trabeazione di Porta Iovia
(Porta Borsari), che resta ancora intatta.

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COLONIA AUGUSTA NOVA GALLIENIANA. VALERIANO II ET LUCILIO CO(N)S(ULIBU)S,
MURI VERONENSIUM FABRICATI EX DIE III NON(ARUM) APRILIU(M), DEDICATI PR(IDIE)
NON(AS) DEC(EMBRES), IUBENTE SANCTISSIMO GALLIENO AUG(USTO) N(OSTRO),
INSISTENTE AUR(ELIO) MARCELLINO V(IRO) P(ERFECTISSIMO), DUC(E) DUC(UM)
CURANTE IUL(IO) MARCELLINO.

“(Questa città è) Colonia rinnovata dall’Augusto Gallieno. I muri dei Veronesi furono edificati a
partire dal 3 aprile e inaugurati il 4 dicembre, durante il consolato di Valeriano II e Lucilio, per
ordine del nostro Venerabile Gallieno Augusto, sotto il sovrintendente Aurelio Marcellino uomo
perfettissimo (massimo grado della carriera equestre) e sotto la direzione del generale (comandante
in capo) Giulio Marcellino”.
I caratteri sono incisi in profondità nella pietra e con linee particolarmente larghe, perché le
incisioni che vediamo non sono le lettere originarie ma in realtà soltanto alloggiamenti, in cui erano
inserite le vere lettere di bronzo dorato in rilievo, che risaltavano sul bianco della pietra. L’epigrafe
comunicando l’impegno profuso dall’amministrazione imperiale nel realizzare un’opera pubblica
indispensabile, era anche un manifesto di propaganda politica tesa a ottenere il consenso e il plauso
popolari .
Chiunque arrivava in città dalla via Postumia non poteva fare a meno di posare gli occhi sulla
scritta, che celebrava la città di Verona rinnovata e adeguata ai tempi con il linguaggio burocratico
della propaganda imperiale. Da essa ricaviamo che nel 265 Verona, nuovamente insignita del titolo
di Colonia da Gallieno Augusto, per suo ordine, nel giro di soli otto mesi ebbe costruita (o meglio
ricostruita) la cinta muraria. Apprendiamo altresì i nomi degli alti funzionari responsabili.
Il titolo di colonia era verosimilmente un riconoscimento delle notevoli risorse finanziarie e
lavorative impiegate dai Veronesi nella costruzione della cinta.
Quale differenza con la scritta posta tre secoli prima sulla porta dei Leoni a compimento della
primitiva cinta muraria!

Confronto tra le due iscrizioni veronesi


Là nella iscrizione risalente agli ultimi anni della repubblica di Roma è protagonista
l’aristocrazia cittadina, rappresentata dai decurioni del senato municipale e dai quattuorviri, eletti
dai Veronesi, i primi deliberarono e i secondi sovrintesero alla costruzione delle mura e delle
principali strutture urbanistiche della nuova Verona che stava sorgendo.
Qui, nella iscrizione della avanzata età imperiale, sono invece celebrati i poteri centrali, Gallieno
e gli alti funzionari imperiali, probabilmente un civile e un militare, da lui incaricati di presiedere

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all’opera difensiva. Probabilmente essi imposero sia gravose liturgie ai veronesi facoltosi sia la
precettazione di muratori e capimastri della corporazione edile, obbligandoli alle angarie, le
prestazioni d’opera gratuite. Il comandante militare seguì forse maggiormente la progettazione ed
esecuzione dell’opera con un reparto di genieri dell’esercito.
I tempi erano profondamente cambiati, le due iscrizioni descrivono modalità decisionali molto
diverse, forse entrambe ugualmente efficaci nel perseguire gli obiettivi, ma la prima approvata dal
popolo e dal senato di Roma e frutto della iniziativa responsabile di una comunità municipale
orgogliosa della propria autonomia, la seconda invece calata dall’alto da un apparato burocratico
centralizzato e autoritario, che militarizzava seppure temporaneamente le energie della città.

Ricostruzione e ampliamento della cinta muraria


La scritta piuttosto trionfalistica celebra il ripristino delle mura come una grandiosa opera di
costruzione, compiuta a tempo di record per volere dell’imperatore Gallieno, ma nasconde una
situazione drammatica: i confini dell’impero prima sicuri erano stati violati e travolti e si correva ai
ripari in tutta fretta. L’urgenza dell’opera suggerì di usare perfino pietre tombali e qualunque tipo di
materiale, anche scadente, recuperato dagli edifici abbattuti, perché costruiti a ridosso delle vecchie
mura.
In realtà quindi, più che costruire nuove mura, come tradizionalmente si sosteneva fino a pochi
anni fa, si lavorò a ristrutturare la vecchia cinta muraria e a rafforzarla con alcune alte torri, mentre
la seconda cinta difensiva, più alta e robusta, è ora attribuita a Teodorico.
È vero, però, che alla ristrutturazione dei 940 m della vecchia cinta si aggiunsero “ex novo” due
tratti murari di alcune centinaia di metri in corrispondenza dell’Anfiteatro. L’Arena, costruita fuori
città, a poca distanza dalle mura, due secoli prima in periodo di pace, nella nuova situazione di crisi
dell’impero rappresentava, infatti, una potenziale grave minaccia per Verona: con la sua poderosa
massa, che sovrastava di ben ventidue metri l’altezza delle vicine mura, se fosse caduta in mano
nemica avrebbe potuto essere usata come una formidabile fortezza contro la città.
I funzionari e gli architetti militari responsabili dei lavori decisero perciò di inglobare l’Arena
nelle linee di difesa, per questo eressero due nuovi tratti di mura che partendo dalle due estremità
dell’asse maggiore dell’Arena raggiungevano allargandosi di poco il vicino braccio sud ovest della
cinta muraria.
Probabilmente sotto l’imperatore Gallieno anche la parte di città in sinistra Adige venne fortificata
con una cinta di mura che abbracciava il colle di san Pietro, risalendone il pendio e collegandosi alle
due porte che uscivano verso Vicenza e Trento.

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Qualche anno dopo il pericolo di invasioni era aumentato, tanto che la stessa Roma fu dotata di
una nuova cinta di mura, voluta dall’imperatore Aureliano, dal quale prese il nome, una costruzione
imponente, lunga 18 Km, che si protrasse dal 270 al 275 e ancor oggi molto ben conservata.

La città si contrae
Per quanto riguarda l’edilizia si manifestò a Verona, come altrove, un’inversione di tendenza
rispetto all’età precedente: la città smise di espandersi e si contrasse. A causa della crisi economica
la popolazione diminuiva e il pericolo di invasioni rendeva insicuri gli isolati esterni alle mura.
Le domus lungo la Postumia e la Claudia Augusta e in genere le abitazioni extraurbane vennero
progressivamente abbandonate, una tendenza che continuò dopo Gallieno per tutto il secolo III e il
IV; chi continuava ad abitare fuori della città lo faceva a proprio rischio. Al contrario alcune domus
urbane tra il IV e il V secolo furono oggetto di interventi di ristrutturazione e migliorie.
Alcune zone poco fuori le mura divennero cimiteri. Un’ampia zona cimiteriale si formò poco fuori
le mura a qualche decina di metri da porta Iovia occupando edifici residenziali abbandonati e parte
della carreggiata della Postumia.

IL Laterculus Veronensis
In due fogli di un manoscritto del VII secolo alquanto mutilo, conservato nella Biblioteca
Capitolare di Verona, il copista altomedievale ha trascritto un importante e unico
documento della tarda età imperiale, conosciuto come Laterculus Veronensis (Tabella
Veronese), un elenco geograficamente ordinato del centinaio di province dell’impero
romano del III-IV secolo, divise in due sezioni, orientale e occidentale e raggruppate nelle
dodici grandi diocesi create dalla complessa riforma amministrativa promossa da
Diocleziano e portata a termine da Costantino.

Non è forse un caso che il Laterculus si trovi a Verona, perché l’importanza della città
aumenta sotto la tetrarchia, quando la vicina Milano diviene la capitale di Massimiano,
Augusto d’Occidente e Verona assume una nuova funzione militare, nell’ambito delle
riforme dell’esercito di Diocleziano e poi di Costantino.

Le fabbriche di armi e la Notitia Dignitatum


La Notitia Dignitatum, cioè “Registro dei Dignitari”, è un dettagliato elenco degli alti
funzionari militari e civili e dei reparti militari o degli uffici da loro dipendenti, su cui si regge
la complessa macchina dell’impero romano all’inizio del V secolo, all’epoca di Teodosio e
dei suoi successori, che forse, però, è uno sviluppo della riorganizzazione risalente a
Diocleziano e Costantino. L’originale romano è ovviamente perduto così come è sparita
anche una copia da esso ricavata in età carolingia, si conservano però vari manoscritti del
XV secolo che ne riportano l’elenco degli alti ufficiali e funzionari seguito per ciascuno dai
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corpi militari e burocratici da loro dipendenti, corredati da tavole vivacemente illustrate
dalle insegne dei vari dignitari, e dei singoli reparti o uffici.
La Notitia è divisa in pars Orientis e pars Occidentis, le due parti dell’impero con due
catene di comando parallele e quasi speculari, ai vertici delle quali stanno i prefetti del
pretorio e i comandanti supremi della cavalleria e della fanteria, segue il potente
ciambellano di corte e poi il magister officiorum, il capo degli uffici imperiali a cui
Costantino affida anche la direzione dei temutissimi agentes in rebus, ispettori imperiali
inviati nelle province, sempre a lui sono affidate a partire da Arcadio anche le fabbriche
statali di armi, forse istituite e dislocate presso città strategicamente importanti già da
Diocleziano. Evidentemente l’armeria delle singole legioni e le botteghe artigiane non
bastavano a coprire il fabbisogno crescente. L’imperatore volle che le fabbriche fossero
specializzate solo nella produzione di uno o al massimo di due tipi di armi, in modo da
impedire a un nemico esterno o ad un generale ribelle di impadronirsi in un sol colpo di
armamenti completi. La loro collocazione è in genere nelle lontane retrovie, presso città
distanti alcune centinaia di km dalla frontiera imperiale (limes), in luoghi abbastanza
comodi per il trasporto e abbastanza al sicuro da improvvise invasioni.
Delle 36 fabbriche istituite nel territorio dell’impero, 20 riguardano la parte occidentale,
6 delle quali si trovano nella Diocesi Italica (Dioecesis Italiciana) e tutte nell’Italia
settentrionale, ben 4 si esse concentrate nella provincia di nord est, la Venetia et Histria
(comprendente anche parte dell’attuale Lombardia) e precisamente a Iulia Concordia
(Concordia Sagittaria), Verona, Mantua (Mantova) e Cremona. Le rimanenti fabbriche
sono nelle due province confinanti, una a Ticinum (Pavia) nella provincia Transpadana (a
nord-ovest) e l’altra a Luca (Lucca) nella provincia dell’Etruria.
Concordia (cui qualche decennio fa è stato aggiunto il nome Sagittaria, da sagitta,
freccia) è specializzata esclusivamente nelle frecce, ma gli archi si fabbricano a Pavia
(Ticinum), e a Cremona gli scudi, Mantova (Mantua) invece fabbrica le corazze, mentre a
Verona si producono sia scudi sia generiche armi (elmi, giavellotti o altro?), a Lucca si
forgiano spade.
Per garantire la continuità di questa fornitura strategica gli operai armaioli furono legati
al loro lavoro fino alla vecchiaia, impediti di trasferirsi altrove e obbligati a trasmettere il
loro mestiere ai figli.

Mutamenti sociali e militarizzazione tra II e III secolo.


Già nel secondo secolo, fu riconosciuta dall’imperatore Adriano la divisione dei cittadini in due categorie,
gli honestiores e gli humiliores. Ai primi appartenevano senatori, cavalieri e soldati veterani, ai secondi la
plebe urbana e rurale. La divisione non era solo di censo, ma comportava risvolti giuridici: nei processi le
pene per gli honestiores erano più lievi, gli humiliores, pur essendo cittadini romani, potevano essere
sottoposti a tortura dai giudici e in caso di condanna a morte potevano essere sottoposti a supplizi
infamanti come la crocefissione o il rogo. Naturalmente i ricchi plebei avevano i mezzi per farsi valere e
all’occorrenza corrompere funzionari e giudici. Il grande giurista Ulpiano, amico e consigliere di Alessandro
Severo ricorda che è dovere del preside (governatore) di provincia difendere gli humiliores dai soprusi dei
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potentiores. (Ulp. Opin. I, 1. Dig- 1, 18, 6, 2) “Ne potentiores viri humiliores iniuriis adficiant…”. Il bisogno di
difenderli però ci fa capire come questi fossero vessati.)
Con la fine dell’espansione dell’impero, era venuto meno l’enorme afflusso dalle province conquistate di
schiavi a buon mercato, sul cui lavoro si sosteneva l’economia ed essi erano stati sostituiti progressivamente
da uomini liberi, sia nelle città, come lavoratori nelle varie officine o nei cantieri edili, sia nelle campagne
come braccianti e stagionali, per cui la distinzione tra schiavi e liberi non era più così netta.
La vita economica era sempre più sottoposta alla burocrazia imperiale, i cui funzionari controllavano le
varie corporazioni e i beni dei proprietari e richiedevano ai residenti in città prestazioni obbligatorie in
denaro o in natura chiamate munera o, con termine greco, liturgie e lo stesso avveniva in campagna per i
proprietari di terreni e per i lavoratori liberi. In certi casi le corporazioni potevano essere militarizzate per
fornire servizi essenziali. Settimio Severo lo fece con i battellieri e i commercianti all’ingrosso di granaglie
per garantire rifornimenti alla capitale e alle truppe impegnate in spedizioni.
L’aristocrazia cittadina aveva perso molta della sua autonomia politica ed economica, le generose
donazioni volontarie di una volta, per offrire beni e servizi ai concittadini, erano divenute onerose liturgie
obbligatorie, cui si cercava di sfuggire anche con la cessione di una parte dei propri beni.
I senatori, considerati troppo autonomi e poco fidati, furono progressivamente allontanati dal governo
delle province e dai comandi dell’esercito, erano ormai un lontano ricordo le lettere confidenziali scambiate
tra Traiano e l’amico senatore Plinio, governatore della Bitinia. Ai senatori subentrava la classe dei cavalieri,
in cui a partire da Settimio Severo furono immessi molti centurioni che vi portarono la loro mentalità di
soldati. Ad alcuni figli di centurioni fu anche data la possibilità di divenire senatori.
La società subì insomma una progressiva burocratizzazione e militarizzazione.
L’esercito era divenuto la più importante istituzione, costituendo con l’imperatore una specie di blocco
unico privilegiato, in certo modo staccato e superiore a tutto il resto della società. L’imperatore non era più
il massimo magistrato di Roma, ma un sovrano assoluto che rispondeva ai suoi soldati più che al popolo e al
senato. I reparti militari ai suoi ordini lo eleggevano per acclamazione e lo destituivano uccidendolo
brutalmente se non erano soddisfatti di lui.

Gli ultimi sussulti di anarchia militare, ascesa al potere di Diocleziano


Generali che, invece di difendere l’impero, lottavano tra loro per impadronirsene, ufficiali e
soldati trasformati in avventurieri e saccheggiatori, che incitavano il loro comandante a usurpare il
trono, nella speranza di premi e promozioni. Estesi territori abbandonati dagli abitanti in fuga dalle
devastazioni o dalle epidemie. Economia agricola e artigianale in crisi, trasporti insicuri e traffici
ridotti, poche le navi che attraccavano nei porti, merci e derrate alimentari sempre più care.

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Decenni di anarchia militare avevano prodotto disastrosa instabilità, totale incertezza del futuro e
sfiducia nelle istituzioni. L’impero scricchiolava dalle fondamenta.
Nel penultimo decennio del III secolo una ribellione delle legioni della Pannonia, provincia tra il
Danubio e la Sava, eliminò l’imperatore Probo e portò al potere il suo prefetto del pretorio Caro.
Costui, energico e abile stratega, dopo aver sgominato i popoli invasori sul confine germanico del
Reno, progettò una grande spedizione contro la Persia, eterna minaccia dei confini orientali, era un
uomo in salute, ma avendo passato la sessantina, prima della partenza organizzò la propria
successione associando al potere i due figli Carino e Numeriano.
Lasciò il maggiore, Carino, a governare l’Occidente col titolo di Cesare e si diresse in Oriente con
il giovane Numeriano. La spedizione ebbe un successo senza precedenti, il nemico che incuteva
tanta paura fu sbaragliato, Caro ne raggiunse la capitale Ctesifonte e la conquistò (estate 283), ma,
mentre si accingeva a sfruttare il vantaggio e sferrare il colpo finale, improvvisamente morì durante
un furioso temporale, probabilmente stroncato da una malattia o dalle fatiche, ma corse voce che
fosse stato colpito da un fulmine. Molti soldati, impauriti dal presagio negativo, si rifiutavano di
avanzare oltre. Proclamato ufficialmente successore del padre assieme al fratello, il giovane
Numeriano non riuscì a persuadere le truppe a proseguire e dovette ritirarsi, attirandosi critiche di
alti ufficiali e nella via del ritorno morì in circostanze misteriose, che gettarono il sospetto sui suoi
più alti ufficiali.
Nel frattempo suo fratello Carino, l’unico membro della famiglia imperiale rimasto vivo, era
lontano, impegnato in Britannia a domare una rivolta. Il parziale vuoto di potere era una tentazione
irresistibile per ambiziosi comandanti di eserciti dislocati ai confini.
Si fecero avanti almeno due pretendenti al trono: le legioni della Pannonia proclamarono
imperatore il loro comandante Sabino Giuliano, mentre quelle di Oriente indicarono Diocle, un
valente ufficiale di umili origini, divenuto comandante del corpo di cavalleria imperiale. Diocle poi
muterà il suo barbarico nome dalmata, in quello latineggiante di Diocleziano.
Nei confronti di Diocleziano correva qualche voce malevola, essendo proprio lui il responsabile
dell’incolumità di Numeriano, ma egli aveva fatto arrestare un altro sospettato, l’ufficiale più alto in
grado, il prefetto del pretorio Apro, accusandolo di aver tenuto nascosto la morte dell’imperatore
che era suo genero, perché ne era il colpevole.
Davanti alle truppe schierate per acclamarlo augusto, Diocleziano fece condurre Apro in catene,
prese la parola e giurando a gran voce di essere innocente della morte di Numeriano, indicò
teatralmente in Apro il vero colpevole e, sguainata fulmineamente la spada, lo ammazzò, prima che
questi potesse aprire bocca per discolparsi. Il suo gesto sorprendente, ma risoluto impressionò
positivamente i soldati, assicurandogli la candidatura imperiale.

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Carino, informato delle inquietanti novità, mosse velocemente dalla Britannia contro gli
usurpatori. Per primo affrontò Giuliano che scendeva in Italia dall’Illiria e avendolo incontrato nei
pressi di Verona all’inizio del 285 lo sconfisse e lo uccise.
Si diresse poi in Oriente contro Diocleziano e attaccò battaglia presso il fiume Margus in Serbia
nel luglio dello stesso anno, ormai stava vincendo quando fu ucciso da suoi ufficiali, in combutta
con il suo rivale.
Ebbe fine così con la vittoria di Diocleziano il lungo cinquantennio di anarchia.

Salvare l’impero, riforme di Diocleziano.


Diocleziano riportò concordia all’interno e importanti vittorie sui nemici esterni. Durante il suo regno
ventennale (284–305), perseguì con tutte le sue forze l’obiettivo di risollevare l’impero dalla china in cui era
sprofondato, attuando radicali riforme del governo e delle strutture militari, amministrative, economiche e
fiscali dello stato.
La sua opera riformatrice ebbe un formidabile alleato nel desiderio di pace e sicurezza che accomunava
tutte le componenti sociali: la campagna era in contrasto con i privilegi della città, i civili con le angherie dei
militari, il popolo con le vessazioni degli amministratori e dei ricchi latifondisti, ma tutti, stremati da
cinquant’anni di guerre, aspiravano ad uscire dal caos e dall’affanno quotidiano .
La Tetrarchia.
Per Diocleziano all’origine di tutti i mali si trovava la mancanza di stabilità del governo, da lui stesso
sfruttata per salire al trono. Da una parte era manifesta l’estrema difficoltà di controllare con un unico
centro di potere un impero così vasto e disomogeneo per etnie e culture, dall’altra bisognava evitare le
devastanti crisi di successione alla morte di un imperatore, facilitate dalla debolezza del governo centrale
facilmente scalabile da parte di generali che ai confini dell’impero, erano abituati a fare il bello e il cattivo
tempo con le loro armate.
Perciò egli divise l’impero in due regni: tenne per sé l’Oriente e affidò l’Occidente al fedele generale
Massimiano, conferendo a entrambi il titolo di augusti. Non era una novità, ma Diocleziano suddivise
ulteriormente ognuno dei due regni in due sotto aree parti a capo delle quali pose due generali giovani
nominati cesari, scelti in base al merito e non ai legami di parentela e adottati come figli dai due augusti. I
due cesari destinati a succedere ai padri adottivi, una volta diventati augusti, avrebbero adottato a loro
volta due nuovi Cesari, perpetuando il meccanismo.
Prese vita così il sistema della tetrarchia, cioè la divisione dello stato in quattro regni, ognuno con una
propria capitale e un proprio esercito, ma che, nelle intenzioni di Diocleziano, dovevano collaborare tra
loro sostenendosi a vicenda, per sconfiggere agevolmente i nemici esterni e stroncare sul nascere i tentativi
dei generali ribelli di usurpare il potere.

170
Diocleziano, allargando il vertice del potere, pensava di renderlo più stabile: per impadronirsi dello stato
non bastava più eliminare un solo imperatore, ma bisognava lottare contro tutta la tetrarchia.
L’alleanza fu consolidata con legami matrimoniali tra i tetrarchi: in Oriente Diocleziano diede la figlia
Valeria in sposa al suo cesare Galerio, convincendolo a divorziare dalla prima moglie, in Occidente il cesare
Costanzo deve divorziare da Elena, madre di Costantino per sposare la figliastra di Massimiano, Teodora.

. Lo salvarono due imperatori famosi, prima Diocleziano e poi Costantino, che riuscirono a regnare a lungo,
mostrando eccezionali doti di energia, abilità e carisma. Essi non si limitarono ai campi cdi battaglia dove si
mostrarono valorosi e fortunati generali, ma furono dei grandi riformatori dello stato e della società civile e
militare con provvedimenti sostanziali e lungimiranti.
Le riforme attuate da Diocleziano furono completate o modificate dal suo successore Costantino, così che
non sempre riusciamo a distinguere l’opera dell’uno e dell’altro.

Fine della tetrarchia


Per circa vent’anni, finché Diocleziano rimase al potere, il sistema funzionò
Nel 305 Diocleziano e il collega Massimiano dopo vent’anni di regno abdicarono a favore dei rispettivi
cesari, ritirandosi a vita privata, e tutto sembrò funzionare, ma solo un anno dopo Costanzo Cloro, il nuovo
Augusto di Occidente morì improvvisamente, l’esercito al suo seguito acclamò augusto suo figlio
Costantino, che poi fu convinto dagli altri tetrarchi ad accettare il titolo minore di Cesare. Fu solo una
tregua, ben presto si riaccese la lotta tra successori legittimi e illegittimi che si eliminarono a vicenda in
anni di guerre. Alla fine Costantino prevalendo su tutti i rivali tornò ad essere unico padrone dell’impero e
spostò la capitale in Oriente a Bisanzio, che venne da lui completamente riedificata e ribattezzata
Costantinopoli.

Ascesa di Costantino
Il ventenne Costantino quando il padre Costanzo è nominato Cesare (293), resta in Oriente alla corte di
Diocleziano. Secondo l’Anonimo Valesiano (Annales Valesiani 2, 2-4) egli è in condizione di obses, ostaggio
(verosimilmente a garanzia della fedeltà di Costanzo alla tetrarchia) e qui più che ricevere un’educazione
letteraria litteris minus instructus, viene addestrato all’uso delle armi, segnalandosi per il suo valore in
guerra contro i feroci Sarmati. Il Cesare Galerio, forse nella speranza che il giovane sia ucciso in battaglia, gli
affida imprese rischiose dalle quali invece egli esce vittorioso, percorrendo velocemente la carriera militare
fino ai più alti gradi.
Nel 305 Diocleziano, sentendo venir meno le forze e volendo mettere alla prova il sistema della
tetrarchia, compie un gesto inaudito e sorprendente: abdica rinunciando al potere dopo vent’anni di regno
e convince il collega Massimiano a fare altrettanto. I due dimissionari si ritirano a vita privata, a loro

171
subentrano i rispettivi Cesari, Galerio e Costanzo Cloro. Per completare l’opera occorre ora nominare i due
nuovi Cesari, scelta che l’anziano Diocleziano lascia probabilmente al neo Augusto Galerio, suo genero,
senza tener conto dei desideri di Massimiano e Costanzo Cloro, che potrebbero essere tentati di favorire i
loro rispettivi figli, Massenzio e Costantino, entrambi sulla trentina, esperti uomini d’arme e ambiziosi,
ricadendo nella vecchia successione dinastica, contraria ai principi della tetrarchia.
Secondo Lattanzio (De mortibus persecutorum. 19, 1-6) la proclamazione dei Cesari avviene presso
Nicomedia, antica città della Asia Minore, capitale d’Oriente su una collina che domina l’abitato. Diocleziano
si presenta sulla tribuna imperiale per annunciare i nomi dei nuovi Cesari davanti all’esercito schierato.
L’aspettativa è grande, tutti gli occhi sono puntati su Costantino, del quale la scenografica descrizione è
un’esaltazione, come eroe ideale, da parte del cristiano Lattanzio, autore decisamente di parte. Ma tra la
sorpresa generale Diocleziano pronuncia i nomi di Severo e Massimino. Sulle prime c’è chi pensa che
Massimino sia il nuovo nome di Costantino, cambiato come a volte succedeva in occasione di una nomina
così importante. Poi Galerio, lasciando da parte Costantino fa avanzare sulla tribuna due personaggi
pressoché sconosciuti, il suo inesperto nipote Massimino Daia e il suo fedele generale Flavio Severo.
Massimino è designato Cesare per l’Oriente e Severo per l’Occidente per di più gli viene assegnata l’Italia
con capitale Milano, mentre Costanzo, pur essendo Augusto, accetta di restare, come prima, a Treviri sul
Reno a capo delle Gallie.
Tutto sembra funzionare, il più contento è Galerio che attraverso Massimino e Severo arriva a controllare
tre delle quattro parti dell’impero e secondo alcuni storici vorrebbe diventarne padrone assoluto, tanto più
che Costanzo non gode di buona salute, il soprannome Cloro in greco “ verde giallino” allude al colore della
sua pelle, probabile sintomo di anemia. Ma eventi imprevisti mandano all’aria di lì a poco i suoi piani.
Costanzo governa con polso fermo le Gallie e, progettando una spedizione in Britannia, chiede
ripetutamente al collega Galerio di riavere presso di sé il valoroso Costantino. Galerio tergiversa, teme che il
giovane generale amato dai soldati, una volta sfuggito al suo controllo e riunito al padre, diventi un
pericoloso rivale, ma alla fine deve concedergli il permesso di partire.
Costantino non si fida: conosce le insidie della corte, si trova nel palazzo imperiale di Nicomedia, situata
ad est dell’attuale Istanbul e si sente in pericolo, il tragitto per mettersi in salvo presso il padre è davvero
lungo. Dovrebbe mettersi in viaggio l’indomani, ma, dopo la cena di commiato, quando l’imperatore si è
ritirato nelle sue stanze, anticipa la partenza, balzando a cavallo ed uscendo nottetempo dalla reggia. Passa
lo stretto del Bosforo e al galoppo attraversa i Balcani, giungendo in Friuli. Nelle mansiones (stazioni di posta
statale) in cui sosta lungo la via, mostrando il salvacondotto imperiale, sostituisce il cavallo sfiancato con il
migliore a disposizione e partendo recide i garretti degli altri destrieri per ostacolare gli eventuali
inseguitori. Precauzione che, secondo l’anonimo Valesiano egli attua giungendo in Italia, controllata da
Severo. Finalmente arriva in Gallia, al sicuro e raggiunge il padre che si sta imbarcando con le truppe per la
Britannia nel porto di Gesoriacum (Boulogne sur Mer) vicino a Calais.
Qualche mese dopo Costanzo Cloro muore (306) nella reggia di Eboracum (York), dovrebbe succedergli il
Cesare d’Occidente Flavio Severo, ma l’esercito acclama Augusto suo figlio Costantino, suscitando l’ira di
Galerio, erede di Diocleziano. In seguito i due vengono a patti e Costantino rinuncia al titolo di Augusto
accettando quello minore di Cesare, comunque un riconoscimento ufficiale del suo potere. Intanto anche
Massenzio, figlio del dimissionario Massimiano, si autoproclama imperatore a Roma
Contro Massenzio, da Milano capitale d’Occidente, muove Severo, a capo di un esercito che fino poco
prima era agli ordini di Massimiano e Massenzio suo figlio conoscendone bene gli ufficiali riesce a
corromperli. Così Severo durante l’avanzata si trova abbandonato dai suoi soldati e viene eliminato (307). Il
successivo intervento militare di Galerio, primus augustus, augusto anziano della tetrarchia, fallisce
miseramente. Nel 308 Galerio considerando Massenzio usurpatore nomina Augusto per l’Occidente il

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proprio amico e commilitone Licinio, assegnandogli per il momento l’Illirico.
Massenzio ha quindi interesse ad allearsi con Costantino, che tra l’altro è suo cognato, perché ne ha
sposato la sorellastra Fausta nel 307. I due restano amici per qualche anno finché, dopo la morte di Galerio
nel 311, Costantino promette in moglie un’altra sua sorellastra, Costanza, a Licinio come pegno di amicizia.
Secondo Lattanzio (De mort. pers. 43) Massenzio teme allora l’accerchiamento e riesce a stringere anche lui
amicizia con Licinio, preparando al contempo la guerra contro Costantino. Ma Costantino lo previene
passando le Alpi al Moncenisio e prendendo subito d’assalto la città di Susa, poco dopo Torino passa dalla
sua parte ed egli entra trionfalmente nel palazzo imperiale di Milano, ricevendo ambasciatori da svariate
città padane.

Assedio e battaglia di Verona


Nell’estate del 312 Costantino, provenendo dalla Gallia, varca le Alpi al Moncenisio
assalta la città di Susa e sconfigge nei pressi di Torino i generali di Massenzio. Anche
Milano gli si arrende.
La strada per Roma è aperta, ma prima di scendere a sud egli si volge a est per
coprirsi le spalle dalle truppe che Massenzio aveva nella Venetia. Esse sono sotto il
comando dell’esperto generale Ruricio Pompeiano, il quale all’avvicinarsi di Costantino
pone il suo quartiere generale a Verona, città che controlla l’accesso alla Venetia e ben
difesa da mura e dal suo fiume.
Gli storici si limitano a un accenno su Verona o non ne parlano proprio, passando
subito alla battaglia decisiva nei pressi del ponte Milvio sotto le mura di Roma. La battaglia
di Verona è invece raccontata nel dettaglio in due panegirici latini, classificati numeri 9 e
10 in ordine cronologico, in una raccolta di dodici encomi dedicati a vari imperatori. Non si
tratta di opere storiche, ma di discorsi propagandistici, elogiativi e pronunciati in pubblico,
spesso davanti all’imperatore, in particolari occasioni solenni. Essi hanno comunque il
pregio di essere stati composti in tempi vicini agli avvenimenti, in particolare il n. 9 fu
pubblicato nel 313, appena un anno dopo i fatti, mentre le fonti storiche giunte a noi sono
molto posteriori.

Ruricio Pompeiano non ha con sé a Verona un esercito numeroso in grado di affrontare


l’avversario ed è costretto ad asserragliarsi nella città, che Costantino provenendo dalla
Postumia pone sotto assedio dal lato sud ovest. Ma le mura rinnovate da Gallieno
resistono e l’Adige gonfiato dalle piogge impedisce il transito nelle altre direzioni: i suoi
soladati sarebbero esposti a contrattacchi in mezzo al guado.
Nella fase di stallo che si crea Verona può ricevere aiuti e rifornimenti da nord est,
resistendo validamente agli assalti. La situazione si sblocca quando truppe di Costantino
spingendosi a monte del fiume riescono a guadarlo e a completare l’accerchiamento.
Ruricio, chiuso in città, non si arrende: può contare su forze militari presenti nella regione,
deve solo raggiungerle e radunarle. Perciò egli tenta più volte di forzare il blocco e vi
riesce con una sortita che costa gravi perdite ai suoi, ma gli permette di allontanarsi e

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ripresentarsi in breve tempo con un esercito per sfidare Costantino ad uno scontro
campale. Il valore di Ruricio è riconosciuto dall’autore, cosa rara in un panegirico, nel
quale di solito si parla solo con disprezzo dei nemici. Al posto suo non tutti avrebbero
avuto il coraggio di tornare ad affrontare l’avversario da cui erano sfuggiti.
All’avvicinarsi del nemico, Costantino lascia un forte presidio a continuare l’assedio e
col resto delle truppe si prepara alla battaglia, quando i due eserciti sono schierati ormai è
quasi il crepuscolo, ciononostante inizia un combattimento furioso che si protrae nella
notte. Costantino vince combattendo in mezzo ai suoi, la luce del giorno rivela la strage
degli avversari, anche il corpo di Ruricio giace sul campo.
Verona apre le porte al vincitore, i soldati di presidio vengono catturati in gran numero e i
Veronesi salvano la vita e la vittoria spalanca a Costantino la via di Roma.
Non sappiamo quanto sia veritiero il racconto, fatto sta che Verona vi conferma il suo
valore strategico di piazzaforte capace di impegnare da sola l’esercito di Costantino.
La sua importanza nella guerra civile con Massenzio era ben presente ai
contemporanei, se è vero che sono veronesi le mura di una città sotto assedio raffigurate
in un bassorilievo dell’arco trionfale presso il Colosseo, che il Senato di Roma dedicò nel
315 a Costantino.

Ci si chiede perché Massenzio sia rimasto chiuso a Roma lasciando solo Ruricio ad
affrontare Costantino, invece di muoversi prendendo il nemico tra due fuochi. Lattanzio se
lo spiega con un oracolo secondo il quale egli sarebbe morto se fosse uscito dalla città. La
spiegazione ci fa sorridere, ma risulta verosimile nel contesto del tempo, anche se
probabilmente Massenzio avrebbe potuto aggirare l’ostacolo ricorrendo a nuovi oracoli
“aggiustati” con responsi più favorevoli.
Poco tempo dopo avvenne, davanti alla capitale, la decisiva battaglia di ponte Milvio,
una grande strage in cui Massenzio, uscito imprudentemente contro il nemico, perì con
moltissimi dei suoi, annegando miseramente nel Tevere. Costantino divenne a caro
prezzo signore dell’occidente.
Le mura di Verona sotto assedio sono rappresentate in un bassorilievo dell’Arco di
trionfo di Costantino, eretto a Roma nel 315.

Le fabbriche di armi
La Notitia Dignitatum et Admnistrationum, “Notizia delle Dignità e delle Amministrazioni”, è un
dettagliato elenco dei funzionari imperiali civili e militari e delle loro amministrazioni, un
documento risalente forse all’epoca di Teodosio, ma alla cui base si trova la riorganizzazione
dioclezianea. Da essa ricaviamo che una novità introdotta da Diocleziano fu l’istituzione di
fabbriche statali di armi, dislocate presso città strategicamente importanti. Evidentemente l’armeria
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delle singole legioni e le botteghe artigiane non bastavano a coprire il fabbisogno crescente.
L’imperatore volle che le fabbriche fossero per lo più specializzate solo nella produzione di un tipo
armi, in modo che non fosse possibile per un nemico esterno o per un generale ribelle, impadronirsi
in un sol colpo di armamenti completi. Delle 35 fabbriche ricordate nella Notitia, due sorsero nella
Venetia et Histria, una specializzata esclusivamente nelle frecce, a Concordia, e un’altra a Verona
per produrre scudi e armi non ben specificate (da difesa o da offesa?). Verona fu scelta perché
posta lungo la strategica via Postumia, a metà strada tra Milano, nuova capitale dell’occidente, e
Aquileia, la più importante città portuale dell’alto Adriatico e “porta” del confine orientale della
penisola.
Per garantire la continuità di questa fornitura strategica gli operai armaioli furono legati al loro lavoro fino
alla vecchiaia, impediti di trasferirsi altrove e obbligati a trasmettere il loro mestiere ai figli.

Una società bloccata.


Diocleziano e Costantino portarono a compimento il processo di accentramento dirigistico dell’economia,
prendendo a modello le monarchie ellenistiche orientaleggianti, l’iniziativa privata esisteva ancora, ma era
sottoposta al controllo permanente dello stato.
Non solo gli armaioli ma anche gli addetti al conio delle monete, i minatori, i lavoratori delle stazioni di
posta, i soldati delle guarnigioni di confine e tutti coloro che svolgevano un’attività considerata essenziale
per la sopravvivenza dell’impero erano legati per tutta la vita lavorativa al loro mestiere, che dovevano
trasmettere ai figli per assicurarne la continuazione.
Un discorso a parte merita l’agricoltura. Nell’economia dell’antichità sostanzialmente agricola, i contadini
costituivano la stragrande maggioranza dei lavoratori e la tassazione sulla produzione agricola era di gran
lunga la maggior fonte di entrate per l’erario statale.
L’affitto della parcella di latifondo era sì una garanzia di sopravvivenza per il colono e la sua famiglia, ma il
susseguirsi di raccolti scarsi o le condizioni troppo gravose spingevano i coloni a partire in cerca di un
padrone migliore o di una precaria sopravvivenza nella vicina città. Ne conseguiva un calo della
manodopera, della produzione e quindi del gettito fiscale di quel territorio. Per scongiurare questo pericolo
probabilmente già Diocleziano e sicuramente il successore Costantino obbligarono con decreti i coloni e i
loro figli a restare vincolati per tutta la vita ai latifondi imperiali e a quelli dei proprietari privati.
Il risultato fu un sistema in gran parte bloccato per legge, in cui era assai difficile la mobilità sociale e la
speranza di realizzare aspirazioni diverse da quelle legate alla propria condizione ereditaria, c’erano
comunque le eccezioni, possibili soprattutto nell’esercito, dove uomini di umile origini riuscivano a far
carriera, divenendo generali o perfino imperatori.

175
Cristianesimo
Intanto si diffondevano anche a Verona i culti orientali di Mitra o di Iside e Serapide, che, come
quello del Sol Invictus, avevano grande seguito tra i soldati ed erano praticati anche da imperatori
come Commodo ed Elagabalo (o Eliogabalo). Un tempio dedicato a Iside o Serapide sorse
probabilmente a fianco del teatro, forse nei pressi dell’attuale chiesa di S. Stefano.
Anche il cristianesimo giunse a Verona, seppur in modo graduale e più o meno clandestino, con
riti praticati in case private, adattate al culto e chiamate domus ecclesiae (case dell’assemblea).
Appartiene probabilmente alla metà del III secolo, al periodo attraversato dall’anarchia militare, il
primo vescovo veronese, il cui nome ellenizzante, Euprepio, fa pensare a un’origine orientale,
Primum Veronae praedicavit Euprepus episcopus (Versus de Verona, 14), “Dapprima predicò a
Verona il vescovo Euprepio” .

I cristiani prima perseguitati …


L’opinione comune sui cristiani tra I e II secolo, rispecchiata da Plinio il Giovane nella lettera
96 a Traiano, era che essi fossero una setta illegale, una “superstizione irrazionale e smodata”,
che si poneva al di fuori dello stato, perché rifiutava il dovere civico del culto all’imperatore,
incorrendo nella lesa maestà, che comportava la pena di morte. Traiano rispose però al
governatore Plinio di non perseguire di sua iniziativa i cristiani, ma solo su denuncia, che non
poteva essere anonima, indegna di uno stato civile, e anche così essi andavano puniti solo se
recidivi.
In pratica c’era una certa tolleranza, al punto che le comunità cristiane raccoglievano fondi
destinati al culto e alla beneficienza e col tempo ereditarono o acquisirono edifici e terreni in
qualche forma legale, intestandoli a prestanome o con altri sistemi. La responsabilità
amministrativa dei beni faceva capo ai vescovi.
per rafforzare il suo potere assoluto si proclamò Iovius, figlio di Giove, e dominus et deus,
rappresentante sulla terra della volontà degli dei.
Il cristianesimo era stato colpito da temporanee persecuzioni sotto alcuni imperatori, ma
nonostante ciò non solo si era diffuso tra il popolo e gli schiavi, affascinati da una divinità che
condivide le sofferenze degli uomini e promette felicità eterna nell’al di là, ma aveva fatto presa
anche sulle classi dirigenti con la rivoluzione della sua etica spirituale, ben diversa dal

176
formalismo della religione tradizionale.
Così nelle varie città dell’impero erano sorte comunità cristiane, ognuna delle quali eleggeva il
proprio vescovo e attorno a lui si organizzava. La chiesa stava divenendo una specie di stato
nello stato. Diocleziano era sempre stato tollerante, ma i suoi consiglieri lo convinsero a
considerare colma la misura e inaccettabile il fatto che ufficiali e funzionari non sacrificassero
agli dei e al genio dell’imperatore in pubbliche manifestazioni. Per questo egli espulse
dall’esercito e dall’amministrazione i cristiani e verso la fine del suo regno (303), sotto la
pressione della corte e del cesare Galerio, emanò editti sempre più gravi di persecuzione
sistematica contro i cristiani, che prevedevano esilio, confisca dei beni e possibile pena di morte.
Essi furono applicati con ferocia in oriente, dove per colpire la gerarchia religiosa alcuni vescovi
furono arrestati e mandati a lavorare in miniera. Molti cristiani si piegarono e membri del clero
consegnarono i testi sacri che venivano bruciati sul rogo (di qui il significato negativo del
termine traditore, dal verbo tradere, consegnare). Ma non pochi affrontarono coraggiosamente
la morte che essi chiamavano martyrium, testimonianza, sicuri di passare a una gloriosa vita
eterna. Nella parte occidentale dell’impero invece Massimiano e il suo cesare Costanzo Cloro
non si mostrarono inclini a questa politica repressiva e la persecuzione fu molto più blanda.
All’epoca la percentuale dei cristiani doveva comunque essere piuttosto bassa.
… e poi pienamente accettati.
La persecuzione invece di stroncare la nuova religione, l’aveva rafforzata, il popolo che nei
primi due secoli d. C. era stato ostile alla nuova religione, giudicata una occulta setta di
fanatici, aveva cominciato ad apprezzare i cristiani per l’attività umanitaria che i i loro diaconi
svolgevano in quei tempi difficili, soccorrendo i poveri e le vedove e assistendo gli ammalati,
incuteva rispetto poi la loro dirittura etica e la forza morale dimostrata dai martiri.
Perciò Costantino, al contrario del suo predecessore, vide nel cristianesimo, o meglio nella
chiesa cattolica, gerarchicamente organizzata e diffusa sul territorio, una forza sociale positiva,
di potenziale sostegno al potere. ed emanò nel 313 col collega Licinio l’editto detto di Milano
che restituiva ai cristiani la libertà di culto e la proprietà dei beni confiscati.
La chiesa cattolica ricambiò subito dopo, nel 314 con il Concilio di Arles, comminando la
scomunica ai disertori cristiani, che “in pace, abbandonano le armi” (can. 3).
Costantino in seguito favorì la costruzione di grandi basiliche a Roma e altrove ottenendo la
gratitudine e il pieno appoggio dei papi alla sua politica e si fregiò del titolo di isapostolos,
uguale agli apostoli.

177
La tradizione veronese attribuisce alla persecuzione di Diocleziano il martirio dei santi Fermo e
Rustico portati a Verona, processati e decapitati sulle rive dell’Adige e così pure la strage di
quaranta giovani veronesi, non attestata da fonti autorevoli, e che forse nacque dalla confusione
popolare con i quaranta martiri di Sebaste (Turchia), quando si diffuse la circolazione delle loro
reliquie.

.
Epigrafe tardoimperiale dal Foro
A quest’epoca tormentata risale un’epigrafe ritrovata nel XVI secolo in una casa sullo
spigolo Nord Est del Foro, ora al Museo Maffeiano. Qui sotto il testo latino e una libera
traduzione.

HORTANTE BETITUDINE TEMPORUM DDD. (dominorum) NNN. (nostrorum)


GRATIANI, VALENTINIANI ET TEODOSII AUGGG. (augustorum) STATUAM IN
CAPITOLIO DIU IACENTEM IN CEREBERRIMO FORI LOCO CONSTITUI IUSSIT
VAL<ERIUS> PALLADIUS V<IR> CLARISSIMUS CONS<ULARIS> VENE<TIAE> ET
HIS<TRIAE>.

SOTTO L’AUSPICIO DEI TEMPI FELICI DEI NOSTRI SIGNORI, GRAZIANO,


VALENTINIANO E TEODOSIO, AUGUSTI, IL SENATORE VALERIO PALLADIO,
GOVERNATORE DELLA (PROVINCIA DI) VENEZIA ED ISTRIA FECE COLLOCARE
NEL LUOGO PIU’ FREQUENTATO DEL FORO QUESTA STATUA DA GRAN TEMPO
ABBANDONATA A TERRA NEL CAMPIDOGLIO.

L’epigrafe è databile tra il 379 e il 383 i quattro anni in cui l’impero è governato da tre
imperatori associati: Graziano, Valentiniano II e Teodosio. Il terminus post quem è il
gennaio del 379, in cui Teodosio è nominato da Graziano augusto d’Oriente; l’ante quem
è l’agosto del 383 quando Graziano è assassinato in Occidente in seguito a un colpo di
stato.

178
Sembra strano che il governatore della provincia in persona, un consularis, funzionario
imperiale di alto livello residente nel capoluogo di Aquileia, si occupi della collocazione di
una statua nel Foro di Verona, iniziativa tuttalpiù di competenza del governo municipale.
Probabilmente Valerio Palladio si trovava a passare per Verona, forse per preparare
degnamente la visita dell’imperatore Graziano avvenuta nel 380 e nell’edificio ormai
cadente del Campidoglio gli fu mostrata una bella scultura, buttata sul pavimento. Palladio
decise che la statua meritava di essere recuperata ed esposta nel Foro, dove avrebbe
fatto la sua bella figura sopra un piedestallo. Fu così preparata la base di calcare veronese
che reca l’epigrafe e presenta sul lato superiore degli incavi con tutta probabilità per
l’inserimento dei perni collegati a una statua di bronzo, forse di un personaggio altolocato
o di un imperatore, escluderei l’ipotesi di una divinità, perché gli dei non erano più in voga,
aborriti da Graziano.

Impero romano e religione


L’epigrafe testimonia lo stato di abbandono in cui versava il Campidoglio, il più grande e
importante tempio cittadino. Dopo Costantino la religione politeista aveva imboccato la via
di un lento ma inesorabile declino, man mano che il cristianesimo si affermava, soprattutto
nelle città, dove i vescovi erano un punto di riferimento autorevole non solo per la
comunità cristiana che essi guidavano. Il politeismo resisteva invece nei distretti rurali, i
pagi da cui il termine dispregiativo “pagano” per definire un culto sorpassato.
La politica di Costantino di privilegiare il cristianesimo, favorendolo anche sul piano
giuridico ed economico rispetto alle altre religioni, fu seguita dai suoi successori.
Costanzo II (regno 337-361), suo figlio, emanò editti, in parte inefficaci, di chiusura dei
templi e proibizioni di tutti i sacrifici. Ordinò, però, anche di rispettare gli antichi edifici
pubblici, templi compresi, vietando atti di vandalismo e l’asportazione di pietre per fare la
calce, un costume evidentemente diffuso.
Graziano salito al regno nel 375 a sedici anni, dapprima tollerante verso le varie religioni,
sotto la pressione di vari vescovi, tra cui Ambrogio vescovo di Milano, assunse
atteggiamenti intransigenti e persecutori nei confronti dei pagani, giunse al punto di
ordinare nel 382 la soppressione dei collegi dei sacerdoti pagani e la confisca dei loro
beni, con il conseguente decadimento dei templi.
Due anni prima nel 380, egli aveva convinto i colleghi Valentiniano e Teodosio a
sottoscrivere il famoso editto di Tessalonica con cui il cattolicesimo veniva proclamato

179
religione di stato. L’intestazione dell’editto ricorda molto da vicino quella dell’epigrafe
veronese.

IMPPP. (imperatores) GR<ATI>ANUS, VAL<ENTINI>ANUS ET THEOD<OSIUS> AAA.


(augusti) EDICTUM AD POPULUM URBIS CONSTANTINOP<OLITANAE>

GLI IMPERATORI GRAZIANO, VALENTINIANO E TEODOSIO, AUGUSTI, EDITTO AL


POPOLO DELLA CITTÀ COSTANTINOPOLITANA

Qui ovviamente sono i tre augusti sovrani a parlare, presentandosi come “imperatori” che
emanano un editto universale, mentre il committente dell’epigrafe veronese è un
funzionario di rango elevato che pone una propria personale iniziativa sotto la
benevolenza degli augusti “nostri signori”.
L’editto di Tessalonica segnò una svolta epocale, poiché impose per legge a tutti i
popoli dell’impero di seguire la religione cristiana cattolica come unico culto dello stato.
L’epigrafe di Verona parla di beatitudine temporum, felicità dei tempi “dei nostri signori
augusti”, è un’espressione encomiastica usuale nel linguaggio burocratico, ma come
erano in realtà quei tempi?
Se accettiamo la sua datazione al 379 o al 380 lo stato romano era appena uscito da
una gravissima situazione che aveva messo a rischio la sua stessa esistenza, o almeno
quella della parte orientale.
L’anno precedente infatti l’esercito dell'imperatore Valente, valoroso condottiero e zio di
Graziano, era stato annientato da orde di Goti nella spaventosa strage di Adrianopoli in
Tracia, a sud dei Balcani, nell’attuale Turchia europea.

La disfatta di Adrianopoli (agosto 478)


Da gran tempo i confini del Reno e del Danubio subivano la pressione di molti popoli germanici e
iranici, le loro ripetute incursioni alla fine venivano respinte o assorbite, ristabilendo il precario
equilibrio. A seconda dei casi i barbari sconfitti restavano all’esterno con un patto di alleanza,
oppure veniva offerto loro di entrare non concentrati in un'unica regione, ma dispersi in vari territori
incolti come coloni e soldati ausiliari di frontiera. A quelli indomabili si offriva di essere arruolati
direttamente nelle legioni o di combattere come mercenari.
Questo equilibrio venne rotto dall’arrivo degli Unni, invincibili e feroci cavalieri, che dal Caucaso
al Danubio assalivano senza tregua e sottomettevano i popoli che incontravano sul loro cammino,

180
nel 375 avevano già sottomesso gli Ostrogoti, i Goti dell’est e ben presto misero sotto pressione i
Goti dell’ovest, detti Visigoti, che decisero di emigrare, e una grande moltitudine di loro si diresse a
ovest verso l’impero romano d’oriente, accalcandosi sulla riva sinistra del Danubio, non lontano
dalla foce nel mar Nero.
Una ambasceria visigota raggiunse in Siria l’imperatore Valente impegnato nella guerra contro i
Persiani, e ottenne il permesso di trasferirsi verso le pianure della vicina Mesia (Bulgaria) e di
passare il Danubio, sotto la sorveglianza romana, a patto di consegnare le armi e giovani nobili
come ostaggi.
Valente pensava a un futuro utilizzo dei Goti come soldati, per rinvigorire l’esercito e come
contadini per rendere produttive le campagne abbandonate.
Le cose però si complicarono: il numero di uomini, donne e bambini assiepati sulla riva sinistra
del Danubio superava i duecentomila (Ammiano Marcellino XXXI, 3, 4), una massa molto più
grande del previsto. Nel timore di incidenti e tumulti i soldati romani accelerarono le operazioni, i
Goti consegnarono gli ostaggi, ma in mezzo alla confusione riuscirono a mantenere gran parte delle
armi. Nel frattempo gruppi di Ostrogoti, sfuggiti agli Unni, trovando le barche incustodite, avevano
attraversato il Danubio compiendo razzie e distruzioni.
L’esercito di stanza alla frontiera, radunato in fretta e furia dal comandante delle operazioni, fu
sbaragliato e le fertili pianure della Mesia furono saccheggiate dai Visigoti che si diressero verso
Adrianopoli, la capitale della Tracia e a loro si unirono gli Ostrogoti e i Goti, liberi o schiavi da
tempo presenti nella regione.
Valente, conclusa una rapida pace con i Persiani spostò il grosso dell’esercito mobile verso
Adrianopoli. Graziano, che intanto grazie al generale Mellobaudes aveva sbaragliato gli Alamanni
invasori della Gallia, chiamato in aiuto si stava avvicinando e non distava più di 300 Km. Ma
Valente, invece di attendere il nipote, affrontò il nemico da solo.
La fanteria gota era attestata presso i propri carri, disposti in cerchio, la fanteria romana andò
all’assalto, ma fu privata della copertura della cavalleria, messa in fuga dai veloci cavalieri goti, in
schiacciante superiorità numerica. I cavalieri goti si abbatterono poi sui fianchi della fanteria
romana, che, accerchiata e costretta in piccolo spazio di manovra, fu massacrata. Caddero oltre
30.000 soldati romani e un gran numero di ufficiali e centurioni, compreso l’imperatore Valente, il
cui corpo non fu più ritrovato.
L’eco della strage raggiunse gli angoli più remoti dell’impero e la disfatta fu paragonata a quella
di Canne.
I Goti inebriati dalla vittoria, assalirono città fortificate come Adrianopoli e la stessa
Costantinopoli, ma furono respinti non essendo in grado di assediare cinte murarie ben costruite, si

181
riversarono quindi nelle campagne devastando e razziando i Balcani, i territori delle attuali
Bulgaria, Serbia, Croazia e Slovenia, giungendo fino ai piedi delle Alpi Giulie a minacciare i
confini della Venetia .
Graziano, sulle cui spalle a diciannove anni era caduto il peso di tutto l’impero, tallonava i Goti,
ma venne raggiunto da notizie allarmanti provenienti dal confine sul Reno, che richiedevano la sua
presenza in Occidente. Egli allora richiamò in servizio Teodosio un abile generale ispanico, che si
era ritirato a vita privata in patria a causa di intrighi di corte e nel gennaio del 379 lo associò al
regno, nominandolo augusto per l’Oriente .
Conseguenze di Adrianopoli
Teodosio riportò la disciplina nell’esercito, evitò battaglie campali e attuò una tattica di
controguerriglia, cogliendo di sorpresa i distaccamenti goti impegnati in scorrerie e foraggiamenti. I
Goti temporaneamente respinti ritornarono in Tracia che avevano già saccheggiata. Numerosi
scontri si susseguirono senza risultati definitivi. Alla fine, tra una rischiosa battaglia campale
decisiva e il patteggiamento, Teodosio scelse la diplomazia.
Dopo molte trattative nel 382 i capi goti accettarono un foedus per loro particolarmente
conveniente. Ai Visigoti fu permesso di stanziarsi in Tracia e coltivare quelle terre fertili, devastate
da anni di guerra, diventando foederati dei romani, con l’obbligo di difendere il territorio, senza,
però, disperdersi in vari luoghi essi e mantenendo intatta la loro unità nazionale, combattendo sotto
i loro capi e secondo i loro usi. Era un privilegio mai visto: per la prima volta un popolo si stanziava
compatto, armato e autonomo nel territorio dell’impero, un precedente assai pericoloso. L’eccessiva
indipendenza rese assai difficile la romanizzazione, i Goti rimasero in gran parte un corpo estraneo,
con qualche eccezione. Ad esempio uno dei firmatari del foedus, il giovane principe visigoto
Fravitta, molto legato a Teodosio, fece a Costantinopoli una straordinaria carriera militare
diventando magister militum per orientem, comandante in capo dell’esercito d’Asia. Non era un
caso isolato. anche Mellobaudes, comandante delle truppe palatine di Graziano e vincitore degli
Alamanni nel 378 era nel contempo re dei Franchi (Ammiano Marcellino, XXXI, 8).
Data la difficoltà di arruolare i coloni romani, che spesso si tagliavano il pollice destro pur di
evitare il servizio militare, molti goti furono inseriti in reparti dell’esercito. Teodosio però inviò
queste reclute germaniche, non del tutto fidate, in Oriente e in Egitto, da dove viceversa fece
affluire reclute romane sul Danubio.
L’Oriente era quindi sotto la guida esperta ed energica di Teodosio e l’impero d’Occidente era
gestito in realtà da Graziano anche se nominalmente era stato spartito con il fratellastro
Valentiniano II, nominato augusto nel 375 alla morte del loro padre Valentiniano I, all’età di quattro
anni e sottoposto alla tutela della madre.

182
I quattro anni di regno associato di questi tre imperatori furono quindi un breve periodo
abbastanza stabile e fortunato. Teodosio in seguito alla morte degli altri due divenne imperatore
unico assumendo anche il governo dell’Occidente, per l’ultima volta un grande sovrano regnava su
tutto l’impero romano, che poi sarebbe stato nettamente diviso tra i suoi figli Arcadio e Onorio.

Crisi dell’Impero d’Occidente nel V secolo.


L’esercito romano territoriale distribuito su un lunghissimo confine era numeroso, ma obbligato a
fornire consistenti rinforzi all’esercito campale in occasione di impegnative campagne militari.
Sguarnire tratti di frontiera significava, però, un invito ai popoli esterni a valicarla. La situazione
rischiava facilmente di sfuggire di mano. Come accadde nel 406 quando il generale Stilicone dedicò
tutte le energie a salvare Roma e l’Italia dagli Ostrogoti distogliendo truppe dalla frontiera del Reno
e la Gallia fu invasa e razziata da Vandali, Svevi e Alani.
Le invasioni nel V secolo dilagarono, sconvolgendo il tessuto economico e sociale della penisola.
Le città, considerate ricco bottino, furono particolarmente prese di mira dagli invasori, subirono
assedi, saccheggi e devastazioni e arrivarono progressivamente quasi a spopolarsi.
L’impero cercava di assorbire alcune di queste tribù, rendendole federate, permettendo loro di
stanziarsi ufficialmente nei territori occupati ed esentandole dalle imposte i n cambio di alleanza e
controllo militare del territorio, oppure le allettava con oro e paghe a passare al proprio servizio. Tra
le tribù, in competizione tra loro, si alternavano alleanze e lotte feroci, che Roma cercava di
sfruttare appoggiando i capi che, di volta in volta, apparivano più affidabili.
I barbari erano inizialmente entrati nell’esercito come auxilia, truppe ausiliarie, poi avevano
progressivamente sostituito i legionari italici e provinciali e i più abili di loro erano divenuti
ufficiali e generali, ma si erano romanizzati acquisendo mentalità, armi e tattiche militari romane,
I gruppi che nei secoli precedenti erano stati ammessi nei territori incolti e abbandonati
dell’impero come coloni-soldati erano dediticii, uomini sconfitti, privati delle armi e soggetti a
ufficiali romani o romanizzati. Quando i barbari furono arruolati come mercenari al posto dei
coscritti esentati, essi erano inquadrati nelle formazioni e nella disciplina dell’esercito romano.
Nel V secolo invece alcuni popoli furono ammessi in condizione paritaria, conservando le armi e i
loro capi a patto che combattessero gli altri popoli che premevano ai confini.
Chiamati a guerreggiare essi pretendevano forti compensi in oro o in territori ed agivano agli
ordini dei loro re in piena autonomia, usando armi e tecniche di combattimento proprie. Erano
truppe valorose ma non sempre affidabili, pronte all’accordo con il nemico o peggio a ribellarsi
divenendo esse il nemico.

183
Esemplare fu ciò che avvenne alla morte di Teodosio, nel 395, quando Alarico I, re dei Goti
stanziati all’interno dell’impero, si ribellò, perché l’annuale tributo pattuito non veniva versato e
invase la Grecia e poi l’Italia e assediò Verona (403), dove fu sconfitto dal generale Stilicone e
dovette abbandonare l’Italia, ma vi rientrò alla morte di costui nel 408 e, non ricevendo il
risarcimento richiesto all’imperatore Onorio per anni di tributo non versato, arrivò a conquistare e
saccheggiare Roma stessa (410). Il colpo fu durissimo, anche se la capitale imperiale era stata
trasferita a Ravenna, protetta dalle sue paludi.

Quello che restava dell’esercito romano era in larga parte costituito da soldati barbari, per lo più
germanici. Al comando spesso arrivavano uomini dalle origini barbare, ma da tempo romanizzati,
che, avevano percorso i vari gradi della carriera militare, come Stilicone e Flavio Ezio. Spesso essi
avevano rapporti diretti con i popoli barbari e svolgevano una loro politica personale. Il giovane
ufficiale Ezio nel 425 durante una contesa per la successione al trono di Occidente era riuscito ad
arruolare un intero esercito di Unni e a fronteggiare con essi le truppe inviate da Costantinopoli a
sostegno di Valentiniano III, un bimbo di sei anni nominato imperatore d’occidente. Galla Placidia
l’energica madre e tutrice del piccolo, per allontanare la minaccia degli Unni fu costretta a
concedere ad Ezio il comando militare delle Gallie, grazie al quale egli iniziò una folgorante
carriera.
Nel 436/37 Flavio Ezio, divenuto magister militum (generale supremo) dell’occidente si servì
degli Unni come truppe ausiliarie per sbaragliare il popolo germanico dei Burgundi, che invece
decenni prima, nel 369, avevano aiutato l’imperatore Valentiniano contro gli Alemanni. Più tardi,
nel 451 in Provenza (Campi Catalaunici), Ezio assieme agli alleati Alani e Visigoti riuscì a battere il
terribile Attila re degli Unni, che spadroneggiava in tutto l’Occidente.
I successi riportati da questi generali suscitavano la gelosia e il sospetto degli imperatori, che li
consideravano possibili rivali da eliminare, così Stilicone, dopo tante vittorie, fu fatto uccidere a
tradimento a Ravenna da Onorio (408). La stessa sorte capitò ad Ezio, che a seguito di false accuse,
fu improvvisamente assalito e trapassato con la spada da Valentiniano III (454).
Non era solo una questione di eserciti e di congiure, la decadenza era anche civile, economica e
morale, la società romana si reggeva su diseguaglianze sempre più accentuate e insopportabili,
grandi masse analfabete, gravate dall’imposizione fiscale e dall’ereditarietà obbligatoria del
mestiere e del servizio militare di frontiera, erano oppresse da una ristretta categoria privilegiata di
funzionari e burocrati spesso corrotti e spietati.

Dissoluzione dell’Impero romano d’Occidente.

184
L’Impero d’Occidente cominciava a perdere pezzi. Cominciò la Britannia, abbandonata nel 407
dalle legioni romane, che, accorse a fermare l’invasione della Gallia, non rientrarono più nell’isola.
Da quel momento in poi i Britanni furono costretti ad arrangiarsi da soli e qualche decennio dopo
furono invasi e assoggettati da Angli e Sassoni.
I Vandali dopo essere entrati in Gallia e in Spagna si trasferirono in Africa e la occuparono
staccandosi da Roma, privandola così del suo “granaio” africano (439).
Dopo la morte del generale Ezio, i Visigoti stanziati in Aquitania, nella Gallia meridionale, col
permesso dell’imperatore Costanzo (418), si resero sempre più autonomi dall’impero e
conquistarono anche buona parte della penisola iberica (475). I Franchi di Clodoveo si
impadroniranno poi della Gallia, cacciandone i Visigoti (507) e fondando un loro regno.
L’Impero d’Occidente si ridusse così alla penisola italica e alla Dalmazia, sotto il dominio di
imperatori fantoccio succubi di generali barbari che detenevano il potere reale.
Non è da credere che questi popoli nomadi o seminomadi, sbollita la foga della conquista di un
territorio, continuassero con stragi e razzie indiscriminate. Anzi, una volta stanziati e divenuti
proprietari terrieri, cambiavano lentamente le abitudini e i costumi nomadi e sotto la guida dei loro
re cercavano un modus vivendi con le popolazioni preesistenti, trovando accordi con le comunità
romane, spesso anche grazie alla mediazione della chiesa e dei vescovi e creando anche nuove
forme giuridiche per regolare i rapporti tra diverse tradizioni e civiltà.

Finché imperatori forti e autorevoli come Diocleziano, Costantino e Teodosio garantirono la


sicurezza e la stabilità il sistema resse, ma nel V secolo venendo meno il controllo centrale, la
corruzione della burocrazia e dei giudici divenne endemica.
Pare che alla fine parti della popolazione si trovarono meglio sotto il dominio dei “barbari” che
sotto quello degli avidi e corrotti funzionari imperiali. Il prete cattolico Salviano di Marsiglia, nel
suo trattato De Gubernatione Dei, “Il governo di Dio sul mondo”, composto intorno al 450, così
scrive (V, 4-5): “molti sono colpiti da pochi, per i quali la riscossione delle imposte è divenuta una rapina e
che trasformano i titoli del debito fiscale in una fonte di profitto privato. E non sono soltanto i funzionari
più elevati, ma anche gli impiegati dei gradi più bassi; non solo i giudici, ma anche i loro sottoposti … Così,
intanto, i poveri sono rovinati, le vedove gemono, gli orfani vengono calpestati, a tal punto che molti di
loro, e non di oscuri natali e di raffinata educazione, si rifugiano presso i nemici … Perciò, un po’ alla volta,
emigrano verso i Goti (= Visigoti) o i Bagaudi, o verso altri territori dominati dai barbari, né si pentono di
essere emigrati; preferiscono vivere liberi sotto un’apparenza di prigionia che vivere prigionieri sotto
un’apparenza di libertà".

185
I Bagaudi
I Bagaudi non erano un popolo, ma bande organizzate di pastori e contadini guerriglieri, esasperati
dall’insopportabile tassazione e dalle angherie dei latifondisti, che costituirono una specie di movimento di
rivolta contro l’iniquità sociale e la corruzione della burocrazia, arrivando a controllare per quasi due secoli
(280-450 circa) aree difficilmente accessibili delle Alpi e dei Pirenei, imponendo un pedaggio per il transito
sicuro dei valichi alpini a mercanti e perfino a reparti militari e ricorrendo anche al brigantaggio e al
rapimento con riscatto di ricchi proprietari, i quali erano così potenti da permettersi forze armate personali
per difendere le loro ville rustiche. Subirono rastrellamenti e feroci repressioni dalle truppe romane, ma
riuscirono ogni volta a riprendere il controllo dei loro territori.
Il loro movimento anzi si espanse a sud in Spagna e a nord nell’Armorica (Bretagna).

45 – Regno di Teodorico, Verona capitale minore.


Odoacre, impadronitosi di Italia e Dalmazia (quanto restava dell’Impero d’Occidente) con il
sostegno dei mercenari germanici e con l’ambiguo assenso di Costantinopoli, governò con inattesa
abilità, nel rispetto delle istituzioni, restituendo autorità al senato e riportando una serie di vittorie
sui popoli invasori. I suoi successi militari e politici suscitavano però la gelosia sospettosa
dell’imperatore Zenone, che nel frattempo doveva fronteggiare nei Balcani la minacciosa presenza
degli Ostrogoti guidati dal giovane re Teodorico, il quale svolgeva una sua politica indipendente,
alternando fasi di alleanze e di aperte ostilità. Zenone pensò di mettere uno contro l’altro i due re
barbari e propose a Teodorico di impadronirsi dell’Italia prendendo il posto di Odoacre.
Fu così che nel 488 Teodorico mosse il suo numeroso popolo dalla Mesia e calò in Italia dalle
Alpi Giulie. Sull’Isonzo sconfisse Odoacre costringendolo alla ritirata e poi lo inseguì fino a
Verona, dove egli si era trincerato per la sua importante posizione. Forse fu in questa occasione che
le difese furono rafforzate con potenti speroni di pietra e calcestruzzo posti a chiusura e
sbarramento degli accessi alle postierle e in altri punti delicati.
Odoacre, però, invece di chiudersi nelle mura della città, uscì ad affrontare il nemico in campo
aperto. La battaglia avvenne nel settembre del 489 sulle rive dell’Adige. L’impeto degli Ostrogoti
travolse gli avversari, molti dei quali cercando scampo nelle acque del fiume vi annegarono.
Odoacre riuscì a rifugiarsi a Ravenna, protetta dalle paludi e rifornita dal mare, lì resistette per tre
anni, finché Teodorico, procuratasi una flotta, completò l’assedio dal mare. Costretto allora a
patteggiare la resa (493), fu poi ucciso a tradimento dal rivale, con tutti i suoi familiari.

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Divenuto padrone della penisola, Teodorico si propose di far convivere i dominatori Goti e i
Romani in uno stato pacificato, come gli suggeriva l’educazione greca e latina assorbita a
Costantinopoli, dove era stato giovanissimo ostaggio a garanzia di patti tra bizantini e ostrogoti.
Egli mantenne la capitale a Ravenna, ma scelse Verona come una delle capitali sussidiarie, in
quanto posizione chiave per il controllo del territorio a nord est e dedicò ingenti risorse al restauro e
alla fortificazione della città.
Cinse con nuove mura il colle e ai suoi piedi costruì il palatium la sua reggia, probabilmente sulle
fondamenta dell’Odeon, di fianco al Teatro, collegata alla porta urbica orientale (via Redentore),
come si potrebbe intuire dal disegno dell’Iconografia Rateriana. Forse la nuova cinta si estendeva
lungo la Postumia fino all’altezza di via Porta Organa dove sono inseriti nei muri di due case
opposte i pilastri di una grande porta costruiti con riutilizzo di pietre romane.
Teodorico Si prese molta cura anche della città in destra Adige, qui le difese erano state in
precedenza rafforzate con potenti speroni di pietra e calcestruzzo posti a sbarramento degli accessi
alle postierle e in altri punti delicati. Teodorico, giudicando insufficienti tali opere, decise un
intervento radicale. Con massi dell’anello esterno dell’Arena (forse demolito in buona parte in
questa occasione) e con altre pietre e lastre di recupero, ma collocate con cura e legate con malta
tenace fece innalzare una nuova poderosa cinta muraria, alta ben 14 metri e avanzata di circa una
decina di metri rispetto alle precedenti mura di Gallieno. Il secondo circuito circondava il primo con
un’altezza quasi doppia, costituendone un avancorpo poderoso, nella sua essenzialità difensiva,
priva di elementi decorativi ma molto robusta.
La nuova cinta era difficilmente penetrabile: gli ingressi in città erano limitati a due porte
fortificate, aperte nelle nuove mura in corrispondenza delle antiche porte monumentali
Davanti a ciascuna delle due porte principali, rimaste le sole entrate alla città in destra Adige, fu
costruito un avancorpo collegato alle mura e fornito di un solo arco di accesso.
Le nuove mura sono un’opera poderosa costruita con materiali di recupero, ma scelti con cura e
legati con buona malta; vi si reimpiegarono anche epigrafi funerarie, ma soprattutto una grande
quantità di massi ricavati dall’anello esterno dell’Arena, forse in parte crollato o appositamente
demolito nell’occasione. Queste mura, fino a poco tempo fa confuse con quelle di Gallieno, sono
tutt’oggi visibili in alcuni tratti, impressionante quello, quasi intatto, conservato in via S. Cosimo.
Teodorico innalzò anche altri edifici, ripristinò la viabilità dentro e fuori le mura e ricostruì
l’acquedotto disastrato.
Al termine dei lavori Verona era una fortezza formidabile, difesa da una doppia cinta di mura, tali
da scoraggiare qualunque aggressore. Al loro interno la gloriosa città romana, in parte riadattata per
ospitare orti e ricoveri di animali, tornò a vivere una vita relativamente prospera e civile, ma con

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una netta separazione tra la pars Gothorum, la zona occupata dai Goti a sinistra Adige e la città
romana al di là del fiume, segno esterno di una divisione culturale e politica.
Di questa città fortificata, che conserva ancora una struttura monumentale romana abbiamo, oltre
ai dati archeologici, una rappresentazione visiva di straordinaria bellezza e rarità, una fedele copia
settecentesca dell’Iconografia Rateriana, una preziosa pergamena policroma così chiamata da
Raterio il vescovo di Verona, che la fece realizzare nel X secolo. Il disegno è attendibile in rapporto
ai metodi rappresentativi dell’epoca che non si curavano di unità prospettica ma adottavano punti
vista diversi per mettere in rilievo i vari monumenti. La doppia cinta muraria ad esempio è vista
frontalmente su un unico piano ed è resa con due colori, il verde e il rosso sovrapposti.
Pur essendo posteriore di quattro secoli a Teodorico, può darsi che l’iconografia si rifaccia a un
modello molto più antico e vicino a Teodorico.
Verona si avvia con Gallieno e Teodorico ad assumere quella fisionomia di piazzaforte militare
che manterrà nei secoli, dal medioevo all’età moderna, fino a raggiungere il massimo sviluppo in tal
senso nel 1800 sotto il dominio austroungarico, quando diventerà la città militare più importante di
tutto il Lombardo Veneto.

Verona e il cristianesimo
Diffusione
Già pochi anni dopo la crocefissione di Gesù, iniziò la diffusione del cristianesimo al di fuori dei
confini della Palestina, prima in Oriente e poi in Occidente, rivolta a tutti, ma in primo luogo agli
ebrei, sparsi nelle varie regioni dell’impero. Come testimoniano le lettere di Paolo e gli Atti degli
Apostoli la nuova religione si diffondeva lungo le rotte del Mediterraneo, rivolgendosi anzitutto alle
città portuali del Mediterraneo o vicine al mare, dove vivaci comunità ebraiche dedite ai commerci
si erano sviluppate e avevano costruito le loro sinagoghe, basi d’appoggio per la predicazione, che
non aveva, però, vita facile: l’idea che Gesù di Nazareth fosse il Cristo figlio di Dio suscitava
spesso reazioni scandalizzate e anche violente, che sfociavano in tumulti.
Ciò avveniva anche nella stessa capitale dell’impero, al punto che verso la metà del I secolo,
l’imperatore Claudio, sempre benevolo verso gli Ebrei “Espulse da Roma i Giudei che
continuamente tumultuavano per istigazione di Chresto” (Svetonio, Vita Claudii, XXV, 4) l’editto
evidentemente motivato da ragioni di ordine pubblico non fa distinzione tra Giudei e Giudei
cristiani.
Solo molto più tardi e lentamente la nuova religione raggiunse le città dell’entroterra. Le
narrazioni medievali pretendono di far risalire alla predicazione apostolica del I secolo la nascita di
comunità cristiane nei centri della pianura Padana e considerano discepoli diretti degli Apostoli il

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primo vescovo di Milano, Anatolone o Anatolio, il vescovo di Padova, Prosdocimo e anche quello
di Verona, Euprepio, per conferire maggior prestigio all’origine di queste diocesi.
In realtà, secondo calcoli verosimili, basati sui primi vescovi storicamente datati, in quanto
presenti ai sinodi di Roma (313) o Sardica, l’attuale Sofia, (343) e risalendo fino all’inizio delle
serie episcopali tramandate, i primi vescovi della Gallia Cisalpina e quindi le prime comunità
organizzate gerarchicamente si collocano solo verso l’inizio o la metà del III secolo.
Questi primi vescovi portano nomi greco-ellenistici che denotano la provenienza orientale, essi
erano probabilmente missionari, inviati in Occidente a fondare nuove comunità cristiane. Euprepio,
il cui nome significa “Decoroso”, fu il primo vescovo di Verona intorno alla metà del III secolo,
forse dopo il 260 quando l’imperatore Gallieno concesse la libertà di culto ai cristiani, abolendo la
precedente persecuzione attuata da suo padre.

Persecuzioni
Roma era molto tollerante in fatto di religione e accoglieva benevolmente nel proprio panteon le
religioni dei popoli più disparati che entravano a far parte dell’impero, la religione era considerata
fattore di coesione sociale e strumento di controllo politico. L’universalismo dell’impero era anche
religioso. La politica di pace, di inclusione e integrazione voluta da Augusto è simbolicamente
espressa dal grandioso edificio del Panteon eretto a Roma da Agrippa, il potente amico e genero del
primo imperatore.
La società romana, però, non vedeva di buon occhio le sette religiose, soprattutto se praticavano
riunioni segrete riservate agli iniziati: il popolo vedeva in esse un affronto alle divinità tradizionali,
foriero di disgrazie e divine punizioni e il potere diffidava di ciò che sfuggiva al suo controllo.
I cristiani non erano perciò ben visti a causa dei loro misteriosi riti, del rifiuto di onorare gli dei
tradizionali e la divinità dell’imperatore.
Tacito, a cavallo tra il I e il II secolo, giudica il cristianesimo una “superstizione distruttiva”,
(exitiabilis superstitio, Ann. XV, 44), non diversamente dal suo contemporaneo Plinio il Giovane
che parla di una “superstizione perversa e sfrenata” (superstitionem pravam et immodicam, Ep. 96).
Essere denunciati come cristiani comportava processi, confische dei beni, esili o condanne a
morte. Ciononostante l’atteggiamento degli imperatori verso i cristiani non fu univoco: a periodi di
tolleranza si alternarono altri di dura intransigenza. Nei primi due secoli di un impero solido e
fiorente le persecuzioni furono momenti episodici, come quella feroce scatenata da Nerone allo
scopo, secondo Tacito, di deviare sui cristiani il furore popolare per un furioso incendio che aveva
devastato Roma e di cui lo si accusava.

189
Il grande Traiano in una lettera a Plinio il Giovane, che dalla lontana Bitinia gli chiede istruzioni,
risponde esortando lo scrupoloso governatore a non mettersi alla ricerca dei cristiani, ma a istruire
processi contro di loro solo su precise accuse di privati, ignorando le denunce anonime e infine gli
ricorda di concedere ad essi la possibilità di ravvedersi, semplicemente invocando in pubblico gli
dei tradizionali.
Solo più tardi quando l’impero fu scosso da gravi crisi esterne ed interne nel III-IV secolo alcuni
imperatori videro nei cristiani una grave minaccia all’unità e alla sicurezza dello stato, che andava
repressa con persecuzioni sistematiche.
La proposta cristiana di nuova umanità egualitaria fondata sull’amore fraterno e la promessa di
una vita eterna oltre la morte, aveva fatto presa non solo sugli umili lavoratori, sui diseredati e gli
schiavi, ma si era diffusa anche nella classe privilegiata dei liberti ricchi, finendo poi per
coinvolgere famiglie di rango equestre e perfino senatorio, anche militari che erano stati di presidio
in Oriente furono veicoli del messaggio cristiano.
I cristiani prima perseguitati …
L’opinione comune sui cristiani tra I e II secolo, rispecchiata da Plinio il Giovane nella lettera 96
a Traiano, era che essi fossero una setta illegale, una “superstizione irrazionale e smodata”, che si
poneva al di fuori dello stato, perché rifiutava il dovere civico del culto all’imperatore, incorrendo
nella lesa maestà, che comportava la pena di morte. Traiano rispose però al governatore Plinio di
non perseguire di sua iniziativa i cristiani, ma solo su denuncia, che non poteva essere anonima,
indegna di uno stato civile, e anche così essi andavano puniti solo se recidivi.
Così
In pratica c’era una certa tolleranza, al punto che le comunità cristiane raccoglievano fondi
erano
destinati al culto e alla beneficienza e col tempo ereditarono o acquisirono edifici e terreni
sorte
in qualche forma legale, intestandoli a prestanome o con altri sistemi. La responsabilità
nelle
amministrativa dei beni faceva capo ai vescovi.
varie
Il cristianesimo era stato colpito da temporanee persecuzioni sotto alcuni imperatori, ma
città
nonostante ciò non solo si era diffuso tra il popolo e gli schiavi, affascinati da una divinità
che condivide le sofferenze degli uomini e promette felicità eterna nell’al di là, ma aveva
fatto presa anche sulle classi dirigenti con la rivoluzione della sua etica spirituale,
contraria al formalismo della precettistica tradizionale.
dell’impero comunità cristiane, ognuna delle quali eleggeva il proprio vescovo e attorno a lui si
organizzava. La chiesa stava divenendo una specie di stato nello stato. Diocleziano vedeva nella
religione tradizionale un indispensabile supporto del suo potere e per questo si proclamò Iovius
(simile a Giove) e dominus et deus, rappresentante sulla terra della volontà degli dei. Tuttavia
Diocleziano era sempre stato tollerante con i cristiani, ma verso la fine del suo regno (303), sotto la
190
pressione dei suoi consiglieri e del cesare Galerio, emanò editti sempre più gravi di persecuzione
sistematica. Essi furono applicati con ferocia in oriente, dove per colpire la gerarchia religiosa
alcuni vescovi furono arrestati e mandati a lavorare in miniera. Molti cristiani si piegarono e
membri del clero consegnarono i testi sacri che venivano bruciati sul rogo (di qui il significato
negativo del termine traditore, dal verbo tradere, consegnare). Ma non pochi affrontarono
coraggiosamente la morte, che essi chiamavano martyrium, testimonianza, sicuri di passare a una
gloriosa vita eterna.
La persecuzione invece di stroncare la nuova religione, l’aveva rafforzata, il popolo che nei primi
due secoli d. C. era stato ostile alla nuova religione, giudicata una occulta setta di fanatici, aveva
cominciato ad apprezzare i cristiani per l’attività umanitaria che i i loro diaconi svolgevano in quei
tempi difficili, soccorrendo i poveri e le vedove e assistendo gli ammalati, incuteva rispetto poi la
loro dirittura etica e la forza morale dimostrata dai martiri.
Perciò Costantino, al contrario del suo predecessore, vide nel cristianesimo, o meglio nella chiesa
cattolica, gerarchicamente organizzata e diffusa sul territorio, una forza sociale positiva, di
potenziale sostegno al potere. ed emanò nel 313 col collega Licinio l’editto detto di Milano che
restituiva ai cristiani la libertà di culto e la proprietà dei beni confiscati.
La chiesa cattolica ricambiò subito dopo, nel 314 con il Concilio di Arles, comminando la
scomunica ai disertori cristiani, che “in pace, abbandonano le armi” (can. 3).
Costantino in seguito favorì la costruzione di grandi basiliche a Roma e altrove ottenendo la
gratitudine e il pieno appoggio dei papi alla sua politica e si fregiò del titolo di isapostolos, uguale
agli apostoli.
Le persecuzioni non riuscirono a stroncare la diffusione della nuova religione, nemmeno la più
terribile attuata da Diocleziano, anzi finirono per rafforzarla spingendola a radicarsi capillarmente
nel territorio dell’impero con comunità solidali e virtuose, gerarchicamente organizzate, efficienti e
socialmente benefiche.
La svolta decisiva nel rapporto tra impero e cristiani fu impressa da Costantino: giunto, dopo
aspri conflitti, a governare una gran parte dell’impero, egli vide nel cristianesimo invece che un
nemico dello stato romano un suo potenziale potente alleato e dopo aver concesso la libertà di culto,
la restituzione dei beni e spazi per costruire nuove chiese, stabilì una costruttiva collaborazione con
la gerarchia cattolica, che arrivò anche all’ingerenza negli affari religiosi. Infatti lo preoccupavano
le divisioni teologiche che laceravano la chiesa, come l’arianesimo che negava la divinità di Cristo.
L’unità della chiesa garantiva l’unità politica dello stato, perciò egli stesso convocò il concilio di
Nicea nel 325, dal quale uscì una nuova formulazione del Credo cattolico.

191
Le prime chiese
Gli Apostoli predicavano nelle sinagoghe, o all’aperto, o anche in case private, ma le prime
comunità, per “spezzare il pane”, cioè per celebrare il rito eucaristico, sceglievano spesso ampie
stanze o sale per banchetti, come il cenacolo dell’ultima cena.
Più tardi le comunità sentirono l’esigenza di comprare una casa e trasformarla in luogo di culto, adattando in qualche modo le
stanze allo scopo. Si parla allora di domus ecclesiae, case dell’assemblea.
C’è un esempio archeologicamente significativo, che risale al 232 o 233 ed è in Siria, a Dura Europos, dove fu trovata una casa
che subì qualche trasformazione, per accogliere la comunità, come suggeriscono simboli cristiani dipinti sui resti di alcuni muri. In
particolare c’è una stanza, unica nel suo genere in tutta la città, che doveva essere senz’altro un battistero, con un fonte battesimale
simile a un sarcofago (simbolo di morte e rinascita in Cristo)

Le persecuzioni sistematiche

La strage di cristiani avvenuta sotto Nerone era stata solo un grave episodio isolato, ma, al di là della follia sanguinaria neroniana,
sappiamo da Plinio il giovane che sotto l’ottimo Traiano, imperatore dal 98 al 117 d. C., bastava la denuncia di qualche vicino di
casa, malevolo o invidioso, per essere processati come cristiani e rischiare la vita o quanto meno l’esilio e la confisca dei beni.
Ma fu solo con l’imperatore Decio, salito al potere nel 250, che le persecuzioni divennero sistematiche. In un periodo di grave
anarchia egli vedeva nella religione tradizionale un fattore di coesione sociale e politica, un argine alla profonda crisi che travagliava
l’impero e per ristabilirne i culti impose, sotto pena di morte, che tutti i sudditi dell’impero manifestassero devozione agli dei dello
stato e al culto dell’imperatore. Molti cristiani pur di evitare gravissime pene e torture rinnegarono almeno formalmente la loro
religione, ma molti altri accettarono il martirio.
Il culmine della ferocia si raggiunse, però con Diocleziano e Massimiano, suo collega in Occidente (imperatore dal 284 al 305 d.
C.). La sua persecuzione indiscriminata, iniziata nel 303, portò le denunce e le esecuzioni di cristiani a un livello impressionante.
La tradizione veronese ricorda come vittime illustri di Massimiano il nobile Fermo e
Rustico, suo giovane parente, originari di Bergamo, ma che sarebbero stati processati e
decapitati sulla riva dell’Adige. I loro resti dopo vari spostamenti furono riportati a Verona
nell’ottavo secolo dal vescovo Annone e si trovano sepolti nella chiesa loro dedicata. Ci
sono poi custodite nella chiesa di S. Stefano le reliquie di quaranta martiri che sarebbero
stati uccisi anch’essi sulla riva del fiume.

Succedeva però che più la nuova religione veniva repressa, più si diffondeva a tutti i livelli della società, a tal punto che
Costantino, il successore di Diocleziano, si chiese se non fosse meglio considerare i cristiani una potenziale risorsa per l’impero
piuttosto che nemici da combattere e, con il rescritto imperiale noto come editto di Milano, nel 313 pose fine alle persecuzioni,
concedendo ai cristiani piena libertà religiosa e ordinando la restituzione gratuita dei loro luoghi di culto, precedentemente confiscati
e venduti.

Reliquie e venerazione dei martiri

Una delle antichissime leggi delle XII tavole, le prime leggi scritte di Roma (451 – 450 a. C.), vietava di seppellire i morti entro le
mura cittadine. Non si voleva però perdere il rapporto con i propri cari defunti e dimenticarsi di loro, per questo i cimiteri sorgevano
poco fuori dalla città, di preferenza lungo le vie principali, così che i defunti, oltre a ricevere facilmente le visite dei parenti, avessero
la compagnia quotidiana anche dei semplici viandanti.
Anche a Verona sorsero cimiteri in varie zone all’esterno del centro abitato: lungo la via Postumia nelle due direzioni, verso sud –
ovest, presso l’attuale Porta Palio e forse anche più vicino alla città, nella zona dei Santi Apostoli, e verso nord – est, in Veronetta
presso il Seminario e lungo la via Gallica (che andava a Milano), nella zona dove sorsero S. Procolo e S. Zeno.
Un cimitero si trovava anche proprio qui nell’area di S. Stefano, dove la via Claudia Augusta Padana (proveniente da Ostiglia e
diretta a Trento) usciva dalla porta situata a nord di Ponte Pietra. Qui furono sepolti anche i corpi di alcuni dei primi vescovi 1, infatti, i
cristiani si servirono degli stessi cimiteri di tutti gli altri veronesi, con la sola differenza che essi, credendo nella resurrezione dei
corpi, usavano rigorosamente solo l’inumazione.
Le tombe erano sotto la protezione di norme sacre, sappiamo da Plinio il giovane che spostare i resti o reliquiae di un defunto,
anche per buoni motivi, richiedeva il permesso del collegio dei Pontefici.

1
Dimidriano, Simplicio e Saturnino, poi traslati nella basilica dopo la sua costruzione.
192
Ma per i primi cristiani il termine reliquiae acquisì un nuovo significato: il corpo di un martire che aveva ospitato un’anima così forte
e santa, da affrontare il sacrificio supremo, doveva conservare un potere benefico capace di trasmettere in qualche modo la santità
a chi lo venerava con fede. Assieme all’anima, anche il corpo di un santo veniva, durante la vita, talmente trasfigurato dalla grazia
divina, che anche dopo la morte doveva conservarne una traccia, capace di mantenere in modo misterioso la presenza della
persona. Al corpo di un santo era perciò attribuito un potere taumaturgico di guarigione, di qui il bisogno di avvicinare e se possibile
toccare le reliquie, o almeno la teca che le conteneva.
S. Petronio, vescovo di Bologna dal 532, autore di un panegirico del vescovo di Verona S. Zeno, morto nel 372 o 380, ci
testimonia che il santo veronese continuava a fare da morto i miracoli che faceva da vivo: “S. Zenone … moltiplica nella tomba i
miracoli che fece durante il suo episcopato … e colui che giace nel sepolcro restituisce la vita ai morti, sana gli infermi … e la
ragione è che lo spirito di Dio vigila in quella cenere non morta e proviene la vita di là ove crediamo essere un cadavere esanime”.
Reliquie divennero anche gli oggetti appartenuti al santo in vita e perfino le cose che erano venute a contatto con il suo corpo,
così con questa moltiplicazione era possibile accontentare la grande richiesta dei devoti.
Grande impulso alla diffusione delle reliquie fu dato dal presunto ritrovamento del legno della croce di Cristo, avvenuto, secondo la
leggenda, nel 326 a Gerusalemme, ad opera della regina Elena, madre di Costantino. Di qui pezzetti del sacro legno raggiunsero i
più lontani luoghi della cristianità, un’antica iscrizione ne ricorda uno anche a santo Stefano.

Ambienti liturgici e prime comunità.

La predicazione degli Apostoli si svolgeva nelle sinagoghe, o all’aperto, o anche in case private, ma le prime comunità, per
“spezzare il pane”, cioè per celebrare il rito eucaristico, sceglievano spesso ampie stanze o sale per banchetti, come il cenacolo
dell’ultima cena, che in Palestina e in Oriente si trovavano di solito all’ultimo piano sopra le stanze di uso quotidiano. Gli Atti degli
Apostoli (20,7) riferiscono che in una riunione affollata, a Troade in Oriente, un giovane, seduto sul davanzale della finestra, cadde
dal terzo piano e sembrò morto, ma S. Paolo lo rianimò.
Solo più tardi le comunità sentirono l’esigenza di comprare una casa e trasformarla in luogo di culto, adattando in qualche modo le
stanze allo scopo. Si parla allora di domus ecclesiae, case dell’assemblea.
C’è un esempio archeologicamente significativo, che risale al 232 o 233 ed è in Siria, a Dura Europos, dove fu trovata una casa
che subì qualche trasformazione, per accogliere la comunità, come suggeriscono simboli cristiani dipinti sui resti di alcuni muri. In
particolare c’è una stanza, unica nel suo genere in tutta la città, che doveva essere senz’altro un battistero, con un fonte battesimale
simile a un sarcofago (simbolo di morte e rinascita in Cristo).
Secondo Enrico Cattaneo, studioso di liturgia 2, allora “la celebrazione eucaristica non aveva bisogno di alcun apparato, perché
conservava innanzitutto l’aspetto conviviale, una cena familiare”. In origine i vari incarichi assunti dai membri della comunità,
secondo il carisma di ciascuno, erano generosamente svolti al servizio del prossimo e non davano diritto a distinzioni.
Ma già in documenti del III ( Didascalia Apostolorum) e soprattutto del IV secolo (Constitutiones Apostolorum), dopo l’editto di
Costantino del 313 e la libera costruzione degli edifici di culto, troviamo prescritta una netta divisione tra clero e fedeli e una
dettagliata sistemazione dello stesso clero nell’interno della chiesa.
La situazione di accordo con l’impero romano arriva poi, con Teodosio, a trasformare il cristianesimo in religione di stato (380
editto di Tessalonica) e a cambiare profondamente la sua iconografia: a Cristo buon pastore si preferisce l’immagine di Cristo re
dell’universo e della città celeste, cui corrisponde, nella città terrena, la figura dell’imperatore. La gerarchia religiosa assume
atteggiamenti distaccati e sontuosi abiti liturgici, simili a quelli dei funzionari della gerarchia imperiale. Vescovi e clero hanno nelle
chiese una zona loro riservata, la più importante, quella attorno all’altare, detta presbiterio, dal greco “presbitero”, cioè “anziano”,
termine con cui ben presto si identificò il capo della comunità e il “sacerdote”.

La struttura basilicale.

Perché i primi edifici cristiani hanno il nome di basiliche? Quando i cristiani innalzarono i loro primi edifici di culto, scartarono il
modello del tempio greco-romano, perché, oltre ad essere l’emblema dell’esecrata religione pagana, non era funzionale alle
esigenze liturgiche. Infatti, il tempio era concepito come casa delle divinità, non per accogliere il popolo, il quale si radunava
all’esterno, ai piedi della scalinata di accesso, per assistere ai sacrifici celebrati dai sacerdoti sugli altari posti su un alto podio.
Alla comunità cristiana serviva invece un edificio in cui l’ ecclesia, l’assemblea, potesse raccogliersi a pregare e a celebrare
l’eucaristia; per questo fu presa a modello la forma architettonica della basilica romana, edificio non religioso ma civile,
polifunzionale (tribunale al coperto, luogo d’incontro e borsa degli affari), solitamente posto su un lato del foro e adatto a contenere
la moltitudine di persone, che la frequentava.
La pianta rettangolare poteva avere un’abside o anche due absidi contrapposte sui lati corti e in questo caso gli ingressi stavano
solo sui lati lunghi. L’edificio,essendo in genere di grandi dimensioni, difficilmente poteva avere una sola grande copertura, per
questo non era costituito da un’aula unica, ma in genere era diviso in due, in tre o più navate da file di colonne funzionali a sostenere
le travi delle capriate dei tetti lignei o le imposte degli archi delle volte in muratura. L’illuminazione interna poteva provenire da
finestre ricavate nella fascia alta dei muri della navata centrale, quando questa era, come spesso accadeva, sopraelevata rispetto
alle altre.

2
Autore del volume Arte e liturgia dalle origini al Vaticano II, v. bibliografia.
193
Nella basilica romana gli ingressi erano numerosi, i più frequentati erano quelli posti sul lato lungo che dava sul foro, attraverso i
quali si entrava in un grande spazio indistinto e policentrico, privo di divisioni, una specie di piazza al coperto affollata e rumorosa.
Nella basilica cristiana, invece, l’ingresso è su uno dei due lati corti, cosicché si ha un rovesciamento della concezione spaziale,
che fa convergere l’occhio di chi entra sull’abside, posta sul lontano lato corto opposto. L’abside racchiude e abbraccia la zona
pregna di significato simbolico, che contiene il presbiterio, riservato ai capi della comunità, e l’altare, dove nell’eucaristia si palesa la
presenza di Cristo.
Le prime basiliche sono dette costantiniane perché costruite all’epoca di Costantino e spesso da lui promosse, donando il terreno,
come per la Basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma, o facendole costruire dai suoi architetti come la basilica di S. Pietro a
Roma, la Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme e a Costantinopoli la Basilica Apostolorum, in cui l’imperatore costruì il suo
mausoleo, come tredicesimo apostolo e su cui Giustiniano erigerà la grande chiesa di S. Sofia.

La primitiva comunità cristiana veronese.


A Verona già qualche decennio prima dell’editto di Costantino, c’era una solida comunità cristiana, gerarchicamente organizzata,
possiamo dirlo con sufficiente sicurezza, visto che il primo vescovo, Euprepio, fu a guida della chiesa veronese prima dell’anno 250.
Era una comunità che aveva avuto delle vittime durante la persecuzione di Diocleziano, come testimonia la ricordata tradizione dei
quaranta martiri veronesi, le cui reliquie si troverebbero appunto in S. Stefano.
Ma solo Zeno, ottavo vescovo della città dal 362 alla morte (372/80), riuscì a dare un impulso decisivo alla cristianizzazione di
Verona: fu lui probabilmente, come sappiamo da uno dei suoi 93 sermoni, a promuovere la costruzione (o la riedificazione) della
prima chiesa di Verona (che sostituì le precedenti domus ecclesiae), nel luogo ora occupato dalla chiesa di S. Elena (o S. Giorgio),
sul fianco nord del Duomo. Di essa ci è rimasto il pavimento, che presenta nelle ultime quattro campate della nave centrale una zona
riservata al clero, rialzata di un gradino e riscaldata sotto il pavimento da un ipocausto, simile a quelli termali, per celebrare in modo
confortevole la liturgia delle ore.

Le prime basiliche veronesi.

Sotto la chiesa di S. Elena, durante gli scavi degli anni cinquanta del novecento, emersero sia il perimetro dei muri di un edificio
basilicale paleocristiano, sia il pavimento e alcuni riquadri dei raffinati mosaici policromi che lo ricoprono e che riportano i nomi dei
generosi donatori. La basilica a tre navate, che possiamo chiamare zenoniana (lunga 37 metri e larga circa 17, per una superficie
di circa mq. 560), al momento dell’inaugurazione era già insufficiente ad accogliere i numerosi fedeli accorsi, tanto che il vescovo
Zeno dice in un suo sermone: “Esultate dunque, o fratelli,e riconoscete la vostra interiore costruzione da questa novella casa di Dio,
di cui avete già resa angusta la capacità con il felice numero delle vostre presenze. Dallo stesso fatto che non vi contiene, si
capisce che la vostra fede abbraccia Dio”. [Libro II, discorso 6, 2, 5 (I, 4)].
Alcuni decenni dopo, tra la fine del secolo IV e l’inizio del V i successori di Zeno avviarono la costruzione di una basilica imponente,
anch’essa a tre navate, con abside centrale, di dimensioni quasi doppie della precedente. Essa qualche tempo dopo rovinò a terra,
forse per un terremoto o un incendio, ma il disastro risparmiò i vivaci mosaici policromi, che ricoprivano il pavimento, estesi pannelli
dei quali restano ben conservati, sotto il Chiostro dei Canonici.

Sacelli e basiliche cimiteriali di Verona.

I primi cristiani usavano gli stessi cimiteri degli altri abitanti, ma con la progressiva
affermazione della nuova religione, anche i cimiteri subirono trasformazioni. Alcune tombe
cristiane venivano chiuse da una lastra (mensa) su cui celebrare i banchetti funebri. Dopo
le persecuzioni di Decio e Diocleziano, in varie città, dove numerose erano state le vittime,
spesso sul luogo di sepoltura di un martire o martyrium, i confratelli usavano innalzare
altari o piccoli monumenti detti memoriae e a volte circondarli di un sedile in muratura per
favorire il banchetto rituale e la venerazione della memoria, appunto. Talvolta il luogo
veniva riparato da un semplice porticato e col tempo si arrivò a costruire un piccolo edificio
sacro o sacellum, attorno alla tomba-altare dei martiri più noti e amati o dei defunti
particolarmente venerabili, per accogliere i fedeli, che desideravano pregare e meditare.
Nel IV-V secolo, anche a Verona furono probabilmente innalzati piccoli edifici, oratori o
sacelli nelle aree cimiteriali extraurbane.
Uno di essi, anche se fortemente rimaneggiato nel tempo, è tuttora esistente e si trova
poco fuori della cinta muraria romana, a sinistra uscendo dall’antica porta Iovia, ora porta

194
Borsari, in una probabile zona cimiteriale a fianco della via Postumia: si tratta del sacello di
Teuteria e Tosca, forse originariamente dedicato a S. Apollinare.
Un altro sacello si trovava quasi sicuramente nell’area funeraria vicino alla chiesa di S.
Zeno, sotto o dietro l’attuale chiesa di S. Procolo, dove anticamente esisteva una chiesetta
dedicata ai santi Vito e Modesto.
Infine un terzo sacello, con buona probabilità, esisteva nel già ricordato cimitero, proprio
dove poi sorse S. Stefano, lungo la via Claudia Augusta, appena fuori della porta romana
che potremmo chiamare Tridentina e che in epoca medioevale sarà chiamata Porta di S.
Stefano. Qui, infatti, secondo Da Lisca, forse esisteva un oratorio, detto ad martyres,
probabilmente perché nei pressi erano le sepolture dei ricordati martiri veronesi. 3

Gli stessi vescovi non venivano sepolti nel centro abitato, bensì extra moenia, nei
cimiteri fuori le mura e probabilmente in un secondo tempo i loro resti furono tumulati nelle
chiese che lì sorsero. I primi quattro vescovi da Euprepio a Procolo furono probabilmente
sepolti nella chiesa dedicata appunto a S. Procolo, il quarto vescovo di Verona 4. In seguito
i vescovi a partire dal quinto, Saturnino, furono per lo più sepolti nella chiesa di S. Stefano,
situata più vicino alla cattedrale.
S. Stefano e S. Procolo sorsero, infatti, come basiliche cimiteriali, esterne alle mura
della città, in zone pressoché disabitate e riservate alle sepolture, erano chiese che
garantivano una specie di protezione divina alle tombe e in cui i fedeli potevano
raccogliersi a pregare per i loro defunti, sepolti nell’area circostante e poi, a seconda del
prestigio sociale, all’interno stesso delle chiese.

Non sappiamo con esattezza quando la basilica cimiteriale fuori le mura fu costruita,
quasi sicuramente dopo il 415, quel che è certo è che i muri delle fiancate e dell’abside
dell’attuale edificio risalgono al V secolo e a tutt’oggi sono sostanzialmente quelli originari.

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