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TESTO E PERFORMANCE

DAL SETTECENTO AL DUEMILA

TESTO E PERFORMANCE DAL SETTECENTO AL DUEMILA


Esempi di scrittura critica sulla teatralità

A
rianna Frattali è dottore di ricerca in Discipli- d’indagine paralleli, comunque legati da risonanze
ne Filosofiche, Discipline Artistiche e Teatrali musicali, quello ancora del teatro settecentesco e ARIANNA FRATTALI
presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore quello dell’intreccio fra teatro e media dal Novecento
di Milano. Studiosa principalmente delle arti del-
la scena nel Sei-Settecento, è autrice di una mo-
a oggi. Sta approfondendo le implicazioni performa-
tive nei libretti di Metastasio e i rapporti fra teatro,
TESTO E PERFORMANCE
nografia “Presenze femminili fra teatro e salotto.
Drammi e melodrammi nel Settecento Lombardo-
cinema e televisione. È titolare presso l’Università
Cattolica di insegnamenti e seminari che spaziano
DAL SETTECENTO AL DUEMILA
Veneto” (Pisa – Roma, F. Serra Ed., 2010) e di nume- dalla drammaturgia alla storia dell’attore, dai fonda-
rosi saggi focalizzati sui rapporti fra teatro e musica menti mitologici e rituali nella performance contem- Esempi di scrittura critica sulla teatralità
nei secoli in questione. Attualmente sviluppa due fili poranea alla scrittura critica sulla scena.

EDUCatt
Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica
Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.7234.22.35 - fax 02.80.53.215
e-mail: editoriale.dsu@educatt.it (produzione); librario.dsu@educatt.it (distribuzione)
web: www.educatt.it/libri
ISBN: 978-88-8311-939-2

ARIANNA FRATTALI
€ 6,00
ARIANNA FRATTALI

TESTO E PERFORMANCE
DAL SETTECENTO AL DUEMILA
Esempi di scrittura critica sulla teatralità

Milano 2012
Si ringrazia
Francesca Barbieri, Roberta Carpani, Annamaria Cascetta, Edoardo Cimadori,
Archivio Storico del Piccolo teatro di Milano, Centro Studi del Teatro Stabile
di Torino, Compagnia della Fortezza, CRT-centro di ricerca per il Teatro di
Milano, Troubleyn Jan Fabre.

© 2012 EDUCatt - Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica
Largo Gemelli 1, 20123 Milano – tel. 0272342235 – fax 028053215
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copertina: progetto grafico Studio Editoriale EDUCatt.


Foto di Stefano Vaja, “Alice- Saggio sulla fine di una civiltà” di Armando Punzo per la Compagnia della Fortezza
Immagine: prospetto del Gran Teatro di Milano in occasione delle Maestose Feste di Giubilo per la nascita di Pietro
Leopoldo Arciduca d’Austria, 28 maggio 1747. Marc’Antonio dal Re – Civica Raccolta delle stampe Achille Bertarelli
SOMMARIO

Esercitare la parola sul teatro ...............................................5

Il libretto metastasiano come “fabula agenda”.


Ricostruire lo spettacolo perduto .................................... 15
1. Un fossile del palcoscenico ..................................... 15
2. Metastasio e il canone teatrale europeo ............... 17
3. Criticità metodologiche nel rapporto
con un genotesto........................................................ 18
4. Didone abbandonata fra canone e mito .............. 20
5. Lo spettacolo metastasiano:
un avvicinamento per approssimazione .............. 23
6. Un esempio di performatività della scrittura:
l’uso della didascalia esplicita ................................ 31

I “trasformismi” di Gassman finoal Teatro Popolare


Italiano. Analizzare un’esperienza teatrale
fra scena e schermo............................................................................ 35
1. 1956-1958 dal teatro al cinema:
salvarsi l’anima, gettare la maschera .................... 35
2. 1959: va in scena la televisione ............................. 38
3. Verso un teatro totale, un teatro happening ......... 42
Teatro e carcere: se Alice incontra Amleto
nella Fortezza. Analizzare la scena imprigionata .................53
1. Verso Hamlice: lo studio del 2009 ....................... 53
2. Hamlice – Saggio sulla fine di una civiltà ............ 56
3. Un teatro con i testi ................................................. 60
4. Lo spazio: quando il castello di Elsinore
diviene la tana di Bianconiglio.............................. 62

3
5. Codici sonori e visivi: una festa per gli occhi,
una commozione per l’anima ........................................64
6. La drammaturgia: se la natura umana produce
la scrittura .................................................................. 65
7. Quale effetto? Tutto deve avere ancora
una possibilità ........................................................... 67
Corpo e immagine: “Preparatio mortis” di Jan Fabre.
Leggere il testo performativo ............................................ 71
1. La morte in scena ..................................................... 71
2. In scena la vita .......................................................... 73
3. L’immagine-guida: la metamorfosi ..................... 75
4. Quando lo spettatore viene avvelenato ............... 77
5. Scompare l’attore, appare il “Guerriero”............. 79
6. La scrittura del corpo: i testi sono movimenti
congelati ..................................................................... 82
7. Lo spazio: come il pittore dipinge la tela .............. 84
8. Una catarsi ancora possibile .................................. 86

Materiali critici. La scrittura a caldo:


esempi di recensione ........................................................... 89

Appendice iconografica ..................................................... 99


ESERCITARE LA PAROLA SUL TEATRO

Scrivere sul teatro significa scrivere in assenza di ogget-


to, ma in presenza di una tradizione sia drammaturgica sia
spettacolare (che può essere anche rinnegata, riformata o
rivoluzionata); significa ricostruire e analizzare le istan-
ze di un evento unico, irripetibile e solo in parte ripro-
ducibile, seppure inizialmente connesso a un preciso con-
testo storico-culturale.
Per questi motivi, la scrittura critica relativa al teatro
e alla teatralità – intesa come categoria estetica che può
essere applicata anche ai prodotti di altri settori artistici,
quali il melodramma, il cinema, i nuovi media, le arti
visive in genere – non può essere esercitata solamente a
partire dal testo drammatico, tramandato dal suo percorso
editoriale, ma deve necessariamente incontrare il testo
performativo tracciato dall’azione (o dalla non-azione)
di un corpo in uno spazio e in un tempo determinati, in
presenza di qualcuno che guarda.
Considerando l’etimologia del termine (“teatro” dal
verbo greco théaomai, ossia “guardo”), tutto ciò che è le-
gato al campo semantico della teatralità incorpora neces-
sariamente la visione, come tutto quello che si lega al
“dramma” è centrato su drama e diàlogos, ovvero azione
e interazione linguistica o paralinguistica fra personae. Il
teatro nasce nel mondo antico strettamente connesso alla
categoria della socialità e di tale categoria (o della mancanza
di essa) continua ad essere espressione, talvolta anche suo
malgrado, nel corso dei secoli.
Di conseguenza, nel contesto della didattica univer-
sitaria insegnare a scrivere sul teatro significa anzitutto
insegnare a leggere il teatro, come testo drammatico e co-

5
me testo performativo. Agli strumenti per l’analisi reto-
rica e stilistica di un testo scritto devono essere unite
infatti competenze per l’analisi di un testo visivo (ma
anche sonoro), effimero, mutevole, e quindi difficilmente
ricostruibile e decodificabile a posteriori. Occorre dunque
conoscere i codici dello spettacolo come quelli della
scrittura drammaturgica, tenendo presente che la scrittura
per la scena spesso contiene in sé elementi conativi che
orientano l’azione. Pertanto, anche il testo drammatico
deve essere letto alla luce delle sue valenze performative
e delle convenzioni spettacolari cui si attiene o da cui si
distacca.

Questo libro vuole fornire alcuni esempi di scrittura


critica sul teatro a partire dalle complesse relazioni che
intercorrono fra testo e performance dal Settecento ai giorni
nostri1. I quattro esempi scelti – Il libretto metastasiano, I
trasformismi di Vittorio Gassman, Teatro e carcere, Corpo e
immagine – declinano modi diversi d’intendere tali relazioni
nel passaggio dall’età moderna a quella contemporanea e
sono corredati al loro interno dei riferimenti bibliografici
necessari a fornire una contestualizzazione storico-critica
dei singoli fenomeni. Fra i Materiali critici sono raccolte
invece due recensioni relative soltanto alla scena contempo-
ranea, ma esercitate su fenomenologie registiche, attoriali
e drammaturgiche differenti fra loro e pertanto, ciascuna a
suo modo, esemplificative.
Dal punto di vista metodologico, riferirsi a esempi tratti
da settori anche cronologicamente distanti della storia
del teatro e dello spettacolo comporta necessariamente

1
Per indicazioni che riguardano la storia della critica teatrale,
la semiologia dello spettacolo e l’analisi della drammaturgia e della
performance, si rimanda alla bibliografia specifica riportata nelle
note dei singoli saggi.

6
dei cambiamenti procedurali nella lettura dei testi dram-
maturgici e performativi. Differenti sono infatti le tipologie
testuali scritte o messe in scena, le relative fonti, come le
modalità rappresentative e i contesti storico-culturali, diver-
sa la tradizione, appunto, in cui ciascun fenomeno teatrale
si colloca, o da cui intende uscire. E dal punto di vista
didattico si potrebbe addirittura distinguere un’epoca pre-
mediale e una post-mediale, dal momento in cui l’ausilio di
registrazioni audiovisive è intervenuto a integrare la lezione
su un’opera di teatro, entrando a far parte dei materiali
documentari per l’analisi stessa. Testimonianza “impura” il
video, ad alcuni studiosi apparsa più vicina (per la sua fissità
e mancanza di rapporto in atto fra spettacolo e spettatore)
a una “edizione letteraria” che a quella scenica. Eppure,
nelle sue varie forme d’occasionalità o di committenza
autoriale, costituisce ad oggi un supporto per la memoria
critica. Quindi leggere – e conseguentemente scrivere su –
uno spettacolo che risale a un’epoca pre-mediale, a maggior
ragione nel nostro esempio settecentesco, necessita di uno
scavo che potremmo definire “archeologico” per riportare
alla luce le fonti che consentono di ricostruirlo, ovvero di
dare nuovamente forma a ciò che non c’è più e che non si
avrà possibilità di rivedere. Può esistere un testo scritto di
riferimento consegnato alla trasmissione editoriale, ma
esso costituisce solitamente un fossile del palcoscenico,
un’impronta di ciò che sulla scena era costituito dall’illu-
minotecnica, dalla musica, dalla scenografia, dal movimento,
dall’azione. Il testo che gli autori consegnano alla stampa
solitamente è destinato alla lettura, restituendoci solo una
minima parte di ciò che è stato.
Dunque, per operare un’analisi di tali oggetti, occorre
affrontare un percorso interdisciplinare che metta a confronto
fonti iconografiche, letterarie e storiche, documenti sui
costumi scenici, trattati sulla gestica e la mimica dell’epoca,

7
partiture musicali; senza trascurare memorialistica ed epi-
stolari di artisti, ma anche di spettatori attenti. Occorre
inoltre considerare le implicazioni conative dei testi scritti
per il teatro, ovvero quanto essi vogliano essere prescrittivi
rispetto a ciò che andrà in scena (nel caso del libretto per
musica) o rispondenti a ciò che in scena è già andato nel caso
di un’opera o del corpus di opere drammaturgiche consegnate
dagli autori agli stampatori coevi. Il testo drammatico è
infatti spesso disseminato di indicazioni implicite o esplicite
che riguardano movimenti, gestualità, mimica, prossemica,
scenografia, suono, luce, o anche indicazioni spazio-tempo-
rali, che possono essere contenute nelle didascalie come
all’interno del dialogo stesso. Di tutto questo la scrittura
critica deve rendere conto per riportare alla luce un evento
che non ha più modo di ripetersi secondo le convenzioni (o
meno) sotto le quali è nato.
Quando invece si debba ricostruire uno spettacolo
concepito in epoca mediale (o multi-mediale) è talora
possibile ri-vederlo in videoregistrazioni che diventano
solitamente tanto più numerose quanto più ci si avvicina
alla contemporaneità. Ma ciò non basta, poiché non esiste
di fatto una replica uguale all’altra e il processo di creazione
artistica si compie spesso, in maniera continuativa, dalla
prima prova all’ultima chiusura di sipario (e perfino oltre),
rendendo la riproducibilità della messinscena possibile
solo in parte. Di qui il necessario soccorso della rassegna
stampa, delle dichiarazioni (talvolta però fuorvianti) del
drammaturgo, del regista o degli attori, nei casi più fortunati
delle interviste guidate; senza trascurare le foto di scena e
l’analisi degli spazi e dei contesti ambientali in cui l’evento
ha avuto luogo.
Per l’esempio novecentesco del Teatro Popolare di
Vittorio Gassman, tra gli altri riportato, mancano video-
registrazioni complete e in casi come questo (frequenti negli

8
anni Cinquanta-Sessanta) occorre affidarsi al vaglio delle
testimonianze scritte e fotografiche per la ricostruzione
del repertorio. Ma non sempre (come per il Tpi) possiamo
attingere a un Fondo apposito, allocato presso un Teatro,
né contare sulla raccolta pregressa, seppure eterogenea, di
materiali. Spesso, infatti, la scrittura critica che ricostruisce
l’evento deve operare uno spoglio sistematico di riviste
specializzate in cerca di recensioni, o peregrinare nei fondi
delle biblioteche dei teatri per reperire copioni annotati
dal regista o dall’attore con indicazioni significative sulla
messinscena.
Con maggiore (ma apparente) facilità ci accostiamo
alla scena contemporanea, poiché possediamo la facoltà di
assistere dal vivo alle rappresentazioni e di rivederle a freddo
più volte registrate su supporto digitale. Accedere alla
rassegna stampa con l’ausilio della rete è agevole e veloce,
come pure ricevere informazioni sul processo di creazione
artistica e persino intervistare l’autore, sia egli drammaturgo,
attore, regista o tutte le tre funzioni insieme. Non è raro
neppure usufruire della possibilità di assistere a workshops e a
cicli di prove in cui conosciamo da vicino il metodo di lavoro
di chi opera e anche i “trucchi” di chi agisce dietro le quinte.
Una visione a tutto tondo dunque dell’oggetto d’analisi, che
tuttavia può generare due principali tipi di inconvenienti
per chi analizza e (di conseguenza) scrive: il transfert o
l’innamoramento – un coinvolgimento emotivo che limita
le capacità analitiche e interpretative – e la crisi da variante
o trasformazione, quando la registrazione delle continue
modifiche sulla messinscena crea un disorientamento che
impedisce di fissare l’idea-guida o l’immagine di partenza
che conduce alla messinscena stessa. Di questi due pericoli
occorre dunque prendere coscienza.
Per quanto riguarda poi la scrittura a caldo, la cosiddetta
“recensione”, si tratta di una stesura fatta a ridosso dello

9
spettacolo, rapida, sintetica, divulgativa e accattivante. In
questo caso, lo spazio per la scrittura è ristretto e occorre
fissare con chiarezza i caratteri fondamentali dell’evento
teatrale in modo che chi legge possa farsi da subito un’idea
di ciò che è accaduto sulla scena. Una ricostruzione di questo
tipo può essere fatta, ovviamente, solo a partire da una
visione dal vivo e può avvalersi (ma non necessariamente)
dell’ausilio di qualche intervista o dichiarazione degli
autori dell’azione performativa, come della conoscenza
della loro attività artistica pregressa. Tuttavia, anche tale
tipologia di scrittura non può prescindere da un’analisi
attenta dei codici dello spettacolo, dalla considerazione
del rapporto fra testo drammatico (qualora esista) e scena.
Bisogna prescindere anche qui da una lettura empatica o
impressionistica che rischi di ridursi a un semplice giudizio
di merito o a resoconto criptico che necessita, a sua volta, di
essere decodificato.

Nella scansione strutturale di questo volume, si parte


da un esempio – di taglio metodologico – apparentemente
extravagante, in quanto prende in esame la possibilità di
ricostruire uno spettacolo per musica settecentesco in
assenza di oggetto: al centro della riflessione c’è infatti la
Didone abbandonata di Pietro Metastasio, opera canonica
della scrittura del poeta cesareo per il teatro musicale. La
condizione dei rapporti fra scrittura e azione performativa
si presenta quindi difficile e ricca di criticità, poiché siamo
di fronte non a un teatro “vivo”, espresso da corpi che
vediamo in azione, ma a un teatro di cui non è sempre
facile resuscitare nemmeno la componente musicale. Si
tratta pertanto di un caso-limite ma, proprio per il suo
statuto liminare, consente di affrontare il problema più
generale dell’editoria e della messinscena settecentesca
e suggerisce in maniera esemplare un metodo di analisi

10
della performatività di un testo drammatico.
Il secondo saggio è invece dedicato, come detto, a
Vittorio Gassman e al Teatro Popolare Italiano, andando
a toccare le implicazioni della complessa convivenza – a
volte pacifica, altre volte conflittuale – fra palcoscenico
e media nella seconda metà del Novecento. Ancora nella
stagione del teatro di regia italiano, Gassman s’inserisce
proponendo una rivisitazione dei classici – fra cui è
“assurto” Pirandello – che rappresenta un esempio
significativo di regia d’attore. Al centro di quest’esperienza
registica c’è infatti il suo corpo, già sottoposto a una serie
di trasformismi che lo condurranno dal teatro al cinema,
alla televisione e poi di nuovo al teatro, sacrificando
l’Apollineo di un bel volto al Dionisiaco di una maschera
grottesca nei ruoli comici; per poi rientrare – anche se
temporaneamente – nelle sue fattezze statuarie per i ruoli
di Adelchi, Edipo e Oreste.
L’esperienza del Tpi resta d’altra parte significativa
perché legata alla funzione sociale, culturale e civile del
teatro; funzione che ritroviamo nel clima performativo
assai mutato del terzo caso esemplare di questo libro,
dedicato all’analisi della scena imprigionata in cui agisce
la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo. Se
l’esperienza del teatro itinerante di Gassman appare foca-
lizzata sull’educazione dello spettatore, quella del teatro
in carcere di Punzo, quasi trent’anni dopo (e dopo le
rivoluzioni del “Nuovo Teatro”), pur coinvolgendo anche
il pubblico si concentra sull’educazione dell’attore. I
detenuti, in quanto esseri umani di per sé costretti a una
condizione eccentrica di prigionia, possono infatti vivere
e ri-vivere i classici sulla propria pelle, in una situazione
estrema, ovvero costruita su quel binomio rischio-limite
che può dirsi costitutivo della categoria del tragico (fino
al tragi-comico).

11
L’ultimo esempio di analisi insiste poi sulle possibili
declinazioni del corpo in scena, leggendo un assolo per
danzatrice – o performer – di Jan Fabre, artista visivo,
drammaturgo, regista contemporaneo. In questo caso,
dobbiamo esaminare un evento esclusivamente perfor-
mativo, quindi fondato sulla scrittura corporea e non
riconducibile ad alcun testo scritto né a priori né a poste-
riori. Riassumendo, dal punto di vista propriamente
drammaturgico, se nel caso di Metastasio affrontiamo
un genotesto per musica e in quello di Gassman un
repertorio drammatico rivisto da una regia d’attore (in
corso egli stesso di trasformazione), in quello di Punzo
dobbiamo riferirci ad una drammaturgia derivata da
una costruzione processuale e collettiva, mentre per
Fabre si parte dall’immagine e non dalla parola come
nucleo generatore della drammaturgia stessa. Per l’artista
fiammingo, infatti, essa affida alla figura le implicazioni
semantiche dello spettacolo, sottoponendo lo spettatore
– e di conseguenza il critico – a un ulteriore sforzo di
comprensione, immaginazione, com-passione (nel senso
latino del termine).
In chiusura, due esercizi di scrittura critica più breve
e immediata, nei quali si analizza dal vivo la messinscena
di un grande nome del teatro di regia, Luca Ronconi, che
propone un classico, Odissea – di matrice non drammatica
– e quella di un regista, Carlo Cerciello, che appartiene a
uno dei filoni più fecondi della nostra spettacolarità antica
e contemporanea, quella napoletana a cui appartiene, del
resto, anche il suo drammaturgo Mimmo Borrelli. Due
spettacoli del 2008, Odissea doppio ritorno e ’Nzularchia,
distanti nelle modalità rappresentative, ma accomunati
dal tema della riflessione sul ruolo della violenza negli
scontri generazionali, da Itaca a Napoli, dalla strage dei
Proci ai crimini di camorra. Esempi dunque di come la

12
lotta per il potere, con le sue forti implicazioni sociali,
percorra l’immaginario teatrale dalle origini della civiltà
ai giorni nostri.

13
IL LIBRETTO METASTASIANO COME
“FABULA AGENDA”
Ricostruire lo spettacolo perduto

1. Un fossile del palcoscenico


A partire dagli anni Ottanta del Novecento una
serie di studi1, facendo propri alcuni principi della
semiotica teatrale2, ha avviato una riflessione sulle
concezioni metastasiane intorno al testo drammatico,
allo spettacolo e ai loro rapporti reciproci. Il libretto per
musica settecentesco3 è stato così sottratto alle sole aree

1
Cfr. E. Sala Di Felice, Metastasio. Ideologia, drammaturgia e
spettacolo, Milano, Franco Angeli, 1983, ora si legge anche (raccolto
insieme a tutti gli studi dedicati dalla Di Felice all’argomento) in
Id, Sogni e favole in sen del vero: Metastasio ritrovato, Roma, Aracne,
2008. E sempre seguendo questo approccio che mira a ricollocare
l’autore nel contesto teatrale coevo cfr. Metastasio e il melodramma,
a cura di E. Sala Di Felice e L. Sannia Nowé, Atti del seminario di
Studi, Cagliari, 29-30 ottobre 1982, Padova, Liviana, 1985; AA.VV.,
Convegno per il II centenario della morte, Istituto di Studi romani, 25-
27 maggio 1983, Accademia Nazionale dei Lincei 1985; C. Varese,
Scena, linguaggio e ideologia dal Seicento al Settecento: dal romanzo
libertino a Metastasio, Roma, Bulzoni, 1985.
2
A. Serpieri, Ipotesi teorica di segmentazione del testo teatrale,
«Strumenti critici» (32-33), 1977, ora nel vol. collettaneo Come
comunica il teatro, Milano, Il Formichiere, 1978; F. Ruffini,
Semiotica del testo. L’esempio teatro, Roma, Bulzoni, 1978.
3
Per una ricognizione generale sull’argomento, cfr. P. Gal-
larati, Musica e Maschera. Il libretto italiano del Settecento, Torino,
EDT, 1984; Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, a cura
di G. Gronda, P. Fabbri, Milano, Mondadori, 1997; per il libretto
del primo Settecento in particolare cfr. F. Giuntini, I drammi per
musica di Antonio Salvi. Aspetti della “riforma” del libretto nel primo

15
d’interesse letterario e musicologico e ri-collocato nel
contesto storico-culturale di riferimento, rivalutandone
conseguentemente anche la dimensione performativa.
Come osservato da Anna Ubersfeld, il testo dram-
matico è sempre scritto in presenza della tradizione
precedente, sia dal punto di vista della drammaturgia
che dello spettacolo4: Metastasio si pone in dialogo
con tale tradizione, proponendo, all’inizio del XVIII
secolo, un’azione riformatrice incentrata su una scrittura
drammaturgica forte, in un momento di crisi della
scena operistica barocca. Il melodramma era nato infatti
all’inizio del Seicento con il proposito di restaurare la
tragedia antica nelle sue componenti recitate, cantate
e coreografate, per poi essere risucchiato dalle finalità
edonistiche della spettacolarità seicentesca e, persi
progressivamente i suoi intenti originari, lasciare al vir-
tuosismo di musica e cantanti il potere totale d’incantare
il pubblico5.
Ma al di là degli intenti riformatori – maturati in
seno al progetto culturale complessivo dell’Arcadia –
Metastasio è poeta di teatro il cui compito non si esaurisce
nella composizione del testo poetico, ma investe la
sua realizzazione scenica alla cui direzione è preposto.
Dall’analisi dell’epistolario, come dalla lettura delle
dettagliate didascalie di cui dissemina i suoi libretti
emerge infatti una sorta di figura proto-registica molto
attenta alla prescrittività della parola, in funzione di

Settecento, Bologna. Il Mulino, 1994.


4
Cfr. A. Ubersfeld, L’école du spectateur, in Lire le théâthre
2, Paris, Editions Sociales, 1981, pp. 255-259; ora si legge anche, in
edizione italiana a cura di M. Fazio e M. Marchetti, Roma, Carocci,
2008, pp. 235-253.
5
Per un quadro d’insieme sul Seicento musicale, cfr. L. Bianconi,
Il Seicento, Torino, EDT, 1981.

16
un’esigenza di riproducibilità (compatibile con lo svi-
luppo dell’industria dell’editoria e dello spettacolo) che
deriva dalla necessità della parola stessa d’interagire con
la struttura polisemica dell’evento teatrale.

2. Metastasio e il canone teatrale europeo


Ai fini d’inserire l’opera metastasiana nel canone tea-
trale europeo, si considerano tre fattori: in primis gli
anni dell’apprendistato napoletano6, condotto in una
delle piazze teatrali più vivaci d’Europa, che generano il
legame fra il drammaturgo ed un cast di cantanti-attori
d’eccezione – quello capitanato dal duo Bulgarelli/
Grimaldi – portandolo al seguito della compagnia in tutti
i principali teatri d’Italia. Quest’esperienza conferisce
a Metastasio una sapienza drammaturgica (maturata a
ridosso della scena) che lo proietterà verso l’incarico alla
corte viennese; in seguito, a partire dal 1730, il ruolo
di poeta cesareo gli conferirà anche un’autorevolezza
di latitudine europea, facendo dei suoi libretti nuclei
generatori di infinite possibilità spettacolari sia nei teatri
di corte che in quelli venali7.
In secondo luogo, gli studiosi fanno riferimento ormai ad
un’età metastasiana del melodramma, poiché le specifiche
doti teatrali dell’autore, coniugate all’autorità delle sue
funzioni, favoriranno la diffusione di uno stile metastasiano,
anche musicalmente individuato (nelle sue arie sono state
rinvenute vere e proprie qualità musico-genetiche), che si
appoggia proprio sull’efficacia della suggestione irradiata

6
Cfr. R. Candiani, Pietro Metastasio da poeta di teatro a ‘virtuoso
di poesia’, Roma, Aracne, 1998; Pietro Metastasio. Il testo e il contesto, a
cura di P. Maione e M. Columbro, Napoli, Altrastampa, 2000.
7
Cfr. AA.VV., Metastasio da Roma all’Europa: tricentenario
metastasiano, Incontro di studi 21 ottobre 1998, a cura di F. Onorati,
Roma, Fondazione Marco Besso, 1998.

17
dai suoi libretti su tutte le componenti dello spettacolo.
In ultima analisi, l’esigenza di favorire le ambizioni
della committenza unite alla necessità di sedurre lo
spettatore rendono il dramma metastasiano ponte
culturale fra corte e cittadino, in un periodo in cui
l’importanza conferita dalle autorità alla costruzione dei
teatri all’interno del contesto urbano8 corrisponde al ruolo
pedagogico9 a sua volta conferito all’arte drammatica. A
livello tematico, i libretti metastasiani ripropongono
costantemente le dinamiche del potere nel binomio,
anche iconografico (a livello di scenografia) città/reggia,
ma in maniera dapprima assai problematica e poi sempre
più risolta nella figura del “sovrano illuminato”. Il dramma
in musica diviene in questo modo veicolo semantico di
una proposta politica che, all’alba di un corso storico
perennemente oscillante fra rivoluzione e restaurazione10,
sembrerà essere l’unica via di governo effettivamente
percorribile almeno sino alla nascita delle democrazie del
ventesimo secolo.

3. Criticità metodologiche nel rapporto


con un genotesto
Prima di fornire un breve esempio di analisi attraverso un
caso esemplare di alcune dinamiche dei testi metastasiani,
Didone abbandonata, è bene sottolineare alcune criticità

8
G. C. Argan, L’Europa delle capitali, Ginevra, Skira, 1964, p. 16.
9
Cfr. A. Cascetta, «Una dilettevole scuola de’ buoni costumi
e una soave cattedra di lezioni morali». La transizione culturale
nella tragedia, in La cultura della rappresentazione nella Milano
del Settecento. Discontinuità e permanenze, a cura di R. Carpani, A.
Cascetta, D. Zardin, Roma, Bulzoni, 2010, II, pp. 495-542.
10
R. Tessari, Dai lumi della Ragione ai roghi della Rivoluzione
francese, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R.
Alonge e G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2000, vol. II.

18
che emergono accostandosi ad una drammaturgia mutila
e liminare come quella del libretto per musica, progettato
(almeno sino alla fine del XVIII secolo) solitamente in
assenza della sua componente musicale.
Il libretto settecentesco è infatti un “geno-texte”11 co-
struito prima dello spettacolo e distribuito (spesso a
pagamento) in sala avanti la rappresentazione con una
prassi strettamente legata allo svilupparsi dell’industria del
divertimento. Questa prassi comportava necessariamente
una divaricazione fra ciò che era stampato e ciò che veniva
effettivamente rappresentato, rendendo particolarmente
difficoltosa una ricostruzione attendibile dell’evento
spettacolare a partire dalla volontà dell’autore del testo
drammatico.
Esistono inoltre delle vistose lacune nelle ricostruzione
filologica della musica operistica del XVIII secolo dovute
soprattutto agli accidenti occorsi alla trasmissione della
partitura, che quindi si ripercuotono sul reperimento
della partitura stessa da parte degli studiosi12. La musica
(almeno sino alla fine del secolo) circolava prevalentemente
manoscritta e ciò comporta la conservazione di partiture
spesso mutile nelle principali biblioteche o collezioni
private, senza contare il fatto che esisteva anche una
circolazione autonoma delle introduzioni e degli intermezzi
strumentali, come delle arie cantate.
Per questi motivi esistono varianti significative fra il
testo drammatico riportato nei libretti stampati e quello
inserito, spesso a mano, in partitura; diventa dunque diffi-
cile stabilire cosa venisse effettivamente rappresentato e

11
Ubersfeld, Lire le théâthre 2, cit. pp. 15-16.
12
F. Degrada, Una minuscola poetica del melodramma tra
Barocco e Arcadia, in Palazzo incantato. Studi sulla tradizione del
melodramma dal Barocco al Romanticismo, Fiesole, Discanto, 1979,
vol. I, p. 27 (il saggio risale al 1966).

19
cosa no. Per quanto riguarda i pezzi chiusi, comunemente
chiamati arie, dobbiamo tener presente che nella stampa
seguono la convenzione metrica del verso letterario,
mentre nella partitura si adattano al fraseggio musicale
e, a livello di analisi degli stessi, il più delle volte occorre
prescindere da quella ri-codificazione che essi subivano
nel trattamento musicale, ovvero nella ripetizione della
prima strofa, chiamata in gergo operistico da capo13.

4. Didone abbandonata fra canone e mito


La Didone abbandonata è il primo dramma per musica
di Metastasio14 e, anche se è stato composto in una fase
non ancora piena della sua maturità artistica, ne presenta
in nuce tutti i tratti distintivi uniti ad alcune intuizioni
drammaturgiche particolarmente felici, che subiranno
poi una progressiva “normalizzazione” nel corso della sua
carriera al servizio della corte viennese.
Si tratta infatti di un dramma composto per i teatri
venali e per un cast d’eccezione di cantanti-attori, quello
del Teatro San Bartolomeo di Napoli, dove andò in scena
per il Carnevale del 1724 con le musiche di Domenico
Sarro. La scrittura di Didone è infatti un omaggio del
poeta all’amata Romanina, il soprano Marianna Benti
Bulgarelli15, che insieme al famosissimo castrato Nicola

13
Cfr. E. Benzi, Le forme dell’aria: metrica, retorica e logica in
Metastasio, Lucca, M. Pacini Fazzi, 2005.
14
Cfr. F. Vazzoler, Didone e l’impresario, e F. Cotticelli,
«Per comodità della rappresentazione»: scelte drammaturgiche ed
echi letterari nella «Didone abbandonata» (Napoli, Teatro San
Bartolomeo, 1724), in Il melodramma di Pietro Metastasio: la
poesia la musica la messa in scena e l’opera italiana del Settecento, a
cura di E. Sala Di Felice e R. Caira Lumetti, Roma, Aracne, 2001,
rispettivamente, pp. 305-324 e 405-422.
15
Cfr. Candiani, La cantante e il librettista: il sodalizio artistico

20
Grimaldi, faceva parte di una compagnia di cantanti coesa
e strutturata in una collaborazione reciproca che non ha
precedenti nel secolo.
Questi elementi fanno di Didone un testo drammatico
scritto a ridosso della scena, pensato per le note qualità
espressive d’interpreti d’eccezione, concertato con gli
altri protagonisti dello spettacolo, ripreso e modificato
ai fini degli spostamenti e degli avvicendamenti della
compagnia nelle principali piazze teatrali italiane16. A
questo si aggiungono il grandissimo successo dell’opera
e le innumerevoli intonazioni nei teatri di tutta Europa,
tanto da diventare incontro canonico di molti musicisti
sino alla prima metà dell’Ottocento17, seppure con tagli
e varianti dovute al mutamento nei gusti del pubblico
operistico.
Si tratta inoltre di un testo la cui ricostruzione filologica
è complicata da un’intricata vicenda editoriale che rende
difficile stabilire quale sia la reale volontà d’autore su
questo dramma; esistono infatti due rami principali nella
storia della sua trasmissione: uno discende direttamente
dalla prima versione napoletana e l’altro si origina dalla
versione rivista e inviata all’amico Farinelli per il teatro
di corte di Madrid, dove fu rappresentato nel 1752. Pur

del Metastasio con Marianna Benti Bulgarelli, in Il canto di Metastasio,


Atti del Convegno di Studi, Venezia (14-16 dicembre 1999), a cura
di M.G. Miggiani, Venezia, Forni, 2004, pp. 671-699.
16
Cfr. M. Valente, I viaggi di Didone da Napoli a Venezia a
Roma, in Il canto di Metastasio, cit. pp. 701-703.
17
Sulla fortuna nell’Ottocento, cfr. AA.VV., Metastasio
nell’Ottocento, a cura di F.P. Russo, Roma, Aracne, 2003; ma anche
L. Sirch, Metastasio nella musica vocale da camera dell’Ottocento.
Un primo approccio, in Il canto di Metastasio, cit. pp. 747-834; L.
Biancini, Dalla Didone alla Didona. Il travestimento in romanesco
della Didone abbandonata di Pietro Metastasio, in Metastasio da
Roma all’Europa, cit. pp. 137-161.

21
prendendo per buona la seconda versione madrilena
raccolta nell’ultima edizione di tutte le opere autorizzata
dal drammaturgo, l’Hérissant (1780-84), molti dubbi
nascono intorno all’effettivo controllo dell’autore sul
materiale andato in stampa. E molti dubbi fa nascere
anche la circolazione autonoma delle prime versioni
del dramma nei teatri europei in anni in cui il mercato
dell’editoria teatrale ne consacrava con decisione la
seconda, a testimoniare quella dicotomia fra libro e scena
più volte riscontrata dagli studiosi nella storia del teatro e
della letteratura teatrale italiana18.
A rendere particolarmente interessante questo dram-
ma c’è poi l’intuizione del finale tragico, con il suicidio
dell’eroina, poco diffuso nella tradizione melodrammatica,
che di norma, nel Sei-Settecento, predilige l’happy
end con ricomposizione finale di tutti i conflitti19. Pur
avendo già dei precedenti nell’opera in musica, la tragica
conclusione della vicenda sembra imprimere una traccia
indelebile nella tradizione teatrale di questo testo. Nato
per assecondare il gusto barocco del teatro napoletano
mediante le magie dell’illuminotecnica con fiamme vere
che avvolgevano il palazzo reale, l’incendio finale e le sue
infinite variazioni su tema (nel 1727 a Reggio Emilia fu
sostituito con una tempesta) rimane il pezzo forte del
dramma. Tanto che nel 1751 Metastasio lo modificherà,
aggiungendo una lotta tra fuoco e mare ed un trionfante

18
Cfr. F. Taviani, Uomini di scena, uomini di libro. Introduzione
alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino,
1995.
19
Sala Di Felice, Zeno: da Venezia a Vienna; dal teatro
impresariale al teatro di corte, Firenze, Olschki, 1990; AA.VV., La
cultura fra Sei e Settecento. Primi risultati di un’indagine, a cura di E.
Sala di Felice e R. Caira Lumetti, Modena, Mucchi, 1994.

22
Nettuno che emerge dalle onde per cantare una Licenza
encomiastica.
Un’ulteriore riflessione merita anche la trattazione
che Metastasio fa del mito didoneo20, creando un vero
e proprio termine post quem nella ripresa del racconto
virgiliano: dopo la Didone abbandonata infatti quasi tutte
le rielaborazioni teatrali del mito faranno riferimento,
diretto o indiretto, alla versione metastasiana. Di fatto,
il poeta recupera l’episodio da una tradizione della
storia e della figura di Didone interno al gioco delle
convenzioni teatrali dove non è traccia della grandezza
che la fondatrice di Cartagine conservava nell’Eneide, né
dei profondi conflitti fra onore e dovere cui dava forma
l’episodio della sua tragica passione nel quarto libro
del poema latino. Ma la “mediazione” di Metastasio re-
investe i valori espressi dal poema fondativo della nostra
cultura di nuovi significati: attraverso il melodramma
settecentesco rivive infatti il dissidio interiore della
regina cartaginese, spostando impercettibilmente ma
inesorabilmente – seppure nel rigore del razionalismo
arcadico – la riflessione dal tema del dovere a quello delle
passioni. Così la prospettiva classica androcentrica che
valorizzava la gloria del potere lascia spazio (almeno in
questa prima fase della produzione metastasiana) ad uno
sguardo, tutto femminile, che ne constata inesorabilmente
futilità e caduta.

5. Lo spettacolo metastasiano:
un avvicinamento per approssimazione
Senza alcuna pretesa di esaustività su un tema di ricerca
ancora in fieri, forniamo in questa sede alcune riflessioni

20
Cfr. P. Bono, M.V. Tessitore, Il mito di Didone: avventure di
una regina fra secoli e culture, Milano, Mondadori, 1998.

23
sulle effettive possibilità di ricostruzione dello spettacolo
settecentesco dell’opera in musica a partire dal testo dram-
maturgico metastasiano come esemplare canonico del genere.
Occorre innanzitutto tener presenti le convenzioni
scenografiche21, attoriali, musicali (strumentali e vocali)

21
Si segnala il contributo apportato dai seminari e dalle mostre
promosse dalla Fondazione Giorgio Cini all’isola di San Giorgio:
C. Guerrieri, E. Polovedo, Il secolo dell’invenzione teatrale.
Mostra di scenografia e costumi del Seicento Italiano, catalogo con
prefazione di C. Guerrieri, Centro di Ricerche Teatrali – Centro
internazionale di Studi delle arti e del costume, Venezia, 1951; M.
Viale Ferrero, Scene e scenografi del Settecento, in AA.VV., Tempi
e aspetti della scenografia, Torino, Eri, 1954; Id., La scenografia del
Settecento e i fratelli Galliari, Torino, Pozzo, 1963; catalogo della
mostra Scenografie del Museo teatrale alla Scala dal XVI al XIX
secolo, con introduzione di C.E. Rava, Vicenza, Neri Pozza, 1965; F.
Mancini, Scenografia italiana dal Rinascimento all’età Romantica,
Milano, Fabbri, 1966; Disegni teatrali del Bibiena, catalogo della
mostra veneziana a cura di M.T. Muraro, Vicenza, Neri Pozza, 1970;
L. Zorzi, Elementi per la visualizzazione della scena veneta prima
del Palladio, Firenze, L.S. Olschki, 1971; F. Marotti, Lo spazio
scenico. Teorie e tecniche scenografiche in Italia dall’età Barocca al
Settecento, Roma, Bulzoni, 1974; Illusione e pratica teatrale: proposte
per una lettura dello spazio scenico dagli Intermedi fiorentini all’Opera
comica veneziana, catalogo della mostra a cura di Mancini, Muraro,
Povoledo, con una presentazione di G. Folena, Vicenza, Neri Pozza,
1975; Il luogo teatrale e Firenze, catalogo a cura di M. Fabbri, E.
Garbero Zorzi, A.M. Petrioli Tofani, introduzione di L. Zorzi,
Milano, Electa, 1975; Mancini, Alcune note sul rapporto scena-sala
nel teatro all’italiana, in Venezia e il melodramma nel Settecento, a
cura di Muraro, Firenze, Olschki, 1978, pp. 9-22; sempre a cura di
Mancini si segnala la sezione dedicata alla scenografia della mostra
Civiltà del Settecento a Napoli 1734-1799, Napoli 1979-81, catalogo,
Firenze, Centro Di, 1980, vol. II; più recentemente, su Metastasio
cfr. L’immaginario scenografico e la realizzazione musicale, Atti del
Convegno in onore di Mercedes Viale Ferrero, (Torino, Teatro
Regio, 5-6 febbraio 2009; Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 5-6

24
che si possono desumere sia da fonti narrative, come la
memorialistica e gli epistolari, sia iconografiche, come
bozzetti e tavole preparatorie degli scenografi più famosi
del tempo, sia da e fonti pittoriche22 coeve o precedenti a
cui gli scenografi possono essersi ispirati per trattare il tema
dell’opera particolarmente adatte per ricostruire gesti, pose e
costumi degli attori/cantanti in scena.
Alla luce di tali convenzioni vanno poi interpretate
le implicazioni performative del libretto stesso, ovvero le
didascalie implicite o esplicite contenute nel testo relative
agli aspetti sia visuali che sonori. A questo fine, risultano
sicuramente meno significative le indicazioni contenute
nelle arie, non sempre legate alla meccanica drammaturgica,
perché spostate e modificate a seconda delle esigenze dello
spettacolo. Molti legami ci sono invece fra la metrica dei pezzi
chiusi ed il loro carattere, che a sua volta implica uno speciale
trattamento a livello musicale; a titolo d’esempio, un’aria in
decasillabi solitamente sottolinea un carattere di sdegno del
personaggio che la intona, secondo un procedimento che

marzo 2009), a cura di M.I. Biggi e P. Gallarati, Alessandria, Edizioni


dell’Orso 2010; cfr. anche il catalogo della mostra Festa, rito e teatro
nella «gran città di Milano» nel Settecento, a cura di F. Barbieri,
R. Carpani, A. Mignatti, in La cultura della rappresentazione nella
Milano del Settecento, cit. vol. II, pp. 891-1089.
22
Sull’influsso modellizzante pittura-teatro e/o viceversa cfr. E.
Panofsky, La prospettiva come «forma simbolica», trad. it. a cura
di G.D. Neri con una nota di M. Dalai, Milano, Feltrinelli, 1999
(19611); P. Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al
Cubismo, trad. it., Torino, Einaudi, 1984 (19571); G.R. Kernodle,
From Art to Theatre. Form and Convention in the Ranissance, The
University of Chicago Press, Chicago-London, 19705; L. Zorzi,
Il teatro e la città: saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977;
riguardo a Metastasio cfr. AA.VV., La tradizione classica nelle arti del
XVIII secolo e la fortuna di Metastasio a Vienna, a cura di M. Valente,
Eika Kanduth, Loescher, 2003.

25
rende la tessitura metrica prescrittiva per il livello semantico
sia del testo che della musica23.
Partiamo dunque da alcune brevissime osservazioni
relative proprio alle convenzioni musicali, per poi concen-
trarci maggiormente su quelle relative alla messa in scena.
In primo luogo, esistono (soprattutto nella prima metà
del Settecento) intonazioni differenti dello stesso libretto,
che nel caso di Didone abbandonata sono numerosissime
e vedono coinvolti sia musicisti di grosso calibro come
Jommelli, Albinoni, Vinci, Hasse, Paisiello e Mercadante
(quest’ultimo ormai nell’Ottocento), che musicisti
minori, il cui nome non compare sempre nei frontespizi
dei libretti stampati prima della rappresentazione.
Poiché anche le partiture firmate da musicisti di grosso
calibro spesso si consultano mutile a causa degli accidenti
della trasmissione, l’analisi del testo drammatico della
prima metà del secolo tende a prescindere (salvo casi si-
gnificativi) dal suo trattamento musicale.
Seguendo poi le convenzioni del genere – anche
queste soggette a cambiamenti e fluttuazioni a seconda
del contesto storico geografico di riferimento – la scrit-
tura drammaturgica nel melodramma settecentesco è
strettamente vincolata al criterio di distribuzione dei pezzi
chiusi secondo una gerarchia ben precisa nel sistema degli
interpreti, che non sempre segue quella del sistema dei
personaggi. E in questo aspetto la prima stesura di Didone
si rivela esemplare: nel libretto del ’24 le sei arie della
protagonista sono superate dalle sette del co-protagonista
Enea e dalle otto dell’antagonista Iarba. Tale soluzione,
completamente sbilanciata rispetto allo svolgimento
della fabula, fu adottata da Metastasio per fronteggiare la

23
Cfr. P. Fabbri, Metro e canto nella musica italiana, Torino, EDT,
2007.

26
presenza in scena di ben due primedonne, la Romanina
e la Merighi, e di un celebre castrato, Nicola Grimaldi.
Per accontentare tutti assegnò alla Bulgarelli il ruolo della
protagonista, al Grimaldi quello del co-protagonista (con
un’aria in più) e alla Merighi quella dell’antagonista, ma
con il maggior numero di arie rispetto a tutti gli altri. Tale
situazione fu poi progressivamente “normalizzata” nelle
redazioni successive del libretto, dove Didone ed Enea
contano entrambi sei arie a testa e Iarba si stabilizza sui
cinque pezzi chiusi.
Questo esempio ci segnala l’importanza di un’ulteriore
caratteristica del dramma in musica: non esiste, a quest’al-
tezza di secolo, una corrispondenza verisimile fra sistema
dei ruoli e sistema dei generi. Nella “prima” del ’24 Antonia
Merighi canta infatti da contralto en travesti nel ruolo
di Iarba, mentre Grimaldi interpreta Enea con registro
di mezzo-soprano; quindi due ruoli maschili vengono
di fatto intonati con registri femminili. E nelle riprese
successive, i musicisti riscriveranno le parti in tessiture
diverse a seconda dei cantanti disponibili ad interpretarle.
Naturalmente, ci siamo limitati a evidenziare solo al-
cune convenzioni del genere musicale che hanno una rica-
duta diretta sulla drammaturgia e sulle sue implicazioni
performative; come si può capire, la gerarchia dei cantanti,
intersecandosi con quella dei personaggi, si ripercuoteva
necessariamente anche sulla loro disposizione reciproca in
scena. Chiamato a dirimere una controversia fra virtuose
interpreti del Demofoonte, a Dresda nel 1748, Metastasio
dedica alla questione ben quattro lettere, nella prima delle
quali si sforza di stilare un prontuario all’uso del codice
prossemico in scena:
Se volete sapere a chi tocca la dritta o la sinistra,
vi rispondo che tocca non secondo la dignità
della parte ma secondo il comodo e il bisogno

27
delle azioni: e se in grazia di tali incomodi e
bisogni il personaggio più degno si trova a sini-
stra dell’inferiore, si può distinguere in varie
maniere, come per ragion d’esempio facendolo
precedere all’altro d’un picciolo passo, o situando
il superiore nel mezzo della scena rivolto all’u-
dienza e l’inferiore molto lontano da lui e più
innanzi ma di fianco all’udienza e rivolto verso
il superiore24.
Sempre relativamente alla disposizione dei cantanti,
occorre considerare il limitato gioco scenico dei virtuosi-
attori impediti di fatto nella gestualità da costumi sfarzosi
e dalle esigenze acustiche che li trattenevano per la mag-
gior parte del tempo, in proscenio e in disposizione
prevalentemente orizzontale; ciò consentiva anche di
mantenere una verosimile proporzione fra personaggi e
scenografia. Ricordiamo poi che il teatro settecentesco
(fig. 1) permetteva una visibilità limitata alla maggior
parte del pubblico in platea, mentre la committenza e
le autorità si ponevano solitamente in posizione elevata
rispetto all’orchestra, che all’epoca non era infossata nel
“golfo mistico”, ma disposta a livello del parterre.
Per quanto riguarda invece l’illuminotecnica, numerosi
erano i virtuosismi in questo campo, anche se le possibilità
erano ovviamente limitate rispetto a quelle dell’elettricità,
motivo per cui (considerando che la sala era illuminata
a giorno) risultava difficile rendere le scene notturne, se
non attraverso l’espediente di oggetti allusivi in mano alle
comparse, come ad esempio torce e fiaccole. Si usavano sulla
scena fiamme vive, alimentate da cera, olio e alcool ed erano
esplicitamente previste anche nelle didascalie metastasiane

24
P. Metastasio, Tutte le opere, a cura di B. Brunelli, Milano,
Mondadori, 1951, III, pp. 342-343.

28
nel terzo atto della Didone. L’ultima mutazione di scena
indica infatti Regia con veduta della Città di Cartagine
in prospetto, che poi s’incendia; e dall’avanzare del fuoco è
scandita l’intera sequenza di scene, sino alla conclusione
del dramma: dapprima si cominciano a veder fiamme in
lontananza su gli edifizi di Cartagine, poi si comincia a vedere
fuoco nella regia, infine si vedono cadere alcune fabriche, e
dilatarsi fiamme nella regia25.
Un disegno di Fabrizio Galliari relativo proprio
all’ultima mutazione di scena del dramma è oggetto di
una ricerca recente dedicata alla scenografia milanese in
età teresiana26, inserendosi proficuamente in quel filone di
studi che, inaugurato da Mercedes Viale Ferrero, indaga
le relazioni fra scenografia e librettistica per musica nel
corso del diciottesimo secolo. Si tratta di una scena con
rovine per la Didone abbandonata rappresentata al Regio
Ducal Teatro di Milano nel carnevale del 1770 (prima
rappresentazione 26 dicembre 1769) con musiche di
Ignazio Celoniari. I fratelli Galliari avevano del resto
lavorato già alla Didone nel 1755 per un allestimento
nello stesso teatro passato agli onori della cronaca per le
«splendide decorazioni». Il disegno a penna e acquarello
potrebbe in effetti fornire indicazioni sulla messinscena
milanese del dramma particolarmente interessanti,
perché – diversamente da altri disegni dei Bibiena27 e dei

25
Si cita dall’ultima edizione critica: P. Metastasio, Drammi per
musica, a cura di A. L. Bellina, Venezia, Marsilio, 2002, vol. I, p. 128,
131.
26
Su questo argomento è in corso di stampa uno studio dettagliato
di Francesca Barbieri, già in parte oggetto della sua tesi di dottorato
discussa presso l’Università Cattolica di Milano nell’aprile 2012.
27
Il libretto, musicato da David Perez, ebbe le scene di Giovanni
Carlo Galli Bibiena nell’allestimento portoghese del 1753, presso il
teatro Regio di Salvaterra de Magos, residenza dei reali portoghesi.

29
Galliari28 prevalentemente dedicati alla prospettiva della
Reggia nella prima mutazione di scena – rappresenta,
con la tecnica della prospettiva ad angolo ed in maniera
inedita, le rovine della Reggia stessa consumata dalle
fiamme, ovvero l’ultima mutazione29 in cui si compie

Abbiamo infatti un bozzetto per la prima mutazione di scena del


primo atto: Luogo magnifico destinato alle pubbliche udienze con
trono da un lato. Veduta di prospetto della città di Cartagine che sta
edificandosi; e ancora un disegno a penna con prospettiva ‘ad angolo’
dello stesso autore per il Salone regio, sempre con veduta della città
di Cartagine in prospetto. Un altro disegno, forse a più mani, ma
attribuito a Giovanni Bibiena, illustra sempre il Luogo magnifico per
l’allestimento, musicato da Hasse, per il teatrino Huberstuburg di
Dresda nel 1742. A questa rappresentazione presiedeva Francesco
Algarotti che chiese a Metastasio una modifica del finale, per la
difficoltà a reperire macchine adatte.
28
In particolare, si ricorda il bozzetto ad acquerello e seppia di Fabrizio
Galliari per l’allestimento al Teatro Regio di Torino nel 1773, con
musiche di Giuseppe Colla. La tavola, ora conservata al Museo Teatrale
alla Scala, presenta una didascalia autografa di Fabrizio Galliari che indica
sempre la mutazione di scena del Luogo magnifico destinato alle pubbliche
udienze, rappresentato qui con una “scena-quadro” tipica delle grandi
composizioni architettoniche dello scenografo. C’è poi un altro bozzetto
in penna acquarellata e seppia della Scena dell’atrio all’interno del Palazzo
Reale, riferita al medesimo allestimento che presenta l’accentuato gusto
pittorico che si realizza sul fondale. Esiste anche una tavola del Cortile
nella Reggia, sempre di Fabrizio, che rappresenta un colonnato “per
angolo” con un grandioso effetto di plein air sul fondale. Per un elenco
con descrizione completa delle tavole, cfr. G. Verardo Tieri, «Sogni e
favole io fingo»: analogie e differenze tra la scenografia d’opera secentesca e
quella metastasiana», in Il canto di Metastasio, cit. pp. 623-667.
29
La Verardo Tieri, nel saggio citato, analizza in particolare
un disegno a penna, acquarello e seppia, approntato sempre per
l’allestimento torinese, ma relativo all’ultima mutazione di scena;
scrive Galliari in calce alla tavola: «Interno della reggia con veduta
in parte della città che poi s’incendia. Mare in lontano che viene
pericoloso e termina con veduta della reggia». Qui la “veduta

30
il destino della regina: «Trema la Regia, e di cader
minaccia» esclama infatti Didone, per poi concludere
«Precipiti Cartago, arda la regia, e sia / il cenere di lei la
tomba mia»30. Come si legge, la forte natura impressiva
della didascalia e del monologo, nell’ultima scena, orienta
con decisione l’azione e, coniugandosi con l’attenzione
alla verosimiglianza dei fratelli Galliari, suggerisce in
questo caso una possibile soluzione scenografica anche in
una rappresentazione ormai lontana dal controllo diretto
del drammaturgo.

6. Un esempio di performatività della scrittura:


l’uso della didascalia esplicita
Per quanto riguarda la performatività del libretto,
intendiamo concentrarci sulla didascalia esplicita, trala-
sciando le numerosissime didascalie implicite (vere
integrazioni verbali della scenografia e della messa in
scena del dramma nel suo complesso) di cui è disseminato
l’intero testo drammatico. Caso esemplare è la lunghissima
didascalia aggiunta dall’autore per l’allestimento madri-
leno di Didone, oggetto d’interesse di tutti gli studi che
si sono concentrati sull’aspetto conativo della parola di
Metastasio.

per angolo” viene sostituita dalla “scena-quadro” e lo scenografo


cerca d’interpretare la didascalia metastasiana (di cui parleremo in
seguito) aggiunta per l’allestimento madrileno del 1752. In questo
caso, però, diversamente da Milano, non vengono rappresentate le
rovine, mantenendo per la scena dell’incendio il medesimo apparato
e ricorrendo ai tecnici di fuochi artificiali, come di consueto. Per
quanto riguarda la didascalia di III, 9, Si cominciano a veder fiamme in
lontananza sugli edifizi di Cartagine, è probabile che il Galliari abbia
usato il medesimo fondale, aggiungendo poi gli effetti delle fiamme.
30
Metastasio, Drammi per musica, cit. p. 136, vv. 1361, 1375.

31
La didascalia31, prescrivendo dettagliatamente l’azio-
ne di Didone che dicendo l’ultime parole [...] corre a
precipitarsi disperata e furiosa nelle ardenti ruine della
reggia prevede poi l’insorgere di una tempesta marina
assecondata dal tumulto di strepitosa sinfonia, che si avvici-
na progressivamente all’incendio, mentre va crescendo
la violenza delle acque. Il frangersi e biancheggiare delle
onde nell’incontro delle opposte ruine, lo spesso fragor de’
tuoni, l’ininterrotto lume de’ lampi e quel continuo muggito
marino che suole accompagnar le tempeste, rappresentano
l’ostinato contrasto dei due elementi. Trionfando final-
mente l’acqua sul fuoco, si cangia l’orrida in lieta sinfonia;
e dal seno dell’onde già placate e tranquille sorge la ricca
e luminosa reggia di Nettuno, il cui tempio compariva
già nella terza mutazione di scena del primo Atto, in
quanto divinità protettrice di Cartagine. A questo
punto, la scenografia doveva prevedere (negli intenti di
Metastasio) una macchina perché Nettuno assiso nella sua
lucida conca, tirata da mostri marini e circondata da festive
schiere di nereidi, di sirene e di tritoni canta la licenza
encomiastica appoggiato al gran tridente32, come vuole
l’iconografia tradizionale del Nume.
Queste indicazioni vengono aggiunte da Metastasio
nel 1751 assieme alla versione rivista di quattro drammi
inviati all’amico Farinelli poeta di teatro e responsabile
degli spettacoli presso la corte di Madrid. Didone abban-
donata con i suoi accenti passionali ed i suoi spunti di
grande impatto visivo, con scene di massa, abbattimenti,
esotismi e incendio conclusivo era destinata ad incontrare
in pieno i gusti di un pubblico amante degli intrecci
amorosi e della magnificenza spettacolare come quello

31
Ivi, p. 136.
32
Ibidem.

32
spagnolo. Conoscendo le ampie possibilità scenografiche
della corte madrilena, il poeta romano aggiunge così
la didascalia finale, ispirandosi probabilmente per la
tempesta alla messa in scena a Reggio Emilia, negli anni
italiani, ma non trascurando lo spunto letterario delle
peripezie di Enea per mare, dovute alla maledizione della
regina abbandonata.
Al di là dei suggerimenti scenografici (da notare
l’insistenza sulle ruine previste infatti nella scenografia del
Galliari per Milano, ma non più presenti nell’allestimento,
successivo, di Torino), esiste anche una prescrittività
relativa agli aspetti uditivi: si parla di strepitosa sinfonia
che si cambia in lieta, al pacificarsi degli elementi in lotta.
Notazioni di questo tipo, piuttosto rare nei libretti di
prima metà del secolo, sono invece frequenti anche nella
librettistica minore dell’ultimo trentennio del Settecento
e possono essere ricondotte al crescere dell’importanza
della musica strumentale (non più solo sostenitrice
o imitatrice della voce) e al conseguente aumentare
dell’organico orchestrale nei teatri. Anche in questo
dunque Metastasio si mostra un precursore, prescrivendo
lui stesso il carattere della musica per evitare forse che essa
prevarichi gli orientamenti del dettato verbale.
Senza addentrarci nel merito dei noti atteggiamenti
polemici del poeta riguardo al cambiamento dell’estetica
musicale nel corso del secolo, possiamo limitarci ad
osservare come egli assimili di fatto (al di là delle posizioni
teoriche contrarie allo “strepito” e al “fragore” della musica
contemporanea), inglobandole, le nuove caratteristiche
dell’opera in musica in una fase di grandi cambiamenti.
Così, se la Didone era nata sotto il segno di un’intonazione
musicale attenta a sottolineare il significato della parola,
prevedendo un accompagnamento scarno ed essenziale,
alla metà del secolo proprio il suo libretto registrava

33
la nuova tendenza ad amplificare l’accompagnamento
strumentale, ma inglobandola nelle dinamiche dell’azione
ed inserendola nelle logica drammaturgica. Solo così la
vicenda didonea, costantemente rivista e adattata alla
logica dei tempi, come al gusto del pubblico, attraverserà
il secolo, proiettando la sua ombra lunga anche nel
successivo, come dimostrano le sue riprese ottocentesche.
I “TRASFORMISMI” DI GASSMAN
FINO AL TEATRO POPOLARE ITALIANO
Analizzare un’esperienza teatrale
fra scena e schermo

1. 1956-1958 dal teatro al cinema:


salvarsi l’anima, gettare la maschera
Vittorio Gassman, ripercorrendo con Lucignani le
tappe più salienti della propria carriera, definisce come la
«zona più importante» quella «che va dalla fine degli
anni cinquanta ai primi del sessanta: gli anni in cui visse
il Teatro popolare Italiano»1. Si tratta, nel complesso, di
un periodo «in cui ci sono state molte altre cose», un
periodo di riflessione e di ripensamento, ma lontano dal
teatro inteso in senso classico, il teatro dell’Accademia,
dei ruoli tragici e dei luoghi istituzionali che fino ad allora
l’avevano visto protagonista.
Il 1958, in particolare, rappresenta un anno spartiacque
nel suo percorso artistico, non solo teatrale, ma anche
cinematografico: il ruolo di Peppe, pugile balbuziente
in disarmo, nel film di Mario Monicelli I soliti ignoti gli
permette infatti di proporsi sul grande schermo con un
ruolo inedito2. L’attore stesso definisce quel ruolo «la
svolta fondamentale della sua vita cinematografica –

1
V. Gassman, Intervista sul teatro, a cura di L. Lucignani,
Palermo, Sellerio, 2002, p. 86.
2
Per la filmografia di Vittorio Gassman, cfr. V. Gassman, Un
attore e la società, a cura di G. Gambetti, Urbino, Quattroventi, 1994,
pp. 57-63 (fino al 1993, ma con specificazione del ruolo interpretato);
G. Gambetti, Il teatro e il cinema di Vittorio Gassman, Roma,
Gremese, 2006, pp. 121-123.

35
personaggio divertente, anche se – con la maschera»3.
Il passaggio non è semplice: Monicelli impone
Gassman alla produzione, operando una trasformazione
somatica del suo volto e, con l’aggiunta di una forte
cadenza romanesca inceppata, una demolizione quasi
totale della fisicità statuaria e della dizione accademica
che avevano caratterizzato l’attore sino a quel momento;
di qui, la definizione di Peppe come personaggio «con la
maschera», là dove gli elementi caricaturali sono d’ausilio
all’effetto comico complessivo.
D’altra parte la seconda metà degli anni Cinquanta vede
Gassman accostarsi per gradi alla commedia all’italiana;
l’attore capisce che per consacrarsi sugli schermi occorre
sdoppiare quasi schizofrenicamente la propria tecnica di
recitazione e la propria vocazione attoriale. Il processo non
è facile e sono anni di sofferta e intensa trasformazione, un
vero e proprio “sdoppiamento”: se il teatro infatti rientra in
una sfericità totale in cui anche gli errori sono funzionali
allo spettacolo generale, il cinema è un’arte di dettagli, dove
il controllo della mimica, a causa del filtro della macchina
da presa, diviene essenziale. L’attore intuisce pertanto la
necessità di un cambiamento di registro, al cinema e non
solo, che lo porti da attore tragico e drammatico – qual era
stato sino ad allora in teatro – e da “ingessata e impacciata”
figura di cinico e cattivo – come appariva il suo personaggio
sugli schermi – ad attore cinematograficamente plasmabile,
anche «sull’impervio terreno del comico»4.
Così, a partire dal 1955, Gassman si rimette comple-
tamente in discussione, portando in scena come regista e

3
Gassman, Intervista sul teatro, cit. pp. 94-95.
4
P. M. De Santi, Gassman dal teatro al cinema, in AA.VV.,
Comicità negli anni Settanta. Percorsi eccentrici di una metamorfosi
fra teatro e media, a cura di E. Marinai, S. Poeta, I. Vazzaz, Pisa, Ets,
2004, p. 179.

36
come interprete – e poi, l’anno dopo, trasponendolo nel
cinema – Kean, genio e sregolatezza. Il film del 1956 tratto
dal dramma di Dumas (padre), nella rielaborazione di
Jean Paul Sartre, è il primo lungometraggio di Francesco
Rosi affiancato nella codirezione da Vittorio Gassman.
Girato in soli tre mesi al Teatro Valle di Roma costituisce
un esempio di “film teatrale”5 per quanto riguarda il
metodo di ripresa, segnando soprattutto un punto di
svolta nella carriera cinematografica del mattatore. Kean
è infatti un testo a incastro (lo stesso Dumas rielaborò
la primitiva idea di Emanuel Théaulon), dai profondi
risvolti metateatrali, che si presta a chiarire, attraverso
il filtro dell’autoironia e del grottesco, alcuni significati
sullo statuto dell’attore e del teatro in genere.
Il Kean, in teatro e poi in cinema, inaugura una serie
di spettacoli teatrali pieni di divertimento e di grottesco
(appunto) come I tromboni (Scandalo all’italiana)
di Federico Zardi6. I nove personaggi interpretati da
Gassman in questa vivace commedia in quattro atti e dieci
quadri, andata in scena nel 1956 al Teatro Mercadante di
Napoli con la regia di Luciano Salce, forniscono all’attore
«un’esperienza di “trasformismo” – che lo accompagna–
dritto dritto all’interpretazione del personaggio di Peppe
de I soliti ignoti»7.
Appare dunque evidente come Gassman, a partire dalla
metà degli anni Cinquanta, sia alla ricerca di un’elasticità
nella mimica e nell’interpretazione che gli permetta
di toccare più corde espressive contemporaneamente.
Questo sforzo lo condurrà gradualmente alla recitazione

5
Cfr. T. Kezich, I film del mese, «Sipario», (132) 1957, p. 36.
6
La commedia fu pubblicata su «Sipario» (130) nel 1957, con
una lunga premessa di Zardi stesso intitolata Dichiariamo guerra alle
macchiette, pp. 33-35.
7
De Santi, Gassman dal teatro al cinema, cit. p. 181.

37
cinematografica «senza maschera» (pensiamo a Bruno
ne Il sorpasso, Risi, 1962), quella che, se praticata con
assiduità, «può diventare una terapia adatta, un modo di
salvarsi l’anima»8.

2. 1959: va in scena la televisione


Nel 1959 l’attore si cimenta anche con il piccolo
schermo ne Il Mattatore, programma a puntate della RAI,
che lo rende uno dei personaggi di costume più popolari
d’Italia. La trasmissione gli consente di sfoggiare le più
diverse doti artistiche e recitative in un ambito nuovo,
quello televisivo, e per un pubblico per la maggior parte
differente e certo più vasto di quello che aveva assistito
alle sue interpretazioni sceniche.
“Programma dell’anno” 19599, Il Mattatore debutta
in RAI mercoledì 4 febbraio, snodandosi in dieci puntate
della durata di un’ora ciascuna. Scelto il tema della serata,
Gassman propone continue variazioni, in un virtuoso
accostamento e cucitura di gag, esibizioni e pezzi di bravura.
A fare da cerniera al tutto, un vero e proprio matador che
affronta gli antichi media (teatro, letteratura, poesia, lirica,
cinema) con numeri di alta scuola in un costante rapporto
di dialogo-scontro parodistico ed ironico.

8
Kezich, I film del mese, cit. p. 36.
9
Prodotto da Sergio Bernardini con Vittorio Gassman, Marina
Bonfigli, Paolo Ferrari, Carlo Romano, Enrico Viarisio. A cura di
Vittorio Gassman e Guido Rocca. Testi di Federico Zardi (nella
sesta puntata in collaborazione con Indro Montanelli; nella settima
con Guido Rocca). Scenografia di Mario Chiari, Giulio Coltellacci,
Pier Luigi Pizzi, Piero Pizzi, Piero Zuffi, Lucio Lucentini, Gianni
Polidori, Veniero Colasanti, Cesarini de Senigallia. Costumi di
Danilo Donati. Musiche di Fiorenzo Carpi, Piero Umiliani. Regia di
Daniele D’Anza. Cfr. A. Grasso, Storia della televisione italiana. I
50 della televisione, Milano, Garzanti, 2004 (19921), pp. 83-86.

38
Siamo di fronte a quella che Aldo Grasso definisce
«multimedialità pre-elettronica»10: il piccolo schermo
diventa specchio di altri ambiti e in questo specchio
Gassman riflette sé stesso. Con l’ironia infatti tutto
è concesso, narcisismo ed esibizione compresi e così
si sottopongono al gioco autoparodistico anche altri
compagni di viaggio del mattatore, come Gina Lollo-
brigida, Walter Chiari ed Enzo Tortora; tuttavia è la
personalità di Gassman a conferire omogeneità e multi-
formità ad ogni puntata.
Visto oggi nelle registrazioni RAI Il Mattatore «sembra
una trasmissione neotelevisiva degli anni Ottanta, per il
ruolo mediatore e carismatico insieme proprio del suo
conduttore, e per il patchwork di segmenti narrativi che
mette in campo»11. E questa struttura a patchwork richiama
il genere del film a episodi: in particolare, ricordiamo I mostri
di Dino Risi (1963) con i suoi venti frammenti mutuati in
gran parte proprio dai pezzi di bravura del programma12.

10
Ivi, p. 84.
11
Ivi, p. 83.
12
Il film è articolato su una sequenza complessiva di 20 episodi
disgiunti fra loro. Ogni episodio è di durata e di struttura assai diversa
dagli altri, ma tutti riferibili ad un contesto geografico e temporale
uniforme: la Roma degli anni Sessanta. Tutti gli episodi ruotano
intorno a delle figure centrali, in genere caricaturali, interpretate dai
due attori principali (Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman) che compa-
iono sia alternativamente che insieme. Alcuni episodi sono più brevi
ed hanno la durata e la struttura di uno sketch, altri invece presentano
le costruzioni più elaborate di un racconto. Si tratta di un mosaico
cinico ed ironico dell’Italia che alla metà degli anni Sessanta esce dal
miracolo economico e si trova ad affrontare l’industrializzazione e
il cambiamento di valori di riferimento e codici di comportamento.
Il film tratta dei vizi e delle contraddizioni di un paese in via di
veloce trasformazione, colti in ambiti diversissimi: dalla famiglia
alla cultura, dalla giustizia all’educazione stradale, dallo sport alla

39
Gassman intende però servirsi della televisione – dalla
quale eredita una grande libertà d’azione – come mezzo
veicolare di una campagna pubblicitaria per avvicinare una
platea che gli consenta di sperimentare la vasta gamma delle
proprie attitudini, non solo istrioniche, ma anche sportive
e clownesche. Dopo questa esperienza di grande risonanza,
l’attore «consacrato come divo trasversale e – diremmo
oggi – multimediale»13 compare in molte trasmissioni
con quelle (definite in gergo) ospitate che inflazioneranno
la neotelevisione anni Ottanta, ma che almeno vent’anni
prima costituiscono un’assoluta novità.
Eppure il chiodo fisso delle riflessioni di Gassman di
questi anni è ancora una volta l’avvenire del teatro, a cui
pensa (preoccupato, ma propositivo) proiettandosi in
avanti, senza dimenticare le origini:
Il teatro, quello vero, è stato sempre un fattore impor-
tante di vita sociale. Gli uomini di una città, di un
villaggio o di una comunità si riunivano per sentire
o vedere altri uomini che sulla scena li facevano
piangere, ridere, inorridire, indignare, discutere,
pensare. Oggi, si dice da più parti, il teatro è in crisi,
travolto dal trionfo del cinema e della televisione, o
forse soltanto dal conformismo e dall’indifferenza
che pervadono l’uomo-massa. È vero questo? E se è
vero, si tratta di un processo irreversibile, o soltanto
di un difficile momento di stanchezza? Il teatro può
essere salvato, e da chi e come?14

sessualità alla religione e all’amicizia. L’italiano di Dino Risi è un


mostro civile e sociale, rappresentato nel suo essere disabile, nella sua
difficoltà, quasi connaturata, di essere cittadino onesto, educatore
severo, amico sincero, marito affidabile, giudice leale.
13
Grasso, Storia della televisione italiana, cit. p. 83.
14
Documento conservato presso una sezione dell’Archivio del
Teatro Stabile di Torino esclusivamente dedicata al Teatro Popolare

40
La risposta è nel teatro stesso:
Il teatro è stato questo terreno d’incontro, è
sorto per offrire agli uomini, prima che esistes-
sero i tribunali e i parlamenti, un luogo nel
quale esaminare vizi e virtù della collettività,
meriti e colpe, ideali e realtà. Certo, un luogo
siffatto, chiede a tutti coloro che vi partecipano
coraggio e sincerità: coraggio per riconoscere
la verità, sincerità per proclamarla; e ancora,
abilità e astuzia: abilità nel descriverla, astuzia
nell’applicarla. Per questo in un mondo che
necessariamente si avvia al conformismo, il tea-
tro ha una funzione che è ancora, malgrado
tutto, insostituibile: quella di essere “contro”
l’inevitabile conformismo, come la vita è una
lotta contro l’inevitabile morte.
Dunque, come risposta al conformismo e all’indif-
ferenza che sembra ormai pervadere l’uomo/massa
generato dal boom economico, Gassman propone, insieme
a Lucignani, una vera e propria campagna di propaganda
secondo metodi utilizzati dall’industria per il lancio dei
prodotti. In sostanza, si tratta di battere la concorrenza
mediatica sul suo stesso terreno, promuovendo un teatro
“popolare” negli intenti, ma “aristocratico” nei mezzi; ma
non solo, l’idea nasce anche dalla necessità di recuperare
il rapporto col pubblico alla ricerca di quella ritualità
collettiva, che, nutrendosi dell’hic et nunc e del contatto
diretto rende la performance teatrale insostituibile mezzo
artistico di comunicazione.

Italiano, d’ora in poi citeremo con la sigle ATPIto, Cinque modi per
conoscere il teatro, Programma di sala, Circolo Aziendale Italsider.
Stampato da Edindustria Editoriale nel 1962. Pagine non numerate.
Dallo stesso testo la citazione successiva.

41
3. Verso un teatro totale, un teatro happening
La risposta a tutto questo è l’atto costitutivo del Teatro
Popolare Italiano, firmato il 3 aprile del 195915; due giorni
più tardi, infatti, Gassman dichiara a La Gazzetta del
popolo: «L’idea del circo [...] è nata in me seriamente. I
teatri, come sono costruiti, rispondono a un gusto e a un
costume che sono ormai superati e inducono perciò al
conformismo. Anche i teatri nuovissimi nascono vecchi,
perché sanno di oro e di velluto in un’epoca che ha altre
dimensioni. Io reciterò nel circo, perché credo che in
questo palcoscenico di astrazione geometrica potrò
risolvere liberamente i problemi espressivi che più mi
assillano»16.
Le produzioni del Teatro Popolare Italiano, tutte
collocabili nella prima metà degli anni Sessanta e defini-

15
ATPIto, Atto costitutivo del Teatro Popolare Italiano, 3 aprile
1959, REP. N. 62609 con il relativo statuto, registrati a Torino
il 7/4/1959 al n° 21074 con L. 11. 150. Per quanto riguarda una
bibliografia sull’argomento cfr. A. Ninchi, La memoria del teatro.
La fascinazione della popolarità, «Primafila» (67 novembre 2000),
pp. 76-78; N. Messina, Il Teatro Popolare Italiano. Utopia e realtà
in Vittorio Gassman. L’ultimo mattatore, a cura di F. Deriu, Venezia
Marsilio, 1999, pp. 61-71; Id., Teatro Popolare Italiano, «Primafila»,
61 (marzo-aprile 2000), pp. 30-40; I.F. Zincato, Il Teatro Popolare
Italiano di Vittorio Gassman, tesi di Laurea in Scienze della
Formazione, Università di Torino, relatore N. Messina, a.a. 2000-
2001; A. Frattali, 1957-1960. L’Ente Autonomo e la proposta di
legge sul teatro di prosa. Progetti, dibattiti e protagonisti: da Eduardo
a Gassman, in Ricerche dell’Archivio Storico del Piccolo Teatro (1947-
1963), a cura di S. Locatelli, «Comunicazioni Sociali», (2) 2008,
pp. 211-234. Fra gli attori che fanno parte della compagnia sin
dalla fondazione, ricordiamo Marisa Fabbri, Attilio Cucari e Carlo
Montagna.
16
Gassman, «La Gazzetta del popolo», 5 aprile 1959.

42
te dai critici e da Gassman stesso teatro-scope17 o teatro
happening18 rappresentano dunque un ulteriore tentativo
di collocare l’arte teatrale su una scena viva, in dialogo
con i nuovi media e con le nuove forme di espressione
artistica. In questo solco si collocano anche i “comizi”
di piazza introduttivi agli spettacoli, gli incontri e i
recitals in fabbrica, i quindicinali d’informazione, le
partite di calcio organizzate fra membri della compagnia.
Tali iniziative suscitano infatti nel pubblico due tipi di
curiosità: l’una connessa a vedere dal vivo Gassman e i
suoi, l’altra suscitata da quel nuovo modo di fare teatro,
andando a procacciarsi pubblico per strada, come nella
tradizione circense o della Commedia dell’Arte.
I concetti da cui nasce quest’idea sono principalmente
legati alla peculiarità della compagnia e dell’organizzazione
di essa. Innanzitutto l’indipendenza, sia pratica che eco-
nomica, da altre strutture, poi la necessità di fornire uno
spazio alternativo rispetto ai teatri tradizionali e ancora
l’opportunità di spostarsi con estrema facilità. L’idea
iniziale è quella di usare un gigantesco tendone da circo
costituito da una grande cupola d’acciaio (fabbricata
dalle acciaierie Dalmine) e da un ingegnoso sistema

17
R. De Monticelli, Gassman ha creato il teatro-scope, «Il
Giorno», 4 marzo 1960.
18
M. Pallotti, Stasera si recita per “Grazia”, «Grazia», n.
d. (1960?): «Vittorio Gassman ha concluso il primo ciclo del suo
teatro-happening (un secondo lo inizierà in autunno): una serie di
serate di dialogo col pubblico su temi diversi, un teatro, insomma,
in cui gli spettatori sono attori insieme agli attori [...]. Quando gli
dicemmo che volevamo salire con lui sul palcoscenico, e intervistarlo
lì, per recitare finalmente sé stesso di fronte al suo pubblico, Vittorio
Gassman disse: “Sul palcoscenico? Perché no? Dopo tutto il teatro è
un happening. Non ci si dovrebbe solo recitare, ma anche mangiare,
dormire, tutto quello che si fa normalmente, anche un’intervista,
perché no?».

43
di gradinate chiudibili (brevetto della ditta Spinelli-
Burigo). In questo modo, non si assoggetta la compagnia
alle spese d’affitto di edifici ospitanti; inoltre, i 3000 posti
della struttura permettono un guadagno considerevole
ad ogni serata, nonostante il costo volutamente ridotto,
“popolare”, appunto, dei biglietti.
Alla vigilia della grande avventura, nel 1959, Gassman
chiarisce in una tavola rotonda con Radice, De Feo,
Prosperi e Lucignani cosa intenda per “popolare”: co-
niugare la popolarità, ovvero l’allargamento di pubblico,
all’artisticità nella produzione degli spettacoli. L’agget-
tivo “Italiano” è riferito alla scelta di un repertorio in
cui il popolo italiano si riconosca, seguendo una duplice
direzione: da un lato il teatro classico rigenerato e dal-
l’altro «un teatro completamente nuovo, inedito, assolu-
tamente anticonvenzionale, libero persino da pregiudizi
di “genere”»19. Il programma del primo anno vede in
scena un classico della nostra letteratura drammatica risor-
gimentale ritenuto irrappresentabile, l’Adelchi di Manzoni
e una novità scritta su commissione, Un Marziano a Roma
di Ennio Flaiano (al suo esordio in teatro)20, intervallate
dall’Orestiade di Eschilo, per il teatro greco di Siracusa,
nella nuova traduzione di Pasolini finalizzata a gettare un
ponte linguistico fra il testo originario e il pubblico coevo.
L’idea-guida è infatti quella di “sperimentare” nella
direzione di una ricerca artistica di ciò che il “popolo”
vorrebbe dal teatro contemporaneo. Così si esprime
Gassman in proposito: «il fatto è che noi effettivamente
ci vogliamo porre in una posizione di ricerca; e per questo

19
G. De Chiara, Il circo è pronto: fuori i leoni!, «Sipario»,
(163) 1959, p. 4.
20
Romanziere e sceneggiatore cinematografico, portano la sua
firma molti film di Federico Fellini, come I Vitelloni, La strada, La
dolce vita.

44
pensiamo di corredare la nostra attività teatrale con
tutti i possibili mezzi che possiamo aver pensato o che ci
verranno in mente di sondaggio, di ricerca, di statistica»21.
Tutto ciò non stupisce, se pensiamo al contesto europeo e
mondiale in cui si colloca questa riflessione: il 1959 vede
infatti la nascita dell’happening di Allan Kaprow, l’inizio
dell’avventura del Teatro Laboratorio di Jerzy Grotowski,
l’apertura della seconda fase artistica del Living Theatre
(il “movimento Off-Broadway” segnato dallo spettacolo
The Connection) in forma di compagnia itinerante.
Le motivazioni artistiche di Gassman oltrepassano
dunque la polarità attore-spettatore: guardando al pub-
blico, vuole che esso riconosca, nel suo spettacolo, un
certo «regolamento», un tecnicismo (inteso come cono-
scenza delle regole) che del resto il pubblico possiede
quando si reca a vedere una partita di pallone; guardando
agli attori, vorrebbe un lavoro di gruppo, un gioco di
squadra, rimanendo nella metafora sportiva che egli stesso
introduce e, nel complesso, aspira ad una multiformità
spettacolare che si annuncia subito nella regia d’esordio.
Il Tpi debutta così a Roma al «Parco dei Daini» il 3
marzo 1960 con Adelchi22 (fig. 2 e 3): la regia di Gassman

21
De Chiara, Il circo è pronto, cit., p. 5.
22
Messina, Il Teatro Popolare Italiano, cit. p 63: «Una tragedia
nazional-popolare, realizzata da Gassman, regista e attore, con un
allestimento di grande fascino, accompagnato dalla musica di Verdi
(e da quella originale di Fiorenzo Carpi) e in un clima da grand-
opéra confortato dalle imponenti scene di Luciano Damiani (il
palcoscenico fu praticamente costruito su misura per la scenografia:
macchine da guerra a misura naturale, l’alto muro della città di
Verona, scorrevole, che fungeva da sipario, e i cavalli in scena a
rendere maestoso l’arrivo di Carlo e dei suoi ufficiali attraverso la
Chiusa di San Michele). Il successo non fu dovuto solo alla qualità
dello spettacolo, all’appassionata interpretazione di tutti gli attori
(debuttavano Carmen Scarpitta, Anna Maria Gherardi, Arnaldo

45
è una regia d’attore, ma finalizzata ad amplificare la gran-
diosità dell’insieme; seppure nel rispetto dei momenti
lirici, crea momenti scenici definiti «di bellissimo
risalto»23, portando in scena persino cavalli veri. E pro-
prio in virtù di tale grandiosità, i critici lo definiscono
quasi «uno spettacolo in cinema-scope»24, uno «schermo
gigantesco posto tra l’immaginazione dello spettatore e i
versi del Manzoni»25.
Se l’obiettivo di avvicinare un pubblico solitamente
assente dalle platee italiane dell’epoca risulta pienamente
centrato (200.000 spettatori per Adelchi, dopo 145
repliche, alla fine di novembre 1960), altrettanto non si
può dire della trasportabilità della struttura, complessa
sin dall’inizio tanto da rivelarsi, alla fine, un vero e proprio
fallimento. Per portarla da Roma a Milano in piazza Vetra
ci vogliono un treno e quaranta autocarri e durante il
montaggio nel capoluogo lombardo parte della volta in
prossimità del boccascena collassa a causa del peso.
Si opta allora per l’uso di una struttura mobile, di

Ninchi, Carlo Montagna, Mario Erpichini, Attilio Cucari, Mino


Bellei, Orazio Orlando, Antonio Salines) e al clima che si era
costituito attorno all’iniziativa; il successo fu anche connesso alle
platee popolari, alla partecipazione commossa degli spettatori (molti
novizi al teatro) e alla loro consapevolezza di partecipare a una festa
collettiva di arte e di cultura».
23
A. Pitta Un superbo Adelchi ha commosso i tremila, «La
notte», 4-5 marzo 1960.
24
Ibidem.
25
S. De Feo, L’Adelchi al Tpi: più Amleto che Achille,
«L’Espresso», 24 gennaio 1960: «Quel di più, quel voler dire
tutto, fare tutto, costruire tutto e riempire ogni metro cubo del
palcoscenico, forse è un’esca o un mezzo per rendere più agevole il
tirocinio teatrale del grosso pubblico che il Tpi vuole attirare a sé, ma
spesso è anche uno schermo tra la nostra immaginazione e i versi di
Manzoni».

46
tipo circense, molto più leggera e maneggevole, anche
se di potenzialità più limitate, sia a livello di capienza,
che di possibilità scenica. E in seguito gli allestimenti
del Tpi dovranno piegarsi, (alcuni) loro malgrado, ad
essere rappresentati in teatri tradizionali: Un Marziano
a Roma debutterà il 23 novembre dello stesso anno al
Teatro Lirico di Milano, mentre l’Orestiade era andata in
scena nel maggio precedente ospite del Festival nel Teatro
Greco di Siracusa. Edipo re, ripreso da una prima regia del
195526, andrà in scena il 28 dicembre del 1960 al Teatro
Alfieri di Torino27 e, sempre a Torino, sarà rappresentato,
il 3 febbraio 1962 (nel contesto delle celebrazioni per il
venticinquesimo dalla morte di Luigi Pirandello) Questa
sera si recita a soggetto28.

26
Roma, Teatro Valle, 18 febbraio 1955 con Vittorio Gassman
nel ruolo di Edipo, Anna Proclemer nel ruolo di Giocasta, Mario
Feliciani in quello di Creonte e Lamberto Picasso in quello di Tiresia.
27
Gassman, Edipo Re di Sofocle: note per la messinscena,
«Notiziario del Teatro Popolare Italiano», anno II, n. 4, dicembre
1960, n. 2. Interpreti: Vittorio Gassman (Edipo), Ilaria Occhini
(Giocasta), Carlo D’Angelo (Creonte), Giulio Girola (Tiresia).
Traduzione di Salvatore Quasimodo.
28
Nell’elaborazione di Vittorio Gassman e Gerardo Guerrieri,
per la regia dello stesso Gassman, interpreti: Augusto Mastroianni
(il vecchio attore, Sampognetta), Laura Solari (l’attrice caratteristica,
S.ra Ignazia), Adriana Asti (la prima attrice, Mommina), Franco
Graziosi (il primo attore, Verri), Esperia Pieralisi (la prima attrice
giovane, Totina), Teresina Fabris (la seconda attrice giovane,
Dorina), Anna Maria Di Giulio (la terza attrice giovane, Nené),
Carlo Montagna (il primo attor giovane, Sarelli), Paolo Bonacelli
(il secondo attor giovane, Pomarici), Attilio Cucari (il terzo attor
giovane, Nardi), Renata Mauro (la seconda donna, la Chanteuse),
Noël Sheldon (un ballerino, il partner della Chanteuse), Aldo Danieli
(primo avventore), Enrico Lanzi (secondo avventore), Ezio Tomei
(terzo avventore), Vittorio Gassman (i registi). Scene e costumi di
Pietro Zuffi. Musiche di Fiorenzo Carpi.

47
Un Marziano a Roma rappresenta sicuramente un
elemento extra-vagante nel repertorio prevalentemente
tragico del Tpi, poiché si tratta di una commedia in
tre atti e sette quadri, anche se scritta appositamente
su commissione. Forse anche per questo non venne
rappresentata nel teatro-circo, che pure in quei giorni
era montato a Milano, in Piazza Vetra, per scelta di
Gassman. La commedia, considerata troppo intimista per
il grande palcoscenico, venne allestita al Teatro Lirico,
destinato principalmente alla rivista. Si tratta infatti di
un’opera difficilmente collocabile, che racchiude in sé
caratteristiche del teatro musicale (le musiche di Guido
Turchi erano fondamentalmente canzoni) e del dramma
borghese per la quale lo scenografo Mario Chiari allestì
una messinscena che fu definita più allusiva che simbolista,
mentre i costumi di Maria De Matteis recavano la cifra di
antirealismo tendente al surreale. Dopo quattro successive
repliche al Teatro Alfieri di Torino, che suscitarono non
poche perplessità nel pubblico e nella critica, non venne
più rappresentata.
Per quanto riguarda invece la trilogia eschilea, venne
proposta integralmente la prima e l’ultima sera, mentre
per le altre repliche le singole opere del trittico furono
messe in scena alternativamente. L’allestimento fu curato
da Gassman e Lucignani con finalità di rivitalizzazione
e di ringiovanimento del testo da recitare; fu scelta
infatti la traduzione/ri-scrittura di Pasolini, perché: «la
sua poesia evita più di altre l’abbandono a un canto,
a una liricità, diciamo pure, esteriore, che a contatto
con la poesia greca produrrebbe fatalmente ciò che
soprattutto cerchiamo di evitare, ossia una certa “bellezza
dell’incomprensione”, una “poeticità misteriosa” contro
la quale, per il fatto stesso di aver creato il Teatro Popolare

48
Italiano, siamo fermamente decisi a lottare»29. Scelsero
poi di rappresentare la trilogia di sera, contrariamente
al costume greco: «noi lo facciamo di sera innanzi tutto
perché non vogliamo che si confonda con una festa, ma
che sia “teatro”, e perciò usiamo appunto mezzi teatrali,
quali per esempio l’illuminazione con i riflettori, le
musiche incise e riprodotte da altoparlanti»30.
Non tramonta tuttavia completamente l’idea della
costruzione di una struttura agile e funzionale e Pietro
Zuffi realizza un impianto scenico autosufficiente, una
sorta di teatro estraibile da montare sul palcoscenico
degli edifici che avrebbero via via ospitato gli spettacoli31.
Non a caso, Questa sera si recita a soggetto usufruisce di
questa struttura indipendente, con un proprio sipario,
con propri impianti fonici ed elettrici che permettano
proiezioni di tipo cinematografico32. Tale struttura
risolve a suo modo anche il problema degli intermezzi

29
Gassman e Lucignani su «Notiziario del Teatro Popolare
Italiano», anno I, num. 6, 25 marzo 1960, p. 4. Seconda produzione,
allestita e rappresentata al teatro greco di Siracusa dal 19 maggio al 5
giugno 1960.
30
Ibidem.
31
F. Calderoni, «Il Giorno», 21 gennaio 1962: «L’architetto
Pietro Zuffi ha [...] costruito per la compagnia di Gassman
un palcoscenico speciale che s’infila e si sfila dal palcoscenico
normale permettendo così alla compagnia di avere a disposizione
in un qualunque momento una serie di macchine teatrali ormai
indispensabili alla regia moderna».
32
P. Zuffi, L’impianto scenico del teatro popolare italiano,
«Notiziario del Teatro Popolare Italiano», anno III, n. 10, marzo
1962, p. 5: «Palcoscenico completamente indipendente, costruito
in ferro e legno, con sipario proprio [...]. Piano praticabile del
palcoscenico con tre settori sollevabili automaticamente su speciali
elevatori a compressione di notevole portata e comandabili a
distanza».

49
pirandelliani che, secondo le indicazioni dell’autore,
dovevano essere rappresentati contemporaneamente sul
palcoscenico e nel ridotto del teatro. Questo espediente
permette all’impianto registico di ri-vitalizzare un testo
già definito dalla critica «caleidoscopico»33: l’incontro
fra metateatralità e multimedialità risponde in pieno a
quell’idea di teatro totale così presente nelle intenzioni di
Gassman regista e attore di quegli anni.
Dal progetto del Tpi nel suo insieme – non casual-
mente contemporaneo alla consacrazione di Gassman sul
grande schermo e in tv – emerge così, negli anni Sessanta,
l’esigenza del Mattatore di ri-qualificare il teatro come
terreno d’incontro, strumento di trasformazione profonda
dell’individuo (sia esso attore o spettatore) e ponte fra
le diverse manifestazioni artistiche contemporanee. In
risposta ai critici che lo accusano di aver stravolto il testo
pirandelliano, sostituendo al solo Hinkfuss ben sette
tipizzazioni (alcuni le definiscono caricature) di registi
della scena coeva, Gassman cita lo stesso Pirandello:
Il teatro non è archeologia. Il non rimettere
le mani nelle opere antiche, per aggiornarle e
renderle adatte a nuovo spettacolo, significa
incuria, non già scrupolo degno di rispetto. Il
Teatro vuole questi rimaneggiamenti [...]. Il testo
resta integro per chi se lo vorrà rileggere a casa,
per sua cultura; chi vorrà divertircisi, andrà a
teatro, dove gli sarà ripresentato [...] riadattato
ai gusti dell’oggi. E perché questo è legittimo?
Perché l’opera d’arte, in teatro, non è più il lavoro
di uno scrittore, che si può sempre del resto in
altro modo salvaguardare, ma un atto di vita da

33
Anonimo, Gassman presenta al Duse un testo caleidoscopico,
«L’Unità», 22 febbraio 1962.

50
creare, momento per momento, sulla scena, col
concorso del pubblico, che deve bearsene34.
Come si legge, il focus è il pubblico, la sua presenza
viva e pulsante, il suo essere parte attiva e non passiva di
un evento all’interno di uno specifico contesto spazio-
temporale e relazionale. I nuovi media, figli del boom
economico, si collocano pertanto, secondo questa visione,
in dialogo e non in opposizione con un’arte antica come
il teatro, sovraesponendola, pubblicizzandola, facendosi
addirittura in parte inglobare nell’attrezzeria di scena,
diventando parte della scena stessa.
Quel che conta è che il teatro sia un luogo ri-sorto
per la comunità, un atto di vita associata, uno strumento
conoscitivo, un’occasione da non perdere e pertanto un
“prodotto” che tutti hanno il diritto di consumare. A tal
proposito, citiamo le parole di Lucignani, pronunciate
nella conferenza tenuta insieme a Gassman presso il
circolo Italsider di Piombino nel 1962:
[...] tra il prodotto standard che si vende al
mercato e l’esperimento di laboratorio che viene
offerto all’attenzione di pochi intenditori, c’è la
vera produzione artistica, quella accumulata dal
passato e arricchita dal presente, quella che tutti
possono e debbono consumare [...]. Il teatro di
tutti, il teatro “popolare”, come noi diciamo, è “il
teatro”: un modo per conoscerci, uno strumento
per la vita.

Vi preghiamo di servirvene e vi ringraziamo35.

34
L. Pirandello, Introduzione al teatro italiano, in Storia del
teatro italiano a cura di S. D’Amico, Milano, Bompiani, 1935, p. 10.
35
Gassman, Lucignani, Cinque modi per conoscere il teatro, cit.
p. n.n.

51
TEATRO E CARCERE:
SE ALICE INCONTRA AMLETO
NELLA FORTEZZA
Analizzare la scena imprigionata

1. Verso Hamlice: lo studio del 2009


Lo spettacolo, scaturito inizialmente da una riflessione
sulla sola Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll,
è frutto di una collaborazione – iniziata nel 1988 e mai
interrotta – di Armando Punzo con un gruppo che va
dai venti ai trenta detenuti della casa circondariale di
Volterra. Da un ventennio a questa parte infatti il regista
(e drammaturgo) ha legato il suo nome al lavoro della
Compagnia della Fortezza, uno dei primi progetti di
laboratorio di teatro in carcere in Italia1, concretizzando
sulla scena un sodalizio artistico in diversi allestimenti e
adattamenti, alcuni dei quali premiati con riconoscimenti
importanti della critica come il premio Ubu e il premio
Europa2.

1
Per una ricognizione sull’argomento, estesa non solo al feno-
meno italiano, ma anche al quadro internazionale, cfr. AA.VV.,
A scene chiuse. Esperienze e immagini del teatro in carcere, a cura di
A. Mancini, Pisa, Titivillus Edizioni, 2008; per una trattazione
interdisciplinare del tema cfr. Carceri, «Comunicazioni Sociali – on
line», (4) 2011.
2
Per una panoramica bio-bibliografica su Armando Punzo, una
teatrografia aggiornata, nonché un’analisi specifica dedicata allo
spettacolo in questione, si veda L. Ciari, Armando Punzo e la scena
imprigionata. Segni di una poetica evasiva, San Miniato, La Conchiglia
di Santiago, 2011. Sull’esperienza della Compagnia della Fortezza
cfr. anche M. T. Giannoni, La scena rinchiusa. Quattro anni di
attività teatrale dentro il carcere di Volterra, Volterra, TracceEdizioni,

53
Lo spettacolo definitivo – se così si può chiamare,
visto che siamo comunque di fronte ad una drammaturgia
consuntiva3 – nasce da uno studio4 preparatorio che è
stato rappresentato nella casa circondariale di Volterra nel
luglio 2009, a seguito di un’esperienza (condotta l’anno
precedente) con un gruppo di giovani e anziani dalla
quale era già scaturita la rappresentazione di Amleto – La
tragedia della realtà.
Nello studio del 20095 l’immagine di partenza è la

1992; M. Schino, Il crocevia del Ponte d’Era. Storie e voci di una


generazione teatrale (1974-1995), Roma, Bulzoni, 1996; A. Punzo,
Volterra, ovvero i teatri dell’impossibile, «Etinforma», (II, 5) 1997,
p. 15; V. Minoia, La Fortezza espugnata dal teatro, «Hystrio»,
(1) 1998, pp. 40-42; AA.VV. La Compagnia della Fortezza, a cura
di A. Cremonini, Viterbo, Millelire Edizioni, 1999; M. Dragone,
Esperienze di teatro sociale in Italia, in I fuoriscena. Esperienze e
riflessioni sulla drammaturgia nel sociale, a cura di C. Bernardi, B.
Cuminetti, S. Dalla Palma, Milano, EuresisEdizioni, 2000, pp. 88-
92; AA.VV., Teatro al limite. La passione dell’incontro e la mediazione
socioeducativa, a cura di R. Perina, Verona, QuiEdit, 2007.
3
Cfr. S. Ferrone, Introduzione a Commedie dell’Arte, Milano,
Mursia, 1985, 2 voll, pp. 5-44; sui testi drammatici a posteriori,
definiti “testo-residuo”, cfr. anche M. De Marinis, Semiotica del
teatro. L’analisi testuale dello spettacolo, Milano, Bompiani, 1982, pp.
32-36.
4
Sul concetto di “studio” per Armando Punzo, cfr. L. Bernazza,
Il rischio come strumento di perfezione, conversazione con Armando
Punzo, in La Compagnia della Fortezza, a cura di L. Bernazza, V.
Valentini, Catanzaro, Rubettino, 1998, p. 23-24: «Perché usi per
alcuni spettacoli il termine “studio”: Sono geloso dei pittori che hanno
la fortuna di poter fare innumerevoli schizzi prima dell’opera finale
[...]. Lo “studio” per me è un rischio, è uno spreco che ti permette di
provare all’infinito fino a quando non trovi una formula che, almeno
in quel momento, ritieni essere la più giusta».
5
Per la rassegna stampa cfr. L. Mello, “Alice nel paese delle
meraviglie” secondo Armando Punzo, «VeneziaMusica e dintorni»,
(VI, 30) 2009, p. 58; F. Quadri, Alice fra le meraviglie del carcere,

54
trasformazione, la possibilità di sottrarsi al proprio ruolo
definito per sempre. L’origine risiede nella realtà di questa
compagnia che, come un doppio sotterraneo, offre una
riflessione quotidiana sul tema.
L’ingresso in carcere è già parte del rapporto spettatore-
spettacolo: una forma di straniamento e insieme di sforzo
per guardare; gli spettatori sono invitati a qualcosa che
sta per accadere, l’atteggiamento è critico, ma attivo. Il
pubblico viene infatti condotto nel cortile assolato del
carcere dove attori e prigionieri a torso nudo aspettano
seduti di fronte ad alti banchi di legno, intenti a dipingere
frasi nere, a grandi caratteri, su ampi fogli bianchi. Sono
passi della tragedia shakespeariana Amleto; nell’aria
risuona il Requiem di Verdi (le note del Dies Irae) e una
sonata di Beethoven. All’improvviso, il Bianconiglio,
vestito con tacchi altissimi e pantaloni neri attillati,
grida «Venite, venite. È tardi, è tardi»6. Gli spettatori lo
seguono. Bussa più volte ad un portone rosso con scritto
su “Amleto” che rappresenta la copertina del libro, le ante-
pagine lentamente si muovono, una giovane Alice vestita
d’azzurro apre dall’interno. Gli spettatori si ritrovano in
un cunicolo completamente tappezzato di fogli bianchi a
scritte nere simili a quelle che gli attori-detenuti vergavano
nel cortile. Alice rincorre Bianconiglio e gli spettatori
la seguono. Su un lungo e stretto corridoio principale
si aprono stanze e stanzine popolate di personaggi che
in una serie vertiginosa di numeri, un caleidoscopico
bailamme di azioni molteplici e simultanee, recitano
frasi, battute, monologhi in una miscellanea di autori, fra
cui riconosciamo il marchese De Sade, Anton Cechov,

«La Repubblica», 27 Luglio 2009, p. 38; V. Ronzani, Amleto


incontra Alice nel regno dell’anarchia, «Corriere Fiorentino», 24
Luglio 2009.
6
Qui e altrove trascrivo le battute dello spettacolo.

55
Samuel Beckett, Harold Pinter, Jean Genet. Il Cappellaio
Matto si muove davanti ad una tavola imbandita per il
tè su cui spiccano bianche porcellane ornate di scritte
nere, un’Ofelia dalla pelle scura en travesti con altissimi
stivali rossi si trucca davanti alla specchiera. C’è una dama
bianca con ombrellino, strascico e parrucca, la Regina di
Cuori, ma c’è anche Amleto-Punzo, vestito di scuro con
una gorgiera bianca e bianco in volto, che recita davanti
ad una gabbia dove sono rinchiusi pappagalli gialli e
verdi; ci sono Claudio, Polonio, Gertrude.
Gli attori si truccano e vestono a vista. Terminata
la propria performance, escono dalle stanzette, luogo
deputato, e si riversano nel corridoio principale dove in-
tercettano sguardi degli spettatori, parlando tra loro e
producendo un effetto di straniamento brechtiano. Come
spiriti pensanti, in perenne trasformazione, i personaggi
shakespeariani vengono risucchiati da altri testi e da altre
situazioni, sfuggendo al proprio ruolo fisso, alla ricerca di
un’altra possibilità. Lo spettatore, spinto ad una fruizione
simultanea delle azioni in scena, viene invitato pertanto
a seguire gli attori in questo processo di cambiamento,
liberandosi, a propria volta, della prigione che, talvolta
inconsapevolmente, si costruisce intorno.

2. Hamlice – Saggio sulla fine di una civiltà


Lo spettacolo – frutto di una co-produzione con
il Teatro Metastasio di Prato – va in scena nella Casa
Circondariale di Volterra nel luglio del 20107 per poi

7
Si riportano di seguito i dati tecnici dello spettacolo:
Compagnia della Fortezza: Hamlice – Saggio sulla fine di una
civiltà. Drammaturgia e regia: Armando Punzo. Scene: Alessandro
Marzetti. Costumi: Emanuela Dall’Aglio. Movimenti di scena /
coreografie: Pascale Piscina Musiche originali e sound designer: An-
drea Salvadori. Assistente ai costumi e alle decorazioni: Silvia Ber-

56
iniziare, nella stagione successiva, una lunga tournée
italiana, in cui tocca anche Milano e Vicenza8.
Dal punto di vista strutturale, può essere suddiviso
in tre atti preceduti da un prologo, intendendo per atto
una fase, uno stadio del processo di liberazione espressiva
che si compie in questo rito profano. Si tratta infatti di
un rituale collettivo celebrato in scena, una vera e propria
liturgia suggellata dall’atto conclusivo con cui Armando
Punzo licenzia il pubblico, ripetendo più volte la formula
«Addio, addio, addio» (fig. 4, 5 e 6).
Durante quello che è stato definito «Prologo – Libro
fantasma»9, il pubblico si raggruppa davanti ad un
portone-copertina del libro che reca il sigillo bianco di
Amleto, mentre dall’interno provengono effetti-audio
ambientali di vibrazione/terremoto e il suono di oggetti
che cadono al suolo, forse a seguito di un crollo o di una
demolizione. Risuonano le note dell’Adagio di Albinoni
ed una voce intona una litania. Poco dopo si aprono le
porte su uno scenario asettico e labirintico con pareti
bianche, dove il cappellaio matto e bianconiglio (con
l’indice sulla bocca per invitare al silenzio) sollecitano
il pubblico ad entrare in uno stretto corridoio della
Fortezza Medicea (nel caso dell’allestimento in Casa
Circondariale) o in sala da due corridoi separati, per i

toni. Video: Lavinia Baroni. Pittura dal vivo: Enrico Pantani con i
detenuti attori della Compagnia della Fortezza e con Stefano Cenci e
la partecipazione straordinaria di Maurizio Rippa. Prima nazionale:
Carcere di Volterra – 26, 27, 28 e 29 Luglio 2010.
8
Per una selezione di rassegna stampa, cfr. L. Magi, Una cárcel en
el país de las maravillas, «El País», 21 luglio, 2010, p. 49; K. Ippaso,
Hamlice: il potere accecante del bianco, «Gli Altri», 20 agosto 2010.
Per una sitografia completa che riguarda lo spettacolo vedi Ciari,
Armando Punzo, cit. pp. 120-121.
9
Ivi, p. 44.

57
quali si accede alle gradinate (nel caso degli allestimenti
in teatro con scena frontale). Armando Punzo nelle vesti
di Amleto è l’officiante di questo rito, che, issato su stivali
con tacco vertiginoso, pronuncia ad alta voce, tenendo un
libro in mano, le seguenti parole: «Questo è il teatro della
corte, ci vuole coraggio ad entrare qui dentro».
Nella prima parte, interamente dedicata al sogno di
Amleto, si assommano i ricordi del passato del Principe
di Danimarca, i sogni veri e quelli ad occhi aperti, in un
caleidoscopio a tratti suggestivo a tratti angoscioso. Amleto
è finalmente libero di gestire il proprio Io senza alcuna
costrizione esterna e così possono comparire dinanzi a
lui i personaggi veri o fittizi della sua vita; il Principe non
può vivere senza di loro, ma per convivere il rapporto
deve essere pacificato. I personaggi (che qui diventano
fantasmi dell’inconscio) prendono vita man mano che
il cappellaio matto verga parole in aria; ci sono Claudio,
Gertrude, Guilderstein, Rosencratz, Orazio, Polonio ed
Ofelia, le guardie della torre con le movenze di soldatini
di piombo. Siamo di fronte ad una gigantesca schacchiera
bicolore (bianco-nera), sul fondale campeggia un collage
di pagine di quaderno scritte a mano e frammenti del
testo shakespeariano, le parole avvolgono e travolgono lo
spettatore sia dal punto di vista visivo che uditivo. Amleto
recita: «La fantasia mi stravolge la ragione. Questo è un
teatro della corte, in questi sospiri c’è qualcosa».
Nominata la parola-chiave «teatro», il protagonista
evoca un secondo nodo semantico, recitando la frase «la
Danimarca è una prigione», a conclusione della quale si
distende a capo all’ingiù sulla pedana centrale (in posizione
che rievoca quasi una crocifissione all’incontrario, di
memoria grotowskiana), tenuto per mano ai due lati da
Rosencratz e Guilderstein. Sul binomio prigione/teatro
si mette dunque in moto l’azione: il dramma procede a

58
frammenti, snodandosi dal principio (il colloquio con le
guardie, il dialogo di Claudio con Amleto, il dialogo di
Amleto con Yorick), ma non in maniera consequenziale,
fino a culminare nell’apparizione dello spettro che,
proiettata sul fondale scuro di fronte ad una gigantesca
chiave illuminata, recita, con inflessione partenopea:
«se mai amassi il tuo caro padre, vendica il suo turpe e
mostruoso assassinio».
Il nodo freudiano dell’immobilità di Amleto, l’impos-
sibile vendetta, mette in moto la seconda parte dello
spettacolo, una follia carnevalesca, fluire di presenze colo-
rate che si sprigionano dal teatrino della corte (monta-
to ai lati del palco) per poi passeggiare sul proscenio e
in mezzo al pubblico. Sono personaggi circensi che re-
citano nonsense di Carroll o corpulente Drug-Queen
che interpretano frammenti di Annibale Ruccello e di
Enzo Moscato o intonano struggenti ballate di Marianne
Faithfull. Riemergono flashes shakespeariani nelle pause,
che convergono nel dialogo fra Amleto e l’Ofelia nera en
travesti, seduta davanti ad una specchiera: «troverò la verità
foss’anche collocata al centro della terra». Su queste parole
la scena esplode e il testo-guida collassa: le luci si accendono
sul leit-motiv ripetuto da Punzo-Amleto «It’s so nice to
have you here, with me!» e tutti i personaggi si affollano sul
palco sulle note di un “ostinato” al pianoforte (composto da
Yann Tiersen). Il cromatismo bicolore della prima parte si
trasforma così in una coloratissima festa carnevalesca dove
il rosso prevale; risuona nell’aria la parola «Cricket!»:
Wonderland sta esplodendo e Alice sta liberando Amleto
dai suoi incubi. Il palco si trasforma in una pista da discoteca
animato da Punzo-Jocker sul cubo, mentre tutti ballano
in mezzo a luci stroboscopiche e proiezioni di parole che
ruotano nell’oscurità. Risuona poi la frase rivolta ad Alice
dalla Regina di Cuori «Tagliatele la testa!».

59
L’ultima sezione vede Punzo attraversare una serie di
trasformazioni: da Jocker, ad Alice che ruota la testa a
scatti sulla musica di un carrillon, a Regina della Notte con
un copricapo di piume in testa, che grida «Qual è l’idea!
Fuori, tutte le parole in rivolta!» – «Girano le parole
nel teatro in rivolta». Gli attori consegnano al pubblico
lettere di polistirolo. Punzo continua a gridare: «La rivolta
delle parole...tutte le parole in rivolta...nuove parole mai
nemmeno inventate, udite, immaginate...tutto deve avere
ancora una possibilità». A questo richiamo, gli spettatori
afferrano le lettere lanciandole in aria in una sorta di rito
liberatorio e in parte rigenerativo; Punzo recita: «una
giostra per l’essere inerme, tutto deve ancora accadere,
cancella questo mondo, volano leggere nel teatro della
corte in questo libro istituzione, in questo libro prigione,
ADDIO non essere». Questo gesto corale che sprigiona
un forte senso di appartenenza ad un gruppo rappresenta il
culmine di una cerimonia rituale. Tutti gli attori si radunano
per ricevere gli applausi al suono della banda.

3. Un teatro con i testi


«L’autore non esiste, è la natura umana che produce
la scrittura e l’autore è il medium che fa da specchio
all’umanità»10: così Armando Punzo definisce il proprio
concetto di autorialità. E chiarisce anche il suo rapporto col
testo:
Quando metto in scena uno spettacolo, parto da
un testo già scritto che, poi, riscrivo addosso alle
persone e alle situazioni. Con questo intendo
dire che non sono soltanto un metteur en scene

10
L. Bernazza, Il rischio come strumento di perfezione,
conversazione con Armando Punzo, in La Compagnia della Fortezza,
cit. p. 32-33.

60
e che la scelta di un testo è sempre legata al
contesto in cui lavoro e alle cose che la compagnia
ed io sentiamo di esprimere. Il testo mi dà delle
indicazioni, mi porta delle parole, ed io faccio
in modo che quelle stesse parole veicolino un
bisogno, comunichino le nostre necessità11.
Il drammaturgo interviene quindi sul testo drammatico
scardinandolo, frammentandolo, rielaborandolo, combi-
nandolo, mettendolo in bocca a personaggi diversi,
mentre i brani recitati divengono semplici strumenti al
servizio della compagnia, in un gioco combinatorio che
coinvolge tutti i codici dello spettacolo. La parola è il
terreno su cui s’innesta l’immagine, il motore dell’azione,
ma anche il fossile di un mondo agli sgoccioli (la fine di
una civiltà, appunto), che solo nella ri-combinazione dei
ruoli e dei significati può trovare una nuova possibilità.
Amleto, la tragedia del potere, claustrofobica e ric-
ca di origliamenti, viene fusa con un testo di segno
opposto, liberatorio, di matrice non-drammatica, Alice
nel paese delle meraviglie. Ma i testi “shackerati” nello
spettacolo sono molti: oltre ad Amleto, e ad Alice nel
paese delle meraviglie, fusi anche nel titolo, riconosciamo
Ferdinando di Annibale Ruccello, Little Peach di
Moscato, l’Hommelette for Hamlet di Bene-Laforgue,
Hamletmachine di Müller, Notre-Dame des Fleurs di
Genet, Marat-Sade di Weiss. Le parole sono quindi
momenti d’avvio e punti di riferimento del passaggio allo
spettacolo, si tratta (per usare un’espressione di Eugenio
Barba) di teatro con i testi12, là dove la nuova referenzialità

11
Ibidem.
12
Cfr. M. De Marinis, La prospettiva post-drammatica:
Novecento e oltre, in Dramma vs Post-drammatico: polarità a
confronto, a cura di G. Guccini, «Prove di drammaturgia», (XVI 1)
2010, p. 13: «Eugenio Barba, parlando del lavoro drammaturgico

61
del testo stesso s’incardina al bios dell’attore parlante13.

4. Lo spazio: quando il castello di Elsinore


diviene la tana di Bianconiglio
Lo spazio viene ridisegnato attraverso la ridefinizione
della relazione attori-spettatori nello spettacolo. Quello di
Hamlice, almeno nel primo allestimento all’interno della
Fortezza Medicea di Volterra, va conquistato, attraverso
corridoi e cuniculi. In quel contesto, il carcere è metafora
della condizione immutabile di ogni individuo nella storia
e nella società, ma anche di separazione e di distanza.
Come il castello di Elsinore, è metafora della situazione
di prigionia psicologica di Amleto: nella versione di
Punzo, infatti, la tragedia di Shakespeare diviene scena,
luogo, parete, la parola diviene fortezza inespugnabile.
Così i personaggi, stanchi di vivere nella prigione del
copione shakespeariano, si liberano cercando la loro
personale ispirazione in altre opere; troveranno infine la
loro dimensione nell’esplosione di anarchia fantastica di
Alice. Per cui si può dire che Alice libera Amleto, anche
dal punto di vista spaziale, perché il Castello di Elsinore,
clustrofobico, labirintico e chiuso all’esterno («ci vuole
coraggio ad entrare qui dentro» ripete ossessivamente

sotteso allo spettacolo dell’Odin Teatret Mythos (1998), ha avuto


modo di precisare con grande efficacia le differenze fra questi due
fondamentali modalità di lavoro teatrale, del teatro per il testo e del
teatro con il testo: “Ci sono infiniti modi di lavorare in teatro su un
testo letterario. Ma possono tutti essere raccolti in due tendenze:
lavorare per il testo, lavorare con il testo”».
13
Cfr. G. Guccini, Un teatro con parole per raccontare il presente.
L’Accademia degli Artefatti dal post-drammatico alle precisazioni di un
testo che riflette la realtà, «La differenza», (III, 3) 1 marzo 2011; ma
anche Id., Per una fisiologia del testo, ovvero il primato dell’actio, in
Dramma vs Post-drammatico, cit. pp. 46-50.

62
una voce allo spettatore) si trasforma nella tana di
Bianconiglio, salto nel vuoto che risucchia lo spettatore
verso un mondo alla rovescia.
Lo spettacolo è stato tuttavia riadattato per ogni
allestimento in teatro, tenendo conto delle caratteristiche
dello spazio a disposizione. Se il carcere ha infatti
privilegiato il carattere di simultaneità delle azioni sce-
niche, portando il pubblico a vagare fra le celle, scegliendo
quale pista del racconto seguire e quale performance
privilegiare, il Teatro Fabbricone di Prato e il Teatro
Olimpico di Vicenza hanno imposto agli spettatori una
visione frontale, che è stata parzialmente mitigata dal
muoversi degli attori fra palco e gradinate, rompendo
quindi continuamente la quarta parete. Nel caso
dell’Olimpico (ottobre 2011) l’imponente scenografia
di Scamozzi innestata sul teatro di corte di Palladio
ha imposto dei vincoli scenografici piuttosto forti alla
Compagnia, che ha dovuto procedere per sottrazione,
espungendo alcuni elementi; sul marmoreo arco scenico,
perno di tutta l’impostazione spaziale, è stata proiettata
la gigantesca immagine dello spettro, mentre gli attori,
muovendosi fra proscenio e sala, dialogavano con il
pubblico e con la maestosa scenografia, facendola rivivere
nel suo candore.
La visione frontale ha condizionato anche la scansione
temporale della rappresentazione, presentando in manie-
ra sequenziale (ma con procedimento analogico, poiché
siamo dentro una grande allucinazione) le singole
performance, che, nel sogno di Amleto, ma soprattutto
nella follia carnevalesca, erano state progettate per una
presentazione simultanea. Tale simultaneità è stata invece
mantenuta all’interno del gigantesco spazio dell’Hangar
Bicocca di Milano (Febbraio 2011) – Centro d’Arte e
di creazione contemporanea; gli spettatori sono stati

63
infatti accolti nello spazio centrale, dove, inizialmente in
piedi, hanno fatto parte dell’azione scenica in mezzo alla
presentazione simultanea di ciò che in carcere avveniva
all’interno delle celle. Un gigantesco schermo e delle torri
bianche completavano la scenografia sostanzialmente
mutata (soprattutto nella disposizione dei singoli
elementi) rispetto a quella presente sul palcoscenico con
visione frontale. L’Hangar ha inoltre favorito l’esplosione
della festa finale con il lancio delle lettere in polistirolo,
mescolando pubblico e attori in una festosa ribellione
collettiva, come già era accaduto all’interno del cortile
della Fortezza Medicea.

5. Codici sonori e visivi:


una festa per gli occhi, una commozione per l’anima
La lingua dominante è il dialetto napoletano, con ritmo
digrignato e toni aspri sulle vocali strette, cifra stilistica
della compagnia, ma sono presenti anche altre inflessioni
dialettali, come il siciliano e il veneto, in una bagarre
linguistica che trascina le parole-monumento nelle viscere
dell’attore e da lì le fa uscire rivitalizzate. L’angustia
del luogo e la simultaneità delle esibizioni (almeno a
Volterra, come all’Hangar), l’assenza delle indicazioni
spaziali e temporali, il mescolarsi e sovrapporsi di suoni e
presenze, creano nello spettatore caos e disorientamento,
obbligandolo a rimettere in discussione le sue sicurezze
percettive. Il pubblico ascolta tonfi sordi in lontananza,
mentre si avventura per i cuniculi scuri che lo porteranno
nello spazio della rappresentazione, intimorito dal
rumore di crolli e demolizioni che alludono forse alla
fine di una civiltà, ad un’Apocalisse in caduta controllata.
Dall’oscurità dell’ingresso al bianco accecante della
scenografia, dove le tonalità bicolori (bianco e nero) dei
costumi, prevalenti durante il sogno d’Amleto, lasceranno

64
il posto allo sgargiante sfavillio multicolore di abiti e
paillettes della follia carnevalesca.
Le musiche composte appositamente da Andrea Sal-
vadori, vero e proprio menestrello e performer multistru-
mentista sulla scena, accompagnano l’azione e la straor-
dinaria voce controtenorile di Maurizio Rippa. Ma improv-
visamente la musica cambia, trasformandosi in colonna
sonora di una festa patronale, sulle note di una banda
paesana: Armando Punzo, sotto forma di regina della notte
in abito talare nero con piume di struzzo sulla testa guida
una processione in cui, nell’esplosione della follia finale, gli
attori prendono l’ultimo struggente commiato dal proprio
pubblico: «Addio», consueto saluto o invocazione di
qualcosa che trascenda la finitezza umana.

6. La drammaturgia:
se la natura umana produce la scrittura
Quella della Compagnia La Fortezza si può definire
una scrittura collettiva, che si articola in tre fasi: scelta di
temi, scrittura a più mani, stesura finale. Il lavoro parte
dai detenuti, dalla necessità di contattare la propria
biografia e metterla in relazione con il mondo in cui essa
è calata; il teatro diventa così urgenza, vera e propria
necessità, in quanto unica possibilità di libertà e di diversa
rappresentazione di sé.
Armando Punzo declina dunque la scrittura scenica
secondo i principi etici ed estetici della propria arte; il
testo drammatico è una pedana di lancio da cui si perde
l’equilibrio per imparare a percepirsi in una caduta
controllata e questo dis-equilibrio accomuna attore e
spettatore. L’avversione alla compiutezza, l’assenza di
sintesi, l’inclinazione all’estremo e alla deformazione,
al disorientamento e al paradosso; la simultaneità dei
segni teatrali, presentati senza una struttura gerarchica;

65
l’affermazione del corpo come presenza in scena ricon-
ducono le sue creazioni nell’ambito del post-drammatico14,
seppure con la difficoltà d’incasellare nelle definizioni
una creazione in perenne movimento nel panorama
altrettanto mobile della scena contemporanea.
Sicuramente tale creazione non è focalizzata sulla
stesura o la resa di un testo drammatico, poiché la ricerca
dell’individuo si sovrappone alla ricerca nel testo: nella
prima fase di lavoro, infatti, vengono letti una serie di
testi, anche contemporaneamente, alla ricerca del testo-
guida che dovrà poi essere rappresentato. Ogni attore
sceglie, così, i passi che più lo colpiscono, a volte anche
rielaborandoli e riscrivendoli, pur restando Armando
Punzo a dirigere la stesura finale di una drammaturgia
che si può a ragione definire “consuntiva”. Nel corso
delle prove basate sulla tecnica dell’improvvisazione si
ricerca il personaggio, si studia l’ambientazione e ci si
occupa della memorizzazione organica del testo e della
partitura fisica15. Durante le improvvisazioni il regista-
drammaturgo chiede di non fissarsi su un’intonazione
specifica, un ritmo, una certa gestualità, bensì di provare
strade diverse, evitando di “ammazzare” la possibilità.
In questo caso specifico l’idea nasce dalla visione di un
Amleto danese in cui Punzo racconta di aver assistito alla
preparazione degli attori per entrare nel ruolo. In Hamlice
diventa fondamentale invece “uscire” dal ruolo, percorrere
dunque la medesima strada in senso opposto: il training

14
Cfr. H.T. Lehmann, Postdramatisches Theater, Frankfurt am
Main, 1999, trad. fr. Le Théâtre postdramatique, Paris, L’Arche, 2002.
15
L. Bernazza, Clownerie, epicità e azioni fisiche negli spettacoli
della Compagnia della Fortezza, in La Compagnia della Fortezza, cit.
p. 96: «Oltre alla dimensione comica e al dispositivo epico, i caratteri
peculiari degli spettacoli della Compagnia della Fortezza sono la
coralità e le azioni fisiche».

66
psicorporeo e creativo (d’ispirazione grotowskiana), che
permette al performer di creare qualcosa che prima di
essere spettacolo è profonda esperienza di sé stesso, deve
aiutarlo ad uscire da sé, risucchiando in questo percorso
a ritroso (la tana di Bianconiglio appunto) anche lo
spettatore. Sulla scena di Punzo troviamo il corpo, non
come latore di senso e pertanto significante, bensì nella
sua fisicità e gestualità. Quelli che vediamo sulla scena di
Hamlice sono infatti corpi vissuti, tatuati, pieni di cicatrici,
gonfi di muscoli, spesso strizzati in corpetti femminili
per esorcizzare la propria corporeità, cercare un’altra via,
riscrivere con il pubblico un testo performativo16 con un
nuovo finale.

7. Quale effetto?
Tutto deve avere ancora una possibilità
Come spiega Punzo stesso, Amleto e Alice raccontano,
seppure con registri differenti, due modi di negarsi
alla vita, di evitarne gli oneri e le responsabilità, ma so-
prattutto due modi di trasformarsi: la trasformazione è
la possibilità di sottrarsi al proprio ruolo per sempre ed è
sempre un’esperienza cupa e violenta, capace di provocare
qualcosa di simile ad una vertigine, come questo spet-
tacolo. Si tratta in effetti di una macro-allucinazione, che,
secondo una lettura freudiana, vede i pensieri trasformarsi

16
Cfr. F. Ruffini, Semiotica del teatro: ricognizione degli
studi, «Biblioteca teatrale», (9) 1974, pp. 34-81; De Marinis,
Dramaturgy of the spectator, «The Drama Review», (31) 1987, pp.
100-114; E. Barba, E. Savarese, L’arte segreta dell’attore – un
dizionario di antropologia teatrale, Lecce, Argo, 1997; De Marinis,
Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Roma, Bulzoni,
1999; L. Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel
teatro del Novecento, Roma, Bulzoni, 2003; De Marinis, Visioni
della scena. Teatro e scrittura, Roma-Bari, Laterza, 2004.

67
in immagini e scene proprio alla stregua di un dramma
teatrale in cui il regista è il sognatore, che può parteciparvi
direttamente in qualità di attore o assistervi in qualità di
spettatore. In questo caso, siamo di fronte ad un sogno
collettivo in cui tutti, trascinati in un mondo alternativo
alla vita quotidiana, siamo chiamati (parafrasando le
parole di William James17) a spostare il nostro accento di
realtà. Di qui, viene recuperato l’aspetto rituale del teatro,
la sua urgente necessità, la sua funzione liturgica, al
servizio quindi di una collettività alla ricerca di un senso
condivisibile e di una cultura condivisa.
Il punto di partenza, il pensiero dominante, talvolta
ridotto a pura materia fonica, è ancora una volta il testo
drammatico per eccellenza, la tragedia shakespeariana,
tragedia del potere, ma anche emblema dell’immobilità,
che, secondo le riletture freudiane, incatena il soggetto
nevrotico ad una condizione di non crescita, di non
superamento del complesso edipico18. Ma se nel testo-
monumento di Shakespeare era il re Claudio a ri-
vedere nello spettacolo dei comici il proprio crimine
commesso, in Hamlice va in scena l’inconscio di Amleto
in cui immagini e percezioni vengono oggettivizzati per
rimettere insieme i pezzi della verità. Nella tragedia era
la compagnia dei Comici a fare irruzione dall’esterno
nel claustrofobico castello danese, disvelando la verità
con la finzione; qui è la prorompente fisicità di corpi
imprigionati a scardinare le titubanze del pallido principe

17
W. James, The Principles of Psychology (1890), introduction by
G. A. Miller, Harvard University Press, 1983, in traduzione italiana
Principi di psicologia, a cura di G. Preti, Milano-Messina, Principato,
1965.
18
E. Jones, Hamlet and Oedipus, London, V. Gollancz, 1949; in
traduzione italiana Amleto e Edipo seguito da “Amleto e Freud” di Jean
Starobinski, a cura di P. Caruso, Milano, Il Formichiere, 1975.

68
e a gettarlo nella sarabanda di una festa patronale da cui
uscirà trasformato e forse finalmente libero.
Questa trasformazione necessaria passa attraverso l’anar-
chia di Carroll, che travolge miserie e sofferenze di personaggi
incatenati ai loro ruoli, in una centrifuga vertiginosa di
testi e di parole pronte a esplodere nel pirotecnico finale.
La condizione liminare19 in cui si trovano gli attori della
Compagnia diviene così condizione conoscitiva che con-
sente di esplorare a fondo il binomio rischio-limite presente
da sempre nella categoria del tragico20, là dove l’esposizione
della diversità21 diventa occasione per uscire dall’isolamento
e rispondere ad un’esigenza comunicativa urgente che è
comune a tutti noi.

19
A. Punzo, Limite e resistenza, in La Compagnia della Fortezza,
cit. p. 47: «Credo che tutto il nostro lavoro sia legato alle parole
limite e resistenza. In tutta la mia esperienza precedente e nelle varie
letture che costituiscono il mio piccolo patrimonio di cultura teatrale
(Gurdjieff, Grotowski,...) è stato sempre centrale il discorso di lavoro
sul limite. Entrare in carcere significa verificare il limite. Anche nel
mondo esterno al carcere c’è il limite, ma lì dentro si visualizza e si
concretizza in modo abnorme: il teatro diventa lo strumento per
combattere questo limite. Il limen è la situazione che permette di
creare un gruppo, di inventare delle relazioni fra noi e le persone lì
dentro, la base più importante del nostro lavoro».
20
Cfr. A. Cascetta, La tragedia nel teatro del Novecento, Roma-
Bari, Laterza, 2009.
21
Cfr. V. Valentini, La forma nasce dal bisogno di comunicare,
in La Compagnia della Fortezza, cit. pp. 9-22.

69
CORPO E IMMAGINE:
“PREPARATIO MORTIS” DI JAN FABRE
Leggere il testo performativo

1. La morte in scena
L’idea che sottende Preparatio mortis di Jan Fabre nasce
da un assolo di quindici minuti creato per la danzatrice
Annabelle Chambon e presentato, nel 2005, al Festival
d’Avignone: usare la morte come lente per guardare la
vita in modo diverso; ovvero, aspirare costantemente ad
uno stadio post-mortem della vita stessa.
Al centro di questa riflessione c’è il corpo in tutta la
sua splendente bellezza ed inaccettabile deperibilità:
il corpo femminile, misterioso veicolo di vita che lotta
con lo spazio circostante scrivendo sulla scena un passo
a due, ora dolce ora frenetico e violento, con una partner
d’eccezione (invisibile quanto presente) la morte appunto,
scandalosamente evocata sotto forma metonimica di
catafalco fiorito prima e di teca di vetro poi (fig. 7 e 8).
La sensibilità per tutto ciò che è legato al corpo
umano è del resto cifra costante dell’intera esperienza
artistica di questo pittore, scultore, drammaturgo, regista,
perfino entomologo1 – che si autodefinisce consilience-

1
Sulla famiglia di Fabre aleggia l’ombra dell’avo entomologo
Jean-Henri Fabre, grande scienziato che ispirò le opere di Darwin e
studiò gli insetti e coleotteri, classificandoli con nomi ispirati al loro
comportamento. Jean-Henri Fabre è inoltre noto per aver coniato il
concetto di “Ora blu”, momento liminare fra il sorgere del sole e il
termine della notte in cui gli esseri notturni lasciano la scena a quelli
diurni.

71
artist2 – a partire dagli anni Settanta, quando, ancora
sedicenne, costruisce nel giardino di casa una tenda
indiana (denominata The Noise) in cui conduce le sue
performances private, esperimenti con insetti e fluidi
organici. Sino ad arrivare ai primi disegni di My body, my
blood, my landscape (1978) nei quali unisce la passione
per il disegno all’esplorazione della corporeità, arrivando
ad usare il proprio sangue come segno grafico.
L’interesse per i limiti del corporeo, come la ricerca
del movimento perfetto si concretizzano, negli anni
Novanta del Novecento, con un avvicinamento del
regista alla danza, massimo esempio di fruizione estetica
della disciplina fisica. La riflessione sul corpo in tutte le
sue declinazioni (fisico, spirituale, erotico, ribelle) diviene
dunque il nucleo creativo di questa fase in cui realizza
spettacoli corali, ma soprattutto assoli che esaltano le
abilità performative di attori e ballerini3.

2
J. Fabre, Jan Fabre, intervista a cura di V. Siviero, «Espoarte,
Contemporary Art magazine», pp. 70-78: «Mi considero un
consilience-artist, un artista che esplora i legami tra scienza e arti
visive, scrittura, performance e teatro. In passato, questo tipo di
contaminazione non era accettata mentre oggi un’intera generazione
di artisti e curatori persegue proprio la concordanza, la continua
sperimentazione. Nei secoli, il mio paese ha dato i natali ad artisti
eccezionali, dai Primitivi Fiamminghi a Thierry De Cordier, Luc
Tuymans, Kris Martin, Berlinde De Bruyckere, David Claerbout e
Wim Delvoye, solo per ricordarne alcuni».
3
Fra i ballerini e coreografi di danza contemporanea che hanno
collaborato con il Troubleyn di Jan Fabre ricordiamo Els Deceukelier,
Renée Copraj, Wim Vandekeybus e Marc Vanrunxt. Di questi anni
sono Sweet Temptation (1991); Copyright universali 1 e 9 (1995);
Glowing Icons (1997); The very Seat of Honour (1997); Lichaampje,
Lichaampje aan de wand (1997); The Pickwick-man (1997); The fin
comes a little bit earlier this siècle (1998); As long as the world needs a
warrior’s soul (2000), quest’ultima una riflessione sul corpo che si
ribella a partire da testo di Dario Fo Io, Ulrike, grido!.

72
Nel 2002 ritorna alla performance con Sanguis/
Mantis, siglando poi il suo quaranteseiesimo compleanno
(14 dicembre 2004) con Virgin-Warrior/Warrior-Virgin,
spettacolo in cui si esibisce in una lotta di quattro ore con
Marina Abramović, ribadendo la centralità artistica dei
concetti di avvenimento, non-ripetitività, casualità, ma
soprattutto di immanenza del corpo del performer.

2. In scena la vita
Partendo da tali presupposti, Preparatio mortis4 va in
scena, in una versione nuova, completa, più articolata,
della durata di quasi cinquanta minuti in prima italiana
assoluta nel 2010 al Teatro Palladium di Roma, inserita
nel contesto delle celebrazioni per il venticinquesimo
anniversario del Romaeuropa Festival e per l’edizione
2010 del Next Festival (Kortrijk, Rijsel). La produzione
viene poi riproposta all’ImPulsTanz festival di Vienna nel
luglio del 20115, approdando nuovamente in Italia nella

4
Preparatio mortis. Concetto: Jan Fabre. Coreografie: Jan Fabre,
Annabelle Chambon. Performer: Annabelle Chambon. Compo-
sizione ed esecuzione: Bernard Foccroulle / Toccata (2001) eseguita
da Bernard Foccroulle all’organo della Cattedrale di Bruxelles; Spiegel
(2005) eseguita da David Boos all’organo rinascimentale della Grande
Chiesa in Alkmaar; Capriccio sopra Re-Mi-Fa-Sol (1986) eseguito
da Benoît Mernier all’organo in Muri; Pulchra es (2009) eseguita da
Bernard Foccroulle all’organo in St. Thomas, Strasburgo; Ornamented
Flutes (2007) eseguito da Bernard Foccroulle all’organo nel Temple
du Bouclier, Strasburgo; Fantasia sopra «Da pacem Domino» (1999),
eseguito da Bernard Foccroulle all’organo rinascimentale in St. Jacques,
Liège. Produzione: Troubleyn/Jan Fabre, Anversa. Anno di produzione
2010.
5
Per una selezione di rassegna stampa straniera (in traduzione
inglese) dedicata a questo evento, cfr. S. Kargl, Austrian premiere
of Jan Fabre’s “Preparatio Mortis” at ImPulsTanz at the Vienna
Odeon, «Kurier», 18 luglio 2011; Id.,“To provoke is to revive reason”.

73
primavera del 2012, prima alla Fondazione Pontedera
Teatro e poi al Teatro Fabbricone di Prato6. In questi
ultimi allestimenti Annabelle Chambon viene sostituita
dalla più giovane Lisa May, rimanendo tuttavia dietro le
quinte come coreografa.
Non esiste un testo drammatico di riferimento, né
alcuna forma di drammaturgia “consuntiva”, siamo di
fronte ad un testo performativo, dove esiste comunque
una chiara struttura narrativa che circolarmente fa
coincidere l’inizio con la fine. La ballerina emerge infatti
da un sepolcro fiorito per ri-addormentarsi in una teca
trasparente, su cui è vergata una data (17 gennaio 1975),
non di morte – come sarebbe logico pensare – bensì di
nascita. Pertanto, se la conclusione richiama con forza la
definitiva tumulazione di una forza vitale, potremmo in
effetti essere spettatori (seppure nei margini fluttuanti di
una voluta ambiguità semantica) di un percorso a ritroso,
dalla tomba all’utero materno.

Interview Star choreographer Jan Fabre on death, tradition and the


power of beauty, «Kurier», 19 luglio 2011; H. Ploebst, Death is a
Maestro from Flanders. Jan Fabre’s “Preparatio Mortis” at Impulstanz
at Vienna’s Odeon Theatre, «Der Standard», 18 luglio 2011; T.
Kramar, ImpulsTanz. At Vienna’s Odeon the Belgian Jan Fabre
presented his one-person performance “Preparatio mortis”: decorative
and rather tedious, «Die Presse», 18 luglio 2011; B. Lietzow,
In Fabre’s dance of death flowers germinate for finitude, «Tiroler
Tageszeitung», 18 luglio 2011.
6
Per quanto riguarda la rassegna stampa italiana, si segnala M.
Martini, Preparatio mortis: Jan Fabre al Romaeuropa Festival,
http://www.teatroecritica.net, 19 novembre 2010; G. Distefano,
Requiem di Jan Fabre in Preparatio mortis, http://www.ilsole24ore.
com/arte/cultura/2011-11-12, 12 novembre 2010; T. Chimenti,
“Preparatio mortis” sensi accesi tra fiori recisi e farfalle. Una danzatrice
sensuale risorge dal sarcofago, http://www.corrierenazionale.it/
spettacoli, 30 aprile 2012.

74
Va in scena dunque la vita, intesa come un campo di
energia positiva e motore per nuovi sogni e desideri, come
danza scandita dal respiro che sottende al movimento,
fiato vitale che determina il ritmo dell’intero spettacolo,
incorporandosi, dal punto di vista visivo, nel respiro del
tappeto di fiori che ondeggia in apertura e, da quello
uditivo, nell’organo, con il soffio della sua pompa
idraulica che accompagna tutta la performance. Lo stesso
respiro appanna il vetro della teca trasparente, dove, nel
finale, la danzatrice nuota in una luce lattiginosa che
richiama il liquido amniotico in cui si muove il feto prima
della nascita.

3. L’immagine-guida: la metamorfosi
L’immagine-guida, che ispira questa creazione dell’ar-
tista – non a caso anche scultore – è la metamorfosi;
dichiara infatti: «Il mio teatro è un rituale di igiene mentale
e purificazione. Provoca un processo di metamorfosi, non
soltanto nell’attore, ma anche nello spettatore»7. Qui
la trasformazione avviene attraverso il movimento della
danzatrice: l’opera installativa che rappresenta la morte,
il catafalco coperto di fiori che campeggia al centro del
palcoscenico all’apertura del sipario, viene scossa da una
coreografia che lo avvolge e lo trasforma dall’interno.
Il cumulo di gerbere e gigli si gonfia inizialmente, e
ondeggia come un gigantesco budino gelatinoso, una
caramella gommosa che irride la staticità della morte
che vorrebbe rappresentare; tutto si trasforma infatti, il
corpo innanzitutto, materia che esplode per dar luogo
ad altra materia. E dal sepolcro spunta una mano, poi un
braccio, poi tutto il corpo di una Venere in langerie dei

7
Fabre, Sul mio teatro. Guerrieri della bellezza e testi che forzano
i registi, «Il Patalago», (28) 2005, p. 251.

75
nostri giorni, che, con movimenti dapprima lenti, ampi
e disarticolati conquista lo spazio circostante, per poi
dominarlo, “stuprarlo”, a colpi di una mimica oscena che
seduce con violenza.
La vita è costantemente presente sotto l’aspetto dei fio-
ri, che rappresentano le esperienze passate e ricoprono l’in-
tera scena con un tappeto multicolore di quasi settemila
unità, meticolosamente scelte e disposte da Fabre stesso per
ogni rappresentazione. Ci sono i gigli bianchi, le gerbere
rosa, talvolta vengono utilizzati anche gli iris blu: la morte
è a colori, non più confinata “sotto il tappeto” della nostra
civiltà, ma esposta alla contemplazione dell’uomo, in tutta la
sua ambiguità. Sottratta al monocromatismo asettico degli
ospedali diviene un carnevale per gli occhi, «una festa –
ancora una volta – per celebrare la carne»8.
Cala un velo di oscurità e il corpo della danzatrice
ricompare, completamente nudo, dentro una teca
di vetro trasparente, circondato da farfalle notturne,
grigie falene che si posano su di lei, assecondano i suoi
movimenti, mentre la donna, nel candore della nudità,
nuota lentamente nel proprio respiro, disegnando segni
bianchi sul vetro, forse graffiti di un mondo primordiale:
animali, simboli fallici, gocce di sperma che nutrono onde
del mare.
Siamo nel pieno di una riflessione che coinvolge la
materia, cara a quegli artisti fiamminghi che Fabre prende
a modello per le sue creazioni: in questa poetica della
carne (che vede nella figurazione di Rubens un punto di
riferimento) il corpo è materia di metamorfosi, destinato
ad assumere forme sempre nuove e diverse. Qui la

8
Fabre, Jan Fabre, intervista a cura di F. Astesani, «DROME
magazine», (II, 8) ottobre-dicembre 2006. http://www.undo.net/
it/magazines/1161777534.

76
performer si trasforma in un gigantesco insetto, rinchiuso
in una teca; ogni forma è temporanea e aspetta di rinascere
sotto altra forma, come l’Araba Fenice dalle sue ceneri,
l’eternità è possibile solo come fluido movimento, solo
così si può riemergere dalla terra, nutrirla, assumendo
talvolta sembianze zoomorfe:
Adoro l’universo simbolico evocato dagli insetti,
ci guidano in un altro mondo. Gli animali mi
insegnano molto, sono i migliori guaritori e i più
brillanti filosofi, sono istintivamente guerrieri,
hanno i sensi costantemente all’erta e sono
sempre pronti al combattimento. Usano il loro
potenziale sensoriale molto più di noi uomini,
sono un fascio di istinti9.

4. Quando lo spettatore viene avvelenato


Dal punto di vista strutturale, lo spettacolo può essere
suddiviso in tre sequenze, la prima delle quali esclusivamente
dedicata alla percezione dello spettatore, che si trova immerso
nell’oscurità, avvolto da un odore nauseante e cimiteriale di
fiori in putrefazione, assordato dalle note di una Toccata per
organo di Bernard Foccroulle10.
Si tratta di un vero attacco sferrato al pubblico, una
provocazione violenta che, riproponendo immagini e sensa-
zioni rifiutate dall’umanità difende l’umanità stessa da un
processo di rimozione, che finirebbe per cancellarne l’essenza:
Il mio teatro ritorna alle origini della tragedia.

9
Fabre, Conversazione con Jan Fabre, intervista a cura di L. Van
Den Dries, in L. Van den Dries, Corpus Jan Fabre. Annotazioni su
un processo di creazione, Milano, Ubulibri, 2008, p. 260.
10
Già direttore artistico del Théâtre De Munt/de la Monnaie di
Bruxelles e oggi direttore artistico del Festival dell’Arte lirica di Aix-
en-Provence.

77
La tragedia affonda le sue radici nei rituali
dionisiaci, dove l’estasi e il desiderio si incontrano
con la legge e la ragione. Attraverso la catarsi, lo
spettatore viene messo a confronto con i capitoli
oscuri della storia dell’uomo. Soffre per estremo
dolore e orrore. Nel confronto con questa sof-
ferenza, viene redento11.
Recuperando dunque il principio di catarsi, il teatro
diviene un salto nel buio, «un’impalcatura da dove i
corpi si buttano nell’abisso»12, un’arte contaminata dalla
morte e dal caso e il pubblico uno sconosciuto che di
questa casualità tiene le redini: «La fine di uno spettacolo
è come un cadavere la cui anima si mette in moto nei corpi
degli spettatori»13. Consapevole di questo, Fabre gioca
con la finzione teatrale, col potere dell’immagine, de-
costruendo i meccanismi della finzione per ri-montare la
percezione dello spettatore su basi nuove, destabilizzanti
e pericolose.
In Preparatio mortis l’entrata in sala è in effetti un
rischio: oltre al pericolo allergico aleggia sul pubblico la
nausea del sepolcro, non più confinato ai margini della
città e del pensiero, ma presente e ingobrante sulla scena.
Siamo, di fatto, invitati al nostro funerale. Il catafalco,
enorme nell’oscurità, assume forme più contenute e
rassicuranti via via che la scena s’illumina, per poi ridursi
ad un tumulo scomposto di fiori che la danzatrice,
emergendo da un sonno rigeneratore, aggira e irride con
passi di danza e gesti allusivi. Il corpo della donna ri-
disegna dunque lo spazio e ri-orienta la percezione.

11
Fabre, Sul mio teatro, cit. p. 251.
12
Fabre, Conversazione con Jan Fabre, cit. p. 17.
13
M.G. Gregori, Un cercatore di sogni capace di creare un teatro
estremo dove i corpi possono anche diventare macchine desideranti, in
Fabre, Teatro, Milano, Ubulibri, 2010, p. 10.

78
In questa prima parte e per brevi momenti, le situazioni
diventano concrete attraverso un linguaggio metaforico:
la danzatrice si contorce, sputando fiori, si muove sulla
scena in uno stato di trance, infine si siede a sfogliare
i petali di una gerbera in un “M’ama non m’ama” che
richiama Giselle. Nella tradizione risiede infatti per Fabre
l’educazione e il potere della bellezza e alla tradizione
si tiene saldamente ancorato per procedere verso nuovi
percorsi di fruizione estetica e nuove possibilità espressive.
Il tempo della performance dilatato nella percezione
dello spettatore (alcuni critici rilevano come i cinquanta
minuti di spettacolo sembrino cento) è scandito dalla
luce (o dall’oscurità, se vogliamo) in sala: tra la prima e
la seconda parte infatti non cala il sipario, ma cala il buio.
Il corpo femminile riappare nella teca trasparente e lì
continuerà la sua danza insieme alle falene, per conclu-
derla rannicchiato in posizione fetale.
Le composizioni per organo si susseguono, scandendo
anch’esse il tempo della rappresentazione e alternandosi
a momenti di silenzio in cui è il respiro della danzatrice
a determinare il ritmo del movimento sulla scena. Così,
la percezione uditiva catapulta lo spettatore dall’interno
di una cattedrale all’interno di un corpo, dove pulsano
cuore e polmoni; si passa dal nostro funerale alla nostra
nascita: siamo invitati a nascere di nuovo.

5. Scompare l’attore, appare il “Guerriero”


Fabre dichiara di attingere ai metodi di Stanislavskij,
Mejerchol’d e Grotowski, seppure adattandoli alle sue
necessità come a quelle dei suoi performers; tuttavia le sue
creazioni teatrali non sono il frutto di un sistema teorico,
bensì di un processo di evoluzione nel quale gli attori – ri-
denominati «Guerrieri della Bellezza» – combattono alla
ricerca di una verità su sé stessi e sull’universo ricreato in

79
scena. In effetti, l’artista fiammingo ritiene la parola “attore”
ormai obsoleta, mentre preferisce usare il termine performer
per indicare un soggetto che agisce dialetticamente inter-
facciandosi con l’altro attraverso la parola, il movimento,
l’esposizione della fisicità nello spazio:
I miei “Guerrieri della Bellezza”, come gli eroi
delle tragedie classiche, si battono contro
strutture e sistemi imposti, tentano ogni volta
di muovere o modificare le regole del gioco. A
volte vincono, a volte perdono, ma dimostrano
sempre la potenza dell’individuo, diventando
così simboli della ricerca del potenziale della
libertà14.
Secondo tali premesse, i “Guerrieri” sono come animali
– e tra essi sono prediletti gli insetti – capaci di sfruttare al
massimo le proprie percezioni sensoriali e i propri istinti:
«La società è addirittura spaventata dagli istinti; non
possiamo più essere animali. Infatti, invece di utilizzare
i nostri sensi animali, inventiamo apparecchi per vedere
meglio, per sentire meglio [...] studiamo sempre più nel
particolare, eccetto che ci dimentichiamo della vita»15. Così
il lavoro di Fabre si sviluppa in relazione allo studio degli
insetti e del loro comportamento, concentrandosi sull’uso
dello spazio e delle strategie belliche di sopravvivenza.
Per questo, l’artista si definisce «un difensore dell’u-
manità», mentre i suoi performers agiscono al ser vizio
della bellezza, che dell’umanità è principale nutrimento:
In venticinque anni, penso di aver sviluppato una
nuova forma di artista sul mio palcoscenico. Non
è più solo l’attore classico o il danzatore classico.
[...] Gli insegno ad usare l’azione reale, il tempo

14
Fabre, Conversazione con Jan Fabre, cit. p. 283.
15
Fabre, Jan Fabre, cit. p. 41.

80
reale, la sofferenza reale, attraverso le situazioni
col corpo e colla mente, come dare forma alla
propria presenza. Li rendo consapevoli di
come il corpo viene rappresentato nella storia
dell’arte guardando la pittura classica, ma anche
l’arte contemporanea. Servendomi di questa
combinazione di esercizi e ricerca, creo un nuovo
tipo di artista in scena16.
Occorrono non meno di cinque anni di training e di
vicinanza col regista perché il performer si trasformi in
“guerriero”; il suo metodo si affida, non tanto alle azioni
fisiche, quanto a quelle biologiche: in gioco non c’è più
l’emotività, ma gli organi del corpo che reagiscono; la
recitazione si svuota, così, di ogni introspezione psicologica.
Il metodo di lavoro si fonda sul principio di ripetizione
per arrivare a dimostrarne l’impossibilità intrinseca e la forza
primaria del cambiamento: «L’accumulazione e il punto
finale dell’imitazione coincidono con la sua scomparsa.
Attraverso la ripetizione i contenuti cambiano, il testo
cambia, il corpo cambia, diventa esausto, gli occhi cambiano,
gli stati biologici del corpo cambiano»17. L’unica mimesis
possibile è dunque quella del divenire e della metamorfosi.
I movimenti della danzatrice in Preparatio mortis si
fondano su sequenze motorie che vengono ripetute secondo
schemi modulari fissi; di qui la percezione di una dilatazione
temporale e la conseguente sensazione di noia che alcuni
recensori dello spettacolo denunciano. Le azioni vengono
infatti ripetute nel modo più uniforme possibile, pertanto
nella massima uniformità ogni minima differenza esecutiva
costituisce una frattura inevitabile nella scansione temporale
e proprio in questa frattura risiede il tempo individuale

16
Fabre, Sul mio teatro, cit. p. 251.
17
Ibidem.

81
mediante il quale si esprime nello spazio la categoria dell’u-
mano. Finché c’è frattura c’è vita.
Il fenomeno della ripetizione non colpisce solo l’attore,
ma anche lo spettatore, indebolendone lo sguardo: avviene
così uno slittamento costante tra significante e significato
che determina il collasso dell’intero sistema di senso che
orienta il pensiero e la percezione. Tale sistema assume infatti
la connotazione di un disco rotto, rivelando apertamente
i suoi limiti e le sue falle. Viene messa così in discussione
dalle fondamenta la riproducibilità dell’evento teatrale,
attraverso un iper-esposizione (talvolta persino fastidiosa)
dell’hic et nunc. La presenza di una struttura narrativa nel
testo performativo serve, di fatto, ad evidenziarne la labilità:
il senso – se di senso vogliamo ancora parlare – risiede nei
vuoti da riempire.

6. La scrittura del corpo:


i testi sono movimenti congelati
Nei suoi spettacoli Fabre non utilizza sempre un testo
drammatico, considerandolo solo una delle componenti
dello spettacolo da affiancare a tutte le altre: scenografia,
luci, costumi, corpo, mente e individualità dell’artista.
Quando pubblica pensa solitamente alla possibilità di
un’altra messinscena da parte di un altro regista, che però
dovrà necessariamente riappropriarsi del testo stesso, re-
investendolo di nuovi significati.
I testi attingono, in maniera visionaria, ad un’auto-
biografia urgente che riemerge dal profondo con una
violenza che solo il pensiero può mitigare: «I testi sono
movimenti congelati, possono diventare combustibile per
il fuoco [...]. Un testo è fatto di parole, che possono essere
ripetute all’infinito. Io voglio che i miei testi si materializzino

82
e scompaiano secondo la messinscena che ne faccio»18.
Nel caso di Preparatio mortis il testo performativo na-
sce da un’esperienza autobiografica di morte reversibile,
il coma, di cui l’autore è stato vittima per ben due volte. Si
tratta dunque di una creazione sulla propria pelle, vissuta in
maniera carnale, gestita come una lotta con le illusioni della
mente: di qui scaturisce l’aggressività, che è cifra costante
delle produzioni dell’artista fiammingo.
L’attenzione per gli elementi naturali, la curiosità per
l’elemento patologico, l’espressività di corpi tormentati o
deformati sono del resto elementi che accomunano Fabre a tre
protagonisti del teatro contemporaneo: Romeo Castellucci,
Rodrigo García e Francois Tanguy. Questi artisti, definiti i
“Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” e accostati alla figura di
Tadeusz Kantor, sembrano annunciare una fine dei tempi,
pur traendone stimoli fecondi di creatività19. La riflessione
sulla morte individuale s’inscrive pertanto nell’orizzonte più
ampio di un’Apocalisse collettiva, percepita però come un
nuovo inizio.
Da questa condizione liminare sospesa fra vita e morte
nascono spettacoli che mettono in scena corpi, circondati da
animali imbalsamati o vivi, insetti, oggetti, residui collocati in
uno spazio labirintico di cornici, tele, quadri, fiori, macchinari.
Si tratta di una poetica dell’osso nel senso montaliano del
termine, l’arte nasce infatti dallo scarto, dalla deriva del
ventesimo secolo. È evidente il legame di questi artisti con
le arti figurative: al centro della performance c’è l’analisi della
possibilità dell’immagine, del suo potere evocativo. In scena

18
Ibidem.
19
Cfr. R. Palazzi, Come cambia la regia. Vita e rappresentazione,
maestri della presenza, «Il Patalago», (28) 2005, p. 230; A. Bianco,
V. Liberti, Visionari e visioni. Il montaggio del reale e della mente
– Quattro cavalieri dell’Apocalisse continuano a fare teatro o quel che
resta del teatro, «Il Patalago», (28) 2005, p. 254.

83
compaiono non oggetti ma correlativi oggettivi che devono
fare da puntelli visivi per la restaurazione di un pensiero
simbolico, che può ripartire appunto dall’iconologia.

7. Lo spazio: come il pittore dipinge la tela


Il processo creativo di uno spettacolo del Troubleyn20
è un percorso che parte da un workshop, un laboratorio
a cui partecipano una quindicina di attori e danzatori
selezionati dopo una lunga serie di audizioni. Il training,
che dura generalmente più di un mese, è psico-fisico
e consta di due momenti principali: uno di riflessione
sui temi portanti della nuova produzione e l’altro di
allenamento fisico per riscaldare il corpo. Punto-cardine
del riscaldamento è il lavoro sul flusso controllato del
respiro, che, tramite i processi di inspirazione/espirazione
ri-colloca la fisicità al centro dello spazio.
Quest’ultimo è fondamentale per la concezione dello
spettacolo: si tratta di un supporto sul quale il corpo dipinge
proprio come il pittore dipinge la tela. Fabre lo focalizza
seguendo i principi della prospettiva tradizionale, secondo
cui ogni linea e ogni forma si relazionano col punto di fuga;

20
Il Troubleyn, attivo dal 1986, indica la compagnia e la
produzione dell’artista fiammingo, ma anche il luogo fisico dove il
suo teatro si concretizza. Si tratta di un vecchio edificio industriale di
mattoni a vista dove Fabre ha fatto costruire due sale di registrazione,
un teatro con palcoscenico di diciassette metri per venti, studi
polivalenti, foresterie per artisti, sartorie, sale prove, sale massaggi
e un bar affacciato sul cortile aperto ogni sera per tutti gli abitanti
di Anversa. Ovunque segni del passaggio di grandi artisti: in cucina,
ricette scritte sul muro con sangue di maiale da Marina Abramović;
un’invenzione di Bruna Esposito che ha ricoperto la porta di migliaia
di campanelli; una bacheca fitta di animali, insetti e conchiglie
(omaggio al presunto avo entomologo) opera di Jan Lauwers e così
molti altri, da Bob Wilson a Wim Delvoye. Si tratta in effetti di una
macro-installazione.

84
pertanto, il catafalco che campeggia gigantesco nell’oscurità
di Preparatio mortis si colloca visivamente dal primo piano
allo sfondo – pur rimando immobile – attraverso un sapiente
gioco di luci.
Lo spacing è basato su linee simmetriche che disegnano
una distanza uguale fra gli attori, per i quali l’unico rife-
rimento è costituito dalla “linea zero”, inizialmente imma-
ginaria, poi tracciata effettivamente sul palcoscenico: essa
deriva dalla posizione reciproca di due o più attori sulla scena.
Nel caso di Preparatio la linea zero definisce la relazione
prossemica fra la danzatrice e la sua compagna invisibile,
la morte, definendo (almeno nella prima parte) l’ordine
dei movimenti in relazione al catafalco centrale. Durante
il training è concesso molto spazio agli attori, in modo da
stimolare le configurazioni più varie; qui la performer deve
relazionarsi esclusivamente con gli oggetti o altre forme di
esseri viventi: il catafalco, i fiori, le falene. La morte si danza
in solitudine.
Al termine di una serie di improvvisazioni, scaturite da
alcune idee-guida, Fabre, insieme alla coreografa, monta
le sequenze più convincenti, che vengono ri-proposte
dall’attore (o dagli attori) sulla base del ricordo che ne
hanno conservato. L’essenza delle prove consiste infatti nella
ripetizione e nello scarto; quest’ultimo viene spesso riciclato
in un processo che l’artista denomina exformation: «È così
che va un processo creativo: bisogna prima passare attraverso
il nero più cupo per veder sorgere il rosso più splendente»21.
E il medesimo percorso compie lo spettatore di Preparatio,
viaggiando dall’oscurità del sepolcro alla luce amniotica
dell’utero materno.
Nelle produzioni del Troubleyn, il processo creativo è
dunque un processo collettivo, seppure sotto l’occhio vigile

21
Van den Dries, Corpus Jan Fabre, cit. p. 91.

85
del regista, che, con la curiosità del biologo, esamina le
articolazioni del corpo in scena, analizzandone i movimenti
fin nelle minime fibre. Lo spettacolo viene completamente
rivisto ogniqualvolta cambi il luogo della rappresentazione,
per consentire al performer di realizzare le azioni nel miglior
modo possibile rispetto al nuovo spazio scenico. L’incontro
con il pubblico è poi determinante per evidenziare i punti
deboli durante l’evento: il processo di creazione, ben lungi
dall’essere concluso la sera del debutto, continua sino
all’ultima replica.

8. Una catarsi ancora possibile


In questo viaggio di Jan Fabre nella vita post mortem la
primavera anomala di un cimitero in fiore si trasforma in una
festa del corpo e della carne, uccidendo il concetto di morte
come irrigidimento e staticità perenne. Trionfa infatti il
concetto di morte come movimento e trasformazione. Tanto
che questa fanciulla, emergendo sonnolenta da un sepolcro
fiorito richiama subito alla mente l’iconografia botticelliana
della Primavera che avanza, come simbolo di rinascita, su un
tappeto di fiori.
Il finale la vede poi alle prese con un nugolo di falene –
farfalle notturne associate solitamente a tristi presagi – con
cui condivide la prigionia in una teca trasparente, vittima
di una situazione claustrofobica che condensa il respiro
in macchie umide sul vetro. Si visualizza così l’incubo del
“sepolto vivo”, che si risveglia sotto terra in mezzo a larve e
insetti. Ma partendo da questa sgradevolezza percettiva,
occorre spostarsi un passo più in là, perché la donna respira
e nuota, con movimenti lenti e sinuosi, tra farfalle vive.
Evidentemente l’aria c’è e la data che campeggia sul sarcofago
è quella della sua nascita. Non abbiamo davanti un feretro,
ma un utero accogliente da cui ri-inizia la vita.
Lo spettatore, schiaffeggiato metaforicamente più volte

86
nel corso dei cinquanta minuti di spettacolo, può infine
rilassarsi, ma solo dopo essere stato costretto a considerare
il tabù della morte in modo diverso, avendone viste cioè
le implicazioni salvifiche. Il veicolo di questo messaggio
è, ancora una volta, il corpo femminile, la Clizia dei nostri
giorni, la creatura salutifera e portatrice di vita, trasformata
da girasole a gigantesco insetto che lotta con l’oscurità,
cercando la luce.
Ma il rituale non si conclude qui: in alcuni teatri
viene offerto al pubblico un Iris blu all’uscita, in altri, gli
spettatori raccolgono i fiori dal palco e li portano con sé.
Il clima è comunque festivo, da Domenica delle Palme in
cui tutti cercano in fondo alla Chiesa il proprio ramoscello
d’olivo per la benedizione. Tuttavia permane qualcosa di
sinistro in questa offerta floreale, una sorta di memento
mori: la morte, tradizionalmente relegata fuori scena, si è
scandalosamente presentata sul palco, entrando nel nostro
vissuto, vaccinandoci contro la paura.
E su questa “vaccinazione”, che consiste di fatto nella
preparazione alla morte, si concentra tutto il lavoro di Fabre:
A volte ho l’impressione di essere, a modo mio, un
guaritore greco. So a cosa servono i rituali e so cosa
possono causare le mescolanze sottili. La parola
greca φάρμακον significa allo stesso tempo medicina
e veleno. È qui tutta l’ambiguità del mio approccio
al lavoro e dei miei spettacoli: per gli attori, i
danzatori, il pubblico, il mio teatro è un’estetica
dell’avvelenamento, che eventualmente può anche
curare22.

22
Fabre, Conversazione con Jan Fabre, cit. p. 266.

87
MATERIALI CRITICI
La scrittura a caldo: esempi di recensione

Odissea: doppio ritorno. Due spettacoli di Luca


Ronconi. Regia: Luca Ronconi; progetto scenico di
Marco Rossi; costumi di Silvia Aymonino; musiche
di Carlo Maria Boccadoro; luci di Nevio Cavina;
movimenti di Maria Consegna. 2008

Luca Ronconi propone l’Odissea: doppio ritorno,


due spettacoli in scena a Milano, dall’8 al 20 marzo,
contemporaneamente al Teatro Strehler ed al Teatro
Studio. Il doppio appuntamento si articola in luoghi
teatrali separati, contrariamente a quanto avvenuto a
settembre, presso il Comunale di Ferrara (dove pal-
co e platea li ospitavano in simultanea), ponendo, così,
l’accento sulla complementarietà, ma anche sull’auto-
nomia di queste due riflessioni sul tema odissiaco. La
duplicazione è il primo filo rosso che unisce il dittico,
considerando anche le doppie interpretazioni di alcuni
fra i trenta giovani attori, tra cui si ricordano la Circe/
Atena di Elena Ghiaurov, l’Anticlea/Euriclea di Tatiana
Lepore e l’Ulisse di Raffaele Esposito. Il secondo filo è
il ritorno nelle sue varie declinazioni: ritorno a casa,
ritorno all’ordine politico, risveglio dal sonno (o da un
sogno?). Il sonno profondo in cui cade Ulisse arrivando
ad Itaca è infatti l’elemento drammaturgico che unisce i
due spettacoli ed il segmento di congiunzione fra le due
parti del poema omerico, quella dedicata ai viaggi e quella
dedicata al ritorno ed alla vendetta.
Durante il sonno di Ulisse si svolge L’Antro delle

89
Ninfe, lettura simbolica ed escatologica dell’Odissea che
la drammaturgia di Emanuele Trevi ottiene, fondendo
un’opera del filosofo neoplatonico Porfirio (già
protagonista, insieme al maestro Plotino, di un’Operetta
leopardiana) con alcuni versi del poema omerico. Il
dialogo, frutto delle riflessioni del mondo tardo antico, si
interroga sui reconditi significati nascosti nella decrizione
di una caverna abitata dalle Ninfe, davanti alla quale Ulisse
cade in un sonno profondo, appena arrivato ad Itaca.
Una lunga pedana, a forma di T, attraversa il palco
del Teatro Studio, profilandosi, allo stesso tempo, come
passerella e banco di discussione per i personaggi che si
presentano sulla scena. Il pubblico, distribuito in platea e
sulle balconate, ma anche alla sinistra del palco, dietro la
pedana, circonda il luogo dell’azione, mentre uno schermo,
calato dall’alto, proietta immagini dello spettacolo
“gemello” Itaca, prima dell’inizio, per sostituirle con
alcuni versi del tredicesimo libro dell’Odissea durante la
rappresentazione. Gli stessi versi sono ripetuti attraverso
fili che sospendono parole di legno, sempre in alto, dietro
la pedana, richiamando gli oscuri enigmi della Sibilla,
affidati a foglie spazzate dal vento.
Sei personaggi vestiti in abiti scuri disquisiscono sui
molteplici significati del frammento omerico, mentre
sulla scena compaiono due Ulisse, uno sdraiato sulla
pedana, immerso in un sonno quasi sciamanico, l’altro,
in piedi, più maturo, a rappresentare forse l’eroe della
consapevolezza, destato dal sonno. Vicende tratte dal
poema sono rievocate sulla scena, alternandosi alle
dotte conversazioni ermeneutiche e filologiche dei sei
personaggi. I frammenti onirici narrano i colloqui tra
Ulisse e Circe e la discesa dell’eroe nell’Ade per ottenere
i responsi di Tiresia, Anticlea ed Agamennone. Usciti di
scena i personaggi omerici, continua la disputatio erudita

90
dei sei in abito scuro, che non hanno mai abbandonato
il palco, ma sono rimasti sullo sfondo. Ricostruiscono
brandelli di senso, smontando, a poco a poco, i “versi”
omerici appesi al soffitto, passandosi le parole in legno
giallo, deponendole sulla pedana, come per comporre un
puzzle di erudizione. Fanno letteralmente e materialmente
a brandelli la lettera testuale per indagarne arcani enigmi.
La recitazione lenta, scandita dei giovani interpreti
pone lo spettatore di fronte alla perdita di referenzialità
delle parole, trattate come vere e proprie larve di una
sapienza perduta. Il rientro di un terzo Ulisse sulla scena
richiama il pubblico all’urgenza del ritorno ad Itaca: il
viaggio si conclude, l’antro assume le connotazioni del
labirintico vagare dell’eroe. La guerra è finita, occorre
ritornare.
Itaca inizia da questo risveglio: l’eroe arriva nella sua
isola, trascinando una pesante cassa (il tesoro dei Feaci)
ed incontra Atena, che gli prospetta il suo regno usurpato,
spingendolo ad agire. Tuttavia, l’azione ronconiana ci
propone questi eventi solo in un secondo momento,
perché il primo quadro vede, sul palco frontale del Teatro
Strehler, l’imponente Penelope (Francesca Ciocchetti),
vestita di rosso, che troneggia su un’alta torre di legno
mobile, dialogando con un Anfinomo (Pasquale Di
Filippo) in camicia e pantaloni, il preferito tra i giovani
principi che aspirano alla sua mano. La principessa è
ingrassata, si nasconde nelle sue stanze per non vedere
l’anarchia che regna nel palazzo da quando i giovani Proci
vi sono insediati, mentre Telemaco è in cerca del padre,
chissà dove. Una Penelope sboccata e nevrotica, dunque,
ma strenuamente fedele al marito scomparso, non si
decide a scegliere il nuovo consorte portando come scusa
la propria bellezza ormai deturpata.
Le vicende proseguono com’è noto, ma Ronconi

91
recupera il testo di un drammaturgo e scittore tedesco
contemporaneo, Botho Strauss, testo che ha suscitato
numerose polemiche in Germania, dove è stato
rappresentato per la prima volta nel 1996, protagonista
Bruno Ganz. Il punto di vista con cui Strauss rivisita
l’Odissea ai nostri giorni è infatti strettamente politico,
ponendo numerosi interrogativi sulla degenerazione della
democrazia e sulla possibilità di ristabilire il “vecchio
ordine”, qui rappresentato dalla figura di Ulisse. Pertanto
l’autore, da sempre schierato con la sinistra tedesca, a
causa di quest’opera è stato accusato addirittura di scelte
reazionarie.
Ronconi ricrea per la scena il testo di Strauss come
ipotesi di rilettura contemporanea del mito, lascian-
done aperti i molteplici significati che la scrittura dram-
maturgica, organizzata per flasches, suggerisce. Se L’Antro
delle Ninfe rappresenta il punto di vista filologico e
sapienziale di alcuni versi del testo omerico, Itaca ne
rappresenta sicuramente il punto di vista storico-politico.
L’antico diventa possibilità d’interpretazione ermeneutica
del contemporaneo. Ma rimane separato, universo ormai
‘altro’, che si può solo recuperare per frammenti, come ci
rivela il giustapporsi dei quadri scenici e delle azioni.
La scenografia minimalista vede sul palco pochi ogget-
ti simbolici ed allusivi, rocce e frammenti di colonne,
reperti di un mondo che è stato; unico vezzo il carrello-
torre e la botola da cui riemergono dei e semi-dei. La
sala reale è costituita da un lungo tavolo (che richiama
la pedana dell’Antro) lungo il quale si svolgono le astruse
esibizioni di giochi ed insulti dei giovani Proci, vestiti con
magliette attillate e mocassini lucidi, i capelli in gelatinati
o rasati. Recitano slogan politici, vogliono instaurare un
nuovo ordine, si affidano alla pura demagogia, ma la loro
immagine è quella di una gioventù degenerata, fanatica

92
dell’edonismo ad ogni costo. Sono diversi, eppure alleati,
l’era delle guerre è finita, quel che conta è rimanere tutti
sullo stesso piano, per favorirsi a vicenda. Queste le
riflessioni che il vecchio Ulisse, ancora sotto le mentite
spoglie del mendicante, comunica al pubblico in chiusura
del primo Atto.
Ben lontano dal suggerirci risposte semplici, Ronconi
lascia a noi il compito di intravedere possibilità di lettura
del presente e del passato in questo doppio appuntamento,
ben inserito nella linea creativa “plurigemellare” del regista
che più volte ha proposto spettacoli diversi ed autonomi,
ma legati da una stretta connessione: «Per me è una
convinzione insopprimibile» – dichiara nell’intervista
contenuta nel libretto di sala – «la rappresentazione sta
anche altrove; quello che si cerca sta da un’altra parte,
come spesso anche quello che si vuole comunicare».

93
’Nzularchia di Mimmo Borrelli. Regia di Carlo
Cerciello. Con Peppino Mazzotta, Pippo Cangia-
no, Nino Bruno. Scene di Roberto Crea; costumi
di Antonella Mancuso; musiche di Paolo Colet-
ta; luci di Cesare Accetta; suono di Hubert
Westkemper. 2008

’Nzularchia, espressione che sta per itterizia o febbre


gialla, ma riconducibile anche alla paura violenta, causa
talvolta di malattia, che domina le vite dei protagonisti del
testo di Mimmo Borrelli, vincitore del Premio Riccione
2005, in scena al CRT-Teatro dell’Arte di Milano dal
27 maggio all’8 giugno 2008. Carlo Cerciello dirige
un “dramma della paura” (come dichiara nel libretto di
sala), nato dalla mente di un giovane drammaturgo di
origini napoletane che racconta una storia di camorra e
di violenza, di incubi e di ossessioni in una lingua sospesa
tra la poesia dei cunti e la materialità di un dialetto che
emerge dalla melma del cuore umano.
Gaetano, interpretato da uno straordinario Peppino
Mazzotta, arriva alla soglie dei trent’anni coltivando un
segreto tremendo, sepolto da cumuli di paure e nevrosi:
è stato testimone di un orrendo delitto, dopo il quale,
orfano di madre, ha vissuto come secondino-prigioniero
del padre camorrista, nascosto in casa dopo aver inscenato
una finta morte per sfuggire alle vendette dei clan rivali.
Progressivamente, brandelli di un trauma indicibile emer-
gono dal dialogo-confessione di Gaetano con Piccerillo,
presenza innocente di figlio, fratellino, amico, alter ego del
protagonista, personificazione di un’infanzia mai vissuta.
Attraverso l’emersione del rimosso dal labirinto della
mente, la tragedia si compie, inevitabile, con la vittima
sacrificale immolata sull’altare di un padre aguzzino,
che nega la vita ai propri figli, nella catena ininterrotta di

94
violenze che segna una società deviata.
L’acqua è il leit-motiv che scandisce il dramma, la
molla che fa scattare il meccanismo tragico, l’elemento
che invoca un’impossibile catarsi: il mare, la pioggia,
il liquido amniotico di un ventre materno profanato, i
rovesci tempestosi che accompagnano una notte d’in-
ferno. Una voce fuori scena ripete la litania: chiove.
Lo spettatore prende posto sul palcoscenico calpe-
stando cataste di vestiti che ingombrano il proscenio, la
prospettiva è rovesciata, la tragedia, infatti, si compirà in
platea. Ma i primi passi della memoria del protagonista
seduto a terra, di spalle al pubblico, si avventurano in
un’atmosfera claustrofobica, una stanza scura; il sipario
chiuso ostruisce la visuale della sala, vestiti di varie fogge e
colori sono appesi alla tela nera. Siamo nell’armadio della
mente di Gaetano, l’armadio in cui si è chiuso bambino
per sfuggire al temporale e da cui ha sentito cose terribili
accadere nella camera da letto, l’armadio da cui non è
più realmente uscito. Siamo in una discarica, quella dei
ricordi e delle vite umane, travolte dalla violenza della
camorra. Dall’alto, sul lato sinistro della scena, dondola
un bozzolo candido: è un essere umano avvolto in un
lenzuolo, illuminato da un fascio di luce bianca, unica
fonte luminosa nell’oscurità della sala.
La crisalide si apre ed esce Piccerillo, interpretato
da un funambolico Nino Bruno, folletto allegramente
sospeso in una scena di desolazione e detriti in cui
annaspa lo spaventato Gaetano. I due personaggi vestono
colori opposti: il bianco dell’innocenza, Piccerillo, il nero
della colpa, Gaetano; sono opposti e complementari, il
bambino e l’adulto, l’incoscienza e la paura. Dal dialogo
serrato fra i due, solo a tratti interrotto da momenti di
gioco e lotta in mezzo agli stracci, emerge una verità a
frammenti che si svela per procedimenti analogici come in

95
una seduta psicoanalitica. Un presente-assente incombe:
Pasquale Spennacore, padre di entrambi, pericoloso
camorrista morto anni prima, fantasma rievocato da una
voce fuori scena che pronuncia inquietanti litanie, e da
passi misteriosi dietro il sipario.
Ma nella notte di temporale che Piccerillo trascorre a
casa di Gaetano il fantasma di Spennacore si materializza;
due braccia nerborute emergono dalle fessure del sipario
e afferrano il ragazzino, risucchiandolo in un inferno che
ancora non si rivela. Nel crescendo di terrore che stringe il
protagonista, spingendolo verso un angoscioso percorso
all’indietro nei meandri del rimosso, la verità irrompe
violentemente sulla scena, il sipario si squarcia, cade e
rivela una nuova realtà. La platea del teatro, trasformata
in un enorme sudario bianco, si spalanca in tutto il
suo abbagliante e spaventoso candore: al centro, una
passerella, alcuni gradini, un altare su cui campeggia un
talamo nuziale dai connotati di marmoreo monumento
funebre. Seduto sul letto-sepolcro c’è Spennacore,
cannottiera bianca e pantaloni del pigiama, vivo nella sua
clandestinità domestica custodita dal figlio per tanti anni.
Si fronteggiano due vite prigioniere, seppure in
forme diverse, due generazioni incatenate all’altare della
violenza: fragile e infantile, Gaetano, nel corpo esile e
scattante di Peppino Mazzotta; forte e virile, Pasquale,
oggettivato dalla muscolosa presenza fisica di Pippo
Cangiano. Il confronto è incalzante, si rivelano gli orribili
segreti che hanno bloccato la crescita del giovane, la morte
della madre, un fratello mai nato, un adulterio vendicato
nel sangue. L’epilogo è fatalmente mortale: Gaetano,
incapace di uccidere il padre, si uccide, sottraendosi
ad una catena di omicidi, ad una “violenza che è piatto
prelibato nel pranzo succulento della vita”, pranzo a cui
ciascuno, prima o poi, vuole prendere parte.

96
Il padre-aguzzino raccoglie il corpo del figlio e se lo
carica sulle spalle, in fondo è roba sua, a lui appartiene
nella vita e nella morte; salendo le scale del letto-altare-
sepolcro recita una litania in dialetto, la lingua degli avi,
la melodia che affiora dagli inferi, la cantilena che affonda
le sue radici in una terra di splendori e miseria, di limoni
e spazzatura. Lo depone come un agnello sacrificale sulla
spalliera marmorea e impugna due coltelli da macello, li
incrocia in alto sulla testa del corpo senza vita. Un cono di
luce gialla fissa l’immagine del boia-macellaio, i riflettori
si spengono e contemporaneamente si accendono, appese
al sipario squarciato, lampadine natalizie. Luci di festa in
una scena di morte.
Chiove: il ritornello chiude circolarmente il dramma
come si era aperto, con rumori di scrosci temporaleschi.
Dal filone della drammaturgia napoletana, che partendo
da Viviani ed Eduardo arriva a Moscato, prende vita
questo testo di Borrelli, crudele ed irridente, spaccato
di una società che non sa liberarsi del cancro che la
divora dall’interno. La messinscena di Carlo Cerciello
ricostruisce con visionaria evidenza un ambiente
“surreale”, un “viaggio introspettivo” ed allucinato nella
mente del protagonista alla ricerca di quello scheletro
dell’inconscio che tutti, spettatori, attori e personaggi,
condividendo la cattività di un palcoscenico-prigione,
nascondono nell’armadio dei propri ricordi.

97
APPENDICE ICONOGRAFICA

Fig. 1
Prospetto del Gran Teatro di Milano in occasione delle Maestose Feste di
Giubilo per la nascita di Pietro Leopoldo Arciduca d’Austria, 28 maggio 1747.
Marc’Antonio dal Re – Civica Raccolta delle stampe Achille Bertarelli

99
Fig. 2

Fig. 3

Figg. 2, 3.
Vittorio Gassman in Adelchi, Roma, Parco dei Daini 3 marzo 1960

100
Fig. 4

Fig. 5

Fig. 6

Figg. 4, 5, 6.
Hamlice – Saggio sulla fine di una civiltà di Armando Punzo con i
detenuti attori della Compagnia della Fortezza.
Fotografie di Stefano Vaja

101
Fig. 7

Fig. 8

Figg. 7, 8.
Preparatio mortis di Jan Fabre con Annabelle Chambon.
Fotografie di Achille La Pera

102
TESTO E PERFORMANCE
DAL SETTECENTO AL DUEMILA

TESTO E PERFORMANCE DAL SETTECENTO AL DUEMILA


Esempi di scrittura critica sulla teatralità

A
rianna Frattali è dottore di ricerca in Discipli- d’indagine paralleli, comunque legati da risonanze
ne Filosofiche, Discipline Artistiche e Teatrali musicali, quello ancora del teatro settecentesco e ARIANNA FRATTALI
presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore quello dell’intreccio fra teatro e media dal Novecento
di Milano. Studiosa principalmente delle arti del-
la scena nel Sei-Settecento, è autrice di una mo-
a oggi. Sta approfondendo le implicazioni performa-
tive nei libretti di Metastasio e i rapporti fra teatro,
TESTO E PERFORMANCE
nografia “Presenze femminili fra teatro e salotto.
Drammi e melodrammi nel Settecento Lombardo-
cinema e televisione. È titolare presso l’Università
Cattolica di insegnamenti e seminari che spaziano
DAL SETTECENTO AL DUEMILA
Veneto” (Pisa – Roma, F. Serra Ed., 2010) e di nume- dalla drammaturgia alla storia dell’attore, dai fonda-
rosi saggi focalizzati sui rapporti fra teatro e musica menti mitologici e rituali nella performance contem- Esempi di scrittura critica sulla teatralità
nei secoli in questione. Attualmente sviluppa due fili poranea alla scrittura critica sulla scena.

EDUCatt
Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica
Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.7234.22.35 - fax 02.80.53.215
e-mail: editoriale.dsu@educatt.it (produzione); librario.dsu@educatt.it (distribuzione)
web: www.educatt.it/libri
ISBN: 978-88-8311-939-2

ARIANNA FRATTALI
€ 6,00
Questo volume è stato stampato con tecnologia digitale
nel mese di ottobre 2012 presso PRONTOSTAMPA
negli stabilimenti di Fara Gera d’Adda (BG)

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