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K. A.

APPLEGATE
SPADA E MAGIA
EVERWORLD
MONDI SOMMERSI
(EverWorld 10: Understand The Unknown, 2000)

ACQUA, OVUNQUE...

Gli squali non erano grandi per gli standard di Everworld, ma erano si-
curamente grandi. Nessuno era inferiore ai sei metri di lunghezza. Sei lun-
ghi metri di squalo affamato. Con uno scatto repentino e fulmineo, uno de-
gli squali strappò un nano dal suo sedile e lo spezzò in due.
Le gambe, che ancora scalciavano, caddero fluttuando lentamente e la-
sciando dietro di sé una scia di sangue. La folla strillò. Quelli più vicini fu-
rono presi dal panico, ma i più lontani apprezzarono molto la scena. Nettu-
no scoppiò in una folle risata che riecheggiò in ogni angolo dell'arena.
Ed ecco che il dio e i suoi seguaci erano di nuovo dall'altra parte del mu-
ro d'acqua, di nuovo nei loro comodi sedili, pronti ad assistere allo spetta-
colo della carneficina.
«Non possono uscire di lì, vero?» piagnucolò Christopher.
«Grande Atena, salvaci!» gridò Nikos.
Lo squalo più vicino si avvicinò alla barriera che separava l'aria dall'ac-
qua. E continuò a nuotare. A mano a mano che il muso emergeva dalla no-
stra parte, si formava una bolla d'acqua che avvolgeva l'animale.
Nella sua bolla ondulata, lo squalo continuò a nuotare nell'aria. Adesso
aveva le fauci spalancate. File e file di denti fitti e acuminati.
Puntava su di noi...

CAPITOLO I

La calma prima della tempesta. È così che si dice. Forse è un'espressione


nata tra i popoli che vivevano a stretto contatto con l'oceano e che nel tem-
po avevano imparato a interpretarne i ritmi e gli umori. Forse questi popoli
avevano dovuto imparare a usare la propria intelligenza per interpretare il
mondo che li circondava, il mutare del vento, della pressione atmosferica,
della luce, per poter predire che cosa sarebbe successo. Per poter sopravvi-
vere.
Comunque, anche per noi era la calma prima della tempesta. Di nuovo.
Perché a Everworld praticamente c'è sempre una tempesta in agguato, che
aspetta solo di abbattersi su di te. La calma è sempre soltanto temporanea.
Eravamo cinque adolescenti di Chicago ed eravamo molto, molto lontani
dalle pacifiche rive del lago Michigan. Ci eravamo appena lasciati alle
spalle un Egitto insanguinato e in rovina con le sue divinità muffite e mo-
ribonde. Speravamo di riuscire a tornare al monte Olimpo, dove avremmo
aiutato i suoi dei farneticanti e infantili a distruggere gli Hetwan, l'esercito
di Ka Anor, il dio alieno che si nutriva solo di dei. E viaggiavamo su una
quinquereme, un adattamento romano della trireme greca o cartaginese.
L'equipaggio era greco. Il capitano era un uomo piccolo e scuro di nome
Nikos.
Come ci era arrivata, in Egitto, una nave da guerra romana con un equi-
paggio greco? E perché una nave da guerra veniva usata per trasportare un
carico di datteri, olio di palma e pesce essiccato? Non provai nemmeno a
chiederlo. Probabilmente una qualche spiegazione c'era, una magia o qual-
cos'altro, ma era già da un bel po' di tempo che non sentivo più la necessità
di conoscere il perché delle cose. Mi basavo sui fatti. Punto e basta. C'era
una nave con un equipaggio e c'era un capitano disposto a portarci lungo il
Nilo, lontano dall'Egitto, verso l'oceano, o il mare, o qualsiasi cosa ci fosse
in fondo al Nilo. L'avevamo pagato in oro, oro rubato dal tempio di Iside.
Tanto a lei non serviva.
Lì vicino, gli altri dormivano. April, Jalil, Christopher. Solo Senna era
sveglissima, seduta con le ginocchia strette al petto, gli occhi fissi sul cielo
azzurro. Anch'io ero stanco, ma non mi andava di dormire. Non volevo
addormentarmi e passare nel mondo reale, il Vecchio Mondo. Proprio non
ero in vena di affrontare mia madre o il mio lavoro o la scuola o una qual-
siasi delle cose o delle persone che appartenevano alla mia vecchia esi-
stenza e che non mi sembravano più così importanti.
Nikos mi aveva lasciato prendere il timone quando gli avevo dimostrato
che non ero un pivello. Quindi adesso ero a poppa, in piedi, a manovrare il
grande remo che entrava in acqua dal fianco sinistro della nave, scrutavo il
cielo e il mare, emozionato mio malgrado all'idea di stare su una imbarca-
zione come questa. La quinquereme, un'imbarcazione che non avrei mai
sognato di poter vedere, era una nave da guerra lunga e slanciata. Più una
galera che una nave a vela, a dire il vero. L'unica vela rettangolare tornava
utile solo quando il vento veniva proprio da poppa, ma adesso, con il vento
da dritta, la vela era ripiegata.
L'imbarcazione era dotata di remi su entrambi i fianchi, disposti in cin-
que ordini. Su ciascun fianco c'erano tre ordini sovrapposti di banchi di
voga, con due vogatori sul banco superiore, due sul banco mediano e un
vogatore forte sul banco inferiore. Come nelle navi da guerra vichinghe, i
marinai dovevano vogare all'unisono, o avrebbero ostacolato il movimento
degli altri remi. Nel nostro caso, però, la nave aveva meno di un terzo
dell'equipaggio completo, per cui i remi venivano manovrati con minor di-
sciplina e lo scafo avanzava pigramente.
Nel mondo reale avevo letto qualcosa su queste grandi civiltà del passa-
to, in particolare quelle che si erano imposte, arricchite e sviluppate con la
guerra. Il mondo reale era ancora buono per una cosa: i libri. E gli antichi
Romani erano davvero un buon argomento di lettura.
Gli antichi Romani erano dei "copioni" di professione. Mimi e imitatori.
Come era loro costume, i Romani avevano rubato ai Greci l'idea della
quinquereme e l'avevano opportunamente perfezionata. Era una forza, que-
sta nave, con gli occhi dipinti sulla prua e il lungo e pericoloso rostro che
sporgeva sotto il pelo dell'acqua. Era una macchina di morte avanzatissi-
ma, l'equivalente delle più moderne corazzate militari. Ovviamente, se era
stata relegata alle spedizioni mercantili e al contrabbando, doveva essere
proprio agli sgoccioli.
Ma, che fosse vecchia e stanca o appena uscita dal cantiere, era in prati-
ca la stessa nave che avrei potuto vedere duemila anni fa nella Roma vera,
nel mondo antico vero. Il mondo reale era andato avanti, il mondo reale
aveva imparato a costruire vele, pennoni, alberi maestri e soprattutto veri
timoni che permettessero alla nave di tenere il vento. Everworld era rima-
sto stagnante.
Io stesso avrei saputo costruire un'imbarcazione capace di girare intorno
a qualsiasi natante potessero avere qui. Con tutta la potenza che questa na-
ve aveva conosciuto nei suoi giorni migliori, avrei comunque saputo af-
fondarla con una qualsiasi barchetta da marinaio della domenica e una cas-
sa di molotov. La quinquereme o qualsiasi altra cosa i Romani o i Greci
potessero mettere in mare.
Ma, nonostante tutto, restava sempre una forza.
Tornai a guardare Senna, seduta da sola, in disparte. April, rannicchiata
in posizione fetale, i lunghi capelli rossi sulla faccia, come una coltre.
Christopher, stravaccato, la testa appoggiata al fianco della nave, la bocca
aperta. Russava. Jalil, seduto poco lontano da Christopher, le braccia con-
serte, la testa bassa, le lunghe gambe distese davanti a sé.
Ma chi erano veramente queste persone?
Non sono bravo a capire la gente e le loro motivazioni, che cosa li faccia
muovere e perché. È un mio grosso limite. In genere non riesco mai a valu-
tare bene la gente, non subito, quantomeno. Ma non si possono passare
giorni e giorni, forse anche mesi (il tempo, qui a Everworld, ha ben poco a
che vedere con il tempo del mondo reale) con le stesse persone, senza im-
parare a conoscerle almeno un poco. Senza arrivare a qualche tipo di con-
clusione sulla loro personalità, sul loro carattere. Senza sapere, o senza es-
sere in grado di indovinare con una certa sicurezza, che cosa potrebbero di-
re o fare in una determinata circostanza.
Jalil è intelligente, per niente sentimentale. Jalil non nasconde mai la ve-
rità, non la stempera mai, la tira fuori così com'è. Lo ammiro per questo.
Ma questo significa anche che qualche volta è con me e qualche volta no.
Mi fido di lui come persona, ma non è mio amico, non esattamente. Non
c'è verso di riuscire a ordinare a Jalil di fare qualcosa, né di lusingarlo. Jalil
bisogna convincerlo con la logica. Non c'è altro modo di smuoverlo.
Lui e Senna hanno uno strano rapporto, strano forse quanto il rapporto
che ho io con lei. Non capisco quale sia la natura del loro legame, non so
dove o quando sia iniziato. Ma dopo quello che è successo in Africa con
gli Orisha, quando ho aiutato Jalil a usare Senna (per il bene del gruppo,
sia chiaro), so o credo di sapere che Senna vuole con tutte le sue forze far
del male a Jalil. Magari non vuole ucciderlo, perché sono piuttosto sicuro
che ciascuno di noi è ancora utile per qualche verso a Senna e ai suoi o-
biettivi personali. Ma fargli desiderare di essere morto, questo sì.
April è la sorellastra di Senna ed è il suo esatto contrario. April è onesta,
si preoccupa degli altri, non è cinica. È carina, sexy, intensa, divertente. È
la ragazza con cui vorresti uscire perché sei sicuro che ti divertirai e che le
cose non prenderanno una brutta piega e che se anche non dovesse funzio-
nare, lei ti mollerebbe con delicatezza.
Senna, invece, è la ragazza con cui vorresti uscire per gli stessi motivi
per cui vorresti farti una corsa su una Harley Davidson senza casco.
April detesta Senna e, pur potendo elencare più di una ragione per cui
April ha ben diritto di avercela con Senna, non riesco comunque a capire
come il suo odio possa essere tanto profondo. Ma, come dicevo, sono tante
le cose che non riesco a capire. E se riesco a evitare che si ammazzino a
vicenda, credo di aver fatto già un buon lavoro.
Christopher, invece, è un caso difficile da capire. Da quando è iniziata
questa follia, è cambiato un poco. Lui è sempre stato un libro aperto, chia-
ro e diretto su chi e che cosa è, debole o forte, imbecille, pagliaccio o
commediante. Quando fa il rompiscatole, lo fa alla grande. Quando fa il
coraggioso (e succede spesso) comunque non dimentica mai di lagnarsi.
Tutte le belle e nobili storie dello stoicismo, del coraggio di affrontare le
difficoltà da uomo sono fiato sprecato con Christopher.
E poi beve. La mia opinione? Beve troppo. Forse è un alcolizzato, non
so. Forse riuscirà a venirne fuori. Al momento sembra che stia abbando-
nando le sue classiche battute razziste di infimo livello. È un bel progresso,
quindi magari alla fine riuscirà a riprendere in mano le briglie della sua vi-
ta.
Senna. Che posso dire di Senna? Che si potrebbe dire? Umana, ma di-
versa. Strega, ma strega buona, strega cattiva o un po' di questo e un po' di
quello? Sospetto che solo Senna sappia chi o che cosa è veramente. E so-
spetto che voglia che continui a essere così.
C'era un tempo in cui volevo Senna, in cui avevo bisogno di lei. C'era un
tempo in cui ero un tossico e lei era la mia dose, ma adesso l'ho superato.
L'ho superato come un tossico può superare la sua dipendenza dalla droga.
Quando eravamo in Egitto, Senna ha finalmente incontrato sua madre,
dopo quasi dieci anni di separazione. Non è stata una felice riunione fami-
liare. Non esattamente uno di quegli incontri strappalacrime da show tele-
visivo.
Sua madre è una creatura egoista, non molto diversa da Senna in questo,
ma senza il talento della figlia per la manipolazione fredda e deliberata
delle altre persone. Aveva abbandonato Senna sostanzialmente per salvare
la propria pelle e per avere quella che lei credeva una vita migliore. Senna
non l'ha perdonata. Senna ha quelli che si potrebbero definire dei valori
morali "flessibili": tutto quello che lei fa agli altri va bene; quello che gli
altri fanno a lei è imperdonabile. Non proprio una sorpresa sconvolgente,
per me. E comunque, non un problema mio.
Cercai di concentrarmi sulla posizione tattica che avremmo dovuto as-
sumere una volta tornati sull'Olimpo. Era questo il nostro obiettivo.
Gli Hetwan avevano assediato il monte, ma eravamo riusciti a fermarli.
Per il momento. Con i Coo-Hatch avevamo stretto un patto che avrebbe
dovuto impedire che gli Hetwan ricevessero dai Coo-Hatch i loro primitivi
cannoni. Avrebbe dovuto. E le misure difensive greche intorno all'Olimpo
avrebbero dovuto tenere. Avrebbero dovuto.
Cercai di pensare a questo, cercai di fare Napoleone, di intuire il modo
migliore per vincere. Ma avevo un timone tra le mani, saldo sotto il brac-
cio, e sentivo sotto i piedi il ponte della nave, sentivo i cigolii, i tonfi dei
remi, la musica costante dell'acqua che lambiva lo scafo e questi piaceri
primari mi seducevano la mente. Io adoro navigare.
Accantonai tutte le preoccupazioni.
"Al diavolo" pensai "c'è un sacco di tempo per preoccuparsi".
Sarebbe stato un lungo viaggio e, a meno che non fossimo riusciti a
prendere un vento costante che spirasse esattamente nella direzione che
volevamo noi, sarebbe stato un viaggio molto lento.
Guardai il mare piatto. Sospirai per quella brezza leggera, rinfrescante
ma del tutto inutile. Strizzai gli occhi per guardare il sole e mi chiesi se
non ci fosse modo di costruire un sestante con i materiali disponibili a E-
verworld. Mi chiesi se avesse senso farlo: dopotutto, per quel che ne sape-
vamo, Everworld poteva essere un mondo piatto, o concavo, o a forma di
ciambella.
Il mio sguardo venne attratto da cinque o sei pesci volanti che emerge-
vano dalla superficie del mare. E fu allora che dal fianco sinistro vidi la ve-
la, lontana. Quella vela lontana era gonfiata da un vento che non esisteva.
Fine della calma. Tempesta in arrivo.

CAPITOLO II

Era un'imbarcazione più piccola della nostra, ma più veloce. Pareva che
avesse preso il vento, che fosse sospinta da una nuova brezza. Ma non ci
credevo. Non da quella direzione, non nella direzione esattamente opposta
alla nostra. No. La barca, in qualche modo, aveva un sistema di propulsio-
ne proprio. Non c'erano motori a Everworld, qui la tecnologia non ci stava
di casa. Quindi, chiunque fosse in quella barca, stava ordinando al vento di
soffiare apposta per lui.
Guardai Senna. Era all'erta. Teneva d'occhio la barca. Gli occhi grigi e-
rano rabbuiati dalla preoccupazione, erano del colore del mercurio.
«È lui» disse. «È Merlino.»
«Già, pare anche a me.»
Eravamo riusciti a sfuggire al vecchio, in Egitto. Era stata la madre di
Senna a convocarlo, ma nel caos della distruzione che ne era seguito lo a-
vevamo perso.
A mano a mano che la strana barca si avvicinava, riuscii a distinguere i
capelli e la barba del vecchio, lunghi, un tempo biondi e adesso ingrigiti;
immaginai gli intelligenti occhi azzurri incassati sotto la fronte solcata di
rughe. Ricordavo bene quello che gli avevo visto fare: riportare in vita a-
nimali morti, far sorgere un muro da un mucchio di macerie, comandare a
un drago di ubbidire alla sua volontà, immobilizzare feroci Amazzoni.
Questo mago voleva Senna, voleva tenerla lontana dalle grinfie di Loki.
L'avrebbe rinchiusa in una prigione, se avesse potuto, l'avrebbe uccisa, se
avesse dovuto.
Non sarebbe successo. Non avrei permesso che succedesse.
«Tutti svegli!» gridai. «Abbiamo un problema.»
Jalil, Christopher ed April si stiracchiarono e si risvegliarono chi con più
e chi con meno grazia.
Christopher si riparò gli occhi dal sole e osservò la barca.
«Quello è Merlino, gente!»
Chiamai Nikos. Il capitano era seduto all'ombra di una tenda, a bere vino
con quello che doveva essere il primo ufficiale, uno che ogni tanto si scol-
lava di lì per incitare a gran voce i vogatori. I due erano moderatamente
ubriachi, ma la vista di quella vela li fece rinsavire piuttosto rapidamente.
«Capitano, possiamo correre più veloci di lui?»
Sapevo che era una domanda ridicola. Come faceva il capitano a sapere
fin dove poteva spingersi la magia di Merlino?
Nikos capiva quanto me che quella barca non obbediva alle normali leg-
gi della vela.
«Saranno gli dei a dirlo» mi rispose con fatalismo scrollando le spalle.
«Bene, metti la quinta» ordinai. «E alza la vela. Forse possiamo avvici-
narci abbastanza da speronarlo.»
«Questa è la mia nave, amico» mi ricordò Nikos. «Sono io che decido. E
non desidero affatto contrariare gli dei. Quella imbarcazione è troppo pic-
cola per essere una nave pirata. Non potrà mai tentare un abbordaggio. Se-
condo me a quell'uomo interessa qualcos'altro.»
Dall'occhiataccia che mi diede capii subito che non aveva nessuna inten-
zione di rischiare la sua nave per noi. Gli dei erano tanto interessati a noi
da sospingere quella barca verso la nostra? Bene, nessun problema per lui.
Era già stato pagato e gli dei erano i benvenuti.
Non aveva senso minacciare. L'equipaggio era piccolo per una nave di
queste dimensioni, ma c'erano pur sempre una sessantina di uomini agli
ordini di Nikos.
«Ti preoccupi degli dei? Gli dei non c'entrano, qui. La vedi, quella?» Gli
indicai Senna. «È una strega. Alza le vele o lei trasformerà tutto il tuo cari-
co in tanto buon cibo per i vermi.»
Il capitano ci pensò su per un momento. C'è una grave penuria di scetti-
cismo a Everworld. Nikos non mise in dubbio nemmeno per un istante che
Senna fosse veramente una strega.
«Alzate la vela» ordinò. «Correremo più forte del vento, ma non potre-
mo sfuggire alla volontà degli dei.»
Tutto qui, il mio piano geniale. Alzare la vela e sperare che la nostra
brezza incostante ci portasse lontano dal vento intenzionale di Merlino.
I vogatori accelerarono il ritmo, la vela venne aperta e manovrammo per
prendere il vento da poppa. La nave rispose bene. La sentivo solcare le on-
de con forza, ma vedevo anche che non faceva la minima differenza. La
barca ci avrebbe raggiunto. E poi che cosa sarebbe successo? Era da solo,
Merlino? In questo caso, forse saremmo riusciti a impedirgli di salire a
bordo.
O forse no.
Non volevo chiedere agli altri se avevano qualche idea migliore ma, se
qualcuno di loro avesse avanzato una proposta intelligente, l'avrei di certo
attuata. Meglio il piano di Jalil o il piano di Christopher che nessun tipo di
piano. Ed era questo che avevo io: nessun tipo di piano.
Senna? No. Lei aveva dei poteri, ma era come un bravo giocatore di ba-
sket della squadra della scuola che si voglia cimentare contro un fuoriclas-
se come Shaquile O'Neal. Ne aveva ancora di strada da fare, prima di poter
sperare di avere la meglio su Merlino. Che cosa avremmo...
E in quel momento il mare esplose. Il tratto che separava le due imbar-
cazioni in rapido avvicinamento, esplose letteralmente, una colonna d'ac-
qua si gonfiò e salì verso il cielo. Qualcosa d'impossibile.
Sembrava qualche strano effetto speciale di un film hollywoodiano. Il
mare si stava aprendo, si stava alzando, formava una colonna vorticante di
acqua verdastra e ribollente. Era come...
«È come nei Dieci comandamenti!» urlò Christopher.
Esattamente. Come in quel vecchio film, quando gli Ebrei attraversano il
Mar Rosso. Ma adesso le acque stavano prendendo forma. Una figura e-
norme stava emergendo dal vortice verde. Era ondeggiante, ma si poteva
distinguere un vago profilo. Un uomo, un essere umano, o almeno una cre-
atura che vagamente ricordava una forma umana. Un dio. Sicuramente un
dio.
Trasparente, come una smisurata noce di gel per capelli gonfia sul pelo
dell'acqua, emersa dalle profondità marine, in continua trasformazione.
E dentro la creatura, parte della creatura stessa, dentro la pancia, dentro
la testa, c'erano quelli che sembravano delfini, squali, razze e altre creature
marine che non seppi riconoscere. Potevano anche essere fasci di alghe. O
magari balene. Quella creatura era sicuramente grande abbastanza.
L'equipaggio piangeva, pregava, gemeva, il nome di Poseidone su tutte
le labbra. April si fece il segno della croce. Jalil era a bocca aperta, in
qualche modo ancora oltraggiato dall'esistenza stessa della magia, dalla re-
altà di Everworld fatta di incantesimi, malie, leggi della fisica violate e ri-
pristinate e violate di nuovo. Christopher tremava, mormorando qualcosa a
proposito di Charlton Heston, del faraone, e di "Lascia andare il mio popo-
lo".
Senna, in piedi, da sola davanti all'essere mostruoso, un vento freddo che
le gonfiava i capelli. Calcolava. Si chiedeva se fosse opera di Merlino o se
avessero ragione i marinai, e fosse la manifestazione di una potenza molto
più grande.
E a quel punto, l'essere d'acqua parlò.
I timpani quasi mi scoppiavano e gli occhi mi si chiudevano per la po-
tenza del suono, i piedi slittavano sul legno e caddi in ginocchio sul ponte.
La voce parlò, gridò, ruggì come un sistema di amplificazione troppo po-
tente in una sala cinematografica troppo piccola. La voce sembrava venire
da tutta quella massa d'acqua animata di vita, non da un punto in particola-
re: non c'erano labbra che si aprivano, non c'era una lingua che si muove-
va.
«Chi osa comandare ai venti e alle acque del potente Nettuno? Chi osa
utilizzare la magia per sfidare la mia volontà?»
Mi ci volle un secondo per capire: Nettuno non ce l'aveva con noi, ce
l'aveva con Merlino!
Vidi il mago chinare umilmente il capo. Appariva nervoso più di quanto
immaginassi possibile.
«Quest'arroganza, questa sfacciataggine non passerà impunita» ruggì
Nettuno.
E un attimo dopo... era sparito.
Il turbine si scatenò contro di noi con una tale violenza da sembrare l'e-
splosione di una bomba. Venti di una forza terrificante, irresistibile. Il tur-
bine si abbatté sulla vela, ci piegò sul fianco. Scivolai, caddi, rotolai sul
ponte di colpo ripido come un picco di montagna. Andai a sbattere contro
il parapetto, mi feci male, mi restò un braccio tutto intorpidito.
Un muro d'acqua verde si schiantò sulla nave. Saremmo tornati in super-
ficie? La nave sarebbe rimasta a galla?
L'onda verde passò, portandosi via l'albero maestro, la vela, i remi, molti
dei vogatori e tutte le casse e le mercanzie che erano state accatastate sul
ponte. La nave iniziò a raddrizzarsi, ma lentamente, a fatica. Era sbattuta
dalle onde come un fuscello. Sputai acqua salmastra, mi trascinai a quattro
zampe fino al timone, dovevo manovrare: se la prossima ondata ci avesse
colpiti sul fianco, eravamo spacciati.
«Ai remi!» gridai. «Maledizione, tutti ai remi!»
L'unica speranza era tenere la nave in movimento, fendere le onde con la
prua.
Ma non c'era un vogatore disponibile. Quelli che non erano stati trasci-
nati in mare dalle onde erano disperati, erano nel panico più totale.
Vidi Jalil, fradicio e pesto, avvicinarsi barcollando a uno dei remi rima-
sti. Inutile, uno solo non serviva a niente, e adesso ecco la seconda ondata,
la madre di tutte le onde, piombare su di noi.
Il ponte si inclinò pericolosamente quando scivolammo nel cavo dell'on-
da. La massa d'acqua si erse sullo scafo privo dell'albero maestro in tutta la
sua altezza, torreggiante. Era una montagna. Non c'era speranza.
Come una martellata in testa mi staccò dal timone cui mi tenevo preca-
riamente aggrappato e mi trascinò via, scaraventandomi addosso al para-
petto. Ero mezzo affogato, stordito, tutto ammaccato.
Ma la quinquereme teneva. Era molto bassa sul pelo dell'acqua, le spon-
de emergevano appena, ma teneva.
L'equipaggio, o quello che ne restava, si teneva aggrappato ai parapetti o
al moncone dell'albero maestro. Anche i miei amici. Disperati.
Ed ecco un'altra onda in arrivo. Implacabile. Se fossimo rimasti ancora a
bordo, saremmo finiti sotto, risucchiati con la nave in fondo al mare.
«Via da prua!» urlai nella strana calma che regnava tra un'onda e l'altra.
«Prendete un remo, saltate! Via, via, via!»
Vidi April correre. Christopher zoppicare. Il ponte si inclinò pericolo-
samente. Avevamo la poppa rivolta verso l'onda. E adesso rotolavamo, ca-
devamo verso prua.
Christopher saltò. Dov'era Senna?
L'onda... Saltai anch'io.

CAPITOLO III

L'onda sollevò la nave quasi in verticale, si schiantò sulla poppa e spinse


giù la nave come un chiodo sotto i colpi di un maglio. La nave sprofondò
nell'acqua e sparì.
«Senna!»
Venni inghiottito dal risucchio come un insetto nello scarico del lavan-
dino.
Accecato dall'acqua salmastra, dalla confusione, dal dolore, alzai una
mano sopra la testa, il palmo verso l'alto, e scalciai, usando il braccio sini-
stro come remo. Dovevo risalire in superficie, dannazione, o forse ero già
in superficie, non capivo più niente, ero stordito, mi faceva male la testa.
"Ricorda, David, salva prima te stesso, per poter salvare gli altri..."
La mano colpì qualcosa di duro, meglio la mano che la testa. Seguii la
forma dell'oggetto, i polmoni cominciavano a bruciare, ancora non vedevo
niente, nuotai verso sinistra, nuotai con il braccio libero per superare la
barriera, un'ultima spinta... libero!
Aria! Respirai avidamente, un'altra secchiata d'acqua quasi mi soffocò,
mi entrò tutta nei polmoni. Tossii, sputai, mi sfregai gli occhi finché non
riuscii ad aprirli, battei le palpebre... dovevo trovare gli altri, dovevo trova-
re Senna!
Mi aggrappai a un pezzo di legno galleggiante. Era tutto quello che re-
stava.
«C'è qualcuno?» gridai, ma non sapevo se la mia voce fosse udibile al di
sopra di quel mare ribollente, un mare tormentato da una furia artificiale
scatenata da Nettuno, un mare che ci voleva uccidere.
Il cielo era basso e nero, e mi tempestava di chicchi di grandine che
sembravano proiettili.
Non si vedeva niente. Le onde erano montagne. Salivo con l'onda, la
cresta schiumosa mi sommergeva, scivolavo giù dalla parte opposta.
E poi... in mezzo al pulviscolo d'acqua, alla schiuma sferzante... una
forma, una figura umana. Nuotai, con i piedi, con le mani, a stile libero, a
cagnolino, qualsiasi cosa, pur di avanzare in quel marasma marino, pur di
avvicinarmi un po' a quella forma, a quella persona...
«April! April! Tieni duro!»
Lottava con le onde, si agitava convulsamente, i lunghi capelli sulla fac-
cia, attorcigliati intorno al collo come una chiazza di petrolio. April. Nuo-
tai, la vidi inghiottire almeno un litro d'acqua. La vidi chiudere gli occhi, la
vidi scivolare sott'acqua, vidi la sua mano livida.
"No!"
Ancora una goffa bracciata, una spinta, uno slancio, e sarei stato da lei.
Ma dove? Dov'era finita, esattamente? Ero esausto, confuso, nel cuore di
una tempesta furiosa, ma non c'era scelta, dovevo provare. Succhiai tutta
l'aria che riuscii a trattenere nell'improvvisa e irresistibile stanchezza che
mi prese, mi immersi, cercai di aprire gli occhi, riuscii a socchiuderli ap-
pena, tastai intorno con le mani, stupidamente, chiamandola in silenzio:
"April, April, April!".
Dovevo risalire. Dovevo respirare.
"Non servi a nessuno da morto, giusto, David?"
Emersi boccheggiando, mi spostai dalla fronte i capelli fradici e pesanti,
mi aprii gli occhi con le mani. Niente, nessuno, solo relitti in questa gola
d'acqua.
Feci un altro respiro profondo e, tremando, battendo i denti, mi preparai
a una nuova immersione e a un'altra, a molte altre, finché non l'avessi tro-
vata. Ma qualcosa mi colpì da dietro. Era un pezzo appuntito della nave di-
strutta, altro non saprei, e mi colpì alla schiena come una lancia, sprofon-
dandomi nelle acque rabbiose.
Fui preso dalla morsa della paura. Non riuscivo a respirare, non riuscivo
nemmeno a pensare, ero disorientato... ero di nuovo in superficie? Non lo
sapevo, perché adesso il mio corpo girava su se stesso, ruotava, come in un
vortice.
Panico, lotta, acqua nei polmoni, ancora panico, ancora lotta e adesso la
vertigine, la nausea. Ne sapevo molto di navigazione, ne sapevo molto an-
che di annegamenti, conoscevo le cause e i vari stadi, sapevo come riani-
mare una persona quasi affogata. Sapevo tutto, ma dimenticai tutto quanto
non appena iniziai a sprofondare in quel mare violento e vorticante. Uno
strappo al collo a ogni rivoluzione su me stesso e sempre più giù, sempre
più giù nel vortice di Nettuno, l'ultima forza mandata dal dio a finirci del
tutto. La colonna vertebrale scricchiolava, le braccia e le gambe sbattevano
sul busto e poi venivano spazzate via, spalancate, in qualche modo lo capi-
vo, ma in realtà non riuscivo più a sentire il mio corpo, le braccia, le gam-
be. Non riuscivo più a vedere... gli occhi erano aperti o erano chiusi? Non
riuscivo più a sentire... me lo stavo immaginando, il ruggito dell'acqua?
Era un'allucinazione, l'urlo del vento? Non riuscivo più a respirare, non
riuscivo più a pensare, non riuscivo più a vivere...
Finito. Tutto finito. Respirai l'acqua, ma non importava, non importava
più niente, ormai, perché era tutto finito.
Respirai! Tossii, sputai, disperato, ma respirai e non morii. Rischiavo di
soffocare, ma respirai di nuovo e l'abitudine o l'istinto mi fecero sputare
l'acqua, l'acqua che stavo respirando, ma... sì, respiravo, ed ero ancora vi-
vo.
"Com'è possibile?"
E intanto sprofondavo, lentamente, dolcemente, giù, giù, giù, gli occhi
aperti, non più bruciati dal sale, aperti e consapevoli, ma cosa... cos'era che
vedevo sotto di me? Verso che cosa stavo cadendo? Forse ero morto, do-
potutto, o quantomeno svenuto, e tutto questo era immaginazione, sogno,
allucinazione, era la mia visione del paradiso o di qualunque altro mondo
ci fosse dopo la morte. Strano, non avrei mai pensato di avere la capacità
creativa di evocare una cosa tanto...
No, non era un sogno, non era un'allucinazione; non so come, ma sapevo
che non era così. Qualcosa mi diceva che ero lì con tutto il corpo, che oc-
cupavo uno spazio fisico, che ero vivo e che osservavo veramente la scena
di cui stavo per entrare a far parte.
E non solo io, perché adesso vedevo Jalil, poco lontano, e anche altri, al-
cuni dei marinai dell'equipaggio e, sì, April, e là c'era Senna, e Christo-
pher, e tutti discendevamo lentamente verso il basso, vivi, incredibilmente
vivi. Senna incrociò il mio sguardo, mosse le labbra, ma non riuscii a sen-
tire né a indovinare che cosa stesse dicendo. Un attimo dopo guardò altro-
ve.
Sotto di noi c'era una città. E io avrei potuto essere un paracadutista a-
crobatico in caduta libera verso questa città. Una città con i tetti di tegole e
le strade ben disegnate. Tetti? E perché? Perché non piovesse in casa? C'e-
ra della gente laggiù. Nuotava? Camminava?
Era pura follia. Mi sbagliavo, era tutta un'allucinazione. Non poteva es-
sere altro. Così in profondità, sott'acqua, com'era possibile vedere così be-
ne? Perché le tenebre più fitte non avvolgevano ogni cosa? Dov'era la fon-
te di luce?
E perché perdevo tempo a chiedermelo?
Benvenuto a Everworld.

CAPITOLO IV

Era una città, una cittadina circondata da una specie di catena montuosa
di corallo, o qualcosa di molto simile al corallo: vette arrotondate e bian-
che, grotte naturali che creavano pozze di oscurità, zone ondulate in aran-
cio rosato. A costellare o a decorare la catena di corallo, probabilmente
lungo tutta la circonferenza (anche se dal mio punto di vista sempre più
basso non riuscivo a vedere la parte più lontana), c'erano ciuffi e virgulti di
alghe e altre piante acquatiche dalle forme più diverse, alcune basse e car-
nose, altre alte e filose, in tutta la gamma dei colori, dal verde pisello al blu
acido, dal giallo chiaro al bianco maculato di rosso.
E poi c'erano i pesci, pesci che piluccavano la vegetazione, pesci che en-
travano ed uscivano dalle grotte, pesci di tutte le specie. Lunghi e smilzi;
corti, grassi e larghi; vivacemente colorati, oppure uniformemente grigia-
stri...
Nella conca di corallo sorgevano diverse strutture architettoniche, edifici
e monumenti, alcuni fatti di corallo o di altro materiale simile, alcuni ri-
producenti nelle loro asimmetrie le formazioni coralline naturali, alcuni
straordinariamente simili a... sì, a edifici dell'antica Roma. Come le cose
che avevamo visto sull'Olimpo. Un enorme arco trionfale. Un'arena che
avrebbe potuto essere la versione Disney del Colosseo.
Come un flash mi tornò in mente un commento di Atena a proposito di
una lite in corso tra Poseidone e suo fratello Zeus e mi chiesi se questo si-
gnificasse che anche l'omologo romano di Poseidone, Nettuno, fosse in lot-
ta con Zeus, o magari anche con lo stesso Poseidone. Ma questo pensiero
svanì non appena cominciai a mettere a fuoco i singoli individui che cam-
minavano per le strade, i veicoli che sfrecciavano, cocchi tirati da gigante-
schi cavallucci marini e da delfini... Svanì non appena misi a fuoco la bolla
enorme che racchiudeva tutta la città, la bolla contro la quale mi sarei
schiantato tra meno di due minuti. Strano. La bolla racchiudeva aria, ma
anche acqua. La città aveva settori in cui l'atmosfera era normale e altri in-
vece con le strade gonfie d'acqua. La bolla conteneva in sé altre bolle.
Dovevo attutire l'impatto.
Mi concentrai e spostai il peso del corpo in avanti, a faccia in giù, e que-
sto non fu difficile, poi allargai le braccia e le gambe per distribuire il pe-
so, nella speranza di rallentare, di non arrivare proprio come un proiettile,
quanto piuttosto come qualcosa che potesse adagiarsi sulla superficie della
bolla, senza perforarla, evitando se possibile di distruggere la città e di far
arrabbiare il dio che qui risiedeva e regnava. In verità non pensai a che co-
sa avrei fatto poi, nel caso fossi riuscito a non precipitare nella città subac-
quea, nel caso fossi rimasto sopra la bolla.
Sempre più vicino. Non osavo girarmi a cercare gli altri. Speravo che mi
stessero guardando, che cercassero di imitarmi. O magari loro avevano a-
vuto un'idea migliore...
Tenni gli occhi sulla città, notai che stavo puntando dritto sull'arena. No-
tai che nell'arena c'era una specie di circuito, un ippodromo. Le tribune, le
folle acclamanti... e io stavo per caderci giusto in mezzo. Cercai di convin-
cermi che ero leggero come una piuma, senza peso, che per i corpi immersi
nell'acqua c'è la spinta idrostatica. Di che cosa mi preoccupavo? Sarei at-
terrato delicatamente sulla bolla che faceva da tetto alla città e poi...
E poi sentii la pellicola della bolla sulla pelle, sentii una sensazione che
non avevo mai provato prima. Divenni una cosa sola con quella pellicola.
Mi aderì agli arti e al busto, mi si modellò sulla faccia come la pellicola
trasparente che si usa in cucina, ma con dolcezza, con delicatezza, poi
sembrò scivolare dietro di me, abbandonare la mia pelle con una sensazio-
ne di lieve formicolio, carezzarmi la testa e la nuca e passare oltre. Ma la
superficie della bolla non si era mossa, non si era spostata affatto. Ero io
che mi muovevo, io che ancora cadevo, che fluttuavo dolcemente verso gli
abitanti di questo strano luogo.
Alzai la testa e vidi alle mie spalle la grande bolla, perfettamente integra.
E più vicino... allungai una mano e toccai un'altra pellicola. Ero in una bol-
la tutta mia, una bolla che mi proteggeva o che mi ingabbiava, un utero
oppure una prigione, non faceva molta differenza, ora. Ma che diavolo sta-
va succedendo?
Mi trovavo sopra una delle due estremità dell'arena, nei pressi di quello
che era decisamente un circuito più o meno ovale, non lontano da quello
che immaginai essere il traguardo, il punto dove la gara ippica si stava
concludendo proprio allora, in un boato di grida. Avevo l'assurda sensa-
zione di fluttuare sullo stadio di Chicago, con i tifosi troppo presi dal gioco
per accorgersi di me.
Toccai terra prima con i piedi, poi con le ginocchia e infine la piccola
bolla esplose, depositandomi sulla sabbia battuta.
Altri tonfi soffocati alle mie spalle. Mi girai. Christopher, poi il capitano
greco. Poi altri marinai, ma pochi, e poi Jalil, Senna, April: le bolle scop-
piavano ad una ad una e depositavano il loro carico a terra.
Merlino non c'era.
«Dove siamo?» chiese April, la prima di noi a riprendersi dallo stupore.
Le sue parole vennero inghiottite dal boato della folla. I cavalli della ga-
ra successiva si stavano avvicinando alla pista. Il boato gorgogliò in modo
strano: le tribune erano immerse nell'acqua. Sembrava venire dal fondo di
una piscina.
Ovviamente, in quel momento non eravamo la priorità assoluta per nes-
suno. Eravamo poco discosti dalla pista, un grumo di persone derelitte, del
tutto irrilevanti per i tifosi.
«Ben Hur» mormorò Christopher. «Ben Hur contro la Sirenetta, gente.»
«Siamo nel regno di Nettuno» disse il capitano. «Se almeno fosse Posei-
done...!»
«Che differenza fa?» borbottò Jalil che, bagnato com'era, sembrava an-
cora più ossuto.
«Entrambi sono terribili nella loro ira» rispose il capitano.
«Uno preferisce la pasta, all'altro piace la cucina messicana. Santo cielo,
ma guardate questo posto!» esclamò Christopher. Straparla, quando ha pa-
ura.
La mano mi andò subito all'elsa della spada e strinse l'acciaio forte e ras-
sicurante. Lo faccio sempre, quando ho paura.
C'era aria. Eravamo sulla terra asciutta. Anche la pista era una sacca d'a-
ria, ma le tribune erano dietro una parete d'acqua, una parete ricurva. Era
come guardare in un acquario. Come guardare da una bolla d'aria all'inter-
no di un acquario. Tutta quella massa d'acqua magicamente trattenuta al
suo posto dava l'impressione di potersi schiantare su di noi da un momento
all'altro. Avevo la sensazione di essere un insetto che sta per essere schiac-
ciato da un maglio.
«Non è la prima volta che ci capita di avere a che fare con gli dei» disse
April. «Che cosa potrà mai avere di peggio, questo Nettuno?»
«Non potete confrontare le gloriose divinità dei Greci con le loro pallide
imitazioni romane!» esclamò il capitano con veemenza.
I suoi uomini, che nel frattempo si erano avvicinati, adesso si allontana-
rono nervosamente. Nessuno smaniava di esprimere opinioni sgradevoli
nei confronti di Nettuno.
«I nostri dei, dal grande padre Zeus ai più umili messaggeri, sono aggra-
ziati modelli di delicata umanità, nulla a che vedere con gli dei vili e smi-
dollati del debosciato popolo romano.»
Aveva la voce un po' stridula. Mentre parlava si guardò dietro le spalle e
si accorse che di colpo non c'era più nessuno intorno a lui, nel raggio d'a-
zione di una saetta. Mi voltai verso Senna. Sembrava scossa come tutti
quanti noi, ma come al suo solito se ne stava un po' in disparte.
«Tu ne sai niente di Nettuno?» le chiesi con voce pacata.
Lei rise.
«Ecco quello che so: siamo a chilometri sotto la superficie del mare, alla
mercé di un dio romano. E in più, Merlino è riuscito a seguirci anche fuori
dall'Egitto. Mi piacerebbe pensare che è annegato, ma non ci conto gran-
ché. Noi, invece, potremmo finire annegati in modo molto improvviso,
molto "definitivo".»
«Potremmo, ma non lo siamo, anche se a rigor di logica dovremmo es-
serlo» osservò April, andando a ripescare l'unico flebile raggio di ottimi-
smo.
«Ah, sì? Be'... aspetta un poco. Il giorno è ancora giovane» ribatté Sen-
na.
Come a rimarcare la sua battuta, una dozzina di trombe squillarono con
grande strepito, annunciando l'inizio della gara.

CAPITOLO V

Ci fu uno scoppio di tuono, i cavalli scattarono e imboccarono scalpitan-


do la curva del tracciato ovale.
Erano enormi, più grandi del più grande cavallo del mondo reale che a-
vessi mai visto, grandi come erano grandi molte cose a Everworld: propor-
zioni impossibili, proporzioni che non avevano niente a che fare con le
leggi della fisica del mondo reale. I cavalli erano bianchissimi, con la strut-
tura dei purosangue: corpo lucido e strigliato, zampe lunghe, collo snello
ed elegante. Ma a differenza dei purosangue del mondo reale, questi caval-
li avevano folte criniere fluenti che sembravano d'oro filato, in perfetto sti-
le everworldiano. E gli zoccoli erano decisamente in bronzo, luccicanti.
«Non so perché continuo a dirlo» borbottò Jalil sottovoce «ma niente di
tutto questo è possibile.»
I fantini erano elfi e sembravano ancora più piccoli in groppa a cavalli
tanto grandi. Non stavano seduti in sella ma appollaiati sulla groppa, ac-
cucciati nella tipica posizione da fantino.
E nelle tribune, sulle gradinate c'era la solita varietà di esseri viventi che
assisteva alla gara incitando i cavalli, chiacchierando e ridendo. Uno spet-
tacolo in passato stupefacente, ma ora quasi scontato. Un grande miscuglio
di specie e nazionalità. Seduti, in piedi, o a gironzolare dietro la luccicante
parete d'acqua.
C'erano esseri umani: bianchi, neri, asiatici e di razza sconosciuta. E tutti
respiravano acqua. Respiravano, parlavano, ridevano, bevevano. Sott'ac-
qua.
C'erano ninfe nella loro solita gamma di colori, trasparenti e opache,
verdi, blu e gialle, sedute accanto a lascivi satiri bruni e neri che, data la
particolare conformazione dei loro corpi, restavano in piedi. Più interessati
alle ninfe che ai cavalli.
C'erano elfi, belli e delicati, sottili e sinuosi, maschi e femmine ugual-
mente eterei. Sembravano a loro agio nell'acqua.
C'erano nani, torvi e taciturni, tozzi, larghi quanto erano alti, la barba ir-
suta. Tutti con un'ascia in mano o un altro tipo di arma o di attrezzo. Si
percepiva qualcosa di pericoloso nei nani, non erano malvagi, ma seri e de-
terminati, mai in vena di sciocchezze. Barbe e capelli fluttuavano strana-
mente intorno alle loro facce.
C'erano anche alcuni troll e non fui felice di vederli. Sono esseri stupidi,
i troll, sembrano fatti di roccia, sono i servi e i soldati di Loki. Forse anche
di altri dei. Chissà, magari c'è un ufficio di collocamento specializzato in
troll.
Visti da dietro, i troll sembrano senza testa. Visti di fronte, hanno una
specie di testa da rinoceronte protesa in avanti, un muso lungo e ottuso e
vacui occhietti suini. Dall'una e dall'altra parte non sono un bello spettaco-
lo. L'acqua donava loro una sfumatura lievemente azzurra.
E c'erano anche diversi rappresentanti delle due specie aliene che ave-
vamo incontrato a Everworld: i Coo-Hatch e gli Hetwan. Dio solo sa che
cosa ci facessero qui i Coo-Hatch: difficile immaginare che questi fanatici
esperti di metallurgia fossero felici in un posto dove era impossibile ac-
cendere il fuoco di una fornace.
Elfi, nani, folletti, ninfe, satiri, Coo-Hatch ed Hetwan erano vecchie co-
noscenze, ma c'erano anche altre specie qua e là, forme, facce e colori che
non avevamo ancora incontrato.
E poi c'erano i nativi.
«Sirene» esclamò Christopher, annuendo soddisfatto e trattenendo a fa-
tica un grande sorriso.
«E anche "sireni"... tritoni, forse» concordò April.
«Davvero? Non li avevo notati» rispose ironico Christopher. «Ma ho no-
tato le sirene, però. Accidenti... se le ho notate, le sirene!»
Dalla vita in giù erano pesci lustri e vigorosi, ricoperti di scaglie scintil-
lanti, azzurre, rosa e argento e con una coda trasparente a forma di venta-
glio.
Dalla vita in su erano umani, maschi o femmine. I maschi erano indivi-
dui dall'aspetto poderoso, bicipiti straripanti e pettorali scolpiti. Sembrava-
no particolarmente numerosi vicino alla fila dove era comodamente seduto
lo stesso Nettuno, circondato da una folla di divinità minori, tirapiedi e ruf-
fiani. A mio parere i tritoni erano la guardia d'onore di Nettuno.
Le sirene, invece, non erano affatto minacciose. Avevano braccia esili,
spalle dritte, lunghi capelli fluenti, rosso scuro, biondo oro, nero corvino.
Capelli che, quando l'acqua li muoveva nel modo giusto, pudicamente le
velavano. Ma, per il sommo e sincero godimento del nostro Christopher in
particolare, raramente l'acqua disponeva i capelli con adeguato pudore.
«Te lo dico subito, David, se hanno anche della birra in questo posto, io
resto. Per sempre.»
April fece per dire qualcosa di pungente ma, qualunque cosa fosse, ven-
ne interrotta da un mastodontico grido d'esultanza che salì gorgogliando
dalle tribune. Le voci erano accompagnate da uno squillo come di tromba,
prodotto da conchiglie che venivano suonate come corni da caccia.
I cavalli si stavano avvicinando al traguardo, due purosangue in testa,
praticamente affiancati. La folla era in piedi, o sulla coda, e incitava, gri-
dava, facendo largo uso di espressioni molto colorite, come tutti i normali
tifosi in un qualsiasi stadio.
Anche Nettuno era in piedi, adesso, una presenza imponente, ben più di
tre metri di altezza. E tutta la sua corte era in piedi; i tritoni più vicini era-
no all'erta e scrutavano la folla alla ricerca di possibili guai, come veri a-
genti dei Servizi Segreti.
La gara finì. L'ultimo cavallo superò la linea del traguardo. E di colpo,
non so come, ecco Nettuno da questa parte del muro d'acqua, nell'arena,
vicino al vincitore.
Diversi tritoni erano con lui, decisamente guardie del corpo. Manteneva-
no il loro aspetto minaccioso anche dovendosi bilanciare (ma come face-
vano?) sulla coda di pesce relativamente debole. C'erano pure altri tizi in
toga e pensai che fossero divinità minori o semplici ricconi.
Un attimo dopo Nettuno impose il silenzio con un gesto. Immediatamen-
te la folla ammutolì. Istantaneamente. Come se un altro millesimo di se-
condo di turbolenza non consentita potesse costituire un'offesa capitale.
Il dio iniziò a parlare con una potenza di voce meno lacerante di quella
che aveva usato sulla superficie del mare. Sopportabile, anche se non esat-
tamente gradevole.
«Io sono Nettuno, dio dei terremoti e delle inondazioni, padre di Polife-
mo, il possente ciclope, progenitore del glorioso Teseo, genitore dei gigan-
ti gemelli Oto ed Efialte. È a me che deve la vita Tritone, colui che placa i
mari e soffia nella conchiglia, il re delle sirene e di tutti i tritoni. A me Del-
fino attribuisce la sua stellata presenza nei cieli. A me Neleo e Pelia saran-
no sempre riconoscenti. Io sono Nettuno! Virile marito di Anfitrite, la bel-
la sorella dell'amabile Teti. Io sono Nettuno! Che con la forza prese Medu-
sa, con tanta crudeltà mutata dall'invidiosa Atena in una gorgone dalla ca-
pigliatura di serpi. Mancato amante di Scilla, così vilmente trasformata
dalla gelosa Anfitrite in un mostro dalle molte teste...» Lanciò un'occhia-
taccia alla bella dea che immaginai fosse Anfitrite. Poi sorrise, un sorriso
benevolo, indulgente. «Naturalmente, ho perdonato Anfitrite» precisò. «Io
sono Nettuno!» riprese. «Genitore con la potente Gea dell'invincibile An-
teo. E padre del gigante dalle cento braccia Briareo...»
«Il ragazzo la fa lunga, eh?» sussurrò Christopher.
«Come gli altri, no?» mormorò Jalil.
«E sono stato appagato e amenamente intrattenuto da questa gara di ma-
gnifiche bestie. Accordo la ghirlanda d'alloro a Tiro, un degno animale che
porta il nome della madre dei miei figli Neleo e Pelia, e all'elfo suo fanti-
no, prima residente nel Bosco del Drago, ora fedele servitore delle rinoma-
te scuderie di Nettuno, il fondatore e l'inventore della magnifica disciplina
agonistica dell'ippica.»
La folla, che doveva aver già sentito parecchie volte questa orazione au-
tocelebrativa, ascoltava immobile ogni parola, rapita, attentissima, pen-
dendo dalle labbra di Nettuno, sotto lo sguardo arcigno e intimidatorio dei
tritoni. Diverse volte il discorso venne interrotto da applausi, da lodi e ap-
prezzamenti espressi a gran voce.
Davvero un bello spettacolo: sposava l'entusiasmo grottesco ed esagera-
to di una televendita all'ostentazione e al servilismo di un raduno nazista.
Nel frattempo noi eravamo sempre lì, ignorati da Nettuno e dal suo po-
polo, un gruppetto poco compatto di ragazzi del mondo reale e spaventati
marinai greci. Restammo a guardare mentre Nettuno si congratulava con il
vincitore della gara, prendeva tra le mani il muso del cavallo e gli schioc-
cava un bel bacio sonoro e poi faceva un grazioso inchino al fantino, un el-
fo con una casacca di seta rosa e un paio di pantaloni curiosamente simili a
quelli dei nostri fantini del mondo reale.
Restammo a guardare, ad aspettare. E io intanto mi chiedevo che fine
avesse fatto Merlino. Era morto? Era stato ferito nella tempesta? Era vul-
nerabile davanti ai poteri di Nettuno o si era miracolosamente salvato an-
che lui, come noi? Scrutai la folla. Era in mezzo alla gente in questo mo-
mento, camuffato da qualcosa di diverso dalla sua figura di mago? Si na-
scondeva?
Finalmente Nettuno concluse la sua adorazione del cavallo e del fantino,
più del cavallo che del fantino, e si girò verso di noi. Sembrò notarci solo
allora, malconci, zuppi, i sopravvissuti della sua strana tempesta.
«Non mi piace per niente lo sguardo di questo tizio» borbottò Christo-
pher.
Nettuno parlò. La voce era annoiata.
«Marinai greci, vero? Porci. Via, via, toglietemeli di torno» disse im-
bronciato, allontanandoci con un gesto stizzito della mano. «Un momen-
to!» Socchiuse gli occhi, l'espressione da dilettante vanesio istantaneamen-
te sostituita da un cipiglio sospettoso. «Dov'è il piantagrane? Quello che
era da solo su una barca, quello che si immischiava negli affari miei? Un
mago, se non mi sbaglio.»
Ci fu un sommesso mormorio tra i servi e le guardie del corpo e i tira-
piedi più vicini a Nettuno, teste che si giravano a perlustrare l'arena, scrol-
late di spalle. Nessuno se ne uscì a dire: "Non lo so, Nettuno. Se n'è anda-
to. Puoi uccidermi anche subito e cucinarti il mio fegato per cena...".
Ma non sembrò una cosa importante. Un attimo dopo il dio sospirò e
rimpiazzò il cipiglio con un'espressione di totale disinteresse.
«Non importa» disse con un altro movimento stizzito della mano. «Uc-
cidete quelli che restano.»
Detto fatto, prima ancora che l'eco dell'ultima parola si fosse spento,
comparvero sei squali. Si avvicinarono fino ad arrivare a pochi centimetri
dalle teste degli spettatori, suscitando una serie di "Oooh!" e "Aaah!" di
apprezzamento e risatine di pregustazione.
Gli squali non erano grandi per gli standard di Everworld, ma erano si-
curamente grandi. Nessuno era inferiore ai sei metri di lunghezza. Sei lun-
ghi metri di squalo affamato. Con uno scatto repentino e fulmineo, uno de-
gli squali strappò un nano dal suo sedile e lo spezzò in due.
Le gambe, che ancora scalciavano, caddero fluttuando lentamente e la-
sciando dietro di sé una scia di sangue. La folla strillò. Quelli più vicini fu-
rono presi dal panico, ma i più lontani apprezzarono molto la scena. Nettu-
no scoppiò in una folle risata che riecheggiò in ogni angolo dell'arena.
Ed ecco che il dio e i suoi seguaci erano di nuovo dall'altra parte del mu-
ro d'acqua, di nuovo nei loro comodi sedili, pronti ad assistere allo spetta-
colo della carneficina.
«Non possono uscire di lì, vero?» piagnucolò Christopher.
«Grande Atena, salvaci!» gridò Nikos.
Lo squalo più vicino si avvicinò alla barriera che separava l'aria dall'ac-
qua. E continuò a nuotare. A mano a mano che il muso emergeva dalla no-
stra parte, si formava una bolla d'acqua che avvolgeva l'animale.
Nella sua bolla ondulata, lo squalo continuò a nuotare nell'aria. Adesso
aveva le fauci spalancate. File e file di denti fitti e acuminati.
Puntava su di noi.

CAPITOLO VI

Un altro squalo nella sua bolla, un altro, un altro ancora. Sei in tutto.
Passarono attraverso la parete d'acqua e si diressero rapidamente verso di
noi.
«Dividiamoci! Sparpagliamoci!» gridai. «Forse riusciamo a farci inse-
guire, a stancarli, forse non ci prenderanno tutti. Via!»
Mi tuffai a sinistra, evitando per un soffio uno degli squali che mi si av-
ventava addosso come un siluro. Rotolai, sguainai la spada e la vibrai ver-
so l'alto mentre l'animale mi passava sopra la testa. Colpii solo acqua.
«Aaaaah!»
Mi girai appena in tempo per vedere uno dei marinai risucchiato in una
delle bolle. Fu tutto rapidissimo: i denti affilati e appuntiti che straziavano
le tenere carni dell'uomo e masticavano le interiora insanguinate, l'interno
della bolla che diventava opaco, una nube rossa di sangue e budella.
Poi, ecco un altro marinaio che gridava e si divincolava, un braccio e
una gamba nella bolla d'acqua, l'altra gamba e l'altro braccio fuori dalla
bolla, penzoloni, fatto a pezzi e ingerito, tra le gorgoglianti acclamazioni
della folla urlante.
Corsi, la spada sguainata. Troppo lento. Lo squalo stava facendo una
specie di giro della vittoria, trascinando con sé quello che adesso era un
cadavere. Acqua e sangue scorrevano lungo il corpo lasciando una scia
rossa sulla terra.
Un altro squalo assassino, un altro marinaio sgranocchiato come un bi-
scotto prima che potessi intervenire con la mia spada.
Ero uno sciocco a correre in giro come un matto, cercando di infilzare
degli animali che erano molto più veloci di me, in una lotta impari, uno
contro sei. Le scelte difficili della vita: dovevo proteggere i miei compa-
gni, prima.
Corsi verso April e Christopher, abbracciati insieme. Jalil non era molto
lontano, aveva il coltellino multiuso dalla minuscola lama Coo-Hatch stret-
to in pugno.
Ma in quel momento ebbi come un'illuminazione: gli squali non cerca-
vano noi, non cercavano me, Jalil, Christopher, April e Senna. Avevano
radunato i marinai che restavano e, a uno a uno, li prelevavano dal muc-
chio e li finivano.
"No, non tutti i marinai: uno è rimasto fuori, sembra passare inosservato,
se ne va per conto suo, non me la ricordavo, la sua faccia, sulla nave,
ma..."
Bene. Anche se gli squali non davano fastidio a noi cinque, non signifi-
cava che me ne sarei rimasto lì con le mani in mano. Partii alla carica, pun-
tai verso uno degli squali che giravano intorno ai marinai. Strinsi l'elsa con
entrambe le mani, mi avvicinai ancora, sollevai alta la spada di Galahad e
la calai con tutte le mie forze.
La spada tagliò l'acqua, tagliò le squame, la carne, la cartilagine. Tagliai
in due lo squalo proprio vicino alla coda. La spada aveva attraversato l'in-
volucro d'acqua, aveva tranciato in due lo squalo ed era uscita. E nella bol-
la che ancora si librava in aria, intatta, galleggiavano i due pezzi dello
squalo mentre l'acqua si colorava di rosso.
Ci fu un momento di relativo silenzio, mentre la folla senza dubbio ela-
borava il fatto nuovo: un essere umano condannato a morte da Nettuno a-
veva appena ucciso uno dei carnefici del dio.
Lanciai una rapida occhiata agli altri. Le loro facce mostravano paura e
soddisfazione, una traccia d'ira su quella di Senna. Male. Ma avevo dovuto
farlo... non avrei mai potuto starmene lì seduto ad aspettare mentre altre
persone venivano massacrate, aspettare il mio turno per morire, per l'ordi-
ne arbitrario di un altro dio psicopatico.
Nettuno levò una mano e gli attacchi cessarono. Gli squali giravano ner-
vosamente nei loro globi d'acqua.
«Chi sei, mortale?» chiese imperiosamente il dio. «Chi sei, per entrare
non invitato nel mio regno e poi con tanto ardire uccidere il mio squalo?
Una tale esibizione di audacia mi diverte. Parla!»
A muso duro, non c'era altro modo. Se avessi mostrato esitazione, Net-
tuno mi avrebbe ucciso, di questo ero più che certo.
Rimisi la spada nel fodero, appoggiai la mano sull'elsa. Tenni la schiena
dritta, gli occhi fissi sul dio romano e feci un passo avanti.
«Io sono il comandante delle armate greche che difendono l'Olimpo da-
gli eserciti degli Hetwan di Ka Anor» annunciai a voce alta, in tono arro-
gante. «La saggia Atena mi chiama generale Davideus e io ho giurato di
difendere e proteggere ciò che è suo.»
Avanzò anche Jalil e si fermò dietro di me, per aiutarmi a sostenere la
commedia. E per darmi allo stesso tempo motivo di tremare.
«Lo sai, vero, che questo è un dio romano?» mi sussurrò con un filo di
voce. «E che il suo omologo greco sembra avere una particolare "predile-
zione" per Atena?»
«Accidenti! Allora se Poseidone e Nettuno sono in lotta tra loro... è chia-
ro che Nettuno odia anche Atena! Questa sì che era un'informazione utile,
circa dieci secondi fa» borbottai.
Nettuno alzò il tridente, un tridente lungo come un palo del telefono, con
le sue brave tre punte a freccia. Il volto imponente e glabro era una ma-
schera d'ira, con le vene gonfie e pulsanti sulle tempie e sul collo.
«No!» gridò April agitando le mani e sfoderando il suo migliore sorriso
in stile hollywoodiano. «È uno scherzo! Potente Nettuno, grande Nettuno,
lui sta scherzando!» Mi indicò convulsamente con il dito. «Lui, David,
questo qui, è il nostro buffone! Noi siamo menestrelli, menestrelli del vec-
chio mondo con storie meravigliose da raccontare e allegre canzoni mai
sentite a Everworld. E saremmo onorati, onoratissimi, grande... mmm... si-
gnore, se ci permetterai di intrattenerti con il nostro spettacolo!»
Ci fu un orribile momento di attesa, l'attesa che il dio si bevesse la nostra
storia, la storia che raccontavamo sin dai tempi dei Vichinghi, la storia che
giustificava la nostra presenza qui a Everworld, una storia che tutti aveva-
no preso per vera. Finora.
La mano che teneva il tridente era ancora alta sulla testa ricciuta del dio.
Un'ira folle, o forse solo follia, gli ardeva negli occhi scuri, o in quello che
ne potevo intravedere sotto le sopracciglia folte e aggrottate.
E poi...
Nettuno scrollò le spalle. Abbassò il tridente. Un sorriso altrettanto falso
di quello di April gli si allargò sulla faccia.
«Molto bene. Menestrelli, vi concedo l'onore di intrattenermi. Ma non
ora, più tardi, quando sarò dell'umore giusto.» Nettuno sospirò e fu come
una folata di vento. «Sono un dio molto stanco» ammise, con un po' di
broncio. «Serpeggia la guerra nel mio regno sottomarino, una guerra tra
me e quell'invadente di Poseidone, quel bastardo di un Greco, quel ladro!
Fui io il primo a impugnare il tridente con cui comandare alle onde e do-
minare il mare! Fui io, il grande Nettuno, non quella femminuccia di Po-
seidone! Sfido chiunque a mettere in dubbio il mio diritto, che è equo e
giusto. Sfido chiunque a intralciarmi quando reclamo la proprietà di Atlan-
tide! Tu! Tu osi sfidarmi?»
Mi girai a guardare la persona che Nettuno aveva scelto come oggetto
della sua ira. Un uomo, capelli scuri, pelle ramata, seduto sulle tribune, un
Azteco, forse. Allarmato, gli occhi dilatati, la bocca aperta.
Si alzò in piedi lentamente.
«No... no, grande Nettuno...»
Il dio sorrise e sollevò le sopracciglia.
«Oh, io credo di sì, invece!» cantilenò.
E in quel momento scagliò il tridente contro l'uomo. Il rebbio centrale
gli si conficcò nel cuore. Gli altri due penetrarono nella pietra delle tribu-
ne. L'uomo morì all'istante.
«Oddio» sussurrò April.
Nettuno non era più calmo. Era rimasto calmo per circa cinque secondi e
poi aveva dato la stura alla sua follia e aveva arbitrariamente ucciso uno
degli spettatori. E adesso era contrariato e piagnucoloso.
«Il mio tridente, il mio bel tridente! Rovinato dal sangue immondo di un
traditore! Oh, oh, datemi un nuovo tridente, bruciate l'altro, presto, pre-
sto...»
«Questo è proprio fuori di testa» sussurrò Christopher. «Non fuori come
gli altri dei... è proprio un caso disperato!»
Noi restammo fermi al nostro posto, mentre una ninfa gli carezzava la
fronte e un'altra gli portava qualcosa da bere in un calice e altre due corre-
vano via, con ogni probabilità a prendere il tridente di scorta.
Ma Nettuno non ci aveva dimenticato. Due tritoni comparvero accanto a
noi. Non li avevo nemmeno visti avvicinarsi. A quanto pareva, si muove-
vano nell'aria con la stessa facilità con cui si muovevano nell'acqua.
«Ora voi verrete con noi» ci comunicò il più grosso dei due. «Potrete ri-
posare finché il grande Nettuno non comanderà la vostra presenza.»
Jalil mi lanciò un'occhiata. Annuii. Non restava molto altro da fare se
non seguire questi tizi. Stare fuori dal raggio d'azione di Nettuno, tanto per
cominciare. Poi, fare il punto della situazione, elaborare un piano. Restare
vivi.
Feci un respiro profondo. Per la prima volta da un bel po' di tempo a
questa parte. Ma non mi rilassai. Mi pareva di sentirlo, il tridente che e-
mergeva dalla parete d'acqua, sibilava nell'aria, mi infilzava, mi spezzava
la spina dorsale, mi inchiodava al...
"Okay, controllati, David. Esci da questo posto maledetto a testa alta.
Puoi crollare più tardi, se vuoi."
Seguimmo i due tritoni fuori dall'arena e di nuovo notai il marinaio,
quello che non era stato radunato dagli squali insieme agli altri, uno dei
pochi che erano sopravvissuti. Anche lui si stava allontanando e nessuno lo
disturbava (perché non lo fermava nessuno?), si allontanava a novanta gra-
di rispetto alla nostra direzione. Pensai di chiamarlo, di chiedergli di stare
con noi, ma non lo feci.
Avevo un'idea abbastanza precisa del motivo per cui questo particolare
marinaio riusciva ad allontanarsi senza farsi notare.

CAPITOLO VII

Seguimmo i due tritoni che, inspiegabilmente, nuotavano anche nell'aria,


senza bisogno dell'acqua.
Li seguimmo fuori dall'arena attraverso un tunnel che finiva in una pare-
te d'acqua. I tritoni continuarono semplicemente a nuotare, passando dall'a-
ria all'acqua senza farla nemmeno increspare, quasi senza rallentare.
Noi, invece, ci fermammo. Uno dei tritoni si girò a guardare, aggrottò la
fronte e ci fece cenno di seguirlo.
«Ehi, amico, a noi servirebbe, l'aria» osservò Christopher.
Più in là si vedeva la città. Strade, edifici, venditori ambulanti, animali
da carico. Si vedevano degli umani che camminavano e parlavano e pre-
sumibilmente respiravano sott'acqua. La logica mi diceva che i tritoni non
avevano intenzione di affogarci. La logica mi diceva che era tutto okay,
che se Nettuno ci avesse voluti morti, avrebbe trovato un sistema più spet-
tacolare. Al diavolo anche la logica. Questo era un muro d'acqua. D'acqua
vera. Di quella che non è buona da respirare, se uno non ha le branchie.
Jalil fece un passo avanti, con le labbra protese come se volesse fischia-
re. Fece un passo avanti e allungò una mano, incerto, per toccare la parete
d'acqua. Ritirò la mano e la osservò: era bagnata.
«Be'? Pensavi che fosse acqua finta?» gli chiese Christopher.
Jalil sembrò un po' in imbarazzo, un'emozione che rivela stringendo le
labbra e socchiudendo gli occhi con rabbia. Tornò a infilare la mano
nell'acqua, rimestò. Poi fece un respiro profondo e ci infilò tutta la testa.
Ma trattenne il fiato. Non respirò finché le vene del collo non furono sul
punto di scoppiare, finché il suo torace resse. E poi, di colpo, aspirò.
Sbarrò gli occhi. Respirò di nuovo.
Poi con un grosso sforzo di volontà attraversò con tutto il corpo la bar-
riera acquea e rimase dall'altra parte a respirare con calma, inspirare, espi-
rare, inspirare, espirare. Niente bollicine. Un'altra delle tante stranezze.
Niente bollicine.
«Non avrei mai pensato che Jalil potesse dimostrare una tale fede nella
forza della magia» rise Senna in tono di scherno.
«Nel potere della ragione» ribatté Jalil, la voce gorgogliante e indistinta.
«Quello che è, è. Qui c'è della gente che respira.»
Senna rise, lasciando cadere il discorso. E attraversò il muro d'acqua. I
capelli le si gonfiarono e fluttuarono formando una nuvola dorata. A Senna
piaceva molto la magia, la sua realtà, la sua potenza, in un modo che nes-
suno di noi poteva condividere.
April la seguì. E poi Christopher.
In quel momento non stavo facendo la parte dell'impavido condottiero.
Io ho una certa avversione verso il soffocamento. Sono decisamente con-
trario. Ci sono molti modi di morire, ma morire con i polmoni pieni d'ac-
qua non è tra i miei preferiti.
«Andiamo, pesciolino, vieni» mi incitò Christopher.
«Va' al diavolo.»
Non mi sarei fatto prendere dal panico. Non dovevo. Ma ero già stato
molto vicino all'annegamento e con quel ricordo ancora fresco nella mente
non ero molto ansioso di riprovare. April ripassò di qua, bagnata fradicia.
Fece per prendermi per mano e accompagnarmi.
No. Non avrei permesso che succedesse. Non sotto gli occhi dei tritoni
che già ghignavano.
Non dico che la scacciai in malo modo, ma le passai davanti e mi buttai
dritto addosso alla parete d'acqua. Chiusi gli occhi, una reazione istintiva,
trattenni il fiato.
Poi respirai. Sentii i polmoni riempirsi d'acqua. La sentii entrare. Era
fredda, più fredda dell'aria. E pesante. Avrei voluto sputarla fuori, fu que-
sto il mio primo istinto, ma resistetti.
Espirai. Espirai acqua viscosa e densa.
Mi mossi. Mi mossi come uno che cammina sott'acqua. Guai se avessi
dovuto usare la spada. Però riuscivo a vederci. E quando cercai di parlare,
la voce sembrò quasi normale, alle mie orecchie. L'acqua mi gonfiava i ve-
stiti.
«Be'... è decisamente diverso» dissi.
«È la prima volta che siamo tutti quanti puliti da quando abbiamo lascia-
to l'Olimpo» osservò April.
Feci un cenno del capo ai tritoni.
«Andiamo pure.»
I tritoni erano creature potenti nell'aria. Ma adesso, nel loro elemento na-
turale, la loro superiorità era ancora più evidente. Si muovevano con la
grazia dei delfini. Non avevano bisogno d'altro che di lievi colpi di coda
per superare in velocità i nostri passi lenti e faticosi da uomo sulla luna.
Per la prima volta notai le lame di corallo da trenta centimetri al fianco
dei tritoni. Se ci fossimo scontrati, io e loro, sarebbe stata senz'altro una
battaglia molto breve e molto sgradevole.
I tritoni ci condussero a quella che poteva essere una tipica casa dell'an-
tica Roma o di Pompei... Si fermarono davanti alla porta e ci fecero cenno
di entrare. Si misero di guardia, l'espressione già annoiata.
Dentro la casa trovammo un piccolo cortile interno, aperto, i quattro lati
delimitati da colonne dietro le quali si apriva una serie di stanzette. Per
passare da una stanza all'altra bisognava attraversare il cortile o seguirne il
perimetro interno. Un bel problema, quando pioveva. Non qui, però.
Le pareti erano decorate da dipinti di uccelli e fiori, pesci e coralli, pae-
saggi terrestri e marini sorprendentemente realistici. Vi erano anche raffi-
gurati uomini e donne, sirene e tritoni, gente comune, insomma, per gli
standard di Nettuno. Tutti questi motivi decorativi erano racchiusi da una
specie di cornice, un motivo a incastro, e da elementi architettonici dipinti,
come colonne e modanature oppure finestre che si aprivano su questi pa-
norami.
Una parete divisoria, dipinta come le altre nei toni caldi e forti del rosso,
del nero e del giallo scuro, mostrava quello che secondo April doveva es-
sere una specie di corteo trionfale in onore di Nettuno e della sua consorte.
Le due divinità, che avevano sul capo qualcosa di molto simile a un'aureo-
la, nude entrambe fino alla vita, erano in piedi su un cocchio trainato nelle
profondità marine da una quadriglia di imponenti cavalli.
Intorno a loro danzavano vari tipi di pesci, sogliole e affini, polpi e altre
specie meno comuni che sembravano dei piccoli draghi acquatici. Sopra
Nettuno e Anfitrite svolazzavano due angioletti paffuti dotati di ali minu-
scole, reggendo le due estremità di una lunga fascia di tessuto che, gonfiata
dalle acque, formava un arco sopra la testa della coppia di dei.
I pavimenti erano a mosaico, minuscoli pezzetti di pietre colorate dispo-
sti in modo da raffigurare qualsiasi soggetto, da grappoli d'uva a cani che
abbaiavano a una divinità che soffiava in una conchiglia e che dal contesto
poteva sembrare Tritone, uno dei figli di Nettuno.
La cosa sorprendente era che Nettuno e Anfitrite e Tritone non erano fi-
gure idealizzate tratte dall'immaginazione dell'artista: erano ritratti di indi-
vidui reali.
A parte le ricche decorazioni delle pareti e dei pavimenti, con soggetti
ispirati al mondo terrestre e sottomarino, la casa era vuota di tutto, tranne
che degli arredi più essenziali: qualche letto corto e stretto in alcune delle
stanze che si affacciavano sul cortile, qualche semplice sedia, un tavolo.
«Una tipica dimora dell'antica Roma, immagino» osservò Jalil. «Tranne
che questa è sott'acqua. Qualcuno mi vuole spiegare come si fa a dipingere
sott'acqua? E perché i tetti sono inclinati? Per far defluire la pioggia? E da-
to che ci siamo, perché c'è luce? Qualcuno vede un sole? E perché conti-
nuo a fare queste domande?»
«Perché ti piace ricordarci quanto sei intelligente?» chiese Christopher
di rimando, fingendo un tono innocente.
«Oh, sì. Giusto. Ecco perché!» confermò Jalil.
«Mi piaceva di più il posto dove stavamo sull'Olimpo» osservò Christo-
pher. «Il personale era molto più amichevole, il servizio in camera era ec-
cellente e l'umidità non era un gran problema.»
Sott'acqua. Non riuscivo proprio ad abituarmi.
Respirare l'acqua, vivere immerso nell'acqua mi dava una sensazione di
totale impotenza, mi sentivo privo di punti fermi, prosciugato di tutte le
forze, incapace di avere la cognizione del mio stesso peso, del posto che
occupavo nello spazio. Come in piscina: ti senti sospeso, leggero, come se
non pesassi quasi nulla. Quella, però, potrebbe essere un'esperienza piace-
vole, dato che in piscina non capita di dover combattere contro divinità
folli e dispotiche.
La sensazione che provavo io era più simile a quando ogni movimento
subacqueo che fai è insopportabilmente lento e in qualche modo ritardato.
Quando ti guardi le dita che cercano di raccogliere una monetina dal fon-
do, nella parte dove la piscina è più profonda, e ti senti un po' come un ne-
onato che non sa ancora coordinare i movimenti, che non sa ancora dirige-
re il pollice e l'indice verso il dolcetto sul ripiano del seggiolone al primo
tentativo. Un'esperienza che non è mai gradevole.
«Guardia!» gridai.
Uno dei tritoni entrò nuotando, gli occhi fiammeggianti, adirato per es-
sere stato convocato. Bene. Era buono sapere che non era inattaccabile.
«Noi non siamo pesci» gli dissi. «Credi che sarebbe possibile stare in un
posto dove si possa respirare aria?»
«Appunto» ribadì Christopher. «Noi siamo abitanti delle superfici con
quel che ne consegue. Polmoni, non branchie.»
L'ira del tritone venne sostituita dall'insolenza e dal disprezzo. Non si
degnò nemmeno di rispondere. Se ne andò con un colpo di coda e la porta
si richiuse dietro di lui.
Ma di colpo... aria! Come se il tritone avesse schiacciato un interruttore.
I capelli rossi di April, i capelli biondi di Senna smisero di fluttuare intor-
no e ricaddero sulle spalle. Di nuovo capelli di ragazze della terraferma. La
mia maglietta, o quello che ne restava, non era più gonfia e aderiva al petto
e allo stomaco. E adesso vedevo tutto quanto più chiaramente, più vivida-
mente, non come attraverso una pellicola che rendeva tutto un po' appan-
nato, che sfumava i contorni e i colori.
La forza di gravità. Sentii la pesantezza del mio corpo, i saldi muscoli
delle cosce, i piedi ben piantati per terra, la pelle secca e screpolata da e-
lementi diversi dall'acqua, l'aria fredda, il vento tagliente, le rocce scabre.
Molto meglio. Posai la mano sull'elsa della spada. Sentii il metallo, il cuo-
io intriso d'acqua. Mi era tornato il senso del tatto, in tutte le sue sfumatu-
re.
Jalil scosse la testa.
«Impossibile.» Si avvicinò a una finestra e l'apri. «Incredibile.»
L'acqua assediava la casa, premeva contro l'aria che riempiva le stanze,
contro la superficie invisibile dove l'interno toccava l'esterno. Non entrava
ad allagare la casa, ma restava lì, sembrava premere, minacciare di avvol-
gere, di travolgere. Jalil appoggiò la mano sul muro d'acqua, la spinse
nell'acqua. Era come se la mano fosse entrata in una gigantesca bolla di
sapone, di quelle che fanno i bambini immergendo un anello di plastica
nell'acqua saponata e poi agitandolo in aria. Ma la bolla non si ruppe, non
ci fu nessuna perdita, né un'inondazione. Ritirò la mano e la scosse per a-
sciugarla.
«Okay, non è troppo strano. La mano è passata. Non c'è una guaina o
una barriera di altro tipo tra l'aria e l'acqua. Niente che le tenga separate.
Niente che io possa vedere, almeno. Due forze uguali e contrarie...»
«Certo che c'è qualcosa che le tiene separate.» Era Senna, appoggiata al-
la parete opposta, con le braccia conserte. «È Nettuno che tiene divisa la
sua atmosfera dalla nostra. È Nettuno che ci permette di respirare nell'ac-
qua. È Nettuno che ha riempito questa casa di aria. È magia, Jalil, devi ac-
cettarlo. È Nettuno che ci permette di vivere. Se per caso decide di toglier-
ci il suo aiuto, siamo morti. Questo tuo istintivo atteggiamento di sfida a-
desso non è molto opportuno.» Senna rise e si staccò dal muro. «Siete tutti
così ingenui, così cocciuti. E così ciechi. Non vedete la bellezza di tutto
questo? Siete veramente indifferenti davanti a tutto questo?»
«I pesciolini sono molto carini» osservò Christopher.
April si stava torcendo i capelli completamente zuppi d'acqua.
«Non è questo che intende Senna. È il potere che è bello, per lei. Lei ve-
de tutto questo e immagina di poter avere lei stessa tutto questo potere.»
Senna non negò. April aveva ragione, naturalmente.
«Sentite» dissi «forse potremmo provare a dormire un po'. Se ci riuscia-
mo. Cerchiamo di incontrarci dall'altra parte. Cerchiamo di... non so.» Tut-
to d'un tratto mi sentivo semplicemente esausto. «Faccio io il primo turno
di guardia. Siamo menestrelli, giusto? Immagino che dovremmo prepararci
a mettere su uno spettacolino.»
Jalil toccò uno dei letti. Tastò la coperta sottile.
«È asciutta.»
Li mandai a dormire. Uscii nel cortile e guardai in su. Il muro d'acqua
incombeva su di me. Uno, due chilometri d'acqua, forse anche di più.
Come fai a vincere una battaglia quando il tuo avversario non deve far
altro che sospendere la magia che ti tiene vivo?

CAPITOLO VIII

«Oh, brutto figlio di...»


Sterzai bruscamente a destra, riuscii a riportare l'auto in carreggiata, tra-
salii quando il tizio che veniva dalla parte opposta, il tizio nella vecchia u-
tilitaria grigia che quasi avevo centrato frontalmente, si attaccò al clacson e
per giunta mi mostrava il dito allontanandosi.
Okay, me lo meritavo. Ultime Notizie dalla CNN. Ero in macchina lun-
go la Sheridan e pensavo agli affari miei, quando all'improvviso vengo tra-
volto da un'ondata di informazioni dal David di Everworld.
Tutte in una volta: una concentrazione di follia sufficiente a farmi sban-
dare nella carreggiata opposta e rischiare di ammazzare un altro automobi-
lista, oltre che me stesso. Il che sollevava l'eterno quesito: se fossi morto
qui, nel mondo reale, il David di Everworld avrebbe continuato a esistere?
E sull'altro versante, se fossi morto a Everworld, ci sarebbe stato ancora un
David del mondo reale a guidare questo mostro di macchina?
Merlino, Nettuno, una tempesta assurda e un naufragio, April che inter-
viene appena in tempo per evitarmi di finire infilzato da un dio romano
psicopatico, costretta a intervenire perché ho parlato stupidamente, senza
pensare.
Picchiai sul volante col palmo delle mani.
E fu allora che la vidi, all'improvviso, come se fosse apparsa al suono
delle mie mani contro il volante, come un'attrice che aspetta il segnale per
entrare in scena.
All'inizio non ne ero sicuro al cento per cento, ma quando la sua auto
uscì da una strada laterale e si mise sulla mia carreggiata, a circa tre mac-
chine di distanza da me, non ebbi più dubbi: era lei, la domestica, la donna
di mezza età che avevo già incontrato una volta, anche in quel caso subito
dopo un aggiornamento da Everworld. Quella donna di mezza età, bassa e
tozza, che si era fermata sotto la pioggia, ignorando il fatto che avevo ap-
pena vomitato sul suo vialetto, o sul vialetto della famiglia per cui lavora-
va, quella donna dagli occhi neri che mi aveva chiesto che messaggio por-
tavo. Che mi aveva chiesto se la porta era stata aperta. Che mi aveva detto
di chiuderla.
Allora mi ero convinto che parlasse del portone di legno all'inizio del
vialetto e non di Senna, la "porta" tra i due mondi. Mi ero detto che quella
donna era solo un vecchia superstiziosa polacca o messicana o di qualche
altro paese meno sofisticato dei cari vecchi Stati Uniti d'America. Me l'ero
detto e ripetuto, ma non ci avevo creduto nemmeno per un momento.
In seguito ne avevo accennato a Jalil. Inizialmente non avrei voluto dir-
glielo e più tardi avevo pensato che forse non avrei dovuto. Gliene avevo
parlato, almeno credo, perché Jalil è uno intelligente, ha il cervello fino e
si concentra sempre e solo sulle verità dimostrabili. Non ha tempo, lui, per
i fenomeni psichici, per le cose vaghe e indefinite o per quelli che lui defi-
nirebbe oscuri riti primitivi. O meglio, era così quando arrivammo a Ever-
world per la prima volta.
Adesso non sono più così sicuro che Jalil non faccia nessuna concessio-
ne alla magia: ne abbiamo fatte tutti quanti. Ma il punto è che a suo tempo
Jalil non sembrò mostrare molto interesse per la mia storia. Lo trovai con-
fortante. Sapevo di mentire a me stesso, ma mi sentivo anche più tranquil-
lo. Se Jalil non credeva che il mio incontro con quella signora straniera
fosse significativo, be'... probabilmente non lo era.
E invece, eccola qui di nuovo. Sicuramente era lei, anche se mi chiesi
che cosa ci facesse una "domestica" a bordo di una nera Mercedes Classe S
con i vetri oscurati.
Forse avrei dovuto scoprirlo. Seguirla. Del resto, non avevo molta altra
scelta, sulla Sheridan, che è a due corsie e due sensi di marcia.
Un tizio su una Jaguar mi stava sotto, cercava il momento buono per su-
perarmi. Rallentai. L'avrei lasciato passare, l'avrei frapposto tra me e la
Mercedes. Non volevo starle attaccato alla coda, volevo che sembrasse una
cosa innocente.
Anche la Mercedes rallentò. Si adeguò alla mia velocità. Respirai tre-
mando e mi dissi che era una pura coincidenza.
La Jaguar diede gas e ci superò entrambi.
Guardai l'orologio: le quattro e mezzo del pomeriggio. Il cielo ormai era
quasi scuro, mancava poco, e l'aria si era fatta notevolmente più fredda.
Avevo la capote abbassata e la camicia di cotone non bastava a protegger-
mi dall'aria della sera. Simpatico. A Everworld ero fortunato se trovavo
ogni giorno un pezzetto di pane non ammuffito da mangiare e se avevo
uno straccio di vestito con cui coprirmi il fondoschiena tremante. Qui nel
mondo reale, il mio organismo pretendeva un pullover, una giacca, un ma-
glione, qualsiasi cosa per tenere caldo e asciutto il mio prezioso corpicino.
Intanto la Mercedes stava accostando, una manovra né facile né sicura su
una strada così stretta, una strada che non aveva spazio ai margini. Perché?
Doveva essersi accorta che la stavo seguendo. Mi ero avvicinato troppo,
avevo dato nell'occhio. Mi aveva riconosciuto? Magari pensava che fossi
un ladruncolo e aveva già chiamato la polizia dal cellulare?
La superai, pensai che fosse meglio proseguire, far finta di niente. Ma...
no. Doveva andare così. Dovevo sapere.
Accostai anch'io, quaranta, forse cinquanta metri più in là. Spensi il mo-
tore e rimasi fermo per un momento, chiedendomi se sarebbe scesa dalla
macchina per venire da me o se invece si sarebbe rimessa in carreggiata,
partendo a tutto gas, sgommando, filandosela via.
Niente. Quasi due minuti interi di niente. Ed è troppo per restarsene se-
duti ad aspettare. Scesi dalla macchina. Diedi un'occhiata al traffico che ar-
rivava alle mie spalle e mi avviai lentamente verso la Mercedes. Avvici-
nandomi notai che anche la domestica aveva spento il motore, era seduta in
macchina, in attesa. Avvicinandomi ancora, notai che il finestrino dalla
parte della guida si stava abbassando. Un tuffo al cuore, la pelle d'oca sulla
braccia. Adesso ero a portata di voce.
«Signora, ha qualche problema con la macchina? Ha bisogno di aiuto?»
Sì, era credibile. Non c'era assolutamente niente di strano. Potevo essere
solo un bravo boy-scout premuroso.
Era lei, indubbiamente. Una signora tarchiata e di mezza età, i capelli
grigi, un vestito nero e informe e un maglione nero molto abbondante. Ar-
rivava a fatica a vedere oltre il volante. Mi guardò, gli occhi scuri si fissa-
rono nei miei e sentii che non avrei potuto staccarmene. Era con me o con-
tro di me? Mi avrebbe fatto qualche fattura, mi avrebbe ucciso, mi avrebbe
aiutato? La mano si spostò istintivamente verso una spada che non c'era.
Lei notò il movimento e fece un lieve sorriso.
«Hai chiuso la porta, David?»
Rabbrividii. Sperai che non notasse quell'involontaria debolezza, quella
reazione puramente fisica all'aria fredda della sera.
«Non so di che cosa stia parlando, signora» le dissi fingendo un lieve
sorriso accomodante, da adolescente beneducato che parla a una vecchia
un po' bislacca.
Lei mi restituì il sorriso, un sorriso non minaccioso, calcolato probabil-
mente per mettermi a mio agio, per farmi abbassare la guardia. Un sorriso
stranamente giovanile.
«Sei saggio a non fidarti, David. Ti prego, seguimi fino a casa mia. Ho
molte cose da discutere con te.»
In quel minuto in cui eravamo rimasti a parlare era calata la sera. Adesso
il cielo era nero come il carbone e la temperatura si era abbassata di diversi
gradi. O forse questa donna aveva alterato il fluire del tempo o magari sol-
tanto la mia percezione.
Ero nervoso, pieno di timori e di domande irrisolte ed ero irritato dal
mio nervosismo. Ma l'avrei seguita. Era meglio così, meglio così che vive-
re senza sapere, permettendo a questa donnetta grassa vestita di nero di
spaventarmi.
«Va bene» acconsentii, guardando quel viso rotondo d'un tratto gentile,
ora illuminato come una luna nell'oscurità circostante. «La seguo.»
E la seguii. La seguii pur non volendo farlo, pur desiderando superare la
sua macchina, un sorpasso su una strada a sole due corsie era piuttosto pe-
ricoloso, ma forse non così pericoloso come seguirla fino a casa sua. Eppu-
re la seguii. Pochi minuti dopo svoltò in un lungo vialetto. Il portone si a-
prì automaticamente, ma per una fotocellula, non per magia. Forse. Ci av-
vicinammo alla casa che la volta precedente avevo appena intravisto ma
che non avevo osservato con attenzione.
Non mi sorprese vedere che era una di quelle case lussuose della fine del
diciannovesimo secolo, piuttosto frequenti su questa sponda del lago Mi-
chigan. Una casa per una famiglia sola, ma costruita con le dimensioni di
un palazzo, adatta ad alloggiare la servitù, gli ospiti e, in quei tempi, i
membri della famiglia allargata che si fermavano per periodi molto lunghi:
nonni anziani, sorelle tubercolotiche, cugini sfaccendati.
C'era qualcosa di tetro e un po' minaccioso in quella casa, ma magari la
sensazione era provocata o quantomeno esacerbata dal tempo e dall'ora del
giorno. E dal fatto che, in generale, io avevo una fifa blu. La casa era in
pietra, pietra calcarea, credo, segnata dagli anni, sembrava portata di peso
dall'Inghilterra. Contai quattro livelli di finestre dal pianterreno, escluse le
minuscole finestrelle che si aprivano da una specie di torretta in alto.
Gran parte della costruzione era coperta d'edera rampicante, che contri-
buiva a dare al posto quella sua aria romanticamente tenebrosa. Non si ve-
devano luci ai piani superiori e anche quelle al pianterreno sembravano
fioche.
Le luci dei freni della Mercedes si accesero e io mi fermai dietro di lei
all'inizio del vialetto. Lei scese dalla macchina e mi aspettò davanti alla
porta d'ingresso dell'imponente dimora di pietra. Aspettò che tirassi su la
capote della Buick. Ci sarebbe stato freddo, al ritorno.
Quando la raggiunsi, lei si girò e infilò la chiave nella toppa. La seguii
all'interno senza parlare e lei buttò le chiavi su un tavolinetto nell'atrio.
"Non è la domestica" decisi.
Passammo accanto a una grande scalinata centrale fatta di legno scuro e
lucido, percorremmo uno stretto corridoio dal pavimento di marmo e tap-
pezzato di stampe o dipinti incorniciati d'oro e arrivammo alla parte poste-
riore della casa, in cucina. Sembrava una cucina uscita da una di quelle ri-
viste di arredamento che mia madre lascia sempre in giro per casa, aperte.
«Ti faccio un po' di tè» mi disse la donna mentre io mi fermavo appena
oltrepassata la soglia, a disagio, in silenzio.
Mi fece cenno di accomodarmi e io mi avvicinai al tavolo e mi sedetti su
una delle sedie. Notai che la stanza era calda, non troppo calda, ma confor-
tevole. Nonostante il nervosismo, notai questo dettaglio.
«Grazie, ma non bevo tè» le risposi, con il vago timore di finire avvele-
nato o stregato o...
"Sii cauto, sta' attento, David."
Lei, che era già ai fornelli, si girò verso di me e sorrise.
«Allora vuoi qualcos'altro di caldo? Mi sembri congelato con quella ca-
micia leggera.»
Scossi la testa, imbarazzato. Notai adesso che questa anziana polacca o
messicana non aveva nessun accento. Cioè, la prima volta ce l'aveva, un
accento, ma adesso non più.
«No, grazie.»
Strinse le spalle, finì di preparare una teiera per sé con movimenti lenti e
deliberati, poi si sedette con me al tavolo. Bevette un sorso di tè, senza lat-
te e senza zucchero, poi depose la grande tazza bianca sul piattino.
«Io sono Brigid» disse.
Di nuovo i suoi occhi su di me, scrutatori, in attesa.
Non significava niente per me, il suo nome, la sua dichiarazione. Tranne
che non sembrava una Brigid, più una Maria o una Sofia. Mi resi conto che
mi stavo attaccando agli stereotipi, nel tentativo di stabilire un minimo di
controllo sulla situazione.
«Io credevo che lei fosse la domestica» dissi, rendendomi conto nel
momento stesso in cui mi uscivano le parole di bocca di quanto fosse
un'osservazione scortese.
E all'improvviso non sapevo più che farmene delle mie mani, le appog-
giai sul tavolo di quercia intrecciando le dita, poi me le posai sulle ginoc-
chia, mi sentii uno stupido, infine mi misi a braccia conserte.
Brigid sorrise.
«Era quello che volevo sembrare, David.»
«Come fa a sapere il mio nome?» le chiesi.
«So molte cose» mi rispose, sorseggiando con calma il suo tè ancora
fumante.
Adesso, dentro la casa, mi ero riscaldato, ma vedendola bere dalla gran-
de tazza di ceramica bianca rimpiangevo il fatto di non aver accettato la
sua offerta. La stanza con gli armadietti in legno di ciliegio e le pareti color
pappa di pomodoro, l'aroma che saliva dal tè fumante, la lunga giornata al-
le spalle... sì, era stata proprio una lunga giornata, prima la scuola, poi un
turno extra da Starbucks per sostituire un altro, e infine qui in questa cuci-
na in compagnia di questa donna dai capelli grigi, quasi una nonna, questa
garbata signora di mezza età dai capelli scuri...
«Potrei...»
I riccioli di vapore che si alzavano dalla tazza fumante mi annebbiavano
la vista, mi facevano vedere delle cose... Mi sfregai gli occhi, battei le pal-
pebre, appoggiai il palmo delle mani sul tavolo, mi avvicinai alla donna, la
giovane donna dai capelli rossi, come April, come una sorella maggiore di
April, lunghi capelli rossi, ma più scuri, meno ricci, e occhi più saggi,
qualche ruga sottile agli angoli degli occhi, un sorriso gentile. Ma contem-
poraneamente diventava più grande, questa donna, non gigantesca, non
mostruosa, ma mezzo metro più grande dell'altezza media di una donna.
«Sei una di loro» sussurrai, sentendo un'infinita pesantezza dentro di me.
«Sì, David, è vero» mi rispose. «Io sono Brigid. La dea Brigid.»

CAPITOLO IX

Sobbalzai in modo involontario, urtai contro il tavolo. La tazza si rove-


sciò. Il liquido scuro si sparse sul piano e gocciolò sul pavimento di matto-
nelle.
Lei rimase seduta al suo posto, questa bellissima versione di April
O'Brien, un po' più matura, decisamente più grande. Mi guardava, la faccia
calma, deliziosa, seria. Raddrizzò la tazza, asciugò il tè con un tovaglioli-
no, se ne versò dell'altro dalla piccola teiera sul tavolo.
Poi sorrise, lo stesso sorriso dolce ma bonariamente ironico di April.
«Devi proprio imparare, David, a non farti impressionare così tanto da
ciò che vedi.»
«Sei qui! Nel mondo reale.»
«Sì, sono qui. Bevi, David» mi disse questa donna diversa, questa dea.
«Grazie comunque» risposi allontanando la tazza. Anche se era una dea,
avrebbe sempre potuto avvelenarmi. «Chi sei?» le chiesi. «Che cosa
vuoi?»
Lei bevve un sorso di tè prima di rispondere.
«Hai sentito parlare del Daghdha» esordì, come se già conoscesse la mia
risposta.
«Sì.» Non intendevo aggiungere altro.
«Ucciso, divorato da Ka Anor. I suoi tesori ora sono in possesso di Ni-
dhoggr, il drago.»
Annuii. Mi mancava la mia spada. Mille domande mi giravano nella
mente: come aveva fatto una divinità a entrare nel mondo reale? Era forse
rimasta indietro quando gli altri si erano trasferiti a Everworld? E aveva
tutti i poteri di una divinità? E se sì, com'era possibile?
«David, io sono sua figlia, sono la figlia del Daghdha» proseguì la don-
na.
«E allora?»
Lei sorrise, imperturbata.
«Allora... è per rispondere a qualcuna delle domande che ti vedo turbina-
re nella mente. Non sono né una dea né una donna, sono solo la misera
ombra di ciò che ero in passato. Sono intrappolata tra due mondi, proprio
come te. Sono qui e sono là. Non posso morire né vivere veramente.» E
qui Brigid sorrise di nuovo, rassegnata. «Ma è una maledizione che ho cer-
cato io, quindi non ha senso lamentarsi del proprio destino.»
Le sue parole non avevano significato, erano vaghe, erano seducenti.
Che cosa voleva dire che era intrappolata come me? Io ero un essere uma-
no. Lei era una divinità, una dea, per essere esatti. In ogni caso, lei non era
come me.
«Perché sei qui, in questa casa? Che cosa ci fai in questo mondo?» le
chiesi.
Un altro sorso di tè.
"Sarà freddo, ormai" pensai stupidamente.
«David» iniziò lei «io ho il dono della profezia. Molto tempo fa sapevo
che un giorno sarebbe venuta al mondo una "porta", una donna-bambina
con il potere di perforare la barriera tra i due mondi.»
Fece una pausa e, mio malgrado, mi allungai verso la tazza di tè. Se a-
vesse voluto uccidermi, non avrebbe scelto un sistema tanto complicato. E
poi avevo sete.
«Ho aspettato molti secoli, David» riprese Brigid, la voce ora più bassa,
in qualche modo più vecchia. Stava tornando alle dimensioni normali.
Sembrava quasi che lo sforzo di assumere la sua forma vera l'avesse sfini-
ta. «E in tutto questo tempo sono diventata sempre più debole. Adesso, an-
che se a te, umano, possono sembrare grandiosi, i miei poteri sono in realtà
spariti quasi del tutto. E finalmente, dopo tutti quegli anni, finalmente ho
sentito la presenza della madre. Dietro mie istruzioni, certi amici hanno da-
to la caccia a questa donna, l'hanno inseguita finché non si è rifugiata a
Everworld, da Iside, la dea egizia della fertilità. Speravo che fosse al sicu-
ro, con Iside. Iside è saggia.» Brigid fece un'altra pausa, fissò una goccia di
tè rimasta sul tavolo, come se ne stesse leggendo i segreti. Come se fosse
una palla di cristallo e lei una zingara da due soldi a una fiera di paese.
«Dunque l'hai trovata, questa donna» le dissi in tono piuttosto secco. La
madre di Senna. Di sicuro. «Hai risolto il tuo problema. Perché hai biso-
gno di me per chiudere la "porta", se ci hai già pensato tu?»
La dea alzò gli occhi. Verdi, come quelli di April, ma più scuri, offusca-
ti. E quasi delusi. Delusi da me. Come se sapesse che io sapevo che c'era in
ballo molto di più di quanto aveva detto.
«C'era anche una figlia, David. Per molto tempo non ho saputo che que-
sta donna aveva lasciato qui una bambina, qui in questo mondo.»
Si piegò verso di me e fece per prendermi una mano, che in quel mo-
mento avevo sul tavolo. Io la ritirai, mi appoggiai indietro allo schienale
della sedia. La osservai mentre decideva se lasciare il braccio allungato sul
tavolo o ritirarlo.
«Quella figlia è pericolosa, David» disse. Il tono di voce era incalzante,
serio. «Quella figlia può portare il caos, un caos indicibile, orribili distru-
zioni. Devi fermarla, David. Devi.»
Ero seduto in una cucina, su una sedia uscita da una rivista di arreda-
mento, circondato da elettrodomestici costosi, in acciaio inox, un valore di
migliaia di dollari in elettrodomestici di gran lusso dell'inizio del ventune-
simo secolo, una stanza che non aveva niente, niente a che vedere con la
follia e il rischio e il sangue e la magia di Everworld. Ero seduto in quella
cucina con una dea dell'antico popolo celtico. Incapace di stabilire se la
donna che avevo di fronte mi fosse amica o nemica.
«Che ti importa di quello che succede di là?» le chiesi.
Brigid si alzò e si avvicinò a una delle porte finestre alte fino al soffitto
che si aprivano su un patio illuminato ad arte. Probabilmente un giardino,
una piscina, un campo da tennis. Dandomi le spalle, fissò per un momento
il cielo scuro della tarda sera, poi si girò, incrociò le braccia sul petto, con
le mani sulle spalle. Costringendomi, con gli occhi, con la testa inclinata,
ad ascoltare.
«Fermala, David. Consegnala a Merlino, se puoi. Lui è saggio e potente,
devi credermi. Uccidila, se devi. Ma fermala, David. Fermala.»
Saltai su dalla sedia, le mani strette a pugno, la rabbia che montava. Chi
era, lei, per dirmi che cosa dovevo fare, per dirmi di imprigionare Senna,
di uccidere Senna! Non era questo il destino che Senna meritava. La pri-
gione... la condanna a morte... Né l'una né l'altra erano una fine giusta o
adeguata per lei. Senna la strega era egoista e crudele e manipolava gli al-
tri, ma io l'avrei sempre amata, avrei sempre cercato di proteggerla. E chi
era questa donna, qui al sicuro, in questo monumento alla sicurezza mate-
riale e al comfort, chi era per dire a me, a me che portavo la spada di Gala-
had, a me che combattevo in trincea, che cosa fare?
«Perché diavolo dovrei fidarmi di te? Perché dovrei ascoltare uno qual-
siasi di voi cosiddetti dei? Un branco di psicopatici, drogati di potere, tutti
presi dai vostri giochetti, e alla malora quei poveri mortali imbecilli che vi
si mettono tra i piedi. Perché dovrei fidarmi di te?»
Ma la donna alla finestra non rispose alle mie domande. La donna alla
finestra iniziò a brillare.
«Non sei più qui, David. Non sei più qui.»

CAPITOLO X

Ero sveglio.
Jalil aveva fatto il secondo turno di guardia, Christopher aveva iniziato il
terzo ma, visto che ormai ero sveglio, lo sostituii dopo nemmeno la metà
del tempo di sorveglianza che gli spettava.
Dopo l'incontro con Brigid, non sarei comunque riuscito a rimettermi a
dormire. Mi buttai su un lettino stretto e scomodo e mi misi a fissare un
soffitto che non riuscivo a vedere nel buio, chiedendomi perché mai voles-
si a tutti i costi che ci fosse sempre qualcuno di guardia. Che cosa avrei po-
tuto fare se Nettuno avesse deciso di farci fuori? L'acqua premeva intorno
alla nostra fragile bolla d'aria. Una sola parola del dio del mare e noi era-
vamo già morti, niente discorsi, niente conflitti. Dovevo dire agli altri
dell'incontro con Brigid? Non a Senna. Di questo ero sicuro. Non a Senna.
Mi premetti le mani sulla testa e quasi mi scappò da ridere per la stupidi-
tà del gesto. Come se volessi strizzarmi il cervello. Troppe domande.
Troppe incognite. Troppi pensieri: Brigid, Merlino, Nettuno...
E poi il patto che avevamo stretto con i Coo-Hatch. Un altro pensiero.
La speranza che niente fosse andato storto. Il pensiero che, se l'esperienza
insegna, probabilmente qualcosa era andato storto. Il pensiero di come u-
scire da questo posto, di come tornare da Atena e dal popolo dell'Olimpo
per onorare la mia promessa.
Da quando avevo visto la città di Ka Anor, non avevo mai smesso di
pensare a come fare per distruggere il dio alieno. Come espugnare quella
oscena fortezza, quell'enorme cratere di chilometri di diametro, colmo di
lame e spuntoni di vetro frastagliati. Quella mostruosa cavità al centro del-
la quale sorgeva la "torre-ago", come l'aveva battezzata Christopher, il co-
vo mostruoso di Ka Anor.
Artiglieria. Se avessimo avuto un numero sufficiente di pezzi d'artiglie-
ria, se fossero stati abbastanza potenti, se li avessimo piazzati sul bordo
dell'enorme voragine, forse avremmo avuto una possibilità di far saltare in
aria tutta la torre. Con un cannone Coo-Hatch, magari avrei potuto farlo io.
Il che mi riportava a pensare ai Coo-Hatch e alla madre di Senna e a
Brigid e a Merlino e all'Olimpo e poi ripartivo daccapo, e intanto ero sem-
pre qui, impotente, sul fondo del mare.
Strano. Ero assillato da ogni genere di problema, tranne che da quello
che avevo in questo preciso momento. La mente va alle questioni che rie-
sce ad affrontare, immagino, ed evita tutto ciò che è impossibile. Che cosa
ci attendeva? Avrei dovuto concentrarmi sul "qui e ora". Quale sarebbe
stata la prossima mossa del folle Nettuno? Lui si aspettava da noi uno
show.
Scoppiai a ridere. In questo momento avrei dovuto pensare allo spettaco-
lo da mettere in scena. Risi di nuovo, cominciai a ghignare come un idiota.
"Scordati Merlino, Brigid, Ka Anor, l'Olimpo e i Coo-Hatch, David: che
diamine, devi fare le prove!"
Evidentemente la mia risata venne interpretata come il segno che erava-
mo svegli, perché in quel preciso istante la porta si aprì e si affacciò una si-
rena di una bellezza stupefacente, una top model, una della serie "sono-
troppo-sexy-per-voi-umani". Ci portava un vassoio di cibo.
Tenni gli occhi bassi mentre lo prendevo e la ringraziavo. Forse era il
pranzo, non la colazione, ma l'espressione di disprezzo sul viso della sirena
mi fece passare la voglia di chiedere. Mi rese più facile tenere gli occhi
bassi e la bocca chiusa. Mi girai con il vassoio e mi trovai davanti a Chri-
stopher, con un enorme sorriso da "single a caccia" stampato sul volto.
«Ehi, quella mi vuole. Lo sento!»
Risi. Non so perché, ma la capacità naturale di Christopher di farmi im-
pazzire con le sue continue lamentele e mandarmi in bestia con i suoi brut-
ti vizi qualche volta veniva compensata dalla capacità altrettanto naturale
di prendersi gioco di sé.
«Per metà bella come una stella, per metà fredda come un pesce» conti-
nuò Christopher. «Mi ricorda qualcuno...» e accennò con gli occhi verso
Senna.
Se lei lo udì, fece finta di niente.
«Sai, il fatto è che sarebbe cortese in un paese straniero adottare gli usi e
i costumi locali» riprese Christopher, rivolgendosi ora ad April. «Insom-
ma, non mi pare una bella cosa da parte tua restare infagottata in tutti i tuoi
vestiti quando la cortesia vorrebbe che...»
«Sputa il rospo, Christopher» lo incitò April togliendosi i capelli dalla
faccia e sbadigliando. «O sputa il pesce, dovrei dire...»
Posai il vassoio sul tavolo.
«Dovremmo mangiare» dissi. «Chissà quando ci capiterà di nuovo l'oc-
casione. Svegliati, Jalil.»
«Sono già sveglio» intervenne luì, raggiungendoci. «Allora, ragazzi, che
vi succede nel mondo reale? Io ho fatto bingo con la verifica di chimica,
ma niente di eccezionale. Mio padre mi ha tenuto in casa a carteggiare il
pavimento della sala da pranzo. Non ho visto nessuno di voi.»
«I miei hanno organizzato una festicciola» ci informò April, in piedi ac-
canto al cibo, dando le spalle alla sorellastra. «Hanno deciso che è ora di
smettere di piangere per la scomparsa di Senna. Stanno pensando di tra-
sformare la sua camera da letto in uno studiolo per mio padre. E così ab-
biamo fatto una specie di mini veglia di commiato con buffet. Abbiamo
guardato dei vecchi filmati.»
Senna rise, sarcastica.
«E non c'è stata nemmeno una lacrimuccia in tutta la casa.»
«In realtà mio padre era un po' emozionato. Si sente in colpa. Per quanto
mi riguarda, sono riuscita a reprimere il sentimento di dolore per la grave
perdita.»
Questa tensione tra le due sorelle, la profonda avversione, la sfiducia, il
vivo rancore che serpeggiava tra Senna ed April mi preoccupava più di
quanto non lasciassi trapelare. Alle volte mi provocava quasi un malessere
fisico. Per certi versi non era affar mio, era solo una faida familiare. Per al-
tri era decisamente affar mio. Ero io il capo di questa squadra raffazzonata
e il dissenso strisciava tra i ranghi. Potevo contare sul fatto che si aiutasse-
ro a vicenda in un momento di crisi?
«E tu, Christopher?» chiesi, sperando che tirasse su il morale delle trup-
pe.
«Non ho fatto un granché. Sono rimasto a casa da scuola un giorno, a
vomitare l'anima. Un virus intestinale, per niente simpatico. Ho chiamato
Jalil ma la sua sorellina, una delle due, mi ha detto che era fuori e poi mi
ha sbattuto giù il telefono: ciao-ciao, ragazzo bianco.»
Jalil diede un'alzata di spalle.
«Mmm... Questo dimostra un insolito buon senso da parte sua. Ti dirò
qualcosa di interessante, però: quel viscido verme, quel tuo amichetto raz-
zista e nazista... come si chiama?»
«Vuoi dire Keith?» chiese Christopher.
«Esatto, proprio quello che adora puntare le pistole addosso alla gente.
Sono venuti dei poliziotti e mi hanno chiesto se sapevo dove poteva essere
finito. Sembra che Keith sia scomparso. Non si trova più da nessuna par-
te.»
Fu frutto della mia immaginazione o Senna distolse lo sguardo un po'
troppo rapidamente? Immaginazione, sicuro. Lei non c'entrava niente con
Keith. Keith era un problema di Christopher.
«Scomparso?» Christopher socchiuse gli occhi. «Ma... non penseranno
che l'hai ucciso tu, che gli hai fatto qualcosa di brutto? Proprio tu? Perché
non sono venuti a chiedere a me? Se c'era qualcuno che doveva ucciderlo,
quel qualcuno ero io. Quel piccolo escremento!»
Jalil si carezzò il mento, parodiando una profonda riflessione.
«Vediamo un po'... perché gli sbirri avrebbero interrogato me e non te?
Mmm... ci devo proprio riflettere. Perché degli sbirri bianchi dovrebbero
tartassare me, un ragazzo nero, e non te, un giovane bianco? E comunque,
l'hai ucciso tu, Keith?»
«Sì, ma ho lasciato sul luogo del delitto un paio di CD di musica rap per
far cadere i sospetti su di te.»
«Se qualcuno ha fatto fuori quel piccolo nazista, con ogni probabilità è
stato uno della sua banda» osservò Jalil.
Christopher prese un bicchiere dal vassoio e lo levò in alto.
«Un brindisi a chiunque abbia fatto sparire Keith.»
«Un servizio di pubblica utilità» rincarò Jalil.
Christopher bevve e sputò subito.
«Bleah! Che diavolo è questa roba? Magari la spacciano per birra! Non
avrei mai creduto che ci fosse una birra che non riesco a bere nemmeno i-
o.» Guardò con disgusto il misero vassoio di pesce e verdure. «Io credevo
che i Romani amassero le grandi abbuffate. Credevo che sapessero come si
vive.»
«Noi non siamo Romani» osservò Jalil. «Non siamo della loro gente.
Probabilmente ci considerano una nuova specie di "barbari imberbi", mate-
riale da lavoro, schiavi.. Perché sprecare del buon cibo per la feccia?»
Christopher diede un colpetto con il dito a un pezzo di roba gialla e spu-
gnosa.
«Questo per esempio sembra una specie di tofu. April, sarai contenta,
qui.»
«E tu, David?» chiese April.
«Io cosa?»
«Sembri molto interessato a quello che abbiamo fatto noi nel mondo rea-
le. E tu che cosa hai fatto?»
Trasalii, colto sul fatto, ma mascherai la cosa con qualche chiacchiera
generica.
«Niente di straordinario. Lavoro, scuola, qualche commissione per mia
madre, un piccolo scontro con il suo amichetto, il solito. È stata una visita
breve, la mia: ho dormito poco.»
In quel momento... la porta dietro di me si spalancò. Mi girai di scatto, la
spada sguainata, pronto a colpire. Ma era solo il tritone che ci aveva scor-
tati in questa casa.
«Il glorioso Nettuno desidera essere intrattenuto. Venite con me, ora.»
Restai indietro e mi affiancai ad April.
Cibo che non avrei mai potuto digerire, niente vestiti puliti per i barbari,
praticamente niente sonno, un inquietante incontro nel mondo reale con
una bellissima dea. E adesso, senza aver avuto il tempo di prepararci, do-
vevamo organizzare su due piedi uno spettacolo per Nettuno...
«April, che cosa ne sai di Brigid?»
«Brigid chi? È una che segue qualche corso con me?»
«No, non è una della scuola» precisai infastidito. «Voglio dire la dea cel-
tica. La figlia del Daghdha.»
Lei sorrise. Piegò la testa e i riccioli rossi quasi asciutti le si riversarono
su una spalla.
«Dovrei saperlo come Jalil avrebbe dovuto sapere tutto dell'antica Africa
e degli antichi dei africani? Le mie origini irlandesi risalgono a cinque ge-
nerazioni fa, David.»
Sospirai. Non avevo voluto offenderla. D'un tratto mi chiesi se le fossero
rimaste ancora delle pillole di analgesico nello zaino. Avevo mal di testa.
«No, scusa, non è che ti consideri la nostra esperta in questioni irlandesi.
È che magari una ragazza impegnata nel femminismo potrebbe sapere
qualcosa delle grandi dee della mitologia, della figura della dea madre, la
dea generatrice.»
April rise.
«Molto meglio. Buona scusante, David. In ogni caso, sì, in effetti qual-
cosa so, mi pare. Sto leggendo dei libri di mitologia. Mi pareva che fosse
una buona idea. Se è quella che penso io, è una specie di dio uno e trino.
Hai presente? Creatore, Protettore e Distruttore. La nascita, la vita, la mor-
te. Ha molto a che fare con la fertilità e il parto. Anche con le guarigioni, la
poesia e l'ispirazione poetica. Però non so la sua storia, non so che cosa le
sia successo, se è questo che intendi.»
«Va bene...»
«Perché? Perché ti è venuta in mente la dea Brigid?»
La domanda di April era innocente. La mia risposta non lo fu altrettanto.
Scrollai le spalle.
«Non so. Mi è venuto in mente questo nome. Devo aver letto qualcosa
da qualche parte. Nessun motivo in particolare.»
April mi lanciò una lunga occhiata sospettosa. Non mi aveva creduto.
Ma decise di lasciar correre, limitandosi a sussurrare:
«Non è vero.»

CAPITOLO XI

Passammo dalla casa nella bolla d'aria al naturale elemento acqueo. Per
me era ancora un passaggio difficile. C'è sempre qualcosa di inquietante
nel fatto di respirare acqua.
I capelli rossi di April, lunghi e vaporosi, e i capelli biondi di Senna,
lunghi e sottili, ripresero a fluttuare, danzando come serpenti di rame e d'o-
ro, facendo somigliare le ragazze a bellissime Meduse. I nostri vestiti si
gonfiarono e i passi diventarono lenti ed esagerati.
Ripercorremmo la città in senso inverso, passammo di nuovo dalle tri-
bune ancora una volta piene fino all'orlo, tra uomini che vendevano boc-
concini di pesce ammonticchiati su grandi conchiglie e Coo-Hatch stretti
insieme nei passaggi, con la faccia di chi vorrebbe essere da qualsiasi altra
parte ma non lì, attraversammo di nuovo il muro d'acqua scintillante e tor-
nammo in mezzo all'arena.
Questa volta non c'erano gare ippiche in corso: sul campo di terra battuta
erano stati eretti vari palcoscenici improvvisati. Su uno di essi un folletto
suonava una specie di mandolino mentre un satiro inseguiva una ninfa e
trasformava la cattura in un elaborato spettacolo. Su un altro, un uomo so-
lo, vestito con un gonnellino corto e sandali di cuoio allacciati fin sotto al
ginocchio, non diversi da quelli che portavano i soldati greci e romani, fa-
ceva giochi di destrezza usando dei vasi di ceramica. Ai suoi piedi c'erano
altri mucchi di oggetti per i suoi numeri, che però non riuscii a distinguere
chiaramente.
Capivo perché il giocoliere dovesse necessariamente stare in una bolla
d'aria: uno non può fare giochi di destrezza sott'acqua.
Su un palcoscenico vicino al trono di Nettuno tre tritoni davano un'esibi-
zione di forza. Uno combatteva contro quella che sembrava un'anguilla
mastodontica, un altro respingeva i goffi attacchi di un brutale gigante, un
terzo sollevava sopra la testa la versione everworldiana di un bilanciere. La
sbarra mi ricordava stranamente una trave della nostra nave affondata. Alle
due estremità erano fissati due piatti colmi di una grande varietà di teschi.
«Aspettate qui» ordinò la nostra guida, fermandosi davanti a uno dei
palcoscenici vuoti. «Quando Nettuno ve lo comanderà, date inizio al vo-
stro spettacolo.»
Il tizio se ne andò e noi, zuppi d'acqua, ci arrampicammo sulla piatta-
forma. Tutti tranne Senna, che si appoggiò con la schiena alla base della
struttura, un po' arretrata rispetto a noi.
In quel momento ci giunse dalle tribune un boato distorto dall'acqua, un
urlo di rabbia, senza parole, uno sfogo incontrollato di emozione e nient'al-
tro.
Nettuno. Saltò su dal trono e si mise a pestare i piedi, come in una ver-
sione infantile di una danza della pioggia degli indiani.
Puntò il dito verso il giocoliere, raggelato e tremante davanti a un vaso
in frantumi.
«Razza di incapace, ne hai fatto cadere uno! Ne hai fatto cadere uno!»
strillò il dio, la faccia così rossa che sembrava sul punto di fare un infarto.
«Tu non devi farne cadere nemmeno uno! Guardie, uccidetelo, uccidetelo
e trovatemi un altro giocoliere! No, aspettate, lo faccio io, lo uccido io!»
La faccia di Nettuno si aprì in un ampio sorriso. «Lo faccio io!»
Il giocoliere cadde in ginocchio, si ripiegò su se stesso come un mantice
chiuso, piagnucolò, unì insieme le mani nel gesto comune di supplica, di
preghiera. Ma non implorò Nettuno a voce alta, probabilmente sapeva che
non serviva a niente, che la sua vita era finita, che niente di quanto avesse
detto avrebbe toccato Nettuno. Mi chiesi quale dio stesse pregando quel
giocoliere.
Per un momento sembrò non succedere niente. Nettuno rimase sempli-
cemente a guardare. Ma poi l'acqua iniziò ad apparire. Si formò una bolla
d'acqua intorno alle gambe dell'uomo, gli salì fino al petto, fino al mento.
L'uomo cercò di scappare, ma la bolla d'acqua non lo mollava. Si alzò in
punta di piedi, cercando disperatamente di tenere la bocca sopra il livello
dell'acqua. Nettuno rise deliziato e l'acqua si alzò di qualche altro centime-
tro.
Adesso gli entrava dalla bocca spalancata. L'uomo sputava, tossiva, vi-
cino al soffocamento. Cercava di saltare per poter respirare un po' d'aria e
Nettuno lasciava che lo spettacolo continuasse.
Il giocoliere saltava, ma ogni volta che tornava giù l'acqua era un po' più
alta. Sempre un po' più alta. Adesso non riusciva più a saltare. Adesso non
riusciva più ad arrivare all'aria. Si allungava, cercava di uscire con la testa
dalla bolla, di lato, ma era inutile, la bolla si spostava con lui.
Stava annegando. I polmoni pieni d'acqua. Un'espressione sconvolta sul-
la faccia. Sentiva l'acqua nei polmoni, non acqua respirabile, ma acqua as-
sassina. Aveva i polmoni invasi e sapeva che stava per morire.
Non fu una cosa rapida. Sembrò durare per sempre.
Mi girai per vedere le reazioni della gente sulle tribune. Sulle facce degli
uomini, degli elfi, persino dei Coo-Hatch, mi parve, c'era la paura. Mes-
saggio ricevuto. Sulle facce dei tritoni e delle sirene, di Anfitrite e di suo
figlio Tritone, isteria. Ridevano sguaiatamente, si indicavano a vicenda il
pover'uomo, si battevano le mani sulle ginocchia, si asciugavano le lacri-
me. Tornai a guardare il giocoliere. Aveva la faccia cianotica, gli occhi
sembravano scoppiargli dalle orbite, la bocca si muoveva come quella di
un pesce appena pescato e buttato sul fondo di una barca a remi.
Quando l'uomo non ebbe più vita, l'acqua evaporò. Nettuno con un gesto
della mano comandò a uno dei suoi tritoni di portare via il corpo; poi si
rimise a sedere, compiaciuto.
«Ve lo ripeto, questo è matto da legare» borbottò Christopher. «Non
matto come tutti gli altri dei: questo qui è uno psicopatico vero.»
«Tortura e morte come spettacolo» mormorò Jalil.
«Okay» dissi io lanciando un'occhiata a Senna, ancora appoggiata al
palcoscenico con la faccia tra le mani, gli occhi chiusi. Al sicuro, abba-
stanza. «Forza, che cosa vogliamo fare per questo matto? April? Qualche
canzone?»
April mi fissò con gli occhi vuoti. Nessuno di noi aveva idee valide.
«Christopher?» riprovai. «Riesci a pensare a qualcosa che possa andare
bene per questo demente?»
Christopher scosse la testa.
«Ci posso provare, ma il vecchio Thorolf e la sua banda di Vichinghi e-
rano delle educande a confronto di questo squilibrato.»
«Provaci, Christopher» disse April. «E io cercherò di aiutarti se ti im-
pappini. Tutti quanti cercheremo di aiutarti.»
Christopher scosse la testa.
«Oh, sì, allora posso stare tranquillo. Bene, signori e signore ecco a
voi...»
Si schiarì la voce, fece un passo avanti e iniziò a cantare con voce melo-
diosa.
«Oh potente Nettuno, tra tutti gli dei il più forte sei tu. E, potente Nettu-
no, il mondo intero saperlo dovrà. Dalla torre più alta lo grideremo. Sia
gloria al dio del mare, a tutti lo diremo. Amatelo, onoratelo perché...»
Jalil chiuse gli occhi.
«April, David, è stato bello conoscervi. Siamo cibo per i pesci. Esche.
Storia passata.»

CAPITOLO XII

Ma Nettuno, con la mente malata e infantile che si ritrovava, gradì molto


la performance e chiese a Christopher di cantare ancora. E ancora. April si
unì al coro, dapprima esitante, poi più aggressiva quando vide Nettuno sor-
ridere e farle l'occhiolino. Nessuno di noi poteva rifiutare i favori di Nettu-
no, non prima che ci permettesse di abbandonare le scene.
Mentre cantavamo, io in realtà muovevo solo la bocca senza produrre
alcun suono, scorsi d'un tratto l'unico marinaio sopravvissuto all'assalto
degli squali, Merlino, che camminava lentamente, molto lentamente ai
bordi del campo, con Senna al fianco.
"Maledizione" pensai. "Avrei dovuto costringere Senna a salire con noi
sul palcoscenico quando Nettuno aveva preteso a gran voce la nostra esibi-
zione."
Una parte debole e tenera di me aveva deciso di lasciarla stare dov'era,
di lasciarla riposare. E adesso la stavo perdendo.
Non potevo muovermi, non potevo aggredire Merlino: Nettuno mi a-
vrebbe ucciso, se gli avessi rovinato la festa. Era impossibile che Senna
seguisse Merlino di sua volontà: sicuramente il vecchio la costringeva con
la magia. Con il tentato rapimento in Egitto, con la bella prova della barca
a propulsione propria, adesso con questo travestimento, con il controllo as-
soluto della volontà di Senna, era chiaro che Merlino aveva recuperato tut-
te le sue forze, esaurite nella terribile battaglia ingaggiata e persa contro
Loki, nel tentativo fallito di salvare Galahad.
Ma non sarebbe andato lontano, non con Senna, non se io avessi potuto
fare qualcosa, e qualcosa avrei fatto. In un modo o nell'altro sarei interve-
nuto.
Il fatto che si muovessero così lentamente, che camminassero così vici-
ni, mi faceva pensare che costasse molta fatica a Merlino tenere Senna in
suo potere, soprattutto dovendo mantenere al contempo anche il proprio
travestimento.
Tenni d'occhio il mago. E continuai a fare il pagliaccio. Eseguimmo
un'altra canzoncina a più voci. Nettuno cercò di afferrare il meccanismo
del gioco e attaccò anche lui a cantare alla fine del primo verso, ma, pre-
vedibilmente, la cosa gli risultò troppo difficile, per difetto di creatività o
di intelligenza. E agli dei sicuramente non piace fare la figura degli stupidi.
«Basta così!» abbaiò. «Basta con le canzoni. Cominciano ad annoiarmi.
Voglio il buffone... come si chiama? Che avanzi! Ho deciso che ho voglia
di sentire qualche storia divertente. Ho deciso che ho voglia di ridere.»
April mi lanciò un'occhiata preoccupata. Raggelai. Potevo fingere di
cantare. Potevo fingere di ballare. Ma far ridere? Non era una cosa che mi
veniva bene, non mi veniva mai facile e comunque non a comando. Non
ero Jerry Lewis, non ero Stanlio o Ollio.
«David, è una questione di vita o di morte» sussurrò Jalil. «Pensa ai gio-
chi di parole, ai doppisensi, qualsiasi cosa.»
«Ehi» sibilò Christopher «perché non gli reciti la poesia che avevi scritto
per la lezione di letteratura inglese? Mi aveva fatto schiattare dalle risate.»
Non mi erano di grande aiuto, in questo momento. E nessuno di loro dis-
se una sola parola sul fatto che Senna non era più con noi. Rientrava anche
questo nella magia di Merlino? Oppure agli altri non importava niente di
lei?
«Buffone, parla!» ruggì Nettuno.
"Pensa-pensa-pensa, David, maledetto idiota, pensa!"
E mi venne un'idea per salvare Senna, fermare Merlino, alla faccia di
Brigid e delle sue raccomandazioni, e proteggere al contempo il mio pove-
ro didietro.
Feci un passo avanti, un po' malfermo sulle gambe.
«Potente Nettuno!» gridai. La mia voce suonava così stridula e strozzata
anche alle orecchie degli altri? «lo sono David, un grande mago, e ti farò
divertire con stupefacenti magie!»
Nettuno mi guardò per un momento e poi... scoppiò a ridere. Una risata
profonda, di pancia. Non era questo che mi aspettavo.
Gli vennero le lacrime agli occhi, continuò a ridere, a ridere, a ridere: mi
segnava a dito, sgomitava i tirapiedi accanto a lui perché anche loro si
prendessero gioco di me. Avevo la faccia in fiamme, o così mi pareva. Mi
stava umiliando. E io glielo stavo permettendo. Non potevo girarmi per
vedere la reazione di April, Jalil e Christopher, non potevo guardare Sen-
na, speravo almeno che la magia di Merlino la rendesse cieca a tutto quello
che stava succedendo. Ero profondamente mortificato.
Ma ero anche furioso. Il sangue mi pulsava nelle vene. Avrei voluto
staccargli la testa dal collo, quella testa che sghignazzava e mi derideva... e
avrei anche potuto farlo: con la spada di Galahad avrei potuto fare qualsia-
si cosa.
«Ah ah ah ah!» Nettuno stava cercando di ricomporsi, si asciugava gli
occhi con il dorso della mano, faceva respiri profondi. «Tu... ah ah ah» Il
dio si costrinse ad assumere un'espressione di finta solennità e serietà. «Tu
non sembri affatto un grande mago!»
"Calma, David. Tu non c'entri nulla: è lui che è un povero demente.
Metterebbe in imbarazzo chiunque, anche sua madre, li mutilerebbe, li uc-
ciderebbe tutti senza esitare. È lui che deve dimostrare il suo potere, che
deve schiacciare il collo degli altri con il piede, tu non c'entri niente. Non è
un attacco contro di te. Se non gli permetti di ferirti, non ti ferirà."
Mi costrinsi ad assumere una maschera di teatrale dignità. Adottai un to-
no di voce pseudo-sofisticato, snob, come se stessi facendo un discorso al-
le Nazioni Unite, come un perfetto speaker televisivo.
«Potente Nettuno, le apparenze possono ingannare» declamai. «Io ti
proverò di essere realmente un mago dagli straordinari poteri. Osserva!»
Indicai teatralmente Merlino, camuffato da giovane marinaio greco, uno
del nostro equipaggio. «Io trasformerò quel giovane marinaio in un vec-
chio avvizzito davanti agli occhi di tutti i presenti. E con te, potente Nettu-
no, quale mio testimone.»
Tutti gli occhi si puntarono su Merlino. Umani, immortali, satiri, alieni,
nani, tutti puntarono lo sguardo sul giovane marinaio greco dai riccioli ne-
ri, in piedi accanto a una deliziosa fanciulla di razza umana, bionda e con
gli occhi grigi.
Merlino mi guardò. Era l'ammissione della sconfitta, almeno temporane-
a. Sperai che lo fosse. Adesso doveva stare al mio gioco, l'avevo preso in
trappola. O avremmo fatto tutti e due la fine del topo.
Merlino non era uno sciocco. Annuì appena e le sue labbra formarono
l'accenno di un sorriso. Un degno avversario. Sarebbe stato al gioco.
Appoggiai la mano sull'elsa della spada.
«Guarda con attenzione!» comandai, saltando giù d'un balzo dal palco-
scenico. «Sto per trasformare questo marinaio nel fiore degli anni in un
vecchio decrepito e macilento!»
Di nuovo, Nettuno rise. Questa volta la risata fu breve e cattiva.
«Nessuno è più decrepito di un morto, mago. Voglio che tu trasformi
questo mortale vivente in carne morta, sbrindellata e sanguinolenta. Ecco
che cosa voglio vedere.»
«David!»
Era April, alle mie spalle, ma che cosa avrebbe potuto dire o fare per
aiutarmi? Nella mente di Nettuno, o forse nella mente del popolo romano
in generale, ci doveva essere una linea molto sottile che separava lo spetta-
colo dalla violenza, qualche scherzo innocuo dalla pura brutalità.
Non mi girai. Mi diressi solennemente verso Merlino, che si allontanò di
un passo da Senna, come per venirmi incontro. Venire incontro a me, la
persona che ora avrebbe dovuto ucciderlo. Non potevo sperare che Nettuno
cambiasse idea all'ultimo minuto, che ordinasse una sospensione della pe-
na. Ma non ero nemmeno sicuro di desiderare che lo facesse. Uccidere
Merlino o essere ucciso da Nettuno? Non ci voleva un grande cervello.
Uccidere Merlino e avere un nemico in meno, una minaccia in meno per
Senna.
Ero sempre più vicino, tre o quattro metri appena mi separavano da lui.
Ero abbastanza vicino da poterlo guardare negli occhi, i grandi occhi ca-
stani di un ragazzo greco quasi adulto, da poter guardare il corpo che stavo
per massacrare a sangue freddo.
«La tua spada non mi farà alcun male, David» mi disse Merlino. Le lab-
bra si muovevano appena, ma le parole erano ben scandite. «Sono stato io
a consegnarla a Galahad, io a impregnarla dei miei incantesimi. Puoi pro-
vare, se vuoi, ma non riuscirai a farmi del male.»
Sollievo e frustrazione insieme. Sarebbe stato un assassinio. Di nuovo
sconfitto.
La mia spada non mi avrebbe abbandonato. Feci per sguainarla, ma non
si mosse, rimase al suo posto nel fodero. Com'era possibile? La tirai di
nuovo, con più slancio, forse era questa strana situazione che mi succhiava
le forze. Uno strattone. Niente.
Qualcuno ridacchiò.
Un altro tentativo e la spada si liberò. La sollevai, o meglio, cercai di
sollevarla, afferrai l'elsa con entrambe le mani, grugnii per lo sforzo, la le-
vai, riuscii a puntarla davanti a me all'altezza del petto. Avevo il fiatone.
E sempre più persone cominciavano a ridere. Sì, era una commedia, co-
me in uno dei vecchi film di Jerry Lewis, quando lui continua a cadere e a
inciampare e sembra una goffa marionetta. Mio padre li guardava sempre,
quei film: con Jerry Lewis e Dean Martin. Non avevo mai capito cosa ci
trovasse di tanto divertente e adesso eccomi qua, a recitare uno sketch pre-
so pari pari da un vecchio film di Dean Martin e Jerry Lewis.
Merlino fece un passo indietro. Io cercai di fare un passo avanti ma... la
spada mi fece ruotare di trecentosessanta gradi, come se tenessi in mano un
metal detector impazzito. Caddi in ginocchio, le mani ancora strette sull'el-
sa. Cercai di rialzarmi, inciampai, grugnii, lottai contro la spada che mi re-
sisteva. Sentivo le risate della folla crescere sempre di più. Non appena
riuscii a rimettermi in piedi, la spada mi scappò via verso sinistra e io la
seguii, correndo goffamente, incapace di lasciarla andare, poi inciampai
quando la spada decise all'improvviso di cambiare direzione e mi trascinò
dalla parte opposta.
Al di sopra delle risate del popolino, del popolo servile e plebeo di Net-
tuno, sentii tuonare la sua risata sghignazzante. Il dio berciava, si spolmo-
nava, si batteva le mani sulle ginocchia. Lo stavo facendo morire dal ride-
re, ero il padrone della scena, io con il mio personaggio deficiente.
La spada mi fece girare in cerchio un'altra volta, e finalmente mi ritrovai
di nuovo faccia a faccia con Merlino. E vidi che aveva liberato Senna dal
suo potere, la vidi scappare verso Jalil, Christopher ed April, non perché
fossero suoi amici, ma perché erano nel posto dove presto sarei tornato
anch'io e allora sarebbe stata al sicuro. Così sperava.
"Okay" pensai, esausto e furioso. "Va bene, non devo per forza ucciderlo
ora, non ancora."
La spada perse immediatamente la sua indipendenza e tornò a essere la
mia spada, la mia arma. La rimisi nel fodero.
«Eccellente, mago!» tuonò Nettuno. «Sono molto soddisfatto. Adesso,
vieni, fortunato marinaio, la tua vita è stata risparmiata, vieni a bere con
me.»
Però! Il grande mago ero io, ma era Merlino quello che era stato invitato
a intrattenersi con il dio. Bene così, per me. Benissimo.
Tornai dagli altri, dimenticato, almeno per ora, da un dio che dava sem-
pre più chiari segni di follia.

CAPITOLO XIII

«David, dobbiamo uscire di qui» esclamò Senna.


Le si leggeva in viso il terrore. Aveva gli occhi sbarrati, la voce stridula.
L'aveva spaventata la facilità con cui Merlino era quasi riuscito a portarse-
la via.
"Più spaventata da questo" pensai "che dalla pretenziosa esibizione di
forza di Merlino in Egitto".
«Lo so bene» risposi. «Merlino non si è certo arreso: tornerà a cercarti
non appena potrà.»
«Ma la festa è incominciata solo adesso, gente» obiettò Christopher.
«Che male può fare trattenersi ancora un poco? Ci sono un sacco di mera-
vigliose sirene. C'è un sacco di cibo, di vino. E c'è pure il vomitorio: nel
caso uno bevesse quella goccia di troppo potrebbe andare a vomitare e poi
ricominciare daccapo.»
Jalil scosse la testa.
«Christopher, ma che diavolo stai dicendo? Tu non hai nemmeno idea di
cosa sia veramente il vomitorio.»
«Una stanza dove si vomita.»
«No. Il vomitorio è un'apertura che mette in comunicazione le gradinate
di uno stadio con i corridoi di accesso. È un termine architettonico, dal la-
tino vomitorius. È un accesso, una porta...»
A questa parola Christopher sollevò subito un sopracciglio.
«Una porta? Allora Senna è un vomitorio... Jalil, sei una miniera di in-
formazioni preziose.»
«Finitela!» gridai.
Senna era livida, tesissima.
«Zitti!» April si guardò intorno nervosamente. «Nessuno sta badando a
noi... cerchiamo di lasciare le cose come stanno, okay, ragazzi? Sentite, io
personalmente ritengo che dovremmo lasciare che Merlino se la porti via.»
"Se la porti via." April non riusciva più nemmeno a pronunciare il nome
della sorellastra. Senna era a meno di due metri da lei, e lei ne parlava co-
me se non fosse presente.
Io non dissi nulla.
«A me sembra una buona idea» commentò Christopher. «Senna se ne va
con Merlino. O magari la lasciamo qui e che si arrangi da sola. È un'oppor-
tunista, se la caverà. E noi invece leviamo le tende e ce ne andiamo.»
Prese la parola Jalil. Ma non guardò Senna mentre parlava.
«Mi pare impossibile riuscire a dire una cosa del genere, ma io voto per
portare Senna con noi. Il problema principale, qui, non è che cosa può ca-
pitare a Senna, il problema qui è Nettuno. È pazzo e pericoloso. Per quel
che ne sappiamo, in questo preciso momento magari sta ammazzando
Merlino. Dobbiamo andarcene ora, con qualsiasi mezzo. Dobbiamo torna-
re sull'Olimpo. E portare Senna con noi.»
«Okay» disse secca April. «Qualcuno di voi ha iniziato a pensare a come
possiamo uscire di qui? Come facciamo ad arrivare in superficie? E se an-
che ci arrivassimo, poi che facciamo? Nuotiamo per cento chilometri fino
alla prima spiaggia?»
«Oh, donna di poca fede» la derise Senna. Era una cosa ben strana da di-
re, soprattutto a una come April. «David ci porterà fuori di qui. Lui ha
sempre un piano in mente, non è vero, David?» aggiunse poi, sorridendo-
mi.
"Che cosa le frulla in testa questa volta? Ha bisogno di noi, se vuole re-
stare viva, se vuole restare libera" pensai.
«Forse non sempre» replicai senza abboccare all'amo, rivolgendomi agli
altri «ma questa volta, sì. O perlomeno, ho l'inizio di un piano.»
«Parla» mi incitò Christopher.
«Li avete notati anche voi quei cocchi fuori dall'arena, mentre venivamo
qui? Ne troviamo uno, lo prendiamo, forse anche due, e poi sfrecciamo a
briglia sciolta verso la superficie.»
«Se i ragazzi di Nettuno non ci ammazzano prima» completò Jalil. «E se
quelle carrette sono capaci di portarci fino alla superficie. Da quello che ho
visto, sono trainate da creature marine. Delfini, cavallucci marini...»
«Orche. E quelle enormi tartarughe marine» aggiunse April.
«Vogliamo scommettere che non sono in grado di respirare aria?» Jalil
si fermò e annuì pensieroso. «Un momento, che sto dicendo? Abbiamo in-
contrato dei cavalli volanti. E anche dei cavalli parlanti, quindi... Non si
può mai sapere. Vale la pena provare. Non c'è dubbio.»
Christopher scosse la testa.
«A dire il vero... Avete visto che velocità hanno quelle carrette? Natu-
ralmente, non lo so con esattezza, perché, ehi, io non ho mai vissuto
sott'acqua prima d'ora! Non ho ancora afferrato bene le regole del gioco.»
Si rivolse a Jalil. «Non ti ricordi già più l'altra faccia della medaglia del gi-
retto che abbiamo fatto sui cocchi di Atena? Oltre al fatto che i cavalli par-
lavano? Non ti ricordi più che siamo stati sbatacchiati e massacrati quasi a
morte da cavalli che non sapevano assolutamente il significato della parola
"fermo"? Avevo seri problemi a controllare un veicolo trainato da cavalli
sulla terraferma, e sono abituato alla terraferma. L'acqua è tutta un'altra
storia.»
«Ma qui sarà tutto più facile» provai a rassicurarlo. «Sarà un viaggio
meno accidentato.»
«E i pericoli ignoti?» aggiunse April, indecisa. «Il mostro di Loch Ness,
la Creatura della Laguna Nera, Godzilla...»
«Credo che Godzilla stia dalle parti della costa nipponica, April» osser-
vò Jalil, concedendosi un piccolo sorriso. «Nel mondo reale. Nei film di
serie B. E poi, hai qualche idea migliore, tu? Qualcuno qui ha un'idea mi-
gliore?»
«Tu per caso lo sai che cos'è un corpo galleggiante, David?» mi chiese
d'un tratto Christopher. «Lo sai? Be'... te lo dico io. È un corpo affogato e
rimasto in acqua per ore o per giorni. È nero, putrefatto, gonfio e quasi ir-
riconoscibile come essere umano. E noi siamo stati a un pelo dal diventare
dei corpi galleggianti quando a Nettuno è saltata la mosca al naso. A me è
bastato. Io, tanto per dirne una, preferirei essere un cadavere carino. So-
prattutto se devo morire giovane, il che mi sembra che sia proprio quello
che mi succederà.»
«Allora d'accordo?» conclusi. «Andiamo a fregare un cocchio.»
CAPITOLO XIV

Non fu difficile trovare le scuderie. Tanto per cominciare, seguimmo


quel particolare profumino di fieno. Non fieno vero, naturalmente, ma
qualche specie di alga con cui gli stallieri di Nettuno nutrivano gli animali
che avevano in custodia. Le scuderie erano immacolate, questo lo notam-
mo subito, eppure puzzavano come tutte le stalle del mondo reale.
Da notare che potevamo sentire gli odori: il nostro naso funzionava an-
che sott'acqua, come se fossimo stati sulla terraferma.
Fu allora che notammo un cocchio con una ruota rotta che si dirigeva di
sghimbescio verso un enorme edificio in pietra bianca dall'architettura
semplice e i soffitti altissimi, che dominava i dintorni della città di Nettu-
no. Decidemmo di rischiare e lo seguimmo. Lo seguimmo sollevando le
ginocchia a ogni passo, allungando la falcata il più possibile, usando le
braccia come se nuotassimo a rana, cercando di muoverci con rapidità
nell'acqua. Nessuno ci fermò, nessuno ci chiese niente.
Il cocchiere lasciò il veicolo danneggiato davanti alla grande porta a due
battenti delle scuderie e consegnò le redini a un ragazzo di razza umana
che guidò le due tartarughe di medie dimensioni verso un edificio seconda-
rio più piccolo, basso e lungo.
«E adesso, generale MacArthur?» sussurrò Christopher. «E adesso? E se
incappiamo in qualche tritone grande e grosso in servizio di sorveglian-
za?»
«Credo che sia piuttosto ovvio» rispose per me Jalil. «Lo tramortiamo.
Mi correggo: lo tramortisce Davideus con il piatto della spada.»
Ed è quello che successe.
April e Senna abbordarono i due tritoni di sorveglianza e cominciarono a
civettare. Ci vollero un paio di minuti perché la tattica avesse successo.
Tutte e due sono molto carine, lo devo ammettere (al di sopra della media,
direi), anche se in due modi completamente diversi: April è il sole e Senna
è la luna velata di nubi. Ma con la concorrenza delle sirene che avevamo
visto e considerato l'ego evidentemente abnorme dei tritoni, ci volle un po'
perché questi due si degnassero di rivolgere un po' di attenzione a due ra-
gazze della Terra.
Ma funzionò e, mentre i tritoni chiacchieravano amabilmente, io, Chri-
stopher e Jalil sgattaiolammo alle loro spalle. Io stesi il primo e i miei ami-
ci bloccarono l'altro, un braccio per ciascuno. Feci cenno alle ragazze di
cercare subito un posto sicuro dove legarli. Non avremmo nemmeno potu-
to legar loro i piedi... non li avevano... Quando i due tritoni furono legati e
imbavagliati e Jalil garantì che il terreno era sgombro, ci addentrammo
nelle gigantesche scuderie.
Lo spazio centrale dell'edificio era grande forse come l'hangar di un
grosso aereo di linea. In questo spazio enorme, in sezioni separate, c'erano
i cocchi parcheggiati, mucchi di attrezzature dei carradori e diverse posta-
zioni di lavoro.
Su tre delle pareti c'erano i box per le numerose creature marine al servi-
zio di Nettuno, alcuni larghi anche più di tre metri. I pavimenti dei box e-
rano coperti da uno strato spesso di vegetazione, in modo che gli animali
potessero stare comodi e al caldo. Ciascun box aveva un trogolo per il ci-
bo, di un materiale non poroso che non riconobbi.
Come aveva detto Jalil, non c'era nessuno in giro, né umano, né alieno,
né leggenda. Niente stallieri. Forse era l'ora di pranzo o l'ora della pausa,
forse tutti gli stallieri erano andati a festeggiare con i loro amici nell'arena.
In ogni caso, era un colpo di fortuna per noi, un caso sin troppo raro a E-
verworld.
In alcuni box c'erano gli animali che venivano usati per tirare i cocchi di
Nettuno. Alcuni mangiavano, altri dormivano. C'erano possenti cavallucci
marini con il collo robusto e regalmente arcuato e i fianchi dotati di ali tra-
sparenti, o pinne, assurdamente piccole. Cavallucci marini dai colori fluo-
rescenti e vivaci, fucsia, verde acido, arancio carico, giallo brillante. C'era-
no delfini dalla pelle argentea e luccicante, molto più grandi dei loro colle-
ghi del mondo reale. C'era un calamaro gigante rosa shocking, i tentacoli
bianchissimi, le ventose scarlatte. Impossibile.
E poi c'erano i cocchi. Forse una cinquantina in tutto. Tutti grandi, anche
se alcuni più di altri, e in bronzo, con decorazioni in argento e tracce di
quello che sembrava oro nelle immagini incise sul lato anteriore. Molti e-
rano anche tempestati di pietre preziose, principalmente perle, o vetri tra-
sparenti verdi e azzurri e schegge opalescenti di conchiglia. Alcuni esibi-
vano elaborati dipinti anche all'interno, raffiguranti le imprese, reali o im-
maginarie, amorose o militari, di Nettuno. Non militari nel senso stretto
del termine, forse, ma scene che lo rappresentavano inequivocabilmente
nell'atto di tagliare qualcuno a pezzettini.
Era un luogo stupefacente. Io non sono un patito delle corse dei cavalli,
dal punto di vista sportivo. Sono un uomo di mare e, pur sapendo che ci
sono gare anche nella mia disciplina, preferisco sicuramente la vela, la sua
natura di sport solitario, mi piace essere solo, o quasi solo, su un'immensa
distesa d'acqua, io e la mia barca, l'acqua e il cielo. Ma non si poteva resta-
re in questa scuderia grande come un hangar senza provare un po' dell'ecci-
tazione della competizione, senza sentire il richiamo della storia, venerabi-
le e crudele com'era, delle gare sulle bighe, con quei magnifici animali al-
levati per correre come il vento.
Naturalmente immaginavo che le varie creature ospitate in questa scude-
ria fossero state allevate tutte per correre come il vento, immaginavo che
fossero i purosangue delle rispettive specie ma, francamente, era difficile
pensarlo anche, per esempio, per le gigantesche tartarughe marine. Forse
alcune di queste bestie erano qui per la loro intelligenza, per la loro abilità
di sottrarre la vincita e la vittoria presunta, agli arroganti atleti. Forse.
Diversi cocchi erano pronti all'uso, con gli animali già attaccati alle
stanghe, bardati e imbrigliati.
«Quale cocchio prendiamo?»
«Vorrai dire "rubiamo"» corresse April.
«Okay, rubiamo.» Christopher alzò gli occhi al cielo.
«Ce ne servono due» decisi. «Uno non è grande abbastanza per tutti e
cinque.»
"E poi" pensai "con uno solo, le probabilità di uscirne vivi tutti sarebbe-
ro ancora più basse".
Jalil indicò il cocchio più vicino.
«Che ne dite se "non" prendiamo quello?»
Aveva quattro tartarughe già imbrigliate e agganciate alle stanghe. Sa-
ranno state due metri e mezzo di lunghezza dal muso tozzo alla coda a
punta, forse un metro e mezzo di larghezza massima. Le quattro zampe e-
rano grosse come damigianine da dieci litri e terminavano con grosse un-
ghie sporgenti, ciascuna grande come il pugno di un uomo, unghie che a-
vrebbero fatto vergognare il barbone più incallito. L'apparenza può ingan-
nare, lo sapevo bene, lo sapevo meglio di chiunque altro, forse, ma queste
tartarughe non avevano proprio l'aria veloce, e noi non avevamo molte al-
tre garanzie di successo.
Annuii.
«Va bene. Ci serve velocità, potenza. Okay. Jalil, Christopher ed April
prendono il cocchio in fondo alla fila. Sei delfini.» Mi fermai un attimo,
valutai gli altri veicoli. «Io e Senna prendiamo quello accanto: due caval-
lucci marini giganti. Speriamo che siano veloci, non dico come quel caval-
lo a quattro zampe che piaceva tanto a Nettuno, ma almeno la metà.»
«Fa' attenzione, David.»Jalil salì sul suo cocchio e allungò la mano per
aiutare April; poi si girò a guardarmi e con il capo fece un cenno quasi im-
percettibile verso Senna.
Magari era davvero preoccupato per me o forse, dopo tutto questo tem-
po, era ancora sospettoso, non si fidava ancora di me. Ma non si offrì per
prendere il mio posto. Nessuno di loro si offrì. E comunque non avrei ac-
cettato. In Egitto glielo avevo detto in faccia, a Senna, che era un "fastidio-
so sassolino nella scarpa". Ed era vero. Sfotteva di continuo, irritava, ten-
tava gli altri: la classica piantagrane.
«A proposito di morte prematura e violenta» disse Christopher allegra-
mente, infilandosi tra April e Jalil. «Dobbiamo scappare dalla stalla e pun-
tare dritti verso l'alto? Come si fa a dare l'ordine di andare in su? Cosa si fa
con le redini per far salire le bestie? Avanti, okay. A destra e a sinistra,
nessun problema. Indietro... potrei arrivarci. Ma in su?»
Scrollai le spalle.
«Non lo so» risposi. «Ma lo scopriremo presto.»

CAPITOLO XV

«Ehi! Un momento...» Misi a fuoco la parete alla nostra sinistra. Strizzai


gli occhi per inquadrare meglio quello che speravo di aver visto. Sì! Saltai
giù dal cocchio. «Là, presto, contro quel muro. Christopher, Jalil, scendete
in fretta e prendete un giavellotto per ciascuno.»
Scesero. April, ancora sul cocchio, inarcò le sopracciglia.
«E io? Dovrei andare in giro disarmata e aspettare che qualche "cosid-
detto uomo" mi venga a proteggere?»
Christopher ghignò.
«Se pensi di essere in grado di scagliare quella cosa e fare qualche dan-
no, accomodati pure» le risposi raggiungendo la fila ordinata di giavellotti
dalla punta metallica. «Ne vuoi uno anche tu, Senna?» chiesi tornando al
cocchio con un giavellotto.
«Io passo la mano» rispose lei, con un tono compiaciuto.
Con la base dell'asta appoggiata a terra, la punta della lunga lancia sotti-
le mi superava di almeno trenta centimetri.
«Okay, andiamo» ordinai, assicurando il giavellotto tra me e la parte an-
teriore del cocchio.
Con appena un tocco di redini, i cavallucci marini si avviarono lenta-
mente verso una delle pareti della stalla. I delfini ci seguirono.
«Ehi, capo, ho come l'impressione che queste bestioline non siano poi
così intelligenti» esclamò Christopher, alle nostre spalle. «Non ti pare che
dovrebbero dirigersi, tanto per dire, verso la porta aperta?»
E quella fu l'ultima parola che sentii, perché in quel preciso momento la
parete si smaterializzò, sparì dalla vista con una semplice vibrazione e, con
un'accelerazione da togliere il fiato, un'accelerazione che mi scagliò indie-
tro la testa e fece cadere Senna sul sedere, i due cavallucci giganti sfreccia-
rono via.
Era incredibile. Una ripresa fortissima, come se fossimo stati su una na-
vicella spaziale, non su un veicolo a due ruote. Non avevo idea di quanto
potessero essere veloci i cavallucci marini nel mondo reale, ma era impos-
sibile che un qualsiasi animale del mondo reale, terrestre o marino che fos-
se, potesse uguagliare l'accelerazione istantanea di queste creature. Non un
gatto randagio che salta sul topolino dal coperchio di un bidone. Non un
levriero alla partenza della gara. E nemmeno un ghepardo all'inseguimento
di una gazzella.
Volammo fuori dall'edificio che ospitava le scuderie, volammo nell'aria
che non era aria ma acqua, volammo fuori dalla città, via dall'arena, da
quella specie di Colosseo. I miei capelli erano tutti indietro, quelli di Senna
svolazzavano dietro di lei come una bandiera. Gli occhi si dilatarono con-
tro l'impeto dell'acqua, la gola lavorava, inghiottiva, cercava di respirare
aria.
«Yuuuu-huuuu! Che forza!» Nel cocchio dietro al nostro, Christopher
rideva.
«Dove stiamo andando?» gridò April mentre il suo cocchio si affiancava
al nostro.
«Via di qui» le urlai di rimando.
Via di qui, via dall'arena di viscere e sangue del dio Nettuno. E una volta
fuori di qui, verso la superficie. Verso la terraferma. O almeno così spera-
vo.
Non ci eravamo ancora lasciati alle spalle la città quando udimmo il ru-
more. Le grida stridule e lugubri, di una bellezza inquietante di... mi girai a
guardare. Orche assassine. Una pariglia, orche bianche e nere, lucenti, at-
taccate a un cocchio molto più grande del nostro. E due tritoni, uno alle re-
dini, l'altro che bilanciava qualcosa sopra la spalla...
«Senna! Giù!»
La tirai giù sul fondo del cocchio, mi buttai sul suo corpo, ma senza
mollare le redini e il giavellotto. Il tridente ci passò proprio sopra la testa
sibilando, e mancò uno dei cavallucci per un soffio. Il cavalluccio lanciò
un grido, uno strano suono, come quello di un cavallo ferito.
«Sono... sei! David!» gridò Jalil. «Sei' cocchi! Come facciamo a scappa-
re?! Loro sì che sanno guidare queste carrette!»
Aveva ragione. I tritoni, due per cocchio, erano cacciatori provetti, sof-
fiavano come dei matti nelle loro conchiglie, come per spronare alla cac-
cia. E noi eravamo le povere volpi, condannate a correre fino allo stremo
delle forze, condannate ad avere la coda mozzata, a sfilare come trofei per
le vie della città. Non saremmo mai sfuggiti ai tritoni. I loro cocchi, trainati
dalle orche assassine e... ebbene sì... dalle tartarughe, erano superveloci.
Avrei dovuto immaginarlo, non avrei dovuto trascurare la teoria della logi-
ca al contrario. Bisognava fermarli in qualche altro modo. Potevamo stan-
carli? Probabilmente non prima di aver esaurito le forze nostre e dei nostri
animali.
"Smettila di pensare, David, ora bisogna soltanto agire!"
Non aveva senso usare i giavellotti adesso. Impossibile prendere la mira,
colpire un bersaglio a questa velocità, in un territorio sconosciuto.
«David, guarda!»
Lo vidi. Sembrava un tunnel, sembrava l'angusto ingresso di una grotta.
Buttarcisi dentro... e poi? Trovarsi in un vicolo cieco, finire in trappola, es-
sere catturati? No, bisognava stare negli spazi aperti. Solo uno sciocco si
sarebbe rintanato in un angolo per salvarsi.
Un altro tridente colpì il nostro cocchio. con un forte rumore metallico.
La mira dei tritoni non era eccellente come quella di Nettuno, ma era buo-
na, sin troppo buona, per noi.
E in quel momento... l'idea! Solo uno sciocco... i tritoni di Nettuno pen-
savano che tutti tranne loro fossero degli sciocchi.
«Jalil, seguimi, fingiamo di entrare nel tunnel. Vira a destra all'ultimo
minuto. Mi senti? All'ultimissimo minuto. Io vado a sinistra. Al mio via.»
I nostri cavallucci e i nostri delfini erano sparati alla velocità massima?
Erano troppo veloci per fare la finta? Ci saremmo schiantati? No, non se
dipendeva da me.
«Senna, guarda indietro. Dimmi quanto sono vicini i cocchi tra loro, e
quanto sono distanti da noi.»
Cautamente, Senna sbirciò tra le mie gambe.
«Non riesco a definire le distanze» ammise. «Ma c'è più spazio tra noi e
loro che tra loro sei. Sono quasi a grappolo.»
"Bene."
I tritoni, nella loro arroganza, si sarebbero convinti che noi fossimo ab-
bastanza stupidi da andarci a intrappolare in uno spazio buio, stretto e sco-
nosciuto. Ci avrebbero seguiti nel tunnel... o sarebbero morti nel tentativo
di farlo.
Più vicino, più vicino. I capelli al vento, creature marine e formazioni di
corallo ci sfrecciavano accanto, tutto ridotto a una macchia indistinta.
Strinsi le mani intorno alle redini e mi girai verso gli altri.
«Jalil, stammi dietro, più vicino che puoi.»
Vidi Jalil tirare le redini, i delfini impennarsi e rallentare, poi spostarsi a
sinistra per mettersi in posizione. Jalil era bravo, più bravo di quello che
pensava.
Magari avrebbe funzionato.
Solo pochi metri di distanza. Le mie mani sentivano la riluttanza dei ca-
vallucci a continuare la corsa in quel buco nero e spaventoso. Istinto, so-
pravvivenza. Ma la finta avrebbe funzionato solo se fosse stata convincen-
te.
«Ci stanno alle costole, David» gridò Senna. «E Jalil è proprio dietro di
noi.»
Più vicino. Solo trenta, venti, dieci...
«Adesso!» urlai e tirai le redini a sinistra, tutti i muscoli tesi nello sforzo
di tenere i cavallucci in una curva troppo stretta.
«Ce l'hanno fatta» mi informò Senna. «Jalil ha virato a destra.»
Subito dopo lo sentimmo. Il fragore dei carri che si schiantavano, le gri-
da dei tritoni, i versi degli animali. I nostri cavallucci adesso erano su una
strada sicura, diretti a sinistra, a un angolo di quarantacinque gradi rispetto
all'ingresso del tunnel. Mi arrischiai a guardare indietro.
Sì! Un ammasso di cinque cocchi all'entrata del tunnel. Solo l'ultimo era
riuscito a evitare la collisione, il tritone al comando tirava convulsamente
le redini per far arretrare le imponenti tartarughe che trainavano il suo coc-
chio, imprecando, urlando all'armigero di non perderci d'occhio.
Eravamo liberi. Per ora.

CAPITOLO XVI

Proseguimmo la corsa con i carri distanziati ma in vista l'uno dell'altro e


sulla medesima rotta. Tenevamo ancora quella che sembrava la velocità
massima. Non sapevo per quanto tempo i cavallucci o i delfini avrebbero
potuto mantenere una tale velocità, ma speravo che, prima che gli animali
si stancassero, saremmo stati molto, molto lontani da Nettuno e dai suoi
scagnozzi.
E in quel momento, sopra di noi... la superficie del mare! Non poteva es-
sere altro, vedevo la luce del sole che penetrava debolmente sotto il pelo
dell'acqua. Se fossimo riusciti ad arrivare in superficie prima dei tritoni...
chissà... forse giocando in casa, o quasi in casa, saremmo stati un po' più
avvantaggiati.
Su, su, su. Osai guardarmi alle spalle. Sì, c'era ancora un cocchio all'in-
seguimento. Anche se non vedevo i tritoni, potevo sentirli soffiare con fu-
ria nelle loro conchiglie. Potevo tranquillamente affermare che gli unici
sopravvissuti allo scontro erano "lievemente alterati".
Su, su, su, e finalmente erompemmo in superficie, come atlete di nuoto
sincronizzato, con uno stile perfetto, quasi senza sollevare spruzzi. Mi-
gliaia di goccioline d'acqua luccicanti caddero con grazia dalla faccia di
Senna e scivolarono via dalle groppe dei cavallucci mentre il cocchio dise-
gnava un arco nell'aria, parecchie decine di centimetri al di sopra dell'ac-
qua dolcemente ondulata, per poi ricadere con grazia sulla superficie del
mare.
Sulla superficie. Incredibilmente, i cavallucci marini ripresero la corsa
sul pelo dell'acqua, la coda e la parte inferiore del corpo immerse, come
pure pochi centimetri della parte inferiore delle nostre ruote.
Ed ecco, parecchi metri alla nostra destra, davanti a noi, fuori dalla no-
stra traiettoria, l'altro carro emerse dalla superficie dell'oceano e i delfini
che lo trainavano saltarono ancora più in alto nell'aria prima di ritornare a
immergersi per metà nel loro elemento.
«Yuuu-huuu!»
Guardai avanti, vidi Christopher con un sorriso a trentasei denti, le brac-
cia in alto sopra la testa. E Jalil, la schiena tesa, le mani strette intorno alle
redini. Ed April, girata indietro, aggrappata ai fianchi del cocchio, sulla
faccia una maschera confusa di eccitazione e panico.
Non risposi al grido di esultanza. Sì, era una forza, ma come avremmo
fatto a impedire ai cocchi di ridiscendere verso il fondo del mare? Come
avremmo fatto a dirigere i delfini e i cavallucci non verso il fondo del ma-
re, verso la sala giochi di Nettuno aperta a tutti gli assassini psicopatici, ma
avanti, verso la terraferma? E in quale direzione l'avremmo trovata, la ter-
raferma?
«Christopher è proprio un idiota!» Senna sputò le parole come se fossero
amare. «Non abbiamo seminato i tritoni. Non è cambiato niente.»
Non replicai. Anche perché in quel preciso istante il cocchio che ci inse-
guiva salì da sotto la superficie del mare esattamente a metà strada tra il
nostro e quello di Jalil.
Senna si buttò a terra. Era adesso o mai più. Nella frazione di secondo
che le tartarughe avrebbero impiegato per rituffarsi e il cocchio per stabi-
lizzarsi sulla superficie dell'acqua e i tritoni per orientarsi, avremmo dovu-
to colpire noi. Il bersaglio era lontano, era facile farsi scappare quest'unica
possibilità di attacco, ma era adesso o mai più, era la nostra unica chance.
«Christopher, Jalil, April! I giavellotti!»
Non controllai se mi avessero sentito, se qualcuno avesse preso le redini,
raccolto le lance, preso la mira. Io e Senna eravamo alle spalle dei tritoni,
ma non per molto. Schioccai le redini, feci un rumore con la bocca che
sperai significasse "Via" e per chissà quale bizzarra ragione i cavallucci
marini scattarono. A tutta velocità.
«Senna, tieni le redini!» gridai, tirandola su in piedi. «Non ti muovere,
non cambiare direzione, resta lì e non le mollare!»
Nel tempo che servì a Senna per afferrare le redini con le mani zuppe e
tremanti, Jalil lanciò il suo giavellotto. Fu senz'altro così, perché vidi uno
dei tritoni cadere di schiena sul cocchio... e poi vidi il suo corpo con una
lancia che gli spuntava dal petto scivolare giù dalla parte posteriore del
cocchio, aperta, e sparire tra le onde.
Uno era a posto. E adesso ero abbastanza vicino.
«Christopher, aspetta!» gridai. «Senna, avvicinati!»
Mentre il tritone sopravvissuto cercava di tenere il controllo delle redini
ed elaborare il fatto di aver perso l'armigero e di dover recuperare il suo
tridente, io sguainai la spada, mi arrampicai agilmente sul bordo del coc-
chio e saltai su quello del tritone.
Mi sentì atterrare, naturalmente. Si girò su se stesso, furioso che un mi-
sero essere umano avesse l'ardire di attaccare uno degli uomini scelti di
Nettuno. Tenne le redini con una mano e con l'altra afferrò il tridente. Il
quel momento gli conficcai la spada nello stomaco. Non credo che se lo
aspettasse. Credo che non avesse nemmeno visto la spada. Stupito, guardò
la lama affondata nelle sue viscere. Tornò a guardare me, senza capire. Ri-
tirai la spada con uno strattone e il tritone si accasciò.
«Bel lancio, Jalil» dissi.
Lui annuì. Non era la prima volta che colpiva qualcuno con una lancia,
per non essere a sua volta colpito.
«So che è uno schifo, amico. Quello che ci tocca fare in questo posto è
veramente disgustoso.»
April aveva ceduto le redini a Christopher. Mi lanciò un'occhiata di fuo-
co, ma non disse niente.
Eravamo a un punto relativamente morto, in mezzo all'oceano, alla deri-
va.
«A quanto sembra, sto sempre a farti la stessa domanda, Davideus Ma-
ximus» mi disse Christopher con un ghigno. «Ma... e adesso?»
Gli animali di Nettuno risposero per noi. Prima ancora che potessi aprir
bocca per dire "Non lo so", cavallucci e delfini si immersero nel mare, tra-
scinandoci con sé.

CAPITOLO XVII

La buona notizia era che ci eravamo liberati dai tritoni, almeno tempora-
neamente. Ma eravamo tornati sotto la superficie dell'oceano e questa era
una notizia molto meno buona. Da quel che sembrava, però, ci stavamo
comunque allontanando dalla città di Nettuno.
Il cavallucci marini continuarono la loro corsa finché, a un centinaio di
metri davanti a noi, non vidi qualcosa di simile a una caverna. Forse più
una grotta artificiale, graziosa, a suo modo, con dei piccoli geyser che
sbuffavano dal terreno proprio davanti all'ingresso. Una vegetazione varia
e rigogliosa adornava le pareti esterne. Una macchia di formazioni coralli-
ne rosa shocking e verde menta, come stalagmiti, creava un giardino esoti-
co appena a sinistra della bocca della caverna.
Pochi brevi minuti e l'avremmo oltrepassata da destra, ma...
«Fermi!»
I cavallucci marini si impennarono, lanciarono un grido stridulo, scarta-
rono verso sinistra a un angolo di quasi sessanta gradi. Il cocchio si piegò
di lato, io andai a sbattere addosso alla sponda sinistra, Senna perse l'equi-
librio, scivolò, mi crollò addosso da destra. Tirai le redini, cercai di ripor-
tare la pariglia sulla traiettoria di prima, temevo che volessero tornare sui
propri passi, temevo di incappare di nuovo in Nettuno. Ma gli animali ri-
fiutarono di obbedire.
E in quel momento capii perché. Qualcosa stava uscendo dalla caverna,
facendo crollare le pareti superiori. Era... be', non so che cosa fosse. Ma
era grosso. E orripilante.
«Scilla!» urlò Senna al di sopra dei gridi ripetuti dei cavallucci.
«Che diavolo è?»
«Non ti ricordi che cosa diceva Nettuno? Un uomo debole e lascivo e
una donna vendicativa.» Senna mi parlava nell'orecchio e il suo tono di
voce era come un ago che mi perforava il timpano. «Scilla era una bellis-
sima ninfa del mare. Poseidone, la versione greca di Nettuno, o forse lo
stesso Nettuno, la desiderava. Anfitrite lo scoprì e mise delle erbe magiche
nell'acqua della fonte dove Scilla si bagnava. E queste erbe la trasformaro-
no in un mostro. David, non è me che vuole» aggiunse Senna, con un tono
di voce lievemente derisorio. «Scilla mangia solo i maschi.»
Per circa un secondo provai una profonda pietà per questa ninfa del mare
una volta bellissima e ora talmente raccapricciante. Una pietà non tanto
profonda, però, da pensare di sacrificarmi alla sua fame di carne d'uomo.
Era disgustosa, sembrava avere la rogna, le mancavano chiazze di pelo
qua e là, aveva la pelle squamosa e arrossata. Si ergeva su dodici piedi,
mostruose distorsioni di zampe canine. Sei grosse teste di cane dagli occhi
assassini coronavano sei lunghi colli robusti e coperti di pelo. Le bocche
sbavavano e schiumavano, bava viscosa e schiuma del colore del pus, boc-
che ringhianti, che scoprivano tre file di denti acuminati. Il fetore di
quell'essere mi giunse alle narici e sentii in bocca il sapore del vomito.
Nel tempo che mi occorse per registrare tutti questi dettagli, il mostro ci
attaccò.
«Via-via-via!» gridai ai cavallucci marini, schioccando le redini.
Meglio correre in bocca a Nettuno e morire combattendo che finire nelle
fauci sbavanti di quel cane infernale. Bisognava togliersi di lì. Dovevo av-
vertire Jalil, April, Christopher. Ma dov'erano finiti? Dovevano essere die-
tro di noi, da qualche parte.
«Senna, prendi le redini!» Le piazzai le redini in mano. Adesso non
sembrava più in vena di ironia. «Resisti! Non mollarle!»
Una zaffata di alito fetido ci investì. Senna ebbe dei conati di vomito. La
bestia era vicina, non c'era paragone tra la velocità dei cavallucci marini di
Nettuno e quella del mostro assetato di vendetta, di sangue, di carne uma-
na. Sguainai la spada e mi girai per affrontare Scilla.
Ancora un balzo e ci sarebbe stata addosso, mi sarebbe stata addosso; i
denti affilati e macchiati di sangue mi si sarebbero serrati sulla faccia. Sol-
levai la spada e la calai con tutta la forza che avevo. Recisi una delle teste
del mostro. Cadde, ma Scilla continuò ad avanzare come se non si fosse
nemmeno accorta della decapitazione, come se non notasse affatto il san-
gue che sgorgava a fiotti dalla ferita aperta. Continuò a inseguirci, allun-
gando verso di noi un altro collo, un'altra testa. Colpii di nuovo. Questa
volta la spada mi restò incagliata in qualcosa di duro e filamentoso, una
cartilagine forse, e strappai violentemente per liberarla. La spada sì sfilò
ma la testa rimase attaccata al collo, penzoloni, unita al resto del corpo so-
lo da pochi filamenti insanguinati, sbattendo orribilmente sul collo stesso.
Questa nuova ferita sembrò sorprendere il mostro, rallentarlo appena un
po', ma fu sufficiente per permettermi di riprendere le redini dalle mani di
Senna e con una mano sola lottare lottare lottare contro l'istinto dei caval-
lucci di correre alla cieca, costringerli a ritornare alla rotta originaria, inci-
tarli ad accelerare ancora.
«David, è di nuovo qui!»
Mi girai a guardare. Scilla era infuriata, era ancora all'inseguimento ma
adesso, con due teste in meno, era lievemente sbilanciata.
«Che cosa hai fatto alla mia amata?!»
Inconfondibile, quella voce. Era Nettuno. Evidentemente aveva visto
Scilla ferita. Ma invece di prendersela con noi, Nettuno frenò il suo impo-
nente cocchio d'oro e chiamò a sé Scilla, che accorse subito, per farsi con-
solare.
Nettuno sbraitò, pianse, coprì di attenzioni il mostro canino sanguinante.
Mi chiesi per un attimo se le teste di Scilla sarebbero ricresciute, ma decisi
che non era il caso di stare a vedere.

CAPITOLO XVIII

Sollievo. Eravamo stati più furbi e più veloci dei tirapiedi di Nettuno e
anche del suo cagnolino infernale. E adesso, dalla nostra destra, da dietro
una formazione rocciosa, ecco arrivare April, Christopher e Jalil sul loro
cocchio. Uno dei delfini era stato ferito, ma gli altri cinque facevano valo-
rosamente del loro meglio per compensare l'invalidità del loro compagno.
«Dove diavolo eravate finiti?» urlai. «State tutti bene?»
Christopher alzò il pollice nell'aria. Nell'acqua. Si avvicinarono al nostro
cocchio.
Ma adesso ecco profilarsi qualcosa di nuovo: un altro orrore o qualcosa
di più benigno?
Un'altra città. Stupenda, tutta illuminata, chiaramente greca per stile e
architettura, ma con una sua specifica individualità.
Non avevo nessun desiderio di fermarmi a fare una visita turistica. Ma la
osservai con meraviglia. Notai che era racchiusa da una grande bolla che
ogni trenta secondi circa eruttava una bollicina molto più piccola, forse
delle dimensioni di un'automobile, e la bollicina risaliva fluttuando verso
la superficie.
Mi girai verso Jalil. Adesso eravamo abbastanza vicini da poterci parla-
re, i cavallucci e i delfini avevano rallentato la corsa e tenevano un'andatu-
ra più decente.
«Geyser di aria» disse lui. «Non possono essere altro. Geyser che sputa-
no ossigeno e tengono la bolla grande sempre gonfia. La gente che vive
qui respira aria.»
«C'è anche qualcos'altro» osservò April strizzando gli occhi. «Mi pare.
Guardate bene sulla superficie della bolla.»
Guardai.
«È vero. Sembra una specie di rete. Sottilissima, argentata. Che serva a
tenere ferma la bolla? Forse è fissata da qualche parte. Di che cosa sarà fat-
ta?»
«Secondo me» intervenne Christopher «la domanda più importante è:
chi ci vive, là dentro? E soprattutto, cominceranno a spararci addosso tra
un attimo con qualche strana arma?»
«Forse...»
Ma in quel momento mi premetti le mani sulle orecchie, senza però mol-
lare le redini, chiusi gli occhi contro la forza dell'aggressione sonora, cer-
cai di impedire ai cavallucci di imbizzarrirsi, perché non rovesciassero il
cocchio...
Nettuno ci aveva trovati. Logico.
Il ruggito della sua folle risata trionfante mi si ripercosse in tutto il cor-
po, accelerando i battiti del cuore. Colò del sangue dagli occhi dei delfini,
dalle narici dei cavallucci marini. Era più forte di ogni altro suono che a-
vessimo udito uscire dalla sua bocca, era come lo stridio dei freni del treno
della metropolitana, come cinquanta piatti d'orchestra battuti all'unisono,
come il crepitio di un cielo pieno di tuoni, un posteggio sotterraneo pieno
di allarmi d'automobili, l'urlo di venticinque sirene antincendio... tutto in-
sieme, a un metro dai nostri timpani.
Troppo vicino, era arrivato troppo vicino e io non me n'ero nemmeno
accorto, preso com'ero ad ammirare il panorama. Riuscii ad aprire la bocca
e gridare: «Via!»
Ma nemmeno io sentii la mia voce, figuriamoci gli animali, gli altri. Al-
lontanai le mani dalle orecchie, sussultai per il dolore, schioccai le redini e
i cavallucci marini, stravolti dal tormento, si slanciarono verso la città rac-
chiusa nella rete argentea.
Dovevamo andare ovunque, ma non qui. Dovevamo andare il più lonta-
no possibile dalla fonte di quel suono insopportabile, poi forse... poi che
cosa? Che cosa?
Più vicini alla cupola d'aria, Senna se ne stava accucciata sul fondo del
cocchio, la testa nascosta tra le braccia. Jalil, Christopher ed April erano
affiancati al nostro cocchio, c'era Christopher adesso che teneva le redini,
la testa affondata nelle spalle, una smorfia di sofferenza sulla bocca. April
e Jalil erano l'immagine stessa del dolore lancinante, si stringevano la testa
tra le mani, piegati in due. Gli animali si lasciavano dietro una scia di san-
gue.
Più veloci... più veloci... e poi, di colpo, finì. Finì così, nel bel mezzo di
un grido, di una nota, come se qualcuno avesse premuto il pulsante stop
sul lettore CD. Finito. Sparito. Silenzio.
E nell'attimo stesso in cui il mio cervello stordito registrò "Silenzio", re-
gistrò anche "Niente aria".
Nettuno ci aveva tolto la magica capacità di respirare sott'acqua. Okay.
La testa di Senna si alzò di scatto, mi guardò, gli occhi dilatati, la bocca
che iniziava a muoversi, a cercare aria, a respirare l'aria dall'acqua... Scossi
convulsamente la testa e lei tossì, chiuse la bocca, la riaprì per sputare l'ac-
qua, ma non è così facile sputare acqua nell'acqua, sott'acqua.
Non sapevo che stava per finire la riserva d'aria, non ero preparato, non
avevo fatto un respiro profondo, non mi ero riempito i polmoni, ero troppo
preso dalla fuga da quell'orribile rumore. Quanto avrei potuto resistere, o-
ra?
Presto, in superficie! In superficie!
Il cervello si impartiva ordini da solo, ma già vacillava, se fossi soprav-
vissuto, se fossi... guardai l'altro cocchio, April era riversa su una sponda,
Jalil aveva gli occhi dilatati, si sfregava nervosamente una mano sulla go-
la, Christopher...
Mi scoppiavano i polmoni, il campo visivo si scurì, poi non vidi più nul-
la, ma prima del buio vidi, o forse immaginai di vedere una rete argentea,
deliziosa, che si smagliava, che si apriva per me, che pensiero gentile...

CAPITOLO XIX

«Aaaaah...»
La tazzina di caffè mi scappò di mano e si fracassò per terra. Mi chinai
rapidamente per ripulire il pasticcio: ero da Starbucks, al lavoro. Stimato
dipendente. Grembiule verde. Alzai gli occhi verso la lavagna dietro il re-
gistratore di cassa. Novità del giorno: una bevanda esotica di tè e frutta che
non riuscivo nemmeno a pronunciare. Era sabato. Di quale settimana, di
quale mese non importava, non contava niente. Non per il David di Ever-
world. Il David di Everworld... stava annegando, aveva appena mandato a
sbattere un cocchio trainato da una coppia di cavallucci marini giganti con-
tro una bolla molto più grande di loro che racchiudeva un'intera città sot-
tomarina. Importava al David di Everworld sapere che giorno era?
«David, mi serve un favore.» Era una delle mie colleghe, Heather, attrice
disoccupata. Abbastanza carina. «C'è un cliente che vorrebbe mezzo chilo
di caffè tostato francese. Qui su non ce n'è, ma so che ne è arrivata una
scatola proprio l'altro giorno. Potresti andare in cantina a prenderne un
po'?»
Posso? Certo che posso. Posso fare qualsiasi cosa, o quasi. Non credere-
sti alle tue orecchie, Heather, se ti dicessi che cosa sono capace di fare.
«Sì, certo» risposi.
Se non altro era una buona scusa per stare lontano un paio di minuti da
questo sfavillante monumento al consumismo. Se non altro avrei avuto
modo di starmene da solo.
Mi diressi verso la cantina. E non per la prima volta mi chiesi che cosa
ci facevo qui, a preparare tè, caffè, a scaldare il latte, a fare la schiumetta
sui cappuccini, a macinare caffè, a spostare scatole, quando c'era bisogno
di me da un'altra parte, per fare qualcosa di molto più importante, non
qualcosa che chiunque altro era in grado di fare. Di questo ero convinto.
Io...
"Un occhio alla volta, David. Adesso sei sveglio, puoi aprire gli occhi.
Forza, aprili."
Li aprii tutti e due insieme, mi alzai a sedere, sentii la punta della lancia
del soldato contro lo sterno. Okay. Alzai lentamente gli occhi per guardar-
lo in faccia, non era una faccia crudele, era la faccia di uno che faceva
blandamente il suo lavoro. Aveva un'armatura che gli proteggeva il busto,
una specie di toga corta, come un gonnellino, e i sandali ai piedi. Al fianco
aveva una spada. In testa, un elmo ornato da un lungo pennacchio di tre
piume. Un'uniforme molto simile a quella dei soldati greci con cui aveva-
mo combattuto sul monte Olimpo.
Lentamente, cautamente, girai la testa, in realtà girai quasi solo gli occhi,
prima a destra e poi a sinistra, per vedere se c'eravamo tutti. Sì, c'eravamo.
Un mucchio di corpi fradici e malconci, circondati da un totale di quattro,
forse cinque guardie (non potevo girarmi a verificare). Avevo il piede di
qualcuno piantato nella schiena, il braccio di qualcun altro sotto la coscia.
Automaticamente mi spostai in avanti per liberare il braccio, ma la lancia
non si mosse con me. Mi punse la pelle.
«Scusa tanto» dissi subito, alzando le mani e tenendole ben lontane dalla
spada. «È che sono seduto su qualcuno. Posso spostarmi un po' a sinistra?»
La guardia annuì e tirò indietro la lancia di qualche centimetro. Mi spo-
stai, con molta cautela. Guardai giù e vidi che era il braccio di Christopher
che stavo schiacciando.
A uno a uno anche gli altri ripresero conoscenza.
«Carino! Una situazione nuova di zecca» sussurrò Christopher. «Ahi, il
mio braccio!»
«Signore, possiamo alzarci, adesso?» chiesi.
Di nuovo, la guardia annuì. Le cinque guardie, come potei constatare
quando mi alzai, ancora tremante, fecero un passo indietro, senza però di-
stanziarsi tanto da aprire qualche via di fuga. Ma nessuno di loro mi seque-
strò la spada. Arroganza? Segno di civiltà? O ragionevole sicurezza? Al-
meno due erano armate di arco e frecce, oltre che di spada o di lancia. In
ogni caso, io ero ben contento di poter tenere con me la mia unica arma.
La mia guardia parlò.
«Siete in arresto per essere entrati illegalmente nella città di Atlantide»
ci informò, parlando alla perfezione la nostra lingua, senza il minimo ac-
cento. «Verrete con noi alla sede del consiglio cittadino» proseguì la guar-
dia «dove potrete esporre il vostro caso al sindaco.»
Il flebile barlume di speranza che queste parole potevano aver acceso in
noi venne immediatamente ottenebrato da un boato tonante che ci squassò
tutti, guardie comprese, e per poco non ci mandò a gambe all'aria. Durò
meno di un minuto. Che è un tempo lunghissimo, quando la terra ti trema
sotto i piedi.
«Che cos'è stato?!» gridò April.
«Un terremoto, uno delle centinaia che ogni anno scuotono Atlantide»
spiegò la mia guardia. «Non per niente Nettuno e Poseidone sono noti co-
me gli dei del terremoto. Adesso cominceranno ad azzuffarsi tra di loro.
Per un po' ci lasceranno in pace, fino alla prossima volta.»
«Ehi, questo tizio è fatto per vivere a Los Angeles» disse Christopher,
tenendosi una mano sullo stomaco. «Io invece avrei un po' di nausea...»
«E io ci vedo doppio» esclamò April battendo le palpebre.
Infatti davanti a noi due divinità molto simili tra loro, su due cocchi mol-
to simili tra loro, erano intente a dare una dimostrazione di forza attaccan-
dosi a vicenda con il tridente.
«Nettuno e Poseidone» spiegò la guardia. «Il dio romano e il dio greco
del mare. Quello con la barba è Poseidone. Questi due dei sono da sempre
in guerra tra loro per il controllo della nostra bella città.»
«E voi come resistete agli attacchi?» chiesi, proprio mentre una scossa di
assestamento scuoteva il terreno sotto i nostri piedi, con un sordo brontoli-
o. «Come fate a tenerli fuori?»
L'uomo sorrise d'orgoglio.
«Il sindaco, Monsieur Jean-Claude LeMieux.»

CAPITOLO XX

Sono sicuro che chiunque abbia più di sei anni ha già sentito parlare di
Atlantide, la celeberrima città sottomarina. O forse era una città costruita
sulla terraferma che per qualche ragione sprofondò nel mare, non ricordo
bene. Ma non importa. Mi sembra di aver sentito varie descrizioni di que-
sta città e di aver visto varie versioni della sua storia, nei film, nei libri e
persino in alcuni fumetti che un amico mi aveva prestato quando eravamo
bambini. Non ricordo che fumetto fosse, non sono mai stato un grande ap-
passionato.
Questo per dire che avevo la testa piena di preconcetti su Atlantide, nes-
suno dei quali si avvicinava anche solo lontanamente alla realtà della vera
Atlantide o, per meglio dire, alla realtà dell'Atlantide di Everworld. Niente
a che vedere con i castelli di plastica incollati ai sassolini blu sul fondale
degli acquari per i pesci.
La città era grande ma non smisurata, con un centro gremito di edifici e
quartieri periferici più allargati. La parte principale della città era simile,
per stile e per gusto, all'Olimpo. In altre parole, era greca. Solo che aveva
proporzioni molto più normali rispetto all'Olimpo. Gli edifici erano fatti di
marmo biancastro e le strade erano pavimentate con lastroni di una pietra
simile. Gli uni e le altre erano ben illuminati, ma la fonte di luce mi sfug-
giva. Vicino a quello che sembrava il centro, c'era un tempio, una copia
molto somigliante, mi pareva, del tempio di Zeus o di Atena nell'acropoli
di Atene. C'era anche una piazza del mercato, zeppa di file e file di banchi
addossati gli uni agli altri, in concorrenza con i negozi che si aprivano a
pochi passi di distanza. Un'agorà. Avevo imparato la parola sull'Olimpo.
Fummo condotti nell'edificio che ospitava il consiglio cittadino.
Era molto simile agli altri, ma più alto, con un colonnato in stile ionico
che sorreggeva un frontone. La superficie triangolare del timpano contene-
va una scritta in caratteri greci. In seguito scoprii che dicevano: "Libertà,
giustizia, uguaglianza". Era chiaramente un edificio di pubblica importan-
za.
La stanza in cui venimmo condotti per incontrare il sindaco Jean-Claude
LeMieux era imponente pur essendo di grande semplicità. Le pareti mi pa-
revano di marmo bianco, venato di grigio. Il soffitto, poco visibile, perché
la stanza doveva essere alta almeno tre o quattro metri, era imbiancato a
calce. Il pavimento era di marmo rosa. Alle pareti, a intervalli regolari, e-
rano infissi alcuni porta-lampade dove ardevano dei lumi a olio. L'effetto
complessivo era gradevole: una stanza molto grande resa intima dalla luce
calda e rosata.
Il collaboratore del sindaco ci fece cenno di accomodarci su alcune sedie
sistemate in modo da favorire la conversazione. Erano piuttosto vicine, di-
sposte non perfettamente in cerchio, nessuna troppo arretrata rispetto alle
altre tanto da impedire a colui che vi sedeva la vista di tutti gli altri o da
farlo sentire come se fosse seduto in seconda fila, o nei posti più economi-
ci allo stadio. Erano una decina in tutto, senza braccioli ma all'apparenza
comode e dotate di cuscini di velluto rosso. Una fra tutte spiccava: era più
grande e con lo schienale alto ed era disposta in modo da risultare in posi-
zione centrale senza essere sfacciatamente al centro.
Doveva essere la sedia del sindaco o forse, in certe occasioni, la sedia ri-
servata a qualche importante dignitario in visita. Questo nell'eventualità
che a Everworld i dignitari qualche volta si sedessero a fare una civile
conversazione, invece di ammazzare direttamente gli sfortunati presenti.
Anche questa sedia aveva dei cuscini ma, a differenza delle altre, il rive-
stimento era in broccato. Credo che si chiami così, il tessuto. Dovrei saper-
lo, ormai, con tutte le riviste di arredamento che mia madre legge e com-
menta di continuo.
Non c'erano altri mobili nella stanza, tranne un semplice tavolino ap-
poggiato a una parete. Era scarsamente ammobiliata ma comunque elegan-
te e non dava l'impressione di essere fredda.
Naturalmente le apparenze non significano niente, soprattutto a Ever-
world. Per quel che ne sapevo, LeMieux poteva irrompere nella stanza a
cavallo di una tigre del Bengala, con una freccia incoccata e puntata dritta
sul mio cuore.
«È carino» osservò April. «Non proprio corrispondente ai miei gusti
personali, dato che io preferisco lo stile "casa francese di campagna", ma è
carino. Strano che sia così europeo... non sembra affatto antico e mediter-
raneo...»
«Ci devono essere stati degli scambi commerciali con la superficie ad un
certo punto della storia» commentò Jalil. «Personalmente, preferirei che ci
fosse qualche bella finestra grande e spalancata, da cui potersi gettare in
caso ci si dovesse allontanare in fretta e furia» aggiunse con voce cupa.
«Non sembra la città ideale per te, questa Atlantide?» lo stuzzicò Senna,
la voce bassa, quasi sensuale. «Così pulita, così ordinata...»
«Direi che è la città ideale per tutti» ribatté April. «Tranne che per te. In-
somma, siamo stati arrestati, o quantomeno trattenuti, con un'accusa ben
precisa. Abbiamo violato delle leggi specifiche. Finora, la cosa più vicina
alla società del mondo reale che abbiamo incontrato qui è stato il mercato
del Regno dei Folletti, un vero monumento al capitalismo. Qui, invece,
abbiamo un monumento al governo equo e giusto, il governo del popolo e
per il popolo. Democrazia. Equa rappresentanza di tutte le parti sociali.
Qualcosa che non fa assolutamente parte della tua esperienza, Senna.»
«Non ti allargare troppo, April» disse Jalil, pacato. «Anch'io spero di a-
vere una giuria di miei pari, ma questo è Everworld. Non possiamo dimen-
ticarcene.»
Ci sedemmo. Io scelsi la sedia alla destra di quella di LeMieux, la più
grande. Alla mia destra si sedette Senna. Alla sinistra della sedia di Le-
Mieux presero posto April, Jalil e Christopher, formando una specie di cir-
colo approssimativo.
La sedia dallo schienale dritto e priva di braccioli mi consentiva di tene-
re la spada al fianco, a portata di mano.
Aspettammo. Non tanto, ma quei cinque o sei minuti sembrarono eterni.
Io ero all'erta e sospettoso, come Jalil, non del tutto tranquillizzato dall'i-
dea di aver finalmente trovato una società in qualche modo democratica.
Troppi fattori di rischio, troppi casi in cui la situazione avrebbe potuto
mettersi male per noi. Tanto per cambiare.
E poi, non è da me pensare che tutto possa filare liscio.
Finalmente la porta in fondo alla stanza si aprì. Entrò un uomo non certo
imponente, sotto il metro e ottanta di sicuro, in buona forma fisica, anche
se data l'età (sessantacinque, settanta, forse di più) era d'aspetto un po' se-
galigno. Indossava una specie di toga modificata, più sobria di quella che
portava Dioniso. Era completata da un paio di maniche lunghe e larghe e
un paio di pantaloni di forma simile. L'uomo aveva un'aria dignitosa, ma
non arrogante. Era lui, il sindaco. Lo seguiva un uomo molto più giovane,
un suo collaboratore, immaginai.
I due si avvicinarono a noi. Ci alzammo in piedi, una reazione istintiva
in presenza di una persona titolata. L'uomo ci rivolse un cenno del capo e
prese posto sulla sedia più grande. Il collaboratore allontanò un'altra sedia
dal gruppo, si sedette ed aprì una cartella piena di scartoffie.
«Prego» disse il sindaco invitandoci a sedere.
«Da dove siete venuti?» ci chiese.
I suoi modi erano cortesi ma formali, tipici di tutti i politici. Non un ac-
cenno al fatto che avevamo appena infranto una legge della sua città e che
non ci trovavamo in quella stanza per nostra spontanea volontà. Non c'era
alcun bisogno da parte sua di ricordarci chi comandava. E lo sapeva.
«La risposta alla sua domanda è molto interessante, signor sindaco»
Christopher fece una pausa. «Vuole la versione integrale o quella conden-
sata?»
«Signore» intervenni io, prima che LeMieux replicasse. «Signor sinda-
co, ci scusiamo per essere entrati nella città di Atlantide in modo illegale.
Stavamo cercando di tornare in superficie, da... dalla città di Nettuno, ma
abbiamo avuto qualche problema.»
Il sindaco fece un lieve sorriso.
«Ci sono sempre dei problemi quando c'è di mezzo Nettuno. Ma da dove
venivate, prima? Qualcosa mi dice che non siete originari di queste parti.
E... potete chiamarmi Monsieur LeMieux.»
«Okay, Monsieur LeMieux» dissi. «Noi veniamo dal Vecchio Mondo. O
dal mondo reale, qualche volta lo chiamiamo così. In tempi più recenti, pe-
rò, abbiamo aiutato Zeus e Atena a difendere l'Olimpo dagli eserciti di Ka
Anor.»
Queste informazioni sembrarono cogliere di sorpresa l'anziano signore.
Per un minuto pensai di aver rovinato tutto, un'altra volta. Logico, questo
tizio era probabilmente socio dei Romani, nemico giurato degli dei greci e
di tutto il popolo greco. Ma poi il sindaco di Atlantide scosse il nostro
mondo dalle fondamenta.
«In questo caso sono veramente lieto di fare la vostra conoscenza» ci
disse. «Perché anch'io vengo da quello che voi chiamate il mondo reale.»

CAPITOLO XXI

LeMieux ci raccontò la sua storia. Io pendevo letteralmente dalle sue


labbra. Senna invece non sembrava minimamente interessata, ma a me non
la dava a bere.
«Eravamo all'inizio degli Anni Sessanta, forse il 1962, forse il 1963, ora
non ricordo esattamente. Al tempo ero... come si dice...» l'anziano signore
si strinse un poco nelle spalle «... ero implicato in attività che il mio go-
verno o quello degli Stati Uniti non avrebbe mai ammesso pubblicamen-
te.»
«Era una spia!» esclamò Jalil, che come al solito aveva il cervello che
girava a mille. «Per chi? Doveva essere per i russi, allora. La guerra fred-
da.»
«Sì, sì, per i russi. Al tempo avevo un'attività di contrabbando piuttosto
modesta e nemmeno molto remunerativa nei mari del Sud. Certe sostanze
illegali e qualche volta, di rado, anche delle armi. Comunque, non mi ci
volle molto tempo per capire che la mia attività non prosperava e che forse
correva il rischio di essere assorbita da uomini più potenti di me, da gruppi
organizzati, con più soldi, imbarcazioni migliori, contatti più importanti.»
«E così decise di tradire il suo paese?» chiesi.
April mi lanciò un'occhiataccia.
LeMieux non si offese.
«Che cosa faceva il mio paese per me, in quel momento? Niente.» Mi
sorrise con un'espressione che mi ricordò uno degli amici di mio padre del-
la Marina Militare, un signore che, quando mi capitava di stare con lui, mi
faceva sempre sentire esageratamente giovane e ignorante, senza però far-
melo mai pesare. Come se pensasse che non fosse un crimine essere gio-
vani. Come se pensasse che tra non molto sarei diventato anch'io vecchio e
saggio. «E poi, il LeMieux che voi oggi vedete non è nemmeno l'un per
cento rispetto al LeMieux degli anni passati. Molte cose sono accadute da
allora. Molto è cambiato.»
«Allora? Che cosa è capitato?» incalzò Christopher. «Come ci è arrivato
in questo mondo di svitati? Non sono disposto a credere che lei ci sia ve-
nuto di sua spontanea volontà.»
LeMieux scosse la testa.
«No, no, non di mia spontanea volontà. Uno dei miei primi incarichi per
i russi fu quello di osservare varie attività preparatorie e raccogliere infor-
mazioni a proposito di un esperimento nucleare in superficie. Messo a pun-
to e programmato dagli americani.»
L'anziano signore fece una pausa.
«Le risulta difficile parlare di quello che è successo?» gli chiese April,
piena di comprensione.
Vidi Senna alzare gli occhi al cielo.
«Non più» rispose LeMieux. Gli credetti. «Sto solo cercando di ricorda-
re. Sembra successo così tanto tempo fa, sembra far parte di un mondo
molto lontano. È come se fosse successo a un altro LeMieux, non all'uomo
che avete davanti a voi. Ecco quello che riesco a ricordare. Una certa notte
il mare era in burrasca. Mi vantavo di essere un marinaio bravo ed esperto,
ma gli incidenti di percorso capitano a tutti, giusto? E qualche volta, uno è
semplicemente vittima delle circostanze.»
Non parlava a me in modo diretto, ma annuii. Sì, gli incidenti di percor-
so capitavano a tutti. Sì, si poteva essere vittime delle circostanze.
«Forse sbagliai io, forse no, forse fu tutta colpa del maltempo. Forse il
Signore aveva altri piani per me, non mi voleva piccolo contrabbandiere o
spia. Comunque sia, la mia barca si rovesciò. Adesso ricordo vagamente di
essere rimasto intrappolato sotto lo scafo. Gelavo, di sicuro stavo per mori-
re, la corrente mi trasportava lentamente ma inesorabilmente vicino al luo-
go dell'esplosione. E poi...» LeMieux sollevò entrambe le mani e poi le al-
largò formando due archi. «Un'esplosione di luce diversa da qualsiasi cosa
potessi immaginare. Pensai di essere morto, davanti alle porte del paradiso.
Ma non ero morto.» Di nuovo, LeMieux fece una pausa e scosse la testa.
«Quello che accadde poi» riprese con lentezza «fu straordinario. Fu come
se... come se il mondo si fosse rovesciato come un calzino. La superficie,
quello che di solito vediamo, si squarciò, si rovesciò e mostrò l'oscuro lato
inferiore. Un attimo prima ero sotto lo scafo, ma adesso, non so come, ero
libero, galleggiavo nell'acqua, o sull'acqua, non saprei dire. E fu così che
vidi il cielo lacerarsi, le nuvole turbinare e ribollire. E il mio corpo...» Le-
Mieux aggrottò la fronte. «Anche il mio corpo era tutto sbagliato. Mi
guardai le mani e vidi non la pelle, ma le ossa, i muscoli, le vene. Fu orri-
bile e non riuscii più a tornare a guardare.»
Questo lo sapevamo bene anche noi. Io, Christopher, April e Jalil lo sa-
pevamo bene. Ricordavamo tutti quella grigia mattina al lago. Le parole
del sindaco ci fecero rivivere la scena, ce la riportarono brutalmente alla
memoria, l'universo che si squarciava, si stravolgeva, si rovesciava, il cielo
che ribolliva, il lupo mostruoso che si levava dalle acque.
Christopher era già pronto a intervenire. Scossi la testa. Non so bene
perché, ma qualcosa mi diceva che era meglio non far sapere al vecchio
che avevamo vissuto anche noi la sua stessa esperienza di passaggio. Per
lui, a quanto pareva, il passaggio era stato accidentale. Per noi invece no, e
di questo credo che fossimo tutti convinti.
Proprio in quel momento mi venne in mente che in realtà non sapevo se
Senna fosse al corrente di che cosa esattamente ci fosse successo. Non sa-
pevo nemmeno come era stato per lei, il passaggio. Non mi era mai venuto
in mente di chiederglielo.
Adesso la guardai. La sua faccia era ancora accuratamente priva di e-
spressione. Per una frazione di secondo desiderai che mi guardasse e mi
sorridesse. Ma sapevo che questo non avrebbe cambiato niente.
LeMieux proseguì.
«Quando rinvenni, perché, a quanto pare, a un certo punto persi cono-
scenza, la mia barca era raddrizzata. Mi arrampicai a bordo rapidamente,
ma quasi subito mi trovai circondato da quelle che riconobbi essere navi a
vela dell'antichità.»
«Chi erano?» chiese April.
«Marinai di superficie di Atlantide» spiegò LeMieux. «Mi portarono
giù, ad Atlantide, in una campana da palombaro che scende lungo una
grossa fune saldata a una piattaforma galleggiante.» LeMieux si rivolse a
me. «Tutto questo è accaduto una quarantina di anni fa, ma la campana da
palombaro è tuttora in uso.»
«È stato fatto prigioniero?» gli chiese Jalil.
LeMieux sembrò riflettere sulla domanda prima di rispondere.
«No, non proprio» spiegò. «La società di Atlantide era troppo frammen-
tata per qualcosa di così civile come un sistema giudiziario e penale fun-
zionante. Dovete pensare che a quel tempo la bella città di Atlantide era in
condizioni terribili e pietose, era sull'orlo della guerra civile. I cittadini e-
rano divisi in due fazioni principali, anche se esistevano altri gruppi scis-
sionisti, fanatici perlopiù, che esercitavano una certa influenza sul pensiero
della popolazione. Una delle fazioni dominanti si dichiarava fedele a Net-
tuno, dio romano. L'altra, al nemico numero uno di Nettuno, il greco Po-
seidone. In pratica, gli abitanti di questa città indipendente chiedevano di
essere governati dall'una o dall'altra di queste divinità dispotiche. E questo,
per me, non aveva alcun senso: non capivo perché volessero perdere la lo-
ro autonomia.»
Annuii. Anche per me non aveva senso e nemmeno per gli altri, ne sono
sicuro. Tranne forse per Senna. Lei probabilmente avrebbe accolto a brac-
cia aperte un gruppo di schiavi volontari.
«Poseidone pretendeva dei tributi spropositati» continuò LeMieux.
«Nettuno minacciava di distruggere la città se i tributi non fossero stati
versati a lui. E i cittadini di Atlantide si scannavano tra loro per il privile-
gio di essere schiavi di un dio e vittime dell'altro. Nessuno aveva tempo di
occuparsi di un marinaio del vecchio mondo naufragato. E così...» Le-
Mieux sorrise. Un sorriso saggio, compiaciuto. «E così decisi di cogliere
l'opportunità che mi si presentava. Decisi di porre fine alle lotte intestine.
Decisi di darmi una nuova immagine, di presentarmi come leader demo-
cratico, molto più democratico dei due già in lizza. Decisi di dimostrare al-
la gente della mia nuova città che ero io l'uomo che volevano a capo di At-
lantide. Non Nettuno, non Poseidone, non qualche altro dio dispotico, ma
un uomo politico vero, qualcosa che i cittadini di Atlantide non avevano
mai conosciuto né incontrato. Qualcuno dal quale non avrebbero dovuto
difendersi.»
Christopher si protese in avanti.
«E come c'è riuscito?»
«I dettagli sono noiosi» rispose LeMieux, con falsa umiltà. «Basti dire
che, affermandomi prima come buon cittadino e indefesso lavoratore e poi
mettendo in pratica i classici espedienti dei politici di ogni tempo, la cor-
ruzione, le lusinghe...»
«... l'informazione negativa contro gli avversari politici, i baci in fronte
ai bambini, le campagne diffamatorie, le accuse infondate, l'arte dello
scambio di favori, le menzogne...» aggiunse Jalil.
LeMieux chinò il capo.
«Come preferisci. Ma col tempo sono diventato l'uomo più rispettato
della città, godo della fiducia di tutte le fazioni e ho avuto l'incarico in se-
guito a regolari elezioni, su suggerimento di uno dei miei più fedeli soste-
nitori, di guidare un governo centrale capace di tenere a bada i prepotenti
immortali.»
«È quello che abbiamo visto ovunque, qui a Everworld» osservai. «Vio-
lenza e follia in abbondanza, ma pochissimo scetticismo e praticamente ze-
ro cinismo. Nessuno ha mai messo in dubbio le motivazioni per cui lei ha
assunto il potere, giusto?»
LeMieux ammise che era così.
«La mia ascesa al potere non ha avuto contestazioni. Non dai cittadini di
Atlantide, quantomeno. Nettuno e Poseidone inizialmente erano sorpresi e
confusi dalle mie tattiche, dalla mia audacia. Tuttavia, la stessa innocenza,
se così si può chiamare, esiste negli dei come nei mortali, e nel giro di po-
co tempo riuscii a definire un trattato con Poseidone, mettendo nel frat-
tempo Nettuno contro il dio greco in modo da mantenere le sue pretese en-
tro limiti ragionevoli. Con i due immortali impegnati principalmente a fre-
nare e controbilanciare i rispettivi poteri, io fui libero di stabilire, per la
prima volta nella storia di Atlantide, una sana economia basata sulla rac-
colta di pesci e crostacei, e persino di una certa quantità di oro, da vendere
agli abitanti della superficie. Ed è così che ci trovate oggi: una società eco-
nomicamente forte e ben ordinata.»
«Cosa succederà...» April si interruppe, arrossì. «Voglio dire, ha un fi-
glio o una figlia? Un successore?»
LeMieux ridacchiò.
«La morte non è qualcosa che si possa evitare, né qualcosa da non dover
nominare in una cortese conversazione» disse. «Non è un argomento tabù.
La mia morte è una realtà che riconosco ogni singolo giorno. E» aggiunse,
guardandoci tutti in faccia, uno per uno «mi preoccupa davvero il pensiero
di quello che accadrà alla mia Atlantide, quando me ne sarò andato. Ho
cercato, negli anni, di istruire un paio di uomini originari di Atlantide, di
Everworld, ma qualsiasi dote potessero avere veniva sempre e comunque
eclissata dalla loro profonda e apparentemente immutabile ingenuità.»
LeMieux sospirò. «Nel frattempo è un bene che gli dei combattano tra lo-
ro, che Nettuno sia in guerra con il suo rivale Poseidone, perché in questo
modo la loro attenzione è concentrata sull'avversario e non su Atlantide. E
io posso ancora sperare di trovare tra i membri del consiglio un valido suc-
cessore al mio ruolo di sindaco di Atlantide.»

CAPITOLO XXII

«Monsieur LeMieux, sa se altre persone del mondo reale, del Vecchio


Mondo, sono arrivate qui a Everworld?» chiese April.
L'anziano signore scosse la testa.
«Non lo so» ammise. «Forse. Ma non ho più molto interesse a cercarle.
Mi sono rifatto una vita qui ad Atlantide.»
«Le piacerebbe sapere qualcosa del nostro mondo, di com'è adesso?» gli
chiese ancora April. «Voglio dire, io non sono certo uno storico, né un pro-
fessore, né altro, ma potrei raccontarle un po' di cose.»
L'uomo sorrise. Era un sorriso gentile, anche un po' compassionevole.
«No» rispose, posando la mano su quella di April. «Non desidero sapere
niente. È passato troppo tempo. Ma ti ringrazio, gentile fanciulla, per la tua
offerta.»
«Be'... e il contrario?» Christopher incalzò. «Cioè, lei ha mai provato a
tornare nel mondo reale? Alla sua vecchia vita?»
«Sì, tanto tempo fa ci provai, pensavo che da qualche parte ci potesse es-
sere una strada, una strada vera, concreta, che in qualche modo mi portasse
in superficie e da lì...» LeMieux scrollò le spalle. «Non c'era.»
«Lei dice di non voler sapere quello che è successo nel mondo dal 1963»
disse Jalil con voce dura. «Questo significa che lei non è mai tornato indie-
tro. Che lei non passa dall'altra parte quando dorme. Che lei non è presente
in alcun modo nel mondo reale. Semplicemente, lei là non c'è più. O maga-
ri è ancora là, e contemporaneamente è anche qua.»
«No.» LeMieux sembrava sorpreso. Interessato. «No, non sono mai tor-
nato. Ho sempre pensato di essere morto in quel mondo, una persona
scomparsa. Ma naturalmente non posso saperlo per certo. Perché mi chiedi
questo?»
«Noi passiamo dall'altra parte» spiegai. «Quando qui dormiamo, è come
se ci svegliassimo di là. Cioè, mentre qui siamo svegli, di là continuiamo a
vivere la nostra vita normale, mangiamo, andiamo a scuola, dormiamo, la-
voriamo. Siamo sdoppiati, o forse siamo una cosa sola divisa in due parti,
o qualcosa del genere. Ma quando qui ci addormentiamo, i noi stessi che
stanno nel mondo reale hanno questi improvvisi "aggiornamenti". Le due
parti tornano a unirsi. E di colpo sappiamo o ricordiamo, e il cervello o la
memoria di colpo ci dicono che cos'è successo nel frattempo qui. Che cosa
ci è successo, a Everworld.»
«Deve essere inquietante» commentò il vecchio. «Sono contento di non
vivere un'esperienza come questa. Se ci fosse un altro... un altro LeMieux
di là, dall'altra parte, non credo che vorrei sapere che cosa gli succede.»
«Sì, in effetti un po' schizofrenici lo siamo...» esclamò Christopher con
una risata.
Di colpo mi tornò in mente Brigid. Brigid, la Celtica che mutava forma,
non più dea ma non del tutto umana, la donna che avevo già incontrato due
volte nel mondo reale. Un dio non aveva necessariamente bisogno di un
"passaggio" fisico per spostarsi da un mondo all'altro. Questo l'avevo capi-
to. Brigid era un'abitante di Everworld che era passata nel mondo reale?
Era un dio che aveva preso la residenza, se così si può dire, a Everworld
per poi andarsene, riattraversare la barriera e tornare nel mondo reale... per
sempre? Era questo che intendeva quando diceva di essere intrappolata tra
i due mondi? Era mai venuta a Everworld? Diceva che aveva preso una
decisione. Aveva rifiutato di abbandonare il Vecchio Mondo? E perché?
«Monsieur LeMieux» indagai. «Lei ha cercato di andarsene da Ever-
world e ha fallito. Ma sa se qualcuno sia mai riuscito a fuggire? Se qualcu-
no si sia spostato magari più di una volta tra i due mondi?»
«Se conosco qualcuno che sia riuscito in una simile impresa?» ripeté lui.
«No. Ma naturalmente ci sono delle voci, delle chiacchiere. Si dice che di
tanto in tanto, quando, nessuno lo sa, nasca una persona dai poteri speciali.
Una persona che è un passaggio, una "porta". Attraverso questa persona
speciale uno può passare di qua e di là, da un mondo all'altro...» e di nuovo
l'anziano signore si strinse nelle spalle.
"Non guardare Senna, David" mi dissi "non tradirla". E in silenzio sperai
che neanche gli altri tradissero Senna, che nessuno di loro dicesse: "Bene,
Monsieur LeMieux, questo è il suo giorno fortunato. Abbiamo il piacere di
presentarle... Senna Wales".
Nessuno fiatò. Il sindaco proseguì.
«Tuttavia, quest'occasione, questa persona è molto rara. In mancanza
della sua presenza, si dice che l'unico modo possibile per compiere con
successo questo viaggio sia riscrivere il Grande Rotolo degli Dei.»
«Il cosa?» chiese Christopher.
«Il Grande Rotolo degli Dei. Di nuovo, sono soltanto voci. Si dice che
questo documento sia il progetto elaborato molto tempo fa dagli dei padri,
dai fondatori. In esso questi dei avrebbero disegnato la mappa di Ever-
world, ne avrebbero definito nei dettagli la sostanza e ne avrebbero fissato
le leggi.»
«Il software!» esclamò Jalil, eccitato. «Lo sapevo. L'ho sempre saputo.»
Lanciai un'occhiata a Senna. La sua faccia era tesa per la curiosità: non
riusciva più a nascondere l'interesse. E io ripensai nuovamente a Brigid. E
al succo di tutto il suo bel discorso: "Chiudi la 'porta', David. Uccidila, se
devi. I neri sono vicini".
«Dov'è?» chiesi con ansia. «Dov'è questo rotolo? Chi ce l'ha?»
«Nessuno lo sa» ammise LeMieux. «O meglio, se esiste qualcuno che sa
dove si trova il rotolo, la sua identità è segreta. Capite, il Grande Rotolo
venne nascosto a tutti, anche ai suoi creatori, in modo che nessuno potesse
cercare di distruggerlo o di impossessarsene. O di manipolarlo ai propri fi-
ni egoistici. Capite anche voi, naturalmente, che chiunque entrasse in pos-
sesso del Grande Rotolo potrebbe alterarlo in modo da cambiarne l'essenza
stessa, potrebbe riscriverlo a suo piacimento. Potrebbe addirittura riscrive-
re l'esistenza stessa di Everworld. Ecco perché è così importante che que-
sto documento resti ben nascosto e ben protetto.»
Christopher si passò una mano tra i capelli.
«Accidenti! Questa potrebbe veramente essere la notizia più bella che ho
avuto da stamattina. Da stamattina? Ma che dico? Da quando sono appro-
dato in questa gabbia di matti!»
«La notizia più bella nell'ipotesi che riusciamo a trovare questo Grande
Rotolo» precisò April.
Poi si zittì, non appena vide LeMieux accigliarsi, preoccupato.
«Non siamo qui per cercare il rotolo» lo rassicurai subito. «Quello che
vogliamo è tornare sull'Olimpo.»
"E quello che voglio io" pensai "è sperare che gli altri non abbiano pen-
sato quello che ho pensato io". E cioè che il posto migliore per nascondere
un documento così pericoloso, così potenzialmente fatale per il destino di
quel mondo, così potente da scuotere dalle fondamenta l'universo intero,
era fuori dai confini di quel mondo stesso, di quell'universo. Era nel mon-
do reale.
Ce l'aveva Brigid?
Guardai Jalil cercando di non farmi notare. Era lui quello da tenere più
d'occhio. Era lui il pensatore, il più calcolatore, probabilmente mio amico,
è vero, ma nemico di Senna, seppure non apertamente.
A lui avevo accennato di Brigid. Una volta. Non gli avevo detto tutto e
non gli avevo detto niente del mio secondo incontro con lei. Ma quanto
tempo sarebbe occorso a Jalil per arrivare a capire dove si nascondeva il
rotolo, per mobilitare gli altri e trovarlo? Forse Brigid l'avrebbe aiutato, l'a-
vrebbe usato per uccidere Senna, per distruggere Everworld... e io, dove
sarei stato allora? Chi sarei stato?
Incrociai lo sguardo di Jalil. Non avrei voluto. I suoi occhi erano soc-
chiusi, due fessure da serpente. Sapevano.
Il collaboratore del sindaco, quello che lo aveva accompagnato nella
stanza, si avvicinò con un fascio di fogli e gli chiese un momento della sua
attenzione. LeMieux si allontanò per parlare con lui.
«Sai che significa?» Senna mi afferrò un braccio, lo strinse, gli occhi
brillanti di eccitazione.
«Che cosa?» Lo sapevo già, ero piuttosto sicuro di conoscere la sua ri-
sposta, ma lo chiesi comunque.
«Il rotolo! È quello che mi serve. Mi darebbe un potere assoluto, com-
pleto, totale su questo posto, su Everworld.»
Scoprì i denti come un animale feroce.
«Oh be'... questa sì che è una sorpresa, sentire queste parole dalla bocca
di Senna! Dovresti mirare più in alto, nella vita, Senna. Un dittatore... tutto
qui quello che vuoi diventare? Ma tu hai delle potenzialità molto più gran-
di!» graffiò Christopher.
«Io sto pensando a tutt'altra cosa» disse ora Jalil, pacato. «Sto pensando
che quel rotolo potrebbe essere usato per una buona causa. Niente a che
vedere con l'esclusiva sete di dominio di Senna. Ehi, un software di magia
non è un problema. Posso capire come funziona. Un software è pur sempre
un software.»
«Okay, sentite, nessuno di noi andrà a caccia del rotolo» intervenni.
«L'obiettivo qui, in questo preciso momento, è tornare sull'Olimpo e aiuta-
re Zeus e il suo pietoso esercito di uomini a respingere gli Hetwan.»
«Possibile che questo pezzo di carta non ti interessi per niente, potente
Davideus?» mi chiese Christopher, sgranando gli occhi.
«Certo che mi interessa.» Se solo avesse saputo quanto mi interessava!
Avrei potuto salvare Everworld. Avrei potuto salvare Senna. Saremmo po-
tuti tornare a casa. Era possibile. Ci era stato confermato. «Dico solo che
prima si fanno le cose più urgenti, poi tutto il resto. Quindi, adesso si torna
da Atena.»
«La tua protettrice!» esclamò Senna, beffarda.
Feci come se non me ne importasse nulla.
«Zitti. Arriva LeMieux.»
Il vecchio sindaco aveva finito con gli affari che aveva dovuto sbrigare
ed era tornato da noi.
«Signor sindaco, Monsieur LeMieux» iniziai «lei può aiutarci a fuggire
da Atlantide? Evitare Nettuno e Poseidone e tornare all'Olimpo?»
Il sindaco esitò. Forse il nostro entusiasmo a proposito del Grande Roto-
lo lo aveva insospettito sulle nostre reali intenzioni. Era probabile.
«Se riusciremo a salvare l'Olimpo» aggiunsi «chiederemo al grande
Zeus di intervenire per proteggere la sua città, Atlantide, in futuro.»
LeMieux fece un sorriso ironico.
«Il potente Zeus vi darà ascolto? Da quel che si dice, non è molto più...
diciamo così... ragionevole di suo fratello.»
«Ci darà ascolto Atena» affermai.
Passò un momento prima che il sindaco rispondesse.
«Io vi aiuterò, miei nuovi amici, ma non posso garantire per la vostra
salvezza. Gli dei, Nettuno e Poseidone, sono più adirati che mai. La loro
potenza è grande. Hanno ai loro ordini molte creature e hanno altri poteri
di distruzione meno evidenti ma altrettanto pericolosi. Ma venite con me.
Prima ceneremo insieme, poi vi manderò per la vostra strada.»
«Allora? Che cosa ci aspetta? Una cena a base di caviale e champagne?
Ostriche? Aragoste? Un po' di champagne come aperitivo, un vinello bian-
co e secco per accompagnare le portate?»
LeMieux guardò Christopher divertito.
«Siamo soliti nutrirci di cibi più semplici, temo. Ma la qualità del pesce
qui è eccellente. Non c'è paragone con qualsiasi cosa possiate trovare nei
mercati del pesce del Vecchio Mondo.»
Christopher fece una smorfia.
«Lo sapevo. Sushi.»

CAPITOLO XXIII

Era il primo pasto decente che facevamo dalla discesa del Nilo, quando
la gente che viveva sulle sue sponde ci aveva offerto del cibo in segno di
riconoscenza. Dopo cena LeMieux ci accompagnò fuori dalla sede del
consiglio e ci guidò per le strade di Atlantide fino alla campana da palom-
baro che portava in superficie.
Per strada, mentre April e gli altri chiacchieravano con il sindaco e Sen-
na camminava in silenzio accanto a me, i miei pensieri presero a vagare.
Tornarono allo strano momento di silenzio che era seguito all'accenno di
LeMieux al problema di trovare un adeguato sostituto. Tornarono agli oc-
chi degli altri, che si erano puntati tutti su di me. Aspettativa? Sospetto?
Un giorno LeMieux non sarebbe più stato capace di governare. Lui lo
sapeva bene, riconosceva che un giorno, e presto, si sarebbe ammalato, sa-
rebbe morto. Atlantide avrebbe avuto bisogno di un nuovo sindaco, un
uomo saggio e coraggioso, un saggio guerriero. Potevo essere io quell'uo-
mo?
Avrei potuto essere io. Oppure no.
"Cercherò di dimostrarmi degno della tua spada."
Questo avevo detto, questo avevo promesso a sir Galahad, il perfetto ca-
valiere, sepolto sotto un cumulo di pietre da noi accatastate sui suoi poveri
resti ridotti in cenere.
Comunque nell'immediato, a quanto sembrava, il compito che mi atten-
deva consisteva nell'imparare a manovrare una campana da palombaro
vecchia e sgangherata. Se c'era qualcosa da manovrare, se non avessimo
dovuto più semplicemente restare seduti nella campana ad aspettare la
morte.
Non appena la vide, Christopher scoppiò a ridere.
«Okay, io dico che non ci sto.»
April si schiarì la gola.
«Be'... in fondo... a suo modo è... carina» commentò.
Okay, la campana da palombaro era bella, secondo un gusto molto, mol-
to antiquato. Era di metallo luccicante, che mi augurai fosse acciaio, ed era
decorata ovunque con motivi e ricami d'oro. Ogni bullone che saldava tra
loro le lamine di metallo era incastonato di madreperla. Ma...
«È così piccola...» mormorò Jalil. «Sembra un gabinetto da campeggio.
Sembra un miniascensore, ma...» Sbirciò dentro da uno dei piccoli oblò.
«... ma non ha comandi. È un montavivande. E probabilmente fa acqua.
Non capisco...»
Mi rivolsi a LeMieux.
«Non per non essere riconoscenti» gli dissi «ma lei è sicuro che questa...
mmm... questa cosa ci porti in superficie? Sembra... come dire... un po'
vecchiotta.»
LeMieux scrollò le spalle.
«Ci sono dei rischi, come vi dicevo. Ma non ho altro modo di aiutarvi a
risalire alla luce del sole.»
Guardai gli altri, a uno a uno. Vidi la rassegnazione sulle loro facce, per-
sino su quella di Senna.
«Allora, andiamo.»
Ci accomiatammo dal sindaco di Atlantide. Rinnovammo la promessa di
cercare di ottenere l'aiuto di Zeus per proteggere la città sottomarina. Con-
dizione inespressa: se fossimo sopravvissuti.
Ci pigiammo nella campana da palombaro. Un soldato di Atlantide ri-
chiuse la porta dietro di noi. Lentamente, molto lentamente la campana
cominciò a risalire lungo la grossa fune ritorta che da Atlantide si proten-
deva fino alla superficie del mare.
Salimmo. April osservava la bella città sottomarina scomparire sotto di
noi, Jalil teneva le labbra serrate e Christopher, incredibilmente, cantic-
chiava a bocca chiusa. Senna se ne stava in silenzio.
Erano passati circa dieci minuti quando sentimmo il primo lieve scosso-
ne. La campana scartò di lato e noi rotolammo con lei, braccia tese per
ammortizzare la caduta, ginocchia sbattute contro il fondo, tutti e cinque
ammonticchiati in un unico groviglio, troppo sorpresi, troppo impreparati
anche solo per gridare.
Jalil piegò il collo verso uno degli oblò.
«Maledizione, è uno squalo!» gridò. «Sta mordendo la fune...»
«Affonderemo!» urlò Christopher.
«No, non affonderemo, verremo sparati in superficie.»
E poi... fu come essere su una di quelle giostre dei parchi di divertimen-
to, quelle che ti sparano su-su-su solo per farti poi precipitare altrettanto
velocemente giù-giù-giù. Ma noi non saremmo caduti giù, avremmo conti-
nuato invece a salire a razzo verso la superficie.
Mi puntellai alla parete della campana meglio che potei, cercando di
controllare il panico.
«La decompressione!» esclamai. «Ci verrà la paralisi dei palombari.»
Jalil scosse la testa, come se la folle corsa di questa stanza degli orrori
non fosse abbastanza per lui, come se fosse necessario mettere altra carne
al fuoco.
«No. Pensaci, David: se gli dei fondatori non hanno scritto nulla in pro-
posito nel Grande Rotolo, non può esistere niente di simile a Everworld.
Se vuoi la mia opinione, credo che non ne sapessero un bel niente della
pressione atmosferica e delle leggi della scienza.»
«Spero tanto che tu abbia ragione» piagnucolò Christopher. E vomitò.
«Scusate, gente, non potevo farne a meno.»
E in quel momento la corsa della campana si fermò bruscamente. Non
eravamo proprio fermi, adesso sembravamo rollare. Un fascio di luce entrò
dal vetro schizzato d'acqua di uno degli oblò. Si affievolì, poi tornò a bril-
lare. Eravamo arrivati in superficie. La campana da palombaro continuò a
ballonzolare come un tappo di sughero sulle onde, ma almeno la pazza
corsa era finita. Vedevamo il cielo per un secondo, poi l'acqua, poi di nuo-
vo il cielo. Forse era filato tutto liscio, forse ne eravamo usciti vivi. Il pro-
blema, adesso, era questo: come fare a manovrare questa cosa fino alla ter-
raferma? E il problema a monte: era possibile manovrarla?
«Oh, no!» esclamò April. «Ascoltate!»
Ascoltai. E dalle pareti della campana sentii il ruggito familiare della
voce furiosa di Nettuno. Vicino. Troppo vicino.
E poi... un'altra voce, più profonda, ma altrettanto furiosa. Nettuno e Po-
seidone. Una gara vocale. Uno scambio di insulti. Un gridare inarticolato.
«I ragazzi hanno ricominciato» disse debolmente Christopher, ancora un
po' verdognolo. «Se ci vedono, siamo spacciati.»
Jalil guardò fuori da un oblò.
«Scommetto che Nettuno ci ha già dimenticati» disse. «Il che però non
significa che non ci troviamo in una brutta posizione. E non significa
nemmeno che non stiamo per lasciarci la pelle.»
In quel momento scoppiò il finimondo. Due uragani, scatenati in un i-
stante dalle due contrapposte divinità del mare, con venti di burrasca e on-
de di sei metri. E la nostra campana non era che un moscerino in balia del-
la più impressionante esibizione di forza di due immortali con evidenti
problemi di salute mentale.
Eravamo in una lavatrice in centrifuga, sballottati senza pietà contro le
pareti della campana.
Eravamo tutti pesti, ammaccati, insanguinati. Strinsi a me la spada più
che potei, per evitare che anche altri, oltre a me, finissero infilzati. Jalil an-
dò a sbattere con la testa contro uno degli oblò e lasciò una macchia di
sangue. Senna aveva la faccia livida e una mano che le penzolava strana-
mente dal polso, forse rotta. April aveva il labbro superiore spaccato; se
l'era morso da sola. Christopher era ferito alla tempia sinistra e una riga di
sangue gli scendeva fin sulla guancia.
Non avremmo resistito ancora per molto, le ferite aumentavano, gli sto-
maci si svuotavano. E quando gli dei avessero smesso di infuriare, quando
il mare si fosse calmato... che cosa sarebbe successo? Avremmo continua-
to a galleggiare, dondolando pacificamente sulla superficie del mare, una
bella campana da palombaro di tempi passati, con cinque cadaveri a bor-
do? Cinque adolescenti morti per ferite interne, disidratazione, fame... a
voi la scelta.
E poi, come per magia, la furia del mare cessò. E con essa, anche gli
sballottamenti.
Tutti ci lamentavamo, April si raccomandava a Dio e pregava, Christo-
pher imprecava, Jalil borbottava, Senna si stringeva le braccia intorno al
corpo fragile e pesto, cercando di allontanarsi il più possibile da me.
Restammo così non so per quanto tempo. Poi la campana da palombaro,
la nostra graziosissima prigione, fu gettata a riva dalle onde.

CAPITOLO XXIV

Sgusciammo fuori tra spinte e capitomboli, ci trascinammo ciascuno


verso un quadrato di sabbia tutto per sé. Contenti di non essere a stretto
contatto con gli altri, contenti di starcene soli per qualche minuto, a vomi-
tare, ad appoggiare una guancia accaldata sulla sabbia fresca, a chiudere
gli occhi stanchi.
Dopo un momento mi misi a sedere. Mi guardai in giro. Questo non era
l'Egitto. E non era nemmeno nelle vicinanze del monte Olimpo dalla punta
mozzata.
Anche gli altri stavano mettendosi a sedere, Jalil cercava di alzarsi in
piedi, Senna era sdraiata sulla schiena, gli occhi aperti, le braccia allargate,
sin troppo simile a un'offerta sacrificale per un dio, come ci era apparsa tra
le fauci dei coccodrilli di Sobek.
Usai la spada per tirarmi su in piedi, mi ci appoggiai, grato del sostegno
che mi dava. Avremmo trovato un riparo, ci saremmo riposati per un po' e
poi...
«David!»
Mi girai di scatto. April! Era alla mia sinistra, ma arretrava lentamente
verso l'oceano, gli occhi dilatati, la faccia verso l'alto.
«Per tutti i...» Christopher arretrò goffamente a quattro zampe sollevan-
do schizzi di sabbia, poi saltò su in piedi, le spalle all'acqua.
Jalil afferrò Senna, la tirò rudemente in ginocchio e la trascinò via finché
lei non riuscì a rimettersi in piedi, inveendo.
Poi anche lei lo vide. Tutti lo vedemmo. Come avevamo fatto a non ve-
derlo prima! Eravamo conciati così male, quando eravamo sgusciati fuori
dalla campana da palombaro? O questo essere gigantesco era appena com-
parso, era appena giunto dalla parte opposta di questo luogo con un passo
solo?
Si poteva ben dire che era un gigante, ma non aveva niente in comune
con i pochi giganti che avevamo visto nell'arena di Nettuno. Questo mostro
eclissava tutti i giganti, eclissava Loki nelle sue collere "ad espansione",
faceva apparire il tonante Zeus nei suoi momenti peggiori innocuo e insi-
gnificante come le sorpresine delle uova di Pasqua.
Doveva essere almeno... non saprei dire... dieci, dodici metri di altezza.
La faccia, pur così lontana, era chiaramente orripilante, un po' perché pro-
prio brutta, un po' perché troppo sproporzionata per essere umana eppure
vagamente umanoide, come la faccia di qualcuno uscito da un terribile in-
cidente, rimessa insieme da un team di chirurghi sotto l'effetto dell'LSD.
Il naso era... il naso non c'era. C'erano due buchi cavernosi e ovali diret-
tamente sulla faccia. Dentro si vedeva l'osso, nel punto in cui l'ossatura del
cranio avrebbe dovuto congiungersi con la cartilagine, la pelle e qualsiasi
altra cosa formi un naso. Era come se gli fosse stato tranciato di netto e
gettato via. Evidentemente non c'erano chirurghi plastici a Everworld per
ricucirglielo.
La bocca era senza labbra e le gengive in parte erose scoprivano fino alla
radice i denti marci. E questi denti sembravano troppo grandi per quella
bocca, come denti da grizzly nella bocca di un neonato. Si aveva l'impres-
sione che il gigante, anche se avesse avuto le labbra, non sarebbe comun-
que riuscito a richiuderle sopra quei dentoni.
Un occhio era sprofondato sotto lo zigomo, come se l'orbita si fosse
sciolta e fosse scivolata giù portandoselo dietro. L'altro, rosso acceso dove
l'occhio umano era bianco, si trovava al suo posto, era dove avrebbe dovu-
to stare su una faccia umana, ma gli mancava la palpebra superiore. Come
faceva? Restava spalancato, fisso e sporgente, e dava l'impressione di esse-
re sul punto di cadere sulla testa di quelli che stavano sotto. Non riuscivo a
vedere se c'erano delle orecchie sotto la criniera di capelli unti e aggrovi-
gliati che gli crescevano anche su gran parte del collo.
Sulle spalle il gigante portava una mantellina di centinaia, forse migliaia
di pelli di animale rozzamente cucite insieme con punti così grossi che li
avremmo visti anche a un chilometro di distanza. Era a torso nudo, e non
era una vista gradevole, perché le mammelle del gigante erano pendute e
piene di pieghe e ricadevano sullo stomaco sporgente e un po' peloso.
Sui fianchi portava un altro enorme drappo di pelli cucite insieme. E di
questo mi rallegrai profondamente perché non avevo nessuna voglia di ve-
dere quello che poteva nascondersi là sotto.
Aveva piedi nudi, pelosi, a tre dita. Sembrava che le due dita più piccole
di ciascun piede fossero ricoperte da ferite aperte e purulente. Le mani non
si presentavano meglio. Quel tizio sembrava avere la lebbra. Il che avrebbe
potuto spiegare l'assenza del naso e delle labbra.
Ho già accennato al fatto che avrebbe potuto schiacciarmi tra due dita
prima che riuscissi a dire amen?
Nel tempo che mi servì per coglierne tutto l'orrore, il gigante rimase
immobile. Spostava lentamente gli occhi sbilenchi dall'uno all'altro di noi,
ma non si muoveva.
«Ehi, David» squittì Christopher. «Che si fa adesso?»
Sempre a me toccava! Okay, non potevamo tornare nella campana. An-
che se fossimo riusciti a entrarci tutti, ci saremmo messi in trappola da soli
e il gigante ci avrebbe ripescati dall'acqua come un palla da beach volley
in miniatura. Non potevamo tuffarci in acqua e scappare a nuoto. Con un
passo solo il gigante poteva avanzare di chilometri, poteva arrivare al lar-
go. In un modo o nell'altro saremmo finiti annegati e avevamo già provato
l'esperienza. Cercare di correre via, sparpagliarsi? Cinque insetti che
sgambettavano sul pavimento sarebbero stati troppi per lui, non sarebbe
riuscito a concentrarsi su uno soltanto. Supponendo che fosse un po' tonto.
Supponendo che volesse concentrarsi su di noi. Supponendo...
April strillò. Con una velocità incredibile per un essere così mastodonti-
co e deforme, il gigante allungò una mano disgustosa verso April.
Scattai brandendo la spada con entrambe le mani, tenendola alta sopra la
testa, urlai con tutto il fiato che avevo in gola e la calai sul pollice del gi-
gante con tutte le mie forze, con tutta la furia che avevo. La spada tagliò la
pelle, penetrò nell'osso, si incastrò. Ma la mano continuò a muoversi verso
April, mentre io segavo e tagliavo e lei, terrorizzata, arretrava verso le on-
de che lambivano la spiaggia. Ero vagamente consapevole del fatto che
stavo ancora gridando come un ossesso, che adesso anche Jalil e Christo-
pher gridavano e tempestavano il gigante con pietre e conchiglie, con l'u-
nico risultato di infastidire il nemico.
D'improvviso il gigante grugnì e si scrollò di dosso me e la mia spada,
minuscoli fastidi quali eravamo. Caddi sul sedere, vidi April scappare lun-
go la spiaggia, non vidi più Senna. Vidi Jalil arretrare un po', correre verso
di me per aiutarmi. Vidi Christopher che per qualche inesplicabile ragione
continuava a infastidire il gigante con grida e urla, a punzecchiargli il pie-
de con un bastone appuntito. Stava cercando di distrarlo in modo che io
potessi rialzarmi e tornare all'attacco? In modo che April potesse allonta-
narsi?
«Christopher!» gridai, di nuovo in piedi. «Togliti di torno!»
Sollevai la spada sopra la testa proprio nel momento in cui il gigante al-
lungò di nuovo la mano sanguinante, afferrò Christopher e, prima che po-
tessi muovere un passo, se lo cacciò in bocca.

FINE

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