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APPLEGATE
SPADA E MAGIA
EVERWORLD
MONDI SOMMERSI
(EverWorld 10: Understand The Unknown, 2000)
ACQUA, OVUNQUE...
Gli squali non erano grandi per gli standard di Everworld, ma erano si-
curamente grandi. Nessuno era inferiore ai sei metri di lunghezza. Sei lun-
ghi metri di squalo affamato. Con uno scatto repentino e fulmineo, uno de-
gli squali strappò un nano dal suo sedile e lo spezzò in due.
Le gambe, che ancora scalciavano, caddero fluttuando lentamente e la-
sciando dietro di sé una scia di sangue. La folla strillò. Quelli più vicini fu-
rono presi dal panico, ma i più lontani apprezzarono molto la scena. Nettu-
no scoppiò in una folle risata che riecheggiò in ogni angolo dell'arena.
Ed ecco che il dio e i suoi seguaci erano di nuovo dall'altra parte del mu-
ro d'acqua, di nuovo nei loro comodi sedili, pronti ad assistere allo spetta-
colo della carneficina.
«Non possono uscire di lì, vero?» piagnucolò Christopher.
«Grande Atena, salvaci!» gridò Nikos.
Lo squalo più vicino si avvicinò alla barriera che separava l'aria dall'ac-
qua. E continuò a nuotare. A mano a mano che il muso emergeva dalla no-
stra parte, si formava una bolla d'acqua che avvolgeva l'animale.
Nella sua bolla ondulata, lo squalo continuò a nuotare nell'aria. Adesso
aveva le fauci spalancate. File e file di denti fitti e acuminati.
Puntava su di noi...
CAPITOLO I
CAPITOLO II
Era un'imbarcazione più piccola della nostra, ma più veloce. Pareva che
avesse preso il vento, che fosse sospinta da una nuova brezza. Ma non ci
credevo. Non da quella direzione, non nella direzione esattamente opposta
alla nostra. No. La barca, in qualche modo, aveva un sistema di propulsio-
ne proprio. Non c'erano motori a Everworld, qui la tecnologia non ci stava
di casa. Quindi, chiunque fosse in quella barca, stava ordinando al vento di
soffiare apposta per lui.
Guardai Senna. Era all'erta. Teneva d'occhio la barca. Gli occhi grigi e-
rano rabbuiati dalla preoccupazione, erano del colore del mercurio.
«È lui» disse. «È Merlino.»
«Già, pare anche a me.»
Eravamo riusciti a sfuggire al vecchio, in Egitto. Era stata la madre di
Senna a convocarlo, ma nel caos della distruzione che ne era seguito lo a-
vevamo perso.
A mano a mano che la strana barca si avvicinava, riuscii a distinguere i
capelli e la barba del vecchio, lunghi, un tempo biondi e adesso ingrigiti;
immaginai gli intelligenti occhi azzurri incassati sotto la fronte solcata di
rughe. Ricordavo bene quello che gli avevo visto fare: riportare in vita a-
nimali morti, far sorgere un muro da un mucchio di macerie, comandare a
un drago di ubbidire alla sua volontà, immobilizzare feroci Amazzoni.
Questo mago voleva Senna, voleva tenerla lontana dalle grinfie di Loki.
L'avrebbe rinchiusa in una prigione, se avesse potuto, l'avrebbe uccisa, se
avesse dovuto.
Non sarebbe successo. Non avrei permesso che succedesse.
«Tutti svegli!» gridai. «Abbiamo un problema.»
Jalil, Christopher ed April si stiracchiarono e si risvegliarono chi con più
e chi con meno grazia.
Christopher si riparò gli occhi dal sole e osservò la barca.
«Quello è Merlino, gente!»
Chiamai Nikos. Il capitano era seduto all'ombra di una tenda, a bere vino
con quello che doveva essere il primo ufficiale, uno che ogni tanto si scol-
lava di lì per incitare a gran voce i vogatori. I due erano moderatamente
ubriachi, ma la vista di quella vela li fece rinsavire piuttosto rapidamente.
«Capitano, possiamo correre più veloci di lui?»
Sapevo che era una domanda ridicola. Come faceva il capitano a sapere
fin dove poteva spingersi la magia di Merlino?
Nikos capiva quanto me che quella barca non obbediva alle normali leg-
gi della vela.
«Saranno gli dei a dirlo» mi rispose con fatalismo scrollando le spalle.
«Bene, metti la quinta» ordinai. «E alza la vela. Forse possiamo avvici-
narci abbastanza da speronarlo.»
«Questa è la mia nave, amico» mi ricordò Nikos. «Sono io che decido. E
non desidero affatto contrariare gli dei. Quella imbarcazione è troppo pic-
cola per essere una nave pirata. Non potrà mai tentare un abbordaggio. Se-
condo me a quell'uomo interessa qualcos'altro.»
Dall'occhiataccia che mi diede capii subito che non aveva nessuna inten-
zione di rischiare la sua nave per noi. Gli dei erano tanto interessati a noi
da sospingere quella barca verso la nostra? Bene, nessun problema per lui.
Era già stato pagato e gli dei erano i benvenuti.
Non aveva senso minacciare. L'equipaggio era piccolo per una nave di
queste dimensioni, ma c'erano pur sempre una sessantina di uomini agli
ordini di Nikos.
«Ti preoccupi degli dei? Gli dei non c'entrano, qui. La vedi, quella?» Gli
indicai Senna. «È una strega. Alza le vele o lei trasformerà tutto il tuo cari-
co in tanto buon cibo per i vermi.»
Il capitano ci pensò su per un momento. C'è una grave penuria di scetti-
cismo a Everworld. Nikos non mise in dubbio nemmeno per un istante che
Senna fosse veramente una strega.
«Alzate la vela» ordinò. «Correremo più forte del vento, ma non potre-
mo sfuggire alla volontà degli dei.»
Tutto qui, il mio piano geniale. Alzare la vela e sperare che la nostra
brezza incostante ci portasse lontano dal vento intenzionale di Merlino.
I vogatori accelerarono il ritmo, la vela venne aperta e manovrammo per
prendere il vento da poppa. La nave rispose bene. La sentivo solcare le on-
de con forza, ma vedevo anche che non faceva la minima differenza. La
barca ci avrebbe raggiunto. E poi che cosa sarebbe successo? Era da solo,
Merlino? In questo caso, forse saremmo riusciti a impedirgli di salire a
bordo.
O forse no.
Non volevo chiedere agli altri se avevano qualche idea migliore ma, se
qualcuno di loro avesse avanzato una proposta intelligente, l'avrei di certo
attuata. Meglio il piano di Jalil o il piano di Christopher che nessun tipo di
piano. Ed era questo che avevo io: nessun tipo di piano.
Senna? No. Lei aveva dei poteri, ma era come un bravo giocatore di ba-
sket della squadra della scuola che si voglia cimentare contro un fuoriclas-
se come Shaquile O'Neal. Ne aveva ancora di strada da fare, prima di poter
sperare di avere la meglio su Merlino. Che cosa avremmo...
E in quel momento il mare esplose. Il tratto che separava le due imbar-
cazioni in rapido avvicinamento, esplose letteralmente, una colonna d'ac-
qua si gonfiò e salì verso il cielo. Qualcosa d'impossibile.
Sembrava qualche strano effetto speciale di un film hollywoodiano. Il
mare si stava aprendo, si stava alzando, formava una colonna vorticante di
acqua verdastra e ribollente. Era come...
«È come nei Dieci comandamenti!» urlò Christopher.
Esattamente. Come in quel vecchio film, quando gli Ebrei attraversano il
Mar Rosso. Ma adesso le acque stavano prendendo forma. Una figura e-
norme stava emergendo dal vortice verde. Era ondeggiante, ma si poteva
distinguere un vago profilo. Un uomo, un essere umano, o almeno una cre-
atura che vagamente ricordava una forma umana. Un dio. Sicuramente un
dio.
Trasparente, come una smisurata noce di gel per capelli gonfia sul pelo
dell'acqua, emersa dalle profondità marine, in continua trasformazione.
E dentro la creatura, parte della creatura stessa, dentro la pancia, dentro
la testa, c'erano quelli che sembravano delfini, squali, razze e altre creature
marine che non seppi riconoscere. Potevano anche essere fasci di alghe. O
magari balene. Quella creatura era sicuramente grande abbastanza.
L'equipaggio piangeva, pregava, gemeva, il nome di Poseidone su tutte
le labbra. April si fece il segno della croce. Jalil era a bocca aperta, in
qualche modo ancora oltraggiato dall'esistenza stessa della magia, dalla re-
altà di Everworld fatta di incantesimi, malie, leggi della fisica violate e ri-
pristinate e violate di nuovo. Christopher tremava, mormorando qualcosa a
proposito di Charlton Heston, del faraone, e di "Lascia andare il mio popo-
lo".
Senna, in piedi, da sola davanti all'essere mostruoso, un vento freddo che
le gonfiava i capelli. Calcolava. Si chiedeva se fosse opera di Merlino o se
avessero ragione i marinai, e fosse la manifestazione di una potenza molto
più grande.
E a quel punto, l'essere d'acqua parlò.
I timpani quasi mi scoppiavano e gli occhi mi si chiudevano per la po-
tenza del suono, i piedi slittavano sul legno e caddi in ginocchio sul ponte.
La voce parlò, gridò, ruggì come un sistema di amplificazione troppo po-
tente in una sala cinematografica troppo piccola. La voce sembrava venire
da tutta quella massa d'acqua animata di vita, non da un punto in particola-
re: non c'erano labbra che si aprivano, non c'era una lingua che si muove-
va.
«Chi osa comandare ai venti e alle acque del potente Nettuno? Chi osa
utilizzare la magia per sfidare la mia volontà?»
Mi ci volle un secondo per capire: Nettuno non ce l'aveva con noi, ce
l'aveva con Merlino!
Vidi il mago chinare umilmente il capo. Appariva nervoso più di quanto
immaginassi possibile.
«Quest'arroganza, questa sfacciataggine non passerà impunita» ruggì
Nettuno.
E un attimo dopo... era sparito.
Il turbine si scatenò contro di noi con una tale violenza da sembrare l'e-
splosione di una bomba. Venti di una forza terrificante, irresistibile. Il tur-
bine si abbatté sulla vela, ci piegò sul fianco. Scivolai, caddi, rotolai sul
ponte di colpo ripido come un picco di montagna. Andai a sbattere contro
il parapetto, mi feci male, mi restò un braccio tutto intorpidito.
Un muro d'acqua verde si schiantò sulla nave. Saremmo tornati in super-
ficie? La nave sarebbe rimasta a galla?
L'onda verde passò, portandosi via l'albero maestro, la vela, i remi, molti
dei vogatori e tutte le casse e le mercanzie che erano state accatastate sul
ponte. La nave iniziò a raddrizzarsi, ma lentamente, a fatica. Era sbattuta
dalle onde come un fuscello. Sputai acqua salmastra, mi trascinai a quattro
zampe fino al timone, dovevo manovrare: se la prossima ondata ci avesse
colpiti sul fianco, eravamo spacciati.
«Ai remi!» gridai. «Maledizione, tutti ai remi!»
L'unica speranza era tenere la nave in movimento, fendere le onde con la
prua.
Ma non c'era un vogatore disponibile. Quelli che non erano stati trasci-
nati in mare dalle onde erano disperati, erano nel panico più totale.
Vidi Jalil, fradicio e pesto, avvicinarsi barcollando a uno dei remi rima-
sti. Inutile, uno solo non serviva a niente, e adesso ecco la seconda ondata,
la madre di tutte le onde, piombare su di noi.
Il ponte si inclinò pericolosamente quando scivolammo nel cavo dell'on-
da. La massa d'acqua si erse sullo scafo privo dell'albero maestro in tutta la
sua altezza, torreggiante. Era una montagna. Non c'era speranza.
Come una martellata in testa mi staccò dal timone cui mi tenevo preca-
riamente aggrappato e mi trascinò via, scaraventandomi addosso al para-
petto. Ero mezzo affogato, stordito, tutto ammaccato.
Ma la quinquereme teneva. Era molto bassa sul pelo dell'acqua, le spon-
de emergevano appena, ma teneva.
L'equipaggio, o quello che ne restava, si teneva aggrappato ai parapetti o
al moncone dell'albero maestro. Anche i miei amici. Disperati.
Ed ecco un'altra onda in arrivo. Implacabile. Se fossimo rimasti ancora a
bordo, saremmo finiti sotto, risucchiati con la nave in fondo al mare.
«Via da prua!» urlai nella strana calma che regnava tra un'onda e l'altra.
«Prendete un remo, saltate! Via, via, via!»
Vidi April correre. Christopher zoppicare. Il ponte si inclinò pericolo-
samente. Avevamo la poppa rivolta verso l'onda. E adesso rotolavamo, ca-
devamo verso prua.
Christopher saltò. Dov'era Senna?
L'onda... Saltai anch'io.
CAPITOLO III
CAPITOLO IV
Era una città, una cittadina circondata da una specie di catena montuosa
di corallo, o qualcosa di molto simile al corallo: vette arrotondate e bian-
che, grotte naturali che creavano pozze di oscurità, zone ondulate in aran-
cio rosato. A costellare o a decorare la catena di corallo, probabilmente
lungo tutta la circonferenza (anche se dal mio punto di vista sempre più
basso non riuscivo a vedere la parte più lontana), c'erano ciuffi e virgulti di
alghe e altre piante acquatiche dalle forme più diverse, alcune basse e car-
nose, altre alte e filose, in tutta la gamma dei colori, dal verde pisello al blu
acido, dal giallo chiaro al bianco maculato di rosso.
E poi c'erano i pesci, pesci che piluccavano la vegetazione, pesci che en-
travano ed uscivano dalle grotte, pesci di tutte le specie. Lunghi e smilzi;
corti, grassi e larghi; vivacemente colorati, oppure uniformemente grigia-
stri...
Nella conca di corallo sorgevano diverse strutture architettoniche, edifici
e monumenti, alcuni fatti di corallo o di altro materiale simile, alcuni ri-
producenti nelle loro asimmetrie le formazioni coralline naturali, alcuni
straordinariamente simili a... sì, a edifici dell'antica Roma. Come le cose
che avevamo visto sull'Olimpo. Un enorme arco trionfale. Un'arena che
avrebbe potuto essere la versione Disney del Colosseo.
Come un flash mi tornò in mente un commento di Atena a proposito di
una lite in corso tra Poseidone e suo fratello Zeus e mi chiesi se questo si-
gnificasse che anche l'omologo romano di Poseidone, Nettuno, fosse in lot-
ta con Zeus, o magari anche con lo stesso Poseidone. Ma questo pensiero
svanì non appena cominciai a mettere a fuoco i singoli individui che cam-
minavano per le strade, i veicoli che sfrecciavano, cocchi tirati da gigante-
schi cavallucci marini e da delfini... Svanì non appena misi a fuoco la bolla
enorme che racchiudeva tutta la città, la bolla contro la quale mi sarei
schiantato tra meno di due minuti. Strano. La bolla racchiudeva aria, ma
anche acqua. La città aveva settori in cui l'atmosfera era normale e altri in-
vece con le strade gonfie d'acqua. La bolla conteneva in sé altre bolle.
Dovevo attutire l'impatto.
Mi concentrai e spostai il peso del corpo in avanti, a faccia in giù, e que-
sto non fu difficile, poi allargai le braccia e le gambe per distribuire il pe-
so, nella speranza di rallentare, di non arrivare proprio come un proiettile,
quanto piuttosto come qualcosa che potesse adagiarsi sulla superficie della
bolla, senza perforarla, evitando se possibile di distruggere la città e di far
arrabbiare il dio che qui risiedeva e regnava. In verità non pensai a che co-
sa avrei fatto poi, nel caso fossi riuscito a non precipitare nella città subac-
quea, nel caso fossi rimasto sopra la bolla.
Sempre più vicino. Non osavo girarmi a cercare gli altri. Speravo che mi
stessero guardando, che cercassero di imitarmi. O magari loro avevano a-
vuto un'idea migliore...
Tenni gli occhi sulla città, notai che stavo puntando dritto sull'arena. No-
tai che nell'arena c'era una specie di circuito, un ippodromo. Le tribune, le
folle acclamanti... e io stavo per caderci giusto in mezzo. Cercai di convin-
cermi che ero leggero come una piuma, senza peso, che per i corpi immersi
nell'acqua c'è la spinta idrostatica. Di che cosa mi preoccupavo? Sarei at-
terrato delicatamente sulla bolla che faceva da tetto alla città e poi...
E poi sentii la pellicola della bolla sulla pelle, sentii una sensazione che
non avevo mai provato prima. Divenni una cosa sola con quella pellicola.
Mi aderì agli arti e al busto, mi si modellò sulla faccia come la pellicola
trasparente che si usa in cucina, ma con dolcezza, con delicatezza, poi
sembrò scivolare dietro di me, abbandonare la mia pelle con una sensazio-
ne di lieve formicolio, carezzarmi la testa e la nuca e passare oltre. Ma la
superficie della bolla non si era mossa, non si era spostata affatto. Ero io
che mi muovevo, io che ancora cadevo, che fluttuavo dolcemente verso gli
abitanti di questo strano luogo.
Alzai la testa e vidi alle mie spalle la grande bolla, perfettamente integra.
E più vicino... allungai una mano e toccai un'altra pellicola. Ero in una bol-
la tutta mia, una bolla che mi proteggeva o che mi ingabbiava, un utero
oppure una prigione, non faceva molta differenza, ora. Ma che diavolo sta-
va succedendo?
Mi trovavo sopra una delle due estremità dell'arena, nei pressi di quello
che era decisamente un circuito più o meno ovale, non lontano da quello
che immaginai essere il traguardo, il punto dove la gara ippica si stava
concludendo proprio allora, in un boato di grida. Avevo l'assurda sensa-
zione di fluttuare sullo stadio di Chicago, con i tifosi troppo presi dal gioco
per accorgersi di me.
Toccai terra prima con i piedi, poi con le ginocchia e infine la piccola
bolla esplose, depositandomi sulla sabbia battuta.
Altri tonfi soffocati alle mie spalle. Mi girai. Christopher, poi il capitano
greco. Poi altri marinai, ma pochi, e poi Jalil, Senna, April: le bolle scop-
piavano ad una ad una e depositavano il loro carico a terra.
Merlino non c'era.
«Dove siamo?» chiese April, la prima di noi a riprendersi dallo stupore.
Le sue parole vennero inghiottite dal boato della folla. I cavalli della ga-
ra successiva si stavano avvicinando alla pista. Il boato gorgogliò in modo
strano: le tribune erano immerse nell'acqua. Sembrava venire dal fondo di
una piscina.
Ovviamente, in quel momento non eravamo la priorità assoluta per nes-
suno. Eravamo poco discosti dalla pista, un grumo di persone derelitte, del
tutto irrilevanti per i tifosi.
«Ben Hur» mormorò Christopher. «Ben Hur contro la Sirenetta, gente.»
«Siamo nel regno di Nettuno» disse il capitano. «Se almeno fosse Posei-
done...!»
«Che differenza fa?» borbottò Jalil che, bagnato com'era, sembrava an-
cora più ossuto.
«Entrambi sono terribili nella loro ira» rispose il capitano.
«Uno preferisce la pasta, all'altro piace la cucina messicana. Santo cielo,
ma guardate questo posto!» esclamò Christopher. Straparla, quando ha pa-
ura.
La mano mi andò subito all'elsa della spada e strinse l'acciaio forte e ras-
sicurante. Lo faccio sempre, quando ho paura.
C'era aria. Eravamo sulla terra asciutta. Anche la pista era una sacca d'a-
ria, ma le tribune erano dietro una parete d'acqua, una parete ricurva. Era
come guardare in un acquario. Come guardare da una bolla d'aria all'inter-
no di un acquario. Tutta quella massa d'acqua magicamente trattenuta al
suo posto dava l'impressione di potersi schiantare su di noi da un momento
all'altro. Avevo la sensazione di essere un insetto che sta per essere schiac-
ciato da un maglio.
«Non è la prima volta che ci capita di avere a che fare con gli dei» disse
April. «Che cosa potrà mai avere di peggio, questo Nettuno?»
«Non potete confrontare le gloriose divinità dei Greci con le loro pallide
imitazioni romane!» esclamò il capitano con veemenza.
I suoi uomini, che nel frattempo si erano avvicinati, adesso si allontana-
rono nervosamente. Nessuno smaniava di esprimere opinioni sgradevoli
nei confronti di Nettuno.
«I nostri dei, dal grande padre Zeus ai più umili messaggeri, sono aggra-
ziati modelli di delicata umanità, nulla a che vedere con gli dei vili e smi-
dollati del debosciato popolo romano.»
Aveva la voce un po' stridula. Mentre parlava si guardò dietro le spalle e
si accorse che di colpo non c'era più nessuno intorno a lui, nel raggio d'a-
zione di una saetta. Mi voltai verso Senna. Sembrava scossa come tutti
quanti noi, ma come al suo solito se ne stava un po' in disparte.
«Tu ne sai niente di Nettuno?» le chiesi con voce pacata.
Lei rise.
«Ecco quello che so: siamo a chilometri sotto la superficie del mare, alla
mercé di un dio romano. E in più, Merlino è riuscito a seguirci anche fuori
dall'Egitto. Mi piacerebbe pensare che è annegato, ma non ci conto gran-
ché. Noi, invece, potremmo finire annegati in modo molto improvviso,
molto "definitivo".»
«Potremmo, ma non lo siamo, anche se a rigor di logica dovremmo es-
serlo» osservò April, andando a ripescare l'unico flebile raggio di ottimi-
smo.
«Ah, sì? Be'... aspetta un poco. Il giorno è ancora giovane» ribatté Sen-
na.
Come a rimarcare la sua battuta, una dozzina di trombe squillarono con
grande strepito, annunciando l'inizio della gara.
CAPITOLO V
CAPITOLO VI
Un altro squalo nella sua bolla, un altro, un altro ancora. Sei in tutto.
Passarono attraverso la parete d'acqua e si diressero rapidamente verso di
noi.
«Dividiamoci! Sparpagliamoci!» gridai. «Forse riusciamo a farci inse-
guire, a stancarli, forse non ci prenderanno tutti. Via!»
Mi tuffai a sinistra, evitando per un soffio uno degli squali che mi si av-
ventava addosso come un siluro. Rotolai, sguainai la spada e la vibrai ver-
so l'alto mentre l'animale mi passava sopra la testa. Colpii solo acqua.
«Aaaaah!»
Mi girai appena in tempo per vedere uno dei marinai risucchiato in una
delle bolle. Fu tutto rapidissimo: i denti affilati e appuntiti che straziavano
le tenere carni dell'uomo e masticavano le interiora insanguinate, l'interno
della bolla che diventava opaco, una nube rossa di sangue e budella.
Poi, ecco un altro marinaio che gridava e si divincolava, un braccio e
una gamba nella bolla d'acqua, l'altra gamba e l'altro braccio fuori dalla
bolla, penzoloni, fatto a pezzi e ingerito, tra le gorgoglianti acclamazioni
della folla urlante.
Corsi, la spada sguainata. Troppo lento. Lo squalo stava facendo una
specie di giro della vittoria, trascinando con sé quello che adesso era un
cadavere. Acqua e sangue scorrevano lungo il corpo lasciando una scia
rossa sulla terra.
Un altro squalo assassino, un altro marinaio sgranocchiato come un bi-
scotto prima che potessi intervenire con la mia spada.
Ero uno sciocco a correre in giro come un matto, cercando di infilzare
degli animali che erano molto più veloci di me, in una lotta impari, uno
contro sei. Le scelte difficili della vita: dovevo proteggere i miei compa-
gni, prima.
Corsi verso April e Christopher, abbracciati insieme. Jalil non era molto
lontano, aveva il coltellino multiuso dalla minuscola lama Coo-Hatch stret-
to in pugno.
Ma in quel momento ebbi come un'illuminazione: gli squali non cerca-
vano noi, non cercavano me, Jalil, Christopher, April e Senna. Avevano
radunato i marinai che restavano e, a uno a uno, li prelevavano dal muc-
chio e li finivano.
"No, non tutti i marinai: uno è rimasto fuori, sembra passare inosservato,
se ne va per conto suo, non me la ricordavo, la sua faccia, sulla nave,
ma..."
Bene. Anche se gli squali non davano fastidio a noi cinque, non signifi-
cava che me ne sarei rimasto lì con le mani in mano. Partii alla carica, pun-
tai verso uno degli squali che giravano intorno ai marinai. Strinsi l'elsa con
entrambe le mani, mi avvicinai ancora, sollevai alta la spada di Galahad e
la calai con tutte le mie forze.
La spada tagliò l'acqua, tagliò le squame, la carne, la cartilagine. Tagliai
in due lo squalo proprio vicino alla coda. La spada aveva attraversato l'in-
volucro d'acqua, aveva tranciato in due lo squalo ed era uscita. E nella bol-
la che ancora si librava in aria, intatta, galleggiavano i due pezzi dello
squalo mentre l'acqua si colorava di rosso.
Ci fu un momento di relativo silenzio, mentre la folla senza dubbio ela-
borava il fatto nuovo: un essere umano condannato a morte da Nettuno a-
veva appena ucciso uno dei carnefici del dio.
Lanciai una rapida occhiata agli altri. Le loro facce mostravano paura e
soddisfazione, una traccia d'ira su quella di Senna. Male. Ma avevo dovuto
farlo... non avrei mai potuto starmene lì seduto ad aspettare mentre altre
persone venivano massacrate, aspettare il mio turno per morire, per l'ordi-
ne arbitrario di un altro dio psicopatico.
Nettuno levò una mano e gli attacchi cessarono. Gli squali giravano ner-
vosamente nei loro globi d'acqua.
«Chi sei, mortale?» chiese imperiosamente il dio. «Chi sei, per entrare
non invitato nel mio regno e poi con tanto ardire uccidere il mio squalo?
Una tale esibizione di audacia mi diverte. Parla!»
A muso duro, non c'era altro modo. Se avessi mostrato esitazione, Net-
tuno mi avrebbe ucciso, di questo ero più che certo.
Rimisi la spada nel fodero, appoggiai la mano sull'elsa. Tenni la schiena
dritta, gli occhi fissi sul dio romano e feci un passo avanti.
«Io sono il comandante delle armate greche che difendono l'Olimpo da-
gli eserciti degli Hetwan di Ka Anor» annunciai a voce alta, in tono arro-
gante. «La saggia Atena mi chiama generale Davideus e io ho giurato di
difendere e proteggere ciò che è suo.»
Avanzò anche Jalil e si fermò dietro di me, per aiutarmi a sostenere la
commedia. E per darmi allo stesso tempo motivo di tremare.
«Lo sai, vero, che questo è un dio romano?» mi sussurrò con un filo di
voce. «E che il suo omologo greco sembra avere una particolare "predile-
zione" per Atena?»
«Accidenti! Allora se Poseidone e Nettuno sono in lotta tra loro... è chia-
ro che Nettuno odia anche Atena! Questa sì che era un'informazione utile,
circa dieci secondi fa» borbottai.
Nettuno alzò il tridente, un tridente lungo come un palo del telefono, con
le sue brave tre punte a freccia. Il volto imponente e glabro era una ma-
schera d'ira, con le vene gonfie e pulsanti sulle tempie e sul collo.
«No!» gridò April agitando le mani e sfoderando il suo migliore sorriso
in stile hollywoodiano. «È uno scherzo! Potente Nettuno, grande Nettuno,
lui sta scherzando!» Mi indicò convulsamente con il dito. «Lui, David,
questo qui, è il nostro buffone! Noi siamo menestrelli, menestrelli del vec-
chio mondo con storie meravigliose da raccontare e allegre canzoni mai
sentite a Everworld. E saremmo onorati, onoratissimi, grande... mmm... si-
gnore, se ci permetterai di intrattenerti con il nostro spettacolo!»
Ci fu un orribile momento di attesa, l'attesa che il dio si bevesse la nostra
storia, la storia che raccontavamo sin dai tempi dei Vichinghi, la storia che
giustificava la nostra presenza qui a Everworld, una storia che tutti aveva-
no preso per vera. Finora.
La mano che teneva il tridente era ancora alta sulla testa ricciuta del dio.
Un'ira folle, o forse solo follia, gli ardeva negli occhi scuri, o in quello che
ne potevo intravedere sotto le sopracciglia folte e aggrottate.
E poi...
Nettuno scrollò le spalle. Abbassò il tridente. Un sorriso altrettanto falso
di quello di April gli si allargò sulla faccia.
«Molto bene. Menestrelli, vi concedo l'onore di intrattenermi. Ma non
ora, più tardi, quando sarò dell'umore giusto.» Nettuno sospirò e fu come
una folata di vento. «Sono un dio molto stanco» ammise, con un po' di
broncio. «Serpeggia la guerra nel mio regno sottomarino, una guerra tra
me e quell'invadente di Poseidone, quel bastardo di un Greco, quel ladro!
Fui io il primo a impugnare il tridente con cui comandare alle onde e do-
minare il mare! Fui io, il grande Nettuno, non quella femminuccia di Po-
seidone! Sfido chiunque a mettere in dubbio il mio diritto, che è equo e
giusto. Sfido chiunque a intralciarmi quando reclamo la proprietà di Atlan-
tide! Tu! Tu osi sfidarmi?»
Mi girai a guardare la persona che Nettuno aveva scelto come oggetto
della sua ira. Un uomo, capelli scuri, pelle ramata, seduto sulle tribune, un
Azteco, forse. Allarmato, gli occhi dilatati, la bocca aperta.
Si alzò in piedi lentamente.
«No... no, grande Nettuno...»
Il dio sorrise e sollevò le sopracciglia.
«Oh, io credo di sì, invece!» cantilenò.
E in quel momento scagliò il tridente contro l'uomo. Il rebbio centrale
gli si conficcò nel cuore. Gli altri due penetrarono nella pietra delle tribu-
ne. L'uomo morì all'istante.
«Oddio» sussurrò April.
Nettuno non era più calmo. Era rimasto calmo per circa cinque secondi e
poi aveva dato la stura alla sua follia e aveva arbitrariamente ucciso uno
degli spettatori. E adesso era contrariato e piagnucoloso.
«Il mio tridente, il mio bel tridente! Rovinato dal sangue immondo di un
traditore! Oh, oh, datemi un nuovo tridente, bruciate l'altro, presto, pre-
sto...»
«Questo è proprio fuori di testa» sussurrò Christopher. «Non fuori come
gli altri dei... è proprio un caso disperato!»
Noi restammo fermi al nostro posto, mentre una ninfa gli carezzava la
fronte e un'altra gli portava qualcosa da bere in un calice e altre due corre-
vano via, con ogni probabilità a prendere il tridente di scorta.
Ma Nettuno non ci aveva dimenticato. Due tritoni comparvero accanto a
noi. Non li avevo nemmeno visti avvicinarsi. A quanto pareva, si muove-
vano nell'aria con la stessa facilità con cui si muovevano nell'acqua.
«Ora voi verrete con noi» ci comunicò il più grosso dei due. «Potrete ri-
posare finché il grande Nettuno non comanderà la vostra presenza.»
Jalil mi lanciò un'occhiata. Annuii. Non restava molto altro da fare se
non seguire questi tizi. Stare fuori dal raggio d'azione di Nettuno, tanto per
cominciare. Poi, fare il punto della situazione, elaborare un piano. Restare
vivi.
Feci un respiro profondo. Per la prima volta da un bel po' di tempo a
questa parte. Ma non mi rilassai. Mi pareva di sentirlo, il tridente che e-
mergeva dalla parete d'acqua, sibilava nell'aria, mi infilzava, mi spezzava
la spina dorsale, mi inchiodava al...
"Okay, controllati, David. Esci da questo posto maledetto a testa alta.
Puoi crollare più tardi, se vuoi."
Seguimmo i due tritoni fuori dall'arena e di nuovo notai il marinaio,
quello che non era stato radunato dagli squali insieme agli altri, uno dei
pochi che erano sopravvissuti. Anche lui si stava allontanando e nessuno lo
disturbava (perché non lo fermava nessuno?), si allontanava a novanta gra-
di rispetto alla nostra direzione. Pensai di chiamarlo, di chiedergli di stare
con noi, ma non lo feci.
Avevo un'idea abbastanza precisa del motivo per cui questo particolare
marinaio riusciva ad allontanarsi senza farsi notare.
CAPITOLO VII
CAPITOLO VIII
CAPITOLO IX
CAPITOLO X
Ero sveglio.
Jalil aveva fatto il secondo turno di guardia, Christopher aveva iniziato il
terzo ma, visto che ormai ero sveglio, lo sostituii dopo nemmeno la metà
del tempo di sorveglianza che gli spettava.
Dopo l'incontro con Brigid, non sarei comunque riuscito a rimettermi a
dormire. Mi buttai su un lettino stretto e scomodo e mi misi a fissare un
soffitto che non riuscivo a vedere nel buio, chiedendomi perché mai voles-
si a tutti i costi che ci fosse sempre qualcuno di guardia. Che cosa avrei po-
tuto fare se Nettuno avesse deciso di farci fuori? L'acqua premeva intorno
alla nostra fragile bolla d'aria. Una sola parola del dio del mare e noi era-
vamo già morti, niente discorsi, niente conflitti. Dovevo dire agli altri
dell'incontro con Brigid? Non a Senna. Di questo ero sicuro. Non a Senna.
Mi premetti le mani sulla testa e quasi mi scappò da ridere per la stupidi-
tà del gesto. Come se volessi strizzarmi il cervello. Troppe domande.
Troppe incognite. Troppi pensieri: Brigid, Merlino, Nettuno...
E poi il patto che avevamo stretto con i Coo-Hatch. Un altro pensiero.
La speranza che niente fosse andato storto. Il pensiero che, se l'esperienza
insegna, probabilmente qualcosa era andato storto. Il pensiero di come u-
scire da questo posto, di come tornare da Atena e dal popolo dell'Olimpo
per onorare la mia promessa.
Da quando avevo visto la città di Ka Anor, non avevo mai smesso di
pensare a come fare per distruggere il dio alieno. Come espugnare quella
oscena fortezza, quell'enorme cratere di chilometri di diametro, colmo di
lame e spuntoni di vetro frastagliati. Quella mostruosa cavità al centro del-
la quale sorgeva la "torre-ago", come l'aveva battezzata Christopher, il co-
vo mostruoso di Ka Anor.
Artiglieria. Se avessimo avuto un numero sufficiente di pezzi d'artiglie-
ria, se fossero stati abbastanza potenti, se li avessimo piazzati sul bordo
dell'enorme voragine, forse avremmo avuto una possibilità di far saltare in
aria tutta la torre. Con un cannone Coo-Hatch, magari avrei potuto farlo io.
Il che mi riportava a pensare ai Coo-Hatch e alla madre di Senna e a
Brigid e a Merlino e all'Olimpo e poi ripartivo daccapo, e intanto ero sem-
pre qui, impotente, sul fondo del mare.
Strano. Ero assillato da ogni genere di problema, tranne che da quello
che avevo in questo preciso momento. La mente va alle questioni che rie-
sce ad affrontare, immagino, ed evita tutto ciò che è impossibile. Che cosa
ci attendeva? Avrei dovuto concentrarmi sul "qui e ora". Quale sarebbe
stata la prossima mossa del folle Nettuno? Lui si aspettava da noi uno
show.
Scoppiai a ridere. In questo momento avrei dovuto pensare allo spettaco-
lo da mettere in scena. Risi di nuovo, cominciai a ghignare come un idiota.
"Scordati Merlino, Brigid, Ka Anor, l'Olimpo e i Coo-Hatch, David: che
diamine, devi fare le prove!"
Evidentemente la mia risata venne interpretata come il segno che erava-
mo svegli, perché in quel preciso istante la porta si aprì e si affacciò una si-
rena di una bellezza stupefacente, una top model, una della serie "sono-
troppo-sexy-per-voi-umani". Ci portava un vassoio di cibo.
Tenni gli occhi bassi mentre lo prendevo e la ringraziavo. Forse era il
pranzo, non la colazione, ma l'espressione di disprezzo sul viso della sirena
mi fece passare la voglia di chiedere. Mi rese più facile tenere gli occhi
bassi e la bocca chiusa. Mi girai con il vassoio e mi trovai davanti a Chri-
stopher, con un enorme sorriso da "single a caccia" stampato sul volto.
«Ehi, quella mi vuole. Lo sento!»
Risi. Non so perché, ma la capacità naturale di Christopher di farmi im-
pazzire con le sue continue lamentele e mandarmi in bestia con i suoi brut-
ti vizi qualche volta veniva compensata dalla capacità altrettanto naturale
di prendersi gioco di sé.
«Per metà bella come una stella, per metà fredda come un pesce» conti-
nuò Christopher. «Mi ricorda qualcuno...» e accennò con gli occhi verso
Senna.
Se lei lo udì, fece finta di niente.
«Sai, il fatto è che sarebbe cortese in un paese straniero adottare gli usi e
i costumi locali» riprese Christopher, rivolgendosi ora ad April. «Insom-
ma, non mi pare una bella cosa da parte tua restare infagottata in tutti i tuoi
vestiti quando la cortesia vorrebbe che...»
«Sputa il rospo, Christopher» lo incitò April togliendosi i capelli dalla
faccia e sbadigliando. «O sputa il pesce, dovrei dire...»
Posai il vassoio sul tavolo.
«Dovremmo mangiare» dissi. «Chissà quando ci capiterà di nuovo l'oc-
casione. Svegliati, Jalil.»
«Sono già sveglio» intervenne luì, raggiungendoci. «Allora, ragazzi, che
vi succede nel mondo reale? Io ho fatto bingo con la verifica di chimica,
ma niente di eccezionale. Mio padre mi ha tenuto in casa a carteggiare il
pavimento della sala da pranzo. Non ho visto nessuno di voi.»
«I miei hanno organizzato una festicciola» ci informò April, in piedi ac-
canto al cibo, dando le spalle alla sorellastra. «Hanno deciso che è ora di
smettere di piangere per la scomparsa di Senna. Stanno pensando di tra-
sformare la sua camera da letto in uno studiolo per mio padre. E così ab-
biamo fatto una specie di mini veglia di commiato con buffet. Abbiamo
guardato dei vecchi filmati.»
Senna rise, sarcastica.
«E non c'è stata nemmeno una lacrimuccia in tutta la casa.»
«In realtà mio padre era un po' emozionato. Si sente in colpa. Per quanto
mi riguarda, sono riuscita a reprimere il sentimento di dolore per la grave
perdita.»
Questa tensione tra le due sorelle, la profonda avversione, la sfiducia, il
vivo rancore che serpeggiava tra Senna ed April mi preoccupava più di
quanto non lasciassi trapelare. Alle volte mi provocava quasi un malessere
fisico. Per certi versi non era affar mio, era solo una faida familiare. Per al-
tri era decisamente affar mio. Ero io il capo di questa squadra raffazzonata
e il dissenso strisciava tra i ranghi. Potevo contare sul fatto che si aiutasse-
ro a vicenda in un momento di crisi?
«E tu, Christopher?» chiesi, sperando che tirasse su il morale delle trup-
pe.
«Non ho fatto un granché. Sono rimasto a casa da scuola un giorno, a
vomitare l'anima. Un virus intestinale, per niente simpatico. Ho chiamato
Jalil ma la sua sorellina, una delle due, mi ha detto che era fuori e poi mi
ha sbattuto giù il telefono: ciao-ciao, ragazzo bianco.»
Jalil diede un'alzata di spalle.
«Mmm... Questo dimostra un insolito buon senso da parte sua. Ti dirò
qualcosa di interessante, però: quel viscido verme, quel tuo amichetto raz-
zista e nazista... come si chiama?»
«Vuoi dire Keith?» chiese Christopher.
«Esatto, proprio quello che adora puntare le pistole addosso alla gente.
Sono venuti dei poliziotti e mi hanno chiesto se sapevo dove poteva essere
finito. Sembra che Keith sia scomparso. Non si trova più da nessuna par-
te.»
Fu frutto della mia immaginazione o Senna distolse lo sguardo un po'
troppo rapidamente? Immaginazione, sicuro. Lei non c'entrava niente con
Keith. Keith era un problema di Christopher.
«Scomparso?» Christopher socchiuse gli occhi. «Ma... non penseranno
che l'hai ucciso tu, che gli hai fatto qualcosa di brutto? Proprio tu? Perché
non sono venuti a chiedere a me? Se c'era qualcuno che doveva ucciderlo,
quel qualcuno ero io. Quel piccolo escremento!»
Jalil si carezzò il mento, parodiando una profonda riflessione.
«Vediamo un po'... perché gli sbirri avrebbero interrogato me e non te?
Mmm... ci devo proprio riflettere. Perché degli sbirri bianchi dovrebbero
tartassare me, un ragazzo nero, e non te, un giovane bianco? E comunque,
l'hai ucciso tu, Keith?»
«Sì, ma ho lasciato sul luogo del delitto un paio di CD di musica rap per
far cadere i sospetti su di te.»
«Se qualcuno ha fatto fuori quel piccolo nazista, con ogni probabilità è
stato uno della sua banda» osservò Jalil.
Christopher prese un bicchiere dal vassoio e lo levò in alto.
«Un brindisi a chiunque abbia fatto sparire Keith.»
«Un servizio di pubblica utilità» rincarò Jalil.
Christopher bevve e sputò subito.
«Bleah! Che diavolo è questa roba? Magari la spacciano per birra! Non
avrei mai creduto che ci fosse una birra che non riesco a bere nemmeno i-
o.» Guardò con disgusto il misero vassoio di pesce e verdure. «Io credevo
che i Romani amassero le grandi abbuffate. Credevo che sapessero come si
vive.»
«Noi non siamo Romani» osservò Jalil. «Non siamo della loro gente.
Probabilmente ci considerano una nuova specie di "barbari imberbi", mate-
riale da lavoro, schiavi.. Perché sprecare del buon cibo per la feccia?»
Christopher diede un colpetto con il dito a un pezzo di roba gialla e spu-
gnosa.
«Questo per esempio sembra una specie di tofu. April, sarai contenta,
qui.»
«E tu, David?» chiese April.
«Io cosa?»
«Sembri molto interessato a quello che abbiamo fatto noi nel mondo rea-
le. E tu che cosa hai fatto?»
Trasalii, colto sul fatto, ma mascherai la cosa con qualche chiacchiera
generica.
«Niente di straordinario. Lavoro, scuola, qualche commissione per mia
madre, un piccolo scontro con il suo amichetto, il solito. È stata una visita
breve, la mia: ho dormito poco.»
In quel momento... la porta dietro di me si spalancò. Mi girai di scatto, la
spada sguainata, pronto a colpire. Ma era solo il tritone che ci aveva scor-
tati in questa casa.
«Il glorioso Nettuno desidera essere intrattenuto. Venite con me, ora.»
Restai indietro e mi affiancai ad April.
Cibo che non avrei mai potuto digerire, niente vestiti puliti per i barbari,
praticamente niente sonno, un inquietante incontro nel mondo reale con
una bellissima dea. E adesso, senza aver avuto il tempo di prepararci, do-
vevamo organizzare su due piedi uno spettacolo per Nettuno...
«April, che cosa ne sai di Brigid?»
«Brigid chi? È una che segue qualche corso con me?»
«No, non è una della scuola» precisai infastidito. «Voglio dire la dea cel-
tica. La figlia del Daghdha.»
Lei sorrise. Piegò la testa e i riccioli rossi quasi asciutti le si riversarono
su una spalla.
«Dovrei saperlo come Jalil avrebbe dovuto sapere tutto dell'antica Africa
e degli antichi dei africani? Le mie origini irlandesi risalgono a cinque ge-
nerazioni fa, David.»
Sospirai. Non avevo voluto offenderla. D'un tratto mi chiesi se le fossero
rimaste ancora delle pillole di analgesico nello zaino. Avevo mal di testa.
«No, scusa, non è che ti consideri la nostra esperta in questioni irlandesi.
È che magari una ragazza impegnata nel femminismo potrebbe sapere
qualcosa delle grandi dee della mitologia, della figura della dea madre, la
dea generatrice.»
April rise.
«Molto meglio. Buona scusante, David. In ogni caso, sì, in effetti qual-
cosa so, mi pare. Sto leggendo dei libri di mitologia. Mi pareva che fosse
una buona idea. Se è quella che penso io, è una specie di dio uno e trino.
Hai presente? Creatore, Protettore e Distruttore. La nascita, la vita, la mor-
te. Ha molto a che fare con la fertilità e il parto. Anche con le guarigioni, la
poesia e l'ispirazione poetica. Però non so la sua storia, non so che cosa le
sia successo, se è questo che intendi.»
«Va bene...»
«Perché? Perché ti è venuta in mente la dea Brigid?»
La domanda di April era innocente. La mia risposta non lo fu altrettanto.
Scrollai le spalle.
«Non so. Mi è venuto in mente questo nome. Devo aver letto qualcosa
da qualche parte. Nessun motivo in particolare.»
April mi lanciò una lunga occhiata sospettosa. Non mi aveva creduto.
Ma decise di lasciar correre, limitandosi a sussurrare:
«Non è vero.»
CAPITOLO XI
Passammo dalla casa nella bolla d'aria al naturale elemento acqueo. Per
me era ancora un passaggio difficile. C'è sempre qualcosa di inquietante
nel fatto di respirare acqua.
I capelli rossi di April, lunghi e vaporosi, e i capelli biondi di Senna,
lunghi e sottili, ripresero a fluttuare, danzando come serpenti di rame e d'o-
ro, facendo somigliare le ragazze a bellissime Meduse. I nostri vestiti si
gonfiarono e i passi diventarono lenti ed esagerati.
Ripercorremmo la città in senso inverso, passammo di nuovo dalle tri-
bune ancora una volta piene fino all'orlo, tra uomini che vendevano boc-
concini di pesce ammonticchiati su grandi conchiglie e Coo-Hatch stretti
insieme nei passaggi, con la faccia di chi vorrebbe essere da qualsiasi altra
parte ma non lì, attraversammo di nuovo il muro d'acqua scintillante e tor-
nammo in mezzo all'arena.
Questa volta non c'erano gare ippiche in corso: sul campo di terra battuta
erano stati eretti vari palcoscenici improvvisati. Su uno di essi un folletto
suonava una specie di mandolino mentre un satiro inseguiva una ninfa e
trasformava la cattura in un elaborato spettacolo. Su un altro, un uomo so-
lo, vestito con un gonnellino corto e sandali di cuoio allacciati fin sotto al
ginocchio, non diversi da quelli che portavano i soldati greci e romani, fa-
ceva giochi di destrezza usando dei vasi di ceramica. Ai suoi piedi c'erano
altri mucchi di oggetti per i suoi numeri, che però non riuscii a distinguere
chiaramente.
Capivo perché il giocoliere dovesse necessariamente stare in una bolla
d'aria: uno non può fare giochi di destrezza sott'acqua.
Su un palcoscenico vicino al trono di Nettuno tre tritoni davano un'esibi-
zione di forza. Uno combatteva contro quella che sembrava un'anguilla
mastodontica, un altro respingeva i goffi attacchi di un brutale gigante, un
terzo sollevava sopra la testa la versione everworldiana di un bilanciere. La
sbarra mi ricordava stranamente una trave della nostra nave affondata. Alle
due estremità erano fissati due piatti colmi di una grande varietà di teschi.
«Aspettate qui» ordinò la nostra guida, fermandosi davanti a uno dei
palcoscenici vuoti. «Quando Nettuno ve lo comanderà, date inizio al vo-
stro spettacolo.»
Il tizio se ne andò e noi, zuppi d'acqua, ci arrampicammo sulla piatta-
forma. Tutti tranne Senna, che si appoggiò con la schiena alla base della
struttura, un po' arretrata rispetto a noi.
In quel momento ci giunse dalle tribune un boato distorto dall'acqua, un
urlo di rabbia, senza parole, uno sfogo incontrollato di emozione e nient'al-
tro.
Nettuno. Saltò su dal trono e si mise a pestare i piedi, come in una ver-
sione infantile di una danza della pioggia degli indiani.
Puntò il dito verso il giocoliere, raggelato e tremante davanti a un vaso
in frantumi.
«Razza di incapace, ne hai fatto cadere uno! Ne hai fatto cadere uno!»
strillò il dio, la faccia così rossa che sembrava sul punto di fare un infarto.
«Tu non devi farne cadere nemmeno uno! Guardie, uccidetelo, uccidetelo
e trovatemi un altro giocoliere! No, aspettate, lo faccio io, lo uccido io!»
La faccia di Nettuno si aprì in un ampio sorriso. «Lo faccio io!»
Il giocoliere cadde in ginocchio, si ripiegò su se stesso come un mantice
chiuso, piagnucolò, unì insieme le mani nel gesto comune di supplica, di
preghiera. Ma non implorò Nettuno a voce alta, probabilmente sapeva che
non serviva a niente, che la sua vita era finita, che niente di quanto avesse
detto avrebbe toccato Nettuno. Mi chiesi quale dio stesse pregando quel
giocoliere.
Per un momento sembrò non succedere niente. Nettuno rimase sempli-
cemente a guardare. Ma poi l'acqua iniziò ad apparire. Si formò una bolla
d'acqua intorno alle gambe dell'uomo, gli salì fino al petto, fino al mento.
L'uomo cercò di scappare, ma la bolla d'acqua non lo mollava. Si alzò in
punta di piedi, cercando disperatamente di tenere la bocca sopra il livello
dell'acqua. Nettuno rise deliziato e l'acqua si alzò di qualche altro centime-
tro.
Adesso gli entrava dalla bocca spalancata. L'uomo sputava, tossiva, vi-
cino al soffocamento. Cercava di saltare per poter respirare un po' d'aria e
Nettuno lasciava che lo spettacolo continuasse.
Il giocoliere saltava, ma ogni volta che tornava giù l'acqua era un po' più
alta. Sempre un po' più alta. Adesso non riusciva più a saltare. Adesso non
riusciva più ad arrivare all'aria. Si allungava, cercava di uscire con la testa
dalla bolla, di lato, ma era inutile, la bolla si spostava con lui.
Stava annegando. I polmoni pieni d'acqua. Un'espressione sconvolta sul-
la faccia. Sentiva l'acqua nei polmoni, non acqua respirabile, ma acqua as-
sassina. Aveva i polmoni invasi e sapeva che stava per morire.
Non fu una cosa rapida. Sembrò durare per sempre.
Mi girai per vedere le reazioni della gente sulle tribune. Sulle facce degli
uomini, degli elfi, persino dei Coo-Hatch, mi parve, c'era la paura. Mes-
saggio ricevuto. Sulle facce dei tritoni e delle sirene, di Anfitrite e di suo
figlio Tritone, isteria. Ridevano sguaiatamente, si indicavano a vicenda il
pover'uomo, si battevano le mani sulle ginocchia, si asciugavano le lacri-
me. Tornai a guardare il giocoliere. Aveva la faccia cianotica, gli occhi
sembravano scoppiargli dalle orbite, la bocca si muoveva come quella di
un pesce appena pescato e buttato sul fondo di una barca a remi.
Quando l'uomo non ebbe più vita, l'acqua evaporò. Nettuno con un gesto
della mano comandò a uno dei suoi tritoni di portare via il corpo; poi si
rimise a sedere, compiaciuto.
«Ve lo ripeto, questo è matto da legare» borbottò Christopher. «Non
matto come tutti gli altri dei: questo qui è uno psicopatico vero.»
«Tortura e morte come spettacolo» mormorò Jalil.
«Okay» dissi io lanciando un'occhiata a Senna, ancora appoggiata al
palcoscenico con la faccia tra le mani, gli occhi chiusi. Al sicuro, abba-
stanza. «Forza, che cosa vogliamo fare per questo matto? April? Qualche
canzone?»
April mi fissò con gli occhi vuoti. Nessuno di noi aveva idee valide.
«Christopher?» riprovai. «Riesci a pensare a qualcosa che possa andare
bene per questo demente?»
Christopher scosse la testa.
«Ci posso provare, ma il vecchio Thorolf e la sua banda di Vichinghi e-
rano delle educande a confronto di questo squilibrato.»
«Provaci, Christopher» disse April. «E io cercherò di aiutarti se ti im-
pappini. Tutti quanti cercheremo di aiutarti.»
Christopher scosse la testa.
«Oh, sì, allora posso stare tranquillo. Bene, signori e signore ecco a
voi...»
Si schiarì la voce, fece un passo avanti e iniziò a cantare con voce melo-
diosa.
«Oh potente Nettuno, tra tutti gli dei il più forte sei tu. E, potente Nettu-
no, il mondo intero saperlo dovrà. Dalla torre più alta lo grideremo. Sia
gloria al dio del mare, a tutti lo diremo. Amatelo, onoratelo perché...»
Jalil chiuse gli occhi.
«April, David, è stato bello conoscervi. Siamo cibo per i pesci. Esche.
Storia passata.»
CAPITOLO XII
CAPITOLO XIII
CAPITOLO XV
CAPITOLO XVI
CAPITOLO XVII
La buona notizia era che ci eravamo liberati dai tritoni, almeno tempora-
neamente. Ma eravamo tornati sotto la superficie dell'oceano e questa era
una notizia molto meno buona. Da quel che sembrava, però, ci stavamo
comunque allontanando dalla città di Nettuno.
Il cavallucci marini continuarono la loro corsa finché, a un centinaio di
metri davanti a noi, non vidi qualcosa di simile a una caverna. Forse più
una grotta artificiale, graziosa, a suo modo, con dei piccoli geyser che
sbuffavano dal terreno proprio davanti all'ingresso. Una vegetazione varia
e rigogliosa adornava le pareti esterne. Una macchia di formazioni coralli-
ne rosa shocking e verde menta, come stalagmiti, creava un giardino esoti-
co appena a sinistra della bocca della caverna.
Pochi brevi minuti e l'avremmo oltrepassata da destra, ma...
«Fermi!»
I cavallucci marini si impennarono, lanciarono un grido stridulo, scarta-
rono verso sinistra a un angolo di quasi sessanta gradi. Il cocchio si piegò
di lato, io andai a sbattere addosso alla sponda sinistra, Senna perse l'equi-
librio, scivolò, mi crollò addosso da destra. Tirai le redini, cercai di ripor-
tare la pariglia sulla traiettoria di prima, temevo che volessero tornare sui
propri passi, temevo di incappare di nuovo in Nettuno. Ma gli animali ri-
fiutarono di obbedire.
E in quel momento capii perché. Qualcosa stava uscendo dalla caverna,
facendo crollare le pareti superiori. Era... be', non so che cosa fosse. Ma
era grosso. E orripilante.
«Scilla!» urlò Senna al di sopra dei gridi ripetuti dei cavallucci.
«Che diavolo è?»
«Non ti ricordi che cosa diceva Nettuno? Un uomo debole e lascivo e
una donna vendicativa.» Senna mi parlava nell'orecchio e il suo tono di
voce era come un ago che mi perforava il timpano. «Scilla era una bellis-
sima ninfa del mare. Poseidone, la versione greca di Nettuno, o forse lo
stesso Nettuno, la desiderava. Anfitrite lo scoprì e mise delle erbe magiche
nell'acqua della fonte dove Scilla si bagnava. E queste erbe la trasformaro-
no in un mostro. David, non è me che vuole» aggiunse Senna, con un tono
di voce lievemente derisorio. «Scilla mangia solo i maschi.»
Per circa un secondo provai una profonda pietà per questa ninfa del mare
una volta bellissima e ora talmente raccapricciante. Una pietà non tanto
profonda, però, da pensare di sacrificarmi alla sua fame di carne d'uomo.
Era disgustosa, sembrava avere la rogna, le mancavano chiazze di pelo
qua e là, aveva la pelle squamosa e arrossata. Si ergeva su dodici piedi,
mostruose distorsioni di zampe canine. Sei grosse teste di cane dagli occhi
assassini coronavano sei lunghi colli robusti e coperti di pelo. Le bocche
sbavavano e schiumavano, bava viscosa e schiuma del colore del pus, boc-
che ringhianti, che scoprivano tre file di denti acuminati. Il fetore di
quell'essere mi giunse alle narici e sentii in bocca il sapore del vomito.
Nel tempo che mi occorse per registrare tutti questi dettagli, il mostro ci
attaccò.
«Via-via-via!» gridai ai cavallucci marini, schioccando le redini.
Meglio correre in bocca a Nettuno e morire combattendo che finire nelle
fauci sbavanti di quel cane infernale. Bisognava togliersi di lì. Dovevo av-
vertire Jalil, April, Christopher. Ma dov'erano finiti? Dovevano essere die-
tro di noi, da qualche parte.
«Senna, prendi le redini!» Le piazzai le redini in mano. Adesso non
sembrava più in vena di ironia. «Resisti! Non mollarle!»
Una zaffata di alito fetido ci investì. Senna ebbe dei conati di vomito. La
bestia era vicina, non c'era paragone tra la velocità dei cavallucci marini di
Nettuno e quella del mostro assetato di vendetta, di sangue, di carne uma-
na. Sguainai la spada e mi girai per affrontare Scilla.
Ancora un balzo e ci sarebbe stata addosso, mi sarebbe stata addosso; i
denti affilati e macchiati di sangue mi si sarebbero serrati sulla faccia. Sol-
levai la spada e la calai con tutta la forza che avevo. Recisi una delle teste
del mostro. Cadde, ma Scilla continuò ad avanzare come se non si fosse
nemmeno accorta della decapitazione, come se non notasse affatto il san-
gue che sgorgava a fiotti dalla ferita aperta. Continuò a inseguirci, allun-
gando verso di noi un altro collo, un'altra testa. Colpii di nuovo. Questa
volta la spada mi restò incagliata in qualcosa di duro e filamentoso, una
cartilagine forse, e strappai violentemente per liberarla. La spada sì sfilò
ma la testa rimase attaccata al collo, penzoloni, unita al resto del corpo so-
lo da pochi filamenti insanguinati, sbattendo orribilmente sul collo stesso.
Questa nuova ferita sembrò sorprendere il mostro, rallentarlo appena un
po', ma fu sufficiente per permettermi di riprendere le redini dalle mani di
Senna e con una mano sola lottare lottare lottare contro l'istinto dei caval-
lucci di correre alla cieca, costringerli a ritornare alla rotta originaria, inci-
tarli ad accelerare ancora.
«David, è di nuovo qui!»
Mi girai a guardare. Scilla era infuriata, era ancora all'inseguimento ma
adesso, con due teste in meno, era lievemente sbilanciata.
«Che cosa hai fatto alla mia amata?!»
Inconfondibile, quella voce. Era Nettuno. Evidentemente aveva visto
Scilla ferita. Ma invece di prendersela con noi, Nettuno frenò il suo impo-
nente cocchio d'oro e chiamò a sé Scilla, che accorse subito, per farsi con-
solare.
Nettuno sbraitò, pianse, coprì di attenzioni il mostro canino sanguinante.
Mi chiesi per un attimo se le teste di Scilla sarebbero ricresciute, ma decisi
che non era il caso di stare a vedere.
CAPITOLO XVIII
Sollievo. Eravamo stati più furbi e più veloci dei tirapiedi di Nettuno e
anche del suo cagnolino infernale. E adesso, dalla nostra destra, da dietro
una formazione rocciosa, ecco arrivare April, Christopher e Jalil sul loro
cocchio. Uno dei delfini era stato ferito, ma gli altri cinque facevano valo-
rosamente del loro meglio per compensare l'invalidità del loro compagno.
«Dove diavolo eravate finiti?» urlai. «State tutti bene?»
Christopher alzò il pollice nell'aria. Nell'acqua. Si avvicinarono al nostro
cocchio.
Ma adesso ecco profilarsi qualcosa di nuovo: un altro orrore o qualcosa
di più benigno?
Un'altra città. Stupenda, tutta illuminata, chiaramente greca per stile e
architettura, ma con una sua specifica individualità.
Non avevo nessun desiderio di fermarmi a fare una visita turistica. Ma la
osservai con meraviglia. Notai che era racchiusa da una grande bolla che
ogni trenta secondi circa eruttava una bollicina molto più piccola, forse
delle dimensioni di un'automobile, e la bollicina risaliva fluttuando verso
la superficie.
Mi girai verso Jalil. Adesso eravamo abbastanza vicini da poterci parla-
re, i cavallucci e i delfini avevano rallentato la corsa e tenevano un'andatu-
ra più decente.
«Geyser di aria» disse lui. «Non possono essere altro. Geyser che sputa-
no ossigeno e tengono la bolla grande sempre gonfia. La gente che vive
qui respira aria.»
«C'è anche qualcos'altro» osservò April strizzando gli occhi. «Mi pare.
Guardate bene sulla superficie della bolla.»
Guardai.
«È vero. Sembra una specie di rete. Sottilissima, argentata. Che serva a
tenere ferma la bolla? Forse è fissata da qualche parte. Di che cosa sarà fat-
ta?»
«Secondo me» intervenne Christopher «la domanda più importante è:
chi ci vive, là dentro? E soprattutto, cominceranno a spararci addosso tra
un attimo con qualche strana arma?»
«Forse...»
Ma in quel momento mi premetti le mani sulle orecchie, senza però mol-
lare le redini, chiusi gli occhi contro la forza dell'aggressione sonora, cer-
cai di impedire ai cavallucci di imbizzarrirsi, perché non rovesciassero il
cocchio...
Nettuno ci aveva trovati. Logico.
Il ruggito della sua folle risata trionfante mi si ripercosse in tutto il cor-
po, accelerando i battiti del cuore. Colò del sangue dagli occhi dei delfini,
dalle narici dei cavallucci marini. Era più forte di ogni altro suono che a-
vessimo udito uscire dalla sua bocca, era come lo stridio dei freni del treno
della metropolitana, come cinquanta piatti d'orchestra battuti all'unisono,
come il crepitio di un cielo pieno di tuoni, un posteggio sotterraneo pieno
di allarmi d'automobili, l'urlo di venticinque sirene antincendio... tutto in-
sieme, a un metro dai nostri timpani.
Troppo vicino, era arrivato troppo vicino e io non me n'ero nemmeno
accorto, preso com'ero ad ammirare il panorama. Riuscii ad aprire la bocca
e gridare: «Via!»
Ma nemmeno io sentii la mia voce, figuriamoci gli animali, gli altri. Al-
lontanai le mani dalle orecchie, sussultai per il dolore, schioccai le redini e
i cavallucci marini, stravolti dal tormento, si slanciarono verso la città rac-
chiusa nella rete argentea.
Dovevamo andare ovunque, ma non qui. Dovevamo andare il più lonta-
no possibile dalla fonte di quel suono insopportabile, poi forse... poi che
cosa? Che cosa?
Più vicini alla cupola d'aria, Senna se ne stava accucciata sul fondo del
cocchio, la testa nascosta tra le braccia. Jalil, Christopher ed April erano
affiancati al nostro cocchio, c'era Christopher adesso che teneva le redini,
la testa affondata nelle spalle, una smorfia di sofferenza sulla bocca. April
e Jalil erano l'immagine stessa del dolore lancinante, si stringevano la testa
tra le mani, piegati in due. Gli animali si lasciavano dietro una scia di san-
gue.
Più veloci... più veloci... e poi, di colpo, finì. Finì così, nel bel mezzo di
un grido, di una nota, come se qualcuno avesse premuto il pulsante stop
sul lettore CD. Finito. Sparito. Silenzio.
E nell'attimo stesso in cui il mio cervello stordito registrò "Silenzio", re-
gistrò anche "Niente aria".
Nettuno ci aveva tolto la magica capacità di respirare sott'acqua. Okay.
La testa di Senna si alzò di scatto, mi guardò, gli occhi dilatati, la bocca
che iniziava a muoversi, a cercare aria, a respirare l'aria dall'acqua... Scossi
convulsamente la testa e lei tossì, chiuse la bocca, la riaprì per sputare l'ac-
qua, ma non è così facile sputare acqua nell'acqua, sott'acqua.
Non sapevo che stava per finire la riserva d'aria, non ero preparato, non
avevo fatto un respiro profondo, non mi ero riempito i polmoni, ero troppo
preso dalla fuga da quell'orribile rumore. Quanto avrei potuto resistere, o-
ra?
Presto, in superficie! In superficie!
Il cervello si impartiva ordini da solo, ma già vacillava, se fossi soprav-
vissuto, se fossi... guardai l'altro cocchio, April era riversa su una sponda,
Jalil aveva gli occhi dilatati, si sfregava nervosamente una mano sulla go-
la, Christopher...
Mi scoppiavano i polmoni, il campo visivo si scurì, poi non vidi più nul-
la, ma prima del buio vidi, o forse immaginai di vedere una rete argentea,
deliziosa, che si smagliava, che si apriva per me, che pensiero gentile...
CAPITOLO XIX
«Aaaaah...»
La tazzina di caffè mi scappò di mano e si fracassò per terra. Mi chinai
rapidamente per ripulire il pasticcio: ero da Starbucks, al lavoro. Stimato
dipendente. Grembiule verde. Alzai gli occhi verso la lavagna dietro il re-
gistratore di cassa. Novità del giorno: una bevanda esotica di tè e frutta che
non riuscivo nemmeno a pronunciare. Era sabato. Di quale settimana, di
quale mese non importava, non contava niente. Non per il David di Ever-
world. Il David di Everworld... stava annegando, aveva appena mandato a
sbattere un cocchio trainato da una coppia di cavallucci marini giganti con-
tro una bolla molto più grande di loro che racchiudeva un'intera città sot-
tomarina. Importava al David di Everworld sapere che giorno era?
«David, mi serve un favore.» Era una delle mie colleghe, Heather, attrice
disoccupata. Abbastanza carina. «C'è un cliente che vorrebbe mezzo chilo
di caffè tostato francese. Qui su non ce n'è, ma so che ne è arrivata una
scatola proprio l'altro giorno. Potresti andare in cantina a prenderne un
po'?»
Posso? Certo che posso. Posso fare qualsiasi cosa, o quasi. Non credere-
sti alle tue orecchie, Heather, se ti dicessi che cosa sono capace di fare.
«Sì, certo» risposi.
Se non altro era una buona scusa per stare lontano un paio di minuti da
questo sfavillante monumento al consumismo. Se non altro avrei avuto
modo di starmene da solo.
Mi diressi verso la cantina. E non per la prima volta mi chiesi che cosa
ci facevo qui, a preparare tè, caffè, a scaldare il latte, a fare la schiumetta
sui cappuccini, a macinare caffè, a spostare scatole, quando c'era bisogno
di me da un'altra parte, per fare qualcosa di molto più importante, non
qualcosa che chiunque altro era in grado di fare. Di questo ero convinto.
Io...
"Un occhio alla volta, David. Adesso sei sveglio, puoi aprire gli occhi.
Forza, aprili."
Li aprii tutti e due insieme, mi alzai a sedere, sentii la punta della lancia
del soldato contro lo sterno. Okay. Alzai lentamente gli occhi per guardar-
lo in faccia, non era una faccia crudele, era la faccia di uno che faceva
blandamente il suo lavoro. Aveva un'armatura che gli proteggeva il busto,
una specie di toga corta, come un gonnellino, e i sandali ai piedi. Al fianco
aveva una spada. In testa, un elmo ornato da un lungo pennacchio di tre
piume. Un'uniforme molto simile a quella dei soldati greci con cui aveva-
mo combattuto sul monte Olimpo.
Lentamente, cautamente, girai la testa, in realtà girai quasi solo gli occhi,
prima a destra e poi a sinistra, per vedere se c'eravamo tutti. Sì, c'eravamo.
Un mucchio di corpi fradici e malconci, circondati da un totale di quattro,
forse cinque guardie (non potevo girarmi a verificare). Avevo il piede di
qualcuno piantato nella schiena, il braccio di qualcun altro sotto la coscia.
Automaticamente mi spostai in avanti per liberare il braccio, ma la lancia
non si mosse con me. Mi punse la pelle.
«Scusa tanto» dissi subito, alzando le mani e tenendole ben lontane dalla
spada. «È che sono seduto su qualcuno. Posso spostarmi un po' a sinistra?»
La guardia annuì e tirò indietro la lancia di qualche centimetro. Mi spo-
stai, con molta cautela. Guardai giù e vidi che era il braccio di Christopher
che stavo schiacciando.
A uno a uno anche gli altri ripresero conoscenza.
«Carino! Una situazione nuova di zecca» sussurrò Christopher. «Ahi, il
mio braccio!»
«Signore, possiamo alzarci, adesso?» chiesi.
Di nuovo, la guardia annuì. Le cinque guardie, come potei constatare
quando mi alzai, ancora tremante, fecero un passo indietro, senza però di-
stanziarsi tanto da aprire qualche via di fuga. Ma nessuno di loro mi seque-
strò la spada. Arroganza? Segno di civiltà? O ragionevole sicurezza? Al-
meno due erano armate di arco e frecce, oltre che di spada o di lancia. In
ogni caso, io ero ben contento di poter tenere con me la mia unica arma.
La mia guardia parlò.
«Siete in arresto per essere entrati illegalmente nella città di Atlantide»
ci informò, parlando alla perfezione la nostra lingua, senza il minimo ac-
cento. «Verrete con noi alla sede del consiglio cittadino» proseguì la guar-
dia «dove potrete esporre il vostro caso al sindaco.»
Il flebile barlume di speranza che queste parole potevano aver acceso in
noi venne immediatamente ottenebrato da un boato tonante che ci squassò
tutti, guardie comprese, e per poco non ci mandò a gambe all'aria. Durò
meno di un minuto. Che è un tempo lunghissimo, quando la terra ti trema
sotto i piedi.
«Che cos'è stato?!» gridò April.
«Un terremoto, uno delle centinaia che ogni anno scuotono Atlantide»
spiegò la mia guardia. «Non per niente Nettuno e Poseidone sono noti co-
me gli dei del terremoto. Adesso cominceranno ad azzuffarsi tra di loro.
Per un po' ci lasceranno in pace, fino alla prossima volta.»
«Ehi, questo tizio è fatto per vivere a Los Angeles» disse Christopher,
tenendosi una mano sullo stomaco. «Io invece avrei un po' di nausea...»
«E io ci vedo doppio» esclamò April battendo le palpebre.
Infatti davanti a noi due divinità molto simili tra loro, su due cocchi mol-
to simili tra loro, erano intente a dare una dimostrazione di forza attaccan-
dosi a vicenda con il tridente.
«Nettuno e Poseidone» spiegò la guardia. «Il dio romano e il dio greco
del mare. Quello con la barba è Poseidone. Questi due dei sono da sempre
in guerra tra loro per il controllo della nostra bella città.»
«E voi come resistete agli attacchi?» chiesi, proprio mentre una scossa di
assestamento scuoteva il terreno sotto i nostri piedi, con un sordo brontoli-
o. «Come fate a tenerli fuori?»
L'uomo sorrise d'orgoglio.
«Il sindaco, Monsieur Jean-Claude LeMieux.»
CAPITOLO XX
Sono sicuro che chiunque abbia più di sei anni ha già sentito parlare di
Atlantide, la celeberrima città sottomarina. O forse era una città costruita
sulla terraferma che per qualche ragione sprofondò nel mare, non ricordo
bene. Ma non importa. Mi sembra di aver sentito varie descrizioni di que-
sta città e di aver visto varie versioni della sua storia, nei film, nei libri e
persino in alcuni fumetti che un amico mi aveva prestato quando eravamo
bambini. Non ricordo che fumetto fosse, non sono mai stato un grande ap-
passionato.
Questo per dire che avevo la testa piena di preconcetti su Atlantide, nes-
suno dei quali si avvicinava anche solo lontanamente alla realtà della vera
Atlantide o, per meglio dire, alla realtà dell'Atlantide di Everworld. Niente
a che vedere con i castelli di plastica incollati ai sassolini blu sul fondale
degli acquari per i pesci.
La città era grande ma non smisurata, con un centro gremito di edifici e
quartieri periferici più allargati. La parte principale della città era simile,
per stile e per gusto, all'Olimpo. In altre parole, era greca. Solo che aveva
proporzioni molto più normali rispetto all'Olimpo. Gli edifici erano fatti di
marmo biancastro e le strade erano pavimentate con lastroni di una pietra
simile. Gli uni e le altre erano ben illuminati, ma la fonte di luce mi sfug-
giva. Vicino a quello che sembrava il centro, c'era un tempio, una copia
molto somigliante, mi pareva, del tempio di Zeus o di Atena nell'acropoli
di Atene. C'era anche una piazza del mercato, zeppa di file e file di banchi
addossati gli uni agli altri, in concorrenza con i negozi che si aprivano a
pochi passi di distanza. Un'agorà. Avevo imparato la parola sull'Olimpo.
Fummo condotti nell'edificio che ospitava il consiglio cittadino.
Era molto simile agli altri, ma più alto, con un colonnato in stile ionico
che sorreggeva un frontone. La superficie triangolare del timpano contene-
va una scritta in caratteri greci. In seguito scoprii che dicevano: "Libertà,
giustizia, uguaglianza". Era chiaramente un edificio di pubblica importan-
za.
La stanza in cui venimmo condotti per incontrare il sindaco Jean-Claude
LeMieux era imponente pur essendo di grande semplicità. Le pareti mi pa-
revano di marmo bianco, venato di grigio. Il soffitto, poco visibile, perché
la stanza doveva essere alta almeno tre o quattro metri, era imbiancato a
calce. Il pavimento era di marmo rosa. Alle pareti, a intervalli regolari, e-
rano infissi alcuni porta-lampade dove ardevano dei lumi a olio. L'effetto
complessivo era gradevole: una stanza molto grande resa intima dalla luce
calda e rosata.
Il collaboratore del sindaco ci fece cenno di accomodarci su alcune sedie
sistemate in modo da favorire la conversazione. Erano piuttosto vicine, di-
sposte non perfettamente in cerchio, nessuna troppo arretrata rispetto alle
altre tanto da impedire a colui che vi sedeva la vista di tutti gli altri o da
farlo sentire come se fosse seduto in seconda fila, o nei posti più economi-
ci allo stadio. Erano una decina in tutto, senza braccioli ma all'apparenza
comode e dotate di cuscini di velluto rosso. Una fra tutte spiccava: era più
grande e con lo schienale alto ed era disposta in modo da risultare in posi-
zione centrale senza essere sfacciatamente al centro.
Doveva essere la sedia del sindaco o forse, in certe occasioni, la sedia ri-
servata a qualche importante dignitario in visita. Questo nell'eventualità
che a Everworld i dignitari qualche volta si sedessero a fare una civile
conversazione, invece di ammazzare direttamente gli sfortunati presenti.
Anche questa sedia aveva dei cuscini ma, a differenza delle altre, il rive-
stimento era in broccato. Credo che si chiami così, il tessuto. Dovrei saper-
lo, ormai, con tutte le riviste di arredamento che mia madre legge e com-
menta di continuo.
Non c'erano altri mobili nella stanza, tranne un semplice tavolino ap-
poggiato a una parete. Era scarsamente ammobiliata ma comunque elegan-
te e non dava l'impressione di essere fredda.
Naturalmente le apparenze non significano niente, soprattutto a Ever-
world. Per quel che ne sapevo, LeMieux poteva irrompere nella stanza a
cavallo di una tigre del Bengala, con una freccia incoccata e puntata dritta
sul mio cuore.
«È carino» osservò April. «Non proprio corrispondente ai miei gusti
personali, dato che io preferisco lo stile "casa francese di campagna", ma è
carino. Strano che sia così europeo... non sembra affatto antico e mediter-
raneo...»
«Ci devono essere stati degli scambi commerciali con la superficie ad un
certo punto della storia» commentò Jalil. «Personalmente, preferirei che ci
fosse qualche bella finestra grande e spalancata, da cui potersi gettare in
caso ci si dovesse allontanare in fretta e furia» aggiunse con voce cupa.
«Non sembra la città ideale per te, questa Atlantide?» lo stuzzicò Senna,
la voce bassa, quasi sensuale. «Così pulita, così ordinata...»
«Direi che è la città ideale per tutti» ribatté April. «Tranne che per te. In-
somma, siamo stati arrestati, o quantomeno trattenuti, con un'accusa ben
precisa. Abbiamo violato delle leggi specifiche. Finora, la cosa più vicina
alla società del mondo reale che abbiamo incontrato qui è stato il mercato
del Regno dei Folletti, un vero monumento al capitalismo. Qui, invece,
abbiamo un monumento al governo equo e giusto, il governo del popolo e
per il popolo. Democrazia. Equa rappresentanza di tutte le parti sociali.
Qualcosa che non fa assolutamente parte della tua esperienza, Senna.»
«Non ti allargare troppo, April» disse Jalil, pacato. «Anch'io spero di a-
vere una giuria di miei pari, ma questo è Everworld. Non possiamo dimen-
ticarcene.»
Ci sedemmo. Io scelsi la sedia alla destra di quella di LeMieux, la più
grande. Alla mia destra si sedette Senna. Alla sinistra della sedia di Le-
Mieux presero posto April, Jalil e Christopher, formando una specie di cir-
colo approssimativo.
La sedia dallo schienale dritto e priva di braccioli mi consentiva di tene-
re la spada al fianco, a portata di mano.
Aspettammo. Non tanto, ma quei cinque o sei minuti sembrarono eterni.
Io ero all'erta e sospettoso, come Jalil, non del tutto tranquillizzato dall'i-
dea di aver finalmente trovato una società in qualche modo democratica.
Troppi fattori di rischio, troppi casi in cui la situazione avrebbe potuto
mettersi male per noi. Tanto per cambiare.
E poi, non è da me pensare che tutto possa filare liscio.
Finalmente la porta in fondo alla stanza si aprì. Entrò un uomo non certo
imponente, sotto il metro e ottanta di sicuro, in buona forma fisica, anche
se data l'età (sessantacinque, settanta, forse di più) era d'aspetto un po' se-
galigno. Indossava una specie di toga modificata, più sobria di quella che
portava Dioniso. Era completata da un paio di maniche lunghe e larghe e
un paio di pantaloni di forma simile. L'uomo aveva un'aria dignitosa, ma
non arrogante. Era lui, il sindaco. Lo seguiva un uomo molto più giovane,
un suo collaboratore, immaginai.
I due si avvicinarono a noi. Ci alzammo in piedi, una reazione istintiva
in presenza di una persona titolata. L'uomo ci rivolse un cenno del capo e
prese posto sulla sedia più grande. Il collaboratore allontanò un'altra sedia
dal gruppo, si sedette ed aprì una cartella piena di scartoffie.
«Prego» disse il sindaco invitandoci a sedere.
«Da dove siete venuti?» ci chiese.
I suoi modi erano cortesi ma formali, tipici di tutti i politici. Non un ac-
cenno al fatto che avevamo appena infranto una legge della sua città e che
non ci trovavamo in quella stanza per nostra spontanea volontà. Non c'era
alcun bisogno da parte sua di ricordarci chi comandava. E lo sapeva.
«La risposta alla sua domanda è molto interessante, signor sindaco»
Christopher fece una pausa. «Vuole la versione integrale o quella conden-
sata?»
«Signore» intervenni io, prima che LeMieux replicasse. «Signor sinda-
co, ci scusiamo per essere entrati nella città di Atlantide in modo illegale.
Stavamo cercando di tornare in superficie, da... dalla città di Nettuno, ma
abbiamo avuto qualche problema.»
Il sindaco fece un lieve sorriso.
«Ci sono sempre dei problemi quando c'è di mezzo Nettuno. Ma da dove
venivate, prima? Qualcosa mi dice che non siete originari di queste parti.
E... potete chiamarmi Monsieur LeMieux.»
«Okay, Monsieur LeMieux» dissi. «Noi veniamo dal Vecchio Mondo. O
dal mondo reale, qualche volta lo chiamiamo così. In tempi più recenti, pe-
rò, abbiamo aiutato Zeus e Atena a difendere l'Olimpo dagli eserciti di Ka
Anor.»
Queste informazioni sembrarono cogliere di sorpresa l'anziano signore.
Per un minuto pensai di aver rovinato tutto, un'altra volta. Logico, questo
tizio era probabilmente socio dei Romani, nemico giurato degli dei greci e
di tutto il popolo greco. Ma poi il sindaco di Atlantide scosse il nostro
mondo dalle fondamenta.
«In questo caso sono veramente lieto di fare la vostra conoscenza» ci
disse. «Perché anch'io vengo da quello che voi chiamate il mondo reale.»
CAPITOLO XXI
CAPITOLO XXII
CAPITOLO XXIII
Era il primo pasto decente che facevamo dalla discesa del Nilo, quando
la gente che viveva sulle sue sponde ci aveva offerto del cibo in segno di
riconoscenza. Dopo cena LeMieux ci accompagnò fuori dalla sede del
consiglio e ci guidò per le strade di Atlantide fino alla campana da palom-
baro che portava in superficie.
Per strada, mentre April e gli altri chiacchieravano con il sindaco e Sen-
na camminava in silenzio accanto a me, i miei pensieri presero a vagare.
Tornarono allo strano momento di silenzio che era seguito all'accenno di
LeMieux al problema di trovare un adeguato sostituto. Tornarono agli oc-
chi degli altri, che si erano puntati tutti su di me. Aspettativa? Sospetto?
Un giorno LeMieux non sarebbe più stato capace di governare. Lui lo
sapeva bene, riconosceva che un giorno, e presto, si sarebbe ammalato, sa-
rebbe morto. Atlantide avrebbe avuto bisogno di un nuovo sindaco, un
uomo saggio e coraggioso, un saggio guerriero. Potevo essere io quell'uo-
mo?
Avrei potuto essere io. Oppure no.
"Cercherò di dimostrarmi degno della tua spada."
Questo avevo detto, questo avevo promesso a sir Galahad, il perfetto ca-
valiere, sepolto sotto un cumulo di pietre da noi accatastate sui suoi poveri
resti ridotti in cenere.
Comunque nell'immediato, a quanto sembrava, il compito che mi atten-
deva consisteva nell'imparare a manovrare una campana da palombaro
vecchia e sgangherata. Se c'era qualcosa da manovrare, se non avessimo
dovuto più semplicemente restare seduti nella campana ad aspettare la
morte.
Non appena la vide, Christopher scoppiò a ridere.
«Okay, io dico che non ci sto.»
April si schiarì la gola.
«Be'... in fondo... a suo modo è... carina» commentò.
Okay, la campana da palombaro era bella, secondo un gusto molto, mol-
to antiquato. Era di metallo luccicante, che mi augurai fosse acciaio, ed era
decorata ovunque con motivi e ricami d'oro. Ogni bullone che saldava tra
loro le lamine di metallo era incastonato di madreperla. Ma...
«È così piccola...» mormorò Jalil. «Sembra un gabinetto da campeggio.
Sembra un miniascensore, ma...» Sbirciò dentro da uno dei piccoli oblò.
«... ma non ha comandi. È un montavivande. E probabilmente fa acqua.
Non capisco...»
Mi rivolsi a LeMieux.
«Non per non essere riconoscenti» gli dissi «ma lei è sicuro che questa...
mmm... questa cosa ci porti in superficie? Sembra... come dire... un po'
vecchiotta.»
LeMieux scrollò le spalle.
«Ci sono dei rischi, come vi dicevo. Ma non ho altro modo di aiutarvi a
risalire alla luce del sole.»
Guardai gli altri, a uno a uno. Vidi la rassegnazione sulle loro facce, per-
sino su quella di Senna.
«Allora, andiamo.»
Ci accomiatammo dal sindaco di Atlantide. Rinnovammo la promessa di
cercare di ottenere l'aiuto di Zeus per proteggere la città sottomarina. Con-
dizione inespressa: se fossimo sopravvissuti.
Ci pigiammo nella campana da palombaro. Un soldato di Atlantide ri-
chiuse la porta dietro di noi. Lentamente, molto lentamente la campana
cominciò a risalire lungo la grossa fune ritorta che da Atlantide si proten-
deva fino alla superficie del mare.
Salimmo. April osservava la bella città sottomarina scomparire sotto di
noi, Jalil teneva le labbra serrate e Christopher, incredibilmente, cantic-
chiava a bocca chiusa. Senna se ne stava in silenzio.
Erano passati circa dieci minuti quando sentimmo il primo lieve scosso-
ne. La campana scartò di lato e noi rotolammo con lei, braccia tese per
ammortizzare la caduta, ginocchia sbattute contro il fondo, tutti e cinque
ammonticchiati in un unico groviglio, troppo sorpresi, troppo impreparati
anche solo per gridare.
Jalil piegò il collo verso uno degli oblò.
«Maledizione, è uno squalo!» gridò. «Sta mordendo la fune...»
«Affonderemo!» urlò Christopher.
«No, non affonderemo, verremo sparati in superficie.»
E poi... fu come essere su una di quelle giostre dei parchi di divertimen-
to, quelle che ti sparano su-su-su solo per farti poi precipitare altrettanto
velocemente giù-giù-giù. Ma noi non saremmo caduti giù, avremmo conti-
nuato invece a salire a razzo verso la superficie.
Mi puntellai alla parete della campana meglio che potei, cercando di
controllare il panico.
«La decompressione!» esclamai. «Ci verrà la paralisi dei palombari.»
Jalil scosse la testa, come se la folle corsa di questa stanza degli orrori
non fosse abbastanza per lui, come se fosse necessario mettere altra carne
al fuoco.
«No. Pensaci, David: se gli dei fondatori non hanno scritto nulla in pro-
posito nel Grande Rotolo, non può esistere niente di simile a Everworld.
Se vuoi la mia opinione, credo che non ne sapessero un bel niente della
pressione atmosferica e delle leggi della scienza.»
«Spero tanto che tu abbia ragione» piagnucolò Christopher. E vomitò.
«Scusate, gente, non potevo farne a meno.»
E in quel momento la corsa della campana si fermò bruscamente. Non
eravamo proprio fermi, adesso sembravamo rollare. Un fascio di luce entrò
dal vetro schizzato d'acqua di uno degli oblò. Si affievolì, poi tornò a bril-
lare. Eravamo arrivati in superficie. La campana da palombaro continuò a
ballonzolare come un tappo di sughero sulle onde, ma almeno la pazza
corsa era finita. Vedevamo il cielo per un secondo, poi l'acqua, poi di nuo-
vo il cielo. Forse era filato tutto liscio, forse ne eravamo usciti vivi. Il pro-
blema, adesso, era questo: come fare a manovrare questa cosa fino alla ter-
raferma? E il problema a monte: era possibile manovrarla?
«Oh, no!» esclamò April. «Ascoltate!»
Ascoltai. E dalle pareti della campana sentii il ruggito familiare della
voce furiosa di Nettuno. Vicino. Troppo vicino.
E poi... un'altra voce, più profonda, ma altrettanto furiosa. Nettuno e Po-
seidone. Una gara vocale. Uno scambio di insulti. Un gridare inarticolato.
«I ragazzi hanno ricominciato» disse debolmente Christopher, ancora un
po' verdognolo. «Se ci vedono, siamo spacciati.»
Jalil guardò fuori da un oblò.
«Scommetto che Nettuno ci ha già dimenticati» disse. «Il che però non
significa che non ci troviamo in una brutta posizione. E non significa
nemmeno che non stiamo per lasciarci la pelle.»
In quel momento scoppiò il finimondo. Due uragani, scatenati in un i-
stante dalle due contrapposte divinità del mare, con venti di burrasca e on-
de di sei metri. E la nostra campana non era che un moscerino in balia del-
la più impressionante esibizione di forza di due immortali con evidenti
problemi di salute mentale.
Eravamo in una lavatrice in centrifuga, sballottati senza pietà contro le
pareti della campana.
Eravamo tutti pesti, ammaccati, insanguinati. Strinsi a me la spada più
che potei, per evitare che anche altri, oltre a me, finissero infilzati. Jalil an-
dò a sbattere con la testa contro uno degli oblò e lasciò una macchia di
sangue. Senna aveva la faccia livida e una mano che le penzolava strana-
mente dal polso, forse rotta. April aveva il labbro superiore spaccato; se
l'era morso da sola. Christopher era ferito alla tempia sinistra e una riga di
sangue gli scendeva fin sulla guancia.
Non avremmo resistito ancora per molto, le ferite aumentavano, gli sto-
maci si svuotavano. E quando gli dei avessero smesso di infuriare, quando
il mare si fosse calmato... che cosa sarebbe successo? Avremmo continua-
to a galleggiare, dondolando pacificamente sulla superficie del mare, una
bella campana da palombaro di tempi passati, con cinque cadaveri a bor-
do? Cinque adolescenti morti per ferite interne, disidratazione, fame... a
voi la scelta.
E poi, come per magia, la furia del mare cessò. E con essa, anche gli
sballottamenti.
Tutti ci lamentavamo, April si raccomandava a Dio e pregava, Christo-
pher imprecava, Jalil borbottava, Senna si stringeva le braccia intorno al
corpo fragile e pesto, cercando di allontanarsi il più possibile da me.
Restammo così non so per quanto tempo. Poi la campana da palombaro,
la nostra graziosissima prigione, fu gettata a riva dalle onde.
CAPITOLO XXIV
FINE