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LA DIOCESI DI MILANO DAL 1954 AL 1958

Sulla cattedra di Ambrogio


a) La nomina a Milano
Alla metà degli anni 50 l’importanza e il ruolo del Monsignor Montini erano ampiamente noti
perché era il punto di riferimento della dirigenza democristiana. La sua nomina ad arcivescovo
di Milano fu una vicenda rilevante per la storia della Chiesa e del cattolicesimo italiano
contemporaneo. Egli era infatti il più stretto collaboratore del Papa Pio 12 ed era l’interlocutore
privilegiato del laicato cattolico. Rimasero tutti sorpresi perché lo pensavano destinato
all’interno del Vaticano e non vescovo di una Diocesi. Giulio Andreotti, molto vicino a
Montini, pensava che l’esperienza in una Diocesi servisse a diventare Papa. Si pensava che
l’allontanamento di Montini da Roma fosse forzato dato un affaire impenetrabile negli ambienti
vaticani e il clima difficile che gli si era creato attorno. La sua nomina a Milano fu una tappa
molto importante che gli ha permesso di giungere al cuore del governo del cattolicesimo
mondiale. La linea montiniana sosteneva la politica centrista di Alcide De Gasperi, anche se
per il Papa la politica di quest’ultimo non dava garanzie di contenere l’ascesa della sinistra al
governo italiano. L’allontanamento di Montini da Milano è stata una vittoria per il partito
romano, ma che al protagonista aprì la strada al cardinalato e quindi lo proiettava tra i candidati
più autorevoli al pontificato. Papa Pio 12 era sempre più malato e stanco e voleva normalizzare
la curia romana per cui al posto di Montini fu nominato Monsignor Angelo Dell’Acqua molto
vicino a Montini. Montini fu mandato a Milano per succedere all’Arcivescovo Schuster che
era morto perché era necessario una personalità capace di colmare il vuoto lasciato da
quest’ultimo.
b) Montini, Roma e Pio XII
Montini giunto a Milano portò alcune sue idee innovative poiché aveva un bagaglio culturale
ed intellettuale europeo ed un’intelligenza curiosa ma curata nel contatto coi mondi e con le
persone diversi. Egli non visse questo trasferimento serenamente perché non si sentiva
preparato per un compito così gravoso dato che non aveva mai gestito una Diocesi prima d’ora
anche se negli edifici vaticani si era confrontato con situazioni e contesti differenti. La
Segreteria di Stato per lui è stata un osservatorio privilegiato sulla Chiesa universale e il suo
lavoro precedente era un bagaglio più che adeguato ai nuovi compiti pastorali. Nominato a 57
anni Arcivescovo di Milano è stato un sacerdote fedele e al servizio della Chiesa. Il suo
bagaglio di esperienze segnarono il suo episcopato milanese e il suo carattere “romano” rese
difficile l’incontro con il contesto milanese, anche se era nato a Brescia. Montini era riuscito a
splendere di luce propria raffreddando i rapporti tra lui e Papa Pio 12 per le diverse vedute e la
differente sensibilità verso molte questioni. Montini decise di non fare più ritorno a Roma per
allontanarsi dalle cose romane. Gli era spiaciuto il fatto di essere stato messo in cattiva luce
presso il Papa (persona debole) ma Montini lo elogiava e gli dava riconoscenza ed allo stesso
tempo il Papa gli fece attestati di stima e di vicinanza. Papa Pacelli fu il primo a rivolgersi alle
masse attraverso udienze pubbliche e Montini gli confidò che bisognava far giungere una
parola a tutti e specialmente ai lontani. Pio 12 gli aveva affidato Milano nel momento in cui “la
società stava uscendo da Dio”. Montini offrì una pedagogia capace di orientare e mobilitare le
masse al servizio del Papa. Il suo rapporto con le masse era una questione non solo per la
distanza del movimento operaio ma anche per lo sviluppo della società. La Chiesa doveva
valorizzare la persona singola inserendola in una comunità. La massa operaia aspettava
l’impulso da fuori per entrare a far parte della comunità perché non bisognava conservare ma
occorreva rinnovare, restaurare e rifondare il senso dell’autorità proponendo un senso religioso
prima che le istituzioni raggiungessero le masse specie i lontani. Montini voleva trasformare le
masse in popolo aggregandole in comunità dai tratti familiari per ricreare un popolo attorno
alla fede cristiana. Le encicliche di Pio 12 avevano dei tratti montiniani attinenti ai problemi al
centro delle attenzioni di Montini. Montini avvertiva di essere sotto la stretta osservazione del
Santo Uffizio ed assunse anche iniziative innovative come la missione cittadine del 1957
invitando a predicare figure discusse come Mazzolari e Turoldo. Montini assunse un
atteggiamento prudente con Roma per una sua scelta pastorale.
c) La città come sfida per la Chiesa
Montini aveva una visione positiva della città moderna anche se la città stessa era un ambiente
corruttivo delle sane abitudini e delle tradizioni religiose della popolazione ed era anche un
luogo negativo perché vi era un decadenza morale e sociale; ma Montini guardava la città con
interesse e con molta attenzione perché vi si potevano dispiegare al meglio le potenzialità
umane. Montini aveva ripensato alla presenza della Chiesa nelle grandi città moderne dopo le
missioni del Vescovo di Parigi Suhard nelle periferie operaie poiché anche Milano ne aveva
bisogno e la Piazza del Duomo ne rappresentava il punto nevralgico della città. Padre Turoldo
amava la città così com’era nel suo groviglio perché riteneva che Dio fosse al di sopra di essa
e si era incarnato abitando in mezzo al popolo perché Dio non era lontano da chi abitava nelle
città: la città è uno spazio da ricristianizzare dove si incontrano le persone e si intrecciano i
destini. Le lettere pastorali di Suhard conquistarono Montini e anche La Pira sindaco di Firenze
si confrontò più da vicino con le sfide che poneva una grande città moderna ed offrì la visione
della città come casa comune ed unità organica che favoriva una comunione fraterna di vita.
Mentre Turoldo riteneva la città anche un luogo conflittuale in cui poneva una serie di sfide
spirituali ai credenti. Nel suo insediamento a Milano Montini cominciò a delineare una
personale visione della città a partire dal fatto che il cristianesimo passava dalle città: “la città
reclama la religione come la religione reclama la città dato che nasce nelle scuole da una
istruzione religiosa e la chiesa doveva tornare a parlare all’intera città”.
d) L’incontro con Milano
La Chiesa Ambrosiana fu sollecitata da Montini a uscire dal suo orgoglio e la distanza da Roma
spinse diversi esponenti a coltivare grandi a sospettati e nei confronti del nuovo arcivescovo.
Dell’Acqua presentò Montini come l’arcivescovo dei lavoratori, anche se quest’ultimo impiegò
del tempo per farsi conoscere e capire le sue proposte. La sua nomina venne salutata con grande
gioia ma all’interno dell’azione cattolica comandavano sempre i soliti dirigenti con
preoccupazioni finanziarie ed organizzative e ci volle del tempo per comprendere Montini e il
suo progetto. L’attenzione di Montini era per gli uomini della fatica, per la famiglia, per i
giovani e per i disoccupati perché era consapevole dell’enorme difficoltà e avvertiva la
sproporzione e i problemi che avrebbe dovuto affrontare. Milano costituiva il contatto con la
realtà quotidiana della gente e la saldatura tra il mondo e la città. Montini sentiva il peso della
responsabilità cui era chiamato. Egli era arrivato a Milano per rispondere alle sfide della città
e per fronteggiare un senso di crisi. Sullo sfondo si stagliava il mondo di ceti lavoratori urbani
sempre più lontani dalla Chiesa. Milano rappresentava un enorme sfida pastorale. Montini si
imbatté in una città moderna con la drammaticità dell’immensa periferia, l’immigrazione,
l’edilizia selvaggia e lo spontaneismo degli insediamenti industriali. Milano era l’unica grande
città industriale di tutto l’Occidente e sfidava la Chiesa. Montini affermava però che anche il
cristianesimo era moderno e capace di parlare ad una società in rapida trasformazione, quindi,
sentiva che le persone avevano bisogno di un cristianesimo adeguato al tempo moderno. Senza
rinnovarsi spiritualmente il cristianesimo rischiava di ridursi a una semplice e vuota esteriorità,
per cui bisognava ritrovare lo slancio spirituale per riconquistare i contemporanei. La città di
Milano conobbe alcune importanti trasformazioni urbanistiche che simboleggiavano il
progredire del benessere moderno. Dopo la caduta del Fascismo i dirigenti comunisti
rivendicavano per Milano il ruolo di Italia popolare. Bisognava garantire un lavoro, una casa e
Milano divenne “Milano costruisce” e scelse di ricostruirsi non più così com’era ma con un
volto moderno facendo diventare più forte la divisione ideologica e la divisione di classe.
Milano entrò dunque in una nuova fase con nuovi problemi e tensioni legati al consistente
flusso migratorio e alle difficili condizioni di lavoro: iniziarono forti agitazioni sindacali e
scioperi. Montini seppe cogliere questa situazione e iniziò a cercò di riaffermare il primato
della spiritualità nei luoghi simbolo della modernità profana.
La questione religiosa nel contesto milanese
a) Il cattolicesimo italiano tra egemonia e crisi
Al suo ingresso in Diocesi, nel suo primo discorso, Montini spinse i cattolici ambrosiani a non
vivere la grande ricchezza spirituale come una realtà consolatoria ma come un rinnovamento
adeguato alle nuove sfide perché la Chiesa ambrosiana aveva un prestigio alto ed aveva una
forza che si faceva molto sentire nel panorama italiano (questa Chiesa era considerata la
seconda Roma al nord). La percentuale di donne era maggiore e anche la loro frequenza in
Chiesa era più sentita. La presenza cattolica era più debole nella cintura industriale e nelle
nuove periferie dell’immigrazione e l’azione cattolica rifletteva tutte le difficoltà di questo
mondo. L’Italia in quel periodo mostrava pienamente i tratti di una nazione cattolica. La vittoria
della Democrazia Cristiana (1948) aveva chiamato il mondo cattolico nella politica italiana e
aveva cambiato tutti i vertici dell’azione cattolica e nella Gioventù Italiana Azione Cattolica.
Si diffuse un malessere riconducibile alla sfida storica che il Cattolicesimo doveva affrontare
ed anche il trasferimento di Montini a Milano si collocò in questa crisi. Nella successiva
elezione politica (1953) ci fu un calo di voti democristiani e cominciò a diminuire la frequenza
alla Santa Messa e la sensibilità dei giovani che divenne più laica ed aperta alla società. Quindi
bisognava mobilitare il cattolicesimo dando uno strumento di rafforzamento e della presenza
della Chiesa nella nuova società. Alcuni vescovi erano insofferenti a questa nuova necessità
perché secondo loro bisognava tener conto delle realtà locali e cominciarono a lamentarsi
perché la Democrazia Cristiana non garantiva l’affermazione dei principi cattolici cristiani
nella società. La pressione dei comunisti sollecitò questi vescovi per dare vita ad un organismo
di coordinamento e dunque si ebbe così la prima riunione dei vescovi italiani a Firenze
(Conferenza Episcopale Italiana) nel 1952 con l’intento di offrire ai vescovi uno spazio di
confronto. Ecco perché la Democrazia Cristiana nelle elezioni politiche del 1953 non aveva
più la maggioranza e contro di lei furono avanzate critiche perché ritenuta la principale
responsabile dell’arretramento cattolico. Gli effetti del processo industriale avevano
progressivamente allontanato dalla Chiesa le masse popolari ed interi quartieri avevano voltato
le spalle alla fede: quindi si concentrò l’attenzione sull’avanzamento del Comunismo tra i ceti
popolari. Montini mostrò all’Azione Cattolica la sua ansia di fronte all’allontanamento etico
nella società italiana e questa era una critica perché risultava poco efficace la loro missione e
perché trovava molti contrasti nelle loro idee. Nella Diocesi Ambrosiana le parrocchie
costituivano una rete capillare che influenzava la popolazione ed erano un presidio religioso
che non rispondeva più alle esigenze della società di quel tempo. Erano i parroci di frontiera
nelle periferie che toccavano con mano il distacco della massa dalla fede e il disagio sociale.
b) Di fronte all’irreligiosità
A Milano la catechesi degli adulti era deserta e c’era una riduzione della pratica e della cultura
religiosa (liturgie affrettate, basso livello delle prediche, …). Quindi le trasformazioni della
Chiesa erano legate ai mutamenti socioeconomici di allora. La lontananza di tanti dalla
religiosità era data dalle difficili condizioni di vita e dai condizionamenti esterni. Montini
riteneva però che non tutto era compromesso perché era da tempo che questo problema esisteva
e solo con l’avanzare dell’industrializzazione si evidenziò esponenzialmente questa questione.
I cattolici dovevano essere l’anima della nazione Italia e la Chiesa non poteva ignorare questa
estraneità al discorso religioso. Montini pensava che le masse fossero solo spiriti scoraggiati a
cui era mancata la rivelazione divina e la mancanza della mediazione della Chiesa era
all’origine di questo problema, quindi poneva come esigenza la loro evangelizzazione per
ridurre le distanze e impostò come principio cardine l’incontro col mondo del lavoro, coi poveri
e coi lontani perché risultavano i più distanti dalla Chiesa. Questa posizione era però
minoritaria all’interno della Chiesa italiana. Montini inoltre riteneva necessario il risveglio del
senso ecclesiastico per suscitare una fede più consapevole nel popolo. La depressione spirituale
nella Gioventù Italiana Azione Cattolica appariva a Montini un segnale preoccupante ed un
disimpegno tra i giovani e per questo richiedeva un supplemento di forza per una democrazia
vera tra i giovani. Occorreva una nuova militanza nei cattolici e pertanto religione e politica
non costituivano ambiti da tenere del tutto separati: anche i cattolici potevano farsi carico delle
domande dell’intera popolazione italiana e la politica poteva essere un’espressione più ampia
al servizio dei cattolici per lo sviluppo della società. Quindi la seconda generazione
democristiana vedeva in Montini un punto di ispirazione. La crisi sfidava duramente la Chiesa
ma la stimolava anche per fare emergere la sua vitalità.
c) Montini e il mondo del lavoro
La diffusione del comunismo rappresentava un’inquietudine per la crescente irreligiosità della
società perché il comunismo non era solo un problema dottrinale o politico ma era anche una
sfera legata al vissuto di una parte della popolazione italiana (questione operaia che era
concepita come una sfida del comunismo contro la religione). Quindi i valori del comunismo,
la sua struttura organizzativa e la sua capacità di mobilitazione delle masse lo rendevano
un’altra “Chiesa” capace di conquistare il cuore delle masse italiane. Per i vescovi il
comunismo era il peggiore errore prodotto dalla modernità e il rinvigorimento della morale dei
cattolici doveva andare con la vita pubblica, ma lo sgretolarsi delle certezze li spinse a cercare
di capire meglio la crisi che era in atto. Anche Montini affrontò questa questione ed insistette
più volte su questo aspetto poiché riteneva che bisognasse sanare il malinteso creato tra
religione e lavoro. Milano era la prima città ad inaugurare la pace nel mondo del lavoro non
come debolezza ma come una collaborazione e Montini divenne l’arcivescovo dei lavoratori
perché bisognava essere capaci di trattare con chi si poneva su fronti diverse e a Sesto San
Giovanni consacrò l’industria Magneti Marelli a Santa Chiara e divenne la più grande
cattedrale profana perché lì nella fabbrica si celebrò la prima messa per gli operai che dimostrò
quanto il lavoro fosse pienamente compreso nel mondo cristiano e che la religione era il canto
del popolo. Le Associazioni Cattoliche Lavoratori Italiani erano il ponte fra la Chiesa e le masse
lavoratrici e quindi dovevano occuparsi dei lavoratori in modo particolare con uno stile proprio
e nei confronti del comunismo non ci doveva essere nessuna debolezza perché la loro
impostazione risultava errata. Il problema del comunismo era tra i temi all’ordine del giorno
nella conferenza a Pompei della Conferenza Episcopale Italiana del 1955 dove si condannava
la distensione dei cattolici verso i comunisti. Suscitò un dibattito tra i vescovi e Montini
sottolineò il fatto che c’era un’apertura da parte della Democrazia Cristiana verso i socialisti e
a Milano anche le Associazioni Cattoliche Lavoratori Italiani si aprirono a questi ultimi facendo
un accordo. Quindi Montini venne ritenuto inadeguato al suo lavoro. Si creò quindi una
lacerazione nel mondo cattolico che solo con Papa Giovanni 23 si ricongiunse. Per Montini i
comunisti non erano nemici ma semplicemente erano persone che si erano allontanate dalla
fede. Quindi ai sacerdoti era dato il compito di amare gli operai senza diventare come loro:
crebbero così i “preti operai” ma fu un fallimento perché i preti dovevano solo aiutare la
popolazione più fragile e lontana andando in mezzo a lei e quindi dovevano essere più servitori
e meno esattori. Di fronte al nuovo la Chiesa doveva avere un atteggiamento positivo e le
discussioni sulle condizioni sociali avevano introdotto nella società italiana una forte
conflittualità. Papa Pio 12 aveva detto di non accontentarsi di un passivo anticomunismo ma di
costruire una società con l’ordine morale, mentre Montini sottolineava la necessità di
combattere la disoccupazione e la mancanza di abitazione dando una stabilità ai rapporti
lavorativi poiché stava entrando di più nella realtà e nelle visite pastorali incontrava più da
vicino i lavoratori ed avvertiva l’urgenza di colmare le distanze con le tante realtà percepite
come “lontane”. C’era una grande distanza dalle domande e dalle esigenze dei ceti popolari
da parte della Chiesa. La Chiesa doveva svuotare il socialismo prendendo una propria iniziativa
sociale. Montini era portatore di una concezione sociale della carità intesa come attenzione alle
relazioni personali e come costruzione di una dimensione comunitaria e sottolineò la forte
proiezione sul futuro della retorica comunista rimarcando il desiderio di migliorare la società
nelle anime semplici. Si parlava di “due Italie”: una nazione materialistica o pagana formata
non solo da comunisti o marxisti ma da tutti coloro che avevano una concezione materialistica
della vita mescolata alla nazione cristiana.
Tra centro e periferia
a) Trasformazione urbana e nuove periferie
I parroci di periferia fecero presente l’esigenza di dotare nuovi quartieri di chiese e di strutture
per l’assistenza religiosa. Montini invitò le autorità cittadine a dotare i quartieri di edifici di
culto e di educazione e portò alla conclusione alcuni cantieri in corso perché per lui era
importante conoscere la realtà della Diocesi, parlare coi parroci ed incontrare i fedeli studiando
le situazioni e conoscerle prima di prendere le decisioni. Egli avviò quindi l’Ufficio di Statistica
Religiosa e dotò la Chiesa di strumenti moderni per comprendere i vari fenomeni poiché aveva
compreso che la questione della periferia era un problema urgente da affrontare dato che gli
abitanti giungevano spesso da altre regioni e da contesti agricoli e quindi c’era difficoltà ad
inserirsi nel contesto urbano milanese. Anche la nebbia era l’espressione di una città in cui era
difficile inserirsi e sembrava nascondersi ai nuovi arrivati persino per Montini che appena
arrivato nella Diocesi affermò che “la terra ambrosiana era fredda e bagnata”. Le periferie erano
composte da case senza nient’altro intorno in mezzo a prati e a orti e con una rete stradale
carente (“villaggi abissini”) quindi i migranti provenienti dal Veneto, dall’Istria e dal
Meridione si autocostruivano case che erano chiamate “coree” e dicevano che gli mancava
tutto poiché distavano 8 km dal centro e non avevano luce né corrente né strade. A Montini la
periferia appariva “pagana” e “soffocata dall’irreligiosità” perché era lontana dagli uomini e
da Dio e quindi alla Chiesa spettava il compito di riunire le due città in un solo corpo.
b) La Milano dei “periferici”
Vennero costruite delle baracche oltre che in diverse zone della periferia milanese come
Lambrate anche vicino al Duomo: erano prefabbricati allestiti dal comune in cui abitavano
molte famiglie indigenti. La promiscuità e il disagio abitativo incidevano sulle relazioni
familiari. Intorno alla cerchia ferroviaria di Bovisa esistevano borghi che avevano sviluppato
una specifica identità con un proprio centro ed una propria parrocchia. Nel 1953 la città di
Milano venne dotata di un piano regolatore generale che suddivideva il territorio in aree
specifiche secondo una logica e che spostava le aree produttive in periferia cosicché
quest’ultime finissero per saldarsi ai comuni limitrofi. Le periferie si distinguevano per la
mancanza di servizi pubblici, di luoghi di aggregazione, di strade pubbliche, di fognature, di
scuole, … Negli anni Cinquanta Fanfani col suo piano costituì l’Istituto Autonomo Case
Popolari per dar lavoro ai disoccupati e fornire una casa dignitosa ai ceti meno abbienti e
realizzò in pochi anni centinaia di interventi con alti standard urbanistici. La speculazione dei
privati che costruivano grandi case non rappresentava una soluzione adeguata perché erano
come “dormitori con mancanza di ogni rapporto col mondo lavorativo” e perché vi era una
difficile convivenza tra persone di origine diversa che giungevano a Milano da contesti rurali
e si guardavano con diffidenza. La Chiesa, quindi, riteneva la necessità di fare più salda la
dimensione comunitaria: la presenza di un sacerdote che viveva a contatto con le famiglie era
fondamentale per abbattere la diffidenza. Si evidenza l’allontanamento degli adulti dalla
religione per ragioni politiche e a causa della confusione tra Chiesa e Democrazia Cristiana.
Dunque dare un parroco alla periferia era molto urgente perché in quel periodo la Messa veniva
celebrata in luoghi provvisori e bisognava costruire una Chiesa capace di diventare il centro di
quartiere, di integrare persone di ceti diversi e di essere una grande famiglia. Inoltre occorreva
creare un’unità di fedeli per educarli alla comunità spirituale. Per Montini invece la Chiesa era
concepita come luogo attorno a cui si consolida il territorio perché per lui la periferia non era
una gravosa sfida che chiamava la Chiesa ad un rinnovamento ma rappresentava un’occasione
per sperimentare la pastorale. Accanto al Piano Fanfani si affiancò il Piano Montini, ma
costruire chiese era molto difficoltoso per mancanza di sacerdoti e di denaro. Quindi Montini
si rivolse alla Diocesi per avere un contributo. Anche i poveri della baraccopoli di Porto di
Mare fecero un’offerta e nel Natale 1956 Montini celebrò la notte di Natale a Ponte Lambro, il
rione più povero e umile della città. Le possibilità lavorative che offriva la città di Milano la
resero un approdo per tanti e per questo più di 20.000 persone all’anno arrivavano e abitavano
in stanze subaffittate. La difficoltà più grande era la convivenze tra persone con abitudini,
dialetti e tradizioni diverse e famiglie più povere e numerose abitavano in appartamenti
insufficienti creando problemi di igiene e di promiscuità.
c) Le tante periferie di Milano
Gli immigrati si autocostruivano abitazioni con pochi mezzi e una scarsa attenzione a qualsiasi
criterio urbanistico: si iniziava dalla cantina che veniva subaffittata e si terminava col secondo
piano dove abitava il padrone. A costo di sacrifici e di cambiali si costruivano giorno dopo
giorno la loro casetta. I sacerdoti si trovarono a competere con le tradizioni religiose del paese
di origine di ognuno. Non esisteva nessun tipo di scuola e si cercava di realizzare degli asili
cosicché le donne potessero andare a lavorare. Nelle periferie “coree” gli abitanti non si
conoscevano tra loro e la parrocchia come chiesa era spesso l’unico punto di riferimento. La
Bassa era una periferia molto particolare: prevalentemente agricola e concentrata lungo la Via
Emilia. Alcuni giovani preti presso il Santuario di Santa Maria alla Fontana di Locate Triulzi
diedero vita ad una sorta di fraternità lasciandosi sollecitare dalle condizioni di povertà e dalla
crescente irreligiosità presente tra le popolazioni e puntarono ad andare a cercare i parrocchiani
nei cascinali facendo una catechesi dialogata presso le famiglie. La Bassa era un’area formata
da ampie proprietà di famiglie nobili milanesi e di enti di beneficienza che erano lavorate da
fittavoli che sfruttavano il terreno e dai braccianti che lavoravano privi di qualsiasi garanzia e
che si trasferivano da una cascina all’altra. Quando ci fu la meccanizzazione molti furono spinti
a trovare lavoro come operai nelle fabbriche spopolando così la campagna. Il ministero
sacerdotale era difficile perché i parrocchiani risultavano dispersi in un vasto raggio di territorio
con strade impraticabili e quindi molti preti rifiutarono di andarci perché la ritenevano una sorta
di punizione. I preti del Santuario di Santa Maria alla Fontana cercarono di occuparsi di quei
contadini più lontani in cui vedevano elementi positivi. I contadini cominciarono a pensare ad
una vita migliore nelle città lavorando nelle industrie. Montini avvertì che il nodo religioso era
legato alle difficili condizioni di vita dei contadini perché nella Bassa c’era anche il popolo
zingaro il cui mondo era estraneo alle attenzioni pastorali della Chiesa. Per aiutare Don Mario
Riboldi, prete degli zingari, Montini gli regalò una lambretta per poter visitare meglio le
famiglie di zingari sparse per la Lombardia.
La missione di Milano
a) Lontani e vicini
Montini sentì che la condizione spirituale dei lontani non fosse disgiunta da quella dei vicini.
Per l’arcivescovo il “problema religioso” non riguardava tanto l'assenza di fede, quanto una
condizione particolare della popolazione animata per così dire istintivamente da un bisogno
spirituale e ribadiva la necessità di riprendere consapevolezza di che cos’era la vita cristiana.
La questione religiosa era più qualitativa che quantitativa: non era il battezzare o frequentare
le messa domenicale perché la gente era ancora per la maggioranza battezzata e frequentante.
I due termini qualità e quantità non si escludevano a vicenda ma erano strettamente intrecciati
ed era il momento di formare gruppi propagandisti non isolazionisti. Interiorità e preghiera
erano gli aspetti centrali della nuova sensibilità religiosa. Il racconto del viaggio dei Magi
durante una predica di Montini era l’espressione di un movimento spirituale per scuotere
l’inerzia dei vicini e dei lontani poiché i Magi essendo i più lontani erano i più vicini alla fede
perché i vicini sono indifferenti ed ignari mentre i lontani sono più pensosi e solleciti. I lontani
erano i preferiti proprio perché irrequieti e in ricerca della fede. La Chiesa aveva bisogno dei
lontani anche se critici per far sì che i cattolici non restassero estranei alle dinamiche perché i
lontani non erano gli oggetti dell’evangelizzazione ma dovevano partecipare al processo in uno
scambio di idee. Montini pensava di ricorrere a predicatori esterni e l’idea di una missione
cittadina era per lui un colloquio con l’intera città raggiunta nelle sue diverse articolazioni.
L’idea montiniana di colloquio era il metodo e la sostanza della missione cittadina perché
bisognava smettere un atteggiamento oppositivo e violento nei confronti dei tanti errori che
avevano allontanato molte persone ed assumere un’attitudine più indulgente non considerando
gli altri come nemici ma come malati da curare. Restava però aperta la domanda di come
restituire autenticità al vissuto cristiano nel confronto del mito comunista e del benessere
borghese. Nel 1956 l’incontro col Cardinale Roncalli con cui Montini condivideva un rapporto
di amicizia e di stima offrì a quest’ultimo l’occasione per parlare delle missioni di Milano. In
sintonia con le idee di Roncalli Montini constatò che la Chiesa era ancora sulla difensiva e da
qui nacque l’esigenza di una convinta militanza dei cattolici per rispondere ad un contesto ostile
e nemico. L’apostolato doveva andare al di là delle soglie dell’Associazione e deve essere
portato nella scuola, nella piazza, negli uffici, nelle officine e così via. Bisognava imitare San
Paolo che si fa greco con i greci, romano coi romani e giudeo coi giudei ossia assimilarsi agli
altri e dare un apostolato che sia innestato nelle condizioni e nelle esperienze della vita. Ai
lontani furono dedicati alcuni significativi interventi durante l’anno delle missioni 1957 che si
conclusero poi con la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. I cristiani non-cattolici
erano anche loro dei lontani.
b) La lettera pastorale del 1957
La lettera pastorale all’ arcidiocesi ambrosiana per la Quaresima 1957 definisce il “senso
religioso” come l’attitudine naturale dell’essere umano ovvero la disposizione dell’anima a
intuire e cercare Dio. La mancanza di questo senso per Montini era un problema religioso
contemporaneo e la religione rimaneva esteriore e formalista. La natura dell’avversario
rappresentato dal lontano non era qualcuno contro la Chiesa ma l’uomo moderno indifferente
a qualsiasi relazione con Dio e questo coinvolgeva tutti sia i vicini che i lontani. Nella causa
della perdita di senso religioso Montini individuava 3 fattori: 1. Affermazione dell’umanesimo
profano che ha posto l'uomo al centro di tutto mettendosi al posto di Dio; 2. Manomissione
dell’ordine morale causata da una malintesa concezione della libertà, intesa come licenza di
operare in modo qualsiasi & 3. Conquista del mondo naturale come subordinazione dell’uomo
alla tecnica. Montini era convinto che si poteva rispondere allo smarrimento dell’uomo
contemporaneo invitando a fare missione popolare e suscitando un’autentica sensibilità
religiosa. Il laicismo aveva inaridito il senso religioso e senza pensare a Dio quest’ultimo
rischiava di essere un filo lanciato nel vento perché il senso religioso per svilupparsi necessita
del continuo ascolto della parola (Bibbia). La Bibbia è la via principale per restituire un senso
religioso ad una società. La missione milanese mirava a presentare qualcosa di più concreto e
vivo e il contenuto delle prediche doveva confermarsi a tale orientamento cioè a “Dio Padre”
ossia la vicinanza e la presenza di Dio nella vita degli uomini. La paternità di Dio doveva
restituire il senso di un rapporto fraterno tra le persone. Montini riconosceva l’importanza dei
laici ma senza confondere i ruoli poiché aveva un senso alto della “dignità e capacità di azione”
del laicato che andava associato in un rapporto di complementarietà alle gerarchie e non
condivideva l’uso disinvolto che facevano i vescovi italiani del concetto di laicismo. L’unione
del Vangelo è la religione dell’amore di Dio agli uomini e degli uomini a Dio e senza questo
pensiero la società rischiava di frantumarsi smarrendo le ragioni di un destino comune. La
Missione intendeva ricucire le tante divisioni presenti nella città e quindi “senso religioso” e
missioni appaiono intrecciarsi strettamente tra di loro.
c) Missione nella città
La durata effettiva della Missione cittadina del 1957 organizzata da congregazioni religiose è
stata di 3 settimane dopo i 3 anni di preparazione. È stato l’evento più seguito del Novecento.
Il suo scopo era quello di ravvivare la pietà popolare nei contesti rurali e nelle piccole città.
Montini pose al centro dell’evento i valori e i principi morali come comunicazione alla città in
risposta alla crescente irreligiosità della società contemporanea. Egli voleva ritessere il tessuto
sociale della città proponendo a tutti la parola di Dio. Durante le sue visite pastorali Montini
aveva visto la diversità delle “due città”: quella di chi stava bene e quella che faticava ogni
giorno separate tra di loro da distanze sociali, culturali ed economiche. La Milano dei palazzi
borghesi sembrava sempre più sorda ai destini di chi viveva nelle baracche e nelle case minime
della periferia. La città doveva essere risvegliata nella sua coscienza religiosa perché ogni
giorno i pendolari dominati da ritmi veloci perdevano contatto con la vita spirituale come la
massa di immigrati che popolavano le periferie. Si richiedeva ai parroci una vita sobria per
raggiungere gli strati popolari e alcune confraternite si impegnavano per una condivisione
concreta delle condizioni di vita degli abitanti delle periferie con una testimonianza evangelica
attraverso una vita povera. Secondo Montini l’esperienza missionaria non doveva essere
solamente attenta ai contenuti da comunicare ma coinvolgere l’atteggiamento e la vita di chi li
promuoveva perché occorreva prima liberare la classe operaia e i diseredati dalla loro
oppressione e in un secondo momento evangelizzarli. Ma ciò doveva portare ad un
cambiamento profondo nell’animo delle persone proponendo un cristianesimo autentico che
tenesse insieme umanizzazione ed evangelizzazione senza separarle. Montini trovava nella
missione la principale via per un rinnovamento interno alla Chiesa coinvolgendo istituzioni e
persone in un vasto processo di cambiamento. Egli non era un regnante, ma era più un docente,
un ricercatore e uno sperimentatore perché era convinto che la vera riforma da compiere fosse
un cambiamento spirituale capace di rispondere all’indifferenza religiosa risvegliando il genio
apostolico e missionario della Chiesa. La Missione intendeva essere un momento di presa di
coscienza dei problemi e più in generale della questione religiosa a Milano ed aveva la pretesa
di arrivare in quelle zone che non avevano più sensibilità religiosa: bisognava uscire dalle
ristrette cerchie per arrivare a tutti. Quindi la Missione andrò oltre i propri ristretti ambiti
raggiungendo ambienti diversi come uffici, fabbriche, grandi magazzini, scuole ed ospedali
dando vita al modello di “parrocchia missionaria”. Montini invitò i parroci a sottolineare la
grande opportunità della Missione e ad avvisare il popolo di questo grande avvenimento.
Notevole fu lo sforzo per pubblicizzare l’evento, anche l’arcivescovo intervenne
personalmente per sollecitare un a partecipazione attiva e vennero portati gli inviti nelle
officine, nelle fabbriche, negli uffici e nelle banche. La Missione andava concepita secondo
Montini come un’occasione di rinnovamento di tutta la Chiesa a partire dalla nuova centralità
della parola letta e comunicata. Il 20 ottobre 1957 ci fu l’annuncio ufficiale e passando per le
vie della città Montini maturò l’idea che la Missione era una comunicazione di un messaggio
che potesse rafforzare i vincoli sociali di una città sempre meno coesa e solidale. La Missione
si svolse dal 5 al 24 novembre 1957 ed ebbe una notevole dimensione di incontri e di persone
coinvolte. Fu una grande convocazione di personalità e i protagonisti furono esclusivamente
sacerdoti. Le predicazioni si rivolsero ad ammalati, ragazzi, donne e uomini, categorie
professionali come le infermiere, gli artisti, i medici, i magistrati ed i notai e non mancarono
stabilimenti che fecero richiesta di essere coinvolti nella missione. Le Associazioni Cattoliche
Lavoratori Italiani criticarono questo perché il lavoratore avrebbe considerato la Chiesa dalla
parte dei padroni. Si dovette constatare la scarsa partecipazione dei lontani. Fu una grande
esperienza collettiva in cui molti si sentirono protagonisti dentro e fuori la Chiesa, anche la
Gioventù Studentesca guidata da Don Luigi Giussani vissero in prima linea la missione
cittadina e Montini apprezzò lo spirito missionario nelle scuole. Alla fine della Missione il 24
novembre si tenne un grande Te Deum di ringraziamento in Duomo e al termine venne
ascoltato il radiomessaggio di Papa Pio 12. Questo aveva agli occhi di Montini un significato
personale oltre che ecclesiastico anche perché ci fu una piega imprevista quando gli venne
comunicato che il Papa non sarebbe intervenuto. Non si poteva pensare che la Missione di
Milano si concludesse senza una parola pontificia ed alla fine giunse la notizia positiva
dell’intervento in cui il Papa esprimeva il suo compiacimento per l’iniziativa. La Missione
rappresentava un punto di partenza per sviluppare un lavoro pastorale: di fronte alla città e ai
suoi bisogni era maturato il senso che la Chiesa era chiamata a nuove responsabilità. La Chiesa
veniva sollecitata a collocarsi dentro le dinamiche della città come elemento di giunzione tra
mondi, realtà e sensibilità diverse. Durante la Missione ci fu una mobilitazione delle parrocchie
con l’unità tra parroci e popolo e clero e laici che fu il lascito principale dell’evento. Furono
rinnovate organizzazioni e aspetti della vita parrocchiale con un risveglio in campo liturgico e
nella partecipazione dei laici. Alcuni aspetti però non furono incoraggianti a causa dei toni
poco incisivi di alcuni predicatori e la tiepidezza mostrata da alcuni parroci. L’esempio
milanese fu copiato dalla città di Gallarate e dalla città di Lecco mentre a livello nazionale non
trovò spazio in alcun tipo di discussione oscurata da altri tipi di preoccupazioni come le elezioni
politiche con la possibilità di un’apertura a sinistra da parte dei democristiani e all’estero ebbe
risalto grazie alla stampa e nella Diocesi di Montreal nel 1958 si replicò l’esperienza
ambrosiana. La Missione aprì anche una fase di riflessione e nel 1958 si organizzò a Milano
l’8a Settimana Nazionale sul tema “la Chiesa e i lontani”. Bisognava uscire dai campi chiusi
dei propri ambienti per avvicinare quanti per diversi motivi erano distanti. Si discusse anche di
esperienze e metodi di accostamento dei lontani nei diversi ambienti e la Diocesi scelse di
concentrare la propria attenzione soprattutto su questo argomento. Alla fine del 1958 la
popolazione italiana entrò in crisi per i cambiamenti di costume, di maniera di vivere e di
disponibilità di case ed abitazioni e questo mutamento fu accompagnato da quello culturale con
l’abbandono del mondo rurale per trasferirsi nelle città dove si rimescolavano i confini di classe
e di status. Questo interessò principalmente il ceto medio. Ci fu una forte crescita del reddito e
un’impennata dei consumi. Il 27 novembre 1957 fu inaugurato a Milano il primo supermercato
italiano chiamato “Supermarket”. L’automobile divenne l’icona di affermazione del valore
dell’individualità ed un simbolo giudicato immorale.
Dopo la missione
a) Economia e Vangelo
La missione di Milano del 1957 rappresentò un’immersione nella realtà della città venendo a
contatto con tutte le sue sfaccettature e aveva suscitato più domande che risposte.
L’Arcivescovo aveva riconosciuto il rapporto di Dio con la gente di quel tempo tormentata dal
dubbio e logorata dalle cento crisi dello spirito. La massa aveva dubitato troppo e si era abituata
a intristirsi nell’incertezza e a divertirsi nel cominciare ogni giorno da capo. Montini era
convinto che la dimensione spirituale fosse la bussola per navigare nelle tempeste culturali e
sociali e che la Chiesa doveva tenere insieme le classi sociali di realtà e mondi diversi. Il
contatto diretto tra le diverse realtà aveva evidenziato il peso di una mentalità materialistica
che si scontrava con la proposta pastorale dell’arcivescovo, senza impedire di provare a
penetrare i complessi meandri dell’economia perché nella metropoli ambrosiana il senso
economico metteva in discussione l’umanesimo cristiano. Il senso economico veniva descritto
come il senso dell’esistenza umana. Il senso moralista di Montini denunciava come la mentalità
economicista conducesse ad un inaridimento progressivo del senso di umanità ed era pericoloso
perché coinvolgeva i credenti dato che il senso del povero e il senso di Dio erano connessi. Chi
pensava che la questione sociale fosse passata in realtà ignorava le vere condizioni in cui si
trovavano i lavoratori cioè una grandissima parte del popolo italiano, anche se gran parte del
pubblico colto italiano le ignorava. In quel tempo gli operai delle fabbriche milanesi erano
sottoposti a dure pressioni da parte dei datori di lavoro ed anche il mondo rurale era travolto
dalla modernizzazione. Quindi Montini aveva individuato i ceti che dovevano essere al centro
dell’attenzione della Chiesa: i lavoratori, i poveri e i lontani. Gli affari non sarebbero affari se
prescindevano dall’obbligo morale perché la vita morale e le istanze sociali dovevano andare
insieme; ma la Chiesa tollerava poco questo pensiero di Montini perché secondo lui doveva
uscire da un’eccessiva imparzialità schierandosi con i poveri. Il vero prete doveva stare con gli
zingari (lontani) non compassionarli ma avvicinarli e simpatizzare. La povertà diffusa spinse
Montini ad interrogarsi maggiormente sull’economia e sugli effetti di un’iniqua distribuzione
della ricchezza e a chiedersi se fosse possibile un’amicizia tra Madonna Economia e Madonna
Povera. L’idea che la ricchezza toglie la libertà interiore e chi possiede si isola era valida anche
per la Chiesa perché solo una Chiesa che si presentava povera poteva avvicinare tutti. Il
concetto di carità era associato a povertà perché la carità era un gesto che rendeva povero chi
lo faceva, invece la carità doveva essere una grande ricchezza perché la carità e il legame coi
poveri erano l’elemento aggregante della coesione sociale. La carità è la forza del popolo
perché la carità unisce, crea simpatia e crea amicizia.
b) Rinnovare la liturgia
Montini aveva una propria visione della liturgia: doveva favorire la partecipazione e
l’inserimento del popolo nella celebrazione liturgica e si trattò di un processo di grande rilievo.
Questo rinnovamento spinse la Chiesa ad interrogarsi su come connettere la liturgia ad una
fede vissuta superando l’esteriorità del ritualismo. In questa formazione di idee di Montini fu
il contatto col mondo benedettino che tendeva ad unire in modo più stretto teologia e liturgia,
fede e vita. Secondo i benedettini la preghiera individuale non era adeguata a rispondere alle
esigenze spirituali delle masse mentre la liturgia con il suo carattere di culto pubblico era
capace di toccare gli animi. Restava la questione se le masse fossero più sensibili ai sentimenti
o alle parole. Questo periodo fu molto importante per la formazione liturgica di Montini poiché
vennero costituiti i fondamenti della proposta educativa montiniana. Nel 1958 al Congresso
Nazionale di Federazione Universitaria Cattolica Italiana il tema era il dogma nella liturgia,
Montini considerava la liturgia come una risposta al problema individualista e individuò nel
modello monastico benedettino centrato sulla liturgia e su una spiritualità personale ma non
individuale un'alternativa efficace al “monismo individualista” dominante nelle correnti di
pensiero del tempo. In quel periodo nel centro del cattolicesimo il rito era vissuto tra esteriorità
e devozionismo, quindi occuparsi di liturgia era diventato problematico poiché suscitava dei
sospetti. Nell’enciclica papale “Mediator Dei” del 1946 si delineò una liturgia con precisi
confini dottrinali: si riconosceva nella liturgia la piena realizzazione dell’unità della Chiesa
limitandosi a suggerire la partecipazione dei fedeli alla Santa Messa. Le Settimane liturgiche
istituite dal 1949 rappresentarono passaggi importanti per lo sviluppo della liturgia nella
pastorale delle Diocesi italiane. Montini però era consapevole che la teologia liturgica era un
terreno assai scivoloso negli ambienti vaticani ed aveva il senso del carattere unitivo della
liturgia, così ripropose il significato sociale e il valore aggregante della liturgia anche per il
contesto più frammentato della società industrializzata e cercò di dare sostanza pastorale a
queste riflessioni. Il problema era rispondere al bisogno di catechesi e di evangelizzazione del
popolo superando la scissione tra liturgia e istruzione religiosa. La riforma montiniana della
liturgia doveva essere orientata prevalentemente dalle esigenze pastorali (partecipazione attiva
alla liturgia, orari delle S. Messe, …). Questa sollevò una serie di problemi da parte dei parroci
perché le sacre funzioni erano frequentate da persone libere da impegni professionali
escludendo i contadini e gli operai. Per Montini bisognava rispettare i ritmi della città moderna
perché orari non adatti avrebbero dissuaso e scoraggiato le persone, quindi per avvicinare i
lontani era necessario adeguare i tempi della Chiesa con quelli della vita urbana. Il popolo ha
bisogno di osservanze facili e adatte alle esigenze della sua vita laboriosa. Questa riforma era
un elemento che favoriva la più profonda unità con la Chiesa universale. Nel dibattito liturgico
dell’epoca il confronto era tra “cultori” della liturgia e chi come Montini aveva una
preoccupazione di carattere pastorale con l’intento di recuperare l’adesione del popolo alla
celebrazione dei riti religiosi (pietà eucaristica). Per Montini la liturgia rappresentava il mezzo
per la rigenerazione della vita religiosa sia dei sacerdoti che nella liturgia avrebbero potuto
rinnovare il loro rapporto con Dio sia del popolo. La dimensione comunitaria della Chiesa
imponeva che il popolo partecipasse alle celebrazioni liturgiche non limitandosi a restare un
pubblico passivo e in ascolto. Perciò più che l’abbandono del latino nelle Sante Messe
bisognava spiegare per far comprendere i simboli del rito. La Missione del 1957 fu l’occasione
per applicare alcune di queste indicazioni e fece scaturire una rinnovata educazione liturgica
per comprendere e partecipare alla bellezza del culto, quindi anche l’orario delle Messe doveva
adattarsi alle esigenze dei fedeli e aiutare il popolo a comprendere l’alfabeto della liturgia che
era fatto solo di segni. La liturgia esprimeva in forma simbolica e complessa la sua identità. La
sfida più difficile era quella di ridare ai fedeli la capacità di capire le preghiere nel loro
significato più profondo attraverso il canto, la lettura in italiano di alcune parti e la recitazione
a voce alta di alcune preghiere. Tutto ci rappresentava lo strumento principale per educare
spiritualmente il popolo e il clero.
c) Nuove chiese
Questo rinnovamento implicava anche un ripensamento dello spazio sacro perché si sentiva il
bisogno di ridurre le distanze tra il clero e il popolo. Ma si faticò a farlo recepire nel contesto
italiano. Novità significative per il rinnovamento strutturale della Chiesa vennero da alcuni
giovani architetti milanesi sensibili al tema del sacro. La realizzazione della Triennale di
Milano del 1947 fu l’occasione per bandire un concorso per una nuova chiesa. La chiesa di
Santa Maria Nascente al QT8 è un edificio decisamente fuori dai canoni che fece di Milano il
centro dell’architettura sacra contemporanea.

Venne creato il Centro studi di architettura per la comunità cristiana a Milano. Montini diede
un notevole contributo alla politica delle nuove chiese, al rapporto con gli artisti,
all’interlocuzione con le amministrazioni pubbliche, alla comunicazione e al coinvolgimento
di soggetti vari. Per lui bisognava dare assistenza religiosa alle masse della periferia e la
mancanza di chiese e la costruzione di nuove era il più grande problema pastorale della città.
La mancanza di terreni per la costruzione di nuove chiese portò alla realizzazione di decine di
cappelle che raggiungevano capillarmente la popolazione nei diversi quartieri. Nel 1957 si
completò in periferia la chiesa di San Gabriele Arcangelo in Viale Monza che rappresenta una
delle prime chiese montiniane.
La chiesa di Nostra Signora della Misericordia di Baranzate inaugurata nel 1958 e
soprannominata “la chiesa di vetro” fu l’edificio sacro più ardito e più noto del piano Montini.

A causa della crescente immigrazione si stimò che bisognava costruire 5 chiese nuove ogni
anno e Montini sottolineò che nella storia milanese non si erano costruite mai così tante chiese.
Il “piano Montini” conobbe una nuova fase a partire dal 1961 quando nel pieno del clima
preconciliare prese forma il progetto di realizzare 22 nuove chiese ciascuna dedicata a uno dei
Concili che si era succeduti fino ad allora così da collegare la storia della Chiesa al grande
evento che si sarebbe aperto l'anno successivo.

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