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APPUNTI DI
ECONOMIA POLITICA
TERZA VERSIONE
febbraio 2012
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INDICE
Introduzione
3. MICROECONOMIA E
MACROECONOMIA NEOCLASSICA
CENNI DI STORIA
DELL’ECONOMIA POLITICA
A questo tipo di domande si risponde di solito con dei luoghi comuni. Per
esempio, è un convincimento diffuso che gli Stati Uniti rappresentino il paese del
“sogno americano”, dove anche la persona più umile, se sufficientemente abile e
volenterosa, può raggiungere le più alte vette della scala sociale. Questo è ad
esempio il messaggio del celebre film “La ricerca della felicità”, con Will Smith e
di Gabriele Muccino.
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Ma le cose stanno davvero così come ci dice quel film e come di solito tendiamo a
credere? A quanto pare no. Il grafico posto qui di seguito mostra i tassi di
“immobilità sociale” calcolati dall’OCSE per alcuni paesi. La misura rappresenta
in un certo senso un indice della probabilità che può avere un individuo di situarsi
in una posizione sociale analoga a quella della famiglia di origine. Essa cioè
misura il peso della classe sociale di provenienza sui destini di ciascun individuo.
Più alto è l’indice, più è probabile che un figlio, al di là dei meriti individuali, si
ritrovi in una posizione sociale simile a quella dei genitori.
Attraverso l’uso dei dati e la loro corretta interpretazione, l’economia politica può
dunque contribuire a sfatare dei “miti”, e può aiutarci a comprendere meglio le
caratteristiche della realtà sociale che ci circonda.
L’importanza dell’economia politica per tutti gli aspetti della vita sociale è del
resto testimoniata dall’influenza che le variabili economiche possono avere sui più
svariati comportamenti umani. Basti pensare alle correlazioni esistenti tra
disoccupazione e suicidio, tra povertà e criminalità, tra partecipazione delle donne
al lavoro e divorzi, tra disuguaglianza sociale e rigidità delle norme morali, e così
via.
I manuali oggigiorno più diffusi sono quelli realizzati da alcuni noti economisti
americani. Basti citare, per esempio, i testi di Paul Samuelson, Gregory Mankiw,
Olivier Blanchard, Joseph Stiglitz, tra gli altri. Si tratta di libri indubbiamente
molto apprezzati, sia per la ricchezza di contenuti che per la immediatezza del
linguaggio. Tuttavia questi testi presentano un limite: troppo spesso essi danno
agli studenti la sensazione che esista una sola rappresentazione possibile della
realtà economica, vale a dire una sola teoria, un solo “modello” universalmente
accettato dalla comunità degli studiosi.
Ma l’idea che per ogni fenomeno della realtà esista un solo modello interpretativo
è contraddetta dal fatto che, in tutti i campi di ricerca, ingenti risorse umane e
materiali vengono dedicate alla continua verifica dei diversi modelli esistenti, al
fine di valutare quale di essi sia maggiormente in grado di interpretare i fatti
concreti. Questo è vero in fisica, in chimica, in biologia, ma lo è ancora di più
nell’ambito dell’economia politica, dove i contrasti tra i ricercatori sulla teoria da
preferire sono particolarmente accentuati. Lo studente deve pertanto comprendere
che il più delle volte l’economia si presenta come un luogo concettuale di contesa
tra interpretazioni alternative della realtà che ci circonda.
In questo senso, come vedremo, per tutto il corso della trattazione verranno messi
a confronto due indirizzi alternativi di ricerca. Da un lato analizzeremo le versioni
passate e presenti del cosiddetto mainstream, cioè dell’approccio attualmente
dominante detto neoclassico-marginalista. Dall’altro lato studieremo il cosiddetto
approccio critico, che prende spunto dalle opere di Karl Marx, John Maynard
Keynes, Piero Sraffa ed altri per criticare l’impianto concettuale dell’approccio
neoclassico dominante e per indicare una diversa interpretazione dei fatti
economici e sociali.
Del resto, che l’economia politica abbia sempre rappresentato una sorta di “campo
di battaglia” tra visioni contrapposte è dimostrato dalla sua evoluzione storica. Nei
brevissimi cenni che seguono proveremo a dare un’idea di alcune tra le più celebri
dispute tra economisti.
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In genere si ritiene che la nascita di una vera e propria scienza economica sia
avvenuta tra il 1760 e il 1830, ossia a cavallo di quella prima Rivoluzione
industriale che in Inghilterra e in altri paesi creò le basi per la piena affermazione
del modo di produzione capitalistico (cioè di un sistema nel quale la classe dei
capitalisti detiene il controllo dei mezzi di produzione, mentre la classe dei
lavoratori si presenta sul mercato offrendo ai capitalisti la propria forza lavoro in
cambio di un salario). Durante la prima Rivoluzione industriale si assiste a un
grande processo di innovazione tecnologica, di allargamento dei mercati, di
concentrazione dei capitali, di trasformazione di larghe masse di lavoratori in
operai salariati e di aumento generalizzato della scala della produzione e della
circolazione delle merci. Tali trasformazioni economiche sono accompagnate
anche da importanti cambiamenti negli assetti sociali e politici. In questa fase si
registra infatti il relativo declino politico della classe aristocratica dei proprietari
terrieri e prende avvio l’ascesa sociale e politica di una nuova classe di soggetti,
quella dei capitalisti proprietari delle moderne imprese agricole e industriali. Il
successo dei capitalisti porta a una nuova concezione dello Stato: non più
espressione degli interessi del sovrano e dell’aristocrazia fondiaria, l’autorità
statale viene chiamata a favorire lo sviluppo del capitale. Nuovo scopo del potere
politico è dunque di salvaguardare gli interessi della nuova classe capitalista
emergente, in contrapposizione alle istanze provenienti dalla classe dei proprietari
terrieri.
nel libero mercato guidati dal loro egoismo personale, ma proprio seguendo i loro
interessi particolari essi inconsapevolmente contribuiscono allo sviluppo
economico complessivo, e quindi finiscono per servire l’interesse di tutti. Scrive
Smith che «ciascuno è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che
non era parte delle proprie intenzioni». Le forze del mercato rappresentano cioè
una “mano invisibile” che guida i singoli individui egoisti a compiere il bene
comune dello sviluppo economico. In questo senso egli aggiunge che «non è dalla
benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci dobbiamo aspettare la
cena, ma dal fatto che essi perseguono il proprio interesse». Il motivo per cui
secondo Smith il “teorema” funziona è che i capitalisti proprietari delle imprese,
in concorrenza tra loro, cercheranno di prevalere gli uni sugli altri producendo
esattamente le merci che i consumatori desiderano. Inoltre, i capitalisti
cercheranno di adottare i metodi produttivi più efficienti al fine di ridurre al
minimo i costi, ed essere quindi più competitivi rispetto ai diretti concorrenti. La
riduzione dei costi farà sì che le merci siano vendute ai prezzi più bassi possibili,
il che garantirà sviluppo e benessere diffuso. A grandi linee, sono questi i motivi
per cui secondo Smith è bene lasciare che le forze del mercato e della concorrenza
siano tendenzialmente lasciate libere di operare.
Una sorta di teorema della mano invisibile verrà in seguito applicato da David
Ricardo anche al caso dei rapporti internazionali. Per Ricardo occorre infatti
salvaguardare le libertà di mercato non soltanto quando si considerino i singoli
capitalisti in concorrenza tra loro, ma anche quando si tratti di nazioni che
competono negli scambi commerciali. Ricardo quindi era non soltanto un liberista
ma anche un “liberoscambista”. Egli cioè non era semplicemente un fautore del
liberismo economico tra le imprese e tra i singoli individui, ma sosteneva anche il
libero scambio tra paesi. Egli elaborò in questo senso il famoso “teorema dei
vantaggi comparati”. Questo teorema ci dice che il libero scambio di merci tra
paesi è sempre vantaggioso per tutti. In quest’ottica, anche se un paese fosse più
efficiente di un altro nella produzione di tutte le merci, al primo converrà
comunque concentrarsi nella produzione delle merci in cui sia relativamente più
efficiente, mentre potrà lasciare la produzione delle altre merci al secondo paese.
In questo senso Ricardo sostenne che l’Inghilterra avrebbe dovuto specializzarsi
nella produzione e nella esportazione di manufatti industriali, mentre avrebbe
dovuto importare grano dagli altri paesi. Il consiglio che Ricardo dava
all’Inghilterra era quindi di abbandonare il protezionismo commerciale, cioè di
rinunciare ai dazi con i quali il paese cercava di proteggere l’agricoltura nazionale
dalla importazione di grano proveniente dall’estero. I dazi erano sostenuti dai
proprietari fondiari inglesi, che guadagnavano dalla produzione di grano sui loro
terreni. Ma per Ricardo la classe dei proprietari terrieri rappresentava un ostacolo
allo sviluppo economico. Il paese doveva quindi abbandonare le protezioni,
specializzarsi nella manifattura e aprirsi agli scambi internazionali.
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Proprio sulla concezione del profitto come “residuo”, e più in generale sugli
elementi di conflitto sociale riconosciuti dagli economisti classici, farà leva Karl
Marx per criticare la loro concezione positiva del capitalismo. Con la
pubblicazione del Capitale nel 1867 Marx si propone il compito di elaborare una
compiuta critica dell’economia politica dei classici. In questo senso egli sferra un
attacco poderoso al teorema della mano invisibile. Egli infatti descrive un sistema
tutt’altro che armonico ed eterno. Per Marx il capitalismo è in realtà afflitto da
perenne instabilità e da crisi ricorrenti. La teoria delle crisi di Marx è molto
complessa e tuttora oggetto di varie interpretazioni. Qui possiamo affermare che
nella visione di Marx si intersecano due spiegazioni della crisi: da un lato la
tendenza alla caduta del saggio di profitto, dall’altro la contraddizione tra sviluppo
delle forze produttive e consumi ristretti delle masse lavoratrici.
Sulla tesi della caduta del saggio di profitto, in questa sede possiamo limitarci ad
affermare che per Marx sussisterebbero forze che tendono nel tempo a ridurre il
saggio di profitto medio del sistema economico. Marx sostiene infatti che i
capitalisti estraggono il profitto dal lavoro vivo degli operai. Al tempo stesso egli
nota che le continue innovazioni tecniche spingono i capitalisti ad accrescere
l’impiego di mezzi di produzione rispetto ai lavoratori direttamente impiegati nel
processo produttivo. Ma se il rapporto tra lavoratori e mezzi di produzione si
riduce, a suo avviso si ridurrà anche il profitto. Una progressiva caduta del
profitto determina tuttavia una crisi generale del modo di produzione capitalistico.
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Per Marx, infatti, il profitto rappresenta non solo la remunerazione del capitalista
ma anche il motore dell’accumulazione. Una sua precipitazione verso lo zero
renderà a un certo punto impossibile la riproduzione del sistema capitalistico e
aprirà quindi la via ad un’epoca di rivoluzione sociale.
Tra le cause che secondo Marx determinano crisi ripetute vi è però anche il fatto
che la spietata concorrenza tra le imprese conduce a una continua serie di
rivoluzioni tecniche e organizzative che aumentano al massimo la produttività di
ogni singolo lavoratore e al tempo stesso riducono il suo salario. Ciò tuttavia
implica un divario crescente tra la capacità produttiva dei lavoratori e la capacità
di spesa degli stessi lavoratori. Sotto date condizioni questo divario può
determinare un problema di sbocchi per le merci prodotte. La conseguenza è che il
processo di accumulazione dei capitali si blocca e le imprese sono indotte a
licenziare i lavoratori. Ma ciò allarga ulteriormente il divario tra capacità
produttiva e capacità di spesa, per cui il sistema rischia di avvitarsi su sé stesso
fino al tracollo. Al riguardo Marx scrive: «…La causa ultima di tutte le crisi
rimane sempre la povertà ed il consumo ristretto delle masse, di fronte alla
tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive…»
(Capitale, vol. III).
dall’Antico regime feudale (basato sul potere dei proprietari terrieri) al regime di
produzione capitalista (in cui il potere è nelle mani dei proprietari delle imprese).
Allo stesso modo, è possibile che il capitalismo a un certo punto imploda nelle sue
contraddizioni e ceda il passo a una nuova e diversa modalità di organizzazione
dei rapporti sociali.
Marx si attendeva in tal senso una svolta rivoluzionaria guidata dalla classe
lavoratrice, a seguito della quale potesse sorgere un sistema di tipo socialista: vale
a dire un sistema non più basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e
sul lavoratore salariato posto sotto il comando del capitalista, ma fondato invece
sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sulla pianificazione sociale del
lavoro. In una prima fase il sistema socialista si sarebbe per forza di cose basato
sul controllo statale sui mezzi di produzione, sulla divisione del lavoro e sulle
retribuzioni. Ma più in prospettiva, a seguito dello sviluppo delle forze produttive
e della ricchezza sociale, Marx preconizzava un futuro comunista, nel quale il
potere coercitivo dello Stato, la divisione del lavoro e lo stesso concetto di
“salario” sarebbero diventati superflui. Nella Critica al programma di Gotha del
1875, egli definì il comunismo in questi termini: «In una fase più avanzata della
società comunista, dopo la scomparsa della subordinazione asservitrice degli
individui alla divisione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro
intellettuale e fisico […] dopo che con lo sviluppo completo degli individui sono
aumentate anche le loro forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze
collettive scorrono in abbondanza; soltanto allora la società può scrivere sulle sue
bandiere: da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni!».
Naturalmente Marx non fu il primo comunista della Storia. Molti prima di lui
avevano sostenuto l’ideale superiorità di un sistema fondato sulla cooperazione
sociale anziché sulla competizione individuale, e sulla proprietà collettiva anziché
privata dei mezzi di produzione. E in passato non erano nemmeno mancate
esperienze di comunismo concreto, come ad esempio quello delle comunità
cristiane primitive. Marx tuttavia differiva dai suoi predecessori per un motivo:
egli faceva poggiare la sua prospettiva comunista non su basi etico-morali, ma su
una rigorosa analisi scientifica delle contraddizioni del capitalismo e della sua
fragilità intrinseca, una analisi per molti versi ancora attuale. Ed è proprio in
questa analisi scientifica del capitalismo che risiedeva la vera forza di Marx, una
forza che prescinde dal carattere talvolta utopico delle sue premonizioni sul
comunismo.
Per scongiurare le tesi di Marx occorreva dunque sfidarlo sul terreno dell’analisi
scientifica dell’economia. Occorreva cioè proporre una chiave di lettura della
realtà che fosse alternativa a quella marxiana. Ma per far questo non si poteva
tornare al pensiero dei classici. Infatti, benché Smith e Ricardo esprimessero nella
sostanza un giudizio positivo sul modo capitalistico di produzione, le loro teorie
mettevano apertamente in evidenza gli elementi di conflitto insiti nei rapporti tra
le classi sociali, e quindi somigliavano troppo all’analisi di Marx per potersi dire
del tutto estranee e alternative ad essa.
Si pose dunque il problema di elaborare una nuova teoria, che non si concentrasse
sul carattere conflittuale e instabile del modo di produzione capitalistico ma che al
contrario fornisse una convincente rappresentazione armonica del sistema
economico. Così, a partire dal 1870, nasce e trova largo seguito una nuova
concezione teorica, detta neoclassica o marginalista. Jevons, Menger e Walras
furono tra i fondatori di questo approccio, seguiti poi da Marshall, Pigou,
Wicksell, Pareto, Robbins e molti altri.
Infatti, nel Saggio sulla natura e sul significato della scienza economica del 1932,
lo studioso neoclassico Lionel Robbins definì l’economia come quella scienza
«che studia il comportamento umano come una relazione fra scopi classificabili in
ordine d’importanza e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». Pochi anni dopo
un altro economista neoclassico fornì una descrizione ancor più sintetica della
disciplina: nel suo celebre Fondamenti di analisi economica del 1947, Paul
Samuelson definì il nucleo di ogni problema economico come «una funzione
matematica da massimizzare sotto vincoli», dove i vincoli rappresentano le risorse
scarse disponibili e la funzione da massimizzare in genere rappresenta il benessere
individuale. Come vedremo, secondo i neoclassici tale benessere può esser
misurato attraverso l’utilità, un concetto che essi adoperano molto spesso nelle
loro analisi.
Questo calcolo si basa sul principio che al crescere del consumo di un qualsiasi
bene, l’utilità dell’individuo tende ad aumentare ma con incrementi sempre più
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piccoli. Il motivo è che mentre le dosi iniziali del bene sono particolarmente
gradite all’individuo, le dosi successive lo condurranno verso la sazietà e quindi
risulteranno meno “utili”. Tale principio è detto “legge della utilità marginale
decrescente”, ed è alla base di molte analisi neoclassiche.
E’ bene precisare che questo tipo di calcolo può indifferentemente applicarsi non
solo ai lavoratori ma anche ai capitalisti, o a qualsiasi altro soggetto. Ad esempio,
il possessore di ingenti ricchezze deve decidere se consumare subito tali ricchezze
oppure prestarle ad altri, guadagnando così un tasso d’interesse e potendo quindi
consumare maggiori quantità di ricchezza in futuro. Anche in tal caso, dicono i
neoclassici, si applica il calcolo marginale: il soggetto distribuirà infatti le sue
ricchezze tra consumo immediato e consumo futuro in base al confronto tra le
utilità marginali della prima e della seconda opzione.
Dunque, per i neoclassici, l’analisi basata sulla esistenza delle classi sociali è
inutile e per certi versi fuorviante, visto che il comportamento di ogni individuo,
indipendentemente dalla classe di appartenenza, può essere esaminato come un
problema di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse di
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cui egli dispone, e più specificamente come un problema risolvibile con il calcolo
marginale.
La nuova teoria pertanto riafferma i principi cardine del liberismo in termini più
netti rispetto a quanto sostenuto dai classici. Essa infatti si fonda su una
concezione non più conflittuale ma armonica dei rapporti sociali. Ricordiamo che
anche Ricardo era liberista. Egli tuttavia interpretava la realtà in base all’idea che
per ogni data produzione il profitto fosse calcolato come un residuo al netto dei
salari. Stando a questa chiave di lettura il salario e il profitto sono legati tra loro
da un rapporto antagonistico, poiché se uno aumenta l’altro diminuisce. Pertanto,
nella vecchia ottica classica, tra percettori di profitto e percettori di salari vi è
sempre un irriducibile conflitto nella ripartizione della produzione. Invece,
nell’ambito della visione neoclassica si stabilisce che il lavoro e tutti gli altri
fattori produttivi sono remunerati in base alle rispettive produttività marginali,
cioè al contributo dato da ciascuno di essi alla crescita della produzione. Il
conflitto svanisce, soppiantato da una interpretazione armonica ed efficientista
della distribuzione del prodotto tra lavoratori e capitalisti.
Inoltre, nel 1917 si verifica un evento che sembra per certi versi dare ragione ad
alcune premonizioni di Marx: in una Russia devastata dalla guerra e dalla miseria
si verifica infatti una nuova Rivoluzione. Il partito che la guida si dichiara
espressamente marxista, e punterà a riorganizzare i rapporti economici su basi
socialiste.
I tempi erano dunque maturi per una nuova rivoluzione delle idee in campo
economico. Tra i portatori della medesima vi fu l’economista inglese John
Maynard Keynes, autore della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e
della moneta del 1936. Nella sua critica ai neoclassici Keynes sceglie una
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posizione “intermedia”, nel senso che accetta una parte della loro teoria ma rifiuta
un’altra parte. In particolare, Keynes condivide la tesi neoclassica secondo la
quale in equilibrio il salario reale coincide con la produttività marginale del
lavoro. Egli accetta pure la tesi secondo cui, dati gli altri fattori di produzione, la
produttività marginale del lavoro decresce al crescere del numero dei lavoratori
occupati. Tuttavia, Keynes aggiunge pure che i neoclassici trascurano un punto
fondamentale, e cioè che il numero degli occupati dipende dalla domanda effettiva
di merci. Le imprese cioè assumeranno solo i lavoratori necessari a produrre la
quantità di merci effettivamente domandata dal mercato, cioè la quantità che
possa essere effettivamente venduta. Questo è il “principio della domanda
effettiva”, ed è alla base della teoria di Keynes. Se dunque la domanda effettiva di
merci è bassa, le imprese assumeranno pochi lavoratori e vi sarà quindi una
elevata disoccupazione.
La domanda effettiva a sua volta dipende dalle aspettative sul futuro. Se tra gli
operatori economici si diffonde una ondata di pessimismo, gli acquisti di beni di
investimento (macchinari, impianti, attrezzature, ecc.) verranno ridotti, il che
provocherà una serie di licenziamenti, quindi un calo dei consumi dei lavoratori,
quindi ulteriori licenziamenti, e così via in una spirale negativa che può condurre
a una crisi generale. Nella teoria keynesiana questo meccanismo cumulativo va
sotto il nome di “moltiplicatore”.
Keynes riteneva che i neoclassici trascurassero tutti questi problemi, e per questo
non fossero in grado di fornire una adeguata rappresentazione del sistema
economico.
Dal principio della domanda effettiva e dalla teoria del moltiplicatore Keynes
faceva anche scaturire una critica al liberismo prevalente tra i neoclassici. Egli
infatti riteneva che le forze del mercato, lasciate a sé stesse, non sarebbero mai
state capaci di generare una domanda effettiva tale da eliminare la
disoccupazione. In questo senso Keynes criticò l’idea di Pigou, secondo il quale la
grande crisi dipendeva dal fatto che i sindacati dei lavoratori si opponevano alla
riduzione dei salari e quindi impedivano il libero funzionamento del mercato. Al
contrario,
Keynes sosteneva che la riduzione dei salari non avrebbe risolto la crisi. Anzi,
avrebbe potuto aggravarla. La riduzione dei salari avrebbe infatti dato avvio a un
lungo periodo di calo dei prezzi delle merci, che avrebbe indotto molti operatori a
rinviare gli acquisti in attesa di ulteriori cadute dei prezzi. Il che avrebbe solo
accentuato la crisi. Pertanto, non si poteva imputare la depressione economica ai
sindacati.
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Per Keynes il vero problema è che il capitalismo risulta afflitto da una domanda
effettiva molto instabile, condizionata dai cambiamenti nelle aspettative sul
futuro, e in genere mai sufficiente per garantire la piena occupazione dei
lavoratori. Keynes proponeva dunque l’abbandono del laissez-faire. A suo avviso
soltanto un massiccio intervento statale nell’economia avrebbe potuto garantire
livelli alti e stabili della domanda effettiva, tali da scongiurare le crisi ricorrenti
del capitalismo e in grado di condurre sempre alla piena occupazione del lavoro.
In questo senso Keynes parlava di «socializzazione di una certa ampiezza
dell’investimento», ossia di un ampio intervento dello Stato per il finanziamento
degli investimenti in opere pubbliche, servizi sociali, beni di interesse collettivo.
Dalla Seconda guerra mondiale il liberismo uscì perdente. Dopo la guerra era
infatti diffusa un po’ ovunque l’opinione che le forze spontanee del capitalismo,
lasciate a sé stesse, fossero causa di instabilità, crisi e conflitti. Questa idea era
ovviamente supportata dall’esperienza recente. Essa inoltre veniva sostenuta dai
sindacati dei lavoratori, che in molti paesi uscirono dalla guerra legittimati e
rafforzati, anche per le battaglie antifasciste che avevano condotto. Infine, non si
poteva trascurare il fatto che tra i vincitori della guerra vi fosse anche l’Unione
Sovietica, lo stato socialista nato dalla rivoluzione russa del 1917. Questa
presenza costituiva una sfida ulteriore per i fautori del capitalismo.
In questa fase venne a costituirsi una nuova scuola, detta “sintesi neoclassica”. Tra
i suoi esponenti spiccavano i nomi di John Hicks, Franco Modigliani e Don
Patinkin. Questi economisti proposero una sintesi, per l’appunto, tra le idee di
Keynes e la teoria neoclassica.
Dopo vari passaggi teorici, da questa sintesi emerse negli anni Cinquanta un
nuovo modello, portatore della seguente soluzione di compromesso: 1) il principio
keynesiano della domanda effettiva e il moltiplicatore determinano i livelli della
produzione e della occupazione nel breve periodo; 2) l’equilibrio “naturale” del
mercato del lavoro e la funzione di produzione determinano i livelli della
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Tuttavia, come vedremo, c’è chi ritiene che essa sia viziata da una serie di
contraddizioni logiche e che abbia travisato e ridimensionato il pensiero originario
di Keynes.
Nel corso del Novecento la critica della teoria dominante ha tratto nuova linfa dal
contributo dell’economista italiano Piero Sraffa. Nel suo celebre Produzione di
merci a mezzo di merci del 1960, Sraffa sferrò un nuovo attacco alla teoria
neoclassica, ancor più radicale di quello di Keynes. Sraffa considera infatti la
teoria neoclassica incoerente sul piano logico. La critica sraffiana è complessa, e
non può esser trattata in un corso base di economia. Tuttavia a grandi linee si può
affermare che essa rientra in una serie di critiche che sono state da più parti rivolte
al concetto neoclassico di “capitale”. Proviamo a fornire qualche spunto derivante
da tali critiche. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione disponibili in una
data epoca. Se si vuole calcolare il capitale nel suo complesso allora occorre
prendere in considerazione l’aggregato dei mezzi di produzione. Questi mezzi
però sono eterogenei tra loro e quindi per aggregarli è necessario moltiplicare la
quantità di ogni mezzo di produzione per il rispettivo prezzo, e poi sommare tutti i
valori tra loro. In tal modo si ottiene una misura del capitale “in valore”. Questa
dotazione del capitale può quindi essere impiegata nella teoria neoclassica per
determinare salari e interessi. Ad esempio, dato il capitale, è possibile ottenere la
domanda di lavoro, che può essere quindi intersecata con l’offerta di lavoro per
ottenere il salario reale. Inoltre, noto il capitale, è possibile ricavare
l’investimento, che assieme al risparmio contribuisce a determinare il tasso
d’interesse, e così via. La teoria microeconomica e macroeconomica neoclassica,
come vedremo, procede nella sostanza in base a questa sequenza. Il problema è
che questa sequenza è viziata sul piano logico. In essa, infatti, il salario, il tasso
d’interesse, ecc. sono determinati una volta che sia dato il capitale. Ma noi
abbiamo detto che per conoscere il capitale occorre conoscere i prezzi dei singoli
mezzi di produzione che lo compongono. Ma per conoscere i prezzi bisognerebbe
che i salari e i tassi d’interesse fossero già noti. E’ chiaro allora che la teoria
neoclassica presenta un vizio di circolarità.
Ma le obiezioni alla Sintesi neoclassica non finiscono qui. Tra i suoi critici vi
furono pure alcuni allievi e amici di Keynes, tra cui Richard Kahn, Joan Robinson
ed altri. Questi giudicarono la Sintesi come una sorta di “tradimento” delle idee
originarie del maestro, e quindi la rifiutarono. Essi proposero una diversa
interpretazione di Keynes, che manteneva il principio della domanda effettiva e il
moltiplicatore, ma che rifiutava il concetto di equilibrio “naturale” e ogni altro
collegamento con la teoria neoclassica
II
ELEMENTI DI TEORIA
CLASSICA E MARXIANA
2.1 Un esempio del liberismo dei classici: il teorema dei vantaggi comparati
di Ricardo
Stando ai soli vantaggi assoluti sembrerebbe che l'Inghilterra non abbia interesse
ad aprirsi agli scambi internazionali.
Suppa base della tabella, definiamo le ragioni di scambio tra le merci all'interno di
ciascun paese nel caso in cui viga autarchia (cioè chiusura agli scambi
internazionali).
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In Spagna 1T = 4G
in Inghilterra 1T = 2G
Dimostriamo:
1T = 3G
Grano Tessuto
ESPORTA 3G IMPORTA 1T 12-9 = 3ore di
Spagna corrispondete a 9 corrispondente a lavoro
ore di lavoro 12 ore di lavoro guadagnate
IMPORTA 3G ESPORTA 1T 6-4 = 2ore di
Inghilterra corrispondente a corrispondente a lavoro
6 ore di lavoro 4 ore di lavoro guadagnate
La tabella indica il costo delle merci in base alle tecniche prevalenti all'interno di
ogni nazione.
Grano Tessuto
ESPORTA IMPORTA
2G 1T 12-6 = 6ore
Spagna corrispondet corrisponden di lavoro
e a 6 ore di te a 12 ore di guadagnate
lavoro lavoro
IMPORTA ESPORTA
2G 1T 4-4 = 0ore di
Inghilterra corrisponden corrisponden lavoro
te a 4 ore di te a 4 ore di guadagnate
lavoro lavoro
In tal caso guadagna solo la Spagna, l'Inghilterra non ottiene alcun beneficio
dall'apertura.
È chiaro allora che il teorema dei vantaggi comparati ha senso solo se si assume
che non vi siano problemi di disoccupazione.
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Se questi problemi vi sono allora non è detto che la soluzione del liberoscambio e
dell'apertura internazionale sia quella preferibile.
Attraverso una serie di esempi vediamo in che modo essi esaminavano questo
problema.
Consideriamo per semplicità una economia che produce come output grano (G) e
ferro (F) utilizzando come input il grano e il ferro medesimi.
È bene precisare che tra gli input di grano e di ferro necessari alla produzione
rientrano anche le quantità necessarie al sostentamento dei lavoratori impegnati
nel processo produttivo. Ciò significa, per esempio, che l'input di grano
comprende sia il grano impiegato nella semina dei terreni sia il grano consumato
dai lavoratori impiegati.
Riguardo al ferro, possiamo suggerire che si tratti del ferro contenuto negli
attrezzi necessari alla produzione (vanghe, picconi, trattori, ecc.)
280 G 12 F → 400 G
120 G 8 F → 20 F
Per esempio:
280 G 12 F → 500 G
120 G 8 F → 30 F
____ ____
400 G 20 F
Si vede chiaramente che questa è una economia che genera un surplus. Infatti
l'input totale di grano è 400 ma l'output ora è 500; l'input totale di ferro è 20 ma
l'output ora è 30.
Questi esempi chiariscono pure gli elementi di conflitto sociale insiti nella
concezione del profitto come surplus (o residuo) tipica degli economisti classici e
di Marx.
Gli esempi infatti evidenziano che il surplus può essere generato a scapito dei
lavoratori, o a seguito di una intensificazione dei loro sforzi oppure a seguito di
una riduzione degli input slariali.
280 12 500
G F → G
500 500 500
120 8 30
G F→ F
30 30 30
da cui:
0,56 G 0,024 F → 1G
4G 0,26 F → 1F
I coefficienti ci dicono che per ottenere 1 unità di grano occorrono 0,56 unità di
grano e 0,024 unità di ferro, e per ottenere 1 unità di ferro occorrono 4 unità di
grano e 0,26 unità di ferro.
Generalizziamo:
per esempio:
280
= 0,56 = aGG che ci dice quante unità di grano (G) occorrono per
500
produrre 1 unità di grano (G)
12
= 0,024 = aFG che ci dice quante unità di ferro (F) occorrono per
500
produrre 1 unità di grano (G)
1) YG YG aGG + YF aGF
2) YF YG aFG + YF aFF
1) YG (1-aGG) YF aGF
2) YF (1-aFF) YG aFG
da cui:
31
YG aGF
1)
YF 1 aGG
1 a FF YG
2)
a FG YF
1 a FF aGF
a FG 1 a GG
ossia:
Se la condizione è rispettata col segno maggiore (>) allora siamo di fronte a una
economia che genera surplus (e che dunque, potendo remunerare un profitto, può
essere una economia capitalistica).
Esercizio: descrivi una economia che non è nemmeno di sussistenza e che quindi
non è in grado di riprodursi.
III
MICROECONOMIA E
MACROECONOMIA NEOCLASSICA
p1x1 + p2x2 ≤ m
p1x1 + p2x2 = m
x2
A A(x1A, x2A)
x2
x 1A x1
p2x2 = m – p1x1
m p1
x2 = x1
p2 p2
m
x1 = 0 → x 2 = intercetta del vincolo di bilancio sull'asse delle ordinate
p2
m p1
x2 = 0 → 0 = x1
p 2 p2
p1 m
x1 =
p2 p2
p 1 x1= m
m
x1 = intercetta del vincolo di bilancio sull'asse delle ascisse
p1
x2
m
p2
m p1
x2 = x1 equazione della retta
p2 p2
p1
p 2 coefficiente angolare
m x1
p1
35
x2
C D
A
B
m/p1 x1
2) una riduzione del prezzo da p1 a p1' > p1: comporta una rotazione della
retta di bilancio verso sinistra (l'intercetta verticale resta ferma perché non
è variato il prezzo p2 mentre l'intercetta orizzontale diminuisce), cioè un
aumento della sua pendenza.
36
x2
m
p2
m m' x1
p1 p1
x2
m m x1
p1 p1 '
37
UT
UT
30 ΔU T
5 Δx
25
10
15
15
0 1 2 3 x
38
15 utilità marginale
10
0 1 2 3 x
Consideriamo per semplicità una economia nella quale esistono solo 2 beni,
indichiamo con x1 e x2 le rispettive quantità. Come si è visto, esaminando il
vincolo di bilancio del consumatore, ogni combinazione di consumo (ogni paniere
di consumo) potrà essere rappresentato da un punto del piano cartesiano (positivo)
con coordinate (x1, x2). Per descrivere il comportamento del consumatore è
necessario ordinare i panieri di consumo in base alle sue preferenze.
39
x2
VI I
E B
Curva di indifferenza
A
D C
III II
x1
Di sicuro:
A è preferito a D e a tutte le altre combinazioni di consumo che appartengono al
III quadrante: al paniere di consumo A è associato in indice di utilità maggiore
rispetto a tutte le combinazioni di consumo che appartengono al III quadrante.
B è preferito ad A e tutte le combinazioni del I quadrante sono preferite ad A: al
punto A è associato un indice di utilità inferiore rispetto all'utilità associata a tutti i
panieri che appartengono al quadrante I.
Esisteranno poi delle combinazioni di consumo situate nel II e nel IV quadrante
che il consumatore reputa indifferenti rispetto ad A (due di queste potrebbero
essere E e C e presentano lo stesso valore dell'indice di utilità di A). Unendo tutti i
punti che rappresentano le combinazioni di consumo considerate indifferenti dal
consumatore rispetto al paniere A otterremo una curva di indifferenza.
Una curva di indifferenza è l'insieme di tutte le combinazioni di beni che danno al
consumatore la stessa utilità totale e che dunque egli reputa indifferenti tra loro.
Ovviamente panieri di consumo come B e D sii trovano su curve di indifferenza
40
diverse, visto che ad essi sono associati livelli di utilità diversi rispetto al paniere
A. In generale, più le curve di indifferenza sono distanti dall'origine degli assi
cartesiani, maggiore è l'utilità ad essa associata. Inoltre, esse presentano una
pendenza negativa (sono decrescenti) in quanto se il consumatore vuole
conservare lo stesso livello di utilità (e restare sulla stessa curva di indifferenza),
dovrà compensare ogni riduzione del consumo di uno dei due beni con un
incremento dell'altro.
x2 UT3
UT1
x1
Si viene così a costruire una mappa di curve di indifferenza che esprime l'utilità
dell'individuo al variare del paniere di consumo.
Le curve di indifferenza non possono intersecarsi (in certo senso si può dire che
sono tra loro parallele) perché altrimenti esse non esprimerebbero un ordinamento
coerente (razionale) dei panieri di consumo. La razionalità del consumatore,
infatti, implica che le preferenze devono essere transitive: se il paniere A è
preferito al paniere B e il paniere B è preferito al paniere C, allora il paniere A
deve essere preferito al paniere C. In altre parole, se le curve di indifferenza si
intersecano, allora le preferenze del consumatore non sono transitive e quindi
41
viene meno la sua razionalità nella scelta dei panieri di consumo. Verifichiamo
questa importante condizione con un esempio.
x2
B UT1
C
UT0
x1
Le curve di indifferenza per beni tra loro in certa misura sostituti (le mele e le
pere) sono convesse: dato un certo livello di utilità, muovendosi lungo la
corrispondente curva di indifferenza, all'aumentare del consumo di un bene, il
consumatore è sempre meno disposto a rinunciare all'altro bene. La convessità
della curva di indifferenza è una diretta conseguenza dell'assunto dell'utilità
marginale decrescente. Via via che riduce di quote costanti il consumo di uno dei
due beni (che diventa sempre più scarso e prezioso in termini di utilità marginale),
il consumatore, per non far ridurre il suo livello di utilità, richiederà compensare
queste riduzioni mediante il consumo di quote crescenti dell'altro bene (sempre
più abbondante e meno prezioso in termini di utilità marginale).
x2
UT0
20 A
5
B C
15
5
D E
10
2 3 6
x1
1 3
Il grafico mostra che una riduzione del consumo del bene 2 da 20 a 15 unità
richiede, per lasciare invariata l'utilità totale a UT0, un aumento del consumo del
bene 1 di una sola unità. Ma, se il consumo del bene 2 si riduce di ulteriori 5
unità, allora è necessario un aumento del consumo del bene 1 di bene 3 unità. Ciò
è dovuto all'utilità marginale decrescente. La perdita di utilità che il consumatore
subisce passando a A a B è relativamente bassa e può essere compensata con una
43
sola unità del bene 1 (dotata di un'alta utilità marginale) che consente di
raggiungere il punto C. Invece, lo spostamento da C a D implica una perdita di
utilità maggiore (essendo il bene 2 ora più scarso per il consumatore) che, per
essere compensata, richiede una incremento di 3 unità di consumo del bene 1
(infatti queste 3 unità sono dotate di una utilità marginale più bassa perché il bene
1 è ora relativamente più abbondante) in modo da raggiungere il punto E.
La convessità delle curve di indifferenza può anche essere spiegata da una
preferenza del consumatore per la varietà nella composizione del proprio paniere
di consumo. Considerati due panieri A e B che risiedono sulla medesima curva di
indifferenza, il consumatore preferirà ad ognuno di essi un qualunque paniere C
ottenuto come combinazione lineare intermedia dei rispettivi contenuti di A e B.
Infatti, se le curve di indifferenza sono convesse, una siffatta combinazione
lineare risiederà su di una curva di indifferenza più alta (corrispondente ad un
livello di utilità maggiore).
x2
x 2A A
x 2C C
B B UT1
x2
UT0
x 1A x 1C x 1B
x1
44
Quando i due beni le cui quantità sono riportate sugli assi cartesiani sono tra loro
perfetti sostituti le curve di indifferenza assumono una forma lineare (sono delle
linee rette). È questo il caso della benzina offerta sul mercato da due differenti
compagnie di distribuzione (Total e Agip ad esempio), evidentemente la maggior
parte dei consumatori trovano indifferente rifornirsi dall'uno o dall'altro
distributore perché non sussistono differenze apprezzabili tra i due carburanti. Il
consumatore potrebbe consumare anche uno solo dei due beni senza incorrere in
una riduzione dell'utilità totale.
x2
A
x 2C C
UT0
B
x 1C
x1
45
Il caso opposto a quello dei perfetti sostituiti riguardi i beni che sono tra loro
perfettamente complementari (detti anche beni perfetti complementi; ad
esempio i due ingredienti necessari a preparare una particolare bevanda, si pensi
allo zucchero e al caffè). In questo caso le preferenze del consumatore assumono
una forma ad angolo: aumentando il consumo di uno solo dei due beni
(spostandosi dal punto A al punto C) il consumatore non ottiene incrementi di
utilità. Per accrescere l'utilità totale è necessario accrescere in misura
proporzionale il consumo di entrambi i beni (spostandosi nel punto B).
x2
x 2B B UT1
x 2A A C
UT0
x 1A x 1B
x1
46
x2
x 2B B UT1
x 2A A C
UT0
x 1A x 1B
x1
47
Reddito
UT2
UT1
UT0
Ore di lavoro
48
Δx 2 Δx
SMS = = 2
Δx1 Δx1
x2
x 2A A
x2
x 2B B
x1
UT0
x 1A x 1B
x1
Essendo x1 per definizione negativo e x2 in generale positivo (almeno per beni
Δx2
sostituti), anteponendo al rapporto il segno negativo, oppure prendendolo in
Δx1
valore assoluto, si ottiene un SMS positivo e decrescete (all'aumentare di x1) lungo
tutta la curva di indifferenza. Questa caratteristica del SMS è dovuta alla
convessità della curva di indifferenza (per cui al crescere di x1 aumenta il
49
x2
x2
B
C
D
E
UT0
x1 x1
Δx 2 UM 1
=
Δx1 UM 2
∂U
UM 1 ∂ x1
SMS = = ∂U
UM 2
∂ x2
questa uguaglianza esprime il SMS come rapporto delle derivate parziali della
funzioni di utilità (le utilità marginali).
U0
x2 = x
1
al variare del livello di utilità fissato si potrà costruire tutta la mappa delle curve
di indifferenza.
51
x2
x 2* E
B UT2
UT1
C UT0
x 1* x1
Si noti che in corrispondenza del punto E abbiamo che l'inclinazione del vincolo
di bilancio (-p1/p2) è uguale alla pendenza della curva di indifferenza passante per
A (SMS = - ∆x2/ ∆x1). Cosa che invece non è vera per un punto come C oppure A.
Nel punto B, inoltre, a differenza del punto E, non è soddisfatto il vincolo di
bilancio (p1 x1 + p2 x2 = m).
Δx p
SMS = 2= 1
Δx1 p2
oppure
∂U
∂ x1 p1
∂U = p
2
∂ x2
max U(x1,x2)
sub p1 x1 + p2 x2 = m
L U
= λp1 = 0 (1)
x1 x1
L U
= λp 2 = 0 (2)
x 2 x 2
L
= m p1 x1 p 2 x 2 = 0 (3)
λ
∂U
∂ x1 p1
∂U = p
2
∂ x2
Un esempio:
∂L
∂ x 1 = x2 – 4 λ = 0
∂L
∂ x 2 =·x1 – 2 λ = 0
L
=40 – 4 x1 - 2·x2 = 0
λ
x2·/ x1 -2 = 0
x2·/ x1 = 2
x2·= 2 x1
40 – 4 x1 - 2(2·x1) = 0
40 – 4 x1 - 4·x1 = 0
40 = 8 x1
x1 = 40 / 8 = 5
x2 = 10
2·x2 = 40 – 4 x1
x2 = 20 – 2 x1
δU
= 20 – 4 x1 = 0
δx1
x1 =20/4 = 5
Abbiamo così ottenuto lo stesso risultato con un metodo alternativo. La scelta tra i
vari metodi dipende dalle circostanze. Va preferito quello che semplifica di più i
calcoli.
56
Ipotizziamo una serie di riduzioni di p1: p1, p1' < p1, p1' ' < p1'
individueremo così una serie di punti di ottimo e l'insieme di tutti questi punti di
ottimo è definito “curva di prezzo-consumo”. Si noti che al diminuire di p1 la
quantità x1 domandata dal consumatore aumenta.
x2
m/p2
p1
curva di domanda
p1 individuale
x1 = x1(p1)
p1'
p1''
x1 x 1' x1'' x1
La curva di domanda è decrescente: essa esprime una relazione inversa tra p1 e x1:
al diminuire del prezzo la domanda aumenta
all'aumentare del prezzo la domanda diminuisce
La forma decrescente della curva di domanda vale per tutti i beni cosiddetti
“normali”, e si ritiene che tale relazione sia solitamente valida.
58
1
xT = 15 - 2 p
ovvero
p1
p = 0 → xT = 15 È facile mostrare che il surplus
xT = 0 → p = 30 30 A del consumatore è rappresentato
dall'area ABC.
supponiamo che il
prezzo di mercato
di ogni biglietto
sia p = 10€.
La domanda sarà: B
10
C
1
xT = 15 - 2 10
xT = 10
10 15 x1
Il surplus del consumatore è dato dalla somma delle differenze tra quanto sarebbe
stato disposto a pagare per ottenere ogni unità aggiuntiva del bene acquistato e
quanto ha dovuto effettivamente pagare (il prezzo di mercato). Nell'esempio il
surplus del consumatore è pari a 90:
xT 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15
p 28 26 24 22 20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0
Disponibilità a spendere 28 54 78 100 120 138 154 168 180 190 198 204 208 210 210
Spesa effettiva 28 52 72 88 100 108 112 112 108 100 88 72 52 28 0
Surplus del consumatore 0 2 6 12 20 30 42 56 72 90 110 132 156 182 210
La curva di domanda individuale reagisce anche alle variazioni del reddito del
consumatore (ad esempio m varia da m a m' > m).
x2
m'/p2
m/p2
E'
E
p1
x1 x1' x1
in tal caso, a parità di p1 (che non è cambiato), assistiamo ad un aumento della
quantità domandata di x1. La curva di domanda, quindi, trasla verso destra al
crescere del reddito.
60
p p p
30 30 30
15 xT 10 xC 25 x
Così come dalla scelta dell'individuo abbiamo ottenuto la domanda delle merci,
dalla teoria dell'impresa otterremo l'offerta.
LA PRODUZIONE
L lavoro
Q
K capitale (di solito inteso come valore dei mezzi di produzione)
Ad ogni modo noi qui non ci occuperemo di questo problema. Anzi, per
semplicità riterremo che l'analisi sia di breve periodo per cui K può essere
considerato un dato esogeno, fisso.
Q = Q(K, L)
Q PMGL
Q = Q(L)
32 10
31
28
PMGL
24 8
18
6
10 4
3
1
1 2 3 4 5 6 L 1 2 3 4 5 6 L
In termini algebrici:
ΔQ
PMGL =
ΔL
δQ
PMGL =
δL
1
δQ 1 2 1 1
PMGL = = L = =
δL 2 1 2 L
2L 2
I costi totali di produzione sono costituiti dai costi fissi e dai costi variabili:
I costi fissi non variano al variare della produzione (almeno nel breve periodo).
Essi possono essere identificati con il costo del capitale:
(1 + r) → r K0
w L(Q)
CT = r K0 + w L(Q)
CT = r K0 + w Q2
CT
CT
rK0
Q
64
δCT
CMG =
δQ
δCT
CMG = = w2Q
δQ
CMG
2w
Q
È interessante notare che esiste una relazione tra CMG e PMGL. Infatti
(ricordando che K è costante):
δCT δL
CMG = =w
δQ δQ
δQ
ma sappiamo che PMGL = e quindi possiamo scrivere:
δL
65
w w
CMG = =
δQ PMG L
δL
CMG = w2Q
ma Q = L1/2 e quindi:
CMG = w2L1/2
w
CMG = ← il denominatore di questa frazione è proprio la PMGL
1
1
2 L2
CT rK 0 + wL Q
CM = Q =
Q
Finché la riduzione dei costi fissi prevale sull'aumento dei costi variabili, il costo
medio si riduce. Quando l'aumento dei costi variabili inizia a prevalere, il costo
medio aumenta.
CT rK 0 + wQ 2 rK 0
CM = Q = = + wQ
Q Q
Q CM
1 22 15
2 14
CM
3 12,67
4 13 10
5 14
6 15,33 5
0
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9
Q
δCT 20
= 2 + 2 = 0 → Q2 = 10 → Q = 10 3,2 ← costo medio minimo
δQ Q
Infine, è interessante notare che il costo medio e il costo marginale si intersecano
esattamente nel punto di minimo del costo medio. Per verificarlo nell'esempio
(con rK0 = 20, w=2 e L= Q2) poniamo CM=CMG :
20
+ 2Q = 2·2Q → Q = 10 3,2
Q
CM,
CMG
CMG
CM
QA QB Q
δΠ δRT δCT
= =0
δQ δQ δQ
δCT
sapendo che CMG =
δQ
68
δRT
e definendo RMG =
δQ
RMG – CMG = 0
RMG = CMG
Ora, è chiaro che finché RMG > CMG all'impresa conviene aumentare la quantità
prodotta Q perché le unità aggiuntive rendono più di quanto costano e quindi
consentono di aumentare il profitto Π. Quando però RMG=CMG conviene
fermarsi e non andare oltre poiché ogni unità prodotta ulteriore costerebbe più di
quanto rende e farebbero ridurre il profitto totale.
Queste imprese si presentano sul mercato senza disporre di alcun potere sui prezzi
di vendita.
È il caso dei piccoli produttori di mele che si presentano sul mercato ortofrutticolo
al mattino. Un banditore conta le mele offerte dai produttori e le mele domandate
dai fruttivendoli, e fissa il prezzo di equilibrio di mercato che uguaglia domande e
69
offerte. Una volta fissato il prezzo di equilibrio ogni produttore dovrà attenersi ad
esso. Se, infatti, prova a vendere a prezzi maggiori nessuno andrà a comprare da
lui. E non ha interesse a vendere a prezzi minori visto che al prezzo di equilibrio
lui sa già che venderà tutta la merce (praticare un prezzo più basso comporterebbe
solo una riduzione dei ricavi e degli eventuali profitti).
L'impresa in concorrenza perfetta dunque non ha alcun potere sul prezzo di
mercato. Si dice che essa è price-taker, cioè “prende”, “subisce” il prezzo fissato
dal mercato.
In concorrenza perfetta possiamo dunque affermare che il prezzo di mercato è un
dato esogeno:
p = p0
Π = RT – CT
Ovviamente il ricavo totale non è altro che RT = p·Q, cioè il prezzo per la
quantità prodotta e venduta. Dunque:
Π = p·Q – CT
RMG = CMG
δCT
p– =0
δQ
δCT
p=
δQ
p = CMG
Si noti che in concorrenza perfetta il RMG derivante da una unità in più di merce
prodotta e venduta corrisponde esattamente al suo prezzo.
70
Se p < CMG occorre tornare indietro, produrre di meno, perché si sta producendo
troppo nel senso che le quantità in eccesso costano più di quanto renderanno
all'atto della vendita.
Esempio algebrico: CT = r K + w Q2
poniamo: p = 16 w =2 r K = 20
δΠ δRT δCT
= =0
δQ δQ δQ
δCT
p– =0
δQ
δCT
p=
δQ
16 = 4 Q → Q=4
Al prezzo di mercato l'impresa può vendere tutte la merce che riesce a produrre
(naturalmente, considerati i costi di produzione, ad un certo punto dovrebbe
fermarsi per non andare in perdita).
A
p0
Q0 Q1 Q2 Q
72
p,
CM,
CMG
CMG
C CM
A E D
p0
QA Q* QB Q
è Q* (P = CMG) punto E
73
p,
CM,
CMG
CMG
CM
E
p0
A F
O Q* Q
Sapendo che CM = CT/Q allora CT = CM·Q e quindi possiamo dire che il costo
totale corrisponde al rettangolo OQ*FA.
CT = r K0 + w Q2 p0 = 16 w=2 r K = 20
Quindi RT = p0·Q = 16 * 4 = 64
CT = 20 + 2 (4)2 = 52
Π = 64 – 52 =12
Ovviamente può anche accadere che il prezzo di mercato si riduca e che l'impresa
si ritrovi addirittura a produrre in perdita (se il prezzo scende al di sotto del costo
medio).
p,
CM,
CMG
CMG
CM
A E
p0
F
O Q* Q
Ma oltre all'uscita dal mercato delle imprese inefficienti, può anche accadere che
si verifichi l'ingresso nel mercato di nuove imprese. Ciò accade soprattutto quando
le imprese già presenti sul mercato realizzano profitti positivi.
Il fatto che le imprese operanti sul mercato stiano realizzando profitti positivi,
stimola l'ingresso di nuovi concorrenti.
p,
CM,
CMG
CMG
CM
p'
p''
E
p0
O Q* Q
p,
CM,
CMG
CMG
CM
p0
p1
p2
O Q2 Q1 Q0 Q
76
Si vede che se il prezzo diminuisce (p2 < p1 < p0), la quantità prodotta ed offerta si
riduce (Q2 > Q1 > Q0). Viceversa quando il prezzo aumenta, la quantità prodotta
ed offerta aumenta.
p offerta
dell'impresa
CM
p p p
CMG1 CMG2
offerta di
mercato
Q Q Q
Impresa 1 Impresa 2 ecc.
Dalla teoria della scelta del consumatore sappiamo che la domanda è di questo
tipo:
p
Qd = a - b p
ossia
se il prezzo aumenta, la quantità domandata diminuisce,
D
se il prezzo diminuisce, la quantità domandata aumenta.
Q
Dalla teoria dell'impresa sappiamo che l'offerta è di questo
tipo:
p
s
Q =c+dp S
ossia
se il prezzo aumenta, la quantità offerta aumenta,
se il prezzo diminuisce, la quantità offerta diminuisce.
Q
78
L'equilibrio di mercato è:
p
S
P'
E
p*
D' Q* S'
Q
Algebricamente:
Qd = a – b p
Qd = c + d p
a–bp=c+dp
a–c=bp+dp
(b + d) p = a – c
a c
p=
b+ d
79
a c
Q=c+dp=c+d( )
b+ d
a c
Qd = Qs = c + d p = c + d ( )
b+ d
Quando si vuole conoscere la sensibilità della domanda alle variazioni del prezzo
si adopera il concetto di elasticità.
L'elasticità della domanda rispetto al prezzo indica la variazione percentuale della
quantità domandata conseguente ad una variazione dell'1% del prezzo.
ΔQ
Q ΔQ p ΔQ p
εD = = =
Δp Q Δp Δp Q
p
ΔQ
ricordando che ovviamente < 0 in quanto la domanda è normalmente una
Δp
funzione decrescente del prezzo. Quindi:
ΔQ p δQ p
εD = che in termini di derivate diventa εD =
Δp Q δp Q
p p p
0 < ε D < -
ε D = -
εD = 0
Q Q Q
Esercizio:
Qd = Qs
90 – 2 p = (3/2) p + 20
90 – 20 = (3/2) p + 2p
(7/2) p = 70
p = (2/7) 70 = 20
Q = 90 – 2 p = 90 – 2 (20) = 50
Disegniamo:
Qd = 90 – 2 p
per p=0 → Qd = 90
per Qd = 0 → p = 45
81
Qs = (3/2) p + 20
per p = 0 → Qs = 20
per Qs = 0 → p = - 40/3
p
45 A
surplus del consumatore
B
20
C
D
20
50 90 Q
-40/3
δQ p p 20 4
εD = = -2 = - 2 =
δp Q Q 50 5
82
δRT δCT
RMG = CMG ovvero =
δQ δQ
12 A
B
11
5 6
Q
Ciò significa che il ricavo marginale derivante dalla produzione e vendita di una
merce in più corrisponde in monopolio a:
Δp Δp
RMG = p + Q (con < 0)
ΔQ ΔQ
Questo stesso risultato può anche essere espresso in modo più preciso tramite le
derivate.
A questo riguardo noi sappiamo che:
RT = p·Q
dove però in monopolio p non è più esogeno ma si trova in relazione con q sulla
base della funzione di domanda decrescente (cioè p = p(Q)). Quindi possiamo
scrivere:
RT = p(Q)·Q
δRT
RMG = dove RT = p(Q)·Q
δQ
δRT δp δRT
RMG = = Q+p con ( < 0)
δQ δQ δQ
Quindi, possiamo dire che la quantità ottima che il monopolista deve produrre ed
offrire sul mercato deve soddisfare la seguente equazione:
δp δCT
RMG = CMG ↔ Q+p=
δQ δQ
Vediamo un esempio.
p = 50 – (½)·Q
85
RMG = 50 – Q
CMG = 4·Q
la condizione di ottimo è:
RMG = CMG
50 – Q = 4·Q → Q = 50/5 = 10
Noi ipotizziamo che esiste una relazione tra CMG e PMGL, nel senso che:
w
CMG =
PMG L
la condizione di massimo profitto del monopolista può quindi essere scritta anche
così:
RMG = CMG
δp w
Q + p = PMG L
δQ
δp Q w
p1+ = PMG L
δQ p
δQ p
εD =
δp Q
1 w
p1+ =
εD PMG L
da cui si ricava:
1 w
p=
1 PMG L
1+
εD
1
il termine rappresenta il mark-up sul costo unitario di produzione e il
1
1+
εD
w
temine è il costo unitario di produzione (in realtà, come si è detto prima,
PMG L
sarebbe uguale al costo marginale ma con rendimenti costanti di scala le due
configurazioni di costo tendono a coincidere, ciò è ammissibile in considerazione
del fatto che le imprese monopoliste sono generalmente imprese di grosse
dimensioni che sfruttano largamente le economie di scala).
Notiamo inoltre che in monopolio p > CMG cioè è maggiore del prezzo
concorrenza.
p = 50 – (1/2)·Q domanda
50
D
RMG
50 100 Q
88
p,
CM,
CMG
H
CMG
B CM
c
p*
p C
F
A
E
D
RMG
O Q* Q
È da notare che il surplus del consumatore è HBp* ed è più piccolo di quello che
si avrebbe in concorrenza perfetta (dove i consumatori pagherebbero un prezzo pc
pari al CMG di produzione in cambio di una quantità maggiore di Q* e
corrispondente all'ascissa del punto C). Confrontiamo dunque il punto E e il punto
C.
89
Per tutti questi motivi alcuni neoclassici ritengono che il monopolio danneggi
l'economia e che vada quindi contrastato con opportune leggi anti-trast.
Ma esistono casi nei quali il monopolista può essere soggetto a fenomeni di
concorrenza da parte di altre imprese? Si. Si parla in tal caso di concorrenza
monopolistica.
p,
CM,
CMG
CMG
CM
E
pE
O QE Q
90
OLIGOPOLIO
Il problema della strategia e del complesso rapporto tra azioni e reazioni diventa
invece fondamentale nel caso in cui il mercato sia caratterizzato da una situazione
di oligopolio, cioè di poche grandi imprese.
MEDIASET
conflitto cooperazione
conflitto 2, 2 10, 0
RAI
cooperazione 0, 10 6, 6
La matrice dei pay-offs indica i profitti attesi dalle due aziende a seconda delle
strategie adottate. Ad esempio: se RAI coopera e MEDIASET confligge, RAI
ottiene profitti pari a zero e MEDIASET 10 miliardi. E così via.
MEDIASET
conflitto cooperazione
conflitto 2, 2 10, 0
RAI
cooperazione 0, 10 6, 6
Abbiamo detto che mentre i classici e Marx facevano partire le loro analisi
direttamente dallo studio del comportamento delle classi sociali, al contrario i
neoclassici fondavano le loro teorie sull'individualismo metodologico. Essi quindi
partivano sempre dallo studio del comportamento del singolo individuo: il singolo
consumatore, il singolo lavoratore, la singola impresa, ecc.
Finora abbiamo fatto esattamente questo: abbiamo infatti visto in che modo il
singolo consumatore punta a massimizzare l'utilità, in che modo la singola
impresa punta a massimizzare il profitto, ecc.
Il fatto però che i neoclassici si concentrino sul comportamento dei singoli non
impedisce di gettare uno sguardo sul funzionamento complessivo dell'intero
sistema economico.
Infatti, è vero che i neoclassici partono sempre dalla microeconomia, cioè dallo
studio del comportamento dei singoli individui e dalle singole imprese. Ma è
anche vero che essi ritengono possibile passare dalla microeconomia alla
macroeconomia, cioè allo studio dei grandi aggregati sociali e dell'economia nel
suo complesso.
Il passaggio dal micro al macro per i neoclassici consiste nella sommatoria dei
comportamenti individuali.
1) concorrenza perfetta: i singoli agenti (le imprese, lavoratori, etc. ...) sono
troppo “piccoli” e troppo numerosi per avere un potere di mercato.
2) Consideriamo l'economia di una nazione autarchica, cioè chiusa agli
scambi con l'estero.
3) Si produce un solo bene (es. grano).
4) Breve periodo (il capitale è fisso).
Definiamo:
Y produzione nazionale
P prezzo della merce prodotta
w salario monetario dei lavoratori
N numero dei lavoratori occupati
Da notare che w/p indica il salario reale dei lavoratori, cioè il potere d'acquisto del
salario. Es. se il salario mensile è w = 1000 € e se il prezzo di un kg di grano è
P=10 € allora i lavoratori ogni mese possono comprare w/P = 1000/10 = 100 kg di
grano.
94
Y PMGL
Y = Y(N)
32 10
31
28
PMGL
24 8
18
6
10 4
3
1
1 2 3 4 5 6 N 1 2 3 4 5 6 N
P = CMG
w
P= → P·PMGL= w
PMG L
da cui:
w
PMGL =
P
95
Dunque, nel grafico che esprime la PMGL possiamo fissare un ipotetico w/P dato
esogenamente dal mercato:
w/P, PMGL
PMGL0
PMGL1= w/P
PMGL2 PMGL
N0 N1 N2 N
Quale sarà il numero di lavoratori che l'impresa domanderà? È chiaro che sarà N1.
ND = PMGL
96
Y = (w/P)·N
w/P
N* N
L'ipotesi è che abbiamo a che fare con un bene (la produzione Y) e con un male
(la fatica derivante dal lavoro N). Dunque lo scopo dei lavoratori è di
massimizzare l'utilità situandosi può in alto a sinistra. Sullo stesso grafico
tracciamo pure la retta del vincolo di bilancio dei lavoratori. È chiaro che questi
potranno acquistare un ammontare di beni Y che dipende dalla quantità di lavoro
N erogato e dal salario w/P secondo l'equazione:
Per ogni vincolo di bilancio (per ogni w/P), i lavoratori possono determinare la
quantità di lavoro (N*) che massimizza la loro utilità, cioè si collocano sulla curva
di indifferenza più alta possibile (quella tangente al vincolo di bilancio).
Vediamo ora cosa accade se si verifica un aumento del salario reale w/P (che è
sempre determinato in modo esogeno dal mercato: i lavoratori non hanno potere
di mercato, anche loro sono price-taker).
Y
Y = (w/P)1·N
Y = (w/P)0·N
(w/P)1
(w/P)0
N0 N1 N
w/P
Ns
(w/P)1
(w/P)0
N0 N1 N
98
w/P
NS
E
(w/P)*
ND
N* N
(w/P)0 → NS > ND
w/P
NS
A B
(w/P)0
E
(w/P)*
ND
ND0 N* N S0 N
Restano però dei disoccupati volontari, che al salario vigente non sono disposti a
lavorare ma che si renderebbero disponibili ad un salario maggiore (si tratta del
segmento NS0-N*).
w/P
NS
E
(w/P)*
ND
N* N
Y = Y(N)
Y*
N* N
102
Una volta determinato l'equilibrio sul mercato del lavoro, è noto il numero dei
lavoratori occupati N*. Noto il numero degli occupati, in base alla funzione di
produzione Y=Y(N) si può determinare il livello di produzione Y* di equilibrio.
reddito Y
IMPRESE FAMIGLIE
produzione
Y
spesa di tutto il reddito
Ora, se le famiglie dei lavoratori e dei capitalisti spendessero tutto il loro reddito
per l'acquisto di beni di consumo, non vi sarebbe alcun problema.
Ma nella realtà le famiglie spendono per consumi (C) solo una parte del reddito,
mentre un'altra parte la risparmiano (S)!!!
103
Dunque poiché una parte del reddito nazionale viene risparmiata, a quanto pare
una parte della produzione resterà invenduta. Infatti, visto che produzione e
reddito sono equivalenti la produzione sarà interamente acquistata se tutto il
reddito viene speso!
produzione = domanda
Y=C+I
C+S=C+I
S=I
S
0
A B
i
E
i*
I0 I*=S* S0 S, I
Dunque così come il salario reale w/P garantisce l'equilibrio tra domanda e offerta
di lavoro, così il tasso di interesse i garantisce l'equilibrio tra risparmi S e
investimenti I (ossia, C+S = C+I e Y = C+I).
Non solo! I neoclassici puntano a dimostrare che l'intervento statale può anche
essere dannoso.
105
Un esempio in questo senso è dato dalla teoria neoclassica della moneta, detta
Teoria Quantitativa (Irving Fisher, 1911).
Y produzione.
Definiamo quindi:
MV = PY
il che al momento è una mera tautologia, cioè una ovvietà. È chiaro infatti che a
fronte del totale della moneta MV scambiata corrisponderà il valore della
produzione PY scambiata (che coincide con il totale della moneta domandata).
PY = MV
V
P= M
Y
NS = NS (w/P)
ND = ND(w/P)
NS = ND
Y = Y(NS)
S = S(i)
I = I(i)
S=I
MV = PY
w = (w/P)·P
107
Esempio:
NS = 60 + (w/P)
ND = 120 – 2 (w/P)
NS = ND
Y = (NS)1/2
S=2+i
I = 11 – 2 i
S=I
45 · 2 = P·Y
w = (w/P)·P
3 (w/P) = 120 – 60
w/P = 60/3 = 20
NS = 60 + 20 = 80
Y = (80)1/2 = 80 9
S=I=2+3=5
w = (w/P)·P = 20 * 10 = 200
108
I'
S, I
Per i neoclassici non c'è problema. Il movimento del tasso di interesse metterà in
equilibrio il sistema. Infatti il tasso di interesse si ridurrà portando in equilibrio il
risparmi e investimenti. Alla riduzione dei risparmi corrisponderà subito un
aumento dei consumi che compenserà la riduzione degli investimenti.
109
con l'aumento dei risparmi delle famiglie (la curva dei risparmi S ora si sposta
verso destra) si ridurrebbe il tasso di interesse e quindi aumenterebbero gli
investimenti.
i
S
S'
I'
S, I
110
IV
DISPENSE INTEGRATIVE
DEL MANUALE DI BLANCHARD
Nei primi tre capitoli del libro di Blanchard avete studiato il modello di
determinazione della produzione di equilibrio, in funzione del livello della
domanda di merci. Blanchard ritiene che questo modello valga solo nel breve
periodo, e sotto condizioni piuttosto restrittive. Noi pensiamo invece che tale
modello abbia una valenza esplicativa più vasta, e quindi riteniamo opportuno
approfondirne qui le caratteristiche.
Z C I G
C c0 c1 (Y T )
Y Z
Ricordiamo che il termine Y sta ad indicare sia il livello della produzione di merci
realizzata, sia il reddito distribuito. Produzione e reddito infatti sono sempre
equivalenti, dal momento che il valore della produzione venduta finisce
interamente, sotto forma di reddito, nelle mani dei capitalisti e dei lavoratori che
111
Y C I G
Y c0 c1 (Y T ) I G
Y c1Y c0 I G c1T
(1 c1 )Y c0 I G c1T
1
(1) Y (c0 I G c1T )
1 c1
che è appunto l’equazione di equilibrio sul mercato dei beni, vale a dire
dell’equilibrio tra produzione e domanda. Il termine tra parentesi è detto spesa
autonoma (poiché include le componenti della spesa dette autonome, nel senso
che non dipendono dal reddito), mentre il termine 1/1-c1 è detto moltiplicatore
della spesa autonoma. Conoscendo i livelli delle variabili esogene che concorrono
a determinare la domanda di merci (cioè I, G, T, c0 e c1), questa equazione
consente di determinare il livello di equilibrio della produzione Y.
1
(2) Y (c0 I G c1T )
1 c1
112
Chiaramente può ben darsi che tra le variabili che compongono la domanda solo
una si modifichi mentre le altre rimangono costanti. Supponiamo ad esempio che
si verifichi una “crisi di fiducia” da parte delle imprese sulle loro aspettative di
profitto. Gli imprenditori risultano cioè sfiduciati sull’andamento futuro
dell’economia, temono che venderanno poco e quindi ritengono che riusciranno a
conseguire ben pochi profitti. In tal caso essi non avranno alcuna intenzione di
espandere la loro attività, e quindi decideranno di ridurre gli investimenti (cioè
decideranno di ridurre la domanda di nuovi macchinari e impianti).1 Ciò significa
che gli investimenti si riducono (quindi I<0), mentre c0, G e T per ipotesi restano
costanti (e quindi c0 = G = T = 0). L’equazione (2) allora diventa:
1
Y I
1 c1
1
E’ sempre importante distinguere tra investimenti produttivi e investimenti finanziari. Nel
linguaggio corrente quando si parla genericamente di “investimenti” di solito ci si riferisce agli
investimenti finanziari, cioè all’acquisto di titoli da parte dei risparmiatori. Invece, salvo
specificazioni, quando parlano di “investimenti” gli economisti si riferiscono agli investimenti
produttivi, cioè agli acquisti di nuovi macchinari, impianti e attrezzature da parte delle imprese. In
questo caso stiamo dunque parlando di investimenti produttivi delle imprese.
2
Le componenti autonome della domanda c0, I, G, T sono espresse in miliardi di euro. La
propensione al consumo c1 indica invece la quota del reddito Y che viene consumata, e quindi può
essere espressa come una frazione (ad esempio c1=0,5=1/2 significa che i cittadini del paese
esaminato tendono a consumare il 50% del loro reddito e a risparmiare il restante 50%).
113
c0 50
I 200
G 100
T 100
c1 0,5 1 / 2
1
Y (50 200 100 (1 / 2)100)
1 1/ 2
Y 2 (300)
Y 600
ESEMPIO N.2: la crisi di fiducia. Supponiamo ora che si verifichi una “crisi di
fiducia” sulle prospettive di profitto, e quindi che gli investimenti delle imprese si
riducano. Ipotizziamo ad esempio che adesso I = 150. Ciò significa che, rispetto al
valore precedente, gli investimenti si sono ridotti di 50 miliardi. Possiamo dunque
usare l’equazione (1) per calcolare il nuovo livello della produzione, tenendo
conto del nuovo livello di I. Avremo:
1
Y (50 150 100 (1 / 2)100)
1 1/ 2
Y 2 (250)
Y 500
La produzione è adesso pari a 500 miliardi, rispetto ai 600 realizzati prima della
crisi. Alternativamente possiamo anche calcolare direttamente la variazione Y,
senza bisogno di calcolare i livelli. Sapendo che gli investimenti si sono ridotti di
I = 50, mentre per ipotesi c0 = G = T = 0, sostituendo questi valori nella
equazione (2) otteniamo:
1
Y (50)
1 1/ 2
Y 2 (50)
Y 100
114
Questa visione è stata fortemente criticata da John Maynard Keynes, autore della
Teoria generale del 1936. Keynes, che scriveva in un’epoca di grave crisi
economica mondiale, sostenne che il tentativo di risollevare l’economia riducendo
i consumi per aumentare i risparmi avrebbe soltanto peggiorato la situazione
economica. In particolare, Keynes mise in luce l’esistenza di un “paradosso del
risparmio”, che andava contro i luoghi comuni dei teorici dell’astinenza: il
paradosso infatti evidenzia che se si riducono i consumi la produzione non
aumenta ma si riduce, ed inoltre i risparmi non aumentano ma restano invariati.
1
(1) Y (c0 I G c1T )
1 c1
S Y T C
116
S Y T c0 c1 (Y T )
S c 0 (1 c1 )(Y T )
La riduzione del consumo autonomo produce dunque due effetti contrastanti sul
risparmio: uno diretto che è positivo, e l’altro mediato dalla domanda e dal reddito
che invece è negativo. Ma quale dei due effetti tende a prevalere? Alla fine si
dimostra che i due effetti si elidono a vicenda, e quindi il risparmio non subisce
alcun mutamento in seguito alla riduzione del consumo autonomo. Infatti,
partendo dalla equazione dell’equilibrio tra produzione e spesa:
Y C I G
Y T C I G T
S I G T
ESEMPIO N.3: il paradosso del risparmio. Il fatto che la riduzione del consumo
autonomo non riesca a risollevare l’economia, ma provochi al contrario un calo di
produzione e lasci pure del tutto invariato il risparmio, può essere verificato
tramite un esempio numerico. Supponiamo che, dopo la crisi di fiducia e la caduta
degli investimenti, si cerchi di risollevare l’economia tramite una riduzione di c0
da 50 a 40 miliardi. I dati dunque sono:
c0 40
I 150
G 100
T 100
c1 0,5 1 / 2
1
Y (40 150 100 (1 / 2)100)
1 1/ 2
Y 2 (240)
Y 480
S c 0 (1 c1 )(Y T )
calcoliamo innanzitutto il livello del risparmio prima della riduzione del consumo
autonomo, cioè con c0 = 50 e Y = 500:
Come si vede, la riduzione del consumo autonomo non ha provocato alcun effetto
sul risparmio, visto che il calo di c0 è perfettamente compensato dal calo di
domanda e quindi di Y. Il “paradosso” è dunque confermato. Per uscire dalla crisi
occorre cercare altre strade. Ad esempio, come vedremo, la politica espansiva.
118
ESEMPIO N.4: una politica di espansione della spesa pubblica. E’ chiaro che la
crisi di fiducia, e la conseguente riduzione della domanda e della produzione,
avranno scatenato un’ondata di licenziamenti, e avranno quindi accresciuto la
disoccupazione. In tal caso le autorità politiche potrebbero cercare di effettuare
politiche espansive, al fine di aumentare la domanda di merci ed uscire così dalla
crisi. Supponiamo ad esempio che le autorità di governo decidano di aumentare la
spesa pubblica. Ad esempio, possiamo assumere che la spesa pubblica diventi G =
150, ossia aumenti di G = 50 rispetto al suo valore iniziale di 100. Dunque ora
abbiamo:
c0 50
I 150
G 150
T 100
c1 0,5 1 / 2
1
Y (50 150 150 (1 / 2)100)
1 1/ 2
Y 2 (300)
Y 600
1
Y (50)
1 1/ 2
Y 2 (50)
Y 100
Si noti che il moltiplicatore, rappresentato dal termine 1/1-c1, genera effetti tanto
più intensi quanto maggiore è la propensione al consumo. Ad esempio, se c1
aumenta da 1/2 a 2/3 il motiplicatore 1/1-c1 aumenta da 2 a 3 e quindi tende ad
accentuare la variazione iniziale della spesa autonoma. La spiegazione è semplice:
se i lavoratori hanno una forte propensione a consumare, allora nel momento in
cui vengono assunti e retribuiti tratterranno poco reddito per fini di risparmio e
tenderanno a spenderne molto per consumi. Ciò significa che solo una piccola
parte del reddito resterà giacente nei portafogli, mentre la maggior parte verrà
rimessa nel circuito economico, il che darà luogo ad un elevato effetto
moltiplicativo sulla domanda e sulla produzione.
ESEMPIO N.5: una politica di riduzione della tassazione. In effetti, per stimolare
la domanda di merci e uscire così dalla crisi, il governo potrebbe anche ridurre le
tasse anziché aumentare la spesa pubblica. Le tasse sono fondamentali per
finanziare l’amministrazione dello Stato e i servizi essenziali come l’ordine
pubblico, la sanità, l’istruzione, ecc. Al tempo stesso però esse sottraggono
reddito ai singoli cittadini, e quindi tendono a deprimere le loro spese per consumi
privati. Abbattendo la tassazione, il governo può quindi lasciare ai privati una
maggiore disponibilità di reddito, e permette ad essi di accrescere la domanda di
merci. In sostituzione di G = 50, il governo può dunque decidere di ridurre le
120
1
Y (c0 I G c1T )
1 c1
otteniamo che:
1
Y (0 0 0 (1 / 2)(50))
1 1/ 2
Y 2 (25)
Y 50
1
Y (c0 I G c1T )
1 c1
A prima vista si potrebbe pensare che questo tipo di politica non provochi alcun
effetto sul livello di equilibrio della produzione Y. Si può infatti presumere che
l’espansione della domanda di merci causata dall’aumento di G venga
perfettamente neutralizzata dalla riduzione della domanda causata dal pari
aumento di T. In realtà, contrariamente alle apparenze, il teorema di Haavelmo
dimostra che la politica basata sul bilancio in pareggio (cioè su G = T) dà
luogo a un incremento di Y.
Per dimostrare questo teorema partiamo dalla equazione (2), che ci dice di quanto
varia Y al variare delle componenti autonome della domanda, cioè nel nostro caso
al variare di G e di T:
1
Y (c0 I G c1T )
1 c1
1
Y (G c1T )
1 c1
122
Ma noi sappiamo pure che, per ipotesi, il governo sta effettuando una politica di
bilancio in pareggio, per cui G = T. Possiamo quindi sostituire il termine T
con G e ottenere:
1
Y (G c1G )
1 c1
1
Y (1 c1 ) G
1 c1
(1 c1 )
Y G
1 c1
Y G
E’ possibile tuttavia che un governo possa essere spinto ad effettuare delle spese
in disavanzo (detto anche deficit). Dall’equazione (3) noi sappiamo che il deficit
pubblico si viene a creare quando la spesa pubblica eccede le entrate fiscali. Ci
sono varie ragioni per cui questo eccesso di spesa può venirsi a creare. In primo
123
Quando uno Stato si trova in una situazione di deficit, può finanziare le spese
eccedenti in due modi. Il primo modo consiste nel farsi prestare denaro dai
privati, ossia nell’indebitarsi con i privati vendendo loro titoli del debito pubblico
(esempio tipico sono i BOT); in tal caso si avrà una emissione di nuovi titoli, e
quindi un aumento del debito pubblico, che qui definiremo con il termine B. Il
secondo modo di finanziamento verte sulla creazione di nuova moneta, ossia sulla
stampa di banconote da parte della banca centrale; in tal caso si avrà un aumento
dell’offerta di moneta, che qui definiremo con M. Dunque, in linea di principio,
dato un certo livello del deficit pubblico G - T, si potrà finanziarlo con una pari
variazione del debito pubblico, o della quantità di moneta, oppure di una
combinazione dei due:
G T B M
Fino alla seconda metà degli anni ’70, era prassi abbastanza consolidata favorire
l’espansione della spesa pubblica al di là delle entrate fiscali attraverso l’aumento
del debito e la creazione di moneta. Questo orientamento ha indubbiamente dato
luogo a un’espansione dell’apparato burocratico dello Stato. D’altro canto esso ha
pure consentito ai governi di finanziare politiche di espansione della spesa
pubblica per accrescere la domanda e quindi la produzione e l’occupazione.
Inoltre, la medesima impostazione ha favorito lo sviluppo del cosiddetto “stato
sociale”, vale a dire dell’istruzione e della sanità pubblica garantita a tutti i
cittadini, e dei sistemi di previdenza e di assistenza sociale per i meno abbienti.
Tuttavia a partire dagli anni ’80 si è imposto un diverso orientamento, talvolta
definito “liberista”, teso ad impedire le politiche espansive e a contrastare la
crescita del bilancio statale attraverso l’introduzione di rigidi vincoli all’aumento
del debito pubblico e della massa monetaria.
Il Trattato di Maastricht del 1991, che ha dato avvio al progetto della moneta
unica europea, è stato fortemente ispirato da questa impostazione liberista. Infatti,
tra le altre cose, ai paesi membri dell’Unione monetaria europea il Trattato
impone i seguenti divieti: 1) il divieto per la Banca centrale europea di finanziare
i deficit pubblici tramite creazione di moneta, un divieto che può essere
facilmente espresso in termini algebrici nel seguente modo:
124
M 0
G T B
G T B
Y Y
G T B
0,03 (ossia 3%)
Y Y
ESEMPIO N.6: verifica del rispetto o meno del vincolo del 3% del Trattato di
Maastricht. Se prendiamo i dati del terzo esempio precedente - nel quale si
cercava di rimediare a una crisi di fiducia tramite la spesa pubblica – si può
verificare se quella situazione rispetti o meno il vincolo del Trattato. Sapendo che
G = 150, che T = 100 e che il livello di equilibrio della produzione è Y = 600,
otteniamo:
G T 150 100
0,083 8,3%
Y 600
Fino a questo momento abbiamo assunto che, a seguito di una crisi di fiducia e di
una conseguente caduta degli investimenti delle imprese, il governo intervenga
attraverso una politica di espansione della spesa pubblica e/o di riduzione delle
tasse. Tuttavia è anche possibile che in una situazione del genere intervenga la
banca centrale al posto del governo (o al limite in concerto con esso). Ad
esempio, in Europa la Banca centrale europea (BCE) potrebbe esser chiamata a un
intervento per contrastare la crisi, negli Stati Uniti questo compito spetta alla
Federal Reserve (FED), ecc.
Quando c’è una crisi la banca centrale interviene con una politica monetaria
espansiva, cioè con un aumento della quantità di moneta M in circolazione. La
banca centrale può decidere di aumentare M al fine di ridurre il tasso d’interesse.
La riduzione dei tassi d’interesse rappresenta infatti una riduzione del costo dei
prestiti e può quindi stimolare le imprese a chiedere finanziamenti alle banche per
riattivare gli investimenti, e con essi la domanda di merci e quindi la produzione e
l’occupazione.
molto semplice, e può essere facilmente rintracciata nel capitolo 4 del manuale di
Blanchard. Qui però ci soffermiamo sulla spiegazione economica, cioè concreta,
del fenomeno.
Assumiamo ora che i titoli sul mercato siano “a reddito fisso”. Un caso tipico di
titoli a reddito fisso sono i titoli di Stato, emessi dai governi per farsi prestare
denaro dai privati (per esempio in Italia abbiamo i BOT). Un titolo a reddito fisso
è definito così poiché alla scadenza di fine anno chi lo ha emesso è tenuto a
pagare sempre la stessa somma al proprietario del titolo, ad esempio 100 euro.
Dunque il tasso d’interesse su questo titolo sarà dato dalla differenza tra
rendimento e costo del titolo, cioè sarà dato dalla cedola di 100 euro che il
proprietario ottiene alla scadenza di fine anno, meno il prezzo al quale il
proprietario ha acquistato il titolo, il tutto diviso per il medesimo prezzo:
100 PT
i
PT
100
i 1
PT
La formula chiarisce la relazione inversa tra prezzo del titolo e tasso d’interesse:
una operazione di mercato aperto basata su una maggiore offerta di moneta e su
una maggiore domanda di titoli da parte della banca centrale, farà aumentare il
prezzo di mercato PT del titolo e quindi (visto che il denominatore della frazione
127
aumenta) farà diminuire il tasso d’interesse i. Il che del resto è ovvio: l’operazione
espansiva della banca centrale fa aumentare il prezzo di mercato del titolo, ma al
tempo stesso il rendimento assoluto che il titolo garantisce è rimasto fisso a 100
euro. Pertanto, dopo l’operazione della banca centrale accade che chi compra il
titolo sul mercato lo paga di più, ma alla fine ottiene sempre la stessa somma di
cento euro. Pertanto è chiaro che il tasso d’interesse – cioè il rendimento
percentuale del titolo rispetto al prezzo - si riduce.
Tuttavia, così come accadeva per le manovre sulla spesa pubblica e sulla
tassazione, anche la politica monetaria risulta oggigiorno fortemente vincolata. Il
Trattato di Maastricht, infatti, non solo vieta alla Banca centrale europea di
finanziare i deficit pubblici con moneta, ma più in generale le impone di
perseguire politiche fortemente restrittive, al fine di contenere il più possibile
l’inflazione. Il risultato è che la Bce difficilmente potrà decidere di espandere la
moneta in circolazione al fine di ridurre i tassi d’interesse per dare sostegno alla
domanda e alla produzione. Anche per questo motivo il Trattato di Maastricht è
oggetto di numerose critiche.
Gli speculatori cercano dunque di prevedere l’andamento futuro dei prezzi dei
titoli, in modo da poter lucrare su di essi. A seconda che prevedano rialzi o cadute
dei prezzi, essi si dividono in rialzisti (detti anche “tori”) e ribassisti (detti “orsi”).
Qui di seguito sono riportati due esempi di strategie speculative, rispettivamente
dei rialzisti e dei ribassisti:
1) Mi faccio prestare 100 al tasso del 10% 1) Mi faccio prestare 50 titoli al tasso del 10%
(quindi dovrò restituire 110) (quindi dovrò restituire i titoli più il 10% del
2) Compro 50 titoli al prezzo corrente PT=2 loro
3) Attendo che il prezzo dei titoli aumenti valore corrente)
4) Rivendo i 50 titoli al nuovo prezzo PT=3 2) Vendo i 50 titoli al prezzo corrente PT=3
5) Dalla vendita ricavo 150 ed ottengo quindi 150
6) Restituisco i 110 dovuti al prestatore 3) Attendo che il prezzo dei titoli diminuisca
7) Ed ottengo dunque 150 – 110 = 40 4) Ricompro i 50 titoli al nuovo prezzo PT=2
di guadagno speculativo netto. spendendo quindi 100 per l’acquisto
5) Restituisco i titoli al proprietario e pago
anche un
interesse di 15 (cioè il 10% dei 150 che
valevano all’inizio)
6) Alla fine mi restano 150 – 100 - 15 = 35
di guadagno speculativo netto
ESEMPIO N.7: speculazioni errate. Si calcoli il risultato netto del rialzista nel
caso in cui il nuovo prezzo di mercato del titolo sia PT = 1 anziché PT = 3. Si
calcoli poi il risultato netto del ribassista nel caso in cui il prezzo di mercato del
titolo rimanga al livello iniziale PT = 3 anziché diminuire a PT = 2. Si
129
d’interesse più elevati rispetto agli altri. Tali movimenti di capitale da un paese
all’altro si arrestano solo nel momento in cui i titoli dei vari paesi offrono il
medesimo rendimento, al netto delle variazioni attese del tasso di cambio. La
condizione che ferma gli spostamenti, e che mette dunque in equilibrio i mercati,
è detta condizione di arbitraggio, oppure condizione di parità scoperta dei tassi
d’interesse. Dal testo di Blanchard noi sappiamo che tale condizione è data da:
Et
1 it (1 it* )
Ete1
Ora, è chiaro che finché la parte sinistra risulta inferiore alla parte destra
dell’equazione, allora conviene spostare i capitali all’estero per acquistare titoli
stranieri, che rendono di più. Viceversa, nel caso in cui la parte sinistra sia
maggiore, conviene tenere i capitali in patria. Si comprende pertanto che se la
banca centrale vuole evitare fughe di capitali all’estero, dovrà sempre fissare
un tasso d’interesse interno in grado di rispettare la condizione di parità
scoperta, dati ovviamente il tasso prevalente all’estero e il tasso di cambio atteso.
ESEMPIO N.8: il tasso minimo per evitare fughe di capitale. Assumendo che il
tasso di cambio corrente sia dato da Et = 1,08$/1, che il tasso di cambio atteso
sia Et+1 = 1$/1, e che il tasso d’interesse sui titoli USA sia i* = 0,1 (ossia il
10%), calcoliamo il tasso d’interesse i che la Banca centrale europea dovrà fissare
per evitare fughe di capitale all’estero:
3
Attenzione: qui si fa l’ipotesi che il tasso di cambio nominale E sia definito in termini del prezzo
della moneta nazionale in termini di moneta estera, dove per “nazionale” intendiamo l’Italia e più
in generale l’Europa, mentre per “estero” intendiamo prevalentemente gli Stati Uniti. Cioè, dal
punto di vista di noi italiani (ed europei), definiamo il cambio come prezzo di un euro in termini di
dollari. Ad esempio, potremmo avere che E = 1,20$/1Є. Le versioni più recenti del manuale di
Blanchard usano esattamente questa convenzione. Se invece si usa la definizione alternativa del
cambio, come prezzo della moneta estera in termini di moneta nazionale, oppure se per
“nazionale” si intendono gli USA (come accadeva nelle prime versioni del manuale di Blanchard
tradotte in italiano), allora la formula della condizione di parità va invertita.
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1,08
1 it (1 0,1)
1
1 it 1,188
I vincoli alla politica monetaria espansiva causati dal pericolo di fughe di capitale
hanno assunto negli anni ‘90 un rilievo drammatico, a seguito del ripetersi di crisi
valutarie ed economiche in Europa, in Asia e in America Latina. Sono state
pertanto avanzate delle proposte per tentare di dare maggiore libertà di manovra
alla politica monetaria dei singoli paesi. In particolare, è stata suggerita la
reintroduzione di limiti, più o meno stringenti, alla circolazione dei capitali nel
mondo. Una ben nota proposta in tal senso è la cosiddetta Tobin tax (dal nome
del suo ideatore, il premio Nobel per l’economia James Tobin), un’imposta su
tutti gli scambi tra valute finalizzata a rendere costosi, e quindi a disincentivare,
gli spostamenti di capitale da un paese all’altro.
ESEMPIO N.9: la Tobin tax agevola la riduzione del tasso d’interesse interno.
Supponiamo che l’Europa stia attraversando una fase di crisi e quindi di
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Et
1 it (1 it* ) (1 t ) t
Ete1
Adesso inseriamo nella nuova condizione di parità i valori assunti dalle variabili.
Immaginiamo in primo luogo che l’aliquota della Tobin tax venga fissata dalle
autorità al livello t = 0,01 = 1%. Inseriamo inoltre i valori dell’esercizio
precedente relativi al tasso d’interesse americano (i* = 0,1) e ai cambi corrente e
atteso (rispettivamente Et = 1,08 ed Et+1 = 1). L’unica incognita rimasta è il tasso
d’interesse interno it, che rappresenta il tasso minimo necessario ad evitare le
fughe di capitale all’estero. Sostituendo le cifre alle variabili otteniamo:
1,08
1 it (1 0,1) (1 0,01) 0,01
1
1 it 1,166
E’ facile a questo punto verificare che, grazie all’introduzione della Tobin tax, il
tasso interno necessario ad evitare le fughe di capitale si è ridotto, essendo
diventato it = 0,166 = 16,6%. Dunque un’imposta dell’1% sul valore di tutti gli
scambi di euro contro dollari e viceversa, renderà costosi gli spostamenti di
133
(1 it )
t 1
E
(1 it* ) et
Et 1
Prendendo i dati del nostro esempio, e ponendo it = it* = 10%, si scopre che per
mantenere i due tassi d’interesse al medesimo livello nonostante la svalutazione
attesa dell’euro, l’aliquota della Tobin tax dovrebbe essere pari a t = 0,075 =
7,5%.
Tra le ragioni per cui gli economisti critici ritengono che gli spostamenti di
capitali andrebbero fortemente vincolati o addirittura vietati, vi è il fatto che tali
spostamenti non solo creano problemi alla politica monetaria, ma di fatto
determinano effetti ben più gravi sull’intera economia mondiale. Infatti, se i
capitali possono scorazzare liberamente da un paese all’altro, è chiaro che essi si
muoveranno verso le nazioni che offrono loro i massimi vantaggi economici. Ed è
chiaro che i vantaggi economici potranno essere di varia natura. In condizioni di
libera circolazione dei capitali, infatti, i vari paesi non si limitano semplicemente a
tenere i tassi d’interesse alti in modo da evitare fughe di capitale, ma si faranno
134
concorrenza tra loro su molti altri piani, e soprattutto sulla disciplina fiscale,
finanziaria e del lavoro, in modo da attirare la massima quantità di capitale. I
governi dei vari paesi ad esempio ridurranno le spese sociali in modo da ridurre la
tassazione, adotteranno aliquote fiscali particolarmente basse sui possessori di
capitale, garantiranno il segreto bancario a tutela dei grandi capitali, introdurranno
norme di sicurezza sul lavoro più blande in modo da ridurre i costi per le imprese,
imporranno forti vincoli al diritto di sciopero e alle organizzazioni sindacali in
modo da contenere le rivendicazioni salariali, eccetera, e tutto questo per indurre i
proprietari del capitale a investire dalle loro parti. Tutti questi provvedimenti
ovviamente faranno aumentare i tassi d’interesse e più in generale i margini di
profitto a livello globale, mentre probabilmente comporteranno una riduzione dei
salari e delle spese sociali. Insomma, secondo gli economisti critici la libertà di
movimento dei capitali induce i vari paesi ad adottare politiche orientate a
favore dei proprietari di capitale, e spesso a detrimento degli interessi dei
lavoratori. Anche per questo alcuni hanno sostenuto che la globalizzazione dei
mercati ha determinato una specie di “dittatura del capitale finanziario”, poiché gli
interessi del capitale incidono più fortemente che in passato sulle decisioni
politiche. In quest’ottica, dunque, i controlli sui movimenti di capitale vengono
incoraggiati anche allo scopo di ridimensionare l’influenza sulle decisioni di
governo esercitata in questi anni dalle lobbies finanziarie.