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APPUNTI DI
ECONOMIA POLITICA

Appunti delle lezioni di


Fondamenti di Economia politica
di Emiliano Brancaccio

Facoltà di Scienze economiche e aziendali


Università del Sannio

TERZA VERSIONE

febbraio 2012
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ATTENZIONE: Questi appunti rappresentano sbobinamenti e


stralci dalle lezioni di Fondamenti di Economia politica del prof.
Emiliano Brancaccio, coadiuvato dal dott. Domenico Suppa.

Gli appunti potrebbero contenere alcuni errori e imprecisioni. Gli


appunti integrano ma non sostituiscono i testi di riferimento.

 I cap. 1 e 2 degli appunti rappresentano una introduzione


generale.
 Il cap. 3 è dedicato alla microeconomia.
 Il cap. 4 va affiancato al testo di Blanchard
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INDICE

Introduzione

1. CENNI DI STORIA DELL’ECONOMIA POLITICA


1.1 Un approccio critico alla economia politica
1.2 Gli economisti classici
1.3 Karl Marx
1.4 L’approccio neoclassico-marginalista
1.5 La Grande Crisi e Keynes
1.6 La Sintesi neoclassica e il nuovo mainstream
1.7 Per una critica della teoria economica mainstream

2. ELEMENTI DI TEORIA CLASSICA E MARXIANA

2.1 Un esempio del liberismo dei classici: il problema dei vantaggi


comparati di Ricardo
2.2 La condizione di riproducibilità del sistema economico nei classici e
in Marx

3. MICROECONOMIA E
MACROECONOMIA NEOCLASSICA

3.1 La teoria neoclassica della scelta razionale individuale: il caso del


consumatore
3.2 Il vincolo di bilancio del consumatore
3.3 Utilità, ordinamento delle preferenze e curve di indifferenza
3.4 La scelta del consumatore
3.5 La curva di domanda individuale
3.6 Il surplus del consumatore
3.7 La variazione della domanda individuale rispetto al reddito
3.8 Dalla curva di domanda individuale alla curva di domanda di mercato
3.9 La teoria neoclassica dell'impresa
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3.10 La massimizzazione del profitto dell'impresa


3.11 L'impresa in concorrenza perfetta
3.12 Rappresentazione grafica dell'equilibrio ottimale dell'impresa
3.13 Domanda, offerta ed equilibrio del mercato di concorrenza perfetta
3.14 L'elasticità della domanda rispetto al prezzo
3.15 Monopolio e oligopolio
3.16 Dalla microeconomia alla macroeconomia neoclassica

4. DISPENSE INTEGRATIVE DEL


MANUALE DI BLANCHARD
4.1 Una specificazione del modello di determinazione della produzione
4.2 Il paradosso del risparmio
4.3 Spesa pubblica, tassazione e teorema di Haavelmo
4.4 Il finanziamento del disavanzo pubblico e il Trattato di Maastricht
4.5 La politica monetaria e il Trattato di Maastricht
4.6 Politica monetaria e speculazione
4.7 Politica monetaria, libera circolazione dei capitali e controlli
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CENNI DI STORIA
DELL’ECONOMIA POLITICA

1.1 Un approccio critico alla economia politica

E’ vero che la diffusione dei contratti “precari” ha contribuito a ridurre la


disoccupazione? Per quale motivo negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a una
caduta della quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori salariati? Quali sono
gli effetti della immigrazione sui salari dei lavoratori nativi? Quali sono le
possibilità per un figlio di operai di veder migliorare le proprie condizioni di
lavoro e di vita rispetto a quelle dei genitori? Perché alcuni paesi hanno visto
crescere la loro ricchezza più rapidamente di altri? Quali sono le cause della crisi
economica mondiale esplosa nel 2008? L’economia politica prova a rispondere a
queste e a molte altre domande. Si tratta di questioni scottanti, che riguardano il
vissuto quotidiano di tutti noi, e dalle quali in larga misura scaturiscono le
condizioni del nostro benessere.

A questo tipo di domande si risponde di solito con dei luoghi comuni. Per
esempio, è un convincimento diffuso che gli Stati Uniti rappresentino il paese del
“sogno americano”, dove anche la persona più umile, se sufficientemente abile e
volenterosa, può raggiungere le più alte vette della scala sociale. Questo è ad
esempio il messaggio del celebre film “La ricerca della felicità”, con Will Smith e
di Gabriele Muccino.
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Ma le cose stanno davvero così come ci dice quel film e come di solito tendiamo a
credere? A quanto pare no. Il grafico posto qui di seguito mostra i tassi di
“immobilità sociale” calcolati dall’OCSE per alcuni paesi. La misura rappresenta
in un certo senso un indice della probabilità che può avere un individuo di situarsi
in una posizione sociale analoga a quella della famiglia di origine. Essa cioè
misura il peso della classe sociale di provenienza sui destini di ciascun individuo.
Più alto è l’indice, più è probabile che un figlio, al di là dei meriti individuali, si
ritrovi in una posizione sociale simile a quella dei genitori.

Ebbene, contrariamente al messaggio del film di Muccino e ai luoghi comuni sul


“sogno americano”, si può notare che gli Stati Uniti si caratterizzano per un
elevato tasso di “immobilità sociale”. Peggio degli USA fanno soltanto il Regno
Unito e, purtroppo, l’Italia.

Attraverso l’uso dei dati e la loro corretta interpretazione, l’economia politica può
dunque contribuire a sfatare dei “miti”, e può aiutarci a comprendere meglio le
caratteristiche della realtà sociale che ci circonda.

L’importanza dell’economia politica per tutti gli aspetti della vita sociale è del
resto testimoniata dall’influenza che le variabili economiche possono avere sui più
svariati comportamenti umani. Basti pensare alle correlazioni esistenti tra
disoccupazione e suicidio, tra povertà e criminalità, tra partecipazione delle donne
al lavoro e divorzi, tra disuguaglianza sociale e rigidità delle norme morali, e così
via.

La rilevanza della economia politica è dunque evidente. Ma quale potrebbe essere


una definizione rigorosa di questa disciplina? In termini del tutto preliminari,
possiamo affermare che l’economia politica indaga sui modi in cui una società si
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organizza per affrontare le seguenti quattro questioni fondamentali: come


produrre, cosa produrre, quanto produrre e come distribuire ciò che si è prodotto.

Naturalmente tale definizione è molto generica, e in questi termini risulta


compatibile con qualsiasi indagine economica. Tuttavia nel corso di queste lezioni
avremo modo di approfondire il suo significato e scopriremo che ogni scuola di
pensiero economico tende a interpretarla in modo particolare. A questo proposito
è importante comprendere che esistono diversi modi di concepire l’economia. E
quindi esistono anche diversi tipi di manuali attraverso i quali l’economia viene
insegnata.

I manuali oggigiorno più diffusi sono quelli realizzati da alcuni noti economisti
americani. Basti citare, per esempio, i testi di Paul Samuelson, Gregory Mankiw,
Olivier Blanchard, Joseph Stiglitz, tra gli altri. Si tratta di libri indubbiamente
molto apprezzati, sia per la ricchezza di contenuti che per la immediatezza del
linguaggio. Tuttavia questi testi presentano un limite: troppo spesso essi danno
agli studenti la sensazione che esista una sola rappresentazione possibile della
realtà economica, vale a dire una sola teoria, un solo “modello” universalmente
accettato dalla comunità degli studiosi.

Ma l’idea che per ogni fenomeno della realtà esista un solo modello interpretativo
è contraddetta dal fatto che, in tutti i campi di ricerca, ingenti risorse umane e
materiali vengono dedicate alla continua verifica dei diversi modelli esistenti, al
fine di valutare quale di essi sia maggiormente in grado di interpretare i fatti
concreti. Questo è vero in fisica, in chimica, in biologia, ma lo è ancora di più
nell’ambito dell’economia politica, dove i contrasti tra i ricercatori sulla teoria da
preferire sono particolarmente accentuati. Lo studente deve pertanto comprendere
che il più delle volte l’economia si presenta come un luogo concettuale di contesa
tra interpretazioni alternative della realtà che ci circonda.

In questo senso, come vedremo, per tutto il corso della trattazione verranno messi
a confronto due indirizzi alternativi di ricerca. Da un lato analizzeremo le versioni
passate e presenti del cosiddetto mainstream, cioè dell’approccio attualmente
dominante detto neoclassico-marginalista. Dall’altro lato studieremo il cosiddetto
approccio critico, che prende spunto dalle opere di Karl Marx, John Maynard
Keynes, Piero Sraffa ed altri per criticare l’impianto concettuale dell’approccio
neoclassico dominante e per indicare una diversa interpretazione dei fatti
economici e sociali.

Del resto, che l’economia politica abbia sempre rappresentato una sorta di “campo
di battaglia” tra visioni contrapposte è dimostrato dalla sua evoluzione storica. Nei
brevissimi cenni che seguono proveremo a dare un’idea di alcune tra le più celebri
dispute tra economisti.
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1.2 Gli economisti classici

In genere si ritiene che la nascita di una vera e propria scienza economica sia
avvenuta tra il 1760 e il 1830, ossia a cavallo di quella prima Rivoluzione
industriale che in Inghilterra e in altri paesi creò le basi per la piena affermazione
del modo di produzione capitalistico (cioè di un sistema nel quale la classe dei
capitalisti detiene il controllo dei mezzi di produzione, mentre la classe dei
lavoratori si presenta sul mercato offrendo ai capitalisti la propria forza lavoro in
cambio di un salario). Durante la prima Rivoluzione industriale si assiste a un
grande processo di innovazione tecnologica, di allargamento dei mercati, di
concentrazione dei capitali, di trasformazione di larghe masse di lavoratori in
operai salariati e di aumento generalizzato della scala della produzione e della
circolazione delle merci. Tali trasformazioni economiche sono accompagnate
anche da importanti cambiamenti negli assetti sociali e politici. In questa fase si
registra infatti il relativo declino politico della classe aristocratica dei proprietari
terrieri e prende avvio l’ascesa sociale e politica di una nuova classe di soggetti,
quella dei capitalisti proprietari delle moderne imprese agricole e industriali. Il
successo dei capitalisti porta a una nuova concezione dello Stato: non più
espressione degli interessi del sovrano e dell’aristocrazia fondiaria, l’autorità
statale viene chiamata a favorire lo sviluppo del capitale. Nuovo scopo del potere
politico è dunque di salvaguardare gli interessi della nuova classe capitalista
emergente, in contrapposizione alle istanze provenienti dalla classe dei proprietari
terrieri.

E’ esattamente in questi scenari che avviene la pubblicazione delle fondamentali


opere di due studiosi considerati i padri fondatori della scienza economica
moderna: lo scozzese Adam Smith, autore della Ricchezza delle nazioni del 1776;
e l’inglese David Ricardo, autore dei Principi di economia politica e della
tassazione del 1817. Smith e Ricardo sono considerati i massimi esponenti della
cosiddetta economia classica. Gli economisti classici risultano in larga parte
sostenitori del cosiddetto liberismo, o “laissez-faire”. A grandi linee il liberismo è
quella dottrina politica che si situa alla base dell’idea che per favorire lo sviluppo
economico e la crescita del benessere di tutti si debbano liberare le forze del
mercato dai lacci dell’autorità statale, cioè si debba “lasciar fare” ai capitalisti
privati. Sia pure seguendo ragionamenti molto articolati e con diversi accenti e
sfumature, Smith e Ricardo in definitiva sostengono le tesi liberiste. Essi infatti
ritengono che ci si dovrebbe affidare prevalentemente alle forze spontanee del
mercato e della concorrenza tra le imprese private, senza inutili vincoli o
intromissioni da parte dello Stato. A questo proposito, Smith elabora il cosiddetto
“teorema della mano invisibile”. Secondo questo “teorema” gli individui agiscono
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nel libero mercato guidati dal loro egoismo personale, ma proprio seguendo i loro
interessi particolari essi inconsapevolmente contribuiscono allo sviluppo
economico complessivo, e quindi finiscono per servire l’interesse di tutti. Scrive
Smith che «ciascuno è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che
non era parte delle proprie intenzioni». Le forze del mercato rappresentano cioè
una “mano invisibile” che guida i singoli individui egoisti a compiere il bene
comune dello sviluppo economico. In questo senso egli aggiunge che «non è dalla
benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci dobbiamo aspettare la
cena, ma dal fatto che essi perseguono il proprio interesse». Il motivo per cui
secondo Smith il “teorema” funziona è che i capitalisti proprietari delle imprese,
in concorrenza tra loro, cercheranno di prevalere gli uni sugli altri producendo
esattamente le merci che i consumatori desiderano. Inoltre, i capitalisti
cercheranno di adottare i metodi produttivi più efficienti al fine di ridurre al
minimo i costi, ed essere quindi più competitivi rispetto ai diretti concorrenti. La
riduzione dei costi farà sì che le merci siano vendute ai prezzi più bassi possibili,
il che garantirà sviluppo e benessere diffuso. A grandi linee, sono questi i motivi
per cui secondo Smith è bene lasciare che le forze del mercato e della concorrenza
siano tendenzialmente lasciate libere di operare.

Una sorta di teorema della mano invisibile verrà in seguito applicato da David
Ricardo anche al caso dei rapporti internazionali. Per Ricardo occorre infatti
salvaguardare le libertà di mercato non soltanto quando si considerino i singoli
capitalisti in concorrenza tra loro, ma anche quando si tratti di nazioni che
competono negli scambi commerciali. Ricardo quindi era non soltanto un liberista
ma anche un “liberoscambista”. Egli cioè non era semplicemente un fautore del
liberismo economico tra le imprese e tra i singoli individui, ma sosteneva anche il
libero scambio tra paesi. Egli elaborò in questo senso il famoso “teorema dei
vantaggi comparati”. Questo teorema ci dice che il libero scambio di merci tra
paesi è sempre vantaggioso per tutti. In quest’ottica, anche se un paese fosse più
efficiente di un altro nella produzione di tutte le merci, al primo converrà
comunque concentrarsi nella produzione delle merci in cui sia relativamente più
efficiente, mentre potrà lasciare la produzione delle altre merci al secondo paese.
In questo senso Ricardo sostenne che l’Inghilterra avrebbe dovuto specializzarsi
nella produzione e nella esportazione di manufatti industriali, mentre avrebbe
dovuto importare grano dagli altri paesi. Il consiglio che Ricardo dava
all’Inghilterra era quindi di abbandonare il protezionismo commerciale, cioè di
rinunciare ai dazi con i quali il paese cercava di proteggere l’agricoltura nazionale
dalla importazione di grano proveniente dall’estero. I dazi erano sostenuti dai
proprietari fondiari inglesi, che guadagnavano dalla produzione di grano sui loro
terreni. Ma per Ricardo la classe dei proprietari terrieri rappresentava un ostacolo
allo sviluppo economico. Il paese doveva quindi abbandonare le protezioni,
specializzarsi nella manifattura e aprirsi agli scambi internazionali.
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Gli economisti classici offrivano quindi una interpretazione sostanzialmente


positiva del capitalismo e delle leggi della concorrenza che lo governavano. Essi
talvolta definivano “naturale” l’equilibrio concorrenziale determinato dalle forze
del mercato. In tal modo sembravano voler dare l’idea che il capitalismo si
sviluppasse secondo “leggi naturali”, ossia in un certo senso armoniche ed eterne.
I classici tuttavia non nascondevano gli elementi di conflitto insiti nella società
capitalista. Non a caso Smith e Ricardo ritenevano che la società fosse divisa in
classi: i proprietari terrieri, i capitalisti e i lavoratori. In varie circostanze essi
riconobbero che le classi sociali hanno interessi irriducibilmente contrapposti tra
loro. Ricardo, in particolare, costruì una teoria secondo cui il profitto spettante ai
capitalisti va concepito come un “residuo”, come un “surplus” che si ottiene una
volta che da una data produzione totale siano state sottratte le merci spettanti ai
proprietari terrieri a titolo di rendite e le merci spettanti ai lavoratori sottoforma di
salari. Ma allora, se il profitto è un residuo, ciò significa che esso sarà tanto più
grande quanto minori siano le rendite e i salari, il che mette chiaramente in luce i
motivi di contrasto tra le classi sociali nella ripartizione della produzione.

1.3 Karl Marx

Proprio sulla concezione del profitto come “residuo”, e più in generale sugli
elementi di conflitto sociale riconosciuti dagli economisti classici, farà leva Karl
Marx per criticare la loro concezione positiva del capitalismo. Con la
pubblicazione del Capitale nel 1867 Marx si propone il compito di elaborare una
compiuta critica dell’economia politica dei classici. In questo senso egli sferra un
attacco poderoso al teorema della mano invisibile. Egli infatti descrive un sistema
tutt’altro che armonico ed eterno. Per Marx il capitalismo è in realtà afflitto da
perenne instabilità e da crisi ricorrenti. La teoria delle crisi di Marx è molto
complessa e tuttora oggetto di varie interpretazioni. Qui possiamo affermare che
nella visione di Marx si intersecano due spiegazioni della crisi: da un lato la
tendenza alla caduta del saggio di profitto, dall’altro la contraddizione tra sviluppo
delle forze produttive e consumi ristretti delle masse lavoratrici.

Sulla tesi della caduta del saggio di profitto, in questa sede possiamo limitarci ad
affermare che per Marx sussisterebbero forze che tendono nel tempo a ridurre il
saggio di profitto medio del sistema economico. Marx sostiene infatti che i
capitalisti estraggono il profitto dal lavoro vivo degli operai. Al tempo stesso egli
nota che le continue innovazioni tecniche spingono i capitalisti ad accrescere
l’impiego di mezzi di produzione rispetto ai lavoratori direttamente impiegati nel
processo produttivo. Ma se il rapporto tra lavoratori e mezzi di produzione si
riduce, a suo avviso si ridurrà anche il profitto. Una progressiva caduta del
profitto determina tuttavia una crisi generale del modo di produzione capitalistico.
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Per Marx, infatti, il profitto rappresenta non solo la remunerazione del capitalista
ma anche il motore dell’accumulazione. Una sua precipitazione verso lo zero
renderà a un certo punto impossibile la riproduzione del sistema capitalistico e
aprirà quindi la via ad un’epoca di rivoluzione sociale.

Tra le cause che secondo Marx determinano crisi ripetute vi è però anche il fatto
che la spietata concorrenza tra le imprese conduce a una continua serie di
rivoluzioni tecniche e organizzative che aumentano al massimo la produttività di
ogni singolo lavoratore e al tempo stesso riducono il suo salario. Ciò tuttavia
implica un divario crescente tra la capacità produttiva dei lavoratori e la capacità
di spesa degli stessi lavoratori. Sotto date condizioni questo divario può
determinare un problema di sbocchi per le merci prodotte. La conseguenza è che il
processo di accumulazione dei capitali si blocca e le imprese sono indotte a
licenziare i lavoratori. Ma ciò allarga ulteriormente il divario tra capacità
produttiva e capacità di spesa, per cui il sistema rischia di avvitarsi su sé stesso
fino al tracollo. Al riguardo Marx scrive: «…La causa ultima di tutte le crisi
rimane sempre la povertà ed il consumo ristretto delle masse, di fronte alla
tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive…»
(Capitale, vol. III).

Marx contesta dunque l’idea classica di un capitalismo “naturale” e quindi


“eterno”, sostenendo invece la tesi della sua instabilità e della sua storicità. Per
Marx, l’elemento di maggior contraddizione del capitalismo è che la feroce
competizione tra capitali da un lato sviluppa nuove tecniche e nuove forze
produttive, ma dall’altro scatena le crisi e quindi genera tensioni nei rapporti di
produzione tra le classi sociali. In particolare, la classe lavoratrice si ritrova ad
essere l’artefice in ultima istanza dello sviluppo delle forze produttive, poiché
quello sviluppo avviene soprattutto in base allo sfruttamento imposto dal comando
del capitale sul lavoro. Al tempo stesso, la classe lavoratrice risulta anche la prima
vittima della disoccupazione e degli immiserimenti causati dalle ricorrenti crisi
del capitalismo. Le contraddizioni del capitalismo ricadono dunque
principalmente sui lavoratori salariati, artefici e vittime del sistema.

In quest’ottica Marx giudicava il capitalismo un sistema potente ma caotico,


“anarchico”, destinato prima o poi ad entrare in una crisi irreversibile e ad esser
quindi sostituito da un diverso sistema di organizzazione dei rapporti economici e
sociali. L’analisi marxiana potrebbe in questo senso essere considerata una
indagine sulle condizioni di riproducibilità del modo di produzione capitalistico.

Quando si dice che in Marx è fondamentale il concetto di storicità, si intende


appunto che egli sottolinea il fatto che i sistemi economici non sono affatto eterni
ma risultano storicamente determinati, nel senso che cambiano nel tempo. Ad
esempio, è noto che la Rivoluzione francese ha effettivamente sancito il passaggio
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dall’Antico regime feudale (basato sul potere dei proprietari terrieri) al regime di
produzione capitalista (in cui il potere è nelle mani dei proprietari delle imprese).
Allo stesso modo, è possibile che il capitalismo a un certo punto imploda nelle sue
contraddizioni e ceda il passo a una nuova e diversa modalità di organizzazione
dei rapporti sociali.

Marx si attendeva in tal senso una svolta rivoluzionaria guidata dalla classe
lavoratrice, a seguito della quale potesse sorgere un sistema di tipo socialista: vale
a dire un sistema non più basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e
sul lavoratore salariato posto sotto il comando del capitalista, ma fondato invece
sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sulla pianificazione sociale del
lavoro. In una prima fase il sistema socialista si sarebbe per forza di cose basato
sul controllo statale sui mezzi di produzione, sulla divisione del lavoro e sulle
retribuzioni. Ma più in prospettiva, a seguito dello sviluppo delle forze produttive
e della ricchezza sociale, Marx preconizzava un futuro comunista, nel quale il
potere coercitivo dello Stato, la divisione del lavoro e lo stesso concetto di
“salario” sarebbero diventati superflui. Nella Critica al programma di Gotha del
1875, egli definì il comunismo in questi termini: «In una fase più avanzata della
società comunista, dopo la scomparsa della subordinazione asservitrice degli
individui alla divisione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro
intellettuale e fisico […] dopo che con lo sviluppo completo degli individui sono
aumentate anche le loro forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze
collettive scorrono in abbondanza; soltanto allora la società può scrivere sulle sue
bandiere: da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni!».

Naturalmente Marx non fu il primo comunista della Storia. Molti prima di lui
avevano sostenuto l’ideale superiorità di un sistema fondato sulla cooperazione
sociale anziché sulla competizione individuale, e sulla proprietà collettiva anziché
privata dei mezzi di produzione. E in passato non erano nemmeno mancate
esperienze di comunismo concreto, come ad esempio quello delle comunità
cristiane primitive. Marx tuttavia differiva dai suoi predecessori per un motivo:
egli faceva poggiare la sua prospettiva comunista non su basi etico-morali, ma su
una rigorosa analisi scientifica delle contraddizioni del capitalismo e della sua
fragilità intrinseca, una analisi per molti versi ancora attuale. Ed è proprio in
questa analisi scientifica del capitalismo che risiedeva la vera forza di Marx, una
forza che prescinde dal carattere talvolta utopico delle sue premonizioni sul
comunismo.

Verso la fine dell’Ottocento le tesi marxiane divennero il punto di riferimento del


movimento operaio, cioè delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori
che in quel periodo andavano sviluppandosi e consolidandosi in molti paesi. In un
certo senso, l’analisi di Marx aveva successo poiché comunicava ai lavoratori che
con le loro lotte di emancipazione essi stavano contribuendo a smuovere la Storia,
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accelerando la crisi del capitalismo e creando le condizioni per una nuova e


superiore organizzazione della società. Chiaramente, per molti altri queste tesi
risultavano invece scomode, pericolose. Infatti, rimarcando l’instabilità e la
storicità del modo di produzione capitalistico, l’analisi di Marx rappresentava una
oggettiva minaccia per i proprietari del capitale, principali detentori del potere
economico e politico.

1.4 L’approccio neoclassico-marginalista

Per scongiurare le tesi di Marx occorreva dunque sfidarlo sul terreno dell’analisi
scientifica dell’economia. Occorreva cioè proporre una chiave di lettura della
realtà che fosse alternativa a quella marxiana. Ma per far questo non si poteva
tornare al pensiero dei classici. Infatti, benché Smith e Ricardo esprimessero nella
sostanza un giudizio positivo sul modo capitalistico di produzione, le loro teorie
mettevano apertamente in evidenza gli elementi di conflitto insiti nei rapporti tra
le classi sociali, e quindi somigliavano troppo all’analisi di Marx per potersi dire
del tutto estranee e alternative ad essa.

Si pose dunque il problema di elaborare una nuova teoria, che non si concentrasse
sul carattere conflittuale e instabile del modo di produzione capitalistico ma che al
contrario fornisse una convincente rappresentazione armonica del sistema
economico. Così, a partire dal 1870, nasce e trova largo seguito una nuova
concezione teorica, detta neoclassica o marginalista. Jevons, Menger e Walras
furono tra i fondatori di questo approccio, seguiti poi da Marshall, Pigou,
Wicksell, Pareto, Robbins e molti altri.

La nuova impostazione viene definita “neo-classica”, ma in effetti essa porta con


sé ben poco della precedente economia classica e marxiana. Marx e i classici
indagavano sui meccanismi di funzionamento del capitalismo, sulle cause della
sua capacità di sviluppo ma anche sulla sua tendenza alla crisi, sulle
contraddizioni che lo caratterizzano e sui conflitti tra le classi sociali che quelle
contraddizioni scatenano. Marx, in particolare, sottolineava la storicità del
capitalismo e puntava a una indagine scientifica sulle condizioni di riproduzione o
di crisi del modo di produzione capitalistico. Ed ancora, sia i classici che Marx
facevano partire le loro analisi direttamente dallo studio delle classi sociali.

Completamente diverso è invece l’oggetto di indagine degli economisti


neoclassici-marginalisti. I teorici neoclassici rifiutano una analisi della società
basata sulla divisione tra le classi. Ad essa contrappongono il cosiddetto
individualismo metodologico. Questo metodo si basa sulla idea che qualsiasi
aggregato sociale, inclusa la classe, è in realtà costituito da singoli individui.
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Stando quindi all’approccio neoclassico, l’analisi scientifica della società deve


sempre partire dall’analisi del comportamento del singolo.

Inoltre, i neoclassici rifiutano l’idea di doversi occupare di uno specifico modo di


produzione, e in particolare del capitalismo. Essi si propongono di elaborare una
teoria molto più astratta e generale, che valga per ogni sistema di organizzazione
dei rapporti sociali e per ogni periodo storico, e che valga anche per ogni
individuo (indipendentemente dalla ricchezza che possiede o dalla funzione
economica che svolge). In questo senso i neoclassici ritengono che il problema
economico fondamentale di ogni individuo e di ogni società sia quello di
impiegare al meglio i mezzi scarsi di cui dispone al fine di accrescere più che può
il proprio benessere. Questo problema secondo i neoclassici è così importante che
definisce in quanto tale l’oggetto stesso della scienza economica.

Infatti, nel Saggio sulla natura e sul significato della scienza economica del 1932,
lo studioso neoclassico Lionel Robbins definì l’economia come quella scienza
«che studia il comportamento umano come una relazione fra scopi classificabili in
ordine d’importanza e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». Pochi anni dopo
un altro economista neoclassico fornì una descrizione ancor più sintetica della
disciplina: nel suo celebre Fondamenti di analisi economica del 1947, Paul
Samuelson definì il nucleo di ogni problema economico come «una funzione
matematica da massimizzare sotto vincoli», dove i vincoli rappresentano le risorse
scarse disponibili e la funzione da massimizzare in genere rappresenta il benessere
individuale. Come vedremo, secondo i neoclassici tale benessere può esser
misurato attraverso l’utilità, un concetto che essi adoperano molto spesso nelle
loro analisi.

Per comprendere meglio il significato di queste definizioni, consideriamo il


seguente esempio. Per i neoclassici una tipica risorsa scarsa è il tempo, ossia le
ore del giorno. Supponiamo allora che un individuo debba decidere come
impiegare le sue ore. Tra i possibili usi alternativi egli potrà scegliere di lavorare e
ottenere così un reddito che gli darà modo di consumare merci, oppure potrà
scegliere di riposare e dedicarsi al tempo libero. Ora, sia il riposo che il consumo
di merci accrescono l’utilità dell’individuo, cioè aumentano il suo benessere.
Come si fa a decidere quante ore dedicare al riposo e quante ore dedicare al lavoro
necessario per ottenere un reddito e consumare? Quale sarà cioè la quantità
ottimale di ore da dedicare al lavoro, e quale la quantità ottimale di ore da
dedicare al riposo, al fine di massimizzare l’utilità dell’individuo? La risposta dei
neoclassici verte sul cosiddetto “calcolo marginale”, cioè su un calcolo effettuato
su incrementi piccoli, appunto “marginali”, delle variabili considerate.

Questo calcolo si basa sul principio che al crescere del consumo di un qualsiasi
bene, l’utilità dell’individuo tende ad aumentare ma con incrementi sempre più
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piccoli. Il motivo è che mentre le dosi iniziali del bene sono particolarmente
gradite all’individuo, le dosi successive lo condurranno verso la sazietà e quindi
risulteranno meno “utili”. Tale principio è detto “legge della utilità marginale
decrescente”, ed è alla base di molte analisi neoclassiche.

Dunque, nel caso dell’individuo considerato, si tratterà di distribuire le ore del


giorno tra lavoro (e conseguente consumo di merci) e tempo libero. La scelta
avverrà sapendo che all’inizio il consumo di merci è assolutamente necessario, e
quindi conferisce una utilità molto alta; ma al crescere delle ore di lavoro e del
consumo, e al conseguente ridursi delle ore di tempo libero, l’individuo tenderà ad
essere sempre più sazio di merci ma anche sempre più stanco, per cui l’utilità
marginale del consumo tenderà a ridursi rispetto all’utilità marginale del tempo
libero. Pertanto, se vuole massimizzare la sua utilità, l’individuo dovrà seguire
questa regola: aumentare il tempo di lavoro fino a quando l’utilità marginale del
consumo è maggiore della utilità marginale del tempo libero, cioè fino a quando
l’aumento di utilità derivante dal consumo di merci reso possibile dal reddito
ottenuto tramite un incremento marginale di tempo di lavoro sia maggiore o al
limite uguale alla perdita di utilità causata dalla rinuncia al tempo libero che
consegue a quello stesso incremento marginale di tempo di lavoro. Nel momento
in cui la utilità marginale del consumo eguaglia l’utilità marginale del tempo
libero, l’individuo starà lavorando proprio il numero ottimale di ore. Infatti, se
l’individuo aumentasse ulteriormente il tempo di lavoro, la perdita di utilità
dovuta alla rinuncia al riposo eccederebbe l’aumento di utilità derivante dal
consumo di merci, e quindi egli incorrerebbe in una riduzione netta del suo
benessere. Questo tipo di calcolo, effettuato per l’appunto su variazioni
“marginali” – ossia molto piccole - delle grandezze considerate, è alla base della
teoria neoclassica, che proprio per questo motivo viene anche detta teoria
marginalista.

E’ bene precisare che questo tipo di calcolo può indifferentemente applicarsi non
solo ai lavoratori ma anche ai capitalisti, o a qualsiasi altro soggetto. Ad esempio,
il possessore di ingenti ricchezze deve decidere se consumare subito tali ricchezze
oppure prestarle ad altri, guadagnando così un tasso d’interesse e potendo quindi
consumare maggiori quantità di ricchezza in futuro. Anche in tal caso, dicono i
neoclassici, si applica il calcolo marginale: il soggetto distribuirà infatti le sue
ricchezze tra consumo immediato e consumo futuro in base al confronto tra le
utilità marginali della prima e della seconda opzione.

Dunque, per i neoclassici, l’analisi basata sulla esistenza delle classi sociali è
inutile e per certi versi fuorviante, visto che il comportamento di ogni individuo,
indipendentemente dalla classe di appartenenza, può essere esaminato come un
problema di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse di
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cui egli dispone, e più specificamente come un problema risolvibile con il calcolo
marginale.

Inoltre, gli economisti neoclassici ritengono che il principio di massimizzazione


della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse possa essere applicato a qualsiasi
epoca storica e a qualsiasi società, semplice o complessa che sia. L’oggetto di
indagine potrà essere una economia elementare, magari basata su un unico
individuo, come ad esempio quella del naufrago Robinson Crusoe raccontata nel
famoso romanzo di Defoe. Oppure potrà trattarsi di una economia capitalistica
altamente sviluppata, costituita da tanti operatori e da una complessa rete di
scambi. In ogni caso entrambe le economie affronteranno problemi analoghi,
basati sul principio di massimo vincolato e risolvibili tramite il calcolo marginale.
Discutere quindi di uno specifico modo di produzione storicamente determinato,
come facevano i classici e soprattutto Marx, è da ritenersi errato.

Ma al di là del nuovo metodo di analisi adottato, quali furono le conclusioni


politiche alle quali i neoclassici giunsero attraverso di esso? Indubbiamente, nella
maggioranza dei casi, la nuova teoria perveniva a risultati più rassicuranti per i
proprietari del capitale rispetto a quelli esposti dai classici e da Marx. Dall’analisi
neoclassica può infatti scaturire l’idea che in condizioni di perfetta concorrenza
una economia capitalistica di mercato sia in grado di garantire il pieno utilizzo
delle risorse scarse disponibili ed anche una remunerazione delle risorse conforme
al contributo di queste alla produzione. In particolare, riguardo alle fondamentali
questioni della disoccupazione e dei salari, i neoclassici applicavano ancora una
volta il calcolo marginalista. In primo luogo, essi ritenevano che per ogni data
quantità di mezzi di produzione disponibili, i lavoratori via via assunti dalle
imprese avrebbero fatto registrare una produttività sempre minore: è la “legge
della produttività marginale decrescente” di un fattore produttivo, quando gli altri
fattori siano considerati fissi. In base a questa legge, i neoclassici sostenevano che
le imprese avrebbero assunto nuovi lavoratori solo se la loro produttività
marginale fosse stata maggiore o al limite uguale al costo marginale
dell’assunzione, che corrisponde al salario reale (ossia al salario espresso in
termini di potere d’acquisto effettivo). Pertanto, se i lavoratori avessero accettato
un salario conforme alla loro produttività, sarebbero stati certamente assunti dalle
imprese. Vista quindi in quest’ottica, la disoccupazione può dipendere solo dalla
libera scelta del lavoratore, che magari si dichiara indisponibile ad accettare un
salario equivalente alla sua produttività; oppure la disoccupazione può dipendere
dall’azione dei sindacati dei lavoratori, che impediscono di ridurre i salari al
livello della produttività marginale, e quindi rendono impossibile l’assunzione di
ulteriori lavoratori da parte delle imprese. Se dunque si eliminano le distorsioni
causate dai sindacati e si lascia fare alle forze del mercato, si giungerà alla piena
occupazione dei lavoratori disposti ad accettare un salario equivalente alla loro
produttività. In definitiva, il libero gioco delle forze del mercato conduce a un
17

equilibrio complessivo efficiente e in un certo senso giusto: un equilibrio che


alcuni teorici neoclassici definiscono “naturale”.

La teoria neoclassica permetteva in tal modo di elaborare una sorta di nuovo


“teorema della mano invisibile”. Da essa si può infatti derivare l’idea che
l’economia capitalistica non sia né instabile né conflittuale. In assenza di
“distorsioni” causate dalla politica o dall’azione sindacale, le forze spontanee del
mercato condurranno il sistema economico verso un equilibrio “naturale”, in cui
tutti coloro i quali siano disposti a lavorare al salario vigente troveranno
certamente un’occupazione.

La nuova teoria pertanto riafferma i principi cardine del liberismo in termini più
netti rispetto a quanto sostenuto dai classici. Essa infatti si fonda su una
concezione non più conflittuale ma armonica dei rapporti sociali. Ricordiamo che
anche Ricardo era liberista. Egli tuttavia interpretava la realtà in base all’idea che
per ogni data produzione il profitto fosse calcolato come un residuo al netto dei
salari. Stando a questa chiave di lettura il salario e il profitto sono legati tra loro
da un rapporto antagonistico, poiché se uno aumenta l’altro diminuisce. Pertanto,
nella vecchia ottica classica, tra percettori di profitto e percettori di salari vi è
sempre un irriducibile conflitto nella ripartizione della produzione. Invece,
nell’ambito della visione neoclassica si stabilisce che il lavoro e tutti gli altri
fattori produttivi sono remunerati in base alle rispettive produttività marginali,
cioè al contributo dato da ciascuno di essi alla crescita della produzione. Il
conflitto svanisce, soppiantato da una interpretazione armonica ed efficientista
della distribuzione del prodotto tra lavoratori e capitalisti.

1.5 La Grande Crisi e Keynes

Tra il 1870 e il 1914 la teoria neoclassica si impose come il nuovo mainstream, la


nuova visione dominante della scienza economica. L’approccio neoclassico si
diffuse nei circoli accademici e della finanza, e le analisi di politica economica
che scaturivano da esso trovarono ampio spazio presso la grande stampa. Il
successo della teoria era in buona misura dovuto alla capacità di presentare il
problema economico in termini asettici, come un generico problema di uso
efficiente di risorse scarse. Questa prerogativa dell’approccio neoclassico
permetteva a molti studiosi di avvicinarsi all’economia come se si trattasse di una
scienza neutra, priva di implicazioni politiche. Inoltre, le versioni più in voga
della teoria neoclassica sembravano in grado di descrivere l’economia
capitalistica di mercato come un sistema armonico, efficiente e stabile, il che le
18

rendeva estremamente utili nella battaglia ideologica contro il movimento operaio


e contro i sostenitori del socialismo.

Gli eventi successivi al 1914, tuttavia, misero fortemente in questione l’idea


neoclassica di un sistema capitalistico efficiente ed armonico. Allo scoppio della
Prima guerra mondiale, molti sostennero che il conflitto bellico tra nazioni non
fosse altro che una versione estrema del conflitto tra capitali. Si diceva in questo
senso che il capitalismo tende al cosiddetto “imperialismo”. Secondo questa
interpretazione, il modo di produzione capitalistico tende a scatenare una tale
competizione sociale da condurre poi inesorabilmente alla guerra militare.

Inoltre, nel 1917 si verifica un evento che sembra per certi versi dare ragione ad
alcune premonizioni di Marx: in una Russia devastata dalla guerra e dalla miseria
si verifica infatti una nuova Rivoluzione. Il partito che la guida si dichiara
espressamente marxista, e punterà a riorganizzare i rapporti economici su basi
socialiste.

Ed ancora, la visione armonica del capitalismo suggerita dall’approccio


neoclassico subisce un altro duro colpo a seguito della Grande Crisi. Nel 1929,
dopo una lunga fase di euforia nei mercati azionari, il crollo della borsa di Wall
Street diede avvio a una gravissima crisi economica, che in pochi anni creò 12
milioni di disoccupati negli Stati Uniti, 6 milioni in Germania, 3 milioni in Gran
Bretagna e molti altri nel resto del mondo. Inoltre, secondo alcuni osservatori, fu
proprio la Grande Crisi a creare le condizioni sociali e politiche per l’avvento del
nazismo e per la Seconda guerra mondiale.

In un simile scenario di sconvolgimenti sociali e politici si fa strada il


convincimento che la teoria neoclassica non sia in grado di dare un’adeguata
rappresentazione del funzionamento reale del capitalismo. Del resto, le chiavi di
lettura della crisi suggerite dagli economisti neoclassici apparivano sempre più
lontane dalla realtà. Ad esempio, nella Teoria della disoccupazione del 1933,
l’economista neoclassico Arthur C. Pigou sostenne che la crisi era dovuta al fatto
che i sindacati si opponevano al calo delle retribuzioni. In questo modo, secondo
Pigou, i sindacati impedivano il riequilibrio tra salari e produttività marginale del
lavoro che sarebbe stato necessario per indurre le imprese ad assumere i lavoratori
disoccupati. Questa tesi tuttavia risultava smentita dal fatto che in realtà i salari
erano fortemente diminuiti a seguito della crisi, e che ciò nonostante non si era
registrato alcun miglioramento sul versante dell’occupazione.

I tempi erano dunque maturi per una nuova rivoluzione delle idee in campo
economico. Tra i portatori della medesima vi fu l’economista inglese John
Maynard Keynes, autore della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e
della moneta del 1936. Nella sua critica ai neoclassici Keynes sceglie una
19

posizione “intermedia”, nel senso che accetta una parte della loro teoria ma rifiuta
un’altra parte. In particolare, Keynes condivide la tesi neoclassica secondo la
quale in equilibrio il salario reale coincide con la produttività marginale del
lavoro. Egli accetta pure la tesi secondo cui, dati gli altri fattori di produzione, la
produttività marginale del lavoro decresce al crescere del numero dei lavoratori
occupati. Tuttavia, Keynes aggiunge pure che i neoclassici trascurano un punto
fondamentale, e cioè che il numero degli occupati dipende dalla domanda effettiva
di merci. Le imprese cioè assumeranno solo i lavoratori necessari a produrre la
quantità di merci effettivamente domandata dal mercato, cioè la quantità che
possa essere effettivamente venduta. Questo è il “principio della domanda
effettiva”, ed è alla base della teoria di Keynes. Se dunque la domanda effettiva di
merci è bassa, le imprese assumeranno pochi lavoratori e vi sarà quindi una
elevata disoccupazione.

La domanda effettiva a sua volta dipende dalle aspettative sul futuro. Se tra gli
operatori economici si diffonde una ondata di pessimismo, gli acquisti di beni di
investimento (macchinari, impianti, attrezzature, ecc.) verranno ridotti, il che
provocherà una serie di licenziamenti, quindi un calo dei consumi dei lavoratori,
quindi ulteriori licenziamenti, e così via in una spirale negativa che può condurre
a una crisi generale. Nella teoria keynesiana questo meccanismo cumulativo va
sotto il nome di “moltiplicatore”.

Keynes riteneva che i neoclassici trascurassero tutti questi problemi, e per questo
non fossero in grado di fornire una adeguata rappresentazione del sistema
economico.

Dal principio della domanda effettiva e dalla teoria del moltiplicatore Keynes
faceva anche scaturire una critica al liberismo prevalente tra i neoclassici. Egli
infatti riteneva che le forze del mercato, lasciate a sé stesse, non sarebbero mai
state capaci di generare una domanda effettiva tale da eliminare la
disoccupazione. In questo senso Keynes criticò l’idea di Pigou, secondo il quale la
grande crisi dipendeva dal fatto che i sindacati dei lavoratori si opponevano alla
riduzione dei salari e quindi impedivano il libero funzionamento del mercato. Al
contrario,

Keynes sosteneva che la riduzione dei salari non avrebbe risolto la crisi. Anzi,
avrebbe potuto aggravarla. La riduzione dei salari avrebbe infatti dato avvio a un
lungo periodo di calo dei prezzi delle merci, che avrebbe indotto molti operatori a
rinviare gli acquisti in attesa di ulteriori cadute dei prezzi. Il che avrebbe solo
accentuato la crisi. Pertanto, non si poteva imputare la depressione economica ai
sindacati.
20

Per Keynes il vero problema è che il capitalismo risulta afflitto da una domanda
effettiva molto instabile, condizionata dai cambiamenti nelle aspettative sul
futuro, e in genere mai sufficiente per garantire la piena occupazione dei
lavoratori. Keynes proponeva dunque l’abbandono del laissez-faire. A suo avviso
soltanto un massiccio intervento statale nell’economia avrebbe potuto garantire
livelli alti e stabili della domanda effettiva, tali da scongiurare le crisi ricorrenti
del capitalismo e in grado di condurre sempre alla piena occupazione del lavoro.
In questo senso Keynes parlava di «socializzazione di una certa ampiezza
dell’investimento», ossia di un ampio intervento dello Stato per il finanziamento
degli investimenti in opere pubbliche, servizi sociali, beni di interesse collettivo.

1.6 La Sintesi neoclassica e il nuovo mainstream

Dalla Seconda guerra mondiale il liberismo uscì perdente. Dopo la guerra era
infatti diffusa un po’ ovunque l’opinione che le forze spontanee del capitalismo,
lasciate a sé stesse, fossero causa di instabilità, crisi e conflitti. Questa idea era
ovviamente supportata dall’esperienza recente. Essa inoltre veniva sostenuta dai
sindacati dei lavoratori, che in molti paesi uscirono dalla guerra legittimati e
rafforzati, anche per le battaglie antifasciste che avevano condotto. Infine, non si
poteva trascurare il fatto che tra i vincitori della guerra vi fosse anche l’Unione
Sovietica, lo stato socialista nato dalla rivoluzione russa del 1917. Questa
presenza costituiva una sfida ulteriore per i fautori del capitalismo.

Al termine della guerra le tesi di Keynes trovarono dunque un ambiente propizio


per svilupparsi, sia in ambito accademico che politico. Le politiche economiche
del dopoguerra furono in varie circostanze ispirate dalla critica della ideologia
liberista degli anni precedenti. In particolare, era diffuso il convincimento che
l’intervento statale nell’economia fosse in una certa misura necessario per
rimediare alla instabilità e alla debolezza della domanda tipiche del capitalismo.

In questa fase venne a costituirsi una nuova scuola, detta “sintesi neoclassica”. Tra
i suoi esponenti spiccavano i nomi di John Hicks, Franco Modigliani e Don
Patinkin. Questi economisti proposero una sintesi, per l’appunto, tra le idee di
Keynes e la teoria neoclassica.

Dopo vari passaggi teorici, da questa sintesi emerse negli anni Cinquanta un
nuovo modello, portatore della seguente soluzione di compromesso: 1) il principio
keynesiano della domanda effettiva e il moltiplicatore determinano i livelli della
produzione e della occupazione nel breve periodo; 2) l’equilibrio “naturale” del
mercato del lavoro e la funzione di produzione determinano i livelli della
21

occupazione e della produzione nel lungo periodo. L’idea di fondo è che le


oscillazioni della domanda possono in effetti provocare cambiamenti continui
nella produzione e nella occupazione ma ciò può avvenire solo nel breve periodo.
Nel lungo periodo le forze del mercato dovrebbero comunque condurre
l’economia al suo equilibrio “naturale” di piena occupazione. Gli interventi di
politica economica dello Stato possono però essere d’aiuto per accelerare la
convergenza del sistema economico verso il suo equilibrio “naturale”.

La cosiddetta Sintesi neoclassica era dunque compiuta. Il problema keynesiano


della domanda effettiva non veniva negato, come facevano i vecchi neoclassici,
ma veniva ridotto a una questione di “breve periodo”. Il primato neoclassico
dell’equilibrio “naturale” di piena occupazione veniva comunque ristabilito nel
lungo periodo. La politica economica non era indispensabile, ma poteva aiutare a
raggiungere più rapidamente l’equilibrio naturale.

Il manuale di Macroeconomia di Olivier Blanchard rappresenta la versione


didattica più recente e avanzata della cosiddetta Sintesi neoclassica. La novità
essenziale apportata da Blanchard è che a differenza dei vecchi neoclassici lui non
si riferisce più alla concorrenza perfetta. Per Blanchard gli agenti economici non
sono piccoli e senza potere. Egli infatti ammette che le imprese possano avere un
potere di monopolio, e che i lavoratori si riuniscano in sindacati. Queste
innovazioni rendono senza dubbio la sua analisi più adatta alla realtà dei nostri
giorni. Nella sostanza però i risultati delle sue analisi sono quelle tipiche della
Sintesi. Il rischio di una carenza di domanda effettiva può sussistere ma solo nel
breve periodo. Nel lungo periodo l’economia dovrebbe tornare spontaneamente
all’equilibrio “naturale” di piena occupazione. La politica economica non è
indispensabile ma può forse aiutare a raggiungere più velocemente
quell’equilibrio.

La Sintesi neoclassica, nella versione di Blanchard, rappresenta oggi il nuovo


“mainstream”, la nuova teoria economica dominante.

Tuttavia, come vedremo, c’è chi ritiene che essa sia viziata da una serie di
contraddizioni logiche e che abbia travisato e ridimensionato il pensiero originario
di Keynes.

1.7 Per una critica della teoria economica mainstream

Nello stesso periodo in cui andava sviluppandosi il nuovo mainstream della


Sintesi neoclassica, sorgevano parallelamente dei nuovi filoni di “critica” della
teoria economica dominante.
22

L’espressione “teoria critica” riecheggia la critica dell’economia politica di


marxiana memoria. Diversi odierni esponenti degli approcci di teoria critica si
propongono infatti di recuperare e di aggiornare l’opera di Marx. Alcuni di essi
puntano inoltre a recuperare i concetti fondamentali della teoria di Keynes,
liberandola dai suoi residui neoclassici. Lo scopo della moderna critica della
teoria economica è quello di attingere dai contributi di Marx, di Keynes e di altri
pensatori eterodossi per costruire una visione teorica antagonista a quella
neoclassica. Il proposito dei critici, dunque, non è quello della “sintesi”, ma è
quello della “alternativa”.

Nel corso del Novecento la critica della teoria dominante ha tratto nuova linfa dal
contributo dell’economista italiano Piero Sraffa. Nel suo celebre Produzione di
merci a mezzo di merci del 1960, Sraffa sferrò un nuovo attacco alla teoria
neoclassica, ancor più radicale di quello di Keynes. Sraffa considera infatti la
teoria neoclassica incoerente sul piano logico. La critica sraffiana è complessa, e
non può esser trattata in un corso base di economia. Tuttavia a grandi linee si può
affermare che essa rientra in una serie di critiche che sono state da più parti rivolte
al concetto neoclassico di “capitale”. Proviamo a fornire qualche spunto derivante
da tali critiche. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione disponibili in una
data epoca. Se si vuole calcolare il capitale nel suo complesso allora occorre
prendere in considerazione l’aggregato dei mezzi di produzione. Questi mezzi
però sono eterogenei tra loro e quindi per aggregarli è necessario moltiplicare la
quantità di ogni mezzo di produzione per il rispettivo prezzo, e poi sommare tutti i
valori tra loro. In tal modo si ottiene una misura del capitale “in valore”. Questa
dotazione del capitale può quindi essere impiegata nella teoria neoclassica per
determinare salari e interessi. Ad esempio, dato il capitale, è possibile ottenere la
domanda di lavoro, che può essere quindi intersecata con l’offerta di lavoro per
ottenere il salario reale. Inoltre, noto il capitale, è possibile ricavare
l’investimento, che assieme al risparmio contribuisce a determinare il tasso
d’interesse, e così via. La teoria microeconomica e macroeconomica neoclassica,
come vedremo, procede nella sostanza in base a questa sequenza. Il problema è
che questa sequenza è viziata sul piano logico. In essa, infatti, il salario, il tasso
d’interesse, ecc. sono determinati una volta che sia dato il capitale. Ma noi
abbiamo detto che per conoscere il capitale occorre conoscere i prezzi dei singoli
mezzi di produzione che lo compongono. Ma per conoscere i prezzi bisognerebbe
che i salari e i tassi d’interesse fossero già noti. E’ chiaro allora che la teoria
neoclassica presenta un vizio di circolarità.

Le critiche di Sraffa e di altri alla concezione del capitale investono tutte le


versioni della teoria neoclassica, inclusa quella della Sintesi. Tali critiche sono
state quindi adoperate per contestare anche il nuovo mainstream.
23

Ma le obiezioni alla Sintesi neoclassica non finiscono qui. Tra i suoi critici vi
furono pure alcuni allievi e amici di Keynes, tra cui Richard Kahn, Joan Robinson
ed altri. Questi giudicarono la Sintesi come una sorta di “tradimento” delle idee
originarie del maestro, e quindi la rifiutarono. Essi proposero una diversa
interpretazione di Keynes, che manteneva il principio della domanda effettiva e il
moltiplicatore, ma che rifiutava il concetto di equilibrio “naturale” e ogni altro
collegamento con la teoria neoclassica

Da queste e da altre critiche, alla Sintesi e più in generale a tutte le moderne


versioni della teoria neoclassica, si sta cercando di edificare una teoria economica
alternativa. La grave crisi iniziata nel 2008 ha dato nuovi impulsi in questa
direzione, segnalando la necessità di elaborare una interpretazione del capitalismo
che tenga conto della sua instabilità e delle sue contraddizioni, e che riprenda
quindi i fondamentali insegnamenti di Marx e di Keynes.
24

II

ELEMENTI DI TEORIA
CLASSICA E MARXIANA

2.1 Un esempio del liberismo dei classici: il teorema dei vantaggi comparati
di Ricardo

Supponiamo che il costo di produzione di ogni merce corrisponda alle ore di


lavoro necessarie a produrre una unità di quella merce.

grano tessuto ore di lavoro


necessarie a
produrre 1 unità di
Spagna 3 12 merce nei due
paesi
Inghilterra 2 4

L'Inghilterra gode di un vantaggio assoluto nella produzione di entrambe le merci


e di un vantaggio comparato nella produzione di tessuto.

Stando ai soli vantaggi assoluti sembrerebbe che l'Inghilterra non abbia interesse
ad aprirsi agli scambi internazionali.

Ricardo invece dimostra che sotto date condizioni all'Inghilterra conviene


specializzarsi nella produzione di tessuto e importare grano dalla Spagna.

Suppa base della tabella, definiamo le ragioni di scambio tra le merci all'interno di
ciascun paese nel caso in cui viga autarchia (cioè chiusura agli scambi
internazionali).
25

In Spagna 1T = 4G
in Inghilterra 1T = 2G

Ricardo afferma che condizione sufficiente affinché lo scambio convenga a


entrambi i paesi è che la ragione di scambio internazionale (cioè quella che si
impone al momento della apertura dei due paesi agli scambi) sia compresa tra le
due ragioni di scambio in autarchia.

Dimostriamo:

Supponiamo che la ragione di scambio internazionale sia:

1T = 3G

In tal caso, per ogni esportazione di 1T da parte dell'Inghilterra a fronte di una


esportazione di 3G da parte della Spagna avremo:

Grano Tessuto
ESPORTA 3G IMPORTA 1T 12-9 = 3ore di
Spagna corrispondete a 9 corrispondente a lavoro
ore di lavoro 12 ore di lavoro guadagnate
IMPORTA 3G ESPORTA 1T 6-4 = 2ore di
Inghilterra corrispondente a corrispondente a lavoro
6 ore di lavoro 4 ore di lavoro guadagnate

La tabella indica il costo delle merci in base alle tecniche prevalenti all'interno di
ogni nazione.

Si vede che se i due paesi si specializzano e si aprono agli scambi, otterranno


entrambi un guadagno in termini di lavoro “risparmiato”.

Ricardo inoltre dimostra che il guadagno derivante dall'apertura internazionale è


tanto minore quanto più la ragione di scambio internazionale si avvicina a quella
di autarchia.

Esercizio: se la ragione di scambio che si impone a livello internazionale è uguale


a quella dell'Inghilterra in autarchia (cioè 1T = 2G) allora tutto il vantaggio
dell'apertura agli scambi andrà ala Spagna è l'Inghilterra non avrà nulla da
guadagnarci. Dimostriamo
26

Se la ragione di scambio internazionale è 1T = 2G (uguale a quella


dell'Inghilterra in autarchia) allora …...

Grano Tessuto
ESPORTA IMPORTA
2G 1T 12-6 = 6ore
Spagna corrispondet corrisponden di lavoro
e a 6 ore di te a 12 ore di guadagnate
lavoro lavoro
IMPORTA ESPORTA
2G 1T 4-4 = 0ore di
Inghilterra corrisponden corrisponden lavoro
te a 4 ore di te a 4 ore di guadagnate
lavoro lavoro

In tal caso guadagna solo la Spagna, l'Inghilterra non ottiene alcun beneficio
dall'apertura.

L'esercizio chiarisce pure perché la condizione sufficiente per lo scambio è che la


ragione internazionale sia compresa tra quelle interne. Il motivo è semplice: se
non lo fosse uno dei due paesi non avrebbe alcun interesse ad aprirsi allo scambio
internazionale.

Ricardo dunque dimostra la sua tesi liberista e liberoscambista: in generale ai


paesi conviene aprirsi agli scambi internazionali e specializzarsi nella produzione
in cui godono di un vantaggio comparato.

Resta tuttavia aperto un problema:

Il teorema dei vantaggi comparati dimostra che l'apertura internazionale conviene


poiché implica un guadagno in termini di “lavoro risparmiato”.

Ora, in generale questo “risparmio” di lavoro è un indice di maggiore efficienza,


senza dubbio.

Tuttavia, quanto è realmente importante il risparmio di lavoro quando c'è


disoccupazione?

Quando un paese è afflitto dalla crisi e dalla disoccupazione il problema


principale diventa impiegare e non certo risparmiare lavoro.

È chiaro allora che il teorema dei vantaggi comparati ha senso solo se si assume
che non vi siano problemi di disoccupazione.
27

Se questi problemi vi sono allora non è detto che la soluzione del liberoscambio e
dell'apertura internazionale sia quella preferibile.

2.2 La condizione di riproducibilità del sistema economico nei classici e in


Marx

Sappiamo che i classici e soprattutto Marx si sono interrogati sulle condizioni di


riproducibilità (detta anche “vitalità”) del sistema economico, cioè sulle
condizioni della sua esistenza.

Attraverso una serie di esempi vediamo in che modo essi esaminavano questo
problema.

Consideriamo per semplicità una economia che produce come output grano (G) e
ferro (F) utilizzando come input il grano e il ferro medesimi.

È bene precisare che tra gli input di grano e di ferro necessari alla produzione
rientrano anche le quantità necessarie al sostentamento dei lavoratori impegnati
nel processo produttivo. Ciò significa, per esempio, che l'input di grano
comprende sia il grano impiegato nella semina dei terreni sia il grano consumato
dai lavoratori impiegati.

Riguardo al ferro, possiamo suggerire che si tratti del ferro contenuto negli
attrezzi necessari alla produzione (vanghe, picconi, trattori, ecc.)

Consideriamo una economia in cui le tecniche di produzione stabiliscono la


seguente relazione tra input e output:

280 G  12 F → 400 G
120 G 8 F → 20 F

Date le tecniche disponibili, il settore del grano è in grado di produrre un output di


400 unità di grano impiegando come input 280 unità di grano e 12 unità di ferro.
Il settore del ferro produce un output di 20 unità di ferro usando come input 120
unità di grano e 8 unità di ferro.

È facile verificare che questa è una economia di pura sussistenza. Infatti se


sommiamo le colonne otteniamo il totale del grano usato come input
(280+120=400) e il totale del ferro usato come input (12+8=20) all'interno dei
entrambi i settori. Si vede chiaramente che gli output di grano (400) e ferro (20)
28

riescono appena a coprire gli input necessari a ripetere la produzione di periodo


in periodo.

Dunque l'economia di sussistenza è appena in grado di riprodursi. Essa cioè non è


in grado di generare un “surplus” (cioè una “eccedenza”, un “residuo”) al di là
dello stretto necessario per la riproduzione.

Domanda: può mai esistere una economia di mera sussistenza in un regime


capitalistico? Ovviamente no. Una economia capitalistica può riprodursi solo se
oltre alla stretta sussistenza genera un surplus, un eccedenza, un residuo che serva
a remunerare il profitto dei capitalisti. Se l'economia non è in grado di generare un
surplus che remuneri il profitto, il meccanismo capitalistico si inceppa.

Come si può generare un surplus? In vari modi: apportando innovazioni tecniche


che aumentano l'output a parità di input; oppure aumentando lo sforzo produttivo
dei lavoratori, il che pure aumenta l'output a parità di input; oppure ancora
riducendo l'input attraverso una riduzione dei salari, ecc.

Per esempio:

280 G  12 F → 500 G
120 G 8 F → 30 F
____ ____
400 G 20 F

(L'aumento dell'output a parità di input può esser dovuto a innovazioni


tecnologiche o all'aumento degli sforzi produttivi richiesti ai lavoratori)

Si vede chiaramente che questa è una economia che genera un surplus. Infatti
l'input totale di grano è 400 ma l'output ora è 500; l'input totale di ferro è 20 ma
l'output ora è 30.

Il surplus di 100 G e 10 F consentirà di remunerare i profitti dei capitalisti, i quali


potranno poi decidere di consumare questa eccedenza oppure reinvestirla per
aumentare la scala di produzione.

Esercizio: partendo dalla economia di sussistenza mostra in che modo si può


generare un surplus intervenendo sugli input anziché sugli output (ad esempio
tramite una riduzione della parte di input che va ai lavoratori sotto forma di
salari).
29

Questi esempi chiariscono pure gli elementi di conflitto sociale insiti nella
concezione del profitto come surplus (o residuo) tipica degli economisti classici e
di Marx.

Gli esempi infatti evidenziano che il surplus può essere generato a scapito dei
lavoratori, o a seguito di una intensificazione dei loro sforzi oppure a seguito di
una riduzione degli input slariali.

Al tempo stesso, il surplus è indispensabile alla sopravvivenza di una economia


capitalistica, che è in grado di riprodursi solo se viene soddisfatto il movente del
profitto dei capitalisti.

Proviamo a riformulare tutto in termini di coefficienti di produzione.

Dividiamo gli input e gli output per i rispettivi output. Otteniamo:

280 12 500
G  F →  G
500 500 500

120 8 30
G  F→  F
30 30 30

da cui:

0,56 G  0,024 F →  1G

4G  0,26 F →  1F

I coefficienti ci dicono che per ottenere 1 unità di grano occorrono 0,56 unità di
grano e 0,024 unità di ferro, e per ottenere 1 unità di ferro occorrono 4 unità di
grano e 0,26 unità di ferro.

Generalizziamo:

Definiamo aij il coefficiente di produzione che ci dice quante unità di i


servono per produrre una unità di j
30

per esempio:

280
= 0,56 = aGG che ci dice quante unità di grano (G) occorrono per
500
produrre 1 unità di grano (G)

12
= 0,024 = aFG che ci dice quante unità di ferro (F) occorrono per
500
produrre 1 unità di grano (G)

a questo punto, utilizzando i coefficienti di produzione, possiamo dare una


rappresentazione generale della condizione di riproducibilità (o vitalità) del
sistema economico.

Una economia rispetta la condizione di riproducibilità (o vitalità) se è in grado


almeno di riprodurre se stessa, cioè se gli output sono almeno in grado di coprire
gli input.

Possiamo dunque affermare che una economia è riproducibile se esistono dei


livelli di output di grano (YG) e di ferro (YF) tali che:

1) YG  YG aGG + YF aGF
2) YF  YG aFG + YF aFF

La prima condizione ci dice che la quantità di grano output YG deve essere


maggiore o al limite uguale alla quantità di grano necessaria a produrre 1 unità di
grano (aGG) moltiplicata per l'output totale di grano YG, più la quantità di grano
necessaria a produrre 1 unità di ferro (aGF) moltiplicata per l'output totale di ferro
(YF). Discorso analogo vale per la seconda condizione. In sostanza, entrambe le
condizioni ci dicono che l’output di ogni merce deve essere maggiore o al limite
uguale alla somma degli input della stessa merce usati nei due settori.

Effettuiamo alcuni semplici passaggi:

1) YG (1-aGG)  YF aGF
2) YF (1-aFF)  YG aFG

da cui:
31

YG aGF
1) 
YF 1  aGG

1  a FF YG
2) 
a FG YF

quindi occorre che:

1  a FF aGF

a FG 1  a GG

ossia:

(1-aGG)(1-aFF)  aGF · aFG

Questa è la condizione di riproducibilità ( o di vitalità) del sistema.

Se la condizione è rispettata col segno di uguaglianza (=) allora siamo di fronte a


una economia di mera sussistenza.

Se la condizione è rispettata col segno maggiore (>) allora siamo di fronte a una
economia che genera surplus (e che dunque, potendo remunerare un profitto, può
essere una economia capitalistica).

Esercizio: calcola i coefficienti di produzione della economia di sussistenza


esaminata in precedenza e verifica che essi rispettano la condizione di
riproducibilità con vincolo di stretta uguaglianza.

Esercizio: descrivi una economia che non è nemmeno di sussistenza e che quindi
non è in grado di riprodursi.

Dunque la condizione di riproducibilità del sistema evidenza gli elementi di


antagonismo tra le classi sociali. Basti pensare che un modo per rispettarla (cioè
per garantire l'esistenza di un surplus che remuneri il profitto) è di ridurre i
coefficienti di produzione, per esempio intensificando gli sforzi dei lavoratori
oppure riducendo i salari. (ricorda che la riduzione dei coefficienti indica che il
rapporto tra input e output si riduce; l'intensificazione degli sforzi aumenta
l'output a parità di input, la riduzione dei salari riduce l'input a parità di output).
32

III

MICROECONOMIA E
MACROECONOMIA NEOCLASSICA

3.1 La teoria neoclassica della scelta razionale individuale: il caso del


consumatore

Abbiamo detto che per i neoclassici ogni problema economico è riconducibile a


un problema di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse
disponibili. Nel caso del consumatore, si tratterà di scegliere la combinazione di
beni di consumo che massimizzano l'utilità, sotto il vincolo del reddito
disponibile. Consideriamo un problema molto semplificato: esistono solo due beni
di consumo, il bene 1 e il bene 2, che il consumatore può acquistare e consumare
nelle quantità x1 e x2. Il consumatore, inoltre, dispone di un reddito pari a m. I
prezzi di mercato dei due beni sono p1 e p2.

3.2 Il vincolo di bilancio del consumatore

Il vincolo di bilancio del consumatore sarà dunque dato da:

p1x1 + p2x2 ≤ m

Se per semplicità assumiamo che il consumatore spende tutto m per l'acquisto di


x1 e x2 , allora il vincolo di bilancio diventa:

p1x1 + p2x2 = m

la spesa per x1 e x2 deve eguagliare il reddito e non può oltrepassarlo. L'equazione


del vincolo di bilancio può essere rappresentata graficamente su un diagramma
cartesiano. Sugli assi indichiamo il consumo di x1 e x2. Ogni punto indica una
particolare combinazione di consumo (x1 , x2).
33

x2

A A(x1A, x2A)
x2

x 1A x1

Esprimiamo il vincolo di bilancio esplicitando la sua equazione rispetto a x2:

p2x2 = m – p1x1

m p1
x2 =  x1
p2 p2

questa equazione è rappresentata dalla retta del vincolo di bilancio del


consumatore. Per tracciare la retta sul grafico poniamo prima x1 = 0 così da
trovare l'intercetta sull'asse delle ordinate; poi poniamo x2 = 0 per trovare
l'intercetta sull'asse delle ascisse.
34

m
x1 = 0 → x 2 = intercetta del vincolo di bilancio sull'asse delle ordinate
p2

m p1
x2 = 0 → 0 =  x1
p 2 p2

p1 m
x1 =
p2 p2

p 1 x1= m

m
x1 = intercetta del vincolo di bilancio sull'asse delle ascisse
p1

x2

m
p2
m p1
x2 =  x1 equazione della retta
p2 p2

p1

p 2 coefficiente angolare

m x1
p1
35

Ovviamente la retta di bilancio rappresenta un vincolo. Tutte le combinazioni di


consumo al di sotto di essa sono alla portata del consumatore e quindi
ammissibili. Le combinazioni di consumo sulla retta sono le massime possibili,
dato il reddito di cui dispone il consumatore e i prezzi dei beni. Le combinazioni
di consumo situate al di sopra della retta non sono alla portata del consumatore:

x2

A, B, C combinazioni di consumo ammissibili

D combinazione di consumo non ammissibile


m/p2

C D

A
B

m/p1 x1

Come varia la retta di bilancio?

1) un aumento del reddito da m a m' > m: comporta una traslazione verso


l'alto e verso l'esterno della retta di bilancio;

2) una riduzione del prezzo da p1 a p1' > p1: comporta una rotazione della
retta di bilancio verso sinistra (l'intercetta verticale resta ferma perché non
è variato il prezzo p2 mentre l'intercetta orizzontale diminuisce), cioè un
aumento della sua pendenza.
36

x2

effetto di un aumento del reddito da m a m' > m


m'
p2

m
p2

m m' x1
p1 p1

x2

effetto di una riduzione del prezzo da p1 a p1' < p1


m
p2
p1

p2
p1'

p2

m m x1
p1 p1 '
37

3.3 Utilità, ordinamento delle preferenze e curve di indifferenza

Esaminando il vicolo di bilancio abbiamo verificato quali combinazioni di


consumo sono alla portata del consumatore e quali non lo sono. Ora però si tratta
di capire quali sono le combinazioni di consumo che il nostro individuo
preferisce, cioè le combinazioni che gli consentono di massimizzare l'utilità.
L'utilità è intesa come l'attitudine di un certo bene (ad esempio l'acqua) a
soddisfare un determinato bisogno del consumatore (ad esempio la sete: il bisogno
di bere). Generalmente, l'utilità totale che l'individuo ricava dal consumo di una
certa quantità di bene è una funzione crescente di tale quantità: via via che il
consumatore assume dosi successive del bene (ad esempio bicchieri di acqua
aggiuntivi) il suo grado di soddisfazione (l'utilità) aumenta. Ma, gli incrementi di
utilità, corrispondenti ad unità successive del bene consumato, sono sempre più
piccoli (ogni bicchiere d'acqua aggiuntivo è sempre meno utile) perché il
corrispondente bisogno tende a ridursi (la sete si placa). Questo assunto viene
detto principio dell'utilità marginale decrescente. Potrebbe anche verificarsi che,
se si è soddisfatto completamente il bisogno, il consumo di ulteriori unità di bene
facciano ridurre l'utilità totale, poiché ognuna di queste unità aggiuntive presenta
una crescente “disutilità” marginale che fa ridurre l'utilità totale (continuare a bere
ulteriori bicchieri di acqua, dopo aver soddisfatto la sete, può provocare un malore
crescente). Possiamo riportare la quantità del bene consumato x sulle ascisse di un
grafico cartesiano, ponendo sulle ordinate la corrispondente utilità totale UT.

UT
UT

30 ΔU T
5 Δx
25
10
15

15

0 1 2 3 x
38

È possibile rappresentare su un diagramma cartesiano anche le variazioni


dell'utilità totale conseguenti all'incremento di ogni piccola quantità di consumo
del bene considerato. Otteniamo così una rappresentazione della funzione
ΔU T
dell'utilità marginale
Δx

15 utilità marginale

10

0 1 2 3 x

La funzione dell'utilità totale è concava perché, come si è detto (e mostrato nei


grafici), l'utilità marginale è decrescente.

Consideriamo per semplicità una economia nella quale esistono solo 2 beni,
indichiamo con x1 e x2 le rispettive quantità. Come si è visto, esaminando il
vincolo di bilancio del consumatore, ogni combinazione di consumo (ogni paniere
di consumo) potrà essere rappresentato da un punto del piano cartesiano (positivo)
con coordinate (x1, x2). Per descrivere il comportamento del consumatore è
necessario ordinare i panieri di consumo in base alle sue preferenze.
39

Prendiamo ad esempio la combinazione di consumo A e poniamola a confronto


con le combinazioni B, C, D, e E. Dividiamo lo spazio in quattro quadranti.

x2
VI I

E B

Curva di indifferenza
A

D C

III II

x1

Di sicuro:
A è preferito a D e a tutte le altre combinazioni di consumo che appartengono al
III quadrante: al paniere di consumo A è associato in indice di utilità maggiore
rispetto a tutte le combinazioni di consumo che appartengono al III quadrante.
B è preferito ad A e tutte le combinazioni del I quadrante sono preferite ad A: al
punto A è associato un indice di utilità inferiore rispetto all'utilità associata a tutti i
panieri che appartengono al quadrante I.
Esisteranno poi delle combinazioni di consumo situate nel II e nel IV quadrante
che il consumatore reputa indifferenti rispetto ad A (due di queste potrebbero
essere E e C e presentano lo stesso valore dell'indice di utilità di A). Unendo tutti i
punti che rappresentano le combinazioni di consumo considerate indifferenti dal
consumatore rispetto al paniere A otterremo una curva di indifferenza.
Una curva di indifferenza è l'insieme di tutte le combinazioni di beni che danno al
consumatore la stessa utilità totale e che dunque egli reputa indifferenti tra loro.
Ovviamente panieri di consumo come B e D sii trovano su curve di indifferenza
40

diverse, visto che ad essi sono associati livelli di utilità diversi rispetto al paniere
A. In generale, più le curve di indifferenza sono distanti dall'origine degli assi
cartesiani, maggiore è l'utilità ad essa associata. Inoltre, esse presentano una
pendenza negativa (sono decrescenti) in quanto se il consumatore vuole
conservare lo stesso livello di utilità (e restare sulla stessa curva di indifferenza),
dovrà compensare ogni riduzione del consumo di uno dei due beni con un
incremento dell'altro.

x2 UT3

UT2 UT3 > UT2 > UT1

UT1

x1

Si viene così a costruire una mappa di curve di indifferenza che esprime l'utilità
dell'individuo al variare del paniere di consumo.
Le curve di indifferenza non possono intersecarsi (in certo senso si può dire che
sono tra loro parallele) perché altrimenti esse non esprimerebbero un ordinamento
coerente (razionale) dei panieri di consumo. La razionalità del consumatore,
infatti, implica che le preferenze devono essere transitive: se il paniere A è
preferito al paniere B e il paniere B è preferito al paniere C, allora il paniere A
deve essere preferito al paniere C. In altre parole, se le curve di indifferenza si
intersecano, allora le preferenze del consumatore non sono transitive e quindi
41

viene meno la sua razionalità nella scelta dei panieri di consumo. Verifichiamo
questa importante condizione con un esempio.

x2

B UT1
C

UT0

x1

Consideriamo due panieri di consumo A e B tra loro indifferenti (che si trovano


sulla stessa curva di indifferenza) e consideriamo una combinazione di consumo
C alla quale il consumatore preferisce il paniere B (tra B e C il consumatore
preferisce, sceglie, B che comporta un maggior consumo di entrambi i beni). Ciò
significa che l'utilità che il consumatore associa al paniere B (e al paniere A che è
indifferente a B) è maggiore dell'utilità associata al paniere C (nel grafico
dovrebbe aversi UT1>UT0). Però, se le due curve di indifferenza si intersecano in
corrispondenza del paniere A, allora i panieri A e C dovrebbero essere tra loro
indifferenti e, quindi, per la proprietà transitiva, l'utilità della combinazione di
consumo B dovrebbe essere la stessa di quella associata al paniere di consumo C
(poiché si è assunto che A è B sono tra loro indifferenti). Questo risultato è
contraddittorio rispetto all'ipotesi che B sia preferito a C. Quindi, se le preferenze
del consumatore sono transitive (cioè sono coerenti), allora le curve di
indifferenza non si intersecano.
42

Le curve di indifferenza per beni tra loro in certa misura sostituti (le mele e le
pere) sono convesse: dato un certo livello di utilità, muovendosi lungo la
corrispondente curva di indifferenza, all'aumentare del consumo di un bene, il
consumatore è sempre meno disposto a rinunciare all'altro bene. La convessità
della curva di indifferenza è una diretta conseguenza dell'assunto dell'utilità
marginale decrescente. Via via che riduce di quote costanti il consumo di uno dei
due beni (che diventa sempre più scarso e prezioso in termini di utilità marginale),
il consumatore, per non far ridurre il suo livello di utilità, richiederà compensare
queste riduzioni mediante il consumo di quote crescenti dell'altro bene (sempre
più abbondante e meno prezioso in termini di utilità marginale).

x2
UT0

20 A

5
B C
15
5
D E
10

2 3 6
x1
1 3

Il grafico mostra che una riduzione del consumo del bene 2 da 20 a 15 unità
richiede, per lasciare invariata l'utilità totale a UT0, un aumento del consumo del
bene 1 di una sola unità. Ma, se il consumo del bene 2 si riduce di ulteriori 5
unità, allora è necessario un aumento del consumo del bene 1 di bene 3 unità. Ciò
è dovuto all'utilità marginale decrescente. La perdita di utilità che il consumatore
subisce passando a A a B è relativamente bassa e può essere compensata con una
43

sola unità del bene 1 (dotata di un'alta utilità marginale) che consente di
raggiungere il punto C. Invece, lo spostamento da C a D implica una perdita di
utilità maggiore (essendo il bene 2 ora più scarso per il consumatore) che, per
essere compensata, richiede una incremento di 3 unità di consumo del bene 1
(infatti queste 3 unità sono dotate di una utilità marginale più bassa perché il bene
1 è ora relativamente più abbondante) in modo da raggiungere il punto E.
La convessità delle curve di indifferenza può anche essere spiegata da una
preferenza del consumatore per la varietà nella composizione del proprio paniere
di consumo. Considerati due panieri A e B che risiedono sulla medesima curva di
indifferenza, il consumatore preferirà ad ognuno di essi un qualunque paniere C
ottenuto come combinazione lineare intermedia dei rispettivi contenuti di A e B.
Infatti, se le curve di indifferenza sono convesse, una siffatta combinazione
lineare risiederà su di una curva di indifferenza più alta (corrispondente ad un
livello di utilità maggiore).

x2

x 2A A

x 2C C

B B UT1
x2
UT0

x 1A x 1C x 1B
x1
44

Quando i due beni le cui quantità sono riportate sugli assi cartesiani sono tra loro
perfetti sostituti le curve di indifferenza assumono una forma lineare (sono delle
linee rette). È questo il caso della benzina offerta sul mercato da due differenti
compagnie di distribuzione (Total e Agip ad esempio), evidentemente la maggior
parte dei consumatori trovano indifferente rifornirsi dall'uno o dall'altro
distributore perché non sussistono differenze apprezzabili tra i due carburanti. Il
consumatore potrebbe consumare anche uno solo dei due beni senza incorrere in
una riduzione dell'utilità totale.

x2
A

x 2C C

UT0

B
x 1C
x1
45

Il caso opposto a quello dei perfetti sostituiti riguardi i beni che sono tra loro
perfettamente complementari (detti anche beni perfetti complementi; ad
esempio i due ingredienti necessari a preparare una particolare bevanda, si pensi
allo zucchero e al caffè). In questo caso le preferenze del consumatore assumono
una forma ad angolo: aumentando il consumo di uno solo dei due beni
(spostandosi dal punto A al punto C) il consumatore non ottiene incrementi di
utilità. Per accrescere l'utilità totale è necessario accrescere in misura
proporzionale il consumo di entrambi i beni (spostandosi nel punto B).

x2

x 2B B UT1

x 2A A C
UT0

x 1A x 1B
x1
46

Il consumatore potrebbe anche essere indifferente al fatto che il proprio paniere di


consumo contenga o meno un determinato bene (detto bene indifferente, volendo
dire con espressione imprecisa che il consumatore è indifferente rispetto ad esso).
Si pensi alla disponibilità di sigarette per un individuo goloso ma non fumatore: il
consumo di una maggiore quantità di dolci farebbe aumentare l'utilità di tale
consumatore ma egli resterebbe indifferente rispetto all'aumentare del numero di
sigarette di cui può disporre. In questo caso le curve di indifferenza sarebbero
parallele all'asse sul quale viene misurato il bene indifferente. Il consumatore non
otterrebbe nessun vantaggio spostandosi dal punto A al punto C se il bene 1 è un
bene indifferente, solo incrementando il consumo del bene 2 potrebbe ottenere un
aumento della propria utilità totale (ad esempio spostandosi nel punto B).

x2

x 2B B UT1

x 2A A C
UT0

x 1A x 1B
x1
47

In altri importanti casi le curve di indifferenza possono essere crescenti piuttosto


che decrescenti. Ciò avviene quando su uno degli assi cartesiani è misurata la
quantità di un “male” e non di un bene. Un male corrisponde ad un'attività o ad
consumo penoso che comporta, quindi, disutilità. Un esempio classico è fornito
dalla scelta tra il reddito di cui può disporre un consumatore-lavoratore e il lavoro
(il sacrificio) che è costretto a cedere per conseguire tale reddito.

Reddito

UT2 > UT1 > UT0

UT2

UT1

UT0

Ore di lavoro
48

L'inclinazione della curva di indifferenza è detta saggio marginale di


sostituzione (SMS o MRS). Esso indica la quantità incrementale del bene 2
(indicata con x2) che il consumatore deve ricevere per essere compensato della
perdita di una certa quantità del bene 1 (indicata con x1) affinché la sua utilità
resti invariata.

Δx 2 Δx 
SMS =  = 2
Δx1 Δx1

x2

x 2A A
x2
x 2B B
x1
UT0

x 1A x 1B
x1

Essendo x1 per definizione negativo e x2 in generale positivo (almeno per beni
Δx2
sostituti), anteponendo al rapporto il segno negativo, oppure prendendolo in
Δx1
valore assoluto, si ottiene un SMS positivo e decrescete (all'aumentare di x1) lungo
tutta la curva di indifferenza. Questa caratteristica del SMS è dovuta alla
convessità della curva di indifferenza (per cui al crescere di x1 aumenta il
49

numeratore del SMS si riduce) e, quindi, al principio dell'utilità marginale


decrescente.

x2

x2
B
C
D
E
UT0

x1 x1

Infine si dimostra che, fissato un certo livello di utilità (e quindi individuata la


corrispondente curva di indifferenza), il SMS è pari al rapporto tra le utilità
marginali dei due beni considerati. Infatti, se variano x1 e x2 possiamo calcolare la
variazione ∆U dell'utilità totale dell'individuo come somma delle variazioni dei
consumi moltiplicate per le rispettive utilità marginali (UM):

∆U = UM1 ∆x1 + UM2 ∆x2

ovviamente, restando sulla stessa curva di indifferenza, l'utilità non varia e


pertanto ∆U = 0 e quindi:

0 = UM1 ∆x1 + UM2 ∆x2


50

– UM2 ∆x2 = UM1 ∆x1

Δx 2 UM 1
 =
Δx1 UM 2

∂U
UM 1 ∂ x1
SMS = = ∂U
UM 2
∂ x2

questa uguaglianza esprime il SMS come rapporto delle derivate parziali della
funzioni di utilità (le utilità marginali).

Ad esempio, se la funzione di utilità è definita da:

U(x1, x2) = x1x2

allora, fissato il valore dell'utilità a U0, le curve di indifferenza saranno delle


iperboli equilatere di equazione:

U0
x2 = x
1

al variare del livello di utilità fissato si potrà costruire tutta la mappa delle curve
di indifferenza.
51

3.4 La scelta del consumatore

Dato il vincolo di bilancio, data la mappa delle curve di indifferenza, il


consumatore è in grado di scegliere il paniere di consumo ottimo perseguendo il
seguente obiettivo: scegliere la combinazione di consumo che massimizza l'utilità
sotto il vincolo delle risorse disponibili.

Per il consumatore la migliore combinazione di consumo, quella che massimizza


l'utilità sotto il vincolo di bilancio, è rappresentata dal punto E di tangenza tra il
vincolo di bilancio e la curva di indifferenza.

x2

x 2* E
B UT2

UT1
C UT0

x 1* x1

Infatti il punto D sarebbe preferito a E ma non è raggiungibile perché non è un


paniere di consumo ammissibile (si trova al di sopra del vincolo di bilancio). I
punti A e C si trovano sul vincolo di bilancio (sono panieri di consumo
ammissibili) ma (come il punto B) appartengono ad una curva di indifferenza più
bassa (che corrisponde ad un livello di utilità inferiore) rispetto alla curva di
indifferenza che passa per il punto E.
52

Si noti che in corrispondenza del punto E abbiamo che l'inclinazione del vincolo
di bilancio (-p1/p2) è uguale alla pendenza della curva di indifferenza passante per
A (SMS = - ∆x2/ ∆x1). Cosa che invece non è vera per un punto come C oppure A.
Nel punto B, inoltre, a differenza del punto E, non è soddisfatto il vincolo di
bilancio (p1 x1 + p2 x2 = m).

Dunque la combinazione ottima del consumo al punto nel quale:

Δx  p
SMS =  2= 1
Δx1 p2

oppure

∂U
∂ x1 p1
∂U = p
2
∂ x2

Finora abbiamo individuato la soluzione del problema d'ottimo del consumatore in


termini grafici, determiniamola ora in termini algebrici.

Il consumatore deve risolvere il seguente problema di massimo vincolato:

max U(x1,x2)

sub p1 x1 + p2 x2 = m

Un noto metodo di soluzione è quello dei moltiplicatori di Lagrange. Questo


metodo consiste nel risolvere il problema d'ottimo (senza vincoli) per una
funzione che comprende sia la funzione obiettivo originaria (la funzione di
utilità), sia il vincolo:

L(x1, x2, λ) = U(x1, x2) – λ(p1 x1 + p2 x2 – m) ← [lagrangiano]

dove il termine λ è detto moltiplicatore di Lagrange e il suo ruolo è di garantire


che il vincolo di bilancio sia soddisfatto.
53

Le condizioni necessarie per individuare la soluzione di questo problema di


ottimo si ottengono ponendo uguali a zero le derivate della funzione L (il
lagrangiano) rispetto ai suoi argomenti: x1, x2, λ.

L U
=  λp1 = 0 (1)
x1 x1
L U
=  λp 2 = 0 (2)
x 2 x 2
L
= m  p1 x1  p 2 x 2 = 0 (3)
λ

risolvendo questo sistema di equazioni otterremo la combinazione ottima di x1* e


x2* che rende massima l'utilità del consumatore dato il reddito m di cui dispone e i
prezzi di mercato p1 e p2 (che sono dati).

Si noti che se dividiamo l'equazione (1) per la (2) otteniamo:

∂U
∂ x1 p1
∂U = p
2
∂ x2

che è la condizione di ottimo già ottenuta mediante l'analisi grafica.

Un esempio:

U(x1, x2) = x1·x2


M = 40
p1 = 4
p2 = 2

max U(x1, x2) = x1·x2


sub 4·x1 + 2·x2 = 40

applichiamo il metodo di Lagrange:

L(x1, x2, λ) = x1·x2 – λ(4·x1 + 2·x2 – 40) ← [lagrangiano]


54

∂L
∂ x 1 = x2 – 4 λ = 0
∂L
∂ x 2 =·x1 – 2 λ = 0
L
=40 – 4 x1 - 2·x2 = 0
λ

Dividiamo la (1) per la (2):

x2·/ x1 -2 = 0
x2·/ x1 = 2
x2·= 2 x1

Sostituiamo nella (3):

40 – 4 x1 - 2(2·x1) = 0
40 – 4 x1 - 4·x1 = 0
40 = 8 x1
x1 = 40 / 8 = 5
x2 = 10

La combinazione di consumo che dunque massimizza l'utilità e al tempo stesso


rispetta il vincolo è data da x1 = 5 e x2 = 10

Un metodo alternativo a quello di Lagrange


Riconsideriamo il problema di massimo vincolato

max U(x1, x2) = x1·x2


sub 4·x1·+ 2·x2 = 40

in primo luogo esprimiamo il vincolo in termini di x2

2·x2 = 40 – 4 x1
x2 = 20 – 2 x1

andiamo quindi a sostituire questa equazione nella funzione di utilità:

U(x1, x2) = x1·(20 – 2 x1) = 20 x1 – 2 x12

a questo punto deriviamo rispetto a x1 e poniamo pari a zero la derivata:


55

δU
= 20 – 4 x1 = 0
δx1

x1 =20/4 = 5

che sostituito nella equazione x2 = 20 – 2 x1 da:

x2 = 20 – 2 (5) =20 -10 = 10

Abbiamo così ottenuto lo stesso risultato con un metodo alternativo. La scelta tra i
vari metodi dipende dalle circostanze. Va preferito quello che semplifica di più i
calcoli.
56

3.5 La curva di domanda individuale

Supponiamo che il prezzo di una merce si modifichi e vediamo come cambia la


scelta ottima del consumatore. Ricordiamo che la variazione del prezzo implica
una “rotazione” del vicolo di bilancio.

Ipotizziamo una serie di riduzioni di p1: p1, p1' < p1, p1' ' < p1'
individueremo così una serie di punti di ottimo e l'insieme di tutti questi punti di
ottimo è definito “curva di prezzo-consumo”. Si noti che al diminuire di p1 la
quantità x1 domandata dal consumatore aumenta.

x2

m/p2

E'' curva di prezzo-consumo


E'
E

x1 x1' x1'' m/p1 m/p1' m/p1'' x1


57

Adesso prendiamo i valori di p1 e i corrispondenti valori ottimi di x1 e


collochiamoli su di un nuovo grafico, ponendo x1 in ascissa e p1 in ordinata.

p1

curva di domanda
p1 individuale
x1 = x1(p1)

p1'

p1''

x1 x 1' x1'' x1

La curva di domanda è decrescente: essa esprime una relazione inversa tra p1 e x1:
al diminuire del prezzo la domanda aumenta
all'aumentare del prezzo la domanda diminuisce

La forma decrescente della curva di domanda vale per tutti i beni cosiddetti
“normali”, e si ritiene che tale relazione sia solitamente valida.
58

3.6 Il surplus del consumatore

Data la curva di domanda individuale, è possibile misurare il benessere che


l'individuo trae dall'acquisto di un certo quantitativo di merce, ossia il surplus del
consumatore.
Consideriamo la domanda annua di Tizio di biglietti per concerti:

1
xT = 15 - 2 p

ovvero
p1
p = 0 → xT = 15 È facile mostrare che il surplus
xT = 0 → p = 30 30 A del consumatore è rappresentato
dall'area ABC.
supponiamo che il
prezzo di mercato
di ogni biglietto
sia p = 10€.

La domanda sarà: B
10
C
1
xT = 15 - 2 10
xT = 10

10 15 x1
Il surplus del consumatore è dato dalla somma delle differenze tra quanto sarebbe
stato disposto a pagare per ottenere ogni unità aggiuntiva del bene acquistato e
quanto ha dovuto effettivamente pagare (il prezzo di mercato). Nell'esempio il
surplus del consumatore è pari a 90:

xT 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15
p 28 26 24 22 20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0
Disponibilità a spendere 28 54 78 100 120 138 154 168 180 190 198 204 208 210 210
Spesa effettiva 28 52 72 88 100 108 112 112 108 100 88 72 52 28 0
Surplus del consumatore 0 2 6 12 20 30 42 56 72 90 110 132 156 182 210

calcolando l'area del triangolo ABC si ottiene un valore maggiore di 90 perché,


trattandosi di un bene non divisibile, tale area costituisce solo un'approssimazione
per eccesso del surplus del consumatore.
59

3.7 la variazione della domanda individuale rispetto al reddito

La curva di domanda individuale reagisce anche alle variazioni del reddito del
consumatore (ad esempio m varia da m a m' > m).

x2
m'/p2

m/p2

E'
E

x1 x1' m/p1 m'/p1 x1


p1

p1

x1 x1' x1
in tal caso, a parità di p1 (che non è cambiato), assistiamo ad un aumento della
quantità domandata di x1. La curva di domanda, quindi, trasla verso destra al
crescere del reddito.
60

3.8 Dalla curva di domanda individuale alla curva di domanda di mercato

Per ottenere la curva di domanda di mercato è necessario sommare le quantità


domandate dai singoli consumatori per ogni livello del prezzo.

p p p

30 30 30

15 xT 10 xC 25 x

curva di domanda di Tizio p = 30 – 2 xT → xT = 15 - 1/2 p


curva di domanda di Caio p = 30 – 3 xC → xC = 10 - 1/3 p

curava di domanda x = xT + xC = 25 – 5/6 p → p = 30 – 6/5 x


di mercato

per ottenere la curva di domanda di mercato è quindi necessario esplicitare tutte le


domande individuali in termini di x e poi sommarle.
61

3.9 La teoria neoclassica dell'impresa

Dopo quanto detto sula scelta ottima dell'individuo (e in particolare del


consumatore) passiamo ora ad esaminare il lato delle decisioni dell'impresa
inerenti la produzione e i costi.

Così come dalla scelta dell'individuo abbiamo ottenuto la domanda delle merci,
dalla teoria dell'impresa otterremo l'offerta.

LA PRODUZIONE

Nell'analisi neoclassica di solito si ritiene che la produzione di una certa quantità


Q di merce viene effettuata utilizzando i fattori della produzione

L lavoro
Q
K capitale (di solito inteso come valore dei mezzi di produzione)

(L'analisi neoclassica del capitale presenta diversi problemi: es. se K è misurato


come valore di tutti i mezzi di produzione, allora bisognerebbe conoscere i prezzi
di tali mezzi di produzione. Ma la determinazione dei prezzi dovrebbe essere un
risultato dell'analisi non una premessa).

Ad ogni modo noi qui non ci occuperemo di questo problema. Anzi, per
semplicità riterremo che l'analisi sia di breve periodo per cui K può essere
considerato un dato esogeno, fisso.

Ciò significa che la funzione di produzione:

Q = Q(K, L)

può essere riscritta così:

Q = Q(L) con K fisso

Questa funzione di produzione è dunque sottoposta alla legge della produttività


marginale decrescente di un fattore produttivo, dati gli altri.

Dato il capitale disponibile (Macchine, impianti, etc.), i lavoratori impiegati da


un'impresa avranno via via una produttività marginale sempre più piccola.
62

Q PMGL

Q = Q(L)
32 10
31
28
PMGL
24 8
18
6
10 4
3
1

1 2 3 4 5 6 L 1 2 3 4 5 6 L

La produttività marginale del lavoro (PMGL) corrisponde alla variazione della


produzione totale derivante da una piccola variazione del lavoro impiegato.

In termini algebrici:

ΔQ
PMGL =
ΔL

in modo più preciso usando le derivate:

δQ
PMGL =
δL

Esempio: se la funzione di produzione è data da Q = L1/2, allora la produttività


marginale del lavoro sarà:

1

δQ 1 2 1 1
PMGL = = L = =
δL 2 1 2 L
2L 2

(nota che al crescere di L la PMGL si riduce)


Ovviamente si può anche ragionare all'inverso, calcolando la quantità di L
necessaria a produrre una certa produzione Q:
63

L = L(Q) ad es. per Q = L1/2 → Q2 = (L1/2)2 → L = Q2

Passiamo ora ai costi di produzione.

I costi totali di produzione sono costituiti dai costi fissi e dai costi variabili:

I costi fissi non variano al variare della produzione (almeno nel breve periodo).
Essi possono essere identificati con il costo del capitale:

(1 + r) → r K0

I costi variabili variano con la produzione e possono essere identificati con il


costo del lavoro:

w L(Q)

Dunque i costi totali sono:

CT = r K0 + w L(Q)

Nel nostro esempio con Q(L) = L1/2 otteniamo L(Q) = Q2 e quindi

CT = r K0 + w Q2

CT
CT

rK0

Q
64

Possiamo dunque calcolare il costo marginale CMG che corrisponde alla


variazione del costo totale conseguente a una variazione marginale (piccola) della
quantità prodotta:

δCT
CMG =
δQ

Nel nostro esempio:

δCT
CMG = = w2Q
δQ

CMG

2w
Q

È interessante notare che esiste una relazione tra CMG e PMGL. Infatti
(ricordando che K è costante):

δCT δL
CMG = =w
δQ δQ

δQ
ma sappiamo che PMGL = e quindi possiamo scrivere:
δL
65

w w
CMG = =
δQ PMG L
δL

Quindi quanto più bassa è la PMGL tanto più alto è il CMG.


Infatti nel nostro esempio:

CMG = w2Q

ma Q = L1/2 e quindi:

CMG = w2L1/2

che può essere riscritto così:

w
CMG = ← il denominatore di questa frazione è proprio la PMGL
1
1
2 L2

infine calcoliamo il costo medio di produzione (CM). Il costo medio è


semplicemente il costo totale diviso per le quantità prodotte e ci dice quanto costa
in media ogni unità di merce prodotta:

CT rK 0 + wL Q 
CM = Q =
Q

notare per inciso che quindi CT = CM·Q

Il costo medio ha un andamento particolare. Esso è prima decrescente e poi


crescente.

Infatti all'inizio la crescita di Q consente di ammortizzare i costi fissi, cioè


consente di ripartire il costo del capitale su più unità prodotte e vendute. Ciò fa
ridurre CM.

Al tempo stesso l'aumento di Q fa aumentare i costi variabili necessari alla


produzione. Ciò fa aumentare i CM.
66

Finché la riduzione dei costi fissi prevale sull'aumento dei costi variabili, il costo
medio si riduce. Quando l'aumento dei costi variabili inizia a prevalere, il costo
medio aumenta.

Nel nostro esempio, avendo L = Q2:

CT rK 0 + wQ 2 rK 0
CM = Q = = + wQ
Q Q

supponiamo che w = 2 e r K0 = 20, abbiamo:


25
20
CM = + 2Q
Q
20

Q CM
1 22 15
2 14
CM

3 12,67
4 13 10
5 14
6 15,33 5

0
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9
Q

Più precisamente il minimo corrisponde a Q = 10  3,2 e possiamo verificarlo


calcolando il minimo della funzione del costo medio.
Condizione necessaria per l'individuazione di un punto di un punto di minimo di
una funzione è che la sua derivata sia pari a zero (cioè che la funzione sia “piatta”
in quel punto):

δCT 20
=  2 + 2 = 0 → Q2 = 10 → Q = 10  3,2 ← costo medio minimo
δQ Q
Infine, è interessante notare che il costo medio e il costo marginale si intersecano
esattamente nel punto di minimo del costo medio. Per verificarlo nell'esempio
(con rK0 = 20, w=2 e L= Q2) poniamo CM=CMG :

20
+ 2Q = 2·2Q → Q = 10  3,2
Q

l'intersezione tra CM e CMG corrisponde esattamente al CM minimo.


67

Ma perché CMG e CM si incrociano proprio in corrispondenza del CM minimo?


La ragione è questa, il CMG costituisce un costo aggiuntivo rispetto alla media
dei costi. Finché il costo aggiuntivo è minore della media, la media si riduce (QA).
Quando il costo aggiuntivo diventa maggiore della media, la media inizia a
crescere (QB).

CM,
CMG
CMG
CM

QA QB Q

3.10 La massimizzazione del profitto dell'impresa

Secondo i neoclassici lo scopo generale dell'impresa è massimizzare il profitto


(Π), inteso come differenza tra ricavi totali (RT = p·Q) e costi totali (CT).

Π = RT - CT ← Funzione del profitto

L'impresa deve dunque scegliere la quantità Q che massimizza Π. Ossia, occorre


derivare rispetto a Q e porre uguale a zero tale derivata:

δΠ δRT δCT
=  =0
δQ δQ δQ

δCT
sapendo che CMG =
δQ
68

δRT
e definendo RMG =
δQ

possiamo allora dire che il profitto è massimizzato in corrispondenza di quella


quantità Q* tale che:

RMG – CMG = 0

RMG = CMG

questa è la condizione del primo ordine per il massimo profitto.

Questa condizione è piuttosto semplice da comprendere. CMG è il costo


aggiuntivo che l'impresa deve sostenere se decide di produrre una unità in più di
merce. RMG è il ricavo aggiuntivo che deriva dalla produzione e dalla vendita di
una unità in più di merce.

Ora, è chiaro che finché RMG > CMG all'impresa conviene aumentare la quantità
prodotta Q perché le unità aggiuntive rendono più di quanto costano e quindi
consentono di aumentare il profitto Π. Quando però RMG=CMG conviene
fermarsi e non andare oltre poiché ogni unità prodotta ulteriore costerebbe più di
quanto rende e farebbero ridurre il profitto totale.

Questa regola di massimizzazione del profitto vale in generale. Tuttavia, come


vedremo, essa viene declinata in modi diversi a seconda del tipo di impresa di
fronte alla quale ci troviamo. Abbiamo infatti tipi diversi di imprese che
differiscono in base al tipo di mercato in cui operano e al grado di competizione
che fronteggiano. Qui considereremo tre forme di mercato: la concorrenza
perfetta, il monopolio e l'oligopolio.

3.11 L'impresa in concorrenza perfetta

Il mercato di concorrenza perfetta è quello in cui operano moltissime piccole


imprese che producono un bene omogeneo.

Queste imprese si presentano sul mercato senza disporre di alcun potere sui prezzi
di vendita.

È il caso dei piccoli produttori di mele che si presentano sul mercato ortofrutticolo
al mattino. Un banditore conta le mele offerte dai produttori e le mele domandate
dai fruttivendoli, e fissa il prezzo di equilibrio di mercato che uguaglia domande e
69

offerte. Una volta fissato il prezzo di equilibrio ogni produttore dovrà attenersi ad
esso. Se, infatti, prova a vendere a prezzi maggiori nessuno andrà a comprare da
lui. E non ha interesse a vendere a prezzi minori visto che al prezzo di equilibrio
lui sa già che venderà tutta la merce (praticare un prezzo più basso comporterebbe
solo una riduzione dei ricavi e degli eventuali profitti).
L'impresa in concorrenza perfetta dunque non ha alcun potere sul prezzo di
mercato. Si dice che essa è price-taker, cioè “prende”, “subisce” il prezzo fissato
dal mercato.
In concorrenza perfetta possiamo dunque affermare che il prezzo di mercato è un
dato esogeno:

p = p0

Vediamo allora quali sono le implicazioni di un p esogeno sull'obiettivo di


massimizzazione del profitto dell'impresa in concorrenza perfetta.

Abbiamo detto che:

Π = RT – CT

Ovviamente il ricavo totale non è altro che RT = p·Q, cioè il prezzo per la
quantità prodotta e venduta. Dunque:

Π = p·Q – CT

Imponiamo quindi la condizione di massimo profitto derivando rispetto a Q e


ponendo uguale a zero tale derivata. Otteniamo:

RMG = CMG

δCT
p– =0
δQ

δCT
p=
δQ

p = CMG

Questa è la condizione di massimo profitto in concorrenza perfetta.

Si noti che in concorrenza perfetta il RMG derivante da una unità in più di merce
prodotta e venduta corrisponde esattamente al suo prezzo.
70

Ecco perché la condizione generale di massimo profitto RMG = CMG diventa p =


CMG.

Dunque, scopo dell'impresa è di fissare un livello di produzione Q tale che il suo


CMG arrivi ad uguagliare il prezzo p (esogeno) di mercato.

Se p > CMG conviene aumentare la quantità prodotta e venduta visto che le


quantità aggiuntive si venderanno ad un prezzo maggiore del loro costo
marginale.

Se p < CMG occorre tornare indietro, produrre di meno, perché si sta producendo
troppo nel senso che le quantità in eccesso costano più di quanto renderanno
all'atto della vendita.

Esempio algebrico: CT = r K + w Q2

poniamo: p = 16 w =2 r K = 20

Il profitto è dato da:


Π = RT – CT = p·Q – CT

la condizione di massimo profitto per l'impresa in concorrenza perfetta è:

δΠ δRT δCT
=  =0
δQ δQ δQ

δCT
p– =0
δQ

δCT
p=
δQ

ossia sostituendo i valori:

16 = 4 Q → Q=4

Questa è la quantità che massimizza il profitto dell'impresa.


71

3.12 Rappresentazione grafica dell'equilibrio ottimale dell'impresa in


concorrenza perfetta

Il prezzo di mercato è esogeno, ossia è indipendente dalla quantità che la singola


impresa ha deciso di produrre ed offrire sul mercato (pertanto, sul grafico il
prezzo è rappresentato da un retta orizzontale, parallela all'asse delle ascisse).

Basterebbe che l'impresa aumentasse anche di pochissimo il prezzo p al quale


vende il proprio prodotto e si ritroverebbe con una domanda pari a zero (punto A).

Al prezzo di mercato l'impresa può vendere tutte la merce che riesce a produrre
(naturalmente, considerati i costi di produzione, ad un certo punto dovrebbe
fermarsi per non andare in perdita).

A
p0

Q0 Q1 Q2 Q
72

Disegniamo le curve di costo e la retta orizzontale del prezzo:

p,
CM,
CMG
CMG
C CM
A E D
p0

QA Q* QB Q

La quantità Q che massimizza il profitto:

non è QA (P > CMG) segmento AB

non è QB (P < CMG) segmento CD

è Q* (P = CMG) punto E
73

Rappresentiamo graficamente il profitto dell'impresa:

p,
CM,
CMG
CMG

CM
E
p0
A F

O Q* Q

Il ricavo totale RT = p0·Q corrisponde al rettangolo OQ*Ep0

Sapendo che CM = CT/Q allora CT = CM·Q e quindi possiamo dire che il costo
totale corrisponde al rettangolo OQ*FA.

È chiaro che il profitto Π = RT – CT corrisponde alla differenza tra i due


rettangoli, cioè all'area AFEp0 (area tratteggiata).

Ovviamente, poiché questa impresa rispetta la condizione p=CMG, il profitto


tracciato nel grafico sarà il massimo possibile.

Esercizio: in base ai dati dell'esercizio precedente, calcoliamo il profitto massimo:

CT = r K0 + w Q2 p0 = 16 w=2 r K = 20

Abbiamo già detto che Q* = 4

Quindi RT = p0·Q = 16 * 4 = 64

CT = 20 + 2 (4)2 = 52

Π = 64 – 52 =12

Si verifichi che se cambia la Q non si riesce più ad ottenere un Π così alto.


74

Ovviamente può anche accadere che il prezzo di mercato si riduca e che l'impresa
si ritrovi addirittura a produrre in perdita (se il prezzo scende al di sotto del costo
medio).

p,
CM,
CMG
CMG

CM

A E

p0
F

O Q* Q

Quando p0 si situa al di sotto del CM l'impresa incorre in una perdita (cioè in un


profitto negativo) data da:

Π = RT – CT = OQ*Ep0 – OQ*FA = AFEp0 (che è negativo, ossia perdita)

Chiaramente l'impresa no può resistere a lungo in una tale situazione. Se p non


cresce o se un miglioramento tecnico non le consente di abbassare i costi,
l'impresa sarà costretta a ritirarsi dal mercato (con probabile bancarotta visto che
non è in grado di ripagare r K0).

Ma oltre all'uscita dal mercato delle imprese inefficienti, può anche accadere che
si verifichi l'ingresso nel mercato di nuove imprese. Ciò accade soprattutto quando
le imprese già presenti sul mercato realizzano profitti positivi.

Il fatto che le imprese operanti sul mercato stiano realizzando profitti positivi,
stimola l'ingresso di nuovi concorrenti.

Ma cosa accade quando entrano nuovi concorrenti? Semplice: la competizione si


intensifica e quindi il prezzo di mercato diminuisce.
75

Questa tendenza prosegue fino a quando non si raggiunge l'equilibrio di lungo


periodo per il quale p0 = CMG = CMMINIMO dove i profitti sono nulli e quindi
nono c'è più incentivo ad entrare nel mercato:

p,
CM,
CMG
CMG

CM
p'
p''
E
p0

O Q* Q

RT = CT = OQEP0 e quindi Π=0

A questo punto possiamo definire la curva di offerta dell'impresa. La curva di


offerta ci dice come varia la quantità prodotta dall'impresa al variare del prezzo di
mercato.

p,
CM,
CMG
CMG

CM
p0
p1
p2

O Q2 Q1 Q0 Q
76

Ipotizziamo che il prezzo diminuisca e determiniamo i corrispondenti livelli ottimi


Q di produzione.

Si vede che se il prezzo diminuisce (p2 < p1 < p0), la quantità prodotta ed offerta si
riduce (Q2 > Q1 > Q0). Viceversa quando il prezzo aumenta, la quantità prodotta
ed offerta aumenta.

p offerta
dell'impresa

CM

Sussiste, quindi, una relazione diretta tra p e Q e tale relazione corrisponde


esattamente alla curva CMG al di sopra del CM (al di sotto del CM l'impresa a
lungo andare non può reggere).

Dunque, possiamo affermare che la curva di offerta dell'impresa corrisponde alla


curva del CMG dalla intersezione con il CM in su (in realtà sarebbe dal CMV in
su).

Come si vede l'offerta è crescente, il che indica che all'aumentare di p cresce Q e


al diminuire di p diminuisce Q.
77

Così, come avveniva per la domanda, è possibile sommare orizzontalmente le


curve di offerta delle singole imprese per ottenere la curva di offerta del mercato:

p p p
CMG1 CMG2
offerta di
mercato

Q Q Q
Impresa 1 Impresa 2 ecc.

3.13 Domanda, offerta ed equilibrio del mercato di concorrenza perfetta

Dalla teoria della scelta del consumatore sappiamo che la domanda è di questo
tipo:
p
Qd = a - b p

ossia
se il prezzo aumenta, la quantità domandata diminuisce,
D
se il prezzo diminuisce, la quantità domandata aumenta.
Q
Dalla teoria dell'impresa sappiamo che l'offerta è di questo
tipo:
p
s
Q =c+dp S

ossia
se il prezzo aumenta, la quantità offerta aumenta,
se il prezzo diminuisce, la quantità offerta diminuisce.
Q
78

L'equilibrio di mercato è:

p
S

P'
E
p*

D' Q* S'
Q

I neoclassici sostengono che le forze del mercato, lasciate a sé stesse, conducano


automaticamente all'equilibrio tra domanda e offerta. Ad esempio se p' > p*,
allora S' > D', vi è un eccesso di merce offerta sul mercato e il prezzo si riduce
fino al livello p* per il quale S=D.

Algebricamente:

Qd = a – b p

Qd = c + d p

Imponiamo la condizione di equilibrio Qd = Qs:

a–bp=c+dp

a–c=bp+dp

(b + d) p = a – c

a c
p=
b+ d
79

Andiamo a sostituire p in una qualsiasi delle equazioni originarie

a c
Q=c+dp=c+d( )
b+ d

a c
Qd = Qs = c + d p = c + d ( )
b+ d

3.14 L'elasticità della domanda rispetto al prezzo

Quando si vuole conoscere la sensibilità della domanda alle variazioni del prezzo
si adopera il concetto di elasticità.
L'elasticità della domanda rispetto al prezzo indica la variazione percentuale della
quantità domandata conseguente ad una variazione dell'1% del prezzo.

Definendo con ∆Q/Q la variazione percentuale della domanda e con ∆p/p la


variazione percentuale del prezzo, si ha che l'elasticità εD è data da:

ΔQ
Q ΔQ p ΔQ p
εD = = =
Δp Q Δp Δp Q
p

ΔQ
ricordando che ovviamente < 0 in quanto la domanda è normalmente una
Δp
funzione decrescente del prezzo. Quindi:

ΔQ p δQ p
εD = che in termini di derivate diventa εD =
Δp Q δp Q

Quindi si possono avere due casi estremi:


- una domanda perfettamente elastica, ε D = -  dove una piccola variazione di p
provoca una enorme variazione di Qd;
- una domanda perfettamente rigida, ε D = 0, per le quali anche se p varia molto, la
domanda Qd non cambia.
Ma, più in generale, ci troveremo di fronte ad una di domanda con elasticità
intermedia, 0 < ε D < - .
80

p p p
0 < ε D < - 
ε D = - 
εD = 0

Q Q Q

Esercizio:

sapendo che Qd = 90 – 2 p e che Qs = (3/2) p + 20

1) determinare il valore di equilibrio di p e Q,


2) disegnare le curve sul grafico,
3) disegnare il surplus del consumatore.

Qd = Qs

90 – 2 p = (3/2) p + 20

90 – 20 = (3/2) p + 2p

(7/2) p = 70

p = (2/7) 70 = 20

Q = 90 – 2 p = 90 – 2 (20) = 50

Disegniamo:

Qd = 90 – 2 p

per p=0 → Qd = 90

per Qd = 0 → p = 45
81

Qs = (3/2) p + 20

per p = 0 → Qs = 20
per Qs = 0 → p = - 40/3

p
45 A
surplus del consumatore

B
20
C
D

20
50 90 Q

-40/3

Calcoliamo anche l'elasticità della domanda (nel punto B di equilibrio tra


domanda e offerta):

δQ p p 20 4
εD = = -2 = - 2 = 
δp Q Q 50 5
82

3.15 Monopolio e oligopolio

MONOPOLIO (una sola impresa formula l'offerta sul mercato)

La differenza fondamentale tra concorrenza perfetta e monopoli risiede nella


domanda e nel prezzo.

Per l'impresa in concorrenza perfetta il prezzo è un dato esogeno e la domanda è


perfettamente elastica. L'impresa infatti è molto piccola: essa sa che se si adegua
al prezzo di mercato potrà vendere tutta la merce che desidera (se non si
adeguasse al prezzo di mercato, o non venderebbe nulla – praticando un prezzo
superiore a quello di mercato - oppure non massimizzerebbe il profitto profitto –
praticando un prezzo inferiore a quello di mercato).

Per l'impresa in monopolio le cose sono diverse. L'impresa monopolista controlla


l'intero mercato, il che significa che essa si trova di fronte alla domanda
complessiva del mercato che può rivolgersi solo a lei.

Il problema del monopolista è quindi quello di posizionarsi sulla curva di


domanda del mercato in modo da scegliere la combinazione (p, Q) che
massimizza il suo profitto.

Ovviamente il monopolista dovrà tenere conto del fatto che se decide di


aumentare il prezzo, i consumatori diminuiranno la quantità domandata. Egli deve
quindi fare la sua scelta tenendo conto della reazione dei consumatori (e in
particolare della εD).

Ad ogni modo, è chiaro che il monopolista prende decisioni sia su Q che su p e


quindi non è più un price-taker ma è un price-maker.

Esaminiamo ora in dettaglio il comportamento del monopolista.

Ovviamente, anche per il monopolista l'obiettivo è di massimizzare il profitto


seguendo la regola generale:

δRT δCT
RMG = CMG ovvero =
δQ δQ

Nel calcolo dell'impresa in concorrenza perfetta il ricavo marginale coincideva


con il prezzo, per cui si poteva scrivere p = CMG. Infatti, il ricavo derivante da
ogni unità in più prodotta e venduta coincide in concorrenza perfetta proprio con
il prezzo di ogni unità di merce.
83

Ma in monopolio le cose cambiano. Il monopolista infatti fronteggia una domanda


di mercato decrescente, per cui egli sa che se vuole produrre e vendere una unità
in più di merce dovrà accettare un riduzione del prezzo su tutte le unità vendute
per convincere i consumatori a comprare la merce aggiuntiva.

Esempio: se il monopolista vuole vendere 5 unità di merce può fissare p = 12€ ma


se vuole venderne 6 dovrà farlo fissando il prezzo a p = 11€. Passando da A a B,
quindi, il monopolista guadagna altri 11€ ma perde 1€ sulle 5 unità che prima
vendeva a 12€ ognuna.

12 A

B
11

5 6
Q

Ciò significa che il ricavo marginale derivante dalla produzione e vendita di una
merce in più corrisponde in monopolio a:

Δp Δp
RMG = p + Q (con < 0)
ΔQ ΔQ

p è il prezzo della unità riduzione necessaria a convincere i consumatori a


di merce in più comprare una unità in più, moltiplicata per la quantità
prodotta e venduta che il monopolista già poteva produrre e vendere.
84

Questo stesso risultato può anche essere espresso in modo più preciso tramite le
derivate.
A questo riguardo noi sappiamo che:

RT = p·Q

dove però in monopolio p non è più esogeno ma si trova in relazione con q sulla
base della funzione di domanda decrescente (cioè p = p(Q)). Quindi possiamo
scrivere:

RT = p(Q)·Q

se, dunque, vogliamo calcolare

δRT
RMG = dove RT = p(Q)·Q
δQ

ci tocca utilizzare la regola di derivazione de prodotto di funzioni: la derivata del


primo termine moltiplicata per il secondo termine più il primo termine
moltiplicato per la derivata del secondo termine:

δRT δp δRT
RMG = = Q+p con ( < 0)
δQ δQ δQ

che esattamente lo stesso risultato ottenuto precedentemente mediante le


variazioni finite e che adesso è riferito a variazioni infinitesime.

Quindi, possiamo dire che la quantità ottima che il monopolista deve produrre ed
offrire sul mercato deve soddisfare la seguente equazione:

δp δCT
RMG = CMG ↔ Q+p=
δQ δQ

Vediamo un esempio.

Domanda di mercato: Q = 100 – 12·p


Costi totali del monopolista CT = 10 + 2·Q2

Determiniamo la combinazione (p, Q) che massimizza i profitti del monopolista.


Riscriviamo la domanda esplicitandola rispetto al prezzo:

p = 50 – (½)·Q
85

Il ricavo totale sarà:

RT = p·Q = [50 – (1/2)·Q]·Q = 50·Q - (½) Q2

RMG = 50 – Q

CMG = 4·Q

la condizione di ottimo è:

RMG = CMG

50 – Q = 4·Q → Q = 50/5 = 10

10 è la quantità che il monopolista deve vendere per massimizzare i profitti.

Inoltre notiamo una cosa:

Noi ipotizziamo che esiste una relazione tra CMG e PMGL, nel senso che:

w
CMG =
PMG L

la condizione di massimo profitto del monopolista può quindi essere scritta anche
così:

RMG = CMG

δp w
Q + p = PMG L
δQ

 δp Q  w
p1+  = PMG L
 δQ p 

Ma sappiamo pure che:

δQ p
εD =
δp Q

e quindi possiamo scrivere:


86

 1  w
p1+  =
 εD  PMG L

da cui si ricava:

 
 
1  w
p=
 1  PMG L
 1+ 
 εD 

 
 
1
il termine   rappresenta il mark-up sul costo unitario di produzione e il
 1 
 1+ 
 εD 

w
temine è il costo unitario di produzione (in realtà, come si è detto prima,
PMG L
sarebbe uguale al costo marginale ma con rendimenti costanti di scala le due
configurazioni di costo tendono a coincidere, ciò è ammissibile in considerazione
del fatto che le imprese monopoliste sono generalmente imprese di grosse
dimensioni che sfruttano largamente le economie di scala).

Quest'ultima equazione ci fa capire in che modo si determina il prezzo per


un'impresa dotata di potere di monopolio: il prezzo corrisponde al costo unitario
di ogni merce moltiplicato per un mark-up (ricarico, o margine di profitto) che
sarà tanto maggiore quanto meno elastica è la domanda dei consumatori.

Notiamo inoltre che in monopolio p > CMG cioè è maggiore del prezzo
concorrenza.

Rappresentiamo graficamente l'equilibrio del monopolista:

Come abbiamo detto il monopolista ha di fronte l'intera domanda di mercato.

Inoltre, possiamo tracciare la curva del RMG sotto la curva di domanda.

Perché il RMG si traccia al disotto della curva di domanda?


87

In concorrenza perfetta l'impresa poteva aumentare la Q di una unità e come RMG


otteneva il prezzo “pieno” della unità in più venduta. Quindi in concorrenza
perfetta D ≡ RMG. Invece in monopolio l'impresa ottiene RMG < p, poiché per
vendere deve ridurre il prezzo sulle altre unità. Per cui, visto che la domanda
esprime il prezzo, RMG si situa sotto di essa. Il che risulta chiaramente anche
dall'esempio di prima:

p = 50 – (1/2)·Q domanda

RMG = 50 – Q Ricavo marginale

50

D
RMG

50 100 Q
88

Per determinare l'equilibrio del monopolista, aggiungiamo ora, alle curve di


domanda e del RMG, le curve di costo che non cambiano rispetto alla concorrenza
perfetta.

p,
CM,
CMG
H
CMG

B CM
c
p*
p C
F
A
E
D
RMG

O Q* Q

Il punto di ottimo E è determinato dall'intersezione del CMG e del RMG. Esso


individua la quantità prodotta ed offerta che consente di massimizzare il profitto,
dato il prezzo che la domanda di mercato è disposta a pagare per questa quantità e
i costi di produzione. Il massimo profitto coincide con l'area rettangolare p*BFA
che è la differenza tra i ricavi totali p*BQ*O e i costi totali AFQ*O.

È da notare che il surplus del consumatore è HBp* ed è più piccolo di quello che
si avrebbe in concorrenza perfetta (dove i consumatori pagherebbero un prezzo pc
pari al CMG di produzione in cambio di una quantità maggiore di Q* e
corrispondente all'ascissa del punto C). Confrontiamo dunque il punto E e il punto
C.
89

Rispetto all'impresa in concorrenza il monopolista dunque: 1) produce meno; 2)


vende ad un prezzo più alto; 3) gode i un profitto superiore; 4) riduce il surplus
del consumatore.

Per tutti questi motivi alcuni neoclassici ritengono che il monopolio danneggi
l'economia e che vada quindi contrastato con opportune leggi anti-trast.
Ma esistono casi nei quali il monopolista può essere soggetto a fenomeni di
concorrenza da parte di altre imprese? Si. Si parla in tal caso di concorrenza
monopolistica.

In queste circostanze il monopolio e solo temporaneo. Il monopolista infatti non è


protetto da barriere all'entrata e quindi può accadere che dei concorrenti entrino
nel mercato. La conseguenza è che la domanda (la curva D) si abbassa fino a
quando il profitto diventa pari a zero: Π = 0.

Equilibrio di lungo periodo della concorrenza monopolistica:

p,
CM,
CMG
CMG

CM
E
pE

O QE Q
90

OLIGOPOLIO

L'impresa in concorrenza perfetta e l'impresa monopolistica presentano una


caratteristica comune: non si pongono problemi di strategia, cioè problemi nei
quali le azioni di ognuno dipendono anche da ciò che si prevede che facciano gli
altri.

Il problema della strategia e del complesso rapporto tra azioni e reazioni diventa
invece fondamentale nel caso in cui il mercato sia caratterizzato da una situazione
di oligopolio, cioè di poche grandi imprese.

Per analizzare il comportamento della impresa oligopolista si adopera una tecnica


particolare, detta teoria dei giochi.

Si tratta di una teoria che si propone di analizzare le strategie delle imprese


oligopoliste nei rapporti di concorrenza ma anche i giochi (come gli scacchi)
oppure le strategie militari o diplomatiche, etc. (chi ricorda il film che parla della
vita di John Nash: “a beautifull mind” con l'attore Russell Crowe).

Applichiamo la teoria dei giochi al caso di due imprese: la RAI e MEDIASET, la


cui attività consiste nel vendere spazi pubblicitari nei propri palinsesti.

Il problema per RAI e MEDIASET è di scegliere se adottare una strategia


conflittuale o cooperativa.

La strategia conflittuale consiste in:

1) ingenti spese per mettere in palinsesto film e spettacoli che attirino il


pubblico
2) prezzi di vendita degli spazi bassi pubblicitari bassi per attirare le imprese
3) fare lobbying per ottenere legislazioni favorevoli a sé e dannose per gli
l'avversario.

La strategia conflittuale è molto costosa, ma se coglie impreparato l'avversario


può dare notevoli vantaggi.

La strategia cooperativa consiste:

1) nell'accordarsi son il “nemico” (che diventa “partner”) per spartirsi il


mercato senza conflitti (la strategia cooperativa costa poco ma espone al
rischio di un attacco da parte del “partner”).
91

RAI e MEDIASET si trovano ad esempio in questa situazione: i valori indicano i


profitti attesi da RAI e MEDIASET a seconda delle situazioni:

MEDIASET
conflitto cooperazione
conflitto 2, 2 10, 0
RAI
cooperazione 0, 10 6, 6

La matrice dei pay-offs indica i profitti attesi dalle due aziende a seconda delle
strategie adottate. Ad esempio: se RAI coopera e MEDIASET confligge, RAI
ottiene profitti pari a zero e MEDIASET 10 miliardi. E così via.

Si dimostra che il conflitto, sotto date condizioni, è la strategia dominante, cioè


quella che sarà preferita da ciascuno indipendentemente dalle scelte dell'altro.

Infatti dal punto di vista della RAI:

se MEDIASET confligge → alla RAI conviene confliggere


se MEDIASET coopera → aòòa RAI conviene congliggere

lo stesso discorso vale per MEDIASET.

Risultato: entrambe le imprese sceglieranno il conflitto:

MEDIASET
conflitto cooperazione
conflitto 2, 2 10, 0
RAI
cooperazione 0, 10 6, 6

questo è detto equilibrio non cooperativo di Nash.

È interessante notare che si perviene a questo equilibrio nonostante che esso


generi per entrambe le imprese un risultato peggiore rispetto al caso della
cooperazione.

In certi casi tuttavia il risultato non-cooperativo è inevitabile, poiché la tentazione


di defezione da un accordo o anche solo la paura della defezione dell'altro
giocatore spinge entrambi al conflitto.

Se tuttavia il gioco è “ripetuto” le cose possono cambiare …...


92

3.16 Dalla microeconomia alla macroeconomia neoclassica

Abbiamo detto che mentre i classici e Marx facevano partire le loro analisi
direttamente dallo studio del comportamento delle classi sociali, al contrario i
neoclassici fondavano le loro teorie sull'individualismo metodologico. Essi quindi
partivano sempre dallo studio del comportamento del singolo individuo: il singolo
consumatore, il singolo lavoratore, la singola impresa, ecc.

Finora abbiamo fatto esattamente questo: abbiamo infatti visto in che modo il
singolo consumatore punta a massimizzare l'utilità, in che modo la singola
impresa punta a massimizzare il profitto, ecc.

Il fatto però che i neoclassici si concentrino sul comportamento dei singoli non
impedisce di gettare uno sguardo sul funzionamento complessivo dell'intero
sistema economico.

Infatti, è vero che i neoclassici partono sempre dalla microeconomia, cioè dallo
studio del comportamento dei singoli individui e dalle singole imprese. Ma è
anche vero che essi ritengono possibile passare dalla microeconomia alla
macroeconomia, cioè allo studio dei grandi aggregati sociali e dell'economia nel
suo complesso.

Il passaggio dal micro al macro per i neoclassici consiste nella sommatoria dei
comportamenti individuali.

(Qualcosa del genere l'abbiamo già intravista esaminando il passaggio dalla


domanda individuale alla domanda di mercato, ecc.)

Si vengono così a creare agenti rappresentativi espressione delle sommatorie.

Seguendo questo intento diventa possibile costruire un modello neoclassico di tipo


macroeconomico, che ci consente di studiare l'economia nel suo complesso, e che
quindi ci permette di esaminare l'andamento di variabili importantissime come la
disoccupazione, l'inflazione, i salari, i tassi d'interesse, ecc.
93

Il modello macroeconomico che studieremo è ispirato alla teoria della


disoccupazione di Pigou del 1933. Come vedremo, questo modello perviene a
risultati tipicamente liberisti, che saranno poi criticati da Keynes.

L'analisi viene qui effettuata sulla base di quattro ipotesi semplificatrici:

1) concorrenza perfetta: i singoli agenti (le imprese, lavoratori, etc. ...) sono
troppo “piccoli” e troppo numerosi per avere un potere di mercato.
2) Consideriamo l'economia di una nazione autarchica, cioè chiusa agli
scambi con l'estero.
3) Si produce un solo bene (es. grano).
4) Breve periodo (il capitale è fisso).

Ovviamente tali ipotesi semplificatrici possono essere rimosse (e le


rimuoveremo), ma per ora le manterremo per non complicare l'analisi.

Il modello macroeconomico neoclassico esamina il sistema economico di una


nazione, preso nel suo complesso, suddividendolo in quattro grandi mercati:

 mercato del lavoro


 mercato dei beni
 mercato dei titoli (cioè dei prestiti)
 mercato monetario.

Iniziamo l'analisi del mercato del lavoro.

La domanda di lavoro delle imprese (attenzione: in economia le imprese


domandano lavoro e i lavoratori offrono lavoro.

Definiamo:

Y produzione nazionale
P prezzo della merce prodotta
w salario monetario dei lavoratori
N numero dei lavoratori occupati

Da notare che w/p indica il salario reale dei lavoratori, cioè il potere d'acquisto del
salario. Es. se il salario mensile è w = 1000 € e se il prezzo di un kg di grano è
P=10 € allora i lavoratori ogni mese possono comprare w/P = 1000/10 = 100 kg di
grano.
94

Tracciamo ora la funzione di produzione di una ipotetica impresa


“rappresentativa” data dalla sommatoria di tutte le imprese della nazione:

Y PMGL

Y = Y(N)
32 10
31
28
PMGL
24 8
18
6
10 4
3
1

1 2 3 4 5 6 N 1 2 3 4 5 6 N

La funzione di produzione ha la solita forma dettata dalla legge della produttività


marginale del lavoro decrescente, dato il capitale K.

Dalla funzione di produzione si può ricavare appunto la curva della PMGL


decrescente.

Ora, è facile dimostrare chela curva della PMGL decrescente corrisponde


esattamente alla domanda di lavoro delle imprese.

Noi sappiamo che in concorrenza perfetta le imprese massimizzano il profitto solo


se:

P = CMG

Ma sappiamo pure che il CMG = w/PMGL per cui possiamo scrivere:

w
P= → P·PMGL= w
PMG L

da cui:

w
PMGL =
P
95

L'impresa assume finché i lavoratori aggiuntivi rendono più di quanto costano.


Ora, sappiamo che in concorrenza perfetta le imprese sono piccole e numerose e
quindi non hanno potere di mercato. Esse sono price-takers.

Il mercato dunque determinerà i prezzi P e i salari w di equilibrio e le imprese si


adegueranno ad essi. (w, P) → (Imprese)

Dunque, nel grafico che esprime la PMGL possiamo fissare un ipotetico w/P dato
esogenamente dal mercato:

w/P, PMGL

PMGL0

PMGL1= w/P

PMGL2 PMGL

N0 N1 N2 N

Quale sarà il numero di lavoratori che l'impresa domanderà? È chiaro che sarà N1.

Per N0 → PMGL > w/P conviene aumentare N (c'è ancora margine)

Per N2 → PMGL < w/P conviene diminuire N (si produce in perdita)

Per N1 → PMGL = w/P è soddisfatta la condizione di massimo profitto

Dunque la PMGL corrisponde esattamente alla domanda di lavoro (ND = PMGL)


delle imprese. Quindi la domanda di lavoro ND è decrescente: se w/P aumenta
allora ND si riduce, se w/P diminuisce allora la ND aumenta.

ND = PMGL
96

L'offerta di lavoro degli individui

Consideriamo un individuo “rappresentativo”, “sommatoria” di tutti i lavoratori


della nazione.
Sul grafico N, Y tracciamo le curve di indifferenza del lavoratore.

Y = (w/P)·N

w/P
N* N

L'ipotesi è che abbiamo a che fare con un bene (la produzione Y) e con un male
(la fatica derivante dal lavoro N). Dunque lo scopo dei lavoratori è di
massimizzare l'utilità situandosi può in alto a sinistra. Sullo stesso grafico
tracciamo pure la retta del vincolo di bilancio dei lavoratori. È chiaro che questi
potranno acquistare un ammontare di beni Y che dipende dalla quantità di lavoro
N erogato e dal salario w/P secondo l'equazione:

Y = (w/P)·N ← Vincolo di bilancio dei lavoratori

Ovviamente, il vincolo di bilancio ci dice che, a parità di w/P, se N aumenta ciò


implica un incremento del reddito Y consumabile dai lavoratori (la retta di
bilancio in questo caso resta ferma). Inoltre se, a parità di N, aumenta w/P, allora i
lavoratori potranno acquistare più merce (la retta di bilancio, in questo caso, ruota
verso sinistra e verso l'alto, in senso antiorario con centro nell'origine degli assi).
97

Per ogni vincolo di bilancio (per ogni w/P), i lavoratori possono determinare la
quantità di lavoro (N*) che massimizza la loro utilità, cioè si collocano sulla curva
di indifferenza più alta possibile (quella tangente al vincolo di bilancio).
Vediamo ora cosa accade se si verifica un aumento del salario reale w/P (che è
sempre determinato in modo esogeno dal mercato: i lavoratori non hanno potere
di mercato, anche loro sono price-taker).

Y
Y = (w/P)1·N

Y = (w/P)0·N

(w/P)1

(w/P)0

N0 N1 N

w/P

Ns

(w/P)1

(w/P)0

N0 N1 N
98

L'aumento del salario reale da (w/P)0 a (w/P)1 fa ruotare il vincolo di bilancio in


alto e modifica quindi il punto di ottimo. La conseguenza è che i lavoratori si
rendono disponibili a offrire più lavoro (da N0 a N1). Possiamo quindi riportare i
livelli del salario reale e i corrispondenti livelli di lavoro offerto dagli individui su
di un grafico sottostante. Otteniamo così la curva di offerta di lavoro (Ns) da parte
di lavoratori. La curva di offerta è crescente:

se w/P aumenta, allora Ns cresce,


se w/P diminuisce, allora Ns si riduce.

L'equilibrio del mercato del lavoro:

w/P

NS

E
(w/P)*

ND

N* N

I neoclassici sostengono che le forze del libero mercato, lasciate a sé stesse,


porteranno automaticamente a quel salario reale (w/P)* che garantisce l'equilibrio
tra domanda (ND) e offerta (NS) di lavoro.

Supponiamo infatti che il salario reale di mercato sia (w/P)0. In corrispondenza di


questo salario si ha un eccesso di offerta di lavoro rispetto alla domanda di lavoro:
99

(w/P)0 → NS > ND

Questa è una situazione di disoccupazione. I lavoratori che si offrono sono NS0 ma


le imprese assumono solo ND0. C'è quindi un numero di disoccupati involontari
pari al segmento NS0-ND0.

w/P

NS
A B
(w/P)0

E
(w/P)*

ND

ND0 N* N S0 N

Questi disoccupati si dicono involontari perché al salario di mercato vigente


(w/P)0 essi vorrebbero lavorare ma un lavoro non lo trovano.

Per i neoclassici tuttavia questa situazione è solo temporanea. Il meccanismo di


mercato condurrà spontaneamente il sistema all'equilibrio in E. I disoccupati
infatti (essendo tra loro in concorrenza) eserciteranno una pressione verso il basso
sui salari, che farà aumentare la domanda di lavoro ND e diminuire l'offerta NS
fino all'equilibrio.

La riduzione di w/P provoca:

 un aumento della domanda di lavoro ND: riducendosi il costo del lavoro le


imprese possono assumere lavoratori aggiuntivi, che hanno una marginale
inferiore.
100

 Una riduzione dell'offerta di lavoro NS: alcuni lavoratori, vedendo che il


salario si riduce, ritengono che il gioco non valga la candela e scelgono di
ritirarsi dal mercato.

In corrispondenza dell'equilibrio (E) la domanda di lavoro ND è uguale all'offerta


NS (cioè E → ND=NS ). Tutti i lavoratori disposti a lavorare (ad offrire lavoro) al
salario reale vigente (w/P)* troveranno una corrispondente domanda di lavoro e
quindi la caduta del salario si arresta.

Si noti che in corrispondenza di E non ci sono più disoccupati involontari.

Restano però dei disoccupati volontari, che al salario vigente non sono disposti a
lavorare ma che si renderebbero disponibili ad un salario maggiore (si tratta del
segmento NS0-N*).

I neoclassici tuttavia sostengono che i disoccupati volontari hanno liberamente


scelto di non lavorare. E quindi essi non costituiscono un problema politico

L'importante per i neoclassici è che il mercato sia in grado di assorbire


spontaneamente la disoccupazione involontaria, cioè sia in grado di garantire un
posto a tutti i lavoratori disposti a lavorare al salario di mercato di equilibrio.

Visto che in equilibrio il sistema riesce ad eliminare la disoccupazione


involontaria, allora si può parlare di equilibrio di piena occupazione.

Come rispondeva questo modello alla grande crisi ????

Ma allora, come si spiega la presenza di tanti disoccupati nel 1933? ovviamente


non li si poteva considerare tutti disoccupati volontari ….

La risposta di Pigou e degli altri neoclassici dell'epoca è che i sindacati


impediscono che il salario si riduca fino al livello di equilibrio.

I sindacati cioè inchiodano il sistema economico nel punto A del grafico


precedente bloccando il libero operare delle forze del mercato e generando
disoccupazione involontaria pari ad AB.
101

Dal mercato del lavoro al mercato dei beni

w/P

NS

E
(w/P)*

ND

N* N

Y = Y(N)
Y*

N* N
102

Una volta determinato l'equilibrio sul mercato del lavoro, è noto il numero dei
lavoratori occupati N*. Noto il numero degli occupati, in base alla funzione di
produzione Y=Y(N) si può determinare il livello di produzione Y* di equilibrio.

Una volta determinato il livello di produzione, si pone il problema fondamentale:


cosa garantisce che l'intera produzione Y* venga assorbita dalla domanda? Chi ci
assicura cioè che le imprese riescano a vendere tutta la merce prodotta.

La questione è fondamentale: è chiaro infatti che l'equilibrio di pena occupazione


può reggere solo se Y* viene venduto interamente.

I neoclassici rispondono a questo interrogativo attraverso due proposizioni:

1) per ogni data produzione Y realizzata le imprese distribuiscono alle famiglie


dei lavoratori e capitalisti un reddito Y di importo equivalente. (Attenzione: ciò
significa che Y rappresenta sia la produzione nazionale sia il reddito nazionale).

2) Le famiglie di lavoratori e capitalisti, una volta ricevuto il reddito Y, lo


spendono interamente per l'acquisto della produzione (di quanto è stato prodotto).

reddito Y

IMPRESE FAMIGLIE

produzione
Y
spesa di tutto il reddito

Ora, se le famiglie dei lavoratori e dei capitalisti spendessero tutto il loro reddito
per l'acquisto di beni di consumo, non vi sarebbe alcun problema.

Ma nella realtà le famiglie spendono per consumi (C) solo una parte del reddito,
mentre un'altra parte la risparmiano (S)!!!
103

Dunque poiché una parte del reddito nazionale viene risparmiata, a quanto pare
una parte della produzione resterà invenduta. Infatti, visto che produzione e
reddito sono equivalenti la produzione sarà interamente acquistata se tutto il
reddito viene speso!

I neoclassici reagiscono a questo problema sostenendo che la parte di reddito che


le famiglie risparmiano verrà interamente prestata alle imprese che useranno
questo reddito per fare investimenti (I). Cioè per acquistare mezzi di produzione
(macchine, impianti, ecc.).

Dunque, ricapitolando: dall'equilibrio del mercato del lavoro emerge un livello di


produzione Y corrispondente alla piena occupazione.

Tale produzione sarà interamente venduta solo se viene rispettata questa


condizione:

produzione = domanda

Y=C+I
C+S=C+I
S=I

Ma chi ci garantisce che S e I saranno uguali? Dopotutto si tratta di decisioni


prese da soggetti diversi.

La risposta dei neoclassici è che il tasso di interesse i garantirà il perfetto


equilibrio tra S e I. Infatti:

- Le famiglie decidono tra C e S in base a i. Se i aumenta le famiglie riducono i


consumi e S aumenta.
- Le imprese decidono I in base al costo dei prestiti i. Se i aumenta, allora I si
riduce.

Quindi possiamo tracciare due funzioni, S e I.

Le forze spontanee del mercato, lasciate a sé stesse, garantiranno un tasso di


interesse di mercato i tale che S=I.
104

S
0
A B
i

E
i*

I0 I*=S* S0 S, I

Dunque così come il salario reale w/P garantisce l'equilibrio tra domanda e offerta
di lavoro, così il tasso di interesse i garantisce l'equilibrio tra risparmi S e
investimenti I (ossia, C+S = C+I e Y = C+I).

Con ciò i neoclassici dimostrano che l'equilibrio di piena occupazione è stabile,


visto che la produzione di piena occupazione sarà interamente assorbita dalla
domanda, o come domanda di C o come domanda di I.

Se si lascia fare al mercato, non sussiste alcun rischio di merci invendute!!!

LA TEORIA QUANTITATIVA DELLA MONETA

Le conclusioni del modello macroeconomico neoclassico sono palesemente


liberiste. Le forze del mercato, lasciate a sé stesse, garantiscono il pieno impiego
dei lavoratori e l'acquisto dell'intera produzione realizzata.

L'intervento statale è inutile → se c'è disoccupazione, è colpa dei sindacati.

Non solo! I neoclassici puntano a dimostrare che l'intervento statale può anche
essere dannoso.
105

Un esempio in questo senso è dato dalla teoria neoclassica della moneta, detta
Teoria Quantitativa (Irving Fisher, 1911).

Per esaminare questa teoria definiamo:

M quantità di moneta (banconote) creata dalla Banca Centrale.

V velocità di circolazione della moneta (numero di volte che ogni banconota


passa di mano in un anno

P livello dei prezzi

Y produzione.

Definiamo quindi:

con MV la quantità di moneta complessivamente offerta in un anno. Infatti, se


moltiplichiamo il numero di banconote per il numero delle volte che ogni
banconota passa di mano, è chiaro che calcoliamo il totale della moneta offerta e
scambiata in un anno.

Con PY definiamo il valore della produzione offerta e scambiata, cui corrisponde


ovviamente una quantità equivalente di moneta domandata in cambio.

Possiamo dunque stabilire che:

MV = PY

il che al momento è una mera tautologia, cioè una ovvietà. È chiaro infatti che a
fronte del totale della moneta MV scambiata corrisponderà il valore della
produzione PY scambiata (che coincide con il totale della moneta domandata).

I neoclassici tuttavia trasformano la tautologia in una equazione imponendo delle


ipotesi:

M è data dalle autonome decisioni della Banca Centrale

V è data dalle abitudini di pagamento della produzione

Y è data dall'equilibrio di piena occupazione sul mercato del lavoro.

L'unica incognita dunque è P:


106

PY = MV

V
P= M
Y

questa equazione ci dice che, dati V e Y, se la Banca Centrale decide di aumentare


M, l'unico effetto di questa decisione sarà un aumento del livello dei prezzi P.

Il risultato dipende strettamente dall'ipotesi di piena occupazione.

Infatti, se la Banca Centrale aumenta M in circolazione, gli individui disporranno


di più moneta. Essi quindi useranno la moneta per comprare merci. Ma essendo la
produzione già al livello di piena occupazione allora non potrà aumentare. Di
conseguenza, di fronte all'incremento di domanda di merci le imprese finiranno
per aumentare P.

L'intervento politico della Banca Centrale, magari finalizzato a stimolare la


domanda, ad aumentare Y e l'occupazione N, in realtà è inutile (Y è già al pieno
impiego) ed è pure dannoso (poiché genera inflazione).

Le conclusioni del modello sono ancora una volta liberiste:

- neutralità della moneta


- orientamento restrittivo della politica monetaria (riduzione di P senza costi su Y)

Il sistema di equazioni del modello macroeconomico neoclassico:

NS = NS (w/P)
ND = ND(w/P)
NS = ND

Y = Y(NS)

S = S(i)
I = I(i)
S=I

MV = PY
w = (w/P)·P
107

Esempio:

NS = 60 + (w/P)
ND = 120 – 2 (w/P)
NS = ND

Y = (NS)1/2

S=2+i
I = 11 – 2 i
S=I

45 · 2 = P·Y
w = (w/P)·P

60 + (w/P) = 120 – 2 (w/P)

3 (w/P) = 120 – 60

w/P = 60/3 = 20

NS = 60 + 20 = 80

Y = (80)1/2 = 80  9

S=I → 2 + i = 11 – 2 i → 3i=9 → i = 9/3 = 3

S=I=2+3=5

P·Y = 45·2 = 90 → P·9 = 90 → P = 90 / 9 = 10

w = (w/P)·P = 20 * 10 = 200
108

LA CRISI PER I NEOCLASSICI

Notiamo un'ultima cosa.

Supponiamo che si verifichi una crisi di fiducia delle aspettative di profitto.

Conseguenza: gli imprenditori riducono gli investimenti I.

I'

S, I

Per i neoclassici non c'è problema. Il movimento del tasso di interesse metterà in
equilibrio il sistema. Infatti il tasso di interesse si ridurrà portando in equilibrio il
risparmi e investimenti. Alla riduzione dei risparmi corrisponderà subito un
aumento dei consumi che compenserà la riduzione degli investimenti.
109

Ma se volessimo tornare ai livelli di investimento precedenti? Semplice, basta che


l'orientamento al risparmio delle famiglie aumenti:

con l'aumento dei risparmi delle famiglie (la curva dei risparmi S ora si sposta
verso destra) si ridurrebbe il tasso di interesse e quindi aumenterebbero gli
investimenti.

La virtù della parsimonia quale fattore chiave dell'accumulazione e dello sviluppo


economico

i
S

S'

I'

S, I
110

IV

DISPENSE INTEGRATIVE
DEL MANUALE DI BLANCHARD

4.1 Una specificazione del modello di determinazione della produzione di


equilibrio

Nei primi tre capitoli del libro di Blanchard avete studiato il modello di
determinazione della produzione di equilibrio, in funzione del livello della
domanda di merci. Blanchard ritiene che questo modello valga solo nel breve
periodo, e sotto condizioni piuttosto restrittive. Noi pensiamo invece che tale
modello abbia una valenza esplicativa più vasta, e quindi riteniamo opportuno
approfondirne qui le caratteristiche.

Come sapete, la struttura di partenza del modello è questa. La domanda


complessiva di merci è data dalla spesa per beni di consumo, dalla spesa per beni
d’investimento e dalla spesa pubblica:

Z  C  I G

Dove la spesa per consumi è data da:

C  c0  c1 (Y  T )

mentre investimenti, spesa pubblica e tasse possono essere considerati esogeni,


cioè dati dalle decisioni autonome delle imprese e del governo. La condizione di
equilibrio tra produzione e domanda è dunque:

Y Z

Ricordiamo che il termine Y sta ad indicare sia il livello della produzione di merci
realizzata, sia il reddito distribuito. Produzione e reddito infatti sono sempre
equivalenti, dal momento che il valore della produzione venduta finisce
interamente, sotto forma di reddito, nelle mani dei capitalisti e dei lavoratori che
111

hanno concorso a realizzarla. Dunque un aumento della produzione realizzata e


venduta deve sempre corrispondere ad un aumento equivalente del reddito
distribuito ai capitalisti e ai lavoratori che hanno concorso alla sua realizzazione.
Ecco perché, nel definire Y, noi useremo indifferentemente sia il termine
“produzione” che il termine “reddito”.

Detto ciò, torniamo alla condizione di equilibrio tra produzione domanda Y = Z.


Effettuando le sostituzioni e dopo qualche passaggio matematico:

Y  C  I G
Y  c0  c1 (Y  T )  I  G
Y  c1Y  c0  I  G  c1T
(1  c1 )Y  c0  I  G  c1T

alla fine si ottiene:

1
(1) Y  (c0  I  G  c1T )
1  c1

che è appunto l’equazione di equilibrio sul mercato dei beni, vale a dire
dell’equilibrio tra produzione e domanda. Il termine tra parentesi è detto spesa
autonoma (poiché include le componenti della spesa dette autonome, nel senso
che non dipendono dal reddito), mentre il termine 1/1-c1 è detto moltiplicatore
della spesa autonoma. Conoscendo i livelli delle variabili esogene che concorrono
a determinare la domanda di merci (cioè I, G, T, c0 e c1), questa equazione
consente di determinare il livello di equilibrio della produzione Y.

Ovviamente l’equazione può essere modificata per calcolare non i livelli ma


direttamente le variazioni. Si può cioè ipotizzare che le componenti della
domanda si modifichino, e si può desiderare di calcolare la variazione della
produzione che ne consegue. In tal caso l’equazione diventa:

1
(2) Y  (c0  I  G  c1T )
1  c1
112

Chiaramente può ben darsi che tra le variabili che compongono la domanda solo
una si modifichi mentre le altre rimangono costanti. Supponiamo ad esempio che
si verifichi una “crisi di fiducia” da parte delle imprese sulle loro aspettative di
profitto. Gli imprenditori risultano cioè sfiduciati sull’andamento futuro
dell’economia, temono che venderanno poco e quindi ritengono che riusciranno a
conseguire ben pochi profitti. In tal caso essi non avranno alcuna intenzione di
espandere la loro attività, e quindi decideranno di ridurre gli investimenti (cioè
decideranno di ridurre la domanda di nuovi macchinari e impianti).1 Ciò significa
che gli investimenti si riducono (quindi I<0), mentre c0, G e T per ipotesi restano
costanti (e quindi c0 = G = T = 0). L’equazione (2) allora diventa:

1
Y  I
1  c1

Ovviamente, poiché abbiamo assunto che la variazione degli investimenti sia


negativa, anche la variazione della produzione lo sarà: Y<0. Il termine Y indica
dunque la riduzione della produzione causata da una riduzione della domanda di
beni d’investimento.

Date queste equazioni, possiamo adesso effettuare alcuni esempi numerici.

ESEMPIO N.1: determinazione della produzione di equilibrio, date le


componenti della domanda. Ipotizziamo, a scopo puramente esemplificativo, che
le componenti autonome della domanda di merci e la propensione al consumo
all’interno del paese esaminato assumano i seguenti valori:2

1
E’ sempre importante distinguere tra investimenti produttivi e investimenti finanziari. Nel
linguaggio corrente quando si parla genericamente di “investimenti” di solito ci si riferisce agli
investimenti finanziari, cioè all’acquisto di titoli da parte dei risparmiatori. Invece, salvo
specificazioni, quando parlano di “investimenti” gli economisti si riferiscono agli investimenti
produttivi, cioè agli acquisti di nuovi macchinari, impianti e attrezzature da parte delle imprese. In
questo caso stiamo dunque parlando di investimenti produttivi delle imprese.
2
Le componenti autonome della domanda c0, I, G, T sono espresse in miliardi di euro. La
propensione al consumo c1 indica invece la quota del reddito Y che viene consumata, e quindi può
essere espressa come una frazione (ad esempio c1=0,5=1/2 significa che i cittadini del paese
esaminato tendono a consumare il 50% del loro reddito e a risparmiare il restante 50%).
113

c0  50
I  200
G  100
T  100
c1  0,5  1 / 2

Sostituendo questi valori nella equazione (1), otteniamo il livello di equilibrio


della produzione:

1
Y  (50  200  100  (1 / 2)100)
1  1/ 2
Y  2 (300)
Y  600

ESEMPIO N.2: la crisi di fiducia. Supponiamo ora che si verifichi una “crisi di
fiducia” sulle prospettive di profitto, e quindi che gli investimenti delle imprese si
riducano. Ipotizziamo ad esempio che adesso I = 150. Ciò significa che, rispetto al
valore precedente, gli investimenti si sono ridotti di 50 miliardi. Possiamo dunque
usare l’equazione (1) per calcolare il nuovo livello della produzione, tenendo
conto del nuovo livello di I. Avremo:

1
Y (50  150  100  (1 / 2)100)
1  1/ 2
Y  2 (250)
Y  500

La produzione è adesso pari a 500 miliardi, rispetto ai 600 realizzati prima della
crisi. Alternativamente possiamo anche calcolare direttamente la variazione Y,
senza bisogno di calcolare i livelli. Sapendo che gli investimenti si sono ridotti di
I =  50, mentre per ipotesi c0 = G = T = 0, sostituendo questi valori nella
equazione (2) otteniamo:

1
Y  (50)
1  1/ 2
Y  2 (50)
Y  100
114

La produzione dunque si è ridotta di 100 miliardi (che corrispondono appunto alla


differenza tra il valore iniziale di 600 e quello successivo alla crisi di 500).
Insomma, la crisi innesca una caduta della domanda di merci, la quale costringe le
imprese a ridurre la produzione. Ed è chiaro che questo dovrebbe implicare anche
una serie di licenziamenti e quindi una riduzione del numero degli occupati. Il
calo della domanda comporta dunque un calo della produzione e un aumento della
disoccupazione.

Si noti che, a fronte di una riduzione iniziale della domanda di merci (e in


particolare di beni d’investimento) pari a 50, alla fine si assiste ad una riduzione
della produzione di 100. La produzione cioè varia più di quanto sia variata
inizialmente la domanda. Si ricordi che questo fenomeno è dovuto al
moltiplicatore della spesa autonoma. Il moltiplicatore tende ad accentuare la
variazione iniziale della spesa autonoma. Il meccanismo tramite il quale esso
agisce è il seguente: nel momento in cui la domanda di macchinari si riduce, le
imprese che producono i macchinari non riescono a venderli e quindi sono
costrette a licenziare; i lavoratori divenuti disoccupati non disporranno più di un
reddito, e quindi ridurranno a loro volta i consumi; ciò provocherà una serie di
licenziamenti anche presso le imprese che producono beni di consumo; ci saranno
pertanto altri lavoratori disoccupati costretti a ridurre le loro spese, il che
provocherà ulteriori cali di produzione e licenziamenti, e così via. Alla fine di
questo processo cumulativo il calo della domanda e della produzione risulterà per
l’appunto “moltiplicato” rispetto al calo iniziale degli investimenti.

4.2 Il paradosso del risparmio

Abbiamo appena esaminato una caduta degli investimenti e quindi della


produzione e dell’occupazione. Alcuni economisti di stampo liberista talvolta
hanno affermato che per rimediare a un calo degli investimenti occorre aumentare
i risparmi. L’idea è che le famiglie consumano troppo e quindi forniscono poco
risparmio alle imprese per il finanziamento degli investimenti. Secondo questa
visione, solo se la popolazione riduce il consumo e decide di rendere disponibili
maggiori risparmi per le imprese, queste ultime potranno usarli per aumentare gli
investimenti in nuovi macchinari e attrezzature e rendere così più efficiente e
produttiva l’economia. Stando a questa concezione – che era molto in voga tra gli
economisti liberisti dell’Inghilterra “vittoriana” di fine ‘800 e che oggi pare
tornata di moda - è solo attraverso le virtù della parsimonia e dell’astinenza dai
consumi, che si può uscire da una crisi e sviluppare l’economia.
115

Questa visione è stata fortemente criticata da John Maynard Keynes, autore della
Teoria generale del 1936. Keynes, che scriveva in un’epoca di grave crisi
economica mondiale, sostenne che il tentativo di risollevare l’economia riducendo
i consumi per aumentare i risparmi avrebbe soltanto peggiorato la situazione
economica. In particolare, Keynes mise in luce l’esistenza di un “paradosso del
risparmio”, che andava contro i luoghi comuni dei teorici dell’astinenza: il
paradosso infatti evidenzia che se si riducono i consumi la produzione non
aumenta ma si riduce, ed inoltre i risparmi non aumentano ma restano invariati.

Per comprendere il senso della critica di Keynes, applichiamo la ricetta dei


liberisti e vediamo cosa accade. Supponiamo che per uscire dalla crisi si decida di
ridurre il consumo autonomo c0. Si spera che in tal modo i consumi si riducano, i
risparmi aumentino e quindi vi siano più risorse finanziarie per riattivare gli
investimenti delle imprese e per rilanciare la produzione. Ma al di là degli auspici,
quali saranno gli effetti reali di questa riduzione del consumo autonomo? Come
vedremo, gli effetti sono due: la domanda, la produzione e il reddito si riducono,
mentre il risparmio resta invariato.

Dimostriamo questi risultati riprendendo l’equazione (1) della produzione di


equilibrio:

1
(1) Y  (c0  I  G  c1T )
1  c1

Da questa equazione rileviamo facilmente che la riduzione di c0 implica una


riduzione della domanda di merci e quindi anche della produzione,
dell’occupazione e del reddito. Si viene pertanto a determinare un effetto
esattamente opposto a quello auspicato, e questo per una ragione molto semplice:
gli economisti che intendono applicare le ricette dell’epoca “vittoriana”, e che
propongono quindi la riduzione dei consumi e l’aumento dei risparmi per
risollevare l’economia, non tengono conto del fatto che se si riducono i consumi si
determina un calo ulteriore di domanda, di produzione, di occupazione e di
reddito, e quindi un aggravamento della crisi.

Ma c’è di più. E’ possibile infatti dimostrare che, contrariamente alle attese, la


riduzione del consumo autonomo non riesce nemmeno a provocare un aumento
dei risparmi. Il che in effetti sembra strano, nel senso che di fronte a un calo dei
consumi pare naturale attendersi un aumento corrispondente dei risparmi. Per
spiegare questo apparente “paradosso” prendiamo l’equazione del risparmio S.
Questo è dato dal reddito al netto delle tasse, meno i consumi:

S  Y T C
116

da cui, sostituendovi l’equazione del consumo, otteniamo:

S  Y  T  c0  c1 (Y  T )
S  c 0  (1  c1 )(Y  T )

Da quest’ultima equazione possiamo trarre le seguenti considerazioni. Vediamo


subito che la riduzione del consumo autonomo dà luogo a due effetti contrastanti:
da un lato essa provoca effettivamente un aumento diretto del risparmio S;
dall’altro lato, però, come abbiamo visto prima, al diminuire di c0 si verifica pure
una riduzione della domanda, quindi una riduzione della produzione e del reddito
Y e dunque anche un calo del risparmio S. Il che dopotutto è ovvio: la caduta dei
consumi provoca cali di produzione e di occupazione, ed è chiaro che se
aumentano i disoccupati questi si ritroveranno senza reddito e quindi anche senza
possibilità di risparmiare.

La riduzione del consumo autonomo produce dunque due effetti contrastanti sul
risparmio: uno diretto che è positivo, e l’altro mediato dalla domanda e dal reddito
che invece è negativo. Ma quale dei due effetti tende a prevalere? Alla fine si
dimostra che i due effetti si elidono a vicenda, e quindi il risparmio non subisce
alcun mutamento in seguito alla riduzione del consumo autonomo. Infatti,
partendo dalla equazione dell’equilibrio tra produzione e spesa:

Y  C  I G

Sottraendo a destra e a sinistra T e C, otteniamo:

Y T C  I G T

Ma il termine a sinistra corrisponde proprio al risparmio S, e quindi possiamo


scrivere:

S  I  G T

Ora, si vede chiaramente che in equilibrio il risparmio dipende esclusivamente


dagli investimenti delle imprese e dalla spesa pubblica al netto delle tasse. Ma
questi come è noto sono tutti dati esogeni. Per cui, se questi dati non si
modificano, nemmeno il risparmio può modificarsi, nonostante che il consumo
autonomo si sia ridotto. Ecco dunque dimostrato il paradosso del risparmio.
117

ESEMPIO N.3: il paradosso del risparmio. Il fatto che la riduzione del consumo
autonomo non riesca a risollevare l’economia, ma provochi al contrario un calo di
produzione e lasci pure del tutto invariato il risparmio, può essere verificato
tramite un esempio numerico. Supponiamo che, dopo la crisi di fiducia e la caduta
degli investimenti, si cerchi di risollevare l’economia tramite una riduzione di c0
da 50 a 40 miliardi. I dati dunque sono:

c0  40
I  150
G  100
T  100
c1  0,5  1 / 2

Calcoliamo la produzione di equilibrio:

1
Y (40  150  100  (1 / 2)100)
1  1/ 2
Y  2 (240)
Y  480

Rileviamo subito che la riduzione del consumo autonomo, anziché migliorare la


situazione, ha provocato un ulteriore calo della produzione. Vediamo infine cosa è
accaduto al risparmio. Data l’equazione del risparmio riportata in precedenza:

S  c 0  (1  c1 )(Y  T )

calcoliamo innanzitutto il livello del risparmio prima della riduzione del consumo
autonomo, cioè con c0 = 50 e Y = 500:

S  50  (1  1 / 2)(500  100)  150

Ricalcoliamo quindi il risparmio dopo la riduzione del consumo autonomo, cioè


con c0 = 40 e Y = 480:

S  40  (1  1 / 2)(480  100)  150

Come si vede, la riduzione del consumo autonomo non ha provocato alcun effetto
sul risparmio, visto che il calo di c0 è perfettamente compensato dal calo di
domanda e quindi di Y. Il “paradosso” è dunque confermato. Per uscire dalla crisi
occorre cercare altre strade. Ad esempio, come vedremo, la politica espansiva.
118

4.3 Spesa pubblica, tassazione e teorema di Haavelmo sul bilancio in pareggio

ESEMPIO N.4: una politica di espansione della spesa pubblica. E’ chiaro che la
crisi di fiducia, e la conseguente riduzione della domanda e della produzione,
avranno scatenato un’ondata di licenziamenti, e avranno quindi accresciuto la
disoccupazione. In tal caso le autorità politiche potrebbero cercare di effettuare
politiche espansive, al fine di aumentare la domanda di merci ed uscire così dalla
crisi. Supponiamo ad esempio che le autorità di governo decidano di aumentare la
spesa pubblica. Ad esempio, possiamo assumere che la spesa pubblica diventi G =
150, ossia aumenti di G = 50 rispetto al suo valore iniziale di 100. Dunque ora
abbiamo:

c0  50
I  150
G  150
T  100
c1  0,5  1 / 2

Utilizzando sempre l’equazione (1), possiamo calcolare il nuovo livello di


equilibrio della produzione:

1
Y  (50  150  150  (1 / 2)100)
1  1/ 2
Y  2 (300)
Y  600

Si noti che, grazie all’aumento della spesa pubblica, il governo è riuscito a


riportare l’economia al livello di produzione antecedente alla crisi. Ovviamente lo
stesso calcolo poteva essere direttamente effettuato sulle variazioni, senza passare
per il calcolo dei livelli. Sapendo che G = 50, e assumendo sempre per ipotesi
che c0 = I = T = 0, usando la (2) otteniamo:
119

1
Y  (50)
1  1/ 2
Y  2 (50)
Y  100

che corrisponde esattamente all’aumento della produzione dal livello di 500


causato dalla crisi al nuovo livello di 600 generato dall’espansione della spesa
pubblica. Si noti che il moltiplicatore della spesa autonoma funziona non solo “in
negativo”, come nel caso precedente, ma anche “in positivo” come in questo caso.
Infatti, al governo è bastato un aumento di spesa pubblica di 50 per ottenere un
aumento finale della produzione di 100. Posto ad esempio che il governo abbia
speso 50 miliardi per la costruzione di nuovi edifici scolastici, evidentemente avrà
impiegato nei cantieri dei lavoratori che precedentemente erano disoccupati e
quindi nullatenenti. Questi lavoratori, essendo occupati, adesso dispongono di un
reddito e quindi potranno aumentare a loro volta i consumi, il che farà aumentare
l’attività delle imprese produttrici di beni di consumo, e dunque anche
l’occupazione di ulteriori lavoratori presso di esse, e così via. Alla fine l’aumento
della spesa complessiva, e conseguentemente anche della produzione e degli
occupati necessari a realizzarla, è maggiore della spesa pubblica iniziale.

Si noti che il moltiplicatore, rappresentato dal termine 1/1-c1, genera effetti tanto
più intensi quanto maggiore è la propensione al consumo. Ad esempio, se c1
aumenta da 1/2 a 2/3 il motiplicatore 1/1-c1 aumenta da 2 a 3 e quindi tende ad
accentuare la variazione iniziale della spesa autonoma. La spiegazione è semplice:
se i lavoratori hanno una forte propensione a consumare, allora nel momento in
cui vengono assunti e retribuiti tratterranno poco reddito per fini di risparmio e
tenderanno a spenderne molto per consumi. Ciò significa che solo una piccola
parte del reddito resterà giacente nei portafogli, mentre la maggior parte verrà
rimessa nel circuito economico, il che darà luogo ad un elevato effetto
moltiplicativo sulla domanda e sulla produzione.

ESEMPIO N.5: una politica di riduzione della tassazione. In effetti, per stimolare
la domanda di merci e uscire così dalla crisi, il governo potrebbe anche ridurre le
tasse anziché aumentare la spesa pubblica. Le tasse sono fondamentali per
finanziare l’amministrazione dello Stato e i servizi essenziali come l’ordine
pubblico, la sanità, l’istruzione, ecc. Al tempo stesso però esse sottraggono
reddito ai singoli cittadini, e quindi tendono a deprimere le loro spese per consumi
privati. Abbattendo la tassazione, il governo può quindi lasciare ai privati una
maggiore disponibilità di reddito, e permette ad essi di accrescere la domanda di
merci. In sostituzione di G = 50, il governo può dunque decidere di ridurre le
120

tasse di T =  50. Senza bisogno di calcolare il livello, soffermiamoci


direttamente sulla variazione della produzione che consegue alla riduzione delle
tasse. Sapendo che T =  50, e che per ipotesi c0 = I = G = 0, sostituendo
questi valori nella equazione (2):

1
Y  (c0  I  G  c1T )
1  c1

otteniamo che:

1
Y  (0  0  0  (1 / 2)(50))
1  1/ 2
Y  2 (25)
Y  50

A questo punto è fondamentale notare una differenza tra la politica precedente, di


espansione della spesa pubblica, e la politica appena esaminata, basata sulla
riduzione delle tasse. L’aumento di spesa pubblica pari a 50 aveva infatti
provocato un aumento complessivo della produzione pari a 100. In questo caso,
invece, una riduzione delle tasse di 50 (ovvero una riduzione di pari entità rispetto
all’aumento della spesa pubblica) provoca un aumento della produzione di soli 50
miliardi, ossia molto minore. Dunque la politica basata sulla espansione della
spesa pubblica G risulta più efficace della politica fondata sulla riduzione delle
tasse T. Quali sono le cause di questa diversa efficacia? La risposta può essere
individuata osservando nuovamente l’equazione (2):

1
Y  (c0  I  G  c1T )
1  c1

Da questa equazione si rileva chiaramente che mentre le variazioni di G si


scaricano interamente sulla produzione Y, invece solo la percentuale c1 delle
variazioni di T si ripercuote su Y. La ragione è che se il governo aumenta ad
esempio G di 50 miliardi, questi si trasformeranno interamente in maggiore spesa
(es. per la costruzione di edifici scolastici, di strade, ecc.) e quindi anche in
maggiore produzione e in maggiore reddito per i lavoratori che partecipano alla
produzione. Al contrario, se il governo riduce T di 50 miliardi, i cittadini
effettivamente si ritroveranno con un reddito disponibile maggiore, ma di questo
maggiore reddito essi ne spenderanno soltanto una parte. Ad esempio, se la
propensione al consumo è c1 = 1/2, questo significa che i cittadini spendono solo il
50% dei loro redditi a fini di consumo, mentre accantonano l’altro 50% sotto
forma di risparmio. Dunque, se a seguito di una riduzione delle tasse i cittadini si
121

trovano con 50 miliardi in più di reddito disponibile, essi ne spenderanno solo 25


e quindi alla fine questa politica darà luogo ad un aumento di domanda e di
produzione inferiore rispetto a quella basata sulla spesa diretta del governo.

La maggiore efficacia di G rispetto a T può essere formalizzata attraverso il


cosiddetto teorema di Haavelmo sul bilancio in pareggio. Per descrivere il
teorema, partiamo dalla seguente ipotesi: per evitare di aggravare il disavanzo
pubblico il governo intende finanziare tutti gli aumenti di spesa pubblica con
uguali incrementi della tassazione. Il disavanzo (detto anche deficit) di bilancio
pubblico è dato infatti dall’eventuale eccesso di spese dello Stato G rispetto alle
entrate fiscali T.

(3) Deficit pubblico = G - T

Se si vuole evitare questo disavanzo, se cioè si vuole mantenere il bilancio


pubblico in pareggio, occorre che G e T siano uguali e si muovano assieme. Ossia,
partendo da una ipotetica situazione di pareggio, per mantenerla occorre che: G
= T.

A prima vista si potrebbe pensare che questo tipo di politica non provochi alcun
effetto sul livello di equilibrio della produzione Y. Si può infatti presumere che
l’espansione della domanda di merci causata dall’aumento di G venga
perfettamente neutralizzata dalla riduzione della domanda causata dal pari
aumento di T. In realtà, contrariamente alle apparenze, il teorema di Haavelmo
dimostra che la politica basata sul bilancio in pareggio (cioè su G = T) dà
luogo a un incremento di Y.

Per dimostrare questo teorema partiamo dalla equazione (2), che ci dice di quanto
varia Y al variare delle componenti autonome della domanda, cioè nel nostro caso
al variare di G e di T:

1
Y  (c0  I  G  c1T )
1  c1

Se assumiamo che gli investimenti e i consumi autonomi non mutino, allora si ha


che c0 = I = 0 e quindi possiamo riscrivere l’equazione nel seguente modo:

1
Y  (G  c1T )
1  c1
122

Ma noi sappiamo pure che, per ipotesi, il governo sta effettuando una politica di
bilancio in pareggio, per cui G = T. Possiamo quindi sostituire il termine T
con G e ottenere:

1
Y  (G  c1G )
1  c1
1
Y  (1  c1 ) G
1  c1
(1  c1 )
Y  G
1  c1

da cui, semplificando numeratore e denominatore della frazione, si ottiene:

Y  G

Abbiamo dunque dimostrato che, con G = T, le due politiche non si


neutralizzano a vicenda ma hanno invece un effetto positivo sulla produzione. Più
precisamente, l’aumento di Y sarà esattamente pari all’aumento iniziale di
spesa pubblica. Ma perché l’aumento delle tasse, pur essendo identico
all’aumento della spesa pubblica, non riesce a neutralizzare quest’ultima? La
ragione è sempre la stessa. L’aumento di spesa pubblica G si traduce
interamente in spesa e quindi in un aumento della produzione. Invece l’uguale
aumento delle tasse T, pur rappresentando una sottrazione di reddito ai privati,
se fosse rimasto nelle tasche di questi sarebbe stato speso non interamente ma solo
in parte, ossia nella percentuale data dalla propensione al consumo c1. Alla fine
dunque l’effetto espansivo della spesa prevale sull’effetto restrittivo delle
tasse, e quindi domanda e produzione aumentano.

4.4 Il finanziamento del disavanzo pubblico e il Trattato di Maastricht

Abbiamo appena esaminato una politica basata sull’obiettivo di mantenere il


pareggio di bilancio pubblico, finanziando gli incrementi di spesa pubblica G con
uguali incrementi delle entrate fiscali T.

E’ possibile tuttavia che un governo possa essere spinto ad effettuare delle spese
in disavanzo (detto anche deficit). Dall’equazione (3) noi sappiamo che il deficit
pubblico si viene a creare quando la spesa pubblica eccede le entrate fiscali. Ci
sono varie ragioni per cui questo eccesso di spesa può venirsi a creare. In primo
123

luogo, è possibile che le autorità politiche siano indotte ad effettuare maggiori


spese per tentare di stimolare l’attività produttiva e quindi l’occupazione. Inoltre,
più in generale, i governi possono essere sottoposti a vari tipi di pressioni
politiche. Alcuni gruppi sociali chiederanno infatti di accrescere la spesa pubblica
(magari per migliorare i servizi sanitari, scolastici, i trasporti pubblici, ecc.), altri
reclameranno una riduzione della tassazione. Di conseguenza è possibile che di
fronte a simili spinte contrastanti le autorità politiche finiscano per generare
deficit pubblici, ossia eccessi sistematici delle spese sulle entrate.

Quando uno Stato si trova in una situazione di deficit, può finanziare le spese
eccedenti in due modi. Il primo modo consiste nel farsi prestare denaro dai
privati, ossia nell’indebitarsi con i privati vendendo loro titoli del debito pubblico
(esempio tipico sono i BOT); in tal caso si avrà una emissione di nuovi titoli, e
quindi un aumento del debito pubblico, che qui definiremo con il termine B. Il
secondo modo di finanziamento verte sulla creazione di nuova moneta, ossia sulla
stampa di banconote da parte della banca centrale; in tal caso si avrà un aumento
dell’offerta di moneta, che qui definiremo con M. Dunque, in linea di principio,
dato un certo livello del deficit pubblico G - T, si potrà finanziarlo con una pari
variazione del debito pubblico, o della quantità di moneta, oppure di una
combinazione dei due:

G  T  B  M

Fino alla seconda metà degli anni ’70, era prassi abbastanza consolidata favorire
l’espansione della spesa pubblica al di là delle entrate fiscali attraverso l’aumento
del debito e la creazione di moneta. Questo orientamento ha indubbiamente dato
luogo a un’espansione dell’apparato burocratico dello Stato. D’altro canto esso ha
pure consentito ai governi di finanziare politiche di espansione della spesa
pubblica per accrescere la domanda e quindi la produzione e l’occupazione.
Inoltre, la medesima impostazione ha favorito lo sviluppo del cosiddetto “stato
sociale”, vale a dire dell’istruzione e della sanità pubblica garantita a tutti i
cittadini, e dei sistemi di previdenza e di assistenza sociale per i meno abbienti.
Tuttavia a partire dagli anni ’80 si è imposto un diverso orientamento, talvolta
definito “liberista”, teso ad impedire le politiche espansive e a contrastare la
crescita del bilancio statale attraverso l’introduzione di rigidi vincoli all’aumento
del debito pubblico e della massa monetaria.

Il Trattato di Maastricht del 1991, che ha dato avvio al progetto della moneta
unica europea, è stato fortemente ispirato da questa impostazione liberista. Infatti,
tra le altre cose, ai paesi membri dell’Unione monetaria europea il Trattato
impone i seguenti divieti: 1) il divieto per la Banca centrale europea di finanziare
i deficit pubblici tramite creazione di moneta, un divieto che può essere
facilmente espresso in termini algebrici nel seguente modo:
124

M  0

e 2) il divieto per gli stati membri dell’Unione monetaria di finanziare i deficit


pubblici tramite emissione di titoli oltre il vincolo del 3% del Pil (che corrisponde
al livello di produzione Y). Questo secondo divieto può essere espresso
algebricamente nel modo che segue. Partiamo dalla definizione del deficit
pubblico. In tal caso esso coincide con la sola emissione di nuovi titoli del debito
pubblico, visto che il Trattato esclude il finanziamento tramite creazione di
moneta:

G  T  B

dividiamo tutto per il Pil, ossia per il livello di produzione Y:

G  T B

Y Y

Infine, introduciamo il vincolo del 3% imposto dal Trattato di Maastricht:

G  T B
  0,03 (ossia  3%)
Y Y

ESEMPIO N.6: verifica del rispetto o meno del vincolo del 3% del Trattato di
Maastricht. Se prendiamo i dati del terzo esempio precedente - nel quale si
cercava di rimediare a una crisi di fiducia tramite la spesa pubblica – si può
verificare se quella situazione rispetti o meno il vincolo del Trattato. Sapendo che
G = 150, che T = 100 e che il livello di equilibrio della produzione è Y = 600,
otteniamo:

G  T 150  100
  0,083  8,3%
Y 600

Dunque ci troviamo di fronte a un livello del deficit pubblico che in base al


Trattato dovremmo considerare “eccessivo”, poiché esso andrebbe ben al di là del
limite del 3% previsto dagli accordi europei. Anziché accrescere la spesa pubblica
il paese dovrà dunque ridurla per rientrare nei limiti del Trattato, nonostante la già
bassa domanda causata dalla crisi. L’esempio chiarisce che il vincolo del Trattato
può mettere in seria difficoltà un paese attraversato da una crisi, poiché impedisce
di rimediare ad essa tramite l’espansione della spesa pubblica.
125

Gli economisti di orientamento liberista tendono a difendere i divieti al


finanziamento dei deficit pubblici imposti dal Trattato di Maastricht. Molti di essi
infatti auspicano che i divieti del Trattato comprimano il bilancio pubblico e
quindi riducano la presenza dello Stato nell’economia. Altri economisti, talvolta
ispirati dalle opere eterodosse di Marx e di Keynes, hanno invece criticato i divieti
imposti dal Trattato di Maastricht. Essi ritengono che tali vincoli impediscano di
effettuare politiche espansive e quindi costringano i paesi membri dell’Unione
monetaria europea in una situazione di bassa domanda e quindi di bassa
produzione e occupazione. Gli stessi economisti ritengono inoltre che tali divieti,
restringendo il bilancio statale, provocheranno una drammatica riduzione della
produzione di beni e servizi pubblici destinati ai cittadini europei, e soprattutto ai
lavoratori e alle fasce sociali più deboli. Viene dunque sollecitata una riforma del
Trattato di Maastricht, che elimini o almeno attenui i vincoli vigenti. La grave
crisi economica in corso potrebbe in effetti dare man forte alle loro tesi,
costringendo le istituzioni europee a rivedere almeno le clausole più controverse
del Trattato.

4.5 La politica monetaria e il Trattato di Maastricht

Fino a questo momento abbiamo assunto che, a seguito di una crisi di fiducia e di
una conseguente caduta degli investimenti delle imprese, il governo intervenga
attraverso una politica di espansione della spesa pubblica e/o di riduzione delle
tasse. Tuttavia è anche possibile che in una situazione del genere intervenga la
banca centrale al posto del governo (o al limite in concerto con esso). Ad
esempio, in Europa la Banca centrale europea (BCE) potrebbe esser chiamata a un
intervento per contrastare la crisi, negli Stati Uniti questo compito spetta alla
Federal Reserve (FED), ecc.

Quando c’è una crisi la banca centrale interviene con una politica monetaria
espansiva, cioè con un aumento della quantità di moneta M in circolazione. La
banca centrale può decidere di aumentare M al fine di ridurre il tasso d’interesse.
La riduzione dei tassi d’interesse rappresenta infatti una riduzione del costo dei
prestiti e può quindi stimolare le imprese a chiedere finanziamenti alle banche per
riattivare gli investimenti, e con essi la domanda di merci e quindi la produzione e
l’occupazione.

Ma qual è la relazione che lega un aumento della quantità di moneta in


circolazione a una riduzione del tasso d’interesse? La spiegazione grafica - basata
sulla intersezione tra la curva di domanda di moneta e l’offerta di moneta - è
126

molto semplice, e può essere facilmente rintracciata nel capitolo 4 del manuale di
Blanchard. Qui però ci soffermiamo sulla spiegazione economica, cioè concreta,
del fenomeno.

La procedura solitamente adottata dalla banca centrale per modificare la quantità


di moneta circolante è la cosiddetta operazione di mercato aperto, che non è
altro che una operazione di compravendita di titoli e di moneta sul mercato
finanziario. La banca centrale entra cioè in relazione con gli operatori privati che
agiscono su quel mercato. Ad esempio, se l’obiettivo è di ridurre il tasso
d’interesse e stimolare così l’economia, allora la banca centrale dovrà da un lato
offrire moneta e dall’altro domandare titoli. In questo modo infatti la banca
centrale crea un eccesso di domanda di titoli sul mercato che farà aumentare il
prezzo dei titoli stessi (come accade per i prezzi di tutte le merci, anche i prezzi
dei titoli aumentano se c’è un eccesso di domanda, mentre diminuiscono se c’è un
eccesso di offerta).

Assumiamo ora che i titoli sul mercato siano “a reddito fisso”. Un caso tipico di
titoli a reddito fisso sono i titoli di Stato, emessi dai governi per farsi prestare
denaro dai privati (per esempio in Italia abbiamo i BOT). Un titolo a reddito fisso
è definito così poiché alla scadenza di fine anno chi lo ha emesso è tenuto a
pagare sempre la stessa somma al proprietario del titolo, ad esempio 100 euro.
Dunque il tasso d’interesse su questo titolo sarà dato dalla differenza tra
rendimento e costo del titolo, cioè sarà dato dalla cedola di 100 euro che il
proprietario ottiene alla scadenza di fine anno, meno il prezzo al quale il
proprietario ha acquistato il titolo, il tutto diviso per il medesimo prezzo:

100  PT
i
PT

Questa formula ovviamente può essere riscritta così:

100
i 1
PT

Per esempio, se un operatore privato compra al prezzo di 95 euro un titolo che a


fine anno darà una cedola fissa di 100 euro, è chiaro che il tasso di interesse del
titolo sarà pari a i = 100/95 – 1 = 0,052 = 5,2%.

La formula chiarisce la relazione inversa tra prezzo del titolo e tasso d’interesse:
una operazione di mercato aperto basata su una maggiore offerta di moneta e su
una maggiore domanda di titoli da parte della banca centrale, farà aumentare il
prezzo di mercato PT del titolo e quindi (visto che il denominatore della frazione
127

aumenta) farà diminuire il tasso d’interesse i. Il che del resto è ovvio: l’operazione
espansiva della banca centrale fa aumentare il prezzo di mercato del titolo, ma al
tempo stesso il rendimento assoluto che il titolo garantisce è rimasto fisso a 100
euro. Pertanto, dopo l’operazione della banca centrale accade che chi compra il
titolo sul mercato lo paga di più, ma alla fine ottiene sempre la stessa somma di
cento euro. Pertanto è chiaro che il tasso d’interesse – cioè il rendimento
percentuale del titolo rispetto al prezzo - si riduce.

In generale possiamo quindi scrivere che le operazioni di mercato aperto della


banca centrale possono essere:

Operazioni La banca centrale offre Conseguenza: eccesso di PT  i


espansive moneta e domanda titoli domanda di titoli
Operazioni La banca centrale Conseguenza: eccesso di PT  i
restrittive domanda moneta e offre offerta di titoli
titoli

Abbiamo dunque chiarito il rapporto intercorrente tra quantità di moneta,


prezzo dei titoli e tasso d’interesse. Più in particolare, abbiamo mostrato in che
modo la banca centrale può aumentare la moneta in circolazione, aumentare il
prezzo dei titoli, ridurre il tasso d’interesse e cercare così di stimolare gli
investimenti per far uscire l’economia da una situazione di crisi.

Tuttavia, così come accadeva per le manovre sulla spesa pubblica e sulla
tassazione, anche la politica monetaria risulta oggigiorno fortemente vincolata. Il
Trattato di Maastricht, infatti, non solo vieta alla Banca centrale europea di
finanziare i deficit pubblici con moneta, ma più in generale le impone di
perseguire politiche fortemente restrittive, al fine di contenere il più possibile
l’inflazione. Il risultato è che la Bce difficilmente potrà decidere di espandere la
moneta in circolazione al fine di ridurre i tassi d’interesse per dare sostegno alla
domanda e alla produzione. Anche per questo motivo il Trattato di Maastricht è
oggetto di numerose critiche.

4.6 Politica monetaria e speculazione

Ma se anche i vincoli del Trattato venissero eliminati o attenuati, la politica


monetaria espansiva potrebbe incontrare altri tipi di ostacoli in grado di renderla
comunque inefficace.
128

Un primo ostacolo risiede nel comportamento degli speculatori, vale a dire di


quegli operatori privati che effettuano compravendite sul mercato finanziario al
fine di lucrare guadagni dalle variazioni dei prezzi dei titoli. Gli speculatori
cercano infatti di comprare quando ritengono che i prezzi dei titoli siano bassi e
siano quindi destinati ad aumentare, e cercano invece di vendere quando ritengono
che i prezzi siano alti e siano pertanto destinati a cadere.

Gli speculatori cercano dunque di prevedere l’andamento futuro dei prezzi dei
titoli, in modo da poter lucrare su di essi. A seconda che prevedano rialzi o cadute
dei prezzi, essi si dividono in rialzisti (detti anche “tori”) e ribassisti (detti “orsi”).
Qui di seguito sono riportati due esempi di strategie speculative, rispettivamente
dei rialzisti e dei ribassisti:

Caso A: I rialzisti scommettono Caso B: I ribassisti scommettono


su un aumento futuro di PT su una riduzione futura di PT

1) Mi faccio prestare 100 al tasso del 10% 1) Mi faccio prestare 50 titoli al tasso del 10%
(quindi dovrò restituire 110) (quindi dovrò restituire i titoli più il 10% del
2) Compro 50 titoli al prezzo corrente PT=2 loro
3) Attendo che il prezzo dei titoli aumenti valore corrente)
4) Rivendo i 50 titoli al nuovo prezzo PT=3 2) Vendo i 50 titoli al prezzo corrente PT=3
5) Dalla vendita ricavo 150 ed ottengo quindi 150
6) Restituisco i 110 dovuti al prestatore 3) Attendo che il prezzo dei titoli diminuisca
7) Ed ottengo dunque 150 – 110 = 40 4) Ricompro i 50 titoli al nuovo prezzo PT=2
di guadagno speculativo netto. spendendo quindi 100 per l’acquisto
5) Restituisco i titoli al proprietario e pago
anche un
interesse di 15 (cioè il 10% dei 150 che
valevano all’inizio)
6) Alla fine mi restano 150 – 100 - 15 = 35
di guadagno speculativo netto

Chiaramente questi esempi si riferiscono a situazioni in cui gli speculatori vedono


confermate le loro attese. Ben diversa sarebbe la situazione se l’andamento dei
prezzi non confermasse le previsioni di tali operatori.

ESEMPIO N.7: speculazioni errate. Si calcoli il risultato netto del rialzista nel
caso in cui il nuovo prezzo di mercato del titolo sia PT = 1 anziché PT = 3. Si
calcoli poi il risultato netto del ribassista nel caso in cui il prezzo di mercato del
titolo rimanga al livello iniziale PT = 3 anziché diminuire a PT = 2. Si
129

verificherà che in queste diverse circostanze gli speculatori conseguono delle


perdite in conto capitale.

Descritto a grandi linee il comportamento degli speculatori, si tratta ora di capire


in quale circostanza questi possono rendere inefficace una politica monetaria
espansiva. La circostanza in questione è quella in cui sul mercato prevalgono
nettamente i ribassisti. Questi soggetti sono convinti che i titoli siano destinati a
deprezzarsi, e quindi non vedono l’ora di liberarsi degli stessi non appena
troveranno un acquirente. Pertanto, nel momento in cui la banca centrale
interviene sul mercato offrendo moneta e domandando titoli, essa si ritroverà con
una gran massa di operatori pronti a venderle tutti i titoli di cui dispongono.
Questo significa che l’offerta di titoli da parte dei ribassisti sarà tale che non si
verrà a creare nessun eccesso di domanda. La conseguenza è che il prezzo dei
titoli non aumenta e il tasso d’interesse non diminuisce. La politica della banca
centrale risulta quindi inefficace a causa dell’interferenza degli speculatori.

In letteratura questo caso va sotto il nome di trappola della liquidità. Il nome


indica quelle situazioni in cui molti operatori finanziari vanno a caccia di moneta
liquida e cercano invece di liberarsi delle scorte di titoli, poiché ritengono che
questi siano destinati a perdere valore. Essendo convinti di un prossimo ribasso
dei prezzi dei titoli, gli operatori cercano di venderli e di ottenere in cambio
moneta, detta anche liquidità.

4.7 Politica monetaria, libera circolazione dei capitali e controlli

Esiste infine un ulteriore ostacolo alla politica monetaria espansiva, che si


presenta nel caso in cui vi sia libera circolazione dei capitali da un paese
all’altro. Gli speculatori e gli altri operatori sui mercati finanziari, infatti, oltre a
fare scommesse sui prezzi futuri sono anche alla continua ricerca sul mercato
mondiale di titoli che assicurino il tasso d’interesse più elevato.

Nel dopoguerra la ricerca da parte degli operatori privati di titoli ad elevato


rendimento era comunque limitata a causa dell’esistenza di norme che ponevano
rigidi vincoli e controlli alla circolazione dei capitali da un paese all’altro.
Tuttavia, con il passare degli anni questi vincoli sono stati via via rimossi. La
conseguenza è che oggi sussiste quasi in tutto il mondo una situazione di libera
circolazione dei capitali. E’ chiaro allora che in condizioni di piena libertà di
movimento, i capitalisti finanziari cercano di spostare le loro ricchezze in quei
paesi che garantiscono più vantaggi, e in particolare che assicurano tassi
130

d’interesse più elevati rispetto agli altri. Tali movimenti di capitale da un paese
all’altro si arrestano solo nel momento in cui i titoli dei vari paesi offrono il
medesimo rendimento, al netto delle variazioni attese del tasso di cambio. La
condizione che ferma gli spostamenti, e che mette dunque in equilibrio i mercati,
è detta condizione di arbitraggio, oppure condizione di parità scoperta dei tassi
d’interesse. Dal testo di Blanchard noi sappiamo che tale condizione è data da:

Et
1  it  (1  it* )
Ete1

dove la parte sinistra indica il rendimento i che si ottiene acquistando titoli


nazionali, mentre la parte destra indica il rendimento i* derivante dall’acquisto di
titoli esteri. Questo secondo rendimento, si badi, è calcolato includendo le
eventuali variazioni del tasso di cambio nominale E.3

Ora, è chiaro che finché la parte sinistra risulta inferiore alla parte destra
dell’equazione, allora conviene spostare i capitali all’estero per acquistare titoli
stranieri, che rendono di più. Viceversa, nel caso in cui la parte sinistra sia
maggiore, conviene tenere i capitali in patria. Si comprende pertanto che se la
banca centrale vuole evitare fughe di capitali all’estero, dovrà sempre fissare
un tasso d’interesse interno in grado di rispettare la condizione di parità
scoperta, dati ovviamente il tasso prevalente all’estero e il tasso di cambio atteso.

ESEMPIO N.8: il tasso minimo per evitare fughe di capitale. Assumendo che il
tasso di cambio corrente sia dato da Et = 1,08$/1, che il tasso di cambio atteso
sia Et+1 = 1$/1, e che il tasso d’interesse sui titoli USA sia i* = 0,1 (ossia il
10%), calcoliamo il tasso d’interesse i che la Banca centrale europea dovrà fissare
per evitare fughe di capitale all’estero:

3
Attenzione: qui si fa l’ipotesi che il tasso di cambio nominale E sia definito in termini del prezzo
della moneta nazionale in termini di moneta estera, dove per “nazionale” intendiamo l’Italia e più
in generale l’Europa, mentre per “estero” intendiamo prevalentemente gli Stati Uniti. Cioè, dal
punto di vista di noi italiani (ed europei), definiamo il cambio come prezzo di un euro in termini di
dollari. Ad esempio, potremmo avere che E = 1,20$/1Є. Le versioni più recenti del manuale di
Blanchard usano esattamente questa convenzione. Se invece si usa la definizione alternativa del
cambio, come prezzo della moneta estera in termini di moneta nazionale, oppure se per
“nazionale” si intendono gli USA (come accadeva nelle prime versioni del manuale di Blanchard
tradotte in italiano), allora la formula della condizione di parità va invertita.
131

1,08
1  it  (1  0,1)
1

1  it  1,188

da cui si ricava che il tasso d’interesse europeo necessario ad evitare fughe di


capitale negli Stati Uniti dovrà essere almeno pari a it = 0,188, cioè al 18,8%. Si
noti che si tratta di un interesse più elevato di quello americano, che è pari al 10%.
La ragione per cui in questo esempio la Banca centrale europea, se vuole evitare
le fughe, deve fissare un tasso superiore a quello USA, è dovuta al fatto che ci si
attende un deprezzamento dell’euro, ossia una sua perdita di valore rispetto al
dollaro. Questa previsione incentiva gli operatori finanziari a spostare ricchezze
negli Stati Uniti. Per indurli a non spostare le ricchezze occorre quindi che il tasso
d’interesse europeo sia più alto di quello americano così da compensare la perdita
che ci si attende dal deprezzamento del cambio. Chiaramente l’opposto
avverrebbe se ci si attendesse un apprezzamento dell’euro: in tal caso la BCE
potrebbe rispettare la condizione di parità anche con un tasso d’interesse inferiore
a quello USA.

Naturalmente, al di là dell’esempio specifico, è chiaro che l’esigenza di rispettare


la condizione di parità scoperta costituisce un grave ostacolo per la politica
monetaria delle banche centrali. Queste infatti non potranno ridurre i tassi
d’interesse a piacimento, visto che c’è sempre il rischio di provocare fughe di
capitale. Una conseguenza è che in molte circostanze le banche centrali di paesi
afflitti da crisi economiche interne non solo non hanno potuto ridurre i tassi
d’interesse per tentare di stimolare l’economia, ma hanno addirittura dovuto
aumentarli per evitare fughe di capitale (col rischio di aggravare ulteriormente la
caduta della domanda interna e quindi la crisi).

I vincoli alla politica monetaria espansiva causati dal pericolo di fughe di capitale
hanno assunto negli anni ‘90 un rilievo drammatico, a seguito del ripetersi di crisi
valutarie ed economiche in Europa, in Asia e in America Latina. Sono state
pertanto avanzate delle proposte per tentare di dare maggiore libertà di manovra
alla politica monetaria dei singoli paesi. In particolare, è stata suggerita la
reintroduzione di limiti, più o meno stringenti, alla circolazione dei capitali nel
mondo. Una ben nota proposta in tal senso è la cosiddetta Tobin tax (dal nome
del suo ideatore, il premio Nobel per l’economia James Tobin), un’imposta su
tutti gli scambi tra valute finalizzata a rendere costosi, e quindi a disincentivare,
gli spostamenti di capitale da un paese all’altro.

ESEMPIO N.9: la Tobin tax agevola la riduzione del tasso d’interesse interno.
Supponiamo che l’Europa stia attraversando una fase di crisi e quindi di
132

disoccupazione. La Banca centrale europea può esser dunque chiamata ad


intervenire con una espansione monetaria, al fine di ridurre i tassi d’interesse,
stimolare gli investimenti e quindi la domanda, la produzione e l’occupazione.
Ipotizziamo che la situazione sia quella già descritta nell’esempio precedente.
Come abbiamo visto, il tasso d’interesse necessario ad evitare le fughe di capitale
è del 18,8%. Tuttavia per stimolare la domanda bisognerebbe ridurre
ulteriormente il tasso d’interesse interno. Può l’introduzione di una Tobin tax
rendere possibile tale riduzione? Per rispondere dobbiamo innanzitutto modificare
la condizione di parità scoperta dei tassi d’interesse al fine di contemplare
l’imposta.

A questo proposito, noi sappiamo che l’acquisto di un titolo americano prevede i


seguenti passaggi: in primo luogo la conversione da euro a dollari, quindi
l’acquisto del titolo in questione ed infine, alla data di scadenza del medesimo, la
riconversione da dollari ad euro del guadagno ottenuto. La Tobin tax è un’imposta
sulle transazioni valutarie. Essa quindi si applicherà in due momenti: all’atto della
conversione iniziale da euro a dollari, e all’atto della conversione finale da dollari
ad euro. Posto che t sia l’aliquota d’imposta applicata ad ogni conversione, la
condizione di parità scoperta diventa:

Et
1  it  (1  it* ) (1  t )  t
Ete1

Adesso inseriamo nella nuova condizione di parità i valori assunti dalle variabili.
Immaginiamo in primo luogo che l’aliquota della Tobin tax venga fissata dalle
autorità al livello t = 0,01 = 1%. Inseriamo inoltre i valori dell’esercizio
precedente relativi al tasso d’interesse americano (i* = 0,1) e ai cambi corrente e
atteso (rispettivamente Et = 1,08 ed Et+1 = 1). L’unica incognita rimasta è il tasso
d’interesse interno it, che rappresenta il tasso minimo necessario ad evitare le
fughe di capitale all’estero. Sostituendo le cifre alle variabili otteniamo:

1,08
1  it  (1  0,1) (1  0,01)  0,01
1

1  it  1,166

E’ facile a questo punto verificare che, grazie all’introduzione della Tobin tax, il
tasso interno necessario ad evitare le fughe di capitale si è ridotto, essendo
diventato it = 0,166 = 16,6%. Dunque un’imposta dell’1% sul valore di tutti gli
scambi di euro contro dollari e viceversa, renderà costosi gli spostamenti di
133

capitale da un luogo all’altro, e quindi dovrebbe permettere alla Banca centrale


europea di ridurre il tasso d’interesse interno dal livello iniziale del 18,8% al
nuovo livello del 16,6% senza il rischio di una fuga di capitali verso l’estero.

Ovviamente, il ragionamento può essere anche ribaltato. Supponiamo cioè che la


Banca centrale europea intenda calcolare quella aliquota di imposta t che le
consenta di mantenere il tasso interno esattamente al medesimo livello del tasso
estero del 10% fissato dalla banca centrale americana. In tal caso si tratta di
esprimere la condizione di parità isolando il termine t. Dopo semplici passaggi la
condizione diventa:

(1  it )
t  1
E
(1  it* ) et
Et 1

Prendendo i dati del nostro esempio, e ponendo it = it* = 10%, si scopre che per
mantenere i due tassi d’interesse al medesimo livello nonostante la svalutazione
attesa dell’euro, l’aliquota della Tobin tax dovrebbe essere pari a t = 0,075 =
7,5%.

L’istituzione di una Tobin tax a livello internazionale è stata caldeggiata da molti,


sia in ambito accademico che politico. Essa tuttavia è stata pure da più parti
contestata. Gli economisti di ispirazione liberista l’hanno sempre considerata
un’interferenza rispetto al libero operare delle forze del mercato. Gli studiosi di
orientamento critico, ispirati dalle opere di pensatori eterodossi come Marx e
Keynes, ritengono invece che la Tobin tax rappresenti uno strumento troppo
debole per contrastare i continui movimenti di capitale sui mercati mondiali.
Secondo questa visione, per liberare la politica monetaria dalla minaccia delle
fughe non basta semplicemente tassare gli spostamenti di capitali. Bisognerebbe
piuttosto sottoporli a ben più rigidi vincoli, e al limite vietarli del tutto quando si
tratta di spostamenti a breve termine, come del resto già avveniva all’epoca dei
ferrei controlli vigenti nel dopoguerra.

Tra le ragioni per cui gli economisti critici ritengono che gli spostamenti di
capitali andrebbero fortemente vincolati o addirittura vietati, vi è il fatto che tali
spostamenti non solo creano problemi alla politica monetaria, ma di fatto
determinano effetti ben più gravi sull’intera economia mondiale. Infatti, se i
capitali possono scorazzare liberamente da un paese all’altro, è chiaro che essi si
muoveranno verso le nazioni che offrono loro i massimi vantaggi economici. Ed è
chiaro che i vantaggi economici potranno essere di varia natura. In condizioni di
libera circolazione dei capitali, infatti, i vari paesi non si limitano semplicemente a
tenere i tassi d’interesse alti in modo da evitare fughe di capitale, ma si faranno
134

concorrenza tra loro su molti altri piani, e soprattutto sulla disciplina fiscale,
finanziaria e del lavoro, in modo da attirare la massima quantità di capitale. I
governi dei vari paesi ad esempio ridurranno le spese sociali in modo da ridurre la
tassazione, adotteranno aliquote fiscali particolarmente basse sui possessori di
capitale, garantiranno il segreto bancario a tutela dei grandi capitali, introdurranno
norme di sicurezza sul lavoro più blande in modo da ridurre i costi per le imprese,
imporranno forti vincoli al diritto di sciopero e alle organizzazioni sindacali in
modo da contenere le rivendicazioni salariali, eccetera, e tutto questo per indurre i
proprietari del capitale a investire dalle loro parti. Tutti questi provvedimenti
ovviamente faranno aumentare i tassi d’interesse e più in generale i margini di
profitto a livello globale, mentre probabilmente comporteranno una riduzione dei
salari e delle spese sociali. Insomma, secondo gli economisti critici la libertà di
movimento dei capitali induce i vari paesi ad adottare politiche orientate a
favore dei proprietari di capitale, e spesso a detrimento degli interessi dei
lavoratori. Anche per questo alcuni hanno sostenuto che la globalizzazione dei
mercati ha determinato una specie di “dittatura del capitale finanziario”, poiché gli
interessi del capitale incidono più fortemente che in passato sulle decisioni
politiche. In quest’ottica, dunque, i controlli sui movimenti di capitale vengono
incoraggiati anche allo scopo di ridimensionare l’influenza sulle decisioni di
governo esercitata in questi anni dalle lobbies finanziarie.

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