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Corte di Cassazione - Sezione II civile – Ordinanza 29 novembre 2018 – 14 maggio

2019, n. 12798 .

Pres. Orilia.

Servitù di parcheggio – fondo dominante – principio di ambulatorietà

Posta la configurabilità di una servitù avente ad oggetto il parcheggio di un’auto su fondo altrui, gli
Ermellini ricordano che in virtù del c.d. principio di ambulatorietà delle servitù l’alienazione del
fondo dominante comporta il trasferimento delle servitù attive ad esso inerenti, anche laddove
nulla venga stabilito in tal senso nell’atto di acquisto.

« in tema di servitù, lo schema previsto dall’art. 1027 c.c., non preclude in assoluto la costituzione
di servitù avente ad oggetto il parcheggio di un’autovettura su fondo altrui, a condizione che, in
base all’esame del titolo e ad una verifica in concreto della situazione di fatto, tale facoltà risulti
essere stata attribuita come vantaggio in favore di altro fondo per la sua migliore utilizzazione».

« In virtù del c.d. principio di ambulatorietà delle servitù, l’alienazione del fondo dominante
comporta anche il trasferimento delle servitù attive ad esso inerenti, anche se nulla venga al
riguardo stabilito nell’atto di acquisto, così come l’acquirente del fondo servente – una volta che sia
stato trascritto il titolo originario di costituzione della servitù – riceve l’immobile con il peso di cui è
gravato, essendo necessaria la menzione della servitù soltanto in caso di mancata trascrizione del
titolo ».

« fermo restando che l’interpretazione del contratto resta tipico accertamento devoluto al giudice
del merito, tuttavia, nel caso in cui non sia dato rinvenire il criterio ermeneutico che ha indirizzato
l’opera del predetto giudice, in presenza d’emergenze semantiche obiettivamente riscontrabili,
poste in rilievo dal ricorso, sussiste la violazione delle disposizioni di cui all’art. 1362 c.c. e segg.,
senza che occorra ulteriormente onerare il ricorrente di ricercare egli, con specificità, la ratio
decisoria avversata».

Precedenti conformi: Cassazione civile, sez. II, n. 16698, 6/7/2017;


Cassazione civile, sez. II, n. 17301, 31/7/2006; Cassazione civile, sez. II, n. 20817/2011;
Cassazione Civile Sez. VI, n. 13543, 30/5/2018.

Precedenti difformi: Cassazione Civile Sez. II, n. 5769, 7/3/2013;

COMMENTO:

Con la sentenza in esame la Suprema Corte, torna ad occuparsi, a distanza di pochissimo tempo,
di servitù di parcheggio.
Dopo un lungo e travagliato percorso giurisprudenziale, volto a chiarire la configurabilità (o meno)
della servitù di parcheggio quale diritto reale, con la sentenza 12798/2019, la Consulta ribadisce il
risultato raggiunto già con la recentissima sentenza 7561 del 18 marzo 2019, e esprime un nuovo
importantissimo principio di diritto, sebbene quasi necessario precipitato, secondo cui la servitù di
parcheggio segue le sorti del fondo dominante.
Il risultato e il dibattito alla base, apparentemente banali, e forse scontati, sono in realtà molto
complessi, e prendono le mosse dall’astratta qualificazione di una servitù di parcheggio quale
diritto reale di godimento.

Secondo il disposto dell’art. 1027 c.c., la servitù consiste nel peso imposto sopra un fondo per
l'utilità di un altro fondo, appartenente ad un diverso proprietario. Elemento centrale è il rapporto
di servizio tra i due fondi, in forza del quale il fondo dominante si avvantaggia delle limitazioni che
subisce il fondo servente. Con particolare riferimento alle servitù volontarie – e non invece quelle
legali o coattive, che sono previste e disciplinate soltanto dalla legge – si ritiene che esse possano
essere tanto tipiche quanto atipiche, essendo in tal caso sufficiente che siano finalizzate all’utilità
del fondo dominante.

L'art. 1027 cc non tipizza infatti – in modo tassativo – le utilità suscettibili di concretizzare il
contenuto della servitù volontaria, ma si limita a stabilire le condizioni che valgono a distinguere
queste ultime dai rapporti di natura strettamente personale, non derivando alcun ostacolo dal
principio di tassatività dei diritti reali, il quale si connette alle connotazioni strutturali della
situazione di vantaggio esercitabile erga omnes ed è indipendente dal contenuto di quest'ultima.
Sostanzialmente, il contenuto della servitù può variare a seconda di quella che è, in concreto,
l’utilità che un fondo può conferire all’altro: in altri termini, la servitù è un diritto tipico con
contenuto atipico.
In definitiva, dal momento che non esiste una definizione legale del contenuto del peso imposto ad
un fondo per l’utilità di un altro fondo, un qualsiasi peso può dare luogo ad una servitù volontaria,
purché si segua lo schema legale della servitù prediale.
Oltre ai caratteri propri dei diritti reali, le servitù ne presentano di propri, quali la specificità del
godimento (occorrendo che siano specificati facoltà e limiti del godimento), la duplicità
dell’inerenza secondo cui l’incorporazione reale deve sussistere tanto dal lato passivo, con
riferimento al fondo servente, quanto dal lato attivo, in relazione al fondo dominante. Alcuni
parlano di duplicità dell’oggetto, perché costituisce un vincolo inerente a due beni immobili; e
infine il carattere dell’accessorietà in base al quale il regime di circolazione della servitù è
connesso, da entrambi i lati, alla proprietà dei due fondi, sicché la servitù è un diritto autonomo
ma inscindibile dalla proprietà cui accede.
Elemento fondamentale del diritto in parola è dunque l’utilitas, la quale può consistere anche nella
maggiore comodità o amenità del fondo dominante (art. 1028 c.c.), purché sia riferita ad un fondo
e non alla persona del proprietario. La legge richiede, infatti, una relazione prediale, poiché qualora
il vantaggio vada a favore di una persona si parla di servitù irregolari o personali, che hanno
efficacia obbligatoria (e, pertanto, inter partes) e carattere personale.
In tale contesto si inserisce l’annosa questione relativa alle c.d. servitù di parcheggio, consistente
nel diritto di fare stazionare uno o più veicoli sul fondo altrui, al fine di dotare di detta utilità
l’immobile di proprietà di altri, che siano ivi presenti per periodi continuativi.

La sua ammissibilità è stata contestata proprio facendo leva sul fatto che l’utilitas si risolverebbe in
un vantaggio personale dei proprietari e non del fondo. Ed in effetti il problema non era di
semplice risoluzione perché, se in astratto è facile parlare di “utilità riferita al fondo” o di “servizio
da predio a predio”, in concreto è difficile concepire l’utilitas di un bene che sia indipendente dalle
persone che ne godono.
D’altronde la giurisprudenza tradizionale si era da tempo assestata su un’impostazione negativa,
affermando che “la pretesa utilizzazione per parcheggio non potrebbe rientrare nello schema di
alcun diritto di servitù né di altro diritto reale”.

Per pacifica giurisprudenza, nella determinazione del concetto di utilitas non si devono considerare
elementi soggettivi ed estrinseci relativi all’attività personale svolta dal proprietario del fondo
dominante, bensì il fondamento obiettivo e reale dell’utilità stessa, dal lato attivo e passivo. In altri
termini, essa deve costituire un vantaggio diretto del fondo dominante, come mezzo per la sua
migliore utilizzazione.

Pertanto secondo l'indirizzo assolutamente prevalente nella giurisprudenza di legittimità, il diritto di


parcheggiare le auto su uno spazio di proprietà altrui sottenderebbe sempre un'utilitas di carattere
personale, inidonea a sostanziare il contenuto di una servitù, mancando l'essenziale requisito della
realità, intesa come inerenza dell'utilitas al fondo dominante.

Si è anche asserito che il contratto costituivo di una servitù di parcheggio è nullo per impossibilità
dell'oggetto, stante il divieto di dar vita a servitù meramente personali: “il nostro sistema giuridico
non prevede la facoltà, per i privati, di costituire servitù meramente personali (c.d. servitù
irregolari), intese come limitazioni del diritto di proprietà gravanti su di un fondo a vantaggio non
del fondo finitimo, bensì del singolo proprietario di quest’ultimo, sì che siffatta convenzione
negoziale, del tutto inidonea alla costituzione del diritto reale limitato di servitù, va inquadrata
nell’ambito del diritto d’uso, ovvero nello schema del contratto di locazione o dei contratti affini,
quali l’affitto o il comodato”.

In questi casi il diritto trasferito ne attesta la natura personale ed il carattere obbligatorio.

Di recente, tuttavia, con la sentenza n. 16698/2017 la Cassazione ha operato un revirement,


ribaltando le descritte conclusioni tradizionali cui era in precedenza giunta.

La premessa da cui prende le mosse è la considerazione per cui le precedenti decisioni avevano ad
oggetto un caso concreto, mentre lo schema legale della servitù è molto ampio e generico, sicché i
privati, nella loro autonomia, possono “stabilire il contenuto del vantaggio per il fondo dominante
cui corrisponda il peso a carico del fondo servente”. Ed in effetti, come anticipato, l’art. 1028 c.c.
fornisce una definizione generale di utilitas, ammettendo che essa possa consistere anche “nella
maggiore comodità o amenità del fondo dominante”. Da ciò deriva, secondo la Corte, che la tipicità
delle servitù volontarie riguarda la struttura e non il contenuto del diritto, sicché la possibilità di
costituire servitù di parcheggio va valutata sul piano della conformazione dello stesso.

Come anticipato, uno dei caratteri del diritto di servitù consiste nell’inerenza dell’utilità al fondo
dominante e del peso al fondo servente, in ciò distinguendosi dall’obbligazione personale, in cui il
diritto si risolve in un vantaggio personale. Detta realitas implica l’esistenza di un legame
strumentale ed oggettivo, diretto ed immediato, tra peso sul fondo servente e godimento del
fondo dominante, nella sua destinazione, ragione per cui tale beneficio è ottenibile da chiunque sia
il proprietario del fondo dominante e prescinde da ogni attività personale del soggetto. In tal
senso, si osserva, la realità sussiste anche con riferimento al parcheggio dell’auto sul fondo altrui,
poiché esso può risolversi in un vantaggio a favore di questo inteso come sua migliore
utilizzazione. Invero, è innegabile che la possibilità per il proprietario di un fondo a destinazione
abitativa di parcheggiare l’auto nelle vicinanze ne incrementi l’utilizzo.
Tuttavia, è sempre necessario considerare anche il fondo servente, il cui utilizzo non può mai
essere completamente impedito: la servitù non può portare ad eliminare ogni facoltà del
proprietario del fondo servente, il quale deve poter sempre utilizzare il proprio fondo, ancorché con
le limitazioni derivanti dalla sussistenza del diritto stesso.

Tanto premesso, ad avviso della Corte la questione non consiste nell’ammissibilità o meno in
astratto di una servitù di parcheggio, a ciò non ostando in alcun modo la disciplina codicistica, ma
si risolve nel valutare se sussista, in concreto, un diritto che comporti, contestualmente, un
vantaggio a favore di un fondo e una limitazione a carico dell’altro fondo, in maniera
tendenzialmente perpetua. È pertanto opportuno chiedersi se, nella servitù di parcheggio relativa
al caso di specie siano presenti i requisiti del diritto reale di servitù, ossia l’altruità della cosa,
l’assolutezza, l’immediatezza, l’inerenza al fondo servente ed al fondo dominante, la specificità
dell’utilità riservata e la localizzazione (ossia l’individuazione del luogo di esercizio della servitù).

Con la pronuncia del 2017, dunque, la Cassazione fa un importante passo avanti, in quanto
afferma per la prima volta expressis verbis che la disciplina codicistica di cui all’art. 1027 c.c. non
preclude in assoluto la costituzione di una servitù di parcheggio. Ciò non significa, però,
affermarne la configurabilità in ogni caso, essendo il giudice di merito tenuto a verificare in
concreto il titolo e la situazione oggetto del giudizio, per valutare se sussistano i requisiti propri del
diritto reale in discorso.

Con il tempo la Cassazione, dunque, ha escluso un'assoluta preclusione alla configurabilità della
servitù volontaria di parcheggio, osservando che la relativa utilità può esser legittimamente
prevista dal titolo a diretto vantaggio del fondo dominante (per la sua migliore utilizzazione),
piuttosto che delle persone che concretamente ne beneficino.

Difatti, secondo l’ormai consolidato orientamento della Corte, per l'esistenza di una servitù non
rileva la natura del vantaggio previsto dal titolo ma il fatto che esso sia concepito come qualitas
fundi in virtù del rapporto, istituito convenzionalmente, di strumentalità e di servizio tra gli
immobili, in modo che l'incremento di utilizzazione che ne consegue deve poter essere fruito da
chiunque sia proprietario del fondo dominante, non essendo imprescindibilmente legato ad una
attività personale del singolo beneficiario.

Entro tali limiti, qualunque utilità che non sia di carattere puramente soggettivo e che si concretizzi
in un vantaggio per il fondo dominante, in relazione alle caratteristiche e alla destinazione del
diritto, può assumere carattere di realità.

E' dunque una mera questio facti stabilire, in base all'esame del titolo, se le parti abbiano inteso
costituire una servitù o un diritto meramente obbligatorio, non sussistendo alcun ostacolo di
carattere concettuale ad ammettere che il diritto parcheggio sia strutturato secondo lo schema
dell'art. 1027 c.c.

Ammettere una servitù di parcheggio significa dunque ammettere che il parcheggio (rectius: la
servitù di parcheggio) si trasmetta ai successivi acquirenti del fondo dominante automaticamente
(per l'inerenza della servitù al fondo dominate o servente). Infatti, ove le parti abbiano inteso
costituire una vera e propria servitù, il diritto è trasmissibile unitamente alla cessione dei fondi
secondo il principio di ambulatorietà.
La sentenza in esame, la 12798/2019, aggiunge un ulteriore principio di diritto rispetto a quello già
affermato in recenti precedenti in merito alla configurabilità della servitù di parcheggio: la
trasferibilità del peso unitamente all’alienazione del fondo.

Il Collegio ribadisce che per l'esistenza di una servitù non rileva la natura del vantaggio previsto
dal titolo, ma il fatto che esso sia concepito come qualitas fundi in virtù del rapporto, istituito
convenzionalmente, di strumentalità e di servizio tra gli immobili, in modo che l'incremento di
utilizzazione che ne consegue deve poter essere fruito da chiunque sia proprietario del fondo
dominante, non essendo imprescindibilmente legato ad una attività personale del singolo
beneficiario.

La Corte d’Appello nel caso in esame aveva invece negato la possibilità di ravvisare, nella facoltà di
parcheggiare le auto, un'utilitas di carattere reale, e dunque una servitù di parcheggio.

E proprio per tale motivo, aveva affermato che il diritto riconosciuto dall’originario proprietario del
fondo dominante in favore degli odierni ricorrenti in Cassazione, non fosse stato trasmesso al
nuovo proprietario proprio per mancanza di realità, svincolato dal trasferimento del fondo.

La Corte,diversamente, ritiene la sussistenza di un’ultilitas di carattere reale sul diritto costituito tra
le parti originarie, in quanto finalizzato all’interesse del fondo e non dei singoli proprietari e
pertanto la sussistenza di un diritto di godimento reale quale la servitù di parcheggio trasmissibile
agli aventi causa, secondo il principio di ambulatorietà.

La regola dell'ambulatorietà della servitù secondo cui il diritto di servitù è in grado di "seguire" (a
tal proposito, la dottrina - tra gli altri, Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli - parla di "diritto di seguito") il
bene presso ogni successivo acquirente appare diretta conseguenza della caratteristica
dell’inerenza, propria dei diritti di servitù. Allo stesso modo, diretta conseguenza del peculiare
atteggiarsi del carattere dell'inerenza sono l'inalienabilità e l'incedibilità della servitù, nel senso che
essa non potrà mai circolare separatamente rispetto alla proprietà del fondo dominante.

Pertanto, accertata la sussistenza del diritto di servitù di parcheggio, appare conseguenza


necessaria la trasferibilità dello stesso unitamente al trasferimento del bene.

SENTENZA

RITENUTO IN FATTO

La Corte d’appello di Firenze, con la sentenza di cui in epigrafe, per quel che ancora in questa sede
rileva ricordare, accogliendo l’impugnazione proposta da F.F., rigettò la domanda con la quale
G.A., G.G. e Pi.Pr. avevano chiesto accertarsi l’esistenza di una servitù di parcheggio, nei confronti
del F., sul piazzale antistante l’albergo nominato “(OMISSIS)”, che il Giudice di primo grado aveva,
invece, accolto.

Della vicenda che precedette l’innesto della controversia giudiziaria è necessario solo chiarire che i
G./ Pe. nel 2003 avevano alienato, con separati contratti, a P.P., prima, e alla F. e ai di lei figli,
successivamente, due porzioni di una villa, restando in proprietà della parte venditrice una
porzione minoritaria (circa 1/4). Ancora successivamente, quest’ultima quota minoritaria era stata
anch’essa alienata. Il F., proprietario del fondo sul quale la F. e figli pretendevano di esercitare il
diritto di posteggio, in virtù della servitù attiva loro trasmessa dai venditori G./ Pi., negava la
sussistenza di un tale diritto. Da qui l’azione giudiziaria intrapresa da F. e figli nei confronti dei
danti causa G./ Pi., con chiamata in giudizio del F..

Avverso la statuizione d’appello ricorrono P.P., F.M., anche nella qualità di rappresentante legale
del figlio minore S.F., S.M., S.G. esponendo cinque motivi di doglianza, ulteriormente illustrati da
memoria.

Degli intimati resistono con controricorso Pi.Pr. e G.G..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunziano violazione degli artt. 1027 e segg., 1058 e 1062 c.c.,
nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363 e segg. c.c., in relazione all’art. 360
c.p.c., n. 3.

Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori:

– correttamente il Tribunale aveva affermato la sussistenza della servitù, la quale era stata istituita
negozialmente nel 1962, con atto notarile regolarmente trascritto, in favore di tal G., dante causa
degli alienanti G./ Pi. e a carico del fondo attualmente di proprietà del F. e che una tale servitù non
si era estinta per non uso ventennale;

– la Corte d’appello aveva errato nell’escludere che non potesse configurarsi, per mancanza di
utilitas, una servitù di parcheggio, sul presupposto che “per determinare l’utilitas è necessario
avere riguardo al suo fondamento oggettivo e reale sia dal lato attivo sia da quello passivo: essa
deve costituire un vantaggio diretto del fondo dominante, uno strumento per migliorare
l’utilizzazione di quest’ultimo”; difatti, nel 1962 B.L., proprietario dell’albergo e del terreno
circostante, nel vendere una parte del terreno al G., proprio tenuto conto della caratteristica dei
luoghi, tale da non consentire il posteggio su strada pubblica, aveva costituito la servitù di cui si
discute a favore del fondo acquistato dal G. e gravante su parte del fondo (piazzale dell’albergo),
rimasto in proprietà del B., ottenendo, in contropartita, il divieto di edificare immobili da adibire ad
attività concorrenziali; nel 1967 la restante parte del fondo venne ceduta a B.G., senza mentovare
l’esistenza della servitù;

– la servitù era stata riconosciuta dallo stesso proprietario dell’intero fondo nel momento in cui
aveva disposto l’alienazione in favore del G.;

– al servizio della servitù si rilevavano opere visibili e permanenti e il piazzale dell’albergo aveva
avuto da sempre destinazione a parcheggio da parte dei proprietari del fondo dominante;
– non potevano nutrirsi dubbi sulla realità dell’onere sulla base delle dichiarazioni negoziali di cui al
rogito del 1962: “il venditore per sè, successori o aventi causa consente al sig. Enzo G., suoi
successori ed aventi causa il posteggio di autoveicoli di sua proprietà sul piazzale dell’albergo
(OMISSIS) e l’uso della strada privata che parte dalla strada nazionale fino all’ingresso del terreno
di veicoli e pedoni” e quindi, non era dato comprendere perchè la sentenza avesse affermato che
con la disposizione negoziale “non si parla propriamente di servitù”, che, invece, doveva
riconoscersi in favore dei ricorrenti, stante che il F., che aveva acquistato l’albergo, nel 1969, da
B.G., che, a sua volta, lo aveva ricevuto da B.L., non poteva sottrarsi al vincolo reale gravante
sull’immobile;

– non poteva avere alcun rilievo la circostanza, come aveva chiarito la sentenza di primo grado,
che non fosse stata annotata “la servitù passiva a carico del fondo di proprietà del signor F. (il
quale) dovrà eventualmente dolersene con i propri danti causa”.

2. Con il secondo motivo il ricorso prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363
c.c. e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omesso esame di un fatto controverso e
decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori:

– la sentenza di secondo grado, a differenza di quella di primo, aveva interpretato il contratto del
1962 senza tener conto dai canoni dell’ermeneutica negoziale, per soddisfare i quali sarebbe
occorso, senza fermarsi alla lettera delle parole, attingere alla comune volontà delle parti, anche
attraverso la valutazione complessiva delle clausole e facendo sì che fosse assicurato l’equo
contemperamento degli interessi dei contraenti; in particolare non potevano nutrirsi dubbi a
riguardo della natura reale della previsione, proprio in quanto impegnava i successori o aventi
causa del venditore e disponeva, per converso, in favore dei successori e aventi causa della parte
acquirente;

– l’esercizio della servitù da parte dei titolari del fondo dominante era rimasto confermato dalla
prova testimoniale e, per contro, non aveva trovato riscontro, e perciò era stata rigettata dal
Tribunale, la eccepita prescrizione per non uso.

3. Con il terzo motivo viene ipotizzata violazione e falsa applicazione degli artt. 2644,2659 e 2665
c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori:

– la Corte locale aveva affermato che, in ogni caso, ad ammettere che la servitù fosse stata
“contemplata negli atti traslativi attraverso i quali il fondo dominante è pervenuto prima al G. (nel
1962) e poi alla F. (nel 2003) il peso non risulta sufficientemente delineato nella nota di
trascrizione, e tanto meno negli atti relativi al trasferimento del fondo servente pervenuto al F.” ed
ancora, dopo avere precisato che la servitù per essere opponibile al proprietario del fondo servente
deve essere “puntualmente trascritta”, la sentenza impugnata, aveva soggiunto che “nel caso in
esame, la nota di trascrizione del 1962 non menziona la costituzione di una servitù, ma soltanto la
volontà di “consentire” il parcheggio, inoltre non individua precisamente il fondo servente, nè
quello dominante”;

– le riportate affermazioni erano destituite di fondamento, in quanto: a) i fondi risultavano


puntualmente individuati nell’atto e riportati nella nota di trascrizione (il ricorso allega sub. doc. 6
quest’ultima), facendo riferimento alla allocazione, all’estensione, ai confini e ai dati catastali; b) il
modo d’esercizio della servitù risultava chiaramente individuato, consistendo nel posteggio di
veicoli di proprietà del titolare del fondo dominante sul piazzale dell’albergo e nel diritto di
passaggio a piedi e con veicoli dalla stradina privata, attraverso la quale si giunge al predetto
piazzale, chiara era, altresì, l’estensione del diritto di parcheggio (limitato alle autovetture di
proprietà del titolare del fondo dominante) e il collegamento al fondo dominante;

– in ogni caso, a mente dell’art. 2665 c.c., le eventuali inesattezze della nota di trascrizione, salvo
che siano foriere di incertezza sulle persone, sul bene o sul rapporto giuridico, non costituiscono
causa di nullità.

4. Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione degli artt. 1058 c.c. e
segg., artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori:

– senza fondamento giuridico era da reputarsi l’affermazione della sentenza gravata, secondo la
quale dalla omessa specificazione, con relativa trascrizione, del vincolo sugli atti traslativi del fondo
servente sarebbe derivata la mancata costituzione della servitù attiva e, pertanto, non aveva rilievo
alcuno la circostanza che l’originario unico proprietario, B.L., il quale, nel 1962, aveva costituito la
servitù in favore della parte di fondo venduta al G., non avesse, poi, mentovato la esistenza della
predetta servitù, allorquando, cinque anni dopo, aveva trasferito la parte restante del fondo, che
includeva il piazzale, al figlio B.G.; difatti, il Tribunale aveva esattamente puntualizzato che “ciò
che non risulta annotata è la servitù passiva a carico del fondo di proprietà del signor F. che dovrà
eventualmente dolersene con i propri danti causa”;

5. Con il quinto motivo, subordinato al disconoscimento della vantata servitù, i ricorrenti deducono
violazione e falsa applicazione degli artt. 346 e 343 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori:

– la Corte locale riformata la pronunzia di primo grado, la quale aveva condannato il F. “a cessare
di impedire l’uso del piazzale per il posteggio”, aveva sostenuto che nei rapporti interni G./ Pi. e F.,
quest’ultimo non aveva proposto appello, e, pertanto, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., non poteva più
coltivare la domanda con la quale, in primo grado, aveva chiesto che, in caso di mancato
riconoscimento della servitù, gli fosse riconosciuta una riduzione del prezzo d’acquisto;
– l’asserto non era condivisibile, in quanto una tale domanda non era stata affatto abbandonata,
avendo formato oggetto di puntuale specificazione in seno alla comparsa di costituzione e risposta
e appello incidentale e specifica censura incidentale.

6. I primi due motivi e il quarto, tra loro collegati, esaminati congiuntamente, devono dirsi fondati.

6.1. Questa Corte condivide il più recente orientamento di legittimità, al quale intende dare
continuità, secondo il quale in tema di servitù, lo schema previsto dall’art. 1027 c.c., non preclude
in assoluto la costituzione di servitù avente ad oggetto il parcheggio di un’autovettura su fondo
altrui, a condizione che, in base all’esame del titolo e ad una verifica in concreto della situazione di
fatto, tale facoltà risulti essere stata attribuita come vantaggio in favore di altro fondo per la sua
migliore utilizzazione (Sez. 2, n. 16698, 6/7/2017, Rv. 644848). Invero, attraverso l’apprezzamento
fattuale, evidentemente devoluto al giudice di merito, risultano superabili le osservazioni
evidenziate da un precedente indirizzo giurisprudenziale, facente leva su un ipotizzato difetto di
realitas (cfr., Sez. 2, n. 5769, 7/3/2013, Rv. 625685).

La sentenza impugnata ha negato la ipotizzabilità di una tale servitù senza aver dimostrato una
concreta incompatibilità nel senso sopra chiarito, ne consegue la erroneità dell’astratta
affermazione.

6.2. Non ha pregio l’asserto fatto proprio dalla Corte locale, secondo il quale, al contrario di quel
che aveva affermato il Tribunale, in ogni caso la servitù non avrebbe potuto operare poichè non
annotata a carico del fondo servente di proprietà del F.. Difatti, quest’ultimo ebbe ad acquistare
nel 1969 da B.G. l’albergo con il piazzale e il terreno di pertinenza, quest’ultimo, a sua volta, aveva
ricevuto il compendio, vari mesi prima, da B.L. (unico primigenio proprietario dell’intera area, della
quale aveva venduto una parte al G., nel 1962). In seno all’atto di vendita al G. del 1962 era stata
invece inserita la clausola di cui qui si discute.

Non è dubbio, quindi, che dalla mancata enunciazione nei titolo d’acquisto di F.F. dell’onere
imposto al fondo dal suo dante causa non possono giammai derivare effetti pregiudizievoli in
danno dei proprietari del fondo avvantaggiato.

In virtù del c.d. principio di ambulatorietà delle servitù, l’alienazione del fondo dominante comporta
anche il trasferimento delle servitù attive ad esso inerenti, anche se nulla venga al riguardo
stabilito nell’atto di acquisto, così come l’acquirente del fondo servente – una volta che sia stato
trascritto il titolo originario di costituzione della servitù – riceve l’immobile con il peso di cui è
gravato, essendo necessaria la menzione della servitù soltanto in caso di mancata trascrizione del
titolo (ex multis, Sez. 2, n. 17301, 31/7/2006, Rv. 592077; conf., Sez. 2, n. 20817/2011).

6.3. Sussiste la lamentata violazione dei criteri ermeneutici legali.

Non basta, come più volte chiarito in questa sede, la enunciazione della pretesa violazione di legge
in relazione al risultato interpretativo favorevole, disatteso dal giudice del merito, occorrendo
individuare, con puntualità, il canone ermeneutico violato correlato al materiale probatorio
acquisito. Si è, infatti, osservato che “L’opera dell’interprete, mirando a determinare una realtà
storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in
fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per
violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 c.c. e ss., oltre che per
vizi di motivazione nell’applicazione di essi: pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi
i due cennati profili (il secondo, ovviamente, sotto il regime del vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., n.
5), il ricorrente per cassazione deve, non solo fare esplicito riferimento alle regole legali
d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in
esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice
del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla
base di argomentazioni illogiche od insufficienti; di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del
motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea – anche
ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui
quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica
contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della
sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della
controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (ex pluribus, da ultimo, Cass.
9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579. 16.3.04 n. 5359, 19.1.04n. 753)” (Sez. 2, n.
18587, 29/10/2012; si veda anche, per la ricchezza di richiami, Sez. 6-3, n. 2988, 7/2/2013).

Tuttavia, qui si è in presenza di una violazione dei canoni ermeneutici per una convergente
pluralità di ragioni:

a) il tenore letterale della clausola sopra riportata, corredata dalla specificazione della realità
dell’onere, dal lato passivo e da quello attivo, viene svilita a “concessione di un diritto personale di
godimento” senza l’apporto di alcun argomento valutativo di sorta, quindi, senza un contributo
motivazionale che tale possa dirsi;

b) il contenuto letterale non trova smentita nel testo della sentenza in relazione all’intenzione delle
parti, esplicitata nel tenore complessivo delle clausole e nella loro interazione (è utile ricordare, a
quanto sopra si è accennato a riguardo del complessivo accordo), nè risultano evidenziate
emergenze che impongano una interpretazione riduttiva per assicurare il principio di buona fede
negoziale.

Devesi affermare, pertanto, che in siffatta ipotesi la sentenza d’appello è venuta meno al dovere
d’interpretazione secondo i canoni legali, fornendo un’esegesi svincolata da regole conoscibili,
criptica e, in definitiva, immotivata.

Il principio di diritto che ne consegue può sintetizzarsi nei termini seguenti: fermo restando che
l’interpretazione del contratto resta tipico accertamento devoluto al giudice del merito, tuttavia, nel
caso in cui non sia dato rinvenire il criterio ermeneutico che ha indirizzato l’opera del predetto
giudice, in presenza d’emergenze semantiche obiettivamente riscontrabili, poste in rilievo dal
ricorso, sussiste la violazione delle disposizioni di cui all’art. 1362 c.c. e segg., senza che occorra
ulteriormente onerare il ricorrente di ricercare egli, con specificità, la ratio decisoria avversata.
7. Anche il terzo motivo è fondato.

Consta dalla produzione, posta a specifico corredo del ricorso, che la nota individuava
puntualmente il fondo servente, con l’indicazione dei confini, il fondo dominante e il collegamento
funzionale con l’istituito onere, qualificato servitù dai ricorrenti, e la specificazione del peso e delle
modalità d’esercizio.

Inoltre, siccome chiarito più volte da questa Corte, peraltro, in conformità al chiaro contenuto
dell’art. 2665 c.c., non ogni omissione e inesattezza della nota di trascrizione determina l’invalidità
della trascrizione stessa, ma solo quelle che generano incertezze sulle persone, sul bene, e sulla
natura dell’atto giuridico (cfr., da ultimo, Sez. 6, n. 13543, 30/5/2018, Rv. 648808); incertezza, la
quale, ovviamente, deve risultare non rimediabile attraverso la complessiva lettura della predetta
nota.

8. Il quinto motivo resta assorbito dall’accoglimento dei primi quattro.

9. In ragione di quanto esposto la sentenza deve essere cassata con rinvio, rimettendo al giudice
del rinvio il regolamento delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

accoglie i primi quattro motivi del ricorso e dichiara assorbito il quinto, cassa e rinvia, anche per il
regolamento delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Firenze, altra sezione.

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