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Niranjan

IL LOGOS INTERIORE
NOTE SULLA MEDITAZIONE

L.U.T.
Centro di Studi Teosofici H.P. Blavatsky
Via Isonzo 33 – 10141 Torino
centrohpb@prometheos.com — www.prometheos.com/LUT
p

Stampato in proprio - dicembre 2012


Copia riservata agli studenti
Questa figura rappresenta la relazione inter-
corrente tra il Divino e l’anima umana. È solo uno
schema assai rozzo; ma è utile.

I. Il Divino è tutto il cerchio segnato “A” (com-


preso “B”);
II. l’Anima è tutta l’ellisse segnata “C” (compre-
so “B”);
III. allora “B” (l’intersezione di A e di C) è quan-
to A e C hanno in comune.

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Chiamate come volete la “parte” di “A” com-
presa in “B”: Sé, Atma, Cristo, Krishna, Luce Inte-
riore, Guida Interiore (antaryāmī), Il Pastore* è Colui
che veglia sulle nostre anime (1 Pietro II, 25), Salva-
tore.
I nomi non hanno importanza. Lo stesso vale
per il Divino, che spesso possiamo chiamarlo Dio;
ma per sapere quello che si debba intendere con
questa parola occorre studiare la Bhagavadgītā.
Ma “B” deve esistere. Infatti non esisterebbe
in due casi:

(1) se l’Anima fosse tutta intera dentro il cerchio


che rappresenta il Divino: allora l’Anima si
confonderebbe col Divino, e “C” non esiste-
rebbe; quindi non esisterebbe neppure “B”;
(2) se l’Anima fosse interamente al di fuori del
cerchio che rappresenta il Divino, e quindi
non vi sarebbe nulla in comune tra “A” e “C”;
ma allora non esisterebbe neppure l’Anima,
poiché totalmente al di fuori del Divino sa-
rebbe totalmente al di fuori del reale.

Perciò se “A” e “C” esistono, deve per forza


esistere anche “B”. Possiamo dunque avere la cer-
tezza (non la fede, ma la certezza!) che il Divino è
presente in ogni Anima (anche animale!), che nel
suo intimo l’Anima coincide col Divino, e che per-
ciò l’Anima ha accesso diretto ed immediato al Divi-
no, senza bisogno alcuno di intermediari, guru, preti,
* Vedi più oltre la citazione dalla Īśa Upanishad.

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chiese, organizzazioni, forme o mezzi esteriori, rituali,
cerimonie, etc. Dio è vicino; se qualcuno Lo vuole
lontano, vuol dire che si vuole frapporre tra Lui
e noi. E mostrano allora tutta la loro futilità le di-
scussioni sulla natura di Dio: personale od im-
personale? Dio può essere quello che vuole, ma
quello che a noi interessa è che possa intrattenere
qualche forma di rapporto con noi: altrimenti, al-
meno per noi, non esisterebbe e non servirebbe a
nulla. È allora ovvio che, per intrattenere relazio-
ni con un essere personale come l’uomo, Dio deb-
ba assumere tratti personali: tra un essere per-
sonale ed un’entità impersonale non è possibile
alcun rapporto che abbia qualche significato od
importanza per il pensiero, per i sentimenti, per
la vita morale e spirituale, etc; perché un tale rap-
porto esista, deve essere possibile divenirne co-
scienti, per cui l’esistenza di Dio diviene un fat-
to di esperienza personale, ed a questo mirano le
note che seguono.
Osservate ora che vi sono due livelli nell’Anima:
il livello profondo, interiore (“B”) e quello superficia-
le, esteriore (“C”). Come “B” è immerso nel Divi-
no, così “C” è immerso nel mondo esterno (l’area
esterna ad “A” ed a “C”) e ne condivide tutto, ne
subisce tutto, interferisce con tutto: cambiamen-
ti, cause ed effetti, premesse e conclusioni, bene
e male, gioie e sofferenze, etc. A tutto quello che
accade all’esterno corrisponde tutto il rumore in-
terno dei nostri pensieri, sentimenti, speranze, ti-
mori, attrazioni, repulsioni, desideri, avversioni,

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rimorsi, amore, odio, etc. Quello che accade all’ester-
no ed il “rumore” interno sono due facce della medesi-
ma medaglia: il samsāra.
Questo rumore ci impedisce di udire quan-
to accade in “B” e ne proviene. “B” è il Logos in-
teriore, il Verbo, il Salvatore, la Parola che ci par-
la all’interno, la quale risuona di continuo, ma
che noi non udiamo per via di quel rumore. Non
ha dunque bisogno di essere destata o provoca-
ta: non è una risposta ad una domanda; non vie-
ne pronunziata quando noi lo chiediamo; non è
il risultato di qualcosa che possiamo fare noi o
che qualcuno possa fare per noi. Quando apria-
mo una finestra per fare entrare la luce non ac-
cendiamo noi la luce che è fuori e che è accesa da
sempre: noi non facciamo altro che rimuovere l’o-
stacolo che le impedisce di entrare.
È importante afferrare questo concetto, poi-
ché troppo spesso si confondono le conseguenze
di una certa attività con i risultati di questa: con-
seguenze è quanto consegue a qualcosa ma non
ne è provocato, mentre risultati sono gli effetti di
qualcosa che li fa esistere e che non si verifiche-
rebbero senza quel qualcosa; ora un risultato od
effetto presuppone una causa, e quindi fa parte
del samsāra, del circolo vizioso del divenire. Nel
caso che ci sta occupando si può dire che le con-
seguenze si manifestano spontaneamente quando
si smette di fare qualcosa, mentre i risultati (kar-
maphala = frutto dell’azione) si ottengono facendo
(karma) qualcosa.

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Karma e karmaphala sono gli ingredienti del
samsāra; di cui è parte anche il desiderio di otte-
nere risultati; per questo la Bhagavadgītā insiste
tanto sulla rinunzia ad ottenere a vantaggio no-
stro i frutti dell’agire.
L’udire la Voce interna o, medesima cosa, l’es-
sere illuminati dalla Luce interiore, è la conse-
guenza del silenzio della mente: non è un risul-
tato. Il Logos interiore, il Verbo, la Parola che ci
parla all’interno, non fanno parte del samsāra; non
sono l’effetto di causa alcuna. E lo stesso Verbo è
Silenzio, e la Sua Voce non è Voce che orecchio
umano possa udire.
Per udire la Voce interna noi dobbiamo sem-
plicemente fare silenzio dentro di noi, placare il
rumore incessante dei nostri pensieri che si in-
seguono l’un l’altro, dei sentimenti, timori, desi-
deri, rimpianti, rimorsi, etc. Questo è il compito
che abbiamo davanti a noi, ed è qui che si fanno
avanti premurosi i preti, i guru, gli intermediari,
i maestri, etc. Intendiamoci: essi possono indub-
biamente dirci anche cose utili e sagge, e nel mi-
gliore dei casi possono anche dirci quanto dob-
biamo fare di giusto e di salutare per accedere al
Divino; ma non possono fare nulla di quello che pos-
siamo (e dobbiamo) fare soltanto noi. In altre parole,
se questi guru etc sono seri, non si propongono
quali intermediari, non ci offrono mezzi fuor-
vianti, non ci lusingano in nessun modo. Se inve-
ce lo fanno, ci portano fuori strada, sottilmente e
subdolamente convincendoci di essere indispen-

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sabili, così gonfiando il loro ego e dominando
sulle nostre coscienze, oltre, spesso, a far soldi fa-
cili (e sordidi). Ora quanto sto per dirvi vi pone al
riparo da tutti questi pericoli. Nulla di nuovo co-
munque: tutto si trova nella Bhagavadgītā ed in
altri scritti come, ad esempio, e sia pure in modo
talvolta velato, nell’Evangelo di Giovanni.
Come può un intermediario, guru, prete, etc,
dirottare su di sé i nostri eventuali tentativi di ac-
cedere al Divino? Semplicemente alimentando il
nostro rumore interno, così da perpetuare la bar-
riera.
Ricordate quanto sta scritto: Guai a voi, inter-
preti della legge, poiché avete rimossa la chiave della
Conoscenza (Gnôsis nel testo originale): non siete en-
trati voi, ed avete impedito di entrare a quelli che stava-
no per entrare! (Luca 11:52).
Il rumore interno può essere alimentato (ed
aumentato) applicando metodi, tecniche, etc, che
portino a dei risultati: ad esempio una qualche
pratica di cosiddetto yoga che rilassi il corpo e la
mente; ad esempio un rituale che si suppone pos-
sa interessare qualche divinità la quale forse però
ha di meglio da fare che ascoltare le lagne di qual-
che devoto; e così via. È certo possibile che questi
risultati rendano più facile il vero lavoro da com-
piere; ma in sé non compiono questo lavoro. L’e-
ventuale guru deve essere perciò molto chiaro: se
non dice che tutti questi mezzi hanno tutt’al più
una funzione propedeutica, è un impostore. Al-
lora bisogna sapere quello che si vuole. Se quel-

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lo che si vuole è la comunione (il senso che ha yoga
nella Bhagavadgītā) col Divino, la via da percor-
rere è un’altra. Ancora una volta: nulla di inven-
tato e che non si trovi altrove; ma anche in questo
campo il rumore è molto forte: si parla dappertut-
to di meditazione, ma di rado se ne parla nel modo
corretto.
Per comprendere quale sia la via da seguire
è necessario che sia ben chiara la natura di “B”, il
Sé (d’ora in poi lo chiameremo così). Il Sé è simul-
taneamente Dio e Anima (“Dio e uomo” come si
dice del Cristo). Secondo l’Evangelo di Giovanni
(I, 1-2) esso è* theòs (Dio) e, simultaneamente, pros
ton theòn: letteralmente “rivolto verso Dio”†. Que-
sto essere simultaneamente theòs e pros ton theòn
costituisce precisamente la duplice unità del Sé,
il quale è theòs in quanto Dio e pros ton theòn in
quanto Anima.
In quanto Dio è la Sorgente della Luce e del-
la Parola; in quanto Anima è quello che aspira alla
Luce e la riceve, quello che invoca la Parola e l’a-
scolta.
Un paragone appropriato è quello della luce:
il Divino (theòs) è Luce diretta; in “B” questa Luce
viene riflessa dallo specchio dell’anima (“C”) e

* En archê, “nel Principio”, cioè alla radice dell’anima.


† Certe traduzioni qui fanno difetto: invece di “rivolto
verso” hanno “con”, forse per eliminare ogni intrepreta-
zione che faccia del “Figlio” un’entità subordinata al Padre:
la solita disonestà intellettuale, poiché pros con l’accusati-
vo significa “verso”, non “con”.

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torna verso (pros) il Divino: è Luce riflessa, ma è
sempre la medesima Luce (vedete L’Evangelo del-
la Verità alle pagine 40-41, 45, 138-141), pur rifles-
sa più o meno efficacemente, secondo lo stato del-
lo specchio.
Aspirare (“volgere lo spirito a”) ed invocare (in-
vocare: “chiamare dentro”!) ci dicono che la vera
natura della meditazione non è quella di una co-
gitazione, bensì piuttosto quella di una adorazio-
ne, o di una preghiera, o di un’invocazione. In
realtà non vi sono parole italiane che possano de-
scriverla accuratamente, occorre perciò una paro-
la che dica che la vera meditazione è:

(1) un’attività la quale in quanto amore si svolge in


due sensi, dall’umano al Divino, e viceversa;
(2) un’attività religiosa, intendendo per “religio-
ne” la comunione col Divino (yoga);
(3) un’attività dello Spirito, così come il pensiero
è un’attività della mente.

Una tale parola esiste, ma è sanscrita: bhakti,


la cui migliore traduzione è “compartecipazione”.
La reciprocità del rapporto tra l’Umano ed il Di-
vino è mostrata da Bhagavadgîtâ IV, 11: In qualsi-
asi modo gli uomini si rivolgano a Me, proprio in quel
modo Io li abbraccio nel Mio amore: è un Mio sentiero
quello che gli uomini percorrono da ogni parte*.

* Io li abbraccio nel mio amore, traduce l’originale bhajâmi,


dalla medesima radice bhaj– da cui anche bhak– ti.

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→ D’ora in poi i termini bhakti, nel senso parti­
colare appena indicato, e meditazione, come
questa viene intesa in questo scritto, saranno
considerati sinonimi.

La divina bhakti si estende a tutti gli esseri vi-


venti (non solo gli umani dunque), poiché Dio è
uno e quindi il medesimo in ogni “B”:
Me, per unità e per molteplicità in molti modi as-
sumente aspetti infiniti (Bhagavadgītā IX, 15);
Indistribuito (avibhakta) eppur presente negli es-
seri come se vi fossi distribuito (vibhakta)*.
(Bhagavadgītā XIII, 16);
... Colui che ama tutti gli esseri viventi
(Bhagavadgītā V, 29).

Di conseguenza ogni Anima è partecipe di


tutte le altre, e l’amore è la relazione ovvia e natu-
rale che dovrebbe intercorrere con esse. Per que-
sto è necessario che a questo punto si tratti un
argomento che una molto diffusa superficialità
od ignoranza trascura volentieri. Ci si preoccu-
pa tanto e troppo spesso di accessori irrilevanti
e talvolta ridicoli come certe posizioni del corpo,
l’uso di incenso o di musica, certi mantra fasulli, e
così via; ma tutto ciò non è che la stagnola colora-
ta e lucente che incarta il vuoto. Non si tiene con-
to invece di un requisito essenziale: la meditazio-
ne, in quanto bhakti, non può aver luogo in un’Anima
* Si noti l’uso di due parole aventi la medesima radice di
bhakti.

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in cui faccia difetto la compassione e che non rifugga
da ogni crudeltà, diretta od indiretta, conscia od incon-
scia, qualsiasi ne sia l’oggetto*.
Ma la meditazione non può nascere neppu-
re dal rumore: la meditazione è possibile soltanto
nel silenzio interiore, e soltanto questo silenzio dà
accesso al Sé, al Logos. In altre parole, la medita-
zione è uno stato naturale dell’anima non appena vi si
faccia silenzio, e nulla di quanto accade in “C” al di
fuori di “B” è meditazione: forse la può preparare

* Si rifletta su questi fatti: più di sette miliardi di anima-


li vengono sacrificati ogni anno come cibo umano; moltis-
simi vengono uccisi con la tecnica kasher, cioè appesi per
le zampe posteriori e poi dissanguati. Per ottenere 1 kg
di proteine animali occorrono in media 10 kg di proteine
vegetali, le quali potrebbero nutrire quindi un numero di
persone 10 volte superiore a quelle che si nutrono di car-
ne. Milioni di animali subiscono ogni giorno atroci torture
a scopi di ricerca, spesso per prodotti di cosmetica e quin-
di per scopi puramente commerciali e crudelmente frivoli.
In occasione di certe feste religiose milioni e milioni di pic-
coli animali vengono strappati alle loro madri e massacra-
ti privandoli anche di quella brevissima stagione di giuo-
chi che la natura avrebbe loro donato. Spesso gli animali
vengono torturati a scopo di puro divertimento, come nel-
le corride, o nei circhi. Mi fermo qui, benché vi sia molto di
più da dire, invitando chi dice di credere nella unità del-
la vita, nel karma, e nella reincarnazione, a riflettere seria-
mente sulla compatibilità di certe belle idee col mostruo-
so ammasso di sofferenza creato dagli esseri umani (e che
non può mancare di ritorcersi su di loro), molti dei quali si
dicono perfino creati ad immagine di Dio, per cui c’è da chie-
dersi di quale dio si tratti, a meno che questa non sia che
una bestemmia.

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o facilitare, ma non può sostituirla; può anche si-
mularla, ma allora è un falso. Nel silenzio si rive-
la quella che poco sopra ho detto essere la dupli-
ce unità del Sé, la quale significa “amore”, poiché
l’essere simultaneamente uno e due è l’essenza dell’a-
more: uno da solo non avrebbe nulla da amare;
due che fossero veramente due, senza cioè nes-
suna comunione, non potrebbero amarsi. Questa
duplice unità descrive anche la natura della vera
meditazione e ne contiene il segreto.
Considerando la duplice unità del Sé ci si im-
batte in vari paradossi che ne descrivono la di-
namica o dialettica interna, benché possano sem-
brare contraddizioni alla mente superficiale. Ad
esempio, l’Anima è simultaneamente Dio ed un
dono di Dio; è l’orante, e quella che riceve la pre-
ghiera e la esaudisce; e così via. Il più importan-
te di questi paradossi è quello che afferma che la
meditazione già si svolge naturalmente e rego-
larmente nelle profondità dell’Anima, e che per-
ciò l’impulso a meditare sorge da essa, ne è la prova,
e costituisce una salutare intrusione nel rumore
della mente superficiale, la quale senza questa in-
trusione non si sognerebbe mai di volgersi alla
meditazione. L’impulso a meditare è dunque sol-
tanto la risposta ad un appello, cui deve seguire
la creazione del silenzio necessario ad un ascolto
sempre più efficace e consapevole.
L’impulso a meditare deve essere accolto e
compreso nel giusto spirito: non deve inorgoglir-
ci come se fosse un’iniziativa o conquista perso-

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nale; siccome è la risposta ad un appello, questa
risposta deve essere un moto di gratitudine rivol-
to (pros ton theòn) alla Sorgente (theòs) dell’appel-
lo. Questo è il giusto inizio della meditazione.
Questo è già meditazione. Vuol dire che il rumore
(per varie ragioni, non ultima la sofferenza) si è
calmato in parte, ed allora è stato udito l’appello:
“Seguimi” (Giovanni I, 43 — vedete ne L’Evange-
lo della Verità a pag. 166). Si è stabilito un canale di
comunicazione, per quanto stretto esso sia o pos-
sa apparire. Si tratta ora di allargarlo per giunge-
re a quella che si chiama Ātmāvalokanabuddhi, cioè
“Buddhi con lo sguardo fisso sull’Atma”, di cui il
pros ton theòn è la traduzione greca.
È evidentemente buddhi (l’Intelligenza spiri-
tuale*) quella che può fissare lo sguardo sull’At-
ma. Il manas deve ragionare, e questo è rumore:
utile, ma rumore. Invece buddhi è silenzio; pen-
sate a quando contemplate qualcosa di bello, o
quando siete consapevoli della natura giusta od
ingiusta di qualcosa: non avete bisogno di ragio-
narci sopra; non fate rumore nella mente. Ecco al-
lora trovata la leva capace di sollevare la mente dal
livello esterno, superficiale (manas) a quello interiore,
profondo (buddhi). Ecco perché falliscono i tenta-
tivi di controllare il manas mediante il manas: è
come fare rumore per acquietare il rumore.
* Buddhi è l’intelligenza capace di apprezzare valori este-
tici e morali (buono–cattivo, giusto–ingiusto, bello–brutto,
vero–falso in termini spirituali, etc), mentre Manas giudica
il vero ed il falso in termini di logica e di calcolo.

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Quello cui si deve pervenire è dunque lo sta-
to di Ātmāvalokanabuddhi*, e questo è possibile nel
silenzio interiore (favorito, certo, da quello este-
riore). Ma quando quello stato sia stato raggiunto,
il livello esterno, superficiale (“C”), e quello inte-
riore, profondo (“B”), possono funzionare simul-
taneamente, in parallelo: possiamo continuare ad
occuparci delle cose esteriori mentre sullo sfondo
procede ininterrotta una corrente di meditazio-
ne pronta a divenire l’attività principale od esclu-
siva quando le condizioni esterne lo permettano.
Si è detto che sono futili tutte le discussio-
ni sulla natura personale od impersonale di Dio,
dato che Dio deve necessariamente presentare
tratti personali per poter intrattenere relazioni
con un essere personale come l’uomo.
È allora opportuno che almeno alcuni di que-
sti tratti personali siano tenuti sempre ben pre-
senti in vista della pratica che sarà spiegata più
avanti:

(1) Dio è il Sé di tutti gli esseri: Bhagavadgītā X, 20†;


(2) Dio è la Luce interiore: Bhagavadgītā XIII, 17;
(3) Dio ama tutti gli esseri: Bhagavadgītā V, 29;
(4) Dio è il Seme di tutti gli esseri (da cui una loro in-
finita possibilità di sviluppo): Bhagavadgītā VII,
10 e X, 39;
* In termini devozionali: avere il pensiero costantemente
rivolto a Dio.
† Citeremo spesso la Bhagavadgītā senza tradurne il te-
sto; perciò conviene leggere subito i versetti citati.

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(5) Tutti gli esseri sussistono perché Dio li fa sussiste-
re: Bhagavadgītā III, 22-24 e X, 39;
(6) Dio è il Salvatore: Bhagavadgītā XII, 7*.

Esiste dunque una pratica molto facile ed effi-


cace (la leva capace di sollevare la mente dal livello su-
perficiale a quello profondo) che permette di allarga-
re quello che ho chiamato canale di comunicazione
tra i due livelli; ma vi sono alcune condizioni in-
dispensabili.

(1) Idealmente, la pratica è una risposta ad un


impulso o bisogno interiore, la risposta ad un in-
vito divino; è un invito divino (insisto sul termine)
proprio perché è un invito a comunicare col no-
stro Sé profondo. A questo proposito, ecco il crite-
rio per riconoscere il Divino ogni qual volta Esso
cerca di dirci qualcosa o di indurci a fare qual-
cosa: ogni impulso verso la verità, ogni moto di
compassione, ogni desiderio di avvicinarci al Di-
vino, sono una prova sicura della Sua presenza in
noi e del Suo operare in noi, poiché possono pro-
venire soltanto da Lui; ogni tale invito od impul-
so va allora ubbidito e seguito affinché il canale
di comunicazione resti aperto.

(2) La pratica deve essere quanto più possibi-


le costante (ma non meccanica), sincera e segui-
ta con umiltà e fiducia; non deve essere tuttavia
* Notate che la mente fissa su di Me significa la Ātmāvalo-
kanabuddhi.

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una fatica imposta a sé stessi: se non è desiderata,
o rilassante, o piacevole, etc, è meglio rimandar-
la a momenti più propizi. Occorre infatti evita-
re ogni sforzo: si comincia rilassati, senza impa-
zienza, e poco importa se all’inizio vi sono lacune
o dimenticanze od impedimenti: poco a poco tut-
to va a posto e la pratica diviene naturale e spon-
tanea.

(3) Non devono sussistere desideri egocentri-


ci; assolutamente non si deve desiderare alcun ri-
sultato per sé stessi: desideri del genere sono ru-
more; la pratica deve essere fine a sé stessa.

(4) Mai, e per nessuna ragione, immaginare


che se troviamo in noi una qualche virtù o quali-
tà positiva, od impulsi a fare del bene, questo pro-
venga da noi ed il merito ne sia nostro: non vi è
che un solo Autore o sorgente di bene, e questo è
Dio; tutto quello che possiamo fare noi è rimuo-
vere gli ostacoli al Suo agire. Come disse Sri Ra-
makrishna:

If a householder is a genuine devotee, he performs


his duties without attachment; he surrenders the fruit
of his work to God — his gain or loss, his pleasure or
pain — and day and night he prays for devotion and
for nothing else. This is called motiveless work, the per-
formance of duty without attachment. …If a house-
holder gives in charity in a spirit of detachment, he
is really doing good to himself and not to others. It is

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God alone that he serves – God, who dwells in all be-
ings; and when he serves God, he is really doing good
to himself and not to others. If a man thus serves God
through all beings, not through men alone but through
animals and other living beings as well; if he doesn’t
seek name and fame, or heaven after death; if he doesn’t
seek any return from those he serves; if he can carry on
his work of service in this spirit, then he performs truly
selfless work, work without attachment. Through such
selfless work he does good to himself. This is called kar-
mayoga. This too is a way to realize God. … Therefore
I say, he who works in such a detached spirit — who
is kind and charitable — benefits only himself. Helping
others, doing good to others – this is the work of God
alone, who has created for men the sun and moon, fa-
ther and mother, fruits, flowers, and corn.
The love that you see in parents is God’s love: He
has given it to them to preserve His creation. The com-
passion that you see in the kind–hearted is God’s com-
passion: He has given it to them to protect the helpless.
He will have His work done somehow or other. Noth-
ing can stop His work.*
* Se un capofamiglia è veramente devoto, esercita le sue
funzioni senza attaccamento, abbandona il frutto del suo
lavoro a Dio — il guadagno o la perdita, il piacere o il do-
lore — e giorno e notte prega per devozione e per niente
altro. Questo si chiama lavoro senza movente, esecuzione
del dovere senza attaccamento. … Solo se un capofamiglia
fa la carità con spirito di distacco, sta facendo veramente
bene a se stesso e non ad altri. È solo Dio che egli serve —
Dio che dimora in tutti gli esseri, e quando serve Dio, sta
facendo veramente bene a se stesso e non ad altri. Se un

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Se le condizioni sopra descritte sono rispetta-
te, dopo un certo tempo ci si rende conto di un fat-
to certo ed esaltante, ancor più che incoraggian-
te: quella pratica è essa stessa la meta da raggiungere*;
non vi è altro da fare; non vi è altro da desidera-
re; al di là di essa non vi è che essa medesima, sia
pure sempre più intensa, profonda e gioiosa, poi-
ché il livello profondo dell’anima diviene sempre
più presente alla coscienza venendo a funzionare
parallelamente a quello superficiale; in altre pa-
role il theòs si rivela sempre più chiaramente al pros

uomo serve così Dio per tutti gli esseri, non solamente per
gli uomini, ma per gli animali e per tutti gli esseri viventi
e se egli non cerca il nome e la fama, o il paradiso dopo la
morte, se egli non cerca alcun ritorno da coloro che serve,
se può continuare il suo lavoro di servizio in questo spiri-
to, allora compie un lavoro veramente altruista, lavoro sen-
za attaccamento. È attraverso tale lavoro disinteressato che
fa del bene a se stesso. Questo è chiamato karmayoga. An-
che questo è un modo per realizzare Dio. … Perciò io dico,
chi lavora con uno spirito indipendente — gentile e carita-
tevole — beneficia solo se stesso. Aiutare gli altri, facendo
del bene agli altri — questa è l’opera solo di Dio, che ha cre-
ato per gli uomini il sole e la luna, il padre e la madre, frut-
ta, fiori, e semi.
L’amore che si vede nei genitori è l’amore di Dio: egli ha
dato a loro di preservare la Sua creazione. La compassio-
ne che si vede nel buon cuore è la compassione di Dio: Egli
ha dato a loro di proteggere gli indifesi. Avrà il Suo lavoro
in un modo o nell’altro. Niente può fermare la Sua opera.
* Questo fatto è chiamato phalarūpatvam (“l’avere la me-
desima natura del risultato”) nei Bhaktisūtra (n° 26) di
Nārada.

19
ton theòn*, e questo progressivo rivelarsi intensifica il
pros ton theòn, cui perciò ancora più chiaramente si
rivela il theòs, e così via. Per questo il desiderio di
risultati è superfluo, oltre che controproducente.
Da leggere: Bhagavadgītā VI, 21-25. Bhagavadgītā II,
47; Bhagavadgītā VIII, 14; Bhagavadgītā XII, 8.

Questa pratica è l’unico modo per ottenere


Conoscenza di prima mano, poiché dà accesso a
Colui che descrive Sé stesso come potete leggere
in Bhagavadgītā XV, 15 (Veda significa “Conoscen-
za”; Vedānta è la Conclusione, il coronamento di
ogni Conoscenza).
Questa pratica è adatta a persone perfetta-
mente normali: è razionale e seria; è l’opposto di
ogni atteggiamento o sentimento da bigotto, né si
oppone al godimento dei piaceri della vita, pur-
ché questi non siano nocivi a noi stessi od agli al-
tri.
Può essere paragonata all’azione di una pian-
ta, la quale si nutre attingendo cibo dal suolo
(“A”) per mezzo delle proprie radici (“B”): è quin-
di la cosa più logica, sana, razionale, naturale, che
uno possa fare.
La pratica può assumere varie forme che han-
no tutte la medesima funzione: distrarre l’anima dal
consueto rumore dirigendo l’attenzione al livello più
* Non si pensi a nulla di sensoriale o paranormale o roba
del genere: ci si attenda piuttosto una diminuzione del ru-
more, una qualità diversa dei pensieri abituali, un più fre-
quente rivolgersi al Divino od a soggetti spirituali, una ca-
pacità accresciuta di comprendere testi sacri, etc.

20
profondo, al Sé (Ātmāvalokanabuddhi). Se ne scel-
gano una o più di una, secondo le proprie pre-
ferenze, le proprie possibilità, etc, adottandone
comunque almeno la prima. Delle altre è bene pre-
ferire quelle che ci sembrano più attraenti, o più
consone alla nostra natura.

I. Bhagavadgītā IX, 27: Qualunque cosa tu faccia,


qualunque cosa di cui tu ti cibi, qualunque sacrificio
tu compia, qualunque dono tu faccia, qualunque disci-
plina spirituale tu segua, fanne un’offerta a Me (cioè
a Dio).
Fare di ogni attività* un’offerta al Divino com-
porta tre cose: (1) la consapevolezza continua che
si tratta di un’offerta; (2) che tutto venga compiu-
to con scrupolo ed onestà, come un servizio reso;
(3) che non se ne attendano vantaggi personali.
Da leggere: Bhagavadgita III, 25; Bhagavadgita VI, 29-
32.

La “offerta” può prendere la forma di un rin-


graziamento quando non abbiamo nulla da offri-
re, ma solo da usare quanto è stato offerto a noi,
ad esempio facendo quanto serve a mantenere in
buona forma il nostro corpo (“qualunque cosa di cui
tu ti cibi”), il quale non ci appartiene: ci è dato in
prestito e dovremo restituirlo.
Se non diviene un pretesto per azioni devian-
ti, questa forma della pratica può benissimo com-
prendere quanto facciamo per la nostra persona:

* Dando la precedenza ai doveri quotidiani.

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anche gli svaghi ed i divertimenti che siano pu-
rificati e depersonalizzati così da divenire attivi-
tà utili per tutti.
Per via della rinunzia ad ogni risultato perso-
nale — ogni risultato possibile essendo offerto e
consegnato al Divino, il quale se ne serve per al-
leviare il fardello altrui — ogni azione diviene un
sacramentum, oppure, in Sanscrito, uno yajña (sa-
crificio).
Queste azioni non legano al samsāra (Bhaga­
vadgītā III, 9). Lo yajña , il “sacrificio”, è l’unica
cosa che possa sottrarci al samsāra.
Nulla che appartenga al samsāra può sot-
trarcene. Lo yajña ci pone all’unisono con la vo-
lontà divina, che nella Bhagavadgītā è chiamata
Brahman*.
Da leggere: Bhagavadgītā IV, 24; Bhagavadgītā IX, 34;
Bhagavadgītā XVIII, 65.

II. La seconda forma consiste nell’abituarsi a ve-


dere in tutto e tutti una manifestazione divina,
nel considerare che in ogni vita fluisce realmente,
concretamente, la vita stessa di Dio, per cui ogni
essere vivente è veramente, non metaforicamen-
te, una forma di Dio (secoli dopo la Bhagavadgītā
questa verità è stata molto parzialmente afferra-
ta, e le si è dedicata una scienza, chiamata “eco-
logia”).
Da leggere: Bhagavadgītā VII, 19; Bhagavadgītā XV, 7;
Bhagavadgītā VI, 29-32.
* Questa affermazione può sorprendere; ma è giusta, e
potrà essere spiegata, se richiesto.

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Esercitandosi in questo modo si acquista, co­
me minimo, rispetto per tutti e tutto. È anche uti-
le considerare che ogni evento ed ogni incontro
contengono un messaggio; se non lo contengono
essi direttamente, lo contiene la nostra reazione
a loro: occorre allora cercare di discernere questo
messaggio (ricordate Bhagavadgītā VII, 19).

III. La terza forma è la preghiera, la quale impli-


ca che si abbiano presenti le caratteristiche per-
sonali del Divino spiegate sopra. Dico preghiera in
mancanza di un termine migliore; occorre infatti
tener presente che non deve trattarsi di una peti-
zione riguardante problemi spiccioli. Per spiega-
re: chiedere che una certa faccenda si risolva nel
modo che ci farebbe comodo (egocentricamente)
non è la preghiera come viene intesa qui; chiede-
re la forza spirituale necessaria ad affrontare una
certa situazione è preghiera e viene esaudita, poi-
ché la richiesta stessa è di natura spirituale. In al-
tre parole, un serio desiderio di preghiera in sen-
so spirituale nasce esso stesso dal pros ton theòn, e
la preghiera deve svolgersi nello spirito di quanto
è implicito nel pros ton theòn. La preghiera sembra
rivolta ad un “Altro”, ma in realtà è uno scanda-
glio lanciato a sondare le profondità della nostra
stessa anima; è come un secchio calato in un poz-
zo ad attingerne acqua viva.
Non si deve esitare a pregare in questo spi-
rito, poiché la preghiera è appunto un aspetto
del pros ton theòn ed un mezzo potente per fis-

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sare la buddhi sull’ātmā, così attingendo conscia-
mente all’eterno rapporto che lega l’anima a Dio.
Per questo ogni vera preghiera ha anche il carat-
tere di una contemplazione, e perciò non deve esse-
re una ripetizione meccanica od abituale di qual-
che testo, breve o lungo che sia.
Il vantaggio della preghiera è che mentre la
meditazione, come spesso viene descritta, richie-
de un grande sforzo di concentrazione affinché
la mente non divaghi disperdendosi in mille pen-
sieri, la preghiera, in quanto successione logica di
parole legate tra loro come anelli di una catena, e tut-
te inserite in contesto unitario, risparmia alla men-
te quello sforzo e la tiene naturalmente sul sen-
tiero che deve seguire, orientata verso (pros) la
sua meta. Un paragone rozzo ma utile è quello
del treno, il quale si muove su dei binari, contra-
riamente a quanto fanno quelle automobiline che
si scontrano a caso in un parco dei divertimenti.
L’unica cura da avere, e questo è molto importan-
te, è che di ogni parola si abbia presente il signi-
ficato: le parole della preghiera devono scorrere
senza sforzo e senza distrazioni, splendente cia-
scuna del significato suo specifico.
Ciò stabilito, non è consigliato recitare una
preghiera a voce alta o bassa (facendo cioè rumo-
re): la recitazione mentale è la migliore. E si può
pregare seduti comodamente, o passeggiando, o
lavorando.
Ci sono preghiere già formulate, che possono
essere usate utilmente.

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(1) Una, stupenda, è costituita dagli ultimi ver-
si della Īśa Upanishad (l’ultimo paragrafo è un
testo breve ed utile in molte circostanze):

Da un’aurea maschera è celato il volto della Veri-


tà. Svelalo tu, o Divino Pastore, a chi fa della Verità la
propria religione, affinché egli veda.
Divino Pastore, unico Veggente, Reggitore, Fonte
di ogni Luce, Figlio del Padre di ogni creatura, diffon-
di i [tuoi] raggi, raccogli il [tuo] splendore. Quella che
è la Tua forma più adorabile io vedo: quel Purusha, sì,
quello io sono.
L’Alito [che è in noi] se ne va all’Alito immorta-
le; questo corpo finisce in cenere. OM – Signore del
Sacrificio, ricorda; ricorda ogni mio Sacrificio. Signo-
re del Sacrificio, ricorda; ricorda ogni mio Sacrificio*.
Fuoco immortale, Dio che conosci tutte le mete, guida-
ci al bene per il buon cammino; allontana da noi l’erro-
re che ci svia. A Te noi offriamo la nostra più vera pa-
rola di sottomissione.

(2) Un’altra, più breve, viene dalla Brhadāranyaka


Upanishad (I, 3, 28):

OM – Dall’irreale conducimi al Reale, dall’oscuri-


tà conducimi alla Luce, dalla morte conducimi all’Im-
mortalità†.
* OM – Krato smara, krtam smara; Krato smara, krtam
smara.
† Asato mā sad gamaya, tamaso mā jyotir gamaya,
mrtyor mā ’mrtam gamaya.

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(3) Una terza è la famosa Gāyatrī (Ṛgveda III, 62,
10), il mantra per eccellenza:

OM – Rivestiamoci dello splendore adorabile del


Dio datore di Vita, ché Egli vivifichi la nostra mente*.

(4) Una mente aperta e libera da pregiudizi non


può non vedere nel Pater Noster cristiano
(Matteo VI, 9–13) un modello di preghiera
perfetta (e mi chiedo quanti cristiani ne siano
consapevoli), la quale tra l’altro presenta ana-
logie con la preghiera della Īśa Upanishad so-
pra citata.
Prima di tutto questa preghiera è al plura-
le, abbracciando così tutta l’umanità; anzi, se
si vuol essere corretti, tutti gli esseri viventi,
come insegna la Bhagavadgītā. Poi ogni richie-
sta od augurio deve essere compreso in senso
spirituale:

Padre Nostro: qui viene sottolineata la nostra


figliolanza divina e la fratellanza che lega tutte le
creature. Noi meglio diremmo Padre–Madre, e
con nostro intendiamo di tutti gli esseri viventi —
Bhagavadgītā XIV, 3-4 e V, 29.

* OM Tat Savitur varenyam bhargo devasya dhīmahi


dhiyo yo nah pracodayāt. (Pronunzia: a come la u inglese
di but; ā come la a italiana in pane; c come la c italiana in
cibo. Accenti: sávitur, varényam, dévasya (s aspra), dhíma-
hi, praciódayaat.)

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Nei Cieli: nella sfera spirituale; alla sommità
dell’anima (“B”).
Sia santificato il Tuo Nome: qui sarebbe neces-
saria una lunga discussione, che riduciamo ai mi-
nimi termini. Per il Nome vedasi L’Evangelo della
Verità alle pagine 40–41, 45, 138–141. Nella figura
in alto il Nome è “B”. Per santificare occorre capire
Giovanni XVII, 14–19, dove lo stesso verbo usato
nel Pater Noster (hagiàzein) è usato. Da Giovanni
XVII, 13 e 19 è chiaro che la santificazione consi-
ste nello andare al Padre da parte del Figlio, cioè la
fine del cammino di chi va pros (verso) tonneòn.
La comprensione di questi versetti è aiutata da
Giovanni XV, 1–5.
Sia fatta la Tua volontà, come in Cielo così in ter-
ra: questo è il passaggio dal TAT al SAT nel gran-
de mantra insegnato in Bhagavadgītā XVII, 23-27.
Dacci oggi il nostro Pane Spirituale: la parola
che traduciamo con spirituale è epioùsios nel testo
greco, e nessuno sa che cosa significhi veramen-
te, poiché appare soltanto nel Pater Noster. Ora
epì significa, secondo i casi, “sopra”, “sovrastante”,
“a”, “verso”; ousìa è “sostanza”, “proprietà”, “sta-
to”, “condizione”: la Vulgata traduce epioùsios con
supersubstantialis. Ma ousìa viene dal participio
femminile (oùsa) del verbo eimì, “essere”, e quin-
di comprendiamo epioùsios come riferito alla par-
te superiore (epì) del nostro essere: ancora perciò
un riferimento al “B” della mia figura.
Rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo
rimessi ai nostri debitori: perché si parla di debiti?

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perché non dire facci del bene come noi ne abbiamo
fatto agli altri? Poiché non vi è bene che possiamo
fare noi, visto che non vi è che un solo Autore di
bene (rivedete la citazione da Sri Ramakrishna).
Tutto quello che possiamo fare noi è rinunziare ad
essere ripagati, così prendendo su di noi parte del far-
dello altrui, e questo è yajña, sacrificio, ad immagi-
ne di quello del Salvatore.
Aiutaci ad affrontare ogni tentazione, e liberaci dal
male: Liberaci da quanto ci induce al male. Ricor-
date la Īśa Upanishad: Dio che conosci tutte le mete,
guidaci al bene per il buon cammino; allontana da noi
l’errore che ci svia. E ripensate a Bhagavadgītā XVIII,
66: Io ti libererò da ogni male. Da ogni male significa
da tutti i mali dell’anima, gravi o leggeri che siano, e
da ogni sofferenza che ne derivi. In altre parole ven-
gono sciolti quelli che la Katha Upanishad (II, 3:15)
chiama i nodi del cuore (hrdasya granthayah). Ciò ac-
cade poiché Egli prende su di Sé le sofferenze di
ogni creatura (rivedete ancora L’Evangelo della Ve-
rità, pp. 61–62 e Bhagavadgītā VIII, 4: Il Sacrificio per
eccellenza sono Io qui, nel corpo).

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