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IL LOGOS INTERIORE
NOTE SULLA MEDITAZIONE
L.U.T.
Centro di Studi Teosofici H.P. Blavatsky
Via Isonzo 33 – 10141 Torino
centrohpb@prometheos.com — www.prometheos.com/LUT
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Chiamate come volete la “parte” di “A” com-
presa in “B”: Sé, Atma, Cristo, Krishna, Luce Inte-
riore, Guida Interiore (antaryāmī), Il Pastore* è Colui
che veglia sulle nostre anime (1 Pietro II, 25), Salva-
tore.
I nomi non hanno importanza. Lo stesso vale
per il Divino, che spesso possiamo chiamarlo Dio;
ma per sapere quello che si debba intendere con
questa parola occorre studiare la Bhagavadgītā.
Ma “B” deve esistere. Infatti non esisterebbe
in due casi:
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chiese, organizzazioni, forme o mezzi esteriori, rituali,
cerimonie, etc. Dio è vicino; se qualcuno Lo vuole
lontano, vuol dire che si vuole frapporre tra Lui
e noi. E mostrano allora tutta la loro futilità le di-
scussioni sulla natura di Dio: personale od im-
personale? Dio può essere quello che vuole, ma
quello che a noi interessa è che possa intrattenere
qualche forma di rapporto con noi: altrimenti, al-
meno per noi, non esisterebbe e non servirebbe a
nulla. È allora ovvio che, per intrattenere relazio-
ni con un essere personale come l’uomo, Dio deb-
ba assumere tratti personali: tra un essere per-
sonale ed un’entità impersonale non è possibile
alcun rapporto che abbia qualche significato od
importanza per il pensiero, per i sentimenti, per
la vita morale e spirituale, etc; perché un tale rap-
porto esista, deve essere possibile divenirne co-
scienti, per cui l’esistenza di Dio diviene un fat-
to di esperienza personale, ed a questo mirano le
note che seguono.
Osservate ora che vi sono due livelli nell’Anima:
il livello profondo, interiore (“B”) e quello superficia-
le, esteriore (“C”). Come “B” è immerso nel Divi-
no, così “C” è immerso nel mondo esterno (l’area
esterna ad “A” ed a “C”) e ne condivide tutto, ne
subisce tutto, interferisce con tutto: cambiamen-
ti, cause ed effetti, premesse e conclusioni, bene
e male, gioie e sofferenze, etc. A tutto quello che
accade all’esterno corrisponde tutto il rumore in-
terno dei nostri pensieri, sentimenti, speranze, ti-
mori, attrazioni, repulsioni, desideri, avversioni,
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rimorsi, amore, odio, etc. Quello che accade all’ester-
no ed il “rumore” interno sono due facce della medesi-
ma medaglia: il samsāra.
Questo rumore ci impedisce di udire quan-
to accade in “B” e ne proviene. “B” è il Logos in-
teriore, il Verbo, il Salvatore, la Parola che ci par-
la all’interno, la quale risuona di continuo, ma
che noi non udiamo per via di quel rumore. Non
ha dunque bisogno di essere destata o provoca-
ta: non è una risposta ad una domanda; non vie-
ne pronunziata quando noi lo chiediamo; non è
il risultato di qualcosa che possiamo fare noi o
che qualcuno possa fare per noi. Quando apria-
mo una finestra per fare entrare la luce non ac-
cendiamo noi la luce che è fuori e che è accesa da
sempre: noi non facciamo altro che rimuovere l’o-
stacolo che le impedisce di entrare.
È importante afferrare questo concetto, poi-
ché troppo spesso si confondono le conseguenze
di una certa attività con i risultati di questa: con-
seguenze è quanto consegue a qualcosa ma non
ne è provocato, mentre risultati sono gli effetti di
qualcosa che li fa esistere e che non si verifiche-
rebbero senza quel qualcosa; ora un risultato od
effetto presuppone una causa, e quindi fa parte
del samsāra, del circolo vizioso del divenire. Nel
caso che ci sta occupando si può dire che le con-
seguenze si manifestano spontaneamente quando
si smette di fare qualcosa, mentre i risultati (kar-
maphala = frutto dell’azione) si ottengono facendo
(karma) qualcosa.
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Karma e karmaphala sono gli ingredienti del
samsāra; di cui è parte anche il desiderio di otte-
nere risultati; per questo la Bhagavadgītā insiste
tanto sulla rinunzia ad ottenere a vantaggio no-
stro i frutti dell’agire.
L’udire la Voce interna o, medesima cosa, l’es-
sere illuminati dalla Luce interiore, è la conse-
guenza del silenzio della mente: non è un risul-
tato. Il Logos interiore, il Verbo, la Parola che ci
parla all’interno, non fanno parte del samsāra; non
sono l’effetto di causa alcuna. E lo stesso Verbo è
Silenzio, e la Sua Voce non è Voce che orecchio
umano possa udire.
Per udire la Voce interna noi dobbiamo sem-
plicemente fare silenzio dentro di noi, placare il
rumore incessante dei nostri pensieri che si in-
seguono l’un l’altro, dei sentimenti, timori, desi-
deri, rimpianti, rimorsi, etc. Questo è il compito
che abbiamo davanti a noi, ed è qui che si fanno
avanti premurosi i preti, i guru, gli intermediari,
i maestri, etc. Intendiamoci: essi possono indub-
biamente dirci anche cose utili e sagge, e nel mi-
gliore dei casi possono anche dirci quanto dob-
biamo fare di giusto e di salutare per accedere al
Divino; ma non possono fare nulla di quello che pos-
siamo (e dobbiamo) fare soltanto noi. In altre parole,
se questi guru etc sono seri, non si propongono
quali intermediari, non ci offrono mezzi fuor-
vianti, non ci lusingano in nessun modo. Se inve-
ce lo fanno, ci portano fuori strada, sottilmente e
subdolamente convincendoci di essere indispen-
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sabili, così gonfiando il loro ego e dominando
sulle nostre coscienze, oltre, spesso, a far soldi fa-
cili (e sordidi). Ora quanto sto per dirvi vi pone al
riparo da tutti questi pericoli. Nulla di nuovo co-
munque: tutto si trova nella Bhagavadgītā ed in
altri scritti come, ad esempio, e sia pure in modo
talvolta velato, nell’Evangelo di Giovanni.
Come può un intermediario, guru, prete, etc,
dirottare su di sé i nostri eventuali tentativi di ac-
cedere al Divino? Semplicemente alimentando il
nostro rumore interno, così da perpetuare la bar-
riera.
Ricordate quanto sta scritto: Guai a voi, inter-
preti della legge, poiché avete rimossa la chiave della
Conoscenza (Gnôsis nel testo originale): non siete en-
trati voi, ed avete impedito di entrare a quelli che stava-
no per entrare! (Luca 11:52).
Il rumore interno può essere alimentato (ed
aumentato) applicando metodi, tecniche, etc, che
portino a dei risultati: ad esempio una qualche
pratica di cosiddetto yoga che rilassi il corpo e la
mente; ad esempio un rituale che si suppone pos-
sa interessare qualche divinità la quale forse però
ha di meglio da fare che ascoltare le lagne di qual-
che devoto; e così via. È certo possibile che questi
risultati rendano più facile il vero lavoro da com-
piere; ma in sé non compiono questo lavoro. L’e-
ventuale guru deve essere perciò molto chiaro: se
non dice che tutti questi mezzi hanno tutt’al più
una funzione propedeutica, è un impostore. Al-
lora bisogna sapere quello che si vuole. Se quel-
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lo che si vuole è la comunione (il senso che ha yoga
nella Bhagavadgītā) col Divino, la via da percor-
rere è un’altra. Ancora una volta: nulla di inven-
tato e che non si trovi altrove; ma anche in questo
campo il rumore è molto forte: si parla dappertut-
to di meditazione, ma di rado se ne parla nel modo
corretto.
Per comprendere quale sia la via da seguire
è necessario che sia ben chiara la natura di “B”, il
Sé (d’ora in poi lo chiameremo così). Il Sé è simul-
taneamente Dio e Anima (“Dio e uomo” come si
dice del Cristo). Secondo l’Evangelo di Giovanni
(I, 1-2) esso è* theòs (Dio) e, simultaneamente, pros
ton theòn: letteralmente “rivolto verso Dio”†. Que-
sto essere simultaneamente theòs e pros ton theòn
costituisce precisamente la duplice unità del Sé,
il quale è theòs in quanto Dio e pros ton theòn in
quanto Anima.
In quanto Dio è la Sorgente della Luce e del-
la Parola; in quanto Anima è quello che aspira alla
Luce e la riceve, quello che invoca la Parola e l’a-
scolta.
Un paragone appropriato è quello della luce:
il Divino (theòs) è Luce diretta; in “B” questa Luce
viene riflessa dallo specchio dell’anima (“C”) e
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torna verso (pros) il Divino: è Luce riflessa, ma è
sempre la medesima Luce (vedete L’Evangelo del-
la Verità alle pagine 40-41, 45, 138-141), pur rifles-
sa più o meno efficacemente, secondo lo stato del-
lo specchio.
Aspirare (“volgere lo spirito a”) ed invocare (in-
vocare: “chiamare dentro”!) ci dicono che la vera
natura della meditazione non è quella di una co-
gitazione, bensì piuttosto quella di una adorazio-
ne, o di una preghiera, o di un’invocazione. In
realtà non vi sono parole italiane che possano de-
scriverla accuratamente, occorre perciò una paro-
la che dica che la vera meditazione è:
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→ D’ora in poi i termini bhakti, nel senso parti
colare appena indicato, e meditazione, come
questa viene intesa in questo scritto, saranno
considerati sinonimi.
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in cui faccia difetto la compassione e che non rifugga
da ogni crudeltà, diretta od indiretta, conscia od incon-
scia, qualsiasi ne sia l’oggetto*.
Ma la meditazione non può nascere neppu-
re dal rumore: la meditazione è possibile soltanto
nel silenzio interiore, e soltanto questo silenzio dà
accesso al Sé, al Logos. In altre parole, la medita-
zione è uno stato naturale dell’anima non appena vi si
faccia silenzio, e nulla di quanto accade in “C” al di
fuori di “B” è meditazione: forse la può preparare
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o facilitare, ma non può sostituirla; può anche si-
mularla, ma allora è un falso. Nel silenzio si rive-
la quella che poco sopra ho detto essere la dupli-
ce unità del Sé, la quale significa “amore”, poiché
l’essere simultaneamente uno e due è l’essenza dell’a-
more: uno da solo non avrebbe nulla da amare;
due che fossero veramente due, senza cioè nes-
suna comunione, non potrebbero amarsi. Questa
duplice unità descrive anche la natura della vera
meditazione e ne contiene il segreto.
Considerando la duplice unità del Sé ci si im-
batte in vari paradossi che ne descrivono la di-
namica o dialettica interna, benché possano sem-
brare contraddizioni alla mente superficiale. Ad
esempio, l’Anima è simultaneamente Dio ed un
dono di Dio; è l’orante, e quella che riceve la pre-
ghiera e la esaudisce; e così via. Il più importan-
te di questi paradossi è quello che afferma che la
meditazione già si svolge naturalmente e rego-
larmente nelle profondità dell’Anima, e che per-
ciò l’impulso a meditare sorge da essa, ne è la prova,
e costituisce una salutare intrusione nel rumore
della mente superficiale, la quale senza questa in-
trusione non si sognerebbe mai di volgersi alla
meditazione. L’impulso a meditare è dunque sol-
tanto la risposta ad un appello, cui deve seguire
la creazione del silenzio necessario ad un ascolto
sempre più efficace e consapevole.
L’impulso a meditare deve essere accolto e
compreso nel giusto spirito: non deve inorgoglir-
ci come se fosse un’iniziativa o conquista perso-
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nale; siccome è la risposta ad un appello, questa
risposta deve essere un moto di gratitudine rivol-
to (pros ton theòn) alla Sorgente (theòs) dell’appel-
lo. Questo è il giusto inizio della meditazione.
Questo è già meditazione. Vuol dire che il rumore
(per varie ragioni, non ultima la sofferenza) si è
calmato in parte, ed allora è stato udito l’appello:
“Seguimi” (Giovanni I, 43 — vedete ne L’Evange-
lo della Verità a pag. 166). Si è stabilito un canale di
comunicazione, per quanto stretto esso sia o pos-
sa apparire. Si tratta ora di allargarlo per giunge-
re a quella che si chiama Ātmāvalokanabuddhi, cioè
“Buddhi con lo sguardo fisso sull’Atma”, di cui il
pros ton theòn è la traduzione greca.
È evidentemente buddhi (l’Intelligenza spiri-
tuale*) quella che può fissare lo sguardo sull’At-
ma. Il manas deve ragionare, e questo è rumore:
utile, ma rumore. Invece buddhi è silenzio; pen-
sate a quando contemplate qualcosa di bello, o
quando siete consapevoli della natura giusta od
ingiusta di qualcosa: non avete bisogno di ragio-
narci sopra; non fate rumore nella mente. Ecco al-
lora trovata la leva capace di sollevare la mente dal
livello esterno, superficiale (manas) a quello interiore,
profondo (buddhi). Ecco perché falliscono i tenta-
tivi di controllare il manas mediante il manas: è
come fare rumore per acquietare il rumore.
* Buddhi è l’intelligenza capace di apprezzare valori este-
tici e morali (buono–cattivo, giusto–ingiusto, bello–brutto,
vero–falso in termini spirituali, etc), mentre Manas giudica
il vero ed il falso in termini di logica e di calcolo.
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Quello cui si deve pervenire è dunque lo sta-
to di Ātmāvalokanabuddhi*, e questo è possibile nel
silenzio interiore (favorito, certo, da quello este-
riore). Ma quando quello stato sia stato raggiunto,
il livello esterno, superficiale (“C”), e quello inte-
riore, profondo (“B”), possono funzionare simul-
taneamente, in parallelo: possiamo continuare ad
occuparci delle cose esteriori mentre sullo sfondo
procede ininterrotta una corrente di meditazio-
ne pronta a divenire l’attività principale od esclu-
siva quando le condizioni esterne lo permettano.
Si è detto che sono futili tutte le discussio-
ni sulla natura personale od impersonale di Dio,
dato che Dio deve necessariamente presentare
tratti personali per poter intrattenere relazioni
con un essere personale come l’uomo.
È allora opportuno che almeno alcuni di que-
sti tratti personali siano tenuti sempre ben pre-
senti in vista della pratica che sarà spiegata più
avanti:
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(5) Tutti gli esseri sussistono perché Dio li fa sussiste-
re: Bhagavadgītā III, 22-24 e X, 39;
(6) Dio è il Salvatore: Bhagavadgītā XII, 7*.
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una fatica imposta a sé stessi: se non è desiderata,
o rilassante, o piacevole, etc, è meglio rimandar-
la a momenti più propizi. Occorre infatti evita-
re ogni sforzo: si comincia rilassati, senza impa-
zienza, e poco importa se all’inizio vi sono lacune
o dimenticanze od impedimenti: poco a poco tut-
to va a posto e la pratica diviene naturale e spon-
tanea.
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God alone that he serves – God, who dwells in all be-
ings; and when he serves God, he is really doing good
to himself and not to others. If a man thus serves God
through all beings, not through men alone but through
animals and other living beings as well; if he doesn’t
seek name and fame, or heaven after death; if he doesn’t
seek any return from those he serves; if he can carry on
his work of service in this spirit, then he performs truly
selfless work, work without attachment. Through such
selfless work he does good to himself. This is called kar-
mayoga. This too is a way to realize God. … Therefore
I say, he who works in such a detached spirit — who
is kind and charitable — benefits only himself. Helping
others, doing good to others – this is the work of God
alone, who has created for men the sun and moon, fa-
ther and mother, fruits, flowers, and corn.
The love that you see in parents is God’s love: He
has given it to them to preserve His creation. The com-
passion that you see in the kind–hearted is God’s com-
passion: He has given it to them to protect the helpless.
He will have His work done somehow or other. Noth-
ing can stop His work.*
* Se un capofamiglia è veramente devoto, esercita le sue
funzioni senza attaccamento, abbandona il frutto del suo
lavoro a Dio — il guadagno o la perdita, il piacere o il do-
lore — e giorno e notte prega per devozione e per niente
altro. Questo si chiama lavoro senza movente, esecuzione
del dovere senza attaccamento. … Solo se un capofamiglia
fa la carità con spirito di distacco, sta facendo veramente
bene a se stesso e non ad altri. È solo Dio che egli serve —
Dio che dimora in tutti gli esseri, e quando serve Dio, sta
facendo veramente bene a se stesso e non ad altri. Se un
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Se le condizioni sopra descritte sono rispetta-
te, dopo un certo tempo ci si rende conto di un fat-
to certo ed esaltante, ancor più che incoraggian-
te: quella pratica è essa stessa la meta da raggiungere*;
non vi è altro da fare; non vi è altro da desidera-
re; al di là di essa non vi è che essa medesima, sia
pure sempre più intensa, profonda e gioiosa, poi-
ché il livello profondo dell’anima diviene sempre
più presente alla coscienza venendo a funzionare
parallelamente a quello superficiale; in altre pa-
role il theòs si rivela sempre più chiaramente al pros
uomo serve così Dio per tutti gli esseri, non solamente per
gli uomini, ma per gli animali e per tutti gli esseri viventi
e se egli non cerca il nome e la fama, o il paradiso dopo la
morte, se egli non cerca alcun ritorno da coloro che serve,
se può continuare il suo lavoro di servizio in questo spiri-
to, allora compie un lavoro veramente altruista, lavoro sen-
za attaccamento. È attraverso tale lavoro disinteressato che
fa del bene a se stesso. Questo è chiamato karmayoga. An-
che questo è un modo per realizzare Dio. … Perciò io dico,
chi lavora con uno spirito indipendente — gentile e carita-
tevole — beneficia solo se stesso. Aiutare gli altri, facendo
del bene agli altri — questa è l’opera solo di Dio, che ha cre-
ato per gli uomini il sole e la luna, il padre e la madre, frut-
ta, fiori, e semi.
L’amore che si vede nei genitori è l’amore di Dio: egli ha
dato a loro di preservare la Sua creazione. La compassio-
ne che si vede nel buon cuore è la compassione di Dio: Egli
ha dato a loro di proteggere gli indifesi. Avrà il Suo lavoro
in un modo o nell’altro. Niente può fermare la Sua opera.
* Questo fatto è chiamato phalarūpatvam (“l’avere la me-
desima natura del risultato”) nei Bhaktisūtra (n° 26) di
Nārada.
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ton theòn*, e questo progressivo rivelarsi intensifica il
pros ton theòn, cui perciò ancora più chiaramente si
rivela il theòs, e così via. Per questo il desiderio di
risultati è superfluo, oltre che controproducente.
Da leggere: Bhagavadgītā VI, 21-25. Bhagavadgītā II,
47; Bhagavadgītā VIII, 14; Bhagavadgītā XII, 8.
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profondo, al Sé (Ātmāvalokanabuddhi). Se ne scel-
gano una o più di una, secondo le proprie pre-
ferenze, le proprie possibilità, etc, adottandone
comunque almeno la prima. Delle altre è bene pre-
ferire quelle che ci sembrano più attraenti, o più
consone alla nostra natura.
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anche gli svaghi ed i divertimenti che siano pu-
rificati e depersonalizzati così da divenire attivi-
tà utili per tutti.
Per via della rinunzia ad ogni risultato perso-
nale — ogni risultato possibile essendo offerto e
consegnato al Divino, il quale se ne serve per al-
leviare il fardello altrui — ogni azione diviene un
sacramentum, oppure, in Sanscrito, uno yajña (sa-
crificio).
Queste azioni non legano al samsāra (Bhaga
vadgītā III, 9). Lo yajña , il “sacrificio”, è l’unica
cosa che possa sottrarci al samsāra.
Nulla che appartenga al samsāra può sot-
trarcene. Lo yajña ci pone all’unisono con la vo-
lontà divina, che nella Bhagavadgītā è chiamata
Brahman*.
Da leggere: Bhagavadgītā IV, 24; Bhagavadgītā IX, 34;
Bhagavadgītā XVIII, 65.
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Esercitandosi in questo modo si acquista, co
me minimo, rispetto per tutti e tutto. È anche uti-
le considerare che ogni evento ed ogni incontro
contengono un messaggio; se non lo contengono
essi direttamente, lo contiene la nostra reazione
a loro: occorre allora cercare di discernere questo
messaggio (ricordate Bhagavadgītā VII, 19).
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sare la buddhi sull’ātmā, così attingendo conscia-
mente all’eterno rapporto che lega l’anima a Dio.
Per questo ogni vera preghiera ha anche il carat-
tere di una contemplazione, e perciò non deve esse-
re una ripetizione meccanica od abituale di qual-
che testo, breve o lungo che sia.
Il vantaggio della preghiera è che mentre la
meditazione, come spesso viene descritta, richie-
de un grande sforzo di concentrazione affinché
la mente non divaghi disperdendosi in mille pen-
sieri, la preghiera, in quanto successione logica di
parole legate tra loro come anelli di una catena, e tut-
te inserite in contesto unitario, risparmia alla men-
te quello sforzo e la tiene naturalmente sul sen-
tiero che deve seguire, orientata verso (pros) la
sua meta. Un paragone rozzo ma utile è quello
del treno, il quale si muove su dei binari, contra-
riamente a quanto fanno quelle automobiline che
si scontrano a caso in un parco dei divertimenti.
L’unica cura da avere, e questo è molto importan-
te, è che di ogni parola si abbia presente il signi-
ficato: le parole della preghiera devono scorrere
senza sforzo e senza distrazioni, splendente cia-
scuna del significato suo specifico.
Ciò stabilito, non è consigliato recitare una
preghiera a voce alta o bassa (facendo cioè rumo-
re): la recitazione mentale è la migliore. E si può
pregare seduti comodamente, o passeggiando, o
lavorando.
Ci sono preghiere già formulate, che possono
essere usate utilmente.
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(1) Una, stupenda, è costituita dagli ultimi ver-
si della Īśa Upanishad (l’ultimo paragrafo è un
testo breve ed utile in molte circostanze):
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(3) Una terza è la famosa Gāyatrī (Ṛgveda III, 62,
10), il mantra per eccellenza:
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Nei Cieli: nella sfera spirituale; alla sommità
dell’anima (“B”).
Sia santificato il Tuo Nome: qui sarebbe neces-
saria una lunga discussione, che riduciamo ai mi-
nimi termini. Per il Nome vedasi L’Evangelo della
Verità alle pagine 40–41, 45, 138–141. Nella figura
in alto il Nome è “B”. Per santificare occorre capire
Giovanni XVII, 14–19, dove lo stesso verbo usato
nel Pater Noster (hagiàzein) è usato. Da Giovanni
XVII, 13 e 19 è chiaro che la santificazione consi-
ste nello andare al Padre da parte del Figlio, cioè la
fine del cammino di chi va pros (verso) tonneòn.
La comprensione di questi versetti è aiutata da
Giovanni XV, 1–5.
Sia fatta la Tua volontà, come in Cielo così in ter-
ra: questo è il passaggio dal TAT al SAT nel gran-
de mantra insegnato in Bhagavadgītā XVII, 23-27.
Dacci oggi il nostro Pane Spirituale: la parola
che traduciamo con spirituale è epioùsios nel testo
greco, e nessuno sa che cosa significhi veramen-
te, poiché appare soltanto nel Pater Noster. Ora
epì significa, secondo i casi, “sopra”, “sovrastante”,
“a”, “verso”; ousìa è “sostanza”, “proprietà”, “sta-
to”, “condizione”: la Vulgata traduce epioùsios con
supersubstantialis. Ma ousìa viene dal participio
femminile (oùsa) del verbo eimì, “essere”, e quin-
di comprendiamo epioùsios come riferito alla par-
te superiore (epì) del nostro essere: ancora perciò
un riferimento al “B” della mia figura.
Rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo
rimessi ai nostri debitori: perché si parla di debiti?
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perché non dire facci del bene come noi ne abbiamo
fatto agli altri? Poiché non vi è bene che possiamo
fare noi, visto che non vi è che un solo Autore di
bene (rivedete la citazione da Sri Ramakrishna).
Tutto quello che possiamo fare noi è rinunziare ad
essere ripagati, così prendendo su di noi parte del far-
dello altrui, e questo è yajña, sacrificio, ad immagi-
ne di quello del Salvatore.
Aiutaci ad affrontare ogni tentazione, e liberaci dal
male: Liberaci da quanto ci induce al male. Ricor-
date la Īśa Upanishad: Dio che conosci tutte le mete,
guidaci al bene per il buon cammino; allontana da noi
l’errore che ci svia. E ripensate a Bhagavadgītā XVIII,
66: Io ti libererò da ogni male. Da ogni male significa
da tutti i mali dell’anima, gravi o leggeri che siano, e
da ogni sofferenza che ne derivi. In altre parole ven-
gono sciolti quelli che la Katha Upanishad (II, 3:15)
chiama i nodi del cuore (hrdasya granthayah). Ciò ac-
cade poiché Egli prende su di Sé le sofferenze di
ogni creatura (rivedete ancora L’Evangelo della Ve-
rità, pp. 61–62 e Bhagavadgītā VIII, 4: Il Sacrificio per
eccellenza sono Io qui, nel corpo).
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