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08/12/21, 07:40 Guam resiste - Chris Gelardi - Internazionale

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Stati Uniti NUMERO 1438 DEL 3 DICEMBRE 2021

Guam resiste
Chris Gelardi, The Nation, Stati Uniti

La piccola isola nel Pacifico è diventata uno snodo fondamentale della


strategia degli Stati Uniti per contrastare la Cina. Ma Washington deve
fare i conti con l’opposizione della comunità indigena chamorro

P
er entrare nella proprietà di famiglia a Hagåtña, la capitale dell’isola di Guam,
Monaeka Flores deve attraversare un cancello presidiato dall’esercito e raggiungere
una cabina dove un soldato le controlla il documento rilasciato dalle autorità
statunitensi. A quel punto è libera di passare, almeno in teoria. I contrattempi sono la norma.
A volte le guardie confondono i suoi dati personali con quelli di un familiare. In altri casi le
dicono semplicemente che deve tornare indietro. A luglio del 2021 Flores non ha potuto
partecipare a una grigliata con tutta la famiglia perché il suo documento, che va rinnovato ogni
anno, era scaduto. Per Flores è complicato anche invitare qualcuno a casa: gli ospiti devono
essere controllati e autorizzati dalle autorità statunitensi. La donna racconta di un amico a cui
di recente è stato vietato l’accesso perché il software dell’ufficio sicurezza era fuori uso.

La proprietà all’estremità settentrionale di Guam – un territorio sotto la sovranità statunitense


nel Pacifico occidentale – appartiene ai Flores da cinque generazioni. La famiglia di suo nonno
pescava, cacciava e si guadagnava da vivere coltivando noci di cocco e allevando maiali. Ma
dopo la seconda guerra mondiale le forze americane, che avevano urgentemente bisogno di
spazio, requisirono l’area coltivata. E il terreno che rimase ai Flores è schiacciato tra due
proprietà del governo di Washington. Subito a sud c’è la base aerea di Andersen, l’unica della
regione in grado di fornire supporto tecnico e logistico ai bombardieri statunitensi. A nord c’è
un’oasi naturalistica che il dipartimento della difesa ha assegnato all’Us fish and wildlife
service (l’agenzia incaricata di gestire e conservare la pesca e la fauna selvatica) invece di
restituirla alle famiglie a cui era stata tolta. I Flores non possono entrare nella proprietà
attraverso la riserva, quindi devono per forza passare dalla base.

È una situazione “scomoda, disumanizzante e demoralizzante”, dice Monaeka Flores. E anche


per questo, quando devono definire la presenza militare statunitense, lei e gli altri attivisti

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indigeni usano la parola “occupazione”. Su quest’isola di 561 chilometri quadrati sono molte le
famiglie che si sono viste togliere dal Pentagono la loro terra, tutta o in parte. L’esercito ha
requisito case e fattorie per creare una base dell’aeronautica di 60 chilometri quadrati, un sito
di telecomunicazioni di dodici chilometri quadrati, a sud della struttura, e poi un ampliamento
della base di otto chilometri quadrati. Si è preso più di 72 chilometri quadrati nell’entroterra
meridionale, dove c’è il più grande bacino idrico dell’isola per metterci un magazzino di
munizioni navali. E per edificare un grande cantiere navale ha distrutto un intero villaggio che
era stato bombardato durante la seconda guerra mondiale, trasferendo i suoi abitanti sulle
fangose colline dell’interno.

Dal 1946 gli Stati Uniti hanno occupato più di un terzo della superficie di Guam. I lavori di
costruzione e le esercitazioni militari hanno distrutto i luoghi ancestrali del popolo indigeno
locale, i chamorro, e danneggiato gran parte degli ecosistemi acquatici e forestali dell’isola.
Discariche, sversamenti e defolianti hanno riempito Guam di siti tossici, molti dei quali
devono essere ancora bonificati.

L’interesse del Pentagono per quest’isola è dovuto alla sua posizione strategica: Guam e il
vicino Commonwealth delle isole Marianne settentrionali si trovano a meno di cinquemila
chilometri da Tokyo, Seoul, Shanghai e Manila. Sono quindi i territori statunitensi più vicini
all’Asia orientale e al sudest asiatico. Per gran parte del novecento Washington ha usato Guam
come centro operativo nella regione, tanto che l’isola si è guadagnata il soprannome di “punta
della lancia”. Da quando la politica estera statunitense è diventata più aggressiva nei confronti
della Cina, il dipartimento della difesa ha deciso di fare ancora più affidamento su quest’isola.
I piani di espansione prevedono il trasferimento di cinquemila marines, la costruzione di
alloggi, di un complesso per le esercitazioni, di un poligono per bombe a mano e di altre
strutture per l’addestramento. Per realizzare tutto questo gli Stati Uniti stanno radendo al
suolo migliaia di ettari di foreste, che ospitano ecosistemi fragili e unici al mondo, la principale
fonte di acqua potabile dell’isola e molti siti culturali dei chamorro. L’esercito sta anche
costruendo un sistema di difesa missilistico e una stazione di ormeggio per portaerei che
distruggerà decine di chilometri di barriera corallina.

Qualche settimana fa sono andato a Guam per parlare con gli attivisti che si oppongono a
questi progetti. Nel corso degli anni hanno ottenuto qualche vittoria importante, ma
continuano a scontrarsi con i limiti imposti dalla loro condizione coloniale e finora le loro
rivendicazioni sono state soffocate dalla burocrazia militare. Temono che l’ulteriore
militarizzazione distruggerà ancora di più l’ambiente e le tradizioni dell’isola, fino a renderla
invivibile. “Siamo i danni collaterali dell’impero”, dice Flores. “E l’impero scommette sul
nostro logoramento”.

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Storia tossica

Angela Santos è seduta nella sua jeep, ferma al lato di una superstrada nel nord di Guam. Dal
sedile del guidatore guarda oltre un recinto di filo spinato verso un’apertura tra gli alberi. Non
può avvicinarsi più di così alla terra della sua famiglia, che fu sequestrata dall’esercito prima
della sua nascita e che presto ospiterà una grande struttura di addestramento per la guerra
urbana. L’ultima persona della famiglia a mettere piede su quei terreni è stato suo fratello
Angel, storico leader della resistenza chamorro, che li occupò per protesta trent’anni fa.

Nel 1990, quando lavorava come impiegato alla base di Andersen, Angel Santos si imbatté
casualmente in un rapporto confidenziale secondo cui dal 1978 al 1986 il dipartimento della
difesa statunitense aveva riscontrato livelli pericolosamente alti di tricloroetilene (un solvente
usato per sgrassare e pulire) nell’acqua potabile della base. L’esposizione prolungata al
tricloroetilene può provocare tumori renali ed è legata a una serie di altre patologie, tra cui il
cancro al fegato. Tre anni prima la figlia di Santos, Francine, di due anni, era morta per un
tumore tra un rene e il fegato. Non c’era modo di dimostrare che a ucciderla fosse stata
l’esposizione al tricloroetilene, ma dopo aver letto il rapporto per Santos fu impossibile evitare
il collegamento: la famiglia aveva sempre vissuto nella base dopo la nascita di Francine.
L’esercito non aveva dato informazioni sulla presenza di tricloroetilene nell’acqua. E tra le
potenziali vittime non c’erano solo i soldati e i lavoratori della base: la metà settentrionale
dell’isola, dove si trova la struttura militare, è ricoperta di calcare poroso sotto il quale passa la
falda acquifera di Northern Lens, che assicura circa l’80 per cento dell’acqua potabile di
Guam. Quello che aveva contaminato l’acqua della base, probabilmente usciva anche dai
rubinetti delle case nel resto dell’isola.

Non era la prima volta che l’esercito portava rifiuti tossici a Guam. Durante e subito dopo la
seconda guerra mondiale i soldati smaltirono vecchi equipaggiamenti, fusti usati di sostanze
chimiche e bombe inesplose gettandoli sugli scogli, ricoprendoli di terra e bruciandoli con il
napalm. I rifiuti rilasciavano metalli pesanti e altri inquinanti che per decenni sono rimasti
presenti sull’isola a livelli nocivi. Negli anni sessanta e settanta gli Stati Uniti usarono le stesse
sostanze chimiche impiegate per fabbricare l’agente arancio – il defoliante con cui le forze
americane hanno avvelenato generazioni in Vietnam, Cambogia e Laos – per ripulire le linee
di recinzione e una tubatura.

Negli anni novanta la marina scoprì che una delle sue centrali elettriche aveva contaminato di
bifenili policlorurati (Pcb) una palude e un fiume. Gli abitanti della zona da allora denunciano
un’alta incidenza di casi di tumore. Non ci sono molte informazioni sull’impatto
dell’inquinamento sulla salute pubblica a Guam, ma i numeri disponibili e le storie degli
abitanti tracciano un quadro preoccupante. I dati del centro per le ricerche sul cancro

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dell’università di Guam mostrano che l’incidenza dei tumori è cresciuta del 20 per cento ogni
cinque anni tra il 1998 e il 2012. E un altro studio mostra che il tasso di decessi per tumore
sull’isola è più che raddoppiato tra gli anni settanta e gli anni duemila.

Angel Santos era stato per molto tempo fedele agli Stati Uniti: si era arruolato nell’aviazione a
18 anni e aveva prestato servizio per 13 anni. Ma cambiò idea quando scoprì che l’esercito
aveva silenziosamente contaminato la falda idrica di Guam. A quel punto diventò il leader del
movimento contro l’occupazione dell’isola. Insieme ad altri attivisti fondò l’associazione
Nasion chamoru (Nazione chamorro), che organizzò proteste per tutti gli anni novanta. I suoi
discorsi sul rapporto tra colonialismo, militarismo, capitalismo e razzismo innescarono un
dibattito tra gli abitanti dell’isola. Santos fu eletto tre volte nell’assemblea legislativa di Guam.
È morto nel 2003, a 44 anni.

Il suo antagonismo irritava il potere – nel 2000 passò sei mesi in un carcere per aver
disubbidito a un ordine del tribunale che gli imponeva di stare lontano dalla terra federale – e
anche a molti chamorro, per i quali Santos era una sorta di bastone tra le ruote ben oliate della
complessa politica di deferenza dell’isola verso i militari. Secondo gli attivisti di Guam, questa
politica ha creato due posizioni nell’opinione pubblica locale. Da una parte c’è chi critica gli
Stati Uniti per gli abusi e il passato coloniale. Come ha spiegato Michael Bevacqua, attivista e
docente, questa posizione è ben presente perfino nelle forze armate statunitensi. Che sia a
causa dell’impossibilità di parlare la propria lingua, del furto della terra ancestrale, del
semplice fatto di non avere una rappresentanza elettorale al congresso di Wash­ington, “ogni
chamorro ha un attivista dentro di sé”, dice Bevacqua. D’altra parte, la popolazione locale si
porta ancora dietro i traumi dell’occupazione giapponese. La riconquista di Guam da parte
degli Stati Uniti, durante la seconda guerra mondiale, è il punto chiave della narrazione
contemporanea della storia dell’isola. Ogni luglio ci sono grandi celebrazioni per
commemorare il giorno della liberazione (che secondo gli attivisti anti-americani è il giorno di
un’altra occupazione). “Il patriottismo di molti chamorro arriva da quegli eventi”, osserva
Bevacqua. Quel patriottismo, più la promessa di stabilità economica, fa sì che Guam abbia una
percentuale di arruolamento militare superiore a quella di ogni stato continentale degli Stati
Uniti.

Documento ingannevole

Tra le voci più influenti a favore dell’ultima espansione militare statunitense ci sono Catherine
Castro e Phillip Santos, rappresentanti della camera di commercio locale. Gli ho chiesto cosa
pensassero delle preoccupazioni degli attivisti per i danni ambientali. “L’esercito ha fatto un
grande lavoro per garantire la salvaguardia ambientale dell’area”, mi ha risposto Castro. Poi
ha aggiunto che, secondo lei, gli attivisti che denunciano danni ambientali “forse non hanno

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letto” i documenti che l’esercito ha pubblicato per giustificare i suoi progetti. “Negli studi
sull’impatto ambientale condotti nell’area ci sono tutte le risposte”.

La legge statunitense impone che prima di avviare grandi progetti di costruzione si faccia una
valutazione sulla salute dei cittadini. E prevede che l’opinione pubblica possa chiedere
informazioni o sollevare questioni che altrimenti potrebbero essere trascurate. Per molti
progetti, compreso il rafforzamento della presenza militare, le agenzie governative usano le
dichiarazioni d’impatto ambientale come la principale, se non l’unica, forma di consultazione
popolare. Quando il Pentagono ha pubblicato la prima bozza, nel 2009, molti abitanti di Guam
capirono che l’esercito stava cercando di raggirarli. Il testo era scritto in modo molto tecnico e
l’opinione pubblica aveva solo 45 giorni di tempo per leggerlo e commentarlo. “Mettiamo
insieme questo voluminoso documento che quei chamorro analfabeti non leggeranno e
stabiliamo una piccola finestra per rispondere. Nessuno risponderà e potremo dire: ‘Noi vi
abbiamo consultato e non avete avuto niente da obiettare’”, dice Melvin Won Pat-Borja,
attivista che all’epoca era docente di scuola pubblica e insegnante di poesia.

Decisi a proteggere l’isola dal militarismo incontrollato, Won Pat-Borja e un gruppo di attivisti
riuscirono a ottenere una proroga del periodo utile per presentare le loro osservazioni, poi si
divisero la bozza e si misero al lavoro. “Non avevamo un nome, eravamo solo persone che si
riunivano e leggevano”, dice Leevin Camacho, che all’epoca faceva l’avvocato in uno studio
privato. Lessero che i militari progettavano di portare sull’isola 8.600 marines e costruire una
stazione di ormeggio per portaerei, una base dei marines e strutture di addestramento.
Scoprirono che, al momento della massima espansione, le attività di costruzione avrebbero
portato altri 79mila abitanti su un’isola che ne contava circa 160mila e che l’aumento della
presenza militare avrebbe fatto crescere il consumo di acqua di quasi 23 milioni di litri al
giorno. Trovarono un nome per il gruppo – Noi siamo Guåhan, usando il termine chamorro per
l’isola – e lanciarono una campagna per invitare la comunità a esprimersi sul progetto. Quando
il periodo stabilito terminò, furono presentate diecimila osservazioni, e i militari erano tenuti
ad affrontarle tutte.

Nuove minacce

A preoccupare il movimento e gli altri abitanti era soprattutto il progetto per la costruzione di
cinque poligoni per esercitazioni a fuoco vivo. I militari prevedevano di realizzarli vicino ai
resti di un antico villaggio chamorro noto come Pågat. L’immagine di mitragliatrici che
sparavano sopra un luogo sacro spinse la gente a protestare. Cavalcando quest’ondata di
indignazione, Noi siamo Guåhan e altri citarono in giudizio l’esercito statunitense, sostenendo
che non avevano preso in considerazione le alternative possibili. Nel 2012 il governo di
Washington annunciò che avrebbe rinunciato a una parte dell’espansione. L’anno seguente

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l’esercito disse che Pågat non era più la loro prima scelta per i poligoni destinati alle
esercitazioni a fuoco vivo. Molti abitanti di Guam erano convinti che fosse stato il loro
attivismo a causare questi ripensamenti. Ma sapevano che la vittoria era temporanea.

L’ultimo piano di allargamento del Pentagono comporta una nuova serie di minacce.
L’esercito ha deciso di spostare i poligoni sulla punta settentrionale dell’isola, vicino a un’oasi
naturalistica in un’area nota come Ritidian. Per costruire le strutture i militari hanno
cominciato ad abbattere circa 400 ettari della foresta nel nord dell’isola. Da millenni i
chamorro usano le specie floreali che vivono in quella foresta per nutrirsi, curarsi e per le
pratiche spirituali. Gli Stati Uniti si sono impegnati a trapiantare alcune specie nel tentativo di
preservare la biodiversità delle zone forestali distrutte, ma secondo Frances Meno, una
guaritrice chamorro di terza generazione, è quasi impossibile mantenere vive molte di queste
piante al di fuori del loro habitat naturale. Meno ha cercato di coltivare erbe per continuare il
suo lavoro, ma raramente vivono più di qualche anno in un orto. Da quando sono cominciati i
lavori di costruzione Meno si è già scontrata molte volte con i soldati mentre cercava di
raccogliere le sue erbe. “Se continuano a spianare la giungla”, mi ha detto, “non potremo più
fare i guaritori”.

Anche i pescatori saranno danneggiati, perché l’esercito ha creato una zona di sicurezza – una
fascia a cui nessuno può accedere quando sono in corso esercitazioni – nel tratto di mare
davanti all’area del poligono. Quando i lavori saranno finiti, quelle acque saranno inaccessibili
per nove mesi all’anno. “Io sono cresciuto qui, e pesco da quando avevo sei anni”, mi ha detto
Mike James. “L’esercito è importante, ma siamo importanti anche noi”.

Più le minacce si moltiplicano, più la resistenza si rafforza. Gli attivisti di Noi siamo Guåhan e
altri ambientalisti hanno cominciato a infiltrarsi nei palazzi del potere e della cultura. Won
Pat-Borja, l’insegnante, è responsabile della commissione sulla decolonizzazione, un’agenzia
del governo che punta a cambiare i rapporti politici di Guam con gli Stati Uniti. Bevacqua è
diventato un leader del movimento per la rinascita della lingua chamorro. Altri sono diventati
direttori di case editrici, insigni operatori sociali, avvocati di primo piano e scrittori. Camacho,
l’avvocato, nel 2018 è stato eletto procuratore generale di Guam. Il suo ufficio ha citato in
giudizio l’esercito per costringerlo a pagare la bonifica di una vecchia discarica della marina da
cui fuoriuscivano sostanze tossiche.

Da sapere
Lontani da Washington

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◆ Guam è l’isola più grande dell’arcipelago delle Marianne, nell’oceano Pacifico


occidentale. È sotto il controllo degli Stati Uniti dal 1898, quando la Spagna la cedette al
governo di Washington (insieme a Puerto Rico e alle Filippine) alla fine della guerra ispano-
americana. Secondo la legge statunitense, Guam è un “territorio non incorporato”. Chi nasce
sull’isola è cittadino degli Stati Uniti. Gli abitanti eleggono direttamente il loro governatore e
un parlamento unicamerale formato da 15 senatori. Scelgono anche un delegato (senza diritto
di voto) alla camera del congresso statunitense, ma non possono votare alle elezioni
presidenziali. Dal 2019 la governatrice è Lou Leon Guerrero, del Partito democratico.

◆L’isola conta circa 160mila abitanti, in grande maggioranza appartenenti alla comunità
chamorro, popolo indigeno di Guam e delle isole Marianne. La lingua più diffusa è l’inglese.
La religione principale è il cattolicesimo.

Un’altra organizzazione, Prutehi Litekyan, ha portato la lotta sulla scena internazionale. Con
l’aiuto di uno studio legale di Guam, ha presentato un reclamo al relatore speciale delle
Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni; in risposta, tre relatori speciali dell’Onu hanno
inviato una lettera al governo di Washing­ton in cui esprimono preoccupazione per le violazioni
dei diritti umani e civili dei chamorro, aprendo la porta a ulteriori iniziative internazionali. Il
gruppo Prutehi Litekyan è perfino riuscito a far eleggere due suoi attivisti all’assemblea
legislativa di Guam. E attacca i funzionari pubblici considerati troppo ossequiosi nei confronti
dell’esercito.

Il rumore della foresta

Per molti chamorro visitare Pågat, l’area salvata dai poligoni, è un’esperienza spirituale.
Scendendo da frastagliate formazioni rocciose di calcare nella giungla foltissima, si
raggiungono alcune grotte in cui si può attraversare a guado la falda acquifera di Northern
Lens in uno dei pochi luoghi in cui affiora alla superficie. Passate le grotte, si cammina tra
schegge di terracotta, mortai scavati nella roccia e pali di pietra su cui i chamorro costruivano
le loro case, tutti resti che vanno dal 900 al 1700 dC. Il silenzio della foresta è infranto solo dal
rumore dei passi e delle lucertole che scappano via, almeno fino all’arrivo con un frastuono
assordante di un aereo o di un elicottero militare. Serve a ricordare che, anche se hanno
preservato questo luogo, i chamorro non sono riusciti a cambiare i rapporti di forza sull’isola.

“A livello locale non puoi incidere realmente su quello che sta succedendo”, ammette Cara
Flores, attivista di Noi siamo Guåhan e fondatrice di una società di produzione chamorro.
“Alla fine è Washing­ton a decidere”. E il congresso ha deciso di militarizzare ulteriormente il
Pacifico. Oltre a Guam e al resto delle Marianne, sta studiando la possibilità di costruire nuove
basi nella vicina Repubblica di Palau e negli Stati Federati della Micronesia, isole nazione a cui
gli Stati Uniti hanno un accesso militare esclusivo. Washington sembra più interessata a

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intimidire la Cina che ad ascoltare le comunità indigene, destinate a rimanere intrappolate nel
fuoco incrociato. ◆ gc

Questo articolo è uscito sul numero 1438 di Internazionale, a pagina 56.


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