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5.

La mattina dopo mi alzai di gran carriera, dato che dovevo andare all’università. La mia sveglia era suonata
già da una mezz’ora quando uscii dalla mia stanza dopo la doccia e mi diressi in cucina. Lì c’era il mio angelo
custode, Vero, che non aveva ancora iniziato il lavoro a Verona e stava, perciò, ancora facendo i bagagli:
sarebbe partita quel weekend e non volevo che partisse senza aver visto il mio ragazzo.
-Buongiorno.- iniziai io.
-‘Giornissimo!- rispose lei, sprizzando felicità da tutti i pori.
-Cos’hai? Non sarà mica la tua partenza, vero? Perché sai che piangerò mentre ti abbraccerò e ti vedrò sul
treno.
-Lo so e sarà la stessa cosa per me. Non preoccuparti, starò bene.- e dicendo ciò si diresse in salotto e si
mise sul divano. La seguii.
-Cosa vorresti dire? Che io starò bene?- dissi io tra l’allegro ed il triste.
-Sì, perché tu sei forte e ce la farai. Io non so se ce la farò davvero a rimanere lontano da te.
La guardai a lungo e provai a studiare il suo volto: non riuscivo bene a capire se stesse facendo finta, ma poi
capii che stava dicendo sul serio, anche perché le vidi scendere sulla guancia una lacrima.
-Ehi, Vero… stai tranquilla.- iniziai io, sedendomi accanto a lei sul divano. Le passai una mano dietro la
schiena, per consolarla. Lei si appoggiò sul mio petto e singhiozzava silenziosamente. –Andrà tutto bene,
davvero. Ti chiamerò ogni sera, staremo in videochiamata insieme e potremo anche mangiare… oddio, che
schifo, ugh…- conclusi io, con una risata. La frase ebbe l’effetto voluto, ovvero di far ridere Vero. Si staccò
da me e si soffiò il naso. Poi mi guardò e tornò a ridere, indicando un punto sulla mia maglia arancione: mi
aveva lasciato una sbavatura di mascara.
Mi alzai immediatamente e dissi: -Oh, cazzo… mi devo pure cambiare adesso. E non sei divertente.- la
ammonii, dato che non smetteva di ridere. Purtroppo la sua risata era contagiosa e non potei non ridere
anche io. Col ritorno della felicità nella nostra casa, mi diressi in camera e mi cambiai la maglia.
Mi venne improvvisamente l’idea di far incontrare Fede e Vero. “Dato che lui ci ha presentato la sua
famiglia, perché noi non gli presentiamo la nostra?”, mi ricordò la mia mente. Ma poi mi passò l’immagine
di una pozza di sangue e di un maglione magenta, e mi sentii mancare l’aria. Respirai e decisi di non
pensarci più, di lasciare di lei solo i ricordi belli. Non era facilissimo, ma ci avrei sicuramente provato.
Tornato in salotto, vidi Vero che si era sistemata il mascara ed il filo di eyeliner sugli occhi dopo il suo pianto
improvviso.
-Che ne dici se oggi, dopo che ho finito lezione, ti faccio incontrare Fede?- esordii io.
-Ehm… fammi pensare… sì, non c’è problema. Mi passi a prendere tu dopo?
-Okay, dove vuoi che ti venga a prendere?
-Anzi no, facciamo che vengo io all’università alle tre e poi andiamo in quella pizzeria lì vicino.
-Va bene. A dopo allora, se no faccio tardi.- conclusi io, schioccandole un bacio sulla guancia ed uscendo di
casa.
Passati i soliti quaranta minuti di metro, scesi alla fermata dell’università, salii le scale della stazione e vidi il
mio fidanzato appoggiato al nostro angolo di paradiso. Mi avvicinai e lui mi salutò col suo sorriso
meraviglioso, che mi scaldava ogni volta che lo guardavo: -Buongiorno.
-‘Giorno, Fred!- risposi io con una risata.
-Smettila!
-Ma dai, è carino, Fred.
-Non lo dire mai più!
-Va bene… senti, oggi pomeriggio ti faccio conoscere la mia migliore amica, Veronica. È dolcissima, la
conosco da molto tempo e vorrei che la incontrassi. È okay per te?
-Sì, certo. A che ora?
-Alle tre, mi ha detto che ci saremmo incontrati qui fuori, dopo le lezioni. Credo vada bene, no?
-Sì e no. Perché avevo in mente altri progetti con te oggi…- disse lui con un sorriso malizioso. Mi sentii
arrossire e dato che Federico se ne accorse, riprese subito, con fare tranquillante. –No, a che stai
pensando? No. Tranquillo, non sono così stupido: mi hai detto che non lo avevi mai fatto con un maschio?
Bene, nemmeno io, quindi ho pensato che magari era perché non ci conoscevamo abbastanza, così non ho
preso impegni per oggi. Andiamo a farci un giro, dai.- concluse lui, prendendomi per mano. Era la prima
volta che lo facevamo in pubblico, ma non mi sentivo terrorizzato, anzi cominciavo già a farci l’abitudine,
come si suole dire.
-Ma ho lezione.- feci io, innocente. Morivo dalla voglia di conoscerlo meglio, anche se sapevo già molto di
lui.
-Che ti importa, su… ci divertiremo.- queste due ultime parola me le sussurrò all’orecchio, con voce
suadente e poi scoppiò a ridere.
-Smettila, mi stai mettendo in imbarazzo.
-Va bene, basta.- disse lui, dopo aver finito la sua risata che mi mise ancora più in imbarazzo. –Okay, da
questa parte.
Lo seguii verso la sua decappottabile e salii dalla parte del passeggero. Federico guidò per qualche minuto
fino ad un parco lì vicino, di cui non conoscevo minimamente l’esistenza. Scendemmo e lui prese dal
bagagliaio due asciugamani da mare. Anche se era pieno autunno, quella giornata si prospettava
abbastanza soleggiata; il tutto naturalmente accompagnato dal solito vento che odiavo.
-Che ci dobbiamo fare con quelli?- chiesi io.
-Vedrai.- disse lui.
Gli andai dietro mentre si dirigeva verso una collinetta alla fine della distesa verde. Adagiò i due teli
sull’erba e si allungò su uno. Indicò l’altro telo vuoto e mi invitò a sdraiarmi con lui.
-Che facciamo?- dissi io, spezzando il silenzio che era sceso.
-Be’, ci conosciamo meglio. Cioè: io faccio una domanda a te, su qualsiasi argomento e tu mi rispondi. Poi
viceversa. Ci stai?
-Okay!- Wow, mi stava dando libera richiesta su qualsiasi fatto della sua vita ed io non potevo resistere. –
Vai, prima tu.
-Certo. Allora… ti ho parlato della mia famiglia: che mi dici dei tuoi?
Avevo paura di questa conversazione, ma prima o poi avrebbe dovuto accadere.
-Sono orfano…- iniziai con la voce più tranquilla che riuscii a trovare. Quella mattina mi ero promesso che
non avrei più pensato al maglione di mia madre e invece nella mia mente fluttuava solo quello. Guardai
Federico negli occhi e li vidi spegnere, li vidi dispiacersi e non volevo si sentisse in colpa.
-Oddio, Vale, scusami, non sapevo che…
-No, tranquillo, non preoccuparti.- lo interruppi io. -È giusto che lo sappia.
Così iniziai a raccontargli di come mia madre morì e come poi andai a vivere dai miei zii, i quali mi
finanziarono gli studi e mi trasferii dai genitori di Vero, i quali assunsero in qualche modo il ruolo di genitori.
Accennai solo di mio padre, ma non avevo davvero voglia di pensare a lui in quel momento.
La mattinata passò così: noi due, distesi sotto le nuvole, a ridere, scherzare, conoscerci. Alle due e mezza
ripiegammo i nostri teli e ripartimmo sulla decappottabile alla volta dell’università.

Trovammo Veronica nella sua Micra azzurra, posteggiata di fronte all’ingresso dell’università. Ci
avvicinammo passando dal marciapiede e lei, vedendoci arrivare da lì e non dal portone in legno
dell’edificio, ci guardò torvi, come una madre che rimprovera il figlio col solo sguardo.
-Ciao.- iniziai io per rompere il ghiaccio. Mi sentivo in imbarazzo, lì, tra quei due estranei ma che io
conoscevo quasi meglio di me. (“Be’, Veronica sì, Federico no.”)
-Ehm… Veronica, Federico. Federico, Veronica.
-Ecco fatte le presentazioni, visto?- esordì Vero, con quella vocetta sempre allegra e propositiva.
Entrambi risero e si strinsero in un mini abbraccio. Vidi Federico un po’ impacciato e fui contento che
comunque era felice nonostante la “leggera invasione di campo” della mia migliore amica.
-Ora andiamo, dai. Vi porto io, con la mia macchina. Anche se è un po’ piccolina, ci entreremo tutti.
Lasciai passare Federico sui sedili posteriori, su cui si sedette come se fossero d’oro (mi faceva davvero
tenerezza il fatto che si curasse degli oggetti che non erano neppure miei); poi mi posizionai sul sedile del
passeggero e partimmo.
I seguenti quindici minuti di macchina furono i più silenziosi di tutti la mia vita: Federico al sedile posteriore
guardava fuori dal finestrino e chissà a cosa stesse pensando. Un pensiero fuggiasco che in quel momento
mi attraversò la mente diceva che stesse pensando a me, ma lo scacciai subito.
Al mio fianco, Veronica aveva gli occhi fissi sulla strada e la sua espressione era solare: mi chiesi come fosse
possibile essere così solare sempre e comunque, qualsiasi cosa succeda; poi mi ricordai che lei era
Veronica.
Arrivati davanti alla pizzeria, scendemmo dalla Micra e entrammo nell’edificio. Ci andavo da piccolino con
mia mamma nelle domeniche estive in cui non avevamo nient’altro di bello da fare. Poi, iniziata l’università,
era diventata tappa fissa dopo ogni esame che sostenevo.
Dovevano aver cambiato gestore da poco poiché era arredato in maniera diversa dall’ultima volta che ci ero
entrato: molto moderno, la sala era più spaziosa e capiente, i tavolini e le sedie erano diventati
rispettivamente di legno e d’acciaio, le pareti erano decorate con motivi vegetali e variopinti.
Ci fecero accomodare ad un tavolo al centro della stanza, tutti circondati da altri tavoli apparecchiati;
qualche altro tavolo era occupato, ma nel complesso l’atmosfera era tranquilla.
Arrivò un cameriere vestito casual con un grembiulino sulle cosce verde e con il nome della pizzeria.
Ordinammo le tre pizze, le bibite e poi si allontanò.
-Allora…- esordì Veronica. Mi si gelò il sangue. Non sapevo perché, ma visto che lei era la prima persona a
me legata che conosceva Federico, ero un po’ nervoso. –Valerio mi ha parlato molto di te.- mi sembrava
stesse parlando davvero mia madre e non sapevo se fosse inquietante o altro. –Mi ha detto che ti sei
trasferito qui da poco.
-Sì, effettivamente.- rispose Federico dopo aver tirato un sospiro. Speravo non si sentisse a disagio. –Mi
sono trasferito che sarà una decina d’anni da Latina, un paesino vicino Roma. Anche mia mamma e mio
fratello abitano qui, ma ci vivono da più tempo.
-E tuo padre?- chiese innocuamente Veronica. Temevo l’arrivo di questa domanda e sparavo con tutto me
stesso che Federico rispondesse con tranquillità. Cosa che mi sembrò fece.
-Lui… non ho un bel rapporto con lui. È partito qualche tempo fa per l’Iran. È un carabiniere, ma non ci
crede manco lui di esserlo. Per il resto, non ho altri parenti se non dall’altra parte dell’Italia. E tu invece?
Non sembra ma Valerio favella parecchio su di te.
Arrossii in quel momento. Le uniche volte (di cui, forse, mi resi conto) che ho raccontato di Veronica a
Federico erano il loro primo incontro, sotto il mio appartamento e oggi: magari ne parlavo senza
accorgermene.
-Be’, grazie Valerio che racconti tutti gli affari miei agli altri, eh!- disse la mia migliore amica e scoppiammo
tutti e tre in una risata. Fui felice che Federico era a suo agio con lei.
-No, va be’, scherzo, eh. Io… io ho sempre abitato qui, poi alle elementari ho incontrato questo qui e
abbiamo legato molto. I miei sono dei dentisti, quindi non è che siano chissà chi nel mondo esterno, però gli
voglio un mondo di bene. Per quanto riguarda me, invece, mi hanno preso da poco nel campo della
revisione giornalistica, cioè controllare che i pezzi giornalistici che devono essere pubblicati, online o sul
cartaceo, siano corretti.
-Davvero? Wow, complimenti.- rispose Federico.
-Grazie. L’unico problemino che incombe è che l’azienda si trova a Verona, quindi dovrò trasferirmi sei
giorni su sette lì.- Veronica mi lanciò uno sguardo di scuse ed io risposi con lo sguardo più incoraggiante
possibile: ero felice per lei, davvero, ma sarebbe stata una vera tortura vederla partire.
-Perciò, trattamelo bene mentre sono via.- concluse lei ridendo.
-Senz’altro.- rispose il mio fidanzato, appoggiandomi il palmo della mano sul dorso della mia. Mi si scaldò il
cuore.
Finalmente le pizze arrivarono e mangiammo con gusto, parlando del più e del meno e facendo domande
sporadiche sui nostri gusti musicali. Uscì anche l’argomento che la settimana dopo fosse il mio compleanno
e che non avessi organizzato niente. –Ci credo!- dissi io. –Ho tre amici in croce che vedo a un corso su
quindici, mezza volta alla settimana. Poi ho voi e basta. Che faccio?
-Be’, per iniziare io non lo sapevo.- mi provocò Federico.
–Come seconda cosa, potremmo fare una cena tranquilla noi tre, magari a casa mia, ordiniamo il cinese,
visto che a te piace molto e stiamo da me.
-Sì, dai, mi piace!- gli fece eco Veronica.
-Vediamo, vendiamo.- conclusi io.
Finito il pranzo ci fu un piccolo “litigio” per chi dovesse pagare il conto: alla fine vinsi io e pagai per tutti.
-Grazie, Vale.- mi fece Veronica.
-Grazie, tesoro.- le fece eco Federico, schioccandomi un bacio sulla guancia. Io avvampai come non mi era
mai successo: era la prima dimostrazione d’amore che facevamo in pubblico e non me l’ero aspettata per
niente. Guardai Federico e lui era tranquillissimo, come se non fosse accaduto nulla. Intanto Veronica, forse
imbarazzata forse no, stava uscendo dalla pizzeria. La seguimmo. Saliti in macchina l’atmosfera era tornata
alla normalità, chiacchiericcio e risatelle echeggiavano nella Micra e non c’era più il silenzio tombale che vi
era un paio d’ore prima.
Veronica ci lasciò davanti all’ingresso dell’università: ci disse che avremmo dovuto fare di nuovo un’uscita
insieme e Federico promise ciecamente di riproporla. Poi diede gas e si allontanò.
-Mi piace la tua amica.- disse Federico.
-Sono contento, dai. Finalmente siamo pari. Tu conosci Vero ed io conosco tua madre e tuo fratello, le
persone a noi più care.
In quel momento noi potei non pensare a Ginevra, la mia fidanzata. Era stranissimo avere un fidanzato ed
una fidanzata contemporaneamente, anche se quest’ultima non la vedevo da molto tempo; difatti era quasi
più di due settimane che non la vedevo, certamente i messaggi sporadici di mattina e di sera per dirci
“Buongiorno” o “Buonanotte”, per chiederci che stessimo facendo e roba così non mancavano. Ma non la
vedevo fisicamente da molto tempo e mi sembrava di tradirla. (“Ma perché, non lo stai già facendo?”)
-Onesto.- ribatté lui. -Senti, ti accompagno a casa?
-Sì, certo. Grazie.- risposi io e gli diedi un bacio sulla guancia.
Ci incamminammo verso la sua decappottabile rossa. Senza aspettare, come se la macchina fosse mia, salii
sul sedile del passeggero, pensando ancora al bacio che gli avevo rivolto. Federico guidò nello strano
traffico che si era formato in città e dopo una mezz’ora arrivammo sotto il mio appartamento. Ci salutammo
sulla soglia del portone: lui mi si avvicinò, mi strinse i fianchi tra le mani e mi baciò, come se fosse la prima
volta; io, di rimando, strinsi il suo collo tra le mie braccia e spinsi il mio volto verso il suo. Un bacio veloce
ma eterno, di cui non mi sarei scordato mentre salivo le scale del condominio.

Appena entrai nel mio appartamento, vidi sul divano Veronica e al suo fianco Ginevra: i suoi boccoli biondi,
gli occhi azzurri ed il trucco perfetto. Alzò lo sguardo, che incontrò il mio, e mi si gettò sul petto, facendomi
barcollare e aggrappandomisi come un koala.
-Amore!- disse lei, baciandomi sulle labbra. –Da quanto tempo non ci vediamo.
-È vero, tesoro.- risposi io, abbracciandola all’altezza della vita e stringendola più forte che potei. –Mi sei
mancata tantissimo!- ed era vero, perché anche se non sembra, io tenevo davvero tanto a lei ed alla mia
relazione con lei. –Che ci fai qui, amore?
-Ero passata per vedere come stessi e chiederti che progetti avessi per il tuo compleanno. Fai vent’anni e
vent’anni non si compiono mica due volte, eh.
-Eh, no.- la assecondò Veronica dal divano. Aveva come stampato un sorriso a trentadue denti: era sempre
stata entusiasta della nostra relazione e non potevo fare a meno di chiedermi se ne fosse più lei che io.
-Be’, a bene sto bene…e per il mio compleanno… ancora non so che fare, sinceramente. E tu invece? Come
stai?
-Bene, bene, grazie.- mi rispose baciandomi di nuovo: il suo sapore di mente invase la mia bocca e le mie
narici.
-Senti…- riprese staccandosi da me, ma tenendomi comunque gli occhi addosso. –Stavo pensando, no… che
magari potemmo andare, io e te da soli, in quella casetta in montagna dei miei, nel giorno del tuo
compleanno. Regalo anticipato, sorpresa!
Mancai un battito alle parole “io e te da soli”. La nostra solitudine era sempre stata a cena o in macchina
quando la accompagnavo a casa. –A quale casetta dei tuoi, Gi? Non me ne hai mai parlato!
-Sì che te l’ho detto, quando siamo andati a cena qualche settimana fa.
-Ah, sì. È vero, mi ricordo adesso.- risposi.
-Magari potremmo andarci tipo un giorno prima, stiamo la notte e poi il giorno dopo, di sera ce ne
andiamo…- continuò la ma ragazza.
Io rimasi pietrificato, con un espressione tra il sorpreso e l’inorridito: non sapevo che fare, perché avevo
tanta voglia di passare del tempo da solo con Ginevra, ma dall’altra parte c’era Federico con cui volevo
stare e non lasciarlo da solo. Tuttavia accettai l’offerta. –Va bene, tesoro. Andiamo il giovedì e poi venerdì
potremmo tornare dopo aver cenato. Che ne dici?
-Sì!- replicò lei entusiasta. Mi si avvicinò di nuovo, mi gettò le braccia al collo e mi baciò. Io feci come aveva
fatto Federico con me: le strinsi le mani sui fianchi e spinsi i nostri corpi l’uno contro l’altro. Mentre la
baciavo, volsi lo sguardo verso Veronica, ancora seduta sul divano ed indaffarata col suo cellulare, ma la
quale in quel momento mi rivolse un’occhiata che interpretai molto probabilmente nella maniera giusta: “E
Federico?”. Poi col labiale, come a continuare ciò che aveva espresso la sua occhiata, mi disse: “Tu sei tutto
scemo.”

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