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4.

La mia mente era annebbiata, ma le mie gambe si mossero automaticamente, come se avessero saputo già
cosa fare. Ancora con le labbra sulle mie, Federico iniziò ad indietreggiare tirandomi con sé. Le sue mani
indugiarono sul mio giubbotto, sfilandomelo dalle spalle e dalle braccia, sempre rimanendo attaccato a me.
Anche io, di risposta, lo imitai, sfilandogli il chiodo di pelle e buttandolo sul divano alla mia sinistra.
Passammo poi alle felpe, prima io la sua e poi lui la mia, e restammo solo con le magliette intime: anche
così, con quell’infimo strato di cotone, i suoi muscoli dell’addome e delle spalle si scolpivano man mano che
la mia mano vi strusciava. In quel momento eravamo arrivati nella sua camera e d’impeto ci lanciammo sul
letto, il mio torace sul suo addome scolpito e i nostri visi ancora l’uno spinto sull’altro.
Ci baciammo a lungo, il sapore di limone mi esplose in bocca in maniera eclatante, come una boccata d’aria
fresca, come se fosse linfa che rigenera.
In un momento di pausa ci spogliammo anche degli indumenti rimasti e ci avvinghiammo nuovamente a
dorso nudo, questa volta lui sopra di me.
Le sue mani indugiavano su di me, accarezzandomi e lisciandomi i capelli di tanto in tanto; io, d’altro canto,
ero come paralizzato, sotto shock, rimasi con gli occhi chiusi per godermi il momento e ricordarmene il più
possibile. Anche se aveva le labbra già piene di baci, non smise un attimo nel baciarmi anche sul collo, sul
petto e sull’addome, passandomi le dita perfino dietro la schiena, facendomi salire un brivido lungo la spina
dorsale.
Diresse la sua mano verso la cintura dei miei pantaloni per sbottonarli, ma a metà strada lo fermai: non ero
davvero sicuro di volerlo fare, per la prima volta tra l’altro, in quel momento. Lo conoscevo appena. Avrei
potuto permetterlo con Ginevra, semmai, dato che la conoscevo da cinque anni, ma Federico, su quel
punto di vista, era un estraneo per me.
“Sei sicuro, Valerio?”
Be’, in fin dei conti, dopo averci pensato arrivai alla conclusione che conoscevo meglio Federico che
Ginevra: sapevo che a lui non piaceva il caffè zuccherato perché gli dava fastidio alla gola; sapevo che
odiava le scarpe eleganti; sapevo che indossava sempre lo stesso paio di scarpe perché erano l’unica cosa
che gli era rimasta del padre; sapevo che aveva affittato quell’appartamento grazie al suo professore di
chimica delle superiori, il quale lo aveva spinto a trasferirsi al nord. Però ancora non ero pronto per questo.
Ero sicuro di non esserlo. Perciò lo fermai a metà strada e gli dissi: -Senti, Fede… non credo davvero sia il
momento.- mi alzai a sedere e lui si spostò di lato a me, assumendo un’espressione confusa. –Non so che
ne pensi tu, ma per me questo momento è molto importante e ora non mi sento proprio pronto. Scusami
davvero.
Federico mi rivolse uno sguardo tra il compassionevole e l’affranto. –Oh… scusami Vale, non intendevo
offenderti e scusami se l’ho fatto.- detto ciò, si alzò dal letto e iniziò a rivestirsi, comprendo il suo addome
scolpito.
-Non scusarti. Devi sapere che con un ragazzo è la prima volta per me. Lo stare insieme, dico.
Lui non disse altro e, come offeso, si diresse in cucina. Allora, anche io mi alzai dal letto e mentre infilavo la
maglietta intima iniziai a pensare a ciò che era appena successo; a quanto velocemente era successo. La sua
bocca sulla mia, le nostre mani che esploravano il corpo dell’altro come un campo già conosciuto, il sospiro
di lui sul mio collo.
Non volevo perderlo, ero davvero dispiaciuto di averlo fatto sentire in colpa, non era mia intenzione. Lo
amavo davvero, non c’era dubbio su quello, ma farlo per la prima volta con lui che, in fin dei conti, lo
conoscevo appena non me la sentivo proprio. Perché, pensandoci, la mia prima volta l’avevo sempre
immaginata dopo il matrimonio, con mia moglie, in una crociera.
“Questo posto sembra un po’ diverso da una crociera e la tua amata è un lui.”, disse una voce dentro di me.
Scacciai quel pensiero e seguii Federico in cucina per scusarmi.
-Ehi: spaghetti o rigatoni?- esordì lui appena mi vide, come se non fosse accaduto niente nei cinque minuti
precedenti.
-Ehm, rigatoni.
-Perfetto. Ti dispiacerebbe apparecchiare di là in salotto, sempre se ti va di rimanere a cena?
-Certo, sì.- dissi io, dissimulando il mio senso di colpa con un sorriso. E lui sembrò cascarci. Presi la tovaglia
dal cassetto della cassettiera e apparecchiai due posti, uno di fronte all’altro.
Tornai in cucina per aiutarlo, ma prima feci una sosta per prendere dalla tasca del mio giubbotto il cellulare
e messaggiare Vero.
“Rimango a cena fuori”
“Sei con Federico?”
“Forse”
-Va bene pasta al sugo?- arrivò la voce dall’altra stanza.
-Sì, la mia preferita.
Appena pronta la cena ci sedemmo a tavola e accendemmo la tv per vedere un film; come faceva sempre,
Federico lasciava a me la scelta e optai per un classico Marvel “Captain America – Civil War”.
Dato che, a mezz’ora di film, nessuno ancora aveva detto niente, decisi di rompere quel silenzio infernale.
-Senti, Fede… per prima, quando eravamo in camera da letto...- il suo sguardo era ancora fisso sulla tv,
come se non mi avesse sentito minimamente. Io continuai: -Non so come ti sei sentito, ma volevo scusarmi
per averti fatto sentire in colpa. Davvero, non era mia intenzione offenderti.
-Non devi scusarti, ho avuto una giornata un po’ così e tu sei l’unica cosa bella che mi è successa da
stamattina.
Avvicinai la mia mano verso la sua, presi le sue dita nel palmo e le accarezzai con il pollice. Un gesto piccolo,
infimo, quasi fatto con noncuranza, ma mi sembrò farlo più tranquillo, al sicuro.
-Che è successo?- chiesi subito dopo.
-Ma, niente, un coglione al bar di mia madre.
-Da quando tua madre ha un bar?
-Da sempre, è come se io avessi vissuto lì e cresciutoci.
-Non me ne avevi mai parlato. Dai, dimmi qualcos’altro, per favore. Se non è un problema, naturalmente.
-Va bene.
Ero molto felice che lui mi raccontasse qualcosa di lui. Ogni volta che parlava lo ascoltavo con ammirazione,
come quando un bambino è davanti al negozio di giocattoli. Per me lui è il miglior giocattolo che io avessi
mai desiderato.
-Be’, la mia storia non è una di quelle che iniziano con “C’era una volta” e non è quindi una storia a lieto
fine; mio padre è un carabiniere, un maresciallo, ed è stato chiamato in Iran per coprire il ruolo; in pratica
non lo vedo mai, ci manda dei soldi d’estate, ma è come se non avessi un padre. L’unico ricordo bello che
ho di lui è la prima volta sulla bici, al terrazzino davanti casa. Per il resto, è stato un coglione ubriaco che si è
disintossicato e per far vedere a tutti che c’era riuscito allora ha studiato ed è diventato un carabiniere. Poi,
non so se te l’ho detto, ho anche un fratello più piccolo, si chiama Filippo ed è come un figlio per me,
perché mamma ne è rimasta incinta poco prima che papà partisse per la guerra, e di conseguenza ho
dovuto crescerlo io. Per quanto riguarda mamma, be’, già te ne ho parlato: il bar lo ha ereditato da mio
nonno, che è andato in pensione da una decina d’anni, e da quel momento ho vissuto lì, giorno e notte,
notte e giorno; ho dovuto, per convenienza, imparare anche a lavorare lì, dato che c’è stato un periodo, un
paio d’anni fa se non sbaglio, in cui abbiamo avuto davvero difficoltà a pagare le bollette, tanto che non
trovavamo soldi per mangiare. Fortunatamente, cresciuto un po’, ho trovato un lavoretto e sono riuscito a
finanziare i miei studi qui all’università. Poi, quest’anno, quando papà ci ha mandato i soldi, mamma li ha
passati tutti a me e ho comparto questo appartamento appena arrivato qui: mi ha detto che lei e Filippo se
la cavavano e che non c’era bisogno mi preoccupassi per loro.
Federico si bloccò. Non si era mai spinto così tanto a raccontarmi della sua vita, solitamente si limitava a
dirmi qualcosa del suo passato d’infanzia, ma la sua storia non l’avevo mai sentita.
-E quindi… eccomi qui.- concluse lui.
-Wow, non pensavo che avessi un fratello più piccolo, ho sempre pensato fossi figlio unico.
-Be’, no.- rise lui. Adoravo quando rideva di spirito, come in quel momento. –Vorresti conoscerlo?
-Cosa?
-No, dico: vorresti conoscere Filippo?- Avevo capito benissimo la prima volta, ma non credevo me lo
avrebbe chiesto così d’istinto.
-Sì, mi piacerebbe.
-Perfetto, allora prendi il giubbotto che andiamo.
-Ok.
Presi i piatti per sparecchiare la tavola, ma lui mise una mano sulla mia e me la spinse verso il tavolo perché
io posassi le scodelle.
-Lascia stare, Vale. Ci penso dopo. Andiamo.
Lasciai le scodelle sul tavolo, afferrai il giubbotto e uscimmo di casa. Al portone, attraversammo la strada
verso la sua decappottabile e lui mi offrì il posto di guida. All’inizio non volevo, ma lui insistette e così salii al
posto del guidatore. Perfino quel sedile sapeva di lui, la pelle emanava l’odore di buono di Federico e mi
sentii a mio agio, come se lui mi stesse abbracciando.
Guidai per una decina di minuti sotto le sue indicazioni e ci fermammo davanti ad un’insegna in legno
lavorato ed intagliato con la scritta “Da Barbara”. Entrammo nel bar e subito mi travolse un odore di pulito,
come se avessero appena lavato a terra. Difatti, dentro non c’era nessuno, era tutto vuoto e gli sgabelli
erano appoggiati sul bancone capovolti.
-Ehi, mamma! Sono io!- gridò Federico verso una porta all’altro angolo della stanza.
Nello stesso istante uscì una signora graziosa, leggermente in carne e con un sorriso accogliente stampato
sulla faccia. Indossava un maglione fucsia di lana e un paio di jeans, coperti da un grebiulino verde da
cameriera.
-Federico, figlio mio. Come stai? Che ci fai qui?- disse la signora, abbracciando suo figlio con tutta la forza
che aveva in corpo.
-Bene, mamma, bene. Sono passato qui perché volevo farvi conoscere.- e indicò me. –Mamma, questo è
Valerio, un mio amico di corso. Ci siamo conosciuti da poco, ma andiamo molto d’accordo.
Io, imbarazzato, allungai la mano per stringere quella della mamma di Federico, ma non feci in tempo a
toccarla che stava stringendo anche me tra le sue braccia. La signora Fontana profumava esattamente
come suo figlio e non potei fare altro che pensare fosse una cosa di famiglia avere un profumo così buono.
-Ehi, mamma, staccati.- disse Federico cercando di scollare l’abbraccio caloroso di sua mamma da me. Poi si
rivolse a me: -Scusala.
-No, e di che. Anzi, mi ha fatto piacere conoscerla, signora Fontana, davvero.
-Vedi, Fred, non essere così scortese.- rimproverò la signora Fontana. –Comunque sia, caro, puoi chiamarmi
tranquillamente Barbara. Oddio, cosa facciamo ancora in piedi? Venite, ragazzi, accomodiamoci qui.
E così dicendo ci guidò verso un tavolo di legno, levigato e accompagnato da un set di sedie ben trattate. Ci
sedemmo e Barbara ci offrì un drink.
-No, grazie.- risposi io. –Un bicchiere d’acqua va benissimo, grazie.
Quando si allontanò mi rivolsi a Federico. –Fred? Che bel nome!- dissi ridendo.
-Lascia stare, non potrò più liberarmi da questo nomignolo. Sono dieci anni che mi chiama così e ormai ci
ho fatto l’abitudine, ma in sincerità? Lo odio.
-No… perché? È tanto carino, Fred.
-Non chiamarmi così.
-D’accordo, Fred.- conclusi io, ridendo e beccandomi un pugno sul braccio da Fede.
In quel momento, mentre la signora Fontana si avvicinava al nostro tavolo, un bambino sui dieci anni sbucò
dalla porta sul retro e corse verso Federico.
-Fede! Non ci credo, sei qui!- esultò il bambino, che dedussi fosse Filippo, il fratello di Federico, gettando le
mani al collo del mio fidanzato. (“Cosa?”)
-Sì, Filo, sono qui.- rispose Federico abbracciando il fratello.
-Che ci fai qua, al bar? Pensavo avessi scuola.
-Be’, per cominciare ora è buio quindi è un po’ impossibile fossi a scuola, ma ho deciso di fare un salto al
bar per farti conoscere una persona. Filo, questo è Valerio, un mio amico di scuola. Valerio, questo è
Filippo, mio fratello.
-Piacere di conoscerti, Filippo. Come stai?
-Bene, grazie.- rispose il bambino. Mi faceva una tenerezza incredibile e la complicità che aveva col fratello
era ancora più carina. Non riuscivo davvero ad immaginarmi un Filippo neonato tra le braccia di un Federico
adolescente, mentre la signora Fontana serviva birre ai motociclisti al bancone.
Intanto, la mamma di Federico aveva distribuito le bevande e poi si sedette di fronte a me, prese il suo
bicchiere di Crodino ed iniziò a sorseggiarlo. Io, al contempo, afferrai il mio bicchiere di acqua.
-Quindi, Valerio…- iniziò la signora Fontana. Lanciai uno sguardo verso Federico che iniziò ad agitarsi sulla
sedia.
–Che studi fai oltre dizione?
-Be’, ecco, studio recitazione: vorrei diventare un regista.
-Wow, che bello! Invece il mio Fred ha sempre parlato e sognato di diventare uno speaker radiofonico, con
le cuffie e il microfono. Da piccolo anche stava sempre con le cuffie che gli aveva regalato suo nonno. Non
se le toglieva mai.
-Be’, cosa vuoi, era il primo regalo sensato che mi facevano, dopo vestiti e vestiti e vestiti.- rispose lui di
rimando alla madre, sorridendo.
Azzardai a fare una domanda io, a Filippo. –Ehi, Filippo, tu invece che scuola fai?
-Io faccio la quinta!- disse lui con entusiasmo, felice che potesse far parte anche lui della conversazione.
-La quinta? Ma davvero? Allora sei già un ometto, vero?
Aiuti già la mamma, mi ha detto tuo fratello.
-Sì, è vero. Porto l’acqua ai tavoli, pulisco il bancone quando non c’è nessuno e poi faccio i compiti.
-Ma sei bravissimo!- conclusi io sorridendogli. E lui ricambiò il sorriso ed io mi accorsi quanto somigliasse a
suo fratello. Avevano entrambi lo stesso taglio degli occhi, ma Filippo li aveva marroni, al contrario di
Federico; anche la corporatura snella e agile era la stessa. Quando ridevano, ad entrambi uscivano le
fossette sulle guance.
La signora Fontana si alzò perché aveva appena squillato il telefono. –Oddio, scusatemi.
Appena fu scomparsa nel retro, Filippo abbassò il tono della voce: -Sì, però la mamma è sempre triste. Solo
quando le parlo sembra tirarsi su di morale, l’altro tempo fa qualche sorriso esclusivamente quando serve
le portate ai tavoli o le birre alle persone al bancone. Non so che fare.- disse Filippo tutto d’un fiato, con
uno sguardo melanconico sulla faccia e guardandosi le mani.
Alzai lo sguardo verso Federico: mi stava guardando con un senso di allarme mista a “vergogna”(?). Così mi
venne in mente una cosa.
Slacciai il braccialetto che avevo al polso e mi inginocchiai vicino a Filippo. –Metti questo, Filo. È un
braccialetto magico, sai? Me lo ha dato la mia mamma quando avevo la tua età. È speciale perché ti dà la
forza di vedere sempre il lato positivo delle cose, anche quando non sai che fare. Mi prometti che lo
indosserai?
-Sì.- disse lui con un tono entusiasta.
-Mi raccomando, è un segreto. Shh.- conclusi io a bassa voce, scompigliandogli i capelli.
-Va bene, croce sul cuore.
Tornai al mio posto e guardai Fede che ricambiava il mio sguardo, con gli occhi lucidi. Era bellissimo seppur
con le lacrime agli occhi: la pelle curata, il naso perfetto come sempre e i suoi occhi grigioverdi
profondissimi, in cui mi ci sarei potuto perdere.
In quel momento tornò nella stanza la signora Fontana che si scusò ancora e ci spiegò che dovette
rispondere perché era il fornitore di caffè che avrebbe ritardato la sua consegna.
-Va bene, mamma. Noi, mi sa che ci avviamo. Va bene, Vale?- esordì Federico dopo un momento di silenzio
mentre si alzava dal suo posto.
-Come vuoi tu.
-Già andate?- chiede Filippo con una voce mezza affranta.
-Eh, sì, Filo.- disse Federico. –Domani abbiamo scuola e ci serve un po’ di riposo. E mi raccomando, vai a
dormire che domani anche tu hai scuola. E prenditi cura di mamma.
Detto questo, Federico si avvicinò alla madre e le baciò la fronte. –Ciao, Fred.- lo salutò la signora Fontana.
Poi si alzò a sua volta, fece il giro del tavolo e venne ad abbracciarmi.
–Ci vediamo alla prossima, Valerio. Lancia un occhio a questa bestiola qua.- mi ragguagliò indicando
Federico.
-Senz’altro, signora.
-Oh, caro, chiamami Barbara.
-Va bene, Barbara.- dissi io ed esplodemmo in una risata.
Vidi che Federico si stava alzando da in ginocchio dopo aver salutato suo fratello. –Vogliamo andare?- mi
chiese.
-Sì, andiamo.
-Va bene, mamma, ci sentiamo per telefono e quando sarà possibile faremo un altro salto.
-Perfetto. Vi aspetto!- rispose Barbara.
-Ciao, Fede! Ciao, Vale!- ci salutò Filippo con un gesto della mano mentre uscivamo dal bar.
Attraversammo la strada, entrammo nella decappottabile rossa (‘sta volta guidava lui) e mi riaccompagnò a
casa.

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