Sei sulla pagina 1di 20

SAPERI E LINGUA A KPETEBONU∗

Franco Crevatin
Università di Trieste

È da poco più di un secolo che la linguistica si interroga sul rapporto tra pa-
role e cose ed ogni epoca ripensa, nel modo che le è proprio, la natura di tale
rapporto; se c’è qualcosa che abbiamo capito è che i Wörter non sono sem-
plici parole né le Sachen semplici cose. L’idea, per parafrasare una celebre
frase di Gertrude Stein, che «un martello è un martello è un martello», idea
cara a molta generosa paleontologia linguistica alla Schrader e Nehring, si è
rivelata di una commovente ingenuità. A titolo d’esempio ricordo due casi
piuttosto semplici. Nel veneziano del XVI secolo (Cortelazzo 2007 s.v.) la
parola cortesana designava ovviamente una meretrize che non era una
putana, era – per dirla con le parole riferite alla celebre Giulia Leoncini –
una somtuosa meretrize (M. Sanudo), una donna di garbo capace di
intrattenere piacevolmente i propri ospiti, donna di lettere e di cultura come
ad esempio Veronica Franco (1546-1591), cortigiana e rinomata poetessa: la
differenza era tanto piú evidente perché si basava sul diritto, la cortigiana
aveva privilegi che erano ignoti alle prostitute (v. ad es. Santore 1988 p. 47).
La Serenissima del XVI secolo apprezzava talmente queste figure da aver
dedicato loro un prezioso catalogo, il Catalogo di tutte le principal et più
honorate cortigiane di Venetia (Toso Ambrosini 1984).
Nella Storia Segreta, il celebre testo mongolo del XIII secolo, si narra
che Činngis qan fece scrivere alcune sue importanti decisioni nel kökö
däbtär il “registro azzurro” (§ 203): cosa si debba intendere esattamente per
‘azzurro’ resta poco chiaro1 (Ramírez Bellerín 2000 p. 261 n. 1976), ma è


Questo saggio nasce in absentia: non essendomi stato possibile partecipare ai lavori del
Convegno per cui non escludo che quanto dirò possa sovrapporsi ad altri interventi e rientri
nel iam dictum. Se può essere una giustificazione – e probabilmente non lo è – esso riflette
parte delle mie esperienze di africanista e dunque non dovrebbe essere in se stesso
ripetitivo. Kpetebonu è un villaggio di savana nella prefettura di Sakasú (Côte d’Ivoire). Si
tenga conto del fatto che la società alla quale qui ci si riferisce è di piccole dimensioni, a
trasmissione orale e caratterizzata da un basso contenuto tecnologico.
1
La glossa cinese qingce potrebbe esser interpretata come “notazione su tavolette di
bambù”.

Parole. Il lessico come strumento per organizzare e trasmettere gli etnosaperi,


Prantera N.-Mendicino A.-Citraro C. (a cura di), Centro Editoriale e Librario,
Università della Calabria, 2010: 289-308.
290 Franco Crevatin

facile riconoscere in däbtär una parola ben diffusa nelle lingue turche
antiche (Nikitin 1969 p. 161; ad es. uiguro dell’VIII sec. tepter) di origine
ultima greca (διϕθέρα) ed arrivata in Asia centrale via aramaico o siriaco
(dptr’, pl. dyptrs “registro delle razioni, pergamena”) > pahlavi (daftar
“registro, libro dei conti”)2; nel sogdiano la parola non è per ora
documentata. Al fondo la fortuna della parola è dovuta ad un fatto tecnico,
ossia all’uso della pergamena per preparare quei piccoli e maneggevoli
libretti (i codices della terminologia latina) che venivano appunto usati per
appunti, registri commerciali e simili umili ed ineliminabili bisogni3.
Le ‘cose’ associate alla cortesana ed al däbtär non sono semplici
referenti; nel primo caso ci sono norme ed abitudini sociali, nel secondo
caso il protagonista è il commercio prevalentemente sogdiano con l’Asia
centrale (de la Vaissière 2002) e il diffondersi della cultura, scrittura, ed
amministrazione sogdiane su spazi immensi4, in una parola le Vie della
Seta. L’Asia centrale – ben è stato detto – è un oceano di terra le cui onde
sono popoli (F. Maraini): un grecismo scrittorio è arrivato alla corte dei qan
mongoli e per altre vie un cinesismo altrettanto legato alla scrittura è entrato
in Europa ed è conservato nello slavo (e non solo) *kъniga “libro”.
Ma un martello – si dirà – resta sempre un martello ed una prostituta una
prostituta. Questa posizione è pericolosa proprio perché contiene un fondo
di verità: in effetti siamo tutti pronti a riconoscere che un martello non è uno
scalpello e che una prostituta non è una badessa: enfatizzare questo assunto
equivarrebbe tuttavia ad ammettere che il mondo sta dove sta, con una sua
oggettività totale, per essere ‘riconosciuto’ da noi; la lingua sarebbe allora
una nomenclatura, talora più, talaltra meno completa. Il mondo invece esiste
in quanto interagiamo con esso, perché in misura sempre diversa ci servia-
mo di esso. Non occorre ricordare che – ad esempio – le ampie classifica-
zioni dei diversi tipi di neve e di ghiaccio presenti in lingue e culture cir-
cumpolari non sono un prodotto di curiosità per l’ambiente, bensì
riferimenti e aspettative di chi in quell’ambiente cammina a piedi o procede
in slitta (Basso 1972). A questo punto potrebbe esser avanzata un’ulteriore

2
È in epoca parthica che si diffonde l’uso della pergamena in Iran, v. Floor 2009.
3
Non è fuor di luogo ricordare che la diffusione dei testi scritturali Cristiani è stata
largamente favorita dal fatto che erano appunto scritti su codici.
4
Sogdiani sono stati impiegati a lungo nelle amministrazioni locali di qanati e persino in
Cina, sogdiana è la scrittura uigura antica, i Sogdiani hanno diffuso in Asia il nestoriane-
simo, il manicheismo ed il buddhismo.
Saperi e lingua a Kpetebonu 291

riserva, ossia che pare poco credibile ridurre i saperi culturali alla loro mera
dimensione applicativa. È questa una riserva che serpeggia e che spesso il
cognitivismo fa propria: si classifica perché questa è la naturale modalità
umana del conoscere, un potente strumento che è autonomo dalla
dimensione utilitaristica. Non c’è dubbio, ma non è meno vero che la natura
dello strumento non impedisce affatto usi molteplici del medesimo.
Cadiamo qui in un’annosa ed astiosa polemica che vede opposti
‘utilitarismo’ ad ‘intellettualismo’, una polemica cresciuta soprattutto
nell’àmbito della folk biology5: l’utilitarismo estremo considera che si
classifica solo ciò che serve e l’intellettualismo, secondo il quale si
classifica ars gratia artis, sostiene che si classifica perché si deve
classificare. Per quello che capisco di questa disputa teologica, i termini del
problema sono assai mal posti, poiché è di per sé evidente che le posizioni
estreme mal si accordano con la realtà dei fatti. La capacità classificatoria è
uno strumento dell’apparato cognitivo umano che presenta vantaggi adattivi
enormi, cioè creare aspettative e facilitare l’acquisizione / trasmissione del
sapere: come strumento essa può esser considerata estranea all’utilitarismo,
come tecnica no di certo. L’esperienza sul campo ci insegna che gli
informatori, se opportunamente guidati ed istruiti, possono benissimo
classificare realtà nuove o riclassificare correttamente realtà ad essi note
secondo prospettive per essi inusuali, ma – appunto – questa non è un’ope-
razione che si situa dentro la cultura, bensì all’interno delle loro capacità
neuropsicologiche6. La ricerca sul campo non prevenuta ha mostrato spesso
che anche le classificazioni biologiche, che pure sono in genere le più
ricche, sono molto meno complete ed elegantemente articolate di quanto
lascerebbe intendere la vulgata: tipi generali senza affiliazione e specifici
isolati sono fenomeni correnti (v. i miei lavori citati alla nota 6). C’è un
aspetto – d’accordo, teoretico – che merita di esser posto in luce, ossia il
fatto che il cognitivismo contemporaneo ammette che alla base della
classificazione non ci sia semplicemente il principio di similarità, bensì una
5
La bibliografia sul tema è immensa: un orientamento onesto in Atran 1997.
6
Rinvio a Crevatin 2007 e in st. C’è un caso occorsomi sul campo che non mi stanco di
citare: avevo proposto una serie di gruppi di quattro ‘oggetti’ all’interno dei quali c’era uno
che non si accordava con gli altri secondo regole elementari. In un caso, la serie albero –
arbusto – ciuffi d’erba – uccello, gli informatori mi fecero presente che se si ragioneva
come un Bianco allora bisognava eliminare l’uccello perché è un animale, ma dal loro
punto di vista andava tutto benissimo perché è proprio in quelle realtà che si possono trova-
re gli uccelli.
292 Franco Crevatin

teoria mentale che riguarda il livello di base, quello cioè prototipico e meno
astratto: l’ipotesi è interessante perché è coerente con quanto sappiamo sulla
formazione e sulla realtà dei concetti, essi pure forniti di tratti e proprietà
che consentono tramite questi ultimi la loro gerarchizzazione e le loro
classificazioni alternative; non è casuale che anche la semantica cognitiva si
associ a questa filiera rifiutando la visione vocabolaristica del significato a
favore di quella enciclopedica; ma su questo torneremo oltre. Pensare che il
significato sia sostanzialmente l’equivalente di una definizione, pur se
abilmente scomposta in unità minime di senso, è frutto di intellettualismo
ingenuo. L’utilitarismo per parte sua riduce eccessivamente all’immediato le
classificazioni: l’utilità è importante, ma ben più importante è l’esperienza,
frutto dell’interazione ambientale, con una determinata pianta o animale.
Porre le cose in questi termini presenta un vantaggio notevole perché
permette di comprendere facilmente che le classificazioni sono largamente
plurinomiche, ossia tengono conto di diversi tratti ai fini dell’ordinamento
(Needham 1979; Newmaster 2007).
Ritorniamo dunque alla domanda di fondo – quali saperi si riflettano
nella lingua e nell’uso linguistico – e procediamo per approssimazioni: le
lingue, tecniche equipollenti7, riflettono quanto è socialmente condiviso. Se
usciamo dall’àmbito delle nostre società complesse per rivolgere la nostra
attenzione alle società di piccole dimensioni, risulta subito evidente che il
nostro è un problema di sociologia della conoscenza ed in particolare di
trasmissione del sapere: in un gruppo umano di dimensioni ridotte – ed è il
caso di Kpetebonu – il sapere condiviso copre larghissima parte della realtà
sociale, ossia saperi specialistici come la tessitura tradizionale, la metallur-
gia, la ceramica, una particolare competenza rituale o religiosa, sono propri
di individui o di piccoli gruppi. La lingua consente di comunicare quanto è
condiviso e riflette in maniera diseguale momenti diversi dell’evoluzione
culturale, sia la contemporaneità sia il passato8, perché evoluzione lingui-
stica ed evoluzione culturale hanno tassi di mutamento diversi. Dire che la
lingua rifletta la ‘realtà’, sia essa naturale o culturale, è comunque una
semplificazione retorica, perché la realtà, appunto, è socialmente costruita9

7
Intendo sottolineare sia la natura tecnica del linguaggio umano, sia il fatto che ogni lingua
è adeguata ai bisogni culturali dei suoi parlanti.
8
E non mi riferisco a dimensioni etimologiche ma al semplice ricambio generazionale.
9
Il costruttivismo, modello esplicativo ampiamente diffuso, prende le mosse dal celebre
libro di Berger – Luckmann (1966).
Saperi e lingua a Kpetebonu 293

dall’interazione tra soggetti e tra soggetti ed ambiente: per questo motivo


‘cose’ dell’esperienza umana apparentemente identiche possono avere col-
locazioni diverse e dunque appartengono a dimensioni cognitive altrettanto
diverse. Insomma, il martello può ben non essere un semplice martello.
Vorrei dare due esempi di quanto qui detto. Piú volte con gli amici di
Kpetebonu ho discusso su quanto loro ed io vedevamo camminando sulla
pista in savana o mentre stavamo sotto l’appatam10: percepivamo
ovviamente le stesse cose, ma le vedevamo in maniera molto diversa. La
situazione era del tutto ovvia, perché la percezione visiva si incardina via
azione nella cognizione (Fischer - Zwaan 2008; Pecher - Zwaan 2005). Cosa
può essere ‘bello’ (kláa)»)? Non un paesaggio, nel quale si vede il suo esser
semmai adatto alla preparazione di un campo agricolo; forse un fiore, ma
insistere sull’apprezzamento suscita ilarità, perché il fiore non serve a
niente; perché no, una sedia, ma allora ci si attende piuttosto che essa sia
‘adeguata’ e comunque, essendo essa il segno della dimensione pubblica,
sociale, fa pensare ad una riunione, a parole che si scambieranno; certo, una
donna può essere ‘bella’ eppure anche in questo caso l’apprezzamento
insistito suonerebbe stonato senza un contemporaneo giudizio sulla di lei
attuale o potenziale fecondità. Neppure un albero (wàká) rimane sempli-
cemente quello che potrebbe apparire, ad esempio un fronzuto riparo, bensì
esso entra a pieno titolo in quella particolare percezione della realtà nella
quale normale e straordinario si fondono (Crevatin 2008): esso, che di
norma non è ‘vivo’11, potrebbe essere abitato da una Presenza o essere un
punto di ritrovo di presenze altrettanto inquietanti. Si dirà che sto invocando
dimensioni linguisticamente ininfluenti: non è forse vero che wàká significa
semplicemente «albero, legno»? Già, ma questo sarebbe accettabile solo in
una visione vocabolaristica, molto tradizionale, del significato della parola,
una visione che ci porterebbe a perdere consapevolezza dell’estensione
dell’esperienza collettiva.
Traggo il secondo esempio dal dialetto veneziano de là da mar di Buie
d’Istria, piccolo paese a vocazione prevalentemente agricola. La parola or-
degno significa «attrezzo, strumento» dunque per tutti un martello è un or-
degno e tuttavia un contadino accetta con qualche perplessità l’idea che, po-
niamo, la zappa sia così classificabile: diamine, ordegno si riferisce ad un

10
La tettoia di cannicci che serve come riparo dal sole.
11
Difatti a differenza degli esseri animati proietta un’ombra inanimata.
294 Franco Crevatin

artigiano, non ad un contadino! Per contro, l’artigiano ammette tranquilla-


mente che la zappa è un ordegno del contadino.
Veniamo brevemente al problema dell’incidenza delle modalità della tra-
smissione del sapere. Il primo fatto di cui è necessario tener conto è il ca-
rattere della pedagogia tradizionale12 ed insisto su due aspetti frequentissimi
e concomitanti, innanzi tutto sul fatto che l’educazione del bambino passa
attraverso una pluralità notevole di soggetti, tra i quali la famiglia dei geni-
tori biologici è solo una – e non di necessità la più importante – delle com-
ponenti: affidatari (Alber 2003), coetanei e vicinato affiancano il bambino
durante l’intera giornata e lo accudiscono se ciò è necessario. Il bambino
cresce in una rete molto fitta di rapporti sociali nella quale apprende per
partecipazione le regole della corretta integrazione, prima tra tutte il rispetto
per la gerarchia d’età: il sapere, sia nel porre che nel rispondere a domande,
è connesso all’età; un giovane difficilmente darà un parere o un’infor-
mazione prima che una persona più anziana presente non abbia preso la
parola. La trasmissione per partecipazione e la delega del sapere sono tratti
che continuano ad essere presenti in misura notevole anche nell’età adulta.
L’apprendimento per partecipazione o per ostensione è comune anche nei
saperi specialistici ed è quindi molto povero di istruzioni verbalizzate:
l’apprendista siede presso lo specialista e ruba con gli occhi le tecniche ne-
cessarie per la professione. Ne consegue che un vero vocabolario speciali-
stico non esiste: parole dell’uso comune vengono eventualmente adoperate
con leggeri adattamenti semantici ai bisogni dell’arte13. In cosa dunque
consiste il ‘sapere’ del vecchio scultore di statuette e di maschere sacre
(wàkàsɛfwɛ
) del villaggio di Wasú, della ceramista dell’argilla sacra dello
stesso villaggio (v. foto) o di E., tessitore tradizionale a Kpetebonu? In un
saper fare, ma non in un saper dire decontestualizzato: lo specialista sa par-
lare – e bene – del proprio lavoro, sa riferire precauzioni ed obblighi, ma
non usa un vocabolario speciale, né è abituato, né ritiene ragionevole discu-
tere verbalmente la sua tecnica. Così, ad esempio, il tessitore sa confezio-
nare un certo numero di tessuti tradizionali, diversi per colore, temi decora-
tivi ed ornamenti, ha un nome per tutti i tipi, che equivale, per così dire, ad

12
Si vedranno i numerosi lavori di Pierre Erny (1981, 1987) sui Bawlé; v. anche Dasen
1978.
13
Il vocabolario specialistico è d’altra parte una conseguenza della stabile ripartizione delle
funzioni produttive nella società, un portato di strutture sociali stratificate e complesse.
Saperi e lingua a Kpetebonu 295

una divisa, ma discutere e dare un nome al singolo tema o disegno gli pare
cosa ridicola e di massima non sa farlo.

La capo-vasaia di Wasú

Questo non saper dire ha due aspetti diversi, il primo è di natura tutto som-
mato superficiale pur se cognitivamente importante, ossia in molte culture a
trasmissione orale vengono privilegiate modalità narrative del pensiero ri-
spetto a quelle di tipo paradigmatico e definitorio alle quali noi siamo abi-
tuati14. In altre parole il livello dell’astrazione viene raggiunto non tramite la
decontestualizzazione, ma tramite la narrazione.

14
Sul tema restano classici i lavori di J. Bruner (ad es. 1985, 1991).
296 Franco Crevatin

Il secondo aspetto si salda in qualche modo al precedente e dipende


principalmente dalla modalità partecipativa / ostensiva con la quale il sapere
viene di norma acquisito: su molti temi, pure di rilevanza sociale,
l’individuo non ha ricevuto un’istruzione formale rivestita di forma
linguistica, semplicemente è vissuto, ha fatto una serie di esperienze, ha
acquisito modelli, schemi di comportamento e pratiche: nella migliore delle
ipotesi egli sa agire ma non sa né gli interessa motivare la sua azione se non
con un generico «Perché questa è la tradizione, perché così facevano i nostri
antenati». Non solo: molto saper agire non ha forma linguistica, ossia non è
verbalizzabile, esattamente come noi sappiamo farci il nodo alla cravatta ma
mai penseremmo di ricorrere alla lingua per insegnare ad altri a farlo. Da
ultimo, una parte dell’enciclopedia ha natura vaga ed imprecisa, essendo il
riflesso non di un sapere formale bensì di una sommatoria di esperienze
sociali. Lo specialista ha, del tutto legittimamente, opinioni più precise: il
veggente ha idee maggiormente definite della gente comune su cosa sia la
stregoneria (baé), quali i caratteri delle Presenze (amũ), quali aspettative
siano legittime rispetto al mondo dell’invisibile, ma non per questo il suo
vocabolario è diverso, sono diverse le affermazioni che fa perché diversa è
l’autorevolezza e la conseguente capacità di uscire da discorsi generici15.
I fenomeni descritti (pensiero narrativo vs. decontestualizzato, saperi non
verbalizzati / non verbalizzabili) sono universalmente diffusi e non sono
tipici solo delle culture a trasmissione orale.

Fissiamo alcune conclusioni provvisorie: nella lingua si riflette solo una


parte dell’enciclopedia ed il lessico dei singoli saperi è per larga parte quello
della comunicazione sociale corrente16.

15
Su questi temi rinvio a Boyer 1986, Bloch 1991, Crevatin 1994.
16
Ciò non toglie, tuttavia, che l’accesso ai saperi in questione possa di fatto essere
socialmente differenziato. Non mi riferisco solamente a situazioni ben definite, nelle quali
la specificità del sapere si collega ad altrettanto definite forme sociali (‘caste’ di fabbri,
associazioni di cacciatori, associazioni cultuali, guaritori e sim.) o a saperi riservati legati a
riti di passaggio, classi d’età o altro, ma alla semplice ripartizione del lavoro e delle
funzioni secondo sesso. Sul linguaggio femminile si è scritto molto (McElhinny 2004;
Holmes – Meyerhoff 2003; McConnell-Ginet 1997, tutti con ulteriore bibl.), soprattutto su
problemi identitari, di stile / gentilezza e di etnografia della comunicazione, ma nelle
società possono esistere dominii conoscitivi riservati alle donne che vanno oltre la cura
parentale.
Saperi e lingua a Kpetebonu 297

La nostra formulazione sembra contenere una tautologia: la lingua, stru-


mento sociale, rifletterebbe il sociale, il che è ovvio, a meno che non si as-
suma una prospettiva culturale. In altre parole, se accettiamo anche solo
parzialmente le prospettive offerte dalla costruzione sociale della realtà
come epistemologia della conoscenza e dell’embodiment17 circa la corporei-
tà e l’interazione ambientale come basi della cognizione dovrebbe essere
chiaro che le affermazioni sopra fatte non sono banali, poiché è ben vero
che la lingua riflette il sociale, ma in particolare riflette quel sociale in
quanto dominio condiviso di esperienze, un dominio arbitrariamente co-
struito dove un martello non è sempre semplicemente un martello.
Un esempio opportuno viene offerto dalla parola bawlé ŋ̄gwlɛ̄lɛ̄
usualmente tradotta con “intelligenza, capacità intellettuale; astuzia”18 e la
definizione, piattamente vocabolaristica, occulta le dimensioni culturali del
termine spingendoci a credere che al fondo si tratti della nostra, aristotelica,
accezione di una qualità quasi ‘essenziale’ dell’individuo mentre si tratta di
una competenza acquisita gradualmente nell’agire.
Intanto ŋ. non si ha per predisposizione, carattere o dono divino, bensì si
acquisisce, dunque essa è caratteristica comunemente riconosciuta agli
anziani (la “saggezza”): un bambino o una ragazzina possono averla come
frutto dell’educazione ed allora sanno comportarsi correttamente con la
gente del villaggio nel rispetto totale delle norme sociali e religiose (sono
“beneducati”). Per gli adulti la questione è diversa, perché si presume che
essi abbiano già interiorizzato le regole che il bambino ancora non conosce
a fondo, dunque la loro ŋ. è la capacità di proporre soluzioni efficaci a pro-
blemi di ordine sociale oppure di carattere economico lavorativo. Un tessi-
tore, poniamo, rivela ŋ. quando applica appieno le regole della tessitura
senza omissioni o errori e quando è creativo. La competenza sociale può di-
ventare “astuzia”, quando la capacità, pur nel rispetto sostanziale delle re-
gole, opera con queste ultime strumentalmente. Mai ŋ. può essere sinonimo
di imbroglio o di inganno da parte di chi la usa, può però essere quanto
spinge la controparte ad autoingannarsi. Il riferimento alle regole sociali è
palese nelle comuni espressioni del tipo “si sono fatti i funerali (la consulta-
zione dell’oracolo, ecc.) secondo la loro ŋ.”, ossia proprio come si doveva.

17
La bibliografia su questo tema sta diventando sconfinata, per cui mi limito a rinviare ad
alcuni classici, ossia Varela - Thompson - Rosch 1992 e Lakoff - Johnson 1999.
18
Se ne sono occupati indipendentemente Dasen 1978 e Crevatin 1997.
298 Franco Crevatin

Dunque ŋ. è una capacità che largamente dà prova di sé nel rapporto sociale,


alquanto lontana dalla nostra cartesiana “intelligenza”.
Ci si è riferiti sopra ad un dominio sociale di esperienze condivise, ma in
effetti sarebbe più corretto riferirsi al plurale a dominii, dominii che noi
dall’esterno possiamo etichettare per ragioni di comodo – la coltivazione dei
campi, la casa, ecc. – e che ben di rado possono esser compresi in maniera
decontestuata, vocabolaristica appunto. È evidente che ogni essere umano
gioisce, si preoccupa, è allegro o triste e che dunque in tutte le lingue del
mondo ci sarà un’espressione per indicare la ‘gioia’, tuttavia non si gioisce
per le stesse cose né collocazione e dimensioni degli stati interiori sono le
stesse19 e altrettanto non lo è il modo di delimitarle: kóṹ indica il dubbio,
l’esitazione, l’inerzia, la tristezza, il mutismo, la svogliatezza. A tutti però è
chiaro che il silenzioso isolamento può esser socialmente pericoloso e esser
segno non di tristezza bensì di rancorosa stregoneria, l’inerzia può non esser
dovuta a stanchezza o a legittimo abbattimento bensì a poca collaboratività:
di gran lunga è preferibile attribuire a se stessi k., alludendo così al dubbio,
all’imbarazzo o alla noia, piuttosto che farselo attribuire dagli altri.
Si potrebbe continuare, ma basta ribadire che il sapere condiviso si situa
sempre in un preciso contesto nel quale sarebbe fuorviante opporre cultura
ad ambiente (Descola - Pálsson 1996; Ingold 2000) e decisamente ridicolo
distinguere intellettualisticamente l’Uomo che conosce o che parla
dall’Uomo che sa.
Prima di procedere è opportuno precisare che le affermazioni qui fatte
non ricadono affatto, almeno nel parere di chi scrive, in un generico
relativismo: non si stanno proponendo mondi umani chiusi in se stessi,
incomunicanti ed inaccessibili, ma semplicemente mondi che non sono il
nostro mondo e che vanno capiti all’interno delle regole che si sono dati.
L’Uomo classifica perché questa è una sua potente capacità
neuropsicologica, ma il prodotto della classificazione si situa sempre in un
contesto sociale e culturale che le è proprio (Ellen 2006; 1979).

Ritorniamo ora alla trasmissione del sapere a Kpetebonu. Il sapere è una


cosa preziosa che va trattata con tutti i riguardi, è un dono che viene fatto e
non una semplice informazione. La pedagogia tradizionale giudica petulante
e fastidioso il bambino che chiede continuamente, e non certo per mancanza

19
Si veda ad es. Lutz 1988.
Saperi e lingua a Kpetebonu 299

d’affetto bensì perché il sapere serve per fare qualcosa e se non è così è ridi-
colo, sospetto o, appunto, petulante. Io ero ridicolo quando chiedevo quale
fosse l’àkpàswá (letter. ‘segmento di lignaggio’, dunque parentela, «catego-
ria») della tartaruga e decisamente sospetto quando volevo parlare di stre-
goneria o maschere sacre: perché mai lo facevo, se non avevo intenzione di
mangiare tartaruga (peraltro un piatto apprezzato)? Il sapere per il sapere è
comprensibile nel bambino, ma allora è naturale che egli si formi in compa-
gnia degli altri bambini, che apprenda vivendo. Chi chiede di sapere è per-
ché vuole agire in base al sapere acquisito e ci sono temi che suscitano au-
tomaticamente allarme, come l’adorazione di determinate Potenze, la stre-
goneria, gli amuleti: se chiedo è possibile che io ritorca il sapere contro chi
incautamente me lo fornisce, oppure che io indebolisca il positivo rapporto
che egli intrattiene con una Presenza. La trasmissione del sapere è dunque
sempre una scelta concordata: chi vuole conoscere deve scegliere un mae-
stro socialmente riconosciuto in grado di ritrasmettere ed il maestro è libero
di accettare o meno il richiedente: lo farà se ne avrà capito e condiviso le
motivazioni e se ritiene che il richiedente sia davvero adeguato al sapere ri-
chiesto. Comunque sia, si tratta di un dono che il maestro fa e per il quale si
attende un compenso; nel caso di un artigiano, l’apprendista sarà pronto
quando il ‘padrone’ lo deciderà e comunque sino a quel giorno l’apprendista
dovrà mostrare riconoscenza tramite la propria disponibilità al servizio.
Come viene trasmesso il sapere riservato?20 Tutto avviene largamente per
partecipazione: il discente impara a riconoscere determinate piante che pos-
siedono tĩ́mì “potere sovrannaturale”, modalità di raccolta e di preparazione,
uso corretto dell’amuleto (tabu che lo indeboliscono o lo annullano; obbli-
ghi ad esso connessi); insomma il discente apprende procedure, ma né
chiede né gli viene comunicato verbalmente nulla di generale, di deconte-
stuato. Ad esempio, egli non sa cosa possa essere il tĩ́mì, sa solo che c’è, sa
cioè quello che tutti sanno o credono di sapere: egli è come l’elettricista che
sa riparare una presa ma al quale nessuno chiederebbe cosa sia l’elettricità.
Esistono saperi che formalmente non sono riservati e che tuttavia
prevedono degli script, ossia dei copioni o degli scenari, nettamente definiti
come è il caso del sapere storico (la storia di un villaggio, di un segmento di
lignaggio, di un individuo importante). Solo determinate persone possono
20
Mi riferisco alla formazione necessaria per preparare ed usare un potente amuleto.
Quanto segue si basa, oltre che su conversazioni con amici, su alcune esperienze personali
fatte al villaggio.
300 Franco Crevatin

raccontare la storia ‘ufficiale’ e comunque in occasioni a ciò dedicate e


questo perché, come ben dice un proverbio Bawlé, “anche la gallina sa
quando è l’alba, ma attende il verso del gallo”: se la storia è collettiva, solo
un’autorevole figura sociale può ritrasmetterla, nel caso specifico il capo-
villaggio.

Il capo-villaggio di Kpetebonu (ds.)


con gli anziani ed il portavoce (sin.)

Questa storia, lāā n


dɛ (le questioni di tanto tempo fa), è ovviamente altra
cosa rispetto alle favole (le ‘menzogne della sera’) che si raccontano a bam-
bini ed adulti con evidenti finalità formative.

La vita del villaggio è regolata da mlà, la ‘tradizione culturale’ che ha valore


di norma, i cui custodi (il capo villaggio, i capi quartiere, gli anziani dei
segmenti di lignaggio; ed ancora i responsabili delle organizzazioni cultura-
li21) hanno il dovere di tutelare. E tuttavia srã́ ku͂̀ ŋ̄gwlɛ̄lɛ̄ tí á ŋ̄gwlɛ̄lɛ̄, come
recita l’adagio sovente citato, ossia la ŋ. di una persona sola non è davvero
ŋ. Il detto allude alla necessità del confronto, della parola: ma quali sono i
caratteri di tale parola? L’individuo può sempre sostenere che la tal cosa
21
Quest’ultima realtà cambia notevolmente a seconda dei villaggi.
Saperi e lingua a Kpetebonu 301

non è mlà del villaggio o di un dato lignaggio, ma l’apparente fattualità


dell’affermazione è bilanciata dall’inespresso e socialmente riconosciuto
convincimento che quel sapere presuppone una doppia delega d’autore-
volezza, qualunque persona piú anziana e l’insieme delle persone anziane
che casualmente o di proposito dibattono la questione. È in questi casi che la
ŋ̄gwlɛ̄lɛ̄ si rivela nella sua pienezza. Cosa sa dunque l’individuo della mlà?
La risposta, già sopra anticipata, è che egli ha una sommatoria di esperienze
personali maturate al villaggio sulle singole questioni e sa come esse sono
state dibattute e risolte: è un sapere che rifugge da ogni generalizzazione
decontestuata e che per contro si basa su racconti, storie, proverbi e
wellerismi. Il singolo può ben dire che “si conviene che…” (ɔ
fàtà kɛ́ ) o che
“si deve…” (ɔ
è kɛ́ ) tuttavia la paradigmaticità dell’affermazione è tempe-
rata dalla consapevolezza che la fattispecie sulla quale si giudica diventa fat-
tuale solo nel momento in cui ‘si è parlato’, ossia si è riflettuto collettiva-
mente nelle sedi opportune nelle quali le storie ed i ricordi personali si fon-
dono in un’unanimità di pareri. Mi pare corretto affermare che mlà è qual-
cosa che si cerca, che si indaga, non qualcosa di pronto e facilmente verba-
lizzabile22.

Partirò proprio da quest’ultima discussione per riprendere alcune osserva-


zioni. Nonostante tanto idealismo essenzialistico, è molto verosimile che
nelle culture a tradizione orale del sapere i concetti creati e tramandati siano
fissati in pratiche legate sia a contesti che a fini ed esperienze del mondo
con il quale si interagisce23: non sono formulazioni elegantemente deconte-
stuate. Per questi motivi le classificazioni degli oggetti obbediscono cultu-
ralmente ad àmbiti d’uso (Crevatin in st.). Si aggiunga inoltre il fatto che
molto sapere tecnico ha una dimensione linguistica molto ridotta ammesso
che ne abbia una, perché trasmesso in maniera partecipativa ed ostensiva.

22
Come si vede, il quadro che qui ho tentato di delineare parrebbe idealisticamente
unitario: a Kpetebonu si agisce e si pensa proprio cosí, in realtà mi guardo bene dal
proporlo in questi termini. Come dovunque, esiste varietà di opinioni oltreché di saperi e
sul riconoscimento di mlà incidono oggi sia le consapevolezze della legislazione coloniale e
post coloniale sia l’uso della parola riferito ad una ‘disposizione’ presa dal capo villaggio e
dal consiglio degli anziani e dalla quale non si può derogare oppure ad una ‘norma’ propria
del rito, anch’essa indiscutibile ed inclusa in saperi specifici propri di persone socialmente
accreditate.
23
Rinvio alle problematiche dell’antropologia della conoscenza, su cui si veda Barth 2002 e
Barth 1994; v. anche Crick 1982.
302 Franco Crevatin

È dunque alquanto fuorviante ridurre il dibattito a utilitarismo versus intel-


lettualismo, perché le categorie vengono narrativamente vissute nella realtà
culturale e sociale, si ‘agisce’ (lato sensu) tramite esse per servirsi del
mondo.
La lingua – e non è l’unico strumento – permette di trasmettere la cultura,
ma non la riflette secondo una logica vocabolaristica: anche volendo privi-
legiare la semantica lessicale, il che sarebbe assurdo, poiché semantica e
pragmatica formano un tutt’uno cognitivo, gli elementi lessicali sono sem-
plicemente chiavi d’accesso all’enciclopedia, non contenitori autonomi nei
quali ci sarebbe tutto quanto può servire al parlante (Evans – Green 2006).
Quanto di culturale si riflette nella lingua è muto in se stesso ed ad esso è
possibile accedere solo se si ha accesso almeno a parte dei saperi contestuali
ai quali esso si riferisce: in altre parole, ancora una volta va sottolineata la
fallacia di credere che un martello sia semplicemente un martello. È la situa-
zione che si incontra nell’etimologia: si può ben intravedere un etimo ma se
si ignora il contesto fattuale e culturale nel quale l’etimo si colloca quella
del linguista resta una semplice divinatio.
Come dobbiamo immaginare tale insieme condiviso di chiavi di accesso
all’enciclopedia? Non certo come un semplice repertorio, che non si disco-
sterebbe da una lineare visione vocabolaristica, bensì come un sistema
complesso nel quale 1) gli elementi, essi stessi complessi, interagiscono
contemporaneamente in maniera non lineare con fenomeni di retroazione; 2)
un sistema aperto 3) nel quale il prodotto totale è superiore a quello delle
parti costituenti; 4) un sistema, infine, in equilibrio dinamico e sensibile alle
condizioni dettate dal contesto. Caratteristiche e proprietà si vedono non
tanto nella ricchezza ed articolazione dei diversi dominii dell’esperienza
culturale – i campi lessicali e semantici della vulgata – quanto nella
pragmatica dei contesti specifici. Questa espressione, che potrebbe suonare
generica o ambigua, si riferisce ad una realtà alquanto semplice: per
contesto non si intende solo i concreti contesti, di volta in volta diversi,
dell’interazione umana, ma altresì gli schemi generali che la cultura e la
società hanno costruito e che dunque di massima presiedono all’interazione.
Tali schemi sono stati definiti script, modelli, dominii ed altro e sono
riferimenti complessivi di saperi ed esperienze che prefigurano il
comportamento culturale, forniscono aspettative, possono essere appresi e
ritrasmessi, riflettono aspetti della visione del mondo: la consultazione di un
indovino, ad esempio, prevede una serie di conoscenze e comportamenti che
Saperi e lingua a Kpetebonu 303

la governano, come innanzi tutto la fattispecie sulla quale è o non è


legittimo indagare, la scelta dell’indovino, le modalità di presentazione del
problema, le reazioni alle possibili risposte, il compenso. Gli schemi24 sono
unità aperte, interagenti con altri schemi con effetti di retroazione e nel
complesso verbalizzabili, ossia l’individuo di norma è capace di descriverli.
Il punto fondamentale è proprio il fatto che gli schemi interagiscono
costantemente. Ammettiamo che il contadino25 di Kpetebonu si appresti al
suo lavoro al campo e che tale ‘lavoro al campo’ sia per lui uno schema:
intanto sa bene che uscire dallo spazio umanizzato del villaggio per entrare
in quello non umanizzato lo deve rendere attento al ‘mondo delle Presenze’,
segnato talora anche da specifici sacra che tiene vicino alle buttes di ignami
per protezione. Inoltre sa che dovrà confrontarsi con gli ‘animali di savana’
che insidiano il suo raccolto e talora sono pericolosi e con ‘insetti’
altrettanto fastidiosi. Se ha la possibilità di estrarre vino di palma, una
bevanda che quasi mai viene bevuta da soli, dovrà pensare con chi
condividere il liquore, spesso con vicini con i quali ha rapporti di
‘solidarietà sociale’.
Forse non occorre continuare: nella prospettiva dell’articolazione di uno
schema di questo tipo, ricco di saperi, esperienze ed interazioni con
l’ambiente, dei vantaggi che esso offre nel vissuto e del suo esser radicato
nelle pratiche26 quotidiane, risulta evidente la ragione del divertito stupore
del tradizionalista Bawlé rispetto a richieste di classificazione decontestuata
(la classificazione degli ‘strumenti da taglio’ ad es., Crevatin in st.); sa
produrle, come si è detto, ma restano per lui un mero gioco privo di reale
valore27.

A questo punto l’unica risposta alla domanda che ci siamo posti (cosa si
riflette della cultura nella lingua), per poco gratificante che essa sia, non può
che essere: si riflettono i contenuti linguistici – ossia la parte verbalizzabile –

24
In sintesi si veda Brewer 1997, Langacker 1987, D’Andrade 1990. In effetti la teoresi
sugli schemi è alquanto articolata e diffusa ed è stata prefigurata da molti studiosi (ad es. J.
Piaget). Qui la considero solo nelle sue linee essenziali.
25
Mi riferisco ad un tradizionalista.
26
Uso consapevolmente la terminologia resa celebre da Bourdieu 2000.
27
Per quella che è stata la mia esperienza, questo vale per tutte le classificazioni
decontestuate e prive di dimensione narrativa.
304 Franco Crevatin

degli schemi della cognizione culturale socialmente condivisa. Resta da


chiarire il come.
È pratica diffusa ritenere che il riflesso culturale più comune, o quanto
meno quello più visibile, sia il lessico; è opinione di fondo erronea28, che
tuttavia contiene qualcosa di vero: la ricchezza terminologica delle divise
del bestiame in molte lingue nilotiche ci previene sul ruolo che i bovini
hanno in quelle culture, ma restiamo al livello di indizi perché un
vocabolario senza testi orali o scritti è una risorsa muta. Comunque neppure
gli indizi vanno trascurati: la terminologia della parentela, poniamo, nulla
può dirci sulle regole, obblighi e diritti sociali riconosciuti della parentela
stessa, ma, come è noto, può indirizzarci a riconoscere una struttura
specifica tra le tante possibili.
È difficile dire quando un indizio sia davvero tale: se dovessi dare una
risposta, direi che probabilmente una delle sue caratteristiche salienti è
quella di segnalare una dissimmetria. In generale nella lingua Bawlé i nomi
degli stati interiori e delle emozioni sono formati da composti nominali di
origine metaforica o da derivati verbali; pochi sono i primitivi, tra i quali
kwlâ, la gelosia. La relativa eccezione morfologica si accompagna alla
constatazione che difficilmente si può far rientrare questo stato interiore
nella categoria delle emozioni fondamentali. Una ragione per questa
situazione è tuttavia identificabile, ossia il fatto che la struttura poligamica
della famiglia pone in una situazione di costante competizione la prima
moglie con le successive, competizione che si estende ai rispettivi figli, per
cui la seconda moglie è una ‘rivale’, wlâ (e wláfwɛ̀ sono i loro figli), che si
contende con la prima il favore del marito. Tale rivalità è del tutto naturale29
e può, in linea teorica, esser positiva per l’andamento domestico ma è
negativa quando si basa sulla gelosia, kwlâ, ragione di dissapori, liti e nei
casi estremi fonte di stregoneria.
Le dissimmetrie alle quali mi riferisco non sono solo quelle che
rinvengono al buon senso lessicologico – che comunque non andrà
sottovalutato – ma anche quelle che risultano tali in prospettiva tipologica.
L’onomasiologia è uno strumento tipologico di riconosciuta utilità in àmbito
etimologico e ci insegna che la creatività lessicale e semantica umana è
28
Essa sottintende – una volta di più – una concezione vocabolaristica della cultura.
29
Ogni moglie ha diritto ad una propria cucina, ad un proprio riparo all’aperto per le
stoviglie, ad una propria casa nella costruzione famigliare, ha diritto ad una rotazione dei
favori notturni e si alterna nella preparazione del cibo per il marito.
Saperi e lingua a Kpetebonu 305

multiforme ma non illimitata, per cui le singole lingue e culture di fatto


operano delle inconsapevoli scelte tra le varie opzioni possibili. Quando la
creatività procede invece con scelte consapevoli per obbedire ai bisogni dei
parlanti e quindi per seguire dappresso la loro identità culturale, è possibile
che essa produca delle singolarità, delle dissimmetrie, che risultano tali
rispetto al nostro sapere ed alle nostre aspettative. Sottolineo il ‘nostro’ per
una ragione alquanto semplice, ossia noi osservatori non siamo estranei,
esterni rispetto all’osservato, non lo guardiamo ‘oggettivamente’ da fuori,
bensì siamo parte dello stesso sistema: se muta l’EGO osservante, muta di
norma quanto si osserva. Non intendo offrire quantistica a prezzi di favore,
ma solo giustificare l’uso sopra fatto della parola ‘indizi’ a proposito delle
dissimmetrie e singolarità: indizi, appunto, non di necessità fatti30.
E su questo tema ritornerò in altra occasione, guardando da un luogo
diverso da Kpetebonu.

BIBLIOGRAFIA CITATA
Alber, E. (2003), “Soziale Elternschaft in Westafrika”, in Egli - Krebs 2003,
pp. 101-114.
Ambrosini, R. et al., edd., (1997), Scríbthair a ainm n-ogaim. Scritti in
memoria di Enrico Campanile, Pacini, Pisa.
Atran, S. (1997), “Folk Biology” in Wilson, R.A - Keil, F.C., edd., (1997) p.
317 ss.
Barth, F. (1994), “A personal View of Present Tasks and Priority in Cultural
and Social Anthropology ”, in Borofsky 1994, pp. 350-360.
Barth, F. (2002), “An Anthropolofy of Knowledge”, in “Current Anthropolo-
gy” 43.
Basso, K. (1972), “Ice and travel among the Fort Norman Slave: folk taxo-
nomies and cultural roles”, in “Language in Society” 1, pp. 31-50.
Berger, P. L. - Luckmann, T. (1966), The Social Construction of Reality: A
Treatise in the Sociology of Knowledge, Anchor Books, Garden City.
Bloch, M. (1991), “Language, Anthropology and the Cognitive Science”, in
“Man” 26, pp. 183-198.
Borofsky, R., ed., (1994), Assessing Cultural Anthropology, McGraw-Hill,
New York.

30
Un caso egiziano è stato discusso in Crervatin 2008a.
306 Franco Crevatin

Bourdieu, P. (2000), Esquisse d’une théorie de la pratique, Éd. du Seuil,


Paris.
Boyer, P. (1986), “The ‘Empty’ Categories of Traditional Thonking: a Se-
mantic and Pragmatic Description”, in “Man” 21, pp. 50-64.
Brewer, W.F. (1997), Schemata, in Wilson-Keil 1997.
Bruner, J. (1985), Actual Minds, Possible Worlds, Harvard University Press.
Bruner, J. (1991), “The Narrative Construction of Reality”, in “Critical In-
quiry” 18:1, pp. 1-21.
Cortelazzo M. (2007), Dizionario veneziano della lingua e della cultura po-
polare del XVI sec., La Linea Editrice, Padova.
Crevatin, F. (1994), “Il color kputukplu: ancora sul sapere linguistico”, in
“Incontri Linguistici” 17, pp. 143-151.
Crevatin, F. (1997), “Mente, pensiero e azione nella categorizzazione Ba-
wlé”, in Ambrosini et al. 1997, pp. 279-283.
Crevatin, F. (2007),“Modi di pensare Bawlé: generalizzazione e contestua-
lità”, in “Rivista italiana di linguistica e dialettologia” 9, pp. 9-27.
Crevatin, F. (2008), “L’uomo invisibile: ancora sulla costruzione culturale
della realtà”, in “Incontri Linguistici” 31 (2008), pp. 149-158.
Crevatin, F. (2008a), “Il servo ed il re”, in “Alessandria” 2 (2008), pp. 33-
36.
Crevatin, F. in st., “Modi di pensare Bawlé: la costruzione narrative delle
categorie”, in “Incontri Linguistici” 33 (2010).
Crick, M.R. (1982), “Anthropology of Knowledge”, in “Annual Review of
Anthropology” 11, pp. 287-313.
D'Andrade, R. G. (1990), Cultural cognition, MIT Press, Cambridge
(Mass.).
Dasen, P, ed., (1978), Naissance de l'intelligence chez l'enfant baoulé de
Côte d'Ivoire, Huber, Berna.
de la Vaissière, E. (2002), Histoire des marchands sogdiens, Mémoires de
lnstitut des Hautes Etudes Chinoises du Collège de France, 32, Paris.
Descola, Ph. - Pálsson, G., edd., (1996), Nature and Society: Anthropologi-
cal Perspecitves, London, Routledge, London.
Egli, W. - Krebs, U., edd., (2003), Beiträge zur Ethnologie der Kindheit,
Lit-Verlag, Münster.
Ellen, R. (2006), The categorical impulse: essays in the anthropology of
classifying behavior, Berghahn books, New York - Oxford.
Saperi e lingua a Kpetebonu 307

Ellen, R., ed., (1979), Classifications in their social context, Academic


Press, London - New York.
Ember, C.R. - Ember, M., edd., (2004), Encyclopedia of Sex and Gender:
Men and Women in the World’s Cultures, Kluwer, New York.
Erny, Pierre (1981), Ethnologie de l'education, P.U.F., Paris.
Erny, Pierre (1987), L’enfant et son milieu en Afrique noire, Harmattan,
Paris.
Evans, V. - Green, M. (2006), Cognitive Linguistics. An Introduction,
Edinburgh Univ. Press.
Fischer, M.H. - Zwaan, R.A., edd., (2008), Grounding Cognition in
Perception and Action, “Quarterly Journal of Experimental Psychology”,
Special Issue, Section B.
Floor, W. (2009), “Paper and Papermaking” in Encyclopaedia Iranica
Online, 2009, www.iranica.com.
Holmes, J. - Meyerhoff, M., edd., (2003), The Handbook of Language and
Gender, Blackwell, London.
Ingold, T., (2000), The Perception of the Environment: Essays in
Livelihood, Dwelling and Skill, Routledge, London.
Lakoff, G. - Johnson, M., (1999), Philosophy In The Flesh: the Embodied
Mind and its Challenge to Western Thought, Basic Books, New York.
Langacker, R. (1987), Foundations of Cognitive Grammar, Volume I,
Stanford, Stanford University Press.
Lutz, C.A. (1988), Unnatural emotions: everyday sentiments on a
Micronesian atoll and their challenge to western theory, Univ. Chicago
Press.
McConnell-Ginet, S. (1997), “Language and Gender”, in Wilson - Keil
1997.
McElhinny, B. (2004), Language and Gender, in Ember - Ember 2004.
Needham, R. (1975), “Polythetic Classification: Convergence and
Consequences”, in “Man” 10, pp. 349-369.
Newmaster, S.G. et al. (2007), “The Multi-Mechanistic Taxonomy of the
Irulas in Tamil Nadu, South India”, in “Journal of Ethnobiology” 27, pp.
233-255.
Nikitin, N. et al. (1969), Древнетюрскии Словарь, Akad. Nauka,
Leningrad.
308 Franco Crevatin

Pecher, D. - Zwaan, R.A., edd., (2005), Grounding Cognition: The Role of


Perception and Action in Memory, Language, and Thinking, Cambridge
Univ. Press.
Ramírez Bellerín, L. (2000), Historia Secreta de los Mongoles, Miraguano
Ed., Madrid.
Santore C. (1988), “Julia Lombardo, «Somtuosa meretrize». A portrait by
property”, in “Renaissance Quarterly” 41, 1988, pp. 44-83.
Toso Ambrosini, M.(1984), Catalogo di tutte le principal et più honorate
cortigiane di Venetia, Centro Internazionale della Grafica, Venezia.
Varela, F. J. - Thompson, E. T. - Rosch, E., (1992), The Embodied Mind:
Cognitive Science and Human Experience, The MIT Press, Cambridge
MA.
Wilson, R.A - Keil, F.C., edd., (1997), The MIT Encyclopaedia of Cognitive
Sciences, MIT Press, Cambridge Mass.

Potrebbero piacerti anche