Franco Crevatin
Università di Trieste
È da poco più di un secolo che la linguistica si interroga sul rapporto tra pa-
role e cose ed ogni epoca ripensa, nel modo che le è proprio, la natura di tale
rapporto; se c’è qualcosa che abbiamo capito è che i Wörter non sono sem-
plici parole né le Sachen semplici cose. L’idea, per parafrasare una celebre
frase di Gertrude Stein, che «un martello è un martello è un martello», idea
cara a molta generosa paleontologia linguistica alla Schrader e Nehring, si è
rivelata di una commovente ingenuità. A titolo d’esempio ricordo due casi
piuttosto semplici. Nel veneziano del XVI secolo (Cortelazzo 2007 s.v.) la
parola cortesana designava ovviamente una meretrize che non era una
putana, era – per dirla con le parole riferite alla celebre Giulia Leoncini –
una somtuosa meretrize (M. Sanudo), una donna di garbo capace di
intrattenere piacevolmente i propri ospiti, donna di lettere e di cultura come
ad esempio Veronica Franco (1546-1591), cortigiana e rinomata poetessa: la
differenza era tanto piú evidente perché si basava sul diritto, la cortigiana
aveva privilegi che erano ignoti alle prostitute (v. ad es. Santore 1988 p. 47).
La Serenissima del XVI secolo apprezzava talmente queste figure da aver
dedicato loro un prezioso catalogo, il Catalogo di tutte le principal et più
honorate cortigiane di Venetia (Toso Ambrosini 1984).
Nella Storia Segreta, il celebre testo mongolo del XIII secolo, si narra
che Činngis qan fece scrivere alcune sue importanti decisioni nel kökö
däbtär il “registro azzurro” (§ 203): cosa si debba intendere esattamente per
‘azzurro’ resta poco chiaro1 (Ramírez Bellerín 2000 p. 261 n. 1976), ma è
∗
Questo saggio nasce in absentia: non essendomi stato possibile partecipare ai lavori del
Convegno per cui non escludo che quanto dirò possa sovrapporsi ad altri interventi e rientri
nel iam dictum. Se può essere una giustificazione – e probabilmente non lo è – esso riflette
parte delle mie esperienze di africanista e dunque non dovrebbe essere in se stesso
ripetitivo. Kpetebonu è un villaggio di savana nella prefettura di Sakasú (Côte d’Ivoire). Si
tenga conto del fatto che la società alla quale qui ci si riferisce è di piccole dimensioni, a
trasmissione orale e caratterizzata da un basso contenuto tecnologico.
1
La glossa cinese qingce potrebbe esser interpretata come “notazione su tavolette di
bambù”.
facile riconoscere in däbtär una parola ben diffusa nelle lingue turche
antiche (Nikitin 1969 p. 161; ad es. uiguro dell’VIII sec. tepter) di origine
ultima greca (διϕθέρα) ed arrivata in Asia centrale via aramaico o siriaco
(dptr’, pl. dyptrs “registro delle razioni, pergamena”) > pahlavi (daftar
“registro, libro dei conti”)2; nel sogdiano la parola non è per ora
documentata. Al fondo la fortuna della parola è dovuta ad un fatto tecnico,
ossia all’uso della pergamena per preparare quei piccoli e maneggevoli
libretti (i codices della terminologia latina) che venivano appunto usati per
appunti, registri commerciali e simili umili ed ineliminabili bisogni3.
Le ‘cose’ associate alla cortesana ed al däbtär non sono semplici
referenti; nel primo caso ci sono norme ed abitudini sociali, nel secondo
caso il protagonista è il commercio prevalentemente sogdiano con l’Asia
centrale (de la Vaissière 2002) e il diffondersi della cultura, scrittura, ed
amministrazione sogdiane su spazi immensi4, in una parola le Vie della
Seta. L’Asia centrale – ben è stato detto – è un oceano di terra le cui onde
sono popoli (F. Maraini): un grecismo scrittorio è arrivato alla corte dei qan
mongoli e per altre vie un cinesismo altrettanto legato alla scrittura è entrato
in Europa ed è conservato nello slavo (e non solo) *kъniga “libro”.
Ma un martello – si dirà – resta sempre un martello ed una prostituta una
prostituta. Questa posizione è pericolosa proprio perché contiene un fondo
di verità: in effetti siamo tutti pronti a riconoscere che un martello non è uno
scalpello e che una prostituta non è una badessa: enfatizzare questo assunto
equivarrebbe tuttavia ad ammettere che il mondo sta dove sta, con una sua
oggettività totale, per essere ‘riconosciuto’ da noi; la lingua sarebbe allora
una nomenclatura, talora più, talaltra meno completa. Il mondo invece esiste
in quanto interagiamo con esso, perché in misura sempre diversa ci servia-
mo di esso. Non occorre ricordare che – ad esempio – le ampie classifica-
zioni dei diversi tipi di neve e di ghiaccio presenti in lingue e culture cir-
cumpolari non sono un prodotto di curiosità per l’ambiente, bensì
riferimenti e aspettative di chi in quell’ambiente cammina a piedi o procede
in slitta (Basso 1972). A questo punto potrebbe esser avanzata un’ulteriore
2
È in epoca parthica che si diffonde l’uso della pergamena in Iran, v. Floor 2009.
3
Non è fuor di luogo ricordare che la diffusione dei testi scritturali Cristiani è stata
largamente favorita dal fatto che erano appunto scritti su codici.
4
Sogdiani sono stati impiegati a lungo nelle amministrazioni locali di qanati e persino in
Cina, sogdiana è la scrittura uigura antica, i Sogdiani hanno diffuso in Asia il nestoriane-
simo, il manicheismo ed il buddhismo.
Saperi e lingua a Kpetebonu 291
riserva, ossia che pare poco credibile ridurre i saperi culturali alla loro mera
dimensione applicativa. È questa una riserva che serpeggia e che spesso il
cognitivismo fa propria: si classifica perché questa è la naturale modalità
umana del conoscere, un potente strumento che è autonomo dalla
dimensione utilitaristica. Non c’è dubbio, ma non è meno vero che la natura
dello strumento non impedisce affatto usi molteplici del medesimo.
Cadiamo qui in un’annosa ed astiosa polemica che vede opposti
‘utilitarismo’ ad ‘intellettualismo’, una polemica cresciuta soprattutto
nell’àmbito della folk biology5: l’utilitarismo estremo considera che si
classifica solo ciò che serve e l’intellettualismo, secondo il quale si
classifica ars gratia artis, sostiene che si classifica perché si deve
classificare. Per quello che capisco di questa disputa teologica, i termini del
problema sono assai mal posti, poiché è di per sé evidente che le posizioni
estreme mal si accordano con la realtà dei fatti. La capacità classificatoria è
uno strumento dell’apparato cognitivo umano che presenta vantaggi adattivi
enormi, cioè creare aspettative e facilitare l’acquisizione / trasmissione del
sapere: come strumento essa può esser considerata estranea all’utilitarismo,
come tecnica no di certo. L’esperienza sul campo ci insegna che gli
informatori, se opportunamente guidati ed istruiti, possono benissimo
classificare realtà nuove o riclassificare correttamente realtà ad essi note
secondo prospettive per essi inusuali, ma – appunto – questa non è un’ope-
razione che si situa dentro la cultura, bensì all’interno delle loro capacità
neuropsicologiche6. La ricerca sul campo non prevenuta ha mostrato spesso
che anche le classificazioni biologiche, che pure sono in genere le più
ricche, sono molto meno complete ed elegantemente articolate di quanto
lascerebbe intendere la vulgata: tipi generali senza affiliazione e specifici
isolati sono fenomeni correnti (v. i miei lavori citati alla nota 6). C’è un
aspetto – d’accordo, teoretico – che merita di esser posto in luce, ossia il
fatto che il cognitivismo contemporaneo ammette che alla base della
classificazione non ci sia semplicemente il principio di similarità, bensì una
5
La bibliografia sul tema è immensa: un orientamento onesto in Atran 1997.
6
Rinvio a Crevatin 2007 e in st. C’è un caso occorsomi sul campo che non mi stanco di
citare: avevo proposto una serie di gruppi di quattro ‘oggetti’ all’interno dei quali c’era uno
che non si accordava con gli altri secondo regole elementari. In un caso, la serie albero –
arbusto – ciuffi d’erba – uccello, gli informatori mi fecero presente che se si ragioneva
come un Bianco allora bisognava eliminare l’uccello perché è un animale, ma dal loro
punto di vista andava tutto benissimo perché è proprio in quelle realtà che si possono trova-
re gli uccelli.
292 Franco Crevatin
teoria mentale che riguarda il livello di base, quello cioè prototipico e meno
astratto: l’ipotesi è interessante perché è coerente con quanto sappiamo sulla
formazione e sulla realtà dei concetti, essi pure forniti di tratti e proprietà
che consentono tramite questi ultimi la loro gerarchizzazione e le loro
classificazioni alternative; non è casuale che anche la semantica cognitiva si
associ a questa filiera rifiutando la visione vocabolaristica del significato a
favore di quella enciclopedica; ma su questo torneremo oltre. Pensare che il
significato sia sostanzialmente l’equivalente di una definizione, pur se
abilmente scomposta in unità minime di senso, è frutto di intellettualismo
ingenuo. L’utilitarismo per parte sua riduce eccessivamente all’immediato le
classificazioni: l’utilità è importante, ma ben più importante è l’esperienza,
frutto dell’interazione ambientale, con una determinata pianta o animale.
Porre le cose in questi termini presenta un vantaggio notevole perché
permette di comprendere facilmente che le classificazioni sono largamente
plurinomiche, ossia tengono conto di diversi tratti ai fini dell’ordinamento
(Needham 1979; Newmaster 2007).
Ritorniamo dunque alla domanda di fondo – quali saperi si riflettano
nella lingua e nell’uso linguistico – e procediamo per approssimazioni: le
lingue, tecniche equipollenti7, riflettono quanto è socialmente condiviso. Se
usciamo dall’àmbito delle nostre società complesse per rivolgere la nostra
attenzione alle società di piccole dimensioni, risulta subito evidente che il
nostro è un problema di sociologia della conoscenza ed in particolare di
trasmissione del sapere: in un gruppo umano di dimensioni ridotte – ed è il
caso di Kpetebonu – il sapere condiviso copre larghissima parte della realtà
sociale, ossia saperi specialistici come la tessitura tradizionale, la metallur-
gia, la ceramica, una particolare competenza rituale o religiosa, sono propri
di individui o di piccoli gruppi. La lingua consente di comunicare quanto è
condiviso e riflette in maniera diseguale momenti diversi dell’evoluzione
culturale, sia la contemporaneità sia il passato8, perché evoluzione lingui-
stica ed evoluzione culturale hanno tassi di mutamento diversi. Dire che la
lingua rifletta la ‘realtà’, sia essa naturale o culturale, è comunque una
semplificazione retorica, perché la realtà, appunto, è socialmente costruita9
7
Intendo sottolineare sia la natura tecnica del linguaggio umano, sia il fatto che ogni lingua
è adeguata ai bisogni culturali dei suoi parlanti.
8
E non mi riferisco a dimensioni etimologiche ma al semplice ricambio generazionale.
9
Il costruttivismo, modello esplicativo ampiamente diffuso, prende le mosse dal celebre
libro di Berger – Luckmann (1966).
Saperi e lingua a Kpetebonu 293
10
La tettoia di cannicci che serve come riparo dal sole.
11
Difatti a differenza degli esseri animati proietta un’ombra inanimata.
294 Franco Crevatin
12
Si vedranno i numerosi lavori di Pierre Erny (1981, 1987) sui Bawlé; v. anche Dasen
1978.
13
Il vocabolario specialistico è d’altra parte una conseguenza della stabile ripartizione delle
funzioni produttive nella società, un portato di strutture sociali stratificate e complesse.
Saperi e lingua a Kpetebonu 295
una divisa, ma discutere e dare un nome al singolo tema o disegno gli pare
cosa ridicola e di massima non sa farlo.
La capo-vasaia di Wasú
Questo non saper dire ha due aspetti diversi, il primo è di natura tutto som-
mato superficiale pur se cognitivamente importante, ossia in molte culture a
trasmissione orale vengono privilegiate modalità narrative del pensiero ri-
spetto a quelle di tipo paradigmatico e definitorio alle quali noi siamo abi-
tuati14. In altre parole il livello dell’astrazione viene raggiunto non tramite la
decontestualizzazione, ma tramite la narrazione.
14
Sul tema restano classici i lavori di J. Bruner (ad es. 1985, 1991).
296 Franco Crevatin
15
Su questi temi rinvio a Boyer 1986, Bloch 1991, Crevatin 1994.
16
Ciò non toglie, tuttavia, che l’accesso ai saperi in questione possa di fatto essere
socialmente differenziato. Non mi riferisco solamente a situazioni ben definite, nelle quali
la specificità del sapere si collega ad altrettanto definite forme sociali (‘caste’ di fabbri,
associazioni di cacciatori, associazioni cultuali, guaritori e sim.) o a saperi riservati legati a
riti di passaggio, classi d’età o altro, ma alla semplice ripartizione del lavoro e delle
funzioni secondo sesso. Sul linguaggio femminile si è scritto molto (McElhinny 2004;
Holmes – Meyerhoff 2003; McConnell-Ginet 1997, tutti con ulteriore bibl.), soprattutto su
problemi identitari, di stile / gentilezza e di etnografia della comunicazione, ma nelle
società possono esistere dominii conoscitivi riservati alle donne che vanno oltre la cura
parentale.
Saperi e lingua a Kpetebonu 297
17
La bibliografia su questo tema sta diventando sconfinata, per cui mi limito a rinviare ad
alcuni classici, ossia Varela - Thompson - Rosch 1992 e Lakoff - Johnson 1999.
18
Se ne sono occupati indipendentemente Dasen 1978 e Crevatin 1997.
298 Franco Crevatin
19
Si veda ad es. Lutz 1988.
Saperi e lingua a Kpetebonu 299
d’affetto bensì perché il sapere serve per fare qualcosa e se non è così è ridi-
colo, sospetto o, appunto, petulante. Io ero ridicolo quando chiedevo quale
fosse l’àkpàswá (letter. ‘segmento di lignaggio’, dunque parentela, «catego-
ria») della tartaruga e decisamente sospetto quando volevo parlare di stre-
goneria o maschere sacre: perché mai lo facevo, se non avevo intenzione di
mangiare tartaruga (peraltro un piatto apprezzato)? Il sapere per il sapere è
comprensibile nel bambino, ma allora è naturale che egli si formi in compa-
gnia degli altri bambini, che apprenda vivendo. Chi chiede di sapere è per-
ché vuole agire in base al sapere acquisito e ci sono temi che suscitano au-
tomaticamente allarme, come l’adorazione di determinate Potenze, la stre-
goneria, gli amuleti: se chiedo è possibile che io ritorca il sapere contro chi
incautamente me lo fornisce, oppure che io indebolisca il positivo rapporto
che egli intrattiene con una Presenza. La trasmissione del sapere è dunque
sempre una scelta concordata: chi vuole conoscere deve scegliere un mae-
stro socialmente riconosciuto in grado di ritrasmettere ed il maestro è libero
di accettare o meno il richiedente: lo farà se ne avrà capito e condiviso le
motivazioni e se ritiene che il richiedente sia davvero adeguato al sapere ri-
chiesto. Comunque sia, si tratta di un dono che il maestro fa e per il quale si
attende un compenso; nel caso di un artigiano, l’apprendista sarà pronto
quando il ‘padrone’ lo deciderà e comunque sino a quel giorno l’apprendista
dovrà mostrare riconoscenza tramite la propria disponibilità al servizio.
Come viene trasmesso il sapere riservato?20 Tutto avviene largamente per
partecipazione: il discente impara a riconoscere determinate piante che pos-
siedono tĩ́mì “potere sovrannaturale”, modalità di raccolta e di preparazione,
uso corretto dell’amuleto (tabu che lo indeboliscono o lo annullano; obbli-
ghi ad esso connessi); insomma il discente apprende procedure, ma né
chiede né gli viene comunicato verbalmente nulla di generale, di deconte-
stuato. Ad esempio, egli non sa cosa possa essere il tĩ́mì, sa solo che c’è, sa
cioè quello che tutti sanno o credono di sapere: egli è come l’elettricista che
sa riparare una presa ma al quale nessuno chiederebbe cosa sia l’elettricità.
Esistono saperi che formalmente non sono riservati e che tuttavia
prevedono degli script, ossia dei copioni o degli scenari, nettamente definiti
come è il caso del sapere storico (la storia di un villaggio, di un segmento di
lignaggio, di un individuo importante). Solo determinate persone possono
20
Mi riferisco alla formazione necessaria per preparare ed usare un potente amuleto.
Quanto segue si basa, oltre che su conversazioni con amici, su alcune esperienze personali
fatte al villaggio.
300 Franco Crevatin
22
Come si vede, il quadro che qui ho tentato di delineare parrebbe idealisticamente
unitario: a Kpetebonu si agisce e si pensa proprio cosí, in realtà mi guardo bene dal
proporlo in questi termini. Come dovunque, esiste varietà di opinioni oltreché di saperi e
sul riconoscimento di mlà incidono oggi sia le consapevolezze della legislazione coloniale e
post coloniale sia l’uso della parola riferito ad una ‘disposizione’ presa dal capo villaggio e
dal consiglio degli anziani e dalla quale non si può derogare oppure ad una ‘norma’ propria
del rito, anch’essa indiscutibile ed inclusa in saperi specifici propri di persone socialmente
accreditate.
23
Rinvio alle problematiche dell’antropologia della conoscenza, su cui si veda Barth 2002 e
Barth 1994; v. anche Crick 1982.
302 Franco Crevatin
A questo punto l’unica risposta alla domanda che ci siamo posti (cosa si
riflette della cultura nella lingua), per poco gratificante che essa sia, non può
che essere: si riflettono i contenuti linguistici – ossia la parte verbalizzabile –
24
In sintesi si veda Brewer 1997, Langacker 1987, D’Andrade 1990. In effetti la teoresi
sugli schemi è alquanto articolata e diffusa ed è stata prefigurata da molti studiosi (ad es. J.
Piaget). Qui la considero solo nelle sue linee essenziali.
25
Mi riferisco ad un tradizionalista.
26
Uso consapevolmente la terminologia resa celebre da Bourdieu 2000.
27
Per quella che è stata la mia esperienza, questo vale per tutte le classificazioni
decontestuate e prive di dimensione narrativa.
304 Franco Crevatin
BIBLIOGRAFIA CITATA
Alber, E. (2003), “Soziale Elternschaft in Westafrika”, in Egli - Krebs 2003,
pp. 101-114.
Ambrosini, R. et al., edd., (1997), Scríbthair a ainm n-ogaim. Scritti in
memoria di Enrico Campanile, Pacini, Pisa.
Atran, S. (1997), “Folk Biology” in Wilson, R.A - Keil, F.C., edd., (1997) p.
317 ss.
Barth, F. (1994), “A personal View of Present Tasks and Priority in Cultural
and Social Anthropology ”, in Borofsky 1994, pp. 350-360.
Barth, F. (2002), “An Anthropolofy of Knowledge”, in “Current Anthropolo-
gy” 43.
Basso, K. (1972), “Ice and travel among the Fort Norman Slave: folk taxo-
nomies and cultural roles”, in “Language in Society” 1, pp. 31-50.
Berger, P. L. - Luckmann, T. (1966), The Social Construction of Reality: A
Treatise in the Sociology of Knowledge, Anchor Books, Garden City.
Bloch, M. (1991), “Language, Anthropology and the Cognitive Science”, in
“Man” 26, pp. 183-198.
Borofsky, R., ed., (1994), Assessing Cultural Anthropology, McGraw-Hill,
New York.
30
Un caso egiziano è stato discusso in Crervatin 2008a.
306 Franco Crevatin