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Versione finale dell'articolo pubblicato su

«Linguistica e letteratura», XXXVIII 1/2 (2013),


pp. 235-298
INTRODUZIONE

Nella lunga e complicata storia della fortuna di Dante, il XX secolo


occupa un capitolo fondamentale, di importanza paragonabile solo al
secolo che vide la nascita e diffusione della sua opera: dopo l'indebita
riappropriazione ideologica del Rinascimento, gli studi danteschi
riforiscono in Italia e all'estero, i repertori bibliografci arrivano a
contare centinaia di migliaia di voci, la lettura della Commedia
diventa programma ministeriale delle scuole superiori. Chi scrive nel
Novecento deve necessariamente fare i conti con questa esplosione;
e, d'altra parte, gli intellettuali del Novecento trovano un
interlocutore più che stimolante nel poeta medievale. Il discorso di
Dante diventa improvvisamente dell'attualità più scottante nel secolo
breve: la civiltà sembra avviata ad una nuova catastrofe, e gli
intellettuali, smarriti dinanzi alla forza schiacciante della società dei
consumi e della produzione di massa, riscoprono nella Commedia un
baluardo della poesia e della coscienza.
In Italia gli studi danteschi penetrano con un certo ritardo,
reintrodotti dai grandi intellettuali anglo-americani, Pound e T. S.
Eliot in testa; ma Dante dilaga anche nella produzione letteraria
grazie alla forza espressiva del suo linguaggio, all'universalità del
suo messaggio di speranza e di tensione utopica.

Il rapporto con Dante va molto al di là, dunque, di un semplice fenomeno di


riuso. Questo rapporto è viceversa così radicale, da fare dell'intertestualità
dantesca nell'epoca contemporanea un capitolo a parte. La presenza
dantesca, anche quando saltuaria (e per ciò stesso di particolare evidenza), in
un testo novecentesco è sempre necessaria, in quanto vettore di pensiero, di
rifessione intima e storica insieme.1

Il caso di Montale è esemplare: la critica del dantismo montaliano è


stato un campo fecondo di studi fn dalla pubblicazione del suo terzo
libro di poesie, La Bufera e altro (1956). Dopo tanti contributi, sembra
ormai indubitabile che si possa parlare di un riutilizzo di materiale
dantesco ampio e programmatico nella poesia di Montale; ma i testi
da prendere in considerazione sono molto numerosi, disseminati in

1 SEVERI 2011, 42
1
contesti diversi con intenti comunicativi diversi, e manca a tutt'oggi
uno studio esauriente. Al lavoro sui testi è necessario affancare
l'analisi degli interventi critici di Montale, in cui spesso compare il
nome di Dante; adottando la terminologia proposta da Mario Marti,
si parlerà di dantologia in riferimento ai contributi di critica
dantesca, e di dantismo in riferimento al riuso in poesia di termini
provenienti da Dante.

I. DANTOLOGIA DI MONTALE
I.1 Dante ieri e oggi

Nel 1965 Montale fu invitato a partecipare come relatore al


Congresso Internazionale di Studi Danteschi in onore del settimo
centenario della nascita di Dante; in questa occasione ebbe modo di
affancare la propria opinione di poeta a quella dei critici che in
quegli anni evidenziavano un'ampia e signifcativa presenza di
Dante nella letteratura contemporanea europea e mondiale.
Il discorso di Montale prende le mosse proprio dall'affermazione
dell'attualità di Dante nel ventesimo secolo e si distende in un'analisi
personale e completa dell'itinerario poetico dantesco, dove ampio
spazio hanno le rifessioni sulla ricezione della sua opera nelle varie
epoche storiche. Il Montale critico, che fonda la propria
interpretazione su una solida base di storia della critica, e il Montale
poeta, che ha compreso e vissuto in sé l'esperienza poetica dantesca,
si sostengono a vicenda in un discorso dove spunti ed intuizioni
personali occhieggiano tra digressioni tradizionalmente didascaliche.
In fligrana si intuisce talvolta il senso di parziale estraneità di
Montale rispetto all'imponente schiera di critici presenti (proprio in
apertura sono nominati “uomini insigni” che “hanno portato il peso
o la grazia della loro autorità”), subito pacifcato dalla rivendicazione
della propria personale lettura di Dante, una lettura da poeta a poeta.
Uno degli scopi principali del discorso è dimostrare che l'attualità e
la centralità di Dante nella produzione contemporanea e negli studi
non sono conseguenze di una sua presunta modernità, che viene

2
decisamente negata; l'avvicinamento è più che mai possibile in virtù
della congerie storica del ventesimo secolo:

Il mio convincimento invece – e lo do per quel che può valere – è che Dante
non è moderno in nessuno di questi modi: il che non può impedirci di
comprenderlo, almeno in parte, e di sentirlo stranamente vicino a noi. Ma
perché questo avvenga è pure necessario giungere ad un'altra conclusione:
che noi non viviamo più in un'era moderna, ma in un nuovo medioevo di
cui non possiamo ancora intravvedere i caratteri.2

Stabilito questo complesso rapporto tra piani temporali, Montale


torna a chiedersi cosa possa rappresentare Dante per uno scrittore
contemporaneo, e si diffonde in una rapida carrellata della biografa
poetica dantesca; è dedicato un grande interesse alla questione delle
donne e dei loro senhals, tema che toccava la produzione poetica di
Montale da vicino. Il mistero che circonda la vita reale di Beatrice è
maliziosamente interpretato come una fortunata protezione, come
già era stato detto per Shakespeare poche battute prima: gli
ammiccamenti, più che al pubblico, sono in un certo modo indirizzati
a Dante, al suo “spiritello della mistifcazione”, di cui Montale svela
solo qualche piega, esibendo volentieri una speciale complicità tra
poeti. In tutto il discorso è diffcile trovare interpretazioni univoche
che delineino in modo preciso il fare poetico dantesco:

La struttura anfbologica, che Avalle individua nelle proposizioni


interpretative di un'intervista di Montale su Quaderni milanesi, nei riguardi
dei propri testi, ritorna qui applicata con valore ermeneutico all'opera di
Dante: solo proposte e ipotesi complementari consentono di penetrare in un
contesto poetico senza violentarne la fondamentale e necessaria ambiguità.3

Al di là del discorso interpretativo formalmente ineccepibile,


corredato di disquisizioni sulle datazioni e sui vari contributi della
critica, soggiace un'intesa profonda tra i due poeti: Montale adombra
un rapporto con l'opera dantesca che è frutto insieme di familiarità e
reverenza, ne lascia trapelare uno studio depurato dagli affanni della
ricerca scientifca e dalla smania del giudizio.

2 MONTALE 1966, 316-317


3 CORTI 1969, 60
3
I principali snodi critici del discorso si addensano nel campo del
senso allegorico, che unifca la vasta eterogeneità della Commedia ma
rimane “oscuro in molti particolari e non così compatto da stringere
davvicino tutti gli episodi della narrazione; nella quale spesso il velo
allegorico si disfà per lasciar emergere soltanto i simboli, non tutti
trasparenti”. Ciò che Montale torna a sottolineare più volte è
l'inattualità del metodo allegorico, che rende evidentemente diffcile
applicare strumenti interpretativi moderni ad un testo così distante.
Ad unifcare il poema e a scatenare l'interesse dei lettori, però, è
anche la controparte del senso allegorico, il corpo celato sotto il velo: la
“concretezza delle immagini e delle similitudini dantesche”, la
“capacità del poeta di rendere sensibile l'astratto, di rendere corporeo
anche l'immateriale”. Il legame inscindibile tra senso allegorico e
letterale garantisce la forza della Commedia, che risiede appunto nel
fondere perfettamente la storia e il mito grazie ad una trama
fttissima di corrispondenze e richiami, dove non ogni luogo deve
essere necessariamente chiaro ma dove ogni elemento è parte di un
tutto.
Difendendo Dante da letture condotte con strumenti critici moderni e
perciò deformanti, Montale pacatamente polemizza con Benedetto
Croce, non apertamente nominato ma perfettamente riconoscibile. La
critica crociana, in cui il poeta si era imbattuto da giovane durante i
suoi primi approcci con Dante, prescriveva di ignorare l'obsoleta
impalcatura dell'opera, formata da materiali flosofci “muti” per il
mondo contemporaneo; “ma sull'inerte fabbrica si arrampica
un'efforescenza di campanule o di altri vegetali che sono la poesia
dantesca, poesia fuori del tempo come ogni vera poesia”: questa la
lezione crociana. Montale rifuta una simile proposta interpretativa
perché vuole salvare ogni aspetto dell'opera dantesca, convinto che la
sua totalità sia “piuttosto un tentativo di emulare la sapienza divina
che una sfera nella quale possiamo riposare senza chiedere
null'altro”. Una lettura attiva, dunque, che però rispetti la
strumentazione teorica che Dante traeva dal suo tempo e non tenti né
di forzarla con interpretazioni impossibili a tanta distanza temporale
– come fanno gli “allegoristi a oltranza” nel tentativo di decifrare
ogni simbolo - né di svuotarla per valorizzare soltanto la liricità più
4
vicina alla sensibilità moderna, come voleva Croce.
Confutata dunque la lettura crociana, Montale si dice pronto ad
accettare quella di T.S. Eliot, sostenitore dell'interdipendenza tra
soprasenso e senso letterale concreto. Nei vari saggi dedicati al poeta
medievale, Eliot aveva fatto riferimento alle “chiare immagini visive”
di Dante, ed aveva sostenuto l'onnipresenza e la rilevanza del tessuto
metaforico; Montale crede di riscontrare, invece, una progressiva
rarefazione delle metafore nel corso del poema, che infcerebbe la
proposta di lettura eliotiana.
L'ultima posizione critica esaminata è quella avanzata da Irma
Brandeis, il cui contributo, The Ladder of Vision, è citato da Montale
con grande ammirazione, senza far trapelare nulla del legame che li
ha avvinti; sono passati molti anni – secondo quanto ha potuto
ricostruire la critica – dall'ultimo contatto epistolare tra il poeta e la
donna che così larga parte ha avuto nella sua biografa e nella sua
poesia. La proposta interpretativa di Brandeis, allieva di Singleton,
radica il poema nel suo impianto flosofco e didattico, che non è
mero elemento di cornice, ma percorso di apprendistato del poeta-
flosofo che vuole avvicinarsi “a un immenso patrimonio di cultura
universale”. Tra le parole di Montale si può forse indovinare una
lieve traccia del trasporto con cui si è accostato al testo della donna
un tempo amata, un trasporto suggestivo più che intellettuale; e
questa parte del discorso si conclude proprio con un cenno all'amore
terrestre di Dante e con la citazione della celebre terzina del
Purgatorio: “Men che dramma / di sangue m'è rimaso che non
tremi: / conosco i segni dell'antica famma” (Pg XXX, 46-48).
La conclusione del discorso è signifcativa:

Si fa tardi ed è ora che io chieda, non ai miei ascoltatori ma soprattutto a me


stesso: che cosa signifca l'opera di Dante per un poeta d'oggi? Esiste un suo
insegnamento, un'eredità che noi possiamo raccogliere? Se consideriamo la
Commedia come una summa e un'enciclopedia del sapere la tentazione di
ripetere ed emulare il prodigio sarà sempre irresistibile; ma le condizioni del
successo non esistono più.4

Più volte nel discorso ritorna il concetto del miracolo, del prodigio, e

4 MONTALE 1966, 330


5
più volte si scontra con la decisa negazione della sua ripetibilità. Si
può pensare che questo reciso liquidare un'esperienza di emulazione
nei confronti di Dante sia una Verneinung (come “io non Enea, io non
Paulo sono”, If II, 32)? Quel che è certo è che Montale tratteggia
un'esperienza dantesca intima e delicata, dove ogni interpretazione è
una scala appoggiata ad una parete senza la pretesa di salire fno in
cima, dove il genio di Dante è accolto nella sua ambiguità e nella sua
capacità di spaziare dal mistico al mistifcatorio, dal razionale al
miracoloso.

Che la vera poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa
presupponga la dignità di chi lo riceve, questo è forse il maggior
insegnamento che Dante ci abbia lasciato.5

I.2 Ancora su Dante nella critica di Montale

Nell'attività critica e giornalistica di Montale il nome di Dante


compare più volte: in alcuni casi si tratta di semplici riferimenti,
solitamente rivestiti d'ammirazione, ma talvolta la trattazione si fa
più ampia, comprendendo analisi puntuali e defnizioni esatte e
profonde; una tra queste è l'etichetta di “poeta inclusivo”, proposta
in un articolo del 1964 scritto per il «Corriere della Sera». In questo
intervento Montale esibisce una certa dose di ironia, accostando
termini della critica più elaborata ad una poesia che mette in musica
“anche i conti della lavandaia”. Ma in una trattazione così lieve, la
defnizione promessa al lettore è seria e avvertita: poesia inclusiva è
quella poesia che reintroduce nell'ambito del verso i contenuti che
tradizionalmente ne sono esclusi, rompendo il binomio identifcativo
del genere poetico, vale a dire linguaggio poetico e contenuti
privilegiati. Escludendo la satura latina, secondo Montale il primo
poeta inclusivo fu Dante, e “dopo di lui nacque la lirica moderna; il
poema continuò a vivere o a vivacchiare ma non fu più inclusivo:
diventò una specialità letteraria.” 6

5 Ivi, 332-333
6 MONTALE 1964, 146
6
L'articolo prosegue con un'analisi dello stato attuale della poesia
inclusiva, straordinariamente diffusa ma piegata a contenuti
assolutamente privati dei poeti che, “inclusivi di tutto, escludono la
trascendenza di quella che fu tradizionalmente la poesia e l'alta
retorica, si vergognano assai ragionevolmente di esser detti poeti e
sembrano vivere in un perpetuo terrore che diremmo aziendale.” 7 E'
implicito il confronto con Dante che, pur essendo un poeta inclusivo,
e anzi il maggiore, ha saputo conciliare la trascendenza nobilitante la
poesia con i contenuti d'eccezione introdotti nella Commedia. L'ironia
si spegne infne in una visione di scoraggiata incertezza circa la sorte
della poesia, della prosa e dell'arte in generale, imperniate sul Nulla
e paralizzate da un rifuto assoluto e privo di costruttività dei
tradizionali schemi.

Nel 1962 «Il Mondo» di Firenze pubblica un articolo di Montale su


Benedetto Croce8; il poeta accetta di scrivere un articolo
sull'argomento con la consueta affettazione di modestia e semplicità,
e si dichiara estraneo all'altezza speculativa di Croce. Nonostante
queste dichiarazioni di ignoranza, l'articolo affronta con competenza
la produzione critica e flosofca crociana. Ciò che interessa in questa
sede è l'anticipazione della polemica che troverà spazio nel discorso
del 1965 al Convegno Internazionale di Studi Danteschi (vedi supra),
vale a dire la polemica nei confronti della netta distinzione operata
da Croce tra poesia e struttura nella Commedia. Appoggiandosi al
rifuto di Croce della propria interpretazione dei Promessi Sposi a
qualche anno di distanza, Montale ipotizza che forse, se ne avesse
avuto l'occasione, il critico avrebbe riscritto anche il contributo su
Dante con almeno un'attenuazione della rigida distinzione tra poesia
e struttura.
Le stesse affermazioni si ritrovavano già in un articolo del '42, in cui
Montale si mostrava dubbioso circa la separazione, di De Santis e poi
di altri, tra poesia e arte:

E se è pur vero che la Commedia non è tutta poesia, né solo poesia, è


altrettanto certo che la “macchina” dantesca non può chiamarsi poesia né

7 Ivi, 147
8 MONTALE 1962, 128
7
distinguersi dall'arte del poema.9

Ed infne un breve cenno sull'argomento è in Diffcile da aprire,


articolo del 1950: “Leggere Dante o Leopardi (o lo stesso Valéry)
cercando in essi la poesia signifca disfare l'opera architettonica da
essi composta.”10
E' evidente la compenetrazione che Montale avvertiva, nella poesia
di Dante in particolar modo, tra struttura e poesia: non solo entrambe
veicolano un signifcato che si richiede al lettore di decifrare, ma
anche il loro intreccio è costruito dal poeta con forte intenzionalità.
L'esempio dantesco rendeva più chiara ed avvertibile alla sua mente
la fusione di questi due elementi, ma tale fusione, almeno ad un certo
livello di competenza, era per Montale necessaria anche nella poesia
moderna. Questa convinzione lo portava a guardare con un certo
distacco le correnti critiche che tendevano ad isolare struttura ed arte
e a privilegiarne una a discapito dell'altra; e a questa convinzione si
potrebbe far risalire, almeno in parte, anche il recupero delle forme
metriche della tradizione, in contrasto con la dissoluzione prosodica
portata avanti da molti suoi contemporanei.

Il nome di Dante ricorre anche negli articoli dedicati a T. S. Eliot, da


molti critici considerato il mediatore tra Montale e il poeta
medievale. Nel primo di questi, Invito a T.S. Eliot, datato 1950, Dante
è citato come fonte di Eliot ma soprattutto, tramite il Paradiso, come
modello di poesia metafsica:

L'opera d'arte, l'oggetto poetico dovrebbe essere il “correlativo obiettivo”


dell'emozione stessa; la poesia può, anzi deve, esser metafsica non
esprimendo idee ma il fondo emotivo delle idee. Per tale via Eliot si affaccia
a Dante, al Paradiso; e su Dante egli ha scritto un saggio che ai non Italiani
può riuscire utilissimo.11

In margine non si può fare a meno di notare come Montale


obliquamente sminuisca la lettura critica operata da Eliot nei
confronti di Dante, consigliandone la lettura solo a chi non sia

9 MONTALE 1942, 102


10 MONTALE 1950, 392
11 MONTALE 1950 (2), 462
8
italiano; questo atteggiamento è una costante nel suo giudizio su
Eliot, la cui attività critica è apprezzata ma sempre con una certa
riserva. Un altro accenno di questo genere è nel saggio del '65,
Ricordo di T. S. Eliot, dove Montale riconosce il percorso del poeta
“attraverso i metafsici inglesi fno a Dante (quel Dante ch'essi forse
conoscevano meglio di lui).”12 Nello stesso articolo, a distanza di
qualche paragrafo, segue un'analisi più ampia, molto vicina a quella
proposta nel discorso Dante ieri e oggi, di alcuni mesi successivo.
Nuovamente Montale ridimensiona il dantismo di Eliot e gli
preferisce quello di Pound, portato alle estreme conseguenze: nella
sua opera l'oggettività che “rende palpabili e vivi anche i simboli e le
allegorie”, modellata sulla Commedia, investe non solo la struttura,
ma anche “il poema come summa”. Sul dantismo di Pound però
Montale torna ironicamente nel '72, defnendo i Cantos come un
poema che “aspira ad essere la summa della storia del mondo vista
da un poeta as an old man. Non un Dante redivivo ma un Dante alle
soglie della pazzia.”13 In un'intervista del '62 aveva ribadito il
concetto:

In altri tempi era possibile anche un lungo discorso razionale in versi di


strettissima osservanza metrica (p. es. La Divina Commedia); ma allora quasi
non esisteva la prosa. Oggi il poema-summa, il poema-macchina non è più
possibile in versi e forse nemmeno in prosa. Né i Cantos né l'Ulisse possono
ripetere il miracolo di Dante.14

Nelle rifessioni critiche dedicate ai due poeti anglo-americani,


dunque, Montale sottolinea la distanza, piuttosto che la presenza, del
modello dantesco; i tentativi di emulazione sono non solo vani, ma
quasi ridicoli nella loro velleità, perché l'opera di Dante si situa al
punto di convergenza di una serie di tendenze – stilistiche,
prosodiche, flosofche, religiose, formali in senso lato – che
prendono nel tempo direzioni diverse e non sono più riunifcabili
nell'epoca contemporanea.

12 MONTALE 1965, 517


13 MONTALE 1972, 530
14 MONTALE 1962 (2), 592
9
Un ulteriore riferimento a Dante è contenuto in Storia dell'araba
fenice15, articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» del 29 marzo
1951. Montale individua la modernità di Dante nella coincidenza tra
l'operazione poetica della Commedia e le tendenze della lirica
contemporanea, che ha “il problema di farsi prosa senza essere
prosa, di restare lirica pur essendo anche epica e magari narrativa”.
Confrontando passi come questo con le decise negazioni di una
modernità dantesca contenute in Dante ieri e oggi, si può tratteggiare
un possibile itinerario di lettura dantesca che, da sentita e personale,
si fa sempre più meditata e razionalizzata, senza tuttavia mai perdere
il valore delle suggestioni e delle introiezioni ricavatene. La
vicinanza di Dante è sempre fortemente avvertita, ma con l'esercizio
della critica è contestualizzata: la sua modernità è nella mente di chi
legge, non nella sua opera.
Ricomponendo i tasselli, la lettura d'insieme che si può ricavare sulla
critica dantesca proposta da Montale è coerente ed omogenea:
ricorrono un'ammirazione che sconfna nella semantica del
“miracolo”, un sentimento di forte vicinanza ma anche la
consapevolezza di un insuperabile primato e di una enorme
distanza, la cui riduzione è solo illusione prospettica.

I.3 Dante negli auto-commenti di Montale

La presenza di Dante negli scritti non letterari di Montale non si


limita alla produzione critica, ma coinvolge anche gli auto-commenti
che il poeta riserva alle proprie opere. Questi contributi sono un
nodo fondamentale nella questione del rapporto tra i due autori,
perché gettano un ponte tra l'attività critica di Montale e la sua
produzione poetica: il poeta che si fa critico di se stesso non mantiene
facilmente gli stessi principi ermeneutici che aveva elaborato nello
studio delle opere altrui, non riesce a vincere del tutto le reticenze
che coprono la genesi della propria poesia e crea un delicato
equilibrio tra allusione e dichiarazione. Entrano in campo fattori

15 MONTALE 1951, 171


10
psicologici diffcilmente sondabili nel rendere visibile il cuore della
poesia, quell'occasione che dà vita al componimento; il poeta svela
solo in parte il retroscena della propria attività, aggiunge qualche
tratto al disegno che la poesia accennava solamente.
L'articolo del 1950 dal titolo Due sciacalli al guinzaglio racconta la
nascita di alcuni componimenti dei Mottetti; il poeta assume la
maschera di “Mirco, noto poeta che oggi ha cambiato mestiere”. Il
tono volutamente prosaico che Montale riserva ad un groviglio così
intimo di pensieri e sensazioni non maschera del tutto il valore
assoluto, quasi romantico, dato alla “scaturigine” del discorso
poetico dall'esperienza biografca: nel quotidiano forire di rifessioni,
“nuovi epigrammi nascevano e scoccavano come frecce” per la
donna amata e lontana. Con un atteggiamento tra l'ironico e il
dissacrante, Montale si abbandona alla tentazione di svelare e in un
certo modo banalizzare i retroscena della propria poesia:

Clizia non si chiamava affatto Clizia, e il suo originale si può trovare in un


sonetto d'incerta paternità che Dante, o chi per lui, inviò a Giovanni Querini;
e neppur Mirco si chiama Mirco, ma la necessaria circospezione non toglie
nulla al senso di questa noterella. Basti identifcare la tipica situazione di
quel poeta, e direi quasi d'ogni poeta lirico che viva assediato dall'assenza-
presenza di una donna lontana, nel caso presente di una Clizia portante il
nome di colei che secondo il mito fu mutata in girasole.16

Il sonetto in questione, la cui attribuzione dantesca fu negata già da


De Robertis, e che Montale doveva leggere nell'edizione approntata
da Gianfranco Contini, è il seguente:

Nulla mi parve mai più crudel cosa


di lei per cui servir la vita lago
ché 'l suo desio nel congelato lago,
ed in foco d'amore il mio si posa.

Di così dispietata e disdegnosa


la gran bellezza di veder m'appago;
e tanto son del mio tormento vago
ch'altro piacere a li occhi miei non osa.

16 MONTALE 1950 (3), 84


11
Né quella ch'a veder lo sol si gira
e 'l non mutato amor mutata serba,
ebbe quant'io già mai fortuna acerba.

Dunque, Giannin, quando questa superba


convegno amar fn che la vita spira,
alquanto per pietà con me sospira.17

Clizia è personaggio della mitologia classica, la cui fonte principale


sono le Metamorfosi ovidiane; Montale ha scelto come senhal per la
sua donna una fgura dantesca, a cui ha restituito il nome taciuto da
Dante. Un verso funge da spia di questo raccordo tra Ovidio, Dante e
Montale: “Vertitur ad Solem mutataque servat amore” (Met IV, 270),
tradotto da Dante al v 10 del sonetto sopra riportato e ripreso da
Montale nella Primavera hitleriana, con una lieve variazione nell'uso
della seconda persona singolare: “che il non mutato amor mutata
serbi”. Lettori molto avvertiti potevano aver già colto questa
citazione intertestuale, ma l'articolo si riserva il compito di renderla
accessibile a tutti.
Con lo stesso tono favolistico Montale spiega l'origine di due
mottetti: le due poesie, defnite “meno limpide” rispetto alle “sorelle”
del “romanzetto autobiografco tutt'altro che tenebroso”, sono il
mottetto IV, scritto dopo la morte del padre di Clizia, e il VI.
L'atmosfera in cui sono nati è rievocata con lieve dolcezza e
semplicità; l'aneddoto scivola impercettibilmente nella sfera del
ricordo, della nostalgia, dell'amore struggente, e con naturalezza è
messo nero su bianco sul margine di un giornale o su un biglietto del
tram.
I due mottetti sono indubbiamente vicini alla Vita Nova: il primo
condivide l'occasione dei sonetti in morte del padre di Beatrice, il
secondo i motivi dello schermo e del senhal. In entrambi i casi una
percezione evenemenziale crea un legame tutto interiore tra Montale
e Clizia, un legame che getta un'ombra di signifcato sulla totalità
della vita del poeta. La morte del padre di Clizia, nelle rifessioni del
poeta, illumina il suo passato e ne riconosce lo scopo, svela la

17 Ed. CONTINI 1939, 241


12
protezione “dell'ombrellino del suo girasole”. L'apparizione dei due
sciacalli, evento buffo che viene a rompere l'angoscia di Montale
“sempre assorto nel suo «pensiero dominante»”, si associa in modo
persistente alla donna (“Clizia amava gli animali buff. Come si
sarebbe divertita a vederli!”); la forza di questo legame profondo
rimane misteriosa:

Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero
un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo
un'allucinazione, i segni premonitori della sua decadenza, della sua fne? 18

Se la genesi dei componimenti sia stata realmente quella narrata o


meno, poco importa; Montale ha voluto dare ai lettori questo
autoritratto, nel diffcile tentativo di illustrare una poesia che parte
da un “antefatto” anche quotidiano e comune ma si dipana poi in
rifessioni e immaginazioni tutte interiori, a volte limpide, a volte
diffcili da comprendere. L'articolo si conclude con una sorta di
testamento del poeta:

Anche l'oscurità di certi moderni fnirà per cedere, se domani esisterà ancora
una critica. Allora dal buio si passerà alla luce, a troppa luce: quella che i così
detti commenti estetici gettano sul mistero della poesia. Tra il non capir nulla
e il capir troppo c'è una via di mezzo, un juste milieu che i poeti, d'istinto,
rispettano più dei loro critici; ma al di qua o al di là di questo margine non
c'è salvezza né per la poesia né per la critica.19

La salvezza, l'equilibrio è nel rispetto che Montale – critico ma prima


di tutto poeta - aveva dimostrato nel non voler forzare le
interpretazioni delle opere altrui. Il brillantissimo bozzetto delle
schiere di critici che si gettano famelici su ogni dettaglio delle poesie ,
in uno stolto sciacallaggio, si tinge di amarezza nella visione amara
dei due animali “braccati, catturati e rinchiusi tra le sbarre di uno
Zoo”.
Montale cerca con questo articolo di rimediare ad una “confdenza
forse eccessiva nella materia trattata”, ammettendo di essersi “forse
troppo abbandonato all'antefatto, alla «situazione»”; ma un velo di
18 MONTALE 1950 (3), 86
19 Ivi, 87
13
malinconia sembra avvolgere questa narrazione lieve e ironica, nella
visione fnale, terribile ed esorcizzante, di un'oscurità troppo violata.

Se l'articolo appena esaminato allude ad un rapporto tra i Mottetti e


la Vita Nova, in altre interviste Montale dichiara, più o meno
esplicitamente, l'emulazione di Dante nelle sue opere, tanto nelle
prime tre raccolte poetiche:

La mia opera va letta insieme, come una poesia sola. Non voglio fare il
paragone con la Divina Commedia, ma i miei tre libri li considero tre cantiche,
tre fasi di una vita umana.20

quanto nelle ultime:

Nel caso in cui l'uomo sia assediato dalle cose (è la mia attuale situazione) la
voce non può dialogare che con esse, magari per tentare di esorcizzarle.
Nasce a questo punto lo stile comico, che ha segnato il massimo trionfo con
la Commedia di Dante. Con lui nasce e forse muore la poesia italiana. Si parva
licet, e con tutta l'indulgenza possibile, ecco perché nei due ultimi miei libri
l'intonazione della voce appare più bassa.21

Montale dichiara esplicitamente di aver tenuto presente l'esempio


dantesco, non solo nei singoli componimenti, ma anche a livello
macrotestuale. L'evoluzione della sua poesia può essere parallela a
quella dantesca e solo a posteriori riconosciuta come tale, oppure
programmaticamente modellata sulla produzione dantesca fn
dall'inizio: non è chiaro a che livello di consapevolezza abbia agito
l'emulazione. Ma si chiarisce qui che l'irripetibilità di Dante,
affermata quasi ossessivamente in altri scritti montaliani, non
contrasta con un'impostazione che segua con indulgenza e modestia
le linee guida del maestro.

20 Montale 1966, intervista riportata in VALENTINI 1977, 26


21 MONTALE 1973, 601
14
II. RASSEGNA CRITICA: IL DANTISMO DI MONTALE
II.1 Cambon: ermetismo esistenziale e tempo memoriale

Nel 1956 Montale pubblica La Bufera e altro; le precedenti raccolte


avevano avuto una buona ricezione critica, ma nella ricerca delle
fonti della sua poesia il tema del rapporto con Dante non era ancora
stato affrontato in modo signifcativo. Con la Bufera, invece, la voce
del poeta medievale sembra emergere con prepotenza e si impone
all'attenzione dei critici.
Il primo studioso a dedicarsi alla questione è Glauco Cambon, che
nello stesso 1956 pubblica sulla rivista «Aut-Aut» un articolo dal
titolo Montale dantesco e bruegheliano, una delle primissime recensioni
della raccolta. Cambon dipinge un Montale sempre coerente a se
stesso nelle tre diverse raccolte poetiche, impegnato in un costante
dialogo tra cosmo ed io, dove un ruolo fondamentale è giocato dal
tempo: un tempo non storiografco, ma memoriale, che conduce alla
rivelazione del nulla o del mistero. In un universo poetico segnato
dal disfacimento e dall'entropia, l'unico portatore di valori è
l'individuo, che si ritrova in solitudine a vivere la dimensione interna
della memoria, difendendosi da un'apocalisse che è frutto di “un
collettivismo anonimo”. Da questo discende un ermetismo che è “un
atteggiamento esistenziale, una difesa della persona, un velarsi e
rivelarsi della sua integrità spirituale” - lo stesso atteggiamento che
Montale ironicamente attribuiva a Dante e alla sua fortunata
segretezza biografca nel discorso Dante ieri e oggi (vedi supra).
Nelle argomentazioni immaginifche ma di ardua decifrazione di
Cambon sembra di intuire un Montale dantesco soprattutto per
quanto riguarda la sfera del linguaggio: la dimensione interiore e allo
stesso tempo cosmica della memoria può trovare espressione solo
grazie al recupero della “vertebrata compattezza” di Dante, che
garantisce alla sonorità della poesia un'unitarietà avvertibile
dall'interno. È la “scabra lingua di Dante” che permette a Montale di
penetrare il dominio della memoria, il luogo dove l'esperienza e i
sentimenti vengono purifcati nell'assenza, ma dove allo stesso
tempo l'assenza e il nulla incombono sul linguaggio e generano i
15
silenzi da cui trae profondità il linguaggio. In quest'ottica quasi
intimista non trovano posto politica e storia, che rimangono a livello
di “sfondo occasionale”:

Montale vive il tempo con grande intensità, ma il suo è fondamentalmente


un tempo estraneo alla storiografa; è la memoria dell'individuo e lo
sgretolarsi del mondo. Se fatti e fgure della storia contemporanea
compaiono nella sua poesia, vi compaiono solo in funzione del suo dramma,
in cui si risolvono.22

Montale dunque come poeta di una memoria ambivalente, salvatrice


ma anche minacciosa, compatta nella sua sonorità ma insidiata
dall'alterità; a prestare voce a questa poesia concorrono la lingua di
Dante e il realismo delle immagini di Brueghel. Cambon sembra aver
accolto e propagato le risonanze interiori offerte dalla poesia di
Montale, lasciando a tacere una dimensione – quella storico-politica –
che proprio nella Bufera aveva assunto tinte forti e più esplicite
rispetto alle raccolte precedenti.
Dante si manifesta implicitamente “nelle sue scelte verbali, nei suoi
orientamenti sonori, nel suo amore per la visione stagliata, o anche in
qualche citazione funzionale”. Gli esempi di ripresa dantesca citati
da Cambon (e confermati in futuro da ogni critica sulla questione)
sono il Mottetto VIII (“Il ramarro, se scocca / sotto la grande fersa /
dalle stoppie”, da confrontare con “Come 'l ramarro sotto la gran
fersa / del dì canicular, cangiando sepe / folgore par se la via
attraversa” [IF XXV vv 79-81], “) e gli “incappati di corteo” che si
trovano in Incontro, allusione agli ipocriti del canto XXIII dell'Inferno.
Che Montale “abbia Dante nel sangue” (e quest'espressione non può
che richiamare l'analoga eliotiana “to write not merely with his own
generation in his bones” 23) è evidente dal recupero della “scabra
essenzialità” dantesca e da altri rimandi intenzionali che si
concentrano, nell'analisi di Cambon, soprattutto a livello linguistico,
coinvolgendo talvolta – ed è in dubbio se ciò avvenga con la
consapevolezza dell'autore o meno – immagini o stilemi.
Il livello memoriale si accosta per la sua natura stessa al Purgatorio,

22 CAMBON 1956, 115


23 ELIOT 1921, 38
16
“un fuoco dove si purifca diuturna l'immagine di chi amammo
quando la sua presenza ci è ormai negata per sempre”. Anche alcune
“apocalissi luminose” che aprono verso la mistica sono assimilabili a
Dante, e anche molte fgure di “donna in veste d'angelo”, “da vero
stilnovista”; Cambon di volta in volta rileva anche altre ispirazioni:
gozzaniana, pascoliana, dannunziana; ma è già evidente che la voce
dantesca agisce in modo diverso sulla poesia di Montale.

II.2 Bonfglioli: metodo strutturale e autorizzazione dantesca

La reattività dell'ambiente critico alla nuova indagine sulle fonti della


poesia montaliana è immediata: nel 1958 su «Il Verri» compare un
articolo di Bonfglioli in cui si mettono a confronto Montale, Pascoli e
Gozzano; cinque anni dopo la triade di Bonfglioli perde Gozzano ed
acquista Dante. Tra i due contributi si situa l'articolo di Toni Comello,
Dante e Montale (vedi infra), che individua un rapporto privilegiato
tra i due poeti e fonda un ramo della critica montaliana destinato a
grande fortuna.
Nel primo dei due articoli Bonfglioli rileva una costante che
accomuna la poesia di Montale con quella di Gozzano e di Pascoli,
cioè il procedimento di oggettivazione del reale; ma tra i tre poeti
emerge soprattutto una differenza, fondamentale per la flosofa
montaliana: se Gozzano e Pascoli oggettivano la realtà esterna in
base alla propria percezione e se ne servono per ampliare di nuove
risonanze lo spazio interiore del poeta, Montale difende sempre
l'autonomia e l'irriducibilità ontologiche di ogni evento, che
concentra in sé tutta la realtà possibile. Il poeta dichiara
esplicitamente di voler evadere dalle ristrettezze di una visione dove
la realtà appariva come

una cappa, come una campana di vetro eppure sentivo di essere vicino a
qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un flo appena mi separava dal quid
defnitivo. L'espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel
flo: una esplosione, la fne dell'inganno del mondo come rappresentazione.24
24 MONTALE 1946, 565
17
E proprio questo “velo sottile” domina nella prima raccolta della
poesia di Montale, dove “tutto era astratto e assorbito dal mare
fermentante”: ma il secondo libro

tentava di abbattere quella barriera fra interno ed esterno che mi pareva


insussistente anche dal punto di vista gnoseologico. Tutto è interno e tutto è
esterno per l'uomo d'oggi; senza che il cosiddetto mondo sia
necessariamente la nostra rappresentazione. Si vive con un senso mutato del
tempo e dello spazio.25

Lo specifco della poesia montaliana non è nell'assenza di questa


barriera, ma nella ricerca del suo abbattimento, nella ricerca
instancabile della “maglia rotta nella rete”, che garantirebbe
un'espressione assoluta mai veramente raggiunta nelle epifanie
negative del poeta (“Del resto, la campana di vetro persisteva intorno
a me, ed ora sapevo ch'essa non si sarebbe mai infranta” 26). Non c'è
una romantica osmosi tra l'interiorità del poeta e il mondo esterno,
ma un rapporto altalenante che oscilla tra stridenti contrasti e
temporanee pacifcazioni.
L'oggettivazione di Montale, secondo Bonfglioli, è data più come
risultato, come residuo, che come processo, e per questo è opposta
alle due modalità di oggettivazione di Pascoli e Gozzano: in
movimento dall'esterno all'interno la prima, in direzione opposta la
seconda. Questo avviene perché

il processo di oggettivazione, che conduce alla serie irrelata degli atomi-


eventi, muove da un cataclisma cosmico che ha distrutto la sostanzialità
della persona come quella della natura.27

Confrontato il saggio di Bonfglioli con quello di Cambon, ci


troviamo di fronte a due letture quasi opposte della poetica
montaliana: per Cambon il linguaggio poetico di Montale riesce a
dare unità ad una dimensione memoriale interna minacciata
dall'alterità, per Bonfglioli invece si viene a creare una “serie irrelata

25 Ivi, 567
26 Ivi, 566
27 BONFIGLIOLI 1958, 48
18
degli atomi-eventi”, dove la realtà “vive come reliquia ossifcata o
scatta all'acme di una tensione vertiginosa e momentanea”,
indipendente rispetto ad un soggetto che non è più sostanza.
Tuttavia la poesia montaliana muove da una realtà spesso ridotta a
scaglie, ma dove la trascendenza, possibile o negata che sia, è sempre
una dimensione contemplata e dinamicamente presente. L'oggetto è
l'opera, non la realtà: “Ammesso che in arte esista una bilancia tra il
di fuori e il di dentro, tra l'occasione e l'opera-oggetto bisognava
esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta.” 28

Il secondo saggio di Bonfglioli, intitolato Dante Pascoli Montale e


scritto in occasione del Convegno Internazionale di Studi Pascoliani
tenutosi a Bolzano nel 1962, dichiara apertamente l'adozione di un
metodo strutturale volto a registrare “a livello stilistico, degli scarti
differenziali” tra le strutture dei poeti considerati. Questa ricerca
deve muoversi su un piano sincronico, non genetico, e pertanto
esclude ogni idea di derivazione per arrestarsi all'elaborazione di un
modello euristico semplice ed onnicomprensivo.

Bisogna avvertire che il rapporto Dante-Montale non si esaurisce in una


“mediazione” dantesca dei pascolismi o pascoliana dei dantismi montaliani,
cioè a dire in una sorta di partita a tre in cui naturalmente il poeta
contemporaneo porta sempre via il piatto; ma si svolge soprattutto in modo
diretto, in un incontro a faccia a faccia, i cui risultati andranno studiati a
parte. […] dirò che è possibile registrare, nei versi montaliani, un quadro
notevole di presenze dantesche le quali, per di più, sembrano organizzarsi in
una struttura da cui sarà forse possibile risalire alla conoscenza di un aspetto
non marginale degli Ossi e specialmente delle Occasioni. Per ora, interessa
solo rilevare il caso di quel gioco a tre, come esempio di una sincronia che
taglia e mischia i tempi sul proprio piano, non per un'avventura
avanguardistica volta a puntellare con versi antichi frammenti di pensieri
nuovi, ma per la programmatica volontà, evidente in Montale, di strutturare
un sistema che tenga conto di tutte le relazioni compatibili con le proprie
leggi interne.29

Quest'ultima distinzione ricorda signifcativamente i versi conclusivi

28 Ivi, 567
29 BONFIGLIOLI 1963, 36
19
di The Waste Land: “These fragments I have shored against my
ruins”30, e potrebbe suggerire Eliot come rappresentante della
tendenza opposta alla organica strutturazione di Montale. Un
Montale così strutturalista nella scrittura è qualcosa di molto lontano
dall'immagine che il poeta cercò sempre di dare della propria attività;
ad esempio si può proporre un confronto con affermazioni come
questa:

Non saprei spiegare come la poesia nasce in me: so solamente che ogni mia
poesia è preceduta da una lunga e oscura gestazione, nella quale però non è
contenuto nulla di prevedibile […] Finito il periodo dell'incubazione scrivo
con molta rapidità e con pochi ritocchi. A cose fatte leggo i critici e scopro le
mie intenzioni.31

Oppure:

L'importante è che il traslato dal vero al simbolico o viceversa avviene in me


sempre inconsapevolmente. Io parto sempre dal vero, non so inventare
nulla; ma quando mi metto a scrivere (rapidamente e con poche correzioni)
il nucleo poetico ha avuto in me una lunga incubazione: lunga e oscura.
Après coup, a cose fatte, conosco le mie intenzioni.32

Eliot, secondo Bonfglioli, ha comunque un ruolo importante per


Montale nella rimeditazione di modelli danteschi – da quello delle
petrose a quello stilnovistico – da cui trarre “strumenti utilizzabili
per una poetica dell'obiettivazione”. L'infuenza di Eliot può essere
successiva ad un certo dantismo avvertibile già nella prima edizione
degli Ossi, come lo stesso Montale aveva voluto dichiarare
esplicitamente. Se già nel biennio '26-'27 si collocano “i procedimenti
più calcolati del dantismo montaliano” (in un periodo in cui il regime
si defnisce come tale e si sviluppa un clima infernale che spinge
verso una presa di coscienza europea del dramma storico), la
scoperta di Eliot permette fnalmente a Montale di “giustifcare
culturalmente il ritorno a Dante”. In questo caso potremmo
distinguere tra due fasi del dantismo di Montale, una precedente ed
una successiva all'incontro con Eliot; tale differenza dovrebbe essere
30 T. S. Eliot, The Waste Land, v 431
31 MONTALE 1960, 577
32 MONTALE 1962 (2), 92
20
evidente nella comparazione tra la prima e la seconda edizione degli
Ossi.
La conquista che Montale deve a Dante riguarda una riproposizione
del realismo ontologico e della razionalità flosofca, deposte le
tendenze del romanticismo e del naturalismo. E Dante, sempre
secondo Bonfglioli, è maestro anche per quanto riguarda la fedeltà
alla contemporaneità dello scrivente; questa contemporaneità è
vissuta in modo assoluto, senza legami psicologici o tentazioni
documentarie, come semplice “atto del tempo”.
Data la sua natura “radicalmente fnita” e assolutamente
autoreferenziale, l'oggetto montaliano è il polo opposto rispetto
all'oggetto di Eliot, latore di un signifcato teologico e perciò
mediatore nel rapporto con la divinità. Per questo l'insegnamento di
Eliot è fondamentale ma è anche necessariamente ritradotto in una
“simbologia metafsica del fnito, dell'assenza”, dove sono negate le
teofanie fenomenologiche che il poeta inglese ricavava da Dante. In
conclusione, il dantismo di Montale è autonomo nell'origine, ma
mediato da Eliot per quanto riguarda l'attualità del magistero
dantesco e “la possibilità di impiegare strutturalmente un sistema
semantico derivato dalla Commedia”.
Forte di questo approccio strutturale così infrangibile, Bonfglioli può
parlare della Bufera come di un'opera in cui il dantismo non è vistoso,
ma è “elemento strutturale e interno”, in quanto l'intera raccolta ha
un suo tempo fnito: “per Montale i tempi sono chiusi
monadicamente e fniti. La monade è cieca e deve ricavare tutto dal
proprio seno, anche i simboli impossibili dell'oltre”. La monade cieca
basta a se stessa, non ha messaggi profetici da diffondere
ricombinando tutti i tempi in un tempo atemporale come aveva
teorizzato e praticato Eliot sull'esempio della Commedia dantesca.

La “commedia” di Montale […] è l'assolutezza di una resistenza individuale


e aristocratica, chiusa in sé, nella propria esemplarità mediocre e non
continuabile. Così anche la lingua montaliana non può essere dantescamente
dilatata ad esprimere un destino universale attraverso i procedimenti di una
gloriosa allegoria, ma resta chiusa nella propria oggettivata singolarità,
cresciuta ad esempio assoluto ma non partecipabile, ricca di oscuri
riferimenti interni, crivellata di fratture. [..] Mentre la parola-azione di Dante

21
è una forma concentrata di sacra rappresentazione anche dei procedimenti
mentali e cerca nel verbo l'energia costante del movimento, quella di
Montale esprime piuttosto l'acme o il risultato dell'azione, l'evento
momentaneo o consumato.33

Le analisi di Bonfglioli hanno un forte impatto e trasmettono


un'immagine vivida dell'intero quadro, poiché non rimangono
ancorate alla citazione del singolo testo e si librano in un'ottica più
ampia. Rispetto al saggio del '58 il critico ha allargato i propri
orizzonti interpretativi, tanto che le ristrette premesse metodologiche
del metodo strutturale lasciano in più luoghi il passo ad un discorso
che dà corpo, molto più che struttura, alla poesia di Montale.
La sovrabbondanza di categorie si apre infne ad un'interpretazione
meno cerebrale nella seconda parte del saggio, dove trovano voce in
modo più consistente le parole di Montale, di Pascoli e di Dante. In
particolare, Bonfglioli si riferisce ad alcuni passi critici scritti da
Montale intorno al rapporto tra prosa e poesia, dove il confronto con
Dante è esplicito (vedi supra): il problema stilistico che accomuna i
due poeti è quello dell'integrità tra tensione della poesia e peso della
prosa. “L'espressione assoluta” ricercata da Montale segue il
razionalismo dantesco e predica l'unità di suono e senso; in questo
punto si innesta la mediazione di Pascoli, che per primo aveva
iniziato “la lotta contro la musicalità mnemonica e automatica del
linguaggio poetico italiano”. Montale desume dall'eredità pascoliana
“l'esattezza della verità puntuale e del termine tecnico”; per dare un
esempio concreto di questo rapporto, Bonfglioli propone una lettura
di Meriggiare pallido e assorto rispetto al modello pascoliano. Il
vocabolario è “dichiaratamente pascoliano” (per i campi semantici
legati al mondo botanico e ai suoni), la situazione contemplativa è
“lontanamente pascoliana” e “soprattutto pascoliane appaiono la
serie delle percezioni minime, la tecnica delle analogie naturali e
delle allitterazioni, la sillabazione ritmica del verso.” 34 Ma questo
“pascolismo continuato”, che costituisce un unicum nella produzione
di Montale, coesiste con elementi ignoti alla poesia di Pascoli e vicini
invece all'inferno dantesco (Bonfglioli approva le proposte di lettura

33 Ivi, 42
34 Ivi, 51
22
di Meriggiare avanzate da Cambon e da Comello). La conclusione, per
quanto riguarda gli Ossi, è che Montale adoperi il vocabolario di
Pascoli tramite la mediazione di Gozzano, che agisce a livello di
oggettivazione, e tramite un'autorizzazione dantesca, che infonde
alla parola un'energia essenziale. Nella prima edizione della raccolta,
il dantismo rimane circoscritto a questa poesia; nelle liriche aggiunte
alla seconda edizione, invece, è già elemento organizzatore, ed
arriverà fno “all'accordo tra dantismo e politicità metafsica” tipico
delle Occasioni e di Finisterre.
Per tirare le fla del discorso di Bonfglioli, si possono riconoscere
nella poesia di Montale semantemi appartenenti prevalentemente a
Pascoli o a Dante, spesso mediati l'uno dall'altro; ma

mentre i termini pascoliani, accolti dal linguaggio montaliano, appaiono


irrelati e astrutturali, quelli danteschi sembrano corrispondersi e integrarsi
strutturandosi in un sistema omogeneo. […] Il rapporto col Pascoli comporta
dunque degli scarti differenziali tendenzialmente massimi, cioè il rifuto del
suo sistema e della sua ideologia naturalistica, fondata sul pregiudizio di
una unitaria corrispondenza fra parola e cosa, fra sistema della lingua e
sistema della natura. Il pascolismo montaliano è dunque dialetticamente e
praticamente un antipascolismo. Il rapporto con Dante […] comporta invece
degli scarti differenziali di minore entità, perché si svolge di fronte a un
complesso di elementi linguistici strutturati e non casualmente offerti dalla
tradizione.35

Bonfglioli conclude l'articolo affermando l'unicità del dantismo di


Montale nel panorama novecentesco, un “dantismo assimilato senza
residui” come linguaggio di un dramma moderno.
Come postilla alla critica di Bonfglioli, può essere utile uno stralcio
di conversazione con Montale riportato da Ettore Bonora:

Gli dissi che mi ero deciso a mettere in ordine le mie idee e a scrivere un
saggio, perché non mi aveva convinto un'interpretazione di Pietro
Bonfglioli. Questi, che è uno degli interpreti più intelligenti della sua poesia,
aveva ricondotto quei versi (gli ultimi versi della seconda parte di Notizie
dall'Amiata, nda) a un archetipo pascoliano e, sempre a torto secondo me,
aveva indicato anche in luoghi degli Ossi infuenze pascoliane, mentre io
pensavo, se mai, a Baudelaire. E Montale, senza esitazione, aveva esclamato:

35 Ivi, 62
23
«No, Pascoli no!».36

II.3 Comello: dantismo come «vital nutrimento»

Attore e poeta sempre dedito alla diffusione della grande letteratura


italiana, Toni Comello pubblica nel 1961 un brevissimo articolo
dedicato al rapporto tra Dante e Montale. Nelle intenzioni dello
scrivente l'articolo doveva essere un'anticipazione di un lavoro più
ampio, che desse conto di una sistematica schedatura della poesia
montaliana condotta in rapporto alle sue fonti. Tale lavoro non fu
mai pubblicato; e questo breve contributo, pur tenuto in grande
considerazione da quanti in seguito si dedicarono alla questione, non
ha avuto pieno seguito nella sua prassi sistematica e rigorosamente
aderente al testo.
Dopo l'ampio lavoro sulle fonti, dirette ed indirette, di Montale,
Comello si ritrova con migliaia di schede che attestano rapporti
diversi con i predecessori. La voce dantesca, oltre a contare parecchie
centinaia di voci, è testimonianza di un rapporto più profondo: un
rapporto di vicinanza, di studio approfondito e di assimilazione tale
che è diffcile riconoscere il predecessore come fonte. Due poeti che
abbiano un percorso comune, una stessa disposizione di fondo
riguardo alla vita e alla realtà, mantengono un legame di continuità
anche se tempi e situazioni si evolvono e creano grandi differenze.
Quando Comello presenta i risultati di questa ricerca all'amico,

Montale restò perplesso, non si rendeva bene conto di dove volessi andare a
parare; forse temeva sotto sotto il pericolo di una diminuzione della propria
originalità. Di Dante disse: «non ho scritto tenendo la Divina Commedia
aperta sul tavolo». E' proprio questa una prova che il suo non è dantismo
esterno, appiccicato, ma che, come voleva Dante, la «voce» del poeta antico
si è fatta «vital nutrimento» dopo essere stata «digesta» .37

Una testimonianza simile è di grande importanza per ricostruire la


storia del rapporto che Montale intratteneva con Dante. La negazione
36 BONORA 1983, 127
37 COMELLO 1961, 15
24
- forse stizzita, forse perplessa – di un rapporto così stretto con il
testo dantesco è la prima reazione di un poeta che, alla terza raccolta
pubblicata, diventa improvvisamente oggetto di indagini critiche che
tornano tanto spesso su questo tema.
Con gli anni la rivendicazione orgogliosa di indipendenza si andrà
stemperando in un riconoscimento, accettato in modo sempre più
pacifco, del magistero dantesco: “Devo dire che io, dopo aver letto
giovanissimo la Commedia, l’ho lasciata poi da parte per parecchio
tempo [...]. Certamente la sua lettura, sedimentata in me, ha avuto,
per vie che è diffcile defnire, degli infussi”. 38
Per tornare a Comello, l'articolo postula dunque che “la nervatura, i
muri portanti” della migliore poesia montaliana siano di tipo
dantesco, seppur conciliati con la sensibilità moderna; per
esemplifcare questa interpretazione viene poi proposta un'analisi
dettagliata delle fonti dei lessemi chiavi del primo Osso, Meriggiare
pallido e assorto.
Meriggiare è un componimento di qualche anno precedente agli altri
contenuti poi in Ossi di seppia, scritto, secondo le dichiarazioni di
Montale, nel 1916, all'età di venti anni. In un autocommento il poeta
lo defnisce come “un'altra fase possibile” della propria produzione
poetica, sebbene migliore di alcuni componimenti della prima
raccolta. Anche Comello riconosce il carattere “«giovanile», ancora
un po' esterno e descrittivo” di questa poesia, in cui però
confuiscono già tanti elementi che saranno cifra caratteristica di
Montale; il dantismo “non è ancora organico; sono frammenti,
scheggie, «scaglie», di cui Montale si serve ancora un po' in
superfcie.”

Più avanti, negli Ossi, e ancor di più ne Le occasioni (nella Bufera no, il
dantismo ritorna a volte esterno, non sempre assimilato e necessario), i
dantismi si faranno più organici, più ricchi di signifcato. Dante fornisce un
materiale già lavorato; di questo Montale si serve per rifonderlo, arricchirlo
di cose nuove. I vecchi signifcati restano, o restano in parte, e su questi si
stratifcano i signifcati nuovi, o quelli dati a quelle parole e a quelle frasi, da
altri poeti intermedi.39

38 MONTALE 1966, lettera a Silvio Guarnieri, in GRECO 1990, 37


39 COMELLO 1961, 18
25
II.4 Pipa: allegoria politica e amore trascendentale – storia di un'emulazione

Il contributo più ampio alla questione dei rapporti tra Dante e


Montale proviene da un critico albanese, Arshi Pipa, che nel 1968
pubblica negli Stati Uniti un intero volume titolato Montale and
Dante. Nelle note introduttive l'autore dichiara di aver intrapreso il
compito di schedare il materiale linguistico comune ai due poeti, ma
di essersi reso conto, in itinere, che l'infuenza dantesca “va molto al
di là del livello linguistico: essa permea l'insieme dell'opera e
determina la sua concezione della poesia come comunicazione
trascendentale”40. Dallo studio di Pipa risulta infatti che Montale ha
emulato Dante nei limiti delle possibilità attuali, tanto che la sua
produzione può essere interpretata usando la poesia dantesca come
chiave. Sono premesse importanti, che portano alle estreme
conseguenze il dantismo già ravvisato dagli altri critici nella poesia
di Montale e lo rendono indispensabile per una buona comprensione
della sua opera.
Nel corso del volume Pipa offre numerose analisi di testi montaliani
che si aprono nel loro signifcato più profondo se confrontati con
passi o concetti provenienti da Dante; alcune interpretazioni sono
accurate e sottili, altre stravolgono il signifcato letterale nello sforzo
di renderlo passibile di letture allegoriche fantasiose. In molti casi la
lingua italiana non perfettamente padroneggiata trae in inganno il
critico; il materiale messo a disposizione del lettore, tuttavia, è ampio
e organizzato in modo chiaro, disposto lungo i due assi della politica
e della religione. Se i critici che avevano affrontato la questione prima
di lui avevano indugiato su suggestioni letterarie spesso slegate dalla
vita di Montale, Pipa riporta sulle pagine della critica gli ingombranti
eventi storici di quegli anni.
Per quanto riguarda la politica, Pipa propone per designare Montale
la defnizione di «metapolitico»: la realtà politica è alla base della sua
poesia, ma spesso è tenuta nascosta o “appare come una parte di un

40 PIPA 1968, 7
26
più vasto disegno che è cosmico”. Per quanto riguarda la religione,
invece, Montale è defnito «trascendentale», perché intende la realtà
come qualcosa di superindividuale avente in sé “una potente carica
vitale”. L'ultima etichetta proposta è quella di “vitalismo
razionalistico”, recepito attraverso Bergson e Boutroux; l'abbozzo che
si ricava nell'introduzione è fn troppo schematico, ma è necessario a
mettere ordine tra la mole di componimenti presi in considerazione.
Preliminare al cuore del discorso è una breve rassegna critica della
questione, che insiste soprattutto sul mancato riconoscimento della
componente politica nella poesia di Montale. Pipa traccia una breve
storia del periodo, e propone dei collegamenti tra tali eventi e diversi
atteggiamenti della poesia montaliana; in particolare, l'accento batte
sulla repressione del regime fascista, che imponeva a molti
intellettuali dell'ala del dissenso una scrittura criptica. Un certo
ermetismo di Montale, dunque, è anche una forma di auto-
protezione, e veicola un'allegoria politica antifascista; i critici
contemporanei non hanno mostrato di riconoscere questo
atteggiamento (un esempio è Cambon, che ha parlato di “ermetismo
esistenziale”, vedi supra) , e d'altra parte l'avversione di Croce nei
confronti dell'allegoria è stata a lungo condizionante.
Pipa dichiara dunque di aver messo in pratica un'interpretazione
allegorica dell'opera di Montale in base al materiale semantico di
provenienza dantesca: quando ci sono più termini in comune tra i
due poeti in contesti analoghi, il testo di Dante fornisce “un
commentario” alla poesia di Montale.

Il commentario non può sempre essere intenzionalmente cercato da Montale.


Invero più spesso emerge spontaneamente, un testo che richiama l'altro per
via della risonanza musicale. Questo accade perché Montale ha assimilato
Dante. D'altra parte, molte allusioni a situazioni e testi danteschi
suggeriscono che Montale si riferisca a Dante intenzionalmente. […]
L'allusività così descritta va di pari passo con l'allegoria. Alcune delle chiavi
linguistiche in Montale indicano un diverso uso di Dante: egli è evocato da
legami in parte allegorici per dar voce alle accuse politiche di Montale e per
sanzionare le sue visioni apocalittiche. Infne, non pochi casi di contatto fra i
due poeti sembrano essere pura coincidenza, spiegabile da identici punti di
vista sullo stesso argomento.41

41 Ivi, 27-28
27
Pipa entra poi nel vivo dell'analisi, e comincia con il proporre alcune
parole ed espressioni dantesche che si ritrovano sparse nella prima
edizione degli Ossi di seppia; nelle poesie aggiunte alla seconda
edizione (1928) la presenza dantesca è più consistente e attira
l'attenzione sul clima infernale venutosi a creare con la dittatura
fascista. L'allegoria, in questi componimenti, è raramente presente: si
tratta di un'“allegoria visionaria, un ibrido in cui il concettuale e
l'immaginario si amalgamano”. Ma da uno studio che si presume
attento e pregnante dei signifcati celati dietro ad ogni parola, Pipa
scade talvolta nell'arbitrarietà, che si manifesta anche nella scelta
delle poesie analizzate.
Altri componimenti degli Ossi contribuiscono a mettere in luce una
dimensione politica che “rimane nell'ombra, costituendo
l'infrastruttura della sua opera”; un atteggiamento diverso rispetto a
Dante, per cui la politica è al centro dell'universo poetico.
L'atmosfera opprimente e disperata di tante poesie ricava forza
espressiva da immagini dantesche provenienti soprattutto dal canto
di Pier della Vigna, come già rilevato da altri critici. Nei brani di più
forte impatto ricorrono piante che resistono allo sradicamento,
confni labili tra mondo umano ed animale, un lacerante senso di
atonia; Pipa combina questi elementi in un quadro di meditazione
sull'integrità politica, minacciata dalla schiavitù da cui solo l'amore
può salvare.
L'amore si salderà più strettamente alla politica nella seconda
raccolta di Montale, dove i crittogrammi si vanno infttendo: molti
titoli contengono nomi di luogo che stanno al posto di avvenimenti
politici avvenuti in quel luogo e richiamati oscuramente dalla poesia.
Le poesie dei Mottetti, in particolare, sono sede di una fgura
femminile che assume tratti angelici, ma che non riesce mai a portare
il poeta alla redenzione. In alcuni casi, nota Pipa, il linguaggio
dantesco lascia posto a frammenti di altri poeti, riuniti però in una
cornice molto vicina a situazioni della Commedia; in altri casi
l'immagine dantesca è attualizzata e completata da un evento reale.
Pipa ne deduce che il testo di Dante è stato assimilato da Montale a
tal punto da vivere nella sua memoria come un dato non più
28
letterario, che prende vita propria e si mischia all'esperienza
concreta.
Nell'ultima fase delle Occasioni si assiste ad una svolta apocalittica,
che segna un nuovo uso di Dante: i prestiti linguistici diminuiscono,
ma il poeta “diviene allegorico portavoce del giudizio di Montale
sulla situazione politica nel paese e nel mondo”. Pipa si dimostra
sempre molto attento nello studio delle singole parole, di cui cerca di
motivare la scelta con eccessivo rigore di logica, dando un signifcato
ad ogni particolare che non appaia strettamente necessario a fornire
una descrizione.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Finisterre, futura
sezione della Bufera pubblicata dapprima separatamente, completa le
Occasioni e prepara la raccolta successiva.

Montale nota che «Finisterre» è una continuazione di Occasioni: «Le


Occasioni erano un'arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio:
non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in
quello del pedale, della musica profonda e della contemplazione. Ho
completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre, che rappresentano la mia
esperienza, diciamo così petrarchesca.
Ho proiettato la Selvaggia o la Mendetta o la Delia (la chiami come vuole) dei
“Mottetti” sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e
senza ragione, e mi sono affdato a lei, donna o nube, angelo o procellaria».42

Pipa motiva l'uso dell'etichetta “petrarchesca” come un


“allontanamento da Dante verso una concezione più terrena
dell'amore”, che si compirà poi del tutto nel segno della Volpe. Il
nome di Beatrice è signifcativamente taciuto: “Ma più che di volontà
di depistamento, non estranea a Montale in altre circostanze, si è
trattato, io penso, di una forma di reticenza, diciamo pure di pudore
davanti a una possibilità di identifcazione tanto evidente quanto
vertiginosa”43.
Ad ogni modo, secondo Pipa, l'infuenza di Petrarca è concreta ed
avvertibile: in questo canzoniere che è anche una “moderna
apocalissi” i tratti fsici della donna ritornano con più insistenza, e
l'amore è caricato di contrasti e sofferenza. “Le lotte amorose del

42 Ivi, 125
43 BLASUCCI 2002, 81
29
poeta indicano l'agonia politica del tempo, […] amore e guerra così
vanno mano nella mano, intersecandosi ed agendo l'uno sull'altro
continuamente.”44 Come Dante aveva sublimato il proprio amore per
Beatrice nel poema sacro, così Montale rifette la tragedia dell'intera
umanità nella propria vicenda personale.
Conclusasi l'esperienza della guerra e del regime fascista, l'allegoria
politica non ha più motivo di esistere e si riduce notevolmente per
lasciar posto ad espressioni più dirette; anche il ruolo di Dante
diminuisce di peso ed importanza, e lascia spazio a nuove rifessioni
di ambito religioso. Rimane però avvertibile un'infuenza dantesca
nella concezione dell'amore: Clizia è alternata ad altre donne,
secondo quanto dicono le note dello stesso Montale, e il contrasto tra
le fgure femminili “è reso per mezzo del simbolismo dantesco”. In
particolare, la Volpe, opposta a Clizia, può essere ricollegata alla
volpe messa in fuga da Beatrice nel XXXII canto del Purgatorio; “La
Volpe rappresenta la tendenza terrena nella poesia di Montale, in
contrasto con quella spirituale (Clizia)”. Clizia scompare dalla poesia;
la sua alienazione “è un termine più generico per la sua
cristianizzazione”: come spiega nuovamente Montale nelle note, la
donna è “simbolo del sacrifcio cristiano”, lo continua espiando la
colpa di tutti. L'amante sembra vivere una lotta con Cristo, che gli
porta via la donna amata; le poesie dell'ultima parte della Bufera si
colorano di eretismo nell'equiparazione totale tra la donna e la
divinità.
Clizia, che mescola in sé tratti cristiani e pagani, mostra come vivano
nel poeta istanze religiose profondamente diverse: se il cristianesimo
è ereditato con una certa passività e spesso è rifutato per il suo
carattere di auto-mortifcazione e di rinuncia, a tentarlo sono impulsi
sensuali e paganeggianti, che non riescono mai a sconfggere del
tutto il retaggio cristiano. La Volpe personifca quest'istanza di
vitalità istintiva ed animale, e come tale si pone in rapporto dialettico
con Clizia, ormai ridotta ad ombra. Ma il volume si chiude di nuovo
nel segno di Clizia, nel ritorno ad “una ricerca di salvezza nel ricordo
di un amore che è divenuto sogno visionario” 45, proprio come la Vita

44 PIPA 1968, 130


45 Ivi, 179
30
Nova si chiudeva con il ritorno a Beatrice. L'ultimo verso della Bufera
(“il mio sogno di te non è fnito”) può essere accostato all'ultimo
sonetto del prosimetro dantesco, in cui c'era l'ultima visione e la
promessa di trattare nuovamente di Beatrice. Per confermare questa
vicinanza, Montale adopera in questa poesia un termine del tutto
desueto, “obiurgare”, che si ritrova nell'epistola di Dante ai cardinali;
tra la prima e la seconda edizione, il termine è messo in evidenza
nella sua provenienza dantesca attraverso l'inserzione di un
sintagma che deriva dal Purgatorio (“chi obiurga se stesso e tradisce /
e vende carne d'altri”, da confrontare con Pg XIV “Vende la carne
loro, essendo viva”). Tra le due edizioni si situano gli articoli di
Cambon e Comello, e Pipa ipotizza che Montale volesse rendere
ancora più evidente il proprio dantismo in questa sede. Un explicit
all'insegna di Dante può portare il lettore a rileggere tutta la raccolta
poetica come un cammino analogo a quello dantesco, dal peccato e
dalla perdizione alla discesa agli Inferi; l'atmosfera purgatoriale di
alcuni componimenti di abbandono alla memoria ed altri indizi
lasciano aperta la strada ad una salvezza operata da Clizia, infne
spogliata di ogni connotato spirituale.

Possiamo dire in conclusione, che Montale adotta la forma di Dante di


esperienza trascendentale in generale, ma i suoi contenuti solo in parte. Ogni
qual volta la sua esperienza resiste allo schema dantesco, ne deriva una lotta
che è essenzialmente un confronto. […] La relazione è stata ambivalente,
Dante è un modello da seguire o da respingere alternativamente, in
dipendenza del fatto che l'infuenza di Dante su di lui ha fortifcato e
arricchito la sua poesia, o l'ha irrigidita e alterata.[...] Comprendiamo infne
che la lotta di Montale con Cristo interpreta in gran parte la sua lotta con
Dante.46

Nella parte conclusiva del volume, Pipa sintetizza le varie fasi della
poesia di Montale in rapporto all'infuenza dantesca, che segna una
parabola il cui apice è rappresentato dal periodo della dittatura
fascista. Il fattore politico, sebbene sia “tangenziale” rispetto agli
interessi di “un poeta metafsico”, crea una consonanza profonda tra
Montale e Dante, ma non esaurisce il rapporto di emulazione: l'altro
fattore fondamentale è la concezione di un amore trascendentale, che
46 Ivi, 185-186
31
condiziona fortemente l'immaginario legato a Clizia. La
drammatizzazione dell'amore per Clizia può seguire solo fno ad un
certo punto l'evoluzione di Beatrice dalla Vita Nova alla Commedia:
per Montale, anima moderna lacerata dalla scissione, la salvezza
promessa a Dante è irraggiungibile.
Montale non ha attinto solo dalla Vita Nova:

Dalla Divina Commedia egli prende, selettivamente, elementi che descrivono


o illustrano situazioni che commentano la sua poesia. Le situazioni
riguardano quasi invariabilmente la degradazione morale e politica dei
tempi e rifettono le speranze del poeta di liberazione da essa.47

Nel rappresentare Clizia c'è però una differenza fondamentale con


Dante, per il quale Beatrice è fgura di Cristo: per Montale la donna
invece è cristofora48, cioè portatrice di Cristo. Beatrice mantiene coese
le esigenze poetiche e religiose, mentre Clizia ha una doppia natura
che “intacca la sua verità poetica e oscure la concretezza della sua
immagine”.
Tirando le somme, la domanda fondamentale è sempre incentrata sul
grado di intenzionalità dell'emulazione di Dante; Pipa ritiene che
l'inconscio sia preponderante, ma riconosce che “non tutti i poeti
sono pronti a riconoscere i loro debiti verso i predecessori”.

Quando egli compone, parte di ciò che ha letto e assimilato gli viene in
mente nella sua forma originale e parte nella forma di ricordi più o meno
vaghi; il rimanente, incorporato nell'esperienza del poema come cibo nel
sangue, sfugge all'identifcazione. Tutte e tre queste forme di infuenza si
trovano in Montale. Richiami coscienti a Dante sono numerosi, ma la loro
quantità è sempre povera paragonata con le reminiscenze e specialmente con
le associazioni allusive.49

Infne, le analisi conclusive sono dedicate all'allegoria, il tema più


dibattuto della questione:

I due poeti hanno in comune il gusto per l'allegoria. Ma mentre Montale ricorre ad
essa occasionalmente, per scopi per lo più politici o apocalittici, l'uso dell'allegoria

47 Ivi, 191
48 CAMON 1965, 81
49 Ivi, 200-201
32
in Dante è costante, come un più alto modo di espressione sovrapposto al più
costante linguaggio letterale. La tradizione medievale aveva sanzionato un tale
uso, che Dante semplicemente seguì. Al contrario, la moda letteraria del tempo di
Montale bandiva completamente l'allegoria dalla poesia. Montale elabora un
compromesso tenendo l'allegoria ad una certa distanza, non sempre permettendole
di diventare parte integrale della sua poesia, spesso attaccandola come un'etichetta,
per mezzo di titoli e motti. Il signifcato allegorico così diviene una specie di
signifcato fantasma, vago ed elusivo, dietro il signifcato letterale. 50

L'occasione montaliana ha delle analogie con la concezione fgurale


che permea la poesia dantesca: in entrambi i casi la realtà nei singoli
avvenimenti è allo stesso tempo signifcante altro se “messa in
relazione con il principio metafsico che la presiede”; ma questo
principio per Montale è “cieco e malvagio”, in modo che l'occasione
reca sempre un segno “infausto”e rimane senza sviluppo, mentre “la
fgura signifca la storia come fondata nella mente di Dio”.
L'analisi di Pipa è inevitabilmente legata al periodo in cui è stata
scritta, prima cioè che Montale pubblicasse le ultime raccolte e molti
interventi critici che possono illuminare la questione. L'abbondante
materiale dantesco è raccolto in modo talvolta arbitrario, talvolta
sottile; se in molti hanno tacciato Pipa di eccessivi confronti tra
Montale e Dante, è vero anche che egli spesso riconosce che alcuni
stilemi o situazioni appartengono radicalmente alla poesia del
contemporaneo, prima di essere prestiti danteschi. Un merito del
critico è senza dubbio l'aver reintrodotto la dimensione politica nella
poesia di Montale, dimensione assolutamente misconosciuta quando
non negata nelle analisi degli altri critici (soprattutto Bonfglioli, vedi
supra): se resta da discutere la carica polemica contenuta nei
crittogrammi scritti durante il regime, è impossibile negare il
radicamento della poesia di Montale nella storia, rispetto alla quale si
crea una fertile dialettica tra l'io solitario e diverso del poeta e il
mondo.

II.5 Ramat: Dante come immenso repertorio linguistico

50 Ivi, 214
33
In risposta alla critica che in quegli anni andava alla ricerca di
riscontri danteschi in tutte le opere della produzione contemporanea,
Silvio Ramat difende la prosecuzione del corso petrarchesco, pur
ammettendo alcuni movimenti in direzione di Dante.
All'impostazione “per qualche segno […] dantesca” di Montale
Ramat concede solo lo statuto di “alcune varianti alla tradizione
aperta dal Petrarca”. Sebbene così sminuite, le “tessere lessico-
fgurali dantesche” implicano un'infuenza anche a livello di
ideologica poetica; e tale infuenza è mediata dall'attività poetica e
critica di T.S. Eliot, che ha riproposto l'idea di una poesia “come
struttura universale, onnicomprensiva”.

L'autore degli Ossi approda invece alla Commedia in modo più fortunoso, si
direbbe portato da un orecchio musicale e da una facoltà intuitiva che certo
non l'inducono a dare un impianto “comico” - secondo l'accezione di Dante
– alla propria opera, fn qui, anzi, gravata da un'irreparabile tragicità […]
Dante a quest'epoca sollecitava Montale per quel valore implicito in lui di
riqualifcazione linguistica, di cui il Novecento avrebbe potuto giovarsi. 51

Ma la convergenza tra Eliot e Montale che si viene a creare sul


terreno del correlativo oggettivo - proposto dall'inglese nel '28 ma
praticato da Montale fn dal '27 con Arsenio - porta Montale, secondo
Ramat, ad una nuova lettura di Dante. Grazie all'incontro con il
poeta medievale, Eliot e Montale aprono “un varco nella psicologia
di tipo petrarchesco”; per il primo l'adozione del sistema dantesco è
più profonda, pur con tutti gli adeguamenti al senso novecentesco.
Per supportare la minore adesione di Montale, Ramat fa riferimento
all'alternanza tra tendenza “anti– o post-petrarchista
dell'oggettivazione correlante” e “fase stilnovistica”: quest'alternanza
indicherebbe che Dante non è “modello organico per una integrale
costruzione di poesia futura”. Senza superare pienamente il
manicheismo implicito nel distinguere così nettamente tra una linea
petrarchista e una linea dantesca, e soprattutto nel separare due
tendenze della poesia dantesca che coesistono a vari livelli, il
discorso di Ramat prosegue postulando un incrocio tra linea “anti-

51 Ivi, 316
34
petrarchista” e “la via maestra e solitaria del Petrarca”.
Anche Ramat si dedica poi al tema dell'allegoria, e anche in questo
caso ipotizza un tramite eliotiano tra Dante e il Novecento; ma l'uso
che Eliot fa dell'allegoria è più strettamente dantesco, data la sua
adesione perfetta agli ideali teologici danteschi: tramite il
“correlativo allegorico” avviene una proiezione della realtà
soggettiva verso una realtà oggettiva universale e assoluta, possibile
solo grazie alla mediazione della fede cristiana. Montale, invece, a
causa del suo relativismo, rimane fermo ad uno stadio defnito
“correlativo generalmente simbolico” dove il soggetto e l'oggetto si
fondono “nella compattezza del simbolo”, rimanendo tuttavia
distinguibili.
Altra distinzione proposta da Ramat è quella tra “etica di
professione”, tipica di Eliot e volta a costruire perché recante una
prospettiva di speranza, ed “etica di confessione”, caratterizzata
dalla disperazione esistenziale e tipica di Petrarca ma anche di Dante,
accomunati nel “sentimento purgatoriale” che ha poi tanta
pregnanza nella descrizione dell'era moderna.

Dunque, un purgatorio che, anche ammesso sia transito, lo è solo dalla parte
degl'inferi: tale la pesante sorte del poeta che, votato alla confessione del
vero, non può confessare uno stato di certezza che non gli appartiene.52

E proprio da Dante l'artista moderno può trarre “il senso della


propria globale impotenza”; ma gli rimane preclusa la catarsi che era
prevista al termine del percorso della Commedia, e si deve quindi
limitare ad una catarsi intesa solo come rifugio e rinuncia alla poesia.
Questa diversa condizione dei poeti contemporanei fa sì che la
metafsica dantesca, che “coinvolge l'intero organismo dell'opera”,
sia ormai ridotta ad una metafsica limitata alla sfera del linguaggio.
Ragionando in questi termini, Ramat individua nella poesia di
Montale una fase “cosmica”, vicina alla metafsica dantesca, negli
Ossi, “ove l'armonia fra le parti dell'essere si compone in un tutto
negativo”, e un ritorno al generale “acosmismo” novecentesco nelle
successive raccolte. Ramat conclude il saggio con alcune belle
suggestioni sulla condizione dell'intellettuale contemporaneo e sul
52 Ivi, 322
35
sentimento purgatoriale, che consacra Dante come “poeta della
visione” da cui trae origine tutta un'atmosfera novecentesca, dove la
visione è addensata dall'impedimento a sfociare in azione e perciò
ancora più ipnotica.

II.6 Jacomuzzi: allegorismo macrotestuale

C'è una diffcoltà di fondo, una resistenza non superfciale ma essenziale e


costitutiva a che il rapporto tra il testo di Dante e la letteratura del
Novecento possa confgurarsi come rapporto organico, al di là del valore
esemplare e della suggestione dei temi e della scrittura dantesca. Non si
tratta soltanto di una distanza e di una differenza ideologica di carattere
generale; ciò che viene messo in questione è l'idea, la prassi e la possibilità
stessa di un uso allegorico del linguaggio letterario, cioè l'idea e la prassi che
stanno a fondamento della poesia dantesca.53

Con queste parole Angelo Jacomuzzi esordisce nel suo discorso in


occasione del Convegno di Studi Danteschi organizzato dalla Casa di
Dante nel 1977 sul tema Dante nella letteratura italiana del Novecento.
La premessa di partenza, dunque, è l'impossibilità di un discorso
allegorico nel Novecento; tale impossibilità è dovuta all'avvento del
simbolismo, che ha predicato in modo pervasivo l'uso del simbolo,
ma ne ha fondato la legittimità su un ordine di analogie universali,
sopprimendo la differenza di piani tra realtà e signifcati messi in
relazione. Da Baudelaire in poi – e questo è un discorso che può
interessare molto l'opera dantesca – il rapporto verticale tra creatura
e Dio è stato sostituito da un rapporto orizzontale di “espansione
analogica”, potenzialmente infnita, che vige tra tutti gli elementi
della realtà. Questa linea simbolista soppianta l'uso allegorico del
“dire altro” attraverso rispecchiamenti enigmatici, non immediati e
sensibili, e diffonde l'uso di analogie immediate e sensibili, prive di
alcuna mediazione intellettuale. Secondo Jacomuzzi, Montale si
inserisce proprio nello spazio lasciato tra la tradizione simbolista e
l'allegorismo dantesco:

53 JACOMUZZI 1977, 217


36
L'ipotesi, infatti, dalla quale lo studio del rapporto Montale-Dante deve
prendere le mosse, è che la poesia montaliana sia sin dalle origini e in
maniera non occasionale orientata vero l'adozione di un linguaggio
allegorico, e che all'interno di un discorso allegorico tenda a realizzarsi e
chieda di essere interpretata. Se l'ipotesi risulta vera e dimostrabile, la
congenialità dell'opera di Montale con l'universo poetico dantesco trova una
sua defnizione che chiama in causa non aspetti laterali ma il centro stesso
dell'invenzione letteraria di Dante e appare anche direttamente
proporzionale alla eccentricità – e alla esemplarità – di Montale rispetto alla
linea dominante della letteratura novecentesca non solo italiana.54

Mancava ancora, nella storia di questa questione critica, una


defnizione così netta del procedere poetico montaliano e una sua
assimilazione rispetto all'allegorismo dantesco a livello di
fondazione.
Jacomuzzi propone due motivazioni per spiegare la scelta del
metodo allegorico nella poesia di Montale: la prima, di ordine
negativo, è la constatazione dell'inorganicità della natura, che
ostacola il potere di rivelazione dell'analogia perché impedisce di
accostare elementi eterogenei della realtà; la seconda, di ordine
positivo, è la certezza che ci sia un senso (“Credo di tutta evidenza
che la vita debba avere un senso […] Quando dico che probabilmente
il mondo non esiste mi guardo bene dal pretendere che questa
inesistenza sia priva di un signifcato positivo” 55). Individuate queste
due tendenze, è chiaro come il procedimento allegorico agisca per
dare un senso (certo) al reale (incerto), creando una stretta
interdipendenza tra esperienza e soprasenso, quale postulata
dall'allegorismo tradizionale. Tutto ciò implicherebbe per la poesia
un ruolo di fondazione del reale; non è facile pensare che Montale si
arrogasse una simile funzione, ma le premesse di Jacomuzzi
appaiono fondate nelle parole del poeta (ove c'è da ricordare tuttavia
l'ambiguità e persino la contraddizione che si possono riscontrare
nelle dichiarazioni di Montale circa la sua visione del reale e della
poesia).
Si può concludere che allegorismo dantesco e allegorismo
montaliano utilizzano simili procedimenti, ma li riempiono di

54 Ivi, 219
55 CAMON 1965, 83-84
37
contenuti opposti: Dante, grazie alla sua fede positiva, istituisce
rapporti allegorici che veicolano un signifcato pieno e raggiungono
lo scopo comunicativo, completando la lettera con un soprasenso
intellettualmente riconoscibile; Montale crede nell'esistenza di un
signifcato ma non lo carpisce, perciò la funzione comunicativa del
suo discorso è sempre una ricerca, mai un risultato, e le allegorie si
fanno portatrici di un messaggio negativo che distrugge ogni
certezza d'interpretazione del reale. Jacomuzzi conclude:

L'allegorismo montaliano si presenta dunque consapevolmente modellato su


quello dantesco, ma come il suo omologo negativo, lo stampo vuoto di un
discorso sempre tentato e non raggiunto, se non per eccezioni subito
vistosamente minacciate.56

Di estremo interesse nel densissimo discorso di Jacomuzzi è la


proposta di considerare l'allegorismo montaliano, sul modello
dantesco, applicabile all'intero corpus dell'autore: l'allegoria non
investirebbe solo il piano del singolo testo, ma si estenderebbe anche
al rapporto tra testi e vita biografca e collettiva, e infne al rapporto
tra le raccolte e la loro somma. Vale a dire che le tappe della
produzione di Montale, come di Dante, devono essere lette come
eventi allegorici che possono essere interpretati gli uni grazie agli
altri, poiché ognuno contiene delle novità e dei progressi e, allo
stesso tempo, ritorna sulle opere precedenti e le reinterpreta alla luce
delle nuove acquisizioni. Per dare fondamento alla sua proposta,
Jacomuzzi fa riferimento ad alcune dichiarazioni specifche di
Montale (ad esempio “Ho scritto un solo libro, di cui prima ho dato il
recto, ora do il verso”57), ma soprattutto alla “fttissima pratica poetica
dell'autocitazione interna ai testi”. Questa modalità di scrittura aiuta
a decifrare passi altrimenti oscuri, ed è destinata a questa funzione; è
dunque una pratica intenzionale e come tale vuole essere
riconosciuta, ponendosi come “segno della memorabilità dell'opera,
del suo costituirsi come organismo autonomamente signifcante, non
specchio di una storia, ma sua ritrascrizione allegorica e giudizio”. 58
L'ultima argomentazione che conferma il rapporto privilegiato di
56 JACOMUZZI 1977, 221
57 MONTALE 1975, 606
58 JACOMUZZI 1977, 224
38
Montale con Dante risiede nel diverso uso che il poeta fa del suo
predecessore rispetto alla presenza di altri poeti della tradizione
italiana: la citazione dantesca non solo è frequente e diffusa, ma va
oltre il semplice prestito per diventare chiave interpretativa della
poesia montaliana, laddove la presenza di altri autori non chiede di
essere riconosciuta come tale ai fni della comprensione.
La profonda innovazione di cui questo discorso è portatore
nell'ambito della questione non è stata condotta alle sue estreme
conseguenze; Jacomuzzi ha messo a fuoco in maniera completa e
sistematica - e non priva di radici nei testi poetici e nelle
dichiarazioni dello stesso Montale - un sistema coerente di riuso di
Dante, mentre gli altri studiosi che si sono dedicati all'argomento
sono rimasti piuttosto sul generico, spesso limitandosi alla
confutazione di un certo tipo di ripresa o all'elencazione di loci
paralleli. Un'impostazione così organica può lasciare aperta la via
agli scetticismi, soprattutto di chi ritenga che in poesia non agisca
sempre un livello di coscienza; e al contributo di Jacomuzzi si
potrebbe senza dubbio imputare un'eccessiva ricerca di coerenza dal
momento che le premesse non ricevono ampia verifca; ciò non toglie
che sia un momento fondamentale all'interno della questione.

II.7 Lonardi: fallimento del modello vitanovistico

Il volume monografco di Lonardi, pubblicato nel 1980, mette in


contatto la poesia di Montale con quella dei predecessori ed offre un
percorso completo attraverso l'intera produzione. Nelle prime tre
raccolte poetiche il critico individua due fli conduttori emotivi, uno
legato al mondo familiare ed infantile, l'altro all'eros. Il contatto con
l'opera di Dante è proposto per illuminare il ruolo dell'amore nella
poesia di Montale, a partire da una lettera dello stesso poeta a Silvio
Guarnieri:

In tutti e tre i miei libri [fno alla Bufera] c'è un flo autobiografco certamente
romanzesco, anche nella disposizione della materia. […] Clizia è presente
nella prima serie [Finisterre] e in molte altre poesie (Nuove Stanze, Primavera
hitleriana, l'Orto, Iride e quasi tutte, tranne le poesie dei Madrigali privati.) Qui
39
appare l'Antibeatrice come nella Vita Nuova; come la donna gentile che poi
Dante volle gabellarci come Filosofa mentre si suppone che fosse tutt'altro,
tant'è vero che destò la gelosia di Beatrice. Nel Flashes e Dediche le due donne
si alternano.59

La Vita Nova come repertorio e modello dichiarato della Bufera è un


dato che Lonardi ritiene facilmente riconoscibile per il lettore attento;
ma la sua interpretazione si spinge oltre con la proposta di un ordito
accuratamente intrecciato in cui l'eros si mischia all'ordine dei lari,
della famiglia. L'allusività nei confronti della guerra e della morte è il
piano su cui si appoggia questa trama: “è esso infatti che rafforza lo
scatto e la stessa sovrana necessità «anagogica», di scrutamento e di
destino, e allegorica (fno alla profezia), e schiettamente esistenziale (i
lari, l'eros, come difesa dall'urto, nella prova storica e metastorica)”. 60
Questo piano del discorso è anche quello in cui più frequentemente
la Commedia fornisce i prestiti danteschi, i più intrisi di essenza
medievale di tutti i dantismi della produzione di Montale. I critici si
erano sempre soffermati sui paralleli che si possono istituire tra la
Vita Nova e i Mottetti delle Occasioni; Lonardi per primo mette a fuoco
il peso che il libello dantesco esercita sulla Bufera, dove ad una lettura
superfciale appare con più evidenza il ruolo cristologico di Clizia, e
quindi l'infuenza preponderante della Commedia.
Il flo rosso dell'eros, intessuto sul modello allegorico-autobiografco
della Vita Nova, segna anche lo scacco dell'emulazione di Dante,
perché la Bufera non riesce a dare al lettore il fnale “soterico e
cristologico” del modello dantesco: le «conclusioni provvisorie» non
risolvono il contrasto tra la Volpe e Clizia e perciò non compiono fno
in fondo il cammino cristiano e medievale dell'opera dantesca.

II.7 Almansi e Merry: strettoie della conoscenza e della rima

Guido Almansi e Bruce Merry pubblicano nel 1977 una monografa


dedicata a Montale per la collana Writers of Italy; nel tentativo di
rendere accessibile ad un pubblico straniero la poesia montaliana, i

59 LONARDI 1980, 59
60 Ibidem
40
due autori commentano e traducono numerosi componimenti,
offrendone una lettura che unisce una certa consapevolezza
metalinguistica ad una grande passione, dichiarata in prefazione, per
il poeta.
La forte infuenza di Dante sulla poesia di Montale è messa in
evidenza fn dallo studio del primo componimento di Ossi di seppia, e
ribadita varie volte con il supporto di loci danteschi. Almansi e Merry
si soffermano soprattutto sul parallelo tra le fgure salvifche
femminili; a livello intertestuale, il raffronto più completo è
condotto, ancora una volta, su Meriggiare pallido e assorto. Questo
componimento - indicano i critici - è il più signifcativo per la
comprensione del paesaggio degli Ossi; ma Montale è poeta sempre
bilanciato su poli opposti, ed è perciò impossibile un'interpretazione
unilineare del signifcato simbolico di questi paesaggi. Almansi e
Merry insistono sulla scarsa “plausibilità” degli stilemi, che ricavano
senso dal “contenuto della forma”, dagli scontri fonetici. Quanto alle
immagini:

We can accept the provenance in Dante for Montale's “spiar le fle di rosse
formiche”, and our understanding of Montale's personal bestiario is enriched
by comparing the two passages.61

Il passo dantesco proposto per il confronto è Pg XXVI, 34-36:

Così per entro loro schiera bruna


s'ammusa l'una con l'altra formica,
forse a spiar lor via e lor fortuna.

La similitudine successiva, nella Commedia, riguarda le gru che si


muovono in due schiere opposte, che si allontanano l'una dal freddo,
l'altra dal sole; Almansi e Merry rilevano il carattere assurdo del
comportamento delle formiche e delle gru nel passo dantesco, che
serve a delineare la deviazione sessuale dei peccatori dell'ultima
cornice. Anche in Meriggiare l'atteggiamento delle formiche è
contraddittorio ed incomprensibile all'osservatore umano: la
conclusione della poesia dovrebbe signifcare proprio l'estraneità ed

61 ALMANSI E MERRY 1977, 33


41
incomunicabilità della natura. Anche il macrocosmo del mare e il
microcosmo delle cicale sono permeati di assurdità, e dovrebbero
dunque condurre il lettore ad una qualche conclusione metafsica; ma
questa conclusione è già stata decisa dalla logica della rima, che
vincola la possibilità comunicativa del poeta e gli impone “that
particular discovery which suits the phonetic pattern of the strophe
itself”. Al lettore e al poeta, insomma, rimane come unica alternativa
la fducia nella forza simbolica della “muraglia”, parola centrale nel
glossario montaliano.
Sembra di assistere, in questa interpretazione, al ribaltamento dei
termini consueti della questione del dantismo montaliano: molti
critici hanno considerato il corpus dantesco come uno strumento di
cui Montale può servirsi e con cui può interagire per arricchire la
poesia a livello linguistico; Almansi e Merry, invece, riconoscono
l'infuenza dantesca più nell'immagine che nei lessemi. A parole-rima
fonicamente così dense e forti, ed ulteriormente arricchite dallo
spessore intertestuale, i due critici negano un valore conoscitivo
interpretandole, al contrario, come ostacolo alla conoscenza e
all'espressione.

II.9 Baranski: memoria, inconscio ed interpretazione

Nel 1979 Zygmunt Baranski reagisce all'interpretazione proposta da


Almansi e Merry con un ulteriore contributo incentrato su Meriggiare
pallido e assorto. Baranski accetta la relazione tra Dante e Montale, del
resto già proposta ampiamente dalla critica, ed è pronto a riconoscere
la terzina del Purgatorio indicata dai due studiosi come fonte
nascosta del componimento montaliano. Allo scopo di mettere ordine
tra le diverse ipotesi circa il rapporto tra Montale e le sue fonti
letterarie, Baranski intraprende la confutazione della lettura di
Almansi e Merry, che giudica sintomo di un “misunderstanding of
both poets”. In primo luogo tale lettura è basata su un'eccessiva
semplifcazione del ruolo del mondo naturale nella poesia di
Montale: se è vero che alcuni elementi sono resi attraverso una
distorsione – che per Baranski è più fonica che concettuale, derivata
42
da una manipolazione linguistica e non da ignoranza e incapacità
comunicativa del poeta – è vero anche che gli stessi elementi sono
presentati in modo relativamente realistico.
La relazione tra i due passi, indebolita da Baranski con una serie
compatta di appunti, diventa defnitivamente irrilevante dato il
carattere delle due similitudini dantesche, che nascono dove le
reminiscenze letterarie si fondono con un'attenta osservazione del
mondo naturale. Le similitudini, dunque, lungi dal dipingere
un'immagine incomprensibile, sono realistiche ed esatte e si
attagliano perfettamente all'atteggiamento delle anime lussuriose.
Baranski confuta quindi l'intera metodologia messa in atto da
Almansi e Merry, e propone un'eco dantesca che agisca piuttosto a
livello inconscio, tanto che in Meriggiare sembrano confuire sia
suggestioni di questo passo del Purgatorio, sia quelle derivanti
dall'altra similitudine con le formiche (If XXIX). La caratteristica più
evidente dell'infuenza di Dante in questo componimento è la ripresa
di particolari parole-rima e tecniche foniche, che testimonia una
profonda assimilazione del modello dantesco nella poesia di
Montale. Queste le conclusioni di Baranski:

Two things stand out in this relationship. Firstly, for Montale Dante's Inferno,
and perhaps also his canzoni petrose, seem to have constituted a storehouse
aiding his own poetic search for harsh sound effects and suitable vocabulary
to refect a negative vision of life. Secondly, it is interesting to note that the
majority of these possible Dantesque borrowings come from one episode,
that of the wood of the suicides in Inferno XIII.62

Ad un livello secondario, Baranski riconosce nella poesia in


questione la presenza di altre suggestioni dantesche, derivate dal
canto degli ipocriti (Inferno XIII) e dal già citato XXVI canto del
Purgatorio. In conclusione, Dante agisce nella poesia di Montale
come catalizzatore e come deposito di esperienze poetiche ed
intellettuali, riadattate di volta in volta alle nuove esigenze della
poesia montaliana, e non come un modello che imponga rigide
regole formali e contenutistiche.

62 Ivi, 399
43
Nel 1985 Baranski torna a dedicarsi alla questione dell'infuenza
dantesca sulla poesia di Montale con un contributo più ampio, che
coinvolge tutta la produzione montaliana. L'obiettivo dichiarato in
apertura è un'indagine sia sincronica sia diacronica sulla questione,
che si avvalga dei precedenti interventi critici e soprattutto delle
dichiarazioni dello stesso Montale in proposito.
Baranski chiarisce subito quali sono gli elementi del dantismo di
Montale da accettare: le affnità tra Clizia e Beatrice e tra la Volpe e la
donna gentile; la derivazione dantesca dell'atmosfera infernale nei
componimenti più pessimisti; l'uso della poesia dantesca come
repertorio linguistico e, occasionalmente, come modello retorico.
L'esperienza linguistica di Dante permette a Montale di sottrarsi al
dominio petrarchesco della tradizione italiana, ma è solo una parte di
una più ampia sperimentazione. Se risulta dunque indubitabile che
Dante abbia infuenzato la poesia di Montale - come il poeta stesso
peraltro conferma - molti critici, con una distorsione prospettica,
hanno reso questa infuenza fondamento e chiave di lettura
privilegiata dell'attività poetica di Montale. Tra gli studi precedenti,
sono approvati quelli di Bonfglioli e di Mengaldo (relativo al
rapporto con D'Annunzio); mentre a Pipa e a Jacomuzzi Baranski
imputa un'indagine basata su un numero troppo ristretto di testi, per
di più spesso atipici rispetto alla poesia montaliana, ma soprattutto
un'impostazione metodologica erronea, che dalla rilevazione di una
massiccia presenza dantesca nel corpus di Montale fa derivare di
necessità un rapporto privilegiato ed unico tra i due poeti. Se
Montale è poeta allegorico e l'interpretazione della sua poesia è
dettata dal confronto con Dante - come Pipa e Jacomuzzi sostengono
- Baranski conclude che l'uso di Dante, consapevole e
programmatico, dovrebbe essere ripetitivo e facilmente riconoscibile;
i primi e più perspicaci critici, invece, non hanno avvertito la
dimensione allegorica della poesia di Montale, quando non l'hanno
addirittura negata (è il caso di Ramat, che distingue tra correlativo
allegorico di Eliot e correlativo simbolico di Montale, vedi supra).
E' sicuramente condivisibile l'invito ad un approccio fessibile
rispetto ad una questione così delicata, la cui consapevolezza è
diffcile da stabilire e va valutata caso per caso; ma la proposta di
44
Jacomuzzi e Pipa circa l'allegorismo di Montale non comporta
necessariamente la ripetitività e riconoscibilità dell'emulazione
dantesca. L'adesione ad un modello così imponente è sicuramente
ricca di sfumature, che sono la necessaria conseguenza della distanza
– temporale e non solo – che separa Dante dalla contemporaneità.
Una lettura condotta in profondità, con spirito critico e con passione,
può lasciare in un altro poeta impressioni puntuali o di ampio
respiro, che agiscono poi in modi diversi nella pratica scrittoria:
entrano in gioco fattori psicologici complessi che possono velare la
derivazione di alcuni procedimenti anche alla mente del poeta stesso.
Baranski nega l'esistenza di un allegorismo nella poesia di Montale
fondandosi sulle dichiarazioni che il poeta stesso ha riservato alla
lettura allegorica della Commedia (vedi supra): non solo esprime forti
dubbi sulla validità di una lettura allegorica del poema dantesco, ma
rifuta la possibilità di un riutilizzo moderno di quell'aspetto della
poesia dantesca. Montale, tuttavia, aveva criticato “gli allegoristi ad
oltranza”, che si affannano nell'applicazione di un metodo inattuale
rispetto ad un'opera in cui sono saldati allegoria e simbolo da una
parte, e forte impatto delle immagini concrete dall'altra. La polemica
montaliana prende come bersaglio i sostenitori di letture unilaterali,
che privilegino solo i brani più vicini alla sensibilità moderna oppure
un'erudizione tutta formale ed incentrata sugli elementi strutturali.
La Commedia, secondo Montale, realizza il perfetto equilibrio tra
corpo e spirito; il corpo non cambia mai, e anche a distanza di secoli
può essere compreso e apprezzato, mentre lo spirito si evolve e non
sempre rimane del tutto intellegibile.
Un certo sospetto nei confronti di un concetto ampio e variabile come
quello dell'allegoria è comprensibile in un'epoca in cui estetica
simbolista e crociana avevano dettato legge; ma Montale, lettore
avvertito di critica letteraria, poteva forse permettersi di prescindere
da rigide categorie e liberare, non sempre consapevolmente e con la
prassi più che con la teoria, un procedimento di scrittura così
fecondo, senza per questo dar vita ad una poesia lontana dai gusti
del pubblico, come invece sostiene Baranski.

Allegory, since it is reductive and intellectually rigid, would have been too

45
limiting for Montale's artistic requirements and would have represented the
death of his art. […] Dante, according to Montale, is the supreme example of
artistic fexibility, not rigidity; a unique artist who has created an
unrepeatable work of art. Contemporary artists can, however, learn from his
practice and strive to follow his example by trying to learn from the
“totality” of his art.63

Il magistero dantesco agisce sulla poesia di Montale, secondo


Baranski, per quanto riguarda la libertà e l'universalità dello stile
comico, che il poeta dichiara esplicitamente di avere, nel suo piccolo,
imitato (vedi supra). Ma spesso afforano vaghe associazioni a livello
spirituale tra i due poeti, rese possibili dalla fruizione novecentesca
della poesia di Dante; tanto che le defnizioni date da Montale
riguardo alla poesia dantesca e riguardo la propria produzione si
avvicinano molto: in entrambi i casi l'accento cade sulla fusione di
ragione e metafsica, ad indicare due fgure simili di poeti di un
mondo che sta per fnire.
I punti di contatto tra Dante e Montale dichiarati da quest'ultimo,
dunque, rimarrebbero ad un livello piuttosto generico, e sarebbero
perciò discutibilmente utili in un'analisi dettagliata, che deve essere
condotta a livello dei testi. Nel rapporto tra il poeta medievale e il
contemporaneo è necessario rintracciare la mediazione di altri poeti
della tradizione italiana, senza un eccessivo dogmatismo: alcuni
stilemi o lessemi possono derivare da più fonti ed essere per questo
segnali di uno statuto letterario e memorabile.
Il meccanismo memoriale, riconosce Baranski, funziona in modo
imprevedibile: le precise e volontarie adozioni di un elemento
dantesco sono poche e relegate nell'ambito della struttura o
dell'ironia, ma è probabile che la Commedia abbia sotterraneamente
suggerito un modello a livello macroscopico. L'impiego più puntuale
è però quello della Vita Nova: Baranski interpreta l'articolo Due
sciacalli al guinzaglio (vedi supra) come un'ironica imitazione del
prosimetro dantesco, proponendo anche alcuni precisi ed interessanti
riscontri testuali. Nell'articolo, infatti, si alternano poesie e prose di
commento che ne illustrano struttura, contenuto ed occasione di
composizione; i componimenti e le occasioni che li hanno generati

63 BARANSKI 1985, 16
46
rimandano a precisi loci danteschi, ed anche la dichiarazione di
poetica che conclude l'articolo trova un parallelo nel capitolo XXV
della Vita Nova. La presenza di Dante si fa massiccia anche ne La
primavera hitleriana, la poesia della Bufera che porta in epigrafe il
verso del sonetto pseudo-dantesco da cui trae origine la fgura di
Clizia: tutto il componimento si adagia su evidenti prestiti danteschi,
come raramente accade altrove.

Such programmatic and accurate use of Dante is rare and less intriguing
than an exploration of the memorial channels along which Dante fows into
Montale's texts. […] Critically the most complex and rewarding area for this
kind of infuence is the process whereby Dantisms from a limited number of
episodes or cantos from the Commedia reappear again and again in Montale's
poems.64

I canti in questione sono i più radicati nella continiana “memoria


nazionale” e i più diffusi nelle letture scolastiche; per questo sono un
dantismo “quasi inevitabile”. Ma Montale, anziché ribellarsi o farsi
schiacciare dalla forza di questi passi, li piega intenzionalmente alle
suggestioni esistenziali o spirituali che vuole trasmettere, impedendo
a Dante di essere una camicia di forza per il poeta contemporaneo.
E' interessante notare che le sensazioni claustrofobiche dei critici
rispetto al peso dei grandi predecessori appartengono per lo più
all'area anglofona: basti pensare al testo di Almansi e Merry
sopracitato, a questo di Baranski e, ovviamente, a “The anxiety of
infuence” di Bloom. Nella tradizione italiana, come osservava Eliot,
il culmine è sempre stato riconosciuto negli autori delle Origini, di
due secoli abbondanti precedenti a Shakespeare, il mostro sacro della
letteratura inglese. Forse, semplicemente, lo scarto temporale rispetto
a Dante, Petrarca e Boccaccio, modelli rigidi ed indiscussi per secoli,
nel ventesimo secolo si è talmente allargato da permettere ai poeti un
rapporto più pacifco con i predecessori. L'atteggiamento ondivago
di Montale, che gioca con l'intertesto dantesco tra citazioni e
negazioni di infuenza, parziali ammissioni e dichiarazioni di
irripetibilità del modello, può essere frutto di un rapporto poco
chiaro persino al poeta stesso. Ma è possibile anche pensare che egli

64 Ivi, 22
47
fosse piuttosto consapevole del ruolo che Dante svolgeva nella sua
mente e nella sua produzione, e preferisse confonderlo agli occhi dei
critici e dei lettori non tanto per angoscia, ma piuttosto per velarsi, a
volte con una certa dose di ironia o di furbizia. In ogni caso, quando
Montale torna sul tema e afferma ad esempio che “Dante ha fatto il
pieno (come direbbe un automobilista) e per altri la benzina è stata
scarsa”65, è diffcile pensare che il confronto con il modello sia per lui
qualcosa di paralizzante.
Tornando a quanto sostiene Baranski, Montale saccheggia il
magazzino dantesco in modo caotico per creare una propria sintesi
personale, che comprende anche l'uso di topoi danteschi stabilmente
recepiti dalla tradizione a cui conferisce la propria impronta.
L'esibizione del modello non ne segnala la presenza, ma serve a
piegarlo al proprio messaggio; è un procedimento molto simile a
quello che Bloom defnisce Apophrades, il ritorno del morto con i
colori del vivo allo scopo di annullarne il primato temporale. Questo
“ridimensionamento” di Dante, secondo Baranski, agisce a livello
inconscio: lo dimostrano le citazioni inaccurate e fuse tra loro, che
segnalano quella “ragnatela di corrispondenze” che Montale
auspicava nella lettura della Commedia. Gli effetti danteschi di calibro
generale sono calcolati, mentre ad altri livelli Dante agisce come
modello inconscio tra i futti della memoria; Baranski propone una
casistica di segnali memoriali, tra cui spiccano le rime, gli hapax e i
lessemi più rari, che sono anche il blocco più consistente dei dantismi
di Montale.
A questo punto per Baranski è necessaria una precisazione: questo
studio su una linea sincronica non restituisce pienamente il quadro di
un rapporto instabile e progressivo. Diacronicamente, infatti, si
possono osservare i prestiti danteschi passare da uno statuto
occasionale e marginale nelle prime raccolte, ad una massiccia e
signifcativa presenza in alcune poesie della Bufera, fno al rifuto di
Satura; anche questo sviluppo, tuttavia, lascia coesistere nello stesso
momento atteggiamenti molto diversi. Baranski traccia quindi un
quadro generale, raccolta per raccolta, che tiene conto delle tendenze
dominanti, fermo restando che coesistono con spinte parzialmente

65 MONTALE 1975, 604


48
diverse o addirittura opposte.
Negli Ossi di seppia l'uso di Dante è in genere marginale e concentrato
nelle parole-rima, fn troppo evidenti nella loro forte memorabilità e
perciò destinate a scomparire nelle raccolte successive; altri fenomeni
imputabili ad un'infuenza dantesca sono i suoni aspri, il
plurilinguismo e una certa atmosfera infernale non legata ad una
specifca realtà storica (è il caso di Arsenio, una delle poesie più
dantesche). Le Occasioni sono invece una raccolta di ampia
consapevolezza poetica e dialogo con la tradizione: i luoghi
danteschi sono più vari e sistematici, adoperati secondo un disegno
preciso sebbene numericamente equivalenti alla raccolta precedente;
fa eccezione Buffalo, dove Dante è evocato direttamente ed in modo
violento, quasi crudele. Nella quarta sezione, comprensiva di poesie
scritte tra il '39 e il '40, il confronto storico si fa più aperto e la
presenza di Dante più evidente e funzionale. Il culmine del dantismo
di Montale è rappresentato da Finisterre e da alcuni altri
componimenti dei primissimi anni '40, dedicati alla guerra e ai
totalitarismi. Sono testi fortemente letterari, dove il dantismo è
pesantemente esibito, tanto che da richiamare un'immediata
attenzione critica sulla questione. L'uso di Dante contribuisce a
rendere più immediate le immagini di distruzione e più universale la
condanna agli orrori della guerra, a sostegno della quale si levano la
forza della letteratura e l'intervento dell'archetipo femminile. Con la
caduta del fascismo, la poesia di Montale si sposta verso una sfera
più privata e si allontana sempre più da Dante, salvo il caso degli
apocalittici componimenti sul dopoguerra.

Since Montale's “conscious” Dantism is essentially linked to the years of the


war, it, therefore, exhausts its usefulness as a rigorous intellectual and ethical
device, and can only return to the level of the marginal, the unintentional,
even the cliché.66

I dantismi delle ultime raccolte spaziano dall'ostentazione di


anacronismo all'auto-parodia, seguendo un generale calo di
letterarietà: Dante sopravvive nei toni ironici che segnano il distacco
dalla fase eroica, e i prestiti dalla sua poesia sono soppressi fno a
66 BARANSKI 1985, 31
49
rimanere semplici luoghi comuni.
Il ricchissimo contributo di Baranski non si abbandona alla
tentazione della semplifcazione, e rende conto della complessità
della questione prendendo in considerazione ogni ipotesi e il suo
contrario. La conclusione è altrettanto complessa: un'infuenza di
Dante sulla poesia di Montale è certa ma la sua entità deve essere
misurata, ed in ogni caso non può essere fondamentale, poiché non è
essenzialmente diversa dall'infuenza di D'Annunzio e di altri poeti.

However, in such a literary poet and in a poetry so obsessed with the


workings of memory, we ought not be surprised that literary infuences are
many. The remembered literary echoes complement the content of the
poems, so that borrowings, rather than being purely linguistic facts, move
into the realm of rhetoric: they are devices to support the content. Further,
Montale reveals certain differeces in his relation to Dante in comparison to
many of his contemporaries, in that his dantismo is almost never purely
decorative, pretentious, or arbitrary. […] Montale, at one level, in his use of
Dante, is doing the job of the literary critic, his borrowings are his
“interpretations” of Dante.67

II.10 Ioli: intertestualità e allegoria per una poetica della continuità

Nel 1984, quasi trent'anni dopo il primo intervento di Cambon, a


Giovanna Ioli sembra innegabile che il dantismo di Montale sia un
dato essenziale per la comprensione della sua poesia. Studi statistici
hanno fornito un primo dato, a livello lessicale, circa l'intertestualità
che lega Dante a Montale:

Su un campo di ricerca che va dalla rifutata Accordi al Quaderno di quattro


anni sono stati riscontrati 472 dantismi con una percentuale di distribuzione
nelle tre cantiche che è del 55% per l'Inferno, del 24% per il Purgatorio e del
21% per il Paradiso. Altri 26 dantismi si riferiscono alle Rime con una
percentuale del 62% per le Petrose, del 15% per le Rime dubbie e del 23% per le
Altre rime.
Questi dati numerici, permettono di considerare il dantismo montaliano
come qualcosa che oltrepassa la memoria involontaria e che tende, piuttosto,

67 Ivi, 34
50
a costituirsi come fondamento della struttura compositiva.68

Oltre ai dati numerici, è necessario capire in che modo agisca la


citazione dantesca: Ioli sostiene che il dantismo per Montale è
“strumento per dilatare la capacità di signifcare della lingua
poetica”. Il poeta moderno riprende parole che contengono le
intenzioni del poeta medievale e le piega alle proprie nuove
intenzioni, in modo da generare una rifrazione di concetti all'interno
della lingua, arricchita da una doppia signifcazione e dallo scarto tra
il messaggio dei due autori. Si creano “trame e intrecci” che si
propagano nelle direzioni più varie e costituiscono un “linguaggio
che soggiace” rispetto alla poesia di Montale.
Una prima trama è intessuta tra le Petrose e il severo lavoro formale
di alcuni componimenti, soprattutto degli Ossi: la scelta precisa ed
esibita del modello dantesco richiama l'attenzione sullo sforzo di
aderire con il linguaggio al paesaggio arido. Nella sezione
Mediterraneo, ad esempio, le intense immagini legate al mondo
marino sono portatrici anche di “un'estrema signifcazione
allegorica”, che sottende il magistero dantesco proprio come nella
Commedia era adombrato il magistero di Virgilio. Dopo
un'interessante serie di esempi, la conclusione di Ioli è questa:

In altre parole, Montale tenta negli Ossi di attraversare Dante per approdare
a un territorio suo e il maestro che si delinea in trasparenza nelle immagini
marine è chiave per leggere oltre la lettera perché il poeta medievale, oltre a
fornire al moderno ingredienti per il suo lessico (la «gloria aperta» della
pagina dantesca), è anche il più alto esempio di quell'«ansare che quasi non
dà suono» di un messaggio allegorico. Dante insomma diventa, a volte, il
«sigillo» oltre al quale si aprono nuovi piani di comunicazione, il «velo»
attraverso il quale la poesia deve essere letta.69

L'opera di Montale, a livello minore, adopera gli stessi strumenti


danteschi, come l'allegoria e il plurilinguismo, con lo stesso obiettivo
di “liquidare un'epoca” con tutto il suo bagaglio di esperienze
letterarie. Ioli si avvale delle recenti elaborazioni del metodo
intertestuale per spiegare il complesso equilibrio che Montale
68 IOLI 1984, 100
69 Ivi, 105
51
instaura tra Dante e la propria poesia: la citazione o l'allusione sono
artifci retorici che segnalano la presenza di un altro testo,
procedimento che Ioli accosta all'uso anfbologico del linguaggio che
il poeta riserva ad ogni tipo di discorso (vedi supra). Proprio la sua
pervasività lascia però sospettare che la propensione per l'anfbologia
sia una caratteristica del pensiero di Montale in senso stretto,
piuttosto che un procedimento poetico sempre calcolato e
sorvegliato. Inoltre anfbologia e allegoria sono modelli discorsivi
piuttosto differenti, e non si innestano sullo stesso livello di
signifcato: il procedimento anfbologico costruisce un'ambivalenza
sull'ammissione di affermazioni contrastanti ma appartenenti allo
stesso piano del discorso; l'allegoria, invece, porta una signifcazione
che non nega, ma anzi si basa sul senso letterale, completandolo e
ricomprendendolo ad un livello di complessità maggiore.
A questo punto Ioli ripropone l'ipotesi, già di Jacomuzzi e Pipa, “che
il testo di Dante agisca sin dall'inizio come un'idea e una prassi della
poetica che consenta una via di salvezza per i futuri sviluppi” 70.
Assumendo questo modello di scrittura, la critica può spiegare i
diversi livelli di alcune poesie della Bufera, comprensibili attraverso il
confronto con i loci danteschi a cui Montale avrebbe voluto
rimandare il lettore. Le interpretazioni di Pipa sono richiamate
spesso, e permettono di costruire un ricco gioco di rimandi alle varie
fasi della produzione montaliana. Un contributo di breve estensione
non può confermare del tutto la validità di una pratica di lettura, e
un certo spettro di arbitrarietà aleggia nell'accostare così liberamente
tanti componimenti. Consapevole di questo aspetto, Ioli ribadisce più
volte la conferma data dalle rilevazioni statistiche; quando questo
appoggio viene a mancare, cioè negli ultimi libri di Montale, dove le
citazioni di Dante si riducono fn quasi ad azzerarsi, viene proposto
un nuovo “artifcio squisitamente dantesco”. In queste ultime
raccolte verrebbe infatti a costruirsi un discorso assolutamente
unitario grazie ai richiami ad altri testi della produzione di Montale:
la pratica dell'autocitazione, rimandando a luoghi di ispirazione
dantesca, porterebbe ad un ulteriore stadio di rifrazione della parola,
pur abitando in un discorso che vuole apparire invece impoverito.

70 Ivi, 107
52
L'idea più generale è la stessa proposta da Jacomuzzi e, forse,
confermata da Montale (vedi supra): quella di una serie di raccolte
leggibili come un unico libro, che si costituisce esso stesso come
allegoria. Grazie all'autocitazione, infatti, il poeta può inscenare il
ribaltamento della propria poesia in direzione dell'abbassamento di
tono, fornire il verso del proprio unico libro. “Questo procedimento
permette in pochi versi un discorso che comprende vecchio e nuovo
in una rinnovata situazione poetica ed esistenziale” 71.
I contributi più signifcativi riguardo un'allegoria estesa a tutte le
opere dantesche, poste in rapporto di continuità tra loro, si devono a
Charles Singleton, di cui Ioli è stata allieva; Montale dimostra di
conoscere il lavoro critico di quest'ultimo ancora prima della sua
pubblicazione in lingua italiana (i due studi che compongono La
poesia della Divina Commedia, pubblicati negli Stati Uniti negli anni
Cinquanta, sono stati editi in Italia nel 1978; Montale ne cita alcuni
concetti già durante il Convegno del 1965). La mediazione tra gli
studi del critico americano e Montale può senza dubbio essere stata
Irma Brandeis, allieva di Singleton; ai tempi della corrispondenza tra
Montale e Brandeis il critico non aveva ancora pubblicato questi
studi, che potevano però essere in fase di elaborazione. Gli studi di
Singleton, ad ogni modo, nella loro forma compiuta potevano essere
noti solo al Montale della Bufera e delle raccolte successive: al di là
delle datazioni esatte, è diffcile attribuire a Montale una
programmatica applicazione di questo specifco modello di allegoria
fn dagli esordi.
Prendendo in considerazione una recente pubblicazione di Enrico
Fenzi, si può tuttavia pensare ad un uso “intuitivo” dell'allegoria di
tipo dantesco: essa sarebbe essenzialmente la scrittura di un percorso
conoscitivo e biografco che rifette su se stesso ad ogni stadio di
esperienza:

Se infatti intendiamo la parola “allegoria”, generalissimamente, un qualsiasi


incremento di signifcato applicato a un sistema acquisito di dati, sarà
evidente che ogni pensiero di sé commisurato alla propria esperienza
consisterà essenzialmente in una attribuzione di signifcato al passato,
giudicato e promosso all'altezza del presente e infne arricchito dai rampolli,

71 Ivi, 113
53
per usare ancora la parola di Dante, in cui già si racchiude il senso possibile
degli sviluppi futuri. In altre parole, Dante parla di sé non come l'uomo che
è, ma come l'uomo che è diventato quello che è. L'auto-esegesi è allora una
auto-esegesi della differenza; il pensiero non è altro, propriamente, che il
pensiero della differenza, e la differenza, infne, è l'allegoria, cioè a dire
l'incremento di signifcato che la perfezione raggiunta impone di per sé,
retrospettivamente, per il solo fatto di volgersi indietro e di conoscersi come
tale.[...] C'è il tempo vivo dell'esperienza, e il suo dilatarsi in nuove
dimensioni. Ecco allora che l'allegoria non serve già, come nei suoi modelli, a
fare a meno del tempo, a negarlo all'esperienza per irrigidire quest'ultima in
fgure assolute e assolutamente contrapposte l'una all'altra, ma diventa
invece strumento per una presa più forte sulla complessità della propria
auto-rappresentazione: la trascrizione statica e atemporale dell'allegoria
diventa in Dante trascrizione dinamica, compresenza di piani diversi, nodo
temporale. […] Il “metodo” dell'allegoria è perciò chiaramente presentato
come il linguaggio necessario dell'auto-interpretazione, e l'auto-
interpretazione, a sua volta, è legittima proprio in quanto disvela la
continuità sostanziale dell'esperienza, la maturità di un processo che è in
grado di volgersi su di sé e di conoscersi. Se si pone ben mente alle parole di
Dante, risulta chiaro che la sfasatura che corre tra il piano di lettura letterale
e quello allegorico contiene in sé un preciso e caratterizzante elemento
temporale […] La doppia lettura è frutto di un percorso: il suo fondamento e
la sua possibilità stessa stanno, in ultima analisi, nell'esperienza che il
soggetto fa di se stesso, o meglio, nell'esperienza della “differenza”
attraverso la quale il pensiero di sé può porsi come tale.72

Anche senza conoscere un'espressione teorica così coerente, Montale


poteva aver costruito e vissuto la propria produzione poetica in
modo simile; alcune sue affermazioni sulla scrittura e sull'unità delle
sue raccolte potrebbero suffragare questa ipotesi, che resta però da
verifcare sui testi.
Per tornare a Ioli, tutto l'itinerario poetico di Montale si costituisce
come un viaggio, il viaggio di una vita umana ricca di segni della
trascendenza: ogni momento storico porta in sé un signifcato che lo
supera e lo ricomprende in un tutto, la cui unità è resa in poesia
grazie ai rovesciamenti e alle combinazioni. Anche a questo livello
agisce un modello dantesco, appunto quello del viaggio allegorico;
l'analisi di Ioli adduce vari luoghi montaliani che comunicano l'idea
di un viaggio di discesa infernale, avvalendosi spesso del contributo

72 FENZI 2002, 191-195


54
di Pipa (vedi supra). Questi passi, ricchi di tasselli intertestuali di
provenienza dantesca, non possono essere, secondo Ioli, parto di una
memoria involontaria: il riferimento a Dante “deve essere
individuato come una tendenza generale che si chiarisce e si decanta
nei tempi lunghi”. Nel caso di alcune poesie, “la citazione segnala
altresì lo statuto allegorico”; ma in generale le strategie intertestuali
hanno un'ampia varietà d'uso, che di volta in volta deve essere
indagata. Il saggio di Ioli si conclude con una proposta di libertà
metodica, che lasci al lettore la possibilità di fermarsi “al piano che
più gli è congeniale”, in una prospettiva che legittima l'atemporalità
della scrittura e dunque quella della lettura.

II.11 Golfetto: varianti d'autore in direzione dantesca

Per aggiungere un tassello al ricco campo di studi del dantismo di


Montale, Golfetto propone un dato quantitativo estremamente
interessante per valutare la consapevolezza dei prestiti danteschi: in
un poeta poco incline alla correzione, ben nove sono i casi che
presentano nella stesura defnitiva nuove inserzioni dantesche, per
un totale di dodici varianti, concentrate soprattutto negli Ossi.
Alcune si limitano ad una scelta di tipo stilistico-lessicale, e come tali
non hanno grande rilevanza; è necessario inoltre distinguere tra
varianti sincroniche, cioè appartenenti alla stessa stesura, e
diacroniche, che possono essere state pubblicate o meno nell'edizione
defnitiva.
Golfetto distingue quindi tra varianti formali, che sono esempio di
una ricerca espressionistica, varianti con implicazioni tematiche ed
intertestuali, che illustrano la genesi dell'immagine poetica, e varianti
tematicamente probanti; il testo più profondamente rielaborato,
Incontro, testimonia infne un labor limae tutto dantesco. In questa
poesia “il gioco dei richiami stilistico-lessicali coinvolge la tematica
nel profondo, anzi offre chiavi interpretative assolutamente
73
necessarie per una sua corretta esegesi” . I manoscritti portano
diverse varianti che conducono a lezioni chiaramente dantesche:

73 GOLFETTO 1991, 289


55
e dall'una trabocco all'altra via e inerte cado
nell'ATTESA profonda in un'ATTESA spenta
DI CHI NON SA TEMERE su questa *PRODA *fossa *valle ch'à
a fore d'onda. sorpresa l'onda
lenta, che non appare.

Il passo dantesco da confrontare è If III, 106-108:

e cado inerte nell'ATTESA spenta Poi si ritrasser tutte quante insieme,


DI CHI NON SA TEMERE forte piangendo, alla RIVA malvagia
su questa PRODA che ha sorpresa ch'ATTENDE CIASCUN UOM CHE
l'onda DIO NON TEME.
lenta, che non appare.

Il sostantivo “attesa” rimane costante nelle diverse varianti, a


testimoniare una memoria dantesca sempre presente; la “riva
malvagia” viene riproposta solo in una fase intermedia e per di più
con l'intenzione di “mascherarla” attraverso sinonimi o termini più
lontani. “Infne i versi giungono ad una forte connotazione dantesca,
ma come frutto di una precisa e meditata volontà, per cui ogni
interpretazione in questo senso viene «legittimata» dal labor limae del
poeta.”74
La dettagliata analisi degli altri casi di varianti provenienti da Dante
permette a Golfetto di concludere con una convinta riaffermazione
del dantismo di Montale, pur con i limiti dovuti alle differenti
condizioni storiche e culturali.

Montale “usa” il materiale linguistico e recupera tematiche dantesche


laddove sussiste una certa somiglianza d'intenti, ma con la volontà di creare
«altro», e con la coscienza, soprattutto, di essere un discepolo che ha però
perduto la possibilità di confortare e superare ogni angoscia in una serena
visione paradisiaca.75

74 Ivi, 290
75 Ivi, 291-292
56
II.12 De Rogatis: mediazioni critiche per l'allegoria dantesca

Nel 1996 si svolge a Siena un Convegno sulla poesia di Montale,


dedicato in particolare al problema del rapporto con il canone del
Novecento e con la tradizione precedente. Tra i numerosi contributi
dei partecipanti non pochi sono incentrati sul dantismo di Montale.
Il primo di questi è un breve studio di Tiziana de Rogatis incentrato
sulle letture critiche più vicine a Montale rispetto all'allegoria della
Commedia: in opposizione a Croce, è possibile identifcare un asse
interpretativo che congiunge Eliot e Montale attraverso Singleton ed
Irma Brandeis.
Eliot aveva contribuito ad una defnizione del procedimento
allegorico dantesco come metodo che semplifca lo stile e rende le
immagini chiare e precise, in modo che “non è necessario
comprendere subito il signifcato per gustare la poesia, ma è il gusto
della poesia che ci fa desiderare di comprendere il signifcato” 76. Per
Eliot l'allegoria è una sorta di impalcatura, come sosteneva Croce, da
intendersi però non come struttura obsoleta ed inerte, bensì come
espediente che spinge il lettore a ricercare i signifcati più profondi;
dalla struttura allegorica del poema deriva, infatti, la stretta
connessione tra ogni singola parte e il tutto e l'aderenza perfetta tra
cosa e parola. Il grande studio di Singleton sulla Commedia deve
molto a Eliot, soprattutto per quanto riguarda le defnizioni di
immanenza come carattere specifco dell'allegoria dantesca e di
Dante come poeta flosofo capace di realizzare una visibile
appercezione del pensiero (la rifessione teologica è tradotta
nell'estrema corporeità dell'aldilà dantesco). Irma Brandeis, allieva di
Singleton, porta queste interpretazioni alle estreme conseguenze e
identifca la novità dell'allegoria dantesca nella natura inclusiva e
primaria del senso letterale (“The primary and inclusive nature of the
literal”77), che per gli altri poeti allegorici rimaneva semplice spia di
un senso più vero in esso incluso. Montale potrebbe aver tratto da
qui la defnizione di poesia inclusiva data nell'omonimo articolo del
1964 (vedi supra); ricomposti questi tasselli, è evidente che la sua

76 ELIOT 1920 (1), 855


77 BRANDEIS 1960, 105
57
lettura critica della Commedia discende da questa linea interpretativa
Eliot-Singleton-Brandeis, in cui il concetto di allegoria è centrale e,
soprattutto nel caso di Eliot, strumentalizzato nella lotta contro la
poesia simbolica. A questi studiosi si deve aggiungere Gianfranco
Contini, che aveva riproposto, riguardo all'analisi eliotiana di Dante,
un'associazione tra l'impersonalità dell'allegoria e il correlativo
oggettivo.

Vediamo come il repertorio di matrice stilnovista basato su attesa e


apparizione viene riletto da Contini secondo un orientamento eliotiano:
«L'intera esperienza dello stilnovista è spersonalizzata, si trasferisce in un
ordine universale: persa qualsiasi memoria delle occasioni, cristallizza
immediatamente.»78
Il processo di oggettivazione, in altre parole, prende forma proprio a partire
dalla proiezione della vicenda d'amore sullo sfondo di una struttura
allegorica. Così facendo, il critico rifutava il fltro del soggettivismo
romantico e indicava a Montale la possibilità di assumere la “meccanica”
stilnovista del miracolo sovrapponendola alla personale esperienza
autobiografca.79

Queste mediazioni critiche, accomunate dalla nuovissima rilevazione


della concretezza del linguaggio allegorico dantesco, possono essere
state per Montale un punto di riferimento forte nell'elaborazione
teorica e nel perfezionamento di un modello di poesia già messo in
pratica, ad un minor livello di consapevolezza, negli anni precedenti.

II. 12 Guglielmi: breve teoria dell'allegoria montaliana

Guglielmi dedica un altro studio alla linea allegorica che conduce


Montale a Dante ed isola il poeta moderno dai suoi contemporanei.
In controtendenza rispetto alla scelta simbolista di D'Annunzio e
Pascoli, Montale riscopre infatti una poetica dell'oggettivazione che
si avvale di una lingua “cosale, aspra, petrosa” per creare situazioni
di disturbo e distonia, e così facendo allude ad un'altra dimensione
non fenomenica, da cui pure si accede attraverso la realtà più

78 CONTINI 1939, Introduzione LX


79 DE ROGATIS 1998, 196
58
quotidiana.

Ma gli oggetti concreti non sono assunti in un'atmosfera rarefatta, innalzati a


simbolo del poetico a spese del reale. [...] La parola ha un signifcato
corrente, narrativo, essoterico, e un altro signifcato che non tanto si esprime
quanto si defgura e perde nel primo. Se fare del linguaggio un uso
unicamente poetico era l'ambizione impossibile dei simbolisti, qui il
procedimento è inverso. Montale rende assente il poetico. Lo occulta.80

Guglielmi avvalora questa proposta con la convincente analisi di


Arsenio, componimento di Montale che per molti critici rappresenta
la svolta in direzione di una poesia dell'oggettivazione analoga a
quella di Eliot. Nella poesia si possono identifcare due piani del
discorso collegati tra di loro: il primo ricopre un ruolo narrativo e
quasi naturalistico, il secondo “rappresenta lo stesso mondo, ma
illuminato da una luce defnitiva, non più naturale.” L'allegoria, a
differenza della metafora, è un procedimento tutto intellettuale, non
intuitivo – come già notava Eliot – e come tale non può prestarsi a
rappresentare concetti o immagini in absentia: i due livelli devono
coesistere. Guglielmi ripropone la differenza istituita da Singleton tra
procedimento metaforico ed allegorico: il primo è dominato dal
principio disgiuntivo, e permette all'immagine di fgurare in luogo
del concetto, escludendo una coesistenza di piani di signifcato; nel
metodo allegorico, invece, vige il principio della congiunzione tra i
due livelli di senso presenti nel discorso. Questa congiunzione non è
pacifca nella poesia di Montale, che è una poesia di corrispondenze
mancate e di dissonanze, e perciò genera un'allegoria apocalittica e
ateologica.
Questi ultimi due saggi tentano di gettare luce sulla mediazione
critica attraverso la quale Montale ha letto Dante; poeta e attento
lettore, l'autorizzazione di critici importanti e a lui vicini – come nel
caso di Contini e di Brandeis – ha sicuramente avuto un ruolo nel
passaggio dalla lettura giovanile di Dante alla matura
consapevolezza dimostrata in sede ermeneutica. Negli anni in cui già
si andava spargendo l'idea di una sua forma di dantismo, Montale
avrà sicuramente cercato di penetrare meglio l'opera di Dante per

80 GUGLIELMI 1998, 375-376


59
comprendere qualcosa della propria poesia o, almeno, della sua
ricezione. Sono una spia di questo studio alcune prose e alcuni
componimenti delle ultime raccolte, dove sono rappresentati il poeta
e Clizia intenti alla lettura o alla discussione della Commedia.

(PROVVISORIE) CONCLUSIONI

Il percorso storico-critico del rapporto Montale-Dante permette di


seguire le evoluzioni della critica letteraria dell'ultimo mezzo secolo:
il rapporto con i testi e con le fonti subisce importanti innovazioni, si
intravedono in fligrana i metodi critici e le tendenze operanti nei
diversi momenti, si avverte l'impatto di proposte ermeneutiche
periodizzanti.
I primi contributi procedono per suggestioni, per immagini, tanto da
poter accostare una fonte letteraria e una fonte pittorica; il rapporto
con il testo è vago ed immaginifco, l'atmosfera o il dettaglio
dominano sulla portata semantica effettiva delle parole. Bonfglioli
propone un'analisi strutturale, e come lui Ramat si muove su un
piano altamente teorico e flosofco; entrambi introducono le
dichiarazioni di poetica di Montale e le affancano allo studio dei
testi, individuando in modo più dettagliato le fonti.
Comello, nello stesso anno in cui Contini esortava gli Italiani alle
concordanze, prepara il primo spoglio sistematico della poesia di
Montale, suscitando la reazione del poeta stesso. Pipa segue
l'esempio di Montale e si inserisce nella nuova corrente di critica
dantesca stimolata da Eliot e da Singleton, per riproporre una teoria
dell'allegoria dantesca fnalmente libera dall'ipoteca di Croce;
Jacomuzzi e Ioli portano alle estreme conseguenze il peso
dell'allegoria nelle produzioni di Dante e di Montale, e la collegano
con il concetto di intertestualità emerso negli anni '60.
Su Baranski agisce probabilmente la teoria dell'infuenza di Bloom,
con i suoi risvolti psicologici che riempiono di sfumature le ormai
interminabili liste di occorrenze dei dantismi di Montale. Golfetto
condivide la tendenza ad approfondire la componente intenzionale
del riuso dantesco, e propone uno studio delle varianti d'autore che
60
apra uno spiraglio nella chiusa offcina del poeta. Gli ultimi studi,
infne, approfondiscono il background critico della dantologia di
Montale e lo mettono in relazione con il suo dantismo.
Tanti e vari approcci, segnati dal periodo in cui sono nati, ma che
sommati permettono di osservare il problema del rapporto tra i due
grandissimi poeti in tutte le sue sfaccettature.

BIBLIOGRAFIA:

Per le citazioni dalle opere di Dante e Montale sono state consultate


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