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Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna

TEOLOGIA ED ECCLESIOLOGIA
Dal Concilio Ecumenico Vaticano I
alla «bodenkirchen» di Karl Barth

Elaborato scritto
in Teologia Fondamentale 1 – la Rivelazione
BQ17a02

Baccalaureato Quinquennale - BQ

Studente Docente
Loris Dott. Derni Prof. Fabrizio Mandreoli

Anno Accademico 2017-2018


Teologia ed ecclesiologia nel Concilio ecumenico Vaticano I

La Chiesa Cattolica, fino al Concilio Vaticano I, non era mai stata al centro di dispute
conciliari, anche se questi dibattiti, avevano occasionalmente toccato importanti temi
ecclesiologici. Le grandi questioni, riguardavano infatti la Trinità, Gesu Cristo, lo Spirito
Santo, la natura della salvezza, la natura della grazia, i sacramenti e quant’altro. Soltanto con
il concilio Vaticano I, la Chiesa Cattolica comincia a trattare soprattutto di se stessa, col
proposito di definire chiaramente la propria natura, le proprie funzioni, le sue strutture ed i
propri compiti.

La decisione di indire un concilio ecumenico, ovvero una riunione di tutti i vescovi cattolici
del mondo, per discutere di argomenti riguardanti la vita della chiesa, venne a Pio IX, fin dal
1849 e giunse a maturazione lentamente, fino alla data della sua apertura l’8 dicembre 1869.

La determinazione di papa Pio IX di riunire un concilio, deve essere contemplata nella


prospettiva pastorale di una risposta contro la forte spinta «illuminista» e «modernista»
dell’epoca, in particolar modo contro: il «naturalismo», un movimento letterario che nacque
in Francia nella seconda metà dell’Ottocento, che si proponeva di descrivere la realtà
psicologica e sociale con gli stessi metodi utilizzati nelle scienze naturali, e soprattutto contro
il dilagante «razionalismo», una corrente filosofica basata sull’assunto che la ragione umana,
potesse essere essa stessa, fonte di ogni conoscenza.

L’ammirevole ed encomiabile tentativo, compiuto sul finire del XIX secolo da papa Pio
IX, mirava ed aspirava dunque essenzialmente a cercare di riportare la vita cattolica al suo
punto centrale, cioè alla questione della rivelazione, seppure con modalità e schemi, come
andremo a vedere, a volte criticati per essersi rivelati probabilmente troppo «conservatori»
ed «antiprogressisti».

Purtroppo, dell’esteso programma predisposto dai delegati, al fine di preparare e redigere i


progetti dei decreti conciliari, che i padri erano stati interpellati a discutere, solo una
piccolissima parte fu realizzato, a causa dell’improvvisa occupazione dello Stato pontificio
e della stessa città di Roma, da parte del governo italiano. Fatto storico, questo, che di per sè
più di ogni altro, potrebbe aver probabilmente influito sui toni un po’ troppo «difensivi» e
«conservatori» utilizzati dai padri conciliari, durante la stesura di questo brevissimo
Concilio.

A seguito dunque delle vicende politiche e soprattutto storiche di cui sopra, che di fatto
interruppero i lavori del Concilio ecumenico Vaticano I il 18 luglio 1870 dopo soli sette mesi
dall’apertura dei lavori, nelle sole tre sessioni svoltesi, ci fu discussione ed approvazione
soltanto per due costituzioni: la Dei Filius, Costituzione Dogmatica sulla fede Cattolica, che
definiva tra le altre, il criterio in cui la Bibbia è ispirata da Dio, e la Pastor aeternus, la
prima Costituzione Dogmatica sulla Chiesa di Cristo, che tratta cioè il primato e l’infallibilità
del vescovo di Roma, quando questi definisce un dogma.

La Dei Filius, dunque, obiettava alle istanze panteiste, materialiste e razionaliste


dell’epoca, con un’esposizione densa e lodevole della dottrina cattolica su Dio, la rivelazione
e la fede. Enunciazioni che per quasi un secolo, costituiranno la base dei trattati di teologia
fondamentale di quell’epoca.

2
La Pastor Aeternus invece, è la famosa costituzione sull’infallibilità del sommo
pontefice, il successore di Pietro sulla cattedra di Roma. Essendo un’acquisizione
rilevante, decisiva e dunque definitiva della dottrina dogmatica attorno alla chiesa
cattolica, è conveniente riportare «alla lettera» i tre punti della dottrina sul primato, che
anche il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965) riconfermerà esplicitamente quasi
un secolo più tardi1.

I) «Se qualcuno dicesse che il beato apostolo Pietro non è stato costituito da Cristo
Signore, principe di tutti gli apostoli e capo visibile di tutta la chiesa militante; oppure
dicesse che egli ha ricevuto direttamente e immediatamente da N.S.G.C. solo un primato
di onore, ma non un primato di vera e propria giurisdizione: sia scomunicato».

II) «Se qualcuno dicesse quindi che non è per istituzione di Cristo Signore, ossia per
diritto divino, che il beato Pietro ha perpetui successori nel primato su tutta la chiesa;
oppure dicesse che il romano pontefice non e il successore del beato Pietro nel medesimo
primato: sia scomunicato».

III) «Se qualcuno perciò dicesse che il romano pontefice ha solamente l’ufficio di
ispezione e di direzione, ma non ha la piena e suprema potestà di giurisdizione sulla
chiesa universale, non solo in quanto concerne la fede e i costumi, ma anche in quanto
riguarda la disciplina e il governo della chiesa, sparsa per tutto il mondo; oppure dicesse
che egli ha la parte principale, ma non ha tutta la pienezza di questa suprema potestà;
oppure dicesse che questa sua potestà non è ordinaria e immediata sia su tutte e singole
le chiese sia su tutti i singoli pastori e fedeli: sia scomunicato».

Come si potrà di certo notare, il primo punto determina il primato di Pietro sul collegio
apostolico e sulla chiesa universale; il secondo esplicita la trasmissione di tale primato
ai successori di Pietro sulla cattedra di Roma; il terzo indica in termini esatti la natura e
l’estensione della potestà propria di Pietro.

Non si tratta dunque di un vago orientamento teologico ed ecclesiale, ma di una piena


e suprema potestà su tutta la vita della chiesa, senza limitazione alcuna e su tutti i membri
della chiesa, vescovi e fedeli inclusi, sia collettivamente che individualmente.

Il Concilio ecumenico Vaticano I, riconfermato dal Concilio ecumenico Vaticano II,


riaffermava dunque che la piena e suprema potestà del sommo pontefice, non solo non
nuoce alla potestà dei vescovi ma anzi la rafforza, perché in definitiva l’unità e la
salvezza della chiesa ha in Pietro e nei suoi successori il suo principium et visibile
fundamentum2.

Quindi, mentre il papa ha tutti i poteri che hanno i vescovi, singoli oppure riuniti in
Concilio, nessuno può esercitare alcun potere nella chiesa di Cristo, indipendentemente
dal papa3.

1
G.BATTISTA MONDIN , Corso di teologia sistematica, VII, EDB Bologna, 1986, p.130.
2
G.BATTISTA MONDIN , Corso di teologia sistematica, VII, EDB Bologna, 1986, p.131.
3
G.BATTISTA MONDIN , Corso di teologia sistematica, VII, EDB Bologna, 1986, p.131.
3
Teologia ed ecclesiologia tra il concilio vaticano I ed il concilio Vaticano II

Il Concilio ecumenico Vaticano I, che pure raggiunse meriti innegabili, soprattutto


nell’ambito teologico ed ecclesiologico in merito alla dottrina circa l’esistenza, la costituzione
e le caratteristiche individuanti della Chiesa, non spalancò tuttavia le porte a quel
rinnovamento auspicato, per il quale erano già stati gettati «semi preziosi». Anzi, per certi
aspetti, la presa di posizione un po’ troppo apologetica, e quindi forse ancora troppo a difesa
dei proprio dogmi, sbarrò le porte ancora più ermeticamente sia nei confronti della cultura
moderna, sia nella definizione del primato del romano pontefice. Equilibrio che sarà tuttavia
ristabilito dal Concilio Vaticano ecumenico II, con la dottrina sulla collegialità.

Con tali definizioni, il Concilio ecumenico Vaticano I, rafforzò infatti ulteriormente, a detta
di molti, quell’indirizzo socio-giuridico forse un po’ troppo assolutistico ed autoritaristico
dell’ecclesiologia e della teologia, che aveva imperato nel mondo cattolico dopo il concilio di
Trento.

Sulle opere di teologia e di ecclesiologia, scritte dopo il Vaticano I fino agli anni trenta, Y.
Congar cardinale e teologo francese, vissuto tra il 1904 ed il 1995, formula un giudizio
pesantemente negativo:

«I trattati apologetici prevalgono sui trattati dogmatici e anche in quest'ultimi non si tratta
d'altro che dei poteri dell’autorità (in particolare il magistero) e dei diritti della chiesa. Gli
aspetti interiori e veramente teologici sono passati sotto silenzio o ridotti ad una breve
menzione. La chiesa non è presentata come l’espansione del mistero di Cristo, ma come
fondata e guidata da Lui. E’ una società gerarchizzata, piramidale [...]. Sono assenti alcune
dimensioni: così in un’epoca missionaria fortemente attiva, manca il dinamismo della
missione. In generale la dimensione escatologica e anche quella storica è debole [...] Non ci
si occupa dei fedeli che per affermare la loro situazione subordinata e il loro dovere
d’obbedienza »4.

Tuttavia, al di là dell’approccio apologetico e forse un po’ troppo difensivo, tenuto dal


Concilio Vaticano I, qualora volessimo trovare una data o un periodo che più di ogni altro
segnò l’inizio del rinnovamento di tutta la teologia, sia in campo cattolico che protestante, gli
anni risalenti al ventennio che intercorrono tra la prima e la seconda guerra mondiale, vengono
annoverati come i più emblematici e rappresentativi.

In quegli anni, infatti, dopo l’amarissima esperienza del primo conflitto mondiale, che aveva
disseminato stragi e rovine in quasi tutto il mondo, filosofi e teologi si resero conto che
un’epoca culturale stava per concludersi, mentre stava per spuntare l’alba di un’epoca nuova
e diversa.

Nel periodo tra le due guerre mondiali, come andremo meglio a delineare, vi fu infatti un
intenso risveglio del senso religioso sia della chiesa che dei fedeli, ciò condusse ad una grande
svolta culturale e filosofica, che provocò un rinnovamento profondo anche della teologia. Le
componenti che maggiormente incisero su questo rinnovamento, furono tra gli altri, lo
sviluppo degli studi biblici e patristici, ed il rinnovamento liturgico.

4
CONGAR, L'église de saint Augustin a l'époque moderne, p. 449.

4
Dalla teologia liberale alla «bodenkirchen» di Karl Barth

Nell’ambito più prettamente teologico, questa fase di profondo turbamento ed


inquietudine, verificatosi a seguito della prima guerra mondiale, indusse molti a considerare
per più versi superficiale ed ottimistica una certa teologia «liberale», che dal secolo XVIII
aveva tentato di accordare Gesù con la modernità e che aveva dunque tentato di riallacciare
e riannodare la fede cristiana con il mondo trasformato dalla rivoluzione scientifica e
industriale, ma soprattutto dalla spinta illuminista manifestata negli ambienti culturali ed
accademici, a seguito della Rivoluzione Francese.

La teologia dialettica, inaugurata appunto da Karl Barth, iniziò dunque a riproporre la


limitatezza e la peccaminosità del mondo terreno, così come l’irriducibilità della
trascendenza rispetto all’immanenza, rimarcando cioè con forza, la distanza tra l’umano e il
divino. Tra i principali esponenti di questo gruppo di pensiero, troviamo oltre a Karl Barth,
anche Rudolf Bultmann, Friedrich Gogarten, Eduard Thurneysen, Emil Brunne.

Anche e soprattutto nelle chiese evangeliche, dunque, a partire dagli anni venti del
novecento, ebbe luogo un risveglio teologico ed ecclesiologico, non meno intenso e vivace
di quello che si stava registrando nella chiesa cattolica.

In estrema sintesi, lo svizzero Karl Barth reagì ai fatti storici conseguenti alla prima guerra
mondiale, con straordinario vigore, affermando l’assoluta trascendenza di Dio, che lui arrivò
a definire «il totalmente altro», sia in opposizione alla precedente teologia liberale, sia
all’analogia cattolica che emergerebbe tra creatore e creatura, pur nella ancor maggior
«dissomiglianza». Questa «dialettica», Barthiana, non cercava sintesi Hegeliane, e secondo
Barth, il senso del limite umano sarebbe qui ribadito fortemente: l’iniziativa ed il
compimento della salvezza, sarebbero per Barth, infatti solo e soltanto nelle mani di Dio,
mente all’uomo rimarrebbe la «decisione della fede».

La svolta nella teologia novecentesca, si ebbe con la pubblicazione del libro di Karl Barth,
«L’epistola ai Romani» 5. Ebbe così inizio la «teologia dialettica» o «della crisi», che
affermando appunto l’assoluta trascendenza di Dio e la gratuità dell’azione salvifica di
Cristo, cercava l’Assoluto solo nelle Sacre Scritture, non preoccupandosi più di tentare di
trovare compromessi tra la fede e la storia, come invece aveva precedentemente tentato di
fare, la teologia liberale. Per Barth, ci si può riferire a Dio solo «dialetticamente», cioè per
contrapposizione, ossia unicamente riconoscendo l’insanabile contrasto esistente tra Lui e il
mondo, per via dell’alterità6, cioè della diversità e della differenza che esiste tra queste due
dimensioni.

L’obiettivo di Karl Barth, fu sostanzialmente quello di liberare la teologia dal razionalismo


e ricondurla al pensiero genuino dei padri della Riforma, per questo la sua teologia viene
anche chiamata «neoortodossia».

5
1919-1922.
6
Alterità, dal latino tardo alteritas-atis, der.di alter “altro”. Nel linguaggio filosofico, il carattere di ciò che è
o si presenta come “altro”, cioè come diverso, come non identico, anche in espressioni della
sociologia…[Treccani].
5
Conclusioni
In tutt’e quattro le note della chiesa Barth rileva una profonda corrispondenza tra
dottrina evangelica e dottrina cattolica, ma allo stesso tempo evidenzia delle divergenze
molto gravi, praticamente insuperabili. In sintesi, le maggiori divergenze dipendono
dalla differente concezione della fede e della salvezza: la concezione protestante esclude
mediatori e cooperatori; mentre la concezione cattolica li esige e questo si rispecchia
direttamente nella concezione teologica ed ecclesiologica della chiesa praticante.

Nella prospettiva protestante, così come l’uomo nella fede non potrà mai diventare
collaboratore e tanto meno un sostituto di Dio, così la chiesa nella sua opera di
riconciliazione degli uomini con Dio, non potrà mai cooperare, né tanto meno
rappresentare Cristo.

La sola fides imporrebbe perciò che nella chiesa non vi sia altra autorità che la parola
(kerygma) di Dio, per mezzo delle sole Scritture. Sarebbe dunque questa autorità, che
secondo Barth, generando la fede, fonderebbe la «communio sanctorum», estromettendo
non solo ogni autorità umana nell’impostazione teologica ed ecclesiastica, ma anche
qualsiasi altra struttura che pretendesse di essere stabile ed autentica.

In altri termini, la chiesa secondo Barth, non sarebbe una comunità che esisterebbe nel
senso di una continuità temporale, ma sarebbe una comunità che esisterebbe
attualisticamente, mediante una posizione in essere continuamente rinnovata da Cristo.
Questi la porrebbe come comunità, la quale si dissolverebbe immediatamente appena
cesserebbe l’istantanea azione divina. Mentre, quando questa azione ritornerebbe,
l’esistenza della chiesa si rinnoverebbe.

La chiesa, secondo il pensiero barthiano, sarebbe quindi un avvenimento che si


ripeterebbe continuamente: essa «vive, come il mondo creato, per la divina creatio
continua»7. In conclusione, secondo Barth, la chiesa non sarebbe un’istituzione né
un’organizzazione, ma un fatto, un avvenimento, il cui Ministero primario sarebbe
l’annuncio della Parola (kerygma). Nell’annuncio della chiesa, dunque, la Parola
risuonerebbe e interpellerebbe l’uomo all’obbedienza, e chi obbedirebbe, riceverebbe il
dono della salvezza.

7
K.BARTH, Kirchlicher Dogmatik, Zollikon, 1939, 12, p.771.
6

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