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La Subordinazione Servile Nell'Alto Medioevo
La Subordinazione Servile Nell'Alto Medioevo
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Il potere centrale difendeva tuttavia il diritto alla libertà e all'eredità dei figli di chi fosse
caduto in servitù temporanea o per tutta la vita, non avendo di che pagare il banno per essere
stato renitente al servizio militarexi. Erano anche proclamati liberi la moglie e i figli di coloro i
quali - uniti a donne libere - per fame avessero venduto la propria personaxii. Nella Francia
occidentale a costoro fu poi riconosciuto nell'864, da Carlo II, il diritto di riscattarsixiii.
Dunque la vendita della propria persona e l'autodonazione costituivano una delle fonti della
servitù altomedievale, non meno importante della tratta servile, della vendita di bambini, delle
condanne giudiziarie, dal momento che a questo fenomeno furono relativamente attenti e
sensibili diversi imperatori carolingixiv.
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possessionem liberi non sint, nisi de ingenuo patre vel matre nati sunt aut cartam libertatis
ostendunt"; II, p. 62, nr. 201, a. 832 (Lotario): "Ut per triginta annos servus liber fieri non possit,
si pater illius servus aut mater illius ancilla fuerit. Similiter de aldionibus". Cfr. Grimualdi leges,
p. 95 sg., capp.1-2; Liber Papiensis, p. 503 sg. (expositio al cap. 87). Il legislatore carolingio
faceva anche eccezione per la legge romana, contemplando evidentemente le norme
sull'usucapione dei beni mobili e immobili. Tuttavia, se nelle Institutiones (Corpus Iuris Civilis,
I, p. 14 sg., II, 6) si distinguevano i beni mobili (soggetti a usucapione dopo tre anni) da quelli
immobili (usucapibili dopo dieci o vent'anni, a seconda dei casi), erano espressamente eccettuati
gli schiavi fuggitivi, i dipendenti liberi e le res sacrae: "Sed aliquando etiamsi maxime quis bona
fide rem possederit, non tamen illi usucapio 'ullo tempore' procedit, veluti si quis liberum
hominem, vel rem sacram vel religiosam vel servum fugitivum possideat". Invece una legge di
Onorio e Teodosio del 419 aveva stabilito che il colonus originalis e l'inquilinus fuggitivi (che
però personalmente erano liberi, quantunque vincolati al luogo di residenza) fossero recuperabili
per un periodo di trent'anni se uomini e per vent'anni se donne: Codex Theodosianus, I, p. 239
sg., V, 18, 1.
`hiunque avesse poi accolto mancipia in fuga senza restituirli al legittimo proprietario, qualora
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quelli si fossero ulteriormente spostati, avrebbe dovuto pagare un risarcimento al signore . E'
certo, però, che quando i fuggiaschi avessero varcato i confini del Regno sarebbe stato prati-
camente impossibile recuperarli, come aveva ben calcolato il conte catalano Vifredo, il quale
intorno all'880 concedette la liberazione completa ai servi che fossero venuti a insediarsi sulle
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terre frontaliere di Cardona .
Per ostacolare queste fughe, Lotario I nell'840 aveva introdotto nei patti stipulati con Venezia
sia l'impegno reciproco alla restituzione dei fuggitivi, previo pagamento di un soldo d'oro, sia il
divieto per la città lagunare di acquistare e vendere "homines christianos" sudditi dell'Impero
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(liberi o servi che fossero, evidentemente) .
La fuga rappresentava però anche un modo per superare i più gravi motivi di conflittualità
con i domini, che talvolta esplodevano con forza portando a omicidi, furti o incendi dolosi. Se
ciò fosse avvenuto per una qualche negligenza dei padroni, il Regno comminava a questi ultimi
un banno di ben sessanta soldi, configurandosi la responsabilità civile dei domini per il crimine
dei loro servi; in altri termini, l'Impero carolingio accollava ai grandi proprietari l'onere di
difendere l'ordine pubblico qualora a turbarlo fossero stati i servi, vale a dire i dipendenti più
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colpiti dall'oppressione signorile e quindi più turbolenti .
Nell'Italia longobarda gli atti di brigantaggio di bande di servi in fuga e le congiure servili
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erano puniti severamente, perfino con la pena di morte . La stessa fuga era punita dalle leggi
salica, visigotica, burgunda e bavara con pene corporali che andavano dalla flagellazione, alla
mutilazione del naso, delle orecchie o di altre parti del corpo, o alla decalvatio (da intendersi
come vera e propria scotennatura); di conseguenza i fuggitivi, pur di non farsi catturare, si
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trasformavano in briganti ed esasperavano il conflitto con i padroni . La legge longobarda
prevedeva che il fuggitivo, il quale avesse opposto resistenza, potesse essere ucciso, senza alcuna
colpa a carico dell'uccisore; se poi fosse fuggito dopo aver commesso un crimine grave, ferma
restando la responsabilità civile del padrone per il reato compiuto, avrebbe dovuto essere
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condotto al patibolo da quest'ultimo una volta catturato .
Le leggi carolinge - che per un verso attribuirono una maggior responsabilità al servo
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colpevole - mitigarono in qualche caso le pene corporali, invitando i proprietari a percuotere i
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servi non con un grosso bastone, ma solo con una verga ; inoltre recepirono le indicazioni
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conciliari che comminavano la scomunica e la penitenza pluriennale a chi avesse ucciso un
proprio servo "sine conscientia iudicis", oppure l'avesse punito con troppo zelo, tanto da
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provocarne la morte . Tuttavia le cospirazioni dei servi continuavano a essere punite con
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l'uccisione dei capi e con la flagellazione e la mutilazione delle narici per i partecipanti .
E' facile quindi comprendere come spesso una sollevazione di servi fosse la risposta naturale
alle violenze dei padroni e del potere pubblico, anche se - come è stato scritto - rappresentava
soltanto l'aspetto visibile di una resistenza sotterranea, che procedeva giorno per giorno, "sans
fin, sans victoire décisive, combat sur une base individuelle, mais qui peut devenir une pratique
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commune, se faire ainsi lutte de masse" .
Il capitolare di Ansegiso ricorda le congiure servili nelle Fiandre, "in Mempisco et in ceteris
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maritimis locis", avvenute intorno all'anno 821 , ma già nella seconda metà del secolo VIII
nelle Asturie si erano sollevate truppe di schiavi, le cui azioni ricordavano le rivolte dei contadini
bacaudae nella Gallia del III e del V secolo e l'adesione di molti schiavi di proprietari bizantini
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all'esercito di Totila, nella guerra greco-gotica .
Durante l'invasione normanna dell'885 i servi del Bacino di Parigi si ribellarono ai loro padroni e
mentre molti di loro riuscirono ad acquistare la libertà, alcuni domini diventarono vernae, cioè
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schiavi .
In Italia, oltre ai richiami generali nell'Editto di Rotari alle cospirazioni di servi e di rustici
liberi, sono abbastanza note le rivendicazioni della libertà personale da parte dei contadini della
Valle Trita, a nord-ovest di Sulmona, i quali adirono il tribunale pubblico o da questo furono
convocati diverse volte tra il 787 e l'872 per appurare se i servizi prestati a favore del monastero
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di S. Vincenzo al Volturno fossero da loro dovuti in quanto servi . I placiti diedero però torto
ai contadini, i quali furono dichiarati servi "pro quia omnes eorum parentes sic fuerunt servi
Sancti Vincentii", secondo quanto affermarono diversi testimoni; gli stessi convenuti alla fine,
non potendo dimostrare di essere liberi, ammisero: "Veramente non possiamo provare la nostra
libertà, poiché i nostri padri e le nostre madri furono servi del monastero nella cella di Trita e noi
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per la legge dobbiamo essere servi dello stesso monastero" . Un breve, fatto redigere dal
monastero alla metà del secolo IX, elencava oltre quattrocento individui di condizione servile
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abitanti nella valle .
E' difficile stabilire se avessero effettivamente ragione i monaci, oppure se i dipendenti
potessero vantare, almeno in parte, un'ascendenza libera, magari perché nati da matrimoni misti
oppure perché i loro genitori si erano dati all'ente ecclesiastico, conservando però la propria
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libertà personale . La vertenza del resto si trascinava da decenni e quando i testimoni afferma-
rono che questi dipendenti erano trattati come servi dal monastero di S. Vincenzo, ciò rispondeva
al vero, ma non significa necessariamente che tutti gli antenati fossero tali sul piano giuridico.
D'altro canto l'ammissione di servitù da parte dei contadini processati nell'872 potrebbe
nascondere un accordo con i domini riguardo al trattamento futuro, poiché sicuramente i contra-
sti e i processi non facevano che danneggiare la proprietà.
Questa e altre vertenze erano causate spesso dalla necessità di appurare se gli antenati dei
dipendenti avessero un'origine servile e, quindi, se le corvées prestate fossero di natura personale
o fondiaria, essendo le prime vincolate alla condizione ereditaria della persona mentre le seconde
si potevano interrompere una volta ceduti i diritti sulla terra avuta in locazione. In qualche caso,
addirittura, i contadini affermavano di prestare certe opere personali non da servi ma in quanto
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"liberi commendati" . Più che di ribellioni armate, per l'Italia carolingia e postcarolingia si
dovrà perciò parlare di contrasti giudiziari, non per questo meno drammatici per i coltivatori.
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Come è stato recentemente rilevato , in Italia "il contrasto tra contadini e signori non
assume, nella maggioranza dei casi, i contorni della violenza o della rivolta armata. Piuttosto si
tratta di rivolte giudiziarie, di appelli disperati all'autorità del re o dei suoi rappresentanti, per
rivendicare un'autonomia contrastata dal potere signorile (che, del resto, gli stessi rappresentanti
regi esercitano sui loro soggetti); le controversie e le liti conservano tuttavia, evidentissimo, il
loro carattere di scontro sociale".
Il tentativo di provare il proprio stato di uomini e donne liberi - per sfuggire quindi legalmente
alla dipendenza ereditaria - molto spesso falliva perché effettivamente in tanti casi si trattava di
"servi et ancillae" anelanti alla libertà, come si legge in un noto capitolare della fine del secolo
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X . E' particolarmente interessante il caso di un uomo libero - Domenico di Cercino, in
Valtellina - il quale, avendo sposato Luba, una donna "pertinente" al monastero di S. Ambrogio
di Milano fu chiamato in giudizio nell'822 a dimostrare lo stato di libertà della moglie e,
conseguentemente, dei sei figli nati dal matrimonio. Non potendolo fare, dovette riconoscere
"quod ipsa Luba coniuge eius una cum agnitionis suas pertinentis monasterii sancti Ambrosii
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esse deverit" . E' curioso come né Luba né i figli non siano mai chiamati servi o ancillae, bensì
pertinentes del monastero, anche se non ci sono dubbi sulla condizione di non-libertà degli stessi.
Piuttosto l'atto suggerisce come fossero avviati cambiamenti importanti nei rapporti di
dipendenza, non soltanto sul piano terminologico. Infatti i matrimoni misti costituivano una
strada percorribile per sottrarsi alla servitù, se i proprietari non fossero intervenuti
tempestivamente a riaffermare la loro signoria perpetua sulla prole.
Per molti aspetti simile fu il tentativo esperito a Salerno verso l'anno 869 da un liberto di
palazzo, Ermenando, il quale cercava di far trattare come liberi i sette figli e la moglie
Cariperga, che invece continuavano a essere servi. La vicenda fu sottoposta ai giudici
salernitani dalla moglie del principe Guaiferio, il quale aveva concesso "per praeceptum" i servi
a Leone di Atrani, che a sua volta li aveva rivenduti alla principessa. Di fronte al tribunale
Ermenando non fu in grado di portare testimoni a lui favorevoli, mentre la parte avversa presentò
sia il praeceptum del principe sia la carta di vendita rilasciata da Leone, che obbligavano dunque
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la famiglia servile a continuare a prestare i consueti servizi alla padrona .
Il ricorso alla falsificazione di "cartae ingenuitatis" e a false testimonianze permetteva talora
di acquistare la libertà, come lamentava un capitolare di Carlo Magno. Un diploma di Ludovico
II dell'860 sostenne infatti l'abate di Bobbio nell'opera di recupero di certi mancipia, i quali "se
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fraudulenter ex servitio sepe fati monasterii subtraxissent" . Ma più spesso i sedicenti liberi
non erano in grado di trovare testimoni favorevoli e dovevano quindi soccombere, come abbiamo
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appena visto per Luba e i suoi figli e come è attestato per due uomini di Oulx nell'880 , per
alcuni contadini nati da servi della corte di Bedonia (appartenente alla Chiesa di Piacenza), i
quali tentarono inutilmente di sottrarsi alla condizione di subordinazione ereditaria tra l'878 e
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l'884 , o nel 1080 per un servo del monastero aretino di S. Flora e S. Lucilla . A rendere
difficile il reperimento di testimoni vi era anche il divieto, contenuto in un capitolare italico
di Lotario dell'825, di accogliere le testimonianze di chi non possedesse beni tali da poter
risarcire la parte eventualmente danneggiata da false dichiarazioni: così i contadini liberi più
umili non furono più sentiti nei processi "de libertate vel de hereditate vel de proprietate in
lii
mancipiis et terris sive de homicidio et incendio" .
Altre volte le loro istanze - magari motivate dal fatto che un familiare era riuscito ad avere la
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libertà condizionata per accedere al clericato - erano decisamente stroncate da testimoni
prodotti dai signori: in tal caso le testimonianze decisive appuravano l'esistenza della condizione
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servile dei genitori, oppure il fatto che i signori erano stati risarciti da estranei per maltrattamenti
agli stessi servi (peraltro battuti "pro servis" dai loro domini), o ancora la durata trentennale del
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servizio servile "de persona" .
Talvolta un servo cercava di appropriarsi dei beni di un ente ecclesiastico, come quel Pertulo
che nell'899 fu chiamato in giudizio dall'abate del monastero della Trinità (San Clemente) a Ca-
sauria davanti al conte di Teramo. Il fatto stesso di riconoscersi servus indusse Pertulo a
rinunciare subito a ogni contesa: "non contendo nulla poiché non mi appartiene nulla che io
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possa contendere", fu costretto infatti ad affermare .
Ai sotterfugi dei servi si contrapponeva spesso l'astuzia dei signori, che con un uso
spregiudicato delle norme di legge riuscivano magari a invalidare un atto di manumissione (a
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Oulx, nell'827) , sempre che non ricorressero al sopruso di una falsificazione documentaria per
accrescere gli obblighi dei non-liberi, come avvenne nella corte di Limonta (Como) da parte del
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monastero di S. Ambrogio di Milano nel secolo X .
La durezza dei signori territoriali e fondiari si faceva anche sentire verso i dipendenti liberi,
che potevano diventare servi per tradimento o per gravi crimini. Possiamo ricordare in proposito
l'atto con il quale nell'899 il principe Guaimario di Salerno donò, alla chiesa cittadina di S.
Massimo, Lupo, figlio di Ragimperto - con i suoi famigliari e con tutti i beni mobili e immobili -,
il quale era stato condannato a diventare "serbum sacri palatii" per essere passato dalla parte dei
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Saraceni, quando questi ultimi avevano invaso la città . Più tardi, alla fine del secolo XI, nel
redigere un elenco dei propri servi, il monastero delle Sante Flora e Lucilla di Arezzo faceva
annotare che un uomo era stato ridotto in servitù non avendo potuto pagare l'ammenda per il
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furto compiuto e che un altro era divenuto servo per aver ucciso un rustico soggetto all'abbazia .
Qualche volta però la libertà dei dipendenti era riconosciuta dai tribunali presieduti da
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ufficiali regi, come avvenne a Trento nell'845 o a Cusago, nel contado di Milano, nel 900-901 :
in entrambi i casi si ammetteva che le corvées erano dovute non per la dipendenza personale
(nel primo caso i convenuti erano accusati di essere servi, nel secondo aldii), ma per la terra
avuta in concessione; del resto per i signori era essenziale vedersi riconfermato il servizio dei
dipendenti, quantunque non fosse esigibile a titolo servile. Spesso, allora, erano gli stessi liberi,
minacciati di essere trasformati in servi dalla violenza dei loro signori fondiari, ad assumere
l'iniziativa di rivolgersi a un tribunale pubblico perché fosse dichiarato il loro stato di libertà:
così fecero nel 1072 alcuni uomini e donne di Colle Vignale, nel contado di Perugia, davanti alle
contesse Beatrice e Matilde, dichiarando senza contestazioni di alcuno di avere beni immobili in
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piena proprietà, cosa che non era possibile solitamente per i servi .
A proposito del nesso esistente fra libertà e possesso di terre allodiali va però precisato che
nel placito dell'anno 900, relativo agli uomini di Cusago, tutte le testimonianze - che in definitiva
consentirono di riconoscere lo stato di libertà agli stessi - concordavano sul fatto che gli inquisiti
erano nati da genitori liberi e al momento erano uomini giuridicamente liberi; inoltre le loro
corvées erano esclusivamente dovute per alcune case e res avute in concessione nella località di
Bestazzo e non "de eorum personis"; del resto essi possedevano in piena proprietà e senza onere
alcuno altri beni ("alia suorum proprietate in suorum iure et libertate habent"). In queste
testimonianze si rivelano fondamentali le prime tre caratteristiche degli uomini di Cusago: essere
nati da liberi, essere in possesso della libertà giuridica e non prestare opere condicionaliter "pro
persona"; invece il possesso di terre allodiali venne posto dai testimoni in ultima posizione
poiché serviva eventualmente a rafforzare la difesa degli inquisiti (se fossero stati servi non
avrebbero potuto essere allodieri, almeno a quell'epoca), ma non avrebbe potuto da solo
costituire la discriminante fra la condizione di servitù e quella di libertà, poiché tanti uomini
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liberi, pur non possedendo allodi (molti livellari e massari, per esempio), conservavano
ciononostante il proprio stato di libertà personale, manifestato attraverso le capacità giuridiche di
testare, di stipulare contratti agrari e, in certe situazioni, di testimoniare. Del resto gli stessi
capitolari consideravano senz'altro liberi tutti i contadini residenti su terre altrui, anche coloro
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"qui proprium non habent", purché non fossero notoriamente servi .
Un'ultima possibilità che sullo scorcio del secolo X si cominciò a concedere ai servi, per
dimostrare la condizione di libertà che essi rivendicavano, era il duello. In un placito celebrato a
Gaeta nel 999, davanti al messo imperiale Nottichero - venuto a ripristinare l'autorità del vescovo
sui propri famuli che si erano sottratti al servizio dovuto alla Chiesa - due fratelli, Giovanni e
Anatolio, figli di Passaro Capruccia, proclamarono di non essere servi "sed veri liberi"; fu quindi
data loro la possibilità di difendere con la spada le loro posizioni, ma essi rifiutarono. Giurarono
ancora che la loro madre Benefatta "vera libera femina fuisset, et absque omni alicuius
condicione", mentre invece per il padre non osarono giurare che non avesse prestato servizi
all'episcopio "sicut aliis massarini", forse perché era un liberto condizionato. Poterono infine
ottenere il riconoscimento della piena libertà per sé e per tutti i discendenti di Passaro e
Benefatta, offrendo al vescovo una libbra d'oro purissimo per il restauro del palazzo
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episcopale .
La linea politica imperiale di permettere ai domini di poter obbligare al duello i servi
sedicenti liberi era dichiarata ufficialmente nel "Capitulare de servis libertatem anhelantibus" di
Ottone III e serviva a ostacolare quel processo generale, che portava tanti servi, e in particolare
quelli ecclesiastici, a proclamarsi liberi, approfittando delle negligenze dei proprietari o in
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seguito all'arricchimento, che consentiva loro di vivere "lege et usu libertatis" . Nondimeno il
capitolare riconosceva il cambiamento in atto della condizione servile: infatti i servi, come i
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signori, avrebbero potuto farsi sostituire nel duello da un "campione" ; inoltre, dovendo da quel
momento pagare ai proprietari un census servitutis annuale - un denaro, ricognitivo della loro
dipendenza, da pagarsi da parte di uomini e donne di età superiore ai venticinque anni -, si dava
per scontato che tutti fossero provvisti di una ricchezza mobile; in particolare per i servi
ecclesiastici, oltre ad affermare che non sarebbero mai potuti uscire dalla servitù, il capitolare
comminava il banno della confisca di metà dei loro beni, probabilmente perché erano quelli che
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più facilmente avevano la possibilità di arricchirsi .
Tra la fine del secolo X e l'inizio del secolo XI il marchese (poi re) Arduino d'Ivrea aveva da
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un lato angariato i servi casati e sterminato i famuli rimasti fedeli alla Chiesa eporediese , ma
dall'altro aveva cercato e ottenuto l'appoggio politico di servi-chierici e di servi ministeriales
arricchitisi con i beni della Chiesa di Vercelli, dimostrando così di saper volgere a proprio
vantaggio i contrasti fra signori ecclesiastici e servi che avevano raggiunto una posizione
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socio-economica di rilievo, pur conservando la macchia della loro inferiorità giuridica .
Certi placiti erano sollecitati dalla Chiesa quando c'era il sospetto fondato che un servo stesse
macchinando per sottrarsi ai suoi doveri. A Lucca, nel 1025, il vescovo ottenne il giuramento da
parte di un suo servo "pro eo quod nasscendo servo et famulo - ossia servo e servitore, si
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potrebbe tradurre - suprascripte eclesie episcopatui sancti Martini" . Ma di fronte all'imperver-
sare delle fughe e delle sottrazioni indebite allo stato servile, restava sempre ai presuli la
possibilità di tentare un recupero dei servi appellandosi al capitolare di Ottone III: così aveva
fatto nel 1022 il vescovo Leone di Vercelli, il quale richiamò "ad pristinum servitium" servi che
si erano sottratti in modo surrettizio al servizio ecclesiastico e che erano stati illecitamente
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manumessi dai suoi predecessori .
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Nello stesso anno 1022 il concilio di Pavia prendeva provvedimenti generali contro i servi
ecclesiastici, che per sfuggire al loro stato si facevano chierici (ottenendo così, preventivamente,
la manumissione, seppure condizionata) e unendosi poi a donne libere procreavano figli liberi,
per lo più beneficati con beni della Chiesa. Si decretava pertanto che la prole nata da queste
unioni rimanesse in stato di dipendenza servile e che il loro patrimonio, secondo la tradizione
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altomedievale, fosse considerato appartenente alla Chiesa stessa .
Ciò però non servì a bloccare il progressivo depauperamento di beni e uomini appartenenti a
enti ecclesiastici. Un elenco delle malversazioni compiute ai danni della Chiesa di Reggio
Emilia, verso il 1040, da una famiglia signorile della regione registrava anche le azioni
facinorose di servi, che in alcuni casi erano addirittura famuli del vescovo, conniventi con i
signori laici per raggiungere qualche forma di indipendenza che prima non avevano. Per altro
verso, in concomitanza con l'affermazione delle signorie di banno, talvolta grandi livellari e
vassalli ecclesiastici interferivano nel tradizionale processo dialettico di confronto/scontro fra
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servi e signori, cercando di impedire che i primi prestassero i consueti servizi ai secondi .
Anche per questa via si interrompeva spesso la dipendenza dei non-liberi, essendo questi ultimi
attratti nell'ambito di comunità contadine soggette a signorie rurali concorrenti con i loro stessi
domini.
La conflittualità fra dipendenti rurali (per lo più rustici liberi, tuttavia) e proprietari/signori
registrò ulteriori episodi, sebbene discontinui, dopo il secolo XI; proseguì infatti attraverso gli
scontri fra comunità di rustici e signori di banno nei secoli XII e XIII, destinati poi a inasprirsi
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fra gli ultimi due secoli del medioevo e la prima età moderna .
Diversi studi hanno evidenziato il ruolo non certo secondario della manodopera servile nelle
grandi proprietà dei secoli IX e X. Ai saggi classici dell'Inama-Sternegg, del Darmstädter, del
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Perrin, del Sée, del Dollinger e del Luzzatto si sono aggiunti, negli ultimi decenni, numerosi
contributi che hanno dato un significativo apporto al chiarimento dei nessi esistenti fra dipen-
denti non-liberi, sistema curtense e organizzazione dei poteri signorili di natura fondiaria e
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bannale .
Fra i contributi più recenti si segnalano due saggi di G. Pasquali, dedicati rispettivamente ai
problemi dell'approvvigionamento alimentare all'interno del sistema curtense e alle prestazioni
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d'opera documentate dai polittici italiani . Sull'impiego di manodopera servile nell'ambito
delle curtes bipartite fra dominico (o riserva signorile, a gestione diretta) e massaricio (le terre in
concessione), l'autore perviene alla conclusione che "per la settantina di corti del monastero di S.
Giulia, il dato complessivo è che circa 500 maschi adulti erano a disposizione per tutto l'anno
per la lavorazione dei campi della riserva signorile: la metà di questi poteva essere rappresentata
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dai prestatori di opere, l'altra metà dai servi prebendari" . E' evidente, da queste cifre
sommarie, che la parte della curtis a gestione diretta si avvaleva prevalentemente del lavoro
servile, anche attraverso le prestazioni d'opera dei molti servi che erano stati accasati sul
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massaricio .
Sempre il Pasquali chiarisce inoltre che in alcune corti della Bassa padana esisteva una "grave
carenza di forza-lavoro umana", fornita dalle opere dei contadini del massaricio: anche in questo
caso, a maggior ragione, sembrerebbe che per la coltivazione del dominico l'onere principale
ricadesse sui servi prebendari e sui servi casati, che quasi sempre erano tenuti a compiere
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corvées .
Se si considera in dettaglio la realtà di sei curtes lombarde, appartenenti al monastero di S.
Giulia e segnalate fra quelle in cui era maggiormente disponibile la manodopera in genere - per
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le quali è, fra l'altro, documentata la presenza di varie categorie di dipendenti -, è possibile
analizzare il tipo di apporto dato in particolare dai prebendari, rispetto ai lavori svolti dai servi
casati e da uomini liberi. Queste aziende signorili erano dislocate a sud del lago di Iseo in
direzione di Brescia e sono state quasi tutte localizzate (Iseo, Timoline, Canelle, Borgonato e la
corte suburbana di Brescia), tranne Griliano; non si prendono invece in considerazione le prime
due curtes registrate, senza nome, nel polittico di S. Giulia, che - pur essendo verosimilmente
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nella stessa area - per le eccessive lacune del documento non si prestano a raffronti adeguati .
Integrando i dati relativi a queste sei aziende con quelli attinenti a tre corti della Val Camonica,
dalle caratteristiche del tutto peculiari, cercheremo di misurare il peso, se non la qualità, del
lavoro servile.
Il lavoro dei prebendari, all'inizio del secolo X, aveva un ruolo più o meno rilevante, sul
dominico curtense, a seconda dei tipi di coltivazione praticati. E' importante, al riguardo, ri-
cordare preliminarmente quanto ha osservato il Toubert, il quale ha evidenziato l'esistenza di tre
tipi fondamentali di corti: oltre alla corte "classica" bipartita, indirizzata per lo più verso la
cerealicoltura - in questo caso la riserva signorile aveva perciò necessità di un numero
considerevole di giornate lavorative da prelevarsi sul massaricio, come supporto per il lavoro dei
servi insediati sul dominico -, egli introduce in questa tipologia di orientamento anche la curtis
caratterizzata da una pars dominica ricca di terre incolte e di pascoli e perciò dedita pre-
valentemente all'allevamento, per il quale erano impiegati soprattutto i servi praebendarii. Un
terzo tipo di corte è quello che si fondava sulla conduzione diretta di terre signorili specializzate
ad esempio nella coltivazione della vite e dell'ulivo.
Qui "le prestazioni di lavoro erano richieste dal signore in misura limitata per quanto riguarda
la loro quantità globale ed erano concentrate sui momenti del ciclo agricolo in cui questo apporto
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specifico di manodopera colonica doveva servire a completare il lavoro degli schiavi della
familia padronale (falciatura dei prati della curtis e raccolta del fieno, vendemmia, raccolta delle
olive, corvées di trasporto del vino e dell'olio). Proprio in questo tipo di curtes a orientamento
specializzato si comprende con maggiore chiarezza la differenza fra i due stili di lavoro
incorporati nel settore a conduzione diretta: lavoro continuo degli schiavi prebendari e apporto
periodico dei massari, secondo il ritmo delle stagioni e delle necessità specifiche. Curtes di
questo genere, in cui l'orientamento indicato sopra non escludeva il mantenimento di un volano
silvopastorale, presentano quindi come caratteristiche specifiche sia la complessità e l'e-
terogeneità dei profitti diretti sia il fatto che la cerealicoltura vi occupava un posto secondario".
Ciò premesso, va notato che i dati relativi alle sei corti che stiamo esaminando consentono di
raffrontare direttamente la quantità di giornate lavorative svolte da chi prestava le corvées e
l'impegno continuativo dei servi residenti sul dominico: d'altro canto è ben nota la funzione
complementare della corvée prelevata sul massaricio ai fini della coltivazione della pars
dominica curtense. Ma in che proporzione la prestazione d'opera era integrativa del lavoro dei
prebendari? La stessa tipologia del Toubert suggerisce che in alcuni casi le giornate lavorative
dei prestatori d'opera del massaricio potevano essere preponderanti rispetto all'impegno
complessivo dei prebendari. Per un raffronto corretto occorre però anche tener presente l'apporto
delle feminae residenti sul dominico: in questo caso si può congetturare che la loro forza-lavoro
fosse almeno per la metà utilizzata in attività simili a quelle svolte dagli uomini nei vigneti, negli
oliveti, nei campi e nei prati; per l'altra metà doveva essere impiegata in attività collaterali
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all'agricoltura, quali l'orticoltura, l'allevamento degli animali da cortile, la pastorizia, la pulizia
delle dimore signorili (definite caminatae nei polittici), oltre che nelle ben documentate attività
tessili a domicilio e nel gineceo e - come attesta un documento sardo del secolo XII - in mansioni
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consistenti nel "macinare il grano, cuocere il pane, pulire, lavare, filare e tessere" .
Per quanto concerne il numero delle giornate lavorative annuali, è probabile - come rilevò il
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Luzzatto e come ha ribadito il Toubert - che non fossero più di duecento i giorni di intensa
attività agricola, ma per i servi prebendari l'impegno sul dominico riguardava tutti i giorni
dell'anno, escluse le festività, ossia circa trecento. Questa cifra è confermata indirettamente dal
polittico, quando precisa che i manenti che svolgono "opera medietatem" compiono
centocinquanta giornate lavorative ciascuno sul dominico, per cui anche ogni contadino residente
sul massaricio era annualmente impegnato per circa trecento giorni di attività, più o meno
lxxxv
intensa, a seconda delle stagioni .
Ora, dal confronto tra le giornate di lavoro dei prebendari maschi (computate al 100%) e delle
femmine (congetturalmente calcolate al 50%), da un lato, e le giornate di corvée prestate da
manenti (liberi e servi) e da livellari, dall'altro - ma è chiaro che per tutti i residenti sul
massaricio delle curtes considerate, a seconda dei casi, la metà o la maggior parte del lavoro era
svolto per la conduzione dell'azienda familiare -, emerge un quadro piuttosto articolato che si
può così delineare:
A) Nella corte di Griliano, sul cui dominico si praticava soprattutto la cerealicoltura, integrata
da attività vitivinicole, da un ridotto allevamento di suini, caprini e animali da cortile, e dove
funzionava un mulino bannale, il lavoro dei prebendari (11 uomini e altrettante donne) aveva
un'incidenza di circa il 60% rispetto a quello fornito dalle prestazioni d'opera dei 31 manenti.
Questi ultimi dovevano anche coltivare 17 unità fondiarie prive di una famiglia contadina titolare
(sortes absentes) - i cui canoni in denaro e in natura erano incamerati dal monastero - e altre due
"sorti assenti", che costituivano il beneficio dello scario-amministratore; il limitato apporto di
opere da parte dei manenti era però bilanciato da attività artigianali, svolte sulla "pars
massaricia", che consentivano al centro monastico di incamerare formaggi, vomeri d'aratro,
lxxxvi
scuri, mannaie e forche, 100 libbre di ferro e panni rustici .
Nella corte bresciana "infra civitate" si coltivavano cereali e viti su un dominico che però
misurava appena un quinto di quello precedente: qui i prebendari sostenevano l'onere del 45%
del lavoro; tuttavia le corvées dei manenti servili corrispondevano a un altro 35% della
forza-lavoro, per cui anche in questo caso si rivelava predominante l'apporto dei servi. Ai
manenti liberi, ciascuno dei quali forniva appena 20 opere annuali (pari al 20% delle giornate di
lavoro complessive), oltre ai canoni erano richiesti prodotti lavorati (formaggi, panni rustici,
lxxxvii
attrezzi agricoli) .
B) La corte di Borgonato era abbastanza simile alle precedenti, salvo che per l'assenza di
pratiche vitivinicole sulla riserva signorile: cerealicoltura, allevamento (suini, ovini, bovini,
polli) e attività molitoria ne caratterizzavano il funzionamento. L'impiego dei servi prebendari
era ancora relativamente alto - rispetto alle più ridotte dimensioni del coltivo della curtis (circa
1/4 di quella di Griliano) -, infatti il loro lavoro copriva il 45% del fabbisogno del dominico; per
contro, i manenti e i livellari del massaricio, dal momento che fornivano prestazioni d'opera
elevate e la metà del vino prodotto sulle terre in concessione, non consegnavano prodotti
artigianali, ma solo 20 libbre di ferro, oltre a canoni vari in denaro e in natura (quantità fisse di
grano e di vino, piccoli animali, uova). Due aldi residenti sul massaricio avevano solo la
lxxxviii
funzione di portare ordini e lettere .
C) Quando la cerealicoltura aveva un peso più equilibrato rispetto a un'accentuata viticoltura e
10
alla presenza di forme d'allevamento tutto sommato ridotte, tendeva invece a diminuire il numero
di prebendari sul dominico e aumentava la richiesta di opere ai manenti nei diversi periodi
dell'annata agricola (a questo proposito va sfumata la tipologia, peraltro dichiaratamente
orientativa, formulata dal Toubert). Ciò avveniva, probabilmente, per via dell'esigenza di avere a
disposizione una manodopera abbondante solo nei periodi richiesti dalle pratiche connesse so-
lxxxix
prattutto a colture specializzate, ad esempio la viticoltura, nelle corti di Timoline e Canelle .
Ecco allora che il lavoro dei servi prebendari si riduceva al 35%.
Nella corte di Iseo, dove l'attività agricola sulla riserva signorile era decisamente orientata
verso la coltura specializzata dell'ulivo e della vite - mentre la cerealicoltura aveva assunto un
ruolo secondario insieme con le pratiche silvo-pastorali - sui prebendari (tutti a tempo pieno,
come sempre) gravava solamente il 25% del lavoro. Qui le prestazioni d'opera gratuite erano
molto onerose per i manenti: si trattava infatti di tre corvées settimanali per ogni nucleo
familiare, per un totale di 8700 giornate lavorative all'anno. Ma la caratteristica dei manenti di
Iseo era quella di essere tutti servi, per cui - ancora una volta - emerge l'importanza del ruolo
economico che avevano i non-liberi nel sistema curtense all'inizio del secolo X. A Iseo era molto
chiara l'iniziativa signorile tendente a dotare la maggior parte dei servi di forme autonome di
sussistenza. Infatti dalla selva locale, attestata nel polittico, erano state probabilmente ritagliate e
messe a coltura 18 unità fondiarie sulle quali erano stati accasati 58 manenti servili
xc
(verosimilmente si trattava di altrettanti nuclei familiari) . In questo modo si era razionalizzato il
sistema produttivo della curtis, diminuendo drasticamente il numero dei prebendari stabiliti sul
dominico - mantenuti per tutto l'anno a spese del monastero - e rendendo parzialmente
autosufficienti i servi, che erano così nutriti dall'ente monastico solo quando si recavano sulla
riserva a compiere le corvées. Probabilmente l'alto numero di opere prestate dai manenti in
questo caso particolare - in palese contraddizione con il modello della curtis specializzata
xci
individuato dal Toubert - si giustifica proprio per via dello status servile degli stessi, magari da
poco tempo trasferiti sul massaricio.
D) L'importanza del lavoro servile nel sistema curtense dell'epoca è altrettanto evidente in un
altro gruppo di corti appartenenti a S. Giulia. Si tratta di tre aziende signorili ubicate nella Val
xcii
Camonica . Due di esse avevano una struttura anomala rispetto alla maggior parte delle curtes
dell'Italia e della Francia: erano infatti sprovviste di massaricio. In questo caso potrebbe trattarsi
di corti da poco strutturate in un'area ancora da colonizzare e caratterizzata dalla presenza di
stazioni pastorali. D'altro canto, a fianco di una cerealicoltura di pura sussistenza per i servi
prebendari ivi insediati, spicca l'allevamento di ovini (85%), seguiti da suini e bovini (buoi), che
contano complessivamente quasi 500 capi. Nella prima delle due corti (Sovere) erano insediati
39 prebendari fra maschi e femmine e nella seconda (Closone) ve n'erano 28.
La terza curtis del gruppo (ubicata in Bradellas, forse a Pian Camuno) aveva invece una
struttura classica, per quanto attiene alla bipartizione. Sul dominico 16 prebendari (tra maschi e
femmine) curavano l'allevamento di 482 ovini, 29 suini, 4 buoi, 7 vacche, 6 vitelli, 8 capre e 30
polli. Coadiuvati da 26 servi casati - che prestavano opere a richiesta e probabilmente lavoravano
anche 8 sortes absentes -, coltivavano campi in cui si seminavano 40 moggi di grano, prati che
davano 40 carri di fieno, vigne che producevano fino a 23 anfore di vino. Sulla "pars massaricia"
erano dislocate su 53 sortes ben 83 famiglie di servi casati, dediti prevalentemente ad attività
minerarie e pastorali - fornivano infatti al monastero 60 libbre di ferro e 7 d'argento, lana, 75
castroni, formaggi, legname e altri prodotti -, ma anche alla viticoltura (portavano infatti 60
anfore di vino all'ente). Pur essendo difficile fare un raffronto tra la produttività del dominico e
del massaricio, è evidente che il secondo dava la possibilità alla signoria monastica di percepire
11
xciii
prodotti diversificati, argento e vino in quantità prevalente ; senza contare che all'occorrenza
poteva fornire tutti gli uomini necessari per integrare adeguatamente il lavoro dei prebendari, il
cui numero era volutamente ridotto.
Dunque, anche in un'area in cui la "pars massaricia" della corte appare piuttosto indipendente
dalla "pars dominica", il nucleo a gestione indiretta dell'azienda signorile svolgeva indub-
biamente un ruolo di sostegno alle terre gestite in economia e rappresentava la "valvola di
sicurezza" per una collocazione più razionale della manodopera servile in eccedenza. Sembra
perciò possibile confermare le osservazioni del Bloch, il quale rilevava che "già gli agronomi
romani notavano che lo schiavo, quand'è in squadra, lavora male, cosicché per ottenere poco
lavoro è necessario un gran dispendio di manodopera; per di più, quando muore o si ammala si
tratta di un capitale che scompare e che va sostituito. Non si poteva fare grande affidamento sulle
nascite all'interno del dominico, giacché l'esperienza aveva insegnato che l'allevamento
dell'uomo è il più difficile che esista... Viceversa, lo schiavo tenancier lavorava meglio, almeno
nella propria tenure, perché lavorava, almeno parzialmente, a proprio vantaggio; inoltre, dato che
in questo caso le famiglie non eran minacciate dalla dispersione, la riproduzione della
xciv
manodopera era assicurata" .
A queste osservazioni se ne possono aggiungere altre, che riassumono per lo più i risultati
della ricerca francese: il ricorso all'accasamento servile era soprattutto motivato dalla necessità di
affrontare adeguatamente i lavori più intensi dell'anno agricolo, senza per questo dover
mantenere e vestire nei periodi di relativo riposo un numero eccessivo di servi "domestici". Era
quindi più vantaggioso per i grandi proprietari rendere semi-autonomi i non-liberi e richiederne
l'opera solo quando fosse effettivamente necessaria. Il dosaggio tra il lavoro dei prebendari
(agricoltori, pastori e ministeriales), le prestazioni d'opera servile, le corvées di uomini liberi e il
ricorso a manodopera salariata - poco diffusa nei secoli IX e X, ma non assente, come
xcv
dimostrano gli Statuti di Adalardo di Corbie - avveniva sulla base della disponibilità locale di
xcvi
uomini e del tipo di colture praticate sul dominico .
Nei casi in cui - soprattutto nei secoli X e XI - il frazionamento e la razionalizzazione del
xcvii
dominico indussero a ridurre drasticamente la parte a gestione diretta delle curtes, la collo-
cazione sul massaricio degli ultimi servi prebendari non fu un fatto rivoluzionario, ma
semplicemente il compimento di un processo avviato e diffuso fin dall'età carolingia.
Per completare il quadro generale sulla subordinazione servile nell'Italia postcarolingia - e per
poterne poi analizzare adeguatamente le trasformazioni attuate soprattutto a partire dal secolo XI
- è necessario soffermarsi in particolare sugli sviluppi della servitù in Sardegna. E' infatti
quest'ultima una regione che dopo il Mille rivela, al riguardo, caratteri del tutto peculiari rispetto
al resto della penisola.
Alcune donazioni di beni, unitamente a servis et ancillis, effettuate nel corso del secolo XI dai
giudici cagliaritani a favore di enti ecclesiastici della Sardegna e del Continente non lasciano
trasparire differenze sostanziali rispetto ai diplomi imperiali coevi e agli atti di donazione relativi
xcviii
alle altre regioni dell'Italia centrosettentrionale e meridionale . Sono invece alcuni condaghi di
enti ecclesiastici - ossia i registri di atti di compravendita, donazione, permuta, di lasciti e di
xcix
memorie processuali - che ci permettono di conoscere la natura particolare del rapporto di
dipendenza fra proprietari e servi dell'isola.
c
Poiché gli atti più antichi conservati nei condaghi risalgono agli ultimi decenni del secolo XI ,
12
è difficile appurare quali furono i momenti più significativi e le cause della trasformazione della
servitù altomedievale sarda, che portarono al consolidamento dei caratteri del servaggio dei
secoli XI-XIII.
Le considerazioni più convincenti sulle caratteristiche della servitù di derivazione tardoantica
e altomedievale sono probabilmente rappresentate dai pur rapidi cenni che ne fa il Guillou,
delineando il quadro sociale della Sardegna in età bizantina. Nei secoli VI-IX è documentata
sull'isola la presenza di un mercato degli schiavi, che venivano utilizzati anche in ambito rurale. I
lavoratori dei campi appartenevano però in prevalenza a due altre categorie sociali. "Più
generalmente - scrive il Guillou - la terra viene lavorata da affrancati e da coloni. I primi sono
ben noti; hanno ottenuto la libertà divenendo coloni énapògraphoi, ascritti: senza beni propri né
personalità fiscale, restano legati al suolo che li ha visti nascere e al loro padrone che non
possono lasciare. Questo è dunque l'unico senso da dare alla potestas, all'autorità che i proprietari
si rallegravano di avere su di loro. Questi affrancati (liberti) curano la casa del loro padrone
esattamente come schiavi, che nei secoli VII-VIII sono diventati anche in Oriente persone di
ci
casa... La seconda categoria di contadini è costituita da coloni indipendenti" . Nella seconda
metà del secolo X, alle soglie dell'età giudicale, erano quindi già ben delineati i due canali della
dipendenza rurale sarda: il primo raccoglieva i liberi "affittuari", magari in possesso di alcuni
lotti allodiali; il secondo faceva principalmente riferimento al gruppo dei "liberti con
obbedienza" che, pur avendo conseguito la libertà personale attraverso la manumissione,
continuavano ad essere assoggettati agli antichi proprietari, dai quali avevano ottenuto terre in
concessione e a favore dei quali prestavano servizi e opere agrarie. Al gruppo dei liberti condi-
zionati, inoltre, si tendeva ormai a equiparare i servi casati e coloro che per miseria o per
necessità di protezione sottomettevano se stessi e tutta la loro discendenza a un potente o a un
ente ecclesiastico. Per il caso sardo, dunque, si può accogliere pienamente l'interpretazione di
Marc Bloch - recentemente fatta propria anche dal Barthélemy nello studio sulla regione di
cii
Vendo^me -, allorché analizza il processo di formazione del gruppo dei colliberti di alcune
ciii
regioni francesi nell'età postcarolingia .
Effettivamente per la Sardegna i riscontri documentari, a partire dalla fine del secolo XI, sono
parecchi. I condaghi, infatti, documentano molto bene i servizi prestati da servi, ancille, homines,
colliberti a favore dei giudici, di enti ecclesiastici e di proprietari terrieri in genere. Pur essendovi
ancora alcuni aspetti della composizione del gruppo servile sardo da chiarire, si nota tuttavia che
la consuetudine generalmente affermatasi, in età giudicale, era quella di richiedere a tutti gli
uomini soggetti a una dipendenza di tipo ereditario una quantità determinata di prestazioni
d'opera. Nel caso dell'homo-servo integru la prestazione richiesta era di quattro giornate di
lavoro settimanale (sedici giorni al mese); ma spesso sulla forza-lavoro di uno stesso servo
vantavano diritti diversi proprietari: qualora i diritti sulla sua persona fossero divisi a metà (latus)
fra due signori oppure in quattro parti uguali (pede), le giornate lavorative mensili sarebbero
state rispettivamente otto e quattro a favore di ciascun signore; nei casi di maggior frazionamento
dei diritti su questi dipendenti il lavoro dovuto era calcolato in dies su base mensile o addirittura
soltanto in uno o più giorni di lavoro su base annua. S'intende che tale frazionamento riguardava
la percezione da parte di ciascun proprietario, mentre per il servo le sedici giornate lavorative
mensili rimanevano integre e venivano prestate in luoghi diversi o riscattate con il pagamento di
civ
tributi .
Il frazionamento dei diritti sulle prestazioni d'opera dei servi era la conseguenza della
valorizzazione del servizio servile (o del tributo corrispondente al servizio), resasi indispensabile
in seguito alla larga diffusione di matrimoni misti fra servi e liberi e di unioni fra servi di
13
proprietari diversi. Da un lato, infatti - secondo una tendenza che nell'Europa occidentale trovava
diffusione nelle signorie fondiarie che non avevano la possibilità di estendere le loro prerogative
cv
a tutti i residenti di un dato luogo, non riuscendo quindi a trasformarsi in signorie bannali - i
proprietari di servi individuavano un modo efficace per conservare la memoria della dipendenza
ereditaria e la rendita che ne derivava, mentre i diritti di natura bannale spettavano ai giudici:
nel caso sardo il "consolidamento" delle opere servili (al limite anche in assenza di terre signorili
a gestione diretta) rispondeva quindi alle esigenze particolari della "signoria familiare e
cvi
fondiaria" . Dall'altro lato i signori accettavano i lenti cambiamenti della condizione servile, che
ora consentiva ai servi di possedere terre in concessione e beni mobili, di testimoniare e di essere
giudicati in un tribunale pubblico, di celebrare senza grossi problemi matrimoni misti (a parte le
questioni insorgenti per la ripartizione delle opere servili della prole). Anche la decretale
"Dignum est" di papa Adriano IV (1154-1159) riconosceva l'indissolubilità dei matrimoni servili
celebrati contro la volontà dei padroni, quantunque a questi ultimi si fossero dovuti pur sempre
cvii
prestare "debita tamen et consueta servitia" . Tutto ciò favoriva l'autodedizione a chiese in stato
di servitù poiché, al di là della natura "perpetua" del rapporto, consentiva al dipendente di
ottenere la protezione di un potente e di conservare un tenore di vita paragonabile a quello medio
cviii
dei contadini dipendenti liberi . Avveniva, in sostanza - come si è anticipato -, un
cix
allineamento dello status dei servi casati propriamente detti e dei liberi asserviti a quello dei
"liberti con obbedienza".
Anche sul piano lessicale ormai il lemma servus poteva talvolta diventare sinonimo sia di
cx
homo soggetto ad opere "in sempiternum" , sia di libertus. Infatti - nel secondo caso - alcuni in-
dividui, dapprima indicati come servi o ancille, nello stesso documento sono definiti colliberti
cxi
rispetto ad altri liberti (laici ed ecclesiastici) oppure ad altri servi . Per chi non conosceva bene
la realtà dell'isola, gli stessi colliberti potevano talvolta essere considerati servi e talaltra
dipendenti dotati di libertà personale. Infatti, mentre la chiesa di San Lorenzo di Genova -
avendo ricevuto in donazione dal giudice Mariano Torchitorio di Cagliari un numero cospicuo di
servi e colliberti - li registrò nel 1108 con la dicitura "de culvertis scilicet de servis et ancillis", i
cittadini genovesi ritenevano che la canonica possedesse in Sardegna sia servi sia diritti su
cxii
uomini liberi .
In verità all'inizio del secolo XII erano poche le differenze tra questi culverti o colliberti e gli
cxiii
stessi servi rurali genovesi, come vedremo successivamente .
Dopo gli studi del Tamassia e del Bloch sembra assodato che l'origine dei colliberti si debba
ricondurre, almeno per l'Italia, ai manumessi secondo la "formula normale" del diritto giu-
cxiv
stinianeo (che ammetteva la conservazione del giuspatronato) , la cui applicazione per la
Sardegna si può spiegare con la lunga dominazione bizantina. Già gli schiavi romani manumessi
(liberti) da uno stesso proprietario continuavano per lo più a vivere sulle terre del patrono
prestando servizi a suo favore, magari con l'obbligo di custodire il sepolcro della famiglia e
spesso col fedecommesso che prevedeva la cessione ai propri con-liberti delle terre ricevute con
cxv
la libertà, qualora il manumesso avesse deciso di andarsene . Dunque, di fronte a un comune
cxvi
patrono gli schiavi liberati erano colliberti: è questa l'accezione del termine che ci interessa .
Secondo il Tamassia nel medioevo "la domus aeterna e la sua custodia non sono più affidate
alla pietà degli eredi, e specialmente dei liberti, cui nella forma ben nota sono vincolati deter-
minati beni per lo scopo anzidetto. Questi beni sono ora obligati alla Chiesa, ove il testatore ha
l'ultima pace; ed alla Chiesa viene a spettare ciò che dianzi era ufficio degli eredi e dei liberti...
Ond'è che anche per questo onere di custodia del sepolcro, ormai situato in luogo sacro, i liberti
14
ricadono nel patronato della Chiesa", che difende peculio e libertà dei manumessi e ha diritto di
cxvii
successione sui loro beni qualora vengano meno gli eredi naturali previsti .
Quantunque non si debba rigidamente far risalire l'origine dei colliberti medievali a questo
unico passaggio - perché potevano essere diverse le ragioni di una cessione di manumessi
condizionati a chiese e gli stessi enti ecclesiastici liberavano "sotto condizione" i propri servi
cxviii
destinati al chiericato -, fu questa una delle vie che portò alla formazione del collibertinato
medievale. Il legame di lunga durata col patrono, talvolta indotto dalla necessità di non perdere i
beni avuti dal manumissore (alienabili solo a favore dei colliberti del luogo), talaltra consolidato
in seguito a matrimoni misti con servi, trasformò col tempo la defensio assicurata dalla Chiesa in
una soggezione ereditaria.
La confusione tra servi e colliberti si accentuò quando i primi acquisirono, dai secoli IX-X in
poi, diritti civili simili a quelli degli altri dipendenti - tanto in Sardegna quanto sul Continente e,
cxix
in particolare, in certe regioni francesi - mentre per i secondi si rafforzava il legame di
subordinazione "perpetua": le successive trasformazioni del collibertinato, e quindi anche la sua
scomparsa, avvennero, a seconda dei luoghi, o attraverso un completo assorbimento (che si
coglie anche sul piano terminologico) nel gruppo servile dei secoli XI-XIII o con il lento
esaurimento della "fonte" che l'aveva prodotto (la manumissione condizionata), conseguente
all'estinzione "spontanea" della classe dei servi propriamente detti.
Resta aperta la questione della diffusione di questo gruppo limitatamente ad alcune regioni
europee. In Italia vi sono attestazioni isolate di colliberti nei secoli VIII-X sia relativamente ad
cxx
aree di tradizione longobarda sia ad altre in cui vigeva il diritto romano , tuttavia è solo nella
Sardegna giudicale - ma qui le origini del collibertinato vanno ricondotte ai secoli della
precedente dominazione bizantina - che è cospicua la loro presenza. Solo future ricerche
potranno chiarire la questione, anche se - oltre a tener presente la possibilità della diffusione di
un uso lessicale diverso in altre regioni per indicare i liberti "con obbedienza" - sembra più
probabile che fossero le aree in cui veniva applicato il diritto romano-bizantino a produrre liberti
condizionati, mentre dalla metà del secolo VIII in poi nella Langobardia maggiore e minore le
manumissioni piene andavano prevalendo su quelle "cum obsequio" e su quelle che erano fina-
cxxi
lizzate a creare lo stato aldionale . Va però rilevato che anche in Sardegna i colliberti non sono
attestati in modo omogeneo nei quattro giudicati: infatti la loro presenza - allo stato attuale delle
ricerche - risulta piuttosto consistente soltanto nel condaghe di S. Pietro di Silki, nell'annesso
condaghe di S. Maria di Codrongiano, in quelli di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado
cxxii
e in alcune carte cagliaritane .
Altrettanto problematiche sono le attestazioni di homines che prestavano le loro opere in
modo del tutto simile a quelle dei servi e dei colliberti. In alcuni casi si trattava sicuramente di
cxxiii
liberi asserviti , ma in tanti altri permane il dubbio sulla loro condizione giuridica, dal
momento che sappiamo esservi stati uomini personalmente liberi e soggetti a servizi (liberi de
paniliu, homines liberi) ed altri homines che, menzionati in atti di donazione a chiese, insieme
cxxiv
con le terre che lavoravano, erano distinti dai servi . In questi casi il servizio dei liberi era di
natura diversa da quello servile, perché durava soltanto fino a quando permaneva la residenza
degli stessi sulla terra in concessione. Del resto approfittavano talvolta di questa situazione i
servi, i quali, per sfuggire ai loro obblighi, si trasferivano altrove, proclamando di essere
cxxv
liberi . Neppure i tentativi, da parte dei proprietari, di continuare a riscuotere i tributi sui servi
emigrati - ammettendo, quindi, la possibilità di emigrazione anche per i loro uomini non liberi
cxxvi
(homines foranios) - valeva a ostacolare il lento processo di obliterazione dello stato servile,
15
se molto spesso i domini ricorrevano al kertu giudicale (ossia a cause presentate in un tribunale
pubblico) per far valere i loro diritti.
A ciò si deve aggiungere il fatto che sono numerose le attestazioni di donne libere sposate con
cxxvii
servi e homines liberi sposati con serve . Nel primo caso la prole era de iure di condizione
libera, anche se le pressioni dei domini, che potevano costringere la donna a separarsi dal loro
servo, inducevano spesso quest'ultima a concordare in tribunale con i proprietari del marito che
le opere dei figli (o di una parte di questi) fossero considerate perpetue, dunque di natura
servile. Più facile era invece il passaggio, ai signori, dei figli di un'ancilla unitasi a un libero, sia
in base al principio secondo il quale il figlio seguiva la condizione materna, sia secondo la
consuetudine che prevedeva la spartizione della prole nata da servi di proprietari diversi e
dunque attribuiva la signoria sui figli al padrone della serva qualora non ci fosse stata
cxxviii
un'autorizzazione al matrimonio . In ogni caso le unioni miste determinavano confusioni
circa lo stato dei figli: infatti nella pratica quotidiana i proprietari tendevano a far prevalere il
principio della deterior condicio; erano elemento di scontento e di lite con i domini e talvolta
erano un motivo per suggerire la fuga dal dominio. Fra le stesse cause della scomparsa del
servaggio sardo, tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento, si devono probabilmente anche
annoverare le spinte crescenti che venivano dai figli di liberi e servi: esse rappresentano quindi
un elemento importante accanto alle motivazioni economico-politiche connesse con la crisi del
regime giudicale e con l'avvento della dominazione aragonese.
Per tutte queste ragioni, volendo formulare una stima della popolazione servile sarda nei
secoli XI-XIII si dovrà sempre tener conto delle differenze tra luogo e luogo e, soprattutto, del
fatto che anche nei casi in cui più elevata doveva essere la presenza servile - cioè nei domìni di
enti ecclesiastici dotati con cospicue donazioni di uomini da parte dei giudici - le attestazioni di
homines soggetti a corvées (ma erano tutti di condizione servile?) non supera il 50% delle
cxxix
citazioni . Questa percentuale, indubbiamente molto elevata, deve dunque essere
contemperata dai dati relativi a homines dipendenti e a comunità rurali costituite da uomini
cxxx cxxxi
liberi , di cui si sta rivalutando l'importanza negli studi di questi ultimi anni .
Nella prima metà del Trecento divennero sempre più numerose le fughe di servi verso le terre
soggette alla corona d'Aragona, mentre il declino della conduzione diretta delle terre signorili,
unitamente all'emancipazione dei servi del Regno di Arborea tra il 1336 e il 1353, portarono a
una drastica riduzione del numero dei non-liberi, anche se non alla loro completa scomparsa; ma
da quel momento in poi i servi presenti in Sardegna sarebbero stati prevalentemente schiavi di
cxxxii
tratta orientali o africani .
Per delineare compiutamente i caratteri del servaggio sardo è stato necessario andare ben
oltre i termini cronologici che ci siamo imposti nell'affrontare le vicende della servitù altomedie-
vale del Continente. E' dunque opportuno, da un lato, riprendere il filo del discorso interrotto agli
inizi del secolo XI e, dall'altro, indagare se e come nello stesso secolo siano intercorsi
cambiamenti nella condizione dei non-liberi nel resto dell'Italia e in Francia.
i
Edictum Theoderici regis Italiae, p. 12 sg., capp. 78-79; p. 18,
capp. 148, 150 (sulla paternità dell'Editto, attribuibile però a
Teodorico II re dei Visigoti, cfr. VISMARA, Edictum Theoderici, pp.
11 sgg., 44 sgg., 177 sgg.); MGH, Legum, V, Formulae merowingici et
karolini aevi, p. 5 sgg., nr. 2-3 (sec. VII). Cfr. anche SOLMI, Servo,
p. 418.
16
ii
MGH, Legum III, Concilia aevi merovingici, p. 140, c. III (Concilio
di Lione del 567 o 570: accuse ai potenti di privare della libertà
i più umili).
17
xiii
Ibidem, II, p. 325 sgg., nr. 273, a. 864.
20, a. 779; p. 190, nr. 90, a. 781 ?; p. 211, nr. 102, a. 806-810;
II, pp. 131, 139, nr. 236, a. 840 e 880; p. 327, nr. 273, a. 864;
p. 419, nr. 293, a. 845. Alla tratta degli "schiavi" - soprattutto
nella fase di tratta va definita come "schiavitù", in ogni epoca,
la condizione di uomini privati della libertà e venduti come se
fossero merci - ha dedicato pagine fondamentali il VERLINDEN,
L'esclavage, I, p. 633 sgg.; II, p. 343 sgg.; ID., La traite des
esclaves, p. 721 sgg. Sulla tratta altomedievale in Italia cfr. anche
D'ALESSANDRO, Servi e liberi, p. 298 sgg.; VIOLANTE, La società
milanese p. 31 sg. Sulla pluralità di modi in cui si poteva diventare
servi, nel secolo XIII così si esprimeva ROLANDINO DE' PASSEGGIERI,
Summa artis notariae, p. 577: "Servus est ille, qui nascitur de
ancilla, vel qui capitur de hostium potestate, qui servi et mancipia
dicuntur, id est, manucupata. Item servus est etiam maior 20 annis,
qui ad pretium participandum patitur se venumdari, vel alieno iusto
titulo alienari alicuius lucri vel comoditatis causa, non ignarus
suae conditionis..."; invece SALATIELE (Ars Notarie, II, p. 21)
ammetteva anche "sed iure civili sunt servi qui dampnantur in
metallum vel in opus metalli et efficiuntur servi pene, et qui in
servitutem ex ingratitudine revocantur": queste ultime situazioni
sono per lo più documentabili per la tarda antichità, tranne che
la "servitus pene", che continuava ad essere applicata (la "servitus
ex ingratitudine" riguardava i liberti manumessi secondo il diritto
giustinianeo). Per una rapida analisi delle cause di riduzione in
servitù nell'alto medioevo cfr. BONNASSIE, Survie et extinction, p.
326 sgg.
xv
Cfr. cap. VIII.
18
fronte alla negazione di un tale omicidio la legge comminava al servo
sedicente libero il giudizio di Dio: " Et si negaverit se illum
occidisse, ad novem vomeres ignitos iuditio Dei examinandus
accedat".
p. 137).
xxiii
.M88!Bj$§"iw$P_p@_`_0P _pB A_
xxiv
Capitularia, I, p. 287, nr. 140, a. 818-819.
xxv
FONT RIUS, Cartas de poblaciòn, I, p. 8 sg., doc. 4, a. 880-886?.
Cfr. BONNASSIE, Survie et extinction, p. 335.
xxvi
Capitularia, II, p. 131 sg., nr. 233, a. 840, c. 3-4, 10.
xxvii
Cfr. DOCKèS, La libération médiévale, p. 249 sgg.
leges, p. 111, cap. 21 (a. 721); p. 168, cap. 138 (a. 733).
Capitularia, II, p. 316, nr. 273, a. 864 (Carlo II): "...non cum
xxxii
19
libération médiévale, p. 284 sg.; MAZZARINO, Si può parlare di
rivoluzione sociale alla fine del mondo antico?, p. 414 sgg.;
VERLINDEN, L'esclavage, I, p. 637. Cfr. anche GASPARRI, Prima
delle nazioni, p. 43 sgg.
xxxviii
BONNASSIE, Survie et extinction, p. 336.
20
Karolinorum, IV, p. 129, doc. 31, 7 ott. 860. Ludovico II con-
fermò altresì la tuitio imperiale concessa dai predecessori al
monastero "cum rebus suis et familiis utriusque sexus hominibus
etiam liberis colonis servis vel aldionibus ad eius ius
pertinentibus".
xlix
Cfr. cap. VIII, nota 25.
l
Placiti del "Regnum Italiae" (secc. IX-XI), a cura di R. Volpini,
p. 295 sgg., doc. 5, a. 878-884.
li
I placiti del "Regnum Italiae", III, p. 373 sgg., n. 456, mag. 1080.
19, n. 193, ago. 829 (Ludovico il Pio). Cfr. PADOA SCHIOPPA, Aspetti
della giustizia milanese dal X al XII secolo, p. 465. Cfr. nota 62.
905; p. 456 sgg., doc. 122, a. 906-910; p. 605 sgg., doc. II,
lug. 905 (falso). Cfr. CASTAGNETTI, Dominico e massaricio a Limonta
nei secoli IX e X, pp. 3-20. Per una recente discussione sulla
possibile genuinità del documento del 905 cfr. PADOA SCHIOPPA,
Aspetti della giustizia milanese dal X al XII secolo, p. 483 sg.
lviii
Codex Diplomaticus Cavensis, I, p. 139 sg., doc. 111, ago. 899.
lix
Documenti per la storia della città di Arezzo nel Medio Evo, I,
p. 400 sgg, doc. 293. Cfr. VIOLANTE, Alcune caratteristiche delle
21
strutture familiari, p. 34 sgg.
lx
I placiti del "Regnum Italiae", I, p. 405 sgg., doc. 110, mag. 900;
doc. 112, set. 901. Cfr. PADOA SCHIOPPA, Aspetti della giustizia
milanese dal X al XII secolo, p. 478 sgg.: lo storico del diritto
sottolinea l'importanza delle testimonianze pronunciate da "nobiles
et credentes homines" per l'esito del processo. Per Trento cfr. nota
43.
lxi
Cfr. però cap. III.1.
I placiti del "Regnum Italiae", II, p. 426 sgg., doc. 250, mar.
lxiii
999.
22
lxviii
PANERO, Servi e rustici, p. 135 sg.
1025.
23
produttive nell'alto medioevo, I, pp. 51-89 e ai contributi di
V. Fumagalli, P. Toubert, G. Sergi, C. Violante in Curtis e signoria
rurale: interferenze fra due strutture medievali.
24
prebendari ammontano a 1350 (35%), contro le 2250 (65%) fornite dai
lavoratori del massaricio; a Canelle sono 1800 (35%) a carico
dei prebendari e 3300 (65%) quelle a carico dei manenti.
xc
Ibidem, pp. 57-58: si tratta di 6 prebendari maschi e 7 femmine,
che svolgono probabilmente 2850 giornate di lavoro all'anno, contro
58 famiglie di "manentes pertinentes" che prestano 3 opere
settimanali ciascuna, pari a 8700 giornate lavorative.
xci
Cfr. nota 82.
xcii
Inventari altomedievali, pp. 72-73.
25
curtensi: RAPETTI, Dalla "curtis" al "dominatus loci", testo fra le
note 59-70.
26
379 sgg.
27
ad altri liberti; p. 54, doc. 224: Comita de Varru è rappre-
sentante-procuratore di tutta la comunità degli uomini liberi e dei
colliberti ("mandatore de liveros et tottu colivertos suos"); p.
76, doc. 317: in un atto del condaghe di S. Maria di Codrongiano,
annesso al condaghe di Silki, testimoniano alcuni "ccolivertos" di
Comita de Cotronianu; I condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria
di Bonarcado, p. 58, doc. 122: consenso di tutti i colliberti per
la vendita di un appezzamento di terra; p. 166, doc. 131: servizi
prestati a S. Maria di Bonarcado dai "colivertos"; p. 171, doc. 142:
colliberti testimoni ad una permuta.
28
che fanno lasciti alla loro chiesa, o a questa acquistano beni e
servi, di dare la libertà ad alcuni famuli ecclesiastici con i loro
beni e i loro discendenti. Essi potranno essere liberi ma sotto il
patrocinio ecclesiastico...Il canone LXX dispone che quei liberti
che lasciando il patrocinio ecclesiastico siano affidati ad altri,
se ammoniti di ritornare rifiutano siano privati della libertà".
95, 98, 110, 111, 224, 317; p. 76 (S. Maria di Codrongiano), doc.
317: fra i testimoni di un atto appaiono "Comita de Cotronianu
e ccolivertos meos e fratres meos"; Il condaghe di S. Nicola di
Trullas e di S. Maria di Bonarcado, p. 58, doc. 122; p. 166, doc.
131; p. 171, doc. 142. Cfr. nota 107.
cxxiii
Cfr. note 103, 108.
75, doc. 200; p. 128, doc. 21; p. 147, doc. 74; p. 155, doc. 99.
p. 65, doc. 154; p. 86, doc. 254. Viene immediato il raffronto con
i serfs forains presenti in alcune regioni francesi: cfr. CHéDEVILLE,
Chartres et ses campagnes, p. 367 sg.; PATAULT, Hommes et femmes de
corps en Champagne, p. 257 sgg.
29
sgg., docc. 314, 319; p. 133 sgg., docc. 29, 69, 76, 111, 113, 129,
220; Il condaghe di S. Pietro di Silki, p. 7 sgg., docc. 14-18, 21
sgg.; p. 13 sgg., docc. 37-39, 44-45. Cfr. CARTA RASPI, Le classi
sociali, p. 110 sgg.; PATAULT, Hommes et femmes de corps, p. 53 sgg.
cxxix
MELONI, DESSI' FULGHERI, Mondo rurale, p. 84.
49, doc. 73: lite fra tre comunità rurali e l'abate di S. Nicola per
il possesso di terre di uso comune (saltus). Secondo il Solmi (Ibidem,
p. 16) si tratterebbe di un'ostensio cartae effettuata dal
monastero per far valere i propri diritti sul saltus.
278 sg. (sui problemi di datazione della stessa cfr. FOIS, Sulla
datazione della "Carta de logu", pp. 133-148); DAY, La Sardegna e
i suoi dominatori, pp. 89 sgg., 104; FOIS, Proteste, processi,
ribellioni, p. 260; TANGHERONI, L'economia e la società della
Sardegna, p. 188: l'A. sottolinea che già nel corso del Duecento il
processo che portò alla scomparsa del servaggio fu "favorito dalla
confusione giurisdizionale e dalla tradizionale mobilità della
stessa manodopera servile, ma fu anche incoraggiato dalla politica
dei nuovi signori di origine continentale". Sulla condizione servile
nel secolo XIII e all'inizio del XIV cfr. anche TANGHERONI, La "Carta
de logu" del regno giudicale di Calari, p. 29 sgg. La persistenza
della schiavitù di tratta in Sardegna alla fine del Medioevo e
all'inizio dell'Età moderna era già ben documentata in AMAT DI SAN
FILIPPO, Della schiavitù, pp. 57-71, ma cfr. ora CASULA, Gli schiavi
sardi della battaglia di Sanluri del 1409, p. 9 sgg.; PILLAI,
Schiavi orientali a Cagliari nel Quattrocento, pp. 65-87; ID.,
Schiavi africani a Cagliari nel Quattrocento, p. 691 sgg.; VERLINDEN,
L'esclavage, II, p. 343 sgg. (ma nei secoli XIV e XV vi sono anche
Sardi deportati come schiavi in Spagna: Ibidem, I, p. 330 sgg.).
30