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II.

LA SUBORDINAZIONE SERVILE NELL'ALTO MEDIOEVO

II.1. La dedizione volontaria in servitù in età tardolongobarda e carolingia

L'autodedizione in servitù è abbastanza ben documentata in età tardolongobarda e carolingia.


E' questo un processo contrapposto e contemporaneo a quello - più evidente in realtà - che
registra una continua pressione dei servi per sottrarsi alla propria condizione ereditaria. Pur non
essendo un fatto nuovo - poiché è attestato fin dalla tarda antichitài -, esso dovette assumere pro-
porzioni significative sotto i carolingi, se la monarchia intervenne in più occasioni per porvi un
limite. D'altro canto gli interventi del potere centrale denunciano che, al di là dell'aspetto
formale, in base al quale la dedizione di sé si configurava come un atto liberamente compiuto dal
soggetto, i soprusi dei potenti dovevano essere determinanti, soprattutto nei momenti di crisi,
nell'indurre i più umili a farsi servi, per avere sostentamento e protezione per sé e per la propria
famigliaii.
Era dunque un atteggiamento parallelo a quello, altrettanto antico, della ricerca di protezione
attraverso atti di commendatioiii o di donazione dei propri beni a un potente per riaverne altri in
precaria o a livello e per sottrarsi contemporaneamente ai carichi pubblici, in particolare a quelli
di natura militareiv.
Per esempio, l'oblazione di sé (insieme con i propri beni e i propri servi) da parte dell'esercitale
spoletino Paolo e della moglie Tassila al monastero di Farfa, all'epoca della spedizione dei
giovani re Pipino e Ludovico contro i Beneventani (aprile 793), rientra in quest'ultimo casov.
Invece dovevano essere i più umili - i quali non disponevano di beni da donare ai potentes,
come contropartita per la protezione e per le concessioni terriere ottenute, ma anche come ga-
ranzia dei servizi conseguenti che si sarebbero dovuti prestare - a essere indotti a "vendere" se
stessi e i propri famigliari come servi, "pro inopia fame cogente"vi. Nei momenti di più evidente
crisi politico-militare (spesso anche economica) si dovevano tendenzialmente accentuare queste
donazioni della propria persona, della famiglia e dei beni eventualmente posseduti. Infatti nel
776, pochi anni dopo aver ottenuto la vittoria sui Longobardi, Carlo Magno dichiarò nulle tutte le
cartulae obligationis, stipulate al tempo di re Desiderio "per districtionem famis aut per
qualecumque ingenio" (ossia per sottrarsi agli oneri pubblici), le quali avessero comportato la
traditio in servitio di persone liberevii.
La revoca di quegli atti, tuttavia, non ebbe un'applicazione generale né pregiudicava analoghe
autodonazioni per il futuro poiché intorno all'819 un capitolare di Ludovico il Pio - confermando,
emendando e interpretando alcuni capitoli della legge salica - riconobbe, fra le altre cose, la
validità dell'immissione spontanea in servitio, un atto che implicava inequivocabilmente la
perdita della libertàviii. Anche l'autodedizione in servitù temporanea, al fine di far fronte a debiti
o a composizioni pecuniarie insolute era ammessa dalla legge ix . Solamente l'autodonazione
dolosa, per evitare i pubblici servizi, continuava a essere vietatax.

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Il potere centrale difendeva tuttavia il diritto alla libertà e all'eredità dei figli di chi fosse
caduto in servitù temporanea o per tutta la vita, non avendo di che pagare il banno per essere
stato renitente al servizio militarexi. Erano anche proclamati liberi la moglie e i figli di coloro i
quali - uniti a donne libere - per fame avessero venduto la propria personaxii. Nella Francia
occidentale a costoro fu poi riconosciuto nell'864, da Carlo II, il diritto di riscattarsixiii.
Dunque la vendita della propria persona e l'autodonazione costituivano una delle fonti della
servitù altomedievale, non meno importante della tratta servile, della vendita di bambini, delle
condanne giudiziarie, dal momento che a questo fenomeno furono relativamente attenti e
sensibili diversi imperatori carolingixiv.

II.2. Servi e padroni: un rapporto conflittuale

Nonostante le motivazioni di diversi atti di manumissione ricordino - insieme con l'opera di


pietà - la gratitudine dei signori verso i servi che si intendevano liberarexv, il quadro generale dei
rapporti domini-servi è ben diverso.
Durante la guerra franco-longobarda, molti servi di proprietà laiche ed ecclesiastiche si erano
dati alla fuga. Dopo tanti anni di vacanza della giustizia, a causa degli eventi bellici, un ca-
pitolare di Pipino re d'Italia, databile intorno al 782, ingiungeva a vescovi, conti, giudici e
funzionari regi di adoperarsi a rendere giustizia a chiunque l'avesse richiesta, entro il quindi-
cesimo giorno successivo alla Pasqua. Per quanto riguardava in particolare i servi e le ancelle
fuggitivi, una vasta indagine era ordinata a giudici e funzionari dell'Italia settentrionale (Austria e
Neustria), dell'Emilia, della Tuscia e del litorale marittimo, facendoli giurare che non ne
avrebbero nascosto alcuno e che avrebbero condotto dal re i fuggiaschi catturatixvi. In realtà già
al tempo di Rotari e di Liutprando molti servi fuggivano dalla Langobardia verso la Tuscia e i
territori bizantini, nonché verso i ducati di Spoleto e di Beneventoxvii.
Le ragioni di una fuga potevano essere tante. Si fuggiva per sottrarsi alla giustizia dei signori
e dei funzionari pubblici xviii , oppure per cercare condizioni migliori in una villa regia xix , o
viceversa per allontanarsi dalle terre del fisco e dichiararsi liberi con la frodexx. Alcuni servi, per
nascondere la loro origine, arrivavano a uccidere i parenti o addirittura i loro genitori affinché
non si potesse dimostrare qual era la loro ascendenzaxxi. In Italia con l'arrivo dei Franchi molti
servi erano scappati verso i territori bizantini, nel ducato di Spoleto e nel Beneventano: il timore
della guerra e l'opportunità offerta dalla stessa avevano indotto i servi a fuggire lontanoxxii.
Tuttavia la legge carolingia consentiva anche a distanza di anni di recuperare i servi fuggitivi -
come prevedevano il diritto salico e quello alamanno -, a meno che non si fosse trattato di
proprietari professanti la legge longobarda, per i quali era possibile riavere il servo entro
trent'anni; su quest'ultima deroga alla legge intervennero tuttavia Ludovico il Pio e Lotario,
stabilendo che la sola prescrizione temporale non avrebbe potuto dare la libertà ai servi
4xxiii    _o8_
(a_l_
`_>a___`_t^ 074wNLHm_$rtf_ws.datws_rtf.dat%4! 4  Capitularia, I, p. 206, nr. 98, a. 801:
"Ubicumque intra Italiam sive regius sive ecclesiasticus vel cuiuslibet alterius hominis servus
fugitivus inventus fuerit, a domino suo sine ulla annorum praescriptione vindicetur: ea tam
ratione, si dominus Francus sive Alamannus aut alterius cuiuslibet nationis sit; si vero
Langobardus aut Romanus fuerit, ea lege servos suos vel adquirat vel amittat, sicut inter eos
antiquitus est constituta"; I, p. 335, nr. 168 (attribuito nel Liber Papiensis, c. 55, a Ludovico il
Pio): "Placuit nobis de illis hominibus qui se liberos per XXX annos esse dicunt, ut per hanc

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possessionem liberi non sint, nisi de ingenuo patre vel matre nati sunt aut cartam libertatis
ostendunt"; II, p. 62, nr. 201, a. 832 (Lotario): "Ut per triginta annos servus liber fieri non possit,
si pater illius servus aut mater illius ancilla fuerit. Similiter de aldionibus". Cfr. Grimualdi leges,
p. 95 sg., capp.1-2; Liber Papiensis, p. 503 sg. (expositio al cap. 87). Il legislatore carolingio
faceva anche eccezione per la legge romana, contemplando evidentemente le norme
sull'usucapione dei beni mobili e immobili. Tuttavia, se nelle Institutiones (Corpus Iuris Civilis,
I, p. 14 sg., II, 6) si distinguevano i beni mobili (soggetti a usucapione dopo tre anni) da quelli
immobili (usucapibili dopo dieci o vent'anni, a seconda dei casi), erano espressamente eccettuati
gli schiavi fuggitivi, i dipendenti liberi e le res sacrae: "Sed aliquando etiamsi maxime quis bona
fide rem possederit, non tamen illi usucapio 'ullo tempore' procedit, veluti si quis liberum
hominem, vel rem sacram vel religiosam vel servum fugitivum possideat". Invece una legge di
Onorio e Teodosio del 419 aveva stabilito che il colonus originalis e l'inquilinus fuggitivi (che
però personalmente erano liberi, quantunque vincolati al luogo di residenza) fossero recuperabili
per un periodo di trent'anni se uomini e per vent'anni se donne: Codex Theodosianus, I, p. 239
sg., V, 18, 1.
`hiunque avesse poi accolto mancipia in fuga senza restituirli al legittimo proprietario, qualora
xxiv
quelli si fossero ulteriormente spostati, avrebbe dovuto pagare un risarcimento al signore . E'
certo, però, che quando i fuggiaschi avessero varcato i confini del Regno sarebbe stato prati-
camente impossibile recuperarli, come aveva ben calcolato il conte catalano Vifredo, il quale
intorno all'880 concedette la liberazione completa ai servi che fossero venuti a insediarsi sulle
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terre frontaliere di Cardona .
Per ostacolare queste fughe, Lotario I nell'840 aveva introdotto nei patti stipulati con Venezia
sia l'impegno reciproco alla restituzione dei fuggitivi, previo pagamento di un soldo d'oro, sia il
divieto per la città lagunare di acquistare e vendere "homines christianos" sudditi dell'Impero
xxvi
(liberi o servi che fossero, evidentemente) .
La fuga rappresentava però anche un modo per superare i più gravi motivi di conflittualità
con i domini, che talvolta esplodevano con forza portando a omicidi, furti o incendi dolosi. Se
ciò fosse avvenuto per una qualche negligenza dei padroni, il Regno comminava a questi ultimi
un banno di ben sessanta soldi, configurandosi la responsabilità civile dei domini per il crimine
dei loro servi; in altri termini, l'Impero carolingio accollava ai grandi proprietari l'onere di
difendere l'ordine pubblico qualora a turbarlo fossero stati i servi, vale a dire i dipendenti più
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colpiti dall'oppressione signorile e quindi più turbolenti .
Nell'Italia longobarda gli atti di brigantaggio di bande di servi in fuga e le congiure servili
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erano puniti severamente, perfino con la pena di morte . La stessa fuga era punita dalle leggi
salica, visigotica, burgunda e bavara con pene corporali che andavano dalla flagellazione, alla
mutilazione del naso, delle orecchie o di altre parti del corpo, o alla decalvatio (da intendersi
come vera e propria scotennatura); di conseguenza i fuggitivi, pur di non farsi catturare, si
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trasformavano in briganti ed esasperavano il conflitto con i padroni . La legge longobarda
prevedeva che il fuggitivo, il quale avesse opposto resistenza, potesse essere ucciso, senza alcuna
colpa a carico dell'uccisore; se poi fosse fuggito dopo aver commesso un crimine grave, ferma
restando la responsabilità civile del padrone per il reato compiuto, avrebbe dovuto essere
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condotto al patibolo da quest'ultimo una volta catturato .
Le leggi carolinge - che per un verso attribuirono una maggior responsabilità al servo
xxxi
colpevole - mitigarono in qualche caso le pene corporali, invitando i proprietari a percuotere i
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servi non con un grosso bastone, ma solo con una verga ; inoltre recepirono le indicazioni

3
conciliari che comminavano la scomunica e la penitenza pluriennale a chi avesse ucciso un
proprio servo "sine conscientia iudicis", oppure l'avesse punito con troppo zelo, tanto da
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provocarne la morte . Tuttavia le cospirazioni dei servi continuavano a essere punite con
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l'uccisione dei capi e con la flagellazione e la mutilazione delle narici per i partecipanti .
E' facile quindi comprendere come spesso una sollevazione di servi fosse la risposta naturale
alle violenze dei padroni e del potere pubblico, anche se - come è stato scritto - rappresentava
soltanto l'aspetto visibile di una resistenza sotterranea, che procedeva giorno per giorno, "sans
fin, sans victoire décisive, combat sur une base individuelle, mais qui peut devenir une pratique
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commune, se faire ainsi lutte de masse" .
Il capitolare di Ansegiso ricorda le congiure servili nelle Fiandre, "in Mempisco et in ceteris
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maritimis locis", avvenute intorno all'anno 821 , ma già nella seconda metà del secolo VIII
nelle Asturie si erano sollevate truppe di schiavi, le cui azioni ricordavano le rivolte dei contadini
bacaudae nella Gallia del III e del V secolo e l'adesione di molti schiavi di proprietari bizantini
xxxvii
all'esercito di Totila, nella guerra greco-gotica .
Durante l'invasione normanna dell'885 i servi del Bacino di Parigi si ribellarono ai loro padroni e
mentre molti di loro riuscirono ad acquistare la libertà, alcuni domini diventarono vernae, cioè
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schiavi .
In Italia, oltre ai richiami generali nell'Editto di Rotari alle cospirazioni di servi e di rustici
liberi, sono abbastanza note le rivendicazioni della libertà personale da parte dei contadini della
Valle Trita, a nord-ovest di Sulmona, i quali adirono il tribunale pubblico o da questo furono
convocati diverse volte tra il 787 e l'872 per appurare se i servizi prestati a favore del monastero
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di S. Vincenzo al Volturno fossero da loro dovuti in quanto servi . I placiti diedero però torto
ai contadini, i quali furono dichiarati servi "pro quia omnes eorum parentes sic fuerunt servi
Sancti Vincentii", secondo quanto affermarono diversi testimoni; gli stessi convenuti alla fine,
non potendo dimostrare di essere liberi, ammisero: "Veramente non possiamo provare la nostra
libertà, poiché i nostri padri e le nostre madri furono servi del monastero nella cella di Trita e noi
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per la legge dobbiamo essere servi dello stesso monastero" . Un breve, fatto redigere dal
monastero alla metà del secolo IX, elencava oltre quattrocento individui di condizione servile
xli
abitanti nella valle .
E' difficile stabilire se avessero effettivamente ragione i monaci, oppure se i dipendenti
potessero vantare, almeno in parte, un'ascendenza libera, magari perché nati da matrimoni misti
oppure perché i loro genitori si erano dati all'ente ecclesiastico, conservando però la propria
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libertà personale . La vertenza del resto si trascinava da decenni e quando i testimoni afferma-
rono che questi dipendenti erano trattati come servi dal monastero di S. Vincenzo, ciò rispondeva
al vero, ma non significa necessariamente che tutti gli antenati fossero tali sul piano giuridico.
D'altro canto l'ammissione di servitù da parte dei contadini processati nell'872 potrebbe
nascondere un accordo con i domini riguardo al trattamento futuro, poiché sicuramente i contra-
sti e i processi non facevano che danneggiare la proprietà.
Questa e altre vertenze erano causate spesso dalla necessità di appurare se gli antenati dei
dipendenti avessero un'origine servile e, quindi, se le corvées prestate fossero di natura personale
o fondiaria, essendo le prime vincolate alla condizione ereditaria della persona mentre le seconde
si potevano interrompere una volta ceduti i diritti sulla terra avuta in locazione. In qualche caso,
addirittura, i contadini affermavano di prestare certe opere personali non da servi ma in quanto
xliii
"liberi commendati" . Più che di ribellioni armate, per l'Italia carolingia e postcarolingia si
dovrà perciò parlare di contrasti giudiziari, non per questo meno drammatici per i coltivatori.

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xliv
Come è stato recentemente rilevato , in Italia "il contrasto tra contadini e signori non
assume, nella maggioranza dei casi, i contorni della violenza o della rivolta armata. Piuttosto si
tratta di rivolte giudiziarie, di appelli disperati all'autorità del re o dei suoi rappresentanti, per
rivendicare un'autonomia contrastata dal potere signorile (che, del resto, gli stessi rappresentanti
regi esercitano sui loro soggetti); le controversie e le liti conservano tuttavia, evidentissimo, il
loro carattere di scontro sociale".
Il tentativo di provare il proprio stato di uomini e donne liberi - per sfuggire quindi legalmente
alla dipendenza ereditaria - molto spesso falliva perché effettivamente in tanti casi si trattava di
"servi et ancillae" anelanti alla libertà, come si legge in un noto capitolare della fine del secolo
xlv
X . E' particolarmente interessante il caso di un uomo libero - Domenico di Cercino, in
Valtellina - il quale, avendo sposato Luba, una donna "pertinente" al monastero di S. Ambrogio
di Milano fu chiamato in giudizio nell'822 a dimostrare lo stato di libertà della moglie e,
conseguentemente, dei sei figli nati dal matrimonio. Non potendolo fare, dovette riconoscere
"quod ipsa Luba coniuge eius una cum agnitionis suas pertinentis monasterii sancti Ambrosii
xlvi
esse deverit" . E' curioso come né Luba né i figli non siano mai chiamati servi o ancillae, bensì
pertinentes del monastero, anche se non ci sono dubbi sulla condizione di non-libertà degli stessi.
Piuttosto l'atto suggerisce come fossero avviati cambiamenti importanti nei rapporti di
dipendenza, non soltanto sul piano terminologico. Infatti i matrimoni misti costituivano una
strada percorribile per sottrarsi alla servitù, se i proprietari non fossero intervenuti
tempestivamente a riaffermare la loro signoria perpetua sulla prole.
Per molti aspetti simile fu il tentativo esperito a Salerno verso l'anno 869 da un liberto di
palazzo, Ermenando, il quale cercava di far trattare come liberi i sette figli e la moglie
Cariperga, che invece continuavano a essere servi. La vicenda fu sottoposta ai giudici
salernitani dalla moglie del principe Guaiferio, il quale aveva concesso "per praeceptum" i servi
a Leone di Atrani, che a sua volta li aveva rivenduti alla principessa. Di fronte al tribunale
Ermenando non fu in grado di portare testimoni a lui favorevoli, mentre la parte avversa presentò
sia il praeceptum del principe sia la carta di vendita rilasciata da Leone, che obbligavano dunque
xlvii
la famiglia servile a continuare a prestare i consueti servizi alla padrona .
Il ricorso alla falsificazione di "cartae ingenuitatis" e a false testimonianze permetteva talora
di acquistare la libertà, come lamentava un capitolare di Carlo Magno. Un diploma di Ludovico
II dell'860 sostenne infatti l'abate di Bobbio nell'opera di recupero di certi mancipia, i quali "se
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fraudulenter ex servitio sepe fati monasterii subtraxissent" . Ma più spesso i sedicenti liberi
non erano in grado di trovare testimoni favorevoli e dovevano quindi soccombere, come abbiamo
xlix
appena visto per Luba e i suoi figli e come è attestato per due uomini di Oulx nell'880 , per
alcuni contadini nati da servi della corte di Bedonia (appartenente alla Chiesa di Piacenza), i
quali tentarono inutilmente di sottrarsi alla condizione di subordinazione ereditaria tra l'878 e
l li
l'884 , o nel 1080 per un servo del monastero aretino di S. Flora e S. Lucilla . A rendere
difficile il reperimento di testimoni vi era anche il divieto, contenuto in un capitolare italico
di Lotario dell'825, di accogliere le testimonianze di chi non possedesse beni tali da poter
risarcire la parte eventualmente danneggiata da false dichiarazioni: così i contadini liberi più
umili non furono più sentiti nei processi "de libertate vel de hereditate vel de proprietate in
lii
mancipiis et terris sive de homicidio et incendio" .
Altre volte le loro istanze - magari motivate dal fatto che un familiare era riuscito ad avere la
liii
libertà condizionata per accedere al clericato - erano decisamente stroncate da testimoni
prodotti dai signori: in tal caso le testimonianze decisive appuravano l'esistenza della condizione

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servile dei genitori, oppure il fatto che i signori erano stati risarciti da estranei per maltrattamenti
agli stessi servi (peraltro battuti "pro servis" dai loro domini), o ancora la durata trentennale del
liv
servizio servile "de persona" .
Talvolta un servo cercava di appropriarsi dei beni di un ente ecclesiastico, come quel Pertulo
che nell'899 fu chiamato in giudizio dall'abate del monastero della Trinità (San Clemente) a Ca-
sauria davanti al conte di Teramo. Il fatto stesso di riconoscersi servus indusse Pertulo a
rinunciare subito a ogni contesa: "non contendo nulla poiché non mi appartiene nulla che io
lv
possa contendere", fu costretto infatti ad affermare .
Ai sotterfugi dei servi si contrapponeva spesso l'astuzia dei signori, che con un uso
spregiudicato delle norme di legge riuscivano magari a invalidare un atto di manumissione (a
lvi
Oulx, nell'827) , sempre che non ricorressero al sopruso di una falsificazione documentaria per
accrescere gli obblighi dei non-liberi, come avvenne nella corte di Limonta (Como) da parte del
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monastero di S. Ambrogio di Milano nel secolo X .
La durezza dei signori territoriali e fondiari si faceva anche sentire verso i dipendenti liberi,
che potevano diventare servi per tradimento o per gravi crimini. Possiamo ricordare in proposito
l'atto con il quale nell'899 il principe Guaimario di Salerno donò, alla chiesa cittadina di S.
Massimo, Lupo, figlio di Ragimperto - con i suoi famigliari e con tutti i beni mobili e immobili -,
il quale era stato condannato a diventare "serbum sacri palatii" per essere passato dalla parte dei
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Saraceni, quando questi ultimi avevano invaso la città . Più tardi, alla fine del secolo XI, nel
redigere un elenco dei propri servi, il monastero delle Sante Flora e Lucilla di Arezzo faceva
annotare che un uomo era stato ridotto in servitù non avendo potuto pagare l'ammenda per il
lix
furto compiuto e che un altro era divenuto servo per aver ucciso un rustico soggetto all'abbazia .
Qualche volta però la libertà dei dipendenti era riconosciuta dai tribunali presieduti da
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ufficiali regi, come avvenne a Trento nell'845 o a Cusago, nel contado di Milano, nel 900-901 :
in entrambi i casi si ammetteva che le corvées erano dovute non per la dipendenza personale
(nel primo caso i convenuti erano accusati di essere servi, nel secondo aldii), ma per la terra
avuta in concessione; del resto per i signori era essenziale vedersi riconfermato il servizio dei
dipendenti, quantunque non fosse esigibile a titolo servile. Spesso, allora, erano gli stessi liberi,
minacciati di essere trasformati in servi dalla violenza dei loro signori fondiari, ad assumere
l'iniziativa di rivolgersi a un tribunale pubblico perché fosse dichiarato il loro stato di libertà:
così fecero nel 1072 alcuni uomini e donne di Colle Vignale, nel contado di Perugia, davanti alle
contesse Beatrice e Matilde, dichiarando senza contestazioni di alcuno di avere beni immobili in
lxi
piena proprietà, cosa che non era possibile solitamente per i servi .
A proposito del nesso esistente fra libertà e possesso di terre allodiali va però precisato che
nel placito dell'anno 900, relativo agli uomini di Cusago, tutte le testimonianze - che in definitiva
consentirono di riconoscere lo stato di libertà agli stessi - concordavano sul fatto che gli inquisiti
erano nati da genitori liberi e al momento erano uomini giuridicamente liberi; inoltre le loro
corvées erano esclusivamente dovute per alcune case e res avute in concessione nella località di
Bestazzo e non "de eorum personis"; del resto essi possedevano in piena proprietà e senza onere
alcuno altri beni ("alia suorum proprietate in suorum iure et libertate habent"). In queste
testimonianze si rivelano fondamentali le prime tre caratteristiche degli uomini di Cusago: essere
nati da liberi, essere in possesso della libertà giuridica e non prestare opere condicionaliter "pro
persona"; invece il possesso di terre allodiali venne posto dai testimoni in ultima posizione
poiché serviva eventualmente a rafforzare la difesa degli inquisiti (se fossero stati servi non
avrebbero potuto essere allodieri, almeno a quell'epoca), ma non avrebbe potuto da solo
costituire la discriminante fra la condizione di servitù e quella di libertà, poiché tanti uomini

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liberi, pur non possedendo allodi (molti livellari e massari, per esempio), conservavano
ciononostante il proprio stato di libertà personale, manifestato attraverso le capacità giuridiche di
testare, di stipulare contratti agrari e, in certe situazioni, di testimoniare. Del resto gli stessi
capitolari consideravano senz'altro liberi tutti i contadini residenti su terre altrui, anche coloro
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"qui proprium non habent", purché non fossero notoriamente servi .
Un'ultima possibilità che sullo scorcio del secolo X si cominciò a concedere ai servi, per
dimostrare la condizione di libertà che essi rivendicavano, era il duello. In un placito celebrato a
Gaeta nel 999, davanti al messo imperiale Nottichero - venuto a ripristinare l'autorità del vescovo
sui propri famuli che si erano sottratti al servizio dovuto alla Chiesa - due fratelli, Giovanni e
Anatolio, figli di Passaro Capruccia, proclamarono di non essere servi "sed veri liberi"; fu quindi
data loro la possibilità di difendere con la spada le loro posizioni, ma essi rifiutarono. Giurarono
ancora che la loro madre Benefatta "vera libera femina fuisset, et absque omni alicuius
condicione", mentre invece per il padre non osarono giurare che non avesse prestato servizi
all'episcopio "sicut aliis massarini", forse perché era un liberto condizionato. Poterono infine
ottenere il riconoscimento della piena libertà per sé e per tutti i discendenti di Passaro e
Benefatta, offrendo al vescovo una libbra d'oro purissimo per il restauro del palazzo
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episcopale .
La linea politica imperiale di permettere ai domini di poter obbligare al duello i servi
sedicenti liberi era dichiarata ufficialmente nel "Capitulare de servis libertatem anhelantibus" di
Ottone III e serviva a ostacolare quel processo generale, che portava tanti servi, e in particolare
quelli ecclesiastici, a proclamarsi liberi, approfittando delle negligenze dei proprietari o in
lxiv
seguito all'arricchimento, che consentiva loro di vivere "lege et usu libertatis" . Nondimeno il
capitolare riconosceva il cambiamento in atto della condizione servile: infatti i servi, come i
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signori, avrebbero potuto farsi sostituire nel duello da un "campione" ; inoltre, dovendo da quel
momento pagare ai proprietari un census servitutis annuale - un denaro, ricognitivo della loro
dipendenza, da pagarsi da parte di uomini e donne di età superiore ai venticinque anni -, si dava
per scontato che tutti fossero provvisti di una ricchezza mobile; in particolare per i servi
ecclesiastici, oltre ad affermare che non sarebbero mai potuti uscire dalla servitù, il capitolare
comminava il banno della confisca di metà dei loro beni, probabilmente perché erano quelli che
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più facilmente avevano la possibilità di arricchirsi .
Tra la fine del secolo X e l'inizio del secolo XI il marchese (poi re) Arduino d'Ivrea aveva da
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un lato angariato i servi casati e sterminato i famuli rimasti fedeli alla Chiesa eporediese , ma
dall'altro aveva cercato e ottenuto l'appoggio politico di servi-chierici e di servi ministeriales
arricchitisi con i beni della Chiesa di Vercelli, dimostrando così di saper volgere a proprio
vantaggio i contrasti fra signori ecclesiastici e servi che avevano raggiunto una posizione
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socio-economica di rilievo, pur conservando la macchia della loro inferiorità giuridica .
Certi placiti erano sollecitati dalla Chiesa quando c'era il sospetto fondato che un servo stesse
macchinando per sottrarsi ai suoi doveri. A Lucca, nel 1025, il vescovo ottenne il giuramento da
parte di un suo servo "pro eo quod nasscendo servo et famulo - ossia servo e servitore, si
lxix
potrebbe tradurre - suprascripte eclesie episcopatui sancti Martini" . Ma di fronte all'imperver-
sare delle fughe e delle sottrazioni indebite allo stato servile, restava sempre ai presuli la
possibilità di tentare un recupero dei servi appellandosi al capitolare di Ottone III: così aveva
fatto nel 1022 il vescovo Leone di Vercelli, il quale richiamò "ad pristinum servitium" servi che
si erano sottratti in modo surrettizio al servizio ecclesiastico e che erano stati illecitamente
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manumessi dai suoi predecessori .

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Nello stesso anno 1022 il concilio di Pavia prendeva provvedimenti generali contro i servi
ecclesiastici, che per sfuggire al loro stato si facevano chierici (ottenendo così, preventivamente,
la manumissione, seppure condizionata) e unendosi poi a donne libere procreavano figli liberi,
per lo più beneficati con beni della Chiesa. Si decretava pertanto che la prole nata da queste
unioni rimanesse in stato di dipendenza servile e che il loro patrimonio, secondo la tradizione
lxxi
altomedievale, fosse considerato appartenente alla Chiesa stessa .
Ciò però non servì a bloccare il progressivo depauperamento di beni e uomini appartenenti a
enti ecclesiastici. Un elenco delle malversazioni compiute ai danni della Chiesa di Reggio
Emilia, verso il 1040, da una famiglia signorile della regione registrava anche le azioni
facinorose di servi, che in alcuni casi erano addirittura famuli del vescovo, conniventi con i
signori laici per raggiungere qualche forma di indipendenza che prima non avevano. Per altro
verso, in concomitanza con l'affermazione delle signorie di banno, talvolta grandi livellari e
vassalli ecclesiastici interferivano nel tradizionale processo dialettico di confronto/scontro fra
lxxii
servi e signori, cercando di impedire che i primi prestassero i consueti servizi ai secondi .
Anche per questa via si interrompeva spesso la dipendenza dei non-liberi, essendo questi ultimi
attratti nell'ambito di comunità contadine soggette a signorie rurali concorrenti con i loro stessi
domini.
La conflittualità fra dipendenti rurali (per lo più rustici liberi, tuttavia) e proprietari/signori
registrò ulteriori episodi, sebbene discontinui, dopo il secolo XI; proseguì infatti attraverso gli
scontri fra comunità di rustici e signori di banno nei secoli XII e XIII, destinati poi a inasprirsi
lxxiii
fra gli ultimi due secoli del medioevo e la prima età moderna .

II.3. La funzione economica della manodopera servile nelle grandi proprietà

Diversi studi hanno evidenziato il ruolo non certo secondario della manodopera servile nelle
grandi proprietà dei secoli IX e X. Ai saggi classici dell'Inama-Sternegg, del Darmstädter, del
lxxiv
Perrin, del Sée, del Dollinger e del Luzzatto si sono aggiunti, negli ultimi decenni, numerosi
contributi che hanno dato un significativo apporto al chiarimento dei nessi esistenti fra dipen-
denti non-liberi, sistema curtense e organizzazione dei poteri signorili di natura fondiaria e
lxxv
bannale .
Fra i contributi più recenti si segnalano due saggi di G. Pasquali, dedicati rispettivamente ai
problemi dell'approvvigionamento alimentare all'interno del sistema curtense e alle prestazioni
lxxvi
d'opera documentate dai polittici italiani . Sull'impiego di manodopera servile nell'ambito
delle curtes bipartite fra dominico (o riserva signorile, a gestione diretta) e massaricio (le terre in
concessione), l'autore perviene alla conclusione che "per la settantina di corti del monastero di S.
Giulia, il dato complessivo è che circa 500 maschi adulti erano a disposizione per tutto l'anno
per la lavorazione dei campi della riserva signorile: la metà di questi poteva essere rappresentata
lxxvii
dai prestatori di opere, l'altra metà dai servi prebendari" . E' evidente, da queste cifre
sommarie, che la parte della curtis a gestione diretta si avvaleva prevalentemente del lavoro
servile, anche attraverso le prestazioni d'opera dei molti servi che erano stati accasati sul
lxxviii
massaricio .
Sempre il Pasquali chiarisce inoltre che in alcune corti della Bassa padana esisteva una "grave
carenza di forza-lavoro umana", fornita dalle opere dei contadini del massaricio: anche in questo
caso, a maggior ragione, sembrerebbe che per la coltivazione del dominico l'onere principale
ricadesse sui servi prebendari e sui servi casati, che quasi sempre erano tenuti a compiere

8
lxxix
corvées .
Se si considera in dettaglio la realtà di sei curtes lombarde, appartenenti al monastero di S.
Giulia e segnalate fra quelle in cui era maggiormente disponibile la manodopera in genere - per
lxxx
le quali è, fra l'altro, documentata la presenza di varie categorie di dipendenti -, è possibile
analizzare il tipo di apporto dato in particolare dai prebendari, rispetto ai lavori svolti dai servi
casati e da uomini liberi. Queste aziende signorili erano dislocate a sud del lago di Iseo in
direzione di Brescia e sono state quasi tutte localizzate (Iseo, Timoline, Canelle, Borgonato e la
corte suburbana di Brescia), tranne Griliano; non si prendono invece in considerazione le prime
due curtes registrate, senza nome, nel polittico di S. Giulia, che - pur essendo verosimilmente
lxxxi
nella stessa area - per le eccessive lacune del documento non si prestano a raffronti adeguati .
Integrando i dati relativi a queste sei aziende con quelli attinenti a tre corti della Val Camonica,
dalle caratteristiche del tutto peculiari, cercheremo di misurare il peso, se non la qualità, del
lavoro servile.
Il lavoro dei prebendari, all'inizio del secolo X, aveva un ruolo più o meno rilevante, sul
dominico curtense, a seconda dei tipi di coltivazione praticati. E' importante, al riguardo, ri-
cordare preliminarmente quanto ha osservato il Toubert, il quale ha evidenziato l'esistenza di tre
tipi fondamentali di corti: oltre alla corte "classica" bipartita, indirizzata per lo più verso la
cerealicoltura - in questo caso la riserva signorile aveva perciò necessità di un numero
considerevole di giornate lavorative da prelevarsi sul massaricio, come supporto per il lavoro dei
servi insediati sul dominico -, egli introduce in questa tipologia di orientamento anche la curtis
caratterizzata da una pars dominica ricca di terre incolte e di pascoli e perciò dedita pre-
valentemente all'allevamento, per il quale erano impiegati soprattutto i servi praebendarii. Un
terzo tipo di corte è quello che si fondava sulla conduzione diretta di terre signorili specializzate
ad esempio nella coltivazione della vite e dell'ulivo.
Qui "le prestazioni di lavoro erano richieste dal signore in misura limitata per quanto riguarda
la loro quantità globale ed erano concentrate sui momenti del ciclo agricolo in cui questo apporto
lxxxii
specifico di manodopera colonica doveva servire a completare il lavoro degli schiavi della
familia padronale (falciatura dei prati della curtis e raccolta del fieno, vendemmia, raccolta delle
olive, corvées di trasporto del vino e dell'olio). Proprio in questo tipo di curtes a orientamento
specializzato si comprende con maggiore chiarezza la differenza fra i due stili di lavoro
incorporati nel settore a conduzione diretta: lavoro continuo degli schiavi prebendari e apporto
periodico dei massari, secondo il ritmo delle stagioni e delle necessità specifiche. Curtes di
questo genere, in cui l'orientamento indicato sopra non escludeva il mantenimento di un volano
silvopastorale, presentano quindi come caratteristiche specifiche sia la complessità e l'e-
terogeneità dei profitti diretti sia il fatto che la cerealicoltura vi occupava un posto secondario".
Ciò premesso, va notato che i dati relativi alle sei corti che stiamo esaminando consentono di
raffrontare direttamente la quantità di giornate lavorative svolte da chi prestava le corvées e
l'impegno continuativo dei servi residenti sul dominico: d'altro canto è ben nota la funzione
complementare della corvée prelevata sul massaricio ai fini della coltivazione della pars
dominica curtense. Ma in che proporzione la prestazione d'opera era integrativa del lavoro dei
prebendari? La stessa tipologia del Toubert suggerisce che in alcuni casi le giornate lavorative
dei prestatori d'opera del massaricio potevano essere preponderanti rispetto all'impegno
complessivo dei prebendari. Per un raffronto corretto occorre però anche tener presente l'apporto
delle feminae residenti sul dominico: in questo caso si può congetturare che la loro forza-lavoro
fosse almeno per la metà utilizzata in attività simili a quelle svolte dagli uomini nei vigneti, negli
oliveti, nei campi e nei prati; per l'altra metà doveva essere impiegata in attività collaterali

9
all'agricoltura, quali l'orticoltura, l'allevamento degli animali da cortile, la pastorizia, la pulizia
delle dimore signorili (definite caminatae nei polittici), oltre che nelle ben documentate attività
tessili a domicilio e nel gineceo e - come attesta un documento sardo del secolo XII - in mansioni
lxxxiii
consistenti nel "macinare il grano, cuocere il pane, pulire, lavare, filare e tessere" .
Per quanto concerne il numero delle giornate lavorative annuali, è probabile - come rilevò il
lxxxiv
Luzzatto e come ha ribadito il Toubert - che non fossero più di duecento i giorni di intensa
attività agricola, ma per i servi prebendari l'impegno sul dominico riguardava tutti i giorni
dell'anno, escluse le festività, ossia circa trecento. Questa cifra è confermata indirettamente dal
polittico, quando precisa che i manenti che svolgono "opera medietatem" compiono
centocinquanta giornate lavorative ciascuno sul dominico, per cui anche ogni contadino residente
sul massaricio era annualmente impegnato per circa trecento giorni di attività, più o meno
lxxxv
intensa, a seconda delle stagioni .
Ora, dal confronto tra le giornate di lavoro dei prebendari maschi (computate al 100%) e delle
femmine (congetturalmente calcolate al 50%), da un lato, e le giornate di corvée prestate da
manenti (liberi e servi) e da livellari, dall'altro - ma è chiaro che per tutti i residenti sul
massaricio delle curtes considerate, a seconda dei casi, la metà o la maggior parte del lavoro era
svolto per la conduzione dell'azienda familiare -, emerge un quadro piuttosto articolato che si
può così delineare:
A) Nella corte di Griliano, sul cui dominico si praticava soprattutto la cerealicoltura, integrata
da attività vitivinicole, da un ridotto allevamento di suini, caprini e animali da cortile, e dove
funzionava un mulino bannale, il lavoro dei prebendari (11 uomini e altrettante donne) aveva
un'incidenza di circa il 60% rispetto a quello fornito dalle prestazioni d'opera dei 31 manenti.
Questi ultimi dovevano anche coltivare 17 unità fondiarie prive di una famiglia contadina titolare
(sortes absentes) - i cui canoni in denaro e in natura erano incamerati dal monastero - e altre due
"sorti assenti", che costituivano il beneficio dello scario-amministratore; il limitato apporto di
opere da parte dei manenti era però bilanciato da attività artigianali, svolte sulla "pars
massaricia", che consentivano al centro monastico di incamerare formaggi, vomeri d'aratro,
lxxxvi
scuri, mannaie e forche, 100 libbre di ferro e panni rustici .
Nella corte bresciana "infra civitate" si coltivavano cereali e viti su un dominico che però
misurava appena un quinto di quello precedente: qui i prebendari sostenevano l'onere del 45%
del lavoro; tuttavia le corvées dei manenti servili corrispondevano a un altro 35% della
forza-lavoro, per cui anche in questo caso si rivelava predominante l'apporto dei servi. Ai
manenti liberi, ciascuno dei quali forniva appena 20 opere annuali (pari al 20% delle giornate di
lavoro complessive), oltre ai canoni erano richiesti prodotti lavorati (formaggi, panni rustici,
lxxxvii
attrezzi agricoli) .
B) La corte di Borgonato era abbastanza simile alle precedenti, salvo che per l'assenza di
pratiche vitivinicole sulla riserva signorile: cerealicoltura, allevamento (suini, ovini, bovini,
polli) e attività molitoria ne caratterizzavano il funzionamento. L'impiego dei servi prebendari
era ancora relativamente alto - rispetto alle più ridotte dimensioni del coltivo della curtis (circa
1/4 di quella di Griliano) -, infatti il loro lavoro copriva il 45% del fabbisogno del dominico; per
contro, i manenti e i livellari del massaricio, dal momento che fornivano prestazioni d'opera
elevate e la metà del vino prodotto sulle terre in concessione, non consegnavano prodotti
artigianali, ma solo 20 libbre di ferro, oltre a canoni vari in denaro e in natura (quantità fisse di
grano e di vino, piccoli animali, uova). Due aldi residenti sul massaricio avevano solo la
lxxxviii
funzione di portare ordini e lettere .
C) Quando la cerealicoltura aveva un peso più equilibrato rispetto a un'accentuata viticoltura e

10
alla presenza di forme d'allevamento tutto sommato ridotte, tendeva invece a diminuire il numero
di prebendari sul dominico e aumentava la richiesta di opere ai manenti nei diversi periodi
dell'annata agricola (a questo proposito va sfumata la tipologia, peraltro dichiaratamente
orientativa, formulata dal Toubert). Ciò avveniva, probabilmente, per via dell'esigenza di avere a
disposizione una manodopera abbondante solo nei periodi richiesti dalle pratiche connesse so-
lxxxix
prattutto a colture specializzate, ad esempio la viticoltura, nelle corti di Timoline e Canelle .
Ecco allora che il lavoro dei servi prebendari si riduceva al 35%.
Nella corte di Iseo, dove l'attività agricola sulla riserva signorile era decisamente orientata
verso la coltura specializzata dell'ulivo e della vite - mentre la cerealicoltura aveva assunto un
ruolo secondario insieme con le pratiche silvo-pastorali - sui prebendari (tutti a tempo pieno,
come sempre) gravava solamente il 25% del lavoro. Qui le prestazioni d'opera gratuite erano
molto onerose per i manenti: si trattava infatti di tre corvées settimanali per ogni nucleo
familiare, per un totale di 8700 giornate lavorative all'anno. Ma la caratteristica dei manenti di
Iseo era quella di essere tutti servi, per cui - ancora una volta - emerge l'importanza del ruolo
economico che avevano i non-liberi nel sistema curtense all'inizio del secolo X. A Iseo era molto
chiara l'iniziativa signorile tendente a dotare la maggior parte dei servi di forme autonome di
sussistenza. Infatti dalla selva locale, attestata nel polittico, erano state probabilmente ritagliate e
messe a coltura 18 unità fondiarie sulle quali erano stati accasati 58 manenti servili
xc
(verosimilmente si trattava di altrettanti nuclei familiari) . In questo modo si era razionalizzato il
sistema produttivo della curtis, diminuendo drasticamente il numero dei prebendari stabiliti sul
dominico - mantenuti per tutto l'anno a spese del monastero - e rendendo parzialmente
autosufficienti i servi, che erano così nutriti dall'ente monastico solo quando si recavano sulla
riserva a compiere le corvées. Probabilmente l'alto numero di opere prestate dai manenti in
questo caso particolare - in palese contraddizione con il modello della curtis specializzata
xci
individuato dal Toubert - si giustifica proprio per via dello status servile degli stessi, magari da
poco tempo trasferiti sul massaricio.
D) L'importanza del lavoro servile nel sistema curtense dell'epoca è altrettanto evidente in un
altro gruppo di corti appartenenti a S. Giulia. Si tratta di tre aziende signorili ubicate nella Val
xcii
Camonica . Due di esse avevano una struttura anomala rispetto alla maggior parte delle curtes
dell'Italia e della Francia: erano infatti sprovviste di massaricio. In questo caso potrebbe trattarsi
di corti da poco strutturate in un'area ancora da colonizzare e caratterizzata dalla presenza di
stazioni pastorali. D'altro canto, a fianco di una cerealicoltura di pura sussistenza per i servi
prebendari ivi insediati, spicca l'allevamento di ovini (85%), seguiti da suini e bovini (buoi), che
contano complessivamente quasi 500 capi. Nella prima delle due corti (Sovere) erano insediati
39 prebendari fra maschi e femmine e nella seconda (Closone) ve n'erano 28.
La terza curtis del gruppo (ubicata in Bradellas, forse a Pian Camuno) aveva invece una
struttura classica, per quanto attiene alla bipartizione. Sul dominico 16 prebendari (tra maschi e
femmine) curavano l'allevamento di 482 ovini, 29 suini, 4 buoi, 7 vacche, 6 vitelli, 8 capre e 30
polli. Coadiuvati da 26 servi casati - che prestavano opere a richiesta e probabilmente lavoravano
anche 8 sortes absentes -, coltivavano campi in cui si seminavano 40 moggi di grano, prati che
davano 40 carri di fieno, vigne che producevano fino a 23 anfore di vino. Sulla "pars massaricia"
erano dislocate su 53 sortes ben 83 famiglie di servi casati, dediti prevalentemente ad attività
minerarie e pastorali - fornivano infatti al monastero 60 libbre di ferro e 7 d'argento, lana, 75
castroni, formaggi, legname e altri prodotti -, ma anche alla viticoltura (portavano infatti 60
anfore di vino all'ente). Pur essendo difficile fare un raffronto tra la produttività del dominico e
del massaricio, è evidente che il secondo dava la possibilità alla signoria monastica di percepire

11
xciii
prodotti diversificati, argento e vino in quantità prevalente ; senza contare che all'occorrenza
poteva fornire tutti gli uomini necessari per integrare adeguatamente il lavoro dei prebendari, il
cui numero era volutamente ridotto.
Dunque, anche in un'area in cui la "pars massaricia" della corte appare piuttosto indipendente
dalla "pars dominica", il nucleo a gestione indiretta dell'azienda signorile svolgeva indub-
biamente un ruolo di sostegno alle terre gestite in economia e rappresentava la "valvola di
sicurezza" per una collocazione più razionale della manodopera servile in eccedenza. Sembra
perciò possibile confermare le osservazioni del Bloch, il quale rilevava che "già gli agronomi
romani notavano che lo schiavo, quand'è in squadra, lavora male, cosicché per ottenere poco
lavoro è necessario un gran dispendio di manodopera; per di più, quando muore o si ammala si
tratta di un capitale che scompare e che va sostituito. Non si poteva fare grande affidamento sulle
nascite all'interno del dominico, giacché l'esperienza aveva insegnato che l'allevamento
dell'uomo è il più difficile che esista... Viceversa, lo schiavo tenancier lavorava meglio, almeno
nella propria tenure, perché lavorava, almeno parzialmente, a proprio vantaggio; inoltre, dato che
in questo caso le famiglie non eran minacciate dalla dispersione, la riproduzione della
xciv
manodopera era assicurata" .
A queste osservazioni se ne possono aggiungere altre, che riassumono per lo più i risultati
della ricerca francese: il ricorso all'accasamento servile era soprattutto motivato dalla necessità di
affrontare adeguatamente i lavori più intensi dell'anno agricolo, senza per questo dover
mantenere e vestire nei periodi di relativo riposo un numero eccessivo di servi "domestici". Era
quindi più vantaggioso per i grandi proprietari rendere semi-autonomi i non-liberi e richiederne
l'opera solo quando fosse effettivamente necessaria. Il dosaggio tra il lavoro dei prebendari
(agricoltori, pastori e ministeriales), le prestazioni d'opera servile, le corvées di uomini liberi e il
ricorso a manodopera salariata - poco diffusa nei secoli IX e X, ma non assente, come
xcv
dimostrano gli Statuti di Adalardo di Corbie - avveniva sulla base della disponibilità locale di
xcvi
uomini e del tipo di colture praticate sul dominico .
Nei casi in cui - soprattutto nei secoli X e XI - il frazionamento e la razionalizzazione del
xcvii
dominico indussero a ridurre drasticamente la parte a gestione diretta delle curtes, la collo-
cazione sul massaricio degli ultimi servi prebendari non fu un fatto rivoluzionario, ma
semplicemente il compimento di un processo avviato e diffuso fin dall'età carolingia.

II.4. Il servaggio sardo e la questione dei colliberti

Per completare il quadro generale sulla subordinazione servile nell'Italia postcarolingia - e per
poterne poi analizzare adeguatamente le trasformazioni attuate soprattutto a partire dal secolo XI
- è necessario soffermarsi in particolare sugli sviluppi della servitù in Sardegna. E' infatti
quest'ultima una regione che dopo il Mille rivela, al riguardo, caratteri del tutto peculiari rispetto
al resto della penisola.
Alcune donazioni di beni, unitamente a servis et ancillis, effettuate nel corso del secolo XI dai
giudici cagliaritani a favore di enti ecclesiastici della Sardegna e del Continente non lasciano
trasparire differenze sostanziali rispetto ai diplomi imperiali coevi e agli atti di donazione relativi
xcviii
alle altre regioni dell'Italia centrosettentrionale e meridionale . Sono invece alcuni condaghi di
enti ecclesiastici - ossia i registri di atti di compravendita, donazione, permuta, di lasciti e di
xcix
memorie processuali - che ci permettono di conoscere la natura particolare del rapporto di
dipendenza fra proprietari e servi dell'isola.
c
Poiché gli atti più antichi conservati nei condaghi risalgono agli ultimi decenni del secolo XI ,

12
è difficile appurare quali furono i momenti più significativi e le cause della trasformazione della
servitù altomedievale sarda, che portarono al consolidamento dei caratteri del servaggio dei
secoli XI-XIII.
Le considerazioni più convincenti sulle caratteristiche della servitù di derivazione tardoantica
e altomedievale sono probabilmente rappresentate dai pur rapidi cenni che ne fa il Guillou,
delineando il quadro sociale della Sardegna in età bizantina. Nei secoli VI-IX è documentata
sull'isola la presenza di un mercato degli schiavi, che venivano utilizzati anche in ambito rurale. I
lavoratori dei campi appartenevano però in prevalenza a due altre categorie sociali. "Più
generalmente - scrive il Guillou - la terra viene lavorata da affrancati e da coloni. I primi sono
ben noti; hanno ottenuto la libertà divenendo coloni énapògraphoi, ascritti: senza beni propri né
personalità fiscale, restano legati al suolo che li ha visti nascere e al loro padrone che non
possono lasciare. Questo è dunque l'unico senso da dare alla potestas, all'autorità che i proprietari
si rallegravano di avere su di loro. Questi affrancati (liberti) curano la casa del loro padrone
esattamente come schiavi, che nei secoli VII-VIII sono diventati anche in Oriente persone di
ci
casa... La seconda categoria di contadini è costituita da coloni indipendenti" . Nella seconda
metà del secolo X, alle soglie dell'età giudicale, erano quindi già ben delineati i due canali della
dipendenza rurale sarda: il primo raccoglieva i liberi "affittuari", magari in possesso di alcuni
lotti allodiali; il secondo faceva principalmente riferimento al gruppo dei "liberti con
obbedienza" che, pur avendo conseguito la libertà personale attraverso la manumissione,
continuavano ad essere assoggettati agli antichi proprietari, dai quali avevano ottenuto terre in
concessione e a favore dei quali prestavano servizi e opere agrarie. Al gruppo dei liberti condi-
zionati, inoltre, si tendeva ormai a equiparare i servi casati e coloro che per miseria o per
necessità di protezione sottomettevano se stessi e tutta la loro discendenza a un potente o a un
ente ecclesiastico. Per il caso sardo, dunque, si può accogliere pienamente l'interpretazione di
Marc Bloch - recentemente fatta propria anche dal Barthélemy nello studio sulla regione di
cii
Vendo^me -, allorché analizza il processo di formazione del gruppo dei colliberti di alcune
ciii
regioni francesi nell'età postcarolingia .
Effettivamente per la Sardegna i riscontri documentari, a partire dalla fine del secolo XI, sono
parecchi. I condaghi, infatti, documentano molto bene i servizi prestati da servi, ancille, homines,
colliberti a favore dei giudici, di enti ecclesiastici e di proprietari terrieri in genere. Pur essendovi
ancora alcuni aspetti della composizione del gruppo servile sardo da chiarire, si nota tuttavia che
la consuetudine generalmente affermatasi, in età giudicale, era quella di richiedere a tutti gli
uomini soggetti a una dipendenza di tipo ereditario una quantità determinata di prestazioni
d'opera. Nel caso dell'homo-servo integru la prestazione richiesta era di quattro giornate di
lavoro settimanale (sedici giorni al mese); ma spesso sulla forza-lavoro di uno stesso servo
vantavano diritti diversi proprietari: qualora i diritti sulla sua persona fossero divisi a metà (latus)
fra due signori oppure in quattro parti uguali (pede), le giornate lavorative mensili sarebbero
state rispettivamente otto e quattro a favore di ciascun signore; nei casi di maggior frazionamento
dei diritti su questi dipendenti il lavoro dovuto era calcolato in dies su base mensile o addirittura
soltanto in uno o più giorni di lavoro su base annua. S'intende che tale frazionamento riguardava
la percezione da parte di ciascun proprietario, mentre per il servo le sedici giornate lavorative
mensili rimanevano integre e venivano prestate in luoghi diversi o riscattate con il pagamento di
civ
tributi .
Il frazionamento dei diritti sulle prestazioni d'opera dei servi era la conseguenza della
valorizzazione del servizio servile (o del tributo corrispondente al servizio), resasi indispensabile
in seguito alla larga diffusione di matrimoni misti fra servi e liberi e di unioni fra servi di

13
proprietari diversi. Da un lato, infatti - secondo una tendenza che nell'Europa occidentale trovava
diffusione nelle signorie fondiarie che non avevano la possibilità di estendere le loro prerogative
cv
a tutti i residenti di un dato luogo, non riuscendo quindi a trasformarsi in signorie bannali - i
proprietari di servi individuavano un modo efficace per conservare la memoria della dipendenza
ereditaria e la rendita che ne derivava, mentre i diritti di natura bannale spettavano ai giudici:
nel caso sardo il "consolidamento" delle opere servili (al limite anche in assenza di terre signorili
a gestione diretta) rispondeva quindi alle esigenze particolari della "signoria familiare e
cvi
fondiaria" . Dall'altro lato i signori accettavano i lenti cambiamenti della condizione servile, che
ora consentiva ai servi di possedere terre in concessione e beni mobili, di testimoniare e di essere
giudicati in un tribunale pubblico, di celebrare senza grossi problemi matrimoni misti (a parte le
questioni insorgenti per la ripartizione delle opere servili della prole). Anche la decretale
"Dignum est" di papa Adriano IV (1154-1159) riconosceva l'indissolubilità dei matrimoni servili
celebrati contro la volontà dei padroni, quantunque a questi ultimi si fossero dovuti pur sempre
cvii
prestare "debita tamen et consueta servitia" . Tutto ciò favoriva l'autodedizione a chiese in stato
di servitù poiché, al di là della natura "perpetua" del rapporto, consentiva al dipendente di
ottenere la protezione di un potente e di conservare un tenore di vita paragonabile a quello medio
cviii
dei contadini dipendenti liberi . Avveniva, in sostanza - come si è anticipato -, un
cix
allineamento dello status dei servi casati propriamente detti e dei liberi asserviti a quello dei
"liberti con obbedienza".
Anche sul piano lessicale ormai il lemma servus poteva talvolta diventare sinonimo sia di
cx
homo soggetto ad opere "in sempiternum" , sia di libertus. Infatti - nel secondo caso - alcuni in-
dividui, dapprima indicati come servi o ancille, nello stesso documento sono definiti colliberti
cxi
rispetto ad altri liberti (laici ed ecclesiastici) oppure ad altri servi . Per chi non conosceva bene
la realtà dell'isola, gli stessi colliberti potevano talvolta essere considerati servi e talaltra
dipendenti dotati di libertà personale. Infatti, mentre la chiesa di San Lorenzo di Genova -
avendo ricevuto in donazione dal giudice Mariano Torchitorio di Cagliari un numero cospicuo di
servi e colliberti - li registrò nel 1108 con la dicitura "de culvertis scilicet de servis et ancillis", i
cittadini genovesi ritenevano che la canonica possedesse in Sardegna sia servi sia diritti su
cxii
uomini liberi .
In verità all'inizio del secolo XII erano poche le differenze tra questi culverti o colliberti e gli
cxiii
stessi servi rurali genovesi, come vedremo successivamente .
Dopo gli studi del Tamassia e del Bloch sembra assodato che l'origine dei colliberti si debba
ricondurre, almeno per l'Italia, ai manumessi secondo la "formula normale" del diritto giu-
cxiv
stinianeo (che ammetteva la conservazione del giuspatronato) , la cui applicazione per la
Sardegna si può spiegare con la lunga dominazione bizantina. Già gli schiavi romani manumessi
(liberti) da uno stesso proprietario continuavano per lo più a vivere sulle terre del patrono
prestando servizi a suo favore, magari con l'obbligo di custodire il sepolcro della famiglia e
spesso col fedecommesso che prevedeva la cessione ai propri con-liberti delle terre ricevute con
cxv
la libertà, qualora il manumesso avesse deciso di andarsene . Dunque, di fronte a un comune
cxvi
patrono gli schiavi liberati erano colliberti: è questa l'accezione del termine che ci interessa .
Secondo il Tamassia nel medioevo "la domus aeterna e la sua custodia non sono più affidate
alla pietà degli eredi, e specialmente dei liberti, cui nella forma ben nota sono vincolati deter-
minati beni per lo scopo anzidetto. Questi beni sono ora obligati alla Chiesa, ove il testatore ha
l'ultima pace; ed alla Chiesa viene a spettare ciò che dianzi era ufficio degli eredi e dei liberti...
Ond'è che anche per questo onere di custodia del sepolcro, ormai situato in luogo sacro, i liberti

14
ricadono nel patronato della Chiesa", che difende peculio e libertà dei manumessi e ha diritto di
cxvii
successione sui loro beni qualora vengano meno gli eredi naturali previsti .
Quantunque non si debba rigidamente far risalire l'origine dei colliberti medievali a questo
unico passaggio - perché potevano essere diverse le ragioni di una cessione di manumessi
condizionati a chiese e gli stessi enti ecclesiastici liberavano "sotto condizione" i propri servi
cxviii
destinati al chiericato -, fu questa una delle vie che portò alla formazione del collibertinato
medievale. Il legame di lunga durata col patrono, talvolta indotto dalla necessità di non perdere i
beni avuti dal manumissore (alienabili solo a favore dei colliberti del luogo), talaltra consolidato
in seguito a matrimoni misti con servi, trasformò col tempo la defensio assicurata dalla Chiesa in
una soggezione ereditaria.
La confusione tra servi e colliberti si accentuò quando i primi acquisirono, dai secoli IX-X in
poi, diritti civili simili a quelli degli altri dipendenti - tanto in Sardegna quanto sul Continente e,
cxix
in particolare, in certe regioni francesi - mentre per i secondi si rafforzava il legame di
subordinazione "perpetua": le successive trasformazioni del collibertinato, e quindi anche la sua
scomparsa, avvennero, a seconda dei luoghi, o attraverso un completo assorbimento (che si
coglie anche sul piano terminologico) nel gruppo servile dei secoli XI-XIII o con il lento
esaurimento della "fonte" che l'aveva prodotto (la manumissione condizionata), conseguente
all'estinzione "spontanea" della classe dei servi propriamente detti.
Resta aperta la questione della diffusione di questo gruppo limitatamente ad alcune regioni
europee. In Italia vi sono attestazioni isolate di colliberti nei secoli VIII-X sia relativamente ad
cxx
aree di tradizione longobarda sia ad altre in cui vigeva il diritto romano , tuttavia è solo nella
Sardegna giudicale - ma qui le origini del collibertinato vanno ricondotte ai secoli della
precedente dominazione bizantina - che è cospicua la loro presenza. Solo future ricerche
potranno chiarire la questione, anche se - oltre a tener presente la possibilità della diffusione di
un uso lessicale diverso in altre regioni per indicare i liberti "con obbedienza" - sembra più
probabile che fossero le aree in cui veniva applicato il diritto romano-bizantino a produrre liberti
condizionati, mentre dalla metà del secolo VIII in poi nella Langobardia maggiore e minore le
manumissioni piene andavano prevalendo su quelle "cum obsequio" e su quelle che erano fina-
cxxi
lizzate a creare lo stato aldionale . Va però rilevato che anche in Sardegna i colliberti non sono
attestati in modo omogeneo nei quattro giudicati: infatti la loro presenza - allo stato attuale delle
ricerche - risulta piuttosto consistente soltanto nel condaghe di S. Pietro di Silki, nell'annesso
condaghe di S. Maria di Codrongiano, in quelli di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado
cxxii
e in alcune carte cagliaritane .
Altrettanto problematiche sono le attestazioni di homines che prestavano le loro opere in
modo del tutto simile a quelle dei servi e dei colliberti. In alcuni casi si trattava sicuramente di
cxxiii
liberi asserviti , ma in tanti altri permane il dubbio sulla loro condizione giuridica, dal
momento che sappiamo esservi stati uomini personalmente liberi e soggetti a servizi (liberi de
paniliu, homines liberi) ed altri homines che, menzionati in atti di donazione a chiese, insieme
cxxiv
con le terre che lavoravano, erano distinti dai servi . In questi casi il servizio dei liberi era di
natura diversa da quello servile, perché durava soltanto fino a quando permaneva la residenza
degli stessi sulla terra in concessione. Del resto approfittavano talvolta di questa situazione i
servi, i quali, per sfuggire ai loro obblighi, si trasferivano altrove, proclamando di essere
cxxv
liberi . Neppure i tentativi, da parte dei proprietari, di continuare a riscuotere i tributi sui servi
emigrati - ammettendo, quindi, la possibilità di emigrazione anche per i loro uomini non liberi
cxxvi
(homines foranios) - valeva a ostacolare il lento processo di obliterazione dello stato servile,

15
se molto spesso i domini ricorrevano al kertu giudicale (ossia a cause presentate in un tribunale
pubblico) per far valere i loro diritti.
A ciò si deve aggiungere il fatto che sono numerose le attestazioni di donne libere sposate con
cxxvii
servi e homines liberi sposati con serve . Nel primo caso la prole era de iure di condizione
libera, anche se le pressioni dei domini, che potevano costringere la donna a separarsi dal loro
servo, inducevano spesso quest'ultima a concordare in tribunale con i proprietari del marito che
le opere dei figli (o di una parte di questi) fossero considerate perpetue, dunque di natura
servile. Più facile era invece il passaggio, ai signori, dei figli di un'ancilla unitasi a un libero, sia
in base al principio secondo il quale il figlio seguiva la condizione materna, sia secondo la
consuetudine che prevedeva la spartizione della prole nata da servi di proprietari diversi e
dunque attribuiva la signoria sui figli al padrone della serva qualora non ci fosse stata
cxxviii
un'autorizzazione al matrimonio . In ogni caso le unioni miste determinavano confusioni
circa lo stato dei figli: infatti nella pratica quotidiana i proprietari tendevano a far prevalere il
principio della deterior condicio; erano elemento di scontento e di lite con i domini e talvolta
erano un motivo per suggerire la fuga dal dominio. Fra le stesse cause della scomparsa del
servaggio sardo, tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento, si devono probabilmente anche
annoverare le spinte crescenti che venivano dai figli di liberi e servi: esse rappresentano quindi
un elemento importante accanto alle motivazioni economico-politiche connesse con la crisi del
regime giudicale e con l'avvento della dominazione aragonese.
Per tutte queste ragioni, volendo formulare una stima della popolazione servile sarda nei
secoli XI-XIII si dovrà sempre tener conto delle differenze tra luogo e luogo e, soprattutto, del
fatto che anche nei casi in cui più elevata doveva essere la presenza servile - cioè nei domìni di
enti ecclesiastici dotati con cospicue donazioni di uomini da parte dei giudici - le attestazioni di
homines soggetti a corvées (ma erano tutti di condizione servile?) non supera il 50% delle
cxxix
citazioni . Questa percentuale, indubbiamente molto elevata, deve dunque essere
contemperata dai dati relativi a homines dipendenti e a comunità rurali costituite da uomini
cxxx cxxxi
liberi , di cui si sta rivalutando l'importanza negli studi di questi ultimi anni .
Nella prima metà del Trecento divennero sempre più numerose le fughe di servi verso le terre
soggette alla corona d'Aragona, mentre il declino della conduzione diretta delle terre signorili,
unitamente all'emancipazione dei servi del Regno di Arborea tra il 1336 e il 1353, portarono a
una drastica riduzione del numero dei non-liberi, anche se non alla loro completa scomparsa; ma
da quel momento in poi i servi presenti in Sardegna sarebbero stati prevalentemente schiavi di
cxxxii
tratta orientali o africani .
Per delineare compiutamente i caratteri del servaggio sardo è stato necessario andare ben
oltre i termini cronologici che ci siamo imposti nell'affrontare le vicende della servitù altomedie-
vale del Continente. E' dunque opportuno, da un lato, riprendere il filo del discorso interrotto agli
inizi del secolo XI e, dall'altro, indagare se e come nello stesso secolo siano intercorsi
cambiamenti nella condizione dei non-liberi nel resto dell'Italia e in Francia.

i
Edictum Theoderici regis Italiae, p. 12 sg., capp. 78-79; p. 18,
capp. 148, 150 (sulla paternità dell'Editto, attribuibile però a
Teodorico II re dei Visigoti, cfr. VISMARA, Edictum Theoderici, pp.
11 sgg., 44 sgg., 177 sgg.); MGH, Legum, V, Formulae merowingici et
karolini aevi, p. 5 sgg., nr. 2-3 (sec. VII). Cfr. anche SOLMI, Servo,
p. 418.

16
ii
MGH, Legum III, Concilia aevi merovingici, p. 140, c. III (Concilio
di Lione del 567 o 570: accuse ai potenti di privare della libertà
i più umili).

MGH, Legum, III, Concilia aevi carolini, II, 1, p. 292, n. 38, a.


iii

813, c. 44 (Concilio di Tours): "Propter diversas occasiones res


pauperum multis in locis valde attenuate sunt, eorum scilicet,
qui liberi esse noscuntur et sub potestate potentiorum sunt
constituti. Quorum si negotia et causas clementia piissimi
principis nostri diligenter investigare iusserit, repperientur
quamplurimi diversis occasionibus ad ultimam paupertatem iam re-
digi". Cfr. BRANCOLI BUSDRAGHI, La formazione storica del feudo
lombardo, pp. 107-126.
iv
Capitularia, I, p. 188, nr. 88, a. 776; p. 196, nr. 93, gen. 813;
p. 330, nr. 165, mag. 825. Per la datazione dei capitolari cfr.
MANACORDA, Ricerche, p. 137. Cfr. FUMAGALLI, Le modificazioni
politico-istituzionali, p. 314 sgg. Cfr. cap. V, testo fra le note
44-62.
v
I placiti del "Regnum Italiae", I, p. 98 sgg., doc. 32, ago. 821:
i fatti sono rievocati in occasione di una lite fra il monastero
di Farfa e il duca Guinigi di Spoleto, per i beni donati
dall'esercitale Paolo, accusato dal duca di essere stato un di-
sertore. Grazie all'esibizione di un praeceptum di Ludovico il Pio,
il monastero poté però ritornare in possesso dei beni donati
dall'esercitale, il quale peraltro non rinunciò alla propria libertà
personale. Un altro caso di dedizione in servicio, tuttavia "salva
libertate nostra", è documentato per la Valle Trita, in Abruzzo,
nel 782 (Chronicon Vulturnense, I, p. 196, doc. 24).
vi
Capitularia, I, p. 40, nr. 16, a. 758-768.

Ibidem, I, p. 187 sg., nr. 88, a. 776. Cfr. TELLENBACH, L'Italia


vii

nell'Occidente cristiano, p. 408 (commento a una lettera di Adriano


I, del 776, relativa all'autodedizione in servitù di abitanti
dell'Italia centrale a causa della miseria).
viii
Capitularia, p. 293, nr. 142, circa a. 819.
ix
Ibidem, I, p. 51, nr. 20, a. 779; pp. 429, 432, Ansegisi Ca-
pitularium, III, nr. 29, 65. Cfr. BONNASSIE, Survie et extinction,
p. 328.
x
Capitularia, I, p. 331, nr. 165, mag. 825 (Lotario I).
xi
Ibidem, I, p. 166, nr. 74, ott. 811.
xii
Ibidem, I, p. 318, nr. 158, a. 822-823 (Lotario I).

17
xiii
Ibidem, II, p. 325 sgg., nr. 273, a. 864.

Sulla tratta in età carolingia cfr. Capitularia, I, p. 51, nr.


xiv

20, a. 779; p. 190, nr. 90, a. 781 ?; p. 211, nr. 102, a. 806-810;
II, pp. 131, 139, nr. 236, a. 840 e 880; p. 327, nr. 273, a. 864;
p. 419, nr. 293, a. 845. Alla tratta degli "schiavi" - soprattutto
nella fase di tratta va definita come "schiavitù", in ogni epoca,
la condizione di uomini privati della libertà e venduti come se
fossero merci - ha dedicato pagine fondamentali il VERLINDEN,
L'esclavage, I, p. 633 sgg.; II, p. 343 sgg.; ID., La traite des
esclaves, p. 721 sgg. Sulla tratta altomedievale in Italia cfr. anche
D'ALESSANDRO, Servi e liberi, p. 298 sgg.; VIOLANTE, La società
milanese p. 31 sg. Sulla pluralità di modi in cui si poteva diventare
servi, nel secolo XIII così si esprimeva ROLANDINO DE' PASSEGGIERI,
Summa artis notariae, p. 577: "Servus est ille, qui nascitur de
ancilla, vel qui capitur de hostium potestate, qui servi et mancipia
dicuntur, id est, manucupata. Item servus est etiam maior 20 annis,
qui ad pretium participandum patitur se venumdari, vel alieno iusto
titulo alienari alicuius lucri vel comoditatis causa, non ignarus
suae conditionis..."; invece SALATIELE (Ars Notarie, II, p. 21)
ammetteva anche "sed iure civili sunt servi qui dampnantur in
metallum vel in opus metalli et efficiuntur servi pene, et qui in
servitutem ex ingratitudine revocantur": queste ultime situazioni
sono per lo più documentabili per la tarda antichità, tranne che
la "servitus pene", che continuava ad essere applicata (la "servitus
ex ingratitudine" riguardava i liberti manumessi secondo il diritto
giustinianeo). Per una rapida analisi delle cause di riduzione in
servitù nell'alto medioevo cfr. BONNASSIE, Survie et extinction, p.
326 sgg.
xv
Cfr. cap. VIII.

Capitularia, I, p. 193, nr. 91, c. 9 (datato circa 782 dal


xvi

MANACORDA, Ricerche, p. 137).

Edictus Rothari, p. 67 sgg.,


xvii
capp. 256, 262, 265, 267, 269-276;
Liutprandi leges, p. 103 sg., cap. 11 (a. 717); p. 121 sg.,
cap. 44 (a. 723); p. 142, cap. 88 (a. 727). Cfr. TABACCO, Dai
possessori dell'età carolingia, p. 247.
xviii
Capitularia, II, p. 344, nr. 278, a. 873.

Ibidem, I, p. 300, nr. 148, a. 821; p. 436, 442, Ansegisi


xix

Capitularium, IV, c. 3, 39.


xx
Ibidem, I, p. 92, nr. 33, a. 802.
xxi
Ibidem, I, p. 447 sg., Ansegisi Capitularium, App. I-II, c. 3. Di

18
fronte alla negazione di un tale omicidio la legge comminava al servo
sedicente libero il giudizio di Dio: " Et si negaverit se illum
occidisse, ad novem vomeres ignitos iuditio Dei examinandus
accedat".

Ibidem, I, p. 201, nr. 95, circa 787-788 (cfr. MANACORDA, Ricerche,


xxii

p. 137).
xxiii
.M88!Bj$§"iw$P_p@_`_0P _pB A_
xxiv
Capitularia, I, p. 287, nr. 140, a. 818-819.
xxv
FONT RIUS, Cartas de poblaciòn, I, p. 8 sg., doc. 4, a. 880-886?.
Cfr. BONNASSIE, Survie et extinction, p. 335.
xxvi
Capitularia, II, p. 131 sg., nr. 233, a. 840, c. 3-4, 10.
xxvii
Cfr. DOCKèS, La libération médiévale, p. 249 sgg.

Edictus Rothari, p. 36, cap. 142; p. 73, capp. 279-280; Liutprandi


xxviii

leges, p. 111, cap. 21 (a. 721); p. 168, cap. 138 (a. 733).

BONNASSIE, Survie et extinction, p. 318 sg.; VERLINDEN, L'e-


xxix

sclavage, II, p. 54 sgg.


xxx
Edictus Rothari, p. 69, cap. 264; Grimualdi leges, p. 96, cap. 3.
xxxi
Cfr. cap. V.1.

Capitularia, II, p. 316, nr. 273, a. 864 (Carlo II): "...non cum
xxxii

grosso fuste, sed nudi cum virgis vapulent". Per contro, un


capitolare di Guido da Spoleto dell'891 prevedeva che i servi, che
non avessero fornito al conte il proprio aiuto per combattere i
predoni, fossero puniti dai loro padroni con quaranta colpi, senza
precisazione alcuna circa la grandezza del bastone usato: "...servi
autem XL ictos a propriis suis dominis vapulentur" (Ibidem, II, p.
108, nr. 224, a. 891).
xxxiii
Ibidem, II, p. 181 sg., nr. 248, a. 847.
xxxiv
Ibidem, I, p. 124, nr. 44, a. 805-806.
xxxv
DOCKèS, La libération médiévale, p. 260.

Capitularia, I, p. 301, nr. 148, a. 821; p. 436 sg., Ansegisi


xxxvi

Capitularium, IV, c. 1, 7. Il "pagus Mempiscus" è localizzato "entre


l'Yser et l'Aa" da DOEHAERD, Le haut Moyen Age occidental, p. 202
sg.
xxxvii
BONNASSIE, Survie et extinction, p. 335 sg.; DOCKèS, La

19
libération médiévale, p. 284 sg.; MAZZARINO, Si può parlare di
rivoluzione sociale alla fine del mondo antico?, p. 414 sgg.;
VERLINDEN, L'esclavage, I, p. 637. Cfr. anche GASPARRI, Prima
delle nazioni, p. 43 sgg.
xxxviii
BONNASSIE, Survie et extinction, p. 336.

Chronicon Vulturnense, I, p. 204 sgg., docc. 25-26, a. 787; p.


xxxix

337 sgg., doc. 72, a. 854; I placiti del "Regnum Italiae", I, p.


206 sgg., doc. 58, feb. 854; p. 261 sgg., doc. 72, gen. 872. Cfr.
WICKHAM, Studi sulla società degli Appennini, p. 20 sgg.
xl
I placiti del "Regnum Italiae", I, p. 206 sgg., doc. 58, feb.
854; p. 264, doc. 72, gen. 872: "Vere de nostra libertate minime
probare possumus, quia patres nostri et matres nostre servi et
ancille fuerunt de predicto monasterio de cella eius Trite, et
nos cum lege servi esse debemus de ipso monasterio". Già un
praeceptum di Ludovico il Pio dell'831 aveva confermato i diritti
del monastero sui servi: Chronicon Vulturnense, I, p. 289 sg., doc.
55.

Chronicon Vulturnense, I, p. 333 sgg. Ma altri 87 servi et ancillae


xli

del monastero sono elencati, insieme con una trentina di cartulati


(probabili manumessi condizionati, dotati però di cartula
ingenuitatis), in un breve pertinente alla cella di Flaturno (Ibidem,
II, p. 337 sg., doc. 176, 3 mar. 874. Il WICKHAM (Studi, p. 46) stima
che la popolazione servile della valle, comprese le donne,
ammontasse a circa novecento individui e che fosse equivalente
a circa il 45% della popolazione complessiva. Cfr. anche DEL
TREPPO, La vita economica e sociale in una grande abbazia, pp. 57
sgg., 83, 102.
xlii
Cfr. nota 5.

I placiti del "Regnum Italiae", I, p. 160 sgg., doc. 49, 26 feb.


xliii

845. Cfr. ANDREOLLI, Una campionatura delle rivolte, p. 32 sg.;


CASTAGNETTI, I "Teutisci" nella "Langobardia" carolingia, p. 11 sgg.
xliv
MONTANARI, Conflitto sociale e protesta contadina, p. 19.
xlv
Cfr. nota 64.

I placiti del "Regnum Italiae", I, p. 107, doc. 34, 20 mag. 822.


xlvi

Cfr. PADOA SCHIOPPA, Aspetti della giustizia milanese nell'età


carolingia, pp. 11, 20.
xlvii
Codex Diplomaticus Cavensis, I, p. 88 sg., doc. 67, lug. 869.
xlviii
Capitularia, I, p. 145, n. 58, a. 801-814; MGH, Diplomata

20
Karolinorum, IV, p. 129, doc. 31, 7 ott. 860. Ludovico II con-
fermò altresì la tuitio imperiale concessa dai predecessori al
monastero "cum rebus suis et familiis utriusque sexus hominibus
etiam liberis colonis servis vel aldionibus ad eius ius
pertinentibus".
xlix
Cfr. cap. VIII, nota 25.
l
Placiti del "Regnum Italiae" (secc. IX-XI), a cura di R. Volpini,
p. 295 sgg., doc. 5, a. 878-884.
li
I placiti del "Regnum Italiae", III, p. 373 sgg., n. 456, mag. 1080.

Capitularia, I, p. 330, n. 165, c. 7, mag. 825. Cfr. anche II, p.


lii

19, n. 193, ago. 829 (Ludovico il Pio). Cfr. PADOA SCHIOPPA, Aspetti
della giustizia milanese dal X al XII secolo, p. 465. Cfr. nota 62.

E' il caso del chierico Aspertulo e di due suoi fratelli, i quali


liii

nel 796 cercarono inutilmente di sottrarsi alla signoria della


Chiesa vescovile di Pisa: I placiti del "Regnum Italiae", I, p.
24 sgg., doc. 9, 5 giu. 796. Cfr. ANDREOLLI, MONTANARI, L'azienda
curtense, p. 101 sgg.
liv
I placiti del "Regnum Italiae", I, p. 26 sg.
lv
I placiti del "Regnum Italiae", I, p. 405, doc. 109, lug. 899: "Certe
veritatem vobis dico quia ego in ipsa Bectorrita nullas contendo quia
mihi nulla pertinet per que ego contendere possim".

Cfr. cap. VIII, note 24-25. Cfr. anche la vicenda illustrata in


lvi

ROSSETTI, I ceti proprietari, p. 192 sgg.: Toto di Campione fra


il 724 e il 729 rivendicò il diritto di trattare come aldio un
dipendente di nome Lucio, il quale era stato in realtà manumesso
"cerca altare", ma prima che nel 721 Liutprando attribuisse a questa
forma di manumissione la possibilità di dare la libertà piena. Il
documento è edito in Codice Diplomatico Longobardo, I, p. 235 sgg.,
doc. 81, con la data 721-744 (rettificata dalla Rossetti a p. 197).

I placiti del "Regnum Italiae", I, p. 431 sgg., doc. 117, lug.


lvii

905; p. 456 sgg., doc. 122, a. 906-910; p. 605 sgg., doc. II,
lug. 905 (falso). Cfr. CASTAGNETTI, Dominico e massaricio a Limonta
nei secoli IX e X, pp. 3-20. Per una recente discussione sulla
possibile genuinità del documento del 905 cfr. PADOA SCHIOPPA,
Aspetti della giustizia milanese dal X al XII secolo, p. 483 sg.
lviii
Codex Diplomaticus Cavensis, I, p. 139 sg., doc. 111, ago. 899.
lix
Documenti per la storia della città di Arezzo nel Medio Evo, I,
p. 400 sgg, doc. 293. Cfr. VIOLANTE, Alcune caratteristiche delle

21
strutture familiari, p. 34 sgg.
lx
I placiti del "Regnum Italiae", I, p. 405 sgg., doc. 110, mag. 900;
doc. 112, set. 901. Cfr. PADOA SCHIOPPA, Aspetti della giustizia
milanese dal X al XII secolo, p. 478 sgg.: lo storico del diritto
sottolinea l'importanza delle testimonianze pronunciate da "nobiles
et credentes homines" per l'esito del processo. Per Trento cfr. nota
43.
lxi
Cfr. però cap. III.1.

Capitularia, II, p. 19, nr. 193, ago. 829, c. 6: "De liberis


lxii

hominibus, qui proprium non habent, sed in terra dominica resident,


ut propter res alterius ad testimonium non recipiantur; coniuratores
tamen aliorum liberorum hominum ideo esse possunt, quia
liberi sunt. Illi vero, qui et proprium habent et tamen in terra
dominica resident, propter hoc non abiciantur, quia in terra dominica
resident; sed propter hoc ad testimonium recipiantur, quia proprium
habent". Cfr. note 52, 60.

I placiti del "Regnum Italiae", II, p. 426 sgg., doc. 250, mar.
lxiii

999.

MGH, Legum, IV, Constitutiones et acta publica, I, p. 47, nr.


lxiv

21, 21 mag. 996-23 gen. 1002 (probabilmente 996-999, supponendo


che il placito di Gaeta, cercasse di attuare il dettato del
capitolare). Questo capitolare, dal momento che si proponeva
anche di difendere il patrimonio servile delle chiese, fu probabil-
mente emanato subito prima o subito dopo il "Capitulare Ticinense
de praediis ecclesiarum neve per libellum neve per emphyteusin
alienandis" del 20 set. 998 (Ibidem, I, p. 49 sgg., nr. 23). Cfr.
VIOLANTE, La società milanese, p. 156 sgg.

In età longobarda invece re Grimoaldo aveva stabilito che i servi


lxv

per i quali fosse dimostrabile la soggezione trentennale in quanto


tali non potessero rivendicare la libertà "per pugna", mentre
coloro per i quali fosse al contrario provata la conservazione
trentennale della libertà non potessero essere costretti al duello
per difenderla: "nullam per pugnam paciantur violentiam, sed
liceat eis in libertate sua permanere" (Grimualdi leges, p. 95 sg.,
capp. 1-2). Per un raffronto con alcune regioni della Francia cfr.
GUILLOT, La participation au duel, p. 345; PETOT, Serfs d'eglise,
p. 191 sgg.

PANERO, Servi e rustici, pp. 31 sg., 52 sgg.; ROSSETTI, Il


lxvi

matrimonio del clero, p. 540 sgg.


lxvii
PROVANA, Studi critici, p. 334 sgg.

22
lxviii
PANERO, Servi e rustici, p. 135 sg.

I placiti del "Regnum Italiae", III, p. 1 sg., doc. 323, 26 giu.


lxix

1025.

Le carte dell'archivio capitolare di Vercelli, I, p. 49 sg., doc.


lxx

40, a. 1022. Cfr. PANERO, Servi e rustici, pp. 52 sg., 137.


Cfr. note 64-66.

MGH, Legum, IV, Constitutiones et acta publica imperatorum et


lxxi

regum, I, p. 72 sg., nr. 34, 1 ago. 1022.

ANDREOLLI, MONTANARI, L'azienda curtense, pp. 205-212. Anche il


lxxii

vescovo di Torino, Cuniberto, nel 1048 lamentava che alcuni famuli


(probabili ministeriales) della Chiesa, per l'inettitudine dei suoi
predecessori, avevano dapprima usurpato terre del monastero
di San Solutore e poi, scoperti, si erano dati alla fuga; al vescovo
fu così soltanto possibile recuperare le terre, che vennero
riconfermate al monastero: "Addidimus etiam terras filiorum Oddonis
quondam pertinentes eidem monesterio set quia erant famuli nostre
sedis ecclesie... nostrorum dementia predecessorum eis eas usurpare
sinerunt nunc vero fugitivi facti et transfuge que malo privilegio
hactenus usi sunt huic sacro loco et sancte societati restitui dignum
duximus" (Cartario dell'abazia di San Solutore di Torino, p. 22 sgg.,
doc. 10, 11 mag. 1048.

COMBA, Rivolte e ribellioni, II, p. 669 sgg.; CONTE, Servi


lxxiii

medievali, pp. 5 sgg., 93 sgg., 219 sgg. (liti e sentenze sullo


status degli ascrittizi nel secolo XIII); FASOLI, Ricerche
sui borghi franchi, p. 185; FABIANI, La terra di S. Benedetto, I,
p. 185 sgg.; P.S. LEICHT, Operai, artigiani, agricoltori, p. 193
sgg.; MENANT, Campagnes lombardes, p. 428 sgg. Cfr. inoltre i saggi
raccolti in Protesta e rivolta contadina, a cura di G. Cherubini.
Per un raffronto con la Francia - dove continuano a essere attestate
anche contestazioni propriamente servili nei secoli XIII e XIV - cfr.
Violence et contestation au Moyen Age.

DARMSTÄDTER, Das Reichsgut in der Lombardei und Piemont;


lxxiv

DOLLINGER, L'évolution des classes rurales en Bavière;


INAMA-STERNEGG, Deutsche Wirtschaftsgeschichte; LUZZATTO, I servi;
PERRIN, Recherches sur la seigneurie rurale en Lorraine; H. SÉE, Les
classes rurales.

A quest'ultimo proposito basti per ora un rinvio ad ANDREOLLI,


lxxv

MONTANARI, L'azienda curtense, pp. 15 sgg., 115 sgg.; BOUTRUCHE,


Signoria e feudalesimo, I; CHéDEVILLE, Chartres et ses campagnes,
p. 356 sgg.; DEL TREPPO, La vita economica e sociale, p. 33 sgg.;
DUBY, L'economia rurale, p. 56 sgg.; TOUBERT, Le strutture

23
produttive nell'alto medioevo, I, pp. 51-89 e ai contributi di
V. Fumagalli, P. Toubert, G. Sergi, C. Violante in Curtis e signoria
rurale: interferenze fra due strutture medievali.

PASQUALI, I problemi dell'approvvigionamento alimentare,


lxxvi
pp.
93-116; ID., La corvée nei polittici italiani, pp. 107-128.
lxxvii
ID., La corvée nei polittici italiani, p. 109.
lxxviii
Cfr. cap. I, note 68-73.
lxxix
PASQUALI, I problemi dell'approvvigionamento alimentare, p. 104.

Ibidem, pp. 102-103. Per l'attestazione di curtes in cui è


lxxx

esclusiva l'utilizzazione di manodopera servile cfr. nota 92 sgg.


In assenza di polittici diventa invece problematico documentare
il rapporto fra lavoro servile e lavoro libero in altre curtes
coeve della Lombardia: cfr. RAPETTI, Dalla "curtis" al "dominatus
loci", paragrafo 1.

Inventari altomedievali, pp. 54-59. Per l'ubicazione delle corti


lxxxi

si accolgono le proposte di G. Pasquali, editore del polittico.

TOUBERT, Il sistema curtense, p. 19. L'A. ricorre costantemente


lxxxii

all'uso dei termini "esclave", "esclavage", per indicare i rapporti


servili altomedievali: cfr. cap. III.1.
lxxxiii
Cfr. nota 108.
lxxxiv
LUZZATTO, I servi, p. 30; TOUBERT, Il sistema curtense, p. 20.

Inventari altomedievali, p. 56 sg. (Bogonago e Canelle: in


lxxxv

quest'ultima località 22 manenti compiono 3300 opere annuali).

Ibidem, p. 54: le opere annue prestate da 28 manenti sono 2850,


lxxxvi

alle quali va aggiunta l'attività di 3 manenti residenti su una sorte


annessa alle due "assenti", che costituiscono il beneficio dello
scario. Le giornate lavorative degli 11 prebendari maschi sono
verosimilmente 3300, cui vanno aggiunte - per un calcolo
dell'attività strettamente agricola sul dominico - almeno il 50%
delle giornate fornite dalle "feminae infra curte".
lxxxvii
Ibidem, p. 58 sg.

Ibidem, p. 56 sg.: le giornate di lavoro dei prebendari sono 750


lxxxviii

contro le 924 fornite dai lavoratori del massaricio.


lxxxix
Ibidem, pp. 54-56: nella corte di Timoline - divisa in due nuclei
insediativi - le giornate di lavoro presumibilmente prestate dai

24
prebendari ammontano a 1350 (35%), contro le 2250 (65%) fornite dai
lavoratori del massaricio; a Canelle sono 1800 (35%) a carico
dei prebendari e 3300 (65%) quelle a carico dei manenti.
xc
Ibidem, pp. 57-58: si tratta di 6 prebendari maschi e 7 femmine,
che svolgono probabilmente 2850 giornate di lavoro all'anno, contro
58 famiglie di "manentes pertinentes" che prestano 3 opere
settimanali ciascuna, pari a 8700 giornate lavorative.
xci
Cfr. nota 82.
xcii
Inventari altomedievali, pp. 72-73.

Qualora anziché di sette libbre d'argento si fosse trattato di


xciii

sette lire di denari argentei si dovrà inoltre pensare ad attività


di piccolo commercio svolte dai servi casati.
xciv
BLOCH, I caratteri originali, pp. 81-82.
xcv
VERHULST, SEMMLER, Les statuts d'Adalhard de Corbie de l'an 822,
pp. 116-118.

DUBY, L'economia rurale, pp. 59-64: le esigenze signorili talvolta


xcvi

"mettevano il concessionario a servizio del padrone per più


giorni di seguito, senza la sicurezza di poter rientrare ogni sera
al suo domicilio, il che permetteva di impiegarlo lontano, di
mandarlo in missione". Queste incombenze, che talvolta sono definite
"notti", sembrano corrispondere agli obblighi di portare lettere e
mandati che hanno alcuni aldi e servi casati di S. Giulia di Brescia.

FUMAGALLI, Coloni e signori nell'Italia settentrionale, pp.


xcvii

37-49; TOUBERT, Il sistema curtense, pp. 22-34: egli sottolinea


che le cause del frazionamento, che coinvolge anche il massari-
cio, furono la scelta di attribuire terre da valorizzare a "nuovi
manenti", ma anche la concessione di terre ecclesiastiche in be-
neficio a vassalli o a livello ad intermediari; rileva inoltre che
talvolta il frazionamento del dominico porta ad un "miglioramento,
per lo meno momentaneo, del profitto curtense che ha interessato
contemporaneamente i due settori: da una parte, quello delle riserve
dominicali, certamente ridotte ma più compatte e coltivate meglio;
dall'altra, quello delle unità fondiarie in concessione, più
numerose e capaci di erogare allo stesso tempo la quantità
supplementare di manodopera necessaria all'intensificazione della
coltivazione diretta e un sovrappiù di rendita fondiaria indiretta"
(p. 29). Per altro verso, in un recente saggio sulle forme di gestione
della proprietà fondiaria nel Milanese si è ipotizzato che molti
servi venduti o donati insieme con terreni fra IX e X secolo fossero
impiegati nella conduzione diretta di terre slegate da patrimoni

25
curtensi: RAPETTI, Dalla "curtis" al "dominatus loci", testo fra le
note 59-70.

Codice Diplomatico della Sardegna, I, 1, p. 149, doc. 3, 6 mar.


xcviii

1021 (l'atto è stato ritenuto falso dal Besta, il quale lo datò


1245: Ibidem, p. XXXII): una tra le possessiones donate da Ugone,
giudice di Cagliari, alla chiesa di S. Maria di Canovaria
registra la presenza di "servis et ancillis"; p. 153, doc. 7, 5 mag.
1066: servi pertinenti alla chiesa di S. Vincenzo "de Taverna",
donata dal giudice Torchitorio di Cagliari, con altre cinque
cappelle, al monastero di Montecassino; p. 161, doc. 17, a. 1089:
Costantino, re e giudice di Cagliari, fonda il monastero di S.
Saturnino e gli dona chiese e beni con "servis et ancillis".

Un'utile panoramica sui condaghi sinora editi è offerta dal


xcix

recente volume di MELONI e DESSI' FULGHERI, Mondo rurale e Sardegna


del XII secolo, p. 15 sgg. e dal saggio di FOIS, Proteste,
processi, ribellioni, p. 243 sgg.
c
Cfr. Il condaghe di S. Michele di Salvenor, pp. 9, 15 sg.; I
condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, pp.
7, 13.
ci
GUILLOU, La lunga età bizantina, p. 354 sg. E' invece decisamente
superato il vecchio saggio di AMAT DI SAN FILIPPO, Della schiavitù
e del servaggio in Sardegna, pp. 35-74.
cii
Cfr. cap. I, nota 24 sgg.

BLOCH, I colliberti, in ID., La servitù nella società medievale,


ciii

p. 319 sgg. (n. ediz., p. 189 sgg.).


civ
BORGHINI, Le prestazioni di manodopera dei servi, pp. 159-186;
CARTA RASPI, Le classi sociali nella Sardegna medioevale, II,
p. 7 sgg.; DAY, La Sardegna e i suoi dominatori, p. 83 sgg.;
MELONI, DESSI' FULGHERI, Mondo rurale e Sardegna, p. 84 sgg.; UNALI,
La servitù in Sardegna, pp. 222-242. Un atto registrato nel condaghe
del priorato di S. Maria di Bonarcado documenta il pagamento di
vent'anni di servizi (non prestati, a causa dell'assenza del servo
trasferitosi altrove) con la cessione di trenta porci al priorato:
I condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, p.
128, doc. 21.
cv
Cfr. PANERO, Servi e rustici, pp. 134-157.

Per la definizione dei vari tipi di signoria - familiare,


cvi

fondiaria, bannale, territoriale -, spesso riuniti secondo


varie combinazioni nelle mani di uno stesso dominus, cfr. DUBY,
L'economia rurale, p. 338 sgg.; SERGI, Lo sviluppo signorile, p.

26
379 sgg.

La facoltà di testimoniare in tribunale o di presenziare ad atti


cvii

privati in qualità di testi per servi e colliberti è in realtà


attestata esplicitamente in pochi documenti: Il condaghe di
S. Pietro di Silki, p. 26, doc. 95; p. 31, doc. 110; p. 54, doc.
224 p. 76, doc. 317 (Condaghe di S. Maria di Codrongiano); I condaghi
di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, p. 147, doc. 74;
FOIS, Proteste, processi, ribellioni, p. 249; MELONI, DESSI'
FULGHERI, Mondo rurale, p. 164 (Condaghe di Barisone II di Torres).
Sulla decretale di Adriano IV cfr. LANDAU, Hadrians IV. Dekretale
"Dignum est", p. 513 sgg.

I condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, p.


cviii

166, doc. 131: "Et naredimi ipse - dichiara Costantino di Lacon,


giudice d'Arborea -: <<servu volo essere a sancta Maria de Bonarcatu,
et ego et fiiois meos>>. Et ego posillu a iurare de servire
a iuale et ipse et fiios suos a clesia, ad Orzoco et a Comida et
a Iohanni, co et ipsos ateros servos". Mentre tutti gli homines
in stato di servaggio devono servire per quattro giorni alla
settimana, come spetta ai colliberti - in omnia opus quantu aent
fagere sos ateros colivertos" -, le donne devono macinare il grano,
cuocere il pane, pulire, lavare, filare e tessere; inoltre, se non
sono impegnate nel gineceo signorile, ogni lunedì, al tempo delle
messi, devono mietere: "Et mulieres moiant et cogant et purgent et
sabunent et filent et tessant et, in tempus de mersare, mersent omnia
lunis, sas ki non ant aere genezu donnigu". Ovviamente lo status dei
liberi asserviti a monasteri è diverso da quello dei conversi, che
mantengono la loro libertà personale: Ibidem, p. 148, doc. 79.

Invece i servi praebendarii, mantenuti nella casa del signore, in


cix

cui servono per tutti i giorni dell'anno (servi de cadadie),


continuano a rappresentare in età giudicale un relitto storico,
marginale, della "servitù altomedievale": CARTA RASPI, Le classi
sociali, p. 11 sgg. (diverse citazioni di ankille de cadadie e di
serbus de cadadie).
cx
I condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, p.
37 sg., doc. 13; p. 41, doc. 39; p. 56 sg., docc. 110, 114-115; p.
96 sgg., docc. 294-296, 305; p. 127 sg., doc. 21; p. 149
sgg., docc. 82-88; p. 161, doc. 115; p. 174 sg., docc. 147, 149.

Il condaghe di S. Pietro di Silki, p. 10, doc. 27; p. 20, doc. 66,


cxi

p. 31, doc. 111: in tre casi è menzionato un "culivertu" di una


"ankilla"; p. 12, docc. 33-34: sono intercambiabili i termini
"ankilla, servos, colivertas"; p. 31, doc. 110: qui è invece
possibile distinguere i servi dai liberti e dai "colliberti" di
questi ultimi; p. 26 sgg., docc. 95, 98: prete colliberto rispetto

27
ad altri liberti; p. 54, doc. 224: Comita de Varru è rappre-
sentante-procuratore di tutta la comunità degli uomini liberi e dei
colliberti ("mandatore de liveros et tottu colivertos suos"); p.
76, doc. 317: in un atto del condaghe di S. Maria di Codrongiano,
annesso al condaghe di Silki, testimoniano alcuni "ccolivertos" di
Comita de Cotronianu; I condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria
di Bonarcado, p. 58, doc. 122: consenso di tutti i colliberti per
la vendita di un appezzamento di terra; p. 166, doc. 131: servizi
prestati a S. Maria di Bonarcado dai "colivertos"; p. 171, doc. 142:
colliberti testimoni ad una permuta.

Liber privilegiorum ecclesiae


cxii
ianuensis, p. 51 sgg., doc. 34,
a. 1108. Cfr. CARTA RASPI, Le classi sociali, p. 72 sgg.;
PISTARINO, Genova e la Sardegna nel secolo XII, II, p. 41 sgg. Per
il Marongiu, invece, i "termini servo e colliberto non si e-
quivalevano" (MARONGIU, Saggi di storia giuridica e politica sarda,
p. 29 sgg.). Cfr. cap. IX, nota 54.
cxiii
Cfr. cap. III.1 e cap. IX.1.
cxiv
Cfr. cap. VIII, nota 3.

TAMASSIA, I colliberti, p. 154 sgg. Cfr. anche la recensione dello


cxv

stesso autore al saggio del Bloch sui colliberti in "Rivista di Storia


del Diritto Italiano", II (1929), pp. 563-565.

In realtà talvolta il lemma colliberti, come rileva il Tamassia,


cxvi

viene utilizzato nell'accezione di "coeguali", "colliberi", "in


possesso degli stessi diritti": di volta in volta, quindi,
sarà necessario distinguere il primo significato dal secondo
(TAMASSIA, I colliberti, pp. 157 sg., 162).

TAMASSIA, I colliberti, p. 156 sg. Cfr. anche il documento


cxvii

beneventano cit. in cap. VIII, nota 154.

Cfr. ROSSETTI, Il matrimonio del clero, p. 540 sgg.: il concilio


cxviii

Toletano III "al c. VI stabilisce che se i vescovi ordinano preti


e diaconi dei servi, nel modo consentito dagli antichi canoni, questi
siano liberi e tuttavia, tanto essi che i loro discendenti rimangano
sotto il patronato ecclesiastico. Se liberati da laici siano
affidati al patrocinio del vescovo, e il vescovo chieda che dal
principe non vengano ceduti ad alcuno"; il Toletano IV
"dispone che se i vescovi vogliono donare la libertà a un servo della
Chiesa sciogliendolo anche dal patronato ecclesiastico debbano in
cambio dare alla chiesa stessa due servi di egual merito e
valore...Questo liberto non potrà tuttavia testimoniare né muovere
accusa contro la chiesa di cui era servo, pena l'essere ridotto
nuovamente in schiavitù. Il c. LXVIII regola il diritto dei sacerdoti

28
che fanno lasciti alla loro chiesa, o a questa acquistano beni e
servi, di dare la libertà ad alcuni famuli ecclesiastici con i loro
beni e i loro discendenti. Essi potranno essere liberi ma sotto il
patrocinio ecclesiastico...Il canone LXX dispone che quei liberti
che lasciando il patrocinio ecclesiastico siano affidati ad altri,
se ammoniti di ritornare rifiutano siano privati della libertà".

BLOCH, I colliberti, p. 423 sgg. (n. ediz., p. 278 sgg.);


cxix

BARTHéLEMY, La société dans le comté de Vendo^me, p. 483 sgg.


cxx
LIZIER, L'economia rurale dell'età prenormanna, p. 64; TAMASSIA,
I colliberti, p. 160 sgg.
cxxi
Cfr. cap. I, nota 32 sgg.; cap. VIII, nota 15 sgg.

Il condaghe di S. Pietro di Silki, p. 10 sgg., docc. 27, 34, 66,


cxxii

95, 98, 110, 111, 224, 317; p. 76 (S. Maria di Codrongiano), doc.
317: fra i testimoni di un atto appaiono "Comita de Cotronianu
e ccolivertos meos e fratres meos"; Il condaghe di S. Nicola di
Trullas e di S. Maria di Bonarcado, p. 58, doc. 122; p. 166, doc.
131; p. 171, doc. 142. Cfr. nota 107.
cxxiii
Cfr. note 103, 108.

Il condaghe di S. Michele di Salvenor, p. 83, doc. 299: "todos


cxxiv

los hombres de la villa libres y siervos"; I condaghi di S.


Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, p. 48 sg., docc. 70,
73; p. 63, doc. 144; p. 116 sgg., docc. 1, 2; p. 126, doc. 18; p.
140, doc. 37; p. 153, doc. 92. Per i "liberus de paniliu": Codice
Diplomatico della Sardegna, I, 1, p. 154 sg., doc. 8 (datato ante
1080 da Besta e Solmi: Ibidem, p. XXXII).

I condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, p.


cxxv

75, doc. 200; p. 128, doc. 21; p. 147, doc. 74; p. 155, doc. 99.

I condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado,


cxxvi

p. 65, doc. 154; p. 86, doc. 254. Viene immediato il raffronto con
i serfs forains presenti in alcune regioni francesi: cfr. CHéDEVILLE,
Chartres et ses campagnes, p. 367 sg.; PATAULT, Hommes et femmes de
corps en Champagne, p. 257 sgg.

Il condaghe di S. Michele di Salvenor, p. 15, doc. 3 (divisione


cxxvii

dei figli nati da una donna libera e da un servo di S. Michele); p.


23, doc. 16 (matrimonio tra libera e servo); I condaghi di S. Nicola
di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, p. 130 sg., doc. 25;
p. 153, doc. 93; p. 161, doc. 116; p. 188, doc. 174.
cxxviii
Il condaghe di S. Michele di Salvenor, p. 24, doc. 23; Il condaghe
di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, p. 101

29
sgg., docc. 314, 319; p. 133 sgg., docc. 29, 69, 76, 111, 113, 129,
220; Il condaghe di S. Pietro di Silki, p. 7 sgg., docc. 14-18, 21
sgg.; p. 13 sgg., docc. 37-39, 44-45. Cfr. CARTA RASPI, Le classi
sociali, p. 110 sgg.; PATAULT, Hommes et femmes de corps, p. 53 sgg.
cxxix
MELONI, DESSI' FULGHERI, Mondo rurale, p. 84.

I condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, p.


cxxx

49, doc. 73: lite fra tre comunità rurali e l'abate di S. Nicola per
il possesso di terre di uso comune (saltus). Secondo il Solmi (Ibidem,
p. 16) si tratterebbe di un'ostensio cartae effettuata dal
monastero per far valere i propri diritti sul saltus.

TANGHERONI, L'economia e la società della Sardegna, p. 163:


cxxxi

"Sarebbe, tuttavia, erroneo pensare - come spesso si è fatto - che


al di sotto di questo ceto di maiorales esistesse soltanto una
limitata e debole fascia di liberi e, poi, una grande maggioranza
di servi. Anche in questo caso la natura della documentazione ha
fuorviato la ricostruzione del quadro sociale ed economico, almeno
entro certi limiti".

CASULA, La "Carta de Logu" del regno di Arborea, pp. 25 sg.,


cxxxii

278 sg. (sui problemi di datazione della stessa cfr. FOIS, Sulla
datazione della "Carta de logu", pp. 133-148); DAY, La Sardegna e
i suoi dominatori, pp. 89 sgg., 104; FOIS, Proteste, processi,
ribellioni, p. 260; TANGHERONI, L'economia e la società della
Sardegna, p. 188: l'A. sottolinea che già nel corso del Duecento il
processo che portò alla scomparsa del servaggio fu "favorito dalla
confusione giurisdizionale e dalla tradizionale mobilità della
stessa manodopera servile, ma fu anche incoraggiato dalla politica
dei nuovi signori di origine continentale". Sulla condizione servile
nel secolo XIII e all'inizio del XIV cfr. anche TANGHERONI, La "Carta
de logu" del regno giudicale di Calari, p. 29 sgg. La persistenza
della schiavitù di tratta in Sardegna alla fine del Medioevo e
all'inizio dell'Età moderna era già ben documentata in AMAT DI SAN
FILIPPO, Della schiavitù, pp. 57-71, ma cfr. ora CASULA, Gli schiavi
sardi della battaglia di Sanluri del 1409, p. 9 sgg.; PILLAI,
Schiavi orientali a Cagliari nel Quattrocento, pp. 65-87; ID.,
Schiavi africani a Cagliari nel Quattrocento, p. 691 sgg.; VERLINDEN,
L'esclavage, II, p. 343 sgg. (ma nei secoli XIV e XV vi sono anche
Sardi deportati come schiavi in Spagna: Ibidem, I, p. 330 sgg.).

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