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Edizioni Clandestine

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Progetto di copertina: Edizioni Clandestine.

Dieci giorni in manicomio


Nellie Bly
Prima Edizione
©Ed. Clandestine, 2017
Ed. Clandestine, Massa (Ms) - 2017 Stampa: LegoDigit srl, Lavis
(Trento) Isbn: 9788865966921
Titolo originale: Ten days in a madhouse Lingua originale: inglese
Editore originale: Ian L. Munro Publisher Traduzione di Barbara
Gambaccini

Cenno introduttivo

Dal momento in cui le mie esperienze presso l’istituto psichiatrico


sull’isola Blackwell furono pubblicate sul World, ho ricevuto centinaia
di lettere in merito. L’edizione contenente la mia storia è andata
esaurita da tempo ormai e, per soddisfare le richieste che tuttora mi
arrivano a centinaia, sono stata persuasa a pubblicarla in forma di
libro.

Sono felice di informare i lettori che, a seguito della mia indagine nel
manicomio e della conseguente denuncia, la città di New York ha
stanziato un milione di dollari in più all’anno per le cure delle persone
mentalmente instabili. Così, ho quantomeno la soddisfazione di
sapere che quei disgraziati hanno tratto, dal mio lavoro, un qualche
vantaggio.

Nellie Bly
Capitolo 1
Una missione delicata
Era il 22 settembre quando mi fu chiesto dal direttore del World1 se
fossi disposta a farmi internare in uno degli istituti femminili di igiene
mentale di New York, allo scopo di scrivere un resoconto completo e
veritiero sul trattamento delle pazienti lì recluse, sui metodi di
gestione della struttura e altro ancora2. Innanzi a tale bizzarra
proposta, mi chiesi se avrei avuto il coraggio di affrontare le traversie
inesorabilmente connesse a quella missione e, soprattutto, se sarei
stata in grado di assimilare atteggiamento e caratteristiche proprie di
coloro che venivano tacciate di pazzia, al punto da ingannare
l’occhio esperto di medici qualificati, nonché di vivere per almeno
una settimana tra quelle donne, senza che le autorità scoprissero
che io ero una ragazza perfettamente sana infiltratasi nella struttura
per prendere appunti. Ebbene, a quelle domande risposi
affermativamente.

Avevo fede nella mia capacità di attrice ed ero certa di poter fingere
una qualche psicosi per il breve periodo che la mia indagine avrebbe
richiesto.

Sarei dunque riuscita a rimanere almeno una settimana all’interno


del manicomio dell’isola Blackwell?, mi fu chiesto.
1 Ndt. Il New York World è stato un quotidiano statunitense pubblicato tra il 1860 e il 1931.
2 Ndt. Il manicomio di Blackwell aveva, già all’epoca, una pessima reputazione e fu per
questo che Joseph Pulitzer, il direttore del quotidiano New York World chiese a Elizabeth
Cochran, in arte Nellie Bly, di infiltrarsi e documentare fedelmente le sue esperienze. L’isola
Blackwell, oggi rinominata Roosevelt, sorge nell’East River di New York e ha ospitato, nella
storia, non solo l’istituto psichiatrico femminile, ma anche il carcere Welfare Penitentiary,
chiuso nel 1935 dopo la costruzione di un nuovo penitenziario sulla Rikers Island.

Risposi che potevo e che l’avrei fatto. E mantenni l’impegno preso.


Mi informarono che avrei potuto proseguire il mio lavoro ordinario,
finché non mi fossi sentita pronta. Il mio compito sarebbe stato
quello di riportare una cronaca fedele della mia esperienza sotto
copertura e, una volta penetrata all’interno di quelle mura, di scoprire
e descrivere le dinamiche interne, solitamente impossibili da
individuare per via non solo di grate e catenacci posti a sbarramento
di quei luoghi, ma della reticenza di infermiere e medici a parlare di
quanto vi accade.
“Non ti affidiamo questo incarico perché tu ne abbia a trarre un
sensazionale scoop, il nostro obiettivo è semplicemente quello di
conoscere le cose per come sono, nei loro aspetti positivi e negativi;
limitati a elogiare quello che funziona e ritieni appropriato e a
biasimare ciò che non approvi, l’importante è che tu ti attenga ai fatti.
Ciò che mi preoccupa è la tua tendenza a sorridere sempre, giacché
non è quella l’espressione che si rinviene sul volto delle donne
afflitte da follia”.
“Non si preoccupi”, replicai, “saprò adottare il giusto atteggiamento”,
per poi prepararmi a mettere in atto il piano che mi avrebbe
permesso di portare a termine quella delicata e, come ebbi
successivamente modo di scoprire, difficile missione.
Non potevo sapere che, avuto accesso a quel manicomio, come
all’epoca potevo soltanto sperare, la mia esperienza sarebbe andata
ben oltre la semplice descrizione della vita che vi si conduceva. Di
certo, non immaginavo che un simile istituto potesse essere gestito
in modo così inadeguato e che sotto il suo tetto crudeltà
inimmaginabili venissero quotidianamente perpetrate ai danni di
fragili pazienti incapaci di reagire.
Da sempre desideravo conoscere come si svolgesse la vita
all’interno di un istituto di igiene mentale, ma quel desiderio scaturiva
unicamente dalla certezza di poter essere rassicurata sul fatto che
creature indifese trovassero in esso la cura, la protezione e finanche
l’affetto di cui abbisognavano. Reputavo le molteplici storie su
presunti abusi, che avevo letto in proposito, mere esagerazioni atte a
suscitare scandalo, se non vere e proprie fantasie scaturite dalla
mente di qualche esaltato e recavo nell’anima il desiderio latente di
smentirle una volta per tutte.
Purtroppo, oggi non posso che rabbrividire al pensiero di quanto
coloro affetti da una qualche demenza siano totalmente dipendenti
da coloro incaricati di sorvegliarli e di come né pianti, né suppliche
possano garantire loro la ‘scarcerazione’, laddove i custodi si
mostrino intenzionati a negargliela. Ma, all’epoca, di tutto ciò non
avevo alcuna idea ed accettai con entusiasmo di scrivere un
reportage che mi avrebbe condotta all’interno dell’Istituto dell’isola
Blackwell.
“Come mi tirerete fuori”, interpellai il mio editore, “una volta che mi
troverò all’interno?”.
“Ancora non lo so”, replicò, “ma ritengo che sarà sufficiente dire loro
chi sei veramente e per quale scopo ti trovavi lì per ottenere il tuo
rilascio. Tu pensa a trovare il modo di farti ricoverare”.
A dispetto dell’entusiasmo palesato, avevo scarsa fiducia sulla mia
abilità di imbrogliare medici esperti e sospettavo che il mio editore ne
avesse meno ancora. Comunque sia, mi diede carta bianca su come
procedere nei preparativi preliminari. Solo una cosa fu stabilita a
priori: avrei dovuto adottare lo pseudonimo di Nellie Brown,
mantenendo nome e iniziale del mio cognome, in modo da
semplificare l’impresa di rintracciarmi e assistermi nel caso fossi
incorsa in qualche pericolo.
Vi erano diversi modi per entrare in un istituto di igiene mentale, ma
ancora non li conoscevo. Immaginai che avrei potuto muovermi in
una delle seguenti direzioni: simulare una qualche forma di
improvvisa follia a casa di amici e lasciare che mi sottoponessero al
giudizio di medici competenti oppure ottenere il medesimo risultato
passando attraverso la corte giudiziaria.
Dopo una lunga riflessione, ritenni poco opportuno coinvolgere i miei
amici o richiedere l’ausilio di medici affinché mi concedessero la loro
assistenza. Inoltre, per arrivare all’isola di Blackwell, i miei stessi
conoscenti avrebbero dovuto fingersi impossibilitati a provvedere alle
mie cure e, sfortunatamente per i miei propositi, avevo scarsa
familiarità con persone avvezze a vivere in assoluta povertà.
Così optai per il piano che mi avrebbe portata a riuscire in quello che
ritenevo ormai un imprescindibile mandato: essere internata
nell’ospedale psichiatrico dell’isola di Blackwell, dove trascorsi 10
giorni e altrettante notti e vissi un’esperienza che mai più riuscirò a
dimenticare.
Indossati i panni di una giovane, pazza e sfortunata ragazza, reputai
mio dovere non sottrarmi a nessuna delle spiacevoli conseguenze
che tale interpretazione avrebbe comportato.
Mi infiltrai tra le persone incapaci e bisognose di tutela, vidi e
sperimentai personalmente il trattamento accordato alla più inerme
fascia sociale della nostra popolazione e, quando ritenni di aver
raccolto sufficienti informazioni, il mio rilascio fu rapidamente
ottenuto. Lasciai il reparto psichiatrico con la gioia di chi, dopo un
tempo che pareva infinito, può finalmente respirare una boccata di
paradiso e con il rimpianto di non poter portare con me alcune di
quelle sfortunate donne che vissero e soffrirono al mio fianco e che,
di questo sono convinta, non erano meno sane di quanto io stessa
fossi e sono.
Vi è una cosa, soprattutto, che mi lascia oltremodo perplessa: nel
momento stesso in cui fui internata, cessai di atteggiarmi a pazza e
mi comportai in modo assolutamente ordinario. E tuttavia, più
parlavo e agivo razionalmente, più ero ritenuta afflitta da follia da
tutti, ad eccezione di un medico, la cui gentilezza e cordialità resterà
per sempre impressa nel mio cuore.

Capitolo 2
Preparativi per l’ordalia3

Ricevute le istruzioni necessarie, tornai a casa e, poco dopo il


tramonto, mi esercitai al ruolo che, a partire dalla mattina
successiva, avrei dovuto interpretare. Ritenevo un compito improbo
apparire innanzi a una folla e convincerla di essere mentalmente
instabile, soprattutto considerando il fatto che mai, nel corso della
mia esistenza, avevo avuto contatti con persone affette da demenza
e non avevo idea alcuna su come esse si presentassero e agissero.
Senza contare poi il dover essere esaminata da medici che, di tali
problematiche, avevano fatto la loro specializzazione e che
quotidianamente entravano in contatto con individui malati di mente.
Come potevo sperare di ingannare il loro giudizio? Ma, per quanto
fossi certa che, subodorato l’imbroglio, essi avrebbero sancito il
fallimento dell’intera missione, non intendevo darmi per vinta.

Cominciai così a esaminare il mio volto allo specchio, tentando di


ricordare quanto letto circa le espressioni che solitamente
compaiono sui visi delle persone affette da follia. In primo luogo, mi
imposi la fissità dello sguardo, spalancando gli occhi e trattenendomi
il più possibile dallo sbattere le palpebre. Vi assicuro che il volto che
lo specchio mi restituiva, tutt’altro che rassicurante soprattutto nel
cuore della notte, mi incuteva un’orribile impressione. Nel tentativo di
riacquisire il coraggio necessario a proseguire nei miei esercizi, diedi
gas alla lampada, consolandomi al pensiero che tutto ciò era
necessario se davvero volevo finire internata in quel reparto
psichiatrico.
3 Ndt. Antica pratica giuridica, l’ordalia costituiva una prova fisica a cui un imputato veniva
sottoposto. Il suo superamento rappresentava, in modo insindacabile, il giudizio di Dio sulla
sua innocenza, laddove l’eventuale fallimento ne sanciva la colpevolezza.

Non era freddo, ma il pensiero di quanto sarebbe accaduto nei giorni


successivi, mi fece rabbrividire. Di tanto in tanto, alternavo la pratica
innanzi allo specchio con la lettura di storie di fantasmi, così che,
quando l’alba sancì l’inizio di una nuova giornata, presentii di aver
raggiunto lo stato d’animo ottimale per perseguire il mio obiettivo.

Seppure affamata, mi concessi un lungo bagno, sapendo che, se


avessi ottenuto quanto desideravo, sarebbe trascorso parecchio
tempo prima di poter nuovamente pensare alla mia igiene personale.
Poi, indossato l’abito più vecchio e misero presente nel mio
guardaroba, appositamente selezionato per l’occasione, lanciai un
ultimo sguardo alla mia immagine. Non potei fare a meno di riflettere
sull’eventualità che lo sforzo da me fatto per immedesimarmi nei
panni di una giovane folle e la successiva reclusione con una
moltitudine di donne mentalmente squilibrate potesse realmente
danneggiare la mia psiche, provocando danni irreparabili. E tuttavia,
neppure una volta pensai di desistere. Imponendomi la calma, per
loro meno esteriormente, mi apprestai ad affrontare quanto mi ero
prefissa. Avevo deciso di prendere in affitto una stanza in una
pensione, accennando confidenzialmente al proprietario la mia
intenzione di trovare lavoro per poi adottare, nei giorni a seguire, un
atteggiamento viepiù instabile. Nel riconsiderare l’idea, però,
realizzai che quell’iniziale progetto necessitava di troppo tempo per
giungere a maturazione e che sarebbe stato più semplice e rapido
recarmi direttamente in una della case di accoglienza destinate a
donne lavoratrici4.

Ritenevo infatti che, se fossi riuscita a convincere lo stuolo di donne


lì alloggiate della mia follia, esse non avrebbero avuto pace finché,
allontanata dalla struttura, non fossi stata confinata in luoghi
maggiormente sicuri. Dall’elenco telefonico, selezionai la Casa di
accoglienza femminile al numero 84 della Second Avenue.
4 Ndt. Si trattava di piccole strutture poco costose, appositamente destinate a donne single
di umili origini, costrette a lavorare per mantenersi.

Mentre mi apprestavo a raggiungerla, dentro di me ripetevo, quasi


da ciò acquisissi maggior sicurezza, che avrei fatto del mio meglio
per poter iniziare il mio viaggio verso l’Istituto Psichiatrico dell’isola
Blackwell.

Capitolo 3
Alla casa di alloggio temporaneo

Quel giorno ebbe inizio la mia nuova vita come Nellie Brown, una
povera ragazza squilibrata. Nel percorrere le strade che mi
avrebbero condotto alla Pensione per donne indigenti, cercai di
conformare il volto nelle espressioni mostrate dalle figure femminili in
quadri intitolati “Sognanti” o “Lontananza”, espressioni che
mostravano un evidente indice di straniamento e follia. Attraversato il
piccolo cortile che dava accesso a quello che sarebbe stato il mio
nuovo, temporaneo alloggio, suonai il campanello, che echeggiò
tutt’intorno quasi provenisse dal campanile di una chiesa, e mi
predisposi nervosamente all’attesa, ripetendomi che, da quella casa,
sarei uscita unicamente per essere affidata alla custodia della
polizia.

La porta si spalancò con violenza e mi ritrovai innanzi a una giovane


sui trent’anni, bionda e di bassa statura, a cui chiesi con un filo di
voce: “La direttrice è in casa?”.

“Sì, ma al momento è occupata. Dovrai attenderla nel salotto sul


retro”, fu la brusca risposta che ne trassi.
Seguendo queste istruzioni, pronunciate con assoluta scortesia, mi
ritrovai in un cupo, sgradevole salotto, dove attesi l’arrivo della
proprietaria. Sedevo all’incirca da venti minuti quando una donna
esile, avviluppata in un semplice abito nero entrò e, fermandosi di
fronte a me, esclamò in tono inquisitorio: “Ebbene?”.
“Siete voi la proprietaria?”, domandai a mia volta.
“No”, replicò quella, “la direttrice è malata. Sono la sua assistente.
Cosa vuoi?”.
“Vorrei prendere alloggio qui per qualche giorno, se potete darmi una
stanza”.
“Bene, non ho camere singole, al momento siamo piuttosto affollati,
ma puoi dividerne una con un’altra ragazza. Questo si può fare”.
“Ne sarei felice”, risposi, “a quanto ammonta la pigione?”.
Avevo portato con me soltanto settanta centesimi, sapendo che,
prima si fossero esauriti, prima sarei stata messa alla porta e quello,
alla fine dei conti, era il mio obiettivo.
“Trenta centesimi a notte”, affermò e, dopo che l’ebbi pagata per
quella prima notte, si allontanò con la scusa di dover adempiere ad
altre incombenze. Lasciata a me stessa, cominciai a esaminare
l’ambiente.
Nulla vi era in esso di accogliente. Un armadio, una scrivania, uno
scaffale per i libri, l’organo e diverse sedie completavano lo squallido
arredamento della stanza, in cui la luce del sole filtrava a malapena.
Avevo appena terminato di familiarizzare con quel contesto, quando
dal sottoscala risuonò una campana che ben rivaleggiava, per il suo
aspro e assordante tintinnio, con il campanello dell’ingresso e
immediatamente una moltitudine di donne, che pareva fuoriuscire da
ogni dove, prese a discendere rumorosamente le scale.
Immaginai che la cena fosse servita, ma, dal momento che nessuna
di loro mi si rivolse, evitai di accodarmi alla folla. Avrei voluto che
qualcuna mi si avvicinasse per invitarmi dabbasso, giacché sempre il
sentirsi escluse da un’attività che accomuna gli altri induce una
sensazione di solitudine e di opprimente nostalgia. Così non potei
che rallegrarmi quando la solerte assistente, fatto capolino, mi
chiese se volessi qualcosa da mangiare. Risposi positivamente e le
domandai il suo nome. Mrs Stanard, disse ed io lo trascrissi
furtivamente nel taccuino appositamente acquistato nel quale avevo
precedentemente vergato intere pagine di frasi prive di senso,
sperando che finisse nelle mani dei medici inquisitori.
Seguii Mrs Stanard nel seminterrato, dove innumerevoli donne
stavano pranzando, ed ella mi trovò un posto ad un tavolo con altre
tre ragazze; colei che mi aveva aperto la porta indossava ora i panni
di cameriera. Piazzatasi innanzi a me, le mani sui fianchi e lo
sguardo impassibile, prese a elencare: “Carne di montone o bovino
bollita, fagioli, patate, caffè o tè?”.
“Manzo, patate, caffè e del pane”, risposi.
“Il pane viene portato qualsiasi sia la pietanza scelta”, spiegò prima
di dirigersi verso la cucina, posizionata sul retro. Non trascorse molto
tempo prima che ella facesse ritorno con quanto da me ordinato
disposto su un usurato vassoio, che gettò in malo modo sul tavolo.
L’aspetto non era affatto allettante, così, facendo finta di mangiare,
lanciai un’occhiata alle altre.
Avevo sovente moralizzato sull'aspetto ripugnante che la carità
solitamente assume. Quella in cui mi trovavo doveva essere una
confortevole sistemazione per donne rispettabili, ma tutto in essa
appariva una presa in giro. Il pavimento era in pietra viva e i piccoli
tavoli in legno parevano ignorare le minime regole di decenza e
abbellimento, quali la verniciatura, una mano di lucido e, soprattutto,
la presenza di igieniche tovaglie. Potrei continuare a lungo nella
descrizione di quel luogo, ma mi limiterò ad accennare alla
grossolanità delle lenzuola, decisamente sudicie e poco adatte a un
contesto civile. Eppure, si pretende che queste oneste e stimabili
lavoratrici chiamino questo squallido luogo ‘casa’.
Terminato il pasto, ogni donna si diresse al tavolo sull’angolo, dove
Mrs Stanard sedeva, per pagare quanto consumato. Quell’originale
emblema di umanità che mi aveva servito il pasto mi porse una
ricevuta riciclata: ammontava a trenta centesimi. Tornata di sopra, mi
sedetti nuovamente nel salottino sul retro. Avevo freddo e percepivo
un certo disagio: mi ripetevo che dovevo a tutti i costi accelerare le
cose per sfuggire a quella forzata inattività. Fu veramente uno dei
giorni più lunghi che mai ebbi modo di vivere. In silenzio, guardavo le
altre donne, che si erano raccolte nel salotto principale. Una di loro
leggeva e, scuotendo la testa, occasionalmente chiamava con
gentilezza: “Georgie”, senza mai distogliere lo sguardo dal libro.
“Georgie” era il suo ragazzino, eccezionalmente vivace e capace di
produrre più rumore di qualsiasi altro fanciullo da me conosciuto fino
a quel momento.
Qualsiasi cosa egli facesse, appariva volgare e scostumata. La
madre, a meno che qualcun'altra non intervenisse urlandogli di
smettere, sembrava non preoccuparsi minimamente del suo
comportamento.
Un’altra sonnecchiava su una poltroncina, destandosi di tanto in
tanto per via del suo stesso russare.
La maggior parte delle inquiline sedeva là senza fare alcunché,
mentre qualcuna lavorava incessantemente a maglia. Il campanello
del portone risuonava in continuazione, costringendo la ragazza dai
capelli corti a procedere avanti e indietro senza tregua, dilettandosi
nel cantare a squarciagola stralci di tutte le canzoni e gli inni
composti negli ultimi 50 anni.
Un vero e proprio martirio! Al reiterato scampanellare, seguivano
nuove comparse, in cerca di un alloggio per la notte. Ad eccezione di
una di loro, che si trovava in città per alcuni acquisti e, così mi disse,
sarebbe rientrata il giorno dopo nel suo paese, erano tutte donne
lavoratrici o in cerca di lavoro, talune accompagnate dalla prole.
Mentre, verso sera, ero intenta a disegnare, Mrs Stanard mi si
avvicinò, dicendo: “Cosa c’è che non va in te? Hai qualche
dispiacere o problema?”.
“No”, replicai stupita, “perché lo chiede?”.
“Ebbene, te lo si legge in faccia. La tua espressione rivela qualche
grave tribolazione”.
“Sì, è tutto così triste”, replicai conformandomi in viso un’espressione
stranita, con la quale intendevo mostrargli un qualche accenno di
follia.
“Non devi cedere a certi brutti pensieri. Tutte noi abbiamo i nostri
problemi, ma li affrontiamo sperando in tempi migliori. Che genere di
lavoro stai cercando?”.
“Non lo so”, seguitai, “è tutto così deprimente”.
“Ti piacerebbe essere impiegata come infermiera nel reparto
pediatrico e indossare un grazioso cappellino bianco e un
grembiule?”, mi domandò.
Mi coprii il volto con il fazzoletto nel tentativo di celare il sorriso che
mi era sfuggito e risposi, con tono smorzato, “Non ho mai lavorato.
Neppure so come si faccia”.
“Ma dovrai pur imparare”, insistette, “tutte le donne che vedi qui
hanno un lavoro”
“Realmente?”, sospirai tremante, “perché mi sembrano tutte così
orribili, sembrano pazze. Ho tanta paura di loro”.
“Beh, forse non hanno un aspetto particolarmente cordiale”, mi
rispose con condiscendenza, “ma sono brave e oneste lavoratrici.
Non ospitiamo persone squilibrate qui”.
Pensando che, prima del mattino, ne avrebbe rinvenuta almeno una
nel suo gregge, trattenni a stento un sorriso.
“Sembrano tutte matte”, ripetei, “e mi spaventano. Ci sono così tanti
psicopatici al mondo e nessuno può sapere cosa faranno. Se si
pensa a tutti gli omicidi irrisolti che si verificano quotidianamente…”,
conclusi con un singhiozzo che avrebbe commosso i critici più
indifferenti.
Nel vederla sussultare, compresi che il mio primo colpo era andato a
buon fine. E invero era divertente vedere con quanta rapidità si
sollevò dalla sedia, sussurrando: “Tornerò più tardi a parlare con te”.
Sapevo che non lo avrebbe fatto.
Quando risuonò la campana della cena, mi accodai alle altre e presi
parte al rito collettivo del pasto, che non differiva, nelle portate, dal
pranzo, se non per la tariffa ridotta e il maggior numero dei
commensali, giacché ad esso presenziarono anche coloro che,
durante il giorno, erano impegnate altrove nel lavoro.
In serata ci radunammo nei salottini, che non disponevano di sedie a
sufficienza per tutte. Trascorsi il tempo in desolata solitudine, mentre
la luce che defluiva da una solitaria lampada a gas nel salotto e da
una ad olio nel corridoio avvolgeva tutte noi, dipingendo un cupo
quadretto che ben rispecchiava il nostro stato d’animo. Sentivo che
non avrei abbisognato di una lunga permanenza in quell’atmosfera
per poter mutare nel soggetto adeguato allo scopo che mi
proponevo.
Osservai due donne, che tra le tante apparivano maggiormente
socievoli e decisi che esse sarebbero state, loro malgrado, complici
della mia salvezza, o meglio, della mia condanna e reclusione.
Scusandomi e asserendo di sentirmi sola, domandai se potessi
unirmi a loro. Cortesemente annuirono, così, senza togliermi
cappello e guanti, mi sedetti e mi predisposi ad ascoltare la loro
noiosa conversazione, alla quale non presi parte se non accennando
dei semplici “Sì”, “No” o “Non saprei”, innanzi alle loro osservazioni.
Ogniqualvolta se ne presentasse la possibilità, accennavo al fatto
che ritenevo tutte le donne là presenti delle pericolose squilibrate,
ma esse non parvero curarsi di quando affermavo con decisione.
Una delle due, di palesi origini meridionali, si presentò come Mrs
King. Affermando che il mio accento sembrava parimenti del sud, mi
chiese se fossi originaria di quelle parti. Limitai la mia risposta a un
cacofonico “Sì”.
L’altra, preso a parlare delle navi di Boston, mi domandò se ne
conoscessi gli orari di partenza. Dimenticando per un attimo il ruolo
che mi ero imposta di interpretare, le diedi l’orario corretto. Ma,
quando mi chiese quale impiego stessi cercando o se mai avessi
avuto un lavoro, rientrata nella parte, replicai asserendo che trovavo
molto triste che vi fossero al mondo così tante persone impiegate in
una qualche attività. Mi rivelò che, non appena giunta a New York,
aveva lavorato per qualche tempo come correttrice di bozze su un
dizionario medico, ma la sua salute nel frattempo era peggiorata e si
vedeva ora costretta a far ritorno a Boston.
D’un tratto la domestica ci avvisò che era giunto il momento di
coricarci e io, guardandola afflitta, riproposi la ricorrente lamentela di
come le altre inquiline apparissero insane ai miei occhi e di quanto la
loro presenza mi terrorizzasse. La donna, guardandomi stranita,
insistette affinché mi andassi a coricare nella camera a me
assegnata. Domandai allora se potessi dormire sulla scalinata che
dava accesso al primo piano, ma quella con decisione proferì:
“Assolutamente no, o saranno loro a ritenerti pazza”.
Dopo ulteriori e vane insistenze, acconsentii a raggiungere la mia
stanza. Qui devo fare una piccola parentesi per descrivere la donna
che doveva, il giorno successivo, rientrare a Boston. Mrs Caine, tale
era il suo nome, mi diede da subito l’impressione di essere una
donna coraggiosa e di buon cuore. Compresa l’angoscia che mi
imponevo di lasciar trasparire, mi propose di accompagnarmi
personalmente in camera, dove rimase a chiacchierare con me,
accarezzandomi i capelli per tranquillizzarmi. Più volte tentò di
persuadermi a indossare la camicia da notte e infilarmi nel letto,
cosa a cui io mi opposi tenacemente.
Per tutto il tempo, le altre ospiti vennero a vedere cosa stesse
accadendo e tutte espressero, in un modo o nell’altro, il loro
sconcerto. Tra le varie esclamazioni che, di tanto in tanto, mi
rivolgevano, alcune sembravano scaturire dalla compassione, altre
evidenziavano il fastidio che la mia presenza procurava loro: “Non
posso tollerare la presenza di una tale pazza tra queste mura”, e
ancora, “Prima dell’alba ci ucciderà tutte!”, “È una squilibrata!”.
Alla fine, una delle donne sentenziò che, se non mi fossi
tranquillizzata, si sarebbe reso necessario ricorrere all'intervento
delle forze dell’ordine, affinché si prendessero l'incarico di condurmi
altrove. Sembravano realmente terrorizzate e nessuna volle
assumersi l’onere di rimanere con me. In particolare, colei con la
quale avrei dovuto condividere la stanza, dichiarò che non sarebbe
rimasta da sola con la ‘pazza’ neppure per tutto il denaro dei
Vanderbilt5.
Dopo interminabili discussioni, Mrs Caine si dichiarò disponibile a
rimanere al mio fianco, cosa per la quale le espressi la mia
gratitudine. Quando rimanemmo sole non si spogliò, ma si distese
sul letto, osservando i miei movimenti. Per quanto tentasse a più
riprese di indurmi a fare altrettanto, mi rifiutai, sostenendo di essere
troppo spaventata per riuscire a dormire. In realtà, ero talmente
esausta che, se solo mi fossi sdraiata, mi sarei immediatamente
addormentata e temevo che, mostrandomi nel sonno serena come
un fanciullo, avrei vanificato la recita di quella sera. Così insistetti a
permanere seduta sul bordo del letto, fissando il vuoto con occhi
spalancati. In tal modo, imponevo a me stessa, per usare
un’espressione gergale, di abbandonarmi a quello che doveva
sembrare il definitivo collasso del mio spirito.
La brava donna si mostrava devastata dal mio atteggiamento.
Continuava a sollevare il capo per guardarmi, dicendomi che i miei
occhi, nell’oscurità, risultavano incredibilmente luminosi. Poi,
cominciò a pormi domande, quasi il suono delle nostre voci fosse
per lei maggiormente rassicurante di quel silenzio cupo, che le
ombre notturne colmavano di mistero. Mi chiese dove avessi vissuto,
da quanto tempo mi trovassi a New York e molto altro. Per quanto mi
dolesse imbrogliare una così generosa creatura, non potevo fare a
meno di calarmi nella parte. Pertanto, risposi di non ricordare
alcunché: qualche giorno prima, affermai, ero stata colpita da
un’insopportabile emicrania e, a partire da quel momento, ogni
memoria pareva avvolta da una coltre di nebbia.
Povera anima! Quanto crudelmente torturai quel suo buon cuore! E
quale incredibile influsso esercitò la mia presenza su tutte quelle
fragili inquiline. Una di loro, all’incirca un’ora dopo che si era chiusa
nella sua stanza, lanciò un urlo così agghiacciante da indurmi a
credere di essere già relegata in un manicomio.
Anche Mrs Caine, svegliatasi di colpo, si guardò attorno spaventata,
per poi porsi in ascolto. Alla fine, decisa a scoprire l’accaduto, uscì in
corridoio, dove la sentii parlare con una delle ospiti. Rientrata in
camera, mi rivelò che una donna aveva avuto un terribile incubo, nel
quale mi aveva visto strisciare verso di lei con un coltello tra le mani,
intenzionata a ucciderla. L’urlo, destatala all’improvviso, le aveva
permesso di scacciare quelle angoscianti fantasie.
Quando Mrs Caine si coricò nuovamente, compresi dalla sua
agitazione che, seppure esausta, non sarebbe più riuscita ad
addormentarsi. Io ero provata dagli avvenimenti di quella lunga
giornata, ma a tutti i costi intendevo raggiungere il mio proposito
prima del sorgere del sole, a cui mancavano ancora sei, interminabili
ore.
Il tempo pareva trascorrere con inesorabile lentezza, tanto che pochi
minuti apparivano alla mia percezione come ore. A poco a poco, la
casa e le strade che la circondavano sprofondarono nel silenzio.
Temendo di crollare tra le braccia di Morfeo, ripercorsi con la mente
la mia intera esistenza. Come sembrava inverosimile rivivere, in quel
frangente, quanto da sempre ritenevo parte di una monotona
normalità. Richiamai alla memoria i miei più cari amici, di cui
all’improvviso percepii la mancanza, i miei antichi nemici, rividi gli
episodi dolorosi e lieti che avevano colmato la mia esistenza e, per
qualche istante, mi parve di capovolgere il tutto, tanto da mutare il
passato in presente. Realizzai come ogni evento nella vita di
ciascuno, perfino il più irrilevante, costituisse un anello che ci
incatena al nostro ineluttabile destino.
Quando il mio viaggio a ritroso lungo gli intricati sentieri dei miei
trascorsi giunse a conclusione, proiettai la mia mente nel futuro,
domandandomi ansiosa dove mi avrebbe condotto il domani e
pianificando i prossimi passi da compiere.
Mi chiesi se sarei stata capace di attraversare indenne quel
periglioso rivo che avrebbe soddisfatto la mia strana ambizione e di
divenire provvisoriamente un’ospite di quelle mura dove
soggiornavano tante donne con problemi mentali e mi preoccupai di
cosa, all’interno di quella struttura, avrei dovuto sperimentare, prima
delle definitive dimissioni. Perché, per quanto non potessi fare a
meno di chiedermi come sarei riuscita a uscirne, sapevo che, in un
modo o nell’altro, il mio editore e i miei colleghi non mi avrebbero
abbandonato.
Fu quella la più lunga notte della mia vita, quella in cui misi in
discussione ogni cosa e mi trovai a faccia a faccia con me stessa.
Guardai fuori dalla finestra, salutando con gioia i primi, deboli raggi
del sole nascente. Nonostante il graduale diffondersi della luce
all’interno, nella casa incombeva il silenzio. La mia compagna
dormiva ora profondamente e immaginai che sarebbero occorse
ancora un paio di ore prima che la vita riprendesse il suo quotidiano
corso. Fortunatamente, trovai un qualche intrattenimento per la mia
mente. Mi sovvenni di Robert Bruce, il quale, durante la cattività che
si era imposto, non aveva perso le speranze, trascorrendo il tempo a
osservare il lavorio di un ragno intento a costruire la sua tela6.
Ebbene, se anche non disponevo di un aracnide per tener desto il
mio spirito di osservazione, scovai altri insetti che, seppure meno
nobili, suscitarono il mio interesse. E credo perfino di aver fatto, in
merito ad essi, qualche interessante scoperta scientifica. Accadde
quando, per evitare di soccombere al sonno, avevo cominciato a
camminare per la stanza: avvertito un lieve movimento, vidi qualcosa
cadere sul mio letto, producendo un rumore sordo appena
percettibile. Si trattava di enormi, disgustose blatte, il cui
comportamento ebbi l’opportunità di studiare con grande perizia: era
evidente che esse si erano avvicinate allo scopo di poter godere di
una lauta colazione e che il fatto di non rinvenire sul letto quella che
ritenevano essere la loro principale portata, le aveva alquanto
innervosite. Presero infatti a scorrazzare su e giù per il cuscino, per
poi radunarsi in un punto, dove rimasero per qualche istante intente
in una sorta di conversazione, probabilmente lamentandosi per
un’assenza, la mia, da cui intendevano trarre il mattutino
sostentamento. Dopo una lunga, reciproca consultazione, quegli
straordinari scarafaggi, dalle dimensioni e agilità a dir poco
sorprendenti, si dispersero tra le fessure del pavimento, sicuramente
alla ricerca di un’altra vittima.
In quel momento, la mia compagna di stanza si destò, mostrandosi
sorpresa nel vedermi in piedi. Più che mai comprensiva, mi prese le
mani tra le sue e tentò di consolarmi, chiedendomi se non
desiderassi far ritorno dalla mia famiglia. Temendo potessi prendere
freddo, mi avvolse in una coperta e rimase in camera con me finché
non fu certa che la maggior parte delle inquiline fosse uscita. Solo
allora mi accompagnò dabbasso perché facessi colazione. Dopo
aver consumato un caffè e un panino dolce, in assoluto silenzio,
tornai in camera, dove mi accucciai a terra, fingendomi depressa e
avvilita.
In preda a una crescente ansia, Mrs Caine mi chiese: “Cosa
dobbiamo fare con te? Hai degli amici? Qualcuno che posso
contattare?”.
“Non so”, replicai, simulando un’incontenibile agitazione, “non credo
di avere amici in questo paese, ma so di avere dei bauli da qualche
parte, dove potranno mai essere? Devo assolutamente riaverli!”.
Quella brava donna cercò di tranquillizzarmi, dicendo che li
avrebbero trovati. Ormai pareva del tutto convinta della mia follia.
Non ritengo di doverla rimproverare per questa sua falsa
persuasione. Quando si vivono certe esperienze e ci si scontra con
problemi che mai si sarebbero neppure concepiti, si realizza quanto
il mondo pecchi in simpatia e gentilezza e quanto la presenza di
persone come Mrs Caine divenga significativa. Fu la sola, in quella
casa, a mostrare nei miei confronti una qualche empatia. Nelle ore
successive, le altre, ad eccezione di quelle troppo spaventate dal
mio comportamento per avvicinarmisi, approfittarono della mia breve
permanenza per fare di me una fonte di diletto, perseguitandomi con
motteggi e tempestandomi di domande crudeli che, se davvero
avessi avuto problemi mentali, mi avrebbero terribilmente prostrato.
Solo la gentile e delicata Mrs Caine riuscì a manifestare sentimenti
di vera umanità e solidarietà femminile, esortando ripetutamente le
altre a smettere di importunarmi e protestando quando qualcuna
suggerì di chiudermi a chiave da sola nella stanza, così che non
avessi a procurare danni ad alcuno. Mai per un istante mi
abbandonò, seguitando ad accarezzarmi i capelli e a rivolgersi a me
con il tono dolce e affettuoso che una madre riserva ai propri figli. A
lungo mi cullò tra le braccia per arginare lo sconforto di cui mi
riteneva preda, sussurrando, con sincera compassione: “Povera
bambina, povera bambina!”.
Quanto ammirai il suo coraggio e la sua dolcezza! Avrei tanto
desiderato rassicurarla, dicendole che non ero affatto pazza e
ricordo di aver sperato che ogni povera ragazza, trovandosi nel reale
stato che io semplicemente interpretavo, potesse avere la fortuna di
incontrare una persona parimenti cara e onesta, pervasa dal
medesimo spirito di carità che animava Mrs Caine.
5 Ndt. I Vanderbilt sono una famiglia di origini olandesi, divenuta famosa a livello
internazionale nel corso del 1800, grazie al patriarca Cornelius Vanderbilt, che creò un
impero basato sul trasporto ferroviario e marittimo.
6 Ndt. La figura di Robert the Bruce è da sempre sinonimo di forza e perseveranza:
considerato uno dei più grandi Re di Scozia e tra i migliori guerrieri della sua epoca, è
considerato un eroe nazionale, a cui sono dedicati monumenti e opere in tutta la Scozia.
Come ogni personaggio degno di nota in quel paese, è circondato da un alone di mistero e
curiosità. Pare che, in un momento di sconforto, dopo le battaglie perse contro il re
d’Inghilterra Edoardo, si fosse confinato a riflettere in una caverna, dove poté notare l’opera
di un ragno. Questi per sei volte aveva provato a tessere una tela che però si distruggeva
ogni volta, fino al settimo tentativo, che riuscì egregiamente: si dice che Robert fosse
talmente colpito dalla perseveranza dell’aracnide, che raccolse la forza e il coraggio
necessario per riformare un suo esercito di soldati scozzesi.

Capitolo 4
Il giudice Duffy e la polizia

Interpretai con cura il mio ‘ruolo’ fino all’arrivo di Mrs Stanard. Ella,
col palese intento di allontanarmi, nel modo più discreto possibile,
dalla sua pensione, cercò di calmarmi e di convincermi a far ritorno
dalla mia famiglia, che di certo ne avevo una.

Ma non era così che doveva finire. Non potevo semplicemente


andarmene, dovevo attirare l'attenzione delle forze dell’ordine se
volevo riuscire nel mio intento. Così, rifiutandomi di lasciare
l’alloggio, seguitai a lamentarmi per il mio bagaglio andato perduto.
Alla fine, qualcuno suggerì di andare a chiamare un poliziotto e Mrs
Stanard, indossata la cuffia, si assunse l’onere di occuparsene. Fu in
quel momento che compresi di aver fatto il primo passo verso la
reclusione in un manicomio. Tornò accompagnata da due poliziotti,
che entrarono nella stanza senza alcuna cerimonia, aspettandosi
con tutta probabilità di trovarsi innanzi una persona violenta e del
tutto fuori di sé. Uno di loro rispondeva al nome di Tom Bockert.
Quando fecero il loro ingresso, finsi di non notarne la presenza.

“Desidero che la portiate via con la massima discrezione”, sancì Mrs


Stanard.
“Se ci seguirà senza storie, altrimenti dovremo trascinarla fuori con
la forza”, replicò uno degli agenti.
Io seguitai a non far caso a loro, ma, dentro di me, stabilii di seguirli
senza eccessivo chiasso, giacché, una volta all’esterno, se avessi
attirato troppa attenzione, qualcuno, tra la folla che si sarebbe
immancabilmente radunata, avrebbe potuto riconoscermi.
Fortunatamente Mrs Caine intervenne in mio soccorso. Raccontò ai
poliziotti delle mie proteste in merito a un bagaglio scomparso e
insieme pianificarono di convincermi ad andare con loro con la scusa
di cercare quanto avevo perduto. Quando mi chiesero se volessi
seguirli, replicai che avevo paura a muovermi sola in loro
compagnia.
Mrs Stanard sostenne che mi avrebbe accompagnato e chiese agli
uomini di seguirci a rispettosa distanza. Poi, mi legò un velo sul capo
e lasciammo la casa, incamminandoci per le strade con la scorta dei
due ufficiali. Giunti alla stazione di polizia, con la pretesa che lì avrei
potuto denunciare la scomparsa dei miei effetti personali, entrai
pervasa da una profonda e giustificata apprensione.
Qualche giorno prima, infatti, durante un convegno tenutosi alla
Cooper Union7, avevo incontrato il capitano McCullagh, a cui avevo
chiesto alcune informazioni. Se egli si fosse trovato lì, avrebbe
potuto riconoscermi, vanificando tutti i miei sforzi di essere confinata
nell’isola.
Così, abbassato il velo sulla fronte il più possibile, mi preparai alla
disfatta. Un uomo sostava in piedi nei pressi del bancone e, certa
che si trattasse proprio di McCullagh, evitai di incrociare il suo
sguardo. Per fortuna, lui, impegnato ad esaminare alcuni documenti,
mi riservò soltanto una rapida occhiata priva di interesse. Nel
frattempo, l’ufficiale al banco conversava a bassa voce con Mrs
Stanard e con uno dei poliziotti che ci aveva condotte lì.
“Siete voi Nellie Brown?”, mi domandò poi l’ufficiale.
Risposi che supponevo di esserlo.
“Da dove viene?”.
Replicai di non ricordarlo e Mrs Stanard si premurò di dargli le
informazioni in suo possesso, sostenendo che mi ero comportata in
modo strano durante la mia breve permanenza nella sua pensione,
che non avevo chiuso occhio per tutta la notte e che, secondo lei,
ero una povera, sfortunata ragazza resa folle a seguito di un qualche
maltrattamento subito. Seguì un’accesa discussione tra Mrs Stanard
e i due ufficiali, poi Tom Bockert ricevette l’ordine di condurci al
cospetto della magistratura.
7 Ndt. Si tratta di un’università dislocata a Manhattan, New York, fondata nel 1859 da Peter
Cooper, che garantisce una borsa di studio completa a tutti i suoi studenti, selezionati
unicamente in base al merito.

“Seguitemi”, mi disse Bockert, “troveremo i vostri bauli”. Ringraziai


Mrs Stanard che si offrì di accompagnarci. Mentre camminavamo,
continuai a ripetere la storia del mio

bagaglio andato perduto, alternandola con alcune osservazioni circa


la sporcizia disseminata lungo le strade e l’aspetto curioso delle
persone che incontravamo.

“Non credo di aver mai visto gente così strana fino ad oggi”,
sostenevo, guardandomi attorno con espressione stranita, “chi sono
tutti costoro?”.

Rivolgendomi sguardi frammisti di commiserazione e sconcerto, i


miei accompagnatori, il volto contratto in una smorfia di pietà,
parevano ormai certi ch’io fossi un’immigrata, proveniente da chissà
quale paese. Quando risposero, asserendo che si trattava di
semplici operai, ripetei quando precedentemente affermato alla
pensione, ovvero che ritenevo vi fosse al mondo un numero
eccessivo di lavoratori, se comparato agli impieghi realmente
necessari, asserzione che mi valse uno sguardo sconcertato da
parte di Bockert, il quale probabilmente trasse dalle mie parole la
conferma di uno stato mentale irreparabilmente danneggiato.
Nel tragitto ci imbattemmo in diversi poliziotti, i quali, incuriositi,
chiesero al mio robusto guardiano in cosa fossi implicata. Nel
frattempo uno stuolo di laceri ragazzini si era accodato, facendo
commenti originali e, devo ammettere, divertenti su di me.

“Di cosa è accusata?”, “dicci agente, dove la porti?”, “la metterete in


prigione?”, “è troppo carina per essere una criminale!”.
Povera Mrs Stanard, era molto più spaventata di quanto io fossi,
anche se, in quel momento, temevo che il giudice non avrebbe
creduto alla mia storia.
Giungemmo infine davanti a un basso edificio, dove Tom Bockert,
gentilmente mi spiegò: “Ecco, questo è l’ufficio addetto al
rinvenimento della merce abbandonata sui mezzi da trasporto.
Dovremmo riuscire a trovare i suoi bagagli qui”.
All’ingresso era assiepata una discreta folla e, fingendo di non
comprendere dove realmente ci trovassimo, domandai se tutte
quelle persone fossero lì per recuperare le proprie valigie. “Sì”,
rispose l’agente, “la maggior parte per lo meno”. “Sembrano tutti
stranieri”.
“È così, i più sono appena sbarcati e hanno smarrito i propri effetti
personali. Dedichiamo molto tempo per aiutarli a ritrovare ciò che è
andato perduto”.
Entrammo in quella che, in realtà, era la corte di giustizia della
polizia di Essex. A breve, pensai, la decisione in merito al mio stato
mentale e alla destinazione da attribuirmi sarebbe stata presa da un
magistrato.
Il giudice Duffy sedeva dietro un’alta cattedra, il viso conformato in
un’espressione che palesava l’intento di dispensare all’ingrosso stille
di umana gentilezza. L’amabilità che traspariva dalla sua persona mi
portò a temere di non riuscire a ottenere quanto speravo e fu con
grande agitazione che seguii Mrs Stanard quando, terminato che
ebbe Tom Bockert di fornire il proprio resoconto della faccenda, il
magistrato ci fece cenno di avvicinarci.
“Come ti chiami”, mi chiese uno dei poliziotti lì presenti.
“Nellie Brown”, replicai, “Ho perso le mie valigie e vorrei che mi
aiutaste a ritrovarle”.
“Quando sei arrivata a New York?”.
“Non sono mai arrivata a New York”, replicai, aggiungendo dentro di
me “perché sono sempre stata qui”.
“Ma ti trovi a New York in questo momento”.
“No”, risposi rivolgendogli lo sguardo incredulo che, ritenevo, una
persona mentalmente confusa avrebbe assunto in quel frangente:
“non sono mai stata a New York”.
“Quella ragazza è sicuramente occidentale”, aggiunse quegli in un
tono che mi fece tremare, “quantomeno, ha un accento occidentale”.
Qualcun altro però, che aveva ascoltato la conversazione, lo smentì
asserendo che, avendo vissuto al sud, riconosceva nella mia parlata
il tipico accento di quei luoghi, laddove un altro si disse certo della
mia provenienza orientale.
Non potei fare a meno di sentirmi sollevata quando Tom Bockert,
rivoltosi al giudice, disse: “Signor giudice, ci troviamo qui innanzi al
caso di una giovane donna che non ricorda con sicurezza la propria
identità, né pare conoscere la propria provenienza. In qualche modo
occorre prendere una decisione”.
Cominciai a tremare, limitandomi ad osservare le altre persone in
attesa, un composito manipolo di uomini e donne che recavano
impresse sul volto storie di abusi e miseria. Se taluni si consultavano
con amici o parenti, altri sedevano afflitti e silenziosi, volgendo
attorno uno sguardo colmo di rassegnazione. In quello squallido
contesto, i floridi e robusti ufficiali spiccavano per l’eleganza delle
proprie divise e la passiva indifferenza con cui si apprestavano a
esaminare i singoli casi, in quella che era ormai divenuta per loro
ordinaria amministrazione. In fondo, ogni giorno schiere di sfortunati,
oppressi dalle medesime tristi vicende, affollavano quegli uffici e la
loro costante presenza non suscitava più interesse alcuno.
“Avvicinati, ragazza, e solleva il velo”, mi ordinò il giudice Duffy in un
tono rude che contrastava con la gentilezza dei suoi tratti.
“Sta dicendo a me?”, chiesi.
“Vieni qui e solleva il tuo velo”, ripeté egli con maggior dolcezza:
“Sai, anche la regina d’Inghilterra dovrebbe alzare il velo se si
presentasse qui”.
“D’accordo”, replicai docilmente, “non sono la regina di Inghilterra,
ma farò come dice”.
Poi il giudice mi domandò con la massima gentilezza:
“Mia cara bambina, cosa c’è che non va?”.
“Niente, a parte il fatto che ho perso le mie valige e quest’uomo”,
affermai indicando l’agente Bockert, “mi ha promesso di aiutarmi a
ritrovarle”.
“Cosa sa di questa ragazza”, chiese il giudice in tono severo a Mrs
Stanard, che fino a quel momento era rimasta, pallida e silenziosa,
al mio fianco.
“Nulla, ieri si è presentata alla mia casa e mi ha chiesto se poteva
rimanere qualche notte”.
“Di quale casa sta parlando?”.
“La casa di alloggio temporaneo per donne lavoratrici, al numero 84
di Second Avenue”.
“Qual è il suo ruolo in quella pensione?”.
“Sono assistente della direttrice”.
“Bene, mi dica tutto quello che sa sulla faccenda”.
“Mentre tornavo a casa, ieri, ho notato questa giovane che
camminava tutta sola lungo il viale. Ero appena rientrata, quando il
campanello suonò e lei fu fatta entrare. Quando le chiesi cosa
volesse, mi domandò se poteva rimanere per la notte e le assegnai
una stanza. Poco dopo cena, cominciò a dire che le altre inquiline
sembravano matte e che ne aveva timore. Alla fine, pur
acconsentendo a ritirarsi nella sua camera, si è rifiutata di coricarsi
rimanendo sveglia tutta la notte”.
“Aveva i soldi per la pigione?”.
“Sì”, risposi io al suo posto, “ho pagato per tutto e il cibo era
decisamente scadente”.
La mia affermazione fece sorridere i più e vi fu perfino qualcuno che
esclamò: “Beh, per lo meno questa affermazione non può essere
attribuita a una qualche follia”.
“Povera piccola”, proferì il giudice, “è sicuramente di buona famiglia,
il suo inglese è perfetto e sono certo si tratti di una cara persona. Di
sicuro è la pupilla di qualcuno”.
Quell’affermazione suscitò l’ilarità generale e io stessa dovetti
coprirmi la bocca con il fazzoletto per non mostrare il sorriso affiorato
alle mie labbra.
“Intendevo dire che certamente qualcuno la sta cercando. Povera
ragazza, sarò buono con lei perché mi rammenta la mia defunta
sorella”.
Tutti, a seguito di tali parole, mi rivolsero uno sguardo colmo di
gentilezza ed io benedissi, in cuor mio, quel bravo giudice, sperando
che altre povere creature potessero contare su altrettanta bontà e
cortesia.
“Fate venire qualche reporter, affinché diffondano la notizia. Forse in
questo modo potremo trovare qualcuno che la conosce”.
Spaventata dalle implicazioni che tale decisione poteva comportare,
giacché nessuno meglio di un giornalista poteva risolvere il mistero
della mia identità, affermai: “Non vedo come tutto ciò possa aiutarmi
a trovare i miei bagagli. Non tollero che uomini impudenti mi
rivolgano le loro attenzioni. Credo proprio che me ne andrò, non
voglio più stare qui”.
E invero preferivo avere a che fare con giudici, poliziotti o esperti
psicologici piuttosto che imbattermi nella determinata curiosità dei
miei colleghi.
Detto questo, abbassai il velo sul mio viso, sperando che i reporter
fossero troppo impegnati per arrivare prima che mi destinassero al
manicomio.
“Davvero non so come comportarmi con questa povera ragazza”,
intervenne il giudice, “di sicuro ha bisogno di qualcuno che si prenda
cura di lei”.
“Mandatela all’isola”, suggerì uno degli ufficiali.
“Oh no!”, si oppose Mrs Stanard allarmata, “Non fatelo! È una
signora e la reclusione in un simile posto la ucciderebbe”.
Fui tentata di scuoterla affinché tacesse. Il suo intervento poteva
inficiare la mia missione e non potevo permettermelo, anche se,
dentro di me, sapevo che esso scaturiva da una grande bontà
d’animo.
“C’è qualcosa di misterioso in questa vicenda”, affermò il giudice,
“ritengo che questa giovane possa essere stata drogata e trascinata
qui suo malgrado. Preparate i documenti necessari, la manderemo a
Bellevue perché venga esaminata. Se è davvero stata drogata,
l’effetto delle sostanze assunte dovrebbe svanire in pochi giorni e lei
sarà in grado di raccontarci la sua storia. Se solo venissero i
giornalisti!”.
Ribadii che non intendevo rimanere oltre in quel luogo e che non
intendevo essere analizzata o tenuta sotto osservazione da
chicchessia. Il giudice ordinò a Bockert di condurmi nell’ufficio sul
retro. Là, dopo che mi fui seduta, il giudice Duffy mi chiese se per
caso venissi da Cuba.
“Ora che me lo dice, credo proprio di sì”, risposi, “come fa a
saperlo?”.
“Oh l’ho intuito, mia cara. Ora dimmi, in quale parte di Cuba vivevi?”.
“Nell’hacienda”, replicai.
“Ah, in una fattoria. Ti ricordi l’Havana?”.
“Sì signore, credo non sia lontana da casa mia”.
“E ora dimmi, sai come si chiama la località in cui vivevi?”.
“Non ricordo”, risposi tristemente, “da tempo soffro di forti emicranie,
che mi fanno dimenticare le cose. Non voglio causare problemi.
Queste continue domande accrescono il mio mal di testa”.
“Bene, nessuno ti disturberà più ora. Puoi sedere qui e riposare per
un poco”, mi rassicurò il giudice prima di allontanarsi, lasciandomi in
compagnia di Mrs Stanard.
Proprio in quel momento un agente fece il suo ingresso
accompagnato da un reporter. Spaventata che quegli potesse
riconoscermi, gli diedi le spalle esclamando: “Non voglio parlare con
un giornalista, non voglio vedere nessuno. Il giudice mi ha promesso
che non sarò più disturbata”.
“Beh, non vi è alcuna follia in questo”, replicò l’agente, prima di
uscire nuovamente dalla stanza seguito dal giornalista.
Sussultai a quell’affermazione: mi ero forse spinta troppo oltre,
mostrandomi perfettamente in grado di intendere e di volere?
Ebbene, se fino a quel momento avevo dato l’impressione di essere
perfettamente sana, seppure afflitta da amnesia, era giunto il
momento di mutare il mio atteggiamento. Così, alzatami di scatto,
corsi dietro al poliziotto, mentre Mrs Stanard, spaventata, cercava di
trattenermi per un braccio, e urlai: “Non voglio stare qui, rivoglio le
mie valige! Perché mi tormentate?”.
Seguitai a gridare, fingendomi preda di un’incontenibile agitazione,
finché il giudice fece ritorno con un medico.

Capitolo 5
Giudicata mentalmente insana
“Ecco una povera fanciulla che, con tutta probabilità, è stata
drogata”, spiegò il giudice. “È una brava ragazza e voglio aiutarla.
Dovete trattarla con gentilezza”.

Poi, rivolto a Mrs Stanard, chiese se poteva ospitarmi per qualche


giorno, finché non fossero riusciti a fare le dovute indagini. Per
fortuna, ella rifiutò, asserendo che tutte le altre inquiline erano
terrorizzate da me e, di sicuro, se avessi fatto ritorno, se ne
sarebbero andate. Per un istante temetti che, se le avessero
assicurato un adeguato compenso, avrebbe acconsentito, così
affermai che, data la pessima cucina, non avevo alcuna intenzione di
tornare in quella casa.

In seguito, il medico mi sottopose a un accurato esame. Per quanto


egli apparisse arguto e professionale, ero intenzionata a continuare
la mia farsa.

“Mostrami la lingua”, mi ordinò.


Sogghignai dentro di me a una simile richiesta.
“Tira fuori la lingua quando te lo dico io”, ripeté. “Non voglio farlo”,
risposi.
“Devi. Sei malata e io sono un dottore”.
“Non sono malata, voglio solo ritrovare il mio bagaglio”.
Ciononostante, poiché egli insisteva, feci quando richiesto. Mi sentì il
polso e ascoltò i battiti del mio cuore. Non avevo

idea di come dovesse battere il cuore di una persona mentalmente


instabile, per cui mi limitai a trattenere il fiato il più possibile. Alla fine,
presa una piccola torcia, diresse la luce sui miei occhi chiedendomi
di guardare verso di essa. Mi chiesi se la pupilla di un folle reagisse
diversamente a quella prova e tentai di mantenere fisso lo sguardo.
Mi occorse un immane sforzo per evitare di sbattere le palpebre.

“Quale droga hai assunto?”.


“Droga?”, ripetei con fare meravigliato. “Non so neppure cosa sia!”.

“Le sue pupille sembravano dilatate quando arrivò alla pensione. E


così sono rimaste”, spiegò Mrs Stanard. Mi chiesi come potesse
aver notato un simile dettaglio, ma rimasi in silenzio.

“Credo possa aver usato la belladonna”, affermò il medico e, per la


prima volta, fui lieta della mia lieve miopia, a cui era attribuibile
quella parziale dilatazione. Pensai che, in quel caso, la sincerità non
avrebbe influito sul suo giudizio, per cui affermai di essere miope e
di non essere affatto malata. Ribadii inoltre che non avevano alcun
diritto di trattenermi e che ero intenzionata a cercare di recuperare
quanto perduto e a tornare a casa, ovunque essa si trovasse.

Quegli scrisse qualcosa su un sottile taccuino, sostenendo che


avrebbe fatto in modo di condurmi a casa. Il giudice intervenne per
sollecitarlo a essere gentile con me e perché raccomandasse, a
coloro che mi avrebbero preso in cura, di trattarmi con la massima
cortesia, facendo tutto quanto in loro potere per aiutarmi.

Se esistessero più persone come il giudice Duffy, il mondo sarebbe


un luogo migliore e tanti sfortunati non si troverebbero a condurre
esistenze cupe e prive di gioia.

Cominciavo a nutrire maggiore fiducia in merito alle mie capacità dal


momento che un giudice, un dottore e diverse altre persone mi
avevano ritenuta instabile, così fui compiaciuta quando mi dissero,
mentendo, che presto avrei potuto far ritorno a casa.

“Sarò lieta di seguirvi”, risposi e realmente lo ero.

Scortata nuovamente dal poliziotto di nome Bockert, attraversai la


piccola aula affollata. Per poi uscire nel vicolo, dove un’ambulanza si
trovava in attesa. Nei pressi del cancello sbarrato, sorgeva un
piccolo ufficio che pullulava di uomini e libri. Entrammo e, non
appena essi cominciarono a interrogarmi, il dottore li interruppe
dicendo che aveva con sé tutti i documenti necessari a che non era
necessario farmi ulteriori domande, a cui non avrei saputo dare
risposta. Fu per me un sollievo giacché avevo ormai i nervi a fior di
pelle. Al rude infermiere che voleva aiutarmi a salire sull’autolettiga,
dissi di non abbisognare del suo intervento e i miei accompagnatori
gli fecero cenno di desistere. Occorse loro un notevole sforzo per
convincermi a salire, poiché io sostenevo di non aver mai visto una
simile vettura e che in nessun modo intendevo entrarci. Alla fine mi
lasciai persuadere.

Mai dimenticherò quel viaggio. Dopo che mi fui distesa sulla barella,
il medico sedette al mio fianco e i cancelli furono spalancati per
lasciar uscire il mezzo. Mentre la folla che circondava l’edificio si
faceva da parte, un manipolo di curiosi si appressò per sbirciare
all’interno. Il dottore, sapendo che non apprezzavo essere oggetto di
tanta attenzione, si affrettò a tirare le tendine. E tuttavia, distinsi con
chiarezza le grida di un gruppo di ragazzini che presero a correre
dietro di noi, tentando di dare un’ultima occhiata colma di curiosità
alla folle ragazza che vi era salita. Fu un viaggio decisamente duro
per me. Mentre l’autista si lanciava in una corsa sfrenata, quasi
fosse intenzionato a sfuggire a un inseguimento, sballottata su
quella rigida branda, dovetti più volte far presa su di essa per non
rovinare a terra.

Capitolo 6
Ospedale Bellevue

Raggiungemmo così l’ospedale Bellevue, terzo stadio del mio


percorso verso l’isola. Superati con successo i primi due, nella
pensione e alla corte di Essex, ero ormai fiduciosa in merito al
successo della mia missione. Non appena ci arrestammo innanzi
all’edificio, il dottore scese e udii qualcuno chiedere: “Quanti ne
trasporti?”.

“Solo una”, rispose quegli, “per il padiglione”.

Un uomo rude, fattosi avanti, mi afferrò, cercando di trascinarmi


fuori, mentre io, facendo ricorso a tutte le mie forze, tentavo di
opporre resistenza. Il medico, accortosi dello sgomento con cui
avevo reagito a quel brusco trattamento, gli chiese di lasciarmi,
asserendo che mi avrebbe scortata personalmente a destinazione.

Poi, con delicatezza, mi fece scendere dal mezzo e, con lui, mi


incamminai con la grazia di una regina attraverso la moltitudine di
curiosi che si era prontamente radunata tutt’intorno. Entrammo in un
piccolo, cupo ufficio, terribilmente affollato. L’uomo dietro il bancone,
aperto un libro, cominciò a porre le stesse domande che per tutta la
mattina mi avevano rivolto.

Quando mi rifiutai di rispondere, il dottore gli disse che non era


necessario disturbarmi ulteriormente, che possedeva già le
informazioni necessarie e che, al momento, non ero in condizioni di
aggiungere altro. Rimasi sollevata per la facilità con cui siglarono il
mio ricovero, dando immediato ordine di condurmi nel padiglione dei
malati di mente. In quel momento, un energumeno, materializzatosi
al mio fianco, mi afferrò saldamente per un braccio, stringendo tanto
da procurarmi dolore.

Dimentica del ruolo fino a quel momento interpretato, gridai: “Come


osa toccarmi?”.
Quegli, perplesso, mollò la presa ed io lo allontanai con una forza
che non sapevo di possedere.
“Non andrò con altri che non siano quest’uomo”, asserii indicando il
medico dell’ambulanza: “Il giudice ha detto che si sarebbe preso
cura di me ed è solo a lui che mi affiderò”.
Innanzi alla mia ostinazione, il medico acconsentì a scortarmi,
mentre il gigante si limitava a farci strada. Raggiunto il reparto dove
erano relegati coloro affetti da una qualche forma di follia,
un’infermiera ci ricevette.
“Questa giovane dovrà attendere qui l’arrivo della barca”, affermò il
medico, apprestandosi a lasciarmi.
Lo pregai di non andarsene o, per lo meno, di portarmi con lui, al che
egli rispose che doveva recarsi a pranzo e che avrei dovuto
attenderlo lì. In seguito alle mie insistenze, spiegò che, dovendo
assistere a un’amputazione, non sarebbe stato piacevole per me
accompagnarlo. Era evidente, dalla condiscendenza con cui mi si
rivolgeva, che era definitivamente convinto di avere a che fare con
una persona incapace di intendere e di volere.
In quel momento, un urlo terribile eruppe dal cortile retrostante ed io
rabbrividii alla prospettiva di ritrovarmi rinchiusa con persone
realmente affette da follia.
Il buon medico, accortosi del mio nervosismo, si affrettò a
rassicurarmi dicendo: “Che confusione fanno i carpentieri!”, per poi
dilungarsi a spiegare che era in corso la costruzione di nuovi edifici e
che quelle grida provenivano da un operaio lì impiegato.
Quando gli dissi di non voler rimanere lì senza di lui, mi promise che
presto avrebbe fatto ritorno. Alla fine, mi lasciò ed io, rimasta sulla
soglia del padiglione, contemplai sconcertata quanto mi circondava.
Il lungo corridoio privo di moquette era ammantato da quel peculiare
candore che accomuna le pubbliche istituzioni. Sul retro, grandi
porte in ferro serrate da un lucchetto. Non vi era altra mobilia,
all’interno, se non innumerevoli panche e alcune sedie in salice.
Dall’altra parte, alcune porte conducevano in quelle che immaginai –
avendone successiva conferma – essere le camere da letto e, di
fronte, si aveva accesso a una stanza dove venivano serviti i pasti.
Un’infermiera in abito nero, cappello bianco e grembiale, armata di
un pesante mazzo di chiavi, era incaricata della sorveglianza. Ne
appresi ben presto il nome, Miss Ball. Udii un anziano tuttofare
irlandese rivolgersi a lei per nome “Mary” e devo ammettere che
sapere che una donna di così buon cuore sia impegnata in quella
struttura mi rende felice. Giacché, per esperienza, ho di lei la
massima considerazione e stima.
C’erano solo tre pazienti oltre a me, all’interno.
Per quanto le cose, fino a quel momento, fossero andate secondo i
miei piani, ancora mi aspettavo che, non appena fossi stata visitata
da un vero dottore, quegli non avrebbe esitato a dichiararmi
perfettamente sana, spedendomi di nuovo nel vasto mondo esterno.
Così, ritenni mio dovere dare inizio alle indagini e, incamminatami
verso il retro della stanza, presi a porre domande a una delle
pazienti. Miss Ann Neville, così si presentò costei, mi disse di aver
avuto un esaurimento a causa di un eccessivo carico di lavoro. Era
impiegata come cameriera e, quando la sua salute era peggiorata, si
era rivolta a una qualche associazione infermieristica per essere
curata, ma la nipote, al momento disoccupata, non potendo
permettersi di pagare le spese, l’aveva fatta trasferire a Bellevue.
“Dunque non ha alcun problema mentale”, le chiesi.
“No, i medici qui mi hanno fatto domande strane, confondendomi,
ma non c’è nulla che non vada nel mio cervello”.
“Eppure saprai che solo persone mentalmente instabili vengono
ricoverate in questo padiglione”.
“Ne sono consapevole, ma non so cosa posso fare. I medici si
rifiutano di ascoltarmi ed è inutile confidarsi con le infermiere”.
Nel conversare con lei, realizzai come Miss Neville fosse sana
quanto me e rivolsi la mia attenzione a una delle altre pazienti, che,
diversamente dalla prima, mi parve realmente afflitta da una qualche
follia e bisognosa di cure, anche se, devo ammetterlo, mi ero
imbattuta talvolta in donne altrettanto poco brillanti, che mai erano
state giudicate matte.
La terza donna ricoverata, Mrs Fox, limitandosi a informarmi che il
suo era un caso senza speranza, non volle aggiungere altro.
Dopo essermi confrontata con loro, pervasa da maggior sicurezza,
poiché in nessuna di queste donne riscontrai atteggiamenti
riconducibili a una follia difficile da interpretare, mi dissi che mai
avrei permesso a un qualche dottore di dichiararmi perfettamente
sana, per lo meno finché non avessi ottenuto le informazioni
necessarie a concludere con successo la mia missione.
Mentre così riflettevo, arrivò una tarchiata infermiera dalla pelle
chiara, che, indossata la cuffia, disse a Miss Ball che poteva andare
a pranzo. Poi, rivoltasi a me, mi ordinò sgarbatamente: “Togli il
cappello!”.
“Non devo togliere il cappello”, risposi, “sto aspettando la barca per
tornare a casa”.
Miss Scott, questo era il nome della brusca infermiera, si prese la
briga di informarmi: “Ebbene, non andrai a casa; è bene che tu lo
sappia a questo punto. Ti trovi in un istituto per persone malate di
mente”.
Seppure perfettamente consapevole di questo, la sua brutale
dichiarazione mi scioccò: “Ma io non volevo venire qui; non sono
malata, né ho problemi mentali. Non intendo rimanere qui!”, replicai.
“Trascorrerà molto tempo prima che tu esca di qui se non fai quello
che ti viene detto. Ora: puoi toglierti il cappello di tua spontanea
volontà o dovrò usare la forza e, se non riuscirò a farlo da sola,
suonerò il campanello per chiedere assistenza. Cosa mi dici?”.
“Non voglio, ho freddo e desidero tenere il cappello. Non potete
obbligarmi”.
“Ti darò qualche altro minuto, poi dovrò ricorrere alla forza e ti
assicuro che non sarà piacevole”.
“Se mi strappa via il cappello, io farò altrettanto con la sua cuffia!”.
In quel momento, Miss Scott fu chiamata alla porta e io rimasi in
attesa, temendo che la forza di carattere testé dimostrata potesse
rivelarsi controproducente ai fini del giudizio che doveva essere
pronunciato su di me. Così, mi decisi a togliere cappello e guanti per
poi sedere silenziosa, lo sguardo fisso nel vuoto. Avevo fame e mi
rallegrai nel vedere Mary intenta ad allestire la sala per la cena. In
realtà, si limitò a spostare una panca, disponendola lungo uno
squallido tavolino e a ordinare alle pazienti di radunarsi attorno ad
esse.
Una volta che quelle si furono sedute, portò a ciascuna di loro una
piccola scodella con un pezzo di carne bollita e una patata.
Vedendomi seduta nell’angolo, Mary si avvicinò, porgendomi il
piatto. Quando lo presi tra le mani mi accorsi che le pietanze, oltre a
essere fredde e dure come il marmo, risultavano prive di qualsiasi
sapore. Ma ciò che più mi sorprese fu la bizzarra richiesta fattami da
Mary: “Hai qualche penny con te, mia cara?”.
“Come dice, scusi?”, domandai stupita.
“Se hai qualche penny con te, cara, potresti darli a me. Te li
porteranno via comunque, così, ho pensato che potresti consegnarli
a me”.
Capivo benissimo ciò che intendeva, ma non volendo prestarmi al
suo gioco, dichiarai di aver perso il mio borsellino. Il non aver
ottenuto quanto desiderava, a dispetto di quanto si potrebbe
credere, non mutò la gentilezza e l’amabilità dei suoi modi.
Per esempio, quando protestai per il piatto di plastica in cui mi era
stato servita la cena, ella me ne procurò uno di porcellana e, innanzi
al mio rifiuto di mangiare quegli improponibili alimenti, mi portò di
nascosto un bicchiere di latte e dei biscotti.
Tutte le finestre del salone erano aperte e un gelido vento filtrava
all’interno. Quando il freddo divenne impossibile da tollerare e mi
lamentai con Miss Scott, quella rispose che, trovandomi in un istituto
di carità non potevo attendermi un miglior trattamento. Se le altre
pazienti, al pari mio, erano scosse da incontenibili brividi, le
infermiere, imbacuccate in indumenti pesanti, parevano
perfettamente a loro agio. Chiesi se, per lo meno, potessi andare a
letto. La loro risposta, pronunciata sincrona, fu un secco “No”.
Alla fine, Miss Scott andò a recuperare un vecchio scialle grigio e,
scossolo dalle tarme, mi disse di avvolgermelo addosso.
“Non ha un bell’aspetto”, affermai.
“Bene, certa gente starebbe meglio se rinunciasse al proprio
orgoglio”, sentenziò Miss Scott, “e, soprattutto, coloro che ricorrono
alla carità dovrebbero evitare di lamentarsi e livellare le proprie
aspettative”.
Indossai lo scialle consumato dalle tarme, da cui trasudava un
nauseante tanfo di muffa e sedetti su una delle sedie in vimini,
chiedendomi cosa mi attendesse nelle ore successive. Cominciavo
infatti a temere che, prima ancora di ricevere la mia diagnosi, sarei
morta per assideramento.
Avevo appena avvolto anche la testa nello scialle, quando esso mi fu
improvvisamente strappato via: nel sollevare lo sguardo mi trovai
innanzi Miss Scott e a uno strano uomo, che scoprii essere un
dottore e le cui prime parole furono: “Ho già visto questa faccia
prima d’ora”.
“Dunque mi conoscete?”, risposi, fingendo un entusiasmo che ero
ben lontana dal provare.
“Credo di sì. Da dove vieni?”.
“Da casa mia!”.
“E dove sarebbe?”.
“Non lo sapete? A Cuba”.
Lui sedette accanto a me, mi sentì il polso, esaminò la mia lingua e
alla fine disse: “Racconta a Miss Scott tutto ciò che sai su di te!”.
“Non lo farò; non parlo con le donne”.
“Cosa ci fai a New York?”.
“Niente”.
“Puoi lavorare?”.
“No, signore”.
“Dimmi, sei una donna di strada?”.
“Non vi capisco!”, replicai, intimamente disgustata da quella
domanda.
“Intendo dire se permetti agli uomini di mantenerti”.
Schiaffeggiarlo.
Questo avrei desiderato in quel momento e non so quale inaspettata
forza d’animo mi impedì di farlo, ma, mantenendo tutta la mia
compostezza, con tono ingenuo risposi: “Non so di cosa stia
parlando. Ho sempre vissuto a casa”.
Dopo queste e infinite altre domande, per lo più inutili e prive di
senso, si allontanò per colloquiare in privato con l’infermiera. Da quel
poco che riuscii a comprendere, egli mi aveva appena giudicato
“affetta da demenza”, per poi sussurrare: “temo che dovremo
considerarla un caso senza speranza. Necessita di essere ricoverata
in una struttura dove si prendano cura di lei”.
Fu così che superai il secondo parere medico, il quale, devo
ammetterlo, diminuì notevolmente la considerazione che fino a quel
momento avevo nutrito sulle competenze degli psichiatri. Sono ormai
convinta che, se si escludono i casi di persone violente, nessun
dottore abbia realmente la capacità di comprendere se una persona
sia o meno malata di mente.
Nel primo pomeriggio, un ragazzo e una donna si presentarono
all’istituto. Mentre la seconda sedeva su una panchina, il giovane
andò a parlare con Miss Scott. Dopo una breve conversazione,
accennato un semplice cenno di saluto alla donna, che scoprii
essere sua madre, si allontanò. Non pareva, quella, avere problemi
mentali, ma, essendo tedesca e non parlando altra lingua, non fui in
grado di conoscere la sua storia. Seppi però che il suo nome era Mrs
Louise Schanz. Appariva alquanto spaesata in quel contesto, ma
quando le infermiere le diedero un lavoro di cucito, si mostrò assai
abile e precisa. Alle tre consegnarono a tutte noi del porridge e, alle
cinque, una tazza di tè e una fetta di pane. Fui fortunata giacché,
non appena Miss Ball realizzò che mai sarei riuscita a mandare giù
quel tocco di pane rancido e a bere la brodaglia che ci propinavano
sotto il sacro nome di “tè”, mi consegnò un bicchiere di latte e dei
crackers.
Subito dopo l’accensione delle luci, si aggiunse un’altra paziente. Si
trattava, questa volta, di una ragazza molto giovane, sui venticinque
anni. Mi confidò – e il suo aspetto confermava tali parole - che, dopo
una lunga infermità, si era appena alzata dal letto.
“La malattia mi ha spossato e ora soffro di debolezza nervosa. Per
questo i miei amici mi hanno mandato qui, affinché io possa essere
curata al meglio”.
Non osai dirle dove realmente si trovava, come avrei potuto?
Alle 18.15 Miss Ball, affermando che lei doveva andarsene, ci ordinò
di andare a letto. Poi a ognuna di noi – che ormai eravamo in sei – fu
assegnata una stanza e ci fu detto di spogliarci. Mi consegnarono
una corta camicia da notte in flanella di cotone, poi, raccolti tutti gli
indumenti che avevo indossato durante il giorno, li infilarono in un
sacco contrassegnato con il nome “Brown”, che portarono via con
sé. La finestra, dotata di sbarre, fu chiusa a chiave e Miss Ball, dopo
avermi dato un’ulteriore lenzuolo, cosa che, asserì, raramente
riusciva a concedere, mi lasciò da sola.
Mi distesi sul letto, il cui materasso appariva duro come una sbarra
di ferro e abbandonai il capo sul cuscino, riempito di paglia. Sotto il
lenzuolo, era distesa una tela cerata. Via via che il freddo cresceva
di intensità, cercai di scaldarmi avvolgendomi con quella. Invano,
giacché all’alba avevo ormai raggiunto la temperatura di un iceberg.
Se avevo sperato di riuscire a riposare nella mia prima notte in un
istituto di igiene mentale, andai incontro a una profonda delusione. E
non fu solo il gelo a impedirmi di dormire.
Poco dopo che mi fui coricata, infatti, le infermiere del turno di notte,
incuriosite dalle voci che circolavano su quella strana ragazza
cubana, vennero a conoscermi. Poi, non appena si furono
allontanate, udii qualcuno alla porta che chiedeva di Nellie Brown.
Il pensiero che qualcuno, indagando sulla mia vera identità, potesse
smascherarmi mi fece sussultare, tanto più che, origliando la
conversazione che si teneva al di là dell’uscio dischiuso, compresi
che si trattava di un giornalista. Quegli chiese alle infermiere la
possibilità di esaminare i miei vestiti, così da trovare tracce che
potessero condurlo alla mia famiglia. Pervasa dall’ansia ascoltai in
silenzio e solo quando udii il personale sanitario dichiarare che ero
stata giudicata irrimediabilmente pazza trassi un sospiro di sollievo.
Ecco una prospettiva incoraggiante, pensai, tanto più che il reporter,
deluso da quell’insindacabile giudizio, decise di andarsene senza
incontrarmi.
Poco dopo mi dissero che era arrivato un dottore e che intendeva
esaminarmi. Quale fosse lo scopo di un’ulteriore visita, a così breve
distanza dalla precedente, non ebbi modo di saperlo. Realizzando
che la mia interpretazione sarebbe stata nuovamente messa alla
prova e chissà con quali metodi, mi agitai al punto che, quando
medico e infermiera entrarono nella stanza, tremavo come una
foglia.
“Nellie Brown, qui c’è il dottore, vorrebbe parlare con te”, esordì
l’infermiera.
Ebbene, se era solo quello che volevano da me, avrei potuto
sopportarlo. Così, abbassata la coperta con cui, in preda all’ansia,
avevo coperto il volto, sollevai lo sguardo. Ciò che vidi mi rassicurò.
Si trattava di un giovane, affascinante uomo, un vero gentiluomo, a
giudicare dall’aspetto e dall’atteggiamento che da subito assunse.
Avvicinatosi, sedette sul letto e, con dolcezza, mise il braccio attorno
alle mie spalle. Forse alcune persone riterrebbero quello un gesto
equivoco, poco adatto al ruolo di un professionista, ma vi assicuro
che le sue intenzioni erano solo quelle di mettermi a mio agio. Devo
ammettere che attenermi al ruolo di malata di mente innanzi a un
giovane così attraente – e in questo solo le ragazze possono
comprendere i miei sentimenti - fu davvero arduo.
“Come ti senti questa sera Nellie?”, domandò quegli con semplicità.
“Sto bene, grazie”.
“Lo sai di essere malata, vero?”.
“Sul serio?”, chiesi, voltandomi per non mostrare il sorriso che
affiorava alle mie labbra.
“Ti ricordi quando hai lasciato Cuba, Nellie?”.
“Oh, sa da dove vengo?”.
“Naturalmente. Non ti ricordi di me? Perché io mi ricordo di te”.
“Davvero?”, chiesi, pensando mentalmente che di sicuro, se lo
avessi precedentemente incontrato, non sarei riuscita a dimenticare
quel volto.
Accompagnato da un collega che per tutto il tempo rimase
silenzioso, limitandosi a fissarmi, dopo una lunga serie di domande,
si decise a lasciarmi. Purtroppo questo non mi garantì la sperata
tranquillità. Per tutta la notte infatti le infermiere, rivolgendosi l’una
all’altra ad alta voce, camminarono lungo i corridoi, producendo, con
le suole dei loro pesanti stivali, un rimbombo paragonabile a quello
prodotto dalla marcia di un soldato dei dragoni. Di tanto in tanto,
inoltre, spalancavano la porta delle nostre stanze per controllarci,
impedendo a tutte noi di prendere sonno.
Grida e urla dal dipartimento maschile risuonavano sovente,
inficiando ulteriormente i miei tentativi di riposare. E, di tanto in tanto,
la sirena dell’ambulanza, che conduceva all’istituto altre sfortunate,
portava con sé il suono della vita e della libertà a cui avevo
volontariamente rinunciato. Verso il mattino, infine, le infermiere
cominciarono a prepararsi la colazione e l’aroma delle uova che
soffriggevano mi fece realizzare quanto fossi affamata. Così
trascorsi la mia prima notte da malata di mente a Bellevue.

Capitolo 7
Obiettivo in vista

Domenica 25 settembre, alle sei del mattino le infermiere


sollevarono la coperta del mio giaciglio: “Forza, è ora di alzarsi dal
letto”, mi esortarono, spalancando la finestra.

Mi furono riconsegnati i miei abiti e, dopo che fui nuovamente


vestita, fui condotta al bagno, dove altre pazienti erano intente a
disperdere con l’acqua le tracce di una notte trascorsa per lo più
insonne. Alle 7 in punto ci fu servita una brodaglia, che Mary definì
“brodo di pollo”. La temperatura nella stanza era talmente bassa che
tutte noi ci lamentammo con il personale di turno, ma quelle si
limitarono a informarci che nessuna di loro era autorizzata ad
accendere il riscaldamento fino a ottobre, per cui non restava altro
da fare se non sopportare in silenzio, fino a quando non si fossero
decisi a procedere con l’annuale manutenzione delle stufe.

Qualche tempo dopo, un altro, affascinante giovane medico fece la


sua comparsa – mi chiesi se possedere un aspetto piacente fosse
un fondamentale requisito per i dottori di quell’istituto - e io fui
condotta in una sala d’attesa.

Quando giunse il mio turno, egli mi chiese come mi chiamassi.


“Nellie Moreno”, replicai
“E allora perché nel tuo fascicolo è riportato il nome Brown? Cosa
hai che non va?”.
“Niente, non volevo venire qui, ma mi ci hanno portata. Desidero
solo andarmene, perché non mi lascia andare?”.
“Se ti porto con me prometti che rimarrai al mio fianco? Non fuggirai
nel momento stesso in cui ti ritroverai in strada?”.
“Ebbene non posso prometterlo”, risposi sorridendo.
Mi pose domande del tipo: “Vedi dei volti impressi sul muro? Senti
delle voci?”.
Cercai di rispondere nel modo che ritenevo migliore. “Questa notte
hai sentito delle voci?”, chiese.
“Sì, qualcuno parlava di continuo e non sono riuscita a dormire”.
“Lo immaginavo e cosa dicevano?”.
“Beh, non sono riuscita a capirlo, ma qualche volta parlavano di
Nellie Brown e di altre persone e argomenti che non mi
interessavano molto”, risposi con sincerità.
“Ecco cosa faremo”, si rivolse poi a Miss Scott, che attendeva fuori
dalla stanza.
“Posso andare via?”, lo interruppi.
“Credo proprio”, rispose con una risata soddisfatta, “che ti
manderemo presto via”.
“Fa così freddo qui, vorrei proprio andarmene”.
“Su questo ha perfettamente ragione”, affermò lui rivolto a Miss
Scott, “si gela qui dentro, rischierete dei casi di polmonite se non fate
attenzione”.
Detto questo mi fece uscire e un’altra paziente prese il mio posto.
Seduta nella saletta antistante, cercavo di origliare come avrebbe
testato la salute mentale delle mie sventurate compagne. Da quanto
riuscii a sentire, le domande non furono molto diverse da quelle
utilizzate con me. A tutte loro fu infatti domandato se vedessero volti
impressi sulle pareti e se udissero voci e posso asserire con
certezza che nessuna di loro ammise simili stranezze.
Alle dieci in punto ci fu servito un insipido brodo di manzo, a
mezzogiorno un pezzo di carne fredda e una patata, alle 15 fummo
gratificate con una ciotola di porridge e alle 17,30 con una tazza di tè
e una fetta di pane. Eravamo tutte affamate e infreddolite. Gli scialli
che ci avevano fornito quando tutte le visite erano terminate non
erano sufficienti a riscaldarci, così ci consigliarono di camminare
avanti e indietro per il salone. Quel giorno, diverse persone,
incuriosite dalla storia della povera ragazza cubana, vennero in visita
al padiglione. Nel timore che qualche reporter potesse riconoscermi,
con la scusa del freddo, coprii il capo con lo scialle. Tra i tanti curiosi,
vi erano alcune persone alla ricerca di amiche o familiari disperse.
Queste, dopo avermi chiesto di mostrare loro il mio volto, si
allontanavano deluse sussurrando frasi come: “Non la conosco” o
“Non è lei”, che ogni volta suscitavano in me un profondo sollievo.
Anche il direttore O’Rourke, nel tentativo di trovare la vera identità
della misteriosa Nellie Brown, venne a trovarmi conducendo con sé
alcuni membri dell’alta società, a cui, in base a quanto riferitogli dal
giudice Duffy, riteneva io potessi appartenere, affinché qualcuno di
loro potesse riconoscermi.
Ovviamente, erano i reporter, particolarmente numerosi, a suscitare i
miei maggiori timori, soprattutto alcuni che, particolarmente brillanti,
avrebbero potuto rapidamente intuire la mia finzione. Comunque sia,
furono tutti molto gentili e premurosi con me. L’ultimo visitatore della
giornata, anch’egli giornalista, chiese alle infermiere di potermi
vedere, giacché sperava di potermi aiutare a ricordare qualcosa che
potesse far luce sulla mia vera identità.
Nel pomeriggio, fu il dottor Field a esaminarmi. Tra le varie
domande, una in particolare non aveva alcuna attinenza con quelle
che, fino a quel momento, mi erano state poste. Mi chiese infatti se
avessi un fidanzato o perfino se fossi sposata. Poi, fattemi allungare
le braccia e muovere le dita, cosa che feci senza alcuna esitazione,
con grande perplessità lo sentii ripetere che il mio era purtroppo un
caso senza speranza. Mi chiesi se tale irrevocabile giudizio fosse
riconducibile a qualche errato movimento dei miei arti o al semplice
fatto di non avere un marito!
Fu solo quando il medico, portate a termine le altre visite, si
apprestava ad andarsene, che Miss Tillie Mayard realizzò di trovarsi
in un istituto di igiene mentale. Rivoltasi al dottore, gli chiese per
quale motivo si trovasse lì confinata.
“Dunque hai appena scoperto di trovarti in un istituto per malati
mentali?”, le chiese il professore.
“Sì, i miei amici mi hanno detto che mi avrebbero mandato in un
ospedale, dove mi avrebbero curato per debolezza nervosa, cosa di
cui soffro a seguito di una lunga e debilitante malattia. Non intendo
rimanere in questo posto!”.
“Bene, non uscirai così presto”, rispose lui ridendo.
“Dal momento che siete un medico”, rispose lei, “dovreste essere in
grado di capire che sono mentalmente sana. Perché non mi fate
degli esami?”.
“Sappiamo già quanto è necessario conoscere sul tuo caso”,
sentenziò quegli, lasciando quella povera ragazza rinchiusa
nell’istituto senza neppure procedere a ulteriori indagini ed esami,
capaci forse di annullare quella che pareva una condanna a vita.
La notte di domenica, quasi in quei luoghi l’attenersi a un copione
fosse un imprescindibile dovere cui tutto il personale doveva
necessariamente attenersi, fu un’esatta replica della precedente. E
così, vuoi per il continuo cicaleccio e il costante andirivieni lungo i
corridoi a passo di marcia, vuoi per il fatto che, a intervalli regolari
spalancavano le porte delle nostre stanze quasi avessero a
rinvenirvi una qualche attività illecita, il risultato fu il medesimo:
nessuna di noi riuscì a riposare.
Il lunedì mattina fu però foriero di novità: ci informarono infatti che
avremmo lasciato l’istituto alle 13.30. Nel tentativo di soddisfare la
loro curiosità prima della mia partenza, le infermiere mi sfinirono di
domande, producendosi in una serie di interpretazioni che avevano
in comune uno sfondo romantico: tutte loro, infatti, si dicevano certe
ch’io avessi avuto un amante e che alla brusca interruzione di quel
rapporto da parte di quello spietato spasimante si dovesse la
confusione mentale da cui ero afflitta.
Quel giorno, innumerevoli reporter giunsero all’istituto, reclamando
un’ultima occasione per incontrarmi e tentare di risalire alla mia
identità. Occasione che, per mia fortuna – giacché riconobbi tra loro
volti familiari - Miss Scott negò loro, stabilendo che non ero in grado
di ricevere visite.
Via via che si approssimava l’ora in cui era prevista la mia partenza
per l’isola, ero preda di un crescente nervosismo. Nel timore di
essere smascherata proprio quando il mio obiettivo era ormai a
portata di mano, sussultavo ogni qualvolta nuove persone
giungevano in visita. Così, quando mi diedero uno scialle,
consegnandomi nuovamente cappello e guanti, i miei nervi erano
allo stremo e le mani mi tremavano al punto da rendermi incapace di
indossarli. Alla fine, giunse l’attendente e, nel salutare Mary, le feci
scivolare in mano qualche penny.
“Dio ti benedica”, esclamò, “Pregherò per te. Su col morale, mia
cara, sei giovane e presto supererai questo brutto periodo”.
Il rude attendente mi afferrò poi per il braccio e, raggiunto l’esterno
dell’edificio, mi sospinse con poca grazia sull’ambulanza. Una folla di
studenti, lì radunati, ci rivolsero sguardi curiosi. Miss Neville, Miss
Mayard, Mrs. Fox, e Mrs. Schanz salirono a una a una dopo di me,
accompagnate da una guardia. Oltrepassato il cancello, ci
dirigemmo verso la banchina, dove un’imbarcazione ci avrebbe
condotte alla destinazione stabilita per noi: il manicomio dell’isola di
Blackwell, dove avrebbe avuto inizio la mia vera missione. Nessuna
delle pazienti si mostrò riluttante a lasciare quel luogo. Al molo, il
mezzo si ritrovò ancora una volta circondato da una moltitudine di
curiosi, tanto che si rese necessario l’intervento di alcuni poliziotti
per disperdere la folla, permettendoci così di scendere e raggiungere
la barca. Il fiato imbevuto di alcool dell’attendente che ci scortava mi
fece quasi vacillare quando si avvicinò per aiutarmi a percorrere la
tavola da cui si aveva accesso al ponte. Condotte all’interno di una
fetida cabina, ci fecero sedere su una panca. I piccoli oblò erano
sigillati e l’aria a dir poco soffocante. A una delle estremità, una
striminzita cuccetta versava in improponibili condizioni igieniche,
tanto che dovetti tapparmi il naso quando mi avvicinai. Una ragazza
fisicamente debilitata fu costretta a distendersi. Prima della partenza
fummo raggiunte da una donna anziana, con un’enorme cuffia in
testa e una cesta sudicia ricolma di pezzi di pane e scarti di carne.
A sorvegliare l’ingresso del locale, due attendenti donne, la prima
ricoperta da un vestito che pareva ricavato da un lenzuolo, l’altra con
un abito che sembrava ritagliato per ricopiare lo stile dell’epoca.
Entrambe, massicce e volgari, masticavano tabacco per poi sputarlo
sul pavimento, mostrando in questo l’abilità di esperti uomini di
mare. Una di queste tremebonde creature, quasi temesse che lo
sguardo di un folle fosse presagio di chissà quali disastri,
ogniqualvolta una di noi si avvicinava alla piccola finestra per avere
dal panorama esterno un qualche sollievo, subito si agitava,
intimandoci, con un cipiglio che intendeva suscitare terrore, di
tornare a sedere. Per tutta la durata del tragitto, quasi noi fossimo
sorde e del tutto incapaci di intendere, discussero delle varie pazienti
condotte nei loro molteplici viaggi verso l’isola in modo decisamente
poco edificante.
Alla prima fermata, condussero fuori la giovane malata e l’anziana,
intimando a noi di rimanere sedute e in silenzio. Fu alla successiva
che, una ad una, sbarcammo. Io fui l’ultima e, per qualche motivo,
due accompagnatori, un uomo e una donna subito mi affiancarono.
Un’ambulanza era in attesa.
“Che cos’è questo posto”, chiesi all’uomo che, quasi mi ritenesse
intenzionata a tentare la fuga, manteneva salda la presa sul mio
braccio.
“L’isola di Blackwell, un luogo confacente a voi malate di mente, da
cui mai potrete andarvene”, rispose prima di costringermi all’interno
del mezzo. A unirsi a noi, questa volta, furono un portalettere e
l’ufficiale incaricato di affidarci al personale infermieristico
dell’Ospedale psichiatrico.

Capitolo 8
Internata nel manicomio

Mentre il veicolo procedeva rapido lungo le strade tortuose,


affiancate da splendidi prati, che conducevano all’istituto, la
soddisfazione di aver finalmente raggiunto la mia meta fu smorzata
dall’espressione di sconforto che si palesava sul volto delle mie
compagne. La consapevolezza che, per quelle povere donne, non vi
era alcuna speranza di una rapida dimissione e del fatto che ciò che
attendeva tutte loro era il grigiore di una vera e propria prigionia che,
senza colpa alcuna, le avrebbe probabilmente accompagnate per il
resto dei loro giorni fece scemare l’entusiasmo con cui mi ero
inizialmente imbarcata in quella missione. In quel drammatico
contesto, pensai, perfino camminare verso la forca sarebbe stato
preferibile a una condanna a vita in quel grigio sarcofago in cui si
apprestavano ad essere seppellite. Non appena la lunga fila di
squallidi edifici si rese visibile, tutte noi rivolgemmo un ultimo
sguardo colmo di disperazione verso quel panorama foriero di libertà
che ci lasciavamo alle spalle.
Mentre superavamo una bassa palazzina, fummo raggiunte da un
fetore tale da essere costrette a trattenere il fiato. Con orrore
realizzai che non si trattava d’altro se non della cucina in cui quelli
che sarebbero divenuti i nostri pasti venivano preparati.

La presenza, poco oltre, di un cartello con la scritta: “L’accesso non


è consentito ai visitatori” mi fece sorridere, giacché ritenevo che il
tanfo poc’anzi avvertito sarebbe stato di per sé sufficiente a
scoraggiare chiunque ad avventurarsi lungo quella strada.

Non appena l’ambulanza si arrestò, un’infermiera e l’ufficiale


incaricato del trasporto ci ordinarono di scendere.
Udii la donna sussurrare: “Grazie a Dio paiono piuttosto remissive”.
In effetti, lo stato di rassegnazione in cui tutte noi versavamo fece sì
che, senza opporre alcuna resistenza, risalissimo la scalinata in
pietra che ci avrebbe condotte all’interno. Mi chiesi se le mie
compagne fossero realmente consapevoli di dove ci trovassimo, per
cui, rivolgendomi a Miss Tillie Mayard, le chiesi: “Dove ci troviamo?”.
“All’Istituto di Igiene Mentale sull’isola Blackwell”, risposte ella
tristemente.
“Ma tu non pensi di essere pazza…”, affermai.
“No, ma dal momento che siamo state mandate qui, dobbiamo
cercare di stare tranquille finché non avremo l’opportunità di
andarcene. Anche se, a dire il vero, dubito che ne avremo se tutti i
medici, come il Dr. Field, rifiutano di ascoltarci o di darci la possibilità
di dar prova della nostra assoluta sanità mentale”.
Sospinte in uno stretto vestibolo, chiusero a chiave la porta.
Devo ammettere che, avvertendo il sordo scatto della serratura, pur
consapevole della mia perfetta normalità e del fatto che in pochi
giorni avrei ottenuto il mio rilascio, fui prossima a un attacco di
panico. Per la prima volta avvertii tutto il peso di essere giudicata
folle da quattro esperti psichiatri e rinchiusa dietro le sbarre di un
manicomio, circondata giorno e notte da persone realmente afflitte
da malattie mentali; percepii, come mai prima di quel momento,
l’angoscia suscitata dal ritrovarmi costretta a mangiare e dormire con
queste donne e di essere reputata loro pari.
Seguimmo timidamente l’infermiera lungo l’ingresso, raggiungendo
un ampio salone che pullulava di quelle che sarebbero divenute le
nostre coinquiline. Quando ci ordinarono di sedere, alcune pazienti,
con gentilezza, si spostarono per farci posto. Dopo aver guardato
tutte noi con grande curiosità, una di loro mi si avvicinò chiedendo:
“Chi ti ha mandato qui?”
“I dottori”, risposi.
“Per quale motivo?”.
“Hanno detto che sono matta”, ammisi.
“Matta?”, ripeté incredula, “non si direbbe a guardarti”.
Ebbene, avrei potuto dire altrettanto di lei, pensai tra me, mentre
l’infermiera sanciva per noi l’ordine di seguirle per essere visitate dal
medico. Costei, che rispondeva al nome di Miss Grupe, presentava
un volto gentile e amabile, che contrastava in tutto e per tutto con un
modo di interloquire rude e severo e un atteggiamento, nei confronti
di tutte le pazienti, che ben presto si palesò brusco e spietato.
Lasciateci sole in una piccola sala d’aspetto, entrò in un ufficio
attiguo.
“Se possibile, terminate le visite, vorrei fare una pausa e uscire”, la
sentii chiedere a qualcuno all’interno e, subito dopo, una voce
maschile rispose che un po’ di aria fresca le avrebbe senz’altro
giovato. Quando riapparve innanzi a noi un ampio sorriso si
spalancava sul suo volto.
“Vieni avanti, Tillie Mayard”, disse.
Colei richiamata si alzò per entrare nella stanza, dove la udii
perorare con gentilezza, ma con grande fermezza, il suo caso. Le
obiezioni presentate a quel forzato confinamento mi parevano
assolutamente razionali, tanto che potevo dirmi certa che nessuno
psichiatra sarebbe rimasto impassibile innanzi alla sua storia, né
avrebbe dubitato del suo equilibrio mentale.
Informatolo della lunga malattia, dalla quale era inevitabile che il suo
sistema nervoso uscisse debilitato, chiese di essere sottoposta a
specifici test così da poter accertare che, al di là di quanto stabilito
dai medici di Bellevue, versava in ottime condizioni psichiche.
Povera ragazza! La tragica situazione in cui, suo malgrado, si era
venuta a trovare accrebbe la determinazione con cui intendevo
portare a termine la mia missione e far sì che nessun’altra, a causa
di diagnosi errate emesse da medici superficiali, i quali neppure si
prendevano la briga di accertare l’insanità mentale di pazienti che
non potevano fare a meno di sottomettersi al loro insindacabile
giudizio, dovesse patire la stessa sorte. Purtroppo, anche in quel
caso, lo specialista, senza neppure concederle una parola di
simpatia o incoraggiamento, dopo ch’ella ebbe terminato il suo
doloroso resoconto, si limitò a congedarla.
Toccò poi a Louise Schanz di essere accolta alla presenza di quello
che scoprii chiamarsi Dott. Kinier.
“Il suo nome?”, chiese ad alta voce.
Dichiarate le proprie generalità, Miss Schanz seguitò a parlare in
tedesco, poiché non parlava, né comprendeva la lingua inglese.
Nonostante questo, il medico seguitò a porle domande, finché,
accortosi che ella non aveva modo di intendere quanto lui le
chiedesse, si rivolse a Miss Grupe: “Lei è tedesca, traduca per me”.
Miss Grupe si rivelò una di quelle immigrate che, per qualche
bizzarria della mente, provano vergogna nel manifestare
apertamente la propria nazionalità: ella, asserendo di non ricordare
che poche parole della sua lingua madre, solo a seguito delle
insistenze del medico, acconsentì a chiedere a Louise Schanz
informazioni in merito alla professione del marito. E fu quella l’unica
domanda, pronunciata quasi con disgusto, che le si cavò di bocca in
una lingua che, dopo anni di lontananza, reputava ostica.
Così, la povera Mrs Schanz, impossibilitata a interagire, venne
confinata nell’istituto senza avere la possibilità di raccontare a
qualcuno la propria vicenda. Poteva tale trascuratezza essere
consentita, quando sarebbero bastate alcune telefonate per rinvenire
un interprete?
Qualcuno potrebbe obiettare che il ricorso a un traduttore non
l’avrebbe necessariamente salvata dal ricovero, ma mi chiedo per
quale motivo non ritenere doveroso indagare sulle reali motivazioni
che l’avevano condotta prima a Bellevue, poi sull’isola. Questa
donna, prelevata senza il suo consenso dal mondo solo perché
straniera e priva di risorse, era stata spedita in un manicomio senza
avere alcuna possibilità di provare la sua ‘normalità’. Come era
possibile che quella creatura si ritrovasse segregata a vita senza che
neppure le fosse spiegato, nella sua lingua, il motivo di una simile
reclusione, quando perfino ai criminali veniva data l’occasione di
dimostrare la propria innocenza?8
Invano Mrs Schanz supplicò in tedesco, probabilmente reclamando
la libertà perduta. La voce rotta da singhiozzi, incapace di farsi
ascoltare, fu ricondotta tra noi.
Fu poi Mrs Fox a essere sottoposta a questo debole, inutile esame,
per uscirne con la scritta “ricovero a tempo indeterminato” trascritta
sulla cartella. A seguirla, Miss Annie Neville, laddove io venni
convocata per ultima. Attendendomi, qualsiasi fosse stato il mio
atteggiamento, il medesimo giudizio calato sulle teste delle mie
compagne, stabilii di cessare la farsa, comportandomi nello stesso
modo in cui agivo nella vita quotidiana. Vista la scarsa
considerazione ottenuta dalle altre, ero infatti certa che ciò non
avrebbe in alcun modo messo a rischio la desiderata detenzione.
8 Ndt. All’epoca, non era raro che le donne, solo perché povere e straniere, o perché
ripudiate dal marito o ancora perché reagivano con eccessivo fervore a molestie o abusi
finissero internate in un manicomio.

Capitolo 9
Un esperto (?) al lavoro

“Nellie Brown”, chiamò l’infermiera, “il dottore desidera parlarti”.


Una volta entrata, mi fu chiesto di sedere innanzi alla scrivania.
“Qual è il suo nome”, domandò quegli senza neppure guardarmi.
“Nellie Brown”, replicai.
“Da dove viene?”, seguitò, scrivendo le mie risposte su un grande
libro.
“Da Cuba”.
“Ah!”, esclamò, come se improvvisamente avesse ricordato
qualcosa. Poi, rivolto a Miss Grupe: “Ha letto niente sui giornali circa
questa ragazza?”.
“Sì, c’era un grosso articolo sull’edizione di domenica del Sun in
proposito”.
“Falla rimanere qui, finché non mi sarò informato in merito”, le ordinò
per poi lasciarci.
Quando tornò, affermò di non aver trovato il giornale, ma di essere
stato messo al corrente delle circostanze che mi avevano condotto a
Bellevue, riassumendole per l’infermiera. Poi le chiese quale fosse il
colore dei miei occhi e lei, senza neppure guardarmi, rispose “grigi”,
laddove chiunque li avrebbe definiti marroni o nocciola.
“Quanti anni ha?”, mi chiese poi il medico.
“Ne ho compiuti diciannove lo scorso maggio”.
Nuovamente rivolto all’infermiera, domandò: “Quando è prevista la
prossima uscita?”.
Compresi che si riferiva al giorno libero della donna.
“Sabato”, affermò lei sorridendo.
“Andrai in città?”, proseguì indifferente al fatto di trovarsi innanzi a
una paziente su cui avrebbe dovuto focalizzare tutta la sua
attenzione.
“Sì”, rispose lei e, per chissà qualche motivo, iniziarono a ridere. Poi,
le ordinò: “Misurala”.
Fattami alzare, mi misero un metro accanto.
“Quanto segna?”.
“Sai che non so decifrare questo metro”.
“Sì che puoi farlo, andiamo, quanto è alta?”.
“Non lo so, ci sono strani simboli qui, non so dirlo, fallo tu”.
Ridendo, quasi trovasse divertente che un’infermiera qualificata per
un lavoro che richiedeva determinate competenze neppure sapesse
misurare l’altezza di una paziente, il medico si alzò, avvicinandosi.
“Un metro e 64, non vedi?”, disse prendendole la mano affinché
toccasse le figure vergate sopra.
Dalla voce dubbiosa di lei, compresi che ancora non aveva capito,
ma nuovamente il medico non parve preoccupato della totale
inaffidabilità di chi lavorava al suo fianco.
Poi mi fecero salire su una bilancia.
“Quanto segna?”.
“Non lo so, dovrai venire qui anche questa volta”.
“Stai diventando un po’ troppo insolente”, ribatté lui scherzoso.
A quanto pareva, l’infermiera costituiva per lui un soggetto di gran
lunga più interessante di quanto fossi io.
Appurato che il mio peso era di 50,8 chilogrammi, quello si affrettò a
rivolgere ancora la sua attenzione sull’infermiera.
“A che ora farai la pausa pranzo?”.
In pratica per ogni domanda fatta a me - o su di me -, ne seguivano
sei rivolte a Miss Grupe.
Quando, infine, lo vidi trascrivere sul suo librone quello che sapevo
essere il mio destino, lo interruppi: “Non sono malata e non intendo
rimanere in questa struttura. Nessuno ha il diritto di rinchiudermi in
questo modo!”.
Indifferente alle mie proteste, che neppure si dette la briga di
registrare, si limitò a dirmi che potevo raggiungere le mie compagne.
Terminate queste ‘approfondite’ visite, fummo condotte nuovamente
nel salone.
“Qualcuna di voi sa suonare il pianoforte?”, ci chiesero le altre
pazienti.
“Sì”, risposi io, “suono da quando ero una bambina”.
Subito insistettero affinché facessi loro ascoltare qualcosa,
accostando uno sgabello all’antiquato strumento posizionato al
centro della stanza.
Quando, però, premetti le dita su alcuni tasti, il suono distorto che ne
ricevetti mi fece accapponare la pelle.
“È orribile!”, esclamai rivolgendomi a un’infermiera, tale Miss
McCarten, “non ho mai posato mano su un piano così mal
accordato!”.
“Mi dispiace”, ribadì quella con ironia, “ne ordineremo uno nuovo
appositamente per te!”.
Non appena cominciai a suonare le variazioni di Casa dolce casa9 , il
chiacchiericcio cessò di colpo e tutte le pazienti, ammutolite, si
misero in ascolto. Mossi dolcemente le dita irrigidite dal gelo lungo la
tastiera e, quando finii, rifiutai le richieste di ulteriori melodie. Non
vedendo altre sedie libere, rimasi sullo sgabello, concedendomi un
primo sguardo sull’ambiente che mi circondava.
Si trattava di una lunga, vuota stanza, con delle scomode panche
gialle posizionate lungo le pareti, ciascuna delle quali ospitava più
persone di quelle che avrebbe dovuto sorreggere. A circa un metro e
mezzo di altezza, sul muro antistante le porte da cui eravamo
entrate, si trovavano alcune finestre dotate di sbarre. L’unico
abbellimento posto alle pareti erano tre litografie, una che
riproduceva un’opera di Fritz Emmet10, le altre raffiguranti dei
menestrelli di colore.
9 Ndt. Si tratta di una composizione per pianoforte, creata nel 1862 da Louis Moreau
Gottschalk (1829 – 1969), pianista e compositore statunitense.

Al centro, un grande tavolo coperto da una tovaglia bianca, attorno


al quale sedevano le sorveglianti. Tutto appariva immacolato, tanto
che non potei fare a meno di ammirare la pulizia che traspariva da
quel luogo e la solerzia delle infermiere, capaci di tenere tutto in
perfetto ordine. Il giorno successivo, avrei riso di quelle mie
affermazioni, che attribuivano al loro operato la cura dell’ambiente.

In quel momento, realizzato che non intendevo suonare altro, Miss


McCarten, venne da me dicendo bruscamente: “Alzati da lì”, per poi
chiudere il pianoforte con violenza.

Poi, una delle donne sedute al tavolo mi chiamò: “Nellie Brown, vieni
qui!”.
Mi avvicinai: “Cosa hai addosso?”.
“I miei vestiti”.
Preso un taccuino, annotò ogni singolo capo d’abbigliamento che
portavo.
10 Ndt. Fritz Emmett (1917 – 1995) fu un pittore e illustratore statunitense, noto per i suoi
quadri di paesaggi e dipinti marini.
Capitolo 10
Il mio primo pasto

Terminata questa procedura, qualcuno gridò: “Andate nel salone”.


Una delle pazienti, vedendomi spaesata, mi spiegò che si trattava
semplicemente della convocazione per la cena. Noi ultime arrivate
cercammo di rimanere unite, così attendemmo sulla soglia finché
tutte le altre non furono uscite. In piedi, l’una accanto all’altra,
tremavamo per l’aria gelida che entrava dalle porte spalancate.
Occorse un quarto d’ora prima che le infermiere si decidessero a
chiudere le ante, mentre tutte noi ci affollavamo sul pianerottolo della
scalinata, e ulteriori cinque minuti prima che anche le finestre
fossero serrate.
“Tenere tutte queste donne così poco vestite in un luogo così freddo
è a dir poco un’imprudenza”, protestò Miss Neville.
Benché sollevata al pensiero che presto avrei ricevuto quantomeno
un pasto decente, vedendo tutte quelle pazienti scosse da brividi,
annuii: “Sì, è brutale!”.
Sembravano così perse e prive di speranza. Alcune ripetevano frasi
prive di senso a qualche invisibile compagna, altre ridevano o
piangevano senza motivo e un’anziana, datomi un colpetto sul
braccio, ammiccando e piegando la testa, mi assicurò che non
dovevo preoccuparmi per quelle povere creature, giacché erano
tutte fuori di testa.
“Spegnete il riscaldamento”, fu ordinato in quel momento, “e
mettetevi in fila, due a due”. E ancora: “Mary, trovati una compagna,
quante volte devo dirvi di mettervi in fila? Fate silenzio!”.
Questi bruschi comandi furono accompagnati da spintoni e, in alcuni
casi, da manrovesci sulla nuca. Alla fine ci ritrovammo tutte a
marciare allineate lungo una stretta sala da pranzo, percorsa per
tutta la sua lunghezza da un ampio tavolo nudo e poco invitante.
Panche prive di schienale erano dispiegate su entrambi i lati e noi
tutte ci assiepammo su di esse. Sulla tavola, erano posizionate
grandi ciotole colme di una sostanza rosata che le pazienti
chiamarono tè. Accanto ad ognuna, era distesa una sottile fetta di
pane imburrato, accompagnata da un recipiente con cinque prugne
secche. Una paziente particolarmente corpulenta, accorsa per prima
alla tavola, si accaparrò diverse di quelle ciotole, svuotandole nel
proprio piatto. Non soddisfatta, senza perdere la presa su di esso,
afferrò l’ennesima scodella per divorarne in un solo boccone il
contenuto. Ero talmente stupefatta da quel comportamento, da non
accorgermi che la donna seduta di fronte a me, con una rapidità
fulminea, si era appropriata della mia fetta di pane, lasciandomi
senza.
Una paziente, osservando questa scena, si offrì di cedermi il suo,
ma, non volendo che se ne privasse, declinai l’offerta, rivolgendomi
all’infermiera per riceverne un’altra. Mentre mi gettava sul tavolo
un’esile razione, mi rimproverò dicendomi che, a quanto pareva,
l’amnesia non mi aveva privata dell’appetito. Addentai il pane, ma il
burro spalmatovi era talmente rancido da renderlo non commestibile.
Una giovane tedesca, accortasi del mio disgusto, mi informò che, se
preferivo, potevo richiedere del pane senza burro. Capitava sovente,
giacché poche riuscivano a mangiare le fette imburrate che ci
venivano propinate. Rivolsi la mia attenzione alle prugne, pensando
che sarei riuscita a farmele bastare.
Così feci. Non rimaneva che la tazza di tè. Ne sorbii un sorso,
sufficiente a farmi desistere. Giacché non solo non era zuccherato,
ma sembrava acqua tiepida lievemente colorata. Senza neppure
pensarci, a dispetto delle reiterate proteste di Miss Neville, ne feci
dono a un’altra paziente particolarmente assetata.
“Devi sforzarti di mangiare e bere”, mi sussurrò, “altrimenti ti
ammalerai e finirai per impazzire davvero. Solo lo stomaco pieno
permette al cervello di lavorare”.
“Non penso di riuscire a ingurgitare questa robaccia”, replicai,
rimanendo pressoché digiuna.
Non occorse molto tempo perché le pazienti consumassero quel
poco che era stato servito loro. A quel punto vi fu nuovamente
l’ordine di allinearsi e di tornare nel salotto. Una volta lì, diverse
pazienti mi circondarono pregandomi di suonare nuovamente, cosa
che le stesse infermiere sollecitarono. Decisi di accontentarle e Miss
Tillie Mayard si offrì di cantare. Dietro sua richiesta, suonai Rock-a-
bye baby11, rimanendo sorpresa della sua splendida voce.
11 Ndt. Si tratta di una delle più famose ninna nanne del mondo. Capitolo 11 Nei
bagni

Dopo qualche altra canzone, ci fu chiesto di seguire Miss Grupe.


Condotte in una gelida, umida sala da bagno, mi ordinarono di
spogliarmi. Protestai? Ebbene non fui mai così sincera in tutta la mia
vita come quando cercai di sottrarmi a quella richiesta. E tuttavia, mi
dissero che, se non avessi provveduto da sola, sarebbero dovute
ricorrere alla forza e di certo non avrei gradito un simile trattamento.
In quel momento, notai che una delle donne più folli della corsia, in
piedi accanto alla vasca, teneva tra le mani un grande straccio
scolorito. Parlava tra sé e sé, sogghignando in un modo che mi
parve diabolico. Immaginando ciò che intendevano farmi, rabbrividii.
Cominciarono a spogliarmi, togliendomi tutto ciò che indossavo.
Quando giunsero alla biancheria, protestai vivamente, ma a nulla
valsero le mie lamentele. Gettai lo sguardo sulle altre pazienti
radunate alla porta, prima di entrare nella vasca, pregando
l’infermiera affinché, per lo meno, mi garantisse un po’ di privacy.

In risposta, mi fu ordinato di tacere.


Neppure quando, immersa nell’acqua gelata, presi a lamentarmi con
fermezza, ebbi a ottenerne qualcosa. La corpulente paziente dal
volto diabolico, senza mai cessare di pronunciare frasi a cui solo lei
pareva attribuire un senso, prese a strigliarmi con forza su tutto il
corpo, viso compreso. Battevo i denti e tremavo, livida per il freddo
che attanagliava le mie membra. E all’improvviso, ecco che tre
secchi di acqua gelida mi furono versati sulla testa, tanto che ne ebbi
gli occhi, la bocca e le narici invase. Quando, scossa da tremiti
incontrollabili, pensavo che sarei affogata, mi trascinarono fuori dalla
vasca. Fu in quel momento che mi sentii realmente prossima alla
follia.
Intuii la devastazione del mio aspetto dallo sguardo ansioso delle
mie compagne, consapevoli di andare incontro alla mia stessa sorte.
E forse stavo davvero impazzendo perché quella vista produsse in
me uno scoppio ilare da cui sembravo incapace di riemergere.
Senza neppure asciugarmi, mi misero addosso una leggera
sottoveste di flanella, su cui figurava l’etichetta “Istituto di Igiene
Mentale, B.I., H.6.”.
Nel frattempo, Miss Mayard era stata spogliata e, per quanto avessi
odiato quell’esperienza, sono sincera nel dire che mi sarei
sottoposta una seconda volta a quel brutale trattamento se fosse
valso a risparmiarlo a lei. Giacché potete immaginare cosa possa
significare, per una ragazza convalescente da una lunga e
debilitante malattia, il ritrovarsi immersa nell’acqua gelata, mentre
qualcuno strofina con foga la tua pelle delicata. La udii dire a Miss
Grupe che la testa, su cui in alcuni tratti la cute era visibile per via di
una perdita di capelli generata dal malanno, le doleva ancora e
chiederle una maggiore delicatezza, ma quella rispose aspramente:
“Non abbiamo timore di farti del male, sta zitta o sarà peggio per te!”.
Così ella non poté far altro che sottomettersi con rassegnazione a
quel brusco lavaggio.
Trascinata in una stanza con sei letti, mi ero appena seduta su uno
di quelli, quando un’infermiera, strattonatami, disse: “Nellie Brown
deve essere messa in una stanza da sola stanotte, poiché di sicuro
intende generare problemi”.
Nella stanza n. 28, dove fui rinchiusa, a stento riconobbi quello che,
con tutta probabilità, doveva intendersi come letto. Si trattava infatti
di una sorta di branda, rialzata nella parte centrale e pendente ad
ambo i lati.
Non appena, stremata, mi decisi a sdraiarmi, il cuscino si inzuppò
per via dei miei capelli ancora gocciolanti, e la sottoveste, anch’essa
bagnata, trasferì l’umidità alle lenzuola e al materasso. Quando Miss
Grupe venne a controllare, le chiesi se potessi avere una camicia da
notte.
“Non ne abbiamo in questo istituto”, rispose.
“Non mi piace dormire senza”, replicai.
“Non è un mio problema. Sei ospite di un istituto pubblico ora e non
puoi aspettarti niente. È grazie alla carità che ti trovi qui e dovresti
mostrare un po’ di riconoscenza per quello che ti viene dato”.
“Ma la città di New York paga per mantenere questa struttura e
remunera voi tutte affinché siate gentili e vi prendiate cura delle
persone sfortunate che vengono portate qui”.
“Ebbene, non aspettarti alcuna benevolenza da parte nostra, perché
non ne riceverai”, concluse prima di uscire sbattendo la porta.
Una tela cerata, un lenzuolo sotto di me e una leggera coperta di
lana sopra era tutto ciò che avevo a disposizione. Ogniqualvolta mi
giravo in cerca di una posizione migliore su quello scomodo
giaciglio, una qualche parte del mio corpo si scopriva, facendomi
tremare per il gelo che imperversava nella stanza. Pensavo che,
avendo chiuso a chiave la porta, per lo meno non sarei stata
disturbata durante la notte, ma il pesante passo di due donne lungo
il corridoio e l’insulso compito affibbiato loro, consistente nell’aprire
ogni singola porta per poi richiuderla nuovamente a distanza di un
breve intervallo, fece scemare la mia speranza di quiete. Quando
giunsero alla mia porta, le sentii armeggiare sulla serratura e alzai il
capo per vederle entrare. Come tutte le infermiere di quella struttura,
indossavano abiti a strisce bianche e nere, fissati con bottoni
d’ottone, e un ampio grembiale bianco; sul fianco una pesante corda
verde da cui penzolava rumorosamente un grosso mazzo di chiavi e
sul capo una candida cuffia.
Una delle due, dotata di lanterna, la diresse sul mio viso dicendo a
quella che doveva essere la sua assistente: “E questa è Nellie
Brown”.
“E voi chi siete?”, domandai loro.
“Le infermiere del turno di notte, mia cara”, poi, augurandomi la
buona notte, uscì seguita dall’altra, richiudendo a chiave la porta.
Quasi fosse quello un dovere imprescindibile a cui a tutti i costi
dovevano attenersi, ripeterono la procedura di apertura e chiusura
delle porte innumerevoli volte.
Del resto, anche se se ne fossero astenute, il loro continuo
chiacchiericcio e l’andirivieni lungo il corridoio mi avrebbe comunque
tenuta desta.
Rimasi sdraiata tutta la notte, terrorizzata all’idea di quanto poteva
accadere se un incendio fosse divampato nell’istituto. Essendo ogni
accesso serrato a chiave e ogni finestra dotata di sbarre, qualsiasi
tentativo di fuga sarebbe risultato fallimentare. Solo in quell’edificio vi
erano, a quando mi era stato comunicato, circa trecento donne, per
lo più rinchiuse a gruppi di dieci, che non avrebbero avuto scampo.
Considerata la frequenza con cui si verificavano gli incendi all’interno
di simili strutture e la scarsa considerazione che il personale nutriva
per le pazienti, ero certa che nessuna di loro si sarebbe soffermata
ad aprire ogni porta e noi tutte saremmo bruciate vive.
Di questo ne ebbi prova successivamente, quando potei
sperimentare di persona il crudele trattamento che quotidianamente
riservavano a quelle sfortunate creature affidate loro.
Anche se le infermiere fossero state gentili, cosa che non poteva
dirsi di quelle impiegate in questo istituto, sarebbe stata necessaria
una prontezza di riflessi e un’abnegazione fuori dal comune per
rischiare la propria vita per aprire quell’infinita serie di porte e
mettere in salvo le donne là ricoverate. Purtroppo non era così
improbabile che, un giorno, un simile orrore potesse realmente
accadere.

In merito a questo, introduco qui una parentesi su una divertente


conversazione che ebbi con il Dottor Ingram pochi giorni prima del
mio rilascio. Stavo parlando con lui di diversi argomenti, quando, da
ultimo, gli dissi ciò che pensavo sarebbe accaduto in caso di
incendio.

“Le infermiere hanno ordine di aprire le porte”, affermò lui.

“Ma sa bene che esse non si prenderebbero la briga di farlo”,


replicai, “e tutte queste donne morirebbero nel rogo”.
Rimase in silenzio, incapace di contraddirmi.
“Perché non cerca di cambiare le cose?”.
“E cosa potrei fare? Ci sto pensando, ma servirebbe un protocollo
specifico per impedire tutto questo? Tu cosa faresti?”.
“Beh, insisterei per mettere una chiusura centralizzata, per cui
girando un semplice interruttore posizionato all’estremità del
corridoio, si aprirebbero e chiuderebbero tutte le porte
automaticamente. In quel caso, perlomeno avrebbero una
possibilità. Perché ora, con ogni porta serrata separatamente, vi
assicuro che non ne hanno”.
Il Dott. Ingram, rivoltomi uno sguardo stupito, chiese: “Nellie Brown,
in quale altro istituto siete stata rinchiusa prima di finire qui?”.
“In nessuno. Non sono mai stata reclusa in alcun luogo, ad
eccezione del college, in tutta la mia vita”.
“Ma allora dove hai visto questo sistema automatico che hai
descritto?”.
Ovviamente, non potevo dirgli di averlo visto nel nuovo Istituto
Penitenziario Occidentale di Pittsburg senza motivare la mia
presenza in quel luogo, così mi limitai a bofonchiare: “Oh, non
ricordo, da qualche parte dove mi sono recata in visita”.
“C’è solo un posto dove so per certo che hanno un simile sistema.
Ed è a Sing Sing12”.
Scoppiai a ridere per quanto implicato da quelle parole,
rassicurandolo sul fatto che mai in tutta la mia vita ero stata una
detenuta di quel carcere e che neppure vi ero stata in visita.

In quella mia prima notte sull’isola, solo quando cominciava ad


albeggiare, riuscii ad addormentarmi. Non trascorsero che pochi
minuti prima che qualcuno intervenisse a svegliarmi. Ordinatomi di
alzarmi, la finestra fu spalancata e la sottoveste mi fu quasi
strappata di dosso, mentre alcuni vestiti venivano gettati sul
pavimento. I miei capelli erano ancora umidi e avevo il corpo
indolenzito, quasi mi fossero venuti i reumatismi. Quando provai a
reclamare gli abiti con cui ero arrivata, quella che risultò essere la
capo infermiera e che rispondeva al nome di Miss Grady mi disse di
indossare quanto mi aveva dato senza fare storie. Esso consisteva
in una sottoveste nera di cotone grezzo e un vestito in calicò13
bianco con una grossa patacca nera. Legai i lacci della sottoveste e
indossai l’abito. Come quello di tutte le altre pazienti, era aderente
alla vita e, una volta che l’ebbi abbottonato, mi accorsi che la
sottoveste era più lunga di almeno 15 cm dell’abito. Immaginando il
bizzarro aspetto formato da quell’insieme, non potei fare a meno di
ridacchiare tra me e me. Vi assicuro che mai ho desiderato uno
specchio in vita mia come in quel momento.
12 Ndt. Si tratta del carcere di massima sicurezza posizionato sulle rive del fiume Hudson a
New York.

Vedendo le altre pazienti affrettarsi verso il salone, decisi di unirmi a


loro per non perdermi qualsiasi cosa ci attendesse. Ci radunammo in
45 nella sala numero 6, per poi dirigerci a piccoli gruppi verso i
bagni, dove trovammo appesi due soli ruvidi asciugamani. Nel
vedere alcune pazienti con spaventose eruzioni cutanee detergersi il
volto per poi asciugarlo con quelli e passarli alle altre, quando giunse
il mio turno non esitai a utilizzare la mia sottoveste come salvietta.
Prima ancora di completare le mie abluzioni, una panca fu portata
nella stanza da bagno. Miss Grupe e Miss McCarter, armate di
pettini, ci ordinarono di sederci. Nel vedere il modo in cui
procedettero senza alcun riguardo a districare i capelli delle mie
compagne, compresi che ad attendermi era una nuova forma di
tortura. Miss Mayard, estratto il proprio pettine, voleva con quello
procedere da sola, ma Miss Grady, afferratolo, prese a strigliarla con
violenza, senza concederle quella possibilità. I miei capelli, ancora
umidi a seguito del bagno della sera prima, si presentavano
particolarmente arruffati, ma, consapevole che a nulla sarebbero
valse eventuali lamentele, quando giunse il mio turno, mi sottoposi in
silenzio a quel brutale trattamento, stringendo i denti per non urlare. I
capelli dolorosamente stretti in una treccia annodata con un pezzo di
stoffa rossa, la mia frangia ricciuta fu tutto ciò che rimaneva libero
della mia gloriosa capigliatura.
13 Ndt. Si tratta di un tessuto leggero ed economico, che deve il suo nome alla città di
Calicut, in India, dove i tessitori locali, detti chaliyans, lo realizzavano. Esso contribuì, nella
prima metà del XIX secolo, alla supremazia inglese nel settore tessile.

Quando, tutte sistemate, ci ritrovammo nel salottino, faticai a


riconoscere le mie compagne di Bellevue in quell’esercito reso
anonimo da abiti e pettinature con cui, nostro malgrado, avevano
inteso uniformarci. Alla fine riuscii a individuare Miss Mayard e,
avvicinatami, le chiesi: “Come hai dormito dopo quel gelido bagno?”.

“Sono quasi congelata e poi tutto quel rumore…! È stato orribile! I


miei nervi cominciavano a rilassarsi prima di giungere qui, ma ora,
temo che cederanno nuovamente!”.

Feci del mio meglio per consolarla e perorai la sua causa con le
infermiere, chiedendo loro di dare, per lo meno alle donne meno in
salute, un capo di abbigliamento addizionale. Ovviamente, a nulla
valsero le mie suppliche, poiché, a loro parere, disponevamo del
necessario e quello dovevamo farcelo bastare.

Costrette ad alzarci alle 5:30 in punto, dovemmo attendere fino alle


7:15 prima che ci fosse dato ordine di metterci in fila per raggiungere
la sala da pranzo per la colazione. Questa consisteva in una tazza di
tè freddo, una fetta di pane con lo stesso burro rancido servito la
sera innanzi e del porridge addolcito con sciroppo di melassa.
Neppure la fame che attanagliava il mio stomaco mi permise di
buttar giù quella robaccia. Quanto meno chiesi e ottenni del pane
non imburrato, ma vi assicuro che occorse tutto il mio coraggio per
addentarlo, da tanto che si mostrava stantio e pericolosamente
ammuffito.

Quando poi, rivoltandolo, vi trovai assiepato il nido di un ragno, non


potei fare a meno di rinunciarvi, rivolgendo la mia attenzione al
porridge. Purtroppo anch’esso si presentava, perfino dall’odore,
prossimo alla putrefazione, scoperta che mi indirizzò verso l’ultima
cosa a mia disposizione: quella sorta di brodaglia insapore che le
infermiere chiamavano tè e che solo per spirito di sopravvivenza mi
imposi di inghiottire.

Non appena tornate nel salotto, alcune pazienti furono mandate a


rifare i letti, laddove altre, divise in gruppi, ricevettero innumerevoli
incombenze volte a mantenere lustra l’intera struttura: realizzai così,
a dispetto di quanto inizialmente pensato, che non le infermiere, ma
le pazienti stesse si occupavano delle pulizie. Tra i vari obblighi vi
era non solo quello di riordinare e strusciare le stanze del personale,
ma anche di lavare i loro indumenti.

Alle 9.30 le nuove arrivate, me compresa, dovettero sottoporsi a una


nuova visita. Polmoni e cuore mi furono esaminati dal giovane,
civettuolo dottore incontrato il giorno precedente, mentre l’assistente
del sovrintendente, il dottor Ingram, si occupava di redigere la
cartella. Quando tornai nel salotto, realizzai che Miss Grady,
rinvenuto il mio taccuino e la matita, con i quali intendevo prendere
appunti per la relazione da presentare al giornale, se ne era
appropriata.

“Vorrei riaverli”, dissi, “mi aiutano a ricordare le cose”. “Non puoi


averli, quindi taci!”, fu l’inesorabile risposta. (Qualche giorno dopo,
ne feci richiesta al Dottor Ingram, il

quale mi promise di considerare la cosa. Alla fine ottenni il taccuino,


ma non la matita, poiché Miss Grady asseriva di non averla presa.
Alle mie insistenze, affermarono che, probabilmente, quell’oggetto
era frutto della mia immaginazione).

Terminate le pulizie, poiché, a dispetto delle rigide temperature, la


giornata si presentava soleggiata, ci dissero di prendere scialli e
cappelli per uscire a passeggio. La brama di aria e libertà e il
desiderio di sfuggire, per qualche minuto, alla grigia monotonia di
quella prigione si palesò nella rapidità con cui tutte le pazienti si
affrettarono verso l’ingresso, quasi temessero che, da un momento
all’altro, potessero ritrattare la sola, piacevole concessione che ci era
stata fatta.

Capitolo 12
A passeggio con le mie lunatiche compagne

Mai dimenticherò quella mia prima passeggiata. Indossati bianchi


cappelli di paglia, gli unici disponibili nell’istituto, simili a quelli che i
bagnanti usano a Coney Island, a stento mi trattenni dal ridere del
misero quadretto che tutte noi formavamo. In fila per due e
sorvegliate a vista dalle attendenti, uscimmo. Non mi occorsero molti
passi per scorgere, su sentieri poco lontani, diverse file di donne,
ospiti degli edifici adiacenti. Quell’isola era più affollata di quanto mi
fosse inizialmente parso. Ovunque volgessi lo sguardo, potevo
vedere schiere di pazienti, tutte parimenti abbigliate e dotate di quei
cappelli di paglia che tanto avevano suscitato la mia ilarità,
procedere marciando lentamente tutt’intorno.

Quando incrociammo uno di quei gruppi, fui attraversata da un


brivido di orrore, nel rinvenire su quei volti grigi sguardi privi di luce
ed espressioni vacanti. Quelle donne apparivano paurosamente
sporche e trasandate.

“Chi sono?”, chiesi alla paziente accanto a me.

“Sono considerate tra le più folli dell’isola”, rispose, “risiedono nel


Lodge, il primo edificio con quell’alta scalinata”.
Alcune di loro gridavano, altre imprecavano senza sosta e altre
ancora canticchiavano nenie prive di senso o sussurravano
preghiere a ritmo serrato. Nell’insieme, si presentavano allo sguardo
sconvolto di noi novelline come la più miserabile collezione di
umanità.
Quando esse si furono allontanate ci imbattemmo in un’altra
colonna, che impresse nel mio animo uno scenario ancora più
terribile: 52 donne procedevano in fila, la vita fasciata da ampie
cinture in pelle ancorate le une alle altre da una lunga corda,
all’estremità della quale era attaccato un pesante carro. Su di esso
sedevano due donne, la prima intenta a stringere tra le mani un
piede ferito, l’altra ad urlare alle infermiere frasi del tipo: “Mi hai
picchiata e non pensare che me ne dimenticherò, Tu vuoi uccidermi,
lo so!”, per poi scoppiare in singhiozzi.
Le donne alla corda, come le altre pazienti le definirono, erano tutte
intente ad assecondare le proprie ossessioni. Talune gridavano per
tutto il tempo. Una, con grandi occhi blu, nel vedere che la stavo
guardando, ricambiò il mio sguardo, sussurrando strane parole e
sorridendo, un’espressione di completa follia stampata sul volto. I
medici non avevano sbagliato giudizio, nel loro caso. L’orrore
suscitato da quelle creature malate nella mente di una persona
come me, che neppure lontanamente si avvicinava all’insanità
mentale, è indescrivibile.
“Possa Dio aiutare tutte loro”, proferì Miss Neville, “il loro stato è così
devastante che non riesco a guardarle”.
Altri gruppi si susseguirono, lasciandoci costernate. Potete
immaginare la scena che eravamo forzate a osservare? Secondo
quanto, successivamente, uno degli psichiatri mi disse, vi erano ben
1600 malate di mente internate nel manicomio dell’isola Blackwell.
Il mio cuore si colmò di compassione nel vedere una donna dai
capelli grigi conversare con il vuoto che la circondava e un’altra,
costretta da una camicia di forza, spintonata da altre due. Quale
destino poteva essere peggiore di quello toccato a tutte loro?
Nell’osservare il prato perfettamente curato che circondava la
struttura, sorrisi amaramente al pensiero di come, non appena
arrivata in loco, mi fossi sentita piacevolmente impressionata da quel
lieto contesto, certa che potesse alleviare il monotono grigiore della
prigionia.
Ma quale diletto esse potevano trarne? Non era consentito lasciare il
sentiero per addentrarvisi, si poteva soltanto ammirare. Vidi alcune
pazienti sollevare con gioia una noce o una foglia colorata cadute sul
vialetto e le infermiere intimare loro bruscamente di gettarle via,
quasi l’entusiasmo con cui le stringevano tra le mani potesse creare
un qualche problema.
Passando innanzi a un padiglione basso, che ospitava l’ennesimo
gruppo di pazienti senza speranza, lessi sul muro il motto: “Mentre
vivo, spero”, la cui incoerenza con il contesto in cui era inserito mi
colpì profondamente. Molto più azzeccata sarebbe stata la famosa
frase “Lasciate ogni speranza voi che entrate”.
Durante quella che potrei chiamare ‘ora d’aria’ fui più volte disturbata
da alcune infermiere che, letta la mia storia sui giornali, volevano
conoscermi.
Rientrammo poco prima di pranzo e realizzai in quel momento
quanto fossi affamata. La procedura della sera innanzi, che
prevedeva un’attesa nel salone di tre quarti d’ora prima dell’apertura
delle porte della sala da pranzo, si ripeté tale e quale. Questa volta,
le ciotole che nella cena erano colme di tè, contenevano della zuppa
e sul piatto di ognuna di noi figurava una patata lessa fredda, una
fetta di pane e un pezzo di manzo avariato. Non vi erano coltelli, né
forchette e potete figurarvi la scarsa grazia con cui le pazienti, in
preda a una fame latente, afferrata con le mani la carne, si
apprestavano a divorarla. Ovviamente le più anziane così come
quelle che manifestavano una precoce perdita dentale, non furono in
grado di mangiarla. Facendomi forza e chiudendo gli occhi, nel
timore di rinvenire sul pane altre sorprese che mi avrebbero impedito
di mangiare, lo divorai in poche, rapide boccate.
Il sovrintendente Dent, fatto il suo ingresso, prese a passeggiare
lungo il tavolo, soffermandosi, di tanto in tanto, per chiedere alle
pazienti: “Come va, come stai oggi?”.
Il tono della sua voce risultava gelido come la temperatura della
stanza tanto che non mi stupì che nessuna delle donne osasse
presentare una qualche lamentela.
Chiesi alle mie vicine se non fosse il caso di protestare per il freddo
in cui dovevamo vivere e per la carenza di un vestiario adeguato, ma
mi esortarono a tacere, giacché, se solo osavo lamentarmi innanzi a
lui, sarei incorsa nella vendetta delle infermiere.
Ciò che mi deprimeva oltremodo in quelle lunghe giornate era la
costrizione a sedere per ore sulle panche. Ogniqualvolta qualcuna
provava ad alzarsi per sgranchirsi le gambe, o anche solo a
cambiare posizione, subito veniva redarguita. Lo stesso accadeva
quando ci sentivano conversare. Silenzio assoluto: a questo
eravamo tenute.
Se si eccettua la tortura, quale altro trattamento potrebbe trascinare
chiunque nella più assoluta follia? Tanto più che si trattava, in questo
caso, di donne problematiche, inviate lì per ricevere cure adeguate.
Mi piacerebbe dire a quegli esperti psicologi che, successivamente,
hanno condannato il mio operato come infiltrata: “Prendete alcune
donne perfettamente sane e in salute, rinchiudetele in una stanza,
dove saranno costrette a rimanere sedute dalle 6 del mattino alla 8
del pomeriggio, senza mai potersi muovere, né parlare, alimentatele
con cibo scarso e avariato e costringetele a sottoporsi a bagni gelidi
e terapie estremamente dure, senza mai dar loro notizie di ciò che
accade nel resto del mondo e vedrete come, ben presto, le
condurrete alla follia. Due mesi sono sufficienti a provocare in
chiunque un vero e proprio esaurimento fisico e mentale”.
Ho fin qui descritto il mio primo giorno di ricovero nell’istituto: ebbene
i restanti nove non furono molto diversi, tanto che raccontarli uno ad
uno sarebbe tedioso e ripetitivo. Nel rivelarvi questa storia so bene
che sarò sottoposta a critiche e obiezioni da parte di molti di coloro
qui citati, ma vi assicuro che mi sono limitata a narrare, in parole
semplici e con la massima obiettività, ciò che ho vissuto in quei dieci
giorni all’interno del manicomio.
La cosa peggiore era senz’altro il vitto; esso risultava del tutto
insipido e, per lo più, rancido, tanto che solo la fame costringeva
quelle povere donne a ingurgitarlo. Allo scopo di insaporire carne e
zuppa, giacché di sale non si rinveniva traccia, vi versavano aceto o
mostarda, rendendole oltremodo disgustose. Di qualsiasi cosa si
trattasse, pesce, manzo, carne di montone o patate, il tutto servito
freddo, la consistenza e il gusto erano sempre i medesimi. Se solo
qualcuna osava rifiutarsi di mangiare, veniva duramente punita. E, a
peggiorare il nostro stato d’animo, il fatto che, nel corso delle brevi
passeggiate mattutine, capitava sovente che ci ritrovassimo a
passare innanzi alle cucine in cui venivano preparate le pietanze per
infermiere e medici – separate dai locali in cui i pasti delle pazienti
venivano cucinati.
Ebbene, sbirciando attraverso le finestre avevamo visione di ceste di
meloni, uva e frutta di ogni genere, del tutto assenti dalla nostra
dieta, di altre contenenti soffice pane bianco e piatti su cui
risaltavano ottimi tagli di manzo, ben diversi dai brandelli avariati che
servivano a noi. Il profumo che scaturiva da quella stanza
accresceva il senso di fame che noi tutte costantemente
percepivamo. Invano protestai con i medici a proposito di questo
trattamento differenziato e quando me ne andai nulla di tutto ciò era
cambiato.
Era deprimente osservare come le pazienti più deboli, a causa della
malnutrizione, deperissero sempre più. Più volte scorsi Miss Mayard
sforzarsi di mangiare un boccone per poi correre in bagno e
rigurgitarlo, incorrendo negli aspri rimproveri dell’infermiera di turno.
L’unica risposta ottenuta, se solo tentavamo di lamentarci, era un
brusco: “Chiudi la bocca o te ne pentirai!”, cui seguiva il medesimo
ritornello sulla nostra palese ingratitudine e sul fatto che coloro che
vivono della carità altrui non dovrebbero lamentarsi per quanto viene
elargito loro.
Una giovane tedesca, di cui ricordo solo il nome di battesimo,
Louise, incapace di ingerire alcunché per giorni, si ammalò
gravemente. Un giorno, accortami della sua assenza, chiesi
informazioni all’infermiera, la quale mi informò che aveva la febbre
alta.
Povera creatura! Forse Dio aveva deciso di accogliere le sue
costanti suppliche di poter presto lasciare questo luogo di dolore. Le
infermiere, incapaci di comprendere quanto quel cibo fosse
inadeguato a un malato, ordinarono a una delle pazienti di portare a
Louise la sua razione. Ovviamente, ella si rifiutò di mangiare. Del
resto, come potevano persone così poco qualificate comprendere
quale fosse la dieta adatta quando neppure sapevano leggere un
termometro? Non potei fare a meno di sorridere, seppure con
immane amarezza, quando una di quelle tornò asserendo che la
paziente presentava una temperatura di 150°!
Miss Grupe, notando la mia espressione sbalordita, mi chiese di
quanto mi fosse mai salita la febbre e, poiché mi rifiutai di
rispondere, andò lei stessa a misurare la temperatura a Louise.
Quando tornò, riportò che il termometro segnava 99°! Mio Dio, in
quali mani si trovavano quelle sventurate!
Tra le tante, quella che più risentiva del gelido ambiente in cui
vivevamo era Miss Mayard. Ciononostante, cercava di resistere
stoicamente e di mostrarsi allegra come io stessa le avevo
consigliato. Era fondamentale, infatti, in un simile contesto, non
lasciarsi opprimere dalla depressione. Un giorno il sovrintendente
Dent giunse accompagnato da un altro medico affinché mi visitasse.
Dopo che mi ebbe sentito il polso ed esaminato la lingua, gli confidai
del freddo eccessivo che attanagliava tutte noi e gli chiesi di
rivolgere la sua attenzione su Miss Mayard, poiché era soprattutto
ella e non io ad avere problemi di salute. Non mi diede risposta, ma
lo udii dire al sovrintendente che, in base ai parametri della visita
effettuata, non vedeva traccia di insanità in me.
L’altro lo rassicurò dicendo che sovente, nei casi come il mio, quei
valori non sono significativi, seppure lui stesso ammise che dal mio
sguardo traspariva un’intelligenza che di rado aveva rinvenuto in
altre pazienti. Comunque sia, quando tornai nel salotto, fui lieta di
vederli chiamare proprio Miss Mayard.
Successivamente, ella mi disse di aver confidato ai medici di essere
malata, ma di non aver ottenuto da loro alcuna conferma circa il suo
stato, né rassicurazioni su un’eventuale cura. Terminata la visita,
allorché i medici si allontanarono, le infermiere l’avevano afferrata e,
spintala con forza sulla panca, le avevano sussurrato: “Alla fine,
quando vedrai che i dottori non ti considerano, cesserai di
importunarli!”.

Raramente le infermiere, che sempre indossavano indumenti pesanti


e perfino cappotti, concedevano a noi quantomeno degli scialli. Ogni
notte, sentivo una donna piangere, intirizzita dal gelo, e pregare Dio
che la lasciasse morire, un’altra gridare “Assassini!” a intervalli
regolari, invocando l’arrivo delle forze dell’ordine.

La seconda mattina in cui mi trovavo nella struttura, mentre eravamo


impegnate nella quotidiana lista di incombenze, vidi le infermiere
portare dentro una donna, che riconobbi dalla voce essere colei che,
per tutta la notte, aveva invocato la morte. Si trattava di una signora
anziana, sui settant’anni, non vedente, vestita con gli abiti leggeri
che tutti noi avevamo addosso.

Quando la posizionarono sulla panchina, cominciò a piangere,


dicendo: “Perché mi avete portato qui? Ho così tanto freddo, perché
non posso restare a letto o per lo meno avere uno scialle?”, per poi
tentare a più riprese di alzarsi, quasi volesse uscire dalla stanza,
spintonata ogni volta indietro dalle attendenti.
A stento mi trattenni dal prenderle a calci nel vederle prendersi gioco
di lei, lasciandola camminare alla cieca nel salotto e scoppiando a
ridere ogniqualvolta ella andava a sbattere contro qualche ostacolo.
D’un tratto la poveretta, sostenendo che le calzature le facevano
male ai piedi, se le tolse e le infermiere subito ordinarono a due
pazienti di rimettergliele. Nuovamente ella le tolse e, alla fine, contai
almeno sette persone intorno a lei, intente a impedirle di agitarsi.
Quella tragica scena mi provocò una stretta al cuore, tanto più che la
povera vecchietta seguitava a supplicare: “Datemi almeno un
cuscino e una coperta, fa troppo freddo qui!”, cercando poi di
sdraiarsi sulla panca.

A quel punto Miss Grupe, la cui crudeltà non pareva avere limiti, le si
sedette addosso e cominciò a infilarle le sue mani gelate sul collo e
sulla schiena, ridendo innanzi alle grida della poveretta. Nessuna
delle infermiere, che parevano divertite da quella tragica scena,
mostrò alcuna pietà. E, alla fine della giornata, la donna fu trasferita
a un altro reparto.

Capitolo 13
Percosse e malmenate

Come precedentemente testimoniato, Miss Tillie Mayard soffriva


infinitamente per la rigidità delle temperature. Una mattina in cui,
livida in volto, sedette accanto a me sulla panca, non riusciva a
smettere di tremare, tanto da battere in denti. Non potendo più
tollerare di vederla in quello stato, mi rivolsi alle tre attendenti che, al
caldo dei loro pesanti pastrani, sedevano comodamente attorno al
tavolo al centro della stanza.

“Non vi pare crudele ricoverare delle pazienti in un istituto per poi


lasciarle morire assiderate?”, le rimproverai, indicando loro le
condizioni in cui la mia amica si trovava.

Indifferenti, si limitarono a ribadire che per tutte era previsto lo


stesso abbigliamento e che non intendevano fare eccezioni. In quel
momento Miss Mayard fu colta da un attacco di convulsioni e Miss
Neville, accorsa, la prese tra le braccia così che non avesse a ferirsi.
“Lasciala cadere sul pavimento, così imparerà la lezione”.

Ovviamente Miss Neville disse loro ciò che pensava di quel crudele
atteggiamento. Fu in quel momento che qualcuno mi chiamò
asserendo che ero attesa in ufficio. Reputai mio dovere approfittare
dell’occasione per perorare ancora una volta la nostra causa. Così,
in preda a una profonda agitazione, presi a parlare, devo ammettere
in modo alquanto incoerente e precipitoso, del freddo che tutte noi
pativamo, delle terribili condizioni di salute in cui versava Miss
Mayard, del cibo scarso e terribile che vi veniva propinato, del
crudele trattamento delle infermiere, che si sentivano in diritto di
maltrattarci solo perché ci trovavamo ospiti di un istituto di carità, e
del loro costante rifiuto a concederci scialli o abiti maggiormente
adeguati.

Poi, dopo avergli assicurato che io non avevo alcuna necessità di


cure mediche, lo pregai di visitare subito Miss Mayard. Non so come
ma riuscii a farmi ascoltare. Giacché, come Miss Neville e altre
pazienti mi raccontarono, egli si precipitò nel salotto, dove Miss
Mayard versava ancora in preda alle convulsioni. Postole un dito tra
le sopracciglia, premette finché il volto non le si fece cremisi e il
sangue riprese a fluire fino alla testa, così che le convulsioni
cessarono ed ella riprese i sensi. Benché il giorno seguente, a
eccezione di un terribile mal di testa, non mostrasse problemi fisici
correlati alla crisi, mentalmente non era più la stessa. Nel vederla,
giorno dopo giorno, precipitare verso quello stato di totale apatia e
vacuità dello sguardo che tanto caratterizzava le pazienti insane di
mente, non potei fare a meno di maledire medici, infermiere e
istituzioni pubbliche per avere reso folle una persona che, al
momento del ricovero, era semplicemente indebolita da una lunga
malattia. E se anche qualcuno potrebbe giustificarsi asserendo che
era stata con certezza diagnosticata ’pazza’, questo non può in
alcun modo giustificare i bagni ghiacciati, la malnutrizione, le
percosse e il freddo che era stata costretta a patire.

Quella mattina ebbi una lunga conversazione con il Dottor Ingram,


che si mostrò disponibile a fare quanto in suo potere, tanto che
subito convocò Miss Grady, ordinandole di concedere ulteriori vestiti
alle pazienti. Quando fummo uscite ella, afferratami per un braccio,
sibilò che, se non volevo incorrere in seri problemi, avrei dovuto
smettere di lamentarmi con i medici.

Quel giorno, diversi visitatori, in cerca di ragazze scomparse,


chiesero di vedermi. Nel fare ingresso nel salotto, ne vidi uno in
particolare che conoscevo da anni. Quando si volse a guardarmi, lo
vidi sbiancare per la sorpresa e lo shock di vedermi reclusa in quel
luogo. Decisa a recitare la mia parte, stabilii che, se quegli avesse
rivelato la mia vera identità, avrei finto di non conoscerlo. Prima che
potesse farlo, però, attenta a non farmi sentire da Miss Grady, che
sostava a breve distanza, gli sussurrai: “Non tradirmi!”.

Mi rivolse uno sguardo colmo di complicità, da cui compresi che


aveva intuito la mia finzione e intendeva assecondarla. Così,
rivoltami a Miss Grady, affermai: “Non ho mai visto quest’uomo prima
d’ora”.
Miss Grady gli chiese: “Conosce questa donna?”. “No, non è colei
che sto cercando!”.
“In tal caso non può rimanere qui”, affermò, accompagnandolo verso
la porta.

Nel timore che quegli, mutata idea, potesse pensare che fossi stata
mandata lì per errore e contattare amici e colleghi affinché mi
facessero rilasciare, prima ancora che l’infermiera avesse il tempo di
chiudere a chiave la porta, come da procedura, gridai: “Un momento,
señor!”.

Quegli tornò verso di me ed io, a voce alta, chiesi: “Parlate spagnolo,


señor?”, per poi sussurrare: “Va tutto bene, mi trovo qui per
un’inchiesta per il giornale. Non dirlo a nessuno!”.

“No, mi dispiace”, rispose, facendo un cenno con la testa per


rassicurarmi sul fatto che avrebbe mantenuto il mio segreto.

Nessuno al mondo potrebbe immaginare quanto il tempo scorra


lentamente per coloro reclusi in simili istituti. I giorni paiono
interminabili e qualsiasi avvenimento foriero di novità è benvenuto, al
punto da indurci a parlarne per ore, soprattutto perché, in assenza di
altro, si finisce sempre per scambiarci lamentele sul vitto e sul
pessimo trattamento che quotidianamente subiamo. Non ci è
possibile avere qualcosa da leggere e non si può fare a meno di
attendere l’arrivo della barca che porta tra noi nuove sventurate, da
cui è talvolta possibile conoscere qualcosa dei recenti fatti del
mondo esterno. Per questo, le nuove venute sono sempre ben
accolte e godono delle simpatie di tutte le pazienti. Oltretutto,
essendo la struttura numero 6, in cui io ero reclusa, quella adibita
alla prima ricezione, avevo la possibilità di vedere tutte le nuove
ricoverate, comprese quelle che venivano poi trasferite negli altri
reparti. Fu così che, poco dopo il mio ricovero, conobbi una giovane
donna chiamata per non so quale motivo ‘Urena Piccolo Paggio’.

Squilibrata dalla nascita, aveva un punto debole: sosteneva infatti di


avere diciotto anni e si infuriava se qualcuno sosteneva il contrario.
Ovviamente, le infermiere videro in questo una nuova forma di
diletto. Miss Grady, in particolare, affermava sovente: “Urena, i
medici asseriscono che tu abbia trentatré anni e non diciotto come
vai affermando”, suscitando l’ilarità delle colleghe, che rincaravano la
dose finché quella semplice creatura cominciava a urlare e a
piangere, supplicando di poter fare ritorno a casa.

Alla fine, scemato l’iniziale divertimento, stanche di quel protratto


singhiozzare, da loro stesse suscitato, cominciavano a urlarle di fare
silenzio.

Un giorno, poiché ella, in preda alla totale isteria, non accennava a


calmarsi, le si lanciarono addosso, cominciando a schiaffeggiarla e a
colpirla sulla nuca con forza. E più esse infierivano, più la poveretta
piangeva e gridava, finché alla fine, furiose, la afferrarono per il collo
impedendole di respirare, per poi rinchiuderla dentro un armadietto.
La sentii piangere e disperarsi, finché, poco a poco, cessò di
lamentarsi. Quando, dopo diverse ore, si risolsero a tirarla fuori
permettendole di tornare in salotto, i segni rossi delle dita attorno al
collo erano ancora perfettamente evidenti.
Questa punizione parve ridestare il desiderio di quelle aguzzine di
amministrarne altre. Tornate nel salotto, infatti, le vidi afferrare
un’anziana dai capelli bianchi, che sedeva del tutto pacifica,
chiacchierando tra sé. Costei, mentalmente instabile, trascorreva il
tempo parlottando da sola a bassa voce o sussurrando frasi senza
senso a coloro che le erano vicine.

Non appena le infermiere, senza alcun motivo, la presero per le


braccia, in lacrime, supplicò tutte noi: “Per amore del cielo, non
lasciate che mi percuotano!”.

“Chiudi la bocca, zoccola”, le gridò Miss Grady, prendendola per i


capelli e trascinandola urlante nello stesso armadio in cui avevano
rinchiuso l’altra.

Le sue urla divennero viepiù intollerabili, finché, di colpo, cessarono


del tutto. Quando le infermiere tornarono nella stanza, Miss Grady
affermò che, per qualche ora quella vecchia pazza era sistemata.
In seguito testimoniai di quanto accaduto di fronte a degli psichiatri,
ma non ritennero necessario intervenire.

Nella sezione 6 vi era anche un’esile, anziana donna tedesca,


Matilda, che, se ben ricordo, era impazzita a seguito di una grossa
perdita di denaro. Ad eccezione di rare occasioni, non era una
paziente problematica. Talvolta conversava con la stufa a vapore o
saliva su una sedia per parlare alla finestra. In queste conversazioni,
imprecava contro gli avvocati che si erano impossessati delle sue
proprietà.

Le infermiere parevano divertirsi molto nel tormentare questa povera


anima. Un giorno, in cui sedevo tra Miss Grady e Miss Grupe, le udii
ordinare alla poveretta di dire cose terribili a Miss McCarten, così da
farla infuriare, ma Matilda, dimostrando un maggior buon senso di
loro, esclamò semplicemente: “Non posso dirlo, è privato”.

A quel punto Miss Grady, vedendo che nulla avrebbe ottenuto da


quella paziente, le si avvicinò sputandole in un orecchio. Matilda si
pulì senza pronunciare una sola parola.
Capitolo 14
Alcune storie sfortunate

In quei giorni ho fatto conoscenza con gran parte delle


quarantacinque donne chiuse nella sezione 6. Lasciate che ve ne
presenti qualcuna. Vi ho già parlato di Louise, la giovane e graziosa
tedesca che fu colta da febbre alta. Ella si crogiolava nell’illusione
che i suoi genitori deceduti fossero al suo fianco. Mi confessò di
essere stata picchiata diverse volte da Miss Grady e dalle sue
assistenti, per poi aggiungere: “Non riesco proprio a mangiare ciò
che ci propinano e vorrei non essere costretta a congelare per
l’abbigliamento inappropriato che ci obbligano a indossare. Oh!
Prego ogni notte che il mio papà e la mia mamma mi prendano con
sé. Una notte, quando ancora mi trovavo a Bellevue, è arrivato il
dottor Field. Ero a letto, stanca di quelle continue visite per cui
sbottai: ‘Sono stufa di questo. Non intendo più parlare’. ‘Non vuoi?’,
rispose lui furioso, ‘Vedremo se non riuscirò a farti parlare’. Detto
questo, presa la stampella posizionata accanto al letto, con quella,
mi colpì ripetutamente sulle costole. Spaventata, mi alzai gridando:
‘Cosa significa questo? Perché mi colpisce?’. ‘Voglio solo insegnarti
a obbedire’. Oh se solo potessi morire e raggiungere mio padre!”.

Quando mi rilasciarono, languiva ancora a letto con la febbre alta e


forse ha ormai ottenuto ciò che desiderava.
Vi era anche una francese confinata nella sezione 6 durante la mia
permanenza e posso assicurarvi che non vi era alcun segno di follia
in lei. L’ho osservata a lungo e ho conversato con lei tutti i giorni, ad
eccezione degli ultimi tre, e mai una sola volta ha manifestato un
qualche sintomo di allucinazioni od ossessioni. Il suo nome è
Josephine Despreau e suo marito e tutti i suoi amici risiedono in
Francia. Le domandai come fosse finita in quel posto.
“Una mattina, stavo cercando di fare colazione e sono stata colta da
un’improvvisa debolezza. La padrona di casa ha chiamato due
ufficiali che mi hanno condotto al commissariato. Incapace di
comprendere cosa ciò significasse, cercai di raccontare loro la mia
storia, ma non mi ascoltarono. Le cose in questo paese non mi
erano familiari e, prima ancora di accorgermene, mi sono ritrovata in
questo istituto, ricoverata come persona incapace di intendere e di
volere. Invano ho pianto affinché mi rilasciassero, ma ogni volta Miss
Grady e le sue assistenti mi stringevano il collo perché smettessi. La
loro violenza, col tempo, è perfino aumentata”.
Di una giovane e graziosa ebrea, che non conosceva di inglese se
non poche parole, ho potuto conoscere solo la versione fattami delle
infermiere. Esse mi hanno detto che il suo nome è Sarah Fishbaum
e che il marito, scoperta la sua relazione con un altro uomo, l’aveva
fatta rinchiudere. Esse garantivano che Sarah era realmente folle e,
a questo proposito, questo era il metodo con cui solevano curarla:
“Sarah, ti piacerebbe avere un giovane affascinante compagno?”.
“Naturalmente!”, replicava quella.
“Ebbene, non ti piacerebbe se noi spendessimo qualche buona
parola per te con uno dei medici? Non ti piacerebbe ricevere le sue
attenzioni?”.
Le chiedevano poi quale dottore preferisse, convincendola a fargli
delle avance durante le visite.
Ho osservato e parlato con una donna dalla pelle chiara per diversi
giorni e non sono riuscita a comprendere per quale motivo si
trovasse lì, giacché era perfettamente sana. Un giorno, dopo una
lunga conversazione, mi decisi a chiederle: “Perché ti hanno portato
qui?”.
“Mi sono ammalata”, rispose.
“Sei malata di mente?”, la incalzai.
“Ovviamente no, perché mi fai una simile domanda? Ho lavorato
troppo e il mio corpo non ha retto lo stress. Avendo problemi familiari
e non disponendo di denaro, mi sono rivolta al commissariato
affinché mi permettesse di soggiornare in un ospizio per poveri
finché non fossi stata nuovamente capace di lavorare”.
“Ma non mandano i poveri qui, a meno che non siano mentalmente
instabili”, ribadii, “non sai che qui ci sono solo persone affette da
follia o per lo meno ritenute tali?”.
“So che la maggior parte di queste donne ha problemi mentali, ma
mi avevano assicurato che qui portavano tutte le persone povere e
bisognose di aiuto”.
“Come ti hanno trattato fino ad oggi”.
“Per il momento sono riuscita a evitare la violenza delle infermiere,
anche se il semplice assistere ai maltrattamenti e alle percosse da
altre subiti suscita in me una profonda costernazione. Inoltre, non
appena arrivata, benché le avessi informate che i medici mi avevano
proibito di fare il bagno finché non mi fossi del tutto ristabilita dalla
mia malattia, mi hanno immerso nell’acqua gelata. Tutt’ora risento di
quella loro sconsiderata azione, che ha aggravato il mio stato di
salute”.
Mrs McCartney, così come Mary Highes e Mrs Louise Schanz
parlavano e si comportavano in modo del tutto razionale, senza mai
mostrare alcun sintomo di insanità mentale. E tuttavia la diagnosi di
follia che incombe su tutte loro potrebbe tenerle rinchiuse in
quell’istituto per anni, se non per tutta la vita.
Un giorno due nuove arrivate si aggiunsero alla nostra lista. La
prima, Carry Glass, mostrava evidenti segnali di pazzia, l’altra, una
giovane, affascinante tedesca che rispondeva al nome di Margaret,
si presentava perfettamente normale. Era una persona
particolarmente meticolosa e aveva lavorato come cuoca. Mi rivelò
che un giorno, terminato il servizio, dopo che ebbe tirato a lucido il
pavimento della cucina, le cameriere che lavoravano in quel locale,
per dispetto, erano entrate sporcandolo deliberatamente. Infuriatasi,
aveva cominciato a litigare con loro e il proprietario, chiamato un
poliziotto, l’aveva accusata di insanità mentale. A seguito di quel
futile incidente, era stata rinchiusa nel manicomio.
“Come hanno potuto sostenere che ero matta, solo perché mi sono
infuriata con quelle?”, si lamentò con me, “se tutte le persone che
perdono le staffe venissero rinchiuse, gli ospedali psichiatrici del
mondo non sarebbero sufficienti a contenerle. Comunque sia, so che
non posso fare a meno di rassegnarmi e rimanere tranquilla, così da
evitare problemi. Nessuno può lamentarsi di me in questo istituto:
faccio tutto quanto mi viene ordinato, adempio a tutti i doveri che mi
impongono senza mai protestare, mi mostro obbediente e rispettosa.
Alla fine dovranno capire che sono perfettamente sana e non merito
questa reclusione!”.
Un giorno un’altra donna del tutto demente fu condotta nella
struttura. Era particolarmente chiassosa e Miss Grady, spazientita, la
picchiò duramente, provocandole perfino un occhio nero. Quando i
medici videro il suo volto, si limitarono a chiedere se presentasse già
quell’ecchimosi prima del suo arrivo. Ovviamente le infermiere
risposero affermativamente.
Durante la mia permanenza nel reparto, mai una sola volta ho
sentito le attendenti rivolgersi alle pazienti, se non per ordinare loro
qualcosa, per deriderle o rimproverarle con asprezza. Trascorrevano
la maggior parte del tempo spettegolando volgarmente sui medici e
sulle colleghe. In particolare, Miss Grady intercalava ogni discorso
con imprecazioni, rivolgendosi a tutte le pazienti con appellativi rozzi
e offensivi e arrivando di frequente a bestemmiare innanzi a loro.
Una sera, in cui litigò con un’altra infermiera mentre noi stavamo
cenando, non appena quella si fu allontanata, prese a fare su di lei
commenti decisamente spiacevoli e deprecabili.
Ogni sera, una donna, che supponevo essere la cuoca impiegata
nella cucina dei medici, arrivava portando alle infermiere uva passa,
grappoli d’uva fresca, mele e crackers. Inutile descrivere lo sguardo
bramoso che le pazienti affamate rivolgevano alle loro spietate
guardiane, intente a ingozzarsi di tutto quel ben di Dio!
Un pomeriggio, ascoltai il Dottor Dent conversare con una paziente,
Mrs Turney, circa alcuni problemi che aveva avuto con un’infermiera.
Evidentemente le sue proteste in merito alle percosse subite ad
opera di quella non erano valse a garantirne la punizione, giacché,
mentre ci trovavamo a cena, la spietata guardiana sedeva
tranquillamente sulla soglia della sala da pranzo. Senza soffermarsi
a pensare alle conseguenze, Mrs Turney, alzatasi di scatto, le gettò
sul viso il contenuto della sua tazza, per poi tornare indisturbata al
suo posto. Ovviamente, quella prese a strillare e il giorno successivo
fummo informate che Mrs Turney era stata trasferita al Retreat, il
reparto dove le pazienti più aggressive e pericolose, quelle che
perfino nelle passeggiate versavano incatenate le une alle altre,
erano recluse.
Ogni notte, cercavo di rimanere desta, così da non perdermi
eventuali conversazioni tra le infermiere, da cui potevo trarre
informazioni utili al mio rapporto. Evidentemente, le infermiere del
turno di notte segnalarono questa cosa, perché cominciarono a
insistere affinché assumessi un sonnifero, cosa che rifiutai. Senza
arrendersi, quelle tornarono con un dottore, lo stesso che mi aveva
visitato non appena arrivata. Neppure la sua perseveranza riuscì
però a farmi cambiare idea. Alla fine però quando egli, infuriatosi, mi
minacciò di farmelo assumere per via endovenosa, non potei che
arrendermi. Mi porsero il bicchiere, intimandomi di bere. Un
disgustoso odore di laudano mi invase le narici. A quanto pareva,
era una dose terribilmente massiccia quella che intendevano
destinarmi. Lo bevvi senza protestare, ma non appena uscirono
chiudendo a chiave la porta, infilatami un dito in gola, lo rigurgitai sul
materasso. Neppure per poche ore intendevo perdere la mia
capacità di pensare e osservare.
Voglio spendere poche parole in favore di una delle infermiere
notturne, che rispondeva al nome di Mrs Burns: era l’unica, tra quelle
che si alternavano giorno e notte al reparto 6, che si mostrava
sempre gentile e premurosa con le pazienti, l’unica che pareva
realmente idonea al lavoro per cui era impiegata.
Una volta alla settimana ci era concesso di fare il bagno ed era
quella la sola occasione in cui potevamo utilizzare il sapone. In quel
giorno, la vasca veniva riempita e le pazienti venivano lavate, una
dopo l’altra, senza che l’acqua venisse cambiata. Solo quando essa
si mostrava indicibilmente sudicia, la vasca veniva svuotata e
riempita nuovamente senza neppure risciacquare i residui di
sporcizia rimasti sul fondo. Allo stesso modo, venivano per tutte
utilizzati gli stessi asciugamani, senza prendere in considerazione il
fatto che eventuali eruzioni cutanee o infezioni alle mucose
potessero in quel modo trasmettersi alle pazienti che non
presentavano simili patologie. Inutili le nostre proteste affinché
l’acqua venisse cambiata e teli puliti utilizzati per asciugarci. Per
quanto riguardava i vestiti, essi venivano lavati all’incirca una volta al
mese. Solo quando le pazienti ricevevano una visita, le infermiere
accorrevano a consegnarle abiti puliti, così che le apparenze di
ordine e pulizia venissero salvaguardate.
Tra le varie ospiti dell’istituto quelle incapaci di prendersi cura di sé
versavano in condizioni a dir poco terribili: quando il loro stato
diveniva intollerabile, le infermiere costringevano altre pazienti a
occuparsi di loro.
Durante le lunghe e oziose giornate, costrette a sedere sulle panche,
di tanto in tanto, per passare il tempo, fantasticavamo su tutto ciò
che avremmo potuto fare e, soprattutto, mangiare una volta uscite
dall’istituto. In un’altra situazione, probabilmente avrei riso di quelle
fantasie, fuoriuscite talune dalle menti più bizzarre, ma in quel
tragico contesto, le viscere perennemente contorte dalla fame, non
suscitavano altro se non profonda amarezza e una condivisa
animosità verso le infermiere e il trattamento che ci riservavano.
Col passare dei giorni, le condizioni di salute di Miss Mayard si
aggravarono. Indebolita dal freddo e dalla mancanza di un adeguato
nutrimento, appassiva fisicamente e moralmente. Ogni giorno
dedicava qualche ora al canto, cosa che le permetteva di mantenere
la mente allenata e sollevava il suo spirito, finché, per qualche
ingiustificata ragione, attribuibile unicamente al piacere che esse
mostravano nel privarci di ogni cosa che fosse per noi gradevole, le
infermiere le impedirono di farlo.
Nel parlare con lei quotidianamente, fremevo nell’assistere
impotente al suo rapido declinare. Alla fine cominciarono le prime
ossessioni. Si convinse che io stessi cercando di assumere la sua
identità e che ogni visitatore che asseriva di voler vedere Nellie
Brown stesse in realtà cercando lei. Per qualche ragione mi
accusava di voler impedire loro di trovarla. Invano tentai di farla
ragionare e, nel realizzare che la mia presenza acuiva la sua
sofferenza e incrementava la sua inquietudine, decisi, seppure con
dolore, di mantenere le distanze.
Un’altra delle pazienti, Mrs Cotter, una donna alquanto graziosa ed
esile, un giorno in cui ci trovavamo a passeggio, pensando di vedere
il marito nei pressi del cancello, ruppe le righe per farglisi incontro.
Per questo suo atto di sedizione, fu mandata al Retreat.
In seguito mi raccontò: “Il solo ricordo di quelle ore è sufficiente a
farmi impazzire! Piangevo e le infermiere mi hanno percosso con un
manico di scopa, aggredendomi con violenza e provocandomi
numerose ferite. Poi, legatemi mani e piedi, mi hanno gettato un
lenzuolo sulla testa, stringendolo attorno al collo affinché io non
potessi gridare. Infine mi hanno gettato in una vasca colma di acqua
gelata dove sono rimasta finché non ho perso i sensi. Qualche ora
dopo, afferrata per le orecchie mi hanno sbattuto la testa sul
pavimento e contro il muro. Come puoi vedere, mi hanno strappato
ciuffi di capelli alla radice, così che mai più potranno ricrescere”.
Nel dire questo, Mrs Cotter mi mostrò la nuca, su cui la cute era ben
visibile in diversi punti, per poi continuare: “So che altre hanno subito
trattamenti ben peggiori di quello a me riservato, ma anche se un
giorno riuscirò a uscire di qui, mai riuscirò a sbarazzarmi delle
cicatrici che questo ricovero ha impresso indelebilmente nel mio
animo. Comunque sia, quando mio marito ha scoperto ciò che mi
avevano fatto, ha minacciato di denunciare la cosa se non mi
avessero trasferito in un’altra sezione. Così sono stata portata qui.
Ora sto meglio, perfino le mie antiche paure mi hanno abbandonato
e i medici mi hanno promesso che presto potrò far ritorno a casa!”
Un’altra conoscenza fatta in quei giorni è quella con Bridget
McGuiness, che, a dispetto del suo apparire perfettamente sana, era
stata reclusa nel Retreat, o, come lo chiamavamo noi, il ‘settore delle
incordate’.
Mi confidò: “I pestaggi, là, erano all’ordine del giorno. Sono stata
trascinata per i capelli, trattenuta con la testa sott’acqua fino quasi
ad affogare, presa a calci e pugni. Durante quelle sessioni di
angherie, le infermiere costringevano una delle pazienti più tranquille
a far da spola alla finestra per avvertirle quando arrivavano i dottori.
Oltretutto, lamentarsi con essi era non solo inutile poiché sempre
attribuivano tali proteste all’immaginazione delle nostre menti malate
-, ma perfino controproducente, giacché se solo osavamo confidarci
con i medici incorrevamo in rinnovate punizioni da parte delle
infermiere. Talvolta, ci tenevano la testa sott’acqua, minacciando di
ucciderci finché non promettevamo di mantenere il silenzio.
Ovviamente, tutte noi finivamo per mantenere il segreto, consapevoli
che i dottori mai sarebbero intervenuti in nostro aiuto. Per aver rotto
una finestra, sono stata trasferita al Lodge, la sezione peggiore
dell’isola. Mai ho conosciuto un luogo altrettanto sudicio in vita mia. Il
tanfo all’interno era intollerabile e, nei mesi estivi, eravamo
letteralmente sommerse da nugoli di mosche. Il cibo, anche se tu
stenterai a crederlo, era ben peggiore di quello servito negli altri
padiglioni e i piatti su cui veniva servito neppure venivano lavati. Le
finestre, sbarrate all’interno, mai potevano essere aperte. Tra le
tante pazienti violente, ve n’erano alcune del tutto inermi, tenute in
quella sezione unicamente perché svolgessero lavori che, alle altre,
non potevano essere richiesti. Durante uno dei pestaggi a cui sono
stata sottoposta là, mi hanno rotto due costole. Un giorno, hanno
portato dentro una ragazza graziosa e giovanissima. Era stata
malata e in nessun modo intendeva rimanere in un posto dove non
esistevano le minime regole igieniche. A seguito delle sue reiterate
proteste, una notte le infermiere l’hanno trascinata fuori dalla stanza
e, dopo averla picchiata, l’hanno immersa in una vasca di acqua
gelida per ore, prima di ricondurla a letto. Quando, la mattina
seguente, sono entrate nella stanza, quella ragazza era morta. I
medici, attribuito il decesso alle convulsioni, nulla hanno fatto per
indagare sulla faccenda. Ho visto le infermiere iniettare in alcune
pazienti perfettamente sane dal punto di vista mentale dosi massicce
di morfina e cloralio, finché non sono divenute realmente incapaci di
intendere. Ad altre, assetate a seguito della forzata assunzione di
droghe, veniva negata anche solo una goccia d’acqua. Io stessa ho
rischiato la disidratazione, tanto da non riuscire più neppure a
parlare”.
In effetti, a seguito del mio trasferimento nella sezione 7, ho potuto
assistere a questa tortura: in più occasioni ho sentito le pazienti
supplicare invano per un bicchiere d’acqua e ho visto con i miei
occhi le infermiere rifiutarsi di mandarle al bagno per placare la loro
sete.

Capitolo 15
Incidenti di vita nel manicomio

Ben poco si poteva fare per trascorrere il tempo. Cucire e


rammendare i vestiti dell’istituto rientrava nei compiti delle pazienti,
ma non serviva molto a impegnare le nostre menti. Dopo diversi
mesi di confino, il desiderio di ricevere notizie dal mondo esterno
diveniva per le pazienti una vera e propria ossessione. Dalle finestre
dei piani superiori dell’edificio si potevano osservare le imbarcazioni
che solcavano il fiume attorno all’isola e, nelle belle giornate, si
vedevano perfino le coste di New York. Nel contemplare le luci
scintillanti della città, mi chiesi quali sarebbero stati i miei sentimenti
se, come altre pazienti, non avessi avuto la certezza di una rapida
dimissione. Potevo facilmente cogliere, negli sguardi di quelle che mi
circondavano, l’insopprimibile malinconia che una simile vista
suscitava e il desiderio, che per sempre sarebbe rimasto inappagato,
di poter fare ritorno a quella vita e a quella libertà.

Ad eccezione di alcuni casi, le pazienti, consapevoli di essere


confinate in un manicomio, si struggevano dalla nostalgia, un
sentimento che mai abbandonava i loro cuori.

Vi era una ragazza che, ogni mattina, mi diceva: “Ho sognato mia
madre questa notte. Credo che oggi verrà a riportarmi a casa”.

Quella bramosia, da tutte condivisa, seppure talvolta rimanga


inespressa per mesi, pare impossibile da estirpare.
Quali misteri avvolgono la follia! Ho osservato pazienti le cui labbra
paiono ermeticamente sigillate in un perpetuo silenzio: vivono,
respirano, mangiano, mantengono l’umana apparenza, ma quel
qualcosa, senza il quale il corpo può vivere, ma che in assenza di
corpo non può esistere, risultava in loro del tutto assente. Mi sono
chiesta sovente se, al di là di quelle labbra serrate, vi fossero sogni
di cui nessun altro poteva essere a conoscenza o se solo il vuoto
albergasse in quelle sventurate creature.
Altrettanta tristezza suscitavano in me quelle pazienti che sempre
conversavano con invisibili interlocutori. Eppure, come parevano
esse soddisfatte allorché ogni loro richiesta a tali effimeri compagni
veniva assecondata e ogni ordine eseguito senza indugi.
Tra le peggiori allucinazioni di cui posso dare testimonianza, vi era
quella di una ragazza irlandese dagli occhi azzurri, che si riteneva
dannata per sempre a causa di una qualche azione da lei
commessa. Dalla mattina alla sera, seguitava a piangere senza
sosta, gridando “Sono maledetta per l’eternità!”.
Nella sua agonia, si percepiva l’inferno in cui riteneva di trovarsi
immersa.
A seguito del mio trasferimento alla sezione 7, sono stata rinchiusa
in una stanza con 6 donne mentalmente instabili. Due di loro,
incapaci di addormentarsi, trascorrevano la notte farneticando. Una
in particolare, saltata giù dal letto, prese a muoversi per la stanza in
cerca di qualcuno che diceva di voler uccidere. Di sicuro non era
rassicurante il pensiero della facilità con cui ella poteva aggredire e
ferire in modo letale una qualsiasi delle pazienti con lei rinchiuse.
Una donna di mezza età, che soleva sedere sempre in un angolo,
presentava una strana mania. Teneva tra le mani un frammento di
giornale e lo leggeva in continuazione traendone ogni volta storie
diverse e meravigliose. Spesso le sedevo accanto per ascoltarla.
Dalle sue labbra si dipanavano notizie storiche romanzate ad arte,
dissimili da tutte quelle che mi era capitato di udire.
Solo una volta capitò che una paziente ricevesse una lettera e la
cosa destò un immane interesse tra le altre donne assetate di novità.
Esse si radunarono attorno alla destinataria della missiva, ponendole
centinaia di domande.
Al contrario i visitatori suscitano scarso interesse e una discreta
dose di ilarità. Miss Mattie Morgan, nella sezione 7, un giorno suonò
per intrattenere gli ospiti. Essi rimasero seduti vicino a lei, finché uno
di loro sussurrò agli altri che quella donna era una paziente.
Subito gli altri, ripetendosi l’un l’altro “Pazza!” si alzarono,
allontanandosi. Essa si mostrò indignata e, nel contempo, divertita
dall’accadimento. Assistita da alcune ragazze a cui dava lezioni,
Miss Mattie intratteneva di frequente le pazienti nelle ore serali,
facendole cantare e ballare. Talvolta perfino i dottori si univano a
loro, danzando con le pazienti.
Un giorno, quando ci stavamo riunendo per la cena, udimmo un
debole pianto provenire dal pianterreno. Non trascorse molto tempo,
prima che scoprissimo che c’era un bambino là. Un innocente
fanciullo rinchiuso in quella camera degli orrori! Non riesco a
immaginare niente di più orribile. È accaduto che un visitatore
portasse con sé il figlio e una paziente, separata dalla prole, chiese il
permesso di tenerlo tra le braccia. Quando l’ospite manifestò
l’intenzione di andarsene, il dolore della donna divenne insuperabile,
tanto che supplicò di poter tenere con sé quello che si era convinta
essere suo figlio. Non ho mai visto le pazienti così agitate come in
quel momento.
Il solo divertimento, se così può essere chiamato, concesso alle
pazienti quando le condizioni climatiche lo permettevano era una
corsa sul carosello. Essendo qualcosa che interrompeva la routine,
esso veniva accolto con grande entusiasmo.
Capitolo 16 L’addio finale

Il giorno in cui Pauline Moser fu portata al manicomio, udimmo


orribili grida: seminuda, entrò barcollando nel salone, quasi fosse
ubriaca, gridando “Hurrah! Evviva! Ho ucciso il diavolo! Lucifero,
Lucifero, Lucifero”, seguitando poi, mostrando una manciata di
capelli stretta nel suo pugno, “Ecco come ho ingannato i demoni.
Dicono che sia stato Dio a fare l’inferno, ma non è così!”.

Pauline prese poi a intonare le più orribili canzoni. La cosa si


protrasse all’incirca per un’ora, finché il Dottor Dent non si presentò.
Nel vederlo, Miss Grupe sussurrò alla giovane demente: “Ecco che
arriva il diavolo, va da lui!”.

Rimasi sconcertata nel sentirle impartire a una paziente malata di


mente una simile istruzione, tanto più che mi attendevo che quella si
precipitasse ad aggredire il medico. Per fortuna, si limitò a ripetere il
ritornello di “Oh Lucifero!”.

Quando il medico si fu allontanato, Miss Grupe tentò nuovamente di


eccitarla, dicendo che i menestrelli dipinti nei quadri appesi alle
pareti rappresentavano il diavolo e la povera creatura cominciò a
gridare: “Tu, demone, te la farò pagare!”, scagliandosi contro la
parete, così che due infermiere dovettero intervenire per trattenerla.
Le attendenti sembravano divertirsi molto nell’aizzare le pazienti più
violente.

Ho sempre cercato di convincere i medici della mia sanità mentale,


chiedendo loro di rilasciarmi, ma più li rassicuravo in proposito, più
parevano dubitare del mio equilibrio.

“Per quale motivo siete qui voi dottori?”, chiesi a uno di loro, di cui
non ricordo il nome.
“Per prenderci cura di voi pazienti e testare la vostra sanità”, replicò
lui.
“Molto bene”, risposi, “ci sono diciassette dottori sull’isola e, a
eccezione di due, non li ho mai visti prestare attenzione alle pazienti.
Come può un medico giudicare la sanità mentale di una donna,
augurandole a malapena il buongiorno e rifiutandosi di ascoltare le
sue argomentazioni in merito a un’eventuale dimissione? Perfino le
pazienti più instabili sanno quanto sia inutile cercare di confidarsi
con voi, giacché qualsiasi problema che esse presentano viene
etichettato come il frutto della loro immaginazione”.
In altre occasioni, ho chiesto a un altro medico: “Mi sottoponga a
qualsiasi test disponibile e mi dica se sono o meno malata di mente.
Senta il mio polso, il cuore, studi i miei occhi, mi domandi pure di
allungare le braccia, muovere le dita come il Dottor Field fece a
Bellevue e ditemi se sono sana!”.
Ovviamente, non prestarono ascolto alle mie parole, ritenendomi
preda di farneticazioni.
A un altro dissi: “Non avete alcun diritto di rinchiudere qui persone
sane. Io non ho alcun problema mentale, né mai ne ho avuti e insisto
a essere esaminata con accuratezza o rilasciata. Vi sono diverse
donne qui perfettamente normali. Perché non possono essere
libere?”
“Sono malate”, fu la risposta, “e soffrono di allucinazioni”.
Il Dottor Ingram fu il solo che, dopo aver ascoltato le mie proteste in
merito al comportamento delle infermiere, acconsentì quantomeno a
trasferirmi in un reparto maggiormente tranquillo. Un’ora dopo Miss
Grady mi chiamò nel salone e, rivolgendosi a me con volgari epiteti
che non ritengo opportuno ripetere, mi disse che era un bene per me
che dovessi essere trasferita, giacché altrimenti avrei pagato care le
mie lamentele! Poi, dopo aver convocato Miss Neville, poiché anche
a lei il Dottor Ingram aveva accordato il trasferimento, ci scortò al
reparto 7.

Qui lavoravano come infermiere Mrs Kroener, Miss Fitzpatrick, Miss


Finney e Miss Hart. Per quando non assistetti in questo settore ai
crudeli trattamenti sperimentati nel precedente, la situazione non era
delle migliori. Anch’esse, oltre a rivolgere aspri rimproveri e minacce
ai danni delle pazienti, talvolta schiaffeggiavano o torcevano le dita a
quelle maggiormente ribelli. Tra le infermiere del turno di notte, Miss
Conway era facile da contrariare. Di sicuro, le pazienti più timide
dovevano rinunciare al proprio riserbo, giacché ognuna di noi era
costretta a spogliarsi in corridoio, innanzi alla porta della camera e a
lasciare lì gli abiti fino al mattino successivo. Quando chiesi il
permesso di spogliarmi in camera, Miss Conway mi disse che, se
solo mi avesse beccato a fare una cosa simile, me ne sarei pentita
amaramente. Il primo medico che vidi in quel reparto, il Dottor
Caldwell, mi sollevò il mento e, poiché ero stufa di rifiutarmi di dire
da dove provenissi, stabilii che gli avrei parlato solo in spagnolo.

Il reparto 7 può apparire accogliente allo sguardo superficiale di un


visitatore. Le pareti sono disseminate di quadri e un pianoforte,
praticamente monopolizzato da Miss Mattie Morgan, è posto al
centro del salone. L’artista del reparto è però Wanda, una giovane
polacca. È questa una dotata pianista quando acconsente a
mostrare le sue abilità.

Uno sguardo le è sufficiente a riprodurre le musiche più difficili e la


delicatezza con cui muove le dita sui tasti e l’espressione che
pervade il suo volto in quei momenti rasentano la perfezione.

Ogni domenica, le pazienti segnalate dalle attendenti come le più


tranquille della settimana, ottengono il permesso di recarsi in chiesa.
Vi è infatti sull’isola una piccola cappella.

Un giorno, un commissario si presentò senza alcun preavviso e il


Dottor Dent lo accompagnò a visitare le varie sezioni. Nel
pianterreno, scoprirono che buona parte delle infermiere era uscita a
cena, lasciando le poche rimaste a occuparsi di tutte noi, cosa che
accadeva quotidianamente.

Immediatamente fu impartito l’ordine di richiamarle ai loro doveri


finché le pazienti, terminato il pasto, non fossero rientrate nel salotto.
Alcune di queste furono tentate di confidare al funzionario i problemi
nutrizionali di cui tutte noi soffrivamo, ma, nel timore che a nulla
sarebbe valso, se non a incorrere in una nuova punizione,
desistettero.

Una trappola per topi, a questo può essere paragonato l’istituto di


igiene mentale dell’isola Blackwell: è incredibilmente semplice
accedervi, laddove la speranza di uscirne è destinata ad andare
delusa. In principio, avendo avuto la possibilità di rimanere qualche
giorno nelle sezioni 6 e 7, intendevo, fingendo improvvisi e violenti
attacchi di rabbia, farmi rinchiudere nel Lodge e nel Retreat, le
sezioni in cui le donne più folli e pericolose erano recluse, così da
poter conoscere in prima persona le condizioni in cui esse erano
costrette a vivere. Le terribili testimonianze di un paio di pazienti –
perfettamente sane – che erano state là confinate per qualche
tempo mi indusse a desistere: in quei settori, non era solo la salute
che le pazienti rischiavano ogni giorno, ma la loro stessa vita, sia a
causa di improvvisi raptus delle donne più aggressive, non
adeguatamente sorvegliate, sia della deliberata violenza perpetrata
dalle infermiere, che si sentivano in diritto di mettere in atto le più
spietate punizioni senza neppure pretendere di avere un’adeguata
giustificazione.

Quando la mia missione poteva dirsi terminata, cominciai a


preoccuparmi del fatto che le infermiere parevano intenzionate a non
concedermi più ulteriori visite e mi chiesi se qualcuno della
redazione, sapendo dove mi trovassi, si sarebbe alfine presentato
per reclamare la mia liberazione. Finalmente l’avvocato Peter A.
Hedricks pretese e ottenne il permesso di farmi visita, sostenendo,
per mantenere la mia copertura, di aver trovato persone che mi
conoscevano e che si erano dichiarate disposte a occuparsi di me.
La prospettiva dell’imminente ritorno alla normalità, di cui cominciavo
a dubitare, mi sollevò infinitamente. Gli dissi di procedere con i
documenti e gli chiesi se, nel frattempo, potesse farmi avere
qualcosa di commestibile, giacché dal mio ricovero non ricevevo un
pasto adeguato.

Temevo sarebbero passati diversi giorni prima del mio rilascio, ma


esso avvenne prima di quanto avessi sperato. In cortile per la
consueta passeggiata, mi stavo occupando di una povera donna
incredibilmente debilitata che, costretta a uscire e camminare contro
la sua volontà dalle infermiere, aveva improvvisamente perso i sensi,
quando mi vennero a chiamare dicendo che qualcuno era venuto a
prendermi. Ebbi a malapena il tempo di salutare coloro divenute a
me particolarmente care, prima che mi conducessero al cancello.
Nel passare innanzi alle mie compagne della sezione 7, non potei
fare a meno di provare un’infinita tristezza sapendo che la libertà
ch’io ero prossima a ottenere era a loro irrimediabilmente negata e
che la maggior parte di loro avrebbe trascorso in quel maledetto
luogo l’intera esistenza. Per dieci giorni ero stata una di loro e per
quanto non vedessi l’ora di poter tornare alla mia vita, il saperle
condannate a un’esistenza di sofferenza e tormenti mi procurava un
dolore infinito e perfino un ingiustificato senso di colpa.

L’unica cosa che mi sollevava era il pensiero di poterle, in qualche


modo, aiutare, portando al mondo intero la mia testimonianza di
quanto realmente accadeva in quel luogo. E tuttavia, non appena le
sbarre si chiusero alle mie spalle, non potei fare a meno di provare
un egoistico senso di sollievo: mai avevo assaporato prima una
simile sensazione di liberazione! Un’insopprimibile gioia mi pervase
quando, sul battello che mi avrebbe condotto a New York, potei dirmi
finalmente libera.

Capitolo 17
L’indagine del Gran Giurì

Dopo il mio rientro dall’Istituto di igiene mentale dell’isola Blackwell,


quando il mio resoconto fu pubblicato sul World, suscitando un
grande scandalo, venni convocata ad apparire davanti al Gran Giurì.
Fu con infinito piacere che mi presentai, giacché con tutto il cuore
desideravo poter aiutare quelle creature sfortunate che avevo
lasciato laggiù. Se anche non potevo procurare loro quella manna
che si chiamava libertà, speravo di poter quantomeno influenzare le
autorità, affinché rendessero la loro reclusione maggiormente
tollerabile. I ventitré giurati innanzi ai quali portai la mia
testimonianza si presentarono benevoli nell’aspetto e la loro
imponente presenza non mi incusse alcun timore. Dopo aver giurato
di dire la verità, li misi al corrente di tutta la storia, dal primo giorno
trascorso alla casa di alloggio temporaneo fino a quello delle mie
dimissioni dal manicomio. L’assistente dell’avvocato di distretto
Vernon M. Davis fu incaricato di condurre le indagini. Alla fine, i
giurati mi chiesero se fossi disponibile ad accompagnarli in visita
sull’isola, cosa a cui acconsentii con gioia. Nessuno dell’Istituto
doveva essere avvisato del nostro arrivo. E tuttavia uno dei giurati,
dopo che fummo raggiunti da uno dei commissari di carità e dal
dottor MacDonald, dell’isola di Ward, mi informò che, durante una
conversazione, aveva scoperto che la nostra visita era stata
notificata ai medici del manicomio un’ora prima del nostro arrivo
sull’isola. Probabile che ciò fosse accaduto durante la nostra sosta al
padiglione di Bellevue.

Il viaggio verso l’isola fu del tutto diverso da quello fatto in veste di


malata di mente: questa volta ci trovavamo su una graziosa e
intonsa imbarcazione, mentre quella su cui avevo precedentemente
solcato il fiume, addetta al trasporto delle pazienti, versava in
condizioni improponibili.

Una volta giunti all’istituto, alcune delle infermiere furono interrogate


dai giurati, a cui rilasciarono dichiarazioni che non solo
contraddicevano la mia versione, ma presentavano tra loro evidenti
incoerenze. Comunque sia, tutte ammisero di essere state informate
dell’ispezione. Il Dottor Dent, in merito ai bagni ghiacciati e al fatto
che le donne venissero lavate senza neppure cambiare l’acqua,
ammise di non essere a conoscenza di quel trattamento e di non
poterlo pertanto affermare, né smentire. Era consapevole del fatto
che il cibo non fosse adeguato, ma attribuì la cosa alla carenza di
fondi. Alla domanda se avesse modo di accertare eventuali
comportamenti brutali da parte delle infermiere, rispose
negativamente, aggiungendo altresì che non tutti i medici che
lavoravano sull’isola erano idonei a quel delicato incarico, ma che
non vi erano soldi per assumere personale maggiormente
qualificato.

Poi, rivolgendosi a me, affermò: “Sono felice che tu abbia compiuto


questa indagine. Se solo avessi saputo il tuo scopo, avrei cercato di
aiutarti. Noi medici non abbiamo modo di sapere come funzionano
realmente le cose e dobbiamo affidarci alla testimonianza delle
infermiere. Ma, grazie a te, ora sappiamo cosa succede. Non
appena il tuo reportage è stato pubblicato, ho scoperto un’infermiera
della sezione Retreat intenta a sorvegliare dalla finestra il mio arrivo
per allertare le colleghe, proprio come tu avevi descritto. Ovviamente
l’ho subito licenziata”.

Quando Miss Anne Neville fu condotta dabbasso, sapendo che la


presenza di tanti estranei l’avrebbe inquietata, le sono andata
incontro. Come avevo previsto, non appena le dissero che sarebbe
stata esaminata da un gruppo di ispettori, si mostrò terrorizzata.
Sebbene l’avessi lasciata da sole due settimane, rimasi sconvolta
nel vederla tanto cambiata: pareva infatti reduce da una grave
malattia. Quando le chiesi se stesse prendendo dei medicinali,
assentì. Poi la esortai a confidare alla giuria quanto accaduto dal
giorno in cui, insieme, eravamo arrivate sull’isola, così da convincerli
di essere mentalmente sana. Non le fu chiesto di giurare, ma la sua
storia confermò a coloro in ascolto la verità delle mie asserzioni.

“Quando Miss Brown ed io arrivammo qui, scoprimmo che le


infermiere, niente affatto intenzionate a prendersi cura di tutte noi,
come avrebbero dovuto, mostravano verso le pazienti una crudeltà
infinita. Il cibo che ci viene propinato è pressoché immangiabile e
non siamo vestite in modo adeguato alla rigida temperatura che vi è
all’interno dell’istituto. Invano Miss Brown, così come altre pazienti,
chiedeva abiti maggiormente appropriati. Nulla è cambiato fino al
momento in cui Miss Brown ha lasciato l’istituto. Non so per quale
motivo, ma a partire dai giorni successivi alla sua partenza, le
infermiere hanno cambiato atteggiamento e hanno dato a tutte noi
abiti più caldi. I medici hanno aumentato le visite e perfino il cibo è
migliorato”.

Servivano forse ulteriori prove a sancire la veridicità della mia


testimonianza? Era evidente che, a seguito della pubblicazione della
mia denuncia, tutto il personale dell’isola si era visto costretto a
mutare comportamento.

In seguito, i giurati visitarono la cucina, che appariva incredibilmente


pulita. Ma la cosa che più mi sorprese fu la visione di due grandi
sacchi di sale – di cui non vi era alcuna traccia durante la mia
permanenza - vicino alla porta. Il pane messo in mostra era
meravigliosamente bianco e fresco, del tutto diverso dalle fette nere
e stantie che usavano servirci.

Tutti i reparti erano in perfetto ordine e perfino le scomode brande


nelle camere erano state sostituite da veri e comodi letti. Nei bagni
della sezione 7, al posto dei secchi con cui eravamo costrette a
lavarci, rinvenni dei veri, intonsi lavandini.

Non potei fare a meno di meravigliarmi per la velocità con cui erano
riusciti ad apportare tante migliorie, giacché, se era alla carenza di
fondi che si dovevano tante mancanze, come ripetutamente si erano
giustificati, dove avevano potuto reperire in poche settimane i soldi
necessari? L’intero istituto si presentava ora impeccabile.

Ciò che più mi sconcertò fu però l’irreperibilità di quelle donne che


avevo citato nel mio rapporto come perfettamente sane e di cui
avevo riportato la testimonianza. Se le mie affermazioni su di loro
erano menzognere, perché farle sparire?

La stessa Miss Neville si lamentò di numerosi trasferimenti a cui era


stata costretta negli ultimi giorni, prima di tornare al reparto 6. Di
Mary Hughes non trovammo traccia e, quando chiedemmo di lei, ci
dissero che alcuni parenti si erano presentati portandola via. Anche
la donna con la carnagione chiara, che era stata là reclusa solo
perché caduta in miseria, sembrava scomparsa. Di lei ci dissero
soltanto che era stata trasferita in un altro istituto. In merito alla
paziente messicana, poi, anch’essa citata nel mio resoconto,
affermarono che mai vi era stata nella struttura una simile paziente.
Mrs Cotter era stata improvvisamente dimessa e Bridget McGuiness
e Rebecca Farron trasferite altrove.

Per quanto riguardava la ragazza tedesca, tale Margaret, quasi non


fosse mai esistita, non riuscimmo ad avere di lei alcuna
informazione, mentre Louise era stata spostata dalla sezione 6. In
merito a Josephine, una donna tedesca che si presentava, durante il
mio soggiorno, in perfette condizioni di salute, ci dissero che stava
morendo di paralisi e che non era in condizioni di ricevere visite.
Mi chiesi perché, se il mio giudizio in merito alla razionalità di tutte
costoro fosse stato erroneo, avrebbero dovuto improvvisamente farle
sparire. Quando mi trovai innanzi Tillie Mayard, la trovai talmente
peggiorata che stentai a riconoscerla.

Temevo che, innanzi a tante invalidanti sparizioni e alle migliorie


apportate, i giurati potessero mettere in dubbio la mia testimonianza,
ma essi si mostrarono sufficientemente arguti da intuire come tutto
ciò apparisse predisposto ad arte e scrissero questo nel loro
rapporto.

La più grande consolazione ottenuta dalla mia missione è che, a


seguito della mia testimonianza, la commissione destinò 1.000.000
di dollari – più di quanto mai fosse stato stanziato – alla cura dei
malati di mente.

Cenni biografici

Elizabeth Jane Cochran, più nota sotto lo pseudonimo di Nellie Bly,


nacque il 5 maggio 1864 a Cochran’s Mills, parte dell’attuale
periferia di Pittsburgh, in Pennsylvania da Michael e Mary Jane
Cochran. Quando divenne adolescente, modificò il suo cognome in
Cochrane. Si trasferì con la famiglia a Pittsburgh nel 1880.

George Madden, direttore del Pittsburgh Dispatch, rimase colpito da


una risposta che lei scrisse ad un misogino articolo di fondo dal titolo
What Girls Are Good For, usando lo pseudonimo “Orfanella
Solitaria”. Lui le chiese di scrivere un articolo per il giornale. Rimase
impressionato dal suo pezzo intitolato The Girl Puzzle e le offrì un
posto a tempo pieno. L'editore decise che il suo pseudonimo
sarebbe stato “Nellie Bly”.

I suoi primi scritti affrontavano la difficile situazione delle donne


lavoratrici, ma veniva spinta a scrivere di giardinaggio, di società e di
moda. Invece, decise di recarsi in Messico per diventare un
corrispondente estero all’età di 21 anni. Le sue corrispondenze sui
costumi e sulla vita del popolo messicano furono in seguito
pubblicate in un libro intitolato Sei Mesi in Messico. Fu minacciata di
arresto quando scrisse contro l’arresto di un giornalista locale e così
fece ritorno negli Stati Uniti.

Lasciò il Pittsburgh Dispatch nel 1887 e si trasferì a New York City.


Assunse un incarico sotto copertura per il giornale di Joseph
Pulitzer, il New York World, in cui finse di essere pazza per indagare
sugli abusi e lo stato di abbandono segnalato nel Manicomio
Femminile per Alienate sull’isola di Blackwell. Riuscì a farsi
rinchiudere in manicomio agendo da squilibrata in una pensione, e
poi fingendo di aver perso la memoria di fronte a un giudice. Fu
dichiarata pazza da diversi medici. Sperimentò l’ignobile trattamento
del manicomio di prima mano in quanto rimase presso l’istituto per
dieci giorni. Raccontò le sue esperienze, che furono poi raccolte in
un libro intitolato Dieci giorni in manicomio.

Il resoconto suscitò grande sensazione e la rese famosa. Un gran


giurì esaminò quindi le proteste grazie al suo aiuto. Ciò provocò un
aumento dei finanziamenti per la cura degli alienati, richieste di
esami più approfonditi, e molte altre modifiche che aveva proposto
Bly.

Nel 1888, discusse con il suo editore l’idea di concretizzare il famoso


libro Giro del Mondo in Ottanta Giorni facendo un viaggio intorno al
mondo.

Il 14 novembre 1889 iniziò la sua impresa. Viaggiò su navi a vapore


e ferrovie in Inghilterra, Francia, Canale di Suez, Colombo, Hong
Kong, gli Insediamenti sullo Stretto di Penang e Singapore, e in
Giappone, rientrando a casa il 25 gennaio 1890. Aveva viaggiato da
sola per la maggior parte del viaggio e inviato segnalazioni al
giornale attraverso la posta ordinaria. Stabilì comunque un record,
compiendo tutto il tragitto in poco più di 72 giorni.

Sposò Robert Seaman nel 1895. Abbandonò la sua carriera di


giornalista per diventare la presidente della Iron Clad Manufacturing
Co. Suo marito morì nel 1904. Era anche un’inventrice che ricevette i
brevetti per un nuovo contenitore per il latte e per un bidone della
spazzatura impilabile. Era una delle principali industriali femminili
negli Stati Uniti prima che l’appropriazione indebita da parte dei suoi
dipendenti la costringesse al fallimento. Questo la riportò alla sua
passione per la cronaca. Le sue storie successive si occuparono del
Fronte orientale in Europa durante la prima guerra mondiale e della
Manifestazione per il Suffragio Femminile del 1913.

Il 27 gennaio 1922, Cochran morì di polmonite all’età di 57 anni


presso l’Ospedale St. Mark a New York City.
Adesso è sepolta al Woodlawn Cemetery nel Bronx, a New York.

Indice

Cenno introduttivo pag. 5 Capitolo 1


Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Una missione delicata pag. 7 Preparativi per l’ordalia pag. 11 Alla
casa di un alloggio temporaneo pag. 15 Il giudice Duffy e la polizia
pag. 27 Giudicata mentalmente insana pag. 35 Ospedale Bellevue
pag. 39 Obbiettivo in vista pag. 49 Internata nel manicomio pag. 55
Un esperto (?) al lavoro pag 61 Il primo pasto pag. 65 Nei bagni pag.
69 A passeggio con le mie lunatiche compagne

pag. 77 Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Cenni biografici
Percosse e malmenate pag. 85 Alcune storie sfortunate pag. 91
Incidenti di vita nel manicomio pag. 101 L’addio finale pag. 105
L’indagine del Gran Giurì pag. 111

pag. 117
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