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a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d

F.I.T.P.
Giunta Federale

Presidente Benito Ripoli

Il FOLKLORE D’ITALIA Vicepresidenti Elena Bartolomasi,


Lillo Alessandro
Anno 2008 n. 3 “Le Regioni d’Italia”
Componenti Gerardo Bonifati,
Fabrizio Cattaneo,
Direttore responsabile
Aldo Pierangeli,
Lillo Alessandro Fabio Filippi,
Antonella Palumbo,
Comitato di redazione Luigi Scalas
Benito Ripoli
Gerardo Bonifati Presidente Onorario Luciano Dalla Costa
Franco Megna
Segretario Generale Franco Megna
Luigi Scalas
Vice Segretario Generale Nino Capobianco
Tesoriere Nino Indaino
TESTI di
Vice Tesoriere Gianpiero Cannas
Annamaria Amitrano, Mario Atzori,
Maria Margherita Satta, Comitato dei saggi Aldo Secomandi,
Luigi Scalas, M. Carmela Deidda, Luciano Dalla Costa

Susanna Paulis, Antonio Canalis, Collegio Sindacale


Chiara Solinas, Gian Nicola Spanu,
Presidente Rinaldo Tobia
Maria Marrosu, Bachisio Solinas,
Vice Presidente Giovanni Soro
Francesca Sanna, Sebastiano Mannia.
Componente collegio sindacale Francesco Fedele
Supplenti collegio sindacale Ugo Cestra,
Ivana Antinori
foto di copertina:
Presidente Probiviri Paolo Savino
Ballerina e suonatore di launeddas.
Collezione S. Manca di Mores 1860 Vice Presidente Probiviri Francesco De Meo
foto di retrocopertina: Componenti Probiviri Dionigi Garofoli
Scialle del costume tradizionale.
Consulta Scientifica Nazionale
Foto di G. Dichiara
Commissario Annamaria Amitrano

Il Direttore responsabile della rivista non cono-


Organi Sardi
scendo le fonti di alcune foto si riserva di ricono-
scere la legale proprietà. Consiglieri Nazionali Patrizia Mele,
Salvatore Ghisu
© Tu t t i i d i r i t t i r i s e r v a t i
Presidente Regionale Giomaria Garau
La riproduzione anche parziale è vietata
Vice Presidente Vicario M. Carmela Deidda
Reg. Trib. di Roma n. 93/82 dell'11-31982

Vice Presidente Antonio Azaro

Presidenti Provinciali
Idea Grafica e Stampa: Licia Mameli (Prov. Ca)
Print Design - Castrovillari (Cs) Antonio Tortu (Prov. Ss)
Piergiorgio Garau (Prov. Or)
Tel. 0981.491785 Antonio Azaro (Prov. Nu)

Organo della Federazione Italiana Tradizioni Popolari


1 il folklore
d’Italia
l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i

3
sommario Editoriale
di Benito Ripoli

3 Considerazioni
di Annamaria Amitrano, Giommaria Garau, Gerardo Bonifati, Luigi Scalas

5 Sardegna: tante specificità, una cultura “forte”


Annamaria Amitrano

7 Saperi tradizionali: esempi di cultura materiale in Sardegna


Mario Atzori

15 Santuari, religiosità popolare e feste


Maria Margherita Satta

22 L’abbigliamento tradizionale
Luigi Scalas

28 Maschere di Carnevale in Sardegna


Maria Carmela Deidda

37 Memoria collettiva, identità e narrazioni


Susanna Paulis

43 Dalle gare poetiche al “Premio Ozieri”


Antonio Canalis

47 Il canto polivocale
Chiara Solinas

55 Strumenti e musiche con strumenti


Gian Nicola Spanu

66 Il coltello a serramanico nella tradizione sarda


Maria Marrosu

72 Scenari silvestri, briganti e cacciatori nella narrativa popolare sarda.


Bachisio Solinas

79 I musei etnografici in Sardegna


Francesca Sanna

84 Cortes apertas: l’ostentazione della tradizione e dell’identità


Sebastiano Mannia

il folklore 2
d’Italia
i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t

editoriale a cura di
editoriale
Mi appresto a presentare, in quest’editoriale, la cultura tradizionale della fascinosa e affascinante terra sarda. Terra
ricca di Storia, di tradizioni, frutto dell’amore, della tenacia, della fatica, della diligenza di tante generazioni di Sardi:
siamo oggi quelli di ieri.
Una Terra-humus che si fa popolo, voce del cuore, lungo respiro dell’anima: per non dimenticare gli antichi Padri. Il
Popolo Sardo è come un grande albero che affonda le sue radici nel passato e, rigenerandosi, vive e respira nel pre-
sente. Il lungo respiro del Tempo(distensio animi: passato, presente e futuro).Il cammino di questo popolo che si
Benito
è fatto Storia, ove eventi, tradizioni, costumanze, personaggi, voci, volti e suoni, hanno lasciato segni e tracce nella
Casa della Memoria, sono stati mirabilmente descritti e trattati dai vari Professori, che non hanno lesinato impegno e
Ripoli
Presidente
tempo, per presentarci ciò che questo popolo ha inteso offrirci. Non è stato semplice. Ogni opera, poi, ha una Storia Nazionale
a sé e si porta dietro grandi fatiche e sacrifici: leggere, ricercare,catalogare, confrontare, vagliare, correggere, trascri- F.I.T.P.
vere. Non più trasmissione orale, veicolo, fino ad ora, principale di pratiche e costumanze che sono diventate tradi-
zione e sono entrate, a pieno titolo, nella storia demologica-folklorica dei popoli stessi, ma, come diceva Sant’Agostino Il futuro ha
scripta manent. La Federazione Italiana Tradizioni Popolari è certa che un’altra fulgida gemma andrà ad incastonarsi un cuore antico
nella ricca collana, fortemente voluta, dall’attività della nuova Giunta.
La Summa di precetti, credenze,magie, sortilegi, accadimenti del forte e generoso Popolo Sardo, che appare in questo
nostro splendido scrigno editoriale, non andrà più disperso, ma sarà, ormai, custodito sacralmente nel lago del cuore
di tutti noi e tramandato alle future generazioni:
“…propenda quia sunt prodita…. …dobbiamo tramandarli perché sono stati tramandati”
(Plinio il Vecchio,Historia Naturalis, 11,85).
GRAZIE Professori per la vostra disponibilità e per l’impegno che avete profuso nell’allestimento di questa perla,
omaggio alla vita di un popolo, in un mondo, quello contemporaneo, affetto, sempre di più, da uno smodato e vacuo
schizoidismo culturale.
GRAZIE all’amico Gigi Scalas (componente dipartimento cultura FITP) che ha curato i rapporti con i Docenti e GRAZIE
al Professor Atzori, coordinatore della presente Rivista scientifica.

considerazioni a cura di

C
ari amici della FITP, non posso nascondere che riprendere la penna e scrivere sulla Rivista “Folklore
considerazioni

d’Italia”, da me a suo tempo fondata, unitamente a Lillo Alessandro, mi crea una certa emozione. È un
po’ la sensazione che si prova per un “figlio ritrovato”, che dopo essere andato per un certo tempo
ramengo, vuole riprendere un discorso interrotto.
È vano precisare che, nel frattempo, in FITP, come nella mia vita personale di studiosa, sono accadute tante cose Annamaria
e, di certo, non tutte belle. Il tempo che scorre fa riflettere e spesso i consuntivi non sono positivi.
Che fare? Il mio nome ai giovani della Federazione dice poco. E pure, il lavoro svolto prima dal Prof. Rigoli e poi Amitrano
da me al governo della Consulta Scientifica Nazionale ha esitato il grande privilegio della formazione della Commissario Unico
Consulta Scientifica
Vostra attuale Classe dirigente. Gli allievi di ieri: Luigi Scalas e Carmela Deidda, che conosco da quando erano Nazionale F.I.T.P.
fidanzati e ho seguito anche negli studi; poi Benito Ripoli, Gerardo Bonifati, Franco Megna, Elena Bartolomasi,
Maddalena Crema, Lidia De Dominicis, Eva Avossa e lo stesso Lillo Alessandro (solo per citarne alcuni), sono
passati tutti sotto lo sguardo attento dei “professori” (così eravamo chiamati), dimostrando volontà di appren-
dere, di conoscere, di sacrificare il proprio tempo per la ricerca. Un impegno che alla fine li ha premiati, dando
loro consapevolezza e merito per una riproposta folklorica che, nelle loro esperienze, è divenuta rispetto di una
trasposizione culturale ricercata, talvolta rivista, ma mai inventata.
Oggi la Federazione ha bisogno di un po’ di restyling culturale. Le nostre Manifestazioni istituzionali, Il Fanciullo
e il Folklore e Italia e Regioni, smettendo un po’ la veste di raduni, devono riprendere quel valore di incontro e
di approfondimento che avevano all’atto della loro nascita; vissuti cioè come veri e propri momenti di forma-
zione verso quella necessaria conoscenza della più autentica tradizione territoriale.
Il mio mandato di Commissario unico ha la durata di un anno, durante il quale spero si possa ricominciare a
progettare quegli eventi che la FITP per competenza e per tradizione merita di attuare, attestando la sua valen-
za istituzionale anche sui competenti tavoli ministeriali.
Nel ringraziare per la fiducia accordatami, auguro a me, ma anche a Voi tutti, buon lavoro.

3 il folklore
d’Italia
l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i

considerazioni
considerazioni a cura di
C
ari amici della FITP, non posso nascondere che riprendere la penna e scrivere sulla Rivista “Folklore d’Italia”, da me a suo tempo fondata,
unitamente a Lillo Alessandro, mi crea una certa emozione. È un po’ la sensazione che si prova per un “figlio ritrovato”, che dopo essere
andato per un certo tempo ramengo, vuole riprendere un discorso interrotto.
È vano precisare che, nel frattempo, in FITP, come nella mia vita personale di studiosa, sono accadute tante cose e, di certo, non tutte belle. Il
tempo che scorre fa riflettere e spesso i consuntivi non sono positivi.
Che fare? Il mio nome ai giovani della Federazione dice poco. E pure, il lavoro svolto prima dal Prof. Rigoli e poi da me al governo della Consulta
Scientifica Nazionale ha esitato il grande privilegio della formazione della Vostra attuale Classe dirigente. Gli allievi di ieri: Luigi Scalas e Carmela
Deidda, che conosco da quando erano fidanzati e ho seguito anche negli studi; poi Benito Ripoli, Gerardo Bonifati, Franco Megna, Elena
Giomaria
Bartolomasi, Maddalena Crema, Lidia De Dominicis, Eva Avossa e lo stesso Lillo Alessandro (solo per citarne alcuni), sono passati tutti sotto lo
sguardo attento dei “professori” (così eravamo chiamati), dimostrando volontà di apprendere, di conoscere, di sacrificare il proprio tempo per Garau Presidente
la ricerca. Un impegno che alla fine li ha premiati, dando loro consapevolezza e merito per una riproposta folklorica che, nelle loro esperienze,
è divenuta rispetto di una trasposizione culturale ricercata, talvolta rivista, ma mai inventata. Regionale F.I.T.P.
Oggi la Federazione ha bisogno di un po’ di restyling culturale. Le nostre Manifestazioni istituzionali, Il Fanciullo e il Folklore e Italia e Regioni,
smettendo un po’ la veste di raduni, devono riprendere quel valore di incontro e di approfondimento che avevano all’atto della loro nascita;
vissuti cioè come veri e propri momenti di formazione verso quella necessaria conoscenza della più autentica tradizione territoriale.
Il mio mandato di Commissario unico ha la durata di un anno, durante il quale spero si possa ricominciare a progettare quegli eventi che la
FITP per competenza e per tradizione merita di attuare, attestando la sua valenza istituzionale anche sui competenti tavoli ministeriali.
Nel ringraziare per la fiducia accordatami, auguro a me, ma anche a Voi tutti, buon lavoro.

considerazioni a cura di
ome responsabili del Dipartimento Cultura della F.I.T.P. desideriamo condividere con tutti la

C nostra particolare soddisfazione nel presentare questo numero della rivista «Il Folclore
d’Italia» dedicato alle tradizioni popolari della Sardegna e realizzato con il contribuito di
diversi studiosi in gran parte afferenti alla Sezione Etno-antropologica del Dipartimento di Teorie e
Ricerche dei Sistemi Culturali dell’Università degli Studi di Sassari. In pratica, si tratta di una particolare collaborazione che costi-
tuisce la continuazione di un interessante e costruttivo incontro avviato con la convenzione, stipulata qualche anno fa, tra la Sezione
della Sardegna della F.I.T.P. e la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari, per quanto riguarda le attività di tirocinio che
Gerardo
gli studenti, frequentanti gli insegnamenti del settore demoetnoantropologico, devono svolgere presso i gruppi folcloristici con noi
affiliati. Bonifati
Sulla realtà etnografica della Sardegna esiste, come è noto, una vasta letteratura apparsa a partire dagli ultimi decenni
dell’Ottocento e sviluppatasi fino ai giorni nostri con documentazioni e analisi realizzate secondo le moderne metodologie antro-
pologiche. Da questa variegata storiografia, prodotta in più di un secolo di ricerche, come dato costante fra l’altro si ricava che il
Luigi
patrimonio etnografico dell’isola presenta una sua specifica peculiarità che si distingue, grazie a diversi caratteri identitari, da quel-
la di altre regioni italiane ed europee. Le cause di tale singolarità, così come si verifica nell’elaborazione e costruzione di tutte le
identità etniche sono soprattutto di tipo storico-culturale; esse variano con il variare dei processi dinamici nei quali le peculiarità
Scalas
identitarie sono inserite e coinvolte. Nel momento in cui le si vive sembrano statiche e immutabili. Responsabili
Dipartimento
I caratteri che determinano la specificità delle tradizioni popolari della Sardegna derivano non tanto da particolari fatti e cause natu- Cultura F.I.T.P.
rali, ma soprattutto dai numerosi influssi culturali che le popolazioni dell’isola hanno ricevuto nel corso della storia, a partire da un
lontano passato fino ad arrivare alle recenti rifunzionalizzazioni indotte dalla reazione alle repentine trasformazioni della recente
globalizzazione economica.
Nel volume, lungi dal proporre documentazioni e analisi esaustive, si trattano alcuni argomenti riguardanti le tradizioni popolari
sarde. Sono stati così proposti esempi dell’artigianato tradizionale con i quali vengono rivisitati i saperi e le capacità manuali degli
artigiani di alcuni comparti. Si sono quindi ripresi alcuni esempi sulle conoscenze tecniche consolidatesi nell’arco di millenni di espe-
rienza e soltanto da poco sostituite dalle macchine. Nel quadro delle tradizioni tessili sono stati inquadrati gli abiti popolari che,
come è noto, esprimono, tramite particolari fogge, colori e ricami, specifici caratteri didentitari delle differenti comunità che da
tempo li anno adottati come propri simboli distintivi. Identica attenzione è stata rivolta alla poesia popolare, ai canti e ai balli che
costituiscono ancora occasioni e momenti significativi di coralità festiva, durante i quali le comunità recuperano la propria dimen-
sione e coscienza collettiva, liberandosi dai vicoli individualistici dell’attuale sistema.
Particolare attenzione è stata rivolta ad alcune tradizioni di religiosità popolare, ai carnevali più noti e alle maschere che li caratte-
rizzano. Nelle analisi condotte su tali fenomeni è stata rivolta particolare attenzione ai processi di riplasmazione e rifunzionalizza-
zione nei quali, nella dinamica della storia, gli stessi fenomeni vengono coinvolti; in base a tali processi, infatti, le tradizioni popo-
lari devono essere considerate rivalutate come sistemi culturali che conservano più intensamente una loro particolare vitalità. Da
tali analisi deriva, quindi, che le associazioni affiliate alla Federazione Italiana di Tradizioni Popolari hanno il merito di aver svolto
per tanti anni il ruolo di operatori culturali nell’ambito della salvaguardia dei beni culturali immateriali, in quanto operanti in con-
testi ancora vitali. Infatti, contrariamente a quanto nel passato alcuni erroneamente hanno interpretato, le nostre associazioni non
contemplano nostalgicamente le tradizioni di un passato ormai perduto. Dagli anni ’50 del Novecento, da quando hanno comin-
ciato a costituirsi e ad operare nelle diverse regioni, i gruppi folcloristici e fra i primi quelli della Sardegna hanno condotto ricerche
per studiare storicamente, per tutelare e per valorizzare le tradizioni popolari musicali, canore, coreutiche e dell’abbigliamento delle
diverse comunità. Quest’opera attualmente viene riconosciuta e apprezzata dalle stesse comunità, dalle amministrazioni locali e dal
mondo accademico interessato alle indagini etnografiche. La pubblicazione dei volumi della rivista dedicati alle regioni italiane costi-
tuisce, infatti, un esito tangibile di questa importante funzione culturale e un importante contributo conseguente ad anni di ricerca
documentaria e di lavoro di tutela di un vasto patrimonio culturale.

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d’Italia
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Sardegna:
tante specificità,
una cultura “forte”
di Annamaria Amitrano

aprile), alle partecipate ritualità di maggio-giugno: dalla

I
ntagliata dal vento, con il cuore montano delle Barbagie.
Poi, pianure, colline, montagne boscose, campagne fertili e Sagra di Sant’Efisio a Cagliari, alla Cavalcata sarda a Sassari,
plaghe desertiche; panorami di pietre, di mari, di stagni e tanto per citarne qualcuna; senza dire di tutte quelle feste
di sole. La Sardegna offre un paesaggio vario e discontinuo. lunghe che si svolgono intorno ai santuari campestri e pres-
Un territorio ricco di storia, di archeologia, di tradizione. so le antiche chiese circondate da porticati e minuscole caset-
Un’isola arcana, fortemente connotata nella sua identità, per te dette cumbessias edificate apposta per ospitare i pellegri-
avere respinto, unica Regione italiana, ogni invasione; por- ni. Si ricordi, tra queste, quella che si celebra a San Francesco
tatrice di fierezza e di rigore, con quel modello di civiltà ori- di Lula dal 1 al 9 maggio.
ginaria indigena e tribale, che, in un lontano scritto, Guido A luglio si svolge l’Ardia di San Costantino a Sédilo, la
Piovene amò definire “primitivismo civile”. festa rimasta fedele alle proprie origini e nella quale è possi-
Ora: c’è da interrogarsi sul come fare emergere tanta plu- bile vedere più “da vicino” l’ “anima popolare” sarda: il
ralità di elementi; su quale metro costruire un’immagine rap- Santo bizantino riceve l’onore di una celebre cavalcata,
presentativa della molteplicità dei percorsi culturali che impressionante per la veemenza dei cavalieri e per il gran-
hanno segnato il Territorio. Indubbiamente, nonostante la dissimo concorso di folla. La Cavalcata,del resto, è uno dei
sua insularità e la dominanza del mare, il vero emblema della tratti più comuni con cui i Sardi riveriscono il loro deus loci.
Sardegna è il pastore che – grazie anche alla forza evocativa Essa ritorna di fatto protagonista nel contesto di altre feste
dei Nuraghi, cioè a dire delle oltre settemila torri di sasso, assolutamente partecipate: tra cui la Discesa dei Candelieri a
piccole e grandi, a cono mozzo, disseminate nel paesaggio – Sassari o, anche, la Festa del Redentore a Nuoro o il Torneo
si tende ad immaginare chiuso in mezzo ai monti. Il pastore della Sartiglia ad Oristano che è un gioco cavalleresco di
è il Sardo, quasi un’isola nell’isola: portatore di un etnostile matrice spagnola, consistente nell’infilare uno stocco dentro
che richiama riti, costumi ed usi; norme e regole, un modo di un anello sospeso sul percorso di un cavallo lanciato al galop-
vivere talvolta ancora sopravvivente. po.
Tuttora, ad esempio, è possibile incontrare pastori vestiti Il cavallo è in Sardegna quasi un animale “sacro”: com-
della mastruca: l’antico cappotto di pelle di pecora o di pagno del pastore ma, anche, emblema della forza virile
capra, senza maniche che i pastori, a seconda della stagione, maschile nel dominio di un paesaggio aspro e impervio.
portano con il vello di lana all’esterno o all’interno; come è
possibile incontrare, nelle aree più interne, donne sarde con Si è reputato opportuno riprendere sia pure brevemente
l’abbigliamento tradizionale, in specie quello festivo, adorno l’excursus sul ciclo dell’anno sardo per sottolineare come il
di straordinari gioielli di filigrana e perline: dai bottoni, alle tempo festivo ed il tempo dei riti siano forse l’ancoraggio
collane, alle spille, alle medaglie religiose; un abbellimento ancora oggi più visibile della diversità/identità dei territori. Si
che, il più delle volte, si completa con grossi orecchini (arre- pensi alla “linea” dei cosiddetti prodotti tipici assolutamen-
codas) e con moltissimi anelli, sovente più di uno per dito, te tradizionali che si legano alle festività sarde. Tanto più che
con pietre colorate. spesso è il cibo a sottolineare i momenti più importanti di
Poi vi sono le numerose feste sacre e profane che conno- aggregazione della vita pastorale.
tano il ciclo dell’anno, in cui la dimensione rituale fa da In Sardegna, vi è un “principe della tavola” che è il pane;
ponte tra passato e presente, offrendosi occasione per quel- e anche se il più noto è il pane carasau, che era l’antico pane
la ampia visibilità delle testimonianze folkloriche che, diver- dei pastori, indurito, in duplice cottura, per farlo durare a
samente, si possono ritrovare soltanto nei contesti più con- lungo nei giorni di transumanza, va detto che non vi è cen-
servativi, grazie alla pazienza certosina dei ricercatori; una tro della Sardegna in cui non si possa trovare uno speciale
ricerca che, di fatto, ridando segnale di valore alla cultura tipo di pane tradizionale. Vanno ricordati i pani rituali che
tradizionale, impedisce che le sue tracce siano visibili esclusi- venivano confezionati in occasione di scadenze della vita
vamente nei musei etnografici che pure in Sardegna abbon- familiare oppure per le feste sacre. Come bisogna ricordare
dano e sono di buon livello. Si pensi esemplarmente al docu- anche i tanti, tantissimi dolci che rendono ancora più invi-
mentatissimo Museo della vita e delle tradizioni sarde di tante il soggiorno in terra di Sardegna.
Nuoro. Altrettanto ricco è il folklore orale, con la particolarità di
Sembra che le feste in Sardegna siano più di mille e che una lingua che si contraddistingue nettamente nella sua
ogni mese, nell’Isola, si propongano varie manifestazioni: a struttura metrica: i mutos, i muttetos, le battorinas rimanda-
partire da gennaio con il Santo Antonio del fuoco, ai grandi no ad un lirismo primitivo ricco di pianto e di lamento, di
Carnevali, di febbraio ai riti della Settimana Santa (marzo- amore e di odio conforme alla solitudine di una poesia origi-

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d’Italia
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naria che si esprime quale retaggio della preistoria. Nella t’uno delle linee individuali di canto e di suono.
maggioranza dei componimenti poetici, i versi sono concepi- La specificità sarda è, peraltro, richiamata nelle analisi
ti e costruiti come tasselli da incastrare l’uno nell’altro secon- condotte su quelle che sono gli apparati visivi della proposta
do un ideale di equilibrio metrico finale che va raggiunto tradizionale, a partire dall’abbigliamento che – come ricorda
nonostante si parta da una struttura iniziale asimmetrica con Luigi Scalas – portava con sé forti segnali identitari con fun-
rime che non sono tutte chiuse. Anzi il verso a struttura zioni sociali complesse di genere, di censo, di appartenenza
zoppa è costruito in modo che solo variandolo e ripetendolo comunitaria; tanto da proporsi come vero e proprio modello
si possa riportare in equilibrio quanto è stato costruito volu- comunicativo. Mutati i tempi l’Autore ricorda come i costumi
tamente come “squilibrato”. Il grande gioco di prestigio è festivi tradizionali siano oggi indossati soprattutto in occa-
nella completezza della proposta formale che si chiude sull’i- sione di sagre ed esibizioni spettacolari di tipo folklorico; il
terazione dei contenuti. che propone il concetto di una “riproposta” come luogo di
Forse in età nuragica si sono formate anche le prime decontestaulizzazione del folklore in re, senza però dimenti-
melopee espressione di quella musicalità con cui l’uomo abi- care che gli elementi folklorici, sottoposti anch’essi alle
tatore delle montagne o il solitario uomo delle greggi ha tra- mutazioni dei tempi, devono essere recuperati essenzial-
dotto in note la sua riflessione dinanzi ai fenomeni della mente nella loro specificità di elementi indicativi di un patri-
natura. La Sardegna può vantare un ricco repertorio di musi- monio culturale necessariamente da conoscere.
ca popolare in cui l’abbondanza dei modi è davvero sor- Maria Marrosu porta una significativa testimonianza sul
prendente e corrisponde alla varietà dei balli, dei dialetti, dei valore di indicatore culturale offerto dal coltello a serrama-
costumi. Il ballu tundu rimanda all’antica sacralità del cerchio
nico, utilizzando non a caso tale strumento come “gancio”
che diviene il simbolo di una completezza ritrovata nell’ab-
per analizzare la condizione storico-sociale dell’antico
braccio alternato dei danzatori maschi e femmine che, a trat-
ti, levano la loro voce, all’unisono, quasi a volere sottolinea- Gremio dei fabbri. Lo stesso fa Maria Carmela Deidda per le
re l’unità e la specificità della loro cultura. maschere carnascialesche sarde, studiate nei significati e
nelle relative espressioni simboliche quali oggetti rituali, cul-
Orbene, le tante Sardegne or ora evocate costituiscono la tuali e teatrali che necessitano di una costante contestualiz-
materia che con tratto analitico propone questo bel numero zazione etnostorica per comprendere significati e valori
della Rivista dedicato all’Isola, prodotto dalla Federazione apparentemente dispersi.
Italiana Tradizioni Popolari sotto la sapiente guida di Mario Smuovere le acque, ripercorrere il senso della propria
Atzori, che ha voluto radunare intorno a sé una schiera di alfabetizzazione antropologica permette – a nostro avviso –
studiosi delle tradizioni sarde, tra cui lo staff dirigenziale anche di amplificare il messaggio “conservativo” che provie-
della FITP isolana che ha trovato in Luigi Scalas e Maria ne dai musei etnografici. Francesca Sanna ci ricorda la nume-
Carmela Deidda e nel loro impegno egregi rappresentanti. rosa presenza in Sardegna di musei volti alla conservazione
L’approccio problematico muove – come è giusto che accada di etnoreperti tradizionali evidenziando, però nel contempo,
in una società globale – dall’interrogativo circa il valore il loro limite: in realtà monadi autorappresentative di una
odierno riconosciuto alla memoria collettiva, nella ripropo- cultura trascorsa oppure luoghi del sottosviluppo conservati-
sta dell’identità sarda quale vero e proprio capitale, vuoi per vo privi di potenzialità di investimento sia culturale sia eco-
ridefinire il sistema di un riscatto da persistenti stereotipi, nomico. Piccoli, poveri musei di cose povere e polverose, nati
vuoi per promuovere un interesse sulla cultura tradizionale più che altro per offrire occasioni di lavoro clientelare e pre-
rifunzionalizzata al richiamo turistico. In questo senso, esem- cario; salvo, poi, a richiedere a gran voce il diritto ad una
plari i saggi di Sebastiano Mannia e Susanna Paolis: il primo futura stabilizzazione.
con il suo intervento sul fenomeno delle Cortes apertas, che Ricordo, per ultimi, gli scritti di Mario Atzori e di Maria
vede appunto diversi centri del nuorese divenire teatro di Margherita Satta, miei illustri colleghi, per ringraziarli nella
una rappresentazione fittizia della identità sarda artatamen- mia veste di Commissario della Consulta Scientifica
te rivissuta come collage di diverse tipi di identità, in realtà Nazionale della Federazione Italiana Tradizioni Popolari per
distanti tra loro e racchiusi nella manifestazione turistica l’impegno con cui, curando questo numero di Rivista, hanno
delle cortes apertas; la seconda, impegnata a ricordare, come dimostrato di non tralasciare occasione per accendere i riflet-
in effetti il processo di mitizzazione della cultura sarda, esito tori sul valore e i significati che si legano ai saperi tradizio-
della rifunzionalizzazione turistica, sia in realtà per l’identità nali; e così per esaltarne il senso ancora oggi di cultura con-
dei sardi un problema antico presente in particolare nella divisa.
narrativa ove eroi ed eroine vivono di una sorta di “cittadi- Parlare di cultura materiale come fa Mario Atzori, cer-
nanza poetica” grazie alla forza del paesaggio e della tradi- cando di ricordare ai più, come l’artigianato tradizionale sia
zione. divenuto sotto la spinta del recupero conservativo un vero e
La dimensione letteraria e narrativa sarda viene ripresa proprio Bene culturale, spendibile come Bene risorsa su un
anche da Bachisio Solinas, il quale si attarda sulle tradizioni mercato di un’economia ritrovata che tende, comunque, a
orali che evocano la presenza nelle montagne boscose della valorizzare il prodotto di pregio ed etnico; oppure parlare di
Gallura, come nelle foreste del Sarcidano, di banditi e bri- religiosità popolare e di feste, come fa Maria Margherita
ganti, i quali vengono ad essere ridefiniti come attanti di una Satta, ricordando ai più, come i percorsi devozionali della
modalità di vita assolutamente speciosa condizionata dal
pietas popolare ai Santuari sardi siano, al di là del sistema
vivere nelle boscaglie. Tali luoghi sembrano essere suggesti-
della richiesta salvifica, dei veri e proprio spazi in cui la
vi e performativi se è vero come è vero che è proprio in tali
paesaggi che gli abitatori/eroi trovano la definizione del pro- memoria collettiva richiama i riti individuanti del sentirsi
prio profilo culturale positivo. sardo, significa voler attestare il valore dell’appartenenza
Che il folklore orale possa essere un forte elemento di quale percorso di riconoscimento assolutamente imprescin-
identificazione sia per le modalità della lingua come per la dibile, nonostante le inevitabile modernizzazioni e le inter-
proposta metrico-formale, trova esito nel saggio di Antonio polazioni di ordine turistico che indubbiamente recitano per
Canalis che informa sulla poesia improvvisata quale pratica progressivi processi di standardizzazione.
diffusa dei numerosi cantori a bolu, in grado di comporre È questa la fede degli antropologi nella “forza” della tra-
rime sugli argomenti più disparati. Canalis ricorda esemplar- dizione.
mente la diffusione delle gare in tutta la Sardegna e come su In sintesi, dunque, una pregevolissima summa a disposi-
tale uso si sia addirittura strutturato il Premio Ozieri, alla sua zione per la lettura: vuoi da parte dei componenti della FITP,
più che cinquantennale esperienza. che vi troveranno adeguati stimoli per essere essi stessi coin-
Del canto polivocale e della tessitura della musica sarda volti, in quanto mediatori territoriali di cultura tradizionale,
nella specificità delle loro attestazioni si sono occupati in quella introspezione che va sempre esperita prima di acce-
Chiara Solinas e Gian Nicola Spanu, in studi entrambi volti a dere alla riproposta spettacolare; vuoi da parte di lettori tout
confermare la radicata predisposizione dei Sardi alla produ- court amanti – come si diceva una volta di “cose patrie” – che
zione di eventi multifonici, precisando, però, come le strate- vi troveranno indubbiamente approcci ed analisi sulla cui
gie elaborative polifoniche sia vocali che strumentali porti- base comprendere il grande patrimonio della cultura tradi-
no, in realtà, al livello di segno identitario il raccordo in tut- zionale sarda.

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d’Italia
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Saperi
tradizionali:
esempi di
cultura
1- Gli interessi etnografici sui
manufatti dell’artigianato tradizio- materiale in delle regioni settentrionali, avvenu-
ta in coincidenza della ricostruzione,
nale cominciarono a sorgere negli cosi come la stessa industrializzazio-
ultimi decenni dell’Ottocento, men-
tre era in atto la seconda rivoluzione
Sardegna ne dei poli di sviluppo del
Mezzogiorno, promossi con l’inten-
industriale e, in Europa, si esauriva la to di risolvere “la Questione
funzione economica, sociale e politi-
ca delle antiche corporazioni medie-
Mario Atzori Meridionale” e con l’obiettivo
dichiarato di trasferire l’eccedenza
vali sostituite da diverse forme di della forza lavoro dall’agricoltura
nota mostra di prodotti e manufatti
organizzazione del lavoro. Di fronte all’industria, provocarono un’ulterio-
artigianali provenienti dalle regioni
alla competizione dei prodotti indu- re trasformazione dei sopravvissuti
italiane; nello stesso contesto, come
striali crollava l’antico artigianato comparti dell’artigianato tradiziona-
è noto, nell’ottobre dello stesso
domestico e dei mestieri. In tale le.
anno, fu organizzato il famoso
scontro, riuscirono a conservare una Gli artigiani che attualmente
Congresso della Società di Etnologia
loro vitalità soltanto i comparti che operano nei comparti artigianali, a
Italiana. I prodotti materiali della
realizzavano manufatti caratterizza- partire dagli anni ’50 del secolo scor-
cultura iniziarono così a ricevere
ti da qualità artistiche e da tipicità so, infatti, si sono trasformati da pro-
regionali. attenzioni e legittimazioni scientifi-
duttori di beni d’uso quotidiano in
Alle tendenze espresse dalla stan- che nella stessa misura in cui,
produttori di manufatti considerati
dardizzazione dei prodotti industria- nell’Ottocento, era avvenuto per i
ormai oggetti di arredo domestico e
li reagiva, come è noto, il movimen- canti, le poesie e i racconti popolari.
di prestigio; essi sono valutati con
to dell’Arts and Crafts di John Ruskin Intanto, nei primi decenni del
qualità artistiche; inoltre, sono offer-
e di William Morris, attratti dalle Novecento, mentre esplodeva la crisi
ti nel mercato dei souvenirs, nel qua-
istanze conservatrici della confrater- della prima guerra mondiale, in dro dell’industria turistica.
nita dei pittori preraffaelliti, nostal- Italia, si era sollecitati da due forti Tra gli anni ‘50 e la prima metà
gici del Medioevo e dei relativi cano- tendenze: da un lato lo sviluppo del degli anni ‘60 del Novecento, infine,
ni estetici tendenti a valorizzare il positivismo, col quale si perseguiva- se si escludono le denunce di Ernesto
rustico e la presunta originalità no particolari istanze di secessione e de Martino (De Martino, 1947, pp.
approfondimenti sul verismo regio- 32-36; 1948, pp. 19-22; 1949, pp. 411-
(Lucie-Smith, 1984, pp. 217-231). I
nalistico, dall’altra parte, con il con- 435; 1950, pp. 650-667; 1952, pp.
contesti socio-culturali ed intellet-
solidarsi delle proposte neoidealisti- 735-737; 1953, p.3; 1955, pp. 1-33;
tuali erano quelli del lungo respiro
romantico, tesi a documentare canti che, il “popolare”, il regionale e il 1958; 1959; 1961), sul problema
e tradizioni orali e a raccogliere particolare non trovavano posto nei meridionale e sulla relativa arretra-
qualsiasi reperto rimandasse ad una canoni estetici dell’’arte per l’arte. tezza delle masse contadine, consi-
lontana antichità oppure conducesse Ne derivava che questo risultato non derate, forse a torto, refrattarie ad
alla spontaneità dell’anima e della poteva essere ottenuto nel semplice acquisire “coscienza di classe”, l’an-
poesia popolare. manufatto artigianale. tropologia ufficiale, era dominata in
Nella prima decade del Nove- Le nozioni di arte popolare e di gran parte dagli indirizzi teorici pro-
cento, si sviluppò anche un certo artigianato artistico, sebbene l’op- posti da Paolo Toschi sull’arte popo-
interesse per la cultura materiale posizione neoidealistica crociana, lare. Come è noto, secondo la conce-
connesso agli studi di Hugo riuscirono, in ogni modo, a consoli- zione toschiana, l’arte popolare
Schuchardt che, col metodo parole e darsi agevolate grazie agli indirizzi sarebbe derivata da un “tono psico-
cose (Wörter und Sachen), affinava, di politica economica e sociale perse- logico e lirico di semplicità e primiti-
in termini oggettivi, le indagini glot- guiti dal Fascismo a partire dagli vità” (Toschi, 1944; 1960); in sostan-
tologiche sul rapporto tra oggetti e anni ’20 del Novecento. Infatti, per za, era intesa come “patrimonio
corrispondenti nomi. In tale atmo- superare la crisi occupazionale, furo- espressivo del gusto dell’umile
sfera, nel 1911, Lamberto Loria, Luigi no promossi sia il recupero del gente”; infatti, essa appagherebbe i
Pigorini, Aldobrandino Mochi, modello corporativo, per agevolare bisogni spirituali e pratici del popolo
Raffaele Pettazzoni, Francesco il formarsi della piccola impresa arti- e per questa sua funzione vitale si
Novati, Angelo De Gubernatis ed giana, sia l’artigianato tradizionale trasmetterebbe nel tempo, si conser-
altri intellettuali allestivano a Roma, delle regioni meridionali, fra le quali verebbe o si modificherebbe e si ela-
nel quadro dell’Esposizione Interna- la Sardegna. borerebbe secondo una propria tra-
zionale promossa per celebrare il cin- Dopo la seconda guerra mondia- dizione stilistica fino a quando il
quantennale dell’unità d’Italia, la le, una nuova industrializzazione popolo la sente e l’adotta come sua.

7 il folklore
d’Italia
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Una prima forte reazione fu programmazione turistica


mossa dalle riflessioni di Alberto dell’isola, è cominciata nel
Mario Cirese sulla poesia popolare 1957 con l’istituzione di
(Cirese, 1958; 1965, vol. I, pp. 415- uno speciale ente regiona-
461; 1968, pp. 11-20; 1971; 1972; le, l’Istituto Sardo Orga-
1976; 1977; 1988; 1997) e portata nizzazione Lavoro Artigia-
avanti con successivi approfondi- no; questo fu, per diverso
menti da altri studiosi (Buttitta A., tempo, di forte stimolo
1958, pp. 377-380; 1959, pp. 5-41; per gli artigiani grazie al-
1963, pp. 169-171; 1979); in seguito, l’opera di alcuni artisti ed
si giunse all’acquisizione, anche in intellettuali come Ubaldo
Italia, della nozione di “stile etnico” Badas, Eugenio Tavolara,
di André Leroi-Gourhan, inteso come Vico Mossa, Giuseppe
“il modo proprio di una collettività Contini ed altri; quasi tutti
di assumere e di contrassegnare orbitavano intorno all’Isti-
forme, valori e ritmi”( Leroi- tuto d’Arte di Sassari: cen-
Gourhan, 1977, voll. 2, pp. 323-327). tro di coagulo e di elabo-
In quest’ultimo complesso qua- razione di nuove proposte
dro di interessi culturali ed economi- artistiche tese ad aggior-
ci, l’arte popolare era equiparata ed nare la tradizione di nu- Panificazione anni ‘60.
omologata all’artigianato artistico e merosi manufatti. In parti-
con questo era inserita nel circuito colare, segni e simboli ori- la, per esempio, agli olivicoltori e ai
commerciale dell’industria turistica e ginali furono rielaborati e adeguati vignaioli, che coltivavano oliveti e vi-
della produzione dei souvenirs; l’ar- ai gusti nuovi. gneti per la produzione di oli e vini
tigianato tradizionale, quindi, diven- Il mondo dell’artigianato, secon- pregiati, oppure agli agricoltori e
tava un fatto artistico, un bene cul- do questi artisti, si prestava meglio agli ortolani, che producevano quali-
turale, e così riusciva a conservare agli influssi delle nuove istanze delle tà di frumento per pane e pasta e
una certa vitalità rifunzionalizzando secessioni; l’artigiano era considera- coltivavano grandi quantità di ver-
i comparti più vicini alle nuove esi- to capace di rompere l’egemonia dure e agrumi, o ai pastori, che pa-
genze artistiche del mercato. estetica dominante, quella delle ca- scolavano le greggi e le mandrie per
Gli ultimi decenni hanno visto il tegorie crociane; così, l’artigianato la produzione di latte e formaggio,
verificarsi di naturali aggiornamenti domestico e dei mestieri, in Sarde- fino ad un recente passato, gli arti-
tecnologici nei sistemi produttivi. gna, entrava in rapporto con il mon- giani hanno fornito validi strumenti
Allo stesso modo, nel processo di do degli artisti ricevendo stimoli di di lavoro realizzati nelle rispettive
rifunzionalizzazione, le diverse tra- rinnovamento. botteghe. A questo riguardo, si pen-
dizioni locali hanno subito rielabora- si alle fucine di fabbri e maniscalchi
zioni e reinvenzioni dei moduli 2- La realtà economico-sociale che producevano attrezzi per i lavori
semantici. I comparti attualmente tradizionale della Sardegna, fino agli nei campi: diversi tipi di zappe, di
vitali si sono adeguati alle trasforma- anni ‘50 del secolo appena trascorso, aratri, di falci e di roncole. Al mo-
zioni utilizzando le nuove tecnologie era costituita dal complesso equili- mento opportuno gli artigiani erano
nel processo produttivo. brio di tre settori di base: l’agricoltu- in grado di ferrare gli animali allora
In tale processo di rifunzionaliz- ra, la pastorizia e la pesca. Essi si essenziali nei lavori agricoli. Infatti,
zazione e adeguamento, i comparti compenetravano tra loro, tanto che buoi, cavalli e asini costituivano,
maggiormente interessati sono stati spesso, in uno stesso individuo, era- quando non era ancora giunta la
quelli delle ceramiche, dei metalli no presenti più competen-
preziosi, del ferro battuto e degli ze professionali; si tratta,
intagli in legno. I tessuti, invece, come è noto, di un tipo di
sono rimasti in un certo senso esclusi suddivisione del lavoro
dal processo di rinnovamento tecno- che, nel passato, si verifi-
logico del sistema produttivo. cava in realtà sociali ed
Nonostante ciò, per alcuni decenni, economiche preindustria-
diversi settori hanno conservato li, in cui le specializzazioni
buone richieste nel mercato. I com- professionali rimanevano
parti degli intrecci e dei ricami, fra i sfumate. In questo qua-
quali il filet, dal canto loro, in dro, tuttavia, gli artigiani
Sardegna, non hanno subito trasfor- erano quelli che, con i loro
mazioni tecnologiche particolari. specifici prodotti, riusciva-
In Sardegna la rifunzionalizzazio- no meglio a distinguersi
ne di alcuni comparti dell’artigiana- ma, nello stesso tempo, a
to tradizionale è stata avviata con- correlarsi agli altri com-
temporaneamente alla valorizzazio- parti del sistema produtti-
ne turistica dell’isola, all’inizio degli vo; essi fornivano compe-
anni ’60, prima dell’industrializzazio- tenze e manufatti specia-
ne. Un’iniziale valorizzazione dell’ar- lizzati ed esclusivi. In tutte
tigianato, proprio nel quadro della le comunità rurali dell’iso- Panificazione anni ‘60.

il folklore 8
d’Italia
i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t

meccanizzazione, un fondamentale effettuare i diversi lavaggi


ausilio nelle attività produttive del delle pelli; inoltre, era
mondo contadino. Si pensi, inoltre, necessario poter smaltire
ai carpentieri che in cantieri ubicati facilmente i reflui di lavo-
lungo i moli delle darsene di Caglia- razione diluendoli verso il
ri, Porto Torres, Olbia, Cabras, San- mare o verso fiumi. E’ per
t’Antioco, Bosa, Alghero, Orosei e questo che, fin dal passa-
Arbatax realizzavano diversi tipi di to, le aree portuali e flu-
barche per la pesca d’altura, costiera viali probabilmente hanno
e lagunare. agevolato l’insediamento
Si trattava di un sistema produtti- nell’isola delle conce per-
vo completo e autosufficiente, nel mettendo il formarsi di
quale, per diverso tempo, almeno conoscenze tecniche e di
per quanto riguarda le professioni saperi specifici. A questo
importanti, generazioni di artigiani riguardo, si deve tener
del legno, del ferro, delle pelli, dei presente che le pelli erano
metalli preziosi e dell’edilizia hanno impiegate anche per rea-
lavorato e prosperato. lizzare capi di vestiario.
Per quanto riguarda l’artigianato Per esempio, la mastruca,
familiare, in gran parte tradizional- nel mondo pastorale, è Panificazione anni ‘60.
mente riservato alle donne, si deve sempre stata un indumen-
ricordare quello tessile, degli intrecci to importante per riparar- una sorta di sellino posteriore utile
e dei ricami. Per esempio, nelle si dalle intemperie. per tenere in groppa le donne; inol-
comunità vicine al mare il ricamo si Le concerie rifornivano la materia tre, si produceva una particolare sel-
connetteva facilmente alle cono- prima a calzolai e sellai; questi costi- la femminile detta sezzidolzu con la
scenze tecniche elaborate per la pro- tuivano la parte finale della catena quale era possibile una cavalcatura
duzione di strumenti di lavoro come operativa del settore. In diversi cen- laterale. Fino a quando si sono man-
reti, nasse e steccati, impiegati tri, le loro botteghe acquistarono tenute vitali le antiche tecniche di la-
soprattutto nelle attività maschili notorietà anche per la produzione di vorazione a mano, con pelli morbide
della pesca, dell’edilizia e della stes- finimenti e selle; ancora oggi vengo- venivano realizzati anche particolari
sa agricoltura. no ricordati i sellai di Ozieri, Santu indumenti, fra i quali era rinomato
Lussurgiu, Dorgali, Aritzo, Tonara, una sorta di corpetto senza maniche
3- Sino al «miracolo economico» Oliena, Bitti e Teulada. talvolta ricamato e detto in sardo
dei primi anni ’60 del Novecento, nei Questi stessi artigiani erano rino- benzana.
centri più idonei dal punto di vista mati anche perché i loro manufatti
ambientale, in quanto di solito posti in cuoio e in pelle avevano speciali 4- L’artigianato delle imbarcazio-
in prossimità di corsi d’acqua o vicino decorazioni realizzate ad impressio- ni per la pesca costiera e lagunare
ad aree portuali, dove è più facile lo ne o dipinte a mano. Gli stereotipi ri- costituisce, come per gli altri com-
scarico delle acque reflue e dei resi- prendevano i moduli della langue fi- parti, un’importante settore di sape-
dui di lavorazione, si era sviluppata gurativa che caratterizza da sempre ri tradizionali sviluppati soprattutto
l’antica tradizione della lavorazione gran parte della cultura materiale nei centri di tradizione marinara
delle pelli: un comparto artigianale sarda; si tratta di greche, losanghe, come Cagliari, Teulada, Portoscuso,
abbastanza funzionale per lo sbocco uccelli stilizzati, figurine antropo- Carloforte, Villasimius, nel meridione
dei prodotti secondari dell’impor- morfe, simboli floreali, ecc. Queste dell’isola, Cabras, Santa Giusta, Bosa
tante settore zootecnico. tradizioni si sono trasmes-
La catena produttiva dell’artigia- se di generazione in gene-
nato delle pelli andava dalla fase razione. In questo modo
della concia sino alla produzione famiglie di sellai hanno
delle calzature per opera di rinomati prodotto per tanto tempo
calzolai e alla realizzazione di fini- finimenti e selle per tutto
menti grazie ad altrettanto bravi il mercato isolano; essi,
maestri sellai. A Bosa, per esempio, inoltre, erano in grado di
lungo l’argine sinistro del Temo, produrre anche le più mo-
erano presenti una decina di conce- derne selle inglesi. In Sar-
rie. Sino al periodo della crisi, causa- degna, però, quelle più ri-
ta dall’industrializzazione del setto- chieste erano i tipi “Fon-
re, avvenuta a partire dall’ultimo ni”, “Ittiri” e “Santu Lus-
dopoguerra, le concerie della surgiu”, progettate per ri-
Sardegna sono state esempio inte- spondere a specifiche esi-
ressante di piccola industria artigia- genze di impiego del
na. mondo agro-pastorale.
Le condizioni ambientali favore- Otre ai finimenti standard,
voli per queste attività consistevano si realizzavano finimenti
nel disporre di una grande quantità della tradizione equestre
d’acqua corrente, necessaria per locale come s’istriglione, Panificazione anni ‘60.

9 il folklore
d’Italia
l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i

e Alghero nelle coste occidentali, fino a Portotorres e tutta la regione. I ricami dei filet sardi, come è tradizione,
Castelsardo nella parte settentrionale e, quindi, Olbia, La si caratterizzano per le iconografie basate soprattutto su
Maddalena, Orosei e Arbatax nella costa orientale motivi di flora e di fauna.
(Manca Cossu, 1968-71; Mini, 1974; Mondardini, 1982,
1985, 1988, 1990, 1995). 6- In tutte le realtà culturali, sul piano storico, i saperi
Nei cantieri, impegnati nella costruzione di barche e per realizzare terrecotte probabilmente sono i più arcaici
piccoli pescherecci, in gran parte, venivano impiegati insieme a quelli per realizzare manufatti ad intreccio;
legni speciali, alcuni dei quali provenivano da tagli in sicuramente rimandano alla lontana Preistoria. In
boschi di querce e lecci dell’isola. Tuttavia, i legni mag- entrambi i generi, tuttavia,
giormente utilizzati erano il rovere per realizzare la strut- come è da tempo noto, i
tura portante, l’abete per il fasciame e il pick-pain per la prodotti meglio
chiglia e le cordonature immerse. A seconda dei diversi rispondenti ad
usi, le differenti imbarcazioni venivano prodotte seguen- esigenze ope-
do le tipologie tradizionali della carpenteria mediterra- rative fonda-
nea. In tutti i casi, però, la barca più diffusa per la pesca mentali
lagunare, soprattutto negli stagni di Cagliari e Cabras, sono cer-
era il chiattino. Si tratta di un’imbarcazione a fondo piat- tamente i
to, lunga dai 5 agli 8 metri, larga circa un metro e 70 cm conteni-
e alta non più di un metro. tori in
Nei centri costieri marinari, da sempre si era formata cerami-
una tradizione di saperi sulla pesca e sulla realizzazione ca, nei
dei relativi strumenti come reti, nasse e altri tipi di trap- quali è
pole per catturare le diverse specie di pesci. Le nasse veni- possibi-
vano intrecciate con particolari varietà di giunco e servi- le con-
vano da base strutturale per comporre altri tipi di intrec- tenere
ci; le stesse reti, in fondo, costituivano una particolare liquidi.
varietà di intreccio, nel quale la trama e l’ordito erano Inoltre,
formate da un unico filo con il quale realizzare le maglie. rispet-
Le nasse solitamente erano di forma troncoconica con to ad
basi circolari o ellissoidali. Sulla base maggiore era predi- a l t r i
sposto un coperchio amovibile per togliere le prede cat- prodot-
turate; dalla circonferenza inferiore, invece, si dipartiva ti realiz-
verso l’interno una reticella a forma di imbuto al fine di zati con
consentire un facile accesso ai pesci che vi si introduceva- materiali
no attirati dall’esca predisposta dai pescatori. I supporti degradabi-
portanti delle nasse più voluminose erano realizzati con li come le
sottili rami d’olivastro intorno ai quali venivano intreccia- fibre vege-
te le maglie con il giunco. In questi tipi più ampi, l’aper- tali, per
tura per estrarre le prede veniva praticata sul dorso, in esempio gli
modo tale che il pescatore potesse facilmente introdurvi intrecci, o
il braccio. Le reti, dal canto loro, venivano prodotte dai come quelle
pescatori nei momenti di riposo: di solito nelle ore della animali, le
tarda mattina o del pomeriggio, prima della partenza per ceramiche
la pesca serale e notturna. hanno il van-
taggio di con-
5- La logica dell’intreccio delle reti da pesca, nei cen- servarsi a
tri costieri, così come avveniva in tutto il Mediterraneo, lungo e, per
spesso rimandava a quella delle corrispondenti reti impie- questo motivo,
gate per i ricami e, in particolare, per produrre il filet una volta recu-
(Atzori, 1977, pp. 20-25; Rapallo, 1983, pp. 142-155; perate, dopo
Bellini, 2004). Nella catena operativa di questo tipo di secoli, costituisco-
ricamo, come prima operazione si realizzava un anello no elementi impor-
facendo passare il filo attraverso l’ago e il modano. Si for- tanti per caratteriz-
mava così la base da cui partiva il lavoro che, per motivi zare e definire una
pratici, veniva fissato alla spalliera di una sedia. Si realiz- particolare realtà cul-
zava in questo modo la prima maglia che costituiva l’uni- turale. In pratica,
tà di misura in base alla quale sviluppare il ricamo. I suc- soprattutto per le epo-
cessivi intrecci venivano ottenuti con l’impiego di un ago che più antiche, le testi-
di ferro dello spessore di circa due o tre millimetri. monianze dei reperti cera-
L’operazione procedeva in modo continuo costruendo, mici consentono di fissare e
sulla base del progetto, le diverse forme e i moduli tratti ricostruire le diverse epoche
dalla tradizione iconografica artigianale sarda: fiori stiliz- dei contesti culturali e dei siti
zati, tralci di vite e grappoli d’uva, uccelli e pavoni, garo- di ritrovamento.
fani, greche e losanghe. Anche in questo caso essi pro- In Sardegna, come in altre
vengono da una langue da tempo consolidata e diffusa in regioni, i reperti ceramici rinve-

il folklore 10
d’Italia
i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t

nuti negli scavi archeologici di siti preistorici rimandano tanto che diversi centri si caratterizzavano per la tradizio-
ad epoche lontane, quando ancora la lavorazione dell’ar- ne dei figuli.
gilla avveniva con la tecnica a «colombino»: la sovrappo- Un ceramista al lavoro che manipola con maestria l’ar-
sizione di una striscia sull’altra. Il tornio che consentì di gilla, che la plasma sul piatto del tornio, rendendola qual-
manipolare meglio l’argilla fu realizzato soltanto in segui- cosa di vivo, costituisce ancora oggi uno spettacolo di par-
to. ticolare interesse. Si ammira uno spettacolo nel quale lo
Nel passato, dal comparto ceramico provenivano una scenario è costituito dagli spazi di bottega e dagli stru-
serie di manufatti utili per le attività quotidiane della menti di lavoro e dove si ripete una sorta di «rito» nel
famiglia; si trattava di broc- quale si ottiene la trasformazione della materia grezza in
che e anfore di varie cultura.
misure per l’ap- I manufatti della tradizione popolare della Sardegna
provvigionamen- sono molto semplici e riguardano soprattutto anfore e
to idrico, per il brocche di diverse dimensioni, piatti, scodelle, pentole e
trasporto e la casseruole, che costituivano il corredo di cucina delle
conservazio- famiglie sarde. Nel passato, questi oggetti venivano pro-
ne di vari dotti per tutto il mercato isolano in alcuni centri caratte-
liquidi tra rizzati dalla presenza, nel loro territorio, di giacimenti di
i quali argilla pregiata. Sino all’inizio degli anni ’50 del
Brocca invetriata.
Realizzazione di Luigi Nioi Assemini
vino e Novecento, l’arte del vasaio e stovigliaio era una realtà
(anni ’70) o l i o . importante ad Assemini, nel Cagliaritano, a Pabillonis, ad
C’erano, Oristano, a Dorgali e a Siniscola, nel Nuorese e a Sassari,
inoltre, dove operavano validi ceramisti, alcuni dei quali sono stati
stoviglie tra i fondatori dell’Istituto d’Arte.
di diver- Gli artigiani che attualmente operano nel settore cera-
si tipi mico in Sardegna traggono la loro tradizione dagli influs-
per cuci- si che giunsero nell’isola dopo il Mille con l’arrivo delle
nare e maestranze tosco-liguri al seguito degli ordini religiosi
per man- occidentali, dopo la fine della presenza del monachesimo
giare; si greco-bizantino e dopo il passaggio delle diocesi sarde
produce- alla giurisdizione della Chiesa romana. Insieme ai frati di
vano in osservanza benedettina giunsero nell’isola anche mae-
terracotta stranze specializzate in edilizia e in numerosi altri com-
tegole, parti. Da queste presenze è probabile che siano sorte e si
mattoni e siano diffuse le prime corporazioni di mestiere sul model-
pianelle per lo di quelle che si erano formate in altre regioni. Inoltre,
il settore la corporazione dei figuli probabilmente ha diffuso i
edile, tubi moduli formali di una ceramica vascolare povera, abba-
per scarichi stanza simile a quella prodotta nell’isola fino alla metà del
pluviali e Novecento.
fognari, Questa ceramica può essere schematicamente classifi-
ecc.; in cata in tre tipi: 1) contenitori per la conservazione di liqui-
genere, di, in genere, acqua e olio; 2) recipienti di varie forme per
erano pro- la preparazione e cottura di cibi; 3) piatti, scodelle, ciotto-
dotti parti- le, boccali e bicchieri di forme e capacità varie, impiegati,
colarmente in genere, per consumare i cibi durante i pasti (Atzori,
richiesti sia 1991, pp. 365-379). Nel primo gruppo rientravano le broc-
nei mercati che (marigas) di diversa capacità (le misure andavano da
urbani, sia nei uno a dieci); le più capienti solitamente non superavano i
piccoli centri venti litri. Fra le brocche erano abbastanza caratteristiche
rurali. quelle dette frascus; erano molto basse con una base
In Sardegna, ampia e la struttura formale simile a quella delle casse-
dall’alba dell’epo- ruole. Su un lato era innestato un collo stretto e basso,
ca moderna fino allacciato a due manici laterali. Il recipiente veniva impie-
agli inizi degli anni gato, fino agli anni ’50 del Novecento, da contadini e da
’50 del Novecento, pastori come contenitore d’acqua durante il lavoro. La
quando nei centri porosità dell’impasto consentiva una certa trasudazione,
agro-pastorali dell’iso- sufficiente per rinfrescare l’acqua alla semplice brezza o
la non era stata realiz- all’ombra di una pianta.
zata la rete idrica per la Per la conservazione dell’acqua, nel passato, oltre alle
distribuzione dell’acqua brocche venivano impiegate le anfore (brugnas) e le con-
nelle abitazioni, gli arti- che molto capienti (cossius). Queste ultime erano utilizza-
giani delle terrecotte per la te anche per fare il bucato. Infine, le giare (zirus), come si
produzione di brocche ed è già visto, servivano soprattutto per conservare olio e
anfore costituivano un com- vino per la mescita immediata. All’interno erano adegua-
parto abbastanza attivo, tamente impermeabilizzate con uno spesso invetriato per

11 il folklore
d’Italia
l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i

evitare la trasudazione.
Appartengono al secondo gruppo le diverse pentole e casseruole, anch’esse di varie capacità, impiegate nella pre-
parazione e cottura dei cibi. Fra questi contenitori si devono considerare anche le conche di dimensioni medie che ser-
vivano per preparare la pasta per le focacce (modditzosu) e per fare il formaggio; il loro uso aveva lo scopo di evitare
l’impiego di contenitori in metallo per riscaldare il latte. Infatti, quelli in rame avevano l’inconveniente di rilasciare ossi-
di pericolosi per intossicazioni.
I manufatti del terzo gruppo costituivano, per le famiglie agro-pastorali, il corredo di stoviglie impiegate per con-
sumare i cibi; erano piatti di forma concava per minestre e brodi, piani per la pasta, come gnocchetti (malloreddus, in
Campidano, cicciones, in area logudorese) o ravioli (culinzonis) e per carni arrosto e lesse. Scodelle e bicchieri, anch’es-
si in ceramica, erano molto semplici; le prime venivano realizzate sfruttando la stessa struttura formale impiegata nelle
brocche, mentre i bicchieri erano cilindrici, con un manico da un lato. Nella realizzazione dei boccali si sfruttava anco-
ra una volta la forma base delle anfore e delle brocche.
Le notizie sulle corporazioni medievali dei vasai che costituirono il punto di partenza della tradizione delle cerami-
che d’uso comune sono molto scarse. Il documento più attendibile è stato pubblicato nel 1961 da Francesco Loddo
Canepa in un lavoro sugli statuti di alcuni “gremi”. In quest’opera, fra gli altri testi, è riportato lo Statuto del 1692 della
corporazione dei figuli di Oristano (Loddo Canepa, 1961, p. 176). Dal documento si evince che, in quella zona ricca di
argille, da tempo si era andato formando un importante centro di pro-
duzione.
Fino all’Ottocento, le notizie sulle zone della Sardegna,
dove si erano formate le tradizioni d’artigianato ceramico,
sono molto generiche. Ne danno alcune informazioni,
nelle loro opere, Alberto La Marmora e Vittorio Angius.
Quest’ultimo, come è noto, avendo curato le voci sulla
Sardegna nel Dizionario geografico storico economico
dei regni sabaudi diretto dal Casalis, ebbe modo di
verificare, con una certa attendibilità, i dati relativi
alle attività artigiane presenti nei diversi comuni. Le
notizie dell’Angius riguardano esclusivamente l’ar-
tigianato della terracotta e la produzione soprat-
tutto di Oristano, Pabillonis, Decimomannu,
Assemini e Villaputzu.
Nei primi decenni del Novecento, lo stesso tipo
di artigianato si diffuse ulteriormente, migliorando
la qualità; è quindi presente a Siniscola, Dorgali, S.
Sperate, Teulada, Nurallao e in piccole aziende a
livello protoindustriale a Cagliari e Sassari. L’attività
è documentata da Amerigo Imeroni in un noto lavo-
ro del 1928 sulle piccole industrie sarde (Imeroni, 1928)
e, nel 1935 dall’architetto Giulio Ugo Arata e dal pitto-
re Giuseppe Biasi in una loro famosa opera sull’arte sarda Brocca della sposa. Realizzazione di Teresa
(Arata, Biasi, 1935). Deidda Assemini (anni ’70)
La base di quest’espansione produttiva, così come è avve-
nuto anche in altre regioni meridionali, fu l’arrivo in Sardegna
dell’economia di mercato che determinò il sorgere di un sistema più
dinamico rispetto a quello tradizionale, fino ad allora fondato soprattut-
to sul baratto più che sulla transazione monetaria. Si trattò di un’espansione che interessò parecchi settori dell’arti-
gianato tradizionale; questi furono coinvolti nelle prime trasformazioni tecnologiche, quali l’introduzione, nel proces-
so produttivo, dell’energia elettrica e delle moderne macchine utensili che accelerarono i tempi e i processi di lavora-
zione.
Molti comparti artigianali, in questo quadro economico-sociale, furono interessati anche nella ristrutturazione dei
rapporti di produzione. Alcuni, però, entrarono in crisi iniziando un lento declino, come si è già accennato. Il compar-
to ceramico sardo cominciò a modificare i modelli tradizionali con l’intento di migliorare la qualità dei prodotti in
modo da renderli competitivi con quelli che giungevano da altre regioni. Questa scelta, avvenuta molto lentamente tra
gli ultimi decenni dell’Ottocento fino agli anni ’30 del Novecento, era stata facilitata anche dall’abolizione nel 1864
delle corporazioni artigiane che, a causa del loro sistema chiuso e vincolante, limitavano la libera concorrenza della
forza lavoro.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, che aveva fatto scoprire ai Sardi il significato e l’importanza sociale e politica della
propria identità culturale, diversi artigiani, all’inizio degli anni ‘20, raggiunsero un livello professionale di particolare
pregio. Cominciava a formarsi la tendenza culturale a valorizzare i segni della «sardità», intesa come qualità identita-
ria ed estetica. Quest’impronta giungeva agli artigiani anche da opere di artisti che si collocavano nel quadro delle
secessioni. Fra questi si deve ricordare Francesco Ciusa che, mentre dirigeva nel 1919 a Cagliari una fabbrica di cerami-
che artistiche, alla quale aveva assegnato il nome simbolico di Spira, chiamò come collaboratore Ciriaco Piras, un gio-
vane pastore barbaricino, nato a Dorgali, abilissimo nell’intaglio e nelle sculture in legno e sughero. Dopo due anni di
apprendistato e studio Piras tornò a Dorgali dove aprì una bottega di ceramiche artistiche. I suoi manufatti mutuava-
no dalle strutture formali e dai segni della tradizione.

il folklore 12
d’Italia
i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t

Durante il ventennio fascista fu istituito l’Ente mondo agro-pastorale del passato non poteva costituire
Nazionale dell’Artigianato con l’intento, nel quadro della più un committente valido. Intanto si determinarono i
concezione neocorporativa elaborata dal regime, di risol- presupposti per l’istituzione di una struttura amministra-
vere il problema della disoccupazione con la tutela della tiva che fosse in grado di tutelare ed assistere gli artigia-
piccole industrie artigiane. Nella stessa logica fu istituito ni. Alla fine degli anni ‘50, Ubaldo Badas insieme ad
il Comitato Nazionale Italiano per le Tradizioni Popolari: Eugenio Tavolara parteciparono alla stesura del 1° Piano
un istituto che portava avanti una politica di valorizza- di Rinascita della Sardegna per la parte che riguardava
zione del folklore locale secondo i programmi decisi l’artigianato.
dall’Opera Nazionale Dopolavoro e le direttive proposte La conseguenza immediata fu l’istituzione, nel 1957,
da Luigi Sorrento e da altri demologi, linguisti ed etnolo- dell’Istituto Sardo Organizzazione Lavoro Artigiano. Con
gi (Gino Bottiglioni, Raffaello Corso e Paolo Toschi). alcune incertezze, ma con un sostanziale impegno, que-
In questo contesto politico-economico-culturale, già sto Ente è stato in grado di tutelare e anche reinventare,
dalla fine degli anni ’20 del Novecento, la Società secondo moduli stilistici adeguati ai tempi, il vasto patri-
Ceramica Industriale di Cagliari, con sede in viale Trieste monio culturale etnografico e di saperi dell’artigianato
e in Via Pola, sorta per la produzione di mattoni refrat- tradizionale della Sardegna. Si è trattato di una comples-
tari in argilla e caolino estratti delle cave di Nurallao, sa attività di assistenza e incentivazione rivolta ad arti-
Laconi, Nurri, Serrenti e Furtei, aprì un laboratorio per la giani e a cooperative che intanto si erano formante in più
realizzazione di ceramiche artistiche con motivi tradizio- centri.
nali. La struttura fu affidata a Federico Melis, che allora In circa cinquant’anni, sebbene talvolta siano sorti
aveva bottega ad Assemini e produceva modelli anch’es- malumori tra artigiani ed Ente, l’impegno dell’I.S.O.L.A.
si tradizionali, sebbene dimostrasse di inserirvi elementi comunque ha consentito di conservare vitali numerosi
innovativi. Partendo da autodidatta egli era riuscito ad comparti. In questo processo, iniziato in Sardegna alla
avere riconoscimenti positivi grazie alla realizzazione di fine degli anni ‘50, non deve essere sottovalutato il par-
importanti opere; fra l’altro fu chiamato ad insegnare ticolare impulso fornito dagli Istituti Statali d’Arte; in
tecnica ceramica negli istituti d’arte. quello di Sassari, nel 1949, fu istituito un laboratorio di
Nonostante le varie difficoltà determinate dalle inge- ceramica; mentre, nel 1951, ad Oristano, fu istituito un
renze del Fascismo, furono portate avanti diverse iniziati- nuovo Istituto d’Arte nel quale veniva privilegiato il set-
ve. In pieno periodo autarchico, nel 1940, decollò la pic- tore ceramico in quanto l’Oristanese era la zona a mag-
cola fabbrica di ceramiche e maioliche di Alessandro giore tradizione ceramica.
Mola. Questi, partendo da condizioni modeste, con gli Nell’isola, attualmente, operano numerosi laboratori
aiuti che ricevette da Enrico Palladino, direttore di una artigiani nei comparti tradizionali; essi costituiscono una
Galleria d’Arte, e dal Sindacato Fascista delle Belle Arti, parte rilevante dell’indotto dell’industria turistica che,
riuscì ad ampliare il laboratorio. Sull’impresa Mola, nell’arco degli ultimi quarant’anni, rispetto al fallimento
Nando Camellini, usando la retorica del tempo, scriveva dell’industria petrolchimica, è stata la scelta economica
nell’Unione Sarda dell’8 marzo 1940: «I materiali sono vincente; essa è stata, infatti, quella socialmente, cultu-
tutti nostri: pasta, refrattari e colori, collaudati da ripetu- ralmente ed ecologicamente più adeguata alle condizio-
te prove. Autarchia realizzata in pieno che evita gli intral- ni strutturali della regione, anche se, nei primi tempi, fu
ci di difficoltose forniture e che dà la sicurezza di un lavo- sottovalutata e, in certi casi, avversata da diversi settori
ro metodico mettendo anche in rilievo la capacità pro- della classe dirigente sarda e da numerosi intellettuali,
duttiva dell’Isola». Nel 1946, nell’immediato secondo illusi nel tentare a sognare, attratti dalle utopie allora di
dopoguerra, si devono segnalare altre iniziative. Ad moda, la proletarizzazione dei ceti agro-pastorali. Essi
opera della famiglia Guiso-Gallisai, sorgeva a Nuoro, non si sforzarono a trovare soluzioni facilmente innesta-
nella regione Biscollai, una fabbrica di porcellane. Ad bili alla realtà ambientale e socio-culturale tradizionale
Oristano, nello stabilimento di laterizi della Ditta Alquati della Sardegna quando si cominciò ad attuare il Piano di
e Ferrari, veniva impiantato un reparto artigiano per la Rinascita.
produzione di maioliche. Dopo mezzo secolo e soprattutto dopo il recupero,
Intanto, grazie alle conquiste della moderna tecnolo- non solo della storia e delle identità locali e individuali,
gia, fu possibile disporre di forni elettrici di piccole rispetto all’enfatizzazione delle concezioni sul gruppo e
dimensioni, più manegevoli di quelli a legna. Ciò consen- sulla società collettiva degli anni precedenti, dall’ultimo
tì a diversi artisti sardi, fino ad allora prevalentemente decennio del Novecento, insieme al sorgere dei diversi
impegnati nella pittura e nella scultura, di acquisire una tipi di fondamentalismo è sorta anche una reazione ad
certa dimestichezza con le tecniche ceramiche, propo- una nuova forma di massificazione che, in modo subdolo,
nendo interessanti esperimenti. Così come era avvenuto proviene dal moderno sistema economico della globaliz-
in precedenza in altri settori, questi artisti inserirono zazione nella quale tutto viene uniformato e inglobato.
nelle loro opere molti motivi formali e segnici della tradi- In questa reazione, estremamente complessa e, per
zione popolare. certi aspetti, talvolta anche contraddittoria, si colloca l’in-
Nello stesso tempo in cui si verificava questo fenome- teresse e il recupero degli antichi saperi, tra i quali quelli
no di élite, gli artigiani ripresero a produrre manufatti di certi comparti dell’artigianato tradizionale costituisco-
semplici realizzati in terracotta e invetriati a galena, no ormai una sorta di riappropriazione di una condizione
come quelli tradizionali; erano prodotti che sostituivano umana e naturale che si rischia di perdere in quanto stri-
quelli industriali in quel periodo ancora scarsi in conse- tolati dalla tecnologia. La riscoperta degli antichi saperi,
guenza della distruzione degli impianti durante la guer- facendo ricorso alla nostra lunga memoria di un passato
ra. nello stesso tempo lontano e prossimo, consente alle
All’inizio degli anni ‘50 subentrò una breve crisi cau- generazioni del XXI secolo di esorcizzare ancora una
sata dalla necessità di convertire il tipo di produzione con volta gli spettri delle novità e delle trasformazioni, che
una più moderna che potesse essere meglio accettata dal ineluttabilmente si rifunzionalizzazano e si adeguano
mercato dei souvenirs e da quello turistico, che intanto comunque alle esigenze dei tempi indossando, se è
cominciavano ad affermarsi. Ci si rendeva conto che il necessario, anche le vesti dei saperi tradizionali.

13 il folklore
d’Italia
l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i

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il folklore 14
d’Italia
i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t

M a r i a M a r g h e r i t a S a t t a

Santuari,
religiosità
popolare
e feste

1. Le diverse realtà culturali spesso applicano, nella costruzione della propria storia, griglie interpretative per pro-
porre periodizzazioni e schematizzazioni utili ad orientare se stesse in riferimento a quadri più generali. Per realizza-
re analisi corrette, tuttavia, è necessario adattare griglie sia per interpretare i processi generali, sia per arrivare ad inter-
correlare i diversi processi che si collocano in una data fenomenologia storica in cui è vitale un determinato fenomeno
culturale. Le situazioni generali, inoltre, subiscono varie forme di adattamento, in modo tale che i fatti non ricevano
una lettura distorta, anche perché gli eventi culturali presentano caratteri cumulativi leggibili solo attraverso la griglia
di dinamiche dialettiche contraddittorie, in quanto sono dati dalla compresenza di innovazione e tradizione, di cam-
biamento e conservazione (Buttitta, 1996, 1997)
I santuari della Madonna di Bonaria a Cagliari, della Madonna di Valverde nei pressi di Alghero e di san Costantino
a Sedilo e i loro relativi culti sono certamente frutto di interrelazioni con culture diverse che hanno portato da una
parte, a conservare forme tradizionali e dall’altra, a modifiche, adattamenti e rifunzionalizzazioni. In questo senso, per-
tanto, essi costituiscono una serie di momenti esemplari in riferimento al quadro generale della storia religiosa della

15 il folklore
d’Italia
l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i

Sardegna. za territorialmente la religiosità popolare, e come essa


In primo luogo, sono luoghi di memoria, in quanto specializza e totalizza le richieste di intercessione celeste
ripropongono, tramite una trasmissione culturale, opera (…). In tal senso è necessario elaborare anche tassonomie
di una ben precisa selezione culturale, forme specifiche di relative al bacino di utenza (locale, areale, regionale,
messaggi religiosi. Nella realtà sociale, detti messaggi interregionale, nazionale) e al livello di notorietà dei cen-
sono frutto da una parte, della mediazione che si stabili- tri che risponda nel modo più proprio all’esigenza di
sce tra produttore e consumatore e, dall’altra parte, deri- immaginare una “società vovente” nella sua pienezza
vano dalla capacità della stessa mediazione di reinterpre- sociale, territoriale e nella sua mobilità» (Clemente, 1987,
tare tali messaggi, seguendo sia le esigenze di un cattoli- p. 20)
cesimo moderno, sia i vissuti personali dei fedeli o consu- I santuari hanno svolto, ed ancora oggi svolgono in
matori di credenze religiose. In questi processi è necessa- una certa misura, la funzione di nodi centrali di incontro,
rio tener presente l’articolazione del culto da parte dell’i- scambio e redistribuzione (Cirese, 1997, p. 138). Il percor-
stituzione, le forme devozionali e, in particolare, l’affer- so di memoria e di ringraziamento che tutti gli anni i
mazione e la diffusione del potere taumaturgico sull’im- fedeli compiono verso i tre santuari rientra nelle pratiche
possibile, cioè su quegli eventi che vengono definiti mira- e forme cerimoniali tipiche della religiosità popolare.
coli. Recarsi al santuario dedicato alle Madonne e a san
Questo approccio attuato attraverso le forme di reli- Costantino, protettori con una specializzazione ben pre-
giosità popolare legge la storia del santuario, recuperan- cisa, soprattutto nel passato, ma in alcuni casi anche oggi,
do la diacronia in una prospettiva sincronica. La rilevanza per la richiesta di intercessione o per definire e sciogliere
sociale del fenomeno e il fatto che si rappresenti e si rac- un voto, oppure semplicemente per il solito viaggio di
conti nello spazio e nel tempo la storia religiosa del san- ringraziamento annuale, costituisce occasione di gioia,
tuario e del suo contesto territoriale più o meno ampio ma allo stesso tempo comporta spese, fatica ed enorme
autorizzano ad assimilare «i fenomeni di inserimento spa- disagio. Il pellegrinaggio di memoria era ed è, per la
zio-temporali al sistema di simboli di cui il linguaggio è lo maggior parte delle persone, sentito come un dovere
strumento principale; essi corrispondono ad una vera e verso il proprio patrono.
propria presa di possesso del tempo e dello spazio (…), a
una addomesticazione nel senso più stretto perché por- 2. La Madonna di Bonaria, in Sardegna, è considerata,
tano alla creazione (…) di uno spazio e di un tempo sui per eccellenza, patrona dei naviganti; nel santuario che le
quali si può avere un dominio» (Leroi-Gourhan, 1977, p. è dedicato, e nel piccolo museo annesso, si ritrova un
366). certo numero di modellini di vascelli, offerti come ex
Questo addomesticamento simbolico, di fatto, «con- voto; per esempio è giunto sino a noi un ex voto costitui-
duce al passaggio dalla ritmicità naturale delle stagioni, to da una navicella di avorio, che misura circa trenta cen-
dei giorni, delle distanze percorribili a una ritmicità rego- timetri e che risale ai primi del 1400, donato, secondo la
larmente condizionata nella rete dei simboli del calenda- tradizione, da una pellegrina diretta in Terrasanta. La
rio, delle ore, delle misure che fanno del tempo e dello fama di questo ex voto è dovuta alle virtù miracolose ad
spazio umanizzati la scena su cui l’uomo domina la natu- esso attribuite; infatti, si riteneva che la navicella con i
ra. Il ritmo delle cadenze e degli intervalli regolarizzati si suoi movimenti indicasse ai naviganti la direzione dei
sostituisce alla ritmicità caotica del mondo naturale e venti, al di fuori del golfo di Cagliari.
diventa l’elemento principale della socializzazione Nella tradizione votiva, quindi, il santuario dedicato
umana, l’immagine stessa dell’inserimento sociale» alla Madonna di Bonaria assume un ruolo di assoluta cen-
(Leroi-Gourhan, 1977, p. 366). In questo modo, conver- tralità. Questa Madonna possiede una storia fondata su
tendo il continuum nel discretum, il caos nel cosmos, l’uo- un avvenimento di tipo mitico, costruita su un racconto
mo si è posto al centro dell’universo e si è attribuito il che narra di apparizioni e di miracoli. La storia si svolge
potere di dominare, segnare e celebrare il tempo attorno al santuario che è sempre stato meta di pellegri-
(Buttitta, 1978a). naggi. Di fatto alla base del suo culto, c’è un evento pro-
Il calendario e gli itinerari dei pellegrini per rinnovare digioso, quale, per esempio, il ritrovamento del simulacro
la memoria e la promessa riflettono la storia e le partico- in modo straordinario. In genere, tale storia diventa
larità geografiche ed economiche di quei luoghi di immediatamente riconoscibile grazie ad alcuni elementi
memoria (Delumeau, 1992, p. 93) e ricompongono e essenziali che costituiscono i connotati identificativi del
ripropongono un’immagine ideale del santuario e del suo potere taumaturgico o del suo speciale patrocinio
santo. Il pellegrinaggio è una realtà familiare e consueta; Le testimonianze della diffusione del culto della
fa parte del paesaggio e si inserisce, come una compo- Madonna di Bonaria, anche se non mancano attestazioni
nente necessaria, fra gli eventi che scandiscono il corso di per i secoli precedenti, diventano particolarmente nume-
ogni anno. Oltre a quanto ha in sé di festivo, il pellegri- rose nel XVI secolo. Antioco Brondo, teologo mercedario
naggio fornisce il conforto di una presenza collettiva, di del cenobio cagliaritano, nel volume Historia y milagros
una liturgia ordinata e di una sicurezza, quella del repli- de N.S. de Buen Ayre de la ciutat de Caller de la isla de
carsi del ciclo delle stagioni (Delumeau, 1989, p. 97). Nel Cerdena (1595) riferisce di 199 miracoli. Particolarmente
ripetere ogni anno gli stessi gesti e comportamenti ritua- significativa della diffusione di tale culto è anche la varie-
li esiste l’intenzione, come ben sintetizza Cirese, di «ri- tà della provenienza dei miracolati: soprattutto marinai,
produrre eventi, gesti o comportamenti già altra volta e patroni, nobili, religiosi, semplici passeggeri di navi; vi
altrove verificatisi, e di riprodurli non solo nel senso in cui compaiono genericamente sardi, valenziani, catalani,
una immagine riproduce un oggetto o una persona, ma genovesi, napoletani, ragusani o più genericamente sici-
anche nel senso più forte di produrre di nuovo, iterare e liani.
reiterare, far sì che si verifichi di nuovo» (Cirese 1977, p. La leggenda di fondazione del santuario riprende, in
67). parte, la storia e la geografia di quei luoghi. Il racconto,
Dal punto di vista di luogo di memoria, di ricordo e di così come le sue varianti, ha avuto sicuramente le sue
fama, il santuario ha la capacità di diffondere «la sua ragioni, anche se, a parte alcune notizie certe, desumibi-
potenzialità su di un certo perimetro» (Van der Leeuww li da fonti archivistiche, contiene diversi elementi chiara-
1956, p. 297). E’ il sistema santuariale, come afferma mente leggendari, provenienti da tradizioni orali e da
Pietro Clemente, «a poter documentare come si organiz- successive rielaborazioni.

il folklore 16
d’Italia
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Per cogliere gli esatti termini con la


della storia di fondazione, è neces- spada. La leg-
sario tenere presente che il santua- genda racconta che per
rio, le pratiche devozionali e il culto il soldato italiano la
della Madonna sono amministrati partita fu più
dal XIV secolo da monaci e da diffici-
monache della regola mercedaria, le di
giunti nell’isola a seguito della con-
quista aragonese, dopo la conces-
sione in feudo della Sardegna e
della Corsica, in quel tempo
rette da Pisa, a Diacono II
d’Aragona da parte di
Bonifacio VIII. Il santua-
rio, infatti, sorge nei pres-
si del castello di Cagliari,
dove le truppe quanto
giunte con l’infan- non aves-
te Alfonso se previsto;
d’Aragona si egli perse
stanziarono per tutto compresa
intraprendere nel la spada. Arriva-
1325 la presa di posses- to al colmo della di-
so della Sardegna; in tale occasione, sperazione, si narra
il luogo fu definito col nome di Bon che si sia scagliato con-
Ayre (Putzulu, 1970, pp. 28-30). In tro l’avversario
quella roccaforte aragonese furono strappandogli
costruite non soltanto fortificazioni la spada appe-
ma anche una chiesa dedicata alla SS. na persa e, reca-
Trinità e alla Beata Vergine Maria. tosi di corsa in
Dopo la caduta del castello di chiesa, abbia ferito al
Cagliari nel 1327 e la definitiva scon- collo il simulacro del-
fitta dei Pisani, il borgo aragonese di la Madonna, com-
Bonaria perse la sua funzione e piendo un sacrile-
importanza poiché i suoi abitanti si gio. La leggenda
trasferirono nella vicina città. A continua col fatto
Bonaria restarono soltanto i merce- prodigioso: pare
dari che furono sempre assistiti dai che dalla ferita sia
sovrani aragonesi e spagnoli anche sgorgato il sangue
per il ruolo che essi in seguito svolse- determinando co-
ro nel pagamento dei riscatti in favo- sì, da quel mo-
re degli schiavi resi tali dai pirati mento, il consoli-
moreschi del nord Africa. darsi di una più
Su questi avvenimenti storici, nel intensa venera-
corso degli anni, si sono innestati al- zione per quel
cuni racconti di fatti di tipo leggen- simulacro.
dario che sarebbero avvenuti nel san- Così, come è
tuario per quanto riguarda il simula- consuetudine
cro della Madonna. Un primo “mira- in questi casi,
colo” pare abbia coinciso con lo spo- il fatto mira-
polamento del borgo e il trasferi- coloso si dif-
mento dei suoi abitanti nel castello di fuse rapida-
Cagliari. A Bonaria rimasero soltanto mente tra le popo-
poche persone dedite alla pesca. Fra lazioni della zona e
queste vi era un soldato di origine di altre regioni,
italiana, particolarmente abile nel provocando l’ini-
gioco delle carte. Costui sfidò un suo zio dei pellegri-
pari ad una partita la cui regola prin- naggi al santuario
cipale imponeva l’obbligo di conti- di Bonaria, per
nuare il gioco fino alla perdita com- venerare la statua ferita.
pleta dei propri averi. Come si verifi- Tra i diversi pellegrini, vi
ca in molte tradizioni, è una costante giunsero anche alcuni
che, prima di una prova impegnativa, nobili veneziani che chiese-
il protagonista si rivolga alla divinità. ro ai frati di intercedere
Il giocatore di origine italiana, quin- presso la Madonna perché
di, prima di iniziare la sfida, si recò al donasse al Castello di
santuario della Madonna per chiede- Cagliari, dove essi sostavano
re protezione. Nello stesso tempo, durante i loro traffici, un’a-
minacciò la Madonna, dicendo che, ria più salubre, meno infet-
in caso di sconfitta, l’avrebbe ferita ta dai miasmi provenienti

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dalle vicine paludi. La tradizione tuario della Madonna di Valverde ad doveva lavorare giorno e notte
vuole che un frate chiamato Carlo Alghero sono presenti maggiori dif- senza nessun intervallo, e quando
Català abbia risposto formulando ficoltà; al riguardo mancano indagi- non ne poteva più, l’obbligavano a
una profezia che si avverò con l’arri- ni specifiche negli archivi catalani forza di bastonate a continuare a
vo prodigioso di un nuovo simulacro dove probabilmente potrebbero esi- lavorare. Era una vita d’inferno! Ma
che prese il nome di Madonna di stere indicazioni sulla sua istituzione. un giorno quando era sdraiato in
Bonaria (Satta, 2000, pp. 224). Dal punto di vista statuario ed terra tutto pieno di sangue per i
Così come si riscontra per altri iconografico, il simulacro, in terra- colpi che gli avevano dato, gli com-
santuari con specifiche varianti, nella cotta, raffigura la Vergine in trono parve un uomo bello e grande e gli
nuova storia leggendaria si racconta che tiene in braccio il Bambino che, a dice: «Non ti disperare molto perché
che, nel 1370, una nave proveniente sua volta, regge il globo terrestre. i Mori non ti potranno tenere ancora
dalla Spagna e diretta verso l’Italia Sotto un manto celeste, la Vergine per molto tempo; sta sicuro che io ti
sia stata colta improvvisamente da ha un abito di colore rosa tenue; libererò e ricordati di me». Appena
una violenta tempesta. Poiché la entrambi sono nascosti dalla tradi- che ha finito di dire queste parole,
situazione si faceva sempre più zionale veste di raso, di forma trian- quell’uomo è scomparso. Dopo que-
grave, l’equipaggio fu costretto a golare e adorna sul davanti con sto fatto, sono passati molti giorni e
gettare in mare una parte del carico, numerosi gioielli d’oro, dono dei una bella notte lo scanese, senza
tra cui una robusta cassa di legno. fedeli. sapere neppure come, si trova sulla
Contrariamente al resto dei materia- In Sardegna, l’origine della devo- spiaggia di Portotorres. Proprio nel
li, la cassa non solo rimase a galla, zione per questa Madonna risalireb- momento che arriva, gli torna a pre-
ma appena toccò l’acqua la tempesta be, secondo la tradizione, alla fine sentare quell’uomo bello e grande
si calmò. Nella speranza di recupera- del 1300 o ai primi anni del secolo che aveva visto in Costantinopoli; lo
re qualcosa, i marinai cercarono di successivo, quando un eremita bene- ferma e gli dice: «Come ti avevo pro-
raggiungere la cassa con una scialup- dettino pare abbia rinvenuto la sta- messo, ti ho liberato; io sono san
pa. Fu un tentativo vano: la cassa li tuetta sotto una colonna di granito, Costantino e ti ho liberato perché
precedeva di un miglio e sembrava nella chiesetta dell’Annunziata che voglio farmi una chiesa. Pigliati que-
dirigersi autonomamente verso la sorge nel territorio di Valverde. Nel sto sacco di denari, va a Sedilo e la
Sardegna. Anche la nave non rispon- passato, nella zona, a sette chilome- chiesa fammela sul monte Jesi, e così
deva ai comandi e sembrava attratta tri da Alghero, erano presenti nume- Sedilo resterà sempre libero da ogni
dalla cassa misteriosa. Il 25 marzo rosi romitori documentati da alcune malattia». Lo scanese gli ha dato
1370, cassa e nave approdarono nel chiesette i cui ruderi erano facilmen- retta ed ha fatto la chiesa del Santo
porto di Cagliari di fronte al conven- te visibili sino al secolo scorso. La leg- che è molto miracoloso e che, a quel-
to dei Mercedari. genda vuole che un religioso di lo che pare, gli piace a restare con i
A questo punto, si pose il proble- osservanza greco-bizantina abbia sedilesi, quantunque gli scanesi lo
ma del recupero, ma nessuno riuscì nascosto il simulacro della Madonna vogliano per conto loro»
in tale intento. La questione non si sotto una colonna, per salvarlo dalla (Bottiglioni, 1997, pp. 84-85).
risolse fino a quando un ragazzo profanazione dei pirati saraceni che Fin qui la leggenda, che presenta
fece notare, su un lato, lo stemma nel Medioevo compivano scorrerie tutti i moduli e gli stereotipi delle
dei Mercedari. Fu subito suggerito di anche nelle coste della Sardegna. Il apparizioni prodigiose di santi e divi-
chiamare i frati del vicino convento successivo rinvenimento fortuito nità. Ma al di là dei contenuti di tipo
che facilmente riuscirono a traspor- della statua fu visto come un segno mitico che caratterizzano questi rac-
tare la cassa a terra e, quindi, la apri- prodigioso e come il desiderio della conti, è probabile che qualche ricco
rono e trovarono la statua di una Madonna di ricevere un culto dalle possidente della regione abbia real-
Madonna che teneva sul braccio sini- popolazioni di quella zona. mente contribuito a costruire o ad
stro il bambino e, alla destra, una ampliare il santuario di Sedilo. In
candela accesa. 4. La tradizione dell’origine del quel medesimo contesto culturale, è
La leggenda riferisce che si tentò santuario di Sedilo, posto lungo la abbastanza probabile che, nella
di sollevare la statua con l’intento di media valle del Tirso e dedicato a zona, si siano conservate a lungo le
portarla al duomo; ma tutti i tentati- Costantino imperatore, dalle popo- tradizioni praticate, in periodo alto-
vi fallirono miseramente e i frati lazioni sarde venerato come santo, medioevale, dalle guarnigioni bizan-
decisero perciò di lasciarla in una probabilmente rimanda alla presen- tine che controllavano i guadi del
cappella poco distante dall’altare za nell’isola nell’altomedioevo di un Tirso verso la Barbagia. Le leggende
maggiore, dove già era esposto l’al- clero di osservanza greco-bizantina. di fondazione, infatti, costituiscono
tro simulacro della Madonna. A que- Come per il santuario di Bonaria la documenti molto interessanti sia
sto punto si sarebbe verificato un sua fondazione è avvolta nella leg- perché in esse spesso si riflette la sto-
altro fatto miracoloso durante la genda riportata nella narrativa ria secolare dei territori dove i san-
notte con lo scambio di posto delle popolare. Per il santuario di san tuari sono collocati, sia perché ripor-
due statue. Il simulacro della Costantino di Sedilo fu documentata tano alla memoria le ragioni e le
Madonna arrivata dal mare prese il da Gino Bottiglioni una leggenda motivazioni dell’identità specifica di
posto della Madonna patrona dei alla fine del secondo decennio del ciascuno di essi.
Mercedari. Più volte ripristinati i Novecento, poi pubblicata nel 1922 L’attestazione più antica della
simulacri nelle posizioni originarie, nella nota raccolta Leggende e tradi- presenza del culto tributato a
di notte si ripeteva sistematicamente zioni di Sardegna (testi dialettali in Costantino nell’isola è fornita da una
il prodigio. Questi fatti furono di grafia fonetica). Ecco il racconto del- pergamena del 1265 che, come rife-
seguito costantemente tramandati e l’origine del santuario a Sedilo: «Uno risce Antonio Francesco Spada,
contribuirono a diffondere la fama scanese un giorno era lavorando il attento studioso del culto costanti-
dei poteri della Madonna di Bonaria terreno, quando di colpo è stato niano in Sardegna, fu ritrovata a
(Satta, 2000, pp. 225-226). afferrato e legato dai Mori l’hanno Norbello, mentre si demoliva un
portato a Costantinopoli. Quivi in antichissimo altare (Spada, 1973, pp.
3. Per ricostruire la storia del san- Costantinopoli l’hanno fatto servo e 51-52). Nel documento si legge la

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dedica «Sancti Joannis Baptistae, XL Martirum, Sancti presagio che ebbe della vittoria con l’apparizione del sim-
Constantini, A.D.MCCLXV. Scripsit Dominus Gunarius bolo della croce.
Episcopus Sanctae Justae». In sostanza, si tratta del docu- Se questi sono i contenuti mitici dell’ardia, tuttavia,
mento di consacrazione di quell’altare dedicato a san sul piano folklorico essa esprime l’esito tramite il quale
Giovanni Battista, ai 40 martiri di Sebaste e a san quei contenuti vengono interpretati e riproposti ritual-
Costantino, avvenuta nell’anno 1265 per opera del vesco- mente dal popolo e anche dal clero che ne asseconda le
vo Gunario di Santa Giusta. Il riferimento della dedica a esigenze religiose.
san Costantino consentirebbe di ipotizzare, secondo lo Così come oggi si presenta, l’ardia ha un suo preciso
Spada, che fino a quella data e probabilmente anche rituale con regole abbastanza rigorose. I cavalieri si reca-
oltre, nonostante la forte presenza nell’isola di clero di no in drappello processionale, capeggiato dal parroco di
osservanza romana, era ancora presente la tradizione Sedilo che monta sul cavallo di san Costantino, dal paese
religiosa del clero greco-bizantino che, nei secoli prece- fino alla sommità della discesa prospiciente il santuario
denti, aveva operato nella conversione dei sardi al dalla quale parte la corsa. Nel corteo seguono, secondo
Cristianesimo e praticava il culto di san Costantino, così un preciso ordine gerarchico, il sindaco e, un po’ arretra-
come è previsto nel menologio ortodosso. ti, tre vessilliferi chiamati prima, seconda e terza bandie-
ra. Dietro costoro vengono tre scorte armate di lance. Su
5. I santuari sardi sono luoghi «del ricordo e del ritor- ciascuna di queste, nel punto di innesto con l’asta, ci sono
no», come sostiene Giulio Angioni (Angioni, 1988, p. piccoli stendardi. Le tre scorte hanno il compito di difen-
123); inoltre, sono l’espressione del rapporto tra essi e le dere i vessilli, impedendo che essi vengano sorpassati dal
persone che vi fanno riferimento. Questo rapporto si gruppo dei cavalieri che li segue e chiude il corteo. L’ardia
esprime in una storia composta da una serie di elementi: viene così guidata dal vessillifero che porta lo stendardo
la difesa e il rapporto con il mare; la richiesta di prote- detto sa pandela madzore de Santu Antine (Satta, 1982,
zione nei momenti di bisogno e di crisi. In particolare, nel p. 207).
mondo contadino del passato, le feste celebrate nei san- Nel suo complesso, il rituale dell’ardia si svolge in
tuari segnavano le pause lavorative che erano momenti varie fasi. Inizia nel cortile antistante la casa del parroco
importanti di grande apertura ai rapporti sociali; in tali che offre da bere ai cavalieri, li benedice e consegna ai
momenti festivi e di religiosità venivano elaborate ed vessilliferi e alle scorte le bandiere e le lance. Conclusa
espresse pratiche devozionali di ringraziamento e di pro- questa cerimonia, lo stesso parroco monta a cavallo e
piziazione che, in forme riplasmate alle attuali esigenze, invita i cavalieri del corteo a seguirlo, secondo l’ordine
persistono ancora. gerarchico al quale prima si è fatto cenno.
Nel santuario di san Costantino di Sedilo, si celebra Da quel momento sino allo svolgimento della corsa il
ancora oggi una festa e una corsa di audacia e abilità corteo rappresenta «la cavalleria di san Costantino» che
equestre che riescono a coinvolgere, il 6 e il 7 di luglio di inizia il suo trasferimento verso il santuario procedendo
ogni anno, non solo i sedilesi, ma una folla di migliaia di al passo lungo le vie del paese. Giunti in un punto in pros-
fedeli, di turisti, di osservatori, giunti da diversi paesi simità del santuario chiamato su frontigheddu, il parroco
sardi e da altre regioni. si rivolge ai cavalieri con un breve discorso esortandoli
In questa festa è possibile verificare un continuo pro- alla prudenza e alla lealtà. Subito dopo riprende il cam-
cesso di riplasmazione e di rifunzionalizzazione dei suoi mino verso il santuario accompagnato dal sindaco e da
significati simbolici religiosi; questo fatto determina per altre persone che tengono il morso dei due cavalli per evi-
riflesso una costante riattualizzazione del culto dedicato tare che sfuggano al controllo. Quando questo piccolo
all’imperatore santo. Dall’originaria proposta cultuale gruppo giunge alla soglia della chiesa ha inizio la corsa
elaborata dal clero greco bizantino, con le riplasmazioni (Satta, 1982, p. 208). Durante la corsa, i cavalieri cercano
e rifunzionalizzazioni avvenute nel corso dei secoli, si è di superarsi reciprocamente soprattutto in destrezza e
arrivati alle forme odierne di devozione per un santo non abilità di manovra nel condurre il destriero. In modo par-
riconosciuto come tate dalla Chiesa cattolica. Si tratta di ticolare, le scorte devono sostenere l’urto cercando di
una costante che persiste non come sopravvivenza ma respingere con le lance la pressione imposta da tutti gli
come sistema culturale vissuto concretamente dalle altri cavalieri che tentano di superare i vessilliferi. Ciò
comunità sarde; lo stesso fenomeno di costante riattua- significherebbe, infatti, la sconfitta delle insegne del
lizzazione, per esempio, si verifica per un’altra tradizione santo e, quindi, sarebbe simbolo della vittoria delle forze
che deriva dalle pratiche cultuali della tradizione greco- del male. I cavalieri quando danno inizio alla corsa,
bizantina; è la tradizione di portare il 15 di agosto in pro- secondo un ordine che rispetta precise priorità, si lancia-
cessione il simulacro della Madonna Assunta distesa su no al galoppo sfrenato dal punto più alto di una discesa
una lettiga come se dormisse o fosse defunta (Satta, e raggiungono il cortile del santuario passando attraver-
1982, p. 216; Atzori, 1988, p. 152). Si tratta della pratica so l’arco di una porta abbastanza stretta e perciò difficile
cultuale ortodossa della Koìmesis, cioè della Dormitio da imboccare a causa della forte velocità dei cavalli.
della Madonna Assunta, istituita dall’imperatore bizanti- Arrivati all’interno della corte del santuario, sempre al
no Maurizio alla fine del VI secolo, come riferisce galoppo, essi giungono alla chiesa posta sulla parte più
Niceforo Callisto. alta; vi compiono intorno sette giri, sostando e segnan-
Nella nozione di ardia è sottintesa quella di bardiare, dosi con il segno della croce ogni volta che doppiano l’in-
ovvero di proteggere, fare la guardia. E’ probabile che gresso principale dell’edificio. Quindi riprendono la corsa
questo significato dipenda anche dalla funzione di guar- verso la zona bassa della corte del santuario nella quale si
dia o scorta compiuta nel passato da cavalieri, quando si erge un recinto, chiamato sa muredda, al centro del
doveva vigilare sul santuario e controllare la zona. Tale quale si erge una piccola croce. Da questo punto i cava-
compito, successivamente, sarebbe stato demandato ai lieri ritornano nuovamente al galoppo fino alla chiesa
fedeli e circoscritto al solo recinto della chiesa. per un nuovo saluto al santo. Qui si conclude la prima
Attualmente l’ardia consiste in una corsa di tipo ritua- ardia. I cavalieri subito dopo seguono una breve funzio-
le nella quale i cavalieri, come è tradizione, simulano una ne religiosa, poi accompagnano il parroco a casa e gli
battaglia, faene finta de gherrare. Nello scontro simboli- consegnano gli stendardi e le lance. Alla conclusione
co si intende rappresentare la battaglia che Costantino della giornata, i tre vessilliferi invitano a casa il parroco e
condusse contro Massenzio a ponte Milvio a Roma e il gli altri cavalieri. Il giorno successivo, verso le sei del mat-

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tino, ci sarà una nuova ardia con un rituale simile (Satta, nella vita di tutti i giorni.
1982, p. 209). Dallo svolgimento dell’ardia, infatti, emerge una
La maggioranza dei partecipanti alla festa ancora dimostrazione concreta di come la festa riproponga gli
oggi giunge al santuario per adempiere all’obbligo di stessi rapporti di dipendenza dei giorni feriali. Come si è
una particolare promessa fatta al santo. Lo stesso cavalie- già accennato, il corteo processionale e l’ordine rituale
re che porta la pandela madzore si fa carico di guidare della corsa presentano gerarchie che riprendono simboli-
l’ardia per sciogliere un voto. camente le gerarchie sociali. Dopo le autorità e le figure
Nel caso dell’ardia e della festa di san Costantino, così importanti dell’azione rituale (sas pandelas e sas iscortas)
come avviene anche per altre feste che si svolgono nei nella sfilata vengono i subalterni, la truppa dei cavalieri;
santuari famosi dell’isola, la motivazione del voto e della questo fatto impone dei ruoli da rispettare così come si
promessa ha una sua logica contraddittoria: coesistono devono rispettare le norme comunitarie che impongono
sacro e profano nella misura in cui è presente l’esigenza le sudditanze di chi non è autorizzato ad esercitare il
di trovare nell’atmosfera e nella cerimonia religiosa una potere (Satta, 1982, pp. 210-211).
giustificazione alla festa. Tale giustificazione, inoltre, Mediante la festa e i suoi riti, dunque, le società riba-
serve ad esorcizzare le diverse crisi che, a causa della pre- discono e celebrano se stesse e le proprie rappresentazio-
carietà dell’esistenza, il singolo e la comunità incontrano ni della realtà cosmica e sociale. I rituali festivi, infatti,
senza essere capaci di risolverle con la sola forza della cul- non sono semplicemente un prodotto sociale al pari di
tura. In nome del santo, quindi, viene elaborata la stessa ogni altro fatto culturale. Sono anche un mezzo attraver-
ideologia della festa durante la quale, si è soltanto appa- so il quale gli uomini rappresentano in termini mitici il
rentemente tutti uguali. Si è nella condizione di ospiti del proprio mondo, dunque la propria concezione del tempo
santo che porta a una abolizione soltanto simbolica delle e dello spazio circolari (Buttitta, 1996, p.264; Buttitta,
barriere sociali e delle differenze tra ricchi e poveri, tra 2002, p. 217).
liberi e banditi, tra paese e paese, tra famiglia e famiglia. Le feste, quindi, sono una scansione qualificativa del
Si tratta, però, di una sorta di costruzione mitica della tempo. Sono il dispositivo simbolico con cui le diverse
comunità festiva possibile esclusivamente attraverso l’isti- società sottolineano le fasi per loro significative nell’eter-
tuto metaclassista della festa e la giustificazione religiosa no fluire dei cicli stagionali. Le azioni festive, scansioni
consentita dalla devozione al santo. Ne scaturisce così rituali che producono la realtà rappresentandola, assicu-
l’immagine di una realtà sociale fortemente livellante, rano che il ritmo naturale si ripresenti con le medesime
nella quale la sospensione delle regole del vivere quoti- caratteristiche. Esse si connotano necessariamente per
diano, in cui i conflitti sociali sono evidenti, crea soltanto una temporalità diversa dal vissuto quotidiano. Sono un
l’illusione che, nella festa, si interrompano tutte le con- tempo che si definisce per speciali comportamenti ritual-
traddizioni in virtù di una reciprocità generalizzata. mente regolati, per una diversa articolazione del corpo
Se, al contrario, si approfondisce l’analisi sui rapporti sociale rispetto alla dimensione ordinaria. In questo
sociali e sul reale aspetto delle feste, ci si accorge che i modo gli uomini dividono e distribuiscono il tempo che
partecipanti si portano dietro la propria storia e la pro- diventa fatto sociale e culturale, diventa memoria sele-
pria estrazione sociale. La festa stessa conferma, inoltre, zionata e trasmessa simbolicamente.
nella realizzazione pratica
delle gerarchie e nella frui- 6. Un altro aspetto molto importante è costituito dal
zione dell’atmosfera festi- fatto che le divinità, cui sono dedicati i santuari, si situa-
va, distinzioni che si riscon- no al centro della memoria e della potenza degli
trano identi- stessi santuari. Francesco Faeta in un interessante
c h e lavoro sui rapporti che uniscono i simulacri divi-
ni con i riti e le
feste, si
pone il
proble-
ma

Sedilo (OR), l’Ardia.


Foto di S. Ligios

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d’Italia
i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t

di verificare «come la stratificata 75), raffigurante un personaggio Riferimenti Bibliografici


complessità simbolica del sistema ico- incoronato che sta a cavallo; si tratta
Angioni G. (1988), “Santuri e sagre di campa-
nico offra uno strumento di fonda- di una rappresentazione che, intorno gne”, in G. Angioni, A. Sanna (a cura di),
zione sacrale alle dinamiche interne al secolo XVI, è stata assunta L’architettura popolare in Italia. Sardegna, Bari,
di un gruppo umano» (Faeta, 2000, come immagine dell’imperatore Laterza.
p.147). Infatti, dall’analisi dei proces- Costantino e, in Sardegna, fatta Id., Da Re M. G. (2003), Pratiche e saperi. Saggi
di antropologia, Cagliari, Cuec.
si di stratificazione simbolica che oggetto di culto negli ex voto dipinti M. Atzori, (1988), Cavalli e feste. Tradizioni
sono nelle immagini sacre si possono (Atzori, 1990, pp. 37-38). equestri della Sardegna, Sassari, L’Asfodelo.
comprendere le funzioni sociali loro Le immagini degli ex voto dei tre Id., (1990), Il Santo Cavaliere e l’Ardia. La festa
assegnate in un dato contesto. santuari, in tutti i casi, alimentano il di San Costantino a Pozzomaggiore, Sassari,
Edes.
Per quanto riguarda i tre santuari sistema della memoria rituale e, per Bottiglioni G., (1922), Leggende e tradizioni di
ai quali si è prima fatto cenno, in questo tramite, rafforzano la memo- Sardegna (testi dialettali in grafia fonetica), in
quanto luoghi in cui è forte una pra- ria comunitaria. Ciò avviene attraver- «Biblioteca dell’Archivum Romanicum», s.II,
tica votiva espressa da ex voto per so una forte interiorizzazione simbo- vol.V, Genève, Olschki; idem, (a cura di E.
Delitala), (1997), Leggende e tradizioni di
grazie ricevute, le tre divinità, le due lica della costruzione mitica creata Sardegna, Roma, Meltemi; idem, (a cura di G.
Madonne e san Costantino, sono rap- sulle immagini divine. Ricordare l’im- Lupinu), (2003), Leggende e tradizioni di
presentate, soprattutto nelle tavolet- magine e portarla con sé significa Sardegna, Nuoro, Ilisso.
te dipinte, ancora oggi esposte alle ricordare la carica mitico-simbolica Brondo A., (1595), Historia y milagros de N. S. de
Bon Ayre de la Ciutat de Caller de la isla de
pareti, secondo precisi schemi fissi: il che essa produce; significa ricordare Cerdena.
gruppo sacro è raffigurato avvolto da le testimonianze di potenza e di gra- Buttitta A., (1978a), Pasqua in Sicilia, Palermo,
un alone di luce mentre emerge da zie da essa elargite; significa ricorda- Grafindustria.
una barriera di nubi spesso oscure, re la festa e il pellegrinaggio compiu- Id., (1978b), Gli ex voto di Altavilla Milicia,
Palermo, Sellerio.
dalla quale si diffondono raggi lumi- to al santuario; significa, infine, rico- Id., (1996), Dei segni e dei miti. Una introduzio-
nosi. Nel santuario di Bonaria, il noscersi attorno ad essa in gruppi via ne alla antropologia simbolica, Sellerio,
gruppo della Madonna con il via più allargati, come sostiene a Palermo;
Bambino è raffigurato secondo lo questo riguardo Francesco Faeta: Id., (1997), “Di Carnevale o del tempo delle
feste come feste del tempo”, in F. Castelli, P.
stereotipo fornito dalla tradizione: la «L’intera attività di costruzione dell’i- Grimaldi, (a cura di), Maschere e corpi. Tempi e
Vergine regge il Bambino sul braccio dentità comunitaria ha al suo centro luoghi del Carnevale, Roma, Meltemi, pp. 47-60
sinistro, mentre con la destra tiene simulacri e immagini, transitati all’in- Buttitta I.E., (2002), La memoria lunga. Simboli e
una piccola imbarcazione a vela. Si terno di una dimensione straordina- riti della religiosità tradizionale, Roma,
Meltemi.
tratta di un particolare importante ria che ha il compito di animarli e Cirese A. M., (1977), Oggetti, segni, musei. Sulle
che fa risalire al tipo di specializza- dotarli di una carica simbolica coagu- tradizioni contadine, Torino, Einaudi.
zione della Vergine, considerata pro- lante» (Faeta, 2000, p. 160). Id., (1997), Dislivelli di cultura e altri discorsi
tettrice dei naviganti. Alcune volte, Nell’elaborazione mitico-simbolica, il inattuali, Roma, Meltemi.
Clemente P., (1987), La ricerca della grazia.
essa regge una candela accesa, pro- simulacro diviene pienamente poten- Tutela pubblica e comprensione intellettuale
prio come narra una delle tante ver- te e operante al momento della rive- degli ex voto, in AA.VV., Pittura votiva e stampe
sioni della leggenda del suo ritrova- lazione rituale del mito che rappre- popolari, Milano, Electa
mento (Satta, 1994, p. 219). In altri senta e che viene enfatizzato duran- Cousin B., (1979), L’ex-voto. Document d’histoi-
re, expression d’une societé, in <<Archives des
esempi la Vergine è accompagnata te la festa. (Faeta, 2000, p. 152). In Sciences Sociales des Religions>>, XXIV, n. 48,
da altri personaggi, alcuni dei quali tale quadro, infatti, ogni immagine, pp. 107-124.
sembrerebbero avere l’ unica funzio- nella credenza popolare, costituisce Delumeau J., (1989), Rassurer et protéger, Paris,
ne di aumentare il numero delle divi- la rivelazione di un particolare inter- Librairie A. Fayard, trad. it. (1992), Rassicurare e
proteggere, Milano, Rizzoli.
nità e, quindi, delle probabilità di vento divino sul quale si fonda la Faeta F., (2000), “Per signa ad signata. Festa,
grazia. Nel caso del santuario di complessa invenzione mitica. immagine, poteri”, in AA.VV., (a cura di I.E.
Valverde la Madonna si distingue per Le due Madonne e san Buttitta, R. Perticone), La forza dei simboli.
altre particolarità; per esempio, Costantino, i relativi rituali e feste Studi sulla religiosità popolare, Palermo,
Folkstudio.
indossa un abito di forma triangolare che annualmente ripropongono i rac- Leroi-Gourhan A., (1965), Le geste et la parole.
ornato da due croci laterali e da una conti di fondazione dei santuari e dei La mémoire et les rythmes, Paris, ed. Albin
centrale sormontata da un cerchio fatti prodigiosi che ne istituirono le Michel, vol. secondo; trad. it. (1977), Il gesto e la
che è simbolo della perfezione divi- tradizioni, sul piano operativo costi- parola. La memoria e i ritmi, Torino Einaudi, vol.
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all’interno di un cerchio ovale sono superamento delle incertezze e dei culto alla Vergine del Mare”, in AA.VV., Nostra
raffigurati i simboli della maternità. rischi che incombono costantemente Signora di Bonaria, Cagliari, Industrie Grafiche
L’immagine riproduce il Bambino e che, di fatto, rendono la vita incer- Editoriali Sarde, pp.28-31.
Pinna T., (1987), Sant’Efisio, in AA. VV., Sagre,
Gesù nudo e seduto, mentre con la ta e precaria. riti e feste popolari in Sardegna, Cagliari, Janus.
mano destra regge una croce, in una Satta M.M., (1982), Riso e pianto nella cultura
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Per quanto riguarda le riprodu- Massimo Pittau, Sassari, Università degli Studi,
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d’Italia
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1. Fra le regioni italiane lettuali e amministratori


la Sardegna forse è quella regionali, insieme alle istan-
che ancora oggi possiede il ze del “Piano di Rinascita
più vasto e variegato patri- della Sardegna”, individua-
monio di abbigliamento rono e affrontarono il pro-
tradizionale. Numerose blema della conservazione
comunità, infatti, conserva- del patrimonio culturale
no i costumi festivi tradizio- dell’isola e delle sue possibi-
nali che tuttora vengono lità d’impiego quale ele-
indossati soprattutto in mento di attrazione in
occasione di sagre ed esibi- campo turistico.
zioni spettacolari di tipo Con questa scelta di po-
forkloristico. litica culturale, caratterizza-
Al di là delle critiche, ta da una forte esigenza
spesso avanzate dai “puri- identitaria che affondava le

L’abbigliamento Luigi Scalas


sti” del folklore, sulla validi- proprie istanze nelle riven-
tà e genuinità di tali esibi- dicazioni autonomistiche
zioni, in Sardegna è possibi- agitate fin dalla conclusio-
le verificare, che con le ne della prima guerra mon-
grandi sagre, a partire della diale con la fondazione del
meta del XVII secolo - per Partito Sardo d’Azione, so-
esempio, la sagra di no stati salvaguardati dai
Sant’Efisio a Cagliari (Satta, travolgimenti del sistema
1982, pp. 145-170) - hanno moderno non solo i prodot-
inizio, dalla fine ti di numerosi settori del-
dell’Ottocento, le esibizioni l’artigianato domestico e
e gli spettacoli folkloristici: dei mestieri, ma anche gli
per esempio, lo spettacolo abiti tradizionali, emblemi
di «costumi sardi» organiz- distintivi delle diverse co-
zato a Sassari il 18 aprile munità paesane, che rien-
1899 in onore del re Uberto trano, come è noto, nelle
e della regina Margherita competenze del comparto
(Costa, 1909, v. II, t. II, p. tessile.
136; Atzori, 1988, p. 57); A questo riguardo è op-
questi esempi hanno avuto, portuna subito una rapida
di fatto, una funzione riflessione a proposito degli
importante sia, in generale, abbigliamenti tradizionali.
per la tutela delle tradizioni E’ necessario chiarire che es-
popolari, sia, nello specifi- si sono, in quanto apparati
co, per la conservazione simbolici identitari, segni di
delle fogge e delle caratte- comunicazione con funzioni
ristiche degli abiti tradizio- sociali complesse, che ab-
nali dei diversi paesi dell’i- bracciano quelle di genere,
sola. In particolare, per di censo e di distinzione co-
quanto riguarda gli ultimi munitaria, oltre, natural-
tempi, a partire dalla fine mente, ad esprimere signifi-
della seconda guerra mon- cati e valenze di tipo esteti-
diale, in concomitanza con co connessi a tali funzioni.
il diffondersi dei modelli In pratica, gli abiti in tutti i
dell’economia di mercato e contesti culturali presenta-
col conseguente rischio di no funzioni semiologiche;
perdita delle specificità finalizzate, dunque, alla co-
locali, alcuni giovani intel- municazione.

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In primo luogo, a coloro che li Infatti, è da questa realtà oggettiva permetteva di sparare soltanto ai sol-
indossano comunicano il senso di che partono le diverse tradizioni di dati che vestivano con i colori dei
appartenenza rispetto ad un certo abbigliamenti popolari, tra le quali si nemici. Le divise degli eserciti, in
gruppo e/o comunità; secondaria- collocano anche quelle dei paesi quanto unificavano tutti con un
mente, comunicano agli osservatori della Sardegna che, allo stato attua- unico colore, al fine di stabilire le
la diversità identitaria di chi li indos- le, costituiscono l’esito di un lungo gerarchie di comando richiesero l’im-
sa (Atzori, 1997, pp. 120-129). processo che è sempre in costante piego di speciali fregi e decorazioni
Pertanto, il fatto che gli abiti tradi- trasformazione. per segnare i gradi. E’ probabile che
zionali vengano oggi indossati Fino all’ultima guerra mondiale, tali fregi abbiano costituito un
soprattutto in occasioni spettacolari tuttavia, tali trasformazioni sono modello per decorazioni dell’abbi-
di tipo rituale e festivo non deve avvenute molto lentamente rispetto gliamento civile sia maschile che fem-
scandalizzare i cosiddetti “puristi” all’attuale accelerazione indotta minile.
del folklore, che tendono a conside- dalla rapidità dei cambiamenti dell’o- Questa situazione storico-cultura-
rare il patrimonio folklorico come un dierno sistema economico. Questo le suntuaria generale ha sicuramente
dato che dovrebbe riproporsi unica- fatto ha determinato che, nel passa- costituito lo sfondo intorno al quale,
nel Seicento, hanno
cominciato a prende-

tradizionale
re forma i costumi
della tradizione
popolare che ancora
oggi caratterizza
l’abbigliamento
maschile e femminile
di numerosi paesi
della Sardegna. I
modelli dai quali
prendere spunti per
mente nel rispetto delle forme e del to fino agli anni ’40 del Novecento, i inventare il proprio costume erano
contesto che l’hanno visto nascere. ceti popolari rurali e dei sobborghi gli abiti della nobiltà spagnola e le
I fenomeni culturali, come è noto, urbani, durante la loro esistenza, rea- divise dei soldati che, in quel tempo,
sono dinamici, e quindi, oggigiorno lizzassero due fondamentali tipolo- presidiavano le diverse postazioni
l’abbigliamento tradizionale si collo- gie di abiti, una per i giorni feriali e militari dell’isola. Nel processo di
ca e si rifunzionalizza in base alle l’altra per le feste, fra le quali il reinvenzione venivano plagiate sol-
attuali esigenze, conservando, tutta- matrimonio era una delle più impor- tanto certe fogge e certi colori, men-
via, le originarie funzioni segniche. tanti. Nel corredo degli abiti femmi- tre venivano enfatizzati le decorazio-
nili, inoltre, era consuetudine e dove- ni e fregi con ricami in filigrana, in
2. In tutte le culture, nei diversi roso disporre dell’abito del lutto, quanto, soprattutto negli abiti fem-
momenti storici, poiché gli uomini considerato anche come abito vedo- minili, quest’ultima era segno di ric-
nascono nudi, gli abiti servono non vile. Nella storia delle tradizioni sun- chezza, espressa in una realtà sociale
solo a ripararsi e difendersi da condi- tuarie europee, infine, si deve tenere all’interno della quale, ai ceti popola-
zioni climatiche avverse, ma anche, in giusto conto il fatto che il ri, per divieto sancito da speciali leggi
come si è prima accennato, a caratte- Rinascimento ha segnato una svolta suntuarie emanate dal re di Spagna,
rizzarsi identitariamente, in quanto importante per quanto riguarda la era proibito, sino alla fine del XVII
gli stessi abiti costituiscono segni ricchezza dei tessuti e delle fogge, secolo, portare in pubblico gioielli.
distintivi di appartenenza di genere, rispetto alla rigidità e alla semplicità
di censo, di status, di ruolo sociale e del periodo medievale, durante il 3. In Sardegna, il diffondersi, nelle
di gruppo etnico. Non a caso per age- quale, come si può verificare nei diverse comunità, di abiti particolari
volare la classificazione sociale e le dipinti dell’epoca, gli abiti sia dei indossati soprattutto in occasioni
distinzioni dei rapporti di parentela, nobili, sia dei popolani erano costi- festive, si afferma a partire dal
nelle società arcaiche del passato, i tuiti, in gran parte, da semplici tuni- Settecento, quando con il decadere
maschi vestivano in modo diverso che, casacche, grembiuli e mantelli della nobiltà spagnola assenteista
dalle donne, i monarchi e capi indos- con cappucci. Inoltre, sarà il gusto emergono nuovi ceti sociali che
savano abiti e ornamenti distintivi barocco del Seicento ad aggiungere ormai possiedono ingenti ricchezze
rispetto a quelli usati dai sudditi. colori sgargianti, fregi e fronzoli. In e, in particolare, hanno disponibilità
Nello stesso modo, un popolo si quello stesso contesto culturale e monetarie per acquistare, fuori dell’i-
distingue ancora oggi da un altro sociale, fra l’altro, gli eserciti delle sola, stoffe preziose, come damaschi,
non solo perché parla una particolare gradi potenze, fra le quali Francia, tessuti in lana pettinata, velluti di
lingua, ma anche perché adotta segni Spagna e Inghilterra adottavano le vari colori, filigrane e decori fine-
come stemmi, bandiere, divise e divise, in conseguenza del diffonder- mente ricamati da impiegare nella
ornamenti diversi. Da sempre, quindi, si dell’uso delle armi da fuoco con le realizzazione soprattutto degli abiti
è «l’abito che fa il monaco» e non il quali gli scontri bellici avvenivano a festivi femminili. In pratica, tra la fine
contrario; cioè, quando si è monaci si distanza ed era necessario distingue del Seicento e la prima metà del
deve indossare quel particolare abito le truppe amiche da quelle avversa- Settecento, con il diffondersi di un
che ne caratterizza la funzione, ne rie: fatto, questo, possibile grazie alla maggior benessere in conseguenza di
stabilisce lo status e il ruolo sociale. diversa colorazione delle divise che un maggior sviluppo agricolo, in

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seguito all’affermarsi nei mercati nazionali, con l’econo- per quelli festivi. I costumi che attualmente vengono
mia fisiocratica del periodo, dei cereali prodotti nell’isola, ancora indossati, nelle occasioni a cui si è prima fatto
le popolazioni dei paesi della Sardegna furono in condi- cenno, sono gli abiti festivi. Essi vengono genericamente
zione di migliorare il proprio abbigliamento, realizzando definiti come «costumi popolari» secondo una definizione
nuove fogge con l’impiego per le decorazioni di stoffe tes- di tipo romantico, derivata dall’Ottocento quando si
sute fuori. distingueva il «popolare» dal «borghese» e soprattutto
Il tessuto base dell’abbigliamento tradizionale dei dall’«aristocratico», essendo entrambi questi ultimi consi-
sardi, come è noto, è l’orbace realizzato con la lana di derati come artificiosi e non spontanei così come, invece,

pecora sarda, che ha un vello abbastanza duro e, quindi, si riteneva fosse il «popolare». A questo riguardo è oppor-
produce stoffe molto ruvide, anche quando i punti di tuno ricordare che, nelle interpretazioni romantiche, si
intreccio sono fitti. La struttura di base sulla quale sono riteneva che l’«anima popolare» fosse sorgente di sponta-
realizzati i costumi maschili e femminili delle comunità neità e di originalità, così come si credeva che il senti-
sarde, in genere, è proprio l’orbace. Con questo tessuto e mento fosse la fonte della vera poesia e delle espressioni
il lino, nel passato prodotto artigianalmente nella mag- artistiche più originali.
gior parte delle famiglie sarde, si realizzavano i capi del Attualmente nelle comunità sarde si hanno costumi
vestiario maschile e femminile, sia per i giorni feriali, sia maschili e femminili da tempo considerati e definiti come

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abbigliamento popolare tradizionale che con le particola-


ri fogge, colori e decori caratterizzano, definiscono e 4. Gli abiti popolari delle comunità sarde, così come
distinguono i singoli diversi paesi anche se, in alcuni casi, avviene nelle altre regioni, sono ovviamente distinti per
nelle aree limitrofe si possano riscontrare colori e alcuni genere oltre che, come si è già accennato, per funzioni
capi abbastanza simili. Si deve precisare subito che un d’uso, cioè, abbigliamenti dei giorni feriali e quelli dei
certo numero di questi costumi, in possesso attualmente giorni di festa. Questi ultimi sono quelli che attualmente
soprattutto di famiglie di origine agro-pastorale, in parti- sono riconosciuti come costumi tradizionali e che, come si
colare quelli del corredo femminile, sono stati realizzati è già precisato, sono ancora vitali, sebbene il loro utilizzo
sia riservato a specifiche occasioni.
Per quanto riguarda il costume maschile la documen-
Costumi del tazione etnografica attuale, al di là delle descrizioni ap-
secolo XIX. prossimative e delle documentazioni pittoriche dei viag-
collezione Pilloni giatori che visitarono la Sardegna durante l’Ottocento, i
diversi capi sono abbastanza costanti e simili fra le diver-
se comunità dell’isola, anche se in certi casi cambiano i co-
lori e le decorazioni di alcuni indumenti.
In quasi tutti i paesi, per esempio, eccetto a Teulada
dove si usa un cappello a falde larghe di colore grigio, a
Santa Teresa di Gallura dove si calza un basco alla france-
se con al centro un pomo rosso e nei costumi dei cavalieri
“miliziani” viene usato una sorta di fetz alto di colore
rosso, il copricapo più diffuso è quello a sacco con gli
angoli arrotondati detto berretta.
Si tratta di un copricapo, in panno oppure in orbace
nero o rosso a seconda della comunità, abbastanza diffu-
so nell’area mediterranea. Sempre in base alle diverse
scelte suntuarie dei diversi paesi veniva calzato ripiegato
in avanti, all’indietro o raccolto al vertice su tre cerchi con-
centrici.
La camicia ancora oggi è realizzata in lino. È molto
ampia, ha alcune increspature alla connessione con il col-
letto alla coreana, cioè, formato da una sola striscia di
stoffa alta circa cinque centimetri con sul davanti aperta e
con due occhielli per passarvi i bottoni. Dal colletto prose-
gue poi fino all’altezza dello sterno un’apertura spesso
decorata con bordi e ricami. Questo genere di camicia,
inoltre, non è mai troppo lunga; di solito arriva appena un
po’ più in basso della vita e ha maniche ampie e increspa-
te a sbuffi sugli attacchi delle spalle.
Sulla camicia viene indossato un corpetto (cosso) che,
in alcune fogge, è molto aderente e non va oltre la vita;
inoltre, è privo di maniche. Sul davanti, di solito, è chiuso
con il sistema a doppio petto a lembi sovrapposti. E’ spes-
so realizzato con stoffe di lana, di velluto e di broccato
nella parte anteriore; invece, in quella posteriore, vengo-
no impiegate stoffe di minore pregio. I colori costanti
sono il nero, il granato, il blu marino e il rosso vermiglio;
i damaschi hanno motivi floreali con dominanti dorate.
A proposito delle particolarità dei colori e delle deco-
razioni presenti negli abiti delle diverse comunità, fin
d’ora si deve precisare che ogni paese ha un suo costume
con caratteristiche peculiari e singolari, tanto che è diffici-
le individuare e descrivere caratteristiche decorative uni-
che o simili per tutte le località. Si possono soltanto indi-
care elementi generali e d’insieme. Pertanto, in questa
sede, si è costretti tralasciare le specificità dei costumi dei
singoli paesi. Fra l’altro, si deve prendere atto della circo-
nell’Ottocento. Diversi capi dell’abito femminile da festa, stanza che è complesso stabilire gli elementi decorativi
nel passato usato per il matrimonio, venivano trasmessi in costanti soprattutto per gli abiti femminili. Per essi si pos-
eredità da madre in figlia. Questo fatto ne ha determina- sono indicare soltanto i capi, le fogge e le tipologie cro-
to una certa conservazione degli elementi estetici più matiche delle diverse zone dell’isola; le decorazioni dei
significativi, anche se con il sopraggiungere di nuove diversi costumi sono soggette, tra un paese e l’altro, ad
mode e soprattutto della disponibilità di nuove stoffe è innumerevoli variabili individuabili soprattutto per diver-
capitato che si siano sovrapposti nuovi decori e ornamen- sità e differenze.
ti. Nel costume maschile sopra il corpetto, in alcune zone,

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si indossa un giubbetto (corittu) con nel retro un ampio spacco per con- è presente, il colletto è solitamente
maniche, solitamente realizzato in sentire di montare facilmente a caval- alla coreana, formato anche, in que-
panno pregiato. Le maniche, in certi lo. Si ha poi una sorta di giaccone sto caso, da una striscia di stoffa fine-
casi, sono aderenti, in altri, invece, (gabbanella) anch’esso in orbace nero mente ricamata. Spesso, nei bordi del
sono ampie e aperte sul retro all’al- con sul colletto un cappuccio. Questo colletto, si aggiunge un ornamento in
tezza dei gomiti e degli avambracci. I indumento, in alcuni casi, ha la fode- pizzo di varia larghezza. In numerosi
colori dominanti sono il nero e il ra rossa realizzata con velluto o altre paesi, nelle comunità meridionali, al
rosso. Le parti anteriori possono esse- stoffe. posto del colletto è presente un’am-
re ricamate e variamente guarnite, Il terzo capo d’abbigliamento è pia scollatura, anche in questo caso
inoltre possono riunirsi con lobi e una sorta di mantellina in pelle detta spesso guarnita di pizzo. Poiché in
baveri a doppio petto. collettu, impiegato soprattutto dai certi costumi la scollatura è molto
Anche per questo indumento si cavalieri nell’area oristanese e caglia- ampia, al fine di evitare un’esposizio-
deve ribadire che sono presenti ritano. Infine, chiude la serie la ne eccessiva della parte superiore del
parecchie varietà che contraddistin- mastruca, stapeddi: un lungo soprabi- seno, sul davanti viene fatto pendere,
guono i diversi paesi. to di solito senza maniche, realizzato fissandolo con spille, un fazzoletto
Sui fianchi viene sorretto un corto con pelli di pecora, il cui vello è all’e- (parapettu oppure, muncadori mac-
gonnellino (ragas, arroda) di orbace sterno affinché risulti impermeabile e caloru ‘e coddos) che, in certi casi,
nero che si allarga a ventaglio; è ripari dalle intemperie più avverse e può essere anche ripiegato a triango-
molto corto e supera la zona inferio- rigide. E’ il cappotto usato soprattut- lo.
re delle natiche. In alcuni casi, l’orlo to dai pastori nei periodi invernali ed Sulla camicia viene indossato il
basso può essere guarnito con velluto è piuttosto un abbigliamento da lavo- corsetto che, per esempio, in area
rosso. La parte anteriore e quella ro; soltanto recentemente viene logudorese è una sorta di busto a
posteriore sono unite fra loro da una indossato in alcune manifestazioni struttura rigida che serve a temere
striscia larga circa dieci centimetri nelle quali si intende rappresentare la ben sagomata e stretta la parte
(latranga, spacca troddiu) che costi- realtà pastorale. posteriore del busto, rispetto a quella
tuisce una sorta di cinta di sottogam- anteriore, sulla quale si strige un lac-
ba. 5. Si è prima accennato che la cio passante attraverso un certo
Dopo il gonnellino (ragas, arroda) descrizione dei costumi femminili è numero si occhielli. Sul retro le due
vengono indossati i pantaloni realiz- molto più complessa a causa delle parti sono unite da un nastro di seta,
zati in lino oppure, nei paesi montani, eccessive varianti di indumenti pre- incrociato a spina di pesce, di vario
in orbace bianco. Essi hanno una fog- senti nei modelli delle diverse comu- colore. In genere, l’indumento è con-
gia molto larga e la lunghezza non nità. In tutti i casi, tuttavia, si può ten- fezionato in broccato chiaro, con
supera il polpaccio; in alcuni costumi tare di proporre uno stereotipo molto decorazioni floreali policrome e tal-
vengono lasciati cadere liberi, in altri, generale e comune a tutti i paesi. volta dorate. Nella storia suntuaria
invece, le estremità inferiori sono fer- Nell’abbigliamento femminile i europea questo genere di indumento
mati da speciali gambali in orbace copricapo più diffusi, talvolta fermati trova riscontro con una certa fre-
(uose) che fasciano le gambe e pog- e posti in modo particolare, sono quenza nell’abbigliamento femminile
giano sulle scarpe. ampi fazzoletti, scialli e veli finemen- rinascimentale; è probabile, però, che
Per quanto riguarda il gonnellino te ricamati o realizzati con il sistema a abbia origine in area mediorientale,
(ragas, arroda) con il relativo sotto- filet. Essi possono essere bianchi o di ove è dato trovare indumenti simili
gamba (latranga, spacca troddiu) si svariati colori, in stoffe pregiate come con le medesime funzioni.
può sottolineare che l’indumento è seta e velluto, sulle quali risaltano Si deve precisare che il busto viene
presente anche in altri costumi dell’a- ricami floreali realizzati a pieno e a usato soprattutto nei paesi della
rea mediterranea, in particolare nel giorno. Sardegna settentrionale; in un certo
nord Africa e in alcuni paesi balcanici. In quanto è varia la postura e la numero di comunità meridionali del-
I motivi di questa diffusione, così tipologia del copricapo femminile, l’isola viene impiegato un corpetto
come, probabilmente, di quella dei che, come si è già detto si differenzia morbido senza maniche e abbastanza
copricapo a sacco e a fetz, andrebbe- a seconda del paese, è altrettanto corto, tanto che non giunge neppure
ro ricercati nei reciproci influssi cultu- varia la relativa nomenclatura; il alla vita e sul davanti presenta un’am-
rali che storicamente si sono verificati nome più diffuso, tuttavia, è quello pia scollatura con i lembi uniti da un
tra le culture del Mediterraneo, del fazzoletto, muccadore/muncadori. gancio o da un apposito bottone,
anche se si deve tenere presente che Così come si è visto per il costume oppure da nastri.
un’indagine di questo genere avreb- maschile, anche per quel che riguarda In area nuorese il busto e il corset-
be una valenza esclusivamente evolu- l’abito femminile la camicia è il capo to possono essere sostituiti da una
zionistica e diffusionistica e non di vestiario che viene considerato fascia sorretta da spalline; questa
aggiungerebbe niente ad un’indagi- prima di altri indumenti. Anche in fascia avvolge la schiena e sul davanti
ne antropologica volta a cogliere questo caso è confezionata in lino, si chiude sotto il seno tramite un siste-
soprattutto dati ed elementi socio- che nel passato veniva coltivato e tes- ma a gancio.
strutturali e funzionali di fatti cultu- suto in famiglia. Per quanto riguarda Per completare la parte superiore
rali come sono i costumi tradizionali. la confezione varia parecchio da zona del costume femminile si indossa un
Al costume di base si devono a zona; tuttavia, come foggia di base giubbetto (corittu -logudorese-, zip-
aggiungere quattro diversi tipi di si tratta di una camicia molto ampia e pone –nuorese-, gippone – campida-
soprabito: il cappotto (gabbanu) in lunga; ha fitte increspature al collo, nese-); si tratta di una giacca molto
orbace nero con sul colletto un cap- agli attacchi delle maniche e dei polsi. corta e aperta sul davanti con la fun-
puccio e le falde fino alle caviglie, con Come nella camicia maschile, quando zione di evidenziare la parte ricamata

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della camicia. Ha maniche lunghe e aderenti; in alcuni Nella parte anteriore, allacciato in vita da appositi
modelli il giubbetto ha lunghe aperture sul braccio e l’a- nastri il grembiule (farditta – panneddu – fallita – ginta –
vambraccio affinché possano fuoriuscire gli sbuffi delle cameddu – panniaranti – franda) è un capo abbastanza
maniche della camicia. importante del costume femminile poiché lo completa in
Le stoffe impiegate per la realizzazione dell’indumen- base al colore, ai ricami e alla tipo di stoffa con la quale
to sono diverse e si differenziano a seconda del paese; viene realizzato: in genere, nei paesi posti lungo la costa
tuttavia nella maggioranza dei casi si usa il velluto e altri si usano le sete e i damaschi, in quelli interni vengono
tipi di panno pregiato, sui quali vengono realizzati ricami impiegati panni pesanti, tra i quali l’orbace. Sempre sulla
e applicati fregi in filigrana e altre decorazioni con dama- base delle diverse fogge adottate nei diversi paesi si
schi e altre stoffe di valore. hanno modelli con forme differenti; quella arrotondata
Nell’abbigliamento femminile la gonna costituisce verso la parte bassa del grembiule è la più diffusa, anche
sicuramente uno dei capi del vestiario tradizionale nel se, in alcune comunità, vengono usati quelli di forma
quale le diverse comunità esprimono diversi segni deco- triangolare e trapezoidale. Anche le dimensioni variano:
rativi significanti i propri caratteri identitari; in alcuni per esempio, un modello può avere la stessa lunghezza
casi, infatti, le gonne possono rappresentare quasi dei della gonna, oppure può essere molto corto e stretto.
vessilli distintivi del paese di appartenenza. Questa varie- Anche nel grembiule, così come capita per gli altri capi di
gata differenziazione delle decorazioni e dei ricami che si vestiario, si verifica una sorta di specificazione identitaria,
applicano alle gonne, pertanto, consente di tentare, in in base alla quale ogni comunità costruisce con il costume
questa sede, solo alcune classificazioni molto generali. il distintivo della propria identità paesana e, quindi,
Infatti, soltanto singole schede descrittive sul costume di anche la propria specificità culturale, tramite la quale
ogni comunità potrebbero offrire, in apposite pubblica- intende distinguersi da quella delle altre comunità vicine
zioni, informazioni complete e precise sui dettagli che e/o distanti dal proprio orizzonte geografico e culturale.
caratterizzano gli abiti femminili tradizionali sardi.
Nei paesi delle regioni settentrionali dell’isola la 6. In conclusione, il dato fondamentale che si rileva
gonna è composta da una parte anteriore leggermente nella constatazione della molteplicità dei modelli, dei
increspata, mentre quella posteriore è più ampia e fitta- decori e delle fogge dell’abbigliamento tradizionale è il
mente pieghettata. In altre zone, invece, ha meno pieghe fatto che tale varietà costituisce un aspetto positivo, pro-
e risulta più lineare, anche se è sempre ampia e poggia prio in virtù delle diversità che essa produce, unitamente
sui fianchi allargandoli rispetto alla vita. In tutti i model- alla ricchezza di esiti che ne derivano.
li, però, è sempre molto lunga e giunge all’altezza del Ogni costume esprime un’identità particolare e, in
malleolo, lasciando scoperta la scarpa. In vita e sui fian- quanto tale, rimanda ad uno specifico contesto sociocul-
chi, quando il tessuto è molto pesante, viene realizzata turale. Ciò significa che le identità culturali sono storica-
una fascia di rinforzo. mente “costruite” (Paulis, 2006) e rappresentano entità
Le balze sia superiori che inferiori sono delle constan- dinamiche. Analogamente l’abbigliamento tradizionale,
ti nelle gonne; nei diversi costumi costituiscono degli tra i più efficaci marcatori identitari, dovrà essere consi-
ornamenti specifici. Possono essere di dimensioni diverse, derato quale realtà in fieri. Se così non fosse, i costumi
da pochi centimetri fino a ricoprire quasi la metà dell’in- tradizionali sardi non costituirebbero più un dato ancora
dumento. Il tessuto impiegato, in genere, è broccato e antropologicamente vissuto e vitale, ma un mero reperto
seta di colori diversi, altre volte viene impiegato anche il archeologico da museo.
velluto; in tutti i casi, però, sono frequenti ricami e deco-
razioni in filigrana che riprendono motivi a greche e a
strisce simili a quelli dei galloni delle divise militari. In
alcuni casi, come ad Orgosolo, quando il tessuto della
gonna è a sfondo monocromatico il grembiule presenta
motivi floreali stilizzati particolarmente interessanti sul
piano estetico. In alcuni centri della Barbagia il tessuto
impiegato per la gonna è l’orbace molto fitto; i colori
dominanti sono il rosso, il marrone, il blu, il nero e il gial-
lo; in alcuni viene impiegato anche il verde oliva e l’az-
zurro turchese.
Nelle aree in prossimità delle coste viene usato il
panno di lana nero e rosso che è di importazione; nelle
comunità del Sulcis, tuttavia, sono impiegate stoffe leg-
gere come il raso e la seta. Questo differente utilizzo di Riferimenti Bibliografici
stoffe più o meno pesanti per la realizzazione della
gonna è determinato non solo da motivi climatici, ma Atzori M. (1988), Cavalli e feste. Tradizioni equestri della
soprattutto dal fatto che, nei paesi rivieraschi e comun- Sardegna, L’Asfodelo Editore, Sassari.
que con temperature più miti, nel passato quando sono Atzori M. (1997), Tradizioni popolari della Sardegna.
stati elaborati gli attuali costumi, è stato possibile Identità e beni culturali, Edes, Sassari.
approvvigionarsi più facilmente di stoffe leggere prove- Costa E. (1909), Sassari. Cronistoria dalle origini al 1884,
nienti da mercati esterni. Vol. II, Tom. IV, Sassari.
Le balze non sono le uniche guarnizioni che ornano le Paulis S. (2006), La costruzione dell’identità. Per un’anali-
gonne; in diversi casi vengono applicate trine che arric- si antropologica della narrativa in Sardegna fra ‘800 e
chiscono di variazioni cromatiche i colori di fondo del tes- ‘900, Edes, Sassari
suto con il quale è realizzato l’indumento. Satta M.M. (1982), Riso e pianto nella cultura popolare.

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Maschere

Mamuthones
(Mamoiada )
Foto M. Lastretti

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di carnevale
in
Sardegna
Maria Carmela Deidda

1. I significati e le relative espressioni simboliche strutturalmente simili si riscontrano anche in ambi-


delle maschere sono numerose; sull’argomento esi- to africano, sebbene nella maggioranza dei casi le
ste una vasta letteratura. Diversi sono anche gli uti- maschere rientrino nel quadro dei culti e cerimonie
lizzi della maschera, sia nel campo religioso che in per le divinità. A questo proposito sono esempi le
quello profano. Come è noto, nell’antichità, le maschere dei Dogon, documentate da Marcel
maschere venivano utilizzate nei rituali celebrati in Griaule nel 1938 a seguito della famosa missione
onore delle divinità. A seconda dei culti esse aveva- etnografica Dakar Gibuti (Griaule, 1938). Si tratta di
no sembianze antropomorfe oppure zoomorfe; raffigurazioni che riproducono determinate divinità
nella realtà culturale del mondo classico, per esem- del Pantheon di quella popolazione.
pio, sono significative le diverse raffigurazioni di Da quanto fin qui si è sintetizzato, si può ricava-
Dioniso in Grecia e Bacco a Roma, dove le maschere re che le funzioni sociali e simboliche delle masche-
di Marzio e Lupeco esprimono significati simbolici re rientrano nel complesso processo di trasfigura-
connessi alle antiche tradizioni religiose. zione, camuffamento e misconoscimento che gli
Dall’ambito religioso rivolto verso le divinità ura- uomini adottano, soprattutto nel campo religioso,
niche o celesti, le maschere vengono trasferite per esprimere e definire realtà e situazioni che non
anche alle divinità ctonie o sotterrane e da tale con- colgono in pieno sul piano razionale o che ritengo-
testo impiegate nei riti funebri, allo scopo di esor- no sostanzialmente sconosciute e, quindi, rappre-
cizzare le paure del cosiddetto «regno dei morti» e sentabili tramite un’elaborazione fantastica: le ico-
il rischio che questi ritornino in forme aggressive nografie statuarie e pittoriche delle divinità ne
verso i vivi (De Martino, 1958, pp. 103-109). Dalla costituiscono i presupposti. Da qui il trasferimento
trasfigurazione simbolica specifica del campo reli- alle maschere adottato dal corpo sacerdotale, così
gioso, derivante dall’orizzonte del sacro, in tutti i come quello impiegato dagli attori nel teatro fino a
contesti culturali, le maschere sono diventate anche giungere alle trasfigurazioni praticate, tramite le
elementi essenziali delle trasfigurazioni nelle rap- maschere dalle popolazioni in occasioni di feste
presentazioni teatrali, nella misura in cui queste calendariali importanti, come sono i capodanni di
sono derivate dalle ritualità liturgiche proprie dei tipo carnevalesco, nelle quali è necessario capovol-
riti religiosi connessi ai diversi culti rivolti alle divini- gere simbolicamente, con il camuffamento delle
tà sulle quali gli uomini, nelle differenti culture, maschere, le sorti e i ruoli sociali (Lanternari, 1959).
hanno fondato le proprie credenze. Da qui si è arri- In sostanza, la maschera mistifica la reale identità di
vati alle diverse forme di teatralità popolare che chi la indossa; di fatto, serve ad ingannare e a rap-
solitamente trovano espressione, in tutti i contesti presentare simbolicamente qualcuno che, in quel
culturali, in momenti festivi che coincidono, di fatto, momento, gioca un ruolo sociale determinante nel-
con specifiche antiche tradizioni: si pensi, per esem- l’azione liturgica, teatrale o festiva durante la quale
pio, al carnevale nella cultura di derivazione greco- essa viene indossata; in pratica, ha la funzione di
latina in area mediterranea, oppure alle mascherate rappresentare ed è, quindi, un’espressione simboli-
dei capodanni lunari delle tradizioni asiatiche ela- ca.
borate in ambito indù, buddista e scintoista. Forme Tali funzioni simboliche e sociali delle maschere,

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d’Italia
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tuttavia, devono essere storicizzate, quale è necessario compiere oppor- richiamino il gregge e le pecore. La
in quanto, sia nelle diverse epoche, tuni rituali purificatori con digiuni e mastruca dal vello nero rimanda alle
sia nei diversi contesti culturali, esse astinenze di ogni genere. pecore segnate da questo colore che
hanno svolto funzioni differenziate In tale quadro si collocano tutte le le evidenzia rispetto alle altre in
ed adeguate alle differenti particola- tradizioni carnevalesche europee e maggioranza bianche. A questo pro-
ri situazioni. Da ciò deriva che, nel italiane, compresa quella della posito, è opportuno sottolineare bre-
quadro culturale euro-mediterraneo, Sardegna dove, così come si verifica vemente che, nell’immaginario col-
le maschere siano caratterizzate da in altre regioni, sono state elaborate lettivo mediterraneo, la “pecora
loro specifiche storie che si diversifi- specifiche maschere che, in diversi nera” simboleggia una certa anoma-
cano nel corso delle differenti epo- casi, presentano elementi strutturali lia, ovvero, la devianza rispetto alla
che, sebbene esse conservino, grazie e formali che si riscontrano anche in norma espressa dal vello bianco delle
alle comuni funzioni, caratteri simbo- altri contesti. Questo significa che la altre pecore del resto del gregge.
lici costanti. Questo comporta che, langue carnevalesca, nel contesto La maschera dei mamuthones è
nell’ambito festivo, nelle realtà cultu- culturale occidentale, nel quale si col- realizzata in legno con lineamenti
rali occidentali, dove si è storicamen- locano le maschere della tradizione molto forti che riproducono, come
te passati dalle concezioni religiose sarda, trova riferimenti costanti e stereotipo, un viso con una smorfia
del mondo classico al Cristianesimo, simili negli aspetti formali della rela- sofferente quasi bestiale. Questo
le maschere hanno assunto la parti- tiva parole alla quale si correla il dato visivo immediato dà l’impressio-
colare facies del carnevale che, in tale complesso insieme del carnevale. ne che si intende rappresentare la
realtà, si contrappone, come è noto, bestialità sebbene il sistema festivo
alla quaresima e al tempo della quo- 2. Le maschere dei carnevali della sia orientato all’allegria e al diverti-
tidianità più in generale. Sardegna possono essere distinte in mento.
Come ha acutamente proposto due generi, quelle a sembianze Sull’interpretazione della simbo-
Paolo Toschi, nella metà degli anni antropomorfe e quelle a fisionomia logia della maschera dei mamutho-
’50 del secolo appena trascorso, nel zoomorfa; su queste due tipologie, nes, a partire dagli anni ’50, sono sta-
noto lavoro sulle origini del teatro così come si verifica altrove, vengono te avanzate diverse proposte, tra le
popolare, a partire dalla fine del realizzate le diverse caratterizzazio- quali due sono le più interessanti:
Medioevo con l’Umanesimo e il recu- ni. Inoltre, è opportuno precisare quella di Raffaello Marchi che consi-
pero della cultura classica, dopo gli subito che le maschere zoomorfe, in dera il corteo dei dodici mamutho-
slanci ascetici e fideistici del periodo genere, si inquadrano nelle realtà nes, che incedono schierati in fila per
precedente, sono state recuperate socio-culturali pastorali, nelle quali due, ciascuno scuotendo un grosso
anche tutte le altre forme di teatrali- l’allevamento costituisce l’attività grappolo di campanacci che portano
tà e spettacolarità come le commedie produttiva dominante che è, quindi, sulle spalle mentre vengono control-
e le feste di tradizione precristiana, presupposto alle diverse espressioni lati con i lacci dagli isocadores, così
nelle quali le maschere sono elemen- culturali, delle quali il carnevale è come se essi fossero degli schiavi mo-
ti caratterizzanti (Toschi, 1955). una delle forme che, di fatto, segna ri catturati dalle popolazioni locali in
Vengono recuperati così la carnalità l’inizio del ciclo della nuova annata occasione delle scorrerie piratesche
e, come sostiene il noto studioso metereologica. compiute dai moriscos lungo le coste
russo Michail Bacthin, viene assunto a Le maschere zoomorfe, come si è sarde (Marchi, 1951). L’altra è l’inter-
simbolo carnevalesco «il basso ventre prima accennato, caratterizzano in pretazione di Maria Margherita Satta
corporale», ovvero la sessualità nella particolare la tradizione carnevalesca che, adottando una metodologia ma-
forma più enfatica ed esasperata di alcune comunità della Barbagia terialistica, vede nell’insieme delle
(Bacthin, 1979, pp. 107-135); da qui che è la regione ambientale e cultu- maschere mamuthones e isocadoresi
l’elaborazione di maschere con nasi rale centro-orientale dell’Isola, pre- un esito sovrastrutturale della forma
enormi fallicamente prominenti posti valente montuosa e ad economia di produzione pastorale che caratte-
al centro di un volto che spesso ripro- soprattutto pastorale; essa è stata rizza l’economia barbaricina; quest’e-
duce la parte pubica del corpo così definita, fin dall’antichità roma- sito, infatti, costituirebbe una parti-
maschile (Burke, 1980, pp. 178-199). na, in conseguenza del fatto che le colare espressione simbolica, espressa
Nella tradizione festiva europea, sue popolazioni, sino ad un recente dalla maschera, tramite la quale i pa-
il carnevale diventa un periodo che passato, hanno sempre mal tollerato stori ironizzerebbero di se stessi ri-
subentra alla grande festa del capo- qualsiasi forma di controllo o domi- prendendo le loro condizioni di vita,
danno e che anticipa, come contrap- nio esterno, essendo tradizionalmen- quando, nella solitudine dei pascoli,
posizione, la quaresima; infatti, se il te organizzate sul piano sociale si presentano le occasioni per diven-
carnevale e il capodanno, nel sistema secondo una struttura di tipo seg- tare come gli animali che custodisco-
produttivo della tradizione agro- mentario patrilocale, così come spes- no e così imbestialirsi (Satta, 1982,
pastorale euromediterranea, costitui- so si verifica in altre società di alleva- pp. 77-85).
scono un periodo di stasi dei lavori tori. Le maschere zoomorfe del carne-
agricoli, come conseguenza della sta- La maschera barabaricina più vale di Ottana e di Orotelli, anche
gione invernale e della connessa nota è certamente quella dei mamu- queste comunità dell’area barbarici-
interruzione del ciclo vegetativo, e thones di Mamoiada. Per quanto na ad economia pastorale, potrebbe-
quindi la possibilità e la necessità di riguarda i lineamenti del volto, tutta- ro essere interpretate secondo la
usufruire di abbondanze alimentari, via, questa non ha una fisionomia stessa chiave di analisi (Della Maria,
per converso, la quaresima segna la strettamente zoomorfa, sebbene, in 1959, pp. 7-8; Satta, 1982, pp. 85-88).
ripresa della vegetazione e l’inizio particolare il vestiario e gli addobbi Nel primo caso, infatti, si hanno due
della rinascita nei confronti della dei campanacci, e il comportamento maschere che più esplicitamente di

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quelle dei mamuthones riproducono 3. In Sardegna, come prima si è del carnevale, in particolare. Esse
fisionomie e caratteri del mondo del- accennato, le altre maschere, con costituiscono un importante occasio-
l’allevamento. La più importante è sembianze e simbologie completa- ne di elaborazione del consenso e,
quella dei boes che riproduce una mente antropomorfe, sono diffuse in quindi, di conservazione dell’autorità
protome taurina fortemente stilizza- numerose località, alcune delle quali del potere costituito e della relativa
ta, con corna lunghe e dritte, tanto sono in Barbagia, come per esempio amministrazione.
da sembrare corna di gazzelle. In pra- ad Ovodda dove, il mercoledì delle Nei cortei carnevaleschi della
tica, nelle pantomime carnevalesche ceneri, mentre altrove è già iniziata Sardegna, oltre allo stereotipo del re
che i boes compiono sembra che rap- la quaresima, c’è il corteo, il processo giullare che simbolicamente muore
presentino le mandrie di bovini che e il rogo della maschera fantoccio di arso in un rogo conclusivo, in alcuni
pascolano nell’ampia valle del corso Don Conte che riprende le sembianze casi, come a Bosa, cittadina della
medio del Tirso. Essi sono seguiti dai di un nobile con cilindro e mantello. costa centro-settentrionale dell’isola,
merdules, le maschere dei bovari che, In tale occasione, inoltre, la comunità permangono maschere della tradi-
essendo costantemente a stretto con- di Ovodda fa una grande festa ritro- zione rielaborate da moduli che si
tatto con vacche e tori, vengono vandosi insieme in una grande orgia riscontrano anche il altre realtà meri-
denominati come se essi stessi fosse- alimentare a base di fave, lesso di dionali.
ro escrementi di animali. La loro fisio- carne e cotenne (Piquereddu, 1989). Il martedì di carnevale, a Bosa,
nomia è antropomorfa con volti I cortei mascherati con carri alle- insieme alle sfilate di carri allegorici,
deformi, vistosi nasi adunchi, menti gorici sono presenti in diverse locali- sui quali vengono realizzati gigante-
storti e bocche con smorfie e ghigni tà; fra questi sono particolarmente sche e variegate simbologie falliche,
ironici. Le due maschere dei boes e interessanti, per caratteristiche e tra- al mattino, come ha in più lavori
dei merdules spesso sono accompa- dizione, quello della maschera di documentato e analizzato Maria
gnate da un’altra detta Filonzana che Canciofali a Cagliari e il corteo di Margherita Satta (Satta, 1982, pp.
riproduce una vecchia sdentata dal Tempio Pausania; in entrambi, oltre 114-125; id, 189, pp. 157-199), com-
volto deforme che fila simboleggian- ad allestire il carro dei «re di carne- paiono le maschere delle lamentatri-
do, in questo modo, l’andamento del vale» (Camciofali a Cagliari), vengo- ci funebri (attittadororas), ovvero
corso della vita che può interromper- no modellati in cartapesta da artigia- delle prefiche che, come stereotipo,
si improvvisamente, così come è ni specializzati pupazzi che riprodu- sono vestite di nero e cantano lamen-
caratterizzato nello stereotipo sim- cono spesso, in caricatura, personag- ti funebri per l’imminente morte del
bolico delle Parche nel mondo antico. gi politici ed altre figure locali, come carnevale. La notte, invece, escono le
Maschere a caratteri abbastanza il sindaco, il prete ed altre personali- maschere di Giolzi che rappresenta la
simili a quelle di Ottana, alle quali fin tà in vista nella realtà socio-politica figura di Giorgio. Queste simboleg-
qui si è fatto cenno, sono i Thurpos di nazionale e dell’isola. Una ricognizio- giano il carnevale ormai morto e
Orotelli che, anche in questo caso, ne esaustiva delle diverse tipologie diventato un fantasma. Infatti, sono
rappresentano bovari e bovini che dei carnevali sardi è stata compiuta realizzate dipingendo con fuliggine il
vengono aggiogati per trainare l’ara- da Luisa Orrù, della quale ricerca è volto e, quindi, indossando come
tro o il carro; la loro fisionomia è stata pubblicata postuma, nel 1999, mantello un lenzuolo e una federa di
identica, sia che simboleggi i buoi, sia una gran parte dei materiali raccolti cuscino rovesciata per cappuccio.
che rimandi alle persone che li guida- dalla studiosa (Orrù, 1999). Ciascuna di queste maschere, nello
no. In entrambi i casi, l’aspetto di I cortei riprendono modelli alle- spettacolo carnevalesco, ha un suo
queste maschere è molto semplice: gorici diffusi anche in altre regioni canovaccio che deve rispettare, per
viene realizzato dipingendo il volto che, come è noto, derivano dalla tra- rientrare nella tradizione bosana; le
con fuliggine e indossando il pesante dizione dei carnevali barocchi seicen- lamentatrici, come si è già accennato,
capotto dei pastori in orbace e cap- teschi spesso voluti e organizzati cantano strofe di lamenti funebri fin-
puccio. Dopo un certo abbandono dalla classe dirigente del tempo, cioè, gendo di piangere e compiendo gesti
della tradizione carnevalesca dei dalla nobiltà e dal clero; lo scopo era di disperazione simili a quelli com-
Thurpos nell’ultimo dopoguerra, alla di controllare le possibili devianze piuti dalle prefiche nelle occasioni
fine degli anni ’70 del secolo appena delle popolazioni a causa delle feste luttuose. Il lamento (attittidu) viene
trascorso, è avvenuto il loro recupero del carnevale diventale lussuriose. rivolto su una pupattola di stracci o
in seguito ad una ricerca sul campo Infatti nel Rinascimento, le plebi su un bamboccio che rappresenta il
condotta da Raffaello Marchi rurali e suburbane, con il recupero carnevale neonato ma che sta per
(Marchi, 1979; Satta, 1982, pp. 89-93) del momento festivo del carnevale, morire di fame, in quanto la madre lo
che ha sempre dimostrato particolari come conseguenza della fine del ha abbandonato senza allattarlo per
interessi per la realtà etnografica moralismo voluto dai principi etici andare a divertirsi nei balli e nelle
della Barbagia. A questo riguardo si del Cristianesimo altomedievale, feste dei precedenti giorni. Per que-
deve rilevare che, sulla scia dei recu- epoca durante la quale la preghiera e sto motivo, le maschere delle lamen-
peri delle tradizioni locali, sorti nel la penitenza erano alla base del com- tatrici, il cui ruolo è sempre svolto da
quadro di un certo interesse per le portamento, rischiavano di sfuggire ragazzi, rincorrono le fanciulle che
specificità identitarie come reazione al controllo istituzionale della Chiesa incontrano per afferrarle e chiedere
alla globalizzazione, spesso condotti, e dello Stato. Da qui deriva, pertan- loro un «po’ di latte», con la scusa di
tuttavia, secondo parametri scientifi- to, come sostiene Peter Burke in un allattare e così rinvigorire il carneva-
ci scarsamente attendibili, sono state noto lavoro sulla cultura popolare le, ovvero, il bambolotto che portano
proposte alcune maschere zoomorfe, (Burke, 1980), la presa in carico da in braccio, che sta per morire di fame.
in genere, riproducenti protomi parte delle classi al potere dell’orga- Nelle richieste essi dicono: «Ahi! Ohi!
caprine e di muflone. nizzazione delle feste, in generale, e Poveretto! Ohi! Dategli un goccetto,

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d’Italia
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un goccetto di latte! Ahi! Tutta la notte il bambino senza in quanto hanno come protagonisti i cavalli oltre che
latte! Poveretto e nato nudo!» (Ahi! Ohi, S’iscuru! Ohi! alcuni tipi di maschere che servono camuffare simbolica-
Daitele unu ticchirigheddu, unu ticchirigheddu de latte! mente i ruoli ad esse riservati.
Ahi! Tottu notte senze latte su pizzinnu! S’iscuru è naschi- Le manifestazioni equestri carnevalesche più significa-
du nudu!). tive sono la corsa a pariglie di Santulussurgiu dette Sa car-
La richiesta viene continuamente ripetuta dalle rela ‘e nanti e la Sartiglia di Oristano; in entrambi i casi,
maschere ad una grande quantità di fanciulle con l’evi- in forme diverse i cavalieri sono mascherati con funzioni
dente intento di palparne il seno, nel momento in cui e ruoli differenti tra i due tipi di corsa e gara come in di-
viene avvicinato ad esse il bambolotto perché venga versi saggi ha da tempo analizzato Mario Atzori (Atzori,
allattato. 1988, pp. 59-108; 1989, pp. 93-156). In tutti i casi, però, ad
Ogni tanto avviene una pausa; le lamentatrici si riuni- esse vengono date funzioni
scono e a turno improvvisano versi di lamenti funebri i cui e simbolo-
contenuti sono chiaramente a sfondo erotico: «Ahi! Un gie propi-
Mamuthones
goccetto per il piccino! Gurdate come l’hanno ridotto! ziatorie (Mamoiada )
Ohi! Poverino, ohi guardate cosa succede nel mondo! Ha in base Foto M. Lastretti
preso tutti i mali! Ahi! Come si può sopportare questo all’esito
dolore! Ahi! Ha preso tutti i mali: l’italiano, il francese e
lo spagnolo! Ahi! Me lo hanno ridotto persino lesbi-
co! Ohi» (Ahi! Unu ticchirigheddu po su pizzinnu!
Castiade como l’han ridottu! Ohi! Iscuru, ohi
mirai, itte cosa faghen in su mundu! D’ha
leadu tuttu su male! Ahi! Cumente si pode
sopportare custu dolore! Ahi! Tottu su male
d’ha leadu: s’italianu, su franzesu e su spa-
gnolu! Ahi!, Fina lesbica m l’han fattu! Ohi!).
Le lamentazioni alludono al recupero
della vita da parte del carnevale e, quindi, in
forma allegorica al recupero della virilità, in
quanto il carnevale è maschio, é quindi
necessario il rinvigorimento del fallo e così
concludere la festa del carnevale in modo
intenso.
Alla maschera notturna dei Giolzi, ovvero
del carnevale ormai diventato spettro, vestiti
con lenzuolo e cappuccio bianchi partecipa-
no ragazzi e ragazze in grande quantità; cia-
scuno ha in mano o un lampioncino alla
veneziana che rimanderebbe alla tradizione
della zucca della festa di Halloween. In ogni
caso, secondo la tradizione bosana, viene
impiegato un cestino con sul fondo del quale
c’è una candela accesa. Questi lampioni servono
ad illuminare il percorso dei Giolzi e, nello stesso
tempo, le zone dei genitali delle persone che
incontrano, alle quali si rivolgono con frasi di questo
tipo: «Oh! Giorgio moro! Bello Giorgio moro mio!
L’ho preso! Ahi Giorgio dammi Giorgio! Ohi Giorgio
mio!» (Oh! Giozi moru! Bellu Golzi moru miu! Ciappau
l’appu! Ahi Giolzi damilu a Giaolzi! Ohi! Giolzi miu!).
Anche in questo caso le simbologie sessuali sono evi-
denti; in pratica, nel buio della notte quando tutto risul-
ta indistinto e incerto, sebbene Giolzi sia ormai un fanta-
sma, tramite le flebili luci dei lampioncini, è necessario
ritrovare la certezza che il sesso c’è ancora e che ci
sia la possibilità di altri rapporti sino a quando dura
la festa di carnevale; infatti, nella tradizione carnevale-
sca euromediterranea Giolzi, Pulcinella e Pierrot, sebbe-
ne maschere spettri del carnevale segnano simbolica-
mente la fine malinconica della festa. Ciascuno con la
propria simbologia allegorica spettrale rappresenta
comunque la continuazione dell’eros e, quindi, della
continuità della vita.

4. Alcune manifestazioni di carnevale, in Sardegna,


si inquadrano negli spettacoli di abilità equestre

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d’Italia
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positivo delle prove. della domenica, del lunedì e del martedì di carnevale, i
Alla festa equestre di Santulussurgiu partecipano sia cavalieri si ritrovano al punto di partenza della strada che
giovani in costume tradizionale, sia mascherati in altro costituisce il percorso di gara; quindi, incontrano i com-
modo; è importante, in ogni caso, che i cavalieri risultino pagni di pariglia e poi vengono iniziate le discese corren-
sconosciuti alla folla degli spettatori che assiste alle gare do al galoppo ed effettuando, appaiati a due o a tre
che si svolgono nei pomeriggi degli ultimi tre giorni di cavalli, numerose figure acrobatiche, stando in piedi sulle
carnevale, lungo una strada sterrata, in discesa e, in alcu- selle e sulle spalle dei compagni, governando le briglie
ni tratti, abbastanza stretta. con una sola mano, mentre l’altra serve a reggersi agli
I giovani di Santulussurgiu aspettano con ansia il car- altri cavalieri.
nevale e i giorni della gara; per partecipare preparano i Si tratta di uno spettacolo che attira tanti spettatori e
cavalli con particolare cura: li strigliano per bene, li orna- coinvolge gli appassionati di equitazione per la capacità
no con particolari addobbi posti sui finimenti realizzati con la quale i fantini riescono a tenere l’equilibrio duran-
da artigiani sellai del paese. Come è consuetudine, intor- te le corse. Nel suo complesso la manifestazione appare
no alle 15 del pomeriggio come uno spettacolo di abilità nel quale sembra
che non figuri alcuna competizione. Nelle
regole non scritte della corsa è sicu-
ramente così, anche se ogni
gruppo di cavalieri si prepara
per mesi per realizzare le mi-
gliori pariglie per essere
giudicato dai compae-
sani più bravo degli
altri. In quanto le
valutazioni e i giu-
dizi espressi da
questo tipo di
giurie sponta-
nee, formate
dalla stessa po-
polazione del
paese, che discu-
te per mesi dell’an-
damento delle ul-
time corse, risulta-
no essere più seve-
ri se formulati da
giurie istituziona-
li. Le pariglie ven-
gono considera-
te dai cavalieri di
Santgulussurgiu
una vera com-
petizione, nella
quale la vittoria è
attribuita al
gruppo giudica-
to più bravo.
Per evitare le
possibili valu-
tazioni negati-
ve i cavalieri
cercano di ma-
scherare la propria
identità, travestendosi e indossando ma-
schere, anche se tutti conoscono l’identi-
tà dei partecipanti. Con il mascheramen-
to dei diversi cavalieri, tuttavia, si fa finta di
non conoscerli e così la gente è più libera di espri-
mere i propri giudizi sulle prove. In questo caso, quin-
di, le maschere hanno una funzione socialmente pro-
tettiva e di tutela della libertà individuale, rispetto al
condizionamento del gruppo che potrebbe risultare op-
primente.
L’altra manifestazione equestre organizzata a carne-
vale è la Sartiglia di Oristano, una gara con prove com-

33 il folklore
d’Italia
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piute da cavalieri mascherati che al galoppo devono infilzare, prima con la sciabola, poi con lo stocco, una stella appe-
sa ad una fune posta di traverso al percorso di gara. Si tratta di una competizione, in primo luogo condotta con se stes-
si, in gran parte basata sulla fortuna e sulle capacità acquisite con l’allenamento; un’altra prova, nello stesso tempo, è
compiuta con gli altri cavalieri che vi partecipano. Infatti, vince la gara chi ha realizzato il maggior numero di prove
positive infilzando la stella. A questo riguardo si deve tenere in considerazione che, nella gara, è presente una certa
quantità di variabili, delle quali numerose risultano incontrollabili in quanto soggette alla casualità.
Nella Sartiglia le gare per infilzare la stella costituiscono certamente una fase importante della manifestazione, in
quanto, nello svolgimento del rito, esse esprimono simbolicamente il modo impiegato dal capocorsa e/o dall’operato-
re rituale, detto componidori, di ricercare la fortuna, ovvero la buona stella, per la comunità che spera in un buon rac-
colto nella annata successiva. Nella prima fase della manifestazione, pertanto, si svolge il rituale della vestizione e
mascheramento del componidori affinché, con la maschera, assuma in sé la responsabilità di tentare la sorte in favore
della comunità. La Sartiglia da questo punto di vista costituisce, infatti, un evidente rito agrario di tipo propiziatorio,
nel quale l’officiante non può essere un semplice individuo della comunità; egli deve possedere i caratteri particolari
che soltanto il camuffamento simbolico della maschera può conferirgli.
Nel passato la cerimonia della vestizione del componidori avveniva nella sua abitazione; attualmente si svolge nelle
sedi dei gremi o corporazioni che sono rappresentanti dei contadini e degli artigiani. Le gare si svolgono rispettiva-
mente la domenica e il martedì di carnevale insieme ad altre manifestazioni. A questo riguardo si deve precisare che
ciascun gremio, il giorno della Candelora, il due di febbraio di ogni anno, sceglie, tra numerosi cavalieri richiedenti, il
componidori che a carnevale dovrà correre la Sartiglia; a sua volta, il componidori sceglie tra gli amici altri due cava-
lieri (secundu e terzu componidori) che gli fanno da scorta e insieme costituiscono la terna che apre le corse rituali,
compiendo a turno ciascuno tre prove con la sciabola e tre con lo stocco.
La vestizione e il mascheramento del viso del componidori, tramite una maschera dai lineamenti androgini, sono
compiuti ad opera di alcune donne definite «massaie» (massaieddas), tra le quali conduce le diverse operazioni di vesti-
zione la moglie del presidente del gremio, cioè, la massaia manna. Perché tutti possano assistere al rituale il componi-
dori sta seduto su una sedia posta sopra un tavolo che fa da palcoscenico. Egli indossa soltanto una maglietta e i pan-
taloni alla cavallerizza, con ai piedi gli stivali, sui cui sono incastrati gli speroni.
Nel rituale della vestizione, il primo indumento che il componidori indossa è una camicia in lino di foggia seicente-
sca che, in pratica, è parte dell’abbigliamento tradizionale delle comunità sarde. Sul davanti è ricamata e ornata di pizzi
e, in quanto priva di bottoni e occhielli, viene sostanzialmente cucita addosso al componidori, con gesti ostentatamente
rituali, da parte delle massaieddas. Per ottenere gli sbuffi, le maniche vengono legate all’altezza dell’omero con nastri
verdi e rossi, rispettivamente per il gremio dei contadini e per quello degli artigiani. Sulla camicia viene indossata una
sorta di mantellina in pelle, detto collettu; l’indumento è chiuso da lacci nella parte del collo; in basso è sorretto da
altri lacci in pelle e all’altezza dei fianchi si aggancia ad un largo cinturone che consente di conformarsi alla struttura
corporea del cavaliere.
La fase più importante di questa vestizione è quando viene fasciata la testa del componidore con tre fazzoletti bian-
chi; questi vengono cuciti addosso perché si formi una sorta di cuffia. Viene lasciato libero solo il viso dal mento alla
fronte. Quindi la maschera viene appoggiata al viso e per essere meglio fissata alla testa componidori, appositi legac-
ci servono per lo scopo; ma per una migliore stabilità i legacci vengono cuciti alla cuffia di fazzoletti.
La maschera è scolpita in legno di pero ed è di colore giallo con tonalità verde olivo, tanto che può apparire quasi
spettrale. Come si è già accennato, i lineamenti sono molto regolari e fortemente androgini; in sostanza rappresenta
il volto di un individuo indefinito che riassume in sé tutti e nessuno; ed è per questo motivo che si può ipotizzare che
essa intenda nascondere la vera identità di chi, nel rito propiziatorio della Sartiglia, si assume il compito di componi-
dori e, quindi, di tentare con la gara la buna sorte della comunità. Le prove della Sartiglia possono non riuscire e così
il componidori, sebbene si sia addestrato, fallisce e quindi non è stato in grado di propiziare la futura e la buona anna-
ta. In questo caso, la maschera agevola l’anonimato della persona che ha svolto il ruolo di componidori, evitando così
che su di essa si scarichino le responsabilità della mancata fortuna.

5. A questo punto, per concludere, si può proporre qualche esempio delle maschere che annualmente vengono
inventate e che, in tutti i casi, attualmente animano il carnevale della Sardegna, così come quello di altre regioni; a tale
riguardo, però, è opportuna una breve riflessione teorico-metodologica tramite la quale non solo si giunga a consta-
tare il processo di continuità dell’istituto del carnevale come fatto culturale festivo di tipo costante, ma anche si arrivi
a verificare che, in tale costanza di fenomeni, è presente ancora una certa continua vitalità dello stesso carnevale. Su
un piano più generale, in tale processo di continuità e di costanza, si può cogliere come rientrino, tramite una com-
plessa fenomenologia di rifunzionalizzazione, numerosi eventi culturali definibili folklorici. Si coglie, inoltre, come que-
sti siano soggetti, così come lo sono tutti i fatti socio-culturali a continui processi di adeguamento alle nuove esigenze
sociali che si modificano costantemente al mutare delle condizioni oggettive ed economiche della società, nella quale
gli stessi fatti si verificano.
I nuovi mascheramenti, pertanto, con i quali a carnevale, attualmente come nel passato, si deridono i personaggi
del potere politico e dello spettacolo o comunque in vista, costituiscono una costante funzionale del fenomeno carne-
vale, cioè, di una festa che, di fatto, istituzionalmente tende a capovolgere le parti e, quindi, a dare la possibilità al
popolo di schernire e prendere in giro i potenti e i governanti. Non a caso la tradizione di processare il re per mandarlo
al rogo costituisce un esempio di riequilibrio sociale, tramite il quale i sudditi e i subalterni, a carnevale e solo a carne-
vale, nel passato, si vendicavano simbolicamente delle angherie inflitte loro dal sovrano.
Le maschere, quindi, in quanto tali, pur partendo da lontano come trasfigurazioni necessarie per compiere riti reli-
giosi, nel momento in cui sono passate dagli altari dei templi ai palcoscenici dei teatri e poi si sono trasferite per le stra-

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de nelle feste di carnevale, hanno acquisito la funzione


che proviene loro soprattutto dalla commedia; cioè, sono
diventate elementi simbolici di autoironia e di satira
sociale e, nello stesso tempo, anche espressioni identita-
rie, così come si verifica, per esempio, nei mascheramenti
della domenica dei tifosi delle squadre di calcio, quando
essi si recano allo stadio ad assistere alle partite della
squadra del cuore; il mascheramento, in questi casi, è rea-
lizzato, per esempio, dipingendo il volto con i colori della
squadra, indossando mantelli, maschere esorcistiche e
copricapo sempre realizzati con varie disposizioni dei
medesimi colori.
La globalizzazione dell’economia e dei mercati, negli
ultimi decenni, ha facilmente determinato anche la glo-
balizzazione delle informazioni e, quindi, ha anche age-
volato la diffusione delle tradizioni culturali elaborate in
altri contesti diversi da quelli euro-mediterranei; in
sostanza la cosiddetta globalizzazione, impone, nelle
scelte comportamentali, un certo relativismo determinan-
do così di evitare gli schemi rigidi di certi etnocentrismi
culturali. Per esempio, questo si è verificato,
negli ultimi tempi, con i mascheramenti di
tipo tematico, con teschi e scheletri, con il dif-
fondersi della festa di Halloween che, come è
orami noto, si festeggia nella notte della vigi-
lia del primo di novembre, giorno dei santi; si
tratta di una tradizione popolare con l’impie-
go di maschere che si è affermata a partire
dai primi decenni del Novecento negli Stati
Uniti, ma che, secondo alcuni interpreti,
avrebbe origini celtiche (Caforio, 2000) e
secondo altri, invece, avrebbe origini paleo-
cristiane (Fédensieu, 1997-98). In ogni caso,
questo genere di mascheramento pare sia
stato elaborato in area europea; da qui si è
adeguato alle varie circostanze storico-cultu-
rari delle popolazioni che lo hanno praticato
nel passato; quindi, giunto in America con gli
emigrati europei si è rifunzionalizzato unifor-
mandosi alle particolari esigenze di quella
realtà multiculturale. Infine, a partire dagli
ultimi decenni del Novecento, Halloween è
riapprodato in Europa riadeguandosi e tra-
sformandosi sulla scorta delle nuove situazio-
ni socio-culturali che intanto si sono formate,
come sostiene Laura Bonato in una recente
opera sulle feste (Bonato, 2006, pp. 111-114).
Da queste considerazioni, infine, emerge Thurpos
una conclusione che può essere valida non (Orotelli)
solo per le maschere, intese come epifenome-
ni di fatti religiosi e festivi, nei quali la trasfi-
gurazione dell’identità, tramite il mascheramento, serve
a rimettere in gioco, sul piano rituale e simbolico, le
gerarchie e i ruoli socialmente acquisiti e istituzionalizza-
ti nella società; in sostanza, così come la maschera, nel
rito religioso, ripropone le sembianze della divinità e
nella finzione del teatro ripropone i tipi e i ruoli sociali,
nel carnevale e nelle feste in genere ripropone, ironiz-
zandole, le figure dei personaggi che, in quel tempo,
caratterizzano la vita sociale della comunità in cui viene
proposto il mascheramento.

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diversità dei contesti sociali tradizionali (Beck, 1999); dal-


l’altra, sulla base del riconoscimento della pari dignità di
ogni cultura, si va accentuando la rivendicazione del dirit-
to alla diversità, con il rafforzamento di spinte di tipo
particolaristico (Featherstone, 1996; Robertson, 1999;
Rivera, 2002; Crespi, 2004).
Queste due dinamiche, in apparenza contrarie, risul-
tano in realtà interrelate, ed è solo tenendo conto del
loro intimo intreccio che si può comprendere il carattere
specifico dei rapporti intercorrenti fra globale e locale,
multiculturalismo e particolarismo.
S u s a n n a Infatti, se è vero che la globalizzazione contribuisce
positivamente alla creazione di nuove forme di “macro-
identità” a livello mondiale, offrendo anche innegabili

P a u l i s vantaggi, non sembra tuttavia dubitabile che essa com-


porti pure alcuni effetti negativi, tra cui un diffuso senso
di disorientamento e impotenza di fronte alla difficoltà di
comprendere e padroneggiare la crescente complessità
venutasi a creare. Tale sensazione di spaesamento, unita-
mente al bisogno umanamente innato di radicamento e
di appartenenza, comporta paradossalmente il ritorno
alla dimensione locale. Ciò accade perché tanto la “delo-
calizzazione”, insita nel processo di mondializzazione
(Giddens, 1994), quanto l’annebbiamento della memoria
collettiva, per suo stesso statuto “localistica” (Cavicchia

Memoria Scalamonti, Pecchinenda, 1996), provocano una sorta di


rammarico per il passato perduto. Donde l’impegno rivol-
to al recupero del tempo fisiologicamente rallentato
delle identità collettive, la tendenza alla rivisitazione del
passato, il prodigarsi per il ripristino di tradizioni ormai

collettiva, desuete e per la tutela di quelle, meno numerose, ancora


vitali (Montesperelli, 2003). Questi complessi meccanismi
di produzione di senso e appartenenza sfociano, talora,
in accentuate reazioni localistiche (Tullio Altan, 1997), in

identità veri e propri culti della memoria (Todorov, 1996) o in pro-


cessi di costruzione dell’identità e del ricordo.
È quanto è dato riscontrare pure in Sardegna, ove il
ritorno al peculiare e al caratteristico impronta la mag-

e
gior parte delle attuali politiche turistiche e culturali,
anche con casi di «invenzione della tradizione»
(Hobsbawm, Ranger, 2002). L’esempio più significativo di
questo fenomeno è offerto indubbiamente dalla promo-
zione del 28 aprile a die de sa Sardigna, giornata in cui, a

narrazioni partire dal 1994, con decisione formale del Consiglio


Regionale, si festeggia l’anniversario della cacciata dei
piemontesi nel lontano 1794 (Caltagirone, 2005). Benché
su scala minore rispetto a Sa die, si segnala, tra le varie
manifestazioni di questo tipo, anche l’iniziativa che ormai
da dodici anni si tiene a Iglesias il 13 agosto, con la rap-
presentazione di un corteo storico in costume medioeva-
le. L’evento è organizzato dall’Associazione Culturale
Società quartieri Medioevali Villa Ecclesiae, in collabora-
zione con l’Amministrazione Comunale d’Iglesias e con la
Regione Sardegna.
Una tale riscoperta della memoria collettiva nella no-
stra isola, però, non nasce oggi per la prima volta, quale
portato del terremoto antropologico legato alla “surmo-
dernità” nella quale ci troviamo immersi. Sia pur con pre-
supposti ideologici differenti, infatti, già dalla prima me-
Nel mondo contemporaneo le società complesse tà dell’Ottocento la più illuminata intellettualità isolana
appaiono caratterizzate da due tendenze a prima vista si era impegnata in ambito storiografico a ridefinire in
inconciliabili: da una parte vanno affermandosi sempre termini positivi l’identità sarda e a costituire il complesso
più marcatamente processi volti a costruire il mondo di memorie atte a fondarla e a tenerla viva. In quegli an-
come unità globale, con la conseguente diffusione di ni videro la luce la Storia di Sardegna di Giuseppe Manno
modelli culturali di tipo omologante che dissolvono la (1825-27), il Dizionario biografico degli uomini illustri di

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Sardegna di Pasquale Tola (1837-38) In questo medesimo quadro di altri casi di falsificazione, quali il
e le “voci” sarde del Dizionario geo- fermenti culturali si colloca anche un Canto de Altabiscar (Altabiscarraco
grafico-storico-statistico-commercia- evidente caso d’“invenzione della Cantua) per il mondo basco o, anco-
le degli Stati di S.M. il Re di Sardegna tradizione”: la produzione dei Falsi ra, i più noti poemi gaelici di James
scritte da Vittorio Angius e pubblica- arborensi, una serie di pergamene, Macpherson.
te a partire dal 1838. palinsesti e fogli cartacei, riguardan- In accordo con il modello delle
Gli artefici di tale “rinascita cultu- ti l’arco temporale dal VII al XV seco- varie identità nazionali europee che
rale” si affidarono alla memoria sto- lo, che fornivano preziose notizie in nello stesso torno di tempo ricerca-
rica per creare un’immagine della relazione ai periodi più oscuri della vano nel Medioevo le proprie scatu-
propria terra da contrapporre con storia della Sardegna, e che davano rigini (Thiesse, 2001), le Carte
evidente intento rivendicativo ai “miracolosamente” risposta agli d’Arborea presentavano il periodo
«disonesti giudizi degli stranieri», i interrogativi della Storia della giudicale con caratteri tali da farlo
quali, a partire dall’antichità classica, Sardegna del Manno, colmando le ritenere la culla della “nazione
tacciarono i sardi d’inerzia e rozzez- vaste lacune dovute alla mancanza sarda” e di tutti i suoi valori fondan-
za. La riprovazione per la presunta di fonti. I documenti — alla cui ti.
sauvagerie punteggiava i discorsi autenticità, com’è noto, prestarono Conformemente a una tale ideo-
d’intellettuali, viaggiatori, funziona- fede i maggiori rappresentanti della logia, il primo romanzo storico scrit-
ri statali del XVIII secolo, e spesso si cultura sarda, a eccezione del Manno to da un autore sardo, Vittorio
accompagnava alla condanna dell’a- e del Tola — offrivano un quadro Angius, fu dedicato proprio all’esal-
nacronistico immobilismo dei sardi: quanto mai affascinante del tazione della giudicessa Eleonora e
«ogni professione fa oggi quello che Medioevo sardo, una civiltà nella della corte arborense (Angius, 1847).
ha fatto ieri, come la rondine costrui- quale, addirittura prima del XII seco- Non a caso, perché tra i Falsi arbo-
sce il suo nido ed il castoro la sua lo, sarebbero fioriti i primi scrittori in rensi e i romanzi storici sardi del
casa» (Accardo, 2003, pp. 156-57). lingua italiana. secondo Ottocento esiste un nesso.
Tra il XVIII e il XIX secolo, poi, si In una prospettiva apertamente Se da una parte, infatti, le Carte
cominciò a parlare a chiare lettere di romantica e risorgimentale, i testi d’Arborea somigliano — com’è stato
inferiorità della razza sarda, reputa- arborensi raccontavano la nascita dei affermato (Brigaglia, 1997) — a un
ta incapace di percorrere la propria Giudicati come una vera e propria romanzo storico, una sorta di
via verso la civilizzazione, sino a lotta di liberazione, in cui spiccava la Bildungsroman, il cui protagonista è
giungere alle posizioni estreme figura del re Gialeto, personaggio la “nazione sarda”, dall’altra i
sostenute dalla Scuola Positiva di nato dall’acuta mente dei falsari, il romanzi storici che videro la luce in
Diritto Penale. Così, ad esempio, quale finì con l’assurgere a simbolo Sardegna rappresentano spesso il
Joseph De Maistre, diplomatico, dell’indipendenza e dell’indomito mondo delle Carte e ne mettono in
scrittore e pensatore politico, uno orgoglio dei sardi. scena i principali personaggi, dal re
dei più implacabili detrattori della Le Carte fornivano il materiale Gialeto, «il liberatore della Sardegna
Sardegna, arrivò a giudicare il sardo per la costruzione di un apparato dalla feroce oppressione dell’Impero
come «più selvaggio del selvaggio, “mito-simbolico”, nel quale la bizantino», a Bruno de Thoro e
perché il selvaggio non conosce la memoria storica si trasformava in Thorbeno Falliti, «ingegni nativi di
luce, e il sardo la odia. È sprovvisto epos. Renzo Laconi, nel saggio dal Sardegna, che poetarono nel sermo-
del più bell’attributo dell’uomo, la titolo Le false Carte d’Arborea o del ne di Dante alla reggia dei signori
perfettibilità» (Mattone, 1982, p. 1). carattere rivendicativo della storio- d’Arborea».
Di fronte a siffatte ingiurie, già grafia sarda, definisce «esigenza Al di là delle dinamiche di costru-
sul finire del XVIII secolo, si fece stra- rivendicativa» quella che Francesco zione identitaria a cui si è prima fat-
da l’esigenza da parte dei sardi di Loddo Canepa, nella voce “Carte to cenno, tuttavia, la ragione fonda-
confutare i giudizi di quanti li accu- d’Arborea” da lui compilata per il mentale per la quale la maggior par-
savano di essere barbari e rozzi. Dizionario Archivistico per la te dei romanzi storici sardi è ambien-
«Qual miglior mezzo», si pensò allo- Sardegna, invece aveva chiamato tata in epoca giudicale (IX-XV secolo)
ra, «a smentire le false calunnie con- «sentimento regionale vivissimo» va ricercata nel fatto che proprio in
tro i Sardi, che incoraggiarsi recipro- (Laconi, 1982). Da parte sua, Nereide tale periodo storico si realizzò «ciò
camente ad illustrare la patria colla Rudas analizza «l’impostura» spie- che di più simile all’indipendenza
stampa di opere degne, e col proteg- gandone le ragioni, dal punto di politica la Sardegna, almeno dai
gere le lettere e i letterati?» vista psicanalitico, con la necessità di tempi dell’invasione cartaginese,
(Accardo, 2003, p. 156). La nuova scoprire illustri origini, anche a costo avesse mai avuto» (Marrocu, Briga-
immagine dell’isola che ne sarebbe di ricorrere all’invenzione. In que- glia, 1995, p. 17). Rappresentanti del
derivata avrebbe esorcizzato, quan- st’ottica le Carte si configurerebbero potere giudicale e della resistenza
tomeno sul piano simbolico, le effet- come un sogno o «un romanzo fami- contro le armi straniere, quali la giu-
tive condizioni di precarietà econo- liare collettivo» (Rudas, 1997), volto dicessa Eleonora d’Arborea e il mar-
mica e sociale, che, aggravatesi ulte- a soddisfare il bisogno di scoprire le chese Leonardo Alagon, furono esal-
riormente dopo la Fusione Perfetta e proprie radici, ritrovando, sia pure tati tramite lo strumento letterario
l’Unità nazionale, affliggevano la inventandola, una paternità esaltan- nella speranza che i sardi del XIX se-
Sardegna, collocandola in posizione te e compensatrice di tutte le fru- colo, grazie alla consapevolezza del-
di netto svantaggio rispetto alla strazioni di un popolo di vinti. le proprie illustri origini, fossero
gran parte della penisola italiana Fu propriamente il sentimento spinti ad altrettanto magnanime ge-
(Sotgiu, 1986; Di Felice, 1998; patriottico ad ispirare le Carte sta.
Mattone, 1998; Ortu, 1998). d’Arborea, così come avvenne per Sia pure in misura minore, anche

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i fatti della storia più recente, come originaria», ma il mondo così come ci veniva equiparato a una sorta di
la resistenza del febbraio 1793 con- appare sarebbe un prodotto della museo o fossile vivente. Ad esempio,
tro la minaccia di un’invasione fran- facoltà organizzativa della mente, Emanuel Domenech, nell’opera
cese, e la cacciata dei piemontesi del l’esito di una «costruzione narrativa Bergers et bandits, souvenirs d’un
28 aprile 1794 — avvenimenti che della realtà» (Bruner, 1991). In que- voyage en Sardaigne (1867), scriveva
fanno da sfondo ad Angelica (1862), st’ottica, anche la memoria e l’identi- che «[n]elle loro superstizioni, come
romanzo di Antonio Baccaredda —, tà orbiterebbero attorno ad un “cen- nella loro storia, nei loro usi come
divennero oggetto di narrazione, in tro di gravità narrativa”, “nutrendo- nei loro costumi, si ritrova a ciascun
quanto episodi rappresentativi del si” spesso di scrittura. passo, presso i Sardi, qualcuno di
sentimento d’indipendenza dei sardi Il mondo dell’identità esternata, quei monumenti tradizionali dei
(Marci, 1992). corrispondente al livello del «come ci popoli antichi, che danno tanto valo-
Il genere letterario del romanzo rappresentiamo» (Buttitta, 2006), è re storico a quei bassorilievi conser-
storico — come hanno evidenziato fatto di tagli e giustapposizioni vati nei nostri musei, a quei dipinti
alcuni studi (Pilia, 1926; Brigaglia, (Fabietti, Matera, 1998), volti a crea- sfuggiti alla corrosione del tempo, e
1982; Marci, 1992; Pirodda, 1998; re una sorta di collage, che, nella a quei libri che, una volta compiuti
Paulis, 2006) — mise in atto una scelta e nella disposizione dei suoi gli studi, non si leggono più».
sorta di “politica della memoria”, elementi costitutivi, si presenta com- In ambito letterario questo stesso
rispondente ad uno scopo di tipo patto e confacente alle esigenze di processo di trasfigurazione mitizzan-
non solo rivendicativo, ma anche chi lo crea. Questo insieme di opera- te della cultura sarda fu portato a
compensativo nei confronti di una zioni di “patchwork” applicate alla compimento da Grazia Deledda, che,
condizione storica percepita come costruzione di un’«identità positiva» in sinergia con l’attività artistica
non appagante. Con le seguenti (Epstein, 1983, pp. 183-85), spesso espletata sul piano iconografico da
parole si esprimeva, ad esempio, realizzata proprio in ambito lettera- pittori e scultori suoi conterranei,
Pietro Carboni nel preludio ai due rio, non coinvolge solo la memoria conferì “cittadinanza poetica” alla
volumi del suo Leonardo Alagon: storica, di cui si è trattato in prece- Sardegna.
«Mi volsi quindi all’antichità e, presa denza, ma anche tutti gli aspetti I simboli della memoria collettiva
cognizione profonda della storia della “memoria culturale”. privilegiati dalla scrittrice sono il
della mia terra natale, vidi come fatti Nella letteratura sarda ottocente- paesaggio e le tradizioni, per lo più
magnanimi fossero in essa e come il sca, come in un costrutto identitario collocati sullo sfondo della narrazio-
passato potesse oltre misura com- dalla natura bifronte, fatto di ne. Li caratterizza una cifra tempora-
pensarmi delle miserie del presente» memoria storica e di memoria cultu- le di estrema arcaicità.
(Carboni, 1872, vol. I, pp. XI-XII). rale, la descrizione idealizzante delle Così, rocce e montagne, elementi
I dati della Sardegna ottocente- tradizioni popolari sarde trovò spa- di una terra geologicamente anti-
sca finora considerati contribuiscono zio già all’interno del romanzo stori- chissima, boschi di lecci secolari, o
a confermare come il ritorno memo- co, ma soprattutto nel cosiddetto più frequentemente millenari, vigila-
riale agli eventi di una storia colletti- “romanzo di costume” (Marci, 1990). no silenziosamente sul dipanarsi
va passata risulti inscindibilmente L’input a tale processo di valoriz- delle vicende dei personaggi, assie-
legato ad una particolare condizione zazione dei costumi tradizionali me ai monumenti megalitici della
presente e offrono un’ulteriore venne dall’interesse per il carattere preistoria sarda, vestigia de sos man-
riprova del legame profondo inter- conservativo della cultura sarda nos (‘degli antenati’) e ricettacolo di
corrente fra identità collettiva e dimostrato dai viaggiatori che nel leggende. Finalizzati a mettere in
memoria sociale. ’700 e nell’’800 visitarono l’isola evidenza la natura vergine e incon-
La memoria, infatti, si rivela non (Fuos, Valery, La Marmora, Bresciani, taminata dei luoghi, nelle descrizioni
solo funzionale, ma addirittura indi- Domenech, ecc.). paesaggistiche dominano gli agget-
spensabile per l’identità, giacché È opportuno ricordare, inoltre, tivi “selvaggio” e “primitivo”.
consente al gruppo di riconoscersi come già alla fine del ’700, mosso da È da notare, inoltre, come nella
nel tempo uguale a sé stesso. Dal un intento rivendicativo affine a rappresentazione stilizzata della
canto suo l’identità mostra d’essere quello già menzionato in relazione Sardegna offertaci da Grazia
«il selettore che fa privilegiare al alla memoria storica, l’abate oziere- Deledda si realizzi un’osmosi totale
soggetto certi ricordi piuttosto che se Matteo Madao si prefisse di resti- fra natura e cultura, compenetrazio-
altri» (Jedlowski, 1997, p. 78), inter- tuire dignità alla lingua e alla cultu- ne individuabile innanzitutto nella
pretando le configurazioni culturali ra sarde, mediante numerose com- specularità fra “tono” del paesaggio
del passato alla luce delle esigenze parazioni con il mondo biblico e clas- e forme espressive della cultura loca-
del tempo presente (Assmann, 1997; sico (Madao, 1782, 1792; Cirese, le: la poesia popolare sarda (mutos,
Fabietti, Matera, 1998; Fabietti, 1976). battorinas, ecc.) e i canti a tenores,
2001; Esposito, 2001). Inquadrato in una prospettiva oltre che “selvaggi” e “primitivi”,
Al pari di qualsivoglia aspetto che coniugava elementi di matrice sono “melanconici”, proprio come
estrapolato dalla materia amorfa del antiquaria (in particolare la ricerca gli spazi più caratteristici del paesag-
reale, tanto la memoria quanto l’i- dell’origine di usi e costumi) con un gio isolano (le tancas, le brughiere,
dentità necessitano di essere “messe generale impianto evoluzionista ecc.).
in forma” all’interno di strutture (secondo cui tutte le società apparte- In questa stessa ottica, anche il
narrative dotate di coerenza e uni- nenti al genere umano sarebbero costume tradizionale è descritto
formità. Secondo la lezione dello psi- state destinate a compiere, pur in quale naturale riverbero delle tonali-
cologo cognitivista Jerome Bruner, tempi e luoghi differenti, un medesi- tà cromatiche del paesaggio. Ad
infatti, non esisterebbe «una realtà mo iter evolutivo), il popolo sardo esempio, nel bozzetto giovanile La

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donna in Sardegna (1893) la scrittrice afferma che le stof- pologico?


fe dei costumi indossati per le grandi occasioni dalle La realtà è che l’identità è proteiforme, in continua
donne di Tonara sarebbero in grado di evocare «la dol- evoluzione all’interno di uno scorrere eracliteo dell’esse-
cezza delle foglie dei castagni, ai primi d’autunno, nella re, nonostante il fascino esercitato da qualsiasi ben con-
luminosità dei tramonti silenziosi». Anche il pittore gegnata utopia di stabilità e permanenza. Anche le tra-
Giuseppe Biasi, che con Grazia Deledda intrattenne una dizioni più conservative si rinnovano, anche la “Sardegna
lunga e proficua collaborazione fino al 1929, illustrando- omerica” cambia. E se la surmodernità ci destabilizza,
ne numerose opere, definiva l’abbigliamento tradiziona- ben vengano gli “esorcismi poetici”, ma a patto che si
le «sempre in armonia» con le forme e i colori dello sce- tenga presente che di esorcismi si tratta.
nario naturale. La memoria di ciò che è stato va custodita, perché
Rivisitata alla luce del filtro estetico primitivista, all’e- senza la storia, conservata soprattutto nella lingua, non
poca in auge soprattutto in ambito iconografico, la c’è identità. Ma la memoria spacciata per realtà autenti-
Sardegna deleddiana si configurava come un angolo eso- ca e perdurante ad oltranza è un’illusione, ed è bene
tico dell’Europa civilizzata, ineguagliabile e perfino “biz- averne coscienza, se s’intende guardare le cose secondo
zarro” (altro aggettivo ricorrente) nella sua inimitabile una prospettiva antropologica.
peculiarità. Tutto questo è espresso sotto forma di metafora let-
Inizialmente osteggiata dai suoi conterranei, soprat- teraria da un antropologo come Giulio Angioni, autore,
tutto dai progressisti avversi all’immagine di una oltre che di numerosi e importanti saggi scientifici, di
Sardegna immobile fra le onde della storia, oggi, trascor- un’ormai corposa produzione narrativa. L’antropologo
si ottant’anni dal conferimento del Nobel e sessanta dalla sardo, che considera la narrativa «un mezzo molto, molto
morte, la scrittrice nuorese sembra aver finalmente tro- più potente di comunicazione di quanto lo sia la scrittura
vato nella sua isola quell’apprezzamento che inizialmen- saggistica», affronta, attraverso entrambe le forme
te i sardi le negarono. Forse perché costoro si sono accor- espressive, soprattutto il motivo del «mutamento vertigi-
ti che l’identità è fatta anche di storie non necessaria- noso» verificatosi, non solo in Sardegna, negli ultimi cin-
mente reali, ma trasfigurate da una “memoria poetica” quant’anni (Angioni, 2006, p. 176).
che sappia edulcorare le asperità del reale. Senza trala- Già nelle pagine del suo primo romanzo, L’oro di
sciare, poi, che, di quando in quando, perfino nelle più Fraus (1988), il tema del cambiamento culturale si pre-
classiche opere deleddiane fa capolino una Sardegna tut- senta come il leitmotiv. Il protagonista della vicenda,
t’altro che mitizzante, bensì soggetta a tutte le crisi e le Puntiglio, sindaco filosofo del paese di Fraus, scopre che
contraddizioni originate dal fluire della storia e dall’in- Sa domu ’e s’orku, un ipogeo preistorico, luogo della
calzare della modernità (Paulis, 2006). Anche in relazione memoria per antonomasia, è stato usurpato da una
al paesaggio talora emergono le tracce della realtà stori- misteriosa associazione che vi compie attività illecite,
ca, scalzando l’impianto mitizzante. Ad esempio, nei rife- forse coltivando funghi sperimentali, o forse raffinando
rimenti a una natura sarda violata e martoriata dalla droga.
piaga degli incendi e del disboscamento, tema affrontato Alla fine del romanzo il lettore non scoprirà la verità
nei romanzi Il nostro padrone, Sino al confine, Le colpe sull’effettivo utilizzo del monumento, ma, seguendo le
altrui e nella novella Colpi di scure. indagini di Puntiglio, vedrà Sa domu ’e s’orku, quasi
Tuttavia, il luogo letterario di maggior impatto creato grembo materno della comunità di Fraus, trasformarsi in
dalla scrittura deleddiana — una Sardegna senza tempo spazio estraneo e mortifero. Forse la vera ricchezza,
e culla di memorie ancestrali, individuata essenzialmente l’“oro di Fraus”, era proprio questo luogo della memoria
nella Barbagia conservativa e “resistenziale” (Lilliu, 2002) collettiva, con tutto il suo patrimonio di leggende e tra-
— risulta di tanta e tale efficacia, che più di un narratore dizioni? Un tempo sede del meraviglioso e dell’immagi-
sardo contemporaneo dichiara il proprio debito nei con- nario popolare («Mia madre […] mi parlava di giardini di
fronti della Deledda: da Marcello Fois, anch’egli nuorese, cristallo, lacrime fatte fiori, e di telai di fate, che nelle
all’oranese Salvatore Niffoi. Quest’ultimo, con un’opera- notti silenziose si sentono tessere nei loro telai d’oro»:
zione simbolica di natura selettiva simile a quella della Angioni, 1988, p. 113), Sa domu ’e s’orku viene profana-
sua illustre precorritrice, impiega di preferenza la ta, contaminata dalle brutture del mondo moderno. Il
Barbagia arcaica quale simbolo dell’intera isola, facendo- “sacrilegio” compiuto fa paventare drammi ancor più
ne la metafora di un male di vivere comune a tutto il grandi della già grave disgrazia con cui si apre il roman-
genere umano, a prescindere dalla contingenza dei tempi zo (la morte di un ragazzo), quasi in una sorta di “rivinci-
e dei luoghi. Sono proprio le suggestioni evocate da un ta” dell’antica musca macedda, essere mostruoso della
paesaggio di scuola deleddiana, gravido di storia e molto narrativa tradizionale sarda, che, posto a guardia di teso-
concreto nella sua fisicità («ti sembra di annusare la gine- ri quale deterrente per gli avidi cercatori di ricchezze, era
stra, come di sfiorare la sagoma ruvida delle rocce»: in grado di scatenare immani catastrofi.
Niffoi, 2006), come pure la peculiarità dell’impasto lin- Nessuna velleità idealizzante, dunque, sottesa a que-
guistico, in cui il sardo, altro “deposito” della memoria sto romanzo, bensì un’amara considerazione su una real-
collettiva, svolge un ruolo importante, ad aver determi- tà contemporanea nella quale spesso il dominio della
nato il successo di pubblico che ha conosciuto e conosce memoria collettiva appare usurpato dagli aspetti negati-
lo scrittore di Orani. vi del progresso.
Ma, se la fedeltà alle memorie della propria terra Minaccia silenziosa ma incombente già nell’Oro di
natia, l’adesione alla cultura d’appartenenza, il radica- Fraus, la droga, male moderno e antagonista della
mento, spesso perfino marcatamente ostentati, costitui- memoria, si ripresenta in una recente opera di Angioni,
scono un efficace antidoto contro il panorama “a-tipi- Alba dei giorni bui (2005). Per il nostro discorso risulta
co”,“a-topico”, “in-odore” e “in-sapore” della surmoder- particolarmente significativo, all’interno del romanzo,
nità, qual è la realtà delle cose dal punto di vista antro- l’episodio relativo alla vendita di un’antica cassapanca

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sarda, vera e propria ara della memoria familiare


(Angioni, 2005, pp. 29, 175), per l’acquisto di una delle
ultime dosi che condurranno il fratello della protagonista
alla morte e quanto resta della loro famiglia al disfaci-
mento.
Angioni invita il lettore alla riflessione sui rischi deri-
vanti dalla perdita della memoria collettiva, senza che,
naturalmente, ciò implichi una romantica quanto sterile
apologia dei tempi passati. Atteggiamento che equivar-
rebbe a “rinculare”, procedendo sempre in retromarcia
come fa Luigi Melas in uno dei racconti appartenenti alla
raccolta Il mare intorno (Angioni, 2003, pp. 121-27), col
rischio di procurarsi alla fine una sorta di “torcicollo cul-
turale”.
Qualora, poi, si voglia guardare all’indietro — ossia,
fuor di metafora, rivisitare il passato —, il processo non si
rivelerà così semplice e immediato. Occorre, infatti, avere
una coscienza etica per rapportarsi alla tradizione e,
ancor di più, per volerla perpetuare.
Questa problematica di sapore squisitamente antro-
pologico si trova al centro di Assandira (2004), altro sti-
molante romanzo di Giulio Angioni. Nell’agriturismo
Assandira l’antico mondo pastorale sardo, compresi i
gesti e i saperi di un mestiere difficile che costringe l’uo-
mo a misurarsi costantemente con una natura tutt’altro
che provvida (Pigliaru, 2000, pp. 216-17), viene letteral-
mente inscenato dall’alba a notte tarda, dinanzi all’oc-
chio compiaciuto dei turisti, desiderosi d’immergersi
nell’“autenticità” della tradizione. La farsa portata all’e-
stremo, fino alla “profanazione” dei valori più intimi di
un orizzonte antropologico ormai tramontato (Angioni,
2004, pp. 216-18), induce il vecchio Costantino Saru, che
quel mondo lo aveva vissuto realmente e con fatica, a
dare alle fiamme il palcoscenico di Assandira. L’incendio,
che riduce in cenere fumante la grande macchina per far
soldi, dove il folklore andava in scena ogni giorno come
la musica suonata da un juke-box dopo l’immissione della
monetina, si configura quasi come la nemesi del mondo
tradizionale contro i colpevoli di oltraggio alla sua
memoria. Riferimenti Bibliografici
Dunque, se la letteratura costituisce uno di quegli
«atti di traslazione che rendono possibile il ricordare Accardo A. (2003), “Li disonesti giudizi degli stranieri”, in Atti del
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non solo per ribadire l’importanza della memoria, ma Vernaleone, CUEC, Cagliari, pp. 155-72.
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dalle
garepoetiche
al
“Premio Ozieri”
Antonio Canalis

Il 15 settembre del 1896, come La poesia estemporanea, che la torno dei festeggiamenti delle tradi-
ricorda in una famosa ottava il poeta critica ufficiale ha spesso sottovaluta- zionali sagre paesane. La gente si tra-
ozierese Antonio Cubeddu (iniziato- to, si è caratterizzata come una bran- sferiva in massa in piazza, sotto i pal-
re di quella che divenne poi una vera ca importante dell’arte poetica e chi dei poeti ormai beniamini delle
tradizione per l’intera Sardegna), in siamo oggi di fronte ad una decisa e folle, portandosi le seggiole da casa.
Piazza Cantareddu (piccola sorgente) rinnovata presa di coscienza dell’in- Gli argomenti e le ottave venivano
ad Ozieri, la poesia improvvisata si teresse, non solo letterario, che essa trascritti con la tecnica dei due scriva-
fece occasione di pubblico confronto ha rivestito nella cultura popolare. ni e del verso alternato, per essere
tra i cultori di quella che fu un’arte Nella gara poetica, infatti, ogni comunque registrati nella memoria
antichissima fino ad allora relegata a concorrente è allo stesso tempo popolare, in assenza del magnetofo-
cuiles, magasinos e domos in festa poeta, cantante e attore. Lo sviluppo no. Molte persone, peraltro, erano in
pro affidos e battijamos (ovili, canti- degli argomenti passa dai sentimenti grado di mandare a memoria decine
ne e case in festa per sposalizi e bat- più alti e profondi al vivere quotidia- e decine di ottave e di ripeterle con il
tesimi). no, ai grandi temi universali che sono ritmo cantilenante de sos traggios
La poesia improvvisata, infatti, gli interrogativi di ogni essere (dei modi cantilenanti e del tono) di
affonda le sue radici nel passato clas- umano. Talvolta, anzi per lo più, i ognuno dei protagonisti.
sico e non è solo una caratteristica protagonisti non risparmiano, in Da notare che il “cantare in poe-
della Sardegna, ma di tutto il mondo. linea con la tradizione di questo spet- sia” veniva scandito e ritmato dall’ac-
Qui da noi, però, la pratica della poe- tacolo di autentico teatro popolare, compagnamento di tre “tenores”
sia orale ha raggiunto - in certi perio- le schermaglie verbali e le reciproche (coro a tre voci, appunto), che inter-
di - livelli di grande attesa e diffusio- punzecchiature. venivano durante l’improvvisazione
ne popolare. Tant’è che molta gente Dalle allusioni ironiche iniziali, con alcune note del loro canto, nor-
ricorda ancora a memoria, e cita le alle garbate provocazioni poi ed ai malmente ogni due versi dell’ottava
ottave de sos mazores, cioè dei poeti classici colpi di punta, piatto e fen- e in chiusura della stessa.
che si sono distinti per la loro abilità dente, talvolta conditi di sana catti- Tanto successo di pubblico, però,
nel comporre e cantare a bolu (a veria, ma più spesso signorilmente finì alla lunga per dover fare i conti
volo) le loro rime sugli argomenti più mirati, il passo è breve. con una quasi certamente immeritata
disparati, a tema libero o a tema Il tutto, naturalmente, nell’assolu- opposizione dei vescovi sardi per pre-
imposto. Tra questi, appunto, oltre al to rispetto della rima, della metrica, sunto o preteso vilipendio delle cose
già citato Cubeddu, Ozieri ha dato i dei modelli poetici più seguiti, del sacre, e dell’autorità costituita per
natali a Giuseppe Pirastru, a canto e del buon gusto. non meglio precisate ragioni di ordi-
Giuseppe e Francesco Morittu, ma La diffusione delle gare in tutta la ne pubblico, tant’è che dal 1932 al
anche ad altri bravi cultori della Sardegna divenne ben presto uno 1937 le gare poetiche furono addirit-
materia. degli spettacoli più richiesti nel con- tura vietate, per riprendere nuova-

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mente, con più vigore, subito dopo la guerra mondiale e ormai superati e inattuali. Così fu per la prima edizione,
scemare infine, piano piano, fino ai giorni nostri. esaminata da una giuria tutta paesana, ma anche per
Nel frattempo però, altri contesti e altre esperienze si alcune delle successive. I fasti dei poeti improvvisatori
affacciavano all’orizzonte della poesia sarda. ozieresi Pirastru, Cubeddu e Morittu, che avevano avuto
Si era nel ‘cinquantasei. La gente lo ricorda più per la – come si è visto - grande notorietà in tutta la Sardegna
nevicata eccezionale (Ozieri trascorse un mese tra fiocchi a partire dal 1896 (prima gara poetica su palco, anch’essa
e ghiaccioli), che per la nascita - sia pure occasionale - del ad Ozieri, ed anch’essa nell’ambito della festa del
Premio di Poesia Sarda Città di Ozieri. Eppure, in quei Rimedio) esercitavano ancora un irresistibile richiamo per
primi anni del dopoguerra, vissuti tra privazioni, sacrifici i rimatori ad oltranza, che, però, iniziavano a dare mag-
e speranze, si affacciò l’idea che un Premio Letterario in gior peso e credito anche al componimento a taulinu (a
limba (lingua) sarda potesse contribuire non poco alla tavolino), fino ad allora tenuto in scarsa o nulla conside-
rinascita culturale della Sardegna. razione e relegato ad attività poetica secondaria e di qua-
Erano tempi in cui parlare e soprattutto scrivere in lità inferiore da parte dell’opinione comune.
sardo non erano considerate attività qualificanti, e non Tonino Ledda era persona conosciuta, nel campo let-
solo a livello di società organizzata: anche gli intellettua- terario e culturale in genere. La sua attività di poeta,
li dell’epoca erano compiutamente contrari a dare digni- guarda caso in lingua italiana, lo poneva in contatto con
tà letteraria ad una lingua da trattare, al di più, alla stre- personalità dell’ambiente letterario e con il mondo della
gua di un dialetto. E poi, ancora, muri e contrade risuo- critica. Anno dopo anno, si delineò così quello che finì per
navano dell’eco dell’imperativo “Parla italiano!” del dis- essere un autentico progetto culturale e che determinò lo
cusso ventennio fascista. svecchiamento dei modelli poetici da parte degli autori
Il Premio nacque appunto come riempitivo nel cartel- sardi. Non solo, ma anche l’approccio ai grandi temi della
lone dei festeggiamenti dell’antica Sagra per la Beata poesia italiana ed universale, fino ad allora completa-
Vergine del Rimedio, copatrona della città. mente fuori dell’interesse dei poeti di Sardegna. E la par-
La risposta massiccia all’appello del fondatore Tonino tecipazione di giovani e giovanissimi e di uomini di cultu-
Ledda da parte dei poeti di tutta l’Isola, e anche dai luo- ra all’agone che, anno dopo anno, era diventato il Premio
ghi dell’emigrazione, gli fece intuire quanto fosse grande Città di Ozieri. E l’apertura a tutte le parlate dialettali
l’interesse a far sentire la propria voce intima da parte di parzialmente o del tutto estranee al sardo, come il sassa-
un popolo legato alla poesia da sempre. rese, il gallurese, il tabarchino di Carloforte, dall’isola di
Contadini, pastori, operai, artigiani... Tabarka, in Tunisia, che ospitò una colonia di geno-
Qualche raro “acculturato”. Per la vesi di Pegli, poi trasferiti appunto nell’isola
maggior parte, però, fautori e osti- sarda di San Pietro, dove ancora si parla un
nati difensori di una tradizione dialetto ligure. E l’inserimento di nuove
poetica legata all’oralità e ai sezioni, come prosa, teatro, saggistica,
modelli del passato, poesia edita, emigrati.

Gara poetica.
Foto S. Porcu . 1916

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d’Italia
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Determinante, ai fini della cresci- volontà e l’intuito della Comunità ermetica o comunque moderna, nel
ta della manifestazione, fu l’ingresso Montana del “Monte Acuto”, che ha tentativo d’apertura verso canoni
graduale in giuria e l’alternarsi di realizzato ed attrezzato la struttura poetici peninsulari ed europei; nel
spiccate personalità del mondo lette- mediante il recupero e la valorizza- tentativo di forzare almeno in quel
rario sardo, tra cui Cicitu (Francesco) zione di un antico palazzo del centro settore i fili spinati della riserva india-
Masala, Manlio Brigaglia, Antonio storico. na entro cui politica, economia e cul-
Sanna, Carlino Sole, Mario Mossa La Comunità Montana ha ricono- tura romane ci respingevano, soprat-
Pirisino, Gavino Pau, Antonio Simon sciuto così, affidandogliene anche la tutto mediante l’italianizzazione
Mossa, Giuseppe Pisano, Alfredo gestione, che il fenomeno creato dal capillare attuata con i mass-media,
Deffenu, Enzo Espa, Nicola Tanda, Premio Ozieri ha importanza almeno oltre che con la scuola.
Giovanni Campus, Fernando Pilia, di livello regionale. Personalmente, avevo iniziato nel
Lorenzo Del Piano, Leonardo Sole, Il Centro è destinato ai documen- 1966, come ho già detto; altri si bat-
Paolo Pillonca, Salvatore Tola, Franco ti che il Premio già possiede, ma tevano da alcuni anni prima, spesso
Fresi, Giovanni Maria Cherchi. anche quelli che autori e familiari fra polemiche roventi. Alfieri dell’o-
C’è anche da dire che, almeno vorranno rendere disponibili, a perazione erano un linguista di pro-
fino alla ventesima edizione, gli cominciare da quelli di Pedru Mura e fessione ed altri studiosi più o meno
organi d’informazione collaborarono Forico Sechi, solo per citare due dei dilettanti, che, nonostante la sacrali-
con ampi servizi e speciali sul Premio, grossi calibri che l’Ozieri ha scoperto tà della causa comune, non perdeva-
diventato nel frattempo Premio e valorizzato. Così pure, si spera, per no occasione per beccarsi peggio dei
Ozieri di Letteratura Sarda, e che era la immensa produzione poetico-let- pollastri del Renzo manzoniano. Con
- fino ad allora - anche l’unico esi- teraria raccolta in questi ultimi la scuola poetica ozierese, che ormai
stente in Sardegna. Interesse e spazio decenni dagli altri Premi Sardi. otteneva qualche consenso anche
che andò via via scemando, man Cinquant’uno lunghi anni sono all’estero (alcuni componimenti
mano che presero ad affacciarsi all’o- trascorsi, da allora, ma l’interesse per erano entrati in antologie francesi,
rizzonte altri premi letterari in sardo l’argomento è ancora ben vivo. Solo con traduzione a fronte), s’intende-
nati sul modello dell’Ozieri e che si oggi si iniziano a vedere i frutti del- vano raggiungere due obiettivi: inse-
diffusero rapidamente in tutta l’Isola l’immane lavoro di tutti questi inna- gnamento della lingua sarda nelle
a partire dal 1977-78. Inflazione, dice morati del sardo idioma, sfociato in scuole statali; riconoscimento della
qualcuno. Segno preciso, invece, che una sia pur tardiva legge regionale di lingua sarda come lingua ufficiale
l’Ozieri aveva centrato in pieno l’o- riconoscimento della necessità di della minoranza etnica dell’isola,
biettivo di richiamare l’attenzione tutela e valorizzazione della lingua e accanto all’italiano. La storia di que-
dei Sardi sulla poesia e sulla lingua! della cultura sarda. Il primo, conse- sti decenni ha dimostrato chiaramen-
Nel 1996 si celebrò il quarantesi- guente tentativo di unificazione del te che si trattava di velleitarismo,
mo della fondazione del Premio sardo scritto, che ha ricalcato una perché la lotta è iniziata troppo
Ozieri, che coincise incidentalmente anticipazione di svariati decenni or tardi, in una fase ormai irreversibile
con il centennale della “gara poetica sono, a suo tempo tentata dell’italianizzazione; perché non si
su palco”. Oltre cinquant’anni di atti- dall’Ozieri, ha registrato da subito poteva e non si può ridurre la causa
vità hanno registrato ad oggi il pas- non poche polemiche, ma la strada d’una nazione autonoma sarda ad un
saggio nella “palestra letteraria” sembra ormai tracciata, tant’è che la mero fatto fonetico, d’una lingua
dell’Ozieri di oltre duemila autori. Un Regione Sardegna ha adottato per i ch’esprimeva appieno la cultura
autentico esercito. Tutt’ora l’indiriz- suoi atti bilingui uno standard di rife- sarda (agro-pastorale) fino all’imme-
zario del Premio contiene 1200 nomi- rimento. diato secondo dopoguerra, ma è ina-
nativi. Certo, non si pretende che Sempre che non sia tardi. Riporto deguata (e lo sarà sempre più) ad
tutti i lavori presentati abbiano alta a proposito, a puro titolo di riflessio- esprimere la cultura successiva del
dignità letteraria, ma tutti indistinta- ne, quanto fu scritto, nel luglio del petrolio, del metadone e della prosti-
mente racchiudono al loro interno 1982, dal poeta ploaghese Antonio tuzione internazionale costiera ed
preziosi elementi se non altro in ter- Satta, vincitore del “Premio Ozieri” interna; perché, infine, anche la sem-
mini linguistici ed etnodemologici e nel 1973, nel bel libro dimenticato Il plice unificazione ortografica della
costituiscono certamente un “giaci- bambino di Ozieri: lingua sarda è sempre apparsa quan-
mento” letterario importante che «Il dogma poetico del mio interlo- to mai problematica per la moltepli-
deve essere conservato, studiato e cutore era più categorico ed insidio- cità dei dialetti, che presentano
reso disponibile a vantaggio di stu- so, perché aveva il supporto della più varianti persino tra paesi distanti
diosi, cultori e semplici appassionati. conservatrice opinione pubblica appena un tiro di fucile. In quegli
Da qui è nata l’idea della creazione di ploaghese: non c’è poesia se non c’è anni ruggenti, la stampa locale aveva
un Centro di Documentazione e la rima; rima dell’ottava, soprattutto. definito Ozieri la “Atene della
Manoscritti della Letteratura In occasione dei premi ozieresi, insie- Sardegna”, con disappunto e reazio-
Regionale, che è ormai in fase di me con altri spesso (anzi, quasi sem- ne dei nuoresi, che rivendicavano
avanzato avvio ad Ozieri, su iniziativa pre) più capaci di me, avevo costretto quel titolo alla loro città, per via del
proprio del Premio e per la buona la lingua sarda al codice della poesia poeta Sebastiano Satta e della scrit-

45 il folklore
d’Italia
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trice Grazia Deledda, premio Nobel; dal canto suo, un lin- re...”,/ rispondet su Corrasi./ In sas umbras de Locoe/ s’in-
guista bonorvese s’era affrettato a definire la natia trizzan ‘ides noellas:/ noellas promissas?(Con antica voce
Bonorva “Siena della Sardegna” per una millantata supe- di pianto/ Orgosolo preghi:/ “Signore dell’aria fresca,/ do-
riore purità dialettale; la mania cessò, sfortunatamente, naci la pace/ e l’amore bramato”./ Dall’Ortobene/ scende
proprio quando un buontempone, in una “lettera aper- la pace/ del Redentore,/ vestita come voi,/ di vellutino./
ta” a tutti i giornali sardi e mai pubblicata, si accingeva a “Vento d’amore”,/ risponde il Corrasi./ Nelle ombre di Lo-
lanciare un concorso a premi intitolato: Gli struzzi della coe/ s’intrecciano/ idee novelle;/ novelle promesse?).
Sardegna. I lettori - mi spiegava - avrebbero espresso su
un apposito tagliando la loro preferenza per questo o
quello dei più chiassosi Don Chisciotte della cultura, che,
a suo dire, nascondevano la testa di fronte alla realtà,
come gli struzzi; si sarebbe poi redatta una graduatoria
ed i primi dieci avrebbero ricevuto premi differenziati
secondo la scala simbolica della carte da gioco: Re degli
struzzi, Regina degli struzzi, Cavaliere degli struzzi,
Settimo struzzo e così via. Titoli tutti da trascrivere e
documentare con tanto di pergamene…»
Parole profetiche, o facile profezia? Questo tipo di
argomentazioni tiene banco ancor oggi, e tanto ancora si
dibatte. Ma i buoi, fortunatamente, non sono tutti usciti
dalla stalla, e si deve – come minimo – tentare doverosa-
mente di salvare il salvabile. Il Premio Ozieri, a costo di
perpetuare la contiguità di sempre, cui peraltro è avvez-
zo, con nozze e fichi secchi, dirà ancora la sua. Finché
potrà.
Un altro esempio di particolare rilievo è la poesia (in
sardo logudorese) di Giovanni Soro (Chiaramonti) intito-
lata “Orgosolo” che ha ricevuto la menzione d’onore alla
X edizione tenutasi nel 1965.
Il periodo è quello difficile che prelude, in Sardegna,
alle famigerate imprese del banditismo sardo legate alla
figura di Graziano Mesina, un momento della storia
sociale sarda profondamente segnato dalla piaga dei
sequestri di persona. Fin da subito la gente sarda si ribel-
lò contro questa feroce e delittuosa pratica. Ci sono volu-
ti altri quarant’anni ed oggi il triste fenomeno sembra
pressoché debellato. Giovanni Soro fu tra gli intellettuali
in prima linea a prendere posizione con la sua voce di
poeta:
Cun antiga ‘oghe de piantu/ Orgosolo, pregas:/ “Si-
gnore de s’àghera frisca/ dannos sa pache,/ s’amore bra-
mau”./ Da-e s’Ortobene/ falat sa pache /de su Redentore
/ ‘estida comente bois: /de bellutinu. /“Bentu ‘e amo-

il folklore 46
d’Italia
i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t

Il
C
ca
h
1. Condotte
polivocali

i
Il celebre bronzet-
to nuragico, databile al
VI sec. A.C., che mostra

a
n
un suonatore di strumento
tricalamo, va certamente
collegato, come recentemente

r
ha ribadito Andrea Deplano
t
(Deplano 2007, pp.11-13), alla pra-
tica, diffusa nell’Isola, del canto a

a
o
più voci. Tale relazione, però, non va
stabilita per provare l’antecedenza
della polifonia vocale rispetto a quella
strumentale o viceversa (come di volta in
volta hanno ipotizzato i partigiani dell’uno o
dell’altro genere), quanto piuttosto per confer-
po
S
mare la radicata predisposizione dei sardi alla
produzione e all’ascolto di eventi multifonici. In
buona sostanza, si vuole affermare che launeddas e

o
canto a tenore, due generi molto diversi nell’assetto
timbrico e nelle strategie di elaborazione dei materiali
sonori, hanno con tutta probabilità una matrice comune:
ci rimandano alla pratica, estremamente diffusa nel
l i
liv
Mediterraneo antico (come provato da diverse fonti let-
terarie e soprattutto iconografiche) e della quale, riman-
gono evidenti tracce nelle culture musicali che attual-
mente insistono nella medesima area. puni-
Bisogna infatti pensare alla polifonia non come una n ci non
“complicazione” del sistema musicale (ottenuta con l’ag- poteva
giunta, a una data melodia, di una seconda o una terza essere, di
o
voce) ma piuttosto come una forma di espressione musi- certo, a
cale in sé compiuta, certamente preesistente, come
a tenore, nel-
sostiene Curt Sachs, al canto monodico. Per lo studioso, l’accezione con
uno dei fondatori della moderna etnomusicologia, «la cui oggi lo cono-
ca
monofonia dei tempi moderni si ritrova – infatti – qua e sciamo; parimenti
s
là nel mondo primitivo e orientale come stadio finale di non è ipotizzabile,
quella che il tempo era polifonia» (Sachs 1972: p. 192). nemmeno lontanamen-
Non sempre il più corrisponde al dopo e il meno al prima: te che l’auleta itifallico
nei processi culturali, come nel linguaggio musicale, sono ittirese suonasse qualcosa
frequenti i processi di semplificazione, di riduzione dal di simile a una picchiada per
l
molteplice al singolo. fiorassiu o puntu ’e organu.
Il bronzetto di Ittiri, come le altre, numerose attesta- Per attualizzare l’analisi,
e

zioni di strumenti policalami nella Sardegna punica e bisogna aggiungere che la polifo-
romana, pur utili a stabilire una continuità d’uso di que- nia sarda, vocale o strumentale che
sto tipo strumenti, non vanno visti come un’eccezione o sia, non interessa unicamente gli stu-
una singolarità locale, quanto piuttosto come la prova di diosi e gli “archeologi” della musica, ma
una “normalita”; analogamente, ipotizzare già nel mantiene nell’Isola una eccezionale rile-
mondo antico e protostorico l’esistenza del canto a più vanza sociale e vitalità, per certi versi mag-
voci, appare del tutto legittimo, storicamente e antropo- giore della monodia. Un fenomeno in contro-
logicamente fondato. Va da sé che tale congettura tendenza rispetto al resto dell’Italia, dove,
riguarda unicamente le condotte e, per mutuare un ter- come afferma Tullia Magrini, alla polivocalità è
mine della linguistica, il “sostrato” polifonico della musi- riservato un ruolo marginale e secondario rispetto
ca mediterranea e sarda, non le forme e i repertori. Il al canto e alla musica monodica (Magrini s.a.: pp
canto a più voci dei popoli nuragici o degli insediamenti 104). I Sardi, cioè, attribuiscono al tenore e al cuncor-

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d’Italia
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du, dei quali si parlerà più avanti, come pure al suono sertu (genericamente assimilabile all’italiano ‘concerto’,
delle tre canne che compongono le launeddas, una gran- nel significato di ‘insieme coeso’; dal latino cum-serere
dissimo valore emblematico e identitario, maggiore, si ‘tenere insieme, intrecciare’), a cantu a proa, lellere, bim-
può pensare, di quello attribuito al canto a chitarra, tipi- birimbò, con chiaro riferimento all’accompagnamento
co esempio isolano di monodia accompagnata. non sens delle tre voci (Deplano 1994, p. 38).
Prima di procedere nella descrizione dei vari generi e Particolarmente significativa anche la denominazione di
forme di canto polivocale sardo, si ritiene necessaria una cuntrattu, forse da intendersi, metaforicamente, come
precisazione riguardante proprio il termine polivocalità, ‘pieno accordo’ tra le voci; denominazione, in tale acce-
preferito dall’etnomusicologia italiana a quello, pur cor- zione, omologa a cuncordu, rilevata in località sparse, ma
retto, polifonia. Quest’ultima nozione appare, infatti, che nel Montiferru conferma l’affinità (evidente già nel
eccessivamente compromessa con la musica colta, dove timbro e nel comportamento delle tre voci) tra il tenore
viene comunemente utilizzata per definire l’interazione e di questa zona e il canto religioso confraternale, detto
la simultaneità di più linee melodiche indipendenti e appunto a cuncordu.
relativamente autonome; d’altra parte riteniamo che la L’area di diffusione del tenore è piuttosto vasta e com-
parola polivocalità individui meglio un canto di gruppo, prende, grosso modo, la fascia di territorio che attraversa
come quello sardo, fondato, come si dirà in seguito, sulla il centro dell’Isola da mare a mare; anche se bisogna far
compresenza di più voci che, in tempo reale, trovano presente la difficoltà di circoscrivere in modo preciso un
l’“accordo” nel timbro e nella frequenza; un procedi- fenomeno così vitale, riscoperto e “ricostruito” sulla base
mento tipicamente vocale, difficilmente realizzabile con di testimonianze degli anziani in molti centri più o meno
gli strumenti, che giustifica, pertanto, l’impiego del ter- limitrofi all’area indicata. Infatti, come osserva ancora
mine in questione. Andrea Deplano, la zona di questo singolare esempio di
canto polivocale si è estesa sensibilmente in questi ultimi
2. Il canto a tenore e la taja gallurese dieci anni e continua ad espandersi.
Si è già accennato, nelle righe precedenti, ai principa- Egli propone una suddivisione di quest’area in cinque
li generi di canto polivocale sardo: quello a tenore e quel- distinte regioni, individuate in base al modo di cantare a
lo a cuncordu, ai quali bisogna aggiungere la taja dell’a- tenore, quali il timbro più o meno aperto del basso, tim-
rea gallurese. Molti sono i punti di contatto tra questi bri più o meno laringali o faringalizzati di bassu e contra,
generi di canto, ma altrettante le differenze. Differenze tipo delle sillabe non-sens, disposizione dei corfos (ossia
che riguardano il canto del testo da parte di ogni singolo dei ‘colpi’ con cui bassu, contra e mesu oche intervengo-
cantore, il timbro e l’emissione della voce, nonché l’am- no sulla voce principale), forme poetiche, repertori pre-
bito d’uso, sacro o profano. Non sempre tali differenze, dominanti ecc.
però, sono sufficienti a definire, in maniera assoluta, un Può essere utile, a questo proposito, riportare qui di
genere piuttosto che un altro, visto che in alcune zone seguito l’elenco dei paesi compresi in ciascuna di queste
della Sardegna, per fare un esempio, il canto a tenore regioni (Deplano 1997, pp. 65-77; Deplano 2007, pp. 19-
profano assume alcuni tratti tipici di quello sacro (è il caso 25), ribadendo che si tratta di una rilevazione in progress,
dell’area che insiste sul Montiferru), mentre quando nella passibile, ovviamente, di ulteriori aggiornamenti e inte-
Barbagia il tenore canta in chiesa, le voci “di accompa- grazioni:
gnamento” intonano porzioni di testo in luogo dei con- • BARONIA: Dorgali, Galtellì, Irgoli, Loculi, Onifai,
sueti non-sens. Considerazioni analoghe verranno fatte a Orosei, Posada, Siniscola, Torpé.
proposito della taja e del cuncordu di Castelsardo: insom- • ORUNE E ZONE INTERNE: Alà dei Sardi, Anela, Benetutti,
ma, come spesso capita in questo genere di approccio, le Bessude, Bitti, Bono, Bottida, Buddusò, Bultei, Burgos,
classificazioni e le tassonomie vanno prese come tenden- Lodé, Lollove, Lula, Monti, Nule, Olbia, Onanì, Orotelli,
ze generali, non come dati assoluti e definiti. Orune, Osidda, Pattada.
Il canto polivocale sardo, tipicamente profano, è noto • ORGOSOLO E PAESI DEL SUPRAMONTE: Fonni, Gavoi, Lodine,
come a tenore, dove la locuzione va intesa originaria- Mamoiada, Nuoro, Oliena, Ollolai, Olzai, Oniferi, Orani,
mente come canto (quello della voce principale, sa Orgosolo, Ottana, Ovodda, Sarule, Teti, Tiana.
boche) “accompagnato dal tenore” (vedi la locuzione • MARGHINE E PLANARGIA: Abbasanta, Bolotana,
omologa di canto a ghiterra, da intendersi ellitticamente Bortigali, Lei, Macomer, Norbello, Scano Montiferro,
come “voce con accompagnamento di chitarra”). Per Silanus, Sindia.
tenore riteniamo, dunque, l’insieme delle tre voci, due al • CUNCORDU: Bosa, Cuglieri, Santulussurgiu, Seneghe.
di sotto de sa boche (bassu e contra) e l’altra al di sopra La concordia delle voci nel canto a tenore, come pure
(mesu boche), che intervengono per “punteggiare” o in quello religioso, non riguarda unicamente la conso-
contrappuntare il canto principale, affidato proprio a sa nanza delle frequenze (ossia dell’altezza delle voci e
boche. Il termine a tenore (e anche a boche de tenore), degli intervalli armonici che entrano nell’accordo) ma
tra l’altro, serve a distinguere il tipo di canto in questio- anche, e soprattutto, la perfetta integrazione e fusione
ne, da quello, relativamente diffuso in Sardegna, special- delle differenti timbrature vocali. È richiesto a ciascuna
mente nei repertori di ballo, noto come canto a boche voce, infatti, un colore caratteristico e riconoscibile nel-
sola, ossia senza l’accompagnamento di strumenti né del l’ensemble. Contrariamente alla polifonia post-rinasci-
tenore, inteso, come già s’è detto, come l’insieme di mentale della tradizione colta, in cui si ricerca l’omoge-
bassu-contra-mesu boche. Anche se può apparire super- neità timbrica e quasi l’interscambiabilità delle voci, nella
fluo, è opportuno ricordare che si tratta sempre di voci polivocalità tradizionale sarda (ma non solo: anche in
soliste, mai raddoppiabili in coro e rigorosamente a cap- Corsica, Campania o Sicilia), ogni cantore deve necessa-
pella, ossia senza alcun accompagnamento strumentale. riamente differenziarsi, per emissione e colore vocale, dai
In Sardegna si registrano, comunque, altre varianti suoi compagni; ma allo stesso tempo, e qui sta l’estrema
per indicare quello che chiamiamo canto a tenore: da cus- difficoltà di questo genere musicale, deve modulare e

il folklore 48
d’Italia
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adeguare in tempo reale il timbro della voce per ottene- dal brano o tacitamente “richiesto” dal solista, dall’inter-
re, nell’insieme una precisa sonorità. Da quattro diversità vento dell’insieme d’accompagnamento bassu-contra-
deve scaturire quella particolare e ricercata grana o tex- mesu oghe, sos corfos (‘i colpi’, le ‘percussioni’) delle zira-
ture che rende inconfondibile il canto a tenore. Questo das che possono essere brevi o lunghe.
perfetto accordo di timbri, come afferma Gian Nicola Per quanto riguarda i repertori, si può stabilire una
Spanu, appare dunque come il risultato di una addizione distinzione tra quelli finalizzati alla proposta di un testo
di sonorità individuali (e individuabili), laddove nella poli- poetico da parte della voce (boghes longas, boche ’e
fonia colta, un’analoga sovrapposizione di note appare notte ecc.), in cui gli interventi del tenore sono più radi,
piuttosto come il frutto di una moltiplicazione di voci punteggiando la conclusione di una porzione del testo
simili. senza pregiudicarne la comprensione, e quelli finalizzati
Secondo lo studioso, l’accordo intervallare e timbrico, all’accompagnamento del ballo, caratterizzati da una
è l’unità fondante del tenore barbaricino come pure del maggiore interazione voce-tenore, a discapito della com-
cuncordu confraternale; una polivocalità fatta non di prensione delle parole che, inevitabilmente si perdono
parti sovrapposte, tipica del repertorio classico, ma piut- intrecciandosi con i non sens di quest’ultimo. Capita spes-
tosto grappoli di suoni, costruiti nota sopra nota, in cui si so che si inizi a sa seria, con il canto della voce solista
recupera il concetto medievale di contrappunto, ossia di ampio e articolato, per continuare a sa lestra o a ballu,
punctum (cioè ‘nota’) contra punctum (SPANU 2007, pp. intensificando il ritmo e gli interventi del tenore.
762-763). La prova di ciò sta nel fatto che, mentre i can- Un discorso a parte, per concludere la trattazione
tori di musica colta imparano la propria parte separata- della polivocalità profana, va fatto per la taja diffusa
mente e la possono eseguire anche da soli, nella polivo- nella Gallura, nel nord est della Sardegna. Come un’isola
calità tradizionale un cantore difficilmente canterà da nell’Isola, questa regione rivela nella cultura e nella lin-
solo la sua parte, proprio perché ha bisogno continua- gua notevoli diversità con il restante territorio sardo,
mente di riferirsi alle altre voci, cercandole, se possibile, mostrando, nel contempo forti affinità con la vicina
anche con lo sguardo e il contatto fisico. Per lo stesso Corsica, evidenti anche negli usi musicali e soprattutto
motivo le voci, come si è accennato, non possono essere nella polivocalità sacra e profana. Il termine taja (o
raddoppiate in coro (fatta eccezione per rari esempi del tasgia), la cui etimologia va ricercata, come sostiene
repertorio paraliturgici di Castelsardo): sarebbe infatti Giulio Paulis, nel «mondo bizantino ed in particolare
impossibile, da parte di una sezione, modulare in tempo negli usi e nelle tradizioni della Chiesa greca» (Paulis
reale il proprio timbro di voce per raggiungere la sonori- 1983, p. 173), indica attualmente un canto a quattro o
tà ricercata, quello che tutti considerano il buon risultato cinque voci su testi profani, conviviali e soprattutto amo-
dell’esecuzione. rosi; tuttavia, come risulta anche da numerose registra-
La voce più grave del tenore è dunque il bassu (o grus- zioni conservate a Roma nella Discoteca di Stato (effet-
su), caratterizzata da un timbro laringale, quasi “raschia- tuate negli anni 1948-62 da Gavino Gabriel, gallurese e
to”, ottenuto dal cantore facendo co-vibrare (cosa non instancabile divulgatore, a livello internazionale, di que-
facile) la laringe insieme alle corde vocali. Il bassu si sto genere), pare che il termine potesse designare anche
muove, generalmente, su poche note, realizzando una il canto liturgico e paraliturgico a più voci. Un’ambiguità
sorta di pedale non continuo (caratterizzato cioè da una terminologica giustificata da sostanziali affinità musicali
estrema varietà ritmica, specialmente nei repertori di tra la taja e il canto confraternale, come quello che
ballo). accompagna a Castelsardo i riti della Settimana Santa.
Analoga funzione di pedale è svolta dalla contra, an- Di conseguenza sono notevoli le differenze con il
ch’essa dal timbro metallico e gutturale, disposta ad un canto a tenore: nella polivocalità gallurese, infatti il tim-
intervallo di quinta rispetto al basso. Bassu e contra ven- bro delle due voci gravi disposte anche qui a distanza di
gono chiamati in alcuni paesi sa croba, ossia la ‘coppia’ su quinta, il bassu (o grossu) e la contra (detta anche con-
cui si fonda il tenore. Su questa base troviamo, con la to- trabbasso) non è affatto laringale; e benché anche in
nica (ossia la nota iniziale e conclusiva delle frasi melodi- questo caso esista un voce che intona e guida il canto (la
che) ad un’ottava di distanza da quella grave, la boche, boci, o bogi, o tinori), le restanti non si limitano a canta-
voce principale che, a differenza delle altre canta il testo re versi onomatopeici e non-sens ma partecipano all’e-
poetico (escludendo lo specifico repertorio del Montifer- nunciazione della poesia. Al di sopra della boci possiamo
ru). È la voce del solista, quella più libera di muoversi e di trovare il tippi (probabilmente dallo spagnolo tiple, nel
interpretare il canto; non è richiesto neppure un timbro senso di ‘voce acuta’, definito anche trippi o contravoce)
specifico, anche se, come tutte le voci della musica sarda, e infine, nella tessitura più acuta, quando l’ensemble pre-
tende alla nasalizzazione. Al di sopra di essa, ma in stret- vede una quinta voce, si trova il falsittu o quintu.
to collegamento con sa croba, la coppia bassu-contra (con Poiché mancano le voci laringali, l’assetto timbrico
la quale, lo ricordiamo, forma il tenore propriamente appare un po’ più omogeneo, anche se si continua a per-
detto), troviamo sa mesu-boche. La sua funzione è, infat- cepire una certa differenza di colore tra le quattro o cin-
ti, quella di completare e contrappuntare all’acuto le due que parti della taja. Nella conduzione del canto va rimar-
voci gravi (rispetto a queste mostra infatti una maggiore, cata inoltre un andamento più melismatico, con frequen-
seppur relativa, mobilità e indipendenza) e insieme a ti microintervalli e glissandi di tutte le voci, simili, per
queste accompagnare sa boche, come più volte si è ripe- certi versi, alle calate a alle dolci del canto confraternale
tuto, con sillabe non sens come bim-ba, bim- bam- ba-ra, castellanese.
ellele etc.
Difficile descrivere le modalità esecutive di questo 3. La gara poetica
canto; basti dire che, generalmente parte da un’intona- Benché ne costituisca solo un aspetto secondario e
zione (sa pesada) da parte della boche, più o meno lunga marginale, un coro a tre voci (o, in certi casi a due), ana-
a seconda del tipo di repertorio, seguita, quando previsto logo al tenore appena descritto, è di fondamentale

49 il folklore
d’Italia
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importanza anche nelle gare di poesia estemporanea, o to con la giusta successione delle rime. Costruito un buon
gare poetiche, per rimarcare le cadenze intermedie e/o numero di ottave, si passa all’improvvisazione delle bat-
finali dei versi improvvisati dai concorrenti. Il coro è qui torinas, brevi componimenti di quattro versi a rima incro-
un intervento accessorio e l’attenzione dei presenti non è ciata che iniziano con il verso A la cantamos una battori-
concentrata sulle qualità musicali della voce del poeta o na, oppure, battoretta, paesana, furistera, bruschistiglia
dei cantori che lo accompagnano. ecc. forme poetiche ampiamente documentate e analiz-
Nonostante le apparenze, la componente musicale, zate da Aldo Maria Cirese nel volume (Cirese, 1988). La
tuttavia, è di estrema importanza nella competizione per- gara si conclude invece con un sonetto, anch’esso improv-
ché aiuta i concorrenti a dare una forma poetica a pen- visato, dedicato al santo della festa o al paese ospitante.
sieri che vengono improvvisati e si dispiegano, nell’imme- Attualmente, invece, come rileva Paolo Pillonca «Fino a
diata verbalizzazione, seguendo la metrica e l’articola- qualche anno fa […] cantavano una strofe di intricatissi-
zione melodica di semplici formule recitative. Anche gli ma elaborazione formale, con i versi intrecciati e capo-
interventi del coro, con i suoi non sens fatti di boo o di volti in una sorta di ebbrezza funambolica di grande
baa, servono, da parte loro, a chiarire meglio la struttura impegno» (Pillonca 1982: p.154).
poetico-musicale delle improvvisazioni e, fatto non
secondario, concede ai poeti un istante in più per elabo- 4. La polivocalità nella liturgia e nella paraliturgia
rare la risposta. Parallelamente alla polivocalità profana del tenore e
La gara è concepita dai partecipanti come un evento della taja si è sviluppata e diffusa nell’Isola una polivoca-
non specificamente musicale, ma essenzialmente poetico- lità tradizionale di tipo religioso, coincidente solo in
narrativo e, visti i temi trattati, anche di tipo filosofico, parte con quella profana. In Sardegna, nell’area del teno-
morale ecc.; tuttavia proprio in considerazione del rilievo re, si cantano a più voci i gotzos (o gosos), canti devozio-
che nell’evento, come si è appena osservato, ha l’elemen- nali, omologhi ai goigs/gozos iberici, in onore dei santi e
to musicale, è utile tracciarne in breve storia e funziona- della Madonna o per accompagnare i riti della Settimana
mento. Santa, brani di solito eseguiti a una voce nel resto
Questo genere di spettacolo ha un luogo e una preci- dell’Isola. Nella versione polivocale, però, le voci del teno-
sa data di nascita: Ozieri, 15 settembre 1896. In quest’oc- re perdono l’asprezza consueta e l’insieme tende piutto-
casione, Antonio Cubeddu ebbe l’idea di trasformare in sto all’assetto del cuncordu, come quello del Montiferru,
competizione una pratica comune in Sardegna attestata senza il basso laringale e senza versi non sens.
già nel ’700; con altri sei improvvisatori di chiara fama Bisogna precisare, tuttavia, che il versante liturgico e
diede vita alla prima gara poetica, della quale, per inciso, paraliturgico del canto a tenore appare marginale e, per
lo stesso Cubeddu risultò vincitore. L’invenzione ebbe un gli stessi cantori, meno significativo rispetto a quello pro-
immediato successo e, nei decenni successivi, si diffuse in fano.
gran parte dell’Isola, acquisendo la struttura che ancora Invece ci sono centri che rientrano nell’area di diffu-
oggi conosciamo. Si registra, però, un certo declino sione del canto a tenore (come Santulussurgiu o Orosei) o
durante il Fascismo quando Chiesa e Regime, non poten- ne sono estranei (Castelsardo), in cui al contrario la poli-
do controllare preventivamente uno spettacolo che vocalità religiosa, tramandata da apposite confraternite,
nasceva dall’estemporaneità, limitarono e censurarono lo ha una rilevanza eccezionale nella vita e nelle tradizioni
svolgimento delle Gare che comunque, dopo il ’45 del locali.
secolo scorso, ripresero il loro regolare svolgimento (v. Questo genere di canto che, per uniformità termino-
Pillonca 1982: pp.150-153). logica, si può definire a cuncordu, benché condivida con
La competizione prevede, da parte dei due o tre con- quello a tenore alcuni elementi di fondo, come si è accen-
correnti, l’utilizzo di varie forme poetiche con le quali nato, si differenzia da quest’ultimo non solo da un punto
devono dimostrare le proprie capacità d’invenzione, di vista poetico e musicale, ma anche per le funzioni, le
espressione e argomentazione. Tali forme si susseguono occasioni e le modalità con cui viene tramandato.
nella gara con un ordine rigoroso e immutabile, a partire Il canto a cuncordu viene usato in quelle località prin-
dall’esordio, nel quale i partecipanti a turno improvvisa- cipalmente durante la Quaresima e durante i riti della
no ottave di circostanza, ringraziando la piazza e il paese Settimana Santa. Spetta ai sodalizi confraternali farsi cari-
che li ha invitati, lodando o ironizzando sugli altri con- co di conservare e tramandare un repertorio di difficile
correnti ecc. Dopo questa prima esibizione, si estraggono esecuzione per utilizzarlo in un periodo estremamente
i temi, ossia gli argomenti, ovviamente antitetici, di cui i ridotto dell’anno, quello in cui la comunità ricorda, con
poeti dovranno assumere una difesa per così dire “d’uffi- contrizione e forte partecipazione, la Passione e la Morte
cio”. A titolo d’esempio: “meglio sposarsi o rimanere celi- di Cristo.
bi (o, se c’è un terzo concorrente, rimanere vedovo)”; “in Questa coincidenza calendariale nell’uso di simili
caso di naufragio salveresti tua moglie o tua madre”; repertori, come pure la loro custodia da parte di confra-
sono rimasti celebri anche temi di pressante attualità ternite nate per garantire la celebrazione dei riti popola-
come “industria o pastorizia”, “Comunismo o ri, conferisce al canto a cuncordu una funzione rituale e
Democrazia Cristiana”, “Roma o Mosca”, “indissolubilità consente di stabilire interessanti confronti locali ed ester-
del matrimonio o divorzio” ecc. I poeti, a turno, dovran- ni, per ricostruire anche sulla scorta di studi condotti in
no argomentare in ottave di endecasillabi i pro dell’argo- diversi centri dell’Italia e della Corsica, una storia comune
mento loro assegnato e, nel contempo, confutare le tesi nella quale gli elementi colti e popolari si compenetrano.
avversarie. Terminata questa manche, forse la più attesa Una funzione rituale che, come ha attentamente
della gara, si può procedere ad una nuova estrazione di dimostrato Gian Nicola Spanu, (Spanu 2007: pp. 754-765)
temi, altrimenti si passa a quella delle duinas, nella quale risiederebbe nella “riesumazione” simbolica di un’antica
i concorrenti devono improvvisare, a turno, un distico di forma di canto a più voci, presumibilmente in uso in
endecasillabi, fino a formare un’ottava di senso compiu- un’ampia area del Mediterraneo prima della normalizza-

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d’Italia
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zione, in senso monodico, imposta dalla


Chiesa Romana con il canto gregoriano.
Una riesumazione temporanea effettua-
ta per realizzare, in Quaresima e nella
Settimana Santa, un’opposizione simbo-
lica tra nuovo e vecchio, tra il dopo e il
prima della venuta di Cristo. Un simboli-
smo rituale che, come suggerito già dai
liturgisti medievali, il canto a cuncordu
condividerebbe con il silenzio delle cam-
pane nel Triduo pasquale e l’impiego, in
loro vece, di strumenti lignei come le
matraccas e le taulittas (oggetti analoghi
alle traccole e alle bàttole della tradizio-
ne italiana) che, però, non appena le
campane riprendono a suonare, nel corso
della Veglia pasquale, vengono deposte
per essere riprese l’anno seguente; allo
stesso modo, il canto a cuncordu vive
durante la Settimana Santa e, in coinci-
denza alla fine di essa, viene messo da
parte fino all’anno successivo.
Nei processi di circolazione culturale,
va altresì tenuta in considerazione, a pro-
posito della forma e delle armonie tipi-
che del canto a cuncordu, l’azione nor-
malizzatrice avviata da tutto il clero
dopo la Controriforma nel tentativo di
addolcire e di temperare le aspre e disso-
nanti voci del popolo. Lo stile cosiddetto
del falsobordone e, in generale, la poli-
fonia colta vanno visti, di conseguenza,
non come un modello ispiratore della
polivocalità religiosa di tradizione orale e
del canto a cuncordu, quanto piuttosto
come un esempio cui adeguare una pra-
tica di gran lunga preesistente negli usi
liturgici e paraliturgici locali.
Come si è detto, spetta alle confrater-
nite il compito di coltivare e selezionare
accuratamente i pochi cantori che preste-
ranno le proprie voci al rito. Il canto a
cuncordu dunque, benché necessiti sem-
pre di quattro esecutori, è espressione di
una collettività, la confraternita, a sua
volta diretta rappresentante di una
comunità locale. La “concordia” delle
voci, così come ha dimostrato l’etnomusi-
cologo francese Bernard Lortat-Jacob in
una puntuale indagine sugli usi e i canti
di Castelsardo, è rappresentazione sim-
bolica della concordia del gruppo e della
comunità intera (Lortat-Jacob 1996).
L’uso o il semplice ricordo del canto
polivocale e confraternale è attestato in
tutta la Sardegna centro-settentrionale,
mancando del tutto nella metà inferiore
dell’Isola, tranne a Cagliari. Ma lì, come si
vedrà, assume una fisionomia del tutto
particolare, fermo restando, tuttavia

51 il folklore
d’Italia
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alcuni caratteristiche in comune con quello a cuncordu. i simboli della tortura e della crocifissione, detti appunto
Poiché finora sono scarsi gli studi sul canto polivocale Misteri (perché il rituale prende il nome dagli analoghi
nell’area centro-settentrionale dell’Isola, data la rilevan- cinque misteri dolorosi recitati nel Rosario). La lunga e
za dei repertori, in tutti i casi, può essere opportuno diradata processione di simboli è aperta, inframezzata e
accennare agli usi e ai canti di Castelsardo, una delle loca- chiusa, per quanto riguarda il tema in oggetto, da tre cori
lità, insieme a Santulussurgiu e Orosei, studiata e nota al a cuncordu, ciascuno dei quali canta, alternando i verset-
grande pubblico. ti a lunghi silenzi, un canto specifico: il primo coro, che
I canti della Confraternita di Santa Croce, custode con il teschio (lu cabbu di lu moltu) apre la processione,
della tradizione, degli oggetti, dei riti della Settimana canta il Miserere del Lunissanti; il secondo, a metà corteo,
Santa castellanese prevedono quattro voci e, nella quasi affiancato dal busto dell’Ecce Homo (la Pieddai), canta lo
totalità dei repertori, quattro cantori (unico canto ese- Stabba, ossia la celebre seqenza di Jacopone da Todi
guito dall’insieme dei confratelli è il Miserere fugghi fug- Stabat Mater; infine il terzo, in coda al corteo e sotto un
ghiendi, del Venerdì Santo). piccolo Crocifisso, intona lo Jesu.
Si avrà quindi, partendo dal grave, il bassu (dal timbro La polivocalità cagliaritana, dal canto suo, costituisce
solenne senza eccessivo vibrato), una quinta sopra di que- un hapax nel panorama isolano; mostra infatti, caratteri
sto il contra (che distingue per una certa ruvidezza), quin- del tutto differenti dal canto a più voci fin qui descritto.
di, mediamente un’ottava sopra il basso, la bogi (la più Uno stile di canto e condotte rituali poco studiate e poco
agile e libera nell’ornamentazione) e infine il falzittu, (la conosciute cui, in questa sede, si accennerà sinteticamen-
voce più acuta, dal timbro chiaro e squillante). te.
I cantori si dispongono in cerchio: la bogi di fronte al A Cagliari, nel quartiere di Villanova, sono attivi due
bassu, il contra di fronte al falzittu; cercano l’intesa negli sodalizi che tramandano, separatamente ma in modo
occhi dell’altro. La bogi è la voce principale, la più espres- sostanzialmente simile, le paraliturgie e i canti della
siva. Ha una funzione strutturale importantissima: è Settimana Santa: l’Arciconfraternita del SS. Crocifisso,
intorno ad essa che si costruisce la polifonia ma, soprat- attiva dal 1616, con sede nell’oratorio del S. Cristo in P.zza
tutto, è quella che canta il testo completo e gestisce nel San Giacomo e l’Arciconfraternita della Solitudine, fon-
canto le alternanze di battute e giri: le prime sono linee data nel 1603 (o forse nel 1608) e che oggi ha sede nella
melodiche ben scandite con un unità ritmica piuttosto chiesa di San Giovanni.
serrata; i giri, invece, sono ricche circonvoluzioni che Nel panorama sardo la specificità del canto polivocale
nascondono la linea melodica e che vanno dosati con di Cagliari è data sia dallo stile esecutivo, il canto polivo-
sapienza; inoltre, troppi giri fanno perdere di vista la cale di grandi masse corali, sia dal repertorio, di origine
struttura del canto senza aggiungere nulla a livello perlopiù settecentesca, e sia dalla lingua dei testi, non il
espressivo; dei giri ben costruiti, invece, arricchiscono e sardo o il latino, come nel resto dell’Isola, ma l’italiano.
rendono più efficace un canto (v. Lortat-Jacob 1996: pp. Il corpus dei canti in uso nel quartiere di Villanova
211-214). I canti sono intonati da un solista ( il bassu o la comprende circa 30 brani, di cui la parte più consistente è
bogi a seconda dei casi) prima che entrino, poi, le altre rappresentata da melodie di tradizione orale su testi
parti. I quattro cantori vanno, allora, alla ricerca della pseudo-metastasiani (l’erronea attribuzione risale all’e-
quintina, quella voce che, per un singolare effetto acusti- poca in cui il poeta cesareo era in vita) e componimenti
co, sembra formarsi quando le voci sono perfettamente devozionali di illustri francescani quali S. Leonardo da
integrate e fuse nell’insieme; è come un “quinto elemen- Porto Maurizio e S. Alfonso Maria de’ Liguori. Sono testi
to” che tutti i cori ambiscono trovare, e che suggella, diffusi e tutt’ora in uso in molte località del Meridione
quando raggiunto, una buona esecuzione (Lortat-Jacob d’Italia e soprattutto in Puglia, nel Molise e nella
1996: pp.137-140). Campania. Si tratta di una coincidenza che porta a rivalu-
Centrale nel repertorio quaresimale castellanese, tare quei legami (spesso trascurati) che intercorrono tra
come in tutte le altre forme di canto polivocale sardo, ma la Sardegna e il sud della Penisola (Solinas 2005-2006,
non solo, è il Salmo 50 della Vulgata che inizia con la 334-337).
parola Miserere. A Castelsardo se ne cantano quattro ver- Si deve tenere presente che questi testi, nati nel XVIII
sioni: il Miserere del Lunissanti, quello Fugghi fugghien- secolo per favorire una partecipazione contemplativa,
di, al quale si è fatto cenno perché viene intonato il tutta interiore, dei fedeli che prendevano parte ai riti
Venerdì Santo in coro e antifonicamente da tutti i con- quaresimali, hanno assunto nel contesto cagliaritano una
fratelli mentre, dopo la deposizione, percorrono in tutta particolare connotazione. Come ancor oggi si può osser-
fretta (da cui il nome) il breve tragitto dalla Cattedrale al vare, sono stati infatti ri-funzionalizzati, perdendo l’ori-
loro oratorio. C’è poi il Miserere dietro l’altare (sottin- ginario spirito contemplativo e integrandosi perfetta-
tendendo quello della Cattedrale), chiamato anche mente nel sistema-rito della Settimana Santa sarda, basa-
Miserere quaresimale perché eseguito, nei venerdì di ta piuttosto, come nel resto dell’Isola, su strategie di tipo
Quaresima (attualmente è però spostato al sabato); carat- drammatico-rappresentativo. Queste semplici preghiere,
teristica di questo canto, considerato dai confratelli il più smembrate ed estrapolate alla rinfusa dal contesto per il
difficile ma anche il più bello, è l’intonazione affidata al quale vennero composte, la Via Crucis, accompagnano a
basso e la presenza di diverse sezioni solistiche. Cagliari le processioni dei Misteri e quelle mute sacre rap-
Infine, il Miserere dei morti, cantato nei funerali da un presentazioni, come la crocifissione, la deposizione e la
solista che si alterna ai restanti confratelli, risulta alquan- processione del Cristo morto, che animano tutte le
to semplice rispetto agli altri. Settimane Sante della Sardegna (Solinas 2005-2006, 230-
Il Lunissanti (Lunedì Santo) è il momento più impor- 247).
tante della Settimana Santa di Castelsardo, giorno in cui Anche le musiche, tutte tramandate oralmente, ben-
si celebra l’articolato rituale dei Misteri: alcuni confratel- ché manifestino evidenti punti di contatto con quelle in
li, incappucciati e silenziosi, portano per le vie della città uso nel Continente, sia nella condotta delle voci in stile di

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falsobordone, sia nelle esplicite contaminazioni colte e prestigio nel gruppo che deve associare alle doti stretta-
anche operistiche, possiamo considerarle, allo stato mente musicali, un riconosciuto carisma, pazienza e, allo
attuale degli studi, frutto della creatività dei Cagliaritani. stesso tempo, severità e imparzialità, oltre alla indispen-
Possiamo definire questo canto, utilizzando una defi- sabile chiarezza del gesto direttoriale. Non esiste una
nizione locale, come canto di massa perché, a differenza partitura musicale e, pertanto, il capo massa deve ricor-
degli altri repertori sardi, dove a ogni voce corrisponde dare a memoria tutte le parti, tutti gli attacchi e soprat-
un unico cantore, prevede l’affidamento delle varie parti tutto l’insieme delle varianti d’uso che si sono accumula-
della composizione a gruppi omogenei di cantori, ossia te nel tempo.
alle diverse sezioni del coro detto, appunto, la massa. Va Altra figura fondamentale per il canto di massa è
specificato, comunque, che la massa dei cantori, non cor- quella dell’intonatore cui spetta il compito di iniziare i
risponde alle confraternite (benché molti confratelli ne canti, cantando il primo verso del brano.

Canto a tenore
Foto anni ‘60

facciano parte), ma si tratta di un gruppo specializzato Determinante è anche la funzione del capo sezione,
nel tramandare ed eseguire il repertorio quaresimale che cui spetta il controllo e la co-direzione, insieme al capo-
si ricostituisce ogni anno in prossimità della Settimana massa, del proprio gruppo di appartenenza (particolar-
Santa. mente utile quando nelle strette vie del quartiere di
Nella massa cagliaritana si distinguono, dunque, cin- Villanova il direttore principale scompare dalla vista dei
que sezioni (Solinas 2005-2006: pp. 209-224) partendo suoi coristi). Troviamo quattro capisezione, uno per cia-
dalle voci più gravi, i bassi, i tenori secondi e primi, i con- scuna sezione dei cantori adulti, mentre il gruppo dei
tralti (detti anche secondi soprani) e i soprani. Un insieme soprani, formato dai bambini, ha come caposezione lo
di cantori che raggiunge anche le 100 unità, necessita, stesso capomassa.
evidentemente, di un direttore (figura inutile nel cuncor- Come si è accennato, ogni voce ha le proprie peculia-
du). rità timbriche e di emissione; e ciò assume particolare
Il direttore, o capo massa è il personaggio di maggior importanza nella struttura verticale/armonica dei canto,

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cioè nel modo in cui le voci si sovrappongono, sia nella


sua dimensione orizzontale/melodica (Solinas 2005-2006,
pp 225-229). Molti brani richiedono un’esecuzione inte-
ramente a cinque voci, altri prevedono corpose parti soli-
stiche. Nella maggior parte dei casi queste sezioni vengo-
no affidate alle sezioni dei bassi, dei tenori e dei soprani;
le incursioni solistiche delle voci nell’architettura del
brano creano dei forti contrasti.
Quando si ascoltano le potenti voci del coro una carat-
teristica spicca su tutte, la grande massa di volume spri-
gionata, in perfetta contraddizione con le modalità del
canto polivocale del resto dell’isola che non si basa sul
volume ma sulla perfetta consonanza delle voci. Le moti-
vazioni di questa scelta esecutiva/estetica sono diverse;
possono derivare dalla necessità di saturare acusticamen-
te lo spazio aperto del rituale, possono derivare dall’esi-
genza di interpretare simbolicamente l’intensità emotiva
del rituale stabilendo l’equazione “più volume = più
dolore”, ma anche “più volume = più prestigio dell’istitu-
zione che promuove il rituale (specie in rapporto alla con-
fraternita “antagonista” nel quartiere e nel rituale).

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il folklore 54
d’Italia
i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t

Strumenti
e musiche
con
strumenti
Gian
Nicola
Spanu
1. Lo strumentario
sardo
Lo strumento, oggetto
fisico che dura nel
tempo, che può essere
disegnato, scolpito,
plasmato o descritto
nei libri, costituisce
un’indispensabile
fonte d’informazione
per lo studio di reper-
tori e usi musicali affi-
dati all’oralità, consen-
tendo di ricostruire,
talvolta con buona
approssimazione, cul-
ture musicali del passa-
to che sfuggono, altri-
menti, al ricordo e alla
tradizione orale.
Punto di convergenza
tra un sapere effimero,
affidato a suoni non
scritti e a parole, e una
cultura materiale e tec-
nologica, gli strumenti
ci aiutano a compren-
dere le dinamiche di
circolazione culturale,
ma nondimeno i reper-
tori musicali che da
essi scaturiscono.
Suonatore launeddas. Questi oggetti, apposi-
Foto Alinari 1915 tamente realizzati per

55 il folklore
d’Italia
l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i

suonare determinate musiche o modificati per eseguirne neva il nuovo metodo d’indagine antropologico-musica-
di nuove, importati, talvolta, da paesi lontani per into- le avviato da Merriam e Mc Allister, sul contesto d’uso.
nare melodie di quei luoghi o per interpretare meglio Risale invece al 1976 la prima monografia sullo strumen-
quelle della propria tradizione, rivelano un legame tario isolano, realizzata da Giovanni Dore, appassionato
indissolubile e reciproco con i suoni, i canti le identità collezionista di strumenti musicali e cultore di tradizioni
locali. popolari. A cura dello scrivente, invece, Sonos. Strumenti
L’etno-organologia, disciplina che studia le forme, i della musica popolare sarda, edito nel 1994 con una cor-
materiali e le tecniche di costruzione degli strumenti posa introduzione di Pietro Sassu; volume concepito in
della musica popolare, ma anche i modi di esecuzione e forma ipertestuale con fotografie di pregio, disegni,
di apprendimento, non va affatto considerata una disci- quadri sinottici, esempi sonori e finestre di approfondi-
plina accessoria e complementare all’etnomusicologia mento. Si citano, in conclusione di questa compendiaria
della Sardegna. Impossibile, infatti, scindere, come già si e parziale rassegna degli studi, alcune monografie su
è accennato, i repertori musicali dalle condotte umane e singoli strumenti e repertori strumentali, a partire da
sociali, comprese quelle relative alla realizzazione e L’organetto. Uno strumento musicale contadino nell’era
all’uso degli strumenti stessi. Per tale motivo gli studiosi industriale, di Francesco Giannattasio (1979) che riserva
di musica sarda, e primo tra tutti Giulio Fara (1880- un’ampio spazio all’organologia e all’uso dello strumen-
1949), si sono occupati di classificare e descrivere gli to in Sardegna, all’opera collettiva, curata da Giampaolo
strumenti dell’Isola. In realtà, negli antecedenti resocon- Lallai e dell’associazione concordia a launeddas, dato
ti di viaggiatori, storici e letterati si trova qualche spora- alle stampe nel 1997 con il titolo Launeddas, al saggio
dico riferimento; descrizioni però alquanto sommarie e del 1999 Il canto Sardo a chitarra di Andrea Carpi.
incomplete riguardanti essenzialmente, è il caso di
Nicolò Oneto (1800-1872), lo strumento più caratteristi- Nel panorama musicale della Sardegna salta subito
co dell’Isola: le launeddas. Maggiormente utili le atte- all’occhio la presenza di strumenti autoctoni, come le
stazioni iconografico-musicali, ossia le rappresentazioni launeddas, attestate unicamente nell’Isola, e altri di pro-
di strumenti nell’arte (a partire dal noto bronzetto itifal- venienza esterna, comuni dunque ad altre culture musi-
lico proveniente da Ittiri, ora nel Museo Archeologico cali: è il caso della chitarra (attestata già nel XVI secolo),
Nazionale di Cagliari) e rari documenti d’archivio. dell’organetto (diffusosi già pochi decenni dopo la sua
Grazie al Fara, comunque, l’intero strumentario sardo si invenzione a metà ’800), o del desueto piffero e tambu-
offrì all’attenzione degli studiosi di tutto il mondo: nei ro, di foggia simile a quello maiorchino. Nondimeno si
suoi articoli, pubblicati, a partire dal 1909, nell’organo notano, però, alcune significative assenze, come quella,
ufficiale della musicologia italiana si era occupato, infat- totale, delle cornamuse, diffuse in Spagna e in tutto nel
ti, sia degli strumenti autoctoni, sia di quelli allogeni resto dell’Italia: strumento pastorale per eccellenza può
senza tralasciare gli strumenti impropri ne quelli giocat- stupire, invero, di non trovarlo in una regione in cui
tolo. Altri linguisti e scienziati si occupavano, in quegli certo non mancavano la materia prima per la loro
anni, delle launeddas, come Silvestro Baglioni (1876- costruzione (pelli ovine e canne) né i contatti con luoghi
1957) che sottopose lo strumento ad una serie di accura- e culture che impiegavano largamente tali aerofoni. È
te misurazioni acustiche, dando notizia delle sue scoper- spettato invece al canto a tenore il compito di rappre-
te in prestigiose riviste etnografiche. Esperimenti velata- sentare musicalmente il pastoralismo sardo. Assenti
mente criticati da Giulio Fara che rimproverava all’illu- altresì gli aerofoni ad ancia doppia (oboi), come le cata-
stre fisiologo romano di decontestualizzare l’oggetto, lane chirimías o le italiche ciaramelle, mentre il tambu-
perdendo il rapporto uomo-strumento e inficiando i rello basco, suonato, anch’esso, in varie regioni iberiche
risultati delle sue indagini. e dell’Italia, ha avuto nella musica sarda un utilizzo mar-
Un notevole contributo alla conoscenza degli strumenti ginale e, a quanto pare, limitato all’ambito femminile.
popolari sardi lo diede anche Gavino Gabriel (1881- Ma tant’è: le vie della musica sono infinite e seguono
1980), sia nei suoi numerosi saggi sulla musica sarda percorsi talvolta bizzarri e difficilmente comprensibili.
(compresa la voce pubblicata nella prima edizione della Occupandoci invece, nel limitato spazio di queste pagi-
Enciclopedia Italiana, nel 1936), sia in alcuni documenta- ne, di quanto nell’Isola è attestato e rimane in uso
ri didattici degli anni ’50, dove, tra le altre cose, fornisce (impresa considerevole vista la vastità e la vitalità del
le immagini dell’ultimo suonatore di sulittu e patrimonio organologico sardo), si è scelto di procedere
tumbarinu. La sua rimane però l’opera, certamente non, come di consueto, per classi e famiglie di strumen-
meritevole, di un puntuale e intelligente divulgatore, ti, ma secondo il loro contesto d’uso e la loro funzione.
mentre da un punto di vista strettamente scientifico Si partirà dunque da quelli impiegati nella normale atti-
nulla di sostanziale ha aggiunto alla straordinaria mole vità musicale per accompagnare, essenzialmente, i canti
di dati offerti, sul tema in questione, da Giulio Fara e i balli, passando, quindi, agli strumenti per così dire
negli anni 1909-1926. “rituali” e a quelli giocattolo.
Per avere consistenti e aggiornate informazioni sugli Non possiamo che iniziare dalle launeddas, strumento
strumenti sardi, e soprattutto sullo strumento principe principe della musica sarda, benché il suo utilizzo, in
dell’organografia isolana bisognerà attendere il 1969, forte ripresa negli ultimi decenni, sia limitato, perlopiù,
anno di pubblicazione a Copenhagen di The launeddas. al Campidano e al sud-est dell’Isola (Sarrabus).
A Sardianian folk music instrument di Andres Fridolin Il nome, secondo Giulio Paulis, deriverebbe dal tardo
Weis Bentzon (1936-1971), frutto delle sue ricerche sul latino LIGULELLA, ossia ‘linguetta’, ‘ancia’, la parte che,
campo condotte negli anni 1953-62. L’opera, tradotta in come spesso avviene per gli strumenti musicali, avrebbe
italiano solo pochi anni fa, fornisce dati di estremo inte- dato la denominazione al tutto. Il plurale launeddas rin-
resse sullo strumento, sul suo repertorio, accuratamente via invece alla molteplicità degli elementi che compon-
trascritto e analizzato nonché, secondo quanto propo- gono il singolo strumento: le tre canne, di cui due lega-

il folklore 56
d’Italia
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te fra loro e una sciolta, dette rispettivamente tumbu, Come si è accennato, mancosa e mancosedda sono,
mancosa e mancosedda alla cui imboccatura sono inseri- infatti, intonate alla perfezione, mediante l’arrefinu o
ti tre sottili porzioni di canna (cabitzinus) nei quali si con dell’aggiunta di cera sull’ancia, sui primi armonici
trovano le ancie (classificate come “semplici” dagli orga- (ottava, quinta o terza maggiore) del suono che fuorie-
nologi per distinguerle da quelle doppie degli oboi, e sce dal tumbu; così quando tutte le dita chiuderanno i
idioglottidi, in quanto escisse nel corpo stesso dello stru- quattro fori aperti su ognuna di esse, la loro nota più
mento e non ad esso applicate, come nei clarinetti del- grave si confonderà con la ronzante sonorità del tumbu.
l’orchestra). Ogni qual volta il suonatore assumerà tale posizione, il
Il tumbu (o basciu), che può avere una considerevole suono della mancosa o della mancosedda si mimetizze-
lunghezza ed è divisibile, mediante appositi innesti, in rà, perdendosi nella potente nota di bordone; fenome-
due o anche tre sezioni per facilitarne la conservazione no che l’ascoltatore percepirà come un silenzio, una
e il trasporto, produce un’unica e continua nota di bor- pausa più o meno lunga. La polifonia tra le due
done, considerato che si soffia nello strumento con la voci/canne può raggiungere, per questo motivo, com-
tecnica della respirazione circolare o continua. La man- plessità paragonabili a quella di un contrappunto
cosa, ossia la ‘canna di mano manca’, presenta invece bachiano.
quattro fori digitabili di forma quadrangolare nella Solo che Bach disponeva, sul suo clavicembalo, di un
parte anteriore, più uno più in basso, oblungo, chiama- considerevole numero di tasti; il suonatore di launeddas
to arrefinu che, parzialmente ricoperto di cera, serve per può contare, per le sue evoluzioni, su appena otto
accordare la canna (arrefinai, ‘affinare l’intonazione’, da suoni, quattro sulla mancosa e quattro sulla mancosed-
cui il nome) sulla nota del tumbu. La mancosa è unita a da (in realtà ciascuna di queste canne può realizzare cin-
quest’ultimo, in posizione lievemente divergente, que suoni, ma uno, il più grave, come si è detto corri-
mediante un supporto trasversale di canna e generose sponde al “silenzio” e quindi, di fatto, inutilizzabile nel
spire di spago impeciato; l’insieme delle due canne, che discorso musicale). Per evitare la monotonia, una strada
facilita l’impugnatura dello strumento (si ha, però, l’at- percorribile era quella di aprire i quattro fori sulle canne
testazione certa anche di tumbu e mancosa sciolte) in corrispondenza di note sempre diverse e poi di usare
viene chiamata loba o croba. tali canne in combinazioni variabili, i cunzertus, appun-
La terza canna, la mancosedda (‘piccola mancosa’) o to. Per esempio il conzertu chiamato fiorassiu può rea-
destrina, è del tutto simile alla mancosa ma, nella mag- lizzare con la mancosa le note sol-la-si-do e con la man-
gior parte degli strumenti, di minori dimensioni; va cosedda, a partire da quest’ultima nota, la successione
segnalata inoltre la particolarità di alcune mancoseddas do-re-mi-fa; parimenti il puntu ’e organu, altro nome di
che presentano, sempre nella parte anteriore, cinque cunzertu, ancora intonato in do, suona con la mancosa
fori digitabili, di cui uno sempre occluso con della cera: le note la-si-do-re e con la mancosedda re-mi-fa-sol.
il primo in basso, per guadagnare una nota verso l’acu- Come si vede la disponibilità di note e le loro relazioni
to, oppure l’ultimo, in alto, per ottenere una nota più interne sono affatto diverse in questi due cunzertus
grave. come in tutti gli altri che prendono il nome di mediana,
Ci sono tante tipologie di launeddas quanti sono i cosid- mediana a pipia, fiuda, fiudedda (o fiuda bagadia), ispi-
detti cunzertus, combinazioni standardizzate di canne, nellu, ispinellu a pipia, oltre al puntu ’e organu e al fio-
differenti tra loro per le note che producono in riferi- rassiu, per ricordare solo i più usati.
mento ad un medesimo tumbu (la cui intonazione stabi- Appare così dimostrato come la differente disponibilità
lisce il “taglio” dello strumento); differenze anche mini- di note tra un cunzertu e l’altro, determini inevitabil-
me, talvolta di una sola nota, che hanno determinato mente una diversità di repertori. Una volta imboccata
però l’elaborazione di distinti repertori, uno per ciascun una mediana a pipia, per fare ancora un esempio, il suo-
cunzertu. Il suonatore, proprio per questo, conserva natore potrà eseguire solo brani per questo cunzertu di
nello straccasciu, la capiente custodia di cuoio che tiene launeddas; i repertori per altri cunzertus prevedono,
a tracolla, diversi cunzertus di launeddas che, a seconda infatti, suoni che la mediana a pipia non possiede. Se
dei casi, estrae per suonare questo o quel brano. intende suonare uno di questi altri brani, dovrà necessa-
Può essere utile però, a questo punto, chiarire meglio il riamente cambiare cunzertu.
concetto di cunzertu; ma per farlo sarà necessario svela- Ogni cunzertu può essere intonato su differenti altezze,
re qualche altro particolare organologico e tecnico-ese- corrispondenti attualmente a quelli della scala tempera-
cutivo. ta con il la a 440 Hz. Un fiorassiu può essere accordato,
Le launeddas sono uno strumento realmente polifonico, per esempio, in mi bemolle, in re, in do diesis ecc. e così
nell’accezione che il termine ha acquisito nella musica dicasi per tutti gli altri cunzertus. Bisogna però precisare
colta: è capace, infatti, di realizzare con le due canne che il taglio, ossia l’altezza assoluta del cunzertu, non
digitabili (mancosa e mancosedda), melodie indipenden- preclude, in linea di massima, la possibilità di eseguire
ti tra loro sia melodicamente, sia ritmicamente. È capa- tutto il repertorio proprio di quel cunzertu. Così, a titolo
ce, per esempio, di eseguire un motivo con la mancosed- di esempio, tutti i fiorassiu, siano essi intonati in mibe-
da e far tacere la mancosa, oppure può inframmezzare molle, in fa, in re ecc, possono suonare il medesimo
la linea melodica di una voce con pause più o meno lun- repertorio.
ghe o con effetti di staccato. Ma, ci si chiederà, come si Il realtà, possiamo concludere, l’unità organologica è
possono realizzare simili effetti, visto che tutte e tre le rappresentata, dal singolo cunzertu e le launeddas
canne sono imboccate simultaneamente dal suonatore e appaiono piuttosto un’entità astratta, un paradigma,
insufflate con la tecnica del fiato continuo? Come si una sommatoria di tutti i suoni che i singoli cunzertus,
può, in buona sostanza, far tacere una di esse e conti- in varie combinazioni di canne possono realizzare.
nuare a suonare con l’altra? Mediante una sorta di “illu- Viceversa ogni cunzertu rappresenta una selezione di
sione acustica” è la risposta. note (4+4, come si è detto) in combinazioni standardiz-

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d’Italia
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zate, riferibili a quell’entità ideale e paradigmatica che te sonorità di un bordone, così amata dai sardi.
chiamiamo launeddas. Ulteriori varianti sono date dall’aggiunta di una seconda
L’esiguo numero di suoni realizzabili dallo strumento (si canna di bordone o dall’applicazione di un padiglione
ricorda, tra l’altro, che in molti cunzertus alcune note all’estremità inferiore della bena singola, realizzato con
della mano destra coincidono con quelle della sinistra) un corno bovino o con una zucca aperta, per amplificare
ha determinato altresì sorprendenti strategie di elabora- il suono e modificarne il timbro (chiamate, rispettiva-
zione del materiale musicale: una breve unità tematica mente, bena cun corru ’e boe e bena cun zucca)
tripartita, chiamata noda, viene variata infinite volte dal Altro strumento tipicamente sardo, benché diffuso con
suonatore, in modo sempre diverso e con un grado di
complessità sempre maggiore; microvariazioni che non
si devono quasi percepire nel continuum del discorso
musicale. È il concetto del sonai a iscala, ‘suonare a
scala’, nel senso di suonare in un crescendo di complessi-
tà (cfr. il greco klimax, ‘scala’, appunto), sintetizzato
magistralmente dal grande Aurelio Porcu, recentemente
scomparso, che paragonava la musica delle sue launed-
das a un fiume che nasce come un piccolo rigagnolo e
man mano si ingrossa fino alla foce senza mai bagnare
due volte la stessa riva. Il bravo suonatore deve dunque
imparare e memorizzare tutte le possibilità di microva-
riazione della stessa noda, e magari inventare nuove
possibilità; quindi, nel corso dell’esecuzione, disporle
con gusto, maestria tecnica, sensibilità musicale e fanta-
sia, come le tessere di un domino, possibilmente senza
mai utilizzare due volte la stessa tessera.
Suonare le launeddas significa quindi saper costruire e
ritoccare continuamente lo strumento, saperlo suonare
e soprattutto ricordare uno sterminato repertorio di
nodas. Mancando solo una di queste abilità e saperi, si
può soffiare dentro le tre canne, ma non si è sonadoris.
La bena, attualmente attestata in una ristretta area
della Sardegna centrale (media valle del Tirso), condivi-
de alcuni dettagli organologici delle launeddas, come
l’ancia semplice idioglottide e la possibilità di emettere
suoni simultanei; tuttavia è differente da queste, sia per
diffusione e soprattutto per la tecnica costruttiva ed ese-
cutiva. La bena (dal latino AVENA, nel senso di ‘tubo
cavo’ e quindi, genericamente ‘strumento a fiato’) è
costituita da una porzione di canna comune nella cui
estremità superiore, chiusa dal nodo, viene escissa
un’ancia con la linguetta rivolta verso il basso. Più spes-
so, in modo da poter essere sostituita in caso di danneg-
giamento o usura, l’ancia viene escissa in un cannello
sottile, analogo al cabitzinu delle launeddas, innestato a
sua volta sullo strumento. Va però detto che l’ancia
delle benas, a differenza di quelle della più illustre
parente, è assottigliata nella parte esterna fino a trova-
re l’intonazione voluta.
Nella parte anteriore, presenta tre fori circolari (nelle
launeddas, lo ricordiamo, sono quadrangolari) e uno,
appena più in alto, nella parte posteriore; quattro fori
in tutto che danno la possibilità di realizzare sei suoni,
caratteristica comune al sulittu (o pipaiolu), di cui si trat-
terà fra poco e del quale la bena, nella zona in cui è
attestata, condivide gran parte del repertorio, esclusiva-
mente di accompagnamento alla danza. Analogie che si
rivelano anche nell’insufflazione normale e non conti-
nua (o circolare) come quella usata nelle launeddas:
Alla bena per così dire “semplice” può essere aggiunta
una seconda canna con la rispettiva ancia ma priva di
fori per le dita e quindi capace di produrre un unico
suono di bordone. Lo strumento prende, in questo caso,
il nome “collettivo” di benas (benas doppie per gli
organologi), e mantiene, nell’uso, il carattere monodico
della versione semplice, arricchito, però, dalla persisten-

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d’Italia
i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t

forme e materiali analoghi nel meridione d’Italia, è il come mi disse un suonatore indigeno, picchiare sopra i
flauto diritto di canna (arundo donax) a imboccatura buchi con sveltezza». L’accordatura è, infatti, meno
zeppata chiamato sulittu o pipaiolu. Lo strumento era accurata di quella delle launeddas e l’estensione abba-
impiegato unicamente per accompagnare la danza: il stanza limitata (le prime cinque note di una scala mag-
suo suono acuto sovrasta agevolmente le voci e i rumori giore, più il semitono inferiore, ossia la sensibile; sei
della piazza, segnando con precisione i passi del ballo note in tutto), tuttavia è sorprendente anche qui il
tradizionale. Un uso, dunque, più percussivo che melodi- grado di virtuosismo di cui sono capaci alcuni suonatori.
co, come già osservava nel 1916 Giulio Fara: «bisogna, Si registrano nell’isola almeno due tipologie di strumen-
to, il sulittu classificato come “del Logudoro” (benché
sia diffuso in un’area geografica ben più vasta, e soprat-
tutto nelle regioni del sud) e il pipaiolu della Barbagia,
Suonatori launeddas .
Disegno – Collezione Tiole
più una variante del primo tipo, identificata dallo scri-
Fine secolo.XIX vente come sulittu della Marmilla.
Il sulittu del Logudoro è caratterizzato dalla presenza
di un nodo approssimativamente a metà del segmento
di canna utilizzato per costruire lo strumento; nodo par-
zialmente o totalmente forato all’interno per modificar-
ne l’intonazione. Al di sotto di questo, anteriormente,
troviamo tre fori circolari, mentre un quarto viene aper-
to nella parte posteriore al di sopra del nodo stesso. La
zeppa dell’imboccatura è di legno morbido o, più rara-
mente, di sughero. Il profilo del becco, ottenuto con un
taglio netto della canna, determina un angolo di 40-45°,
mentre è generalmente di forma allungata la finestra
quadrangolare nella parte anteriore, posta immediata-
mente sopra l’imboccatura, nella quale si forma la tur-
bolenza che mette in vibrazione la colonna d’aria inter-
na allo strumento.
Il sulittu della Marmilla, come si è accennato, rappre-
senta una variante di quello del Logudoro. Simile in
tutti gli altri dettagli, si differenzia da quest’ultimo per
la presenza di un foro supplementare. Troviamo qui,
infatti, quattro fori anteriori, di cui uno al di sopra del
nodo, e uno posteriore, al di sotto, in corrispondenza
del terzo foro anteriore partendo dal basso. Proprio tale
corrispondenza ci dice che il quinto foro non aggiunge
note in più allo strumento ma, essenzialmente, viene
realizzato per agevolarne la diteggiatura.
Ben differente il pipaiolu della Barbagia, non inter-
rotto da alcun nodo e con quattro fori aperti nella parte
anteriore; la sua “finestra” si estende in larghezza e il
becco, zeppato con sughero, mostra un’angolatura poco
pronunciata.
Le dimensioni dei sulittus del Logudoro e della Marmilla
sono variabili, oscillando dai 10 ai 35 cm (più lo stru-
mento è corto, lo ricordiamo, più la sua tessitura sarà
acuta). Sono altresì variabili le dimensioni del pipiolu
barbaricino, ma, poiché deve essere realizzato nel seg-
mento compreso tra un nodo e l’altro della canna (non
ha, infatti, nodi intermedi), le dimensioni sono general-
mente inferiori dei suoi omologhi. Una tessitura acuta è
comunque preferibile in quanto, oltre a rendere più udi-
bile la sua voce, gli consente di emergere tra gli altri
strumenti (tamburo, organetto, triangolo ecc.) insieme
ai quali viene di sovente impiegato.
A differenza degli strumenti fin qui descritti, nati e “cre-
sciuti” in Sardegna, l’organetto, è stato importato in
tempi relativamente recenti, acquisendo una rilevanza,
nel panorama musicale isolano, ben superiore a quella
degli strumenti autoctoni. Una preminenza che riguarda
soprattutto l’estensione dell’area d’uso: in pratica l’inte-
ra Regione.
Lo strumento fa il suo ingresso nell’Isola nella seconda
metà dell’Ottocento, non sappiamo precisamente quan-
do, ma abbiamo un termine post quem, il 1863, anno in

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d’Italia
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cui dal laboratorio di Paolo Soprani, a Castelfidardo gli esempi di utilizzo a sostegno del canto solista.
(AN), cominciarono ad uscire i primi esemplari di fisar- Analogamente si comporta l’armonica a bocca, detta
monica diatonica a doppia intonazione, altrimenti nota sonette (o sonettu), la versione portatile, si può dire,
come organetto. Da questa data, lo strumento si diffuse dello strumento precedente. Qui non troviamo però
a macchia d’olio in tutto il centro-sud della Penisola, mantici o tasti, ma solo delle ancie disposte all’interno
sostituendo, per la sua facilità d’uso, la sua praticità e di una scatola piatta e rivestita di metallo che viene
relativa economicità, strumenti quali zampogne, ciara- imboccata direttamente dal suonatore e spostata late-
melle ecc. ralmente per produrre le note desiderate. Alcune ancie
Non sappiamo come, ma probabilmente grazie alla pre- vengono azionate solo per pressione, altre solo per aspi-
senza di carbonai e operai di vario genere provenienti razione dell’aria: anche qui, come nell’organetto, sof-
dal continente, anche l’organetto, attraversato il mare, fiando si produce una certa nota, inspirando si produrrà
iniziò una fulminea espansione nell’Isola, tanto che già una nota differente. È altresì possibile suonare note sin-
negli anni ’90, a trent’anni circa dalla sua invenzione, gole dirigendo il fiato inspirato/espirato sulle singole
appare pienamente incorporato nella vita musicale ancie, altrimenti, imboccando una porzione più ampia
sarda. Ne è testimone Grazia Deledda, che più volte lo dello strumento, si produrranno accordi.
cita nelle sue opere, mentre il Fara scrive nel 1909: Più volte abbiamo fatto riferimento alla fisarmonica,
«Questo strumento, comune a molte regioni d’Italia, l’altro importante aerofono ad ancia libera della
viene spesso adoperato per accompagnare le canzoni, e Sardegna, e già si è accennato ai vantaggi che offre
qualche volta vi si eseguisce anche il ballo sardo, e va rispetto all’organetto dal quale, evidentemente, deriva:
man mano sostituendo le launeddas.» una tastiera simile a quella del piano (più raramente a
I primi organetti che i nostri antenati hanno visto e sen- bottoni) può qui realizzare tutti i suoni compresi in circa
tito, certamente suonavano musiche continentali: rima- tre ottave, mentre gli ottanta e più bottoni della mano
ne dunque aperto l’interrogativo se con lo strumento sinistra possono suonare anch’essi tutte le note della
siano penetrati in Sardegna, tra Otto e Novecento, scala cromatica e un’infinità di accordi; producendo lo
anche motivi musicali e ritmi di ballo tipici del Centro e stesso suono in aspirazione in espirazione è possibile poi
del Meridione italiano. realizzare ampie melodie in “legato” e, volendo, in cre-
L’impiego dell’organetto segna, comunque, una certa scendo o in diminuendo; inoltre, si possono ottenere,
flessione nella Sardegna degli anni ’50-’60, del azionando le apposite placchette sopra la tastiera, mol-
Novecento, cedendo il passo alla fisarmonica che, oltre a teplici colorazioni di suono.
rendere meglio la polifonia delle launeddas, consentiva Uno strumento versatile, quindi, capace di riprodurre,
l’esecuzione di balli cosiddetti civili, nel senso etimologi- con sorprendente verosimiglianza, la polifonia più il
co di ‘cittadini’, non-tradizionali, come il valzer, la bordone delle tre canne delle launeddas, ma anche di
mazurca ecc., ma anche dei successi di Sanremo. tramandare i repertori, ben più semplici, dell’organetto;
Paradossalmente la contaminazione della fisarmonica capace, nondimeno, di alternare al ballo sardo, qualche
con la musica leggera e con il liscio ha determinato, valzer o qualche twist. A partire, grosso modo, dagli
però, negli ultimi decenni una forte rimonta dell’orga- anni ’30- ’40 del secolo scorso, inizia pertanto ad affian-
netto, considerato, specialmente dai gruppi di ballo, più carsi alle launeddas o a sostituirsi ad esse nelle piazze e
rappresentativo della tradizione sarda, più folk. nelle processioni, sostituisce sempre più spesso anche
L’organetto diatonico è un aerofono composto di tre l’organetto nell’accompagnamento dei canti e dei balli.
parti: una cassa che contiene i tasti della melodia che, Poi, in maniera stabile dagli anni ’50, la troviamo sul
azionati dalla mano destra, mandano l’aria alle ancie palco, per sostenere, insieme alla chitarra, la voce dei
collocate sul soniere; un mantice di cartone telato che concorrenti nelle gare di canto a ghiterra.
“inspira” ed “espira” l’aria; una cassa che comprende En passant ricordiamo anche l’harmonium che, in
tasti, soniere e ancie per l’accompagnamento. In questa sostanza, funziona come la fisarmonica (solo che qui i
seconda cassa possiamo trovare due, quattro, otto, dodi- mantici sono azionati da pedali e la tastiera è unica per
ci tasti o, come si dice “bassi” (lo strumento più utilizza- le due mani dell’esecutore). Strumento diffuso in tutte
to in Sardegna risulta essere quello a 8 bassi, ma sono le chiese dell’isola in sostituzione degli antichi organi a
presenti anche le altre tipologie, nonché quello cosid- canne, ma disponibile anche in modelli portatili, da
detto “semidiatonico”). impiegare nelle parrocchie, nei santuari campestri o
La caratteristica principale dell’organetto, risiede nel addirittura in processione per accompagnare i gosos o
fatto che ciascun tasto della mano sinistra o della destra goccius (canti devozionali in onore dei santi o della
produce due suoni differenti a seconda che si apra o si Madonna), messe e pregadorias in genere.
chiuda il mantice; se, per esempio, premiamo il secondo
tasto melodico di un organetto in do, mentre chiudiamo In alcuni centri della Sardegna come Gavoi o Aidomaggiore
il mantice sentiremo la nota do, viceversa, aprendolo, la vari tipi di tamburo sono impiegati, nel ballo dei rispet-
successiva nota re, e così via. Ne consegue che per realiz- tivi paesi, insieme all’organetto e al triangolo.
zare anche semplici melodie bisogna aprire e chiudere A Gavoi (NU), dove lo strumento appare quanto mai
di continuo il mantice, azione che rende impossibile la vitale (specie nei giorni di Carnevale, quando orde chias-
realizzazione di fraseggi ampi e legati (cosa di cui è sose di tamburinai si riversano nelle strade), sono atte-
invece capace la fisarmonica, sua parente stretta, dove state almeno tre tipologie di tumbarinos. La più sem-
ad ogni tasto, si apra o si chiuda il mantice, corrisponde plice è costituita da un cilindro di sughero di primo
un’unica nota). C’è da dire, però, che al “respiro corto” taglio (gardone) ai cui estremi sono fissate due membra-
dell’organetto corrisponde una notevole verve ritmica, ne di pelle animale messe in tensione da tiranti, di
un carattere percussivo che lo rende particolarmente spago o cuoio, che ne attraversano i bordi. Una versione
adatto ad accompagnare il ballo, anche se non mancano più evoluta prevede invece l’utilizzo di un vecchio setac-

il folklore 60
d’Italia
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cio di legno e le solite pelli attraversate dai tiranti; le ne era utilizzato, sembra, principalmente dalle donne,
membrane, però, vengono cucite, in questo caso, intor- mentre quello sassarese, il trimpanu, accompagnava il
no ad un cerchio realizzato con un fuscello che consente canto della gobbula.
una più uniforme tensione delle stesse. Il modello più Soprattutto nel centro dell’Isola, passando agli idiofoni,
usato resta comunque quello cun criccos, controcerchi di troviamo invece il triangulu, costruito da fabbri locali
legno flessibile cui sono fissati, mediante appositi con una forma del tutto simile a quello in uso nell’or-
occhielli di pelle, i tiranti. Così si migliora ancor più la chestra, se non fosse per l’arricciatura del ferro che
tensione delle due membrane e soprattutto si evita di caratterizza l’angolo aperto. È percosso con una bac-
forarle, aumentandone la durata nel tempo. chetta di ferro e viene sempre impiegato insieme ad
Tutti gli strumenti gavoesi sono dotati di bordoniera, altri strumenti melodici (sulittos e pipaiolos, organetti
alcune cordicelle che, aderendo diametralmente alla ecc.) e ritmici (tumbarinos e tumbarineddus).
pelle inferiore producono il caratteristico effetto rullan- Veniva generalmente costruita nell’Isola anche la
te. trunfa, nota in Italia come scacciapensieri ma strumento
Il tumbarinu di Aidomaggiore, esclusivo di questo diffuso, praticamente, in tutto il pianeta. Tenendola tra i
paese della media valle del Tirso (prov. di OR), presenta denti si fa vibrare con la mano la linguetta che fuoriesce
invece una cassa di metallo di circa 30 cm con le due dall’estremità dello strumento; modificando, nel con-
pelli cucite al cerchio; non ci sono controcerchi, per cui i tempo, forma e volume della cavità orale, che funge da
tiranti di cuoio premono direttamente su quest’ultimo cassa di risonanza, si possono realizzare pochi suoni ma
(forando la pelle) e sono tesi a “Y” mediante anelli, sufficienti ad accompagnare il ballo.
anch’essi di cuoio. Di particolare interesse i due mazzuo- Nel 1598, un decreto viceregio vietava di suonare la chi-
li con cui si suona questo strumento: uno per perquote- tarra e altri strumenti a pizzico per le strade di Cagliari
re, l’altro per smorzare la vibrazione della pelle. oltre il rintocco vespertino. Un documento importante
A Sassari il tamburu coordina invece il movimento dei per la storia della chitarra sarda perché attesta l’impego
portatori che fanno “danzare” i mastodontici candelieri dello strumento nell’Isola ab antiquo e, come si evince
nella processione votiva di mezzo agosto. Si tratta di un dal testo, a livello popolare, di “strada”, per l’appunto.
tamburo a bandoliera, tipologia attestata molti centri Il fatto non deve stupirci, visto che proprio gli Spagnoli,
italiani quasi sempre in occasione di processioni e cortei dominatori della Sardegna molti secoli, furono i princi-
cerimoniali. Lo strumento sassarese è costituito da un pali esportatori in Europa di strumenti come vihuelas de
cilindro in lamina di ottone o di ferro zincato del diame- mano e guitarras. Di costruzione relativamente sempli-
tro di circa 40 cm; i bordi delle due membrane sono ce, e facilmente trasportabile la chitarra accompagnava
incollati a cerchi di faggio, lo stesso legno dei controcer- la danza (ce lo attesta un’altra carta d’archivio di primo
chi che premono su di essi per mettere in tensione le Seicento) e il canto. Le chitarre sarde del Seicento non
pelli. Tale azione è assicurata dai tiranti che, attraversan- erano diverse da quelle usate in Sardegna fino alla
do i controcerchi, vengono tesi con fascette di cuoio seconda guerra mondiale, come si può vedere in un
danno loro la caratteristica forma di “Y” rovesciata. Gli affresco della chiesa della Madonna d’Itria di Orani
estremi eccedenti della corda vengono poi intrecciati (NU): l’ignoto pittore dell’angelo chitarrista sulla volta
per formare la tracolla che regge lo strumento sulla del presbiterio, di formazione certamente popolare, ha
spalla del tamburino (bandoliera). Anche qui è presente voluto rappresentare qui un oggetto che conosceva
la bordoniera (o cordiera), di cui si è parlato a proposito bene, offrendoci utili dettagli anche sulla tecnica esecu-
del tamburo di Gavoi, con relativa chiave di accordatura. tiva.
Un tempo, la maggior parte dei gremi, corporazioni di Intorno alla metà del secolo scorso, come si è accennato,
mestieri protagonisti della Discesa dei candelieri, utiliz- fecero il loro ingresso nell’Isola nuove chitarre, costruite
zava, utilizzava il tamburo in coppia con il piffaru, uso perlopiù da liutai siciliani, di dimensioni superiori rispet-
tramandato, al giorno d’oggi, unicamente dal gremio to a quelle usate fino ad allora, e per questo chiamate
dei Viandanti. Giulio Fara ci fa sapere nel 1917 che «da “chitarre giganti”. La maggiore dimensione della cassa,
oltre un secolo i pochi suonatori popolareschi tuttora e il diapason più lungo (per diapason si intende lun-
esistenti si contentano di servirsi di antichi ottavini che ghezza delle corde, dal capotasto al ponticello) garanti-
adattano alla capacità propria, turandone i buchi e vano un maggior volume di suono a strumenti che dove-
legandone le chiavi». È la descrizine esatta di lu piffaru vano essere sentiti fino in fondo alla piazza e che, sul
che si poteva ancora vedere fino a qualche anno fa: un palco, dovevano reggere il confronto con voci sempre
ottavino d’orchestra in ebano al quale venivano asporta- più “grandi”, in tutti i sensi.
te le sei chiavi e otturati i fori inutili alla realizzazione Il suo impiego è infatti fondamentale per le gare a chi-
delle melodie tradizionali. Oggi il Gremio usa invece un tarra, termine con cui ellitticamente si intende ‘gara di
piffaru costruito appositamente sul modello di quello canto, con l’accompagnamento della chitarra’, una
preesistente, anche se di taglio leggermente più acuto. forma di spettacolo, come si vedrà, molto seguita in
Tra i membranofoni sardi troviamo anche il tamburi- tutta l’Isola, in cui, con o senza la fisarmonica, sostiene
neddu, micro-tamburo realizzato in un segmento di le voci di due o più concorrenti sul palco. Ma può anche
canna comune alla cui estremità viene fissato, e teso accompagnare il ballo, e certamente un tempo, prima la
mediante alcune spire di spago, un sottile pezzetto di diffusione dell’organetto, assolveva a questo compito
pelle. Lo strumentino veniva utilizzato per ritmare i con maggior frequenza e in un’area più estesa di quella
passi della danza. odierna.
Monopelle, ma “a cornice” era anche il tamburellu, il La letteratura organologica sarda riporta anche una
classico tamburello basco, la cui sonorità poteva essere serie di strumenti impropri, oggetti comuni che in parti-
arricchita o meno da sonagliere. Come si è detto il suo colari occasioni possono anche produrre effetti sonori.
uso appare alquanto limitato in Sardegna: nel meridio- Esempio tipico e il fuettu, una lunga frusta per incitare

61 il folklore
d’Italia
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i buoi che i carrettieri del Campidano facevano schiocca- una polifonia estremamente vivace, resa possibile dall’a-
re in aria per mostrare la propria maestria nell’utilizzo zione dei campanari direttamente sui battagli, grazie a
di questo fondamentale mezzo di lavoro. Altro strumen- corte funi, anche due per mano, all’occorrenza, o legati
to improprio è l’affuente, antico vassoio di ottone lavo- alla coscia.
rato a sbalzo, usato dentro la chiesa per vari scopi (por- Nei giorni in cui la liturgia impone il silenzio delle cam-
tare gli oli santi o i chiodi della deposizione, raccogliere pane, dal Giovedì Santo alla veglia del sabato seguente,
le offerte ecc.), ma fuori, sul sagrato, mediante la per- si utilizzano anche in Sardegna strumenti di legno per-
cussione/sfregamento di una grossa chiave, poteva util- cosso chiamati, con un termine di origine spagnola,
mente accompagnare i balli. matraccas, ma anche matraccas a roda, taulittas. Il
Nelle corrainas, serenate burlesche organizzate per le loro impiego, come attestano già i liturgisti del IX seco-
nozze dei vedovi, analoghe ai ben noti charivari, oltre lo, serviva a stabilire una chiara opposizione, a livello di
alla percussione di coperchi e mestoli si producevano rito, tra vecchio e nuovo: il prima di Cristo (quindi
orribili suoni soffiando all’interno di un corno bovino morte, peccato, dolore ecc.) simboleggiato dagli stru-
(corru ’e boe) e di grosse conchiglie (del tipo charonia menti di legno che si usavano una volta, prima dell’av-
nodifera) cui veniva asportata la parte apicale; queste vento delle campane; i rintocchi festosi di queste ultime,
ultime, secondo qualche sparsa testimonianza, venivano per annunciare invece la sua risurrezione e la vittoria
usate anche per comunicare a distanza, mediante un sulla morte.
apposito codice, tra gli stazzi della Gallura. Strumento Più nel ricordo degli anziani che nell’uso attuale, invece,
tipicamente carnevalesco è invece sa serraggia, unico tanti strumenti-giocattolo (anche se recenti esposizioni e
cordofono autoctono, realizzato con una treccia di crine ricerche hanno contribuito, meritoriamente, a metterli
o un filo di ottone teso su una canna e poggiante su in luce), oggetti fatti con materiali poveri e di recupero,
una “cassa di risonanza” realizzata con una vescica di in cui spesso il rumore e il suono costituiva un fattore
maiale essiccata e poi gonfiata come un palloncino. Si secondario del meccanismo ludico. Strumenti che per
usa nel carnevale anche in trimpanu, tamburo mono- brevità, e in conclusione, ci limiteremo ad elencare,
pelle a frizione, utilizzato un tempo dai malviventi, a quali il furrianughe, le arranas di canna e di legno, il
detta di Giovanni Dore, per disarcionare i carabinieri a frusciu, il muscone l’ischeliu, il mumusu, il flautu ’e
cavallo. canna.
Un discorso a parte meritano i sonazzos, i tipici campa-
nacci per gli ovini, realizzati non per fusione ma con 2. Il canto a chitarra
della latta ritagliata e battuta su apposite forme; model- Come si è accennato nel paragrafo precedente, la gara a
lati in forma globulare o tubolare, vengono poi placcati, chitarra è un intrattenimento musicale tra i più amati
mediante un rudimentale procedimento, con l’ottone. dai Sardi, perfettamente integrato nel “sistema” della
Il loro impiego, al collo di capre e pecore, non è propria- festa tradizionale. Non si tratta però, come la locuzione
mente musicale, e pertanto tali oggetti non dovrebbero lascerebbe intendere, di una competizione tra strumen-
comparire in questa trattazione sugli strumenti della tisti ma bensì di una ‘gara di canto accompagnato dalla
musica sarda. Invece, siccome la musica non può essere chitarra’, un vero e proprio concorso canoro, nato e
separata dalla cultura, almeno tre motivazioni ci spingo- regolamentato nel ’900, forse sulla falsariga delle preesi-
no ad inserirle: 1) fanno parte, indissolubilmente, del stenti gare di poesia improvvisata.
paesaggio sonoro dell’Isola (impossibile pensare alle Un concorso aperto unicamente a professionisti e semi-
nostre campagne senza il sottofondo dei campanacci: professionisti che, però, deriva il suo nucleo costitutivo
suoni squillanti d’estate, più sordi, per via del vello rin- da repertori e stili vocali in uso nella Sardegna centro-
foltito, l’inverno); 2) la cura con cui vengono realizzati e settentrionale, da quelle boghes a ghiterra che si forma-
soprattutto accordati è degna di uno strumento musica- vano, su modelli estremamente semplici, nelle bettole,
le (uno stock di campanacci deve essere intonato tutto nelle serenate notturne, nelle feste familiari o durante
sulla stessa nota per rendere il gregge riconoscibile al particolari attività lavorative. La componente musicale
pastore, anche al buio e in lontananza, e per orientare era di certo rilevante ma ancora più importanti erano le
gli stessi animali che, in questo modo, possono seguirsi a parole dei poeti, più o meno noti, che la voce, accompa-
vicenda); 3) nel Carnevale sono una componente essen- gnata dallo strumento, veicolava e tramandava nel
ziale di molte maschere, come i mamuthones, i boes, i tempo.
merdules, i thurpos ecc. La gara a chitarra nasce dunque dall’esigenza di spetta-
Anche le campane possono considerarsi in Sardegna dei colarizzare un canto “di tradizione” nei modi e nelle
veri e propri strumenti musicali. Erano utilizzate prima- forme in cui veniva abitualmente eseguito dai cantado-
riamente per avvertire i fedeli dello svolgimento di fun- res più capaci; ma progressivamente ha accolto e incor-
zioni religiose, quindi per scandire, con appositi rintoc- porato al suo interno fortunate creazioni “individuali”:
chi, il tempo del lavoro e quello del riposo, per avvisare nuovi modelli melodici e armonici, elaborati e “lanciati”
di agonie e decessi, del pericolo di un incendio ecc.; da grandi voci e grandi chitarristi. Questi nuovi reperto-
veniva loro attribuito anche un forte potere apotropaico ri, esibiti nelle piazze e, in seguito, affidati anche al
(per questo si suonavano durante i temporali e il 1/ 2 mercato discografico (dischi a 78 e 45 giri e, negli ultimi
novembre nel giorno e nella notte dei morti). Ma era decenni del secolo, soprattutto musicassette) sono
durante le feste, con s’arrepicu, un rintocco gaio e rit- diventati a loro volta d’uso comune nei bar, nelle botte-
mato, che campane e campanari esprimevano al meglio ghe artigiane, nelle cene tra amici, realizzando un
le loro qualità musicali. Questi rintocchi, che si sta cer- modello, per così dire, “monoplanare” di circolazione
cando di ripristinare, dopo la quasi totale automazione culturale che non comprende i ben noti fenomeni di
delle campane, assumevano allora le movenze del ballo ascesa/discesa dal popolare al colto e viceversa, ma rima-
(e in molti paesi si usava ballare in piazza al loro ritmo): ne confinato in un unico piano o livello di cultura.

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Un fenomeno che, per esempio, non ha interessato i starà, in questo caso, tra i due strumenti. Sul palco, se
repertori di canto con accompagnamento di launeddas, abbastanza capiente, siederà anche la giuria, composta
chitarra o organetto, tipici della Sardegna meridionale, da intenditori e da alcuni rappresentanti del comitato.
come la canzoni a curba, i muttettus ecc., che, esclusi dal La competizione, come si è accennato, prevede l’esecu-
circuito della gara, raramente sono usciti dai bacini zione obbligatoria, da parte dei concorrenti, di 12 forme
d’uso originari; al contrario, il Campidano ha sempre di canto: in alcuni casi si alterneranno per intonare versi
accolto con favore canti e cantadores provenienti dal differenti di un medesimo brano, in altri potranno ese-
nord dell’Isola. guirne integralmente uno (o più) per ciascuno. Queste
Il canto a chitarra, grazie al meccanismo della gara, ha forme di canto o boghes si susseguono con un ordine
infatti anticipato di molti decenni quella che potremmo invariabile e sono idealmente suddivise in sette gruppi
definire una “globalizzazione” del folklore tipica della omogenei che costituiscono la vera ossatura della gara:
Sardegna d’oggi. Nella Sardegna di un passato non così si può aggiungere o ripetere qualche boghe nel corso
lontano, aree geograficamente contigue apparivano dello spettacolo, ma non è possibile invertire né elimina-
spesso distanti tra loro per cultura, tradizioni artigianali, re nessuno di tali gruppi.
lingua, repertori musicali ecc. Oggi, venuti meno i pre- Si inizia, dunque, con il canto in re, un posto d’onore
supposti di questa insularità nell’insularità, si produce che gli compete in virtù dell’“antichità”e della sua estre-
ovunque il pane carasau, artigiani sulcitani fabbricano ma diffusione. Mentre, infatti, per l’origine delle altre
ottime pattadesi e un orafo di Nuoro mi diceva qualche boghes si può ipotizzare un dove e un quando, quella in
anno fa: «Mio padre riconosceva le varie forme e stili re è attestata da tempo immemorabile in tutta la
dell’oreficeria sarda, quello bosano, quello selargino Sardegna centro-settentrionale, tanto da poter essere
ecc.; io non più: per me è artigianato sardo e basta». considerata l’archetipo delle restanti forme di canto a
Analogamente, con sempre maggiore frequenza i grup- chitarra. Il canto in re, a sua volta e secondo Lortat-
pi folk mettono in repertorio passi e musiche estranei Jacob, avrebbe nel canto femminile il suo modello-
alla tradizione del proprio paese, e ciò per rendere più madre; il che spiegherebbe, tra l’altro, il forte radica-
varia la loro esibizione e, a richiesta del mercato turisti- mento e l’ampia diffusione della prima boghe, non solo
co-culturale (interno e esterno), più rappresentativa del- in ordine di tempo, della gara.
l’intera Regione. Va comunque precisato che per canto in re non si inten-
La gara a chitarra, come si è detto, ha anticipato tutto de nell’Isola una canzone in cui testo e melodia sono
ciò: nata appositamente come spettacolo da portare associati una volta per tutte, ma piuttosto uno schema
nelle piazze di tutta l’Isola, nel corso della sua storia ha melodico-armonico con il quale è possibile intonare
incorporato il meglio dei repertori e delle forme vocali qualsiasi distico di versi ottonari. Nella gara i cantadores
di un’area vasta e “multiculturale” (riuscendo ad unifi- eseguono pertanto “nel tono” del canto in re, una o più
care anche due ambiti così differenti per lingua, usanze, ottave (strofe di otto versi) di una poesia nota a tutti,
economia, come la Gallura e il Logudoro), imponendo ai cantandone ciascuno due versi per volta. Lo stesso dis-
concorrenti l’apprendimento di canzoni e stili estranei corso va fatto la boghe a sa nuoresa, la seconda della
alla propria zona di appartenenza. Tutti loro devono, gara, con la quale, invece, è possibile cantare sempre
infatti, misurarsi con una dozzina di brani, quelli ritenuti ottave, ma di endecasillabi. La Nuoresa, che contraria-
più rappresentativi dell’Isola, alcuni dei quali, come la mente a quanto la denominazione farebbe pensare pro-
tempiesina, la piaghesa (di Plaghe) o la nuorese, già nel viene dal Logudoro, colpisce per la diversità con il canto
nome rivelano una presunta o reale denominazione d’o- in re perché, come osserva Paolo Angeli in una recente
rigine. Più che una gara, la nostra, sembra un concorso monografia sulla gara a chitarra: «Laddove questa
per esami: vince quello che, facendo la media di tutte le forma ha le sue radici nelle cadenze e nei ritmi apparte-
prove, dimostra di possedere e interpretare meglio l’in- nenti alla cultura musicale autoctona (evidentissimo
tero corpus del canto sardo a chitarra. negli arpeggi della chitarra e nel percorso melodico
Anche se le città, luoghi da sempre deputati agli scambi della voce) la Nuoresa, con il suo ritmo ternario e una
e alle relazioni interculturali, hanno avuto un ruolo fon- melodia più orecchiabile per gradi congiunti, rimanda
damentale nella gestazione e nell’irradiazione dei brani alle forme popolaresche dei ‘balli civili’, in primis il val-
“da competizione”, la gara è uno spettacolo tipicamen- zer e la mazurca».
te paesano, organizzato dal comitato della festa patro- Seguono, nell’invariabile scaletta della gara, i Mutos,
nale e religiosa con i fondi raccolti nella questua che forma tipica della poesia sarda, composta, nel nostro
precedeva queste periodiche ricorrenze. Si svolgeva e si caso, da una terzina di settenari chiamata isterrida cui
svolge dunque nella “piazza della festa” su un palco, seguono tre quartine, dette cambas, che formano la tor-
prima molto piccolo, ora, da quando deve accogliere rada. La prima camba comincia con il primo verso dell’i-
anche i gruppi di ballo, sempre più esteso. sterrida, cui fanno seguito tre nuovi versi nei quali, soli-
Sul palco troviamo da due a quattro cantadores (ma il tamente, si manifesta il senso “amoroso” del componi-
numero ideale è tre), accompagnati da un unico chitarri- mento (l’isterrida, al contrario, propone contenuti neutri
sta; i concorrenti siederanno su altrettante sedie, alli- se non banali). La seconda camba inizia con il secondo
neate dietro il chitarrista, e si alzeranno a turno nel verso de s’isterrida, per riprendere, quindi, i tre versi già
corso della gara per esibire le proprie voci; quest’ultimo, sentiti nella camba precedente cambiati, però, d’ordine.
invece, userà la sua per poggiarvi la gamba destra e Analogamente si procede con la terza camba che inizia
sostenere lo strumento. Da quando si è aggiunto il fisar- con il terzo verso dell’isterrida. L’intreccio della versifica-
monicista, dai primi anni ’60, anch’esso in piedi e con la zione corrisponde dunque ad un modello del tipo ABC
gamba destra poggiata su una sedia si dispone in linea (isterrida) + Abca Bcab Cabc (torrada), mentre da un
con il chitarrista, ma leggermente voltato per vedere le punto di vista musicale una medesima formula melodica
sue mani e prevederne i passaggi; il cantante di turno si usa per cantare l’isterrida e le prime due cambas della

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torrada e una seconda, di chiusura, per intonare la terza giudizio, certamente diversi, ma non meno articolati e
e ultima camba. puntuali rispetto a quelli utilizzati da un ascoltatore
La quarta manche, termine usato da Andrea Carpi “esperto” di musica classica. Parimenti, la sempre più
(autore dell’altro fondamentale studio sull’argomento) diffusa fruizione “decontestualizzata” dei repertori per
per indicare ciascuno dei sette gruppi omogenei di mezzo delle audiocassette o dei CD va considerata come
boghes che si susseguono nella gara, è quella dei canti l’estensione di una condotta d’ascolto connaturale all’e-
di origine gallurese, come la Gallurese (o Tempiesina) e vento coreutico. Una condotta che la musica di tradizio-
la Filugnana. A questi si aggiunge, a completamento ne orale condivide, ancora una volta, con quella colta o
della manche, una ripresa del canto in re o un’Isolana (o con la popular music e che porta all’esecuzione dei val-
Piaghesa antiga). zer della famiglia Strauss in una sala da concerto o alla
La successiva comprende invece la Corsicana e il diffusione radiofonica di disco music.
Trallalleru. Il primo, l’unico di tutta la gara in modo Da questa premessa emerge comunque la complessità
minore, sembra essere di origine bonifacina, portato sul dell’evento coreutico/musicale che si presta ad essere
palco per la prima volta a Sorso nel 1946, secondo quan- osservato e analizzato da diverse prospettive: sociali,
to riporta Paolo Angeli che sulla forma generale del semiotiche, simboliche e rituali, con riferimento alla
canto aggiunge: «È evidentissima l’influenza esercitata prossemica e alla postura e soprattutto ai passi e alle
dal Tango: se si analizza l’introduzione strumentale, essa coreografie. Noi ci limiteremo a metterne in evidenza
è pressoché identica ad una parte della Cumparsita». tratti specificamente musicali, come dire “la punta dell’i-
Anche il Trallalleru è un canto di recente introduzione, ceberg”.
una formula melodica piuttosto semplice originaria Non si può tuttavia fare a meno di ribadire la centralità
della Sardegna meridionale, intervallata da un verso e l’importanza del ballo nella società tradizionale, non
non sense, Trallalleru appunto, che onomatopeicamen- solo come interruzione festiva delle attività lavorative,
te ricorda il suono della chitarra. ma anche come momento d’incontro tra ragazzi e
Il sesto gruppo è invece quello dei canti classici: il Mi e ragazze, sotto l’occhio vigile della comunità, finalizzato
La (o canto alla Bosana), il Fa diesis, il si bemolle, tutti alla costituzione di nuclei familiari. Quale occasione
brani che traggono la denominazione dalle note o dagli migliore del ballo, infatti per valutare la prestanza fisica
accordi predominanti nella prima parte, o bessida (‘usci- del marito-lavoratore o la sana e robusta costituzione
ta’), mentre la calada, la seconda parte, come in tutta la della moglie/generatrice e allevatrice di prole? Quale
musica sarda con chitarra, ritorna nella consueta tonali- occasione migliore, altresì, per cogliere fugacemente il
tà di re maggiore. «I classici – osserva ancra l’Angeli – garbo, l’intelligenza o la morigeratezza di un probabile
sono il vero banco di prova della Gara e, anticamente, il partner? La danza aveva insomma una funzione impor-
momento più atteso e apprezzato dagli intenditori. […] tantissima nelle dinamiche matrimoniali e non a caso in
Difficilmente tra il pubblico degli ascoltarori si poteva molti centri dell’Isola erano le associazioni di celibi a
trovare un cantore capace di cimentarsi con queste retribuire i suonatori del ballo domenicale. I tempi sono
forme». cambiati e le dinamiche socio-culturali pure, tuttavia i
L’ultimo brano, che conclude la gara, forse il più difficile moderni gruppi folkloristici che nei paesi perpetuano il
e virtuosistico di tutti, è la Disisperada (in gallurese ballo tradizionale, offrono ancora importanti occasioni
Disispirata), un canto d’amore in ottave di endecasilabi d’incontro e di relazione, anche affettiva, tra i giovani.
denso di melismi e ornamentazioni, la cui etimologia va Nel cambiamento delle dinamiche sociali e culturali, la
ricercata nello spagnolo despertar, ‘svegliare’ e quindi spettacolarizzazione del ballo rappresenta uno dei feno-
canto da serenata. meni di maggiore evidenza: anzitutto l’erezione di un
palco (più o meno dalla seconda metà del secolo scorso)
3. I repertori strumentali di danza ha diviso in due lo spazio coreutico, uno per ballare e
Come la maggior parte degli strumenti tradizionali, l’altro per osservare, uno per gli attori-ballerini e l’altro
anche quelli sardi trovano nel ballo il più consistente e per gli attori-spettatori (e, ovviamente, ascoltatori) del-
vitale ambito d’uso, esprimendo nell’Isola un considere- l’evento. Questa spettacolarizzazione ha prodotto altresì
vole e multiforme repertorio solistico, per voce accom- importanti mutamenti nelle coreografie, rispondendo a
pagnata o per piccoli ensembles strumentali. Bisogna esigenze, sempre più pressanti, di originalità e innova-
tuttavia premettere che tale repertorio, benché destina- zione, ma anche nei tempi di esecuzione: mentre prima
to primariamente alla danza, non serve unicamente a un ballo accompagnato dalle launeddas o dall’organet-
coordinare i passi dei ballerini ma si configura, conte- to durava anche tre quarti d’ora, oggi tutto si deve con-
stualmente, come musica “da ascoltare” e d’intratteni- cludere, con tempi assolutamente “televisivi”, nell’arco
mento. Ciò spiega l’estrema complessità strutturale e di cinque-sei minuti. Ovviamente anche le musiche si
performativa dei balli per launeddas, ma anche di quelli sono dovute adattare a questa contrazione dei tempi,
eseguiti con l’organetto o con la fisarmonica; ma soprat- perdendo quella lineare e pacata discorsività che carat-
tutto contraddice l’opinione di quanti ancora considera- terizzava le antiche picchiadas. Molti centri dell’Isola
no la musica popolare un prodotto “funzionale”, finaliz- mantengono, comunque, anche la pratica del ballo
zato, cioè, ad un impiego concreto e circoscritto; al con- comunitario in piazza, benché limitata alle feste patro-
trario di quella colta che aspira al bello ideale, kantiana- nali o al carnevale. Anche qui, analogamente a quanto
mente senza scopo. osservato per il canto a chitarra, si evidenziano fenome-
Il ballo si presenta, quindi, come un sistema complesso ni di imitazione, da parte della piazza, di coreografie
di comportamenti e di rappresentazioni in uno spazio viste sul palco, attivando processi di “circolazione” inter-
occupato da danzatori e suonatori, ma anche da spetta- na che varrebbe la pena indagare.
tori/ascoltatori che esercitavano ed esercitano il proprio Interessanti osservazioni sulle recenti dinamiche del
diritto di critica sulla base di estetiche e parametri di ballo nel sistema-festa le offre un saggio relativamente

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recente di Franciscu Sedda che interpreta il fenomeno in successione sezioni del tipo ballu (prima famiglia) e
chiave semiotica, mentre per quanto riguarda le fonti sezioni del tipo passu torrau (seconda famiglia).
antiche del ballo sardo va ricordata l’esaustiva e utile Salvatorangelo Pisanu, prendendo spunto dalle analisi
compilazione dei Gerolama Carta Mantiglia e Antonio dei balli a launeddas proposte dal Weiss Bentzon nella
Tavera pubblicata negli atti del convegno di etnocoreu- già citata monografia sullo strumento, ipotizza infine la
tica svoltosi a Sorgono nel 1997 (in precedenza Attilio costituzione di una terza famiglia, quella del ballo cam-
della Maria aveva fornito una rassegna delle fonti pidanese, caratterizzato dalla suddivisione sempre ter-
Ottocentesche). Una completa “mappatura” dei contesti naria del modulo-base di sei pulsazioni (i balli della
tradizionali d’uso del ballo, delle denominazioni e degli prima famiglia, lo ricordiamo, alternano in varia succes-
usi locali legati alla danza, il tutto aggiornato agli anni sione suddivisioni binarie e ternarie).
Sessanta-Settanta con particolare riferimento al tempo
di carnevale ma non solo, si trova un una corposa mono-
grafia di Luisa Orrù che contiene anche un’appendice
sul ballo nella media valle del Tirso curata Marcello Riferimenti Bibliografici
Marras, autore di diversi altri saggi sul ballo e sulle sue
ANGELI P., (2006), Canto in Re. La Gara a Chitarra nella Sardegna setten-
dinamiche. Breve ma, come sempre, particolarmente trionale, ISRE, Nuoro:
incisivo, un saggio di Bernard Lortat-Jacob sulle dinami- BAGLIONI S., (1911), «Contributo alla conoscenza della musica naturale»,
che (anche spaziali) del ballo e della festa, tradotto in in Rivista Italiana di Antropologia, XVI, pp. 75-84; 391-409 (riedito in
Italiano in Musiche in Festa. Per quanto riguarda l’aspet- Leydi R. – Guizzi F., Gli strumenti musicali e l’etnografia italiana (1881-
1911), Lucca, LIM, 1994, pp. 296-325)
to più strettamente cinesico, posturale e coreografico BANDINU B. – Deplano A. – Montis V. (2003), Ballos, Edizioni Frorias,
del ballo sardo, un tentativo di classificazione delle Cagliari
diverse danze sarde è stato compiuto da Giuseppe CARPI A., (1999), Canti sardi a chitarra. Un sistema tradizionale di com-
petizione poetico-musicale, Il Tovatore, Roma
Michele Gala in Forme e contesti del Ballo Sardo, secon- CARTA MANTIGLIA G. – Tavera A., (1999), Le fonti del ballo Sardo, Atti
do volume del già citato convegno di Sorgono. del convegno di studi di Sorgono (NU) del 27 luglio 1997, vol I, prefazio-
Tuttavia la classificazione più convincente delle musiche ne di G. M. Gala, Edizioni Taranta, Firenze
da ballo dell’Isola rimane quella proposta da Bernard CIRESE A. M. (1988), Ragioni metriche, Selleria, Palermo
COLLU M., (1998-99), Il flauto a becco in Sardegna, Tesi di Laurea,
Lortat-Jacob e da Francesco Giannattasio nel booklet Università degli Studi di Bologna, relatore D. Staiti
allegato ad un disco sull’organetto in Sardegna. DORE G., (1976), Gli strumenti della musica popolare sarda, Edizioni 3T,
Come rilevato dai due etnomusicologi, quasi tutti i balli Cagliari
FARA G., (1997), Sulla musica popolare in Sardegna, a cura di G. N.
sardi si basano su un modulo metrico di sei pulsazioni, Spanu, Ilisso, Nuoro
corrispondenti ad altrettanti passi oppure a movimenti GABRIEL G., (1936), «Sardegna. Musica«, in Enciclopedia Italiana, XXX,
sussultori; si individuano così due grandi famiglie di balli Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, pp. 137-151
(e quindi di repertori) che da un punto di vista stretta- GALA G. M. (2000) «Il ballo sardo tra folklore e folklorismo. Tipologia
dei balli etnici e trasformazione spettacolare in Sardegna», in Forme e
mente musicale si distinguono per le modalità di suddi- contesti del ballo sardo, Atti del convegno di studi di Sorgono (NU) del
visione di queste pulsazioni. 27 luglio 1997, vol II, a cura di G. M. Gala, Edizioni Taranta, Firenze, pp.
Alla prima famiglia apparterrebbero i balli denominati 19-88
GIANNATTASIO F., (1979), L’organetto. Uno strumento musicale contadi-
ballu, ballu tundu, ballu sartiu, ballittu, dillu; alla secon- no nell’era industriale, Bulzoni, Roma
da famiglia quelli come sa danza o su passu torrau. I GIANNATTASIO F. – Lortat-Jacob B., (1982), Booklet allegato al disco
balli della prima famiglia sono dunque caratterizzati Sardegna 1: Organetto, a cura di D. Carpitella, Fonit Cetra, Milano
dalla suddivisione binaria o ternaria delle sei pulsazioni GUIZZI F., (2002), Gli strumenti della musica popolare in Italia, LIM, Lucca
LALLAI G. (a cura di), (1997), Launeddas, AM&D – ISRE, Cagliari – Nuoro
che compongono il modulo coreutico-musicale di base: LORTAT-JACOB B, (2001), Musiche in festa. Marocco, Sardegna, Romania,
ciascuna di queste pulsazioni, in buona sostanza, può Condaghes, Cagliari (tit. or. Musiques en fête, Société d’ethnologie,
essere divisa ulteriormente in gruppi di due oppure di Paris, 1994)
MARRAS M., (2000), «Il ballo tradizionale nella media valle del Tirso:
tre note (terzine). Tra i balli di questa famiglia su ballit- Continuità e cambiamento», in Forme e contesti del ballo sardo, Atti del
tu rivela una forte analogia strutturale con il ballu, ma è convegno di studi di Sorgono (NU) del 27 luglio 1997, vol II, a cura di G.
caratterizzato da una esecuzione più veloce, mentre su M. GALA, Edizioni Taranta, Firenze, pp. 99-113
dillu, che si sviluppa sua quattro pulsazioni, deriva dalla ONETO N., (1840), Memoria sopra le cose musicali di Sardegna,
Tipografia Monteverde, Cagliari
caduta delle prime due pulsazioni del modulo origina- ORRU L., (1999), Maschere e doni, musiche e balli. Carnevale in
rio. Sardegna, a cura di F. Putzolu e T. Usala, C.U.E.C., Cagliari
La suddivisione in terzine non è invece consentita, di PAULIS G., (1991), «Launeddas sarde, contatti tra culture antiche del
Mediterraneo e terminologia musicale latina», in Studia linguistica
norma, nei balli della seconda famiglia che presentano amico et magistero oblata. Studi di amici e allievi dedicati alla memoria
sempre una suddivisione binaria (o quaternaria) di cia- di Enzo Evangelisti, Milano, pp. 279-311
scuna delle sei pulsazioni-base. Coreograficamente, que- PAULIS G., (1992), «I nomi delle “launèddas” sarde e della viola alla luce
sto dato musicale si traduce nella tendenza a segnare della tradizione musicale greco-romana», in Sardinia antiqua. Studi in
onore di Piero Meloni in occasione del suo settantesimo compleanno,
con il passo o con i movimenti del corpo tutte le suddivi- Cagliari, pp. 505-528
sioni del modulo senario (12 in tutto). PISANU S., (2000), «Un’ipotesi di analisi del ballo sardo attraverso una
C’è da dire però che nell’isola non sempre il termine lettura etnomusicologica» in Forme e contesti del ballo sardo, Atti del
convegno di studi di Sorgono (NU) del 27 luglio 1997, vol II, a cura di G.
passu torrau fa riferimento a balli della seconda fami- M. GALA, Edizioni Taranta, Firenze, pp. 151-174
glia, e viceversa balli del secondo tipo vengono generi- SEDDA F., (2003), Tradurre la tradizione. Sardegna: su ballu, i corpi, la
camente denominati ballu. Una incertezza terminologi- cultura, Meltemi editore, Roma.
ca che, in ogni caso, non compromette la validità della SPANU G. N. (a cura di), (1994), Sonos. Strumenti della musica popolare
Sarda, introduzione di P. Sassu, Ilisso-ISRE, Nuoro
tassonomia proposta. Talvolta, anche se in casi limitati, si WEIS BENTZON A. F., (1969), The launeddas. A Sardinian Folk instrument,
può altresì osservare l’adozione di un modulo-base di 2 voll., Akademisk Forlag, Copenhagen (ed. it. Launeddas, a cura di D.
sette pulsazioni in luogo dell’ordinario in sei tempi ma OLIANAS, Edizioni Iscandula, Cagliari, 2002)
anche lo sviluppo di balli “composti” che presentano in

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1. Gli uomini da millenni utilizzano strumenti realizzati nel lungo periodo dal XV al XVII secolo, l’attenzione sem-
con il lavoro per assicurare le migliori condizioni alla pro- bra rivolta oltre che alla variazione della forma, alla deco-
pria esistenza. Progettazione e realizzazione di oggetti, razione del manico arricchito d’intagli, trafori, smalti,
com’è noto, sono capacità e attività che distinguono qua- oppure adornato con stemmi e insegne gentilizie
litativamente l’uomo dagli animali. Infatti, anche se (Creswell , 1978, pp. 814-828).
uomini e animali vivono nella natura e ne costituiscono
una parte importante, è esclusivo dell’uomo e del suo 3. E’ probabile che in Sardegna il contatto con altre cul-
modo di svilupparsi elaborare e trasformare la natura e i ture abbia influenzato, di volta in volta, il gusto per col-
materiali che questa offre. In tal modo, la stessa natura telli particolarmente preziosi, ma che, se esistiti, si può
diventa uno degli aspetti della vita sociale degli uomini, ritenere fossero riservati ad élites sociali.
un elemento della cultura (Angioni , 1986, pp. 26-30). Per quanto riguarda il coltello comune da tasca, a serra-
Nella grande varietà di strumenti impiegati nel lavoro, manico, diffuso nell’Isola, la sua funzionalità primaria
quelli usati per tagliare hanno funzioni differenziate e non sembra aver mai ceduto decisamente il campo ad esi-
specifiche in base alla destinazione d’uso. Tra questi, il genze artistiche. Questo utensile si distingue da altri simi-
coltello è un utensile che ha efficacia in casi notevolmen- li, costruiti in regioni diverse, soprattutto per la forma
te diversificati tra loro. della lama, definita “a foglia”, e per il
materiale utilizzato per il manico, rica-
2. Il coltello, com’è noto, compare già in età litica: si attri- vato da corna di capra, di montone e
buisce questo nome ad alcune lame di selce scheg- ormai più raramente di muflone.
giate in modo da creare un bordo tagliante Pressoché in tutte le aree linguisti-
da uno o da entrambi i lati. La forma che della Sardegna, i coltelli a ser-
allungata delle selci si presta- ramanico sono chiamati leppa o
va ad essere usata resordza, oppure con nomi riferi-
come coltello ti al luogo di produzione, come
per ad esempio pattadesa, lussur-
gesa, guspinesa, arburesa,
realizzati, rispettivamente, a
Pattada, Santu Lussurgiu,
Guspini e Arbus.
La forma particolare del coltello sardo
e soprattutto la struttura, caratterizzata da
un anello solitamente decorato che ricopre e fissa il
punto d’innesto della lama al manico, si spiegano sia con
il molteplice uso a cui è destinato il coltello sia con scelte
raschiare, specifiche alle quali è difficile attribuire un valore funzio-
scarnificare, spez- nale. Del resto, le forme di uno stesso utensile variano
zettare. Ciò si rese neces- non solo da una regione all’altra ma anche nell’ambito
sario quando l’uomo iniziò a della stessa regione, con differenze talvolta sottili basate
trattare le pelli degli animali e a servir- su criteri diversi da quelli tecnici, ma che traducono sia i
sene per proteggersi dal freddo e dall’umidità gusti individuali di ciascun artigiano, sia quelli della col-
(Lucie - Smith , 1981, pp. 32-33). lettività.
Nell’età del bronzo il coltello assume la forma caratteri- Sino a non molti anni fa, nelle botteghe dei fabbri oltre
stica che lo distingue da spade e pugnali per la lama corta agli attrezzi da taglio impiegati nel lavoro dei campi, si
e tagliente su uno solo dei lati. Questo lato, inoltre, non produceva una coltelleria spesso grossolana, ma ugual-
è rettilineo, ma presenta una curvatura più o meno mente destinata a soddisfare specifiche richiese di merca-
accentuata. Già in questo periodo, il manico non era to delle comunità sarde, a prevalente economia agro-
quasi mai della stessa materia della lama, in modo da fare pastorale. Si trattava in ogni modo di una produzione
corpo unico con essa, ma era fatto d’osso o, presumibil- specializzata in quanto richiedeva al fabbro un comples-
mente, anche di legno (Lo Schiavo, 1981, p. 271). so di nozioni, di abilità, di competenze tecniche, nonché
Presso greci e romani il coltello comune era di bronzo o di tempo-lavoro diversi rispetto a quelli necessari per la
di ferro, con manico di metallo o d’osso, spesso ornato di costruzione di altri arnesi. Perciò, il fabbro che costruiva
decorazioni in materiali preziosi. In alcuni modelli la lama aratri, vomeri e scuri difficilmente riusciva ad applicarsi
piccola e leggermente ricurva del coltello poteva essere nella lavorazione di un coltello a serramanico.
ripiegata entro il manico. Dai testi e dalle rappresenta- Il formarsi di una certa specializzazione nell’arte della
zioni figurate si evince l’esistenza di coltelli destinati ad lavorazione del ferro si delineò, anche in Sardegna, già a
usi particolari: per la tavola, per il taglio delle unghie o partire dal Medioevo. La costruzione di fornaci più gran-
per il sacrificio agli dei. In questo caso, la lama era piatta di e soprattutto l’introduzione della forza meccanica,
e molto più larga. sotto forma di ruote ad acqua, comportò un aumento
Nei secoli successivi, sino all’età moderna, la forma del considerevole nella produzione del ferro, che generò, in
coltello è stata adattata ad esigenze estetiche e a funzio- tutta l’Europa, la specializzazione del mestiere del fabbro
ni pratiche diverse. Insieme ai coltelli da tavola con la e la formazione di importanti associazioni o corporazioni
lama variamente foggiata (per il taglio del pane, della di fabbri (Coghalan, 1965, pp. 231-233).
carne, ecc.) compaiono coltelli da caccia con la punta Gli Statuti delle corporazioni - gremi - dei fabbri, redatti
ricurva e altri più piccoli, finemente intarsiati, da portare nelle principali città dell’Isola dal 1381 al 1760, costitui-
racchiusi in custodie di cuoio alla cintura. Specialmente scono un chiaro indizio di una fervida attività artigianale

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d’Italia
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e di un’organizzazione del lavoro abbastanza complessa. L’ipotesi non appare del tutto azzardata se si tiene conto
Allo stato attuale degli studi, appare abbastanza com- del fatto che la storia degli utensili si configura non solo
plesso stabilire la data di istituzione delle corporazioni come processo evolutivo, ma anche come tipologia fon-
dei fabbri, che, verosimilmente, costituiscono il punto di data su fattori pratici e funzionali, caratterizzata dalla
partenza della tradizione della lavorazione del ferro in continua ricerca dell’efficienza degli stessi utensili in fun-
generale e dell’arte del coltellinaio (Pallone, 1932, pp. 20- zione dell’uso cui sono preposti. L’esigenza di avere uno
22). strumento polivalente e facilmente trasportabile in una
Il riferimento più antico è rappresentato dagli società dedita quasi esclusivamente all’agricoltura e alla
Hordinamentos et capitulos di Ugone IV di Arborea del pastorizia, come la Sardegna del Seicento, e l’elevato
1381, che attestano l’appartenenza dei fabbri ad una cor- grado di perizia tecnica che sembrerebbe raggiunto dai
porazione (Tola, 1850, pp. 232-235). Allo stesso tempo, fabbri del tempo, potrebbero aver contribuito a determi-
attraverso la lettura degli statuti, redatti nelle principali nare la forma e la struttura del coltello a serramanico. Per
città sarde dal 1381 al 1760, si può ipotizzare l’esistenza quanto attiene, poi, le diverse tipologie di coltello pre-
di una produzione variamente articolata. In generale, gli senti in Sardegna, Giancarlo Baronti, in un lavoro sui col-
statuti stabilivano norme severe riguardo al controllo dei telli italiani, afferma che <<non vi sono soverchi dubbi su
prezzi e alla qualità dei manufatti, che dovevano essere quali dovessero essere i coltelli a serramanico più usual-
contrassegnati con una punzonatura (senyal). In tal mente fabbricati ed utilizzati nell’isola per larga parte del
modo, veniva fissato un principio esclusivista nell’eserci- secolo scorso: erano certamente quelli che ancora oggi in
zio della professione, che ha senz’altro contribuito a tra- Sardegna vengono definiti “a foggia antica” per distin-
mandare, invariati nel tempo, moduli stilistici e processi guerli dalla più recente “pattadese” …e tutti i coltelli di
lavorativi. “foggia antica” presentano un anello metallico e non un
Già dal Seicento, i fabbri erano tenuti a sostenere un ribattino per sorreggere la lama>> (Baronti, 1986, p. 205)
apposito esame di abilitazione all’esercizio della profes- Sembra molto probabile che accanto o al posto del col-
sione, come si desume dallo statuto del gremio dei fabbri tello a serramanico fosse largamente utilizzato un coltel-
di Cagliari del 1643 (Di Tucci, 1926, pp.82-141). Questo lo a lama fissa, denominato in idioma logudorese sa cor-
statuto è più completo e preciso rispetto agli altri coevi e rina, che significa “il corno”. In questo caso, “il corno”, di
successivi delle città di Sassari, Oristano, Iglesias ed montone o di capra, fungeva da manico per una lama la
Alghero. La serie dei capitoli, infatti, è preceduta da un cui forma era abbastanza simile a quella della resordza.
ampio prologo in cui si afferma che si tratta di un ordi- La punta della lama era semplicemente protetta con un
namento riformato, voluto dagli stessi fabbri, per regola- pezzo di sughero (Amadu, 1984, pp. 10-12).
mentare e favorire tutta l’attività della Maestransa de los Appare abbastanza assodato, tuttavia, che in Sardegna
ferrers y demes officiers a ella agregats. Nei capitoli dal II esisteva una produzione alquanto raffinata di coltelli.
al XIII si contano ben dodici esami diversi per altrettanti Benché la deteriorabilità delle materie usate per la
artigiani specializzati nella lavorazione del ferro o dei costruzione ne abbia impedito la conservazione nel
metalli in genere. In altri capitoli (XLIV - LXVI) sono stabi- tempo, alcuni esemplari custoditi nella Pinacoteca
lite disposizioni specifiche per il maestro de ferrar carrus Nazionale di Cagliari e nel Museo Sanna di Sassari, risa-
e per i maestri espaser, guarnisioner, pavonador. Questi lenti alla metà del XIX secolo, denotano perizia e abilità
esami consistevano nella realizzazione pratica di manu- unite a ricercatezza delle forme.
fatti e interessavano sia i maniscalchi e gli artigiani che
producevano grandi attrezzi (menescalc, ferrer de obra 4. Per la costruzione del coltello a serramanico, come si è
grossa, ferradors, magnà, ecc.), sia i fabbri con una pre- accennato, occorre un procedimento tecnico ben deter-
parazione specifica in lavori complessi e raffinati come i minato che prevede, essenzialmente, tre fasi: la forgiatu-
relogers e i ganiveters, vale a dire orologiai e coltellinai. ra della lama, ottenuta da barre o lastre d’acciaio; la pre-
Per poter aprire bottega in proprio, dopo un lungo perio- parazione del manico, che funge da guaina o custodia
do di apprendistato presso un maestro, il coltellinaio del per la lama; infine, l’applicazione del manico. La lama è
XVII secolo doveva dimostrare, davanti ad un’apposita forgiata a caldo con colpi veloci e molto precisi tra l’incu-
commissione presieduta dai membri del direttivo del gre- dine e il martello, per ottenere la forma. Si dà poi l’avvio
mio (i maggiorali), di saper costruire coltelli e strumenti al trattamento termico, con temperature tra gli 800 e 900
da taglio. Il capitolo XI dello statuto di Cagliari, infatti, gradi, che costituisce una delle fasi più importanti e deli-
disponeva queste prove: <<Lo ganiveter a de fer las pes- cate da cui dipende la buona riuscita della lama.
sas seguents: primerament una pessa romana de llargaria Successivamente, questa viene rifinita, ancora temprata,
de un pam y de amplaria de tre dits, unas tisoras de escri- mentre l’affilatura, cioè la rettifica del filo tagliente, è
vania, una manora de sabater, unas tisoras de sastre, una eseguita quando il coltello è ultimato.
rasoja ab sa maniga ab una anella que gira en rodò, una Per modellare il manico, il coltellinaio deve prestare note-
agulla de taconar>> (Di Tucci, 1926, p. 87). vole attenzione al fuoco in modo da ammorbidire le por-
Il coltello (rasoja) con il manico e un anello che lo circon- zioni ritagliate dal corno e poterle quindi raddrizzare con
da potrebbe essere un utensile utilizzato da altri artigia- la morsa. In Sardegna si usava anche far bollire il corno
ni e l’anello, forse, serviva per maneggiarlo o per tenerlo per renderlo duttile senza rischiare di bruciarlo. L’uso di
appeso alla parete. Nello stesso tempo, la descrizione, per corno di montone o di muflone richiede minori precau-
quanto essenziale, sembra rinviare ad un rasoio da barba, zioni nell’esposizione al calore in quanto contenendo una
che è uno dei primi strumenti da taglio ad avere struttu- maggiore quantità di grasso, si ammorbidisce a tempera-
ra pieghevole, e dunque all’archetipo del coltello a serra- ture più basse.
manico munito di ghiera che avvolge il manico - que gira I manici dei coltelli a serramanico, con o senza molla,
en rodò - per fissarlo alla lama, secondo una tecnica in sono fondamentalmente di due tipi: formati da un unico
uso ancora oggi. pezzo di corno modellato e inciso al centro per contene-

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d’Italia
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re la lama e la molla; oppure, composti di due placche. I L’estremità superiore dell’arco prosegue sotto l’anello
manici monoblocco rappresentano la forma più economi- d’ottone offrendo un appoggio per la lama, in posizione
ca, sul piano del tempo del lavoro e del costo del mate- di apertura, più stabile rispetto ad altri sistemi.
riale, ma anche la forma più tradizionale. Risultano, inol- Attraverso l’arco, inoltre, si mantiene costante l’assetto
tre, quelli per i quali si riesce meglio ad evidenziare la del solco interno dove, a coltello chiuso, alloggia la lama.
competenza dei coltellinai nelle diverse fasi di lavorazio- Per evitare che questa entri in contatto col ferro, pregiu-
ne, poiché sono difficilmente riproducibili senza l’inter- dicandone l’affilatura, il tallone del manico è sagomato
vento manuale dell’artigiano. in modo da sporgere un po’ in avanti (Carboni, Pizzadili,
La costruzione del manico con un unico pezzo di corno è 1984).
un metodo largamente adottato per i coltelli del tipo Questi elementi fanno della pattadesa un modello pres-
arburese, con lama panciuta e adatto per scuoiare, e soché unico nel panorama nazionale, perché unisce la
guspinese, conosciuto come il coltello del minatore e maggiore resistenza possibile con la massima funzionali-
caratterizzato dalla tradizionale punta mozzata. tà. Tra l’altro, è considerato <<uno dei coltelli italiani più
Nella fase finale, il tutto è poi bloccato dall’anello in otto- belli in assoluto, la “resolza pattadese”, veramente splen-
ne, talvolta decorato con incisioni, e da un chiodo ribat- dida per la crudele naturalità e l’esemplare purezza delle
tuto che permette al coltello di richiudersi su se stesso. sue semplici linee, per l’accurata armonia delle materie
Diversamente, il manico in due pezzi di corno, o altro che la compongono e per quel sapore di arcaico nella
materiale, è sovrapposto a due piastre metalliche, che decorazione delle guarnizioni e nel risalto dei ribattini
includono al
loro interno
una molla. I coltelli di Pattada
Per la costru-
zione del col-
tello tipo “pat-
tada”, che ha
lama affusola-
ta, “a foglia di
mirto”, senza
unghiatura nel
dorso, è stata
perfezionata,
invece, una
peculiare e
innovativa
soluzione tec-
nica costituita
dall’introdu-
zione di una
barra metalli-
ca, detta
“arco”, nella
struttura del
m a n i c o .
Questo è divi-
so in due pezzi
da unire
mediante giu-
stapposizione.
L’arco in ferro,
a differenza di
una molla, è
fissato con una
serie di ribatti-
ni passanti
(ribadinos) al
manico, ren-
dendolo, così,
particolarmen-
te forte e inde-
formabile
senza però
aumentarne il
peso, come
avviene con le
p i a s t r e .

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d’Italia
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sulla levigata superficie del corno, rimembranti le antiche Vocabolario i due termini non fossero pressoché sinonimi
decorazioni ad occhi di dado, che ne ingentilisce ma con- e che indicassero, effettivamente, due strumenti distinti.
temporaneamente ne accresce la barbara, inquietante e In entrambi i casi, tuttavia, le definizioni sembrano esclu-
schiettamente esplicita funzionalità>> (Baronti, 1986,p. dere la presenza del coltello a serramanico inteso come
207). strumento dalla forma specifica, comune e largamente
utilizzato. Con quest’ultima accezione, invece, i due ter-
5. L’origine remota che la tradizione sarda attribuisce al mini leppa e resordza compaiono nel Dizionario
coltello a serramanico, sembra giustificarsi con l’origine Etimologico Sardo, pubblicato da Max Leopold Wagner
stessa del coltello tout court. La pattadesa o la guspinesa, un secolo dopo, quando già, com’è noto, il coltello a ser-
per citare soltanto alcuni dei coltelli più noti costruiti in ramanico era uno degli utensili più diffusi (Wagner,1960)
Sardegna, così come li conosciamo oggi, verosimilmente Il lungo periodo che separa le due pubblicazioni aggiun-
compaiono nella seconda metà dell’Ottocento ad opera ge più interrogativi che soluzioni al problema della data-
di fabbri che hanno saputo concretizzare inventiva, com- zione del coltello sardo. La lingua, talvolta, si adegua con
petenza, esperienza. Quest’ultima è, nello stesso tempo, sorprendente lentezza alle innovazioni e, ancora più
collettiva e individuale, tramandata e codificata, ma non- spesso, il significato di un termine ha due o più signifi-
dimeno amplia le possibilità dei singoli di introdurre canti in differenti contesti semantici. La ricostruzione del-
sistemi e criteri nuovi nella creazione degli utensili. l’origine di questo manufatto, o delle possibili variazioni
La comparsa di questo strumento nella realtà isolana in della forma, a lungo termine non ha quasi mai valore di
un periodo in cui si intensificarono gli scambi commercia- certezza assoluta.
li con i paesi europei (in particolare la Spagna e la Francia,
mercati privilegiati per l’esportazione del bestiame), sem- 6. Qualunque sia il momento o il luogo d’origine del col-
bra confermata dalla mancanza di notizie relative alla tello, è innegabile il valore pratico e simbolico che esso
lavorazione del coltello nei resoconti dei numerosi viag- ha, da molto tempo, nel contesto culturale sardo. Come
giatori, che già dalla prima metà dell’Ottocento visitaro- ogni altro strumento costruito dall’uomo, anche il coltel-
no la Sardegna. E’ pur vero che alcuni tra loro, motivati lo a serramanico, in realtà, non può essere considerato un
da interessi antiquari, alla ricerca di un’umanità ancora oggetto a sé stante, estraneo o separato dai gesti del-
incontaminata e selvaggia, non prestarono attenzione l’uomo che lo produce o che lo fa funzionare. Utilizzato
alle espressioni del vivere quotidiano e alle evidenze in campagna dal pastore nei diversi momenti lavorativi,
della cultura materiale. Altri, lontani da una mitizzazione costituisce il più comune attrezzo da taglio; è maneggia-
dell’esotico, offrono importanti spunti per la documenta- to con destrezza nella marchiatura delle pecore, eseguita
zione etnografica. Tuttavia, l’attività dei coltellinai, seb- oltre che a fuoco, con un taglio del bordo dell’orecchio;
bene diffusa, e la presenza di coltelli che potessero distin- nella macellazione e nella scuoiatura degli animali e, per-
guersi per funzionalità o perfezione di forme, è del tutto sino, in piccoli interventi di chirurgia veterinaria quando
ignorata. è necessario praticare incisioni per salassare le pecore o
Soltanto nel dizionario del Casalis, curato per le voci sulla per castrare i maiali destinati alla macellazione. Sempre
Sardegna da Vittorio Angius, compare una descrizione in campagna, il contadino se ne serve nelle colture spe-
attenta del lavoro dei fabbri ferrai a Sassari. Egli precisa cializzate sia al momento del raccolto e sia in altre attivi-
che i fabbri erano numerosi e distinti in artigiani di “arte tà specifiche quali l’innesto, la potatura e la lavorazione
grossa” e “arte fina”. I primi si dedicavano maggiormen- del sughero. Per entrambi, pastori e contadini, ha rap-
te a lavori di mascalcia e alla costruzione di grossi ferra- presentato a lungo uno strumento insostituibile per inta-
menti, mentre gli altri, <<fanno opere gentili. Dalle loro gliare il legno, incidendo con leggerezza o scavando in
officine escono lavori di molta difficoltà che meritan lode profondità graffiti o figure zoomorfe.
per la eleganza e precisione>>. Inoltre, sempre l’Angius, Appare importante, inoltre, rilevare il valore simbolico
commenta che l’attività dei fabbri, principalmente nella del coltello a serramanico, che diventa evidente in rap-
lavorazione del ferro battuto, si avvaleva del contributo porto al suo possibile impiego quale arma impropria o
di numerosi artigiani stranieri stabilitisi da tempo nella meglio quale strumento atto ad offendere, così come
città (Angius, 1833-1856, pp. 138-139). viene classificato nella legislazione vigente in materia di
Per quanto riguarda, invece, il centro di Pattada, dove armi (Legge n. 110/1975, art. 4). Per esempio, la memo-
attualmente la tradizione è più fiorente, l’Angius accen- rialistica sulla Brigata “Sassari”, la formazione militare
na appena alla presenza di fabbri e pone in particolare reclutata su base regionale, che ha combattuto durante i
rilievo la scarsa professionalità degli artigiani in genere. quattro anni della prima guerra mondiale, è ricca di
Un’ulteriore conferma alla supposizione che specialmen- aneddoti sull’abitudine da parte dei soldati sardi di ser-
te l’attuale pattadesa non sia stata realizzata prima della virsi della guspinese, in combattimento e all’insaputa dei
seconda metà dell’Ottocento, sembra provenire dal comandanti, come di un’arma bianca migliore della baio-
mutamento di significato, in un lungo arco di tempo, dei netta (Fois, 1981, p. 83). Tuttavia, Emilio Lussu, in un epi-
termini leppa e resordza, che in sardo designano, appun- sodio del suo Un anno sull’Altipiano, pur rilevando che
to, questo strumento. Nel Vocabolario sardo-italiano e tutti i soldati del battaglione, circa duecento, avevano
italiano-sardo, curato dal canonico Giovanni Spano nel con sé un coltello a serramanico, ne mette in evidenza
1851, il lemma resordza è tradotto genericamente con l’uso quotidiano: per tagliare il pane, la carne, il formag-
“rasojo” e non è indicata alcuna definizione che possa far gio, le arance. Del resto, secondo Lussu, sarebbe stato
pensare a un coltello con la lama ripiegabile. Nel fornire ben difficile combattere con un coltello, corpo a corpo
il significato della voce leppa, lo Spano è più preciso e con gli austriaci, nonostante l’esplicita richiesta in tal
scrive che si tratta di <<un rasoio o coltello che non chiu- senso avanzata dal generale (Lussu, 2000, pp. 145-146 ).
de e che serve per scorticare>> (Spano, 1851). In altre situazioni, invece, il coltello a serramanico, pro-
E’ possibile che nel periodo in cui lo Spano compilò il suo prio perché tradizionalmente tenuto in tasca, può essere

il folklore 70
d’Italia
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impiegato come arma molto efficiente negli scontri tra to lavorano la materia prima, ancora grezza, per arrivare
gli uomini, che si risolvono in risse cruente e sfociano in al prodotto finito (Clemente, Orrù, 1982).
efferati omicidi. Del pari, nell’attività venatoria, durante In generale, si è passati da un livello più propriamente
la caccia grossa al cinghiale, ha una funzione ben precisa, artigianale ad uno con caratteri industriali in grado di
del tutto assimilabile a quella di un’arma bianca, e rara- soddisfare le mutate richieste di mercato anche attraver-
mente un cacciatore sardo si separa dal suo coltello custo- so attività di riparazione e di servizio. Del resto, per molti
dito con la stessa cura riservata al fucile. anni gli interventi regionali sono stati indirizzati mag-
Del coltello costruito in Sardegna si loda, innanzi tutto, la giormente verso il potenziamento di un artigianato di
capacità a compiere esattamente lo scopo ed il fine per il tipo artistico, difficilmente realizzabile con il ferro, se si
quale è costruito, tenendo presente la sua utilità e la sua escludono alcuni felici esempi tra gli artigiani del ferro
adeguata struttura. Soltanto in una seconda fase il giudi- battuto ancora operanti in Sardegna.
zio investe anche il valore estetico del manufatto, la cui Il coltellinaio sardo, però, ha tenuto costantemente pre-
forma strutturale quanto più efficacemente tende al suo senti i dettami della tradizione e continua a costruire il
fine funzionale, tanto più si traduce in valori espressivi. In coltello a mano e a fuoco, con tempi lunghi, che non con-
definitiva, un buon artigiano, un fabbro esperto unisco- cedono nulla a tecniche industriali o all’uso di materiali
no negli oggetti creati l’utile e il bello, ciò che è pratico e diversi da quelli codificati dall’uso evitando, contestual-
ciò che può essere gratificante sul piano psicologico. mente, che la tradizione si concretizzi in un’arida cristal-
L’abilità e la perizia dei fabbri ferrai sono evidenziate da lizzazione di moduli formali arcaici.
Amerigo Imeroni in uno studio del 1928 sulle piccole La coltelleria grossolana e i coltellacci a spatola, cui si è
industrie operanti all’epoca in Sardegna. Nel fornire prima accennato, hanno tuttavia lasciato il campo a pre-
un’interessante descrizione delle diverse fogge del coltel- gevoli manufatti ambiti da estimatori e collezionisti, che
lo, egli mette però l’accento sulla fase di relativa deca- vi ricercano e ritrovano i segni dell’originalità e dell’e-
denza dell’attività artigianale in questo settore. Osserva, sclusività rispetto alla vasta produzione, anche artigiana-
infatti, che <<fino a quando le cianfrusaglie da bazar non le, di oggetti consimili di altre regioni.
invasero l’isola, questa non adoperava che coltellerie Questi fattori, ma soprattutto la forma, le materie usate
locali, rustiche ma solide e sicure, dando luogo a insupe- e il significato che il coltello ha nell’orizzonte culturale e
rabile abilità nel foggiare i caratteristici coltellacci a spa- produttivo sardo, situano con immediatezza questo stru-
tola col manico di corno, ciliegio, ginepro ed i riporti in mento all’interno della società che lo ha espresso e in un
ottone o rame decorato e festonato, lama sottile e tem- certo senso lo rendono partecipe della sua storia.
prata a foglia larga, la classica leppa, leppuzzu, lepped-
du, piatta, piegovole, comoda e pratica>> (Imeroni, 1928,
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professionali tradizionali; per esempio, gli stagnai, i sellai, Pino Branca A. (1925), Gli statuti dei gremi artigiani della città di Alghero,
in Miscell. di storia ital., Serie III, Torino
i maniscalchi sono sempre più rari. Questi fattori sono Salvatici L. (1992), I coltelli di Scarperia, Scarperia
particolarmente evidenti nel lavoro dei fabbri che pro- Salvatici L. (1994), Il coltello di Pattada, in “Coltelli che passione”, n. 7-8;
gressivamente hanno ridotto le fasi di lavorazione dei Spano G. (1851), Dizionario Sardo Italiano e Italiano Sardo con l’aggiunta
di proverbi sardi, Cagliari, Tipografia Nazionale
manufatti: nelle officine, infatti, sono presenti attrezza- Tola P. (1850), Codice degli Statuti della Repubblica di Sassari, Cagliari, Tip.
ture complesse e le grandi industrie forniscono molti A. Timon
oggetti semilavorati senza troppi costi aggiuntivi. Wagner M. L. (1960), Dizionario Etimologico Sardo, Heidelberg, C. Winter
Difficilmente, perciò, il fabbro e il coltellinaio specializza- Zanetti G. (1961), Alcuni statuti inediti di corporazioni artigiane di Sassari
e Oristano, Sassari, Gallizzi

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d’Italia
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1. Tra i vari apparati culturali che caratterizzano le


attività degli uomini occupano una postazione di rilievo
le tradizioni orali. Esse, come è noto, prendono slancio e
vigore a partire dalla seconda metà dell’800 quando,
principalmente per merito dei fratelli Grimm e sotto l’im-
pulso di interessi romantici e di tipo glottologico, diven-
Bachisio Solinas tano oggetto privilegiato di documentazione e studio. In
questo quadro la Sardegna, al pari di altre regioni italia-
ne, costituisce, nella sua connotazione specifica di “isola
linguistica”, un punto di riferimento centrale per scritto-
ri e studiosi interessati alle problematiche linguistiche e
di etnoletteratura.

Scenari
Le raccolte, avviate nell’isola da Pier Enea Guarnerio e
Francesco Mango, successivamente riprese da Gino Botti-
glioni ed altri, quindi, dopo il lungo letargo del periodo
fascista, dai due atenei sardi, concorrono tutte a definire
e riaffermare i valori della narrativa popolare sul piano

silvestri, storico, sociale e letterario. Infatti, come è noto, le narra-


zioni presentano sempre aspetti significativi di condizio-
ni sociali ed economiche e ripropongono concezioni di vi-
ta e modelli comportamentali, rilevandone processi e tra-

briganti e
sformazioni.
In tale contesto, limitando l’analisi dei contenuti
esclusivamente ai rapporti degli uomini con l’ambiente, e
quindi con la natura, è possibile individuare le modalità
attraverso cui si connota l’idea di bosco, sia nelle sue va-

cacciatori lenze simboliche, sia nella fruizione e gestione dei suoi


prodotti. Le vaste distese forestali diventano, nell’imma-
ginario popolare, scenari privilegiati di vicende di eroi ed
eroine, ma anche rifugio e sostegno economico. Il pro-

nella cesso di antropizzazione dello spazio geografico genera,


sia pure con gradualità, modificazioni culturali capaci di
incidere spesso su profonde e radicate motivazioni, usan-
ze e credenze. Tali cambiamenti sono rilevabili, in dimen-
sione diacronica, fino alla fase attuale, propria delle rac-

narrativa colte più recenti, caratterizzata da una forte rarefazione


dell’uso di fiabe. Così, al bosco inesplorato ed inaccessibi-
le, dimora di demoni e spiriti pericolosi, ma anche di ma-
ghi e streghe, si può associare l’idea di uno spazio, il giar-

popolare dino, strappato alla selvatichezza perché sottoposto a


vincoli di proprietà e coltura. Di questo progressivo con-
trollo del territorio, accompagnato a vari fattori di mo-
dernità, fiabe e leggende offrono testimonianze signifi-
cative anche attraverso la sostituzione di spazi forestali

sarda. indistinti con forme iterative verbali o con termini quali


tanca, cubile, palatu ecc., oppure con la denominazione
generica di campagna. Esse consentono, allo stesso tem-
po, di individuare differenti tipologie di bosco in rappor-
to all’uso dello stesso ed a vicende, funzioni e ruoli di
personaggi e protagonisti. Fra le opzioni possibili rientra
quella che considera il bosco rifugio e dimora di banditi e
briganti, così come quella che lo vede come ambiente
ideale di caccia e svago.

2. Banditi e briganti.
Il fenomeno del banditismo ha costituito – come è da
tempo noto – uno degli aspetti più devastanti e funesti
che abbiano colpito la vita e le attività della Sardegna nel
corso degli ultimi tre secoli. Associato ad altri tristi fatto-
ri quali lo spopolamento di vaste zone che l’assenza di
coltivazioni trasformava in distese boschive o in lande
paludose, fino all’Ottocento esso ha trovato la causa prin-
cipale della propria esistenza nella perpetuazione del
sistema feudale. «Nell’interno – osserva, ad esempio,
Francesco Floris riferendo sullo stato demografico dell’i-

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sola nel Settecento – queste vaste plaghe erano percorse


da bande di briganti, che somigliavano spesso a piccoli
eserciti ed erano più o meno appoggiate dai maggioren-
ti locali o dai feudatari. Queste bande imponevano con il
terrore la loro volontà, scorrazzavano per le campagne
devastando e tenendo in soggezione le popolazioni che
taglieggiavano e depredavano sistematicamente» (Floris,
1999, p. 434). Tutto ciò poteva accadere nonostante l’at-
tivazione nell’isola di forme di repressione di fatti delit-
tuosi caratterizzate da ferocia e violenza e di cui si può
trovare conferma nell’imprecazione, ancora viva in qual-
che centro del Goceano: “Ancu ti che seghet sa conca su
buzinu!” (Possa tagliarti la testa il bogino!). L’espressione,
che nella comune opinione sembra rimandare al viceré
conte Bogino equiparato ad una sorta di spirito diabolico,
su buzinu, potrebbe costituire – seguendo i rilievi di
Manlio Brigaglia – un esempio di “discesa” popolare di
un fatto culturale, essendo il termine bugginu «voce di
origine colta, ed esprime semmai la sua impopolarità (del
Bogino) presso la nobiltà isolana, della quale combatté i
privilegi e gli abusi più offensivi» (Brigaglia, 1972, p. 63).
Le severe misure punitive, però, non potevano modifi-
care radicalmente una situazione problematica e com-
plessa di natura sociale che la tradizione orale ripropone
costantemente, anche nei suoi aspetti truculenti. In tale
quadro si inserisce, ad esempio, una vicenda narrata da
Gino Bottiglioni (Bottiglioni, 1922, p. 102) che, in sintonia
con le situazioni descritte dagli storici, ha come scenario
ideale lo spazio oscuro e immenso della foresta. Infatti, la
protagonista, «una povera donna che non portava dena-
ro», viene sorpresa dai banditi mentre, di notte, attraver-
sa un bosco. Inconsapevolmente e senza motivo, diventa
il bersaglio dei malvagi che infieriscono sul cadavere con
inaudita violenza e brutalità. Ma l’intervento provviden-
ziale di Dio trasforma la vittima in una pietra da cui si può
rilevare «ancora il segno delle ferite». Al di là della fun-
zione giustificativa dei tratti d’un paesaggio fisico altri-
menti incomprensibili, non sembra difficile riscontrare,
nella narrazione, un riflesso delle precarie condizioni esi-
stenziali del tempo. Infatti, l’assenza di riferimenti, rinve-
nibile anche in altri testi, ad esemplari punizioni magico-
religiose e all’azione della ”giustizia”, sa justìssia, che un
diffuso comune sentire considera astratta quanto lonta-
na, potrebbe rimandare ad un’epoca caratterizzata da
forme di impunità comunque garantite.
«I banditi – asserisce Floris al riguardo - erano spalleg-
giati e protetti a livello locale da una rete di connivenze,
spesso vi erano coinvolti gli stessi feudatari, certamente le
élites locali e la Chiesa, per cui quasi sempre essi riusciva-
no a farla franca nei confronti della giustizia reale»
(Floris, 1999, p. 429).
Gli spazi boschivi contengono sempre notevoli livelli
di pericolosità, anche in pieno giorno. Perciò occorre evi-
tare di attraversarli così come insegna la vicenda di Maria
del Bosco (Enna, 1984, p. 135) che, per giungere in fretta
“alla festa”, si immette in un grande bosco situato nei
pressi di una locanda, incappando subito nelle mani dei
banditi assoldati, per ucciderla, dalla sua invidiosa zia.
Mossi a pietà, essi la conducono nel rifugio dove la gio-
vane, ben voluta e trattata come una sorella, accudisce
alle faccende domestiche. Ma, subito dopo l’uccisione dei
“dodici banditi” in uno scontro a fuoco con i carabinieri,
si deve rassegnare a restare sola, trasformando la casa
nella sua abituale dimora ed il bosco in territorio di cac-
cia «per procurarsi da vivere», fino ad un incontro occa-

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sionale con un principe cacciatore col quale, successiva- inoltre, essere appagati col saltare il feretro, lu jumpaian,
mente, convolerà a nozze. nel preservare ciocche di capelli da utilizzare come effica-
Le vaste estensioni forestali concorrono, quindi, nel ce rimedio contro le malattie, sos pilos pro meighina, e
tenere elevata l’intensità dei reati che non subiscono nel combattere fastidiose emicranie posando sulla testa
variazioni neppure a notevole distanza di tempo. Infatti la mano dell’ucciso. Questi ed altri riti coi quali si effet-
– come ribadisce lo storico appena citato – anche a fine tuava la trasformazione delle anime, sas ànimas, di per-
Ottocento «le campagne desolate ed abbandonate furo- sone sottoposte a morte violenta in geni benefici, con
no nuovamente percorse da bande di malfattori organiz- implicite relazioni col culto dei decollati, avevano una
zati che gettavano nel terrore le popolazioni» (Floris, vasta diffusione areale (Alziator, 1971-72, p. 16).
1999, p. 547). A loro volta, anche le foreste del Sarcidano costitui-
La tradizione orale, così come normalmente si verifica, scono la dimora abituale di banditi che vivono sempre al-
registra lo stato di diffuso malessere e paura sin quasi a la macchia per sfuggire «agli occhi della giustizia». Come
porsi come una sorta di documentazione storica non si rileva dal racconto La grotta dei cattivi (Bottiglioni,
priva di una certa attendibilità. Le difficili condizioni di 1922, p. 113), alcuni malviventi uccidono un pastore men-
vita connesse a rapine e sequestri d’un brigantaggio vio- tre porta al pascolo «un gregge destinato a San Sebastia-
lento ed altezzoso, non più sopportabile “perché la no» per poi riunirsi a gozzovigliare al riparo di una grot-
Sardegna stava andando troppo male con questi bandi- ta che i diavoli fanno rovinare loro addosso, schiaccian-
ti”, emergono, spesso, da una letteratura popolare in cui doli quasi tutti. Si salverà soltanto colui che rifiuterà di ci-
elementi fantastici si associano a concreti riferimenti alla barsi dell’arrosto di quel «bestiame santo». La leggenda,
quotidianità. Infatti, al di là di interventi protettivi che oltre ad evidenziare l’estrema pericolosità di boschi con-
banditi alla macchia, protagonisti di fiabe di vario tipo, trollati da bande di malviventi, contiene anche elementi
riservano all’eroina in modo veramente inconsueto, vari che possono apparire come indicativi di forme di supre-
brani ripropongono fatti e concezioni improntati a reali- mazia economica e culturale allora esercitate dalla Chie-
smo. Rientrano in tale categoria i richiami di alcuni rac- sa. Infatti, a fronte degli intenti moralistici espressi nel ri-
conti del Fondo Comparetti (Delitala, 1999, p. 109) quali, ferimento al bandito scampato alla morte, la “destina-
ad esempio, gli episodi relativi a fuorusciti che rifiutano zione” del gregge sembra richiamare aspetti e modalità
di ricongiungersi alla “sorellina” nel palazzo reale perché di donazioni testamentarie gestite direttamente dai pre-
su di loro grava ancora una taglia o perché consapevoli di ti. Di esse è possibile trovare valida testimonianza nel “re-
essere destinati all’impiccagione, specie dopo essersi gistro dei morti”, unus ex quinque libris, in dotazione al-
scontrati poco prima con «gli uomini del re», in un con- le parrocchie. Storicamente, come è noto, il potere eccle-
flitto a fuoco. A questo riguardo si può rilevare come siastico si fondava su una giurisdizione che includeva, tra
anche la perifrasi con cui si indicano i carabinieri, rappre- i vari privilegi, la prerogativa del diritto di asilo con ga-
senti un riscontro certo di atteggiamenti mentali propri ranzia di incolumità. Perciò, conventi e chiese, specie
del narratore e dell’uditorio di questo periodo. quelli disseminati nei campi deserti, potevano svolgere
Le boscose montagne della Gallura fanno da sfondo una funzione di sicuro ricovero anche per i banditi. Costi-
alla leggenda calangianese La grotta del diavolo tuisce quasi un luogo comune, specie fra le persone an-
(Bottiglioni, 1922, p. 55) che, oltre ad influssi di matrice ziane del Settentrione isolano, l’opinione secondo cui, in
religiosa, contiene, alla stessa stregua, riferimenti a gras- occasione della festa di San Paolo di Monti, il santuario e
sazioni ed omicidi riscontrabili in quella realtà. La vicen- i locali riservati ai pellegrini, le cumbessias, venivano con-
da è incentrata sull’immagine di un bandito che, dall’alto siderati zona franca per i fuorusciti. Di tale usanza può
di una montagna inaccessibile ad estranei, terrorizza tutti trovarsi conferma nella annotazione relativa al racconto
ed accumula ricchezze enormi, uccidendo e depredando i La chiesa di San Francesco di Lula (Bottiglioni, 1922, p. 78)
pastori degli stazzi. Il temuto malvivente, però, viene con la quale il Bottiglioni sottolinea la «speciale devozio-
assassinato dai servi che, in tal modo, s’impadroniscono ne» dei latitanti che si recano in pellegrinaggio al san-
del suo ingente bottino. Il corpo senza testa giace ancora tuario distante dal paese «due giorni di strada a piedi». Il
all’interno di una grotta senza mai subire, in quanto dia- protagonista dell’episodio è un bandito che affida al San-
volo, un processo di decomposizione. to la richiesta di nasconderlo a «quelli della giustizia»
Nella sua raccapricciante funzione, il cadavere decol- promettendogli, in cambio della grazia, la costruzione di
lato sembra rimandare al complesso delle pene capitali una chiesa. Il nascondiglio è ubicato in una campagna su
introdotto, nel Settecento, dal vicerè marchese di cui vige ormai un vincolo di proprietà, sa tanca, che si pre-
Rivarolo secondo cui «la testa del condannato – come sume ricco di vegetazione. Ma è soprattutto la sua devo-
afferma ancora Floris - veniva mandata al paese d’origine zione ad evitargli di essere scorto dai carabinieri che gli
per esservi appesa» (Floris, 1999, p. 430). A questo siste- «sono passati vicinissimo». Infatti, poiché egli «era molto
ma punitivo si collegano vari toponimi tra cui S’impiccu devoto – come narra la leggenda – si è rivolto a San Fran-
che, a Bono, delimita un sito di forma triangolare, ora cesco che altre volte aveva salvato banditi».
alberato ed inserito nel contesto urbano, da cui si dira- Questa pratica votiva che, come nel caso citato, porta
mava la vecchia mulattiera per Burgos. L’assimilazione di i briganti ad erigere edifici sacri, è in sintonia con una dif-
un assassinato, unu annau (o mortu) male, ad un essere fusa mentalità che affida la protezione individuale ad un
diabolico rientra in un apparato concettuale e di creden- rapporto di reciprocità tra fedele e divinità (Satta, 2000;
ze popolari che hanno resistito, in modi più o meno omo- Atzori-Satta, 1980). A questo si somma la credenza sul-
genei, ben oltre la prima guerra mondiale. Infatti, a livel- l’efficacia di talismani che preservano dalle pallottole dei
lo etnografico, si registrano azioni di mitizzazione del carabinieri, sos bréveres contra sas ballas, il cui confezio-
bandito defunto con manifestazioni rituali mirate ad namento è privilegio quasi esclusivo di preti. E’ un dato di
impossessarsi di brandelli d’abito da usare come amuleti fatto che la religione pervada aspetti e momenti della
e talismani. Bisogni protettivi e terapeutici potevano, vita delle comunità al punto da incidere anche su situa-

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zioni non sempre rilevanti. Tale potrebbe essere, ad trabili nascondono templi cristiani di cui s’era persa la
esempio, il rito del giuramento dove formule e strumen- memoria perché situati in territori assai distanti ed isola-
ti religiosi sembrano assicurare maggiore validità ed effi- ti rispetto ai centri abitati e che solo in seguito ad eventi
cacia rispetto ad espressioni di tipo ordalico ed a modali- particolari - quale quello riferito, ad esempio, con La chie-
tà d’intermediazione da tempo conosciute. Si colloca in sa di San Serafino (Bottiglioni, 1922, p. 88) - diventano
questa dimensione la leggenda I tredici banditi, proposta oggetto di rivendicazione tra opposti gruppi paesani. Lo
dal Mango (Mango, 1980, p. 136) in versione campidane- spazio vegetale, pur con tutte le paure che infonde nei
se, con cui si narra l’avventura di Granadina, la vittima vari protagonisti, resta comunque l’ambiente privilegiato
della gelosia materna che, smarritasi in campagna dove di imprese di malviventi anche quando vengono proposte
era stata condotta per ordine della madre, dopo tanto in chiave umoristica. Tale circostanza si rinviene nella
vagare approda alla casa dei banditi. Quando questi ne novella Un matto e un savio (Delitala, 1999, p. 665) dove
scoprono la presenza restano tutti affascinati dalla sua l’albero della foresta su cui si rifugia il folle eroe diventa
bellezza e s’impegnano a trattarla come una sorella giu- il punto d’incontro di «un gruppo di briganti per divider-
rando, a conferma e vincolo irrevocabili, sopra «un si ciò che avevano rubato…e per passare anche loro la
crocifisso che tenevano appeso dove notte al riparo».
(erano) i letti», dopo averlo ada- Il bosco rappresenta, molto
giato sul tavolo. L’esito spesso, lo sfondo naturale
felice della vicenda I briganti. di vari racconti meravi-
associa al matri- Collezione Botta 1841 gliosi definendo,
monio della così, un ambito
bella eroina geografico al
con un cui interno
si ergono
principe

il
ritor-
no dei
banditi a case
normali o palazzi,
condizioni di fantastici per
vita, accolti nel struttura o per-
palazzo reale. ché sede di fatti ed
Questo aspetto, comune avvenimenti ecceziona-
alle due analoghe versioni li. Si inserisce in questo con-
coeve di area sassarese - pubblicate testo, tanto per fare un altro
dalla Delitala (Delitala, 1999, pp. 109, 395) esempio, la fola gallurese I due fratelli
sotto i titoli rispettivi di Fiaba e I tredici banditi – se da un (Delitala, 1999, p. 53), il cui protagonista principale attra-
versa una vasta ed oscura valle, e quindi una estesa pia-
lato potrebbe rimandare a occasioni di privilegio e pro-
nura ricca di armenti, prima di poter scorgere una strana
tezione verso i malavitosi, dall’altro consente di ipotizza-
abitazione. Protetto dalla fitta vegetazione, egli scoprirà
re la presenza di modificazioni storiche e sociali che si che trattasi d’una dimora magica che briganti dediti a
avviano a diventare ormai antitetiche o quantomeno ad rapinare ed uccidere utilizzano per depositarvi il ricavato
entrare in collisione con eventi che sanzionano una delle loro scorrerie. Sulla stessa lunghezza d’onda, la
morte violenta dei banditi. fiaba sassarese Apriti Tigarello (Delitala, 1999, p. 299)
Gli episodi richiamati sembrano sottendere situazioni propone la vicenda analoga di un padre povero che rag-
di verosimiglianza tali da proporsi quasi come un feno- giunge una montagna dove anch’egli scopre, nascosto su
meno storico. Spesso boschi immensi e talvolta impene- un albero, un ripostiglio fantastico di beni, accumulati da

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tanti banditi, da cui preleverà molti denari per poter lo alla decapitazione voluta dai genitori per aver dato
finalmente sfamare i figli, per sempre. Il messaggio mora- credito alle accuse infamanti d’uno zio, «…entrò in un
le implicito ad entrambe le fiabe tende a rimarcare, insie- bosco e, cammina cammina, trovò un ovile e lì fece notte
me alla condivisione di comportamenti mirati a garantire e chiese se potevano venderle un tessuto che facevano
il diritto alla sopravvivenza, il valore della solidarietà e gli loro… e si vestì da pellegrina» (Delitala, 1999, p. 563).
effetti dannosi dell’avarizia. Nella produzione narrativa sembrano essere numero-
La boscaglia come fonte di insidie e pericoli perché si, al contrario, gli episodi di caccia che vedono impegna-
sede abituale di individui violenti che possono avere, a ti, in prevalenza, personaggi di alto rango, quasi a voler-
seconda delle circostanze, un rapporto mutevole di favo- ne ribadire le peculiarità collegate a privilegi signorili ri-
re o di inimicizia con l’eroe-eroina, è rilevabile oltre che conducibili ad estese proprietà fondiarie. Ad alte sfere so-
in numerosi racconti popolari, anche in rielaborazioni ciali appartengono, ovviamente, oltre a re e principi, an-
“colte” dove, però, assume una funzione talvolta secon- che maghi ed orchi, che risultano padroni di boschi e giar-
daria rispetto alla trama delle vicende. dini teatro di attività venatoria, e gli eroi fiabeschi che vi
sono coinvolti, in tale ultimo caso prescindendo dalla
3. Attività venatoria e svaghi. classe sociale. La “fola sarda” Racconto di quattro figli,
A parere di Jacques Le Goff, il termine “foresta”, che anch’essa del fondo comparettiano, ad esempio, annove-
è in stretta relazione con l’idea di solitudine, «deriva ra tra i protagonisti un re il quale «un giorno…va a cac-
senza dubbio dall’espressione silva forensis, una selva che cia in quel bosco e, vedendo quel gran palazzo, ci va per
dipende dal tribunale, forum, del re». Pertanto esso riposare» (Delitala, 1999, p. 475). Il maestoso personaggio
«designa all’origine una riserva di caccia» che è andata resta affascinato dalla sontuosità dell’abitazione ed offre
così assumendo un «significato giuridico» e di cui i «guer- in sposa al presunto padrone la propria figlia, riservan-
rieri, i bellatores, gli uomini della forza fisica, hanno ten- dosi di fargliela conoscere in occasione di una prossima
tato di appropriarsi…durante il medioevo» (Le Goff, scampagnata della famiglia reale. Questa fiaba, come al-
1983, p. 85). In Sardegna, come è possibile rilevare da “La tre analoghe elaborazioni orali, in genere rivela una fi-
Carta de Logu”, i «territori di caccia» costituiti da “salti” gura di re il quale, più che esercitare funzioni e preroga-
e “silve” appartengono, in genere, al patrimonio del tive proprie di un «rappresentante del potere (in tutti i
Giudicato che li controlla e gestisce organizzando “cacce suoi aspetti, dall’equità alla perversione)» (Caprettini,
collettive” e scoraggiando il bracconaggio con severe 2000, p. 330), sembra svolgere compiti utili a dare co-
norme. Le trasformazioni politiche e culturali dei periodi erenza discorsiva ad episodi bisognevoli di raccordi. Ca-
successivi determinano situazioni tali da consentire una ratteristico appare, in questa prospettiva, il tipo di re che
attività venatoria «largamente praticata da tutti» stante emerge dalla novella calangianese del Guarnerio, Mussiù
la presenza di «un notevole patrimonio di selvaggina di Lonfrò (Delitala, 1985, p. 20), al quale si presenta Giovan-
tutti i generi». Alla caccia con le balestre del XVI secolo ni, un ragazzo che veniva maltrattato in famiglia perché
subentra – come afferma Francesco Floris (Floris, 1999, p. ritenuto spurio. Egli, «quando… arrivò alla città del re» e
351) – quella con gli archibugi alla cui produzione si dedi- venne a sapere che «questo aveva bisogno di un pastore
cano artigiani locali. Nel secolo successivo, l’introduzione di pecore» (Delitala, 1985, p. 20), definì personalmente
delle armi favorisce la diffusione di un’attività in cui i col sovrano un contratto di lavoro assai vantaggioso, ma
sardi diventano maestri, ma che nel contempo impone col divieto esplicito di mai sconfinare nelle tanche del ma-
l’adozione di provvedimenti tesi a disciplinarne l’esercizio go, contigue alle proprietà regie. Questo atteggiamento
ed a proteggere la selvaggina. di familiarità nei rapporti umani e di cura personale dei
Aldilà degli avvenimenti storici, i racconti magico-me- propri affari denota, di per sé, un’immagine di re total-
ravigliosi preservano le caratteristiche di “salti” e boschi mente priva dell’alone di sacra maestà. Essa si rafforza
come terreno di caccia, riproponendo fatti leggendari, quando si consideri l’atteggiamento rispettoso - frammi-
ma anche episodi e scene di vita quotidiana. sto, come potrebbe sembrare, a sensi di paura – che il mo-
Appare difficile, ad ogni modo, rinvenire nella lette- narca manifesta verso un essere magico o verso il mitico
ratura orale elementi tali da poter qualificare il patrimo- “serpente dalle sette teste” cui è tenuto a pagare un one-
nio forestale come luogo di svago nel senso attuale ed roso tributo col sacrificargli «facendosi un gran pianto» –
esteso del termine, mentre dal confronto di diversi brani e per ciò stesso in modo poco dignitoso per un sovrano -
è possibile rilevare l’emergere di modificazioni culturali. «la figlia maggiore». Tale aspetto, comunque, non rap-
Relativamente al primo aspetto può essere sufficiente presenta una caratteristica esclusiva del mondo letterario
sottolineare la portata moderna dell’idea di ferie o di popolare della Sardegna se è vero che esso costituisce an-
tempo libero e, quindi, limitare solo a ricorrenze festive che una specificità - a detta di Calvino – della novellistica
momenti popolari di divertimento e di evasione dalle toscana (Calvino, 1968, p. 56).
preoccupazioni quotidiane. A ciò concorrono, inoltre, Il richiamo alla “scampagnata reale” consente di riba-
motivazioni intrinseche al contesto della tradizione nar- dire come tale modalità di evasione dal quotidiano possa
rativa dove non esistono, ad esempio, riferimenti a bam- rappresentare, nelle menti del narratore così come del-
bini intenti o desiderosi di giocare nei boschi, né tanto l’uditorio, una prerogativa delle classi abbienti. Una con-
meno a costruirvi dimore familiari. Di norma, la fiaba pre- ferma di ciò la offre - rimarcando il carattere diversivo
senta la foresta come luogo di punizione o di abbandono della caccia - Pier Enea Guarnerio (Guarnerio, 1977, p.
dei piccoli, mentre la casa, di solito proprietà di perso- 195) con La parilthoria de su puzzone ‘hilde (La fiaba del-
naggi mitici e leggendari, è posta all’interno o al limitare l’uccello verde). Il racconto fantastico riporta le vicissitu-
della stessa. Quando, in qualche raro caso, l’abitazione dini di un principe che, deluso dalle vicende coniugali sfo-
coincide con una dimora di pastori, si è di fronte - con ciate nel ripudio della moglie per aver dato credito alle
molta probabilità - ad una trasposizione di senso connes- calunnie di una matrigna invidiosa, «un giorno per caso,
sa a mutate condizioni storico-sociali e modi di pensare. per divertirsi va a caccia e trova quei due giovincelli» che
A titolo esemplificativo, l’impatto con una struttura abi- risulteranno essere suoi figli e attraverso i quali ritroverà
tativa viene proposto dalla novella Senza titolo - facente anche la consorte. Affinità ed analogie con questa no-
parte della raccolta nazionale voluta dal Comparetti - vella, di cui è peraltro coeva, sono rinvenibili nel brano
quando una giovane eroina, scampata quasi per miraco- del Fondo Comparetti Le tre sorelle (Delitala, 1999, p.

il folklore 76
d’Italia
i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t

443) che, oltre al tipo, condivide la comune matrice lin- La tradizione orale, quando non si rapporta all’attivi-
guistica del sardo logudorese. A parte talune variazioni tà venatoria con riferimenti generici, sembra riesumare
tematiche e differenze relative ad alcuni particolari quali momenti di vita comunitaria sulla falsariga di quanto an-
il numero di neonati, la ricerca di oggetti meravigliosi, cora oggi si verifica attraverso le cosiddette compagnie di
aiutanti e fattucchiere ecc., la versione comparettiana “caccia grossa” limitata, ormai, solo al cinghiale. Questo
presenta un uso della caccia come fonte e mezzo di ali- animale appare, almeno agli occhi di vari e numerosi
mentazione, non di svago. L’aspetto venatorio appare, al gruppi di cacciatori ovunque presenti in Sardegna, come
contrario, nella sua valenza moderna in una leggenda, una sorta di “signore della caccia”, sulla cui cattura si è
appartenente ad una raccolta degli ultimi anni Settanta, soliti richiamare l’attenzione delle comunità, con manife-
che pur essendo dello stesso tipo delle precedenti, corri- stazioni di giubilo e brindisi associate a forme di orgoglio
sponde a queste, sia pure non totalmente, solo nella fase e di emulazione fra i protagonisti.
conclusiva. Infatti, lo sviluppo della prima parte di Ma- Infatti, esso costituisce il “selvatico” per eccellenza del
riedda, ripresa dalla Delitala (Delitala, 1985, p. 47), ri- quale assume in sé – secondo le riflessioni di Vincenzo Pa-
chiama il tema del povero legnaiolo la cui figlia, ceduta diglione (Padiglione, 1989) - la complessità dei tratti pe-
per denaro al diavolo, subirà l’amputazione delle braccia. culiari. Oggetto comune di discorsi rievocativi di fatti con-
Questi non smetterà di perseguitarla; ma, ciononostante, cernenti la sua cattura, intorno al cinghiale si coagula,
con l’aiuto della Madonna la bella giovane raggiungerà inoltre, un patrimonio culturale che attinge, in misura
un palazzo reale, sposerà il principe e partorirà due bam- notevole, da una tradizione orale dove vicende ed espe-
bini con stella d’oro e d’argento in fronte con i quali, al- rienze si fondono, attraverso un processo di riplasmazio-
la fine, si ricongiungerà al marito. ne popolare, con credenze ed azioni rituali di tipo esorci-
Da par suo, spinto esclusivamente dal desiderio di vo- stico.
lersi divertire, anche il protagonista di una leggenda lo- Emilio Lussu, con il racconto Il cinghiale del diavolo
cale proposta da Gino Bottiglioni (Bottiglioni, 1922, p. che Clara Gallini definisce «documento etnografico di
197), La chiesa di San Serafino, si muove armato di fucile straordinario interesse…costruito con un materiale narra-
ed in compagnia di un cane. Infatti, libero - come sembra tivo indubbiamente attinto dalla tradizione» (Gallini,
di poter desumere dal testo - da preoccupazioni di sorta, 1983, p. 128), offre un quadro esauriente dei simboli di
sebbene si sia smarrito sulle montagne di Ghilarza, egli un immaginario popolare reso inquieto dai rischi della
attende tranquillo, coricato sotto una pianta, l’alba del simbiosi uomo-bestia di cui detto selvatico costituisce
nuovo giorno per riprendere la ricerca di selvaggina che valida testimonianza potendo incarnare sia lo «Spirito del
si concluderà con la cattura di una cerva «in un bosco Male» oppure «un’anima che fa penitenza» (Gallini,
spesso che non lo lasciava passare». 1983, p. 130). Il “complesso mitico” inerente – secondo la
Analogamente, rafforzano la concezione di una atti- studiosa (Gallini, 1983, 134-135) – alla figura del cinghia-
vità venatoria riservata, anche a livello simbolico, alle le come «la forma più tradizionale e più diffusa, in
classi sociali elevate vari racconti meravigliosi fra i quali si Sardegna e fuori» sotto cui si presenta il demonio, porte-
colloca la novella popolare, Sa parilthoria ‘e Daglia ferru rebbe a considerare quest’ultimo «un personaggio miti-
(La fiaba di Tagliaferro) (Guarnerio, 1977, p. 188). Il brano camente più corposo o comunque strettamente imparen-
presenta - come soggetti favolosi di scene di caccia - tre tato con una schiera di altri esseri» ritenuti, sia dalle mito-
meravigliosi cani ottenuti da un giovane pastore in cam- logie primitive che dal folklore europeo, «come signori
bio di una pecora, altamente lattifera, data a taluni del bosco e della selvaggina»(Gallini, 1983, 134-135).
“giganti” che passavano per caso nel podere. Con essi, il Fiabe e leggende varie ripropongono, in modo espli-
nuovo padrone fa incetta quotidiana di selvaggina, man- cito e quasi a conferma di un uso dalle antiche origini, il
dandoli nei boschi da soli, privi della sua guida. Il giorno tema della partecipazione collettiva alla cattura dei cin-
in cui decide di uscire a caccia, incontra una giovane figlia ghiali. Una novella del Guarnerio, Crimintinu (Guarnerio,
d’un re d’una lontana città, vittima designata da offrire 1977, p. 481), definisce con esattezza, pur tacendo dell’a-
in pasto ad “una bestia dalle sette teste” che esigeva zione imprescindibile dei battitori, la sistemazione dei
come tributo la figlia maggiore di ogni famiglia. L’eroe, cacciatori “alla posta”, cioè in punti ritenuti strategici per
con l’aiuto dei portentosi cani, riesce a salvare dal terribi- il passaggio del selvatico inseguito da cani latranti.
le mostro la bella principessa con la quale convolerà a Secondo la narrazione, infatti, la posta nel giardino reale
nozze, dopo essersi misurato con l’orco e col tradimento viene occupata rispettivamente dal re, dal cognato
della sorella. Crimintinu e dal Tignoso il quale, sparando per primo,
In un contesto magico si inserisce anche la vicenda di attira l’attenzione del monarca che gli si avvicina creden-
un bambino di nobili origini riportata dalla fiaba Le tre do che avesse ucciso qualche cinghiale, (cridendi ca aisi
sorelle (Delitala, 1999, p. 443), pubblicata a cura di Enrica moltu calchi ‘avru) (Guarnerio, 1977, p. 494). In effetti,
Delitala. Vi si narra che il piccolo, grazie ai doni avuti da l’infido Tignoso ha ammazzato il giovane eroe che, per
una speciale figura di maga il cui nome corrisponde a fortuna, dopo tre giorni potrà tornare in vita grazie ad
quello di “Nostra Signora”, oltre ad uscire incolume da un magico unguento donato dal “Lupo”.
rischiose prove sostenute nel giardino di un orco ed in A sua volta, in tempi più recenti, un narratore di
boschi fatati, dimostrerà di essere un abile tiratore abbat- Pozzomaggiore (Enna, 1984, p. 135), piccolo centro della
tendo molti selvatici con un “archibugio di canna”. Il rac- provincia di Sassari, rievocando l’avventura di una bella
conto appare singolare, aldilà di motivi e significati donna, riferisce, come a ribadirne una diffusa usanza, un
riguardanti un processo di metamorfosi-rinascita connes- episodio relativo a tal genere di caccia. Protagonista del-
so ad un infanticidio, perché ripropone anche una tipolo- l’avvenimento è una giovane che, adottata come sorella
gia di caccia organizzata che coinvolge contemporanea- dai banditi coi quali la zia gelosa ne aveva pattuito l’eli-
mente diverse persone. Infatti, il richiamo ad un episodio minazione, fa del bosco la sua naturale dimora. Qui resta
in cui «…viene il principe con un gruppo di cacciatori e sola, padrona di una grande casa, a seguito dell’uccisione
vede che tutti sparavano...(mentre) il ragazzo col fucile di dei fratelli in un conflitto a fuoco coi carabinieri. Un gior-
canna faceva una grande caccia» (Delitala, 1999, p. 445) no, allertata da grida e spari, si nasconde dietro un cespu-
rimanda – senza forzature interpretative - al sistema della glio e «vede tanti uomini che andavano a caccia di cin-
battuta ai selvatici. ghiali» (Enna, 1984, p. 139). Da quel punto Maria del

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d’Italia
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Bosco, l’eroina, visti inutili i tentativi altrui, con un solo cani, e da solo e si mette in viaggio» (Delitala, 1999, p.
colpo va a bersaglio sparando sul cinghiale contempora- 659), dormendo sugli alberi del bosco. Giunge infine in
neamente ad un giovane che, però, era già al terzo tiro. riva al mare dove, con quell’arma e con l’aiuto dei cani,
Due fori di pallottola in testa alla bestia spingono il prin- uccide un mostruoso serpente, salvando così da morte
cipe-cacciatore ad effettuare le necessarie ricerche ed a certa la sua futura sposa. Dal contesto fiabesco appare
scoprire nella donna la concorrente che porterà, quindi, lecito dedurre come l’esercizio della caccia sia funzionale
alla corte reale per unirsi a lei in matrimonio. non tanto ad attività di svago quanto ad assicurare ai
Attraverso una ulteriore novella del Fondo Comparet- protagonisti mezzi di sostentamento e nutrizione.
ti, I sette banditi (Delitala, 1999, p. 395), è ancora possi- Sulla falsariga della precitata novella del Mango,
bile rilevare, insieme ai temi dell’invidia femminile e del- potrebbe appartenere al ceto benestante anche il perso-
la “sorellina” dei banditi, l’immagine di un erede al tro- naggio principale della leggenda n. XIII di Gino
no che «…era uscito a caccia con la corte e, stanchi co- Bottiglioni. Si tratta di un uomo che le circostanze rendo-
m’erano, va a riposarsi in quella chiesa diroccata…» (De- no cacciatore, a fronte della necessità di viaggiare arma-
litala, 1999, p 397). Nel sito, all’interno di una nicchia, to, probabilmente per esigenze di sicurezza personale
trova una giovane bella come una statua che sveglia da contro i rischi del banditismo. Egli, infatti, attraversa le
un lungo profondo sonno causato da influssi magici campagne a cavallo e col fucile in spalla in «una notte di
asportandole un anello dal dito. Quindi la sposa, non pri- settembre» quando, successivamente alla festa di San
ma di averle assicurato di riportarla dai fratelli. I riferi- Paolo di Monti, le stesse «erano silenziose che non si sen-
menti ad un breve conflitto a fuoco tra i fuorilegge e «gli tiva un segno di vita» (Bottiglioni, 1922, p. 47).
uomini del re» ed alla loro possibile impiccagione sem- All’improvviso, da un macchione schizza fuori un cinghia-
brano richiamare condizioni di vita di poco anteriori, se le «che si dà a correre intorno alla chiesa». Sparando con
non proprio coeve, a quelle del narratore. I banditi ven- prontezza, l’uomo lo abbatte al primo colpo e, richiama-
gono, infatti, graziati alla stregua di quanto accade nella to da voci festose provenienti dall’edificio sacro, ve lo tra-
variante sorsense Fiaba (Delitala, 1999, p. 109), inserita scina dentro per banchettare con l’allegra compagnia.
nel Fondo Comparetti e che, rispetto alla precedente, La leggenda, al di là della funzione didascalica sulla
non registra sostanziali differenze al di là di un maggior presenza e le paure degli spiriti, offre, come dati certi per
numero di banditi e di un più accentuato influsso religio- poter collocare il protagonista in un livello sociale di
so. Una versione, analoga per tipo e temi, che la Delitala “non povertà”, il possesso di un cavallo e di un fucile. Tali
(Delitala, 1985, p. 48) riprende da una trascrizione fatta elementi, riferiti al periodo della narrazione ed escluden-
verso fine anni Settanta a Magomadas, piccolo centro nei do potersi trattare d’un bandito per assenza di elementi
pressi di Bosa “città regia”, offre un ampio quadro di probatori, appaiono sufficienti a riconoscergli condizioni
adattamento di motivi a nuove condizioni culturali. Tra le economiche quantomeno dignitose. Ma oltre a ciò, occor-
modificazioni sopraggiunte rientrano, ad esempio, insie- re notare che l’assenza, nel personaggio, di attributi spe-
me al prevalere di fattori di religiosità cristiana tra cui il cifici quali re, principe, ricco ecc., può essere di per sé indi-
rito dei banditi inginocchiati che «giurano su questo Cri- cativo di un mutato clima storico connesso alla gestione
sto di essere tutti fratelli», l’affidamento a venditori am- del territorio ed ai rapporti sociali di cui si esalta il valore
bulanti, e non a fuorusciti o servi, della vittima designata nella riaffermazione del principio della solidarietà attra-
da una madre invidiosa della bellezza della figlia, le verso la messa a disposizione della preda a favore del
espressioni di dolore e lutto per la “sorella” morta, ma so- gruppo.
prattutto la gita in mare del ”figlio del re” con barca a
vapore e la paura dei banditi di essere arrestati, così rele-
gando sul piano storico le condanne a morte per impic-
cagione.
Appartiene a famiglia ricca, quasi a voler conferire
coerenza narrativa alle concezioni popolari sulla caccia, il
padre di due bambini che la nonna paterna – secondo la
versione fornita da Francesco Mango con Il pescatore e il
diavolo (Mango, 1980, p. 85) - voleva eliminare insieme Riferimenti Bibliografici
alla madre, peraltro priva delle braccia. Portate in cam-
pagna per essere uccise, le tre persone riusciranno a Alziator F. (1971-72), Dispensa di Storia delle Tradizioni Popolari,
sopravvivere con l’aiuto del servo e saranno ritrovate dal Università di Sassari.
Atzori M.– Satta M.M. (1980), Credenze e riti magici in Sardegna,
genitore che percorre casualmente i boschi a caccia di Chiarella, Sassari.
animali selvatici. Temi, motivi ed esiti analoghi sono resi Bottiglioni G. (1922), Leggende e tradizioni di Sardegna, Olscki, Genéve.
attuali, sia pure con una più marcata funzione miracoli- Brigaglia M. (1972), Sardegna perché banditi, Aster Arti Grafiche, Roma.
stica della religione, anche in relazione alla concezione Calvino I. (1968), Fiabe Italiane, Mondatori, Milano.
Caprettini G.P. (2000), Dizionario della fiaba italiana, Meltemi, Roma.
dell’attività venatoria, dalla già richiamata novella della Delitala E. (1985), Fiabe e leggende nelle tradizioni popolari della
Delitala, Mariedda. Sardegna, 2D Mediterranea, Sassari.
Al contrario, la “novellina di Sorso” Il serpente dalle Ead. (1999), Novelline popolari sarde dell’Ottocento, AM&D, Cagliari.
sette teste (Delitala, 1999, p. 655) vede impegnato, in tale Enna F. (1984), Sos contos de foghile, Gallizzi, Sassari.
attività, un pastorello che, dopo aver vagato nel bosco, Floris F. (1999), Storia della Sardegna, Newton & Compton, Roma.
arriva con la sorella ad un palazzo, momentaneamente Gallini C. (1983), Il cinghiale del diavolo, in: ISRE (a cura di), Emilio Lussu e
la cultura popolare della Sardegna, Convegno di studio, STEF, Cagliari.
disabitato, da cui l’indomani «parte per la caccia con un Guarnerio P.E. (1977), Primo saggio di novelle popolari sarde, Forni,
fucile che ha trovato in capo al letto e accompagnato dai Bologna.
due cani» datigli da una maga. Il giovane tutti i giorni Le Goff J. (1983), Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale,
procura selvaggina per sé e per l’infedele sorella che, Laterza, Bari.
cedendo alle lusinghe del diabolico padrone di casa, Mango F. (1890), Novelline popolari sarde, Clausen ed., Palermo.
Padiglione V. (1989), Il cinghiale cacciatore. Antropologia simbolica della
tenta di avvelenarlo. Ma l’eroe riesce ad evitare, grazie ai caccia in Sardegna, Armando, Roma.
doni della maga, prove assai rischiose, uccide la propria Satta M.M. (2000), I miracoli – Per grazia ricevuta, EDES, Sassari.
congiunta e quindi «lascia tutto, afferra solo il fucile e i

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d’Italia
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del patrimonio culturale locale e delle classi popolari in


Italia non è mai stata pienamente legittimata da nessuno
dei gruppi politici dominanti, né tanto meno dai partiti di
minoranza; ciò perché, i primi, vedevano in tali tradizioni
un possibile pericolo per un’unità nazionale che, a distan-
za di oltre un secolo appare tutt’altro che pacifica, men-
tre, i secondi, hanno sempre privilegiato altri temi per
portare avanti le rivendicazioni sociali (Clemente,
1996, p. 239).

I Nonostante tutti gli ostacoli che storia e poli-


tica hanno frapposto ad una reale presa di
coscienza dell’immenso valore culturale delle
tradizioni locali e delle classi popolari l’Italia

musei
può ancora vantare un patrimonio etno-
grafico di valore superiore alla maggior
parte dei paesi europei. Tale ricchezza,
prima ancora che da una legislazione
spesso inadeguata e lacunosa, è stata

etnografici riconosciuta e valorizzata grazie alla


consapevolezza delle popolazioni locali,
all’aumento del turismo e alla pubblicità
portata dai mezzi di comunicazione.
In ambito regionale una serie di rico-

in gnizioni sul numero, sulla funzionalità e


sulla tipologia dei musei in Sardegna
sono state effettuate recentemente
dall’Assessorato Regionale alla Pubblica
Istruzione, dal CRENOS e dalla Corte dei

Sardegna Conti. Da tali indagini è risultata l’esistenza


di oltre 170 istituzioni museali, equamente
divise tra musei di enti locali e di interesse loca-
le, anche se non tutti attualmente funzionanti.
Tra questi istituti la tipologia prevalente è quella
del museo etnografico che conta circa una cinquan-
tina di musei distribuiti in maniera estremamente ete-
rogenea in tutto il territorio (Sistema Regionale dei
Musei. Piano di Razionalizzazione e Sviluppo, p. 7).
La nascita del primo allestimento museale etnografico
in Sardegna risale al 1950, quando il Museo Nazionale di
Sassari espose una consistente collezione donata dall’ap-
passionato di tradizioni popolari Gavino Clemente, alla
quale venne affiancato un catalogo curato dallo storico
dell’arte Raffaello Delogu. L’esposizione, basata sui
F r a n c e s c a manufatti raccolti dal Clemente, rimase sostanzialmente
inalterata fino agli anni ’80 quando l’intera sezione etno-
S a n n a grafica del Museo Nazionale, che nel frattempo si era
arricchito grazie ad acquisizioni e donazioni, venne sman-
tellata per permettere la ristrutturazione di alcune aree
del museo (Atzori, 1997, p.412).
Durante gli oltre trent’anni di attività della sezione
Nell’ambito della ricostruzione della storia delle istitu- etnografica tale allestimento rimase sempre legato a cri-
zioni impegnate nella tutela e nella divulgazione dei beni teri espositivi decisamente superati, ed a parte un tenta-
culturali demo-etno-antropologici il congresso e l’esposi- tivo volto a rendere maggiormente ordinata l’esposizione
zione di etnografia italiana del 1911 hanno segnato un dividendo i materiali esposti per argomento, mostrava
momento fondamentale. In tale occasione il vivace dibat- una serie di carenze tipiche delle esposizioni museali più
tito sulla museografia nazionale si rivolse ad alcuni dei datate; l’assenza di indicazioni in grado di fornire ai visi-
temi fondamentali sui quali i musei etnografici si con- tatori informazioni chiare sulla provenienza e sulle fun-
frontano tuttora, come il rapporto tra tipologie e docu- zionalità degli oggetti esposti, così come la mancanza di
mentazione regionale o l’importanza di salvaguardare e pannelli esplicativi e la povertà di nozioni offerte dalle
documentare la ricchezza delle culture locali come carat- didascalie sono una serie di costanti che spesso si riscon-
teristica peculiare della storia di una data realtà culturale trano in gran parte degli allestimenti museali etnografici
(Clemente, 1996, p. 238). in Sardegna.
Le travagliate vicende storiche che coinvolsero l’Italia Nell’allestimento del Museo della Vita e delle
nel primo cinquantennio del secolo provocarono una bru- Tradizioni Popolari Sarde a Nuoro, portato a termine dieci
sca quanto inevitabile interruzione del dibattito museale anni dopo la nascita della sezione etnografica presso il
e delle esperienze progettuali. Una pausa forzata durata Museo nazionale di Sassari, è possibile notare una quasi
così a lungo da costringere, all’inizio degli anni ’60, gli identica sistematica; il museo nuorese, nel momento della
studiosi non tanto a riprendere il dibattito quanto a com- sua istituzione nel 1957, seguiva quelle che erano le con-
piere una vera e propria opera di rifondazione della cezioni dominanti dell’epoca nell’ambito dell’etnoantro-
materia; infatti sebbene il regime fascista avesse dimo- pologia (Lilliu, 1980).
strato un certo interesse per le culture locali, aveva lega- Lo spazio espositivo del Museo di Nuoro venne aperto
to tale riscoperta alla più generale volontà di autarchia al pubblico nel 1961 e nella definitiva realizzazione del
dell’epoca. progetto si rifletteva chiaramente la logica del paese-
A tale proposito è interessante notare che, la storia museo, con la riproposizione degli spazi tradizionali delle

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abitazioni e delle comunità paesane (Atzori, 1997, p.413). sta, con maggior insistenza proprio in ambito etnografi-
Il Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde, a co, nella presenza contemporanea di più musei dalle
differenza della sezione etnografica del Museo Nazionale caratteristiche pressoché identiche e ubicati a breve
di Sassari, ebbe nei suoi primi anni di attività una serie di distanza l’uno dall’altro (Sistema Regionale dei Musei.
difficoltà che ne limitarono la fruizione, principalmente a Piano di Razionalizzazione e Sviluppo, p. 8).
causa della mancanza di personale specializzato che Tale squilibrio nella distribuzione territoriale dei
costrinse il museo a frequenti chiusure. Tale situazione musei da un lato deve essere indubbiamente valutata
venne risolta solo nel 1972, quando la Regione Sardegna positivamente, poiché dimostra un forte senso di appar-
istituì a Nuoro l’Istituto Superiore Regionale Etnografico tenenza alla comunità, ma sotto il profilo pratico non
al quale venne affidata la gestione della struttura esposi- può che apparire come una scelta difficilmente destinata
tiva. Anche il Museo di Nuoro, come già accennato, evi- al successo; un esempio è quello della presenza in aree
denziava le stesse carenze espositive dovute ad un relativamente piccole di un numero elevato di case-
approccio espositivo estremamente datato. I reperti sono museo nelle quali vengono esposti, ma più spesso stipati,
raggruppati per argomento senza che sia ravvisabile un una serie di oggetti appartenenti alla cultura contadina.
reale intento alla presentazione ed alla esplicazione degli Tale situazione provoca inevitabilmente una progressiva
oggetti esposti (Lilliu, 1980). diminuzione del bacino di utenti necessari a sostentare
Nel panorama delle esposizioni etnografiche in tali esposizioni, contribuendo a decretarne spesso la chiu-
Sardegna un ruolo importante hanno rivestito i collezio- sura a causa degli eccessivi costi di mantenimento non
nisti privati che a partire dagli anni ’50 hanno costituito coperti da un adeguato numero di visitatori.
delle raccolte, spinti principalmente dall’interesse di con- A tale proposito risulta chiarificatrice della criticità del
servare, almeno in parte, una serie di oggetti destinati sistema museale regionale l’indagine condotta dal CRE-
altrimenti a sparire con la progressiva meccanizzazione NOS, che studiando un campione di 93 istituzioni, tra cui
del mondo agricolo e pastorale. In alcuni casi tali raccol- alcuni dei musei nazionali e vari spazi espositivi privi di
te hanno raggiunto una grandezza tale da rendere collezioni permanenti, ha rilevato come un numero ridot-
necessaria la loro collocazione in spazi adeguati ed in to di tali strutture (10) richiamino oltre il 70% dell’intero
grado di garantire una migliore fruizione dei reperti. Tra volume di visitatori, a sua volta stimato in circa 30.000
gli esempi di questa tipologia di allestimento museale è persone all’anno. Ciò evidenzia come la gran parte di tali
possibile citare il museo degli strumenti musicali sardi, strutture espositive deve confrontarsi con un esiguo
ospitato nella casa parrocchiale di Tadasuni, che pur numero di visitatori (Sistema Regionale dei Musei. Piano
risentendo di una sistemazione estremamente semplice, di Razionalizzazione e Sviluppo, p. 9).
dovuta all’inadeguatezza dei locali ed alla mancanza di Un’altra mancanza significativa nel panorama musea-
fondi, poteva contare su una raccolta di oggetti dal note- le sardo è rappresentato dall’irrilevante numero di figure
vole valore scientifico e didattico. Ugualmente ricco di professionali in grado di garantire una gestione ottimale
spunti interessanti, seppur frustrati dall’eccessiva sempli- delle strutture; è sufficiente, a questo riguardo, ricordare
cità espositiva era il museo Sa domu ‘e farra di Quartu S. come, attualmente, solo una decina di musei in tutta la
Elena, nel quale sono stati conservati arredi e strumenti Sardegna abbiano un direttore e come ancora più esiguo
della tradizione rurale. A vanificare in parte i lodevoli sia il numero di enti museali che si rivolgono a esperti di
sforzi del fondatore del museo contribuiva la scarsa cono- didattica e comunicazione. Una tale carenza di professio-
scenza delle tecniche espositive che portò a collocare un nalità si riflette inevitabilmente sulla programmazione
numero eccessivo di oggetti in ogni ambiente dell’esposi- dei musei e sulla loro offerta didattica che appaiono spes-
zione, peraltro privi delle necessarie informazioni fornite so incomplete quando non del tutto assenti. Un altro
comunemente attraverso i pannelli e le didascalie espli- effetto legato alla scarsità di figure professionali è dato
cative (Atzori, 1997, p.415). dalla staticità prevalente anche nelle esposizioni perma-
A questi musei etnografici che, pur presentando nenti, che raramente sono soggette ai periodici riallesti-
carenze vistose sotto il profilo espositivo, sono frutto dei menti necessari a garantire ai visitatori nuovi spunti inter-
lodevoli sforzi di collezionisti appassionati, a partire dagli pretativi attraverso la rielaborazione dei materiali espo-
anni ’70 si è aggiunta una nuova tipologia di allestimen- sti. Peraltro rinunciare a figure qualificate significa neces-
ti, legata alla sempre maggiore diffusione delle campa- sariamente condannare l’allestimento museale all’inade-
gne archeologiche ed al conseguente affollarsi di reperti guatezza sotto il profilo comunicativo ed a rendere estre-
nei magazzini, peraltro già colmi, dei musei nazionali e mamente difficoltosa l’attività di ricerca (Sistema
delle soprintendenze. Per evitare che l’elevato numero di Regionale dei Musei. Piano di Razionalizzazione e svilup-
reperti avesse una collocazione improduttiva si diede vita po, p. 7).
a musei civici locali con sezioni archeologiche ed etno- E’ dunque evidente come la visione del museo sia
grafiche. Una delle caratteristiche principali che accomu- ancora legata, in ambito regionale, ad un’idea di deposi-
na questi musei è quella di sorgere spesso in piccoli to di oggetti rari o di pregio piuttosto che un centro in
Comuni che possono contare su un territorio ricco di cui il visitatore deve contribuire alla visita in modo attivo
reperti (Atzori, 1997, p.415). alla fruizione delle opere esposte.
Dall’analisi della situazione attuale dei musei etno- Una simile visione viene criticata da Alberto Mario
grafici in Sardegna si evincono chiaramente le problema- Cirese, che afferma come «i musei demologici dunque,
tiche irrisolte e i limiti dell’offerta museale regionale. Il almeno nella mia ottica, non agiscono solo come centri di
problema principale è quello di un’eccessiva frammenta- raccolta e di conservazione ma soprattutto come opera-
zione delle iniziative espositive, le cui motivazioni sono tori di investigazione e studio. Ed agiscono anche come
spesso riconducibili ad una semplificazione delle politiche agenti di propagazione della conoscenza e di familiariz-
culturali da parte di amministrazioni locali che individua- zazione del pubblico con i procedimenti del conoscere»
no nei musei un ammortizzatore sociale e una fonte oc- (Clemente, 1996, p.254).
cupazionale. Da questo malinteso deriva anche la scelta, Per far sì che il visitatore di un museo possa realmen-
spesso utilizzata nei piccoli centri, di recuperare immobi- te vedere ciò che un allestimento offre al suo sguardo è
li storici dismessi ristrutturandoli in tutta fretta e trasfor- necessario che le opere d’arte vengano rese realmente
mandoli in contenitori inadeguati a causa della mancan- fruibili. Ciò può avvenire solo se le opere sono in grado di
za di un progetto espositivo preventivamente stabilito stimolare la curiosità dell’osservatore, acuendone la per-
(Sistema Regionale dei Musei. Piano di Razionalizzazione cezione, allargandone le prospettive attraverso la capaci-
e Sviluppo, p. 8). tà di esporre con chiarezza nuovi collegamenti e contra-
Diretta conseguenza dell’eccessiva frammentazione è sti e di mostrare sotto una nuova luce anche tipologie di
la marcata ripetitività dell’offerta museale, che si manife- oggetti solitamente trascurati.

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Naturalmente il grado di partecipazione del visitatore ne ed esposizione (Goodman, 1984).


all’esposizione museale è sempre parzialmente limitata La base di ogni codice espressivo museale, così come
dalle scelte effettuate dal curatore. Pertanto appare fon- evidenziato da Pietro Clemente, è, infatti, data da ogget-
damentale tenere presente come il principale scopo di un ti decontestualizzati, manufatti tolti dal loro spazio origi-
allestimento museale è quello di partecipare all’organiz- nario e ricollocati in un ambiente espositivo nel quale
zazione ed alla riorganizzazione dell’esperienza, alla assumono una nuova valenza, divenendo documenti di se
costruzione e ricostruzione dei mondi del visitatore. E’ stessi; la nuova funzione degli oggetti esposti non si
inoltre necessario abbandonare le idee sull’occhio inno- attua semplicemente attraverso la collocazione dell’og-
cente, sull’emozione senza pensiero, che appaiono ormai getto nello spazio espositivo, ma richiede un’opera di
obsolete. Sensazioni, percezioni, ragione e sensibilità ricostruzione delle loro vita reale e delle loro funzionali-
sono solo parti dell’insieme della cognizione e nel tà. Tale ricostruzione viene posta in essere attraverso la
momento stesso in cui influenzano l’opera ne sono a loro creazione di un collegamento tra la morfologia stessa
volta influenzate. degli oggetti, i supporti didattici e l’intero contesto espo-
Per riportare sul piano originario dell’analisi sui musei sitivo (Clemente, 1996).
etnografici sardi il discorso sul funzionamento dell’alle- Simili condizioni contribuiscono a frapporre ostacoli a
stimento, è bene precisare che esso si verifica solo quan- volte insormontabili tra la visione e la comprensione del-
do è capace di informare l’osservatore, non soltanto for- l’allestimento museale. Mentre un libro contiene solita-
nendo le informazioni ma formando o riformando o tra- mente al suo interno un meccanismo di decodifica che lo
sformando la visione, che non deve naturalmente essere rende capace di rivelarsi al lettore senza alcuna interme-
confinata alla percezione oculare ma intesa come com- diazione, un allestimento museale, composto da un este-
prensione generale dell’esposizione. Ciò non significa so numero di opere innaturalmente collocate nel medesi-
svuotare quadri, sculture o reperti della civiltà rurale tra- mo spazio sintetico ed artificiale, incontra barriere a volte
sformandoli in un mero sussidio visivo nel tentativo di insormontabili proprio a causa dell’assenza del contesto
mostrare quello che si cela dietro di esse. Le informazioni originario (Goodman, 1984).
che un’opera può fornire sono importanti tanto quanto La caratteristica naturale del museo deve dunque es-
lo è il rapporto più intimo tra il visitatore e l’opera, quel- sere individuata proprio nella sua innaturalità, una con-
lo che permette una reale comunione tra l’arte, la storia dizione necessaria per preservare gli oggetti nel miglior
e l’essere umano. Solo attraverso questo tipo di relazione modo possibile. Accettare tale aspetto fondamentale im-
i riverberi delle opere esposte possono propagarsi nella plica naturalmente il dovere di trovare una soluzione ca-
vita di coloro che le osservano, venendo in contatto in pace di facilitare la comprensione dell’allestimento. E’
maniera sempre mutevole con altre forme d’arte, con sé possibile individuare due rimedi di segno contrario, uno
stesse e con tutto il mondo circostante. consistente nell’accentuare la mediazione tra il visitatore
Proprio in questa interazione costante e a diversi livel- e l’oggetto, l’altro, di segno opposto, tendente a rendere
li è possibile individuare la reale funzione dei musei, immediata la relazione. Mentre nel pri-
ovvero far sì che le opere interagiscano con tutte le mo caso al visitatore vengono
nostre esperienze e tutti i nostri processi offerti numerosi supporti me-
conoscitivi nell’evoluzione continua diatici, per agevolarne la
della nostra comprensione. comprensione attraverso
Secondo il filosofo americano elementi scritti, audiovi-
Nelson Goodman il museo deve sivi o digitali, nel secon-
essere considerato come una do caso tali sup-
sorta di male necessario, che porti vengono
recide in maniera definitiva i volutamente
legami dell’oggetto con la sua evitati
realtà naturale e non riesce a
restituirne il senso, ma in cambio
offre ai reperti una protezione
necessaria alla loro sopravvivenza
nei secoli (Goodman, 1984). Proprio
questo forzare l’oggetto a esistere
nell’ambito di un confine arbitraria-
mente delimitato dal curatore del museo,
questa nuova illegittima collocazione
impedisce al visitatore di percepire la rela-
zione dell’oggetto con l’ambiente per il
quale è stato creato.
Per rendere evidente questo ostacolo
alla comprensione delle opere esposte
Goodman analizza parallelamente le
biblioteche ed i musei; nelle prime gli
oggetti esposti, cioè i libri, sono indiffe-
renti all’ambiente fisico che li circonda,
essendo autonomamente dotati di un
senso che il fruitore, ovvero il lettore,
può facilmente individuare senza
necessità di nessun supporto. Gli
oggetti ospitati nel museo hanno
invece subito uno spostamento sia Ceramica
temporale che fisico, che li ha privati artistica
del loro contesto naturale (Chiodo, 2004, Gallinella
p.3). Questa condizione innaturale dell’o- Opera di
pera si somma alla presenza di numerosi Ignazia Tinti
altri oggetti analoghi, che in molti casi hanno Foto M.C. . Deidda
in comune tra loro solo le finalità di conservazio-

il folklore
81 d’Italia
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o comunque ridotti a poche e scarne informazioni. In en- riesce ad esporre il passato in modo costruttivo, agevo-
trambi i casi lo scopo di queste due possibili soluzioni è landone la conoscenza e l’utilizzo, ideale o materiale, per
solo quello di mettere l’oggetto esposto in condizione di i visitatori del presente. La raccolta fine a se stessa, attua-
agire, seppure, come sottolinea Goodman «under the ta al solo scopo di conservare e salvaguardare opere
worst imaginable conditions, that is, in a museum» dotate di un presunto valore storico, etnografico o arti-
(Goodman, 1984, p.184). stico, è in realtà una pratica sterile. Solo se questa raccol-
Per ridurre la portata di questo limite, avvicinando per ta viene proiettata verso il futuro, diventando un punto
quanto possibile il visitatore alla comprensione di un di partenza per nuove riflessioni ed idee, può considerar-
oggetto privato della sua naturale collocazione, è neces- si realmente indirizzata a rendere funzionante un allesti-
sario, come suggerisce Goodman, fare in modo che siano mento. In questa prospettiva si pone l’idea che gli ogget-
le opere stesse a funzionare, esplicandosi attraverso un ti contenuti in un museo non debbano necessariamente
allestimento in grado di evidenziarne determinate perti- essere pezzi unici ed essenziali. In un museo che funziona
nenze che possano permettere un’elaborazione creativa devono trovare posto anche oggetti sprovvisti dell’aura
dell’esposizione da parte del fruitore. di unicità e di eccezionalità, se da questi possono nascere
L’oggetto dovrebbe agire stimolando uno sguardo spunti di riflessione utili a comprenderne e decodificarne
indagativo, acuendo la percezione, enfatizzando l’intelli- la storia, fornendo di conseguenza nuovi spunti per pro-
genza visiva, aprendo prospettive, portando ad emerge- gettare il futuro.
re nuove connessioni e nuovi contrasti e delimitando Una volta che l’oggetto é stato asportato dal suo
significativi aspetti trascurati, partecipando all’organizza- ambiente naturale viene posto in essere un atto di com-
zione e alla riorganizzazione dell’esperienza, e quindi binazione, un atto di messa in scena che coinvolge una
alla costruzione e ricostruzione dei nostri mondi. serie di oggetti eterogenei. In questa fase dell’allesti-
L’oggetto deve dunque assumere un ruolo attivo, senza mento museale assumono naturalmente la massima
limitarsi ad informare l’osservatore dei propri contenuti importanza oggetti, come i pannelli esplicativi e le dida-
conoscitivi, ma trasformando, acuendo e rinnovando con- scalie, utili a evidenziare le differenze tra il mondo
tinuamente le capacità osservative del visitatore. “reale” e quello dell’esposizione e a fornire allo spetta-
Infatti, come evidenziato da una riflessione proposta tore una nuova definizione dell’oggetto esposto. Queste

Esposizioni Museali - Museo dell’arte ethnica ( Assemini) - Foto di G. Dichiara

da M. Baxandall «chi osserva un manufatto proveniente parti funzionano come componenti di un codice di rico-
da un’altra cultura, sia essa distante geograficamente o noscimento che, oltre a consentire al visitatore l’entrata
cronologicamente, si trova in una posizione complessa nel mondo dell’esposizione, corrispondono ad un’esem-
(…) Per chi osservi un manufatto in una mostra antropo- plificazione del legame che unisce i diversi oggetti espo-
logica le cose si complicano ulteriormente, e le sugge- sti.
stioni aumentano. Tre sono gli elementi culturali coinvol- Naturalmente gli oggetti che esplicano l’allestimento
ti. Innanzitutto le idee, i valori e, ovviamente, gli obbiet- museale indicano che il curatore del museo ha aggiunto,
tivi dei curatori della mostra che, è lecito supporre, si ispi- creato una gerarchia, ordinato, scelto, diviso in categorie;
rano a una teoria e comunque partecipano di una nozio- mostrano anche il metodo utilizzato dall’allestitore nel
ne di cultura che non sempre l’osservatore possiede o tentativo di raggiungere gli obiettivi fissati, e i criteri con
condivide. Infine, vi è l’osservatore stesso, con il suo baga- cui le immagini, gli oggetti ed i testi sono stati combina-
glio culturale di idee non sistematiche, di valori e, anche ti. Si tratta di un codice esplicativo che ha lo scopo di indi-
nel suo caso, di precisi obiettivi» (Karp, Lavine, 1995, care come interpretare l’insieme delle opere esposte,
p.16). costituendo un sistema di ricezione che, attraverso un lin-
Di fronte a tale analisi si evidenzia il dato che ogni guaggio comune, aiuta a comprendere ed ad elaborare
oggetto, quando viene esposto in un museo, perde i suoi dei significati, nonchè ad orientare verso il messaggio
connotati contestuali per trasformarsi in un’astrazione, dell’allestimento. Un’esposizione museale diventa dun-
acquisendo uno spessore simbolico che è determinato que uno “spazio sintetico” (Davallon, 1999, p.170), sia nel
dalla nuova collocazione, e si deve anche ammettere che, senso di spazio che riunisce diversi elementi in un insie-
pur nella realtà della sua esposizione pubblica e del suo me, sia nel senso di spazio artificiale.
sradicamento, ogni oggetto museale, quale che sia il L’esposizione, dunque, non è in grado di riprodurre
museo in cui è presentato, conserva una distanza, vale a l’immagine fedele della realtà, e deve essere accettata,
dire un’alterità. analizzata e rielaborata secondo la sua vera natura, cioè
Un museo può dunque definirsi funzionante quando la finzione. Il visitatore di un museo viene introdotto in

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d’Italia
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un mondo trasfigurato, quello dove gli oggetti sono stati Drugman F. (1997), (a cura di) Culture in mostra. Poetiche e politiche del-
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mente non solo oggetto reale, dotato di una valenza pra- Goodman N. (1968), Languages of art: an approach to a theory of sym-
tica alla quale rimanda con la sua stessa esistenza, ma bols,Bobbs-Merrili, Indianapolis, (trad.it. I linguaggi dell’arte, il
anche oggetto d’esposizione, dunque segnato in ragione Saggiatore, Milano, 2003).
della sua stessa collocazione all’interno dell’esposizione. Goodman N. (1984), The end of the Museums?, in Of Mind and Other
Matters, Harvard University Press, Cambridge.
Sarebbe dunque fondamentale spostare la prospettiva Goodman N. (1984), Of Mind and Other Matters, Harvard University Press,
dei musei etnografici sardi per renderli capaci di rivolger- Cambridge.
si sia ai residenti sia ai numerosi turisti. E’ necessario, Goodman N. (1978), Ways of worldmaking, Hackett, (trad.it. Vedere e
infatti, ricordare che il flusso delle visite è attualmente costruire il mondo, Laterza, Bari, 1988).
legato all’andamento del turismo estivo, sintomo di un Goodman N., Elgin C.Z. (1988), Reconceptions in philosophy and other arts
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Tra le tortuose viuzze del centro storico, nel 1996 festazione.


Oliena apre le case e i cortili mettendo in vetrina antichi L’ostentazione delle varie identità all’interno del cir-
mestieri, prodotti enogastronomici ed artigianali conte- cuito di cortes apertas porta ad una sorta di reificazione
stualizzati in un ambiente naturale incontaminato e ricco che, in maniera inevitabile, conduce alla costruzione di
di fascino. La manifestazione, riproposta negli anni suc- nuove identità, secondo il principio per cui «l’identità è di
cessivi, ha dato vita al circuito di cortes apertas. Nel 2003, per sé una faccenda da “intelletto tabellesco”, una que-
i paesi coinvolti nell’iniziativa sono nove; nel 2004 aderi- stione di ordinamento delle cose: di “tagli” e “separazio-
scono al programma Autunno in Barbagia quindici comu- ni” per un verso e di “assimilazione”, “accostamenti” e
nità; l’anno successivo saranno venticinque e nelle edizio- persino “fusioni” per un altro» (Remotti, 2003, p. 8). Tale
ni 2006 e 2007 ventotto. Un percorso, ormai più che fenomenologia è giocata sulla dicotomia identità-alteri-
decennale, che ha visto partecipare in maniera progressi- tà, che, in periodi di marcata globalizzazione, esalta le
va quasi tutti i centri del nuorese. Inoltre, alla manifesta- necessità di appartenenze. Infatti, è proprio l’avanzare
zione autunnale dei paesi barbaricini è stata affiancata della globalizzazione che causa ogni qualvolta una paura
Primavera in Baronia, nel Marghine e in Ogliastra. antropologica che si riversa nella tendenza a salvaguar-
L’ultima edizione, quella del 2007, ha avuto il concorso di dare le varie forme di identità individuali e collettive.
quattro paesi baroniesi, nove comunità del Marghine e Autunno in Barbagia s’inserisce in questo processo di
quattro centri ogliastrini. tutela e conservazione di prodotti identitari, etnici,
L’adesione dei paesi sardi all’iniziativa ha contribuito genuini, autentici, ecc, proposti ad un pubblico esterno,
a creare un percorso via via crescente che coinvolge, oltre in particolare non locale, che ricerca nei microcosmi sug-
le comunità, la Camera di Commercio tramite l’Azienda gestivi di cortes apertas modelli culturali tradizionali. In
Speciale Promozione Economica Nuorese, la Regione questo senso, la ricerca e l’utilizzo di tratti arcaici in chia-
Sardegna e le amministrazioni provinciali. In alcune edi- ve nostalgica, la decantazione di «altrove esemplari»,
zioni, inoltre, hanno partecipato le comunità montane e viene proposta per creare una visione tradizionalista di
i Gal (gruppi di azione locale). Gli obiettivi comuni fatti culturali in grado di attirare l’attenzione, in partico-
principali sono lo sviluppo delle zone interne, la valo- lare dei turisti. Per tale motivo, «si può non a torto soste-
rizzazione dei vari comparti economici e dei pro- nere che la narrazione dell’identità sarda fatta ad uso del
dotti autoctoni e l’attrazione di flussi turistici con- turista sia in gran parte il frutto di una narrazione mitiz-
sistenti per il decollo delle economie locali. zata, ove sfilano come in passerella, i tipi rappresentativi
La manifestazione è diventata per gli orga- dell’identità isolana: il pastore, la donna in costume desu-
nizzatori uno degli appuntamenti maggior- lese, i ballerini de su ballu tundu, o i tenores» (Paulis,
mente attesi all’interno dell’industria turi- 2006, p. 31). Come si è già accennato, con cortes apertas
stica. I richiami alla tradizione, alla tipicità, si addiviene ad un nuovo universo di valori che passa per
all’identità, alla genuinità, all’autenticità la riplasmazione e rifunzionalizzazione di specifici tratti
ecc, indici di sardità, diversi e non con- culturali. Si perviene, dunque, non solo alla trasformazio-
taminati, secondo un processo annua- ne e, quindi, alla riscrittura della tradizione, ma si arriva,
le dal carattere ripetitivo, hanno anche, alla creazione di una nuova identità secondo il
contribuito alla creazione di un principio per cui l’identità stessa «viene sempre, in qual-
appuntamento divenuto per molti che modo, “costruita” o “inventata”» (Remotti, 2003, p.
imperdibile. In questo senso è possibile 5). Si tratta di un processo mutevole in cui concorre, spes-
constatare che si è fatto «ricorso a materia- so, l’industria turistica, secondo i modelli di sviluppo turi-
li antichi per costruire tradizioni inventate di stico, soprattutto se si considera che «nel caso particolare
tipo nuovo, destinate a fini altrettanto nuovi. Nel della Sardegna il turismo etnico, riprendendo l’antico
passato di ogni società si accumula una vasta riserva di topos della Barbagia pastorale come area resistenziale,
questi materiali, ed è sempre facile ripescare il complesso chiusa alle incursioni e refrattaria al cambiamento, predi-
linguaggio di una pratica e di una comunicazione simbo- lige decisamente le zone dell’interno. Quasi in una sorta
liche» (Hobsbawm in Hobsbawm, Ranger, 2002, p. 8). Con di sineddoche, così, la Barbagia viene identificata con la
Autunno in Barbagia, dunque, si è pervenuti ad vera Sardegna, e il pastore è fatto coincidere con il deten-
un’«invenzione della tradizione» che è «essenzialmente tore dei tratti costitutivi dell’identità locale» (Paulis,
un processo di ritualizzazione e formalizzazione caratte- 2006, p. 29).
rizzato dal riferimento al passato, se non altro perché Sulla base di quest’assunto, per esempio, il pastorali-
impone la ripetitività» (ivi, p. 6). In questo modo si ricrea- smo viene elevato dagli organizzatori di cortes apertas ad
no nuovi strumenti, linguaggi e simbolismi. uno dei tratti fondamentali delle identità locali. Nei pro-
L’utilizzo di tratti culturali tradizionali, inevitabilmen- grammi dell’edizione 2007 della manifestazione rientra-
te mutati e sottoposti a dinamiche di rifunzionalizzazio- va la mostra esposta a Bitti dal titolo lamas, i vecchi con-
ne, vengono utilizzati all’interno di cortes apertas in un tenitori per il latte, atta a rimarcare l’identità pastorale
processo continuo di ostentazione identitaria. Si tratta di dei bittesi. Così a Fonni uno dei motivi principali d’attra-
un fenomeno amplificato, nonché strumentalizzato e zione è stato il museo sul pastoralismo; nel calendario di
ostentato, dalla pubblicità per mezzo di depliants e bro- Oliena rientrava una mostra su “Pastori, saperi e tradi-
chures, giornali e reti locali che, tramite l’utilizzo di ste- zioni”, mentre ad Ovodda ed Osidda si è prevista un’e-
reotipi e tipizzazioni, esaltano le varie identità sarde, sposizione per rappresentare la filiera del latte. La pagi-
contribuendo a creare nell’immaginario degli eventuali na pubblicitaria del quotidiano «La Nuova Sardegna» per
visitatori una visione esotica e autentica, nonché fuorvia- cortes apertas a Gavoi e Ollolai tra le altre cose ha scritto:
ta, della realtà storica e socio-culturale sarda. I quotidia- «Se vuoi conoscere la Barbagia trascorri il fine settimana
ni locali, per esempio, ogni anno ripropongono pagine a Gavoi e Ollolai. Le manifestazioni Ospitalità nel cuore
pubblicitarie, programmi e articoli redazionali sulla mani- della Barbagia e Pastores e Tenores ti faranno vivere tre

85 il folklore
d’Italia
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giorni immerso nella natura incontaminata, ascoltando le mente a quella di luogo. Il luogo, secondo Marc Augé, è
melodie dei canti a tenore, gustando i sapori dei piatti una costruzione concreta e simbolica dello spazio, costi-
del Pastoralismo e conoscendo la cultura millenaria tuisce il principio di senso per coloro che l’abitano e il
pastorale della Sardegna centrale» (La Nuova Sardegna, 3 principio di intelligibilità per colui che l’osserva. In un’e-
ottobre 2007). poca di perdita del centro e del proliferare di non luoghi
La natura incontaminata, le ricchezze della monta- che tentano di invadere anche lo spazio dei luoghi tradi-
gna, i centri storici architettonicamente intatti, ecc, costi- zionali, l’identità può essere un modo per riaffermare a
tuiscono lo sfondo naturale, esistente e ostentato, in cui se stessi e agli altri, la natura autentica del proprio spa-
si svolge la manifestazione. Infatti, un ruolo di primo zio, cercando materialmente di recuperare terreno con-
piano nell’ostentazione identitaria di cortes apertas è tro una modernità forse rifiutata nei suoi aspetti sperso-
svolto dal luogo in cui ha sede la rassegna. A tale riguar- nalizzanti» (Augé 2001) ( Satta in AA.VV., 2007, p. 47).
do viene richiamato lo spazio comunitario quale raccogli- Le cortes, un tempo luogo-contenitore di strumenti
tore di un insieme di tratti culturali specifici, differente, della cultura agro-pastrorale, nonché ricovero per gli ani-
mali e spazio in cui svolgere le attività
domestiche, assumono, attualmente, la
funzione di raccoglitore di oggetti della

Assemini Cortes Apertas (2004) - Foto M.C. Deidda

per esempio, da quello delle comunità vicine. In questo cultura materiale degli artigiani locali, prodotti agroali-
senso, l’opposizione identità-alterità è esplicitamente mentari, ecc, destinati ai visitatori. Le cortes non sono più
rimarcata, soprattutto se si tiene conto che «l’identità [...] spazi intimi familiari, ma luoghi pubblici, quasi dei nego-
si costruisce a scapito dell’alterità» (Remotti, 2003, p. 61). zi, che esibiscono determinati prodotti destinati alla ven-
Allo spazio del paese si associa lo spazio delle cortes che dita. I cortili, inoltre, assurgono a scenario rifunzionaliz-
si presentano quali segni di architettura popolare che zato in cui vengono rappresentati i mestieri tradizionali,
separano il privato della casa dal pubblico della strada e ormai scomparsi, quali la lavorazione della lana, la treb-
del vicinato. Come sostiene Maria Margherita Satta, che biatura, la pulizia e la raccolta del grano, ecc. Ad Orotelli,
riprende l’antropologo Marc Augé, «è quasi superfluo per esempio, al centro della rassegna è stata sa domo de
affermare che una rilevazione sull’identità si lega stretta- su massaiu (la casa del contadino) dove si è messo in scena

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il ciclo del grano, dall’aratura al rac- gli abiti tradizionali, mostreranno la sponsorizzati come autentici, indice
colto. Non a caso la manifestazione realizzazione di dolci, la preparazio- di una sardità diversa e non contami-
titola Cortes de terra ’e oro (cortili di ne e la cottura del pane, la tessitura nata e realizzati secondo i dettami
terra d’oro). di tappeti e altri manufatti, ecc. della tradizione. L’enogastronomia,
È possibile constatare che ciò che Suscitano un’attenzione particolare così come tutte le altre produzioni, ci
viene esibito all’interno dei program- le donne che creano e ricamano parti riporta alla nozione di luogo e di
mi di cortes apertas è la spettacola- dell’abbigliamento tradizionale. A identità di luoghi, in quanto un
rizzazione di attività economico-pro- questo proposito è opportuno ricor- determinato prodotto, carico della
duttive passate, momenti festivi quali dare che l’abito rappresenta un altro sua valenza identitaria, è espressione
il ballo comunitario, ecc, che, in potente demarcatore d’identità la cui del territorio che lo produce. È rap-
quanto performance prevalentemen- funzione è stata completamente presentativo in questa direzione il
te richieste dal gusto dell’industria riscritta. In passato contrassegnava settore vinicolo. In particolar modo,
turistica, vengono rielaborate in chia- distinzioni di ceto, di appartenenza ad Oliena ed Atzara il vino rappre-
ve mitopoietica per la rappresenta- comunitaria, di condizione civile, senta un prodotto storico dell’econo-
zione ad un pubblico. Ne costituisce nonché avere finalità pratico-esteti- mia e della cultura di questi centri.
appunto esempio il ballo sardo che che. Attualmente assurge, tramite Il pastoralismo, gli antichi mestie-
ha un ruolo centrale nella costruzio- reimpostazione simbolico-identitaria, ri, i saperi e le pratiche delle donne e,
ne dell’identità collettiva; infatti, la a modello tradizionale-culturale da più in generale, tutti gli indicatori
cultura isolana lo eleva a uno dei esibire in occasione di manifestazioni identitari sovraesposti costituiscono
tratti portanti dell’identità. La mimi- folkloristiche. soltanto alcuni elementi della vasta
ca del ballo, espressa in performance Tra le altre qualità che caratteriz- fenomenologia che sottende cortes
dai gruppi folkloristici in occasione di zano e connotano le configurazioni apertas.
cortes apertas, rappresenta il ballo identitarie dei paesi del nuorese rien- La manifestazione Autunno in
popolare locale, decontestualizzato tra l’ospitalità. L’essere ospitali è un Barbagia mette in discussione alcuni
dal momento straordinario festivo tratto spesso richiamato in slogans, punti, tra i più incisivi, affrontati dal
della comunità, innovato, spettacco- depliants, articoli di giornale, ecc, per dibattito antropologico contempora-
larizzato e ostentato come tratto attirare l’attenzione dei visitatori; neo. Identità, alterità e tradizione ne
identitario-tradizionale per l’intrat- viene palesato con frasi ad effetto costituiscono qualche esempio. La
tenimento di un pubblico in preva- quali: “un’ospitalità senza confini”, prima, sottoposta a continua nego-
lenza turistico. oppure definito: «segno del marcato ziazione, porta ogni qualvolta alla
Tra le varie pratiche rituali rap- senso dell’ospitalità che contraddi- costruzione di nuove identità. In que-
presentate in chiave passata e tradi- stingue il popolo sardo, del centro in sto senso, l’identità preesistente è
zionale rientra il matrimonio (Gavoi, particolare» (La Nuova Sardegna, 17 sempre messa in gioco. Le identità
Oliena, Fonni, Tonara, ecc), i doni e i novembre 2007). E ancora, «ciò che sono dei «costrutti culturali», o degli
cerimoniali del battesimo (Fonni, colpisce è l’abbraccio che ogni comu- «artefatti», utili per la legittimazione
Austis, ecc), e, più in generale, tutti i nità regala ai visitatori, nel dedalo di di fenomeni non solo socio-culturali,
«riti di passaggio» del ciclo della vita. offerte da vivere con la curiosità di ma anche politici ed economici. Al-
Spazi particolari e distintivi sono ospiti accolti nell’autenticità» l’interno di questa fenomenologia le
riservati alle donne. L’universo dome- (Lacanas, n°16, 2005, p. 24). varie identità vengono richiamate
stico sardo è caratterizzato dall’onni- All’interno della manifestazione quando bisogna affermare una mani-
presenza della donna, la sovrana Autunno in Barbagia, l’enogastrono- festazione, come Autunno in Barba-
della casa, che, con le mansioni pro- mia riveste una componente fonda- gia, eventi folkloristici, ecc. Il richia-
prie dell’ambito domestico, costrui- mentale nella costruzione ed osten- mo e i riferimenti all’identità sono as-
sce un mondo quasi a sé stante, ricco tazione della varie forme d’identità, sunti, da chi opera tale appello, a
di cultura, con tratti e caratterizza- in quanto racchiude valenze econo- completamento della propria realtà
zioni specifici. All’interno di cortes miche, sociali, culturali e, sempre più, culturale, mostrando come la stessa
apertas la donna riveste un ruolo politiche. L’importanza dei prodotti identità sia un qualcosa di «irrinun-
fondamentale. Quale detentrice di alimentari risiede nella valenza iden- ciabile». In questo processo sono ob-
saperi e realizzatrice di pratiche titaria espressa dai gruppi sociali che bligatori i richiami al passato che
costruisce un universo simbolico li produce: individuali e/o collettivi. «serve talvolta a ricreare tutto un
rifunzionalizzato in chiave identita- Tale funzione è ancor più evidente se universo che presenta, agli occhi dei
ria per l’ostentazione di tratti cultu- si considera che il cibo esprime la contemporanei, sufficienti garanzie
rali in parte tramandati. Così, ad caratterizzazione alimentare di un di “autenticità” per trarne una tradi-
Orgosolo rientra nel programma determinato gruppo o comunità, for- zione e stabilirlo come referente»
della manifestazione la lavorazione mandone quindi l’identità e, allo (Lenclud in Clemente, Mugnaini,
della seta in tutti i suoi processi, tra- stesso tempo, separandola dall’alteri- 2002, p. 132).
mas de seda (trame di seta); a tà. In questo senso, a cortes apertas, i Proporre e ostentare le identità a
Mamoiada si presenterà il lavaggio prodotti enogastronomici svolgono cortes apertas significa rifarsi ad una
del corredo, sa vohada, secondo i un ruolo fondamentale nella distin- tradizione giunta dal passato, spesso
procedimenti tradizionali eseguiti zione dell’identità comunitaria, evi- ritenuta pura, ma per contro innova-
con la cenere; a Nuoro verrà realizza- denziandone le appartenenze. I pro- ta, contaminata, sincretica, ecc, per
to su filindeu; a Desulo verrà mostra- dotti alimentari, nel circuito di essere innalzata a identità. Tale mec-
ta la lavorazione della cera e la rea- Autunno in Barbagia, azionano nei canismo evidenzia una contraddizio-
lizzazione di candele. Più in generale, visitatori la ricerca del genuino, del ne, rilevata da Pietro Clemente,
le donne, generalmente vestite con tipico, che si riscontra negli alimenti secondo cui, «l’aspetto più parados-

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sale delle rivendicazioni di identità è che vengono pro-


dotte dai cambiamenti ma si producono come rappresen-
tazioni che negano il cambiamento» (Clemente in
AA.VV., 2007, p. 217).
I prodotti artigianali, quelli enogastronomici e, più in
generale, i prodotti esposti nell’ambito di cortes apertas
sono manipolati e strumentalizzati al fine di attrarre i
turisti, ed è propriamente il processo di turisticizzazione,
creando globalizzazione, a rinegoziare i modelli identita-
ri. In pratica, tutto ciò che viene esposto in occasione di
Autunno in Barbagia può essere interiorizzato da coloro
che partecipano alla manifestazione. Questo processo
globalizzante, tramite importazioni ed esportazioni cul-
turali, apporta delle diversità che sono inevitabilmente in
cambiamento. Si tratta di un processo che conduce ogni-
qualvolta alla ridefinizione, riscrittura e affermazione di
nuovi codici culturali e quindi a nuove tradizioni e identità.

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