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TEORIA DELL’IMPERSONALITA’: lo scopo dell’autore è quello di mettere il lettore “a faccia

a faccia col fatto nudo e schietto” senza che si abbia l’impressione di vederlo attraverso il filtro
dell’autore. Bisogna quindi fare in modo che i fatti sembrino parlare da soli.
Per fare questo Verga teorizza l’ECLISSE DELL’AUTORE: l’autore, con il suo linguaggio, con
la sua ideologia, con le sue riflessioni, deve scomparire dalla narrazione (eclissarsi). L’autore dovrà
allora “mimetizzarsi” nei suoi personaggi, “vedere coi loro occhi, parlare con le loro parole”. Il
lettore non deve avere l’impressione di assistere alla narrazione di un fatto fatta dall’autore; dovrà
avere la sensazione invece di assistere direttamente allo svolgersi del fatto, di esserne immerso (c’è
quindi una certa teatralità nella narrativa di Verga).

L’eclisse dell’autore, teorizzata e applicata da Verga a partire da Rosso Malpelo è l’esatto contrario
del tradizionale narratore onnisciente (tipico della narrativa di primo Ottocento, in Manzoni, per
esempio): in questo secondo caso il narratore è portatore degli stessi principi morali, valori, livello
culturale e linguaggio che appartengono all’autore.
In Verga la il punto di vista dell’autore non si avverte mai direttamente, perché la voce narrante è
sempre all’interno della sfera di appartenenza dei personaggi, parla con le loro voci, esprime i loro
pensieri. E’ come se il narratore fosse uno di loro, o meglio, è come se, di volta in volta, la
narrazione venga condotta da più personaggi interni al racconto, in un susseguirsi polifonico di
voci. Si parla in questo caso di ARTIFICIO DELLA REGRESSIONE – il narratore regredisce al
livello del mondo rappresentato, se ne fa portavoce.
Così in Rosso Malpelo sembra che a condurre il racconto non sia uno scrittore colto, ma uno dei
minatori della cava, nei Malavoglia, in cui è molto ampio l’uso del discorso diretto, la voce narrante
sembra passare di volta in volta a rappresentare uno o l’altro degli abitanti del villaggio di Aci
Trezza.
Spesso la voce narrante commenta gli avvenimenti, ma non lo fa in base alla visione dell’autore, ma
rispecchiando la mentalità, spesso rozza e primitiva, della comunità popolare.
Ecco che ne esce un linguaggio nudo e povero, costellato da proverbi, modi di dire, termini tecnici
inerenti i mestieri popolari, imprecazioni e caratterizzato da una sintassi semplice e spesso scorretta.
Si tratta di un tentativo di mimesi del linguaggio popolare, già visto, parzialmente nell’Assomoir di
Zolà.
Si tratta ovviamente di una reinterpretazione: la lingua parlata dai personaggi popolari delle
narrazioni verghiane dovrebbe essere il dialetto catanese, ma Verga si rivolge a un pubblico colto e
nazionale che non sarebbe certamente in grado (né sarebbe interessato) di comprendere tale
linguaggio. Le rare volte che Verga utilizza un termine dialettale lo isola attraverso il corsivo e ne
spiega il significato in nota.

IDEOLOGIA : Verga spiega che impersonalità, eclisse dell’autore e regressione sono strumenti
necessari per permettergli di esprimere al meglio la sua ideologia: “chi osserva lo spettacolo della
lotta per l’esistenza non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori dal
campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti”.
Lo scrittore, quindi, si mette in disparte e osserva, come uno scienziato, lo svolgersi del
meccanismo dell’esistenza.
Se al centro dell’opera di Zola c’erano i due principi dell’ eredità biologica e del condizionamento
ambientale a determinare il comportamento umano, per Verga al centro dell’agire umano sta la
lotta per l’esistenza, concetto tratto dalla teoria darwiniana dell’evoluzione.
A differenza di Zola, ottimista nei confronti del progresso, capace a suo avviso di portare alla
graduale risoluzione dei più gravi problemi sociali, l’ideologia verghiana è permeata da un radicale
pessimismo. L’agire umano, ad ogni livello della scala sociale, è caratterizzato, così come per ogni
aspetto della Natura, da una spietata lotta per l’esistenza, basata sulla legge crudele del più forte che
annienta il più debole. Per i più deboli, umiliati e schiacciati dal peso di questa triste realtà, la morte
è di gran lunga la prospettiva migliore (vedi Rosso Malpelo e Fantasticheria).
Proprio questo fatalismo è la differenza fondamentale tra Zola e Verga: se lo scrittore francese è
convinto dell’utilità sociale del ruolo dello scrittore, capace di mettere in luce le storture della
società per fornirne indicazioni a politici e operatori sociali e stimolarne l’intervento, per Verga non
c’è possibilità di redenzione. Lo scrittore non può fare nulla se non sforzarsi di conoscere e
mostrare il meccanismo della vita sociale nella maniera il più possibile aderente al vero: dovrà
quindi far parlare direttamente personaggi e ambienti, metterli di fronte agli occhi del lettore e
lasciare a lui il giudizio.

IL CICLO DEI VINTI


Come Zola, con il Ciclo dei Rougon-Macquart anche Verga concepisce un ciclo di romanzi, il
Ciclo dei Vinti nel quale si propone di analizzare il meccanismo della lotta per l’esistenza a partire
dalle basse sfere della società (l’ambiente popolare di un villaggio di pescatori ne I Malavoglia) per
risalire fino agli ambienti dell’alta società, della politica, dell’ambiente artistico-intellettuale.
In ognuno di questi romanzi (ne saranno completati solo due: I Malavoglia e Mastro don
Gesualdo) lo scopo di Verga è quello di focalizzare l’attenzione sui vinti, gli sconfitti del fatale
meccanismo della lotta per l’esistenza, in cui i deboli sono destinati ad essere sopraffatti.
In nome dell’artificio della regressione anche il linguaggio e il sistema di valori espresso attraverso
i personaggi (impersonalità) deve modificarsi per adattarsi all’ambiente di volta in volta
rappresentato

I MALAVOGLIA.
Primo romanzo del Ciclo. Pubblicato nel 1881.
La vicenda è ambientata nel piccolo villaggio di Aci Trezza, presso Catania.
Protagonisti sono i membri della famiglia Toscano, conosciuti nel villaggio con il soprannome di
Malavoglia: padron ‘Ntoni, il figlio Bastianazzo e sua moglie Maruzza, i figli di questi ‘Ntoni,
Mena, Luca, Alessi e Lia.
L’azione si svolge a partire dall’anno 1863, quando l’Unità d’Italia si è appena realizzata e si
conclude nel 1878.

L’irruzione delle novità prodotte dal mutato scenario politico e dal progresso (rappresentato, per
esempio, nel brano letto, dal telegrafo) nel mondo immobile e arcaico del villaggio e, più in
particolare della famiglia Malavoglia, producono una rottura dell’equilibrio che dà origine ad una
crisi, la quale è il tema del romanzo.
L’Unità italiana si presenta, nella realtà del villaggio, sotto un duplice aspetto negativo:
- l’obbligo di leva (inesistente sotto la monarchia borbonica) che priva le famiglie del
contributo lavorativo dei maschi giovani, impoverendole.
- Le tasse (rileggendo alcuni dialoghi del brano affrontato in classe: Li dovrebbero abbruciare
tutti quelli delle tasse – brontolava comare Zuppidda; donna Rosolina se la prendeva con
Garibaldi che metteva le tasse, e al giorno d’oggi non si poteva più vivere.

Tutto ciò si traduce in una ostilità di sottofondo che aleggia nel villaggio nei confronti del nuovo
Stato unitario (Va a finire brutta, va a finire, con questi italiani! esclama mastro Turi Zuppiddu).

Per quanto riguarda la famiglia Malavoglia, la chiamata di leva allontanerà prima il maggiore dei
nipoti di padron ‘Ntoni (l’omonimo ‘Ntoni), successivamente porterà via Luca che morirà nella
sfortunata battaglia navale di Lissa (durante la terza guerra d’Indipendenza – 1866).
L’allontanamento dei figli maschi rappresenta un problema economico per la famiglia, costretta,
prima, ad assumere un lavorante, poi ad acquistare dall’usuraio zio Crocifisso un carico di lupini
(tra l’altro avariati) che sarà origine di una serie di disgrazie: la barca di famiglia, la Provvidenza, su
cui Bastianazzo portava il carico verso il mercato cittadino naufraga in una notte di tempesta e
l’uomo muore. La famiglia, privata del suo sostegno principale, è per di più obbligata a risarcire il
debito contratto con lo zio Crocifisso. L’impossibilità di saldare tale debito (tra l’altro la
Provvidenza, rattoppata alla meno peggio, farà un secondo naufragio, questa volta senza vittime)
porterà la famiglia a perdere la casa (la casa del nespolo, centro simbolico del romanzo).

Qui, in un certo senso, emerge l’ideologia conservatrice di Verga: le disgrazie della famiglia sono
una sorta di “punizione” per il “peccato” commesso per aver cercato di cambiare la propria
condizione, facendosi, da pescatori, mercanti, di aver rinunciato a quella fatalistica accettazione di
una vita di semplice e povera, ma in fondo serena, per tentare la fortuna (anche se, come detto
prima, tale scelta è stata in un certo senso obbligata, considerati i fattori esterni – la leva dei maschi
– che erano andati a turbare l’equilibrio della famiglia).

In questo senso all’interno della famiglia esistono due poli opposti rappresentati dai personaggi
omonimi: padron ‘Ntoni e il giovane nipote ‘Ntoni. Quest’ultimo, proprio a causa della leva si è
allontanato dal villaggio, ha visto il “mondo”, la grande città (Napoli) dal cui fascino è stato
irrimediabilmente stregato; la piccola realtà del villaggio non gli basta più, entra in conflitto con il
nonno, desidera andarsene per cercare fortuna e uscire dalla vita di fatiche e miserie che invece il
nonno accetta con rassegnate serenità e dignità, come un destino immutabile a cui la famiglia è
legata come si trattasse di una legge di natura.
Il giovane ‘Ntoni sarà quindi un elemento perturbante all’interno della famiglia e dello stesso
villaggio di cui non accetta l’immobilismo. Per ben tre volte ‘Ntoni si allontana dal villaggio,
violando quell’ideale dell’ostrica di cui si parla già in Fantasticheria. Il suo allontanamento iniziale
apre il romanzo, che si chiude con il suo allontanamento definitivo avvenuto quando il più giovane
dei nipoti di padron ‘Ntoni, Alessi, riesce a ricomprare la casa del nespolo, ricomponendo
parzialmente l’equilibrio del nucleo familiare (pur gravemente mutilato dalle morti e dagli
allontanamenti dei singoli membri).

Nel sistema dei personaggi il critico Romano Luperini individua due poli:
- la famiglia Malavoglia
- il villaggio

Nei primi individua i portatori di valori etici disinteressati (la “religione della famiglia”, il mantener
fede alla parola data, l’etica del lavoro e del sacrificio, l’onestà, la serena accettazione del
destino…) – il secondo polo è invece portatore di una logica che sottomette tali valori alla cinica
logica economica – emblematico è il personaggio dell’usuraio zio Crocifisso.
In realtà non tutto è così rigidamente simmetrico: se nella comunità del villaggio esistono
personaggi non inclini ad accettare la logica generale, anche all’interno della famiglia esistono
tensioni più o meno latenti: Mena non può sposare l’amato, ma povero compare Alfio Mosca, in
quanto promessa dal nonno al ricco e sciocco Brasi Cipolla, in virtù di un accordo preso dai due
capifamiglia, che viene meno quando per i Malavoglia cominciano le disgrazie economiche.
E poi, ovviamente c’è ‘Ntoni, che, per il suo spirito di ribellione e indipendenza, non è riducibile né
all’uno né all’altro dei due poli.

Come già visto, in Verga il punto di vista del narratore non è unico, ma plurale e interno al sistema
dei personaggi: significa che la voce narrante assume di volta in volta il punto di vista di questo o
quel personaggio. Così avviene anche ne I Malavoglia dove, spesso, è lasciato anche largo spazio a
un discorso diretto che non ha tanto lo scopo di portare avanti la storia, ma di riprodurre il confuso
chiacchiericcio dei paesani, attraverso il quale ne emergono la mentalità e i punti di vista.

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