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Walter Mioego è uno pseudonimo multifunzione e altrimenti non

Walter Mioego

Walter Mioego
potrebbe essere per un pamphlet di questo tipo, il cui scopo è indossare
la maschera per parlare di maschere... e forse offrire al lettore qualche
(scomoda) verità - o se non questo, almeno qualche spunto di riflessio-
ne. D’altra parte Walter in molti momenti è più un collettore di voci
e verità altrui, inanellate in favore di una narrazione che però è opera Da Steve Jobs a Steve Workers
sua. D’altra parte già Oscar Wilde lo affermò: «Ogni uomo mente, ma
dategli una maschera e vi dirà la verità». Maschere sociali e diritti civili

Da Steve Jobs a Steve Workers


Lo spunto per questo breve libello arriva dalla sinossi di un
recente libro di «filosofia»: Anima e iPad di Maurizio Ferra-
ris, pubblicato per i tipi di Guanda.
Ma che c’entra l’anima con l’iPad? La sinossi che parte con
questa domanda offre una risposta che non mi ha convinto,
e anzi: mentre il professore si guarda l’ombelico allo spec-
chio del suo iPad spento, il pretesto è quello di accennare
invece ai diritti civili e alle maschere sociali, per quel felice
connubio secondo il quale la rivendicazione dei primi ha
portato a indossare le seconde.

978-88-97556-01-5

Euro 10
biblioteca resistente
Walter Mioego

DA STEVE JOBS A STEVE WORKERS


Maschere sociali e diritti civili

Collana biblioteca resistente


ISBN: 978.88.97556.01.5

Il progetto e la realizzazione grafica della copertina sono dell’autore.

Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche,


cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi,
inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi dirit-
to non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni
o errori di attribuzione nei riferimenti.

© Lu::Ce edizioni, 2011


Vicolo del Golfo 10, I-54100 Massa

Licenza Creative Commons by-nc-sa


Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 2.5 Italia

www.luce-edizioni.it

Finito di stampare nel mese di agosto 2012


da «Impronta Digitale» Massa
per conto di «Lu::Ce edizioni»
Walter Mioego

Da Steve Jobs a Steve Workers


Maschere sociali e diritti civili
Nota tipografico-editoriale
Questo libro, pur scritto da un solo autore, è debitore, per la sua esi-
stenza, di molti stimoli di riflessione legati alla lettura di altri autori
con i quali si avverte una consonanza di pensieri e opinioni. In questo
senso sembra essere in realtà un lavoro a più mani (e forse di fatto lo
è). Per «dare a Cesare quel che di Cesare è» e nel contempo non appe-
santire eccessivamente la notazione legata alla citazione (quella classica
- per altro comunque adottata in molti casi anche qui - con le virgolette
o, per brani più lunghi, con il riportare integralmente il brano in ca-
rattere più piccolo e margini più ampi) si è preferito riportare tutte le
parti - anche molto lunghe poiché elementi di un discorso omogeneo
- indicando la parte di citazione stessa, non con carattere diverso dal
«corpo testo» impostato, ma sfumando il colore del carattere stesso da
nero a grigio.
Quindi le parti che hanno un carattere più chiaro non sono un errore
da attribuire allo stampatore, ma una precisa scelta editoriale.
Da Steve Jobs a Steve Workers 5

0. Premessa (informatica): l’iPad dell’anima o, se preferite,


l’anima dell’iPad

Muore Steve Jobs. Acclamato genio «visionario» della tecnologia.


Era malato da tempo e tutti i soldi e la fama del mondo non servono
a salvarti dalla morte. I riflettori si spengono non senza polemiche –
che per altro c’erano anche quando Mr. Apple era in vita.
Macintosh, per gli amici Mac, è un sistema operativo chiuso
almeno quanto il Billy Gates Windows. Solo che avendo Win-
dows una diffusione maggiore, maggiore è sempre stata – sto-
ricamente – la possibilità di lavorare sul sistema, di recuperare
software più o meno gratuito. Certo: siamo lontani da una filo-
sofia open source, ma di fatto è stato, per lungo tempo, come se
lo fosse. Mac aveva il problema del mercato di nicchia: reperire
e recuperare software che non fosse a pagamento era (ed è) più
problematico. Il signor Mac però ha il merito di aver inventato
l’idea della frantumazione del mercato: vuoi una canzone e non
tutto il cd? Bene ti vendo solo quella; vuoi una sola applicazione
(qualcosa meno che un intero pacchetto software) «senza impe-
gno», più o meno seria, funzionale o scema? Bene te la vendo a
pochi euro sull’Apple store1. La filosofia Mac ha avuto successo
anche grazie (e forse soprattutto) per il fatto di aver creato siste-
mi operativi sempre più efficienti, sempre meno trasparenti per
l’utente – cosa succede dentro a un Mac nessuno lo sa, e anche
per capire se banalmente il sistema operativo ha smesso di funzio-

1
Il negozio online di Apple.
6 Walter Mioego

nare non c’è nessuna spia che dice qualcosa, mentre su macchine
Windows una rassicurante (?!?) spia di accessi all’hard disk rende
un minimo più trasparente la dinamica di utilizzo.
Insomma: sistemi sempre più smart (come lo è l’ormai cele-
berrimo iPhone), più facili da usare, più accattivanti, più – forse
anche, perché no? – vicini ai gusti delle persone, graficamente
più gradevoli, con più effetti speciali. Da qui il grande successo e
quella che potremmo in qualche modo definire senz’altro anche
una (costosa) moda. È di moda avere l’iPhone e si sa, le mode
sono quanto di più irrazionale vi sia, visto che attraverso questi
oggettini si fa selezione anche sulla fascia di prezzo e di merca-
to: iPhone e iPad hanno prezzi ingiustificati per l’elettronica che
hanno a bordo, ma quando si comprano oggetti di questo tipo
– lo sa bene chi si occupa di marketing e di strategie decisionali
(lato consumatore) – si compra un marchio – un brand, direbbe-
ro gli esperti di marketing – la garanzia di un prodotto, un’idea.
E, soprattutto, si entra a far parte di una comunità. I marchi sono
importanti perché sono di fatto (segni) distintivi.
Lo spirito gregario, funzionale durante l’adolescenza, rimane e
permane come residuo nell’età adulta: si ha interesse che perman-
ga anche se la sua funzione cambia per essere asservita a quel che
il mercato decide per noi.
Mentre tutto questo accade, e mentre sarebbe il caso di scrivere
saggi che ribadiscono quanto malamente espresso nelle poche ri-
ghe che precedono (saggi che dovrebbero essere martellanti e per-
suasivi almeno quanto le pubblicità che abbiamo sotto gli occhi
tutti i giorni…), c’è chi – evidentemente non avendo di meglio
da fare – scrive saggi sull’iPad e niente popò di meno che l’ani-
ma. Sì, avete letto bene, l’anima, quell’impalpabile e indefinibile
sostanza psichica che ci rende unici, che fa di noi ciò che siamo
al di là della nostra corporeità. L’anima di cui scrive Aristotele, di
cui scrivono tutti i grandi e grandissimi del pensiero occidentale
e non solo. Di cui scrivono filosofi, teologi, religiosi.
Da Steve Jobs a Steve Workers 7

Sono sensibile all’argomento perché ho una formazione filo-


sofica. I filosofi, se mai sono stati di moda, lo sono passati alla
svelta, surclassati da chi si occupa di altre amene discipline come
sociologia, psicologia, comunicazione2. Allora forse, proprio per
cercare di rimanere di moda, si applica la Filosofia (ah! Povera Fi-
losofia!) all’iPad e un docente universitario, tal Maurizio Ferraris,
molto di moda (visto che tiene anche una rubrica su una rivista
di tecnologia glamour come Wired…), oltre a inventarsi un La-
boratorio di Ontologia, dà comunicazione alla mailing list SIFA
(Società Italiana di Filosofia Analitica) di aver scritto per Guanda
(ma l’editore, se adeguatamente pagato, può tranquillamente so-
prassedere sui contenuti…) proprio un libro di questo tipo, il cui
titolo è: Anima e iPad. La sinossi nel corpo della mail recita:

Che cosa c’entra l’anima con l’iPad? In apparenza, niente. La prima è


quella fitta di rimorso che ci avvisa che siamo vivi e coscienti, il secon-
do è l’assoluto tecnologico del momento. Tuttavia, questa strana cop-
pia ha una affinità profonda, perché la tecnica non è aberrazione, ma
rivelazione e, come in un corteo, porta alla ribalta una moltitudine di
cose antichissime. Quali? Anzitutto la scrittura. Tanto l’anima quanto
l’iPad hanno memoria da vendere e sono dei blocchi su cui si legge,
si scrive e si archivia. Sì, perché non solo il «pad» di iPad ci ricorda il
blocco di carta gialla e rigata reso familiare dai legal thriller, ma la più
antica immagine dell’anima, da Platone a Freud, è stata quella della
tavoletta di cera, gialla anche lei, la tabula su cui si scrive e si cancella.
Questa scrittura, dentro e fuori della mente, è l’origine della coscienza
e del mondo sociale.
Perché la scrittura è insieme la base della realtà sociale e la base della
nostra coscienza e del nostro pensiero, il cui spettro peggiore è proprio
l’Alzheimer, la perdita della memoria vissuta come perdita del pensie-
ro. Ecco perché la grande svolta tecnologica che ha caratterizzato gli
ultimi trent’anni ha riguardato proprio la scrittura, e il suo emblema è
oggi l’iPad. Anima e iPad sono dunque gemelli. E l’iPad, che quando è

2
Scrivo comunicazione poiché dando un’occhiata, per esempio, a una serie di con-
corsi pubblici banditi da un ente pubblico di ricerca, in moltissimi era ammessa, per
esempio, l’ossimorica laurea in Scienza della Comunicazione (devo spiegare perché os-
simorica? È semplice: perché la comunicazione NON è una scienza…). Molto più am-
messa nei bandi di concorso di quanto statisticamente non lo sia quella in Filosofia.
8 Walter Mioego

spento, con il suo schermo lucido, può servire come specchio per pet-
tinarsi o rifarsi il trucco, quando è acceso, con la sua memoria attivata,
diviene letteralmente lo specchio dell’anima.

Ho letto queste righe più e più volte e non riesco a giudicare


le affermazioni qui espresse meno che imbarazzanti. D’accordo: i
tempi cambiano, non ci sono
più i filosofi di una volta, stu-
diare è una roba troppo seria
e dura, ma tutto ha un limite,
anche se questo limite sem-
bra essere stato vanificato da
un po’. Non capisco. O que-
sto libro di cui si parla è una
gigantesca marchetta (ma, mi
chiedo, qual è l’interesse di un
docente universitario in forza
presso un rispettabile ateneo
come quello torinese, a fare
una marchetta?) o si è letteral-
mente persa la testa e si fanno
accostamenti che definire im-
propri suona ancora gentile.
Da qui il pretesto per (ten-
tare di) scrivere qualche rifles-
sione su aspetti vagamente più seri e meno «marginali» di quelli
tirati in ballo dal prof. Maurizio Ferraris. Riflessioni che arrivano
come spunto dritto dritto dal web, in contemporanea all’annun-
cio della morte di Mr Apple che, faustianamente, pare aver preso
l’anima a Maurizio Ferraris.

1. Massificazioni positive e negative: destra, sinistra e «la


qualunque»

Molto, moltissimo è stato scritto sulla massificazione. Credo


si possa immaginare di tracciare fors’anche una letteratura della
Da Steve Jobs a Steve Workers 9

massificazione. Per i nostri scopi salteremo a piè pari ciò che emi-
nenti osservatori e teorici hanno detto in proposito, rilevando
– come lo si è fatto brevemente nella premessa – diverse forme
di massificazione. Quelle di tipo negativo, che ha come sinonimi
l’omologazione che sta dietro a un marchio (lo smartphone della
tal marca) o a una categoria (tutte le persone che possiedono uno
smartphone).
A queste forme di massificazione aggiungerei quelle passate:
adesso le idee – per quanto preconfezionate – sono quasi del tutto
passate di moda, ma una volta, diciamo fino almeno a una ven-
tina d’anni fa, era di moda anche avere un certo tipo di idee. «Di
sinistra»: nelle varie sfumature e gradazioni che partono da quelle
marchiate con l’intransigente e ortodosso rosso del fuoco bolsce-
vico fino a degradare verso quelle un po’ più pallide e moderate
di Ulivi, Margherite e via a scendere per ulteriori (o similari –
non è lo scopo di questo scritto fare gerarchie) annacquamenti
fino a quel PD che occhieggia la galassia centrale talvolta – ma
è opinione personale – un po’ troppo onnicomprensiva. Oppure
«di destra», dal moderato grigio che sfugge centrifugo dal centro
appena descritto, fino ad arrivare al talebano nostalgico che, fosse
per lui, si dovrebbe tornare alle purghe e all’olio di ricino dei mis-
sini fascisti. Forse queste ultime, quelle «di destra» essendo un po’
più impopolari e meno democratiche sono state meno di moda e
meno evidenti, ma il nostro paese, l’Italia, per quanto ci si voglia
illudere del contrario, è sempre stato fascista.
A me, da bambino, hanno fatto imparare a scrivere con la
destra perché ero mancino. Ma la sinistra per mia nonna era «la
mano del demonio» (parlo del 1970, non del 1670…) e quin-
di ho fatto di necessità virtù: con la destra ho un’ottima grafia,
ma ho scoperto in adolescenza che tutto il resto continuo a farlo
con la sinistra: mandare sms (se e quando sono costretto a farlo
con una mano sola), eseguire lavori di una certa precisione come
piantare chiodi al muro (senza storcerli) e farmi la barba. All’Ita-
lia mi pare sia successa la stessa cosa: dopo l’8 settembre 1943 una
minoranza ha continuato a seguire Mussolini nella sua folle corsa
verso lo sfacelo finale, molti sono rimasti in attesa e in quell’attesa
10 Walter Mioego

semplicemente – come nella migliore delle italiche tradizioni – si


sono orientati col vento a favore, indipendentemente da dove il
vento tirasse. Molti, visto
che il vento tirava dal lato
degli Alleati e dei Resistenti,
sono diventati partigiani ed
hanno imparato a usare in
men che non si dica l’altra
mano – o se la mano è rima-
sta la stessa non si tendeva
più a braccio teso nel saluto
romano. Ma esattamente
come a me è rimasta incon-
scia la tendenza a fare con la
sinistra cose che non siano
la scrittura, all’Italia è rima-
sta inconscia (?) la tendenza
a fare con la destra cose che
non siano il «politicamente
corretto». Proprio in tempi
recenti mi è capitata, per
esempio, sotto gli occhi la
notizia qui di lato.
A voi i commenti. Ma
alla fine non è di questo
che voglio scrivere, se non
per ricalcare quel che disse
in uno spettacolo Corrado
Guzzanti nelle vesti di Don
Pizzarro, prete ipercinico
che, di fronte alle doman-
de un po’ «ingenue» di Se-
rena Dandini in relazione L’articolo del Corriere della Sera
al Berlusconi che si schiera del 30 novembre 2011
nell’arco parlamentare di qua o di là dal centro, le risponde se-
condo un costruttivo «qualunquismo» rivelatore:
Da Steve Jobs a Steve Workers 11

Ma amica mia l’ordine già esiste ed è quello che abbiamo stabilito negli
anni ’50: da una parte ci sono i comunisti e dall’altra parte ci sono gli
anticomunisti. È così che si gioca: tu scegli e fai il comunista, tu scegli
e fai l’anticomunista. È come una partita a scacchi: io faccio il bianco
e te fai il nero… è talmente semplice! Le masse hanno bisogno di un
nemico… tu devi scegliere: se cominciamo a passare da una parte all’al-
tra la gente non ce capisce più niente3. I comunisti da una parte e gli
anticomunisti dall’altra: è semplicissimo.4

Di fronte a quella che sembra essere una eccessiva semplifica-


zione e apparentemente, appunto, una forma di qualunquismo
politico, Serena Dandini si mostra scontenta della risposta, che
le pare in qualche modo evasiva. Insomma c’è in fondo l’idea che
dietro alle parole «destra» e «sinistra» ci possano ancora essere dei
valori… Don Pizzarro però sorride e prosegue:
3
Per altro, incidentalmente, frase mai così vera come in questa temperie politica:
molte persone – a causa di un trasformismo connaturato all’italico vezzo di far politica
(e non solo) – che erano di qua, stanno di là e come afferma sibillinamente una cara
amica: «prima era sì e mo’ è no». Non c’è spiegazione, non c’è senso «pubblico», non c’è
la spiegazione condivisa per una scelta; l’unico senso e significato è il «privato» torna-
conto personale. Anche qui, la Storia è densa di casi non chiari: il primo che mi viene in
mente è quello dell’intellettuale e giornalista Curzio Malaparte: pur non conoscendone
la biografia in dettaglio, attingendo da quel che su web si trova – con specifico riferi-
mento alla solita Wikipedia – si evince, in sintesi: parte volontario per la prima guerra
mondiale; rientra con un libro (si suppone sacrosantamente polemico) su Caporetto,
quindi aderisce al fascismo ma ne prende le distanze e viene messo al confino, ma viene
rimesso in libertà perché amico di Galeazzo Ciano; è giornalista, diventa direttore del
quotidiano «la Stampa» di Torino prima e inviato, dopo, durante la seconda guerra
mondiale, del Corriere della Sera mentre è anche capitano degli alpini (quindi, vien
da pensare, schierato comunque con quell’esercito italiano che ancora è fascista). Non
si capisce bene cosa abbia fatto durante la seconda guerra mondiale, negli anni dal
1940 al 1943, ma verso l’8 settembre viene prima arrestato, ma poi subito dopo rila-
sciato. Non si capisce se abbia fatto o meno la Resistenza e dedica il suo romanzo forse
più famoso, La pelle, ai soldati americani morti per liberare l’Europa. Diviene inviato
per l’Unità (più a sinistra di così, se l’arco parlamentare fosse un cerchio, si arriva a
destra…), ma il PCI gli nega per molti anni l’iscrizione. La parola che più colpisce
leggendo le paginette della biografia che lo riguardano su Wikipedia è: camaleontismo
che, nella mia personale tassonomia, è il superlativo assoluto del trasformismo che, al
grado zero, si chiama qualunquismo!
4
Lo sketch è ancora rintracciabile su Youtube all’indirizzo: http://www.youtube.
com/watch?v=szCuDRMIdV0.
12 Walter Mioego

Ma come la destra e la sinistra… Ma in che senso scusa… Ma tu credi


veramente che esiste la destra e la sinistra? Ma non esiste la destra e la
sinistra! Sono cose che abbiamo inventato per la gente, per farla anda’
a votare. […] Ma certo perché se la gente sa che non esiste la destra,
non esiste la sinistra, esiste soltanto della gente che cerca di spartirsi un
potere un potere, non ci va a votare, no! Se gli diciamo questo, stanno
a casa col televisore a guardarsi la partita, non ci vanno a votare… È
come l’inferno e il paradiso mica esistono… son delle cose per far capi-
re alla gente… ma che pensi che veramente quando uno muore va da
una parte e c’è quello col forchettone e dall’altra ce stanno questi con
le ali… ma che so’, piccioni? Ma l’hai mai visti te? Io non l’ho mai visti
[…]. Pigliamo un esempio: Berlusconi no… ma che glie frega della
destra e della sinistra: c’ha i miliardi che gli escono dalle orecchie, c’ha
la barca, c’ha la nave, c’ha l’aereo, c’ha l’elicottero. A casa c’ha un pezzo
de… cioè voglio dire… Evidentemente cerca soltanto di prendersi un
po’ di potere…

Serena Dandini quasi scandalizzata porta a conseguenze appa-


rentemente paradossali il ragionamento e afferma: «Secondo lei
Berlusconi poteva pure fare il leader della sinistra…». Di fronte
all’affermazione per nulla scandalizzata del Don, chiede: «E allora
perché ha scelto di fare il leader della destra?»

Perché in quel momento si è liberato un buco sulla destra! Ma scusa


perché dopo che è caduto Craxi, che è caduta la Democrazia Cristiana
da quella parte c’era un buco, dall’altra parte a sinistra era affollatissi-
ma, te devi mettere in fila, ce stanno: i verdi, i comunisti, i post comu-
nisti, i diessini, i post diessini, i maroni, gli arancioni. L’altra era vuota
e si è piazzato là… Mi pare anche giusto, mi sembra anche logico…

Vale a dire: al di là dell’opportunismo più o meno manifesto5,


il problema vero è la spartizione di un potere e destra e sinistra
sono elementi di comodo che «servono alla gente per farla andare
a votare», per farla identificare in «qualcosa». Questo «qualcosa»
cos’è? Sono idee? Forse una volta e ad oggi qualche dubbio viene,
visto che, come abbiamo detto, queste sembrano essere passate di

5
Per opportunismo qui voglio intendere anche tutti quegli atteggiamenti legati alla
non azione, all’attendismo, al non contrasto politico, voluti e scelti anche da tanta par-
Da Steve Jobs a Steve Workers 13

moda. Sono i «valori» che stanno dietro alle idee e che quando
vengono citati dalla conduttrice Dandini non a caso fanno fare
un salto sulla sedia a Don Pizzarro? Anche di quelli sembra esser-
sene persa traccia.
Ma, per rimanere in tema su «destra» e «sinistra», vorrei citare
integralmente un intervento nella newsletter «Giap!», postato il
primo gennaio di questo 2012, di Wu Ming 16. L’approfondi-
mento risulta interessante per almeno un motivo: riporta un case
study concreto, quello del cosiddetto «grillismo» e la sua epifania
per quel che concerne il «Movimento 5 stelle».

1.1 WM1: Appunti diseguali sulla frase «Né destra, né sinistra»7

Ho preso questi appunti nel corso del tumultuoso, convul-


so 2011, anno di insurrezioni, detronizzazioni, disvelamenti e
nuove confusioni. Per la precisione, sono note scritte nel periodo
aprile-settembre 2011.
Alla bruta materia di queste frasi annotate live, nel pieno degli
eventi, non ho saputo imporre alcuna struttura solida e coerente.
La numerazione di paragrafi e capoversi è il residuo di un tentati-
vo in tal senso, sostanzialmente fallito.

1.1.1 Chi dichiara cosa?

1.1.1.a. Negli ultimi tempi si sente sempre più spesso la frase:


«Non siamo di destra né di sinistra». Talvolta, l’ordine dei fattori
è invertito: «Non siamo di sinistra né di destra».
Non è certo una frase nuova, l’abbiamo udita tante volte. Ep-
pure, tendendo l’orecchio, possiamo registrare una prima, piccola
novità: il soggetto plurale ricorre più spesso di quello singolare.
te dell’arco parlamentare non di maggioranza e quindi connivente con la maggioranza
al governo, in relazione alle sorti del Paese. Insomma: la solita opposizione che poco si
oppone, nel concrto, per interessi personali.
6
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=6524.
7
Il paragrafo è una versione leggermente diversa, dell’articolo di WM1 apparso sull’ul-
timo numero di Nuova Rivista Letteraria con il titolo «Il senso della non-appartenenza».
14 Walter Mioego

Il noi sta scalzando l’io. Fino a qualche anno fa, questa “dichiara-
zione di non-appartenenza” era il più delle volte a titolo persona-
le. Oggi, invece, è sempre più sovente l’enunciazione di soggetti
collettivi.

1.1.1.b. Se continuiamo ad ascoltare e intanto ci guardiamo


intorno, possiamo comprendere il perché della coniugazione plu-
rale: se ieri, nella stragrande maggioranza dei casi, la frase era
espressione di qualunquismo destrorso (ovvero, chi premetteva di
«non essere di destra né di sinistra», novanta volte su cento era in
procinto di attaccare politiche o personaggi di sinistra), di recente
la questione si è ingarbugliata: in giro per l’Europa, nuovi movi-
menti, anche molto diversi tra loro, si fanno un punto d’onore
di dichiararsi non-appartenenti ad alcuno dei due campi politici.
Si va dal nostrano Movimento 5 Stelle, si passa per i «Partiti dei
Pirati» che hanno ottenuto buoni risultati elettorali in Germa-
nia e altri paesi, e si giunge ai cosiddetti «Indignati», movimento
transnazionale che ha i suoi miti delle origini nelle rivolte norda-
fricane e nelle mobilitazioni spagnole partite il 15 maggio 2011.

1.1.1.c. La mia convinzione è che, a seconda del soggetto che


la dice, del contesto in cui viene usata e delle pratiche a cui si
accompagna, il significato della frase di cui al punto 1.1.1.a. si
trasformi in maniera radicale.

1.1.2 Il paradosso di Quadruppani

1.1.2.a. Una volta ho sentito lo scrittore francese Serge Qua-


druppani dichiarare: «Ci sono due modi di non essere né di de-
stra né di sinistra: un modo di destra e uno di sinistra».
L’apparente paradosso spaziale – quasi da disegno di Escher
– può aiutarci a trovare l’orientamento nel territorio dei nuovi
movimenti. In parole povere: la frase «Non sono di destra né di
Da Steve Jobs a Steve Workers 15

sinistra» è un velo che possiamo e dobbiamo lacerare, per capire


quali tra i nuovi movimenti appartengano al composito phylum
(ma è una vera e propria treccia composta di tanti fili) che per
comodità o richiamo a una tradizione chiamiamo «Sinistra», e
quali invece al phylum che chiamiamo «Destra».

1.1.2.b. Per capirci: io credo che gli Indignados spagnoli siano


di sinistra. Si tratta di un movimento egualitario, anticapitalista,
non privo di interlocutori a sinistra e indubbiamente ostile a ogni
destra politica e sociale.
Di contro, il «grillismo» mi appare sempre più come un mo-
vimento di destra: diversivo, poujadista8, sovente forcaiolo, in-
differente a ogni tradizione (anche recente) culturale e di lotta,
noncurante di ogni provenienza politica.

1.1.2.c. Esistono discorsi e circostanze in cui il concetto di


“Sinistra” è messo in discussione «da sinistra», in quanto insuffi-
ciente, inadeguato, eccessivamente inscritto in una rappresenta-
zione parlamentare o para-parlamentare.
8
«Il poujadismo, dal nome di Pierre Poujade, è stato un movimento politico e
sindacale francese sviluppatosi nel 1953 nel dipartimento del Lot. Questo movimento
rivendicava la difesa dei commercianti e degli artigiani e criticava l’inefficacia della
politica parlamentare così com’era praticata durante la Quarta Repubblica. Il termine
poujadismo è utilizzato ora in maniera generica per qualificare negativamente certi tipi
di populismo, di corporativismo e di demagogia che non hanno evidenti rapporti con
il movimento nato con Pierre Poujade. Il movimento dell’UDCA (Unione per la difesa
dei commercianti e degli artigiani) nato a Saint-Céré nel Lot durante una rivolta anti-
fiscale, nel momento in cui il fisco applicò il tradizionale principio che il commerciante
in una società rurale nasconde una gran parte dei suoi introiti nel momento in cui
comincia a subire la forte concorrenza della grande distribuzione e dell’industrializza-
zione. Il movimento antifiscale s’estese in tutta la Francia nel giro di due anni, ottenne
52 deputati nelle elezioni del 1956 presentandosi al voto sotto il nome di “Unione e
fraternità francese” (UFF). L’unione era contraria al Trattato di Roma per la Comunità
Europea, chiedeva l’eliminazione dei controlli fiscali e la difesa dei piccoli commer-
cianti. Gli intellettuali venivano spesso denigrati contrapponendo loro il buon senso
dell’uomo della strada. Il raggruppamento politico UFF sosteneva anche il manteni-
mento dell’Algeria al governo francese». Fonte Wikipedia, alla voce «Poujadismo».
16 Walter Mioego

Il filosofo Alain Badiou, in una celebre conferenza sulla Co-


mune di Parigi9, ha proposto di chiamare “sinistra”: «l’insieme
del personale politico parlamentare che si dichiara il solo capace
di assumere le conseguenze generali di un movimento politico
popolare singolare. O, in un lessico più contemporaneo, il solo
capace di fornire un ‘esito politico’ ai ‘movimenti sociali’.»
In questo senso, secondo Badiou, la Comune di Parigi fu
una rottura con la sinistra, poiché «non rimise il proprio destino
nelle mani dei politici competenti» per poi, come sempre acca-
de, lamentarsi del loro «tradimento». Per Badiou «questa volta,
quest’unica volta, il tradimento fu invocato come uno stato di
cose al quale ci si doveva finalmente sottrarre, e non come una
conseguenza disgraziata di quanto si era scelto».

1.1.2.d. Il linguista cognitivista George Lakoff (esponente del-


la sinistra “liberal” statunitense) ha più volte criticato la rappre-
sentazione destra-sinistra, perché fa pensare che le persone siano
allineate l’una l’accanto all’altra su un piano bidimensionale, e
che si possa procedere con continuità da “quello più a destra” a
“quello più a sinistra”. Invece, dice Lakoff, la realtà è multilineare
e multidimensionale, il modo in cui si formano le nostre idee
è complesso ed esistono molte persone «biconcettuali», ovvero
progressiste su alcuni temi e conservatrici su altri.
La coppia antitetica progressista/conservatore mi suona ben
più problematica e insoddisfacente di destra/sinistra, ma non mi
interessa criticarla in questa sede. Quello di Lakoff è un discor-
so che in Italia possiamo capire senza sforzi: una grossa fetta di
«popolo cattolico» è composta da biconcettuali: «di sinistra» su
molte questioni sociali ed economiche, «di destra» in materia di
questioni di genere, sessualità, diritti civili.

9
Alain Badiou, La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica, Cro-
nopio, Napoli 2004.
Da Steve Jobs a Steve Workers 17

1.1.2.e. La rottura prodotta dagli Indignados nei confronti


della sinistra spagnola mi sembra sintetizzare – in modo preca-
rio, transitorio – queste due impostazioni: il 15 maggio 2011
si è trattato di sottrarsi al «tradimento come stato di cose», e al
tempo stesso di parlare al maggior numero di persone possibile,
di raggiungere le parti «progressiste» dei cervelli biconcettuali, e
di farlo non a colpi di mediazioni al ribasso, bensì scompigliando
l’antinomia: «Non siamo di destra né di sinistra: siamo los de
abajo», ovvero quelli di sotto, quelli che vengono dal basso.

1.1.3 «Storicizzare al massimo»

1.1.3.a. Il difetto del discorso di Lakoff è che non sembra es-


serci posto per la storia.
In questo, Lakoff è molto americano, il suo mondo è tutto
sincronico, schiacciato sull’adesso.
«Storicizzare sempre!», intimava Fredric Jameson, con tanto di
punto esclamativo, all’inizio del suo capolavoro L’inconscio politico
(1981). «Storicizzare al massimo, per lasciare meno spazio possibile
al trascendentale», disse Michel Foucault in un dibattito del 1972.
La sostanza del concetto di «Sinistra» può essere capita solo
con un approccio diacronico che ne ripercorra la genealogia e le
trasformazioni. «Sinistra» è qualcosa che discende i fili del tempo
in un certo modo, a partire dalla Rivoluzione francese, e si evolve
attraversando due secoli di lotte.

1.1.3.b. Io stesso penso che «Sinistra» non basti a descrivere


le mie posizioni, e trovo utile aggiungere precisazioni e qualifi-
cazioni. Io non sono semplicemente di sinistra: io mi riconosco
in un phylum di idee rivoluzionarie e lotte per l’uguaglianza che
attraversa i secoli; penso che la specie umana – previa una rottura
radicale nella temporalità in cui siamo immersi – debba avviare la
fuoriuscita dal capitalismo; penso che l’obiettivo da realizzare sia
la società senza classi etc. Un mio amico usava dire: «Io non sono
di sinistra: sono comunista!»
18 Walter Mioego

Tuttavia, è chiaro che se devo semplificare ed evitare di aprire


troppe parentesi, non mi faccio problemi a dire che sono di sinistra.

1.1.3.c. Ricapitolando: in certi casi il concetto di «Sinistra» è


criticato per la sua insufficienza da punti di vista che si sono for-
mati nel phylum della sinistra rivoluzionaria. A questo proposito,
si possono citare gli anarchici, ma anche gli zapatisti.
Di solito, in questi casi, la dichiarazione di «non-appartenenza
lineare» si accompagna a pratiche egualitarie, alla presenza di in-
terlocutori «privilegiati» a sinistra e all’ostilità verso qualunque
destra. A diverse latitudini e in diverse fasi del loro percorso, no-
nostante i problemi, tanto gli anarchici quanto gli zapatisti han-
no cooperato con diverse correnti della sinistra.
1.1.3.d. Certo, può anche succedere che movimenti origina-
riamente di sinistra cerchino interlocutori a destra, o meglio, tra
i fascisti. Nella storia del nostro phylum ricorrono confusionismi
e infiltrazioni, orridi esperimenti «rosso-bruni», «nazi-maoisti»,
«terze posizioni» etc.
Il fascismo stesso, fin dalla nascita, si presenta come una «terza
posizione». Il fascismo è un prodotto dello spavento, sorge e si
diffonde per reazione alle lotte del movimento operaio e brac-
ciantile. L’ascesa del fascismo è l’oscillare del pendolo a destra
dopo l’oscillazione a sinistra del Biennio Rosso. Il Nemico n.1 è
la Bestia Proletaria che ha osato alzare la testa. La cattiva coscienza
del fascismo nei confronti della sinistra (dalla quale il suo Duce e
molti suoi dirigenti provengono) e dell’arditismo (dal quale pro-
vengono svariati squadristi, benché in minor numero di quanto
si pensi, e nel cui alveo si è formato l’unica formazione che ha
opposto resistenza armata allo squadrismo, ovvero gli Arditi del
Popolo) si manifesta nell’adozione di simboli e nell’imitazione di
retoriche degli avversari. La stessa parola «fascio» viene prelevata
nel phylum della sinistra (i «fasci operai», i «fasci siciliani dei lavo-
ratori»), e resa inutilizzabile.
Da Steve Jobs a Steve Workers 19

Il fascismo vince e la memoria degli avversari diviene bottino


di guerra: il vincitore si presenta come unica forza popolare e
unico nemico del capitalismo che ha appena salvato (o meglio, di
una più vaga e comodamente denunciabile “plutocrazia”). Facen-
dosi regime, il fascismo carpisce lo spirito vitale dei nemici che
ha sconfitto.

1.1.4 Grillismo e falsi eventi

1.1.4.a. C’è un modo più «normalizzante» e di destra (nonché


largamente maggioritario) di dichiararsi né di destra né di sini-
stra. Qui l’attitudine è: «rossi e neri sono tutti uguali» (cfr. la ce-
leberrima scena di Ecce Bombo in cui Nanni Moretti attribuisce
a generici «film di Alberto Sordi» la responsabilità di tale cliché).
Si afferma l’equivalenza e l’indistinguibilità tra diversi percorsi e
storie. Si getta tutto nel mucchio, occultando il conflitto prima-
rio – quello che a cui i concetti di «Destra» e «Sinistra» continua-
no ad alludere, anche se più flebilmente che in passato, ossia la
lotta di classe – in nome di surrogati, diversivi, conflitti sostitutivi
come quello tra la «gente» e i «politici», la «casta» etc.

1.1.4.b. Il grillismo non è solo un «caso di studio»: è un’urgen-


za, un problema da affrontare quanto prima. In uno spazio «né
di destra né di sinistra», retoriche e pratiche in apparenza vicine a
quelle dei movimenti euroamericani di cui sopra vengono «rise-
mantizzate» e messe al servizio di discorsi ben diversi. Le energie
di molti benintenzionati, in maggioranza giovani o addirittura
giovanissimi, sono incanalate in un discorso in cui sono rinveni-
bili elementi di criptofascismo.
Non mi riferisco solo allo spettacolare Führerprinzip che il mo-
vimento mette in mostra durante le sue adunate pubbliche con
ex-cabarettista sbraitante, fin dal celebre «V-Day» dell’8 settem-
20 Walter Mioego

bre 2007. È senz’altro l’elemento più appariscente, ma da solo


non giustificherebbe l’uso dell’espressione «criptofascismo».

1.1.4.c. Il prefisso «cripto» deriva dal greco, e lo si usa per


qualcuno che nasconde (di solito male) la sua vera natura. «Crip-
tofascista» allude a un discorso cifrato, decrittando il quale si tro-
va un animus fascistoide. Di solito tale «cifratura» si riscontra nei
movimenti di impronta qualunquista / poujadista / destrorso-
populista etc. Tra questi ultimi si può annoverare la Lega Nord.
La cifratura del grillismo è molto peculiare. Il nocciolo cripto-
fascista è avvolto da fitti banchi di nebbia e fuffa. Il modo in cui il
movimento descrive se stesso trasuda di quella retorica dei «pro-
cessi dal basso» che il grillismo ha avuto in dote dai movimenti
altermondialisti di inizio secolo e si è adoperato a ricontestualiz-
zare. Per molti versi, il grillismo è un prodotto della sconfitta dei
movimenti altermondialisti: ha occupato lo spazio lasciato vuoto
da quel riflusso. Per citare Žižek che parafrasa Benjamin: «Ogni
fascismo è testimonianza di una rivoluzione fallita».

1.1.4.d. Il dirigente grillino Giovanni Favia, per descrivere il


«Movimento 5 Stelle», ha usato il concetto deleuzo-guattariano di
«rizoma». Metafora botanica, il «rizoma» indica una distribuzione
di messaggi e/o produzione di concetti non-gerarchica né lineare,
che può passare da un punto qualsiasi a un altro punto qualsiasi,
muovendosi potenzialmente in qualunque direzione. Deleuze e
Guattari contrapposero il rizoma all’albero, metafora che indica
l’esatto opposto: una struttura verticale e gerarchica, funzionante
per passaggi obbligati da un centro alle sue periferie.
Tuttavia, Beppe Grillo è proprietario unico del logo e del nome
«Movimento 5 Stelle», ed è lui a decidere insindacabilmente chi
possa usarlo. Percorso obbligato tipico di una struttura arbore-
scente, cioè l’opposto del rizoma.
Da Steve Jobs a Steve Workers 21

1.1.4.e. La retorica autoreferenziale e auto-elogiativa del grilli-


smo è mistificante. Non è su di essa che dobbiamo concentrarci, ma
sui modi in cui il movimento addita e descrive i propri nemici.
Presso il grillismo, l’individuazione del nemico è sempre di-
versiva. In questo, è in «buona» compagnia: in Italia, negli ultimi
anni, abbiamo visto movimenti tutti focalizzati sulla «disonestà
dei politicanti», sui privilegi della «casta» etc. Sono problemi veri,
e al contempo falsi bersagli: le decisioni importanti sull’economia
non vengono prese a Roma, perché il potere capitalistico sovrana-
zionale non autorizza la politica in tal senso.
Diceva tempo fa un compagno: «‘Ce lo chiedono i mercati’ è
il nuovo ‘Sento le voci nella testa’. Puoi fare le peggiori cose e nes-
suno ti riterrà responsabile!» «Ce lo chiedono i mercati» è il tor-
mentone di un’epoca in cui la politica è esautorata. Qualunque
discorso sulla «Casta», anche quando basato su dati di fatto reali,
alimenta una strategia di depistaggio e impedisce di individuare e
attaccare i nemici veri.

1.1.4.f. Certo, anche il grillismo si occupa di economia e,


seppure disordinatamente, denuncia la subalternità a essa della
politica. Tuttavia, nel farlo, non può fare a meno di introdurre
ulteriori diversivi e simulacri. Ad esempio, incanala la critica ai
meccanismi finanziari in un discorso paranoide contro il cosid-
detto «signoraggio», cavallo di battaglia di vari complottismi de-
strorsi. A lungo il grillismo si è valso della consulenza di Eugenio
Benetazzo, bizzarra figura di economista che si definisce «fuori
dal coro», più volte ospite di iniziative del partito neofascista For-
za Nuova.

1.1.4.g. I movimenti che si concentrano a lungo su falsi bersa-


gli diventano, per dirla con Badiou, «fedeli a falsi eventi».
22 Walter Mioego

Falso evento è anche la «rivoluzione di Internet» come la de-


scrive il grillismo: processo unilateralmente positivo, salvifico,
che promette la risposta a ogni problema. L’approccio alla rete è
all’insegna di un feticismo digitale e di una sorta di «animismo»
che vede nella tecnologia una forza autonoma, trascendente le re-
lazioni sociali e le strutture che invece la plasmano, determinan-
done sviluppo e adozione. La Rete diventa una sorta di divinità,
protagonista di una narrazione escatologica in cui scompaiono i
partiti (nel senso originario di fazioni, differenze organizzate) per
lasciare il posto a una società mondiale armonica, organicista.
L’utopia di un uomo è la distopia di un altro.
A chi pensa che stia esagerando, consiglio il video «Gaia. Il
futuro della politica», realizzato nel 2008 dalla Casaleggio & As-
sociati10, agenzia di pubblicità e web-marketing organica al gril-
lismo. Guardandolo, mi è tornato alla mente il concetto coniato
dallo storico americano Jeffrey Herf per descrivere il tecno-entu-
siasmo delle destre tedesche tra le due guerre mondiali: «moder-
nismo reazionario».
Va ricordato che non più di un decina di anni fa Beppe Grillo
demonizzava i computer e li sfasciava sul palco durante i suoi
spettacoli. Adesso li osanna ed esalta la rete libera e bella, il «po-
polo della rete» etc.

1.1.5 Dove l’asino casca: grillismo e immigrazione

1.1.5.a. È la tematica dell’immigrazione quella in cui il discor-


so grillino si fa più decifrabile e lascia trasparire l’animus fasci-
stoide. Il blog di Grillo offre non poche «perle» in tal senso. Ecco
un’arringa contro romeni e zingari risalente all’ottobre 2007:

Beppe Grillo: «Un Paese non può SCARICARE SUI SUOI CITTA-
DINI i problemi causati da decine di migliaia di rom della Romania
10
Rintracciabile su Youtube all’indirizzo: http://www.youtube.com/
watch?v=MpwY2wwrOtM.
Da Steve Jobs a Steve Workers 23

che arrivano in Italia. L’obiezione di Valium [Romano Prodi, N.d.R.]


è sempre la stessa: la Romania è in Europa. Ma cosa vuol dire Europa?
MIGRAZIONI SELVAGGE di persone senza lavoro da un Paese all’al-
tro? Senza la conoscenza della lingua, senza possibilità di accoglienza?
Ricevo ogni giorno centinaia di lettere sui rom. È un vulcano, una
BOMBA A TEMPO. Va disinnescata. Si poteva fare una MORATO-
RIA per la Romania, è stata applicata in altri Paesi europei. Si poteva
fare un serio controllo degli ingressi. Ma non è stato fatto nulla. Un
governo che non garantisce la sicurezza dei suoi cittadini a cosa serve,
cosa governa? CHI PAGA per questa insicurezza sono i più deboli, gli
anziani, chi vive nelle periferie, nelle case popolari. Una volta i confini
della Patria erano sacri, i politici li hanno sconsacrati».

1.1.5.b. Non esiste quasi più discorso razzista che non sia fat-
to… in nome dell’antirazzismo. È in nome dell’antirazzismo che
il grillismo fomenta l’odio. Cito da un altro articolo del blog di
Beppe Grillo, pubblicato nel maggio 2011 e intitolato «Un clan-
destino è per sempre»:

Beppe Grillo: «In Italia sono entrati 20000 TUNISINI, della mag-
gior parte di loro non si sa più nulla, che fine abbiano fatto. Pochi
sono riusciti ad arrivare in Francia. Vagano per la penisola senza sapere
una parola di italiano. In nessuno Stato del mondo questo è permesso
con una tale SERENITÀ D’ANIMO, da noi si. Il motivo è semplice,
sono utili ai profitti delle aziende, ai partiti, alle mafie. Il clandestino è
MULTIUSO come un coltellino svizzero. Per ricevere qualcuno a casa
tua devi disporre delle risorse per farlo. Dargli un lavoro dignitoso,
un letto, organizzare l’integrazione. Altrimenti devi interrogarti se stai
giocando con la DINAMITE e con il futuro della tua nazione».

Si parte dalla denuncia dello sfruttamento di cui sono vittime


i clandestini, e si arriva alla conclusione che bisogna impegnarsi a
respingerli, in nome della nazione. Una premessa umanitaria, ca-
pace di blandire la parte progressista ed egualitaria di un cervello
«biconcettuale», apre la via a un discorso che ne vellica la parte
conservatrice e razzista.
24 Walter Mioego

1.1.5.c. Grillo alza un polverone sensazionalistico ed eccezio-


nalistico («Solo in Italia!») per un numero irrisorio di tunisini
sbarcati nella primavera 2011. È la stessa impostazione truffaldina
dell’allora ministro degli interni Maroni, il quale parlò di inesi-
stenti «maree di immigrati» e reclamò un aiuto da parte dell’UE,
che gli rispose con un misto di disprezzo e commiserazione
Parlare di lassismo e «serenità d’animo» in tema di immigrazione
equivale a occultare leggi criminali e criminogene come la Turco-
Napolitano, la Bossi-Fini e i vari «pacchetti sicurezza». A produrre
clandestinità non sono presunte politiche lassiste, bensì, all’oppo-
sto, politiche troppo restrittive e vessatorie, in parte disfunzionali
anche dal punto di vista capitalistico, concepite per soddisfare una
parte di elettorato il cui razzismo eccede quello strutturale e «siste-
mico» necessario a regolare il mercato del lavoro.
Una mistificazione presente in molti testi prodotti da Grillo e
del suo movimento consiste nel dire che l’accoglienza ai migranti
favorirebbe la Lega Nord. Al contrario, è la mancata accoglienza
a favorirla. La Lega ha sempre avuto interesse a mantenere una
situazione criminogena che producesse clandestinità e quindi di-
sagio da additare e stigmatizzare.
A seguire, si capovolge la realtà: Grillo, in pratica, sostiene che
l’Italia non avrebbe le risorse per mantenere gli immigrati. Ma se-
condo il «Sole 24 Ore», si dovrebbe proprio agli immigrati (l’8%
della popolazione italiana) il 10% del nostro PIL. Gli immigra-
ti lavorano, pagano contributi all’INPS e permettono all’ente di
erogare le pensioni ai nostri anziani. Ammesso che abbia senso
distinguere tra «noi» e «loro», sono loro a produrre le risorse per
mantenere molti di noi.

1.1.5.d. Una volta dispersa la fuffa, del discorso grillino sui


migranti non resta che il nocciolo razzista e fascistoide.
Da Steve Jobs a Steve Workers 25

2. L’economia cognitiva del pensiero: il grado zero

La lettura di quest’analisi «disorganica» (per stessa ammissio-


ne dell’autore) da parte di WM1 ci allerta su quanto la pigrizia,
il bombardamento mediatico, la mistificazione di dati che do-
vrebbero essere oggettivi ci porti a idee preconcette (premasticate,
precotte e predigerite) che vengono riversate da presunti maître a
penser direttamente nelle menti di ognuno di noi.
Noi che, spesso in maniera acritica, le facciamo nostre.
Penso ai commenti ascoltati di straforo qua e là sui gravi e
deplorevoli episodi avvenuti durante la «manifestazione degli in-
dignati» a Roma sabato 15 ottobre 2011. Commenti che sono la
eco di quel che giornalisti, giornalai, pennivendoli hanno chiosato
lamentando il senso di inciviltà usato dai black bloc che «sfasciano
le auto di chi magari le ha acquistate a rate». Certo, giustissimo.
Ma è un modo – anche un po’ idiota – di delegittimare il senso
di una protesta che può anche avere connotazioni di violenza.
Perché sembra, da quel che i giornali scrivono, che la violenza
arrivi solo da lì, mentre le forze dell’ordine – o come vengono
definite in modo meno retorico in Val di Susa: le forze del disor-
dine – vadano in giro con i fiorellini e i fazzolettini profumati.
Le manifestazioni pacifiche sono mai servite a qualcosa? Per quel
che mi riguarda la risposta è un secco no. Lo dico per averne viste
molte e ad altrettante aver partecipato. Se non si ottiene nulla, in
vent’anni e anzi in vent’anni la situazione peggiora drasticamente
fino ai livelli attuali che tutti abbiamo sotto gli occhi, forse – dico
forse – c’era e c’è da aspettarsi che qualcuno reagisca in maniera
violenta, no?
Ebbene ora scrivo una cosa politicamente scorretta: a me pare
che quei violenti, deprecabilissimi per la loro violenza, siano gli
unici ad avere ancora delle idee non preconcette, siano gli unici
– forse mossi dalla disperazione per un mondo che per via demo-
cratica non cambia – a voler realmente cambiare le cose.
26 Walter Mioego

Gli unici che, per motivi che esulano da questa riflessione,


sembrano dare senso a un’idea, attraverso l’azione – e non attra-
verso le parole o attraverso un «corteo autorizzato»: io non voglio
essere «autorizzato» da nessuno a vivere degnamente o indegna-
mente…
Così, mentre Maurizio Ferraris tesse le lodi dell’iPad e dell’ani-
ma sua, a me viene in mente l’idea della maschera e di quella sua
massificazione positiva e virale il cui concetto sembra essere tanto
semplice quanto rivoluzionario: in via duplice (1) mi maschero
per difendere la mia identità, per nasconderla e acquisirne pub-
blicamente un’altra e (2) per far si che nella maschera si iden-
tifichi il messaggio che io voglio portare: gli uomini muoiono,
le maschere no e possono essere sempre riprese all’occorrenza.
Tanto le ingiustizie alla fine hanno cliché piuttosto chiari.

3. Omologazione positiva e negativa

Si diceva: l’omologazione dell’individuo è anche a suo modo


funzionale. Nell’età dello sviluppo vi è la necessità di essere uguali
agli altri, si vuole essere uguali ai propri simili perché ci si identi-
fica con essi. Basta, anche qui, leggersi un buon trattato di psico-
logia: l’argomento è da sempre molto studiato.
Questa identificazione così necessaria in età puberale dovreb-
be, in uno sviluppo quale viene ritenuto normale dell’individuo,
successivamente cedere il passo a una necessaria quanto auspicata
diversificazione. Spesso questo non avviene e anzi: l’identifica-
zione «di massa» si veste d’altro e diventa moda o adesione a un
partito politico o a uno status sociale. Diventa tout court omolo-
gazione.
Una omologazione il cui tratto distintivo è, in primo luogo,
l’accettazione spesso pedissequa e supina di idee, modi, atteggia-
menti, «stili di vita» (?!?) che altri dettano, che da altri arrivano.
Una omologazione alla cui antitesi c’è il solitario, colui che
fa da sé la propria (spesso faticosa) strada, in un pensiero che – e
Da Steve Jobs a Steve Workers 27

questo può in effetti apparire bizzarro – “ritorna” verso la collet-


tività come “bene” da salvare, da salvaguardare. Vi sono molti
esempi in letteratura di questo atteggiamento e citerò qui un solo
esempio all’interno di un romanzo – sospeso, a dire il vero, tra
poca fantasia e tanta realtà romanzata: Il partigiano Johnny. L’an-
tefatto utile a comprendere il contesto e il frangente ne quale
l’azione si svolge è l’uccisione di due partigiani, Ivan e Luis (nomi
di battaglia), sulle Langhe. È l’inverno del 1944-45. Alexander
ha emanato il proclama nel quale chiede alle forze in campo di
cessare le ostilità contro i nazi-fascisti: gli Alleati sono fermi in
Toscana, sulla Linea Gotica e l’offensiva finale è rimandata. Le
Langhe – teatro della guerra partigiana che ha visto riconquistare
la città di Alba per circa un mese da parte dei partigiani – si po-
polano neppure tanto misteriosamente di delatori e spie: i pochi
partigiani che ancora si ostinano a girare per i casolari rischiano
più adesso che non nelle azioni di guerriglia in cui si arriva a
scontrarsi col nemico. Johnny è tra questi. È un ragazzo di poco
più di vent’anni che vaga e incontra il mugnaio nel pomeriggio
di un giorno di neve e tempesta, il giorno in cui hanno ucciso i
suoi compagni e lui ancora non lo sa. Il mugnaio glielo dice e gli
raccomanda di andare a trovarlo quella sera stessa:

Johnny si appoggiò a un pilastro del portico e il mugnaio venne a do-


mandargli a che stesse pensando. – A quanto sono fortunato, a quan-
to sono immeritatamente fortunato –. Fino ad allora la fortuna aveva
fatto sì che egli non si inserisse in quella geometricità. Era anche lui
andato e si era fermato, stato qui e là, dormito e vegliato, inconscia-
mente scelto quella strada e quell’ora piuttosto che un’altra, tutto come
Ivan e Luis, esattamente come tutti gli altri morti dell’inverno e dello
sbandamento […].
– Sei davvero fortunato, Johnny, se immeritatamente non so. Ma tu sei
abbastanza intelligente da capire che anche la fortuna si consuma […].
Stanno facendovi cascare come passeri dal ramo. E tu, Johnny, sei l’ul-
timo passero di questi nostri rami, non è vero? Tu stesso ammetti d’aver
avuto fortuna sino ad oggi, ma la fortuna si consuma, e sarà certamente
consumata avanti il 31 gennaio. Perché dunque stare ancora in giro, in
28 Walter Mioego

divisa e con le armi, digiunando e battendo i denti? Sembrerebbe che


tu lo voglia, che tu ti ci prepari a quel loro colpo di caccia […]. Da’
retta a me, Johnny. La tua parte l’hai fatta e la tua coscienza è senz’altro
a posto. Dunque smetti tutto e scendi in pianura. Non per consegnarti,
Dio vieti, e poi è troppo tardi. Ma scendi e un ragazzo come te avrà
certamente parenti e amici che lo nascondano. Un nascondiglio dove
stare fino a guerra finita, soltanto mangiare e dormire e godersi il cal-
duccio e… ridacchiò e abbassò la voce: – e ricevere la visita ogni tanto
di qualche tua amica di fiducia, l’unica a conoscere il tuo indirizzo.
[…] Gli Alleati sono fermi in Toscana, con la neve al ginocchio, e
questa situazione permette ai fascisti di farvi cascar tutti come passeri
dal ramo, come ho detto prima. Al disgelo gli Alleati si muoveranno
e allora daranno il gran colpo, quello buono. E vinceranno senza voi.
Non ti offendere, ma voi partigiani siete di gran lunga la parte meno
importante in tutto il gioco, converrai con me. E allora perché crepare
in attesa di una vittoria che verrà lo stesso, senza e all’infuori di voi.
L’uomo parlava col cuore, indubbiamente, e forse voleva risparmiarsi
la pena, non già la fatica, di maneggiar lui Johnny come oggi aveva
maneggiato Ivan e Luis. […] L’uomo lo seguì alla porta con massiccio
orgasmo.
– Che mi dici, Johnny? – Johnny alzò il catenaccio.
– Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo e questa sarebbe una
maniera di dir sì.
– No che non lo è! – gridò il mugnaio.
– Lo è, lo è una maniera di dir di sì.
Dietro la porta la gelida notte attendeva come una belva all’agguato e
la cagna gli sbatté grevemente fra le gambe.
– Fa’ almeno un boccone di cena con noi, – disse il mugnaio, ma John-
ny era già affogato nella tenebra.11

Una singolarità il cui anelito è «diventare altro» in nome di


un’idea; l’idea del partigiano che sulla collina «ne rimanga uno
solo (non importa che sia io) purché qualcuno rimanga a vegliare
sulla libertà». Questa azione è sempre politica, in un senso che
è prima di tutto etimologico e nella sua piena accezione antico-
greca. Si tratta forse di sfumature, ma di sfumature importanti
perché da lì parte questo schierarsi, questo essere o da una parte o
11
Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino 1994.
Da Steve Jobs a Steve Workers 29

dall’altra e non secondo convenienza o tornaconto personale; di


scegliersi, come direbbe Giovanni Lindo Ferretti, «la parte dietro
la Linea Gotica». Questo serve, vien da dire, per assumersi delle
concrete responsabilità, le uniche che aiutino tutti noi (forse) a
crescere come individui. Avete presente il comandante della «Co-
sta Concordia» appena naufragata all’isola del Giglio? O quelli
che sempre di più fanno stragi con i Suv e l’unica cosa che riesco-
no a fare bene è scappare? Ecco: l’esatto contrario!

4. Dalla realtà dell’uomo qualunque alla finzione dell’uo-


mo senza nome

Proprio dall’episodio più rilevante del secolo scorso e a noi


storicamente più vicino – gli anni della II Guerra Mondiale, in
Italia, durante la Resistenza – voglio partire per tracciare questa
specie di storia:

Il 27 dicembre 1944 viene fondato e diretto da Guglielmo Giannini un


nuovo settimanale, battezzato L’Uomo qualunque. Costa 5 lire a Roma
e 6 lire fuori città. È un settimanale, ma ha il formato di un quotidiano.
È stampato su carta giallo-grigia, di qualità scadente.
Inserito nella U maiuscola si vede un torchio che schiaccia una stri-
minzita immagine di uomo: è il simbolo della classe politica che op-
prime il piccolo borghese, il travet, insomma l’uomo qualunque. Sotto
la testata c’è una rozza vignetta dove un poveraccio scrive su un muro:
Abbasso tutti. Ai piedi di pagina vi è un’autobiografia del direttore, ossia
Giannini, intitolata Io.12

Sembra di leggere l’oggi, anche per il triste epilogo, forse re-


sponsabile dell’accezione negativa che a oggi la parola «qualun-
quismo» ha. Il movimento, il Fronte dell’Uomo qualunque che
origina il giornale, genera anche

una nuova pseudo-ideologia politica chiamata appunto “qualunqui-


smo”, ottenne il 5,3% dei voti alle elezioni politiche del 1946, potendo
così contare su 30 deputati all’Assemblea costituente, tra cui lo stesso

12
Fonte Wikipedia, alla voce «Fronte dell’Uomo Qualunque».
30 Walter Mioego

Giannini. L’Uomo Qualunque fece proseliti soprattutto al Sud, dove


otteneva il voto dei grandi proprietari terrieri spaventati dalla rivolte
delle masse contadine (appoggiate dal Partito Comunista Italiano) e
dagli ex-fascisti. La nascita del Movimento Sociale Italiano ed il raffor-
zamento della Democrazia Cristiana su posizioni conservatrici cause-
ranno il crollo elettorale dell’UQ.
Nel 1947 Giannini, dopo aver tentato un’alleanza con la Democrazia
Cristiana ed il MSI, si avvicina al leader comunista Palmiro Togliatti,
definito due anni prima “verme, farabutto e falsario”. Molti simpa-
tizzanti dell’Uomo Qualunque, allibiti da questa scelta, abbandonano
Giannini che, messo alle strette, rinuncia al patto d’amicizia con il PCI
per stringerne un altro con il Partito Liberale Italiano. Ormai il danno
è fatto: alle elezioni politiche del 1948 l’alleanza UQ-PLI ottiene solo il
3,8% dei consensi, e poco dopo i liberali se ne chiamano fuori. Gianni-
ni viene eletto alla Camera e aderisce al gruppo Misto. Il movimento di
Giannini si scioglie l’anno successivo. In vista delle elezioni del 1953,
Giannini si candida nella DC, senza tuttavia essere eletto.13

Insomma: un moderno antesignano dell’italico trasformismo


politico. Che, val la pena di ricordare, ha moderni epigoni che
calcano la nostra scena politica da quasi un quarantennio. Penso
a Giuliano Ferrara, il cui profilo biografico recita:

Giuliano Ferrara (Roma, 7 gennaio 1952) è un giornalista, conduttore


televisivo e politico italiano. Dopo la militanza nel PCI e nel PSI, ne-
gli anni novanta è diventato un sostenitore di Silvio Berlusconi e del
centro-destra e infine uno degli intellettuali di riferimento del movi-
mento teocon italiano.
È stato europarlamentare del PSI (1989-1994) e poi Ministro per i rap-
porti con il Parlamento del primo Governo Berlusconi (1994-1995). È
direttore del quotidiano Il Foglio dal 1996.
Figlio del senatore comunista Maurizio Ferrara (direttore de l’Unità e
presidente della Regione Lazio) e di Marcella de Francesco (partigiana
gappista e poi a lungo segretaria particolare di Togliatti), Ferrara, dopo
aver lasciato la facoltà di Giurisprudenza, – si avvicina alla politica da
contestatore sessantottino. Ha partecipato agli scontri di Valle Giulia.14

13
Fonte Wikipedia, alla voce «Guglielmo Giannini».
14
Fonte Wikipedia, alla voce «Giuliano Ferrara».
Da Steve Jobs a Steve Workers 31

Perché se si può essere disposti a comprendere – ma, si badi


bene, non a giustificare né condividere – l’uomo qualunque che
cambia bandiera in tempo di guerra per sopravvivere, questo at-
teggiamento diventa intollerabile in tempo di pace sociale. Ma
i vizi, si sa, son più resistenti del famoso pelo del lupo e questi
‘soggetti’ ancora rompono le scatole all’uomo qualunque che – da
buon qualunquista – liquida il tutto con un’alzata di spalle e una
efficientissima quanto provvidenziale smemoratezza.
La differenza è che, ai tempi di Guglielmo Giannini, l’Italia
era ancora provata da un duro dopoguerra e i cambi bandiera così
repentini erano mal tollerati. Oggi non ci ricordiamo le conni-
venze di ieri, le dichiarazioni – tante, troppe – di ministri, sena-
tori, deputati che dicono tutto e il contrario di tutto15, dei quali

15
Penso espressamente alla polemica seguita da un intervento pubblico di Roberto
Saviano, su Rai 3, alla trasmissione Vieni via con me – curata dallo stesso Saviano e Fa-
bio Fazio. Nella trasmissione del 15 novembre 2010 Saviano parla di un’inchiesta dalla
quale emerge il contatto tra un deputato lombardo della Lega Nord e la ‘Ndrangheta.
Il ministro dell’Interno Roberto Maroni, immediatamente replica sui quotidiani e si
fa intervistare negando che il “suo” partito possa avere connivenze di quel tipo. Il 19
novembre il quotidiano «La Stampa» titola Fini: “Anche al Nord c’è la mafia”
Lunedì Maroni va in tv da Saviano (ancora online – consultazione del 21/21/2011
– all’indirizzo: http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/375770/) e nel-
l’articolo si parla di una sorta di ravvedimento da parte del ministro: «Dopo lo scontro
dei giorni scorsi, scoppia la pace tra il ministro dell’Interno Roberto Maroni e Vieni via
con me. Il titolare del Viminale, che aveva chiesto di replicare di persona al monologo
di Roberto Saviano sui rapporti tra ‘ndrangheta e Lega nel Nord Italia, lunedì sarà
ospite del programma di Raitre e leggerà un suo elenco, adeguandosi dunque al format
e accettando la proposta del direttore di rete Paolo Ruffini. Plaudono i vertici Rai,
esulta il presidente della Vigilanza Sergio Zavoli». Quindi: prima, per non sbagliare,
si “attacca” e poi – prudentemente e intelligentemente – si fa marcia indietro. Che il
ministro abbia fatto bene a far marcia indietro lo dimostrano i fatti, un anno dopo:
attorno a Matteo Messina Denaro, tra i primi 4 latitanti ricercati al mondo, si “stringe
il cerchio” e tra le 11 persone arrestate dal 2006 molto vicine al boss, spicca Filippo
Greco, imprenditore edile trapanese trasferitosi nel Nord Milano per seguire gli affari
sulle costruzioni, nominalmente nullafacente (Mafia, arrestato imprenditore a Gallara-
te, articolo del 16/12/2011 su «VareseNews» – online all’indirizzo: http://www3.va-
resenews.it/gallarate_malpensa/articolo.php?id=221338 – consultato il 21/12/2011).
L’unica cosa che si potrebbe far notare a Saviano è che non si tratta di ‘ndrangheta ma
di Cosa Nostra – anche se l’una cosa ovviamente non esclude l’altra.
32 Walter Mioego

si riportano, amplificati all’ennesima potenza dai media, persino


gli starnuti.
Il gossip vince su tutto e su tutti e dei contenuti sembra si parli
solo quando, come in questo periodo di (presunta) recessione,
siamo sull’orlo di un baratro che, ci viene raccontato, qualcuno
vede per l’Italia e l’Europa intera.
Europa e Italia nelle mani di uno sparuto gruppo di agenzie
di rating che nelle borse d’oltreoceano decidono – pollice recto,
pollice verso – chi campa e chi muore, chi sopravvive e chi gode.

***
In un clima simile verrebbe, come spesso accade nei film – e
qui slittiamo dal piano del reale a quello della fiction – da farsi
giustizia da soli. L’idea scatta in molte persone e in molte menti
che però decidono di non dar seguito alla cosa, nella realtà. An-
che se poi dipende. Sempre per tornare un po’ all’origine storica
del nostro discorso (gli anni 1943-45, fino al dopoguerra…) c’è
stato un lungo attimo – durato all’incirca dal 1945 al 1948 –
dove a seguito di una mancata (e auspicata) giustizia sociale che
avrebbe dovuto vedere (come minimo) la rimozione dei fascisti
da cariche istituzionali e pubbliche, molti (ex?) partigiani si sono
fatti giustizia da soli:

La locuzione triangolo della morte (o triangolo rosso), di origine gior-


nalistica, indica un’area del nord Italia ove alla fine della seconda guerra
mondiale, tra il 1945 ed il 1948, si registrò un numero particolarmente
elevato di uccisioni a sfondo politico, attribuite a partigiani ed a mili-
tanti di formazioni di matrice comunista.
Secondo lo storico Francesco Malgeri, l’espressione era originariamen-
te riferita al triangolo di territorio compreso tra Castelfranco Emilia,
Mirandola e Carpi, mentre il giornalista Giampaolo Pansa indica la
zona del modenese, corrispondente al triangolo compreso fra Castel-
franco Emilia e due sue frazioni, Piumazzo e Manzolino.
In seguito, l’espressione è stata ripresa per indicare aree di volta in vol-
ta più ampie sia dentro che fuori dall’Emilia, ad esempio il triangolo
Bologna-Reggio Emilia-Ferrara.
Da Steve Jobs a Steve Workers 33

Lo storico Giovanni Fantozzi sostiene che nel dopoguerra, dall’aprile


del 1945 alla fine del 1946, nella provincia di Modena gli omicidi po-
litici furono diverse centinaia, probabilmente oltre il migliaio, stando
alle stime dell’allora prefetto di Modena Giovanni Battista Laura, del
resto non molto dissimili da quelle dei Carabinieri. Sempre secondo
Fantozzi i responsabili di tali delitti politici nel modenese furono nella
stragrande maggioranza dei casi ex partigiani iscritti o simpatizzanti
del Partito Comunista Italiano (PCI), ma solo una piccola parte tra le
loro vittime erano realmente fasciste (quelle uccise cioè nell’immedia-
to dopoguerra), mentre gli altri, la maggioranza, furono eliminati in
quanto considerati “nemici di classe” o semplicemente un ostacolo ad
un’auspicata rivoluzione comunista. [...]
La situazione politica emiliana nel periodo immediatamente precedente
e successivo alla liberazione fu particolarmente violento. Alla primitiva
contrapposizione fra fascisti ed antifascisti si aggiunse una forte istanza
di trasformazione dei rapporti sociali tra detentori della proprietà fon-
diaria e i contadini, per lo più legati a contratti di mezzadria.16

Ma non c’è solo la “rossa” Emilia. Fenomeno analogo e in-


trecciato con quello emiliano – fors’anche più strutturato – fu
presente in Lombardia:

La Volante Rossa fu un’organizzazione paramilitare attiva a Milano e


dintorni nell’immediato secondo dopoguerra, dal 1945 al 1949. Il
nome completo era Volante Rossa Martiri Partigiani, comandata dal
“tenente Alvaro”, soprannome di Giulio Paggio.
La Volante Rossa era composta da ex partigiani comunisti e operai che
ritenevano di proseguire con le loro azioni la Resistenza italiana. Si
costituì un apparato organizzativo che discendeva da quello dei Gruppi
di Azione Patriottica (GAP) definito “garibaldino” e impiegato nella
resistenza fino al 25 aprile 1945.
Il nome derivava da un reparto di partigiani comunisti che operava
nella zona dell’Ossola.
Aveva base nei locali della ex Casa del Fascio di Lambrate (Milano) in
via Conte Rosso 12, trasformata dopo il 25 aprile in Casa del Popolo.
Questa forniva loro una copertura e permetteva loro di incontrarsi sen-
za farsi notare, dato il via vai di persone.

16
Fonte Wikipedia, alla voce «Triangolo della morte (Emilia)».
34 Walter Mioego

Svolgeva funzioni di sostegno nelle attività del partito comunista e del


sindacato, in particolare durante gli scioperi e le manifestazioni operaie,
durante le quali svolgeva il ruolo di servizio d’ordine e protezione dalle
forze dell’ordine e dalle rinascenti organizzazioni non comuniste come
il Partito Liberale e quello dell’Uomo qualunque e dalle organizzazioni
neofasciste che in quegli anni ritornavano in attività con sedi, giornali e
liste elettorali. Soprattutto in questo periodo diverse organizzazioni ne-
ofasciste, come i Fasci di Azione Rivoluzionaria, operavano per mezzo
di azioni violente ed attentati verso esponenti della Resistenza italiana e
dell’associazionismo socialista e comunista. Da qui nasceva la necessità
di dotarsi di un servizio di protezione.
Contro esponenti delle organizzazioni neofasciste la Volante Rossa ef-
fettuò attentati e violenze.
Creata a Milano, allargò la sua influenza appoggiandosi a strutture loca-
li e estese la sua azione in gran parte dell’Italia settentrionale e centrale.
Aveva alleanze e basi in tutta la Lombardia ed anche in Piemonte, nel
cosiddetto “triangolo della morte” emiliano e nel Lazio.
Fu attiva per quattro anni, fino al 1949. Molti dei suoi componenti
furono ritenuti responsabili di una serie di omicidi e violenze a dan-
no di persone politicamente legate al passato regime fascista, a partiti
ostili a quello comunista come quello Liberale o a quello dell’Uomo
Qualunque.17

Ma torniamo alla fantasia per passare dall’Uomo Qualunque


– ancora una volta citato – all’uomo senza nome, che parte da
oltre oceano e arriva a noi certo senza un nome – o quando c’è, è
una specie di nomignolo, un soprannome – ma con un volto ben
noto, quello di Clint Eastwood:

L’uomo senza nome (The Man With No Name) è uno stereotipo di perso-
naggio dei film western, ma il termine è solitamente noto specialmente
per il personaggio (o meglio i personaggi) interpretati da Clint Eastwood
nei film spaghetti-western diretti dal regista romano Sergio Leone.
Particolarmente nei tre film western più noti del regista, la cosiddetta
Trilogia del dollaro (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più,
Il buono, il brutto, il cattivo), il protagonista è sempre lo stesso uomo,
con gli stessi atteggiamenti e vestito sempre dello stesso sarape e dello
stesso cappello.18

17
Fonte Wikipedia, alla voce «Volante Rossa».
18
Fonte Wikipedia, alla voce «Uomo senza nome».
Da Steve Jobs a Steve Workers 35

Ma soprattutto, in relazione al senso di giustizia leggiamo ancora:

L’uomo senza nome, così come è stato interpretato da Clint Eastwood,


incarna l’archetipo del cowboy protagonista dei film americani, forza,
autosufficienza e grandi doti di pistolero, ma si stacca da questo per
quel che riguarda l’ambiguità morale. Differentemente dal cowboy origi-
nale, rappresentato per esempio da John Wayne, Alan Ladd e Randolph
Scott, l’Uomo senza nome gioca sporco e non ci pensa due volte a sparare
per primo, se questo soddisfa il suo personale senso della giustizia.
Solitamente viene dipinto come un “outsider”, spesso addirittura un
fuorilegge. Caratteristicamente è bravo anche con le parole, utili spesso
per i suoi fini, ma parla solo se strettamente necessario e sempre con
poche parole.19

Insomma, non proprio un eroe senza macchia e senza paura,


ma… chi lo è? E soprattutto: questo «personale senza della giustizia»
non è quello che talvolta sentiamo urgere anche dentro di noi?

5. Le maschere della rivoluzione sociale nel fumetto (d’au-


tore): Vi veri universum vivus vici20

Per quanto pindarici, esistono agganci tra l’Uomo senza nome


e il moderno rappresentante di quell’universo di cui si potrebbe
scrivere una intera storia sotto il generico nome di «giustiziere
mascherato». Proprio questo fu il sottotitolo di un personaggio
dei fumetti ancora celebre nella mia infanzia: Zorro. Le cui origi-
ni vengono collocate nel primo ventennio del secolo scorso, con
la sua comparsa in un romanzo del 1919: The Curse of Capistrano
di Johnston McCulley. Il romanzo, già l’anno dopo, ha la sua
prima trasposizione cinematografica, Nel segno di Zorro, diretto
da Fred Niblo:

Don Diego Vega è un damerino, figlio di Alejandro, ricco ranchero


nella vecchia California spagnola del 1800. I latifondisti tengono in

19
Ibid.
20
Si tratta di una frase le cui iniziali son incise nel rifugio di V per Vendetta: « Con
la forza della verità, in vita, ho conquistato l’universo».
condizione di semi schiavitù i peones e Diego, per cercare di difenderli,
si traveste e, mascherato, si presenta come il vendicatore dei poveri nel-
le vesti di Zorro, un Robin Hood spagnoleggiante. Atletico e ironico,
Zorro diventa il campione del popolo contro l’arroganza del governa-
tore e del capitano Juan Ramon, distribuendo le sue “Zeta” a colpi di
spada contro l’oppressore. Innamorato della bella Lolita Pulido, Diego
deve fare i conti con un altro corteggiatore, il capitano Ramon e anche
con un rivale inusitato: lui stesso nelle vesti di Zorro.21

L’eroe compare, e sembra


comparire sempre laddove è
presente l’ingiustizia socia-
le. Giova ricordare, passando
ancora una volta dalla finzio-
ne alla realtà, che tra la fine
dell’800 e gli inizi del ‘900 la
situazione sociale di quelle re-
gioni che noi conosciamo oggi
come Californiana (del sud) e
Messico era a temperatura di
ebollizione: una ebollizione
che fece saltare la pentola della
(re)pressione e sfociò nella ce-
lebre Rivoluzione Messicana del 1910-11, al cui capo vi erano
Francisco (Pancho) Villa22 ed Emiliano Zapata23.
Si parlava dunque di agganci pindarici tra l’Uomo senza nome
e la più moderna tra le trasposizioni moderne del giustiziere ma-
scherato: V per Vendetta24.

21
Fonte Wikipedia, alla voce «Il segno di Zorro (film 1920)».
22
Pseudonimo di Doroteo Arango Arámbula (Durango, 5 giugno 1878 – Parral,
20 luglio 1923).
23
Anenecuilco, fraz. di Ayala, stato di Morelos, 8 agosto 1879 – Chinameca, 10
aprile 1919.
24
L’aggancio è fornito, sempre come curiosità su Wikipedia, da un dettaglio: «In
una delle scene finali del film, dove V sopravvive, seppur per poco, alla massiccia spa-
ratoria degli agenti di Creedy, è presente un chiaro riferimento al film Per un pugno
Da Steve Jobs a Steve Workers 37

Al netto di una assonanza alfabetica – Zorro traccia tre segni


in forma di zeta sulle sue “vittime”, V tratteggia sui muri la sua
lettera… – alla base c’è ancora una ingiustizia. Siamo in un or-
welliano futuro25, in una Gran Bretagna governata da un regime
repressivo guidato dall’Alto Cancelliere Adam Sutler. Il misterio-
so personaggio V compare sulla scena con la maschera che lo
contraddistingue in un primo incontro con Evey:

Il primo incontro di V con Evey avviene nella sera del 4 novembre


2019, dove V salva la ragazza da un tentativo di stupro da parte di tre
membri dei Castigatori, la polizia segreta del governo. In questa occa-
sione V uccide i Castigatori e invita Evey ad assistere ad un “concerto”.
Pochi minuti dopo, al suono delle campane che indicano il passag-
gio dal 4 al 5 novembre (in memoria della congiura delle polveri di
Fawkes), V attiva le cariche da demolizione che aveva piazzato nell’Old
Bailey e diffonde, tramite altoparlanti nelle strade, l’Ouverture 1812 di
Pëtr Il’ič Čajkovskij.26

L’aspetto affascinante, emozionante e al limite del farsesco le-


gato all’incontro tra i due è dato dalla presentazione che V fa di
se stesso:

Ma in questa notte estremamente fausta, permettimi dunque in luogo


del più consueto nomignolo di accennare al carattere di questa Dra-
matis Persona.
Voilà! Alla Vista un umile Veterano del Vaudeville27, chiamato a fare
le Veci sia della Vittima che del Violento dalle Vicissitudini del fato.

di dollari di Sergio Leone, nel quale l’uomo senza nome (Clint Eastwood) si difende
dagli spari di Ramón (Gian Maria Volontè) usando una lastra d’acciaio come giubbotto
antiproiettile». Fonte Wikipedia, alla voce «Uomo senza nome».
25
Per quanto futuro non coincida necessariamente con fantascienza o fantasy, in V
per vendetta si rintracciano i caratteri tipici della distopia – o utopia negativa – all’inter-
no di una struttura sociale che, per via più o meno tecnologica o/e scientifica, controlla
totalmente le libertà individuali.
26
Fonte Wikipedia, alla voce «V per Vendetta».
27
«Il vaudeville è un genere teatrale nato in Francia a fine Settecento. Il termine
“vaudeville” indica le commedie leggere in cui alla prosa vengono alternate strofe can-
38 Walter Mioego

Questo Viso non è Vacuo Vessillo di Vanità, ma semplice Vestigia della


Vox populi, ora Vuota, ora Vana. Tuttavia questa Visita alla Vessazione
passata acquista Vigore ed è Votata alla Vittoria sui Vampiri Virulenti
che aprono al Vizio, garanti della Violazione Vessatrice e Vorace della
Volontà. L’unico Verdetto è Vendicarsi... Vendetta... E diventa un Voto
non mai Vano poiché il suo Valore e la sua Veridicità Vendicheranno
un giorno coloro che sono Vigili e Virtuosi. In Verità questa Vichyssoise
Verbale Vira Verso il Verboso, quindi permettimi di aggiungere che è
un grande onore per me conoscerti e che puoi chiamarmi V.28

Una presentazione che ricorda per molti aspetti il parlare in


rima del cinematografico Cirano de Bergerac realizzato nel 1990
dal regista Jean-Paul Rappeneau. Un notevole Gérard Depardieu
veniva doppiato in italiano con i dialoghi in rima riadattati –
dall’opera teatrale originale di Edmond Rostand – da un geniale
Oreste Lionello. A dire che le premesse della pur ottima trasposi-
zione cinematografica dei notevoli fratelli Wachowski29, ha avuto
i suoi illustri predecessori.
tate su arie conosciute (vaudevilles). Il Theatre du Vaudeville, primo teatro di gran suc-
cesso in cui venivano rappresentate i vaudevilles, risale al 1792. In seguito prese piede
anche in Nord America dagli anni ‘80 dell’Ottocento fino agli anni venti del Novecen-
to, trasformandosi nel moderno spettacolo di Varietà. Con un momento d’oro vissuto
a Berlino, tra il 1930 e il 1945 grazie a locali entrati nel mito come il Titania Palast di
Berlino, capace di 1900 posti. La sua popolarità crebbe con lo sviluppo dell’industria
e la crescita delle città nel Nord America, e declinò con l’introduzione dei film sonori
e della radio. L’origine del termine è oscura, ma viene solitamente considerata come
una storpiatura dell’espressione francese voix de ville, ovvero “voce della città”. Un’altra
possibile etimologia è che sia derivata da un’altra espressione francese, Vau de Vire, una
valle della Normandia celebre per delle particolari e tipiche canzoni su temi d’attualità.
Il termine si trova impiegato sin dal XV secolo per indicare non l’intero spettacolo
bensì una canzone, eventualmente eseguita sulla scena, spesso di contenuto licenzioso
o satirico». Fonte Wikipedia, alla voce «Vaudeville». Curioso il fatto che nella pagina
di Wikipedia relativa a questa voce vi sia, per pura coincidenza, l’immagine di teatro di
vaudeville dell’inizio del XX secolo, dove campeggia più volte un “5” che è il numero
arabo corrispondente al V romano. Nella voce Wikipedia dedicata a V poi c’è tutta una
sezione di curiosità tra il numero 5 e V…
28
Fonte Wikipedia, alla voce «V per Vendetta».
29
I quali però in quest’occasione non si sono occupati direttamente della regia, ma
dell’adattamento della graphic novel al grande schermo. Ricordiamo – a proposito di
fantascienza e distopia – che i fratelli Wachowski sono i registi della “trilogia” Matrix.
Da Steve Jobs a Steve Workers 39

La storia di V è la storia di
un eroe solitario che cerca di
risvegliare le coscienze intor-
pidite dei suoi concittadini,
in una Londra in cui vige un
dittatoriale coprifuoco. Il 5
novembre – con il 5 che torna
in assonanza al V romano…
– è il giorno in cui V decide
di uscire allo scoperto con un
piano di azione che mette in
ginocchio la struttura dittato-
riale del cancelliere Sutler. E
la scelta del 5 novembre non è
casuale, ma si richiama espres-
samente alla «Congiura delle polveri», ordita da Guy Fawkes e i
suoi seguaci nel 1605:

Noto anche sotto lo pseudonimo John Johnson, Guy Fawkes (talvolta


scritto anche Faukes o Faux: York, 13 aprile 1570 – Londra, 31 gennaio
1606) era membro di un gruppo di cospiratori cattolici inglesi che ten-
tarono di assassinare con un’esplosione il re Giacomo I d’Inghilterra e
tutti i membri del Parlamento inglese mentre erano riuniti nella Came-
ra dei Lord per l’apertura delle sessioni parlamentari dell’anno 1605.
Il 5 novembre 1605 il complotto fu scoperto da Thomas Knyvet, un
soldato del re, e i 36 barili di polvere da sparo furono disinnescati pri-
ma che potessero compiere danni.
Da allora, ogni 5 novembre, nel Regno Unito e in Nuova Zelanda
i bambini vanno in giro per il paese con dei fantocci, recitando una
filastrocca, a chiedere soldi da dare ai genitori per comprare i fuochi
per il falò. [...]
Il complotto del 1605, che passò alla storia come “Congiura della pol-
veri” (Gunpowder Plot), era un piano progettato da cattolici inglesi a
danno dello scozzese re Giacomo I di Inghilterra: l’obiettivo era quello
di uccidere in un colpo solo il re, la sua famiglia e gran parte dell’ari-
stocrazia protestante, facendo esplodere la Camera dei Lord durante
la cerimonia dello State Opening che si sarebbe tenuta il 5 novembre
40 Walter Mioego

1605. Alcuni storici ipotizzano inoltre che i cospiratori avessero piani-


ficato di rapire i figli del re, non presenti in Parlamento, per spingere
alla rivolta anche la classe media.
La Congiura della polveri fu ideata nel maggio 1604 da Robert Cate-
sby, probabilmente quando svanirono le speranze di ottenere una poli-
tica di tolleranza per i cattolici.30

Ancora una volta, se mai vi fosse il bisogno di ricordarlo, il


movente è l’ingiustizia patita nella realtà storica. Come nella real-
tà storica sembra volersi calare la finzione cinematografica tratta
dalla graphic novel che porta la firma di Alan Moore:

Le connotazioni del regime hanno dei chiari riferimenti al modello


della politica totalitaria con mezzi di comunicazione controllati dal
governo, corpi di polizia segreta, campi di concentramento per mi-
noranze discriminate dal punto di vista razziale e sessuale. A questo si
aggiunge una forte componente tecnocratica, con richiami al 1984 di
George Orwell (curiosamente John Hurt, l’attore che interpreta Adam
Sutler nel film, interpretò anche il protagonista in una trasposizione
cinematografica del capolavoro di Orwell) e quello dello scrittore russo
Zamjatin, Noi, un mondo dove i cittadini sono costantemente moni-
torati tramite telecamere a circuito chiuso e intercettazioni ambientali
e dove i media sono strettamente sotto controllo del governo.
Nel film sono stati inseriti numerosi riferimenti visivi ad episodi real-
mente accaduti:
- le scene realizzate per ricostruire la storia della dottoressa Surridge ri-
mandano alle immagini scattate nei campi di concentramento nazisti;
- appaiono alcuni spezzoni di immagini video che fanno riferimento
agli attentati del 7 luglio 2005 a Londra, per altro avvenuti durante le
riprese del film;
- quando Dominic chiede all’ispettore Finch quale potrebbe essere
l’evoluzione della situazione, le ipotesi fatte da quest’ultimo sono rese
con alcune immagini di scontri tra polizia e manifestanti. I primi foto-
grammi si riferiscono alle violenze del G8 di Genova;
- il monumento commemorativo presso cui si incontrano l’ispettore
Finch, Dominic e V ricorda molto la “Barmaley Fountain”, resa famosa
da una foto di Stalingrado nel 1943.31

30
Fonte Wikipedia, alla voce «Guy Fawkes».
31
Fonte Wikipedia, alla voce «V per Vendetta».
Da Steve Jobs a Steve Workers 41

Gli eroi mascherati fanno parte della vita del geniale Alan Mo-
ore e sono presenti – in gruppo – in un’altra graphic novel che ha
avuto una sua recente trasposizione cinematografica: Watchmen.

5.1 Quis custodiet ipsos custodes?

Con questo epigrafe si apre il fumetto. Una citazione dotta per


un fumetto, tratta dalla VI Satira di Giovenale. Pur fuori dalla
sua accezione originaria32, la storia narra – tanto per rimanere
in tema – di un gruppo di giustizieri maschera che si dà questo
generico nome (controllori, watchmen appunto) come reazione
a una società statunitense collocabile intorno agli anni ’80 del
secolo scorso:

Le vicende di Watchmen sono ambientate in una realtà alternativa mol-


to simile a quella del mondo reale, in un 1985 in cui Stati Uniti ed
Unione Sovietica sono in piena Guerra Fredda e sull’orlo di una guer-
ra nucleare (metaforicamente emblematico è, in tal senso, l’orologio
dell’apocalisse33 che segna quattro minuti a mezzanotte). La principale
differenza con la realtà è la presenza di supereroi nella società comu-

32
«Tra le sedici satire che compongono l’opera di Giovenale, la VI è forse la più
nota per l’argomento: rappresenta un feroce attacco ai vizi delle donne romane e non,
ricche e povere, nobili e plebee, tutte corrotte e depravate, e Messalina era una di que-
ste», fonte Wikipedia, alla voce «Quis custodiet ipsos custodes?».
33
«L’Orologio dell’apocalisse (Doomsday Clock in inglese) è un orologio simbolico
creato dagli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago nel
1947. La mezzanotte di tale orologio simboleggia la fine del mondo, causata da una
guerra atomica. Al momento della sua creazione, durante la guerra fredda, l’orologio fu
impostato sette minuti prima della mezzanotte. L’orologio è stato spostato avanti o in-
dietro, a seconda dello stato delle politiche mondiali e del pericolo nucleare: lo sposta-
mento in avanti indica una maggiore probabilità del conflitto nucleare; lo spostamento
indietro indica un miglioramento della situazione internazionale. Le lancette sono state
spostate 19 volte. Massima vicinanza alla mezzanotte: due minuti, tra il 1953 (test di
armi termonucleari da parte di USA e URSS) e il 1960. Massima lontananza dalla mez-
zanotte: diciassette minuti, tra il 1991 (trattati START) e il 1995. C’è da dire però che
l’orologio non fu spostato durante la crisi dei missili di Cuba perché mancò il tempo
materiale di farlo; la crisi durò infatti appena 13 giorni e non fu resa pubblica subito,
ma solo al nono giorno». Fonte Wikipedia, alla voce «Orologio dell’apocalisse».
42 Walter Mioego

ne, cosa che ha comportato un diverso epilogo per alcuni avvenimenti


storici, come ad esempio la vittoria degli USA nella Guerra del Vie-
tnam. Protagonisti della storia sono appunto dei supereroi (privi però
di superpotere), che si trovano a dover affrontare una serie di eventi
originati dal misterioso omicidio di uno di essi.34

La figura del dr. Manhattan – unico vero su-


pereroe “per caso”35 del fumetto – deciderà le
sorti e la soluzione della vicenda: a lui, in una
specie di frame narrativo che ricorda molto da
vicino l’espiazione e l’addossarsi tutti i mali del
mondo della parabola cristiana, viene attribuita
la colpa di alcune esplosioni nucleari. Questo
pone immediatamente fine alla Guerra Fredda tra le due superpotenze
USA e URSS, che decidono di allearsi dichiarando una sorta di guerra
al più forte – fino a quel momento – alleato degli Stati Uniti e costrin-
gendolo in definitiva a una sorta di emigrazione su un altro pianeta.

5.2 Maschere buone, maschere cattive

Addentrandoci in questo percorso fatto di divagazioni si ri-


schiano di dire cose ovvie: la più ovvia di tutte è l’esistenza di
maschere buo-
ne e maschere
cattive – penso
espressamente
alle due maschere
contrapposte for-
se nel più celebre
fumetto della DC
Comics: Batman.
La Jaguar «Type E» di Diabolik Forse tra le con-
34
Fonte Wikipedia, alla voce «Watchmen».
35
Il suo nome è già un esplicito riferimento al reale progetto Manhattan che vide
l’ingaggio delle migliori menti scientifiche del mondo tra il 1939 e il 1942 per la corsa
alla bomba nucleare contro il Terzo Reich, negli Stati Uniti. Nella finzione fumettistica
Da Steve Jobs a Steve Workers 43

siderazioni meno ovvie sul gesto assai semplice di indossare la


maschera c’è da un lato il renderla immortale, come si accennava
sopra (gli uomini muoiono, ma le maschere come le idee di cui
sono portatrici – quando lo sono – no e, alla bisogna, possono
essere rispolverate), e dall’altro – come succede spesso in Diabo-
lik – l’uso “ovvio” della maschera (come protezione dell’identità
personale) per perpetrare sistematicamente l’inganno ai danni del
povero ispettore Ginko che, sempre a un passo dall’acciuffare «il
re del terrore», resta sempre con un pugno di mosche in mano.
Un’altra considerazione sui supereroi mascherati, forse meno
banale, ci arriva dalla «natura» stessa dei supereroi e non dalle
loro maschere. Quentin Tarantino nei due film che forse più di
ogni altro lo hanno portato alla ribalta – Kill Bill, primo e se-
condo episodio – mette in bocca, alla fine del secondo episodio,
quello in cui c’è, come nella migliore delle tradizioni, la resa dei
conti tra la buona Uma Thurman, alias Beatrix Kiddo, alias «The
Bride», alias Black Mamba (a dire – se mai ve ne fosse il bisogno
– che gli pseudonimi sono, a loro volta maschere…) e il cattivo
David Carradine, con il solo e semplice alias di Bill.
Ebbene: Bill fa un discorso all’eroina protagonista dei due
film, partendo da un preambolo che ha proprio a che fare con i
supereroi del fumetto:

l’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un


supereroe e il suo alter ego: Batman è di fatto Bruce Wayne, l’Uomo
Ragno è di fatto Peter Parker… Quando quel personaggio si sveglia al
mattino è Peter Parker; deve mettersi un costume per diventare l’Uomo
Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l’unico del suo ge-
nere: Superman non diventa Superman. Superman è nato Superman.
Quando Superman si sveglia al mattino è Superman! Il suo alter ego
è Clark Kent. Quella tuta con la grande «S» rossa è la coperta che lo

e successivamente cinematografica, Manhattan è in realtà un mite scienziato che divie-


ne una sorta di demiurgo – anzi una vera e propria divinità – a seguito di un incidente
nucleare al quale misteriosamente sopravvive, amplificando indefinitamente le proprie
potenzialità divenute ben presto totalmente fuori dall’umano.
44 Walter Mioego

avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono: sono quelli i suoi


vestiti. Quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro…
quello è il suo costume. È il costume che Superman indossa per mi-
metizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo con cui Superman ci vede. E
quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se
stesso, ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman
alla razza umana.

Forse per questo il decostruzionista Alan Moore, affianca


all’onnipotente Mr. Manhattan una serie di eroi minori che sof-
frono, piangono e muoiono, come il Comico.

6. Ritorno alla letteratura (e forse anche alla realtà): il sub-


comandante Marcos

Di quest’uomo, protagonista della rivoluzione zapatista, mol-


to si sa a dispetto del suo voler tenere celata l’identità sotto il pro-
verbiale passamontagna. In quella ufficiosa fonte di informazione
che è Wikipedia, troviamo, ancora una volta:

Il subcomandante Marcos è un rivoluzionario messicano, portavoce


dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. [...] Sebbene Marcos
(o il sup) compaia pubblicamente soltanto con il volto coperto da un
passamontagna, il governo messicano il 9 febbraio 1995 ha dichiarato
di averlo identificato nella persona di Rafael Sebastián Guillén Vicente
(Tampico, Messico, 19 giugno 1957), un ex-ricercatore dell’università
di Città del Messico.
Guillén è nato in Messico; figlio di immigrati spagnoli, ha studiato
in una scuola gesuita a Tampico, dove presumibilmente è entrato in
contatto con la teologia della liberazione. In seguito si è trasferito nel
Distretto Federale (Distrito Federal, o D.F., nome con il quale popo-
larmente si indica Città del Messico, che costituisce uno stato a sé nella
Confederazione messicana) dove si è laureato in filosofia all’Universi-
dad Nacional Autónoma de México (UNAM) con una tesi dal titolo
“Filosofía y educación: prácticas discursivas y prácticas ideológicas en
libros de texto de primaria”. In seguito, ha lavorato come professore
all’Universidad Autónoma Metropolitana.
Da Steve Jobs a Steve Workers 45

Marcos ha sempre negato di essere Rafael Guillén. La famiglia di


quest’ultimo ha affermato di ignorare dove egli si trovi e si è rifiutata di
confermare o smentire l’identificazione fatta dal governo. Durante la
grande marcia, che nel 2001 ha portato gli zapatisti a Città del Messi-
co, Marcos ha visitato l’UNAM e nel suo discorso è risultato evidente
che fosse già stato in precedenza in quei luoghi.36

Ad avvalorare la tesi del governo messicano – per quanto nes-


suna certezza si abbia in merito – c’è una caratteristica non sotto-
valutabile, ben evidenziata in questo aneddoto:

Un elemento non secondario della grande capacità comunicativa di


Marcos – capacità che costituisce forse la ragione principale per cui il
caso Chiapas è da oltre un decennio all’attenzione dei mass media – è
la sua scrittura. I suoi comunicati, le sue lettere sono di pregevolissima
fattura. Con lui il comunicato politico è uscito dall’angusto ambito po-
litico per entrare in quello letterario. Vanno ricordati soprattutto due
personaggi da lui creati: il vecchio Antonio e Don Durito della Lacan-
dona. Il primo rappresenta il lato indigeno della sua cultura, mentre il
secondo è espressione della cultura occidentale. Don Durito infatti è
uno scarafaggio che, similmente a Don Chisciotte, pensa di essere un
cavaliere errante e tratta lo stesso Marcos come fosse il suo scudiero. Di
Don Durito il Premio Nobel per la letteratura Octavio Paz, certo non
molto affine politicamente a Marcos, ha detto che si tratta di “un’in-
venzione letteraria memorabile”. Affermazione cui il Subcomandante
Marcos ha replicato, con il suo personale gusto per il paradosso, “lui
non è un’invenzione, è reale. Io, semmai, sono un’invenzione”.37

In un articolo di qualche anno fa38, Roberto Saviano sosteneva


che, per i regimi scarsamente democratici quando non evidente-
mente autoritari, la figura socialmente più «pericolosa» è quella
dello scrittore. Lo scrittore ha in mano quella impalpabile capa-
cità di dire «bene», di raccontare così bene una certa realtà da
trasportare il lettore all’interno di essa:

36
Fonte Wikipedia, alla voce «Subcomandante Marcos».
37
Ibid.
38
Roberto Saviano, Se lo scrittore morde, su «La Repubblica», 3 maggio 2007.
46 Walter Mioego

Non l’argomento, neanche lo stile, ma questa possibilità di creare paro-


le che non comunicano ma esprimono, in grado di sussurrare o urlare,
di mettere sottopelle al lettore che ciò che si sta leggendo lo riguarda.
Non è la Cecenia, non è Saigon, non è Dachau, ma è il proprio luogo,
e quelle storie sono le proprie storie. Ed il rischio per gli scrittori non
è mai di aver svelato quel segreto, di aver scoperto chissà quale verità
nascosta, ma di averla detta. Di averla detta bene.
Orhan Pamuk, Salman Rushdie, Anna Politkovskaja hanno avuto in
modalità fortemente diverse la responsabilità di fare delle storie che
raccontavano vicende riguardanti ogni essere umano e non più circo-
scritte alla geografia di un territorio. Questo rende lo scrittore perico-
loso, temuto. Può arrivare ovunque attraverso una parola che non tra-
sporta soltanto l’informazione, che invece può essere nascosta, fermata,
diffamata, smentita, ma trasporta qualcosa che solo gli occhi del lettore
possono smentire e confermare.
Questa potenza non puoi fermarla se non fermando la mano che la
scrive. La forza letteraria continua ad essere questa sua incapacità a
ridursi ad una dimensione, ad essere soltanto qualcosa, sia essa notizia,
informazione o sensazione, piacere, emozione. Questa sua fruibilità la
rende in grado di andare oltre ogni limite, di superare le comunità
scientifiche, gli addetti ai lavori, e di andare nel tempo quotidiano di
chiunque, divenendo strumento ingovernabile e capace di forzare ogni
maglia possibile. La potenza stessa che faceva temere di più ai governi
sovietici Boris Pasternak e Il dottor Zivago e I Racconti di Kolyma di
Salamov che gli investimenti del controspionaggio della Cia. Mentre i
saggisti venivano isolati, relegati in riviste accademiche, lasciati sfogare,
gli scrittori dovevano essere eliminati, le pagine nascoste, le parole rese
cieche e mute.

Certo: non solo questo rende Marcos così celebre, ma l’effica-


cia di un’idea passa inevitabilmente attraverso l’efficacia della sua
comunicazione.
Da Steve Jobs a Steve Workers 47

7. Per finire, il teatro: lo «strano caso» di Hilario Halubras

Hilario Halubras è una maschera sociale. Anzi: è una masche-


ra che il suo tramite – l’attore Marco Gobetti39 – ha tentato di
evocare pubblicamente nel suo «Teatro Stabile di Strada»40. Nella
pagina web sulla quale racconta la genesi e lo sviluppo del pro-
getto leggiamo:

Il progetto nacque nell’autunno 2009, con l’intento di fare evolvere


il tentativo di contaminazione del sistema teatrale già in atto con il
Teatro stabile di strada: oltre che portare su strada, in modo autonomo,
organizzato e frazionatamente stanziale, spettacoli già presentati nei
circuiti istituzionali, si sarebbe tentato di creare liberamente uno spet-
tacolo su strada, per poi presentarlo nel sistema teatrale. [...].
Entreranno a fare parte della drammaturgia pure gli attimi vissuti, le
persone incontrate o evocate, le lingue ascoltate e le storie raccolte du-
rante ogni fase del progetto [...].
«La vera storia di Hilario Halubras» è progetto di produzione culturale,
senza previsioni possibili di denaro, tempo e mezzi impiegati. Si tratta
di una spettacolarità infinita, che ha l’intento di diffondere la cultura
teatrale nel suo aspetto più contemporaneo, il mestiere dell’attore. Essa
si adatterà e si trasformerà proprio in base ai mezzi a disposizione (ot-
tenuti mediante erogazioni liberali), al pubblico con il quale avverrà e
alla disponibilità degli artisti associati.
È spettacolarità non commerciabile, perché è parte integrante di un
mercato anomalo: il mercato del libero scambio culturale, fra cittadini
che liberamente si associano, nelle forme, continuative o occasionali,
consentite dalla legge. Tale spettacolarità avviene su strada.
Per queste ragioni il meccanismo de «La vera storia di Hilario Halu-
bras» non mira a produrre uno spettacolo, perché esso stesso è spet-
tacolo nell’incontro ogni volta diverso, fra cittadini diversi. L’unica
produzione a cui mira, è quella culturale: in quanto tale potrà arric-
chirsi (a seconda delle circostanze) di aspetti laboratoriali, didattici,
informativi, dialettici...
39
http://nuke.marcogobetti.org/.
40
http://nuke.teatrostabiledistrada.org/.
41
All’indirizzo: http://nuke.marcogobetti.org/Progettiedeventi/LaverastoriadiHi-
larioHalubras/tabid/118/Default.aspx.
48 Walter Mioego

È iniziativa rivolta agli artisti soci dell’Associazione Culturale Compa-


gnia Marco Gobetti, da cui è promossa, ma avviene su strada, pubblica-
mente, perché si alimenta dell’incontro con il resto della cittadinanza.
Gli artisti intendono farsi cittadini fra cittadini, favorendo la crescita
culturale propria ed altrui e stimolando l’incremento delle possibilità
comunicative ed associative di ciascuno.
Gli artisti che promuovono tale meccanismo, mirano ad arricchire
l’immaginario collettivo con una figura viva, una maschera contempo-
ranea (Hilario Halubras appunto). Un tipo fisso che non smetterà mai
di crescere e maturare in relazione alle realtà con cui verrà a contatto
(mediatiche, linguistiche, economiche, sociali...), con l’unico vincolo
della propria origine: la stessa precisa, immutabile vicenda che di volta
in volta verrà resa nota.
Le prove pubbliche de «La vera storia di Hilario Halubras» costitui-
scono dunque un cantiere in continua evoluzione. Quando Hilario
Halubras avrà sufficiente maturità, da solo o con altri attori, certo farà
spettacoli: ma tale attività, commerciale, sarà assolutamente svincolata
dalla crescita del suo personaggio all’interno della società. Tale crescita
prescinderà dal corpo dell’attore che lo interpreta, sopravvivendogli in
un altro corpo quando questi morirà. Tale crescita sempre ed ovunque
avverrà in strada e porterà il nome de «La vera storia di Hilario Ha-
lubras», mentre i titoli degli spettacoli (che potranno invece avvenire
ovunque, pure nei teatri) dipenderanno da dettagli di non poco conto
della burrascosa nascita del nostro, assumendo precisi riferimenti spa-
zio-temporali: «Hilario Halubras e l’Italia del XX secolo d.C.», «Hilario
Halubras e il I secolo d. C.», «Hilario Halubras e l’Africa del XIX secolo
d.C.», «Hilario Halubras e l’Atene del V secolo a.C.» e così via...
Intanto, Hilario Halubras nasce e cresce, con «La vera storia di Hilario
Halubras». Una second life in carne ed ossa, per l’attore che interpreta
H.H.; «teatro nel teatro» inteso come evento pubblico - e non come
rappresentazione -, per gli artisti che collaborano alla creazione della
maschera di H.H.; un pezzo di vita per tutti i cittadini coinvolti, artisti
e pubblico; una soluzione per esistere, per Hilario Halubras.

Hilario, alias Marco Gobetti, si era dotato a suo tempo anche


delle più moderne tecnologie di comunicazione con un sito/blog
e una sorta di web-radio dalla quale era possibile scaricare gli in-
terventi e le narrazioni da lui stesso compiute.
Da Steve Jobs a Steve Workers 49

Il tentativo di evocare Hilario Halubras durante le prove aperte del 25


maggio 2010 a Torino, nei pressi di «Palazzo Nuovo», sede delle facoltà
umanistiche dell’Università di Torino.

Ho partecipato a una delle prove aperte nel quale Hilario, pur


per pochi istanti è stato con noi. È stata un’esperienza piuttosto
suggestiva di cui volli lasciar traccia scrivendo una lettera a Hila-
rio. Egli la pubblicò sul suo sito:

Quello spettatore che mi scrisse ieri sera un un messaggio sul quader-


no, promettendo un più ampio dissertare, mi ha mandato oggi una e-
mail. La riporto qui di seguito, per ora senza commentarla (come scrissi
poc’anzi, sto cercando di non pensare). Dico solo che certo costui ieri
mi ha visto. O si è visto. O entrambi i casi. E comunque lui c’era.

Torino, 26 maggio 2010


Caro Hilario,
ho assistito alla tua performance di ieri sera. Alla tua intermittente
apparizione, al grado zero (la strada) di un mondo che potrebbe non
accorgersi realmente di te neppure se tu fossi Superman. È un tentativo
50 Walter Mioego

commovente e coraggioso, il tuo e già solo per questo meriti tutta la


stima e l’affetto di cui sono capace. Su di me la tua comparsa, per esem-
pio, ha fatto un certo effetto. Un effetto che si esplicita innanzitutto
in questa azione – per me «facile» – della scrittura. Unico strumento,
spuntato e abusato, che possiedo.
Ieri mentre ti guardavo da vicino, seduto proprio accanto a te, sul pavé
di fronte all’università – e ti assicuro: in tutti questi anni, pur essendo
passato molte volte lì davanti, non ho mai cambiato così tanto il punto
di vista come ieri sera, sedendomi per terra… – mentre comparivi, a
fatica, sui tratti del volto di Marco che cercava in tutti i modi di con-
vincerti ad essere qui, in un mondo che non sa chi sei, che non vuole
saperlo, che si guarda l’ombelico, che – come abbiamo visto in più
di una occasione scappa davanti a una persona che parla a una platea
in buona parte m’è sembrato di capire costituita da amici – ebbene,
dicevo, mentre ti vedevo, mi hai fatto venire in mente V for Vendetta.
Certo: riferimento cultural-popolare ben lontano da te che hai letto in
poche ore tutta la letteratura di tutto il mondo in tutte le lingue; non
certo il l’anticogreco Esiodo che hai così ben evocato, ma è un riferi-
mento. Importante.
Importante perché non esistono – ai miei occhi – una cultura «alta» e
una «bassa», quanto piuttosto una efficace e una inefficace. Una tasso-
nomia, la mia, che mette nel backstage tutti i grandi e grandissimi di
cui possiamo essere a conoscenza – proprio a partire da quel Platone
che hai citato e che, in un altro – questa volta: notissimo – mito, quello
della caverna, parla della conoscenza tout court e non solo, di nuovo,
quella «alta» dell’epistemologia, della scienza, della filosofia, ma cono-
scenza di una vita che dovremmo essere in grado di vivere eticamente
con un maggior senso di libertà, con maggior spirito critico. Senza
omologazione.
L’autore di V for Vendetta è un signore inglese che si chiama Alan
Moore. Nella sua vita è famoso per aver scritto e inchiostrato un altro
fumetto d’autore come Watchmen, una specie di moderna mitologia
da supereroi Marvel che forse incuriosirebbe la nostra Xxxxxxx (nome
criptato per tutela privacy). Ne è uscito, anche questa volta, un film,
non moltissimo tempo fa. Il tema comune a entrambi è – pur sotto
punti di vista differenti – la sorte dell’umanità: nel primo caso di una
ipotetica (ma forse neppure tanto a ben pensarci) e distopica Londra,
risvegliata brutalmente nelle sue coscienze proprio attraverso la tv, lo
strumento del dominio in assoluto, dove questo signore – dai modi
garbati e gentili con chi è garbato e gentile; dai modi violenti con chi
Da Steve Jobs a Steve Workers 51

è violento – non esita a indurre le persone a riprendere possesso «ci-


vilmente», in un senso civico prima ancora che politico, delle proprie
esistenze, in un mondo dal quale la dimensione politica è assente (ab-
bastanza profeticamente come avviene nel nostro).
Nel secondo caso l’affresco ha una dimensione più fantascientifica in
senso stretto, ma la fantapolitica – neppure tanto fanta- – gioca un suo
ruolo. Di nuovo ci siamo di mezzo tutti noi e gli eroi, buoni o malvagi,
giocano sopra le nostre teste i nostri destini. Alan Moore non sta nei
libri di letteratura: il fumetto semplicemente non è considerato veicolo
ufficiale di cultura, così come non lo è la fantascienza.
Allora così come Alan Moore esiste un altro nome: Philip K. Dick.
Un altro «mattacchione», un irregolare della vita che ha scritto cose
meravigliose, una tra le quali è sotto gli occhi di tutti: un vecchio film,
con la regia di Ridley Scott, dal titolo Blade Runner. Il film è tratto da
Cacciatore di androidi, un romanzo che dobbiamo proprio a lui (ma
che lo dico a fare a te che hai letto tutto?) nel quale è chiaro l’effetto
paradosso: le macchine sempre più assomigliano agli uomini, hanno
comportamenti da uomini, arrivano ad avere pensieri da uomini, vo-
gliono arrivare ad avere una storia da uomini, perché possedere, avere
una storia personale da raccontare significa avere una identità. E in
questo gioco delle parti nel quale Dick spinge il piede sull’acceleratore
per portarne alle estreme conseguenze gli effetti, le macchine sono più
perfette, sotto molti punti di vista, dei loro creatori: può una macchi-
na, per quanto sofisticata, mentire?
La risposta è no, perché se ipoteticamente basate su una logica zero-
uno NON possono mentire volontariamente. Ancora una volta la
perfezione, caro Hilario, sta altrove e non nell’uomo che – nella sua
accezione più generale – non brilla per minima coerenza e quando lo
fa, vi riesce perseguendo il male assoluto (penso a quell’Hitler che sta
perdendo la guerra e anziché difendere il difendibile della Germania in
ginocchio, richiama i soldati del fronte per accelerare e «finire il lavoro»
con gli ebrei nei campi di sterminio…).
Ho divagato ma ora torno a questa idea bella di maschera sociale e col-
lettiva quale sei o/e vorresti essere. V for Vendetta lo è di fatto. È anche
nella sua personificazione, una maschera. In Watchmen – proprio come
accade a te – il protagonista ha un incidente nucleare (gli anni in cui
scrive Moore sono quelli, sono il post-atomico, è la guerra fredda, è un
mondo sotto scacco – Watchmen va letto/visto contestualizzato in quel
mondo…): la sua testa non si scontra esattamente contro quella di un
porco dai benefici attributi, ma, molto più «in grande», è una specie
52 Walter Mioego

di giovane e aitante Einstein che rimane intrappolato dentro una mac-


china nella quale, appunto, si fanno esperimenti nucleari – ovviamente
molto pericolosi. Sembra lo scienziato debba morire, ma questo non
succede e diventa il supereroe che il mondo conosce. In questo si vede
lo scarto tra te e lui: tu non riesci a diventare neppure eroe perché sare-
sti potuto diventarlo solo morendo (ma sopravvivi); lui, pur sopravvi-
vendo, lo diventa perché si fa carico dei destini dell’umanità intera…
Forse, pensavo ieri sera, mentre ti ascoltavo, bisognerebbe essere in
grado di essere maschera collettiva, maschera «distribuita» o, in una
notazione cara agli internauti, una «maschera 2.0». Ognuno di noi può
essere te. In parte, un pezzettino, per pochi secondi o minuti. Per una
singola azione. Io, in un mondo in cui è ormai assente la difesa dei
diritti collettivi e individuali (uscito da te ho fatto il pieno andando a
vedere Draquila, il film-documentario di Sabina Guzzanti sulla specu-
lazione del terremoto e il fantasmagorico potere della protezione
(in)civile di Bertolaso…) sono stato – ma solo per me stesso – talvolta
V for Vendetta.
Lo sono stato in occasioni del passato remoto, nella mia storia lavora-
tiva. Lo sono stato in una occasione recente, quando mi sono conge-
dato dalla Xxxxxxx (nome di casa editrice, criptato per tutela privacy)
sbattendo la porta con la lettera che non ho difficoltà ad allegarti. Indi-
rizzata agli apicali della società: Xxxxxxx (nome criptato per tutela pri-
vacy), la mia «capa», e Xxxxxxx (nome criptato per tutela privacy), ex
direttore editoriale, ora in pensione. Una lettera che, caro Hilario, non
mi faccio illusioni: non è servita a niente, se non a me, per una specie
di fedeltà a me stesso. Una lettera che però ho fatto leggere a qualcuno.
La stima di queste persone nei miei confronti è aumentata, ma non è la
lusinga personale che mi interessa (in quanto sterile di per sé), quando
piuttosto mostrare, nei fatti, un «esempio di comportamento virtuo-
so» (auspicando che lo sia…). Beninteso: un esempio che può essere
discusso, contestato. E anche, come nella stragrande maggioranza dei
casi avviene, ignorato. Ma un esempio. Un esempio di prassi sociale
che raggiunge il suo scopo se anche solo una persona, una volta, in una
occasione, alza la testa e dice no.
Poi devo dire: ho anche la fortuna di avere conoscenti e amici che le
loro battaglie – piccole o grandi poco importa – le fanno, le hanno fat-
te, nel silenzio dei loro microcosmi. Elementi importanti e rincuoranti.
Elementi che forse andrebbero resi maggiormente «pubblici».
Chiudo questa ormai lunga comunicazione con altri due elementi, in
parte scissi e in parte no da quanto precede, che ieri sera il vederti mi
ha suggerito. La dinamica – narrata da una certa chiesa, un poco più
Da Steve Jobs a Steve Workers 53

illuminata – secondo la quale Gesù è il nostro prossimo, è la persona


che abbiamo accanto a noi è elemento, per me, di riflessione. L’idea di
vedere nei diseredati, nei poveri, nei «diversi» (senza retorica) il tocco
divino. Lunedì mattina ho accompagnato mia madre alla stazione del
Lingotto a prendere un treno che la riportasse a casa, in Toscana. Un
ragazzetto distribuiva volantini davanti alle scale. Aveva un cappellino-
sponsor della cosa che stava distribuendo e teneva lo sguardo basso,
dietro gli occhiali e la visiera del cappello. L’ho ringraziato per la pub-
blicità che mi stava dando.
Quasi meravigliato ha tirato su per un attimo la testa e mi ha guardato,
per poi riabbassarla immediatamente. È stata una frazione di secondo,
ma, caro Hilario, me lo sarei abbracciato.
Si capiva un po’ che no era tanto centrato. Si capisce dallo sguardo
sfuggente, obliquo, che queste persone hanno bisogno di mettersi di
profilo, di far meno resistenza possibile in questa turbinosa (quando
non densa di uragani) galleria aerodinamica che è la vita. Una vita che
se prendessero di petto li farebbe volare via.
Ho appena finito di leggere Educazione siberiana di Nicolai Lilin. Il
protagonista narra la sua infanzia e adolescenza in un mondo crimi-
nale, ma di una criminalità con regole ferree e molto precise che solo
una categoria di persone può contravvenire: i «voluti da Dio», ovvero:
coloro che non hanno tutti i venerdì, gli autistici, i disabili. Loro pos-
sono fare quello che vogliono e non possono essere toccati da nessuno.
Pena: la morte.
In conclusione: la storia (non solo della letteratura – penso al collettivo
di matematici che dal 1935 al 1983 si firmava Nicolas Bourbaki) è pie-
na di episodi in cui le persone si danno altre identità o anche nessuna
identità (in realtà per darsene molte… penso al Luther Blisset Project
diventati poi Wu Ming…).
Io stesso ti scrivo da una mail che è già identità altra, quella del coman-
dante Nord. A capo della Seconda Divisione Langhe durante la guerra
partigiana, nella finzione romanzesca del libro (per me) più bello del
‘900, Il partigiano Johnny. Ma Fenoglio è scrittore troppo (auto)biogra-
fico e aderente alla realtà, così si scopre in fretta che Nord, altri non è,
nella realtà che il comandante Poli, al secolo Piero Balbo, realmente a
capo di quella Divisione. Nord esiste davvero, come dimostra questo
articolo di Repubblica che ti allego insieme alla lettera di «dimissioni»
che ho inviato alla casa editrice.
Adesso Nord – molto immodestamente – sono io. E lo sono perché
serve (rac)cogliere una eredità.
In attesa di un nostro prossimo incontro, Nord
54 Walter Mioego

8. Titoli di coda e backstage: il debito (grande) con Wu Ming

Per l’ispirazione alla scrittura di getto di queste brevi note, verso


questa specie di instant book, che ne è venuto fuori, sono in debito
verso gli autori della newsletter Giap!, cui sono iscritto dalle prime
apparizioni del gruppo. In particolare il backstage di questo mode-
sto lavoro nasce da tre post piuttosto ravvicinati tra loro – il primo
del 26 settembre42, una vera e propria lezione di «marxismo appli-
cato», il secondo dell’8 ottobre e l’ultimo del 21 novembre 2011.
Li riporto qui di seguito per dare, come si dice, a Cesare quel che è
di Cesare, e attribuire alla maschera ciò che è della maschera.
Incidentalmente: il gruppo in questi anni non è sempre stato
lo stesso; un membro è uscito dal gruppo e un altro vi è entrato;
darsi uno pseudonimo significa darsi una «continuità identitaria»
che prescinde da queste variazioni. Ancora una volta: le singole
esistenze dei componenti confluiscono nella più grande esistenza
della maschera che loro si sono voluti dare.

8.1 WM1: Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto:


i casi Amazon e Apple

La settimana scorsa The Morning Call, un quotidiano della


Pennsylvania, ha pubblicato una lunga e dettagliata inchiesta –
intitolata Inside Amazon’s Warehouse – sulle terribili condizioni di
lavoro nei magazzini Amazon della Lehigh Valley. Il reportage,
risultato di mesi di interviste e verifiche, sta facendo il giro del
mondo ed è stato ripreso dal New York Times e altri media main-
stream. Il quadro è cupo:
- estrema precarietà del lavoro, clima di perenne ricatto e as-
senza di diritti;
- ritmi inumani, con velocità raddoppiate da un giorno all’al-
tro (da 250 a 500 “colli” al giorno, senza preavviso), con una
42
Pubblicato anche in versione cartacea (e ridotta) sulla rivista settimanale «Inter-
nazionale», n° 928 del 16 dicembre 2011, p. 45.
Da Steve Jobs a Steve Workers 55

temperatura interna che supera i 40° e in almeno un’occasione


ha toccato i 45°;
- provvedimenti disciplinari ai danni di chi rallenta il ritmo
o, semplicemente, sviene (in un rapporto del 2 giugno scorso si
parla di 15 lavoratori svenuti per il caldo);
- licenziamenti “esemplari” su due piedi con il reprobo scor-
tato fuori sotto gli occhi dei colleghi. E ce n’è ancora. Leggetela
tutta, l’inchiesta. Ne vale la pena. La frase-chiave la dice un ex-
magazziniere: “They’re killing people mentally and phisically”.
A giudicare dai commenti in rete, molti cadono dalle nuvole,
scoprendo soltanto ora che Amazon è una mega-corporation e
Jeff Bezos un padrone che – com’è consueto tra i padroni – vuole
realizzare profitti a scapito di ogni altra considerazione su dignità,
equità e sicurezza.
Come dovevasi sospettare, il “miracolo”-Amazon (super-scon-
ti, spedizioni velocissime, “coda lunga”, offerta apparentemente
infinita) si regge sullo sfruttamento di forza-lavoro in condizio-
ni vessatorie, pericolose, umilianti. Proprio come il “miracolo”-
Walmart, il “miracolo”-Marchionne e qualunque altro miraco-
lo aziendale ci abbiano propinato i media nel corso degli anni.
Quanto appena scritto dovrebbe essere ovvio, eppure non lo è.
Il disvelamento non riguarda un’azienda qualsiasi, ma Amazon,
sorta di “gigante buono” di cui – anche in Italia – si è sempre
parlato in modo acritico, quando non adorante e populista. The
Morning Call ha rotto un incantesimo. Fino a qualche giorno fa,
con poche eccezioni, i mezzi di informazione (e i consumatori
stessi) accettavano la propaganda di Amazon senza l’ombra di un
dubbio, come fosse oro colato. D’ora in poi, forse si cercheranno
più spesso i riscontri, si faranno le dovute verifiche, si andranno
a vedere eventuali bluff. Con il peggiorare della crisi, sembra au-
mentare il numero degli scettici.
Il problema di multinazionali che vengono percepite come
“meno aziendali”, più “cool” ed eticamente – quasi spiritualmente
56 Walter Mioego

– migliori delle altre riguarda molte compagnie associate a Inter-


net in modo tanto stretto da essere identificate con la rete stessa.
Un altro caso da manuale è Apple.

8.1.1. iPhone, iPad, youDie


L’anno scorso ha fatto scalpore – prima di essere sepolta da cu-
muli di sabbia e silenzio – un’ondata di suicidi tra gli operai della
Foxconn, multinazionale cinese nelle cui fabbriche si assemblano
iPad, iPhone e iPod.
In realtà le morti erano iniziate prima, nel 2007, e sono pro-
seguite in seguito (l’ultimo suicidio accertato è del maggio scor-
so; un altro operaio è morto a luglio in circostanze sospette). A
essersi uccisa, nel complesso, è una ventina di dipendenti. Inda-
gini di vario genere hanno indicato tra le probabili cause tempi
infernali di lavoro, mancanza di relazioni umane dentro la fab-
brica e pressioni psicologiche da parte del management. A volte
si è andati ben oltre le pressioni psicologiche: il 16 luglio 2009,
un dipendente 25enne di nome Sun Danyong si è gettato nel
vuoto dopo aver subito un pestaggio da parte di una squadraccia
dell’azienda. Sun era sospettato di aver rubato e/o smarrito un
prototipo di iPhone. Che soluzioni ha adottato la Foxconn per
prevenire queste tragedie? Beh, ad esempio, ha installato delle
“reti anti-suicidio”43.
Questi dietro-le-quinte del mondo Apple non ricevono molta
attenzione, a paragone dei bollettini medici di Steve Jobs o di
pseudo-eventi come l’inaugurazione, nella centralissima via Riz-
zoli di Bologna, del più grande Apple Store italiano44 (kermesse
43
Per approfondire questo tema, consiglio i link raccolti nella pagina di wikipedia
e la visione del video divulgativo Deconstructing Foxconn.
44
WM1 qui credo si riferisca espressamente alla rivista di tecnologia glamour Wi-
red, sopratutto nella parte che segue in cui cita espressamente il riferimento alla candi-
datura di Internet al Nobel per la pace. Proprio in odore di - e in onore della - «santifi-
cazione» post-mortem, a tempo di record la rivista ha fatto uscire un numero fortemente
incentrato sulla morte di Jobs con un cospicuo articolo nelle pagine centrali titolato
significativamente Il vangelo secondo Steve Jobs. L’articolo/dossier riporta al fondo brani
Da Steve Jobs a Steve Workers 57

doverosamente smitizzata dal sempre ottimo Mazzetta). In quella


circostanza, diverse persone hanno trascorso la notte in strada in
attesa di entrare nel tempio. Costoro non sanno niente del con-
nubio di lavoro e morte che sta a monte del marchio che vene-
rano. Nel capitalismo, mettere la maggiore distanza possibile tra
“monte” e “valle” è l’operazione ideologica per eccellenza.
Feticismo, assoggettamento, liberazione
Quando si parla di Rete, la “macchina mitologica” dei nostri
discorsi – alimentata dall’ideologia che, volenti o nolenti, respi-
riamo ogni giorno – ripropone un mito, una narrazione tossica:
la tecnologia come forza autonoma, soggetto dotato di un suo
spirito, realtà che si evolve da sola, spontaneamente e teleologica-
mente. Tanto che qualcuno – non lo si ricorderà mai abbastanza
– ha avuto la bella pensata di candidare Internet (che come tutte
le reti e infrastrutture serve a tutto, anche a fare la guerra) al…
Nobel per la Pace.
A essere occultati sono i rapporti di classe, di proprietà, di
produzione: se ne vede solo il feticcio. E allora torna utile il Karl
Marx delle pagine sul feticismo della merce (corsivo mio): «Quel
di interviste rilasciate lungo gli anni. Nel 2010 alla D8 Conference la giornalista Kara
Swisher incidentalmente chiede a Jobs: «Ti arrivano notizie su ciò che succede alla
Foxconn?»; la risposta non poteva essere più diplomatica: «Sono profondamente con-
vinto che Apple sia una delle aziende più impegnate, e non solo nel nostro settore, a
capire le condizioni di lavoro lungo tutta la catena produttiva. Siamo molto rigorosi.
Quindi posso dirti alcune cose che sappiamo, e poi chiudiamo il discorso. La Foxconn
non è un carcere. Se la visiti, vedrai che sì, è una fabbrica, ma cavoli, ci sono ristoranti,
cinema, ospedali e piscine. Insomma, per essere una fabbrica, è una gran bella fabbrica.
Se conti i tentati suicidi, quest’anno sono stati 13 in sei mesi. È uno stabilimento in cui
lavorano 400mila persone, quindi possiamo ipotizzare 26 tentativi di suicidio all’anno
su un totale di 400mila persone, ovvero 7 su 100mila, comunque meno della media
dei suicidi negli Stati Uniti, che è di 11 persone su 100mila. Ciò non toglie che sia un
dato preoccupante». Insomma: Jobs intanto parla di «tentati suicidi» anziché «suicidi»,
e mi pare ci sia una bella differenza - tipicamente la differenza tra una persona viva e
una morta. Inoltre, ma questa è una sensazione del tutto personale, la descrizione che fa
Jobs della fabbrica somiglia in modo inquietante alle messe in scena che i regimi - uno
per tutti: quello nazista - per mostrare al mondo la falsa realtà dei campi di sterminio:
posti quasi idilliaci in cui le persone operosamente e volontariamente colaboravano con
la propria manodopera alla grandezza del Reich.
58 Walter Mioego

che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rap-


porto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli
uomini stessi».
“Forma fantasmagorica di un rapporto tra cose”. Come i com-
puter interconnessi a livello mondiale. Dietro la fantasmagoria
della Rete c’è un rapporto sociale determinato, e Marx intende:
rapporto di produzione, rapporto di sfruttamento. Su tali rap-
porti, la retorica internettiana getta un velo. Si può parlare per
ore, giorni, mesi della Rete sfiorando solo occasionalmente il pro-
blema di chi ne sia proprietario, di chi detenga il controllo reale
dei nodi, delle infrastrutture, dell’hardware. Ancor meno si pensa
a quale piramide di lavoro – anche para-schiavistico – sia incorpo-
rata nei dispositivi che usiamo (computer, smartphone, Kindle) e
di conseguenza nella rete stessa.
Ci sono multinazionali che tutti i giorni (in rete) espropriano
ricchezza sociale e (dietro le quinte) vessano maestranze ai quattro
angoli del mondo, eppure sono considerate… “meno multinazio-
nali” delle altre. Finché non ci si renderà conto che Apple è come
la Monsanto, che Google è come la Novartis, che fare l’apologia
di una corporation è la pratica narrativa più tossica che esista, si
tratti di Google, FIAT, Facebook, Disney o Nestlé… Finché non
ci si renderà conto di questo, nella rete ci staremo come pesci.
[N.B. A scanso di equivoci: io possiedo un Mac e ci lavoro
bene. Ho anche un iPod, uno smartphone con Android e un Kin-
dle. Chi fa il mio lavoro deve conoscere le modalità di fruizione
della cultura e di utilizzo della rete. Ma cerco di non essere feti-
cista, di non rimuovere lo sfruttamento che sta a monte di questi
prodotti. È uno sforzo improbo, ma bisogna compierlo. Come
spiegherò meglio sotto, la mia critica non si incentra sull’accusa
di «incoerenza» del singolo e sul comportamento individuale del
consumatore, su cui negli ultimi anni si è costruita una retorica
sviante, ma sulla necessità di connettere l’attivismo in rete alle
lotte che avvengono «a monte», nella produzione materiale.]
Da Steve Jobs a Steve Workers 59

Per colpa del net-feticismo, ogni giorno si pone l’accento solo


sulle pratiche liberanti che agiscono la rete – pratiche su cui, per
essere chiari, noi WM scommettiamo tutti i giorni da vent’anni
–, descrivendole come la regola, e implicitamente si derubricano
come eccezioni le pratiche assoggettanti: la rete usata per sfruttare
e sottopagare il lavoro intellettuale; per controllare e imprigiona-
re le persone (si veda quanto accaduto dopo i riots londinesi); per
imporre nuovi idoli e feticci alimentando nuovi conformismi; per
veicolare l’ideologia dominante; per gli scambi del finanzcapita-
lismo che ci sta distruggendo. In rete, le pratiche assoggettanti
sono regola tanto quanto le altre. Anzi, a voler fare i precisini,
andrebbero considerate regola più delle altre, se teniamo conto
della genealogia di Internet, che si è evoluta da ARPAnet, rete
informatica militare.
La questione non è se la rete produca liberazione o assogget-
tamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. È la
sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete
è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in
ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affer-
mò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù)
e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo
disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel ca-
pitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza,
genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo
riparte a un livello più alto.
La lotta allora dovrebbe essere questa: far leva sulla liberazione
per combattere l’assoggettamento.
Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche as-
soggettanti. Ma questo si può fare solo smettendo di pensare alla
tecnologia come forza autonoma e riconoscendo che è plasmata
da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di
potere e di classe. Se la tecnologia si imponesse prescindendo da
tali rapporti semplicemente perché innovativa, la macchina a va-
60 Walter Mioego

pore sarebbe entrata in uso già nel I secolo a.C., quando Erone di
Alessandria realizzò l’eolipila45. Ma il modo di produzione antico
non aveva bisogno delle macchine, perché tutta la forza-lavoro
necessaria era assicurata dagli schiavi, e nessuno poté o volle im-
maginarne un’applicazione concreta.
È il feticismo della tecnologia come forza autonoma a farci
ricadere sempre nel vecchio frame “apocalittici vs. integrati”. Al
minimo accenno critico sulla rete, gli “integrati” ti scambieranno
per “apocalittico” e ti accuseranno di incoerenza e/o oscuranti-
smo. La prima accusa di solito risuona in frasi come: “Non stai
usando un computer anche tu in questo momento?”; “Non li
compri anche tu i libri su Amazon?”; “Ce l’hai anche tu uno
smartphone!” etc. La seconda in inutili lezioncine tipo: “Pensa
se oggi non ci fosse Internet…” Nell’altro verso, ogni discorso
sugli usi positivi della rete verrà accolto dagli “apocalittici” come
la servile propaganda di un “integrato”. Ricordiamoci sempre di
Erone di Alessandria. La sua storia ci insegna che quando parlia-
mo di tecnologia, e più nello specifico di Internet, in realtà stiamo
parlando di altro, cioè dei rapporti sociali.
Insomma, torniamo a chiederci: chi sono i padroni della rete?
E chi sono gli sfruttati nella rete e dalla rete? Scoprirlo non è
poi tanto difficile: basta leggere le “Norme di utilizzo” dei social
network a cui siamo iscritti; leggere le licenze del software che
utilizziamo; digitare su un motore di ricerca l’espressione “Net
Neutrality”… E, dulcis in fundo, tenere in mente storie come
quelle dei magazzini Amazon e della Foxconn. Solo in questo
modo, credo, eviteremo scemenze come la campagna “Internet
45
«L’eolipila [...], anche conosciuta come motore di Erone, può essere considerato
l’antenato del motore a getto e della macchina a vapore. Descritta nel I secolo dal
matematico e scienziato greco Erone di Alessandria, è costituita da una sfera (probabil-
mente metallica), che si mantiene in rotazione per effetto del vapore contenuto al suo
interno, che fuoriesce con forza da due tubi sottili a forma di “L”. Prima degli scritti di
Erone, uno strumento definito eolipila fu descritto nel I secolo a.C. da Vitruvio nel suo
trattato De architectura[4] ma senza fare menzione di parti rotanti». Fonte Wikipedia,
alla voce «Eolipila».
Da Steve Jobs a Steve Workers 61

for Peace” o, peggio, narrazioni del futuro orrende, di “totalitari-


smo soffice”, come quella che emerge dal famigerato video della
Casaleggio & Associati intitolato Gaia: The Future of Politics.
Non illudiamoci: saranno conflitti durissimi a stabilire se
all’evoluzione di Internet corrisponderà un primato delle prati-
che di liberazione su quelle di assoggettamento, o viceversa.

8.1.2. Il lavoro (di merda) incorporato nel tablet


Ultimamente, chi ritiene che nel capitalismo odierno non val-
ga più la teoria marxiana del valore-lavoro fa l’esempio dell’iPad,
e dice: il lavoro fisico compiuto dall’operaio per assemblare un
tablet è poca roba, il valore del tablet è dato dal software e dalle
applicazioni che ci girano sopra, quindi dal lavoro mentale, co-
gnitivo, di ideazione e programmazione. Lavoro che “sfugge” da
ogni parte, inquantificabile in termini di ore di lavoro. Ciò mette-
rebbe in crisi l’idea marxiana che – taglio con l’accetta – il valore
di una merce sia dato dalla quantità di lavoro che essa incorpora,
o meglio: dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla.
Per “tempo socialmente necessario” Marx intende il tempo medio
utilizzato dai produttori di una data merce in una data fase dello
sviluppo capitalistico.
Non sono un esperto di economia politica, ma mi sembra-
no due livelli coesistenti. Forse la teoria del valore-lavoro viene
liquidata troppo in fretta. Io credo che il suo nocciolo di senso
(nocciolo “filosofico” e concretissimo) permanga anche col mu-
tare delle condizioni.
Oggi il lavoro è molto più socializzato che ai tempi di Marx e i
processi produttivi ben più complessi (e il capitale più condiziona-
to da limiti esterni, cioè ambientali), eppure chi fa quest’esempio
accorcia il ciclo e isola l’atto dell’assemblaggio di un singolo iPad. Mi
sembra un grosso errore metodologico. Andrebbe presa in consi-
derazione la mole di lavoro lungo l’intero ciclo produttivo di un’in-
tera infornata di tablet (o di laptop, di smartphone, di e-reader,
62 Walter Mioego

quel che vi pare). Come giustamente diceva Tuco nella discussione


in cui ha iniziato a prendere forma il presente intervento:

Uno dei punti essenziali è che tutta la baracca non si potrebbe mai
mettere in movimento per produrre cento iPad. Se ne devono produrre
almeno cento milioni. A prima vista potrebbe sembrare che il lavoro
intellettuale necessario per sviluppare il software dell’iPad generi di per
sé valore, indipendentemente dal resto del ciclo produttivo. Questo
però vorrebbe dire che il valore generato da questo lavoro intellettuale
è indipendente dal numero di iPad che vengono prodotti. In realtà non
è così. Se non facesse parte di un ciclo che prevede la produzione con
modalità fordiste di cento milioni di iPad, quel lavoro intellettuale non
genererebbe praticamente nessun valore.

Fissato questo punto, nel considerare quanto lavoro vada a


incorporarsi in un tablet si può: 1) partire dal reperimento di una
materia prima come il litio. Senza di esso non esisterebbero le
batterie ricaricabili dei nostri gadget. In natura non esiste in for-
ma “pura”, e il processo per ottenerlo è costoso e impattante per
l’ambiente. [Tra l’altro, il 70% dei giacimenti mondiali è in fon-
do ai laghi salati della Bolivia, e il governo boliviano non ha al-
cuna intenzione di svenderlo. Oltre a questi problemi geopolitici,
ci si mettono pure i terremoti. Questa fase primaria del ciclo pare
destinata a complicarsi e a richiedere più lavoro.]; 2) prendere
in considerazione le nocività esperite da chi lavora nell’industria
petrolchimica che produce i polimeri necessari; 3) considerare il
lavoro senza tutele degli operai che assemblano i dispositivi (di
come si lavora alla Foxconn abbiamo già parlato sopra); 4) arriva-
re fino al lavoro (indegno, nocivo, ai limiti del disumano) di chi
“smaltisce” la carcassa del laptop o del tablet in qualche discarica
africana. Trattandosi di una merce a obsolescenza rapida e soprat-
tutto pianificata, questo lavoro è già incorporato in essa, fin dalla
fase della progettazione.
Prendendo in considerazione tutto questo, si vedrà che di la-
voro fisico (lavoro di merda, sfruttato, sottopagato, nocivo etc.)
Da Steve Jobs a Steve Workers 63

un’infornata di iPad ne incorpora parecchio, e con esso incorpora


una grande quantità di tempo di lavoro. E non vi è dubbio che
si tratti di tempo di lavoro socialmente necessario: oggi gli iPad
si producono così e in nessun altro modo. Senza questo lavo-
ro, il general intellect applicato che inventa e aggiorna software,
semplicemente, non esisterebbe. Quindi non produrrebbe alcun
valore. Se “per fare un tavolo ci vuole il legno”, per fare il tablet ci
vuole l’operaio (e prima ancora il minatore etc.). Senza gli operai
e il loro lavoro, niente valorizzazione della merce digitale, niente
quotazione di Apple in borsa etc. Azionisti e investitori danno
credito alla mela perché produce, valorizza e vende hardware e
gadget, e ogni tanto fa un nuovo “colpo”, mettendo sul mercato
un nuovo “gioiellino”. E chi lo fa il gioiellino?
Se sia ancora possibile una precisa contabilità in termini di ore-
lavoro, non sono in grado di dirlo. Ripeto: non sono un esperto
di economia politica. Ma so che quando gettiamo nell’immon-
dizia un telefonino perfettamente funzionante perché il nuovo
modello “fa più cose”, stiamo buttando via una porzione di vita e
fatica di una gran massa di lavoratori, sovente pagati con due lire
e – nella migliore delle ipotesi – un calcio nel culo.

8.1.3. Intelligenza collettiva, lavoro invisibile e social media


Quel che sto cercando di dire lo anticipava già Marx nel Capi-
tolo VI inedito del Capitale (ed. it. Firenze, 1969, la citazione che
segue è alle pagg. 57-58). Il passaggio è denso perché, appunto, è
uno di quei testi che Marx non rivide per la pubblicazione:

L’incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze pro-
duttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (reso collettivo) me-
diante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica,
l’impiego delle macchine e in genere, la trasformazione del processo di
produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica,
della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro
su grande scala a tutto ciò corrispondente [...] questo incremento, di-
cevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al
64 Walter Mioego

lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso


l’applicazione della scienza – questo prodotto generale dello sviluppo
sociale – processo di produzione immediato, si rappresentano ora come
forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro,
o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale;
in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppu-
re dei lavoratori cooperanti nel processo di produzione. Questa misti-
ficazione, propria del rapporto capitalistico in quanto tale, si sviluppa
ora molto più di quanto potesse avvenire nel caso della pura e semplice
sottomissione formale del lavoro al capitale.

In sostanza, Marx dice che:


1) la natura collettiva e cooperativa del lavoro viene realmente
sottomessa (a volte si traduce con “sussunta”) al capitale, cioè è
una natura collettiva specifica, che prima del capitale non esisteva.
La “sottomissione reale” del lavoro al capitale è contrapposta da
Marx alla “sottomissione formale”, tipica degli albori del capita-
lismo, quando il capitale sottometteva tipologie di lavoro pre-
esistenti: la tessitura manuale, i processi del lavoro agricolo etc.
“Sottomissione (o sussunzione) reale” significa che il capitale ren-
de forza produttiva una cooperazione sociale che non pre-esisteva
a esso, perché non pre-esistevano a esso gli operai, il lavoro sala-
riato, le macchine, le nuove reti di trasporto e distribuzione.
2) Quanto più è avanzato il processo produttivo (grazie all’ap-
plicazione di scienza e tecnologia), tanto più mistificata sarà la
rappresentazione (oggi qualcuno direbbe la narrazione) della co-
operazione produttiva.
Ora cerchiamo nell’oggi gli esempi di questa formulazione: la
produzione di senso e di
relazioni in Internet non è considerata forza produttiva di la-
voratori cooperanti; tantomeno l’ideologia dominante permet-
te di riconoscere il lavoro del singolo. Questa produzione viene
(truffaldinamente, mitologicamente) attribuita direttamente al
capitale, allo “spirito d’impresa”, al presunto genio del capitali-
sta etc. Per esempio, si dice che dobbiamo a una “intuizione” di
Da Steve Jobs a Steve Workers 65

Mark Zuckerberg se oggi grazie a Facebook bla bla bla. Altrettan-


to spesso tale produzione di senso viene considerata, come dice
Marx, “forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale”.
Traduciamo: lo sfruttamento viene occultato dietro la facciata di
un lavoro in rete autonomo, non subordinato, fatto tutto di au-
toimprenditoria e/o libera contrattazione e/o comunque molto
più “cool” dei lavori “tradizionali” etc., quando invece la produ-
zione di contenuti in rete va avanti anche grazie al lavoro subor-
dinatissimo di masse di “negri” – nel senso di “autori-fantasma”
– che lavorano a cottimo [...].
Esiste, per usare un’espressione marxiana, la “Gemeinwesen”,
una tendenza dell’essere umano al comune, alla comunità e alla
cooperazione? Sì, esiste. È sempre rischioso usare quest’espressio-
ne, ma se c’è un universale antropologico, beh, è questo. “Com-
pagnevole animale”, così Dante traduce lo “zòon politikon” di
Aristotele (lo ricorda Girolamo De Michele nel suo ultimo libro
Filosofia) e le neuroscienze stanno dimostrando che siamo… “ca-
blati” per la gemeinwesen (la scoperta dei neuroni specchio etc.)
Nessun modo di produzione ha sussunto e reso produttiva la ten-
denza umana alla cooperazione con la stessa forza del capitali-
smo. Oggi l’esempio più eclatante di cooperazione sussunta – e al
tempo stesso di lavoro invisibile, non percepito come tale – ce lo
forniscono i social media.
Sto per fare l’esempio di Facebook. Non perché gli altri social
media siano “meno malvagi”, ma perché al momento è il più gros-
so, è quello che fa più soldi ed è – come dimostra la recentissima
ondata di nuove opzioni e implementazioni – il più avvolgente,
pervasivo ed espansionista. Facebook si muove come se volesse
inglobare tutta la rete, sostituirsi ad essa. È il social network par
excellence, dunque ci fornisce l’esempio più chiaro.
Sei uno degli oltre settecento milioni di utenti che usa Facebo-
ok? Bene, vuol dire che quasi ogni giorno produci contenuti per il
network: contenuti di ogni genere, non ultimo contenuti affettivi
66 Walter Mioego

e relazionali. Sei parte del general intellect di Facebook. Insomma,


Facebook esiste e funziona grazie a quelli come te. Di cos’è il
nome Facebook se non di questa intelligenza collettiva, che non è
prodotta da Zuckerberg e compagnia, ma dagli utenti?
Tu su Facebook di fatto lavori. Non te ne accorgi, ma lavori.
Lavori senza essere pagato. Sono altri a fare soldi col tuo lavoro.
Qui il concetto marxiano che torna utile è quello di “pluslavo-
ro”. Non è un concetto astruso: significa “la parte di lavoro che,
pur producendo valore, non si traduce in salario ma in profitto
del padrone, in quanto proprietario dei mezzi di produzione”.
Dove c’è profitto, vuol dire che c’è stato pluslavoro. Altrimenti,
se tutta la quota di lavoro fosse remunerata in base al valore che
ha creato, beh… sarebbe il comunismo, la società senza classi. È
chiaro che il padrone deve pagare in salari meno di quel che trar-
rà dalla vendita delle merci. “Profitto” significa questo. Significa
pagare ai lavoratori meno del valore reale del lavoro che svolgono.
Per vari motivi, il padrone può anche non riuscire a venderle,
quelle merci. E quindi non realizzare profitti. Ma questo non
significa che i lavoratori non abbiano erogato pluslavoro. L’intera
società capitalistica è basata su plusvalore e pluslavoro.
Su Facebook il tuo lavoro è tutto pluslavoro, perché non vieni
pagato. Zuckerberg ogni giorno si vende il tuo pluslavoro, cioè si
vende la tua vita (i dati sensibili, i pattern della tua navigazione
etc.) e le tue relazioni, e guadagna svariati milioni di dollari al
giorno. Perché lui è il proprietario del mezzo di produzione, tu
no. L’informazione è merce. La conoscenza è merce. Anzi, nel
postfordismo o come diavolo vogliamo chiamarlo, è la merce
delle merci. È forza produttiva e merce al tempo stesso, proprio
come la forza-lavoro. La comunità che usa Facebook produce in-
formazione (sui gusti, sui modelli di consumo, sui trend di mer-
cato) che il padrone impacchetta in forma di statistiche e vende
a soggetti terzi e/o usa per personalizzare pubblicità, offerte e
transazioni di vario genere. Inoltre, lo stesso Facebook, in quanto
Da Steve Jobs a Steve Workers 67

rappresentazione della più estesa rete di relazioni sul pianeta, è


una merce. L’azienza Facebook può vendere informazione solo
se, al contempo e senza sosta, vende quella rappresentazione di
se stessa. Anche tale rappresentazione è dovuta agli utenti, ma a
riempirsi il conto in banca è Zuckerberg.
Ovviamente, il genere di «lavoro» appena descritto non è com-
parabile, per fatica e sfruttamento, al lavoro materiale descritto
nei primi paragrafi di questo testo. Inoltre, gli utenti di Facebook
non costituiscono una «classe». Il punto è che dobbiamo in ogni
momento tenere in considerazione sia la fatica che sta alla base
della produzione dell’hardware, sia la continua privatizzazione
predatoria di intelligenza collettiva che avviene in rete. Come scri-
vevo sopra: «I due livelli coesistono». La valorizzazione dipende da
entrambe le attività, vanno visualizzate e analizzate insieme.

8.1.4. Non c’è dentro e fuori


Se dopo questo discorso qualcuno mi chiedesse: «Allora la so-
luzione è stare fuori dai social media?», oppure: «La soluzione
è usare soltanto il software libero?», o ancora: «La soluzione è
non comprare certe macchine?», risponderei che la questione è
mal posta. Certamente, costruire dal basso social media diversi,
funzionanti con software libero e non basati sul commercio di
dati sensibili e relazioni, è cosa buona e giusta. Ma lo è anche
mantenere una presenza critica e informativa nei luoghi dove vive
e comunica la maggioranza delle persone, magari sperimentando
modi conflittuali di usare i network esistenti.
Dura da troppo tempo l’egemonia di un dispositivo che «in-
dividualizza» la rivolta e la lotta, ponendo l’accento prevalen-
temente su quel che può fare il consumatore (questo soggetto
continuamente riprodotto da precise tecnologie sociali): boicot-
taggio, consumo critico, scelte personali più radicali etc. Le scelte
personali sono importanti, ma 1) troppo spesso questo modo di
ragionare innesca una gara a chi è più «coerente» e più «puro», e
68 Walter Mioego

ci sarà sempre qualcuno che metterà in mostra scelte più radicali


delle mie: il vegano attacca il vegetariano, il frugivoro crudista
attacca il vegano etc. Ciascuno rivendica di essere più «fuori»,
più «esterno» alla valorizzazione, immagine del tutto illusoria; 2)
Il consumatore è l’ultimo anello della catena distributiva, le sue
scelte avvengono alla foce, non alla sorgente. E forse andrebbe
consigliata più spesso la lettura di un testo «minore» di Marx, la
Critica del programma di Gotha, dove si critica il «socialismo vol-
gare» che parte dalla critica della distribuzione anziché da quella
della produzione.
Sto provando a spiegare, da un po’ di tempo a questa parte,
che secondo me le metafore spaziali (come il “dentro” e il “fuori”)
sono inadeguate, perchè è chiaro che se la domanda è: “dov’è il
fuori?”, la risposta – o l’assenza di risposta – può solo essere para-
lizzante. Perchè è già paralizzante la domanda.
Forse è più utile ragionare ed esprimersi in termini temporali.
Si tratta di capire quanto tempo di vita (quanti tempi e quante
vite) il capitale stia rubando anche e soprattutto di nascosto (per-
ché tale furto è presentato come “natura delle cose”), diventare
consapevoli delle varie forme di sfruttamento, e quindi lottare
nel rapporto di produzione, nelle relazioni di potere, contestando
gli assetti proprietari e la “naturalizzazione” dell’espropriazione,
per rallentare i ritmi, interrompere lo sfruttamento, riconquistare
pezzi di vita.
Non è certo nuovo, quel che sto dicendo: un tempo si era
soliti chiamarla “lotta di classe”. In parole povere: gli interessi del
lavoratore e del padrone sono diversi e inconciliabili. Qualunque
ideologia che mascheri questa differenza (ideologia aziendalistica,
nazionalistica, razziale etc.) è da combattere. Pensiamo agli albori
del movimento operaio. Un proletario lavora dodici-quattordici
ore al giorno, in condizioni bestiali, e la sua sorte è condivisa
anche da bambini che non vedono mai la luce del sole. Cosa fa?
Lotta. Lotta finché non strappa le otto ore, la remunerazione de-
Da Steve Jobs a Steve Workers 69

gli straordinari, le tutele sanitarie, il diritto di organizzazione e di


sciopero, la legislazione contro il lavoro minorile… E si riappro-
pria di una parte del suo tempo, e afferma la sua dignità, finché
queste conquiste non saranno di nuovo messe in discussione e
toccherà lottare di nuovo.
Già renderci conto che il nostro rapporto con le cose non è
neutro né innocente, trovarci l’ideologia, scoprire il feticismo
della merce, è una conquista: forse cornuti e mazziati lo siamo
comunque, ma almeno non “cornuti, mazziati e contenti”. Il dan-
no resta, ma almeno non la beffa di crederci liberi in ambiti dove
siamo sfruttati. Trovare sempre i dispositivi che ci assoggettano, e
descriverli cercando il modo di metterli in crisi.
La merce digitale che usiamo incorpora sfruttamento, diven-
tiamone consapevoli. La rete si erge su gigantesche colonne di
lavoro invisibile, rendiamolo visibile. E rendiamo visibili le lotte,
gli scioperi. In occidente se ne parla ancora poco, ma in Cina gli
scioperi si fanno e si faranno sempre di più. Quando uno sfigato
diventa un tycoon, andiamo a vedere su quali teste ha camminato
per arrivare dov’è, quale lavoro ha messo a profitto, quale plu-
slavoro non ha ricompensato. Quando parlo di “defeticizzare la
rete”, intendo l’acquisizione di questa consapevolezza. Che è la
precondizione per stare “dentro e contro”, dentro in modo con-
flittuale.
E se stiamo “dentro e contro” la rete, forse possiamo trovare il
modo di allearci con coloro che sono sfruttati a monte. Un’alle-
anza mondiale tra “attivisti digitali”, lavoratori cognitivi e operai
dell’industria elettronica sarebbe, per i padroni della rete, la cosa
più spaventosa. Le forme di quest’alleanza, ovviamente, sono tut-
te da scoprire.
Wu Ming 1
70 Walter Mioego

8.2. Un esempio di contronarrazione: #SteveWorkers46

Se il nome di Steve Jobs si po-


teva tradurre con “Stefano Lavo-
ri”, Steve Workers è Stefano La-
voratori. C’è una bella differen-
za: Steve Workers è il rovescio di
Steve Jobs sul versante del lavoro
vivo in rivolta. È il guru colletti-
vo della sovversione operaia, ap-
pare ovunque vi sia uno sciopero,
una lotta, un’occupazione, e con
un travolgente keynote presenta i
prodotti di Bad Apple: iClasswar,
iStrike, iStruggle, iRevolution.
Se quello di Steve Jobs era uno
dei volti più riprodotti del pianeta, Steve Workers è solo un ber-
retto alla giovane Mao, una mela rossa capovolta, un paio d’oc-
chiali… e un colletto rigido, da stoico soldato della rivoluzione.
Steve Workers è senza volto perché è tutti i volti del proletariato.
Il suo nome è moltitudine.
All’apice del momento “Santo subito!” seguito alla morte
dell’ex-CEO di Apple, Steve Workers si manifesta in rete con un
triplice, assennatissimo consiglio:

Think different: billionaires are not on your side.


Stay foolish: fight capitalism.
Stay hungry: eat the rich.

Da quel momento, iniziano a circolare immagini, qualcuno


apre un blog a cui tutti possono contribuire47, qualcun altro apre

46
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5512. Postato l’8 ottobre 2011.
47
http://steveworkers.tumblr.com/.
Da Steve Jobs a Steve Workers 71

un profilo “ufficiale” su Twitter… Sempre su Twitter parte un


flusso di aforismi ed epigrammi (prevalentemente in inglese)
accompagnati dall’hashtag #steveworkers. Ne proponiamo un
montaggio parziale:

Steve Workers è il 99%. Steve Workers è l’icona senza volto e senza età
di tutti i lavoratori sfruttati. Steve Workers è il bambino di nove anni
che fabbrica mattoni in Mali. Steve Workers è la donna trentaduenne
e istruita che sopravvive con lavori precari e non può permettersi di
restare incinta. Steve Workers è la collera lucida e tagliente dei lavora-
tori. Steve Workers è vivo. Steve Workers ti prende a calci con pesanti
scarponi da lavoro. Steve Workers è pronto a occupare tutto. Steve
Workers dice: il pianeta è una grande fabbrica Foxconn, ma non suici-
darti: organizzati e rompi il culo ai tuoi padroni. Steve Workers dice:
mangia i ricchi e diffondi la ricetta.

C’è anche una micro-leggenda fondativa:

Quando aveva nove anni, dopo un solo morso e benché fosse affamato,
Steve Workers scagliò una mela contro il padrone di sua madre.

Steve Workers è un “agente collettivo di enunciazione”, ni-


pote di Luther Blissett e cugino di San Precario. Forse è anche
pronipote di #Fanciullacci48. Steve Workers è contronarrazione e
performance potenzialmente depurante. “Steve Workers” è getta-
to nel mondo come un sassolino in un fiume, e subito parte un
gioco collettivo per sfuggire a un’invadente narrazione tossica. Si
vede che molti ne sentivano il bisogno.

48
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=4769.
72 Walter Mioego

Steve Jobs, «santo subito»... o santo «subìto»!


Da Steve Jobs a Steve Workers 73

8.3. Edmond Dantès e Guy Fawkes nella galleria dell’ombra49

- Le informazioni le ha già, tutti i nomi, le date, quello


che vuole… Quello che le serve veramente è una storia.
- Una storia può essere vera o falsa.
- Questo lo lascio giudicare a lei.
V per Vendetta di J. McTeigue e Wachowski brothers, 2005

- Lettere smarrite, lettere morte!


Non suona come uomini morti?
H. Melville, Bartleby lo scrivano, 1853

8.3.1. Polvere da sparo


Il 5 novembre in Inghilterra si celebra una ricorrenza strana. È
quella che si chiama una festa apotropaica. Si festeggia la sventata
Congiura delle Polveri del 1605, che avrebbe fatto saltare in aria
la Camera dei Lord, con il re e tutti i deputati dentro. Grazie a
una soffiata dell’ultimo minuto, il congiurato Guy Fawkes ven-
ne sorpreso mentre stava per dare fuoco a 2.500 chili di polvere
da sparo, piazzati nei sotterranei del Parlamento. Con britannico
sense of humour, il 5 novembre si fanno scoppiare petardi, fuo-
chi artificiali, e si fanno spettacoli pirotecnici (in certe località si
brucia anche il fantoccio di Fawkes).
Cosa avessero fatto il monarca Giacomo I Stuart e i suoi par-
lamentari per meritare la morte col botto è storia nota. Avevano
represso i cattolici. Quando infatti Fawkes fu trascinato notte-
tempo nelle stanze del re, confessò e motivò le proprie intenzioni
dicendo di voler dare seguito alla scomunica papale sulla corona
britannica e di voler liberare il trono dal giogo scozzese.
Insomma l’aspirante regicida era un papista xenofobo. Nondi-
meno la sua figura si è prestata a essere ammantata di anti-eroico
romanticismo, in virtù del fatto che i successivi anni di regno
rivelarono l’intenzione di Giacomo I di realizzare una monarchia
di stampo assolutista. Giacomo sciolse per ben tre volte il Parla-
mento e di fatto creò le precondizioni per la guerra civile (1642-
49
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=6198.
74 Walter Mioego

1660) e la prima rivoluzione inglese, guidata dai puritani, che


avrebbero visto il suo secondogenito e successore Carlo I salire al
patibolo. Insomma, col senno di poi, Fawkes aveva sì attentato
alla vita del monarca e del Parlamento, ma di un monarca tiran-
nico e di un Parlamento composto dall’alta borghesia anglicana
emergente. Tutto sommato i poveracci potevano avere qualche
istintivo moto di simpatia per Guy il dinamitardo.
Il testo della filastrocca popolare sulla Congiura delle Polveri
contiene in effetti un’ambiguità implicita:

Remember, remember,
the fifth of November,
Gunpowder, treason and plot.
I see no reason
why Gunpowder treason
Should ever be forgot!50

Per quale ragione la congiura non dovrebbe mai essere dimen-


ticata? Per ricordare il pericolo corso dalle più sacre istituzioni in-
glesi, certo. Ma paradossalmente questo ci dice anche che è sem-
pre possibile minacciare tali istituzioni quando si “assolutizzano”.
Il margine interpretativo rimane aperto. Come probabilmente è
giusto che sia.
Questo, per altro, non dovrebbe stupire, se si pensa che la statua
di un altro personaggio in grado di segnare davvero la storia politi-
ca inglese campeggia su un piedistallo proprio accanto all’ingresso
laterale della House of Parliament. È quella di Oliver Cromwell,
Lord Protettore, nonché unico grande dittatore che l’Inghilterra
abbia conosciuto. Uno che, oltre ad avere fatto decapitare un re,
entrò in quelle sale in armi e disse: “Il Parlamento sono io”. Oggi
torreggia, libro e spada in pugno, sui deputati che passano lì sotto e
ricorda loro che l’uomo forte potrebbe sempre tornare.

50
trad.: Ricorda, ricorda/il cinque novembre/polvere da sparo, tradimento e com-
plotto/Non vedo alcuna ragione/per cui la Congiura delle Polveri/dovrebbe mai essere
dimenticata!
Da Steve Jobs a Steve Workers 75

8.3.2. Vendetta
Negli anni Ottanta del secolo scorso, Alan Moore ha recupe-
rato la figura di Guy Fawkes trasformandolo in eroe popolare,
senza però sottrargli l’ambiguità di fondo. In questo caso non si
tratta già del Fawkes storico, ma del protagonista del celeberrimo
fumetto illustrato da David Lloyd, V per Vendetta, che di Fawkes
indossa la maschera e gli abiti.
Con il suo predecessore, V condivide anche la passione per
gli esplosivi. Per di più, lui riesce laddove l’antenato aveva fallito
nei suoi intenti dinamitardi. Forse perché agisce come un vendi-
catore solitario, senza altri congiurati che possano farsi prendere
dai rimorsi di coscienza e tradirlo. O forse perché, al contrario
del Fawkes storico, che teneva per il papa contro il re, V è invece
un anarchico dichiarato. Dopo il Parlamento fa saltare in aria
l’Old Bailey, il tribunale di Londra, simbolo della Giustizia che
lo ha tradito prostituendosi con la dittatura. V dichiara di averle
preferito Anarchia. Quest’ultima non fa promesse e quindi non
le infrange, è assolutamente onesta e garantisce assoluta libertà. È
la vera giustizia. Una riflessione, questa di V, anche più ambigua
della filastrocca sulla Congiura delle Polveri.
La vendetta per il tradimento della giustizia corrisponde allo
scatenamento del caos, unica soluzione per una società e un’uma-
nità che potranno redimersi soltanto passando attraverso la palin-
genesi delle fiamme. “Fidati di me, Evey, e cancelleremo tutto”,
dice V alla sua giovane adepta. “Tutto il dolore, tutta la crudeltà,
tutte le perdite. Ricominceremo da capo”.
Linguaggio e scenario del fumetto di Moore sono decisamente
apocalittici, così come è inquietante la figura del vendicatore ma-
scherato V, che con l’ultimo attentato si immola per innescare la
miccia del caos, e consentire così ai costruttori che verranno dopo
di riedificare una nuova società sopra le macerie di quella vecchia.
Dopo il potere legislativo e quello giudiziario, quindi, colpisce il
potere esecutivo, Downing Street, e dà l’ultima spallata al sistema.
76 Walter Mioego

La storia di Moore ha un finale tragico e aperto al tempo stes-


so. Il crollo istituzionale si realizza, ma non sappiamo se evolverà
in anarchia consapevole, cioè in libertà organizzata, o se sfocerà
semplicemente nella barbarie e nella sopraffazione indiscrimina-
ta. La maschera di V/Fawkes passa di mano e la sua missione
quindi continua; tuttavia quello che ci viene mostrato nelle ulti-
me vignette è un mondo popolato da relitti umani.
Non meraviglia dunque che Moore abbia misconosciuto il film
che nel 2005 i fratelli Wachowski hanno tratto dal fumetto, il cui
happy end tradisce del tutto lo spirito della storia originale. La ma-
schera del V cinematografico si potrebbe collocare a mezza via tra
quella di Zorro (anch’essa riportata in auge dal cinema alla fine del
secolo scorso) e il passamontagna del Subcomandante Marcos.
Nell’ultima sequenza del film, una moltitudine in marcia,
anonima e acefala, in cui tutti indossano la maschera e il costume
di V/Fawkes, si riappropria della sovranità e assiste all’esplosione
del Parlamento. Questo avviene al culmine di una catena con-
sequenziale di eventi: gli attentati, la guerriglia comunicativa e
le provocazioni di V causano fibrillazione, inquietudine, shock,
presa di coscienza. Poi la scintilla, l’uccisione di una bambina da
parte di uno sbirro nel quartiere londinese di Brixton, scatena i
riot popolari. Il riot genera repressione poliziesca, che però non
ottiene altro risultato se non quello di radicalizzare ulteriormente
le coscienze. L’esercito non spara sulle migliaia di V che avanzano
verso il Parlamento, perché la catena di comando è ormai deca-
duta, lo Stato semplicemente si dissolve e… cosa? Quale potere
costituente fa da contraltare alla lapidaria affermazione iniziale
“l’unico verdetto è vendicarsi”? Quale forma sociale si afferma
nello spazio comune liberato? Il film si guarda bene dal dircelo.
Il finale aperto di Moore ci lasciava con un’incertezza proble-
matica, in grado di retroagire su tutta la storia e restituirci il ca-
rico di contradditorietà dell’agire solitario di V. Il film invece ci
mette davanti ai fuochi d’artificio del 5 novembre senza colpo
Da Steve Jobs a Steve Workers 77

ferire. La detonazione finale diventa una catarsi che fa evaporare


il conflitto. L’errore era pensare che il Palazzo d’Inverno andasse
conquistato, invece bastava farlo saltare in aria e subito sarebbero
apparsi “cielo e terra nuovi”, come recita l’Apocalisse. I manife-
stanti si tolgono la maschera e sotto c’è ognuno di noi. Perché
V siamo tutti e l’unica cosa che dobbiamo fare è riprenderci lo
spazio del comune che le istituzioni falsamente rappresentative ci
hanno tolto. Tanto i soldati non possono spararci… perché evi-
dentemente anche i soldati siamo noi, possiamo passare incolumi
attraverso di loro.
Nel fumetto il problema novecentesco della dialettica e della
rappresentanza viene negato in favore di un azzeramento libertario
che resta comunque un salto nel buio, ancorché presentato come
necessario. Nel film invece la questione viene semplicemente elu-
sa. “Non ci rappresenta nessuno” è una constatazione che diventa
rivendicazione. Solo noi possiamo rappresentarci, quindi. E su
quel “noi” che sta sotto la maschera partono i titoli di coda…
Pochi anni dopo, la stessa maschera assurge a icona ribelle nel-
la crisi globale e “Anonymous” la usa per rivendicare azioni di ha-
cking e guerriglia informatica contro gruppi finanziari e governi.
Il ghigno beffardo di V/Fawkes ricompare nei pressi della House
of Parliament in mezzo alle manifestazioni studentesche e la sua
V cerchiata, sorta di simbolo anarchico rovesciato, diventa una
firma collettiva, il marchio da lasciare sulle vetrine delle banche o
nelle strade di tutto il mondo occidentale.
Ma la vendetta a cui quel segno allude non è già giustizia so-
ciale. Come negare la rappresentabilità di un movimento non
significa già incarnare l’alternativa di nuove istituzioni. I titoli di
coda non hanno smesso di scorrere…

8.3.3. Fuori dalla galleria


Il protagonista del fumetto di Moore non è soltanto un dina-
mitardo. Il suo anarchismo, la sua spinta verso il reset sociale, si
78 Walter Mioego

accompagna a una vena di conservatorismo romantico. V/Fawkes


chiama il proprio nascondiglio “la galleria dell’ombra”, perché
contiene cimeli e ricordi del tempo che fu. In particolare della
cultura che fu. La sua casa non è altro che un museo dove si con-
servano libri, musica, film. C’è un vecchio juke-box che suona i
dischi della Motown, mentre i grandi classici della narrativa, del
teatro, della saggistica riempiono gli scaffali.
Dunque c’è qualcosa oltre il presente della detonazione che
spezza il tempo storico in “prima” e “dopo”, ovvero in passato
(conoscenza) e futuro (prospettiva). È ben difficile costruire una
lotta senza far riverberare l’una nell’altra queste tre dimensioni
temporali e V non sembra affatto ignorare questo aspetto della
faccenda. Viene da sospettare che non si limiti a conservare la
cultura come l’imperatore Adriano nel romanzo di Marguerite
Yourcenar, in previsione di un lungo inverno della civiltà. Certo,
c’è anche questo, ma V stesso è un parto narrativo, un vendicato-
re mascherato, una figura letteraria.
Nel film del 2005 di lui si dice che è “Edmond Dantès”. V è
il Conte di Montecristo che fa piazza pulita di politicanti, mer-
canti e banchieri corrotti che l’hanno tradito. È un patrimonio
narrativo condiviso a fornire una chiave di lettura, una cornice,
all’agire pratico dell’eroe. È grazie all’applicabilità del racconto
che la metafora prende vita fuori dalla pagina.
Così come Edmond Dantès mette il tesoro di Spada a dispo-
sizione della propria vendetta e della ricostruzione della propria
vita, allo stesso modo la nuova incarnazione di V – l’adepta che
è cresciuta per indossarne la maschera – dovrà aprire la galleria
dell’ombra e mettere a disposizione dei ricostruttori il tesoro che
contiene.
Fuori o dentro la metafora e i suoi riverberi, si mette a frutto
la cultura, intesa non solo come narrazione, analisi scientifica,
o produzione artistica, ma in generale come pratica dell’intelli-
genza collettiva. È quella la materia prima, la malta, con cui si
Da Steve Jobs a Steve Workers 79

costruisce la strada che attraversa il deserto. Pensare di trovare la


via d’uscita con una geniale alchimia politica è assurdo almeno
quanto pensare di produrre l’Evento dando semplicemente fuo-
co a una miccia. Si tratta piuttosto di scovare contraddizioni, di
allargare crepe, di scegliere pratiche politiche e di relazione che
alludano a una trasformazione possibile. Qualcosa che ha a che
fare con il lavoro quotidiano piuttosto che con una Grande De-
tonazione o una Grande Alleanza, e che nondimeno non potrà
eludere il conflitto, o vedere l’avversario dissolversi da sé. Anzi,
proprio in virtù delle pratiche scelte l’avversario si farà cattivo, a
prescindere dal suo colore politico. Quarantacinque anni dopo
la Congiura delle Polveri, furono i rivoluzionari di Cromwell a
spazzare via manu militari l’esperimento di coltivazione comuni-
taria fatto dagli Zappatori nel Surrey (1649). Questi erano coloro
che mettevano in pratica l’affermazione più inaudita: non tutto è
riducibile all’ordine economico del potere.
Coltivare in comune il sapere, farlo gratuitamente, pubblica-
mente, restituirlo in forma di ricchezza sociale; uscire dalla logica
ristretta di una famiglia, un clan, una cordata clientelare, un par-
tito politico, un’adunata, per popolare uno spazio aperto; liberare
luoghi e produrre occasioni di discussione sul fare comune, per
organizzarlo; ritrovarsi, per sentirsi meno soli (il movente che,
secondo C.S. Lewis, sta alla base della lettura, cioè del farsi rac-
contare una storia come del raccontarla). Tutto questo bisogne-
rà attrezzarsi per difenderlo, altrimenti verrà chiuso e soffocato
in fretta, proprio mentre si avrebbe la pretesa di alzare la posta
fino al grande crack, al default, allo show down. Purtroppo o per
fortuna le cose non andranno così, non ci sarà nessuna apoca-
lisse, nessuna palingenesi. La catastrofe c’è già stata, è spalmata
sui trent’anni che abbiamo alle spalle. Viviamo già tra le mace-
rie, anche se c’è chi pensa che le ultime generazioni siano “senza
trauma” (e invece sono quelle che nel crollo sono nate e cresciute,
che l’hanno respirato e assorbito attraverso ogni poro della pelle,
80 Walter Mioego

senza nemmeno avere un peccato originale da scontare). Da una


piazza, da un parco pubblico, o da quattro vecchie mura, come
dalle colline del Surrey tre secoli fa, riprendere il filo di una prati-
ca e di una proposta politica è l’impresa titanica che ci fronteggia.
E certo non riusciremo a farlo se non saremo almeno in grado di
difendere le esperienze che mettiamo in piedi e di radicarle nello
spazio e nel tempo.
Come alla fine del fumetto di Alan Moore, per qualcuno può
trattarsi di “recuperare qualcosa… Questi zotici non sono molto,
ma col tempo potremmo formare un piccolo esercito. Possiamo
restaurare l’ordine.”
A tutti gli altri invece, pochi o tanti che siano, tocca affilare i
cervelli come rasoi.

Non so cosa sarà di noi, Tom Due Volte. Faccio come te e lo ripeto:
non so. Tu hai visto troppo e sai troppo per tornare a essere un bambi-
no qualunque. Io anche. Siamo uguali, in questo. Decideranno di noi,
decideranno per noi.
A meno che…
Beatrice Masini, Bambini nel bosco, 2010
Da Steve Jobs a Steve Workers 81

9. Post scriptum

Ah, dimenticavo... nel frattempo sul sito di Steve Workers


succede questo:

mentre la scrittrice Carola Susani scrive questa accorata «let-


terina natalizia»:
82 Walter Mioego

Vorrei donare a Sergio Marchionne una macchina a pedali collegata a


una turbina. Un auto di colore azzurro cielo, luccicante, capace di pro-
durre energia se la pedali. Il dono vuole essere un piccolo, umile pro-
memoria della condizione attuale. Mi piacerebbe che lui pure, come
tanti, prendesse coscienza del fatto che è finito il tempo di produrre e
comprare auto a benzina. Spingere un mercato così insano, mantenere
in piedi un circolo vizioso di falsi bisogni, inquinamento, immobilità
forzata dentro ai gas di scarico, non è una necessità, non è destino. È
un danno per il genere umano. Bisogna saper guardare più lontano.
Sarebbe bello anche provare ad andare più lontano, ma non è un posto
in cui si arriva in auto. Forse ci si può andare pedalando. Quella che
offro è un auto a pedali piccola, forse un po’ scomoda, le gambe ci en-
trano dentro a malapena, ma è un bel mezzo, piace ai bambini e forse
può insegnare qualche cosa. Pedalandola, sono certa, Marchionne sarà
in grado di ricordare se mai l’avesse scordato, che l’energia in ultima
istanza viene dal corpo.
E forse così riscoprirà con le sue membra cos’è lo sforzo che fa un corpo
che lavora. Potrà poi rendersi conto che chi pedala da solo difficilmente
produrrà energia per qualcosa di grande. Da soli, si può tutt’al più fare
esercizi come in palestra, faticare per mantenersi in forma, il più pos-
sibile uguali a una immagine artefatta di se stessi, un cerchio chiuso.
Se poi si pedala contro gli altri, cercando di imporre tempi e modi,
si sta fermi. Bisogna imparare a pedalare insieme. Soltanto insieme si
produce energia a sufficienza per affrontare i bisogni veri e umani. Pe-
dalando insieme ne verrà l’energia per fare il pane, per suonare come
insegnano i Tètes de bois che con il palco a pedali producono l’energia
per i concerti mettendo insieme l’energia di molte biciclette. Pedalare
può essere bello, ma costa fatica, perciò spesso ci dovrà fermare. Si
dovrà scendere dall’auto, sgranchirsi, fare qualcosa di diverso. Ognuno
saprà cosa vuol fare quando non pedala, e anche Marchionne avrà i
suoi desideri. Al corpo e alla mente dovranno essere riconosciuti i suoi
bisogni, inevitabilmente. Ma quello che più conta è lo scopo per cui
si pedala. La condizione attuale ha abituato molti, la maggior parte, a
faticare senza darsi respiro, vedendo diminuire giorno dopo giorno i
diritti (che anche quando ancora ci sono svolgono il misero ruolo di
ore d’aria) inseguendo la mera sopravvivenza, passivamente, senza uno
scopo degno, mentre chi comanda a sua volta non ha uno scopo se non
quello di mantenere in vita un cerchio insano, in cui chi ha denaro si
arricchisce, chi ha potere ne acquista, chi non ha né denaro né potere,
è sopraffatto, e intanto il mondo si affossa, senza nessuno che abbia
tempo e testa per farsene carico.
Non si può produrre senza respiro, senza diritti, ma anche è disperante
produrre SUV, o altri oggetti inutili e dannosi, da vendere e comprare.
È disperante che il lavoro consista nel fare a spalle basse la propria pic-
cola parte per accelerare la rovina del genere umano. Finché non si ri-
pensano gli scopi, non solo il lavoro di chi fatica con il corpo, ma anche
il lavoro di chi comanda è un lavoro passivo, miserabile, da schiavi o da
kapò. E va sempre, con rispetto, salutato chi lo boicotta, manifestando
una istintiva resistenza al peggio. Certo, molti si sono tirati fuori e
hanno ricominciato seminando, facendo oggetti utili, aggiustando. In-
dicano una direzione, la stessa mi pare che vado indicando con quella
macchinina a pedali che adesso è lì, luccicante sull’asfalto. Non è con
rabbia, né con risentimento che offro questo mio piccolo dono a Ser-
gio Marchionne. Marchionne, figlio di un abruzzese e di una istriana,
emigrato in Canada con la famiglia, rappresenta con una compiutezza
speciale il ceto civile, quella piccola e media borghesia italiana straziata
dall’ultima guerra, convinta che farcela all’interno degli equilibri di
questo mondo si può, che se ce l’hanno fatta loro ce la può fare chiun-
que, dentro queste regole del gioco. Non ho verso di lui risentimenti,
ma mi piacerebbe che con quella macchinina si spingesse qui e là per
il mondo, giungesse magari fino al campo attrezzato di Salone, e ci
passasse qualche mese, un anno sabbatico, che provasse a concepire
prospettive diverse, forse di nascosto già intuite, forse veramente ine-
splorate. È un augurio per il nuovo anno che estendo a tutti i figli e i
nipoti di quella piccola e media borghesia italiana da cui ancora oggi
capita venga estratto il nostro ceto dirigente.51

Quello stesso Sergio Marchionne che, ricordiamolo, per pri-


mo ha spuntato una deroga completa al contratto collettivo na-
zionale dei metalmeccanici, valido dal primo gennaio 2012. Una
persona della quale forse senza ragione – ma chissà che una ragio-

51
Carola Susani è nata a Marostica (Vicenza) nel 1965. Nel 1995 è uscito il suo
primo romanzo, Il libro di Teresa (Giunti), nel 1998 La terra dei dinosauri (Feltrinelli).
Con Feltrinelli ha pubblicato i romanzi per ragazzi Il licantropo (2002) e Cola Pesce
(2004). Nel 2005 per Gaffi è uscito Rospo, raccolta di due radiodrammi. Ha collaborato
alla rivista «Perap» di Palermo e a «Linea d’Ombra», e fa parte della redazione di «Nuovi
Argomenti». Questo articolo è comparso originariamente sul numero di gennaio della
rivista «Gli altri» e successivamente sul blog dell’editore Minimum Fax (rintracciabile
ancora a questo indirizzo: http://www.minimaetmoralia.it/?p=6080). Ringrazio espres-
samente l’autrice per avermi dato la possibilità di pubblicarlo.
ne alla fine non ci sia sempre – mi vien da diffidere per il semplice
motivo di aver conservato almeno tre nazionalità differenti. Delle
deroghe agli accordi ne dà notizia «la Repubblica» (e non solo
ovviamente) nell’edizione del 22 novembre 2011, alle pagine 26-
27, dedicate all’economia: Fiat: addio accordi sindacali. Modello
Pomigliano ovunque e Fiat cancella gli accordi sindacali. Piuttosto
curiosamente qualche pagina più avanti (p. 55), si parla anche
della Foxconn. Ecco l’articolo:
Indice

0. Premessa (informatica): l’iPad dell’anima o, se preferite, l’anima dell’iPad 5

1. Massificazioni positive e negative: destra, sinistra e «la qualunque» 8

2. L’economia cognitiva del pensiero: il grado zero 25

3. Omologazione positiva e negativa 26

4. Dalla realtà dell’uomo qualunque alla finzione dell’uomo senza nome 29

5. Le maschere della rivoluzione sociale nel fumetto (d’autore) 35

6. Ritorno alla letteratura (e forse anche alla realtà) 44

7. Per finire, il teatro: lo «strano caso» di Hilario Halubras 47

8. Titoli di coda e backstage: il debito (grande) con Wu Ming 54

9. Post scriptum 81

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