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Maddalena Bonelli

Leggere il “Fedone”
di Platone

Carocci editore Quality Paperbacks


Alla mia meravigliosa madre

1a edizione, agosto 2015


© copyright 2015 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Progedit Srl, Bari

Finito di stampare nell’agosto 2015


da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

isbn 978-88-430-7779-3

Riproduzione vietata ai sensi di legge


(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione,


è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
Indice

Avvertenza 11

Introduzione 13

1. Il suicidio e la natura della morte (61B-69E) 23

La contraddizione tra il divieto del suicidio


e l’aspirazione del filosofo alla morte 23
Il divieto del suicidio 24
I filosofi vogliono morire 26

2. L’argomento ciclico (70A-72D) 33

Il principio dei contrari 36


La contrarietà tra la vita e la morte 39
Questioni finali 40

3. La reminiscenza (72E-77D) 43

Le condizioni dell’atto di ricordarsi 45


Le Idee 47
La differenza tra le Idee
e le loro manifestazioni sensibili 49
8 leggere il “fedone” di platone

La conclusione dell’argomento della reminiscenza 51


La reminiscenza nel Fedone e nel Menone 52

4. L’affinità dell’anima con le Idee (78B-84B) 55

L’immortalità dell’anima in virtù


della sua affinità con le Idee 55
Ciò che avviene alle anime dopo la morte 64
Considerazioni sulla vita del filosofo 66

5. Le obiezioni di Simmia e Cebete (84C-91C) 67

Questioni di metodo 67
L’obiezione di Simmia: l’anima come armonia 68
L’obiezione di Cebete:
l’anima come un vecchio tessitore 71
Le risposte di Socrate: osservazioni preliminari 72

6. Le risposte di Socrate (91C-102A) 77

La risposta di Socrate a Simmia 77


La risposta di Socrate a Cebete 82

7. La prova finale dell’immortalità dell’anima (102A-107B) 97

Proprietà essenziali e proprietà accidentali 97


Una prima formulazione della legge
di non contraddizione 99
Una nuova fase dell’argomento 101
L’ultima dimostrazione dell’immortalità
dell’anima 104
indice 9

Conclusione 113

Note 115

Cronologia della vita e delle opere 123

Bibliografia 127

Indice analitico 00

Indice dei nomi 00


Avvertenza

Questa guida alla lettura del Fedone si articola in un’Introduzione, in cui


viene presentato il quadro generale dell’opera, e in sette capitoli, che ap-
profondiscono le dimostrazioni dell’immortalità dell’anima e le tema-
tiche a esse connesse. Il volume è il risultato dei miei corsi universitari,
tenutisi a Ginevra, a Neuchâtel e a Bergamo, ed è rivolto a studenti del
liceo o dei primi anni di università, ma anche a coloro che si interessano
all’argomento senza essere degli specialisti in Platone.
Le combinazioni di cifre e lettere qui utilizzate per i passi del Fedone
o degli altri dialoghi – secondo l’uso di tutti i traduttori e gli studiosi
che citano Platone – corrispondono alle pagine, ai paragrafi e alle even-
tuali righe dell’edizione delle opere complete di Platone, pubblicata a
Parigi nel 1578 a cura di Stephanus (Henri Estienne).
Per l’edizione critica, ho fatto riferimento a Platonis Opera, Tomus i,
ed. by J. C. G. Strachan et al., Oxford Classical Text, Oxford 1995.
Per le traduzioni in lingua italiana dei passi del Fedone che ho ripor-
tato mi sono basata, apportandovi alcune modifiche, sulle traduzioni
di Manara Valgimigli (pubblicate originariamente nel 1931 e riportate
in Centrone, 2000); di Pierangiolo Fabrini (in Lami, 1996); di Stefano
Martinelli Tempesta (in Trabattoni, 2011).
Per il commento, ho utilizzato le note dei testi citati a cura di Bruno
Centrone e Franco Trabattoni, nonché quelle di David Gallop (1988),
tenendo in considerazione anche il commento di Fernanda Decleva
Caizzi (1987) e le note di Monique Dixsaut (1991).
Per aspetti puntuali del dialogo, ho tenuto presente altri lavori, men-
zionati nel testo, nelle Note e nella Bibliografia.
Desidero qui ringraziare Jonathan Barnes, che ha letto la prima ste-
sura di questo libro e che, come sempre, mi ha stimolato e fatto riflettere
con le sue osservazioni puntuali e impietose; Claudia Bianchi, che ha
letto l’ultima versione e che ha corretto refusi e imprecisioni che ormai
12 leggere il “fedone” di platone

non vedevo più; Franco Trabattoni, per le nostre amichevoli “scaramuc-


ce” platoniche che, spero, continueranno a esserci; e Maurizio Migliori,
che mi ha ricordato la divertente osservazione di Diogene Laerzio che
ho riportato in esergo all’Introduzione e che, anche se frutto di una possi-
bile confusione da parte di Diogene, esprime molto bene quello che pre-
sumibilmente fu l’impatto di Platone sul pubblico del suo tempo, alme-
no per quel che riguarda certi argomenti, e naturalmente su Aristotele.
Introduzione

Favorino racconta da qualche parte che Aristotele fu il


solo a rimanere con Platone che stava facendo una let-
tura del suo dialogo Sull’anima, mentre gli altri si erano
tutti alzati per andarsene (trad. mia).
Diogene Laerzio, Vite e dottrine
dei più celebri filosofi, iii, 37

Il Fedone e i dialoghi di Platone


L’opera di Platone pervenuta fino a noi è composta essenzialmente da
dialoghi. Platone adottò la pratica filosofica inaugurata dal suo maestro
Socrate, che consisteva in un confronto dialogico con l’interlocutore al
fine di confutarne le false opinioni e intraprendere il faticoso cammino
della ricerca filosofica. Platone cercò di riprodurre nello scritto il “parla-
to” socratico; in tal senso, i suoi dialoghi presentano una forma di “azio-
ne” filosofica, in cui viene riprodotto un percorso dominato dalla ricerca
della verità, ma tortuoso, attuato anche grazie a digressioni e divagazio-
ni. Questa azione drammatica, a cui prendono parte più attori, è basata
sull’esame di un problema (per esempio, sull’esame della questione “che
cos’è il santo?”), e può procedere sia verso la soluzione del problema, sia
verso l’ammissione dell’impossibilità, almeno momentanea, di una sua
soluzione (la cosiddetta aporia). Il protagonista è quasi sempre Socrate,
ma non bisogna cadere nella tentazione di considerare i dialoghi come
una riproduzione di scene realmente accadute. Essi restano una finzione,
che vuole riprodurre lo spirito socratico, e non dialoghi socratici real-
mente accaduti.
Lo stile di Platone, quindi, si rivela essere molto diverso da quello
del trattato filosofico che, a partire da Aristotele, prenderà piede nel-
la filosofia. L’origine del dialogo filosofico è incerta, ed esso non sarà
praticato nella filosofia successiva se non dagli allievi di Socrate: non
solo da Platone e Senofonte, i cui dialoghi sono giunti fino a noi, ma da
altri i cui dialoghi invece non ci sono rimasti, come Antistene, Fedone,
Euclide, Aristippo1. I dialoghi di autori successivi, appartenenti alla fi-
losofia moderna come Berkeley, Locke e Diderot, non sono più “vivi”
14 leggere il “fedone” di platone

come quelli platonici, volti a far emergere le tesi filosofiche a poco a


poco, ma piuttosto un artificio teso a vivacizzare l’esposizione di tesi
già definite.
Sotto il nome di Platone ci sono stati tramandati 34 dialoghi filoso-
fici, l’Apologia di Socrate e un gruppo di 13 lettere. L’insieme di queste
opere, che costituisce il corpus platonico, ci è giunto nell’ordine stabilito
da Trasillo, grammatico alessandrino vissuto nel i secolo d.C. il quale,
ci dice Diogene Laerzio, prendendo a modello l’ordine delle tragedie,
divise le opere di Platone in 9 tetralogie (gruppi di 4 opere) (dl, iii,
56). L’ordine proposto da Trasillo non tiene conto né dell’autenticità né
della cronologia del corpus, questioni difficili e appassionanti che però
qui ci riguardano solo nella misura in cui esse coinvolgono il Fedone.
L’autenticità del Fedone non è messa in dubbio. Per provare invece a si-
tuare il Fedone cronologicamente, occorre soffermarsi su due date: quel-
la dell’evento che viene raccontato nel dialogo, l’ultimo giorno di vita di
Socrate (avvenuto nel 399 a.C., quando Platone aveva poco meno di 30
anni) e quella, del tutto congetturale, della composizione del dialogo.
È importante per prima cosa osservare che le due date non coincido-
no. Sebbene, infatti, si pensi che Platone abbia iniziato a scrivere i suoi
dialoghi immediatamente dopo la morte di Socrate, è ragionevole cre-
dere che egli scrisse il Fedone una decina di anni più tardi, dal momento
che per questioni di stile, di tematiche e di prossimità con altri dialoghi,
quali Cratilo e Simposio – nei quali, come nel Fedone, inizia a delinearsi
la celebre teoria delle Idee – esso sembra appartenere quanto meno alla
fine del cosiddetto primo periodo di redazione dei dialoghi. In partico-
lare, esso viene situato immediatamente prima della Repubblica, opera
matura (a eccezione del libro i, forse più antico), poiché il libro x (611B)
contiene un’allusione ad «altre prove sull’immortalità dell’anima»,
probabilmente quelle presentate dal Fedone; e certamente prima del Fe-
dro e delle Leggi, che presentano un concetto di anima considerato dagli
studiosi successivo (cfr. Dixsaut, 1991, p. 26).
Dal punto di vista tematico, poiché l’evento messo in scena nel Fedo-
ne è l’ultimo giorno di vita di Socrate, che si conclude con la sua morte
per avvelenamento da cicuta – in seguito alla condanna di Socrate da
parte della città di Atene – il dialogo costituisce una sequenza con l’A-
pologia (cioè la difesa di Socrate al processo intentato contro di lui e che
condurrà, appunto, alla sua condanna a morte) e con il Critone, in cui
avviene una conversazione tra Socrate e Critone nella cella del carcere
(cfr. Gallop, 1988, p. 74; Centrone, 1991, p. 3).
introduzione 15

La ricezione del Fedone


Per tantissime ragioni, il Fedone è uno dei dialoghi platonici più letti,
amati e commentati.
In primo luogo perché, alla fine del dialogo, troviamo la commovente
e celeberrima morte di Socrate, descritta come la morte del filosofo, for-
se non realistica, dal momento che già nell’antichità l’avvelenamento da
cicuta è stato descritto come terribilmente doloroso e scatenante reazio-
ni violentissime2, ben diverse dalla reazione composta e serena di Socrate
descritta nell’ultima parte del dialogo.
In secondo luogo, il dialogo contiene due frasi che hanno fatto
scorrere fiumi di inchiostro. La prima si trova all’inizio, quando Fe-
done, elencando al suo interlocutore Echecrate i discepoli di Socrate
presenti nell’ultima giornata della vita del filosofo, afferma en passant:
«Platone, credo, era malato» (59B10). Questa frase potrebbe riferir-
si al fatto che la versione platonica della morte di Socrate non è un
ricordo biografico, ma un racconto filosofico che fornisce l’occasione
per sviluppare una discussione sull’immortalità, non si sa se realmente
avvenuta (Gallop, 1988, p. 74). Si è anche pensato che, con queste pa-
role, Platone volesse segnalare la propria assenza: un’assenza simbolica
e che si collega al fatto che, nel corpus degli scritti platonici, l’autore
non parla mai in prima persona, in quanto le tesi filosofiche presentate
sono sempre discusse da altri (Vegetti, 2003, pp. 66-7). Di fatto, questa
è l’unica volta che Platone si nomina, se si eccettua l’Apologia, in cui
egli è menzionato da Socrate tra coloro che sono disposti a contribuire
all’eventuale pagamento di una pena pecuniaria. E forse la spiegazio-
ne più semplice del fatto che Platone si dichiari assente e, in generale,
non parli in prima persona è che il suo intento è quello di fissare l’at-
tenzione del lettore sulle tesi filosofiche da giudicare e non sulle sue
opinioni (Barnes, 2000, p. 314). La seconda frase è quella pronunciata
da Socrate prima di morire: «Critone, siamo debitori di un gallo ad
Asclepio» (118A7-8). Ad Asclepio, dio della medicina, si sacrificava
per chiedere una guarigione, o per ringraziare a guarigione avvenuta:
in questo contesto, le parole di Socrate sono state oggetto di interpre-
tazioni varie. Molti, fin dall’antichità, hanno ritenuto che l’offerta si
riferisse alla guarigione di Socrate, tramite la morte, dalla “malattia”
della vita umana. Oppure, si è pensato che l’offerta si collegasse alla
malattia fisica di Platone assente; in tale contesto, le parole di Socrate
16 leggere il “fedone” di platone

segnalerebbero profeticamente il ruolo di Platone come continuatore


della missione filosofica del maestro3.
Infine, il dialogo ha sollecitato studiosi di tutte le tendenze e scuole,
a causa dell’argomento di fondamentale importanza – le dimostrazioni
dell’immortalità dell’anima – e del metodo impiegato per svilupparlo.
All’inizio del Fedone (61D-E), in effetti, Platone invoca, per la ricerca che
si accinge a portare avanti, quell’intreccio di ragionamenti (logoi) e miti
(mythoi), razionalità ed evocazione religiosa, forse legata al pitagorismo,
che rappresenta la cifra del dialogo. Tradizionalmente si è voluto e si vuole
ancor oggi mantenere integro questo intreccio (cfr., ad esempio, Dixsaut,
1991, p. 12), soprattutto a fronte di una recente tendenza, sviluppatasi nel
xx secolo in ambito anglosassone, che invece privilegia quasi esclusiva-
mente l’aspetto logico-argomentativo delle prove sull’immortalità dell’a-
nima, con esiti a volte davvero impietosi nei confronti di Platone, quando
non asfittici (Trabattoni, 2011, pp. ix-xi). Sicuramente trattare solo di
quest’ultimo aspetto risulta riduttivo e anacronistico; tuttavia, a fronte
di numerosi e validissimi lavori italiani e stranieri, anche molto recenti,
orientati a mantenere integro questo doppio registro, si è preferito qui,
pur con le debite precauzioni, privilegiare la parte dimostrativa. Questa,
da alcuni studiosi addirittura negata, è certamente presente e niente af-
fatto secondaria (Migliori, 2013, vol. ii, p. 795) ed è la parte più difficile
da comprendere e interpretare. La sua analisi dettagliata ma anche, dove
possibile, semplificata, può costituire un valido aiuto per il lettore che si
appresta a leggere il Fedone, a integrazione dei lavori già in circolazione
sulla stessa opera. Inoltre, questa parte è preponderante nel dialogo ed è
interessantissima per valutarne la portata squisitamente filosofica.
Nell’antichità, il dialogo fu preso molto sul serio: fu l’ultima opera
che Catone lesse prima di suicidarsi (Plutarco, Catone, lxviii, 2) e gli
argomenti sull’immortalità dell’anima convinsero Cleombroto di Am-
bracia a buttarsi da un alto muro per raggiungere l’Ade (Callimaco, Epi-
gramma, xxiii) (cfr. Decleva Caizzi, 1987, p. 23; Barnes, 2000, p. 314).

Luoghi e personaggi del Fedone:


Socrate e gli altri
Il Fedone fa parte dei dialoghi raccontati (come, ad esempio, il Prota-
gora, il Carmide, il Simposio ecc.), cioè di quei dialoghi sotto forma di
racconto narrato e non direttamente vissuto. Il narratore è Fedone di
introduzione 17

Elide, giovane aristocratico condotto ad Atene come schiavo di guerra


e poi riscattato da Socrate (dl, ii, 105), che a Fliunte, cittadina dell’Ar-
golide (regione del Peloponneso), incontra Echecrate, portavoce di una
comunità pitagorica ivi residente (dl, viii, 46; Giamblico, Vita di Pi-
tagora, 251). Echecrate chiede a Fedone se era presente il giorno della
morte di Socrate e, ricevendone risposta affermativa, gli domanda di
raccontargli ciò che Socrate ha detto e come è morto (57A). Inizia così
il racconto, che verrà interrotto da Echecrate solo due volte (in 88C-
89A e in 102A), sostanzialmente per esprimere stupore o scoramento
per alcune argomentazioni addotte contro o a favore dell’immortalità
dell’anima. Il racconto è invece ambientato ad Atene, nella prigione
dove Socrate attende che sia finalmente eseguita la sua condanna a mor-
te per avvelenamento con la cicuta.
Numerosi sono gli amici che attorniano Socrate nell’ultimo giorno
della sua vita4, ma tutti praticamente silenziosi, a eccezione di Simmia
e Cebete, entrambi di Tebe, interlocutori quasi esclusivi di Socrate nel
botta e risposta intorno alle prove sull’immortalità dell’anima. Il fatto
che Echecrate fosse membro della comunità pitagorica, e che anche Sim-
mia e Cebete facessero parte a Tebe della cerchia del celebre pitagorico
Filolao (v sec. a.C.), ha convinto molti studiosi a ritenere assai impor-
tante in questo dialogo il confronto con il pitagorismo, sia pure condot-
to da Platone con intenzioni polemiche (Trabattoni, 2011, pp. xi-xv).
Protagonista indiscusso del dialogo è Socrate, come accade in mol-
tissimi dialoghi platonici. Com’è noto, Socrate non ha lasciato nulla di
scritto, e per ricostruire il personaggio storico e la sua dottrina dobbia-
mo sostanzialmente affidarci a tre fonti “dirette”, cioè personaggi che
l’hanno conosciuto: lo scrittore di commedie Aristofane, il filosofo Pla-
tone e lo storico Senofonte, questi ultimi allievi di Socrate. Emergono
da queste fonti tre “Socrati” diversi e difficilmente conciliabili: sofista,
filosofo della natura e corruttore di giovani per l’Aristofane delle Nuvo-
le; padre della filosofia aporetica e speculativa per Platone; sorta di coe-
rente e quasi “noioso” predicatore, da cui risulta quasi del tutto assente la
vivacità filosofica che caratterizza il Socrate platonico, per il Senofonte
dei Memorabili (Dorion, 2010, p. 79).
Socrate compare praticamente in tutti i dialoghi platonici (a eccezio-
ne delle Leggi e dell’Epinomide, quest’ultimo considerato inautentico),
e gli studiosi hanno la tendenza a raggruppare i dialoghi anche sulla base
della presunta presenza in essi del Socrate storico: massiccia in quelli
giovanili (altrimenti detti “aporetici”, poiché confutano le opinioni dei
18 leggere il “fedone” di platone

predecessori su un dato argomento senza proporre una dottrina positi-


va), essa si riduce via via nei dialoghi della maturità – cui apparterrebbe
anche il Fedone – e della vecchiaia, per lasciar sempre più posto alle dot-
trine di Platone, che però continuano a essere espresse dal personaggio
di Socrate5. La problematicità di questo criterio è comunque evidente,
perché si basa su contenuti filosofici che possono essere attribuiti a Pla-
tone o a Socrate in modo talvolta arbitrario. Nel Fedone il problema è
particolarmente evidente: Socrate esprime teorie molto corpose, che
probabilmente non possono essergli attribuite, e Platone è dichiarato
assente. A chi dunque attribuirle? In effetti, sarebbe probabilmente un
errore identificare automaticamente ogni osservazione socratica con
delle dottrine platoniche (Frede, 1999, p. vii e p. 177). Resta il fatto che
il Fedone, come qualsiasi altro dialogo platonico, presenta uno straor-
dinario interesse filosofico indipendentemente dalle reali opinioni di
Socrate o di Platone.

Il Fedone: quadro generale dei contenuti


La conversazione iniziale e le quattro prove
dell’immortalità dell’anima

Il grammatico Trasillo ci trasmette il Fedone anche con un sottotito-


lo, Sull’anima, per segnalarne il contenuto (dl, iii, 58). Tuttavia, tale
sottotitolo è solo parzialmente corretto (cfr., ad esempio, Trabattoni,
2011, pp. viii-ix), poiché il dialogo non contiene né una dimostrazione
dell’esistenza dell’anima né un’esplicita trattazione sulla sua natura. In
effetti, l’esistenza dell’anima è data per scontata; quanto alla sua natura,
nel Fedone troviamo solo osservazioni sparse, che consentono di identi-
ficare l’anima con il principio razionale e conoscitivo. In compenso, la
maggior parte del dialogo è volta a dimostrare l’appartenenza all’anima
di una caratteristica essenziale, l’immortalità. Dopo una conversazione
iniziale in cui Socrate, liberato dalle catene, parla con Simmia e Cebe-
te del suicidio e della natura della morte (61B-69E), troviamo in effet-
ti quattro dimostrazioni dell’immortalità dell’anima: l’argomento dei
contrari (70A-72D), l’argomento della reminiscenza (72E-77D), l’affi-
nità dell’anima con le Idee (78B-84B) e una prova finale (102A-107B),
elaborata da Socrate alla luce delle obiezioni di Simmia e Cebete alle
prime tre prove, e delle sue risposte alle obiezioni (84C-102A). Le quat-
introduzione 19

tro prove costituiscono anche l’occasione che permette ai protagonisti


del dialogo di affrontare e discutere temi filosoficamente fondamentali,
quali il divenire, la causalità, l’elaborazione e il ruolo della celebre dot-
trina platonica delle Idee. È a tutta questa parte che si rivolge sostanzial-
mente il lavoro.
Il dialogo, però, non si conclude con l’ultima prova, ma continua pre-
sentando un mito sul destino dell’anima dopo la morte (107C-114C)
e un ritratto estremamente commovente della morte di Socrate (116A-
118A). Poiché queste parti non verranno esaminate in dettaglio, è oppor-
tuno darne almeno un resoconto.

Il mito escatologico dell’aldilà

Il passaggio dall’ultima prova al mito è segnato dall’osservazione di So-


crate secondo cui, se è vero che l’anima è immortale (come si è tentato di
dimostrare), allora essa dovrà essere curata per tutto il tempo. Se infatti
la morte fosse un semplice azzeramento dell’anima, i malvagi ne benefi-
cerebbero perché si libererebbero in un solo colpo del corpo e della loro
malvagità; se invece l’anima, essendo immortale, se ne va nell’Ade por-
tandosi dietro la propria educazione e il proprio stile di vita, diviene fon-
damentale che essa si sforzi di essere sempre la migliore possibile e la più
saggia (107C-D). Il mito è così volto a illustrare i premi e le punizioni
che verranno assegnati alle anime, a seconda del loro tipo di vita terrena.
Nella prima parte del mito (107D-108C) Socrate spiega che le ani-
me, una volta separatesi dal corpo, vengono accompagnate dai rispettivi
demoni (ricevuti in sorte quando esse erano ancora “vive”6) verso l’Ade,
con un percorso tutt’altro che semplice. Qui però Socrate si limita a os-
servare che le anime vissute nella saggezza e moderazione raggiungono
immediatamente il luogo a loro destinato, mentre quelle impure (cioè,
quelle rimaste legate alle lusinghe del corpo per tutta la loro esistenza in-
carnata, o macchiatesi di omicidi e crimini), dopo il giudizio dovranno
aspettare un certo lasso di tempo prima di raggiungere la dimora che si
addice loro.
Nella parte centrale (108D-113C) Socrate espone una sorta di geogra-
fia della terra, articolata in regioni sotterranee e sovracelesti, allo scopo
di individuare i luoghi in cui verranno smistate le anime pure e impure.
Per prima cosa, si dichiara convinto che la terra sia rotonda. Essa è im-
20 leggere il “fedone” di platone

mensa e, contrariamente a quanto si crede, gli uomini non ne abitano la


vera superficie, che invece se ne sta pura nel cielo puro insieme agli astri,
ma le cavità superficiali, in cui sono confluite acqua, nebbia e aria. Gli
uomini si comportano così come coloro che, abitando in fondo al mare
e vedendo il sole e le stelle attraverso l’acqua, sono convinti di vivere in
superficie, non capaci per pigrizia e debolezza di attraversare l’acqua per
giungere in alto. La terra vera, a differenza delle cavità in cui abitiamo,
dove tutto è consumato e corroso, è liscia, rotonda e variopinta, piena
di cose meravigliose: piante, animali e uomini. Questi ultimi vivono a
lungo, non si ammalano, stanno a contatto diretto con gli dei e rimirano
gli astri come sono realmente7.
Socrate passa poi a parlare dell’interno della terra, dove vi sono mol-
te cavità, tutte connesse fra di loro mediante canali sotterranei. Questi
luoghi sono attraversati da innumerevoli quantità di fiumi di acqua cal-
da e fredda, fuoco, fango e lava, che si muovono continuamente in su e
in giù, in una sorta di altalena che ha luogo grazie all’enorme voragine
che attraversa la terra da parte a parte, il Tartaro, in cui confluiscono
tutti i fiumi, che da lì di nuovo scaturiscono. Socrate menziona e de-
scrive i quattro principali fiumi, anche qui riprendendo elementi delle
credenze tradizionali. Primo fra tutti Oceano, il più grande e che scorre
in cerchio nella zona più esterna della terra; poi Acheronte, il fiume tra-
dizionalmente sotterraneo e infernale, che scorre di fronte a Oceano in
direzione contraria, e dove arriva la maggior parte delle anime dei tra-
passati, i quali restano lì per il tempo deciso per poi tornare a rinascere;
in seguito Piriflegetonte, che scaturisce nel mezzo, sfocia in un grande
spazio bruciato dal fuoco e si muove circolarmente; e di fronte Stige, che
prima sfocia in un luogo tremendo e selvaggio, poi si muove formando
spirali in senso contrario al Piriflegetonte, per poi buttarsi nel Tartaro
dalla parte opposta8.
Infine, Socrate specifica i premi e castighi che subiranno le anime dei
trapassati in funzione dei loro meriti e demeriti e in corrispondenza dei
luoghi descritti (113D-114C). Così, coloro che hanno vissuto secondo
una via di mezzo attraverseranno l’Acheronte e, fermatisi nella sua palu-
de, passeranno tempi variabili, a seconda del giudizio, a purificarsi dalle
colpe, dopodiché riceveranno i premi secondo i loro meriti. Gli incura-
bili per la gravità dei reati commessi precipiteranno invece nel Tartaro
da dove non usciranno più. Infine, quelli che verranno riconosciuti col-
pevoli di crimini gravi ma giudicati guaribili finiranno nel Tartaro ma ne
usciranno grazie ai movimenti violenti dei quattro fiumi, e questo ciclo
introduzione 21

si riprodurrà più volte, finché non riusciranno a persuadere le loro vit-


time a farli passare nella palude dell’Acheronte, per porre fine alle loro
punizioni. Invece, coloro che sono riusciti a vivere nella santità giunge-
ranno sulla terra pura e vera. Tra questi i filosofi, che anzi approderanno
a dimore ancor più belle e indescrivibili.
Molto si è discusso sul senso da dare al mito e su un suo eventuale
uso filosofico. Per quel che riguarda il senso, lo stesso Socrate sembra
indicarlo. Infatti, nelle righe che precedono immediatamente il mito,
egli sostiene che i ragionamenti fatti sull’immortalità dell’anima non
sono definitivi, ma devono essere di nuovo sottoposti ad analisi, fino a
giungere alla massima chiarezza possibile per un uomo (107B). Inoltre,
nelle righe che concludono la presentazione del mito (114D), Socrate
osserva che, se non è ragionevole sostenere a tutti i costi che le cose stia-
no esattamente nei termini mitologici descritti, è però bello, se davvero
l’anima è immortale, crederci, così come è necessario incantare sé stessi
con racconti simili. Come a dire che, da una parte, i ragionamenti non
convincono perché non sono definitivi (in quanto l’uomo incarnato ha
i suoi limiti)9; dall’altra, che se davvero l’anima è immortale, è bello in-
ventare e credere a miti che siano però coerenti con quei ragionamenti.
Arriviamo così alla seconda questione, che riguarda l’apporto filoso-
fico del mito. Secondo molti studiosi, il mito può essere ignorato perché
non si presta a un’analisi filosofica rigorosa, o perché appendice di dimo-
strazioni stabilite da argomenti filosofici; oppure perché ha solo un in-
teresse estetico10. Altri, invece, ritengono che il mito abbia una funzione
ben precisa, che è quella di presentare le conseguenze che l’immortalità
dell’anima (stabilita su basi razionali) comporta sul piano etico11.

La morte di Socrate

Descrivere in dettaglio la morte di Socrate significherebbe banalizzare


un pezzo di grande letteratura, commovente e al tempo stesso rassere-
nante. Gli studiosi sono concordi nel ritenere che non si tratti di un rac-
conto fedele, ma di una maniera di rappresentare la morte del perfetto
filosofo, tanto Socrate resta sereno, composto e affettuoso fino agli ulti-
mi istanti della sua vita.
Egli ha per tutti parole e atteggiamenti comprensivi. Per i figli e per
le donne di casa, che incontra poco prima di bere la cicuta in vista del-
22 leggere il “fedone” di platone

le ultime disposizioni, e che poi congeda; per il messo che gli viene ad
annunciare che è ora di bere la cicuta e che scoppia in lacrime. E per
Critone, co-protagonista di quest’ultima parte, che cerca in tutti i modi
di ricondurre Socrate a occupazioni pratiche, chiedendogli quali sono
le ultime disposizioni, come vuole che venga seppellito, oppure pregan-
dolo di rinviare ancora per un po’ l’assunzione della cicuta12. Socrate si
sottrae a tutti questi tentativi in modo sereno ma fermo, e rimprovera da
ultimo anche gli amici che, vedendolo bere la cicuta, scoppiano in lacri-
me. Forse, la frase che più esprime il senso dell’atteggiamento di Socrate
è quella che il filosofo rivolge agli amici, e che si trova in esergo al cap. 7
di questo volume: «Non riesco a persuadere Critone che io sono que-
sto Socrate che ora sta discutendo e mettendo in ordine ciascuna delle
cose dette, invece egli crede che io sia quello che tra poco sarà cadavere»
(115C). Il senso e la profondità della frase risulteranno chiari dopo aver
esaminato in dettaglio le dimostrazioni dell’immortalità dell’anima.
1
Il suicidio e la natura della morte (61B-69E)

Dicendo “Addio Sole!”, Cleombroto d’Ambracia saltò /


da un alto muro verso l’Ade. Nessun male degno / di
morte incontrò, ma di Platone lesse un libro sull’anima.
Callimaco, Epigramma, xxiii

L’argomento principale della conversazione iniziale tra Socrate e i suoi


discepoli riguarda un’apparente contraddizione che il filosofo deve cer-
care di risolvere: quella tra il divieto di uccidersi e l’opinione secondo la
quale «in certe circostanze e per certe persone [come si vedrà, i filosofi]
è meglio essere morti che vivere» (62A).
Le questioni che si pongono sono quindi le seguenti: (1) come si
giunge a presentare questa “contraddizione”? (2) Socrate riesce a risol-
verla e, se sì, in che modo? Quest’ultimo punto si articola a sua volta
in due parti: (2a) la discussione sul divieto del suicidio (62B-C); (2b)
la presentazione della teoria secondo la quale i filosofi vogliono morire
(63E-69E), dove troviamo un’appassionata difesa della vita filosofica.

La contraddizione tra il divieto di suicidio


e l’aspirazione del filosofo alla morte
Il passo che ci permette di affrontare la contraddizione (1) si trova in
60C. Cebete, prendendo per la prima volta la parola, domanda a So-
crate perché mai, negli ultimi giorni, si sia messo a porre in versi le fa-
vole di Esopo, e a comporre un inno ad Apollo. Cebete aggiunge che è
Eveno1 che vuole avere queste informazioni. Socrate, dopo aver risposto,
aggiunge queste strane parole: «Salutamelo e digli che, se è saggio, mi
venga dietro il più presto possibile. Io me ne vado, pare, oggi, giacché lo
ordinano gli Ateniesi» (61B-C).
Dalle parole di Socrate, risulta chiaro che egli suggerisce a Eveno di
seguire colui che muore. Di fronte alla perplessità di Simmia, Socrate
risponde: «Eveno non è forse filosofo? [...]. E allora Eveno sarà disposto
24 leggere il “fedone” di platone

a seguirmi, e chiunque altro partecipi degnamente a questa nostra occu-


pazione. Certamente però non farà violenza a sé stesso; perché, dicono,
questo non è lecito» (61C).
Ecco quindi come si giunge al problema: da una parte, afferma Socra-
te, «dicono» che è vietato uccidersi; ma, dall’altra, colui che si dedica
alla pratica filosofica desidererà seguire chi muore.
Di fronte alle perplessità questa volta di Cebete, Socrate risponde con
due osservazioni. La prima ha un’importanza storica, perché sembra indi-
care che l’origine della teoria sul divieto del suicidio sia pitagorica. Socrate,
infatti, domanda a Cebete come mai lui e Simmia, pur essendo discepoli
di Filolao, non hanno sentito parlare di queste cose. Filolao era un seguace
di Pitagora contemporaneo di Socrate; riferendosi a lui, Socrate suggerisce
che Filolao insegnasse, in quanto pitagorico, una dottrina sul divieto di
suicidio che Cebete doveva conoscere: e infatti Cebete risponde che ne ha
sentito parlare, ma in maniera confusa. D’altro lato, Socrate vuole forse se-
gnalare che la proibizione al suicidio è un’opinione pitagorica (di Filolao),
che però egli non condivide necessariamente. In effetti, egli dice: «dicono
che fare violenza a sé stessi non sia lecito»; e anche «ma anch’io ne parlo
solo per sentito dire»2. L’altra osservazione di Socrate riguarda la maniera
di procedere nell’argomentazione, che caratterizzerà tutto il Fedone:
Ma anch’io, veramente, parlo di queste cose per sentito dire; e ciò che mi è ca-
pitato di udire, nulla impedisce di dirlo a voi. Del resto, conviene certamente e
soprattutto a colui che sta per intraprendere il viaggio per l’al di là, sottoporre a
un esame approfondito (diaskopein) e parlare per miti (mythologhein) rispetto a
questo viaggio dell’aldilà, di quale natura pensiamo che sia (61D-E).

I verbi greci diaskopein e mythologhein vogliono dire rispettivamente “sot-


toporre a un esame approfondito” e “parlare per miti” rispetto a questo
viaggio che è la morte. L’associazione di questi due verbi, l’uno che rinvia
ad argomenti rigorosi (veri), l’altro a miti (discorsi solo verosimili), ca-
ratterizzerà tutto il dialogo. Nonostante, infatti, i tentativi di dimostrare
l’immortalità dell’anima, che nel dialogo sono evidentissimi, resta il fatto
che tutto ciò che riguarda l’aldilà comporta una “base” mitico-mitologica3.

Il divieto del suicidio


Il punto (2) si articola in due parti. In un primo tempo Socrate discute il
divieto del suicidio (2a), poi spiega perché i filosofi vogliono morire (2b).
il suicidio e la natura della morte 25

Nella discussione sul suicidio, rispondendo a Cebete che domanda


in base a che cosa dicono che non è lecito uccidersi (61E), Socrate sugge-
risce due spiegazioni del divieto (Gallop, 1988, p. 83). Secondo la prima
(62B), noi siamo posti in una prigione/posto di guardia (phroura) dalla
quale non possiamo da noi stessi liberarci e scappare. Il senso e l’origine
della dottrina dipendono dalla traduzione del termine greco phroura,
che significa, appunto, o “prigione”, oppure “posto di guardia”. Se il ter-
mine significa “prigione”, allora Socrate si riferisce alla dottrina orfica
del corpo-prigione: si tratta di una dottrina religiosa secondo la quale
la vita sulla terra consiste in un imprigionamento dell’anima nel corpo.
In questo caso, si paragonerebbe il suicidio alla fuga dalla prigione, che
sarebbe interdetta da un divieto religioso4. Se invece il termine greco
significa “posto di guardia” (cittadella), il suicidio sarebbe visto come un
atto di diserzione che renderebbe colpevoli di codardia5.
La seconda possibilità, che spiegherebbe il divieto di suicidio, è che
noi siamo proprietà degli dei (62B-C). Qui troviamo l’idea che non ci si
possa suicidare prima di ricevere un segno chiaro che questa sia la volon-
tà divina. Nel caso di Socrate, il segno è la condanna del tribunale atenie-
se a bere la cicuta. La condanna a morte è dunque vista da Socrate come
un’occasione che la divinità gli offre per realizzare il suo vero desiderio,
che è quello di essere morto piuttosto che di vivere. Socrate non sostiene
la teoria di un assoluto divieto di suicidio; al contrario, il suo ragiona-
mento sembra implicare che la sua propria morte sarà un suicidio, ma
legittimo perché sostenuto da un segno divino. Egli, quindi, non sembra
voler condannare il suicidio, bensì cerca di spiegare perché il desiderio
di morire del filosofo non può giustificare il desiderio di procurarsi da sé
stesso la morte senza un segnale divino.
Al di là delle considerazioni presentate da Socrate per vietare il suici-
dio, che sono più o meno convincenti e di ordine religioso, le questioni
che qui vengono poste sono le seguenti. Innanzitutto, perché dobbiamo
restare qui, sulla terra, nel corpo? Risposta: perché lo ordinano gli dei.
Ma perché gli dei ci hanno collocato in questo corpo? Socrate non ri-
sponde, ma in altri dialoghi (ad esempio nel Menone, 81A-B) dirà che
siamo in questo corpo a causa di malefatte che abbiamo compiuto nelle
nostre vite precedenti (e vedremo che anche nel Fedone Platone presen-
terà la teoria della trasmigrazione delle anime): la mia anima cade in un
corpo, e poi in un altro, e poi in un altro. La discussione di questa prima
sezione risulta comunque interessante, alla luce del fatto che alla fine del
dialogo Socrate berrà la cicuta. Ci si può chiedere, in effetti, se Socrate
26 leggere il “fedone” di platone

pensa che alla fine della giornata si suiciderà. Da una parte si dovreb-
be rispondere di no, poiché è lo Stato che lo uccide, condannandolo a
bere la cicuta: in questo senso, il suo caso è diverso da quello dello stoi-
co Seneca, che decide di tagliarsi le vene. D’altro canto, Socrate avrebbe
potuto facilmente lasciare Atene e mettersi in salvo, come nel dialogo
omonimo Critone gli chiede di fare. Tutto sommato, però, la domanda
se Socrate pensa di suicidarsi oppure no appare terminologica, dal mo-
mento che sappiamo esattamente che cos’è successo.

I filosofi vogliono morire


Nella parte in cui Socrate spiega che i filosofi vogliono morire trovia-
mo un’appassionata difesa della vita filosofica e una nuova apologia di
Socrate, che questa volta deve difendersi non dalle accuse del processo
al tribunale di Atene, ma da Simmia e Cebete, che lo accusano di voler
abbandonare loro e gli dei «di qui» (cioè, gli dei tradizionali), per af-
frontare con gioia e liberazione la morte.
Il secondo corno dell’apparente contraddizione che Socrate è chia-
mato a risolvere è, in effetti, che i filosofi preferiscono morire. Contra-
riamente alla proibizione del suicidio, la teoria secondo cui i filosofi pre-
feriscono morire è un’opinione di Socrate (64C-D: «e allora, rifletti
bene, caro amico, se per caso anche tu hai la stessa opinione che ho io»)6.
Cebete, l’interlocutore più attivo di questa parte del dialogo, trova
verosimile il discorso che Socrate ha appena pronunciato a proposito
del divieto di suicidio, mentre trova sconcertante l’altra affermazione
secondo cui i filosofi vogliono morire (62D). Il senso dell’obiezione di
Cebete è, infatti, il seguente: come tu dici, Socrate, noi siamo proprietà
degli dei e gli dei ci proteggono qui dove siamo. Di conseguenza, sembra
davvero assurdo voler abbandonare la vita, cioè esattamente la protezio-
ne e la cura dei nostri dei.
La risposta di Socrate a questa domanda esprime innanzitutto un’o-
pinione, o piuttosto una speranza (63C): la speranza che vi sia qualche
cosa dopo la morte, precisamente che sia possibile giungere là dove «al-
tri dei», sapienti e buoni, si trovano7; e la speranza che vi sia, dopo la
morte, qualcosa di molto migliore per i buoni piuttosto che per i cattivi.
Già in Omero si trovava l’opinione che ci fosse qualcosa dopo la mor-
te. La novità presentata da Socrate rispetto alla tradizione è l’idea che il
destino dei buoni sia migliore di quello dei cattivi:
il suicidio e la natura della morte 27

Ma a voi come miei giudici voglio oramai rendere ragione di come a me sembri
ragionevole che un uomo che abbia realmente trascorso la sua vita nella filosofia
non abbia paura quando è sul punto di morire, e che abbia la speranza che là
potrà avere i più grandi beni, quando sarà morto. E come, dunque, le cose stiano
effettivamente così, cari Simmia e Cebete, io cercherò di dirvi (63E-64A).

L’argomento che sta alla base dell’affermazione di Socrate si articola nel


seguente modo:
1) durante la loro vita, i filosofi non si occupano di null’altro che di mo-
rire e di essere morti;
2) dunque, i filosofi preferiscono (o desiderano) essere morti piuttosto
che essere in vita.
Per comprendere la posizione di Socrate occorre introdurre diversi
elementi complementari, alcuni dei quali sono esplicitati nel dialogo,
mentre altri sono presupposti. Tali elementi sono:
i) la definizione della morte come separazione dell’anima dal corpo,
che viene da Socrate presentata nella sezione immediatamente successi-
va al passo in analisi;
ii) l’identificazione dell’io con l’anima, che nel Fedone è presupposta,
ma che viene dimostrata in un altro dialogo;
iii) l’identificazione dell’anima con il pensiero razionale; si tratta di
un’idea solo implicita, ma che costituisce la base dell’intero Fedone;
iv) la svalorizzazione, nel Fedone ribadita a più riprese, del corpo che,
secondo Socrate, impedisce il pensiero.

La definizione della morte

Crediamo che la morte sia qualche cosa? [...] E che cos’altro, se non la separa-
zione dell’anima dal corpo? E che questo è l’essere morto: da una parte il corpo,
separato dall’anima, che è divenuto solo per sé stesso, dall’altra l’anima, distac-
cata dal corpo, che continua a esistere sola per sé stessa? (64C).

La morte esiste, ed è qualche cosa. Socrate sembra oscillare tra la ricerca


della definizione della morte, e quella della definizione dell’essere morto.
Se si cerca la definizione della morte, si pensa all’evento della separazione
dell’anima dal corpo; se invece si cerca quella dell’essere morto, si pensa
allo stato che è il risultato della separazione: l’essere separato dell’anima
dal corpo e l’essere separato del corpo dall’anima (Gallop, 1988, p. 86).
28 leggere il “fedone” di platone

In entrambi i casi, il risultato non cambia: Socrate, infatti, vuole avere


la possibilità di parlare dell’anima e della sua esistenza separata dal cor-
po. Ciò detto, nell’ottica socratica, se ha senso parlare dell’essere morto
del corpo quando è separato dall’anima, non sembra aver particolare
senso parlare dell’anima morta quando essa è separata dal corpo, anche
perché Socrate vuole invece dimostrarne l’immortalità. Sarebbe quindi
forse più corretto affermare che, secondo la definizione data, non sono
l’anima e il corpo a essere morti, ma l’uomo (e in generale l’essere viven-
te), che è un’unione tra i due: morto sarà l’essere vivente (in particolare
l’uomo) la cui anima e il cui corpo sono separati.
È comunque importante sottolineare che questa definizione di mor-
te non implica che l’anima continui a esistere una volta separata dal cor-
po, né che il corpo continui a esistere una volta separato dall’anima. In
effetti, se consideriamo che cosa accade al corpo una volta sopraggiunta
la morte, vediamo che esso esiste per un po’ di tempo, ma poi si decom-
pone; inoltre, ci sono certe morti che smembrano il corpo, che quindi da
subito non esiste più. Socrate è consapevole del fatto che la definizione
di morte non implichi che l’anima continui a esistere dopo la separazio-
ne, e affronterà tale problema più tardi.

L’identificazione dell’anima con l’io

L’anima è il vero io, la persona reale. Prendendosi cura dell’anima, il fi-


losofo si prende cura di sé stesso: questa sarà la conclusione del dialogo
(115B-C), in cui Socrate esorta i suoi discepoli a prendersi cura di loro
stessi secondo i discorsi che sono stati fatti prima (la purificazione del
corpo, la vera conoscenza, il distacco dell’anima dal corpo ecc.; cfr. Gal-
lop, 1988, p. 88). Dopo la morte di Socrate, i suoi discepoli diranno di
aver sepolto non Socrate, ma solo il suo corpo: Socrate viene così distin-
to dal suo corpo e anche dall’uomo, dall’animale umano che si percepi-
sce, e quindi identificato con la sua anima.
Nel Fedone non vi è un argomento che identifichi la persona con la
sua anima. Lo troviamo in un altro dialogo, Alcibiade i, 129B-130C, in
cui Socrate sostiene la tesi che il corpo è solo lo strumento dell’anima, e
che quindi la persona (il sé stesso, come lo chiama Socrate) si identifica
non con l’unione corpo-anima, ma solo con l’anima. Le conseguenze di
questa teoria sono curiose: da questo punto di vista, infatti, potremmo
il suicidio e la natura della morte 29

osservare che Socrate non pesa nulla, non ha il naso camuso e non ha
mai mangiato nulla. Di tutta evidenza, a partire da questa teoria, l’im-
mortalità platonica risulta completamente differente da quella cristiana,
in cui è l’uomo nella sua interezza a essere immortale.

L’identificazione dell’anima con il pensiero

Nel Fedone, l’anima viene identificata con l’intelletto e il pensiero, cioè


con l’elemento razionale che pensa. In tal senso, Socrate afferma a più ri-
prese che l’anima «tocca la verità» (65B), «ragiona» (65C), «acquisisce
il sapere» (76C) o «possiede la sapienza» (76C) (Gallop, 1988, p. 88).
L’identificazione tra l’anima e il pensiero conduce Socrate a operare
una distinzione radicale tra la ragione e tutto il resto delle attività uma-
ne, espulse dalla parte del corpo. È come se il ragionamento di Platone
fosse il seguente: quello che si vuole fare è isolare una pura attività dell’a-
nima. In che maniera? Procedendo per esclusione: (i) i sensi hanno biso-
gno del corpo (cioè, degli organi sensoriali); (ii) i piaceri hanno bisogno
del corpo; (iii) i desideri hanno bisogno del corpo; e così via.
Qual è l’unica attività che non ha bisogno del corpo? La risposta sarà il
pensiero. Si noti che tale conclusione è condivisa anche da Aristotele, che
invece ha la tendenza generale a identificare l’anima con delle funzioni
corporee (eccetto, appunto, che per l’intelletto, che anche per Aristote-
le si identifica con l’uomo). Tuttavia, sembra che i due filosofi abbiano
torto. In effetti, è vero che non possiamo vedere senza gli occhi né udire
senza le orecchie: ma possiamo pensare senza cervello? Seguendo tale ra-
gionamento, anche il pensiero risulterà essere un’attività corporea.
Più tardi, in altri dialoghi come Repubblica e Fedro, Platone renderà
il discorso più complicato: in particolare distinguerà l’anima in tre parti
(razionale, sensibile e appetitiva), considerando i conflitti che nel Fedone
ascrive all’anima e al corpo come conflitti tra parti dell’anima.

La svalorizzazione del corpo

Socrate discute questo argomento in 65B: «E che dici riguardo alla stes-
sa acquisizione della sapienza (phronesis)? Il corpo è di impedimento
oppure no, qualora lo si prenda come compagno in questa indagine?».
30 leggere il “fedone” di platone

La risposta di Socrate è ovviamente sì, e questo a causa della svalo-


rizzazione dei sensi, intesi come organi della percezione, qui operata.
La vista o l’udito, ci dice Socrate, non ci fanno conoscere nessuna cosa
con verità, perché non sono esatti. Ora, questo disprezzo dei sensi nel
Fedone è continuamente riproposto (si vedano 65C, 65E-66A, 79C,
83A, 99E; cfr. Gallop, 1988, p. 91). Parlando della vista e dell’udito,
Socrate dichiara che essi non sono né esatti né chiari. Forse egli pensa
agli errori della vista dovuti alla distanza: un esempio famoso dell’an-
tichità è quello della torre che da lontano sembra circolare e da vicino
quadrata. Si pensi anche all’esempio divenuto celebre grazie a Cartesio
(e da lui utilizzato proprio per dichiarare che i sensi ci ingannano) del
bastoncino che in un bicchiere d’acqua sembra spezzato. Oppure, più
probabilmente, Platone pensa che nulla in questo mondo può essere
perfetto: nessuna linea è perfettamente diritta, nessun cerchio perfet-
tamente circolare.
Socrate è però radicale: egli non si limita a dire che i sensi ci offrono
una visione imperfetta o confusa della realtà. Egli dichiara che i sensi
non sono di alcuna utilità per la conoscenza, ma solo un impedimento.
Essi impediscono all’anima di accedere ai veri oggetti della conoscenza,
cioè alle Idee o Forme, entità che vengono introdotte in 65D: il Giusto
in sé, il Bello in sé, il Buono in sé.
In definitiva, Socrate sostiene due teorie. La prima afferma che i sensi
non sono degli strumenti di conoscenza, ma anzi sono di impedimento,
senza contare le necessità del corpo (dormire, mangiare ecc.), che ci di-
stolgono dal perseguirla. La seconda, invece, sostiene che il mondo fisico
non è l’oggetto reale della conoscenza. La conoscenza filosofica (phrone-
sis: sapienza, conoscenza, pensiero) può essere ottenuta solo sospenden-
do l’azione dei sensi e dei bisogni corporei. Il corpo, infatti, impedisce di
pensare, cioè di conoscere, cioè di avere accesso alla verità. Ancora una
volta possiamo criticare questa presa di posizione: è vero che a volte il
corpo impedisce di pensare, ma questo non implica che si possa pensare
meglio (o addirittura pensare) senza corpo, cioè senza il cervello.
Grazie agli elementi complementari, l’argomento che Socrate pre-
senta per difendere la tesi secondo cui i filosofi preferiscono essere morti
risulta, infine, essere il seguente:
1) “essere morti” significa che l’anima è separata dal corpo;
2) il corpo impedisce al filosofo (che si identifica con l’anima) di pensare;
3) dunque, il filosofo preferisce essere separato dal suo corpo (cioè, pre-
ferisce essere morto).
il suicidio e la natura della morte 31

Ma la conclusione di fatto non segue, perché la prima premessa non


implica che l’anima continui a esistere dopo la separazione dal corpo.
Quello che il filosofo vuole è “essere morto” solo se sarà sempre capace
di filosofare, e meglio.
Comunque sia, secondo Socrate, il filosofo si impegna per tutta la
vita a liberare l’anima dal corpo per accedere al mondo reale (il mondo
delle Idee), cioè per tutta la vita si esercita a morire. Sarà quindi felice
di affrontare la morte, che è, come abbiamo visto, la vera liberazione e
separazione dell’anima dal corpo.
2
L’argomento ciclico (70A-72D)

Che ben strana cosa, o amici, sembra essere ciò che gli
uomini chiamano piacere! E come meravigliosamente
si trova per natura in rapporto con ciò che sembra il
suo contrario, il dolore! L’uno e l’altro non vogliono
trovarsi contemporaneamente nell’uomo, ma se se ne
insegue uno e lo si afferra, ci si trova in certo modo co-
stretti ad afferrare anche l’altro, come se fossero attac-
cati a un unico capo, pur essendo due.
Fedone, 60B

La teoria socratica che abbiamo visto nel cap. 1 mira a pensare e a parla-
re legittimamente dell’anima come separata dal corpo. Essa però, come
osserva giustamente Cebete (70A), non dice nulla sull’esistenza dell’a-
nima una volta avvenuta la separazione. L’anima, infatti, potrebbe dis-
solversi immediatamente dopo l’evento (come suggerisce Cebete), op-
pure durare per un qualche tempo e poi corrompersi (come avviene per
il corpo nella maggior parte dei casi). Ed è a questo punto che Socrate,
convinto della bontà dell’osservazione di Cebete, inizia a presentare le
prove dell’immortalità dell’anima.
Il primo argomento, cosiddetto “ciclico”, si basa su un principio che
avrà larga fortuna nella filosofia antica: il principio dei contrari. Esso
sarà ripreso e sviluppato da Aristotele nella sua fisica e nella logica. Con
la prima prova Socrate incomincia dunque a dimostrare qualcosa sull’e-
sistenza dell’anima. In effetti, non è facile capire che cosa si voglia real-
mente dimostrare. O forse il problema è che all’inizio si vuole dimostra-
re una cosa, ma di fatto la dimostrazione che viene sviluppata arriverà a
dimostrare qualcosa di molto più debole.
Quello che Socrate vuole dimostrare è che l’anima esiste dopo la mor-
te dell’essere umano (e vivente), cioè dopo la separazione dell’anima dal
corpo. Alla richiesta di Cebete di dimostrare l’esistenza dell’anima dopo
la morte, Socrate (70C), in effetti, risponde proponendo di esaminare
la seguente questione: le anime degli uomini che hanno cessato di vivere
34 leggere il “fedone” di platone

(cioè dopo la morte) esistono nell’Ade oppure no? La proposizione da


dimostrare sembra quindi essere «l’anima esiste dopo la morte».
Alla fine di tutto l’argomento, invece, Socrate concluderà (71E): «al-
lora esistono veramente le nostre anime nell’Ade», dove il riferimento
al post mortem non c’è più. Ora: «l’anima esiste nell’Ade post mortem»
implica «l’anima esiste nell’Ade»; ma «l’anima esiste nell’Ade» non
implica «l’anima esiste nell’Ade post mortem». Si tratterà, quindi, di
vedere se il riferimento post mortem resti implicito oppure se semplice-
mente sparisca.
In ogni caso, qualunque sia la conclusione dell’argomento, essa non
implica l’immortalità dell’anima, ma è compatibile con l’idea di una
sua durata finita. L’anima, cioè, potrebbe esistere prima o dopo la sua
unione con il corpo, ma solo per un tempo finito, dopodiché potrebbe
corrompersi e perire. Quindi, il problema sollevato da Cebete resta.
Per esaminare la questione, Socrate per prima cosa ripropone (61D-
E; cfr. cap. 1, p. 24) il metodo che consiste in un intreccio di “racconto”
verosimile (diamythologein) e di ragionamento rigoroso (diaskopeisthai)
(70B-C):

Esaminiamo [...] se le anime degli uomini che sono morti si trovano nell’Ade.
C’è un antico discorso che abbiamo ricordato, secondo cui laggiù ci sono anime
giunte da qui, e nuovamente giungono e provengono dai morti (ghignontai ek
ton tethnenton). Se le cose stanno così, che i vivi nuovamente provengono dai
morti (ghignesthai ek ton apothanonton), forse che laggiù non ci saranno le no-
stre anime? Infatti, non potrebbero nuovamente generarsi (eghignonto) se non
esistessero, e questa è una prova sufficiente che le cose stanno così, se veramente
diventasse evidente che i vivi non possono provenire da null’altro se non dai
morti (ghignontai ek ton tethneoton) (70C).

Socrate invoca innanzitutto un racconto di antica tradizione, secondo


cui le anime giungono nell’Ade, e da lì nuovamente ritornano sulla terra,
e provengono nuovamente dai morti. Ora, ci spiega Socrate, se le cose
stanno così, cioè se gli esseri viventi giungono nuovamente e provengo-
no dai morti, allora l’anima esiste nell’Ade. Essa, infatti, non potrebbe
rinascere se non esistesse. Se quindi riusciamo a trovare una prova del
fatto che gli esseri viventi nascono dai morti, riusciremo a provare che
l’anima esiste nell’Ade. Il mito avrà così bisogno di una dimostrazione
rigorosa su cui fondarsi.
Il mito è: le anime giungono nell’Ade e da lì nuovamente ritornano
sulla terra. La prova è invece quella che Socrate presenta nel resto del
l’argomento ciclico 35

passo, che però va articolata e chiarita. E, a questo punto, si presenta


un noto problema di traduzione del greco, che non può essere ignorato.
Esso consiste nella traduzione del verbo ghignomai, reso dalla maggio-
ranza dei traduttori con “nascere (di nuovo)”, “rinascere” e “rigenerarsi”1.
Vedremo che attenersi a queste traduzioni rende l’argomento almeno in
parte oscuro. Un altro problema è comprendere che cosa significa dire
che i vivi provengono “dai” morti. L’argomento, così come è espresso da
Socrate, è il seguente:
i) le anime ghignontai palin (provvisoriamente: «provengono nuova-
mente») dai morti;
ii) le anime che non esistono non possono ghignesthai palin (provviso-
riamente: «provenire nuovamente»);
iii) dunque, le anime esistono nell’Ade.
Per quel che riguarda la prima premessa, per essere del tutto chiari,
Socrate sembra qui oscillare tra (i) (le anime provengono nuovamente
dai morti) e (i*) (gli esseri viventi provengono nuovamente dai morti).
Ci si chiede allora quale sia la relazione tra (i), che parla delle anime,
e (i*), che parla degli esseri viventi, e quindi se l’argomento parli del-
le anime oppure degli esseri viventi. Infatti, secondo la definizione di
morte data in precedenza da Socrate, gli esseri viventi sarebbero quelli
costituiti dall’unione anima/corpo e non le anime separate (che sareb-
bero piuttosto “morte”). Per rendere allora equivalenti le due premesse
bisognerà forse tradurre il corrispondente greco (zóntas) con “persone
viventi”, che vanno intese come “anime viventi”, dal momento che la vera
persona, come sappiamo, è l’anima.
La questione non è di poco conto, poiché se la morte è la separazione
di un’anima e di un corpo, ne conseguirà (a) che nessuna anima e nessun
corpo possono morire. Inoltre, se, come abbiamo visto, Socrate si iden-
tifica con la sua anima, ne conseguirà (b) che Socrate non può morire.
Ora, ciò che Platone dirà in ciò che resta del Fedone è spesso difficile da
capire proprio perché le conseguenze (a) e (b) non vengono sempre ri-
conosciute e distinte con chiarezza. Inoltre, i termini dell’argomento ci-
clico che qui ricorrono, e cioè “morto” e “vivo”, sono ingannatori, perché
sono in conflitto con una concezione più comune della morte, intesa
come “cessazione di esistenza”. Più chiaro sarà allora pensare l’argomen-
to ciclico qui proposto nei termini della coppia di contrari “attaccato a
un corpo/separato da un corpo”2. Un’anima, alla nascita di un animale,
viene attaccandosi a un corpo, il che significa che prima era separata, e
che quindi esisteva precedentemente. Il problema di questo argomento,
36 leggere il “fedone” di platone

che altrimenti risulta chiaro, è che lo stesso discorso può e deve essere
presentato per la coppia “attaccato a un’anima/separato da un’anima”;
se l’argomento ciclico funziona per l’immortalità dell’anima, dovrà fun-
zionare anche per l’immortalità del corpo.
Passiamo ora alla traduzione di ghignomai. Il verbo in greco è ambi-
guo, e può avere più significati (cfr. Gallop, 1988, p. 104): 1. diventare F,
dove “F” è una proprietà, per esempio diventare bianco; 2. nascere; 3.
venire a essere; ecc.
Contrariamente a ciò che fanno la maggior parte dei traduttori, adot-
terò qui per la maggior parte delle occorrenze il significato di “diventare
F”. Si tratta di una decisione non condivisa da tutti, ma giustificata dal
seguito del testo, in cui Socrate presenta la teoria dei contrari, e soprat-
tutto degli esempi che vanno chiaramente nella direzione della traduzio-
ne qui privilegiata (Barnes, 1978, pp. 401-2).
Proseguendo nella lettura del testo, vediamo che Socrate considera
necessario dimostrare (i) (le anime “provengono nuovamente” dai mor-
ti) per poter poi dimostrare (iii) (le anime esistono nell’Ade).

Il principio dei contrari


Se vuoi apprendere – riprese Socrate – la cosa più facilmente, non indagarla
solo in riferimento agli uomini, ma riguardo a tutti gli animali e piante, in una
parola riguardo a tutto ciò che è soggetto al divenire (ghenesis), vediamo se ve-
ramente tutto diviene (ghignetai) in questo modo, e cioè i contrari da null’altro
se non da contrari, per quanti si trovano ad avere contrari (70D-E).

Per dimostrare la premessa (i) (le anime provengono nuovamente dai


morti), Socrate invoca il principio dei contrari, che riguarda non solo
gli uomini, ma anche gli animali e le piante, insomma tutto ciò che è
soggetto al divenire. Il termine greco ghenesis presenta gli stessi problemi
di traduzione del verbo ghignomai. Per ora lo traduciamo con il termine
neutro “divenire”.
Qual è allora questo principio? Eccone le formulazioni socratiche,
così come si presentano nel nostro passo e nelle righe immediatamente
successive:
1) 70E: «tutte le cose che possiedono un contrario ghignetai così: i con-
trari da null’altro che da contrari»;
l’argomento ciclico 37

2) 70E: «bisogna indagare se è necessario, per tutto ciò che ha un con-


trario, che non da altro esso ghignetai se non dal suo contrario»;
3) 71A: «ammettiamo come adeguatamente provato che tutte le cose
(pragmata) ghignetai in questo modo, i contrari dai loro contrari».
Se troviamo una spiegazione dell’espressione «da null’altro che da
contrari», potremo comprendere cosa significa «dai morti» nell’argo-
mento che Socrate vuole dimostrare a proposito delle anime.
Ho lasciato volutamente il verbo greco non tradotto: le traduzioni
italiane presentano “nascimento”, “nascita” o “generazione” per ghenesis, e
“nascere” o “generarsi” per gignomai3. Questa traduzione si rivela proble-
matica a causa degli esempi che Socrate fornisce immediatamente dopo
(70E-71A), per presentare proprio casi di enti che “hanno contrari”:
– bello/brutto;
– giusto/ingiusto;
– più grande/più piccolo; più piccolo/più grande;
– più debole/più forte; più forte/più debole;
– più lento/più veloce; più veloce/più lento;
– migliore/peggiore; peggiore/migliore;
– più giusto/più ingiusto.
Se adottiamo le traduzioni usuali, dovremo ammettere per questi
casi una traduzione forzata e che non ha molto senso. Ad esempio, per
il passo 70E-71A («per esempio, quando una cosa diventa più grande,
non è necessario che diventi più grande in seguito, da più piccola che
era prima?») dovremo dire che, quando una cosa nasce più grande, è
necessario che essa nasca più grande in seguito, da più piccola che era
prima4. Già dagli esempi si inizia a comprendere che il “divenire” di cui
Socrate sta parlando è quello che abbiamo qui privilegiato: il “divenire
F” a partire da “essere G”, dove F e G sono due proprietà contrarie (ad
esempio, bianco/nero; piccolo/grande). Si tratta cioè del processo di
cambiamento che avviene tra ogni coppia di proprietà contrarie (Gal-
lop, 1988, p. 107).
È anche vero che risulta difficile utilizzare la stessa traduzione di ghe-
nesis/gignomai in tutti i casi. Il problema sembrerebbe aggravato dal fat-
to che Platone, quando parla di contrari (enantia), si esprime in maniera
ambigua: può parlare anche di cose contrarie (cfr. formulazione 3) del
principio dei contrari, che parla di pragmata, cose), quando di fatto si
tratta di proprietà contrarie. Ciò però alla fine non costituisce una gran-
de differenza, dal momento che il principio parla di cose contrarie, e che
38 leggere il “fedone” di platone

due cose sono contrarie se e solo se una è F e l’altra è F*, dove “F” e “F*”
indicano due proprietà contrarie.
In ogni caso, un modo per enunciare il principio dei contrari è il se-
guente:
Pc = è necessario che, per ogni cosa che possiede una proprietà che fa
parte di una coppia di proprietà contrarie, quest’ultima non derivi da
null’altro che dal suo contrario.
Questo principio solleva due questioni.
1) Che cosa si intende per “contrario”?
2) Come spiegare in modo più chiaro la derivazione del contrario dal
suo contrario, quel “da”?
Chiariamo questi due aspetti considerando gli esempi che Socrate pro-
pone per chiarire il principio dei contrari. Egli sembra presentare due tipi
di esempi. Gli esempi del primo tipo (70E) sono coppie di contrari come
bello/brutto, giusto/ingiusto; gli esempi di secondo tipo (70E-71A)
sono: a) una cosa diviene più piccola dopo (ek) essere stata dapprima più
grande, e viceversa; b) una cosa diviene più debole dopo (ek) essere stata
più forte; c) una cosa diviene più veloce dopo (ek) essere stata più lenta ecc.
Dagli esempi dati risulta chiaro che Socrate sta parlando di proprie-
tà contrarie che una cosa possiede. Si tratta di proprietà contrarie per-
ché, come possiamo vedere nel passo posto in esergo di questo capitolo
(60B), esse possono essere possedute da una stessa cosa, ma non nello
stesso momento.
Inoltre, dagli ultimi esempi che abbiamo visto (piccolo/grande, de-
bole/forte ecc.), sembra che il discorso di Socrate implichi che la cosa
che giunge a possedere una delle due proprietà contrarie, debba aver pos-
seduto immediatamente prima l’altra delle due proprietà contrarie (ek,
in questi esempi, viene tradotto, e deve essere tradotto, non con “da”, ma
con “dopo”).
Ora, i primi esempi presentati da Socrate (bello/brutto; giusto/in-
giusto) non appaiono dei buoni esempi perché non rientrano nel tipo di
contrario che Socrate sembra avere in mente: una cosa che diventa bella
non deve essere stata necessariamente brutta immediatamente prima, e
lo stesso discorso vale per giusto/ingiusto (è anche il problema che tro-
viamo nella citazione posta all’inizio di questo capitolo, che riguarda la
relazione tra piacere e dolore). Forse, però, questi vengono da Socrate
trasformati in esempi di secondo tipo: in 71A, infatti, Socrate afferma
che una cosa diventa peggiore dopo essere stata migliore; una cosa di-
venta più giusta dopo essere stata più ingiusta. Gli esempi del secondo
l’argomento ciclico 39

tipo sembrano invece richiedere tale sequenza: se ora divento debole, in


tal caso prima ero forte.
È giunto ora il momento di trovare una spiegazione per il termine
ghenesis: si tratta del processo che porta da una proprietà alla proprietà
contraria, e che si deve adattare agli esempi dati da Socrate.
La prima osservazione da fare è che Platone sta parlando di un cam-
biamento che si opera in una stessa cosa. Egli si esprime infatti in questi
termini: quando una cosa diventa più grande, è necessario che diventi
grande dopo (ek) essere stata più piccola. Inoltre l’ek greco, puntualmen-
te usato negli esempi, in questo caso, non significa derivazione, ma suc-
cessione temporale (Barnes, 1978, pp. 403-4).
Quindi la frase in 71A, che universalizza quello che possiamo chiamare
il principio del divenire, deve essere tradotta nel modo seguente: «ammet-
tiamo come adeguatamente provato che tutte le cose divengono F in que-
sto modo, i contrari immediatamente dopo i contrari». Il senso della frase
sarà: un oggetto giunge a possedere una proprietà, nel caso essa possieda
un contrario, immediatamente dopo aver posseduto la proprietà contra-
ria. Di conseguenza, secondo Socrate, qualunque cosa giunga a possedere
una proprietà (che costituisce una coppia con una proprietà contraria)
deve aver posseduto immediatamente prima la proprietà contraria.
Socrate aggiunge una circolarità delle coppie di proprietà contrarie:
secondo l’esperienza comune, egli dice, le cose piccole si accrescono e
diminuiscono, le cose fredde si riscaldano e divengono di nuovo fredde
ecc. Nel descrivere il divenire, egli sottolinea quindi una sorta di recipro-
cità (71A-B).

La contrarietà tra la vita e la morte


Una volta presentata la dottrina dei contrari, Socrate si rivolge alla dimo-
strazione della premessa (i), secondo cui le anime ghignontati dai morti.
Socrate ne fa un caso particolare del cosiddetto principio dei contrari.
Egli comincia con il proporre un paragone tra dormire/essere sveglio
e vivere/essere morto. Sulla base di questo paragone, Socrate applica an-
che alla coppia vivere/essere morto le caratteristiche che ha individuato
per qualunque coppia di contrari:
– il fatto che l’uno viene dopo (ek) l’altro;
– il fatto che anche tra di loro si stabilisce un doppio divenire (nascita-
morte, morte-nascita).
40 leggere il “fedone” di platone

Non dici che al vivere è contrario l’essere morto? [...]. E che essi divengono l’u-
no dopo l’altro (ghignetai ex allelon)? [...]. Quindi, dopo ciò che è vivo cosa
viene? – ciò che è morto – [...]. E dopo ciò che è morto? – Bisogna necessaria-
mente convenire che si tratta di ciò che è vivo. – E dunque, Cebete, dopo ciò
che è morto viene ciò che è vivo [...]. Quindi – disse Socrate – le nostre anime
esistono nell’Ade (71D-E).

Socrate tratta la coppia vivere-essere morto – o, come ho proposto in pre-


cedenza, essere attaccato-essere separato – come una coppia di due pro-
prietà contrarie, assoggettate alla legge dei contrari. Secondo le traduzioni
da noi proposte di ghignetai e di ek, giustificate dagli esempi che Socrate
propone per esemplificare il divenire tout court, avremo che: a) x viene a
essere attaccata a y immediatamente dopo essere stata separata da y; b) x
viene a essere separata da y immediatamente dopo essere stata attaccata a y.
Dunque, conclude Socrate, le nostre anime esistono veramente
nell’Ade.
Riprendendo, quindi, l’argomento iniziale, e applicandovi le tradu-
zioni opportune, avremo che: (i) le nostre anime vengono a essere attac-
cate a un corpo dopo essere state separate da un corpo; (ii) le anime che
non esistono non possono essere attaccate a un corpo; dunque (iii) le
anime esistono nell’Ade.
Concentriamoci su (ii), che è il punto centrale: perché mai le anime
che non esistono non possono attaccarsi a un corpo? Ebbene, perché ci
sia un cambiamento tra proprietà contrarie in un soggetto, è necessario
che questo soggetto (o sostrato) esista. Le proprietà si alternano, ma il sog-
getto (o sostrato) delle proprietà deve persistere attraverso i cambiamen-
ti! L’anima in quanto sostrato permane durante il cambiamento, cioè
durante il passaggio dall’attaccarsi al separarsi (Barnes, 1978, p. 404)5.

Questioni finali
Proviamo a rispondere alle seguenti questioni: (1) di quali contrari parla
Socrate? (2) È vero che vita/morte sono contrari? (3) Che cosa vuole
precisamente dimostrare Platone? Quindi: qual è la conclusione dell’ar-
gomento?
(1)  Vita e morte devono rientrare in un certo tipo di proprietà contrarie.
Si tratta di proprietà che non possono trovarsi in un oggetto contempo-
raneamente. Inoltre, esse sono tali che se un oggetto giunge a possedere
l’argomento ciclico 41

una di queste proprietà, immediatamente prima deve aver posseduto la


proprietà contraria. Socrate afferma che se x diviene F allora x era F*, e
che se x diviene F* allora x era F. Come abbiamo visto, la maggior parte
degli esempi presentati da Socrate sono relativi, ciò che in greco viene
espresso con l’uso delle forme comparative. È forse difficile credere che
Socrate voglia limitarsi a questi casi. In effetti, egli fornisce anche esempi
di non relativi (quindi non espressi in forma comparativa), quali bello/
brutto, giusto/ingiusto; inoltre “diventare F” a partire da una proprietà
contraria non implica necessariamente gradi di più e meno. Per esempio,
la coppia essere pari/essere dispari non implica dei gradi (una cosa non
può diventare più o meno pari). Infine, i contrari relativi sembrerebbero
non applicarsi al caso che ci interessa, e cioè essere-vivo/essere-morto.
Tuttavia, se si intende l’esser-vivo come l’essere attaccato (dell’anima
a un corpo), e l’esser-morto come l’essere separato (dell’anima da un
corpo), allora forse si può pensare a gradi di maggior o minore attac-
camento/separazione dell’anima dal corpo. Perlomeno è ciò che Socra-
te sembra proporre più avanti, nell’argomento che riguarda l’affinità
dell’anima con le Idee (cfr. cap. 4). Diversa sarà invece la posizione di
Socrate nell’argomento finale (cfr. cap. 7), ma perché diverse saranno le
concezioni di vita e di morte.
(2)  Consideriamo da vicino la definizione di morte data da Socrate
nella conversazione iniziale. Secondo questa definizione, essere morto
si identifica con l’essere separato del corpo e l’essere separata dell’anima.
Se pensiamo al corpo, la coppia essere morto/essere vivo significa: a) il
corpo è animato: è vivo ed esiste; b) il corpo è inanimato: è morto ed
esiste solo per poco tempo (o non esiste affatto).
Come applicare all’anima la coppia di queste due proprietà? A que-
sto punto possiamo capire che, per lo meno per ciò che riguarda l’anima,
“esistere” ed “essere vivo” non si identificano. In effetti, secondo ciò che
Socrate vuole dimostrare, l’anima esiste sempre. Detto questo, a volte
essa diviene viva (cioè, si attacca a un corpo e lo anima), a volte diviene
morta (cioè si separa dal corpo). E qui l’essere umano, che per Socrate è
unione dell’anima con il corpo, cessa di esistere, ma non accade la stessa
cosa né per l’anima (che è il vero io), né per il corpo (che resta visibile,
almeno per un po’). “Essere vivo” ed “essere morto” sono quindi due
proprietà contrarie, e si succedono nel sostrato-anima, che invece esiste
sempre.
(3)  Sulla base di quello che abbiamo detto, possiamo affermare che
quando Socrate conclude dicendo «allora, esistono veramente le nostre
42 leggere il “fedone” di platone

anime nell’Ade» (71E), egli vuol dire “dunque, ciascuno di noi, almeno
per un certo periodo di tempo, esiste e nello stesso tempo possiede la
proprietà di essere morto”, cioè, esiste prima di incarnarsi. Questo, come
sappiamo, non implica ancora l’immortalità dell’anima. Inoltre, l’argo-
mento lascia cadere, come abbiamo visto, il riferimento al post mortem.
La conclusione, secondo le parole di Socrate, concerne allora esclusiva-
mente l’esistenza dell’anima prima della nascita (cioè, prima della cadu-
ta nel corpo), e non l’esistenza dell’anima post mortem. In effetti, ciò che
Socrate sembra dimostrare è che l’anima esiste nell’Ade, cioè che esiste
pur possedendo la proprietà di essere morta. Infatti, l’Ade è tradizional-
mente il luogo dei morti.
Socrate però aggiunge un’osservazione che sembra spiegare perché
va dimostrato il passaggio morte-vita, ovvero la premessa (i), e non il
passaggio vita-morte:

Dunque, dei due processi del divenire relativi a questa coppia, l’uno risulta es-
sere chiaro: infatti il morire è sicuramente chiaro, o no? [...]. Ma allora – riprese
Socrate – cosa faremo? Non gli corrisponderà il divenire contrario, ma in que-
sto specifico caso la natura sarà zoppa? (71E).

Socrate cioè constata che il passaggio da “essere vivo” a “essere morto”


è chiaro perché osservabile, in quanto si fa continuamente l’esperienza
di qualcuno che prima è vivo e poi è morto; in compenso, egli sa che
l’altro passaggio, da “essere morto” a “essere vivo” (il rivivere) non è per
nulla evidente. Da qui la necessità di dimostrarlo. Ora, la dimostrazio-
ne del passaggio morte-vita (assieme a quello contrario vita-morte) co-
stituisce per Socrate una prova sufficiente per accettare che le anime dei
morti esistano in qualche luogo (72A). Tuttavia, vedremo più avanti
che per Simmia e Cebete, il passaggio morte-vita non è ancora dimo-
strato (77B-C; cfr. cap. 3, p. 44).
3
La reminiscenza (72E-77D)

[Cebete:] Ma certamente questo necessita di non pic-


cola persuasione e conferma: che l’anima esiste dopo
che l’uomo è morto, e che possiede una certa capacità
e intelligenza.
Fedone, 70B

L’argomento ciclico viene presentato da Socrate per provare l’esistenza


dell’anima dopo la morte, quello della reminiscenza per provare che l’a-
nima esiste e perdura con determinate caratteristiche, che hanno a che
fare con il pensiero, l’intelligenza e la sapienza, caratteristiche riunite
nella phronesis. Ciò è chiaramente affermato alla fine dell’argomento
sulla reminiscenza, in 76C: «Quindi, Simmia, le nostre anime esisteva-
no in precedenza, prima di trovarsi nella forma umana, e possedevano
la phronesis».
Ciò che per prima cosa è interessante notare è che Cebete, responsa-
bile di introdurre alquanto bruscamente la dottrina della reminiscen-
za, la invoca esplicitamente per confermare (anche se solo in modo ve-
rosimile) l’immortalità dell’anima. Ancora una volta, va sottolineata
una differenza tra ciò che si spera di dimostrare e ciò che l’argomento
della reminiscenza arriva effettivamente a dimostrare. Ciò che Cebete
spera si dimostri è l’immortalità dell’anima; ciò che, di fatto, si arriva
a dimostrare è l’esistenza dell’anima prima della sua incarnazione nel
corpo.
La dottrina della reminiscenza è una delle dottrine platoniche più co-
nosciute e discusse1. Essa, oltre che nel Fedone, è presentata nel Menone
(80D-86C) e menzionata nel Fedro (249E-250C). Essa afferma che l’ac-
quisizione di un sapere non è che una reminiscenza, cioè un ricordarsi
(Fedone, 72E).
È importante sottolineare che questa teoria non riguarda un qualun-
que sapere (per esempio il sapere tecnico o una qualche abilità), ma solo
il sapere concettuale, almeno nel Fedone (Gallop, 1988, p. 113). In effetti
Platone, a proposito della reminiscenza, parla ripetutamente di episteme
44 leggere il “fedone” di platone

e del corrispondente verbo epistasthai, che richiamano un sapere di tipo


concettuale (cfr. ad esempio 73C, 73D, 74B, 74C ecc.). Vedremo, infatti,
che questa teoria ha a che fare con la dottrina delle Idee.
Il nucleo della teoria secondo cui l’acquisizione di un sapere è una
reminiscenza si può descrivere nel modo seguente: quando io percepisco
una cosa, penso a un’altra cosa, e cioè mi ricordo di essa.
La domanda fondamentale che ci si deve porre è allora: in che modo
la dottrina della reminiscenza è supposta dimostrare l’immortalità
dell’anima?
Nel momento in cui introduce tale dottrina, Cebete afferma:

anche secondo questa teoria <cioè la teoria della reminiscenza>, è necessario


che noi abbiamo appreso in un tempo precedente ciò di cui ora ci ricordiamo.
E questo è impossibile, se la nostra anima non esisteva in qualche luogo prima
di entrare in questa forma umana; cosicché, anche in questo modo sembra che
l’anima sia qualcosa di immortale (72E-73A).

L’argomento della reminiscenza, esplicitato da Cebete, è il seguente:


i) noi ricordiamo ora delle cose che abbiamo appreso prima;
ii) noi abbiamo appreso queste cose prima di entrare in questa forma
umana;
iii) quindi, noi (= la nostra anima) esistevamo prima di entrare in que-
sta forma umana;
iv) quindi, l’anima è immortale.
Il ragionamento di Cebete è: se noi ricordiamo ora le cose che noi
abbiamo appreso prima, e se noi (ciò che vogliamo dimostrare) abbia-
mo appreso queste cose prima di entrare in questa forma umana (nella
quale noi ci troviamo ora), allora il “noi” non si identifica con l’unione
anima-corpo che ci caratterizza ora, poiché prima della nostra caduta
in un corpo, l’essere umano che noi siamo ora non esisteva. In questo
modo, l’acquisizione di un sapere prima della nostra nascita in un cor-
po richiede la pre-esistenza di un soggetto che ha conosciuto, e cioè
l’anima.
Ciò che nel discorso di Cebete costituisce un problema è il passag-
gio da (iii) a (iv), che sembra considerare l’esistenza prenatale della
nostra anima come una prova della sua immortalità. Di fatto, però,
l’esistenza prenatale dell’anima non dice nulla sulla sua esistenza post
mortem; inoltre, come per l’argomento ciclico, l’argomento della re-
miniscenza è compatibile con una durata finita dell’anima: è possibile,
la reminiscenza 45

infatti, che la mia anima si reincarni un certo numero di volte e poi si


corrompa.
Consideriamo la premessa (i): noi ricordiamo ora delle cose che ab-
biamo appreso in precedenza. Cebete esplicita la premessa spiegando
il meccanismo della reminiscenza. Questa spiegazione richiama in ma-
niera forse un po’ troppo rapida quella che Socrate presenta nel Meno-
ne (81E-86C), richiamo che rappresenta uno dei pochi collegamenti
interni presenti nelle opere platoniche. In quanto incompleta e un po’
troppo schematica, essa induce Socrate a intervenire appunto per cor-
reggerla.
Ecco innanzitutto la spiegazione di Cebete:

Gli uomini, una volta interrogati, se li si interroga bene, dicono da sé ogni cosa
com’è. Certamente, se in essi non si trovassero una conoscenza (episteme) e un
ragionamento corretto (orthos logos), non sarebbero capaci di farlo. Inoltre,
qualora qualcuno li metta davanti a figure geometriche, o qualcos’altro di simi-
le, qui avrà la prova più sicura che le cose stanno così (73A-B).

Il riferimento al Menone è chiaro. In questo dialogo, infatti, Socrate in-


terroga in modo appropriato un giovane schiavo che, assicura Menone,
non ha mai studiato la geometria, ottenendo delle risposte che lo con-
ducono a risolvere correttamente un problema di geometria. Socrate si
limita a interrogare lo schiavo, per fare emergere un sapere geometrico
che quest’ultimo possiede senza sapere. Egli si ricorda di un sapere che
possedeva già.
Cebete ricorda il metodo socratico di porre delle domande in modo
appropriato, che conduce gli uomini a dire la verità su tutto, a dire “ogni
cosa com’è”. Infine, l’altro aspetto che Cebete ricorda del Menone è che
il metodo socratico funziona in modo chiaro con le figure geometriche:
nel Menone, in effetti, la dimostrazione geometrica viene fatta a partire
da una figura del quadrato tracciata sulla sabbia.

Le condizioni dell’atto di ricordarsi


A fronte della spiegazione di Cebete, Simmia, poco persuaso, chiede
scherzosamente all’amico di fargli fare esperienza della reminiscenza
(73B), cioè di capire meglio o ottenere delle prove su di essa. A questo
punto si inserisce Socrate, che tenta un’altra via, fornendo le condizioni
46 leggere il “fedone” di platone

del ricordarsi (73C-74A): a) colui che si ricorda di qualche cosa deve


aver conosciuto in precedenza questa cosa; b) colui che, percependo una
cosa, pensa a un’altra cosa (la quale è quindi oggetto di una episteme
differente), si ricorda di quest’ultima cosa; c) colui che, percependo una
cosa, pensa a un’altra cosa, e aveva dimenticato (almeno momentanea-
mente) questa cosa, si ricorda di questa cosa.
In seguito Socrate fornisce una serie di esempi utili a chiarire l’atto di
ricordarsi (73D-74A).
– Vedo una lira/mi ricordo di un uomo: conosco un uomo e conosco
una lira. Amo quest’uomo, vedo la lira che gli appartiene, e immediata-
mente formo in me l’idea dell’uomo proprietario della lira. Ebbene, dice
Socrate, questa è una reminiscenza: infatti, a) ho conosciuto l’uomo in
precedenza per ricordarlo; b) percepisco la lira, penso all’uomo (e quin-
di lo ricordo); c) avevo dimenticato quest’uomo.
– Vedo il disegno di un cavallo/mi ricordo di un uomo.
– Vedo il ritratto di Simmia/mi ricordo di Cebete.
– Vedo il ritratto di Simmia/mi ricordo di Simmia in sé stesso.
In tutti questi casi le tre condizioni sono soddisfatte.
L’ultimo esempio, quello di Simmia e del suo ritratto, è particolar-
mente significativo perché introduce a quella che sarà la relazione tra le
Idee o Forme e i particolari sensibili. In effetti, il ritratto di Simmia non
è che una manifestazione di Simmia in persona (in sé stesso).
Tra i primi tre esempi e l’ultimo di Simmia e del suo ritratto c’è una
differenza segnalata dallo stesso Socrate (74A). In effetti, i primi tre sono
esempi di reminiscenza a partire dal dissimile (lira/uomo, disegno di un
cavallo/uomo, ritratto di Simmia/Cebete), mentre l’ultimo è un esem-
pio di reminiscenza a partire dal simile, in quanto descrive una relazione
tra l’immagine e ciò di cui essa è immagine. La reminiscenza a partire da
cose simili è il caso che qui interessa (e, in effetti, ci si potrebbe chiedere
perché Socrate insiste tanto sulla reminiscenza a partire dal dissimile;
cfr. Gallop, 1988, p. 118): esso infatti ci permette di provare la seconda
premessa dell’argomento proposto da Cebete (cfr. p. 44), e cioè: (ii) noi
abbiamo appreso le cose di cui ci ricordiamo prima di entrare in questa
forma umana.

Ma quando ci si ricorda di qualcosa a partire dalle cose simili, non è forse neces-
sario che si sperimenti questo: pensare sì o no che, dal punto di vista della somi-
glianza, la cosa sia manchevole rispetto a quella di cui ci si è ricordati? (74A).
la reminiscenza 47

Socrate si sofferma sul caso di reminiscenza a partire da cose simili, e, in


accordo con i suoi interlocutori, sostiene che colui che si ricorda di una
cosa grazie a un’altra che le somiglia, è necessitato a riconoscere che la
cosa che ha davanti è manchevole rispetto a quella ricordata tramite suo.
Riprendendo l’esempio del ritratto di Simmia (vedo il ritratto di Sim-
mia e mi ricordo di Simmia in persona) si giunge a riflettere sulla man-
chevolezza del ritratto di Simmia rispetto all’originale (per esempio, la
mancanza della tridimensionalità, o della grandezza reale ecc.). Socrate
ritiene necessaria la riflessione sulla manchevolezza perché il suo scopo
è collegare la reminiscenza alla relazione delle Idee (la cui esistenza è il
presupposto della reminiscenza) in rapporto ai loro particolari sensibili,
manchevoli rispetto a esse.
Egli, quindi, aggiunge un’ulteriore condizione necessaria all’atto di
ricordare, che però è limitata ai casi di reminiscenza a partire da cose
simili: d) colui che si ricorda di una cosa a partire da un’altra cosa simile
è obbligato a soffermarsi e interrogarsi sulla manchevolezza di quest’ul-
tima cosa.

Le Idee
Nel Fedone Platone ricorre più volte alle Idee per affrontare diversi
nodi problematici. Qui esse vengono introdotte per la prima volta, a
partire dall’esempio dell’idea di “Uguale in sé”, mentre nei capitoli suc-
cessivi verranno invocate sia per mostrare la loro affinità con l’anima
(cfr. cap. 4), sia come vere cause del divenire e dell’essere delle cose
(cfr. cap. 6). Ma vediamo come vengono introdotte a proposito della
teoria della reminiscenza:
Noi affermiamo in qualche modo che c’è qualcosa di uguale, non voglio dire un
legno uguale a un altro legno, o una pietra uguale a un’altra pietra, né null’altro
di questo genere, ma qualcosa di diverso da tutte queste cose, l’Uguale in sé
(auto to ison). Possiamo dire che esso è qualcosa, oppure nulla? (74A-B).

Per prima cosa, osserva Socrate, diciamo che “l’uguale è qualche cosa”,
cioè esiste. Esso non si identifica con l’uguaglianza tra questi due pezzet-
ti di legno o tra questi due sassi, ma è differente da essi, esiste indipen-
dentemente da essi ed è l’Uguale in sé.
Socrate introduce qui la “Forma” o “Idea”: l’Uguale in sé (o il Bello
in sé, o il Giusto in sé) è una tipica espressione platonica per designare
48 leggere il “fedone” di platone

appunto l’idea. Esso non si identifica con le sue realizzazioni sensibili


(per esempio, l’uguaglianza di due pezzetti di legno)2.
In seguito Socrate aggiunge: «E abbiamo conoscenza di ciò che è
in sé stesso?» (74B). È difficile capire esattamente ciò che Socrate vuol
dire: la cosa è complicata dal fatto che il verbo greco epistametha, che
vuol dire “conosciamo”, può governare o un oggetto diretto, oppure una
domanda indiretta: (1) conosco qualche cosa (diciamo x); (2) conosco
ciò che x è (oppure: so che x è).
In questo caso, Socrate sembra voler dire che noi conosciamo la for-
ma F (qui, la forma dell’uguale): noi (= gli uomini in generale) possedia-
mo una conoscenza del concetto di uguale; per esempio, lo utilizziamo
nelle nostre attività3.
Infine, Socrate pone la questione:

E da dove ne traiamo conoscenza (episteme)? Forse che non la traiamo dagli


uguali di cui si parlava ora, legni o pietre, o altre cose simili, vedendo che sono
uguali? È a partire da questi che concepiamo quell’Uguale che è diverso da essi?
(74B).

Qui Socrate riprende la seconda condizione della reminiscenza: a parti-


re dalla percezione sensibile dell’uguaglianza di questi pezzetti di legno,
noi concepiamo o pensiamo a una cosa differente, oggetto di un sapere
differente: l’Uguale in sé.
Socrate, dunque, afferma che noi abbiamo accesso alla conoscenza
del concetto di uguale dagli uguali sensibili. Tuttavia, la conclusione
di Socrate non conduce, come ci si potrebbe aspettare, all’idea che
mi formo un concetto sulla base dell’esperienza sensibile. Infatti, egli
conclude: «c’è stata quindi reminiscenza» (74D). Ciò significa che
non formo il concetto di “uguale in sé” a partire dall’esperienza sen-
sibile, ma semplicemente che mi ricordo dell’Uguale in sé a partire
dall’esperienza sensibile, che quindi è unicamente un’occasione per
ricordare. L’Uguale in sé è infatti differente dalle sue manifestazioni
sensibili.
Nonostante quindi il punto di partenza, necessariamente rappresen-
tato dalle cose sensibili (per esempio, da questi due pezzetti di legno),
Socrate esclude che si arrivi al concetto dell’Uguale in sé per semplice
astrazione. Perché mai? A causa della differenza radicale tra l’Uguale in
sé e le sue manifestazioni sensibili.
la reminiscenza 49

La differenza tra le Idee


e le loro manifestazioni sensibili
In effetti, Socrate afferma che pietre uguali e legni uguali talora appaio-
no uguali a un osservatore, e non uguali a un altro osservatore, mentre
invece gli Uguali in sé non possono mai apparire diseguali (74B-C).
La differenza tra l’Uguale in sé e le sue manifestazioni sensibili può
essere interpretata in più modi (Gallop, 1988, p. 122). Secondo un’in-
terpretazione, l’uguaglianza tra le cose sensibili (due sassi, due pezzi di
legno), pur restando la stessa, è percepita da un osservatore ma non da
un altro. Si manifesta dunque un disaccordo tra due osservatori quanto
all’uguaglianza di due cose, mentre tale disaccordo sarebbe impossibile
per l’Uguale in sé. Secondo un’altra interpretazione, gli uguali sensibili
sembrano uguali a una cosa, ma non a un’altra. Questo pezzetto di le-
gno, cioè, è uguale a quest’altro pezzetto di legno, ma diverso da un ter-
zo pezzetto di legno; ne risulterà che esso è uguale e non uguale (mentre
l’idea di Uguale in sé è sempre uguale).
Si tratterebbe dunque o di un disaccordo tra osservatori, oppu-
re della relatività delle cose sensibili. In ogni caso, questo almeno è
chiaro: le cose sensibili uguali non possiedono l’uguaglianza perfetta,
perché esse possono accogliere nello stesso tempo anche la proprie-
tà opposta (la disuguaglianza) (ivi, p. 123). Ecco quindi il senso della
conclusione del passo in analisi: «E dimmi, gli Uguali in sé4 ti paio-
no mai diseguali, oppure l’uguaglianza, disuguaglianza? Simmia: No,
mai, Socrate» (74C).
La differenza tra l’Uguale in sé e le sue manifestazioni sensibili viene
in definitiva vista da Socrate come una manchevolezza: «E dimmi [...]
gli uguali nei legni e nelle altre cose uguali di cui or ora parlavamo [...] ci
paiono uguali nello stesso modo in cui appunto è l’Uguale in sé, oppure
sono manchevoli in qualcosa rispetto a quello?» (74D).
La mancanza delle cose sensibili rispetto alle Idee corrispondenti è
sottolineata da Socrate a più riprese (cfr. per esempio 74D-E, 75B). In
questi passi, Socrate dichiara che alle cose uguali manca qualcosa per
essere come l’Uguale, oppure che le cose uguali aspirano a essere come
l’Uguale, ma in rapporto a lui sono più imperfette.
Perché e in che senso Socrate afferma che gli uguali sensibili si sfor-
zano senza successo di essere come l’Uguale in sé, e che sono imperfetti
rispetto all’Uguale in sé? L’interpretazione standard sostiene che le For-
50 leggere il “fedone” di platone

me o Idee sono delle proprietà: nella sezione in analisi, si parla dell’u-


guale, ma un po’ più tardi Socrate menzionerà anche il più grande, il
più piccolo, il bello, il buono, il giusto, il santo (75C-D). Tali proprietà
non si realizzano mai perfettamente nelle loro esemplificazioni sensibili,
in quanto queste ultime possono accogliere anche le proprietà opposte
(come abbiamo visto, una cosa è uguale a un’altra in relazione a un os-
servatore, diversa in relazione a un altro osservatore ecc.). L’Uguale in
sé, invece, non è mai diseguale. La forma quindi sembra essere un para-
digma, cioè un esemplare perfetto di una proprietà F (il perfettamente
uguale, il perfettamente buono, il perfettamente piccolo ecc.), a cui gli
esemplari sensibili si approssimano. Ciò solleva qualche difficoltà, che
presenterò servendomi dell’esempio dell’uguale.
Per giudicare dell’uguaglianza tra due pezzetti di legno non sem-
bra necessario supporre l’esistenza di una Forma separata dell’Uguale.
Posso giudicare senza difficoltà che l’uguaglianza tra questi due pez-
zetti di legno è imperfetta, ma questo non conduce necessariamente a
confrontare questi due pezzetti di legno con l’uguaglianza perfetta non
sensibile, per riflettere sulla loro mancanza rispetto all’Uguale in sé. Il
problema più serio è però il seguente: se la Forma dell’Uguale è para-
digmatica, essa è perfettamente uguale. Ma uguale a cosa? In effetti, il
problema è che l’uguaglianza è una relazione tra due cose, e non una
proprietà che appartiene a una cosa; di conseguenza, risulterà estrema-
mente difficile vedere il “perfettamente uguale” dell’Idea dell’Uguale
(Gallop, 1988, pp. 127-8).
Al di là delle critiche, alcune delle quali rivolte a Platone quando era
ancora in vita, l’esempio ha però un senso: si può pensare al perfetta-
mente uguale, e accettare la teoria secondo cui gli uguali sensibili parte-
cipano dell’Uguale in sé, ma in maniera imperfetta. Tuttavia, postulare
l’esistenza di un’idea di Uguale in sé risulta avere delle conseguenze
pesanti.
Il problema si pone anche per le altre Idee: Socrate, infatti, avverte
che non stiamo parlando solo dell’Idea di Uguale, ma anche dell’Idea
del (più) Grande e del (più) Piccolo (75C-D). Ora, parlare del “perfet-
tamente più grande” e del “perfettamente più piccolo” non pare avere
senso, perché questi (come osserverà più tardi Aristotele) sono concetti
relativi; e anche se si eliminano le forme comparative, risulterà comun-
que difficile comprendere il senso del “perfettamente grande” e del “per-
fettamente piccolo”.
la reminiscenza 51

La conclusione dell’argomento
della reminiscenza
Prima dunque che incominciassimo a vedere, a sentire e a far uso degli altri
sensi, bisognava che in qualche modo ci trovassimo ad aver già acquisito cono-
scenza (episteme) dell’Uguale in sé, che cosa esso sia, se dovevamo riportare a
quello gli uguali che derivano dalle sensazioni, ché tutti bramano per essere tali
quali quello, mentre sono ben più imperfetti di lui (75B).

L’argomento di Socrate è il seguente: percependo le cose sensibili (per


esempio, questi due pezzi di legno uguali), noi le riferiamo alle forme
corrispondenti (nel nostro caso, l’Uguale in sé), giudicando che le cose
sensibili mancano di qualcosa in rapporto appunto alla Forma corri-
spondente; tale è, come abbiamo visto, la reminiscenza. Ora, ci dice So-
crate, questo giudizio di deficienza richiede il possesso preliminare della
conoscenza delle Forme o Idee e, di conseguenza, richiede la conoscenza
delle Forme prima di cominciare a usare i sensi, e cioè prima della nostra
nascita, intesa come incarnazione in un corpo. In seguito, noi ci dimen-
tichiamo di questa conoscenza quando cadiamo nel corpo, ma, eserci-
tando la reminiscenza, noi arriviamo a ricordarcene5. Le anime quindi
esistevano prima di cadere nel nostro corpo.
Simmia, in accordo con Cebete, accetta la dimostrazione dell’esi-
stenza prenatale dell’anima, ma ritiene che non sia ancora stata dimo-
strata l’altra metà dell’argomento, quella dell’esistenza dell’anima dopo
la morte. Nulla, infatti, impedisce che l’anima esista prima dell’incarna-
zione in un corpo, ma che, al momento della separazione dal corpo, si
corrompa (77C).
Socrate invece ritiene che anche l’esistenza post mortem dell’anima
sia stata provata, grazie alla combinazione delle prime due prove, l’argo-
mento ciclico e, appunto, la reminiscenza (77C-E). In particolare, egli
afferma:
se infatti l’anima esiste anche precedentemente, e se è per essa necessario, quan-
do giunge alla vita e diviene, divenire da null’altro se non dalla morte e dall’es-
sere morto, come può non essere necessario che essa esista anche dopo che è
morta, dato che deve nascere di nuovo? Risulta così dimostrato anche ciò che
state dicendo ora (77C-D).

Quindi, (1) abbiamo stabilito che l’anima esiste precedentemente alla


sua unione con un corpo; (2) è risultato poi per essa necessario, quando
52 leggere il “fedone” di platone

si attacca a un corpo, che prima sia separata da un corpo; (3) risulta così
per Socrate anche dimostrato (e questo grazie a tutti e due gli argomenti,
come egli afferma in 77C), che essa debba esistere dopo essersi separata
dal corpo, visto che deve nuovamente riattaccarsi ad un corpo.
Ma in che senso questa conclusione deriva dalla combinazione di
entrambi gli argomenti? In effetti Socrate aveva precedentemente affer-
mato che l’argomento ciclico da solo prova sia la pre-esistenza che la
post-esistenza dell’anima (cfr. 72A-D), mentre d’altro lato l’argomen-
to della reminiscenza non sembra aver nulla a che fare con l’esistenza
post mortem, ma solo con quella precedente alla reincarnazione (Gallop,
1988, pp. 135-6).
Come che sia, Simmia e Cebete non sono persuasi, il che segna il
passaggio a un nuovo argomento sull’immortalità dell’anima.

La reminiscenza nel Fedone e nel Menone


Il richiamo di Cebete alla teoria della reminiscenza che si trova nel Me-
none richiede un rapido confronto tra i due dialoghi. Consideriamo le
principali differenze tra la teoria del Menone e quella del Fedone. Nel
Menone troviamo:
i) un cammino scientifico, nella fattispecie geometrico;
ii) un punto di partenza rappresentato da una figura geometrica trac-
ciata nella sabbia. Anche se il punto di partenza sembra essere una
figura visibile (e dunque sensibile), di fatto lo sforzo di Socrate e del
giovane schiavo per tutta la dimostrazione è di evidenziare le proprietà
intellegibili del quadrato (la prima cosa che Socrate cerca di fare è mo-
strare che le proprietà essenziali del quadrato non dipendono dalle sue
dimensioni);
iii) il risultato del processo di reminiscenza che è un’opinione vera, di
tipo proposizionale: “mi ricordo che per costruire una superficie qua-
drata doppia rispetto a quella di partenza devo tracciare la diagonale...”.
Nel Fedone invece troviamo:
iv) la sensazione come punto di partenza necessario;
v) una descrizione dell’atto di ricordarsi: percezione di una cosa, pen-
siero (ricordo) di un’altra, simile, di cui l’oggetto sensibile non è che
un’immagine imperfetta;
vi) il risultato del processo di reminiscenza che è l’Idea, che non è di
tipo proposizionale: “mi ricordo dell’idea dell’Uguale in sé”.
la reminiscenza 53

La questione finale è quindi la seguente: le descrizioni della remini-


scenza presenti nel Menone e nel Fedone sono incompatibili, oppure si
tratta di due aspetti compatibili dello stesso processo?
La risposta è che si tratta di due aspetti compatibili di un unico pro-
cesso: nel Menone si descrive una reminiscenza riguardante le opinioni
(e il corretto argomentare, come ricorda Cebete), cioè una conoscenza
proposizionale (mi ricordo che = mi ricordo che il quadrato ha quattro
lati e quattro angoli uguali), mentre nel Fedone si descrive un percorso
concettuale (mi ricordo di = mi ricordo dell’Idea [concetto] di Ugua-
le in sé).
4
L’affinità dell’anima con le Idee (78B-84B)

Cebete, sorridendo, disse: “Oh Socrate, prova a persua-


derci proprio come se avessimo paura; o piuttosto, non
come se fossimo noi ad avere paura; forse c’è un bambi-
no in noi, che ha paura di queste cose. Prova dunque a
dissuadere lui dall’aver paura della morte come di uno
spauracchio”.
Fedone, 77E

A partire da questo momento, Socrate e i suoi interlocutori comincia-


no a riflettere più da vicino sulla questione dell’immortalità dell’anima.
Nella sezione qui considerata, e che presenta quello che si può chiamare
“l’argomento dell’affinità dell’anima con le Idee”, Socrate cerca di mo-
strare che l’anima dev’essere immortale in virtù della sua affinità con le
Forme o Idee, che sono immutabili ed eterne1.
Possiamo dividere questa sezione in tre parti:
– 78B-80D: presentazione dell’argomento;
– 80C-82B: considerazioni di Socrate su ciò che avviene alle anime
dopo la morte, secondo che esse siano purificate oppure no;
– 82C-84B: considerazioni di Socrate circa la vita del filosofo, caratte-
rizzata, come sappiamo, come esercizio alla morte, cioè come distacco
dell’anima dal corpo attraverso la purificazione.

L’immortalità dell’anima
in virtù della sua affinità con le Idee
Cebete e Simmia manifestano un timore: che l’anima si disperda nel
momento in cui esce dal corpo. Socrate decide dunque di provare a
esorcizzare questa paura e comincia, com’è solito fare, a porre delle
domande su cui costruire il proprio ragionamento sull’immortalità
dell’anima.
56 leggere il “fedone” di platone

Dunque, riprese Socrate, bisogna che noi ci poniamo siffatta domanda: a quale
tipo di cosa si addice subire questa affezione, il disperdersi; per quali cose con-
viene temere che ciò avvenga; e a quale tipo di cosa non si addice subire questa
affezione? E ancora, occorre ulteriormente indagare, quale delle due cose è l’a-
nima e, in conseguenza di ciò, confidare o temere per la nostra anima (78B).

Socrate pone quindi le seguenti questioni.


i) A quale specie di cosa si addice subire una dispersione?
ii) Per quale specie di cosa bisogna temere che ciò avvenga? (Socrate
pone la domanda perché Simmia e Cebete temono che l’anima si dissipi
dopo la separazione dal corpo).
iii) A quale specie di cosa non si addice subire una dispersione?
iv) A quale delle due specie di cose appartiene l’anima?
v) Dobbiamo confidare o temere per la nostra anima?
Socrate affronta innanzitutto le domande (i) e (iii), cioè a che cosa
si addice subire la dispersione e a che cosa non si addice subire una di-
spersione. In seguito affronta (iv), a quale tra le due specie appartiene
l’anima. Risolti questi punti, avremo anche una risposta a (ii) e (v).

A quali cose si addice o non si addice


subire una dispersione

Innanzitutto Socrate collega la dispersione alla composizione delle cose,


e la non-dispersione alla non-composizione delle cose.

Non è forse a ciò che è stato composto e che è composto per natura che convie-
ne subire ciò, essere decomposto nello stesso modo in cui è stato composto? Se
invece c’è qualcosa che si trova a essere non composta, non è forse a questa sola
che non conviene subire queste cose? (78C).

Socrate tratta la dispersione in termini di scomposizione di un compo-


sto nei suoi elementi. Egli afferma che, così come le cose si compongo-
no per natura, allo stesso modo esse subiscono il processo contrario, la
scomposizione. In compenso, è solo alle cose non composte, cioè sem-
plici, che conviene non subire la scomposizione.
Suggerisce, inoltre, che la non-composizione implichi l’indistruttibi-
lità, e che la composizione implichi la distruzione, in termini appunto
di dispersione e scomposizione. Il collegamento suggerito tra non-com-
l’affinità dell’anima con le idee 57

posizione e indistruttibilità possiede forse una sua forza se applicato alle


cose materiali, poiché è più facile pensare a un processo di scomposizio-
ne di cose composte (pensiamo a un dolce, in cui possiamo vedere dei
pezzetti di mela, dell’uvetta, dei pezzetti di cioccolato ecc.) piuttosto
che di cose non composte (anche se si potrebbe obiettare che esistono
cose corporee non composte, ossia gli atomi). Tuttavia, la cosa è cer-
tamente più complicata, poiché qui Socrate sta pensando, come si ve-
drà più avanti, a cose non composte immateriali. In tale contesto, non
è facile pensare che la non-composizione immateriale implichi la non
distruzione, o che la composizione immateriale implichi la distruzione
(e ci sono certamente cose immateriali composte: per esempio i numeri,
o i solidi geometrici).
Come che sia, il passo successivo di Socrate consiste nel collegare la
non-composizione alla permanenza e invariabilità di un tipo di cose (le
Forme), e la composizione alla non-permanenza e variabilità di un altro
tipo di cose (le manifestazioni sensibili delle Idee). In questo caso, Socra-
te suggerisce il legame permanenza-non composizione-indistruttibilità.
Vale la pena analizzare in dettaglio ciò che egli dice a proposito delle en-
tità permanenti, tenendo sempre a mente la sua strategia, che consiste nel
collegare la non-composizione alla permanenza. Qui si presenta anche
una questione terminologica, che riguarda le espressioni che designano
le cose permanenti (le Idee) e le espressioni che manifestano la maniera
d’essere di queste cose. Allo stesso modo, avremo una questione termino-
logica riguardante sia le espressioni che designano le cose sensibili, sia le
espressioni che manifestano la maniera d’essere delle cose sensibili.

L’essenza in sé, del cui essere diamo ragione interrogando e rispondendo, per-
mane sempre invariabilmente secondo le stesse cose, oppure è ora in un modo,
ora in un altro? L’Uguale in sé, il Bello in sé, ciascuna cosa che è in sé ciò che è,
forse che accolgono mai un qualsiasi mutamento? Oppure, ciascuna di queste
entità che è, essendo uniforme in sé e per sé, permane invariabilmente secondo
le stesse cose, e non accoglie mai in nessun caso e in nessun modo alcuna alte-
razione? (78D).

Consideriamo le espressioni che, in questo passo, designano le Idee:


– essenza (ousia): «è del suo essere che cerchiamo di rendere ragione
interrogando e rispondendo».
– Il verbo «essere» (einai) si riferisce qui all’essenza: è infatti dell’es-
senza, esprimibile dalla definizione, che cerchiamo di dare socratica-
58 leggere il “fedone” di platone

mente conto interrogando e rispondendo. Quanto al termine greco qui


tradotto con «essenza», e cioè ousia, si tratta di un termine celeberrimo
che qui va preso nel senso di essenza espressa dalla definizione di qualche
cosa2. In effetti, Socrate fa riferimento al suo celebre metodo di interro-
gare e rispondere, che vuole giungere alla definizione. Si pensi ai dia-
loghi cosiddetti “socratici”, che ruotano sempre attorno a domande del
tipo: che cos’è il coraggio? Che cos’è il santo? Che cos’è la virtù? ecc.;
– l’Uguale in sé (auto to ison), il Bello in sé (auto to kalon): abbiamo già
incontrato questa maniera di esprimersi. Però, visto il contesto defini-
zionale, è probabile che qui ci si riferisca alle Idee non come a paradigmi
(com’era il caso nell’argomento ciclico), ma a definizioni (di bello, ugua-
le ecc.): ciò che è il Bello in sé, ciò che è il Grande in sé ecc.;
– ciascuna cosa che è in sé (auto ekaston o estin), ciò che è (to on);
– ciascuna di queste entità che è, essendo uniforme, sé stessa in sé stessa
(auton ekaston o esti, monoeides on auto kath’auto).
Queste espressioni vogliono dire tutte la stessa cosa: si parla qui
dell’essenza di qualche cosa, di ciò che una cosa è, della sua essenza che
si può definire in maniera unitaria. Pensiamo per esempio all’idea di
“uomo”: si tratta di ciò che ogni uomo è, della sua essenza, che si può
definire in maniera univoca, e che si applica a ogni uomo (per esempio:
“animale razionale”, che si applica a Socrate, Platone, Aristotele ecc.).
Vediamo ora le espressioni che designano la maniera d’essere delle
Idee. Socrate utilizza una formula (osautos echein kata tauta) che abbia-
mo tradotto con «permane invariabilmente secondo le stesse cose».
L’idea è che le Idee restano identiche a loro stesse attraverso il tempo, e
non subiscono alcun tipo di variazione e alterazione. La formula greca
significa: “trovarsi nello stesso stato, in uno stato che non cambia mai”.
Socrate afferma che è verosimile che siano queste entità a essere non
composte (78C). In generale, si considera che la non-composizione del-
le Idee implichi che esse non abbiano parti. Tuttavia, se si considerano
le Idee come essenze che si possono definire, come delle definizioni, è
difficile non credere che esse non siano composte di parti (pensiamo
alla definizione di uomo come appunto “animale razionale”). Forse al-
lora “non composto” deve essere preso nel senso di “ciò che non è stato
composto a un dato momento”, caratteristica che può essere attribuita a
qualche cosa che possiede delle parti eternamente.
In contrapposizione, Socrate individua invece una classe di entità ca-
ratterizzate dal legame distruzione-composizione, composizione-varia-
bilità. Si tratta di entità che variano tutto il tempo, e che si identificano
l’affinità dell’anima con le idee 59

con le cose sensibili (Socrate sembra ignorare l’esistenza di cose compo-


ste ma non-sensibili...).

Che dire invece delle molteplici cose belle, per esempio uomini, cavalli, mantel-
li, o qualsivoglia altre cose di siffatto genere, o delle cose uguali, o di tutte le cose
che sono di quelle omonime? Permangono forse secondo le stesse cose, oppure
tutto al contrario di quelle, né in riferimento a sé stesse, né le une rispetto alle
altre, non permangono mai, per così dire, in nessuna maniera secondo le stesse
cose? (78D-E).

Ecco quindi le espressioni che designano le cose sensibili:


– le tante cose belle (polla) (come per esempio uomini, cavalli ecc.). Si
tratta di un’espressione contraria al “Bello in sé”, che designa le sue mol-
teplici manifestazioni sensibili;
– le cose omonime, «le cose a cui diamo lo stesso nome che a quelle». Il
senso di “omonimo” si riferisce a cose chiamate F, che portano lo stesso
nome (“belle”) dell’idea F (il “Bello in sé”).
Per finire, consideriamo le espressioni che designano la maniera d’es-
sere di queste cose:
– cose che sono ora in un modo, ora in un altro (questo lo ricaviamo da
78D, dove Socrate dice che le Idee non sono ora in un modo, ora in un
altro);
– cose che non sono mai in nessuna maniera le stesse, né in relazione
a loro stesse, né in relazione reciproca alle altre. Socrate dice che le cose
sensibili non sono mai costanti e variano tutto il tempo: variano in rap-
porto a sé stesse, in quanto, come sappiamo, possono essere più o meno
F (per esempio, grandi) in due momenti differenti, poniamo t1 et t2; e
variano reciprocamente, nel senso che possono essere più o meno gran-
di in rapporto ad altri particolari sensibili. Per esempio: “Socrate è più
grande di Simmia ed è più piccolo di Fedone”.
Si suggerisce, qui, che siano queste cose a essere composte, e quindi
soggette a dispersione.
Socrate aggiunge un’ulteriore caratteristica, fondamentale per il se-
guito dell’argomento sull’anima:

Queste cose potresti toccarle, vederle, percepirle con gli altri sensi, ma per quel-
le che permangono secondo le stesse cose non vi è nient’altro perché tu le possa
cogliere eccetto il ragionamento dell’intelletto: cose di questo genere non sono,
infatti, invisibili e non si lasciano scorgere? (79A).
60 leggere il “fedone” di platone

Le cose permanenti, eterne e incomposte (le Idee), sono invisibili, im-


possibili da cogliere attraverso la percezione, ma solo attraverso il ragio-
namento. In compenso, le cose variabili e composte (le cose sensibili),
sono visibili e percettibili.
Sulla base di ciò che è stato detto, Socrate pone una distinzione tra le
cose che esistono (79A): da una parte, ci sono le cose visibili, che variano
tutto il tempo, e che si identificano con il mondo sensibile; dall’altra le
cose invisibili, ossia le Forme o Idee, sempre le stesse. In seguito, Socrate
applica questa distinzione agli esseri umani, distinguendo tra anima e
corpo, e riferendo il corpo al visibile, e quindi alle cose sensibili, l’anima
all’invisibile, e quindi alle cose intellegibili, cioè le Idee.
In questo passo le Idee sono concepite come entità eterne, immuta-
bili, uniche (monoeides3) nel senso che esse sono una cosa “una” che si
pone al di sopra delle molteplici esemplificazioni sensibili (caratteriz-
zate da Socrate come omonime). Le Idee sono invisibili ma intellegibili,
cioè accessibili esclusivamente all’intelligenza. Nella sezione che stiamo
esaminando, le Idee si caratterizzano essenzialmente come essenze di cui
si può dare la definizione: come tali, esse costituiscono il fondamento
della risposta alla domanda “che cos’è F?”, dove F è una proprietà (il bel-
lo, il grande, l’uguale ecc.).
In casi come: “Socrate è bello”, “il panorama è bello”, “un colore è bel-
lo” ecc., il predicato “... è bello” ha lo stesso senso, e si riferisce in primo
luogo a un’entità che è bella senz’altra qualificazione: il Bello in sé. In
quanto tali, le Idee costituiscono l’oggetto di una conoscenza intellegi-
bile, che si può ottenere soltanto staccandosi dal sensibile. Come oggetti
di conoscenza, essi sono, nel senso che esistono. Tuttavia, in riferimento a
ciò che abbiamo detto in precedenza a proposito dell’argomento ciclico,
delle Idee come paradigmi (il perfettamente bello, il perfettamente buo-
no ecc.), vi è una certa difficoltà che riguarda le Idee come definizioni,
oggetti di conoscenza, in quanto non sembra avere molto senso dire che
l’Idea F è perfettamente F. Forse che l’Idea-Uomo (nel senso di essenza
che si può definire, cioè come una serie di predicati essenziali-definizio-
nali) è perfettamente uomo? O che l’Idea dell’Uguale è perfettamente
uguale? E così via. Ciò a conferma del fatto che la teoria delle Idee non
è presentata dal Fedone come unitaria, ma invocata in contesti differenti
per risolvere problemi differenti, talora inconciliabili. Della teoria delle
Idee torneremo a occuparci in seguito.
l’affinità dell’anima con le idee 61

A quale delle due specie appartiene l’anima

Socrate affronta ora la quarta domanda (79B). Come sappiamo, noi sia-
mo costituiti da un corpo e da un’anima. Socrate considera il corpo e
l’anima presi separatamente, stabilendo una relazione di somiglianza e
parentela rispettivamente tra corpo e cose sensibili da un lato, e anima e
Forme dall’altro. Lo scopo è quello di dimostrare che l’anima è incorrut-
tibile come le Idee, mentre il corpo, come le cose visibili, è corruttibile.
Per ciò che riguarda il corpo, poniamo attenzione al modo di espri-
mersi di Socrate: «a quale delle due specie diremo che il corpo sia più
simile e più congenere? Al visibile» (79B). Il corpo ha più somiglianza
e più parentela (comparativi) con il visibile rispetto all’anima. Perché?
Perché esso è visibile, e quindi condivide una caratteristica col mondo
sensibile (che appunto è visibile).
La conclusione di Socrate è che il corpo ha più somiglianza e paren-
tela (dell’anima) con le cose che non rimangono mai identiche, perché
in definitiva trascina l’anima verso di esse: «quando l’anima si avvale
dei sensi per indagare qualche cosa, viene trascinata dal corpo nella di-
rezione delle cose che non permangono mai secondo le stesse cose (ta
oudepote kata tauta echonta)» (79C).
In seguito, troviamo un ulteriore argomento (80A-B), che, per quan-
to riguarda il corpo, viene da Socrate sviluppato come segue:
– quando l’anima e il corpo sono insieme, la natura (physis) prescrive
che il corpo serva e si lasci guidare dall’anima;
– ora, ciò che serve e che è guidato è simile al mortale;
– quindi, il corpo è la cosa più simile (nel testo greco troviamo il su-
perlativo omoiotaton) all’umano, mortale, multiforme, inintelligibile,
soggetto a dissoluzione, e che non è mai in sé stesso;
– quindi, è al corpo che si addice di dissolversi rapidamente.
In modo parallelo Socrate cerca di stabilire una relazione di so-
miglianza tra l’anima e le Forme, che pare più problematica di quella
corpo-mondo sensibile. Infatti, in 79B, Socrate afferma che l’anima è
un’entità invisibile, e che quindi assomiglia più del corpo (omoioteron
sómatos) a ciò che è invisibile4. L’anima è più simile del corpo all’in-
visibile, in quanto è essa stessa invisibile, e condivide quindi una carat-
teristica con il mondo delle Idee, che è appunto invisibile. Socrate poi
aggiunge (79D) che ogniqualvolta l’anima fa delle ricerche da sola in
sé stessa (aute kath’auten, cioè “senza” la compagnia del corpo) allora va
verso il puro, verso ciò che è sempre, immortale e invariabile. Essa può
62 leggere il “fedone” di platone

fare questo perché è apparentata (sugghenes: della stessa stirpe, dello stes-
so genere) a esso (il puro, l’eterno ecc.). Ogni volta che si raccoglie in sé
stessa, si accompagna con il puro, eterno ecc. In questo modo l’anima, in
relazione alle Idee, diventa essa stessa permanente e invariata, stato che
viene da Socrate chiamato phronesis (conoscenza, saggezza). L’anima ha
quindi più somiglianza e più parentela (constatiamo ancora una volta
l’uso dei comparativi) con ciò che resta permanente e invariato.
Anche qui possiamo avvalerci dell’argomento che si trova in 80A-B
che, per quanto riguarda l’anima, si sviluppa nel modo seguente:
– quando l’anima e il corpo sono insieme, la natura prescrive che l’a-
nima guidi e domini il corpo. È da notare che qui, come anche in pre-
cedenza per il corpo, “natura” non si riferisce a “ciò che accade normal-
mente”, ma a “ciò che dovrebbe accadere”: in effetti, a volte, o forse nella
maggioranza dei casi, è il corpo che sembra dirigere l’anima, e non il
contrario;
– ora, ciò che dirige è simile al divino;
– quindi, l’anima è la cosa più simile o similissima (superlativo: omoio-
taton) al divino, immortale, intelligibile, unico (monoeides), indissolubi-
le e a ciò che resta in uno stato permanente e invariato (aei osautos kata
tauta echon);
– quindi, è all’anima che conviene essere totalmente indissolubile o
quasi.
Secondo gli argomenti visti, l’anima condivide con le Idee l’invisi-
bilità, l’essere prossima a ciò che non varia mai, l’essere simile al divino.
Essa quindi possiede una relazione di somiglianza con le Idee: essa è “più
simile” (comparativo) del corpo alle Idee, ed essa è la cosa più simile (o
similissima) alle Idee.
Ora, la relazione di somiglianza non viene definita da Socrate. Una
definizione confacente di “essere simile” potrebbe essere: condividere
una caratteristica. Per esempio, questo pennarello è simile a quest’altro,
perché possiede la stessa dimensione o lo stesso colore nero.
Inoltre, come si è visto, Socrate utilizza spesso la formula comparativa
“essere più simile di”: l’anima è più simile del corpo al mondo delle Idee;
il corpo è più simile dell’anima al mondo sensibile. Una definizione pos-
sibile di “essere più simile” può essere: condividere più caratteristiche.
Per esempio: questo pennarello è più simile di quello a quest’altro per-
ché possiede la stessa dimensione e lo stesso colore nero. In questo caso,
la relazione di “essere la cosa più simile” (o di essere similissima) può
voler dire possedere molte caratteristiche comuni.
l’affinità dell’anima con le idee 63

Ma il fatto che l’anima condivida con le Forme una o più caratteristi-


che di cui il corpo è privo, non mostra quanto l’anima sia più simile alle
Idee del corpo, se non per il fatto che Platone ha già spiegato come il cor-
po non abbia praticamente nulla in comune con le Idee (Gallop, 1988,
p. 140; Polloni, 1996, p. 6). Inoltre, indipendentemente dalla relazione
dell’anima dal corpo, il problema che in generale si pone è il seguente:
anche se accettiamo che l’anima sia similissima alle Idee, cioè condivi-
da con esse molte caratteristiche (invisibilità, l’essere divina, dominio
sul corpo, invariabilità)5, questo non significa che essa condivida tutte
le caratteristiche delle forme, in particolare l’incorruttibilità (Polloni,
1996, p. 6). L’argomento sarebbe più forte se le caratteristiche comuni
all’anima e alle Idee si implicassero e implicassero le altre caratteristiche
importanti. Ma queste catene presentano solo legami deboli. Vedremo
che Simmia giustamente mostrerà che queste implicazioni non ci sono.
In particolare, mostrerà che l’invisibilità e l’invariabilità non implicano
l’indissolubilità.

Il movimento dell’anima verso le Idee

Nel corso dell’argomentazione, Socrate si sofferma a descrivere il movi-


mento dell’anima verso le Idee:

Quando l’anima indaga da sola in sé stessa, si dirige verso ciò che è puro, eterno,
immortale, che permane invariabilmente, e, in quanto è a esso congenere, essa
sempre procede con esso [...] e allora ha smesso di andare errando, e rispetto a
quelle cose sempre permane invariabilmente secondo le stesse cose [...] e questa
sua condizione non è ciò che si chiama sapienza (phronesis)? (79D).

L’idea che si trova alla base della phronesis, che è appunto uno stato di
sapienza e conoscenza dell’anima in relazione alle Idee, è quella di Em-
pedocle secondo cui “il simile conosce il simile”. La conoscenza da parte
dell’anima delle Forme invariate mostra così la sua somiglianza con esse.
L’anima quindi somiglia più alle cose invariabili che alle cose che non
lo sono.
Un problema che si pone è che Socrate non dice che l’anima è inva-
riabile, ma che essa è simile alle cose invariabili (79D-E). Egli deve dire
ciò poiché l’anima, quando utilizza i sensi, cade in preda all’errare, alla
vertigine, e diviene come ubriaca. Ci si può in tal caso chiedere se essa
64 leggere il “fedone” di platone

viene così ad assomigliare al corpo, oppure se l’ubriachezza sia solo se-


gno del fatto che essa è catturata da cose dissimili, cioè quelle sensibili.
Al di là di questa domanda, si può constatare ancora una volta fino a che
punto Socrate svalorizzi la conoscenza sensibile, che per lui diviene uno
stato di ubriachezza.
Soffermiamoci ora sulle affermazioni di Socrate secondo cui: (1) l’a-
nima è la cosa più simile al divino, immortale, intelligibile, uniforme,
indissolubile, invariabile e permanente; mentre (2) il corpo è la cosa più
simile a ciò che è mortale, inaccessibile all’intelligenza, multiforme, sog-
getto a dissoluzione, variabile e non permanente.
Qui l’anima e il corpo sono detti essere “le cose più simili” ai loro
rispettivi domini, e non solo “più simili”, come Socrate ha invece detto
prima (su ciò cfr. Gallop, 1988, p. 142). Resta il problema già sollevato:
se l’anima è la cosa più simile (o somigliantissima) alle Idee, questo non
implica che essa condivida tutte le caratteristiche delle Idee, o che essa
condivida qualunque caratteristica particolare con esse, o che essa con-
divida ogni caratteristica di cui il corpo manca.
Nella conclusione dell’argomento (80B), Socrate risponderà a (ii)
e a (v), dicendo che è al corpo che si addice la dispersione, mentre è
all’anima che si addice rimanere del tutto indissolubile, “o qualcosa di
prossimo”. Che cosa vuol dire Socrate con quest’ultima formula? Che
l’anima può essere quasi, e non totalmente, indissolubile?6 Oppure che
l’argomento dimostra quasi, ma non totalmente, l’indissolubilità dell’a-
nima? La cosa non è chiara: certo è che Simmia si attaccherà a questa
formula per la sua potente critica contro l’immortalità dell’anima.

Ciò che avviene alle anime dopo la morte


In seguito viene ripresa, in base a ciò che Socrate ha appena detto, la que-
stione della dissolubilità/indissolubilità dell’anima e del corpo: a) è al
corpo che conviene dissolversi rapidamente; b) è all’anima che conviene
essere indissolubile, o quasi.
Immediatamente dopo il passo che conclude il ragionamento socra-
tico (e cioè che l’anima deve rimanere indissolubile o quasi), Socrate af-
ferma (80C-D) che vi sono delle parti del corpo (come le ossa, i nervi e
certe parti pietrificate) che, lungi dall’essere rapidamente dissolte, sem-
brano piuttosto quasi immortali (nel senso di indistruttibili). D’altro
canto, egli osserva, se è vero che ci sono delle anime che, dopo la morte,
l’affinità dell’anima con le idee 65

arrivando purissime (cioè, praticando la filosofia) nell’Ade, restano lì vi-


cino al loro simile senza discostarsene mai, ce ne sono delle altre che
invece sembrano correre il rischio di diventare corporee:

Qualora invece, io credo, l’anima si allontana dal corpo contaminata e impura,


come quella che è sempre rimasta unita al corpo, ne ha avuto cura, lo ha amato e
si è lasciata affascinare da esso [...] e ciò che invece è intellegibile e afferrabile con
la filosofia, questo si è abituata a odiare, temere, fuggire; così essendo quest’ani-
ma, credi che potrà allontanarsi tutta sola in sé stessa, pura? (81B-C).

Socrate parla di quelle anime che, durante la loro vita nel corpo, non
hanno esercitato la purificazione filosofica, cioè non si sono esercitate a
distaccare l’anima dal corpo. In effetti, spiega, può succedere che un’a-
nima, nel momento della sua separazione dal corpo, sia infetta e non
pura, poiché essa considera vero e degno di interesse solo ciò che suc-
cede al corpo. Questo stato dell’anima pesa su di essa, l’appesantisce e
la costringe a rimanere come ombra visibile nel visibile, fino a quando
non rientra in un altro corpo. Al contrario, le anime che non fanno che
fuggire dal corpo, dice Socrate, non ritorneranno più sulla terra. Ora, le
anime cattive, quelle che restano a vagare perché appesantite dal sensi-
bile, secondo Socrate si reincarneranno in esseri il cui comportamento è
identico alle occupazioni “corporee” a cui esse si sono dedicate nella loro
precedente vita. In effetti, Socrate sostiene che (81E-82A) gli uomini che
non hanno fatto nulla salvo gozzovigliare, fornicare, essere violenti e
bere sprofonderanno in corpi d’asino; quelli invece che hanno praticato
l’ingiustizia, la rapina, la tirannia, sprofondano in corpi di lupi, sparvieri
e nibbi. C’è poi una terza forma di incarnazione, più positiva (82A-B):
coloro che hanno coltivato le virtù sociali e pubbliche, nate dall’abitudi-
ne e senza l’intervento della filosofia, si incarneranno in corpi di animali
socievoli quali api, vespe o formiche; o anche nella specie umana, in uo-
mini dabbene.
Le osservazioni di Socrate sulle incarnazioni sono assai curiose, so-
prattutto in relazione a ciò che egli ha precedentemente detto, ossia che
la natura dell’anima è essenzialmente razionale in virtù della sua affi-
nità con le Forme. Ma, al di là di questo amusement socratico, che for-
se prende di mira una teoria della reincarnazione in animali di origine
pitagorica (Gallop, 1988, p. 144), l’idea è chiara: anche se l’anima può
pericolosamente “pendere” dalla parte del corpo piuttosto che da quella
dell’anima, questo non significa che essa si dissiperà, diventando corpo
66 leggere il “fedone” di platone

per poi dissolversi. I sensi, il piacere, il dolore, non possono distruggere


l’anima; e gli uomini animati da queste anime giungeranno semplice-
mente ad assomigliare a quello che sono: asini, lupi, api, vespe.

Considerazioni sulla vita del filosofo


«Ma a chi non abbia praticato la filosofia e non se ne vada totalmente
puro, non è lecito giungere al genere degli dei, bensì solo a chi ama il
sapere (philomathei)» (82B-C). Per diventare simili agli dei, bisogna in
poche parole esercitare la filosofia. Per Socrate solo i filosofi esercitano
la purificazione dell’anima dalle “pesantezze” del corpo, e così facendo
arrivano a rendere le loro anime simili alle Idee (divine, identiche a loro
stesse, sagge). L’idea di Socrate è che ciò che spinge i filosofi a distaccarsi
dal corpo è il desiderio di apprendere:

Quelli che amano il sapere (philomatheis) sanno che la filosofia, assumendosi la


cura dell’anima che si trova in tali condizioni <cioè, imprigionata nel corpo>,
cerca dolcemente di rassicurarla e liberarla, mostrando che piena di inganno
è l’indagine attraverso gli occhi, le orecchie e gli altri sensi, persuadendola a
tenersi lontana da questi nella misura in cui non è necessario servirsene ed esor-
tandola a raccogliersi e riunirsi in sé stessa (83A).

Il desiderio di conoscere oltrepassa gli altri desideri e permette all’anima


di slanciarsi verso il divino, distaccandosi dal corpo e dai suoi falsi stru-
menti di conoscenza, le sensazioni. Ci si potrebbe chiedere perché Socra-
te insista tanto sulla filosofia rispetto alle altre scienze, come ad esempio
le matematiche, che possono svolgere la medesima funzione. A questa
domanda si può rispondere che la filosofia tende alla più alta forma di
sapere, le Idee, e allo stesso tempo si configura come una tecnica capa-
ce di produrre la vita buona e virtuosa (Trabattoni, 2011, pp. xix-xxx).
Ciò che comunque risulta chiaro è il ruolo fondamentale del simile
nella dottrina della reminiscenza: nel percepire qualcosa, io constato la
mancanza che questo qualcosa ha rispetto al suo simile perfetto; questa
mancanza provoca la ri-conversione verso l’intellegibile.
5
Le obiezioni di Simmia e Cebete (84C-91C)

[Fedone:] quello che più che mai ammirai di Socrate


fu questo: per prima cosa, quanto dolcemente, bene-
volmente e rispettosamente accolse il discorso di quei
ragazzi; poi con che perspicacia si accorse dell’effetto
dei loro argomenti su di noi; infine come bene seppe
guarirci.
Fedone, 89A

A questo punto, Simmia e Cebete presentano delle potenti obiezioni.


Simmia attacca l’affinità dell’anima con le Forme, mentre Cebete attac-
ca i primi due argomenti, quello dei contrari e quello della reminiscenza.
Simmia si serve dell’analogia tra l’anima e l’armonia delle corde di una
lira, Cebete dell’analogia tra l’anima e un vecchio tessitore. In entrambi
i casi, si suggerisce che l’anima non sia affatto imperitura.

Questioni di metodo
Prima di presentare la propria obiezione, Simmia presenta considerazio-
ni interessanti a proposito della ricerca filosofica, che verranno riprese
da Socrate più tardi, quando parlerà nuovamente del metodo filosofico.

A me pare, Socrate, come forse anche a te, che in riferimento a tali argomenti,
avere una conoscenza certa1 in vita è o impossibile, o estremamente difficile.
D’altra parte, non sottoporre a prova le cose dette intorno a queste cose in qua-
lunque maniera, e non insistere prima di rinunciare a indagare da ogni punto
di vista, è proprio di un uomo senza vigore. Infatti, riguardo a questi argomenti
bisogna fare una sola fra queste cose: o apprendere in quale maniera stanno le
cose, o scoprirlo, oppure, se questo non è possibile, prendere, tra i ragionamenti
umani, il migliore e il più inconfutabile (85C-D).

Secondo Simmia, riguardo alle questioni di cui si sta discutendo (ani-


ma, morte, immortalità ecc.), è evidentemente impossibile o molto
68 leggere il “fedone” di platone

difficile arrivare in questa vita a una certezza. In compenso, bisogna


“mettere alla prova” (il verbo qui usato è elenchein, che indica, come
sappiamo, il metodo utilizzato da Socrate per “testare” le varie dottri-
ne) tutto ciò che è stato detto sull’argomento. Egli si esprime in questo
modo perché, osserva, rispetto alle questioni che stiamo esaminando,
ci sono tre alternative possibili: i) o apprendere come stanno le cose da
altri; ii) o scoprirle da sé stessi2; iii) oppure, qualora le prime due vie
siano impraticabili, scegliere tra le teorie (logoi) umane le migliori e le
meno contestabili, aggrappandosi a esse come a una zattera; ciò in man-
canza di qualcosa di più solido, per esempio di una rivelazione divina
(logos theios)3 (85D).
Si noti come Simmia sottolinei la necessità di scegliere, in mancan-
za di altre possibilità, le dottrine umane migliori e meno contestabili.
Quanto alla questione di come decidere quali siano tali dottrine, egli
invoca proprio il “metodo socratico” di confutarle per vedere se esse resi-
stono alle obiezioni. Simmia non prende minimamente in considerazio-
ne la via scettica, che consiste nel non scegliere, almeno su determinati
argomenti, rimanendo senza opinioni.
Con la giustificazione “metodologica” di sottoporre a seria confuta-
zione le dottrine umane, Simmia riprende ciò che Socrate ha detto a
proposito delle caratteristiche dell’anima per sferrare un attacco piut-
tosto potente.

L’obiezione di Simmia:
l’anima come armonia
Nella sua obiezione (85B-86D) Simmia fa osservare che lo stesso discor-
so che Socrate ha fatto a proposito dell’anima e del corpo può essere
applicato rispettivamente a un’armonia musicale e a una lira con le sue
corde. Da una parte, egli osserva, abbiamo l’armonia, che è incorporea,
invisibile, molto bella e divina, e possiede insomma le caratteristiche che
Socrate ha attribuito all’anima sulla base della sua somiglianza con le
Idee; dall’altra parte abbiamo la lira e le sue corde, che sono corporee,
composte, terrose (cioè materiali), apparentate a ciò che è mortale. Sup-
poniamo ora che la lira si rompa e le corde vengano tagliate o strappate.
Secondo il ragionamento di Socrate, si dovrebbe sostenere che l’armonia
le obiezioni di simmia e cebete 69

continui a esistere, mentre la lira e le corde no; si dovrebbe, cioè, soste-


nere che l’armonia non vada distrutta in ragione della sua somiglianza al
divino e all’immortale, mentre il legno e le corde della lira marciscono o
divengono polvere.
Di quale concetto di armonia si serve Simmia? Si potrebbe pensare
all’armonia musicale come allo strumento accordato, cioè alla regola-
zione delle tensioni degli elementi (qui: le corde della lira), costruite
secondo proporzioni aritmetiche. In generale, possiamo pensare alla si-
stemazione delle parti di artefatti, prodotti dall’artigiano secondo delle
regole (in questa maniera si esprimerà Simmia in 86C). Di fatto, però,
egli pensa che l’anima sia piuttosto un’armonia di questo tipo:

Crediamo che l’anima sia soprattutto questo: come il nostro corpo è teso e te-
nuto assieme da caldo, freddo, secco, umido e siffatti elementi, così la nostra
anima è una combinazione e un accordo di questi elementi, qualora siano me-
scolati tra loro in modo bello ed equilibrato (86B-C).

Siccome il nostro corpo si trova in uno stato di tensione interna tra gli
elementi materiali e le loro caratteristiche (come caldo/freddo, secco/
umido ecc.) e di coesione, grazie appunto all’azione di caldo/freddo,
secco/umido ecc., noi riteniamo che la nostra anima sia appunto la com-
binazione e l’accordo di queste coppie di proprietà contrarie, secondo
una proporzione opportuna. La conseguenza sarà che anche se l’anima
è, come l’armonia, estremamente divina, invisibile, incorporea, bellissi-
ma, essa perirà quando il nostro corpo si allenta (cioè quando la nostra
composizione non sarà più bella ed equilibrata, a causa forse del preva-
lere di uno degli elementi con le sue caratteristiche sugli altri), o si tende
in modo squilibrato (a causa delle malattie).
In sostanza, il discorso di Simmia è il seguente: le proprietà che l’a-
nima condivide con le Idee (invisibilità, incorporeità e divinità) appar-
tengono anche all’armonia. Tuttavia, queste proprietà, prese insieme o
separatamente, non implicano l’immortalità. Così come l’armonia, in-
tesa come la intende Simmia, non sopravvive alla lira e alle corde, allo
stesso modo l’anima, pur possedendo le caratteristiche viste, potrebbe
non sopravvivere al corpo.
L’analogia tra anima e armonia non è perfetta (Gallop, 1988, p. 147):
infatti, secondo l’ultimo argomento di Socrate, l’anima basa la propria
indistruttibilità sulla non-composizione o semplicità, mentre invece
70 leggere il “fedone” di platone

l’armonia è composta, poiché Simmia parla dell’anima come di una


combinazione di elementi materiali caratterizzati da coppie di proprietà
tra loro contrarie. Inoltre, l’anima è considerata da Socrate divina perché
per natura deve dirigere il corpo, mentre l’armonia non è divina in que-
sto senso. Socrate si baserà su questa analogia imperfetta per attaccare
Simmia. Ma l’obiezione resta potente.
Due sono le questioni che si pongono a proposito della teoria di Sim-
mia. Quando egli afferma che noi crediamo che l’anima sia pressappoco
questo, cioè una combinazione e armonia di elementi e proprietà di tali
elementi, a chi si riferisce? Inoltre, che cosa sostiene questa definizione
di anima?
Per quel che riguarda il “noi”, possiamo scegliere tra “noi, i pitago-
rici” e “noi, tutta la gente” (ivi, p. 148). Quello che è certo è che, come
per esempio dice Aristotele nell’Anima, diversi filosofi hanno sostenu-
to la tesi dell’anima-armonia, anche se Aristotele non li nomina. Forse
si tratta di una versione pitagorica, anche se si è notata l’incongruenza
tra questa teoria e quella dell’immortalità dell’anima, di cui si è di-
scusso nel primo capitolo, quando abbiamo affrontato la proibizione
al suicidio4.
Per ciò che riguarda la seconda questione, Simmia afferma che l’ani-
ma è una combinazione di elementi materiali e un accordo di opposti
(cioè, di proprietà opposte), in cui combinazione e accordo sono costi-
tuiti secondo una proporzione opportuna. Ora, sono più le coppie di
contrari (secco/umido, caldo/freddo) che gli elementi materiali stessi,
a essere probabilmente viste da Simmia come analoghe alle componen-
ti fisiche di lira e corde. Egli, poi, non parla solo delle armonie musi-
cali (come l’esempio lira-corde porterebbe a credere), ma anche delle
armonie che si realizzano in qualunque opera prodotta da un artigiano
(86C): si tratterà quindi, anche in questo caso, di composizione armoni-
ca di elementi per la costruzione di edifici o la composizione di quadri.
Infine, Simmia compara l’anima a qualcosa che si distrugge qualora la
tensione tra le corde (o gli elementi) si alteri. Considerando tutti questi
elementi, possiamo pensare che Simmia sostenga una teoria secondo cui
l’anima si identifica con la condizione che il corpo possiede quando gli
elementi corporei sono combinati in modo opportuno5. Così, il punto
essenziale di questa teoria risulta essere che l’anima non è un’entità sepa-
rata o separabile dal corpo.
le obiezioni di simmia e cebete 71

L’obiezione di Cebete:
l’anima come un vecchio tessitore
Nella sua obiezione (86E-88B) Cebete prende di mira gli altri due ar-
gomenti presentati da Socrate, quello dei contrari e quello della remi-
niscenza. Egli accetta la conclusione dei due argomenti secondo cui la
nostra anima esiste prima della nostra nascita; accetta pure, contro ciò
che Simmia ha appena detto, la superiorità dell’anima sul corpo per ciò
che riguarda il vigore e la durata. Tuttavia, egli ritiene che la conclusione
secondo cui l’anima esiste dopo la nostra morte non sia stata dimostra-
ta. Si tratta di una critica che abbiamo già visto e che Cebete riprende
servendosi anche lui di un’immagine, quella del vecchio tessitore e dei
vestiti che indossa e che ha egli stesso tessuto.
Immaginiamo che un vecchio tessitore muoia: si potrebbe sostene-
re la tesi che il tessitore non sia morto, cioè che esista ancora, fornendo
come prova di questa affermazione il fatto che i vestiti che il tessitore
portava, e che aveva egli stesso tessuto, esistono ancora. L’idea di tale
argomento è la seguente: l’anima, paragonata al tessitore, pre-esiste al
suo corpo – il vestito che essa ha tessuto; l’anima tessitrice è certamen-
te più robusta del corpo-vestito che essa ha tessuto e che continua a
portare (essa può anche aver indossato più di un vestito da lei tessuto),
di modo che, quando essa muore, si potrebbe credere che essa non sia
veramente morta, visto che i suoi vestiti restano là, intatti. Tuttavia,
secondo Cebete, questo ragionamento “di tipo indiziario” (Decleva
Caizzi, 1987, p. 85), che sostiene che il tessitore non sia morto, è mol-
to debole. Si può, infatti, immaginare che il tessitore abbia tessuto e
usurato una serie di vestiti; ma è in relazione all’ultimo vestito che ha
tessuto e che indossa che il tessitore può morire per primo. L’anima,
in altre parole, può essersi incarnata in molti corpi, ma morire per pri-
ma rispetto all’ultimo corpo in cui si è incarnata; morire per prima
perché il corpo dopo la morte resta un po’ là prima di imputridirsi e
polverizzarsi.
L’anima, insomma, pur ammettendo che sia un’entità di lunga du-
rata, può morire. Essa utilizza un certo numero di corpi, ma alla fine
arriva al suo ultimo corpo rispetto al quale perisce per prima, per usu-
ra. Si può perfino essere d’accordo sul fatto che l’anima esista per un
certo periodo dopo la morte (di un corpo); ma anche se esiste dopo la
morte di un corpo per un certo numero di anni, si può ben immagina-
72 leggere il “fedone” di platone

re che una volta o l’altra essa possa perire, e per sempre. D’altra parte,
aggiunge Cebete, non possiamo renderci conto dello stato di usura
della nostra anima, perché essa è impercettibile. Quindi, conclude Ce-
bete, non bisogna essere troppo contenti di morire, a meno che non
si sia capaci di dimostrare che l’anima è assolutamente immortale e
indistruttibile. Ecco come Socrate riassume efficacemente l’obiezione
di Cebete:

Mi pare che Cebete convenga con me su questo, che l’anima è più duratura del
corpo, ma <dice> che questo rimane oscuro a tutti, cioè che l’anima, consumati
molti corpi molte volte, nell’abbandonare il suo ultimo corpo, proprio allora
essa stessa perisca, e che questo appunto sia la morte, la distruzione dell’anima,
poiché il corpo non cessa mai di perire (91D).

Secondo l’immagine del vecchio tessitore, l’anima non si limita ad


abitare il corpo, essa lo fa6. Se l’anima produce il corpo, essa gli pre-
esiste, ma questo non implica che essa gli sopravviva. Rispetto all’idea
di corpo di Socrate e Simmia, quella di Cebete è differente: in effetti,
nel testo in analisi l’anima non si limita a tessere più corpi differenti,
ma è continuamente occupata a ritessere lo stesso corpo che si usura,
e che l’anima rinnova continuamente (è il senso di 87D-E: «se infatti
il corpo fluisce e deperisce mentre l’uomo è ancora vivo, l’anima d’al-
tra parte sempre ritesse ciò che si consuma»). Per Cebete, quindi, la
durata dell’anima è evidente a causa della fragilità del corpo: siccome
essa deve continuamente rinnovarlo, essa sarà più forte e vigorosa. Tut-
tavia, anche se l’anima è più forte e vigorosa, questo non vuol dire che
essa abbia una durata eterna. Il senso dell’obiezione di Cebete è, quin-
di, che finora non è stata data una dimostrazione della durata eterna
dell’anima.

Le risposte di Socrate: osservazioni preliminari


Di fronte allo scoraggiamento che assale gli interlocutori dopo le criti-
che di Simmia e di Cebete (perfino Echecrate, il personaggio a cui Fedo-
ne sta raccontando l’ultimo giorno di Socrate, interrompe per la prima
volta il racconto di Fedone per esprimere il proprio scoraggiamento!),
Socrate chiede innanzitutto aiuto a Fedone per sconfiggere delle obie-
zioni che si mostrano molto potenti.
le obiezioni di simmia e cebete 73

Anche Socrate, come Simmia, fa precedere le sue risposte da al-


cune osservazioni metodologiche. Socrate, sempre rivolgendosi a Fe-
done, incoraggia tutti a non divenire misologi (misologoi), cioè a non
prendere in odio i ragionamenti (89D). Per chiarire che cosa intenda,
Socrate opera un parallelo tra l’odio per gli uomini (misantropia) e
l’odio per i ragionamenti (misologia). L’origine della misantropia, ci
dice Socrate, è comune a quella della misologia: in entrambi i casi si
tratta di una mancanza di competenza (techne); solo che in un caso,
si tratta di mancanza di competenza in relazione agli uomini, mentre
nell’altro, di mancanza di competenza in relazione ai ragionamenti.
Nel caso del misantropo, ecco cosa succede (89D-E). Chi diventa mi-
santropo, all’inizio dà fiducia a qualcuno senza avere competenza in
materia umana (cioè senza conoscere gli uomini, dal momento che la
conoscenza dell’uomo è una conoscenza induttiva, che passa attraverso
l’esperienza), ne riceve una delusione, passa a un’altra persona, subi-
sce un’altra delusione e infine, dopo una serie di esperienze di questo
tipo, giunge a detestare tutti gli uomini senza eccezione arrivando a
una falsa generalizzazione, del tipo: “tutti gli uomini sono cattivi”. Ma,
secondo Socrate, questo percorso è erroneo: il misantropo passa da un
estremo all’altro, mentre invece l’oggetto del suo giudizio (la maggior
parte degli uomini) non è né assolutamente buono (come egli pensava
all’inizio), né assolutamente cattivo (come egli arriva a credere alla fine
delle sue cattive esperienze).
Ecco invece come il misologo giunge a detestare i ragionamenti:

Quando qualcuno, privo di competenza nei ragionamenti, accoglie un ragiona-


mento come vero, e poi di lì a poco gli pare falso, a volte essendolo, a volte no,
e di nuovo gli sembra diverso e ancora diverso; e sai che sono soprattutto quelli
che passano il tempo in ragionamenti antilogici che finiscono per credere di
essere diventati sapientissimi e di essere i soli ad aver capito che non vi è alcuna
cosa valida e salda, e neppure nessun ragionamento (90B-C).

Qui assistiamo a un fenomeno non comparabile a quello del misan-


tropo: non si verifica, infatti, che il misologo arrivi a considerare tutti i
ragionamenti falsi, dopo averli considerati veri. Ciò che accade è piut-
tosto che il soggetto in questione, senza avere competenza in materia di
ragionamento, accordi la sua fiducia a un ragionamento, considerando-
lo vero, per giungere in un secondo momento a considerarlo falso. Poi
fa la stessa cosa con un altro ragionamento, e poi ancora con un altro, e
74 leggere il “fedone” di platone

alla fine arriva a credere all’impotenza del ragionamento, cioè arriva a


non avere più fiducia in esso. La mancanza di fiducia nel ragionamento
viene poi estesa alle realtà intorno a cui i ragionamenti vertono. Trovan-
do che gli argomenti non siano né veri né sicuri, il misologo arriva a cre-
dere che le cose stesse, le realtà, manchino anch’esse di verità e certezza.
Poiché gli argomenti sembrano al misologo talora veri, talora falsi, per
lui non ci sarà nulla di definitivamente vero7. In questa situazione si tro-
vano soprattutto le persone che passano il loro tempo a mettere a punto
discorsi contraddittori. Chi sono costoro? Forse alcuni filosofi, come
per esempio Zenone di Elea che, volendo dimostrare che la realtà sensi-
bile è multipla e dunque falsa (ad esempio, Socrate è bianco, è anziano,
è filosofo ecc.), metteva a punto discorsi volti a dimostrare che le stesse
cose sono contemporaneamente une e molteplici, simili e dissimili, in
riposo e in movimento8, applicando, insomma, proprietà contradditto-
rie alla stessa cosa nello stesso tempo e dallo stesso punto di vista. Ma
anche i sofisti come Protagora, che contrapponeva a ogni argomento
un argomento opposto, presentando un argomento per dimostrare P e
un argomento per dimostrare non-P9. Ora, secondo Socrate, di questa
maniera di procedere che conduce il misologo a diventare appunto tale,
non sono responsabili i ragionamenti, ma la nostra incompetenza: di
fatto vi sono dei ragionamenti veri, ma noi non siamo capaci di giudi-
carli tali, ma talvolta li consideriamo veri, talvolta falsi. Quali sarebbero
questi ragionamenti? Probabilmente quelli che esprimono le cose vere,
le Idee, alla luce di ciò che Socrate ha detto di esse nell’ultimo argomen-
to analizzato.
Socrate, quindi, assume che gli argomenti e le cose di cui gli argomen-
ti parlano condividano le stesse proprietà. Egli pensa che gli argomenti
che considerano “la verità delle cose che sono” (maniera di esprimersi
che, come sappiamo, indica le Idee) siano veri, e in effetti, come si vedrà
più tardi, Socrate assumerà la teoria delle Idee come teoria vera che può
essere scoperta attraverso il discorso filosofico. Bisognerà tenere a mente
tutto ciò, quando si affronterà la parte del dialogo che riguarda la causa-
lità e il metodo filosofico rigoroso.
Un’ultima osservazione, prima di passare all’analisi delle risposte
di Socrate. Nel caso sia della misantropia che della misologia Socrate
parla di una mancanza iniziale di competenza: mancanza di compe-
tenza in materia di uomini, mancanza di competenza in materia di
ragionamenti. Che cosa significano qui “competenza” e “mancanza di
competenza”? La competenza sembra essere qui una sorta di conoscen-
le obiezioni di simmia e cebete 75

za pratica degli uomini (o dei ragionamenti), basata sull’esperienza.


Nel caso dei ragionamenti, probabilmente la competenza include la
capacità di conoscere in che modo stimare e valutare un ragionamen-
to, e come trattarlo in una discussione (così come, in materia umana,
la competenza è la capacità di sapere come valutare un uomo e come
trattarlo). E certo, Socrate possiede tutte e due le competenze: si con-
fronti, infatti, la reazione di Socrate descritta da Fedone di fronte alle
obiezioni di Simmia e Cebete riportata in esergo all’inizio di questo
capitolo (89A).
6
Le risposte di Socrate (91C-102A)

Temetti di diventare completamente cieco nell’anima,


guardando alle cose con gli occhi e cercando di rag-
giungerle con ciascuno dei sensi. Mi parve necessario
rifugiarmi nei ragionamenti e ricercare in essi la verità
degli esseri.
Fedone, 99E

La risposta di Socrate a Simmia


A partire da 91C fino a 95A, Socrate ricapitola e risponde all’obiezione
di Simmia. Possiamo dividere questa sezione in due parti. In una prima
parte (92A-C) Socrate afferma, a ragione, che la teoria dell’anima-armo-
nia è in conflitto con l’argomento della reminiscenza, che ha dimostrato
che l’anima esiste prima della sua caduta in un corpo. La constatazione
di questo conflitto conduce Simmia ad abbandonare la teoria dell’ani-
ma-armonia in favore della reminiscenza (92C-E). Nella seconda parte
(92E-95A), sebbene Simmia abbandoni la teoria dell’anima-armonia,
Socrate non rinuncia ad attaccarla violentemente. Qui Socrate presenta
due dimostrazioni tra loro “chiasticamente” intrecciate (Gallop, 1988,
p. 158; Trabattoni, 1988, pp. 58-9).
(A) 92E-93A: comincia a presentare le premesse della prima dimostra-
zione;
(B) 93A-C: presenta le premesse di una seconda dimostrazione;
(B) 93D-94B: presenta la seconda dimostrazione;
(A) 94B-95A: presenta la prima dimostrazione.

L’incompatibilità tra la teoria dell’anima-armonia


e la reminiscenza

Nella prima obiezione, Socrate spiega che l’anima-armonia è in conflit-


to con l’esistenza prenatale dell’anima perché, secondo la teoria di Sim-
78 leggere il “fedone” di platone

mia, l’armonia è una composizione di elementi, e l’anima una specie di


armonia composta di tensioni distribuite attraverso il corpo. In quanto
tale, l’anima sarà il risultato della composizione, e quindi seguirà alla
composizione degli elementi. Essa quindi non potrà pre-esistere agli ele-
menti di cui essa ha bisogno per comporsi.
L’obiezione di Socrate è ad hominem (Gallop, 1988, p. 156; Trabat-
toni, 1988, p. 56), efficace solo perché Simmia ha accettato l’argomento
della reminiscenza. Si sarebbe forse potuta trovare una maniera di salva-
re entrambe le teorie, sostenendo che lo stato di armonia (nel senso di
un equilibrio di tensioni) esisteva prima della sua applicazione a corpi
particolari (così come un’armonia musicale può applicarsi a più violini)
(cfr. Gallop, 1988, p. 156). In questo caso, però, Simmia avrebbe dovu-
to accettare l’idea che più corpi condividano un’unica anima nel modo
in cui più lire condividono un’unica armonia: teoria un po’ difficile da
accogliere, perché escluderebbe la pre-esistenza dell’anima individuale.
In ogni caso, Simmia rinuncia alla teoria dell’anima-armonia, spie-
gando anche il perché:

[Socrate:] Quale dei due ragionamenti scegli, quello secondo cui l’appren-
dimento è reminiscenza o quello secondo cui l’anima è armonia? [Simmia:]
Molto di più il primo, Socrate. Quest’ultimo, infatti, mi si è presentato senza
dimostrazione, con una certa verosimiglianza e plausibilità, ciò da cui anche
la maggior parte degli uomini trae opinione [...]. Invece il ragionamento sulla
reminiscenza e l’apprendimento fu dimostrato attraverso un’ipotesi degna di
essere accolta. Fu detto, infatti, che la nostra anima esiste così prima di entrare
in un corpo, proprio come esiste la sua essenza, che porta il nome di “ciò che
è” (92C-E).

Simmia accetta la reminiscenza e rifiuta la teoria dell’anima-armonia


in ragione del fatto che la seconda è solo verosimile e non dimostrata,
mentre la prima deriva da un’ipotesi degna di essere accettata: si tratta
dell’ipotesi dell’esistenza delle Idee e dell’affinità dell’anima con esse.
Egli accetta questa ipotesi e rifiuta la teoria dell’anima-armonia perché
l’ipotesi delle Idee è, secondo lui, più forte, mentre la teoria dell’anima-
armonia è debole. Visto in precedenza che Simmia aveva dichiarato che,
qualora non si possa ottenere la verità di fronte a certe questioni, biso-
gna accettare le teorie migliori e meno contestabili, è probabile che egli
creda che la teoria dell’esistenza dell’anima, basata su quella delle Idee e
sulla sua somiglianza a esse, sia migliore e meno contestabile della teoria
dell’anima-armonia.
le risposte di socrate 79

Malgrado il fatto che Simmia sia già convinto, Socrate non rinuncia a
confutare con ben due argomenti la teoria dell’anima-armonia.

La prima dimostrazione
contro la teoria dell’anima-armonia

Ebbene Simmia [...] ti pare che all’armonia o a qualche altro composto si addice
trovarsi in uno stato in qualche modo diverso da quello in cui si trovano gli
elementi che la compongono? – In nessun modo. – E neppure, credo, di fare
e di subire niente altro al di là di ciò che fanno o subiscono i suoi elementi? –
Dunque, all’armonia non conviene dirigere gli elementi di cui è composta, ma
seguirli (92E-93A).

Questo passo contiene due premesse e una prima conclusione:


a) un’armonia non può trovarsi in uno stato differente da quello degli
elementi che la compongono;
b) un’armonia non può fare o subire nulla di diverso da quello che fan-
no o subiscono i suoi componenti;
c) quindi, un’armonia non può dirigere in alcun modo gli elementi che
la compongono.
Per ottenere l’argomento sull’anima-armonia bisogna aggiungere
una premessa ulteriore, che si trova più tardi (94B): (a*) l’anima domina
le passioni del corpo e vi si oppone1. La conclusione sarà che l’anima
non può essere un’armonia: «E dunque, carissimo, dire che l’anima è
un’armonia non ci sta assolutamente bene» (94D-95A).
La premessa (a*) si basa sul principio che abbiamo visto all’opera
nell’argomento dell’affinità dell’anima con le Idee, secondo cui l’anima
dirige il corpo. In 94B-95A, Socrate presenta alcuni esempi che mostra-
no che l’anima si oppone alle affezioni e inclinazioni del corpo (si ha
sete, l’anima proibisce di bere; si ha fame, l’anima proibisce di mangiare;
ecc.). Le affezioni e inclinazioni sono tutte legate alla corporeità e sono
viste come fonte di conflitti tra anima e corpo («discutendo con i desi-
deri e con le ire e con le paure come se <l’anima> fosse un’estranea nei
confronti di cosa estranea», afferma Socrate in 94D).
La conclusione secondo cui l’anima non è un’armonia deve essere
specificata: bisognerà dire che l’anima non è un’armonia delle affezioni
e inclinazioni del corpo.
80 leggere il “fedone” di platone

La seconda dimostrazione
contro la teoria dell’anima-armonia

Qui si passa a un piano nettamente diverso rispetto a ciò che precede,


strettamente logico-argomentativo. L’argomento è piuttosto lungo e si
basa sulla definizione di armonia come di un qualcosa di armonizzato,
e che quindi presenta dei gradi: «Dimmi: ogni armonia non è per sua
natura armonia in quanto è armonizzata?» (93A).
L’argomento può essere schematizzato nella maniera seguente (Gal-
lop, 1988, pp. 159-64).
(1) Se un’armonia è stata più o meno armonizzata essa sarà più armonia o meno
armonia (93A11-B3).

Questa premessa stabilisce gradi di armonizzazione, forse basati sulla


perfezione dell’accordo e sull’estensione2. Socrate pensa forse a quando
si accorda uno strumento musicale (diciamo una lira)3.
(2) Un’anima non può essere più anima di un’altra (93B4-7).

Questa premessa stabilisce invece che un’anima non può avere gradi di
armonizzazione basati sulla perfezione e sull’estensione.
Socrate avrebbe potuto fermarsi qui. Se, infatti, si interpreta (1) nel
senso che ogni armonia ammette dei gradi (ciò che Socrate sembra fare
un po’ più tardi), allora (1) e (2) implicheranno la conclusione secondo
cui l’anima non è un’armonia. Inoltre, si potrebbe chiedere a “Socrate”
perché esclude che l’anima possa ammettere dei gradi. Si potrebbe invo-
care come contro-esempio la teoria aristotelica della gerarchia di anime,
considerandola in termini di gradi.
Come che sia, Socrate prosegue nella dimostrazione.
(3) Alcune anime sono buone, altre malvagie (93B8-C2).

La negazione di questa verità costituirà la reductio ad absurdum a cui


conduce la teoria dell’anima-armonia.
(4) Le anime buone contengono l’armonia (virtù), quelle malvagie la disarmo-
nia (vizio) (93C3-8).

Se si pensa che l’anima è un’armonia, si identificherà la virtù con l’armo-


nia e il vizio con la disarmonia, e in questo caso forse si dovranno accettare
le risposte di socrate 81

dei gradi di armonia anche per l’anima. La premessa (4) sembra strana: se
dico che l’anima è un’armonia, non dico che una buona anima è, o contie-
ne, un’armonia, e soprattutto non dico nulla riguardo a virtù e vizi.
Dalle premesse (1) e (2) Socrate trae la conclusione seguente:

(5) un’armonia non è più o meno armonia di un’altra (93D1-5).

Questa conclusione deriva da (1) e (2), sostituendo in (2) alla parola


“anima” la parola “armonia”, e basandosi sull’ipotesi di Simmia secondo
cui l’anima è un’armonia4.
Ora, è chiaro che (5) è problematica: in effetti, essa si configura come
una conclusione generale (su ogni armonia) a partire da una premessa
che riguarda invece solo l’anima, laddove essa si può al limite trarre solo
per l’anima. Ed è vero che l’ampliamento della conclusione a ogni armo-
nia rende problematica tutta l’argomentazione successiva.
Da (1) e (5) Socrate trae la conclusione seguente:

(6) un’armonia che non è più o meno armonia rispetto a un’altra armonia, non
sarà neppure più o meno armonizzata (93D6-8).

Questa conclusione deriva da (1) e (5) per modus tollendo tollens (A → B,


non-B, allora non-A): (i) se un’armonia è stata più o meno armonizzata
essa sarà più armonia o meno armonia [premessa (1)]; (ii) un’armonia
non è più o meno armonia di un’altra [conclusione (5)]; (iii) dunque (6):
un’armonia non è più o meno armonizzata.

(7) Ciò che non è più o meno armonizzato partecipa dell’armonia in misura
uguale (93D9-11).

Questa premessa introduce un termine nuovo (la partecipazione): essa


stabilisce che ciò che non ha gradi di armonia (di accordo ed estensione)
partecipa dell’armonia a un grado uguale.
Da (2) o da (6) deriva:

(8) un’anima non può essere più o meno armonizzata (93D12-E3).

Questa conclusione o è una ripetizione di (2) (un’anima non può essere


più anima di un’altra) o è una derivazione da (6) (un’armonia che non è
più o meno armonia rispetto a un’altra armonia, non sarà neppure più o
meno armonizzata), sostituendo “armonia” con “anima”.
82 leggere il “fedone” di platone

Da (7) e da (8) deriva:

(9) l’anima non partecipa, né più né meno, all’armonia o alla disarmonia


(93E4-6).

Questa conclusione deriva da (7) e da (8) sostituendo “armonia” con


“anima”. A partire da questo momento, la teoria dell’anima-armonia vie-
ne ridotta all’assurdo.

(10) Un’anima non partecipa più di un’altra al vizio o alla virtù (93E7-10).

Questa conclusione deriva da (9) sostituendo “disarmonia” con “vizio”


e “armonia” con “virtù” sulla base della premessa (4) (che stabilisce che
le anime buone contengono l’armonia, quelle cattive la disarmonia)5.
Prima conclusione paradossale, che deriva da (9) e (10).

(11) Un’anima, se essa è un’armonia, non può mai partecipare del vizio (94A1-7).

Seconda conclusione paradossale, che deriva da (10) e da (11) con riferi-


mento a (2) (un’anima non può essere più anima di un’altra).

(12) Tutte le anime di tutti i viventi sono ugualmente buone (94A8-11).

Ora, ci dice Socrate, quest’ultima conclusione è in conflitto con la pre-


messa (3) (che afferma che alcune anime sono buone, altre cattive), in
maniera tale che l’ipotesi dell’anima-armonia, conducendo a una con-
traddizione, deve essere scartata perché scorretta. Infatti, se si considera
l’anima come armonia e se si analizzano virtù e vizio nei termini di ar-
monia e disarmonia, si arriverà all’evidente contraddizione secondo cui
le anime non partecipano del vizio, ma sono tutte ugualmente buone.
Con ciò, la teoria dell’anima-armonia è confutata, ridotta all’assurdo.

La risposta di Socrate a Cebete


Come abbiamo visto, l’obiezione di Cebete, basata sull’analogia dell’a-
nima col vecchio tessitore e del corpo con i vestiti tessuti e portati dal
tessitore, ha il senso di una critica al fatto che finora Socrate non ha for-
nito alcuna dimostrazione della durata eterna dell’anima.
le risposte di socrate 83

Cebete richiede perciò una prova per dimostrare l’incorruttibilità,


cioè, l’immortalità dell’anima perché, a suo parere, le prove fornite da
Socrate hanno solamente dimostrato che l’anima esiste prima della sua
caduta nel corpo e che è più vigorosa e duratura del corpo (95B-D).
Prima di offrire una prova dell’incorruttibilità dell’anima, Socrate
afferma; «O Cebete, ciò che cerchi non è cosa di poco conto: bisogna
infatti in generale esaminare a fondo la causa (aitia) della generazione e
della corruzione» (95E-96A).
Per quale motivo Socrate ritiene che si debba operare questa rifles-
sione preliminare? Perché Socrate, come vedremo alla fine del dialogo,
vuole mostrare: i) che l’anima è incorruttibile, il che implica un’analisi
sulle cause o ragioni della corruttibilità delle cose; ii) che l’anima è fon-
te continua di vita per gli esseri viventi, il che implica un’analisi delle
cause o ragioni del divenire (ghenesis) degli esseri viventi. Socrate ritie-
ne che, analizzando la causa del divenire, si possa giungere a una prova
dell’immortalità dell’anima. Nello stesso tempo, tale analisi permetterà
di rispondere a Cebete, alla sua teoria dell’anima come fonte di vita, ma
presumibilmente esauribile. Contro tale teoria, Socrate vorrà mostrare
che l’anima è una fonte di vita inesauribile.
Come abbiamo visto, ghenesis in greco ha un senso completo e un
senso incompleto (Gallop, 1988, p. 170): a) nel suo senso completo ghe-
nesis significa “nascita”, “giungere all’esistenza”, “giungere alla vita”; b) nel
suo senso incompleto, ghenesis significa il processo di “divenire F”, dove
F è un attributo o una proprietà. Anche se ai fini socratici sarebbe più
importante occuparsi di ghenesis come del “venire a esistere” degli esseri
viventi (Socrate vuole infatti dimostrare l’immortalità dell’anima), di
fatto la sua analisi causale si limiterà ai casi in cui qualcosa “diviene F”,
cioè acquisisce una proprietà6.

Le cause platoniche

Si tratta di una sezione (95E-102A) di estremo interesse, sia dal punto di


vista storico (poiché essa rappresenta la prima riflessione filosofica sulle
cause), sia dal punto di vista filosofico.
La riflessione sulle cause si inserisce in un racconto autobiografico
di Socrate, che alcuni studiosi considerano autentico, altri un’invenzio-
ne7. Socrate racconta che quando era giovane si era avvicinato ai filosofi
84 leggere il “fedone” di platone

della natura (alcuni tra coloro da noi chiamati impropriamente “preso-


cratici”) per conoscere le cause di tutte le cose: «Quand’ero giovane mi
appassionai tantissimo di quella sapienza che chiamano indagine sulla
natura; infatti mi sembrava fosse magnifico conoscere le cause di ogni
cosa, perché ciascuna cosa diviene, perisce ed è» (96A).
Ma Socrate aggiunge anche che, dopo aver letto i loro libri, si ritras-
se da essi, totalmente deluso; e che cambiò metodo filosofico, proprio
perché non riusciva ad accettare quello dei filosofi della natura. In parti-
colare, Socrate ha elaborato delle spiegazioni causali meno ambiziose di
quelle dei fisici, ma più sicure.
Per seguire il percorso socratico, pare opportuno procedere nella
maniera seguente. Per prima cosa si analizzerà il vocabolario causale qui
impiegato, cioè una lista di espressioni greche utilizzate da Platone che
esprimono la relazione causale. Questo lavoro preliminare è importan-
te per comprendere ciò che Socrate intende quando utilizza il termine
aitia, che noi traduciamo con “causa”. In seguito, cercheremo di capire
in cosa consiste la delusione di Socrate di fronte alle spiegazioni causali
dei filosofi presocratici. In terzo luogo, considereremo quella che Socra-
te chiama nel Fedone la “seconda navigazione”, ossia un nuovo metodo
filosofico che vuole appunto stabilire delle cause (o spiegazioni causali)
meno ambiziose ma più sicure. Ancora una volta si tratterà delle Idee,
che questa volta vengono invocate come cause delle cose. Per finire, si
considereranno gli esempi socratici di cause o spiegazioni causali basate
sulle Idee, per vedere come Socrate pensa di risolvere i problemi che si
presentano nelle spiegazioni causali dei filosofi della natura.

Il vocabolario causale

Il sostantivo greco che viene generalmente tradotto con “causa” è aitia. Il


senso originario e primo del termine è “accusa”, “imputazione”. L’agget-
tivo corrispondente, aitios, applicato agli esseri umani, significa “respon-
sabile” o “colpevole”. Questo significato è importante per ciò che Socra-
te dirà più tardi a proposito dell’azione umana. In un senso derivato, il
sostantivo e l’aggettivo, quest’ultimo nella sua forma neutra (aition) si
applicano a una gamma di cose non umane, che hanno a che fare con
eventi o stati di cose (per esempio lo sciogliersi del burro; il divenire
grande di un essere umano). È in questo secondo senso che si ha la ten-
denza a tradurre aitia o aition con “causa”. Tuttavia, questa traduzione
le risposte di socrate 85

non è completamente esaustiva e soddisfacente (Gallop, 1988, p. 169).


Come vedremo, infatti, le domande che Socrate pone e che hanno a che
vedere con la aitia sono tutte della forma: “perché x è F?”, come in: “per-
ché Socrate è saggio?”, “perché Fedone è più grande di Socrate?”
La risposta a tali questioni è espressa in greco da formule differenti:
– la preposizione dia + accusativo;
– la preposizione dia + to (articolo determinativo neutro) + infinito,
che è un caso speciale della formula precedente;
– il dativo strumentale;
– oti (congiunzione) + una frase;
– ina (congiunzione) + una frase per le cause finali.
Queste formule hanno bisogno di traduzioni italiane differenti.
Vediamo ora alcuni degli esempi dati da Socrate (96C-E).

(i) Perché l’uomo diviene grande?

Grazie al mangiare e al bere (dia + due verbi all’infinito).

(ii) Perché l’uomo è bello?

A causa della bellezza (dativo strumentale).

(iii) Perché dieci è più grande di otto?

Perché due si aggiunge a otto (dia + una frase con verbo all’infinito, che
andrebbe tradotta letteralmente con “a causa dell’aggiungersi di due a
otto”).
Tutte queste risposte (“grazie a”, “a causa di”, “perché”) costituiscono
appunto la aitia, il “perché”. Non ci si può quindi limitare a tradurre
aitia sempre con “causa” perché non sempre questi “perché” hanno effi-
cacia causale (Vlastos, 1969, p. 295). Il senso di aitia sembra più generale
di quello di causa (ibid.) e, a seconda del contesto, bisognerà piuttosto
utilizzare i termini “spiegazione” o “ragione”. Infatti, dai moderni in poi,
incluso Hume (che lo critica), il concetto di causa è piuttosto quello di
una cosa che opera, svolge un’attività, che ha un effetto su un’altra cosa.
Un esempio è quello della mia mano, che è causa del muoversi della palla
(a cui essa imprime un movimento). Invece la causalità antica (e qui ci si
riferisce non solo a Platone, ma anche ad Aristotele) si identifica piutto-
sto con il “perché una cosa è o diventa F”, perché ha o assume la proprietà
86 leggere il “fedone” di platone

di essere F. Vedremo più avanti che però in Platone fa capolino anche un


senso moderno di causa: dirà infatti che le Idee “fanno sì” che una cosa
sia F (per esempio, l’idea di Bello fa sì che una cosa sia bella). In questo
caso saremmo in presenza di un esempio di attività.

La delusione di Socrate

La delusione di Socrate riguarda due tipi di spiegazione forniti dai filo-


sofi della natura: (a) le spiegazioni materialistiche di “divenire F” (dive-
nire grande, divenire bello ecc.); (b) le spiegazioni delle azioni umane.
Socrate fornisce esempi di spiegazioni che pensava di conoscere ma
che non sa più (a):

Io, infatti, in precedenza avevo conoscenza di alcune cose chiaramente, alme-


no per quanto sembrava a me e agli altri, ma poi, a partire da questa indagine,
divenni completamente cieco, cosicché disimparai anche quelle cose che prima
pensavo di sapere, intorno ad altre questioni e perché l’uomo cresca. Prima in-
fatti credevo che fosse chiaro a tutti che è grazie al mangiare e al bere. [...] E
considera anche questo. Pensavo, infatti, di avere un’opinione adeguata: quan-
do un uomo grande, posto accanto a uno piccolo, pareva essere più grande della
testa [...] e ancora, per darti esempi più evidenti: mi sembrava che dieci fosse più
di otto per avere l’aggiunta di due, e che il bicubito fosse maggiore del cubito
perché lo supera della metà (96C-E).

Ecco allora gli esempi di spiegazione “causale” che Socrate pensava di


sapere.

1) Perché l’uomo diviene grande?

L’uomo diviene grande grazie al mangiare e al bere. Qui Socrate sem-


bra riprendere la teoria presocratica secondo la quale il nutrimento fa sì
che carne si aggiunga alla carne e ossa alle ossa. In generale i presocratici
(o, meglio, i filosofi della natura) vedevano il processo di accrescimento
come un’aggiunta di elementi appropriati agli elementi del corpo8.

2) Perché x è più grande di y?

X è più grande di y «della testa» (qui la testa è presa come misura, ed


essa non è invocata per rispondere alla domanda “di quanto x è più gran-
le risposte di socrate 87

de di y?”, bensì “perché x è più grande di y?”. La risposta è naturalmente


assurda; cfr. Decleva Caizzi, 1987, p. 106; Gallop, 1988, p. 172. È vero che
ci sono dei “dativi causali”, ma questo non è uno di quelli).

3) Perché dieci è più grande di otto?

Dieci è (o diviene) più grande di otto perché due si aggiunge a otto.

4) Il bicubito è più grande del cubito9 perché lo supera della metà.

Aggiungiamo ancora un esempio che Socrate presenterà più tardi


(100B-C), ma che è importante nel seguito:

5) Perché x è bello?

X è bello a causa del suo colore (o della sua forma).


Socrate afferma che, ora come ora, egli non conosce più l’aitia di
tutto ciò (96E-97B). Qual è il problema di Socrate in rapporto a tutti
questi esempi? In generale, possiamo osservare che Socrate trova proble-
matica la spiegazione standard del divenire e dell’accrescersi in termini
di aggregazione. Socrate prende questi esempi come esempi della forma

x diviene (o è diventato) F (o più F di y) a causa di...

Questo è sicuramente chiaro nel primo esempio, quello dell’uomo che


diventa grande; ma la critica di Socrate si estende a tutti gli altri. In 97A
egli si domanda, per esempio, come sia possibile che la causa dell’“essere
diventato due” sia l’addizione; e si dichiara incapace di conoscere la cau-
sa del “divenire uno” (97B).
In tutti gli esempi, dunque, avremo che: (1) l’uomo diviene grande a
causa del mangiare; (2) x diviene più grande di y a causa di una testa; (3)
dieci diviene più grande di otto a causa dell’aggiunta di due; ecc.
Vediamo ora i problemi che Socrate solleva a proposito di tali spiega-
zioni, che hanno tutte a che fare con il diventare grande. Innanzitutto,
Socrate non accetta il punto di vista secondo cui, quando una cosa è
aggiunta a un’altra cosa, o la cosa aggiunta, o la cosa alla quale si aggiun-
ge, o tutte e due, sono diventate due a causa (dia) dell’aggiunta dell’una
all’altra. Se aggiungo un’unità a un’unità, si chiede Socrate, che cos’è
che diviene due? L’unità di partenza? L’unità aggiunta? Tutte e due?
88 leggere il “fedone” di platone

Poiché, infatti, ciascuna unità di partenza era un’unità, sembrerebbe che


la causa (aitia) del loro “essere diventate due” sia il loro accostamento
fisico. Socrate, insomma, solleva un problema specifico per i predicati
numerici: se io considero mia madre (che sta a Milano) e me (che sono
qui a Bergamo) e dico: “io e mia madre siamo due donne”, questo è vero
anche se io e mia madre non abbiamo al momento alcuna vicinanza fi-
sica. Io non posso divenire due, mia madre non può divenire due: solo
se siamo prese insieme siamo due, e questo sempre. Insomma, i predicati
numerici si sottraggono al divenire: io e mia madre saremo sempre due,
non è che lo diventiamo. Essi, quindi, non sembrano essere il tipo di
predicato che una cosa possa acquisire.
Consideriamo ora, ci dice Socrate, la frammentazione di una cosa:
spezzo un bastone, i bastoni diventano due. Ora, la causa del divenire
due è opposta alla precedente: prima era l’accostarsi, ora il separarsi!
Socrate ritiene problematica l’idea che due processi opposti (addizione
e divisione) siano spiegazioni causali della stessa cosa, nella fattispecie
del “divenire due”. Ciò implica che per Socrate due processi opposti
non possano essere causa di uno stesso risultato, cioè non possano es-
sere responsabili del “divenire F” di una cosa. Ritorneremo su questo
punto, che rappresenta una delle condizioni necessarie perché qualche
cosa funzioni come causa.
È interessante notare che le critiche di Socrate sembrano funzionare
solo per gli esempi numerici; per ciò che riguarda gli altri esempi, egli si
limiterà a dire di non capire per nessuna cosa «per quale causa si generi
o perisca o esista, secondo questo metodo di indagine» (97B).
Socrate fornisce anche un celebre esempio di spiegazione finalisti-
ca concernente le azioni umane (b). Un giorno – egli racconta – sentì
qualcuno leggere il libro di Anassagora, che sembrava presentare come
“causa” dell’universo l’Intelligenza, il Nous10. Socrate ne fu contento poi-
ché pensò di aver trovato una spiegazione dell’universo che si configura
come una causa ordinatrice e universale, che agisce per il meglio. In effet-
ti, Socrate pensava che se la causa è intelligente, allora progetta e realizza
il mondo secondo la scelta del meglio, cioè secondo la miglior maniera
per una cosa di esistere, di divenire, di perire. Purtroppo però, Socra-
te rimase deluso anche da Anassagora: anche se il filosofo presocratico
sembrava invocare una causa intelligente per spiegare l’universo, di fatto
si rifaceva ancora, nell’effettiva spiegazione dei fenomeni, a cose fisiche
come l’etere, l’acqua ecc., cioè a cose materiali:
le risposte di socrate 89

Da meravigliosa speranza, amico mio, me ne andavo trascinato via, poiché


procedendo nella lettura vedo un uomo che non utilizza affatto l’Intelletto né
gli assegna alcuna responsabilità causale per l’ordine dato alle cose, ma adduce
come causa l’aria, l’etere, l’acqua, e molte altre cose assurde (98B).

Ecco allora l’esempio che Socrate presenta per spiegare l’assurdità di


queste spiegazioni:

Mi sembrava che si fosse verificato un caso similissimo a quello di chi dicesse


che Socrate fa tutto quello che fa con l’intelletto, ma che poi, cominciando a
menzionare le cause (aitiai) di ciascuna cosa che faccio, dicesse prima di tutto
che ora mi trovo qui seduto per questo (dia tauta), cioè perché il mio corpo è
composto di ossa e nervi, e perché le ossa sono dure ma hanno articolazioni che
le separano reciprocamente, e perché i nervi sono capaci di tendersi e allentar-
si [...] trascurando di menzionare le vere cause (aitiai), e cioè che, poiché gli
Ateniesi hanno creduto che fosse meglio condannarmi, per questo (dia tauta)
anche a me è sembrato meglio stare qui seduto, e che fosse più giusto rimanere
e sottomettermi alla pena che richiedono (98C-E).

La spiegazione materialistica del fatto che Socrate si trovi in prigione e


che, malgrado il suo riferimento all’intelligenza ordinatrice, vale anche
per Anassagora, è la seguente: Socrate si trova in prigione a causa delle
sue ossa, dei suoi muscoli, delle sue articolazioni che gli permettono di
piegarsi e dunque di essere seduto qui in prigione. Si noti nel passo l’i-
dentificazione tra “causa” (aitia) e “perché” (dia tauta): io mi trovo qui
seduto per questo... (segue l’elenco di ossa, tendini, muscoli).
Ma per Socrate le cose non stanno in questo modo, perché le stesse
ossa, gli stessi muscoli e tendini avrebbero ugualmente potuto portarlo
lontano da Atene, in un posto sicuro. Piuttosto, ci dice Socrate, egli si
trova in prigione perché gli Ateniesi hanno ritenuto fosse meglio con-
dannarlo, e perché egli ha ritenuto fosse meglio sottomettersi alla puni-
zione da loro stabilita.
In seguito, Socrate opera una distinzione tra causa e condicio sine qua
non che avrà molta fortuna nella filosofia successiva:

Chiamare cause cose di questo genere è assurdo. Se qualcuno dicesse che, senza
avere queste cose, ossa, nervi, e tutto quello che ho, non sarei capace di fare le cose
che mi sembra di dover fare, direbbe la verità; ma dire che esse sono il “per questo”
(dia tauta) faccio ciò che faccio, e che le faccio con l’intelletto, ma non scegliendo
il meglio, significherebbe molta e vasta trascuratezza nel parlare (99A-B).
90 leggere il “fedone” di platone

Socrate riconosce che le condizioni fisiche sono necessarie perché la


“causa” ottenga un determinato scopo; tuttavia, esse non sono le vere
cause. Quindi, per Socrate, bisogna fare un’accurata distinzione tra: ciò
che è realmente causa e ciò senza cui la causa non sarebbe tale11. In defi-
nitiva, Socrate accusa i predecessori di aver fatto confusione tra le con-
dizioni per le quali una causa è causa, e la vera causa.
In ogni caso, Socrate abbandona la spiegazione meccanicista perché
poco soddisfacente, quando non contraddittoria; e abbandona anche
la spiegazione finalistica di Anassagora (su cui non ritornerà più), forse
perché troppo difficile12.
Per riassumere, Socrate presenta una serie di esempi di spiegazioni
causali standard problematici (e a volte un po’ bizzarri), che lo condu-
cono ad abbandonare il metodo (che possiamo chiamare materialista)
che produce questo tipo di spiegazioni. Gli esempi, come abbiamo visto,
sono: (i) dieci è diventato più grande di otto; (ii) Socrate è (diventato)
prigioniero; (iii) x è diventato bello; (iv) x è (diventato) più grande di y.
Abbiamo già considerato i problemi sollevati da Socrate in relazio-
ne ai predicati numerici, e quello in relazione al perché egli si trova in
prigione. In particolare, il rifiuto di accettare che due processi opposti
(addizione e divisione) producano lo stesso effetto conduce a elaborare
una condizione importante che caratterizza un’entità come causa: (1)
due opposti non possono mai produrre lo stesso effetto.
Socrate esclude dei casi di questo tipo perché li ritiene contradditto-
ri: egli non spiega perché, e suggerisce così un primo criterio per identi-
ficare una causa, anche se poco persuasivo, dal momento che certamen-
te due eventi opposti (per esempio, il grande caldo o il grande freddo)
possono essere causa di uno stesso effetto (la morte dei miei alberi da
frutto).
Il problema sollevato dall’esempio (iii) (perché x è bello?) è il se-
guente: le spiegazioni standard sono poco sicure, perché si potrà obiet-
tare che per esempio lo stesso colore che rende x bello, si trova anche in
y che invece è brutto.
Infine, ecco i problemi che riguardano (iv) (perché x è più grande di
y?). La spiegazione standard (nell’esempio di Socrate), che afferma che x
è più grande di y «per la testa», ne solleva in effetti due:

Se tu affermassi che è per la testa che una cosa è più grande e un’altra più picco-
la, temeresti, credo, che ti obiettassero prima di tutto che è a causa di una stessa
cosa che il più grande è più grande e il più piccolo, piccolo; e poi, che il più
le risposte di socrate 91

grande è più grande per la testa, che è piccola; e questo è prodigioso, che una
cosa sia grande a causa di ciò che è piccolo (101A-B).

Se si afferma che è «per la testa» che una cosa è più grande e l’altra
piccola, si obietterà che è in ragione di una stessa cosa che il più grande
è più grande e il più piccolo, piccolo. Il punto della critica è che “una
testa” non può essere la ragione del grande (o del più grande) perché essa
può essere anche la ragione del piccolo (o più piccolo). In questo modo,
Socrate arriva a elaborare un’altra condizione che caratterizza una cosa
come causa: (2) una stessa causa non può produrre due effetti opposti.
Se si afferma che è «per la testa» che una cosa è grande, si obietterà
che sarà grazie a una cosa piccola (la testa) che una cosa sarà grande. Il
punto della critica è che se ciò che è causa dell’essere F (esempio: grande)
di x è esso stesso G (piccolo), allora F e G non saranno contrari13. Vie-
ne qui solo suggerita una terza condizione necessaria perché qualcosa
funzioni come causa: (3) ciò che funge da causa deve possedere la stessa
proprietà che trasmette all’oggetto che subisce l’effetto.

La seconda navigazione: le Idee come vere cause

Poiché rimasi privo di quella causa, e non fui capace né di trovarla da me né di


apprenderla da altri, vuoi tu, Cebete, che io ti faccia un’esposizione di come ho
condotto la mia seconda navigazione alla ricerca di essa? (99C-D).

L’immagine della “seconda navigazione” suggerisce il ricorso ai remi


quando il vento cade e non gonfia più le vele14. Socrate abbandona le
spiegazioni causali degli altri filosofi (troppo ambiziose o troppo diffi-
cili, e spesso contraddittorie) per ri-iniziare la ricerca delle spiegazioni
causali in termini più modesti (con i remi) ma più sicuri. La seconda na-
vigazione conduce Socrate a ricorrere, per la terza volta, alla teoria delle
Idee come soluzione esplicativa sia degli esempi visti in precedenza, sia
di qualunque esempio esplicativo che vuole rispondere alla domanda:
“perché x è (o diviene) F?”.

Mi mossi per questa via: ponendo in ciascun caso come ipotesi l’affermazio-
ne che ritenevo più solida, le cose che mi sembrava si accordassero con essa, le
consideravo come vere, sia rispetto alle cause che a tutte le altre cose; quelle che
invece non si accordavano, le consideravo come non vere (100A)15.
92 leggere il “fedone” di platone

Precedentemente, Socrate aveva dichiarato di abbandonare la consi-


derazione delle cose esistenti per rifugiarsi nei ragionamenti (logoi),
in cui trovare la verità degli enti (99E). Questa affermazione è di ca-
pitale importanza perché con essa Platone, situandosi come discepolo
di Parmenide, teorizza un allontanamento dalla conoscenza sensibile
(che Kant qualificherà di a posteriori) per rifugiarsi in una conoscenza
razionale che, prescindendo totalmente dalla percezione, verrà quali-
ficata di a priori. Che cosa Socrate prospetta nel passo in analisi? Per
comprenderlo, si deve considerare l’esempio che propone per illustrare
la sua teoria:

Ponendo come ipotesi che esiste un Bello in sé e per sé, un Buono, un Grande, e
così per tutte le altre cose [...] esamina ora ciò che consegue (ta exes)16 dall’am-
mettere quelle realtà, se anche a te pare lo stesso che a me. Infatti, a me sembra
che, se vi è una cosa bella al di fuori del Bello in sé, per nessun’altra cosa è bella
se non perché (dioti) partecipa del Bello; e così dico per ogni cosa. Concedi
questa causa? (100B-C).

Ecco quindi un’applicazione del metodo proposto da Socrate: i) si pone


come ipotesi che esista un Bello in sé; ii) si esamina ciò che ne consegue:
Socrate infatti afferma che, se esiste qualcosa di bello, a parte il Bello
in sé, esso è tale perché partecipa di quel Bello in sé. Questa risposta,
osserva Socrate, è la risposta più sicura (100D: asphalestaton) che si può
fornire alle questioni causali.
L’ipotesi che Socrate adotta per le spiegazioni causali contempla un
duplice passaggio: 1. l’F (il Bello, il Giusto, il Buono, il Grande ecc.)
esiste; 2. le cose particolari che sono F, sono F perché partecipano dell’F
in sé.
La teoria delle Idee funziona come soluzione esplicativa sicura sia per
gli esempi visti, sia per qualunque risposta a una domanda della forma

perché x è (o diviene) F?

Se consideriamo gli esempi esplicativi che avevano sollevato delle aporie,


vediamo che, con la soluzione socratica, questi problemi non si presen-
tano più: (i) x è (o diviene, o è divenuto) più grande di y a causa della
grandezza (= perché partecipa del Grande in sé); (ii) due è (o diviene, o
è divenuto) più grande di uno a causa del Grande in sé; (iii) x è bello a
causa del Bello in sé (= perché partecipa del Bello in sé).
le risposte di socrate 93

È importante sottolineare che la natura della relazione tra la cosa che


è F e l’F in sé non è da Socrate specificata: egli parla di “partecipare”, di
“presenza” e di “comunanza”, dichiarando esplicitamente di non voler in-
sistere su questo punto (100D). Socrate non affronta una questione che
però sarebbe fondamentale. In effetti, la domanda che sorge spontanea
è la seguente: se le Idee esistono in modo separato, in un altro universo,
com’è possibile che esse facciano sì che qualche cosa sia F? Questa sarà una
delle critiche che Aristotele farà alle Idee nel libro Alpha della Metafisica.
Un altro aspetto da sottolineare è che, nella teoria di Socrate, l’idea
F è causa non solo del diventare F delle cose, ma anche del diventare più
F delle cose (100E: «non è dunque a causa della grandezza che le cose
grandi sono grandi, e quelle più grandi, più grandi?»).
Sulla base dell’ipotesi adottata, Socrate individua delle spiegazioni
causali, in accordo con l’ipotesi, che verranno considerate come vere, e
delle spiegazioni causali in disaccordo con le ipotesi, che saranno giudi-
cate false. In pratica, per Socrate ogni spiegazione della forma

x è F a causa di G <dove F non si identifica con G>

sarà in disaccordo con l’ipotesi e quindi verrà considerata poco sicura,


o nel senso che sarà sempre possibile produrre delle obiezioni (come nel
caso dell’esempio “questo quadro è bello a causa del suo colore”), o nel
senso che si potranno rilevare delle contraddizioni (come nell’esempio
della testa).
Invece, le spiegazioni della forma

x è F a causa dell’F in sé

saranno in accordo con l’ipotesi e vere (sicure), anche se poco informa-


tive. Poco informative ma “ontologicamente” sicure, perché si basano
sull’esistenza delle Idee.
L’idea quindi funziona come causa, in quanto soddisferebbe le tre
condizioni imposte da Socrate per isolare una vera causa:
1) due Idee opposte (per esempio, il Grande in sé e il Piccolo in sé) non
possono mai “produrre” lo stesso effetto in una cosa (per esempio, solo
la Grandezza è causa dell’essere grande di una cosa);
2) una stessa idea F (per esempio, il Bello in sé) non può mai “produrre”
effetti opposti (per esempio, la Bellezza può solo produrre l’essere bello
di una cosa, non può produrre il suo essere brutto);
94 leggere il “fedone” di platone

3) l’idea che funge da causa deve possedere la stessa proprietà che tra-
smette (il Bello in sé è esso stesso bello, e non può mai essere brutto)17.
Sarà l’ultima condizione a risultare fondamentale per la dimostrazio-
ne finale del Fedone. Alla fine del passo in analisi, Socrate ritorna sul me-
todo ipotetico che ha presentato in contrapposizione a quello dei natu-
ralisti. Egli raccomanda a Cebete di attenersi a questa ipotesi sicura ogni
volta che sarà obbligato a rispondere a domande della forma “perché x è
F?”, cioè perché x possiede una determinata proprietà.
Un esempio di ipotesi è, come si è visto: (i) l’F in sé (il Bello, il Gran-
de ecc.) esiste; (ii) le cose particolari (sensibili) <che sono F> sono F
perché partecipano dell’F in sé.
Cebete sarà in accordo con questa ipotesi ogni volta che fornirà delle
risposte della forma

x è F a causa dell’F in sé

e sarà in disaccordo (ricadendo nell’insicurezza) ogni volta che egli for-


nirà delle risposte della forma

x è F a causa di G <dove F non si identifica con G>.

Socrate aggiunge che risposte di questo tipo saranno in accordo con l’i-
potesi anche a dispetto di eventuali obiezioni: «Se qualcuno volesse at-
tenersi all’ipotesi stessa, non lo lasceresti perdere e non gli risponderesti
fino a quando non avrai esaminato se le cose che ne risultano si accordi-
no o non si accordino tra loro?» (101D).
Forse Socrate pensa qui ai sofisti. In effetti, abbiamo visto nel passo
che precede immediatamente le risposte di Socrate a Simmia e Cebete
(89D-90C), che bisogna guardarsi da coloro che passano il loro tempo
a mettere a punto dei discorsi contraddittori, che rischiano di condurre
quelli che li ascoltano alla misologia, cioè all’odio per i discorsi. Sono i
sofisti che esercitano l’antilogia (l’arte dei discorsi contraddittori) e l’e-
ristica (l’arte che si limita a fornire dei mezzi e degli strumenti per otte-
nere la vittoria in un contraddittorio, senza alcun interesse per la verità).
Per quel che riguarda l’antilogia (menzionata nuovamente da Socrate in
101E), in maniera generale essa fa apparire la stessa cosa alle stesse per-
sone come dotata di predicati opposti o addirittura contraddittori. Più
precisamente, si tratta di un metodo argomentativo che, partendo da
una determinata proposizione, per esempio la posizione dell’avversario,
le risposte di socrate 95

cerca di stabilire una proposizione opposta e contraddittoria, in manie-


ra tale che l’avversario sia obbligato o ad accettare allo stesso tempo le
due proposizioni, contraddicendosi, oppure ad abbandonare quella di
partenza (Brisson, 1997, pp. 107-8). L’accusa è che l’antilogia si nascon-
de dietro al sensibile (che per Socrate è effettivamente contraddittorio),
mentre la dialettica (il metodo platonico di cui stiamo vedendo una pri-
ma concettualizzazione) si interessa alle Idee, che invece, come abbiamo
visto, possiedono caratteristiche stabili e mai contraddittorie. Di fronte
quindi alle eventuali obiezioni dei sofisti, Socrate incoraggia Cebete a
non cedere alle loro provocazioni, ma a restare fedele all’ipotesi delle
Idee analizzandone le conseguenze.
Socrate, poi, compie un passaggio finale:

Qualora ci fosse bisogno di render ragione della stessa ipotesi, non ne daresti
conto allo stesso modo, ponendo ancora una volta come fondamento un’altra
ipotesi, quella che ti sembrasse la migliore tra quelle che sono in alto, fino a che
tu giungessi a qualcosa di sufficiente? (101D-E).

Il senso più naturale della formula «render ragione della stessa ipotesi»
è “dare una giustificazione all’ipotesi di partenza”. In effetti, quando si
assume una proposizione come ipotesi, ci si preoccupa che essa sia la più
forte. Socrate ora sembra pensare a qualcuno che potrebbe presentare la
seguente obiezione: “siamo d’accordo, la conclusione segue dall’ipote-
si; ma come stabilire che l’ipotesi è vera?”. L’obiezione è comprensibile
perché, in effetti, non sembra sufficiente adottare un’ipotesi ad hoc solo
perché essa produce la conclusione desiderata. Socrate afferma: «tu, Ce-
bete, darai conto dell’ipotesi agendo esattamente nella stessa maniera».
Questo sembra voler dire, dando una nuova ipotesi, che a sua volta ri-
chiede una nuova ipotesi: ipotesi → ipotesi → conclusione.
Ci sarebbe quindi una sorta di percorso a ritroso che, di ipotesi in
ipotesi, giunga a un’ipotesi ultima, “sufficiente” o “soddisfacente”. Il
problema è però rappresentato dall’ipotesi sicura che Socrate considera
fin dall’inizio, quella secondo cui le cose F sono F perché partecipano
dell’idea F (che esiste).
Questa ipotesi aveva come conclusioni le sue applicazioni nel mondo
sensibile: x è bello a causa della Bellezza; x è grande a causa della Gran-
dezza; ecc.
In che modo, quindi, pensare a una nuova ipotesi che dia una giu-
stificazione all’ipotesi delle Idee nello stesso modo in cui l’ipotesi delle
96 leggere il “fedone” di platone

Idee giustifica le spiegazioni causali viste? La difficoltà è aumentata da


un’altra oscurità presente nel testo, cioè la frase «fino a che tu giungessi
a qualcosa di sufficiente». Socrate vuol forse dire “fino a che tu arrivassi
a una proposizione soddisfacente”, cioè a un assioma? Egli afferma, in-
fatti: «porrai come ipotesi un’altra ipotesi, scegliendo tra quelle che si
trovano in alto quella che ti parrà la migliore» (101D7).
Queste ultime parole suggeriscono una scala ascendente verso l’alto,
quindi, di ipotesi in ipotesi, fino ad arrivare a un punto di partenza che
non sia più un’ipotesi, ma un fondamento a partire dal quale dedurre le
ipotesi successive (che quindi, contrariamente a quello che si potrebbe
ricavare dal linguaggio impiegato in questo passo, non saranno di fatto
ipotesi ma promesse).
Ora, questo percorso è proprio ciò che verrà messo in atto nella Re-
pubblica (510B-511B), dove si parla del percorso a ritroso della dialetti-
ca, che giunge nella sua fase ascendente (in seguito si discenderà, cioè si
opereranno dimostrazioni) a un “principio anipotetico” (cioè, appunto,
non ipotetico), che sarà identificato con l’Idea del Bene, che è suprema e
si trova a fondamento delle altre Idee.
7
La prova finale dell’immortalità dell’anima
(102A-107B)

Non riesco a persuadere Critone che io sono questo


Socrate che ora sta discutendo e ordinando ciascuna
delle cose dette, invece egli crede che io sia quello che
tra poco sarà cadavere.
Fedone, 115C

Subito dopo la presentazione dell’ipotesi delle Idee, Echecrate interrom-


pe il racconto di Fedone (102A), commentando ammirato la chiarezza
espositiva di Socrate. In seguito, egli domanda a Fedone di continuare
la narrazione: ed è a questo punto che viene presentata l’ultima prova,
destinata finalmente a dimostrare che l’anima è immortale e imperitura.
Essa è preceduta da una celebre distinzione, che avrà molta fortuna nella
filosofia successiva.

Proprietà essenziali e proprietà accidentali


[Fedone:] Quando gli fu concesso questo, e si fu d’accordo che ciascuna delle
Idee è qualche cosa, e che le altre cose, che di esse partecipano, prendono il
loro nome, Socrate dopo di ciò domandò: se la pensi così, quando affermi che
Simmia è più grande di Socrate e più piccolo di Fedone, non dici forse che in
Simmia si trovano entrambe le cose, la grandezza e la piccolezza? (102A-B).

Socrate e i suoi interlocutori ribadiscono l’esistenza delle Idee e il fatto


che le cose particolari, partecipando di esse, prendono anche il nome
dell’idea in questione1. Ciò significa che Simmia, per esempio, assume il
nome di “grande” (tradotto in termini più usuali: “grande” si predica di
Simmia) nel momento in cui partecipa all’idea di Grandezza.
Sulla base di questo accordo, Socrate inizia l’ultima dimostrazione,
partendo da un esempio che si collega ad alcuni esempi “causali” visti in
precedenza, e che sembra presentare una contraddizione.
98 leggere il “fedone” di platone

Consideriamo l’esempio

Simmia è più grande di Socrate e più piccolo di Fedone.

Secondo questo esempio, in Simmia si troverebbero due proprietà con-


trarie, la grandezza e la piccolezza.

Ma in realtà – disse – sei d’accordo che dire che Simmia è più grande di Socrate
non è vero così come viene espresso nelle parole? E che Simmia non è più gran-
de per sua natura, per il fatto di essere Simmia, ma per la grandezza che si trova
ad avere? Né che è più grande di Socrate perché questi è Socrate, ma perché
Socrate ha la piccolezza rispetto alla sua grandezza? (102B-C).

Il punto è che Socrate vuole presentare una distinzione, che diverrà capi-
tale, tra due tipi di proprietà: (1) le proprietà essenziali (cioè, le proprietà
che appartengono a un oggetto per natura, e che questo oggetto non
smette mai di possedere), e (2) quelle che saranno chiamate proprietà
accidentali (cioè le proprietà che “capitano”2 all’oggetto, e che possono
tuttavia mancare all’oggetto, senza che per questo esso cessi di essere sé
stesso). Vale la pena però di osservare che non ci sono proprietà essenzia-
li/accidentali tout court: essere essenziale/accidentale è una relazione tra
una proprietà e un oggetto (o, sul piano linguistico, tra un predicato e un
soggetto), cosicché una proprietà, come ad esempio il calore, è essenziale
a una cosa (il fuoco) e accidentale per un’altra cosa (il forno).
Nel caso in oggetto, “Simmia è più grande di Socrate” è una predica-
zione accidentale, perché Simmia è più grande relativamente a Socrate,
ma non necessariamente ed essenzialmente.
Invece, “Simmia è uomo” è una predicazione essenziale: “uomo” ap-
partiene a Socrate essenzialmente, nel senso che se egli non avesse tale
proprietà non sarebbe Socrate.
Le predicazioni accidentali sono di vario tipo, ma qui Socrate con-
sidera quelle relazionali. Nell’esempio dato, Simmia “supera” Socrate
(così in realtà si esprime Socrate) non a causa del suo essere Simmia,
ma a causa di una proprietà che si trova ad avere accidentalmente, cioè
la grandezza; ugualmente, che Simmia “sia superato” da Fedone non di-
pende dal fatto che Fedone è Fedone, ma dal fatto che Fedone possiede
(accidentalmente) la grandezza rispetto alla piccolezza (accidentale) di
Simmia3.
la prova finale dell’immortalità dell’anima 99

Una prima formulazione


della legge di non contraddizione
Socrate quindi, nel caso in analisi, tratta un predicato relazionale come
un predicato accidentale, che Simmia possiede solo nel momento in cui
viene paragonato a Socrate e/o a Fedone. Nell’esempio, però, ciò che
risulta importante è il fatto che la presenza di predicati relazionali quali
“x è più grande di y e più piccolo di z” sembra sollevare il problema della
compresenza di proprietà opposte nello stesso soggetto.
Nell’esempio

Simmia possiede la piccolezza e la grandezza

la compresenza degli opposti è significativa, poiché nel seguito del testo


si argomenterà che la Grandezza in sé, a differenza di Simmia, non potrà
mai «essere grande e piccola allo stesso tempo» (102D).
Immediatamente dopo il passo ora analizzato, Socrate fa un’osserva-
zione che prospetta già la soluzione del problema: «Così, dunque, Sim-
mia, trovandosi in mezzo a entrambi, ha nome di esser piccolo e gran-
de; sottoponendo all’uno la piccolezza perché la superi in grandezza, e
all’altro la grandezza che supera la piccolezza» (102C-D).
Simmia possiede queste due proprietà opposte, ma in relazione a due
cose differenti. Questo, infatti, significa sottomettere la sua piccolezza
alla grandezza di Fedone (per essere superato) e la sua grandezza alla
piccolezza di Socrate (per superarlo). In compenso, Socrate non accetta
che la mia grandezza (o, come egli dirà, la grandezza in me) sia piccola,
dal momento che la Grandezza tout court non lo è mai. È ciò che emer-
ge nel seguito del passo, quando Socrate argomenta che le Idee opposte
non possono essere caratterizzate dai loro opposti:

Parlo così perché voglio che tu condivida la mia opinione. A me pare, infatti,
non solo che la Grandezza in sé non voglia mai essere contemporaneamente
grande e piccola, ma che anche la grandezza in noi non voglia mai accogliere la
piccolezza né esserne superata; ma, delle due cose l’una: o fugge e cede il posto,
qualora il suo contrario, la piccolezza, le si avvicini, oppure, al sopraggiungere
di quella, si distrugge (102D-103A).

Socrate osserva che ciò che accade alla Grandezza in sé capita anche alla
grandezza in noi: essa non accoglierà mai in sé stessa il piccolo. Due
100 leggere il “fedone” di platone

sono le possibilità che possono realizzarsi: (i) o la grandezza fugge e cede


il posto quando la piccolezza le si avvicina; (ii) oppure la grandezza peri-
sce quando la piccolezza sopraggiunge.
Due questioni si pongono: (1) qual è il senso di questa alternativa
(fuggire/perire)? (2) Qual è la differenza tra “Grandezza in sé” e “gran-
dezza in noi?”.
Una spiegazione plausibile di (1) potrebbe essere la seguente, conside-
rando però, per iniziare, non l’esempio della coppia Grandezza/Picco-
lezza (che presenta problemi intrinseci e non pertinenti), ma l’esempio:

Socrate è pallido; il sole brilla; “sopraggiunge” l’abbronzatura.

Quel che succede è che il pallore fugge, si ritira, perisce4.

L’idea della Grandezza (o della Piccolezza) è per Socrate distinta dal-


la grandezza in noi (2). Alcuni studiosi credono che qui venga opera-
ta una distinzione tra “idee immanenti” e “idee in senso proprio”, che
avrebbero uno statuto ontologicamente diverso: da una parte ci sarebbe
la “Grandezza in sé”, dall’altra la “Grandezza immanente” in noi5. Una
spiegazione più semplice è la seguente: non è solo l’Idea di Grandezza
a non accettare il suo opposto, la Piccolezza; anche la mia grandezza
(in quanto partecipa dell’idea) non può essere piccola6. La grandezza
di Simmia non è piccola: Simmia è più grande in relazione a Socrate e
meno grande (cioè piccolo) in relazione a Fedone, cioè in relazione a due
cose differenti. Ma Simmia non può essere grande e piccolo (o più gran-
de e più piccolo) in relazione a una stessa cosa (per esempio, a Socrate).
In tal senso, quindi, la grandezza di Simmia non può accettare il suo op-
posto, la piccolezza: se la piccolezza si fa avanti, la grandezza di Simmia
fugge oppure perisce. Possiamo anche pensare a un cambiamento nello
stesso oggetto, senza coinvolgere i predicati relazionali: Socrate diviene
più grande, la sua piccolezza perisce7.
A questo punto del dialogo qualcuno, non viene detto chi, solleva
un’obiezione:

Per gli dei, ma nei nostri ragionamenti precedenti non ci eravamo trovati d’ac-
cordo proprio sul contrario di quello che si dice ora, cioè che, a partire dal più
piccolo proviene il più grande e dal più grande il più piccolo, e che questo è il
divenire per i contrari, a partire dai loro contrari? (103A).
la prova finale dell’immortalità dell’anima 101

L’obiezione è rivolta al principio, enunciato or ora da Socrate, secon-


do cui un opposto F non può mai divenire G (la grandezza non può
mai diventare piccola). Esso, però, sembrerebbe in contrasto con l’altro
principio, quello degli opposti, enunciato da Socrate a proposito della
prima prova, l’argomento ciclico, secondo cui i contrari non derivano
(ghignetai) da null’altro se non dai loro contrari8. Di fatto Socrate risol-
ve subito l’apparente contraddizione, spiegando che questa obiezione si
basa su un fraintendimento, che d’altra parte rivela anche l’ambiguità
insita in espressioni come “il grande”, “il piccolo” ecc. Tale espressione
può in effetti significare sia “ciò che è grande”, la cosa grande, sia “la pro-
prietà della grandezza”.
Nel primo caso, “ciò che è grande” può diventare piccolo: la stessa
cosa, cioè, può accogliere due proprietà contrarie, anche se non allo stes-
so tempo, sotto il medesimo rispetto ecc.; è l’esempio di Simmia grande
e piccolo, o dell’anima viva e morta. Nel secondo caso, invece, il gran-
de non può assolutamente mai divenire piccolo, cioè la proprietà della
grandezza non può mai divenire piccola:

Bravo, disse Socrate, te ne sei ricordato, ma non cogli la differenza tra ciò che si
dice ora e ciò che si diceva prima [...]. Allora, infatti, parlavamo delle cose che
possiedono contrari, che si chiamano così per il nome di questi contrari, mentre
ora parliamo degli stessi contrari, dei quali, in quanto si trovano nelle cose, le
cose denominate prendono il nome (103B-C).

Sulla base di quello che Socrate ha appena detto, si è pensato che qui si
trovi per la prima volta una distinzione tra “cose” e loro “attributi”.

Una nuova fase dell’argomento


Il fuoco e la neve

In questa nuova fase (103C-E), Socrate distingue da una parte caldo e


freddo, dall’altra fuoco e neve. Anche se queste coppie si differenziano
tra loro, la neve, se resta tale, non potrà mai ricevere il caldo, anzi, al suo
avvicinarsi essa, secondo le parole di Socrate, o si ritirerà oppure peri-
rà. Questo perché “essere fredda” è una proprietà essenziale della neve,
così come “essere caldo” è una proprietà essenziale del fuoco. La neve in
quanto tale deve essere fredda; il fuoco in quanto tale deve essere caldo.
102 leggere il “fedone” di platone

È interessante notare il vocabolario di Socrate: «E ora considera que-


sto [...] c’è qualcosa che tu chiami caldo e qualcosa che tu chiami fred-
do?» (103C). Questo significa porsi la seguente domanda: esiste qual-
cosa che è designato dal termine “caldo”? Esiste qualcosa che è designato
dal termine “freddo”? Più tardi, Socrate ribadirà che è l’idea F la prima
“portatrice” del nome F, mentre gli F particolari sono chiamati F a causa
della loro partecipazione all’Idea F. La conclusione sarà:

Dunque, disse Socrate, per alcune di queste cose accade che non solo l’Idea in
sé ha il diritto di avere per sempre lo stesso nome, ma possiede lo stesso diritto
anche un’altra cosa, che non è l’Idea, ma che dell’Idea possiede eternamente il
carattere, fino a quando esiste (103E).

Per chiarire ciò che Socrate intende prendiamo l’esempio del fuoco: an-
che se il fuoco non si identifica con il Caldo in sé, ne possiede tuttavia il
carattere (morphe) essenziale, che è, appunto, il caldo; ed esso possiede
questo carattere per sempre. Socrate afferma che ciò che si è detto per
il fuoco avviene “per alcune di queste cose”, cioè solo in certi casi. Egli
pone una limitazione alla generalizzazione, che può essere interpretata
in due modi possibili (Gallop, 1988, p. 199):
a) solo per alcune delle Idee si dà il caso che esistano delle “cose” sensi-
bili che, pur non essendo delle esemplificazioni sensibili di queste Idee,
ne possiedono essenzialmente e sempre il carattere. In tal caso, Socrate
starebbe dicendo che per certe Idee, come per esempio il Grande e il
Piccolo, non vi è nulla di comparabile “in natura” al fuoco e alla neve, nel
senso che non vi sarà nulla che è sempre grande o sempre piccolo;
b) Socrate starebbe dicendo che solo certi elementi fisici sono caratte-
rizzati da un solo membro di una coppia di opposti. Ci sono cioè certi
elementi, come l’acqua, che rimangono tali anche se acquisiscono pro-
prietà opposte (caldo e freddo, anche se l’acqua non resta la stessa qua-
lora invece “si avvicini” la solidità); vi sono, al contrario, certi elementi
che non possono rimanere sé stessi se perdono la loro proprietà, come il
fuoco o la neve.

Gli esempi numerici

Consideriamo ora (104A-B), ci dice Socrate, l’esempio del Dispari in sé.


È chiaro che tale idea dovrà sempre ricevere il nome che le attribuiamo,
la prova finale dell’immortalità dell’anima 103

“dispari”. Ci sono però altre entità che, pur non identificandosi con la
forma del dispari, devono essere sempre chiamate, oltre ad avere il pro-
prio nome, anche “dispari”: si tratta giustamente dei numeri dispari uno,
tre, cinque, sette, nove..., cioè della metà della serie dei numeri natura-
li. Il tre, ad esempio, non potrà mai diventare pari: esso preferirebbe,
dice Socrate, perire o ritirarsi, piuttosto che divenire pari. Ecco allora la
conclusione di Socrate (104B): sebbene il numero tre non possieda un
opposto (nessun numero gli si oppone) deve comunque e sempre esse-
re caratterizzato da un membro di una coppia di opposti (il Dispari), e
quindi deve escludere l’altro membro della coppia, il Pari.
L’introduzione del numero sembra importante per giungere a par-
lare dell’anima. L’anima sarà concepita da Socrate come un’entità che
agisce sul corpo in maniera causale, cioè che introduce la vita nel cor-
po, nel modo in cui il fuoco introduce il calore nei corpi, e la neve il
freddo: per trasmissione di proprietà. Tuttavia, il fuoco e la neve sono
empiricamente osservabili indipendentemente dai corpi che riscaldano
o che raffreddano, in maniera tale che noi possiamo conoscerli indipen-
dentemente dalle cose calde o fredde. L’anima, invece, non può essere
conosciuta indipendentemente dagli esseri viventi. La sua presenza nel
corpo non è osservabile, quindi la sola garanzia che abbiamo per attri-
buire un’anima a un corpo è l’osservazione della vita di un corpo. In tal
senso, il passaggio ai numeri sembrerebbe utile, poiché i numeri, così
come l’anima, non sono sensibili né osservabili indipendentemente dal-
le cose che si numerano9.
A questo punto sorge una difficoltà: così come per il grande e per
il piccolo, per il fuoco e per la neve, anche per le proprietà dei numeri
Socrate invoca la metafora del “ritirarsi” e del “perire”. In particolare,
la metafora viene utilizzata per il numero tre (104C). Come compren-
dere il ritirarsi del tre (o il perire) quando la forma del pari l’attacca? È
possibile trovare un modo di immaginare l’alternativa “cedere il posto/
perire” per i numeri?
Consideriamo una cassetta di venti mele. L’essere pari del numero
venti “cede il posto” quando noi consideriamo le mele come un insieme
(una cassetta), senza contarle; e “perisce” quando a queste mele aggiun-
giamo, per esempio, altre tre mele.
Alla fine del passo in analisi, Socrate afferma: «Ma pure, disse, certo
il due non è contrario al tre» (104C). Socrate insiste così sul fatto che
il tre non è un opposto (cioè, non fa parte di una coppia di opposti),
e questo per mostrare che, in definitiva, il rifiuto di ammettere un op-
104 leggere il “fedone” di platone

posto può essere legittimo anche per cose che non si identificano con
degli opposti (come pari e dispari, caldo e freddo). In sostanza, questa
operazione permette di passare dalle proprietà alle entità caratterizza-
te essenzialmente da tali proprietà. Tale operazione risulta ovviamente
funzionale all’anima: anche se l’anima non si identifica con un opposto
(cioè, con una proprietà che fa parte di una coppia di proprietà opposte),
essa esclude un opposto: la morte.

L’ultima dimostrazione
dell’immortalità dell’anima
L’argomento presentato da Socrate (104C-107A) non è difficile ma è
assai lungo: gli studiosi vi hanno individuato una quindicina di passaggi.
C’è poi un aspetto che rende le cose un po’ complicate. L’argomento
chiaramente riguarda, e deve riguardare, le anime individuali, e non l’i-
dea di anima (che, come tale, è evidentemente eterna e incorruttibile).
Tuttavia, a volte esso chiama in causa in modo inatteso le Idee. Socrate,
cioè, non si esprime sempre chiaramente: a volte sembra parlare del-
le Idee, a volte delle cose che vi partecipano, dove il riferimento delle
“cose” oggetto di dimostrazione resta indeterminato. In 104C-D, per
esempio, Socrate afferma che non solo le Idee contrarie non sopportano
che l’una sopravvenga all’altra, ma non lo sopportano anche “certe altre
cose”. Ci si può domandare se egli, con “certe altre cose” intenda riferirsi
alle Idee di entità come ad esempio il Fuoco, oppure al fuoco individua-
le. In particolare, nel proporre il tentativo di definire la natura di “queste
cose” (104C12), (cioè, delle entità che non sopportano il sopraggiungere
dei contrari), Socrate appunto parla di “queste cose” (tauta, pronome
dimostrativo neutro plurale), dove “queste” potrebbe riferirsi o alle Idee
che non sopportano il sopraggiungere dei contrari, oppure alle cose in-
dividuali che, partecipando delle suddette Idee, si comportano alla stes-
sa maniera (come Socrate grande che non accetta l’arrivo del piccolo)10.
Resta quindi un problema di interpretazione e ci si chiede se sia possibile
integrare i riferimenti alle Idee nell’argomento sull’anima individuale,
nel caso specifico quella di Socrate.
La prima premessa dell’argomento l’abbiamo già vista:

(1) ci sono “alcune cose” che, pur non identificandosi con i contrari, non am-
mettono che sopraggiunga un membro di una coppia di contrari (104C7-9).
la prova finale dell’immortalità dell’anima 105

La premessa è stata raggiunta attraverso delle esemplificazioni: quella


del fuoco (e della neve) e del numero tre. Queste entità non si identifi-
cano con un membro di una coppia di contrari, ma non accettano che
sopraggiunga un membro di una coppia di contrari (caldo e freddo, pari
e dispari).

(2) Queste cose sono tali che, qualora siano occupate da un’idea A (che non
possiede un contrario), debbano anche assumere un’idea F (che fa parte di una
coppia di contrari) (104D1-3).

Per spiegare quello che dice, Socrate riprende l’Idea del tre: il tre “occu-
pa” un’entità, che diviene non solo “tre” (l’Idea A, non contraria), ma
anche “dispari” (l’Idea F, contraria, cioè membro di una coppia di con-
trari).

(3) Tali cose non ammetteranno mai l’opposto dell’Idea F, cioè, G, quindi esse
sono dei non-G (104D9-E6).

Socrate continua a utilizzare l’esempio del tre: il tre non ammetterà mai
il pari, quindi è un non-pari.
Qui occorre osservare che Socrate sembra parlare delle relazioni tra
Idee, nel caso specifico, dell’Idea del Tre, che partecipa dell’Idea del Di-
spari: in effetti, in questo passo il termine “idea” ricorre continuamente.
Tuttavia, nell’esempio, egli parla dei tre, al plurale, cioè o dei numeri tre,
che sono molteplici perché li usiamo in varie operazioni (per esempio,
3+3), oppure delle cose che sono tre (per esempio, queste tre mele). Par-
lerebbe quindi delle cose che, partecipando della Triade, partecipano del
Dispari e non partecipano dell’Idea del Pari. Socrate però ritorna imme-
diatamente dopo all’Idea, concludendo che l’Idea del Tre (la Triade) è
non-pari.

(4) Tali cose potrebbero essere definite come cose che portano l’Idea F in qua-
lunque cosa nella quale entrano (105A1-4).

Possiamo per esempio dire che la natura del fuoco è tale che esso condu-
ce sempre con sé il calore in qualunque cosa in cui esso entri. Allo stesso
modo, possiamo dire che la natura del tre è tale che esso conduce sempre
il non-pari in qualunque cosa in cui esso entri.
Da (3) e da (4) deriva
106 leggere il “fedone” di platone

(5) le cose che (essendo A) portano l’Idea F in qualunque cosa in cui entrano,
non ammetteranno mai l’Idea G (contraria) (105A4-5).

Si noti il continuo uso di “cose” (che traduce pronomi dimostrativi alla


forma neutra), che lascia incerti circa le entità di cui Socrate sta par-
lando: o Idee, oppure cose che di esse partecipano. Tuttavia, l’esempio
che Socrate fornisce per chiarire ancora una volta ciò che sta dicendo,
sembra anche in questo caso parlare delle cose individuali che ricevono
l’Idea di un numero (qui, il cinque): le [cose che sono] cinque (articolo
neutro plurale che accompagna il numero, cfr. 105A6), dice Socrate, non
riceveranno mai il pari.
Insomma, i passaggi (1)-(5) dicono che ci sono delle entità, siano esse
Idee o cose che partecipano delle Idee, che non hanno contrari, ma che
portano delle proprietà che hanno, queste sì, proprietà contrarie; queste
entità sono tali da rifiutare di accogliere la proprietà contraria a quella
che possiedono e che conducono. Gli esempi sono il fuoco, la neve, il
numero tre, il numero cinque ecc.
A questo punto segue una parte che si collega alle spiegazioni causali
del capitolo precedente, e che ci condurrà a introdurre un’ulteriore pre-
messa, sebbene essa non sia esplicitata da Socrate.

E ancora – disse Socrate – da capo, rispondi: ma non mi rispondere con le stesse


parole con le quali ti interrogo; segui il mio esempio. Dico questo perché, ol-
tre alla risposta che dicevo prima, quella sicura, dai ragionamenti fatti ne vedo
un’altra sicura. Se infatti tu mi domandassi che cosa debba trovarsi in un corpo,
perché sia caldo, non ti darò quella risposta sicura ma ignorante: “il calore”;
ma da ciò che si è detto ora, un’altra più sottile: “il fuoco”. E se tu mi domandi
che cosa si debba trovare in un corpo, perché sia malato, non ti risponderò: “la
malattia”, bensì: “la febbre”. E ancora, se mi domandi che cosa debba trovarsi in
un numero perché sia dispari, io non risponderò: “la disparità”, ma: “l’unità”. E
così per le altre cose (105B-C).

Riprendiamo l’esempio del fuoco, della neve, del numero che porta con
sé il dispari: il fuoco conduce il calore; la neve conduce il freddo; il nu-
mero tre conduce il non-pari, cioè il dispari.
Se ripensiamo a ciò che abbiamo visto a proposito delle cause plato-
niche, ricorderemo che Socrate aveva fornito come spiegazioni causali
sicure non queste ultime, ma proprio quelle che ora vengono abbando-
nate. Le spiegazioni erano: x è caldo a causa del Caldo in sé; x è malato
a causa della Malattia.
la prova finale dell’immortalità dell’anima 107

Ora, invece, Socrate ci fornisce le risposte: x è caldo a causa del fuoco;


x è malato a causa della febbre; x è dispari a causa della Monade, cioè
dell’Uno in sé.
Varie sono le osservazioni che si possono fare a proposito di queste
nuove cause. Gli esempi del fuoco e della febbre suggeriscono che il fuo-
co non è la sola condizione del calore. Il fuoco è condizione sufficiente
perché il fenomeno del calore si manifesti; tuttavia, esso non è il solo
modo di riscaldare, perché posso, ad esempio, produrre il calore sfre-
gando o massaggiando la pelle. Invece, invocando come causa del calore
l’Idea di calore, Socrate voleva probabilmente segnalare che il Caldo in
sé è condizione necessaria e sufficiente perché una cosa sia calda.
Le risposte esplicative presentate in questo passo (fuoco, febbre,
monade) forniscono delle condizioni sufficienti ma non necessarie per
l’effetto. Un’altra differenza è che le nuove risposte non rispondono più
alla domanda “che cosa fa sì che la mia mano sia calda?” da un punto di
vista concettuale (mettendo in risalto il legame analitico e a priori tra
causa ed effetto), ma piuttosto rispondono alla domanda “che cosa fa sì
che la mia mano sia calda, trovandosi in essa questa cosa?”. Qui ci tro-
viamo di fronte a una relazione causale in senso moderno: il fuoco pe-
netra in un corpo e lo rende caldo, trasferendo in lui una proprietà che
esso possiede. In tal senso, le nuove spiegazioni causali completeranno
le vecchie: è il fuoco che obbliga x, penetrando in lui, a partecipare
all’Idea del Caldo.
Perché Socrate ritiene che le nuove spiegazioni causali da lui invo-
cate siano più sicure di quelle materialistiche, rifiutate in precedenza11?
Perché non ammettono in nessun caso il contrario delle proprietà che esse
trasmettono:
– il fuoco non ammette il freddo;
– la neve non ammette il caldo;
– la monade non ammette il pari.
Tali cause esplicative soddisfano le condizioni richieste da Socrate
perché un’entità funzioni come causa:
a) due opposti non possono mai produrre lo stesso effetto (neve e fuoco
non possono produrre gli stessi effetti);
b) una stessa causa non può produrre due effetti opposti (la neve non
può raffreddare e riscaldare);
c) ciò che funge da causa deve possedere la stessa proprietà che trasmet-
te all’oggetto che subisce l’effetto (la neve, che raffredda, è essa stessa
fredda).
108 leggere il “fedone” di platone

È certamente (c), che si trova nel testo in analisi, a giocare un ruo-


lo essenziale nell’argomento. In particolare, ciò che si trova alla base
della dimostrazione dell’immortalità dell’anima è proprio il principio
secondo cui una causa non ammette l’opposto della proprietà che essa
trasmette. Poiché infatti l’anima è causa di vita, essa non può ammette-
re la morte, e quindi non può essere morta. Si potrebbe però criticare
tale principio: infatti, anche quando le proprietà in considerazione sono
membri di una coppia di opposti, non è vero che la causa (o ragione) per
una di queste debba per forza escludere l’altra. Ci sono esempi in cui
uno stesso atto provoca due effetti contrari: per esempio, l’atto di spin-
gere un bottone può essere causa sia dell’accendersi, sia dello spegnersi
della luce. Bisogna però ancora una volta ammettere che questo proble-
ma non riguarda solo Platone, ma tutta la tradizione che ha accolto (c)
come criterio determinante per la causa.
La sezione appena analizzata ci conduce a introdurre una nuova pre-
messa, quasi identica a (5):

(6) se una cosa (x) è tale che, trovandosi in qualunque y, y sarà F, x potrà essere
detto portare F in y.

Per esempio: se, ogni volta che il fuoco entra in qualsiasi corpo, questo
corpo sarà caldo, si potrà dire che il fuoco porta il calore nel corpo.
I passaggi (7)-(10), che verranno ora introdotti, arrivano finalmente
all’anima, e sono semplicemente un’applicazione dei passaggi (1)-(6) al
caso appunto dell’anima:

(7) l’anima è tale che, trovandosi in un corpo, il corpo sarà vivo (105C9-D).

Da (6) e (7) derivano

(8) l’anima porta la vita in qualunque corpo che essa occupa (105D3-5);

(9) l’opposto della vita è la morte (105D6-9).

Da (5) e (8) deriva

(10) l’anima non ammetterà mai l’opposto di ciò che essa porta. Si arriva così
alla conclusione che l’anima non può morire (105D10-12).
la prova finale dell’immortalità dell’anima 109

Nei passaggi (7)-(10) si vuole dimostrare l’immortalità dell’anima. Il


primo problema che si pone è ancora quello di sapere se essi riguardano
l’Anima-Idea o l’anima individuale. Come si è già detto, questi passag-
gi debbono essere interpretati come passaggi che parlano dell’anima
individuale e non dell’Anima-Idea, perché l’argomento vuole dimo-
strare l’immortalità della mia anima, e non quella dell’idea che per de-
finizione è immortale e indistruttibile. Bisogna tuttavia segnalare che
il testo greco presenta il termine anima (psyche) senza articolo, il che
ha condotto certi interpreti a credere che qui si parli dell’Anima-Idea.
In ogni caso, l’argomento ha una certa vulnerabilità, che si annida nel
passaggio (5), che afferma che le cose che portano F in qualunque cosa
nella quale esse entrano, non ammettono il contrario G. Questo princi-
pio dipende da (4), che dice che le cose che non ammettono il contrario
di F possono essere definite (105A2) come cose che portano F. Questa
è, tuttavia, una definizione (o una stipulazione) poco convincente.
La debolezza di (4) si ripercuote sul passaggio da (7) a (8): il fatto
che ogni volta che l’anima si trova in un corpo, il corpo sarà vivente,
non implica che l’anima porti la vita in qualunque corpo essa occupi.
D’altra parte, (8) è vera per definitionem, visto che un’anima (psyche)
è proprio ciò la cui presenza in un corpo spiega perché questo corpo è
vivente. (Un’anima potrebbe essere dunque un cuore, un cervello, una
quantità di sangue ecc.). Resta il fatto che il “portare una proprietà” è
problematico. Di fatto si tratta al massimo della constatazione di una
certa regolarità (l’anima si trova nel corpo; il corpo vive); ma questo
non autorizza a concludere che l’anima porti la vita nel corpo. Si tratta
della critica che Hume farà al concetto di causa in generale (anche per
le cose più evidenti, come il fuoco). La cosa si aggrava per l’anima, che
inoltre è invisibile.
Vi sono, infine, ulteriori passaggi che vogliono stabilire che l’ani-
ma, essendo immortale, è indistruttibile. La prima parte dell’argomen-
to [(11)-(13)] mostra che l’anima è non-morta (athanaton); la seconda
[(14)-(15)] che l’anima è indistruttibile. Ci si è chiesti perché mai Plato-
ne abbia sentito la necessità di continuare l’argomento, una volta dimo-
strata l’immortalità dell’anima. La ragione è semplice: dire che l’anima
è immortale (nel senso di non morta) non implica che essa sia indistrut-
tibile (cioè che essa viva per sempre; cfr. Barnes, 2000, p. 319). Bisogna
cioè dimostrare che l’anima, all’avvicinarsi della morte, non perisce, ma
se ne va intatta12.
Consideriamo la prima parte dell’argomento:
110 leggere il “fedone” di platone

(11) ciò che non ammette la morte è non-mortale (105D13-E3);

(12) l’anima non ammette la morte (105E4-5);

(13) l’anima è non-mortale (105E6-7).

L’anima, come si è visto, possiede la vita come proprietà essenziale, nella


stessa maniera in cui il fuoco possiede il calore. Ciò implica, secondo
Socrate, che l’anima sia un’entità, cioè una sostanza, sebbene questo non
sia mai espressamente affermato. Ammesso che l’anima sia una sostanza,
e che essa sia una sostanza che porta la vita in qualunque corpo entri,
non consegue però che l’anima sia essa stessa vivente. Questo problema
rientra in quello, più generale, della proprietà che una cosa deve possede-
re per poterla trasmettere. È vero, infatti, che il fuoco è caldo e trasmet-
te calore. Esiste, tuttavia, una serie di altre cause che non possiedono la
proprietà che trasmettono: un tranquillante, per esempio, è esso stesso
tranquillo? Un assassino è esso stesso morto?
Consideriamo infine la seconda parte dell’argomento:

(14) ciò che è immortale è indistruttibile (106C9-D9);

(15) l’anima è indistruttibile (106E1-107A1).

L’argomento va analizzato nella maniera seguente:


i) se l’immortale è indistruttibile, l’anima sarà indistruttibile;
ii) l’immortale è indistruttibile;
iii) dunque, l’anima è indistruttibile.
La dimostrazione avviene quindi per modus ponendo ponens: A → B,
A, dunque B. Ci troviamo nella fase finale dell’argomento. Lo scopo è
quello di distinguere il caso dell’anima da quelli della neve, del fuoco e
anche del tre. In questi ultimi casi, infatti, resta aperta la possibilità di
perire di fronte all’attacco del contrario: il freddo può arrivare e “ucci-
dere” il fuoco, il pari può arrivare e uccidere il tre; in compenso, nel caso
dell’anima, questa possibilità dev’essere esclusa. Non solo essa è immor-
tale (e come tale rifiuta il suo contrario, il mortale, così come il tre rifiuta
il dispari e il fuoco il freddo); essa è anche indistruttibile (laddove invece
come dice Socrate, non possiamo escludere che il dispari, e quindi il tre,
siano distruttibili).
la prova finale dell’immortalità dell’anima 111

Analizziamo per finire le premesse e la conclusione dell’argomento.


i) Se l’immortale è indistruttibile, l’anima sarà indistruttibile. Poiché
qualunque cosa che è immortale è anche indistruttibile, allora l’anima,
secondo Socrate, essendo immortale, deve essere anche indistruttibile.
Socrate pensa effettivamente a questa possibilità (106B), dichiarando
appunto che se una qualunque cosa che è immortale è indistruttibile, l’a-
nima non potrà essere immortale senza essere indistruttibile (cfr. anche
106C-D): «Se è vero che l’immortale è anche indistruttibile, all’anima
non è possibile perire, quando la morte sopravvenga» (106B)13.
ii) L’immortale è indistruttibile. Questo è il passaggio cruciale, illustrato
da Socrate così:

Difficilmente ci potrebbe essere qualcos’altro che non ammette corruzione, se


dovesse ammettere corruzione l’immortale che è eterno. La divinità, credo [...],
la stessa idea di vita, e se vi è altro di immortale, da tutti sarà ammesso che mai
possono perire (106D).

L’argomento di queste righe potrebbe essere interpretato nella maniera


seguente:
– se l’immortale, che è eterno, ammettesse di perire (= fosse distrutti-
bile), allora difficilmente esisterebbe qualcosa che non ammette di peri-
re (= che sia indistruttibile);
– esistono però delle cose che non ammettono di perire (= che sono
indistruttibili), come la divinità, l’idea della vita e altre cose ancora;
– quindi, ciò che è immortale non è distruttibile (= è indistruttibile).
Questa dimostrazione avviene per modus tollendo tollens: A → B,
non-B, dunque non-A. Affinché l’argomento relativamente a (14) e (15)
funzioni, bisogna in definitiva supporre che vi sia almeno qualcosa che
non ammette di perire. Ci si può domandare quale sia il fondamento di
questa supposizione? Forse una credenza religiosa: dopotutto Socrate
invoca la divinità, e all’inizio del dialogo sembra presentare la sua idea di
una vita dell’aldilà come una sorta di credenza religiosa. È vero però che
il presupposto non ha bisogno di un fondamento religioso: i numeri, per
esempio, non possono perire.
iii) Conclusione: l’anima è indistruttibile. Così recita il passo:

E allora, quando la morte s’abbatte sull’uomo, la parte di lui che è mortale,


a quanto sembra, muore, mentre quella immortale se ne va, salva e incorrot-
ta, cedendo il posto alla morte. [...] Tanto più, dunque, o Cebete, l’anima è
112 leggere il “fedone” di platone

immortale e indistruttibile, e veramente le nostre anime esisteranno nell’Ade


(106E-107A).

Alla fine del passo Socrate passa dall’immortalità e indistruttibilità


dell’anima (psyche) all’esistenza nell’Ade delle nostre anime (ai psychai).
È chiaro quindi che Socrate parla delle anime individuali e non dell’Ani-
ma-Idea: delle nostre anime che, una volta separatesi dal corpo, esistono
là, nell’Ade.
Conclusione

Si conclude così la parte del Fedone sulle dimostrazioni sull’immortalità


dell’anima. La loro analisi ci ha dato l’opportunità di considerare anche
altre questioni filosofiche che tanta fortuna avranno nella filosofia oc-
cidentale, e che Platone ha il merito di avere tematizzato per primo: il
divenire, la causalità, la distinzione tra sostrato e proprietà, tra proprietà
essenziali e proprietà accidentali, il principio di non contraddizione, i
metodi della filosofia, tanto per citarne alcune.
Ma la domanda finale che ci poniamo è la seguente: le prove presen-
tate da Socrate hanno convinto i suoi interlocutori? Al di là dei dubbi
ricorrenti di Simmia e Cebete, possiamo affermare che Socrate (o Plato-
ne) fosse convinto di aver fornito dimostrazioni definitive sull’immor-
talità dell’anima? Difficile a dirsi, e difficile crederlo. Socrate stesso, alla
fine della parte del dialogo relativa a esse, afferma che i ragionamenti
fatti devono essere sottoposti ad analisi fino a giungere a un convinci-
mento umano. Tale convincimento, possiamo aggiungere noi, sarà ca-
ratterizzato solo dalla persuasione e potrà, nella migliore delle ipotesi,
condurci a ritenere che quei ragionamenti siano probabili e non certi,
almeno finché resteremo attaccati a un corpo.
D’altra parte, come è stato detto, il dialogo non finisce qui, ma
prosegue con una parte dedicata alla raffigurazione mitica dell’aldilà
(107C-115A), forse a riprova del fatto che la ragione argomentativa non
ha trionfato, e in particolare non ha convinto della necessità di compor-
tarsi bene in questo mondo per poter godere dopo la morte dei premi
meritati. La ragione non ha trionfato perché i dubbi sull’immortalità
di Socrate, sull’immortalità dell’anima individuale permangono, al di
là del comportamento composto e sicuro di Socrate nell’ultimo giorno
della sua vita, e delle sue prove.
Se però la ragione non ha trionfato, essa ha certamente superato sé
stessa. Il Fedone, infatti, malgrado le critiche che gli sono state mosse
114 leggere il “fedone” di platone

riguardo a certe definizioni, certi presupposti, certi ragionamenti uti-


lizzati, è davvero una manifestazione impressionante di dove la ragione
può spingersi in questioni di drammatica incertezza, come il destino
dell’anima e la morte.
Note

Introduzione
1.  Per una raccolta delle fonti su Socrate e i socratici cosiddetti minori, cfr. Giannan-
toni (1990).
2.  Si veda la descrizione che ne fa Nicandro di Colofone (ii sec. a.C.) nei suoi poemi
sui veleni (Rimedi contro i veleni animali e Antidoti).
3.  Clark (1952) ritiene invece che Socrate richieda il sacrificio per una sua passata guari-
gione da una malattia fisica, ma la sua interpretazione resta abbastanza isolata. Per una
rassegna delle posizioni degli studiosi riguardo a queste celebri righe si veda Trabattoni
(2011, p. 269, n 275), che riprende la distinzione delle interpretazioni (allegorica o a
carattere personale) avanzata da Most (1993), e critica le soluzioni, forse effettivamente
un po’ troppo sottili, dello stesso Most e di Crooks (1998).
4.  Fedone, interrogato da Echecrate su chi fosse presente (59B), menziona per gli ate-
niesi Apollodoro (il narratore del Simposio platonico), Critobulo (citato da Senofonte
nel Simposio e nell’Economico, di cui è interlocutore), Ermogene (fratello di Callia, uno
degli interlocutori del Cratilo, menzionato anche da Senofonte nei Memorabili), Epi-
gene (citato nei Memorabili e nell’Apologia di Platone), Eschine di Sfetto (menzionato
nell’Apologia di Platone e autore di alcuni dialoghi socratici non giunti fino a noi),
Antistene (celebre fondatore della scuola cinica), Ctesippo (personaggio del dialogo
platonico Eutidemo), Menesseno (da cui prende il nome l’omonimo dialogo di Plato-
ne). Per i presenti non ateniesi (59C), vengono ricordati Simmia, Cebete e Fedonda di
Tebe (tutti e tre menzionati da Senofonte nei Memorabili), Euclide e Terpsione di Me-
gara (i protagonisti del dialogo introduttivo del Teeteto platonico). Fedone non nomina
Critone (protagonista dell’omonimo dialogo platonico), che pure è il personaggio più
attivo della fine del dialogo, in cui viene descritta la morte di Socrate.
5.  La divisione dei dialoghi nei tre periodi della giovinezza, maturità e vecchiaia, è stata
ribadita, sulla base di criteri stilistici e loro variazione, da Brandwood (1992) e Penner
(1992).
6.  Che le anime ricevano in sorte un demone è concezione tradizionale, forse risalente
a Esiodo, Le opere e i giorni, 252 ss. (si veda Decleva Caizzi, 1987, p. 141).
7.  Gli studiosi vedono qui un’allusione alla tradizionale Isola dei beati. Sulla reinter-
pretazione platonica delle credenze tradizionali circa il Tartaro e l’Isola dei beati, cfr.
Annas (1982b, p. 126), che sottolinea l’importanza del fatto che Platone situi questi
luoghi nel nostro mondo attuale, e non in un aldilà.
116 leggere il “fedone” di platone

8.  Aristotele criticherà severamente la geografia e il sistema delle acque descritti nel
Fedone, dichiarandoli impossibili (Meteorologia, ii, 335b33-336a33).
9.  Condivido la posizione di Trabattoni (2011, p. 233, n 237), che sostiene che Socrate
non intende prefigurare come possibile l’acquisizione di una verità definitiva sull’im-
mortalità dell’anima.
10.  Questi sono atteggiamenti abbastanza comuni e riguardano in generale i miti
platonici. Annas (1982b, pp. 119-22) denuncia tali atteggiamenti perché limitanti e,
nel suo articolo, mostra che il rapporto mito-ragione in Platone è in realtà molto più
complesso.
11.  Cfr., ad esempio, Trabattoni (2011, p. lxxxii) o Annas (1982b, pp. 128-9); quest’ul-
tima, però, ritiene che il mito del Fedone sia confuso, confondente e vago (ivi, p. 125),
in quanto Platone sembra oscillare fra una teoria della reincarnazione (cfr. cap. 4, Ciò
che avviene alle anime dopo la morte) e una teoria del giudizio universale (qual è espressa
nella parte cosmologica del mito), fra di loro inconciliabili.
12.  In effetti, l’intervento di Critone sembra avere la funzione di far emergere il contra-
sto tra il filosofo e l’uomo comune (Decleva Caizzi, 1987, p. 149).

1
Il suicidio e la natura della morte (61B-69E)
1.  Si tratta di un poeta e filosofo di modesto talento, che insegnava la virtù per 5 mine,
come si dice in Apologia, 20B.
2.  Sull’origine pitagorica di tale dottrina, e in generale sul ruolo del pitagorismo nel
Fedone, si vedano Decleva Caizzi (1987, p. 24); Dixsaut (1991, pp. 44-65); Trabattoni
(2011, pp. xii-xv). Centrone (2000, pp. xxxiii-xxxv), pur riconoscendo aspetti pita-
gorici nel Fedone (come la presenza di Echecrate, portavoce della comunità pitagorica
di Fliunte, e la dottrina della metempsicosi) invita a evitare gli eccessi che hanno con-
dotto la tradizione a considerare il Fedone come un dialogo pitagorizzante.
3.  Su questo intreccio si vedano ad esempio Decleva Caizzi (1987, p. 24); Dixsaut (1991,
pp. 12, 325, 327); Trabattoni (2011, p. 21). Interessante la n 18 di M. Valgimigli, riportata
in Centrone (2000, p. 176): «“Meditare” filosoficamente sull’immortalità dell’anima;
“favoleggiare” poeticamente sulle condizioni dell’anima dopo la morte».
4.  Si veda il riferimento di Socrate alla «formula pronunciata nei Misteri» in Fedone
62B.
5.  Per un’accurata analisi del termine phroura nella tradizione pre-platonica e in Pla-
tone, che conduce a preferire il senso di “posto di guardia”, si veda Di Giuseppe (1993,
pp. 1-22). In effetti, questo senso si adatterebbe meglio a ciò che Socrate dice subito
dopo, e cioè che gli dei si prendono cura di noi.
6.  Sul senso della preferenza dei filosofi e sulla relazione (contraddizione o compati-
bilità?) tra essa e il divieto di suicidio, si è sviluppata una vivace discussione. A titolo
esemplificativo, cfr. Miles (2001); Warren (2001).
7.  Socrate non parla degli dei tradizionali antropomorfici, oggetto di critica in uno
dei dialoghi cosiddetti “socratici”, l’Eutifrone (6A-C). Cfr. anche Repubblica, ii, 377E-
378C; 379A-C.
note 117

2
L’argomento ciclico (70A-72D)
1.  Queste sono le traduzioni proposte, ad esempio, da Fabrini (in Lami, 1996): “nascere
di nuovo”, “rinascere”; Valgimigli (in Centrone, 1999; 2000): “rigenerarsi”; Martinelli
Tempesta (in Trabattoni, 2011): “rinascere”.
2.  Sui problemi dell’argomento ciclico e sull’importanza di trattare “essere vivo/esse-
re morto” come “essere separato/essere unito” dell’anima e del corpo, si veda la nota
complementare L’“antapodosis”: problemi e tentativi di soluzione in Trabattoni (2011,
pp. 276-8). Cfr. anche n 5.
3.  Fabrini (in Lami, 1996): “nascimento” e “nascere”; Valgimigli (in Centrone, 1999;
2000): “nascita” e “generarsi”; Martinelli Tempesta (in Trabattoni, 2011): “generazione”
e “nascere”.
4.  Questa è la scelta di Valgimigli (in Centrone, 1999; 2000), forse per conservare una
coerenza nella traduzione del verbo, che traduce così il passo: «così, per esempio, quan-
do si generi qualche cosa di grande, non è necessario che si generi grande, in seguito,
da piccolo che era prima?». Invece, in questo caso Fabrini (in Lami, 1996), come Mar-
tinelli Tempesta (in Trabattoni, 2011), sceglie giustamente di tradurre ghigesthai con
“diventare”.
5.  Frede (1999, pp. 42-3) critica in molti aspetti l’argomento ciclico, in particolare l’i-
dea del sostrato sottostante all’opposizione vita/morte (o sonno/veglia). Secondo la
studiosa, nel caso dell’anima, il postulato del sostrato continuo sembrerebbe una sorta
di petizione di principio (ivi, p. 43). In realtà, com’è stato fatto notare, il problema non
è il passaggio tra l’essere vivo e l’essere morto, ma quello della separazione-non separa-
zione dell’anima dal corpo, e in particolare la pretesa di dimostrare, sulla base dell’argo-
mento ciclico, che l’anima (pre)-esista separatamente dal corpo (Barnes, 2000, p. 316).

3
La reminiscenza (72E-77D)
1.  Non è possibile dare qui un resoconto dei numerosi lavori su questo argomento. Pos-
siamo rinviare a qualcuno tra i più famosi e/o recenti (ad esempio Ackrill, 1973; Scott,
1995; Osborne, 1995; Dimas, 2003; Franklin, 2005; Lafrance, 2007, Brancacci, 2007;
Ferrari, 2007) e alla vivace analisi delle diverse posizioni che si trova in Trabattoni (2011,
pp. xxxiv-xlviii, 71-99).
2.  Che qui Platone dia per assodata l’esistenza delle Idee è cosa abbastanza comune-
mente accettata (cfr. Ross, 1951; Bostock, 1986; Decleva Caizzi, 1987, p. 33; Gallop,
1988, p. 119; Dixsaut, 1991, p. 346, n 136; Centrone, 2000, p. xxiii). Recentemente,
Trabattoni e altri (ad esempio, Dimas, 2003) hanno invece sostenuto che la remini-
scenza non dia per scontata l’esistenza delle Idee. In particolare, in questo passaggio,
Platone non starebbe chiedendo se esistono le Idee, ma se esistono delle nozioni uni-
versali, le sole raggiungibili dagli uomini, che sarebbero copie delle Idee (che invece si
trovano nel mondo soprasensibile e non sono conoscibili dall’anima incarnata). Non
118 leggere il “fedone” di platone

è possibile discutere qui in dettaglio questa teoria, lungamente trattata da Trabattoni


(2011, pp. xxxiv-xlviii; p. 79, n 89). Essa ha sicuramente il vantaggio di risolvere gra-
vi problemi tradizionalmente posti dagli studiosi (cfr. supra, pp. 49-50), però solleva
almeno due questioni. La prima è che se Platone avesse voluto distinguere tra nozioni
universali e Idee di cui esse sono copie, l’avrebbe in qualche modo segnalato. La seconda
è che, posto che Platone prospetti implicitamente tale distinzione, dovremmo accettare
una conseguenza pesante, e cioè che quando egli utilizza formule come “Uguale in sé”,
“Giusto in sé” ecc., le utilizzi per designare due cose differenti, senza annunciarlo: gli
universali, come presumibilmente nel passo che stiamo analizzando, e le Idee, come in-
vece emerge per esempio chiaramente alla fine dell’argomento della reminiscenza, dove
Socrate afferma (nella traduzione di Martinelli Tempesta che si trova in Trabattoni,
2011): «Dunque, prima che noi cominciassimo a vedere, udire e a percepire con gli altri
sensi, bisognava che in qualche modo fossimo in condizione di avere già acquisito una
conoscenza di cosa fosse l’Uguale in sé» (75B).
3.  Questa interpretazione andrebbe incontro a ciò che afferma Trabattoni, e cioè che
noi sur terre non conosciamo mai l’Idea, ma un concetto universale (cfr. n 2). Si vedano
anche Trabattoni (2011, pp. 79-81, n 91); Gallop (1988, p. 120).
4.  Il plurale è sconcertante e gli studiosi hanno variamente cercato di spiegarlo, riferen-
dolo per esempio a realtà intermedie che non sono Idee, ma che partecipano dell’ugua-
glianza senza mai partecipare del contrario, come gli angoli alla base del triangolo isosce-
le, uguali per definizione (cfr. Centrone, 1991, pp. 78-9, n 53; 2000, pp. 210-1, n 66, dove
lo studioso è più “aporetico”). Di recente, il plurale è stato riferito alla pluralità delle cose
uguali particolari, cioè ai sensibili “in quanto uguali” (Ademollo, 2007, pp. 10-4). A me
pare, però, che l’espressione debba riferirsi necessariamente alle Idee, che sono l’oggetto
di questo passo (sui problemi relativi a questa posizione, condivisa da molti, ed esempli-
ficata da Owen, 1986, cfr. Ademollo, 2007, parr. ii-v). Cfr. anche la nota complementare
Gli “uguali in sé” in Trabattoni (2011, pp. 278-9).
5.  Anche se questo non vuol dire che noi recuperiamo esattamente l’Idea come l’ab-
biamo contemplata. Sono infatti d’accordo con Trabattoni (2011, pp. xxxiv-xxxvii)
quando afferma che la reminiscenza non è presentata da Platone, almeno nel Fedone,
come un metodo per conseguire la conoscenza delle Idee.

4
L’affinità dell’anima con le Idee (78B-84B)
1.  Centrone (2000, pp. xv-xvi) rileva giustamente come tale dimostrazione, mettendo
in luce la somiglianza dell’anima con le Idee, ne caratterizzi la natura, contraddicendo
almeno in parte quegli studiosi che ritengono che nel Fedone manchi un’analisi sulla
natura dell’anima.
2.  Diversa l’interpretazione di Trabattoni (2011, p. 203, n 118), che invece pensa che
qui si stia parlando dell’esistenza delle Idee, interpretando “essere” come “esistere” e
“sostanza” come “realtà”.
3.  Monoeides può voler dire o “che appartiene a una sola specie” oppure “che è il solo
membro della sua specie”. Qui il senso sembra essere il secondo.
note 119

4.  Sulla fragilità dell’argomento dell’affinità (basato sul fatto che l’anima è invisibile
come le Idee, ma debole e soggiogata quando è asservita ai sensi) e per un tentativo di
mostrarne comunque la rigorosità, cfr. Polloni (1996). Vedi anche Ferrari (2007, pp.
79-83) sull’affinità anima-idee come fondamento epistemologico.
5.  Anche se questa caratteristica è problematica, perché l’anima può divenire invariabi-
le, ma può anche, come abbiamo visto e vedremo, divenire variabilissima.
6.  Polloni (1996, p. 6) osserva che, se Socrate lascia aperta la possibilità che l’anima sia
quasi indistruttibile, allora essa sarà distruttibile.

5
Le obiezioni di Simmia e Cebete (84C-91C)
1.  Sulla formula «conoscenza certa» (to saphes eidenai), che richiama alcuni versi di
Senofane sulla contrapposizione tra sapere divino e sapere umano, cfr. Decleva Caizzi
(1987, p. 78).
2.  Sulle alternative i) e ii), consuete in Platone (cfr. ad esempio Cratilo, 439B; Alcibiade
i, 106D; Protagora, 320B), si vedano Centrone (2000, p. 214, n 91); Trabattoni (2011,
p. 129, n 136).
3.  Alcuni studiosi individuano in questa formula un riferimento alle dottrine orfico-
pitagoriche (cfr. Gallop, 1988, p. 146; Valgimigli in Centrone, 2000, p. 183, n 100), forse
polemico (Trabattoni, 2011, p. 131, n 137).
4.  Circa l’origine, assai controversa, della dottrina esposta da Simmia, cfr. Trabattoni
(1988, pp. 53-8). L’autore ritiene che la tesi di Simmia implichi un riferimento a posi-
zioni storicamente assunte da qualcuno, mentre le conseguenze che vengono tratte nel
Fedone sono platoniche e in polemica con i pitagorici. Si veda anche Trabattoni (2011,
pp. lv-lvii; 133-4, n 140).
5.  Sul concetto di anima-armonia in questo passo, e sulla diffusa concezione medica
antica della salute-armonia del corpo, cfr. Centrone (2000, pp. 214-5, nn 92-3).
6.  Dixsaut (1991, p. 359, n 203) rinvia per il corpo-vestito a Empedocle (31 B 126 dk),
facendo però giustamente notare che il daimon empedocleo si limita ad abitare un cor-
po estraneo, non a farlo. Gallop (1988, p. 151) rinvia a Simposio, 207D-E, in cui si dice
che il corpo si rinnova di continuo, capelli, pelle, ossa, sangue, e che queste parti non
sono mai le stesse nell’essere vivente, che però resta sempre lo stesso.
7.  Dorion (1993, p. 607, n 1, e p. 613) afferma che i termini “misologia” e “misologo”
sono verosimilmente neologismi platonici, che non si riscontrano in autori precedenti,
né avranno grande successo nella posterità. Nel suo articolo mostra che le occorrenze
dei termini appaiono soprattutto nel Lachete e nel Fedone, ma con significato molto
diverso: nel Lachete la misologia è un’avversione per i discorsi che nasce dalla consta-
tazione della discrepanza tra parole e atti di una stessa persona. Nel Fedone, invece, la
misologia è un’avversione per i ragionamenti che nasce dall’esperienza ripetuta della
discrepanza tra ragionamenti e loro oggetti. Solo con le Idee, che rappresentano oggetti
di conoscenza stabili, si potrà sconfiggere la misologia, strettamente legata alla minaccia
rappresentata dagli antilogici.
120 leggere il “fedone” di platone

8.  Si pensi, ad esempio, all’argomento sul molteplice, da cui risulta che una cosa è con-
temporaneamente infinitamente piccola e infinitamente grande (Zenone, 29 B 1 dk).
9.  Decleva Caizzi (1987, p. 90) pensa a Protagora; Trabattoni (2011, p. 149, n 151) ai
sofisti (cfr. Sofista, 225B, 232B), che si divertivano a contraddire qualunque discorso.
Centrone (2000, pp. 216-7, n 103) pensa in generale ai possessori di una tecnica impie-
gata a dimostrare due tesi contraddittorie, che comprendono sia i seguaci dell’eleatismo
come Zenone, sia i retori come Tisia e Gorgia, sia i sofisti.

6
Le risposte di Socrate (91C-102A)
1.  La premessa (a*) è da premettere alla premessa (a), perché l’argomento risulti più
chiaro. La versione dell’argomento qui presentata è ripresa da Gallop (1988, p. 166). Per
una versione leggermente diversa, cfr. Trabattoni (1988, p. 59).
2.  Sulla difficoltà di questa premessa, «la più importante e difficile di tutta la prova»,
cfr. Trabattoni (ivi, pp. 62-6).
3.  Ma cfr. Trabattoni (ivi, p. 65), che ritiene che qui Socrate non si stia occupando della
natura fisica delle armonie (musicali e non), come invece fa nell’altro argomento (cfr.
pp. 79-80), ma dell’armonia “in quanto tale”, cioè del concetto e delle sue implicazioni
logiche.
4.  Secondo Trabattoni (ivi, p. 67), le premesse (5)-(10) hanno lo scopo di esplicitare il
collegamento tra le premesse (1) e (2).
5.  Per Trabattoni (ivi, p. 69), il ragionamento di Socrate potrebbe finire qui, ma Plato-
ne vi aggiunge un’altra parte per concludere con un’immagine a effetto che possa essere
persuasiva.
6.  Trabattoni (2011, p. lxiv, n 93) non trova strana questa limitazione poiché ritiene
che, dato il contesto eleatico della trattazione, anche gli attributi come i soggetti sono
cose che “sono”, e quindi la loro comparsa e sparizione devono essere giustificate senza
far ricorso alla nascita dal nulla e alla distruzione nel nulla.
7.  In Centrone (2000, pp. 218-9, n 121), si trova una bella e dettagliata analisi dei punti
a favore e contro l’attribuzione di un valore storico all’autobiografia di Socrate qui pre-
sentata. Cfr. anche Decleva Caizzi (1987, pp. 103-4).
8.  Ma si veda Decleva Caizzi (1987, p. 106), che osserva come Socrate sembri qui ri-
portare un’opinione comune e non problematica, piuttosto che le teorie più raffinate
offerte dai filosofi della natura (come ad esempio Anassagora, che si chiede nel noto
frammento 59 B 10 dk come può sorgere un capello da ciò che non è capello, dando
così origine alla raffinata teoria delle “omeomerie”, in cui tutto è in tutto). Dello stesso
parere Valgimigli in Centrone (2000, pp. 187-8, n 138), e Centrone stesso (ivi, p. 2209,
n. 129), che rinvia a Vlastos (1969, p. 310, n 50).
9.  Bicubito = 3 piedi (0 888 cm); 1 cubito = 1 piede (0 444 cm).
10. Sul Nous di Anassagora, si veda il frammento 59 B 12 dk.
11.  Sulla distinzione tra causa e condicio sine qua non, quest’ultima trattata però questa
volta come una specie di causa (sebbene ausiliaria), cfr. Timeo, 46C-D.
12.  Su questo presunto abbandono si veda la lunga nota di Centrone (2000, pp. 222-3,
n 144), che fa il punto su una questione difficile e controversa. Cfr. anche Ferrari (2008,
note 121

pp. 84-87) e la nota complementare Qual è la “prima navigazione?”, in Trabattoni (2011,


pp. 280-1).
13.  Sulle tre ragioni che impediscono di chiamare “cause” le spiegazioni dei naturalisti,
cfr. anche Centrone (2000, p. xxviii). Vedi anche Hankinson (1998, pp. 84-91).
14. Le spiegazioni di questa formula fornite dagli studiosi sono varie e complesse. Per
una rassegna, si vedano ad esempio Decleva Caizzi (1987, pp. 110-2); Dixsaut (1991,
pp. 371-3, n 276).
15.  Anche questo passo è stato molto discusso, per comprendere (1) cosa sono le ipotesi,
(2) che tipo di percorso Socrate propone. Per ciò che riguarda (1), secondo alcuni l’ipotesi
riguarda l’esistenza delle Idee, secondo altri sia l’esistenza delle Idee che il loro ruolo cau-
sale. Per ciò che riguarda (2), si è pensato che Socrate proponesse: (i) un procedimento
deduttivo dall’ipotesi (le Idee) alle conseguenze (cioè, le cose che partecipano delle Idee);
(ii) una mera compatibilità tra Idee e cose che partecipano delle Idee; (iii) una via inter-
media (cfr. Centrone, 2000, pp. 223-4, n 147, che rinvia rispettivamente ai lavori di Ro-
binson, 1953, pp. 123-45; Bedu-Addo, 1979; Genzler, 1991). Di recente Trabattoni (2011, p.
191, n 197) ha proposto l’interpretazione secondo cui l’ipotesi riguarderebbe l’esistenza
delle Idee, mentre la conseguenza che ne deriva è l’immortalità dell’anima (cfr. 100B7-9).
16.  Precedentemente (100A), così come più tardi (101D, cfr. p. 94) Socrate parla invece
dell’essere in accordo (symphonein) delle cose con le ipotesi. È anche per questo che il
rapporto ipotesi-conseguenze è stato variamente interpretato (cfr. n 15), anche perché il
verbo symphonein sembra avere un significato più forte della semplice compatibilità ma
forse meno forte dell’implicazione logica (si vedano Gentzler, 1991; Centrone, 2000,
p. 224). Ogni interpretazione ha comunque le sue difficoltà. Trabattoni (2011, p. 203, n
208, dove richiama Gallop, 1988, p. 181) ritiene invece che in questo passo la nozione di
ipotesi abbia il senso di “proposta di soluzione adeguata a un certo tipo di problema”. Le
conseguenze sarebbero così i dati che l’ipotesi è chiamata a spiegare.
17.  Sul fatto che la seconda navigazione miri a stabilire l’esistenza delle Idee come por-
tatrici causali di caratteri che trasmettono al sensibile, cfr. Trabattoni (2011, p. lxxvi).
Aristotele criticherà il fatto che, in definitiva, Platone abbia cercato di trattare le Idee
come cause efficienti (cfr., per esempio, Sulla generazione e corruzione, 335b70-20). Su
questa critica, sicuramente ingenerosa e parziale, ma che di fatto prende molto sul serio
la teoria causale del Fedone, si veda Annas (1982a).

7
La prova finale dell’immortalità dell’anima
(102A-107B)
1. Cfr. cap. 4, p. 59; cap. 6, pp. 92-93.
2.  Gli “accidenti” (sumbebekota) sono letteralmente delle “cose che capitano”, ma che
non sono sempre presenti.
3.  Come osserva Trabattoni (2011, pp. 207-9, n 213), a Socrate preme qui dimostrare
che l’incompatibilità tra contrari riguarda gli stessi contrari e non i soggetti portatori
di contrari.
122 leggere il “fedone” di platone

4.  Qui l’alternativa fuggire/perire non è messa ben in evidenza. Essa sarà più evidente
negli esempi successivi, forniti dallo stesso Socrate.
5.  Per una rassegna, cfr. Gallop (1988, p. 195).
6.  Tale spiegazione, suggerita dallo stesso Gallop (ibid.), è accettata da parecchi stu-
diosi come la più ragionevole (cfr., ad esempio, Decleva Caizzi, 1987, p. 129; Trabattoni,
2011, p. 209, n 215).
7.  Si tratta di una giusta osservazione di Centrone (2000, p. 229, n 161), che mostra
anche come queste osservazioni aprano la strada alla distinzione aristotelica tra contrari
e sostrato che li accoglie.
8. Cfr. cap. 2.
9.  La comparazione con i numeri di fatto non semplifica le cose, e forse non è nemme-
no necessaria all’argomento. Sebbene, infatti, io non percepisca le anime, posso “com-
prendere” che cosa sia un’anima, e so che possedere un’anima è esattamente ciò che fa
la differenza tra gli esseri viventi e gli esseri non-viventi. Questo è tutto ciò che serve
all’argomento finale. Sulle difficoltà, in questo passo, dell’“assimilazione” dei numeri
agli esempi fisici, cfr. Gallop (1988, pp. 199-200).
10.  Sul problema, particolarmente “drammatico” in 104D1-2 a p. 105, cfr. la premessa
(2); l’appendice L’anima è un’idea?, in Trabattoni (2011, pp. 281-3), che offre una pano-
ramica delle posizioni degli studiosi e una soluzione che esclude che ciò che si cerca di
definire siano le Idee. Sullo stesso passo si veda anche Centrone (2000, pp. 230-1, n 166).
11.  La domanda è legittima: come infatti osserva Centrone (ivi, p. xxxi), Socrate sem-
bra qui ricorrere a cause dello stesso genere di quelle dei filosofi della natura criticati in
precedenza.
12.  Secondo Trabattoni (2011, pp. lxxix; 229, n 235), il nerbo della dimostrazione sta
proprio in questa inferenza, la cui debolezza è stata notata fin dall’antichità.
13.  Gallop (1988, pp. 218-22) mostra in modo molto articolato i problemi che qui si
sollevano riguardo al presunto attacco della morte all’anima. (1) Il concetto di morte
proposto all’inizio del Fedone (cfr. cap. 1) non sembra qui utilizzabile, perché l’anima
deve ammettere la morte (e non rifiutarla), se per morte si intende la separazione anima-
corpo. A questa obiezione forse si può rispondere dicendo che la morte propriamente
riguarda l’essere vivente, cioè un essere dotato di corpo e anima (cfr. 106E-107A). (2) È
difficile comprendere in questo passo (e anche in 106E7) la nozione di “attacco della
morte”. (3) Ci si chiede se Platone postuli l’esistenza dell’Idea di Morte come contraria
a quella di Vita, cosa che sarebbe paradossale (l’Idea di Morte sarebbe immortale in
quanto Idea!).
Cronologia della vita e delle opere

Il resoconto delle origini familiari e dell’ambiente sociale di Platone ci è


presentato da Diogene Laerzio:

Platone, ateniese, fu figlio d’Aristone e Perittione. Sua madre, per la sua fami-
glia, risaliva fino a Solone. In effetti, Solone aveva per fratello Dropide, padre
di Crizia, a sua volta padre di Callescro, a sua volta padre di Crizia (che fu uno
dei Trenta tiranni) e di Glaucone, padre di Carmide e Perittione, che con Ari-
stone ebbe per figlio Platone, sesto nella discendenza da Solone. [...] Dicono
anche che il padre di Platone discendesse da Codro, figlio di Melanto, i quali
sono detti da Trasillo1 discendenti di Poseidone. [...] Platone è nato, come dice
Apollodoro2 nelle Cronache nel corso dell’ottantottesima Olimpiade, nel setti-
mo giorno del mese di Targelione [metà maggio 428/427], il giorno in cui gli
abitanti di Delo dicono che sia nato Apollo. Ed è morto, come dice Ermippo3,
durante un banchetto di nozze nel primo anno della cent’ottava Olimpiade
[348/47], all’età di 81 anni (dl, iii, 1-2).

Platone aveva quindi un pedigree di tutto rispetto, discendendo da So-


lone (vi secolo a.C.), primo legislatore di Atene e uomo che era stato
capace di garantire alla città una relativa concordia anche dopo la sua
morte, per quasi due secoli; e da Crizia e Carmide, figure molto in vista
ma ben più inquietanti. In particolare Crizia, lo zio materno, fu uno dei
Trenta tiranni, gruppo di potere dei più sanguinari. I Trenta tiranni si
insediarono ad Atene nel 404 a.C. (quando Platone aveva circa 24 anni)
dopo aver rovesciato la democrazia, e furono a loro volta rovesciati dopo
pochi mesi, con la restaurazione della democrazia.
L’atteggiamento di Platone nei confronti della politica appare in
tutta la sua portata in una lettera a lui attribuita, la Lettera vii. General-
mente ritenuta dagli studiosi autentica, essa testimonia dell’impegno
politico che accompagnò Platone per tutta la vita. In essa si racconta
che Platone, trovandosi coinvolto in politica per la prima volta all’epo-
124 leggere il “fedone” di platone

ca del colpo di Stato dei Trenta tiranni cui si è accennato, se ne ritrasse


quasi subito inorridito, avendone constatato il carattere violento e op-
pressivo. Non migliore si rivelò però ai suoi occhi il ritorno della de-
mocrazia, responsabile del processo e della morte di Socrate, avvenuta
nel 399 a.C. La condanna di Socrate aprì un conflitto tra la dimensione
politica, cui Platone apparteneva per tradizione, e l’esercizio critico del
pensiero filosofico che egli aveva acquisito in quanto allievo di Socrate.
Da questo momento in poi Platone non smise di riflettere sul rapporto
tra filosofia e politica, come testimoniano non solo i suoi dialoghi più
famosi, quali la Repubblica, il Politico, le Leggi, ma anche la testimo-
nianza biografica nella Lettera vii. Platone spiega che maturò la con-
vinzione che solo un “potere filosofico” poteva porre fine ai mali della
città. Nella Repubblica egli aveva prospettato una città ideale, che pre-
vedeva alla sua guida i filosofi; ma è importante sottolineare che questa
convinzione spinse Platone a operare anche sul piano pratico, almeno
secondo quanto attestato dalla Lettera vii. Platone, infatti, compì ben
tre viaggi in Sicilia, a rischio della sua stessa vita, allo scopo di convince-
re prima il tiranno di Siracusa Dionisio i (durante il primo viaggio, av-
venuto verso il 388 a.C.), poi il figlio Dionisio ii (negli altri due viaggi,
risalenti al 366 e al 361 a.C.) a stabilire una sorta di “governo filosofico”
non tirannico e illuminato. Le spedizioni fallirono miseramente a causa
di ingenuità, sospetti e intrighi. Ma Platone dimostrò di essere non solo
uomo di parole ma anche di azione, e altrettanto fecero alcuni allievi
della sua scuola – l’Accademia, da lui fondata ad Atene probabilmente
intorno al 387 a.C., dopo il primo viaggio in Sicilia, e frequentata da
allievi illustri, tra cui Aristotele.
Platone cominciò a scrivere i suoi dialoghi dopo il 399 a.C., l’anno
del processo e della morte di Socrate. Essi, però, sono quasi tutti ambien-
tati nel trentennio precedente, nell’arco che va dalla morte di Pericle
(429 a.C.) fino al colpo oligarchico dei Trenta tiranni (404 a.C.) e alla
restaurazione democratica (403 a.C.).
I dialoghi costituiscono la quasi totalità delle sue opere, se si eccet-
tuano l’Apologia di Socrate, ritenuta opera giovanile, e le 13 lettere, quasi
tutte considerate inautentiche. Gli studiosi tendono a raggrupparli cro-
nologicamente in tre gruppi su cui non c’è un accordo totale, sebbene si
sia raggiunto un esito abbastanza uniforme:
1) dialoghi giovanili (in cui forte sembra essere l’influenza di Socrate):
Carmide, Critone, Eutifrone, Gorgia, Ippia Minore, Jone, Lachete, Prota-
gora, Eutidemo, Ippia Maggiore, Liside, Menesseno, Repubblica (libro i);
cronologia della vita e delle opere 125

2) dialoghi della maturità (in cui l’influenza socratica si attenua via via
con l’introduzione di elementi dottrinali nuovi): Menone, Cratilo, Fedo-
ne, Simposio, Repubblica (libri ii-x), Teeteto, Fedro, Parmenide;
3) dialoghi della vecchiaia (in cui oramai l’influenza socratica è pratica-
mente assente): Timeo, Crizia, Sofista, Politico, Filebo, Leggi4.

Note
1.  Grammatico vissuto all’epoca di Tiberio (i sec. d.C.), responsabile di aver suddiviso
i dialoghi platonici (più un gruppo di 13 lettere attribuite a Platone) in 9 tetralogie.
2.  Storico ateniese vissuto nel ii-i secolo a.C.
3.  Ermippo di Smirne (iii sec. a.C.), biografo peripatetico, seguace di Callimaco.
4.  Sugli altri dialoghi tramandati nel corpus platonico sono stati espressi in modo vario,
complesso, e non sempre convincente, giudizi di inautenticità. I dialoghi in questione
sono: Alcibiade i, Alcibiade ii, Ipparco, Amanti, Teage, Clitofonte, Minosse, Epinomide
(l’unico ritenuto all’unanimità e fin dall’antichità inautentico). Non sembra invece
corretto il giudizio di inautenticità espresso di recente su Leggi, Ippia maggiore e Ione
(Trabattoni, 2005, p. 25).
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