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Leggere Il Fedone Di Platone
Leggere Il Fedone Di Platone
Carocci editore
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Maddalena Bonelli
Leggere il “Fedone”
di Platone
isbn 978-88-430-7779-3
Avvertenza 11
Introduzione 13
3. La reminiscenza (72E-77D) 43
Questioni di metodo 67
L’obiezione di Simmia: l’anima come armonia 68
L’obiezione di Cebete:
l’anima come un vecchio tessitore 71
Le risposte di Socrate: osservazioni preliminari 72
Conclusione 113
Note 115
Bibliografia 127
Indice analitico 00
La morte di Socrate
le ultime disposizioni, e che poi congeda; per il messo che gli viene ad
annunciare che è ora di bere la cicuta e che scoppia in lacrime. E per
Critone, co-protagonista di quest’ultima parte, che cerca in tutti i modi
di ricondurre Socrate a occupazioni pratiche, chiedendogli quali sono
le ultime disposizioni, come vuole che venga seppellito, oppure pregan-
dolo di rinviare ancora per un po’ l’assunzione della cicuta12. Socrate si
sottrae a tutti questi tentativi in modo sereno ma fermo, e rimprovera da
ultimo anche gli amici che, vedendolo bere la cicuta, scoppiano in lacri-
me. Forse, la frase che più esprime il senso dell’atteggiamento di Socrate
è quella che il filosofo rivolge agli amici, e che si trova in esergo al cap. 7
di questo volume: «Non riesco a persuadere Critone che io sono que-
sto Socrate che ora sta discutendo e mettendo in ordine ciascuna delle
cose dette, invece egli crede che io sia quello che tra poco sarà cadavere»
(115C). Il senso e la profondità della frase risulteranno chiari dopo aver
esaminato in dettaglio le dimostrazioni dell’immortalità dell’anima.
1
Il suicidio e la natura della morte (61B-69E)
pensa che alla fine della giornata si suiciderà. Da una parte si dovreb-
be rispondere di no, poiché è lo Stato che lo uccide, condannandolo a
bere la cicuta: in questo senso, il suo caso è diverso da quello dello stoi-
co Seneca, che decide di tagliarsi le vene. D’altro canto, Socrate avrebbe
potuto facilmente lasciare Atene e mettersi in salvo, come nel dialogo
omonimo Critone gli chiede di fare. Tutto sommato, però, la domanda
se Socrate pensa di suicidarsi oppure no appare terminologica, dal mo-
mento che sappiamo esattamente che cos’è successo.
Ma a voi come miei giudici voglio oramai rendere ragione di come a me sembri
ragionevole che un uomo che abbia realmente trascorso la sua vita nella filosofia
non abbia paura quando è sul punto di morire, e che abbia la speranza che là
potrà avere i più grandi beni, quando sarà morto. E come, dunque, le cose stiano
effettivamente così, cari Simmia e Cebete, io cercherò di dirvi (63E-64A).
Crediamo che la morte sia qualche cosa? [...] E che cos’altro, se non la separa-
zione dell’anima dal corpo? E che questo è l’essere morto: da una parte il corpo,
separato dall’anima, che è divenuto solo per sé stesso, dall’altra l’anima, distac-
cata dal corpo, che continua a esistere sola per sé stessa? (64C).
osservare che Socrate non pesa nulla, non ha il naso camuso e non ha
mai mangiato nulla. Di tutta evidenza, a partire da questa teoria, l’im-
mortalità platonica risulta completamente differente da quella cristiana,
in cui è l’uomo nella sua interezza a essere immortale.
Socrate discute questo argomento in 65B: «E che dici riguardo alla stes-
sa acquisizione della sapienza (phronesis)? Il corpo è di impedimento
oppure no, qualora lo si prenda come compagno in questa indagine?».
30 leggere il “fedone” di platone
Che ben strana cosa, o amici, sembra essere ciò che gli
uomini chiamano piacere! E come meravigliosamente
si trova per natura in rapporto con ciò che sembra il
suo contrario, il dolore! L’uno e l’altro non vogliono
trovarsi contemporaneamente nell’uomo, ma se se ne
insegue uno e lo si afferra, ci si trova in certo modo co-
stretti ad afferrare anche l’altro, come se fossero attac-
cati a un unico capo, pur essendo due.
Fedone, 60B
La teoria socratica che abbiamo visto nel cap. 1 mira a pensare e a parla-
re legittimamente dell’anima come separata dal corpo. Essa però, come
osserva giustamente Cebete (70A), non dice nulla sull’esistenza dell’a-
nima una volta avvenuta la separazione. L’anima, infatti, potrebbe dis-
solversi immediatamente dopo l’evento (come suggerisce Cebete), op-
pure durare per un qualche tempo e poi corrompersi (come avviene per
il corpo nella maggior parte dei casi). Ed è a questo punto che Socrate,
convinto della bontà dell’osservazione di Cebete, inizia a presentare le
prove dell’immortalità dell’anima.
Il primo argomento, cosiddetto “ciclico”, si basa su un principio che
avrà larga fortuna nella filosofia antica: il principio dei contrari. Esso
sarà ripreso e sviluppato da Aristotele nella sua fisica e nella logica. Con
la prima prova Socrate incomincia dunque a dimostrare qualcosa sull’e-
sistenza dell’anima. In effetti, non è facile capire che cosa si voglia real-
mente dimostrare. O forse il problema è che all’inizio si vuole dimostra-
re una cosa, ma di fatto la dimostrazione che viene sviluppata arriverà a
dimostrare qualcosa di molto più debole.
Quello che Socrate vuole dimostrare è che l’anima esiste dopo la mor-
te dell’essere umano (e vivente), cioè dopo la separazione dell’anima dal
corpo. Alla richiesta di Cebete di dimostrare l’esistenza dell’anima dopo
la morte, Socrate (70C), in effetti, risponde proponendo di esaminare
la seguente questione: le anime degli uomini che hanno cessato di vivere
34 leggere il “fedone” di platone
Esaminiamo [...] se le anime degli uomini che sono morti si trovano nell’Ade.
C’è un antico discorso che abbiamo ricordato, secondo cui laggiù ci sono anime
giunte da qui, e nuovamente giungono e provengono dai morti (ghignontai ek
ton tethnenton). Se le cose stanno così, che i vivi nuovamente provengono dai
morti (ghignesthai ek ton apothanonton), forse che laggiù non ci saranno le no-
stre anime? Infatti, non potrebbero nuovamente generarsi (eghignonto) se non
esistessero, e questa è una prova sufficiente che le cose stanno così, se veramente
diventasse evidente che i vivi non possono provenire da null’altro se non dai
morti (ghignontai ek ton tethneoton) (70C).
che altrimenti risulta chiaro, è che lo stesso discorso può e deve essere
presentato per la coppia “attaccato a un’anima/separato da un’anima”;
se l’argomento ciclico funziona per l’immortalità dell’anima, dovrà fun-
zionare anche per l’immortalità del corpo.
Passiamo ora alla traduzione di ghignomai. Il verbo in greco è ambi-
guo, e può avere più significati (cfr. Gallop, 1988, p. 104): 1. diventare F,
dove “F” è una proprietà, per esempio diventare bianco; 2. nascere; 3.
venire a essere; ecc.
Contrariamente a ciò che fanno la maggior parte dei traduttori, adot-
terò qui per la maggior parte delle occorrenze il significato di “diventare
F”. Si tratta di una decisione non condivisa da tutti, ma giustificata dal
seguito del testo, in cui Socrate presenta la teoria dei contrari, e soprat-
tutto degli esempi che vanno chiaramente nella direzione della traduzio-
ne qui privilegiata (Barnes, 1978, pp. 401-2).
Proseguendo nella lettura del testo, vediamo che Socrate considera
necessario dimostrare (i) (le anime “provengono nuovamente” dai mor-
ti) per poter poi dimostrare (iii) (le anime esistono nell’Ade).
due cose sono contrarie se e solo se una è F e l’altra è F*, dove “F” e “F*”
indicano due proprietà contrarie.
In ogni caso, un modo per enunciare il principio dei contrari è il se-
guente:
Pc = è necessario che, per ogni cosa che possiede una proprietà che fa
parte di una coppia di proprietà contrarie, quest’ultima non derivi da
null’altro che dal suo contrario.
Questo principio solleva due questioni.
1) Che cosa si intende per “contrario”?
2) Come spiegare in modo più chiaro la derivazione del contrario dal
suo contrario, quel “da”?
Chiariamo questi due aspetti considerando gli esempi che Socrate pro-
pone per chiarire il principio dei contrari. Egli sembra presentare due tipi
di esempi. Gli esempi del primo tipo (70E) sono coppie di contrari come
bello/brutto, giusto/ingiusto; gli esempi di secondo tipo (70E-71A)
sono: a) una cosa diviene più piccola dopo (ek) essere stata dapprima più
grande, e viceversa; b) una cosa diviene più debole dopo (ek) essere stata
più forte; c) una cosa diviene più veloce dopo (ek) essere stata più lenta ecc.
Dagli esempi dati risulta chiaro che Socrate sta parlando di proprie-
tà contrarie che una cosa possiede. Si tratta di proprietà contrarie per-
ché, come possiamo vedere nel passo posto in esergo di questo capitolo
(60B), esse possono essere possedute da una stessa cosa, ma non nello
stesso momento.
Inoltre, dagli ultimi esempi che abbiamo visto (piccolo/grande, de-
bole/forte ecc.), sembra che il discorso di Socrate implichi che la cosa
che giunge a possedere una delle due proprietà contrarie, debba aver pos-
seduto immediatamente prima l’altra delle due proprietà contrarie (ek,
in questi esempi, viene tradotto, e deve essere tradotto, non con “da”, ma
con “dopo”).
Ora, i primi esempi presentati da Socrate (bello/brutto; giusto/in-
giusto) non appaiono dei buoni esempi perché non rientrano nel tipo di
contrario che Socrate sembra avere in mente: una cosa che diventa bella
non deve essere stata necessariamente brutta immediatamente prima, e
lo stesso discorso vale per giusto/ingiusto (è anche il problema che tro-
viamo nella citazione posta all’inizio di questo capitolo, che riguarda la
relazione tra piacere e dolore). Forse, però, questi vengono da Socrate
trasformati in esempi di secondo tipo: in 71A, infatti, Socrate afferma
che una cosa diventa peggiore dopo essere stata migliore; una cosa di-
venta più giusta dopo essere stata più ingiusta. Gli esempi del secondo
l’argomento ciclico 39
Non dici che al vivere è contrario l’essere morto? [...]. E che essi divengono l’u-
no dopo l’altro (ghignetai ex allelon)? [...]. Quindi, dopo ciò che è vivo cosa
viene? – ciò che è morto – [...]. E dopo ciò che è morto? – Bisogna necessaria-
mente convenire che si tratta di ciò che è vivo. – E dunque, Cebete, dopo ciò
che è morto viene ciò che è vivo [...]. Quindi – disse Socrate – le nostre anime
esistono nell’Ade (71D-E).
Questioni finali
Proviamo a rispondere alle seguenti questioni: (1) di quali contrari parla
Socrate? (2) È vero che vita/morte sono contrari? (3) Che cosa vuole
precisamente dimostrare Platone? Quindi: qual è la conclusione dell’ar-
gomento?
(1) Vita e morte devono rientrare in un certo tipo di proprietà contrarie.
Si tratta di proprietà che non possono trovarsi in un oggetto contempo-
raneamente. Inoltre, esse sono tali che se un oggetto giunge a possedere
l’argomento ciclico 41
anime nell’Ade» (71E), egli vuol dire “dunque, ciascuno di noi, almeno
per un certo periodo di tempo, esiste e nello stesso tempo possiede la
proprietà di essere morto”, cioè, esiste prima di incarnarsi. Questo, come
sappiamo, non implica ancora l’immortalità dell’anima. Inoltre, l’argo-
mento lascia cadere, come abbiamo visto, il riferimento al post mortem.
La conclusione, secondo le parole di Socrate, concerne allora esclusiva-
mente l’esistenza dell’anima prima della nascita (cioè, prima della cadu-
ta nel corpo), e non l’esistenza dell’anima post mortem. In effetti, ciò che
Socrate sembra dimostrare è che l’anima esiste nell’Ade, cioè che esiste
pur possedendo la proprietà di essere morta. Infatti, l’Ade è tradizional-
mente il luogo dei morti.
Socrate però aggiunge un’osservazione che sembra spiegare perché
va dimostrato il passaggio morte-vita, ovvero la premessa (i), e non il
passaggio vita-morte:
Dunque, dei due processi del divenire relativi a questa coppia, l’uno risulta es-
sere chiaro: infatti il morire è sicuramente chiaro, o no? [...]. Ma allora – riprese
Socrate – cosa faremo? Non gli corrisponderà il divenire contrario, ma in que-
sto specifico caso la natura sarà zoppa? (71E).
Gli uomini, una volta interrogati, se li si interroga bene, dicono da sé ogni cosa
com’è. Certamente, se in essi non si trovassero una conoscenza (episteme) e un
ragionamento corretto (orthos logos), non sarebbero capaci di farlo. Inoltre,
qualora qualcuno li metta davanti a figure geometriche, o qualcos’altro di simi-
le, qui avrà la prova più sicura che le cose stanno così (73A-B).
Ma quando ci si ricorda di qualcosa a partire dalle cose simili, non è forse neces-
sario che si sperimenti questo: pensare sì o no che, dal punto di vista della somi-
glianza, la cosa sia manchevole rispetto a quella di cui ci si è ricordati? (74A).
la reminiscenza 47
Le Idee
Nel Fedone Platone ricorre più volte alle Idee per affrontare diversi
nodi problematici. Qui esse vengono introdotte per la prima volta, a
partire dall’esempio dell’idea di “Uguale in sé”, mentre nei capitoli suc-
cessivi verranno invocate sia per mostrare la loro affinità con l’anima
(cfr. cap. 4), sia come vere cause del divenire e dell’essere delle cose
(cfr. cap. 6). Ma vediamo come vengono introdotte a proposito della
teoria della reminiscenza:
Noi affermiamo in qualche modo che c’è qualcosa di uguale, non voglio dire un
legno uguale a un altro legno, o una pietra uguale a un’altra pietra, né null’altro
di questo genere, ma qualcosa di diverso da tutte queste cose, l’Uguale in sé
(auto to ison). Possiamo dire che esso è qualcosa, oppure nulla? (74A-B).
Per prima cosa, osserva Socrate, diciamo che “l’uguale è qualche cosa”,
cioè esiste. Esso non si identifica con l’uguaglianza tra questi due pezzet-
ti di legno o tra questi due sassi, ma è differente da essi, esiste indipen-
dentemente da essi ed è l’Uguale in sé.
Socrate introduce qui la “Forma” o “Idea”: l’Uguale in sé (o il Bello
in sé, o il Giusto in sé) è una tipica espressione platonica per designare
48 leggere il “fedone” di platone
La conclusione dell’argomento
della reminiscenza
Prima dunque che incominciassimo a vedere, a sentire e a far uso degli altri
sensi, bisognava che in qualche modo ci trovassimo ad aver già acquisito cono-
scenza (episteme) dell’Uguale in sé, che cosa esso sia, se dovevamo riportare a
quello gli uguali che derivano dalle sensazioni, ché tutti bramano per essere tali
quali quello, mentre sono ben più imperfetti di lui (75B).
si attacca a un corpo, che prima sia separata da un corpo; (3) risulta così
per Socrate anche dimostrato (e questo grazie a tutti e due gli argomenti,
come egli afferma in 77C), che essa debba esistere dopo essersi separata
dal corpo, visto che deve nuovamente riattaccarsi ad un corpo.
Ma in che senso questa conclusione deriva dalla combinazione di
entrambi gli argomenti? In effetti Socrate aveva precedentemente affer-
mato che l’argomento ciclico da solo prova sia la pre-esistenza che la
post-esistenza dell’anima (cfr. 72A-D), mentre d’altro lato l’argomen-
to della reminiscenza non sembra aver nulla a che fare con l’esistenza
post mortem, ma solo con quella precedente alla reincarnazione (Gallop,
1988, pp. 135-6).
Come che sia, Simmia e Cebete non sono persuasi, il che segna il
passaggio a un nuovo argomento sull’immortalità dell’anima.
L’immortalità dell’anima
in virtù della sua affinità con le Idee
Cebete e Simmia manifestano un timore: che l’anima si disperda nel
momento in cui esce dal corpo. Socrate decide dunque di provare a
esorcizzare questa paura e comincia, com’è solito fare, a porre delle
domande su cui costruire il proprio ragionamento sull’immortalità
dell’anima.
56 leggere il “fedone” di platone
Dunque, riprese Socrate, bisogna che noi ci poniamo siffatta domanda: a quale
tipo di cosa si addice subire questa affezione, il disperdersi; per quali cose con-
viene temere che ciò avvenga; e a quale tipo di cosa non si addice subire questa
affezione? E ancora, occorre ulteriormente indagare, quale delle due cose è l’a-
nima e, in conseguenza di ciò, confidare o temere per la nostra anima (78B).
Non è forse a ciò che è stato composto e che è composto per natura che convie-
ne subire ciò, essere decomposto nello stesso modo in cui è stato composto? Se
invece c’è qualcosa che si trova a essere non composta, non è forse a questa sola
che non conviene subire queste cose? (78C).
L’essenza in sé, del cui essere diamo ragione interrogando e rispondendo, per-
mane sempre invariabilmente secondo le stesse cose, oppure è ora in un modo,
ora in un altro? L’Uguale in sé, il Bello in sé, ciascuna cosa che è in sé ciò che è,
forse che accolgono mai un qualsiasi mutamento? Oppure, ciascuna di queste
entità che è, essendo uniforme in sé e per sé, permane invariabilmente secondo
le stesse cose, e non accoglie mai in nessun caso e in nessun modo alcuna alte-
razione? (78D).
Che dire invece delle molteplici cose belle, per esempio uomini, cavalli, mantel-
li, o qualsivoglia altre cose di siffatto genere, o delle cose uguali, o di tutte le cose
che sono di quelle omonime? Permangono forse secondo le stesse cose, oppure
tutto al contrario di quelle, né in riferimento a sé stesse, né le une rispetto alle
altre, non permangono mai, per così dire, in nessuna maniera secondo le stesse
cose? (78D-E).
Queste cose potresti toccarle, vederle, percepirle con gli altri sensi, ma per quel-
le che permangono secondo le stesse cose non vi è nient’altro perché tu le possa
cogliere eccetto il ragionamento dell’intelletto: cose di questo genere non sono,
infatti, invisibili e non si lasciano scorgere? (79A).
60 leggere il “fedone” di platone
Socrate affronta ora la quarta domanda (79B). Come sappiamo, noi sia-
mo costituiti da un corpo e da un’anima. Socrate considera il corpo e
l’anima presi separatamente, stabilendo una relazione di somiglianza e
parentela rispettivamente tra corpo e cose sensibili da un lato, e anima e
Forme dall’altro. Lo scopo è quello di dimostrare che l’anima è incorrut-
tibile come le Idee, mentre il corpo, come le cose visibili, è corruttibile.
Per ciò che riguarda il corpo, poniamo attenzione al modo di espri-
mersi di Socrate: «a quale delle due specie diremo che il corpo sia più
simile e più congenere? Al visibile» (79B). Il corpo ha più somiglianza
e più parentela (comparativi) con il visibile rispetto all’anima. Perché?
Perché esso è visibile, e quindi condivide una caratteristica col mondo
sensibile (che appunto è visibile).
La conclusione di Socrate è che il corpo ha più somiglianza e paren-
tela (dell’anima) con le cose che non rimangono mai identiche, perché
in definitiva trascina l’anima verso di esse: «quando l’anima si avvale
dei sensi per indagare qualche cosa, viene trascinata dal corpo nella di-
rezione delle cose che non permangono mai secondo le stesse cose (ta
oudepote kata tauta echonta)» (79C).
In seguito, troviamo un ulteriore argomento (80A-B), che, per quan-
to riguarda il corpo, viene da Socrate sviluppato come segue:
– quando l’anima e il corpo sono insieme, la natura (physis) prescrive
che il corpo serva e si lasci guidare dall’anima;
– ora, ciò che serve e che è guidato è simile al mortale;
– quindi, il corpo è la cosa più simile (nel testo greco troviamo il su-
perlativo omoiotaton) all’umano, mortale, multiforme, inintelligibile,
soggetto a dissoluzione, e che non è mai in sé stesso;
– quindi, è al corpo che si addice di dissolversi rapidamente.
In modo parallelo Socrate cerca di stabilire una relazione di so-
miglianza tra l’anima e le Forme, che pare più problematica di quella
corpo-mondo sensibile. Infatti, in 79B, Socrate afferma che l’anima è
un’entità invisibile, e che quindi assomiglia più del corpo (omoioteron
sómatos) a ciò che è invisibile4. L’anima è più simile del corpo all’in-
visibile, in quanto è essa stessa invisibile, e condivide quindi una carat-
teristica con il mondo delle Idee, che è appunto invisibile. Socrate poi
aggiunge (79D) che ogniqualvolta l’anima fa delle ricerche da sola in
sé stessa (aute kath’auten, cioè “senza” la compagnia del corpo) allora va
verso il puro, verso ciò che è sempre, immortale e invariabile. Essa può
62 leggere il “fedone” di platone
fare questo perché è apparentata (sugghenes: della stessa stirpe, dello stes-
so genere) a esso (il puro, l’eterno ecc.). Ogni volta che si raccoglie in sé
stessa, si accompagna con il puro, eterno ecc. In questo modo l’anima, in
relazione alle Idee, diventa essa stessa permanente e invariata, stato che
viene da Socrate chiamato phronesis (conoscenza, saggezza). L’anima ha
quindi più somiglianza e più parentela (constatiamo ancora una volta
l’uso dei comparativi) con ciò che resta permanente e invariato.
Anche qui possiamo avvalerci dell’argomento che si trova in 80A-B
che, per quanto riguarda l’anima, si sviluppa nel modo seguente:
– quando l’anima e il corpo sono insieme, la natura prescrive che l’a-
nima guidi e domini il corpo. È da notare che qui, come anche in pre-
cedenza per il corpo, “natura” non si riferisce a “ciò che accade normal-
mente”, ma a “ciò che dovrebbe accadere”: in effetti, a volte, o forse nella
maggioranza dei casi, è il corpo che sembra dirigere l’anima, e non il
contrario;
– ora, ciò che dirige è simile al divino;
– quindi, l’anima è la cosa più simile o similissima (superlativo: omoio-
taton) al divino, immortale, intelligibile, unico (monoeides), indissolubi-
le e a ciò che resta in uno stato permanente e invariato (aei osautos kata
tauta echon);
– quindi, è all’anima che conviene essere totalmente indissolubile o
quasi.
Secondo gli argomenti visti, l’anima condivide con le Idee l’invisi-
bilità, l’essere prossima a ciò che non varia mai, l’essere simile al divino.
Essa quindi possiede una relazione di somiglianza con le Idee: essa è “più
simile” (comparativo) del corpo alle Idee, ed essa è la cosa più simile (o
similissima) alle Idee.
Ora, la relazione di somiglianza non viene definita da Socrate. Una
definizione confacente di “essere simile” potrebbe essere: condividere
una caratteristica. Per esempio, questo pennarello è simile a quest’altro,
perché possiede la stessa dimensione o lo stesso colore nero.
Inoltre, come si è visto, Socrate utilizza spesso la formula comparativa
“essere più simile di”: l’anima è più simile del corpo al mondo delle Idee;
il corpo è più simile dell’anima al mondo sensibile. Una definizione pos-
sibile di “essere più simile” può essere: condividere più caratteristiche.
Per esempio: questo pennarello è più simile di quello a quest’altro per-
ché possiede la stessa dimensione e lo stesso colore nero. In questo caso,
la relazione di “essere la cosa più simile” (o di essere similissima) può
voler dire possedere molte caratteristiche comuni.
l’affinità dell’anima con le idee 63
Quando l’anima indaga da sola in sé stessa, si dirige verso ciò che è puro, eterno,
immortale, che permane invariabilmente, e, in quanto è a esso congenere, essa
sempre procede con esso [...] e allora ha smesso di andare errando, e rispetto a
quelle cose sempre permane invariabilmente secondo le stesse cose [...] e questa
sua condizione non è ciò che si chiama sapienza (phronesis)? (79D).
L’idea che si trova alla base della phronesis, che è appunto uno stato di
sapienza e conoscenza dell’anima in relazione alle Idee, è quella di Em-
pedocle secondo cui “il simile conosce il simile”. La conoscenza da parte
dell’anima delle Forme invariate mostra così la sua somiglianza con esse.
L’anima quindi somiglia più alle cose invariabili che alle cose che non
lo sono.
Un problema che si pone è che Socrate non dice che l’anima è inva-
riabile, ma che essa è simile alle cose invariabili (79D-E). Egli deve dire
ciò poiché l’anima, quando utilizza i sensi, cade in preda all’errare, alla
vertigine, e diviene come ubriaca. Ci si può in tal caso chiedere se essa
64 leggere il “fedone” di platone
Socrate parla di quelle anime che, durante la loro vita nel corpo, non
hanno esercitato la purificazione filosofica, cioè non si sono esercitate a
distaccare l’anima dal corpo. In effetti, spiega, può succedere che un’a-
nima, nel momento della sua separazione dal corpo, sia infetta e non
pura, poiché essa considera vero e degno di interesse solo ciò che suc-
cede al corpo. Questo stato dell’anima pesa su di essa, l’appesantisce e
la costringe a rimanere come ombra visibile nel visibile, fino a quando
non rientra in un altro corpo. Al contrario, le anime che non fanno che
fuggire dal corpo, dice Socrate, non ritorneranno più sulla terra. Ora, le
anime cattive, quelle che restano a vagare perché appesantite dal sensi-
bile, secondo Socrate si reincarneranno in esseri il cui comportamento è
identico alle occupazioni “corporee” a cui esse si sono dedicate nella loro
precedente vita. In effetti, Socrate sostiene che (81E-82A) gli uomini che
non hanno fatto nulla salvo gozzovigliare, fornicare, essere violenti e
bere sprofonderanno in corpi d’asino; quelli invece che hanno praticato
l’ingiustizia, la rapina, la tirannia, sprofondano in corpi di lupi, sparvieri
e nibbi. C’è poi una terza forma di incarnazione, più positiva (82A-B):
coloro che hanno coltivato le virtù sociali e pubbliche, nate dall’abitudi-
ne e senza l’intervento della filosofia, si incarneranno in corpi di animali
socievoli quali api, vespe o formiche; o anche nella specie umana, in uo-
mini dabbene.
Le osservazioni di Socrate sulle incarnazioni sono assai curiose, so-
prattutto in relazione a ciò che egli ha precedentemente detto, ossia che
la natura dell’anima è essenzialmente razionale in virtù della sua affi-
nità con le Forme. Ma, al di là di questo amusement socratico, che for-
se prende di mira una teoria della reincarnazione in animali di origine
pitagorica (Gallop, 1988, p. 144), l’idea è chiara: anche se l’anima può
pericolosamente “pendere” dalla parte del corpo piuttosto che da quella
dell’anima, questo non significa che essa si dissiperà, diventando corpo
66 leggere il “fedone” di platone
Questioni di metodo
Prima di presentare la propria obiezione, Simmia presenta considerazio-
ni interessanti a proposito della ricerca filosofica, che verranno riprese
da Socrate più tardi, quando parlerà nuovamente del metodo filosofico.
A me pare, Socrate, come forse anche a te, che in riferimento a tali argomenti,
avere una conoscenza certa1 in vita è o impossibile, o estremamente difficile.
D’altra parte, non sottoporre a prova le cose dette intorno a queste cose in qua-
lunque maniera, e non insistere prima di rinunciare a indagare da ogni punto
di vista, è proprio di un uomo senza vigore. Infatti, riguardo a questi argomenti
bisogna fare una sola fra queste cose: o apprendere in quale maniera stanno le
cose, o scoprirlo, oppure, se questo non è possibile, prendere, tra i ragionamenti
umani, il migliore e il più inconfutabile (85C-D).
L’obiezione di Simmia:
l’anima come armonia
Nella sua obiezione (85B-86D) Simmia fa osservare che lo stesso discor-
so che Socrate ha fatto a proposito dell’anima e del corpo può essere
applicato rispettivamente a un’armonia musicale e a una lira con le sue
corde. Da una parte, egli osserva, abbiamo l’armonia, che è incorporea,
invisibile, molto bella e divina, e possiede insomma le caratteristiche che
Socrate ha attribuito all’anima sulla base della sua somiglianza con le
Idee; dall’altra parte abbiamo la lira e le sue corde, che sono corporee,
composte, terrose (cioè materiali), apparentate a ciò che è mortale. Sup-
poniamo ora che la lira si rompa e le corde vengano tagliate o strappate.
Secondo il ragionamento di Socrate, si dovrebbe sostenere che l’armonia
le obiezioni di simmia e cebete 69
Crediamo che l’anima sia soprattutto questo: come il nostro corpo è teso e te-
nuto assieme da caldo, freddo, secco, umido e siffatti elementi, così la nostra
anima è una combinazione e un accordo di questi elementi, qualora siano me-
scolati tra loro in modo bello ed equilibrato (86B-C).
Siccome il nostro corpo si trova in uno stato di tensione interna tra gli
elementi materiali e le loro caratteristiche (come caldo/freddo, secco/
umido ecc.) e di coesione, grazie appunto all’azione di caldo/freddo,
secco/umido ecc., noi riteniamo che la nostra anima sia appunto la com-
binazione e l’accordo di queste coppie di proprietà contrarie, secondo
una proporzione opportuna. La conseguenza sarà che anche se l’anima
è, come l’armonia, estremamente divina, invisibile, incorporea, bellissi-
ma, essa perirà quando il nostro corpo si allenta (cioè quando la nostra
composizione non sarà più bella ed equilibrata, a causa forse del preva-
lere di uno degli elementi con le sue caratteristiche sugli altri), o si tende
in modo squilibrato (a causa delle malattie).
In sostanza, il discorso di Simmia è il seguente: le proprietà che l’a-
nima condivide con le Idee (invisibilità, incorporeità e divinità) appar-
tengono anche all’armonia. Tuttavia, queste proprietà, prese insieme o
separatamente, non implicano l’immortalità. Così come l’armonia, in-
tesa come la intende Simmia, non sopravvive alla lira e alle corde, allo
stesso modo l’anima, pur possedendo le caratteristiche viste, potrebbe
non sopravvivere al corpo.
L’analogia tra anima e armonia non è perfetta (Gallop, 1988, p. 147):
infatti, secondo l’ultimo argomento di Socrate, l’anima basa la propria
indistruttibilità sulla non-composizione o semplicità, mentre invece
70 leggere il “fedone” di platone
L’obiezione di Cebete:
l’anima come un vecchio tessitore
Nella sua obiezione (86E-88B) Cebete prende di mira gli altri due ar-
gomenti presentati da Socrate, quello dei contrari e quello della remi-
niscenza. Egli accetta la conclusione dei due argomenti secondo cui la
nostra anima esiste prima della nostra nascita; accetta pure, contro ciò
che Simmia ha appena detto, la superiorità dell’anima sul corpo per ciò
che riguarda il vigore e la durata. Tuttavia, egli ritiene che la conclusione
secondo cui l’anima esiste dopo la nostra morte non sia stata dimostra-
ta. Si tratta di una critica che abbiamo già visto e che Cebete riprende
servendosi anche lui di un’immagine, quella del vecchio tessitore e dei
vestiti che indossa e che ha egli stesso tessuto.
Immaginiamo che un vecchio tessitore muoia: si potrebbe sostene-
re la tesi che il tessitore non sia morto, cioè che esista ancora, fornendo
come prova di questa affermazione il fatto che i vestiti che il tessitore
portava, e che aveva egli stesso tessuto, esistono ancora. L’idea di tale
argomento è la seguente: l’anima, paragonata al tessitore, pre-esiste al
suo corpo – il vestito che essa ha tessuto; l’anima tessitrice è certamen-
te più robusta del corpo-vestito che essa ha tessuto e che continua a
portare (essa può anche aver indossato più di un vestito da lei tessuto),
di modo che, quando essa muore, si potrebbe credere che essa non sia
veramente morta, visto che i suoi vestiti restano là, intatti. Tuttavia,
secondo Cebete, questo ragionamento “di tipo indiziario” (Decleva
Caizzi, 1987, p. 85), che sostiene che il tessitore non sia morto, è mol-
to debole. Si può, infatti, immaginare che il tessitore abbia tessuto e
usurato una serie di vestiti; ma è in relazione all’ultimo vestito che ha
tessuto e che indossa che il tessitore può morire per primo. L’anima,
in altre parole, può essersi incarnata in molti corpi, ma morire per pri-
ma rispetto all’ultimo corpo in cui si è incarnata; morire per prima
perché il corpo dopo la morte resta un po’ là prima di imputridirsi e
polverizzarsi.
L’anima, insomma, pur ammettendo che sia un’entità di lunga du-
rata, può morire. Essa utilizza un certo numero di corpi, ma alla fine
arriva al suo ultimo corpo rispetto al quale perisce per prima, per usu-
ra. Si può perfino essere d’accordo sul fatto che l’anima esista per un
certo periodo dopo la morte (di un corpo); ma anche se esiste dopo la
morte di un corpo per un certo numero di anni, si può ben immagina-
72 leggere il “fedone” di platone
re che una volta o l’altra essa possa perire, e per sempre. D’altra parte,
aggiunge Cebete, non possiamo renderci conto dello stato di usura
della nostra anima, perché essa è impercettibile. Quindi, conclude Ce-
bete, non bisogna essere troppo contenti di morire, a meno che non
si sia capaci di dimostrare che l’anima è assolutamente immortale e
indistruttibile. Ecco come Socrate riassume efficacemente l’obiezione
di Cebete:
Mi pare che Cebete convenga con me su questo, che l’anima è più duratura del
corpo, ma <dice> che questo rimane oscuro a tutti, cioè che l’anima, consumati
molti corpi molte volte, nell’abbandonare il suo ultimo corpo, proprio allora
essa stessa perisca, e che questo appunto sia la morte, la distruzione dell’anima,
poiché il corpo non cessa mai di perire (91D).
[Socrate:] Quale dei due ragionamenti scegli, quello secondo cui l’appren-
dimento è reminiscenza o quello secondo cui l’anima è armonia? [Simmia:]
Molto di più il primo, Socrate. Quest’ultimo, infatti, mi si è presentato senza
dimostrazione, con una certa verosimiglianza e plausibilità, ciò da cui anche
la maggior parte degli uomini trae opinione [...]. Invece il ragionamento sulla
reminiscenza e l’apprendimento fu dimostrato attraverso un’ipotesi degna di
essere accolta. Fu detto, infatti, che la nostra anima esiste così prima di entrare
in un corpo, proprio come esiste la sua essenza, che porta il nome di “ciò che
è” (92C-E).
Malgrado il fatto che Simmia sia già convinto, Socrate non rinuncia a
confutare con ben due argomenti la teoria dell’anima-armonia.
La prima dimostrazione
contro la teoria dell’anima-armonia
Ebbene Simmia [...] ti pare che all’armonia o a qualche altro composto si addice
trovarsi in uno stato in qualche modo diverso da quello in cui si trovano gli
elementi che la compongono? – In nessun modo. – E neppure, credo, di fare
e di subire niente altro al di là di ciò che fanno o subiscono i suoi elementi? –
Dunque, all’armonia non conviene dirigere gli elementi di cui è composta, ma
seguirli (92E-93A).
La seconda dimostrazione
contro la teoria dell’anima-armonia
Questa premessa stabilisce invece che un’anima non può avere gradi di
armonizzazione basati sulla perfezione e sull’estensione.
Socrate avrebbe potuto fermarsi qui. Se, infatti, si interpreta (1) nel
senso che ogni armonia ammette dei gradi (ciò che Socrate sembra fare
un po’ più tardi), allora (1) e (2) implicheranno la conclusione secondo
cui l’anima non è un’armonia. Inoltre, si potrebbe chiedere a “Socrate”
perché esclude che l’anima possa ammettere dei gradi. Si potrebbe invo-
care come contro-esempio la teoria aristotelica della gerarchia di anime,
considerandola in termini di gradi.
Come che sia, Socrate prosegue nella dimostrazione.
(3) Alcune anime sono buone, altre malvagie (93B8-C2).
dei gradi di armonia anche per l’anima. La premessa (4) sembra strana: se
dico che l’anima è un’armonia, non dico che una buona anima è, o contie-
ne, un’armonia, e soprattutto non dico nulla riguardo a virtù e vizi.
Dalle premesse (1) e (2) Socrate trae la conclusione seguente:
(6) un’armonia che non è più o meno armonia rispetto a un’altra armonia, non
sarà neppure più o meno armonizzata (93D6-8).
(7) Ciò che non è più o meno armonizzato partecipa dell’armonia in misura
uguale (93D9-11).
(10) Un’anima non partecipa più di un’altra al vizio o alla virtù (93E7-10).
(11) Un’anima, se essa è un’armonia, non può mai partecipare del vizio (94A1-7).
Le cause platoniche
Il vocabolario causale
Perché due si aggiunge a otto (dia + una frase con verbo all’infinito, che
andrebbe tradotta letteralmente con “a causa dell’aggiungersi di due a
otto”).
Tutte queste risposte (“grazie a”, “a causa di”, “perché”) costituiscono
appunto la aitia, il “perché”. Non ci si può quindi limitare a tradurre
aitia sempre con “causa” perché non sempre questi “perché” hanno effi-
cacia causale (Vlastos, 1969, p. 295). Il senso di aitia sembra più generale
di quello di causa (ibid.) e, a seconda del contesto, bisognerà piuttosto
utilizzare i termini “spiegazione” o “ragione”. Infatti, dai moderni in poi,
incluso Hume (che lo critica), il concetto di causa è piuttosto quello di
una cosa che opera, svolge un’attività, che ha un effetto su un’altra cosa.
Un esempio è quello della mia mano, che è causa del muoversi della palla
(a cui essa imprime un movimento). Invece la causalità antica (e qui ci si
riferisce non solo a Platone, ma anche ad Aristotele) si identifica piutto-
sto con il “perché una cosa è o diventa F”, perché ha o assume la proprietà
86 leggere il “fedone” di platone
La delusione di Socrate
5) Perché x è bello?
Chiamare cause cose di questo genere è assurdo. Se qualcuno dicesse che, senza
avere queste cose, ossa, nervi, e tutto quello che ho, non sarei capace di fare le cose
che mi sembra di dover fare, direbbe la verità; ma dire che esse sono il “per questo”
(dia tauta) faccio ciò che faccio, e che le faccio con l’intelletto, ma non scegliendo
il meglio, significherebbe molta e vasta trascuratezza nel parlare (99A-B).
90 leggere il “fedone” di platone
Se tu affermassi che è per la testa che una cosa è più grande e un’altra più picco-
la, temeresti, credo, che ti obiettassero prima di tutto che è a causa di una stessa
cosa che il più grande è più grande e il più piccolo, piccolo; e poi, che il più
le risposte di socrate 91
grande è più grande per la testa, che è piccola; e questo è prodigioso, che una
cosa sia grande a causa di ciò che è piccolo (101A-B).
Se si afferma che è «per la testa» che una cosa è più grande e l’altra
piccola, si obietterà che è in ragione di una stessa cosa che il più grande
è più grande e il più piccolo, piccolo. Il punto della critica è che “una
testa” non può essere la ragione del grande (o del più grande) perché essa
può essere anche la ragione del piccolo (o più piccolo). In questo modo,
Socrate arriva a elaborare un’altra condizione che caratterizza una cosa
come causa: (2) una stessa causa non può produrre due effetti opposti.
Se si afferma che è «per la testa» che una cosa è grande, si obietterà
che sarà grazie a una cosa piccola (la testa) che una cosa sarà grande. Il
punto della critica è che se ciò che è causa dell’essere F (esempio: grande)
di x è esso stesso G (piccolo), allora F e G non saranno contrari13. Vie-
ne qui solo suggerita una terza condizione necessaria perché qualcosa
funzioni come causa: (3) ciò che funge da causa deve possedere la stessa
proprietà che trasmette all’oggetto che subisce l’effetto.
Mi mossi per questa via: ponendo in ciascun caso come ipotesi l’affermazio-
ne che ritenevo più solida, le cose che mi sembrava si accordassero con essa, le
consideravo come vere, sia rispetto alle cause che a tutte le altre cose; quelle che
invece non si accordavano, le consideravo come non vere (100A)15.
92 leggere il “fedone” di platone
Ponendo come ipotesi che esiste un Bello in sé e per sé, un Buono, un Grande, e
così per tutte le altre cose [...] esamina ora ciò che consegue (ta exes)16 dall’am-
mettere quelle realtà, se anche a te pare lo stesso che a me. Infatti, a me sembra
che, se vi è una cosa bella al di fuori del Bello in sé, per nessun’altra cosa è bella
se non perché (dioti) partecipa del Bello; e così dico per ogni cosa. Concedi
questa causa? (100B-C).
perché x è (o diviene) F?
x è F a causa dell’F in sé
3) l’idea che funge da causa deve possedere la stessa proprietà che tra-
smette (il Bello in sé è esso stesso bello, e non può mai essere brutto)17.
Sarà l’ultima condizione a risultare fondamentale per la dimostrazio-
ne finale del Fedone. Alla fine del passo in analisi, Socrate ritorna sul me-
todo ipotetico che ha presentato in contrapposizione a quello dei natu-
ralisti. Egli raccomanda a Cebete di attenersi a questa ipotesi sicura ogni
volta che sarà obbligato a rispondere a domande della forma “perché x è
F?”, cioè perché x possiede una determinata proprietà.
Un esempio di ipotesi è, come si è visto: (i) l’F in sé (il Bello, il Gran-
de ecc.) esiste; (ii) le cose particolari (sensibili) <che sono F> sono F
perché partecipano dell’F in sé.
Cebete sarà in accordo con questa ipotesi ogni volta che fornirà delle
risposte della forma
x è F a causa dell’F in sé
Socrate aggiunge che risposte di questo tipo saranno in accordo con l’i-
potesi anche a dispetto di eventuali obiezioni: «Se qualcuno volesse at-
tenersi all’ipotesi stessa, non lo lasceresti perdere e non gli risponderesti
fino a quando non avrai esaminato se le cose che ne risultano si accordi-
no o non si accordino tra loro?» (101D).
Forse Socrate pensa qui ai sofisti. In effetti, abbiamo visto nel passo
che precede immediatamente le risposte di Socrate a Simmia e Cebete
(89D-90C), che bisogna guardarsi da coloro che passano il loro tempo
a mettere a punto dei discorsi contraddittori, che rischiano di condurre
quelli che li ascoltano alla misologia, cioè all’odio per i discorsi. Sono i
sofisti che esercitano l’antilogia (l’arte dei discorsi contraddittori) e l’e-
ristica (l’arte che si limita a fornire dei mezzi e degli strumenti per otte-
nere la vittoria in un contraddittorio, senza alcun interesse per la verità).
Per quel che riguarda l’antilogia (menzionata nuovamente da Socrate in
101E), in maniera generale essa fa apparire la stessa cosa alle stesse per-
sone come dotata di predicati opposti o addirittura contraddittori. Più
precisamente, si tratta di un metodo argomentativo che, partendo da
una determinata proposizione, per esempio la posizione dell’avversario,
le risposte di socrate 95
Qualora ci fosse bisogno di render ragione della stessa ipotesi, non ne daresti
conto allo stesso modo, ponendo ancora una volta come fondamento un’altra
ipotesi, quella che ti sembrasse la migliore tra quelle che sono in alto, fino a che
tu giungessi a qualcosa di sufficiente? (101D-E).
Il senso più naturale della formula «render ragione della stessa ipotesi»
è “dare una giustificazione all’ipotesi di partenza”. In effetti, quando si
assume una proposizione come ipotesi, ci si preoccupa che essa sia la più
forte. Socrate ora sembra pensare a qualcuno che potrebbe presentare la
seguente obiezione: “siamo d’accordo, la conclusione segue dall’ipote-
si; ma come stabilire che l’ipotesi è vera?”. L’obiezione è comprensibile
perché, in effetti, non sembra sufficiente adottare un’ipotesi ad hoc solo
perché essa produce la conclusione desiderata. Socrate afferma: «tu, Ce-
bete, darai conto dell’ipotesi agendo esattamente nella stessa maniera».
Questo sembra voler dire, dando una nuova ipotesi, che a sua volta ri-
chiede una nuova ipotesi: ipotesi → ipotesi → conclusione.
Ci sarebbe quindi una sorta di percorso a ritroso che, di ipotesi in
ipotesi, giunga a un’ipotesi ultima, “sufficiente” o “soddisfacente”. Il
problema è però rappresentato dall’ipotesi sicura che Socrate considera
fin dall’inizio, quella secondo cui le cose F sono F perché partecipano
dell’idea F (che esiste).
Questa ipotesi aveva come conclusioni le sue applicazioni nel mondo
sensibile: x è bello a causa della Bellezza; x è grande a causa della Gran-
dezza; ecc.
In che modo, quindi, pensare a una nuova ipotesi che dia una giu-
stificazione all’ipotesi delle Idee nello stesso modo in cui l’ipotesi delle
96 leggere il “fedone” di platone
Consideriamo l’esempio
Ma in realtà – disse – sei d’accordo che dire che Simmia è più grande di Socrate
non è vero così come viene espresso nelle parole? E che Simmia non è più gran-
de per sua natura, per il fatto di essere Simmia, ma per la grandezza che si trova
ad avere? Né che è più grande di Socrate perché questi è Socrate, ma perché
Socrate ha la piccolezza rispetto alla sua grandezza? (102B-C).
Il punto è che Socrate vuole presentare una distinzione, che diverrà capi-
tale, tra due tipi di proprietà: (1) le proprietà essenziali (cioè, le proprietà
che appartengono a un oggetto per natura, e che questo oggetto non
smette mai di possedere), e (2) quelle che saranno chiamate proprietà
accidentali (cioè le proprietà che “capitano”2 all’oggetto, e che possono
tuttavia mancare all’oggetto, senza che per questo esso cessi di essere sé
stesso). Vale la pena però di osservare che non ci sono proprietà essenzia-
li/accidentali tout court: essere essenziale/accidentale è una relazione tra
una proprietà e un oggetto (o, sul piano linguistico, tra un predicato e un
soggetto), cosicché una proprietà, come ad esempio il calore, è essenziale
a una cosa (il fuoco) e accidentale per un’altra cosa (il forno).
Nel caso in oggetto, “Simmia è più grande di Socrate” è una predica-
zione accidentale, perché Simmia è più grande relativamente a Socrate,
ma non necessariamente ed essenzialmente.
Invece, “Simmia è uomo” è una predicazione essenziale: “uomo” ap-
partiene a Socrate essenzialmente, nel senso che se egli non avesse tale
proprietà non sarebbe Socrate.
Le predicazioni accidentali sono di vario tipo, ma qui Socrate con-
sidera quelle relazionali. Nell’esempio dato, Simmia “supera” Socrate
(così in realtà si esprime Socrate) non a causa del suo essere Simmia,
ma a causa di una proprietà che si trova ad avere accidentalmente, cioè
la grandezza; ugualmente, che Simmia “sia superato” da Fedone non di-
pende dal fatto che Fedone è Fedone, ma dal fatto che Fedone possiede
(accidentalmente) la grandezza rispetto alla piccolezza (accidentale) di
Simmia3.
la prova finale dell’immortalità dell’anima 99
Parlo così perché voglio che tu condivida la mia opinione. A me pare, infatti,
non solo che la Grandezza in sé non voglia mai essere contemporaneamente
grande e piccola, ma che anche la grandezza in noi non voglia mai accogliere la
piccolezza né esserne superata; ma, delle due cose l’una: o fugge e cede il posto,
qualora il suo contrario, la piccolezza, le si avvicini, oppure, al sopraggiungere
di quella, si distrugge (102D-103A).
Socrate osserva che ciò che accade alla Grandezza in sé capita anche alla
grandezza in noi: essa non accoglierà mai in sé stessa il piccolo. Due
100 leggere il “fedone” di platone
Per gli dei, ma nei nostri ragionamenti precedenti non ci eravamo trovati d’ac-
cordo proprio sul contrario di quello che si dice ora, cioè che, a partire dal più
piccolo proviene il più grande e dal più grande il più piccolo, e che questo è il
divenire per i contrari, a partire dai loro contrari? (103A).
la prova finale dell’immortalità dell’anima 101
Bravo, disse Socrate, te ne sei ricordato, ma non cogli la differenza tra ciò che si
dice ora e ciò che si diceva prima [...]. Allora, infatti, parlavamo delle cose che
possiedono contrari, che si chiamano così per il nome di questi contrari, mentre
ora parliamo degli stessi contrari, dei quali, in quanto si trovano nelle cose, le
cose denominate prendono il nome (103B-C).
Sulla base di quello che Socrate ha appena detto, si è pensato che qui si
trovi per la prima volta una distinzione tra “cose” e loro “attributi”.
Dunque, disse Socrate, per alcune di queste cose accade che non solo l’Idea in
sé ha il diritto di avere per sempre lo stesso nome, ma possiede lo stesso diritto
anche un’altra cosa, che non è l’Idea, ma che dell’Idea possiede eternamente il
carattere, fino a quando esiste (103E).
Per chiarire ciò che Socrate intende prendiamo l’esempio del fuoco: an-
che se il fuoco non si identifica con il Caldo in sé, ne possiede tuttavia il
carattere (morphe) essenziale, che è, appunto, il caldo; ed esso possiede
questo carattere per sempre. Socrate afferma che ciò che si è detto per
il fuoco avviene “per alcune di queste cose”, cioè solo in certi casi. Egli
pone una limitazione alla generalizzazione, che può essere interpretata
in due modi possibili (Gallop, 1988, p. 199):
a) solo per alcune delle Idee si dà il caso che esistano delle “cose” sensi-
bili che, pur non essendo delle esemplificazioni sensibili di queste Idee,
ne possiedono essenzialmente e sempre il carattere. In tal caso, Socrate
starebbe dicendo che per certe Idee, come per esempio il Grande e il
Piccolo, non vi è nulla di comparabile “in natura” al fuoco e alla neve, nel
senso che non vi sarà nulla che è sempre grande o sempre piccolo;
b) Socrate starebbe dicendo che solo certi elementi fisici sono caratte-
rizzati da un solo membro di una coppia di opposti. Ci sono cioè certi
elementi, come l’acqua, che rimangono tali anche se acquisiscono pro-
prietà opposte (caldo e freddo, anche se l’acqua non resta la stessa qua-
lora invece “si avvicini” la solidità); vi sono, al contrario, certi elementi
che non possono rimanere sé stessi se perdono la loro proprietà, come il
fuoco o la neve.
“dispari”. Ci sono però altre entità che, pur non identificandosi con la
forma del dispari, devono essere sempre chiamate, oltre ad avere il pro-
prio nome, anche “dispari”: si tratta giustamente dei numeri dispari uno,
tre, cinque, sette, nove..., cioè della metà della serie dei numeri natura-
li. Il tre, ad esempio, non potrà mai diventare pari: esso preferirebbe,
dice Socrate, perire o ritirarsi, piuttosto che divenire pari. Ecco allora la
conclusione di Socrate (104B): sebbene il numero tre non possieda un
opposto (nessun numero gli si oppone) deve comunque e sempre esse-
re caratterizzato da un membro di una coppia di opposti (il Dispari), e
quindi deve escludere l’altro membro della coppia, il Pari.
L’introduzione del numero sembra importante per giungere a par-
lare dell’anima. L’anima sarà concepita da Socrate come un’entità che
agisce sul corpo in maniera causale, cioè che introduce la vita nel cor-
po, nel modo in cui il fuoco introduce il calore nei corpi, e la neve il
freddo: per trasmissione di proprietà. Tuttavia, il fuoco e la neve sono
empiricamente osservabili indipendentemente dai corpi che riscaldano
o che raffreddano, in maniera tale che noi possiamo conoscerli indipen-
dentemente dalle cose calde o fredde. L’anima, invece, non può essere
conosciuta indipendentemente dagli esseri viventi. La sua presenza nel
corpo non è osservabile, quindi la sola garanzia che abbiamo per attri-
buire un’anima a un corpo è l’osservazione della vita di un corpo. In tal
senso, il passaggio ai numeri sembrerebbe utile, poiché i numeri, così
come l’anima, non sono sensibili né osservabili indipendentemente dal-
le cose che si numerano9.
A questo punto sorge una difficoltà: così come per il grande e per
il piccolo, per il fuoco e per la neve, anche per le proprietà dei numeri
Socrate invoca la metafora del “ritirarsi” e del “perire”. In particolare,
la metafora viene utilizzata per il numero tre (104C). Come compren-
dere il ritirarsi del tre (o il perire) quando la forma del pari l’attacca? È
possibile trovare un modo di immaginare l’alternativa “cedere il posto/
perire” per i numeri?
Consideriamo una cassetta di venti mele. L’essere pari del numero
venti “cede il posto” quando noi consideriamo le mele come un insieme
(una cassetta), senza contarle; e “perisce” quando a queste mele aggiun-
giamo, per esempio, altre tre mele.
Alla fine del passo in analisi, Socrate afferma: «Ma pure, disse, certo
il due non è contrario al tre» (104C). Socrate insiste così sul fatto che
il tre non è un opposto (cioè, non fa parte di una coppia di opposti),
e questo per mostrare che, in definitiva, il rifiuto di ammettere un op-
104 leggere il “fedone” di platone
posto può essere legittimo anche per cose che non si identificano con
degli opposti (come pari e dispari, caldo e freddo). In sostanza, questa
operazione permette di passare dalle proprietà alle entità caratterizza-
te essenzialmente da tali proprietà. Tale operazione risulta ovviamente
funzionale all’anima: anche se l’anima non si identifica con un opposto
(cioè, con una proprietà che fa parte di una coppia di proprietà opposte),
essa esclude un opposto: la morte.
L’ultima dimostrazione
dell’immortalità dell’anima
L’argomento presentato da Socrate (104C-107A) non è difficile ma è
assai lungo: gli studiosi vi hanno individuato una quindicina di passaggi.
C’è poi un aspetto che rende le cose un po’ complicate. L’argomento
chiaramente riguarda, e deve riguardare, le anime individuali, e non l’i-
dea di anima (che, come tale, è evidentemente eterna e incorruttibile).
Tuttavia, a volte esso chiama in causa in modo inatteso le Idee. Socrate,
cioè, non si esprime sempre chiaramente: a volte sembra parlare del-
le Idee, a volte delle cose che vi partecipano, dove il riferimento delle
“cose” oggetto di dimostrazione resta indeterminato. In 104C-D, per
esempio, Socrate afferma che non solo le Idee contrarie non sopportano
che l’una sopravvenga all’altra, ma non lo sopportano anche “certe altre
cose”. Ci si può domandare se egli, con “certe altre cose” intenda riferirsi
alle Idee di entità come ad esempio il Fuoco, oppure al fuoco individua-
le. In particolare, nel proporre il tentativo di definire la natura di “queste
cose” (104C12), (cioè, delle entità che non sopportano il sopraggiungere
dei contrari), Socrate appunto parla di “queste cose” (tauta, pronome
dimostrativo neutro plurale), dove “queste” potrebbe riferirsi o alle Idee
che non sopportano il sopraggiungere dei contrari, oppure alle cose in-
dividuali che, partecipando delle suddette Idee, si comportano alla stes-
sa maniera (come Socrate grande che non accetta l’arrivo del piccolo)10.
Resta quindi un problema di interpretazione e ci si chiede se sia possibile
integrare i riferimenti alle Idee nell’argomento sull’anima individuale,
nel caso specifico quella di Socrate.
La prima premessa dell’argomento l’abbiamo già vista:
(1) ci sono “alcune cose” che, pur non identificandosi con i contrari, non am-
mettono che sopraggiunga un membro di una coppia di contrari (104C7-9).
la prova finale dell’immortalità dell’anima 105
(2) Queste cose sono tali che, qualora siano occupate da un’idea A (che non
possiede un contrario), debbano anche assumere un’idea F (che fa parte di una
coppia di contrari) (104D1-3).
Per spiegare quello che dice, Socrate riprende l’Idea del tre: il tre “occu-
pa” un’entità, che diviene non solo “tre” (l’Idea A, non contraria), ma
anche “dispari” (l’Idea F, contraria, cioè membro di una coppia di con-
trari).
(3) Tali cose non ammetteranno mai l’opposto dell’Idea F, cioè, G, quindi esse
sono dei non-G (104D9-E6).
Socrate continua a utilizzare l’esempio del tre: il tre non ammetterà mai
il pari, quindi è un non-pari.
Qui occorre osservare che Socrate sembra parlare delle relazioni tra
Idee, nel caso specifico, dell’Idea del Tre, che partecipa dell’Idea del Di-
spari: in effetti, in questo passo il termine “idea” ricorre continuamente.
Tuttavia, nell’esempio, egli parla dei tre, al plurale, cioè o dei numeri tre,
che sono molteplici perché li usiamo in varie operazioni (per esempio,
3+3), oppure delle cose che sono tre (per esempio, queste tre mele). Par-
lerebbe quindi delle cose che, partecipando della Triade, partecipano del
Dispari e non partecipano dell’Idea del Pari. Socrate però ritorna imme-
diatamente dopo all’Idea, concludendo che l’Idea del Tre (la Triade) è
non-pari.
(4) Tali cose potrebbero essere definite come cose che portano l’Idea F in qua-
lunque cosa nella quale entrano (105A1-4).
Possiamo per esempio dire che la natura del fuoco è tale che esso condu-
ce sempre con sé il calore in qualunque cosa in cui esso entri. Allo stesso
modo, possiamo dire che la natura del tre è tale che esso conduce sempre
il non-pari in qualunque cosa in cui esso entri.
Da (3) e da (4) deriva
106 leggere il “fedone” di platone
(5) le cose che (essendo A) portano l’Idea F in qualunque cosa in cui entrano,
non ammetteranno mai l’Idea G (contraria) (105A4-5).
Riprendiamo l’esempio del fuoco, della neve, del numero che porta con
sé il dispari: il fuoco conduce il calore; la neve conduce il freddo; il nu-
mero tre conduce il non-pari, cioè il dispari.
Se ripensiamo a ciò che abbiamo visto a proposito delle cause plato-
niche, ricorderemo che Socrate aveva fornito come spiegazioni causali
sicure non queste ultime, ma proprio quelle che ora vengono abbando-
nate. Le spiegazioni erano: x è caldo a causa del Caldo in sé; x è malato
a causa della Malattia.
la prova finale dell’immortalità dell’anima 107
(6) se una cosa (x) è tale che, trovandosi in qualunque y, y sarà F, x potrà essere
detto portare F in y.
Per esempio: se, ogni volta che il fuoco entra in qualsiasi corpo, questo
corpo sarà caldo, si potrà dire che il fuoco porta il calore nel corpo.
I passaggi (7)-(10), che verranno ora introdotti, arrivano finalmente
all’anima, e sono semplicemente un’applicazione dei passaggi (1)-(6) al
caso appunto dell’anima:
(7) l’anima è tale che, trovandosi in un corpo, il corpo sarà vivo (105C9-D).
(8) l’anima porta la vita in qualunque corpo che essa occupa (105D3-5);
(10) l’anima non ammetterà mai l’opposto di ciò che essa porta. Si arriva così
alla conclusione che l’anima non può morire (105D10-12).
la prova finale dell’immortalità dell’anima 109
Introduzione
1. Per una raccolta delle fonti su Socrate e i socratici cosiddetti minori, cfr. Giannan-
toni (1990).
2. Si veda la descrizione che ne fa Nicandro di Colofone (ii sec. a.C.) nei suoi poemi
sui veleni (Rimedi contro i veleni animali e Antidoti).
3. Clark (1952) ritiene invece che Socrate richieda il sacrificio per una sua passata guari-
gione da una malattia fisica, ma la sua interpretazione resta abbastanza isolata. Per una
rassegna delle posizioni degli studiosi riguardo a queste celebri righe si veda Trabattoni
(2011, p. 269, n 275), che riprende la distinzione delle interpretazioni (allegorica o a
carattere personale) avanzata da Most (1993), e critica le soluzioni, forse effettivamente
un po’ troppo sottili, dello stesso Most e di Crooks (1998).
4. Fedone, interrogato da Echecrate su chi fosse presente (59B), menziona per gli ate-
niesi Apollodoro (il narratore del Simposio platonico), Critobulo (citato da Senofonte
nel Simposio e nell’Economico, di cui è interlocutore), Ermogene (fratello di Callia, uno
degli interlocutori del Cratilo, menzionato anche da Senofonte nei Memorabili), Epi-
gene (citato nei Memorabili e nell’Apologia di Platone), Eschine di Sfetto (menzionato
nell’Apologia di Platone e autore di alcuni dialoghi socratici non giunti fino a noi),
Antistene (celebre fondatore della scuola cinica), Ctesippo (personaggio del dialogo
platonico Eutidemo), Menesseno (da cui prende il nome l’omonimo dialogo di Plato-
ne). Per i presenti non ateniesi (59C), vengono ricordati Simmia, Cebete e Fedonda di
Tebe (tutti e tre menzionati da Senofonte nei Memorabili), Euclide e Terpsione di Me-
gara (i protagonisti del dialogo introduttivo del Teeteto platonico). Fedone non nomina
Critone (protagonista dell’omonimo dialogo platonico), che pure è il personaggio più
attivo della fine del dialogo, in cui viene descritta la morte di Socrate.
5. La divisione dei dialoghi nei tre periodi della giovinezza, maturità e vecchiaia, è stata
ribadita, sulla base di criteri stilistici e loro variazione, da Brandwood (1992) e Penner
(1992).
6. Che le anime ricevano in sorte un demone è concezione tradizionale, forse risalente
a Esiodo, Le opere e i giorni, 252 ss. (si veda Decleva Caizzi, 1987, p. 141).
7. Gli studiosi vedono qui un’allusione alla tradizionale Isola dei beati. Sulla reinter-
pretazione platonica delle credenze tradizionali circa il Tartaro e l’Isola dei beati, cfr.
Annas (1982b, p. 126), che sottolinea l’importanza del fatto che Platone situi questi
luoghi nel nostro mondo attuale, e non in un aldilà.
116 leggere il “fedone” di platone
8. Aristotele criticherà severamente la geografia e il sistema delle acque descritti nel
Fedone, dichiarandoli impossibili (Meteorologia, ii, 335b33-336a33).
9. Condivido la posizione di Trabattoni (2011, p. 233, n 237), che sostiene che Socrate
non intende prefigurare come possibile l’acquisizione di una verità definitiva sull’im-
mortalità dell’anima.
10. Questi sono atteggiamenti abbastanza comuni e riguardano in generale i miti
platonici. Annas (1982b, pp. 119-22) denuncia tali atteggiamenti perché limitanti e,
nel suo articolo, mostra che il rapporto mito-ragione in Platone è in realtà molto più
complesso.
11. Cfr., ad esempio, Trabattoni (2011, p. lxxxii) o Annas (1982b, pp. 128-9); quest’ul-
tima, però, ritiene che il mito del Fedone sia confuso, confondente e vago (ivi, p. 125),
in quanto Platone sembra oscillare fra una teoria della reincarnazione (cfr. cap. 4, Ciò
che avviene alle anime dopo la morte) e una teoria del giudizio universale (qual è espressa
nella parte cosmologica del mito), fra di loro inconciliabili.
12. In effetti, l’intervento di Critone sembra avere la funzione di far emergere il contra-
sto tra il filosofo e l’uomo comune (Decleva Caizzi, 1987, p. 149).
1
Il suicidio e la natura della morte (61B-69E)
1. Si tratta di un poeta e filosofo di modesto talento, che insegnava la virtù per 5 mine,
come si dice in Apologia, 20B.
2. Sull’origine pitagorica di tale dottrina, e in generale sul ruolo del pitagorismo nel
Fedone, si vedano Decleva Caizzi (1987, p. 24); Dixsaut (1991, pp. 44-65); Trabattoni
(2011, pp. xii-xv). Centrone (2000, pp. xxxiii-xxxv), pur riconoscendo aspetti pita-
gorici nel Fedone (come la presenza di Echecrate, portavoce della comunità pitagorica
di Fliunte, e la dottrina della metempsicosi) invita a evitare gli eccessi che hanno con-
dotto la tradizione a considerare il Fedone come un dialogo pitagorizzante.
3. Su questo intreccio si vedano ad esempio Decleva Caizzi (1987, p. 24); Dixsaut (1991,
pp. 12, 325, 327); Trabattoni (2011, p. 21). Interessante la n 18 di M. Valgimigli, riportata
in Centrone (2000, p. 176): «“Meditare” filosoficamente sull’immortalità dell’anima;
“favoleggiare” poeticamente sulle condizioni dell’anima dopo la morte».
4. Si veda il riferimento di Socrate alla «formula pronunciata nei Misteri» in Fedone
62B.
5. Per un’accurata analisi del termine phroura nella tradizione pre-platonica e in Pla-
tone, che conduce a preferire il senso di “posto di guardia”, si veda Di Giuseppe (1993,
pp. 1-22). In effetti, questo senso si adatterebbe meglio a ciò che Socrate dice subito
dopo, e cioè che gli dei si prendono cura di noi.
6. Sul senso della preferenza dei filosofi e sulla relazione (contraddizione o compati-
bilità?) tra essa e il divieto di suicidio, si è sviluppata una vivace discussione. A titolo
esemplificativo, cfr. Miles (2001); Warren (2001).
7. Socrate non parla degli dei tradizionali antropomorfici, oggetto di critica in uno
dei dialoghi cosiddetti “socratici”, l’Eutifrone (6A-C). Cfr. anche Repubblica, ii, 377E-
378C; 379A-C.
note 117
2
L’argomento ciclico (70A-72D)
1. Queste sono le traduzioni proposte, ad esempio, da Fabrini (in Lami, 1996): “nascere
di nuovo”, “rinascere”; Valgimigli (in Centrone, 1999; 2000): “rigenerarsi”; Martinelli
Tempesta (in Trabattoni, 2011): “rinascere”.
2. Sui problemi dell’argomento ciclico e sull’importanza di trattare “essere vivo/esse-
re morto” come “essere separato/essere unito” dell’anima e del corpo, si veda la nota
complementare L’“antapodosis”: problemi e tentativi di soluzione in Trabattoni (2011,
pp. 276-8). Cfr. anche n 5.
3. Fabrini (in Lami, 1996): “nascimento” e “nascere”; Valgimigli (in Centrone, 1999;
2000): “nascita” e “generarsi”; Martinelli Tempesta (in Trabattoni, 2011): “generazione”
e “nascere”.
4. Questa è la scelta di Valgimigli (in Centrone, 1999; 2000), forse per conservare una
coerenza nella traduzione del verbo, che traduce così il passo: «così, per esempio, quan-
do si generi qualche cosa di grande, non è necessario che si generi grande, in seguito,
da piccolo che era prima?». Invece, in questo caso Fabrini (in Lami, 1996), come Mar-
tinelli Tempesta (in Trabattoni, 2011), sceglie giustamente di tradurre ghigesthai con
“diventare”.
5. Frede (1999, pp. 42-3) critica in molti aspetti l’argomento ciclico, in particolare l’i-
dea del sostrato sottostante all’opposizione vita/morte (o sonno/veglia). Secondo la
studiosa, nel caso dell’anima, il postulato del sostrato continuo sembrerebbe una sorta
di petizione di principio (ivi, p. 43). In realtà, com’è stato fatto notare, il problema non
è il passaggio tra l’essere vivo e l’essere morto, ma quello della separazione-non separa-
zione dell’anima dal corpo, e in particolare la pretesa di dimostrare, sulla base dell’argo-
mento ciclico, che l’anima (pre)-esista separatamente dal corpo (Barnes, 2000, p. 316).
3
La reminiscenza (72E-77D)
1. Non è possibile dare qui un resoconto dei numerosi lavori su questo argomento. Pos-
siamo rinviare a qualcuno tra i più famosi e/o recenti (ad esempio Ackrill, 1973; Scott,
1995; Osborne, 1995; Dimas, 2003; Franklin, 2005; Lafrance, 2007, Brancacci, 2007;
Ferrari, 2007) e alla vivace analisi delle diverse posizioni che si trova in Trabattoni (2011,
pp. xxxiv-xlviii, 71-99).
2. Che qui Platone dia per assodata l’esistenza delle Idee è cosa abbastanza comune-
mente accettata (cfr. Ross, 1951; Bostock, 1986; Decleva Caizzi, 1987, p. 33; Gallop,
1988, p. 119; Dixsaut, 1991, p. 346, n 136; Centrone, 2000, p. xxiii). Recentemente,
Trabattoni e altri (ad esempio, Dimas, 2003) hanno invece sostenuto che la remini-
scenza non dia per scontata l’esistenza delle Idee. In particolare, in questo passaggio,
Platone non starebbe chiedendo se esistono le Idee, ma se esistono delle nozioni uni-
versali, le sole raggiungibili dagli uomini, che sarebbero copie delle Idee (che invece si
trovano nel mondo soprasensibile e non sono conoscibili dall’anima incarnata). Non
118 leggere il “fedone” di platone
4
L’affinità dell’anima con le Idee (78B-84B)
1. Centrone (2000, pp. xv-xvi) rileva giustamente come tale dimostrazione, mettendo
in luce la somiglianza dell’anima con le Idee, ne caratterizzi la natura, contraddicendo
almeno in parte quegli studiosi che ritengono che nel Fedone manchi un’analisi sulla
natura dell’anima.
2. Diversa l’interpretazione di Trabattoni (2011, p. 203, n 118), che invece pensa che
qui si stia parlando dell’esistenza delle Idee, interpretando “essere” come “esistere” e
“sostanza” come “realtà”.
3. Monoeides può voler dire o “che appartiene a una sola specie” oppure “che è il solo
membro della sua specie”. Qui il senso sembra essere il secondo.
note 119
4. Sulla fragilità dell’argomento dell’affinità (basato sul fatto che l’anima è invisibile
come le Idee, ma debole e soggiogata quando è asservita ai sensi) e per un tentativo di
mostrarne comunque la rigorosità, cfr. Polloni (1996). Vedi anche Ferrari (2007, pp.
79-83) sull’affinità anima-idee come fondamento epistemologico.
5. Anche se questa caratteristica è problematica, perché l’anima può divenire invariabi-
le, ma può anche, come abbiamo visto e vedremo, divenire variabilissima.
6. Polloni (1996, p. 6) osserva che, se Socrate lascia aperta la possibilità che l’anima sia
quasi indistruttibile, allora essa sarà distruttibile.
5
Le obiezioni di Simmia e Cebete (84C-91C)
1. Sulla formula «conoscenza certa» (to saphes eidenai), che richiama alcuni versi di
Senofane sulla contrapposizione tra sapere divino e sapere umano, cfr. Decleva Caizzi
(1987, p. 78).
2. Sulle alternative i) e ii), consuete in Platone (cfr. ad esempio Cratilo, 439B; Alcibiade
i, 106D; Protagora, 320B), si vedano Centrone (2000, p. 214, n 91); Trabattoni (2011,
p. 129, n 136).
3. Alcuni studiosi individuano in questa formula un riferimento alle dottrine orfico-
pitagoriche (cfr. Gallop, 1988, p. 146; Valgimigli in Centrone, 2000, p. 183, n 100), forse
polemico (Trabattoni, 2011, p. 131, n 137).
4. Circa l’origine, assai controversa, della dottrina esposta da Simmia, cfr. Trabattoni
(1988, pp. 53-8). L’autore ritiene che la tesi di Simmia implichi un riferimento a posi-
zioni storicamente assunte da qualcuno, mentre le conseguenze che vengono tratte nel
Fedone sono platoniche e in polemica con i pitagorici. Si veda anche Trabattoni (2011,
pp. lv-lvii; 133-4, n 140).
5. Sul concetto di anima-armonia in questo passo, e sulla diffusa concezione medica
antica della salute-armonia del corpo, cfr. Centrone (2000, pp. 214-5, nn 92-3).
6. Dixsaut (1991, p. 359, n 203) rinvia per il corpo-vestito a Empedocle (31 B 126 dk),
facendo però giustamente notare che il daimon empedocleo si limita ad abitare un cor-
po estraneo, non a farlo. Gallop (1988, p. 151) rinvia a Simposio, 207D-E, in cui si dice
che il corpo si rinnova di continuo, capelli, pelle, ossa, sangue, e che queste parti non
sono mai le stesse nell’essere vivente, che però resta sempre lo stesso.
7. Dorion (1993, p. 607, n 1, e p. 613) afferma che i termini “misologia” e “misologo”
sono verosimilmente neologismi platonici, che non si riscontrano in autori precedenti,
né avranno grande successo nella posterità. Nel suo articolo mostra che le occorrenze
dei termini appaiono soprattutto nel Lachete e nel Fedone, ma con significato molto
diverso: nel Lachete la misologia è un’avversione per i discorsi che nasce dalla consta-
tazione della discrepanza tra parole e atti di una stessa persona. Nel Fedone, invece, la
misologia è un’avversione per i ragionamenti che nasce dall’esperienza ripetuta della
discrepanza tra ragionamenti e loro oggetti. Solo con le Idee, che rappresentano oggetti
di conoscenza stabili, si potrà sconfiggere la misologia, strettamente legata alla minaccia
rappresentata dagli antilogici.
120 leggere il “fedone” di platone
8. Si pensi, ad esempio, all’argomento sul molteplice, da cui risulta che una cosa è con-
temporaneamente infinitamente piccola e infinitamente grande (Zenone, 29 B 1 dk).
9. Decleva Caizzi (1987, p. 90) pensa a Protagora; Trabattoni (2011, p. 149, n 151) ai
sofisti (cfr. Sofista, 225B, 232B), che si divertivano a contraddire qualunque discorso.
Centrone (2000, pp. 216-7, n 103) pensa in generale ai possessori di una tecnica impie-
gata a dimostrare due tesi contraddittorie, che comprendono sia i seguaci dell’eleatismo
come Zenone, sia i retori come Tisia e Gorgia, sia i sofisti.
6
Le risposte di Socrate (91C-102A)
1. La premessa (a*) è da premettere alla premessa (a), perché l’argomento risulti più
chiaro. La versione dell’argomento qui presentata è ripresa da Gallop (1988, p. 166). Per
una versione leggermente diversa, cfr. Trabattoni (1988, p. 59).
2. Sulla difficoltà di questa premessa, «la più importante e difficile di tutta la prova»,
cfr. Trabattoni (ivi, pp. 62-6).
3. Ma cfr. Trabattoni (ivi, p. 65), che ritiene che qui Socrate non si stia occupando della
natura fisica delle armonie (musicali e non), come invece fa nell’altro argomento (cfr.
pp. 79-80), ma dell’armonia “in quanto tale”, cioè del concetto e delle sue implicazioni
logiche.
4. Secondo Trabattoni (ivi, p. 67), le premesse (5)-(10) hanno lo scopo di esplicitare il
collegamento tra le premesse (1) e (2).
5. Per Trabattoni (ivi, p. 69), il ragionamento di Socrate potrebbe finire qui, ma Plato-
ne vi aggiunge un’altra parte per concludere con un’immagine a effetto che possa essere
persuasiva.
6. Trabattoni (2011, p. lxiv, n 93) non trova strana questa limitazione poiché ritiene
che, dato il contesto eleatico della trattazione, anche gli attributi come i soggetti sono
cose che “sono”, e quindi la loro comparsa e sparizione devono essere giustificate senza
far ricorso alla nascita dal nulla e alla distruzione nel nulla.
7. In Centrone (2000, pp. 218-9, n 121), si trova una bella e dettagliata analisi dei punti
a favore e contro l’attribuzione di un valore storico all’autobiografia di Socrate qui pre-
sentata. Cfr. anche Decleva Caizzi (1987, pp. 103-4).
8. Ma si veda Decleva Caizzi (1987, p. 106), che osserva come Socrate sembri qui ri-
portare un’opinione comune e non problematica, piuttosto che le teorie più raffinate
offerte dai filosofi della natura (come ad esempio Anassagora, che si chiede nel noto
frammento 59 B 10 dk come può sorgere un capello da ciò che non è capello, dando
così origine alla raffinata teoria delle “omeomerie”, in cui tutto è in tutto). Dello stesso
parere Valgimigli in Centrone (2000, pp. 187-8, n 138), e Centrone stesso (ivi, p. 2209,
n. 129), che rinvia a Vlastos (1969, p. 310, n 50).
9. Bicubito = 3 piedi (0 888 cm); 1 cubito = 1 piede (0 444 cm).
10. Sul Nous di Anassagora, si veda il frammento 59 B 12 dk.
11. Sulla distinzione tra causa e condicio sine qua non, quest’ultima trattata però questa
volta come una specie di causa (sebbene ausiliaria), cfr. Timeo, 46C-D.
12. Su questo presunto abbandono si veda la lunga nota di Centrone (2000, pp. 222-3,
n 144), che fa il punto su una questione difficile e controversa. Cfr. anche Ferrari (2008,
note 121
7
La prova finale dell’immortalità dell’anima
(102A-107B)
1. Cfr. cap. 4, p. 59; cap. 6, pp. 92-93.
2. Gli “accidenti” (sumbebekota) sono letteralmente delle “cose che capitano”, ma che
non sono sempre presenti.
3. Come osserva Trabattoni (2011, pp. 207-9, n 213), a Socrate preme qui dimostrare
che l’incompatibilità tra contrari riguarda gli stessi contrari e non i soggetti portatori
di contrari.
122 leggere il “fedone” di platone
4. Qui l’alternativa fuggire/perire non è messa ben in evidenza. Essa sarà più evidente
negli esempi successivi, forniti dallo stesso Socrate.
5. Per una rassegna, cfr. Gallop (1988, p. 195).
6. Tale spiegazione, suggerita dallo stesso Gallop (ibid.), è accettata da parecchi stu-
diosi come la più ragionevole (cfr., ad esempio, Decleva Caizzi, 1987, p. 129; Trabattoni,
2011, p. 209, n 215).
7. Si tratta di una giusta osservazione di Centrone (2000, p. 229, n 161), che mostra
anche come queste osservazioni aprano la strada alla distinzione aristotelica tra contrari
e sostrato che li accoglie.
8. Cfr. cap. 2.
9. La comparazione con i numeri di fatto non semplifica le cose, e forse non è nemme-
no necessaria all’argomento. Sebbene, infatti, io non percepisca le anime, posso “com-
prendere” che cosa sia un’anima, e so che possedere un’anima è esattamente ciò che fa
la differenza tra gli esseri viventi e gli esseri non-viventi. Questo è tutto ciò che serve
all’argomento finale. Sulle difficoltà, in questo passo, dell’“assimilazione” dei numeri
agli esempi fisici, cfr. Gallop (1988, pp. 199-200).
10. Sul problema, particolarmente “drammatico” in 104D1-2 a p. 105, cfr. la premessa
(2); l’appendice L’anima è un’idea?, in Trabattoni (2011, pp. 281-3), che offre una pano-
ramica delle posizioni degli studiosi e una soluzione che esclude che ciò che si cerca di
definire siano le Idee. Sullo stesso passo si veda anche Centrone (2000, pp. 230-1, n 166).
11. La domanda è legittima: come infatti osserva Centrone (ivi, p. xxxi), Socrate sem-
bra qui ricorrere a cause dello stesso genere di quelle dei filosofi della natura criticati in
precedenza.
12. Secondo Trabattoni (2011, pp. lxxix; 229, n 235), il nerbo della dimostrazione sta
proprio in questa inferenza, la cui debolezza è stata notata fin dall’antichità.
13. Gallop (1988, pp. 218-22) mostra in modo molto articolato i problemi che qui si
sollevano riguardo al presunto attacco della morte all’anima. (1) Il concetto di morte
proposto all’inizio del Fedone (cfr. cap. 1) non sembra qui utilizzabile, perché l’anima
deve ammettere la morte (e non rifiutarla), se per morte si intende la separazione anima-
corpo. A questa obiezione forse si può rispondere dicendo che la morte propriamente
riguarda l’essere vivente, cioè un essere dotato di corpo e anima (cfr. 106E-107A). (2) È
difficile comprendere in questo passo (e anche in 106E7) la nozione di “attacco della
morte”. (3) Ci si chiede se Platone postuli l’esistenza dell’Idea di Morte come contraria
a quella di Vita, cosa che sarebbe paradossale (l’Idea di Morte sarebbe immortale in
quanto Idea!).
Cronologia della vita e delle opere
Platone, ateniese, fu figlio d’Aristone e Perittione. Sua madre, per la sua fami-
glia, risaliva fino a Solone. In effetti, Solone aveva per fratello Dropide, padre
di Crizia, a sua volta padre di Callescro, a sua volta padre di Crizia (che fu uno
dei Trenta tiranni) e di Glaucone, padre di Carmide e Perittione, che con Ari-
stone ebbe per figlio Platone, sesto nella discendenza da Solone. [...] Dicono
anche che il padre di Platone discendesse da Codro, figlio di Melanto, i quali
sono detti da Trasillo1 discendenti di Poseidone. [...] Platone è nato, come dice
Apollodoro2 nelle Cronache nel corso dell’ottantottesima Olimpiade, nel setti-
mo giorno del mese di Targelione [metà maggio 428/427], il giorno in cui gli
abitanti di Delo dicono che sia nato Apollo. Ed è morto, come dice Ermippo3,
durante un banchetto di nozze nel primo anno della cent’ottava Olimpiade
[348/47], all’età di 81 anni (dl, iii, 1-2).
2) dialoghi della maturità (in cui l’influenza socratica si attenua via via
con l’introduzione di elementi dottrinali nuovi): Menone, Cratilo, Fedo-
ne, Simposio, Repubblica (libri ii-x), Teeteto, Fedro, Parmenide;
3) dialoghi della vecchiaia (in cui oramai l’influenza socratica è pratica-
mente assente): Timeo, Crizia, Sofista, Politico, Filebo, Leggi4.
Note
1. Grammatico vissuto all’epoca di Tiberio (i sec. d.C.), responsabile di aver suddiviso
i dialoghi platonici (più un gruppo di 13 lettere attribuite a Platone) in 9 tetralogie.
2. Storico ateniese vissuto nel ii-i secolo a.C.
3. Ermippo di Smirne (iii sec. a.C.), biografo peripatetico, seguace di Callimaco.
4. Sugli altri dialoghi tramandati nel corpus platonico sono stati espressi in modo vario,
complesso, e non sempre convincente, giudizi di inautenticità. I dialoghi in questione
sono: Alcibiade i, Alcibiade ii, Ipparco, Amanti, Teage, Clitofonte, Minosse, Epinomide
(l’unico ritenuto all’unanimità e fin dall’antichità inautentico). Non sembra invece
corretto il giudizio di inautenticità espresso di recente su Leggi, Ippia maggiore e Ione
(Trabattoni, 2005, p. 25).
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