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Memoria, identità e discorso pubblico

di Loredana Sciolla

1. Due componenti dell’identità


Identità e memoria appaiono strettamente collegate sia che si parli di un attore individuale sia
che si faccia riferimento a un attore collettivo. La teoria sociologica e gli studi storici hanno tuttavia
affrontato solo marginalmente questo duplice rapporto, tra identità e memoria, e tra identità individuale
e collettiva. Nella prima la dimensione temporale risulta perlopiù omessa o, a partire dai lavori classici
di Maurice Halbwachs, è trattata come “memoria collettiva”, come insieme di “quadri sociali” in cui la
memoria del singolo va ricondotta, ma raramente se ne indaga il ruolo che riveste nella formazione
dell’identità dei soggetti (individuali e collettivi) e dell’azione sociale. Ci si sofferma maggiormente
sui modi in cui la memoria individuale è plasmata da sistemi simbolici e pratiche rituali che hanno
nella comunità sociale la propria origine e fondamento, evidenziandone il carattere ricostruttivo e
selettivo. Gli studi storici, per i quali la dimensione temporale è costitutiva e che intervengono
direttamente a creare e ristrutturare l’immagine del passato, generalmente riferiscono la categoria di
identità a soggetti collettivi, perlopiù popoli e nazioni, e si limitano a darne una descrizione empirica,
come termine coestensivo con quello di “paese” e di “comune sentire” radicato in luoghi e eventi
particolari.
Poiché in queste note sosterrò che esiste un’analogia tra il modo in cui l’identità individuale si
collega alla memoria e quello con cui si connette l’identità collettiva, di un gruppo, una comunità o,
come dirò, una nazione, è necessario precisare in che senso la memoria entra nel processo di
formazione dell’identità. Ad una teoria sociologica dell’attore sociale, per quanto elementare, è utile
concepire l’identità non in termini essenzialisti, come una sostanza, una sorta di “anima” che il
soggetto “scopre” rivolgendo l’attenzione al proprio interno, ma come un’auto-organizzazione
dinamica, composta di parti che svolgono funzioni differenziate. Questa considerazione consente di
evitare di cadere in alcune semplificazioni del linguaggio ordinario sui soggetti collettivi che tende a
parlare di gruppi, partiti, nazioni allo stesso modo di persone in carne e ossa, attribuendo loro
un’unitarietà che è problematica anche per le persone naturali. Sono principalmente due le dimensioni
che emergono dagli studi socio-psicologici che si sono occupati del concetto di sé.
La prima, pur essendo stata chiamata in vari modi, indica l’operare all’interno del sé di una
componente attiva che si auto-riconosce come entità distinta dall’ambiente ed esplica la funzione di
controllo sia sul mondo esterno sia su una seconda componente del sé, più passiva, che nell’individuo
singolo è costituita dal riconoscimento degli altri. Mead (1934), che per primo ha distinto queste due
componenti funzionali, chiamando la prima “Io” e la seconda “Me”, non si nascondeva che l’equilibrio
tra le due parti non era sempre stabile e che potevano nascere problemi di incongruenza a livello del
sistema complessivo, ossia nello stabilire i nessi tra l’una e l’altra, l’identità essendo costituita
dall’insieme. Io preferisco usare altri termini per sottolineare che il concetto di identità prevede due
funzioni distinte che ripropongono solo in parte le due componenti del self descritte negli anni Venti da
Mead. Ho chiamato la prima funzione integrativa in quanto, integrando aspetti diversi, conferisce
stabilità e continuità nel tempo al soggetto e la seconda locativa, in quanto – attraverso processi di
classificazione e di riconoscimento sociale - consente di collocare l’individuo entro categorie più
ampie, entro confini che lo rendono affine agli altri che con lui li condividono (Sciolla 1983). Si può
anche dire che mentre in base alla dimensione locativa la persona si identifica con altri individui o
gruppi, ottenendone riconoscimento sociale, in base alla dimensione integrativa si differenzia dagli
altri, si individua, nel senso che diventa un soggetto con caratteristiche peculiari, individuali appunto.
2. Il ruolo della memoria
Il concetto di identità, nel complesso, indica la capacità di un soggetto di stabilire una continuità
temporale e consistenza simbolica, nonostante i cambiamenti e di fronte a eventi traumatici che la
minacciano. Esso, così inteso, si rivela utile per analizzare sia persone naturali sia entità collettive. Ciò
consente di evitare quelle false concretizzazioni che riguardano tanto gli individui quanto i gruppi. Il
livello a cui queste distinzioni vengono poste è concettuale e analitico. A questo livello l’individuo o il
soggetto/persona non è più concreto di quello di soggetto collettivo. Consente, inoltre, di chiarire un
punto piuttosto oscuro quando si parla di identità riferita a un soggetto collettivo. Questa non è
riducibile all’aggregazione dei suoi membri individuali. Se è vero che l’identità di un gruppo dipende,
almeno in parte, dalle motivazioni e dal sentimento di appartenenza dei singoli membri, tuttavia non si
esaurisce in queste. Le stesse dimensioni e funzioni che definiscono l’identità individuale
contraddistinguono anche l’identità collettiva. La differenza non riguarda le dimensioni/funzioni, che
sono analoghe ma, come ha sottolineato J.Coleman (1990) entro un quadro teorico rational choice, la
loro diversa collocazione. Mentre le due componenti del sé nel soggetto/persona sono collegate nella
medesima unità fisico-naturale, nell’attore collettivo questa divisione del sé corrisponde a parti
fisicamente differenti. La dimensione locativa è rappresentata dai confini territoriali e simbolici e dai
membri che vi sono inclusi, quella integrativa – attiva nella definizione di Coleman che si richiama a
Mead - dai suoi funzionari/dirigenti. In alcuni casi specifici, questa separazione fisica può valere anche
per i soggetti/ persone. Per alcune categorie di persone (i bambini, i servi, le donne in certe epoche e
società, le suore e i preti), infatti, il sé agente (la funzione integrativa) è dalla legge separato anche
fisicamente in quanto attribuito ad una parte esterna: il tutore nel caso del bambino; il marito o il padre
per le donne, il padrone per il servo, la chiesa per sacerdoti e suore.
In questo quadro, diventa centrale il ruolo della dimensione temporale della memoria, in quanto
è quest’ultima che – nella persona fisica come nei soggetti collettivi – assicura che un certo grado di
integrazione biografica o comunitaria sia mantenuta. Essa, dipanando un “filo” conduttore, connette il
presente alle esperienze e scelte passate e proietta il senso di queste ultime in un progetto per il futuro.
Rispetto al filone filosofico che – a partire dal Saggio sull’intelletto umano di John Locke – pone
proprio nella continuità della memoria la garanzia dell’identità della persona nel tempo, vi sono però
molte differenze. Due sono particolarmente importanti. La prima riguarda il fatto che memoria e
coscienza di sé non coincidono, ma la memoria è – come la letteratura sociologica e storica hanno
mostrato – ricostruzione e selezione del passato. La seconda differenza riguarda l’importanza centrale
del riconoscimento da parte degli altri: ciò che viene ricordato, selezionato e in parte ricostruito, non è
solo il prodotto dell’attività cosciente dell’individuo, ma ha bisogno di trovare il riconoscimento di altri
significativi, di essere condiviso e, successivamente, nuovamente riappropriato. L’importanza della
consistenza temporale per il mantenimento dell’identità nel senso qui indicato trova, invece, un’ampia
base empirica in quelle ricerche psicologiche che, a partire dalla teoria della dissonanza cognitiva,
illustrano il disagio delle persone quando si comportano in modi che minacciano l’immagine di sé.
L’aspetto sociale dell’identificazione e del riconoscimento è dunque centrale nel rendere i
“dispositivi” della memoria funzionanti ed efficaci. La memoria garantisce la continuità nel tempo
dell’identità in quanto l’attore (individuale o collettivo) diventa soggetto di attribuzione. Gli vengono
cioè riconosciuti quei tratti e quelle caratteristiche che – nel corso di un processo di interazione sociale
– egli stesso ha riconosciuto come “proprie” e viceversa. Come dirò in seguito, però, il riconoscimento
non è sufficiente, soprattutto quando eventi traumatici generano conflitti tra sé diversi. In questi casi la
ricerca di consistenza, o l’evitamento dell’auto-inconsistenza, spinge il soggetto a fare riferimento a
una dimensione morale-normativa. La continuità della memoria assume, quindi, un aspetto morale nel
senso che ciò che definisce una catena di ricordi come “propria” è il fatto di poter essere riconosciuti
come soggetti a cui è possibile attribuire la responsabilità delle proprie azioni passate.
2. “Dispositivi” della memoria
Un “dispositivo” attraverso cui opera la memoria – sia nell’identità individuale che collettiva –
è quello della narrazione attraverso cui il soggetto riannoda i fili del passato, inserisce fatti ed
esperienze in una trama, che costituisce un modello specifico di connessione degli eventi. E’ al
soggetto che racconta, che si rivolge immancabilmente a un pubblico (un “pubblico” anche solo
virtuale), a cui chiede riconoscimento, che può essere attribuita un’identità. Vi è un’intera, influente,
tradizione interdisciplinare di studi che vede la memoria non come un semplice dato, immagazzinato e
conservato per essere sempre disponibile alla coscienza, ma come qualcosa di costruito a partire dalla
prospettiva del presente sulla base di una “trama” o di un “filo conduttore”.
Sul piano dell’individuo la tesi del carattere costruttivo e selettivo della memoria e della sua
importanza per l’identità, che ha bisogno di un racconto per conservarsi, può essere, per così dire,
provata ex contrario dalle patologie della memoria. I casi clinici, ad esempio, menzionati da Oliver
Sacks (1985), affetti dalla sindrome di Korsakov, non riuscendo a ricordare quasi nulla che abbia una
durata, sono costretti a un’affabulazione continua e a una “frenesia narrativa” che impedisce quel
“racconto di sé”, quella necessaria rievocazione dei propri drammi, capace di dare continuità
all’identità. L’impossibilità di fissare dei ricordi in un racconto biografico coerente, costringe questi
pazienti a “inventare se stessi ad ogni istante” cercando di afferrare qualcosa che però gli sfugge
sempre. Ma anche il caso opposto, descritto in un altro famoso studio clinico, di un uomo che non
dimenticava nulla, molto simile al racconto di J.L. Borges, Funes, o della memoria, porta alle stesse
conseguenze. Il giovane Funes che ricordava tutto “non solo ogni foglia di ogni albero di ogni
montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata” aveva difficoltà a
riconoscere se stesso: “il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni
volta” (Borges 1955; trad. it. 1961, 116-117).
Un “dispositivo” analogo opera anche nel rapporto tra memoria e identità collettiva. Il passato
ha bisogno di parole con cui essere narrato e salvato dall’oblio. Poeti e storici hanno contribuito a dare
forma alle immagini del passato e a puntellare, per quanto diversi possano essere stati i loro obiettivi,
la memoria e l’identità collettiva di un gruppo sociale, in particolare quello specifico e recente della
nazione. La memoria di un gruppo non dispone solo di parole, di storie scritte o trasmesse oralmente,
ma di artefatti, monumenti, simboli, cerimonie pubbliche e istituzioni attraverso cui la memoria viene
costruita, riprodotta, conservata e trasmessa da una generazione a quella successiva.
Da quando storici come E J. Hobsbawm e T. Ranger (1983) e sociologi come B.Anderson
(1991) hanno riconsiderato il rapporto tra memoria e identità nazionale con i concetti di “invenzione
della tradizione” e di “comunità immaginate”, l’impostazione costruttivista della memoria – già
presente, come si è detto, nei lavori del sociologo francese Halbwachs - si radicalizza e diventa sempre
più influente. Hobsbawm, in particolare, mostra che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento
(fino all’alba della Grande Guerra) fu consapevolmente intrapresa, da parte di stati, autorità politiche e
altri gruppi sociali più o meno organizzati, un’opera di “invenzione” di tradizioni con lo scopo di dare
a contesti sociali nuovi, caratterizzati dalla mobilitazione politica delle masse, e in cui non si poteva più
ricorrere ai vecchi vincoli di obbedienza e lealtà, nuove forme di coesione e di identità collettiva. Si
trattava dunque per gli stati nazionali europei di creare praticamente dal nulla dei miti e dei simboli in
grado di creare identificazione e senso di appartenenza. “Tradizioni inventate” è un ossimoro. Rende
bene l’idea che l’aspetto della continuità con il passato viene ribadita, ma è in larga misura fittizio. La
funzione di tali consapevoli invenzioni era quello di “reintrodurre lo status in un mondo fondato sul
contratto, il superiore e l’inferiore in un mondo di eguali di fronte alla legge” (Ibidem, 1983, trad.it.
1994, 12). Poiché non lo si poteva fare in modo diretto, si ricorse alla istituzionalizzazione di pratiche
nuove travestite con abiti antichi. Sono gli anni in cui nascono i vari inni nazionali, si inventano le
cerimonie pubbliche, come la festa della Bastiglia il 14 luglio in Francia, si inaugurano le bandiere
tricolori, si producono in maniera massiccia monumenti pubblici, soprattutto grandi statue (come quelle
che celebravano la repubblica francese attraverso l’immagine di Marianna o il sovrano Guglielmo I in
Germania), si istituisce in Francia il primo equivalente secolare della chiesa: l’istruzione impartita dai
nuovi instituteurs, propagatori degli ideali della terza repubblica. Altre cerimonie, altri inni e istituzioni
sono inventati, nello stesso periodo, in altri paesi europei.
Su una linea analoga A. Assmann (1999) chiarisce la diversità tra memoria feudale e memoria
nazionale in Inghilterra. Qui l’identità nazionale nasce e si sviluppa insieme all’assolutismo degli stati
territoriali neutralizzando la conflittualità di memorie divergenti. Separasi dalle vecchie memorie non
significa, per i partiti e le famiglie antagoniste, semplicemente “perdonare” e dimenticare. Siamo in
presenza di una “trasformazione delle vecchie memorie”. Assman ricorda il ruolo avuto da Shakespeare
che trasforma memoria ed etica feudali in memoria ed etica nazionali. “In virtù di questa concezione
della storia, il singolo pensa se stesso come parte di un’identità collettiva: il processo di
immedesimazione avviene nell’ambito della comunità storicamente determinata che si sostituisce alla
sacralità della stirpe e alla legittimazione ereditaria, così come l’amor patrio si sostituisce alla sacralità
del nome: l’orgoglio da sentimento familiare è diventato sentimento nazionale” (1999; trad.it 2002, 85).
Secondo Assmann questo processo altera profondamente la funzione della storia. I sovrani erano in
ultima istanza anche i produttori della storia. Ora anche la nazione oltre al re fa il suo ingresso nel
mondo della storia, in qualità di soggetto e ne diventa referente e fonte.

4. Eventi traumatici, pubbliche amnesie e morale


Hobsbawm e molti autori, dopo di lui, hanno sottolineato il carattere inventato e fittizio, o
almeno per gran parte costruito o immaginato, della memoria che ha creato simboli condivisi, oscurato
differenze per fondare l’identità collettiva per eccellenza dell’epoca contemporanea, l’identità
nazionale. L’interesse della sua ricostruzione è che ci mostra quanto sia importante per un gruppo
sociale o una comunità in rapida trasformazione, mantenere una continuità col passato anche a costo di
inventarselo integralmente. Questo vale anche per l’identità individuale: il chador portato da molte
giovani musulmane è, per molti versi, una “tradizione inventata”, nel senso che non lo portavano né le
madri né le nonne, non era cioè una consuetudine vincolante del passato, ma viene ripresa come
“nuovo” simbolo di identificazione culturale e religiosa.
Questi studi portati ad accentuare l’aspetto costruttivo e perfino coscientemente manipolativo
della memoria non trattano perlopiù dei limiti entro cui ciò può avvenire, delle condizioni entro cui
l’identità collettiva può essere scelta liberamente. Esiste qualche elemento, evento o esperienza che non
può essere dimenticato? O che, se rimosso, ritorna come una sorta di fantasma a tormentare i nostri
sonni? In termini di soggetti collettivi, fino a che punto una nazione può continuare a ritenersi la stessa,
esplellendo eventi o periodi del proprio passato? O, al contrario, fino a punto può ritenersi diversa
autoassolvendosi per le proprie azioni passate? Il problema si pone con forza – sia per quanto riguarda
l’individuo che per quanto riguarda una nazione – quando vi sono stati eventi traumatici che, dal punto
di vista della situazione presente (l’individuo che sono oggi; il nuovo regime politico che la nazione si
è data) costituiscono delle tragedie, dei fallimenti o delle sconfitte e sono percepiti come fortemente
lesivi della propria reputazione e senso di auto-stima.
Esistono numerosi esempi dei processi che si innescano, nel caso dell’individuo, quando questi
è colpito da eventi oggettivi che comportano forti sensi di colpa e di vergogna. Il senso di umiliazione
prodotto dal trauma (anche quando ne sia solo la vittima) da un lato resta un dato indelebile nella
coscienza di sè, ma dall’altro può spingere a rimuovere e tacere quell’esperienza, per lo meno sul piano
del racconto fatto ad altri, come meccanismo di autodifesa personale. In questi casi, l’identità risulta
danneggiata, perché viene comunque a mancare quel ricoscimento di gruppi sociali più ampi o
dell’intera comunità che, come si è detto, costituisce un sostegno per ristabilire un senso integrato del
sé. Gli studi più importanti riguardano quegli eventi tragici – come torture, violenze, privazioni estreme
– di fronte alle quali la vittima – che logicamente non ha alcuna colpa nei confronti del suo carnefice –
nondimeno, come mostra T.Todorov (1991, 253) spesso esprime “vergogna del ricordo”: “Nei lager,
l’essere individuale viene privato della propria volontà: esso è costretto a compiere una serie di atti che
riprova, o peggio ancora, che giudica abietti, sia che debba sottostare agli ordini, sia che non abbia altro
modo di sopravvivere”.
Anche eventi traumatici meno tragici, ma che comunque incidono in maniera irreversibile sulla
propria vita, possono produrre un senso di forte discontinuità tra un prima e un dopo l’evento che porta
a rimuovere le cause di umiliazioni e fallimenti. Interessante è, a questo proposito, il caso esplorato da
R. Sennett (1998) dei dirigenti dell’IBM, licenziati di colpo in seguito alla drammatica ristrutturazione
dell’impresa agli inizi degli anni Novanta. Il collasso della carriera per chi ha costruito su di essa il
senso della propria vita e del rispetto di sé lascia il marchio del fallimento e di un’identità
irrimediabilmente danneggiata. La narrazione che essi, in gruppo, decidono di portare avanti per
comprendere ed elaborare il senso di questo fallimento, per ricostruire quel sentimento unitario di sé,
bruscamente interrotto, in realtà riesce solo in parte. L’inefficacia del racconto risiede – secondo
Sennett – nel non potersi avvalere di legami più forti e riconoscimenti più ampi della cerchia di
colleghi uniti solo dall’esperienza di uno scacco. Il presente ha saputo, in questo caso, collegarsi al
passato, ma non ha saputo colmare il vuoto del futuro. E’ quello che, invece, sono riusciti a fare coloro
che – in seguito all’esperienza estrema dei lager nazisti - non hanno taciuto e hanno deciso di parlare
perché gli altri ricordino. L’evento traumatico rinvia al passato, ma il suo “valore esemplare” di
obbligazione morale, ristabilisce la continuità dell’identità e, come sostiene Ricoeur (2000, 107),
“trasforma la memoria in progetto”.
Per l’identità nazionale valgono considerazioni analoghe.
Hobsbawm ci ha mostrato come, in un certo periodo storico, gli stati e le autorità politiche hanno
innalzato monumenti, commemorato date, inventato di sana pianta cerimonie e riti, come forma di auto
celebrazione. Il periodo è quello che precede la Grande Guerra. Dopo, si può dire, nulla è stato più
come prima, almeno per quanto concerne l’identità nazionale. I monumenti e la statuaria, così tipici di
quel periodo storico, non rispondevano solo all’esigenza di ricordare, ma a quella di ricordare dei
trionfi, delle date ed eventi memorabili di cui andare fieri. Orgoglio, fierezza, idea di possedere qualche
tipo di primato sono l’equivalente, sul piano collettivo, di quel sentimento positivo di sè che gli
psicologi chiamano autostima. Ben più difficile è erigere monumenti alla memoria di qualcosa
che è visto dall’autorità politica e da quei gruppi sociali che dominano e orientano il discorso pubblico
(o da loro parti) come tragedie, come traumi di cui ci si possa sentire in tutto o in parte colpevoli. Qui,
come nel caso delle persone fisiche, lo stimolo più forte è verso la cancellazione e la dimenticanza.
Quando si tratta di nazioni, però, i luoghi della memoria, quelli in cui erigere monumenti e statue o
celebrare cerimonie, sono sempre pubblici – nel duplice senso di interesse comune e di accessibilità al
pubblico – così come pubblici sono i discorsi che li legittimano e giustificano. Anche cancellare,
mettere tra parentesi, diventa, in queste condizioni, non privo di incognite per una comunità politica:
significa, infatti, affermare – implicitamente se non in maniera esplicita - che quest’ultima è così
radicalmente diversa da rappresentare un sé politico interamente nuovo, che non ha più nulla a che
vedere con gli atti e i misfatti del regime passato. E’ ciò che succede al convertito a una nuova religione
che vede il prima e il dopo l’evento della conversione come passaggio dalle tenebre alla luce, e non
riconosce più l’identità passata in quanto sente di essere una persona interamente nuova (per questo,
spesso, i convertiti cambiano il loro nome).
Al limite è più facile erigere un monumento a un trionfo immaginato o “ripescato” a fini
celebrativi che abbatterne uno già esistente ma legato a un passato tragico. Poiché gli eventi tragici che
hanno sconvolto il secolo scorso e che continuano in quello presente, sono numerosi e, soprattutto,
amplificati dalla comunicazione globale in cui siamo calati, in una situazione di crescente
delegittimazione dei fondamenti di lealtà su cui erano, in passato, sorti (costruiti, inventati) gli stati
nazionali, rimozioni e cancellazioni sono all’ordine del giorno dei discorsi pubblici in molti paesi
dell’Europa occidentale e orientale. In tutti questi casi il dimenticare, cancellare, mettere tra parentesi è
un dispositivo per segnalare che un nuovo sé politico è emerso dalla “tragedia”. E un sé nuovo non può
essere imputato di colpe che non ha commesso direttamente. Così De Gaulle, dopo la seconda guerra
mondiale, ha messo fine alla minaccia di memorie divisive mettendo tra parentesi Vichy, operazione
continuata anche da Mitterand, che l’ha considerata una sorta di “sospensione” nella storia della
Repubblica francese. Il suo imbarazzo di fronte alla richiesta di commemorare il luglio 1942, in cui gli
ebrei parigini furono condotti al Vélodrome d’Hiver per poi essere deportati ai campi di
concentramento nazisti, derivava dalla difficoltà di ammettere il ruolo della Francia repubbblicana nella
persecuzione degli ebrei durante gli anni bui dell’occupazione. Il caso più discusso resta quello
dell’Historikerstreit e del cosiddetto revisionismo storico tedesco, inteso a relativizzare i crimini nazisti
e a ricostruire un vissuto colletttivo della nazione in cui identificarsi. Anche l’Italia, fondando la nuova
repubblica sulla Resistenza, ha potuto in parte rimuovere e ridimensionare il fascismo e minimizzare il
ruolo delle leggi razziali.
Tuttavia rimozioni e cancellazioni alla fine possono sollevare ulteriori problemi. Le memorie
rimosse e oscurate possono essere rivitalizzate da “imprenditori” di varia natura (minoranze escluse;
intellettuali dissidenti) e dar vita a battaglie discorsive che si fronteggiamo – come sempre più spesso
succede – in campo pubblico. Anche se, alla fine, quella politica è l’autorità finale sulla memoria
pubblica (Booth 1999), i risultati non sono scontati. Possono essere altamente ambigui, confusivi e
incapaci di rinsaldare l’identità collettiva, come è avvenuto in alcuni stati dell’Europa centro-orientale,
con la caduta del comunismo. In Ungheria, ad esempio, strade, piazze, statue, tutto ricordava il vecchio
regime crollato. Sul destino di questi monumenti vi erano opinioni divergenti tra chi voleva cancellarli
dalla faccia della terra e chi, invece, voleva incorporarli nella memoria del paese, lasciandoli al loro
posto come parti di un passato non eliminabile. La soluzione presa dal governo ungherese è ambigua
quanto e forse più di quella espressa nel monumento di Washington ai caduti della guerra in Vietnam,
un monumento assai singolare in quanto incorpora l’idea controversa “che gli individui devono essere
ricordati e la loro causa ignorata” (Wagner-Pacifici e Schwartz 1998). Il governo ungherese decise di
creare un “parco di sculture” alla periferia di Budapest, in cui confinare cinquattotto statue di Marx e
Lenin, varie figure del genere lavoratori eroici, soldati e militanti comunisti, senza alcuna scritta che
spiegasse e contestualizzasse la loro presenza. Un destino analogo ebbero i nomi delle strade: le
vecchie denominazioni che ricordavano l’era comunista non furono rimosse, ma furono lasciate vicino
alle nuove, contrassegnate però da una barra diagonale rossa che segnalava il loro stato di “in corso di
cancellazione”, “né interamente là né completamente assente”, ossia l’ambigua “presenza di
un’assenza” (Esbenshade 1995, 73).
Dimenticare e ricordare sono entrambe operazioni vitali all’identità individuale e collettiva.
Quest’ultima, tuttavia, non ha solo un aspetto temporale, ma anche morale. Come colui che ha subito
un trauma può cercare di rimuovere un passato umiliante o, invece, trasformare l’esperienza estrema in
valore esemplare e in progetto futuro, anche un’entità collettiva (la sua autorità politica) come una
nazione può mettere tra parentesi fatti scomodi, oppure accettare “il peso del passato”. Accettarne la
responsabilità forse non è la stessa cosa che stabilire la verità storica, ma significa rinsaldare il
sentimento collettivo che un trattamento equo sia possibile.
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In realtà nella teoria sociologica esiste una linea di riflessione che considera la dimensione temporale come costitutiva del
processo di formazione dell’identità. Essa, che ha in G.H. Mead il suo principale interprete, non ha però prodotto
significativi contributi nella direzione aperta da quest’ultimo. Mead – mi limito a ricordare – ha esplicitamente posto il
rapporto tra le due componenti del self – l’ “Io” e il “Me” – nei termini della memoria. “Solo nella memoria avviene che l’
‘Io’ sia costantemente presente all’esperienza. Direttamente è possibile risalire solo di poco nella nostra esperienza, perché
subito si dipende, quanto al resto delle immagini, dalla memoria. L’ ‘Io’ così è presente nella memoria come portavoce del
‘Sé’ di un secondo, un minuto o un giorno prima” (1934; trad.it. 1966, 188). Per un approfondimento di questa linea di
riflessione teorica v. Sciolla e Ricolfi 1989. Il ruolo della dimensione temporale nella costituzione del soggetto è invece
ampiamente affrontato nella letteratura filosofica.
Tra identità nazionale e “luoghi della memoria” esiste allora una quasi completa coincidenza. Gli “eventi straordinari”
(come le Cinque Giornate di Milano o l’Attentato a Togliatti) e le “strutture della vita quotidiana” (come la parrocchia o la
piazza) sono i luoghi della memoria in cui si concretizza la memoria collettiva e l’identità nazionale del popolo italiano
(v.Isnenghi 1997).
Possiamo ritrovare queste due dimensioni anche come moduli tipici di rispondere alla domanda “chi sono”? Posso
rispondere in base alla seconda dimensione, dicendo, ad esempio, “sono una cittadina italiana” sottolineando la mia
appartenenza a una comunità politica, ossia ciò che mi accomuna e rende uguale ad altri. Posso rispondere anche in base
alla prima dimensione dicendo “sono una persona che ha compiuto certe scelte”, mettendo quindi l’accento sulla coerenza
della biografia, su ciò che mi differenzia da tutti gli altri, anche da quelli a me più affini.
Ho trattato più diffusamente dei problemi che pone riferire l’identità a soggetti collettivi e ho provato a costruire una
tipologia di soggetti collettivi in ambito religioso a partire dall’incrocio tra le due dimensioni considerate in Sciolla (2003).
Il riferimento è a Festinger (1957).
Il rapporto tra narrazione, identità ed etica è stato trattato a fondo, sul piano filosofico per quanto riguarda l’identità
personale da Ricoeur (1990). Dal punto di vista della teoria politica, per quanto riguarda l’dentità di una comunità politica,
osservazioni rilevanti si trovano in Booth (1999). Cfr. anche Monroe (2001).
Con ciò non intendo sostenere che non vi sia una differenza tra storia, come studio distaccato, che si misura col vaglio
accurato delle fonti, e memoria come forma di coesione e legittimazione di un gruppo, ma che gli storici – e altri studiosi
naturalmente, anche se in misura minore – “contribuiscono, in modo più o meno consapevole, a creare, demolire e
ristrutturare immagini del passato che non appartengono soltanto al mondo dell’indagine specialistica, ma anche alla sfera
pubblica dell’uomo in quanto essere politico” (Hobsbawm 1983 trad.it. 1994, 16).
Vi è ormai una vasta letteratura storica sul ruolo dei monumenti commemorativi e sulla descrizione dei luoghi della
memoria, cfr. Nora (1984). Anche la sociologia si è, più recentemente, occupata di questi aspetti, cfr. Tota (2001).
E’ questa la ragione per cui nelle ricerche empiriche uno degli indicatori più usati per rilevare l’identificazione nazionale è
la dichiarazione di orgoglio nazionale.
Su questo episodio cfr. Conan e Russo (1996).
Una documentazione della polemica sorta in Germania negli anni Ottanta si trova in Rusconi (1987).
Sul rapporto tra memoria e responsabilità cfr. Rossi-Doria (1998)

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