Sei sulla pagina 1di 14

La Bologna rinascimentale

Come nuovo signore della città, venne chiamato da Firenze un figlio illegittimo di Ercole
Bentivoglio, cugino di Annibale, Sante Bentivoglio, sostenuto da Cosimo de' Medici.
Nominato Gonfaloniere di Giustizia e tutore del piccolo Giovanni, Sante Bentivoglio si dimostrò
all'altezza del compito rispondendo felicemente alle aspettative dei bolognesi cui garantì un lungo
periodo di pace.
Alla sua morte, nel 1462, l'erede della famiglia, il ventenne Giovanni II Bentivoglio divenne signore
di Bologna per quarant'anni. La città conobbe un nuovo prestigio e rinomanza politica, grazie anche
al collegamento diplomatico con gli altri stati italiani, un nuovo patrimonio artistico, e un nuovo
impulso alle attività e al progresso civili. Il Rinascimento sbocciò a Bologna, lo Studio si ravvivò e
la declinante importanza del diritto venne compensata dall'incremento degli insegnamenti delle
lettere greche e latine, della filosofia, della medicina, dell'astronomia, di cui grande rappresentante
fu Girolamo Manfredi. Le trasformazioni edilizie, la costruzione di chiese e palazzi o
l'ammodernamento di quelli preesistenti e il loro arricchimento con nuove preziose opere pittoriche,
oltre a modificare radicalmente il volto di Bologna, le lasciarono un'impronta rinascimentale.
Studiarono a Bologna in quel periodo, tra gli altri, Giovanni Pico della Mirandola e Niccolò
Copernico.
Nel 1503 venne portata a termine la costruzione di Palazzo Bentivoglio, giudicato allora fra i più
belli e i più vasti d'Italia, nell'area oggi occupata dal Teatro Comunale e dal Giardino del
Guasto che, come l'adiacente via del Guasto, ricorda nel nome la distruzione del palazzo avvenuta
nel 1507 a furor di popolo.[2]
Affluivano a Bologna gli artisti della Scuola ferrarese, mentre Niccolò dell'Arca completava l'arca
marmorea che raccoglie i resti di San Domenico alla quale collaborò anche Michelangelo con tre
statue; Francesco Francia coniava medaglie e dipingeva soavi Madonne e ritratti, così come il
pittore di corte Amico Aspertini; Sabadino degli Arienti componeva "le Porrettane", l'ingegnoso
architetto Aristotele Fioravanti, a cui si deve il portico del Palazzo del Podestà e che fu in grado di
spostare torri mediante imbragature ingegneristicamente futuristiche, era richiesto da papi,
imperatori, re e sultani oltre che dallo stesso Zar di Russia. La corte Bentivolesca insomma, non
solo gareggiava ma primeggiava fra le corti rinascimentali italiane.
Il declino e la cacciata
Arma dei Bentivoglio nel portale del loro palazzo di Milano (Musei Civici del Castello Sforzesco)

1
Stemma dei Bentivoglio nel Palazzo Bentivoglio di Ferrara SEGA
Giovanni II Bentivoglio, sotto l'influenza della moglie Ginevra Sforza, commise molti errori negli
ultimi tempi della sua signoria, attuando una politica tirannica all'interno e anormale nei confronti
degli altri Stati; i figli, inoltre, con la loro condotta dissoluta, prepotente e provocatoria,
contribuirono ad aumentare l'ostilità dei cittadini verso l'intera famiglia.
L'episodio che provocò definitivamente l'inimicizia dei nobili bolognesi nei confronti della casata fu
la famigerata strage della famiglia Marescotti, ordinata da Giovanni II il quale temeva che
Agamennone, loro prestigioso capo, intendesse soppiantarlo nel governo di Bologna. Nell'eccidio
perirono 240 persone e fino a quando la carneficina non fu compiuta si tennero chiuse le porte della
città. A causa di questi fatti, quando papa Giulio II si attestò con le sue truppe e gli spagnoli nel
Frignano in attesa di occupare la città nel 1506, i bolognesi aprirono le porte al papa e Giovanni II,
insieme alla moglie Ginevra e ai figli, dovette cercare scampo nella fuga. Giovanni e la sua famiglia
ripararono a Ferrara sotto la protezione di Alfonso I d'Este. Giovanni si recò poi nella Milano invasa
dai francesi a chieder l'aiuto del re Luigi XII di Francia.
Nel 1507, dopo un fallito tentativo dei figli di Giovanni II Annibale II ed Ermes di riconquistare il
potere, il popolo bolognese, aizzato da Ercole Marescotti, distrusse il magnifico Palazzo
Bentivoglio. Giovanni II fu imprigionato a Milano e processato, ma dichiarato innocente. [3] Morì a
Milano poco dopo, il 1º febbraio 1508.
Nel 1511 Annibale II Bentivoglio, figlio di Giovanni, tentò nuovamente - questa volta con successo
- di riprendere Bologna, divenendone signore sotto il protettorato dei francesi. [4] Nell'occasione fu
distrutto un altro capolavoro artistico inestimabile: la statua di Giulio II, unica opera bronzea di
Michelangelo, il cui metallo venne fuso nel cannone giuliano da Alfonso D'Este. Annibale riuscì a
resistere all'assedio lanciato del viceré di Napoli Raimondo di Cardona, grazie al supporto
di Gastone di Foix.[4] Una nuova insurrezione dei bolognesi e il ripiegamento francese costrinsero
Annibale II a lasciare Bologna. Alla morte di Giulio II nel 1513 Annibale tentò nuovamente di
riottenere il controllo su Bologna, ma senza successo. Un ultimo tentativo di riprendere la signoria
bolognese fu intrapreso da Annibale nel 1522, con un attacco respinto però dalle difese della città.[4]
Con la cacciata dei Bentivoglio, Bologna rimase per quasi tre secoli (fino al termine del Settecento)
stabilmente inglobata nello stato della Chiesa.
2
LA TOMBA DI ANTONGALEAZZO BENTIVOGLIO
I primi tre Bentivoglio che ebbero l’avventura (o la disavventura) di
essere Signori di Bologna (Giovanni I, Anton Galeazzo e Annibale I)
furono tutti uccisi dagli avversari politici non appena assunto il
potere in città.
Giangaleazzo fu ucciso il 23 dicembre del 1435 per mandato del
governatore papale Daniele da Treviso.
La sua tomba è uno dei capolavori massimi di S. Giacomo, essendo
una delle ultime opere a cui lavorò Jacopo della Quercia (morto nel
438).
Anton Galeazzo non è rappresentato come uomo politico o
condottiero (quale in effetti era stato), ma come dottore dello Studio
bolognese, serenamente disteso con l’abbigliamento tipico del
docente del tempo.

LA CAPPELLA BENTIVOGLIO
Il committente dell’opera doveva essere Annibale I dei Bentivoglio (figlio di Anton Galeazzo), ma
la sua uccisione, avvenuta nel 1445, dopo pochi mesi dall’acquisto dello spazio da destinare a
cappella di famiglia, ne impedì la costruzione. Ci pensò però il suo successore, Sante, che ne compì
la struttura architettonica nel 1462, per opera di Lapo Portigiani da Fiesole. Dell’epoca è anche il
policromo monumento equestre a memoria di Annibale, che per
lungo tempo è stato attribuito a Nicolò dell’arca (e forse lo è davvero
o a noi piace crederlo).
Ma la cappella, architettonicamente finita sotto Sante, si completò
sotto il suo successore, Giovanni II, il vero signore di Bologna, che
governò la città per quasi tutta la metà del XV secolo, dal 1463 al
1506, quando venne cacciato dalle truppe pontifice di Giulio II.
Notevolissime le opere che in essa trovano giusta collocazione.

Un tondo a bassorilievo in pietra calcarea con diametro di 85 cm,  identificato come il ritratto


equestre di Niccolò Ludovisi, insigne capitano bolognese. L’opera è stata ritrovata alla
Rocchetta Mattei di Grizzana Morandi (Bologna)
Jacopo della Quercia Ritratto equestre di Niccolò Ludovisi alla
Rocchetta Mattei - dettaglio
BOLOGNA - Sarebbe di Jacopo della Quercia il bassorilievo rinvenuto
alla Rocchetta Mattei di Grizzana  Morandi, in provincia di Bologna. Si
tratta di un tondo in pietra calcarea che raffigurail Ritratto equestre di
Niccolò Ludovisi. 

3
La Rocchetta Mattei di  Grizzana Morandi fu acquistata nel 2005 dalla Fondazione Carisbo, che
avviò un decennale restauro con conseguente apertura al pubblico nel 2015. 
Il Ritratto equestre di Niccolò Ludovisi, attualmente nel cortile centrale,  si trovava in precedenza
nel Chiostro dei Morti del Convento di San Domenico a  Bologna e sovrastava la tomba che
Giovanni Ludovisi, statista e  mecenate, commissionò per se stesso e per il padre Niccolò.    
L’opera è stata identificata come una tarda produzione bolognese del celebre scultore senese, quindi
realizzata tra il terzo e quarto decennio del XV secolo, quando della Quercia ormai aveva portato a
compimento la sua sintesi fra la scultura gotica di Giovanni Pisano e
quella  borgognona.  L'attribuzione allo scultore si deve a Paolo Cova, giovane studioso formatosi
all’Università di Bologna, con un’intensa attività di ricercatore e divulgatore, incaricato dalla
Fondazione come referente scientifico e coordinatore delle attività didattiche della Rocchetta
Mattei.
«Tutto è iniziato nella Biblioteca dell’Archiginnasio – racconta Cova –, quando consultando un
documento ho visto un disegno, abbozzato velocemente da un erudito del Settecento, che
rappresentava la quattrocentesca Tomba di Niccolò e Giovanni Ludovisi nel Chiostro dei Morti
nella Chiesa di San Domenico a Bologna, un’opera che si riteneva dispersa da quasi due secoli.
All’epoca mi occupavo di altro e la cosa non ebbe seguito ma quando, diverso tempo dopo, per
caso sono andato a visitare la Rocchetta, l’ho subito riconosciuto: il cavaliere che brandiva la
spada sul cavallo impennato era lui, Niccolò, ispirato alla cosiddetta immagine del Marte
guerriero».
Il capolavoro verrà presentato giovedì 2 maggio a Casa  Saraceni a Bologna, sede della Fondazione
Carisbo. Saranno il  presidente della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, Carlo  Monti, e il
presidente di Genus Bononiae Musei nella Città, Fabio  Roversi-Monaco, a illustrare l'inedita opera
di Jacopo della  Quercia.    
L’incontro costituirà l’occasione non soltanto per contestualizzare il manufatto nel percorso
artistico del grande maestro senese, ma più in generale per un’ampia riflessione sull’importanza
della Rocchetta Mattei dal punto di vista della ricerca storica, artistica e architettonica (anche in
relazione alle correnti culturali europee legate all’orientalismo e all’eclettismo dell’Ottocento), con
riferimento infine alla sua valorizzazione e alle sue potenzialità turistico-culturali.

URCEO CODRO
Antonio Urceo, conosciuto come Urceo Codro (latino Antonius Urceus Codrus; Rubiera, 14 o 17
agosto 1446[1] – Bologna, 11 febbraio 1500), è stato un umanista italiano. È noto per aver
completato il quinto atto della Aulularia di Plauto, giuntoci molto frammentario. Fu molto celebre
come studioso di greco, tanto che Angelo Poliziano gli scrisse per chiederne l'opinione su alcune
poesie greche ed Aldo Manuzio gli dedicò la sua edizione di lettere di scrittori greci.
Dopo i primi studi, a Modena, con l'umanista Gaspare Tribraco de' Trimbocchi, si trasferì a Ferrara,
dove ebbe come maestri Battista Guarino, figlio di Guarino Veronese, e Luca Ripa.
Per intervento del Ripa, nel 1469 venne chiamato a Forlì come pubblico docente. Qui ripristinò
l'antica Accademia dei Filergiti e fu scelto da Pino III Ordelaffi, Signore della città, come precettore
del figlio Sinibaldo, al posto di Giacomo Soardo da Bergamo, fatto uccidere dallo stesso Pino
(1477). A Forlì Urceo Codro si ambientò così bene che le fonti spesso lo definiscono "forlivese". A
4
Forlì ebbe modo di conoscere, tra gli altri, Alessandro Numai e Fausto Andrelini. Fra i suoi
discepoli, si segnalano Eugenio Menghi e Francesco Uberti da Cesena.
Dopo l'ingresso a Forlì dei nuovi Signori Girolamo Riario e Caterina Sforza (1481), Codro si
trasferì a Bologna, dove insegnò grammatica ed eloquenza, nonché greco. Qui ebbe discepoli poi
famosi, tra cui Filippo Beroaldo il Giovane e Niccolò Copernico. A Bologna Codro trascorse la sua
restante vita, con l'esclusione di alcuni brevi viaggi, ad esempio a Roma e a Milano. Le sue brillanti
prolusioni ai corsi universitari, che egli intitolò "Sermones", erano un vero e proprio evento che
coinvolgeva la cittadinanza intera: la peculiarità di Codro, più unica che rara tra gli umanisti, era
quella di saper unire massima erudizione e affabile e umoristica colloquialità. Al pari di Socrate,
affidò il suo insegnamento esclusivamente all'oralità, restìo ad utilizzare quell'"ars artificialiter
scribendi" (la stampa) che il suo collega Filippo Beroaldo Senior, al contrario, sfruttava allora in
tutte le sue potenzialità. La sua produzione ("Sermones", epigrammi, un'ecloga, una satira,
miscellanee (silvae), qualche lettera) ci è nota solo grazie all'intraprendenza di alcuni suoi allievi
(Filippo Beroaldo il minore e Bartolomeo Bianchini) e di Anton Galeazzo Bentivoglio, che nel
1502 promossero la stampa dei suoi "Opera omnia" (Bologna, Benedetto d'Ettore).
Oggi, ad Urceo Codro è intestata la Biblioteca Comunale di Rubiera. Rubiera e Reggio Emilia gli
hanno dedicato una via.

Palazzo Bentivoglio
Il palazzo della famiglia gentilizia bolognese Bentivoglio venne costruito, per volontà di Sante
Bentivoglio, in strada San Donato (oggi via Zamboni) a partire dal 1460 e fu successivamente
portato a termine da Giovanni II. Venne chiamato anche Domus Aurea, perché i capitelli e i
cornicioni della facciata erano ricoperti di oro zecchino.
L'edificio venne distrutto dalla furia popolare nella primavera del 1507. A deciderne la distruzione
furono i nemici dei Bentivoglio. Del resto, anche papa Giulio II era convinto che bisognasse radere
al suolo la dimora stessa dei Bentivoglio, se si voleva evitare il loro ritorno. Con la cacciata della
famiglia dalla città, il Senato bolognese stabilì che qualsiasi stemma o segno della passata
dominazione venisse cancellato[1]. La distruzione del palazzo di strada San Donato fu però una
grave perdita per la storia dell'arte italiana. Cronisti contemporanei e studiosi più recenti hanno
cercato di ricostruire, sulla base di descrizioni spesso entusiastiche, l'aspetto della domus magna.
Oggi sull'area dove si ergeva il palazzo si trova il Teatro Comunale, alla destra del quale corre la via
del Guasto che ricorda, nel nome, le macerie della residenza bentivolesca; nell'area retrostante, in
cui si trovava il giardino, sorge oggi il moderno Giardino del Guasto, mentre la costruzione in
fronte al Teatro, sul lato opposto della piazza, ospitava le Scuderie dell'antico palazzo. Poco oltre, in
via Belle Arti, si erge la mole imponente di un nuovo Palazzo Bentivoglio. Esso fu fatto costruire, a
partire dal 1551, da Costanzo Bentivoglio, discendente di un ramo collaterale (non dominante) della
famiglia.[2]
VS
Famiglia medicea Cosimo il vecchio non si stanziò in un palazzo comunale, errore che fecero gli
Este, ma costruì la sua domus, la villa Medici-Riccardi. Lo stesso fecero i Bentivoglio, si
appartarono dal centro istituzionale di Bologna, non appartati dalla magnificenza architettonica e
culturali.

5
Compianto sul Cristo morto (Niccolò dell'Arca)
Storia[modifica | modifica wikitesto]
L'anno di realizzazione dell'opera e l'identità di chi la commissionò sono avvolti nel mistero, così
come l'esatta disposizione delle statue. Le ipotesi di datazione più accreditate oscillano tra il 1463 e
il 1490.
Il gruppo venne ospitato a lungo nella Pinacoteca Nazionale di Bologna e dagli anni novanta del
XX secolo è tornata nella sua collocazione originale nella chiesa bolognese, prima in una saletta
dell'ex-convento, poi nella prima cappella a destra dell'altare.
Descrizione[modifica | modifica wikitesto]
Si tratta di un'opera composta da sette figure a grandezza naturale in terracotta con tracce di
policromia. Al centro sta il Cristo morto, disteso con la testa reclinata su un cuscino. Attorno si
dispongono le altre figure, tra le quali spiccano le due Marie, Maria di Cleofa e ai piedi del
Cristo, Maria Maddalena, straziate dal dolore con le vesti gonfiate dal vento. Più composte sono le
altre figure, anche se i loro volti mostrano una dolorosa partecipazione. Si riconoscono poi
la Madonna, con le mani giunte, Maria di Giuseppe (madre di Giacomo il Maggiore e Giovanni
l'Evangelista) seguiva Gesù come discepola, che stringe le cosce in un gesto di rammarico, mentre
san Giovanni è rappresentato in un silenzioso pianto, con un palmo che regge il mento. Staccata
dagli altri è una figura inginocchiata in abiti rinascimentali, generalmente collocata a sinistra, che
rappresenta Giuseppe D'Arimatea e che guarda verso l'osservatore.
La drammaticità e il pathos di alcune di queste figure non hanno pari nella cultura italiana
dell'epoca, almeno nelle opere pervenuteci, ed ha posto l'interrogativo delle fonti alle quali Niccolò
attinse: sicuramente la scultura della Borgogna, poi l'Umanesimo gotico d'oltralpe e le novità
drammatiche dell'ultimo Donatello.
Pare, però, che il referente più immediato fossero le pitture perdute del ferrarese Ercole de' Roberti,
eseguite nella Cappella Garganelli della cattedrale di San Pietro di Bologna, di cui rimane un solo
frammento nella Pinacoteca Nazionale ed una copia di un'intera parete nella sagrestia di San Pietro.
L'opera, tuttavia, non ebbe una significativa influenza nella scuola emiliana dell'epoca: la sua forza
espressiva venne presto smorzata dai diffusissimi compianti del modenese Guido Mazzoni, dai toni
più pacati e convenzionali, e da altri gruppi di Alfonso Lombardi.
Una appassionata lettura di questo complesso scultoreo è opera del giovane Gabriele D'Annunzio.

Il Polittico Griffoni
Il Polittico Griffoni venne realizzato per la cappella di famiglia di Floriano Griffoni nella Basilica
di San Petronio a Bologna tra il 1470 e il 1472. Fu proprio in occasione dell’esecuzione della pala
d’altare dedicata a san Vincenzo Ferrer che ebbe inizio il rapporto di collaborazione tra Francesco
del Cossa e il più giovane Ercole de’ Roberti; alla cornice invece lavorò il maestro d’ascia Agostino
de Marchi da Crema. 
Nel 1725 circa il monsignore Pompeo Aldrovandi, nuovo proprietario della cappella, fece
smantellare la pala dividendola in singole parti per destinarle a quadri di stanza della residenza di
campagna della famiglia a Mirabello, vicino a Ferrara. Ecco perché il polittico non fu mai più
6
riunito: i dipinti entrarono nel mercato antiquario e nel collezionismo e giunsero poi nei novi musei
che ancora oggi le custodiscono. 
Roberto Longhi nella sua Officina Ferrarese, nel 1934, immaginò un’ipotesi ricostruttiva e negli
anni Ottanta venne ritrovato uno schizzo del polittico allegato a una corrispondenza di Pompeo
Aldrovandi che fornì la prova dell’esattezza quasi totale dell’ipotesi di Longhi. La ricostruzione di
Cecilia Cavalca visibile in mostra è finora la più attendibile e prevede la presenza di almeno sette
figure di santi sui pilastri laterali. 
"Il Polittico nasce in un momento cruciale della storia dell’arte italiana – e dunque mondiale – cui
Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti partecipano appieno. Illustrare il risultato della loro
collaborazione significa evidenziare il rilievo di Bologna nel più ampio panorama dell’arte
Rinascimentale. Con il Polittico si inventa un nuovo canone di resa dello spazio e dei volumi. La
strada verso la modernità indicata dai due ferraresi nel Polittico Griffoni può considerarsi
alternativa a quella di Piero della Francesca e Andrea Mantegna. Si tratta in qualche modo di un
‘mosaico figurativo’, che corrisponde poi al destino della dispersione delle varie parti. Sarebbe
davvero straordinario se la mostra scatenasse una sorta di gara alla ricerca degli elementi mancanti”
ha aggiunto Mauro Natale, curatore della mostra. 
Oltre all’esposizione delle singole opere al piano nobile di Palazzo Fava, i visitatori potranno
vedere la ricostruzione del Polittico operata da Adam Lowe, fondatore di Factum Foundation,
che negli ultimi venti anni si è dedicata alla registrazione, all’archiviazione, al restauro digitale ad
alta risoluzione e alla produzione di copie esatte di opere d’arte che uniscono tecnologia e
artigianato. A partire dal 2012, grazie alla collaborazione tra la Basilica di San Petronio, lo studio
Cavina Terra Architetti e Factum Foundation, sono stati documentati i sedici pannelli del Polittico
Griffoni in ciascuno dei musei proprietari delle parti costitutive. 
"L’aura di un’opera d’arte, quella cosa immateriale che è stata usata per definire la sua originalità, è
in realtà la sua presenza materiale. Attraverso la registrazione ad alta risoluzione, la mediazione
digitale e le nuove tecnologie di visualizzazione e ri-materializzazione, possiamo avere una più
profonda comprensione degli aspetti materiali che rendono qualsiasi oggetto quello che è. Questa
prova rivela non solo come è stato realizzato un oggetto, ma anche come è stato curato, valutato,
trasformato e spostato da una città all’altra o da un tipo di istituzione a un’altra” ha
affermato Adam Lowe. 

Storie di san Vincenzo Ferrer


Le Storie di san Vincenzo Ferrer sono un dipinto tempera su tavola (27,5x214 cm) di Ercole de'
Roberti, databile al 1473 e conservato nella Pinacoteca Vaticana nella Città del Vaticano. La tavola
era la predella del Polittico Griffoni, realizzato con Francesco del Cossa.
Storia[modifica | modifica wikitesto]
Il polittico si trovava nella cappella della famiglia Griffoni nella basilica di San
Petronio a Bologna ed era stato realizzato in cooperazione tra Francesco del Cossa ed Ercole de'
Roberti: il primo, più anziano ed affermato, aveva realizzato i pannelli principali, il secondo,
giovane promettente, la predella e i santi sui pilastrini.
L'opera rimase nella cappella fino al 1725-1730, quando venne smembrata e immessa nel mercato
antiquario in lotti separati: da allora i pannelli si dispersero. La predella, segnalata già

7
dal Vasari come opera del de' Roberti, finì forse nei beni del cardinale Aldovrandi, divenuto
successivamente proprietario della cappella.
Il polittico venne ricostruito virtualmente da Roberto Longhi nel 1935, con il fondamentale
saggio Officina ferrarese.
Descrizione
La predella è dipinta in maniera molto originale, come una tavola unica dove gli episodi si
susseguono senza soluzione di continuità, in unità di tempo e di spazio. San Vincenzo Ferrer,
canonizzato nel 1448 e oggetto di un'intensa opera di promozione del culto da parte
dei Domenicani, era il protagonista della pala, a cui era dedicato lo scomparto centrale.
La predella raffigura la serie dei suoi miracoli. Le figure sono qui impostate a un forte dinamismo,
con la figura della donna abbandonata senza vita a terra e alcune donne che fuggono e si disperano
vigorosamente: tali esplosioni vitali di grande espressività derivano dalla lezione
di Donatello a Padova, e fecero da modello per altri grandi artisti, come Niccolò dell'Arca e lo
stesso Michelangelo.
Ercole de'Roberti, Lacerto di affresco staccato con la Maddalena della Cappella Garganelli,
già Cattedrale di San Pietro, Bologna, Pinacoteca Nazionale, 1478-86
Questo piccolo dipinto di straordinaria intensità emotiva, con il volto di Maria Maddalena piangente
è l’unico frammento superstite della decorazione ad affresco eseguita da Ercole Roberti insieme a
Francesco del Cossa, altro autorevole rappresentante della pittura ferrarese, sulle pareti della
Cappella Garganelli nella cattedrale di San Pietro a Bologna.
Il crollo parziale della chiesa, avvenuto nel 1599, comportò la distruzione degli affreschi, ma le
fonti storiche e alcune copie consentono di ricostruire l'intero programma figurativo della cappella,
talmente nota e celebrata da essere definita da Michelangelo “una mezza Roma di bontà”. Ed è,
appunto, da una copia con la Crocifissione, che possiamo rilevare la posizione esatta che occupava
il frammento all’interno del ciclo.
Il volto della Maria Maddalena testimonia la straordinaria qualità dei perduti dipinti e una potenza
espressiva che richiama la drammaticità dei volti delle Marie del gruppo scultoreo con
il Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca conservato nella chiesa bolognese di Santa
Maria della Vita.
La descrizione meticolosa di ogni più piccolo dettaglio realizzato nello stile calligrafico di Ercole
Roberti mostra la conoscenza della contemporanea pittura fiamminga, conosciuta direttamente a
Ferrara nelle collezioni estensi.
La pelle arrossata dal pianto, le palpebre socchiuse, i denti visibili nella bocca spalancata, i capelli
delineati uno a uno, sino all’eccellenza esecutiva delle lacrime cristalline sono particolari davvero
strabilianti, soprattutto se si considera la rapidissima esecuzione obbligata dalla tecnica
dell’affresco.

Arca di san Domenico


L'arca di san Domenico è il monumento sepolcrale realizzato per Domenico di Guzmán (morto
a Bologna il 6 agosto 1221). Si trova nella basilica di San Domenico di Bologna, più precisamente
8
nella cappella di San Domenico, aperta sulla navata destra della basilica. L'aspetto attuale è il frutto
di diversi interventi effettuati tra il XIII e il XVIII secolo. È una delle più importanti opere d'arte
della città anche per testimonianze lasciate da Nicola Pisano, fra' Guglielmo e Arnolfo di
Cambio, Niccolò dell'Arca, Michelangelo e Alfonso Lombardi.
Nel 1411 l'arca fu spostata nel transetto destro della chiesa, nel frattempo trasformato in cappella
dedicata al santo fondatore.
Nei secoli successivi furono eseguite importanti aggiunte all'originaria arca medievale. Nel XV
secolo Niccolò da Bari (o "d'Apulia", detto appunto "dell'Arca") eseguì la decorazione
della cimasa sopra il sarcofago di Nicola Pisano e realizzò l'angelo reggitorcia di sinistra (1469-
1473). Alla fine dello stesso secolo il giovane Michelangelo contribuì con alcune piccole ma
significative statue: quella di San Petronio, di San Procolo e l'angelo reggicandelabro di destra
(1494). Il secolo successivo Alfonso Lombardi eseguì la stele sotto il sarcofago (e sopra l'altare)
raffigurante l'Adorazione dei Magi e scene della vita del santo (1532).
La cimasa di Niccolò dell'Arca[modifica | modifica wikitesto]
Alla sommità della cimasa, nonché dell'intera arca, si vede Dio Padre che sorregge il mondo con la
mano sinistra tenendolo vicino al cuore. Sotto i suoi piedi troviamo un altro globo più grande. Più in
basso si vedono i simboli della creazione: i festoni di frutta stanno a significare la terra, i due putti si
riferiscono al cielo e gli otto delfini al mare.
Ancora più in basso troviamo il mistero della Redenzione: Gesù Cristo morto è rappresentato in
mezzo a due angeli, a destra quello dell'annunciazione e a sinistra quello della passione. Allo stesso
livello degli angeli i quattro evangelisti (san Matteo, san Marco, san Luca e san Giovanni) che
hanno diffuso al mondo intero il messaggio di Redenzione operato da Gesù Cristo.
Dopo le rappresentazioni del Padre e del Figlio, viene lo Spirito Santo. Lui non ha immagini, ma se
ne vedono gli effetti: poco sotto si trovano, appoggiate a una cornice, i santi protettori di Bologna.
Otto statue, nella parte anteriore: san Francesco, san Petronio, san Domenico e san Floriano; nella
parte posteriore: sant'Agricola (pare fosse il giovane Giovanni II Bentivoglio), san Giovanni
Battista, san Procolo e san Vitale.

Pala Bentivoglio
La Pala Bentivoglio (Madonna in trono con la famiglia di Giovanni II Bentivoglio) è un
dipinto olio su tavola di Lorenzo Costa, realizzato nell'agosto del 1488 e conservato nella Cappella
Bentivoglio nella chiesa di San Giacomo Maggiore a Bologna.
Il dipinto è una tela di grande dimensione che venne realizzata dal Costa, autore anche delle altre
due opere presenti sulle pareti della cappella, Il Trionfo della Fama e Il Trionfo della Morte.
L'opera fu commissionata come ringraziamento per aver scampato il pericolo della congiura ordita
dalla famiglia Malvezzi.
Nell'opera, ambientata in una sontuosa architettura rinascimentale, si erge un altare marmoreo con
un ricco fregio, che reca sul gradino più alto un trono sul quale è assisa la Madonna col Bambino; ai
suoi lati, inginocchiati si trovano i due coniugi committenti, Ginevra Sforza (già vedova di Sante
Bentivoglio) col marito Giovanni II Bentivoglio; in primo piano e in piedi undici dei loro figli (altri
cinque morirono in tenera età).

9
A sinistra sono ritratte le sette figlie femmine (da sin. Camilla, Bianca, Francesca, Violante, Laura,
Isotta ed Eleonora) a destra i quattro maschi (da sin. Ermete, Alessandro, Anton Galeazzo e infine
Annibale, il maggiore d'età). Dei personaggi ritratti nell'affresco, ricordiamo Camilla e Isotta, che
furono monache nel convento del Corpus Domini[senza  fonte]; Francesca Bentivoglio, sposata
a Galeotto Manfredi e macchiatasi di uxoricidio; Violante Bentivoglio (futura sposa di Pandolfo IV
Malatesta ultimo signore di Rimini)[1]; Ermes Bentivoglio, bambino all'epoca del ritratto, descritto
in seguito da un cronista bolognese come iracondo e perverso, addirittura "bestiale", per la strage da
lui compiuta nel 1501 ai danni della famiglia Marescotti; Antongaleazzo Bentivoglio, ritratto in
abito da prelato, protonotario apostolico, che non ottenne l'agognato cappello cardinalizio, onore
che il papa gli rifiutò; Annibale II Bentivoglio, sposato con Lucrezia d'Este, che dopo la morte di
Giovanni II e l'esilio subito dalla sua famiglia, tentò invano, insieme al fratello Ermes, di rientrare
a Bologna.
La Cappella Bentivoglio
La Cappella fatta costruire dalla famiglia Bentivoglio nella chiesa di S. Giacomo Maggiore è uno
dei più bei monumenti del primo Rinascimento, fu iniziata da Annibale Bentivoglio nel 1445 e
terminata da Giovanni II nel 1486.
Sempre Giovanni II tra il 1447 e il 1481 fece costruire un elegante portico per congiungere la chiesa
con l’Oratorio di S. Cecilia.
La pianta è quadrata ed è coperta da una cupola, colonne di marmo rosso sostengono il presbiterio.
Sull’altare c’è la pala di Francesco Francia (Madonna col Bambino e Santi), mentre le pareti sono
decorate con tre grandi tele dipinte da Lorenzo Costa: sono dipinti di grande dimensione e con
molte figure che presentano una originale iconografia (Madonna in trono con la famiglia di
Giovanni II Bentivoglio, Il Trionfo della Fama e Il Trionfo della Morte).
Sempre del Costa, e forse del Chiodarolo, sono gli affreschi delle lunette mentre le figure dei
quattro Santi nelle nicchie ai lati dell’altare sono opera, probabilmente, del Tamaroccio.
Particolare è il pavimento a mattoni esagoni smaltati in bianco, dipinti di viola, di verde e d’azzurro.
Dalla decorazione molto consumata affiora, leggibile, il riquadro esterno a piastre rettangolari con
disegni araldici che alludono ai Bentivoglio, il cui stemma compare anche sulle piastrelle di
maiolica intorno all’altare.
Sulle ante del cancello una scritta ricorda che Giovanni II dedicò la cappella a S. Giovanni
Evangelista e alla Beata Vergine.

La decorazione della cappella


La decorazione della Cappella Bentivoglio in S. Giacomo Maggiore è la prima committenza di
assoluto rilievo affidata al pittore ferrarese Lorenzo Costa.
Sulla parete destra il dipinto rappresenta la Madonna in Trono affiancata da Giovanni II, sua moglie
e i suoi undici figli tutti in abiti da cerimonia.
La composizione piramidale è inquadrata in una cornice architettonica e pone al vertice l’immagine
della Madonna con il Bambino, tutto lo spazio a disposizione intorno è occupato dalla famiglia
Bentivoglio.
Gli abiti sontuosi delle figure sono descritti minuziosamente; la Vergine e il Bambino sono
collocate sul trono imponente e decorato con molte figure scolpite.
Per l’identificazione degli undici figli di Giovanni II Bentivoglio e della moglie di Ginevra, si è
soliti riconoscere da sinistra: Camilla, Bianca, Francesca,Violante, Laura, Isotta, Eleonora e poi
Ermete, Alessandro, Anton Galeazzo e infine Annibale.

10
Sulla parete sinistra della Cappella Bentivoglio, di fronte alla Madonna in Trono,
si trovano le altre due ampie tele dipinte da Lorenzo Costa (1490), Il Trionfo della Morte e Il
Trionfo della Fama (1490).
I due dipinti insieme suggeriscono la singolare allegoria della vita umana e della vita eterna dopo la
morte: una vita virtuosa può condurre alla gloria terrena e, soprattutto, al regno dei cieli.

Nel Trionfo della Morte, fanciulle, giovinetti, vecchi e prelati, la gerarchia civile ed ecclesiastica,
stanno dietro al lugubre trionfo; la gente è rivolta in gran parte verso lo spettatore, senza scomporsi
per l’apparizione del funerale.
Tra le quattro figure femminili sulla estrema parte destra della tela, ci sono Isotta e Laura
Bentivoglio.
Il gruppo illustra la prima stanza del Trionfo della Morte del Petrarca in cui il poeta descrive come
la Castità e le sue compagne, che hanno appena vinto la battaglia contro Amore, incontrino il
prossimo avversario, la Morte.
Questo accostamento di Laura Bentivoglio con Laura del Petrarca è un esempio di elegante
adulazione, ispirato dall’analogia dei nomi.
Sono state tentate varie interpretazioni delle figure nella grande” mandorla” che sovrasta tutta la
scena: in essa si può vedere Dio padre, Cristo e Maria, santi, serafini, angeli; la piccola figura al
centro sarebbe un’anima salvata in paradiso; altri vedono nella “mandorla” la “gloria di Dio”.
Sono tutti Bentivoglio o Bentivoleschi gli uomini, le donne e i fanciulli che seguono e circondano il
carro della Fama, che suona col corno le loro lodi.
In primo piano Giovanni II indossa l’armatura e con la mano sinistra impugna l’elsa della spada e
rivolge lo sguardo sicuro allo spettatore. Due uomini di fronte a lui indossano costumi classici. Dato
il contesto allegorico e l’abbigliamento all’antica di queste figure, esse potrebbero essere la
personificazione della vita contemplativa (il Saggio) e della vita attiva (il Guerriero).
In questo Trionfo, assai difficile da comprendere è il grande cerchio in alto in cui ci sono
"cartellini" corrispondenti ad ogni scenetta; perciò conosciamo il significato dei singoli episodi, ma
il motivo della scelta o la relazione tra gli episodi sono ancora poco chiari.
Le vicende storiche ed architettoniche dell’Oratorio di S. Cecilia
Le trasformazioni nel XV secolo per volere dei Bentivoglio
Le trasformazioni quattrocentesche dipesero dall’iniziativa di Giovanni II Bentivoglio, che nel 1463
assunse la signoria di Bologna conservandola fino a quando questa famiglia fu cacciata dalla città
nel 1506 dal papa Giulio II. Fu proprio durante la signoria di Giovanni II che si registrarono i
cambiamenti più rilevanti nel complesso di S. Giacomo dai quali dipesero le trasformazioni di S.
Cecilia. In particolare all’interno della chiesa di S. Giacomo si riedificò la cappella Bentivoglio e
per poter ampliarla si elevò un nuovo muro a ridosso della facciata trecentesca della chiesa di S.
Cecilia, la quale venne così privata del suo ingresso frontale.
Da questo momento venne probabilmente utilizzata come entrata della piccola chiesa la porta
laterale trecentesca che ancora oggi all’esterno si può vedere murata. Tale ingresso fu utilizzato fino
a quando fu completato, nel 1481, il magnifico portico rinascimentale che fiancheggia S. Giacomo e
che venne costruito per volere di Giovanni II Bentivoglio e Virgilio Malvezzi, entrambi abitanti
lungo la via S. Donato (ora via Zamboni) a pochi passi da questo luogo. Per effetto della variazione
del livello della strada, che allontanandosi dal centro va in discesa, il livello del pavimento del
porticato, che rimane in piano, si trovò più alto, oltre che al manto stradale, anche rispetto al
pavimento di S. Cecilia. Si rese quindi necessario un riassetto della chiesetta che venne concluso
11
nell’anno 1483 ad opera di Gaspare Nadi. Con tale riassetto fu riportato a livello con il portico il
pavimento della chiesa e, per ripristinare le proporzioni, fu alzato il tetto, nel quale la copertura a
capriate fu sostituita con volte. Anche il campanile fu alzato, come si può tuttora notare
guardandolo dalla piazza Verdi. Durante queste trasformazioni fu ricavato un nuovo accesso
laterale disposto a qualche metro dalla vecchia porta trecentesca e del quale recentemente è stato
messo in luce l’architrave, visibile dall’interno. La chiesa internamente rimaneva comunque di
lunghezza invariata e sul fondo, verso S. Giacomo, furono realizzati tre altari disposti in altrettante
cappelle situate sotto la cantoria e divisi da due pilastri.
Dagli ultimi interventi bentivoleschi ad oggi
Tra gli ultimi interventi bentivoleschi vi sono le decorazioni pittoriche presenti nella chiesa di S.
Cecilia che illustrano la vita della santa e che hanno avuto inizio tra il 1505 e il 1506, ma non vi
sono elementi certi per stabilire l’esatto termine dei lavori. L’iniziativa di Giovanni II sembra essere
legata allo scampato pericolo dei terremoti che devastarono Bologna tra il 1504 e il 1505 e che tanti
danni produssero anche al complesso di S. Giacomo. Si colse così l’occasione di restaurare e
dipingere S. Cecilia.
Nel 1590 fu costruito un portico a ridosso della seconda cerchia di mura, su un tratto della quale
poggia l’abside di S. Cecilia. Il portico venne recentemente demolito nel 1906.
Si intravede tra i merli delle mura da piazza Verdi la posizione in cui un tempo un rosone forniva
l’illuminazione alla chiesa come pure si possono notare le quattro finestre laterali tonde, ora
anch’esse murate, disposte sopra il livello del tetto del portico. Non sono più visibili, invece, le
arche sepolcrali che costeggiavano il lato esterno sotto il portico, tranne una vicino alla porta
trecentesca.
La chiesa fu soppressa come parrocchia nel 1806, ed il suo territorio diviso tra le parrocchie
limitrofe.
L’ultima delle trasformazioni architettoniche interne in S. Cecilia la si registra nel 1859 con
l’elevazione del muro che delimita il passaggio d’ingresso all’attuale convento dei padri agostiniani
e determina l’attuale fondo della chiesetta. Questa trasformazione fu realizzata eliminando le tre
cappelle e i rispettivi altari. Sono ancora visibili nel passaggio d’ingresso i resti degli affreschi del
’500.
 
Le decorazioni pittoriche nell’Oratorio di S. Cecilia
Gli affreschi su S. Cecilia
Gli affreschi, che ornano le pareti laterali, dividono rispettivamente in cinque parti ogni lato
maggiore della chiesa. Su alcune di queste scene non vi è alcun dubbio sulla attribuzione, mentre
per altre non è ancora possibile identificare con certezza l’autore, forse perchè eseguite a più mani e
da pittori minori. Come abbiamo detto le scene rappresentano momenti della vita di S. Cecilia tratti
dal più antico documento che la riguarda e che ci è pervenuto: la Passio Sanctae Ceciliae.
Le scene affrescate sono disposte secondo una successione cronologica dei principali eventi della
vita di questa martire:
1. Sposalizio di S. Cecilia con Valeriano

12
2. Valeriano istruito nella fede dal papa S. Urbano
3. Valeriano riceve il battesimo da S. Urbano
4. S. Cecilia e Valeriano incoronati da un angelo
5. Martirio dei Santi Valeriano e Tiburzio
6. Sepoltura dei due martiri
7. Processo a S. Cecilia
8. Martirio di S. Cecilia
9. S. Cecilia dona i suoi beni ai poveri
10. Sepoltura di S. Cecilia
L’incarico di eseguire gli affreschi fu inizialmente affidato da Giovanni II a Francesco Raibolini
detto il Francia e a Lorenzo Costa, in un momento in cui la famiglia Bentivoglio era ancora al
governo della città. Sul finire del 1506 i Bentivoglio furono cacciati da Bologna e sembra che i
lavori si siano protratti anche in seguito.

I lavori ebbero inizio dall’estremità delle pareti più


vicina all’altare e per il 1506 furono finite la prima e la decima scena da parte del Francia e la
seconda e la nona da parte del Costa.
Qualche anno dopo inizia ad operare un altro autore, che risulterà fondamentale per il compimento
delle restanti scene: Amico Aspertini.
All’Aspertini sono infatti attribuite senza ombra di dubbio la quinta e la sesta scena, anche se
l’intervento di questo fantasioso pittore non si può circoscrivere solo a questi due affreschi, ma il
suo intervento è stato riconosciuto anche in altre, come la terza e l’ottava, con riferimento alle
ambientazioni paesaggistiche. Pure nella settima si può parlare della presenza dell’Aspertini,
quantunque forse non operi direttamente, ma si affianchi all’autore per sollecitarlo. Il pittore di
questa settima scena non può essere definito con certezza, ma si avanza l’ipotesi di Giovan Maria
Chiodarolo. Per la quarta scena era stata recentemente attribuita all’Aspertini; in essa si vedrebbe
l’autore operare in modo più classicheggiante rispetto agli affreschi della quinta e sesta scena. Di
fatto non si può avere una attribuzione certa per queste quattro scene, perchè siamo in assenza di
13
documenti e la critica è divisa. Infatti oltre al nome del Chiodarolo si avanzano pure quelli del
Tamaroccio e del Bagnacavallo.
La cronologia con cui i dipinti sono stati realizzati sembra quindi essere quella che vede i due
dipinti opposti, più prossimi all’altare, come iniziali e probabilmente le due scene più lontane
dall’altare stesso come terminali.

14

Potrebbero piacerti anche